Commento al libro Lambda della Metafisica di Aristotele [First ed.] 9788870886245

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Commento al libro Lambda della Metafisica di Aristotele [First ed.]
 9788870886245

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ELENCHOS Collana di testi e studi sul pensiero antico fondata da

GABRIELE GIANNANTONI LXI-2

ELENCHOS Collana di testi e studi sul pensiero antico Direttore: ENRICO BERTI Comitato scientifico: FRANCESCA ALESSE, ENRICO BERTI, ALDO BRANCACCI, GIUSEPPE CAMBIANO, ANNA MARIA IOPPOLO, CLAUDIO MORESCHINI, MARIO VEGETTI Cura redazionale: MARIA CRISTINA DALFINO

ISTITUTO PER IL LESSICO INTELLETTUALE EUROPEO E STORIA DELLE IDEE

SILVIA FAZZO

COMMENTO AL LIBRO LAMBDA DELLA METAFISICA DI ARISTOTELE

BIBLIOPOLIS

Il progetto complessivo che comprende i volumi LXI-1 e LXI-2 è stato pubblicato con contributi della Scuola di dottorato in Studi Umanistici del Dipartimento di Studi Letterari, Linguistici e Filologici dell’Università degli Studi di Trento, del Centre National de la Recherche Scientifique (CNRS) - Centre de Recherche sur la Pensée Antique Léon Robin (CRPA), UMR 8061 presso l’Université de Paris - Sorbonne, France, e dell’École Doctorale en Sciences de l’Homme et de la Société Lille Nord de France, ove è risultato vincitore del primo concorso “Aide à la publication de thèses” per tesi di area umanistica 2009-2011. Contribuisce alla stampa del presente volume anche la Facultad de Filosofia della Universidad Panamericana, México. Il volume è stato sottoposto all’approvazione di Enrico Berti e Franco Trabattoni

Proprietà letteraria riservata

ISBN

978-88-7088-624-5

Copyright © 2014 by C.N.R., Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee

SOMMARIO

PROLOGO

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INTRODUZIONE

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IL PROBLEMA ESEGETICO DI METAFISICA LAMBDA 1.1 La lettura teologica fra presupposti e costi esegetici 1.2 Una condizione preliminare: fare tabula rasa

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1.3 Residui della lettura teologica: perplessità e discrepanze

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1.4 Un esame preliminare della sezione “teologica”: 7.1072b7-30

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1.5 Quali concezioni del divino sono attive nel testo?

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1.5.1 Motore in atto o motore-atto? Intorno al mistero di uno iota sottoscritto

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1.6 Teologia per accidente nel libro Lambda?

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1.7 Natura zetetica e dialettica del libro

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LEGGERE LAMBDA PER INTERO E COME UN INTERO

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2.1 Unità ed autonomia del libro: compiutezza della struttura formale

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2.1.1 L’introduzione a una teoria globale dell’ente inclusiva della sostanza non sensibile nel cap. 1 2.1.2 Corresponsione fra l’introduzione, lo svolgimento e la conclusione del libro nel cap.10 2.2 Un uso critico della tradizione: le dottrine dei Presocratici 2.2.1 Il caso di Anassagora

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COMMENTO AL LIBRO LAMBDA DELLA METAFISICA DI ARISTOTELE

2.3 Il ruolo delle teorie accademiche 2.3.1 Un problema di coerenza: Aristotele sposa o rifiuta la dottrina platonica dell’esistenza separata dei principi intelligibili e del Bene? 2.4 Autonomia e sintesi nell’argomento di Lambda: costruzione e ricostruzione di una teoria dei principi 2.5 La sostanza non sensibile come ente primo ed immobile

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MOTIVI CONDUTTORI E SCOPO PECULIARE DEL LIBRO LAMBDA 3.1 Il primato teorico della sostanza (oujsiva) 3.2 L’analisi dell’“essere” secondo la sostanza e secondo i suoi predicati categoriali 3.3 Ruolo di intermediario del secondo ordine di sostanza 3.4 L’intelletto come “il più divino dei fenomeni” e la sua attività come atto eccellente 3.5 Unità del tutto come coordinamento fra le parti e come unità dei principi: un’esigenza ontologica dominante 3.6 Una visione coesa sulle tre sostanze come scopo del libro 3.6.1 Metabasis eis allo genos nel libro Lambda? La risposta di Alessandro (200 AD ca.) 3.6.2 Un sistema relazionale 3.6.3 Al di là della metaphysica specialis: una presa sinottica sulla globalità dello scibile

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TRAMA E ARGOMENTO DEL LIBRO LAMBDA, PER CAPITOLI 4.1 Il capitolo 1 4.2 Il capitolo 2 4.2.1 Lo stato primordiale degli arcaici come rappresentazione figurata della materia 4.2.2 La controparte accademica e la continuità con i libri centrali 4.3 Il capitolo 3 4.4 I capitoli 4-5 4.5 Atto e potenza, universali e particolari nel capitolo 5: un saggio meta-filosofico 4.6 Il capitolo 6

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SOMMARIO

4.7 Fra il capitolo 7 e il capitolo 8: la dimostrazione relativa al primo motore immobile e il conseguente computo delle sostanze non sensibili 4.8 Il capitolo 8 4.8.1 Nota sul valore documentario del capitolo 8 per la storia delle teorie astronomiche antiche 4.9 Fra Lambda 7 e Lambda 9, il problema dell’intelletto 4.9.1 Lo statuto dell’intelligibile e dell’intelletto 4.9.2 Il desiderio cosmico come facoltà dei cieli? 4.9.3 L’argomento di Lambda 9 4.10 Il capitolo 10: un epilogo dell’epilogo 4.10.1 Ringkomposition in Lambda 10? Interpretazioni possibili 4.10.2 “Coloro che parlano diversamente” come controparte critica: “diversamente” da come?

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ADDENDUM SULLA COSTITUZIONE DEL TESTO

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COMMENTO Capitolo 1 Capitolo 2 Capitolo 3 Capitolo 4 Capitolo 5 Capitolo 6 Capitolo 7 Capitolo 8 Capitolo 9 Capitolo 10

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PROLOGO

Commentare la Metafisica è un processo infinito. L’umanità vi si cimenta e misura da circa duemila anni1. Ma anche il singolo commentatore, se ricominciasse da capo ogni volta, troverebbe ancora qualcosa da dire, sia sul testo, sia sul proprio commento; la complessità cresce esponenzialmente, se ci si misura anche con la pluralità dei precedenti commenti, che sono molti e non sempre comparabili. Per giunta, ogni commento alla Metafisica, o anche a un singolo libro di quest’opera, manifesta per natura la vocazione a costituirsi come sistema e come universo a sé, suscettibile di espansione, contrazione, sviluppo organico, in ragione non meno delle proprie radici culturali che dell’oggetto specifico in esame. ’Anavgkh sth'nai. Succube di tutto ciò, l’edizione di Lambda che ho mandato alle stampe rischierebbe di restare priva dell’indispensabile complemento esegetico, se non pubblicassi ora anche la versione riveduta di quel commento che essa ha accompagnato nel corpo della mia tesi di dottorato, come quello che più direttamente la spiega e giustifica. Per altri sviluppi, teoretici e storico-filosofici, sono esistite ed esisteranno altre sedi2. Altrove, ho esplorato le dinamiche e i presupposti caratteristici della tradizione dei commenti classici

1 Sulla possibilità di determinare più precisamente l’inizio della tradizione esegetica della Metafisica, cfr. S. FAZZO, The Metaphysics from Aristotle to Alexander of Aphrodisias, «Bulletin of the Institute of Classical Studies of the University of London», LV (2012) pp. 51-68. 2 Che, su questa base, è possibile produrre una proposta interpretativa inedita relativa al senso complessivo non solo di Lambda, ma della teo-

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COMMENTO AL LIBRO LAMBDA DELLA METAFISICA DI ARISTOTELE

ai testi aristotelici, al punto di farne un ambito di studio a se stante, complesso e tipicamente stratificato, del quale non ho mai smesso di occuparmi. Di qui, l’etichetta di “archeologia” della tradizione, che ho usato per indicare quel modo di interazione che considero più necessario, fra, da una parte, lo studio della storia esegetica di questi libri (e di Lambda in particolare) e, dall’altra, la loro comprensione: questa va in parte cercata come in negativo, per differenza più che per cumulo, a monte ria dei principi ricercata nei libri che oggi chiamiamo Metafisica, è qualcosa che potrò mostrare in altre sedi, costruendo un discorso più trasversale e meno aderente all’intero percorso di un singolo testo; un tale discorso, necessariamente, si dovrà inserire in un dibattito più ampio e più generale sul senso dell’“ontologia” antica e di quella aristotelica in specie. L’ipotesi di lettura che va ancora sviluppata nelle sue diverse implicazioni è che Lambda sia effettivamente compimento ontologico della filosofia prima aristotelica, in un senso però diverso, legato al carattere eminentemente riflessivo che abbiamo rilevato nello svolgimento del libro. Se questa ipotesi è corretta, le conseguenze sono significative per la lettura di varie parti del corpus: è come se quelle si comprendessero in una prospettiva diversa, e, in qualche modo, più aristotelica, alla luce degli esiti dei relativi ripensamenti e rivisitazioni svolti nel libro: questo risulta dunque essere un testo largamente auto-riflessivo, talora anche (più specificamente) metalinguistico, quando l’attenzione è focalizzata sul linguaggio proprio della filosofia prima. Oggetto di riflessione in Lambda, da parte di Aristotele, è un percorso chiaramente marcato e ben presente nella generalità dei libri che noi chiamiamo Metafisica, non senza appoggi e riferimenti mirati e precisi nei trattati di filosofia naturale (specialmente Physica, De gen. et corr., De anima). È proprio un tale carattere riflessivo del libro che non viene correntemente enfatizzato, eppure qui è emerso energicamente. Qualche cenno di carattere generale si troverà in: Notes for an Epistemic Interpretation of Aristotle’s Metaphysics in the Light of Book Lambda (XII) a c. di W. WIANS e R. POLANSKY, in corso di pubblicazione. Alcuni cenni nella direzione che intendo sviluppare, di una lettura della Metafisica – per dirlo in una parola – come meta-filosofia, si trovano nei saggi di M. VEGETTI, Tre tesi sull’unità della Metafisica, «Rivista di Filosofia», LXI (1970) pp. 34383; E. WEIL, Quelques remarques sur le sens et l’intention de la Métaphysique d’Aristote, «Studi Urbinati di Storia, Filosofia e Letteratura», XLI (1967) pp. 831-53.

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degli aspetti storici e teoretici della fortuna del libro. Pertanto, i due ambiti devono essere distinti: lo studio della fortuna di Lambda esula dall’ambito del presente volume. Per sottrazione e per contrasto, interpreterò qui invece direttamente l’unità compositiva del libro stesso, identificando i temi e motivi conduttori che lo attraversano e lo caratterizzano nel suo insieme; su questa base, presenterò in seguito “L’argomento del libro Lambda”, suddiviso per grandi unità argomentative, che per lo più corrispondono a dieci capitoli. Poi, in ideale continuità (non senza qualche sovrapposizione, quasi inevitabile) produrrò un commento sia sintetico che analitico. Quest’ultimo è pensato come strumento di accesso diretto al testo dei dieci capitoli, che non è sempre agevole e perspicuo in sé. Vi produco infatti, inizialmente un’introduzione a ciascun capitolo (in corsivo) preceduta da un’indicazione dell’argomento in funzione di titolo (fra parentesi quadre, di varia estensione), e seguita da una sinossi ragionata di tutte le parti di tutti i capitoli, la cui continuità è sottolineata da quella dai numeri di riga (fra parentesi quadre). Segue infine, per ogni capitolo, un commento dettagliato, ma selettivo, per lemmi. I lemmi stessi, come i motivi conduttori e i problemi evidenziati nelle sinossi iniziali, sono selezionati in funzione dei tratti di interesse salienti e dei problemi principali che il testo mi è parso presentare. Ciò risponde alla necessità di giustificare le presenti valutazioni d’insieme sulla natura e sul ruolo di questo libro nel corpus. Dove il caso mi è sembrato richiederlo, il commento per lemmi è diventato quasi continuo, cosicché alcune sezioni ne risultano più cariche di altre; ma si tratta, in ogni caso, di un commento non esaustivo: mira infatti a mettere a fuoco i nodi problematici e i motivi conduttori che sono emersi come propri e caratterizzanti del libro. Soprattutto, non è esaustiva la bibliografia su Lambda che cito talora. I riferimenti fondamentali restano quelli imprescindibili: i grandi commenti generali, edizioni e traduzioni

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COMMENTO AL LIBRO LAMBDA DELLA METAFISICA DI ARISTOTELE

dell’intera Metafisica3, a cominciare dal commento greco un tempo attribuito ad Alessandro (e pertanto ancora sovente detto dello “pseudo-Alessandro”), opera che ormai si ascrive con ogni probabilità al bizantino Michele d’Efeso 4 e si data perciò

3 Qui come nelle Note alla mia edizione, indicherò edizioni e commenti generali con il nome dell’autore: Michele di Efeso (“Eph.”), in riferimento all’autore del commento a Lambda stampato nel volume CAG I, il cosiddetto “pseudo-Alessandro”, citato come “Alessandro” da Bonitz e negli apparati di Ross e di Jaeger (cfr. n. seg.; per l’identificazione con Michele, seguo lo studio sinora più accurato, C. LUNA, Trois études sur la tradition de commentaires anciens à la Métaphysique d’Aristote, Brill, Leiden-Boston-Köln pp. 53-71, cfr. inoltre il mio vol. I, p. 70 e n. 56 per un problema di attribuzione sul libro Epsilon), A. SCHWEGLER (Die Metaphysik des Aristoteles, 4 voll., Fues, Tübingen 1847-1848, rist. Frankfurt a.M. 1960), H. BONITZ (Aristotelis Metaphysica, 2 voll., Marcus, Bonn 1848 [testo]-1849 [commento, rist. Hildesheim 1960]), W.D. ROSS (Aristotle’s Metaphysics, Oxford Classical Text, Oxford 19241, 19533), G. REALE (Aristotele. Metafisica, 3 voll., Vita e Pensiero, Milano 1993), J. TRICOT (Aristote, La Métaphysique, Paris, Vrin 2000). Devo qui segnalare, apparsa dopo il compimento del mio lavoro di tesi, l’opera di M. ZANATTA (Aristotele, Metafisica, 2 voll., Rizzoli, Milano 2009), ove si trova anche commento ad alcune parti qui non specificamente commentate. Sarà opportuno talora citare le edizioni prive di commento di I. BEKKER (Aristotelis Opera, edidit Academia Regia Borussica, II, Berlin 1831, rist. Berlin 1960) e di W. JAEGER (Aristotelis Metaphysica, Clarendon Press, Oxford 1957). Di Ross, ho anche qui citato e discusso all’occorrenza la traduzione inglese della Metafisica (OT, poi riveduta e inclusa da J. BARNES, in The Complete Works of Aristotle: The Revised Oxford Translation). 4 Tale commento giunge fino al libro Ny ed è stampato dopo il commento di Alessandro ai libri Alpha - Delta in CAG I da M. Hayduck. Il commento alla Metafisica così risultante è stato forse il più influente in età moderna, da quando ne pubblicò Bonitz la prima edizione a stampa, Berlin, Reimer 1847, poco prima di dare alle stampe la sua edizione (1848) e il suo commento (1849) del testo di Aristotele (cfr. vol. I, § 1.5). L’attribuzione al commentatore bizantino non è priva di conseguenze. Si comprende infatti in ragione dell’epoca e dell’ambiente che l’esegesi di Michele non possa andare esente da inclinazioni neoplatonizzanti; inoltre per l’interpretazione dei centrali capitoli 6-7 Michele si vale di una sintesi dell’esegesi di Alessandro di Afrodisia, incorporandola nel suo proprio commento al-

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all’inizio del XII sec.; e con speciale riferimento all’ultima editio maior con commento continuo, quella di Ross, che resta opera di comune riferimento; i saggi maggiori di Jaeger5, cui Ross stesso

l’inizio della corrispondente sezione, cfr. CAG I 685.30-687.22; il testo citato da Michele è anche trasmesso in parallelo come Quaestio I 1 di Alessandro; si tratta invero di una parafrasi compendiata del testo aristotelico, analoga ma più breve rispetto al De principiis dello stesso Alessandro trasmesso solo in arabo e parzialmente in siriaco (cfr. S. FAZZO, L’exégèse d’Aristote, Métaphysique Lambda dans le De principiis et dans la Quaestio I.1 d’Alexandre d’Aphrodise, «Laval Théologique et Philosophique», LXIV (2008) pp. 607-26; S. FAZZO-M. ZONTA, Towards a Textual History and Reconstruction of Alexander of Aphrodisias’s Treatise On the Principles of the Universe, «Journal of Semitic Studies», LIX (2014) pp. 91-116). Come esito, quella di Michele è una lettura di Lambda sistematica e molto gerarchizzata, che pone al tempo stesso, la Metafisica aristotelica al vertice del pensiero filosofico, Lambda al vertice della Metafisica, e il primo motore, intenso senz’altro come Dio, al centro del libro Lambda stesso. Fra le conseguenze, ogni riferimento ai principi della sostanza sensibile, sia fuori, sia dentro al libro, appare secondario, e le pagine iniziali del libro suscitano scarsa attenzione; così che la modalità stessa della continuità fra una parte e l’altra risulta relativamente poco esplorata. Quanto alla costituzione del testo, Ross ritiene possibile valersi della testimonianza dell’esegeta greco stampato in CAG I per dirimere la discordanza fra E e J da una parte, Ab dall’altra (cfr. vol. I, § 1.8); ma il suo accordo con Ab può non andare esente da artificio; infatti fra i codici, Ab e M (Firenze, Laur. 87.12, Milano, Ambr. F 113 Sup.) riportano il commento di Michele (e, per i primi libri, di Alessandro) sulle pagine stesse del testo di Aristotele. Di conseguenza, la tradizione testuale di testo e commento presenta tratti di circolarità, specie nella trasmissione di lemmi e citazioni, il commento adeguandosi talora al testo nel corso della trasmissione, ma anche reciprocamente il testo al commento. 5 W. JAEGER, Studien zur Entstehungsgeschichte der Metaphysik des Aristoteles, Weidmann, Berlin 1912; ID., Aristoteles, Grundlegung einer Geschichte seiner Entwicklung, Berlin 1923, citato dalla trad. it. di G. CALOGERO, La Nuova Italia, Firenze 1935. Nonostante le differenze di metodo e di orientamento, tesi impegnative di Jaeger su Lambda, cariche di conseguenze, sono ampiamente accolte da Ross: la datazione alta del libro; il suo isolamento, la sua mancanza di coesione, dovuta alla scissione

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COMMENTO AL LIBRO LAMBDA DELLA METAFISICA DI ARISTOTELE

metodologica fra i capitoli 1-5 e i capitoli 6-10, oltre che all’inserzione tarda del capitolo Lambda 8: ivi infatti la menzione di Callippo, attivo intorno al 330/329, fa assegnare un terminus post quem relativamente basso – il che dà a Jaeger (Aristoteles, cit., § III.3), materia per insistere sulla differenza rispetto al resto del libro, ove si attesterebbe una concezione antica della Metafisica (e anzi, nel 1912, Jaeger trovava che Aristotele non fosse nemmeno sicuro dell’esistenza di una filosofia prima diversa dalla fisica, cfr. qui infra, e il nostro Comm. ad 1069b1s.). A sua volta, Jaeger si basa ampiamente su quanto già Bonitz aveva osservato: Bonitz volle rilevare una discontinuità pressoché totale fra i libri centrali della Metafisica e il libro Lambda (specie i capitoli 6-10), che di quei libri non conserverebbe alcuna citazione né alcuna altra traccia, sia pure minima (levissimum vestigium, Bonitz, cit., p. 24; cfr. contra molte nostre osservazioni infra, passim e in part. § 2.4, 4.1, 4.2.2). Nondimeno, Bonitz riconosceva a Lambda 1-5 una funzione preparatoria, di argomento fisico, adatta a dimostrare, sia che non ci sono principi comuni ai diversi ordini di sostanza, sia dunque la necessità di un passaggio alla filosofia prima, dedicata alla sostanza non sensibile dei capitoli 6-10. Jaeger negli Studien invece nega che il postulato di una scienza diversa dalla fisica si trovi attivato in Lambda 6-10, perché ritiene che la filosofia prima non abbia ancora raggiunto una propria autonomia e autoconsapevolezza disciplinare a quell’altezza cronologica (come ricordato, lo si evincerebbe dal dubbio espresso in 1069b1, cfr. Studien, p. 122s.); ancora più nettamente, Jaeger rifiuta (ibid., p. 290) la funzione preparatoria di Lambda 1-5, quale era stata indicata da Bonitz, sulla scorta dello pseudoAlessandro (Michele di Efeso). D’altra parte, pur nella componente di parziale divergenza da Bonitz, le osservazioni ora citate di Jaeger, loc. cit., su Lambda 1-5 appaiono ancora relativamente superficiali, se si considera l’argomento che egli ivi adduce (Studien, p. 124) per negare che la prima parte del libro, Lambda 1-5 sia successiva a ZHQ: se lo fosse, egli argomenta, dovrebbe esserne un sommario, e se fosse un sommario avrebbe funzione introduttiva (questa ipotesi, si noti, è condotta con logica stringente e di fatto converge con ciò che qui abbiamo trovato); ma Lambda 1-5 non può essere un’introduzione, egli obietta, perché essa sarebbe tanto lunga quanto il testo cui farebbe da introduzione, Lambda 6-10, e ciò pare così illogico, da fargli concludere che riguardo a una simile tesi “ogni altra critica è superflua”. Le conseguenze dell’argomento, peraltro, non si fermano qui: non essendo successiva a ZHQ, allora la redazione di Lambda risulterebbe anche precedente a GE e alla Fisica, sempre secondo Jaeger, ibid. (per motivi legati all’analisi di 1069b1s.). Ora, la critica di Jaeger sarebbe almeno più plausibile (seppure non cogente), se

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costantemente si riferisce6; più da vicino, ho tenuto presenti i contributi sui singoli capitoli che sono raccolti negli atti del Symposium Aristotelicum dedicato a Lambda, stampati nel 2000. Essi infatti pur nella reciproca indipendenza e pluralità,

i capitoli di Lambda avessero pressappoco la stessa estensione, invece la prima parte, capp. 1-5, non solo non eguaglia per estensione l’altra metà, ma nemmeno la metà dell’altra; di modo che un simile rilievo è infondato, anzi lascia aperto il dubbio, se il testo di Lambda fosse stato o no attentamente esaminato dall’autore degli Studien. Questa svista fu implicitamente corretta da Jaeger nel successivo volume Aristoteles, cit., del 1923, e tuttavia Jaeger continuò a considerarvi scisse le due parti, nel metodo come nei contenuti: i capitoli 1-5, sorta di sommario della fisica aristotelica, e i capitoli 6-10, sommario di filosofia prima. Nelle presenti analisi, la situazione risulta indubbiamente più complessa: per es. non si possono trascurare le relazioni fra il cap. 2 e il cap 10, né si può dire che un metodo singolo unifichi e distingua dalla restante trattazione i capitoli 6-10, nonostante la novità metodologica della dimostrazione degli attributi del principio immobile nel cap. 7; soprattutto, il rapporto fra i capitoli 1-5 e le teorie fisiche non è diretto e non assimila quella parte di Lambda a un trattato di fisica, bensì passa attraverso il ripensamento delle ricerche esposte in Metafisica Zeta, Eta, Theta, e afferisce così per intero alla filosofia prima (almeno nel senso di Zeta). Ringrazio S. Menn, in generale e per litteras, della discussione sulle due monografie di Jaeger, con speciale riferimento alle continuità e differenze che esse presentano nella valutazione del nostro libro. 6 Le valutazioni di Jaeger su Lambda, cfr. n. prec., furono largamente accettate. In particolare, le obiezioni che pure Ross muove ad alcuni suoi argomenti a favore della datazione alta del libro (1924, in part. vol. I, pp. XXVII-XXX, ma cfr. contra p. XXIX, n. 1), non impediscono infine a Ross di acconsentire cautamente con quella datazione e con una parte significativa delle connesse valutazioni quanto alla struttura della Metafisica. In specie, Ross accetta da Jaeger (“the latest and most through investigator”, come lo chiama, p. XIII) l’intendimento di Lambda come un corpo estraneo al tessuto connettivo della Metafisica (che per Ross include in modo unitario la maggior parte dei libri: ABGEZHQMNI). È in questa prospettiva che va letta l’interpretazione teologica che nonostante tutto in Ross è ancora chiaramente attestata, benché sia spogliata dell’antica connotazione di coronamento e compimento sommo presente in Alessandro e in Michele.

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COMMENTO AL LIBRO LAMBDA DELLA METAFISICA DI ARISTOTELE

comportano aspetti significativi di coesione e di convergenza, soprattutto nella tendenza al superamento di posizioni ancora attestate in Ross, che non possono più darsi semplicemente come acquisite ma diventano ora terreno di aperta discussione7. Sia Ross che Jaeger, così, si oppongono a Ravaisson (in quanto aveva considerato Lambda opera matura e posteriore a quegli altri libri) e a Krische e Gödeckemeyer (i quali, citati anche da Ross, p. XXIX, n. 2, consideravano Lambda 1-5 una sorta di sintesi di ZHQ; eppure, almeno in questo potevano avere qualche ragione, sebbene non fosse appropriato paragonare direttamente una tale sintesi al modo in cui la prima parte di Kappa riassume BGE: Kappa non è autentico (cfr. infra, n. 54); e comunque il modo di redazione dei due compendi è assai diverso, come in effetti Jaeger ebbe facile gioco ad osservare). Di fatto, una tale apertura di Ross all’interpretazione di Lambda in Jaeger (che forse fu progressiva, a quanto suggerisce la differenza ora menzionata fra le posizioni assunte nella citata n. 1 p. XXIX e nel corpo dell’introduzione) ha potuto mettere quasi interamente in sordina quelle precedenti interpretazioni, che pure entrambe in qualche modo non sono prive di aspetti condivisibili; e in un certo senso, reciprocamente ha preparato il terreno al consenso di Jaeger con Ross in sede di edizione critica, quale ho illustrato per più aspetti nel corso del mio volume I. Nell’insieme, la reciproca interazione sistematica e costruttiva fra Ross e Jaeger ha costituito un fattore di coesione nella vulgata esegetica del libro Lambda nel XX secolo; in tale periodo, certo, non sono mancate del tutto le voci o di segno contrario, o di diversa impostazione. G. REALE, per esempio (Aristotele. Metafisica, cit.), ha portato in generale una maggiore attenzione per le continuità più che per le differenze fra i libri della Metafisica. Così vede Lambda come necessario coronamento, nella misura in cui vi si risolve a suo avviso un certo numero di aporie e problemi attestati negli altri libri (cfr. in part. vol. 1, pp. 181). Una più analitica impostazione di questa prospettiva si attua nell’opera in corso di pubblicazione di S. M ENN , The Aim and the Argument of Aristotle’s Metaphysics. Una panoramica interpretativa su letture della Metafisica, si trova nell’Introduzione di M. ZANATTA, Aristotele, Metafisica, cit., vol. I pp. 105-227. Da tenere sullo sfondo, E. BERTI, Aristotele nel novecento, Laterza, Roma-Bari 1992 (20083). 7 M. FREDE-D. CHARLES (a c. di), Aristotle’s Metaphysics Lambda. Symposium Aristotelicum (Oxford, August 26-30, 1996), Clarendon Press, Oxford 2000, donde ho citato specialmente M. FREDE, Introduction, pp. 1-52; ID., Metaphysics L 1, pp. 53-80; D. CHARLES, Metaphysics L 2: Matter and

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Ross ammetteva ancora infatti con Bonitz e Jaeger l’isolamento di Lambda rispetto ai libri centrali della Metafisica; il carattere teologico del libro; la tesi di un’inserzione tardiva del capitolo Lambda 8 e la sua estraneità al disegno teorico complessivo del libro; accettava la tradizionale identificazione diretta con Dio dell’intelletto discusso in Lambda 9, la spiegazione del rapporto fra il primo motore e le anime dei cieli in termini di causa finale8. A tali riguardi gli autori dei vari saggi Change, pp. 81-110; L. JUDSON, Formlessness and the Priority of Form: Metaphysics Z 7-9 and L 3, pp. 111-35; M. CRUBELLIER, Metaphysics L 4, pp. 137-60; E. BERTI, Unmoved Mover(s) as Efficient Cause(s) in Metaphysics L 6, pp. 181-206; A. LAKS, Metaphysics L 7, pp. 207-43, cfr. anche infra, n. 151; G.E.L. LLOYD, Metaphysics L 8, pp. 45-273; J. BRUNSCHWIG, Metaphysics L 9: a Short lived Thought Experiment, pp. 295-306; A. KOSMAN, Metaphysics L 9: Divine Thought, pp. 307-329; D. SEDLEY, Metaphysics L 10, pp. 327-50. Trattandosi di un commento del libro pressoché continuo, anche a questi saggi, come a quelli citati nella nota 3, mi riferirò sovente indicando il nome dell’autore, seguito da: “ad loc.” 8 La fase più recente della discussione sulla causalità del primo motore è stata innestata da S. BROADIE, Que fait le premier moteur d’Aristote. Sur la théologie du livre Lambda de la Métaphysique, «Revue de la France et de l’étranger», CLXXXIII (1993) pp. 375-411, e sviluppata soprattutto da E. BERTI in numerosi contributi, in parte già citati supra; cfr. inoltre ID., The Unmoved Mover as Efficient Cause in Aristotle’s Metaphysics XII, in AA.VV., Aristotle on Metaphysics, ed. by T. PENTZOPOULOU-VALAS and S. DIMOPOULOS, Thessaloniki 1999, pp. 73-81; ID., La causalità del primo Motore immobile secondo Aristotele, in ID., Nuovi studi aristotelici vol. II: Fisica, Antropologia, Metafisica, Morcelliana, Brescia 2005, pp. 453-69 (già in «Gregorianum», LXXXIII (2002) pp. 637-54); per una visione di sintesi, ID., Il dibattito odierno sulla cosiddetta «Teologia» di Aristotele, ivi, pp. 489500 (già in «Paradigmi», LXII (2003) pp. 279-97); nel frattempo le ragioni di Berti sono in parte corroborate, ma con diverse conclusioni, da A. STEVENS, La causalité de l’intellect dans la Métaphysique et le traité De l’âme, in La causalité chez Aristote, Textes réunis et publiés par L. COULOUBARITSIS et S. DELCOMMINETTE, Vrin-Ousia, Paris 2011, pp. 125-37: ivi, le perplessità sull’interpretazione del principio aristotelico come causa finale sono corroborate dal paragone con Fisica, De gen. et corr., le Etiche e soprattutto De anima G 10. Cautamente a favore dell’interpretazione come causa finale

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del volume prendono a più riprese le distanze, sollevando perplessità che non possono essere trascurate, specie a fronte del progredito stato degli studi che si è attestato su più fronti negli ultimi decenni. Mi riferisco in specie ad alcune voci maggiori della seconda parte del XX secolo, che pure hanno presentato tesi principali sull’orientamento e sul senso di Lambda, intraprendendone più da vicino il necessario raffronto con gli ultimi libri, rispettivamente della Fisica (Q) e del De anima (G) e soprattutto con i libri centrali della Metafisica9. si esprime invece J.B. GOURINAT, L’intellect divin d’Aristote est-il cause efficiente?, «Bollettino filosofico», Dip. di Filosofia dell’Università della Calabria, XX (2004) pp. 54-81. L’interpretazione di Berti è stata oggetto non solo di attenzione, ma anche di esegesi da più parti, e segnatamente da K. FLANNERY, Sull’interpretazione di Enrico Berti della causalità del motore immobile, «Humanitas», LXVI (2011) pp. 615-42, spec. 639-40, in inglese col titolo On Professor Berti’s Interpretation of Causality of the First Unmoved Mover, in «Nova et Vetera», English Edition, X (2012) pp. 833-62. A Flannery, Stevens, Gourinat risponde puntualmente ora Berti, rivisitando fra l’altro con precisione la traduzione dei passi invocati a testimonianza, quasi tutti controversi, nel suo contributo Continua il dibattito sulla causalità del motore immobile, in corso di pubblicazione per un volume in onore di M. Barbanti. 9 Fra le voci più innovative, è stata per noi un termine di raffronto l’opinione di M. B URNYEAT , A Map to Metaphysics Zeta, Mathesis Publication, Pittsburgh 2001, p. 132 s. Già partecipando al Symposium Aristotelicum del 1996, Burnyeat aveva proposto di intendere Lambda, a partire dall’analisi della prima frase, nel contesto cronologico successivo agli altri libri della Metafisica, contro la datazione alta di Lambda, voluta da Jaeger, Aristoteles, ed. or. p. 229ss., e sostanzialmente accettata da Ross (II p. 346s.). L’integrazione di Lambda con i libri centrali della Metafisica è perseguita anche da H.S. LANG, The Structure and Subject of Metaphysics L, «Phronesis», XXXVIII (1993) pp. 257-80, che, proponendo un’interpretazione d’insieme di Lambda come trattato sulla sostanza simpliciter, e sui suoi principi, reagisce alla sua lettura come “teologia” da parte di Ross, e si pone in continuità piuttosto con J. OWENS (The Relation of God to the World in the Metaphysics, in P. A UBENQUE (éd.), Études sur la Métaphysique d’Aristote, Actes du VIe Symposium Aristotelicum, Vrin, Paris 1979, pp. 207-26, che Lang cita a supporto della propria lettura, cfr.

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Certo, non sarà possibile, né conforme agli scopi presenti, confrontare su ogni passo la mia lettura del libro con ogni altra lettura disponibile, e nemmeno darne rassegna; ma supplisce a parte di quest’assenza un volume recente dedicato al commento a Lambda di Michele di Efeso, ove Rita Salis ha perseguito anche un tale intento collaterale, di rassegna dossografica sui singoli passi e problemi. Molta letteratura di rilievo si trova citata anche nel commento alla traduzione di Marcello Zanatta10. Naturalmente ho tenuti sempre presenti in primo luogo, gli studi, i consigli e le osservazioni di Enrico Berti, con il quale ho condotto le mie ricerche su Lambda, fin dagli anni del post-dottorato a Padova (2001-2003); gli scritti, i commenti per litteras e le discussioni di André Laks, Michel Crubellier, miei relatori insieme a Franco Trabattoni, di Carlo Natali e di anche E AD ., Aristotle’s First Movers and the Relation of Physics to Theology, «New Scholasticism», LII (1978) pp. 500-17). Non meno motivata a promuovere un ritorno al dettato del testo, smarcato quanto possibile da interpretazioni ideologiche a priori, è l’opera di E. S ONDEREGGER , Aristoteles’ Metaphysik L: Ein Spekulativer Entwurf: Einführung, Übersetzung, Kommentar, Peter Lang Gmbh, Internationaler Verlag, 2008, e ID.,, Aristoteles, Met. XII – Eine Theologie? «Méthexis», IX (1996) pp. 58-83, ove istanza primaria è liberare l’interpretazione del libro e dei concetti ivi in atto (oujsiva in primis, del quale l’autore rifiuta la traduzione “sostanza”) da eredità obsolete e storicamente datate, per valorizzarne, in un contesto di tipo accademico, gli aspetti zetetici e aporetici, quanto possibile in riferimento diretto al testo greco. In chiave teologica è il ricco commento, critico e analitico, di L. ELDERS, Aristotle’s Theology. A Commentary on Book L of the Metaphysics, Assen 1972; alcune letture su Lambda 6 ne sono discusse da Berti ad loc. Più recentemente, cfr. la traduzione commentata in tedesco dell’intero libro Lambda di M. BORDT, Aristoteles’ Metaphysik XII, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 2006, opera che ringrazio Bordt di avermi trasmesso ancora in corso di stampa. 10 R. SALIS, Il commento di pseudo-Alessandro al libro Lambda della Metafisica di Aristotele, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005. Ampia rassegna di diverse interpretazioni si trova sovente discussa nel commento di M. ZANATTA, Aristotele, Metafisica, cit.

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Stephen Menn, che ha commentato la presente introduzione, con il quale ho sovente discusso in questi anni ogni problema connesso agli studi sulla Metafisica11. Inoltre, sono sovente costretta a citare i miei precedenti lavori, che ho pubblicato a preparazione dell’edizione di Lambda e di questo commento, onde evitare di ripetermi, e di soffermarmi ogni volta di nuovo su dettagli, su argomenti e su considerazioni, dei quali ho già trattato. Qui ne presento direttamente l’esito, limitandomi ad esporre le ragioni essenziali12. Più di tutti i precedenti contri-

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Cfr. i rispettivi saggi citati supra, nn. 6, 7, 8. Fra gli studi di E. BERTI ho inoltre citato: Unmoved mover(s), cit.; Da chi è amato il motore immobile? Su Aristotele, Metaph. XII 6-7, «Méthexis», X (1997) pp. 59-82; ID., Il movimento del cielo in Alessandro di Afrodisia, in La filosofia in età imperiale. Le scuole e le tradizioni filosofiche, Atti del colloquio, Roma 17-19 giugno 1999, a cura di A. BRANCACCI, Bibliopolis, Napoli 1999, pp. 227-43, partic. 229-31; ID., Elementi di ontologia nel Parmenide e nel Sofista, in M. BIANCHETTI- E. S. STORACE (a c. di), Platone e l’ontologia, Edizioni Albo Versorio Milano 2004, pp. 15-22; ID., Prefazione a Nuovi studi aristotelici. II, cit.; ID., Ancora sulla causalità del Motore immobile, «Méthexis», XX (2007) pp. 7-28. Per una bibliografia più comprensiva degli studi di Berti sul libro Lambda e sui temi attinenti, rinvio al volume di Salis citato alla nota precedente. Cfr. inoltre, di C. NATALI, Cosmo e divinità. La struttura logica della teologia aristotelica, Japadre, L’Aquila 1967, che analizza Lambda per esteso alle pp. 45-102, e i diversi scritti di questo autore dedicati alla nozione di causa; fra questi, cfr. sulla costituzione del testo Causa motrice e causa finale nel libro Lambda della Metafisica di Aristotele, «Méthexis», X (1997) pp. 10523, in part. 116 sgg.: Natali per primo ha voluto esaminare le versioni arabe conservate insieme al commento di Averroé a proposito di 1072b1-3. Di S. MENN, The Aim and the Argument of Aristotele’s Metaphysics, cit., è ancora inedito. Altri contributi sono citati alle nn. 34 e 48. 12 S. FAZZO, Lambda 7.1072b2-3, «Elenchos», XXIII (2002) pp. 357-75; Esordi e trattati in Aristotele, in Linguaggio, mente e mondo. Saggi di filosofia del linguaggio, filosofia della mente e metafisica, a c. di M. CARRARA-G. DE ANNA-S. MAGRIN, Il Poligrafo, Padova 2003, pp. 19-38; Sur la composition du traité dit De Motu Animalium: contribution à l’analyse de la théorie aristotélicienne du premier moteur, in A. LAKS e M. RASHED (éds.), Aristote et le mouvement des animaux: dix études sur le De motu animalium, Presses

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buti, mi trovo a citare la mia edizione, Il libro Lambda della Metafisica di Aristotele, Napoli 2012. Essa infatti, nella stessa collana “Elenchos”, ha preceduto nella stampa questo volume di commento13. Le due opere sono strettamente legate, di modo che mi riferisco a quel volume indicandolo come volume “I”, e alle Note sulla costituzione del testo ivi presentate, semplicemente indicandole come “I, Note”. Nella premessa a quel volume, si trova anche, doverosa, la lunga serie di ringraziamenti alle persone che hanno soccorso, incoraggiato, reso possibile questo duplice compimento: essi valgano per questo volume, come per quello. Un ringraziamento speciale va a Enrico Berti, direttore della collana “Elenchos”, che ha sempre incoraggiato e consigliato quest’opera, e ai responsaUniversitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq 2004, pp. 203-29; L’esordio del libro Lambda della Metafisica, «Rivista di Filosofia neo-scolastica», C (2008) pp. 159-181; L’exégèse d’Aristote, cit.; L’archeologia di una tradizione: il libro Lambda della Metafisica, in E. DE BELLIS (ed.), Aristotle and the Aristotelian Tradition / Aristotele e la Tradizione Aristotelica (Atti del Convegno Internazionale di Studi. Centro Interuniversitario per la Storia della Tradizione Aristotelica, Lecce, 12, 13, 14 giugno 2008), Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, pp. 177-87; Fra atto e potenza: l’eternità del cielo nel libro Lambda della Metafisica, in Attività e virtù: Anima e corpo in Aristotele, a c. di M. MIGLIORI e A. FERMANI, Vita e Pensiero, Milano 2009, pp. 11346; La prima frase del libro Lambda della Metafisica, in I filosofi e l’Europa. Atti del XXXVI Congresso Nazionale di Filosofia della Società Filosofica Italiana, Verona, 26-29 aprile 2007, a c. di R. POZZO e M. SGARBI, Mimesis, Milano 2009, pp. 29-36; Exordes, raccords, “titres” chez Aristote, in Transmettre les Savoirs, a c. di F. LE BLAY, Presses Universitaires de Rennes 2009, pp. 295-208; Lo stemma codicum dei libri Kappa e Lambda della Metafisica: una revisione necessaria, «Aevum», LXXXIV (2010) pp. 339-59; The Metaphysics from Aristotle to Alexander of Aphrodisias, cit.; Heavenly Matter in Aristotle, Metaphysics Lambda 2, «Phronesis», LVIII (2013) pp. 160-75. 13 S. FAZZO, Il libro Lambda della Metafisica di Aristotele (“Elenchos”, LXI.1), Bibliopolis, Napoli 2012 (qui in seguito: “I”). È opera tratta dalla Parte I della menzionata mia tesi (2009), così come questo volume è tratto dalla parte II. Invece, alla sezione di commento per lemmi in questo stesso volume mi riferisco semplicemente come a “Comm.” intendendo, ogni volta, “ad locum”.

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bili dell’Istituto ILIESI, che hanno voluto infine stampare questo volume nonostante i tempi così difficili: insieme al suo fondatore Tullio Gregory, che ne ha anche commentato alcune parti, al suo direttore in carica, Antonio Lamarra, a Francesca Alesse, ivi responsabile dell’asse di ricerca sul pensiero antico, a Maria Cristina Dalfino, che ha cooperato costantemente all’intero progetto, nonché a Riccardo Pozzo, Direttore del Dipartimento di Scienze Umane del CNR; al Dipartimento di Filosofia della Universidad Panamericana, México, che contribuisce al suo finanziamento a fronte di un mio corso su questo argomento nell’estate 2015, per iniziativa di André Laks e di Alberto Ross; a Luca Gili, che è stato di grande aiuto nella rilettura e nell’acuta revisione delle bozze; e a Bortolo Mariotti per la sua strabiliante abilità e pazienza. Esortazione specifica ed efficace è venuta da fr. Francesco Bravi, padre provinciale dei frati minori, e da p. Enzo Viscardi. Ringrazio Piera con Roberto Orlandi; Vera e Giovanni, che hanno riletto con cura il manoscritto, Chiara che ha collaborato alle note e gli altri miei familiari. Di nuovo, e specialmente, vorrei dedicare questo tomo a mio marito e ai miei figli. Silvia Fazzo Borsatti

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1. IL PROBLEMA ESEGETICO DI METAFISICA LAMBDA Difficilmente un nuovo commento a Lambda cade in terreno neutrale. Lo aspetta al varco, specie dopo gli atti del convegno su Lambda editi nel 2000, una collezione di questioni aperte che possiamo considerare quasi canoniche, tali però che alcune sembrerebbero fatte apposta per non trovare una risposta convincente14. La strada alternativa, di interrogare il testo quanto possibile dall’interno, ha costituito qui un criterio: si tratta infatti in primo luogo di discernere, fra i problemi che il testo oggi pone, quali siano tali dal punto di vista di Aristotele – e in che modo allora egli li affronti, e quali invece si siano 14

Alcune di queste domande, pur senza scaturire dalla logica interna del testo, si pongono forse ancora vivente Aristotele, e comunque fin da Teofrasto, mostrando chiaramente la potenza di impatto del libro già nella prima generazione successiva: che cosa pensa il dio aristotelico tutto il tempo? E se non pensa ad altro che a sé, perché la sua condizione è desiderabile e perché non si annoia? Perché i cieli imitandolo non sanno far nulla di meglio che muoversi in circolo? Perché il principio primo non si può conoscere meglio che per analogia? In che senso la sostanza prima è oggetto di desiderio? Queste in effetti sono già adombrate nella cosiddetta Metafisica, cioè nello scritto peri; ajrcw'n di Teofrasto (cfr. l’edizione con commento di A. LAKS e G. MOST, Théophraste. Métaphysique, Les Belles Lettres, Paris 1993 e qui infra, n. 21). Altre domande, legate a queste, insorgono specialmente da Alessandro di Afrodisia in poi, nell’ambito di una riorganizzazione d’insieme del corpus e delle dottrine ivi contenute, alla luce di una speciale attenzione alla definizione delle dottrine fisiche: il motore va annoverato come causa finale o efficiente? Ma come fa un

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sovrapposti all’argomento di Lambda dall’esterno, come portato di una tradizione esegetica posteriore, come traccia della fortuna del libro nella storia. Di qui l’attenzione analitica che si è ora portata al testo greco (previa la sua ricostruzione in sede editoriale, nel vol. I) considerandolo sia in sé, sia nelle sue connessioni con il resto del corpus, suo contesto originario. Il presente paragrafo costituisce una sintesi, inevitabilmente selettiva, del percorso teorico e del quadro di riferimento che si sono così delineati. L’immagine del libro resta indubbiamente complessa, come sempre è stata e come si conviene a un testo inconfondibile, i cui contenuti distintivi, notoriamente, non si lasciano appiattire sullo sfondo dei restanti libri della Metafisica. La specificità del libro, quale si è qui potuta individuare, sta infatti non solo, come è chiaro, nella differenza di argomento rispetto ad altri libri – qui Aristotele infatti affronta una

motore a muovere senza muoversi affatto? Da questa prospettiva, poi, si dipartono alcune delle piste più esplorate in età moderna, specie negli ultimi decenni, con ulteriori interrogativi, parte improntati a una metodologia di tipo analitico: perché Aristotele non costruisce la sua teologia piuttosto che sul piano fisico, su quello ontologico – nel senso della scienza dell’ente in quanto ente, e dei suoi sviluppi nei libri della Metafisica sulla sostanza? in particolare perché non ricorre in Lambda a un qualche tipo di analogia entis (come già proponeva Tommaso), per esempio perché non applica il concetto di senso focale anche al rapporto fra il dio e le sostanze sensibili (come vorrebbero Patzig e Frede)? Non è, questa assenza, un indizio di un livello teorico più arretrato rispetto a quei libri? Se sì, ha, questa arretratezza, una relazione con il contenuto teologico del libro, e può quest’ultimo contestualizzarsi in una fase cronologica alta, più strettamente legata alla scuola platonica? Ma allora perché secondo Epsilon, la teologia è universale, visto che l’universalità è un attributo della scienza dell’ente in quanto ente, e il libro Lambda – secondo tali esegeti – sarebbe estraneo a una tale scienza? Ha Aristotele concepito altrove un progetto di teologia più avanzato di quello che ci ha lasciato in questo libro? Più nel dettaglio, altre domande si pongono

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dimostrazione già sovente annunciata o adombrata, quella relativa a un genere di sostanza non sensibile, puramente intelligibile; ma sta anche, al tempo stesso e inscindibilmente, nel modo in cui l’argomento è condotto, in quanto Aristotele vi fa convergere filoni di ricerca altrove paralleli: in primis, l’ontologia della “scienza dell’ente in quanto ente”, centrata sul primato della sostanza – una presenza sovente trascurata dagli esegeti, sulla quale invero si fondano, sia la dimostrazione dell’esistenza di quella sostanza immobile, non sensibile, intelligibile, sia l’analisi dei suoi predicati (cfr. infra, § 3.1). Vi convergono inoltre, da una parte, il primato dell’intelletto già affermatosi nella scuola ionica, e rimeditato da Aristotele nel De anima e negli scritti giovanili (cfr. infra, § 3.4); dall’altra, le ricerche sul principio primo del movimento, che dev’essere immobile: queste occupano soprattutto gli ultimi due libri della Fisica e la prima parte del De motu animalium. Così, l’unicità di Lambda, a quanto si è qui reperito, non sta nell’isolamento,

ancora: qual è lo statuto teorico della discussione sull’intelletto nel capitolo 9? Si tratta di intelletto divino, descritto per via di paragone all’intelletto umano, o invece di intelletto anche e specificamente umano, spiegato per ciò che può avere di comune con il divino? E quale è la tenuta teorica della discussione sui motori nel capitolo 8? In particolare, perché l’argomento dell’immaterialità che ivi impedisce la pluralità del primo motore immobile (la materia valendo come principium individuationis in 8.1074a31-38) non impedisce anche la pluralità di “sostanze siffatte” in funzione di motori immobili (affermata poco sopra, in 8.1073a14-b3; 1074a15s.)? Un tale novero di domande, più o meno compendiato o esteso, ha preso forma progressivamente, e ancora oggi viene a costituire l’orizzonte di attesa di qualsiasi nuovo studio d’insieme su Lambda, cfr. e.g. intorno a M. F REDE -D. C HARLES , Aristotetle’s, Metaphysics Lambda, cit., l’introduzione dello stesso Frede (pp. 1-52) e le recensioni da parte di L.P. Gerson («Ancient Philosophy», XXIII (2003) pp. 231-35) e di M. Bordt («Theologie und Philosophie: Vierteljahresschrift», LXXVII (2002) pp. 121-3), e ancora di Gerson su Bordt (cfr. supra n. 9; BMCR, 2007.08.17); cfr. d’altronde le considerazioni al riguardo di cui qui infra, passim e in questo stesso § 1.

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nell’ignoramento delle altre ricerche svolte nella Metafisica, come pure sovente si legge almeno da Bonitz in poi, ma al contrario nell’interazione fra ambiti di ricerca contigui, che vi si rivelano anzi complementari, come obbedendo a un implicito disegno sotteso e comune. Quanto alla assenza presunta e sovente lamentata di connessioni fra Lambda e le altre parti del corpus, il fatto è forse che una tale convergenza di filoni di ricerca plurali e distinti si compone in Lambda in modo così organico e intrinseco, da non esprimersi esternamente in quel tipo di rinvii incrociati fra scritti diversi, che pure altrove connette e riunifica le diverse discipline15. Il libro è tutto una citazione, tutto una ripresa e tutto una sintesi. Così, si comprende anche la stratificazione concettuale e redazionale cui Aristotele risulta fare ricorso: egli riflette infatti, in tutto il corso del libro, sulle precedenti ricerche, sia proprie, sia di predecessori e contemporanei. Da una parte, ricerche proprie di Aristotele si trovano qui continuamente evocate in forma non troppo dissimile da quella da noi posseduta, quasi una sorta di ipotesto che continuamente riemerge come trama compendiata di allusioni strette e talora persino letterali: questo è significativo della complessità e importanza del processo di rielaborazione che Aristotele vi mette in atto, come a consuntivo dei diversi filoni di ricerca affini e convergenti. D’altra parte, l’opera dei predecessori e contemporanei costituisce un orizzonte di riferimento, senza il quale non si comprende la sfida con la quale Aristotele qui si misura: il tentativo cioè, già ricorrente nella scuola platonica, di radunare la realtà sensibile sotto principi intelligibili, e in specie sotto un principio sommo, sommamente intelligibile (ciò che in effetti Lloyd Gerson ha efficacemente etichettato come top-downism)16. 15

Cfr. infra, § 2.4; S. FAZZO, Exordes, raccords, “titres”, cit. La presente lettura pertanto, nella misura in cui reperisce siffatti elementi di platonismo nella dottrina aristotelica dei principi, si accorda largamente con la definizione del problema del platonismo in Aristotele 16

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Identificata come principio degli enti sensibili, per mezzo di una necessità più rigorosa e più strettamente argomentata rispetto alle concorrenti teorie platoniche, la sostanza puramente intelligibile di Aristotele è tuttavia definita, come in quelle, da prerogative prettamente assiologiche, ricavate per eminenza ed eccellenza, che divengono anche principio di identità (solo uno infatti è il termine eccellente considerato allo stesso riguardo, cfr. Topici H 117). Questo è possibile perché in Aristotele, come già in una prospettiva di tipo platonico, ciò che è intelligibile è primo, e cioè è eccellente

proposta da L.P. GERSON, What is Platonism?, «Journal of History of Philosophy», XLIII (2005) pp. 253-76, in part. § 4: “Was Aristotle a Platonist?”. Dello stesso Gerson, cfr. anche e più ampiamente Aristotle and Other Platonists, Cornell University Press, Ithaca N.Y 2005, in part. le pp. 188-208 dedicate a Lambda e alla fortuna del libro in Plotino e in età neoplatonica, che spero di poter discutere in altra sede. Ringrazio peraltro gli organizzatori (F. Gain e A. Laks) e i partecipanti al “Symposium International: Le platonisme d’Aristote”, tenuto all’Université de Lille 3, nei giorni 25-26 ottobre 2007 (atti inediti), per la discussione su questo punto, con particolare riferimento alla comunicazione che ivi avevo presentata, “Eléments de platonisme chez Aristote, Métaphysique Lambda”. 17 È utile in effetti mettere in parallelo, come Castelli suggerisce, l’argomento di Lambda con l’argomento di identità che Aristotele espone in Topici H 1, prendendolo però fin dall’inizio, ove dice “Se due cose siano identiche o diverse, nel senso più proprio dell’identità, (e si era detto che nel senso più proprio identico è ciò che è uno di numero) si esamina secondo la flessione, la sustoiciva e gli opposti” (151b28-31, trad. mia). La spiegazione dell’argomento di alcune righe di Lambda 7 in base a una parte di quello stesso capitolo, Top. H 1.152a4-30, è proposta da L. C ASTELLI , Metaphysics XII 7, 1072A27-B1: An Argument of Identity, «British Journal for the History of Philosophy», XIX (2011) pp. 837-48. Castelli, d’altronde, volutamente esamina quelle dieci righe del libro, senza connessione con il contesto (“I do not address the larger philosophical significance of the argument for Aristotle’s metaphysics and cosmology in general”); le sue conclusioni, ponendo al centro il concetto di “bello”, considerano o identici in generale, o come se fossero

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(cfr. 7.1072a35s.); inoltre ciò che è primo ed eccellente, è vivo e divino, in quanto ciò che è divino, è vivo, costantemente attivo della migliore attività (7.1072b19-30); dunque, eternamente pensa: è intelletto; e poiché l’intelletto, nell’atto del pensiero, si risolve nell’intelligibile in sé: essi sono un’unica cosa (7.1072b19-21, 23; 9.1074b33-1075a5). Pertanto, si può leggere Lambda come la variante aristotelica, e vincente sul lungo periodo, delle teorie dei principi di scuola platonica: al centro del libro sta una dottrina della sostanza intelligibile, identificata come principio delle sostanze sensibili; indagata, con strumenti in parte già propri della filosofia dei principi di tipo platonico. Sotto l’egida di una continuità che Aristotele ora persegue ben più che non avversarla, si configurano i punti di forza rispetto alle dottrine concorrenti: questi sono di natura innanzitutto metodologica (coerenza e coesione e compiutezza) e sono direttamente radicati nelle ricerche aristoteliche di filosofia prima, sia di filosofia della natura, in forza di una fitta rete di rimandi con parti principali delle ricerche del corpus. Proprio per questo, l’interesse di Lambda non sta solo nel confronto con il contesto originario del dibattito in cui si collocava. La complessità dei filoni di ricerca che in Lambda convergono, e la fitta trama dei rimandi che attraversano il libro, costituiscono di fatto anche una chiave di lettura guidata a diverse altre parti del corpus: il testo di Lambda ci conduce

identici, il desiderabile e l’intelligibile si trovano in conflitto con le analisi condotte a questo riguardo non solo qui, ma anche in Laks et al., e già nella tradizione esegetica greca sull’intero cap. 7. Nello specifico, è proprio la diversità fra intelligibile e desiderabile a richiedere una dimostrazione del loro convergere e identificarsi quanto alle prime istanze dell’uno e dell’altro in Lambda 7: a quanto vedo, è in quanto è primo, appunto, che il primo desiderabile si identifica con il primo intelligibile, senza però che l’intelligibile e il desiderabile siano identici in generale.

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velocemente, quasi per tappe forzate, attraverso più settori disciplinari diversi, dalla filosofia prima o Metafisica, specie i libri centrali, alla Fisica, non senza il De anima e il De generatione et corruptione, e ci mostra quali aspetti di quelle ricerche Aristotele considerò più rilevanti in vista della dottrina dei principi qui costituita. Anche per questo aspetto, la nostra analisi del libro somiglia poco a quella che il XX secolo ha visto prevalere: proprio considerato come un trattato di teologia, Lambda è stato visto come un testo sui generis ed isolato; in specie, è apparso separato e scisso, sia per intenzione sia per impostazione, dalla concezione ontologica (e dunque generalizzante) della filosofia prima come “scienza dell’ente in quanto ente”, attestata nei libri “centrali” della Metafisica. Nondimeno, qui si riscontra quasi il contrario. La “teologia” di Lambda, se pure così la si vuole chiamare, è elaborata a partire dall’analisi modale, e categoriale, dell’ente, che è il vero filo conduttore dell’argomento dal cap. 1 ai capitoli 5 e 6 (è infatti il primato ontologico della sostanza a postulare il passaggio logico dall’immobilità del principio primo alla sostanza immobile come principio primo) e viene a declinarsi nei capp. 7 e 8 secondo l’opposizione polare mutevole/sensibile/contingente vs. immobile/intelligibile/necessario: tale polarità oppone infatti i rispettivi predicati (mutevoli vs. immutabili), e si colloca dunque a livello gnoseologico, non meno che a livello fisico (cfr. in part. qui infra, e § 2.5). Né in questo le è estranea una sottesa implicazione di paronimia, almeno nella misura in cui i predicati della serie positiva (la sustoiciva di 1072a31, 35) quali “primo”, “eccellente”, “eterno” e “in atto”, “necessario”, “desiderabile in sé”, “fine-in-vista-del-quale”, sono origine e paradigma dell’esser tali per le istanze dell’altra colonna. Si intende infatti che anch’essa è caratterizzata da un suo primato proprio, quello del primo mobile che è il cielo (1072a21-4): esso è primo, divino, eterno, perennemente attivo, con la differenza che, “in quanto si muove, almeno in

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questo può essere diversamente, nello spazio, se non nella sostanza” (7.1072b5-7). La necessaria attenzione per questi aspetti induce pertanto a una certa cautela nei confronti di quel tipo di lettura (che pure è attestata già in Jaeger e Ross) dalla quale dunque, è stato necessario prendere le distanze, specie nella misura in cui essa induce di fatto a minimizzare la portata teorica del libro. Non per questo possiamo tornare senz’altro a quella più generale tendenza interpretativa che, con un’approssimazione indubbiamente eccessiva, ma quasi inevitabile, potremmo chiamare “tradizionale” – una tendenza che fra breve dovremo ricordare e descrivere non fosse che per contrasto (cfr. infra, § 1.1). Si tratterà ora, pertanto, considerare in che modo, sullo sfondo di tali interpretazioni del passato – parte simili, parte diverse fra loro – si siano contestualizzate le discussioni più frequenti nei contributi particolari che sono stati dedicati a questo libro negli ultimi decenni. Tali discussioni hanno presupposto, e sovente anche lasciato, questioni aperte, alcune delle quali sono state menzionate sopra. Qui proprio la difficoltà di rapportarci direttamente ad alcune di quelle questioni è interessante in sé perché costringe a ragionare anche positivamente, sulla specificità e sulle implicazioni della prospettiva di lettura qui perseguita, nonché, se possibile, sui suoi vantaggi competitivi. Dismesso il presupposto dell’isolamento e dell’anteriorità di Lambda rispetto ai libri centrali della Metafisica, perde materia per esempio la tesi di un’inserzione tardiva del capitolo Lambda 8 (che pure difficilmente si data prima del 330 a.C.: invero, nulla attualmente impedisce di assegnare questo terminus post quem all’intero libro 18). Quanto alle questioni più propriamente teologiche, queste appaiono ora 18 Terminus post quem ne dovrà essere l’attività di Callippo, cui si riferisce L 8.1073b32-38, cfr. supra, n. 5. Quanto all’eventuale differenza di stile, che da più parti si è ravvisata, sia in Lambda sia

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decentrate dal focus teorico del libro, indubbiamente puntato su una ricerca di accademica tradizione, quella di un principio – o di un ordine di principi – puramente intelligibile (l’espressione è ordinariamente al singolare). Aristotele fa leva sull’assoluta immutabilità di ciò che è puramente intelligibile – per definizione è infatti senza materia, e il mutamento è sempre mutamento di una materia, come in Lambda stabilisce nel cap. 2, subito all’inizio della sua esposizione: nulla che abbia materia può infatti essere immutabile, nella prospettiva propria del libro, perché la materia funge in questo quadro teorico né più né meno che da sostrato del mutamento. Con questo tipo di inferenza, decisivo seppur parzialmente implicito, Aristotele risolve l’uno nell’altro l’intelligibile e l’immutabile, e la prima parte della ricerca porta ad un principio intelligibile in quanto immutabile, individuandolo in ultima analisi come condizione di possibilità stessa dello scire per causas relativo al mutamento: un tale principio è causa di ogni mutamento, a cominciare dal movimento primo, quello circolare – il movimento infatti è il primo dei mutamenti. Solo una volta postulata una tale sostanza intelligibile, quale principio primo e immutabile di ogni movimento, Aristotele viene a ragionare sulle prerogative proprie di un intelligibile primo, dimostrandole per una via speculativa e diversa (per diaivresi" e per sustoiciva, cfr. qui infra) – a tratti ravvivata da non casuali riferimenti all’esperienza umana. È solo a questo punto, in ragione del primato dell’intelligibile puro come sostanza, che trova ragione d’essere la teoria (ben poco sviluppata altrove nel corpus) dell’identità dell’intelletto con l’intellegibile, suo oggetto di pensiero. Ed è a questo all’interno del capitolo stesso Lambda 8, essa può esser traccia di una gestazione naturalmente composita dell’attuale libro Lambda, che Aristotele può aver elaborato e presentato in pubblico in parti separatamente, senza alcuna necessaria conseguenza quanto alla coerenza del disegno teorico complessivo.

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punto che entra sulla scena teorica del libro (e della Metafisica) la definizione di dio, tratta dall’opinione comune degli uomini, come “vivente eterno ed ottimo”, ottimo dunque fra gli enti, per sua definizione, dunque eternamente attivo, in quanto eternamente vivo, della più eccellente delle attività (1072b30), il pensiero appunto. Così, è in quanto perennemente identico all’intelligibile, che l’intelletto in atto interviene nell’argomento; ed è in quanto perennemente attivo dell’atto migliore, – quale appunto è l’atto dell’intelletto – che il dio vi interviene. L’intelletto, e poi il dio, intervengono cioè nell’argomento di Lambda che ha messo capo a un principio puramente intelligibile, in ragione dell’identità che il dio presenta con l’intelletto in sé, e che l’intelletto in sé presenta con l’intelligibile puro. Ciò comporta che ogni diverso contenuto dell’intelletto, che non sia l’intelligibile stesso con il quale si identifica, e ogni diversa attività del dio, che non sia la perenne attività di pensiero, nella quale l’uno e l’altro si identificano, semplicemente esula dal campo teorico della dimostrazione intrapresa da Aristotele nel libro Lambda. Troppo poco per far reperire i lineamenti di una teologia razionale. Troppo poco, almeno, se non fossero intervenuti i commentatori a sviluppare in atto ciò che il testo lascia in potenza. Per contro, chi oggi segua l’argomento di Lambda quanto possibile dall’interno delle sue motivazioni e della sua gestazione, si trova a lasciare da parte interrogativi che pure erano stati legittimi e ragionevoli, in una certa logica: quelli che affaticano fin dall’antichità chi commenti il libro in una prospettiva teologica. Di qui anche quella famosa e più recente vexata quaestio – la causalità del motore immobile – che è tale appunto per l’importanza che il tema ha assunto nella tradizione, a fronte di indizi episodici e insufficienti nel testo. Invero, per Aristotele, quel modo di conoscenza più compiuto che è lo scire per causas, in vista del quale si distinguono e classificano i

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tipi di causa, è finalizzato alla conoscenza dell’effetto. Ma ciò non può applicarsi ugualmente alla sostanza prima, che viene raggiunta come termine ultimo della serie causale, come sostanza non causata – ovvero immobile, che è lo stesso (come vedremo a suo luogo). Pertanto la classificazione del tipo di causa serve a conoscere gli enti in movimento ed è strumento primario della Fisica. Tale classificazione invece non ha alcun ruolo diretto nella teoria della sostanza non sensibile, cui punta il libro Lambda, né gioca un ruolo primario nella scelta strategica di reperire il non-causato, il non-sensibile, il puramente intelligibile, come termine ultimo e immobile, senza il quale il movimento non può essere, in ultima analisi, nemmeno concepito. Trasversale, generale, è infatti il postulato soggiacente, di un principio primo non causato, e dunque immobile e immutabile in tutte le sue prerogative: vale per ogni ordine di causa (Metaph. a 2.994b7, 994a1, cfr. infra, passim e § 2.5). Se dunque leggiamo Lambda nella logica della teoria che l’autore ha voluto costruirvi, la questione, pur ragionevole in sé, di in che modo muova quel principio immobile, non ha luogo di esservi sviluppata, né è strano ciò che anche recentemente Enrico Berti constata (Continua il dibattito sulla causalità del motore immobile, cit.), che Aristotele non se ne sia interessato in modo speciale. La questione che si pone, invece, dal punto dell’autore, è: in che modo sia immobile, un tale principio immobile. Certo, anche qui le risposte da prendere in considerazione sono più d’una, come si evince anche da altre parti del corpus (in particolare nel sopra citato trattato, impropriamente intitolato De motu animalium, che si dedica a questo tema con un occhio di attenzione per la relazione di causalità, ciò che invece manca in Lambda per la natura stessa dell’indagine in atto). Di questo, a riprova, si occupa Aristotele anche redigendo un’apposita sustoiciva, che è appunto la sustoiciva degli immobili, ovvero degli immutabili. Ecco dunque il risultato, ecco gli immutabili possibili, in serie ovvero sustoiciva: il

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principio primo dal quale viene il movimento, e in specie il movimento primo (quel movimento eterno circolare che è così continuo e regolare come è continuo e regolare il tempo, cfr. 7.1072a21-3, 6.1071b9s., Fisica Q 8-9); il desiderabile e l’intelligibile, che coincidono nella prima istanza dell’uno e dell’altro (1072a26); la sostanza semplice e in atto (della quale ci viene detto anche che è la prima della serie, 1072a30); il bello – del quale egli stesso ci dice anche nel libro My, che si differenzia dal buono, perché a differenza del buono, il bello si trova anche negli immobili (to; de kalo; n kai; ej n toi' " ajkinhvtoi", M 3.1078a32), vale a dire, negli intelligibili, quale appunto è la nostra serie; e poi ciò che è preferibile in sé, cioè il fine, secondo uno dei sensi possibili del fine. Quest’ultimo punto richiede in Lambda 7 un breve excursus esplicativo, atto appunto a mostrare, per via di diairesi, che anche il fine si trova negli immobili (ejn toi'" ajkinhvtoi", 7.1072b2; ed è la stessa espressione che abbiamo appena trovato nel libro My; leggo naturalmente il testo come è ricostruito secondo i manoscritti – senza del che non si capisce il suo nesso con l’argomento principale, cfr. I ad loc. e infra, Comm. ad loc.). Continuando, Aristotele specifica ulteriormente questa connotazione di immobilità, che è necessaria e assoluta (non è infatti solo definita per un assenza di moto locale, dice infatti: tou'to oujk ejndevcetai a[llw" e[cein oujdamw'" [...] ejx ajnavgkh" a[ra ejsti;n o[n: kai; h|/ ajnavgkh/, kalw'", kai; ou{tw" ajrchv, 1072b811). Una tale immobilità, soprattutto (questo infatti è il punto interessante dal punto di vista teoretico), si definisce polarmente, per opposizione a ciò che immobile e puramente intelligibile non è, considerato anch’esso nella sua prima, più perfetta istanza (quella del moto celeste, 7.1072b4-7): in una parola, l’immobilità si definisce per diairesi (diaivresi", cfr. già 1072b1), di modo che la sustoiciva degli immobili si trova implicitamente contrapposta a ciò che è mobile e sensibile. Detto questo, è chiaro che due specificamente, e non infinite, sono le concezioni e procedure possibili relative alla causa

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prima di ogni movimento: risalire a ciò che è causa prima come primo “principio-di-movimento”, “ciò-da-cui-ilmovimento” (ciò che sovente è chiamato causa efficiente), o puntare alla causa finale, che in quanto tale sempre muove senza muoversi; queste due in effetti sono le modalità aristoteliche di concepire il motivo del movimento. Aristotele non si preoccupa di classificarle in sede di argomento decisivo. Indubbiamente, la catena di mossi-e-motori distintamente elaborata nel libro è infatti relativa alla causa o{qen hJ ajrch; th'" kinhvsew" (di cui ibid., 994a4, cfr. Fisica B 3.194b29) – quelle che si chiamano sovente cause efficienti, e che efficienti sono tutte in senso stretto, tranne la prima, la quale, per la sua assoluta immobilità, costituirà quel principio di movimento immobile, che è necessario presupposto, anche logico e cognitivo, di qualunque mutamento e mobilità. La predilezione della tradizione esegetica per il ruolo di causa finale è comprensibilmente basato su molteplici spunti nel corpus, ove troviamo, a diverse riprese, una sorta di sovraordinarsi delle cause finali le une alle altre: il tutto, tende in natura e per natura al divino: il sublunare imita il cielo, come dice (metaforicamente) Aristotele, per l’eternità del suo permanere nel mutamento. Da qui sarà stato naturale per gli esegeti allungare la serie e attribuire al cielo una volontà di imitazione. Ma il lessico dell’imitazione, come quello della partecipazione, è metaforico per Aristotele, che non lo ha mai introdotto in questo così rigoroso argomento, quale egli costruisce nel nostro libro (come concludendo osserva E. Berti, Continua il dibattito, cit.). Fuori di metafora, si dirà che il sublunare è regolato dal cielo come causa motrice, e che non è pensabile che il cielo possa muoversi eternamente, senza il postulato, logico e al tempo stesso fisico, di un’assoluta immobilità. Esistono così, nella storia esegetica di Lambda domande, cui difficilmente si troverà risposta. Non è infatti più possibile mantenere un’acritica continuità con quel tipo prevalente di

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interpretazione, che fu all’origine di tali domande, bensì essa risulta storicamente databile e teoreticamente circoscrivibile. Indubbiamente, questo nulla toglie di essenziale all’importanza di quella tradizione esegetica che, naturalmente posteriore ad Aristotele, ha avuto il merito storico e la forza teorica di infondere immensa vitalità e quasi universalità di significato a un libro quale Lambda che pure da parte sua fu concepito in un contesto di dibattito molto determinato. Impone però di rivederne presupposti, almeno se si vuole sperare di attingere più da vicino il senso originario del libro.

1.1. La lettura teologica fra presupposti e costi esegetici Nella misura in cui esiste, di Metafisica Lambda, un’interpretazione tradizionale19 essa sembra comportare l’intersezione di almeno due presupposti impliciti. L’uno è che la filosofia possa culminare, quantomeno e specificamente per Aristotele, nella teologia20; l’altro, che Metafisica Lambda sia concepito da 19

La nozione stessa di interpretazione tradizionale è d’altronde in sé generica e passibile di equivoco, e richiede dunque di essere ogni volta circostanziata, dichiarando le differenze e le persistenze, in più sensi: le differenze in studi di strato e le persistenze nel commento sui temi portanti e sui singoli passi. Sull’idea di “strato” cfr. le considerazioni generali che ho esposto in Archeologia di una tradizione, cit. 20 Preso in sé e in assoluto, non in riferimento ad Aristotele, questo primo assunto – il primato della teologia nel contesto del sapere filosofico – solleva una questione difficilmente attualizzabile, quella di sapere se la filosofia (o anzi più in generale il sapere dell’uomo e la sua vocazione a conoscere) debbano o possano trovar compimento in una qualsivoglia forma di teologia. Ad una considerazione generale, non c’è la filosofia, ma ci sono le filosofie, e non c’è una teologia, ma le teologie; sicché le interazioni possibili fra i due rispettivi campi semantici (di questo probabilmente si dovrebbe trattare) non si generalizzano, ma si definiscono singolarmente in ciascuno di quei contesti plurali sui quali antropologicamente e culturalmente si declinano il senso stesso

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Aristotele come il suo trattato di teologia. Quando ambedue i principi sono stati ammessi, il libro Lambda si è trovato al vertice della filosofia aristotelica, se non anche della filosofia tout court. Così è avvenuto in effetti in quei contesti dove Aristotele era considerato “il Filosofo” per eccellenza. Ma la funzionalità di questi principi a opzioni ideologiche storicamente determinate è manifesta. Lo conferma il fatto che il primo dei due principi – la centralità della teologia per Aristotele – risulta attivo precipuamente in alcuni contesti medievali di ricezione ed esegesi di questo libro; mentre la rimozione di quel principio stesso, per converso, è stata quasi una condizione di possibilità per il rinnovamento degli studi aristotelici e per una loro rifondazione storico-filologica in età moderna. dell’umano e del divino, del sapere e del conoscere. Storicamente, si potrebbe dire, la priorità della teologia sulla filosofia è un’opzione attestata di fatto; può risultare sostenibile anche in teoria. Ma non è di questo che si tratta, perché la questione è invece se la filosofia abbia il proprio centro costitutivo nella teologia come sua parte integrante e non come livello superiore (ed è interessante notare che una discussione eminente sulla natura di questa alternativa si trovi appunto in L 10.1075a11ss., solo però secondo l’esegesi qui proposta). Quanto ad Aristotele, giova notare che, in una prospettiva semantica, la questione della priorità della scienza del divino su quella dell’umano differisce poco da una tautologia, visto che lo spettro di significati del termine stesso, “divino”, ricopre pressapoco per intero quello della superiorità assiologica e della priorità. Pragmaticamente, però, una cosa è chiara: che la filosofia fu per Aristotele ricerca, e che la ricerca sulla sostanza non sensibile, per questo in qualche modo divina, fu per lui la più ardua, se è vero che ne parla quasi sempre come di un’impresa da compiere piuttosto che già compiuta (cfr. S. FAZZO, The Metaphysics from Aristotle to Alexander, cit., p. 53). Si tratta dunque non di un sapere compiuto ed acquisito, ma di quel margine di ricerca, perfettibilità, “futuribilità” che, eroso in altri settori dello scibile dall’ampiezza delle ricerche attuate da Aristotele e dalle rispettive redazioni in forma di libri, in Lambda si trova inaugurato, come un’agenda aperta e lasciata ai posteri, alla scuola, all’umanità intera, in modo da predisporsi per natura alla storia delle infinite esegesi, ri-esegesi e super-esegesi cui questo libro si è prestato.

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Tale è infatti la peculiare evoluzione della tradizione esegetica di questo libro: Lambda è stato seriamente discusso da Teofrasto 21; è latitante in buona parte della successiva documentazione a noi pervenuta, al modo degli altri scritti esoterici. Considerevolmente più tardi, con il commento continuo di Alessandro di Afrodisia, lo ritroviamo al centro della Metafisica; e poi ancora, in ragione della fortuna – diretta o indiretta – di quel commento, lo troviamo “super-commentato” (in senso tecnico) in età medievale. È sovente ripreso, e sovente di nuovo posto da parte nel XX secolo, e non senza asprezza di toni, secondo quelle che potevano storicamente essere di volta in volta le sorti di una teologia filosofica. Ci si può interrogare su quale sia il prezzo esegetico di questo destino singolare del libro. Il costo maggiore, argomenterò, è questo: visto come punto culminante, ma eterogeneo rispetto all’insieme delle ricerche di filosofia prima, visto cioè come teologia, Lambda resta avulso dal suo orizzonte di senso e di indagine. È come se gli interessi e le spinte che lo animano restassero nell’ombra di fronte a una qualche acquisizione di dottrina dogmatica; è come se la compagine complessiva del libro potesse o dovesse intendersi al di fuori dal contesto dei libri e delle ricerche della Metafisica. Il che sicuramente è una perdita.

1.2. Una condizione preliminare: fare tabula rasa Per questo, affronteremo qui il libro Lambda facendo 21

Teofrasto mostra di considerare Lambda come un testo sui principi nella cosiddetta “Metafisica”, che appunto è essa stessa un testo sui principi (cfr. l’introduzione di A. LAKS e G.W. MOST a Théophraste. Métaphysique, cit.; sul probabile titolo peri; aj r cw' n per l’opera di Teofrasto, vedi la mia recensione su «Rivista di Storia della Filosofia», (1995) pp. 202-8, in part. p. 204; con argomenti diversi anche D. GUTAS, Theophrastus, On First Principles (known as his Metaphysics) (“Philosophia Antiqua” 119), Brill, Leiden-Boston 2010, pp. 25-32).

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quanto possibile tabula rasa della tradizione esegetica. Si tratta di fare astrazione proprio da quella tradizione che parallelamente non cessiamo di indagare, come illustrano già le indagini sinora pubblicate. Esse s’intendono, in tale prospettiva, come propedeutiche all’esame della lettera di Aristotele. Questa vi si trova intesa come punto di arrivo, in direzione invertita rispetto alla tendenza, pur comprensibile e diffusa, a farne un punto dal quale si possa senz’altro partire, per esaminare obiettivamente, ora sì come punti di arrivo, le aggiunte e gli apporti delle diverse fasi della storia esegetica e della fortuna. Eppure questa è una visione, se così si può dire, troppo ingenua e positivista del rapporto fra testo ed esegesi, almeno nel caso di un testo “supercommentato” come Lambda. Nell’inversione che al riguardo propongo, in effetti, sta il senso del metodo “archeologico” che ho altrove teorizzato. Sono state infatti necessarie quelle indagini sulla tradizione esegetica, per potersi allontanare dalla tradizione, e farsi strada verso il testo. Fatta allora astrazione e tabula rasa della storia interpretativa del libro, ci si potrebbe chiedere: che cosa resta? Spogliato delle sue croste esegetiche, Lambda richiede di ritrovare il proprio senso originario nel suo contesto di redazione: da una parte, nella motivazione lato sensu accademica che gli fu propria, e dall’altra parte, più specificamente, in quella delle ricerche aristoteliche di filosofia prima. È un contesto che lo avvicina fortemente ai libri centrali della Metafisica: già lo studio dell’esordio basta a mostrarlo22. Si tratta dunque più segnatamente di mostrare che l’argomento

22 S. FAZZO, L’esordio del libro Lambda, cit.; EAD., La prima frase, cit. Parlando dei libri centrali della Metafisica, mi riferirò qui non solo a Zeta, Eta, Theta, ma anche ai libri che li precedono dopo il libro Beta, e cioè Gamma e Epsilon, considerando che vi si svolgano considerazioni preliminari imprescindibili per quei libri, e tenendo invece da parte il lessico filosofico che è costituito dal libro Delta.

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del libro Lambda “tiene”, “regge”, a condizione di una lettura tecnicamente filosofica, nel contesto delle teorie aristoteliche e accademiche dei principi.

1.3. Residui della lettura teologica: perplessità e discrepanze Per contrasto, ciò che resta oggi della lettura teologica del libro è poco più che il residuo, muto ed opaco, di quel tipo di tradizione scolastica, cui quei suddetti presupposti erano congiunti: un resto sopravvissuto pur nelle alterne vicissitudini critiche del libro. Un tale residuo persiste tuttavia, producendo ora un esito opposto al precedente: comportando, cioè, una sorta di ribaltamento di valore – quasi un declassamento del libro – almeno in un certo settore della letteratura secondaria, oltre a non pochi problemi esegetici sia particolari sia generali. Fra quelli generali, le perplessità irrisolte sulla funzione dei capitoli 1-5: se infatti sono un’introduzione, ci si chiede che attinenza abbia questa introduzione con la teologia; e se quelli invece sono parte del trattato a pieno titolo, bisogna spiegare perché la teologia vi si ibridi in quel modo con la fisica. C’è poi oscurità latente sul tema del capitolo 6: si ritiene sia il motore immobile, ma chi ne cerchi tracce sicure resta sconfortato fino all’inizio del capitolo 7. Il capitolo 7, tutto sommato, forse si salverebbe dalle obiezioni più evidenti: con la sua ostica metodologia per diaivresi" e sustoiciva, lascia sottintesi troppi nessi cruciali per ingenerare qualunque illusione di perspicuità; almeno questo, insomma, si capisce, e cioè che il testo non si capisce facilmente per intero; e poi ha almeno questo punto di forza: che di “dio” (“Dio”?) parla veramente. Pertanto ne daremo lettura continuata fra breve; vedremo allora, nondimeno, che del “dio” Lambda 7 parla in modo elusivo, e soprattutto, come è stato notato, come predicato piuttosto che come soggetto logico, il che può fare da ostacolo a chi voglia etichettare

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almeno quella specifica ristretta sezione (7.1072b16-30 o poco più) come “teologica”23. Quanto alla teoria dell’intelletto del capitolo 7, e del capitolo 9 (dedicato appunto ad aporie sull’intelletto), essa non va senza problemi, proprio e soprattutto in una lettura teologica. Tale lettura in effetti prevale ancora in autorevoli esegeti del XX secolo. Essi, sul portato della tradizione esegetica, si trovano a forzare l’identità dell’intelletto in questione, apponendo all’Intelletto l’iniziale maiuscola e parafrasando le menzioni di esso come menzioni dell’intelletto “divino”, come distinto da quello umano. Ma il testo male autorizza una tale interpretazione o sovrainterpretazione (un fenomeno cui il libro può talora dare estro, il suo stile di redazione risultando, come si potrebbe dire, sottodeterminato, almeno per il lettore contemporaneo). C’è, non meno che altrove, crisi conclamata sulle digressioni astronomiche del capitolo 8. Già infatti paiono, si dice, fuori luogo per metodo, per stile, per argomento; ma verso fine capitolo (1074a31-38, da dove dice “Che il cielo è uno solo, è chiaro...”) l’excursus “monistico” (secondo Jaeger, Ross) striderebbe con il corpo centrale del capitolo teorizzante la pluralità 23 Questo, se non erro, è anche l’ordine di motivi che, pur per strade diverse da quelle ora tentate, inducono anche Enrico Berti a negare affatto che Aristotele abbia scritto di teologia, come egli ricorda non solo nei saggi su Lambda, ma anche scrivendo su Gamma (E. BERTI, Les passages dits “théologiques” du livre Gamma, in M. HECQUET e A. STEVENS (a c. di), Aristote, Métaphysique Gamma, Édition, traduction, études, Peeters, LouvainLa-Neuve 2008, pp. 423-38). La natura predicativa del “divino” in Aristotele è sottolineata da B. BOTTER, Dio e il divino in Aristotele, International Aristotle Studies, Akademia Verlag, Sankt Augustin 2005. Su questo tema, e su alcuni presupposti metodologici richiesti dall’indagine, cfr. già C. NATALI, Cosmo e divinità, cit., in part. p. 9: Natali raccomanda in particolare che l’analisi delle varie sezioni teologiche del corpus aristotelico non prescinda dal contesto di discorso proprio di ciascuna; cfr. anche ID., Problemi della nozione di causa in Aristotele, con particolare attenzione alla causa finale, «Quaestio. Annuario di storia della metafisica», II (2002) p. 57-75.

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dei motori; il quale così considerato si trova contrapposto non solo a quell’excursus, ma al monoteismo (si ritiene) della teoria principale di Lambda, letta alla luce della conclusione in Lambda 10, “uno solo sia il sovrano”. Sembrerebbe allora che il dettato della conclusione del libro Lambda non si concili, o mal si concili, o si concili solo a prezzo di un’operazione concordistica onerosa (anche qui la differenza dipende dall’impostazione più scolastica o più analitica degli esegeti, dal loro stile, più irenico, o più critico) con l’aperto “politeismo” del capitolo Lambda 8, quale esso appare sempre in ragione di una siffatta lettura. La questione si trova non risolta, ma ulteriormente complicata, se si cerca la risposta guardando al resto del corpus Aristotelicum: se non vi mancano i riferimenti a un principio immobile e non sensibile singolare, d’altra parte vi abbondano manifestazioni d’ossequio alla religione tradizionale, politeistica, dei greci (seppur non certo al suo rivestimento mitologico, apertamente criticato da Aristotele nel capitolo Lambda 8 stesso). Così entrambe le opzioni (monoteismo? politeismo?) sono suffragate da altre fonti nel corpus. Forse, stando così le cose, la sussistenza di entrambe non è di per sé sorprendente; ma strano è perlomeno il loro accostarsi a così breve distanza nella parte finale del libro. Eppure, se davvero si ritiene che il libro richieda una lettura teologica, deve perlomeno essere possibile risolvere l’alternativa fra monoteismo e politeismo facendo leva su elementi interni al libro. Se ciò invece non è possibile, bisogna indicare quale altra lettura sia la più appropriata. Nel presente commento dunque intendo mostrare che una lettura più economica e aderente al testo e al suo contesto è possibile e teoreticamente vantaggiosa. Lambda è un trattato strettamente filosofico e teoreticamente orientato (al modo d’altronde dei principali altri libri della Metafisica) verso la costruzione di un’ontologia forte sulla quale rifondare la dottrina dei principi. Accidentalmente tuttavia, e quasi

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marginalmente, compaiono nel libro gli elementi storicamente più influenti per la costruzione di una teologia razionale.

1.4. Un esame preliminare della sezione “teologica”: 7.1072b7-30 Ora, perché la metodologia e le ragioni sottese alle considerazioni presenti appaiano più chiare, e le nostre successive considerazioni non sembrino immotivate, può servire considerare proprio fin d’ora il passaggio più significativo, quello cioè che nel libro, come si è detto, è risultato il più adatto, o il meno disadatto, ad una lettura teologica, ovvero Lambda 7.1072b7-30. Se qualcuno infatti lo troverà teologico, contro il nostro avviso, potrà almeno chiarirsi e precisarsi, su elementi testuali determinati, la natura del dissenso; se qualcuno invece concorderà del tutto o in parte nell’analisi qui proposta, si sarà stabilito un terreno comune di riflessione. Siamo dunque nella parte centrale del capitolo Lambda 7. Vediamo il contesto: nella prima parte del capitolo 7, senza soluzione di continuità con il capitolo 6, Aristotele dimostra che esiste un primo motore immobile (1072a19-26). Non parla per ora di divinità in nessun modo. Afferma soltanto che un motore che muove senza muoversi esiste, è eterno, è sostanza, è in atto (1072a25)24. Inoltre, parla del primo motore in generale: del desiderabile, e specialmente del desiderabile vero, che è intelligibile e che muove l’intelletto e il desiderio, senza essere mosso né muoversi (1072a26-30); e in specie, parla dell’intelligibile primo: dice che l’intelligibile primo è lo stesso che il desiderabile primo, perché il desiderabile primo, per esser tale, deve essere riconosciuto dall’intelletto25. Così muove il motore immobile, del quale si parla ora. 24

Cfr. infra, § 1.5. La capacità motrice di ciò che è desiderabile è ampiamente trattata nel trattato De anima (G 10ss.), la cui teoria del moto volontario Lambda 25

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Ora arriva una parte difficile. Dialetticamente, per via di un procedimento eminentemente speculativo, l’intelligibile primo si pone come sostanza prima. Il primo elemento della serie degli intelligibili (così va intesa infatti la serie in esame, cfr. infra, Comm. ad 1072a31-b1, 1072b1s., 1072b2s.) è infatti la sostanza prima, che a maggior ragione è sostanza intelligibile, al modo della forma, ed è in atto sempre26. Ad essa si riferiscono le altre prerogative assiologiche, pure radunate nella serie positiva. Esse sono infatti declinate come termini positivi nelle varie coppie polari corrispondenti ai diversi modi dell’essere ovvero categorie: di ciascuna, il termine primo ed eccellente è, in quanto tale, intelligibile, immutabile. La sostanza prima è semplice (se fosse composta non sarebbe eterna), in atto e priva di potenza; muove stando immobile, come è proprio di tutto ciò che muove in quanto è desiderabile realmente, essendo riconosciuto come desiderabile e bello dall’intelletto stesso; conformemente, sono propri di una tale sostanza (“fanno parte della stessa serie”, 7.1072a35), il bello, il preferibile in sé, il fine-in-vista-di-cui. Tutto questo è dunque una tale sostanza, la quale appunto muove il primo soggetto intelligente e desiderante (il cielo), e, tramite suo, l’intero cosmo (1072b4). È dunque indirettamente, tramite un soggetto intelligente (presumibilmente anche desiderante, ma il testo non lo dice), che il primo intelligibile-e-desiderabile muove il primo dei movimenti, quello circolare (1072b4-7). Veniamo così alla sezione ora in esame, per vedere se e quanto e come ci parli di “Dio”.

sembra presupporre. Il primato dell’intelligibile è invece sviluppato maggiormente in De motu animalium 6-7, parte di testo che potrebbe essere posteriore al libro Lambda, e presupporlo più che non esserne presupposto, cfr. S. FAZZO, Sur la composition, cit., in part. pp. 227-9. 26 Cfr. anche 8.1074a35, dove sembra che essa sia detta “quiddità prima”, to; de; tiv h\n ei\nai [...] to; prw'ton.

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Riporto dunque il brano successivo, a partire da dove Aristotele trae le conclusioni sul principio immobile, intelligibile, necessario (1072b7-30): E poiché invece c’è un ente che, nel suo essere in atto, muove senza muoversi, questo non può stare diversamente in alcun modo [...]. È dunque ente per necessità. e in quanto è per necessità, è in modo bello, ed è in questo modo che è principio [...]: è dunque da un tale principio che dipendono il cielo e la natura (1072b7-14). La sua condizione di esistenza (diagwghv) è tale27, quale per noi è la migliore, per poco tempo: quello infatti è sempre in questa condizione (per noi in effetti è impossibile) poiché la sua attività è anche piacere (è per questo che la veglia, la sensazione, il pensiero sono piacevolissimi; a causa di questi, poi, sono piacevoli anche le speranze e i ricordi). Il pensiero, in sé, è pensiero di ciò che in sé è eccellente; e il pensiero che è tale al massimo grado, è pensiero di ciò che è eccellente al massimo grado (1072b14-19). L’intelletto pensa se stesso, nell’afferrare l’intelligibile: diventa infatti intelligibile toccandolo e pensandolo, di modo che intelletto e intelligibile diventano la stessa cosa. Intelletto, infatti, è anche ciò che è recettivo dell’intelligibile e della sostanza, ed è in atto quando li ha in sé, di modo che però è quello, più di questo, ciò che l’intelletto sembra avere di divino, e la contemplazione (hJ qewriva) è ciò che è piacevole ed eccellente al massimo grado (1072b19-24). Se dunque il dio sta sempre così bene, come stiamo noi talvolta, è meraviglioso; se poi sta ancora meglio, è ancor più meraviglioso. Sta appunto in tal modo, e ha vita: infatti l’atto dell’intelletto è vita – è quello il suo atto – e l’atto proprio dell’intelletto in sé è vita ottima ed eterna; orbene, noi diciamo che vivente eterno ed ottimo è il dio, di modo che vita e durata continua ed eterna appartengono al dio: questo infatti è il dio (1072b24-30). 27

In 1072b15, oi{a (“quale”) è correzione probabile operata sia in Ab, sia in M e C. Il testo di E e di J è oi{a te, e più difficilmente può avere lo stesso tipo di significato: significa più spesso “possibile”, e il senso della frase risulterebbe meno connesso all’argomento centrale.

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Il primo intelligibile, apprendiamo, è “necessario”, cioè può solo essere, e non può essere diverso da come è (siamo in 1072b7-9). Dà, peraltro, materia di riflessione, ciò che parenteticamente (credo) ora Aristotele aggiunge: “in quanto è necessariamente, è in modo bello, ed è così che è principio”. Non è del tutto perspicua la ratio di questa connessione fra necessità e bellezza (che Aristotele non spiega, e potrebbe essere meno una questione di estetica che di analisi per contrapposte sustoicivai). Indubbiamente, essa viene a conforto della precedente identificazione del primo intelligibile con il primo desiderabile, e dunque a conferma della sua capacità motrice, e cosmicamente motrice (ciò che è desiderabile muove il desiderio, e tramite il desiderio muove il corpo). “Da un siffatto principio”, conclude pertanto in fretta, “dipendono il cielo e la natura” – si intende: la natura tutta (7.1072b13s.). Si tratta infatti del motore del cielo, che a sua volta muove la natura sublunare. Da qui troviamo appunto la sezione più teologica, se ve ne è una, dell’intero libro Lambda. Infatti Aristotele, non senza una qualche cesura in 1072b14, porta l’argomento sul miglior possibile modo di trascorrere il tempo e la vita, dicendo che un tale stato a noi non è possibile se non per poco tempo. Ma a che proposito ne parla? Qui sta la cesura. Infatti si tratta incontestabilmente di un modo di esistenza possibile solo per gli esseri viventi: il testo greco parla infatti di diagwghv, il termine con il quale si apre l’intero brano in 1072b14. Innanzitutto notiamo che né diagwghv (“condizione di esistenza”) né zwhv (“vita”, che ne è in qualche modo sinonimo) sono predicati direttamente del principio primo (il dio, se così vogliamo chiamarlo, non è vita e meno ancora è diagwghv; così come d’altronde non è atto, come altrove argomento, cfr. § 1.5.1), bensì la vita gli appartiene (il dio ha vita ed esistenza eccellente, per definizione, cfr. 7.1072b29; così e.g. anche Kosman, Metaphysics L 9, cit., p. 309) in quanto esso è il migliore degli esseri, dunque – in virtù di una fondamentale partizione assiologica fra ciò che ha vita e ciò che non ne ha – esso deve

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avere vita, essere vivo. Questo è l’elemento di comunanza (pur nella diversità) fra il dio e noi, esseri umani, in quanto siamo esseri viventi capaci di pensare e di contemplare. Pertanto, in tutta questa sezione il motivo conduttore è la comparazione fra la nostra condizione di vita e quella che si possa attribuire al migliore degli esseri (questo è il motivo per il quale, a differenza dalla vulgata editoriale, evito di rinchiudere fra parentesi i ripetuti riferimenti e confronti con l’esperienza umana28). Ma ancora, in che senso viene inteso questo principio divino? Invero, il termine diagwghv si attaglia con fatica a un tale principio, se esso è considerato, come sin qui è avvenuto, in quanto è immobile e in quanto è intelligibile: di per sé, l'atto di un principio intelligibile, sarà l’essere sempre pensato. Solo così, per eminenza ed eccellenza, e indirettamente, può essere positivamente descritta l’attività di un principio intelligibile: invero, la nozione stessa di intelligibile è di diatesi passiva e non si presta direttamente a una tale descrizione. Pertanto, è probabile che qui Aristotele, in una prospettiva concettualmente evoluta, si collochi a un passaggio successivo, e parli ora della vita e della condizione di esistenza, non dell’intelligibile primo in quanto tale, ma di quel soggetto attivo dell’atto stesso,

28 Contro questa tendenza della tradizione interpretativa e della vulgata editoriale a mettere, letteralmente o no, fra parentesi nella sezione considerata teologica di Lambda ogni riferimento all’esperienza umana e comune, si è espresso a più riprese Berti (Ancora sulla causalità del Motore immobile, cit.), citando peraltro a supporto STEVENS La casualité de l’intellect, cit. Berti ha considerato in questa nuova prospettiva soprattutto la prima parte della sezione “teologica”, fino a 1072b14, quella cioè che direttamente precede i passi ora discussi. Facendo ciò, raccoglie già molti passi e osservazioni che possono essere invocati da chi voglia insistere sul valore umano e intellettualistico della concezione del divino espressa nel libro Lambda fino a 1072b14 . Il tentativo ulteriore, che qui presento, di leggere in chiave intellettualistica e antropomorfica questa successiva parte del capitolo Lambda 7, 1072b14-30, può contribuire in quella stessa direzione ed è a mia conoscenza originale.

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in virtù del quale l’intelligibile è in atto: l’atto stesso del pensiero. Parla dunque dell’intelletto che, come già ricordato, è divino in quanto tale per Aristotele, e infatti poco oltre egli dirà che è senza dubbio “il più divino dei fenomeni” (9.1074b16). Certo, si deve ammettere, e poi ancora ripetere, che lo stato contemplativo per il nostro intelletto è attingibile solo a volte. Questo distinguo tuttavia conferma non tanto la diversità fra quello e il nostro intelletto, ma piuttosto l’identità di esperienza, pur nella diversità di gradazione. Altrimenti questa precisazione non avrebbe ragione di essere29. Ora Aristotele spiega che cos’abbia l’intelletto di divino (qei'on, 7.1072b23): il farsi esso stesso identico all’intelligibile, il divenire intelligibile e pensare sé ed essere pensato da sé, cioè il pensare (dunque conoscere) se stesso. Con il che, peraltro, il giro di ragionamento (parzialmente implicito, se non erro) che ha portato dall’intelligibile all’intelletto, si richiude nitidamente, riportando l’intelletto all’intelligibile. Indubbiamente, questo è il principio divino, questo è dio, ed esso non può che pensare se stesso, perché la sua attività di pensiero è stata ricavata analiticamente dal concetto stesso di una intelligibilità sempre in atto30, convergendo con le implicazioni assiologiche di una

29 L’attenzione aristotelica per i diversi livelli di esercizio del pensiero e delle attività ad esso assimilabili, anche negli enti inferiori, si riscontra anche in 1072b17s., ove egli fa riferimento a “veglia, sensazione, il pensiero, speranze e ricordi”, come ad attività piacevolissime: tali essi sono, in quanto affini al pensiero stesso, e non solo genericamente in quanto attività. Il punto è rilevato (vs. Ross, ad loc.) da A. KOSMAN, Divine Being and Divine Thinking in Metaphysics Lambda, «Proceedings of the Boston Area Colloquium of Ancient Philosophy», III (1987) pp. 165-88, in part. 183, cfr. anche C. SHIELDS, Commentary on Kosman, ivi, pp. 189-201). 30 Questa lettura di Lambda 7 si trova a convergere con osservazioni su Lambda 9 di R. NORMAN, Aristotle’s Philosopher-God, in Articles on Aristotle, ed. J. BARNES - M. SCHOFIELD - R. SORABJI, Duckworth, London 1979, vol. 4, pp. 93-102. Norman, in primo luogo, enfatizza la naturale continuità concettuale e lessicale di questi capitoli con De anima G 4, cui pure dedica

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desiderabilità somma, e perfetta bellezza, quale si addice solo al migliore degli esseri 31. È su questa base, e solo da qui in poi, che Aristotele può trarre le conseguenze esistenziali di questo statuto assiologicamente eminente: la qewriva (attività propria dell’intelletto) è quanto vi sia di migliore e di più piacevole (h{diston kai; a[riston). Vediamo così, innanzitutto, che l’intera sezione si presta poco a una lettura irenica, pacificata, convenzionale, appiattita. Il brano è animato dalla tensione fondamentale che attraversa l’argomento in corso, fra la natura intelligibile del principio immobile in quanto immobile, e la vitalità dell’intelletto come soggetto dell’attività migliore, divina, più piacevole. Tale è la precisa esegesi (cfr. in particolare p. 95 su 429b22-430a9, sul pensiero che ha per oggetto enti senza materia): egli ne conclude che la natura eminentemente autoriflessiva dell’attività del motore è un aspetto della totale identità in esso di pensiero e pensato. Per questa via, viene a precisare l’esegesi di Ross, che insiste piuttosto sull’argomento dialettico per identità: Aristotele afferma che il primo motore pensa se stesso, in quanto esso pensa il migliore degli esseri, che è il primo motore stesso, dunque pensa se stesso; tale spiegazione in effetti è antica e comune, si trova già in Alessandro di Afrodisia (Quaestio I 1, riportato in ps. Alex. (Mich. Eph.) in Met. 671.8-18), sulla base di 7.1072b18s., 9.1074b33s.; ma non esclude indubbiamente la lettura di Norman, che viene anzi a conferma e riprova dell’argomento di identità in Lambda 7.1072b19-23, e soprattutto in Lambda 9.1074b34-1075a5. 31 A favore della natura intelligibile, prima ancora che pensante e intelligente, del principio primo di Lambda, cfr. A. KOSMAN, Metaphysics L 9, cit., ad loc., e già ID., Divine Being, cit., in part. p. 183: Aristotele riconosce come dio in primo luogo l’intelligibile, e in secondo luogo l’intelletto. Tuttavia, Kosman (ivi, p. 186) intende l’autocoscienza divina, non tanto come pensiero e conoscenza di sé, come qui suggerisco, ma come autoconsapevolezza e identità con sé (ed è infatti in quel senso che in ID., Metaphysics L 9, cit., una tale lettura viene a convergere con l’interpretazione dell’identità del divino con sé, il biblico “Sono colui che sono” secondo Maimonide, Perplessi I 68). Il primato della natura intelligibile del principio rispetto alla sua attività intelligente emerge con chiarezza anche nell’attenta lettura dell’argomento di Lambda 7 e 9 (con riferimento parallelo a De anima G 4), da parte di J. DE FILIPPO, Aristotle’s Identification of the Prime Mover as God, «The Classical Quarterly», XLIV (1994) pp. 393-409.

