Come stanno le cose. Il mio Lucrezio, la mia Venere 881707702X, 9788817077026

Duemila anni fa un uomo guardò alla cultura del futuro, e ne anticipò una buona parte in un'opera visionaria e avve

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Come stanno le cose. Il mio Lucrezio, la mia Venere
 881707702X, 9788817077026

Table of contents :
Cover
Vintage
Frontespizio
Copyright
Come stanno le cose
Istruzione per l'uso
Premessa
Introduzione
Il microcosmo
Libro I - Gli atomi
Libro II - Fisica e chimica
L’uomo
Libro III - La psiche
Libro IV - Fisiologia e psicologia
Il macrocosmo
Libro V - La Terra
Libro VI - Meteorologia e geologia
Ringraziamenti
Bibliografia lucreziana minima
Indice dei nomi
Indice delle opere
Apparato iconografico

Citation preview

“Questo libro è davvero una sorpresa, ed è anche il migliore di Odifreddi.”

PIERGIORGIO ODIFREDDI Come stanno le cose Il mio Lucrezio, la mia Venere

Rizzoli

PIERGIORGIO ODIFREDDI (1950) ha studiato matematica in Italia, Stati Uniti e Unione Sovietica, e insegnato logica presso l’Università di Torino e la Cornell University. Collabora a “la Repubblica”, “l’Espresso” e “Le Scienze”. Nel 2011 ha vinto il premio *DOLOHRSHUODGLYXOJD]LRQHVFLHQWL´FD

Duemila anni fa, con il De rerum natura, Lucrezio guardò alla cultura del futuro e ne anticipò una buona parte in un poema visionario e avveniristico, opera di divulga]LRQHVFLHQWL´FDHWHVWLPRQLDQ]DODLFD6RQR queste le due chiavi di lettura del mondo alle quali si lega il matematico impertinente Piergiorgio Odifreddi, che si è cimentato in una nuova traduzione in prosa del capolavoro di Lucrezio e in un commento ilOXVWUDWR 3HU PRVWUDUH OH FRQQHVVLRQL LGHDOL o fattuali con l’intera cultura, umanistica e VFLHQWL´FD GL XQ­LPSUHVD OHWWHUDULD DQFRUD RJJLVWUDRUGLQDULD

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Piergiorgio Odifreddi

COME STANNO LE COSE Il mio Lucrezio, la mia Venere

Rizzoli

© 2013 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-58-67308-9 Prima edizione digitale 2014 da Prima edizione Rizzoli Vintage: settembre 2014 www.rizzoli.eu L’editore ha fatto il possibile per reperire i proprietari dei diritti. Rimane a disposizione per gli adempimenti d’uso

COME STANNO LE COSE

All’alma Elena e ai professori di scienze, perché diffondano il contenuto scientifico del poema di Lucrezio E ai professori di lettere, perché non lo rimuovano nascondendolo dietro la forma letteraria

«Se avessi letto Lucrezio in liceo me ne sarei innamorato, ma Lucrezio non si legge volentieri nei licei: ufficialmente perché è troppo difficile, di fatto perché dai suoi versi ha sempre emanato odore di empietà. Perciò, fin dall’antichità gli si è costruito intorno un involucro di silenzio, ed oggi di quest’uomo straordinario non si sa nulla. Coscientemente o no, per lungo tempo è stato considerato pericoloso perché cercava un’interpretazione puramente razionale della Natura, aveva fiducia nei propri sensi, voleva liberare l’uomo dalla sofferenza e dalla paura, si ribellava contro ogni superstizione, e descriveva con lucida poesia l’amore terrestre. La sua fiducia a oltranza nella esplicabilità dell’universo è la stessa degli atomisti moderni. Il suo materialismo, anzi meccanicismo, è candido e ci fa sorridere, ma affiorano qua e là intuizioni sorprendenti.»

Primo Levi, La ricerca delle radici. Antologia personale, 1981

ISTRUZIONI PER L’USO Le pagine dispari del libro riportano nell’ordine la Premessa e l’Introduzione di Piergiorgio Odifreddi e il testo tradotto del De rerum natura di Lucrezio, mentre le pagine pari contengono commenti al testo a fronte. Nelle pagine dispari: [tra parentesi quadre le interpolazioni, in forma di note inserite nel testo] in corsivo, i brani più significativi, su cui concentrarsi a una prima lettura in blu, i versi commentati nella pagina a fronte in rosso, i versi commentati in altre pagine, precedenti o successive

TRADUZIONI Tutti i testi citati sono stati tradotti e/o adattati dall’autore.

Premessa IL MIO LUCREZIO, LA MIA VENERE

Jorge Luis Borges ci ha insegnato che esistono modi estremi di fare letteratura. Da un lato, si possono recensire e commentare le opere mai scritte, che costituiscono la parte preponderante della Biblioteca di Babele, contenente tutti i libri che l’alfabeto permette di combinare. L’ha fatto Borges stesso, creando autori fantasma come Herbert Quain. Ma l’hanno fatto talmente in tanti, prima e dopo di lui, che quando Paolo Albani e Paolo della Bella hanno tentato di classificarli, ne è uscito un libro intero: Mirabiblia. Catalogo ragionato di libri introvabili (Zanichelli, 2003). Dall’altro lato, si possono riproporre testualmente le opere già esistenti. Due parti della fantasia di Borges sono il celeberrimo Pierre Menard, e il misconosciuto Hilario Lambkin Formento. Il primo ridivenne parzialmente Cervantes, e riscrisse alcune pagine del Don Chisciotte. Il secondo riscrisse addirittura l’intera Divina Commedia, estendendo progressivamente riassunti sempre più dettagliati e letterali, fino a far coincidere l’ultimo con l’opera stessa. Meno fantasticamente, posti di fronte a opere di altri tempi, altre culture o altre lingue (quando non di tutte e tre le cose insieme, com’è appunto il caso del De rerum natura di Lucrezio), ci si può situare dovunque nello spettro dei modi di riproporla, fra i due estremi del libero adattamento e della traduzione coatta. Tra gli innumerevoli esempi italiani di ogni genere, l’Iliade è stata tradotta disinvoltamente in versi da Vincenzo Monti, e ridotta teatralmente in prosa da Alessandro Baricco. Roberto Calasso ha raccontato creativamente i miti indiani in Ka e L’ardore, e quelli greci e romani in Le nozze di Cadmo e Armonia. Luciano De Crescenzo ha iniziato un vasto pubblico ai

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Premessa I primi due traduttori, in versi e in prosa

Ugo Foscolo (1778-1827)

Alessandro Marchetti (1633-1714)

Prima apostrofò Vincenzo Monti come “gran traduttor de’ traduttor d’Omero”. Ma aveva il dente avvelenato con lui per motivi di cuore, più che di critica letteraria: amava infatti la signora Monti, ne era stato respinto, e aveva tentato il suicidio per la delusione. Poi divenne lui stesso “grand’adattator del traduttor Marchetti”, quando ne intentò una versione in prosa, che coprì però soltanto 237 versi. Per un assaggio del suo stile, vedi p. 78. Per una raccolta dei suoi frammenti di traduzione, vedi invece Ugo Foscolo, Letture di Lucrezio, a cura di Franco Longoni (Guerini, 1990).

Effettuò la prima traduzione italiana del De rerum natura, sulla scia di quella francese del 1649 di Pierre Gassendi. La fece con molta libertà, forse anche troppa: i 7415 versi pervenutici dell’originale latino (qualcuno è andato perduto) divennero così 10.724 in italiano. La versione del Marchetti fu molto apprezzata per la creatività letteraria, ma molto avversata per la fedeltà alla visione atea e materialista di Lucrezio. Per un assaggio del suo stile, vedi p. 28. Per la traduzione intera, vedi invece Alessandro Marchetti, Della natura delle cose di Lucrezio, a cura di Mario Saccenti (Mucchi Editore, 1992).

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Il mio Lucrezio, la mia Venere grandi miti greci, in versione sia scritta che illustrata a fumetti. E Giorgio Manganelli e Umberto Eco hanno riproposto Pinocchio a modo loro: il primo in “un libro parallelo”, e il secondo nel tautogramma Povero Pinocchio. La letteratura si è dunque ormai liberata da qualsiasi remora e soggezione. Per curare un’opera non è più necessario neppure conoscere la lingua in cui è stata scritta, preservarne il genere letterario e la struttura, e riportarne il contenuto integralmente, o anche solo fedelmente. Si può fare ciò che si vuole, preferibilmente avendo dei motivi per farlo. I letterati questi motivi li hanno per definizione, se non altro per confrontarsi idealmente con i loro simili di altri tempi, altre culture e altre lingue. Ma nel caso di Lucrezio questi motivi li hanno anche gli scienziati, perché il De rerum natura non è un’opera letteraria come le altre. È sì un poema in versi, ma parla di argomenti che oggi vengono a torto considerati prosaici: cioè, il mondo fisico e le scienze che lo studiano a vari livelli, dal micro al macro, passando per l’intermedia dimensione umana. È vero, però, che al giorno d’oggi la poesia della Natura risplende meglio nella prosa: per noi contemporanei, i versi attirano infatti troppo l’attenzione su se stessi, e la distraggono da un contenuto che, nel caso della scienza, è preponderante sulla forma. In ogni caso, se uno non è Dante, fa sicuramente meglio a lasciar perdere. Se ne accorse già Ugo Foscolo, che nel 1803 decise di volgere in prosa la traduzione in endecasillabi sciolti fatta un secolo e mezzo prima da Alessandro Marchetti. Ma la prosa del poeta Foscolo non è mai stata terminata. E la poesia del matematico Marchetti oggi risulta più ammirevole e coraggiosa che leggibile e rigorosa. In ogni caso, Lucrezio non aiuta già di suo, essendo stato un precursore del flusso di coscienza: una prelibata ma indigesta invenzione letteraria, in disperata ricerca di un editor che la sbocconcelli in briciole digeribili. L’editor presente, cioè io, non pretende certo di competere in questo tipo di impresa con Vittorio Sermonti, e meno che mai con Roberto Benigni. Ma ha almeno l’ambizione di proporre un libero adattamento in prosa dell’intero De rerum natura, insieme a una scelta antologica (in corsivo) che ne indichi i brani più significativi, e un piccolo apparato di introduzioni e note che ne evidenzino le formidabili intuizioni scientifiche. Spesso, bastano anche piccole accortezze, quali identificare Venere con una spinoziana Dea, sive Natura, o l’animo e l’anima con le funzioni del cervello e del sistema nervoso, per illuminare di luce nuova questi versi antichi, che una lettura troppo letterale rischierebbe di far apparire antiquati, offuscandone la visionaria attualità.

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Introduzione DA LUCREZIO A CALVINO

All’alba del pensiero occidentale, per descrivere degnamente i profondi sentimenti che l’osservazione della Natura veniva loro ispirando, i presocratici si appellarono alla musica e alla poesia. Da un lato, i pitagorici orchestrarono una visione del cosmo sintetizzata in espressioni quali “la musica delle sfere” o “l’armonia del mondo”, che scienziati e musicisti utilizzarono poi per millenni: ad esempio, nel trattato Harmonices mundi di Keplero, del 1619, e nell’opera Die Harmonie der Welt di Paul Hindemith, del 1957. Dall’altro lato, gli ionici e gli eleatici composero svariati poemi Sulla Natura, dai cui frammenti emergono alcuni princìpi fondamentali della successiva speculazione filosofica: primi fra tutti l’apeiron (“infinito”) di Anassimandro, il logos (“ragione”) di Eraclito, e l’aletheia (“verità”) di Parmenide. La tradizione dei poemi sulla Natura continuò coi fisici posteriori, da Empedocle e Anassagora a Democrito ed Epicuro, le cui visioni cosmobio-logiche del mondo confluirono nel De rerum natura, “La natura delle cose”: la sinfonia di Tito Lucrezio Caro, pubblicata postuma poco più di duemila anni fa da Cicerone, che costituisce il più elevato canto mai intonato da un uomo alla scienza e alla ragione. Gli scrittori cristiani, per cercare di screditare il poema, tramandarono la notizia che il poeta fosse stato pazzo, avesse scritto i suoi versi nei recessi della follia e si fosse suicidato, ma la cosa è poco verosimile. Anzitutto, per la magica causa della supposta pazzia, che avrebbe dovuto essere un filtro d’amore: cioè, una favola, a cui solo gli ingenui come loro potevano credere. Ma, soprattutto, per la lucidità dei suoi pensieri, che gli ottusi detrattori non erano ovviamente in grado di comprendere, né tanto meno di giudicare.

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Introduzione L’inizio del poema

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Da Lucrezio a Calvino Nell’inno a Venere che apre il De rerum natura Lucrezio chiede aiuto alla dea. Non per cantare, secondo la tradizione passata e futura, «del Pelìde Achille l’ira funesta» (Iliade), o «l’uom di multiforme ingegno che molto errò» (Odissea), o «di Marte l’armi, e ’l valor del grande eroe» (Eneide), o «le donne, i cavallier, l’arme, gli amori» (Orlando furioso), o «l’arme pietose e ’l capitano» (Gerusalemme liberata), o altre amenità. Bensì, per descrivere quella natura delle cose1 da cui poi prese il nome la sua opera. Più in particolare, per esporre la visione del mondo di Epicuro, «il primo uomo che osò guardare in faccia la religione, che sporge il suo orribile volto dal cielo e incombe dall’alto sui mortali».2 All’osservazione e alla conoscenza della Natura è affidato il compito di dissipare le tenebre e le paure dell’animo. Non solo il terrore della morte e dell’aldilà, su cui specula la fede. Ma anche l’incomprensione dei fenomeni terrestri, marini e celesti, che la superstizione e l’ignoranza attribuiscono ingenuamente al capriccio degli dèi. Senza capire, invece, che la Natura «non è sottomessa a padroni superbi: fa tutto da sé, e senza interventi divini».3 In sostanza, l’insegnamento che Lucrezio mutua da Epicuro è che gli dèi, ai quali peraltro essi ancora credono, non c’entrano nulla col mondo. E meno che mai con l’uomo, il quale non è stato calato dal cielo con una corda d’oro, come quella che nell’Iliade4 pende dalla vetta dell’Olimpo e alla quale sono appese tutte le cose, ma è un prodotto della Terra stessa. Qual è, allora, la vera natura delle cose, che illumina l’animo dell’uomo e lo libera dalle false credenze, così come la luce dissolve gli incubi di un bambino, che nel buio è impaurito da fantasmi immaginari? Quali sono, ad esempio, le vere cause delle catastrofi naturali, piccole e grandi, che così spesso, allora come oggi, vengono attribuite all’ira e alla punizione divine per le malefatte umane? Le mostra nel dettaglio il libro VI, decostruendo in maniera scientifica una serie di fenomeni meteorologici e geologici che da sempre appaiono, dal punto di vista antropocentrico, come effetti di un accanimento della Natura contro l’uomo: tuoni, lampi, fulmini, venti, piogge, terremoti, maremoti, eruzioni, epidemie. Fino alla grandiosa scena finale della peste di Atene, durante la quale «la religione non contava più molto e il potere degli dèi era decaduto, schiacciato dal peso incombente del dolore immediato».5 In precedenza, nei libri III, IV e V, Lucrezio aveva già compiuto una decostruzione analoga per la psicologia, la fisiologia, la biologia e l’astro

1 2 3 4 5

I,25. I,62-67 (vedi p. 32). II,1091-1092. VIII,23-34. VI,1276-1277.

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Il poema

Introduzione Alcune illustrazioni classiche

Un momento unico della storia

Gustave Flaubert (1821-1880)

Marguerite Yourcenar (1903-1987)

Secondo la testimonianza della Yourcenar, la memorabile citazione di Flaubert riportata a destra fu il granello di sabbia che produsse la perla delle sue Memorie di Adriano. Quel “momento unico”, quando gli dèi antichi erano ormai appassiti, e gli dèi moderni non avevano ancora attecchito, vide la fioritura non solo di Cicerone, Lucrezio e Seneca, ma anche dei “cinque buoni imperatori”: Nerva, Traiano, Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio. Quest’ultimo, in particolare, nel doppio ruolo di governante e filosofo. 14

Da Lucrezio a Calvino nomia, mentre nei libri I e II aveva cantato le lodi degli atomi, che «costituiscono tutte le cose del mondo».6 L’argomento di Lucrezio per l’esistenza degli atomi è lo stesso che sarà usato da Kant nella seconda antinomia della Critica della ragion pura: se non ci fossero gli atomi, «ogni corpo consterebbe di infinite parti, e allora quale sarebbe la differenza fra l’intero universo e un granello di sabbia?».7 L’argomento è inconfutabile, ma non necessariamente convincente, perché l’occhio del corpo ha una vista meno acuta di quello della mente. Lucrezio si premura allora di fornire argomenti di plausibilità per l’atomismo, come farà Galileo nei Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo per l’eliocentrismo. In particolare: t Il pulviscolo atmosferico reso visibile da un raggio di sole che penetra in una stanza, la cui danza incessante offre un modello dell’eterno tumulto degli atomi nel grande vuoto.8 t Le pecore dei greggi che si aggirano saltellando sui prati, o i soldati delle legioni che avanzano tumultuose nei campi, i cui movimenti individuali appaiono indistinti a un osservatore lontano.9 t Ma, soprattutto, le parole del linguaggio, che pur essendo costituite delle stesse poche lettere dell’alfabeto, «descrivono il cielo, i corpi celesti come il Sole o la Terra, e i corpi terrestri come il mare, i fiumi, gli alberi, i prati, i campi e gli esseri viventi»,10 così come tutte queste stesse cose sono costituite dagli stessi pochi atomi.11 Per il suo contenuto scientifico, materialistico e antireligioso, il poema di Lucrezio rimane un unicum nella storia della poesia classica. La condizione storica che lo rese possibile, come spiegò Gustave Flaubert in una sua lettera del 1861 all’amica Edma Roger des Genettes, fu la momentanea apertura di una finestra di opportunità intellettuale, che si richiuse quasi immediatamente: Quando gli dèi non c’erano più, e Cristo non c’era ancora, si ebbe, tra Cicerone e Marco Aurelio, un momento unico in cui c’era solo l’uomo. E l’uomo, solo. Per scrivere il De rerum natura bisognava dunque essere “solo uomini”: senza grilli, o dèi, per la testa. Come lo fu, più di un millennio dopo,

6 7 8 9 10 11

I,502. I,615-619 (vedi p. 48). II,112-141 (vedi p. 70). II,317-332 (vedi p. 76). II,1013-1018 (vedi p. 98). I,817-822 (vedi p. 54).

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Oblio e riscoperta

Introduzione Un alter ego inconscio Il poema L’Acerba, di 4865 versi in sestine, offrì una visione naturalistica e materialistica dell’uomo e del mondo, inconsciamente affine a quella del De rerum natura di Lucrezio, e consciamente alternativa a quella teologica e dualistica della Commedia di Dante Alighieri. L’Acerba rimase incompiuta per l’arresto e la condanna di Cecco da parte dell’Inquisizione. Il rogo avvenne a Firenze, di fronte a Santa Croce, nella stessa piazza dove oggi troneggia la statua del suo arcirivale Dante, sbeffeggiato nei versi riportati a destra. Cecco d’Ascoli (1269-1327)

Gli eredi immediati

L’influenza di Lucrezio si fece sentire fin da subito, a partire dai due grandi poeti vissuti nei primi decenni dopo la sua morte (avvenuta verso il -50): implicitamente e silenziosamente in Virgilio (a sinistra), ed esplicitamente e vocalmente in Ovidio (a destra). 16

Da Lucrezio a Calvino Francesco Stabili, alias Cecco d’Ascoli: un altro poeta maledetto, contemporaneo di Dante, ma umanamente e intellettualmente più coraggioso di lui, e dunque più sfortunato. La sua opera L’Acerba rimase infatti incompiuta, interrotta dal rogo appiccato a Firenze dall’Inquisizione il 16 settembre 1327, di fronte a Santa Croce. Prima che gli tagliassero le vene della fronte e lo bruciassero, nei suoi versi il poeta era comunque riuscito a meritare l’accusa di aver detto «cose infeste, orribili, sciocche, contrarie alla salute umana, eretiche, nemiche della verità cattolica». Ad esempio, parlando nel libro I di eclissi, comete, venti, pioggia, grandine, tuoni, folgori, baleni, saette, terremoti e arcobaleni. Trattando nel libro IV di fisica, meteorologia, ottica, biologia animale, fisiologia e psicologia. Dedicando l’ultima sezione di quel libro al pensiero che «le favole non ci salvano». E sanzionandovi la differenza tra l’osservazione naturalistica e l’invenzione umanistica in questi versi: Qui non si canta al modo delle rane, qui non si canta al modo del poeta che finge immaginando cose vane. Ma qui risplende e luce ogni natura che a chi intende fa la mente lieta. Qui non si gira per la selva oscura.12 Il contenuto de L’Acerba sembra modellato direttamente su Lucrezio. Ma così non è, perché Cecco d’Ascoli non poteva conoscere il De rerum natura. Anzi, ai suoi tempi non lo conosceva nessuno: l’opera era andata perduta, e dell’autore erano rimaste solo notizie tanto vaghe, da far persino sospettare che non fosse neppure esistito, e si trattasse solo di uno pseudonimo. Forse di Cicerone che, oltre ad aver curato la pubblicazione postuma del poema, era stato l’unico contemporaneo a citare il nome di Lucrezio, descrivendo il suo libro, in una lettera al fratello del febbraio -54, come «pieno di splendido ingegno, ma anche di dottrina». Il De rerum natura aveva esercitato privatamente una grande influenza sulla letteratura latina, nonostante una “congiura del silenzio” pubblica causata dalle sue scabrose posizioni filosofiche. Virgilio non cita mai Lucrezio per nome, ma secondo le Notti attiche13 di Aulo Gellio egli «vi prese non solo parole isolate, ma parecchi versi quasi per intero». Nei suoi Amori,14 invece, Ovidio dichiara apertamente: «I versi del sublime Lucrezio sono destinati a perire soltanto il giorno della fine del mondo». 12 13 14

IV,4669-4674. I,21,7. I,15,23.

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Introduzione I riscopritori rinascimentali

Poggio Bracciolini (1380-1459)

Sandro Botticelli (1445-1510)

Nel 1417 ritrovò un manoscritto dell’opera perduta di Lucrezio, in un monastero tedesco. Per la sua biografia, e l’avventurosa storia del ritrovamento che gli diede la fama, vedi Stephen Greenblatt, Il manoscritto. Come la riscoperta di un libro perduto cambiò la storia della cultura europea (Rizzoli, 2012).

Nella sua interpretazione del Rinascimento italiano, alla corte dei Medici, fu influenzato dalla visione naturalistica di Lucrezio. Due delle sue opere più famose, la Primavera del 1478 (p. 214) e la Nascita di Venere del 1485 (p. 29), sono direttamente ispirate a versi del De rerum natura.

Gli eredi moderni

Niccolò Machiavelli (1469-1527)

Per uno studio delle alterne fortune del poema nei secoli, vedi Lisa Piazzi, Lucrezio. Il “De rerum natura” e la cultura occidentale (Liguori Editore, 2009). Molière (1622-1673)

Michel de Montaigne (1533-1592)

Denis Diderot (1713-1784)

Giacomo Leopardi (1798-1837) 18

Da Lucrezio a Calvino Persino gli autori cristiani, che pure misero in atto una seconda e più radicale “congiura del silenzio” nei confronti del capolavoro di Lucrezio, non rimasero insensibili al fascino del suo stile: in particolare, riciclando blasfemamente l’iniziale inno all’alma mater Venere, e i successivi elogi a Epicuro, come preghiere alla Madonna e a Cristo.15 Ma poco a poco prevalse l’astio per i contenuti: le citazioni scemarono, e dopo il secolo VIII scomparvero. Il De rerum natura cadde nell’oblio, e se ne persero le tracce. A riscoprirlo fu Poggio Bracciolini, ex segretario personale del deposto papa Giovanni XXIII, nell’ambito di una vasta operazione di recupero di manoscritti dimenticati nelle biblioteche dei conventi di mezza Europa, inaugurata nel Trecento dal Petrarca. Il ritrovamento della prima copia perduta avvenne nel gennaio del 1417, in un’imprecisata località della Germania centrale, e in seguito ne sono state localizzate altre due complete e una parziale. Addirittura, alcuni frammenti carbonizzati coevi all’originale sono stati rinvenuti nella biblioteca della Villa dei Papiri di Ercolano nel 1753, benché si siano potuti srotolare e leggere soltanto più di due secoli dopo, nel 1987! La riscoperta del De rerum natura e della sua visione naturalistica del mondo arrivò al momento giusto, inserendosi perfettamente nell’atmosfera di rinnovamento che caratterizzava il Rinascimento. E in parte la stimolò: lo dimostra, ad esempio, la Primavera di Botticelli, che nel 1482 si ispirò ad alcuni versi di Lucrezio.16 Dopo la sua riscoperta, il libro di Lucrezio è stato riverito come una Bibbia laica da coloro che onorano la ragione. Ad esempio, alla fine del Quattrocento Niccolò Machiavelli lo ricopiò, in un manoscritto oggi alla Biblioteca Vaticana. Alla fine del Cinquecento Michel de Montaigne coprì di note la propria copia a stampa, oggi al collegio di Eton, e inserì circa centocinquanta citazioni nei suoi memorabili Saggi. Nella seconda metà del Seicento Molière tradusse in versi il poema. Nel Settecento esso funse da testo di riferimento dell’Illuminismo, ispirando nel 1769 Il sogno di d’Alembert di Diderot. E nell’Ottocento Giacomo Leopardi lo lesse a quindici anni, con il permesso formale dell’Inquisitore, per diventare in seguito, secondo Giosue Carducci, «il Lucrezio del pensiero italiano». Naturalmente, il De rerum natura è stato invece denigrato come un Vangelo apocrifo da coloro che santificano le favole. Ad esempio, nel 1516 il Sinodo fiorentino proibì la lettura dell’opera nelle scuole. Nel 1718 fu posta all’Indice la traduzione di Alessandro Marchetti, uscita postuma l’anno prima a Londra, dopo che la sua pubblicazione era stata impedita per cinquant’anni in Italia. Nel 1747 fu pubblicato l’Anti-Lucrezio, 15

Vedi V,737-740 (vedi p. 242).

16

Vedi V,737-740 (vedi p. 214).

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Introduzione Due critici

Voltaire (1694-1778)

Bertrand Russell (1872-1970)

Voltaire ritenne Lucrezio troppo poco scientifico, per certe sue concezioni ormai sorpassate. Russell, invece, lo ritenne troppo poco ateo, per certi suoi atteggiamenti oggi ancora diffusi. Nei commenti entreremo nello specifico di queste concezioni e questi atteggiamenti. Gli eredi contemporanei

Ludwig Wittgenstein (1889-1951)

Raymond Queneau (1903-1976)

Italo Calvino (1923-1985)

A testimoniare l’attualità delle concezioni filosofiche e letterarie di Lucrezio, tre opere del Novecento si ispirano direttamente al De rerum natura e ne forniscono versioni moderne: il Trattato logico-filosofico di Wittgenstein (1921), la Piccola cosmogonia portatile di Queneau (1950), e la serie delle Cosmicomiche di Calvino (1964, 1967 e 1984).

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Da Lucrezio a Calvino cioè Dio e la Natura del cardinale Melchior de Polignac, in cui oltre al poeta si attaccavano Spinoza e Newton. E nel 1859 Henri Patin coronò l’opera di denigrazione tenendo un corso su L’anti-Lucrezio in Lucrezio, nel quale sosteneva che il poeta era in realtà un “teologo ateo”, inconsciamente credente. Voltaire e Bertrand Russell cantarono invece fuori dal coro in cui forse ci si sarebbe potuti aspettare di trovarli, anche se forse ci si sarebbe dovuti aspettare di trovarli fuori dal coro. Il primo, professando un deismo ancora a metà del guado tra il teismo e l’ateismo, elogiò Polignac come «vendicatore del cielo e vincitore di Lucrezio», e nel Dizionario filosofico accusò il poeta di aver descritto «una demenza che osava chiamare fisica». Il secondo, nella Storia della filosofia occidentale, lo trattò invece con condiscendenza, per aver provato verso Epicuro «sentimenti che si provano per un redentore», e aver usato «un linguaggio di intensità religiosa per l’uomo che considerava come distruttore della religione». Nel Novecento, almeno due opere si sono avvicinate al De rerum natura. Una è il Trattato logico-filosofico di Ludwig Wittgenstein, del 1921, i cui aforismi in versi liberi, che vanno da «Il mondo è tutto ciò che accade” a “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere», cantano un triplice atomismo: del mondo, del pensiero e del linguaggio. Non a caso, il Trattato divenne il manifesto del movimento noto come “atomismo logico”, dal titolo di un libro di Russell del 1918. L’altra opera è la Piccola cosmogonia portatile di Raymond Queneau, del 1950, che si ispira esplicitamente a Lucrezio. Nella struttura, dai sei canti all’invocazione a Venere. E nel contenuto, che descrive la costellazione della Natura come appare a un moderno: l’origine dell’universo, la formazione degli elementi, la nascita della vita, l’evoluzione vegetale, animale, umana e meccanica. La traduzione italiana dell’opera di Queneau riporta in appendice una Piccola Guida di Italo Calvino, le cui Lezioni americane, del 1985, oltre a citare Lucrezio più volte, si chiudono con un richiamo al De rerum natura. Non sorprendentemente, visto che i racconti scientifici raccolti negli anni Sessanta in Le cosmicomiche e Ti con zero sono, come disse Calvino stesso, «un controcanto grottesco al poema di Lucrezio», e costituiscono una vera e propria summa dei maggiori eventi fisici, chimici e biologici della storia del cosmo. Tra i loro temi ritroviamo infatti lo spazio vuoto, il Big Bang, l’espansione dell’universo e l’apparizione della luce. La formazione degli atomi, degli elementi, dei cristalli, della Terra, della Luna, dei continenti e dell’atmosfera. Le tempeste solari, i meteoriti e le maree. La morfogenesi,

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Lucrezio oggi

Introduzione Lucrezio e la scienza

James Clerk Maxwell (1831-1879)

Albert Einstein (1879-1955)

L’atteggiamento degli scienziati moderni nei confronti di Lucrezio varia dall’apertura di credito di Maxwell allo scetticismo di Einstein. Nel nostro commento, cercheremo di mostrare come nel De rerum natura si possano trovare innumerevoli assonanze con idee scientifiche moderne, quando non vere e proprie anticipazioni.

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Da Lucrezio a Calvino la riproduzione biologica, il passaggio dai molluschi alle conchiglie e dai pesci agli anfibi. E l’origine degli uccelli, l’estinzione dei dinosauri, la scomparsa dell’umanità, la fine del Sole e i buchi neri. Anche i valori letterari proposti nelle Lezioni americane (leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità e molteplicità) sembrano essere direttamente ispirati a Lucrezio. Più precisamente, alle caratteristiche dei simulacri che, secondo la teoria di Epicuro, fluiscono di continuo e in ogni direzione dalle superfici delle cose, e producono le impressioni visive negli occhi degli osservatori. Naturalmente, non bisogna esagerare a cercare nelle parole di Lucrezio anticipazioni scientifiche. Anche se fu James Maxwell stesso a dire, in una lettera del febbraio 1866 al curatore inglese Hugh Munro, che «sarebbe un peccato se queste parole significassero qualcosa di diverso», dopo che ne aveva trovate alcune che si potevano interpretare nel senso della propria moderna teoria cinetica dei gas.17 Albert Einstein diede un giudizio più equanime sul De rerum natura, nella sua prefazione all’edizione tedesca del 1924 curata da Hermann Diels: Vediamo come immagina il mondo un uomo dotato di autonomia di giudizio, portato per la speculazione scientifica, provvisto di immaginazione e intelligenza fervide, ma che non ha la minima idea neppure delle nozioni di fisica che si insegnano ai bambini. Il valore scientifico dell’opera di Lucrezio non risiede comunque negli specifici dettagli delle sue più o meno corrette anticipazioni, bensì nella sua generale visione divulgativa. Nell’aver capito, cioè, che gli argomenti scientifici sono fonti pure a cui abbeverarsi, per imparare grandi cose e «sciogliere i nodi annodati nell’animo dalla religione e dalla superstizione».18 E che, «perché certi argomenti sembrano amari a chi è intellettualmente infantile e ingenuo, e vanno addolciti col miele della letteratura».19

17 18 19

Vedi p. 68. I,927-932 e IV,2-7. I,943-947 e IV,11-17 (vedi p. 146).

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Il microcosmo

Libro I Gli atomi

Il ritmo dei versi Gli esperti dicono che il poema latino di Lucrezio è in “esametri dattilici catalettici”. In parole povere, questo significa che ogni verso (esametro) consiste di sei trisillabi con gli accenti sulle prime sillabe (dattilico), ma è privo della diciottesima sillaba (catalettico). Detto ancora più semplicemente, ogni verso ha il ritmo di un valzerino in tre quarti, di sei battute, di cui l’ultima tronca: um-pa-pa um-pa-pa um-pa-pa um-pa-pa um-pa-pa um-pa Ad esempio, i cinque versi iniziali del poema suonano così: Aeneadum genetrix, hominum divomque voluptas, alma Venus, caeli subter labentia signa quae mare navigerum, quae terras frugiferentis concelebras, per te quoniam genus omne animantum concipitur visitque exortum lumina solis: Come si vede, gli accenti spesso non coincidono con la pronuncia corrente, e a volte si devono inserire delle pause per forzare il ritmo. È chiaro che una traduzione “fedele” risulterebbe incomprensibile e inascoltabile: D’Eneadi genitrice, d’omo e dèi volutta, alma Vener, cieli di sotto girevoli segni del mare navigabil, di terre fruttiportanti concelebrante, tu poiché genti e animali concepisci e lor annunci la prima luce del Sole: Per questo i traduttori fanno sempre ciò che possono, e spesso ciò che vogliono. Ad esempio, nella versione classica del Marchetti (pp. 8-9) gli eptadecasillabi dattilici diventano endecasillabi sciolti, il numero di versi non è preservato, e il tutto suona così: Alma figlia di Giove, inclita madre Del gran germe d’Enea, Venere bella, Degli uomini piacere e degli dèi: Tu che sotto i girevoli e lucenti Segni del cielo il mar profondo e tutta D’animai d’ogni specie orni la Terra, Che per sé fôra un vasto orror solingo:

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O divina Venere, alma mater del genere umano. Tu sei la Natura, che dà piacere agli uomini e agli dèi. Tu sei colei che, sotto i cieli dei pianeti e delle stelle, pervadi i mari solcati dai naviganti e le terre ricolme di frutti. Tu sei l’origine delle specie che vedono la luce del Sole.