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tensione che Aristotele intende conciliare, non senza difficoltà (sarà infatti necessario tornare sull’argomento nel capitolo 9), tramite la sua teoria dell’identificarsi del soggetto pensante con l’oggetto pensato nell’atto del pensiero: atto cui si attribuisce beatitudine e perfezione in forza di questa stessa identificazione, che è anche auto-riflessività, conoscenza di sé. Così, in materia di attività, vengono a coincidere ciò che è più divino, ciò che è migliore, ciò che è più piacevole. Si noti dunque l’uso aggettivale, predicativo, assiologico del concetto stesso di “divino”: questi termini indicano un’unica e sola attività, quella teoretica appunto (1072b24); la quale è sempre, dice Aristotele, anche conoscenza di sé (b19-21), salvo che ciò che vale per l’intelletto vale ancor più per quell’intelletto che nell’atto del pensiero è tutt’uno con l’intelligibile primo (b18ss.). Sono – si vede – considerazioni che attribuiscono all’intelletto uno statuto divino, in determinate condizioni. La loro funzione principale nel contesto dell’argomento, è spiegare in che modo possa esistere un’attività eterna, tale da non provocare stanchezza nel soggetto (cfr. anche De cael. B 1.284a27-35), ma da poter continuare. Se si sarà spiegato questo, infatti, si sarà spiegata l’eternità del movimento del cielo. Ciò dunque giustifica anche la presenza del motivo che compare ed è sottolineato a più riprese, della piacevolezza dell’attività del primo degli enti (1072b16, 17, 24): la piacevolezza coincide infatti con l’assenza di fatica, ed è pertanto garanzia dell’eternità di quell’atto primo dal quale il moto circolare del cielo dipende. Di seguito, 1072b24ss., la discussione si sviluppa più specificamente su quel modo “divino” di passare il tempo – quel passare il tempo che poco sopra era chiamato diagwghv. Qui compare la nozione del divino. Si era detto che, almeno a noi, il modo di vita migliore è possibile solo per un tempo breve. Ora, è come se ci si chiedesse se esista un ente, evidentemente un vivente, che viva in quel modo. Qui Aristotele, come altrove, non esita ad attingere a un linguaggio comune; invoca infatti come una testimonianza collettiva, come un e[ndoxon, ciò che

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“diciamo”, famevn. A ben guardare, però, non risulta troppo evidente, dal testo, a chi si riferisca il “noi”. Potrebbe significare “noi tutti”, nel senso di “tutti gli uomini”. Questo può essere vero altrove, salvo che l’orizzonte di riferimento del libro Lambda non è quello del linguaggio comune. Aristotele vi adotta un linguaggio e un orizzonte problematico tipicamente accademici e, semmai, autoreferenziali, facendo ampio riferimento ad altre ricerche già disponibili sull’argomento. Almeno questo è chiaro: a questo specifico riguardo, Aristotele non intende elaborare originalmente. Lavora infatti su una concezione del divino che esiste già: divino come vivente eterno e beatissimo. Un’indagine sul modo greco di parlare di “dio” e di “dèi” esula certo dall’indagine presente, anche se sarebbe pertinente e utile, se si volesse meglio spiegare il passo dove Aristotele si riferisce a ciò che “diciamo” del dio. Sembra infatti riferirsi a una comune concezione del divino che non ha bisogno di decidere fra il nome comune (il genere “dio” cui si penserebbe, visto che si tratta del dio in quanto dio, con quelle prerogative che sappiamo essere proprie di dio) e il nome proprio, come potrebbe suggerire (forse a torto) la presenza dell’articolo determinativo. D’altronde non c’è nessuna necessità di moltiplicare nel pensiero “il dio” per una pluralità di istanze, poiché tutte si equivarrebbero: lo dice Aristotele in Lambda 8.1074a31-7, quando spiega che il principio immobile e immateriale non può moltiplicarsi al modo degli uomini e dei cavalli, perché è privo di materia (la materia intendendosi dunque come principium individuationis). Tutto ciò – pluralità o singolarità di istanze – sembra insomma ininfluente per gli scopi presenti: in ogni caso, Aristotele sta parlando non propriamente “di Dio”, ma di ciò che noi diciamo, dell’idea e della nozione comuni “del dio” 32, per 32 Per questo, alla fine di questa sezione, dio compare invero anche come soggetto, nella proposizione (subordinata, però) “Diciamo allora che il dio è un vivente eterno ed ottimo”, 1072b28ss.

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mostrare che ci può essere, secondo il linguaggio, il sentire, la nozione comune degli uomini, un soggetto possibile, vivo, animato, e tuttavia eterno, capace di una vita perpetua ed eccellente, quella trascorsa in una siffatta attività: “questo infatti – conclude – è il dio” (tou'to ga;r oJ qeov", 1072b30). Un punto sembra tuttavia centrale: l’intelletto, pensando, pensa se stesso, è intelligibile a se stesso. Pertanto, gli appartengono quelle caratteristiche che sono virtualmente proprie dello stato ultimo e perfetto dell’autocoscienza umana: conoscere se stesso. Questo assimila il divino e l’umano, intendendosi quest’ultimo nella forma più alta della sua espressione – quella appunto noetica (secondo i modi propri dell’assiologia aristotelica). La riflessione di Lambda sull’attività dell’intelletto come nostro stato ottimo e come eccellente fra i fenomeni si innesta così su un tema sapienziale, quello della conoscenza di sé33.

1.5. Quali concezioni del divino sono attive nel testo? Più in generale possiamo dire che, se Aristotele ebbe un senso del divino, e se ciò è attestato nel corpus, lo è su due fronti: nel cosmo, divino è il cielo, e i corpi in esso contenuti (come attesta Lambda 8 in accordo con De caelo A, cfr. qui infra)34, nonché a fortiori ciò che, muovendoli, ne è principio, quale che sia; nell’uomo, divino è l’intelletto. In effetti, la natura distintiva, unica e in qualche modo sovra-sensibile dell’intellet33

Ma la centralità di questo aspetto è offuscata da un emendamento nelle edizioni del XX secolo (1072b23, cfr. n. ad loc.). 34 Su questo ampiamente cfr. R. BODÉÜS, Aristote et la théologie des vivants immortales, Bellarmin-Les Belles Lettres, Montreal-Paris 1992, la cui tesi ha il vantaggio di mettere in evidenza la relazione stretta fra le due concezioni del divino – cosmologica e intellettualistica, che significa anche: vitalistica – che sto qui sommariamente delineando. Sulla teologia aristotelica, cfr S. MENN, Aristotle’s Theology, in C. SHIELDS (a c. di), The Oxford Handbook of Aristotle, OUP, Oxford 2012, pp. 422-64.

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to, e precisamente di quell’intelletto che è facoltà dell’uomo che pensa e che conosce, è un tema cui Aristotele non smise mai di rivolgersi con profondissimo interesse e quasi con venerazione, come di fronte a una sorta di mistero. Entrambe le accezioni del divino sono ripetutamente attestate nel libro Lambda – in Lambda 8, e in Lambda 7 e 9 rispettivamente – quest’ultimo, Lambda 9, essendo in effetti uno dei documenti più chiari e dichiarati di questo interesse. Il loro coesistere spinge a indagare la relazione fra l'una e l'altra. Forse che Aristotele attribuì ai cieli un’attività di tipo contemplativo? È un tema sul quale i commentatori tardo-antichi hanno molto speculato. Si aggiunga l’associazione del concetto di dio all’idea anche popolare, ma razionalmente giustificata a più riprese da Aristotele, di un vivente eterno, beato, esente da stanchezza e da mutamento. Sia uomini che barbari, osserva Aristotele nel De caelo a questo proposito (A 3.270b5-9), concordano nell’idea che questo tipo di esistenza eterna e beata debba aver luogo nella parte sopraelevata dell’universo. Evidentemente l’idea di “altezza” viene orientata cosmograficamente (non è dunque necessariamente un’accezione concettuale, ricavata come esito di un processo di separazione delle caratteristiche materiali e sensibili). In ogni caso, né l’una né l’altra accezione di divino, in sé considerate, corrispondono a ciò che la posterità chiamò “teologia”, anche se la loro intersezione, appunto in Lambda 7, 8, 9, ha potuto sortire effetti teorici ad essa straordinariamente vicini, e non a caso: questa parte del nostro libro ne è stata infatti fonte e testo fondativo in più d’un riguardo.

1.5.1. Motore in atto o motore-atto? Intorno al mistero di uno iota sottoscritto Ma è proprio una siffatta fortuna del libro che può rendere talora più difficile la costituzione del testo: essa infatti comporta

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alternative aperte, che non è facile da dirimere con certezza in un senso o in un altro. Ciò avviene soprattutto là, dove la storia esegetica del libro, ricchissima ed importante, può dare indizi di segno opposto, secondo l’interpretazione che si adotta. Dovremo infatti seguire, nella costituzione del testo e del senso, la tradizione, come fonte accreditata e patrimonio della scuola? Oppure si può considerare il problema in modo opposto: se, nonostante l’impatto (inevitabile) della tradizione sulla trasmissione del testo, i codici più autorevoli ci conservano indizi di segno diverso, forse ognuno di questi indizi andrà valutato alla stregua di una lectio difficilior. Non si spiegherebbe infatti la sua presenza nei codici se non vi fosse insito un che di originario. A differenza di molti editori, nel primo volume ho dunque perseguito in linea di massima questa seconda strada, innanzitutto come più prudente, e inoltre come più interessante dal punto di vista documentario, per i dati di tradizione che essa consente di valorizzare. Essa induce peraltro, come a più riprese ricordato e praticato in altre sedi, una specifica attenzione per le diverse fasi della tradizione interpretativa; le quali infatti, considerate da vicino, non si lasciano appiattire una sull’altra, bensì portano traccia, una per una, di diversi passaggi che hanno portato alla metamorfosi dei diversi luoghi testuali. È proprio qui, però, che l’aspetto editoriale e quello interpretativo si intrecciano strettamente: non è sempre possibile stabilire a priori che una lectio difficilior sia tale a fronte di una vulgata facilior, se non in sede esegetica. Di qui la necessaria interazione fra esegesi e critica testuale. L’esempio più importante riguarda l’alternativa che si presenta nei codici più volte, opponendo la lezione variante “in atto” (ej n ergeiv a / ) e la lezione “atto” (ej n ev r geia) (1071a8, 1071b22, 1072a5, 1072a25, 1072b5, 1072b8). “Atto” o “in atto” che sia, l’espressione si intende unita (con una copula presente o sottintesa) al soggetto della proposizione; il quale, almeno in 1072a25 e 1072b8 (ma per altri esegeti anche in 1071b22), è il primo motore immobile: principio ovvero

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sostanza non sensibile, non soggetto a mutamento alcuno, che muove l’universo. Tradizionalmente, almeno dal medioevo arabo e bizantino, prevale nettamente la prima opzione. Ancora oggi, difficilmente si troverà una generale descrizione della teoria del motore immobile, ove manchi un riferimento al suo essere atto, anzi, “atto puro”. Quanto alla tradizione esegetica più antica, essa è divisa, e lo è per motivi precisi. Ancora Alessandro di Afrodisia, 200 d.C. ca., un esegeta che per certi aspetti precorre da vicino interpretazioni neoplatoniche di Aristotele, l’idea che il primo motore immobile sia atto è attestata solo episodicamente, in modo da apparire più un’interpretazione che una citazione letterale. Il motore è detto essere atto senza potenza, non quando si tratta di riportare e spiegare da vicino il testo di Aristotele, ma, semmai, dove Alessandro si allontana dalla stretta sequela del testo di Lambda per dare più forza, spiegandola meglio, all’idea di forma senza materia – un’idea che egli introduce expressis verbis nella tradizione aristotelica (Quaestio I 25, 39.9s., cfr. anche in tal senso la versione araba del De principiis di Alessandro, § 64, p. 74 Genequand). Ma la questione è aperta. Infatti l’espressione “in atto” (ej n ergeiv a / ) può tramandarsi allo stesso modo che “atto” (ejnevrgeia), differendone solo per uno iota sottoscritto, la cui presenza, nei codici più antichi, non è registrata se non saltuariamente e senza regolarità (cfr. I, § 1.6.3). Come dunque dirimere la questione, quando si pone l’alternativa fra “atto” e “in atto”? Deve avere un peso, più della tradizione esegetica, l’usus scribendi et cogitandi di Aristotele (come prescriveva Jaeger, p. XIX) almeno qualora sia ricostruibile con una certa probabilità. Ora, stampando ejnevrgeia, “atto” in 1071b22 e 1072a5, 1072a25, sempre come nome del predicato, Ross e Jaeger rinunciano alla cautela di Christ e di Bekker (che stampano “in atto” negli stessi luoghi, seguendo le indicazioni più autorevoli nei codici quanto alla presenza dello iota nei codici poziori). Così, le edizioni del XX secolo fanno allon-

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tanare il linguaggio del libro Lambda da quello dei passi della Metafisica, e specialmente del libro Theta, centrati su atto e potenza come coppia di concetti correlativi, che si oppongono polarmente e si intendono l’uno in relazione all’altro. Eppure, a quest’uso si attiene Aristotele anche fuori dalla Metafisica, come si vede bene nella teoria generale del movimento della Fisica. Meno chiaro sarebbe, almeno allo stato attuale della tradizione editoriale, il parallelo con De anima G 5 (in part. 430a18), che anzi parrebbe portare indizio in senso contrario, là dove dice che l’intelletto attivo è, per sua essenza, puramente atto. Ma in realtà il parallelo non ha alcun peso autonomo: la variante di gran lunga meglio attestata dai codici anche qui è “in atto”: “atto” prevale solo nell’edizione di Torstrik, che ha emendato il testo dei codici sulla base di quelli che riteneva essere luoghi paralleli nel libro Lambda, ingenerando involontariamente un pericoloso rischio di circolarità nella tradizione editoriale, quale già si verifica nella tradizione interpretativa. Questa in effetti, almeno a partire dai grandi esegeti del XII secolo, Averroé e Michele d’Efeso, singolarizza lo statuto ontologico del motore immobile aristotelico, facendolo diverso, sia da quello di una sostanza che sia in atto (come ci si attende da un motore), sia anche da quello di una sostanza che sia in atto sempre (se è infatti totalmente immutabile, secondo il senso più forte di “immobile”, o è in atto sempre, o non è in atto mai); il primo motore immobile, almeno secondo questa tradizione, è, semplicemente, “atto”. Se sia tale già secondo Aristotele, è un problema che non viene solitamente sollevato, ma che si è dovuto dunque attentamente considerare. Eppure un passo indietro è in tal senso obbligatorio: prescindiamo allora interamente dalla tradizione e guardiamo ad Aristotele e al suo usus. Se la frase in 1072a25, l’unica ove non sia evidente che la tradizione attesta il dativo, portasse il nominativo (anche se lo iota che indica il dativo potrebbe invece esserci, ma essere sottinteso, qui come altrove) ciò costituirebbe un unicum nel corpus, e specialmente nella Metafisica, ove l’atto è fondamental-

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mente atto di qualcosa. In questo senso, appunto, possiamo dire che la tradizione singolarizza la teoria del motore immobile rispetto a tutte le altre di Aristotele, perché mobilita una sintassi diversa quanto al rapporto fra questi concetti, dunque un linguaggio diverso. Ci sono, indubbiamente, nella Metafisica due luoghi ove Aristotele strumentalmente ha distinto gli enti soggetti a generazione, “la cui essenza (oujsiva) è potenza”, Q 8.1050b27, dagli enti eterni, nella fattispecie, celesti, ivi ricordati per contrasto. Agli enti celesti, per converso, si riferisce un passo di L 6.1071b20, come a quelli “la cui essenza (oujsiva) è atto”. In questi due passi di Theta e di Lambda, che usano lo stesso linguaggio (al punto che il passo di Lambda si avvicina più a Theta che al contesto del nostro libro), si oppone così ciò che è eterno rispetto a ciò che non lo è; al tempo stesso, si tiene distinto il concetto funzionale di essenza da quello dell’ente cui essa è relativa – come si evince chiaramente dal contesto in Q 8.1050b20-27, e come mostra l’uso del genitivo in L 6.1071b20. Potenza e atto, in quest’area semantica, non sono sostanze – rispettivamente, corruttibili e non: questo è un passo che Aristotele non risulta aver compiuto; ma potenza e atto sono l’essenza di ordini diversi di sostanze, cioè i modi di essere caratterizzanti di quei due diversi ordini di realtà.

1.6. Teologia per accidente nel libro Lambda? In ragione di queste e siffatte considerazioni, quanto alla natura del libro Lambda la posizione che assumerò è in parte diversa rispetto a quella di molti interpreti, anche autorevoli e recenti. La tendenza meglio attestata, oggi, è lasciare comunque a Lambda una valenza prevalentemente teologica, negando però quanto possibile ciò che a lungo si era ritenuto, e cioè che Lambda sia un punto di compimento; al contrario, lo si è datato (anche recentemente) prima dei libri antichi della Metafisica,

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come se le ricerche ivi contenute dovessero essere di natura diversa da quelle della Metafisica (cfr. infra, ad 1069b1s.). Le ricerche qui esposte, tuttavia, portano a riconoscere in Lambda il un punto di arrivo di molte delle ricerche aristoteliche, incluse le numerose e caratterizzanti indagini della Metafisica: non però quel compimento di natura teologica che la tradizione vi aveva collocato. L’esito viene in parte a convergere con l’intuizione di Burnyeat, uno dei pochi studiosi che ammettano oggi la posteriorità di Lambda a Zeta. Significativamente, per Burnyeat, la differenza principale fra i due libri (che egli considera comunque due “progetti rivali”, piuttosto che unificati) è che Lambda scala verso Dio a velocità vertiginosa35. Questo in una certa misura è vero, salvo che, teologico, il libro Lambda non è in effetti, se non – come potrebbe dire Aristotele – “per accidente”. Certo, non ha senso negare la potenzialità teologica di Lambda, essa infatti è storicamente provata (in ambito sia cristiano, sia musulmano: in entrambi, da Lambda provengono alcuni capisaldi della teologia scolastica). Questo però si dovrebbe dire anche di altre parti del corpus, e specialmente del corpus biologico, così teleologicamente orientato, del quale Lambda può chiarire e valorizzare (per es. nelle prime righe del cap. 10) una potenzialità teologica diffusa e sottesa. Ma che principalmente Aristotele ne abbia fatto, o voluto fare, un trattato di teologia, non è provato e non è nemmeno storicamente verosimile. D’altra parte, e non meno specificamente, in Lambda Aristotele avrà voluto completare il suo disegno di quella che altrove chiama “una scienza dell’ente in quanto ente”; una tale scienza dà ormai per acquisita, richiamandone solo brevemente le ragioni (cap. 1), una focalizzazione forte sulla sostanza. Ciò non è senza conseguenze. Questa che – come vogliamo argomentare (cfr. infra, § 4.1-2) – è scienza autoriflessiva per eccellenza, in virtù della reciproca traducibilità fra ente e scibile, è l’unica a poter includere, diversamente da qualunque scienza 35

M. BURNYEAT, A Map to Metaphysics Zeta, cit., p. 132s.

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particolare, quell’ente primo che si concepisce come separato da materia e movimento. È una scienza, essa stessa prima, che, definendo il suo oggetto per superiorità assiologica secondo tutte le categorie, presuppone e porta a compimento l’analisi modale dell’ente (cfr. infra, § 2.5). Insistere su questo punto non significa negare in senso assoluto una valenza teologica all’argomento del libro, ma vedervi, se mai, una teologia diversa: storicamente resistente in quanto epistemicamente debole, non falsificabile e, ab origine, non dogmatica, al modo della conoscenza dei principi, almeno secondo Aristotele e secondo una parte della tradizione aristotelica36. Questa teologia è, al tempo stesso, grande, se è grande, proprio perché teoreticamente debole: debole perché priva di postulati propri: si ricava analiticamente da concetti assiologici che Aristotele in Lambda ha tematizzato per sintetizzare e superare le dottrine accademiche dei principi. Grande d’altronde essa è stata in effetti, come prova la sua enorme fortuna. Della fortuna teologica di Lambda, tuttavia, non possono essere dimenticati i “costi” esegetici. Di lì si propaga un’idea statica della “teologia” aristotelica, anche, e anzi soprattutto, fra quegli interpreti che più aborriscono una filosofia statica e dogmatica. È un’accezione in qualche modo deteriore: il libro Lambda si restringerebbe a rendere conto di una singola sostanza, come un trattato di metaphysica specialis – ovviamente poco convincente, per noi, sia nelle sue tesi di fondo, sia, ancor meno, negli argomenti impiegati37. Ma non è così. 36

Benché l’indagine non possa essere qui approfondita (ma cfr. infra, § 3.6: “Una visione coesa sulle tre sostanze come scopo del libro”), basti ricordare che su questo punto converge anche la nostra analisi della frase problematica alla fine del capitolo L 1.1069a32ss. Per Alessandro di Afrodisia, cfr. la Quaestio I 1 e le considerazioni ad loc. in S. FAZZO, L’exégèse d’Aristote, cit. 37 Cfr. J. BARNES, The Cambridge Companion to Aristotle, Cambridge University Press, Cambridge 1995, partic. le conclusioni estreme a p. 108 e n. 34. All’accezione di Lambda come un trattato di metaphysica specialis obietta peraltro A. KOSMAN, Divine Being, cit., p. 180ss., che il dio di

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1.7. Natura zetetica e dialettica del libro In effetti, non solo il senso positivo della dottrina del libro Lambda, ma anche lo spirito di ricerca che anima la sua costruzione e il suo sviluppo merita di essere valorizzato, specie nella prospettiva e metodologia di attualizzazione di cui sopra si diceva. C’è qualcosa di radicale che rischia di sfuggire quando il libro sia letto e messo alla prova come un trattato di teologia razionale: la sua natura dialettica (in senso anche accademico), la veracità delle sue aporie (in senso soprattutto aristotelico), la speculazione ardita, ma intrinsecamente ipotetica delle sue soluzioni: aspetti che conferiscono al trattato una natura “zetetica”, di ricerca38. La perdita delle due dimensioni, dialettica e zetetica, nella lettura di Lambda è un rischio importante, un danno non da poco. Attraversato da una fortissima tensione aporetica, privo tanto di ingenuità quanto di dogmatismo, il testo di Lambda si costruisce infatti soprattutto nell’incatenarsi di una serie di interrogativi, tutti peraltro cruciali e tutti attentamente calibrati. Invero, ognuno di essi si apre ad arte, a partire da termini semplici o relativamente semplici, su una problematica complessa e per qualche aspetto inedita – cosicché, per inciso, ciò che talora si dice, ovvero che in certe parti del libro Aristotele ripeta il già detto o ripercorra il già fatto, reclama una precisazione importante: che il già detto e il già fatto non sono ripetuti per essere assunti tali e quali, ma per essere sottoposti a ulteriori interrogativi aporetici. Si aprono così in modo sempre inedito e mai ripetitivo, ma sempre in continuità con le precedenti ricer-

Lambda è un tipo piuttosto che un individuo. Ciò si converge indubbiamente con le analisi di B. BOTTER, Dio e il divino, cit. sulla natura predicativa piuttosto che sostanziale del concetto stesso di dio. 38 Intendo qui “zetetico” nel senso in cui è “zetetica”, secondo i suoi editori più recenti, la cosiddetta Metafisica di Teofrasto, cfr. Théophraste. Métaphysique, a c. di A. LAKS e G. W. MOST, cit.

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che e cioè in modo meta-riflessivo, questioni capitali, come quelle della natura dei principi e della loro relazione con gli enti; dell’articolazione o partizione della sostanza in ordini di realtà comunicanti o non comunicanti (cap. 1, 6, 10); del novero essenziale dei principi imprescindibili della sostanza sensibile sulla base di un ripensamento delle dottrine dei Presocratici e dei Platonici (cap. 2 e 3); di come sia possibile generazione dal non-ente (cap. 2 e 10); dell’identità o differenza fra i principi nei diversi generi dell’ente, che si risolve da una parte nell’ammissione delle differenze, dall’altra nella riunificazione dei principi, sotto forma di dipendenza di tutti gli enti dai principi della sostanza (cap. 4 e 5); del ruolo del movimento eterno (quello del cielo) come via per la dimostrazione della sostanza non sensibile, secondo la teoria del primato dell’atto sulla potenza, e dell’esistenza dunque di una sostanza eternamente in atto sia in quanto mosso, sia in quanto motore (il cielo appunto), causa dell’eternità del ciclo della generazione e della corruzione (cap. 639). Il desideratum che si impone a questo riguardo, in concorrenza con le teorie previe – essenzialmente, delle cosmogonie, che fanno cominciare l’universo nel tempo – è quello di una comprensione del mondo, del “tutto” (to; o{lon), coerente nelle sue parti, che le tenga in una connessione stabile, senza postulare una generazione primordiale dal caos o ex nihilo (cap. 6-7). Questa teoria è reperita come necessaria al modo di quella senza di cui si ritorna alle difficoltà della generazione dal nulla e del “tutto era insieme" (7.1072a19-21). A monte, resta da salvare, in senso non più temporale, ma assiologico, senza dunque cominciare nel tempo, il postulato della finitudine della serie causale: nel mondo sublunare, l’eterno ciclo della gene39

Tuttavia, a quanto ho sostenuto, l’argomento è oscurato in 1071b1222 (cfr. infra, ad loc.) dalla lettura tradizionale e dalle conseguenti opzioni esegetiche che anticipano già in questo capitolo la descrizione del primo motore immobile.

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razione e della corruzione richiede principi attivi eterni, plurali e ordinatamente mobili, che a loro volta richiedono principi immobili; ora, quali sono siffatti principi? È interessante notare che le risposte non sono categoriche: secondo l’evidenza empirica (e[rgw/, L 7.1072a22), il principio del movimento, ciò che è perennemente in atto sia come motore, sia come mobile, dovrebbe essere il cielo, “cosicché – appunto – il primo cielo dovrebbe essere eterno” (1072a23). Quanto a quale sia il principio che muove stando immobile, “muovono così l’oggetto del desiderio e l’intelligibile” (1072a26): questa frase, come Berti sottolinea, non è una risposta, significa solo che non sarà impossibile una risposta, e ne indica la direzione possibile di sviluppo. Interessante è dunque questo, che le risposte sono meno importanti delle domande; il testo infatti è costruito per concatenarsi di domande, non di risposte, al punto che l’argomento non si ferma affatto con il raggiungimento dell’obiettivo iniziale: dimostrare che esiste una sostanza immobile, ovverosia intelligibile40. Entro 7.1072a24-6, infatti, Aristotele ha già svolto il programma dichiarato in L 6.1071b4: dimostrare l’esistenza di una sostanza immobile, e mostrare che un certo ruolo di motore si accorda con la sua natura intelligibile – è appunto, infatti, l’intelligibile ciò che muove senza muoversi. Ma non per questo si ferma: non, soprattutto, prima di aver cercato in che modo, se c’è un tale principio, possa essere ottimo, contro il pessimismo di Speusippo, che subordinava assiologicamente i principi, come meno belli e meno buoni di ciò che si compie a partire dai principi stessi (cap. 7). Di qui, Il nodo tematico più denso, quello che riguarda l’intelletto. Vi convergono problemi e aporie: la questione dell’identità fra oggetto e soggetto, specie in quella relazione prima e originaria, di natura noetica, che Aristotele pone all’origine del movimento primo, costante e 40 Nella formulazione programmatica era già dall’inizio implicito, in ragione della contrapposizione con la sostanza sensibile, che immobile può e deve essere solo una sostanza intelligibile, cfr. L 1.1069a30ss.

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perpetuo del cielo (cap. 7 e 9); la questione di come concepire una tale attività, che è vita perpetua, piacevole, contemplativa e priva di fatica, divina dunque; di in che modo sia (o non sia) necessario per il soggetto di una tale attività pensare se stesso41; e di in che modo sia vivo e divino quell’ente non sensibile e non soggetto a mutamento, la cui dimostrazione e la cui teoria era fallita nelle precedenti teorie degli Accademici; ancora, la questione della divinità dei cieli e della natura dei principi che li animano; soprattutto, di quale sia la natura dell’intelletto e di come possa essere “il più divino dei fenomeni” (cap. 9)42. Altre questioni ancora si potrebbero ravvisare in sede di commento, meno aperte, ma implicate nella trama del libro. Nel corso di questo commento ho inteso valorizzare tali interrogativi; ed esplicitare il problema di fondo, il più radicale di tutti, per ciò che esso ha, appunto, di verace, di aperto, di reale. Si apre all’inizio dell’attuale capitolo 10. Riguarda lo statuto del buono e dell’ottimo nell’universo. L’interrogativo ha forma di dilemma, fra una presenza immanente del bene nel cosmo, come modo di essere, come disposizione ordinata, e un’esistenza separata dell’ottimo, come sussistente in sé. La risposta che riunisce i due corni del dilemma, “in entrambi i modi”, quasi implicita nella formulazione iniziale, ma ancora indeterminata, è il punto di avvio, 41

Il pensare sé potrebbe essere in relazione con il delfico precetto: “conosci te stesso”? Lo suggerisco come possibile, probabile. Il passo in 1072b23 è però compromesso nelle edizioni dall’emendamento di Ross accettato da Jaeger, come ricordato supra, § 1.4 e n. 33. 42 Mi limito qui a citare questioni poste in Lambda direttamente, cui si dovrebbe aggiungere anche quella sul numero dei motori nel cap. 8, che è incontestabilmente originale di Lambda, perché non ripercorre una problematica già trattata altrove. Si potrebbe poi aggiungere una serie di questioni meno direttamente sollevate, per esempio, in Lambda 7, come: quale modo di necessità si addica al primo motore immobile (la risposta resta implicita, lasciando discordare gli esegeti, 1072b10-13), che cosa sia veramente divino nell’intelletto, 1072b23s., e altre ancora.

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che indirizza lo sviluppo dell’esposizione successiva, ad 1075a25. A questa, si deve guardare, per capire dove stia l’accento, là dove appunto dice “in entrambi i modi”. Data la posizione nel libro e i termini universalissimi dell’interrogativo, è presumibile che si tratti di una sintesi, dunque anche questo sarà da capire: qual è la prospettiva che anima questa sintesi? Questo, come vedremo, è un punto critico non solo per L 10, ma per qualsiasi interpretazione d’insieme del libro, e dunque dovrà essere esaminato con attenzione speciale, considerando la natura di ultima tappa e di epilogo del capitolo 10 rispetto all’intero percorso. Ché anzi, si pone la domanda, di quale e quanto ampio sia il percorso di riferimento, e di rispetto a che cosa questo epilogo sia epilogo; di ciò appunto andremo a discutere qui oltre (§ 4.10). Ma sarà interessante aver sinora menzionato che non necessariamente Aristotele alla fine di Lambda si limita a fare il punto e la sintesi finale sul percorso di questo specifico libro; il libro stesso infatti, fa sintesi di un insieme di altre ricerche (precedenti, almeno nella logica; probabilmente, anche nel tempo). Se è così, Lambda non può essere eterogeneo per natura e finalità dai restanti e principali libri della Metafisica; e l’unità del libro è salvaguardata, nonostante le interferenze con dottrine esposte altrove, tramite la natura di sintesi complessiva che accomuna tutte le sue parti.

2. LEGGERE LAMBDA PER INTERO E COME UN INTERO Il carattere di epilogo dell’ultimo capitolo, e in un certo senso di Lambda nel suo complesso, ci porta a considerare un altro problema che il libro pone, di natura, questa volta, strutturale: l’unità di Lambda. Su questo è importante innanzitutto prendere posizione, sia perché è indispensabile per una corretta comprensione, sia perché troppo spesso anche esegeti eminenti hanno letto questo trattato in modo parziale e selettivo.

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Riprenderò l’argomento dall’inizio. Il presupposto dal quale siamo partiti è di volere indagare che cosa Aristotele abbia inteso dire e fare in questo libro. Abbiamo dunque lavorato nel commento per reperire ed evidenziare, dove e per quanto possibile, gli elementi di coerenza e di unitarietà dell’argomentazione. Frede (Introduction, p. 52) insisteva particolarmente nell’incoraggiare una revisione interpretativa sulla “parte teologica” di Lambda. Ma non è possibile capire la parte “teologica” di Lambda (se ce n’è una) a prescindere dai capitoli della prima parte (capp. 2-5), che sono i più trascurati nei riferimenti degli studiosi a questo trattato. Detto più chiaramente, questo è un libro che va letto dall’inizio e per intero. Nessuna parte è priva di interesse in sé considerata; ma nessuna trova già da sola il senso che le è proprio, se non se ne considera il contesto. Ed effettivamente, ripercorrendo il filo del discorso molto lentamente e dall’inizio, sono emersi in Lambda, l’uno dopo l’altro, aspetti metodologici e motivi conduttori di significativa continuità, che si intersecano in snodi concettuali decisivi, e rinforzano energicamente la trama connettiva del libro.

2.1. Unità ed autonomia del libro: compiutezza della struttura formale 2.1.1. L’introduzione a una teoria globale dell’ente inclusiva della sostanza non sensibile nel cap. 1 Anche dal punto di vista formale non si può sottovalutare come, fra i libri della Metafisica, Lambda sia quello cui Aristotele s’è curato di conferire i tratti più marcati di unità, coesione formale, autonomia di contenuto. Egli vi ricostruisce una visione globale dell’ente, dello scibile e dello scire per causas, integrata e complessa, ma, in qualche modo, ontologicamente esaustiva. L’introduzione (cap. 1), come nei trattati maggiori di Aristotele, è precisa e articolata. Qui innanzitutto, a partire dalla prima frase (“la qewriva è sulla sostanza”), egli ricostruisce per

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punti essenzialissimi un quadro teorico di riferimento. Si tratta infatti di quel primato della sostanza sugli altri modi dell’ente che sarà decisivo per il successivo sviluppo dell’argomento43. Poi, per brevi cenni, prepara le principali componenti del trattato (1069a30-b2), là dove dice: Ci sono tre sostanze. Una è percepibile ai sensi. Una parte di questa è corruttibile, e tutti ne ammettono l’esistenza, per esempio le piante e gli animali; un’altra, è eterna: di questa è necessario determinare gli elementi, se siano uno o molti. L’altra sostanza è immobile. Di questa, dicono alcuni che esiste separatamente, gli uni dividendola in due, altri attribuendo un’unica natura alle idee e agli enti matematici, altri ancora considerando tali, fra questi, solo gli enti matematici (1069a30-36). Il passo presenta importanti problemi di costituzione e di interpretazione che vanno attentamente considerati dato il loro peso teorico (cfr. I, Note, ad loc.). È un’immagine complessiva dell’intera realtà, senza dubbio inedita negli scritti aristotelici di filosofia prima, seppur già altrove preparata44. Questa realtà è suddivisa in tre parti – quelle che ora Aristotele chiama “tre sostanze” – senza residuo, cioè esaustivamente, per un duplice procedimento di diairesi: è divisa in due, sensibile e non, e inoltre il primo dei due rami è diviso in altri due, corruttibile e non, lasciando inizialmente aperta la possibilità (poi abbandonata in itinere) di suddividere ulteriormente anche la sostanza immobile e non sensibile,

43 Qui, con ogni apparenza, Aristotele si muove in continuità con i libri centrali della Metafisica (1.1069a18-30), in part. con Zeta 1, cfr. infra, n. 76. 44 Il testo in esame è parallelo alla tripartizione di Z 2.1028b19-27, che però comporta una bipartizione della sostanza non sensibile, mentre la sostanza sensibile resta indivisa (infatti, sostanze sublunari e celesti sono annoverate insieme). Per una tripartizione ancora più vicina, si veda anche quella di Phys. B 7.198a29.

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come facevano in effetti alcuni Accademici (1069a34) fra i quali Platone stesso. Così, con il riferimento a una siffatta sostanza, alla fine del capitolo 1 Aristotele entra nel campo aperto delle ipotesi dei platonici: se davvero una tale sostanza esiste separata da quella sensibile, come quelli ritengono, e come gli altri libri aristotelici fanno continuamente presentire (almeno come problema aperto, si veda per tutti Z 2.1028b30s.), di quale natura è, o di quali nature? Sono sia idee, sia enti matematici? O ce n’è un tipo solo, idee-numeri? O solo enti matematici? Si tratta di tesi provenienti da un ceppo comune, che altrove Aristotele ha segnatamente criticato (e specie in Alpha, My e Ny, oltre che, dialetticamente e diaporeticamente, nel libro Beta). Ma qui egli si accinge non precisamente a criticarle, bensì piuttosto a superarle, dopo averne mostrato il reciproco dissenso come segno di un nodo irrisolto. Si tratta di rivisitare completamente la relazione della sostanza immobile con gli enti sensibili, eterni e non eterni, di modo che le critiche altrove rivolte dallo stesso Aristotele a quelle precedenti, correnti teorie restano sullo sfondo implicite, lasciando un desideratum di riferimento e dunque un programma da svolgere. Sforzo proprio di Lambda è quello di far rientrare siffatte tre parti (diversamente designate rispetto a quelle degli Accademici) ovvero “sostanze”, nell’impianto teorico di un singolo libro. La sfida è aperta sia dal punto di vista redazionale, vista la vastità della materia, sia sul versante sistematico, visto che le dottrine precedenti mancavano di mettere capo a una considerazione contestuale e parimenti specifica della sostanza sensibile e di quella intelligibile. I due ordini di realtà restavano imperfettamente correlati l’uno all’altro; ed è proprio sulle lacune teoriche della loro relazione che si incentra una parte importante delle critiche aristoteliche (l’altra invece porta sull’arbitrarietà delle costruzioni, sull’assenza di dimostrazioni, fossero anche solo condotte, come avviene in Lambda 6, per modus tollens). Indubbiamente, la soluzione

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che Lambda propone ha dei costi e degli inconvenienti, che sono in parte il residuo delle lacune, presenti nelle altrui teorie, che Aristotele ha inteso colmare: è infatti la connessione stessa fra le parti, una volta delineata, a generare le principali aporie, alcune delle quali sono risolte da Aristotele stesso, che deve averle percepite come tali, altre no. Così pare, almeno, allo stato concreto e reale del tipo di testo che ci è pervenuto. Esso presenta un argomentare duramente compendiato, essenziale, ridotto all’estremo; duro dunque da leggere e da interpretare, non privo, però, di una sua compiutezza formale, e di una capacità di dare grandi risposte a grandi problemi.

2.1.2. Corresponsione fra l’introduzione, lo svolgimento e la conclusione del libro nel cap. 10 A quella prima visione generale e tripartita, che si è trovata in 1069a30-36, corrisponde piuttosto precisamente l’articolata struttura del libro. Ivi si accostano infatti, quasi complementari, dopo l’introduzione (cap. 1), una prima parte del libro sui principi delle sostanze percepibili ai sensi e soggette a mutamento (capp. 2-5); poi un lungo capitolo sul ruolo di intermediario della sostanza eterna sensibile, ovvero i cieli (il cap. 6, ripreso nel cap. 8, che fa così da transizione fra le trattazioni sulle due altre sostanze); poi un’ulteriore sezione, di natura almeno in parte diversa, appunto perché specula (aristotelicamente, fa qewriva) sulla sostanza non sensibile: all’interno di questa sta la trattazione del primo motore immobile (cap. 7) e poi dell’attività divina dell’intelletto (sempre cap. 7, con successiva ripresa nel capitolo 9). L’ultimo, potente, poderoso capitolo (cap. 10, ad 1075a25) vale come compimento del piano generale del trattato. Questo compimento richiede uno sforzo importante di interpretazione. La discussione critica e dossografica che vi si svolge (1075a251076a3) ripercorre le ragioni d’essere di quel piano, in chiave,

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caratteristicamente, negativa: passa infatti in rassegna tutte le difficoltà cui la teoria di Lambda pone rimedio sia analiticamente, sia sinteticamente. Infine la chiusura riporta il focus sul tema dell’unità dei principi (già introdotto nel cap. 1, 1069b1s., poi tematizzato nei capitoli 4 e 5). L’unità dei principi è un tema centrale perché è intesa come espressione dell’unità dell’universo di cui sono principi; per riprendere il tema, Aristotele lavora alla metafora dello stratega (comparsa nella prima parte del capitolo), e conclude il libro non senza solennità, in virtù di una celebre citazione da Omero: “Non è bene il governo di molti: uno solo sia il sovrano”, Il. II, 20445. La costruzione retorica della chiusura, così come la presenza di una sezione preliminare e programmatica (cap. 1), denota da parte dell’autore un disegno organico d’insieme, di modo che Lambda si presenta come unità significativa a se stante.

2.2. Un uso critico della tradizione: le dottrine dei Presocratici Ciò non esclude che la trama del libro sia animata da una fortissima tensione iper-testuale e iper-dottrinale, che lega questo testo e questa dottrina a innumerevoli altri testi e a un insieme di altre dottrine. Fitta è la rete di connessioni critiche con le teorie dei predecessori, presocratici e accademici, che Lambda mette in opera dalla prima all’ultima riga; a questa, si sovrappone la rete dell’autoriflessione (cfr. § 2.4), nella misura in cui Aristotele torna in Lambda sulle motivazioni e sugli esiti positivi delle sue stesse critiche già rivolte altrove ai precedenti pensatori, con un’attenzione specifica per quelli ai quali probabilmente riconosce un debito maggiore. 45

Poiché in effetti il passo di Omero inneggia all’unità del principio di governo nella vita associata degli uomini, la relazione con il contenuto del libro è di natura metaforica; sia dunque per l’autorità del poeta, sia per l’uso della metafora, il finale ha un deciso effetto di innalzamento retorico, come nota E. BERTI, Le ragioni di Aristotele, Laterza, Roma-Bari 1988, p. 112.

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Non va taciuto, a questo riguardo, quanto siano importanti le dottrine dei fisiologi presocratici: con una certa insistenza, nel corso del libro e fin dall’inizio, Aristotele li cita, invoca, mobilita, a supporto delle proprie dottrine. La prima menzione è subito in L 1.1069a25. Ivi, i primi ad attestare “di fatto” il primato della sostanza per la ricerca teoretica sono gli “antichi”, cioè appunto i Presocratici – e l’espressione “di fatto” allude criticamente all’assenza di una terminologia adeguata. Raramente manca in questi riferimenti una componente di critica, ma l’intenzione è quella di un uso positivo delle dottrine presocratiche. Gli elementi di critica stessi, che Aristotele muove, diventano un programma costruttivo di superamento. Per questo, sono maggiormente criticate proprio quelle dottrine cui Aristotele riconosce un maggiore peso teorico. Tutto ciò avviene nei due capitoli 2 e 10, i quali a questo riguardo, sono strettamente collegati. In L 2, infatti, i Presocratici sono chiamati a conferma della dottrina aristotelica del sostrato materiale. Tuttavia, nel momento stesso in cui sono chiamati in causa, già lì, devono essere corretti nella formulazione, in modo che le loro dottrine risultino più chiaramente precorrere quelle aristoteliche: queste infatti ne raccolgono l’eredità, specialmente in materia di studio sulla natura, al di là della tradizione più recente ed accademica. Chiunque vede come un simile procedimento, in un contesto più propriamente storiografico, avrebbe dell’anacronistico, e si presterebbe a travisamenti di diversa natura. Ma ciò non è un problema per Aristotele, che ha con le dottrine dei suoi predecessori un rapporto di uso e non di conservazione, in una continuità che deve essere innanzitutto, si è detto, superamento progressivo. In questo contesto, emerge implicito un motivo ricorrente in Aristotele: quello della natura stessa della verità che si fa trovare, si manifesta, di modo quasi da costringere alla scoperta i primi filosofi – gli altri, quelli precedenti (cfr. e.g. Phys. A 5.188b29s.). Tendenzialmente, una tale rappresentazione non è autoriflessiva: cioè, Aristotele la applica ai predecessori,

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piuttosto che a sé. Ma non è impossibile evincerne e silentio che la stessa necessità interna alle cose, che ha guidato le prime scoperte, conduca anche al loro perfezionamento. Centrale, in questa rappresentazione, è la volontà di continuità. Le critiche più puntuali, dunque, sono, per così dire, il costo di una tale continuità: infatti quelle dottrine si trovano discusse soprattutto quando sono suscettibili di essere assimilate e trascritte in termini aristotelici. Di qui la sfumatura critica in 1069b2: il principio materiale non era adeguatamente espresso, ma si intravede negli aspetti meglio assimilabili delle loro teorie: è inserito nell’unità primordiale (ciò che qui Aristotele chiama l’“Uno di Anassagora”, cfr. ad 1069b20s.); nel mescolamento originario dei fisiologi pluralisti, come di Empedocle, e di Anassimandro; e nel modo in cui tutte le cose “c’erano per noi” secondo Democrito (dove si attesta forse una parafrasi democritea del detto “c’erano insieme tutte le cose” di Anassagora – cfr. la ricostituzione del testo illustrata nella nota ad 1069b23). Attraverso questa trascrizione, Aristotele può attribuire ai “fisiologi” presocratici una dottrina della materia vicina a quella di Phys. A e De gen. et corr. B (testi entrambi ove la materia si caratterizza come sostrato del mutamento fra contrari), dottrina che viene dunque rinforzata con lo stesso armamentario logico che ivi egli usa (impossibilità dei contrari, in quanto tali, di mutare e di agire l’uno sull’altro, e necessità di porre dunque un sostrato che muti dall’uno all’altro, 1069b6-9). Questo rinforza la connessione di Lambda con le opere di fisica.

2.2.1. Il caso di Anassagora Notevole è in tal senso la doppia, variata menzione di Anassagora in Lambda 2: la prima volta, Aristotele propone una traduzione e correzione del detto “tutto insieme” (rappresentazione dello stato originario in sede di cosmogonia) come dottrina dell’uno, ovvero della materia unica: “meglio dire ‘uno’ che ‘tut-

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to insieme’”, spiega allora Aristotele, in riferimento al concetto di materia, 1069b21; mentre la seconda volta (1069b29s., cfr. Comm. ad loc.) egli critica la dottrina di una materia unica, attribuendola a quanto pare ad Anassagora; il motivo della critica è che l’unicità dell’intelletto (questa senz’altro è dottrina anassagorea) si concilia male con l’unicità della materia: “perché si sono generati infiniti enti e non uno solo? In effetti l’Intelletto è uno, cosicché, se fosse una anche la materia, sarebbe venuto ad essere in atto ciò di cui la materia aveva potenza” (L 2.1069b30-32); ma appunto è stato Aristotele, a quanto pare, a riformulare la teoria dello stato primordiale di Anassagora in una teoria dell’unità della materia. Questo è solo apparentemente strano; lo è meno, infatti, se si considera quale ruolo eminente, e fondamentalmente positivo, abbia Anassagora, qui come altrove nella Metafisica. Proprio per questo, è criticato, corretto, e poi criticato di nuovo anche nella versione riveduta e corretta: ciò avviene proprio perché elementi di continuità con la sua dottrina – previa la trascrizione in termini aristotelici – restano poi positivamente assunti nella posizione aristotelica. Tali fattori di continuità, pur restando in parte impliciti, non sono meno rilevanti delle differenze e delle critiche esplicite. In Lambda 10, per esempio, prima di essere criticato, Anassagora in qualche modo è lodato (1075b8), perché sembra che la sua teoria sia l’unica a implicare il riferimento a un fine, pur senza (probabilmente) esplicitarlo: se infatti l’intelletto agisce come causa motrice, si intende che deve avere un fine; da questa lettura, fortemente interpretata, della teoria del nou'", scaturisce poi la critica: se l’intelletto ha un fine, allora non è principio primo, ma ci dev’essere qualcosa che è superiore all’intelletto46. Il tema del valore e dei limiti della teoria del nou'", 46

Così, un fenomeno di traduzione in termini aristotelici, e poi conseguentemente di critica, pare riscontrarsi di nuovo in Lambda 10 (1075b9), come già in Lambda 2, riguardo ad Anassagora. Ma il passo è di interpretazione congetturale.

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d’altronde, erano ben noti e altrove dibattuti. Il forte consenso aristotelico nei confronti di Anassagora e la sua superiorità rispetto ai predecessori sono evidenziati in Metafisica, A 3.984b8-20, a ripresa e conferma di un’interpretazione già presentata da Platone nel Fedone, 97d-98b, che poteva anche esser divenuta un luogo comune nella letteratura accademica. Ora, dal punto di vista di Aristotele, ciò che manca ad Anassagora, e, dunque, ciò che resta da fare per perfezionarne e superarne la dottrina, è aver tematizzato il concetto di fine, porlo come principio; il problema della superiorità del fine (principio almeno implicito dell’attività intelligente) sul principio primo che è il nou'", è risolto da Aristotele identificando il fine/pensato con l’intelletto stesso (cfr. la dottrina dell’identità fra pensante e pensato negli enti senza materia, capp. 7 e 9). Di questo appunto fa menzione Lambda 10, ove, come si vede, una tale obiezione comporta e implica il riconoscimento del magistero di Anassagora come quello di un’autorità imprescindibile.

2.3. Il ruolo delle teorie accademiche In generale, l’autorità degli antichi, cioè dei Presocratici, è tendenzialmente contrapposta, e non di rado preferita, a quella dei contemporanei, soprattutto gli Accademici. A fronte delle esperienze accademiche rivali, infatti, Aristotele si fa forte del riferimento ai Presocratici e alla tradizione di pensiero ionico sulla natura, a monte e al di là dell’esperienza accademica ateniese. Questo è indubbiamente un punto di forza e un carattere distintivo della prassi filosofica aristotelica rispetto alle esperienze contemporanee. Un tale atteggiamento è trasversale e può essere rinvenuto in varie parti del corpus. Ma è specialmente in Lambda, che prende valore quell’esperienza, a fronte del contesto teorico proprio di questo libro, nel dibattito e nel confronto fra le diverse e concorrenti dottrine accademiche sui principi.

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Nei confronti delle esperienze accademiche, d’altra parte, la riflessione, la critica, il distacco e le continuità possono intrecciarsi talora così fortemente che è davvero difficile districarli. In tal caso infatti non c’è più solo un problema di terminologia da correggere, o di presupposti impliciti da esplicitare (come sembra per lo più voler fare Aristotele con i Presocratici), ma è in questione la visione stessa dell’universo conoscibile, e specialmente del ruolo e statuto di quei principi intelligibili, in ragione dei quali l’universo sensibile può essere conosciuto. Un utile termine di riferimento, al riguardo, sono le posizioni critiche assunte da Aristotele nei confronti di quelle dottrine, negli altri libri della Metafisica. Bisogna dunque trovare in che modo e in che senso il confronto con le discussioni dialettiche di Alpha, Beta, My, Ny possa giovare all’interpretazione del nostro libro. Indubbiamente, infatti, è ragionevole cercare, sulla base delle critiche alla teoria delle idee espresse in quei libri, una chiave di lettura che spieghi in che misura Aristotele si allontani dai modi accademici per concepire le sostanze non sensibili come principio di quelle sensibili; e in che misura invece il fatto stesso di porre una sostanza non sensibile come principio di quelle sensibili sia un’eredità marcatamente accademica.

2.3.1. Un problema di coerenza: Aristotele sposa o rifiuta la dottrina platonica dell’esistenza separata dei principi intelligibili e del Bene? La teoria del bene e dell’ottimo in Lambda 10 ne dà dimostrazione. E cioè: se davvero ciò che Aristotele ha qui voluto dire è che to; ajgaqovn esiste innanzitutto come separato e in sé – se non addirittura in un altro ordine di realtà, come interpretano Ross e Tricot – e che solo a causa di questo anche la disposizione dell’universo è buona, allora la sua tesi (se considerata a pre-

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scindere dalle sue possibili implicazioni teologiche) può apparire sorprendentemente vicina a quella dei sostenitori della teoria delle idee. L’espressione aujto; kaqΔ auJtovv (1075a12) caratterizza già nell’opera di Platone l’idea rispetto alla realtà sensibile47; l’espressione kecwrismevnon ti (ibid.) caratterizza la presentazione – per lo più critica – dei principi non sensibili di Platone da parte di Aristotele (specialmente dei principi matematici nel libro My, ma anche delle idee, cfr. per es. Z 14.1039a30s.). Eppure, alla teoria delle idee, come è noto, Aristotele porta obiezioni ampie e a più riprese in diverse parti della Metafisica (senza contare altre opere, in specie il perduto peri; ijdew'n). Nondimeno, secondo una certa lettura del passo, Aristotele direbbe che il Bene esiste separato e trascendente, sussistente in sé e per sé (al modo delle idee?): tale dunque sarebbe la risposta al dilemma posto in apertura del capitolo. Questo è inatteso, strano e improbabile: veramente Aristotele presenta un’alternativa fra sussistenza separata e non separata del Bene, per prendere poi così decisamente posizione a favore dell’opzione accademica, senza tentarne un significativo superamento?48 In quel caso, non si vede bene il senso del porre l’alternativa. Se qualcuno volesse allora singolarizzare la posizione del libro Lambda a questo riguardo, si risponderebbe che anche in Lambda, più volte, Aristotele critica la teoria delle idee: ciò avviene espressamente in L 3.1070a27, e 8.1073a16-19. È vero che egli non usa in Lambda la vis polemica e il cumulo argomentativo che caratterizza per esempio la batteria dialettica di Alpha 9: ma non c’è da desumerne che questo rappresenti

47 Cfr. E. DES PLACES, Lexique de la langue philosophique et religieuse de Platon, Les Belles Lettres, Paris 1964, p. 89ss. 48 Né basterebbe a renderlo meno inatteso il ricorso a ipotesi genetiche ed evoluzioniste. Sulla discussione a tale riguardo cfr. S. MENN, Aristotle and Plato on God as Nous and as the Good, «Review of Metaphysics», XLV (1992) pp. 543-73.

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una fase cronologica più alta, di modo da spiegarne così il minor distacco da Platone. Piuttosto che embrionale, la critica di Lambda appare matura, precisa e tecnica: lavora sulla connessione logica degli argomenti, secondo quella priorità per la costruzione teorica e per la sua interna necessità, che è caratteristica del libro fin dall’inizio. Per questo, in Lambda 3, Aristotele dice che, per spiegare i processi di generazione, le idee non servono; questo, come si vede, non significa che non esistano, ma che una tale esistenza non è dimostrata e non è necessaria: l’accento è posto sul valore dell’argomentazione. In Lambda 8, inoltre, Aristotele fa notare che, se gli Accademici sapessero davvero dimostrare l’esistenza delle idee, saprebbero dire quante esse siano: invece, non sanno spiegarlo (1073a1522). Anche questo argomento, si vede, punta sulla necessità di riformulare – rispetto agli antecedenti accademici – il modo in cui sono concepite e postulate sostanze non sensibili. Il modo di riformulazione è positivamente indicato e portato avanti da Aristotele in corrispondenza a entrambe le obiezioni ora menzionate: la sostanza non sensibile e non soggetta a movimento risulta necessaria, quando viene postulata come principio del movimento eterno della sostanza sensibile (capitoli 6 e 7); se è così – ed è così – allora sarà possibile, contando i movimenti primi, e cioè circolari, contare le sostanze non sensibili. Si tratta dunque di ricostruire daccapo, dopo averlo attaccato, il postulato di una sostanza intelligibile non sensibile, indicato da Platone in modo vivido, ma – secondo Aristotele – confuso, e argomentato male. Giunto poi alla determinazione positiva delle prerogative di una tale sostanza (cfr. capitoli 7-9) Aristotele dimostra che esiste una sostanza, ovvero un ordine, o genere di sostanza, intelligibile, che è essa stessa intelletto: ente ottimo ed eccellente in tutte le sue istanze, anche là dove esiste nei sensibili, cioè negli enti razionali materiati. Essa tuttavia è separata o almeno in parte separabile, distinguendosi dall’intelletto passivo che è in noi, in forza dello stato perenne impassibile, immuta-

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bile della sua esistenza e della sua attività (cfr. in part. 1072b23 e Comm. ad loc.). Così, sulla base di una considerazione interna alle motivazioni del libro, si può tentare di riprendere da capo la domanda: è, questa sostanza, assimilabile al “Bene” come principio – cioè a quell’ente sovrasensibile che per Platone non è più oujsiva, in quanto è al di là della oujsiva, ed è principio dell’ordinamento assiologico degli enti? La risposta, in parte, è sì: sì, cioè, a determinate condizioni. Per non perdere di vista i tratti di indubbia continuità, è utile guardare non tanto al semplice contenuto dossograficamente considerato (ove le differenze appaiono ingiustificate e dunque risaltano), ma alla coerenza logica di ciò che nel § 2.1.1 abbiamo chiamato “una teoria globale dell’ente”, visto che è a questa che Aristotele principalmente si dedica. Riconoscendo infatti il primato di quel tipo di necessità epistemologica che la teoria aristotelica del primo motore comporta, diviene più agevole riconoscere, sia la volontà di continuità con alcuni contenuti delle dottrine accademiche dei principi, sia i motivi di fondo della loro revisione. In particolare, trova una sua precisa motivazione l’integrazione ontologica forte, che è caratteristica di questa teoria aristotelica: una tale integrazione porta a identificare il principio primo con la sostanza prima, secondo la teoria del primato della sostanza sugli altri modi dell’ente. Questa indubbiamente è una differenza, ma non è un’inversione di tendenza rispetto alla configurazione dell’idea di Bene in Platone. Il primato assiologico è mantenuto, ma si esprime secondo coordinate diverse (come è necessario: in ogni caso, non si può dire che la parola oujsiva abbia lo stesso preciso significato in Aristotele che in Platone). Infatti “la qewriva è sulla sostanza: è della sostanza che si cercano i principi e le cause”, recita l’esordio di Lambda49. Più 49 Sull’interpretazione di questo esordio in un tale contesto dialettico cfr. S. FAZZO, L’esordio del libro Lambda, cit.

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in generale, Aristotele insiste in tutto il libro Lambda sul primato della sostanza; in questo, trae le conseguenze – in modo mai dogmatico, sempre ragionato – delle indagini esposte più ampiamente in Zeta; coerentemente, insiste sull’idea che ciò che ha funzione di principio e di primato sulle sostanze debba essere una sostanza; proprio per questa strada, in Lambda 6-7, egli dimostra la necessità di un principio non mosso, il quale, muovendo il secondo ordine di sostanza, deve essere sostanza. Una volta di più, il contributo distintivo rispetto alle preesistenti teorie è di natura ontologica, passa cioè per una focalizzazione forte sul concetto di sostanza – attuata in continuità con la scienza dell’ente in quanto ente dei libri centrali della Metafisica (cfr. supra, §§ 1, 2.1.1, 3.1)50. 50 Dal punto di vista dell’indagine presente, può stupire ciò che dice Frede ad loc., cioè che spiccano per la loro assenza, in Lambda, “una dottrina della sistematica ambiguità del termine ‘ente’, e la concezione di ‘senso focale’ (focal meaning) che avrebbe consentito di ricostruire in modo unitario il concetto di ‘sostanzialità’ o di ente in quanto tale”. Per altro, l’osservazione ha per Frede un peso preciso. Proprio per tale motivo, infatti, il quadro teorico di Lambda appare a Frede più vago (più arretrato, dunque, si direbbe) di quello dei libri Zeta, Eta, Theta. Eppure, fin dall’esordio del libro, il primato che chiamano “focale” della sostanza sulle categorie è stabilito in Lambda non meno saldamente che in quei diversi libri della Metafisica. Probabilmente, così scrivendo, Frede in realtà ha inteso constatare come Lambda non sembri offrire appoggio a un certo tipo di proiezione teologica del primato “focale” (semantico e ontologico), quale si delinea come sviluppo naturale del primato della sostanza nella generale lettura della Metafisica da parte di M. FREDE-G. PATZIG. Aristoteles, Metaphysik Z, 2 voll., Beck, München 1988; cfr. G. PATZIG, Theologie und Ontologie in der Metaphysik des Aristoteles, vers. orig. in «Kant-Studien», LII (1961) pp. 185-205, da considerare però piuttosto, nella successiva edizione in I D ., Gesammelte Schriften, Wallstein, Göttingen 1996, Bd. III, pp. 141-74, con la nota addizionale ivi apposta dall’autore, p. 173s. (Nachwort 1996). In quest’ultima edizione infatti Patzig rinuncia alla prospettiva genetica che gli aveva fatto relegare i processi paronimici a una fase giovanile, inoltre equipara paronimia e “focal meaning” agganciando così la sua lettura – relativamente unitaria –

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Questa focalizzazione sulla sostanza, che è e resta di natura eminentemente categoriale, non può dunque essere priva di ricaduta nemmeno sull’argomento conclusivo di Lambda 10, dove si gioca il rapporto dialettico fra principio aristotelico e Bene platonico. Letto secondo l’alternativa fra non-sostanza e sostanza, il dilemma iniziale quanto allo statuto ontologico del della Metafisica a quella inaugurata parallelamente da Owen, che pure, come Patzing, intende riconciliare in un percorso metodologico comune metaphysica generalis e metaphysica specialis. Quanto allo scopo, infatti, la posizione di Patzig e di Owen quasi coincide: si tratta di reperire una modalità in cui queste due concezioni presentate come distinte in Metafisica Epsilon 1 convergano in realtà in un’unica scienza che sia al contempo metafisica (in senso generale, cioè ontologia) e teologia. Ma appunto Lambda pare ostacolare una simile lettura, poiché il rapporto di priorità della sostanza rispetto alle categorie, non pare aver alcun ruolo esemplare o analogico sul rapporto fra sostanza divina e sostanza sensibile. Di questo appunto Frede, loc. cit. pare prendere atto, facendo propria una constatazione già di Patzig, sulla scorta di Jaeger. Per contrasto, una tale proiezione, quale in Lambda non veniva reperita, avrebbe consentito, essi ritengono, di vedere la teologia aristotelica come estensione dell’ontologia, risolvendo così l’alternativa nel primato fra metaphysica specialis e metaphysica generalis posto da Epsilon 1.1026a2331. Soltanto così si sarebbe ottenuta quella teologia teorizzata da Patzig, op. cit., p. 150: una “teologia che è in quanto tale identica all’ontologia generale ... di modo che le due definizioni, generale e speciale, della filosofia prima stanno insieme [zusammengehoren] e si prendono insieme per definire la prima filosofia aristotelica”. Cfr. tuttavia contra quanto qui osservato, in part. nei nostri §§ 1, 2.1.1, 2.5, 3.1. Da allora, peraltro, non è mancato chi abbia inteso reinserire in Lambda quel tipo di analogia, da intendere come una sorta di proporzione continua. Fra questi, già qui sovente citato, A. KOSMAN, Metaphysics G 9, cit., non senza relazione con i precedenti interventi di questo autore sul più generale concetto di bene, in Predicating the Good, «Phronesis», XIII (1968) pp. 171-4; la sua tesi al riguardo è in qualche modo perfezionata da J.L. ACKRILL, Aristotle on «Good» and the Categories, in J. BARNES-M. SCHOFIELD-R. SORABJI (a c. di), Articles on Aristotle, cit., vol. 2, pp. 17-24. Più recentemente, B. BOTTER, Dio e il divino, cit., in part. § 3, ha evidenziato in Lambda la priorità di quello che ha chiamato il principio del mavlista, ovvero di eminenza.

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bene (o Bene) e dell’ottimo (1075a11-13) appare in una prospettiva più precisa. Di qui la necessità della differenza. In Platone il Bene (to; ajgaqovn) certo è un’idea (cfr. per es. Plat. Resp. VI 508e) e inoltre in quanto idea è oggetto della più alta sapienza (mavqhma, cfr. ibid. 505a2); però non è chiaro che sia una sostanza: piuttosto, supera la sostanza ed è l’origine per gli altri enti del loro essere conoscibili e del loro essere sostanza. Invece, in Aristotele, il primato di ciò che non è sostanza sulla sostanza è espressamente negato (più esplicitamente che altrove, in L 8.1073a34-36) e il principio primo, pur assiologicamente sovraordinato, viene a integrarsi in un unico ordine di realtà con ciò di cui è principio: nel che Aristotele sottolinea in chiusura un netto vantaggio sulle opinioni dei predecessori (1075b37-1076a1).

2.4. Autonomia e sintesi nell’argomento di Lambda: costruzione e ricostruzione di una teoria dei principi La focalizzazione ontologica forte sulla sostanza è espressa in Lambda 1 non con un semplice rimando, ma con una dettagliata sintesi di Zeta 1-2. Questo mostra la volontà di Aristotele di costruire nel libro un percorso argomentativo autonomo, che costruisce uno per uno i propri snodi fondamentali senza presupporli come già conosciuti, né come già interamente acquisiti. Li costruisce, anzi, spesso: li ri-costruisce. Qui alcune precisazioni sono necessarie, e c’è ragione di prendere posizione in modo deciso: Aristotele in Lambda si basa spesso su ricerche preesistenti di filosofia prima, e sulla loro redazione scritta in una forma vicina ai testi che possediamo. Non li cita espressamente, però: rarissimi sono i rinvii espliciti ad altre opere, specie a libri della Metafisica; se ne è concluso in passato che quegli altri libri non fossero ancora stati scritti, e che Lambda sia opera giovanile. Ma l’analisi del testo porta a ritenere il contrario: nonostante vi scarseggino (senza

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però mancare del tutto51) i richiami espliciti agli altri libri, ci sono segni evidenti (contro l’avviso di Jaeger, sovente ancor accettato), che la sua redazione fu posteriore a quella dei libri centrali Zeta, Eta, Theta52. L’ordine seguito da Lambda trova la sua logica alla luce di quei libri; gli stessi materiali dottrinali che costruiscono l’argomento dei primi capitoli (Lambda 1-3) sono in buona parte reperibili, parallelamente, nei libri Zeta ed Eta; la dottrina della potenza e dell’atto rielaborata in Lambda 6 è quella illustrata principalmente nel libro Theta. In entrambi i libri, Lambda e Theta, essa interagisce con quella del rapporto fra motore e mosso di Fisica Q; e senz’altro Lambda 6 deve presupporre anche le considerazioni di Fisica G 1 che mostrano il primato del corpo mobile sul movimento stesso: il movimento infatti è atto ed ejntelevceia del mobile in quanto mobile (Phys. G 1.201a10s.); non esiste movimento al di fuori del mobile (200b32s.); inoltre l’atto del motore e l’atto del mobile sono identici e sono anzi uno solo (Phys. G 3.202a13-16). Tali tematiche e tali esiti comuni compaiono in Lambda a un livello progredito di elaborazione (ciò che appunto Jaeger 51 L 6.1072a3ss. rinvia a quanto pare a Theta 6, dove dice ei[rhtai (ringrazio Stephen Menn della discussione su questo e siffatti paralleli); L 7.1073a5-12, dove dice devdeiktai, a Fisica Q. Ma l’argomento del libro ha sempre una sua autonomia, anche a fronte di quelle trattazioni espressamente citate. Quanto alle relazioni implicite con altri trattati, queste sono invece numerosissime. Il mio commento ne evidenzia solo una collezione. 52 W. JAEGER, Studien, cit., pp. 122-8, in part. 127s.; ID., Aristoteles, cit., trad. it. cit., in part. pp. 294-305. Fra coloro che si sono comunque schierati a favore di una datazione alta del libro, vanno annoverate anche attitudini diverse. Sonderegger si oppone a una lettura teologica del libro, e inscrive (correttamente a mio avviso) le ricerche ivi in corso nel quadro dell’esperienza accademica di Aristotele; da questo è però indotto a una datazione alta, che si può invece evitare se si considera che Aristotele sia rimasto in qualche modo accademico sull’intero arco della sua attività. Su una discussione recente di questo tipo di datazione, fondata su 1069b1, cfr. infra, Comm. ad loc.

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negava53) anche se non sono assunti dogmaticamente, come già analizzati, bensì tutti argomentati di nuovo. Per la loro dimostrazione Aristotele rievoca di volta in volta gli elementi decisivi, in forma rapida, essenziale, radicale. È una modalità che dettagliatamente esamineremo in sede di commento. Questo mostra che l’autonomia di Lambda è una scelta compositiva di Aristotele, non un effetto accidentale della cronologia del libro (come sembra, invece, quando si sostiene – espressamente o implicitamente – che Lambda non cita gli altri libri perché non ancora composti). È qui che andrà cercata una spiegazione diversa per questa peculiare modalità argomentativa, compendiata e rapidissima, che costituisce uno degli elementi più caratterizzanti del libro, e che ne fa, anche dal punto di vista formale, il più autonomo dell’intera Metafisica. In questo senso si può dire, sia che Aristotele ha posto, sia che non ha posto Lambda nel contesto degli altri libri della Metafisica: pur indipendente e autosufficiente nei presupposti essenziali, Lambda in buona parte li presuppone54, ponendosi come sviluppo organico dello stesso progetto generale. 53

Jaeger negava la posteriorità di Lambda agli altri libri in genere, ma poi la riconosceva per Ny, il solo libro sul quale svolgeva un confronto sinottico (Aristoteles, trad. cit., pp. 300-4). Forse, se Jaeger avesse svolto anche per altri libri un raffronto sinottico di quello stesso genere (non troppo diverso da quello che noi effettuiamo per esempio fra Lambda 1 e Zeta 1-2 in S. FAZZO, L’esordio del libro Lambda, cit. e qui infra, cfr. n. 76), avrebbe potuto trarne conseguenze analoghe a quelle tratte per Ny. 54 Mi riferisco alla parte autentica della Metafisica, e non al libro Kappa, sul quale condivido gli esiti di P. Aubenque (Sur l’inauthenticité du livre K de la Métaphysique, in P. MORAUX-J. WIESNER, Zweifelhaftes im Corpus Aristotelicum, W. de Gruyter, Berlin-New York 1983, pp. 31844) rinforzate dalle analisi svolte durante il Seminario Aristotelico di Padova diretto da E. Berti e C. Rossitto. Ciò comporta fra l’altro una posizione ben diversa da quella di Bonitz ereditata da Jaeger, secondo la quale Lambda presuppone, mettendosene a prosecuzione, il libro Kappa, e nessun altro libro della Metafisica.

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Inoltre, l’esame dei paralleli fra Zeta 1-2 e Lambda 1 (cfr. anche infra, Comm. ad 1069a18, 18s., 20s., 21s.) mostra come più probabile l’ipotesi che Zeta preceda Lambda, piuttosto che esserne preceduto; infatti lo studio comparato del modo di redazione dei due testi dà indizi importanti in questa direzione. Si deve ammettere, comunque, che i due libri hanno fra loro relazioni intertestuali precise; si potrebbe dire allora: se non è Zeta che lavora dettagliatamente sulla base di Lambda (nessuno sostiene questo, a mia conoscenza), allora è Lambda che lavora sulla base di Zeta (salva restando la possibilità di un ricorso di entrambi i libri a materiali comuni) Sempre a questo proposito, vorrei sottolineare un’implicazione importante della collocazione cronologica al tempo della piena maturità di Aristotele e del suo progetto di filosofia prima. Ciò vale anche, per converso, come argomento contro la datazione alta, anzi, precoce, che non di rado è stata sostenuta a proposito di questo libro. In effetti, nella misura in cui si mostra – come qui facciamo a più riprese – che certe sezioni, specie preliminari, di Lambda dicono in compendio ciò che troviamo più diffusamente argomentato in altri libri della Metafisica, non si prova ancora che quei libri siano stati scritti prima del riassunto – o della sintesi, o del compendio, o insomma degli estratti – che ne troviamo in Lambda. A rigore resterebbe ancora possibile che l’autore abbia prodotto Lambda come uno schizzo preliminare di una teoria, prima di svilupparla meglio in un contesto specifico. Ma, se così fosse, ciò vorrebbe dire che tutti i libri cui Lambda si collega in un modo siffatto non hanno natura veracemente zetetica: al contrario, si dovrebbe allora ritenere che il loro contenuto fosse già noto ad Aristotele prima che egli lavorasse al corpo centrale delle sue ricerche di filosofia prima, e prima che egli si accingesse all’opera dei libri centrali della Metafisica. Lambda infatti si pone come soluzione a una collezione di aporie che trattati precedenti sollevano (si veda specialmente la nostra analisi del capitolo Lambda 10). Ciò pre-

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cluderebbe una comprensione autonoma di molte parti fondamentali di quei libri. Si dovrebbe infatti ritenere che Aristotele abbia cominciato a scrivere ciascuno di quei libri sapendo già precisamente (come mostrerebbe la previa redazione di Lambda) a quali acquisizioni teoriche quelle sue ricerche avrebbero dovuto condurlo. Questo significherebbe negare del tutto a quei libri la natura di inchiesta in corso, negare, e anzi (vista l’artificiosità del gesto) denegare in essi quella componente di ricerca senza la quale si perde il senso di alcune caratteristiche così interessanti, che sono proprie di quei libri: la tensione intrinseca, le marginali incompiutezze, le incongruenze strutturali, formali, o anche dottrinali. In effetti, i libri centrali comportano elaborazioni teoriche molto importanti, per valorizzare le quali spesso dobbiamo fare anche un lavoro di selezione, lasciando a margine spunti di riflessione motivati probabilmente da necessità contingenti, che poi non concorrono a formare le grandi linee di continuità fra un libro e l’altro e all’interno di ciascun libro. Questo si spiega se teniamo presente che essi costituiscono la redazione di ricerche parzialmente ancora in corso. Se invece dobbiamo pensare che già in un’epoca precedente e precoce, in cui si vuole datare Lambda, Aristotele avesse chiaro in mente l’esito finale di quei libri, ci si stupisce molto di più che, in fase più matura, di quelle teorie egli non abbia voluto o saputo dare un’esposizione più organica. Così dal punto di vista della comprensione della Metafisica, intesa in questo modo, come progetto generale di costituzione di una filosofia prima, la datazione alta o altissima di Lambda ha dei costi gravi e indesiderabili; a meno che, evidentemente, non si vogliano negare – ciò che appunto talora si nega – gli evidenti e talora letterali punti di contatto fra questo e i libri centrali della Metafisica. Se invece si ammette che Lambda tragga conclusioni, in quanto viene dopo, allora diventa naturale, anche senza ricorrere a una retorica del compimento e del

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coronamento sommo, trovare qui una selezione ragionata fra i punti di arrivo del lavoro compiuto negli altri libri. È una selezione, cioè, che raccoglie la maggior parte di ciò che Aristotele, in una fase matura e avanzata, giudicò rilevante in vista di una costruzione positiva che ancora mancava nel corpus – quella di una teoria della sostanza non sensibile: una teoria già più volte preannunciata nei suoi scritti, specialmente in quelli di filosofia prima55.

2.5. La sostanza non sensibile come ente primo ed immobile Di qui, il carattere distintivo del libro: la teoria già più volte altrove intravista della sostanza non sensibile viene ora a coincidere con il perfezionamento di un’altra teoria, intrapresa, ma parzialmente incompiuta negli scritti di fisica: quella relativa al principio del movimento e dunque del principio immobile. La preoccupazione per un siffatto principio non è affatto esclusiva di Lambda, attraversa al contrario tutto l’arco della produzione aristotelica, da Alpha elatton a Fisica Q 56. In Lambda, appunto, essa trova compimento, almeno dal punto di 55

Cfr. S. FAZZO, The Metaphysics from Aristotle to Alexander, cit., p. 53. Sul ruolo metodologicamente fondativo dell’argomento di Alpha elatton, cap. 2, cfr. anche qui infra, § 4.7. Sull’interazione fra Lambda 6 e Fisica Q, infra, § 4.6, e Comm. ad 1071b5-9. Il rapporto fra la dimostrazione relativa al primo motore del libro Lambda e quella dell’ultimo libro della Fisica è stata indagata a più riprese, anche recentemente e con particolare riferimento alla diversità dell’approccio fra i due testi: cfr. J.B. GOURINAT, Le premier moteur selon Physique, VIII et Métaphysique, L: physique et philosophie première, in M. BONELLI (éd.), Physique et métaphysique chez Aristote, Vrin, Paris 2012, pp. 175-206; ID., L’intellect divin, cit.; M. CRUBELLIER, Premiers principes métaphysiques de la science de la nature: la démonstration de l’existence du moteur immobile de l’univers au huitième livre de la Physique, in C. CERAMI (a c. di), Nature et sagesse. Les rapports entre physique et métaphysique dans la tradition aristotélicienne. Recueil d’études en hommage à Pierre Pellegrin, Peeters, 56

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vista aristotelico, in vista della dimostrazione di una sostanza non sensibile, reperita in quanto esente da ogni mutamento. Trattasi, fondamentalmente, di un postulato del pensiero, stabilito per regressus, in forza cioè della necessità di fermarsi, di porre un punto fermo, in generale e sempre, cioè di non andare all’infinito, quando si cercano le cause. Invero, il postulato è rievocato espressamente già nella prima parte del nostro libro, all’inizio del capitolo 3 (1069b35-1070a4, in part. 1070a4: ajnavgkh dh; sth'nai) ove rispetto al testo parallelo di Zeta 7 compare una distinta menzione della validità del principio anche per la causa materiale (cfr. infra, Comm. ad loc.), oltre che per quella formale, sulla quale insiste il testo di Zeta. Eppure, questo argomento, basato sull’impossibilità del regressus, che si dispiega sull’arco del libro in tutta la sua generalità, rischia di essere trascurato dai suoi esegeti. Ciò non avviene a caso. L’esposizione dell’argomento di Lambda 7, compendiata al massimo, sembra ricalcare un passo

Leuven (in corso di pubblicazione); sugli studi di Klaus Oehler cfr. infra, § 4.6. Non ha perso interesse lo studio di G. VERBEKE, La structure logique de la preuve du Premier Moteur chez Aristote, «Revue Philosophique de Louvain», XLVI (1948) pp. 137-60, che si concentra piuttosto sul difficile libro Q: rievocati alcuni precedenti dell’argomento (da PLAT. Leg. X, Resp. VIII; ARISTOT. De cael. A 12), Verbeke ricava la possibilità di distinguere due sensi di kivnhsi", uno dei quali più generale, comprensivo di varie forme di mutamento, che sarebbe più arcaico e antico rispetto al senso ristretto, come movimento locale (invero entrambi sono attestati in Lambda, ove Aristotele mostra attenzione fra i due significati, cfr. e.g. 1071b10); distingue d’altronde in Fisica Q due parti: i capitoli 1-2 sull’eternità del movimento, la parte restante, sulla natura ed eternità del motore immobile. Alcuni altri studi si sono piuttosto concentrati prevalentemente sul ruolo del motore immobile nella Fisica, ma la loro analisi ha conseguenza anche sull’interpretazione dell’argomento centrale dei capitoli Lambda 6-7, come avviene in B. MANUWALD, Studien zum Unbewegten Beweger in der Naturphilosophie des Aristoteles, Abhandlungen der Geistes- und Sozialwissenschaftlichen Klasse, Akademie der Wissenschaften und der Literatur, Mainz, Mainz-Stuttgart 1989.

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di Fisica Q 5.256b13-24, la cui esegesi anche recente insiste invece su una diversa modalità argomentativa, non quella per regressus, ma quella che Manuwald ha chiamato “per simmetria”57. La simmetria così individuata sta nel completarsi di uno schema virtuale di possibilità logiche nella relazione fra ciò che muove e ciò che è mosso, fra ciò che agisce e ciò che subisce: se c’è un motore mosso (kinouvmenon kinou'n), e se questo è un termine intermedio (questo è detto sia in Lambda che nella Fisica), se cioè c’è qualcosa di mosso che però non muove (come precisa la Fisica, e sottintende Lambda), allora deve esistere un motore non mosso. Un tale argomento “per simmetria” costituirebbe dunque il nucleo originario, sia del passo di Lambda 7.1072a24s., sia del passo suddetto della Fisica, cui solitamente si rimanda come se ne costituisse il chiarimento. Ora, indubbiamente i due passi sono legati e il lessico stesso di Lambda in 1072a24 (kinouvmenon, kinou'n, mevson) rinvia a quello della Fisica. Ma proprio di quest’ultimo passo, l’esegesi è in certo modo opaca fin dall’antichità (cfr. Alex. ap. Simplicio ad loc.). Ciò arriva ad offuscare la derivazione, peraltro plausibile, fra l’argomento per regressus – lo stesso appunto di Alpha elatton 2 – e l’argomento “per simmetria”, che pure di quello potrebbe considerarsi come una versione compendiata, quasi ridotta all’essenziale. Una tale opacità fra l’altro rischia di non rendere giustizia alla profonda necessità logica dell’argomento stesso58: come potrebbe bastare un argomento per pura eleganza e simmetria (in quanto tale in effetti è

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Cfr. n. prec. Intendo tornare altrove sul carattere effettivamente composito di Fisica Q, non senza proporre ulteriori divisioni anche all’interno della stessa seconda parte, che Verbeke attribuisce ad un unico argomento, e soprattutto sull’interesse della sezione erratica nel cap. Q 5, intorno a 256b13-24, che è il luogo più strettamente parallelo all’argomento di Lambda 7.1072a24s. 58 B. MANUWALD, Studien zum Unbewegten Beweger, cit.; cfr. infra, Comm. ad 7.1072a24s.

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lodato da Manuwald) a dimostrare la necessità di un primo motore non mosso? Diversa appare la forza dell’argomento, se si considera che non è la simmetria a far concepire come intermedio il mosso-motore, ma piuttosto, è lo statuto intermedio del mosso-motore, e cioè di tutti i termini di cui facciamo ordinariamente esperienza e conoscenza (essi sono tutti infatti in movimento, muovendo in qualche modo a loro volta) a fare concepire ogni termine siffatto come parte di una serie causale coerente ed orientata; e a far dunque postulare termini ultimi a entrambi i capi della serie, per quanto lunga la serie possa essere: ci saranno, alla fine, un mosso non motore (2.994a20s.), e all’inizio un motore non mosso, cui punta la dimostrazione qui in esame. Il vantaggio di collegare i due argomenti emerge ancor più chiaramente quando si tenga presente il testo di Alpha elatton 2 (994a3-11), ove si declina su ogni possibile ordine di causa il postulato di un principio causale coerente con il resto della serie, ma non causato a sua volta: ciò vale per la materia come per il principio donde viene il movimento, o causa efficiente, per il fine come per la forma, non senza che venga menzionata la giustificazione cognitiva del postulato stesso: come sarebbe possibile conoscere – vi si chiede infatti in 994b20-23 – se non ci fosse nulla di primo? Tutto ciò induce a considerazioni rilevanti per la vexata quaestio della relazione causale del primo motore immobile con il primo mosso e con il cosmo sublunare: è causa finale, come la tradizione prioritariamente ha voluto, da Alessandro di Afrodisia in avanti, o è causa efficiente, secondo gli argomenti posti in evidenza da più parti, e soprattutto negli studi di Enrico Berti sul libro Lambda? A una considerazione generale, è importante che per Aristotele non uno solo, ma tutti e quattro gli ordini di cause costituendosi in serie, presuppongano, come condizione della propria validità, l’esistenza di un primo principio non causato. Della causa materiale e formale ultime si ricorda

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espressamente, si è detto, il capitolo Lambda 3, delineando implicitamente un quadro teorico che sarà poi completato dalle discussioni sulla causa efficiente e finale dei successivi capitoli (in part. cap. 7). Ciò che qui interessa, appunto, è la generalità del postulato stabilito nel passo citato del libro Alpha elatton: a un principio non causato si deve poter risalire per ogni ordine di causa, ripercorrendo verso l’alto, sia la serie delle cause finali, sia quella delle cause che sono principio di movimento – ajrch; o{qen hJ kivnhsi", ovvero cause efficienti, secondo la dicitura più corrente (benché invero la differenza fra i due concetti possa avere un certo rilievo, cfr. infra). La causa materiale e quella formale, evocate nel capitolo 3, che non si caratterizzano primariamente cause di movimento, come restano ora nell’ombra59. Si tratta allora di vedere quale modalità causale, sia essa efficiente o finale, prevalga nel libro. Indubbiamente, come Berti ha evidenziato, indizi non solo linguistici ma anche logici prevalenti puntano a un motore nel senso stretto, come principio dal quale viene il movimento. Ciò si vede non solo e non tanto da aggettivi come kinhtikovn e poihtikovn (1071b12,

59 Marginalissimo, nell’economia del libro, ed isolato, è l’unico cenno al motore immobile come forma, e più precisamente, come quiddità – non però come causa formale: esso si trova nel capitolo 8, compare infatti nella prova dell’unicità dell’universo. La sua presenza tuttavia è storicamente importante: darà appiglio a una vitale tradizione secondo la quale il motore immobile è forma pura, a partire dall’ilemorfismo di Alessandro di Afrodisia, che tanto peso ha avuto nella tradizione interpretativa dell’intero corpus, e di Lambda in particolare (cfr. S. FAZZO, L’exégèse d’Aristote, cit.; EAD., Aporia e sistema. La materia, la forma e il divino nelle Quaestiones di Alessandro di Afrodisia, Edizioni ETS, Pisa 2002). La causa materiale, infine, non esercita quasi alcun ruolo positivo, bensì compare per contrasto e sottrazione, nella dimostrazione della natura puramente intelligibile del principio immobile sia ivi (1074a31-38) sia in L 6.1071b20s.: bisogna che lo sostanze eterne, in quanto incorruttibili, siano senza materia (non chiaro tuttavia se sia mobilitata una stessa concezione di materia).

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ove il suffisso – ikov" di per sé può dar luogo a interpretazioni alternative, come Laks ha ricordato, cfr. Comm. infra, ad loc.), quanto piuttosto dal corso del ragionamento stesso ivi condotto da Aristotele in Lambda 7, l’eterno moto del cielo delle stelle fisse fa inferire la presenza di un eterno motore non mosso; e la coerenza della serie causale è garantita dall’azione a sua volta motrice del cielo come principio di ciclico e perenne mutamento per l’intero cosmo sublunare. Ma l’immobilità di quel primo principio o{qen hJ kivnhsi" non toglie nulla a quella della causa finale prima, per la quale non è possibile postulare alcuna ulteriore causa finale, pena il regressus ad infinitum. Della causa finale, Aristotele si ricorda come è noto in 7.1072b1-3. Anche qui la coerenza della serie causale è rispettata: se non nel libro Lambda stesso, sono ben note in altre parti del corpus indicazioni chiare che collegano il perpetuarsi dei viventi, e anche dei corpi inanimati secondo la specie, a un rapporto di imitazione nei confronti del perpetuo e sempre identico movimento delle sfere celesti (De gen. et corr. B 10.336b34-337a7). In Lambda, questa menzione interviene in un contesto ben determinato. Siamo, con 1072b1-3, nella parte centrale del capitolo Lambda 7. Il contesto è quello di un declinarsi modale ovvero categoriale di quel primato assiologico della sostanza puramente intelligibile, dal quale scaturiscono l’uno dopo l’altro i predicati ad essa propri. Anche questo però richiede qualche spiegazione, visto che questa chiave di lettura mi pare relativamente inedita. Va premesso che di questo procedimento, dal quale si ricavano uno dopo l’altro i predicati del primo motore, il filo conduttore resta implicito. Poco supra, presentando il presente commento (§ 1), abbiamo posto al centro l’immobilità come focus di questo argomento centrale del libro, che lascia invece in secondo piano la questione della causalità, pertinente per un’indagine sul mondo fisico, e si trova qui invocata in modo strumentale, per poter reperire il principio primo. Tale infatti è la centralità di questo principio, nella logica di Lambda 7, che la domanda che vi si pone non in

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che modo esso muova, bensì in che modo e in che senso esso non si muova e nemmeno si muti o si possa mutare in alcune delle sue prerogative, pur sovraordinandosi assiologicamente a ogni altro ente – lo si pensa dunque come vivo e attivo dell’attività più eccellente. Di qui l’uso congiunto della sustoiciva e della diaivresi", che come si è detto consente di definire il migliore degli enti ragionando per polarità semplici (cfr. infra, ad 7.1072a30s., con il saggio di D. Lefebvre ivi citato), a partire da quelle che strutturano ab exordio (1.1069a30-33) la tripartizione della sostanza: mobile vs. immobile, sensibile vs. intelligibile. L’immobile è dunque ciò che è non ha un fine ma è fine desiderabile in sé, il che implica che sia tale per altro da sé: è, in termini categoriali, un prov" ti. Questo ci introduce in una prospettiva poco esplorata, quasi assente nei commenti al nostro libro: eppure, non è impossibile dire che la serie delle polarità che consentono di ricavare le diverse prerogative distintive del principio primo si declina in senso modale, e cioè secondo i modi dell’essere sui quali si fondano le categorie che poi diverranno canoniche. In 1072a30s., il primo termine è la sostanza, in specie la sostanza prima, il che è come dire che il primo principio è sostanza, ed è sostanza prima; è nella totalità del tempo, cioè nella sua eternità (7.1072a25) e nella totalità dell’agire: è infatti in atto per sua definizione (ibid.); questa sostanza è semplice come suo modo di essere, ed ivi un inciso indubbiamente ci avverte che stiamo ragionando sotto la categoria della quantità, non però nel senso della misura, ma in quello che indica un modo di essere della cosa in sé (7.1072a32-4), nella qualità poi rientra il bello (1072a34) cui va congiunto il desiderabile in sé, nel quale convergono insieme il bello e ciò che è fine-in-vista-del-quale (nella categoria del prov" ti, come appunto si è detto), una connotazione però che di nuovo richiede un’avvertenza, che “il fine è anche negli immutabili”, infatti ciò che è fine e desiderabile in sé, in senso assoluto è immutabile (1072b1-3), mentre un fine relativo è solo relativamente immutabile, solo relativamente a ciò che agisce in

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vista del fine60, ; il fine, infatti, e ciò che agisce per il fine sono due ruoli correlativi, come mostra la diairesi (ibid.). Qui insomma Aristotele, nell’ordine, allinea una serie di considerazioni di tipo categoriale (cfr. supra, § 1.4). La breve discussione sulla causa finale costituisce dunque un pertinente ampliamento dell’argomento sui diversi modi dell’ente (ben presente in Lambda fin dal cap. 1), nel contesto di un esame analitico dei predicati ovvero prerogative proprie del principio immobile. Ma ha anche un valore paradigmatico, come Enrico Berti ha sottolineato: cioè, la causa finale è paradigma ed esempio di come sia possibile a ciò che è immobile essere principio di movimento: l’oggetto di pensiero, l’oggetto di desiderio e di amore evocati nel corso del capitolo 7 (1072a26, 28, b3), sono un modello perché muovono senza essere mossi e ciò vale a dimostrare che è possibile che qualcosa sia mosso da qualcosa di immobile. Nella nostra lettura questo aspetto dell’interpretazione in Berti acquisisce dunque speciale evidenza. Infine, non c’è dubbio che l’immobilità di quel primo principio o{qen hJ kivnhsi" ponga empiricamente un problema61. Il problema però non pone qualora ci si collochi non sul piano empirico, cui la dimostrazione in esame è in effetti quasi estranea, ma su quello della conoscibilità, che è poi il livello primario anche in Alpha elatton (già si è citato ciò di cui ivi 60

Il principio primo di ogni movimento infatti, è quello dei viventi, e questo è volontario, cioè presuppone un atto cognitivo e tende ad un fine. Questo è oggetto di analisi svolte da Aristotele specie nella seconda parte del trattato detto De motu animalium, cfr. S. FAZZO, Sur la composition, cit. pp. 220-9. 61 Ciò vale, s’intende, almeno se si vuole mantenere la necessaria coerenza della serie e si evita di far culminare una serie di cause efficienti con una causa finale. Questa è la condizione perché la teoria generale delineata in Alpha elatton 2 sia valida: il postulato di un principio non causato vale per una serie coerente, all’interno di un determinato ordine di causa. Dunque il trasferimento da una catena causale all’altra non è possibile, pena l’invalidarsi del postulato di finitudine.

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avverte Aristotele, cap. 2.994b20-23: è necessario un termine primo, perché altrimenti non è possibile conoscere). A livello concettuale, il movimento eterno (quello circolare, del cielo) presuppone l’immobilità, così come il mutamento variato dei corpi sublunari presuppone a sua volta, concettualmente in primis, quel movimento eterno, che ne costituisce la misura con la sua perenne regolarità. È solo una volta identificato come principio concettuale di ogni possibile processo di mutamento, che il primo motore immobile viene a costituire l’istanza concettualmente unica e indifferenziata di una sostanza non sensibile, quale i libri centrali della Metafisica adombrano a più riprese. Siamo ormai all’interno di quella “diversa” procedura, innovativa e al tempo stesso di accademica tradizione (cfr. 1069b1), che riserva a una tale sostanza, non sensibile e non mutevole in alcuno dei suoi predicati, ogni possibile primato assiologico. Vantaggio competitivo di Aristotele è aver sistematicamente declinato tale primato secondo l’analisi dei modale dell’essere (che viene a ricoprire in parte se pur non scolasticamente ciò che fu poi noto come dottrina delle categorie): nel che si compie un compito eminente della scienza dell’ente in quanto ente.

3. MOTIVI CONDUTTORI E SCOPO PECULIARE DEL LIBRO LAMBDA A riprova della coesione e compiutezza del libro, intendo ora indicare – senza esaustività, ma come esempio – alcuni elementi di continuità che lo attraversano. In questo modo avrò indicato fin d’ora alcune linee fondamentali per l’interpretazione del libro62. 62 Di alcuni aspetti si dirà maggiormente in altra sede. In particolare, una chiave di lettura possibile del testo greco, così come ci è tramandato, è il riferimento a un tipo caratteristico di ontologia, che può essere chiamato “epistemico” per la sua natura metalinguistica, e specialmente di riflessione sul linguaggio della scienza: ciò dovrà essere oggetto di un saggio a parte, cfr. supra, n. 2.

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Non tutte le caratteristiche qui evidenziate si intendono come esclusive o peculiarmente caratteristiche del libro Lambda. Ma spiccano in Lambda in modo specialmente marcato, a fronte di un orizzonte di riferimento composito, fatto di ricerche accademiche ancora dibattute e di un corpus già fruibile di ricerche aristoteliche.

3.1. Il primato teorico della sostanza (oujsiva) Il primo motivo conduttore, in ordine di comparsa, è il primato teoretico della sostanza. Sostanza è l’oggetto primario di conoscenza, in riferimento al quale si intendono e si dicono gli altri enti, in funzione di predicati (kathgorouvmena, secondo la dicitura di Zeta) di diversa natura. Si deve osservare che qui sostanza è non solo e non tanto la prima delle categorie, come sovente in Zeta (specie nelle parti sembrano essere tenute presenti nella redazione di Lambda), ma è soggetto delle categorie e cioè di ogni genere di predicazione, cosicché l’uso del verbo “essere” in relazione alla sostanza è diverso da quello che si applica a tutte le altre forme dell’ente. Quelle, sono legate alla sostanza dal verbo essere usato in funzione di copula; invece, la sostanza è ente in senso assoluto, separabile e cioè concepibile al di fuori della relazione predicativa con altro da sé: questo è un tema che compare nelle primissime righe del libro (1069a2124). Come si vede, è posta al centro una distinzione che è d’ordine logico e quasi d’ordine grammaticale, ante litteram (cfr. infra, §§ 4.1 e 4.2). Essa, in Lambda come in Zeta e in Eta, si appoggia sulla dottrina delle categorie, decisivo contributo aristotelico alla storia dell’ontologia63. Un tale primato si situa, per così dire, trasversalmente, abbracciando l’eredità delle diverse concezioni storicamente e lo63 Su questo tema cfr. anche M. ZANATTA, Aristotele, Metafisica, cit. (cfr. supra, n. 3), pp. 1612-15.

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gicamente attestate, sia della sostanza, sia dei principi della sostanza, sia della relazione fra sostanze e principi: proprio nella loro polifonia, tali diverse concezioni possono positivamente contribuire ad attestare la naturale focalizzazione sulla sostanza delle ricerche sui principi, come chiaramente indica, appunto, l’esordio del libro (cap. 1). Aristotele implicitamente concorda con la maggior parte dei predecessori nel considerare che i principi delle sostanze siano essi stessi sostanze in grado maggiore (e critica per contrasto effetti la posizione di Speusippo e dei Pitagorici a questo riguardo in Lambda 7.1072b30-1073a3). Questo primato ontologico del principio primo come sostanza prima costituisce il nucleo della dimostrazione analitica dei suoi attributi nel capitolo 7.1072a26-1072b30. Nondimeno, la differenza fra le concezioni della sostanza non è trascurata né passata sotto silenzio, bensì a più riprese Aristotele chiama in causa i Presocratici evidenziando punti di forza del loro modo così caratteristico di condurre la ricerca sui principi, a differenza e a monte del metodo invalso fra i Platonici, centrato sulla definizione (1.1069a28; è il metodo presentato altrove come un’evoluzione di quello socratico, cfr. A 1.987b1-10, M 4.1078b17-2364). Valorizzare il metodo dei Presocratici quanto al modo della ricerca sui principi delle sostanze, è intento esplicito di Aristotele in 1.1069a25-30. Può non essere interamente chiaro, tuttavia, in che modo vada intesa questa rivalutazione di quello che possiamo chiamare il loro stile teorico. Indubbiamente, la situazione è più complessa di quanto si potrebbe desumere dalla valida, ma semplicata parafrasi di Ross (II, p. 348, ad loc.), secondo la quale, «modern thinkers owing to their abstract 64

Proprio per questo mi è parso opportuno sottoporre quei passi, pur così noti, a una disamina separata, nella prospettiva stessa qui perseguita: cfr. La figura di Socrate in Aristotele, Metafisica Alpha e My, in Socratica III, ed. F. DE LUISE and A. STAVRU, Academia Verlag, St. Augustin 2013, (“International Socrates Studies”, Bd. 1), pp. 329-41.

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method make universals substances, but the ancients identified substance with some particular body such as fire». Per più ragioni, invero, non è chiaro in che modo fuoco e terra possano costituire la controparte e la diretta alternativa rispetto agli universali, quanto all’essere sostanze: ciò non è chiaro, innanzitutto perché Aristotele a più riprese attesta un generale consensus quanto al considerare fuoco e terra sostanze – il che non è dunque in questione – sia perché non è chiaro il loro essere enti individuali (Ross traduce “some particular body”). Si tratta, piuttosto, di contrapporre fuoco e terra, in quanto sono principi elementari delle singole cose (1069a29, cfr. Comm. ad 1069a26-30), a “corpo” 1069a30, che di fuoco e terra costituisce il genere comune, ed è pertanto elemento della loro definizione. Si cerca, così, quale ordine di enti sia “maggiormente sostanza” e perché: e la risposta non può che puntare ai principi delle sostanze, sostanze essi stessi secondo un implicito criterio di eminenza: la discussione in corso in 1069a26-30 sviluppa dunque direttamente la dichiarazione programmatica iniziale quanto allo scopo principale e dichiarato del libro (1069a18s.).

3.2. L’analisi dell’“essere” secondo la sostanza e secondo i suoi predicati categoriali Non vanno d’altronde tralasciate le implicazioni sistematiche di una tale focalizzazione sulla sostanza che Lambda pone al centro della propria compagine teoretica. Quel modo di “essere” che è proprio e distintivo della sostanza, Aristotele lo contestualizza e distingue dal modo di “essere” proprio dei predicati categoriali, qualitativi e quantitativi65: i quali, senza 65

La necessità di approfondire a questo riguardo l’analisi di Ross è segnalata già da Frede, ad loc. (pp. 67-9), su motivazioni convergenti anche se leggermente diverse. La mia proposta si distingue però in quanto comporta l’abolizione delle parentesi che secludono in Ross e

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essere “enti” in assoluto, pure anch’essi sono detti “essere” in altro modo, cioè in relazione ad altro. Si veda 1.1069a21-4 e Comm. ad loc.: se l’analisi ivi condotta è corretta, l’equivocità dell’“essere”, risolvendosi nella differenza fra le funzioni logiche essenziali al discorso, risulta radicata nella struttura logica stessa del giudizio apofantico. Altrove, Aristotele detta le regole di una tale struttura: essa è soggetta pertanto agli assiomi ovvero postulati generali teorizzati nel libro Gamma. In specie, se “mobile” ovvero “mutevole”, come dirà il capitolo Lambda 2, è la sostanza che muta nei suoi predicati, “immobile” è quella che non muta quanto ad alcuno dei predicati. In questo dunque essa è maggiormente oujsiva: perché è ciò che è sempre, e invariabilmente. In questa prospettiva, ch’io veda, nulla impedisce di leggere anche la parte cosiddetta teologica di Lambda in termini di analisi del linguaggio: è sui predicati della sostanza non sensibile che lavora Aristotele nel cap. 7, dopo avere dimostrato che c’è una sostanza eterna, immutabile (ajkivnhto") e non sensibile, una sostanza dunque che è ciò che è sempre e universalmente, senza mutare quanto ad alcuno dei suoi predicati: di seguito, egli ricava analiticamente i predicati stessi per partizione polare e primato assiologico. Il primato assiologico converge con ogni altro ordine di primato, incluso il primato logico, come è dichiarato all’inizio della dimostrazione (1072a35s.). È perfettamente probabile che una simile scienza dell’eterno e non sensibile ricada sotto la scienza dell’ente in quanto ente, perché i differenti predicati sono ricavati secondo uno schema di tipo categoriale, sotto il primato della sostanza (cfr. supra, § 2.5). All’aporia di E 1.1026a23-32, Lambda risponde, in modo non semplicistico. Jaeger la frase in 1069a27s., e il conseguente recupero del riferimento ai principi, secondo quanto qui indicato: è in quanto principi che fuoco e terra – quali i Presocratici li concepiscono – possono considerarsi sostanze a maggior diritto. Peraltro, una diversa interpretazione del passo in esame, quale ora si è delinata, può dare ragione anche di una varia lectio solitamente trascurata, come ricorderemo infra, ad 1069a29.

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Quanto infatti alla sostanza sensibile, non si vede contraddizione fra l’assegnarla alla fisica, e porne i principi sotto la giurisdizione della filosofia prima (Z 11.1037a10-20, con ad loc. Frede-Patzig, Aristoteles Metaphysik Z, cit., II, p. 216s.). Nella stessa, articolata prospettiva, la sostanza immutabile è postulata e reperita secondo le categorie della fisica, come causa di un movimento fisico, quello del corpo incorruttibile, esso stesso divino (cfr. E 1.1026a17s.); ed essa trova definizione come oggetto di una scienza separata dalla fisica, le cui regole costitutive sono pertinenza della filosofia prima.

3.3. Ruolo di intermediario del secondo ordine di sostanza Centrale, secondo l’interpretazione qui proposta, è il ruolo della sostanza sensibile eterna ed eternamente mossa, che muove, regola e riordina le sostanze soggette a generazione e corruzione. Essa fa da tramite e intermediario, perché il motore immobile non agisce direttamente sul sublunare, bensì quello, “tramite il (primo) mosso, muove le altre cose” (1072b4). Una tale sostanza “muove” infatti le sostanze corruttibili perché ne regola il divenire. Di questa, secondo il testo dei codici, “bisognerà determinare gli elementi se siano uno o molti”. È un’indicazione programmatica da non sottovalutare, sebbene sia assente nel testo di Ross e Jaeger (a causa dell’emendamento che essi praticano in 1069a32). La risposta, quanto agli elementi, è almeno in parte delineata in Lambda 2 con la teoria della materia celeste, una materia diversa, che non è soggetta all'azione dei contrari; di questa, Aristotele stesso sembrerà ricordarsi in Lambda 10: gli altri pensatori sbagliano nel far derivare tutto dagli stessi principi elementari; così infatti non si capisce, perché alcuni enti siano corruttibili, altri no66 . Una tale teoria risponde infatti a una difficoltà siffatta. 66

Cfr. S. FAZZO, Heavenly Matter, cit.