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Inno a Venere (1-49)

Il microcosmo Riduzionismi I versi I,54-61 costituiscono l’abstract dell’intero De rerum natura, e si possono sintetizzare in un’unica parola d’ordine: “riduzionismo”. Lucrezio intende infatti ridurre il funzionamento dell’intero macrocosmo, uomo compreso, al comportamento microscopico dei cosiddetti stoicheia: una parola greca che significa “messi in fila”, o “in serie”, e indica gli “elementi ultimi” della materia. Poiché la serialità suggerisce l’enumerazione, uno degli obiettivi del riduzionismo è la classificazione di questi “elementi ultimi”. Un altro, complementare, è la descrizione di come essi si combinino per dar luogo a tutte le cose. Entrambi gli obiettivi sono condivisi da Lucrezio e dalle scienze moderne, benché ciascuna di queste si limiti a ridurre un particolare livello di realtà a un altro più elementare. A seconda dei casi, dunque, gli “elementi ultimi” di Lucrezio potranno essere interpretati come le macromolecole della biologia, le molecole della chimica, gli atomi della fisica atomica e nucleare, o le particelle della fisica subatomica. Ad esempio, l’immagine mostra la macromolecola dell’emoglobina, che serve a trasportare l’ossigeno nel sangue. Essa si compone di quattro molecole, dette globine, di cui due sono rappresentate approssimativamente in viola, e le altre due più dettagliatamente da gomitoli di eliche colorate. Queste quattro molecole si uniscono ad altre quattro, dette gruppi eme, rappresentate da strutture a palline (atomi di ferro, carbonio, azoto e idrogeno) collegate da bastoncini (i legami chimici formati da particelle subatomiche chiamate elettroni). Oggi le molecole sono state ridotte a combinazioni di atomi, classificati in un centinaio di tipi dalla tavola periodica (p. 82). Gli atomi a combinazioni di elettroni, protoni e neutroni. E i protoni e i neutroni a combinazioni di due tipi di quark, up e down (pp. 116 e 276). In realtà, lo “zoo delle particelle” è molto più variegato. Per la descrizione della materia ordinaria, agli elettroni bisogna aggiungere anche i neutrini ad essi associati. Per la descrizione della materia instabile, almeno altre due generazioni dei quattro elementi fondamentali (quark up e down, elettroni e neutrini). E per la descrizione della cosiddetta “antimateria”, altrettante “antiparticelle” elementari, per un totale di ventiquattro stoicheia subatomici.

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Libro I. Gli atomi Al tuo sorgere come Stella del Mattino si calmano i venti, si dissipano le nubi, si schiudono i fiori, sorride il mare, si diffonde la luce nel cielo placato. Al tuo sopraggiungere come Primavera soffiano venti tiepidi, tornano uccelli festosi, e la tua forza travolge i cuori. Prede e predatori sfrecciano sui prati fioriti e guadano i fiumi ingrossati. È il momento in cui tutti si lasciano trasportare dove tu li sospingi. Per mari e fiumi impetuosi, su monti e campi verdeggianti, tra fronde traboccanti di uccelli, tu inciti tuo figlio Cupido a trafiggere i cuori con le sue frecce, per permettere alle specie di crescere e moltiplicarsi. Sei tu a governare la natura delle cose. Senza di te nulla viene alla luce del giorno, e nulla accade di piacevole o di spiacevole. È per questo che ti voglio al mio fianco, mentre mi accingo a scrivere sulla natura delle cose. Aiutami a trovare parole che attirino e ispirino, ora e sempre. Fa’ che cessino le guerre per mare e per terra, perché non potrei scrivere serenamente in tempi tumultuosi. Fa’ che i mortali ritrovino la pace nei sensi. Tu sola, come dea dell’Amore, puoi vincere Marte, dio della Guerra. Lascialo abbandonare nel tuo grembo, infliggigli nel cuore una ferita insanabile. Cattura il suo sguardo, fallo sospirare. E quando il suo corpo giace sul tuo, sussurragli nell’orecchio di concedere la pace agli uomini. In fondo, per la vostra stessa natura, voi dèi dovreste godervi la pace eterna della vostra vita immortale, senza immischiarvi nelle nostre faccende umane. Siete immuni dai dolori, incuranti dei pericoli, padroni di voi stessi. Che bisogno avete mai di noi? Cosa vi può importare dei nostri meriti o delle nostre colpe?1 O umano lettore, libera il cuore dagli affanni, allerta la mente, porgi l’orecchio alla vera dottrina. Non giudicare le parole che ti offro, prima di averle comprese e meditate. È per te che esporrò il supremo sistema celeste. Per te spiegherò i princìpi della Natura che regolano la nascita, la crescita, il sostentamento, la morte e la dissoluzione di tutte le cose. Per te parlerò di “materia generatrice”, di “semi delle cose”, di “corpi primordiali”: in breve, degli “atomi” da cui tutto ha origine.

Invito al lettore (50-61)

Ci fu un tempo in cui, per nostra vergogna, la vita umana giaceva atterrata e soffriva atterrita, oppressa dal peso della religione. Questa sporgeva il suo orribile volto dal cielo, e incombeva dall’alto sui mortali. E venne un uomo chiamato Epicuro. Un greco, che per primo osò guardare in faccia la religione con i suoi occhi mortali, ed ergersi contro di essa.

Primo elogio di Epicuro (62-79)

1

Vedi anche II,644-660, II,1090-1104 e III,1-30.

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Il microcosmo Le mura del mondo Nel verso I,73 Lucrezio parla per la prima volta delle «mura infuocate del mondo», che citerà molte altre volte in seguito (I,1102, II,1045, II,1144, III,16, V,119, V,371, V,1213, VI,123). Si tratta della Sfera del Fuoco, che nella cosmologia tolemaica separava il mondo corruttibile della terra e dell’acqua dal cielo incorruttibile. È per questo motivo che quando Dante l’attraversa nel Paradiso (I,37-93), assieme a Beatrice, si sente “transumanare”. Un po’ come succede ai viaggiatori della Macchina del tempo o di Ritorno al futuro: tutte invenzioni letterarie, queste, in cui “molto è licito che qui non lece” (“qui” a questo mondo, ma anche “qui” in questo libro). Deismo anticlericale A prima vista, sembra esserci una contraddizione tra le varie sezioni dell’apertura del De rerum natura. Nell’Inno a Venere (I,1-49) Lucrezio innalza una vera e propria preghiera alla dea, che sarà in seguito rivolta dai cristiani alla Madonna (p. 242). Ma nell’Elogio di Epicuro (I,62-79) attribuisce al maestro il merito di aver «sottomesso la religione ai nostri piedi, elevando noi al rango del cielo». E nel racconto del sacrificio di Ifigenia (I,80-101) mostra con un esempio «a quanto male può condurre la religione». In realtà, né Lucrezio, né Epicuro, erano atei. Piuttosto, oggi li definiremmo “deisti anticlericali”, alla maniera di Voltaire. Cioè, disprezzavano la religione concreta e istituzionale, considerandola soltanto una volgare e dannosa superstizione. Ma professavano una fede in dèi astratti, completamente distaccati dal mondo e impermeabili all’umanità. Erano dunque ancora, e solo, a metà del guado che traghetta dal teismo all’ateismo.

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Libro I. Gli atomi Non temette né la fama degli dèi, né i fulmini e i tuoni celesti. Anzi, ne ricavò la forza d’animo necessaria a spezzare per primo le spranghe poste dalla religione alle porte della Natura. Una volta sfondatele, egli varcò le mura fiammeggianti della Sfera del Fuoco, che separa il cielo dalla Terra. Percorse con la mente e il cuore le immensità del tutto. E ne tornò vittorioso, riportando notizie su ciò che può o non può nascere, su quali siano i caratteri e le caratteristiche delle cose. Con la sua vittoria egli ha sottomesso la religione ai nostri piedi, elevando noi al rango del cielo. Le mie parole potrebbero farti temere, o lettore, che leggendomi verrai iniziato a un’empia dottrina e instradato su un percorso scellerato. Ma, in realtà, è stata proprio la religione a provocare, spesso, azioni empie e scellerate. Ad esempio, nella città greca di Aulide, il fior fiore degli eroi achei deturpò col sangue di Ifigenia l’altare della vergine Diana, per propiziare la dea offesa dall’uccisione di una cerva sacra. Quando le fu tolta la benda dagli occhi, la ragazza scorse il padre Agamennone all’altare col volto mesto, i sacerdoti attorno a lui che nascondevano la lama del sacrificio, i cittadini che piangevano. E cadde in ginocchio terrorizzata. Non giovò, alla sfortunata, l’essere stata la primogenita del re che aveva offeso la dea: fu sollevata a braccia dagli uomini, e condotta all’altare tutta tremante. Ma non, come le avevano fatto credere, per essere solennemente sposata ad Achille e musicalmente scortata dal canto di Imeneo, protettore dei matrimoni. Bensì per soccombere come mesta vittima, immolata dal proprio padre affinché la flotta potesse salpare per Troia. A tanto male poté condurre la religione!

Il male della religione (80-101)

Forse sarai tu stesso, o lettore, a svignartela da me, vittima dei discorsi intimidatori (terriloqua dicta) dei letterati. Quanti sogni, infatti, quelli sanno inventare, in grado di sovvertire tutti i princìpi della vita e deturpare col timore ogni certezza! È ovvio. Perché se gli uomini vedessero che gli affanni dell’esistenza finiranno con la morte, saprebbero ben resistere alle superstizioni e alle minacce dei preti e dei letterati. Ma non c’è modo di opporsi, non c’è nessuna possibilità, fino a quando si temono tormenti eterni dopo la morte. Quale sia la natura dell’anima, semplicemente lo ignoriamo. Alla nascita, è generata dall’interno o viene infusa dall’esterno? Alla morte, perisce con noi, o va a visitare le tenebre dell’Orco e il vuoto sconfinato? O, addirittura, trasmigra miracolosamente in altri esseri? È proprio questo che cantò Ennio, il nostro primo poeta laureato a Eliconia con una corona di alloro. Nei pur immortali versi dei suoi Annali egli

Superstizioni letterarie (102-126)

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Il microcosmo Un dolce stil novo

I versi I,136-139 costituiscono una dichiarazione duplicemente programmatica: linguistica e scientifica. Le “espressioni nuove” di cui Lucrezio annuncia la coniazione sono infatti richieste dalla “povertà del vocabolario” e dalla “ricchezza della materia”. Nel primo caso, si tratta di inventare termini nuovi: dal nulla, o da altri già esistenti. Un esempio è suggerito dal verso I,103: terriloquio, “terribile eloquio”, tipica illustrazione di quelle che Lewis Carroll chiamava “parole baule”, o “parole cerniera”. Per un elenco dei termini di nuovo conio nel De rerum natura, e una disamina dei più svariati aspetti della sua lingua, vedi Ivano Dionigi, Lucrezio. Le parole e le cose (Patron Editore, 1988 e 2005). Nel secondo caso, il programma di Lucrezio anticipa il famoso brano del Saggiatore, del 1623, in cui Galileo afferma l’insufficienza della lingua naturale per la descrizione del «grandissimo libro dell’universo». E la necessità di un linguaggio formale, che egli identifica con «la lingua matematica, i cui caratteri son triangoli, cerchi e altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola: senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto». Che è anche la stessa lingua invocata programmaticamente da Vasilij Kandinskij (sopra) nel 1926, nel manifesto Punto, linea, superficie. La dichiarazione programmatica di Lucrezio spiegava anche perché egli avesse deciso di scrivere un poema sulla Natura, mentre il suo ispiratore Epicuro aveva condannato l’intero genere letterario. La risposta era che la letteratura “umanistica”, stigmatizzata nei versi I,102-126, andava appunto condannata, mentre la letteratura “divulgativa” poteva sopperire alle sue mancanze. Da questo punto di vista il De rerum natura anticipa anche il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, in cui Galileo divulgherà nel 1632 la nuova fisica in “volgare”: una delle imputazioni nel suo processo di fronte all’Inquisizione (p. 90).

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Libro I. Gli atomi narrò l’esistenza di un tempio sulle rive dell’Acheronte, al quale non giungono né le anime, né i corpi dei defunti, ma solo dei simulacri spettralmente pallidi. E sostenne di avervi visto in sogno Omero, piangente lacrime amare, che gli rivelò di essersi reincarnato in lui, e gli raccontò la sua versione della natura delle cose. Se vogliamo fondare su “sensate esperienze e necessarie dimostrazioni” le cose supreme, il moto del Sole e della Luna e gli avvenimenti sulla Terra, a maggior ragione così dovremo indagare anche la vera essenza dell’anima e la vera natura dell’animo. E capire cos’è che ci terrorizza, venendoci incontro, quando vegliamo ammalati o sogniamo addormentati, tanto da credere di vedere e udire gli spiriti dei morti, ormai sotterrati e inscheletriti. So bene quanto sarà difficile illustrare nella nostra lingua le oscure scoperte dei Greci. So bene che per molte cose dovrò coniare espressioni nuove, a causa della povertà del vocabolario e della ricchezza della materia. Ma lo farò volentieri per te, o lettore. Per te sopporterò fatiche pesanti e veglierò nelle notti serene. Per te cercherò le parole e il ritmo giusto, per poter illuminare con chiarezza la tua mente e permetterti di scrutare nell’oscurità delle cose occulte. Non sono i raggi del Sole o la luce del giorno, a dover dissipare il terrore e le tenebre dell’animo, ma la visione e la ragione scientifiche.

Propositi scientifici (127-148)

Il principio da cui esordiremo è questo: nulla si crea miracolosamente dal nulla. Tutti siamo presi dalla paura, quando vediamo accadere in cielo e in Terra fenomeni apparentemente inspiegabili, e crediamo che avvengano per volere divino. Ma quando capiremo che nulla può crearsi dal nulla, subito intenderemo meglio ciò che avviene, senza dover scomodare gli dèi. Se le cose venissero create dal nulla, non avrebbero bisogno di semi, e qualunque cosa potrebbe derivare da qualunque altra. Gli uomini potrebbero nascere dal mare, i pesci dalla terra, e gli uccelli apparire repentinamente in cielo. Le pecore e i leoni verrebbero partoriti alla rinfusa, nei campi e nei deserti. Gli alberi non produrrebbero sempre lo stesso tipo di frutti, e ogni specie ne genererebbe qualunque altra. Se non esistessero semi specifici, perché mai la generazione delle cose sarebbe così regolare? Invece, poiché ogni cosa creata ha un suo proprio seme, una propria specificità genetica, essa può vedere la luce solo in un luogo in cui sta quel tipo di seme. Perché in primavera sbocciano le rose, d’estate matura il grano e d’autunno si vendemmia? Perché, se non per il fatto che c’è un tempo per ogni seme, e una stagione per ogni raccolto ? Se le cose venissero create dal nulla, nascerebbero all’improvviso, in

Nulla si crea (149-214)

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Il microcosmo Atomismi letterali e letterali atomismi

Nei versi I,196-197 Lucrezio introduce un parallelo tra atomismo fisico e linguistico, che svilupperà (e svilupperemo) in seguito. La parola atomos significa “indivisibile”, e fu introdotta verso il -450 da Democrito. Ma il concetto di “elemento indivisibile” era precedente: di qualche anno, nell’opera del suo maestro Leucippo, e di più di un secolo, nel pensiero di varie scuole atomiste indiane (Ajivika e Giaina, in particolare). Come scrisse Heinrich Zimmer nelle Filosofie dell’India, «il mondo era già molto vecchio, molto saggio e molto istruito, quando la speculazione dei Greci produsse i testi che nelle nostre università si studiano come se fossero i primi capitoli della filosofia». E lo era ancora di più, ovviamente, quando Epicuro riprese il concetto, un secolo e mezzo dopo Democrito, e due secoli e mezzo prima di Lucrezio. L’esempio più convincente di atomismo non veniva però dalla Natura, ma dalla scrittura: dapprima la geroglifica, e poi l’alfabetica. E nel Teeteto (203e) Platone riconosce che furono proprio le lettere e le parole a costituire un’ispirazione per gli elementi e gli insiemi, che stanno alla base della sua “teoria delle idee”. Nella quale i due procedimenti di sintesi e di analisi corrispondevano alla composizione delle lettere in parole, e alla decomposizione delle parole in lettere. Analogamente, nei versi I,196-197 Lucrezio indica nelle lettere e nelle parole un’ispirazione per gli atomi e i composti, che stanno alla base della teoria di Epicuro. Ma perché le intuizioni filosofiche diventassero teorie scientifiche si sarebbe dovuto attendere un millennio e mezzo: l’atomismo infatti farà capolino nella scienza soltanto nel 1661, con Il chimico scettico di Robert Boyle, e la conquisterà soltanto nel 1808, con Un nuovo sistema di filosofia chimica di John Dalton. 36

Libro I. Gli atomi qualunque tempo e in qualunque luogo. Se non ci fossero semi specifici, niente impedirebbe una generazione casuale e caotica. E non ci sarebbe bisogno di uno sviluppo graduale: i bambini potrebbero di colpo ritrovarsi adulti, e gli alberi spuntare dalla terra già con le foglie o i frutti. Ma niente di tutto questo accade. Al contrario, ogni cosa cresce gradualmente, generata da semi specifici, e si sviluppa in maniera regolare e riconoscibile. Se non piove nella stagione giusta, la terra non produce i suoi frutti. Se gli animali non si nutrono, non sopravvivono e non si riproducono. Dunque, è sensato credere che esseri simili abbiano semi simili, così come parole simili sono costituite da lettere simili. Ed è insensato credere che esistano cose senza semi, e parole senza lettere.2 Come mai la Natura non ha potuto generare uomini tanto grandi da poter guadare i mari a piedi, spostare le montagne a mano, e vivere una vita millenaria? Non è forse perché i semi delle cose contengono le specifiche che stabiliscono le loro proprietà? Abbiamo dunque capito che nulla si crea dal nulla, e che ogni cosa ha bisogno di un seme che le permetta di sbocciare alla vita. Infine, alcune terre sono più fertili di altre, e se coltivate danno frutti migliori. È chiaro che quelle terre contengono elementi più produttivi, che noi mettiamo a frutto dissodando, vangando e arando. Se così non fosse, infatti, la fatica nei campi sarebbe vana, ed essi produrrebbero tutto da sé, senza bisogno di contadini. Quando le cose create si dissolvono, la Natura le riduce agli elementi di cui sono costituite, ma non le distrugge. Altrimenti, esse sparirebbero di colpo dalla nostra vista, e non ci sarebbe bisogno di romperle con forza per sciogliere i legami fra i loro atomi. È proprio perché le cose sono costituite di atomi eterni e indistruttibili, che esse permangono come sono fino a quando non intervenga una forza che le disgreghi, penetrando nei vuoti tra gli atomi per separarli. Se il tempo causasse l’invecchiamento e la dissoluzione delle cose consumando la materia di cui esse sono costituite, da dove trarrebbe la Natura nuova materia per generare le specie animali? E da dove la prenderebbe la terra, per produrre il cibo di cui gli animali si nutrono? Da dove attingerebbero l’acqua, le sorgenti da cui nascono i fiumi che alimentano il mare? Da dove radunerebbe il cielo, il materiale per formare le stelle? Nell’infinità del tempo passato, giorno dopo giorno, tutta la materia si sarebbe ormai consumata. Se invece ci sono ancora le cose, dev’essere perché gli atomi che le compongono e le ricompongono sono indistruttibili, e non svaniscono nel nulla. 2

Vedi I,817-829, I,907-914 e II,1007-1022.

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Nulla si distrugge (215-247)

Il microcosmo Poeti contro William Blake è il tipico esempio di artista romantico, antilluminista e antiscientista, che vede nella ragione un pericolo per la supposta “innocenza” dell’animo: suo, e di quelli come lui. Nella poesia Sfottete, sfottete, del 1796, accusa Voltaire e Rousseau di gettare inutilmente sabbia intellettuale contro il vento dello Spirito, che gliela risoffierà negli occhi. E come esempio di questa sabbia, cita esplicitamente «gli atomi di Democrito e le particelle di luce di Newton». Anche nella stampa Newton (sopra), del 1795, torna sulla sua vittima, alla cui supposta visione unilaterale contrappone la propria supposta visione panoramica. Secondo il motto del suo sconclusionato Laocoonte, del 1820: «L’arte è l’albero della Vita, la scienza l’albero della Morte». Ma contro l’evidenza del De rerum natura, che dimostra come le due visioni possano benissimo convivere: basta che il poeta abbia cervello, come Lucrezio, invece che la testa vuota, come Blake. Chimici a favore I versi I,149-264 forniscono un’argomentazione a favore del principio riassunto nei versi I,265-266, già anticipato nel secolo -VI dai Giaina in Oriente, e nel secolo -V da Empedocle in Occidente: «Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma». Nella chimica moderna un’analoga Legge di conservazione della massa fu enunciata nel 1748 da Michail Lomonosov (p. 230), e riformulata nel 1789 da Antoine-Laurent de Lavoisier (a destra) nel Trattato elementare di chimica: «In una reazione, la somma delle masse dei reagenti è uguale alla somma delle masse dei prodotti della reazione». Il motivo per cui la legge tardò a essere scoperta e accettata, è che nell’atmosfera i gas si disperdono: non tenendone conto, un pezzo di legno bruciato pesa effettivamente meno che quando è da bruciare, e una parte della massa sembra essersi distrutta.

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Libro I. Gli atomi Inoltre, se a tenere unite le cose, nei loro molteplici intrecci, non fosse una materia eterna, la loro distruzione deriverebbe da un’unica causa. Non sarebbero dei legami specifici e differenziati a mantenerle aggregate in maniera più o meno stabile, e basterebbe sfiorarle per distruggerle. Invece, proprio perché gli atomi sono indistruttibili e si legano diversamente fra loro, le cose permangono fino a quando interviene una forza abbastanza potente da disgregare i legami degli atomi di ciascuna. Dunque nulla si distrugge, ma tutto si trasforma. Le piogge mandate dal cielo svaniscono nel grembo della terra, ma da questa spuntano le messi. Gli alberi mettono foglie e danno frutti, di cui poi si nutrono animali e uomini. I lattanti allietano di vagiti le città, e gli uccellini cinguettano nei nidi tra le fronde. Le pecore prima pascolano nell’erba, e poi si adagiano sazie sui prati, per offrire le loro mammelle grondanti di latte agli agnellini, che ancora non si reggono sulle zampe e arrivano barcollando. Le cose non periscono affatto, come sembrerebbe a prima vista. Invece, la Natura ricava una cosa dall’altra, e non permette che qualcosa si generi, se non grazie a qualcun’altra che dà la sua vita per essa.

Tutto si trasforma (248-264)

Ti ho dunque mostrato che nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Ma tu potresti non crederci e rimanere diffidente, perché non lo puoi vedere con i tuoi occhi. Pensa però di quant’altre cose sei costretto ad ammettere l’esistenza, pur senza poterle vedere. Il vento sferza con la sua furia il mare, rovescia le navi e dissipa le nubi. Sfreccia sui campi con turbini impetuosi, sradica gli alberi, spazza le cime dei monti e sconvolge le selve. Urla irato e fremente, mormora minaccioso e gemente. Benché invisibile, il vento tormenta il mare, la terra e le nuvole del cielo. E benché invisibili, i suoi turbini spaventosi travolgono, rovinano e distruggono. Lo stesso fa l’acqua che straripa dai fiumi, quand’essi precipitano dai monti gonfi di pioggia, trascinando rami spezzati e alberi divelti. Le onde si abbattono sui ponti ed erodono i piloni, che non reggono alla forza dell’acqua. Compiono stragi con molto fragore, smuovono grandi massi, abbattono tutto ciò che non resiste ai flutti. Le raffiche di vento sono come le onde di un fiume in piena. Come queste, travolgono tutto ciò che incontrano, lo afferrano, lo catturano e lo rapiscono. Dunque, il vento è un fiume invisibile che si comporta come un fiume visibile. Anche gli odori delle cose li annusiamo, ma non li vediamo arrivare. E con gli occhi non sentiamo il caldo e il freddo, e neppure udiamo i suoni. Eppure, crediamo a tutto ciò che percepiamo, e non solo a ciò che vediamo,

Le cose invisibili (265-328)

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Il microcosmo La goccia scava la roccia

Nel verso I,313 Lucrezio usa l’espressione stilicidi casus lapidem cavat, “la caduta dello stillicidio scava la pietra”. E nei versi IV,1286-1287 (p. 185), analogamente, guttae in saxa cadentis umoris longo in spatio pertundunt saxa, “le gocce d’umidità che cadono sui sassi alla lunga li perforano”. Non usa la classica espressione gutta cavat lapidem, “la goccia scava la pietra”, perché è posteriore. Risale infatti alle Lettere dal Ponto (IV,10) di Ovidio, e continua dicendo consumitur anulus usu, “l’uso consuma l’anello”: un concetto anch’esso anticipato da Lucrezio, nel verso I,312. Letterariamente, l’espressione intera di Ovidio costituiva un esametro. Filosoficamente, invece, prefigurava il principio fondamentale dell’evoluzionismo, introdotto nel 1830 da Charles Lyell nei Princìpi di geologia, e adottato nel 1859 da Charles Darwin nell’Origine delle specie: «Piccoli cambiamenti possono provocare grandi effetti in tempi lunghi». Lucrezio pisano Galileo non nomina mai Lucrezio, nelle sue opere, ma certo sembra rifarsi a lui fin dal suo primo libro giovanile: il De motu, che risale al periodo pisano tra il 1589 e il 1592. Altrettanto certamente, Lucrezio era letto e discusso a Pisa in quegli anni: ad esempio, da Francesco Buonamici, che nel 1591 pubblicò anch’egli un De motu, ampiamente citato da Galileo nel Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua del 1612. Nel suo libro Buonamici dibatte le teorie degli atomisti, citando indirettamente Democrito ed Epicuro, e direttamente Lucrezio: in particolare, i versi I,358-363, che egli riporta letteralmente. Ma anche i versi I,95-101 sul sacrificio di Ifigenia, con la loro conclusione: «A tanto male poté condurre la religione!». Fin dai suoi primi inizi, dunque, la nuova fisica italiana si mise in rotta di collisione con la religione, seguendo l’esempio epicureo.

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Libro I. Gli atomi perché sappiamo che soltanto le cose materiali possono toccarci, o essere toccate da noi. Inoltre, i panni stesi sulla spiaggia dove si frangono le onde si inumidiscono, ed esposti al Sole si essiccano, ma l’umidità che viene e va non si vede, perché le molecole d’acqua che la costituiscono sono invisibili. Analogamente, gli anelli portati a lungo al dito si assottigliano, le rocce vengono scavate dalle gocce, le lame degli aratri si usurano, le lastre del selciato si consumano, le statue di bronzo si levigano a forza di toccarle. A occhio nudo ci accorgiamo che le cose si dissolvono poco a poco, ma l’invidiosa vista ci impedisce di percepire le singole particelle che se ne vanno. I cambiamenti che il tempo e la Natura accumulano lentamente nelle cose che crescono, non sono osservabili nemmeno con l’occhio più acuto. E non lo sono nemmeno le mutazioni prodotte dall’invecchiamento, come l’erosione degli scogli causata dalla salsedine del mare. Dunque, la Natura agisce mediante corpi invisibili, ma reali. Benché a volte ci siano cose dove ci sembra di non veder niente, non è sempre così: nella Natura, infatti, c’è anche il vuoto! Saperlo ti potrà essere spesso utile, e ti eviterà di manifestare dubbi errati e diffidare delle mie risposte. Se non ci fosse il vuoto, le cose non potrebbero muoversi, perché i corpi oppongono ostacolo e resistenza. E invece osserviamo che molte cose si muovono in cielo, in Terra e nell’acqua, in molti modi e in molte direzioni. Se non ci fosse il vuoto, non solo le cose non potrebbero muoversi, ma non sarebbero neppure venute al mondo, perché non ci sarebbe stato spazio per loro. E le cose stesse, benché ci appaiano compatte e piene, sono porose e contengono il vuoto. Tra le rocce e nelle grotte si infiltrano le acque, goccia a goccia. Il nutrimento viene ingerito dagli animali e metabolizzato. La linfa si diffonde dalle radici al tronco e ai rami, permettendo alle piante di crescere e fruttificare. La voce di chi parla in una stanza chiusa si sente attraverso i muri. Il freddo invernale penetra fino alle ossa. E perché tutto ciò possa accadere, devono esserci dovunque spazi vuoti in cui penetrare. E poi, perché alcuni corpi pesano più di altri, benché abbiano lo stesso volume? Se un gomitolo di lana contenesse tanta materia quanto una palla di piombo, l’uno e l’altra peserebbero ugualmente. Se due cose con lo stesso volume pesano diversamente, è perché una contiene più vuoto, che non pesa, e l’altra più materia, che pesa. Dopo averti dato dei buoni motivi per credere all’esistenza del vuoto, voglio anche metterti in guardia contro un fraintendimento diffuso. Alcuni dicono che, come i pesci si muovono nell’acqua, aprendosi una via tra

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Il vuoto (329-397)

Il microcosmo Qua è tutto vuoto Nonostante i lunghi versi I,329-397, per dirimere la questione dell’esistenza o meno del vuoto non bastano argomenti razionali, e serve una verifica sperimentale. La prima della storia la ottenne Evangelista Torricelli con il suo famoso barometro, e la annunciò l’11 giugno 1644 in una lettera a Michelangelo Ricci. Questi gli fece immediatamente notare, il 18 giugno, che «fu opinione degli epicurei che il vacuo si potesse dare, come Vostra Signoria si ricorderà d’aver letto presso Lucrezio». L’esperimento consistette nel riempire di mercurio un tubo chiuso a un’estremità, tapparlo con un dito, girarlo, e porre il contenuto in un recipiente con del mercurio. Invece di versarsi tutto, come ci si aspetterebbe, il mercurio rimane nel tubo per un’altezza pari a 760 millimetri, mentre nella parte rimanente del tubo si crea del vuoto. In un colpo solo, dunque, Torricelli dimostrò l’esistenza del vuoto, e misurò la pressione atmosferica che eguaglia quella del mercurio nella colonnina. Tornando a Lucrezio, che l’interesse di Torricelli per il De rerum natura andasse lontano è dimostrato dal fatto che, nel 1647, assistette personalmente alle ultime fasi della stampa di una sua nuova edizione illustrata, commentata dal medico Giovanni Nardi (p. 278): il primo scienziato, ma non l’ultimo, a invadere questo campo (o orticello) dei letterati. Due anni dopo, la grande esposizione critica di Pierre Gassendi commentò gli esperimenti di Torricelli in un’appendice Sul recente esperimento circa lo spazio vuoto. Ma oltre al problema generico dell’esistenza dello spazio vuoto, nei versi I,384-390 Lucrezio ne pone e discute anche uno specifico, a proposito del vuoto che si creerebbe quando si staccano due corpi a contatto fra loro. In realtà il problema era già stato formulato da Aristotele nel trattato Sull’anima, e sarà ripreso nel Medioevo dai suoi commentatori. Anche Galileo lo affronterà a più riprese: dal Saggiatore, nel 1623, ai Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, nel 1638.

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Libro I. Gli atomi le gocce che poi si richiude dietro di loro, così i corpi potrebbero muoversi nel pieno. L’errore sta nel fatto che, muovendosi, i pesci creano nel mare uno spazio vuoto in cui si insinuano, e lasciano uno spazio vuoto nel quale si insinua il mare. È la presenza di questo vuoto a rendere possibile il reciproco movimento di entrambi. Inoltre, quando due corpi a contatto si separano, lo spazio che si crea fra loro viene riempito dall’aria. Ma non istantaneamente, bensì gradualmente: nelle zone più vicine prima, e in quelle più lontane poi. E se qualcuno pensasse che i corpi si separano perché si condensa dell’aria fra loro, sbaglierebbe. Infatti, anche l’aria, per quanto compressa, ha bisogno di uno spazio dove stare, per quanto piccolo. Se ancora non ti avessi convinto che c’è il vuoto, potrei darti molte altre ragioni. Ma poiché so che tu sei sveglio, e io non voglio essere pedante, lascerò che ci pensi da solo. Come a un segugio basta qualche labile traccia per fiutare una preda in fuga tra i monti, nascosta fra i cespugli, così anche tu potrai seguire gli indizi che ti ho dato, per procedere nel buio e arrivare all’illuminazione. Se invece fossi pigro di testa e ti lasciassi sviare, ti prometto che attingerò dalla fonte del mio cuore tanta e tale acqua pura, che per esaurire la cascata di argomentazioni dovremo far invecchiare il corpo ed esaurire la mente, fino a quando io non ti avrò riversato tutto nelle orecchie e tu non sarai completamente dissetato.

Esortazione al lettore (398-417)

Ma ora tiriamo innanzi, e riprendiamo il discorso dal fatto che tutta la Natura consiste di due aspetti: la materia, di cui sono costituiti i corpi, e lo spazio vuoto, in cui essi sono contenuti e si muovono. Che esista la materia corporea, lo mostrano le percezioni sensoriali: se negassimo loro la fede, non avremmo punti d’appoggio ai quali ancorare la ragione. E che esista lo spazio vuoto, l’abbiamo appena dimostrato: senza di esso, i corpi non potrebbero stare o andare in nessun luogo. Altro non c’è. Qualunque cosa, infatti, grande o piccola che sia, o è percepibile dai sensi, e allora è un corpo materiale, oppure è impercepibile, e allora è una porzione di spazio vuoto. E qualunque cosa, grande o piccola che sia, o è interagente coi corpi, e allora è uno di essi, oppure è inerte, e allora è puro spazio immateriale. Oltre alla materia e allo spazio, dunque, niente può essere percepito dai sensi o concepito dalla ragione.

La materia e lo spazio (418-448)

Le proprietà essenziali delle cose sono quelle che non possono essere impunemente disgiunte da esse. Non si può staccare il peso dal masso, il calore dal fuoco, la fluidità dall’acqua, la tangibilità dalla materia e l’intangibilità dal vuoto.