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Quanto al moto circolare, caratteristico della sostanza sensibile eterna, la spiegazione si prospetta come un sistema bi-composto. Ci devono essere sia una componente motrice (kinhtiko;n h] poihtikovn, 1071b12), sia una componente mossa, cioè un principio elementare capace di mutare (secondo la traduzione qui proposta della locuzione dunamevnh [...] ajrch; metabavllein, “un principio capace di mutare” 1071b15ss.67). Sembra cioè trattarsi di un sostrato, che in quanto tale starà dentro (ejnevstai, ibid.) la sostanza stessa. Esiste, così, una vera e propria teoria, in Lambda, relativa alla struttura e al ruolo funzionale della sostanza eterna ma sensibile, che ha una sua organicità e centralità; si trova sviluppata nell’arco del libro, e specialmente occupa buona parte del capitolo 6 secondo la lettura presente. Nel complesso, pertanto, la lettura qui proposta dei passi ora citati di Lambda 1, 2 e 6 (oltre che 8 e 10) è fortemente solidale: tali passi concorrono a delineare diversi aspetti di una tale teoria generale della sostanza eterna sensibile che non sempre emerge nelle esegesi sistematiche di questo libro.

3.4. L’intelletto come “il più divino dei fenomeni”e la sua attività come atto eccellente Aristotele insiste, altrove (notoriamente in De an. G 5) e in Lambda, sul primato dell’intelletto come principio. In Lambda, esso è vivo dell’esistenza migliore, quale la nostra può essere per brevi momenti (L 7.1072b15, 25). È importante notare in questo la natura non solo extramondana di ciò che Aristotele considera divino. L’intelletto in atto è talora nostro, anche se non è solo nostro: anzi, l’attività intellettuale pura, eterna, priva di potenza, è prerogativa di ciò che Aristotele chiama “dio”. Ciò si stabilisce 67

EAD., Fra atto e potenza, cit.

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per via analitica, in virtù dell’eccellenza che caratterizza il divino in tutte le sue forme e manifestazioni: il divino infatti, in Aristotele è primariamente un concetto assiologico. Questo significa che poiché il pensiero è atto eccellente, proprio per questo conviene al divino più di ogni altro atto esperibile: per usare le parole di Aristotele, il pensiero sembra infatti “il più divino dei fenomeni” (L 9.1074b16). Per questo stesso motivo, a riprova, il pensiero è ciò che ci avvicina e ci assimila al divino. Senza dubbio, anzi, è concepito per analogia e similitudine con l’esperienza umana, quale essa si trova ad essere in condizioni di eccellenza. Dio dunque pensa. Per poco tempo, anche l’uomo pensa, con quello stesso pensiero speculativo, del quale talora è capace, e che costituisce il divino in noi, veicolo non solo di conoscenza teoretica, ma di conoscenza di sé (un tema non secondario, che meriterà qualche attenzione anche qui oltre). Ciò che distingue il modo di esistenza divino, che è l’eterno pensiero di pensiero, dal nostro intelletto, oltre a una gradazione di intensità (7.1072b25), è l’essere esente dalla temporalità (7.1072b15, 25, e ancora 9.1075a7s.). Il tema dell’intelletto come principio attivo separabile o separato dalla materia compare nel capitolo 2 (1069b31, in occasione di una nota dossografica su Anassagora) e ricompare nei capitoli 3, 5, 6, prima di essere tematizzato nei capitoli 7 e 9. Ciò su cui Aristotele insiste specialmente è il suo identificarsi con l’intelligibile nell’atto del pensiero, dunque la sua identità con l’intelligibile – e conseguentemente, il suo pensare se stesso nel pensare l’intelligibile. Un fenomeno, indubbiamente, di autoriflessività, come potremmo dire. Questo, da una parte costituisce un’interessante dottrina noetica, e una spiegazione del dio-in-noi nella forma affascinante di una riconciliazione fra una dottrina sinora tutta speculativa e il precetto delfico del “pensare se stesso”; d’altra parte ha, verosimilmente, implicazioni importanti quanto allo statuto mondano, al modo di esistenza del principio immobile.

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Se ne evince infatti che un tale principio, almeno in quanto è oggetto di pensiero e di identificazione da parte dell’intelletto, esiste nell’intelletto stesso, e appartiene dunque a quell’unico ordine di realtà del quale è principio motore l’attività eterna del pensiero (atto unico, sia dell’intelletto, sia dell’intelligibile). Il principio intelligibile è dunque parte del tutto. Altrimenti il tutto non sarebbe intero. Questo sarà un elemento significativo per l’interpretazione del capitolo 10.

3.5. Unità del tutto come coordinamento fra le parti e come unità dei principi: un’esigenza ontologica dominante Nel capitolo 10, in effetti, trovano senso e compimento comune questi diversi elementi conduttori, di modo che si può forse usare questo capitolo come ricapitolazione di una serie di priorità perseguite nel trattato. Si vede allora che il senso forte della dottrina sin qui esposta non si esaurisce in nessuna delle sue componenti singole. Non può esaurirsi nella dimostrazione dell’esistenza di un principio di movimento immobile: questo, si è visto, è un postulato del pensiero, stabilito per regressus, sul quale Aristotele fa leva su tutto l’arco del corpus, da Alpha elatton (cap. 2) al cosiddetto De motu animalium 68. Invero il senso di Lambda non si riduce nemmeno nell’aver posto e definito una sostanza non mobile e non sensibile. Questa dimostrazione, indubbiamente, è centrale, e non solo nel libro, visto che porta a compimento una pluralità coerente e complementare di percorsi di ricerca perseguiti altrove nel corpus; essa è importante a maggior ragione, considerando che la maggior parte dei filosofi del tempo di Aristotele ammet68

Cfr. S. FAZZO, Sur la composition, cit. Quanto a Lambda, il fatto stesso che il capitolo conclusivo Lambda 10 (letto secondo la prospettiva indicata infra, § 4.10), a quanto appare, non menzioni affatto questo tema, potrebbe dissuadere dal ritenere che esso sia il punto principale per questo trattato.

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tevano una tale sostanza; lo stesso Aristotele ne fa cenno altrove, dove non ne dà dimostrazione, e questo conferma che la nozione ovvero concetto di una sostanza non sensibile preesiste alla sua dimostrazione. Il progresso importante, a questo riguardo, sta innanzitutto, in effetti, nell’averne data dimostrazione. In più Aristotele innesta su questi argomenti la teoria del primato ontologico della sostanza – e tramite questa, l’intera teoria dell’equivocità dell’ente, in continuità con i relativi libri ove queste teorie si svolgono nella Metafisica. Il vantaggio competitivo di una teoria così complessa si misura sulla connessione, che in essa si realizza, dei diversi modi di esistenza, delle diverse sostanze, in un unico ordine di realtà compatto e coeso. Questo fondamentale principio di unitarietà è affermato con insistenza: è ripetuto (cosa rara), in crescendo, quasi con le stesse parole due volte in Lambda 10: “tutte le cose (pavnta, 1075a16) appartengono ad un ordine unico”, “tutte quante le cose (a{ p anta, 1075a19) sono coordinate in vista di qualcosa di unico”. Alla luce di questo, si accresce retroattivamente il rilievo delle reiterate indicazioni a favore di un’interrelazione e di un coordinamento fra le diverse sostanze ovvero modalità dell’essere. Controparte dialettica è l’assenza di coerenza nell’universo episodico di Speusippo e di chi come lui dissocia le diverse relazioni fra gli enti e i rispettivi principi, come la chiusura apertamente dichiara. Non a caso, a questo nodo tematico dell’unità del tutto, si allaccia quello della sua bontà, che chiaramente ha un ruolo culminante nel capitolo finale del libro, e nella relazione dialettica di superamento nei confronti delle dottrine accademiche.

3.6. Una visione coesa sulle tre sostanze come scopo del libro Possiamo tentare così di individuare e definire la specificità di questo libro, sia in sé, sia rispetto ad altri libri del corpus. Ciò

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che in Lambda, rispetto a qualunque altro suo testo, Aristotele conquista, è una sintesi potente, irripetibile, in qualche modo irrinunciabile, se la si considera nei suoi termini originari: una visione coesa dello scibile, che si costituisce come un universo unico, gerarchicamente strutturato secondo una relazione causale fra i diversi ordini di sostanza, contestualmente conoscibile, sia nella sua integralità, sia in ogni sua parte, ciascuna iuxta propria principia. La globalità di questa visione si articola infatti in ambiti di conoscenza distinti. Ciò si preannuncia già dall’introduzione (cap. 1)69, e in particolare dalla frase in 1069a36-b2: Le sostanze sensibili appartengono alla scienza della natura: hanno infatti movimento. Questa invece (non sensibile, immobile) appartiene a una scienza diversa, se non vi è fra questi enti alcun principio comune. A partire da Jaeger, alcuni interpreti si discostano dalla lettura più ovvia e immediata del passo in esame, e ritengono, diversamente dagli esegeti tradizionali, che qui Aristotele abbia lasciata aperta la questione, se sostanze sensibili e sostanza non sensibile richiedano o no ordini di considerazione diversi70. Questa è divenuta dunque una vexata quaestio. Ci si può appoggiare, per mostrarne l’incerta soluzione, alla congiunzione eij, “se”, che introduce la frase subordinata eij mhdemiva aujtoi'" ajrch; koinhv (1069b1ss.). Tradotta nelle lingue moderne, la frase può ingenerare l’impressione che Aristotele qui dichiari un dubbio da approfondire. Si discute allora se il “se” introduca davvero una frase ipotetica, o una causale sotto forma di ipotetica (“se” nel senso di “visto che”). 69

Sul modo in cui la relazione Lambda 1-2 riecheggia infatti in Lambda 10, si veda infatti S. FAZZO, Heavenly Matter, cit. 70 Cfr. W. JAEGER, Studien, cit., p. 122, e infra, Comm. ad 1069b1s., ove si troveranno discusse anche esegesi più recenti, in qualche modo ispirate al dubbio ivi introdotto da Jaeger.

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Qui di seguito, come già nelle note ad loc., porterò elementi a sostegno di quella che era la lettura prevalente di questa frase,e cioè di una lettura cautamente causale della posizione assunta qui da Aristotele71. Comunque, almeno questo è chiaro: che ogni oujsiva sarà conoscibile secondo il modo di conoscenza che le è appropriato (unificato o diverso che esso sia), almeno, è un guadagno competitivo del libro Lambda rispetto a qualunque altro libro aristotelico (o prearistotelico). Incontestabilmente chiaro è anche questo: che quel sapere sulla sostanza non sensibile (un sapere probabilmente diverso da quello fisico, come allora argomenteremo – conformemente alla suddetta lettura del “se”/eij – in funzione della diversa natura dell’oggetto) è, in qualche modo, attingibile ed è, segnatamente, attingibile nell’ambito del libro Lambda stesso. Infatti l’inizio del capitolo 6 riprende programmaticamente proprio questa conclusione del capitolo 1, esordendo come un nuovo discorso ricollegato al proemio precedente. Dice (L 6.1071b3-5): E poiché le sostanze erano tre [e qui appunto “erano” si riferisce a 1.1069a30], e due erano quelle naturali, una quella immobile, riguardo a quest’ultima bisogna parlare, e dire che è necessario che esista una sostanza immobile. Poi, di seguito, passa a svolgere quegli argomenti che dimostreranno la necessità di una sostanza come primo motore immobile. 71

Né c’è, invero, alcunché di libero e non letterale in una tale interpretazione della congiunzione eij, specie quando essa è in presenza di una negazione e posposta alla proposizione principale. Sull’uso causale di eij cfr. L.-S.-J., 481, s.v., VI: “in citing a fact as a ground of argument or appeal as surely as, since”, con riferimento esemplificativo, fra altri, a Il. VIII 180, HEROD. V 97, I 60. Ciò che è interessante è il valore quasi formale, logico più che non fattuale. Si tratta infatti della relazione fra parti del ragionamento: il valore della conseguenza dipende da quello della premessa, che può essere affermata anche solo come ipotesi.

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Come dice Epsilon (1.1025b16-18), pertiene a una stessa scienza indagare che cosa sia l’oggetto e stabilire se c’è. Il libro Lambda è un’eminente illustrazione di questo principio: quella stessa argomentazione che dimostra la necessità di una sostanza immobile, dimostra anche le caratteristiche proprie di una tale sostanza, nella misura e nei modi – beninteso – in cui questo è possibile ad un ragionamento discorsivo, ragionativo, apofanticamente costruito secondo i modi di pensabilità e predicabilità dell’ente. Così, includendo dunque anche un discorso sulla sostanza immobile e non sensibile, la cui necessità è provata a partire dalle evidenze (logiche e fenomeniche) concernenti la sostanza eterna sensibile, il disegno teorico di Lambda viene a ricoprire quell’ontologia tripartita tracciata positivamente nella parte finale dell’introduzione72.

3.6.1. Metabasis eis allo genos nel libro Lambda? La risposta di Alessandro (200 AD ca.) È in questi termini, che ci si potrebbe allora chiedere se Aristotele trasgredisca quel famoso divieto metodologico del passaggio da un genere all’altro ai fini della dimostrazione, quale è stabilito in An. Post. A 7.75a38 (oujk a[ra e[stin ejx a[ l lou gev n ou" metabav n ta dei' x ai, oi| o n to; gewmetriko; n ajriqmhtikh/'). Invero, a questa domanda ha inteso rispondere già Alessandro di Afrodisia (Quaestio I 1, 4.4-7 Bruns; De principiis § 2 Genequand). Egli infatti osserva che non c’è infrazione, perché non c’è dimostrazione. Le caratteristiche del principio primo sono ricavate analiticamente, ma non sono dimostrate. 72

Cfr. supra, § 2.1. Quella tripartizione delle sostanze, a sua volta, sembra costituire la versione riveduta dell’ontologia tripartita criticamente attribuita agli Accademici all’inizio del libro Zeta, cap. 2; per un esame più dettagliato di intersezioni e parallelismi fra Lambda e Zeta, cfr. Comm. al cap. 1.

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La dimostrazione, infatti, si attua a partire da premesse anteriori; ma del primo principio, non c’è nulla di anteriore e non c’è ulteriore principio. Questo si accorda con quanto osserva Enrico Berti nel suo commento ad L 6.1071b4ss.: ivi Aristotele avvia l’argomento decisivo, in forma di modus tollens, non apodittico, non cioè strettamente dimostrativo. Dal punto di vista sistematico, tenuta e coerenza logica sono salve.

3.6.2. Un sistema relazionale Invero, Lambda non solo percorre tutti i concepibili ordini di sostanze (ripetutamente annoverati come tre, in 1.1069a30 e 6.1071b3), e non solo si dedica a ciascun ordine separatamente; ma soprattutto, il libro lavora a strutturarne il ruolo in ragione della loro reciproca relazione, come appunto faremo emergere dalle analisi seguenti. Lo si vede anche nella conclusione: sia nell’interrogativo ora menzionato, quello posto all’inizio del capitolo finale (1075a11-13), sia nella critica all’universo episodico di Speusippo (1075b37-1076a3), che significativamente chiude il libro e dà estro alla citazione di Omero (1076a4), ciascun ordine di sostanza è preso in esame non tanto in sé, quanto in funzione di questa relazione, che consente di comprendere le sostanze corruttibili e quelle eterne, sensibili e non, in una considerazione sinottica e coordinata. La considerazione di ciascuna sostanza è strettamente funzionale a questa sinossi complessiva, nella quale si compie lo scopo primario del trattato. Con tutto questo, indubbiamente, si potrebbe ancora dire che Lambda ha primariamente lo scopo di dimostrare che esiste una sostanza non sensibile; ma questo va di pari passo, inscindibilmente, con una sua messa in relazione con le sostanze sensibili. Di tali sostanze, si può dire anzi che essa è, dal punto di vista concettuale, condicio sine qua non. Ne è, cioè, il termine di riferimento, in senso prima ancora logico e concettuale che fisico: non si può infatti nemmeno pensare il movimento senza

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riferimento all’immobilità, nè concepire il mutamento senza riferimento alla permanenza. Per questa sua natura logica, il percorso di Lambda corrisponde all’articolazione progettuale di una scienza totale del mondo sensibile e non sensibile, che copre dunque l’intero scibile, in quanto tale.

3.6.3. Al di là della metaphysica specialis: una presa sinottica sulla globalità dello scibile Giungiamo così all’esito forse più interessante dell’indagine presente: il lavoro su Lambda dà occasione di definire in modo più netto che in qualsiasi libro aristotelico la relazione di effettiva dipendenza fra la ricerca di una scienza prima e la definizione del suo oggetto nei termini più alti, che vuol dire, più astratti: qui in effetti trovano ragione di intersecarsi – e si potrebbe dire metaforicamente: intersecarsi al vertice – le due concezioni della filosofia prima notoriamente attive nella Metafisica: come metaphysica generalis e come metaphysica specialis. Nondimeno, ciò che poi fu chiamato metaphysica generalis ha il ruolo prioritario: senza l’affermazione del primato della sostanza sugli altri modi dell’ente, le considerazioni sulla natura eterna del movimento non giustificherebbero l’eternità della sostanza che si muove di movimento eterno (cfr. anche infra, ad 1069a22); così, il postulato di una causa prima non causata per ogni serie di cause resterebbe confinato al livello dell’analisi concettuale, distribuita indistintamente sui diversi generi di causa, come lo è nel secondo capitolo del libro Alpha elatton. È in Lambda in effetti che si realizzano le condizioni teoriche per applicare integralmente gli esiti della riflessione ontologica caratteristica dei “libri centrali” della Metafisica al mondo fisico e alla ricerca dei suoi principi, fisici e non. Ciò consente di superare la natura eminentemente funzionale delle singole analisi concettuali che di volta in volta Aristotele mette

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in atto nella Fisica (in specie nelle ricerche del libro Q sul principio primo del movimento) e al tempo stesso sposta Lambda da qualsiasi universo contingente di semantica naturale, per farne una struttura riassuntiva delle teorie formulate in precedenza, in sé in qualche modo compiuta, e per tanto in qualche modo assoluta, che pure resta aperta in quanto universalizzabile nelle sue plurali potenzialità di senso (come dimostra la storia esegetica del libro). Il metodo di Lambda si può dunque dire “ontologico”, intendendo “ontologia” nel senso più letterale, come la scienza che sa occuparsi dell’entein-quanto-ente. Una tale scienza è tematizzata, specialmente negli esordi di alcuni libri della Metafisica, quali Gamma, Epsilon, Zeta, Eta, Theta. È primariamente nel contesto di quei libri, dunque, che si devono cercare le generali condizioni di possibilità del metodo tenuto da Aristotele in questo libro e dell’analisi che vi è praticata del linguaggio della filosofia prima, con specifico riferimento ai sensi del verbo “essere” (cfr. in part. cap. L 1.1069a18-24, L 2.1069b15-20, L 4.1070a33-35), e del suo contrario, “non-essere” (L 3.1070a26-29)73.

4. TRAMA DELL’ARGOMENTO DEL LIBRO LAMBDA, PER CAPITOLI È qui d’obbligo una premessa generale sulla suddivisione in capitoli, che suole essere conservata per la sua utilità, anche se non è propriamente aristotelica: è stata introdotta nel XVI secolo, con titoletti per ogni capitolo, sulla base del testo greco mandato alle stampe nel 1531 da Erasmo da Rotterdam; compare cioè, più precisamente, a partire dalla terza edizione di Basilea (1550), ed è conservata nell’edizione Bekker (che resta 73

Assumo pertanto qui l’etichetta di “ontologia” anche in un’accezione metalinguistica, come riflessione radicale sugli usi del verbo “essere” nel linguaggio della filosofia prima. Le conseguenti differenze rispetto ad altre accezioni andranno esplorate in altre sedi, cfr. supra, n. 2.

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di riferimento corrente e comune anche per la numerazione di pagine, colonne, righe). In buona parte dei casi, d’altronde, essa segue indicazioni aristoteliche piuttosto evidenti nel testo. Aristotele stesso ha scandito come inizio di un nuovo argomento almeno l’esordio dei capitoli 3, 4, 6, 8, 9, 10. Pochi sono gli scarti di rilievo fra la scansione tradizionale in capitoli e le grandi unità argomentative che si succedono nel libro; solo talora accade infatti che due argomenti si incatenino senza vera soluzione di continuità, e la posizione del passaggio dall’uno all’altro risulti meno ovvia. Essa, infatti, almeno fra i capitoli 6 e 7, non appare ben collocata: l’argomento per l’eternità del movimento circolare che occupa Lambda 6 si conclude dopo alcune righe dall’inizio di Lambda 7, in 1072a23, mettendo capo all’eternità del primo cielo, e solo lì, a mio avviso, comincia l’ulteriore argomento, sul motore immobile. Un’altra cesura rivedibile è quella che si situa fra i capitoli 1 e 2. Infatti, l’argomento guadagna in chiarezza se viene compreso, come qui argomentiamo, leggendo in continuità i due capitoli (cfr. infra, Comm. ad 1069b1s.). Tuttavia, se cesura ci dev’essere, la più marcata si situa piuttosto in 1069b3, non in 1069b7, ove la pone Bekker, che segue l’edizione di Basilea, seguito a sua volta da molti successivi editori. Bekker stesso, d’altronde, pone un “a capo” fra 1069b2 (fine dell’introduzione) e 1069b3 (inizio del nuovo argomento), e non in 1069b7, mostrandosi pienamente consapevole del problema. A ragione, credo, Reale (cfr. supra, n. 3) ha anticipato l’inizio del capitolo 2 in 1069b3. Anche nella presente edizione commentata, in effetti, abbiamo anticipato senz’altro l’inizio del nuovo capitolo in 1069b3. D’altra parte, alcuni capitoli possono essere utilmente suddivisi anche al loro interno. Questo è ciò che si è fatto qui, in sede di sommario introduttivo, per i capitoli 1, 6, 7, 8, 10, distinguendo per esempio nel capitolo 1 la parte sul primato della sostanza, ad 1069a25, dal problema gnoseologico della sostanza e dei suoi principi, visto secondo la partizione delle sostanze e delle rispettive attribuzioni disciplinari. D’altra parte,

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alcuni capitoli vanno, per l’intendimento del senso complessivo, accorpati fra loro, come i capitoli 4 e 5, connessi da un comune prologo (4.1070a31-31) e da un comune epilogo (5.1071b1s.) e così anche 6 e 7 (6.1071b3-5, 7.1073a3-5, cfr. anche 7.1073a13). Indubbiamente, si sarebbero potuti suggerire accorpamenti ulteriori. Soprattutto, si sarebbe potuto suddividere di più, dividendo al loro interno anche altri capitoli. Nondimeno, lo si è fatto solo nei pochi casi suddetti, quando ciò sembrava agevolare sensibilmente la comprensione delle diverse fasi dell’argomento, senza per questo interromperne la continuità. In generale, infatti, un inconveniente da evitare è che la divisione e l’organizzazione per capitoli offuschino le connessioni fra l’uno e l’altro brano, specie quando queste connessioni sono marcate e deliberate: il nostro autore ci ha sì aiutato a distinguere le diverse materie e discipline fra loro, e a scandire all’interno di ciascuna i diversi argomenti; egli tuttavia, non meno di questo (semmai anche di più) ha curato le connessioni, al punto che si potrebbe dire che è in funzione delle connessioni che ha curato anche le divisioni: infatti non poteva collegare fra loro i diversi argomenti in modo efficace se non chiariva lo status e l’estensione di ciascuno74. In effetti, l’estetica letteraria di Aristotele, da lui teorizzata anche nella Poetica come valore comunemente condiviso nel mondo greco, è olistica, puntata sull’insieme, mirata a una connessione quanto possibile energica e sinergica fra le parti dell’insieme. Questa si persegue anche nel progetto scientifico, a livello cognitivo. È significativo al riguardo, che il paradigma negativo sia quello, eminentemente letterario, di un universo “episodico” (1076a1): non è descritto come un cattivo universo nel quale le cose sono organizzate male, ma è un universo raccontato male, descritto cioè senza che le diverse

74 S. FAZZO, Exordes, raccords, “titres”, cit., sulla questione degli esordi, dei “titoli” e dei raccordi in Aristotele; cfr. anche EAD., Esordi e trattati, cit.

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parti siano pensate in reciproca relazione. Non è dunque un caso che le considerazioni che concludono un argomento possano preparare, sia semanticamente, sia lessicalmente, quelle che apriranno l’argomento successivo, anche là dove la cesura fra capitoli ovvero unità argomentative è piuttosto marcata: così per esempio avviene fra la fine di Lambda 1 e l’inizio di Lambda 2, fra la fine di Lambda 9 e l’inizio di Lambda 10. Questo ci dice qualcosa su come Aristotele aveva concepito e contestualizzato ciascuno di quegli argomenti. Lo stesso vale per i non pochi nessi con trattazioni svolte altrove nella Metafisica o negli altri trattati del corpus, che non di rado Lambda presenta, e che sarebbe utile mettere in evidenza, probabilmente anche in altri casi oltre a quelli che saranno evidenziati in sede di commento: i loci paralleli qui indicati costituiscono una trama già relativamente fitta, ma certo non esaustiva. Quanto peraltro al capitolo 7, vi si trovano indicazioni così importanti per la valutazione del senso generale del libro, che di alcuni è stato naturale trattare già in sede introduttiva, o separatamente (§ 1 sulla sua lettura teologica, §§ 1.3 e 1.4 sulla concezione del divino, § 2.5 sulla dimostrazione dell’immutabile immobilità del motore, § 3.4 sulla teoria del pensiero di sé). In questo § 4.7, l’esposizione si concentrerà specialmente sulla continuità fra i capitoli 7 e 8, che pure è tema importante e controverso; dettagli puntuali verranno poi ripresi in sede di commento.

4.1. Il capitolo 1 I confini precisi del capitolo 1 non sono interamente chiari, come si è detto; la tradizione editoriale include nel cap. 1 anche linee che ad sensum si leggerebbero meglio con il cap. 2; tuttavia, ho seguito la tendenza contemporanea a far cominciare il cap. 2 in 1069b3.

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La prima parte del capitolo è tipicamente proemiale, cominciando con affermazioni di carattere molto generale. Si apre affermando il primato – gnoseologico e ontologico allo stesso tempo – della sostanza (oujsiva). La frase, in 1069a18, con gli argomenti addotti a riprova, richiede attenta riflessione, specie a fronte di una tradizione interpretativa che pare estrapolarla dal contesto più ampio75. Il contesto ideale è comune a Metafisica Alpha, Beta, Gamma, Epsilon, e soprattutto a Zeta, Eta, Theta. In particolare, nel corso del capitolo 1, Aristotele risulta muoversi sulla falsariga dei due primi capitoli di Zeta76.

75 Sull’interpretazione di questa frase, diversa in esegeti diversi, cfr. infra, ad loc. Già in altre sedi (L’esordio del libro Lambda, cit., La prima frase, cit.), ho inteso fare di questa frase l’oggetto di una considerazione analitica. Al tempo, essa ha potuto essere banco di prova di “archeologica”, che già altrove (a partire da L’exégèse d’Aristote, cit.) ho inteso praticare e promuovere. Difficilmente infatti in sede esegetica si può aspirare ad attingere qualcosa di originario senza considerare da ciò che un enunciato, talora così semplice, ha potuto rappresentare nella storia esegetica del libro. Una tale considerazione consente precisamente quella presa di distanza che l’aspirazione all’originario richiede e comporta. In non pochi casi, come qui, si assiste nel corso del tempo, al tempo stesso a una banalizzazione, cioè a un impoverimento della portata originaria di enunciati che possono apparire ovvi ma che tali non potevano essere vivente Aristotele; e a un arricchimento di valenze e di implicazioni di altri enunciati, secondo la funzione culturale dal testo, che nel tempo si evolve e continuamente si ridetermina nella storia. Ciò vale specialmente per un testo come Lambda, a più riprese sottodeterminato nell’espressione, che nella sua estrema generalità sovente aperta la rideterminazione dei contenuti. Continuamente si presta alla rideterminazione dei contenuti. 76 Come indicato in S. FAZZO, L’esordio del libro Lambda, cit., si ravvisano fra Lambda 1 e Zeta 1-2 i seguenti paralleli: L 1.1069a18, cfr. Z 1.1028b6-7, 1028a13-15: si afferma il primato teorico della sostanza; L 1.1069a18-19, cfr. Z 1.1028b2-6: il primato teorico della sostanza si conferma con un’argomentazione (per e[ndoxon) di contenuto storicofilosofico; L 1.1069a19-21, cfr. Z 1.1028a31-35: il primato della sostanza sulle categorie si afferma secondo i diversi punti di vista logicamente

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La prima frase stessa, riprende il discorso, per così dire, là dove l’aveva lasciato l’introduzione del libro Zeta (capp. 1-2), prima di svilupparlo in direzione inedita. In Zeta Aristotele, avendo reperito la sostanza come senso primario dell’ente, valorizza questo suo reperto in relazione alla centralità della ricerca sull’ente. È l’ente infatti, il centro di interesse e problema comune degli antichi e dei moderni: Ciò che ieri e oggi e sempre si cerca, e che sempre pone aporia, è “che cos’è l’ente” – cioè “che cos’è la sostanza” […]; pertanto ciò su cui dobbiamo fare teoria (qewrhtevon) è soprattutto, in primo luogo e per così dire unicamente (mavlista kai; prw'ton kai; movnon wJ" eijpei'n) l’ente inteso così [e cioè: l’ente inteso come sostanza] (Z 2.1028b2-7).

disponibili; L 1.1069a21-22, cfr. Z 1.1028a18-20: ciò che non è sostanza è analizzato categorialmente e collocato in una posizione subordinata, come qualità o affezione della sostanza; L 1.1069a21-24, cfr. Z 1.1028a29-31: la sostanza è l’unica delle categorie ad essere ente in senso assoluto; L 1.1069a24, cfr. Z 1.1028a33-34: la sostanza è l’unica delle categorie a esistere separatamente; L 1.1069a25-26, cfr., come per 1069a18-19, Z 1.1028b2-6: di fatto l’esperienza dei Presocratici conferma che la ricerca teorica è sulla sostanza; L 1.1069a26-28, cfr. Z 2.1028b19-20: i contemporanei di Aristotele, cioè i Platonici, ritengono che esistano sostanze che sono enti a maggior titolo delle sostanze sensibili; L 1.1069a28-30: gli antichi consideravano invece sostanza a maggior titolo i principi elementari, per es. fuoco e terra, cfr. Z 2.1028b813: i corpi naturali, cioè oltre ai viventi, fuoco, acqua e terra e i corpi celesti, sono sostanza nel modo più evidente, e anzi secondo alcuni sono le uniche sostanze; L 1.1069a30-34, cfr. Z 2.1028b19-21: si recupera la tripartizione accademica delle sostanze e si allude al fatto che Platone poneva prima le idee, poi gli enti matematici, poi le sostanze sensibili (cfr. anche M 1.1076a8-22); L 1.1069a35: alcuni considerano di un’unica natura le idee e gli enti matematici, cfr. Z 2.2028b24-25; L 1.1069a36, alcuni Accademici consideravano sostanze solo enti matematici, cfr. Z 2.1028b21-24: Speusippo poneva diversi livelli di realtà, come numeri, grandezze, anima, ciascuno con i suoi principi.

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Questo passo di Zeta è importante per capire come mai qui in Lambda Aristotele esordisca: “la qewriva è sulla sostanza” (1069a18), e possa poi continuare affermando che “è delle sostanze infatti che si cercano i principi e le cause” (1069a18s.: come una costatazione, si noti, non come un programma; lo si vede dal connettivo “infatti”). Ora, descrivendo lo stato dell’arte, invocherà l’autorità e la testimonianza degli antichi (1069a25s.) e dei moderni (1069a26-28). Radunando esperienze così diverse, Aristotele pone al centro il denominatore che esse hanno in comune con l’indagine presente. La strada si schiarisce anche per altra via se guardiamo al parallelo che Berti (Elementi di ontologia, cit., p. 17) ha indicato come punto di riferimento di questa frase di Zeta nel Sofista di Platone (244a5s.): Che cosa mai intendete significare quando pronunciate il termine “ente”? (tiv pote bouv l ete shmaiv n ein oJ p ov t an o[ n fqevggesqe;). Ivi come nell’esordio di Lambda, a quanto la nostra analisi di questo libro suggerisce, siamo in effetti in un contesto di analisi semantica dell’“ente”, forma participiale che significando “ciò che è” include virtualmente la varia gamma di occorrenze del verbo essere: sia come predicato verbale – nel senso di esservi, esistere e simili – sia come copula, a sua volta capace di connettere al soggetto sia aggettivi e sostantivi, sia participi verbali, di modo che virtualmente qualsiasi forma verbale può essere espressa attraverso di essa. Per questo l’“ente”può includere la sostanza, in primo luogo, ma anche qualsiasi suo predicato: qualità, quantità, movimenti e mutamenti di diverso ordine (cfr. infra, ad 1069a22) ed ogni ordine di predicazione, nella misura in cui tutte sono riducibili alla forma: soggetto – copula (costituita appunto dal verbo essere) – nome del predicato.

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Questo tipo di analisi del capitolo 1, in realtà, è probabilmente inedita, e può avere in sé qualcosa di sorprendente, perché mostra Aristotele intento a una sorta di analisi grammaticale ante litteram (contro una certa tendenza a cercare un intento programmatico, e/o un respiro cosmologico in queste prime righe del libro). Eppure, la sua pertinenza è mostrata dal prosieguo diretto (1069a19-22): ivi si mostra che il “tutto” di cui Aristotele discute è un universo fatto di enti che sono parti del discorso e del pensiero discorsivo; sono infatti, o soggetto, o predicato. Un tale “tutto” comprende infatti la sostanza e inoltre le quantità, le qualità, i “movimenti” della sostanza, insomma tutto ciò che di essa si può dire in forma aggettivale o verbale. Incerto, è, apparentemente, se questi “enti” tutti formino un’unità organica o siano strutturati e connessi fra loro “per successione”, tali per cui cioè (in linguaggio aristotelico) non sussiste il secondo se non c’è il primo. Aristotele ne parla come di due possibilità aperte; ma la seconda modalità, in ragione della presente lettura, recupera una sua specifica probabilità (cfr. n. ad 1069a21): in fondo, la struttura del discorso apofantico è tale, che non può sussistere il secondo termine (il predicato), se non c’è il primo (il soggetto). Dice infatti: Se anche infatti il tutto è come un intero, la sostanza è la prima parte. E se il tutto è costituito per successione, anche così, prima c’è la sostanza, poi la qualità o la quantità. Per questo l’universo di cui parla Aristotele qui può apparire addirittura identico allo scibile umano, passibile di conoscenza teoretica (qewriva). In tutto questo, il filo del ragionamento è comune all’esordio di Zeta: Aristotele comincia dicendo, sia in Lambda 1, sia in Zeta 1 (e altrove), che ente in senso primario è la sostanza, e ciò vale in tutti i sensi indicati in Zeta, e secondo ogni valido criterio: gli altri enti non sono infatti nemmeno enti in senso

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assoluto, ma solo come relativi alla sostanza (1069a19-24). Né potrebbe essere altrimenti: la sostanza è per definizione il modo primario dell’ente, in relazione al quale gli altri si intendono. Tutte le accezioni possibili di questo termine discusse da Aristotele sono subordinate a questa regola costitutiva del concetto stesso di sostanza77. È come se tutto nascesse dalla funzione della copula in greco. La partizione fra sostanza e predicati (qualitativi o quantitativi, e mutamenti), con il primato dell’una sugli altri che essa viene a stabilire a livello logico (prima ancora che grammaticale, visto che quest’ultimo non ha ancora per Aristotele alcuna autonomia), ha importanza strategica per l’argomento del libro, specie per quanto riguarda la dimostrazione di una sostanza eternamente mobile. Aristotele, infatti, in Lambda 6 dimostrerà innanzitutto, che il tempo è eterno (quasi per definizione) e che, essendo esso affezione del movimento (se non anzi identico al movimento), anche il movimento è eterno; solo poi, su questa base, dimostrerà che esiste un soggetto che si muove di movimento eterno. Ciò è possibile e ha precisa valenza teorica, perché Aristotele avrà a quel punto già ristabilito, avendolo posto fin da questa sua introduzione (cap. 1), che il movimento non esiste in senso assoluto, e non è separabile né sussistente in sé, ma il movimento eterno, in quanto è uno (il tempo cui è identico, o che ne è affezione, è infatti uno solo) è sempre movimento di una sostanza che è una ed è dunque eterna. Bene hanno fatto dunque – continua Lambda 1.1069a2530 – predecessori e contemporanei, che hanno provato “di fatto” (e[rgw/) il primato della sostanza: hanno infatti portato la ricerca sui principi della sostanza – salvo poi divergere 77

Il concetto di “regola costitutiva”, mutuato dalla filosofia del diritto, è qui da me liberamente introdotto. Ciò è in sintonia con la riflessione recente di P. AUBENQUE, La fonction de l’aporie dans la Métaphysique, in M. NARCY-A. TORDESILLAS (a c. di), La Métaphisique d’Aristote. Perspectives contemporaines, Vrin-Ousia, Paris-Bruxelles 2005, p. 13.

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nella concezione dei principi stessi (cfr. Comm., specie ad 1069a29). Non è dunque fuori luogo che il capitolo 1, vera e propria introduzione del libro, si chiuda su una tripartizione delle “sostanze”, intese come ciò di cui si possa dire: “è sostanza”. Dice infatti: oujsivai de; trei'" (1069a30), che si può tradurre verbum de verbo: “Le sostanze sono tre” (intendendo, beninteso per “sostanze” gli ordini, ovvero classi di sostanza); però la disposizione della frase suggerisce anche qualcosa come “A essere sostanze, sono in tre”, ovvero “Tre (ordini di enti) sono sostanze”78. Qui come altrove, cioè, in questo tipo di frase, Aristotele non intende qualcosa del tipo: “ci sono, da qualche parte questa sostanza, e poi, da quest’altra, questa seconda sostanza e poi questa terza sostanza da qualche parte ancora (ma dove? non può essere da nessuna parte perché non ha materia)”; non intende cioè proporre alcuna reificazione, né alcuna sorta di ipostasi delle “sostanze” in quanto tali; dice invece: sono sostanza (ovvero: intendiamo come sostanza) queste cose. In Lambda 3, per esempio, ouj s iv a i de; trei' " (1070a9-13) significa che sostanza, sono: forma, sostrato, sinolo (come in Zeta 3 ss.); in Lambda 4, oujsivai de; tau'ta (1070b1315) significa che sostanza, sono: forma, materia, privazione,

78

Così, il senso si avvicina a “tre cose sono sostanze” (se non anzi a: “‘sostanza’ si dice di queste tre cose”). Quest’ultima non sarebbe una traduzione del tutto impossibile, perché il genere del numerale trei'" può in effetti aver subito l’attrazione di oujsivai; infatti è improbabile che Aristotele scriva, pur con un tale intendimento, oujsivai de; triva. Di solito infatti egli tende a far concordare il numerale con il sostantivo, e.g. 1069b32s.: triva dh; ta; ai[tia kai; trei'" aiJ ajrcaiv, frase che, analogamente, va intesa: “sono in tre a poter essere considerate cause, in tre a poter essere considerati principi”. Qui la tendenza a concordare numerale e sostantivo è evidente, perché nei due casi (cause e principi) si tratta delle stesse cose, descritte con sostantivi diversi, e in corrispondenza il genere del numerale è diverso; né avrebbero senso sue distinti predicati di esistenza, come: “ci sono tre cause” e (indipendentemente) “ci sono tre principi”. Sul caso, diverso di 1071a1, cfr. I, Note.

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sinolo, composti parziali (come i tessuti organici, carne e osso per esempio). La componente metalinguistica insita in queste affermazioni ne giustifica l’apparente incoerenza: ogni volta si esamina in quali sensi concepire i principi di quell’oggetto teorico, che si pone di volta in volta come sostanza. Aristotele dunque, alla fine di Lambda 1 (e anche, con qualche differenza, alla fine di Zeta 1), distingue questi sensi di “sostanza” in tre, perché richiederanno ordini di considerazione separati. Le suddivisioni necessarie per giungere alla tripartizione sono due diairesi successive: un primo senso fondamentale è quello per il quale chiamiamo sostanza la sostanza sensibile, che è mobile e fisica, e questa a sua volta si divide in soggetta a generazione e corruzione ed eterna; mentre in un altro senso e modo, separato implicitamente fin dall’inizio, parliamo di una sostanza che non è sensibile, bensì puramente intelligibile: non fisica, eterna, non soggetta ad alcun mutamento. La diairesi così ha carattere dialettico, non empirico. La partizione ha una valenza di tipo metalinguistico, con un riferimento preciso al linguaggio della filosofia prima: è, insomma partizione non di oggetti, ma di modi in cui pensare la sostanza. A riprova, si può guardare più da vicino al modo in cui in 1069a33-36 sono indicate sostanze non soggette a mutamento: ivi infatti non c’è alcun riferimento a enti-che-esistano secondo Aristotele, ma solo a concezioni realmente attestate al riguardo, che vengono raccolte e passate in rassegna. Quanto però appunto a quella sostanza che non è sensibile né soggetta a mutamento, sulla quale in altre occasioni e più volte Aristotele ha già rimandato e posticipato l’indagine, nemmeno qui in Lambda 1 egli dice ancora nulla di positivo ed assertivo. Sarà invece in Lambda 6 e 7, ripartendo con una sorta di nuovo esordio all’inizio del capitolo 6, che egli vorrà finalmente mostrare di saperne provare l’esistenza, in forza, sia dell’analisi categoriale dell’ente (cfr. anche infra, ad 1069a22), sia degli esiti

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ultimi dello studio della sostanza sensibile e mobile: ciò che è mobile rinvia infatti a ciò che è immobile, come il movimento alla quiete, cioè come suo fondamento innanzitutto logico.

4.2. Il capitolo 2 Il capitolo 2 del libro Lambda è davvero cruciale, benché difficilmente susciti l’entusiasmo dei suoi lettori. Esso riassume e puntualizza, invero, come il capitolo 10 confermerà, quanto di più progredito Aristotele ritenga di avere da dire sull’ente che è soggetto a mutamento in quanto tale, su in che modo e secondo quali principi lo si possa concepire e conoscere. Consente pertanto alcune osservazioni generali sulla natura della costruzione ontologica ora in corso, che continua ad avere natura spiccatamente metalinguistica (come già nell’esordio del libro, cfr. § 4.1). Per spiegare questo punto (sul quale intendo tornare in altra sede, per declinarlo sui materiali in parte analoghi degli altri sui materiali in parte analoghi seppur diversi degli altri libri della Metafisica) non c’è strada più breve che esaminare quale sia il ruolo teorico del concetto di materia in questo capitolo. Indubbiamente, letto da solo e sine glossa, il testo risulta parlare di come l’oggetto dell’indagine sia, non di come sia conoscibile. Ma il modo di ragionamento adottato nel capitolo si spiega agevolmente secondo questa prospettiva piuttosto che secondo quella. È come se ci fosse, pregressa, una scelta di metodo in tal senso, che costituisce un gesto originario e non tematizzato: l’opzione di fondo per un’ontologia fondata primariamente (se non esclusivamente) sull’analisi delle forme, innanzitutto linguistiche, della conoscenza discorsiva. Centrale è la nozione di mutamento, che la fisica di Aristotele caratteristicamente analizza in termini elementari ovvero principi. Invero, una volta introdotta la nozione dell’identità fra sostanza sensibile e sostanza soggetta a mutamento, Aristotele spiega secondo quali principi il mutamento di una tale sostanza, non,

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di fatto, avvenga, ma, aristotelicamente, sia conoscibile. Così, la “sostanza” soggetta a mutamento si risolve direttamente negli elementi nei quali la nozione di mutamento si analizza: il soggetto o sostanza, il “ciò-da-cui”, il “ciò-verso-cui”. È in quanto è soggetta a mutamento, dunque, che la sostanza sensibile viene analizzata, e risulta conoscibile: i suoi principi sono trovati analizzando il mutamento nei suoi elementi e principi. Cioè, la teoria della sostanza soggetta a mutamento si configura come teoria del mutamento della sostanza. Sotto tali, implicite premesse, gli elementi di una tale sostanza sono tre: i due contrari, come avevano detto i predecessori, cui va aggiunta la materia. La sintesi del capitolo 2 ora proposta è corroborata dalla sezione centrale del capitolo 10, che attacca i predecessori in primo luogo su questo punto. Anche in Lambda 10, come già in Lambda 2, Aristotele si appoggia su questa constatazione: quanti, fra i predecessori, avevano voluto spiegare i processi di generazione, avevano fatto generare tutti gli enti dai contrari, pensando il mutamento come passaggio da un contrario all’altro. Questo è valido anche se impreciso, secondo quanto appunto egli ricorderà nel capitolo 10, là dove dice: Tutti dicono che tutte le cose si generano dai contrari, ma non esprimono correttamente né il “tutte le cose” ne il “dai contrari”, né dicono, per quegli enti che hanno in sé i contrari, in che modo si generino dai contrari (10.1075a28-30). Nonostante, dunque, quella stessa opinione sia soggetta a critica, è a quanto pare una questione di economia sistematica, per Aristotele, limitare al minimo le innovazioni propria persona e partire dal magistero endossale di quelli che in Lambda 1 egli ha già tirato in causa chiamandoli “gli antichi”. Intende infatti appellarsi positivamente, ancorché criticamente, alla loro autorità. Anche in questo senso e prospettiva, si può vedere in che modo la sua sia una riflessione meta-filosofica, perché ciò

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che è stato già autorevolmente detto, una volta verificato e precisato, fa parte della base dei dati di partenza. In Lambda 2, specialmente, l’idea che principi siano i contrari è fatta risalire in effetti ai Presocratici, i quali perlomeno avevano intuito, “sfiorato” il concetto di materia: anche su questo punto Aristotele non vuole inventare ex novo, ma organizzare meglio un’acquisizione cui erano pervenuti altri prima di lui. Più oltre, con Lambda 10, la dottrina dei contrari sarà sottoposta a critica più ravvicinata, e anche gli Accademici rientreranno nel novero di coloro che hanno usato coppie polari (uno e diade, uno e molteplice, uguale e diverso...) per spiegare la diversità e il rapporto fra identità e diversità: essi infatti ricorrevano a quello stesso tipo di principi opposti a due a due, che in Gamma 2 Aristotele classifica in serie contrapposte riunite sotto la coppia uno-molteplice79. La “materia” in ogni caso deve esistere come “terzo elemento” al di là dei contrari – dice Lambda 2, semplificando considerevolmente la teoria rispetto alle diverse dottrine della materia nel corpus. Con questo, Aristotele punta a ciò che è essenziale, e cioè a ciò che è costitutivo del concetto di materia, come sostrato che muta. Già nella Fisica, libro A, in part. cap. 8s., il concetto di materia è chiamato a risolvere le difficoltà del pensiero sul divenire in generale – quella che lì egli chiama l’“aporia” degli antichi – identificando in essa un blocco problematico comune alla filosofia post-parmenidea. In continuità con quella formulazione fondamentale, qui in Lambda 2 materia è il sostrato del mutamento, è il soggetto che è in quanto diviene (metabavllei). Tutto questo è ridotto a una formulazione essenzialissima, in termini quasi grammaticali: materia è il soggetto del mutamento da un contrario 79

Ivi, la critica volta a siffatte teorie è la mancanza di focus: esse infatti nulla dicono della sostanza (1004b8-10), e dei principi dell’ente in quanto ente.

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all’altro. Infatti, “non sono i contrari che cambiano, è la materia che cambia” (metabav l lei, appunto) da uno stato all’altro. Materia è, cioè, il sostrato che preesiste al mutamento, e che non viene meno, bensì permane in tutti i processi sia di generazione, sia di mutamento. Analogamente, in Lambda 1, primo termine – come ricorda poi di nuovo il capitolo Lambda 6 – è la sostanza, perché è il soggetto del quale si predicano gli altri modi dell’ente. Per questo Aristotele ripete più volte in Lambda, come già in Zeta (in part. Zeta 3), che la materia è sostanza. Non vuol dire che da qualche parte ci sia la materia che sussiste in sé separata. Vuol dire che, se la sostanza sensibile è soggetta, tutta, a mutamento, e se noi la conosciamo conoscendo i suoi mutamenti, ciò che conosciamo è ciò che accade al sostrato, cioè alla materia. In tale senso la materia non è affatto una “cosa”, è ciò che è primo; è soggetto di ciò che si dice, sostanza di ciò che muta. Di questo Aristotele cerca testimonianza in Lambda 2, invocando i Presocratici.

4.2.1. Lo stato primordiale degli arcaici come rappresentazione figurata della materia Caratteristicamente, secondo Lambda 2, il principio materiale – che egli intende così, come principio preesistente e persistente – era stato sì indicato dai predecessori, ma in modo confuso. Aristotele infatti quando, parlando di “materia”, cita i Presocratici, si riferisce alla rappresentazione dello stato primordiale in pensatori presocratici quali Empedocle, Anassimandro, Anassagora. Certo, l’equazione fra stato primordiale e materia non può dare che una corrispondenza – se è una corrispondenza – confusa, e dunque si potrebbe impugnare questo suo giudizio sulla qualità della loro esposizione, che è inevitabilmente negativo. Ciò verrà fatto esplicito in Lambda 10 (1075b12s.): ciò che essi hanno detto non può funzionare, se

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non vi si mette ordine80; è confuso, per questo va riordinato. Così, in effetti, se leggessimo l’esposizione solo in questo modo, forse troveremmo materia per alimentare il luogo comune anacronistico delle fallacie aristoteliche in materia di storiografia filosofica. Però si perderebbe di vista lo scopo sistematico che Aristotele persegue nel suo ripensamento della tradizione filosofica, specie nelle parti dossografiche delle sue introduzioni. La vocazione costruttiva si rivela inequivocabilmente nel ricorso a tecniche mirate e selettive di lettura e di trascrizione potenziata: sottrazione di temporalità alla narrativa delle cosmogonie presocratiche; lettura, pertanto, non diacronica, ma sistematica dello strato pre-cosmico; traduzione, come esito, dello stato pre-cosmico in un concetto funzionale di materia, intesa in senso ampio, come perenne sostrato e al tempo stesso condizione di pensabilità di qualunque mutamento. Si tratta – nel contesto – di esplicitare, come fosse implicito, il riferimento dei Presocratici a una materia, che è materia del pensiero sul mutamento nella misura in cui è pensata come materia delle cose che mutano. C’è dunque un lato positivo fondamentale nella critica aristotelica alle dottrine presocratiche, proprio dal punto di vista di quelle dottrine: considerarle “confuse” consente ad Aristotele di usarle positivamente (una volta fatta la critica e operato il conseguente riordino) per la propria costruzione teoretica. In questi termini, lo stato primordiale è inteso come la natura cosmica allo stato originario, come ciò che ha già in sé la potenzialità di ciò che verrà ad essere. Di lì la menzionata correzione alla teoria di Anassagora. Anassagora non aveva ben distinto l’uno dall’altro, lo stato primordiale dallo stato di ciò che viene ad essere. Aristotele lo cita, ma anche lo critica, dicendo che era “meglio ‘Uno’ che non

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L 10.1075b12s.

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‘tutto insieme’” (L 2.1069b21, in chiaro riferimento al noto detto di Anassagora), altrimenti (presumibilmente) le cose ci sarebbero già tutte di per sé in atto; dunque non è esatto dire simpliciter che “tutto c’era”. Dal punto di vista di Aristotele, qui ha fatto meglio Democrito di Anassagora: è in quanto la materia permane, e ha in sé la potenzialità per tutte le cose, che “tutte le cose c’erano per noi” (h\n hJmi'n pavnta, 1069b23): è questo, secondo il testo tràdito (e qui restituito) di Lambda 2, ciò che risulta aver detto Democrito parafrasando forse Anassagora, in un possibile frammento che ho qui recuperato del quale bisognerà dare esegesi più avanti. Certo, il frammento è troppo breve per essere chiaro (la sfumatura di significato del “per noi”, hJmi'n, si presta infatti a ipotesi diverse) ma almeno questo pare probabile: Democrito ha detto che tutte le cose c’erano, e questo da parte sua è logico e coerente, in quanto l’atomismo democriteo comporta una differenza originaria di materia fra le diverse cose (1069b32s., cfr. qui infra); per questo Aristotele ora spiega, probabilmente a parafrasi (forse proprio dell’hJmi'n?), che per Democrito tutte le cose c’erano già in potenza, salvo che non erano ancora in atto, marcando così la differenza fra atto e potenza (2.1069b22s.). Di qui in poi, la strada per pensare la differenza consiste nel tematizzare la differenza fra la potenzialità dei diversi mutamenti: la generazione avviene di volta in volta non da una materia qualsiasi, o comune ai diversi processi, ma da una materia che era già specificamente in potenza ciò che verrà ad essere in atto. La descrizione è al singolare – anche questo è interessante – in tutta la teoria della materia e della generazione da contrario a contrario che si svolge in Lambda 2. Questo avviene, vuoi perché si indica la materia ultima, e si prescinde da quelle intermedie, che possiedono già una loro determinazione; vuoi – più probabilmente – perché non si tratta di una realtà fisica; una tale materia è la concettualizzazione del soggetto che passa da uno stato all’altro nel processo di mutamento, e che in quanto tale è uno, per contrasto con la pluralità

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degli stati che attraversa. La materia è dunque nondimeno un “uno” (1069b21), è essa stessa “una”; a rinforzo, anche il testo parallelo di L 10.1075a34 dirà che “la materia che è una” non ha contrari; essa ha la potenzialità, non di infiniti o indefiniti mutamenti (2.1069b28s.), ma di “entrambi” i due stati opposti (1069b14s.). Per questo Aristotele continua: “non può bastare, dire: ‘tutte le cose erano insieme’” (L 2.1069b29), perché c’è differenza, sia fra atto e potenza, sia fra le diverse potenzialità. Infatti, poiché ogni mutamento ha un soggetto ovvero una materia, nella materia stanno le differenze fra gli enti che vengono ad essere. Così, ogni mutamento presuppone una sua materia: altrimenti, se ci fosse una sola materia, essendo una anche la causa motrice (rappresentata dal nou'", nella teoria di Anassagora, 1069b31), “si genererebbe", ovvero “passerebbe all’atto quell’ente” – cioè, “passerebbe all’atto solo quell’unico ente” – “del quale la materia aveva potenzialità” (ej k ei' n o ejgevneto ejnergeiva/ ou| hJ u{lh h\n dunavmei, 1069b32). La materia è dunque qualcosa di “uno” in quanto è materia. Ma è differenziata secondo la potenzialità. In un caso poi essa si sdoppia, distinguendosi in due (1069b24-26): Tutti gli enti che mutano hanno materia, ma una materia diversa: ne hanno una anche quegli enti eterni che sono soggetti, non a generazione, ma a movimento nello spazio, salvo che essa non è adatta a divenire, ma solo a passare da un luogo a un altro81.

81

1069b26. Qui adotto senz’altro quella lettura del testo che scaturisce dalla conservazione del testo tràdito in L 1.1069a31s. La lettura corrente è notevolmente diversa, e gravemente controversa, cfr. I, Note ad loc.: come vi si è rilevato, poqevn e poi sono qui mobilitati come avverbi di luogo indefiniti – “da un certo luogo”, “ad un certo luogo” enclitici dunque, in dipendenza dall’aggettivo verbale di givgnomai, che mantiene attivo il suo valore predicativo. Nello stesso contesto, ajllav avrà valore eccettuativo: la materia in esame non è adatta a venire ad essere, se non nel senso del passare da un luogo all’altro.

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Questo passo è cruciale quanto alla dottrina generale dei principi della sostanza eterna, sensibile, cioè celeste. David Charles ha chiamato questa materia topic matter (mutuando l’espressione da H 1.1042b6-8) e ha ravvisato in essa l’aspetto più distintivo del capitolo, interessante ma problematico82. Della frase in sé, per cominciare, sfugge a prima vista l’articolazione con il contesto. Eppure, come già in precedenza ho inteso mostrare, ciò non toglie che l’orientamento generale di questa teoria della materia sia caratterizzato in un senso preciso. Da una parte, il contesto postula una diversità ovvero specificità della materia secondo i modi del mutamento: infatti pone in correlazione materia e mutamento, e ciò potrebbe virtualmente declinarsi in tanti modi, quanti il pensiero può analizzarne nel divenire naturale ed artificiale delle cose. D’altra parte, tuttavia, questa frase separa la materia celeste dalla materia sublunare (1069b25), che che si trova pertanto unificata in qualche modo come materia diversa da quella, almeno per gli scopi presenti. Resta, collateralmente, da riflettere sul peso di questa formulazione in Lambda 2. Forse dalla teoria sopra esposta (2.1069b315) sembrerebbe di capire che esistano e sussistano e si diano in natura per Aristotele tante materie quanti mutamenti. Ma che dire allora dei processi naturali reali, nei quali un unico corpo vivente è soggetto a una pluralità spesso inscindibile di processi, trasformazioni e mutamenti? Ha in sé quel corpo tante materie, quante quei mutamenti? L’aporia si risolve se si colloca a livello, come si è detto, metalinguistico, la genesi di questa teoria: non è la realtà sensibile in sé, nel suo incessante divenire, ma è il pen-

82 Charles (p. 87) nota che questa topic matter, u{lh topikhv, detta così per opposizione rispetto alla u{lh gennhthv dei corpi corruttibili, è trattata da Aristotele come una sostanza, mentre la u{ l h gennhthv è considerata materia di una sostanza. Su questo punto cfr. poi anche M. BORDT, Aristoteles’ Metaphysik XII, cit., p. 39, il quale sottolinea che una tale differenza potrebbe comportare un’equivocità nel concetto stesso di materia; e alcune osservazioni in S. FAZZO, Heavenly Matter, cit.

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siero su ciascuno di quei processi analiticamente considerati, a presupporre di volta in volta, nella sua formulazione, una potenzialità, che qui Aristotele chiama “materia”; e che non ha una sua sussistenza; anzi, come dice Zeta, se si tolgono le determinazioni opposte cui un tale sostrato fa da soggetto, non sussiste di per sé e non è conoscibile. È, se vogliamo dire così, un concetto funzionale83, la cui introduzione consente di tematizzare e analizzare le diverse fasi dei processi di mutamento, e la loro specificità: ciascuno è specificamente conoscibile solo se separatamente considerato, passibile di descrizione solo se vi è in esso un sostrato che può passare dalla potenza all’atto, in ogni singolo caso. Così, una volta di più, l’“ontologia” di Lambda risulta orientata e costruita in funzione del processo conoscitivo che essa giustifica e al tempo stesso consente. 83 Come tutti i principi della sostanza sensibile fin qui mobilitati, la materia di Lambda 2, non meno di quella della Fisica, è un concetto relazionale (secondo quanto bene osserva Alex. Aphr. Quaestio I 8, pp. 18-35s.), definito dal suo ruolo nella costruzione logica in atto. È importante e significativa l’analisi di Wieland, che parla, per questo tipo di concetti in uso nella Fisica, di Reflexionsbegriff, in senso kantiano. Il concetto è bene esposto già nell’articolo W. WIELAND, Aristotle’s Physics and the Problem of Inquiry into Principles (1960-1961), tr. ingl. in M. SCHOFIELD-J. BARNES-R. SORABJI (a c. di), Articles on Aristotle; 1: Science, Duckworth, London 1975, cfr. in part. p. 135 ss.: «The general inquiry into principles, which it is the task of the philosopher to pursue, can […] place at his disposal only a repertoire of points of view, which in the individual case help in the discovery of the relevant principles. I use the modern expression “concepts of reflection” to describe these points of view. Aristotle’s philosophy may in fact be interpreted without running into contradictions as a system of such concepts of reflection. For example, in Aristotle there are no such things as “matter“ or “form” ; both concepts are simply useful devices for distinguishing in the individual case corresponding factors in an object which on any particular occasion can be more precisely specified. The unity of the principles is always just a unity of analogy – as Aristotle argues in detail in the fourth and fifth chapters of the twelfth book of the Metaphysics». Sono debitrice a Sylvain Delcomminette, che mi ha segnalato come la mia formulazione presente abbia consonanze con la tesi di fondo di questo testo di Wieland.

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4.2.2. La controparte accademica e la continuità con i libri centrali Tutto questo sarà utile anche per affrontare il capitolo 10, che ancor più compendiatamente discute le previe concezioni del divenire e della materia. Ivi, controparte sono ormai non più le teorie presocratiche cui Lambda 2 in qualche modo si appoggia, ma quelle dei Platonici, che avevano mancato di distinguere i due tipi di principio, formale e materiale: la materia da una parte, i contrari dall’altra; i contrari sono due, o almeno due, la materia (di volta in volta, s’intende) “è una”, cioè permane (1075a34). È chiaro allora che anche qui in Lambda 2 la teoria di Aristotele è formulata in una logica di superamento non solo delle tesi presocratiche (o attribuibili ai Presocratici), abbastanza confuse benché non prive di validità, ma, più da vicino, delle tesi accademiche: i Platonici infatti accomunano la materia, intesa come cw'ra ovvero come indistinto ricettacolo, indeterminato e indefinito, al polo negativo nella coppia di contrari, “uno-diade” ovvero “uno-molti”, dove “uno” sta per la polarità positiva, causa cioè di unità e di determinazione, mentre dal lato della materia sta la diade indeterminata. Senza questa controparte polemica si intenderebbe meno ciò che in Lambda 2 Aristotele va precisando, che le contrarietà comunque sono specifiche, che il contrario di ogni determinazione è non l’indeterminazione, ma la determinazione contraria e privativa, e che la materia è “un terzo ” (ti trivton [...] hJ u{lh, 1069b8s.). Perché “terzo” – si potrebbe infatti chiedere? La materia si pensa come qualcosa di primo, o di ultimo; è terzo però nel novero dei principi, perché la dottrina della materia, così introdotta, presuppone che i principi siano tre, o almeno tre, e si definisce in funzione dei due contrari. A rimedio dell’eccessiva globalità delle precedenti teorie, Lambda precisa inoltre che, come principi della generazione, i due contrari, rispetto ai quali la materia è “qualcosa di terzo”, sono: la forma, ovvero il “che cos’è” della cosa che si genera; e

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la privazione, che è la potenza nella quale si trovava quella materia, quando ancora non aveva quella forma, come dice una frase difficile in 1069b32. Ciò che si genera è sempre e solo ciò di cui quella determinata materia aveva potenzialità. Questi tre pertanto, i due contrari (forma e relativa privazione) con la materia, vengono individuati come principi elementari inerenti a ciò che muta, per spiegare, e pensare, i processi di mutamento e di generazione, più globalmente o più analiticamente secondo i casi. In tutto questo, la la comunanza di temi che i capitoli 2 e 3 presentano con parti dei libri centrali della Metafisica induce a presupporre, sullo sfondo degli uni come degli altri, uno stesso orizzonte di riferimento (anche a prescindere da ogni ipotesi di cronologia relativa): gli uni e gli altri presuppongono un contesto di discussione caratteristicamente accademico. Questa comunanza tematica si riflette poi a livello della tecnica di redazione: Lambda 2 presenta diversi paralleli con Eta 1; Eta 1, a sua volta, riassume efficacemente Zeta 384. Se inoltre si considera quanto strettamente Lambda 1 riprenda Zeta 1-2 (cfr. supra e n. 76) emerge una continuità di riflessione su parti scelte e strutturanti del libro Zeta (indubbiamente, una forma di autoriflessione da parte di Aristotele), che accomuna ordinatamente i tre successivi capitoli Lambda 1-3, in modo decisamente più stretto di quanto correntemente si riconosca (sovente questi paralleli vengono infatti trascurati). In questa logica, non si può certo dire che una tale esposizione, pur compendiatissima, sia veramente disordinata (anche se una prima lettura diretta può dare questa impressione, secondo quanto già osservavano i commentatori greci85). 84 Cfr. H 1.1042a32-b3 con L 2.1069b3-15; H 1.1042b3-6 con L 2.1069b24-26; H 1.1042b7-8 e L 2.1069b18-20 trattano dei diversi sensi di givgnesqai; 1042b11-15, sull’opinione di Democrito sulla materia, serve a capire 1069b20-23, il cui valore positivo è argomentato in S. FAZZO, Fra atto e potenza, cit., in part. pp. 134-7. 85 Cfr. EAD., Heavenly Matter, cit., nn. 1-2, p. 160s.: ben sembrano in-

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4.3. Il capitolo 3 Nel capitolo 3, come ora ricordato, Aristotele rinforza e approfondisce la teoria di Lambda 2 sulla base di due dottrine che si trovano meglio argomentate e illustrate altrove, cioè nella parte centrale del libro Zeta, capitoli 7-9. Questa relazione è chiara soprattutto nelle due prime sezioni introdotte dalla locuzione meta; tau'ta, cioè 1069b35-1070a4 e 1070a4-1386. Egli mostra, innanzitutto (1069b35-1070a4), che forma e materia, in quanto sono principi del mutamento e della generazione degli enti, non si generano (si riferisce, beninteso, alla materia e alla forma ultime – come precisa in 1069b35-36). Qui si può annotare a margine che, in questo modo, tali principi sono elementi privilegiati di conoscenza, e condizione della conoscenza stessa. Essi infatti permangono e hanno identità, secondo il desideratum di Alpha elatton 2: come sarebbe possibile conoscere, se non ci fosse nulla di primo (994b20-23)? Sono identificati in ragione del loro potere esplicativo, perché possono indicarsi come principi del mutamento e della generazione senza essere essi stessi generati, o mutevoli in sé. È qui notevole la comparsa dell’argomento per regressus, che è alla base, secondo la lettura qui infra perseguita, anche della prova dell’esistenza del motore immobile in Lambda 7 (cfr. supra, § 2.5, e infra, Comm. ad 1072a24s.). Così, in questi assunti, che dichiarano la permanenza dei termini ultimi, ovvero dei principi, si può constatare come il motivo di fondo che guida l’articolarsi del discorso continui a essere il problema di progettare una scienza possibile e di individuarne le condizioni di possibilità: si cercano precisatuire la ragione di questo apparente disordine Michele di Efeso e Giorgio Pachymeres; dicono infatti che qui Aristotele riassume cose che ha detto altrove; salvo che, non indicando questi esegeti bizantini la fonte degli argomenti ripresi in Lambda 1-3, sfugge a chi vi si affidi la componente di ordine e di continuità. 86 Cfr. I, Note, e infra, Comm.

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mente quei principi primi, conoscendo i quali si possa dire di conoscere. Questo dunque è indubbiamente il maggior guadagno teorico del capitolo 3. In secondo luogo (1070a4-13), è notevole come Aristotele argomenti che il principio esterno della generazione, inteso come causa efficiente, ovvero motrice, ha la stessa forma dell’ente che si genera, ed è formalmente identico ad esso. Per esempio, causa della generazione di un uomo è un uomo esso stesso, della stessa forma, ovvero specie dell’uomo generato. Questo è uno schema esplicativo molto importante per Aristotele: fa leva sulla persistenza ed anzi eternità dell’“uomo” inteso come ei\do": forma e specie. (Qui peraltro non giova alla comprensione scindere le due valenze, pur così diverse in italiano: l’ei\do", come si è appena detto, non è generato, non è mutevole ed è eterno: è dunque oggetto precipuo di conoscenza scientifica. In quanto è passibile di conoscenza scientifica, nei viventi corrisponde a ciò che chiamiamo “specie”; ma non per questo smette di significare precisamente “forma”: di questa opposizione semantica, in Lambda, non c’è prova87.) Di qui la rilevanza di un duplice computo dei principi, la cui differenza mette in evidenza l’acquisita identità fra due di essi: da una parte, i principi, considerando come causa separata la causa motrice, sono quattro; ma, considerando l’identità formale della causa motrice e della forma intesa come principio elementare, sono tre. Questo significa che per conoscere è necessario e sufficiente definire quei termini fondamentali. Non serve dunque postulare l’esistenza di ei[dh separate per spiegare il partecipare di una molteplicità di individui a un ei\ d o" 87

Cfr. infra, ad L 5.1071a27-29; ad loc. anche D. KONSTAN-I. RAMELLI, Aristotle and Individual Forms, «The Classical Quarterly», LVI (2005) pp. 105-12. Ma cfr. contra M. FREDE-G. PATZIG, Aristoteles Metaphysik Z, cit. (in part. I, pp. 48, 52, 56).

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comune: “Non c’è alcun bisogno, almeno per queste ragioni, che esistano le idee” (L 3.1070a26-27)88. Questo è interessante, anche perché restituisce un’altra parte dello sfondo critico della discussione aristotelica, in un libro, come è Lambda, dove la componente teorica positiva prevale largamente sugli scopi polemici, e dove dunque i riferimenti espressamente critici ad altre dottrine sono relativamente rari. Eppure questi cenni critici sono importanti: mettono al centro, come senso globale di Lambda 3 ma anche del libro nel suo complesso, la capacità di questa teoria di spiegare non solo la generazione (come in Lambda 2) ma anche la permanenza ed eternità delle sostanze naturali secondo la specie, senza bisogno di ricorrere alla teoria di idee separate, o ricorrendovi solo all’inizio di una serie causale fisicamente costituita. Se si ammette che questo o siffatto sia l’intento primario che anima il libro, si comprende più facilmente che quei principi, che Aristotele adduce come tali nella propria esposizione, compaiano in diretta funzione della necessità di rendere teoreticamente conto, al tempo stesso, sia del mutamento in natura, che i Platonici non spiegavano (come nemmeno spiegavano la differenza fra enti eterni e mutevoli), sia di quella persistenza secondo la specie, senza la quale in effetti non sarebbe possibile, nemmeno aristotelicamente, una conoscenza teoretica.

4.4. I capitoli 4-5 I capitoli 4 e 5 formano un tutt’uno, sebbene non manchi una cesura fra i due. Sono importanti, presi insieme, per capire 88 Qui, rispetto alla teoria delle idee, la critica maggiore è aver posto i principi formali come sostanze separate: così infatti si postula l’esistenza separata di enti uguali a quelli sensibili, però eterni. Il che, diceva già altrove Aristotele, è il peggiore degli assurdi (cfr. la quinta aporia in B 2.997b5-12; Z 16.1040b30-1041a3, della cui discussione per verba ringrazio Franco Trabattoni).

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la preoccupazione che anima il libro: l’unità e unitarietà dell’universo, intesa come unità dello scibile, è intesa a sua volta come unità di quei principi, sulla cui conoscenza si struttura l’unità dello scibile. La possibilità di un sistema cognitivo unitario è a sua volta garantita dal convergere delle relazioni causali, intese nella loro pluralità modale, sulla sostanza come senso primario. I due capitoli sono unificati infatti da un comune esordio e da un comune epilogo, i quali entrambi pongono al centro la questione se i principi siano o no gli stessi per tutti gli enti. Si intende che se non ci sono principi comuni a tutti gli enti, l’universo sarà sconnesso. Ma anche la scienza che se ne occupa sarà sconnessa: il modo, infatti, in cui la questione è posta è significativo della coerenza fra la questione dell’unità dell’universo e quella dell’unità dello scibile. L’universo, sul quale verte la preoccupazione che anima Lambda 4-5, è, precisamente come nelle prime righe di Lambda 1, lo scibile umano, e non ha connotazioni cosmologiche. È lo scibile umano infatti che si analizza e si considera strutturato secondo le categorie: innanzitutto, la sostanza si distingue dai generi relativi dell’ente, da quegli enti cioè che si intendono non separatamente, ma come relativi alla sostanza. Così avviene all’inizio di Lambda 4, in 1070a33-35, dove si pone l’aporia iniziale, 1070a33-35 (cfr. già L 1.1069a20-24). Prende così senso epistemologico la distinzione categoriale che percorre già i precedenti capitoli, in particolare Lambda 1, ove si pone il primato della sostanza, e Lambda 2, ove si distinguono le forme di mutamento secondo le categorie. Ora, Lambda 4 mostra come, analogicamente, gli stessi principi che si riferiscono alla sostanza possano applicarsi anche agli altri generi categoriali dell’ente (L 4.1071a20-21). In questa prospettiva, lavorando specificamente sui principi della sostanza sensibile e soggetta al mutamento, Lambda 4 e 5 mettono capo alla teoria della specificità (e dunque differenza), ma al tempo stesso dell’identità analogica

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fra i principi dei diversi enti. Una lettura trasversale di questi capitoli mostra, come “in controluce”, che Aristotele può a questo punto considerare non solo aperto lo spazio, ma ormai anche adempiuto il compito di una filosofia prima della natura (come l’ha etichettata Michel Crubellier nel corso delle nostre riunioni seminariali, cfr. vol. I, p. 93), intesa come scienza dei principi dell’ente soggetto a mutamento e generazione; è una scienza che può determinare – e a questo punto, anzi, ha ormai determinato – quali siano i principi degli enti soggetti a mutamento, in forma analogica: sia come forma, materia, privazione e causa efficiente, nei capitoli 2-4, sia come atto e potenza, nel capitolo 5. È in tale ambito di pertinenza che Lambda nel suo complesso (bisogna includere in questa considerazione l’importante capitolo 10) si inscrive come generale consuntivo.

4.5. Atto e potenza, universali e particolari nel capitolo 5: un saggio meta-filosofico Il capitolo 5 riveste in questo ambito un particolare interesse per il peculiare progetto che vi si attua: porre “atto” e “potenza” nel novero dei principi, alla stessa stregua dei principi elementari e della causa motrice. Aristotele dice infatti che “ancora in un altro modo, i principi sono gli stessi per analogia: anche cioè come atto e potenza” (1071a3-5). Ma in che senso si può dire che atto e potenza sono principi per tutti gli enti? In che senso, cioè, atto e potenza sono principi, se di ogni cosa l’atto è diverso, e la potenza pure è diversa, e se ogni cosa ha i suoi principi, identificati a prescindere dalla coppia atto/potenza? La spiegazione più economica, quella che cioè richiede meno presupposti esterni, è che Aristotele possa dirlo sulla base dell’analisi dei complementi in dativo ejnergeiva/ e dunavmei; in tal senso, si direbbe anche qui, una volta di più, che la genesi della teoria ha una componente

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metalinguistica. Si tratta tuttavia, diversamente che nella Fisica (secondo la lettura di W. Wieland89), non di un’analisi del linguaggio comune, bensì di un’analisi del linguaggio propriamente filosofico, e qui anzi, più in particolare, del linguaggio filosofico caratteristico di Aristotele, quello del libro Theta della Metafisica specialmente. Infatti, a quanto si ritiene, i predecessori ignoravano l’uso di questi concetti esplicativi, e Aristotele può vantarsi di averli introdotti, pur ammettendo che in modi diversi già altri pensatori potessero averne intravisto il concetto, soprattutto quando lavoravano sul concetto di materia (specie nel capitolo 2, cfr. in part. 1069b23). Materia, infatti, nel linguaggio di Lambda, è ciò che è in potenza entrambi i contrari, e il concetto di atto si intende per polarità e opposizione rispetto a un siffatto concetto di potenza: in questo senso Aristotele può dire in L 5.1071a7-11, che gli altri principi già menzionati – materia, forma, privazione – ricadano sotto la coppia di atto e di potenza: in potenza è infatti la materia, in atto sono la forma e il sinolo (forse anche la privazione, cfr. 1071a9). Un tale ruolo della polarità fra atto e potenza è dunque chiaro. In un senso diverso, dice inoltre Aristotele, si parla di atto e di potenza per la causa efficiente non-omoeidetica, cioè non-della-stessaspecie: per esempio, il sole per il ciclo vitale dei viventi. Di questa causa, come si vedrà nel capitolo 6, sarà necessario spiegare a che condizioni essa possa muovere, e specialmente a che condizioni essa possa muovere sempre: il cielo infatti è sempre in atto. La discussione di Lambda 5 dunque prepara il ricorso di Lambda 6 ai concetti di atto e potenza come principi esplicativi dell’eterno movimento circolare. Già in Lambda 5, d’altronde, la teoria dell’atto e della potenza dà modo di 89

Die aristotelische Physik: Untersuchungen über die Grundlegung der Naturwissenschaft und die sprachlichen Bedingungen der Prinzipienforschung bei Aristoteles, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1962. Cfr. anche supra, n. 83.

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superare la teoria delle idee da un punto di vista diverso da quello introdotto in Lambda 3. La prospettiva di Lambda 5 si capisce meglio alla luce di 1.1069a29: gli antichi, cioè i Presocratici, cercavano i principi delle sostanze individuali (ta; kaq’ e{kaston, secondo la presente edizione). Ora, nella misura in cui atto e potenza si considerano principi, essi appunto valgono per i singoli individui: è la singola cosa concreta che passa dalla potenza all’atto, o che è mossa da un motore che passa all’atto dalla potenza. Atto e potenza sono principi kaq’ e{ k aston. Dunque aiutano a tracciare una demarcazione rispetto a quelle teorie accademiche, che si riferiscono a sole entità universali. Qui sta dunque un punto di forza della coppia esplicativa atto-potenza. L’importanza di identificare principi kaq’ e{ k aston è enfatizzata poi per contrasto (1071a20-24), notando che per gli individui non valgono i principi universali: come dice Lambda 5, l’uomo in generale, ovvero universale, genera l’uomo in generale, ma non ne esiste nessuno; invece il principio di un singolo uomo, “di Achille, è Peleo”, e, continua, “di te, è tuo padre”. Che cosa ha voluto dire? Che i veri principi sono quelli che spiegano la generazione e conseguentemente l’essere degli enti individuali. Ora, nessuna forma ideale è individuabile, dunque nessuna forma ideale è principio di alcun ente individuale. Invece la forma dell’uomo aristotelicamente intesa può essere principio dell’individuo perché è individuabile nel sinolo90. È questo ciò che dice: “di te, sono principi la tua materia, e la forma, e il motore” (5.1071a28-29), i.e., “di te, sono principi la materia che è tua, la forma che è in te e il motore che ha agito su di te”. Così intesa, la forma è principio e causa dell’individuo, e non riguarda solo la sua definizione. Anche da questo punto di vista, Aristotele, pur riconoscendo come primario il ruolo

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Cfr. infra, Comm. ad 5.1071a27-29.

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causale della forma, prende le distanze da coloro che pongono gli universali (cioè i generi, specie i generi sommi), come principi e come “massimamente sostanze”, 1069a27. Così egli fa risaltare non solo il valore delle ricerche sue, ma anche di quelle degli antichi, con le quali essi hanno indagato la costituzione naturale di tutte le cose.

4.6. Il capitolo 6 L’inizio del capitolo 6 apre, con uno stacco netto, la sezione centrale del libro. Il capitolo comporta un nuovo prologo (1071b3-5), che prende le mosse dalla tripartizione già enuciata in Lambda 1 quanto ai possibili intendimenti del termine “sostanza”: sensibile corruttibile, sensibile eterna, immobile: E poiché le sostanze erano tre, e due erano quelle naturali, una quella immobile, bisogna parlare di quest’ultima, cioè dire che è necessario che esista una sostanza immobile. Alla fine del capitolo 1, in effetti, Aristotele aveva detto proprio così: “Le sostanze sono tre...” (cioè, due sostanze sensibili e una immobile). Ivi, “ci sono” indicava non tanto una constatazione empirica, quanto una partizione di enti conoscibili e teorizzabili. Restava aperto, quanto alla sostanza non sensibile (cioè intelligibile), il problema della sua esistenza, separata o meno. Ora, nel nuovo prologo che leggiamo all’inizio di Lambda 6, è enunciato e affrontato come tema principale di indagine l’esistenza di una sostanza immobile. La relazione di continuità con il capitolo 1 non si esaurisce qui: Aristotele riprende il primo argomento – in un certo senso, il principale – proprio di lì dove l’aveva lasciato in 1.1069a18-24, quando aveva affermato e giustificato il primato della sostanza sugli altri modi e significati dell’ente. Infatti, “nessuno degli altri [enti ovvero modi dell’ente] è separabile” (1.1069a24). Continua dunque rievo-

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cando quell’argomentazione: “Le sostanze infatti sono prime fra gli enti, e se sono tutte corruttibili, tutti gli enti saranno corruttibili...”. Si intende infatti, come glossò secoli più tardi Alessandro, che quelli vengono meno se viene meno la sostanza, non essendo separabili dalla sostanza91: e infatti poco sopra, alla fine del capitolo 5, 1071a35, Aristotele aveva sintetizzato questa relazione nella formula compendiata: ajnairei'tai ajnairoumevnwn (i.e. le altre categorie sono subordinate alla sostanza perché vengono meno se viene meno la sostanza). L’argomento che così si apre dura fino a tutto il capitolo 7 e ha una forma strutturata. La fine è, corrispettivamente, marcata da un epilogo: “Che dunque vi sia una sostanza eterna e immobile e separata degli enti sensibili, è chiaro da quanto si è detto” (7.1073a3-5). A questa ancora fa seguito una coda riassuntiva degli argomenti principali di Fisica Q, rendendo così ben esplicita la volontà di collegare gli esiti dei due ordini di ricerca: si è mostrato che questa sostanza non può avere grandezza alcuna, bensì è priva di parti e indivisibile. Infatti muove per l’eternità del tempo, e nulla di finito ha una potenza infinita. Visto dunque che ogni grandezza è infinita o finita, quell’ente non può avere una grandezza, né finita, per quel motivo, né infinita, perché una grandezza infinita non esiste in assoluto. Inoltre anche che è impassibile e inalte-

91 ALEX. APHR. Quaestio I 1, p. 2.20s. Qui come altrove, Alessandro commenta Aristotele usando Aristotele, cioè usa il passo di Lambda 5 per commentare il passo di Lambda 6: così crea una rete di riferimenti incrociati che rende più omogeneo l’impianto dottrinale aristotelico, e che è destinata a integrarsi della tradizione esegetica dei singoli testi. In questo caso, in effetti, la reciproca prossimità fra i diversi passaggi nel testo di Lambda è evidente, e mostra chiaramente che Alessandro aveva ragione nel cogliere la continuità piuttosto che la separatezza fra le due parti del libro (ad cap. 5 e cap. 6ss.). Sulla Quaestio I 1 di Alessandro come esegesi di questo passo del libro Lambda, cfr. S. FAZZO, L’exégèse d’Aristote, cit.

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rabile: infatti tutti gli altri mutamenti sono posteriori al movimento locale (1073a5-12). A queste considerazioni addizionali fa seguito infine una chiusura più asciutta: “Queste cose dunque è chiaro perché stiano in questo modo”1073a13). Così, il discorso si chiude. L’argomentazione dei capitoli 6 e 7 tuttavia non è compatta e unitaria, ma va scissa almeno in due parti fondamentali, ciascuna a sua volta bipartita, come in altra sede ho inteso mostrare (in Fra atto e potenza, cit., pur contro una tradizione esegetica alquanto inveterata). Esse portano alla dimostrazione, l’una dell’esistenza eterna di un corpo mobile eternamente mosso (nel capitolo 6, da altri associato primariamente alla dimostrazione di un primo motore immobile, e all'inizio del capitolo 7, fino a 1072a23), l’altra di un principio immobile, intelligibile, ma separato (nel capitolo 7, da 1072a23). Ogni parte procede prima alla dimostrazione dell’esistenza, poi passa al modo di essere della sostanza in questione e al suo modo di attività. In una prima sezione (6.1071b5-11) è postulata l’esistenza di un movimento eterno – quello circolare del cielo – a partire dall’eternità del tempo (come già vide Oehler nel 1955)92. L’eternità del movimento si trova poi analizzata nelle sue condizioni di possibilità (1071b12-22). La sezione che ne tratta, fortemente ellittica nei riferimenti, va probabilmente intesa così: se il moto è eterno, non basta che ci sia una causa motrice, ma ci dev’essere “dentro” – “dentro”, cioè, alla stessa sostanza – un principio eternamente mobile, del quale il moto eterno sarà atto ed ej n telev c eia (cfr. Phys. G 1-2). Così, affermando (1071b12-22) l’eterna attualità di questo primo 92 K. OEHLER, Der Beweis für den unbewegten Beweger bei Aristoteles, «Philologus», XCXIX (1955) pp. 70-92. Cfr. anche ID., Der unbewegte Beweger des Aristoteles, Klostermann, Frankfurt 1984, e ivi la lettera di D. Frede a K. Oehler alle pp. 121-6.

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movimento, Aristotele dimostra anche quella del primo mosso e del primo principio motore (quello che non è né mosso, né mutevole). Il movimento primo infatti è atto tanto dell’uno come dell’altro. L’eternità del movimento circolare è infatti, in termini aristotelici, un atto eterno. Una tale eternità presuppone che la potenza non sia anteriore all’atto (contro gli assurdi in cui cadono le cosmogonie arcaiche dei fisiologi e dei teologi). Per questo, a partire da L 6.1071b22, si apre una lunga parentesi dedicata al primato dell’atto sulla potenza, con riferimento probabile a Theta (6.1072a3s.). Il tema del primato dell’atto verrà ulteriormente ripreso dopo il conseguimento della dimostrazione principale in L 7.1072b30-1073a3. Tutto questo – secondo l’interpretazione che ho qui perseguita – è innanzitutto funzionale a una tappa intermedia nella complessa dimostrazione del principio primo: quella relativa all’attività della sostanza eternamente mobile. In passato, e quasi tradizionalmente, il capitolo Lambda 6 era stato riferito per intero alla dimostrazione del primo motore immobile; ma allora è difficile vedere la specificità funzionale della parte successiva, quella che noi chiamiamo Lambda 7. In un mio recente contributo (Fra atto e potenza, cit.), d’altronde, ho sostenuto che nulla nell’argomento punti ancora specificamente al primo motore immobile. Siamo, appunto, in un passaggio intermedio. Una tappa successiva in tale direzione si trova nella parte finale del capitolo 6, 1072a718, e consiste nel determinare il ruolo regolatore esercitato dai movimenti eterni dei cieli sul ciclo sublunare della generazione e della corruzione. Tale spiegazione è espressa con un’estrema brevità, consentita dal riferimento all’esposizione più ampia e specifica in De gen. et corr. B 10-11 (cfr. anche qui infra, § 4.7.1). Questo mostra che quel corpo eternamente mosso non solo muove se stesso, ma muove ovvero modifica altro, muove cioè e modifica il mondo sublunare. In questo modo si può

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dire che la sostanza eterna mobile è mossa (si muove in effetti del primo fra i movimenti) ed è motore (rispetto al sublunare). Su questo suo ruolo di intermediario, farà leva Aristotele all’inizio del capitolo 7, argomentando che esso presuppone la presenza di entrambi gli estremi, cioè sia il mosso non motore (la terra, in quanto inerte) sia il motore non mosso. E in questo consisterà l’argomento principale a dimostrazione dell’esistenza di un motore non mosso, sostanza non sensibile e principio primo. Nel complesso, così, l’argomento del capitolo 6 non è un punto di arrivo; ma, giungendo fino al cielo, sostanza eterna e sensibile, ha un suo ruolo specifico, funzionale alla dimostrazione di una sostanza non sensibile. In questo modo, Aristotele introduce non solo un argomento, ma un modo di argomentazione che ha una sua unicità e singolarità nel corpus e un suo primato nella letteratura filosofica, posto com’è all’intersezione fra il piano dialettico e il piano fisico. Di qui il suo interesse metodologico. Esso si muove cioè fra, da una parte, l’analisi, che è svolta in senso metalinguistico, dei sensi dell’ente secondo le categorie, la quale giustifica il passaggio logico dall’eternità del movimento circolare a quella della sostanza che ne è soggetto; dall’altra, il postulato (dialetticamente dimostrato in Fisica Q 4) secondo il quale tutto ciò che è mosso è mosso da qualcosa; inoltre, il presupposto assiologico e ontologico per il quale principio di una sostanza deve essere una sostanza; al centro, sta la priorità e dunque l’eternità dell’atto, comune al tempo stesso sia al motore che al mobile (cfr. Phys. G 3.202a13-16, e supra, § 4.5): di modo che, se eternamente in atto è il mosso, tale sarà anche il motore; e un motore eternamente in atto sarà a sua volta esso stesso eterno, come fra breve vedremo più precisamente.

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4.7. Fra il capitolo 7 e il capitolo 8: la dimostrazione relativa al primo motore immobile e il conseguente computo delle sostanze non sensibili Nel capitolo 7 si compie dunque il passo successivo93. L’inizio di tale capitolo è ancora parte dell’argomento precedente, che conclude all’eternità del cielo in 1072a23. Ma rapidamente poi si perviene al punto culminante della rassegna delle “tre sostanze”, il punto in cui si mostra l’eterna immutabilità del motore del cielo, e, con questo, l’esistenza di una sostanza eterna ed immobile, cioè non sensibile (1072a24-26). Su questa nozione di motore ajkivnhton si sofferma poi tutta la prima parte di Lambda 7. Un primo epilogo, in Lambda 7, si trova, non proprio alla fine del capitolo, ma in 1073a3-5. La restante parte 1073a5-13 va intesa come una breve serie di corollari o appendici, sviluppati in relazione stretta con la conclusione appena raggiunta. A fine capitolo, ritroviamo una nuova conclusione, vuota di contenuti ulteriori, ma ben marcata: “Queste cose dunque è chiaro perché stiano in questo modo”. Il passaggio alla sostanza non sensibile è strettamente dipendente dall’argomento precedente. Una tale sostanza è reperita come principio causale immobile della sostanza eternamente mossa del cielo, che al tempo stesso da parte sua è motrice rispetto alla restante parte del cosmo; essa è mossa, motrice e intermedia, argomenta Aristotele proprio in Lambda 7 (1072a24): si è mostrato infatti che si muove eternamente e che muove la restante natura, dunque “dev’esserci a sua volta qualcosa che la muove”: un principio motore immobile. Più in generale, in effetti, trattandosi di cause, il punto principale è l’esistenza di un primo principio non causato, che preveda il movimento del corpo mosso (vuoi direttamente, vuoi

93

Di altri aspetti del capitolo 7 tratto supra, §§ 1, 1.3, 1.4, 2.5, 3.4.

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indirettamente, come precisa Fisica Q); è allora conseguente che, trattandosi di cause di movimento, si debba postulare un movimento che non sia causato da alcun movimento. In questo modo viene postulato come primario un tipo di causa immobile, dunque non materiale, dunque non sensibile. Il postulato di un principio non causato per ogni movimento è d’altronde centrale in tutta la filosofia prima aristotelica. Un testo di riferimento specialmente significativo in proposito è Alpha elatton 2, dove appunto è chiaro che questo è un postulato. Così deve essere; altrimenti, “come sarebbe possibile conoscere, se non ci fosse nulla di primo?”. È necessario un termine primo non causato, afferma dunque Alpha elatton, anche se nulla osta a che ci siano intermediari, e quanto si voglia numerosi (2.994a15-16). Specularmente, afferma inoltre lo stesso testo, adducendo lo stesso ordine di ragionamenti, ci deve essere un termine ultimo, causato da altri, che non sia causa di nulla (ponendo così un postulato, si noti, non meno speculativo e problematico di quello di una causa prima). Così, anche nel libro Q della Fisica la base dell’argomento è il postulato di una causa prima, all’inizio della serie (per quanto lunga sia) dei motori e dei mossi; dunque, di un motore primo, non mosso da altro, se non anzi non mosso affatto. Il testo della Fisica che possediamo manca di articolare nettamente la differenza fra due possibilità: un motore non mosso come parte motrice del principio semovente (cfr. supra), e un motore esterno immobile. Di quest’ultimo, non dice nulla. Ma questo almeno è chiaro: che ci dev’essere all’inizio della serie un motore non mosso da altri, e anzi, a quanto pure ivi Aristotele argomenta, ci dev’essere un motore immobile94. 94

Per una considerazione critica del rapporto fra Lambda 1072a24 e Fisica Q 5 cfr. Laks, ad loc. Inoltre per tutto questo argomento è importante tenere presente il De motu animalium, sia nel suo complesso – perché il vero argomento del trattato è il principio del movimento in

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È importante in primo luogo aver chiaro che non è dunque questo, non è l’esistenza di un primo motore immobile ciò che Lambda mira ad argomentare; proprio di Lambda, piuttosto, è che questo motore primo e immobile debba essere sostanza. In questo, Lambda si distingue in parte dalle teorie psicologiche, specie quelle del De anima (reperibili anche in una parte del De motu animalium, cap. 6), che vedono il motore immobile dell’azione volontaria in un fine da conseguire e non in una sostanza separata. Solo in Lambda invece si sarà dimostrato che esiste una sostanza immobile, che è dunque assolutamente immateriata ad ogni riguardo, e dunque non è sensibile. L’epicentro del libro sta, caratteristicamente, come già rilevato, all’intersezione fra le ricerche sul principio di movimento e l’analisi modale, categoriale, dell’ente. A dettare la strada, in entrambe le prospettive – pur fra loro differenti – sono le esigenze del pensiero discorsivo, del linguaggio filosofico, della comunicazione scientifica – esigenze in ultima analisi inscritte nella struttura stessa della lingua greca, e, specialmente, del lessico e delle forme di argomentazione in uso nell’Accademia (il che aiuta a spiegare la rilevanza e la fortuna storica del libro). Stando così le cose, peraltro, non è stupefacente che qui Aristotele non si attardi ad indagare né la natura dei molti motori immobili postulati nel capitolo 8, né il loro tipo di rapporto reciproco. Come la natura del mobile eterno, che verosimilmente è il cielo, così anche la natura del motore immobile è un punto oscuro in sé, che Aristotele, piuttosto che risolverlo in modo dogmatico o controvertibile, lascia a quanto pare inesplorato per ogni altro aspetto che non sia quello da affrontare per la dimostrazione ontologica in corso. Egli dà invece importanza alla questione di sapere se il primo motore sia istanziato in uno o in più esemplari. Al riguar-

generale (il titolo è fuorviante) sia in particolare 1.698a7-11, come ho argomentato in Sur la composition, cit.

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do, dice espressamente che ce n’è solo uno, in L 8.1074b31-8, per motivi di ordine logico: i primi motori non si possono distinguere fra loro se non vi è assolutamente materia nel primo motore; pertanto, se non si possono distinguere, non si possono nemmeno moltiplicare. L’argomento, anche in questo caso, non si disperde in dettagli descrittivi, ma mira solo al punto principale: è possibile contare, con questo sistema, il numero dei motori. Altrimenti, non sarebbe possibile. Se fosse infatti possibile avere molti universi, sarebbe impossibile contarli, e sarebbe così impossibile contare sia i primi motori, sia i secondi, sia tutti gli altri motori. L’intero argomento di Lambda 8 sarebbe vanificato. L’unicità del primo motore consente invece di mantenere ferma l’unicità della catena e della connessione causale. Ciò che importa è, appunto, questa connessione causale: la prima sostanza immobile è principio causale per la sostanza eterna mobile (tutta) e questa lo è per la sostanza corruttibile (tutta). Nessuna parte dell’universo usiologico e ontologico aristotelico sfugge a questa interconnessione in termini di causalità efficiente. È questa la sua forza, vantata in chiusura del libro, per contrasto con i seguaci di Speusippo: quelli che dicono che c’è come primo il numero matematico e che in questo modo dopo una sostanza c’è sempre un’altra sostanza, e che per ciascuna ci sono principi diversi, rendono episodica la sostanza del tutto: allora infatti le sostanze non contribuiscono una all’altra con il loro esserci o non esserci e i principi sono molti (1075b37-1076a3). Dunque l’unità del principio, cui inneggerà la citazione omerica (10.1076a4), è perseguita per esigenze sistematiche: il fatto è che se le sostanze non comunicano (così avverrebbe se le sfere di questo universo non comunicassero, o se di universi ce ne fossero più d’uno), e se non ce n’è una che sia principio di tutte le altre, non è possibile unificare e coordinare i principi, nel

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senso che non si può dire che ci sia una sostanza (quale il cielo in Lambda) i cui principi siano principio di tutte le sostanze. Ora, Lambda persegue precisamente questo intento, su larga scala, in modo sistematico e senza omettere alcuno dei passaggi necessari nel contesto proprio del libro: far comunicare fra loro tutti gli ordini di sostanze.

4.8. Il capitolo 8 L’argomento che manca per determinare il numero delle sostanze è tema del capitolo 8, ove Aristotele dimostra che i motori non sono a[peira, non sono cioè né infiniti, né impossibili da contare (cfr. 1073a4s.). Il capitolo 8 è introdotto da un esordio programmatico, che ne indica il soggetto e lo costituisce come una sezione nettamente delimitata nell’ambito del libro. Tre tipi di considerazioni si intrecciano nell’esordio – come tipicamente avviene nei più articolati esordi aristotelici – strettamente connesse e dipendenti le une dalle altre: – l’indicazione del programma da svolgere, – cenni alle opinioni dei predecessori, – indicazioni di metodo. È in primis a questo riguardo, che il riconoscimento della debolezza metodologica dei predecessori impone l’esigenza di un superamento (il che non impedirà di riconoscere a più riprese anche i limiti dell’esposizione in corso, 1073b12, 1074a16s.). Come Aristotele infatti osserva anche in Alpha 9 (990b8-17, cfr. M 4.1079a4-13), fra i punti deboli delle teorie accademiche della sostanza non sensibile c’è l’incapacità di giustificare il computo delle sostanze non sensibili, che pare potersi ampliare indefinitamente o ridurre in modo arbitrario. Infatti i loro argomenti al riguardo non sono conclusivi: da una parte non dimo-

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strano a sufficienza, dall’altra, se li consideriamo validi, mostrano l’esistenza di entità più numerose del desiderato. Questa critica si trova sullo sfondo in tutto il libro Lambda95, ma vi è tematizzata per la prima volta nell’esordio di Lambda 8, al momento di discutere il numero delle sostanze immobili. Dice ora: quanto al numero [delle sostanze non sensibili, i Platonici] non hanno dato alcuna indicazione chiara. Infatti la teoria delle idee non presta alcuna attenzione a questo aspetto: coloro che parlano delle idee, dicono che sono numeri; ma quanto ai numeri, ne parlano a volte come se fossero infiniti, altre volte, come se fossero limitati alla decade; e quanto al perché i numeri debbano essere in tale quantità, non si curano di dare alcuna dimostrazione (8.1073a16-22). Questo dunque è il limite da superare: l’indeterminatezza, che deriva dall’incapacità di dimostrare chiaramente il numero delle sostanze non sensibili; e questo per converso è il punto di forza della teoria aristotelica della sostanza non sensibile: l’essere potenzialmente in grado di determinare il numero di tali sostanze, a partire da nozioni definite e con abito dimostrativo. Questo è ciò che Aristotele intende con il (levgein) ejk diorismevnwn e con spoudh; ajpodeiktikhv96. È un esito inattingibile ai predecessori, a meno di non basarsi su speculazioni numerologiche di tipo pitagorizzante e prive di credibilità come quelle citate in L 8.1073a19-22. 95

Questo argomento di Alpha, come già evidenziato, riecheggia anche e specialmente in 1.1069a22s., cfr. inoltre 3.1070a26s. 96 Aristotele afferma di voler partire da una base di dati determinati (se possiamo interpretare così hJmi'n dΔ ejk tw'n uJpokeimevnwn kai; diwrismevnwn lektevon, 1073a22s.) e anche questa a quanto pare è una critica indiretta ai predecessori. Quest’ultima connotazione illumina anche il significato programmatico di spoudh; ajpodeiktikhv, che non annuncia una dimostrazione apodittica in stile geometrico o comunque

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La soluzione è resa possibile dall’identificazione delle sostanze non sensibili, non computabili in sé, con i motori immobili di sostanze sensibili, e, in potenza (sia pur difficilmente), computabili. Ma riprendiamo con ordine. Innanzitutto, la soluzione all’impasse delle teorie precedenti, incapaci di definire il numero dei principi, passa per la strumentalizzazione delle teorie astronomiche: queste, al tempo di Aristotele e specialmente nell’ambito dell’Accademia, distinguono e contano i moti circolari regolari e uniformi che risultano necessari a spiegare, per composizione, i moti apparentemente irregolari degli astri (cfr. la famosa testimonianza di Simplicio In De cael. 488.18-24). L’idea di Aristotele, probabilmente innovativa nel settore (visto che non sono noti precedenti sicuri in tal senso, e che essa presuppone un’interazione originale fra astronomia matematica e ontologia aristotelica), è usare il computo delle sfere stesse per inferirne quello dei motori, sostanze immobili in sé, ergo, non sensibili. Indubbiamente Aristotele si può essere ispirato a modelli meccanici costruiti, necessariamente, con sfere rotanti per riprodurre i diversi moti. Ma l’inferenza dal moto alla sostanza mobile e alla sostanza motrice non mobile ha in Lambda una valenza speculativa inedita e probabilmente inesplorata. In questo naturalmente ha ragione Lloyd, quando dice che gli Accademici non si erano occupati di motori immobili, né in generale, né per dimostrare l’esistenza di sostanze non sensibili. Aggiungiamo che il libro Q della Fisica stesso, già più volte evocato, non tratta affatto di sostanze, ma solo di funzioni motrici, quelle direttamente implicate nel movimento: motore e scientifico (il principale senso considerato nel classico saggio di Lloyd, ad loc., p. 253), ma va inteso, con un abbassamento di pretese cognitive, come un procedere a partire da dati noti e determinati. In tal senso può essere forse valorizzata la presenza di spoudhv: spoudh; ajpodeiktikhv non è lo stesso che ajpovdeixi", perché spoudhv indica la tensione, il tentativo, piuttosto che l’esito raggiunto.

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mosso. Di queste funzioni già si è ricordato Aristotele nell’argomento per “simmetria” (a quanto si ritiene – ma è un’etichetta da rivisitare, cfr. supra, § 2.5) e già ne ha tratta un’inferenza sostanziale che ivi era assente. Ha detto infatti che poiché il cielo “è mosso, motore e intermedio, c’è dunque qualcosa che lo muove senza essere mosso” (7.1072a24s., cfr. già I, nota ad loc., e infra, Comm. ad loc.). Il duplice ruolo del cielo, eterno motore dei cicli naturali, esso stesso a sua volta eternamente mosso, rimanda al postulato di un primo motore non mosso. Ora si tratta di moltiplicare la conseguenza, i.e., l’esistenza di una sostanza motrice immobile, tante volte quante sono i moti circolari postulati dalle ipotesi astronomiche. Ciò non comporta la rinuncia a una gerarchia precisa e a una suddivisione su più livelli di causalità: il primo motore è direttamente motore per la prima sfera, e indirettamente per la seconda e le successive, le quali però primariamente sono mosse anche di per sé, in quanto ciascuna di esse è una “sostanza tale” (toiauvth oujsiva, 1073a14), quale è la prima. Il risultato è una serie di sostanze non sensibili: ciascuna di queste, dalla seconda in poi, è mobile per accidente, in quanto è inerente a una sfera che è mossa non solo di per sé (ciò infatti non comporta movimento del motore), ma anche da altro. Ciò mostra che tali sostanze, pur non sensibili, hanno un’implicazione nella corporeità delle sfere, che impedisce di pensarle come interamente trascendenti: un problema aperto, questo, che merita almeno di essere registrato. D’altronde anche questa teoria di Lambda 8, come altre dimostrazioni, è, in parte esposta, in parte, solo adombrata. Non ogni aspetto riceve speciale attenzione e non tutti i dettagli sono chiariti. È chiaro soprattutto il procedimento di fondo, sulla base del quale è ora possibile contare le sostanze immobili, annoverandone, exempli gratia (non c’è sicurezza assoluta nel computo), cinquantacinque, né più, né meno (o alternativamente, quarantasette, né più, né meno, cfr. 8.1074a11s., 13s.).

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Ma come va intesa la cifra cinquantacinque? Le sfere, e i motori, saranno cinquantacinque in tutto o al modo in cui le dita delle mani sono dieci per ogni uomo? Tutto in effetti dipende da quanti sono gli universi, ed è allora imprescindibile l’argomento secondo il quale “che vi è un solo universo, è chiaro” (cfr. 1074b31-8 e supra, § 4.7). Poiché infatti c’è un solo universo, i motori e cioè le sostanze immobili risultano essere cinquantacinque in assoluto, di numero individuale, e non solo distributivamente, per ciascun universo. Senza quest’ultimo passaggio sarebbe impossibile considerare superato un modo relativo e debole di numerazione, affermare dunque un vero vantaggio competitivo sulle dottrine precedenti. Quale vantaggio ci sarebbe infatti a contare le sfere del nostro cielo se non ci fosse modo di dimostrare quanti sono i cieli? Tuttavia, proprio a questo riguardo l’esposizione di Lambda 8 è stata criticata come incoerente, e.g. da Ross (II, p. 384, sulla scorta di altri, incluso Jaeger, Aristoteles, cit., pp. 366-92). Il rilievo essenzialmente pare questo: non è sembrato facile conciliare la teoria della pluralità di motori immobili centrale in Lambda 8 con una tale, successiva dimostrazione dell’unicità dell’universo, via l’unicità del primo motore – unicità che sembra peraltro confermata da altri luoghi del corpus, i quali parlano del primo principio al singolare. L’incoerenza però non è tale, se si adotta il punto di vista di Aristotele. Questi ultimi passi si riferiscono al primo motore immobile, che resta unico in quanto primo; altrimenti non avrebbe senso l’affermazione di Lambda 8, secondo la quale gli altri motori (ovvero sostanze immobili) sono secondo, terzo e così via, nello stesso ordine nei moti celesti che ciascuno di essi è chiamato a spiegare. Una diversa obiezione, che si può risolvere nella stessa direzione, è mossa da Lloyd ad 1073a17, p. 253, che accusa Aristotele di essere qui ingiusto nel suo rimprovero ai platonici. Lloyd dice infatti che nessuna delle due opinioni qui citate da Aristotele nell’esordio – né quella che i numeri

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siano infiniti, né che siano limitati in virtù della decade (cfr. anche M 8.1084a14ss.) – «affronta il problema del quale Aristotele intende occuparsi, quello del numero dei principi motori immobili, perché nessuna di esse ha alcunché da dire, evidentemente, sulla relazione fra qualunque tipo di sostanza eterna immobile in questione e qualche, ulteriore tipo di sostanza mossa che le sostanze immobili siano incaricate di muovere. Può Aristotele essere difeso dall’accusa di polemica gratuita?». Invero, l’argomento può essere rovesciato: proprio perché, come Lloyd riconosce, Aristotele è il primo a costruire la teoria della sostanza non sensibile sulla dottrina fisica del motore immobile, egli supera le difficoltà degli Accademici relative alla sostanza non sensibile. La polemica non appare più gratuita, ma funzionale, se si considera innanzitutto quanto centrale sia nel libro Lambda la dimostrazione di un ordine non sensibile di sostanze in quanto tale (prima che di un motore immobile in quanto tale), e in secondo luogo quanto precisamente la breve sezione dossografico-polemica 1073a16-22 qui sopra citata riguardo al problema della computabilità, riprenda un tema ben radicato anche altrove nella Metafisica (come già rilevato in relazione ad Alpha, My), disegnando così la struttura del superamento da attuare in questo capitolo. In una tale prospettiva, dunque, l’argomento di Aristotele appare infatti diverso, ma la sfida affrontata, non meno impegnativa. Non si tratta di chi meglio sappia contare i motori immobili (i Platonici non avevano concepito le sostanze non sensibili come cause di movimento, ma piuttosto di immobilità, dunque in effetti una tale critica sarebbe insensata, come nota Lloyd), bensì di contare le sostanze immobili. Se non si possono contare, è segno che non si è veramente in grado di dimostrarne l’esistenza (sia pure nel senso induttivo e relativamente debole in cui questo è possibile secondo Aristotele). In questo modo, principalmente, la dottrina di Aristotele è in concorrenza con quella dei precursori più immediati.

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Sul contenuto del capitolo torneremo nelle note di commento. In particolare, non è possibile una revisione della vulgata che identifica senz’altro e sicuramente con Aristotele l’autore della terza teoria riportata (1073b38-1074a14, cfr. ad loc. I e qui infra, Comm.): semplicemente, non ce ne sono prove, e Aristotele non dice mai che la teoria è sua. Ciò non toglie nulla alla necessità di questo capitolo, e di tutte le sue parti, nell’economia del libro. Tale necessità del capitolo 8 per l’argomento di Lambda prescinde, sia dall’identificazione delle sue fonti prossime (per esempio nel caso or ora menzionato), sia dalla cronologia relativa della sua composizione; essa va decisamente riaffermata, a fronte delle perplessità talora suscitate al riguardo (e in parte discusse già da Ross, ad loc., II p. 384). Si è notato per esempio, da una parte, uno stile di redazione più curato che altrove nel libro (vi si è riscontrata una certa cura nell’evitare lo iato, come in vista di una pubblica lettura); dall’altra, un problema di coerenza, non solo per la contestuale affermazione della molteplicità dei motori e dell’unicità del primo motore, ma perché l’argomento a favore di questa sembra confliggere con quella. Ora, il primo punto riguarda la cronologia relativa e il modo di redazione e può considerarsi secondario, almeno se non è strano che un autore componga parti diverse di un’opera in tempi e occasioni diverse. Il secondo punto però è interessante, così da meritare qualche considerazione, tanto più che la posta in gioco – per così dire – è altissima: ammonta pressappoco al problema della finitudine o meno dell’universo fisico, tema che non può esser qui ampliato, ma almeno esaminato per vedere in che modo volutamente vi contribuisca in Lambda Aristotele. L’unicità della sostanza immobile prima, argomentata nel passo in esame (1074a31-38), riguarda quella sostanza che è motore del cielo delle stelle fisse, e dell’intero inverso (7.1072b13s.). Su questa base, però, già Plotino obiettava che è difficile distinguere tra loro anche i diversi motori, se

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neppure essi hanno materia (Enn. V 1.9): ciò che non ha materia non ha principium individuationis. Ciò nondimeno, la visione aristotelica ha una sua coerenza a questo riguardo: l’argomento sull’unicità del cielo rinforza precisamente quelli di De caelo A 8-9. Segnatamente, da una parte rinforza, come per cumulo, l’argomento di De caelo A 8, basato sulla dottrina nei luoghi naturali: in coda a questo, Aristotele per converso può riferirsi al nostro argomento come all’argomento della filosofia prima, cfr. 8.277b9s. D’altra parte, un tale argomento è complementare alla più speculativa dimostrazione di De caelo A 9, che appunto mobilita il concetto di materia come principium individuationis. In questo appunto si nota una continuità fra De caelo A e Lambda 8.1074a31-8. Qui infatti si attesta – per contrasto – un concetto di materia diversamente connotato rispetto ad altre parti del libro97. Ma nemmeno è banale accordare l’argomento di Lambda 8 con quello del De caelo A 9. Indubbiamente, i due testi convergono, anche se gli scopi sono diversi. Il De caelo appunto mostra la finitudine dell’universo, via la sua riduzione al nostro unico mondo e sistema cosmologico; Lambda 8 usa un siffatto argomento per mettere capo, correlativamente, a un unico primo motore immobile, e dunque a un unico, razionale sistema di mossi e motori, dove il novero di questi ultimi costituisce il novero delle sostanze immobili e assolutamente immutabili. Ambedue i testi ricorrono all’opposizione fra quiddità (to; de; tiv h\n ei\nai – concetto che Lambda riferisce al primo motore solo in questo contesto) e sinolo: in riferimento a una sola essenza, il sinolo individuale è l’unico a potersi moltiplicare numericamente, solo però in presenza di corrispettiva materia (cfr. anche De caelo 9.278a8-10). Per questo appunto la materia 97

Mi riferisco segnatamente a L 2.1069b6-9, ove materia è il sostrato che subisce mutamento, in quanto subisce mutamento; e anche a L 6.1071b2022, ove materia è il sostrato di ciò che non è eterno, bensì subisce generazione e corruzione.

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vale da principium individuationis. Per contrasto, si capisce la frase in Lambda 8, “l’essenza prima (to; de; tiv h\n ei\nai ... to; prw'ton) non ha materia”. Invero, to; de; tiv h\n ei\nai è per definizione senza la materia (come ricorda il testo stesso di De caelo A 9 qui in esame, in 278a2-4), così è necessario, se l’affermazione si deve distinguere da una mera tautologia, intenderla in senso forte e universale: “non ha materia” significa qui che è sempre senza materia, cioè non si unisce mai alla materia. Non manca un’evoluzione almeno logica fra i due testi: quello di Lambda 8, più speculativo, raggiunge la massima economia argomentativa, un’economia inattingibile al De caelo, ove Aristotele non fa compiutamente riferimento una dottrina della sostanza non sensibile. L’esito, complessivamente considerato, è destinato a un ruolo storico capitale: comporta infatti, una dimostrazione teoricamente strutturata della finitudine dell’universo, virtualmente definitiva e, pertanto, infinitamente problematica98.

4.8.1. Nota sul valore documentario del capitolo 8 per la storia delle teorie astronomiche antiche Il problema posto da Lloyd tuttavia è molto interessante perché mostra quali siano gli inconvenienti e anche i cortocircuiti possibili, quando Lambda 8 venga letto estrapolato dal contesto, come, in un certo senso, è consuetudine, e come è stato quasi necessario. Una tale estrapolazione di materiali è avvenuta principalmente per estrarne documenti imprescindibili, per la loro autorevolezza e antichità, ai fini di una ricostruzione di storia positiva della scienza: tali sono diventate le notizie aristoteliche relative ai sistemi di Callippo e di

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Ringrazio molto Tullio Gregory per la discussione di questo aspetto, sul quale spero di poter tornare in futuro.

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Eudosso, e alla terza teoria (usualmente attribuita ad Aristotele99, ma cfr. I, Note ad 8.1074a13s., e qui infra). In ragione di queste notizie, Lambda 8 ha una tradizione esegetica a se stante, che è specifica pertinenza della storia dell’astronomia. In età moderna, questo tipo di approccio a Lambda 8 (che pure ha tutta una storia di precedenti in età tardoantica, come mostra il caso di Simplicio In De caelo), è stato inaugurato da Giovanni Virginio Schiaparelli (1835-1910), matematico e astronomo a Brera (Milano), nonché senatore per il Regno d’Italia. I suo saggi di storia dell’astronomia antica (del 1873, 1875, 1877) hanno avuto, come ricorda Lloyd, un ruolo centrale per la rivalutazione di Eudosso e Callippo quali primi testimoni di una fase del pensiero astronomico nella quale l’esperienza interagisce con postulati di ordine teorico caratteristicamente greci. Non moltissimo ha potuto essere aggiunto dagli studi più recenti citati da Ross, ad loc. (Dreyer e Heath), anche a causa della natura fondamentalmente limitata delle fonti disponibili. Schiaparelli, oltre ad Aristotele Lambda 8, faceva uso intensivo ed estensivo del commento di Simplicio al De caelo, che al suo tempo era parzialmente edito da Brandis (Aristotelis Opera IV, 1836: è uno dei volumi supplementari 99 Come segnalo in sede di commento, non c’è attestazione sicura che l’ultima teoria esposta (1073b38-4a5) sia propria di Aristotele; questo tuttavia è ciò che mi pare si ritenga comunemente, forse per una sorta di argomento e silentio (scil.: la prima teoria è di Callippo, la seconda di Eudosso, la terza di chi altro potrebbe essere se non di chi scrive?). Alternativamente, quella teoria potrebbe riassumere gli esiti di un dibattito di scuola intorno a quelle teorie, animato da qualche contemporaneo di Aristotele, che senza dedicarsi in proprio ad osservazioni astronomiche (questa mi sembra in effetti la differenza principale rispetto alle due teorie precedenti: il fatto che essa non considera dati diversi o ulteriori) aveva vagliato la coerenza teorica di quelle ipotesi sulla base di una questione fisica relativamente semplice ma tutto sommato ben fondata, quale per es.: come può la sfera delle stelle fisse muovere quelle inferiori solo selettivamente, alcune sì (quelle più esterne di ogni pianeta), se fra una sfera esterna e l’altra stanno ogni volta le successive?

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dell’edizione Bekker; l’edizione integrale doveva aspettare I.L. Heiberg 1894, CAG VII, Berlin). Simplicio stesso, nel suo commento al De caelo, specie B 12 (p. 488ss.), cita ampiamente Metafisica Lambda e il commento ora perduto di Alessandro al De caelo, non senza altri scritti di Alessandro (e della scuola). Alessandro, da parte sua, commentava il passo facendo riferimento alla Metafisica, e citava ampiamente Sosigene, astronomo egli stesso, e forse anche traendole da Sosigene portava notizie addizionali sull’astronomia al tempo di Aristotele; fonte originaria potè essere la Storia dell’astronomia di Eudemo, pure citata nel testo di Simplicio. Con questo le nostre fonti principali erano già disponibili, parte direttamente, parte indirettamente, con l’edizione di Brandis (1836, in part. pp. 497504). Infatti molte ricostruzioni attuali sono ancora svolte sulla falsariga degli studi di Schiaparelli e delle prime generazioni successive (cfr. supra). Caratterizza alcuni studi contemporanei più innovativi un atteggiamento di tipo prudenziale, che consiste nell’evitare ricostruzioni e silentio che non siano positivamente supportate dalle fonti. Un esempio certo è il caso di Eudosso e il problema della corporeità delle sfere. Eudosso propone un totale di ventisei sfere concentriche per spiegare i movimenti dei due luminari e dei cinque “pianeti”, ma non risulta proporre (nel testo aristotelico) alcuna spiegazione di come le diverse sfere riescano a trascinare il proprio pianeta insieme alla sfera delle stelle fisse, la più esterna di tutti, valida per tutti gli astri, senza che ogni pianeta successivo sia trascinato, oltre che dalle proprie sfere e da quella delle stelle fisse, anche da tutte le sfere secondarie dei pianeti superiori. Nemmeno in Callippo questo problema sembra incontrare risposta. Aristotele, come vedremo, dopo aver esposto la teoria di Callippo fornisce una spiegazione dettagliata a questo problema, quella delle sfere compensatrici. Di qui Schiaparelli ha supposto che solo per Aristotele le sfere fossero corpi, mentre per Eudosso e Callippo sarebbero state costruzioni geometriche ovvero, come diremmo

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ora: strumenti esplicativi. Questa è nota oggi come lettura “strumentalista” delle testimonianze su Eudosso. Ma ora è stata abbandonata, in vista della letteratura più recente, anche da Lloyd che vi aveva aderito in passato100. Ciò mostra almeno che la riflessione sullo statuto teorico di queste teorie si può ancora evolvere. Indubbiamente, è significativo che Aristotele concluda questa sua esposizione con una siffatta teoria: questa, a differenza delle precedenti, si caratterizza non per una distintiva competenza astronomica da parte dell’autore, ma per la presa in carico delle implicazioni fisiche del contatto fra sfere – intese, queste ultime, non solo come costruzioni geometriche, ma come sostanze sensibili materiate. Ed è appunto significativo che questo valicamento di confini – se è tale – dalla matematica alla fisica avvenga proprio ora, a corollario del singolare argomento aristotelico – cioè della dimostrazione centrale di Lambda 6-7 – nel quale le speculazioni di filosofia prima, che mettono capo alla sostanza come senso primario ovvero “focale” dell’ente, danno compimento ontologico a quelle sul principio del movimento, che concludono il ciclo dei trattati di fisica (Fisica Q in particolare).

4.9. Fra Lambda 7 e Lambda 9, il problema dell’intelletto Percorsa dunque in Lambda 8 una siffatta, selettiva rassegna di dottrine astronomiche, Aristotele torna, con il capitolo 9, a un tema della più grande importanza, esso pure suscitato dalla

100 Cfr. A.C. BOWEN, La scienza del cielo nel periodo pretolemaico in Storia della scienza, dir. da S. PETRUCCIOLI, vol. 1 a c. di E. BERTI, Istituto Enciclopedia Italiana, Roma 2001. Nella stessa prospettiva vanno letti i rilievi e le cautele formulati in I ad 1074a13s. sul possibile contributo aristotelico alla formulazione di tali teorie: un tale contributo, senza poter essere escluso, non può essere affermato con sicurezza: dipende infatti da un’interpretazione del testo possibile, ma incerta.

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teoria del capitolo 7: lo statuto ontologico, la natura, il ruolo dell’intelletto. Come le indagini dei capitoli 4 e 5, e come quelle del capitolo 10, anche questa si apre espressamente all’insegna di una ricerca sulla modalità secondo la quale i diversi concetti devono essere articolati e pensati nel sistema. L’indagine ha carattere aporetico, rispondendo progressivamente a una serie di obiezioni e difficoltà, in buona parte implicite, che sarà utile qui evidenziare. In L 7.1072b14-30, la breve sezione sull’intelletto si apre e si chiude nettamente, separata com’è per il suo argomento. Sopra (7.1072a26, 30) Aristotele ha posto l’intelligibile come principio immobile di movimento, e ha dichiarato “intelligibile” la sustoiciva positiva della quale è primo elemento la sostanza prima, semplice e in atto: questa è dunque il primo degli intellegibili (1072a30-32). Questo è il centro teorico del trattato. Nel corpo di quella sezione, a partire da L 7.1072b14, si compie un passo ulteriore: si fa cruciale l’identificazione dell’intelletto (nou'") con l’intelligibile, e, tramite questo, con quel principio immobile di movimento, che sopra, appunto, era descritto come intelligibile 101. Da qui in poi diventa centrale la funzione dell’intelletto: l’intero paragone con 101 L’esito di una tale identità, porre l’intelletto stesso o comunque l’anima come principio del movimento circolare del cielo, non è privo di relazione con quanto Platone prospetta, altrove (nel Timeo) e per es. in Leg. X 897a-b. Fra le tre opzioni prospettate per la definizione dell’anima degli astri ibid., 898e, senza dubbio si trova attivata la prima, l’unica compatibile con la definizione aristotelica di anima come forma del corpo organico: “stando dentro questo corpo circolare visibile, lo trasporta dappertutto, come l'anima che è in noi ci porta in giro dovunque” (traduzione di F. FERRARI, Rizzoli, Milano 2005, p. 889). Indubbiamente, peraltro, Aristotele rimane sotto l’influenza di Anassagora (tanto è vero che la concezione dell’intelletto come non passivo e non-mescolato di Anassagora è al centro della riflessione di De anima G 4, 5 e 6). E quanto alle sue citazioni ad Anassagora nel corso del libro Lambda, esse hanno in effetti carattere complessivamente positivo. L’idea di un primato dell’intelletto è dunque sicuramente pregressa.

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l’attività noetica umana è chiara traccia dello spostamento dell’argomento, dall’intelligibile, all’intelletto stesso, nonostante l’ellissi di qualunque elemento di transizione, eccetto il dev, semplice indicatore sintattico neutro e minimale. Il tema dell’identità fra l’intelletto e l’intelligibile compare infatti direttamente, là dove dice: auJto;n de; noei' oJ nou'" kata; metavlhyin tou' nohtou' (1072b19s.)102. Qual è il suo ruolo? Invero, in quella sezione di Lambda 7 si attua e comincia ad elaborare la transizione dal punto essenziale, sin lì acquisito prima per regressus, poi per sustoiciva – l’esistenza di un ordine di sostanza non sensibile, immobile, intelligibile – a una vera e più comprensiva teoria che renda ragione del suo ruolo di principio, secondo il postulato dell’eccellenza e priorità del principio rispetto a ciò di cui è principio. Può infatti non essere chiaro in sé che ciò che è intelligibile sia in quanto tale eccellente (forse, perché è la componente formale, a essere isolata dalla materia nell’atto del pensiero?). Ma la sostanza prima, che si postula come prima fra gli intellegibili ad ogni riguardo, è, per definizione ottima, divina, eccellente. Lo dice in 1072a35s.: “Ciò che è primo è sempre ottimo o analogo all’ottimo”. E tuttavia, che cosa vuol dire “ottimo”?103 Ora, poiché per Aristotele ciò che è animato e vivo è migliore di ciò che non lo è (questo è postulato fondativo della concezione aristotelica del mondo vivente, ma anche della sua ontologia), è indispensabile che nel principio sia insita la vita. Dice infatti: kai; zwh; dev ge uJpavrcei, 1072b26, da tradurre: “gli appartiene anche vita” (piuttosto che “esso/egli è vita” secondo al-

102 Una tale identità si pone peraltro in continuità con la concezione diffusa degli antichi secondo la quale la conoscenza, in primo luogo la sensazione, avviene fra simili o per assimilazione, cfr. De anima, passim, e.g. A 2.405b15, A 5.409b26s.; G 3.427a27s. 103 In tal senso, c’è un tratto comune con il procedimento assiologico per sustoiciva e coppie polari nella precedente parte del capitolo, 1072a27-b13: l’eccellenza del principio fa da guida in entrambi i casi. Cfr. Comm. ad loc.

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cune traduzioni correnti104). Questa vita è attività propria dell’intelletto, che è anima. Qui è dunque avvenuta la transizione; e di qui il detto famoso (forse anche sovra-interpretato) di Lambda 7: “L’atto dell’intelletto è vita”, hJ ga;r nou' ejnevrgeia zwhv (1072b26s.). Ma che cosa giustifica l’affermazione successiva, che la vita che “gli” appartiene è la vita migliore e più piacevole? Si tratta ancora di un generico principio di assiologia? Sembra che vi sia qualcosa qui che il testo non dice, ma sottintende stabilmente. Divino è l’intelletto. Questo è infatti orientamento, costante nella concezione aristotelica del principio primo e divino: esso è in effetti intelletto già nel giovanile peri; filosofiva"105. Così anche nel perduto Sulla preghiera106: “il dio o è intelletto o qualcosa di superiore all’intelletto”. D’altra parte, come Berti pure sottolinea, non c’è alcun bisogno di porre “Dio” con la maiuscola per parlare dell’intelletto come dio; e non c’è nemmeno bisogno di pensare che, per tutta la sezione sull’intelletto di Lambda, l’intelletto sia il motore immobile. Tolte le menzioni dell’eternità, esso non ha qualifiche che non siano umane. Qui Aristotele anzi non manca di parlare dell’attività intellettuale in prima persona plurale107. Probabilmente, dunque, per noi esseri umani tutti, in quanto capaci di attività intellettuale, vale almeno una parte di ciò che Aristotele dice dell’intelletto, in un’esposizione che è in qualche modo separata e più generale rispetto a quella sul 104

Cfr. infra, Comm. ad 1072b26. De philosophia, III, fr. 26 (da Cicerone, De nat. deor., sia pur per bocca di un epicureo). Ringrazio specialmente Enrico Berti per la discussione su questo punto. 106 SIMPL. In De caelo 485, 19-22, ap. Ross, p. 57. 107 E. BERTI, Ancora sulla causalità del Motore immobile, cit. In questa direzione si è espressa anche A. STEVENS, La casualité de l’intellect, cit., cfr. supra, n. 8. Stevens pure infatti intende questa sezione tutta quanta come una descrizione della condizione umana più beata, riportata per paragone e analogia all’interno della trattazione sul motore immobile. 105

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primo motore immobile108. Quali conseguenze se ne possano o debbano trarre quanto allo statuto di quell’intelligibile primo puramente in atto, che è il motore immobile, non è esplicito. Lo si deve ricostruire in modo in parte congetturale.

4.9.1. Lo statuto dell’intelligibile e dell’intelletto Può essere utile il De anima, uno degli altri testi aristotelici che postulano un motore immobile: tale è l’oggetto del desiderio (to; oJrektovn); esso muove in quanto è desiderato e ri-conosciuto come desiderabile109. Non si dirà, allora, che è in quanto è immobile che il primo desiderabile muove; ma nemmeno che muove pur stando immobile; piuttosto: in quanto muove per primo, è immobile. Così esso è motore al modo in cui è motore l’intelligibile; muove, cioè, senza muoversi. In quanto motore, dunque, l’oggetto di desiderio è immobile – né importa che accidentalmente abbia in sé mutevolezza o qualunque altra implicazione di materialità. Su questa generale teoria, Aristotele riflette in Lambda a proposito del motore immobile. Il concetto di motore immobile, infatti, è anzitutto un concetto della riflessione 110 . Nel nostro contesto, egli abbina come in una modalità comune la capacità motrice del desiderabile e quella dell’intelligibile, che sono ora affiancati come in endiadi: “muovono (kinei') così il desiderabile e l’intelligibile”. Il verbo (kinei') è al singolare, fenomeno naturale in greco, non in 108

Una tale esposizione, chiudendosi in 1072b14, include la teoria dell’intelligibile primo, sostanza prima e semplice, fine preferibile in sé, con il quale Aristotele identifica se non quel motore, perlomeno un motore siffatto, 7.1072a26. 109 È un riconoscimento la cui importanza sarà ulteriormente sottolineata nel De motu anim., passim, e.g. 7.701a32 e s. 110 Sia detto, questo, usando il linguaggio neo-kantiano di Wieland (cfr. supra, nn. 83 e 89).

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italiano, a fronte di un doppio soggetto, ma nondimeno significativo anche in greco di una concomitanza di valori e prerogative fra desiderabile e intelligibile (sebbene, aristotelicamente, l’anima nel suo complesso pensi e desideri l’uno e l’altro con due diverse facoltà: esse sono reciprocamente articolate111). Da qui in poi, in Lambda Aristotele ha buon gioco a continuare lo sviluppo argomentativo con riferimento all’intelletto e all’intelligibile, tralasciando ormai la facoltà desiderante e l’oggetto rispettivo, di cui ha già parlato nelle sue trattazioni di psicologia. Intelligibile per eccellenza è infatti la sostanza separata, sulla quale verte l’argomento centrale del libro. Ma qual è il suo statuto, il suo modo di esistenza? Preoccupato di rispondere ai Platonici, mostrando la possibilità di meglio argomentare l’esistenza di un siffatto ordine di sostanza, Aristotele non cura troppo di indagarne la natura, se non dove appunto cita l’attitudine umana a praticare quello stesso tipo e modo di attività contemplativa che è proprio dell’intelletto quando è pensiero di sé. All’intelligibile puro, se si vuole procedere con una congettura leggermente più avanzata, si perviene a partire dall’attività dell’intelletto, facoltà dell’anima, capace di identificazione assoluta con quell’intelligibile che sia privo di materia. L’intelletto è esso stesso identico all’intelligibile, e in questo senso è dunque intelligibile in quanto è intelletto. In tal senso, si può dire che il motore immobile per natura è 111

Il modo di questa articolazione non sembra invariato in tutte le parti del corpus che tornano su questo tema, bensì, De anima G, a proposito dell’atto volontario, insiste sul fatto che senza il desiderio l’intelletto non muove niente, dunque motore è l’oggetto di desiderio, e solo conseguentemente, l’oggetto di pensiero. Invece il libro Lambda, e come il libro Lambda il De motu animalium, precisano che il principio è l’intelletto, e che “desideriamo in quanto pensiamo”, più che non viceversa: “principio infatti è l’intelletto”. Motore pertanto, primariamente, è l’oggetto dell’intelletto, l’intelligibile in quanto tale.

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intelligibile, ma identico all’intelletto che lo pensa: e quest’ultimo sarà immobile in quanto intelligibile, e intelligibile in quanto identico all’intelligibile e tutt’uno con esso nell’atto del pensiero. Questo è confermato per altre vie: l’unità di intelletto e intelligibile è fatto fisiologico per Aristotele. L’intelligibile, come dice anche De anima B (cap. 5), è insito nella mente stessa di chi pensa, almeno in potenza. Ora, se la facoltà intellettuale, secondo la dottrina del De anima, ha già in sé il proprio oggetto e non dipende dall’esterno per l’atto del pensiero, a maggior ragione questo potrà o dovrà valere per quell’intelletto primo che pensa l’intelligibile primo ed è tutt’uno con esso.

4.9.2. Il desiderio cosmico come facoltà dei cieli? Vale a dire che, se l’anima del vivente è mossa in quel modo (ed essendo mossa muove il corpo vivente), qualcosa del genere si può concepire anche riguardo al cielo, primo mobile: se la facoltà noetico-desiderativa si identifica con il proprio oggetto, il primo motore inerisce al primo mobile, e il secondo motore al secondo mobile. Che il motore immobile sia in relazione sostanziale con l’eterno mosso, ha come indizio a favore un’indicazione che si è già evidenziata nello scorso paragrafo: Aristotele dice del primo motore immobile che è immobile sia in sé sia per accidente; dei motori immobili delle sfere posteriori alla prima, dice che sono immobili in sé. I motori secondari dunque possono muoversi per accidente, visto che le rispettive sfere si muovono trascinate sotto la prima. Se dunque c’è relazione fra il motore e la sfera che esso muove (così sembra, altrimenti perché il movimento subito passivamente dalle sfere inferiori farebbe muovere anche i rispettivi motori?), allora il motore è “qualcosa” della sfera, non è del tutto separato da essa. Non sembrerebbe (si è detto sopra) interamente trascendente. Ma certo non è in una parte della sfera, perché non ha grandezza né dimensione. Resta dunque che sia

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l’anima, ovvero facoltà psichica di cui la sfera dispone; in breve: che l’intelletto sia l’anima del cielo. Proponendo una tale esegesi, Alessandro di Afrodisia, a compimento di un’attenta meditazione del problema all’interno della scuola aristotelica, aveva individuato una soluzione che possiamo considerare perlomeno pertinente, ben adeguata almeno nel contesto dell’insegnamento di età imperiale (cfr. Berti, Il movimento del cielo, cit.), e difficilmente controvertibile, tutto sommato – salvo restando il carattere speculativo di questa come di ogni altra ricostruzione. È il compimento di una potenzialità teorica che Aristotele ha lasciato aperta.

4.9.3. L’argomento di Lambda 9 Se questa lettura è corretta, per essa dovrebbe essere possibile giustificare o almeno comprendere la struttura del capitolo Lambda 9. Essa appare discontinua e incoerente (cfr. Ross, II, p. 397s., con Brunschwig, p. 275). Di fatto, essa è focalizzata non tanto sull’intelletto in sé, ma sulla discussione del rapporto fra intelletto e intelligibile. Tale discussione presenta una certa analogia con quella perseguita nel capitolo 6, 1071b12-22. Lì, si tratta di approfondire la nozione di atto e attività. Anche qui, Aristotele prende in esame modi diversi di intendimento di un concetto di attività in corso di strutturazione e di esposizione, cercando così la soluzione delle relative aporie. Vediamo come. Aristotele riparte ora prendendo a riferimento quanto ha detto in Lambda 7 sul ruolo dell’intelligibile e desiderabile primo come principio: infatti si chiede a quali condizioni possa essere affermato che l’intelletto sia il più divino dei fenomeni. “Riguardo all’intelletto – esordisce dunque Lambda 9 (1074b15-17) – ci sono delle aporie. Infatti sembra essere il più divino dei fenomeni, ma a quali condizioni possa esserlo, presenta delle difficoltà”.

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Per approfondire l’indagine, ora Aristotele indaga quale sia la oujsiva di questo principio, senza più nominarlo direttamente, se non con l’indeterminata forma pronominale aujtov, al neutro (genere grammaticale che non ha impedito il riferimento di tali espressioni a Dio e all’intelletto divino in molti traduttori e interpreti, nel presupposto che l’oggetto del capitolo sia di tale natura). La possibilità meno efficace è presentata anche qui per prima: un intelletto che non pensa nulla (9.1074b17s., cfr., nel cap. 6, 1071b12s.). La successiva, è la concezione fondamentale del nou'" come duvnami", cioè come facoltà ovvero potenzialità da attualizzare di volta in volta per effetto dell’intelligibile (9.1074b18-21, cfr. 6.1071b18s.). Questa seconda accezione è inconciliabile con l’ipotesi di un’assoluta identità di intelletto e intelligibile, e comporta anzi un netto primato causale dell’intelligibile sull’intelletto (1074b21, 30). Si deve dunque ulteriormente esplorare la possibilità di intendere il nou'" in modo diverso. Invero, l’intelletto può essere concepito come assolutamente identico all’intelligibile, solo se la sua essenza (oujsiva) non consiste nell’essere una facoltà ovvero potenzialità (duvnami"), ma nell’atto che gli è proprio (ejnevrgeia, cfr. 6.1071b20), e tale atto viene ad essere al tempo stesso atto dell’intelletto in quanto pensante, e dell’intelligibile in quanto pensato. Di qui l’importanza della distinzione fra essenza come potenza e essenza come atto, che non è nuova al lettore di Lambda: essa infatti costituisce già lo schema della sezione di L 6.1071b12-19. Lo schema dell’argomento insomma è parallelo a quello che abbiamo visto nel cap. 6, ove Aristotele distingue infatti fra atto e potenza tre livelli: potenzialità non attuata (1071b12s.), potenzialità attuata (1071b17-19), attività priva di potenzialità, identica all’essenza della cosa, dunque eterna (1071b19s.)112.

112 Cfr. su questa sezione e su tutto il capitolo Berti, ad loc. (Unmoved mover(s), cit.).

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È dunque possibile applicare questo stesso schema alla struttura della discussione sugli stati del nou'" in Lambda 9113. È infatti evidente che l’intelletto in questione, se è eterno ed eternamente in atto, deve essere inteso nel terzo e ultimo modo, come nov h si" – la sua essenza infatti deve essere novhsi". Questo è precisamente il tema degli approfondimenti sviluppati in Lambda 9. Se infatti questo intelletto pensa sempre, e non cambia mai il suo oggetto (il noouvmenon), esso dunque (i) si identificherà stabilmente con l’oggetto di pensiero, (ii) si troverà ad essere dunque intelligibile esso stesso, ed esso stesso pensato (nohtov n , noouv m enon) e (iii) penserà se stesso (1074b34s.). È proprio a questo punto, che ci si potrebbe però chiedere se e a quali condizioni una siffatta identificazione del nou'" con il nohtovn possa far concludere alla loro identità, far concludere cioè non solo che l’intelletto che pensa è intelligibile, ma che il principio motore non mosso intelligibile (e desiderabile) postulato fino a 7.1072b14 è, esso stesso, intelletto e pensiero. Tale esso è in effetti, secondo l’interpretazione tradizionale della “teologia” esposta nel libro.

113 Anche il parallelo con il De anima, come si è detto, è importante per comprendere il testo in esame. A proposito infatti della definizione delle diverse fasi dell’attività psichica, il De an. B 5 distingue fra i diversi tipi di attualizzazione: la pura potenzialità, la facoltà non esercitata, propria per esempio di chi dorme (to; [...] kaqeu'don, 417a10s.), e la facoltà attiva – le due ultime esemplificandosi per l’attività noetica con la scienza (hJ ejpisthvmh) e con la contemplazione rispettivamente (to; qewrei'n, 412a911, di cui parla poco sopra anche la conclusione dell’argomento in L 7.1072b24: kai; hJ qewriva to; h{diston kai; a[riston). Va sottolineata questa trama comune specie fra Lambda 9 e i testi ora citati, anche perché è stato scritto di recente (Brunschwig, ad loc., p. 279 n. 24, in riferimento alla differenza fra prima e seconda potenzialità nel De anima) che Aristotele in Lambda 9 trascura interamente tale distinzione. Eppure esiste un tema cruciale comune: la distinzione fra l’intelletto come facoltà, temporaneamente attivata dall’intelligibile, e l’intelletto come principio

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Da parte di Aristotele, convertire il rapporto fra soggetto e predicato non può essere fatto senza cautela. Innanzitutto, si è visto, bisogna poter intendere l’intelletto come novhsi" e non come duv n ami". In riferimento all’intelletto così inteso, l’intelletto e il pensato sono comunque diversi per definizione ovvero concetto. Nondimeno, la conversione ha un suo luogo di legittimazione, che possiamo ora identificare. È il luogo, prossimo alla conclusione del capitolo, dove Aristotele stabilisce specificamente l’identità ovvero unità dell’intellettopensiero (novhsi") con l’oggetto pensato (noouvmenon): kai; hJ novhsi" tw'/ nooumevnw/ miva (1075a4s.). L’aggettivo numerale miva indica proprio questa situazione di reciproca convertibilità dei due identici, non di semplice predicazione, o inclusione di uno nell’altro. Nella misura in cui essi sono “uno”, coincidono transitivamente, senza che faccia ostacolo una differenza della definizione dell’uno e dell’altro. Pertanto il principio nohtovn di Lambda 6-7, ad 1072b14 non solo è perennemente in atto, dunque perennemente “pensato” (noouv m enon) ma è, esso stesso, nou'" perennemente attivo, novhsi" per sua sostanza. L’identità è consentita dall’identità del fattore formale e dalla

eccellente, eterno ed eternamente attivo. Quell’intelletto che appunto è divino, secondo Aristotele, De an. B 5, sembra dunque rievocato per contrasto in L 9.1074b18, cioè nella descrizione di uno stato di mera potenza intellettuale, che non passi all’atto, là dove dice: ajllΔ e[cei w{sper a]n eij oJ kaqeuvdwn “sarebbe come colui che dorme”. Peculiare, peraltro, è la formulazione: qui ci si attenderebbe che l’intelletto che non pensa sia paragonato a “qualcuno (pronome indefinito, vel. sim.) che non pensi ma dorma”, invece “colui che dorme” ha l’articolo determinato, come se lo si conoscesse di già. Il riferimento potrebbe essere appunto al passo qui sopra menzionato di De an. B 5 sulla sensazione (417a10-12): “L’avere sensazione si dice in due sensi: diciamo che sente e che vede, sia il soggetto che sente e vede in potenza, anche se per caso sta dormendo, sia quello che ormai è in atto” (to; aijsqavnesqai levgomen dicw'", tov te ga;r dunavmei ajkou'on kai; oJrw'n ajkouvein kai; oJra'n levgomen, ka]n tuvch/ kaqeu'don, kai; to; h[dh ejnergou'n).

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riduzione di entrambi i termini ai rispettivi fattori formali. Anche in questo non manca, a ben guardare, un’anticipazione nella precedente parte del libro, in 1070b27-34114. Ivi infatti, in una scarna e poco commentata serie di esempi, Aristotele ripete più volte che in un certo senso la causa efficiente è diversa dalla causa formale, ma in un certo senso esse sono identiche – in virtù, appunto, del ridursi anche del motore al fattore formale. Ora, nel nostro caso, l’intelligibile puro è già pura forma e non richiede alcuna riduzione per poter essere tutt’uno con quell’intelletto pensante puramente in atto dal quale esso è eternamente pensato. Qui dunque, se il percorso ora proposto è valido, si giustifica l’integrale identificazione dell’intelletto pensante con l’intelletto pensato, entrambi integralmente in atto nell’atto del pensiero, e non più discernibili. Per questo può dire poco sopra: kai; e[stin hJ novhsi" nohvsew" novhsi" (1074b34)115. Se tutto ciò è corretto, allora questo è il significato probabile già della sezione L 7.1071b19-24, dove il testo va mantenuto senza emendamenti: “ciò che l’intelletto ha di divino” non è “questo”, cioè non è l’essere una potenza, o facoltà, che passa all’atto mossa dall’intelligibile, ma “quello”, cioè l’essere esso

114 “Poiché, nei corpi fisici, la causa motrice è , per gli esseri umani, un uomo, e nelle opere dell’ingegno, è la forma o il contrario, in un certo senso [cioè identificando le due cause, efficiente e formale] le cause possono essere tre […]. L’arte medica infatti è in qualche modo la salute, l’arte del costruire le case è in qualche modo la forma della casa; è un uomo, che genera un uomo”. 115 Tutto questo non vale sempre, precisa attentamente il contesto (1074b38-1075a4), ma vale quando il pensiero è pensiero di ciò che è senza materia e che dunque è pensato semplicemente e in sé senza richiedere processo di astrazione. In quel caso, si potrà parlare di un pensiero la cui sostanza è pensiero: per questo dice bene l’Efesio, già citato anche da Tricot, oujk e[stai ejpivponon to; sunece;" th'" nohvsew" aujtw',/ w{sper oujde; tw'/ ajnqrwvpw/ ejpivponovn ejsti to; ei\nai a[nqrwpon, o{ti ejn tw'/ ei\nai a[nqrwpo" oujsivwtai (712.8-10).

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stesso pensiero, come attualità, eternamente identico al pensato, e tutt’uno con esso. È dunque il pensare se stesso116.

4.10. Il capitolo 10: un epilogo dell’epilogo Lambda 10 si presenta come un campo problematico complesso: la sua lettura comporta difficoltà di struttura117, di interpretazione e coerenza dottrinale; e se, a differenza di altre parti del libro, i problemi di costituzione del testo non sono troppo rilevanti, non mancano in compenso cruciali problemi di traduzione. Alcune difficoltà hanno in effetti carattere veramente generale: qual è la dottrina sostenuta da Aristotele in Lambda 10? E qual è, in relazione a questa, il livello, quale il modo di coerenza della dottrina di questo capitolo nell’economia del libro Lambda? Più in generale, anzi: qual è il livello e qual è il modo di coerenza di questa dottrina nell’economia del corpus aristotelico? La portata di questi interrogativi è aggravata dal fatto che, tradizionalmente, l’interpretazione teologica del libro Lambda della Metafisica trova in effetti uno dei suoi argomenti fondamentali nella lettura del decimo e ultimo capitolo del libro. In proposito, in effetti, esiste di Lambda 10 un’interpretazione (o almeno una serie di elementi interpretativi) che può considerarsi tradizionale, sia perché è condivisa – almeno nei suoi principali assunti – da una serie di esegeti autorevoli di epoche successive, sia per gli elementi di continuità che si riscontrano anche nella lettura dei singoli passaggi. Concorre a tutto questo la considerazione del capitolo stesso come unità, che pure, come si è ricordato, è suggerita dalla tradizione editoriale. 116

Cfr. I, Note, ad 1072b23. Sul problema dell’indipendenza e unità argomentativa del capitolo, cfr. infra, l’introduzione al Commento. 117

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Così, nonostante alcuni punti di divergenza fra gli interpreti riguardo alla struttura del capitolo e alla sua relazione con il resto del libro, si è attestata, quanto al senso generale, un’interpretazione alquanto consolidata, cioè la seguente. Ponendosi in apertura il dilemma, se nell’universo il bene esista separatamente e a se stante, oppure come ordine e buona disposizione intrinseca all’universo stesso, la risposta – il bene esiste in entrambi i modi (aj m fotev r w", 1075a 13) – porterà tuttavia l’accento sulla prima possibilità, identificata come primaria e come causa della seconda. Cioè, il bene è innanzitutto qualche cosa di separato, che esiste in sé; poi, si ammette, anche l’ordine dell’universo è “buono”, e cioè l’universo è “ben” disposto, ma secondariamente, come effetto dell’esistenza del Bene separato in sé e per sé. Ciò che varia negli esegeti è l’accento d’enfasi: alcuni – i più prudenti – lo pongono sulla compresenza dei due modi del bene, sia pur l’uno subordinato all’altro118, altri sul prevalere del modo sostanziale, sull’esistenza di un’entità separata 119. In una lettura teologica del libro, non è difficile vedervi allora il primato di un Dio trascendente l’universo120. Così, il capitolo ha dato appoggio anche diretto a quella

118 Così paradigmaticamente Ross (II, p. 401, ad 1075a11-15): «The doctrine here stated is that goodness exists not only immanently in the world but trascendently in God, and even more fundamentaly in Him, since He is the source of the good in the word, which is produced by the desire for Him as the order in an army is produced by its striving to do the will of its leader». 119 Più accentuatamente parziale è la sintesi delle prime righe di Lambda 10 in Tricot (p. 706, n. 2): «L’objet de 1075a10-15 est d’établir la transcendence du Bien en Dieu. Le Bien n’est pas immanent au monde». 120 Una voce di segno nettamente diversa è quella di M.R. JOHNSON, Aristotle on Teleology, Clarendon Press, Oxford 2005, che si impegna a naturalizzare il senso del capitolo al massimo grado, portando diverse osservazioni pertinenti (cfr. per es. il riferimento parallelo di Pol. D 4.1090a13 per 1076a1076a4, sul quale cfr. infra, n. 23).

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lettura teologica che ha sovente appesantito la tradizione interpretativa del libro. Ciò non va senza problemi. In particolare, c’è un aspetto della vulgata esegetica che lascia perplessi: l’idea che proprio qui in Lambda 10, a epilogo e dunque a consuntivo del libro, Aristotele voglia aprire un dilemma sullo stato dell’ente primo e ottimo nell’universo per concluderne che esso è soprattutto trascendente, e solo secondariamente immanente121. Questo è ciò che affermano non solo i commentatori medievali, ma anche alcuni fra i commentatori principali del XX secolo (Ross, Tricot, che citerò infra). Significativamente, Sedley (ad loc.) pone un accento importante e principale sul secondo ramo del dilemma – l’ordine cosmico. Vede bensì nella prima sezione del capitolo, 1075a1125, un’esposizione di come il primo motore eserciti la sua influenza. Ciò però non gli impedisce di enfatizzare il peso dell’ordine del cosmo e della sua unità, come motivo conduttore che unisce l’inizio e la fine del capitolo. Questa è una pista da approfondire, sulla quale bisognerà ritornare. Il fatto è che in quest’ultimo capitolo, più che nei precedenti, la semantica dell’espressione è inficiata dall’incertezza degli strumenti espressivi adottati. Il rischio di interpretazioni di maglia larga, poco aderenti al testo, vi è infatti accresciuto da una singolare scelta retorica ivi adottata dall’autore: Aristotele, che pure critica altrove le mitologie tradizionali espresse in forma di favole – le considera infatti, in Lambda 8 stesso, strumentali alle necessità di persuasione di educatori e

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Tale, si è visto, è un’interpretazione ricorrente di 1075a14, riguardo alla quale però ci si può chiedere anche questo: se davvero questo è il senso del passo, perché Aristotele dice: “il bene è lo stratega ed è nell’ordine”? La dissimmetria sintattica della frase kai; ejn th/ ' tavxei ga;r to; eu\ kai oJ strathgov", se è così che va letta, non è solo dura, è antieconomica (ancor più in considerazione della lettura corrente di th;n tavxin nella frase precedente, che viene inteso come predicativo). Da qui le diverse soluzioni di Michele d’Efeso, Ross e Barnes, di cui infra, Comm. ad loc.

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governanti – qui però non manca di esprimersi egli stesso in forma figurata. Ben due metafore – quella dell’esercito e quella della casa – sono introdotte nella prima cruciale sezione (1075a11-25), proprio quella più positiva del capitolo. Entrambe sono strettamente ancorate al tessuto sintattico dell’argomento, di modo da non lasciarsi facilmente racchiudere o escludere come parentetiche. Così, il capitolo 10 non si può leggere senza leggere queste metafore. Ne dobbiamo perlomeno prendere atto, per fare attenzione alle possibilità di equivoco che questa scelta stilistica comporta: l’una e l’altra metafora meritano una cauta rivisitazione. Come l’uso delle metafore, d’altronde, così anche il ricorso alla testimonianza dei poeti è uno strumento retorico (come insegna appunto l’aristotelica Retorica, 1375a22ss., in part. 1375b28ss.). Ancor più delle metafore, sovente, le citazioni sono suscettibili di vari intendimenti nel senso. Nel caso del nostro capitolo, la citazione omerica finale ingenera vaghezza d’indirizzo – se non perfino confusione. Essa conclude il libro in modo magnifico, ma d’altra parte può esser letta in più modi, e in specie come professione – appunto – di monoteismo122: “Non è bene la sovranità di molti. Uno solo sia il sovrano” (Il. II 204). Che altro potrebbe significare? A quello stesso verso omerico, è vero, Aristotele fa riferimento in Pol. D 4; ma proprio lì dice che è oscuro che cosa significhi: il parallelo non sembra risolvere l’enigma interpretativo della fine di Lambda 10123. La frase si avvicinerebbe allora a un’islamica shaha-da, ammesso però e non concesso che il “sovrano” sia Dio in quanto tale e non solo come principio unificante pro;" e{n. 123 Aristotele lì sta classificando le forme di governo, e sta trattando di democrazia. Distingue forme diverse di democrazia, e in particolare oppone la democrazia tirannica, non governata dalla legge ma dai suffragi (yhfivsmata), manovrati a loro volta dai demagoghi, alla democrazia soggetta alle leggi, dove i membri del popolo governano tutti “al modo di ciascuno”, cioè come dei singoli, non come una massa manipolabile. A questo riguardo appunto dice: “Non è chiaro a quale democrazia si 122

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Di fatto, anche a causa del linguaggio metaforico, che amplia il ventaglio delle valenze semantiche disponibili, l'inizio del capitolo Lambda 10 si è prestato spesso, pur con sfumature diverse, a una lettura marcatamente teologica: il motore immobile è Dio ed esiste separato, in sé e per sé. Questo ordine di valenza sembra allora ribadito, in forma rinforzata, dalla citazione omerica conclusiva: “Non è bene la sovranità di molti. Uno solo sia il sovrano”: il motore immobile, che è Dio, deve essere uno. Al di là del fatto che l’argomento del “non è bene” non pare logicamente stringente, in questa chiave di lettura l’assunto può risultare contraddittorio rispetto al capitolo 8, che teorizza una pluralità di motori immobili. Come ritrovare una coerenza? Altrimenti, qui il lettore sembra dover rinunciare a una lettura specificatamente filosofica, in senso tecnico, come quella di chi si occupa dell’“ente-in-quanto-ente”, a favore di una lettura teologica. Che l’unica lettura sensata almeno delle primissime righe del capitolo 10 sia teologica piuttosto che filosofica, è ciò che dice infatti già il primo commento sequenziale greco che i giorni nostri conoscano (e che ha visto la luce nel contesto di una cultura filosofica gerarchicamente orientata in senso teologico): qui, alle righe 1075a11-15 (e poi di nuovo nella conclusione), secondo Michele di Efeso, Aristotele “parla da amante di Dio”; mentre dopo, in 1075a16-25, parlerà “da filosofo”124. Qui affronto, invece, come il resto del libro, così il capitolo 10, anche con questo intento in mente, di mostrare che l’argomento del libro Lambda, incluso Lambda 10, regge solo a condizione riferisca Omero quando dice ‘non è bene la sovranità di molti’: se a questa [forma tirannica] o a quella ove tutti governano come dei singoli”. Nella Politica, egli intende evidentemente che “non-buona” sia la democrazia soggetta ai demagoghi e non soggetta alle leggi, perché il popolo vuole esservi monarca, senza obbedire alla legge. Invece, il restante emistichio di Omero, Il. II 204, ove Agamennone loda la monarchia, ivi non è citato, e resta (diversamente che in Lambda) semanticamente inattivo. 124 CAG I, 715.15s.

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che lo si legga in chiave ontologica e in continuità con i restanti libri della Metafisica125. Nella prima frase di Lambda 10, pertanto, Aristotele lavora sul dilemma fra un intendimento sostanziale di to; ajgaqovn e un suo intendimento debole e attributivo, tematizzandolo tramite l’accostamento di to; ajgaqovn e di to; a[riston. Inteso come “buono”, to; ajgaqovn non è sostanza e non può esserlo, perché to; ajgaqovn è un termine che possiede un contrario – “assurdo è infatti non porre un contrario per il bene (to; ajgaqovn)”126; e come tutti i contrari esso si predica di un sostrato. Invece, né le sostanze hanno contrario; né, più in generale, la sostanza può essere proprietà di un sostrato, ovvero essere qualcosa che si predica di un sostrato, altrimenti non potrebbe esistere separatamente127. Questo è interessante perché mostra che il termine cruciale per descrivere il primo motore o comunque il principio primo, lo strathgov" in Lambda 10, non è semplicemente to; ajgaqovn (che si conferma essere termine generico – altrimenti, non sarebbe ragionevole contrapporgli un contrario). Il principio primo è di più: è to; a[riston. D’altra parte, secondo la filosofia naturale di Aristotele, il bene come ciò che è buono è presente nella sostanza corruttibile: l’universo soggetto a generazione e corruzione è complessivamente, buono. Ma non esiste un Bene sensibile la cui forma sia il Bene; il Bene in sé non è forma di alcun sinolo 125 Non si tratta di negare in senso assoluto una valenza teologica all’argomento del libro, ma di vedervi una teologia diversa, debole perché non dogmatica e perché emerge quasi accidentalmente da un’analisi concettuale che Aristotele ha qui condotto per fini diversi: fare sintesi delle proprie ricerche in una prospettiva di concorrenza diretta alle più correnti rappresentazioni e speculazioni accademiche relative ai principi. Cfr. supra, § 1.6. 126 1075a28-b11. Lo stesso si dice d’altronde per l’intelletto, nou'": quest’ultimo punto non è francamente perspicuo; ma cfr. infra, Comm. ad 1075b10-12. 127 Due argomenti in tal senso possono essere ravvisati in N 1.1087a29-b4.

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determinato. In questo, to; a[riston ha statuto diverso sia dalle idee platoniche, sia dagli ei[dh aristotelici. Che la sua esistenza venga ora tematizzata non manca di aggiungere informazioni addizionali sul primo motore, e comporta tratti in comune tra il “Bene” degli Accademici e il primo motore, la sostanza sommamente desiderabile, intelligibile, senza materia del capitolo 7. Finora, Aristotele non ha mai detto precisamente che il primo motore è buono: in proposito egli parla di “bello” (7.1072a28, 34), “preferibile in sé” (7.1072a35), e l’esser buono ne farà parte, ma per implicazione piuttosto che direttamente. Nondimeno, se anche mancassero altri indizi, questa pagina iniziale di Lambda 10 (1075a11-25) basterebbe ad indicare una relazione non detta fra il Bene platonico e il primo motore immobile aristotelico. È una relazione fatta, insieme, di obiettivi comuni e di concorrenza teorica, specialmente con la scuola post-platonica, rispetto alla quale volutamente spiccano marcate differenze. L’argomento di Lambda 10, pur imperniato sugli elementi di continuità con le dottrine accademiche, si gioca quasi per intero su queste differenze. Secondo l’analisi che proponiamo, in effetti, la chiusura del capitolo e del libro, 1076a4, risulta principalmente affermare, in aperto dissenso da Speusippo, l’inerenza di tutti gli ordini di sostanza a un universo unico, dove si connettono in relazioni causali determinanti la sostanza immobile e le due sostanze fisiche soggette a movimento128. Questo significato ricalca effettivamente in parte, ma senza circolarità, quello espresso dall’inizio del capitolo, 1075a11-25.

128 Si tratta specialmente di ogni sostanza oggetto di qewriva, nel senso di 1.1069a18. Così, anche all’argomento finale di Lambda 10, sembra soggiacere un postulato di tipo gnoseologico ovvero epistemico: la necessità di conoscere. Per converso, se le sostanze sono irrelate, allora la qewriva che le abbracci tutte risulta “episodica”, “come una cattiva tragedia”. Perché sia possibile una scienza che sia una (al modo della

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Ivi (anche e specialmente nella sezione meno chiara da questo punto di vista, 1075a11-15) Aristotele – come intendo mostrare – argomenta non la trascendenza del bene, ma, quasi al contrario, la sua appartenenza all’ordine dell’universo, sia che esso esista, sia che esso non esista come bene separato. Anche quel bene o quell’“ottimo”, che sussiste come sostanza e non come modo di essere di altre sostanze, è infatti ejn th/' tavxei, cioè fa parte dell’ordine dell’universo, più ancora di quanto ne faccia parte il bene inteso come modo buono di essere. Infatti il modo buono di essere (quel bene – ajgaqovn – che appositamente si trova ora espresso in forma avverbiale: to; euj\) farà parte dell’ordine dell’universo a condizione che ne faccia parte, metaforicamente, “lo stratega”. Quello che più dei due inerisce all’ordine dell’universo è il principio d’ordine, perché senza di quello non sussisterebbe quell’ordine: l’universo non sarebbe ordinato se non facesse parte del suo ordine quella sostanza che è bene e ottimo in sé e per sé. Per questo dice: Anche l’ordine dell’esercito, infatti, ha in sé, sia il modo buono di essere, sia lo stratega, e fra i due maggiormente quest’ultimo, visto che questo non è a causa dell’ordine, ma l’ordine è per causa sua (1075a13-15). Il punto principale, a quanto intendo, è che anche lo stratega, che dello schieramento è il termine migliore, to; a[riston, appartiene allo schieramento. Probabilmente, tutte le parti dell’esercito appartengono allo schieramento e lo stratega è anche causa efficiente dello schieramento. Ma almeno questo, a mio avviso, il testo lo dice apertis verbis: “anche nello schieramento ci sono, sia il bene [modo buono di essere, espresso con

filosofia prima) e non episodica, i diversi ordini di sostanze devono essere correlati. Cfr. supra, § 4.1.

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ricorso alla forma avverbiale, modale: to; euj]\ sia lo stratega”, senza del quale l’esercito può non essere ben disposto. Senza stratega non c’è esercito, solo milizie disgregate. Lo stratega esiste in sé, non è un’astrazione come le idee platoniche. Non appartiene a un diverso ordine di realtà. Per questo, generalizzando su questo punto, Aristotele prosegue: tutto (pavnta) appartiene a un ordine unico, in qualche modo (pavnta de; suntevtaktaiv pw", 1075a16). E continuando (ibid.) argomenta questa unitarietà dell’ordine cosmico in riferimento a tutti gli esseri, ma in modi e misura diversi: non però tutti allo stesso modo: anche gli animali che nuotano, quelli che volano, anche le piante... Più oltre riaffermerà il concetto, in forma rinforzata (pavnta diviene a{panta) e al tempo stesso circostanziata, indicando cioè con formula breve il modo dell’appartenenza di tutti gli enti ad un unico ordine di realtà: tutto quanto appartiene a un ordine unico, è in vista di qualcosa di unico (pro;" me;n ga;r e}n a{panta suntevtaktai, 1075a19). Ivi, infatti, “in vista di qualcosa di unico”, pro;" e{n, viene a specificare ciò che sopra era posto come indeterminato, tramite l’avverbio pw", “in qualche modo”, 1075a16. Quanto al pw", d’altra parte esso denuncia l’esistenza di un residuo, costituito da ciò che non è altrettanto129 ben disposto e bene ordinato, bensì è ordinato solo parzialmente. Questo, implicitamente, giustifica il minor livello di inerenza al cosmo attribui-

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“Non [...] altrettanto”, cfr. ajllΔ oujc oJmoivw", 1075a16.

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ta al bene; è come se Aristotele dicesse: l’universo è buono sì, ma solo fino a un certo punto. Nondimeno il principio d’ordine ne fa parte in primis: fa parte di questa stessa realtà di cui noi facciamo parte. Altrimenti l’universo non potrebbe affatto essere buono. Si può dire qualcosa di più riguardo a un tale immanente principio? Alla luce di Lambda 7 e 9, indubbiamente sì. Innanzitutto, in Lambda 7, questa sostanza prima è postulata come intelligibile primo e assolutamente semplice, puramente in atto, la cui totale attualità e assenza di materia consente poi l’identificazione con l’intelletto pensante dal quale perennemente è pensata, se davvero è in atto; così che, pur diversi nella definizione, nel numero “sono una cosa sola il pensante e il pensato” e “il pensiero è pensiero di pensiero”. Al riguardo, la discussione del capitolo 7, 1072b19-24, continua nel capitolo 9. Ma a che titolo la sostanza non sensibile è capace di muovere l’universo? L’intelletto pensante è identico al suo oggetto di pensiero per tutta la durata del tempo. Esso si trova dunque a identificarsi con quel principio intelligibile, che era postulato in Lambda 7 come motore della sostanza celeste eternamente soggetta a movimento. Intelletto e intelligibile sono diversi in quanto a essenza o definizione; tuttavia vengono a identificarsi nella conoscenza di sé che è atto comune di entrambi, stabile per natura, inscindibile, “per tutta l’eternità del tempo” (cfr. L 9.1075a10). Questo, per Aristotele, è l’ottimo che appartiene al cosmo ed è il motore del cosmo, al cui ordine inserisce come tutte le parti del cosmo: pavnta suntevtaktaiv pw".

4.10.1. Ringkomposition in Lambda 10? Interpretazioni possibili Il problema interpretativo di Lambda 10 può ridisegnarsi come problema di struttura, se si considera il fatto che Lambda

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10 si apre con una nuova questione (1075a11-13130) e che il termine precipuo di tale questione (il ruolo dello “stratega”, nella metafora dell’esercito) si trova riecheggiato nella chiusura (“uno sia il comandante!”, 1076a4 e Il. II 204). Ciò induce indubbiamente un effetto di circolarità, come di una struttura conchiusa. Questa comprensione è ulteriormente agevolata dalla scansione rinascimentale, che fa questo un capitolo a sé. Eppure, non è chiaro in che modo la chiusura torni a riaffermare il punto di partenza acquisito dalla questione di apertura, o a enfatizzarne il valore. Ché, anzi, quale sia il punto non appare troppo chiaramente; e da questa opacità deriva, da parte degli esegeti, un’incertezza quanto appunto alla struttura del capitolo stesso. Si deve dunque capire come interpretare questa struttura circolare, questa sorta di Ringkomposition, come efficacemente l’ha chiamata Sedley, che conferisce straordinaria enfasi all’explicit del libro, ove si cita solennemente il verso dell’Iliade “non è bene la sovranità di molti, sia uno solo il sovrano”. L’esordio e la chiusura del capitolo convergono così in una sintesi che anche concettualmente è di grandissimo interesse, perché non si riesce a equiparare o sovrapporre a nulla di simile nel corpus. È una sintesi di natura filosofica, e, più precisamente, sistematica: la citazione di Omero vale a comprovare che i principi non devono essere molti, e che ha torto dunque Speusippo a moltiplicarli. Speusippo non può che moltiplicarli, se mantiene tanti universi separati, che si susseguono come “a episodi”: in una tale filosofia, tutti i livelli della realtà avranno infatti i loro principi indipendenti. Orbene, dice Aristotele usando la frase di Omero, questo modo di essere non è “buono”: non è ajgaqovn. Il termine di riferimento è già espresso. È la dottrina esposta nella prima parte di Lambda 10: è bene 130 ’Episkeptevon de; kai; potevrw" e[cei hJ tou' o{lou fuvsi" to; ajgaqo;n kai; to; a[riston: povteron kecwrismevnon ti kai; aujto; kaqΔ auJtov, h] th;n tavxin; h] ajmfotevrw" w{sper stravteuma;.

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che tutte le cose appartengano ad un unico ordine. Questo esplicita il valore e la forza del sistema, ovvero, nel linguaggio di Lambda 10, della tavxi" che Aristotele, nell’arco del libro, e in tutti gli altri precedenti suoi libri, ha teorizzato fra i diversi ordini di sostanza. Che viga una e una sola tavxi" – come implica la citazione omerica – è bene in ciascuno dei due sensi principali sopra distinti. Nell’affiancare questo senso all’altro, si compie ora, possiamo dire a linee generalissime, il senso primario del libro. Ma non tutto è chiaro come si vorrebbe. Innanzitutto permane incertezza sulla soluzione del dilemma iniziale. Si è qui proposto di rinunciare a un primato dell’opzione per l’esistenza separata in 1075a12s.; ma l’avviso prevalente è proprio a favore di una tale opzione, e almeno la frase seguente 1075a15 (benché passibile di più letture, come come pure si è inteso mostrare) può storicamente aver spinto in tal direzione. Beninteso, il seguito incoraggia la nostra lettura, rinforzando l’altra opzione, che pone enfasi sull’ordine dell’universo (1075a16-25). D’altronde questa incertezza ricade anche sull’interpretazione della chiusura, che resta in parte sotto-determinata: che cosa vi ha inteso dire di preciso Aristotele? Se l’esordio del capitolo afferma (come sovente si ritiene) l’esistenza di Dio, è naturale intendere che la conclusione ne affermi l’unicità. Se però il senso dell’esordio del capitolo era diverso, a maggior ragione anche il senso della conclusione andrà rivisitato, e questo può avere, fra l’altro, conseguenza sull’analisi strutturale del capitolo. L’esigenza di approfondimento è stimolata dalla constatazione che in ogni caso, indubbiamente, Aristotele sviluppa in questa prima parte del capitolo (1075a11-25) concetti diversi e irriducibili a quanto precedentemente elaborato. Se è così, dobbiamo leggere la prima sezione del capitolo (fino a 1075a25) come un ultimo e decisivo momento di elaborazione positiva. Ma che dire allora della funzione e della struttura della restante

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parte del capitolo? Da 1075a25 in poi, si apre un’ampia sezione dossografica, che accompagna il lettore fino alla chiusura, risolvendosi infine nella critica a Speusippo e nella famosa citazione da Omero. Lì, ogni ricerca di un disegno chiaro e pedagogicamente organizzato viene frustrata dalla tecnicità, concisione e a volte oscurità degli argomenti che si accavallano senza soluzione di continuità fino alla fine del libro. Tutto questo dà materia per riconsiderare da capo e diversamente il problema della struttura di questo capitolo finale. Tutto sommato, non è affatto sicuro che questo capitolo, apparentemente così diverso dai precedenti, costituisca nel suo complesso una nuova unità argomentativa. Un esame più analitico può invece suggerire una possibilità diversa: che il capitolo incorpori solo come sua parte iniziale un’aporia o interrogativo determinato; e che a queste facciano seguito altre argomentazioni ed altre aporie, irriducibili all’esegesi della prima sezione. Risulta così che la connessione reciproca di questa con quelle è complessa e va indagata e verificata specificamente. Da qui si dipartono più possibilità per un’interpretazione alternativa dell’articolazione del capitolo. Una, si è detto, è che il capitolo sia un’unica sezione che comincia e si svolge unitariamente (dunque da 1075a11 a 1076a4); tale ipotesi è quella suggerita, più facilmente, dalla scansione tradizionale in capitoli; essa sarà allora da intendere come unità in qualche modo conclusa e come epilogo dell’intero libro. L’inconveniente è che in questa ipotesi non è chiaro il ruolo della sezione dialettica (1075a25-1076a4), che resta come si è detto fortemente problematica. L’altra possibilità è che la prima parte del capitolo (1075a11-25) costituisca una sezione a se stante, mentre quella discussione delle opinioni dei predecessori, che a tale sezione fa seguito, non ne dipenderà più direttamente. Il vantaggio di questa seconda lettura è che si accorda maggiormente con il contenuto della parte centrale del capitolo. Essa però richiede una spiegazione alternativa dell’effetto che il capitolo produce, di Ringkomposition: si dovrà dunque

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interpretare in qualche altro modo il ritorno, apparentemente circolare, del tema della coesione del cosmo e del coordinamento delle sue parti. La chiusura infatti richiama fortemente il tema introdotto all’inizio del capitolo Lambda 10. Il problema trova una soluzione, se riteniamo che la prima sezione di Lambda 10, fino a 1075a25, sia un’unità argomentativa a se stante sul bene e sull’ottimo (sebbene non priva di continuità con la fine del capitolo 9, ove pure l’“ottimo” è tematizzato, come bene rilevava Bonitz, ad loc.); e che di questa si ricordi di nuovo Aristotele in coda a quella sorta di riepilogo ragionatissimo, compendiato del libro che si apre dopo una netta cesura nel testo, in 1075a25. Infatti tale riepilogo non si pone in continuazione diretta con la prima parte del capitolo (1075a11-25)131.

4.10.2.“Coloro che parlano diversamente” come controparte critica: “diversamente” da come? Un criterio dei criteri per valutare quest’ultima ipotesi consiste nello stabilire a chi si riferisca Aristotele, all’inizio di quel riepilogo, là dove dice che bisogna esaminare gli assurdi in cui cadono “coloro che parlano diversamente”, ovvero, che sostengono opinioni diverse (toi'" a[llw" levgousi, 1075a 25s.). Il testo non dice subito a quale o quali dottrine si riferisca “diversamente” (a[llw"), e così resta aperta più di una possibilità diversa. Quei pensatori parlano diversamente, ma non sempre sappiamo: “diversamente”, da come? (a) Secondo un’opzione unitaria, che proporrò di abbandonare, il capitolo è in sé uno e conchiuso; sarà allora alla prima par131 Questa ipotesi interpretativa, che a me pare la più adeguata, è stata proposta da Michel Crubellier, nel corso del nostro seminario di Lille dedicato a questo capitolo.

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te di questa sezione (1075a11-25) che Aristotele si riferisce anche nella parte successiva della sezione stessa unitariamente considerata. In questo caso, apparentemente, la Ringkomposition sarà confermata, perché la parte critica dell’esposizione andrebbe direttamente a rinforzare la dottrina dell’esordio, prima che la conclusione del capitolo ne sancisca solennemente il valore dogmatico. Mancherebbe, per confermare questa lettura, che si fosse verificata bene la concordanza della parte finale con l’esordio del capitolo: il sovrano di 1076a4 è identico allo stratega di 1075a1, o no? Invero, trattandosi di un linguaggio retorico, il significato non è definito direttamente; va in parte desunto dal contesto. Indubbiamente, se si riscontrasse che il capitolo ha una struttura conchiusa e unitaria, e se fosse vero ciò che sovente si ritiene, che l’accento maggiore della soluzione del dilemma iniziale va sulla sussistenza separata e, per così dire, sulla trascendenza dello stratega (più che sull’esistenza di un coordinamento fra le parti), anche quest’ultima incognita sembrerebbe risolta con un certo grado di probabilità. Lo sviluppo iniziale sul coordinamento fra le parti sarebbe un qualche tipo di excursus secondario (1075a16-25). Ma che la struttura sia conchiusa e l’argomento torni veramente su se stesso nel corso del capitolo, che io veda, non si riscontra. Troppi sono gli spunti dialettici e le dottrine cui la parte iniziale del capitolo non può fare nemmeno da prolusione. (b) Forse invece, non sarà solo alla prima parte del capitolo che Aristotele si riferisce, dove dice che “bisogna esaminare le conseguenze impossibili e gli assurdi in cui cadono coloro che sostengono opinioni diverse” (o{sa de; ajduvnata sumbaivnei h] a[topa toi'" a[llw" levgousi, 1075a25-27). L’espressione oiJ a[llw" levgonte" potrà allora riferirsi alle dottrine sostenute nell’insieme – quale insieme? Possiamo scandire varie possibilità progressivamente più inclusive: (b1) o il libro Lambda stesso; (b2) o la trattazione precedente nel suo complesso, che inclu-

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derà anche altre ricerche intraprese prima di Lambda – e si intende allora, inevitabilmente, che il libro Lambda viene inteso non come unità a se stante, ma come parte di un’indagine in corso intrapresa nei libri precedenti, secondo una cronologia virtuale che includa, a quanto risulta, almeno parte degli altri libri della Metafisica; (b3) oppure, si apre un’ulteriore possibilità, non esclusiva, ma inclusiva delle precedenti: “diversamente” in 1075a26 si riferirebbe alle precedenti ricerche aristoteliche di filosofia prima, considerate non solo in quanto esposte negli attuali libri della Metafisica, ma in quanto uno di questi libri, e cioè il testo in corso, il libro Lambda stesso, presenta natura ipertestuale e autoriflessiva rispetto a quei testi preesistenti. Più precisamente, secondo questa lettura, Lambda è l’esito di una fase di ripensamento che ripercorre – a quanto sembra – la redazione scritta di quelle precedenti ricerche da parte dello stesso Aristotele. L’insieme in questione è veramente comprensivo. Può arrivare a includere l’insieme – perlomeno – della “filosofia prima della natura” aristotelica (secondo la dicitura coniata da Michel Crubellier già sopra citata), senza per questo escludere temi centrali nella filosofia prima tout court (relativi allo statuto dell’intelletto e della scienza prima), sempre fondandosi sull’analisi ontologica, cioè dei modi dell’ente secondo la distinzione fra la sostanza e le categorie. È questa la possibilità più interessante, che merita di essere sviluppata per il cambiamento di prospettiva che essa può comportare su certi dati testuali. Ricorderò brevemente ciò che a suo luogo ho mostrato (L’esordio del libro Lambda, cit.): non si intende Lambda 1 senza Zeta 1-2; né Lambda 2 senza Zeta 3 e Eta 1, né Lambda 3 senza Zeta 7-9, né Lambda 5-6 senza il libro Theta nel suo complesso; in particolare, come argomentato in altra sede, non si intende L 6.1071b12-22 senza Theta 8, mentre è chiaro da sempre ad ognuno che l’esordio dello stesso capitolo Lambda 6 richiama puntualmente Fisica Q, e la parte finale di Lambda 6 stesso fa di pari la-

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vorando sulla dottrina di De gen. et corr. B 10, così come fa, ancora analogamente, Lambda 2 con Fisica A 8. Se è così, e se dunque già nel suo corpo maggiore il libro Lambda ha natura largamente ipertestuale – tale infatti è il filone di lettura che è emerso dalle indagini sul testo che sin qui abbiamo condotto – si dirà allora che questa parte dialettico-critica del capitolo finale ha natura a sua volta iper-ipertestuale, costituisce cioè una ricapitolazione dei punti di forza aristotelici rispetto alle precedenti dottrine ristabilite e ricollegate in sistema nel libro Lambda. A questo scopo, il capitolo Lambda 10 ripercorre in modo ancor più rapido e ancor più ragionato le principali tematiche che attraversano il libro. Non è strano allora che Lambda 10 sia scritto nel modo in cui è scritto. Essendo infatti lo stile di Lambda già caratteristicamente brachilogico – tale per cui raramente Aristotele vi spenda una sillaba in più di quelle precisamente necessarie a farsi intendere da chi sia addentro nella materia – non è strano che nel capitolo 10, in questa fase finale di ritorno sulle ragioni storicocritiche delle dottrine stesse esposte e difese nel libro, lo stile di Aristotele risulti ancora più compendiato, allusivo ed ellittico. Quei punti di forza, da far valere a giustificazione del sistema intrapreso, sono ora espressi nella maniera più breve, quasi in un ritmo sincopato, che sposta l’accento tonico, dalle dottrine positive, alle impasse delle dottrine pregresse degli Accademici e dei Presocratici. Quelle stesse dottrine, nei loro aspetti positivi, hanno già trovato sintesi funzionale nei precedenti capitoli del libro, lì infatti Aristotele non esitava ad attingere da quei predecessori autorità e consenso; ora, invece, vengono in primo piano le ragioni che hanno indotto e per così dire obbligato Aristotele a migliorare quelle dottrine e a regolarsi diversamente – ragioni critiche che erano rimaste finora prevalentemente implicite. Per un confronto, si può considerare in effetti che anche i riferimenti dossografici di Lambda 2, pur contenendo alcuni elementi di critica, poggiano sulle dottrine dei predecessori in

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funzione di endoxon, invocandole cioè positivamente (previe le necessarie correzioni di formulazione), a conferma delle acquisizioni ivi affermate. Analogamente, i riferimenti a Platone nel capitolo 6 hanno, secondo la nostra lettura, un valore positivo – previa critica e correzione – che è sovente negato o trascurato dagli esegeti. L’unica critica principale – non finalizzata cioè a salvare e riutilizzare l’insieme o certe parti di una dottrina dopo averla corretta, è la critica rivolta a Speusippo, confutato in Lambda 6 (insieme ai Pitagorici) e ora di nuovo in Lambda 10: qui Aristotele mostra nei confronti del terzo scolarca accademico un’intenzione fortemente critica, che non è possibile trascurare se si vuole intendere il senso complessivo del libro. Quanto al resto, anche qui in Lambda 10, questa rassegna delle difficoltà implicite nelle dottrine dei predecessori ha valore, non tanto polemico, quanto giustificativo delle dottrine esposte in precedenza e riesposte (talora reinterpretate) nel corso del libro. Siamo pur sempre nell’ambito, caratteristicamente aristotelico, di una concezione progressiva e in qualche modo cumulativa della conoscenza teoretica. In tal senso, non manca un certo parallelismo fra l’ordine in cui si susseguono i riferimenti critici di Lambda e quello delle dottrine esposte nei precedenti libri. Tuttavia, come si addice a un contesto la cui natura ipertestuale non sia tematizzata o dichiarata, il rapporto fra Lambda 10 e Lambda 19 non è meccanico, ma procede per problemi. Avviene così che in Lambda 10 risultino rievocate anche dottrine, come l’immobilismo eleatico, cui il libro Lambda di per sé non ha dato risposta diretta; nondimeno Aristotele l’ha confutato quell’aspetto dell’eleatismo in Fisica A 8, il testo dove la dottrina della materia, ora riaffermata anche in Lambda, era già stata elaborata, originariamente, proprio in risposta a quell’“aporia degli antichi”. Lì in Fisica A 8, in effetti, Aristotele indica i motivi di fondo della propria dottrina della materia come sostrato del mutamento, e della privazione come opposto della forma; dottrina che in Lambda 2 precisamente riprende.

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Aristotele produce così in Lambda una sintesi compendiata, ma solida e in qualche modo definitiva, della sua dottrina dei principi del mondo fisico. Se è così si può risolvere il problema della Ringkomposition (seguendo appunto l’ipotesi intravista da M. Crubellier, cfr. § 4.10.1). Come mai, ci si chiedeva tutto sommato, pare avere struttura circolare una sezione di testo – il capitolo 10 – la cui parte centrale e maggiore non ha nessi forti con l’esordio, ma sembra rapportarsi a tematiche più numerose e diverse? La soluzione darà un senso più complesso al richiamarsi della conclusione di Lambda 10 al tema iniziale del capitolo. È, infatti, l’esito di un approdo naturale ma laborioso. Così, Aristotele, dopo aver passato in rassegna nell’arco del capitolo i problemi stessi cui si era dedicato per tutto il corso del libro Lambda, giunge infine a rivisitare, con la famosa citazione di Omero, il tema conclusivo dell’esposizione positiva, che si attua in 10.1075a11-25: la connessione causale fra le parti dell’universo. In virtù di questa connessione, tutte le parti dell’universo, con tutto ciò che esiste ed è pensabile (ta; o[nta, 1076a3), risultano appartenere ad un unico ordine di realtà. Per questo, è così importante poter dire che uno solo è il principio.

ADDENDUM SULLA COSTITUZIONE DEL TESTO

Un bilancio dopo l’edizione di Metafisica Lambda (2012) Stampare il testo critico di Metafisica Lambda è stato nel 2012 il punto di arrivo di una serie di ricerche sul dettato del libro nei codici, sulla loro relazione, sulla struttura della tradizione, manoscritta, esegetica, editoriale. Come risultato, il testo di Lambda che qui stampiamo e commentiamo è diverso da quello stampato e commentato fino al XX secolo. Questa diversità si compone di molte differenze, tutte però coerenti fra loro nei principi fondativi, che ora gioverà ricapitolare e quanto possibile soppesare, dopo questo breve intervallo di riflessione, in vista di ulteriori approfondimenti. Molte delle differenze sono dovute alla revisione dello stemma, e al considerare cioè Ab come codice seriore della famiglia a piuttosto che come poziore della famiglia b*.

* L’allontanamento di Ab dagli altri codici beta di Harlfinger è confermato integralmente dalla collazione del codice Vk, che pure non abbiamo considerato in apparato perché contiene solo estratti e parafrasi nel nostro libro (rilevati da S. Alexandru, Aristotle’s Metaphysics L. Critical edition with notes, D. Phil. Thesis, Oxford 2001). Si vedano in specie (a) la partizione fra E, J, Ab e M, C, Vk in 1069a31, 1069b36, 1071b20, 1072b14, 1073a24, 1073b13m, 1074a14, 1074b4, 1074b10, 1074b19, 1074b28, 1074b36, 1075a4, 1075a5, 1075a7, 1075a34, 1075a35, 1075a36s., 1075b12, 1075b24; (b) l’isolamento di J, Ab vs E, M, C, Vk in 1070b31, 1072a24, 1072b24, 1073a33, 1074b34, 1075a20, 1075b14, 1075b32, casi tutti ove a mio avviso J E Ab potrebbero portare la lectio corretta, o almeno conservare la lectio di a (oltre che in 1074b22 e 1074b17, ove però la

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Questo ha comportato una valutazione assai impoverita della famiglia b stessa, che si trova decurtata del suo rappresentante esimio – a quanto sempre si è ritenuto. Forte invero era stato il credito di Ab presso gli editori del XIX e XX secolo, come l’introduzione della mia edizione ricorda (§ I.1). Anche dove il testo principale era sostenibile, essi avevano sovente adottato varianti di Ab. In Ab, come si è visto (I, § 1.10.4, § 2.2), l’integrità stilistica del testo è soggetta a un’attività di revisione e normalizzazione, in funzione di una lettura scolastica (pedagogicamente orientata, a quanto si può supporre, ma agevolata solo in superficie, talora anzi fuorviante) in associazione con il congiunto commento di Michele di Efeso, la cui discorsiva parafrasi poteva probabilmente sostituirsi, per i lettori cui il codice era destinato, alla comprensione letterale dei passi più disagevoli (una caratteristica funzionale che risulterà accentuata nell’ulteriore parafrasi di Giorgio Pachymeres). In questo, il commento di Michele è diverso per natura da quello di Alessandro, più antico di quasi un millennio (del quale altrove studio e caratterizzo le rimanenze in L’exégèse d’Aristote, cit.): questo infatti presuppone uno studio attento e minuzioso del testo aristotelico da parte del lettore, e può dunque valere come testimonianza testuale – benché la metodologia al riguardo debba ancora essere definita e non abbia nulla di autoevidente**. Qui, i due commenti sono stati per la prima

differenze riguarda solo lo spirito o la divisione fra le parole), né può stupire, stando così le cose, che Vk cospiri con E, J, M, C contro le varianti individuali e isolate di Ab in 1071b4, 1072a26s., 1072a30, 1072b2, 1072b4, 1072b5 (vs. Ab e ES), 1075a6, 1075a38, 1075b23, e anche in 1072a27 e 1072b15, ove M ha una variante diversa da E, J e C (oltre che in 1072a27 e in 1074b33, ove c’è solo una differenza di spirito, poco rilevante per la costituzione dello stemma). **Spero di poter presto tornare sull’argomento. Nel frattempo, ho raccolto alcune osservazioni, sia a questo riguardo, sia sul più generale problema editoriale della Metafisica – con particolare riferimento alla

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volta distinti sistematicamente, cosa indispensabile per potere meglio capire e caratterizzare la finalità e la natura dell’uno e dell’altro. Viene meno, con questo, il presupposto che l’esegeta attinga a fonti enormemente più antiche di quelle a noi pervenute (diversamente da quanto gli apparati di Jaeger e Ross, che lo citano sotto il nome di Alessandro, farebbero supporre). Una più severa selezione delle fonti nella tradizione indiretta ha inoltre escluso dall’apparato critico la versione di Guglielmo di Moerbeke, che ora sappiamo derivata dal codice J, a noi pervenuto. L’arabo è stato esaminato con Mauro Zonta; ciò però non ha mai comportato una revisione del testo a. Quanto alla tradizione diretta, fatta salva la revisione suddetta, ho citato in apparato, dopo averli consultati personalmente e per intero, tutti quei codici che consentono di ricostruire i due indipendenti archetipi delle due famiglie, a e b, nella quale la tradizione della Metafisica risulta divisa secondo lo stemma di Harlfinger. Esaminate tutte le varianti, ho trovato che quello dei codices vetustissimi è il testo migliore; ogni passaggio successivo ne comporta l’impoverimento e la banalizzazione, sebbene sui loci corrupti la tradizione possa venire in aiuto; su questa base ho optato con decisione per la famiglia a; della famiglia b, ho introdotto varianti specie nei pochi casi in cui il testo a richiedeva correzione, senza per questo presupporne un’origine indipendente: resta aperta la possibilità che nei casi migliori si tratti di congetture competenti e forse felici. Quanto ai vetustissimi E e J, ivi per la prima volta ho distinto sistematicamente le diverse mani all’opera, così spesso confuse da Ross e Jaeger, riservando il credito stemmatico, fra le mani attive su E, solo alla mano prima e originaria (cfr per es. 1072a24, dove il senso dell’argomento risultante è diverso). Della mano J2, antica

recente edizione di Alpha a cura di O. Primavesi – nel mio Aristotle’s Metaphysics – current research to reconcile two branches of the tradition («Archiv für Geschichte der Philosophie», submitted).

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quasi quanto il codice stesso (IX secolo) ho trovato che richiederebbe un esame separato e che merita di esser valorizzata in tutte le indagini future. Soprattutto, ho tutelato specificamente lo stile di redazione del libro, anche in quelle peculiarità che spesso erano state appiattite dai precedenti editori. Questo è importante non solo per i singoli passaggi, parte dei quali mantiene lo stesso significato, ma per una più precisa caratterizzazione dell’usus scribendi, in specie di quello tenuto da Aristotele nella Metafisica. Una tale caratterizzazione, perseguita più analiticamente nelle note sulla costituzione del testo (pp. 215-308) è di un’importanza non secondaria, anche in vista dell’edizione di altri libri. Ciò vale soprattutto se è vero, come dall’inizio della tradizione a stampa in età moderna si ritiene, che quella della Metafisica sia una “recensione aperta” (cfr. I, § 1.10.3, 1.10.4, in part. p. 97). In tali casi, ove si impone continuamente la scelta fra le due varianti dei due archetipi, il criterio dell’usus scribendi è decisivo, è infatti superiore anche a quello pur canonico della lectio difficilior, perché ne governa i limiti e i parametri interni. Tutto ciò ha motivato la revisione di quei casi ove la variante meglio attestata è degna di attenzione proprio perché risulta improbabile in greco ma non in Aristotele, non impossibile, dunque, ma lectio difficilior, tale da dover essere decisamente restaurata (cfr. e.g. 1069b5, 1072a24, 1072b2, 1074a16). Così a più riprese, seguendo a, la nostra edizione produce un testo sostanzialmente diverso e, per quanto è stato argomentato in questi volumi, più significativo (cfr. in particolare 1.1069a31-2, 2.69b23, 3. 6. 1071b22, (6.1072a5s.), 6.1072a15, 7.1072a15, 7.1072a257. 1072a24, 7.1072b2, 1072b22. Di più si potrebbe fare, probabilmente, riconsiderando analogamente altri casi segnalati in questo volume, in cui il dettato dei codici è sempre stato giudicato impossibile e forse non lo è, e.g. 1070b25, cfr. supra, p. 203s. Forse, tuttavia, il recupero del testo a qui intrapreso andrà ulteriormente approfondito. Per questo, l’edizione critica di

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Lambda stampata nel 2012 è stata anche un punto di partenza, su due piste sovente parallele, e mai irrelate. Con la maggiore evidenza, una tale revisione, da una parte, apre la strada a un’edizione generale della Metafisica, da condurre e praticare sulla stessa linea metodologica e sugli stessi fondamenti. Dall’altra, richiede anche un approfondimento, ancora più radicale, di quei fondamenti. Ciò diviene ancora più evidente dopo che Oliver Primavesi ha pubblicato una nuova edizione del libro Alpha (“Aristotle, Metaphysics Alpha. A Critical Edition with Introduction” In: Aristotle’s Metaphysics Alpha. Symposium Aristotelicum, a c. di C. Steel, Oxford 2012). Il progresso delle edizioni, con la discussione susseguente, ha ulteriormente evidenziato importanti zone residue di opacità e importanti desiderata, che intendo ora esemplificare per sommi capi, cominciando dal problema più generale. Forse, lo stemma di Harlfinger (D. H ARLFINGER , Zur Überlieferungsgeschichte der Metaphysik, in P. Aubenque (éd.), Études sur la Métaphysique d’Aristote, Vrin, Paris 1979) è un punto di partenza più che un quadro di riferimento definitivo. La documentazione, che consta dei riferimenti precisi ai libri e ai passi, non è stata pubblicata che molto parzialmente (come l’autore stesso talora segnala, p.12, 14); e dove lo è stata, l’interpretazione che ne è proposta lascia ampi spazi aperti per sviluppi e revisioni a venire. Qui vorrei menzionare il problema posto da qualche codex deperditus che compare nello stemma: si tratta di subarchetipi ricostruiti speculativamente, sulla base della distribuzione delle varianti nei codici pervenuti. Classicamente, subarchetipi siffatti si possono definire e individuare a causa di errori distribuiti in più codici successivi, i quali però risultino fra loro indipendenti. Ciò avviene in base al principio di fondo della stemmatica, secondo il quale ogni nuova copia introduce nel testo una nuova serie di errori di copiatura, che poi si trovano in tutte le successive copie: se ne postula così una fonte comune perduta (il che consente di individuare come ramo o

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famiglia i codici che ne derivano). È in questa logica che Harlfinger disegna una costellazione di subarchetipi nella parte sinistra dello stemma, relativa alla progenie di a. Quanto alla parte destra dello stemma, relativa alla progenie di b, lo stemma si caratterizza piuttosto per la presenza di almeno due subarchetipi, e e z, i quali sono definiti e individuati non come fonte e causa della presenza di errori comuni nei codici derivati, ma come fonte dell’assenza di errori tali che altrimenti, se lo stemma è corretto, dovrebbero esservi presenti. In questa stessa logica ci si attende però comunque di trovare anche in tali ipotetici subarchetipi (cioè in tutti i codici che ne deriverebbero), errori caratteristici: non c’è codice che non comporti nella tradizione successiva nuovi errori. Si tratta dunque di individuare gli errori propri, per esempio, di e. Ora, forse in ragione della natura preliminare dello studio di Harflinger, una tale verifica non è stata approfondita per e, né la documentazione è stata pubblicata per z, almeno allo stato attuale delle ricerche. Dalle collazioni pubblicate, incluse quelle recentissime da Alpha, non risultano errori caratteristici di e (errori – si intende sempre – stemmaticamente significativi, tali cioè da non poter esser stati corretti per via congetturale dai successivi copisti). Ma anche g, l’ipotetica fonte comune al codice più antico, J (IX secolo), e a un larghissimo numero di altri codici (fra i quali Ab quando appartiene ad a) è un’ipotesi di Harlfinger assai difficile da confermare**. Eppure, è un’ipotesi impegnativa, ** Invero, se tale ipotesi non si conferma, una serie di passi della nostra stessa edizione del stesso libro Lambda è suscettibile di revisione, sebbene il senso complessivo in quei casi resti quasi sempre invariato. La posizione stemmatica di tutte le varianti comuni a J e Ab risulterebbe infatti diversa (inter alias, in 1070b31, 1072a24, 1072b24; inoltre in 1074b17, 1074b22 ove la differenza Il riguarda solo divisione delle parole e segni diacritici) e sarebbe possibile seguire il più antico dei codici, J, almeno nei seguenti casi dove non è affatto escluso che comporti un testo più corretto: 1073a33, 1074b34, 1075a20, 1075b14, 1075b32.

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perché costringe a degradare il valore di J rispetto a quello E, con ogni probabilità più recente (X secolo). I dati stessi addotti da Harlfinger possono essere letti in modo diverso. Non è sicuro che le varianti che oppongono J Ab a E M C siano sempre, o anche solo prevalentemente, erronee. Qualora non fossero errori, non varrebbero a provare un’affiliazione più indiretta e meno originaria. Dunque l’indagine va approfondita. Infine, per dirlo in una parola, tutto lo stemma dei codici della Metafisica, con la scissione stessa che esso canonizza fra le famiglie a e b, merita nuova discussione, analitica e documentata. Nel caso la configurazione di b dovesse radicalmente cambiare (o addirittura venir meno – secondo una possibilità che come allo stato presente dell’arte sarebbe stimolante perlomeno considerare), si confermerebbe il dubbio che le varianti di M, o di M e C, come anche quelle di Ab, possano essere adottate solo a titolo di congettura e correzione, senza garanzia che risalgano a un archetipo indipendente. Che questo poi, avvenendo per Lambda, possa anche avvenire per altri libri, almeno per quelli successivi, è questione è da indagare e da verificare. Si aprirebbe indubbiamente una nuova pagina, inedita, nella storia editoriale della Metafisica* * * .

*** Nei giorni 30/5/2014-1/6/2014, una conferenza è stato organizzata a Berlino da Stephen Menn della Humboldt-Universität, “The Text-History of Aristotle’s Metaphysics”, ove diverse posizioni sono state messe a confronto. Nel corso della conferenza, chi scrive ha avanzato una richiesta di chiarimento della base documentaria che soggiace ad alcune ipotesi strutturali nello stemma di Harlfinger, in specie quanto alla consistenza e natura degli ipotetici subarchetipi perduti quali e, g e in ultima analisi b. Questa richiesta non ha trovato soluzione, ma il dibattito, del quale ringrazio Stephen Menn e tutti i partecipanti, ha confortato le perplessità ivi espresse e incoraggiato l'approfondimento di queste ricerche. Ringrazio veramente molto Carlo Maria Mazzucchi per la discussione su questa nota e sulle indagini cui essa allude, in tutte le fasi intermedie di elaborazione.

Errata corrige. Nel periodo intercorso fra questi due volumi, alcune note di apparato critico in calce al mio testo di Lambda sono state oggetto di annotazione e revisione. Ringrazio gli autori relativi (P. Golitsis in 1069b3, 1070a14, 1070a32, 1071b11, 1071b34, 1072a35, D. Harlfinger in 1072b5, A. Laks in 1071b34). La costituzione del testo e la traduzione restano invariati, salvo un affievolimento della congiunzione dh; in d’, e rinforzo invece di dev in dh; alla linea 1069b3 (l’apparato critico resta invariato). Valgano dunque al riguardo i seguenti errata corrige: ad 1070a14 sunqeth;n] lege sunqevthn|| ad 1070a32 w{" C ] lege w{" ouj C || ad 1070b22 tw'n ejkto;" ] lege to; ejkto;" M || ad 1071b11 ajll’ h[ Epc] lege ajll’ hJ Epc || ad 1071b34 “oujd’ wJdi; kai; wJdiv, oujde; scripsi” ] lege: “oujd’ wJdi; hJ wJdiv, oujde; scripsi” || ad 1072a35 sustoiciva] adde: sustoiceiva Eac Ab || ad 1072b5 w{ste hJ fora; E (ante corr.) ut vid. […]: w{" hJ fora; J ] lege w{" hJ fora; E (ante corr.) J”.

COMMENTO

Premessa sul carattere generale e sui criteri del presente commento La finalità principale di questo commento è collegare le precedenti disamine, relative al percorso generale del libro, a un esame analitico dei diversi capitoli, sezioni, lemmi. L’attenzione si ferma ora specialmente sugli elementi di continuità, che si sono potuti ravvisare nella prospettiva qui perseguita, e sui problemi che il testo pone, alcuni dei quali sono caratteristici e ricorrenti. Il commento per lemmi è condotto in modo ora più, ora meno selettivo, e comunque non esaustivo, senza mai perdere la visione d’insieme. Per questo, procedendo dal generale al particolare, ho presentato ogni capitolo con una titolatura, più semplice o più articolata secondo la materia in esame, fra parentesi quadre; con un’introduzione, relativa non solo al contenuto, ma al modo ovvero strategia di trattazione e argomentazione che l’analisi del capitolo mette in evidenza; poi con un sommario continuo, guidato dai numeri di riga delle sezioni, comprensivo di tutte le parti di tutti i capitoli, con eventuali integrazioni ad sensum fra parentesi tonde; seguono infine le note di commento propriamente dette, e lemmatizzate in riferimento alla pagina e alla riga, alla traduzione e al testo greco di riferimento. Queste ultime, le note di commento per lemmi, sono complementari a quelle sulla costituzione del testo che costituiscono la Parte III del volume I e valgono ivi a giustificare le principali opzioni dell’edizione critica. Qui le note sono focalizzate in primo luogo sul contenuto, piuttosto che

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sulla struttura linguistica-grammaticale (che è evocata solo in funzione del contenuto). Non mancheranno tuttavia occasionali sovrapposizioni, delle quali si avvertirà talora il lettore con un sistema di rinvii incrociati (cfr. supra, n. 13). Esse sono, si può dire, il costo di una scelta di fondo: quella di salvaguardare quanto possibile l’autonomia di ciascuno dei due volumi. Ciascuno si configura infatti, pur all’interno di un progetto unitario, come monografia indipendente. L’argomento torna più volte su temi ricorrenti, né potrebbe essere diversamente. Questo avviene perché anche l’introduzione, inclusa la larga sezione “Trama e argomento del libro Lambda” ha una sua indipendenza, comporta una determinata interpretazione e selezione di contenuti, ha natura propriamente monografica, mentre il commento non è fruibile a prescindere dal testo di riferimento. Corrispondentemente, allora, esso presenta quella modalità progressiva di analisi, dal generale al particolare, che è propria di molta letteratura esegetica poziore. In specie, il modello di Ross può essere evocato per l’organizzazione del commento. Già Ross infatti presenta prima un titolo iniziale sul senso del capitolo, poi un suo riassunto analitico pressoché continuo, guidato dai numeri di riga in grassetto, e infine un commento per lemmi. A sua volta, lo schema seguito da Ross in un certo senso costituisce l’evoluzione di una forma strutturata di commento già presente in età tardo-antica e medievale. Il successo di questa struttura sta, fra l’altro, nella sua flessibilità, in quanto essa risulta variamente adattabile alle esigenze dell’esegeta. Questi infatti per natura lavora muovendosi per fasi ovvero tappe determinate, quanto possibile dal generale al particolare (Alessandro, Averroé); e d’altra parte dedica livelli diversi di attenzione a parti e problemi diversi. Nei contenuti, comunque, non ho avuto riguardo particolare né per altri sommari analitici né per altri commenti, tanto più che non avevo spazio sufficiente per includere alcun lavoro di comparazione, men che meno di compilazione, né critica né

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acritica132: ho, piuttosto, cercato di salvare la leggibilità di un’opera che già si presenta complessa e stratificata a causa dei diversi livelli di analisi che comporta. Comparazione con la letteratura secondaria ci sarà, beninteso, in certi casi, specie quando l’esegesi che presento direttamente lo richiede; in molti altri resta implicita e dietro le righe; e tuttavia ho condotto le note di questo commento quasi sempre ex novo, ritenendo che l’opera possa essere tanto più d’aiuto a capire la presente edizione critica, quanto più direttamente trae origine dalla stessa specifica prospettiva e motivazione: un ritorno radicale al testo più antico possibile, per partire di nuovo da quel testo sine glossa, senza presupporne alcuna precostituita opzione di lettura. Ciò non ha impedito, anzi progressivamente ha consentito, in itinere, che un’interpretazine generale prendesse forma, passo per passo, capitolo per capitolo, restituendoci l’immagine di un testo coeso e coerente, animato da una tensione unitaria e globale, come si è detto nell’“Introduzione”, e come ora dettagliatamente andremo a mostrare.

CAPITOLO 1 [Primato teoretico della sostanza. Centralità della ricerca sui principi della sostanza nella storia del pensiero, pur nella diversità delle concezioni fra antichi e contemporanei. Tripartizione delle sostanze. Problemi aperti: gli elementi della sostanza eterna e sensibile; l’esistenza separata e la natura della sostanza non sensibile] Questo capitolo costituisce l’introduzione del libro. Collega strettamente il libro Lambda alle ricerche sulla sostanza, e soprat-

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Una rassegna abbastanza ampia di opinioni sulle varie parti del libro si trova in R. SALIS, Il commento di pseudo-Alessandro, cit.

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tutto ai capitoli Zeta 1-2133. Qui, specialmente, una tale costruzione torna innanzitutto a riflettere sugli esiti acquisiti, in primis, sul primato teoretico della sostanza rispetto agli altri modi dell’ente; poi, pone le premesse di ulteriori compimenti, indicando punti salienti da approfondire e non ancora chiari: il ruolo sistematico della sostanza eterna sensibile, la dimostrazione della necessità di una sostanza non sensibile, della sua natura e del suo modo di conoscibilità. Notevole è l’approccio metalinguistico che qui caratterizza l’analisi dei modi dell’ente, come caratterizza più oltre, nel capitolo 2, anche l’analisi delle forme del mutamento. L’ontologia che ne deriva è proiezione quasi diretta della struttura del pensiero discorsivo, e dunque della costruzione teoretica cui essa mette capo; facilmente, pertanto, ne è oggetto privilegiato.

I

PRIMATO DELLA SOSTANZA

1069a18-26 Si pone il primato della sostanza sugli altri modi dell’ente, contestualmente alla definizione dell’ambito dell’indagine come ricerca dei principi della sostanza. Il postulato e gli argomenti addotti si trovano più estesamente in Z 1.1028a10-b7.

II

PROBLEMA GNOSEOLOGICO DELLA SOSTANZA E DEI SUOI PRINCIPI, VISTO SECONDO LA PARTIZIONE DELLE SOSTANZE E LA RELATIVA RIPARTIZIONE DISCIPLINARE

1069a26-30 Diversi modi di concepire i principi della sostanza: come universali da parte dei Platonici, come principi ed elementi kaq’ e{kaston da parte degli antichi (cfr. Z 1.1028a18-26, b8-13).

133

Cfr. supra, § 4.1 e n. 76.

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1069a30-32 Tripartizione delle sostanze, secondo la doppia suddivisione: prima fra sensibile e immobile, alias intelligibile; poi, fra sensibile corruttibile e sensibile eterna (sul valore della quale, cfr. qui supra, § 3.3; sulla suddivisione, cfr. Z 2.1028b19-21). 1069a32s. Per contrasto con il consensus relativo alla sostanza sensibile corruttibile, si evidenzia la necessità di apprendere gli elementi, della sostanza sensibile eterna (sollevando una questione che non pare né affrontata né menzionata come tale nel testo parallelo di Zeta, capp. 1-2). 1069a33-b2 Si aprono infine, sullo sfondo di una succinta nota dossografica, questioni relative alla sostanza non sensibile e non soggetta a mutamento: si tratta della sua separabilità o meno (cfr. 1028b18s.), della sua natura (cfr. 1028b20-27) e della sua pertinenza disciplinare.