Proprietà essenziali e accidentali (449-458)

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Il microcosmo Lucrezio newtoniano Nel 1784 Georges-Louis Le Sage pubblicò un saggio singolare, intitolato Lucrezio newtoniano, nel quale asseriva che «se gli epicurei fossero stati più attenti, avrebbero scoperto senza fatica la legge della gravitazione universale». Cosa che lui stesso aveva fatto dopo una lettura infantile del De rerum natura, intuendo a 13 anni la causa della gravità, scoprendo a 23 la sua dipendenza inversa dal quadrato della distanza, e pubblicando il tutto l’anno dopo, nel 1748, in un Saggio sull’origine delle forze morte. La teoria si basava su due semplici osservazioni. La prima, ripetuta a ogni piè sospinto dal poeta, è che gli atomi si muovono di qua e di là come matti. E la seconda, accennata in particolare nei versi I,487-496, è che essi possono insinuarsi nei vuoti di cui i corpi solidi sono pieni (p. 46). Senza ostacoli, un corpo non risente degli “atomi ultramondani” che lo attraversano da ogni direzione. Ma con un ostacolo che lo scherma da una parte, risente di più di quelli che provengono dall’altra parte, e viene “attratto” verso l’ostacolo (sotto). Questa teoria meccanica della gravità era però già stata trovata nel 1690 da Nicolas Fatio, un amico (e, sembra, anche qualcosa di più) di Newton. Nel 1731 egli l’aveva descritta in un poema in latino, nello stile di Lucrezio, e mandata all’Accademia Parigina delle Scienze. Il manoscritto fu rifiutato, ma finì nelle mani di Le Sage più o meno nel periodo in cui egli scoprì la sua teoria: il che solleva naturalmente dei dubbi sull’indipendenza della sua riscoperta. I fisici del passato sono stati concordi nel rifiutare la fondatezza di questa teoria: da Newton, che non credeva a una causa meccanica della gravità, a Richard Feynman, premio Nobel per la fisica, che nel 1967 la propose, in La legge fisica (Bollati Boringhieri, 1996), come un esempio fallito di spiegazione semplice di qualcosa di complesso. Ma oggi essa sembra tornata in auge come un possibile meccanismo di spiegazione della gravitazione quantistica, con fantomatici gravitoni nel ruolo degli altrettanto fantomatici “atomi ultramondani”.

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Libro I. Gli atomi Le proprietà accidentali sono invece quelle che, con la loro presenza o la loro assenza, non intaccano la natura delle cose. Libertà o schiavitù, povertà o ricchezza, guerra e pace, possono esserci o non esserci, ma con o senza di loro l’essenza delle cose rimane qual è. Invece, il tempo non esiste di per sé. Sono i corpi e la loro posizione nello spazio a dar senso a quanto è successo in passato, succede nel presente e succederà in futuro. E non si può percepire il tempo di per sé, indipendentemente dalla quiete o dal moto dei corpi. Quando si dice, ad esempio, che Elena è stata rapita e che si è combattuto a Troia, non si intende che sono esistite cose chiamate “il rapimento di Elena” e “la guerra di Troia”, bensì che quelli erano accidenti di una persona e di una città, entrambe ormai irrevocabilmente spazzate via dal tempo passato. Infatti, gli eventi si riferiscono sempre a corpi materiali, come quello di Elena, o a luoghi spaziali, come l’ubicazione di Troia. Se non ci fosse stata la materia di cui era fatto il suo corpo, Elena non avrebbe infiammato d’amore Paride. Se non ci fosse stato lo spazio in cui si trovava Troia, non si sarebbe fraudolentemente introdotto un cavallo di legno nella città. Questi eventi non esistono allo stesso modo di Elena e Troia stesse: non sono né materia, né spazio, ma loro accidenti. Anzi, “accidenti di accidenti”, perché il rapimento e la guerra sono accidenti di Elena e di Troia. Che sono, a loro volta, accidenti della materia e dello spazio.

Il tempo (459-482)

Tra i corpi, alcuni sono semplici e altri composti. I corpi semplici, o “atomi”, sono indistruttibili proprio per la loro semplicità: essi resistono a ogni forza che cerchi di scomporli, non essendo composti. Però, è difficile credere all’esistenza di cose indecomponibili. Infatti, i mattoni dei muri sono permeabili ai fulmini celesti e alle voci umane. Il fuoco permea e arroventa il ferro, spezza le pietre, scioglie il duro oro e fonde il gelido bronzo. Una coppa d’argento si scalda e si raffredda, tenuta in mano o riempita di vino fresco. Sembra dunque che al mondo non ci sia niente di semplice, ma la ragione e la natura delle cose ci diranno altrimenti. Presta dunque molta attenzione ai prossimi argomenti, nei quali ti dimostro l’esistenza degli atomi, le loro proprietà, e il modo in cui essi costituiscono tutte le cose del mondo.

Corpi semplici e composti (483-502)

Anzitutto, abbiamo visto che la materia è diversa dal vuoto: le loro nature sono distinte e separate, perché dove c’è materia non c’è vuoto, e dove c’è vuoto non c’è materia. I corpi semplici devono dunque essere materiali e

Proprietà degli atomi (503-550)

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Il microcosmo Alla ricerca del vuoto nel pieno I versi I,520-537 riassumono la teoria di Lucrezio sulla struttura della materia, affermando che i corpi sono aggregati di atomi separati dal vuoto: più vuoto essi contengono, e più sono leggeri e distruttibili. Questa teoria fu ripresa nel 1704 da Newton nell’Ottica, che in più punti riecheggia le formulazioni del De rerum natura: in particolare, per quanto riguarda la determinazione delle proprietà chimiche dei corpi in base alla separazione spaziale e alla forza dei legami tra gli atomi che li compongono. Nella Proposizione II,8 Newton si pose il problema di stimare la quantità di vuoto presente in un corpo. E notò che se a ciascun livello di aggregazione le parti che si aggregano occupano uno spazio pari a quello del vuoto che le separa, la quantità di vuoto cresce in maniera esponenziale rispetto al numero dei livelli: al primo è 1/2, al secondo 3/4, al terzo 7/8, al quarto 15/16, e così via. In altre parole, più la struttura gerarchica di un corpo è stratificata, e più vuoto esso contiene. Newton dedusse che «la causa della riflessione non è che le particelle di luce rimbalzano sulle parti solide dei corpi», perché essi contengono molto più vuoto di quanto si potesse immaginare. Nel 1911 questa osservazione diede lo spunto a Ernest Rutherford per un famoso esperimento, volto appunto a determinare la quantità di vuoto presente in un atomo: bombardare una lamina d’oro con minuscole “particelle alfa” e determinare quante di esse rimbalzano, e quante invece passano indenni. Il risultato fu sorprendente: quasi tutte le particelle passavano, e solo alcune rimbalzavano. Rutherford dedusse che l’atomo è costituito da minuscoli elettroni che girano a grande distanza attorno a un piccolo nucleo massiccio, in proporzione pari circa a quella di qualche biglia che gira sugli spalti esterni di uno stadio, attorno a un pallone da calcio posto a centrocampo. Nacque così il modello planetario dell’atomo, che confermò dopo duemila anni l’intuizione di Lucrezio sulla struttura atomica della materia.

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Libro I. Gli atomi privi di vuoto. I corpi composti, invece, contengono del vuoto circondato da materia. Se non ci fosse del vuoto, tutto sarebbe materia. E se non ci fosse materia, tutto sarebbe vuoto. Ma poiché non ci sono né il pieno assoluto, né il vuoto assoluto, devono esserci atomi capaci di aggregarsi per delimitare il vuoto. E questi atomi sono indistruttibili, perché si può distruggere solo ciò che contiene del vuoto. Anzi, quanto più vuoto contiene un corpo, tanto più è distruttibile, e vulnerabile alle cause della distruzione. Gli atomi, invece, che non contengono vuoto, non sono composti, e non possono né essere divisi, né soccombere a elementi distruttori come l’acqua o il fuoco: dunque, sono eterni. D’altronde, se la materia passata non fosse stata eterna, nel corso infinito del tempo sarebbe stata completamente distrutta, e la materia presente avrebbe dovuto essere ricreata dal nulla. Ma abbiamo già stabilito che nulla si crea, e nulla si distrugge. Dunque, gli atomi devono essere immortali, per permettere il farsi e disfarsi delle cose. E poiché nel corso infinito del tempo sono stati usati e riusati incessantemente, per aggregare e disgregare le cose più diverse, questi atomi devono essere dotati di una semplicità elementare. E devono anche essere duri: perché, se fossero molli, non si capisce come potrebbero aggregarsi a formare cose dure come le pietre o il ferro. Invece, è facilmente spiegabile come atomi duri possano aggregarsi a formare cose molli come l’aria, l’acqua, la terra e il fuoco: semplicemente, mescolandosi al vuoto. Se la Natura non avesse posto un limite minimo alla disgregazione delle cose, nel corso infinito del tempo quest’ultima avrebbe finito col prevalere sull’aggregazione. Infatti, le cose si disgregano più velocemente di quanto si aggreghino, e il fare richiede molto più tempo che il disfare. Ma poiché vediamo che al mondo tutto si aggrega, e a tempo debito ogni cosa nasce, cresce e matura, dev’esserci un limite preciso oltre il quale la disgregazione non può andare. Viceversa, se la Natura non avesse posto un limite massimo all’aggregazione, alcune cose sarebbero dovute permanere intatte nel corso infinito del tempo, benché fragili e sottoposte a infiniti urti. Invece, ogni essere di ciascuna specie mostra lo stesso decorso naturale, immutabile e costante: dall’aggregazione alla disgregazione, dalla nascita alla morte. Addirittura, ad alcuni uccelli appaiono sul corpo, nel corso del tempo, le stesse macchie, nella stessa successione programmata. Se i fondamenti delle cose fossero disgregabili o mutevoli, non ci potrebbe essere certezza sulle nascite e le morti degli esseri, né sulle loro proprietà e la loro evoluzione. E non si potrebbero riprodurre per ge-

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Limiti alla disgregazione (551-634)

Il microcosmo Newton tira le orecchie a Lucrezio In una lettera del 17 gennaio 1693 al teologo Richard Bentley, Isaac Newton commentava così l’argomento dei versi I,599-622: La maggior parte della gente considera gli infiniti tutti uguali, ma si avvicinerebbe di più al vero se pensasse che non sono né uguali o diversi, né proporzionali o commensurabili. Coloro che si oppongono all’infinita divisibilità di una grandezza dicono che, se un centimetro si potesse dividere in infinite parti, allora sarebbe un infinito. E se un metro si potesse dividere in infinite parti, sarebbe anch’esso un infinito. E poiché tutti gli infiniti sono uguali, allora un centimetro sarebbe uguale a un metro. Ma la falsità della conclusione mostra che ci dev’essere un errore nella premessa. E l’errore sta appunto nel pensare che tutti gli infiniti siano uguali. In tal modo Newton anticipava parzialmente un famoso teorema sull’esistenza di infiniti diversi, dimostrato da Georg Cantor il 7 dicembre 1873.

Lucrezio tira le orecchie a Eraclito Eraclito non era simpatico a Lucrezio, che lo insulta ripetutamente. A parte la meravigliosa “chiara fama per il pensiero oscuro” (clarus ob obscuram linguam, I,639), applicabile in saecula saeculorum ai tanti Don Abbondio che sanno solo parlare in latinorum, lo sfogo è breve ma intenso: il filosofo è chiamato vano (inanis, I,639), la sua dottrina delirante (perdelirum e delirum, I,692 e 698) e demenziale (dementia, I,704), e i suoi seguaci stupidi (stolidi, I,641). Naturalmente, Eraclito non è che un simbolo del (non) pensiero che affascina e ammalia proprio per la sua povertà di contenuti, mascherata dietro una ricchezza della forma. Un (non) pensiero che oggi, ancor più di ieri, conquista legioni di fan, analoghe alle folle di amici di Facebook, o alle schiere di follower di Twitter, a coloro che parlano “in specchio ed enigma” (Prima lettera ai Corinzi, XIII,12). E non solo in filosofia, ovviamente, ma anche nella religione e in politica.

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Libro I. Gli atomi nerazioni, dai genitori ai figli, le caratteristiche, il carattere, le abitudini e le movenze di specie e di famiglia. Invece, esistono limiti estremi alla disgregazione, benché i nostri sensi non siano in grado di percepirli: sono gli atomi indivisibili, costituenti ultimi e semplici di tutte le cose, che si stipano insieme a formare corpi di varia natura e complessità. Da ultimo, se la Natura non avesse posto un limite minimo alla disgregazione delle cose, tutti i corpi, per quanto piccoli, consterebbero di infinite parti: avrebbero infatti almeno due parti, ciascuna delle quali avrebbe almeno altre due parti, e così via, senza fine. Ma allora, quale sarebbe la differenza tra le cose più grandi e quelle più piccole, o tra l’intero universo e un granello di sabbia? Nessuna, perché tutte consterebbero di infinite parti. Poiché la ragione ci ha portati a conclusioni assurde, che la mente non può credere, dovrai dunque accettare l’esistenza degli atomi: indivisibili, eterni, semplici, pieni e duri. D’altronde, se la Natura non limitasse la disgregazione delle cose, non sarebbe poi essa stessa in grado di riaggregarle, in mancanza di costituenti che forniscano loro la struttura, il peso e il movimento necessari all’esistenza. Da quanto abbiamo detto discende che si sbagliavano di grosso, coloro che credevano che il fuoco fosse l’elemento primordiale. Il loro paladino fu il vano Eraclito, che si guadagnò una chiara fama per il suo pensiero oscuro, e fu popolare più fra i Greci dalla testa vuota che tra quelli che la riempiono di verità. Perché gli stupidi ammirano e amano tutto ciò che si nasconde dietro parole enigmatiche, e prendono per vero tutto ciò che accarezza le orecchie e suona bene. Ma come potrebbero essere tanto varie le cose, mi domando, se fossero costituite di solo fuoco? Non servirebbe a molto che esso si rarefacesse e si condensasse, perché un fuoco più o meno intenso rimane pur sempre un fuoco, e certo non diventa nessuna della moltitudine di cose che vediamo al mondo. E poi, per rarefarsi o addensarsi, il fuoco dovrebbe comunque mescolarsi più o meno al vuoto. Ma gli stoici, altri paladini del fuoco, rifiutano di riconoscere la presenza del vuoto nella materia, e rinunciano alla verità per paura delle difficoltà. Senza capire che, eliminando il vuoto dalle cose, tutto l’universo collasserebbe in un unico buco nero, incapace di emanare qualunque cosa, come fa invece il fuoco con la luce e il calore. Dunque, il fuoco non è un elemento semplice. E chi insiste a credere che lo sia, potrà spiegare come la fiamma muti o si spenga solo accettando che essa provenga dal nulla, o ci vada . Perché solo ammettendo che la materia si conservi, si può evitare che essa si crei dal nulla, o si distrugga nel nulla. Gli atomi immutabili, invece, con il loro movimento e la loro struttura

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Il fuoco di Eraclito (635-704)

Il microcosmo Buchi neri Nei versi I,660-663, (p. 49), ovviamente Lucrezio non usa l’espressione “buco nero”, introdotta nel 1964 dalla giornalista Ann Ewing nell’articolo Buchi neri nello spazio. Ma sorprendentemente intuisce la loro essenza di “massa così concentrata da far sì che la sua attrazione gravitazionale impedisca la fuoriuscita di ogni cosa, compresa la luce”, definita nel 1713 da John Michell in una lettera a Henry Cavendish, e nel 1796 da PierreSimon de Laplace nell’Esposizione del sistema del mondo. Nel 1915 Karl Schwarzschild calcolò il raggio della sfera in cui una stella deve comprimersi, per diventare un buco nero: per il Sole, ad esempio, è di soli tre chilometri circa. E nel 1931 Subrahmanyan Chandrasekhar calcolò che una nana bianca avente massa pari almeno a 1,4 di quella del Sole decade in una stella di neutroni, e se questa mantiene almeno una massa analoga decade in un buco nero. Il suo risultato fu a lungo avversato, ma nel 1983 il fisico indiano si prese la rivincita e ottenne il premio Nobel per la fisica. Il fiore della Sicilia L’elogio offerto alla Sicilia nei versi I,717-733 omette di nominare il suo figlio più illustre. Che non è certo il filosofo Empedocle, con buona pace di Lucrezio, bensì il matematico e scienziato Archimede, noto a tutti per il calcolo dell’approssimazione 3,14 di pi greco, e per il famoso “Eureka!”. A questa imperdonabile svista, colposa o dolosa che sia, rimedia giustamente Alessandro Marchetti, interpolando nella sua traduzione questi versi, dopo la citazione di Empedocle: Ma non sembra però che qui nascesse Cosa mai più mirabil di costui, Né più bella e gentil, più cara e santa. Se non se forse in Siracusa nacque Il divino Archimede.

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Libro I. Gli atomi permettono di spiegare come le cose si aggregano e si disgregano. Ma certo non possono essere fatti di fuoco, perché altrimenti tutte le cose sarebbero anch’esse solo fuochi, piccoli o grandi. La verità, mi sembra, è che alcuni atomi producono fuochi, muovendosi e disponendosi in un certo modo. Ma di per sé non sono né fuochi, né alcun’altra cosa sensibile o tangibile. Eraclito dice che tutto è fuoco, e che non c’è altro che fuoco, ma questo è puro delirio. Lui parte dai sensi, sui quali si basa ogni nostra conoscenza, e mediante i quali conosciamo anche il fuoco. Ma poi li stravolge, sostenendo che solo le percezioni del fuoco sono veritiere, e quelle delle altre cose no, pur essendo altrettanto immediate. Il che mi sembra, oltre che delirante, anche insensato. Cosa può esserci di più certo dei sensi, per discernere il vero dal falso? Su cos’altro mai potremmo far affidamento? E poi, perché salvare solo le fiamme, e buttare tutto il resto a mare? Perché non salvare tutto il resto, e spegnere soltanto il fuoco? Scegliere l’una o l’altra opzione, è ugualmente da dementi. Comunque, lontani dal vero non sono soltanto coloro che pensano che tutto è fuoco, ma anche quelli che pensano che tutto è aria, come Anassimene. O che tutto è acqua, come Talete. O che tutto è terra. E sono lontani dal vero anche coloro che raddoppiano i princìpi delle cose, unendo la terra all’acqua, come Senofane. O l’aria al fuoco. E anche coloro che li quadruplicano, prendendo tutti e quattro gli elementi insieme: primo fra tutti, Empedocle di Agrigento.

Altri elementi dei presocratici (705-716)

Agrigento si trova in Sicilia. Le onde verdazzurre dello Ionio penetrano negli ampi anfratti della costa di quest’isola triangolare, aspergendola di salsedine, e scorrono impetuose tra Scilla e Cariddi, nell’angusto stretto che divide la “trinacria” dalle spiagge italiche. Non lontano, i mormorii dell’Etna minacciano il risveglio di un irato ritorno di fiamma, e la riapertura di fauci pronte a vomitare folgori di fuoco verso il cielo. Quest’isola, considerata dalle genti degna di essere ammirata e visitata per molte ragioni, ben fornita di prodotti naturali e di forza umana, non sembra aver generato in filosofia un figlio più illustre, venerabile, degno d’ammirazione e caro, di Empedocle. I canti usciti dal suo petto quasi divino proclamano ed espongono le sue memorabili scoperte, tanto da non farlo quasi ritenere di stirpe umana.

Elogio della Sicilia (717-733)

Non solo Empedocle, ma anche altri fautori dei quattro elementi meno bravi e meno importanti di lui, hanno detto molte cose buone e ispirate. Dai santuari dei loro cuori sono usciti responsi molto più venerabili e ragionevoli che

I quattro elementi di Empedocle (734-781)

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Il microcosmo La prima quantizzazione dello spazio I versi I,746-752 riprendono brevemente il discorso sulla divisibilità minima sviluppato nei versi I,551-634 (pp. 47 e 49), e lasciano intuire che per gli epicurei anche lo spazio dovesse essere atomizzato. O, come diremmo oggi, “quantizzato”. Effettivamente, essi avevano provato a sviluppare una geometria “discreta”, in opere che andavano dalle Aporie di Polieno, nel secolo -IV, al Sulla geometria di Demetrio Lacone, nel secolo -II. Ancora nel secolo V il Commento del neoplatonico Proclo discuteva una critica dell’epicureo Zenone Sidonio, del secolo -II, secondo il quale anche una costruzione banale come quella del triangolo equilatero, proposta da Euclide nella prima proposizione dei suoi Elementi, non è valida in una geometria con rette e cerchi quantizzati. Questa critica sarà accolta nel 1899 da David Hilbert nei Fondamenti della geometria, e risolta con l’introduzione di un assioma di continuità per le rette e i cerchi euclidei. Pochi anni prima, nel 1892, Gino Fano aveva invece preso seriamente la proposta epicurea di una geometria discreta, sviluppando versioni finite delle geometrie euclidea e proiettiva, e costruendone rispettivi modelli minimali con 8 punti, 28 rette e 14 piani (a sinistra), e 15 punti, 35 rette e 15 piani (a destra). Nel Novecento le geometrie discrete sono state studiate e sviluppate a fondo, fino a diventare un’importante branca della geometria contemporanea. Quanto alla fisica, dalla quale la critica epicurea era partita, la meccanica quantistica ha reso necessaria una quantizzazione dello spazio. Le teorie correnti non permettono infatti di scendere oltre il limite minimo della distanza di Planck, proposta nel 1899 da Max Planck in Sui processi irreversibili di irradiazione, ottenuta per combinazione di varie costanti (velocità della luce, quantizzazione dell’energia e gravitazione), e pari a circa un centesimo di un miliardesimo di un miliardesimo del diametro di un protone.

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Libro I. Gli atomi da quello di Apollo, dove la Pizia profetizza vanamente dal suo tripode. Ma tutti loro sono inciampati rovinosamente sui princìpi delle cose, mostrando come grandi menti possano cadere in grandi errori. Anzitutto, essi spiegano il movimento senza supporre il vuoto. E ammettono cose molli e porose, come l’aria, il fuoco, la pioggia, la terra, gli animali e le messi, sempre senza supporre il vuoto. Poi, pensano che non ci sia un limite alla divisibilità e alla disgregazione delle cose, e che non ci siano elementi minimi. Eppure, con i sensi vediamo che ogni cosa ha parti minimali percettibili, e con la mente possiamo supporre che a loro volta anch’esse abbiano parti minimali impercettibili. Inoltre, poiché suppongono come princìpi delle cose degli elementi caduchi, che vediamo nascere e morire, devono accettare la creazione dal nulla e la distruzione nel nulla: tutte cose che, come già sappiamo, sono lontane dal vero. Come se non bastasse, i quattro elementi sono in molti modi antagonisti fra loro, come nemici o veleni. Incontrandosi, periscono o si disperdono, come si scatenano fulmini, pioggia e vento quando si addensa la tempesta. Infine, se tutte le cose si creano a partire da quattro di esse, e si dissolvono nelle stesse quattro, perché mai dovremmo considerare proprio quelle quattro i princìpi delle altre, invece di considerare le altre i princìpi di quelle? D’altronde, le une e le altre si alternano dai tempi dei tempi, scambiandosi aspetto e natura. E se anche il fuoco e la terra potessero unirsi con i soffi d’aria e le gocce di rugiada, preservando la loro natura di elementi primordiali, non potrebbero comunque formare nessun’altra cosa, animata o inanimata che sia: ad esempio, un albero. Si formerebbero soltanto misture di aria e terra, con gocce d’acqua che non evaporano nel fuoco. Per poter generare le cose, gli elementi primordiali devono invece avere una natura occulta e invisibile, affinché niente ostacoli o impedisca la possibilità che ciascuna cosa abbia la propria natura. Gli stoici partono dal cielo e dai suoi astri, immaginando che l’aria sia il fumo del loro fuoco. Essa poi si condenserebbe in acqua e cadrebbe come pioggia, che si congelerebbe come terra ghiacciata. Viceversa, la terra si scioglierebbe in acqua e questa evaporerebbe in aria, che scaldandosi genererebbe il fuoco e alimenterebbe gli astri. Tutte queste cose si trasformerebbero incessantemente le une nelle altre, scendendo dal cielo alla Terra e risalendovi. Ma non è questo, che devono fare gli elementi primordiali: qualcosa deve rimanere immutato, perché le cose non ritornino al nulla. Infatti, le cose che cambiano natura, mutando muoiono. E per poter mutare e morire senza distruggersi, la materia deve consistere di elementi immutabili.

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La cosmogenesi degli stoici (782-816)

Il microcosmo Alfabeti della Natura I versi I,817-829 sviluppano il parallelismo tra Natura e linguaggio accennato nei versi I,196197 (p. 36). William Henry Bragg, vincitore del premio Nobel per la fisica nel 1915 insieme al venticinquenne figlio William Lawrence, fu ispirato da questo brano di Lucrezio. E nel 1925 ripropose ed estese il parallelismo nel suo libro Sulla natura delle cose, che fin dal titolo si richiamava esplicitamente al De rerum natura. Nel 1935 il sedicenne Primo Levi lesse il libro di Bragg, tradotto l’anno prima come L’architettura delle cose: ne rimase affascinato, e in seguito dichiarò che quella lettura aveva contribuito alla sua scelta di studiare chimica. Ne La ricerca delle radici. Antologia personale (Einaudi, 1981) ripropose sia un brano di Bragg, “Vedere gli atomi”, sia uno di Lucrezio: i versi II,381-427. In realtà, la Natura usa non uno, ma svariati alfabeti. Quello della fisica consiste di due dozzine di lettere chiamate quark e leptoni (come gli elettroni e i neutrini), che si combinano in parole chiamate atomi. A loro volta, gli atomi costituiscono l’alfabeto della chimica, le cui lettere si combinano in parole chiamate molecole, e in testi più lunghi chiamati macromolecole: queste ultime hanno nomi ormai familiari, come gli acidi nucleici (il DNA e l’RNA), i lipidi (o grassi), i polisaccaridi e le proteine. Ma il parallelismo con il linguaggio si estende anche oltre la chimica, nella biologia. L’alfabeto della vita consiste infatti di quattro lettere (le basi azotate A, T, G e C), che si combinano in parole di tre lettere (i codoni), in capitoli (i geni), in libri (i cromosomi) e in enciclopedie (i genomi). E ogni cellula eucariota contiene una copia dell’enciclopedia che codifica il programma dell’organismo al quale la cellula appartiene. 54

Libro I. Gli atomi Non è più semplice supporre che ci siano appunto elementi immutabili che, come si sono aggregati in fiamme di fuoco, così possono disgregarsi? Che quegli stessi elementi, toltine alcuni o aggiuntine altri, possano cambiare disposizione e movimento, e riaggregarsi in soffi d’aria? E che così si trasformino tutte le cose, le une nelle altre? Tu dirai: «Ma è evidente che le cose germinano dalla terra, e crescono e vivono nell’aria. Che se non piove al momento giusto, facendo vacillare gli alberi sotto gli scrosci, e se il Sole non contribuisce al ciclo vitale, fornendo il suo calore, non possono crescere le messi, gli alberi e gli esseri viventi». È vero. E lo è anche che se noi non mangiamo cibi secchi e non beviamo bevande umide, il nostro corpo deperisce, e la vita abbandona i nostri muscoli e le nostre ossa. Senza dubbio, noi traiamo sostegno da certe cose, e altri esseri da altre. Ma è naturale che sia così, perché gli esseri sono costituiti da diverse combinazioni di atomi, e dunque si alimentano di cibi costituiti a loro volta da diverse combinazioni di atomi. Sono importanti le interazioni fra gli atomi, e i legami che essi creano fra loro. In fondo, sono sempre gli stessi atomi, muovendosi e combinandosi in vari modi, a formare il cielo, i corpi celesti come il Sole o la Terra, e i corpi terrestri come il mare, i fiumi, gli alberi, i prati, i campi e gli esseri viventi.3 Nelle frasi che stai leggendo puoi notare molte lettere che ricompaiono in molte parole, e ciò nonostante le varie frasi e le varie parole significano cose diverse e risuonano in maniera diversa. Quanto potere deriva alle lettere, solamente grazie alle loro combinazioni! Pensa dunque quanto potere deriverà agli atomi, che sono molti più delle lettere, quando si combinano a formare le cose più varie.

L’alfabeto della Natura (817-829)

È ora di esaminare anche i semi di Anassagora, che in greco si chiamano omeomeri, o “parti simili”. Egli pensa che le ossa nascano da ossicini, le viscere da frattaglie, l’oro da pepite, la terra da granellini, l’acqua da goccerelle, il fuoco da fiammelle, e così via. Allo stesso tempo, però, non ammette che ci siano né il vuoto, né un limite alla suddivisione dei corpi. In entrambe le sue posizioni si sbaglia, allo stesso modo in cui si sbagliavano Eraclito ed Empedocle. Di suo, poi, aggiunge l’errore di assumere, come sedicenti princìpi generatori, cose che non differiscono da quelle che generano. E che come loro travagliano e periscono, senza che niente possa salvarle dalla rovina. Quale di questi semi potrebbe mai sfuggire al morso della morte? Gli

I semi di Anassagora (830-920)

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Vedi I,196-197, I,907-914 e II,1007-1022.

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Il microcosmo Lingue universali Nonostante la loro brevità, i versi I,907-914 rilevano due caratteristiche importanti del linguaggio. La prima è l’aspetto combinatorio, che permette a poche lettere di generare molte parole mediante piccole variazioni. Un tipico esempio sono i cosiddetti cambi enigmistici, di vocali o di consonanti, come nello scioglilingua: Che puzza, il pezzo di pizza nella pozza del pazzo! Che puzzo, la pezza di pizzo nel pozzo della pazza! La seconda caratteristica è una supposta identità strutturale, o isomorfismo, secondo cui le relazioni tra le cose (legno e fuoco) si riflettono in corrispondenti relazioni fra le parole (“ligneo” e “igneo”), attraverso la mediazione del pensiero. L’idea era stata anticipata da Aristotele, nell’Interpretazione (16a): «I pensieri sono immagini di cose, e le parole sono simboli di pensieri». Ed era stata sviluppata dagli stoici, a partire da Crisippo, in tre discipline: semiotica, sintassi e semantica. In tempi moderni, furono la Dissertazione sull’arte combinatoria di Gottfried Leibniz, del 1666, e il Saggio verso un vero carattere e un linguaggio filosofico di John Wilkins, del 1668, a proporre linguaggi artificiali universali che avessero appunto le caratteristiche che Lucrezio attribuiva ingenuamente alle lingue naturali. Il loro sogno si è realizzato tra l’Ottocento e il Novecento: nei sistemi formali della matematica, dapprima, e nei linguaggi di programmazione dell’informatica, poi. In particolare, La filosofia dell’atomismo logico di Bertrand Russell, del 1918, stratifica i termini e le proposizioni in livelli composti, a partire da livelli atomici. Mentre il Trattato logicofilosofico di Ludwig Wittgenstein, del 1921 (p. 21), riprende il duplice isomorfismo tra parole, pensieri e cose, e lo rielabora in un testo poetico-divulgativo alla maniera del De rerum natura. 56

Libro I. Gli atomi ossicini? Le frattaglie? Le gocce? Le fiammelle? Nessuno, mi sembra, visto che si tratta di cose tanto periture quanto le ossa e le viscere stesse, o l’acqua e il fuoco. Inoltre, poiché il corpo cresce prendendo nutrimento dal cibo, questo dovrebbe essere costituito dai semi più eterogenei, per poter allo stesso tempo favorire la crescita delle ossa e delle viscere, delle vene e del sangue. E noi dovremmo mangiare solo gustosi pastoni di farina di ossa, frattaglie, siero e sangue. Analogamente, anche la terra dovrebbe essere un guazzabuglio di semi, per poter generare prodotti di tutti i tipi. Il legno dovrebbe già contenere fuoco, tizzoni, fumo e cenere, per poter bruciare e consumarsi nei bracieri o negli incendi. E così via. Anassagora ha tentato una debole scappatoia, sostenendo che ogni cosa contiene effettivamente i semi di ciascun’altra, ma in proporzioni diverse. E che ciascuna genera soltanto le cose delle quali contiene i semi in quantità preminente, o in posizione privilegiata: ad esempio, in superficie. Ma anche questo è insensato. Altrimenti, quando si macina il grano, si dovrebbe ogni tanto spillarne qualche goccia di sangue, visto che il pane ci sostenta. Analogamente, le erbe dei prati in cui pascolano le pecore, o le acque a cui si abbeverano, dovrebbero contenere dolci e gustose gocce di latte. E le zolle vangate, mostrare fili d’erba, foglioline e pezzi di frutta. Ma nessuno ha mai visto niente del genere. Tu potresti obiettare che a volte, però, si sviluppano incendi spontanei nei boschi. Il che è vero, ma non perché il fuoco sia già contenuto nel legno: altrimenti, i boschi brucerebbero sempre e per intero. Piuttosto, ci sono particolari materiali infiammabili, che appiccano il fuoco quando vengono sfregati: magari incidentalmente, ad esempio quando un albero cade. E qui ritorna il discorso già fatto poc’anzi. Che ciò che conta, sono le interazioni e i legami fra gli atomi. Gli stessi atomi, con piccole variazioni, possono creare cose diverse come il legno e il fuoco. E le stesse lettere, con piccole variazioni, possono indicare parole diverse come “ligneo” e “igneo”.4 Se tu invece non saprai rinunciare all’idea che le cose visibili siano costituite di princìpi generatori simili ad esse, peggio per te. Ti perderai gli atomi, che ti abbandoneranno ridendo e sghignazzando, oppure piangendo e singhiozzando. Ti rimane da ascoltare un tema oscuro, sul quale non dispero di poter essere chiaro. Anzi, una grande speranza ha percosso il mio cuore come un tirso dionisiaco, avvolto d’edera e sormontato da una pigna. E mi ha infuso nel 4

Vedi I,196-197, I,817-829 e II,1007-1022.

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Il miele della letteratura (921-950)

Il microcosmo Re di uno spazio infinito

Nell’Amleto (II, 2), riferendosi al suo mondo mentale, il principe di Danimarca dice: «Potrei essere confinato in un guscio di noce e considerarmi re di uno spazio infinito, se non facessi brutti sogni». Lucrezio invece ne faceva di ottimi, e quello dei versi I,951-1007 gli permise appunto di immaginare uno spazio infinito e di fornire vari argomenti di plausibilità al proposito, come quello illustrato da Camille Flammarion nel 1888 (sopra). Nel 1584 Giordano Bruno basò su questo sogno sia il titolo che il contenuto del suo De l’infinito universo et mondi. E Newton, in una lettera a Richard Bentley del 10 dicembre 1692, così come nello scolio inedito alla Proposizione VII dei Principia («in tutti i corpi c’è una forza di gravità proporzionale alla massa»), commentò i versi I,984-987 in questo modo: La forza dell’argomentazione consiste nel fatto che, se la natura delle cose fosse finita, i corpi più remoti, non avendo nulla al di là di essi verso cui gravitare, non rimarrebbero in equilibrio: a causa della gravità tenderebbero verso l’interno e, convergendo da ogni parte da un tempo infinito, dovrebbero ormai trovarsi al centro del tutto. Pertanto Lucrezio pensa che ogni corpo sia attratto dalla materia che gli sta intorno, e tenda verso la regione dove la materia è più abbondante. Tutti i mondi si attraggono vicendevolmente, e l’attrazione verso i mondi che stanno da una parte impedisce loro di precipitare verso i mondi che stanno dall’altra. L’idea di Lucrezio fu riformulata nel 1883 da Ernst Mach, in La meccanica nel suo sviluppo storico-critico, nella forma: «L’inerzia di un corpo è determinata dalle masse dell’intero universo». Trent’anni dopo Einstein chiamò questa formulazione principio di Mach, e l’assunse come uno dei princìpi guida per lo sviluppo della relatività generale.