1069a18 “La conoscenza teoretica” (hJ qewriva) Questo termine, come soggetto della prima frase, viene sovente riferito dagli esegeti a questa determinata ricerca, se non anzi a questo libro (si traduce infatti di solito come “ricerca”, “indagine” vel sim.); ma di per sé può essere molto più generale, indicando come un progetto globale (del quale queste frasi si pongono a consuntivo e ripensamento) l’attività e la conoscenza teoretica, strutturata secondo i modi di pensabilità e predicabilità dell’ente. Di questo infatti parla il seguito del testo, 1069a20-24, secondo la lettura esposta qui infra ad loc. Si tratta dunque di quell’attività caratteristica dell’intelligenza umana, a proposito della quale, altrove nel corpus (come in Metaph. A 2 e Eth. Nic. K 7-8, Eth Eud. A 4.1215b 13), Aristotele sot-

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tolinea che essa è finalizzata a se stessa e in quanto tale è diversa dall’attività pratica o da quella produttiva; questa sua caratteristica non risalta in primo piano ora, mentre sembra essere presupposta più oltre da alcuni passi dei capitoli 7 e 9, dove si trova tematizzata la natura di questo tipo di attività.

1069a18-19 “La conoscenza teoretica è sulla sostanza. È delle sostanze infatti che si cercano i principi e le cause” (Peri; th'" oujsiva" hJ qewriva: tw'n ga;r oujsiw'n aiJ ajrcai; kai; ta; ai[tia zhtou'ntai) Se la qewriva è conoscenza delle cause e dei principi degli enti (come stabilmente è in Aristotele, cfr. e.g. Metaph. A 1.981a24-27, 982a1-3), e se fra gli enti il primo è la sostanza, è logico che la conoscenza teoretica sia primariamente sui principi e sulle cause della sostanza. Nondimeno, la seconda frase non è espressa come conseguenza della prima, bensì viceversa giustifica la prima e la spiega, come mostra la presenza del gavr in 1069a18. Questo avviene perché le due frasi hanno natura descrittiva, non normativa: Lambda qui prende atto, in senso innanzitutto logico e dunque filosofico, ma più oltre anche in senso storico (1069a25ss.), di ciò che si trova argomentato invece in senso programmatico alla fine del capitolo Z 1.1028b6s. (cfr. già supra, § 4.1): “In ogni senso la sostanza viene prima, sia per definizione che per la conoscenza e nel tempo. [...] Ciò su cui dobbiamo fare teoria [qewrhtevon] è dunque soprattutto, in primo luogo e per così dire unicamente, l’ente inteso così [e cioè: come sostanza]”.

1069a19s. “Come un intero... [vs.] per successione” (wJ" o{lon ti / tw'/ ejfexh'") Si oppongono, come alternative possibili, una prima visione, secondo la quale l’universo è un intero (o{lon ti), e una seconda,

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richiede senz’altro interpretazione, a una seconda, di un tutto costituito “per successione”, che pure è da interpretare.La prima visione, presa alla lettera, potrebbe anche essere organicistica, come se l’universo fosse un vivente. Ma questo si accorda poco con il contesto, in considerazione della natura logica delle concezioni qui a confronto, cfr. anche infra, ad 1069a22-24. Più in generale, l’interpretazione cosmologica, che pure è fra queste, può non essere quella più probabile, nella logica dell’argomento. La seconda espressione è forse meno perspicua a prima vista, ma si può chiarire considerandola con attenzione, e può aiutare a capire la prima. In generale, “esistere”, o “essere”, “per successione”, tw'/ ejfexh'", si può dire per esempio, in Aristotele, del domani rispetto all’oggi: solo infatti se c’è l’oggi, e in relazione all’oggi, ci sarà il domani. Aristotele non di rado esemplifica questo concetto di ejfexh'" adducendo esempi di successione cronologica che comportino dipendenza ontologica, tale per cui non c’è il secondo (almeno in quanto secondo) se non c’è il primo, e se non c’è l’anteriore (in quanto tale) non c’è il posteriore (in quanto tale), cfr. Phys. E 3.227a4. La locuzione tw'/ ejfexh'" diventa anche più interessante quando non ha senso semplicemente cronologico, ma concettuale, e quando comporta reciproca inclusione, come nel caso tipico delle facoltà dell’anima, che si implicano progressivamente dalla meno alla più complessa: cfr. De an. B 3.414b28-30. Questo significato può, meglio di quello cronologico, attagliarsi alla relazione fra i modi dell’ente, quando questi, come avviene, reciprocamente si presuppongono e si fondano. Presumibilmente, in ogni caso, si tratta di una relazione di dipendenza logica, concettuale: è questa l’altra visione dell’universo (to; pa'n) che Aristotele propone. Infatti la concezione del tutto, e dell’universo che esso può eventualmente costituire, appare essere qui di natura eminentemente logica, quasi identica alla forma fondamentale dell’enunciazione discorsiva, analizzata in sostanza e categorie

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(l’una e l’altra “enti” seppure a diverso titolo). Ciò appunto può formare un tutt’uno; oppure, per connessione più debole, ma significativa, può formare un insieme composito, connesso “per successione” di un termine all’altro. A quanto sembra, qui Aristotele si trova a descrivere la struttura di un discorso apofantico nel quale i predicati categoriali sussistono e sono enti solo subordinatamente alla sostanza che ne è soggetto.

1069a20s. “Prima c’è la sostanza, poi la qualità o la quantità” (prw'ton hJ oujsiva, ei\ta to; poio;n h] posovn) Cfr. I, Nota ad loc., sul parallelo fra il testo qui adottato (di E e J, rispetto al testo di Ab adottato dagli editori, prw'ton hJ oujsiva, ei\ t a to; poio; n ei\ t a to; posov n , cfr. già Frede ad loc.) e Z 1.1028a12s. che parimenti esemplifica le categorie (to; de; poio;n h] poso;n h] tw'n a[llwn e{kaston tw'n ou{tw kathgoroumevnwn: nel passo di Lambda come in quello di Zeta la disgiunzione h[ va naturalmente intesa nel senso di vel (1069a21, 1028a12). In entrambi i casi, emerge un punto primario: il predicato, quale che sia (qualità o quantità...) è logicamente, e dunque anche ontologicamente, subordinato alla sostanza (oujsiva).

1069a21s. “questi non sono nemmeno enti in senso assoluto, per così dire” (oujdΔ o[nta, wJ" eijpei'n aJplw'", tau'ta) Ora si dà motivo di spingere ulteriormente la forza dell’argomento: qui come nell’introduzione di Zeta, non solo la conoscenza teoretica è primariamente sulla sostanza, ma si può dire anche che la conoscenza teoretica è senz’altro, e quasi unicamente, per così dire, sulla sostanza (come afferma Zeta, nel passo in 1.1028a12s. qui più volte citato): infatti, quantità, qualità, mutamenti non sono nemmeno enti, per così dire (come afferma Lambda – e notasi sul percorso che l’argomento può

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valere, s’intende, solo nella misura in cui si ammetta che la scienza in corso è scienza dell’ente, cioè, ragionevolmente, dell’ente in quanto ente): infatti a questa scienza, le modalità subordinate dell’essere pertengono solo in ragione del loro rapportarsi alla sostanza134. Questo equivale a dire che ciò su cui deve portare la ricerca sull’ente è, senz’altro, la sostanza; degli altri modi, subordinati, dell’ente si indagherà si, ma in funzione dell’indagine sulla sostanza, secondo quanto dice Zeta 1. La precisa vicinanza fra le introduzioni di Lambda e Zeta è significativa. Concettualmente, mostra quanto sia connesso il primato ontologico della sostanza, affermato principalmente in Zeta 1, al suo primato teoretico affermato principalmente in Lambda. Non a caso, in effetti, continuando, Lambda afferma il primato ontologico delle sostanze, mentre Zeta ne afferma il primato teoretico. Sono due aspetti di una stessa posizione molto chiara e determinata, che già in Zeta 1-2 ha natura in qualche modo metalinguistica (si struttura infatti sui modi e sui sensi del “dirsi”, sull’uso del linguaggio come espressione del pensiero discorsivo e cognitivo) e autoriflessiva (visto che il pensiero cognitivo per eccellenza è quello della filosofia prima). Ciò consente una circolarità fra le due configurazioni e i due progetti, di modo che l’analisi metalinguistica di Lambda, nel suo procedimento ipertestuale, viene ad aderire da vicino alla configurazione ontologica di Zeta. L’interesse di questi indizi, sia pure minimali, di un parallelismo fra Lambda e Zeta, non è secondario. Peculiare è il

134 Peraltro un concetto così categorico, in Zeta come in Lambda, viene attutito dalla stessa espressione, “per così dire”, wJ" eijpei''n. In part. M. FREDE e G. PATZIG, Aristoteles Metaphysik Z, cit., II p. 25, hanno trovato che l’espressione “unicamente” in Z 2.1028b6 fosse eccessiva, di fatto così valorizzando l’importanza della locuzione in 1028b7 wJ" eijpei'n. È importante, per apprezzare il parallelo, che in 1069a22 si seguano le famiglie a e b e non il codice Ab, che interpone aJplw'" fra wJ" e eijpei'n.

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tornare dei due testi su una tematica comune, secondo un’impostazione che però è più radicale in Lambda, ridotta com’è a termini essenziali. Ora, tendenzialmente, nessuno dubita che un trattato come Lambda sia di Aristotele e non della scuola. Ma si dubita spesso della genuinità del suo modo di redazione. Dubbi in proposito sono talora espliciti, come quando si dice che la redazione attuale di Lambda è costituita da appunti, e forse anzi di appunti raccolti non da Aristotele, ma da uno studente; talora sono dubbi impliciti, come quando in sede editoriale si scelgono varianti seriori o emendamenti che migliorino la leggibilità del testo. Qui invece si vede che proprio le fattezze minute del testo sono quelle che mostrano con più pregnanza l’autenticità del dettato che possiamo leggere nei codici più antichi. Sulle implicazioni di questi paralleli, cfr. supra, § 2.4.

1069a22 “modi del mutamento” (kinhvsei") Passa correntemente sotto silenzio, nei commenti a questa pagina, la presenza strategica di kinhvsei", ora tradotto “modi del mutamento”, prendendo kiv nhsi" nel senso più largo, affine a metabolhv, come in Politica 1268b25: senso che è sicuramente attivo nel libro Lambda, come ora ricorderò. Ci può essere in questo silenzio una traccia di imbarazzo: di primo acchito, non è chiaro in quale modo kinhvsei" vada inteso e tradotto. Il presente intendimento, come “modi del mutamento”, fa riferimento alla distinzione dei mutamenti su base categoriale, in 2.1069b9-13 (dove i “modi del mutamento” sono quattro). Sicuramente, kiv n hsi" ricopre in Lambda il senso lato di “mutamento”. Lo si vede principalmente dall’uso di questo concetto nella diairesi fra i diversi odini di sostanza in 1069a30-b3: infatti ajkivnhto", che vuol dire non-soggetto-a-kivnhsi", si contrappone simpliciter sia a

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sensibile che a mutevole, termini che dunque si equivalgono qui nel caratterizzare la metablhth; oujsiva, “sostanza soggetta a mutamento”. D’altra parte, il rapporto fra senso ristretto e senso lato di kivnhsi" e conseguentemente di ajkivnhto", nella caratterizzazione delle sostanze, può essere spiegato e razionalizzato anche a fortiori: ciò che non è mobile non è nemmeno mutevole, perché lo spostamento locale è il primo di tutti i mutamenti (7.1072b8s.). Dunque in ogni caso kiv n hsi" può includere tutti i mutamenti ed è un termine semanticamente pesante e impegnativo; non può comparire per caso in 1069a22. Ma che ne è, di questo plurale, kinhvsei"? Nel contesto della presente lettura metalinguistica, cui buona parte degli argomenti di questo libro si presta, si può considerare che Aristotele si riferisca qui ai mutamenti come a tutta quella vasta area di predicati verbali che si riferiscono alla sostanza sensibile indicandone i “movimenti”, e “mutamenti” ovvero le attività. Tali predicati verbali sono infatti suscettibili di conversione in predicati nominali fatti di copula (verbo essere) e participio (per es. “Socrate corre” equivale a “Socrate è corrente” e così via, la conversione essendo senz’altro più agevole in greco che in italiano). In tal senso, i due termini “qualità e movimenti”, poiovthte" kai; kinhvsei", riassumono, messi insieme, tutti i principali possibili predicati della sostanza: “qualità”, sono i modi di essere e cioè i nostri predicati nominali, “movimenti”/“mutamenti”, sono le azioni e cioè i predicati verbali. Così, le partizioni istituite all’interno di ciò che è (ta; o[nta) risultano analoghe, se pure ante litteram, a quelle in uso nella nostra analisi logica, là dove appunto distinguiamo predicati verbali e nominali. Come si è accennato (§ 4.1), questa partizione fra sostanza e predicati o mutamenti, con il primato dell’una sugli altri ha importanza strategica per l’argomento del libro, specie per quanto riguarda la dimostrazione di una sostanza eternamente mobile. Rimando su questo punto alla mia interpretazione del capitolo 6, passim e infra, Comm. ad loc.

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1069a22s. “Altrimenti lo sarebbero anche il non-bianco e il non-diritto” (h] kai; to; ouj leuko;n kai; oujk eujquv) Qui riecheggia una delle obiezioni capitali delle quali dà ripetutamente rassegna Aristotele, sulla scia dello stesso Platone, nei confronti della teoria delle idee: gli argomenti che ne dimostrassero l’esistenza, dimostrerebbero anche l’esistenza di idee che i Platonici non ammettevano affatto. Anche qui come altrove nella Metafisica, Aristotele annovera, fra siffatte entità ideali non desiderate, le idee corrispondenti alle negazioni. Il “non-bianco” ne è, di fatto, un buon esempio. Cfr. L 9.990b13s., M 4.1079b9s.; cfr. Plat. Parm. 130b-d; S. Fazzo, L’esordio del libro Lambda, cit.

1069a23s. “Anche di questi infatti diciamo ‘è’, per esempio: ‘è non-bianco’” (levgomen gou'n ei\nai kai; tau'ta, oi|on e[stin ouj leukovn) Il nome del predicato si associa al verbo “essere” in “essere” si unisce solo in funzione di copula, come quando si dice “è nonbianco”, o “è non-diritto”: come gli esempi mostrano. Ma non ne consegue alcuno statuto ontologico assoluto e indipendente. La frase levgomen gou'n ei\nai kai; tau'ta merita speciale attenzione. Sembra infatti che essa si soffermi sull’equivocità della relazione fra tau'ta e ei\nai nella subordinata infinitiva dichiarativa. Se così fosse, ciò sarebbe estremamente notevole, dal punto di vista qui introdotto, di una lettura metalinguistica delle analisi in corso in questa introduzione. Si dirà allora che, quanto alla sostanza, noi “diciamo che è” (levgomen ei\nai) in quanto è soggetto della voce del verbo “essere” in funzione di copula, che connette i nomi predicato al soggetto; quanto invece ai predicati stessi (siano essi Y, Z), di essi “diciamo che sono” (sempre, levgomen ei\nai) in modo diverso, in quanto predichiamo di un soggetto dato (sia esso indicato con X) il

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suo essere l’uno o l’altro di essi. Diciamo cioè, a proposito di X, che esso “è Y” o “è Z”, e in questo senso diciamo ovvero predichiamo, di un soggetto dato, il suo “essere Y e Z”, cioè anche l’“essere questi”. Per questo Aristotele dice: levgomen gou'n ei\nai kai; tau'ta “anche questi noi diciamo essere”, e poi si spiega meglio aggiungendo, “per esempio: ‘è non-bianco’”. Il ricorso a concetti negativi (cfr. supra, ad 1069a22s.) contribuisce infatti a disambiguare l’argomento, rendendo evidente che non si tratta (non può trattarsi in effetti) di termini presi in funzione di soggetto. Altrimenti, la frase non avrebbe senso. Emerge così una peculiarità dell’uso del verbo “essere” in 1069a23s., che appare dirsi in riferimento non al soggetto ma al nome del predicato, pur con chiaro riferimento alla funzione di copula del verbo stesso. Il fenomeno può non essere irrelato a una particolarità grammaticale riscontrabile in almeno due frasi del libro, ove il participio del verbo “essere”, sempre in funzione di copula, si concorda non con il soggetto ma con il nome del predicato. Al primo di questi due passi, Lambda 4.1070b25, mi riferisco ora seguendo, più radicalmente che nella mia edizione (cfr. I, ad loc.), il testo dei codici E, J, M, C to; d’ wJ" kinou'n h] iJsta;n ajrchv ti" ou\sa. Tuttavia, i commentatori lo considerano unanimamente “ungrammatical”, come riferisce Crubellier ad loc. (p. 154), di modo che ad esso viene correntemente preferita la variante normalizzata di Ab135. L’altro, è la conclusione dell’argomento principale in Lambda 7.1072a25s.: e[sti ti o}} ouj kinouvmenon kinei', ajid? ion kai; oujsiva kai; ejnergeiva/ ou\sa. È una frase importante, come vedremo, e ciò rende significativa questa sua struttura: quanto al motore immobile, in particolare, la 135

Anche sulla scorta di tale giudizio nella mia edizione ho accettato, alla stregua di una congettura necessaria, la variante di Ab (kai; oujsiva per ou\sa); ma le presenti considerazioni mostrano indizio di segno contrario, e a favore invece del consensus di E, J, M, C, la cui lezione va accettata e valorizzata.

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teoria ad esso relativa sarà interamente incentrata sui suoi predicati (al modo in cui ciò è spiegato da Laks ad loc.); e la frase ora citata ne costituisce, appunto, la ricapitolazione. Per questa strada, Aristotele infine perverrà a isolare il primo motore come soggetto puramente intelligibile e cioè immobile, dove l’immobilità, in senso logico, consiste precisamente nel non poter mutare da alcuno dei suoi predicati (cfr. supra, passim e § 2.5). Invero, difficilmente potrà essere causale la ripetizione di una tale anomalia, di una concordanza del verbo essere che si sposta ad sensum con il predicato piuttosto che con il soggetto136. Ciò vigorosamente conferma l’interesse della singolare struttura logica in esame, che qui peraltro, in 1069a23, è enfatizzata dalla sua posizione nell’esordio del libro. 136

Mi pare che tale interpretazione presenti una certa convergenza con una recente interpretazione della formula to; o]n h|/ o]n (G 1.1003a21 e passim) proposta da P. AUBENQUE, Faut-il déconstruire la métaphysique? Presses Universitaires de Frances, Paris 2009, p. 22: to; o]n si riferirebbe cioè non al soggetto ma al predicato. Sulla base di Lambda, più precisamente, si direbbe che to; o]n non è solo il soggetto, ma anche il predicato, come si può desumere dal kaiv avverbiale, “anche”, in 1069a24: il che si accorda con la sua equivocità, dal punto di vista di Aristotele, e potrebbe in parte anche spiegarla: se è così, to; o] n si attribuisce davvero a tutto ciò cui il verbo “essere” si accosti in funzione di copula, quasi tautologicamente come dice Aubenque (non dice infatti nulla di più se non ripetere il connettivo della predicazione, senza alcuna determinazione aggiuntiva): invero, qualunque predicato, o si presenta in questa forma, o può ridursi a questa forma. Aubenque non esplicita possibili conseguenze di tale sua interpretazione; essa non è affatto attestata – ch’io veda – nella sua monografia principale, P. AUBENQUE, Le problème de l’être chez Aristote. Essai sur la problématique aritotélicienne, Presses Universitaires de France, Paris 1962, ove to; o]n h|/ o]n è inteso piuttosto come “un essere cui la sua generalità impedisce di essere un genere” (p. 279) riferito solo al mondo sensibile, di modo che ibid. per Aubenque il libro Lambda resta escluso dalla scienza che se ne occupa (p. 370s., anche sulla base del giudizio di Jaeger al riguardo). Ciò peraltro non stupisce, perché non è chiaro come il libro Lambda si potrebbe accordare con l’interpretazione ivi perseguita. Ma se davvero

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1069a24 “Inoltre nessuno degli altri enti è separabile” (e[ti oujde;n tw'n a[llwn cwristovn) Ancorché questa ulteriore considerazione sembri ripetere quanto già implicitamente ammesso in precedenza, essa ha però un peso specifico nella dimostrazione relativa alla sostanza eternamente mossa nel capitolo 6, e questo giustifica che venga enunciata separatamente: se c’è il movimento, o mutamento, o qualunque altro dei predicati, deve esserci un soggetto.

1069a25-26 “Di fatto, anche gli antichi ne danno testimonianza” (marturou'si de; kai; oiJ ajrcai'oi e[rgw/) I Presocratici, dei quali è questione quando si parla degli “antichi”, non possedevano il concetto di sostanza, in quanto non praticavano (secondo l’interpretazione qui perseguita di

non è fuori luogo riferire to; o]n al predicato, come ora indica Aubenque (e l’esame di questa frase in 1069a24 fa pensare che sia vero), allora non c’è alcun motivo che la teoria del motore immobile debba restare esclusa dalla scienza dell’ente. Se è così non è possibile separare la teoria dei principi immobili da quell’ontologia, ovvero scienza dell’ente in quanto ente, che di Lambda, come di tutti i libri centrali, costituisce come una sorta di grammatica generale, dettando le regole costitutive del pensiero teorico correttamente formulato. Mi sembra peraltro di poter constatare che la lettura qui abbozzata non confligge in nessuna parte, e converge nelle conclusioni, con gli esiti dell’indagine intrapresa da E. BERTI, Les passages dits “théologiques” du livre Gamma, cit., anche in risposta a P. AUBENQUE, Le problème de l'être, cit., pp. 391-5, per integrare nel corpo del libro Gamma i passaggi che questi aveva dichiarato “teologici” (5.1009a36-38 e 1010a25-35, 8.1012 b 29-31, cui Berti affianca 3.1005a31-b 2), e aveva pertanto considerato aggiunte tardive. In fondo, si tratta comunque di inserire Lambda nell’ambito di una filosofia prima, fondamentalmente la stessa indicata da Epsilon 1.1026a30s., che è unificata perché, come ivi Berti osserva, è universale, nella misura in cui riguarda l’ente nella sua totalità.

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tale concetto) un’analisi modale dell’ente, tale da produrre una distinzione fra un sostrato logico e le sue predicazioni. Per questo le ricerche presocratiche possono essere invocate solo come testimonianza “di fatto”, presupponendo una loro traduzione nella terminologia e nelle griglie di pensiero aristoteliche, quale avverrà nel capitolo 2. Sull’importanza di una tale testimonianza, cfr. 1069a28s. e Comm. ad loc.

1069a26-30 “Ora, i nostri contemporanei considerano che gli universali siano sostanze a maggior titolo. Sono universali infatti i generi, che essi dicono essere principi e sostanze, in quanto fanno ricerca sulle definizioni. Gli antichi invece ponevano come principi quelli degli enti individuali, per esempio fuoco, terra; ma non il corpo come genere comune” (oiJ me;n ou\n nu'n ta; kaqovlou oujsiva" ma'llon tiqevasin: ta; ga;r gev n h kaqov l ou, a{ fasin aj r ca; " kai; ouj s iv a " ei\ n ai dia; to; logikw'" zhtei'n. oiJ de; pavlai ta; kaq’ e{kaston, oi|on pu'r kai; gh'n, ajll’ ouj to; koino;n sw'ma) L’alternativa, se il testo restituito e l’intendimento presente sono corretti, mette a contrasto due modi di condurre la ricerca sui principi. I Platonici, dei quali è questione quando si parla dei “contemporanei”, e specialmente i più vicini a Platone, si concentravano sulle definizioni e consideravano dunque principi i generi, che fungono da principi nella definizione delle specie. Per esempio, di tutti i corpi è principio il corpo come genere. Per contrasto, Aristotele nota che gli antichi cercavano – come è importante fare, secondo quanto egli stesso mostra di ritenere – i principi delle singole cose: per esempio dei corpi saranno principio fuoco e terra, in quanto elementi. Comporta una certa differenza la revisione e ricostituzione del testo in L 1.1069a29: innanzitutto si evita la parentesi in 1069a27-9, passo con il quale si ripristina la continuità. Si paragona infatti la ricerca sui principi degli Accademici, che

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porta a identificare i principi con i generi, 1069a28 (essi infatti indagano logikw' " , lavorano cioè sul lov g o", inteso come definizione) con il modo di ricerca dei fisiologi presocratici. Di questi, si valorizza per contrasto l’orientamento di ricerca, centrato sulla costituzione materiale delle cose, sugli elementi di cui sono fatte tutte, una per una. Di questo Aristotele fa ora sintesi dicendo che hanno cercato ta; kaq’ e{kaston, i di ogni singola cosa (piuttosto che ta; kaq’ e{kasta, i singoli , secondo la lettura corrente137). È dunque in ragione di questo tipo di contrasto, che gli Accademici (e in generale “quelli di ora”, 1069a26-28) sono presentati come coloro che cercano i principi nel senso dei principi della definizione, al modo per esempio in cui il genere è un principio generale delle specie, ed è principio unico per tutte le specie, secondo la pratica tipicamente accademica del riportare “tutti gli elementi ad uno”, ovvero del porre l’“uno-sopra-i-molti” (cfr. Alpha 9, non senza l’obiezione ivi, in 992b9-10). Caratteristicamente, per i Platonici, porre i principi delle sostanze comporta che si pongano sostanze ancora “più sostanze” delle sostanze (1069a27), ovvero, come noi potremmo dire (fatichiamo infatti a formare il grado comparativo dei

137 In 1069a30 la vulgata editoriale legge ta; kaq’ e{kasta invece del testo qui restituito, ta; kaq’ e{kaston (I, Note, ad loc.); presuppongo tuttavia che esista, in generale, una differenza di senso fra le espressioni ove il pronome indefinito dipendente da katav è concordato con l’articolo, e quelle ove non lo è – una differenza percepibile peraltro solo in alcuni casi: quando l’articolo è al plurale e non è in un caso obliquo. Secondo il testo così restituito, pertanto, l’accostamento di plurale e singolare nella locuzione in esame denota la presenza di due termini di diverso referente, donde la traduzione qui proposta, “i principi delle singole cose”, dove “principi” è mutuato dalla riga precedente, 1069a28. C’è dunque una differenza nel modo di concepire i principi e gli elementi, fra un approccio kaq’ e{kaston, focalizzato su quelli che sono i principi di ogni singola cosa, e un approccio kaqovlou, dedicato alla ricerca dei principi della definizione, per esempio generi e differenze. Cfr. anche supra, § 4.5.

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sostantivi) sostanze a maggior titolo e ragione, in posizione di primato ontologico rispetto alle altre. Da qui a pensare che esistano sostanze che sono massimamente sostanze, il passo è breve. Certo Platone poteva parlare di enti massimamente-enti e di conoscibili massimamente-conoscibili. Questo è un modo di ragionare che Aristotele in Lambda non disattiva, né smentisce interamente, bensì all’occasione reintroduce. Così avviene soprattutto più oltre, dove Aristotele lavora e ragiona sugli attributi della sostanza non sensibile, ricavati per polarità, per sustoiciva, e soprattutto per primato assiologico, come avverrà in Lambda 7 (cfr. anche Lambda 9).

1069a30-33 “Ci sono tre sostanze. Una è percepibile ai sensi. Di questa, è corruttibile una parte – per esempio piante e animali – della quale tutti ammettono l’esistenza; mentre è eterna un’altra parte, della quale è necessario afferrare gli elementi costitutivi, se siano uno o molti. L’altra sostanza è immobile…” (oujsivai de; trei'": miva me;n aijsqhth, h|" hJ me;n fqarth, h}n pavnte" oJmologou'sin, oi|on ta; futa; kai; ta; zw'/a, hJJ dΔ aji?dio", h|" ajnavgkh ta; stoicei'a labei'n, ei[te e}n ei[te pollav: a[llh de; ajkivnhto") Questa tripartizione delle sostanze è importantissima per il piano teorico del libro, che si caratterizza per il suo approccio comprensivo all’insieme delle tre sostanze. Questo enunciato, “ci sono tre sostanze”, nelle sue sfumature di significato e accezioni possibili (cfr. supra, § 2.1.1, § 3.6, in part. 3.6.1), ne è il primo annuncio significativo. Per un aspetto, però, la costituzione del testo è gravemente controversa, e costituisce un problema, cfr. I, Note. Da parte degli editori, l’atetesi di alcune parole nel testo tràdito, che ha fatto ormai, in certo modo, tradizione, viene a modificarne profondamente il senso. Abolendosi le parole hJJ dΔ aji?dio" si impedisce il riferimento ad esse della subordinata

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relativa e dell’indicazione programmatica che essa contiene: “afferrarne gli elementi”. Il presupposto, mai veramente provato, è che Aristotele non possa voler cercare gli elementi della sostanza sensibile eterna (quella del cielo), come invece il passo indica in 1069a32-33. Ma il testo della frase è solidamente attestato in entrambi i rami della tradizione manoscritta, ed era noto in questa forma anche ad Alessandro, sebbene egli conoscesse e preferisse la variante che fu poi seguita dagli editori. Restituito invece come qui supra, il testo indica un programma, un problema che sarà almeno in parte affrontato nella prima parte del libro: si tratta della sostanza sensibile e specialmente dei suoi elementi (ta; stoicei'a). Così, Aristotele si muove nel contesto di una generale indagine sui principi e sulle cause della sostanza (ouj s iv a ). Parte dunque da una differenza e tripartizione delle sostanze, che è anche una differenza fra i modi nei quali se ne può parlare e avere conoscenza. I primi due significati di sostanza riguardano due “sostanze” sensibili, quella corruttibile (fqarthv), e quella eterna (aji?dio"), celeste. Quanto al terzo significato, questo si prospetta come ambito problematico della seconda parte del libro. Ivi si dovrà stabilire se sia vero, e in che modo, che esiste anche una sostanza non percepibile ai sensi e non soggetta a mutamento (ajkivnhto" oujsiva). La parte del problema che è meno facile risolvere riguarda il secondo significato di oujsiva, parte di costituzione testuale controversa. A causa forse dello stile brachilogico del libro, pare che Aristotele apra qui un problema che poi non viene mai definito del tutto apertamente nel corso del libro, di modo che gli indizi di soluzione devono essere ricercati con un’operazione di attenta esegesi: il problema degli “elementi” (stoicei'a) della sostanza eterna sensibile, cioè del cielo. Ma se è così, innanzitutto, che cosa ha voluto dire Aristotele con questa espressione, “elementi”? Si riferisce a parti costitutive secondo l’implicita definizione di “elemento” di Lambda 4.1070b22-24? Ivi infatti Aristotele distingue l’elemento (stoicei'on) dal principio (ajrchv), che in Aristote-

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le può essere, come anche non essere, elemento, ed essere invece esterno, come nel caso della causa motrice. Senza dubbio si riferisce, vista l’impostazione generale dell’argomento in corso, a principi che consentano un modo di conoscenza appropriato per questo ordine di sostanza. In questo senso, presumibilmente sì: si può affermare che Aristotele si riferisca qui a parti costitutive in qualche modo identificabili. Ma, ancora, di che cosa, queste parti o elementi cercati, si potranno considerare “costitutive”? È una domanda reale, una questione aperta. Altrove, indubbiamente, come si vede per esempio in Zeta 10, per Aristotele possono essere stoicei'a gli elementi intesi ancora come parti della definizione, in un contesto di discussione di tipo accademico. Per obliterata che una tale interpretazione del concetto di elemento possa apparire dal punto di vista aristotelico, non si può negare almeno questo, che essa sia dotata di una sua efficacia dal punto di vista cognitivo. Aristotele però rigetta apertamente questo approccio come logicistico, in 1069a28. La difficoltà è accresciuta da una certa opacità sintattica. Il testo della frase, che qui traduco come interrogativa indiretta, “se siano uno o molti”, non è chiaro. Infatti potrebbe non essere affatto una frase interrogativa, e sovente in effetti, seguendo l’uso più corrente in greco, si traduce come se non lo fosse e significasse “sia se sono due, sia se sono molti”. Ciò, strettamente parlando, significherebbe che l’assunto della frase principale (“bisogna apprendere gli elementi”) è valido sia se questi elementi sono due, sia se sono molti. Ma il peso del dilemma appare così troppo debole, quasi ininfluente: l’esito, equivale quasi a: in ogni caso “bisogna apprendere gli elementi”. Qui pertanto io assumo, poiché è un senso più pregnante, che la coppia di congiunzioni correlate “se... se...” (ei[te... ei[te...) introduca (secondo un uso statisticamente minoritario, ma attestato in greco in generale, e già in Omero, cfr. L.S.J. s.v.) un’interrogativa disgiuntiva, sulla quale ci si deve soffermare: bisogna apprendere – prescriverà allora Aristotele – se gli elementi siano uno o se siano, invece, molti.

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Ma la maggiore difficoltà resta quella menzionata: né in Lambda né altrove nel corpus a noi pervenuto, che io veda, Aristotele dà direttamente una risposta all’interrogativo che qui si pone, men che meno gli stessi termini che usa qui. Né giova consultare in proposito la tradizione esegetica: il nostro testo, con la variante ripristinata in 1069a32, pone un problema che il testo di Ross e di Jaeger non pone e che le esegesi antiche non enfatizzavano. Il problema testuale stesso è meno esplorato di altri che il testo di Lambda pone, cosicché non sono noti altri tentativi di approfondire adeguatamente il senso del testo dei codici poziori. Tutto questo vale a dire che in simili condizioni è doveroso e necessario avanzare almeno un’ipotesi interpretativa. Propongo dunque quell’interpretazione, che complessivamente si concilia meglio con i dati testuali disponibili, sia qui sia più oltre nel libro, in particolare in 2.1069b24-26. Ivi infatti Aristotele dà una definizione della materia della sostanza sensibile e incorruttibile, ovvero celeste, in ragione della sua capacità di “venire ad essere” (dal verbo givgnomai) ovvero mutare di stato, “solo” (ajllav in 1069b26 avrà valore eccettuativo) “da-qui-a-lì” (letteralmente, “da-un-luogo-all’altro”: poqevn poi, come ho argomentato in Heavenly Matter, cit.). Ora, poiché proprio in Lambda 2 Aristotele definisce in numero di tre gli elementi delle sostanze soggette a generazione e corruzione, e di questi tre uno è la materia, l’altro la forma, l’altro il contrario della forma, ovvero la privazione, ci sono pochi dubbi che funga da elemento una tale materia, ovvero sostrato, che può venire ad essere solo “da-qui-a-lì”. Tuttavia pare di dover escludere che i due avverbi di luogo siano classificabili, il primo come privazione, l’altro come forma; né essi si configurano come precisamente contrari. Di qui l’ipotesi che alla materia eterna ma sensibile sia riservato un diverso modo di costituzione, che non comporta che un solo elemento; caratterizzato però precisamente dalla sua capacità di muoversi di un tipo ben determinato di mutamento locale, regolare, infinito, circolare.

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L’ipotesi di soluzione ora prospettata comporta, innanzitutto, una conferma che il testo tràdito è sostenibile e significativo (come argomentato in I, Note, ad loc.). Si avvalora inoltre come lettura probabile della correlazione in 1069a33, quella di un’interrogativa disgiuntiva e dunque un’alternativa reale quanto all’unicità o pluralità degli elementi della sostanza sensibile eterna. Proprio l’unicità è infatti causa di inalterabilità e permanenza138.

1069a33-36 “[della sostanza immobile] alcuni dicono che esiste separatamente, gli uni, dividendola in due, altri, attribuendo la stessa natura alle idee e agli enti matematici; altri ancora, ammettendo, di questi, solo gli enti matematici” (... a[llh de; ajkivnhto". tauvthn fasiv tine" ei\nai cwristhvn, oiJ me;n eij" duvo diairou'nte", oiJ de; eij" mivan fuvsin tiqevnte" ta; ei[dh kai; ta; maqhmatikav, oiJ de; ta; maqhmatika; movnon touvtwn) Si tratterà innanzitutto di Platone, poi della sua scuola. Ciò è suggerito dal raffronto con il luogo parallelo in Z 2.1028b1926, che pure comporta una tripartizione delle sostanze (b19-

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In sede seminariale, a Lille, sono emerse altre possibilità per contare gli stoicei' a del cielo. Esse, diversamente da quella ora prospettata mettono capo a una pluralità di elementi: potrebbero essere le sue sfere, delle quali Aristotele afferma la pluralità all’inizio di Lambda 8, per poi affrontare la questione di definire il loro numero, a titolo indicativo, ejnnoiva" cavrin (ibid.); in questo caso però gli elementi non sono elementi che consentano la conoscenza, ma pongono essi stessi un ulteriore problema di conoscibilità, quale è affrontato nel capitolo 8; oppure, considerando che il cielo eternamente si muove, e che dunque è in un certo senso semovente, si dirà che esso è, al modo dei viventi, sia il motore (la facoltà di desiderare), sia il mosso (il corpo): elementi sarebbero allora il principio motore e il principio “che può mutare”, la materia appunto, secondo la nostra interpretazione di L 6.1071b15s., cfr. I, Note ad loc.

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21), attribuita a Platone (idee, enti matematici, enti sensibili). Le due tripartizioni derivano entrambe da due diairesi successive; in entrambe, la prima divide gli enti sensibili da quelli intelligibili; in entrambe, la seconda diairesi divide in due uno dei due rami della prima, non però lo stesso nei due casi: così, le sostanze risultano tre in entrambi i casi, ma non dallo stesso punto di vista, e non sono le stesse tre. In Zeta, infatti, secondo Platone si distinguono gli enti non sensibili in idee ed enti matematici, e la sostanza sensibile conta come terza (2.1028b19-21). In Lambda, invece, si dividono gli enti sensibili, cioè fisici, in corruttibili e non. Ciò serve in Lambda a preparare il corso della trattazione incipiente. Questa infatti percorrerà i primi due livelli del mondo sensibile prima di approdare alla sostanza non sensibile. La distinzione platonica, di cui Lambda 1.1069a33-6 si ricorda, vale a rimarcare il dissenso fra Platone e la sua scuola, e a mostrare la necessità di un’indagine metodologicamente diversa; il carattere compendiato e sommario di quel resoconto si può spiegare, di nuovo, come un momento di sintesi e di ulteriore riflessione che Aristotele compie a partire da Zeta. Invece, la distinzione fra due sostanze fisiche è assente in Zeta, che elenca senza distinguerli fra loro i vari esempi di corpi fisici in Z 2.1028b10-13, incluso fra gli altri anche il cielo; e manca anche nel testo parallelo di H 1.1042a7-11. Questi due testi, presenti sullo sfondo di Lambda (come nel commento presente all’occasione ricordiamo), considerano infatti in un sol gruppo gli enti sensibili, sia corruttibili, sia incorruttibili. Insomma, la partizione binaria così marcata fra sostanza sensibile non eterna ed eterna è, a quanto pare, propria e peculiare di Lambda. Essa è motivata dalle necessità dell’argomento dei capitoli 6 e 7, ove si pone una sostanza eternamente mobile e sensibile come intermediario fra quella immobile e quella corruttibile.

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1069b1s. “Questa [i.e.: la sostanza non sensibile e non soggetta a mutamento] appartiene invece a un’altra scienza, se non vi è fra questi enti alcun principio comune” (au{ t h de; eJ t ev r a", eij mhdemiva aujtoi'" ajrch; koinhv) Qui, alla fine dell’introduzione, Aristotele solleva il dubbio, se la sostanza non sensibile sia priva o non sia priva di principi in comune con quella sensibile, e da questa alternativa fa dipendere la separazione o meno dei relativi ambiti disciplinari. Benché anche questo dubbio (come quello di cui in 1069a32s.) non sia risolto apertamente in alcuna parte del libro, non mancano segni importanti a favore di una separatezza, sia fra principi, sia, conseguentemente, fra discipline teoretiche. Generalmente unanimi, gli esegeti fino a Bonitz incluso (ad loc., p. 24), hanno accettato l’idea che la sostanza non sensibile ricada senz’altro sotto un’altra disciplina che non a fisica. Indubbiamente, si potrebbe associare questa lettura concordista alla tendenza, tipica già di Alessandro di Afrodisia e della successiva tradizione esegetica, a armonizzare le varie parti del corpus: nel libro Epsilon (1.1026a10-30), infatti, Aristotele apertamente distingue la fisica, e la matematica, da una scienza della sostanza non sensibile, se ve ne è una; e in effetti gli esegeti (ragionevolmente) non hanno affatto dubitato che ce ne sia una. Risulta dunque logico che in Lambda, ove l’argomento aristotelico prende forma a questo riguardo, si attribuisca alla scienza relativa una sua specificità e anche un implicito primato (come vuole Epsilon, 1.1026a30). A questa stessa scienza dunque è parso plausibile che si faccia ora allusione, nel presupposto di un sostanziale accordo fra le diverse parti della Metafisica. Tuttavia, questo stile armonizzante di esegesi è stato messo in discussione, almeno da Jaeger in poi. Jaeger, infatti, ha enfatizzato la componente di incertezza implicita nelle righe 1069a36-b2, non senza trarne conseguenze sistematiche per l’assetto teorico del libro. Scrive infatti riguardo a queste righe (Studien, cit., p. 122s.):

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Una tale domanda, se una speciale scienza ci debba essere, non è per nulla da considerarsi risolta: la Metafisica, la prwvth filosofiva, non esiste ancora, deve ancora esser creata, a condizione che non risulti esserci alcun principio comune fra enti sensibili e non sensibili. Del tutto opportuno è dunque che qui non si sia ancora incontrato da nessuna parte il nome di prwvth filosofiva. Pertanto Lambda viene prima di ZHQ, che distinguono fra prwvth e deutevra filosofiva, e anche prima di GE e della Fisica. Anche negli ultimi decenni, da più parti, non si è cessato di obiettare e cercare alternative allo stile degli esegeti più armonizzanti, per le non poche forzature che esso talora può comportare, al punto che è ormai chiaro che i presupposti di metodo sui quali quello stile si fonda sono storicamente datati e non possono più essere assunti acriticamente. Indubbiamente, una così vivace discussione si fonda su istanze condivisibili. Salvo che, secondo i singoli passi e problemi, anche le conclusioni tratte da questo movimento di revisione sono da verificare, come appunto vedremo. Nel nostro caso, Frede ad loc., dietro suggerimento di Michel Crubellier, ricalcando di fatto le impronte di Jaeger, hanno anch’essi sottolineato che la subordinata “se non vi è fra questi enti [i.e., sensibili e non] alcun principio comune” è introdotta da “se”, come se fosse un’ipotesi; può esser dunque vera o falsa; Frede e Crubellier, pertanto – andando più oltre di Jaeger – hanno esplorato la possibilità del tutto opposta: che in effetti sia falsa, che il principio comune ci sia, e che tutto lo scibile ricada sotto una sorta di scienza originaria dei principi. Un’osservazione tuttavia si impone. L’effetto di dilemma aperto si riduce molto significativamente se si collega, com’è necessario, quest’ultima frase del capitolo 1 con l’inizio del capitolo 2, sempre ricordando che non è stato Aristotele a istituire queste divisioni in capitoli. Ivi la domanda di fatto si risolve, perché gli elementi della sostanza sensibile sono

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considerati solo in quanto essa è soggetta a mutamento, escludendo di fatto fin dall’inizio principi comuni con quella sostanza che, per definizione, soggetta a mutamento non è. In questo modo noi siamo portati a vedere che il senso fondamentale della frase è quello già storicamente acquisito prima di Jaeger, anche a prescindere da ogni operazione concordistica rispetto ad altri testi, ma semplicemente facendo leva, come è giusto, sulla coerenza interna di questo testo. Propongo dunque di riprendere tutto il lemma in forma allargata e nel suo contesto di senso, a partire dalla precedente disamina sugli elementi della sostanza sensibile eterna: già qui sopra, commentando 1069a30-33. si è visto che, quanto alla materia sensibile eterna, Aristotele allude ad almeno un suo elemento, “la materia del da qui a lì” (cfr. 2.1069b24-6), che consente di conoscerla in quanto sensibile ovvero mobile e in quanto eterna (l’unicità e dunque inalterabilità dell’elemento unico è garanzia di eterna inalterabilità). Questo elemento, ora si apprende, vale a far rientrare in qualche modo nella fisica anche quella sostanza, visto che almeno essa ha un principio comune, la materia (sia pure una materia diversa, cfr. anche cap. 6.1071b20s. e Comm. ad loc.), con le sostanze sublunari e corruttibili. Quanto dunque all’esserci o meno un principio comune (ajrch; koinhv, 1069b2), che consenta un processo di conoscenza comune a più ordini di sostanze, esso, fra le sostanze sensibili, si è trovato. E fra queste e quella non sensibile? Guardiamo a come le indicazioni al riguardo si susseguono nel testo che continua: La sostanza immobile invece è oggetto di una scienza diversa, se non hanno alcun principio in comune. La sostanza sensibile, in effetti, è soggetta a mutamento; e, se il mutamento avviene fra stati opposti […], è necessario che ci sia un sostrato, il quale passa da un contrario all’altro: quanto ai contrari infatti, essi non mutano. Inoltre il sostrato continua a esistere, mentre lo stato contrario no. Vi è dunque un terzo termine oltre ai contrari: la materia.

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Qui, sono introdotti i tre elementi della sostanza sensibile, cioè, oltre alla materia, i due contrari, che sono forma e privazione. Questi sono infatti i termini che ne definiscono il mutamento. Ciò vuol dire che la sostanza sensibile è conosciuta in quanto è soggetta a mutamento. In tal senso, questi sono i suoi elementi simpliciter, come fra breve osserveremo: non ce ne sono altri. Per contrasto, la sostanza immobile per sua definizione è esente da mutamento (si è già detto in che modo l’idea di kivnhsi", da cui viene ajkivnhto", debba avere valore allargato). Dunque non le appartiene alcuno di quei principi che Aristotele rinviene nella sostanza sensibile attraverso l’analisi del concetto stesso di mutamento. Implicito ma evidente, soggiace dunque a questa proposizione il diniego di principi comuni fra le due sostanze: ciò avviene insomma, perché, della sostanza sensibile, i principi sono identificati in quanto principi di mutamento, mentre la sostanza immobile per definizione non è soggetta a mutamento. Si aggiungano a questo altri indizi a favore dell’interpretazione causale, e più corrente, della frase: la subordinata introdotta da “se” posposta com’è alla proposizione principale, può più facilmente avere questo significato; per questo, c’è chi traduce “dal momento che” (Reale, ad loc.), vel sim.; qui si è preferito indubbiamente salvare la componente ipotetica, che va comunque intesa nel senso di “se davvero”, equiparando quasi eij a ei[ ge; ma, ancora, ci si dovrebbe chiedere: che natura ha questo statuto ipotetico? Intendo dire che qui la natura ipotetica non porta sulla singola affermazione (per esempio, sull’assenza di principi comuni, come se chi scrive stesse ancora esitando: ci sono o non ci sono?) ma, al contrario, sulla forza necessitante delle connessioni interne alla costruzione teorica in corso, di modo che – senza alcun dogmatismo, ma con rigorosa consequenzialità – se si ammette un certo ordine di assunti, se ne devono trarre e rispettare anche le necessarie conseguenze.

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Coloro che hanno voluto esplorare l’opzione opposta, nel nostro caso, meritano una disamina particolare, specie considerando che il magistero di M. Frede è imprescindibile per chiunque si occupi di questo esordio del libro Lambda. Ciò che essi hanno postulato ha un suo peso nella comprensione dell’intero libro. Essi infatti, hanno dovuto presupporre un’autoreferenzialità del principio, e in particolare del principio primo, di modo che il primo motore immobile sarebbe principio anche di sé, e/o degli altri motori immobili successivi al primo. In tal caso, ci sarebbe un principio comune per tutte le tre sostanze, ed esse ricadrebbero dunque sotto la stessa scienza. Costoro divergono però su quale sia questa scienza. Per Frede, il principio comune è Dio139 e la scienza comune è la metafisica, da identificarsi con la filosofia prima di E 1.1026a27-31 (qualcosa di simile a ciò che Jaeger chiamava “Ur-Metaphysik”). Su questa base, Donini successivamente è intervenuto, in continuità, ma anche marcato dissenso, rispetto a Frede e Crubellier. Per Donini, scienza comune è la fisica: infatti, egli sottolinea, Aristotele qui non distingue ancora fisica e metafisica, per questo dice che la sostanza immobile ricade sotto una scienza diversa dalla fisica se (e solo se) non ci sono principi comuni140. Intende che i principi comuni ci siano, e che 139

Frede, ad loc., p. 76. Accade in effetti, per qualche motivo, che Frede si esprima qui come se se presupponesse sì che Lambda sia un trattato di filosofia prima (il che naturalmente è vero) ma come se la filosofia prima vi fosse intesa come teologia (ciò che qui intendiamo verificare e mettere in questione). Di seguito, tuttavia, Frede stesso non si attiene restrittivamente a una tale interpretazione: questa singola frase alla fine di Lambda 1 – egli osserva – non deve bastare a fare di Lambda un trattato specializzato su di una sola sostanza: è un trattato dice sulla sostanza in generale («It is a treatise on substance quite generally», p. 77). 140 P.L. DONINI, Il libro Lambda della Metafisica e la nascita della filosofia prima, «Rivista di Storia della Filosofia», LVII (2002) pp. 181-99; egli però fatica poi a spiegare come possa Aristotele porre il dilemma della pertinenza

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il motore immobile sia un principio comune. Dunque tutte le sostanze ricadrebbero sotto la fisica. Come si vede, sia Frede che Donini ammettono un’autoreferenzialità del principio primo (come principio anche di sé e non solo di altro) e inoltre postulano un’evoluzione genetica da uno scritto all’altro nell’opinione di Aristotele a questo riguardo. In specie, Donini prende nettamente posizione contro una lettura concordistica di Lambda con Epsilon, e propone una sua ricostruzione genetica della prima fase del pensiero aristotelico. Si richiama in effetti alla periodizzazione che Berti ha proposto nella sua monografia di riferimento (1962) sul “primo Aristotele”, e ne propone ampliamenti: Lambda, per Donini, precederebbe insomma gli altri libri della Metafisica e gran parte degli scritti del corpus nella concezione come nella redazione. Anche Berti, intervenendo a sua volta nel 2003, acconsente in parte con la tesi di Donini; sottolinea però che la scienza cui Aristotele affidasse tutti gli ordini di sostanza dovrebbe essere una dottrina dei principi di impostazione accademica: se Aristotele ora distingue diverse discipline, lo fa per contrasto con una concezione globalizzante come quella di tradizione platonica. In realtà, quest’ultima osservazione di Berti può essere utile anche a chi voglia tenere aperta, se non anzi esplorare, l’opzione contraria. Se, come sembra chiaro, il modello di scienza di riferimento è quello accademico, esso primariamente porterà su sostanze non sensibili (che, nella prospettiva tipicamente accademica,

disciplinare della sostanza non sensibile, se ancora non concepiva alcuna scienza teoretica diversa dalla fisica; ed è poi dunque costretto a ipotizzare, al riguardo, esitazione e di incertezza da parte di Aristotele. Cfr. E. BERTI, La filosofia del primo Aristotele, Cedam, Padova 1962 e ID., Il libro Lambda della Metafisica di Aristotele tra fisica e metafisica, in G. DAMSCHEN-R. ENSKATA.G. VIGO (a c. di), Platon und Aristoteles, sub ratione veritatis, Vandenhoeck-Ruprecht, Gottingen 2003, pp. 177-93.

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sono maggiormente enti). Pertanto, nel momento in cui Aristotele nega le implicazioni totalizzanti di quelle teorie, si trova ad affermare un modello di scienza che si applica al mondo fisico ed è altro ed irriducibile, rispetto alla scienza dei principi di accademica impostazione. In tutto questo, meritano di essere sottolineati almeno due problemi in cui l’interpretazione di Donini incorre. Innanzitutto, come quella di Frede (e di Jaeger, da cui questo tipo di datazione trae origine probabilmente) essa appare pressoché inconciliabile con i dati emersi dalla nostra esegesi, che mettono in evidenza una fitta trama di riferimenti ad altre parti del corpus (di questo ho discorso già sovente supra, e.g. n. 76, e § 4.10.2). In secondo luogo, e più specificamente, si è già notato che per Donini è difficile spiegare come potesse Aristotele porre il dilemma della pertinenza disciplinare della sostanza non sensibile, se ancora non concepiva alcuna scienza teoretica diversa dalla fisica. Donini è pertanto costretto a ipotizzare che questo interrogativo sia espressione di esitazione e di incertezza da parte di Aristotele. A maggior ragione, dunque, si richiede un’ipotesi di lettura più economica, che non costringa a negare che Aristotele in queste righe sappia ciò che sta facendo. Invero, come vedremo, è probabile che l’uso di una particella subordinante di tipo ipotetico esprima cautela e sapienza strategica, piuttosto che esitazione. Resta il fatto che Aristotele ha considerato la domanda aperta in 1069b1s. come utile punto di partenza per approfondire la teoria della sostanza sensibile iuxta propria principia e senza ricorso a una teoria già data della sostanza non sensibile. Non è tanto infatti dalla teoria della sostanza non sensibile che trae origine la teoria della sostanza sensibile; anzi, semmai, è piuttosto quella che prende origine da questa, secondo la procedura spesso teorizzata da Aristotele: si parte dal più noto per noi, per giungere al meno noto per noi, ma più noto in sé, intelligibile per natura.

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CAPITOLO 2 [Principi della sostanza sensibile in quanto è soggetta a mutamento. Il mutamento come passaggio fra stati contrari. I contrari come principi. La materia come duvnami" di entrambi i contrari e come soggetto del passaggio dall’uno all’altro. Conferme alla teoria della materia nelle concezioni presocratiche dello stato precosmico, inteso come potenzialità non ancora attuata. Specificità dei principi: materia e contrari sono diversi per i diversi mutamenti: queste funzioni fondamentali, presenti in modo analogo nei diversi generi di mutamento, si determinano diversamente nei diversi casi, incluso quello ove il soggetto sia capace solo di movimento locale. Cenno alla speciale materia del muoversi “da-qui-a-lì”dei corpi celesti] Ciò che Aristotele fa in questo capitolo, è ricco di intersezioni con altre parti del corpus, ma è difficile trovarne paralleli diretti. Considerevole, a maggior ragione, è la concezione ora presentata di quella sostanza soggetta a mutamento che qui Aristotele chiama “sostanza sensibile”. Una tale dicitura si trova, peraltro, anche altrove nel corpus, non però in qualunque contesto, ma sempre in concomitanza con la questione di sapere se esista o meno un altro, non sensibile ordine di sostanza. Altrimenti detto, la sostanza sensibile si dice tale per opposizione alla sostanza nonsensibile, così come la sostanza soggetta a mutamento si dice tale per opposizione alla sostanza non sensibile e non soggetta a mutamento. È importante: le basi per concepire una sostanza diversa, non soggetta al divenire né al mutamento, si pongono qui, si vede, nel quadro di una teoria generale dei principi del mutamento e del divenire. Le nozioni centrali nel capitolo sono, in ordine di comparsa, quelle di forma e privazione, intese come termini contrari fra i quali avviene il mutamento. Esse, come il correlato concetto di materia, che compare per terzo (1069b8s.), si ricavano dall’esame del movimento come prerogativa propria e distintiva della sostanza sensibile – l’altra sostanza infatti è immutabile. Sono

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nozioni di tipo analogico: sono unitarie e unificate solo per analogia (cfr. cap. 5.1070a31-3, 1070b25s.), mentre si declinano diversamente nei diversi ordini di sostanza sensibile, in funzione dei diversi modi di mutamento. Come risultato, questo capitolo 2, a partire dalla sua prima parte (1069b3-9), è un luogo nel quale è specialmente evidente la natura funzionale dei concetti messi in opera, reciprocamente relativi, e cioè, correlativi. In particolare, il postulato di una “materia” è ricavato dall’analisi della nozione di movimento, ovvero mutamento da un contrario all’altro, mutamento il cui sostrato ovvero (come noi diremmo) soggetto è chiamato “materia”. Non va trascurato, in particolare, in che modo Aristotele, ponga l’identità, come si è detto, fra sostanza sensibile e sostanza soggetta a mutamento (1069b3): una tale identità risulterà funzionale all’opposizione, in forma di diairesi (cfr. supra, § 4.1) rispetto all’altra sostanza, che soggetta a mutamento non è. A questo scopo, propone l’analisi del mutamento, di ogni mutamento, come passaggio da un contrario all’altro (10069b3-5: la propone, nel senso che la troviamo introdotta, come la protasi del periodo precedente, dalla congiunzione condizionale eij); ora, un tale passaggio implica, quasi come un presupposto logico, la sussistenza di un soggetto ovvero sostrato che passa da uno all’altro (1069b6-9): la materia della sostanza sensibile e mutevole. Così, la riflessione che si attua in questa prima parte del libro perviene a isolare termini irriducibili ed essenziali: Aristotele ricava i principi tramite l’analisi del mutamento come passaggio da un contrario all’altro: per questo, i contrari saranno i primi due principi, mentre il sostrato che muta, ovvero la materia, è il terzo principio. Si tratta dunque, evidentemente, dei principi della sostanza sensibile, intesa non in quanto sensibile, ma in quanto soggetta a mutamento. Ciò pone fuori questione, dall’inizio e anzi per ipotesi, la possibilità di una comunanza di principi fra questa sostanza e l’altra, la sostanza “immobile” (ajkivnhto"). Il termine stesso, aj k iv n hto", che deve essere preso nel suo senso più comprensivo, significa: non soggetto ad alcuna forma di

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mutamento. Infatti kivnhsi", oltre al moto locale può indicare, come metabolhv, il cambiamento in generale (cfr. supra, Comm. ad 1.1069a22). Le forme di mutamento, per l’appunto, sono passate in rassegna alle righe 1069b9-15, e la materia è concepita in ragione della diversità di queste forme. Ciò equivale a dire che il concetto di “materia” non indica un’entità a sé, ma è funzionale al concetto di mutamento, così come quello di “in potenza”, nel quale la materia quasi si risolve, come un modo diverso di dire quasi la stessa cosa. Se si pensa che qui Aristotele analizza l’intero ambito dei processi di divenire in atto nel cosmo sensibile, si deve constatare che il processo di smontaggio e ristrutturazione cui qui si assiste comporta un tasso estremamente alto di generalizzazione: ciò infatti è condizione necessaria della riduzione dei dati dell’esperienza fisica a un novero minimo di funzioni logiche comuni. Questo peraltro comporta, sul percorso, un gesto di radicale riconfigurazione storiografica anche nella lettura delle dottrine presocratiche, specie quanto alla centralità, che ivi Aristotele riconosce, del “principio” materiale141. Certo, s’intende, una lettura orientata e reinterpretata delle dottrine presocratiche da parte di Aristotele è un fenomeno che non si confina in questa sezione del nostro testo. Vi assume però un peso decisivo, in ragione dell’estrema radicalità della riflessione, che qui si attua, su quei processi cognitivi che hanno loro consentito di inaugurare un sistema di pensiero e di conoscenza sul mondo sensibile e soggetto al divenire. Solo a questo punto, forse, in questo contesto e non altrove, compare un barlume di risposta alla questione di Lambda 1.1069a32s. sugli “elementi” della sostanza sensibile – valorizzando così, sia pure enigmaticamente, un interrogativo solitamente offuscato nelle edizioni a stampa e già dai commentatori antichi 142. 141 142

Cfr. supra, § 4.2.1; S. FAZZO, Fra atto e potenza, cit. . Cfr. supra, ad 1069a30-33; EAD., Heavenly Matter, cit.

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1069b3-18 Analisi dei tre principi elementari della sostanza sensibile in quanto è soggetta a mutamento [sulla base di Fisica B e De gen. et corr. B]: mutamento è il passaggio dall’uno all’altro contrario, che sono dunque assunti come elementi; di qui la necessità della materia, come soggetto del passaggio da un contrario all’altro, e dunque come terzo elemento del mutamento. Quattro forme di mutamento sono distinte fra loro: secondo l’essenza, la quantità, la qualità e il luogo. Specificità e differenza dei contrari come principi in relazione alle diverse forme di mutamento; specificità e differenza della materia in relazione alle diverse coppie di contrari ai quali è soggetta. 1069b18-20 Questa teoria costituisce un modo ulteriore per risolvere l’aporia che aveva indotto alcuni fra gli antichi (gli Eleati, Parmenide e specialmente Melisso) a negare affatto i processi di generazione e mutamento. “Così – dice dunque – non solo ci può essere, per accidente, generazione da ciò che non è, ma si genera tutto anche da qualcosa che è, e che però è in potenza, non è in atto”. 1069b20-24 A riprova della teoria stessa si citano cosmogonie dei filosofi presocratici, equiparando la loro concezione dello stato primordiale alla materia aristotelica, “ente in potenza, non in atto”. 1069b24-26 Definizione del principio elementare dei corpi celesti, come sostrato proprio del movimento locale semplice: è la materia del “da-qui-a-lì”, cioè del passaggio da un luogo all’altro. 1069b26-29 Si pone un’aporia: in che senso, dal non-ente venga la generazione. La risposta porta a identificare come soggetto di ogni processo

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quella materia che ha in sé una potenza, non qualsiasi, ma corrispondente a ciò che viene ad essere. 1069b29-32 Per questo non basta dire, come fa Anassagora, che “tutto era insieme”: non poteva essere tutto nella stessa materia, bensì dovevano esserci materie diverse, se l’intervento attivo del nou'" ha sortito prodotti diversi. 1069b32-34 Il capitolo si conclude al modo di una sezione in sé compiuta. Nell’identificazione dei tre principi, forma, privazione, materia – quest’ultima come terza, in quanto sostrato funzionale dei due contrari – Aristotele sintetizza, ai fini dell’indagine presente, la dottrina dei principi che si ricava dal complesso delle sue opere fisiche.

1069b3-9 “La sostanza sensibile, in effetti, è soggetta a mutamento … Vi è dunque un terzo termine oltre ai contrari: la materia” (‘H dh; aijsqhth; oujsiva metablhthv […] e[stin a[ra ti trivton para; ta; ejnantiva, hJ u{lh) Per l’interpretazione di questo passo, cfr. supra, Introduzione al cap. 2. Come già osservato, è interessante tenere questo passo in considerazione nella discussione del controverso passo, che immediatamente precede, 1.1069b1. Infatti, l’identificazione tout court della sostanza sensibile con la sostanza soggetta a mutamento può costituire un indizio a favore dell’intendimento piano e non dialettico di quella frase dal senso controverso: Aristotele ivi ha detto che la sostanza non sensibile appartiene a una disciplina diversa dalla fisica, se e nella misura in cui fra le due sostanze non c’è principio comune (e appunto si è discusso anche di recente se principio comune davvero non ci sia o ci sia). Ma ora, di fatto, Lambda 2 esamina i principi delle sostanze oggetto della fisica uni-

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camente in funzione del movimento, cioè precisamente di ciò che esse non possono condividere con la sostanza non sensibile. È dunque come se, implicitamente, Aristotele risolvesse la cautela della costruzione introdotta da eij in 1069b1, conducendo lo svolgimento successivo del libro proprio sotto quella ipotesi (la sostanza sensibile non ha principi comuni), assunta pur sempre cautamente e senza dogmatismo (come indica il se, eij, e come si conviene a una siffatta struttura teorica quale qui stiamo progressivamente descrivendo).

1069b9 “I mutamenti sono quattro...” (aiJ metabolai; tevttare"... ) Il mutamento si spiega come passaggio dalla potenza all’atto, secondo la dottrina di Phys. G 1, e specificamente da una determinata potenzialità propria della materia a quel determinato atto del quale essa ha potenza. Siamo, evidentemente, nel quadro di una teoria generale dei principi del mutamento e del divenire.

1069b15 “... l’ente si intende in due sensi” (ditto;n to; o[n) Intendo: si distinguono infatti l’ente in potenza e l’ente in atto. Così Aristotele introduce l’argomento da sviluppare nel corso del capitolo.

1069b18 “Non solo ci può essere generazione da ciò che non è per accidente...” (ouj mov n on kata; sumbebhko; " ej n dev c etai givgnesqai ejk mh; o[nto") L’espressione è compendiata e va probabilmente intesa in riferimento alla teoria di Phys. A 8, dove Aristotele risolve

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l’aporia degli antichi, e in specie degli Eleati. Essi infatti, poiché l’ente non può generarsi dall’ente – esisterebbe altrimenti di già – ma nemmeno dal non-ente, poiché nulla si genera dal nulla, erano giunti a negare che esista generazione. Si intende allora che la generazione del non-ente è possibile nel senso di ciò che lì si legge: “Generarsi dal non-ente significa questo: dal nonente in quanto tale” (191b10) e cioè dall’ente in quanto per accidente non-è, cioè in quanto per accidente non è ancora ciò che verrà ad essere.

1069b19s. “... ma si genera tutto anche da qualcosa che è; che è però in potenza, e non in atto” (ajlla; kai; ejx o[nto" givgnetai pavnta, dunavmei mevntoi o[nto", ejk mh; o[nto" de; ejnergeiva)/ La stessa aporia degli antichi si può risolvere, non solo praticando la distinzione fra in sé e per accidente, ma anche in un altro modo: distinguendo atto e potenza. Questa modalità di soluzione si trova in Phys. A 8 semplicemente accennata (191b28-30), e Aristotele rinvia lì ad altra sede ancora, probabilmente a ricerche di filosofia prima, quali quelle di Theta 6ss., cfr. anche Delta 12.

1069b20s. “Ed è questo l’‘uno’ di cui parla Anassagora...” (kai; tou'tΔ e[sti to; ΔAnaxagovrou e{n) “Questo” è cioè l’ente che è in potenza, ma non in atto. L’attribuzione ad Anassagora di una dottrina dell’“uno” come materia non è altrimenti attestata, ma è interessante un parallelo con Phys. A 4.187a21-23. Ivi effettivamente Aristotele associa Anassagora ed Empedocle come quelli che pongono l’uno e i molti spiegando che essi dal mescolamento fanno nascere per progressiva determinazione tutte le altre cose – e si intende dunque che il mescolamento possa equivalere all’uno.

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Singolare, tuttavia, è il presente gesto teorico che mobilita le cosmogonie presocratiche a supporto della dottrina dell’atto e della potenza – dottrina che pure non presuppone affatto un venire ad essere del cosmo: questo infatti per Aristotele esiste da sempre, continuamente mobile, ma sempre di nuovo identico “periodicamente”, come i capitoli 6-7 energicamente sottolineeranno. Una conseguenza è da rilevare: la dottrina nella quale Aristotele traduce quelle cosmogonie presocratiche, è generale e non semplicemente diacronica: presuppone, infatti, un generale primato dell’atto e non della potenza. L’ente in potenza, identificato ora con la materia, viene a sostituire la rappresentazione dello stato primordiale e pre-cosmico di Anassagora, Empedocle e Anassimandro. Caratteristicamente, questo processo di traduzione costringe a un correttivo. Per far esprimere a quei filosofi ciò che Aristotele dice, li si deve fare parlare con più precisione: essi non ne hanno veramente parlato. Cfr. anche qui infra, ad 1069b21s. A fronte di questo correttivo, che potrebbe parere una sorta di libera trascrizione delle dottrine originali, va però sottolineato che le dottrine presocratiche qui evocate acquisiscono uno specifico valore positivo. Nel bilancio, c’è una preponderanza della componente costruttiva sulla critica: la critica è funzionale alla trascrizione in termini aristotelici, e non viceversa (e in questa prospettiva, precisamente, si spiegherà anche la restituzione del testo proposta in 1069b23, cfr. I, ad loc.; diversamente, cfr. Ross, II, pp. 350-1 e Charles ad loc., pp. 97-9, 107-110).

1069b21s. “È meglio , piuttosto che ‘tutto era insieme’” (bevltion ga;r h] oJmou' pavnta) Stante il fatto che, a nostra conoscenza, “Uno” non è linguaggio di Anassagora, non è immediatamente chiaro (né, mi sembra, è

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spiegato dagli esegeti) in che senso preciso Aristotele dica che “è meglio”. Ciò solleva diverse riflessioni. La sintassi pare sottintendere un verbum dicendi. Non necessariamente Aristotele dice che “Uno” è una dottrina migliore in sé; può dire che è una dottrina cui è preferibile fare riferimento, perché meno eterogenea rispetto a quella aristotelica, e più suscettibile di perfezionamento. Invece, nella dottrina secondo la quale “tutte le cose erano insieme”, proprio perché tutte le cose, stando alla lettera, ci sono già, manca precisamente quella differenza fra potenza e atto, che Aristotele pone in Lambda 2 come fondamento della propria concezione di materia. Indubbiamente, la trascrizione è giustificata in Fisica A 4.187a21-23, cfr. supra, ad 1069b21s. Ma, appunto, una volta equiparata all’idea aristotelica di materia, la concezione di Anassagora deve essere sottoposta a critica per essere sostanzialmente migliorata, cfr. infra, ad 1069b29s. Per una più ampia riflessione di metodo su questo punto, giova riportare qui alcune considerazioni delle quali ringrazio André Laks (per litteras): «Si può partire dall’idea che to; ’Anaxagovrou e{n non sia un’espressione di Anassagora, ma un’espressione che Aristotele suggerisce di sostituire a quella di Anassagora, che ha detto “oJmou' pavnta”, perché gli sembra “migliore”: trae giustificazione dal fatto che Anassagora non aveva un’idea precisa della materia, per produrre un Anassagora migliorato. Questo gli è necessario per mettere Anassagora allo stesso livello di Empedocle o Democrito, che, per ragioni diverse, sono più vicini di Anassagora alla materia-potenzialità nelle rappresentazioni che si fanno dell’origine. Altrimenti detto, non si può dire che Anassagora non faccia che “sfiorare” o “toccare con mano” (sono traduzioni possibili di a{ptomai, cfr. 1069b23) l’idea di un essere in potenza che sarebbe nonessere in atto, se non lo si corregge dapprima, e non si restituisce ciò che egli veramente voleva dire, benchè lo dicesse in modo ancora più maldestro di quanto avevano fatto Empedocle e Democrito».

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1069b23s. “Sembra pertanto che essi avessero intuito il concetto di materia” (th'" u{lh" a]n ei\en hJmmevnoi) Si fa qui infine ancora più esplicita la traduzione in termini di “materia” del principio informe dei Presocratici. Questa è una particolarità del capitolo in esame. Infatti Aristotele non chiama qui materia – come avviene in Phys. A e Metaph. A 1 – i principi elementari delle cose, né – come in Zeta 3 – un modo possibile di concepire la sostanza, bensì la rappresentazione dello stato primordiale che si evince dalle loro cosmogonie. Lo stato primordiale viene ripensato come proiezione nel tempo di una funzionelogica primaria, quella del soggetto e sostrato di ogni forma di mutamento, la materia appunto secondo l’intendimento presente. Anassagora, Empedocle, Anassimandro, Democrito stavano – dice letteralmente il testo – “mettendo le mani sulla materia” (hJmmevnoi da a{ptomai, toccare, cfr n. prec.). Così, l’espressione descrive le teorie dei Presocratici come un’intuizione della materia ancora disordinata. Certo, infatti, la dottrina della materia non era loro lucidamente presente, né dunque da loro esprimibile. È questo appunto che conferisce ad Aristotele il diritto e il ruolo di tradurre come principio materiale le loro teorie. Cfr. supra, § 2.2.

1069b24s. “Tutti gli enti che mutano, hanno materia, ma non la stessa” (pavnta d’ u{lhn e[cei o{sa metabavllei, ajll’ eJtevran) Come ha argomentato fin dall’inizio del capitolo, per Aristotele la materia è tale in relazione ad un singolo e determinato mutamento, al modo stesso che in De gen. et corr. B 1.329a28-b2. Per altri aspetti, qui Aristotele riprende brevemente temi di Phys. A. È infatti in Phys. A 4.187a20-23 che si spiega meglio l’opinione attribuita ad Anassagora (l’“Uno”), a Empedocle e ad Anassimandro (il mi' g ma), di modo che

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probabilmente Uno e mi'gma dovranno intendersi quasi in endiadi. Notevole, sempre in Phys. A 4, la traccia della preoccupazione epistemica che guida la riflessione: l’infinito come ipotesi fisica è scartato come inconoscibile (187b7-13). Nel cap. Phys. A 6, poi, sta senza dubbio il parallelo migliore alla dottrina cui Lambda 2 mette capo – i principi sono i due contrari e il sostrato – insieme alle relative motivazioni (i contrari devono essere impassibili l’un l’altro). Non è strano dunque ciò che nota Ross, che qui Aristotele è più vicino a Phys. A che a Zeta. Ma non c’è nessuna implicazione metodologica da trarne: qui Aristotele parla dei principi, e della materia come principio, in Zeta definisce la sostanza, e anche la materia come sostanza. Il pensiero presocratico soggiace a entrambe le discussioni, ma in modo diverso: ne è qui riconosciuto un tipo di primato sia storico, sia teorico (a prezzo di correttivi) che in Zeta non trova ugualmente luogo.

1069b26 “essa non è adatta a divenire, ma solo a passare da un luogo a un altro” (... ouj genhth;n, ajlla; poqevn poi) Questo importante passaggio sintetizza una concezione alternativa della materia, che si attaglia specificamente alla sostanza sensibile non corruttibile; risponde così almeno in parte al problema sollevato nell’introduzione, cfr. 1.1069a32. L’importanza della dottrina sottesa è enfatizzata nella conclusione del libro, e questo può giustificare l’ipotesi che in questo modo Aristotele ritenga di aver risolto un’aporia, la decima, di Metafisica Beta (“se i principi degli enti corruttibili e di quelli incorruttibili siano uguali o diversi”: un’aporia che non è “inferiore a nessuna”, trascurata dai Presocratici come dagli Accademici cfr. B 4.1000a6s., 1.996a2-4 e infra, Comm. ad 10.1075b14, con S. Fazzo, Heavenly Matter, cit.). Sulla sintassi dell’aggettivo verbale genethv e il valore eccettuativo (“tranne”) di ajllav, cfr. anche I, Note ad loc.

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1069b29s. “Non basta dire infatti che ‘tutti gli enti erano insieme’: differiscono infatti per materia” (oujd’ iJkano;n o{ti oJmou' pavnta crhvmata, diafevrei ga;r th'/ u{lh/) Se si confronta, come mi pare inevitabile (nonostante di solito la questione non venga sollevata), questo riferimento ad Anassagora con quello già incontrato poco supra (1069b21), si trovano due riferimenti distinti, e problematicamente diversi, alla sua celebre descrizione dello stato primordiale: “tutte le cose erano insieme”. Quella stessa descrizione, che in 1069b21 viene tradotta “tutte le cose erano uno”, in 1069b29-32 viene criticata, si direbbe, proprio in forza di tale previa traduzione. Aristotele obietta infatti che, se la materia è qualcosa di “uno” e non è differenziata in funzione dei diversi processi di mutamento e generazione, non si capisce in che modo l’intervento del nou'", principio attivo unico, possa farne derivare la varietà del reale. Insomma: perché Aristotele ha riveduto e tradotto in termini di – almeno apparente – monismo la teoria di Anassagora, se poi proprio la versione riveduta deve essere a sua volta criticata – per il suo monismo? La spiegazione va probabilmente cercata ponendosi strettamente dal punto di vista di Aristotele, piuttosto che da quello di Anassagora o della storiografia su Anassagora: il rapporto di continuità che Aristotele istituisce presuppone una relazione d’uso con le dottrine del predecessore, e richiede più di un’operazione concettuale: sia quella, preliminare, che trasforma la cosmogonia in teoria sincronica del rapporto fra materia/potenza e atto (ripensando dunque lo stato originario come un sostrato permanente che continua ad esistere come soggetto del divenire); sia il recupero della diversità, ben presente in Anassagora come panspermiva e come pluralità – nell’oJmou' pavnta. In questa prospettiva, il “non basta” (oujd’ iJkano;n) è meno un’obiezione diretta ad Anassagora che un appunto di Aristotele in itinere, per sé e per la scuola. Se non è riformulata, la teoria di Anassagora è inservibile per gli scopi presenti; ma

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una volta riformulata come “Uno”/materia, non basta a render ragione della diversità e della determinazione, specie considerata a fronte della teoria anassagorea poziore, quella dell’unicità del nou'" (fr. 59B12 DK, cfr. 1069b31).

1069b30-32 “Altrimenti, perché se ne sono generati infiniti e non uno solo? In effetti l’Intelletto è uno, cosicché, se fosse stata una anche la materia, sarebbe venuto ad essere in atto quell’ente nella cui potenza la materia si trovava” (ejpei; dia; tiv a[peira ejgevneto, all’ oujc e{n… oJ ga;r nou'" ei|", w{st’ eij kai; hJ u{lh miva, ejkei'no ejgevneto ejnergeiva/ ou| hJ u{lh h\n dunavmei) Qui si potrebbe anche tradurre “è l’intelletto, che è uno”, per contrasto con le “cose” che sono infinite. In effetti, questa unità è dottrina propriamente anassagorea (DK fr. 59B12) ed è irrinunciabile dal punto di vista di Aristotele. È proprio da qui che deriva la necessità di collocare la causa della diversità nella materia, intesa come potenzialità non casuale, ma determinata, secondo la teoria dell’atto e della potenza e gli sviluppi che essa riceve nel corso di questo capitolo.

CAPITOLO 3 [Dalle ricerche sulla sostanza sensibile, contributi alla presente teoria dei principi ed elementi degli enti] Questo brano presenta distintamente due fattezze caratteristiche del libro Lambda. Una è il ripensamento sui temi di altre sezioni della Metafisica, che sembrano stare sullo sfondo, come una sorta di ipotesto per queste pagine così compendiate ed ellittiche: si tratta soprattutto del libro Zeta, specialmente della (controversa) parte corrispondente ai nostri capitoli 7-9, e della discussione sui sensi di sostanza come sostrato in Z 3;

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possibilmente anche di Eta, che non manca a sua volta di riferirsi a Zeta. L’altra fattezza è, appunto, un modo di redazione estremamente compendiato ed ellittico: le proposizioni principali restano omesse in entrambi i primi due periodi; entrambe le volte, essi sono direttamente introdotti dalle parole “Dopo queste cose” (meta; tau'ta), senza verbo reggente in 1069b35 e 1070a4. Di fatto, i punti principali dell’argomento di Lambda 3, che ora Aristotele stabilisce, si trovano anche in Zeta 7-9, seppure distanziati, mentre l’introduzione di quel libro (Zeta 1-2) appare già riassunta in Lambda 1; così, una lettura possibile è che si tratti non di un programma di discorso abbozzato, come sovente si ritiene, ma di un (sia pure) abbozzato e selettivo sommario dei contenuti di quelle parti di quel libro, non senza brevi cenni anche agli argomenti ivi addotti per la dimostrazione e alle loro implicazioni. I punti in esame sono: i principi ultimi sono ingenerabili; il principio formale è trasmesso da una causa efficiente omoeidetica, pertanto non c’è bisogno, per spiegarne la permanenza, di postulare l’esistenza di idee separate; sostanza e principio formale si intendono relativi all’intero che si genera per natura; tuttavia l’arte, intesa come causa efficiente dei prodotti dell’arte, produce forma e costituisce un modello per pensare la generazione naturale. In tutto questo, la prima caratteristica, l’attitudine autoriflessiva che soggiace alla redazione di Lambda, è stata spesso sottovalutata in ragione di una sua datazione precoce e anteriore a Zeta; la seconda, lo stile brachilogico, ha dato sovente adito a una svalutazione del trattato, come forma letteraria non rifinita e, in definitiva, non attendibile, giudizio che poi facilmente ha rischiato di estendersi dalla forma letteraria, ai contenuti stessi, e non solo quelli del capitolo 3, ma dell’intero libro. In questa sede va sottolineato come le due caratteristiche siano strettamente legate, perché proprio quelle due frasi che cominciano con meta; tau'ta sono quelle che più direttamente attingono alle pagine di Zeta. Come indicherò nel commento che segue, il modo ellittico di queste espressioni potrebbe forse spiegarsi con la vicinanza e quasi ovvietà del

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riferimento a Zeta, tale da rendere quasi superfluo un modo di esposizione più eloquente. Una tale ipotesi esegetica può rendere ragione più da vicino anche della seconda parte del capitolo, 1070a9ss., le cui opacità potrebbero in parte spiegarsi come un modo compendiato ed ellittico di riferimento a elaborazioni già note e in qualche modo acquisite come pregresse. In particolare, la nuova tripartizione delle sostanze sembra rievocare una più ampia discussione in Zeta 3 (1070a9ss., cfr. infra, Comm.). Gli esiti ivi conseguiti verrebbero qui semplicemente rievocati, specie in funzione di un’ulteriore presa di posizione rispetto alla dottrina accademica delle idee come principi. Pur approvando infatti almeno un aspetto della teoria platonica, cioè il carattere ontologicamente subordinato degli artefatti rispetto agli enti naturali (1070a1320, secondo la presente esegesi), Aristotele dimostra che il ruolo attribuito alle idee nello spiegare la realtà non basta a dimostrare che esse esistano come sostanze, cioè come entità non sensibili separate (1070a21-30).

1069b35-1070a4 Ingenerabilità dei principi primi intesi al modo che si è detto sopra, e cioè specificamente come materia e come forma. 1070a4-9 Sinonimia della causa efficiente con la cosa in sé, e dunque con la causa formale; ciò vale per la generazione naturale come per quella artificiale. 1070a9-13 Nuova e diversa tripartizione degli intendimenti di “sostanza” (oujsiva); come materia, forma, sinolo. Nell’ipotesi di un rapporto ipertestuale con Zeta, la sezione di riferimento più vicina è la discussione della tripartizione dei sensi di sostanza come sostrato in Z 3.1028b36-29a7.

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1070a13-20 Discriminazione fra natura e arte quanto all’ambito di pertinenza appropriato per questa teoria. A riprova, Aristotele cita Platone, che pure aveva postulato idee solo per gli enti naturali; ma precisa che sostanze in senso stretto sono solo gli interi, non anche le parti di ciò che è costituito per natura. 1070a21-26 La distinzione fra cause e principi (intesi, questi ultimi, come elementari, cioè immanenti: il motore, poi, che è esterno e preesiste, è causa ulteriore rispetto a quei principi) dà occasione di sollevare il dubbio se qualche principio o causa sussista dopo il venir meno di ciò di cui è principio. Aristotele pensa all’intelletto come parte immateriata dell’anima. 1070a26-30 Valenza della teoria sin qui esposta, e specie in 1070a4-9, come obiezione critica alla teoria accademica delle idee.

1069b35-1070a4 “In seguito: non si generano né la materia né la forma – intendo dire, né la materia, né la forma ultime – Invero, è necessario fermarsi” (Meta; tau'ta o{ti ouj givgnetai ou[te hJ u{lh ou[te to; ei\do", levgw de; ta; e[scata [...] eij" a[peiron ou\n ei\sin, eij mh; movnon oJ calko;" givgnetai strogguvlo", ajlla; kai; to; strogguvlon h] oJ calkov": ajnavgkh dh; sth'nai) Cfr. Alpha elatton 2: in tutte le serie causali bisogna presupporre che esista un primo termine e che esista un ultimo termine. Questo vale per tutti gli ordini di cause del mutamento, in quanto tali: finale, formale, efficiente, materiale. Con particolare riferimento alla causa efficiente, il principio trova formulazione in termini di necessità per modus tollens, e mette capo al postulato per regressus qui enunciato: ajnavgkh sth'nai. La dicitura ajnavgkh sth'nai non compare

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tuttavia in Alpha elatton; in questi termini ricorda da vicino Phys. H 1.242b71-72, in particolare dove dice w{ste ajnavgkh i{ s tasqai kai; ei\ n aiv ti prw' t on kinou' n kai; kinouv m enon 143. Questo è un parallelo importante: si accorda infatti con il ruolo di riferimento, come una sorta di sostrato ipotestuale, che tutto il libro Phys. Q risulta avere per la seconda parte del libro Lambda, soprattutto in Lambda 7. Con tutto ciò, il parallelo più evidente è ora con Zeta: troviamo fra Lambda 3 e Zeta 8 due esordi molto simili per due analoghi argomenti (cfr. 1069b36-1070a2 con Z 8.1033a24-28); un comune ricorso all’esempio della sfera di bronzo e al bronzo che viene reso sferico dall’artigiano (oJ calko;" strovggulo", cfr. 1070a2-4 con Z 8.1033a27-b16). Manca apparentemente in Zeta l’affermazione che “si va all’infinito” se il bronzo si genera: affermazione la quale potrebbe destare qualche sorpresa, a causa del carattere composito del bronzo come lega metallica. Ma qui Aristotele evidentemente, da una parte mantiene stretta la relazione ipertestuale con Zeta, tanto è vero che sceglie lo stesso esempio; d’altra parte, porta un’attenzione più specifica al principio materiale, del quale ora egli afferma con decisione, che, nella sua prima istanza (la materia ultima, cfr. 1069b35s.), non si genera, altrimenti si andrebbe all’infinito. Questo contribuisce a declinare sulla generalità delle quattro cause del divenire il postulato generale di un principio non causato: non c’è materia della materia prima, cfr. supra, § 2.5. Proprio l’ipotesi qui presentata, che, in generale, questa sezione attinga al libro Zeta in modo alquanto diretto e poco mediato, può spiegare anche lo stile così marcatamente ellittico – mancano infatti le parti sintatticamente principali del discorso. Caratteristicamente, i due concetti fondamentali sono introdotti da un’ellittica locuzione: “Dopo queste cose...” che può

143 Cfr. anche Phys. H 1.242a53ss.: ajnavgkh ei\naiv ti to; prw'ton kinou'n, kai; mh; badivzein eij" a[peiron.

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significare e intendersi (ipotesi credo inedita) come una descrizione del corso dell’argomento che si attua in quella parte di Zeta, o, perlomeno, in quella sezione di testo che di fatto ora è nel libro Zeta; questo infatti deve derivare da materiali aristotelici ordinati da Aristotele, o in questa forma che conosciamo, o in una forma non molto diversa; il che in qualche modo depone a favore della pertinenza di Zeta 7-9 al disegno finale del libro Zeta, che pure è discussa e controversa144. 144 Cfr. Judson, ad loc. (Formlessness and the Priority of Form: Metaphysics Z 7-9 and L 3, cit.). Judson interviene specificamente per argomentare che i capitoli Zeta 7-9 sono un’aggiunta posteriore ad Aristotele, difendendo così la posizione che è stata anche di M. FREDE-G. PATZIG, Aristoteles Metaphysik Z, cit., in part. vol. I, pp. 21-5, 31-2). Il presente studio su Lambda 3, se pure ha dovuto esaminare il capitolo nella sua relazione con Zeta 7-9, non può costituire un terreno appropriato e sufficiente per formulare un giudizio complessivo su Zeta 7-9. Possiamo però cercare di enunciare quale potrebbe essere un’ipotesi ragionevole a questo punto, se altri elementi non sussistessero oltre a quelli qui sinora considerati. Largamente condivisibile, a mio avviso, è la valutazione di M.L. GILL, Aristotle on Substance, The Paradox of Unity, Princeton Unversity Press 1989, avversata ma attentamente considerata anche da Judson (pp. 119-21). Non solo infatti Gill sostiene la tradizionale appartenenza dei capitoli Zeta 7-9 al libro Zeta, quale anche qui si sta argomentando sulla base di indizi diversi ed esterni (la relazione Lambda – Zeta), ma anche la spiegazione stessa di Gill collima con quanto qui rilevato: anche Gill, in fondo, descrive la composizione di Zeta come una sorta di cantiere aperto (l’espressione è mia); ragionevolmente, ritiene dunque che lo stato del testo che abbiamo abbia le migliori possibilità di esser l’ultimo voluto da Aristotele; non nega che Zeta come esito finale comporti aspetti non interamente integrati e contradditori; ma identifica altrove, che non nella coerenza compositiva, la priorità perseguita da Aristotele nell’assemblaggio di Zeta: infine, Aristotele ha lasciato a noi l’ordine che riteneva più appropriato alla didattica, e alla strategia dell’argomentazione (p. 10 e n.). Una tale valutazione è incoraggiata dalla lettura qui proposta delle ellittiche espressioni qui in esame meta; tau'ta (Lambda 3.1069b35, 1070a4:) come relative a un progetto di riorganizzazione del materiale del libro: proprio secondo la presente lettura, esse sono indizio di una precisa volontà da parte di Aristotele che “dopo queste cose”, dopo cioè l’argomento introduttivo (comune in parte a Lambda e a Zeta), trovino luogo gli argomenti esposti in

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1070a4-5 “... ogni sostanza si genera da qualcosa che ha lo stesso nome e definizione” (eJkavsth ejk sunwnuvmou givgnetai oujsiva) Cfr. Metaph. Z 9.1034a21-b1 e 8.1033b28-31, luoghi che pure, come qui oltre L 3.1070a26-30, esplicitano la valenza critica della dottrina così costituita nei confronti della dottrina delle idee. L’argomento ripreso da Zeta 7-9 vale dunque come alternativa alla spiegazione dell’identità formale dei diversi individui di una stessa specie che la teoria delle idee offre (cfr. anche infra, 1070a27). La motivazione si capisce meglio se si pensa che Aristotele in Lambda indichi i principi della sostanza sensibile, non simpliciter, ma in quanto èsoggetta al divenire. Le idee, come cause, non sono pertinenti perché, come leggiamo in Alpha, 988b3ss., erano invocate dagli Accademici come causa non di mutamento, ma di invarianza e assenza di movimento.

1070a5s. “... sia gli enti che sono sostanze naturali, sia gli altri” (ta; ga;r fuvsei oujsivai kai; ta\lla) Se ci si attiene a questa traduzione, non è necessario ammettere, come avviene nella maggior parte dei commenti, che per Aristotele anche gli artefatti siano sostanze, e non solo gli enti naturali. Nella lettura corrente, infatti, si apre a proposito di questo passaggio una cruciale questione: gli artefatti, cioè i Zeta 7-9 e, più compendiatamente, in Lambda 3. Per questo ha ragione, che io veda, Gill, anche in quanto non per questo presuppone che quei capitoli facciano parte della prima e originaria redazione del libro; al riguardo, si potrebbe aggiungere che il libro Zeta nel suo complesso mostra un carattere fortemente composito, e che sarebbe difficile ricostruirne uno stato originario così sicuro da potersi paragonare allo stato attuale in nostro possesso. Aristotele stesso può aver avvertito a un certo punto l’opportunità di accrescere ed integrare, anche con materiali in parte preesistenti, i materiali inclusi in questo e nel successivo libro Eta sulla “sostanza”.

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prodotti delle arti, per esempio la sfera di bronzo, prodotta dall’artigiano, o la salute, prodotta dall’arte medica (per usare esempi addotti qui infra da Aristotele, cfr. 1070a22-24) sono sostanza? La lettura prevalente, nei commenti ad loc., consiste nel dare a tale domanda una risposta positiva. Questo però sarebbe problematico, come si vede già qui dal contrasto con 1070a17-19, dove Aristotele sottolinea lo statuto ontologico precipuo degli enti naturali, e in specie dei viventi, i quali soli (unici fra gli enti materiati, s’intende) esistono separatamente dal sinolo concreto. Ciò è in accordo con il generale primato riconosciuto da Aristotele ai viventi come sostanze a più pieno titolo nel libro Eta (cfr. infra) – e ritenuto valido anche per Zeta. La questione dunque merita di essere brevemente approfondita. Forse, che Aristotele, proprio in questo passo di Lambda 3, attribuisca statuto di sostanza agli artefatti, non si evince dal testo così direttamente come talora si ritiene. Infatti le parole così interpretate nel testo, ta; ga;r fuvsei oujsivai kai; ta\lla, vengono allora tradotte “infatti sia gli enti naturali sono sostanze, sia gli altri enti”, cioè una nuova frase in costrutto nominale. Può invece trattarsi di due ulteriori soggetti per il precedente predicato ejk sunwnuvmou givgnetai. Si generano da un sunwvnumon, intenderà dire Aristotele, sia gli enti che sono sostanze per natura, sia gli altri enti. Brachilogicamente, sta dunque annunciando ciò che farà: anche qui, come altrove (per esempio nel caso tipo di Phys. B) egli illustrerà la propria dottrina dei principi del divenire naturale, usando a riprova il caso dell’arte, presupponendo cioè che arte e natura procedano in parallelo, in modo in parte analogo, sebbene anche in parte diverso. Il seguito del brano conferma questa lettura, come infra commenterò. D’altronde anche in Metaph. H 3.1043b18-21, un poco più ampiamente, Aristotele argomenta che le forme dei prodotti dell’arte non sono separabili. Ivi, l’idea che la forma dei prodotti artistici non esista separata si sviluppa di pari

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passo con l’osservazione che probabilmente questi prodotti non sono sostanze e che le uniche sostanze sono quelle naturali. Questa posizione a sua volta viene ad essere coerente compimento degli argomenti di Zeta, libro del quale Eta si pone a continuazione. A riprova, si può notare che in effetti ci sono problemi teorici rilevanti ad ammettere il contrario, a dire cioè che ciò che viene creato dall’attività tecnica dell’uomo è sostanza (anche perché, una volta ammesso il principio, diviene veramente difficile specificarne il criterio di estensione; per esempio, ci si potrebbe chiedere: quale grado di compiutezza e di perfezione del prodotto rende “sostanze” siffatte sostanze? Per esempio, saranno sostanze anche le scarpe fabbricate male, o la salute solo parziale restituita a un paziente?). Beninteso, non è di per sé impossibile che Aristotele abbia sostenuto al riguardo posizioni diverse in contesti diversi. Tuttavia, parrebbe strano che Aristotele, pur negando motivatamente in Eta che i prodotti delle arti siano sostanze, si soffermi apposta in Lambda 3 a dire il contrario, a dire che questi enti sono sostanze, senza addurne ragione, interrompendo inutilmente l’argomento, e soprattutto senza averne bisogno. Invero, una siffatta posizione non si trova attestata altrove nel corpus, almeno a giudicare dalla pur ampia casistica della lunga voce oujsiva nell’Index di Bonitz. Una tale divergenza appare anche più strana, se si considera che in generale nel libro Lambda anche i punti teorici già acquisiti altrove vengono succintamente motivati e che, a maggior ragione, le posizioni teoriche nuove vengono argomentate puntualmente. In definitiva, questo sembra uno dei casi nei quali sono state estrapolate da singole righe o frasi di questo libro posizioni dottrinali originali, senza che ne fosse chiaro il contesto e lo stile argomentativo. Probabilmente è lo stile brachilogico qui adottato da Aristotele a indurre facilmente in errore, specie quando l’intendimento dei singoli passi prescinda da una lettura continuata e integrale del libro.

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1070a6-8 “C’è generazione infatti, o per arte, o per natura, o per caso, o spontaneamente...” (h] ga;r tevcnh/ h] fuvsei givgnetai, h] tuvch/ h] tw'/ aujtomavtw/) Questa rassegna di quattro cause si propone di riassumere tutte le cause del divenire e del venire ad essere, sia naturale, sia artificiale, sulla scorta di Phys. B 1, 4-6. Analogamente anche il libro Zeta ritorna sovente sul parallelo fra arte e natura, specie nei capitoli 79, cfr. in particolare 7.1032a12-14: “Fra gli enti che si generano, alcuni si generano per natura, altri per arte, altri per caso...”. Secondo la lettura qui proposta, il gavr (“infatti”) in 1070a6 ha una funzione esplicativa, non rispetto alla frase che immediatamente precede, ma rispetto a quella ancora precedente (1070a4s.).

1070a8s. “Le altre cause sono privazioni di queste” (aiJ de; loipai; aijtivai sterhvsei" touvtwn) Si intendono le “altre” rispetto a natura e arte. Si tratta di spontaneità e caso: secondo Phys. B 5, la spontaneità è privazione di natura, il caso privazione di artificio, ovvero deliberazione, e l’una e l’altro si intendono come cause di eventi che ordinariamente avverrebbero per natura, o per arte – e che dunque sembrerebbero avvenuti per natura, o per arte – mentre avvengono invece accidentalmente, in assenza di generazione per natura, o in assenza di produzione artistica. Si dice allora che qualcosa avviene spontaneamente145, o per caso, se sembra fatto ad arte, deliberatamente, ma non lo è. 145 Si potrebbe citare come esempio la generazione che si presumeva spontanea, quella cioè di determinati esseri viventi, per esempio i vermi, che si considerava potessero nascere senza procedere da un genitore naturale. Sulle definizioni reciprocamente distinte di natura e arte, spontaneità e caso, quali essi siano secondo Aristotele, è chiarissimo un opuscolo sul caso (hJ tuvch) e sulla spontaneità (to; aujtovmaton) conservato nel corpus di Alessandro di Afrodisia, nella cosiddetta Mantissa (De anima liber alter), pp. 176.1-179.23.

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1070a9 “Ci sono tre sostanze...” (oujsivai de; trei'") Il primo dato molto interessante, in questa tripartizione delle sostanze (materia, natura ovvero forma, sinolo individuale), è che essa è diversa da quella precedente, della fine del primo capitolo (1.1069a30-33, cfr. anche 6.1071b35) e non ne dipende affatto, pur essendo introdotta dalle stesse parole. Ciò di per sé può indicare che “sostanza” qui non si identifica in modo rigido, ma è un concetto funzionale: è una categoria logica, che distingue l’oggetto primario di conoscenza – nella pluralità delle sue configurazioni – dalle determinazioni secondarie come qualità, quantità o attività e movimenti. In un’accezione ancora più circostanziata, e più marcatamente meta-linguistica, “ci sono tre sostanze” può significare: ci sono tre modi in cui sappiamo che si può intendere il concetto di sostanza: infatti qui il testo riprende la tripartizione della sostanza (oujsiva) nel senso di “sostrato” (uJpokeivmenon) di Z 3.1029a1-5. A conferma, peraltro, anche la frase successiva, pur leggermente oscura, sembrerebbe comportare un riferimento alla discussione di Zeta 3 sui sensi di oujsiva.

1070a10s. “La materia è qualcosa di determinato in apparenza. Infatti ciò che è per contatto, senza congiunzione naturale, è materia e sostrato” (hJ me; n u{ l h tov d e ti ou\ s a tw' / faiv n esqai: (o{ s a ga; r aJ f h' / kai; mh; sumfuv s ei, u{ l h kai; uJpokeivmenon)) Non perspicua è questa definizione della materia, al punto da lasciare perplessi quanto alla costituzione del testo greco (cfr. I, Note), che pure va conservato: potrebbe essere integro così com’è. L’oscurità in parte si risolve, se, in linea con la nostra analisi della parte precedente del libro (cfr. in part. n. prec.), possiamo vedere qui un succinto riferimento alla trattazione di Z 3.1029a1, 10, ove il sostrato appare essere sostanza solo

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prima facie, solo per il fatto che ad esso si riferiscono le altre determinazioni. Di qui l’integrazione di “” in sede di traduzione. Se è così, ciò aiuta a capire la parentesi, il cui nesso con il contesto resta altrimenti opaco, ch’io veda. Probabilmente il gavr in 1070a10 va inteso nel contesto di una definizione che è data solo come provvisoria e cioè solo basata sull’apparenza; benché infatti nessun avverbio sottolinei espressamente il valore limitato di tale definizione, un tale limite è evidente a chi abbia familiarità con la discussione di Zeta, e si intende che vada da sé. Allora il gavr stesso porta su questo limite. Così dopo aver detto che la materia è sostanza solo in un certo senso e, per così dire, in apparenza, Aristotele definisce positivamente la materia in modo diverso e appropriato al contesto, cioè in funzione di contrasto: materia è “ciò che è per contatto, senza congiunzione naturale”, e che dunque non può dirsi nemmeno interamente “essere” ad ogni riguardo, mancando in sé di ogni forma connaturata di unità.

1070a11s. “[sostanza] è la natura, fine cui tende la generazione, che è qualche cosa di determinato ed è una disposizione determinata” (hJ de; fuvsi" tovde ti eij" h{n, kai; e{xi" ti") Ancora più controversa è la costituzione del testo in questo passo, che gli editori correntemente emendano intervenendo sulla costruzione (cfr. I, Note ad loc.). Ma ciò forse non è necessario e l’inversione di costrutto si può giustificare in funzione del contenuto positivo della frase: la forma è qui chiamata natura, perché è ciò cui il vivente tende per natura: forma però non è una qualsiasi natura (il termine ha infatti molti significati), ma è ciò verso cui tende lo sviluppo del vivente. L’accento è posto, come già a più riprese in Lambda, sul ruolo dei principi come spiegazione del divenire e del mutamento, in vista della teoria, che verrà poi introdotta,

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di ciò che è causa di mutamento senza essere soggetto a mutamento.

1070a13-17 “in alcuni casi, non esiste qualche cosa di determinato che non sia la sostanza composta (per esempio, non esiste la forma della casa [...]: di queste cose non vi è generazione né corruzione ed è in un altro modo che la casa senza materia, la salute e tutto ciò che è prodotto dall’arte esistono e non esistono...)” (ejpi; me;n ou\n tinw'n to; tovde oujk e[sti para; th;n sunqeth;n oujsivan (oi|on oijkiva" to; ei\do" [...], oujdΔ e[sti gevnesi" kai; fqora; touvtwn, ajllΔ a[llon trovpon eijsi; kai; oujk eijsi;n oijkiva hJ a[neu u{lh", kai; uJgiveia, kai; pa'n to; kata; tevcnhn)) Il passo non è immediatamente chiaro, specie dove dice “ed è in un altro modo che la casa senza materia, la salute e tutto ciò che è prodotto dall’arte esistono e non esistono”; né aiuta il parallelo con Zeta, dove Aristotele, ricorrendo sovente all’esempio degli artefatti, si avvale piuttosto delle analogie che delle differenze, mentre qui contrasta gli enti naturali e gli artefatti. Un parallelo si trova invece in H 3.1043b18-21 (passo già citato supra, ad 1070a5s.): là dove Aristotele ha enucleato il concetto di sostanza (oujsiva) nel senso di forma, egli afferma, come in Zeta 8 e come sopra in Lambda 3 (cfr. qui supra, ad 1069b35ss.), che di essa in sé non c’è processo di generazione (ciò che si genera è infatti il composto) e a questo proposito solleva il dubbio se una siffatta sostanza sia o no separata dagli enti composti dei quali è sostanza; la questione non è ancora chiara, dice; ma certo la sostanza di “quegli enti che non possono esistere al di là dei concreti individui, come la casa e il mobile” non è separabile (1043b20s.). Si nota altresì il passo in H 5.1044b21s. “alcuni enti sono e non sono senza generazione e corruzione” (e[nia a[neu genevsew" kai; fqora'" e[sti kai; oujk e[stin, in riferimento a enti matematici e a idee o forme) ove si ravvisa forse il parallelo più stretto con

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1070a16: non è per via di generazione e corruzione, “ma è in un altro modo che la casa senza materia, la salute e tutto ciò che è prodotto dall’arte esistono e non esistono (eijsi; kai; oujk eijsivn)”. Così, Aristotele, dopo aver detto che sono sostanza la materia, la forma e il sinolo, precisa in 1070a13-17 che la forma è sostanza per ciò che si genera per natura; forse, invece, la produzione artistica, pur comportando che la forma in qualche modo sia presente nella mente dell’artigiano, come modello esemplare, non implica, né che una tale forma sia separabile, né che sia sostanza. Il parallelo con Eta pertanto costituisce un argomento ulteriore per la nostra lettura di 1070a5s., cfr. supra, ad loc., e incoraggia a includere anche questo libro fra i paralleli e presupposti testuali significativi per questa parte di Lambda.