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Libro I. Gli atomi petto un soave amore delle Muse, che mi ispira a penetrare col potere della mente una regione del loro territorio ancora inesplorata. Mi piace abbeverarmi a fonti pure. Mi piace cogliere fiori novelli e intrecciarmene una corona, quale mai nessuno ha ricevuto dalle Muse. Anzitutto, perché insegno grandi cose, e cerco di sciogliere i nodi annodati nell’animo dalla religione e dalla superstizione. E poi, perché compongo canti così lucidi su cose così opache, con un tocco artistico. E questo non è insensato. D’altronde anche i medici, quando prescrivono l’amaro assenzio ai bambini, toccano col dolce miele l’orlo della tazza, per approfittarsi a fin di bene della loro ingenuità, e far loro trangugiare la sgradevole medicina che li curerà. Io faccio lo stesso con te, perché certi argomenti sembrano amari a chi è intellettualmente infantile e ingenuo, e vanno addolciti col miele della letteratura. Come un medico dell’animo io ti propino dunque le mie parole5 alate, per conquistare la tua attenzione a proposito della natura delle cose. Dopo aver dimostrato che gli atomi volteggiano invulnerabili nell’eterna infinità del tempo, voglio ora affrontare un duplice problema: se essi volteggino invulnerabili anche in un’abissale infinità di spazio, e in un’inesauribile infinità di esemplari. Lo spazio è effettivamente infinito. Perché ciò che è finito ha un confine, e un confine è definito da ciò che sta fuori. Ma, naturalmente, non c’è niente al di fuori dell’universo: esso è dunque sconfinato e illimitato. E non importa dove ci si ponga: in qualunque luogo, si è sempre circondati da uno spazio infinito in tutte le direzioni. Supponi per assurdo che lo spazio sia finito. Se arrivassi al confine e scoccassi una freccia, essa lo trapasserebbe o ne verrebbe respinta? Queste sono le uniche due possibilità, ma entrambe non ti lasciano scampo, e ti costringono a pensare che lo spazio sia infinito. Perché sia che la freccia voli al di là, sia che qualcosa dal di là la rimbalzi, in entrambi i casi quello non è il confine. E in qualunque altro posto tu volessi stabilirlo, io ti chiederei sempre cosa succede alla freccia. Inoltre, se l’universo fosse confinato in uno spazio finito, in un tempo infinito la materia sarebbe ormai tutta caduta sul fondo, sotto il suo peso, e non potrebbe accadere niente di nuovo sotto il Sole. Anzi, non potrebbe neppure più esserci il Sole. Invece, non c’è tregua per gli atomi, proprio perché non esiste nessun fondo sul quale possano cadere. Essi si muovono incessantemente, dovunque e in ogni direzione, richiamati dall’infinità dello spazio. E risalgono persino dalle più remote regioni infernali. 5

Vedi IV,1-25 (pp. 146-147).

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Lo spazio è infinito (951-1007)

Il microcosmo Quanti atomi ci sono nell’universo? Contrariamente ai versi I,1008-1009, la Natura sembra aver stabilito che il numero di atomi debba essere finito. L’universo osservabile è infatti contenuto in una sfera finita, il cui raggio è determinato dal tempo intercorso fino ad oggi dal momento del Big Bang (circa 13,7 miliardi di anni), e dall’espansione dell’universo (di cui ovviamente non teneva conto Newton, nel suo commento a p. 58). Inoltre la maggior parte di questa sfera finita è vuota (p. 46). Una stima del numero di particelle contenute nell’universo è di circa 10 alla 81, cioè un 1 seguito da 81 zeri: un numero enorme, ma certo non infinito. A questa stima si arriva moltiplicando il numero delle galassie (circa 10 alla 11), per il numero medio di stelle in una galassia (10 alla 11), per il peso medio di una stella (10 alla 35 grammi), per il numero di protoni in un grammo (10 alla 24): totale, appunto, 10 alla 81. La scimmia alla tastiera

Secondo i versi I,1021-1028, il mondo è stato creato a caso. Nella Natura degli dèi (II,93) Cicerone fa dire allo stoico Balbo che questo è tanto assurdo, quanto pensare che gli Annali di Ennio siano stati ottenuti scrivendo lettere a caso. E negli Oracoli della Pizia (399) Plutarco ripete l’osservazione per le Massime capitali dello stesso Epicuro. In entrambi i casi, la perfidia della critica riposa sul parallelismo tra parole e cose che Lucrezio ha sviluppato in precedenza. L’argomento è stato riformulato nel 1913 da Émile Borel nella forma della scimmia che, battendo tasti a caso, riscrive la Divina Commedia. La probabilità dell’evento è il prodotto della probabilità di battere una lettera, una punteggiatura o uno spazio (circa 1 su 40), per il numero di caratteri dell’opera: infima, ma certo non nulla! Dunque, nonostante l’apparente assurdità, la cosa è possibile, e diventa quasi certa in un tempo sufficientemente lungo, se solo si riesce a convincere la scimmia a continuare a battere sui tasti.

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Libro I. Gli atomi Da ultimo, i nostri stessi occhi ci mostrano che tutte le cose si delimitano a vicenda. L’aria avvolge le colline, e i monti l’aria. I mari lambiscono la terra, e la terra i mari. E non c’è niente che contenga l’universo intero dal di fuori. È nella natura dello spazio profondo, che non lo si possa percorrere tutto neppure correndo per un intero evo alla velocità di un fulmine. Anzi, pur così correndo, non si abbrevierebbe neppure il cammino da compiere. Tanto si estende lo spazio che si apre alle cose, in ogni direzione e senza limite! Che anche il numero degli atomi debba essere infinito, l’ha stabilito la Natura, imponendo che ci sia sempre del vuoto a delimitare la materia, e della materia a delimitare il vuoto: il che li rende entrambi infiniti. Altrimenti, solo l’uno o l’altra lo sarebbe. Se lo spazio e la materia non si delimitassero a vicenda, niente potrebbe esistere stabilmente a lungo. Non il mare, né la Terra, né i limpidi spazi celesti, né il mortale genere umano, né i corpi sacri degli dèi: niente resisterebbe anche una sola ora. Gli atomi vagherebbero soltanto nel gran vuoto, senza mai aggregarsi o riaggregarsi a formare dei corpi. Di certo, infatti, gli atomi non decidono da soli se e come aggregarsi, mettendosi sagacemente ciascuno al posto giusto, né sono liberi di scegliere come muoversi. Al contrario, vengono sospinti e indirizzati, fin dall’eternità, nei modi e con gli urti più vari, sperimentando ogni tipo di unione e di moto. E in tal modo pervengono a quelle disposizioni delle quali consiste l’insieme delle cose. Questo insieme poi si conserva a lungo negli anni, una volta messo armoniosamente in moto, permettendo che i flussi dei fiumi alimentino l’avido mare. Che la Terra, riscaldata dai raggi solari, partorisca nuova prole. Che fioriscano le specie animali, e perdurino i fuochi delle stelle. Ma niente di tutto questo avverrebbe, se l’infinito non fornisse continuamente materia per ripristinare a tempo ciò che viene perduto. Perché, come i corpi degli esseri animati deperiscono se non viene loro fornito il cibo, così le cose si dissolvono se non viene loro fornito un continuo ricambio. Gli urti esterni, da soli, non bastano a mantenere aggregato il tutto. A volte possono contenere la disgregazione, fino a quando non vengano fornite parti di ricambio per la riparazione. Altre volte invece aprono semplicemente una via di fuga, attraverso la quale gli atomi si liberano e sfuggono. Ma se anche gli urti bastassero da soli a mantenere le cose, ce ne vorrebbero così tanti, che a maggior ragione ci sarebbe bisogno di una quantità infinita di materia.

Ci sono infiniti atomi (1008-1051)

A questo proposito, guardati bene, o lettore, dal prestar fede alla diceria che c’è un centro dell’universo, al quale tutto tende. E che, dunque, l’equilibrio si mantiene senza bisogno di urti. E che la dispersione delle cose è impedita dall’attrazione verso il centro.

L’universo non ha un centro (1052-1093)

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Il microcosmo Una sfera con il centro dovunque L’idea enunciata nei versi I,1070-1071, che «in un universo infinito non può esserci un centro», fu riformulata in maniera memorabile nell’anonimo Libro dei ventiquattro filosofi, variamente attribuito dalla tradizione medievale a Ermete Trismegisto o Empedocle, ma probabilmente opera di Alain de Lille nel secolo XII: «Dio è una sfera infinita, il cui centro è dovunque, e la superficie in nessun luogo». Una definizione ripresa nel 1440 dal cardinale Nicola Cusano, nella Dotta ignoranza. Nel 1584, in De la causa, principio et uno, il suo discepolo Giordano Bruno virò la metafora da Dio all’universo. Da allora essa è stata ripetuta innumerevoli volte, in una girandola di citazioni incrociate, nella quale Borges ha cercato di mettere un po’ d’ordine nel saggio La sfera di Pascal, del 1951. Ovviamente, dopo essersi appropriato della metafora egli stesso, dieci anni prima, per la definizione della sua famosa Biblioteca di Babele. In fisica l’idea di Lucrezio è stata estesa nel 1917 da Einstein al principio cosmologico, secondo il quale “l’universo appare in ciascun istante allo stesso modo, da qualunque punto e in qualunque direzione lo si osservi”. Le osservazioni sembrano confermare questa versione, ma non quella più forte del principio cosmologico perfetto, che si riferisce non solo a “ciascun istante”, ma a “qualunque istante”: in tal caso, infatti, l’universo dovrebbe essere statico, e non in espansione. In matematica, invece, una sfera col centro dovunque e la superficie in nessun luogo (cioè, inaccessibile) permette di modellare lo spazio non euclideo (iperbolico): un analogo a tre dimensioni del piano non euclideo (iperbolico), in cui per ogni punto fuori di una retta passano infinite sue parallele. La più nota e riuscita realizzazione artistica di questo mostro geometrico è il Limite del cerchio III di Maurits Cornelis Escher, del 1959 (sotto).

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Libro I. Gli atomi Se il centro dell’universo fosse il centro della Terra, le cose pesanti che stanno di sotto tenderebbero verso l’alto, rovesciate come immagini riflesse nell’acqua. Gli esseri animati camminerebbero a testa in giù, senza precipitare in basso più di quanto noi non ci stacchiamo in volo verso il cielo. Il giorno e la notte si scambierebbero, e così le stagioni. Ma queste sono sciocchezze vane, abbracciate senza ragione. Perché in un universo infinito non può esserci un centro. E se anche ci fosse, non potrebbe costringere niente a fermarvisi, come qualunque altro punto dello spazio: il vuoto, infatti, deve cedere il passo ai corpi in movimento. E niente potrebbe essere costretto a fermarvisi: il vuoto, infatti, non può opporre resistenza ai corpi in movimento. Per spiegare come mai non tutte le cose sembrano comunque andare verso un centro, alcuni immaginano che lo facciano solo quelle costituite d’acqua o di terra, come i fiumi che scendono al mare o le pietre che rotolano dai monti. Le cose costituite di aria o di fuoco, come i fumi o le fiamme dei falò, andrebbero invece in direzione opposta: se il Sole splende nel cielo, e le stelle vi tremolano, sarebbe appunto perché lì si raccolgono il calore e il fuoco.6 Che non si involino dal basso, come fiamme alate, le mura della Sfera del Fuoco che separa il cielo dalla Terra, trascinandosi dietro tutto ciò che essa contiene. Che non crollino dall’alto le volte tonanti del tempio celeste. Che la Terra non si apra sotto i nostri piedi e non sparisca nel vuoto profondo, tra brandelli di cose terrestri e celesti. Che in un attimo non rimanga più niente, se non vuoto spazio e invisibili atomi. Perché da qualunque parte inizieranno a cedere le cose, lì si spalancherà per loro la porta della morte, e da lì fuoriuscirà tutta la materia. Questa guida ti mostrerà, con poco sforzo, come capire tutto ciò. Le cose si chiariranno una con l’altra. La cieca notte non ti impedirà il cammino, impedendoti di vedere i confini della Natura. Le cose illumineranno le cose, e tutto si illuminerà a vicenda.

6 Nei manoscritti qui mancano alcuni versi. E l’intero paragrafo sul centro dell’universo è parzialmente corrotto.

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Invocazione finale (1102-1117)

Libro II Fisica e chimica

Naufragio con spettatore

I versi II,1-4 hanno ispirato nel 1979 a Hans Blumenberg Naufragio con spettatore (Il Mulino, 1985), in cui egli ripercorre le vicende di questa “metafora dell’esistenza” nella storia della cultura occidentale. Ad esempio, nelle Epistole (XI,8-10) Orazio ripete: «Vorrei starmene tranquillo a contemplare le tempeste marine dalla riva». E Ovidio, nelle Metamorfosi (XV,149-151): «Mi piace viaggiare sulle nuvole, e di lassù guardare gli uomini che errano senza meta, privi della guida della ragione». E ancora, nel 1598, Tommaso Campanella nell’Epilogo Magno (VI,9): «Piace assai vedere una guerra sopra una torre et un naufragio di nave, non perché sia soave a noi che altri patisca, ma perché è soave veder quei mali che in noi potendo essere non ci sono, dice Lucretio». Nel 1658 Blaise Pascal abbandonò invece nei Pensieri (223 e 868) la posizione di terra: «Noi voghiamo in un vasto mare, sospinti da un estremo all’altro, sempre incerti e fluttuanti. Ogni termine al quale pensiamo di ormeggiarci e di fissarci vacilla e ci lascia». Ma «fa piacere trovarsi in un vascello sbattuto dalla tempesta, quando si è sicuri che esso non perirà: le persecuzioni che travagliano la Chiesa sono di questa natura». A Pascal fece eco Friedrich Nietzsche nel 1882, in La gaia scienza (III,124): «Abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave! Abbiamo tagliato i ponti alle nostre spalle – e non è tutto: abbiamo tagliato la terra dietro di noi. Ebbene, navicella! Guardati innanzi! Ai tuoi fianchi c’è l’oceano: è vero, non sempre muggisce, talvolta la sua distesa è come seta e oro e trasognamento della bontà. Ma verranno momenti in cui saprai che è infinito e che non c’è niente di più spaventevole dell’infinito. Oh, quel misero uccello che si è sentito libero e urta ora nelle pareti di questa gabbia! Guai se ti coglie la nostalgia della terra, come se là ci fosse stata più libertà – e non esiste più “terra” alcuna!». 66

Dolce, quando i venti turbano le acque del mare ingrossato, rimanere spettatori da terra del travaglio dei naviganti. Non per godere delle disgrazie altrui, ma perché è dolce constatare di essere immuni dai loro tormenti. Dolce anche, quando soffiano i venti di guerra sui campi di battaglia, rimanere spettatori da lontano dei combattimenti degli eserciti, senza correre alcun pericolo. Ma niente di più dolce che risiedere in dimore serene ed elevate, munite di sistemi di sicurezza escogitati dai sapienti, e da lassù abbassare lo sguardo sui propri dissimili. Guardarli dal di sopra della mischia, e vederli errare smarriti in cerca di una via nella vita. Osservarli competere ingegnosamente, inseguire titoli onorifici, impegnarsi giorno e notte, tenacemente e duramente, per scalare le vette della ricchezza e del potere.

La dolcezza del distacco (1-13)

O misera mente umana, o animo cieco! In quali tenebrose esistenze, fra quanti gravi pericoli, trascorri la tua breve vita! Non vedi che la Natura ti implora solo di risparmiare al corpo il dolore fisico, e di sgombrare gioiosamente l’animo da affanni e timori mentali? Al corpo e all’animo basta veramente poco: qualche analgesico che lenisca un po’ il dolore dell’uno, e dia un po’ di sollievo all’altro. La tua natura non richiede di avere un sistema di illuminazione per i banchetti notturni, con statue dorate di giovani che reggano in mano le torce. Né richiede di far sfavillare la casa di soprammobili preziosi e lucenti, o di far riecheggiare la musica della cetra fino ai soffitti a cassettoni stuccati. Ti basta stenderti sull’erbetta con gli amici, in riva a un fiume, sotto le fron-

Bisogni naturali e artificiali (14-61)

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Il microcosmo Un’apertura di credito scientifico

Maxwell è stato uno dei maggiori fisici mai esistiti, grazie alle equazioni che portano il suo nome, pubblicate nel 1865 in uno storico lavoro su Una teoria dinamica del campo elettromagnetico (p. 274). Nel 1871, in una Storia della teoria cinetica dei gas, egli sottolineò il contributo ispiratore di Lucrezio, che aveva letto fin da giovane, per lo sviluppo della sua nuova teoria. Ma già nel 1866, in una lettera a Hugh Munro, curatore di un’edizione inglese del De rerum natura, aveva specificato i versi per lui più significativi. Vale la pena non solo leggere le sue parole, ma anche tenerle a mente, per poterle confrontare col testo nei momenti opportuni (evidenziati in rosso nel seguito): Il moto delle particelle che volano in tutte le direzioni, come il pulviscolo in un raggio di Sole, e causano attraverso gli urti il moto dei corpi più grandi, dev’essere collegato all’esposizione delle teorie di Democrito e Lucrezio. Ma la natura degli urti, e la deviazione prodotta nelle traiettorie delle particelle, sono descritte in un linguaggio che dobbiamo purificare da tutte le precise suggestioni fisiche che le sue parole possono averci suggerito. Ma, dicendo così, non stiamo parlando troppo severamente di un antico, bravo e intelligente? In particolare, gli atomi di Lucrezio si muovono in origine tutti allo stesso modo, nella stessa direzione (all’ingiù) e con la stessa accelerazione (versi II,238239). Eccetto quando deviano, che è l’unico motivo per cui entrano in collisione (versi II,217-224). Mentre lo spazio è senza fine in ogni direzione (verso II,92). Le sue parole (versi II,100-111) sono una così buona illustrazione della teoria moderna, che sarebbe un peccato che significassero qualcosa di diverso!

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Libro II. Fisica e chimica de di un albero. Le piccole cose ristorano piacevolmente il corpo, soprattutto quando il tempo arride e la bella stagione cosparge i prati di fiori. Anche se, in realtà, la tua natura non richiede nemmeno questo. La febbre non ti passa più velocemente se, invece di giacere sotto coperte plebee, ti rigiri tra lenzuola ricamate in pigiami di porpora. E poiché i tesori, i titoli nobiliari o la gloria del regno non giovano al corpo, a maggior ragione non giovano all’animo. A meno che tu non cada preda dell’esaltazione quando vedi evocare spettri di guerra da eserciti che scendono bellicosi in campo, armati fino ai denti e fiancheggiati dalle riserve, o da flotte che pattugliano minacciose il mare. Di fronte a queste esibizioni di muscoli, le superstizioni religiose possono effettivamente fuggire pavide dal tuo animo, e la paura della morte può cedere il passo all’audacia. Ma se questi sentimenti militareschi ti appaiono ridicoli e grotteschi, se gli affanni e i timori non vengono rimossi dal fragore delle armi o dal silenzio delle frecce, se continuano ad albergare sfrontati persino nei re e nei grandi della Terra, se non hanno riguardo per lo splendore dell’oro o l’eleganza della porpora, come puoi dubitare che tutto questo ricada sotto il potere della ragione e dell’autocontrollo? La vita è un travaglio avvolto da tenebre interiori. Mentre i bambini hanno paura nel buio fisico, noi l’abbiamo anche alla luce del Sole, e temiamo cose che non sono affatto più temibili di quelle temute dai bambini. A dissipare le paure e le tenebre dell’animo non possono dunque essere l’arrivo del giorno e i raggi solari, ma solo la natura delle cose e la ragione. Riprenderò dunque a parlarti di come gli atomi si aggreghino e si disgreghino per generare e dissolvere le cose, a quali forze soggiacciano, e a che velocità si muovano nello spazio vuoto. E tu ascolta attentamente, o lettore. Certamente gli atomi non sono tutti stipati fra loro, perché osserviamo che le cose si consumano e svaniscono nel tempo. E poiché niente si distrugge, gli atomi che vengono sottratti a una cosa, costringendola a invecchiare, vengono aggiunti a qualcun’altra, permettendole di sbocciare. In tal modo il mondo si rinnova continuamente, e le cose mortali intrecciano il loro mutuo scambio vitale. Alcune specie crescono e altre diminuiscono, e nel volgere del tempo le generazioni dei viventi si passano di corsa, come staffette, la fiaccola della vita. Se però credi che alcuni atomi possano fermarsi, e da fermi contribuire al moto degli altri, ti sbagli di grosso! Poiché gli atomi si muovono nel vuoto, devono ricevere il moto o dal proprio peso, o dagli urti di altri atomi. In quest’ultimo caso, rimbalzano in diverse direzioni, essendo durissimi e non avendo impedimenti a retrocedere.

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Ripasso sugli atomi (62-111)

Il microcosmo Solleviamo un polverone Oltre a descrivere poeticamente la danza del pulviscolo atmosferico, nei versi II,129-131 Lucrezio ne propone una straordinaria spiegazione scientifica: che si tratti, cioè, di «un moto casuale visibile, prodotto dagli urti casuali degli atomi invisibili». Lo straordinario sta nel fatto che la spiegazione risolve correttamente un enigma esposto nel 1827 da Robert Brown, in Un breve resoconto di osservazioni al microscopio fatte sulle particelle contenute nel polline delle piante. Il botanico aveva osservato un incessante movimento casuale delle particelle in sospensione in acqua ferma, che sembravano quasi dotate di vita propria. Per la spiegazione del fenomeno aveva dapprima pensato di invocare un qualche principio vitalistico, ma poi l’aveva escluso: lo stesso effetto si notava, infatti, anche quando l’esperimento veniva ripetuto con particelle inorganiche, di legno fossile o di vetro. Fu Einstein, in uno studio Sul movimento delle particelle sospese in un liquido stazionario, a dare nel 1905 la corretta spiegazione “lucreziana”: il moto visibile delle particelle macroscopiche è causato dal moto invisibile delle molecole del fluido che le urtano. Nella metafora di Richard Feynman, è come se da un aereo si vedesse un enorme pallone muoversi casualmente in uno stadio, senza riuscire a distinguere i giocatori che lo spingono di qua e di là. Sfortunatamente per Lucrezio, la sua spiegazione è corretta per il moto browniano, ma non per il pulviscolo atmosferico: quest’ultimo, infatti, non fluttua nell’aria ferma, ed è invece trascinato in larga parte dalle correnti. Inoltre, Einstein non si limitò a fornire una spiegazione qualitativa, alla maniera del poeta, ma diede una descrizione quantitativa, alla maniera dello scienziato: in particolare, calcolò correttamente che lo spostamento di una particella è proporzionale non alla durata del movimento, ma alla sua radice quadrata.

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Libro II. Fisica e chimica Per capire meglio le ragioni del moto incessante degli atomi, ricorda che ti ho già mostrato che non ci sono un centro o un fondo dell’universo, dove tutti possano convergere, e che lo spazio vuoto si estende senza fine in ogni direzione. Dunque, non potendosi fermare nel vuoto sterminato, gli atomi sono costretti a muoversi continuamente. E quando si scontrano, più o meno violentemente, rimbalzano, più o meno lontanamente. Quelli che sono raggruppati fra loro rimbalzano di meno, perché sono ostacolati dai loro legami reciproci, e formano cose solide come le radici, i sassi e il ferro. Altri più isolati, invece, vagano per il grande vuoto e scontrandosi rimbalzano a grandi distanze, formando cose volatili come l’aria rarefatta e la splendida luce del Sole. Molti, infine, rimangono solitari nell’immensità, esiliati dagli aggregati delle cose e impossibilitati ad accordare il proprio moto con quello di altri. Di quest’ultimo fenomeno abbiamo continuamente di fronte agli occhi un’immagine metaforica. Osserva, infatti, ciò che succede quando un raggio di Sole irrompe in una stanza buia, rischiarandola. Nel fascio di luce vedrai danzare molti corpuscoli, che si danno incessantemente battaglia in una perenne contesa, radunandosi e disperdendosi di continuo. È così che puoi immaginarti anche l’eterna danza degli atomi nel grande vuoto, per quanto sia umanamente possibile estrapolare da un modello parziale una visione completa, e da un’intuizione particolare una conoscenza generale. Ma proprio per questo motivo, è bene prestare attenzione ai corpuscoli che vedi agitarsi nei raggi del Sole: perché quel turbinio ti suggerisce che ci sono più cose al mondo, di quante ne appaiano a prima vista ai nostri sensi. Lì vedrai, infatti, un moto casuale di particelle che vanno da tutte le parti, ora qua e ora là, e questo moto visibile dev’essere prodotto dagli urti degli atomi invisibili. Solo gli atomi possiedono infatti moti autonomi e primitivi. Essi poi trasmettono i loro moti ai piccoli aggregati che formano. Questi a loro volta trasmettono i propri moti ad aggregati più grandi, e così via. E poco a poco, dagli atomi alle cose, il moto affiora fino a diventare percepibile ai nostri sensi. Come nel caso dei corpuscoli che danzano nel raggio di Sole, appunto, senza che noi riusciamo a percepire le cause microscopiche del loro moto, pur percependone gli effetti macroscopici.

Il pulviscolo atmosferico (112-141)

Quale sia la velocità degli atomi, lo possiamo capire così. Quando l’aurora sparge il suo colore rosato sulla Terra, gli uccelli si levano dagli alberi, svolazzano nell’aria e colmano di cinguettii lo spazio. Il Sole sorge all’improvviso e diffonde il chiarore sul mondo, mostrandosi a tutti.

Più veloci della luce (142-164)

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Il microcosmo Procediamo per inerzia Nel 1644 Cartesio enunciò, nei suoi Princìpi di filosofia (a fianco), la “prima legge della Natura”: unaquaeque res, quantum in se est, semper in eodem statu perseveret, “una cosa qualunque, di per sé, persevera sempre nel suo stato”. Ed è proprio l’espressione quantum in se est, “di per sé”, a tradire la sua ispirazione lucreziana: si tratta, infatti, della stessa espressione che compare per ben tre volte, nei versi II,190, II,201 e II,205, nel discorso sul moto degli atomi (e solo un’altra volta, nel verso II,247, nel resto del libro). Nel 1687 Newton parlò invece nei Principia (sotto) di prima legge del moto o principio d’inerzia, in questi termini: «Un corpo persevera nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme, a meno che non intervenga una forza impressa a cambiarlo». Poiché però l’inglese non sopportava il francese, nel libro non lo menziona al proposito: attribuisce invece perversamente il principio a Galileo, il quale al contrario riteneva inerziale anche il moto circolare, come quello di un pianeta attorno al Sole, che invece è accelerato. In una nota preparatoria del 1684, riferendosi questa volta ai versi II,150-152, Newton aveva già scritto: «Tutti questi antichi conoscevano la prima legge, che attribuisce agli atomi in un vuoto infinito un moto rettilineo, estremamente rapido e perpetuo, perché privo di resistenza. Questa è l’opinione di Lucrezio, quando dice che la luce del Sole è rapidissima, e tuttavia impedita nel suo moto». Prima di Cartesio e Newton, comunque, almeno due commentatori avevano notato nei versi in questione di Lucrezio la formulazione di una qualche “legge di natura”, analoga a quello che poi divenne il principio d’inerzia: l’italiano Giovanni Battista Pio nel 1511, e l’inglese Denis Lambin, alias Dionysius Lambinus, nel 1563. E sembra che questi commenti fossero noti a Cartesio e Newton, insieme al testo originale del poeta. 72

Libro II. Fisica e chimica Ma il calore che emana dal Sole, e la luce serena che esso emette, non si muovono liberamente nello spazio vuoto: fendono l’atmosfera terrestre, e ne vengono rallentati. Inoltre, i raggi di Sole sono composti di molti corpuscoli che procedono ammassati, intralciandosi a vicenda e rallentando ulteriormente. Gli atomi isolati che si muovono nel vuoto, liberi da legami e senza freni, devono dunque essere più veloci della luce del Sole nell’atmosfera e percorrere nello stesso tempo uno spazio ben maggiore. Come vedi, stiamo procedendo passo passo, analizzando gli argomenti uno a uno, per capire come ogni cosa si compia secondo ragione. Ma alcuni ignoranti si oppongono a questo modo di procedere, e credono che senza un provvidenziale intervento divino la Natura non potrebbe adeguarsi così bene agli interessi umani. Essa infatti alterna le stagioni dell’anno, fa germinare le messi, e produce tutto ciò che il piacere spinge i mortali a ricercare. Quello stesso piacere li guida nella vita e li attrae vicendevolmente, con le arti e le lusinghe di Venere, perché la stirpe si propaghi e il genere umano non si estingua. Ma coloro che si inventano che sono stati gli dèi a stabilire ogni cosa, sono ben lontani dal vero. Quanto a me, anche se ignorassi i princìpi delle cose potrei comunque affermare, già solo guardandomi intorno, che il mondo ha così tanti difetti, che non può certo essere stato pianificato dagli dèi per gli uomini.1

Contro la Provvidenza (165-181)

Su questo torneremo, ma per ora procediamo a esporre ciò che resta da dire a proposito dei moti degli atomi. È infatti venuto il momento di provare che niente può muoversi spontaneamente verso l’alto. Tu non farti ingannare dalle fiamme, che fin da quando il fuoco si appicca tendono subito verso l’alto. O dalle messi e dagli alberi, che crescono ben dritti all’insù: a differenza dei pesi che, di per sé, invece si muovono tutti all’ingiù. Non devi credere che, quando il fuoco si propaga salendo sui tetti delle case, e con avida fiamma divora le assi e le travi, lo faccia spontaneamente e senza essere sospinto da forze. Anche il sangue sprizza in tutte le direzioni dalle ferite, prima di spargersi a terra. E il legno immerso nell’acqua viene respinto a galla, con tanta maggior violenza quanto più si cerca di spingerlo a fondo, fino al punto di schizzare a volte fuori dal liquido. Ma non per questo dubitiamo che il sangue o il legno si muovano di per sé verso il bas-

La necessità (182-215)

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Vedi V,195-234 e p. 196, dove il discorso sulla teodicea sarà ripreso e sviluppato.

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Il microcosmo Lucrezio in caduta libera sulla Luna

La leggenda (falsa) vuole che Galileo abbia compiuto, tra il 1589 e il 1592, il famoso esperimento della torre di Pisa, osservando che due palle dello stesso materiale, ma di diversa dimensione, raggiungono terra quasi contemporaneamente. Di esperimenti simili ne erano sicuramente già stati fatti in precedenza, più volte. Ad esempio, nel 1586 Simon Stevin aveva analogamente osservato che due palle di piombo, una dieci volte più pesante dell’altra, lasciate cadere da una decina di metri su una tavola di legno, risuonano quasi simultaneamente. Ma già nei versi II,238-239 Lucrezio aveva affermato che la velocità di caduta nel vuoto non dipende dal peso, sulla base dell’argomento che, se diminuisce la resistenza del mezzo, tendono a svanire le differenze tra i corpi. Nella Fisica Aristotele aveva invece dedotto dalla stessa ipotesi che la velocità aumenta, e diventa infinita se la resistenza è nulla: cioè, nel vuoto il moto dovrebbe essere impossibile. Nel caso ci fossero ancora stati dubbi al riguardo, il 2 agosto 1971 David Scott (sopra), comandante dell’Apollo 15, lasciò cadere sul suolo lunare una piuma di falco (in onore della sua navicella, il cui nome era Falcon) e un martello. Dopo aver verificato che allunavano effettivamente nello stesso istante, dichiarò che bisognava dare ragione a «un signore di molto tempo fa di nome Galileo». Ma dimenticò un altro signore di ancor più tempo prima, di nome Lucrezio. Come se non bastasse, nei versi II,246-250 quel signore di nome Lucrezio aveva intuito anche che i corpi in caduta libera sulla Terra possono declinare dalla verticale. Un esperimento al riguardo fu proposto nel 1632 da Galileo, nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, e venne effettuato con successo nel 1791 da Giovanni Battista Guglielmini. Si trattò della prima conferma sperimentale del fatto che la Terra gira attorno a se stessa.

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Libro II. Fisica e chimica so. Allo stesso modo, anche le fiamme sono sospinte in alto dai soffi dell’aria, benché tendano di per sé a muoversi verso il basso. Non vedi forse anche le comete e le stelle cadenti tracciare le loro scie, come torce nel cielo notturno, in tutte le direzioni? E i raggi del Sole irradiare il calore e diffondere la luce per ogni dove, e non solo verso la Terra? E i fulmini scoccati dalle nubi lampeggiare di traverso tra la pioggia, or di qua or di là, a dimostrazione che spesso le fiamme cadono anche all’ingiù? A proposito del moto, voglio che tu sappia pure questo, o lettore. Mentre gli atomi cadono nel vuoto all’ingiù, sospinti dal loro peso, ogni tanto subiscono declinazioni (clinamen) casuali che li deviano dal loro corso. Altrimenti, cadrebbero tutti parallelamente in verticale, come gocce di pioggia nel vuoto profondo, senza mai interagire gli uni con gli altri. E in tal modo, la Natura non avrebbe mai potuto produrre nulla. Certo sbaglierebbe chi pensasse che gli atomi possono interagire solo perché i più pesanti, cadendo più velocemente, colpiscono i più leggeri, imprimendo loro moti diversi da quelli di caduta. Infatti, i corpi più pesanti cadono più velocemente di quelli leggeri soltanto nell’aria e nell’acqua, perché questi mezzi cedono più facilmente a ciò che è più pesante. Ma nel vuoto tutto cade con la stessa velocità, indipendentemente dal peso, perché il vuoto non oppone nessuna resistenza. Dunque, gli atomi più pesanti non possono rovinare su quelli più leggeri, e infliggere a questi degli urti in grado di turbarne il moto naturale dovuto al peso. È allora necessario che gli atomi declinino di per sé dal loro percorso quel tanto che basta per “salvare le apparenze”, come dicevano i Greci (sozein ta phainomena). Quanto ai corpi pesanti, è vero che noi non li vediamo declinare vistosamente dal loro percorso verticale, quando cadono dall’alto, ma certo non è impossibile che anch’essi declinino impercettibilmente.

Il caso (216-250)

Se il comportamento degli atomi fosse sempre determinato, e ogni loro nuovo moto sorgesse dal vecchio in maniera causale, senza nessun apporto casuale che infranga le leggi del fato, da dove trarrebbero gli esseri animati la possibilità di fare ciò che a loro piace? Da dove deriverebbe la volontà, che permette loro di decidere se andare da una parte o dall’altra? Non vedi, ad esempio, che quando si aprono le sbarre del recinto, un cavallo scalpitante non prorompe immediatamente fuori? Il desiderio

Il libero arbitrio (251-293)

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Il microcosmo Viva la libertà! Nella fisica lucreziana coesistono i due aspetti del determinismo (la caduta libera degli atomi) e della casualità (il clinamen, o “declinazione”). I versi II,289-293 rivelano, a posteriori, perché Lucrezio abbia introdotto questo controverso secondo aspetto, che non era presente in Epicuro: senza casualità, infatti, il mondo risulterebbe completamente deterministico e predeterminato, e non ci sarebbe nessuno spazio per la libertà e il libero arbitrio. Anche nell’odierna fisica quantistica coesistono i due aspetti del determinismo (l’evoluzione della funzione d’onda) e della casualità (il suo collasso). Poiché però per la libertà e il libero arbitrio la casualità è necessaria, ma non sufficiente, in mancanza di teorie definitive al proposito i pareri dei fisici divergono. Ad esempio, Albert Einstein credeva che fossimo completamente determinati, mentre Jacques Monod, premio Nobel per la medicina nel 1965 e autore di Il caso e la necessità, pensava il contrario. Lucrezio puntinista Nei versi II,317-332 Lucrezio dipinge due gustosi quadretti, che visti da vicino mostrano una natura granulare e dinamica (pecore e soldati), ma osservati da lontano la nascondono, lasciando trasparire solo macchie uniformi e statiche (greggi ed eserciti). La tecnica è la stessa della pittura puntinista, inaugurata nel 1883 da Georges Seurat, che riduce le figure a insiemi di punti materiali colorati: viste da vicino, la loro struttura “atomica” risalta, ma viste da lontano, svanisce. Oggi non abbiamo più bisogno di metafore letterarie o pittoriche, al proposito, perché siamo tutti allertati alla doppia natura delle immagini degli schermi televisivi o dei computer. Quando i pixel sono pochi, l’immagine è a bassa risoluzione e sgranata. Quando sono tanti, è ad alta risoluzione e definita. E, in quest’ultimo caso, il mondo dello schermo appare esattamente come quello fisico: atomico al livello microscopico dei pixel, ma continuo al livello macroscopico della percezione.

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Libro II. Fisica e chimica di uscire è espresso istantaneamente dalla sua mente, ma prima di poter essere realizzato dev’essere trasmesso a tutto il suo corpo, affinché vengano attivate in sequenza tutte le sue membra. Ma non è così che succede quando qualcuno, o qualcosa, ci urta con forza. In tal caso, tutto il nostro corpo viene messo in moto istantaneamente, e un atto di volontà della mente è invece necessario per frenarlo. Vedi, dunque, che il nostro corpo è soggetto sia a forze esterne, che ci spingono coattamente e ci rapiscono precipitosamente, sia a forze interne, che possono resister loro e frenarle. Anche i corpi materiali sono soggetti all’arbitrio di forze che a volte li piegano completamente, e altre volte riescono a fermarne lo slancio e a farli regredire. Dobbiamo dunque ammettere che lo stesso succeda pure per gli atomi, e che oltre al peso ci sia un’altra causa del moto da cui derivi l’innato potere della mente, visto che nulla si crea dal nulla. Di per sé, infatti, il peso non permette di spiegare ogni movimento mediante forze esterne. Le piccole declinazioni casuali degli atomi, invece, permettono di render conto del fatto che la mente è libera, non costretta a prendere le decisioni che prende. La materia è sempre stata quella che è, perché nulla si crea, e nulla si distrugge. Gli atomi primordiali sono rimasti gli stessi, e sempre lo saranno. Le stesse cose che sono già nate, cresciute e morte continueranno a nascere, crescere e morire, ciascuna secondo le leggi della Natura. Nessuna forza può cambiare l’universo, perché non c’è nulla al di fuori di esso da cui si possa importare nuova materia, o in cui si possa esportare quella vecchia. A questo proposito, non sorprende che gli atomi siano tutti e sempre in movimento, mentre i corpi che di essi sono costituiti appaiano normalmente in quiete. Infatti, le dimensioni degli atomi sono ben al di sotto del percepibile: dunque, se non vediamo loro, non possiamo neppure vedere i loro moti. Ma questo succede anche con le cose che percepiamo, quand’esse siano a grande distanza. Sui colli le pecore si aggirano lanose, brucando i prati erbosi. Ciascuna va dove la invita il richiamo dei fili imperlati di rugiada recente, e i sazi agnelli giocano e si azzuffano. Ma osservato da lontano il gregge appare fermo, e le pecore si confondono in una macchia bianca che ristagna sul verde. Sulle piazze d’armi le legioni si esercitano, giocando giochi di guerra. Le armature scintillano, e le armi roteano. La marcia dei fanti solleva un gran frastuono, che rimbalza sui monti e si leva fino al cielo. I cavalieri sfrecciano volteggianti, scuotendo con il loro impeto l’intero campo. Ma

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Greggi ed eserciti (294-332)

Il microcosmo Bistecche di vitello per gli dèi

A titolo d’esempio ecco la versione del Foscolo dei versi II,352-366, che apre la raccolta dei suoi frammenti in prosa (p. 8): Spesso dinanzi agli splendidi simulacri degli Iddii cade immolato appiè delle are ardenti-incenso il vitello perdendo dal petto un fumante fiume di sangue. Ma l’orbata madre aggirandosi per le verdi campagne lascia sul suolo le orme del bipartito piede, tutti quanti ricercando con gli occhi i luoghi, se mai possa vedere il figlio perduto, e soffermandosi empie i boschi frondiferi di lamento; e frequente rivisita la stalla, trafitta dal desiderio del caro giovenco. Né i teneri salci, né le erbe belle di rugiada, né i fonti cascanti dagli alti clivi possono dilettarle il cuore, e distorre la subita doglia. Né possono le bellezze degli altri vitelli lieti nei grassi paschi, distrarla altrove, ed alleviarle l’affanno. Tanto ella cerca un certo che di proprio e noto solo al suo cuore!

Atomi piccoli e atomi grossi Lucrezio distingue gli atomi in base a una serie di caratteristiche macroscopiche, che hanno poco senso nel mondo microscopico: ad esempio, la ruvidezza, o la spigolosità. Praticamente, le uniche che hanno senso sono la grandezza e il peso. La grandezza di un atomo si può valutare in base allo spazio sferico che esso occupa quando si lega assieme ad altri atomi in una molecola. Fra gli elementi naturali, il raggio di un atomo di cesio è circa 8 volte maggiore di quello di un atomo di idrogeno, e gli altri sono intermedi fra quelli. Il peso di un atomo si può invece valutare in base al numero di protoni, neutroni ed elettroni di cui è composto. Fra gli elementi naturali, il peso di un atomo di uranio è circa 238 volte maggiore di quello di un atomo di idrogeno, e gli altri sono intermedi fra quelli.

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Libro II. Fisica e chimica se si osservano le manovre da lontano, sembra che tutto sia fermo e che il bagliore ristagni sul campo. Impara ora quante e quali siano le forme degli atomi, visto che essi non sono né tutti completamente uguali, né tutti completamente diversi. La cosa non stupisce. Considera il genere umano, i pesci muti e squamosi, i lieti armenti e le fiere selvagge, i variopinti uccelli che si posano sulle rive dei fiumi e dei laghi e svolazzano sui boschi: la Natura abbonda di specie differenti, e i membri di ciascuna sono simili fra loro, ma non completamente uguali. Altrimenti, i figli non potrebbero riconoscere le madri, e le madri i figli. Come invece fanno tutti gli animali, non meno che gli uomini. Spesso, infatti, dinanzi ai venerandi templi degli dèi, un vitello viene immolato su un altare fumante d’incenso, e dal suo petto schizza un caldo fiotto di sangue. Ma la madre orfana, errando sui pascoli, cerca fra l’erba le impronte delle sue zampette, e scruta dovunque nella speranza di rivederlo. Spesso si ferma, e riempie il bosco di muggiti strazianti. Torna continuamente alla stalla, trafitta dal desiderio di ritrovarlo. I teneri salici, le umide erbette, i ruscelli mormoranti non riescono a distrarla e a farle dimenticare l’angoscia. La vista degli altri vitelli non le allevia il dolore: è il suo che vuole, e solo quello! Tra i teneri capretti, i petulanti agnelli e le belanti pecore, ciascuno riconosce la propria madre, e corre a poppare alle mammelle di quella giusta. I vari tipi di grano differiscono gli uni dagli altri, e così le spighe di uno stesso tipo. Diverse conchiglie dipingono il grembo della terra, sulla sabbia dei curvi litorali bagnati dalle molli onde del mare. Dunque, ancora una volta, bisogna che anche gli atomi che volteggiano nel vuoto abbiano forme più o meno differenti tra loro, come tutti gli oggetti naturali. Solo gli oggetti artificiali, infatti, possono esistere in copie tutte uguali l’una all’altra, perché modellate con uno stesso stampo.

La vacca e il vitello (333-380)

È facile spiegare per quale ragione il fuoco dei fulmini celesti è molto più penetrante di quello delle fiamme terrestri: il primo è più sottile, essendo composto di atomi più piccoli, e riesce dunque a passare per buchi più stretti di quelli in cui riesce a infilarsi il secondo. Analogamente, una torcia risplende attraverso una lanterna con le pareti di corno, mentre la pioggia ne viene respinta, perché le particelle di luce sono più piccole di quelle dell’acqua. L’olio si attarda quando passa attraverso un filtro, diversamente dal vino che vi percola più velocemente, perché il primo è formato di atomi più grossi, o aggregati in maniera più complessa e compatta. I suoi

Piccoli o grossi (381-397)

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Il microcosmo Come mi agganci a te? Una volta supposto che il mondo sia costituito di mattoni di vario tipo, sorge il problema di cosa li tenga insieme in maniera più o meno stabile e resistente. Il verso II,446, che introduce l’efficace metafora degli atomi “uncinati e ramificati”, prefigura l’esistenza di vari tipi di “legami” che agiscano per cementare fra loro le particelle negli atomi, gli atomi nelle molecole, e le molecole nei corpi microscopici e macroscopici (p. 30). Procedendo dall’alto in basso, oltre che in maniera storica, i corpi celesti sono tenuti insieme dalla forza gravitazionale, che nel 1687 fece la gloria di Newton e dei suoi Principia. Essa attrae tutti i corpi gli uni verso gli altri, in maniera proporzionale alle loro masse e inversamente proporzionale al quadrato delle loro distanze. E basta per spiegare non soltanto la formazione e la forma dei corpi celesti, ma anche il loro moto reciproco: ad esempio, della Luna attorno alla Terra, o dei pianeti attorno al Sole. Gli atomi nelle molecole, e gli elettroni negli atomi, sono tenuti insieme dalla forza elettromagnetica, che trovò la sua sistemazione nelle equazioni di Maxwell del 1865 (p. 274). Essa respinge tutti i corpi aventi lo stesso tipo di carica elettrica (positiva, o negativa), e attrae quelli di tipo diverso, in maniera proporzionale alle loro cariche e inversamente proporzionale al quadrato delle loro distanze. E basta per spiegare la conformazione delle molecole e degli atomi, e il moto degli elettroni attorno al nucleo. I quark sono tenuti insieme nei protoni e nei neutroni dalla forza nucleare forte (p. 276), che è costante, agisce solo a distanze pari alle dimensioni di protoni e neutroni, ed è mediata dai gluoni (“colloni”, da glue, “colla”). I protoni e i neutroni sono invece tenuti insieme nel nucleo degli atomi da una forza nucleare residuale, mediata dai pioni (dalla lettera π che li indica), che agisce solo alle distanze dei nuclei, ed è attrattiva quando protoni e neutroni sono sufficientemente separati, ma diventa repulsiva se si avvicinano troppo fra loro. 80

Libro II. Fisica e chimica atomi non riescono dunque a disgregarsi velocemente gli uni dagli altri, in modo da riuscire a passare singolarmente attraverso i fori. Il dolce del latte e del miele risulta gustoso al palato, mentre l’amaro dell’assenzio e della centaurea selvatica ci fa storcere la bocca. Il motivo è che le sostanze dolci sono fatte di atomi lisci e rotondi, e quelle amare di atomi irsuti e irregolari, che risultano abrasivi e irritanti quando passano sulla lingua o scendono nella gola.2 Lo stesso succede per le cose gradevoli o sgradevoli, che sono formate da atomi diversi e di natura contrastante. Non crederai, infatti, che lo sgradevole suono di una stridula sega sia prodotto da denti arrotondati che accarezzano il legno, allo stesso modo di una melodia emanata dalle corde di uno strumento sfiorate dalle dita sapienti di un musicista. Non penserai di inalare col naso lo stesso tipo di atomi quando si cremano putridi cadaveri, e quando si spruzza la scena degli spettacoli con essenza di zafferano, o si brucia incenso orientale sugli altari. Né di ricevere negli occhi lo stesso tipo di atomi quando ti bei di bei colori, o quando immagini turpi e disgustose ti feriscono lo sguardo e ti fanno piangere. Le cose ci risultano piacevoli o spiacevoli, dunque, a seconda che siano costituite di atomi lisci o irsuti. Alcuni atomi, che hanno una natura intermedia tra il liscio e l’irsuto, e sono solo un po’ ruvidi, titillano i sensi senza lederli: così sono, ad esempio, quelli che si trovano nella feccia del vino o nelle piante urticanti. E basta toccare il ghiaccio o sfiorare il fuoco, per accorgersi che essi addentano i sensi con denti diversi. A proposito del tatto, sarebbe sufficiente quest’unico senso a mostrarci la varietà degli atomi che costituiscono le cose. Osserviamolo infatti come reagisce diversamente quando ingerisce qualcosa di esterno, espelle qualcosa di interno, prova i piaceri del sesso, o riceve carezze e schiaffi in parti diverse del corpo.

Lisci, ruvidi o irsuti (398-443)

Infine, le cose dure e solide devono essere tenute insieme da atomi uncinati e ramificati. Così è, ad esempio, per i diamanti, sprezzanti degli urti. O per le robuste selci, il duro e resistente ferro, e il bronzo che stride nei serramenti. Le sostanze molli e fluide devono invece essere costituite di atomi lisci e rotondi. Una cucchiaiata di semi di papavero, infatti, si inghiotte con la stessa facilità di un sorso d’acqua, perché i granelli non si intralciano a vicenda e scorrono facilmente uno sull’altro.

Rotondi, spigolosi o uncinati (444-477)

2

Vedi IV,615-672.

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Il microcosmo Alla tavola di Mendeleev Nei versi I,478-521 Lucrezio afferma che, benché ci siano infiniti atomi, essi appartengono soltanto a un numero finito di tipi. E lo “prova” con un interessante argomento combinatorio, volto a dimostrare che altrimenti ci sarebbero infinite varietà di cose anche in uno spazio limitato come quello della Terra, contrariamente all’evidenza: ad esempio, gli uomini hanno sempre cinque dita per mano, e non un numero variabile. Per noi, che ci sia solo un numero finito di tipi atomici è evidente, visto che già gli atomi sono in numero finito (p. 60). Ma non è affatto evidente che il numero di tipi sia piccolo, e si riduca a un centinaio: che, nei termini del parallelo tra parole e cose, è più o meno il numero di sillabe di un alfabeto sillabico. Ed è ancor meno evidente che i tipi si possano classificare in un ordine necessario, e non puramente convenzionale come quello dell’alfabeto, appunto. L’antico I Ching, o Libro dei mutamenti, sistematizzato intorno al -500 circa, ordinava gli elementi secondo 64 esagrammi (in alto), formati da sei righe intere o spezzate. La tavola periodica compilata nel 1869 da Dmitrij Mendeleev li classificava in base al peso atomico: cioè, al numero dei protoni e neutroni del nucleo. La tavola moderna (a destra), compilata nel 1913 da Henry Moseley, li classifica invece in base al numero atomico: cioè, al numero dei soli protoni o, equivalentemente, degli elettroni.

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Libro II. Fisica e chimica Tutte le cose che si vedono invece svanire in un attimo, come il fumo, le nuvole e le fiamme, non possono consistere né di atomi uncinati e ramificati, né di atomi lisci e rotondi. Infatti, essi devono allo stesso tempo poter pungere i corpi e intrufolarsi fra i sassi, e dunque consistono di atomi ruvidi e spigolosi. Che poi ci siano corpi sia liquidi che amari, come l’acqua del mare, non deve stupire. Si tratta semplicemente di misture di alcuni atomi lisci e rotondi, come quelli dell’acqua, e di altri irsuti e irregolari, come quelli del sale. I due tipi si possono addirittura separare gli uni dagli altri, se si filtra ripetutamente l’acqua marina attraverso la terra: il sale si deposita in superficie, perché i suoi atomi irsuti e irregolari aderiscono meglio alla terra, e l’acqua si purifica fino a diventare dolce. Dopo quanto abbiamo appena detto, dimostriamo ora che esiste soltanto un numero finito di tipi di atomi. Altrimenti, ci sarebbero infinite specie di cose diverse al mondo. Infatti, gli atomi che stanno in uno spazio limitato, per quanto piccoli essi siano, possono appartenere soltanto a un numero finito di tipi: supponiamo, ad esempio, tre. Se si calcolano tutte le configurazioni possibili che si possono ottenere da quei tre tipi di atomi nello spazio considerato, mettendoli in alto o in basso, a destra o a sinistra, e vicini o lontani, se ne ottiene soltanto un numero finito. Ma se ci fosse un tipo di più, se ne potrebbe ottenere un numero maggiore. All’aumentare del numero di tipi degli atomi, aumenta anche il numero di configurazioni che si possono ottenere in quello stesso spazio. E con infiniti tipi di atomi, se ne avrebbero infinite, il che è impossibile. Altrimenti le vesti eleganti, importate dai paesi del lontano Oriente, la preziosa porpora di Melibea, tinta con le variopinte conchiglie della Tessaglia, e le penne del pavone d’oro, soffuse di ridente fascino, giacerebbero ormai dimenticate, surclassate dai colori di perenni novità. Così sarebbe per il profumo della mirra e il sapore del miele. E si metterebbero a tacere i canti del cigno e le melodie della lira d’Apollo, perché ogni cosa verrebbe continuamente sopraffatta da altre superiori ad essa. Ma oltre a progredire per il meglio, tutto regredirebbe anche verso il peggio. Perché per ciascuna cosa ne nascerebbe sempre una più sgradevole al naso, alle orecchie, agli occhi o al gusto. Poiché però le cose non stanno così, e ci sono limiti sia al meglio che al peggio, dobbiamo dedurne che i tipi di atomi che costituiscono la materia devono essere limitati in numero. D’altronde, anche al caldo estivo e al freddo invernale ci sono dei limiti ben definiti, oltre i quali la temperatura non può variare, benché possa

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Tipi atomici (478-521)

Il microcosmo La sostanza della realtà Il discorso sulla varietà dei tipi di atomi, e in particolare i versi II,532-535, sollevano il problema della distribuzione degli elementi nell’universo conosciuto. Solo il 5% di esso è costituito di materia ordinaria, i cui atomi sono classificati nella tavola periodica (p. 82): il resto è al 23% materia oscura, di cui si sa poco, e al 72% energia oscura, di cui si sa ancora meno. Della materia ordinaria, il 74% è idrogeno, il 24% elio, e il rimanente 2% contiene tutti gli altri elementi in varie proporzioni, primo fra tutti l’ossigeno. Sulla Terra, invece, le proporzioni degli elementi sono all’incirca 32% di ferro, 30% di ossigeno, 15% di silicio, 14% di magnesio, 3% di zolfo, 2% di nichel, 1,5% di calcio, 1,4% di alluminio, e il rimanente 1% contiene tutti gli altri elementi in varie proporzioni. Naturalmente, la maggior parte di questi elementi stanno nel nucleo (p. 208), mentre sulla crosta terrestre abbondano gli elementi che concorrono alla formazione delle rocce (ossigeno, silicio, sodio e calcio), e negli oceani quelli che formano l’acqua (idrogeno e ossigeno). La legge è uguale per tutti I versi II,569-580, così come il verso II,719, sono espressioni del principio di isonomia, “uguaglianza di fronte alla legge”, che fu uno dei cardini della democrazia ateniese. Lo introdusse Clistene verso il -500, dopo le tirannidi di Pisistrato e Ippia, intendendolo come “uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge dello Stato”. Ma due secoli dopo Epicuro lo interpretò in un senso molto più generale, poi mutuato da Lucrezio: cioè, come “uguaglianza di tutte le cose di fronte alle leggi della natura”. Naturalmente, Epicuro e Lucrezio parlavano in astratto. Il primo a trovare un esempio concreto di isonomia nel loro senso fu Newton, con la scoperta della legge di gravitazione universale (p. 80), dove l’aggettivo indica appunto il fatto che essa si applica a tutta la materia. E una buona parte dei Principia del 1687 è dedicata alla dimostrazione che si tratta effettivamente di una legge universale, che unifica fenomeni molto diversi: dalla caduta delle mele sulla Terra, al moto dei pianeti e delle comete attorno al Sole.

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Libro II. Fisica e chimica assumere tutti i tepori e i freschi intermedi. Le cose create si situano dunque fra i due estremi del rigido ghiaccio e del torrido fuoco. Poiché gli atomi esistono solo in un numero finito di tipi, ce ne devono essere infiniti simili fra loro. Altrimenti, ce ne sarebbe solo un numero finito in tutto, cosa che abbiamo già escluso. Può sembrare che di alcuni tipi ci siano solo pochi atomi, ma anche alcuni animali sembrano più rari e meno fecondi di altri: questo non significa che non ne esistano molti altri simili, in regioni e terre lontane. Lo provano gli elefanti, dalla proboscide simile a un serpente: da noi se ne vedono pochissimi, ma in India sono talmente tanti, che con le loro zanne si potrebbe erigere una muraglia difensiva d’avorio attorno al paese. E altrettanto imponente è la schiera delle bestie feroci, molto rare da noi. Ma supponiamo pure, per assurdo, che ci sia una cosa unica e isolata, senza nulla di simile al mondo. Anch’essa richiederà comunque una quantità infinita di atomi per poter essere concepita, generata, alimentata e cresciuta. Altrimenti, se ad aggirarsi per l’immenso universo ci fosse solo un numero finito di atomi, che possibilità avrebbero essi di incontrarsi casualmente nello spazio quasi vuoto? Niente potrebbe aggregarsi, come accade invece per i molti relitti galleggianti che si accalcano vicino alla riva, dopo il naufragio di una grande nave, portati alla deriva dal mare. Banchi, alberi, remi, travi: ogni cosa che si salva costituisce un monito a star alla larga dalle insidie dell’infido mare, a evitare i suoi inganni e la sua potenza, senza cedere mai alle subdole lusinghe delle sue acque calme. Se invece gli atomi di un qualunque tipo fossero solo un numero finito, le correnti del loro moto li sbatterebbero qua e là per un tempo infinito, prima che essi riuscissero ad aggregarsi ad altri, o altri ad aggregarsi a loro, per poter dare origine alle cose. Eppure tutto ciò accade, e le cose nascono e crescono. Dunque, gli atomi di ciascun tipo che le costituisce devono essere infiniti.

L’arsenale atomico (522-568)

Non possono vincere sempre i moti distruttori degli atomi, seppellendo in eterno l’istinto vitale. Ma nemmeno possono trionfare sempre i moti creatori, preservando in eterno le cose create. La guerra atomica si combatte ad armi pari da un tempo infinito. Le forze della vita a volte vincono, e a volte sono battute. Ai funerali di chi è entrato nel buio eterno, si alternano i parti dei bambini che vengono a vedere la luce. Non c’è mai stata una notte dopo un giorno, o un giorno dopo una notte, che non testimoniasse il dolce vagito di chi nasce e il rantolo amaro di chi muore.

La guerra atomica (569-580)

Bisogna tenere a mente questo, e mandarlo a memoria: non c’è niente, fra le cose di cui comprendiamo la natura, che sia costituito d’un sol tipo di atomi.

La Gran Madre (581-617)

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Il microcosmo Quella Gran Madre Il culto della Gran Madre risale alla preistoria. In mezzo mondo sono state trovate singolari statuette, risalenti fino a 30.000 anni fa, che la rappresentano con enormi fianchi e seni, a simboleggiare la fertilità femminile. Per estensione il suo culto era collegato a quello della Terra, divinizzata dai Greci come Gea, e dai Romani come Tellus: a lei venivano sacrificate vacche incinte, e da lei prese il nome nel 1798 l’elemento chimico Tellurio (il numero 52 della tavola periodica). Lucrezio si sofferma in particolare su un’altra sua incarnazione: la dea Cibele, di origine anatolica. Nel -204, quando il paese era minacciato da Annibale durante la Seconda Guerra Punica (pp. 133 e 232), la dea fu ufficialmente proclamata “patrona d’Italia”, come diremmo oggi. E dopo la guerra sociale di un secolo dopo, venne presentata nell’Eneide come il simbolo della pacificazione di un’Italia unita sotto Roma. Per questo oggi la sua testa turrita rimane il simbolo della Repubblica italiana. A testimoniare il permanere del culto della Gran Madre, due chiese le sono state dedicate ancora di recente. Una a Torino, nel 1814, per celebrare il ritorno di Vittorio Emanuele I dalla campagna contro Napoleone (a fianco). E l’altra a Roma, nel 1931, per ricordare il millecinquecentesimo anniversario del Concilio di Efeso, nel quale furono proclamati i dogmi di Maria “vergine e madre di Dio”: perché la Madonna, come si sarà capito, è solo l’ultima reincarnazione dell’antica dea, in ordine di tempo.

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Libro II. Fisica e chimica Al contrario, tutte le cose sono costituite di atomi misti, di tipi tanto più vari e differenziati, quanto più esse sono variegate e complesse. La Terra contiene gli atomi che alimentano le fresche fonti, da cui scaturiscono i fiumi che assiduamente rinnovano l’immenso mare. Contiene gli atomi che attizzano i fuochi, spesso ardenti in superficie, ma a volte prorompenti dalle profondità, come nel caso del furioso Etna. E contiene gli atomi da cui essa stessa trae messi feconde e alberi fruttiferi per l’uomo, e fiumi, fronde e lieti pascoli per gli animali che vagano tra i monti. La Terra, divinizzata dai Romani come dea Tellus, fu chiamata dagli antichi Gran Madre degli dèi, degli animali e degli uomini. E i poeti greci la cantarono come Cibele, assisa in trono su un carro trainato da due leoni. Essi intendevano insegnare così che il globo terrestre si libra nello spazio celeste, perché la Terra non potrebbe poggiare in terra. I leoni furono aggiogati per mostrare che i figli, per quanto selvaggia sia la loro natura, devono venir domati dall’educazione impartita dai genitori. E la corona turrita posta sulla testa della dea significa che essa protegge le città cinte da mura, e costruite su alture di terra. La Terra è anche chiamata da molti Madre dell’Ida perché quel monte, vicino a Troia, aveva fama di trovarsi nel luogo in cui il grano era nato, e da cui si era diffuso su tutto il globo terrestre. Altri le associano schiere di preti eunuchi, chiamati Galli, a significare che coloro che abbiano offeso il buon nome della madre, o siano stati ingrati verso i genitori, non sono degni di dar la luce a dei figli. [Questi preti si autocastrano in ricordo di Attis, un giovane allevato dalle capre (attagi) e amato da Cibele. Il giorno delle nozze di Attis con la figlia del re Mida, la dea l’aveva fatto impazzire ed egli si era evirato, morendo dissanguato. Ma Cibele l’aveva resuscitato in un sempreverde pino, da allora sacro al suo culto.] Munita delle sue insegne, l’immagine della divina Gran Madre viene condotta in giro e sparge terrore. I sacerdoti percuotono timpani tesi e cembali cavi con le palme delle mani, minacciano con il rauco canto dei corni, stimolano le menti con i ritmi frigi dei concavi flauti, brandiscono armi come segni di violento furore. La numinosità della dea atterrisce gli animi ingrati e gli empi petti della gente. Mentre la muta immagine entra in città, elargendo munifica un saluto silenzioso e benefico, le si presentano generose offerte votive. L’intero percorso viene cosparso d’oro e d’argento. Si spandono nuvole di rose che oscurano il Sole alla Madre e alla caterva dei suoi seguaci. E una schiera armata di Coribanti balla tra le orde dei Galli, al ritmo della musica, saltando ebbra di sangue e agitando gli elmi spaventosi. [I Coribanti rappresentano i Cureti cretesi, che secondo la leggenda mi-

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La processione della dea (618-643)

Il microcosmo Un parallelo che calza a pennello Già prima del parallelo di Lucrezio fra “parole e cose”, ripetuto nei versi II,688-699, Empedocle ne aveva istituito uno analogo tra “colori e cose” (23 DK). Galileo lo riprenderà nel 1632, nella Seconda giornata del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo: «Il pittore da i semplici colori diversi, separatamente posti sopra la tavolozza, va, con l’accozzare un poco di questo con un poco di quello e di quell’altro, figurando uomini, piante, fabbriche, uccelli, pesci, ed in somma imitando tutti gli oggetti visibili». Ad esempio, mescolando vernici di colori giallo, ciano e magenta si possono generare il verde (giallo e ciano), il blu (ciano e magenta), il rosso (magenta e giallo) e il nero (giallo, ciano e magenta). Analogamente, sovrapponendo fasci luminosi di colori rosso, verde e blu si possono generare il giallo (rosso e verde), il ciano (verde e blu), il magenta (blu e rosso) e il bianco (rosso, verde e blu). Non esiste però un alfabeto finito di colori “atomici”, in grado di generare tutto l’infinito vocabolario dei colori. Cambiamo musica

Poiché ai loro tempi la notazione musicale non era ancora stata introdotta, Empedocle e Lucrezio non potevano fare un paragone tra “note e cose”, analogo a quello tra “parole e cose”. Solo nel secolo XI Guido d’Arezzo introdusse nomi per le sette note (ut, re, mi, fa, sol, la, si), e un tetragramma per le loro altezze. Agli inizi del Duecento la scuola di Notre-Dame aggiunse la distinzione di durata fra note lunghe e brevi. E verso il 1320 il sistema fu codificato da Philippe de Vitry in Francia, e da Marchetto da Padova in Italia. Semplificando, oggi le altezze si scrivono su un pentagramma, introdotto nel secolo XIV da Ugolino da Orvieto. Per le durate si impiega un alfabeto musicale di otto segni di suono, che vanno dalle brevi di valore 2 alle semibiscrome di valore 1/64, e otto corrispondenti segni di pausa. Ogni frase musicale si può scrivere come combinazione dei segni dell’alfabeto sui righi del pentagramma, che a sua volta si può traslare in alto o in basso mediante tre segni di chiave (fa, do, sol), variamente disposti sulle righe o negli spazi. 88

Libro II. Fisica e chimica metizzarono con gli strepiti dei loro bronzi i vagiti di Zeus. Egli era infatti nato da Rea, un’altra immagine della Gran Madre, e da Cronos, dio del tempo, che mangiava tutti i propri figli per non essere detronizzato da loro. E fu così salvato dai Cureti, evitando una ferita eterna nel petto della madre.] È per questo, che i Coribanti accompagnano la Gran Madre armati. O forse, invece, è per mostrare che la dea incita a difendere la terra paterna con le armi e il valore, onorando in tal modo anche i genitori. Tutte queste cose però sono solo belle favole, che il buon senso non può che respingere. Gli dèi, infatti, si godono in somma pace la loro vita immortale, completamente estranei alle nostre faccende. Sono immuni dal dolore e dai pericoli, immersi nei fatti loro e incuranti dei nostri, insensibili ai nostri meriti e non offesi dalle nostre colpe. La Terra non possiede sensi, e non è un essere: fa nascere molte cose in molti modi, solo perché possiede molti atomi. Volendo, si possono chiamare Nettuno il mare e Cerere le messi, si può parlare di Bacco invece che di vino, e ci si può riferire al globo terrestre come alla Gran Madre degli dèi. Ma bisogna evitare di cadere nella turpe superstizione di prendere queste espressioni letteralmente, come se fossero realmente vere.

Realtà e superstizione (644-660)

Le lanose pecore, i focosi cavalli e i mansueti buoi vivono sotto lo stesso cielo, pascolano negli stessi prati e si abbeverano negli stessi fiumi. Ma rimangono diversi fra loro, mantenendo l’aspetto e il comportamento dei propri genitori. Questo prova quanto sia grande la diversità degli atomi che stanno nell’erba dei prati, o nell’acqua dei fiumi. Ogni essere vivente è un’unità composta di una molteplicità di parti diverse (sangue, ossa, vene, calore, umore, viscere, nervi), che devono essere costituite di atomi di tipi diversi. A sua volta, tutto ciò che brucia nel fuoco deve contenere, dentro di sé, almeno i tipi di atomi in grado di alimentare le fiamme, irradiare la luce, sprizzare le scintille e depositare la cenere. Anche le cose che, come i frutti, possiedono allo stesso tempo odore, colore e sapore, devono contenere atomi di tipi diversi. Infatti, queste qualità si percepiscono con sensi diversi: l’odore col naso, il colore con gli occhi, il sapore con la lingua. Ma sono tutte presenti allo stesso tempo in un’unica cosa. Che le cose siano costituite di atomi di tipo diverso mescolati fra loro, lo puoi vedere nelle stesse parole che stai leggendo. Le lettere si mescolano a formare le parole, che possono essere diverse pur avendo molte lettere in comune: basta che ne abbiano qualcuna diversa, o disposta diversamente.3 Lo stesso accade alle cose, che possono avere molti atomi in comune,

La varietà degli atomi nelle cose (661-699)

3

Vedi I,817-829.