1070a18s. “... non a torto Platone ha detto che ci sono tante forme quanti enti naturali...” (ouj kakw'" Plavtwn e[fh o{ti ei[dh e[stin oJpovsa fuvsei) Il “non a torto” – forma prudente di accordo, visto che non è identico ad “a ragione” – si spiega così: Platone sosteneva una dottrina delle forme come idee che Aristotele non sottoscrive. Ma almeno in questo Platone non aveva torto, cioè nell’ammettere che solo ciò che esiste per natura abbia forma separabile; ciò vale a dire, nel linguaggio aristotelico, che solo ciò che esiste per natura è sostanza. Platone non avrebbe avuto torto, se non fosse problematico – precisa però Aristotele – porre forme separate, oltre che del fuoco, di parti organiche di enti naturali. Queste infatti esistono esse stesse per natura, come carne e testa (1070a19), ma non sono in sé sostanza. Ad esse infatti, Aristotele attribuisce invece, per contrasto, statuto e ruolo di materia (1070a20), che si intende però materia “finale”, teleutaiva: quella di cui direttamente è fatta o, per meglio dire, consta la sostanza. Come si vede,

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anche questo passo, come il precedente or ora discusso (1070a13-17), conferma la lettura sopra difesa del luogo problematico in 1070a5s., contro quell’altra, pur bene attestata, che trova ivi riconosciuto uno statuto di sostanza per i prodotti dell’arte e della tecnica. Ciò globalmente conferma la coerenza della dottrina aristotelica esposta nel libro.

1070a19ss. “se pure davvero esistono forme separate di queste cose: per esempio fuoco, carne, testa” (ei[per e[stin ei[dh a[lla touvtwn, oi|on pu'r sa;rx kefalhv) La limitazione che segue, “se pure davvero esistono forme separate di queste cose: per esempio fuoco, carne, testa”, non inficia il proposito fondamentale, ma è significativa di una continuità di Lambda rispetto a quei testi che riservano quello statuto propriamente al vivente, e non a qualunque parte di corpo fisico, né ai corpi semplici inanimati, come il fuoco. Gli uni e gli altri sono, in modi diversi (cfr. supra, ad 1070a18s.), materia della sostanza.

1070a27 “... non è affatto necessario, almeno secondo questi argomenti, che esistano le idee” (oujde;n dei' diav ge tau'tΔ ei\nai ta;" ijdeva") Questa è la logica conclusione dell’argomento che precede, relativo alla separabiità o meno della forma dalla materia: nei corpi naturali, e solo in quelli, la forma, essendo sostanza, si può conoscere e concepire separata dalla materia, senza tuttavia sussistere separatamente. Una volta di più, l’esposizione si caratterizza per la sua estrema cautela: Aristotele, in ogni caso, non dice che le idee non esistono, ma che non sono necessarie, cioè, non è necessario che esistano (cfr. per contrasto infra, 6.1071b4). Di qui la pertinenza della precisa-

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zione “almeno secondo questi argomenti”: questa riserva è metodologicamente corretta, visto che Aristotele non ha dato qui alcuna dimostrazione generale contro l’esistenza di enti siffatti, ma ha solo confutato un argomento a favore della teoria di quella “partecipazione” degli enti sensibili alle idee, sulla base della quale l’esistenza delle idee veniva postulata come necessaria.

1070a28-30 “... l’arte medica è la definizione di salute” (hJ ga;r ijatrikh; tevcnh oJ lovgo" th'" uJgieiva" ejstivn) L’assunto non è immediatamente evidente, ma è motivato dalla necessità dell’argomento. L’arte medica, che è la causa efficiente della guarigione, consiste nella definizione di salute, cosicché, in questo senso, anche in un prodotto dell’attività umana, la causa efficiente può dirsi identica alla causa formale. Nel caso dell’artigianato, o delle arti figurative, l’arte, presa come causa efficiente, al tempo stesso si identifica con l’idea del prodotto finale nella mente dell’artista, cosicché, di nuovo, la causa efficiente si trova omoeidetica alla cosa, coincidente pertanto con la causa formale.

CAPITOLO 4 [Identità e diversità dei principi dei diversi enti soggetti a mutamento] La sezione corrispondente ai capitoli 4 e 5 presenta una comune introduzione e si conclude con un comune epilogo alla fine del capitolo 5. Ponendosi in apertura la questione, se i principi siano o no gli stessi per tutti gli enti, Aristotele non risponde in modo categorico e univoco, ma insiste a più riprese sulla necessità di

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differenziare e circostanziare la risposta: “in certi sensi sì, in altri no” (1070a31-33, 1070b10s., 1071a1, 5s., 1071a29-b2). Di qui una serie di espressioni di tipo modale, atte a differenziare i diversi sensi o modi di intendimento (cfr. in part. 1070b10s., e[sti me;n w{", e[sti d’ w}" ou[: “c’è un modo in cui sono identici, e c’è un modo in cui no”). Valgono, nella fattispecie, due ordini principali di distinzioni: - fra i diversi enti dei quali si cercano i principi e, in specie, fra la sostanza e gli enti che sono relativi alla sostanza; - fra i modi di concepire i principi 146 e di concepirne l’unità. Di qui la singolare complessità dell’argomentazione, ove si accavallano sezioni nelle quali si argomenta (a) che i principi non sono identici per tutti gli enti, con altre (b) che considerano la possibilità positiva di reperire principi comuni. Così la logica secondo la quale l’argomento dei due capitoli si sviluppa non è sempre perspicua: per una sintesi, è necessario ricorrere a integrazioni congetturali ad sensum (fra parentesi tonde).

1070a31-33 Posizione della tesi: le cause e i principi degli enti sono (a) in un senso diversi, (b) in un altro senso, cioè in generale e per analogia, gli stessi per tutti. 1070a33-35 Introduzione dell’aporia in vista della conseguente argomentazione.

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La pluralità di intendimenti del principio è sottolineata da un inciso forse erratico, che si ripete due volte: “ed è in questi sensi che si distingue il principio” (1070b24, 29), e che qui ho mantenuto nel testo. Gli editori precedenti hanno suggerito l’atetesi della seconda occorrenza (Ross) se non anzi di entrambe (Jaeger).

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1070a35-b10 Il primo ramo del dilemma (a), secondo il quale i principi sono diversi per i diversi enti, sarà dimostrato per confutazione del ramo opposto (b), riducendo ad assurdo l’ipotesi che i principi siano identici (1070a35s.). La confutazione avviene per eliminazione delle tre possibilità opposte: - che esista un principio elementare che sia generale e primo rispetto alle categorie (1070b1-3); - che la sostanza sia elemento dei “relativi”, cioè delle altre categorie, o viceversa (1070b3s.); - che gli elementi siano identici a ciò di cui sono elementi (1070b4-6); - che ci siano elementi comuni in quanto “elementi intelligibili”, come l’Uno o l’Ente, e che sia questo il modo in cui sarebbero elementi di tutti gli enti la sostanza o il relativo (1070b7-9). Conclusione della dimostrazione per assurdo: non c’è principio comune agli enti: non c’è né nella sostanza né nei relativi. 1070b10-16 (Prima parte della risposta:) i principi sono gli stessi per tutti gli enti in generale e per analogia (b). 1070b17-21 (Seconda parte della risposta:) ma di per sé i principi sono diversi nei diversi enti (a). 1070b22-26 (Si ragiona ora sull’identità analogica: in questo contesto, essendo analogicamente gli stessi i principi degli enti, quali e quanti sono?) Distinzione fra gli elementi, che sono immanenti alla cosa, e i principi, che possono essere anche esterni: tale il caso della causa efficiente. Così dunque i principi si distinguono in interni (elementi) ed esterni (cause efficienti). Così, analogicamente (b), gli elementi risultano essere tre (materia, forma, privazione), mentre (sempre analogicamente,

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s’intende) i principi sono quattro: i tre elementi e la causa efficiente. 1070b26-35 (a) Fuori da una considerazione analogica, la causa efficiente prossima è diversa per i differenti enti. Essa però è della stessa specie di ciò che si genera: ha la stessa forma. Questo vale sia nella generazione dei viventi sia, in certo modo, nei prodotti dell’arte. (b) Cenno alla causa efficiente prima, che muove tutte le cose (ed è dunque la stessa per tutte le cose, essa sola, anche numericamente). 1070b36-1071a4 Il senso generale del passo porta a sottolineare che i principi delle sostanze sono sostanze. Di qui potrà conseguire che il primo motore immobile di ogni sostanza (inclusa la sostanza eternamente mossa del cielo) sarà una sostanza. Fisica Q non lo dice. Qui indubbiamente risiede una specificità dell’indagine sui principi della sostanza in termini di filosofia prima.

1070a31-34 “Le cause e i principi, in un certo senso sono diversi [...] in un altro senso, [...] sono gli stessi per tutti gli enti. Un’aporia infatti può essere questa: se siano diversi o gli stessi principi e gli elementi delle sostanze e dei termini relativi” (Ta; d’ ai[tia kai; aiJ ajrcai; a[lla a[llwn e[stin w{": e[sti d’ w{", [...] taujta; pavntwn. ajporhvseie ga;r a[n ti" povteron e{terai h] aiJ aujtai; ajrcai; kai; stoicei'a tw'n oujsiw'n kai; tw'n prov" ti) Come osserva Crubellier, ad loc., p. 138s., fin dall’inizio la posizione del problema ha una doppia implicazione nei riguardi delle dottrine accademiche. Da una parte, la necessità di circostanziare la risposta è una mossa critica nei riguardi del progetto platonico di una scienza unica che comprenda i

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principi di tutti gli enti. D’altra parte, ad Aristotele non è estraneo il progetto di una scienza sovraordinata dei principi, in una versione però meno totalizzante e più articolata: fatto salvo il rispetto delle autonomie disciplinari, la filosofia prima aristotelica conserva l’aspirazione a ridurre la molteplicità a un numero perlomeno ridotto e limitato di principi semplici universalmente validi (Crubellier, ad loc., p. 139). Il termine stesso “elemento” (stoicei'on), come è impiegato in Lambda 4, non ha paralleli nel corpus, e sembra un prestito o un’eredità platonica. Sull’espressione modale e] s tin o{ " (“esiste un senso in cui…”) in 1070a31s., cfr. qui supra, l’introduzione a questo capitolo, e I, Note ad loc.

1070b7 “Né può essere alcuno degli elementi intelligibili, come l’Uno o l’Ente” (oujde; dh; tw'n nohtw'n stoiceivwn, oi|on to; e]n h] to; o{n) Di questa frase, leggo il testo stemmaticamente costituito, diverso da quello di Ab generalmente adottato dagli editori (Bekker e seguenti). In particolare, questo testo è diverso da quello di Ross, che accetta la variante stoicei'on di Ab per stoiceivwn; ed ancor più diverso da quello di Jaeger, che, sulla stessa base testuale di Ross, separa e chiude tutta la frase fra doppie parentesi. Conseguentemente, anche la mia comprensione del testo (incluse le parole che sottintendo, come indicato nella traduzione) è diversa da quella corrente: si tratta di indagare in qualche modo ex novo quale sia il senso del testo così restituito. Propongo quanto segue: “Nessuno degli elementi intelligibili, come l’Uno o l’Ente” può essere principio comune ai diversi enti. E cioè, secondo l’argomento enunciato in 1070b5-6, “A o B non possono essere identici a BA”, cioè la parte e il tutto non sono identici, né nel caso degli elementi materiali, né nel

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caso degli intelligibili. Ma come funziona l’argomento riguardo ai principi intelligibili? Dice, apparentemente, che nemmeno gli intelligibili possono essere elemento comune alle sostanze e ai relativi. Il motivo va congetturato per via di ipotesi. Forse si intende che eventuali elementi intelligibili, se sono elementi delle sostanze, dovrebbero essere sostanze, mentre come elementi dei relativi dovrebbero essere relativi. Queste predicazioni generalissime non possono dunque essere elementi comuni sia delle sostanze, sia dei relativi. Viene forse meno in questo modo una giustificazione possibile (forse storicamente attestata) al postulato di entità puramente intelligibili in ruolo di principi. Come risultato, il testo ribadisce da un’altra angolatura ciò che appena aveva affermato, 1070b1-2, che non c’è un ente comune (quale potrebbero essere l’“ente”, o l’“uno”, qui chiamati elementi intelligibili) al di sopra della sostanza e delle categorie. Se l’intendimento qui proposto è corretto – devo sottolineare che è solo una proposta – ci si trova a chiedere: quali saranno allora i possibili principi elementari? Secondo questo argomento, possono considerarsi elementi solo, o gli elementi materiali (dei quali in Lambda però non è questione), o, secondo la dottrina ben attestata in Lambda, forma e materia, come parti del sinolo. Tali invece non possono essere i generi, o più in generale le parti della definizione della specie. Aristotele, così, introduce specifiche obiezioni, sia al modo di ricerca tipicamente accademico, incentrato sulle definizioni, le cui parti sono meramente intelligibili, sia all’idea, conseguente (e positivamente attestata per esempio in Metaph. Z 10), che i generi siano a loro volta elementi e parti delle specie.

1070b9s. “Gli elementi non sono dunque gli stessi per tutte le cose” (oujk e[stin a[ra pavntwn taujta; stoicei'a) Si intende che gli elementi non sono dunque gli stessi per le

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sostanze e per i relativi, vale a dire, non sono gli stessi per le sostanze e per ciò che si riferisce alla sostanza. Qui probabilmente prov" ti (“relativo”) si intende essere tutto quanto si può riferire alla sostanza, senza essere sostanza; si riferisce cioè, nella prospettiva qui acquisita, a tutte le determinazioni che si predicano della sostanza. Di nuovo, questo vale a sottolineare che i principi delle sostanze sono anch’essi sostanze. Dunque, se ne trarrà più oltre, il primo motore immobile di una sostanza (la sostanza eternamente mossa del cielo) sarà una sostanza (cosa che Fisica Q non dice).

1070b13-15 “Sostanze sono questi elementi, e ciò che consta di questi elementi [...] o ciò che essendo uno, eventualmente si generi [...] dal caldo e dal freddo, per esempio carne od osso” (oujsivai de; tau'tav te kai; ta; ejk touvtwn [...] h] ei[ ti ejk qermou' kai; yucrou' givgnetai e{n, oi|on sa;rx h] ojstou'n) Interessante è questa ulteriore e diversa configurazione di che cosa sia “sostanza”: oujsivai ora sono sia la forma e la materia, appena menzionate, sia il sinolo di entrambi (ejk tou'twn), sia anche i corpi “omeomori” intermedi, “carne ed osso”, che costituiscono i tessuti dei viventi, in quanto sono anch’essi formati dagli stessi principi elementari. Nel precedente capitolo, Aristotele sembrava avere tuttavia perplessità (1070a19, in parziale obiezione a Platone) quanto allo statuto ontologico delle parti organiche rispetto all’intero.

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CAPITOLO 5 [Atto e potenza come principi comuni, per analogia, a tutti gli enti in divenire, intesi tutti necessariamente come enti concreti, e non universali. Primato dei principi della sostanza su quelli degli altri modi dell’ente] Siamo all’interno dell’ambito problematico già stabilito nel corso del capitolo 4: quello di una discussione sull’unità e differenza nei principi degli enti, che distingua i diversi casi in funzione della diversità non solo fra gli enti, ma anche fra i modi di intendere i principi e l’unità stessa dei principi. Ora, Lambda 5 comporta un progresso significativo per il peso teorico dei temi introdotti, almeno da due punti di vista. Si tratta in primo luogo del ricorso alla coppia atto/potenza come principi esplicativi del divenire degli enti. Indubbiamente qui Aristotele può e deve fare riferimento alle sue proprie teorie, visto che quello dell’atto e della potenza è un linguaggio che gli è proprio (nel quale non esita, come abbiamo già visto nel capitolo 2, a trascrivere dottrine pregresse, come quelle dei Presocratici). Da questo punto di vista scaturisce anche un ulteriore distacco rispetto alla dottrina delle idee. Nessuno di questi principi (atto e potenza) agisce infatti in universale, né su un universale: gli universali infatti non sono soggetti a mutamento, e questi sono principi di mutamento. Questo dà occasione a un netto distinguo rispetto alle dottrine accademiche dei principi, in una sezione famosa, 1071a19-29: essa infatti ha dato argomento alla tesi di Frede e Patzig (Aristoteles Methapysik Z, cit., I, pp. 48, 52), secondo la quale, per Aristotele, la forma, così come la materia, è individuale del soggetto. D’altra parte, Aristotele è ora in condizione di ritornare in modo più energico sulla distinzione introdotta in questo contesto fin dall’inizio del capitolo 4 fra sostanza e altri modi dell’ente. La soluzione finale al riguardo non consiste infatti nell’ammettere che sostanze e relativi abbiano principi propri e diversi, ma nel ricondurre tutti i relativi ai principi della sostanza: i relativi infatti

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(cioè in senso lato tutti i predicati della sostanza) vengono meno se le sostanze vengono meno (1071a35).

1070b36-1071a3 Data la distinzione fra sostanze e non sostanze, i principi sono comuni a tutti gli enti anche in questo senso (nel senso cioè della focalizzazione sulla sostanza come modo primario dell’ente): i principi delle sostanze sono principi di tutte le cose. 1071a3-11 I principi sono, di nuovo, analogicamente comuni a tutti gli enti anche in questo senso: come atto e potenza (ej n ev r geia e duvnami") (nel senso che distinguiamo l’essere in atto o in potenza di ciascuno di essi). 1071a11-17 La distinzione fra “in atto” e “in potenza” è presente anche in un altro modo, per i principi che non hanno la stessa materia e che non hanno la stessa forma, come appunto la causa efficiente esterna. 1071a17-19 Solo alcuni alcuni enti si dicono in universale, altri no (ma l’universale può essere principio solo di ciò che si dice in universale, dunque non è principio di tutti gli enti). Principio primo degli enti è invece ciò che per primo esiste in atto, e inoltre ciò che è in potenza (ma nessuno di questi è universale). 1071a19-24 Comunque i principi degli enti individuali sono individuali. 1071a24-27 I principi delle sostanze sono principi degli altri enti. Ma i

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principi ed elementi sono diversi secondo i diversi generi, per esempio colori, suoni, sostanze, qualità. 1071a27-29 Anche all’interno della stessa specie i principi sono individualmente diversi per i diversi individui, benché appartengano alla stessa specie. La mia materia è diversa dalla tua. 1071a29-33 Riepilogo: quanto alla questione se i principi ed elementi delle sostanze e dei relativi siano identici o diversi, la risposta è articolata: ciascuno di essi si intende in molti sensi e, se li distinguiamo, i principi sono diversi; ma sono identici in questi modi: 1071a33-34 - per analogia; 1071a34-35 - perché le cause delle sostanze sono cause di tutti gli enti, in quanto gi altri enti vengono meno se vengono meno le sostanze; 1071a35-36 - nel senso di ciò che è primo per perfezione (ejnteleceiva)/ . 1071a36-b1 In questi altri sensi invece sono diversi: sono diversi quei principi che né sono contrari, né si predicano come generi, né si dicono in molti sensi; “inoltre sono diverse le materie” (nel senso – verosimilmente – che sono proprie dei singoli individui, come sopra argomentato). 1071b1-2 Epilogo: si è detto dunque quali e quanti siano i principi degli enti sensibili, e in che senso siano gli stessi e in che senso diversi.

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1070b36s. “Poiché alcuni enti sono separabili, mentre altri no, quelli separabili sono sostanze” (’Epei; d’ ejsti; ta; me;n cwrista; ta; d’ ouj cwristav, oujsivai ejkei'na) È interessante che la diairesi fra sostanze e non-sostanze (separabili e non separabili) sulla quale si fonda il ragionamento sia introdotta come premessa in una proposizione causale. Un ottimo esempio parallelo sarà l’inizio del capitolo 6, 1071b3. Ciò può essere interessante come indizio della natura metalinguistica dell’indagine in corso, e della natura funzionale dei concetti per essa mobilitati. La costruzione teorica si fonda infatti non sulla realtà in sé considerata o sulla natura degli oggetti in esame, ma sulla loro connessione logica e funzionale (come si vede per esempio nel caso della relazione fra sostanze e relativi, che quasi si definiscono qui le une rispetto agli altri, e viceversa).

1071a1s. “senza le sostanze, non ci sono le qualità e i mutamenti” (tw'n oujsiw'n a[neu oujk e[sti ta; pavqh kai; aiJ kinhvsei") Il tema qui reintrodotto, già centrale nel capitolo 1, è decisivo per l’argomento sulla sostanza eterna che attraversa per intero il capitolo seguente (cap. 6) fino all’inizio del capitolo ancora successivo (cap. 7, ad 1072a21-23). Se infatti c’è movimento, ivi si argomenterà, ci deve essere il soggetto del movimento. Se c’è movimento eterno, deve esistere qualcosa, una sostanza, che si muova di movimento eterno. Il passo può essere letto come auto-referenziale, riferito cioè alla logica ed economia interna della costruzione teorica in corso; ne può essere indizio la proposizione causale in 1070b36s. (cfr. n. ad loc.). Ivi, infatti, è per posizione che esistono enti separabili in quanto tali, ed enti non separabili; sempre per definizione, separabili sono le sostanze, mentre non separabili sono le affezioni e i movimenti delle sostanze: più in generale (secondo quanto si potrebbe interpretare, con un passo in più

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nella direzione di una lettura metalinguistica), non separabile è ciò che è espresso da predicato, nominale o verbale. Enti siffatti non esistono senza il soggetto di cui si predicano.

1071a2s. “questi principi saranno verosimilmente anima e corpo, o intelletto, desiderio e corpo” (e[stai tau'ta yuch; i[s [ w" kai; sw'ma, h] nou'" kai; o[rexi" kai; sw'ma) Intelletto e desiderio, insieme al corpo, sono principi, non di qualunque vivente – i viventi avranno infatti come principi anima e corpo – ma degli esseri razionali, e del cielo. Se tale è il riferimento, questa annotazione prepara probabilmente la dottrina di Lambda 7, secondo la quale il motore immobile muove al modo di ciò che è intelligibile e desiderabile (1072a26ss.): esso muove dunque intelletto e desiderio, e in secondo luogo muove l’universo tramite questi, che fungono in tal modo da principi attivi del divenire in tutto il restante cosmo.

1071a3-7 “Ancora in un altro modo, i principi sono gli stessi per analogia: anche cioè come atto e potenza…” (e[ti d’ a[llon trov p on tw' / aj n av l ogon aj r cai; aiJ auj t aiv , oi| o n ej n ev r geia kai; duvnami" ...) Si intende che vino, carne e uomo sono talora potenzialmente presenti in un determinato sostrato (mosto di vino, nutrimento, embrione), senza ancora essere in atto. C’è dunque differenza fra vino in potenza e vino in atto, fra carne in potenza e carne in atto, fra uomo in potenza e uomo in atto. Si può allora dire che la potenza sia causa dell’atto, ma non tutte le potenze sono causa di qualunque atto, bensì ciascuna è causa dell’atto rispettivo: per questo, potenza e atto intesi come cause sono diversi per i diversi enti, ma sono gli stessi per analogia.

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Di questa sezione come di tutto il capitolo si trova analisi molto attenta in Code, ad loc., che pone al riparo di volta in volta da numerosi fraintendimenti possibili. Su questo punto osserverei tuttavia che, mentre per Code, p. 168, il senso principale espresso da questi esempi è che vino, carne e uomo sono citati come esempi di cause, la nostra analisi indica piuttosto che si tratta di enti da spiegare attraverso le cause, enti in particolare le cui cause sono atto e potenza, almeno in una certa prospettiva e nei limiti precisi della specificità qui sopra evidenziata. Tale infatti è l’argomento principale in corso.

1071a7-11 “Anche questi ricadono nelle cause suddette…” (pivptei de; kai; tau'ta eij" ta; eijrhmevna ai[tia) Qui come altrove, Aristotele non rinuncia a ridurre le cause le une alle altre, così da pervenire a un novero quanto possibile ristretto ed essenziale. Qui, una siffatta riduzione di atto e potenza a forma, privazione e materia, è prospettata come praticabile e consente di coordinare le due teorie come non prive di relazione, ma in qualche modo equipollenti. Poiché, peraltro, questa reductio ad pauca è una delle direttive principali del lavoro aristotelico sui principi (cfr. supra, ad 1070a31-34), non c’è ragione sufficiente per separare queste considerazioni all’interno di parentesi, come fanno Ross e Jaeger.

1071a11-17 “Ma anche in un altro modo differiscono l’essere in atto e l’essere in potenza: differiscono cioè anche per quelle cause che non hanno la stessa materia, né la stessa forma [...] ma sono cause motrici” (a[ l lw" d’ ej n ergeiv a / kai; dunav m ei diafevrei w|n mh; e[stin hJ aujth; u{lh, w|n oujk e[sti to; aujto; ei\do" [...] ajlla; kinou'nta) Il passo, stemmaticamente restituito (cfr. vol. I, ad loc.), prepara a

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breve distanza dal capitolo 6, il ruolo delle sfere celesti come causa, che ivi è centrale, con particolare riferimento al circolo obliquo, sul quale il sole si muove di duplice movimento. Tale moto è causa causata. È causa infatti del ciclo della generazione e della corruzione, come si illustra nel capitolo 6; e ha come causa il primo motore immobile, causa non causata, come si vedrà nel capitolo 7. L’interpretazione tradizionale e corrente tende a minimizzare questo ruolo, tuttavia, e riferisce già la teoria del capitolo 6 principalmente al primo motore immobile.

1071a17-21 “... alcuni termini si possono predicare in universale, altri invece no. [...] Quei principi universali, dunque, non esistono. Infatti degli individui è principio l’individuo...” (ta; me;n kaqovlou e[stin eijpei'n, ta; d’ ou[ [...] ejkei'na me;n ou\n ta; kaqov l ou ouj k e[ s tin: aj r ch; ga; r to; kaq’ e{ k aston tw' n kaq’ e{kaston) Premesso che gli universali coprono un’area limitata della realtà (di modo che anche solo per questo, si può intendere, è escluso che fungano da principi di tutti gli enti), si introduce ora, come una visione concorrente, una considerazione che rende strategica la teoria dell’atto e della potenza introdotta nel corso di questo stesso capitolo 5: solo gli enti individuali, non gli universali e non i generi, sono suscettibili di passare dall’atto alla potenza. Dunque il principio primo è sempre individuale. Si intende infatti che esso agisca su enti individuali. Così, in effetti, erano i principi dei Presocratici: essi erano principio degli enti individuali, come dice l’introduzione di questo libro secondo la lezione qui restituita (L 1.1069a29, cfr. vol. I, ad loc.). Pertanto, in considerazione della contrapposizione implicita alle dottrine accademiche (quelle che cercavano i principi delle definizioni, piuttosto che direttamente delle cose in sé), il senso del brano può risultare chiaro, in questo modo: di ciò che si predica in modo universale si possono postulare

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principi universali, come fanno gli Accademici, ma noi cerchiamo i principi degli enti individuali, come facevano gli “antichi” (1069a29) e questi devono essere enti individuali.

1071a27-9 “E anche quelli che appartengono alla stessa specie hanno principi diversi, non per specie, ma perché un individuo è principio di un individuo, un altro è principio di un altro: ci sono la tua materia, e la forma e la causa motrice, e la mia, sebbene siano identiche nella definizione generale” (kai; tw'n ejn taujtw'/ ei[dei e{tera, oujk ei[dei ajllΔ o{ti tw'n kaqΔ e{kaston a[llo: h{ te sh; u{lh, kai; to; ei\do" kai; to; kinh'san kai; hJ ejmhv, tw'/ kaqovlou de; lovgw/ taujtav) La frase è peculiare e notevole, sia per una certa dissimmetria nell’uso dell’aggettivo possessivo (attribuito a “materia” ma non a “forma” né a “causa motrice”, il che comporta difficoltà già in sede di traduzione; si potrebbe dire che in italiano tale asimmetria è meno sopportabile, eppure non è chiaro se e quanto sia sopportabile o banale in greco), sia per il duplice uso di ei\do", che in una lingua moderna si tradurrebbe probabilmente in due modi diversi. Forse, non è necessario presumere che Aristotele distingua volutamente due sensi della parola ei\do", specie e forma. Ciò, tuttavia, è stato sostenuto da Frede e Patzig, Aristoteles Metaphysik Z, cit., I, p. 48, che proprio sulla base di questo passo vedono la prova dell’individualità della forma. Per poter sostenere questo hanno bisogno di sostenere quello, visto che certo non si potrebbe sostenere che sia individuale la specie, la quale è super-individuale per definizione. L’argomento meriterebbe riflessione in altra sede, proprio perché è stato sovente invocato per l’interpretazione di testi anche diversi da Lambda. Comunque la lettura di quel passo nel contesto di questa lettura continuata di Lambda 5 non conferma, che io veda, una tale scissione fra forma e specie; essa, al contrario, conferma la pertinenza dell’interpretazione,

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scolastica e già attestata in Alessandro di Afrodisia, De providentia, della materia aristotelica (si è detto) come principium individuationis: la materia è diversa, “sua”, “tua” o “mia”. Ma non necessariamente tali sono la forma e la causa efficiente. In effetti ben due volte nel corso della frase la materia ha l’aggettivo possessivo, mentre forma e causa efficiente no. Né d’altronde (per il poco o nulla che possono valere argomenti e silentio) Aristotele distingue mai espressamente qui due diversi sensi di ei\do". Eppure, all’occorrenza, egli tematizza in modo molto sistematico, in Delta e altrove, la differenza fra i molteplici sensi di quei termini che hanno sensi significativamente diversi e molteplici (cfr. in particolare, per i sensi duplici, espressioni quali dicw'" levgetai to;... o ditto;n to; ... in Phys. B 2.194a35s., De an. B 4.415b 2 s., 20 s.; Eth. Eud. 1249b 28).

1071b1-2 “Quali e quanti siano dunque i principi degli enti sensibili, e in che senso siano gli stessi e in che senso diversi, è stato detto” (tivne" me;n ou\n ajrcai; tw'n aijsqhtw'n kai; povsai, kai; pw'" aiJ aujtai; kai; pw'" e{terai, ei[rhtai) Il senso di suddivisione binaria fra le due parti del libro è enfatizzato da questo epilogo che, secondo una ripartizione ormai classica, conclude complessivamente la prima parte di Lambda, quella che verte sui principi della sostanza sensibile in sé considerata. Al tempo stesso, più segnatamente, si chiude qui la sezione corrispondente ai capitoli 4-5, che sviluppa in forma di aporia la questione dell’unità dei principi nelle diverse categorie (come indica la specifica introduzione dell’aporia all’inizio del capitolo 4, 1070a33-35). Ma il tema affrontato nei primi capitoli, se è quello ora indicato, non può affatto dirsi esaurito alla fine di Lambda 5: sarà proprio la seconda parte a portare il contributo più innovativo e decisivo sul tema dell’unità dei principi. Esso è anticipato dai riferimenti al ruolo del sole e del “circolo obliquo”,

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5.1071a15s., e al principio “primo per entelechia”, 5.1071a36, “primo fra tutti i motori, che tutto muove”, 4.1070b34s. Da questi cenni, infatti, si vede che il principio motore, cui l’indagine ora perverrà, costituisce un esito pertinente e privilegiato per l’indagine svolta nella sezione precedente. In tale contesto il suo statuto sarà inoltre privilegiato, perché, a differenza degli altri principi, questo è unico per tutto il reale in senso stretto, non solo in senso analogico, ma sia specifico sia numerico: è uno di numero. Ciò è consentito dalla focalizzazione forte sulla sostanza. In questo c’è un nesso stringente fra le diverse articolazioni del ragionamento, che non conosce vera soluzione di continuità. Lambda 5 esprime sia il criterio per identificare ciò che è sostanza (1070b36s.), sia il principio fondamentale che tutti gli altri enti sono aboliti se sono abolite le sostanze (1071a35). E in Lambda 6, per l’appunto, è il primato della sostanza a fondare l’argomento che ora esordisce (1071b5, cfr. infra, ad loc.): ivi infatti Aristotele userà proprio questa prospettiva transcategoriale per giungere alla dimostrazione di una sostanza immobile.

CAPITOLO 6 [Eternità del cielo e primato dell’atto sulla potenza] Il capitolo 6 ha prologo ed epilogo comuni al capitolo 7; il limite fra l’uno e l’altro non è nettamente marcato (cfr. supra, § 4.6). Questo mostra la volontà di Aristotele di costruire un argomento unico e a se stante, finalizzato nel suo complesso alla dimostrazione di una sostanza non sensibile (cap. 7), passando per la sostanza eterna e sensibile dei cieli (cap. 6). Nel capitolo 6 Aristotele svolge argomenti fondamentali: l’esistenza di un movimento eterno, l’eternità del movimento, l’eternità dell’atto, il primato dell’atto sulla potenza, per concludere all’eternità del cielo nelle prime righe del capitolo 7.

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Fondamentale, in tutta questa parte del libro, è la teoria dell’atto e della potenza, secondo la quale l’atto è attualizzazione di una potenza. Il problema è dunque, come si possa porre, e giustificare nel pensiero, l’esistenza di un atto eterno. Aristotele in 1071b12-22 lavora per eliminazione di possibilità successive, e perviene a postulare una sostanza mobile eternamente in atto, tale cioè che la sua essenza sia atto. Invero, l’eternità dell’atto sembrerebbe contraddetta dalle cosmogonie arcaiche, che in modi diversi pongono all’inizio uno stato primordiale, come una sorta di potenzialità che sarebbe rimasta inattuata per un tempo infinito. Tuttavia, già l’argomento del capitolo 2 ha neutralizzato l’aspetto diacronico delle teorie dello stato primordiale, praticandone una sorta di trascrizione, riadattandone il concetto in termini aristotelici e interpretandolo sincronicamente, come eterna materia e sostrato del divenire. In L 6.1072a4-7, a riprova, Aristotele riprende a citare il pensiero di Anassagora ed Empedocle, sottolineando la presenza eterna (oltre che del principio materiale di cui in Lambda 2) dei rispettivi agenti attivi, nou'" per Anassagora, Amore e Contesa per Empedocle. Proprio per questo, c’è una componente delle dottrine arcaiche, cui la dimostrazione aristotelica non lascia spazio: è la temporalizzazione dell’intervento dell’agente attivo, che direttamente confligge con l’eternità dell’atto che ora si argomenta; tanto è vero che già sopra, quella temporalizzazione si riduce all’assurdo, perché se l’agente attivo primo fosse stato inizialmente inattivo, nulla giustificherebbe il suo passaggio all’atto. Ciò legittima la trascrizione dello stato primordiale come soggiacente e persistente materia. Così, la materia assume il ruolo di potenzialità, e la priorità dell’atto sulla potenza diviene primato dell’agente attivo sul sostrato materiale. Così concepito l’atto eterno, nessun ruolo resta disponibile per la temporalizzazione, per un primo passaggio primordiale dalla potenza all’atto. Anche Platone (con Leucippo, 1071b32) è chiamato a sostegno dell’eternità dell’atto, con riferimento specifico alla sua dottrina dell’eternità del movimento nel principio semovente.

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Confermata così con argomenti sia logici, sia endossali la priorità dell’atto sulla potenza, Aristotele passa a sviluppare le implicazioni di questa priorità (capitoli 6-7.1072a7-21), che sin qui è stata argomentata solo negativamente, per modus tollens: se dunque, per contro, l’atto precede la potenza, non solo il movimento è eterno, ma il mondo è eternamente così, o identicamente, o periodicamente, di modo cioè che il suo stesso mutare, ritornando costantemente allo stesso punto, costituisce una forma cinetica di stabilità e di identità. Ciò, come Aristotele sottolinea, rende possibile pensare l’universo in accordo con i fenomeni, cioè con gli e[ndoxa relativi all’universo. Quando questo è possibile, si può dire che i principi mobilitati siano sufficienti: “a che scopo dunque cercare altri principi?”. Se poi si è già mostrato che, se non si pongono siffatti principi, si cade nell’assurdo – sono state infatti confutate le cosmogonie che fanno nascere l’universo dal caos, ovvero in termini ontologici l’ente dal non ente – allora risulta argomentata la necessità di questa parte della teoria.

I

ETERNITÀ DEL MOVIMENTO

1071b3-5 Annuncio programmatico quanto alla dimostrazione della sostanza non sensibile (che si compirà infra, all’inizio del capitolo 7): tre sono le sostanze, due sensibili e una immobile, secondo quanto si era detto nel cap. 1; bisogna ora dire che è necessario che esista una sostanza eterna immobile. 1071b5-11 Dimostrazione dell’eternità del movimento eterno continuo circolare a partire dall’eternità del tempo. Il principio del primato della sostanza diventa premessa maggiore di un argomento in modus tollens che conclude all’esistenza di una sostanza eterna, cfr. infra, ad loc.

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II

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LA SOSTANZA ETERNAMENTE MOSSA, LA CUI SOSTANZA È ATTO

1071b12-17 Si intraprende la dimostrazione di un ente atto a muoversi eternamente, tale che la sua essenza sia atto, e che il suo atto sia di movimento eterno. Le sue prerogative sono trovate attraverso possibilità successive. I passaggi, tipicamente, sono tre (secondo uno schema ricorrente, nel libro Lambda, cfr. cap. 9 e la relativa premessa qui infra), e il primo è questo: ciò che si muove eternamente non può essere una potenzialità che non agisca: non sarebbe di alcuna utilità; né lo sono enti eterni al modo delle idee. 1071b17-19 L’eterno mosso non può essere nemmeno un ente che agisce, ma la cui essenza è potenzialità: il moto non sarebbe eterno. È dunque atto per sua natura, essenza che non può mai essere in potenza – e che in questo senso specifico di potenza e di materia, non ha materia. Solo così, ciò che agisce può essere in atto per sua natura, essere cioè sempre, assolutamente in atto.

III

IL PRIMATO DELL’ATTO SULLA POTENZA

1071b22-24 Primato dell’atto sulla potenza: si solleva un’aporia. 1071b25-31 Dimostrazione per assurdo: la potenza non può essere anteriore all’atto. 1071b31-33 Conferme per e[ndoxon: alcuni, come Leucippo e Platone, pongono il movimento come eterno (a differenza delle cosmogonie presocratiche, che fanno apparentemente cominciare il movi-

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mento nel tempo – a meno appunto che non vengano reinterpretate e rivedute). 1071b33-37 Necessità di integrare le loro teorie, altrimenti insufficienti, perché tacciono sulla relazione fra i diversi modi e fra le cause del movimento. 1071b37-1072a3 Platone pone il semovente (to; aujtokivnhton), ma non lo sa spiegare, né identificare adeguatamente: dice che è l’anima; eppure per lui l’anima non è anteriore al cielo. 1072a3-5 Rinvio a precedente esame sul senso nel quale la potenza preceda l’atto (in possibile riferimento a Theta 6). 1072a5-7 Conferme ulteriori per e[ndoxon: che l’atto precede la potenza è attestato da Anassagora con la teoria del nou'", da Empedocle con la dottrina dell’Amore e della Contesa, e da coloro che come Leucippo ritengono che il movimento sia eterno.

IV

UN

DUPLICE MOVIMENTO ETERNO COME CAUSA DELL’ETERNO

CICLO DELLA GENERAZIONE E DELLA CORRUZIONE

1072a7-18 Ruolo del primo movimento circolare per spiegare l’eterna permanenza del cosmo; ruolo di un secondo movimento per assicurare in esso l’alternanza ciclica di generazione e corruzione (secondo la dottrina di De gen. et corr. B 10, già tematizzata nell’Accademia, come attesta il platonico Timeo).

COMMENTO

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1072a18 (Ricorso a un principio di economia) “Perché cercare altri principi?”

1071b3s. “E poiché le sostanze erano tre, e due erano quelle naturali, una quella immobile...” (’Epei; d’ h\san trei'" oujsivai, duvo me;n aiJ fusikai,; miva dΔ hJ ajkivnhto"...) Caratterizza questa frase il verbo all’imperfetto, h\san, che richiama una specifica tripartizione dei tipi di sostanza, quella di L 1.1069a30-33. Il significato di h\san, “erano”, dunque non è esistenziale, ma rimanda al modo nel quale si sono distinti tre tipi di sostanza. Infatti Lambda 1 (1069a30-36) non afferma ancora l’esistenza di una sostanza immobile, ma si limita a indicarne la posizione nel contesto di una partizione diairetica dei tipi di sostanze: non prende posizione né a favore, né contro i tine" che dicono che essa esista separatamente, alcuni identificandola con le forme e con gli enti matematici, altri solo con gli enti matematici (1.1069a33-36). Tale dunque è lo scopo della dimostrazione che qui comincia.

1071b4s. “Riguardo a quest’ultima bisogna parlare, e dire che è necessario che esista una sostanza immobile” (peri; tauvth" lektevon o{ti ajnavgkh ei\nai aji?diovn tina oujsivan ajkivnhton) L’aggettivo verbale da verbum dicendi (lektev o n) unito a complemento di argomento è formula consueta in Aristotele per indicare il programma di una trattazione incipiente. Il fatto che esso sia preceduto da una succinta ricapitolazione di quanto già sopra illustrato (in questo caso: “c’erano tre sostanze”) è altrettanto tipico del modo aristotelico di introdurre un nuovo argomento (cfr. e.g. Fazzo, Esordi e trattati, cit. supra, n. 12). In questo caso la formula comporta una sorta di raddoppio: peri;

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tauvth" è riferito alla ajkivnhto" (oujsiva) appena menzionata; nondimeno lo sviluppo successivo della frase ripropone l’indicazione di quella sostanza expressis verbis come soggetto della proposizione infinitiva ei\nai ajid? iovn tina oujsivan ajkivnhton. Perché Aristotele ha scritto così questa frase? Qual è l’effetto di questa sorta di ridondanza? Qual è il contenuto informativo di questa ripetizione? In realtà, sembra che ci sia una sorta di cesura fra le due parti del periodo: esse si riferiscono entrambe alla sostanza immobile, ma in modo sostanzialmente diverso, al punto che il termine di riferimento è solo parzialmente lo stesso. Se avessero ragione coloro che, già nel XIX secolo, avevano pensato a una genesi diversa delle due parti del libro (1-5, 6-10), questo potrebbe essere un indizio ulteriore, perché si immaginerebbe un esordio di sezione di tipo meglio noto, per esempio meta; tau'ta lektevon o{ti ..., che si sarebbe trasformato per incorporare un raccordo con l’introduzione del libro. Spostandosi d’altronde il focus su ajnavgkh ei\nai, la ripetizione in esame non manca né di espressività, né di un certo contenuto informativo. Per questo, in effetti l’argomento indicato non è veramente identico prima e dopo. Ci sono inoltre due differenze notevoli. Una è la comparsa, nella seconda menzione della sostanza immobile (1071b3), dell’aggettivo aj i ? d ion. È un’aggiunta significativa: il discorso sul primo motore acquisisce una dimensione temporale, come è proprio dell’ambito della fisica. Nel cap.1 invece quell’iniziale partizione fra sostanza sensibile e sostanza immobile aveva natura dialettica, e ajid? ion compariva solo in riferimento a una parte della sostanza sensibile147. Inoltre, mentre nella prima parte della frase la sostanza immobile compare come soggetto – questo è infatti hJ 147

In questo senso ci può essere differenza di implicazioni fra aji?dion e ajeiv. Come infatti sottolinea Berti, ad loc., p. 184, ajeiv può significare non solo sempre (cioè per l’eternità) ma anche “ogni volta”, e, in tal senso, “in ogni caso”.

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ajkivnhto" (oujsiva) con articolo determinativo – nella seconda, invece, essa è soggetto della proposizione dichiarativa aji?diovn tina oujsivan ajkivnhton con aggettivo indefinito. Il dettaglio reclama attenzione se non altro perché la progressione nel linguaggio naturale è di segno contrario, da indeterminato a determinato (per es.: “C’era una volta un re. Un giorno il re disse ...”). La presenza dell’articolo determinativo in quella prima occorrenza della sostanza immobile in Lambda 6 (hJ aj k iv n hto", sott.: ouj s iv a ) si spiega con il riferimento alla tripartizione in L 1.1069a33, che distingueva diversi tipi di sostanze. In particolare il rimando è ad a[llh de; ajkivnhto" in 1069a33, cioè a quella tipologia di sostanze separate la cui esistenza è affermata dagli Accademici, che pure si dividono fra loro quanto al modo di intenderla (cfr. 1069a33-36). Era dunque un concetto, oltre che dialettico, dossografico (i due piani si confondono sovente in Aristotele), ma non direttamente ontologico. D’altra parte, l’aggettivo indefinito tina che compare in 1071b5, associandosi a ei\nai, ne rinforza il valore esistenziale, come avviene anche in L 7.1072a21, e come nella Fisica, e.g. Q 5.258b11, 14; 5.259a14, 21. Così, nella sua seconda occorrenza all’interno dello stesso periodo, aji?diovn tina oujsivan ajkivnhton, la sostanza immobile appare finalmente come una precisa realtà (ciò che non era in L 1 e nemmeno nel luogo parallelo di Z 2), della quale ora si devono affermare positivamente, sia l’esistenza (lo ei\nai), e anzi l’esistenza nel tempo come l’aggettivo aji?dion comporta148, sia la necessità. In questa necessità consiste uno dei suoi predicati, sviluppato in 7.1072b10. Laks, infatti, per introdurre la sua analisi del capitolo 7, usa questa frase del capitolo 6, lektevon o{ti ajnavgkh ei\nai aji?diovn tina oujsivan 148 Cfr. e.g. M. KERKHOFF, L’occasion de penser: le dieu de Métaphysique L, 7: “aidios” in “aionios”?, in M. NARCY-A. TORDESILLAS, La Métaphisique, cit., pp. 215-26.

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COMMENTO AL LIBRO LAMBDA DELLA METAFISICA DI ARISTOTELE

ajkivnhton, come chiave di lettura per l’intera sezione costituita dai capitoli 6 e 7. In particolare Laks mostra come ognuno dei predicati (eternità, esistenza come sostanza, immobilità, così come anche alcuni predicati ulteriori) trovi specifica corrispondenza in una parte del capitolo 7. Lo stesso Laks solleva qui – forse per primo – la questione del valore del pronome indefinito tina, e mette allora espressamente da parte l’opzione secondo la quale tina, significando “un certo tipo”, riassumerebbe virtualmente le ulteriori caratteristiche della sostanza immobile che il testo qui non evoca ancora (il suo essere priva di potenzialità non attuata, cfr. 1071b20, immateriale, 1071b21, oggetto di desiderio e di pensiero, 1072a26b3, vivente che vive la vita migliore, 1072b14-30): in tina si riassumerebbero invece i predicati ora in questione, che consentono di contrapporre la sostanza in esame alle sostanze sensibili i cui principi sono discussi nei capitoli 2-5 (cfr. anche infra, 1073a4). Inoltre Laks ha sottolineato l’implicazione di esistenza nel verbo ei\nai. L’implicazione di esistenza, nella misura in cui è tale, costituisce in effetti un progresso fondamentale e un tratto caratteristico di questa pagina rispetto alla sua anticipazione tematica in L 1.1069a 33-36.

1071b5-9 “Le sostanze infatti sono prime fra gli enti, e se sono tutte corruttibili, tutti gli enti sono corruttibili. Ma non è possibile che si generi o corrompa il movimento – infatti c’è da sempre – e nemmeno che si generi o corrompa il tempo, dato che il prima e il dopo non possono esistere se non c’è il tempo” (ai{ te ga;r oujsivai prw'tai tw'n o[ntwn, kai; eij pa'sai fqartaiv, pavnta fqartav: ajll’ ajduvnaton kivnhsin h] genevsqai, h] fqarh' n ai, aj e i; ga; r h\ n , ouj d e; crov n on, ouj ga; r oi| o v n te to; provteron kai; u{steron ei\nai mh; o[nto" crovnou) Il principio del primato della sostanza ora invocato diventa premessa maggiore di un sillogismo ipotetico in modus tollens

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(come Berti, ad loc., p. 183 ha evidenziato) che conclude per absurdum all’esistenza di una sostanza eterna ed eternamente mossa, e può essere così analizzato: (a) se tutte le sostanze sono corruttibili, lo saranno anche tutti gli altri enti (che si predicano della sostanza secondo le altre categorie); (b) ma non tutti gli enti sono corruttibili; (c) dunque non tutte le sostanze sono corruttibili. Ivi, la premessa (a) si desume dal postulato dello statuto separato della sostanza e della dipendenza ontologica delle altre categorie, affermato in L 1.1069a21-24; la premessa (b) consiste nell’ingenerabilità del movimento e del tempo e viene dimostrata contestualmente; mentre la conclusione (c), negativa, resta sottintesa, per poi articolarsi ulteriormente nel seguito della dimostrazione. In sede di ricostruzione analitica, è utile esplicitarne l’implicazione positiva: l’esistenza di almeno una sostanza non corruttibile; più precisamente, si tratta dell’esistenza di quella sostanza, senza la quale non sussistono gli enti ingenerabili e incorruttibili dei quali (b) rileva l’esistenza: il tempo e il movimento. In particolare, nel testo di questo lemma, a partire dal primato della sostanza (sul quale cfr. la nota seg., ad 1071b5s.), si possono collocare due argomenti di analoga struttura logica, il primo dei quali non è interamente esplicito, ma è condizione e contesto del secondo: - b5-9 (se c’è movimento, c’è sostanza: il movimento è affezione della sostanza); - b9-11: se c’è tempo, c’è movimento: il tempo è affezione del movimento o identico al movimento. Ma il tempo è eterno, dunque c’è un movimento che è eterno al modo in cui è eterno il tempo (dunque c’è una sostanza eterna). Peculiare di entrambi gli argomenti in b5-9 e b9-11, è il modo in cui Aristotele sovrappone l’analisi dei sensi dell’ente secondo le categorie, propria dei Substanzbücher della Metafisica,

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specie Zeta, a quella, svolta nella Fisica, del mondo naturale come soggetto del divenire e del mutamento. In particolare, è richiamata da Fisica Q 1, e qui perfezionata, la dimostrazione dell’eternità del movimento, poi quella del tempo 149; e su questa base appunto si argomenta l’eternità di una sostanza, tale da muoversi di quel movimento, che sia così eterno e continuo come è continuo il tempo. Fondativa, qui e non nella Fisica, è la distinzione fra la sostanza e gli altri modi dell’ente, che vengono meno se viene meno la sostanza (cfr. ajnairei'tai ajnairoumevnwn, 5.1071a35). In tal senso il movimento sta dalla stessa parte rispetto alle affezioni e alle categorie, qui come già in L 1.1069a21s. Infatti, poiché il movimento è un’affezione della sostanza, se c’è movimento, c’è sostanza. Per questo, dunque, la sostanza, della quale il movimento è affezione, è eterna. Questa parte del ragionamento resta però in ombra nelle esegesi tradizionali, che poco vi si soffermano, focalizzando, infatti, sin da qui, l’attenzione sulla dimostrazione della sostanza non soggetta a movimento e non sensibile, della quale si darà prova all’inizio del capitolo seguente. Su 1071b5s. e 1071b9-11 cfr. anche qui infra, ad loc. La frase “Le sostanze sono prime fra gli enti, e se sono tutte corruttibili, tutti gli enti saranno corruttibili” (ai{ te ga;r oujsivai prw'tai tw'n o[ntwn, kai; eij pa'sai fqartaiv, pavnta fqartav, 1071b5s.) costituisce lo snodo fondamentale che connette il contesto e il modo di indagine caratteristici dei Substanzbücher, cui L 1-5 per più aspetti si avvicina, e il tema proprio di L 6-8.

149

Cfr. M. CRUBELLIER, Premiers principes métaphysiques de la science, cit. Ivi peraltro l’autore sostiene che, per esser ben compiuta, la dimostrazione dell’eternità del movimento, secondo la quale il movimento non può finire se non lo fa finire un altro movimento, avrebbe dovuto fare leva sul fatto che il movimento presuppone un mobile, e per l’appunto il corpo mobile non può venir meno se non a causa di un altro movimento di un altro corpo mobile. Questo passo ulteriore sembra in effetti compiersi in Lambda 6.

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Essa comporta un rinvio al primo esordio del libro (1069a19-24). Sintetizza infatti l’assunto di L 1 (1069a19-21, parallelo a sua volta, con le differenze segnalate ad loc., a Z 1.1028a10-b2). Il gavr in b5 pone in connessione l’assunto da dimostrare, enunciato in b4, e la sua argomentazione, instaurando una tensione che si risolve solo alla fine della dimostrazione principale. Poiché dunque l’arco della dimostrazione non si esaurisce in questo enunciato, il gavr si riferisce non solo a questa frase e alla successiva (“se sono tutte corruttibili, tutti gli enti saranno corruttibili”), che è legata a questa tramite la correlazione te ... kaiv, ma a tutta la sezione ora intrapresa, fino a L 7.1072a26: tanto infatti dura la dimostrazione dell’esistenza di una sostanza immobile. A questa sono subordinati sia l’argomento sul moto eterno in 1071b6-11, sia la discussione sulle prerogative della sostanza eternamente mobile (cfr. anche la nota in proposito qui infra). Aristotele trae conseguenza dal postulato dello statuto separato della sostanza e della dipendenza ontologica delle altre categorie, affermato in 1069a21-24. Il tema era ricomparso nella parte successiva del libro, sintetizzato all’inizio del capitolo L 5, in 1070b36-1071a2, in particolare dove dice: “le altre categorie non esistono senza la sostanza”, prima che in chiusura dello stesso capitolo, in sede di ricapitolazione, nella formula ajnairei'tai ajnairoumevnwn (1071a35). Ci si potrebbe interrogare sulla relazione fra il principio dottrinale ora enunciato (“le sostanze sono prime fra gli enti”) e quello seguente (“se le sostanze sono tutte corruttibili, tutti gli enti saranno corruttibili”), che diverrà premessa della dimostrazione per modus tollens. Volendoli leggere in reciproca continuità, si potrebbe dire che la primarietà della sostanza, che è un principio generale, significa e comporta che gli enti vengono meno se viene meno la sostanza. Ma i due principi sono comunque separati. Notevole in tal senso è la presenza del te in b5, cui fa riscontro kaiv alla riga successiva. Va tenuto in generale presente che il nesso te gavr, secondo Stephanos, TGL, non è uno di quelli in cui il te sia pleonastico;

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talora, piuttosto, te gavr non si distingue da kai; gavr, ma può equivalerlo. In ogni caso dunque ci troviamo di fronte a una correlazione, la cui lettura più naturale indica che gli argomenti sono due e non si identificano: esiste una sostanza eterna immobile perché (i) le sostanze sono prime fra gli enti (qui si può intendere che dunque il principio degli enti, sostanze incluse, dev’essere una sostanza: ciò che non è sostanza, infatti, non può essere causa della sostanza); d’altra parte (ii) nessun altro ente esiste separato dalla sostanza, dunque, visto che c’è almeno un ente eterno, esiste almeno una sostanza eterna. Se ci atteniamo a (i) nella sua formulazione più generale, (ii) ne costituisce un’istanza possibile, non tuttavia l’unica: ci sono altri tipi di primato che la sostanza può contare sulle altre categorie (nel tempo, nella definizione...). Così, i due argomenti sono in parte irriducibili. Cfr. L 1.1069a19-24, dove e[ti separa nettamente i due argomenti: kai; ga;r eij wJ" o{lon ti to; pa'n, hJ oujsiva prw'ton mevro" [...]. e[ti oujde;n tw'n a[llwn cwristovn.

1071b9-11 “Anche il movimento dunque è continuo al modo in cui è continuo il tempo, visto che il tempo, o è identico al movimento, o è un’affezione del movimento. D’altra parte, nessun altro mutamento è continuo, tranne il movimento locale, e fra quelli locali, il movimento circolare” (kai; hJ kivnhsi" a[ra ou{tw sunech;" w{sper kai; oJ crovno", h] ga;r to; aujto; h] kinhvsewv" ti pavqo". kivnhsi" d’ oujk e[sti sunechv", ajll’ hJ kata; tovpon, kai; tauvth" hJ kuvklw/) Dialetticamente si dimostra che c’è tempo, dunque c’è movimento e specificamente c’è un movimento continuo ed eterno al modo in cui lo è il tempo – che è continuo, regolare, uniforme. Di qui si inferirà che c’è una sostanza eterna che di tal movimento si muove, e nella fattispecie c’è, per tutta la durata del tempo, una sostanza che permane nel tempo, come soggetto di un tale movimento.

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A questo cruciale argomento, senza il quale non si riuscirebbe a costruire la dimostrazione del motore immobile, si potrebbe obiettare in diversi modi, ascriverlo a una qualche forma di aristotelica ingenuità. Se invece si considera che Aristotele ragioni sulle condizioni di possibilità di una teoria generale della sostanza, allora l’apparente debolezza diventa un punto di forza, importante ed influente. Si ha infatti l’indizio di quale sia il peculiare carattere della costruzione teoretica in corso: essa non prende direttamente e semplicemente posizione sulla natura dell’oggetto dell’esperienza, ma cerca le regole costitutive di un sistema di conoscenza ben formato (cfr. anche supra, § 4.1 e n. 77; § 3.2). Ivi dunque si deve ammettere l’eternità del tempo e del movimento. Questa eternità, secondo l’argomento, presuppone una sostanza che si muove per tutta l’eternità del tempo. Il passaggio, di qui, a una sostanza motrice che per nulla si muove, priva di grandezza e indivisibile, dunque non sensibile, è costruito secondo una logica ferrea e quasi stringente, almeno nel contesto di costruzione teorica che è proprio della presente dimostrazione. Indubbiamente, il passaggio non è facile: ma è stato laboriosamente preparato nel corso del libro Q della Fisica. Si noti, a riprova dell’impegno profuso da Aristotele in questa progressione logica, che ancora in Phys. Q 1, in realtà, egli non dimostra l’esistenza di un movimento eterno. Ivi il movimento appare eterno piuttosto come genere che come identità numerica: l’argomento mostra che è sempre esistito movimento, ma non necessariamente uno stesso, unico movimento. È qui in Lambda invece che Aristotele postula un movimento così continuo “come anche il tempo” è continuo (w{sper kai; oJ crovno"): in modo cioè regolare e uniforme (né potrebbe infatti rallentare o accelerare, Phys. D 12.220b1, se di questi fenomeni è numero il tempo, Phys. D 11.219b1). Dove dice: “d’altra parte, nessun altro mutamento è continuo, tranne il movimento locale, e fra quelli locali, il movimento circolare”, chiaramente Aristotele riassume

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l’argomento degli ultimissimi capitoli della Fisica, cfr. in part. Phys. Q 8-9.261b27-265a27.

1071b12-22 “Ma se c’è un principio che ha potenza di muovere [...] Dunque sono in atto” (’Alla; mh;n eij e[sti kinhtiko;n h] poihtikovn [...] ejnergeiva/ a[ra) Il testo sottintende una parte delle determinazioni. Va necessariamente interpretato. È ciò che qui intendo fare, sempre con un certo grado di indipendenza dalla tradizione esegetica. Si tratta, probabilmente, del corpo mobile che si muove del primo movimento, eterno e circolare. Un tale moto presuppone un elemento motore e un elemento mosso. L’eternità del moto presuppone e, per converso, dimostra, il primato dell’atto sulla potenza, e questo costituisce il senso della sezione successiva, che comporterà una ripresa della dimostrazione svolta nel libro Theta. In 1071b12-17, in primo luogo, si esprime l’ipotesi di un potenziale agente attivo che non agisca su alcun potenziale soggetto passivo: è una potenzialità non attuata. Come le ipotesi successive, tranne l’ultima, essa ha valore dialettico, è cioè presentata per essere scartata, così da mostrare, per esclusione, la necessità di un atto eterno e privo di potenzialità. Segue, in 1071b12-17, l’ipotesi di un motore che agisca ma possa non agire. Come terza possibilità, rimanente per esclusione, in 1071b17-22, resta che il moto eterno sia moto di ciò la cui essenza è atto privo di potenza, e che è cioè puramente in atto. La formulazione di quest’ultimo concetto si accorda con quella relativa alla natura delle sostanze celesti in Q 8.1050b16-28 (cfr. infra, ad 1071b22). In tutto questo, però, più punti non sono del tutto chiari in sé e richiedono interpretazione. “Ma se c’è un principio che ha potenza di muovere o produrre effetto, che però non agisce...” (ΔAlla; mh;n eij e[sti

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kinhtiko;n h] poihtikovn, mh; ejnergou'n dev ti, 1071b12s.), è la frase di esordio dell’argomento, ma il suo senso è controverso. Non è risultato chiaro che cosa significhino i due termini kinhtiko;n h] poihtikovn, né quale sia la loro funzione nell’argomento. Giovano pertanto alcune considerazioni al riguardo. Innanzitutto, si noti che i paralleli con Phys. Q, libro fortemente presente come ipotesto di questa sezione (cfr. anche 1073a5-7), indicano e precisano il significato probabile del suffisso -ikovn in questo contesto: potenzialità, e specificamente potenzialità attiva (kinhtikovn come correlativo di kinhtovn, nel qual caso -htovn indicherà potenzialità a subire il mutamento). Aristotele, di qui fino alla riga 1071b17, introduce la meno efficace fra le ipotesi disponibili quanto alla relazione fra atto e potenza nella parte eterna del cosmo: quella appunto secondo la quale l’ente in potenza (kinhtiko;n h] poihtikovn) non passa per nulla all’atto. Ciò sarebbe possibile, per esempio, in presenza di un agente potenzialmente attivo, ma in assenza di un principio capace di mutare in corrispondenza, cfr. 1071b15s. Questa prima possibilità, come la seconda (quella di un motore la cui essenza è potenza che passa all’atto – dunque l’atto che ne risulta può arrestarsi, 1071b17-19), è presentata per essere scartata, dialetticamente. Per analogia si può dire che è come la possibilità di un intelletto che dorma in Lambda 9 (e in De an. B). Pertanto, non è fuori luogo che Aristotele ha ragionato qui in astratto, lasciando indeterminati il ruolo e la natura dei due termini kinhtiko;n h] poihtikovn. Va tuttavia menzionato che essi hanno una storia esegetica rilevante, specie perché la tradizione vi ha letto il primo riferimento al motore immobile. Dal loro intendimento può in effetti dipendere la rappresentazione che Aristotele dà di quel primo principio. Al riguardo la discussione recente è stata particolarmente vivace (come mostra la bibliografia già citata supra, “Prologo”, n. 8). Anche negli Atti stessi del Symposium editi nel 2000, si è manifestato dissenso fra Enrico Berti e André Laks. Per Berti infatti (forte, aggiungo, di paralleli sia nella Fisica che in

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Metaph. Q), il suffisso -ikovn mostra che Aristotele concepisce il motore immobile come causa efficiente. Laks però ha risposto che l’indizio è troppo debole, perché in sé tale suffisso -ikovn indica solo genericamente una certa relazione con ciò che si trova espresso dalla radice tematica. D’altra parte, in sede di discussione seminariale a Lille, Laks è ulteriormente intervenuto in proposito, osservando che, se pure, come Berti indica, il termine così indicato ha probabilità di essere un motore, non ha però bisogno di essere ancora il primo motore immobile. È ancora, per così dire, un motore neutro, e come tale va considerato fino al capitolo Lambda 7 (per ulteriori contributi al dibattito, fra cui Gourinat in risposta a Berti e Broadie, e Berti in risposta a Gourinat, cfr. supra, n. 8). Nella generale prospettiva di lettura qui adottata, insomma, non risulta affatto strano che un tale, potenziale soggetto del verbo “muovere” (in diatesi attiva o passiva che sia) compaia senza riferimento ad alcuna realtà empirica particolare. In effetti, non c’è necessità di attribuire questo termine al primo motore immobile; è a questo stadio, una funzione logica, invocata per congettura. Come tale funzione vada intesa, nel contesto della teoria dell’atto e della potenza, è stato ora detto, ma diverrà forse più chiaro considerando altri esempi dello stesso tipo di progressione logica, uno dei quali si trova nel capitolo Lambda 9 (1074b17-21). “Dunque, non c’è alcuna utilità , né se postuliamo sostanze eterne, al modo dei fautori delle idee, se non ci sarà dentro un principio capace di mutare” (oujde;n a[ra o[felo", oujd’ eja;n oujsiva" poihvswmen aji>divou" w{sper oiJ ta; ei[dh, eij mhv ti" dunamevnh ejnevstai ajrch; metabavllein, 1071b14-16) è frase qui tradotta con la maggior indipendenza rispetto a una tradizione consolidata, che intende il principio capace di metabav l lein come principio attivo, come un motore, in particolare un motore immobile. Questo va però contro l’uso intransitivo nettamente prevalente in greco e in Aristotele;

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inoltre contro la presenza del verbo ejnevstai “esserci dentro”, che si addice aristotelicamente a ciò che è in un sostrato piuttosto che al motore immobile; e contro l’uso del participio dunamevnh, che, di nuovo, si attaglia alla potenzialità passiva del sostrato e non alla pura attualità del motore immobile, cfr. I, Nota ad 1071b15s. Nell’argomento, la frase indica probabilmente il soggetto mosso di movimento circolare uniforme, in assenza del quale, tale movimento non può avere luogo. Per questo non servono le idee né enti eterni siffatti, se non c’è nulla che essi pongano in movimento. La conclusione in 1071b19s. “Bisogna dunque che esista un principio tale, che la sua essenza (oujsiva) sia atto” presenta l’uso di oujsiva con genitivo dipendente, cioè nel senso relativo di sostanza/essenza. (Va sottolineata la differenza: altro è per Aristotele dire che di un ente l’essenza è atto, altro è dire che esso è atto. Il primo passo è stato compiuto da Aristotele, il secondo, no. Per questo è fondamentale mantenere il dativo nella conclusione più sintetica in 1071b22, cfr. infra). L’osservazione in 1071b20s. “inoltre, queste sostanze devono essere senza materia: devono infatti essere eterne, se davvero esiste anche qualcos’altro di eterno” (e[ t i toiv n un tauvta" dei' ta;" oujsiva" ei\nai a[neu u{lh": aji>divou" ga;r dei', ei[per ge kai; a[llo ti aji?dion) richiede una pausa di riflessione. Indubbiamente, questa frase ha avvalorato la lettura di tutto il brano in riferimento al primo motore immobile. Dice infatti che le sostanze in esame sono senza materia. È vero che il plurale è inatteso (la dimostrazione è annunciata al singolare in 1071b4s.), ma lo si considera solitamente un’anticipazione della teoria della pluralità dei motori in Lambda 8. Ciò che però non viene solitamente spiegato è l’incatenarsi dell’argomento: si tratta di sostanze che devono essere senza materia in quanto devono essere eterne. Ciò significa che tali sostanze risultano prive di materia nel senso corrente e più stretto, ma non in ogni senso possibile del termine (come e.g. in H 5.1044b27s.: non c’è materia di tutte le cose ma solo di quelle

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che mutano le une nelle altre; cfr. anche i diversi sensi di materia in Q 8.1050b22 e 28): resta salva la possibilità di quella materia che è specifica delle sostanze eterne e mobili: materia solo “del da-qui-a-lì” (cfr. supra, 2.1069b21s. e Q 8.1050b21s., di cui ho trattato in Heavenly Matter, cit.). In 1071b22, infine, come qui sopra argomentato, dove dice “dunque in atto” (ejnergeiva/ a[ra, cfr. Q 8.1050b22 e 28) leggo ejnergeiva/, cioè appunto “in atto”, come Bekker, che seguiva anch’egli il codice E (lezione ora reperita anche nella famiglia b della tradizione). Ross e Jaeger hanno preferito invece “atto”, ejnevrgeia, la lezione in nominativo di Ab (tale essa è infatti almeno apparentemente; ma in questo codice la differenza non è ben rimarcata, cfr. I, § 1.6.3): essi condividono la duplice e diffusa convinzione (cui ho portato obiezione in Fra atto e potenza, cit.) che qui Aristotele parli già del primo motore immobile, e che qui ed altrove egli si riferisca ad esso come ad un “atto puro”. In realtà, come sto spiegando altrove, quest’ultima nozione è introdotta proprio a proposito di questo passo da Ibn Rushd (ad loc.) in concomitanza con un errore di trasmissione in 1071b20 (il pronome in genitivo non è tradotto nella versione araba di Abû Mattâ ibn Yûnus che accompagna il suo Commento Grande, p. 1563, 2 Bouyges). È pertanto più prudente rinunciare a questo concetto nell’esegesi di questo capitolo. Se ora riteniamo, come propongo, che Aristotele stia parlando della sostanza eternamente mossa, la lezione “in atto” è confermata anche dal parallelo con Metaph. Q 8.1050b18: i cieli sono in atto e la loro oujsiva (che qui converrà tradurre “essenza”, o “sostanza” nel senso di “essenza”, come quando questo termine è costruito con un genitivo) non è potenza. Ciò probabilmente comporta già in Theta 8, data la natura polare dei concetti di atto e potenza in Aristotele, che la oujsiva dei cieli, così intesa, sia atto. Per questo essi sono in atto, e in atto sempre. L’atto in questione, peraltro, è ragionevolmente identificabile con l’attività che li caratterizza: il movimento eterno, circolare,

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uniforme; tale è la forav cui si riferisce infra, 7.1072b5, cfr. n. ad loc. Questo non è bastato per indurre Aristotele a dire i cieli sono atto: come si evince dall’esame comparato di questi passi di Theta e di Lambda, ciò che è sempre in atto, e la cui essenza (oujsiva) è atto, non per questo è detto essere, tout court, atto. Quello di atto infatti è un concetto relazionale, come dice peraltro Aristotele nel capitolo Lambda 5: di enti diversi, l’atto è diverso. E, data la natura ipertestuale della scrittura di Lambda, non c’è ragione di credere che qui egli faccia uso di un concetto, come quello di atto, in modo diverso rispetto a quanto teorizzato nella trattazione più specifica ad esso dedicata – il libro Theta (cui si riferisce peraltro, probabilmente, poco oltre, in 1072a3). Cfr. anche su analogo problema il commento a 1075a5s. Di questo tema mi occupo specificamente in Mover in Act or Mover as Act? About the Mistery of a Subscript Iota, in C. Horn (a c. di), Aristotle, Metaphysics Lambda – New Interpretations, Franz Steiner Verlag, Stuttgart (in corso di stampa).

1071b22-24 “Eppure c’è un’aporia. Sembra infatti che tutto ciò che agisce, abbia potenza di agire, ma non tutto ciò che ha potenza di agire, agisca; cosicché, la potenza verrebbe prima ” (kaivtoi ajporiva: dokei' ga;r to; me;n ejnergou'n pa'n duvnasqai, to; de; dunavmenon ouj pa'n ejnergei'n, w{ste provteron ei\nai th;n duvnamin) Si introduce così un’aporia, che sarà poi sviluppata su entrambi i fronti, pro e contro, indicando le ragioni e le difficoltà di entrambe le soluzioni. Secondo Michele di Efeso, l’affermazione “sembra che” ha valore dialettico, come preparata per la confutazione, il che indubbiamente è anche vero. Ma l’aporia non è facile. La soluzione, prodotta nella parte finale del capitolo, è laboriosa; e il commento finale, all’inizio del capitolo 7, all’ottativo (“queste difficoltà si possono risolvere”, ovvero

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“bisogna che queste difficoltà si risolvano”, 1072a20s.), non esprime ottimismo assoluto, quanto alla soluzione testé presentata, cfr. infra n. ad loc.

1071b33s. “Ma non dicono perché, né quale, né in qual modo, né la causa” (ajlla; dia; tiv kai; tivna ouj levgousin, oujdΔ wJdi;, oujde; th;n aijtivan) Il senso di questa obiezione a Platone (e Leucippo) si evince meglio dalla continuazione del passo, che esemplifica la risposta possibile, b35s.: il punto sembra essere che essi (come molti Presocratici) mancano di distinguere cause diverse per i diversi modi del movimento circolare, come invece intende fare Aristotele nella parte finale del capitolo 6.1072a7-18.

1072a9s. “Se dunque è sempre identico periodicamente...” (eij dh; to; aujto; ajei; periovdw/) Caratteristicamente, manca alla frase un soggetto espresso o facilmente sottinteso (come anche avviene poco sotto, in 7.1072a19). Si intenderà facilmente “l’universo”, in riferimento alla convinzione che gli astri a un certo punto tornino tutti periodicamente nello stesso luogo. Questa convinzione infatti era diffusa, in forme diverse e a diversi livelli di analiticità. Qui, ci si riferirà probabilmente al ritorno del sole nella stessa posizione sul circolo dell’eclittica, e al rinnovarsi e ripetersi del ciclo stagionale; nondimeno, altrove, una simile dicitura potrebbe riferirsi anche al ripetersi preciso di ogni determinata configurazione astrale (tenuto conto in specie della posizione dei pianeti visibili) in un determinato (e a rigore molto elevato) numero di anni. Ma in questo caso, appunto, il modello invocato è semplice; ed è chiaro che Aristotele si riferisce piuttosto al ciclo stagionale.

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Soprattutto, è interessante questa assenza di un soggetto determinato, che è con ogni probabilità deliberata, atta cioè a mantenere il ragionamento in termini funzionali e non reificati, non riferiti a una determinata realtà o sostanza fisica.

1072a10 “Bisogna che permanga qualcosa che agisce sempre allo stesso modo” (dei' ti ajei; mevnein wJsauvtw" ejnergou'n) È, verosimilmente, il principio capace di agire o produrre (kinhtiko; n h] poihtikov n ) indicato in 1071b12-20. Questo passo costituisce la miglior conferma dell’interpretazione qui proposta di quelle righe, secondo la quale lì Aristotele parlerebbe, separatamente ma in modo analogo, prima, del principio potenzialmente motore, poi, del principio mobile: sono, questi, i due elementi concettuali di quel tipo singolare di sostanza che si muove eternamente (e che Platone ha considerato come “semovente”, identificandola con l’anima; mentre per Aristotele non può essere l’anima, che non è corporea e non è mobile, ma dev’essere il corpo animato, fermo restando che esso non sarà semovente in assoluto, ma nel complesso, avendo una componente mossa e una motrice). Non è tuttavia questione qui di quale sia una siffatta sostanza. La discussione verte per tutto il capitolo 6 solo sui postulati logici necessari a rendere ragione del movimento eterno. In particolare in 1072a12s. si noti l’astratto riferimento a una sostanza, che è causa di movimento sia “per se stessa” – infatti questo significa essere semovente – sia per la seconda sostanza eternamente mossa. Il presupposto è che questa seconda si muova di moto duplice: sia da sé, sia trascinata dal primo cielo. Il riferimento cosmologico al cielo è ancora implicito (in quanto appunto, come nota Berti, ad loc., Aristotele parla qui per funzioni concettuali e senza riferimenti concreti), ma inequivocabile. Verrà indicato espressamente nel corso della dimostrazione successiva (7.1072a23, 1072b14).

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1072a10-12 “Se devono esserci generazione e corruzione, deve esserci qualcos’altro che agisca sempre ora in un modo ora in un altro” (eij de; mevllei gevnesi" kai; fqora; ei\nai, a[llo dei' ejnergou'n ei\nai a[llw" kai a[llw") Generazione e corruzione sono due processi diversi, analoghi, ma di segno opposto. Per spiegare l’eternità dell’uno e dell’altro non potrà bastare un solo movimento circolare semplice. Una singola causa infatti produce (nel corpo sublunare, s’intende) sempre lo stesso singolo effetto. Cfr. De gen. et corr. B 10.337a10-13 (eij" a[llhla [...] metabavllei[...] dia; th;n fora;n diplh'n ou\san). Per spiegare il ciclo del divenire, pertanto, è necessaria, oltre alla causa suddetta, una causa che agisca, sempre eternamente, s’intende, ma alternativamente in modi diversi. Tale è il sole nel suo vicendevole avvicinarsi e allontanarsi dalla terra secondo il ciclo delle stagioni, così da generare calore nell’avvicinarsi, raffreddamento nell’allontanarsi.

1072a12s. “È dunque necessario che agisca in un modo in sé, in un altro per altro” (ajnavgkh a[ra wJdi; me;n kaqΔ auJto; ejnergei'n wJdi; de; katΔ a[llo) L’intera discussione ha portato sinora, a partire dall’inizio del capitolo 6, su cause efficienti eterne e immutabili, secondo quella che è per Aristotele la natura di ciò che eternamente si muove. Ciò, si è visto, spiega il moto celeste, ma non il ciclo del divenire nel mondo sublunare, che pure deve esserci, cioè essere spiegato. Un più articolato fattore causale, che agisca in tempi diversi in modi diversi, non è riducibile a questo modello semplice, e richiede ora uno sdoppiamento dei fattori attivi: si deve dire che, se una sostanza eterna agisce sul mondo soggetto a generazione in più di un modo, deve esserci a monte un ulteriore fattore di movimento. La sostanza si muoverà, e conseguentemente agirà come fattore causale, sia in sé, sia in quanto a sua volta è mossa da altro.

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1072a13s. “o per qualcosa di diverso, o per il primo. Ma necessariamente per questo” (h[toi a[ra kaqΔ e{teron h] kata; to; prw'ton. ajnavgkh dh; kata; tou'to) La questione di stabilire quale sia questo altro fattore di movimento viene posta subito dopo, in forma di alternativa: o è il primo fattore, qui sopra menzionato come causa di eterna periodicità (1072a10), o è un altro ancora. Posta in questa forma, la questione è suscettibile di soluzione secondo un criterio di stretta economia concettuale (cfr. infra, 1072a18), come a dire: non sunt multiplicanda entia praeter necessitatem.

1072a14s. “infatti è causa a sua volta sia per se stesso, sia per quello” (pavlin ga;r ejkei'no auJtw'/ te ai[tion kajkeivnw/) Aristotele continua a esprimersi in modo molto preciso, nel linguaggio che è proprio delle ricerche sul principio di movimento. “Il primo”, è il primo fattore causale, quello che produce l’eternità dei cicli vitali. Esso è causa sia per se stesso, sia per “quello”, cioè per quel secondo fattore attivo, che muovendosi sia di per sé, sia a causa del primo, viene ad agire in modo variato. Si nota la natura assiologica e non necessitante, in senso stretto, dell’argomento per economia concettuale costruito. Dice infatti: è meglio (non dice: è assolutamente necessario) che sia il primo fattore causale già (già introdotto alla riga 10) a costituire la concausa del moto variato. Si intende che il circolo dell’eclittica si muove di un certo moto di per sé, ma è mosso anche dal circolo delle stelle fisse, ed è la combinazione dei due movimenti che provoca il ciclico avvicinarsi e allontanarsi del sole dalla terra. Cfr. per una traccia eminente di questa teoria Alessandro di Afrodisia, Quaestio I 25, 40.25-41.3 Bruns.

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1072a15s. “esso infatti era anche causa del ‘sempre allo stesso modo’” (kai; ga;r ai[tion h\n ejkei'no tou' ajei; wJsauvtw") Si tratta cioè dell’eternità, secondo quanto poc’anzi affermato: “Se dunque l’universo torna sempre periodicamente identico, bisogna che permanga qualcosa che agisce sempre allo stesso modo” (1072a10).

1072a16 “della diversità è causa l’altro” (tou' dΔ a[llw" e{teron) Si tratta della causa dell’alternanza fra generazione e corruzione: è la seconda causa efficiente, la sostanza che circola sul piano dell’eclittica, ove si muovono il sole e i pianeti: questa seconda causa è stata già indicata come “altro” poco sopra, in 1072a11. Non manca senza dubbio la reminiscenza del circolo del medesimo e del circolo dell’altro nel Timeo platonico (36b-d).

1072a17 “della continuità nella diversità, è chiaro che sono causa entrambi” (tou' dΔ ajei; a[llw" a[mfw dhlonovti) Con questo, la teoria aristotelica della relazione teleologica fra mondo celeste e mondo sublunare può dirsi compiuta. Quasi cinque secoli più tardi, essa sarà sviluppata da Alessandro di Afrodisia nel trattato sulla Provvidenza, sulla falsariga di De gen. et corr. B 10, ma soprattutto di questa parte di Lambda 6150. Si nota che la generalità degli esegeti riferisce questa pagina a motori immobili plurali, rendendo decisamente più difficile e artificiosa la sua esegesi. Ma il percorso dell’argomento risulta 150 Cfr. S. FAZZO, La dottrina della provvidenza in Alessandro di Afrodisia, in S. FAZZO e M. ZONTA, Alessandro di Afrodisia. La provvidenza. Questioni sulla provvidenza, BUR, Milano 1999, pp. 5-75.

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perfettamente lineare se si rinuncia ad anticipare nel capitolo 6 la dimostrazione del motore immobile che incontestabilmente avviene all’inizio del capitolo 7 (1072a24-26). Secondo una tale lettura, che qui ho introdotto, è logico e pertinente che qui Aristotele stia descrivendo (come già fa Platone nella citata cosmogonia del Timeo) i circoli celesti necessari e sufficienti per spiegare il ciclo sublunare della generazione e della corruzione.

1072a17s. “Così dunque sono anche i movimenti. Che bisogno c’è dunque di cercare altri principi?” (ouj k ou' n ou{ t w" kai; e[cousin aiJ kinhvsei". tiv ou\n a[lla" dei' zhtei'n ajrcav";) I movimenti sono uno per circolo, e i circoli sono computati in quel novero che è necessario e sufficiente a spiegare i movimenti. Questo è il principio generale. Vale anche nel capitolo 8, ove però si articola in un numero di circoli molto più elevato: quanti sono i circoli, tanti sono i movimenti, e reciprocamente. L’interrogativo che chiude il capitolo 6, pur retorico indubbiamente, è metodologicamente significativo: è segno che l’argomentazione è condotta secondo un principio, ben riconoscibile, di economia concettuale, cfr. supra, ad 1072a13s.

CAPITOLO 7 [Esistenza di una sostanza immobile come primo motore] Il capitolo comincia con la dimostrazione dell’esistenza di un motore immobile. È l’argomento più noto del trattato, quello che lo rende celebre. Tuttavia non è superfluo domandarsi da capo quale sia la specificità intrinseca dell’argomento stesso. L’introduzione generale del libro (cap. 1, 1069b1s.) si chiudeva con il cenno a un diverso metodo con il quale l’indagine sulla sostanza non sensibile sarà condotta, se non ha lo stesso metodo

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di quella sulla sostanza sensibile. Da Jaeger in poi almeno, si è sollevato il dubbio, se l’alternativa sia retorica, come facilmente si riterrebbe, o sia reale – nel qual caso ci si interroga sulla sua soluzione, che comunque è controversa. Qui sopra, tuttavia, si sono portati argomenti a favore della prima possibilità. Ciò farebbe ammettere una scissione di metodo fra i due ambiti di ricerca, sulla sostanza sensibile e su quella non sensibile. In effetti, la sostanza sensibile è analizzata in Lambda 2ss. secondo i principi del suo mutamento, pertanto nessuno dei suoi principi, quali ivi sono considerati, può essere proprio di una sostanza immobile. Se questa non ha principi, perché è essa stessa principio, e se men che meno ha principi di mutamento, perché è immutabile, allora va studiata con metodo diverso. Se è così, resta da vedere, proprio in questo cap. 7, dedicato al primo motore, di che tipo sia questo metodo diverso, tanto più che esso determina in larga parte la tipologia dei contenuti. In realtà, nella prima parte del capitolo, ove si dimostra l’esistenza del motore immobile, una tale cesura metodologica rispetto alla Fisica non è del tutto chiara – non almeno secondo ciò che proprio qui stiamo verificando: il metodo impiegato in 7.1072a24-26 (come spiego infra, ad loc.) si fonda sulla stessa base teorica del metodo per regressus, non è dunque radicalmente diverso da quello che si trova in un locus parallelus, Fisica Q 5.256b13-24, cioè in una sezione probabilmente erratica dell’ultimo libro della Fisica – libro però oscuro ancora più del nostro per numerosi aspetti. Anzi, proprio quella sezione, in qualche modo parallela a Lambda, pone problemi importanti di collocazione ed esegesi fin dall’antichità (cfr. Alex. ap. Simpl. ad loc., 1224.25-37, e qui infra, ad 1072a24s.). In realtà, peraltro, come Laks osserva, non è affatto chiaro che il tipo di argomento sia “fisico” più che “metafisico”. In effetti il parallelo con Alpha elatton 2 già sopra evocato, indica piuttosto il contrario. Più netta è l’indipendenza, rispetto ad altri argomenti nel corpus, del tipo di argomento che Aristotele usa per reperire,

COMMENTO

299

una volta dimostrata l’esistenza del motore, i suoi attributi e predicati: ivi Aristotele applica il metodo accademico della diairesi: non però per classificare, come avviene altrove (come per i tre ordini di sostanze in 1.1069a30ss.), ma per costituire e distinguere due serie o sustoicivai parallele e corrispondenti, la prima delle quali raccoglie i predicati del primo motore immobile. Così, con uno sguardo retrospettivo, il metodo della diairesi si associa piuttosto a quello, invalso fra i Pitagorici, per opposizioni polari e sustoiciv a i contrapposte (cfr. Alpha 5.986a22-26). Tramite questo, in particolare, si tratta di individuare e distinguere una serie intelligibile positiva, connotata per eccellenza (1072a30s.), ove si trovano la sostanza prima (1072a31) e le sue prerogative, identificate come prime e cioè assiologicamente superiori (“ciò che è primo è sempre ottimo, o analogo all’ottimo” 1072a35s.). È possibile e opportuno riconoscere un senso molto preciso in questa serie: siffatte prerogative sono trovate appunto per via di diairesi, operando polarmente, per opposizioni fondamentali e partizioni generalissime e in certo modo esaustive (cfr. infra, ad 1072a30), attraverso una gamma essa stessa virtualmente esaustiva di generalissime categorie (quali sostanza vs. relativo, poi quantità, qualità, tempo, disposizione o modo di essere, l’agire e patire) e polarità fondamentali (atto vs. potenza, necessario vs. contingente): di volta in volta, entra nella prima colonna, e appartiene dunque al principio primo, ciò che è immutabile, intelligibile, eccellente; pertanto il primo motore è sostanza e non è un relativo ad altro; è semplice (piuttosto che “uno”, secondo la quantità; “uno” infatti è una misura, “semplice” un modo di essere, che pertiene in sé a ciò che è primo), in quanto non può essere molteplice né composito; è in atto (kat’ ej n ev r geian, 1072a32) – come prerogativa sua stabile e permanente (cioè, è in atto sempre); è necessario e non contingente: si è dimostrato necessario ed è necessario che sia; gli appartengono dunque necessità, semplicità, e bellezza, insieme al ruolo di principio. Un tale ente è desiderabile in sé; se si configura come fine, ciò è

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COMMENTO AL LIBRO LAMBDA DELLA METAFISICA DI ARISTOTELE

possibile in virtù della diairesi, istituita ad hoc da Aristotele in 1072b1-3, fra ciò che è fine e ciò che agisce in vista del fine: il primo è immutabile e intelligibile, il secondo no. Questo tipo di metodologia per associazione di diairesi e sustoicivai è estraneo ai trattati di fisica e già di per sé potrebbe giustificare la distinzione praticata nell’introduzione (1.1069b1) fra i due ambiti disciplinari. È, in effetti, peculiare del libro. Ciò rende opportune e, per contrasto, alcune considerazioni. Di per sé, la discussione sul primo motore non mosso, postulato all’inizio della catena dei mossi e dei motori, non è affatto peculiare del libro Lambda. Proprio di Lambda, piuttosto, è il suo porsi come sostanza, cioè declinarsi secondo l’analisi modale dell’ente teorizzata nei libri centrali (da questo appunto si avverte che l’argomento di Lambda presuppone logicamente quello di Zeta). Se è così, va ripensata nel suo stesso porsi la questione che agita gli esegeti del libro già dalla tarda antichità, come possa muovere un motore non mosso. Non che la questione sia estranea all’universo problematico aristotelico. Ma né Lambda né questa sua sezione sono testi dedicati a risolvere questo problema. D’altra parte, lo studio del testo greco di Lambda porta a mitigare il peso di uno degli aspetti più conosciuti di tutta questa teoria: l’idea che Dio sia atto, puramente atto. Invero, l’idea, caratteristicamente scolastica, che dio/Dio sia simpliciter atto non è preparata e non si inserisce agevolmente nella compagine concettuale del libro e nella sua trama di continuità con i restanti libri della Metafisica. Per prudenza, senza nulla togliere a quanto Aristotele ha da dire sull’eterno atto eccellente proprio dell’ente ottimo e perfettissimo, ente che è intelletto ed è dio (tutto questo emerge perfettamente anche dal testo più sicuramente tràdito nei codici) questo aspetto è secluso dalla presente edizione e dal nostro commento, come il portato (sia pure felice, suggestivo ed efficace) di una lunga tradizione esegetica, non forse immune da tracce di neoplatonismo (cfr. supra, ad 1071b11-22, sub finem).

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COMMENTO

I

C ONCLUSIONE

DELL’ ARGOMENTO SULLA SOSTANZA ETERNA

MOBILE

1072a19-22 Si mostra l’esistenza di qualcosa che si muove di un movimento eterno circolare (ed è causa del ciclo della generazione e della corruzione, cfr. supra): altrimenti, il cosmo non sarebbe eterno; né d’altronde si capirebbe come sia potuto venire ad essere. 1072a22s. I fatti osservabili confermano il ragionamento di principio: quest’ente eterno dovrebbe essere il primo cielo. 1072a23-26 [Sul presupposto che tutto ciò che si muove è mosso da qualcosa, argomentato in Phys. Q 1, e che dove c’è un termine medio ci sono anche termini estremi, argomentato in Alpha elatton 2] Il corpo che si muove di eterno moto circolare (e che è causa dell’eterno divenire) è mosso da qualcosa; è dunque motore e a sua volta mosso: esiste pertanto un motore immobile che lo precede, sostanza eternamente in atto.

II

CONSIDERAZIONI

SUL MOTORE IMMOBILE/IMMUTABILE COME

PRINCIPIO PRIMO DI MOVIMENTO

1072a26s. Motori immutabili sono l’oggetto del desiderio e l’oggetto del pensiero. 1072a27-30 Identità di oggetto del desiderio e oggetto del pensiero in condizioni di primato dell’uno e dell’altro: l’oggetto di desiderio primo è quello riconosciuto dall’intelletto.

302 III

COMMENTO AL LIBRO LAMBDA DELLA METAFISICA DI ARISTOTELE

L’INTELLIGIBILE COME PRIMO MOTORE IMMUTABILE. ANALISI DEI SUOI ATTRIBUTI PER VIA DI SUSTOICIA

1072a30 Primato del pensiero (come primo movimento, atto dell’intelletto e dell’intelligibile). L’intelletto è mosso dall’intelligibile.

IV

LA SERIE INTELLIGIBILE: AD ESSA APPARTENGONO GLI ATTRIBUTI DEL PRINCIPIO PRIMO E IMMOBILE: ESSO È SOSTANZA PRIMA, TERMINE PRIMO ED ECCELLENTE, CIÒ CHE È BELLO, PREFERIBILE IN SÉ, DESIDERABILE IN SÉ E, IN QUANTO TALE, PRINCIPIO DI MOVIMENTO, PRIVO DI CONTINGENZA. ESSO MUOVE IL MOTO CIRCOLARE. QUESTO INFATTI, ESSENDO IL PRIMO DEI MOTI NATURALI, RICHIEDE UN PRINCIPIO CHE SIA IL PRIMO: CHE MUOVA IN MODO NECESSARIO – E, PERTANTO, IN MODO BELLO – SENZA ESSERE MOSSO

1072a30-34 Definizione del primo intelligibile per via di sustoiciva: si costituisce a questo riguardo la serie ovvero sustoiciva di ciò che è intelligibile di per sé e in quanto tale. Primo è la sostanza, e primariamente la sostanza semplice in atto. Precisazione sulla differenza fra semplice e uno. 1072a34-1072b1 Nella stessa serie positiva fatta di termini intelligibili, stanno il bello e ciò che è preferibile in sé. Tutti i termini di questa serie sono primi ed eccellenti. 1072b1-3 Si esplicita l’identità della serie intelligibile con la serie degli immutabili. Precisazione sul senso di fine: la diairesi mostra che il fine fa parte di questa serie, quella degli enti immutabili; il fine infatti è immutabile, mentre ciò che tende ad un fine è soggetto a mutamento.

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COMMENTO

1072b3s. Il primo intelligibile (così costituito come sostanza prima immutabile e desiderabile in sé) muove come oggetto di amore, mentre ciò che è mosso così, muove tutto il resto. 1072b4-13 Privo di ogni contingenza, è solo il motore immobile. Muove di eterno moto circolare, che è il primo dei moti naturali (dunque è motore del cielo). È ente ed è principio in modo necessario e, pertanto, in modo bello. 1072b13s. Tale è il principio che muove il cielo e la natura.

V

ASSOLUTA ECCELLENZA E PIACEVOLEZZA DELLO STATO TEORETICO

1072b14-18 Lo stato contemplativo è il modo di esistenza migliore: a noi, è possibile per poco tempo, ma quell’ente, il cui atto è piacere, è sempre in questo stato. Poiché tale è lo stato migliore, tutte le attività che hanno affinità con l’attività teoretica sono piacevoli. 1072b18-21 L’intelletto conosce se stesso nell’atto del pensiero. Nel pensiero infatti il pensante si identifica con il pensato, così il pensiero è pensiero di sé.

VI

L’INTELLETTO

È DIO.

DIO

È INTELLETTO, VIVO DELL’ESISTENZA

MIGLIORE E PIÙ PIACEVOLE

1072b22-24 Intelletto è (anche) l’attività recettiva dell’intelligibile, una potenzialità che si attua. Ma ciò che l’intelletto ha di divino è

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COMMENTO AL LIBRO LAMBDA DELLA METAFISICA DI ARISTOTELE

questo (l’identificarsi cioè col proprio oggetto, ed essere pensiero di sé). Questa attività, che è contemplazione, è una condizione divina: la migliore e più piacevole di tutte. 1072b24-30 Lo stato divino di contemplazione è paragonabile, ma superiore, al miglior stato umanamente possibile. Al dio appartiene vita eterna ed eccellente.

VII

EPILOGO

1072b30-1073a3 Ultima ripresa del tema del primato dell’atto, in obiezione ai Pitagorici e a Speusippo. 1073a3-5 Conclusione: dunque vi è una sostanza eterna, immobile, separata dagli enti sensibili. 1073a5-12 Ulteriori caratteristiche del motore immobile (già reperite secondo la dottrina di Phys. Q). Una tale sostanza, che muove il primo di tutti i movimenti, è priva di grandezza e di parti, indivisibile, impassibile, inalterabile. 1073a13 Chiusura in stile formulare della sezione Lambda 6-7.

1072a19s. “E poiché così è possibile, e poiché se non è così...” (ΔEpei; dΔ ou{tw tΔ ejndevcetai, kai; eij mh; ou{tw"...) “Così” (ou{tw) si riferisce alla descrizione del doppio movimento circolare come causa del ripetersi ciclico di generazione

COMMENTO

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e corruzione (1072a9-18), mentre il soggetto sottinteso di ou{tw ejndevcetai, e di eij mh; ou{tw" (sott. ejstiv), va ricavato dalle righe 1072a7-18. Queste infatti introducono, motivano e poi espongono la teoria del doppio movimento circolare cui ou{tw si riferisce, cfr. in particolare taujta; ajei; in 1072a8, cui si connettono le ipotesi conseguenti in 1072a9-18. Gli avverbi dimostrativi indicano allora in modo generale e collettivo uno stato cosmico eterno e ciclicamente perenne, contrapposto allo stato precosmico presupposto dalle cosmogonie arcaiche di cui in 1072a6s.

1072a20s. “Bisogna che queste difficoltà si risolvano” (luvoitΔ a]n tau'ta) Si può variamente speculare sul valore dell’ottativo. La scelta qui adottata, “Bisogna che queste difficoltà si risolvano”, enfatizza la differenza rispetto all’indicativo, mettendola in relazione con l’assenza di una soluzione specifica e pertinente per l’aporia dichiarata in 1072b23-26, cfr. n. ad loc. Può essere conveniente sottintendere l’avverbio ou{tw" / ou{tw, già reiterato alla riga precedente, in modo da intendere “Bisogna che queste difficoltà si risolvano così”.

1072a21-23 “Ed esiste qualcosa che si muove sempre di moto incessante, e questo è il moto circolare. E ciò è chiaro non solo per via di ragionamento, ma di fatto, cosicché il primo cielo dovrebbe essere eterno” (e[sti ti ajei; kinouvmenon kivnhsin a[pauston, au{th dΔ hJ kuvklw/, kai; tou'to ouj lovgw/ movnon ajllΔ e[rgw/ dh'lon, w{stΔ aji?dio" a]n ei[h oJ prw'to" oujranov") Secondo il testo qui costituito (cfr. I, ad loc.), l’argomento principale (a partire da 1071b5) non dimostra direttamente l’eternità del cielo, bensì che esiste una sostanza eterna mobile

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COMMENTO AL LIBRO LAMBDA DELLA METAFISICA DI ARISTOTELE

siffatta. Ha, di nuovo, carattere speculativo: non si riferisce ad enti concreti, ma a concetti funzionali: ciò che eternamente si muove, ciò che ne è motore in quanto eternamente muove. L’identificazione con il primo cielo è un’ulteriore inferenza. È fondata sulla constatazione fattuale (e[rgw/). L’inferenza ha peraltro una certa debolezza, a giudicare dal modo dell’espressione che è di nuovo, come in 1072a20, all’ottativo (ajid? io" a]n ei[h): “cosicché il primo cielo dovrebbe essere eterno”. È interessante e non casuale, se è reiterato e si distacca dallo stile generale del libro, che questa forma cautelata di espressione separi gli argomenti relativi alla sostanza sensibile e in movimento, da quelli concernenti l’immobilità e l’intelligibilità. Può considerarsi forse come una sorta di cesura: separa, all’interno stesso dell’argomento annunciato in 1071b4s., ma al tempo stesso unisce due parti e, se sono diversi (la discussione, come si è detto, è aperta), due diversi statuti metodologici e disciplinari, quello relativo alla sostanza sensibile e quello relativo alla sostanza non sensibile. I due ambiti si uniscono cautamente tramite l’identificarsi della sostanza sensibile eterna con il cielo: ciò comporta un suo ruolo attivo sul mondo sublunare, ne fa dunque un mobile che muove a sua volta altro, e ha dunque un ruolo intermedio (mevson, cfr. infra, 1072a24).

1072a24s. “E poiché è mosso, motore e intermedio, c’è dunque qualcosa che lo muove senza essere mosso, che è eterno ed è sostanza ...” (ejpei; de;; kinouvmenon kai; kinou'n kai; mevson, toivnun e[sti ti o} ouj kinouvmenon kinei', ajid? ion kai; oujsiva...) Ora Aristotele dice: poiché si è mostrato che il cielo – è del cielo infatti che si tratta – si muove eternamente, dunque è mosso, e che è anche causa efficiente, per il mondo sublunare, e cioè è anche motore, esso dunque è un termine intermedio. Ciò significa, nel contesto di questo tipo di argomento, che la sua funzione nella catena causale è determinata, verso l’alto come

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verso il basso: è proprio del termine intermedio l’essere causato da un termine che lo precede, come anche l’esser causa per un termine successivo. Alla base della dimostrazione, cioè, sta un argomento per regressus: non è possibile risalire all’infinito nella ricerca delle cause; è necessario che ci si fermi: “se infatti non c’è qualcosa di primo, non c’è affatto causa” (a 2.994a18s.). E se non esiste causa, non esiste conoscenza possibile. La rilevanza di tale argomento per Lambda 7.1072a24s. diviene in effetti più chiara se si considera la natura dell’argomento stesso più da vicino, con riferimento alla sezione di Alpha elatton che lo espone e legittima (a 2.994a1-20) Si vede allora che esso ha valore e natura generalissimi, si applica a ogni ordine di cause (finale come formale ed efficiente e materiale), verso l’alto e anche verso il basso (994a20, cfr. supra, § 2.5). Nel corso di quella dimostrazione, si trovano tematizzati e generalizzati, sia l’impossibilità epistemologica del regressus, sia il concetto di mevson, che sta al centro dell’argomento in sé. Il mevson è definito in Alpha elatton 2.994a11-13, come ciò che ha “un termine ultimo e un termine che lo precede, di modo che quello che precede deve essere causa di quelli successivi”. Da questo punto di vista, lo statuto del termine intermedio è decisivo per l’orientamento di senso della catena causale. Se non c’è medio (o se non c’è nessun estremo, che è lo stesso), non c’è né causa, né effetto. Se c’è un medio, e cioè se c’è qualcosa che sta di mezzo fra un primo termine e un ultimo (né importa quanti siano i medi – si considerano tutti come uno solo, 994a15s.) allora il primo termine della serie è causa ed è solo causa, l’ultimo subisce solo l’effetto, e non è causa di nulla, mentre tutti gli altri termini intermedi (uno o molti che siano, visto che il modello è generale) sono cause causate, motori a loro volta mossi. Sono gli stessi concetti che troviamo in 1072a24s.: un luogo brachilogico, indubbiamente, che ha suscitato non pochi tentativi di emendamento e correzione (cfr. I, ad loc.). Ivi precisamente i due concetti interagiscono: l’impossibilità del regressus nella catena causale, e la centralità dell’intermedio, che

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COMMENTO AL LIBRO LAMBDA DELLA METAFISICA DI ARISTOTELE

in Lambda 1072a24s. è verosimilmente il cielo (cfr. supra, § 3.3). Per questo, il gesto teorico decisivo per la dimostrazione del primo motore immobile, fra la fine del cap. 6 e questo inizio del cap. 7, è aver riconosciuto al cielo non lo statuto semplice di sostanza mossa, ma anche un ruolo motore, di causa efficiente di generazione e corruzione e di periodico ritorno del cosmo su se stesso. È in ragione di questo duplice ruolo di motore e mosso, che il cielo la sostanza eterna sensibile, riveste il ruolo di termine medio nel senso specifico di Alpha elatton: ciò consente, per questo come per ogni genere di cause, di identificare come tale una catena causale orientata dall’alto verso il basso, da un principio verso una fine, e di postulare dunque un principio: un primo motore non mosso (1072a25). Solo più oltre (1072b8s.) si dimostrerà anche che questo primo motore è proprio il motore che muove direttamente il cielo. Come accennato, il passo è testualmente controverso. La lezione qui adottata si è delucidata nel vol. I, ad loc.: essa è ricostruita stemmaticamente, e si distingue dal testo delle precedenti edizioni. La differenza va qui almeno sommariamente menzionata: essa consiste principalmente nell’assenza dell’articolo determinativo in 1072a24, tov; questo articolo, quando presente, opera una funzione sostantivante sulla serie di aggettivi, “mosso, motore e intermedio”: essi allora prendono funzione di soggetto (“il mosso, motore e intermedio”), se non anzi di tre nuovi soggetti, e la frase si trova ad essere francamente problematica a più di un riguardo (“il mosso, il motore e l’intermedio”, cfr. in I, ad loc., le diverse interpretazioni attestate151); l’effetto generale è una scissione fra la proposizione qui in esame e il suo contesto, come se questa 151 Cfr. in part. la discussione di Laks, ad loc., pp. 215-9, nella quale le analisi presenti hanno trovato i primi e i più numerosi spunti diriflessione, e con particolare attenzione su questo punto la versione francese dello stesso saggio in ID., Histoire, Doxographie, Vérité, Peeters, Louvain-la-Neuve 2007”. Una discussione su questo locus vexatus era già avanzata da Carlo Diano (ap. P. GRENET, Le Professeur Diano explique Aristote, Métaphysique

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parlasse, non senz’altro dell’eterno mobile, ma di qualcosa di diverso (appunto, “il mosso, motore e intermedio”, se non anzi di tre enti, “il mosso, il motore e l’intermedio”). Secondo il testo così restituito, invece, gli aggettivi si riferiscono all’eterno mobile, soggetto logico dell’intera discussione precedente, e cioè al primo cielo, che è anche soggetto grammaticale in 1072a22. Ciò comporta una progressione dell’argomento, da 1072a23 (da intendere alla luce di 1072a21-23) a 1072a26, per coppie parallele di proposizioni (A, B, A1, B1): nella seconda proposizione, di ogni coppia (B, B1) si inferisce, dall’esistenza del mosso eterno (A, A1), che è il cielo in entrambi i casi, l’esistenza di un eterno motore del cielo; ciò avviene due volte, perché nella seconda coppia di proposizioni (1072a24-26) il mosso (A 1) risulta anche motore e dunque intermediario, mevson. È questo che consente di inferire, e in tale senso di dimostrare, che c’è, all’inizio della serie, un motore che non è mosso da altro – è dunque immobile (B1, 1072a25).

12.1072a24, in C. DIANO, Studi e Saggi di filosofia antica, Antenore, Padova 1973, pp. 283-6); l’intermedio è da essi inteso in modo però completamente diverso, in riferimento a un’ipotetica divisione platonica, secondo la quale l’ipotesi di un motore non mosso costituirebbe essa stessa una possibilità intermedia. I riferimenti qui addotti alla teoria generale di Alpha elatton 2 e Fisica Q 5 portano, in effetti, ad escludere interamente una tale interpretazione. Resta interessante un’accusa che Diano ivi muove ad Aristotele. Per Diano, qui Aristotele cade in un circolo vizioso: inferisce un motore immobile dal fatto che il motore mosso ha uno statuto intermedio; ma non può considerare intermedio il motore mosso, se non presuppone già che esista un inizio della serie, cioè un primo motore immobile. L’argomento meriterebbe di esser ripreso, in quelle che sono le componenti valide dell’obiezione. C’è infatti una sorta di autoreferenzialità intrinseca del sistema aristotelico in atto, che ne risulta evidenziata: ogni elemento vi risulta è definito dalla sua stessa funzione logica rispetto agli altri elementi, dalla quale è analiticamente ricavato. D’altra parte, questa stessa obiezione, più e prima che a Lambda, va rivolta, semmai, all’argomento per regressus, specie nella forma che esso presenta nel passo di Fisica Q 5.256b13-24, che in questa riga 1072a24 appare quasi rievocato e riassunto.

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Non meno della costituzione presente del testo, questa interpretazione del passo è, a mia conoscenza, inedita. È inedita in età moderna, a causa della differenza del testo commentato. Ma anche nell’antichità: fin da Alessandro di Afrodisia, è prevalsa la tendenza a dissociare questo argomento da quello per regressus. Ciò avviene in tutti i commenti antichi e medievali che derivano dall’esegesi di Alessandro (Simpl. In Phys. 1227.20-24, in Arist. Phys. Q 5.256b13ss.; cfr. Them. Paraphr. ad loc.; Alex. ap. Averroé, In Metaph., p. 1588s. Bouyges, fr. 28 Freudenthal; Laks, ad loc., pp. 217-9). Alessandro infatti fu probabilmente il primo, fra gli esegeti noti, a ricorrere per spiegare questo argomento a una nozione di tipo analogico dalla quale derivano le esegesi tardo antiche del passo: “Quando ci sono due estremi – pare egli dicesse – fra i quali sta un termine medio, è ragionevole (eu[logon) che il medio abbia la stessa relazione (ajnalogiva) rispetto ai due termini estremi. È come nel caso dell’idromele, composto di vino e di miele: poiché il miele esiste di per sé, è necessario che esista di per sé anche il vino. Così è anche nel caso di ciò che è motore ed è mosso: se uno dei due esiste di per sé, è ragionevole che esista così anche l’altro” (Simpl. In Phys. 1227.20-24; evinco la derivazione di quest’analisi da Alessandro dal parallelo con la testimonianza su Alessandro di Averroé, citata sopra). E cioè, se esiste qualcosa di medio ovvero di misto, che è cioè sia motore sia mosso, ed esiste qualcosa di semplicemente mosso e non motore (il mondo sublunare) allora deve esistere (come terzo ordine di sostanza) un motore non mosso. Nel XX secolo, sulla scia di questa lettura, l’argomento è poi stato etichettato come prova “per simmetria” (Symmetriebeweis) da Bern Manuwald (Studien zum Unbewegten Beweger, cit., passim e in part. 25s., 37-40, 65, 73, 79-81) e distinto come più “elegante” e completo (in quanto menziona tutti gli elementi del sistema uno per uno, nel numero di tre: mosso, motore e intermediario) da argomenti di tipo fisico, nei quali Manuwald include quello per regressus, cui questo sarebbe alternativo e

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irriducibile. Manuwald parla di Symmetriebeweis, proprio a proposito di Lambda 7.1072a24-26, in parallelo con una sezione della Fisica, Q 5.256b13-24. Eppure il parallelo spiega, se mai spiega, obscura per obscuriora; tale sezione peraltro è, come altrove sto mostrando, gravemente erratica, al punto che il senso, condizionato dal contesto , non è chiaro in sé, come vede bene già Alessandro ad loc., ap. Simpl. 1224.26-37. (Indubbiamente, Alessandro e Simplicio si accordano nel considerare la posizione attuale delle righe 256b3ss. “più sana”, ovvero “più salutare” (uJgievsteron, ibid., 1224.37) e a intendere il passo in accordo con Lambda 7; ma un tale giudizio, espresso com’è in termini metaforici di “salute” potrebbe basarsi meno su una valutazione filologica che sulle esigenze di un’esegesi armonizzante e focalizzata sulla centralità della teoria del primo motore immobile. Sin d’ora si deve obiettare, tuttavia, che non è né necessario, né utile postulare un tale, diverso ordine di argomento. Per fondare il ragionamento in 7.1072a24s. è sufficiente l’impossibilità del regressus – la quale impossibilità, si noti bene, è epistemologica prima che fisica e non va dunque declassata semplicemente a livello inferiore rispetto agli argomenti propri della filosofia prima, come invece fa Manuwald. Ciò mostra anche che non è utile ricercare per questo argomento una logica diversa e separata: di fatto, un argomento per simmetria o analogia può apparire speculativo e vuoto, finché non si àncora, come qui indicato, all’impossibilità del regressus: la quale costituisce una condizione di possibilità dello scire per causas. Tutto ciò evidentemente incoraggia un’attenzione specifica per gli aspetti gnoseologici, ovvero epistemologici, dell’argomento sul primo motore immobile; esso trova un efficace ed organico orizzonte interpretativo in base alle osservazioni e ipotesi qui a più riprese avanzate sulla natura autoriflessiva e metalinguistica dei processi analitici in atto nel corso del libro.

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1072a25s. “C’è qualcosa che muove senza essere mosso, che è eterno e sostanza ed è in atto” (e[sti ti o} ouj kinouvmenon kinei', ajid? ion kai; oujsiva kai; ejnergeiva/ ou\sa) Si conclude qui la dimostrazione vera e propria che consente di postulare una sostanza puramente immobile, e cioè intelligibile, al tempo stesso eterna ed eternamente attiva. Dal punto di vista della progressione logica, leggere “in atto”, piuttosto che “atto”, è una scelta prudenziale (cfr. supra, § 1.5.1). Ciò infatti, come già osservato a proposito di 1071b22, comporta un uso già osservato a proposito di 1071b22, è prudente attenersi a un uso della coppia atto/potenza in linea con quello tematizzato in Theta. Come Aristotele ricorda anche in Lambda 5, atto e potenza sono principi identici fra gli enti solo per analogia, perché enti diversi hanno un diverso atto, una diversa potenza. Anche dove in Lambda 6 Aristotele dice che l’atto è eterno, cita a testimoni coloro che hanno posto il movimento come eterno, o l’amicizia, la contesa; oppure anche il nou'", come Anassagora, in quanto esso è in atto (cfr. app. cr. ad 1072a5s.).

1072a26s. “Muovono così il desiderabile e l’intelligibile: muovono senza essere mossi” (kinei' de; w|de to; ojrekto;n kai; to; nohtovn: kinei' ouj kinouvmena) Questo è il primo dei due passi del libro (cfr. infra, 1072b3s.) che menziona il desiderio come causa di movimento, e pone dunque il desiderabile, in quanto tale, come tipo speciale di motore, cioè come motore immobile. Esso viene a giustificare l’immobilità di quella sostanza non sensibile che è posta come motore del mondo sensibile nella prima parte di questo stesso capitolo 7. In sé, tuttavia, per ora, l’argomento presenta un certo livello di generalità. Per questo è importante la punteggiatura: in questa edizione, come in quelle del XX

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secolo, la cesura sta dopo nohtovn e così “il desiderabile e l’intelligibile” fanno da soggetto, un soggetto che, stante la configurazione della frase, risulta essere generico (mentre ancora nell’edizione Bekker la prima parte della frase si riferiva direttamente al primo motore immobile: la punteggiatura infatti anticipava il punto in alto dopo w| d e). Ora dunque, il senso è: l’oggetto del desiderio e quello del pensiero muovono senza muoversi. Ciò mostra che un modo per muovere senza muoversi esiste, ed è proprio dell’oggetto del desiderio e del pensiero. Il testo non dice però che solo l’oggetto del desiderio e quello del pensiero muovono così (né i luoghi paralleli nel corpus riescono decisivi in questa direzione). Se lo dicesse, la frase presente equivarrebbe a una proposizione universale affermativa, premessa maggiore di un sillogismo dimostrativo: tutto ciò che muove essendo immobile è oggetto del desiderio e del pensiero; la sostanza non sensibile muove essendo immobile (secondo l’argomento concluso in 1072a24-26); dunque la sostanza non sensibile è oggetto del desiderio e del pensiero. Si avrebbe così una vera dimostrazione. Ma una tale premessa maggiore non è stata stabilita, né pertanto l’argomento può propriamente dimostrare che il motore immobile muove come oggetto di desiderio e di pensiero; può solo mostrare che in questo modo è possibile concepire un motore immobile; di tal sorta è il grado cauto di asseveratività che caratterizza l’argomento della parte centrale del libro a più riprese, cfr. le voci verbali all’ottativo poco sopra, in 1072a20 e 1072a23. Ciò toglie all’argomento sia la certezza di una dimostrazione apodittica, sia l’arbitrio di un’assunzione dogmatica. Stando così le cose, come Enrico Berti ha sottolineato (ad loc., cit., pp. 202-3, cfr. anche Ancora sulla causalità del Motore immobile, cit.), la frase in esame non è necessariamente riferita alla singola sostanza immobile del libro Lambda, né dunque al motore immobile assolutamente primo ed unico. Così, le

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esegesi tardo antiche e medievali che ne hanno fatto oggetto di desiderio per la sostanza mobile ed eterna dei cieli hanno in qualche modo sovra-interpretato il nostro testo. Resta a noi il compito di ricollocarlo nel contesto suo proprio. Decisivo in tal senso è il raccordo con luogo parallelo in 1072b3s. “muove come ciò che è amato”, che pure è suscettibile di analoga esegesi generalizzante (come osserva lo stesso Berti, loc. cit.), cfr. qui infra, Comm. ad loc.

1072a27-29 “Di questi, i primi sono identici: infatti siamo attratti da ciò che ci sembra bello, ma il primo oggetto della volontà è ciò che è bello realmente, e lo desideriamo perché ci appare bello, più che non ci appaia bello perché lo desideriamo” (touvtwn ta; prw'ta ta; aujtav. ejpiqumhto;n me;n ga;r to; fainov m enon kalov n , boulhto; n de; prw' t on to; o] n kalov n , ojregovmeqa de; diovti dokei' ma'llon h] dokei' diovti ojregovmeqa) Cfr. anche supra, § 4.9.1. Si affronta qui, in modo breve ma decisivo, un problema che attraversa diverse parti del corpus. Si pone infatti nel De anima, e ora diventa centrale, non senza lasciare spazio a ulteriori sviluppi nel De motu animalium (cfr. infra): qual è la relazione fra pensiero e desiderio come moventi dell’azione? Entrambe le facoltà sono state or ora evocate tramite i rispettivi oggetti (1072a26) senza ancora una definizione reciproca dei ruoli, che qui appunto si attua, in modo da far concludere: “principio è il pensiero” (1072a30, cfr. qui infra, ad loc.). La conclusione non è ovvia, almeno se si considera che il De anima, trattandosi della facoltà motrice, stabilisce un netto primato del desiderio, cui l’intelletto risulta subordinato: questo infatti “senza il desiderio, non muove nulla” (G 10.433a13-b). Dall’altra parte, l’argomento in corso è tutto teso a rinvenire principi separati puramente intelligibili: è dunque focalizzato sulla priorità dell’intelligibile, sia

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in quanto tale, sia come carattere distintivo di ciò che è primariamente desiderabile (boulhto;n ... prw'ton). In che modo una tale priorità vada concepita è esaminato d’altronde in modo più ampio e preciso nel trattato detto De motu animalium (capp. 6-10, e soprattutto, 7 152): ivi Aristotele argomenta nel dettaglio l’importanza di un previo passaggio di natura cognitiva (seppur impercettibile per la sua immediatezza: chi capisce di dover agire, agisce infatti subito, come è detto ivi più volte ibid. 7.701a15, 17, 22, 30, 33: è la cosiddetta teoria del “sillogismo pratico”). Il riconoscimento da parte delle funzioni cognitive risulta ora conditio sine qua non dell’azione che il desiderante compie in vista del desiderato, e questo si dimostra considerando che l’oggetto di desiderio diventa motore quando e nella misura in cui è riconosciuto come tale. In tutto questo, il participio del verbo essere o[n funge da criterio distintivo, e ciò ha precisa valenza argomentativa: implica precisamente quel ruolo primario dell’intelletto e delle facoltà cognitive, che l’argomento in corso richiede. Vale qui, senza dubbio alcuno, l’equazione platonica fra massimamente conoscibile e massimamente ente (pantelw'" o[n, pantelw'" gnwstovn, Resp. V 477e), con il primato dell’uno e dell’altro, l’uno in ragione dell’altro. Quanto poi all’opposizione, qui fatta esplicita in 1072a27s., fra ciò che è e ciò che appare, to; o]n kalovn vs. to; fainovmenon kalovn, il corpus platonico ne offre certo vasta esemplificazione (to; fainovmenon ajll oujk o[n, Filebo 42c), non senza specifico riferimento al bello (to; kalovn ... to; o]n, e.g. Phaed. 78d, Resp. V 480a, 476b-c). Il bello è in effetti modello paradigmatico per questa caratteristica opposizione fra apparenza e realtà Anche il modo dell’espressione stessa, to; o]n kalovn, inusuale in Aristotele, viene qui a suggerire una reminiscenza platonica, proprio in concomitanza con

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S. FAZZO, Sur la composition, cit., in part. p. 227s.

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l’adozione di una metodologia di indagine di origine almeno in parte accademica (cfr. supra, § 1, e l’introduzione a questo cap. 7; ringrazio Mario Vegetti per la discussione su questo punto).

1072a30 “Principio infatti è il pensiero, e l’intelletto è mosso dall’intelligibile” (ajrch; ga;r hJ novhsi", nou'" de; uJpo; tou' nohtou' kinei'tai) L’argomento consente di isolare, all’inizio della catena dei motori e dei mossi, la coppia intelligibile-intelletto, ove l’intelligibile compare in funzione di motore, e dunque come principio. L’intelletto appare in funzione di mosso, ma recupererà il suo ruolo di principio, già riconosciuto dai Presocratici e Anassagora (cfr. 7.1072b1921, e cap. 9), in ragione della suo identificarsi con l’intelligibile, nell’unico atto del pensiero (novhsi"), che fin d’ora viene valorizzato per la sua originarietà. Per questo, eliminando il punto fermo che Ross e Jaeger appongono dopo “pensiero”, ho inteso integrare le due affermazioni, “principio è il pensiero” e “l’intelletto è mosso dall’intelligibile”, come membri conclusivi di uno stesso argomento.

1072a30s. “L’una delle due serie di per sé è intelligibile” (nohth; de; hJ eJtevra sustoiciva kaqΔ auJthvn) La natura di questa partizione va ricostruita combinando le indicazioni che successivamente, ma coerentemente, il testo di Lambda 7 produce in proposito. Infatti il procedimento ora annunciato si estende almeno fino a 1072b13. Si tratta di due serie di nozioni. Che siano due, lo indica l’aggettivo eJtevra (“una delle due”). Le due, si è detto or ora nell’introduzione a questo capitolo, sono in qualche modo esaustive di una totalità ideale, scissa per mezzo di un procedimento binario, la diairesi

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(diaivresi"), tipicamente accademico (cfr. 1072b2 e supra, § 2.5, cfr. anche § 1): qui, come in certe partizioni di pitagorica tradizione (di cui si ricorda Aristotele in A 5.986a18-28), la diairesi è dedicata a isolare per via di contapposizioni polari, una serie assiologicamente sovraordinata, che è ora definita come serie intelligibile. Quando infatti Aristotele aggiunge “in quanto tale”, egli sottolinea probabilmente che l’essere intelligibile è ciò che caratterizza la serie: in questo, la lettura presente si differenzia da letture più deboli di questa frase, che riconoscono la natura intelligibile degli elementi della serie senza però farne il carattere costitutivo della serie, criterio principale di classificazione e suddivisione. Qui, la serie intelligibile si definisce per opposizione a una serie negativa o comunque assiologicamente subordinata, che non è definita in quanto tale (proprio perché è il semplice corrispettivo negativo della prima), benché alcuni dei suoi elementi siano identificati nel corso del procedimento, come il contingente, 1072b6, o ciò che si muove in vista di un fine, nel controverso passo sulla causa finale in 1072b1-3, 1072b2s. Perchè l’esegesi proposta sia più chiara, una considerazione attenta merita la dicitura “di per sé” o “in sé”. Essa è indubbiamente avverbiale; ma si riferisce alla copula sottintesa o all’aggettivo verbale? Seguo la prima opzione. La serie positiva è tematizzata e caratterizzata in quanto serie intelligibile: è questo che significa, quando dice che la serie “di per sé” è intelligibile. Si intende invero sovente che tale serie sia intelligibile “in sé”, in contrapposizione all’esser intelligibile per altro, se non anzi per accidente (che sarà il modo di intelligibilità delle realtà materiate, per esempio: esse infatti sono intelligibili solo nella misura in cui si estragga da esse la componente intelligibile). Se però si intende così “in sé”, manca un’indicazione su quale sia la caratteristica fondamentale della serie. Non basta dunque dire che è intelligibile in sé e non soltanto per accidente. Bisogna dire che la serie è la serie di ciò che è intelligibile. Il senso della

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frase diventa insomma pertinente, come una luce gettata sulla logica dell’argomento che segue, se si intende che qui una determinata serie si caratterizzi, si isoli, si distingua: è quella serie (ovvero collezione di termini contrapposti ad altri in parallelo) che si costituisce riunendo tutto ciò che è intelligibile, in quanto è intelligibile. Così, ove si pratichi sistematicamente un processo di diairesi e si identifichino coppie polari, la serie positiva viene a comprendere ogni volta il termine primo, che è ottimo, intelligibile, immutabile, desiderabile in sé, non soggetto ad alcun mutamento (cfr. 1072a35s.). Perciò, questa è la serie di ciò che è primo e di ciò che è eccellente. Fra le altre interpretazioni attestate, è interessante che secondo Schwegler, ad loc., per esempio, eJtevra sustoiciva sia la serie dell’ente/uno, o del bene. Questo è plausibile (visto che si tratta comunque di attribuire uno specifico primato all’intelligibile e all’immutabile) soprattutto se riconosciamo dietro a un siffatto modo di ragionare un qualche sostrato platonico (come in effetti ipotizzo, con speciale riferimento al Filebo, cfr. anche infra, ad 1072b1s.)153. Va, peraltro, ammesso che altrove tale espressione, eJtevra sustoiciva, indica piuttosto la serie peggiore, negativamente connotata, quale la serie del mh; o[n in Phys. 201b25 e in Gamma 2 (cfr. D. Lefebvre, L’usage de la série des contraires en Métaphysique, Gamma 2, 1004b27-1005a5, in M. Hecquet-A. Stevens, Aristote. Métaphysique Gamma, cit., (supra, n. 23), pp. 287-321). Ma una tale ambivalenza, se da una parte è notevole,

153 S. FAZZO, Aristotele esegeta del Filebo? La causa finale come motore immobile fra moira platonica e aristotelica systoichia (in corso di pubblicazione). Sui passi critici del Filebo interessati a tale parallelo, cfr. S. DELCOMMINETTE, Le Philèbe de Platon: introduction à l’agathologie platonicienne, Brill, Leiden-Boston 2006, in part. pp. 494-506. Una precedente versione si trova nella mia tesi di Dottorato, cfr. I, p. 12.

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al tempo stesso è normale, visto che in greco eJtevra indica indifferentemente sia il primo che il secondo, o anche il secondo fra due termini dati; e che sustoiciva è, di per sé, nome comune, che si riferisce a modi diversi di ripartizione seriale.

1072a31-b1 “In questa, prima è la sostanza, e fra le sostanze, quella semplice e in atto: ciò che è primo è sempre ottimo o analogo all’ottimo” (kai; tauvth" hJ oujsiva prwvth, kai; tauvth" hJ aJ p lh' kai; kat’ ej n ev r geian [...] kai; e[ s tin a[ r iston aj e i; h] ajnavlogon to; prw'ton) Questa, “in questa serie, prima è la sostanza”, è in qualche modo la frase chiave per una lettura lineare e quasi consequenziale della criptica sezione che segue (come prosecuzione di un unico ragionamento sulle prerogative del principio immobile, da 1072a27 a 1072b13, non senza varie digressioni chiarificatrici, in 1072a27-29, 32-34, b1-3, b11-13). Si trova infatti esplicitata, secondo l’ipotesi già menzionata (ad 1072a30s.), la regola costitutiva di questa altrimenti misteriosa serie intelligibile: intelligibile è la serie al cui primo posto, come primo termine, sta la sostanza. Se è così, è ipotesi ragionevole che i termini successivi siano occupati da altre coppie di termini, declinate secondo altri modi dell’ente ovvero categorie e polarità concettuali. Sulle righe 1072a32-b1 cfr. supra, l’introduzione al cap. 7. La parentesi in 1072a32-4 giustifica il privilegio accordato alla semplicità sull’unità, nelle prerogative del motore immobile (in probabile riferimento ad orientamenti enologici ben attestati nell’accademia platonica): “uno” infatti è solo una misura, ma “semplice” è un modo di esistenza, che appartiene in sé e non per accidente all’ente di cui si predica.

1072b1s. “Che poi il fine fa parte degli immutabili, lo mostra

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la diairesi ” (o{ti dΔ e[sti to; ou| e{neka ejn toi'" ajkinhvtoi", hJ diaivresi" dhloi') Questa frase, così studiata e controversa154, è l’inizio di un argomento diverso e ben preciso, fondato sull’analisi del fine come concetto relazionale. La sua posizione è parentetica, come indica in questo caso la presenza del gavr esplicativo. Non lo è però al modo di una digressione (che porterebbe sui possibili sensi del fine, come secondo il testo stampato nel XX secolo), ma al modo di una giustificazione. Mostra infatti l’identità del desiderabile con l’intelligibile anche dal punto di vista di una diairesi binaria fra fine e in vista del fine, evitando così l’obiezione possibile che veda nel fine da raggiungere qualcosa che si consegue e che dunque possa generarsi. Qui si tratta del fine ultimo, che è “preferibile in sé” (cfr. supra, 1072a35), e questo appunto è immutabile, permanente. “La diairesi” di cui si parla è fra il fine e ciò che è in vista del fine, divisi in quanto l’uno è immutabile, infatti è termine ultimo, l’altro no. Per questo, come ora menzionato, un’ipotesi possibile è che l’uso dell’articolo determinativo (che fa pensare a una diairesi nota) sottenda un riferimento a Platone, cfr. per es. il parallelo con Filebo 53-54, in part. 54c. Ciò aiuta a vedere la discussione accademica attestata nel Filebo sullo sfondo di questa parte del libro, che lavora per diairesi e serie contrapposte.

1072b2s. “ciò che è fine, infatti, è tale rispetto a un altro; dei due, l’uno è negli immutabili; l’altro no” (e[sti ga;r tini; to; ou| e{neka w|n to; me;n e[sti to; d’ oujk e[sti) Il passo, qui semplicemente conservato secondo il dettato dei codici più autorevoli, ha sofferto complesse vicende editoriali.

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S. FAZZO, Lambda 7.1072b2-3, cit.; cfr. inoltre supra, ad 1072a31-b1.

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Non necessari, gli emendamenti praticati dalla fine del XIX secolo offuscano il senso del passo (cfr. I, ad loc.; Fazzo, Lambda 7.1072b2-3, cit.). Il testo così ricostituito, non solo ha autorità stemmatica, ma produce il risultato migliore dal punto di vista dell’argomento in corso155; inoltre, la natura ellittica del fraseggio appare in linea con i caratteri generali del libro, quali vengono sistematicamente conservati nella presente edizione. La traduzione presente si giustifica considerando che l’espressione ejn toi'" ajkinhvtoi" funga da complemento comune, retto, prima da to; me;n e[sti, poi da to; d’ oujk e[sti (di modo che né l’una, né l’altra forma di e[sti sono usate in senso assoluto). È qui in corso, si è visto, a partire da 1072a30, un procedimento di diairesi, cui consegue il configurarsi di una sustoiciva, come indicato in 1072b2, 1072a31, 35. Tale infatti è il procedimento qui sotteso, che mette capo alla serie ovvero colonna positiva dei termini “intelligibili”, predicati ovvero attributi che sono propri della sostanza prima; a tale serie si dice ora appartenere anche il “fine-in-vista-del-quale”, previa un’apposita giustificazione (e un’implicita distinzione rispetto al senso più corrente di fine come obiettivo da conseguire e da realizzare, non eterno in sé né necessario; cfr. in tal senso le disquisizioni sui due sensi del fine in più luoghi del corpus, esaminate e distinte da questo passo – cui pure sono sovente assimilate – nel mio Lambda 7.1072b2-3, cit.). A questo scopo, 155 Intervenendo puntualmente su questo argomento e rispondendo al mio articolo del 2002 ora citato, S. MENN, Aristotle’s Theology, cit. (supra, n. 34),pp. 460-2, n. 40, comunque riconosce che il senso correntemente attribuito al passo fin dal tempo di Schwegler non è espresso dal testo greco in nessuna delle sue varianti attestate, e questa è stata appunto la prima tesi fondamentale del mio articolo. È in sede di edizione e di studio dello stemma codicum che ho potuto poi mostrare l’assoluta superiorità stemmatica del testo così restituito: come esito, perde peso ogni tentativo di dare un senso grammaticalmente accettabile al testo stampato da Ross e da Jaeger.

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il concetto di finalità è analizzato come un concetto di relazione, e scomposto nei due termini della relazione stessa da una parte, il fine, dall’altra, “qualcosa/qualcuno per il quale” (tini) esso è fine (cfr. il modo in cui la diairesi lavora sul concetto di fine anche nel Filebo platonico, cfr. supra, ad 1072b1s.). Sulla colonna o serie (sustoiciva) positiva sta ciò che, in quanto tale, è immutabile (tale infatti è il fine); sull’altra “colonna”, sta ciò che muta e agisce in vista del fine: nel contesto di tale relazione, Aristotele definisce il principio primo, la prima sostanza intelligibile, desiderabile, immobile e non sensibile (che pure sfugge ordinariamente a definizione per la sua assoluta semplicità): la definisce ora per contrasto, per differenza, per primato assiologico. Importante sarebbe discutere sulle motivazioni di fondo: perché Aristotele introduce qui in Lambda 7 il concetto di “fine per qualcuno”? La mia cauta ipotesi (cauta perché non ha reali precedenti, in quanto gli esegeti moderni e più analitici commentano prevalentemente un testo diverso), è che qui Aristotele, esaminando ogni possibile parametro assiologico, consideri la priorità di ciò che è immobile, cioè non soggetto a mutamento (come ciò che è puramente intelligibile), rispetto a ciò che è mutevole e sensibile, servendosi della categoria del relativo. La relazione prov" ti, osserva Aristotele, pone un termine fisso, che è in quanto tale immutabile. Così anche la sostanza intelligibile può rientrare in una relazione di finalità, come termine immobile, polarmente opposto, al modo che è proprio dell’oggetto di desiderio e di pensiero, rispetto al soggetto desiderante e intelligente. Cfr. supra, ad 1072a30s.: anche in questo caso la sostanza intelligibile starà sulla colonna (sustoiciva) positiva; e anche in questo caso, la diairesi, come si vede, distingue fra loro due termini polarmente opposti: mobile, cioè sensibile, e immobile, cioè intelligibile.

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1072b3s. “Quello, dunque, muove come ciò che è amato; e mediante ciò che è mosso, muove le altre cose” (kinei' dh; wJ" ejrwvmenon, kinoumevnw/ de; ta\lla kinei') È un passo fra i più commentati. È l’unico, sull’attività del motore, in cui compaia la radice di e[rw" – e un’eco raggiunge Dante (“... l’Amor che move il sole e l’altre stelle” 156). Il processo comincia con riferimenti probabili nella cosiddetta Metafisica di Teofrasto (5a15-5b10), che pure parla di e[fesi", usa cioè un termine mitigato rispetto ai più forti, aristotelici, e[rw" e o[rexi". Alessandro di Afrodisia cita espressamente questo, e nessun altro luogo della Metafisica, nel suo trattato De providentia (p. 158.8 Zonta, in Alessandro di Afrodisia, cit. La citazione di Alessandro vale peraltro anche a conferma del testo qui stampato, cfr. I, ad loc.). Questo tuttavia non è l’unico passo che menzioni il desiderio come causa di movimento nel corso del libro, bensì è preparato poco sopra, in

156 Paradiso XXXIII 145. Questo explicit della Commedia è annoverato da E. Berti (s.v. “Metafisica” in Enciclopedia Dantesca, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1970-1973, pp. 924-5) fra i luoghi danteschi che afferiscono a questo passo di Lambda 7, insieme ad altri due della stessa Cantica (XXIV 130-132, XXVI 38-39), pure Amore figura come forza motrice dei cieli. Siamo, chiaramente, nell’ambito dell’intendimento tradizionale, secondo il quale in effetti il motore immobile aristotelico è “amato” dal cielo. Nel passo di explicit, poi, rispetto ai precedenti, il riferimento ad Aristotele si fa più intenso, perché più articolato, in virtù del precedente v. 144, “sì come rota ch’igualmente è mossa”, che infatti può riferirsi alla definizione del moto stesso del cielo come circolare e uniforme – in tal senso sempre iguale, a sé, e non ad altro (come spesso s’intende, e sarebbe quasi tautologia, riprendendo “igualmente” il senso stesso del “sì come”). In questa prospettiva, il riferimento del v. 144 andrebbe al precedente capitolo Lambda 6, e gli ultimi due versi della Cantica comporterebbero, quale sfondo della visione beatifica, una sintesi enigmatica e suggestiva, ma non per questo meno tecnica, della sezione centrale del libro (ringrazio Giulia Raboni di aver commentato la presente interpretazione di Pd. XXXIII 144).

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1072a26, cfr. Comm. ad loc. Tuttavia quest’ultimo è il passo più direttamente riferito al primo motore immobile. Come infatti Enrico Berti ha sottolineato, la frase in 1072a26 ha come soggetto il desiderabile e l’intelligibile. Si intende che il primo motore muove come quelli muovono, cioè senza essere mossi: lo dice il testo stesso (kinei' ouj kinouvmena, 1072a26s.). Ma proprio una tale interpretazione di 1072a26 spiana la strada a un’analoga interpretazione di questa frase. Senza di essa sarebbe più difficile ciò che è invece possibile a Berti, intendere anche wJ " ej r wv m enon in senso modale: il motore immobile “muove come ciò che è amato”, cioè, di nuovo, senza essere mosso. In una prospettiva tradizionale di lettura, invece, questo passo (cfr. anche 1072a26) s’intende contenere senz’altro la spiegazione del modo in cui il primo motore muove il cielo e l’universo. Lo scarto fra le due letture si spiega e in un certo modo si risana, secondo la presente prospettiva di lettura (cfr. anche qui infra, Comm. ad 1072b24-26), considerando che il libro Lambda si presenta come una costruzione teorica in fieri. Qui infatti Aristotele indaga sulle condizioni di possibilità ovvero di pensabilità (che è lo stesso) per una teoria globale che raccolga in una considerazione coerente i diversi generi di sostanza. Da questo punto di vista, aver indicato in che modo la sostanza non sensibile può essere causa e principio della sostanza sensibile e soggetta a mutamento comporta già il compimento e perfezionamento di ciò che ai predecessori non era riuscito, una visione complessiva e coerente dello scibile, secondo il programma ellitticamente indicato in apertura, la cui rilevanza sarà ribadita nella conclusione del capitolo 10 (1075b34-1076a4).

1072b4-8 “Orbene, se qualcosa si muove, può essere in modo diverso; così, il primo movimento, in quanto si muove, è sempre in atto, e almeno per questo, può mutare nello

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spazio, seppure non nella sostanza. Poiché invece c’è un ente che, nel suo essere in atto, muove senza muoversi, questo non può stare diversamente in alcun modo” (eij me;n ou\n ti kinei'tai, ejndevcetai a[llw" e[cein: w{st’ hJ fora; hJ prwvth ajei; ej n ev r geiv a / ej s tin h| / kinei' t ai, tauv t h/ de; ej n dev c etai a[ l lw" e[cein, kata; tovpon, kai; eij mh; kat’ oujsivan. ejpei; de; e[sti ti kinou'n aujto; ajkivnhton o[n, ejnergeiva/ o[n, tou'to oujk ejndevcetai a[llw" e[cein oujdamw'") Qui, e specialmente in 1072b5s., la disquisizione sul carattere in qualche modo contingente di tutto ciò che è soggetto a movimento, porta l’accento per una volta sulla serie negativa, ovvero altra rispetto alla serie puramente intelligibile. Il concetto di contingente è allora delineato in contrasto con la necessità del motore immobile. Ciò peraltro deve esser tenuto presente per identificare il senso di “necessario” da attivare fra i tre sotto elencati (cfr. ad 1072b10-13)157.

1072b8s. “La traslazione infatti è il primo fra i mutamenti, e la prima fra le traslazioni è quella circolare” (fora; ga;r hJ prwvth tw'n metabolw'n, tauvth" de; hJ kuvklw/) Come già all’inizio del capitolo 6, Aristotele qui si riferisce, in modo alquanto diretto, alla dimostrazione di Phys. Q 7-8. L’argomento è importante: solo mostrando che il cielo si muove del primo fra i movimenti, si dimostra che il cielo è il primo motore mosso ed è dunque mosso direttamente dal primo motore immobile. In ragione dell’argomento in 157

Si noti che in 1072b5 l’interpretazione al dativo di ejnergeiva/ (invece di ejnevrgeia in Ross e Jaeger) equivale nel senso all’emendamento in kat’ ejnergeivan proposto da D. BLYTH, “The Motion Primary in Actuality”: Note on Metaphysics Lambda 7 1072b5-6, «The American Journal of Philology», CIX (1988) pp. 513-22.

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1072a24s., infatti, si era solo mostrato che un primo motore immobile esiste, non che è motore prossimo del cielo.

1072b10-13 “È dunque ente per necessità, e, in quanto è per necessità, è in modo bello, ed è in questo modo che è principio: ciò che è necessario si può intendere in questi modi [...] come ciò che non può essere altrimenti, ma è in modo assoluto” (ejx ajnavgkh" a[ra ejsti;n o[n: kai; h|/ ajnavgkh/, kalw'", kai; ou{tw" ajrchv (to; ga;r ajnagkai'on tosautacw'" [...] to; de; mh; ejndecovmenon a[llw" ajll’ aJplw'")) Il concetto di necessità fa in qualche modo parte di quelli che Laks ha chiamato i “predicati ufficiali” del primo motore immobile, annunciati in 1071b4s. come agenda dei capitoli 6 e 7, dove dice: “bisogna dire che è necessario che esista una sostanza eterna immobile”. È l’ultimo a essere dimostrato e ciò avviene in queste righe (complessivamente, in 1072b8-14). Ha anche uno statuto particolare, fra quei predicati, perché non è chiaro se pertenga al motore, come qui appare, o all’esistenza del motore, come ivi si direbbe, o alla dimostrazione sul motore, come il contesto di Lambda richiede (si ricorderà infatti che vantaggio competitivo del trattato sulla sostanza immobile consiste in una tale necessità della dimostrazione, che agli Accademici – secondo Aristotele in Alpha – non era stata attingibile. Di questo diremo qualcosa qui infra). Laks, pur accennando a esitazioni possibili, annovera la necessità fra i “predicati ufficiali” del motore immobile, perché essa trova dimostrazione qui nel capitolo 7. Peraltro, una difficoltà di questo passaggio è che propone tre definizioni di necessità senza indicare quale si attagli, o quali e quante si attaglino al caso presente. Tuttavia, come indicato ad 1072b4-8, le considerazioni ivi svolte sul concetto di contingente sono finalizzate a porre con ragione di causa la necessità sulla colonna ovvero sustoiciva intelligibile e immutabile; per-

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tanto la definizione da attivare deve essere la controparte della nozione di contingente: deve indicare ciò che non può essere altrimenti, ma è in modo assoluto. Questa focalizzazione non esclude in sé gli altri intendimenti del concetto di necessità, il secondo dei quali “ciò senza del quale il bene è impossibile” è senz’altro attivato, a differenza del primo, “ciò che accade per forza, perché va contro la tendenza naturale” che a mio avviso è senz’altro da escludere. Resta il problema aperto di quale sia il termine a cui si applica la nozione di necessità: nessuno di quelli sopra menzionati – la sostanza immobile, la sua esistenza, la sua dimostrazione – può essere escluso. La soluzione più pregnante e significativa è prendere atto della complicazione fra i diversi livelli: la dimostrazione è necessaria, dimostra infatti che è necessario che una tale sostanza esista, ed è necessario che esista perché essa in sé non ha nulla di contingente. Di lì, la bellezza del suo modo di essere, che coincide con l’estrema perfezione e desiderabilità.

1072b14-16. “A quell’ente, appartiene una tale condizione di vita, quale a noi è possibile solo per poco tempo: infatti la sua condizione di vita è sempre così (a noi in effetti è impossibile) poiché la sua attività è anche piacere” (diagwgh; dΔ ejsti;n oi{a hJ ajrivsth mikro;n crovnon hJmi'n: ou{tw ga;r ajei; ejkeivnw/ ejsti;n (hJmi'n me;n ga;r ajduvnaton) ejpei; kai; hJdonh; hJ ejnevrgeia touvtou) Il passaggio che qui comincia è preceduto, secondo il testo e la traduzione qui proposta, da una netta cesura semantica, quasi brusca, se è vero che non è fatto esplicito a che cosa si riferisca “quello”, ejkei'no in 1072b15. In effetti, non si parla più del primo intelligibile come motore non mosso, e dei suoi attributi (quali semplicità, desiderabilità, necessità, bellezza), ma si parla ora dell’ente cui è proprio un modo di esistenza, che di tutti è il migliore, e che a noi è possibile solo per poco tempo: c’è

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dunque un ente capace di attività perennemente eccellente, ed è indicato come “quello”. Ora, Aristotele insiste sul fatto che a un tale ente l’attività è possibile continuamente, come piacevole (e non faticosa) al massimo grado. Ciò è necessario perché il movimento è eterno (Lambda 6): deve infatti esistere una causa eterna, che possa essere immutabile; visto che è attiva (è postulata infatti come motore) deve essere immutabilmente attiva. In quanto immutabile, d’altra parte, sarà intelligibile e non sensibile: e questo sarà appunto ciò che si voleva dimostrare. Ma non è una costruzione facile. Nel complesso, comunque, tutto ciò che Aristotele dice qui in Lambda 6-7, sull’attività contemplativa, sulla natura dell’intelletto e dell’intelligibile, e sul “dio”, si può considerare subordinato a questa dimostrazione principale: come dice in effetti il prologo di questa sezione (e poi di nuovo l’epilogo, cfr. 1071b4s., 1073a3-5), il punto cui mira l’argomento è che “ci deve essere una sostanza eterna non soggetta a mutamento”, cioè, come pure vogliono gli Accademici, una sostanza di ordine puramente intelligibile. Ciò che colpisce tuttavia, ed è ripetutamente sottolineato dal testo, assumendo di qui in poi una sua specifica centralità, è l’identità di esperienza (se si prescinde dalla durata e dall’intensità) tra l’intelletto (quello che è nostro, cioè l’intelletto umano), e “quello” (quell’intelletto permanentemente identico all’intelligibile che si postula esser causa della continuità del movimento circolare). La differenza è di grado, non di natura. Aristotele pertanto può ora ragionare sulla base della nostra esperienza dell’attività contemplativa dell’intelletto. Questo peraltro conferma che in generale per Aristotele divino è, fra i due termini implicati nella novhsi", l’intelletto, mentre l’intelligibile sembra avere un ruolo meno diretto: divino infatti non è tanto l’intelligibile, quanto l’identificarsi dell’intelletto con l’intelligibile. Sarà in effetti l’atto dell’intelletto – e, in specie, l’atto di quell’intelletto (non l’atto dell’intelligibile in quanto tale) – ciò

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che poco oltre, e per la prima volta nel libro, Aristotele qualificherà come “divino” (1072b23). Cfr. anche vol. I, Note, ad loc.

1072b18-21 “Il pensiero, in sé, è pensiero di ciò che in sé è eccellente; e il pensiero che è tale al massimo grado, è pensiero di ciò che è eccellente al massimo grado. L’intelletto pensa se stesso, nell’afferrare l’intelligibile: diventa infatti intelligibile toccandolo e pensandolo, di modo che intelletto e intelligibile diventano la stessa cosa” (hJ de; novhsi" hJ kaq’ auJth;n tou' kaq’ auJto; ajrivstou, kai; hJ mavlista tou' mavlista. auJto;n de; noei' oJ nou' " kata; metav l hyin tou' nohtou' : nohto; " ga; r giv g netai qiggavnwn kai; now'n, w{ste taujto;n nou'" kai; nohtovn) Cfr. n. prec. (ad 1072b14-16): un tale ente viene ora descritto come identità di intelletto e di intelligibile (prima di identificarsi senz’altro come “dio”, 1072b24ss.). Questo passaggio acquisisce nella presente lettura un rilievo estremo e maggiore che in altre. L’identità di intelletto e intelligibile è infatti il tramite logico, nell’argomento in corso, fra la principialità dell’intelligibile e quella dell’intelletto. Questa si va infatti a raggiungere tramite quella; quella a sua volta, la dimostrazione di un principio intelligibile, quale è avvenuta specialmente da 1072a26, comporta l’innesto della dottrina di Lambda sull’eredità platonica, a fronte di concorrenti dottrine di scuola, che pure pongono principi non sensibili per gli enti sensibili. Ora, il principio primo diventa intelletto, dunque intelletto attivo della migliore attività, e l’eredità platonica nella concezione dei principi intelligibili va a coniugarsi con quella del pensiero ionico, con il primato dell’intelligenza e del pensiero (Anassagora, 59b12 DK, Diogene di Apollonia, 65B5 DK, fr. 9 Laks). Ciò avviene in forza, da una parte, della definizione del principio come intelligibile sempre in atto (da 1072a25ss.), dall’altra, della sua conversione nell’intelletto

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sempre in atto, e soprattutto del risolversi senza residuo dell’uno nell’altro nell’atto comune del pensiero (come ulteriormente mostra e esamina il capitolo 9). Ciò è reso possibile dalla teoria psicologica qui perfezionata e sviluppata, secondo la quale il pensiero, analogamente alla percezione, comporta un’apprensione e identificazione con l’oggetto da parte del soggetto conoscente: per questo “pensante e pensato diventano la stessa cosa” (1072b21, nella cui traduzione si supplisce qui il verbo “diviene”, givgnetai, dalla frase precedente, ibid.). D’altra parte, il raffronto con il pensiero che si esercita sugli enti sensibili comporta una differenza di attualità: atto puro, eterno e senza potenza, è solo quello nel quale l’intelletto e l’intelligibile separato reciprocamente si identificano. Secondo il testo qui restituito, questa differenza viene di seguito ulteriormente esplorata in un breve excursus (1072b2223), per contrasto con il processo ordinario di intellezione della forma insita negli enti materiati, da parte dell’intelletto come capacità recettiva: cfr. qui infra, ad 1072b22s., e 1072b23 (con la nota sul testo nel vol. I, ad loc.).

1072b22s. “Intelletto, infatti, è ciò che è recettivo dell’intelligibile e della sostanza, ed è in atto quando li ha in sé” (to; ga;r dektiko;n tou' nohtou' kai; th'" oujsiva" nou'", ejnergei' de; e[cwn) Il passo ha una funzione in qualche modo incidentale. Ciò risulta dalla revisione qui proposta del suo significato, conseguente al ripristino del dettato dei codici in 1072b23. Descrive un intendimento dell’attività intellettuale (come passaggio dalla recettività potenziale alla sua attuazione causato dalla presenza dell’oggetto di pensiero, analogamente a quanto avviene per la sensazione, secondo la dottrina del De anima) che ora Aristotele intende solo disattivare. Lo fa appunto con le parole che seguono, dove, per contrasto, è attivata e

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indicata come divina – secondo la lettura presente – la funzione superiore e autoriflessiva dell’intelletto, cfr. n. seg.

1072b23 “... così che è quello più di questo, ciò che l’intelletto sembra avere di divino” (w{stΔ ejkei'no ma'llon touvtou o} dokei' oJ nou'" qei'on e[cein) La tradizione editoriale ed esegetica si è interrogata con fatica sul senso del passo. Che cosa vuol dire “quello” (ejkei'no) e che cosa “questo” (tou' t o)? La lettura prevalente si basava sull’emendamento al testo di Ross accettato da Jaeger, che inverte i due termini (cfr. I, Note): w{ s t’ ej k eiv n ou ma' l lon tou'ton..., “così che è, più di quello, questo ...”; si intende allora che “quello” sia la capacità recettiva dell’intelletto (to; [...] dektiko; n , 1072b22) mentre “questo” sarebbe l’atto corrispondente. Ma l’emendamento non ha reale supporto nella tradizione manoscritta (e il rinvio di Ross al commento di Michele è debole, perché questi non attribuisce mai al testo un tale significato); il contributo teoretico della frase all’argomento principale risulta scarso, per non dire insufficiente. Infatti, sempre secondo il testo emendato da Ross, ciò che l’intelletto ha di divino è l’apprendere il suo oggetto, e cioè dalla potenza passare all’atto; questo non è soddisfacente, tanto più se si considera che più sopra, come già ricordato, Lambda 7 dice che “l’intelletto è mosso dall’intelligibile” (1072a30), evidentemente in riferimento a questo stesso tipo di intelletto recettivo, ricettacolo delle forme, che non è dunque primo motore, ma è a sua volta mosso; ma non si vede allora in che cosa consista il suo essere divino. Invece emerge ed è rilevante un uso idiomatico di ejkei'no, al neutro, come più sotto: “quello”, per indicare quello stato e condizione e modo di essere dell’intelletto che è tutt’uno con l’intelligibile. Più divino di questo, vale a dire, della facoltà recettiva dell’intelletto, e del suo passare all’atto, è quello,

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ejkei'no, il pensiero di sé dell’intelletto. L’intelletto si fa, in quest’atto stesso, intelligibile, dunque si identifica in qualche modo con il principio immutabile e non sensibile. Per il tempo in cui è attivo di questa attività, conosce sé e al tempo stesso si identifica con ciò che è immutabile ed eterno (è con questo – se così si può dire – eterno, anche in noi esseri umani; e a fortiori nel dio). Ma per questo appunto si deve leggere il testo con i manoscritti, come proponiamo. Nell’economia dell’argomento, come si è accennato (ad 1072b18-21, 22s.), queste due righe, 1072b22-23, vanno intese come un inciso. Stabiliscono infatti una distinzione importante, ma parentetica, fra l’attività teoretica e contemplativa dell’intelletto e la funzione passiva che lo avvicina invece alle facoltà sensoriali. 1072b24 “la contemplazione è ciò che è ottimo e piacevole al massimo grado” (kai; hJ qewriva to; h{diston kai; a[riston) Si conclude così un discorso ben continuato e connesso, quello che comincia in 1072b19, sulla migliore condizione di attività e di esistenza: la migliore attività è quella propria del nou' " , umano come divino: la qewriv a , appunto. Per essa l’intelletto si identifica interamente con l’intelligibile, e ne condivide pertanto il primato, quale è stato stabilito dalla dimostrazione relativa al primo motore, che è immobile e puramente intelligibile.

1072b24-26 “Se dunque il dio sta sempre così bene, come stiamo noi talvolta, è meraviglioso [...] Sta appunto in tal modo” (eij ou\n ou{tw" eu\ e[cei, wJ" hJmei'" potev, oJ qeo;" ajeiv, qaumastovn [...] e[cei de; w|de) Un’ulteriore cesura separa questa sezione dalla precedente. Ora si parla del modo di esistenza proprio di un dio. Va pre-

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messo che non c’è motivo di ritenere che Aristotele, quando qui parla de “il dio”, intenda qualcosa di diverso dal dio in generale, in quanto dio – quasi come una specie vivente, sia pure superiore a tutte le altre. Qui si tratta dunque del modo di esistenza che è proprio di un dio se ce ne è uno di molti dèi, se ce ne sono molti. A parlarne, Aristotele giunge dopo aver enfatizzato il valore in sé dell’esperienza contemplativa. A questo punto, identifica e qualifica ulterioremente questa condizione come quella di dio, del dio in generale – al modo che si è ora indicato. È l’unico punto del libro in cui ciò avvenga. Quanto al metodo induttivo così praticato, il gesto ha dei precedenti. Per esempio, all’inizio del capitolo 7, dopo aver postulato un motore immobile, Aristotele passa a parlare dell’intelligibile e del desiderabile, dicendo che essi “muovono in questo modo” (kinei' de; w|de, 1072a26). Si tratta, in entrambi i casi, di un processo di induzione, cioè a partire dalle conclusioni, se ne cercano le condizioni di possibilità. Analogamente, ancora, aveva fatto Aristotele alla fine del capitolo 6, con la teoria del duplice moto celeste, causa sufficiente, e pertanto in qualche modo anche necessaria, del ciclo del divenire: “così è possibile”, aveva concluso a consuntivo, all’inizio del capitolo 7: “perché dunque cercare altri principi?” (1072a18). Sia dunque ricordato che questo procedimento, che risale verso i principi e le cause, è un modo stabile di ragionamento nella parte seconda del libro Lambda. Ora, dunque, è del tutto pertinente ciò che Aristotele fa: dopo aver mostrato quale sia lo stato eccellente – in assoluto, cioè sia per noi se siamo intelligenti, sia per qualunque altro essere – egli viene, pertinentemente, a parlare del modo di esistenza del “dio”, costruendo un climax sia attraverso la sottrazione di temporalità (non solo talora, ma sempre), sia per intensificazione (“ancor di più”) prima di affermare: “sta appunto in tal modo” (e[cei de; w|de).

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1072b26-30 “E gli appartiene vita [...] questo infatti è il dio” (kai; zwh; dev ge uJpavrcei [...] tou'to ga;r oJ qeov") Qui Aristotele spiega e in parte argomenta quanto ha appena affermato: “il dio sta così”. Questa breve sezione è la parte più sicuramente teologica del libro. È costruita su una serie di passaggi dei quali nessuno può darsi per scontato, bensì di ognuno va valutato il peso argomentativo (salvo che non sempre è possibile riuscirci con sicurezza). Così ha fatto già Laks, ad loc., p. 236. La necessità di una nuova analisi viene dal fatto che io intendo diversamente il ruolo sintattico di “vita”, zwhv, in 1072b26. La struttura della frase è infatti analoga a quella di 1072b14s., dove peraltro in prima sede, in costruzione con dativo di possesso sottinteso, si trova un termine di significato analogo a zwhv, e cioè diagwghv. Raccolgo qui, poiché sembra utile, tutte le occorrenze di uJ p av r cw nel corso del libro, in modoche l’interpretazione presente sia meglio giustificata. Il testo è quello edito nel vol. I: 1070b8 (uJ p av r cei ga; r tau' t a eJ k av s tw/ kai; tw' n sunqev t wn), 1074b21 (dia; ga;r tou' noei'n to; tivmion aujtw'/ uJpavrcei), 1074b31 (to; noei'n kai; hJ novhsi" uJpavrxei kai; to; ceivriston noou'nti), 1074b37 (povteron aujtw'/ to; eu\ uJpavrcei). Suppongo che il senso che ne emerge, di “appartenere a”, “esistere”, vada sottinteso anche in 1071b35 (dei' ti ajei; uJpavrcein), perché ciò sortisce un senso più pregnante (“ci dev’essere qualcosa che ne sia causa: per esempio, ora, in questo modo è per natura, in quest’altro modo è per forza o a causa dell’intelletto, o di altro”); leggermente diverso, cioè logico, il senso di “esserci”, “appartenere a” è attestato in 1075a29 (ejn o{soi" ta; ejnantiva uJpavrcei, scil., a quanto credo: ejn touvtoi" ejn oi|" ta; ejnantiva uJpavrcei). Soprattutto, questa lettura è qui confermata da 1072b29s.: w{ste zwh; kai; aijw;n sunech'"; aji?dio" uJpavrcei tw'/ qew'/, che mostra positivamente ciò che Aristotele deve aver inteso anche in questa frase ellittica. La relazione fra i due termini merita di essere tematizzata. zwhv è la

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vita, qualunque vita; diagwghv è la condizione di vita; in 1072b14s., la diagwghv è specificata come la migliore possibile per noi – e possibile a noi solo per poco tempo. Di quel previo passo, tiene conto il presente. Argomenta infatti così. Innanzitutto, al dio appartiene almeno la vita (dove l’almeno, ge, 1072b26, mi pare raramente valorizzato dagli interpreti). Almeno questo infatti è chiaro: gli uomini pensano gli dèi come vivi, ed è a partire da qui che la sua attività si identificherà con il pensiero. Questo punto, anche a prescindere dal suo ruolo nella catena argomentativa, è sicuramente importante. È utile, per meglio precisare la relazione di identità fra il dio di Aristotele e il primo motore immobile. Questa forse è l’idea più nota e più caratteristica fra quelle contenute nel nostro libro. Ma, proprio qui, essa è ricavata indirettamente, non come se appartenesse in sé alla definizione del dio. Piuttosto, al dio è attribuita l’attività eccellente, cioè quella noetica e contemplativa: la sua attività è pertanto puramente intellettiva; ed è per questo che ora, in virtù dell’identità fra intelletto e intelligibile (1072b18-21, cfr. supra, ad loc.), l’argomento dimostra che dio partecipa, riflessivamente, di quella intelligibilità, che è propria del principio non causato, immutabile e senza materia 492.31-493.4): per questo appunto lo si deve pensare come puramente intelligibile. In assenza di derivazioni causali, d’altronde, la relazione fra le diverse prerogative del primo principio è stretta e necessaria, senza che ci sia un senso univoco ed esclusivo di derivazione e dipendenza: al tempo stesso, l’argomento in corso attribuisce al dio un’attività che, per essere la migliore, dev’essere puramente intellettuale; d’altra parte, gli attribuisce un’attività intellettuale contemplativa, che per sua natura è di tutte la migliore. Entrambi gli esiti sono qui affermati, chiaramente e con fermezza, confermando l’eccellenza assoluta del primo principio. Un tale primato non è fuori questione, nel contesto originale di dibattito cui si rivolge questo libro. Lo si vede nella sezione seguente.

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1072b30-32 “Quanti invece, come i Pitagorici e Speusippo, suppongono che ciò che è bellissimo e ottimo non stia in principio...” (o{soi de; uJpolambavnousin, w{sper oiJ Puqagovreioi kai; Speuvsippo", to; kavlliston kai; a[riston mh; ejn ajrch'/ ei\nai) Questa sezione dossografica, che precede la conclusione della sezione Lambda 6-7, rinforza la coesione fra i due capitoli, perché viene a completare la discussione sul primato dell’atto sulla potenza, avviata con l’aporia in 6.1071b22. Contiene un’informazione importante: nominando Speusippo, rende esplicita un’intenzione critica che ridiventa importante alla fine di L 10.1075b37ss., e che invero potrebbe essere sottesa anche a diverse altre parti del trattato. Salvo che è difficile giudicarne con esattezza: tutto sommato, sulla dottrina dei principi di Speusippo, fuori dai cenni brevi che troviamo qui e in Z 2.1028b20-24, sappiamo poco. Di fatto, in risposta a Speusippo e ai Pitagorici, che negano valore al principio iniziale, ora Aristotele invoca la teoria dell’identità fra causa efficiente, formale, finale: una teoria che è al centro della concezione aristotelica della biologia, ma ritorna, in parte o per intero, a più riprese anche nella Metafisica.

1073a3-5 “Che dunque vi sia una sostanza eterna e immobile e separata degli enti sensibili, è chiaro da quanto si è detto” (o{ti me;n ou\n e[stin oujsiva ti" aji?dio" kai; ajkivnhto" kai; kecwrismevnh tw'n aijsqhtw'n, fanero;n ejk tw'n eijrhmevnwn) Questo è l’epilogo dell’argomentazione che ha esordio in 1071b4s., “bisogna dire che è necessario che esista una sostanza immobile”. Le due formulazioni meritano un confronto, che si trova peraltro dettagliato e strutturante già in Laks, ad loc. Noto solo alcuni punti salienti. L’assunto iniziale mira a dimostrare la necessità di una sostanza immobile/immutabile (entrambe le traduzioni di ajkivnhto" oujsiva sono infatti valide), in alternativa alle altre teorie

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accademiche, che già pongono sostanze intelligibili e immutabili. Nel contesto accademico di discussione, almeno per quello che si può trovare sullo sfondo dei libri della Metafisica, si intende che la ricerca sui principi, essendo di natura essenzialmente epistemica, finalizzata alla costituzione di una scienza prima, porta sui principi della scienza, dunque su principi intelligibili; raggiunge pertanto enti eterni e immutabili, nel presupposto che solo ciò che è eterno ed immutabile possa essere intelligibile. In Lambda, come mostra il corso dell’argomento del capitolo 7, le sole sostanze immutabili sono quelle intelligibili, infatti il motore immobile/immutabile dev’essere una sostanza puramente intelligibile, quale solo può essere un ente separato e immobile (con il che, peraltro, la scienza qui costruita risponde alle prerogative della filosofia prima in E 1.1026a10-16). Come traccia di un superiore statuto ontologico, in effetti Aristotele ora chiama “separata” (piuttosto che intelligibile) la sostanza eterna e immobile/immutabile, intendendo che essa esista separata dagli enti sensibili, mentre altri concetti e forme intelligibili sono estratti dagli enti sensibili con un atto di astrazione del pensiero. Il senso di “separata” (kecwrismevnh) e del verbo “separare” può essere in parte chiarito dal raffronto con l’aggettivo verbale corrispondente nell’esordio del capitolo 5, dove “enti separabili” (ta; cwristav) sono le sostanze, per contrasto con enti quali quantità e qualità, che non esistono senza la sostanza e vengono meno se viene meno la sostanza.

1073a5-7 “E si è mostrato che questa sostanza non può nemmeno avere grandezza alcuna, bensì è priva di parti e indivisibile...” (devdeiktai de; kai; o{ti mevgeqo" oujde;n e[cein ejndevcetai tauvthn th;n oujsivan ajllΔ ajmerh;" kai; ajdiaivretov" ejstin) Questo non differisce molto da un riassunto di quanto asserisce Phys. Q 10 sul primo motore del cielo. Ciò non è senza peso: Aristotele, con questo rinvio, pone una precisa continuità fra

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queste ricerche e quelle della Fisica sul principio di movimento: un’indicazione che la scuola farà propria ampliandola, e producendo un’esegesi complessiva di quel libro come di questo158. Si comprovano così, sia, in generale, la coesione fra le ricerche aristoteliche sul principio di movimento; sia, in particolare, la natura ipertestuale di Lambda, che comporta riflessione e rielaborazione dei precedenti contributi su temi affini. Non dal nulla, infatti, Lambda dimostra l’esistenza di un motore immobile: questa, come ricorda ora Aristotele, si è già mostrata nella Fisica. Ciò per contrasto mette in evidenza la specificità del nostro libro: di quel principio, Lambda dimostra la natura di sostanza intelligibile, in confronto e in alternativa rispetto alle dottrine accademiche dei principi.

1073a11-12 “Inoltre si è dimostrato che tale sostanza è impassibile e inalterabile: infatti tutti gli altri mutamenti sono posteriori al movimento locale” (ajlla; mh;n kai; o{ti ajpaqe;" kai; ajnalloivwton: pa'sai ga;r aiJ a[llai kinhvsei" u{sterai th'" kata; tovpon) Qui, Aristotele sembra riferire gli esiti di Phys. Q 7. Cfr. qui supra, ad 1073a5-7.

158 Il riferimento d’obbligo è in primis ad Alessandro di Afrodisia, per quel che ci resta dei suoi commenti a Lambda e a Fisica Q, con particolare riferimento all’esegesi in forma di trattato che egli produce dei due libri nel suo trattato Sui principi dell’universo. Sul trattato di Alessandro, cfr. i saggi citati supra, S. FAZZO, L’exégèse d’Aristote, e S. FAZZO-M. ZONTA, Towards a Textual History.

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CAPITOLO 8 [Procedure per il computo delle sostanze immutabili non sensibili sulla base dei movimenti plurali del sole, della luna e degli astri erranti o pianeti] Il senso di questo capitolo, che viene spesso isolato nella lettura per l’una o l’altra ragione (non senza ipotesi genetiche riguardo a una sua diversa origine rispetto agli altri capitoli), va comunque strettamente contestualizzato nel punto in cui si trova all’interno del libro. Si deve porre cioè la domanda: perché Aristotele a questo punto parla di astronomia? Qual è il ruolo di Lambda 8 nell’economia del libro Lambda e del progetto aristotelico ivi in atto? Perché questa esigenza di determinare il numero delle sostanze non sensibili? In effetti, il punto di forza della teoria aristotelica della sostanza non sensibile è proprio questo: l’essere potenzialmente in grado di determinare il numero di tali sostanze, e questo è un vataggio in assoluto, a prescindere dall’uno o dall’altro computo risultante. È questo che Aristotele intende, quando dice che bisogna parlare con un’indagine appropriata (skevyi" ijdiva, 1073a18), “in base ai presupposti e alle definizioni che si sono stabiliti” (ejk diorismevnwn, 1073a23), e con cura di dare una dimostrazione (spoudh; ajpodeiktikhv, 1073a22). È un esito inattingibile ai predecessori, a meno di non basarsi su speculazioni numerologiche di tipo pitagorizzante e prive di credibilità, come quelle citate all’inizio del capitolo (L 8.1073a19-22). Di qui il senso del ricorso all’astronomia, come alla più filosofica delle scienze matematiche: quella che si occupa di sostanze. È così che i materiali del capitolo hanno potuto essere utili per la storia dell’astronomia antica, come ricordato supra § 4.8.1. Al tempo stesso, però, dal punto di vista dell’esegesi del libro, ciò ha potuto suscitare incertezze di prospettiva quanto alla natura dell’esposizione. Con la presente analisi, tenteremo allora un inquadramento che renda ragione di tutte le componenti del capitolo. Cercheremo anche una soluzione, tramite un

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approccio diverso, ai problemi sollevati dalla più autorevole interpretazione recente, quella di Lloyd, ad loc. Per tale interpretazione, il capitolo verte sui motori immobili in quanto motori, e questo ha conseguenze negative sulla sua valutazione: il testo risulta di scarsa coerenza argomentativa; inoltre, la sezione di dossografia astronomica (1073b17-1074a14) sembra integrarsi male con l’argomento principale. Di più, e peggio, Aristotele non pare poter sfuggire ad accuse di approssimazione e dilettantismo (cfr. gli argomenti infra, ad 1073b15-17). Una parte di queste perplessità si risolve considerando che l’esposizione, né ha carattere propriamente scientifico, né ambisce dimostrare competenze tecniche personali da parte di Aristotele – cfr. infra, ad 1073b13-17 – bensì, come egli chiaramente dice (1073b11) è condotta “per dare un’idea” di come sia possibile determinare razionalmente il numero delle sostanze non sensibili – ciò che non era invece riuscito ai predecessori. Soggiace all’intera esposizione, ed è centrale a quanto sembra, un principio di economia nei principi postulati (cfr. supra, ad 6.1072a17s.), se non anche qualcosa di vicino al principio di ragion sufficiente: si tratta, infatti, da una parte di porre tante sostanze non sensibili quante ne servono per spiegare i fenomeni astronomici – per non lasciare alcun fenomeno senza un principio e una causa; dall’altra, anche di negare che ne esistano di più: ogni sostanza impassibile deve essere considerata infatti motore immobile del movimento di un astro (1074a19s.) e non c’è motivo di porne più del necessario. Si noti: che non ci sia motivo di porne più, sembra infine comportare, dal punto di vista di questa esposizione di Aristotele, che in effetti non ce ne siano di più. Ciò potrebbe suscitare perplessità. Ma il passaggio logico, duplicemente argomentato in 1074a15-31, è sufficientemente complesso, da indicare che Aristotele tiene perfettamente conto della sua problematicità.

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UN

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PROGRESSO METODOLOGICO RISPETTO AI PREDECESSORI:

POTER CONTARE LE SOSTANZE NON SOGGETTE A MUTAMENTO

1073a14-23 Esordio programmatico del capitolo, che ne indica il soggetto (il numero delle sostanze non sensibili come problema aperto) e lo costituisce come una sezione nettamente articolata nell’ambito del libro. Come in altri esordi aristotelici, vi si intrecciano tre tipi di tematiche: il programma da svolgere (l’argomento da trattare) (1073a14-15); differenze e continuità con le teorie dei predecessori: contrasto metodologico con la teoria delle idee (1073a15-22); considerazioni di metodo (1073a22-23). 1073a23-34 Come, dal primo movimento circolare ed eterno, si dimostra l’esistenza di un principio immobile, così, per estensione dello stesso procedimento, si dimostra anche quella di altrettante sostanze eterne e di per sé immobili quanti sono i movimenti circolari nei cieli. 1073a34-b1 I motori infatti sono sostanze, perché la natura degli astri è una sostanza ed è necessario che il principio di una sostanza sia una sostanza. [Si noti che questa dimostrazione è unica nel corso del libro, e assente in Phys. Q.] Tali sostanze sono eterne, immobili e prive di grandezza, come già dimostrato [probabilmente, in Phys. Q]. 1073b1-3 Le sostanze immobili eterne si distinguono assiologicamente, in un ordine che corrisponde a quello dei moti celesti dei quali esse sono principio.

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COMMENTO AL LIBRO LAMBDA DELLA METAFISICA DI ARISTOTELE

1073b3-8 Necessità di un ricorso all’astronomia per il computo dei moti celesti. Riconoscimento dell’autonomia disciplinare dell’astronomia. L’astronomia risulta la matematica più affine alla filosofia: si occupa infatti di sostanze. 1073b8-13 La pluralità dei moti astrali è manifesta a chi se ne occupi. Riguardo al loro numero, si riportano ora alcune teorie astronomiche, perché ci si possa fare un’idea (cavrin ejnnoiva") del tipo di procedura tramite il quale è possibile stabilire quanti siano. 1073b13-17 Cautela epistemologica e riconoscimento dell’autorità degli esperti in materia: chi voglia sapere più di quanto qui esposto, deve cercare personalmente e chiedere a chi fa ricerca nel settore, se gli sembra che gli esperti diano indicazioni diverse da quelle presenti; apprezzi noi e loro, ma creda ai più esatti.

II

TEORIE

ASTRONOMICHE ACCADEMICHE DI

EUDOSSO

E DI

CAL-

LIPPO SUL NUMERO E LA DISTRIBUZIONE DELLE SFERE CELESTI, E ULTERIORI CORRETTIVI, NECESSARI PER PRODURRE UN SISTEMA FISICAMENTE COERENTE

1073b17-32 Il sistema astronomico di Eudosso: tre sfere per ognuno dei due “luminari” (Sole e Luna) e quattro per ognuno dei cinque pianeti (26 sfere). 1073b32-38 Le modifiche di Callippo al sistema di Eudosso: altre due sfere per ogni luminare e un’altra ciascuno per Marte, Venere e Mercurio (33 sfere).

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COMMENTO

1073b38-1074a10 Il correttivo fisico necessario a produrre un sistema coerente: le sfere compensatrici (altre 22 sfere). 1074a10-14 Computo complessivo delle sfere portanti e di quelle compensatrici: 55. Rinunciando alle sfere compensatrici per il sole e per la luna, 47.

III

CORRISPONDENZA FRA IL NUMERO DELLE MOTORI. UNITÀ E UNICITÀ DELL’UNIVERSO

SFERE E QUELLO DEI

1074a14-24 Corrispondenza numerica fra sfere e sostanze immobili: a ogni sfera corrisponde, come suo principio, una e una sola sostanza immobile e non sensibile. 1074a24-31 Ulteriore argomento per l’identità fra il numero delle sfere e quello necessario e sufficiente a spiegare i movimenti degli astri. 1074a31-38 Unicità dell’universo: l’universo è uno di numero. Del motore immobile, privo di potenzialità e materia, non c’è un principium individuationis materiale che possa distinguere istanze diverse della stessa specie.

IV

NATURA

DIVINA DEGLI ENTI CELESTI: LA TESTIMONIANZA DEGLI

ANTICHI

1074a38-b8 Una verità antica a conferma della divinità di sfere e motori

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COMMENTO AL LIBRO LAMBDA DELLA METAFISICA DI ARISTOTELE

immobili: già gli antichi dicevano che il divino ci circonda. Il resto di ciò che dicevano, però, è mitologia. 1074b8-14 Le dottrine trasmesse dagli antenati sono come una reliquia di sapienza.

1073a14s. “Non ci deve sfuggire se si debba porre una sola sostanza di questo tipo o più d’una, e quante” (Povteron de; mivan qetevon th;n toiauvthn oujsivan h] pleivou", kai; povsa", dei' mh; lanqavnein) “Una sostanza di questo tipo” (hJ toiauvth oujsiva) è quella le cui caratteristiche sono riassunte nella parte finale del capitolo 7.1073a3-23, a compendio delle dimostrazioni svolte nei capitoli 6 e 7, nonché nel libro Q della Fisica. “Di questo tipo” indica cioè una sostanza: eterna, immobile, separata dagli enti sensibili, priva di grandezza, impassibile e inalterabile.

1073a15-17 “... considerando che sul loro numero le dichiarazioni altrui non hanno dato alcuna indicazione chiara” (ta;" tw'n a[llwn ajpofavsei" [...] peri; plhvqou" oujqe;n eijrhvkasin o{ ti kai; safe;" eijpei'n) Il significato del termine ajpovfasi" in 1073a16 (ora tradotto: “dichiarazioni”) non è sicuro. Qui un senso più soddisfacente si ottiene considerando che venga da ajpofaivnw; è lo stesso allora che aj p ov f ansi" e significa affermazione, sentenza pronunciata, tendenzialmente senza argomenti (per esempio al modo di chi detiene il potere, in Rhet. A 8.1365b27). Qui l’assenza di argomenti si associa all’incertezza dottrinale, delineando come in negativo e per contrasto la necessità di un superamento.

COMMENTO

345

1073a19-22 “quanto ai numeri, se ne parla a volte come se fossero infiniti, altre volte, come se fossero limitati alla decade, senza nessuna cura dimostrativa quanto al perché siano in una tale quantità. Noi invece dobbiamo parlare a partire dalle distinzioni che abbiamo stabilito” (peri; de; tw'n ajriqmw'n oJte; me;n wJ" peri; ajpeivrwn levgousin oJte; de; wJ" mevcri th' " dekav d o" wJ r ismev n wn: diΔ h} n dΔ aij t iv a n tosou' t on to; plh' q o" tw' n aj r iqmw' n , ouj d e; n lev g etai meta; spoudh' " ajpodeiktikh'") Aristotele si confronta qui con altre teorie non sui motori immobili, ma sulla sostanza non sensibile: si riferisce visibilmente all’Accademia platonica e a un certo uso pitagorizzante delle discipline matematiche che vi era praticato: le idee sono identificate con i numeri, i numeri vengono annoverati fino alla decade, o considerati infiniti, senza comunque una dimostrazione al riguardo. La menzione, in contesto critico, dell’assenza di spoudh; ajpodeiktikhv (1073a22) nelle teorie accademiche, ha in sé implicita, ma evidente, una portata programmaticamente positiva.

1073a22-23 “Noi invece dobbiamo parlare a partire dalle distinzioni che abbiamo stabilito” (hJmi'n dΔ ejk tw'n uJpokeimevnwn kai; diwrismevnwn lektevon) Ci si può chiedere, riguardo a questa posizione, che cosa significhi esattamente ejk tw'n uJpokeimevnwn kai; diwrismevnwn. È naturale attendersi che l’esito si accordi con l’esigenza di spoudh; ajpodeiktikhv espressa in 1073a22. Pertanto, intendo i due participi uJpokeimevnwn e diwrismevnwn come in endiadi, il primo dei due indicando il valore di premessa dei presupposti in questione, il secondo il loro statuto concettualmente determinato. Inoltre, come Ross, considero che sia sottinteso nei participi il complemento d’agente riflessivo: di qui la traduzione: “a partire dalle distinzioni che abbiamo stabilito”; altrimenti si tratterà di un’indicazione

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COMMENTO AL LIBRO LAMBDA DELLA METAFISICA DI ARISTOTELE

generale di metodo, caratterizzante il procedimento apodittico: la necessità di muovere “a partire da fondamenti definiti”: questo almeno è indispensabile per garantire alla dimostrazione un carattere almeno potenzialmente necessario (cfr. 1070a27, 1071b4s., 1072b10-13 con le osservazioni al riguardo qui supra).

1073a23-25 “Il principio degli enti, il primo fra gli enti, non è soggetto a movimento né in sé, né per accidente” (hJ me;n ga;r ajrch; kai; to; prw'ton tw'n o[ntwn ajkivnhton kai; kaqΔ auJto; kai; kata; sumbebhkov") Judson ap. Lloyd, ad loc., p. 253 dice che i motori immobili sono immobili sia in sé, sia per accidente. A rigore, va però osservato, questo è detto solo della sostanza prima, che muove la prima rivoluzione. Più oltre (1073a33s.) le altre rivoluzioni circolari sono dette mosse da “sostanze immobili in sé ed eterne”, mentre nulla si dice del muoversi o meno di tali sostanze, almeno per accidente. Aristotele lascia aperta questa possibilità – altrimenti, perché avrebbe qui specificato “immobili in sé”? Ed in effetti, questa lettura sembra trovare conferma in Fisica Q, in part. cap. 6.259b20-31. Ivi infatti Aristotele esamina la differenza fra quei motori che sono immobili in sé e per accidente, e quelli che sono mossi per accidente. Ed anzi, riguardo a questi ultimi, ivi Aristotele ulteriormente distingue quelli che sono mossi per accidente da sé o da altro. I motori immobili in sé, che sono mossi per accidente da altro, sono quelli rilevanti per il luogo in esame: sono infatti “alcuni fra i principi delle realtà eterne e celesti”, tw'n ejn tw'/ oujranw'/ ejnivai ajrcaiv, 259b30. Tale indicazione di Fisica Q, dunque, alla luce di Lambda 8, può ora precisarsi in riferimento a quei motori che sono successivi al primo, assolutamente immobile, sia in sé che per accidente. Non trascurabile, poi, l’idea in sé, che tali motori immobili possano muoversi per accidente sembra comportare una certa implicazione di corporeità: come si muoverebbero se non

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inerissero a un corpo mobile? Ciò conforterebbe l’ipotesi che tali potenze motrici, nell’uno e nell’altro caso, siano pensate al modo dell’anima del vivente: è questa che, immobile in sé, si muove però per accidente con il movimento del vivente stesso. Un ulteriore appoggio si troverebbe in Fisica Q 10.267a24-b9, dove il motore immobile è localizzato nel corpo circolarmente mobile, non al centro, ma ejn kuvklw/; in tal caso lo si potrebbe considerare inerente all’intero mobile, e dunque assolutamente immobile solo (forse) fin tanto che il corpo mobile si muove unicamente del proprio moto circolare; si muoverà almeno per accidente, nel momento in cui il corpo è mosso anche da altro. Se è così, insomma, i motori successivi al primo sono immobili in quanto motori, ma non in senso assoluto: si muovono infatti per accidente con il corpo del quale sono motori, mossi in specie dal primo motore immobile tramite il moto del primo cielo.

1073a27s. “Il movimento eterno è mosso da un motore eterno, e il movimento singolo è mosso da un singolo motore” (th;n aji?dion kivnhsin uJpo; aji>divou kinei'sqai kai; th;n mivan uJf’ eJnov") Lloyd ritiene che qui stia tutto il perno della questione: l’impossibilità che più movimenti abbiano lo stesso motore. Eppure, egli osserva, l’esperienza mostra che per un solo fine molti viventi possono essere indotti al movimento. Qui tuttavia Aristotele, considerata l’assoluta perfezione delle sfere, cerca e postula principi esplicativi che giustifichino la diversità dei movimenti circolari. Questa diversità non si spiega, se non postulando per ciascuno un diverso motore: altrimenti, bisognerebbe ammettere che alcune sfere sono più capaci, altre meno capaci di muoversi a causa del motore. Per un simile motivo, in L 2.1069b29-31, Aristotele aveva considerato insufficiente la teoria di Anassagora. In quel caso, però, ciò che si moltiplicava era la materia, mentre ora sono i principi: proba-

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COMMENTO AL LIBRO LAMBDA DELLA METAFISICA DI ARISTOTELE

bilmente, la materia celeste, quale Aristotele la concepisce, è semplice, dunque indifferenziata, e non consentirebbe di spiegare la diversità dei moti celesti, se il motore fosse identico per tutti: da moti diversi si inferisce dunque la diversità dei motori. Peraltro, la teoria della molteplicità dei motori è in continuità con ciò che si legge altrove e in particolare in Lambda 5: i principi delle sostanze sensibili sono diversi per ogni sostanza e identici solo per analogia. L’unico identico per tutti è il primo fra tutti i motori (to; prw'ton pavntwn kinou'n pavnta, 1070b34s.). Quanto al motore prossimo, ognuno ha il suo (“di Achille è Peleo, di te è tuo padre”, 1070b22s.). Per converso, in questa diversa prospettiva, l’argomento di Lloyd potrebbe essere addotto per limitare il peso della causalità finale nel libro, come Enrico Berti per altre vie ha sovente suggerito (cfr. supra, n. 8 al “Prologo”, e § 2.5). È infatti solo per la causa finale che l’osservazione di Lloyd conserva tutta la sua evidenza. Se invece la causalità esercitata dal primo motore fosse di tipo diverso, al modo della causa efficiente, la relazione fra mosso e motore si configurerebbe in sé come biunivoca, pur restando possibile che per accidente uno stesso motore muova anche altri corpi mossi.

1073a32 “nei trattati di fisica” (ejn toi'" fusikoi'") Cfr., con Ross, Phys. Q 8-9, De gen. et corr. A 2, B 3-8. Interessante è il ritorno di un riferimento a Phys. Q, che segna un elemento di continuità fra questo passo e l’inizio di Lambda 6. Ci si potrebbe porre ora nuovamente il problema di quale sia la relazione fra questa parte di Lambda (capp. 6-8) e Phys. Q. Un elemento di differenza principale, e di superamento, emerge nelle righe immediatamente successive (1073a34-b3: il principio di una sostanza deve essere una sostanza), insieme a un ulteriore elemento di continuità (1073a38s.: il motore di un moto eterno non può avere dimensioni).

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1073a34s. “Poiché infatti la natura degli astri è una certa sostanza eterna...” (h{ te ga;r tw'n a[strwn fuvsi" aji?dio" oujsiva ti" ou\sa) Diversamente costruisce la frase Ross: “For the nature of the stars is eternal just because it is a certain kind of substance”. Considerata la posizione di aji?dio" prima di oujsiva, sembra tuttavia naturale attribuire tale aggettivo non a fuvsi", ma a oujsiva (nel qual caso non serve l’avverbio, just, introdotto nella traduzione da Ross, per rendere ragione del nesso participiale risultante). Il senso non è identico. In base al senso attribuito da Ross a questa frase, l’eternità degli astri viene sì giustificata. Ma resta in secondo piano il punto principale di questa sezione: il fatto, cioè, che i corpi celesti sono sostanza e che dunque ciò che li muove deve essere sostanza, perché ciò che è primo rispetto a una sostanza è sostanza (“le sostanze sono i primi degli enti”: riecheggia qui l’inizio del cap. 6, 1071b5). In questo appunto la teoria di Lambda costituisce un superamento di quella di Phys. Q. Cfr. anche la n. seg.

1073a36 “... ed è necessario che ciò che è anteriore a una sostanza sia una sostanza” (kai; to; provteron oujsiva" oujsivan ajnagkai'on ei\nai) L’argomento è di estrema importanza: esso fornisce, finalmente, l’anello mancante alla catena dell’argomentazione principale dei capitoli 6 e 7. La tesi da dimostrare, dichiarata all’inizio di Lambda 6, è infatti la necessità di una sostanza eterna e non soggetta a movimento. La discussione mostra, entro le prime righe di Lambda 7, l’esistenza di un primo motore eterno e non soggetto a mutamento, e in questo presenta affinità importanti con l’argomento peri; kinhvsew" di Phys. Q. Ma ancora non è stato dimostrato che quel motore, essendo principio di una sostanza, deve essere sostanza.

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COMMENTO AL LIBRO LAMBDA DELLA METAFISICA DI ARISTOTELE

L’argomento si trova qui, ed è basato sulle nozioni di anteriorità/posteriorità, con quanto di transitivo esse comportano. Propongo la seguente ricostruzione: se la sostanza è anteriore agli altri enti e il motore della sostanza è anteriore alla sostanza, il motore della sostanza deve essere anteriore agli altri enti – deve essere dunque una sostanza. Ciò che comunque qui conta è che, se questo passo è essenziale per completare la dimostrazione della tesi annunciata all’inizio di Lambda 6, allora cade ancora un altro argomento di Jaeger per la lettura genetica della posizione di questo capitolo nel contesto del libro. Non è pensabile infatti che Aristotele da Lambda 7 passi a Lambda 9 senza nemmeno provare a dimostrare che il motore immobile sin qui postulato è una sostanza. Di fatto, qui in Lambda 8 si compie il programma principale che si apre in L 6.1071b4s.

1073a36-b1 “chiaramente dunque è necessario che quelle sostanze siano (1) altrettante, (2) eterne per natura, (3) immobili in sé, e (4) prive di grandezza per la suddetta ragione” (fanero;n toivnun o{ti tosauvta" te oujsiva" ajnagkai'on ei\nai, thvn te fuvsin ajid> ivou" kai; ajkinhvtou" kaq’ auJtav", kai; a[neu megevqou" dia; th;n eijrhmevnhn aijtivan provteron) Che le sostanze eterne siano (1) tante quante le sfere in movimento, è dimostrato in L 8.1073a26-34; che ogni sostanza siffatta sia (2) eterna e (3) immobile in sé, in 6.1071b37.1072a25. Quanto all’assenza di grandezza (4) della sostanza immobile, cfr. 7.1073a5-11; il qual passo rinviava a sua volta, alquanto precisamente, a Phys. Q (cfr. devdeiktai, 1073a5).

1073b1-3 “È chiaro dunque che vi sono sostanze e, fra di esse, l’una è prima, l’altra è seconda, nello stesso ordine delle rivoluzioni degli astri” (o{ti me;n ou\n eijsi;n oujsivai, kai; touvtwn

COMMENTO

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ti" prwvth kai; deutevra kata; th;n aujth;n tavxin tai'" forai'" tw'n a[strwn, fanerovn) C’è un ordine fra i motori, in corrispondenza con l’ordine dei movimenti circolari. Questo punto presenta una difficoltà teorica: in che cosa può consistere la differenza fra una pluralità di motori immobili che sono tutti, in quanto tali, ottimi e perfetti, privi di materia e di dimensioni? Negli esseri corruttibili, principio di individuazione è infatti la materia, mentre questi, privi di dimensione, non suscettibili né di movimento né di percezione sensibile, non hanno materia. Una risposta sarà elaborata nella tradizione di scuola: Aristotele dispone i motori dei moti celesti in una serie ordinata. Si distinguono dunque per essere primo, secondo e così via. Come spiega Alessandro di Afrodisia (De principis, § 92 Genequand), si tratta di una gerarchia fra motori che non comporta né differenza materiale, poiché questo è impossibile, ma nemmeno l’assunzione di essi come specie di un genere comune, che comporterebbe fra l’uno e l’altro una differenza specifica. L’analisi di Alessandro è verosimile; Aristotele non specifica questo punto; tuttavia, se prendiamo sul serio questa gerarchia fra motori, diventa facile conciliare questa pagina con i passi che parlano del primo motore immobile al singolare: esso, infatti, in quanto primo, resta unico; è inoltre, come ricordato, l’unico del quale Aristotele dica che è immobile sia per sé, che per accidente (1073a24): degli altri dice solo che sono immobili per sé (1073a37s.). Ciò non significa che in qualche modo essi si muovano, per accidente, ma che Aristotele lascia aperta questa possibilità, perché la costruzione teorica in corso ha bisogno solo di un primo principio assolutamente immobile.

1073b3-8 “il numero dei movimenti deve essere esaminato, a questo punto, in base a quella disciplina matematica che è la più affine alla filosofia: l’astronomia [...] mentre le altre,

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COMMENTO AL LIBRO LAMBDA DELLA METAFISICA DI ARISTOTELE

come l’aritmetica e la geometria, non si occupano di nessuna sostanza” (to; de; plh'qo" h[dh tw'n forw'n ejk th'" oijkeiotavth" filosofiva/ tw'n maqhmatikw'n ejpisthmw'n dei' skopei'n, ejk th' " aj s trologiv a ": au{ t h ga; r peri; ouj s iv a " aij s qhth' " mev n , aji>divou dev, poiei'tai th;n qewrivan, aij d’ a[llai peri; oujdemia'" oujsiva", oi|on h{ te peri; tou;" ajriqmou;" kai; th;n gewmetrivan) Così costituito dal punto di vista testuale (ejk th'" oijkeiotavth" filosofiva/ tw'n maqhmatikw'n, con Christ, Ross e Jaeger, e i codici M e C, ove forse si è introdotta una felice congettura) il passo si presenta complesso e interessante per i problemi che comporta. C’è una sorta di rovesciamento del privilegio attribuito alle matematiche pure all’interno dell’Accademia. Senza dubbio, gli Accademici che vi si dedicavano pensavano che gli enti matematici fossero – in certo senso – sostanze; in tal senso, la critica di non-sostanzialità all’aritmetica e alla geometria parte da una prospettiva che non è quella dei pensatori soggetti a critica. Inoltre Lloyd accenna alla questione di perché non siano menzionate da Aristotele altre matematiche applicate, come ottica e armonia; ma anche, per converso, si chiede come mai, se Aristotele ha una stima così speciale per l’astronomia, non ne parli più spesso, fosse solo a mo’ di esempio. La questione resta aperta. Di fatto, l’astronomia matematica, essa sola, serve qui specialmente a speculare su un’eternità ritmata dal movimento e misurata dal tempo, che non è pura astrazione ma è propria di una sostanza. 1073b11s. “ora diciamo, per farcene un’idea, quali siano le cose che dicono alcuni dei matematici” (hJmei'" a} levgousi tw' n maqhmatikw' n tinev", ejnnoiva" cavrin, levgomen) Questa affermazione in prima persona plurale, con il soggetto “noi” espresso, contrasta con l’impersonalità delle righe che seguono. A quanto pare, ciò che Aristotele promette di fare nella sezione astronomica che ora segue in Lambda 8

COMMENTO

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(1073b17ss.) non è cercare teorie nuove, ma esporre una scelta di quelle che esistono già, perché ci si possa fare un’idea della procedura praticabile per contare mossi eterni e motori immobili. Denominatore comune di quelle teorie, come ricorda Simplicio (In De caelo, 488.18-24, 492.10-), è il tentativo di “salvare i fenomeni” (swvzein ta; fainovmena), cioè di risolvere il problema che Platone aveva posto agli astronomi, a fronte dell’apparente disordine dei moti degli astri erranti: indicare “sotto quali ipotesi, tramite movimenti regolari, circolari e ordinati, si potessero salvare i fenomeni ad essi relativi”, là dove per movimenti regolari, circolari e ordinati si intendono i moti perfettamente circolari, regolari e uniformi dei cieli.

1073b13s. “Quanto al resto alcune cose bisogna cercarle da sé, altre chiederle a chi fa ricerca” (to; de; loipo;n ta; me;n zhtou'nta" aujtou;" dei', ta; de; punqanomevnou" para; tw'n zhtouvntwn) Il passo comporta un problema quanto all’intendimento letterale, e alla conseguente traduzione, che qui si è tentato di ancorare più strettamente possibile al dettato del testo, vista l’importanza, ma anche l’incertezza, della materia. Questo comporta differenze rilevanti quanto all’interpretazione dell’intero capitolo. Ho cercato, invero, di mantenere, il carattere originario del testo greco, che si presenta come una collezione di costruzioni impersonali, le cui connessioni restano in parte sottintese, e non sempre facili da esplicitare. Nella letteratura esegetica, tuttavia, si è formata una tradizione piuttosto coesa, che comporta una componente piuttosto accentuata di interpretazione, almeno a partire dall’esegeta greco Michele di Efeso. Pressappoco unanimi, ch’io veda, gli esegeti intendono il soggetto logico al modo di Michele, cioè alla prima persona plurale: un “noi” che si intende inclusivo, naturalmente e in primis, di Aristotele stesso.

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COMMENTO AL LIBRO LAMBDA DELLA METAFISICA DI ARISTOTELE

Una tale interpretazione (o sovrainterpretazione) sarebbe più giustificata se il soggetto fosse così indeterminato, da render naturale il riferimento al o ai personaggi più da vicino disponibili, per esempio Aristotele e i suoi collaboratori. Ma questo non è sicuro. L’identità dell’autore dell’ultima teoria resta indeterminata, quasi una questione aperta, che per lo più non viene affatto esaminata (peraltro, sembra che nel testo manchi qualcosa; la punteggiatura qui adottata intende rendere perlomeno possibile il testo tràdito, che resta francamente difficile cfr. I, ad 1073a15). Il verbo principale, dei' , è, appunto, impersonale; a questo in funzione soggettiva si lega una serie di infiniti, ma nessun infinito regge i participi (zhtou' n ta", punqanomevnou"). Almeno un infinito (se non due) deve essere sottinteso (presumibilmente, uJpolabei'n, che è l’infinito più prossimo in 1073b14, o una sua variante rinforzata, per esempio semplicemente labei' n , cfr. anche 1069a33, che produce il senso più coerente), non c’è nulla che regga i participi e cui si riferisca il pronome soggetto che li accompagna, aujtouv". Per questo, Lloyd solleva il problema di quale sia il soggetto dei participi. Egli osserva che è ragionevole ritenere che il soggetto debba essere lo stesso degli altri due infiniti dipendenti (filei'n e peivqesqai); ne conclude che sia, o includa, Aristotele. Ma di questo, non c’è prova; eppure l’opzione di Lloyd sarà fondamentale per le sue successive obiezioni alle presunte ambizioni astronomiche di Aristotele. Un fatto poi ulteriore è che nemmeno filei'n e peivqesqai hanno soggetto espresso: probabilmente, quando si intende che sia di nuovo “noi”, includendo Aristotele, lo si fa per continuità con la frase che precede, il cui soggetto però viene reperito per congettura, come si è detto. Ora però che tutto ciò ha condotto Lloyd, l’esegeta più esigente in materia di storia della scienza, a un giudizio parzialmente sfavorevole su questo capitolo, e sul nostro autore, una verifica diventa urgente. In effetti, i principali problemi storici ed esegetici che il passo solleva vengono dal fatto che esso è inteso come dichia-

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razione di contributo personale da parte di Aristotele, il quale parlerebbe di sé con una prima persona singolare sottintesa. Così sembra interpretarlo già la parafrasi di Michele di Efeso (CAG I, 702.25-31), che pone come soggetto (assente nel testo) un “noi” (che il lettore intende facilmente riferito ad Aristotele e al suo pubblico). Il “noi” è soggetto di tutto il periodo 1073b13-17 anche nella traduzione di Schwegler (I, p. 215; per indicazioni bibliografiche riferite alla letteratura che lo precede, cioè Ideler et al., cfr. Bonitz, ad loc.). Fra i moderni, fa scuola Ross, che pure, in continuità con i traduttori precedenti, intende in prima persona, tanto il soggetto di zhtou'nta" e punqanomevnou", quanto quello di filei'n: for the rest, we must partly investigate for ourselves, partly learn from other investigators, and if those who study this subject form an opinion contrary to what we have now stated, we must esteem both parties indeed, but follow the more accurate (1073b13-17). Si può supporre che Ross “faccia scuola”, perché di fatto gli interpreti successivi non sembrano dubitare né che Aristotele abbia dato un contributo personale alle teorie che espone, specie con i correttivi di cui alle righe 1073b38-74a5 (ma cfr. qui infra, ad loc.), né che egli stesso affermi di aver dato questo contributo, e il passo in cui lo afferma sarebbe per l’appunto questo. Eppure, nel testo greco della sezione in esame (1073b1317), diversamente che nella traduzione di Ross, non compare alcun pronome o verbo di prima persona. Una prima persona plurale si trova invece in b12-13, ma in riferimento, non alle ricerche, bensì alla scelta espositiva di Aristotele, quella cioè di riassumere le teorie disponibili sul numero delle sfere. In questo, e solo in questo, non c’è dubbio che Aristotele si riferisca a sé. Inoltre, c’è un argomento di carattere sintattico, contro quell’interpretazione e a favore di una ben diversa, che

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COMMENTO AL LIBRO LAMBDA DELLA METAFISICA DI ARISTOTELE

ora propongo: non va infatti trascurato che il soggetto logico dei verbi all’infinito dipendenti dall’impersonale dei' nel passo b13-17, può venire da un’interpretazione più comprensiva del ruolo di “chi si occupa di queste cose” (toi' " tau' t a pragmateuomevnoi") in b15-16, cfr. qui infra, ad loc. Se questa espressione al dativo non dipende solo da dokei' , come è evidente, ma anche da dei', come un dativo di relazione, il soggetto logico probabilmente è costituito da coloro che se ne occupano, a qualche titolo, come lettori competenti e in qualche misura esperti. Costoro, indubbiamente, potranno trovare impreciso l’uno o l’altro aspetto delle teorie qui esposte: per la loro ricerca della precisione, Aristotele, lungi dal vituperarli, li loda (è una chiara captatio benevolentiae). Secondo questa costruzione e prospettiva – si noti – la prima persona plurale, “noi”, non interferisce più: sparisce, dopo essere comparsa in 1073b11s. in funzione di voce narrante. Un effetto e, sembra, un vantaggio semantico dell’atetesi ovvero spersonalizzazione, che qui propongo, del contributo che si presume aristotelico, è che, come appunto vuole Lloyd (ma io ora inverto le conseguenze), filei'n riesce ad avere lo stesso soggetto dei participi in quanto tutto dipende dallo stesso verbo principale dei'. Dunque, anche dei participi, il soggetto logico saranno “i più esigenti in materia di precisione”(oiJ ajkribevsteroi, 1073b15): questi devono, in parte cercare di meglio da sé (s’intende, se ne sono capaci), in parte informarsi presso chi fa ricerca in materia. A fronte di tali magisteri tecnici, così, prende ancora più senso la richiesta finale dell’autore, di prestar credito (peivqesqai) a chi presenta i dati più precisi (cfr. n. seg.).

1073b15-17 “Se a chi si occupa di queste cose risulta qualcosa di diverso da ciò che ora viene detto qui, si devono apprezzare sia gli uni che gli altri, si deve prestare fede però ai più precisi” (dei' [...] a[n ti faivnhtai para; ta; nu'n eijrhmevna toi'"

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tau'ta pragmateuomevnoi", filei'n me;n ajmfotevrou", peivqesqai de; toi'" ajkribestevroi") La frase presente, plausibilmente, ha lo stesso soggetto logico della precedente (cfr. qui supra, ad 1073b13s.); questo soggetto però non è necessariamente “noi”, persona che pure qui compare come voce narrante (1073b11s.), bensì, semmai (se pure non resta del tutto indeterminato), “chi si occupi di queste cose”, ovvero gli esperti in materia (che saranno allora soggetto logico non solo per ejan; faivnhtai in 1073b15, ma per l’impersonale dei' in 1073b14). Questa, in ogni caso, secondo la lettura di Lloyd, è la conclusione di un’intera sezione di “disclaimers” (1073b3-17), in cui Aristotele prende anticipatamente le distanze dalle teorie astronomiche che andrà ad esporre. La questione di fondo che Lloyd propone al riguardo è: perché Aristotele ha voluto tentare questo misto di metafisica e di astronomia? Un simile interrogativo merita qualche riflessione: sembra presupporre un giudizio – quello di Lloyd su Lambda 8. A cosa si deve un tale giudizio? Forse, la collocazione disciplinare di Lambda 8 occupa una sorta di ibrido fra metafisica e pensiero scientifico. Ma allora, anche se convalidassimo la critica di Lloyd, ci potremmo chiedere, per converso: perché Aristotele ha lasciato alla metafisica tanta autorità in materia di astronomia? Eppure Aristotele, come non ha né promesso, né inteso scrivere un trattato di teologia, così men che meno ha preteso di redigere, fosse anche solo in parte, un trattato di astronomia. Il contesto del libro induce infatti a una lettura diversa: qui Aristotele ha voluto e anzi dovuto produrre (considerati i limiti rilevati nel metodo dei predecessori) una teoria delle sostanze immobili, fondata in modo dimostrativo (in forza di quella spoudh; ajpodeiktikhv che ad essi appunto mancava, cfr. 1073a22). “Dimostrativo”, si intende, nella misura in cui lo consente la materia: nel senso cioè del partire da dati anteriori e determinati. Il criterio di verifica della scientificità dell’operazione è anch’esso annunciato: gli altri non sanno né

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dare, né giustificare un’ipotesi su quante siano le sostanze non sensibili, Aristotele può farlo, e di fatto lo fa, ragionando al modo dell’eu[logon. Ciò non preclude ad Aristotele l’interesse per una dimostrazione più forte e necessitante; egli stesso infatti indica in quale modo altri, più esperti in materia, ne possano produrre una (cfr. infra, 1074a15-17). In questa prospettiva prende anche un peso diverso l’osservazione di Lloyd più pungente: come pensa Aristotele, si chiede Lloyd, di potersi esprimere in una scienza esatta come l’astronomia, quando le indicazioni di tempo più precise che conosce sono gli anni secondo gli arcontati e i mesi secondo il calendario ateniese? Nei suoi scritti non c’è traccia di ore (men che meno di ore di durata costante, equinoziali), né di coordinate celesti. Le posizioni degli astri erranti nel cielo sono solitamente indicate da Aristotele, nota Lloyd, secondo i quattro punti cardinali o per prossimità con qualcuna delle stelle fisse. In altre parole, possiamo parafrasare: manca in Aristotele un approccio quantitativo alla materia. E senza di questo non è possibile astronomia matematica. Ma proprio così può trovare conferma la precedente conclusione: Aristotele non intendeva scrivere un trattato di astronomia. Andare oltre, ed affermare che non lo avrebbe nemmeno potuto scrivere, non è importante: non solo perché si va su un terreno scivoloso, quello delle ipotesi non verificabili quanto alle competenze matematiche personali di Aristotele, ma perché è contingente rispetto al progetto perseguito qui nel libro Lambda. Ciò che importa, nella presente prospettiva di lettura, è riconoscere il ruolo e la funzione di questo capitolo nell’economia del libro. Espressamente Aristotele registra queste informazioni tecniche “con beneficio di inventario”. Lo indica l’avvertimento cautelativo (ciò che Lloyd appunto chiama disclaimer) che egli rivolge agli esperti e addetti ai lavori: se trovate qualcosa che non vada, non fatene rimprovero a chi scrive: potete sempre costruire meglio il

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modello, o farlo costruire meglio, o attingere da altri, se qualcuno l’ha costruito meglio: ma nei confronti di chi scrive, siate benevoli. Sotto queste condizioni, basterà dunque ad Aristotele, per gli scopi del libro, l’aver mostrato che non solo esistono principi non sensibili del mondo sensibile, ma se ne può indicare un numero determinato, valendosi di un metodo determinato, verificabile e perfettibile al tempo stesso, mutuato dalla più “filosofica” delle scienze matematiche, quale appunto è l’astronomia (e speriamo così di avergli fatto buon servizio, reintroducendo di fatto in questa lettura, come in tutte le altre nostre del libro, quel tanto che ancora possa servire del principium caritatis).