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Il microcosmo Inquisizione contro l’atomismo Dopo aver esposto la teoria atomistica, Lucrezio inizia ad applicarla alla spiegazione dei fenomeni macroscopici: partendo, nei versi II,730-833, dal colore. Esso risulta, da un lato, una proprietà emergente, nel senso che si può riferire agli oggetti macroscopici, ma non a quelli microscopici di cui essi sono costituiti. E, dall’altro lato, una qualità secondaria e soggettiva, che si può indirettamente percepire con la vista (p. 152), ma non una qualità primaria e oggettiva, che appartiene direttamente agli oggetti percepiti. Nel secolo II il medico Galeno riassunse il tutto in un motto, nel suo libro Sugli elementi secondo Ippocrate: «Il colore e il sapore sono opinioni, gli atomi e il vuoto la verità». E nel 1623 Galileo gli fece una lunga eco nel Saggiatore (48), a proposito del calore. Anche quest’ultimo è infatti una proprietà emergente, nel senso che si riferisce statisticamente a sistemi di particelle, ma non a particelle singole. Ed è una qualità secondaria, nel senso che è solo il modo in cui il tatto percepisce la quantità di moto media del sistema. Ma dopo il Concilio di Trento l’atomismo si trovò in contrasto con il dogma della transustanziazione: nella nuova terminologia, infatti, la consacrazione dell’ostia lasciava intatte le qualità primarie (gli attributi del pane), e si limitava a cambiare le qualità secondarie (la sostanza del pane in quella del corpo di Cristo). Nel 1626 il gesuita padre Orazio Grassi, effettuando un Confronto tra la Libra e il Saggiatore, accusò Galileo di «epicureismo», e di voler «togliere di mezzo Dio o alleggerirlo dal governo del mondo». Un’anonima denuncia al Santo Uffizio ribadì: «Se questa filosofia d’accidenti si ammette per vera, mi pare che grandemente difficulti l’esistenza del pane e del vino che nel Santissimo Sacramento stanno separati dalla propria sustanza». Si preparava così il terreno per lo show down del 1633, quando Galileo fu trascinato alla sbarra per dichiarata eresia eliocentrica, ma anche per sospetta eresia atomistica, a conferma dell’incompatibilità intellettuale tra l’epicureismo e la religione.

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Libro II. Fisica e chimica ed essere comunque diverse perché possiedono qualche atomo diverso, o disposto diversamente. A ragione, dunque, si dice che sono diversi il genere umano, le messi e gli alberi. Benché le cose contengano varie combinazioni di atomi, non bisogna pensare che tutte le possibili combinazioni siano realizzate. Altrimenti, vedremmo dappertutto portenti di ogni genere, strane misture di uomini e animali, corpi vivi che spuntano dai rami, esseri muniti di gambe e pinne, e chimere che sputano fuoco da un’orrida bocca. Ma non accade niente del genere, e le cose che vengono generate sono della stessa specie di quelle che le generano. Il che, naturalmente, avviene per qualche ben precisa ragione. Gli elementi nutrienti del cibo, che possono legarsi con quelli del corpo, vengono assorbiti. Le scorie inutili, che invece non possono legarsi a niente, vengono eliminate e tornano alla terra, o evaporano nell’aria. Queste leggi valgono non solo per gli esseri viventi, ma per tutte le cose. Infatti, poiché esse differiscono per la propria natura, devono differire per i propri costituenti. I loro atomi sono dunque di tipo diverso, o di diversa disposizione: più o meno vicini, o pesanti, o veloci, o inclinati. E le loro diverse interazioni e combinazioni rendono diversi non solo gli animali dalle piante, ma anche la terra dall’acqua del mare, e il fuoco dall’aria del cielo.

Contro le chimere (700-729)

Ascolta ora, o lettore, le parole che scrivo con dolce fatica, affinché tu non pensi che le cose bianche son formate da atomi bianchi, quelle nere da atomi neri, e quelle di un altro colore da atomi di quel colore. In realtà, non è che gli atomi che compongono le cose abbiano colori simili o dissimili da esse: non hanno proprio colore! E se tu pensi che non ci possiamo immaginare cose senza colore, ti sbagli. Ad esempio, chi è cieco dalla nascita è incapace di concepire i colori, ma può percepire le cose col tatto. E anche noi, quando tocchiamo le cose al buio, non le percepiamo colorate. Dunque, possiamo immaginarci gli atomi senza alcun colore: io l’ho fatto, e ora te lo mostrerò. Anzitutto, qualunque colore può cambiarsi in qualunque altro: cosa che gli atomi non possono fare. Essi devono infatti rimanere immutabili, nel cambiamento, affinché ciò che cambia non venga distrutto, ma solo trasformato. Dunque, gli atomi non possono essere colorati, altrimenti subirebbero gli stessi cambiamenti del colore e non sarebbero immutabili. Inoltre, non sono gli atomi ad avere colore, ma sono le loro combinazioni e disposizioni a dare colore alle cose. E cambiando queste combinazioni e disposizioni, si può far diventare di un bianco marmoreo anche un nero fuliggine: ad esempio, quello del mare in tempesta, che sferzato dai venti produce onde increspate di schiuma bianca come il marmo,

Gli atomi sono incolori (730-794)

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Il microcosmo Qualche osservazione colorita I versi II,772-777 anticipano alcune osservazioni di Newton, pubblicate solo nel 1704 nell’Ottica, ma già annunciate l’11 giugno 1672 in una lettera a Henry Oldenburg: Un colore bianco sporco può essere osservato nella polvere che si trova in tutti gli angoli di una casa, e consiste di molte particelle variamente colorate. E lo stesso si può ottenere mescolando insieme i diversi colori dei pittori [p. 88], oppure dipingendo in maniera multicolore una trottola, come quella con cui giocano i ragazzi: facendola girare, apparirà un unico colore bianco sporco. E la sua composizione non differisce dal bianco puro nella specie, ma solo nel grado di luminosità. Analogamente, si può prendere un po’ d’acqua, sciogliervi del sapone e agitarla fino a farla diventare una schiuma: dopo averla lasciarla riposare un momento, se la si osserva da vicino si vede che sulle bolle appare una gran varietà di colori, mentre se la si osserva da lontano, la schiuma appare perfettamente bianca. I versi II,810-816 anticipano invece parzialmente la soluzione al problema della natura della luce, scoperta da Newton fin dal 1666 con i famosi esperimenti del prisma. La luce bianca, cioè, è composta di onde elettromagnetiche di varie lunghezze, comprese all’incirca fra i 380 e i 780 nanometri (miliardesimi di metro), che nel passaggio attraverso il prisma vengono rifratte secondo angoli diversi e si separano in uno spettro colorato, analogo a quello dell’arcobaleno (p. 258). Alternativamente, la luce è composta di particelle chiamate fotoni (“lucioni”, da phos, “luce”), aventi massa nulla ed energia inversamente proporzionale alla lunghezza della corrispondente onda. Questa teoria corpuscolare fu difesa da Newton, cadde in disuso nell’Ottocento e fu riproposta da Einstein nel 1905, in un lavoro sull’effetto fotoelettrico che gli valse il Nobel nel 1922. Oggi le due teorie sono state integrate in un dualismo complementare, secondo cui la luce si comporta come un’onda in certe situazioni, ma come una particella in altre.

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Libro II. Fisica e chimica appunto. Dal nero si può facilmente ottenere il bianco, semplicemente aggiungendo alcuni elementi, sottraendone altri e mescolando il tutto. Ma se le onde del mare azzurro consistessero soltanto di atomi azzurri, non potrebbero mai diventare bianche, comunque venissero rimescolate. E se consistessero di atomi di vario colore, dovremmo poter distinguere questi colori al loro interno. Allo stesso modo, quando si combinano varie forme geometriche non quadrate a formare un quadrato, si continuano a distinguere le forme originarie. Ma il fatto è che, mentre delle figure non quadrate possono essere messe insieme a formare un quadrato perfetto, dei colori diversi non possono essere mescolati a formare un colore puro. Comunque, vien meno il motivo di assegnare colori agli atomi, quando si capisce che le cose bianche non sono costituite di cose bianche, o quelle nere di cose nere, bensì tutte sono costituite di cose di colori diversi. Ed è molto più facile immaginare che le cose bianche derivino da atomi senza colore, che non da atomi neri o variamente colorati. Poiché i colori si vedono solo alla luce, e gli atomi sono invisibili, non possono essere colorati. D’altronde, che colore potrebbero avere nelle cieche tenebre? Il colore, inoltre, muta anche alla luce, a seconda di dove e come si guardi. Il piumaggio attorno al collo e alla nuca del colombo, a volte appare di un rosso rubino, e altre volte di un verde smeraldo. La coda del pavone, cambia colore quand’esso ruota sotto la luce del Sole. I colori dipendono dunque dalla luce, e senza di essa non esisterebbero. La pupilla dell’occhio riceve un certo tipo di stimolo quando vede il bianco, e altri tipi quando vede altri colori. E non conta quali siano gli oggetti che si vedono, ma solo quali segnali trasmettano attraverso gli atomi. Dunque, non serve che questi abbiano colori, ma solo che siano in grado di stimolare la retina in un certo modo. Non conosciamo con certezza in che modo i colori vengano trasmessi, né quali tipi di atomi siano coinvolti nei vari colori, ma sappiamo che dalle cose colorate non affiorano sempre tutti i tipi di colore. Se no, i corvi in volo dovrebbero mostrare del bianco nelle penne, e dal seme dei cigni ne dovrebbero nascere sia di neri, che di colorati. Quanto più si fanno a pezzi le cose, tanto più il loro colore sbiadisce. Sfilacciando un vestito di porpora, anche i brillanti colori viola e vermiglio si perdono. Dal che si deduce che il colore si dissolve, quando le cose si scompongono fino agli atomi che le costituiscono.

Luce, visione e colore (795-833)

Alcune delle cose che possiamo vedere, non le possiamo odorare o udire. E come alcune non emettono odori o suoni, altre non hanno colori. Ma sia le une che le altre possono essere intese con la mente. E come gli

Gli atomi sono impercettibili (834-864)

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Il microcosmo Panpsichismo e preformazionismo In un’ottica di riduzionismo materialista come quella di Lucrezio, la vita e la coscienza vengono considerate come epifenomeni, emergenti rispettivamente dalla materia inanimata e dalla materia vitale inconscia. Ma da sempre ci sono state resistenze ad accettare questo tipo di spiegazione, e da sempre sono state proposte soluzioni di compromesso: il panpsichismo a cui alludono i versi II,902903, ad esempio, secondo cui le cose senzienti sono costituite di altre cose senzienti, e così via, fino ad arrivare ad atomi senzienti. Il termine significa “tutto è psiche”, o “la psiche è in tutto”, e la sua prima formulazione occidentale sembra risalire al motto di Talete: «Tutto è pieno di dèi». Egli considerava i magneti (p. 272) come una dimostrazione del fatto che anche le pietre potessero essere animate. E varie versioni di panpsichismo furono professate da Platone, da Aristotele e dagli stoici nella forma di un’anima mundi o di uno pneuma (p. 110), analoghi al brahman indù, allo Spirito Santo cristiano e all’Allah musulmano. Attraverso i neoplatonici rinascimentali l’idea giunse alla filosofia moderna: da Spinoza e Leibniz nel Seicento, a Whitehead e Jung nel Novecento. E anche alla scienza, dove non tutti accettano il motto di Carl Vogt del 1854, in Superstizione e scienza: «Il cervello secerne pensieri come il fegato la bile e i reni l’urina». Ad esempio, un premio Nobel per la fisica come Erwin Schrödinger professa la coincidenza fra brahman e atman (p. 110), e uno per la medicina come John Eccles l’esistenza di psiconi analoghi ai neuroni (p. 118). L’idea dell’animalculum o dell’homunculus, a cui alludono in particolare i versi II,908-909, fu adottata dalla teoria del preformazionismo, secondo cui un essere vivente viene generato a partire da un’informazione analogica che ha la forma di un essere simile miniaturizzato. Essa sembra risalire a Pitagora, e se ne trovano ancora gli echi nella pangenesi proposta da Darwin nel 1872 come possibile meccanismo per l’ereditarietà. La quale, come oggi sappiamo, è invece basata sull’informazione “digitale” del DNA (p. 182).

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Libro II. Fisica e chimica atomi non hanno colore, non hanno neppure odore, sapore, calore, né nessun’altra qualità percepibile. L’unguento di maggiorana e mirra, o l’essenza di valeriana, profumano come nettare per le narici, ma l’olio di base col quale vengono preparati è inodore, perché non deve interferire con le fragranze che gli vengono aggiunte. Analogamente, gli atomi che fungono da base per le cose sono inodori, perché non devono interferire con l’odore delle cose che contribuiscono a formare. Tutte le cose mortali possiedono qualità percepibili: la flessibilità i corpi elastici, la friabilità quelli fragili, la porosità gli spugnosi. Ma gli atomi immortali non ne possiedono nessuna, perché fungono da base impercepibile alle cose percepibili. Analogamente, di qualunque cosa senziente dobbiamo ammettere che è costituita di atomi insenzienti. E i fenomeni noti non solo non lo contraddicono, ma lo confermano. È vero, infatti, che si vedono vermi vivi spuntare dal lurido sterco, dopo che la terra si è imputridita per le piogge torrenziali. E tutte le cose si trasformano: l’erba, le fronde e i ruscelli diventano greggi o mandrie, la carne delle pecore e dei vitelli si muta in carne umana, e persino i nostri corpi a volte alimentano le bestie feroci o gli uccelli predatori. La Natura muta cibi e alimenti inerti in corpi animati e senzienti, allo stesso modo in cui dà fuoco a un legno secco, lo trasforma in fiamme e lo riduce in cenere. Vedi, dunque, che ciò che importa è solo il modo in cui gli atomi sono disposti e interagiscono? E cos’altro, se non una materia insenziente, potrebbe produrre la materia senziente e i pensieri dell’animo umano? Certo non bastano pietre, rami e zolle mescolate alla rinfusa, a formare cose animate e senzienti. Ci vogliono costituenti più versatili, come gli atomi, per produrre la vita. E bisogna che siano di particolari tipi, si dispongano in particolari strutture, e interagiscano in particolari maniere. Ad esempio, gli atomi delle secche zolle di terra devono essere smossi e riordinati dall’umida pioggia, per poter generare dei vermi. Alcuni pensano che gli esseri senzienti debbano essere costituiti di cose senzienti. E poiché le sensazioni sono legate a cose molli, come i nervi, essi pensano anche che gli esseri senzienti debbano essere costituiti di cose molli. Ma per poter essere senzienti, questi costituenti dovrebbero possedere la sensibilità di una parte di un essere senziente, oppure di un intero essere senziente in miniatura. La prima ipotesi è refutata dal fatto che, negli esseri senzienti, la sensibilità è diffusa nell’intero organismo, e non concentrata nelle singole membra. Una mano staccata dal corpo non mantiene la sua sensibilità, e lo stesso vale per ogni altra sua parte.

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Gli atomi sono insenzienti (865-930)

Il microcosmo Le porte della percezione La posizione materialista di Lucrezio sui sensi, ai quali sarà dedicato l’intero libro IV, è riassunta nei versi II,937-938. Essi si possono riformulare dicendo che “i sensi sono strumenti che permettono di trasformare gli stimoli fisici esterni in sensazioni fisiologiche interne, poi elaborate dal cervello in percezioni mentali”. Di sensi ce ne sono però ben più dei cinque classici, e si possono classificare in base alla loro natura: ad esempio, il tatto e l’udito sono meccanici, la vista elettromagnetica, e l’olfatto e il gusto chimici. L’udito ci permette di percepire una decina di ottave dello spettro del suono udibile, fra gli infrasuoni e gli ultrasuoni, e la vista la sola ottava dello spettro della luce visibile, fra l’infrarosso e l’ultravioletto. Con 100 milioni di recettori visivi possiamo però discernere 10 milioni di colori, a fronte dei soli 10.000 odori che ci fornisce l’olfatto, con i suoi 3 milioni di recettori. Quanto al gusto, il suo mezzo milione di recettori ci permette di distinguere cinque o sei gradazioni: dolce, amaro, salato, aspro/acido, saporito/umami e grasso. Il miglior candidato alla qualifica di “sesto senso”‘ è certamente l’equilibrio, che è sfuggito agli antichi perché i suoi organi sono interni: si trovano infatti nel labirinto di ciascun orecchio, da cui il termine di “labirintite’’ per la loro disfunzione. Altri due sensi sono mimetizzati nei recettori della pelle, che oltre al tatto trasmette anche le sensazioni di temperatura e di dolore, percepite attraverso termocettori e nocicettori consistenti sostanzialmente di nervi scoperti. Alla propriocezione dobbiamo la percezione del nostro corpo, tramite dei propriocettori dislocati in punti nevralgici dei muscoli e dei tendini. E il sistema vascolare possiede barocettori e osmocettori, che registrano le variazioni di pressione e di fluidità del sangue, e contribuiscono alla regolazione dell’omeotermia. Quanto all’attrazione sessuale, un organo sensibile ai feromoni è posseduto non solo da molti animali, nel naso o dintorni, ma anche dai feti umani, benché si atrofizzi nell’infanzia: i feromoni continuano però ad essere percepiti, principalmente attraverso l’olfatto, nell’odore naturale della pelle e nei prodotti cosmetici artificiali.

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Libro II. Fisica e chimica La seconda ipotesi è invece assurda, perché allora i costituenti degli esseri senzienti sarebbero, a loro volta, dei miniesseri senzienti: in particolare, soggetti anch’essi a morte e dissoluzione. E gli esseri senzienti sarebbero dei maxiesseri costituiti di esseri senzienti in miniatura, dalla cui unione non verrebbe generata nessuna creatura: non più di quanto un gruppo di bestie e un gruppo di uomini, unendosi, non generano un nuovo gruppo di bestie e uomini. Per concludere, poiché vediamo nascere pulcini animati da uova inanimate, e vermi dalla terra, possiamo accettare il fatto che gli esseri senzienti nascano da esseri insenzienti. Qualcuno può pensare che gli esseri senzienti siano mutazioni, o parti, di quelli insenzienti. Ma non ci sono mutazioni senza esseri mutanti, né parti senza esseri concepenti e concepiti. Anzitutto, non possono esistere i sensi, se prima non esiste un corpo al quale essi appartengano. E la materia disgregata nell’aria, nell’acqua e nella terra non costituisce un corpo, aggregato in maniera tale da poter percepire le cose attraverso i sensi. Inoltre, a confondere o far perdere i sensi basta un colpo (ictus) un po’ più forte del normale. Ma un colpo non fa altro che turbare o distruggere la disposizione degli atomi, e questo è sufficiente a inceppare o inibire la percezione: quasi come se l’anima si sciogliesse dai legami col corpo, traspirasse attraverso i pori ed evaporasse. Da un colpo meno violento, invece, ci si può riprendere. Il resto del corpo è in grado di arginare il turbamento, risistemare la struttura e far riacquistare i sensi, o evitarne la perdita. In quale altro modo, infatti, ci si potrebbe riprendere da un trauma e tornare in sé, dopo essere arrivati all’orlo del baratro e sulla soglia della morte? Analogamente, anche il dolore consiste in un turbamento o nella distruzione della struttura degli atomi di qualche parte del corpo, e il piacere della guarigione consiste nel ristabilimento di quella struttura. Dunque, gli atomi sono immuni dal dolore e dal piacere, non avendo una struttura che possa essere turbata o ristabilita. E, per lo stesso motivo, gli atomi sono insenzienti. Infine, se gli esseri senzienti fossero costituiti di atomi senzienti, di che genere di sensibilità sarebbero forniti gli atomi che costituiscono gli esseri umani? Dovrebbero poter ridere a crepapelle, e piangere a dirotto. Interrogarsi sulla natura delle cose, e domandarsi quali siano i propri princìpi costitutivi. Ed essendo simili a esseri umani, dovrebbero a loro volta essere costituiti di esseri simili a esseri umani, e così via all’infinito. Ma dire che chi parla, ride o ragiona dov’essere costituito di cose che parlano, ridono e ragionano, è un delirio furioso. È ovvio, che chi ride non è fatto di cose che ridono! È ovvio, che chi parla o ragiona non è

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Sensi e sensibilità (931-990)

Il microcosmo Padre Cielo e Madre Terra Il sanscrito dyaus, il greco theos, il latino deus e l’italiano dio derivano tutti da un’unica radice indoeuropea che significa “luminoso” o “splendente”, e identificavano variamente il giorno (in latino dies) e il cielo. I nomi comuni sono poi stati personificati nei nomi propri Dyaus Pitar indù, Zeus Pater greco, Deus Pater latino e Dio Padre italiano, che significano semplicemente “Padre Cielo”. Cioè Giove, come ricordano i suoi nomi Iuppiter e Jupiter, ovvie varianti dei precedenti. Per un simile legame tra la Madre Terra, la Gran Madre, la Madre degli dèi, la Madre di Dio e la Madonna, vedi invece II,581617 (p. 86). A riprova del fatto che le religioni sono partite da concetti molto terra terra, come la Madre Terra appunto, e sono approdate a cose molto campate in aria, come il “Padre Nostro che stai nei cieli”. La decostruzione della religione è dunque un riportare coi piedi per terra coloro che tengono la testa fra le nuvole (p. 256).

La grammatica della Natura I versi II,1013-1018 sono identici ai versi I,817-822, eccettuato un unico termine: qui la descrizione di alcune cose attraverso le parole, e là la composizione delle stesse cose a partire dagli atomi. Si istituisce così un parallelismo fra le grammatiche della lingua e della Natura, o fra etimologia e atomologia, che è stato esplorato in dettaglio da Ivano Dionigi in Lucrezio. Le parole e le cose (Patron Editore, 1988 e 2005). Un esempio di questo parallelismo è il clinamen epicureo (verso II,221), tradotto con “declinazione”: un termine che ha un significato sia linguistico, che fisico. In particolare, non solo di movimento, ma anche di “variazione su un tema”: come per gli isotopi di un atomo, o gli isomeri di una molecola. E lo stesso vale anche per gli altri termini-chiave del verso II,1021 (concursus, motus, ordo, positura, figurae): ad esempio, diverse “posizioni” di una stessa “configurazione” portano alle lettere “b”, “d”, “p” e “q”, o alle molecole chirali. 98

Libro II. Fisica e chimica fatto di cose che parlano o ragionano! E allora, perché mai gli esseri senzienti dovrebbero essere fatti di atomi senzienti? Tutti nasciamo da semi celesti. Abbiamo tutti uno stesso padre, che è il Cielo. È da lui che la Terra viene fecondata con liquide gocce di pioggia, partorisce bionde messi e lieti alberi, e genera animali e uomini. È la Terra che allatta tutti gli esseri con i cibi che essi poppano, per vivere dolcemente e propagare le specie. Ed è a ragione, dunque, che la Terra viene chiamata alma mater, “alma madre”. Ciò che dalla Terra è venuto, alla Terra ritorna. Ciò che è stato mandato dal Cielo, il Cielo lo riaccoglie. La morte non distrugge gli atomi delle cose, ma ne scioglie solo i legami. La vita ricombina alcuni atomi, e crea nuovi legami. Nel processo le cose mutano forma, cambiano colore, acquistano i sensi e li perdono.

Padre Cielo e Madre Terra (991-1006)

Puoi dunque capire l’importanza delle interazioni e dei legami degli atomi. E non puoi credere che ciò che osservi sulla superficie delle cose, e che vedi fluttuare in un istante dalla vita alla morte, si ritrovi anche negli atomi eterni. Anche con le lettere delle parole succede lo stesso che con gli atomi delle cose. In fondo, sono sempre le stesse lettere, muovendosi e combinandosi in vari modi, a descrivere il cielo, i corpi celesti come il Sole o la Terra, e i corpi terrestri come il mare, i fiumi, gli alberi, i prati, i campi e gli esseri viventi.4 E sono sempre gli stessi aspetti a mutare: accostamenti, declinazioni, ordini, posizioni e configurazioni.

La grammatica della Natura (1007-1022)

E ora, o lettore, ti svelerò una vera dottrina. Le tue orecchie stanno per udire qualcosa di inaudito, e un nuovo aspetto della natura delle cose ti si manifesterà. Ma tu fa’ molta attenzione, perché anche le banalità più facili o ovvie, agli inizi risultano difficili e sorprendenti! O forse sono le cose difficili e sorprendenti, che col passar del tempo diventano delle banalità? Prova a pensare come apparirebbe il cielo dal colore chiaro e limpido, con tutto ciò che esso contiene, a qualcuno che lo vedesse improvvisamente per la prima volta. Non risulterebbero forse incredibili e meravigliosi i raggi del Sole di giorno, così come le stelle fisse, i pianeti erranti e la Luna di notte? Non c’è nessuno spettacolo più mirabile, eppure nessuno si degna più di alzare gli occhi al cielo per osservarlo, tanto ci siamo assuefatti ad esso. Tu, dunque, non respingere una dottrina soltanto perché ti spaventa la sua novità. Piuttosto, giudicala con tutto il tuo acume. Se ti dovesse apparire vera, arrenditi all’evidenza. E se invece ti sembrasse falsa, preparati a confutarla. Perché la ragione cercherà ora di penetrare nell’infinito spazio che si estende al di là delle mura fiammeggianti del nostro mondo: la mente esplorerà le profondità più recondite, e l’animo volerà fino ai confini più lontani.

Meraviglie e banalità (1023-1047)

4

Vedi I,196-197 e I,817-829.

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Il microcosmo Cose degli altri mondi I versi II,1048-1089 costituiscono uno dei brani più visionari del De rerum natura: essi annunciano infatti l’esistenza di pianeti al di fuori del Sistema Solare, e di galassie al di fuori della Via Lattea. E lo fanno sulla base del solido principio enunciato nei versi II,10671069, che precorre risultati quali il teorema di ricorrenza di Henri Poincaré, del 1890, o il teorema ergodico di Ludwig Boltzmann, del 1898: «In un sistema caotico, le cui parti si muovono in maniera casuale, alla lunga succede tutto ciò che può succedere». L’idea che non ci fosse niente di particolare nel Sole, e che anche le altre stelle potessero avere sistemi planetari, fu ripresa dapprima nel 1440 dal cardinal Nicola Cusano, nella Dotta ignoranza, e poi nel 1584 dall’eretico Giordano Bruno, in De l’infinito universo et mondi. E l’aver sostenuto l’esistenza di “mondi innumerevoli” fu una delle accuse sollevate al processo di quest’ultimo, tragicamente concluso con il rogo di Campo de’ Fiori del 17 febbraio 1600. La prima galassia al di fuori della Via Lattea fu scoperta nel 1922, quando Edwin Hubble misurò la distanza di certe stelle della Nebulosa di Andromeda, e notò che era troppo grande (circa 2,5 anni luce) perché esse potessero appartenere alla nostra galassia. Agli inizi gli astronomi rimasero scettici, ma oggi sappiamo che nell’universo esistono circa 100 miliardi di galassie, ciascuna contenente circa 100 miliardi di stelle. Nelle immagini, sopra vediamo l’ammasso di galassie Abell 1689 nella costellazione della Vergine, a circa 2,2 miliardi di anni luce da noi, e sotto la galassia IC342 nella costellazione della Giraffa, a soli 7 milioni di anni luce. La difficoltà dell’osservazione di oggetti piccoli e non luminosi, orbitanti attorno a stelle luminose e a grandi distanze, ha reso invece più difficile la scoperta di pianeti al di fuori del Sistema Solare. Il primo è stato trovato solo nel 1988, da Bruce Campbell, Gordon Walker e Stephenson Yang, attorno alla stella doppia Gamma Cephei della costellazione di Cefeo, a circa 45 anni luce da noi. Oggi se ne conoscono circa un migliaio, di vario genere, ma il loro numero sta crescendo rapidamente.

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Libro II. Fisica e chimica Abbiamo già assodato in precedenza, e ripetuto poc’anzi, che l’universo è infinito in tutte le direzioni . E non è verosimile che in un universo infinito, contenente un “numero innumerevole” di atomi che volteggiano eternamente e dovunque, siano stati creati soltanto la nostra Terra e il nostro cielo, mentre tutto il resto della materia sia rimasto sterile. Soprattutto, se pensiamo che anche la Terra e il cielo sono stati creati in maniera casuale e caotica, senza nessuno scopo o finalità, da ciechi incontri di atomi in tutto simili a tutti gli altri, che dapprima si sono aggregati in terra, acqua e aria, e poi sono stati all’origine delle specie viventi. È per questo, che anche altrove devono esistere aggregati di atomi simili alla Terra, che l’atmosfera racchiude nel suo avido abbraccio. Quando ci sono infinita materia, infinito spazio e infinito tempo a disposizione, e niente che si opponga, è obbligatorio che prima o poi si formino cose inanimate ed esseri animati. Ma la quantità degli atomi è così grande, che per contarla non basterebbero le vite di tutti gli esseri viventi messi insieme. E che niente si opponga all’aggregazione degli atomi, è dimostrato da quanto è già avvenuto con la Terra e sulla Terra. Dunque, devono esistere altre terre e altre specie di esseri: vegetali, animali e umani. Inoltre, nell’universo le cose non vengono prodotte in esemplari unici, né vivono isolate: al contrario, ogni specie contiene molti individui, e ogni genere molte specie. Guardati intorno, e nota quanti uccelli volino nel cielo, quanti pesci nuotino nell’acqua, quanti animali vaghino per le pianure e i monti, e quanti uomini passeggino nelle città! Devi dunque ammettere che, in maniera analoga, non sono unici neppure il cielo, il mare, la Terra, la Luna e il Sole, e tutti gli esseri inanimati e animati. Al contrario, ci devono essere infiniti mondi, ciascuno con le proprie estensioni spaziali, le proprie durate temporali e le proprie specie di esseri. E ciascuno di questi mondi è stato creato nella stessa maniera casuale in cui è stato creato il nostro.

Gli infiniti mondi (1048-1089)

Capito questo, capirai anche che la Natura non è sottomessa a padroni superbi: fa tutto da sé, e senza interventi divini. D’altronde, gli dèi trascorrono una vita placida e un’esistenza serena, immersi in una tranquilla pace. Come potrebbero reggere l’immenso universo, e tenere saldamente in mano le redini dell’infinito? Come potrebbero avvolgere con innumerevoli azzurri cieli le innumerevoli feconde terre, e scaldarle con i fuochi di innumerevoli brillanti soli? Ed esser sempre pronti, in ogni tempo e luogo, a far rannuvolare il cielo sereno e scuoterlo di tuoni, lampi e fulmini? E distruggere i propri templi, per ritirarsi nei deserti? E lanciare dovunque a casaccio i loro strali, che spesso colpiscono gli innocenti e risparmiano i colpevoli?

Un universo senza dèi (1090-1104)

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Il microcosmo Le comete della vita I versi II,1105-1115 suggeriscono un meccanismo di fecondazione e rigenerazione dei pianeti e delle stelle mediante un costante apporto di materiale cosmico, che fu ripreso e sviluppato da Newton. Nella parte conclusiva dei Principia egli discute a lungo il ruolo delle comete, e dichiara (III,41,21): «Io sospetto che sia soprattutto da esse che deriva ciò che è richiesto per sostenere la vita di tutte le cose». La spettacolare collisione della cometa Shoemaker-Levy 9 con Giove (a sinistra), nel luglio 1994, ha mostrato la concretezza dell’ipotesi. E la teoria della panspermia, anticipata da Anassagora nel secolo -V e proposta da Fred Hoyle e Chandra Wickramasinghe nel 1974, parte dalla scoperta di materiale organico nella polvere cosmica e sui meteoriti per ipotizzare che la vita sulla Terra possa essere arrivata da zone dello spazio dove le condizioni erano più favorevoli alla sua nascita. La stella cometa di Epicuro La prima edizione del 1687 dei Principia di Newton esibiva, oltre all’apporto cosmico delle comete, una lunga serie di aspetti epicurei: l’atomismo, il vuoto, l’infinità dello spazio, la pluralità dei mondi, un naturalismo senza Dio, e l’esplicito parallelo tra Newton ed Epicuro nell’Ode di Halley (p. 140). Il libro fu dunque correttamente percepito come epicureo, e ancora nel 1755 Kant parlerà al proposito, nella Storia universale della Natura e teoria del cielo, di un «Epicuro redivivo nella Cristianità». L’epicureismo era però considerato una filosofia atea ed eretica, e Newton giocava col fuoco anche in altri modi: ad esempio, negava la Trinità, pur insegnando al Trinity College, il cui rettore era il teologo Richard Bentley. La seconda edizione del 1713, curata da Bentley stesso, introdusse dunque una serie di correttivi. In particolare, l’Ode fu censurata ed emendata. E Newton aggiunse un famoso Scolio Generale, definito da Voltaire “un trattatello teologico”, nel quale faceva capolino un “Dio Pantocreatore”.

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Libro II. Fisica e chimica Dall’inizio del nostro mondo, dal giorno della creazione della Terra e del Sole, molti atomi si sono aggiunti quaggiù a quelli primordiali, scagliati dall’immenso universo. È così che sono cresciute le terre e i mari, che il cielo si è espanso sopraelevando le sue volte. Dovunque le cose si rigenerano con cose appropriate: l’acqua con l’acqua, la terra con la terra, l’aria con l’aria e il fuoco con il fuoco. La Natura, creatrice di tutte le cose, le porta tutte al compimento del proprio ciclo. Essa vigila che durante la vita non entri più sangue nelle arterie di quanto ne esce dalle vene. E frena la crescita o arresta la sopravvivenza, quando giunge il momento di farlo. Tutti gli esseri che vedi crescere gaiamente, e salire tutti i gradini della scala che porta alla maturità, assimilano più nutrimento di quanto ne smaltiscano, e spendono meno energie di quante ne accumulino. Il processo continua fino a raggiungere l’apice della crescita, quando poi gradualmente si inverte. L’età adulta inizia a far scemare le forze e il vigore, e tutto declina verso il peggio. Il corpo, raggiunte le sue dimensioni massime, assimila meno e consuma di più. Il cibo non basta più a reintegrare le forze, le membra si logorano e si ammalano, le avversità prendono il sopravvento, e alla fine tutto perisce.