1073b38-1074a14 “È tuttavia necessario, se tutte le sfere messe insieme devono poter rendere ragione dei fenomeni, che ci siano per ognuno dei pianeti altre sfere, meno una, che compensino e che riportino ogni volta allo stesso punto e posizione la prima sfera dell’astro immediatamente successivo” (ajnagkai'on dev, eij mevllousi sunteqei'sai pa'sai ta; fainovmena ajpodwvsein, kaq’ e{kaston tw'n planwmevnwn eJtevra" sfaivra" mia'/ ej l av t tona" ei\ n ai, ta; " aj n elittouv s a" kai; eij " to; auj t o; ajpokaqistavsa" th'/ qevsei th;n prwvthn sfai'ran ajei; tou' uJpokavtw tetagmevnou a[strou) Benché sia opinione diffusa che la teoria delle sfere compensatrici, qui esposta senza indicazione dell’autore, sia propriamente aristotelica, non vedo ragioni precise né sufficienti per attribuirla ad Aristotele né per intero, né in parte. Presumibilmente, Aristotele avrà avuto un suo ruolo nell’organizzarne un’esposizione, che in sé ha qualcosa di ibrido: accosta un accorgimento che non presuppone una ricerca specificamente matematica, ma piuttosto una riflessione cosmologica e specificamente fisica, a sistemi di astronomia matematica, producendone tuttavia in qualche modo una visione bene

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ordinata. Alcuni dettagli risultano di pertinenza astronomica (come l’esclusione delle rivoluzioni dell’astro inferiore dal novero dei moti che richiedono compensazione) e questo scoraggia in effetti (secondo le valutazioni di cui supra) una diretta attribuzione ad Aristotele (che infatti non si profonde in dettagli a questo riguardo). Per di più, c’è un’equivocità terminologica nella teoria delle sfere compensatrici, che può avere messo in imbarazzo lo stesso Aristotele. Se questo dubbio, espresso già nel vol. I, Note ad loc., è fondato, ciò depone nettamente a sfavore di ogni meccanicismo nell’attribuzione della teoria ad Aristotele stesso, e a favore dell’utilizzo da parte sua di una fonte scritta. Si tratta di questo: le sfere compensatrici, secondo la teoria esposta a partire da 1073b38, per gli “astri erranti” o “pianeti” (ta; planwvmena). Questi (secondo appunto che li si intenda come “astri erranti” o come “pianeti”) possono includere o non includere il sole e la luna. Inizialmente (1074a6-12) – secondo la lettura qui proposta – Aristotele opta per un intendimento largo del termine “pianeti”, e applica tali compensativi anche al sole e alla luna, ottenendo 55 sfere (dunque anche 55 motori). Per scrupolo tuttavia Aristotele poi considera anche un intendimento stretto di “pianeti”: toglie le sfere compensatrici a sole e luna, e in questo modo le sfere sono 47 (né più, né meno, 1074a12-14). In questo modo, e non in altri, il conteggio delle sfere risulta perfettamente consequenziale159.

159

È confortante osservare che un esito non del tutto divergente dal nostro è raggiunto per tutt’altre vie, entrando tecnicamente nel vivo della materia, da I. BODNÁR, Aristotle’s Rewinding Spheres: Three Options and their Difficulties, «Apeiron», XXXVIII (2005) pp. 257-275. Bodnár mette in valore discutendolo il precedente intervento di J. B EERE , Counting theUnmoved Movers: Astronomy and Explanation in Aristotle’s Metaphysics XII.8, «Archiv für Geschichte der Philosophie» LXXXV (2003) pp. 1-20.

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1074a13-14 “quarantasette” (eJptav te kai; tessaravkonta) Si è molto discusso a proposito di quest’ultima cifra. Sosigene, uno dei maestri più dediti all’astronomia nella scuola peripatetica, dice che essa crea confusione, e che la cifra adatta sarebbe quarantanove (Sosigene ap. Simpl. In De cael. 503-4, cfr. I, Note, ad loc.); tuttavia, benché i suoi argomenti abbiano un valore storico e anche teorico nella tradizione astronomica antica, non ci sono gli elementi sufficienti per mutare il testo tràdito di Aristotele. Anzi, si potrebbe dire che, poiché Sosigene stesso lamentava una confusione nella scuola a causa di questa cifra – quarantasette – a suo avviso sbagliata, questo mostra che già allora la lezione circolante nei manoscritti era questa che anche noi leggiamo. Su come la cifra tràdita possa essere salvata, cfr. n. prec. 1074a15s. “i principi immobili e non sensibili” (ta;" ajrca;" ta;" ajkinhvtou" kai; oujk aijsqhtav") Come indicato in I, Note, ad loc., leggo “non sensibili”, oujk aij s qhtav " , con il codice M della famiglia b, invece che “sensibili”, ta;" aijsqhtav", evitando l’atetesi di quest’ultima espressione introdotta da Ross a seguito di Goebel. Come esito, si fa esplicita la coestensione, ovvero l’equivalenza d’attributo, di sostanze immobili e sostanze non sensibili (come anche, per converso, di mobili e sensibili). Essa si intende implicita fin dall’inizio del libro, a partire da 1.1069a30-33.

1074a16s. “si lasci infatti a quelli più forti di argomentare che è necessario” (to; ga;r ajnagkai'on ajfeivsqw toi'" ijscurotevroi" levgein) Della necessità bisogna lasciar parlare i “più forti”. Ma chi sono costoro? Non è chiaro se agli astronomi venga qui ricono-

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sciuta una superiorità epistemologica, oltre che tecnica, nella costruzione dell’argomento. Altrimenti questo sarebbe un riferimento ai teorici accademici, non forse senza una componente di ironia. (Ringrazio per la discussione su questo punto Ferruccio Franco Repellini.) In ogni modo si tratta, quasi tecnicamente, di un riconoscimento di debolezza, o almeno di inferiorità epistemologica: Aristotele, per questa parte dell’indagine, aspira a parlare in modo semplicemente ragionevole (eu[logon) e non necessario. Questo rende ragione anche del suo parziale procedere per cumulo argomentativo, e (come talora avviene in casi siffatti) con argomenti che possono suscitare perplessità quanto al loro ordine e contesto originario di redazione (cfr. e.g. 1074a24-31, 31-38 e Comm. ad loc.).

1074a19s. “...bisogna ritenere che ogni natura e ogni sostanza impassibile, che si trovi nella condizione migliore, sia un fine...” (pa'san fuvsin kai; pa'san oujsivan ajpaqh' kai; kaqΔ auJth;n tou' ajrivstou tetuchkui'an tevlo" ei\nai dei' nomivzein) Seguo in questo caso specifico la tradizione editoriale, che corregge leggermente il passo (tevlou" in tevlo", seguendo uno scolio sul codice E. Altrimenti, si tradurrebbe: “bisogna ritenere che ogni natura e ogni sostanza impassibile sia anche in condizione, di per sé, di ottenere il fine migliore”). La variante viene adottata anche qui, per questo: se sono un fine per un movimento circolare tutte le singole sostanze non sensibili e non soggette a mutamento, allora le sostanze immobili non saranno più numerose dei movimenti circolari. Poiché d’altronde esse non saranno meno numerose (1073a27s., 1074a15s.), saranno nello stesso numero, e così si conclude l’argomento: se si può stabilire il numero dei movimenti circolari, con questo si possono contare anche le sostanze non sensibili. Così si compie il desideratum che gli Accademici non avevano

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adempiuto (cfr. 1073a14-22) e che ha costituito il programma della trattazione di questo capitolo. In 1074a20 (cfr. I, ad loc.), la traduzione che si otterrebbe attenendosi al testo tràdito è sensata di per sé, ma non aiuta la connessione logica, così che lascia mancare il punto argomentativo ora delucidato, la spiegazione cioè di come mai si possa confidare che le sostanze non sensibili non siano più numerose dei motori immobili. Invece, una tale spiegazione è pertinente dal punto di vista di Aristotele, se si considera la critica che egli rivolge alla teoria platonica delle idee: se da una parte questa non prova a sufficienza l’esistenza delle idee, d’altra parte non le sa limitare a un numero conveniente. Infatti, una volta che si accetti la validità degli argomenti addotti in proposito, si vengono a porre anche entità ideali di tutto ciò che sia passibile di scienza, o che si dica “uno-sopra-i-molti”, per esempio i concetti negativi, dei quali invero nessuno intende postulare una sussistenza ideale separata (Metaph. A 9.990b10-17; l’eco del problema è già in Lambda 1, con riferimento all’esempio specifico dei concetti negativi nella menzione del “non bianco” in 1069a22s.). Pertanto la variante tevlo", che non è priva di ogni supporto nella tradizione manoscritta, è stata adottata nonostante non abbia autorità stemmatica: non è d’altronde impensabile che sia a, sia b presentino indipendentemente lo stesso errore psicologico, visto che tevlou" può derivare per attrazione dal genitivo tou' ajrivstou che la precede a distanza di una parola. Se no, più probabilmente, l’errore, se è tale, risalirà (ed è caso raro) all’archetipo comune ad a e b. Questa non è però l’unica difficoltà che il brano presenta. C’è scarsa connessione fra il modo in cui qui Aristotele parla delle sostanze non sensibili e impassibili come fine del movimento, e il modo in cui il concetto di fine viene ripreso poco oltre con l’argomento dei ferovmena. Cfr. n. seg.

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1074a24-31 “Ciò si desume ragionevolmente anche considerando i corpi che vengono mossi circolarmente. Se infatti ciò che muove (to; fevron) è in funzione di ciò che è mosso (tou' feromevnou cavrin), e il movimento (forav) è sempre proprio di un corpo mosso [...] il fine di ogni movimento sarà uno dei corpi divini che si muovono nel cielo” (tou'to de; eu[logon ejk tw' n feromev n wn uJ p olabei' n . eij ga; r pa' n to; fev r on tou' feromevnou cavrin pevfuke, kai; fora; pa'sa feromevnou tinov" ejstin [...] tevlo" e[stai pavsh" fora'" tw'n feromevnwn ti qeivwn swmavtwn kata; to;n oujranovn) Il brano è denso di interrogativi. In primo luogo, andrebbe stabilito a che cosa si riferisca il pronome dimostrativo neutro iniziale, “questo” (tou'to) in 1074a24. Lo intendo qui in riferimento, non a tutto l’argomento che precede, ma solo alla singola frase: non ci sono più movimenti di quelli ora indicati (cfr. 1074a23s.). In secondo luogo, ci sarebbe da capire se nel participio attivo si debba sottintendere un sostantivo indicante un corpo, ovvero una sostanza, di modo che to; fevron sarebbe il corpo, o più precisamente, in questo caso, la sfera trasportante; oppure ci si debba attenere alla semplice indicazione di una funzione reciproca e relativa fra ciò che muove e ciò che è mosso. Il problema della prima, più concreta e determinata rappresentazione, è che in quel caso si avrebbe l’inconveniente di vedere il testo continuare dicendo che tutti i corpi ovvero sostanze che muovono altri corpi sono in funzione dei corpi mossi. Ma ciò non si addice alla principialità del motore, quale è affermata nel corso del libro, anche e specialmente nel caso debba trattarsi di una causa finale come motore. Pertanto, credo si debba passare alla seconda opzione: to; fevron sarà, in generale, “ciò che trasporta”, in particolare, l’agente e la causa del trasporto. In Fisica H 2.243a38, in effetti to; fevron è classificato come un tipo di motore, quello che muove di movimento locale, forav. Qui, la breve frase in esame, to; fevron tou' feromevnou cavrin pevfuke vale a confermare che

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nel movimento non c’è nulla di prioritario rispetto al mosso, dunque contando i mossi si contano i motori. Per questo l’argomento è presentato come l’argomento “dei mossi” – in consonanza peraltro con il capitolo finale della Fisica, Q 10.266b27ss. Aristotele dice ora anche di seguito, con altre parole: il movimento (che è atto del motore) è sempre insieme al mosso e si intende in funzione del mosso. Non vi è movimento se non di un corpo mosso. Per questo appunto contando i mossi si contano i motori. Questo spiegherebbe, probabilmente, perché nel testo, e specie nella protasi in 1074a25s., si passi da “il motore”, to; fevron, a “il movimento” hJ forav, come se – nell’ambito di questo argomento – i due termini si equivalessero (to; fevron, hJ forav). Nell’interpretazione qui giudicata più probabile, insomma, dire che “il motore è in funzione del mosso”, significa, una volta di più, ciò che Aristotele ha detto più volte fin dall’inizio del libro: i movimenti non ci sono se non c’è la sostanza che si muove. Nella fattispecie, la sfera è in funzione dell’astro mosso. Non ci sono sfere che non portino astri, e nemmeno movimenti che non portino nulla. Se ci si attiene a questa interpretazione, minimale dal punto di vista dell’economia concettuale, diventa meno strano ciò che Lloyd, ad loc. stigmatizza, cioè che Aristotele neghi che una forav possa essere in vista di un’altra. Aristotele starà dicendo che serve una sostanza che si muova della forav, o delle foraiv, se ce ne sono più di una. Tale sostanza è appunto il ferovmenon. Lo stesso appunto precisamente dice in Phys. D 11.219b29-31. Stando così le cose, infine, c’è un’altra difficoltà: ciò che qui Aristotele dice può parere in antitesi con ciò che affermava sopra, 8.1074a20, ove diceva che il fine del movimento circolare è una sostanza non sensibile. Ivi infatti è naturale intendere che in quanto fine, ogni sostanza non sensibile sia causa finale ovvero motore immobile di qualcosa (“il fine infatti è per qualcosa...”, cfr. 7.1072b2). Qui d’altra parte dice che il fine del movimento delle sostanze sensibili sono le sostanze sensibili stesse.

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Ciò obbliga in qualche modo a diversificare due sensi del concetto di fine (benché la terminologia abbia punti di contatto, vedi l’uso di e{neka in 1072b1s. e in 1074a27s.): uno è il fine che è immobile (7.1072b1-3), l’altro è un fine del movimento che è il soggetto del movimento stesso, ed è per definizione mobile e anzi mosso (nel passo ora in esame). Si potrebbe dire che nel primo caso la finalità è relazione fra sostanze, nel secondo, è relazione logica, concettuale, fra le sostanze e i movimenti ovvero affezioni delle sostanze, che non sussistono senza le sostanze: le sostanze sono i primi fra gli enti (1069a20s., 1071b5). È difficile, tuttavia, non avere l’impressione, da questo fluttuare degli usi linguistici, che parte almeno di quest’ultimo passaggio sia stato inserito in questa parte del testo in un tempo diverso da quello della sua redazione originaria.

1074a31 “Che l’universo sia uno, è chiaro...” (o{ti de; ei|" oujranov", fanerovn...) Possiamo parlare di “universo”, per non confondere il cielo, inteso nel suo complesso, con le diverse sfere celesti. Oppure possiamo dire “cielo”, intendendo in particolare il primo cielo, quello delle stelle fisse (sulla differenza nei sensi di oujranov", cfr. In De Caelo B 12.488.16-24, 492.31-493.4). L’argomento è, in ogni caso, riferito al primo cielo e al suo motore immobile, che è il primo motore immobile dell’universo: esso non può declinarsi in istanze plurali, e così non è possibile moltiplicare indefinitamente il numero dei motori immobili. Si è potuto sollevare il dubbio, di come l’argomento non faccia ostacolo alla pluralità dei motori immobili teorizzata nel corso del capitolo. La scuola stessa faticò a trovare una spiegazione della loro diversità pur nell’assoluta semplicità (cfr. supra, ad 1073b1-3): la spiegazione che si basa su un ordine di priorità può essere debole. Chiaro comunque è il senso di questa considerazione: l’argomento si integra (sia pure a posteriori, come si sospetta, e a fatica) con il contesto: serve a

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mostrare che è possibile fissare in assoluto quanti motori immobili siano necessari e sufficienti, né più né meno, per “salvare” i fenomeni celesti, per spiegare cioè i moti apparenti degli astri erranti tramite un congruo numero di movimimenti circolari uniformi (nel che si compie il desideratum indicato da Platone agli astronomi, secondo Simplicio, In De caelo B 12.488.16-24, 492.31-493.4). Ciò porta in effetti a negare, per un principio di interna economia, che vi siano sostanze immobili oltre altre, rispetto a quelle sostanze immobili, che a quelle sono necessarie a spiegare i moti apparenti degli astri.

1074a35 “la quiddità prima non ha materia: infatti è entelechia” (to; de; tiv h\n ei\nai oujk e[cei u{lhn to; prw'ton: ejntelevceia gavr) Il passo è di interesse notevolissimo: unico nel libro, dà indirettamente un appoggio alla vulgata esegetica, poi fortunatissima, secondo la quale per Aristotele il motore immobile è pura forma – almeno se è di questo che si tratta, dove si dice “la quiddità prima”. Nella tradizione esegetica, poi, questa interpretazione è stata solidale a quella secondo la quale il motore stesso è puro atto, ma probabilmente la precede. Nel primo esegeta che ne porta traccia, Alessandro, l’idea del motore come atto compare in occorrenze assai rare ed isolate, a sostegno, a quanto pare, dell’idea di motore come forma: cfr. Alex. Aphr. Quaestiones 4.7-25, 39.9-40.6; De principiis § 54, 74s., con S. Fazzo, L’exégèse d’Aristote, cit.

1074a38-b3 “Gli antichi e gli antichissimi hanno tramandato ai posteri in forma di mito che questi sono dèi...” (paradevdotai de; para; tw' n aj r caiv w n kai; pampalaiv w n ej n muv q ou schv m ati, kataleleimmevna toi'" u{steron, o{ti qeoiv tev eijsin ou|toi...) C’è una componente importante di retorica in questa chiusa. Il

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richiamo alle voci del passato è uno dei modi possibili per registrare un e[ndoxon. Qui, un punto tuttavia interessante da notare è che il carattere divino non è attribuito ai motori immobili, ma alle sostanze eterne visibili, gli astri. Il testo non lo dice espressamente, ma accenna a costellazioni di figure mitologiche, antropomorfe e zoomorfe. Almeno, a me pare possibile che Aristotele si riferisca alle costellazioni: che cos’altro potrebbe significare quell’allusione a figure astrali antropomorfe e zoomorfe? Il passo peraltro, se così fosse, sarebbe forse notevole per motivi di datazione: l’astrologia zodiacale si data presumibilmente ad epoca ellenistica. Questo però probabilmente non impedisce rappresentazioni preesistenti, simili o analoghe a quelle che ancora oggi conosciamo come astrologiche (e.g. i pesci, i gemelli...).

CAPITOLO 9 [Aporie sull’intelletto, nella sua relazione con l’intelligibile] Il capitolo 9 sviluppa una serie di aporie sull’intelletto. Lo svolgimento presenta il caratteristico diaporh'sai che può essere meglio esaminato da uno studio delle aporie del libro Beta: dati due rami ovvero possibilità fondamentali, si sollevano argomenti contro entrambe le ipotesi (o almeno contro la prima e più immediatamente disponibile); l’elaborazione di entrambi i rami è condizione necessaria (sebbene non sufficiente) della soluzione. Il problema dell’intelletto è considerato in riferimento alla teoria del De anima quanto al rapporto fra atto e potenza nell’attività noetica, e al primato assiologico di quell’intelletto che sia non facoltà da attuare, ma sia in atto per sua natura, senza alcuna passività. D’altra parte, si esaminano alcuni ostacoli (duskolivai) teorici a quel primato assiologico, quali sono emersi nel capitolo 7, anche a fronte del primato del principio intelligibile, quale ivi è postulato. In quella dimo-

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strazione infatti Aristotele, come già i suoi predecessori accademici, fa del principio primo una sostanza intelligibile, mentre il ruolo dell’intelletto non è chiaro di per sé. Se è considerato, come avviene correntemente, come una facoltà, duvnami", esso non solo dovrà passare dalla potenza all’atto per causa di un fattore esterno, ma sarà comunque potenzialità per sua essenza e non potrà essere sempre in atto. La struttura della discussione, che può apparire disordinata, si comprende meglio tenendo sullo sfondo la dottrina dei diversi livelli del rapporto fra atto e potenza, che era già mobilitata in L 6.1071b12-22, ed è ora illustrata in riferimento ai tre stadi dell’attività cognitiva in De anima B 5.417a10-29 (ove i tre stadi sono rappresentati dal neonato che ancora non ha imparato, da colui che ha imparato, ma sta dormendo, cfr. 1074b18, e da colui che in atto conosce). Già in Lambda 6, rispetto al De anima si sviluppa un ulteriore livello, superiore a quello della potenzialità attuata: quello dell’attività eterna di ciò che è privo di potenzialità e non può che essere in atto. Lo schema che qui si presenta ha dunque dei precedenti precisi, e questo giustifica il fatto che la scansione su tre livelli avvenga in forma parzialmente implicita. Essi tuttavia si articolano distintamente, qui come in Lambda 6: la potenza non attuata, la potenza attuata (che non può essere sempre attuata, ma ora è in atto, ora è in potenza), l’attività di ciò la cui essenza è atto e non potenza, e che è dunque sempre in atto per sua natura (qui si penserà semmai a un’altra parte del De anima, G 5.430a18). La differenza di queste discussioni rispetto a quelle del De anima sta nel ruolo eminentemente dialettico delle definizioni degli stadi inferiori: queste valgono a consentire, per contrasto e differenza, di definire un unico termine assiologicamente sovraordinato. Quale, però? Si è spesso letto questa pagina come senz’altro riferita a “Dio”: tale è stata la lettura prevalente ancora nel XX secolo, attestata nelle traduzioni di Reale e Tricot dall’uso della lettera maiuscola, o dell’aggiunta di “divino” al sostantivo “intelletto”. Ma l’analisi presente non ha confermato la necessità di una tale sovra-

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interpretazione: porta anzi al riguardo elementi di senso contrario (e.g. ad 1074b15s.), e a favore invece di una lettura che avvicina, per quanto possibile, l’umano e il divino. Una infatti è l’eccellenza di vita, costituita dalla contemplazione e dalla conoscenza di sé.

1074b15-17 Aporie sull’intelletto (secondo la teoria aristotelica del De anima) e ostacoli (duskolivai) al suo primato secondo la teoria di Lambda 7. 1074b17-21 Prima aporia: pensa o no? E se sì, come non sarà subordinato all’intelligibile? Si dirà che, innanzitutto, non dorme, né è solo una facoltà, bensì è attivo e cioè pensa, e che pensa però in modo tale, che la sua oujsiva stessa non sia potenza o facoltà (duvnami") (sia pure attivata), ma atto, cioè pensiero (novhsi"). 1074b21-23 Seconda aporia: qual è il suo oggetto? Deve essere il migliore e dunque non può cambiare. Il problema è articolato in due parti: (i) che cosa pensa? Pensa se stesso, o altro? E se pensa altro (ii), pensa sempre lo stesso, od ora uno, ora un altro? 1074b23-26 Soluzione: in primo luogo, suo oggetto è ciò che è ottimo. 1074b26-27 Dall’eccellenza dell’oggetto, si ricava che il soggetto sarà sempre identico, altrimenti non potrebbe essere il migliore (resterà dunque da dimostrare che pensa se stesso). 1074b28-35 Nell’identificazione dell’oggetto di pensiero con il pensiero

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stesso trova compimento e soluzione non solo la prima parte della seconda aporia (“pensa se stesso o altro”?), ma l’intera serie di problemi inizialmente enunciata a sviluppo del tema proposto (1074b17-23): l’essenza dell’intelletto è pensiero; ed è pensiero di pensiero. 1074b35-38 Due obiezioni: (i) la scienza, come le altre attività di tipo conoscitivo, ha un oggetto diverso da sé, e prende sé per oggetto solo in sovrappiù. Inoltre (ii) ci si chiede se il bene stia nel pensare o nell’essere pensato, o, in altre parole, se la posizione assiologicamente eminente del pensiero derivi dal pensare o dall’essere intelligibile. 1074b38-1075a5 Le due obiezioni sono risolte al contempo: la distinzione fra conoscenza e oggetto vale per gli enti materiati, che richiedono previa astrazione per poter essere conosciuti. Per ciò che è senza materia, invece, pensiero e pensato sono identici anche quanto all’essenza. 1075a5-10 L’ultima aporia ripropone, sia pur in modo indiretto e mediato, il tema e problema cruciale con il quale si apriva già in Lambda 7 la discussione sull’intelletto (1072b7). Si tratta cioè della similitudine e differenza con l’intelletto umano: come è possibile che il pensiero pensi un oggetto restando attività semplice, eterna, immutabile? La soluzione è che ciò in effetti è possibile solo se il pensiero è pensiero di sé.

1074b15-16 “[l’intelletto …] sembra essere il più divino dei fenomeni” (dokei' me;n ga;r ei\nai tw'n fainomevnwn qeiovtaton) Questo incipit della discussione sull’intelletto dovrebbe già in

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sé dare adito a perplessità, nel quadro di una lettura teologica. Se infatti è di “Dio”, o dell’intelletto divino, che si tratta, come può, l’oggetto di indagine, proprio in apertura, caratterizzarsi come “il più divino dei fenomeni”? Indubbiamente, se ci sono enti divini per Aristotele, sono quelli non sensibili; perché dunque si riferirebbe ad essi come a una tipologia di “fenomeni” (fainovmena)? Se invece ci riferiamo al fatto stesso, pure in qualche modo mirabile, che alcuni viventi siano dotati di una tale facoltà quale quella intellettiva, questo potrà apparire ed essere chiamato un “fenomeno”.

1074b17-21 “Se infatti non pensa nulla, che può avere di venerabile? Sarebbe nella condizione di colui che dorme. Se invece pensa, ma dipende da un altro nel suo pensare, in quanto la sua essenza non è di essere pensiero, ma di essere una potenza, allora non dovrebbe essere la sostanza più eccellente: dal pensare infatti viene il suo valore” (ei[te ga;r mhde;n noei', tiv a]n ei[h to; semnovn; ajll’ e[cei w{sper a]n eij oJ kaqeuvdwn: ei[te noei', touvtou d’ a[llo kuvrion, ouj gavr ejsti tou'to o{ ejstin aujtou' hJ oujsiva novhsi", ajlla; duvnami", oujk a]n hJ aj r iv s th ouj s iv a ei[ h : dia; ga; r tou' noei' n to; tiv m ion auj t w' / uJpavrcei) Sul metodo dell’aporia in generale, cfr. quanto qui sopra osservato nell’introduzione a questo capitolo. Da questo punto in poi, Aristotele lavorerà per superare la nozione stessa di intelletto come facoltà stabilendo il primato dell’attività propria dell’intelletto. Essa è pensiero, novhsi", come già annunciato peraltro nella prima parte di Lambda 7: “principio infatti è il pensiero” (ajrch; ga;r hJ novhsi", 1072a30). Questo rende più comprensibile il primato, che pare spettare all’oggetto di pensiero come a ciò da cui è mosso l’intelletto, portandolo dalla potenza all’atto (7.1072a30, cfr. Q 5.1048a516), e la possibile subordinazione dell’intelletto, “nel caso

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invece che pensi, ma del pensare sia padrone un altro…” (1074b18s.). La definizione finale – che risolve e concilia l’alternativa tramite l’identità di pensante e pensato – è raggiunta infra, in coda alla seconda aporia (1074b28-35). Notevole in 1074b17s. il riferimento al dormiente (“Se infatti non pensa nulla […] è come uno che dorme”), come in De an. B 5.417a11 (cfr. qui infra, ad 1074b21s.).

1074b21s. “Inoltre, sia se la sua essenza è intelletto, sia se è pensiero, che pensa?” (e[ti de; ei[te nou'" hJ oujsiva aujtou', ei[te novhsiv" ejsti, ti noei'';) È la seconda aporia. La diairesi qui praticata fra intelletto e pensiero può risultare analoga a quella praticata nel De an. B riguardo alla sensazione (5.417b16-18, cfr. anche ibid. G 4-5, in riferimento all’intelletto). Infatti, la nozione di nou'" potrebbe essere intesa come duvnami" piuttosto che come attività, e il primo senso è da escludere, perché la duvnami" è tale anche quando si dorme, come si vede appunto in De an. B. Notasi inoltre che questa configurazione di primato del nohtovn sul nou'" sembrerebbe suggerita anche all’inizio di Lambda 7, dove dice nou' " de; uJ p o; tou' nohtou' kinei' t ai (1072a30), e valorizza in effetti il ruolo dell’intelligibile come principio, prima di procedere all’esame degli attributi del primo intelligibile. Di qui si pone il problema di quali siano le condizioni alle quali l’intelletto, che si potrebbe intendere come duvnami", possa essere la sostanza migliore che ci sia. La risposta essendo nell’identità di intelletto e intelligibile, si tratterà di definire a quali condizioni ciò garantisca l’eccellenza dell’uno come dell’altro, cfr. n. seg.

1074b25s. “È chiaro pertanto che esso pensa ciò che è più

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divino e di maggior valore, e non muta oggetto” (dh'lon toivnun o{ti to; qeiovtaton kai; timiwvtaton noei', kai; ouj metabavllei) Il procedimento di soluzione della seconda aporia sollevata in 1074b21-23 (“Che pensa? Pensa se stesso, o altro? E se pensa altro, pensa sempre lo stesso, o cambia oggetto?”) va nell’ordine inverso rispetto alla posizione del problema, parte cioè dalla questione se l’oggetto muti o rimanga lo stesso. In primo luogo, assiologicamente, si ricava che suo oggetto è ciò che è ottimo; questo è rilevante, perché ciò che è eccellente è primo – così come per converso ciò che è primo, in qualche modo è eccellente (cfr. 1072a35s.; è un argomento dialettico di identità, simile a quello esaminato supra, cfr. § 1 e n. 17); ciò che è primo è uno solo, dunque se l’oggetto pensato è eccellente, non cambia, è sempre identico.

1074b28s. “In primo luogo dunque, se l’intelletto non è pensiero, ma è una potenza, è ragionevole che pensare di continuo gli sia faticoso” (prw'ton me;n ou\n eij mh; novhsiv" ejstin ajlla; duvnami", eu[logon ejpivponon ei\nai to; sunece;" aujtw'/ th'" nohvsew") Questa sezione pone in primo luogo un ulteriore argomento per identificare il nou' " in esame con la nov h si": l’attività non potrebbe essere perpetua, se si trattasse di una duvnami" e non di un atto che è per sua essenza atto.

1074b29s. “Inoltre, è chiaro che ci sarebbe qualcosa di maggior valore che non l’intelletto, cioè l’oggetto di pensiero” (e[peita dh'lon o{ti a[llo ti a]n ei[h to; timiwvteron h] oJ nou'", to; noouvmenon) Questo successivo argomento, già introdotto in apertura (1074b18-20), è decisivo: se il nou' " andasse inteso come

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facoltà, e non come atto, il suo passaggio all’atto sarebbe causato dall’oggetto di pensiero. Questo è probabilmente il fulcro della discussione, la cui centralità è giustificata dalla necessità di rifocalizzare la dottrina dei principi nel passaggio dal primato (già accademico) dell’intelligibile a quello del pensiero.

1074b31-33 “Sia il pensare, infatti, sia il pensiero apparterranno anche all’intelletto che pensa qualcosa di pessimo, di modo che [...] il pensiero non sarebbe la cosa migliore” (kai; ga;r to; noei'n kai; hJ novhsi" uJpavrxei kai; to; ceivriston noou'nti: w{st’ [...] oujk a]n ei[h to; a[riston hJ novhsi") Quella che ora segue non è una giustificazione in sé compiuta, ma piuttosto una riprova: l’oggetto potrebbe essere anche pessimo, e in quel caso il pensiero – come il suo oggetto – non sarebbe eccellente. Non ogni oggetto di pensiero è desiderabile, infatti, né eccellente. È da notare che, nella prospettiva qui suggerita, si giustifica la presenza di questo argomento, mentre altrimenti non sembrerebbe del tutto pertinente: il fine è concludere che il pensiero è pensiero di sé, in risposta alla prima alternativa (i) e a compimento del generale tema proposto alla discussione in apertura (1074b16s.): una volta stabilito come principio l’intelligibile primo ed ottimo, si tratta di trovare a quali condizioni (pw'" e[cwn, 1074b16) l’intelletto, la cui attività è vita (L 7.1072b26), non risulti subordinato all’intelligibile (che non ha vita in sé, ma solo in quanto con esso si identifica l’intelletto, la cui attività è vita). Se non si considera questo argomento come una riprova addizionale, può sfuggire il nesso con il punto seguente, che è la conclusione principale.

1074b33-35 “Dunque pensa se stesso, se davvero è il più forte,

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e il pensiero è pensiero di pensiero” (auJto;n a[ra noei', ei[per ejsti; to; kravtiston, kai; e[stin hJ novhsi" nohvsew" novhsi") Questa conclusione si collega, a monte delle righe precedenti 1074b31-33, all’argomento principale, già ripreso in 1074b2930, e in specie alla sua prima formulazione in 1074b19-20 (cfr. commento ad loc. quanto alla conformità e probabile riferimento alla teoria di Theta). Questo almeno sembra indicare la scelta di to; kravtiston come comparativo di ajgaqov", se è motivata dall’aporia lì sopra in esame, se ci sia qualcosa che sia “padrone” (kuvrio", cfr. 1074b19) e comandi al pensiero. Sull’identità di pensiero e pensato, dunque anche di conoscenza e conosciuto, cfr. Metafisica I 6.1057a10s. e infra, 1074b38ss.

1074b35s. “Sembra che la scienza [...] porti sempre su altro e su di sé in aggiunta” (faivnetai d’ ajei; a[llou [...] auJth'" d’ ejn parevrgw/) Ross traduce faivnetai dev..., “But evidently...”. Penso però sia meglio conservare una componente di distacco (“Sembra però che...”) come si addice a un’apparenza che può essere in parte corretta (come avverrà in effetti, almeno per quanto riguarda l’avverbio “sempre”, ajeiv, b35). Il passo non ha forse paralleli diretti nel tematizzare in tal modo l’attività autoriflessiva della scienza (ejpisthvmh). Questa, rispetto alla scienza stessa, può sembrare un secondario sovrappiù – si parla in effetti al modo del sembra che. Con ciò, evidentemente, viene preso in carico quell’aspetto di potenzialità della scienza, del quale danno frequente indizio nel corpus gli aggettivi con suffisso – ikhv che Aristotele usa per la sua descrizione e classificazione (negli Analitici come nella Metafisica, cfr. E 1.1025b20ss.). Di fatto, la struttura concettualmente più prossima, da invocare per questa definizione della scienza è il concetto di potenza (duvnami"): in Q 1.1046a11ss.

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come in D 12.1019a15-20, 1019a33-b1, 1020a4-6, la potenza si definisce come principio di mutamento che agisce nell’altro in quanto altro – e solo dunque accidentalmente, se mai, sul soggetto. Ciò peraltro conferma la supposizione probabile che ejn parevrgw/ (“secondariamente”, “in sovrappiù”) abbia qui un senso affine a “per accidente”.

1074b38-1075a5 “O forse, in alcuni casi, la scienza è l’oggetto? […] Poiché dunque, negli enti senza materia, non sono distinti il pensato e l’intelletto, essi sono identici, e il pensiero è tutt’uno con l’oggetto di pensiero” (h] ejp’ ejnivwn hJ ejpisthvmh to; pra'gma […] oujc eJtevrou ou\n o[nto" tou' nooumevnou kai; tou' nou', o{sa mh; u{lhn e[cei, to; aujto; e[stai, kai; hJ novhsi" tw'/ nooumevnw/ miva) In questa conclusione trovano compimento le finalità generali perseguite in questo capitolo Lambda 9. In ragione dell’argomento, come già indicato, è naturale cercarvi affinità con le ricerche di De an. G. Il parallelo può essere in particolare con De an. G 5, a sviluppo e soluzione dell’aporia sollevata in De an. G 4: forse che l’attività dell’intelletto è di tipo passivo, o esso è “non mescolato” (ajmigev", 430a18, 429a18s.) e impassibile come vuole Anassagora, che ne fa il principio (fr. 59B12 DK)? Per questo in G 5, Aristotele distingue due intelletti, quello ajmighv" (nou'" tw/' pavnta poiei'n) e quello dektikovn (nou'" tw/' pavnta pavscein). Quanto a quest’ultimo infatti, qui come supra, in 7.1072b23, non si vede in che cosa consista il suo essere divino. Invece è verosimile che più divino di questa facoltà dell’intelletto, recettiva, ora potenziale, ora attualizzata, sia il pensiero di sé dell’intelletto, che si fa, per esso, intelligibile. Nella logica di Lambda 9, la distinzione fra l’intelletto che è duv n ami" e l’intelletto che per sua natura è novhsi", attività, e che è pensiero di sé, sarà dunque la via, al tempo stesso, per superare il primato dell’intelligibile sull’intelletto, per attribuire vita all’intelligibile e per fare dell’intelletto, come in Anassagora, il principio.

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1075a5-7 “Resta ancora un problema, qualora il pensato fosse composto, perché il pensiero muterebbe dall’una all’altra parte dell’intero. Ma forse non è mai divisibile, ciò che non ha materia …” (e[ t i dh; leiv p etai aj p oriv a , eij suv n qeton to; noouvmenon: metabavlloi ga;r a]n ejn toi'" mevresi tou' o{lou. h] ajdiaivreton pa'n to; mh; e[con u{lhn) A questa aporia è forse sottesa la stessa distinzione che in De an. G 6 fra ciò di cui si può dire che è vero e che è falso, e ciò che, non comportando composizione, non può essere falso; la composizione si intende lì in senso concettuale, come il pensiero su ciò che non comporta composizione non può essere falso; è un’intuizione stabilmente ed eternamente vera. Se il parallelo è pertinente, ciò conferma ulteriormente che la questione iniziale di Lambda 9 va presa veramente alla lettera: si tratta di stabilire a quali condizioni (pw'" e[con) il nou'" possa essere il più divino dei fenomeni, e cioè secondo quale intendimento. L’intelletto è divino, sembra allora dire Aristotele, quando la sua attività non consiste nell’associare termini ma nel contemplare ciò che è puramente intelligibile e senza materia, identificandovisi, per l’eternità del tempo.

CAPITOLO 10 [Il bene nell’universo. Alcuni capi principali della filosofia prima di Aristotele sono ripercorsi con particolare riferimento ai punti di forza che essa presenta rispetto alle dottrine dei predecessori] Lambda 10, capitolo finale, “epilogo dell’epilogo” (cfr. supra, § 4.10) si presenta, si è visto, come un campo problematico complesso. Fra le difficoltà di struttura, c’è una perplessità di fondo sulla sua unità, che non è sfuggita agli esegeti più attenti. Della sua scansione tradizionale come capitolo, si trova

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discussione fin dai tempi di Bonitz, e anche in alcuni studi recenti (Sedley, Sonderegger). Visibilmente, to; a[ r iston è oggetto di riflessione sia alla fine del cap. 9 (1075a9) sia all’inizio del cap. 10 (1075a12) ed è strano che non ci sia relazione alcuna fra le due occorrenze. D’altra parte, non si vede alcun collegamento diretto fra la prima parte del cap. 10 (1075a11-15) e la prosecuzione del capitolo (1075a16ss.). Altre difficoltà riguardano la lettura di singoli e specifici passaggi, in primis la traduzione della sezione introduttiva. Invero, sarà soprattutto e innanzitutto sui singoli luoghi testuali, specie se di linguaggio metaforico, che sarà interessante proporre una verifica dell’interpretazione meglio attestata, e in base a questa rivedere la comprensione della struttura e l’interpretazione di questo capitolo conclusivo, dove si decide, o si argomenta, o perlomeno si enfatizza il senso complessivo che Aristotele ha voluto dare a questo libro. Certo infatti c’è un senso complessivo, anche se non è mai stato troppo facile determinarlo, a causa della sua estrema generalità.

I

SULLA NATURA DEL BENE NELL’UNIVERSO

1075a11-13 Posizione del dilemma: nell’universo il bene dell’universo esiste separato? oppure no, ma consiste nella disposizione ordinata dell’universo? 1075a13-15 Soluzione: in entrambi i modi, perché anche ciò che in sé è ottimo fa parte della disposizione ordinata dell’universo. 1075a16-19 Tutti gli enti sono ordinati in un tutto unitario, sia pure ciascuno in modo diverso e misura diversa.

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1075a19-22 Esempio della casa: diversa è la partecipazione a ciò che è comune di liberi e schiavi: gli schiavi fanno per lo più ciò che capita. 1075a22-25 Il modo di partecipazione dipende dalla natura di ciascuno. C’è qualcosa di comune a tutti: il dissolversi finale, per esempio.

II

DIFFICOLTÀ DELLE TEORIE DEI PREDECESSORI E LORO SOLUZIONE SECONDO LA DOTTRINA ARISTOTELICA

1075a25-27 Indicazione programmatica: esame delle aporie e difficoltà delle dottrine dei predecessori e delle relative soluzioni. 1075a28-32 Problemi relativi alla dottrina dei contrari, tramite la quale tutti i predecessori spiegano il divenire, senza però porre adeguatamente il terzo principio, il sostrato dei contrari. 1075a32-36 Problemi relativi all’identificazione di uno dei contrari con il principio materiale, che invece deve essere posto come sostrato di entrambi. 1075a36-37 Mancato riconoscimento del bene come principio da parte di alcuni. 1075a38-b6 Mancata o confusa indicazione del modo nel quale il bene sia principio, da parte di coloro che pure lo pongono come tale.

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1075b6-7 Problema dello statuto della Contesa, come contrario del bene e dell’Amore in Empedocle: se rappresenta il male, non può essere eterno [scil.: è ciò che è eccellente, infatti, ad essere eterno]. 1075b8-10 La stessa difficoltà denunciata si riscontra nella teoria del nou'" come motore in Anassagora: se il nou'" è motore, ci vuole una causa finale che muove il nou'", e allora la causa finale sarà superiore al nou' " . Soluzione: la conoscenza è identica al proprio oggetto [dunque l’intelletto è identico alla propria causa finale]. 1075b10-11 [Ancora sulla dottrina dei contrari.] Logicamente, deve esistere un contrario dell’intelletto e del bene. 1075b11-13 [Necessità di intervenire sulle dottrine dei predecessori.] Tutti coloro che pongono i contrari come principi non li usano adeguatamente, a meno che non si faccia ordine nelle loro teorie. 1075b13-14 Un’ulteriore carenza: i predecessori non usano la teoria dei contrari per distinguere ciò che è corruttibile e ciò che non lo è: non spiegano perché alcuni enti siano corruttibili, altri no, bensì fanno derivare tutto dagli stessi principi. 1075b14-16 I predecessori non risolvono il problema della generazione dal non-ente; e, non risolvendolo, alcuni di loro sono costretti ad ammettere la generazione dal nulla, altri a dire che tutte le cose sono una sola.

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1075b16-20 I predecessori non spiegano l’eternità dell’atto, né il ciclo della generazione. Quelli fra loro che pongono due soli principi non ne hanno uno che spieghi la generazione, e così nemmeno i partigiani della dottrina delle idee. 1075b20-24 I predecessori, ponendo principi contrari, sono costretti ad attribuire un contrario anche alla scienza più alta, come se questa, similmente all’ignoranza, mutasse nel suo contrario. Secondo la dottrina aristotelica, non è così. Ciò che è primo [l’intelletto la cui essenza è atto] non passa mai dall’atto alla potenza, né viceversa. 1075b24-27 Chi non pone enti non sensibili non può spiegare l’ordine dell’universo, il ciclo della generazione e i movimenti del cielo; se non si pone un principio della spiegazione per causas, la spiegazione stessa va all’infinito. Questo è un problema che riguarda sia i teologi che i fisiologi. 1075b27-30 Chi pone invece enti non sensibili, ma al modo degli Accademici, come idee o numeri, non sa spiegare il movimento, la grandezza, il continuo. 1075b30-34 Chi pone solo i contrari come principi non dispone di una causa efficiente eterna: dunque anche gli enti non sarebbero eterni. Bisogna rinunciare a qualcuna delle [loro] premesse. 1075b34-37 Nessuno dei predecessori spiega che cosa renda uno i numeri, o l’anima e il corpo, o, più in generale, la forma e ciò di cui essa è forma. La risposta adeguata è quella aristotelica: l’unità (indi-

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viduale) è conferita dalla causa efficiente, che è causa del passaggio dalla potenza all’atto. 1075b37-1076a4 Chi, fra i predecessori, pone diversi ordini di sostanza, e per ciascuno principi diversi, rende episodica la costituzione dell’universo, e rende impossibile l’unità dei principi. Il cosmo risulterebbe così governato male, in assenza di un principio comune. Invece, per un governo buono: “uno solo sia il sovrano” [Il. II 204 – e con questa citazione in effetti il libro si chiude].

1075a11 “Bisogna anche indagare…” (’Episkeptevon de; kai;...) L’interrogativo, che con il capitolo 10 si apre, è carico di due importanti presupposti. L’esistenza in sé dei due rami del dilemma, qualcosa di ottimo, che esiste come sostanza separata, sia di una condizione o modo di essere buono, anzi eccellente, si presuppone anche senza argomentazione. Concettualmente, tali presupposti sono profondamente radicati, l’uno, in una prospettiva e dimensione teorica caratteristicamente accademica, che non viene mai abbandonata, benché qui venga di nuovo sottoposta a verifica (secondo l’interpretazione presente, cfr. infra, ad 1075a12-13); l’altro, nella generale visione teleologica propria del nostro autore. Anche nel contesto immediato e nella sua area semantica, questi presupposti non compaiono dal nulla, ma sono preparati dall’argomento precedente alla fine del cap. 9. Esso verteva precisamente su ciò che è ottimo in sé, cioè l’attività contemplativa dell’intelletto, che è sostanza (cfr. 1074b20) e che ha in questa attività, intesa come qualcosa di intero e globale (o{lon ti), il suo stare “bene” (to; eu\, 1075a8s.). Ciò che qui è nuovo è l’allargamento della prospettiva all’universo intero, che comporta l’accento sul bene come cooperazione e coordinamento di tutte le parti dell’universo fra loro, in funzione di un bene comune.

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1075a11 “la natura dell’universo” (hJ tou' o{lou fuvsi") Intendo qui trattarsi, non tanto di una considerazione separata della natura come se sussistesse autonomamente e in sé, quanto del modo di essere che è proprio dell’universo per natura. “Natura” qui equivale ad essenza, modo di essere proprio e costitutivo. Il punto è che tale universo ovvero totalità (to; o{lon) include in funzione di principio una sostanza che in sé non è qualcosa di naturale, bensì è puramente intelligibile.

1075a12 “il buono e l’ottimo” (to; ajgaqo;n kai; to; a[riston) Ci si potrebbe chiedere quale sia la ragione dell’unione dei due termini. Il secondo è ridondante rispetto al primo, o alternativo? Si tratta in un certo senso di un’endiadi, che implica il riferimento a un termine unico; ma in un altro senso, resta aperta la possibilità che i due termini siano considerati separatamente. Invero, il loro affiancarsi è funzionale al dilemma in esame. Se infatti “l’ottimo” andrà inteso al modo del superlativo relativo, cioè come “il migliore” degli enti, la differenza fra “il buono”, ovvero “il Bene”, e “l’ottimo”, consisterà in questo: che “l’ottimo”, “il migliore degli enti” è uno solo, e sarà dunque un ente unico che come tale si individualizza ed è sostanza (come l’esempio dello stratega conferma, 1075a13s.), sfuggendo all’inconsistenza o indeterminazione ontologica de “il buono”. Invece, “buono”, di per sé, indica anche un modo di essere, non solo un’essenza o sostanza: Aristotele nell’Etica Nicomachea (4.1096a23-29) dice che il buono si predica in tutti i sensi ovvero categorie dell’essere. È in quanto è precisato dall’endiadi con “l’ottimo”, che “il buono” può identificarsi qui con “ciò che è buono”, bello e desiderabile per eccellenza, cioè il primo intelligibile (cfr. 7.1072a35s.). È, così, sostanza, se davvero il primo intelligibile è sostanza – come Lambda 7 ha in effetti argomentato. Tale è dunque la sostanza immobile e

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separata, che è stata l’oggetto dei capitoli 7-9, mentre il “buono” di per sé può essere la natura buona, il modo di essere buono, di tutto ciò che è buono. D’altra parte, l’argomento è convertibile: in forza della stessa endiadi, anche “l’ottimo” si piega più agevolmente a significare un modo di essere; riferito alla natura del tutto, significherà in effetti che essa è ordinata nel migliore dei modi. Così, l’accostarsi dei due termini produce un dilemma fondamentale. Nel tematizzare la differenza fra questi due intendimenti di ciò che è buono, Aristotele si contrappone probabilmente, qui come altrove, alla dottrina platonica del Bene e al rapporto fra il Bene e le idee (cfr. n. seg., ad 1075a12-13). Ma la tesi di fondo è più distante da Speusippo che da Platone: si oppone, in effetti, non tanto alla sussistenza separata del bene (che pure va rivisitata e ripensata in un quadro diverso), quanto invece all’accostamento episodico di ordini di realtà presentati come separati: questo infatti è non buono (1076a4). Più chiaramente, poi, la valenza debole del “buono” inteso come “bene”, come “modo di essere buono”, verrà ripresa in 1075a14, dove i due concetti si separano: il” buono in senso modale è trascritto senza più equivoco come to; eu\, mentre l’ottimo, to; a[riston, è metaforicamente rappresentato dallo stratega (oJ strathgov"). In questo senso i termini risulteranno anche suscettibili di considerazione separata. Stando così le cose, questa frase iniziale risulta ammirabilmente calibrata nell’esprimere un interrogativo così complesso.

1075a12-13 “se come separato e sussistente di per sé” (povteron kecwrismevnon ti kai; aujto; kaqΔ auJtov) Marcatamente platonico è qui il lessico. Colpiscono in tal senso sia l’espressione aujto; kaqΔ auJtov – che per l’appunto caratterizza nelle dottrine platoniche l’idea rispetto alla realtà sensibile; sia kecwrismevnon ti – tipica della presentazione (per

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lo più critica) della teoria delle idee da parte di Aristotele (cfr. supra, Introduzione). Né si tratta solo di una notazione linguistica. Se davvero ciò che Aristotele ha voluto dire, fosse che to; ajgaqovn esiste primariamente come separato e in sé, e che solo a causa di questo anche la disposizione dell’universo è buona, allora la sua tesi (specie se considerata, come conviene, a prescindere dalle sue possibili implicazioni teologiche) potrebbe apparire sorprendentemente vicina a quella che egli attribuisce (in formulazioni non esenti da critica) ai sostenitori della teoria delle idee. Ciò non può non suscitare perplessità su una tale interpretazione di questo passo.

1075a13 “come relativo all’ordine” (th;n tavxin) th;n tavxin non è qui inteso come un complemento predicativo dell’oggetto (non alla stessa stregua dunque di kecwrismevnon ti in 1075a12): infatti la disposizione della frase e la presenza dell’articolo lasciano aperta la possibilità che si tratti di un accusativo di relazione, e questo come vedremo si concilia meglio con il contesto (cfr. in part. 1075a14-15). Secondo quest’altro ramo dell’alternativa, allora, il bene non è l’ordine, ma riguarda l’ordine, sta nell’ordine dell’intero universo (ancorché la traduzione, possa poi adeguarsi a un’esigenza di resa italiana più corrente: nel vol. I si è tradotto infatti “come un modo ordinato di essere”); questo è confermato, a parte la presenza dell’articolo, dal fatto che th; n tav x in indica indubbiamente lo stesso che ej n th' / tav x ei in 1075a14 (“nell’ordine”, o meglio, “nello schieramento ordinato”, cfr. n. seg.). Una differenza rispetto all’intendimento di th;n tavxin come predicativo dell’oggetto sta nel fatto che nel nostro caso tav x i" resta vox media. Entrambe le espressioni indicano infatti con tavxi" una disposizione che – come dice la parola stessa – è in certo modo ordinata, ma della quale ha senso dire che è buona: potrebbe essere infatti anche meno buona o

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meno perfetta (cfr. la n. seg.), a differenza di ciò che si definisce “il Buono e l’Ottimo” in sé, senza predicarsi di altro, come sostanza separata.

1075a14 “anche nello schieramento ordinato” (kai; ejn th'/ tavxei) L’introduzione della metafora dell’esercito è certo occasionata dalla valenza militare del termine greco stesso tavxi", con il quale Aristotele indica la disposizione ordinata di ciò che è per natura; tavxi" infatti è lo schieramento, la disposizione dell’esercito. Cfr. supra, ad 1075a13: si potrebbe riflettere sul fatto che lo schieramento, ancorché per definizione ordinato e disposto ad arte, non necessariamente è buono. Ogni esercito ha uno schieramento, questo però può essere stato scelto bene o meno bene dal comandante, come mostra il fatto che anche un esercito numericamente inferiore può vincere, se l’esercito avversario non è stato disposto in modo intelligente. Si parla appunto di “errori tattici”, o errori strategici, errori cioè che – alla lettera – riguardano il modo della tavxi" predisposta dallo stratega. Se questo è vero ed è influente per il valore della presente metafora (cosa mai sicura, trattandosi di una metafora, poiché l’estensione della sua validità è generalmente indeterminata), allora non è del tutto tautologico dire che nell’ordine (tavxi") dell’universo è presente il bene come modo buono di essere, né che esiste un bene relativo a quest’ordine. Di qui a maggior ragione l’interesse di intendere th;n tavxin in 1075a13 come complemento di relazione, piuttosto che come predicativo dell’oggetto.

1075a14-15 “Anche nello schieramento dell’esercito, infatti, ci sono il bene, e lo stratega, e maggiormente quest’ultimo” (kai; ga;r ejn th'/ tavxei to; eu\ kai; oJ strathgov", kai; ma'llon ou|to") La soluzione aristotelica non è di facile traduzione, specie per

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la necessità di accordare questa frase e la successiva. Cercando la massima aderenza al dettato del testo, intendo che Aristotele risponda che “ciò che è buono e che è ottimo”, non solo come modo di essere, ma anche come causa e principio, fa parte della disposizione ordinata dell’universo. Ma il senso sarebbe diverso secondo la parafrasi di Michele di Efeso (715.10-12), un passaggio della quale parrebbe aver fatto scuola fra i traduttori (forse in ragione della menzionata difficoltà). Michele infatti, dopo aver correttamente osservato che “l’esercito ha to; eu\ nell’ordine” aggiunge che “tuttavia per l’esercito è eu\ ed è buono anche lo stratega, e questo è to; eu\ di più”. L’esito, “lo stratega […] è to; eu\” indubbiamente è strano, visto che l’avverbio sostantivato to; eu\ indica chiaramente (e volutamente, si deve presumere, dato il contesto) un modo di essere, non una sostanza o causa attiva separata. Forse, da qui, tuttavia, prende piede una vulgata secondo la quale per converso to; eu\ viene inteso come unico soggetto della frase presente, dunque non è solo l’esser ben disposto, ma è anche lo stratega. Una tale interpretazione cioè separa il bene e lo stratega (to; eu\ kai; oJ strathgov"), che sono qui affiancati, si direbbe, come soggetti, tenendo solo il primo, l’avverbio sostantivato, come soggetto, e il secondo, lo stratega, come nome del predicato, coordinato peraltro, nella sua funzione dipendente dalla stessa copula sottintesa, a “nell’ordine” (enj th/ ' tav x ei). L’anomalia sintattica, che è neutralizzata da Ross nella Oxford Translation (uniformando i due termini risultanti, traduce infatti “[the army’s] good is in its order and in its leader”, come se il testo dicesse, non oJ strathgov", ma ejn tw'/ strathgw'/) è ripristinata, con scrupolo di precisione, da Barnes nella Revised Oxford Translation: “an army’s goodness is in its ordering, and it is also the general”, [corsivi miei]. Tutto questo, a parità di senso. Il senso, nelle diverse traduzioni citate, resta vicino al passo citato di Michele, forse anche più che a quello di Aristotele (almeno se i dubbi qui esposti sono fondati).

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In casi di questo tipo, ci si dovrebbe chiedere quale obbligo e scrupolo di letteralità vincoli Michele, esegeta cristiano, di formazione largamente neoplatonica. Vediamo qui, per esempio, come egli intenda il dilemma aristotelico che apre il capitolo 10: per Michele, Aristotele, in 1075a11ss., si interrogherebbe non – come il testo di Lambda pare dire – su in che modo il bene sia presente nel cosmo, ma su “la causa (to; ai[tion) per la quale il cosmo è buono e ottimo” (715.1s.); al riguardo, Michele aggiunge, Aristotele “risponde dicendo che è in entrambi i modi: bisogna dire che il bene e l’ottimo dell’universo è duplice, è il suo ordine […] ed è l’intelletto primo: anche e soprattutto a causa di questo (il cosmo) possiede il bello e l’ottimo” (715.5-8). Come si vede, Michele fa dire ad Aristotele – nel linguaggio di Lambda 10 – che il Bene è lo stratega. Poco oltre, più precisamente, Michele stesso, come poi spiega, intende che lo stratega è causa del bene. Questo, Aristotele non lo dice (seppure indubbiamente il concetto sia condivisibile e quasi banale) e non è la stessa cosa. La parafrasi di Michele, dunque, non solo non è una traduzione, per definizione, ma non è nemmeno vincolata a una stretta sequela grammaticale della traduzione; fa parte dell’opera di Michele rivisitare anche il senso letterale, per rendere il senso complessivo più fruibile al lettore del suo tempo. Le conseguenze di concetto per la tradizione interpretativa sono sensibili. In primo piano verrebbe infatti l’esistenza separata e in sé – si direbbe, trascendente – di ciò che è ottimo. Certo, l’idea non è scorretta in sé: che la sostanza intelligibile sia separata da quelle sensibili (e non dunque immanente, tale da doverne essere estratta e ricavata per estrazione) è in effetti affermato nel capitolo 7.1073a4s., in un modo che incontestabilmente presenta tratti comuni con la concezione platonica delle idee, infatti si tratta di una sostanza separata e intelligibile. Ma il punto in 1075a11-15 probabilmente non è questo: è l’appartenenza di tutti gli enti e di tutte le sostanze, anche di ciò che è ottimo, ad un unico ordine. In tal senso, è importante

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per Aristotele prendere anche le distanze da quella concezione platonica, come avviene d’altronde già nei capitoli 7-8-9; e il contenuto teoretico positivo e peculiare di questa sezione sembra contribuire ulteriormente a marcare le differenze in tale direzione. In questo modo, l’interrogativo che ora si pone costituisce una chiave di lettura più tecnica anche per l’explicit stesso del libro, che lamenta in Speusippo l’assenza, e rivendica ad Aristotele l’istituzione, di un unico ordine di realtà per i diversi ordini di sostanze. Solo così i principi hanno dimostrazione necessaria, e non si moltiplicano arbitrariamente all’infinito.

1075a15 “visto che [lo stratega] non è a causa dello schieramento, bensì lo schieramento è per causa sua” (ouj ga;r ou|to" dia; th;n tavxin ajllΔ ejkeivnh dia; tou'tovn ejstin) Il senso qui costituito è in linea con il corso dell’argomento, quale indicato supra, ad 1075a14s. È il seguente: senza stratega non c’è schieramento, dunque è necessario che lo stratega appartenga allo schieramento e cioè – fuor di metafora – a questo stesso ordine di realtà, diversamente dalle sostanze non sensibili di Speusippo (1075b37).

1075a16-19 “Tutti gli enti sono coordinati in qualche modo, sebbene non allo stesso modo: anche gli animali che nuotano, quelli che volano, anche le piante. E non manca loro una relazione reciproca, ma è presente: tutti sono coordinati in riferimento a qualcosa di unico” (pavnta de; suntevtaktaiv pw", ajll’ oujc oJmoivw", kai; plwta; kai; pthna; kai; futav: kai; oujc ou{tw" e[cei w{ste mh; ei\nai qatevrw/ pro;" qavteron mhdevn, ajll’ e[sti ti. pro;" me;n ga;r e}n a{panta suntevtaktai) Il punto principale, qui affermato e poi di nuovo riaffermato,

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è che bisogna considerare che tutte le cose in qualche modo siano coordinate, sebbene non tutte contribuiscano nello stesso modo all’economia del tutto. Si intende che la sostanza che più contribuisce è “lo stratega”, cioè il primo motore immobile, poi viene la sostanza celeste, così ordinata e causa di ordinamento per l’universo intero. Il passo si situa così in precisa continuità con il precedente, dove Aristotele sottolinea come anche il principio primo debba fare parte della disposizione ordinata dell’universo, proprio perché ad essa contribuisce in modo determinante, come lo stratega. Gli animali e le piante si situano in una condizione di similarità, in quanto partecipano di un unico ordine universale, e di differenza, in quanto vi contribuiscono poco. Si vedrà in effetti poco oltre che il loro contributo può essere quasi accidentale, venendo dal loro processo di corruzione, ovvero dalla separazione delle diverse componenti, che le rende suscettibili di nuova composizione. Questo accadrà sotto l’effetto, si può ritenere, dei movimenti ordinati e plurali dei cieli, cfr. 1075a22-25 infra e L 6.1072a9-13 con il commento supra, ad loc. Notasi che il principio stabilito in 1075a16 trova integrazione, dopo la serie di esempi tratti dal mondo naturale, nella frase in 1075a18s., che solo apparentemente ne ripete le parole stesse, ma in realtà la rinforza (parafrasando pavnta con a{panta) e la integra con un’indicazione precisa (pro;" e{n). Questa seconda frase, legata a quanto precede tramite la congiunzione gavr, ne fornisce così spiegazione: ogni ente naturale, e specialmente ogni animale o vegetale, contribuisce, sebbene in misure assai variabili, a un bene che è unico, cioè comune. Il punto non è banale: se anche gli esseri in qualche modo inferiori contribuiscono in una certa maniera all’economia dell’universo, ciò prova che tutti gli enti appartengono a un unico ordine di realtà. Altrimenti, un siffatto contributo sarebbe impossibile.

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1075a19-22 “nondimeno, è come in una casa, dove gli uomini liberi sono quelli cui è meno lecito agire a caso: le cose che fanno sono tutte o quasi tutte ordinate; invece gli schiavi e gli animali contribuiscono poco al bene comune, e il più delle volte agiscono a caso” (ajll’ w{sper ejn oijkiva/ toi'" ejleuqevroi" h{kista e[xestin o{ ti e[tuce poiei'n, ajlla; pavnta h] ta;; plei'sta tevtaktai, toi'" de; ajndrapovdoi" kai; toi'" qhrivoi" mikro;n to; eij" to; koinovn, to; de; polu; o{ ti e[tucen) In questa contrapposizione fra liberi e schiavi, può essere inatteso trovare che la libertà degli ejleuvqeroi (come sembra, i padroni di casa) non sta nel poter fare qualunque cosa, ma nell’agire come si conviene a uomini “liberi”, secondo ragione. Dice infatti che “... le cose che fanno sono ordinate” (tevtaktai, 1075a21), perché si indirizzano razionalmente in vista di un fine, e non agiscono a caso, come accade invece prevalentemente agli animali, e sovente anche agli schiavi. Questi ultimi agiscono “come capita”, nel senso – verosimilmente – che essi non seguono una loro deliberazione razionale; agiscono infatti o dietro costrizione, o, se no, casualmente affatto, cioè senza concorrere in proprio al bene comune. A un tale bene, pertanto, il loro contributo è scarso, ovvero, si può forse dire, prevalentemente materiale, come quello degli animali domestici: se agiscono sotto comando, il contributo all’ordine complessivo c’è, ma viene da chi ha impartito l’ordine. Un tale ragionamento può valere a spiegare la contrapposizione, altrimenti fuorviante, così istituita da Aristotele. Cfr. anche infra, ad 1075a24s.

1075a22-23 “Siffatto principio è infatti per ciascuno la propria natura” (toiauvth ga;r eJkavstou ajrch; aujtw'n hJ fuvsi" ejstivn) Come in 1075a11, anche qui si parla di “natura” non come se

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sussistesse autonomamente e in sé, ma come modo di essere che è proprio di ogni cosa, e in particolare di ogni sostanza vivente. Essa infatti è tale per natura, cioè per sua costituzione naturale. Il suo senso pertanto si specifica in riferimento ai singoli enti dei quali è natura. La loro natura è loro principio di mutamento e di movimento, secondo la definizione di Fisica B 1 (cfr. Lambda 3.1070a7s.). Così, traduco la frase a prescindere dagli emendamenti che sono stati proposti quanto all’ordine delle parole, dei quali dà conto Sedley, ad loc. Tali proposte di emendamento, pur diverse tra loro, hanno la tendenza comune a far dipendere aujtw'n da eJkavstou. Se si traducesse: “la natura è principio di ciascuno di essi”, il senso si presterebbe anche a una diversa interpretazione, e alla natura sarebbe attribuito un intervento superindividuale. Ma una tale rappresentazione della natura non è preparata e non si integra nell’ambito del presente argomento, che chiaramente dispone la partecipazione di tutti gli enti a un’economia complessiva, cui il primo principio non è e non può essere estraneo.

1075a23-25 “Intendo, per esempio, che per tutti arriva inevitabile il momento di dissolversi, e che in questo e altri modi siffatti tutti partecipano all’economia dell’universo” (levgw d’ oi|on ei[" ge to; diakriqh'nai ajnavgkh a{pasin ejlqei'n, kai; a[lla ou{tw" e[stin w|n koinwnei' a{panta eij" to; o{lon) Aristotele parla ora nel linguaggio dei Presocratici (cfr. qui infra). Ricorda come il dissolversi e “separarsi” (diakriqh'nai) dei viventi sia una forma di partecipazione all’ordine dell’universo. Si tratta infatti di un dividersi nelle proprie componenti, nel corso del processo di decomposizione o dissoluzione. Si può anche pensare (se volessimo esemplificare le potenziali implicazioni del testo) che volatili e pesci siano utili in quanto sono alimento, direttamente o no, per altri viventi, mentre le piante in decomposizione nutrono la terra. In

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ogni caso è da sottolineare che questo è l’esito del loro essere sostanze naturali e corruttibili, dotate di un principio interno di generazione e anche di corruzione. L’uso del verbo diakriqh'nai (in 1075a23s.: “vengano a separarsi” ei[" ge to; diakriqh'nai [...] ejlqei'n) è inatteso, né appartiene al linguaggio corrente proprio di Aristotele, bensì ricorre dove egli cita altri, e.g., in sue citazioni da Empedocle e da Anassagora, cfr. in part. Phys. Q 9.265b19-23. Significa “separarsi” nel senso di decomporsi, per poi potersi di nuovo comporre nella generazione di altri enti organici.

1075a25-27 “Non deve sfuggire in quanti assurdi o impossibilità cadono quelli che hanno dottrine diverse...” (o{sa de; ajduvnata sumbaivnei h] a[topa toi'" a[llw" levgousi [...] dei' mh; lanqavnein) Qui si apre forse l’ultimo grande problema interpretativo che il testo pone. Dal dettato della frase, in sé considerato, non si evince precisamente in contrasto con quale punto o quali punti dottrinali aristotelici si vadano ora a considerare dottrine diverse. Si menzionano coloro che, letteralmente, “parlano diversamente” (a[llw"), ma diversamente da come? Confinare il riferimento all’ultimo punto precedente (1075a11-15) non è necessario (anche se indubbiamente l’ultima frase del libro, 1076a4, ci riporterà qui – del che già si è indagata la ragione supra, § 4.10.2). Anzi – dato il senso – non è nemmeno probabile. La formulazione generale del proposito qui espresso suggerisce l’inizio di una sezione a sé e di un argomento di ampio respiro (nonostante la frammentazione in molte discussioni particolari, non sempre chiaramente collegate fra loro). Vedremo che la discussione si deve riferire almeno alla dottrina dell’intero libro Lambda (fitti saranno per esempio i riferimenti al cap. 2), non però solo in sé, ma anche in quanto Lambda a sua volta sintetizza un previo e complesso percorso di

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ricerca, in una logica di superamento e talora di antitesi rispetto alle dottrine dei predecessori, anche con riferimento ad aspetti che nel libro non sono direttamente menzionati – ma che possiamo supporre soggiacere alla riflessione che vi è condotta. Tutto questo, sempre nei modi (compendiati, brachilogici, densi di riferimenti impliciti) che sono peculiari dello stile di Aristotele su tutto l’arco del libro. Così, le precisazioni che seguono da qui fino alla fine del capitolo sono di grande importanza perché valgono, sia a chiarire la dottrina del libro nelle sue ragioni di fondo, sia a chiarire le ragioni e i nodi fondamentali di quelle precedenti ricerche, di quella generalissima qewriv a (cfr. 1.1069a18) della quale il libro fa sintesi.

1075a26-27 “... quali dottrine, fra quelle che sono state sostenute, siano le più appropriate, e quali ipotesi comportino le minori aporie” (kai; poi'a oiJ cariestevrw" levgonte", kai; ejpi; poivwn ejlavcistai ajporivai) Come mostrano queste parole, l’intenzione è quella di un uso positivo degli elementi di critica, che qui vengono focalizzati proprio su quelle dottrine cui Aristotele riconosce un maggiore credito teorico. Questo d’altronde si riscontra anche altrove, nelle menzioni dei predecessori nel corso del libro, specie nel cap. 2: ivi infatti i Presocratici sono chiamati a conferma della dottrina aristotelica del sostrato materiale, salvo che devono essere, già lì, riveduti e corretti nella formulazione. Ciò non manca talora di esporre quelle stesse dottrine a un’ulteriore critica, proprio in riferimento alla loro riformulazione aristotelica. Notevole è in tal senso – si ricorderà – il caso delle due menzioni di Anassagora in Lambda 2, la prima delle quali trascrive la dottrina dell’originario “tutto insieme” di Anassagora come dottrina dell’uno, ovvero della materia unica – “meglio dire ‘uno’ che tutto insieme”, spiega allora Aristotele, 1069b21 – mentre la seconda ne critica la dottrina di una

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materia unica, osservando che, se l’intelletto è uno e la materia è una, “per quale causa ne sarebbero nate molte cose e non una?” (cfr. L 2.1069b30-32 e nn. ad loc.). Un analogo fenomeno, di traduzione dottrinale e conseguente critica, potrebbe riscontrarsi proprio riguardo ad Anassagora qui infra, secondo l’interpretazione che qui oltre verrà proposta dell’opaco passaggio in 1075b10-11.

1075a28-32 “Tutti dicono che tutte le cose si generano dai contrari, ma non esprimono correttamente né il ‘tutte le cose’, né il ‘dai contrari’, né, per quegli enti che hanno in sé i contrari, in che modo si generino dai contrari. Noi risolviamo questo problema in modo logicamente valido, con l’esistenza di un terzo elemento” (pav n te" ga; r ej x ej n antiv w n poiou' s i pavnta. ou[te de; to; pavnta, ou[te to; ejx ejnantivwn ojrqw'", ou[t’ ejn o{soi" ta; ejnantiva uJpavrcei, pw'" ejk tw'n ejnantivwn e[stai, ouj levgousin: ajpaqh' ga;r ta; ejnantiva uJp’ ajllhvlwn. hJmi'n de; luvetai tou'to eujlovgw" tw'/ trivton ti ei\nai) Nel contesto dialettico della discussione dei pregi e dei limiti delle dottrine precedenti, in specie presocratiche, il passo delucida ulteriormente le ragioni d’essere della dottrina aristotelica dei tre principi: terzo, dopo forma e privazione, è la materia, la cui funzione è sinteticamente introdotta e argomentata in L 2.1069b3-9. Si nota in effetti con Lambda 2 una serie di corrispondenze testuali precise (più direttamente che con le trattazioni fisiche rilevanti su questo tema, per es. De gen. et corr. 319a17-22). Per esempio ajpaqh' ga;r ta; ejnantiva uJpΔ ajllhvlwn in 1075a30-31 si spiega con ouj ga;r ta; ejnantiva metabavllei (1069b6-7), così come “con l’esistenza di un terzo elemento” (tw'/ trivton ti ei\nai, 1075a31-32) si spiega con e[stin a[ra ti trivton para; ta; ejnantiva, hJ u{lh (1069b8-9). Dove dice “ma non dicono bene né il ‘tutte le cose’, né il ‘dai contrari’ né dicono in che modo…” (1075a28s.), ha probabilmen-

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te ragione Michele d’Efeso a interpretare questo riferimento come rivolto a un limite della dottrina dei contrari: non era corretto dire che “tutti” gli enti si generano dai contrari, visto che alcuni non sono soggetti a generazione. Infatti i corpi celesti non sono soggetti all’azione dei contrari (cfr. infra 1075b14). Dove dice (1075a29-30) “né , per quegli enti che hanno in sé i contrari, in che modo si generino dai contrari” (ou[t’ ejn o{soi" ta; ejnantiva uJpavrcei, pw'" ejk tw'n ejnantivwn e[stai) Aristotele probabilmente sottolinea che, per i corpi che sono invece soggetti all’azione dei contrari, “dai contrari” (ejk con genitivo) non può intendersi come complemento di materia. Non uno si genera dall’altro in tal senso, ma la materia passa dall’uno all’altro contrario, come bene spiega il capitolo 2.

1075a32-36 “Alcuni invece pongono come materia uno dei due contrari, per esempio chi pone il diverso come materia dell’uguale o i molti come materia dell’uno – e anche questa difficoltà si scioglie allo stesso modo. Infatti la materia, che è unica, non è il contrario di nulla; peraltro, tutte le cose tranne l’uno avrebbero qualcosa di cattivo: infatti l’uno dei due elementi sarebbe il male in sé” (oiJ de; to; e{teron tw'n ejnantivwn u{lhn poiou'sin, w{sper oiJ to; a[nison tw'/ i[sw/ h] tw'/ eJni; ta; pollav. luvetai de; kai; tou'to to;n aujto;n trovpon: hJ ga;r u{lh hJ miva oujdeni; ejnantivon. e[ti a{panta tou' fauvlou meqevxei, e[xw tou' eJnov": to; ga;r kako;n aujto; qavteron tw'n stoiceivwn) Qui il termine di raffronto viene ad essere la dottrina accademica dell’uno e dei molti, o dell’uguale e del diverso come principi elementari. Dal punto di vista della critica aristotelica, in questa dottrina lo stesso elemento funge sia da materia, che da contrario (e la materia costituisce un principio negativo, cfr. anche Phys. A 9). Per questo Aristotele può dire che le difficoltà insite in questa dottrina si risolvono allo stesso modo

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di quelle della precedente, ponendo cioè la materia come terzo elemento oltre ai contrari. La disposizione dell’argomento in questo passo ha di peculiare che la soluzione, che è in comune con il problema precedente, viene introdotta senza che sia stato ancora indicato quali siano le difficoltà da risolvere. La frase introdotta dal gavr in 1075a34 giustifica la necessità di una soluzione, in quanto rende esplicite le difficoltà. Come il seguito della discussione mostra (cfr. n. seg.) è implicito in questo ordine di dottrine l’uso di polarità semplici, positivo-negativo (to; ajgaqo;n kai; to; kakovn, secondo lo stile pitagorizzante, diffuso nell’Accademia), tale per cui la materia occupa il polo negativo, mentre il principio di determinazione formale occupa il polo buono, positivo.

1075a36-37 “Gli altri non pongono nemmeno come principi il bene e il male...” (oiJ d’ a[lloi oujdΔ ajrca;" to; ajgaqo;n kai; to; kakovn) Nessuno ha posto il bene come principio in modo corretto: alcuni lo pongono, ma incorrono in aporie, gli altri non lo pongono affatto. “Gli altri” (oiJ d’ a[lloi) dovrà includere Speusippo e quei Pitagorici, la cui obiezione a che il bene stia nel principio è confutata nel capitolo 7.1072b30-34. Se è così, “gli altri” si intende in contrasto con “alcuni” in 1075a32, cioè con quegli Accademici, che, seguendo Platone, hanno riconosciuto al bene il ruolo di principio fondamentale, ma in modo inadeguato: essi infatti pongono solo due principi polarmente contrari, positivo e negativo; così, mettendo come principio contrario la materia e generando tutti gli enti dai contrari, non hanno riconosciuto il sostrato, e hanno fatto partecipare tutti gli enti anche del male, quale per essi è il principio negativo e privativo.

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1075a38-b1 “Altri ancora dicono correttamente che esso è principio, ma non dicono in che modo...” (oiJ de; tou'to me;n ojrqw'" o{ti ajrchv, ajlla; pw'" to; ajgaqo;n ajrch; ouj levgousin) L’argomento, in linea con lo stile del capitolo 10, appare ellittico della soluzione positiva, che dica quale sia il modo corretto di porre il bene come principio. Indubbiamente, fra i tre modi aristotelici della causalità nei quali può rientrare la funzione causale del bene – come causa formale, finale, efficiente, non però materiale – Aristotele considera caratterizzante della propria teoria la funzione finale: i predecessori non l’avevano identificata e distinta (cfr. Alpha, passim, in part. 7.988b6-18); la identifica invece Aristotele, che ne fa il quarto pilastro della sua teoria delle quattro cause. In questo modo, come in riferimento a un dibattito aperto e ben noto, si mettono ora in evidenza le spinte problematiche che hanno animato la presente costruzione teorica: in specie, la principialità del bene, come tema e come problema, attraversa in qualche modo tutta la seconda parte del libro (Lambda 6-10). Questa sua centralità è qui evidenziata in sede di consuntivo, in una prospettiva critica e dialettica.

1075b2-4 “... dà all’amicizia la funzione del bene, ma ne fa principio sia come motore, infatti riunisce, sia come materia, è infatti parte del mescolamento...” (th;n ga;r filivan poiei' to; ajgaqovn, au{th dΔ ajrch; kai; wJ" kinou'sa, sunavgei gavr, kai; wJ" u{lh: movrion ga;r tou' mivgmato") Il limite qui denunciato nella teoria di Empedocle coincide, si può dire, con un suo punto di forza: c’è un principio positivo e produttivo, ed è identificato come filiva. La prima “assurdità” che ne consegue è verosimilmente di natura logica, sta infatti nell’aver confuso causa efficiente e causa materiale (visto che l’Amicizia sembra assolvere entrambe le funzioni).

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Quanto alla causa finale, non è chiaro se a giudizio di Aristotele Empedocle l’abbia o no tenuta in conto. Che l’abbia trascurata, potrebbe considerarsi implicito (specie sulla scorta della dossografia presocratica di Alpha, cfr. supra, ad 1075a38-b1), tuttavia non appare chiaro nella Oxford Translation. Essa potrebbe far pensare che per Empedocle il bene (l’Amicizia) sia causa anche finale, oltre che efficiente e materiale. Recita infatti (corsivi miei): “Empedocles [...] makes Love the good, and this is a principle also as a mover (because it brings things together) and as matter (being part of the mixture)”. Così intende il passo anche Sedley, che scrive (ad loc.): «being identified as Love, it has the function not only as a final cause (this is, I think, assumed to be entailed by its identification with “the good”), but also as both moving and material cause». Se però guardiamo da vicino il testo greco, esso non comporta in sé un’indicazione sicura che Empedocle avesse parlato dell’Amicizia come causa finale, o in altro modo diverso dai due indicati, causa efficiente e materiale (infatti il primo kaiv in 1075b3 non è avverbiale nel senso di “anche”, in inglese “also”, ma correlativo al secondo kaiv ibid.). Con la sua parentesi, dunque, Sedley, indirettamente pone un problema rilevante, e propone una soluzione possibile. Forse, tuttavia, resta possibile anche la soluzione opposta; forse infatti non c’è nulla di automatico nel pensare che l’Amicizia (hJ filiv a ) di Empedocle – visto che è di Empedocle che si tratta – agisca come causa finale: né come bene pratico, né come oggetto di desiderio. Certo, il punto evidenziato da Sedley, che l’Amicizia, se è il bene, dovrebbe esser causa finale (almeno se il bene fosse correttamente inteso), sta al centro di questa riflessione consuntiva: la classificazione aristotelica delle cause richiede un ripensamento di tutte le cosmogonie presocratiche, che non la possono presupporre se non troppo implicitamente, e in modo imperfetto. Nessuna corrispondenza può dunque darsi per scontata.

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1075b6-7 “è anche assurdo che sia incorruttibile la Contesa...” (a[topon de; kai; to; a[fqarton ei\nai to; nei'ko") La seconda assurdità di Empedocle sta nell’aver postulato un ente eterno non ottimo, ma cattivo (cfr. contra Q 9.1051a17-21), e cioè la Contesa (to; nei'ko"), che nel linguaggio di Empedocle rappresenta la natura del male. In Alpha la posizione di Empedocle è presentata in luce più positiva, come quella di colui che per primo ha detto che il bene e il male sono principi, in quanto l’Amicizia, che egli pone come principio, è causa dei beni, mentre la Contesa, il principio che pone come opposto, è causa dei mali (A 4.985a7-10). Bisogna tuttavia sempre pensare a un Empedocle largamente riveduto, a quanto fa sospettare la precisazione di Aristotele, secondo la quale per capirlo bisogna correggere il suo “balbettio” (ibid., 985a4-5). In 1075b7 il testo non ha bisogno di essere emendato, cfr. I, Note, ad loc.

1075b8-10 “Anassagora invece fa del bene un principio motore, visto che l’intelletto muove; però muove in vista di qualcosa, che dunque è diverso (a meno che non sia identico nel senso in cui diciamo noi: infatti l’arte medica in un certo senso è la salute)” (’Anaxagovra" de; wJ" kinou'n to; ajgaqo;n ajrchvn: oJ ga;r nou'" kinei'. ajlla; kinei' e{nekav tino", w{ste e{teron (plh;n wJ" hJmei'" levgomen: hJ ga;r ijatrikhv ejstiv pw" hJ uJgiveia)) Come ricordato supra, nell’Introduzione (§ 2.2.), Anassagora fra i predecessori ha il ruolo più eminente e complessivamente più positivo; anche infatti quando è criticato, gli elementi di comunanza che restano positivamente assunti nella posizione aristotelica non sono meno rilevanti di quelli di differenza. Anche in questo passo, il riconoscimento positivo mette in ombra una più sommaria obiezione, come quella mossa in in A 4.985a18-21:

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ivi, facendo eco al Fedone di Platone (97d-98b), Aristotele loda sì Anassagora, che si distingue per la teoria più assennata; obietta tuttavia che egli non si serve che occasionalmente del nou'", e che anzi, quando deve spiegare il venire ad essere delle cose, usa “tutto fuori che il nou'"” (985a21). Qui, ciò che manca ad Anassagora, è di aver parlato espressamente di quella causa finale, che la sua teoria deve comunque presupporre. Si introduce così la soluzione esegetica, che consente ad Aristotele di far propria una versione riveduta della teoria di Anassagora; la revisione si basa, una volta di più, sulla teoria delle quattro cause, che consente al tempo stesso di distinguere e di identificare la causa efficiente, per es. la medicina, con la salute, causa formale e al tempo stesso finale. Per questo, in concomitanza, Aristotele ritorna sull’esempio della salute e della medicina (cfr. 3.1070a29s.). Così peraltro, ha occasione di ribadire, tramite l’identità fra medicina e salute, il principio generalissimo dell’identità fra pensiero e pensato (cfr. 7.1072b19-23, 9.1074b33s., 1075a10), come punto di forza della propria costruzione teorica.

1075b10-12 “Assurdo è anche il non configurare un termine che sia contrario al bene e all’intelletto; ma tutti quelli che parlano dei contrari non si servono dei contrari, a meno che non si metta ordine nella loro dottrina” (a[topon de; kai; to; ejnantivon mh; poih'sai tw'/ ajgaqw'/ kai; tw'/ nw'./ pavnte" d’ oiJ tajnantiva levgonte" ouj crw'ntai toi'" ejnantivoi", ejan; mh; rJuqmivsh/ ti") La prima critica (1075b10s.) va interpretata. Pare infatti in contrasto con quanto poco oltre sarà sottolineato con enfasi: che ciò che è primo non ha contrario, e che la conoscenza di ciò che è primo non ha contrario (1075b20-24). Perché dunque critica l’assenza di un contrario per il bene (to; ajgaqovn) e per l’intelletto – che sono indubbiamente principi primi? Può venire in soccorso l’ipotesi generale indicata supra (§ 2.2, con riferimento

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a 1075a25-27), e cioè: Aristotele si pone ora nella logica di un Anassagora riveduto e corretto, legge il nou'" nel quadro del suo ripensamento globale (e globalizzante) delle dottrine precedenti come dottrine che pongono i contrari come principi. Il nou'" di Anassagora vale come principio; dunque, in quella logica, dovrebbe avere un contrario; inoltre esso è buono e agisce come causa efficiente di generazione; ora, poiché, secondo la teoria aristotelica dell’azione volontaria, un’intelligenza che agisce presuppone una causa finale, e il fine è superiore a ciò che agisce in vista del fine (1072b2s.), allora il nou' " non può essere principio assolutamente primo. Dovrebbe dunque avere una controparte negativa (il che peraltro comporta che sia pensato come intelletto passivo, secondo la distinzione di De anima G 5, e di L 7, cfr. la presente edizione e lettura di 1072b23). Tutto questo evidentemente si attaglia a fatica con il ruolo attivo del nou'" nella cosmogonia di Anassagora. Ciò mostra il carattere riflessivo e generalizzante di queste considerazioni aristoteliche, che ancora restano avulse da quelle strettoie dossografiche, nelle quali la tradizione posteriore le avrebbe volute incanalare: invero, nell’intenzione originale, queste considerazioni valgono non solo e non tanto come obiezione ai predecessori, ma come giustificazione e consolidamento delle dottrine positive costruite da Aristotele. Peraltro, l’espressione critica “non si servono dei contrari” (ouj crw'ntai toi'" ejnantivoi") si trova anche in A 4.985a17, in contesto leggermente diverso, riferita cioè alla teoria delle cause. In entrambi i casi, è come una traccia dell’opera di riordino che Aristotele implicitamente qui rivendica a sé (ejan; mh; rJuqmivsh/ ti", 1075b12). Con un intervento piuttosto invasivo di sintesi teorica, Aristotele identifica la teoria della generazione dai contrari come trait d’union fra le teorie, fra loro anche molto diverse, dei suoi predecessori; teoria la quale è però lungi da essere sistematicamente esposta e applicata nei loro scritti; di modo che la critica così rivolta (pongono i contrari come principi, ma non usano i contrari come principi) vale indirettamente come difesa e giustificazione di questo aspetto

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così globalizzante (e forse controvertibile) della sua dossografia filosofica.

1075b13s. “Nessuno spiega perché alcune cose siano corruttibili, altre invece, incorruttibili: infatti fanno derivare tutti gli enti dagli stessi principi” (kai; dia; tiv ta; me;n fqartav, ta; d’ a[fqarta oujdei;" levgei: pavnte" ga;r ta; o[nta poiou'sin ejk tw'n aujtw'n ajrcw'n) Implicitamente, Aristotele rivendica a sé il merito di aver spiegato, usando principi diversi, perché alcuni enti siano corruttibili, altri no. Il punto, sovente trascurato, può essere di grande importanza. Equivale infatti, probabilmente, ad aver risolto la decima aporia del libro Beta: perché alcuni enti sono corruttibili, mentre altri no? La risposta, è chiaro anche in Beta, sta nella differenza fra i rispettivi principi. È utile pertanto tentare di collegare questi ed altri passi correlati, più di quanto solitamente avvenga nei commenti a Lambda. Ciò anzi è necessario a mettere in valore, come Aristotele ha voluto, temi e teorie elaborati nella prima parte del libro. Di questo mi sono occupata in Heavenly Matter, cit. evidenziando la continuità problematica fra Lambda 1, Lambda 2, e, tramite quest’ultimo passo di Lambda 10, la decima aporia del libro Beta. In questa chiave di lettura, appare che Aristotele considerò importante, benché inesplorata dai predecessori, la difficoltà di spiegare, tramite la teoria dei principi, la differenza fra enti corruttibili e enti non corruttibili. Mentre dunque i tre principi elementari forma, privazione, materia, discussi nella prima parte del libro, si riferiscono alla sostanza soggetta a generazione e corruzione, per la sostanza incorruttibile, cioè celeste, la materia, se è tale, è diversa, perché non è soggetta al divenire se non nel senso del passaggio da un luogo all’altro. Tale concetto è introdotto, sinteticamente ma con precisione (e non senza consonanza di intenti con la teoria di Theta 8) nel capitolo 2.1069b26: “essa non

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è adatta a divenire, ma solo a passare da un luogo a un altro” (cfr. supra, § 4.2.1 e Comm. ad 1069a30-33, 1069b26).

1075b14-17 “Inoltre, alcuni fanno generare gli enti dal nonente; altri invece, per non esservi costretti, pongono che tutti gli enti siano uno solo. Né c’è chi spieghi perché ci debba sempre essere generazione, né quale sia la causa della generazione” (e[ti oiJ me;n ejk tou' mh; o[nto" poiou'si ta; o[nta: oiJ d’ i{na mh; tou'to ajnagkasqw'sin, e}n pavnta poiou'sin. e[ti dia; tiv ajei; e[stai gevnesi", kai; tiv ai[tion genevsew", oujdei;" levgei) Attraversando problemi e argomenti diversi, il testo continua a esplicitare, o fare almeno intravedere in controluce, le motivazioni dialettiche delle dottrine positive elaborate da Aristotele. Qui, quanto all’eternità del ciclo della generazione, si potrebbe vedere un riferimento retrospettivo interno al libro Lambda. Causa di tale ciclo sono infatti i moti celesti, secondo la dottrina esposta sinteticamente in L 6.1072a9-18; ivi, tuttavia, l’esposizione è allusiva, e difficilmente può comprendersi senza fare riferimento alla conclusione di uno dei più speculativi fra i trattati di fisica, De gen. et corr. B 10. Quanto poi al riferimento più preciso al problema della generazione dal non-ente, l’importanza degli ultimi capitoli del primo libro della Fisica si impone. Infatti il tema è dibattuto soprattutto in Phys. A 8-9: si tratta dell’“aporia degli antichi” (191a23s.), cioè di quella difficoltà originaria che aveva motivato, come risposta, la dottrina eleatica dell’unicità dell’ente, e la dottrina aristotelica della materia. Quell’importante aporia è comparsa a più riprese: prima, in modo allusivo nella sezione di Lambda dedicata alla materia, cap. 2.1069b15-19, 26-29; poi, se ne trova cenno in L 7.1072a19-20: “se non è così, l’universo dovrebbe generarsi dalla notte, dal ‘tutto insieme’ e dal ‘non ente’”; a sua volta, quest’ultimo passo di Lambda 7 si riallaccia a quanto argomentato in L 6.1071b26-27, ove si evidenziava il

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superamento della dottrina de “i teologi [che] fanno generare le cose dalla notte” (il problema della generazione dal non ente non era menzionato, ma Aristotele in 1072a19s. mostra di equiparare in qualche modo la notte al non ente). Aristotele dunque riprende un problema, quello della generazione dal non ente, che non è stato propriamente tematizzato, ma è rimasto sullo sfondo nel libro Lambda, in quanto era già alla base dei libri della Fisica e della specifica teoria della materia come sostrato dei contrari, cui Lambda fa riferimento; inoltre e specialmente, quella teoria della materia soggiace alla teoria aristotelica dell’atto e della potenza (cfr. qui supra, ad 1075b13s.). Sono indizi come questo a generare l’ipotesi di lettura di Lambda 10 come “epilogo dell’epilogo” (cfr. supra, § 4. 10): come un epilogo, cioè, non solo del libro Lambda in sé, ma della complessiva operazione e volontà di sintesi che il libro Lambda attesta, con tutte le oscurità che conseguono all’accostarsi e accumularsi uno dopo l’altro di così brachilogici riferimenti alle diverse teorie discusse, sia in Lambda, sia altrove nel corpus: sia cioè negli altri trattati di filosofia prima, sia in quelli – secondo la definizione di Crubellier – di “filosofia prima della natura”, cioè in quelle parti della fisica le cui tematiche sono rilevanti per la filosofia prima.

1075b17-20 “Quelli che pongono due principi hanno necessità di un altro principio più forte, e così anche quelli che pongono le idee, altrimenti, perché prendono in sé , ovvero ne partecipano?” (kai; toi'" duvo ajrca;" poiou'sin a[llhn ajnavgkh ajrch;n kuriwtevran ei\nai, kai; toi'" ta; ei[dh, o{ti a[llh ajrch; kuriwtevra: dia; tiv ga;r metivscei h] metevcei;) Il tema della necessità di una causa efficiente superiore verrà ripreso con insistenza più oltre, sempre lasciando impliciti o in sospeso i termini della soluzione positiva. Qui, l’interrogativo porta in evidenza non solo la componente antiaccademica, ma anche la matrice inter-accademica della

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discussione: secondo il testo dei codici poziori, ripristinato nella nostra edizione (metivscei piuttosto che metevscen) qui c’è un preciso riferimento al linguaggio platonico, cfr. Resp. III 411d, Tim. 58e, Phil. 56c; e cfr. I, Nota ad 1075b19.

1075b20-24 “secondo le altre dottrine, è necessario che ci sia qualcosa di contrario alla sapienza e alla scienza più alta; secondo la nostra, invece, no: ciò che è primo non ha contrario; infatti tutti i contrari hanno materia, e è i contrari in potenza, , l’ignoranza nel suo contrario; ma ciò che è primo non ha alcun contrario” (kai; toi'" me;n a[lloi" ajnavgkh th'/ sofiva/ kai; th'/ timiwtavth/ ejpisthvmh/ ei\naiv ti ejnantivon, hJmi'n d’ ou[. ouj gavr ejstin ejnantivon tw'/ prwvtw/ oujdevn: pavnta ga;r ta; ejnantiva u{lhn e[cei, kai; dunavmei taujtav ejstin: hJ de; ejnantiva a[gnoia eij" to; ejnantivon, tw'/ de; prwvtw/ ejnantivon oujdevn) L’intelletto primo, diversamente dall’intelletto inteso come facoltà recettiva (7.1072b22), non passa mai dal non conoscere ancora, come potenzialità, all’atto, ma è puramente in atto; non esiste una materia di esso che passi da uno stato contrario all’altro, così come il suo oggetto non si genera nella materia a partire da una privazione o da una condizione contraria. Ha come oggetto se stesso. D’altronde, come si è visto in Lambda 7 e 9, l’eternità e attualità di pensante e di pensato, di intelletto e di intelligibile, vanno insieme. L’idea può forse scaturire, come è stato osservato, da un tema ricorrente in Platone: il passaggio dalla a[gnoia alla sapienza. Ma ciò non può valere per la sapienza più alta: essa non viene dall’ignoranza. A differenza della comune attività cognitiva degli umani, che passa dalla potenza all’atto, e viceversa, come nel caso di uno che dorma (cfr. supra, 9.1074b18), esiste un intelletto che è sempre attualmente identico all’intelligibile, e di questa forma di permanenza e intelligibilità, che ha la natura dell’eternità, anche noi possiamo talora partecipare: “la sua condizione di esistenza è tale, quale a noi è

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possibile per poco tempo”, 1072b14s.

1075b24-27 “se non ci sarà null’altro se non le cose sensibili, non ci saranno principio, ordine, generazione e movimenti celesti; ma ci sarà sempre un principio del principio, come per i teologi e per tutti i fisiologi” (eij mh; e[ s tai para; ta; aijs j qhta; a[lla, oujk e[stai ajrch; kai; tavxi" kai; gevnesi" kai; ta; oujravnia, ajll’ ajei; th'" ajrch'" ajrchv, w{sper toi'" qeolovgoi" kai; toi'" fusikoi'" pa'sin) La dottrina positiva di riferimento è quella di L 7.1072a21-26ss. (per la posizione del problema, cfr. anche 1.1069a33s., 6.1071b4-6). Essa spiega i movimenti celesti con l’esistenza di una sostanza non sensibile. I fenomeni celesti a loro volta spiegano il ciclo della generazione. Aristotele allude poi alla confutazione di quelle teorie (attribuite ai “teologi”, cioè scrittori di miti al modo di Esiodo, e ai fisiologi ionici) secondo le quali l’ordine dell’universo nascerebbe, o dal non ente, o dal tutto insieme, ma comunque senza un vero principio. Invero, l’idea qui confutata, che ci sia sempre un principio del principio, equivale a dire che non c’è alcun principio, come elucidato in Alpha elatton 2 (cfr. anche B 4.999b9-12). I predecessori incadono dunque senza volerlo nel regressus ad infinitum, che comporta la distruzione dell’orientamento e del senso della catena causale (cfr. supra, ad 1072a24s.).

1075b27-30 “Se, d’altra parte, ci fossero le forme o numeri, non sarebbero causa di nulla, o altrimenti, perlomeno, non di movimento. In che modo, poi, da enti privi di grandezza si possono generare la grandezza e il continuo? Il numero infatti non può produrre il continuo, né come causa motrice, né come causa formale” (eij d’ e[stai ta; ei[dh, h] ajriqmoiv, oujdeno;" ai[tia: eij de; mhv, ou[ti kinhvsewv" ge. e[ti pw'" e[stai ejx ajmegeqw'n mevgeqo" kai;

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sunecev"… oJ ga;r ajriqmo;" ouj poihvsei sunecev", ou[te wJ" kinou'n ou[te wJ" ei\do") Qui torna l’argomento menzionato in 6.1071b14s. (ed elaborato altrove, cfr. A 9.991a9-12) dell’inadeguatezza dei principi non sensibili, accademicamente concepiti, a rendere ragione dei fenomeni dei quali sono chiamati a essere principi, cioè delle sostanze sensibili: queste infatti sono soggette al mutamento, e i principi ad esse propri, per Aristotele, sono appunto principi del loro mutamento (cfr. supra, Comm. ad 1.1069b1s., 2.1069b3-9). L’espressione è ristretta e compendiata, giovano pertanto i paralleli con M 5.1079b12ss., 8.1083b11-14.

1075b33-34 “Bisogna dunque che venga meno qualcuna di queste [premesse]. E si è detto in che modo” (ajnairetevon a[ra touvtwn ti, tou'to dΔ ei[rhtai pw'") Verrà meno, possibilmente, il presupposto che la causa efficiente prima sia uno dei due contrari. Ma non si può dire che l’indicazione sia perspicua.

1075b34-35 “da che cosa siano resi uno i numeri, o l’anima, e il corpo” (tivni oiJ ajriqmoi; e[n, h] hJ yuch; kai; to; sw'ma) La discussione verte probabilmente sulla causa dell’unità tra forma e materia, declinandosi secondo i diversi modi di concepire il fattore formale: come numeri, come anima, come forma. Intendo dunque che l’interrogativo sia: “da che cosa siano resi uno i numeri e il corpo, o l’anima e il corpo e in generale la forma e l’oggetto”. Come rappresentativa della traduzione più corrente (sebbene la differenza di traduzione possa consistere anche solo nella punteggiatura), cfr. la Oxford Translation: “no one says anything about what unifies numbers, or soul and body and generally the

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form and the thing”. In questo modo però si trovano a mescolarsi due interrogativi alquanto diversi per natura, quello qui considerato, ma anche che cosa unisca i numeri in quanto tali (sul quale cfr. anche A 9.992a1-2). Il testo di riferimento è Eta 6, ma ivi stesso è controverso se la soluzione data al problema dell’unità del numero, e a quella dell’unità di forma e materia, sia uguale, o diversa, secondo quanto argomenta V. Harte (Aristotle Metaphysics H 6: A Dialectic with Platonism, «Phronesis», XLI (1996) pp. 276-304) e secondo quanto il testo presente dà ragione di ritenere. La dottrina aristotelica della causa efficiente, che provoca il passaggio della materia dal potenziale possesso all’attuale possesso della forma (cfr. appunto Eta 6), spiega efficacemente l’unità di materia e forma, sia che quest’ultima abbia, sia che non abbia natura numerica, sia dunque che possa, sia che non possa essere indicata da Aristotele come numeri (il riferimento è indubbiamente a concezioni accademiche quanto alla funzione formale dei numeri; oltre che alla generale dottrina accademica della partecipazione, dalla quale Aristotele prende anche qui le distanze, cfr. A 6.987b9-14). Quanto all’interrogativo, di che cosa unisca il numero come tale, esso è affrontato ibid. da Aristotele contestualmente alla questione di che cosa conferisca unità alla definizione, e più in generale, di che cosa unisca quei termini che siano senza materia. Sulla causa efficiente come fattore eidopoietico, cioè generatore di forma, e, con la forma, di unità, cfr. anche Crubellier, ad loc. p. 153.

1076a4 “...non è bene la sovranità di molti, uno solo sia il sovrano” (oujk ajgaqo;n polukoiranivh: ei|" koivrano") Cruciale non solo per il capitolo, ma per il libro nel suo complesso, è quale senso si voglia attribuire a questa citazione omerica. Come osservato nell’Introduzione, il suo statuto retorico ne può rendere equivocabile la valenza precisa. Ma ciò che è chiaro è che non

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va considerata a prescindere dal suo contesto immediato. Ivi si stabilisce un punto di riferimento importantissimo, per opposizione: le sostanze di Speusippo non contribuiscono l’una all’altra. Punto di forza della dottrina aristotelica delle tre sostanze (cfr. 1.1069a30-36) è che esse hanno l’una una relazione causale nei confronti dell’altra, e la prima ha, indirettamente, una relazione causale anche con l’ultima. In questo, l’explicit del libro si trova preparato dall’esordio del capitolo, secondo l’interpretazione qui proposta: anche lo stratega fa parte dello schieramento (cfr. supra, ad 1075a14). Il sovrano può essere uno perché l’ordine dell’universo è coeso ed è uno.