Il ciclo della vita (1105-1143)

Un giorno anche le mura infuocate del mondo, ormai marce e imputridite, vengono espugnate. Il corpo del mondo non riceve più dalla Natura il sostentamento per rinnovarsi. Il tempo si è dislocato. La Terra, che aveva dato origine a una profusione di specie e a esseri smisurati, è insterilita e non riesce più a produrre che poche piccole cose. I mortali non erano scesi dal cielo con una corda d’oro, né erano nati dal mare, ma li aveva generati e alimentati la Terra. Era stata lei a fornire loro, spontaneamente, messi dorate e succosi grappoli. Lei, a donar loro dolci frutti e teneri pascoli. Ma ora tutto stenta a crescere, nonostante la nostra fatica. Ora sfianchiamo i buoi e i contadini, consumiamo il ferro degli arnesi, ma non otteniamo più che scarsi frutti e magri raccolti. Sempre più spesso, ormai, il vecchio aratore scuote il capo e sospira, lamentandosi che le sue fatiche sono andate sprecate. Paragona il passato e il presente, e invidia la fortuna di suo padre. Anche il triste vignaiuolo accusa il tempo e inveisce contro il giorno d’oggi. Brontola che la gente di una volta aveva appezzamenti più piccoli, ma era più soddisfatta, perché faticava di meno e viveva meglio. Nessuno di loro capisce che tutto, pian piano, si corrompe. Ogni cosa muore, disfatta dall’eterno sgocciolare del tempo, e viene seppellita dalla terra.5

L’agonia del mondo (1144-1174)

5

Vedi V,91-109.

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L’uomo

Libro III La psiche

Un consiglio da re Federico il Grande di Prussia (1712-1786), monarca illuminato, è passato alla storia anche per meriti culturali. Fu amico di Voltaire e Bach, e quest’ultimo gli dedicò l’Offerta musicale: una composizione ispirata, il 7 maggio 1747, dalla richiesta del re di improvvisare una fuga a sei voci su un proprio tema. Nell’opera il risultato viene indicato come Ricercar: un acronimo per Regis Iussu Cantio Et Reliqua Canonica Arte Resoluta, “Per ordine del re, la melodia e il resto risolti con l’arte canonica”. Quanto al De rerum natura, nelle Opere complete (XV,32) del re si trova questo commento: «Quando sono afflitto, leggo il libro III di Lucrezio: lo consiglio come lenimento per le malattie dell’animo».

Ma quale terrore, quale paura? Nelle Tuscolane (I,21,48) Cicerone replica così ai versi III,25-27: Ma quale terrore, quale paura? Esiste forse ancora anche solo qualche vecchietta, tanto fuori di testa da avere ancora paura di ciò che voi epicurei, evidentemente, continuereste a temere, se non aveste imparato la fisica? E cioè i templi di Acheronte dell’inferno, diafano luogo di morte, oppresso dalle tenebre? Non si vergogna, un filosofo, ad affermare di non aver paura di queste credenze puerili, e a vantarsi di averne compreso la falsità? La frase in corsivo è una citazione dell’Andromaca prigioniera di Ennio: cioè, perfidamente, proprio del poeta che lo stesso Lucrezio aveva criticato come esempio di “superstizione letteraria”, e proprio a questo proposito, nei versi I,117-126. Naturalmente, Cicerone aveva il dente avvelenato con l’epicureismo: da giovane era stato il suo piatto preferito, ma poi l’aveva declassato a uno solo degli ingredienti della sua particolare “macedonia filosofica”. 108

O mortale Epicuro, che nelle fitte tenebre hai potuto per primo accendere un lume, e chiarificare quali siano i beni della vita. O vanto dei Greci, io ti seguo, e metto i piedi nelle tue orme: non con il proposito di sopravanzarti, ma con il desiderio di imitarti. Come potrebbe, infatti, una rondine competere con un cigno? O un capretto dalle gambe tremolanti sfidare nella corsa uno scalpitante purosangue? Tu sei un padre intellettuale, scopritore delle cose ultime. Tu ci dispensi paterni insegnamenti, che noi attingiamo dalle auree e imperiture parole dei tuoi libri, come api che succhiano il nettare dai fiori dei prati. Non appena dal tuo intelletto divinamente dotato inizia a sgorgare la dottrina sulla natura delle cose, i terrori dell’animo si placano, le mura del mondo si schiudono, il vuoto interiore si riempie. Gli dèi vengono confinati nelle loro distaccate sedi celesti, mai sferzate dai venti, bagnate dalla pioggia, ricoperte dalla neve o strette nella morsa del gelo. E sempre, invece, ricoperte da un cielo sereno e illuminate da una luce diffusa. A dispensare ogni cosa è la Natura, e niente può mai turbare la pace dell’animo. Non esiste nessun inferno, nessun tempio di Acheronte. E non c’è da aver terrore di finire sottoterra, più di quanto si debba aver paura di viverci sopra: infatti, come tu dici nella tua Lettera sulla felicità a Meneceo, «la morte non è nulla per noi, perché fin quando ci siamo noi non c’è la morte, e quando c’è la morte non ci siamo più noi». Questi tuoi insegnamenti mi infondono un piacere umano e un timore divino, perché la forza del tuo pensiero mi svela ogni aspetto della Natura. 109

Secondo elogio di Epicuro (1-30)

L’uomo Soffi cosmici e sbuffi umani La parola “anima” è una delle più abusate e fraintese della storia del pensiero, benché la sua origine sia puramente fisiologica. In greco, infatti, anemos indicava il vento o l’aria: questo significato si è mantenuto nella parola anemometro, “misuratore del vento”, così come nell’espressione “anima di uno pneumatico” per la camera d’aria di una gomma. Agli inizi in latino animus era sinonimo di spiritus, e indicava la respirazione: anche questo significato si è conservato in animale, inteso come essere “animato”, che respira. Nel Genesi è Dio a far respirare, e dunque vivere, Adamo, alitandogli nelle narici la ruakh, il “soffio vitale”. In sanscrito, i due movimenti di inspirazione ed espirazione di cui si compone la respirazione si chiamano brahman e atman, e i due termini indicano anche l’espansione (in origine solo del torace) il primo, e la contrazione il secondo. In greco si chiamavano rispettivamente pneuma e psyche, e sono poi confluiti nello spiritus latino. In italiano questi usi affiorano quando si “esala lo spirito”, nel senso che si cessa definitivamente di respirare. O si va dallo pneumologo a farsi curare i polmoni. O si aspira una lettera greca se ha un accento che si chiamava pneuma, e che noi traduciamo con “spirito”. Fin qui siamo sul piano fisico, e tutto va bene, ma la metafisica può facilmente prendere il sopravvento (“porsi sopra il vento”, appunto), e far passare dall’aria fresca all’aria fritta. Ad esempio, quasi 3000 anni fa le Upanishad iniziarono a considerare il brahman come uno spirito cosmico ed esterno, e l’atman come uno spirito individuale e interno. E arrivarono poi a dire che, come l’inspirazione e l’espirazione sono due aspetti complementari di uno stesso processo, così il brahman universale e l’atman personale sono due aspetti complementari di una stessa realtà. Da allora il pensiero è andato alla deriva, nonostante gli encomiabili sforzi di Lucrezio e altri per riportarlo a riva. 110

Libro III. La psiche In precedenza abbiamo chiarito come gli atomi costituiscano i princìpi di tutte le cose, quali siano i loro tipi e i loro moti, e in che modo da essi si generino tutte le cose. Ora è giunta l’ora di chiarire la natura dell’animo e dell’anima. E di scacciare, e schiacciare, quella paura dell’inferno che intorbida profondamente la vita umana, imbrattando ogni cosa con la nera pece della morte, e impedendoci di godere serenamente i piaceri. Spesso gli uomini dicono di temere le malattie e il disonore più dell’inferno. O di sapere che l’anima è materiale, e in tutto simile a un soffio di vento. Si illudono così di non aver bisogno del nostro insegnamento, ma altrettanto spesso lo fanno più per vanto, che per convinzione. Persino gli esiliati e i banditi, coperti di vergogna e di infamia, bramano di vivere. E dovunque approdino, benché reietti e infelici, pregano gli antenati, sacrificano bestie nere, fanno offerte alle divinità infernali: quanto più sono nei guai, tanto più diventano religiosi. È nelle avversità che si vede di che pasta è fatto un uomo, perché è allora che getta la maschera e svela cosa pensa e crede veramente. Anche coloro che superano i confini della decenza e infrangono i limiti della legge, spinti dall’avidità di denaro o dalla brama di potere, sono spesso vittime della paura della morte. Di solito, infatti, la povertà e l’impotenza sono percepite come l’anticamera della “morte civile”, e per sfuggir loro non si esita nemmeno a spargere il sangue degli amici e dei parenti, fratelli e genitori compresi. È lo stesso tipo di paura, che porta coloro che si trascinano nell’indigenza e nell’oscurità a invidiare i ricchi e i potenti, osannati e riveriti da tutti: come si dice, “muoiono dal desiderio” di essere come loro. Altri ancora muoiono per davvero, suicidi per odio della vita, della luce e dell’amicizia, e ignari che quest’odio è anch’esso una reazione alla paura della morte. Mentre i bambini hanno paura nel buio fisico, noi l’abbiamo anche alla luce del Sole, e temiamo cose che non sono affatto più temibili di quelle temute dai bambini. A dissipare le paure e le tenebre dell’animo non possono dunque essere l’arrivo del giorno e i raggi solari, ma solo la natura delle cose e la ragione.1

La paura dell’inferno (31-93)

Iniziamo dicendo che l’animo (animus), chiamato anche “pensiero” o “mente”, ha un proprio organo preposto nel corpo, alla stesso modo in cui la vista, la presa e il movimento hanno come organi l’occhio, la mano e le gambe. Alcuni credono che l’animo non abbia un organo specifico nel corpo, bensì consista in un suo generale stato di armonia, analogo alla salute.

Animo e anima (94-135)

1

Vedi II,55-61.

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L’uomo Somari e psicotici I filologi hanno scoperto che nell’Iliade non c’è una parola che indichi il corpo. O meglio, c’è già la parola soma, che a partire dal secolo -V lo indicherà, ma essa viene usata in maniera singolare: soltanto, cioè, per indicare il cadavere, o “corpo morto”. Così come, d’altronde, in sanscrito corpo si diceva murth (ad esempio in trimurti, “tre corpi” o “trinità”), e ancor oggi in inglese cadavere si dice corpse. Quanto all’italiano, oggi soma indica i “pesi morti”, e somaro l’animale che li trasporta. In Omero non c’è neppure una parola che indichi la mente. O meglio, c’è già la parola psyche, che a partire dal secolo -V la indicherà, ma anch’essa viene usata in maniera singolare: soltanto, cioè, per indicare la vita e il soffio vitale. Un uso che è ancora presente nel Vangelo secondo Giovanni (X,11), quando Gesù dice: «Il Buon Pastore dà la sua psyche per le pecore», intendendo dire ovviamente che «dà la sua vita». L’Iliade usa una varietà di parole per indicare da un lato le membra del corpo, e dall’altro le volizioni della mente, ma solo singolarmente, e in maniera disintegrata. Le emozioni sono rappresentate in modo metaforico, come fa anche Lucrezio nei versi III,152-158, attraverso gli organi sui quali agiscono: il cuore che palpita, il sangue che ribolle, le viscere che si torcono, i polmoni che soffocano, la vista che si annebbia... Questo modo di vedere è ben testimoniato dalla pittura greca arcaica. Ad esempio, dalle raffigurazioni sui vasi, nelle quali il corpo veniva dipinto a pezzi separati e staccati fra loro, che confluivano in giunture puntiformi. E solo verso il solito secolo -V si arrivò a un concetto di “coscienza” che, come indica il termine latino conscientia, “scienza congiunta”, permette l’integrazione del percepire e del conoscere: cioè, la comprensione, nel senso letterale di “prendere insieme”.

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Libro III. La psiche Ma dimenticano che anche la malattia è spesso localizzata solo in alcune membra, mentre le altre rimangono sane. Allo stesso modo, si può avere mal d’animo senza che dolgano le altre membra del corpo, esattamente come si può avere un dolore a un piede senza avere mal di testa. Quando dormiamo tranquillamente, o quando abbiamo traumaticamente perso i sensi, qualcosa in noi continua ad agitarsi e a mantener vive le gioie e le pene dei sensi. Si tratta dell’anima (anima), chiamata anche “percezione” o “vita”, e pure essa è incarnata in un organo. L’anima può rimanere vitale anche quando molte membra sono state staccate dal corpo. Ma quando si esala l’ultimo respiro, l’anima lo abbandona ed esso subito si raffredda. Dal che si deduce che non tutti gli atomi contribuiscono in ugual misura alla composizione dell’anima, e che a essere coinvolti nel mantenimento della vita sono soprattutto quelli legati al calore e all’energia. Abbiamo dunque scoperto che sia l’animo che l’anima sono di natura corporea. Possiamo allora lasciar perdere i discorsi sull’armonia e restituire il concetto ai musicisti, dai quali era stato preso a prestito: poiché non ne abbiamo più bisogno per parlare di pensiero e di vita, che se lo tengano pure per la loro musica! Animo e anima sono due aspetti di un’unica natura, chiamata anche “psiche” (psyche), che capeggia e domina l’intero corpo. La mente è localizzata nel cervello,2 mentre la percezione è distribuita in tutto il corpo, attraverso il sistema nervoso: reagisce ai comandi della mente, ma agisce anche indipendentemente da essa. Come si può avere mal di testa o a un occhio, senza dover per forza averlo anche altrove, così la mente può essere eccitata o depressa, senza che questo abbia effetto sulla vitalità delle altre membra. Ma se il turbamento mentale è troppo forte, l’anima ne risente dovunque, provocando sudori e pallori, balbettii e abbassamenti di voce, annebbiamenti di vista, ronzii alle orecchie e cedimenti di gambe. E a volte si può anche morirne. Dobbiamo concludere che l’animo e l’anima sono collegati fra loro, e che la psiche ha effetti sul corpo. Dunque si tratta di fenomeni materiali, perché solo la materia può influenzare la materia, fino al punto di muovere le membra, svegliare dal sonno, far mutare l’espressione e, in generale, controllare e manovrare l’intero individuo. E quando una freccia, senza togliere la vita e l’anima a un uomo, lo ferisce conficcandoglisi nelle carni, spezzandogli le ossa, e tranciandogli vene o arterie, ha effetto anche sul suo animo: egli può illanguidire, cadere a terra, 2 In realtà Lucrezio, seguendo un’antica tradizione dapprima egizia, e poi greca e romana, localizzava l’organo del pensiero nel cuore, «visto che la frequenza dei suoi battiti è sensibile alla paura e alla gioia».

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La psiche (136-176)

L’uomo Mezzo secondo di ritardo Nei versi III,182-183 Lucrezio sbaglia due volte, affermando che non c’è nessun ritardo tra il pensiero e l’azione. Anzitutto, perché gli impulsi elettromagnetici viaggiano a velocità finita attraverso il sistema nervoso: questo fa sì che ci sia un ritardo di 150 o 200 millisecondi tra il momento in cui un ordine viene lanciato e quello in cui viene eseguito. E anche, nella direzione opposta, tra il momento in cui uno stimolo parte dalle terminazioni sensoriali e quello in cui raggiunge il cervello. E poi, soprattutto, perché le ricerche effettuate negli anni Settanta dallo psicologo sperimentale Benjamin Libet hanno mostrato che le informazioni relative agli stimoli sensoriali vengono percepite consciamente solo mezzo secondo dopo che raggiungono il cervello. Analogamente, e ancora più sorprendentemente, le aree cerebrali preposte all’esecuzione di un ordine si attivano circa 350 o 400 millisecondi prima del lancio cosciente dell’ordine, mettendo in forse l’intera nozione di volizione.

21 grammi Nei versi III,208-220 il poeta romano Lucrezio è più guardingo del dottore statunitense Duncan MacDougall, che nel 1907 annunciò di aver pesato sei pazienti terminali poco prima e poco dopo la morte, e di aver misurato una perdita media di peso di 21 grammi, a conferma della presenza di un’anima. Le pesate di quindici cani non mostrarono nessuna perdita di peso, a conferma della mancanza di un’anima. Quelle di alcune pecore, invece, rilevarono un aumento di peso, a conferma dell’assurdità dell’esperimento. Naturalmente, essendo una funzione e non un organo, l’anima non ha nessun peso, esattamente come un computer spento non pesa meno di quando è acceso. Ciò nonostante, la “ricerca” del dottore fu divulgata l’11 marzo 1907 addirittura dal New York Times, e continua a essere citata e diffusa ancor oggi da Hollywood: ad esempio, nel film 21 grammi di Alejandro Iñárritu, del 2003, candidato a un paio di premi Oscar.

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Libro III. La psiche tentare di rialzarsi, o svenire. Ma se una freccia materiale può ferire l’animo di un uomo, quest’animo deve per forza essere materiale anch’esso. Che la psiche sia costituita di atomi levigati e piccoli, è dimostrato dal fatto che non c’è niente al mondo di tanto veloce: la successione tra il pensare e l’eseguire è praticamente istantanea. E più una cosa è veloce, più dev’essere costituita di atomi che offrono poca resistenza al moto. L’acqua, ad esempio, si muove e ondeggia al minimo impulso, perché le sue gocce sono scorrevoli e piccole. Il miele, invece, è molto meno fluido e molto più lento, per il motivo contrario. Un soffio leggero e fioco basta per spargere al vento dei semi di papavero, ma non dei chicchi di grano, e meno che mai delle pietre. Più gli atomi che li costituiscono sono lisci e minuti, più i corpi sono mobili e veloci. E più gli atomi sono viscosi e pesanti, più i corpi sono stabili e lenti. Dunque, poiché la psiche è velocissima, i suoi atomi saranno liscissimi e minutissimi. E questo fatto ci tornerà utile in molte occasioni, nel seguito.

La velocità del pensiero (177-207)

Quando un uomo muore, e viene pervaso dalla calma della quiete eterna, l’animo e l’anima si dissolvono, ma niente sembra cambiare nel corpo. La morte ne conserva praticamente tutte le apparenze, dal peso al volume: questo significa che la psiche, che è l’unica cosa che se ne va, dev’essere impalpabile e quasi inestesa. E quando i suoi minimi atomi si staccano dal cervello e dai nervi, l’effetto è impercepibile. Lo stesso succede quando evapora lo spirito del vino, si dilegua il profumo di un’essenza o svanisce il sapore di un cibo. Poiché di nuovo niente appare ai sensi, e peso e volume non mutano, anche gli atomi responsabili degli odori e dei sapori devono essere impalpabili e quasi inestesi.

Il peso dell’anima (208-230)

Non devi credere che la psiche sia un elemento semplice. L’ultimo respiro esalato dai moribondi, infatti, è un soffio caldo. E il calore è sempre misto all’aria, perché anch’esso, come l’odore e il sapore, è impalpabile e quasi inesteso. Dunque, la psiche è costituita da almeno tre elementi: il soffio vitale, il calore e l’aria. Ma ce ne dev’essere pure un quarto, innominato e sconosciuto. Perché non si può credere che i tre elementi precedenti siano in grado, da soli, di produrre la coscienza della percezione e il pensiero della mente. Di questo elemento possiamo solo supporre che sia costituito degli atomi più lisci e più minuti che si possano immaginare. Il quarto elemento è il primo ad attivarsi, e ad esso seguono a ruota il calore, il soffio vitale e l’aria. Una volta messa in azione la psiche, si percepiscono poi il piacere e il dolore in tutto il corpo: il sangue ribolle, le

I costituenti della psiche (231-287)

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L’uomo Un principio di confinamento I versi III,262-265 sono una diplomatica via d’uscita dalle difficoltà in cui Lucrezio si è cacciato da solo, sostenendo che la psiche è costituita di quattro elementi, di cui uno “innominato e sconosciuto”. Non potendone appunto parlare, egli si inventa la scusa che i quattro elementi sono confinati in un’azione comune, nella quale è impossibile dipanare l’apporto individuale di ciascuno, e in particolar modo di quello anomalo. Sorprendentemente, però, questo è esattamente ciò che succede con i quark e gli antiquark. Essi si uniscono fra loro a formare i cosiddetti adroni, che prendono il nome da hadros, “forte”, essendo soggetti alla forza nucleare forte: ad esempio, tre quark formano dei barioni, come i neutroni o i protoni. E il principio di confinamento stabilisce che i quark e gli antiquark si possono osservare solo attraverso le loro combinazioni, ma mai isolatamente.

E pluribus unum L’espressione del verso III,285 è ab omnibus unum, e condensa il motto di Eraclito: «L’Uno contiene tutte le cose, e tutte le cose sono contenute nell’Uno». Nelle Confessioni (IV.8.13) Agostino usò la variante ex pluribus unum. E nel 1776 gli Stati Uniti scelsero e pluribus unum come motto, che dal 1782 appare nel sigillo della confederazione, per indicare la confluenza di molti Stati in un’unica Repubblica federale.

Bei tipi La tripartizione dei tipi fisiologici in “focosi, ansiosi e calmi”, basata sulle modalità di respirazione e discussa nei versi III,288-322, continua a essere usata ancor oggi nel linguaggio comune. Un’analoga classificazione, basata invece sugli elementi costitutivi del corpo, parlerebbe di tipi “muscolari, viscerali e cerebrali”, corrispondenti agli uomini di azione, di sentimento e di pensiero. Un aneddoto del Vangelo secondo Luca (X,38-42), su Marta che si affanna nelle faccende domestiche e Maria che ascolta tranquilla la predicazione, propone invece una classificazione binaria in tipi “attivi e contemplativi”, che risuona come un’eco nella distinzione fra “estroversi e introversi” introdotta da Carl Gustav Jung nei Tipi psicologici del 1921. Unita alla divisione delle funzioni psicologiche in “sentimento, pensiero, sensazione e intuizione”, quest’ultima porta a otto possibili combinazioni.

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Libro III. La psiche viscere si torcono, le ossa dolgono. Dovunque arrivano, i costituenti della psiche turbano il corpo, e quando esalano dai pori e dagli orifizi si portano via la vita. Ma in genere rimangono confinati nel corpo, arrestandosi sottopelle, e mantengono la vita con sé. La povertà della lingua mi impedisce di parlare degnamente di cosa la psiche sia e di come agisce, ma ci proverò comunque. Un principio di confinamento dei quattro elementi della psiche fa sì che essi agiscano congiuntamente, e non sia possibile isolarli individualmente. Come nelle viscere degli animali l’odore, il calore e il sapore sono mescolati in maniera inscindibile, a formare un tutto unico, così accade nella psiche per il soffio vitale, il calore, l’aria e il quarto elemento. Quest’ultimo è nascosto in profondità, e mette in azione il tutto. Esso è il fondamento ultimo dell’individuo, e costituisce una sorta di “anima dell’anima”. Come la forza d’animo e la potenza dell’anima si celano all’interno delle singole membra e dell’intero corpo, così il quarto elemento si cela all’interno della psiche stessa, che a sua volta domina il corpo. Analogamente agiscono gli altri tre elementi, di concerto gli uni con gli altri, così da far emergere un’unità dalla pluralità. Nessuno di essi, da solo, sarebbe in grado di produrre sensazioni, e solo la loro combinazione può farlo. Il calore dell’animo si manifesta quando ci si scalda in una discussione, e si lanciano sguardi infuocati. Il soffio lo percepiamo quando il respiro si affanna per la paura, mentre le gambe tremano e i brividi scuotono il corpo. L’aria placida, infine, traspare quando il cuore è tranquillo e il volto sereno. Il calore predomina nei tipi focosi e nelle teste calde: ne è un esempio il leone, la cui furia spesso erompe dal petto in ruggiti tremendi. Il soffio è l’elemento psichico caratteristico dei tipi ansimanti e ansiosi, come i tremolanti cervi. L’aria, infine, determina i tipi intermedi: quelli placidi e calmi, che non cadono mai preda né dei fumi dell’ira, né dei tremiti della paura, come il pio bove. Gli stessi tipi psicologici si ritrovano anche nel genere umano. Neppure la cultura e l’educazione, riescono a obliterare i segni dell’indole primaria degli individui. E i difetti non si possono sradicare completamente, riuscendo a far sì che il focoso non si infiammi, il timoroso non si raggeli, e il pacifico non rimanga tiepido anche quando dovrebbe scaldarsi o raffreddarsi. Naturalmente, ci sono anche altre differenze tra le persone. Ma ora non posso soffermarmi a specificare le cause invisibili di tutti gli aspetti visibili del comportamento, e tanto meno a inventare loro dei nomi. Una cosa, però, la posso affermare: che nessuna traccia dell’indole naturale di una persona è così persistente, da non poter essere rimossa dalla dottrina sulla

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Tipi psicologici (288-322)

L’uomo E lo spirito si fece carne Lucrezio non usa letteralmente l’espressione “mente incarnata”, che è tipica delle scienze cognitive contemporanee, ma la prefigura filosoficamente. Essa sintetizza l’essenza dell’approccio non dualista al problema mente-corpo, esposto in opere che vanno dalla Fenomenologia della percezione di Maurice Merleau-Ponty, del 1945, a La mente incarnata di Francisco Varela, Evan Thompson e Eleanor Rosch, del 1992. L’idea è che tutto ciò che ha a che vedere con lo spirito, l’anima, la coscienza e la mente non sia separato dal corpo ma, al contrario, risulti radicato in esso: una letterale e reale “incarnazione”, contrapposta a quella letteraria e surreale dell’inizio del Vangelo secondo Giovanni. La conseguenza antimetafisica e antireligiosa, sottolineata da Lucrezio, è che senza corpo non esiste nessuna anima, e che questa si dissolve quando quello si decompone.

La pianificazione centrale I versi III,370-377 speculano sul rapporto tra gli atomi del sistema nervoso centrale, che costituisce l’organo di cui l’anima è la funzione, e gli atomi dell’intero corpo, che ne viene diretto. Secondo la testimonianza di Lucrezio, Democrito li considerava pari in numero, evidentemente pensando a una sorta di versione fisica della metafisica “armonia prestabilita” tra anima e corpo, postulata nel 1714 da Leibniz nella Monadologia. Lucrezio li considera invece molto meno numerosi, prefigurando il “controllo centralizzato” che oggi sappiamo essere tipico non solo del sistema nervoso (non a caso chiamato “centrale”), ma anche della CPU (central processing unit, “unità di elaborazione centrale”) dei computer. Volendo quantificare, il sistema nervoso è costituito di circa 100 miliardi di neuroni, che sono particolari tipi di cellule (sotto), mentre in un corpo umano ci sono circa 100.000 miliardi di cellule: dunque, il rapporto è di circa 1 a 1000.

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Libro III. La psiche

natura delle cose. E da non permetterci di poter vivere degnamente “come dèi fra gli uomini”, secondo l’espressione finale della Lettera sulla felicità di Epicuro. Noi abbiamo una mente incarnata, che dirige e preserva il corpo. Le radici della mente e del corpo sono comuni, e talmente aggrovigliate fra loro da non poter essere dipanate. E come non si può separare il profumo da un grano d’incenso, senza distruggerne la natura, così non si può estrarre l’anima dal corpo, senza farlo morire. Il corpo non nasce né vive da solo, e muore e si corrompe non appena viene separato dall’anima. L’acqua può rilasciare il calore e raffreddarsi, ma era e rimane inanimata. Non appena gli esseri animati perdono l’anima e muoiono, invece, diventano inanimati e corruttibili cadaveri. Fin dagli inizi, quando ancora sono racchiusi nel grembo materno, anima e corpo evolvono insieme, e anche allora basta che la prima si distacchi, perché il secondo venga abortito. E se l’anima non può vivere senza il corpo, né il corpo senza l’anima, evidentemente devono avere nature comuni e inscindibili. Anche mente e corpo nascono e vivono insieme, e le loro facoltà non possono esistere separatamente. I sensi si attivano solo attraverso un’azione congiunta degli organi e della percezione: non è possibile sentire solo con il corpo, o solo con la mente, perché ci vogliono entrambi. E chi pensasse il contrario, andrebbe contro l’evidenza. Infatti, come si potrebbero mai definire i sensi corporei, se non attraverso le sensazioni mentali, e viceversa? E come si potrebbero mai avere sensi e sensazioni, se non rimanendo animati e vitali? Senz’anima e senza vita i sensi si perdono e le sensazioni svaniscono, come tutto il resto. Dire poi che non sono gli occhi che guardano, ma è la mente che guarda con gli occhi, come attraverso porte o finestre aperte, è invertire i termini del discorso. Perché sono proprio gli occhi a reagire alla luce: tanto che, quando ce n’è troppa, si chiudono palpebre e pupille per filtrarla. Ma le porte e le finestre non fanno così, e non sono affatto disturbate dalla troppa luce. Se gli occhi fossero come porte e finestre, tanto varrebbe toglierli, per permettere alla mente di vedere meglio senza i battenti!

Anima, mente e corpo (323-369)

Non devi considerare vera l’opinione del pur venerando Democrito: che gli atomi della psiche e quelli del corpo siano affiancati e legati fra loro, a coppie. Infatti, gli atomi che costituiscono la psiche non solo sono molto più piccoli di quelli del corpo, ma sono anche molto meno numerosi e più sparsi. Quanto, non lo sappiamo, ma almeno questo possiamo affermarlo: che le distanze fra gli atomi della psiche, sono almeno confrontabili alle dimensioni dei corpi che producono gli stimoli sensoriali.

Una rete a maglie larghe (370-416)

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L’uomo La leggerezza di Lucrezio Nelle Lezioni americane del 1988 Italo Calvino porta Lucrezio ad esempio di “leggerezza”, e gli dedica questo brano: Il De rerum natura è la prima grande opera di poesia in cui la conoscenza del mondo diventa dissoluzione della compattezza del mondo, percezione di ciò che è infinitamente minuto e mobile e leggero. Lucrezio vuole scrivere il poema della materia ma ci avverte subito che la vera realtà di questa materia è fatta di corpuscoli invisibili. È il poeta della concretezza fisica, vista nella sua sostanza permanente e immutabile, ma per prima cosa ci dice che il vuoto è altrettanto concreto che i corpi solidi. La più grande preoccupazione di Lucrezio sembra essere quella di evitare che il peso della materia ci schiacci. Al momento di stabilire le rigorose leggi meccaniche che determinano ogni evento, egli sente il bisogno di permettere agli atomi delle deviazioni imprevedibili dalla linea retta, tali da garantire la libertà tanto alla materia quanto agli esseri umani. La poesia dell’invisibile, la poesia delle infinite potenzialità imprevedibili, così come la poesia del nulla nascono da un poeta che non ha dubbi sulla fisicità del mondo. Questa polverizzazione della realtà s’estende anche agli aspetti visibili, ed è là che eccelle la qualità poetica di Lucrezio: i granelli di polvere che turbinano in un raggio di sole in una stanza buia (II,114-124); le minute conchiglie tutte simili e tutte diverse che l’onda mollemente spinge sulla bibula harena, sulla sabbia che s’imbeve (II,374-376); le ragnatele che ci avvolgono senza che noi ce ne accorgiamo mentre camminiamo (III,381-390).

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Libro III. La psiche Infatti, non riusciamo a percepire i granelli di polvere o le particelle di creta che tocchiamo, la nebbia notturna nella quale ci addentriamo, i fili delle tele di ragno in cui ci imbattiamo, il corpo di un insetto che ci cade addosso morto, una piuma d’uccello o il fiore di un soffione che svolazzano nell’aria. E neppure riusciamo a percepire un serpente che passa strisciando, o una zanzara che cammina sulla nostra pelle. Per essere catturate dalla rete di atomi della percezione, e interagire con essi, tutte queste cose devono essere raggruppate in modo da avere dimensioni maggiori delle sue maglie. La rete dell’animo, inoltre, è più stretta di quella dell’anima. Perché, per quanto il corpo sia lacerato e abbia le membra mozzate, continua a vivere finché ha delle sensazioni. E questo significa che gli atomi dell’anima possono svanire nell’aria, abbandonando il corpo al gelido abbraccio della morte, soltanto dopo che si sono già dileguati quelli dell’animo. Allo stesso modo, anche un occhio danneggiato può continuare a vedere, purché rimangano intatte la retina e la pupilla. Se invece quelle vengono lese si perde la vista, anche se il resto dell’occhio rimane intatto. E il legame fra animo e anima, all’interno del corpo, è analogo a quello fra la pupilla e l’occhio. C’è una cosa importante, o lettore, che tu devi sapere, e che io ti dirò con parole che ho a lungo cercate, con dolce fatica. Si tratta del fatto che negli esseri viventi la psiche non esiste né prima della nascita, né dopo la morte, bensì nasce e muore con e come il corpo. Io ti parlerò a volte dell’anima e altre dell’animo, ma lo stesso discorso varrà per entrambi, visto che si tratta di due aspetti complementari di un’unica entità. Abbiamo già assodato che l’anima è costituita di atomi minutissimi, molto più piccoli di quelli dell’acqua o del fumo. Ma l’acqua che esce da un vaso che si rompe, si sparge velocemente per terra, e il fumo che esce da un camino, si dissolve velocemente nell’aria. Dunque, l’anima che esce dal corpo deve disperdersi ancora più velocemente. Il corpo, infatti, è come un vaso che la contiene. E quand’esso si rompe, squarciato da una ferita o dissanguato, come potrebbe contenerla l’aria, che è ancora più rarefatta del corpo?

L’anima non è immortale (417-444)

È facile accorgersi che la mente nasce, cresce e invecchia col corpo. I bambini, ancora fragili e traballanti, pensano in maniera altrettanto debole e incerta. Col crescere del vigore e dell’età, aumentano anche la capacità di ragionare e la forza d’animo. Ma col passare del tempo il corpo invecchia e decade, e la mente lo segue nel suo disfacimento: il pensiero zoppica, la lingua si inciampa, la memoria vacilla, diminuiscono le abilità e crescono le deficienze. E alla fine tutto si dissolve, come fumo nell’aria.

Offuscamenti mentali (445-486)

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L’uomo Fuori dal corpo, fuori di testa I versi III,445-486 introducono un primo motivo per credere all’indissolubilità del legame tra anima e corpo: gli effetti mentali provocati da cause fisiche. In Sta scherzando, Mr. Feynman! lo scienziato racconta i suoi esperimenti nella vasca di deprivazione sensoriale inventata da John Lilly negli anni Sessanta: in un ambiente completamente buio e insonorizzato, gli bastavano un paio d’ore di fluttuazione in acqua fortemente salata e a temperatura corporea per raggiungere sensazioni di “uscita dal corpo” e allucinazioni. Lunghe permanenze nel deserto, come i classici quaranta giorni, possono generare stati simili, soprattutto se unite a meditazioni, veglie, digiuni e altre pratiche ossessive, quali danze, canti e preghiere rituali. Per questo il deserto è uno dei luoghi preferiti dei mistici di ogni tempo, dai reali anacoreti all’immaginario Simon del deserto di Luis Buñuel, del 1965. E ha prodotto stati alterati di coscienza espressi nel dreaming puntillista degli aborigeni australiani (a sinistra), o nei mandala di sabbia dei navajo americani (a destra).

Ovviamente le condizioni del deserto si possono anche riprodurre in casa, soprattutto nelle celle dei conventi. Ancora più ovviamente, se ne possono direttamente ricreare gli effetti nella testa mediante droghe chimiche psicodislettiche, alcune delle quali derivano direttamente dal deserto stesso: dal peyote e i funghi messicani, poi evoluti nell’Lsd e nell’Ecstasy, alla manna ebraica, il misterioso “pan degli angeli” che permise al popolo eletto di sopravvivere di stenti per quarant’anni, credendo di mangiar quaglie. I versi III,487-522 aggiungono un secondo motivo per credere all’indissolubilità del legame tra anima e corpo: le malattie neurologiche, che Lucrezio esemplifica con l’epilessia. La scelta è interessante, non solo per la definizione di anima come “sistema nervoso”, ma anche per il legame esistente tra l’epilessia e gli stati di coscienza alterati di natura “mistica”, inducibili anche artificialmente con scariche elettriche nel lobo temporale sinistro. Non a caso, sembra che Paolo di Tarso e Maometto fossero entrambi epilettici.

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Libro III. La psiche Oltre al normale decorso della vita, anche i dolori e le malattie del corpo intaccano la mente: a maggior ragione, dunque, lo farà la morte. Spesso alle malattie del corpo si accompagnano vaneggiamenti, deliri e farneticazioni della mente. A volte si perde completamente la coscienza e si cade in un coma letargico, insensibile alle voci degli astanti e ai loro disperati richiami al risveglio. E come i dolori e le malattie spesso conducono alla morte del corpo, non possono che condurre anche alla morte della mente. Anche il vino, infine, può far uscire temporaneamente di senno. Quando lo spirito si diffonde nel corpo, infatti, le membra si appesantiscono, le gambe traballano, la vista si annebbia, la lingua attarda. Ma tra tutti questi effetti, anche la mente si impregna, e fa sì che si finiscano per alzare sia la voce che le mani. Non è questo un segno che il vino agisce non solo sul corpo, ma anche sulla mente? E non dimostra che, come tutto ciò che può essere intralciato, turbato e sconvolto da agenti materiali, anche la mente è destinata a perire? Sovente vediamo qualcuno crollare repentinamente a terra di fronte ai nostri occhi, in preda a un attacco di epilessia, come colpito da un fulmine. Ansima con la bava alla bocca, è scosso da tremiti e si torce. I suoi gemiti, causati dal dolore delle contrazioni dei muscoli e dei nervi, vengono sputati dalla bocca come grumi di voce spezzata. La sua anima e il suo animo si agitano schiumanti, come onde di un mare che ribolle, sferzato da venti furiosi. Il suo delirio è prodotto dallo sconvolgimento delle due componenti della sua psiche, entrambe straziate e sconvolte dalla malattia. Ma quando l’attacco si placa e le sue cause recedono, il malcapitato si rianima: i sensi gli tornano poco a poco, ed egli si rialza barcollando. Ora, se già una malattia come l’epilessia può sconvolgere e straziare in tal modo l’animo e l’anima, come si può immaginare che l’uno e l’altra riescano a sopravvivere fuori del corpo, all’aria aperta, esposti ai venti e alle tempeste? Basta già il solo fatto che le malattie della mente possano guarire o essere curate come quelle del corpo, a dimostrare che la psiche non è immortale. Infatti, una guarigione o una cura richiedono che venga aggiunto, sottratto o spostato qualcosa in ciò che è malato. Ma ciò che è immortale dev’essere immutabile, perché il mutamento causa la morte di ciò che viene mutato.

Crisi epilettiche (487-522)

I due argomenti precedenti mostrano in modo inoppugnabile che la psiche non è immortale, e non lasciano scampo a chi volesse sfuggire alla realtà delle cose. Ma essi non sono affatto gli unici che si possono offrire. Ad esempio, spesso vediamo i moribondi morire poco a poco, perdendo sensibilità in maniera graduale: prima gli si illividiscono le dita, poi le mani

Una lenta agonia (523-547)

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L’uomo Lo spirito evapora I versi III,523-547 elencano un terzo motivo per credere all’indissolubilità del legame tra anima e corpo: il graduale disfacimento dell’anima, parallelo e concomitante a quello del corpo. Le progressive perdite di percezione, attenzione, memoria e capacità intellettuale, e le malattie degenerative della vecchiaia quali la demenza senile e il morbo di Alzheimer, costituiscono altrettante fasi dell’insesorabile decadimento del cervello e del sistema nervoso, che fa parte dell’invecchiamento del corpo. Oggi si distinguono tre tipi di morte, che possono anche essere successivi: del sistema nervoso (o anima), del cervello (o animo) e del corpo. La prima è lo stato vegetativo persistente, privo di coscienza e di risposte non automatiche alle sollecitazioni. La seconda è la morte cerebrale, o morte clinica, corrispondente a un elettroencefalogramma piatto: dopo di che, si può legalmente procedere a “staccare la spina” e prelevare organi. L’ultima è la morte cardiaca, corrispondente a un elettrocardiogramma piatto. Il cieco e lo zoppo L’espressione “senza la mente i sensi del corpo sono zoppi, e senza il corpo la sensibilità della mente è cieca” è una libera traduzione dei versi III,560-562: nec sine corpore enim vitalis edere motus sola potest animi per se natura, nec autem cassum anima corpus durare et sensibus uti, “né senza corpo la natura dell’anima può da sola produrre di per sé moti vitali, né può il corpo privo dell’anima durare e disporre dei sensi”. La traduzione ricalca l’Introduzione alla “Logica Trascendentale” della Critica della ragion pura (B 75) di Immanuel Kant, del 1781: «I concetti senza intuizione sono vuoti, l’intuizione senza i concetti è cieca», che è solo un modo più oscuro di dire che senza i sensi non si hanno sensazioni corporee, e senza cervello non si hanno percezioni mentali (p. 96). Anche Einstein nel 1940 le fece il verso, a meno che pensasse alla favola di Esopo: «La scienza senza la religione è zoppa, la religione senza la scienza è cieca».

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Libro III. La psiche e i piedi, poi le braccia e le gambe, mentre il freddo della morte avanza inesorabile dalla periferia al centro. Ma questo significa che la vita se ne va gradualmente: dunque, l’anima è divisibile, e non può essere immortale. Né si può immaginare che essa semplicemente si contragga man mano all’interno del corpo, prima di abbandonarlo intatta. Altrimenti, il luogo nel quale essa si contrae dovrebbe risultare molto più vitale e sensibile della norma, mentre invece non si osserva niente del genere. Dunque, anche l’anima deve morire poco a poco, con una morte lenta come quella del corpo. Volendo comunque ammettere, per assurdo, che l’anima si contrae nel corpo quando si muore poco a poco, già questo basterebbe a renderla mortale. Perché rimarrebbe pur sempre il fatto che la vita del moribondo se ne va in maniera graduale, e non avrebbe importanza che essa, gradualmente, esca dal corpo oppure si contragga al suo interno. La mente è situata in una parte ben definita del corpo, esattamente come le orecchie, gli occhi e tutti gli altri organi sensoriali. E proprio come le mani o le narici non possono esistere indipendentemente dal resto del corpo, senza imputridirsi in breve tempo, così è per la mente. Il cervello è un vaso nel quale essa è versata come un liquido, o un muro al quale si appiglia come un’edera. Corpo e mente godono insieme dell’energia vitale: senza la mente i sensi del corpo sono zoppi, e senza il corpo la sensibilità della mente è cieca. Come l’occhio strappato dall’orbita non vede, così la mente disgiunta dal corpo non vive. Animo e anima si mescolano al cervello e al sistema nervoso. I loro atomi non possono vagare liberi nello spazio infinito, e possono produrre dei moti senzienti solo quando sono confinati all’interno di un corpo munito di organi sensoriali. Dopo la morte, liberati nell’aria, non hanno più nulla da smuovere: se l’avessero, infatti, l’aria stessa sarebbe, o diventerebbe, un essere senziente. Dunque, ancora una volta, dopo la morte l’animo e l’anima si dissolvono.

Il sistema mente-corpo (548-579)

Se il corpo non può sopportare la dipartita dell’anima senza decomporsi in maniera nauseabonda e fetida, si può forse dubitare che ciò che lo teneva in vita si sia disperso come fumo? E se il corpo crolla come una rovina marcescente, si può credere che non siano state distrutte le sue fondamenta, nell’atto stesso in cui l’anima l’ha abbandonato? Poiché l’anima esce attraverso pori e orifizi, deve prima lacerarsi e smembrarsi per poterci passare. D’altronde, non si è mai udito di nessuno che, morendo, abbia sentito l’anima intera salirgli in gola e uscirgli dalla bocca. Piuttosto, sembra che si sentano le membra e i sensi svanire uno a uno dove sono, ciascuno al proprio posto.

La dissoluzione dell’anima (580-623)

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L’uomo Il primo transgender I versi III,629-630 alludono a un famoso episodio dell’Odissea (XI,121-197), nel quale Ulisse incontra lo spirito di Tiresia nel regno dei morti. Secondo le Metamorfosi (III,316338) di Ovidio, un giorno Tiresia si era imbattuto in due serpenti che si accoppiavano, e infastidito aveva ucciso la femmina. Fu magicamente tramutato all’istante in una donna, e non si lasciò sfuggire l’occasione di vivere come tale. Dopo sette anni si imbatté di nuovo in una scena analoga, ma questa volta uccise il serpente maschio e tornò uomo. Dopo qualche tempo Zeus e sua moglie scommisero su chi ricavasse più piacere dal sesso: lui diceva le donne, e lei gli uomini. I due convocarono Tiresia, l’unico essere che poteva giudicare per conoscenza diretta, e lui testimoniò che le donne godono nove volte più intensamente degli uomini. Per punirlo di averle fatto perdere la scommessa, Era lo accecò. Ma per premiarlo di avergliela fatta vincere, Zeus gli concesse il potere di poter prevedere il futuro. E fu così che Tiresia divenne un indovino cieco. Il miracolo dell’arto ricresciuto Dopo un racconto in stile pulp fiction sulla macelleria di guerra, i versi III,657-663 si concentrano sulla coda mozzata del serpente, che continua a muoversi come se avesse acquistato vita propria. In realtà, si tratta soltanto di spasmi nervosi di breve durata, che terminano quando si esaurisce l’energia accumulata prima del taglio. Più interessante è il fatto che la lucertola sia in grado di staccare da sé la propria coda, in caso di attacco: agitandosi, questa attrae l’attenzione del predatore e la distoglie dalla lucertola. Ancora più interessante è il fenomeno della rigenerazione spontanea della coda della lucertola, dopo l’autotomia. La cosa avviene a vari livelli: dai rami degli alberi, che addirittura possono attecchire se ripiantati, ai bracci delle stelle marine. Negli esseri umani molte parti sono in grado di rigenerarsi, dalle cellule ai tessuti al fegato. Ma non gli arti, neppure per miracolo: e infatti, come notò Émile Zola durante una visita nel 1891, «a Lourdes si vedono molte stampelle, ma nessuna gamba di legno».

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Libro III. La psiche Viceversa, nessuno ha mai percepito un pensiero nascere da un piede o da una mano, ma solo e sempre dallo stesso luogo. E questo perché ogni cosa deve nascere e morire in luoghi specifici e adatti, e avere una struttura e una vita ben definite e prestabilite. Per questo il fuoco attecchisce nei boschi, ma non sui fiumi o tra i ghiacci. A volte però l’anima sembra voler abbandonare qualcuno già quand’egli è ancora ben vivo, facendolo di colpo impallidire come un cadavere e lasciandolo cadere esanime come un corpo morto. Così avviene quando uno perde i sensi, e tutti trepidano nell’attesa che egli riafferri l’ultimo legame con la vita. In tal caso la mente e l’anima hanno ceduto temporaneamente, e sono andate a un passo dal dissolversi. Ma si può forse dubitare che, se l’avessero fatto, avrebbero potuto mantenersi intatte non dico in eterno, ma anche solo per un attimo? E comunque, se l’anima fosse immortale, non mostrerebbe dolore nel dissolversi: anzi, dovrebbe gioirne, come un serpente che cambia pelle! Se l’anima fosse immortale, e rimanesse senziente anche quando si separa dal corpo, dovrebbe avere dei propri organi di senso. [Così l’hanno immaginata scrittori come Omero, che descrisse nell’Odissea un colloquio agli inferi tra Ulisse e Tiresia, e pittori come Polignoto di Taso, che illustrò quel colloquio in un portico di Delfi.] Ma questo certo non basta a farci credere che l’anima abbia occhi, naso, orecchie, lingua e mani, né che essa continui a esistere e a sentire quand’è separata dal corpo. Al contrario, noi crediamo che se un corpo viene reciso a metà, anche la sua anima subisca la stessa sorte. E ciò che si può dividere, non può essere immortale! Raccontano gli storici che i Persiani impiegavano nelle battaglie in pianura dei carri falcati, muniti di falci di ferro al timone, sui fianchi e sui mozzi delle ruote. Nella mischia le membra dei soldati venivano macellate, e cadevano palpitanti a terra senza che quasi essi se ne accorgessero, per la loro concentrazione e la velocità della battaglia. Un combattente si chiudeva in difesa, senza accorgersi che il suo braccio sinistro con lo scudo era ormai perduto, trascinato in corsa da un carro. Un altro si lanciava all’assalto, ignaro che gli era invece stato mozzato il braccio destro con l’arma. Un terzo tentava di alzarsi da terra, mentre il suo piede muoveva invano le dita su una gamba troncata. Il più sfortunato continuava a tenere gli occhi ben aperti e attenti, ma la sua testa giaceva ormai lontana dal tronco, ancora caldo e vivo. D’altronde, basta tagliare a pezzi la coda di un serpente dalla lingua vibrante, per accorgersi che i pezzi continuano ad agitarsi indipendentemente l’uno dall’altro, perdendo siero sul terreno, mentre la bocca ignara e dolo-

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Arti smembrati (624-669)

L’uomo Il cadavere incontaminato di Patroclo Nel 1668, alla corte dei Medici a Firenze, Francesco Redi lesse nell’Iliade (XIX,23-33) questo dialogo tra Achille e sua madre Tetide: «... timor mi grava che nelle piaghe di Patròclo intanto vile insetto non entri, che, di vermi generator, la salma (ahi, senza vita!) ne guasti sì, che tutta imputridisca.» «Pensier di questo non ti prenda, o figlio» gli rispose la dea: «L’infesto sciame, divoratore de’ guerrieri uccisi, io ne terrò lontano. Ov’anco ei giaccia intero un anno, farò sì, che il corpo incorrotto ne resti, e ancor più bello». Redi ripensò alla generazione spontanea di vermi dai cadaveri, enunciata da Aristotele nella Storia degli animali (V,1) e riaffermata da Lucrezio nei versi III,719-721. E nelle Esperienze sulla generazione degli insetti, che pubblicò quello stesso anno, testimoniò di aver cominciato a pensare che i vermi derivassero da uova deposte dalle mosche, invece che dalla putrefazione della carne. Fece dunque vari esperimenti, ponendo carni e pesci in alcuni contenitori sigillati e in altri aperti. Si accorse che i vermi nascevano “spontaneamente” soltanto nei secondi, ma non nei primi. Ne dedusse che «dalle carni degli animali morti non s’ingenerano i vermi se in quelle da altri animali viventi non ne sieno portate le semenze». E confermò la teoria espressa nel motto omne vivum ex ovo, “ogni vivente è generato da un uovo”. La teoria della generazione spontanea riprese vigore nel Settecento, quando il microscopio permise di vedere microrganismi ai quali si poteva attribuirne la causa. Ma fu messa definitivamente fuori gioco dall’esperimento di Louis Pasteur, che nel 1864 fece bollire liquido organico in provette a collo di cigno, facendone uscire l’aria. Il liquido si manteneva incontaminato fino alla rottura del collo, dopo di che si manifestava una “generazione spontanea”, a dimostrazione che questa avveniva per contaminazione.

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Libro III. La psiche rante ne addenta uno con un morso. Possiamo forse dire che ciascun pezzo possiede un’anima tutta intera, come se il serpente ne avesse avute parecchie da distribuire? O non è più sensato ammettere che la sua unica anima si sia suddivisa in vari pezzi? Se la psiche è immortale ed entra nel corpo alla nascita, perché mai non abbiamo memorie di vite passate? E se è la psiche ad aver perso la memoria, certo non è sopravvissuta bene! Anzi, è morta una sua parte importante. Tanto vale allora ammettere che sia morta pure essa del tutto, e ne sia nata una nuova. Se invece la psiche è mortale, ma entra nel corpo alla nascita già formata, perché mai la osserviamo crescere insieme ad esso? Dovremmo invece vederla rimanere sempre uguale, come un animale messo in gabbia da adulto. Ancora una volta, dobbiamo dunque credere che la psiche nasca, cresca e muoia insieme al corpo. Che essa abbia poi potuto intrecciare legami tanto stretti all’interno del corpo, pur insinuandovisi dal di fuori, è contrario all’evidenza dei fatti. La sensibilità è talmente infiltrata nel nostro sistema anatomico, che ne partecipano persino i denti! Basta ricordare l’effetto che può fare l’acqua gelata su un nervo scoperto, o un sassolino che addentiamo inavvertitamente perché si è infilato nel pane. Ma una volta intrecciatasi così strettamente con il corpo, è impossibile che la psiche ne possa uscire impunemente, senza esser costretta a sfilacciarsi e rompersi. In ogni caso, chi pensasse che l’anima si è insinuata dal di fuori nel corpo, dovrebbe comunque dedurne che allora morirà. Tutto ciò che entra dentro di noi, infatti, o viene assimilato, o è espulso attraverso vari orifizi. Il cibo, ad esempio, in parte contribuisce a formare arti e membra, e in parte viene eliminato sotto forma di escremento o sudore: in entrambi i casi muore, perché diventa altro da ciò che era. E lo stesso succederebbe alla psiche: una volta entrata intatta, dovrebbe essere assimilata dal corpo e suddivisa tra i vari organi.

Divieto di entrata (670-712)

È possibile che qualche brandello di anima rimanga in un corpo morto? Naturalmente, se anche ne rimanessero, questa non sarebbe una prova dell’immortalità dell’anima, perché essa si dividerebbe comunque tra la parte che rimane e quella che va. Ma se fugge intera, non lasciando alcuna traccia di sé, come mai i cadaveri putrefatti brulicano di vermi senz’ossa e senza sangue? Non crederai che ciascun verme venga animato da qualche animella vagante? E, magari, da animelle provenienti da migliaia di defunti diversi, congregate su un unico cadavere da cui se n’è andata una sola? In tal caso, sorgerebbe il problema

Vermi brulicanti (713-729)

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L’uomo La staffetta delle anime

I versi III,730-783 sono un’ovvia conseguenza della posizione materialista, secondo la quale l’anima è un epifenomeno o una funzione del corpo, e non può dunque effettuare nessuna metempsicosi, “passaggio di psiche”, da un essere all’altro. Solo una posizione dualista, secondo la quale l’anima e il corpo sono entità distinte e separabili, può invece porsi il problema, ed eventualmente risolverlo positivamente nel senso della trasmigrazione di un’anima in un altro corpo umano o animale. La metempsicosi è tipica di certe religioni mediorientali e orientali. Ad esempio, faceva parte delle tradizioni egizia e giaina, e da esse ha poi subìto varie “metempsicosi” in successive tradizioni mediterranee e indiane. Oggi continua a essere professata dagli induisti e dai buddhisti: questi ultimi, che non credono però all’esistenza di un’anima separata dal corpo, la intendono come una rinascita delle funzioni di un corpo in un altro, analoga al passaggio del fuoco da un covone a un altro. In Occidente la credenza nella metempsicosi sembra essere stata introdotta per la prima volta da Pitagora, e venne poi ripresa da Empedocle e Platone. Quest’ultimo ne fece addirittura il perno della sua dottrina dell’anamnesi, secondo la quale l’apprendimento della conoscenza non empirica e astratta è solo reminiscenza di cose già note in vite anteriori: il che, ovviamente, sposta solo il problema, e innesca una sorta di regresso all’infinito che non spiega nulla. Anche alcuni cristiani delle origini, tra i quali si trovava di tutto, accettavano la metempsicosi in varie forme. Oggi i cattolici e gli ortodossi la rifiutano ufficialmente ma, dopo averla fatta uscire dalla porta, la fanno rientrare dalla finestra. La resurrezione dei corpi, con la quale si concludono sia il Simbolo degli Apostoli che il Credo di Nicea e Costantinopoli, è infatti una sorta di autometempsicosi, nella quale l’anima esce dal corpo quando la morte lo decompone, e ci rientrerà quando la resurrezione lo ricomporrà.

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Libro III. La psiche se le animelle vadano ad animare vermi inanimati già preesistenti, o invece se li fabbrichino da sé. Chi crede nella metempsicosi, dovrebbe in ogni caso spiegare non solo come le anime entrino nei corpi alla nascita, ma anche, e soprattutto, perché. In fondo, prima di farlo esse godrebbero di ottima salute, essendo invulnerabili alle malattie, al freddo e alla fame. Entrando in un corpo, dovrebbero invece condividerne i disagi, le fatiche e le pene. Ma anche ammettendo che avessero le loro buone ragioni per entrarci, rimane il fatto che non si riesce a capire come potrebbero riuscirci. Sembra infatti impossibile che delle entità impalpabili e inestese siano in grado di costruire dei corpi materiali in cui annidarsi. E sembra altrettanto impossibile che riescano a insinuarsi in corpi preesistenti, riuscendo tuttavia a creare una simbiosi così intricata e capillare Inoltre, le specie esistenti esibiscono membra e indoli persistenti e innate: i leoni sono feroci, le volpi astute, i cervi timorosi e con l’istinto di fuggire. E non lo sono, forse, a causa di un certo tipo di animo, connaturato al proprio seme e alla propria semenza? Ma se l’anima vagasse immortale da un corpo all’altro, gli esseri dovrebbero avere caratteristiche e caratteri indistinti: il cane da caccia fuggirebbe di fronte al cervo, il falco tremerebbe al sopraggiungere della colomba, gli uomini sarebbero insipienti e le fiere sapienti. A tutto ciò non si può controbattere dicendo semplicemente che l’anima immortale muta, quando trasmigra da un corpo all’altro, perché ciò che muta muore. Per mutare bisogna infatti avere componenti e struttura, e dunque essere soggetti a dissoluzione. A chi poi dicesse che le anime degli uomini trasmigrano in uomini, e analogamente per le altre specie, basterà domandare come mai un puledro non sia tanto esperto quanto uno stallone. O un bambino non nasca sapiente [come nel mito etrusco del piccolo Tagete dai capelli bianchi]. O un uomo saggio possa uscire di mente. E non si potrà certo cavarsela dicendo, ad esempio: mens insana in corpore insano. Perché si ammetterebbe che la mente può ammalarsi, e dunque non è immutabile e immortale. Invece, come può la psiche maturare col corpo e far sbocciare il fiore della vita, se non ne ha condiviso fin dagli inizi la sorte? E perché dovrebbe volerlo abbandonare quand’è invecchiato? Teme forse di rimanere intrappolata in un cadavere marcescente, o di rimanere sepolta sotto le macerie del suo ormai cadente albergo, benché per un’entità immortale non ci siano pericoli di sorta? Comunque, non sembra veramente ridicolo che le anime se ne stiano appostate come guardoni, a monitorare vigorosi amplessi e dolorosi parti? E che “in numero innumerevole” le anime immortali scelgano le mortali membra in cui infilarsi, magari litigando “animosamente” fra loro al propo-

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La metempsicosi (730-783)

L’uomo Si teme il nulla non meno dell’aldilà I versi III,830-831 cercano di rimuovere la paura della morte, paragonandola al nulla. Ma non tengono conto, secondo le Lettere (LXXXII,15-16) di Seneca, che si teme il nulla non meno di quanto si tema l’aldilà: La morte non è indifferente, come il fatto di avere un numero di capelli pari o dispari. La morte è tra quelle cose che, pur non essendo mali, sembrano comunque tali. La volontà di durare e di conservarsi, e l’orrore per il dissolvimento, derivano dall’innato amore che l’uomo ha per sé stesso. La morte sembra strapparci molti beni, e allontanarci da tutte le cose a cui siamo abituati. Noi l’avversiamo anche perché questa vita ormai la conosciamo, mentre non sappiamo a cosa andiamo incontro dopo, e abbiamo orrore dell’ignoto. E poi, ci dicono che la morte ci condurrà nelle tenebre, e anche di queste abbiamo una paura innata. Perciò, benché la morte ci debba essere indifferente, non la si può rimuovere con facilità: la mente dev’essere addestrata con un costante esercizio, perché ne possa sopportare la vista e l’avvicinarsi. Dobbiamo disprezzare la morte molto più di quanto facciamo, ma rimaniamo preda dei pregiudizi che ci hanno inculcato. Molti hanno aguzzato l’ingegno per aumentarne la mala fama, descrivendola come nell’Eneide: una prigione sotterranea e un luogo immerso in una notte eterna, in cui «l’immane guardiano delle porte dell’Orco, sdraiato su ossa corrose in un antro insanguinato, atterrisce le ombre diafane con i suoi eterni latrati». Anche in chi si persuade che queste sono solo favole, e che per i defunti non c’è niente da temere nell’aldilà, si insinua comunque un’altra paura: si teme il nulla non meno di quanto si tema l’aldilà.

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Libro III. La psiche sito? O forse non devono litigare, perché si sono accordate in precedenza sul fatto che chi prima arriva, meglio alloggia? La Natura ha stabilito dove ciascuna cosa debba stare, e come debba vivere. Gli alberi non volano per aria, le nubi non si tuffano in mare, i pesci non nuotano nei campi, il sangue non irrora gli alberi, e la linfa non circola nei sassi. Quanto alla psiche, non può esistere senza un cervello e un sistema nervoso che la ospitino. In teoria, la Natura avrebbe potuto decidere di porla nelle spalle, sotto i piedi, o da qualunque altra parte. Ma poiché così ha disposto, lì deve stare, e non altrove. In particolare, e meno che mai, l’animo e l’anima possono sussistere indipendentemente dal corpo. Dunque, quando questo muore, muoiono anche loro. In effetti, è da matti pensare che si possano non diciamo unire, ma anche solo far interagire fra loro, il mortale e l’immortale. Anzi, è difficile immaginare qualcosa di più contraddittorio e stridente di un matrimonio di convenienza tra il caduco e l’eterno, stipulato per affrontare insieme le tempeste della vita terrena. In ogni caso, tutto ciò che è eterno è indistruttibile, per uno di tre motivi. Primo, perché è insensibile agli urti che potrebbero distruggerlo, come gli atomi. Secondo, perché è immune da quegli urti, come lo spazio vuoto. Terzo, perché non ha spazio attorno in cui potersi distruggere, come l’intero universo. La psiche non appartiene a nessuna delle tre categorie. E, infatti, non è per nulla indistruttibile: oltre a subire i contraccolpi delle malattie del corpo, è vittima anche di specifiche malattie dell’animo. Ha rimpianti e rimorsi per il passato, affanni e indecisioni per il presente, timori e angosce per il futuro. Per non parlare del fatto che spesso cade preda di un vero e proprio mal d’animo, che l’annega nelle nere onde della depressione.

Repetita iuvant (784-829)

Poiché sono il nostro animo e la nostra anima ad essere mortali, la morte è un problema loro, non nostro. Per noi la morte non è nulla, e non ci riguarda. Durante la Seconda Guerra Punica, Annibale e i Cartaginesi ci invasero da ogni parte. La nostra terra tremò sotto il cielo indifferente, e noi rimanemmo a lungo in bilico, ignorando quale popolo avrebbe trionfato, e quale invece sarebbe stato cancellato dalla terra e dal mare. Eppure, anche allora, la vittoria era un problema degli eserciti, non nostro. Per noi la guerra non era stata nulla, e non ci aveva riguardato. Allo stesso modo, dopo che la resa dei conti tra anima e corpo sarà terminata senza vincitori, con il loro mutuo annientamento, a noi non potrà

La morte non è nulla per noi (830-842)

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L’uomo L’Eterno Ritorno Nel saggio La dottrina dei cicli, del 1936, Jorge Luis Borges descrive così la dottrina dell’Eterno Ritorno, simboleggiata dall’ouroboros che si morde la coda, ed enunciata nei versi III,854-858: «Il numero di tutti gli atomi che compongono il mondo è, benché smisurato, finito, e perciò capace soltanto di un numero finito (sebbene anch’esso smisurato) di permutazioni. In un tempo infinito, il numero delle permutazioni possibili non può non essere raggiunto, e l’universo deve per forza ripetersi». Borges ricorda che la dottrina fu anticipata dai Pitagorici e da Platone. Fu poi confutata da Agostino, perché “se la storia si ripete, la passione di Cristo diventa un’opera da saltimbanchi della croce”. E venne infine ripresa da Friedrich Nietzsche nella Gaia scienza, del 1882, con un ragionamento analogo al precedente. Nella scienza non gaia essa assume la forma del teorema di ricorrenza o del teorema ergodico (p. 100), anche se le teorie cosmologiche attuali sembrano escluderla per l’universo nella sua totalità. Al proprio funerale Nelle Lettere (XII,8) Seneca scrive: «Ogni giorno dev’essere vissuto come se fosse l’ultimo della vita. Pacuvio, che fu a lungo governatore della Siria, celebrava le proprie esequie con vino e banchetti funebri. Finita la cena, si faceva portare in camera da letto, mentre i suoi amanti lo applaudivano e cantavano accompagnati dalla musica. Ogni giorno celebrava così i suoi funerali». A volte è la vita, invece del morituro stesso, a inscenare anzitempo il funerale: ad esempio, con esecuzioni abortite all’ultimo momento. Il 23 dicembre 1849 Fëdor Dostoevskij fu “quasi” fucilato dalla guardia zarista a San Pietroburgo (in figura un disegno della finta esecuzione, di quello stesso anno) e nel 1861 raccontò poi la sua esperienza nelle Memorie dalla casa dei morti. Un secolo dopo, il 20 giugno 1944, la stessa cosa successe a Maurice Blanchot con i nazisti, e ispirò nel 1994 L’istante della mia morte.

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Libro III. La psiche succedere proprio niente, perché non ci saremo più. Nulla turberà i nostri sensi, neppure se la terra dovesse mescolarsi al mare, e il mare al cielo. E anche se l’animo e l’anima non dovessero perdere la loro sensibilità dopo la morte, a noi non deve importare, perché senza di loro non sentiremmo comunque più niente. E se il tempo dovesse radunare tutti i nostri atomi, e rimetterli a posto rivitalizzandoli, di nuovo non ci deve importare, perché nel frattempo non avremmo sentito più niente. D’altronde, anche adesso non ci importa più niente di cosa abbiamo potuto essere in precedenza. Ma basta pensare a cosa può essere successo agli atomi che ci compongono e ai loro moti, nell’infinito tempo passato e nello spazio limitato in cui ci troviamo, per capire che hanno già dovuto essere nella stessa disposizione molte altre volte, e molte altre lo saranno. Naturalmente, di questo nessuno si ricorda, perché tra un noi di allora e il noi di ora la vita si è interrotta, e la morte ha disfatto e sconnesso i nostri sensi. Ma solo un essere senziente può sentire pene e dolori, e serbarne memoria. E poiché da morti non possiamo sentire nulla, non abbiamo nemmeno nulla da temere. Chi non esiste non può essere infelice o sventurato, e colui al quale l’immortale morte ha tolto la vita mortale, è come se non fosse mai nato.

L’Eterno Ritorno (843-869)

Non si può ammettere che i sensi si dissolvano dopo la morte, e allo stesso tempo temere di imputridire sottoterra o bruciare all’inferno. In tal caso, o non si è sinceri con se stessi, o si ha qualche problema nella testa. E in entrambi i casi si continua a ritenere, magari anche solo inconsciamente, che la morte non sia una fine assoluta, e che qualcosa di noi le sopravviva. Ma chi teme di essere dilaniato da morto da qualche bestia infernale, è di sé stesso da vivo che si preoccupa. Infatti, non riesce a immaginare il proprio cadavere insenziente, perché si immagina al suo posto e gli attribuisce le proprie sensazioni. E così facendo maledice la propria natura mortale, senza capire che quando sarà morto non ci sarà nessun sé stesso vivo a piangere il sé stesso defunto, a immaginarsi di essere al suo posto, e a temere di essere dilaniato da qualche bestia infernale. E poi, chi si preoccupa di finir dilaniato o bruciato all’inferno, perché non teme allo stesso modo di essere sbranato dagli avvoltoi nel rito funebre persiano? O incenerito su una pira nella cremazione? O, se per questo, congelato su una gelida pietra nell’inumazione? O schiacciato dal peso della terra nella tumulazione? O soffocato immerso nel miele nell’imbalsamazione?

Immagina il tuo cadavere (870-893)

Dicono: «Non verrai più accolto dalla tua lieta casa e dalla tua amata sposa. Non ti correranno più incontro i tuoi cari figli, a strapparti baci e intenerirti il cuore. Non sarai più il sostegno del focolare. Un giorno

Lamenti, sospiri e rimpianti (894-930)

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L’uomo Insegnare a morire è insegnare a vivere Il capitolo I,20 dei Saggi di Montaigne, intitolato Filosofare è imparare a morire, effettua nelle ultime pagine una dozzina di citazioni tratte dai versi III,870-1094, e termina così: Ho pensato spesso da che cosa potessero derivare due fatti. Anzitutto, che nelle guerre il volto della morte, nostra o altrui, ci sembri molto meno spaventoso che nelle nostre case: altrimenti, l’esercito sarebbe composto di medici e di piagnoni. E poi, che la morte, pur essendo uguale per tutti, venga sopportata con una maggior forza d’animo dai contadini e dai poveri, che non dai cittadini e dai ricchi. Io credo che siano le terribili ritualità e cerimonie di cui la circondiamo, a farci più paura della morte stessa. Di fronte a lei ci si comporta in modo inusuale: le madri, i coniugi e i figli si disperano urlando, gli amici e i conoscenti partecipano sbigottiti, i dipendenti e i servi piangono pallidi, il moribondo giace in una camera buia, illuminata solo da macabri ceri, e al suo capezzale si affollano medici e preti. Tutto è spaventoso, e si finisce di sentirsi già morti e sepolti quando ancora si è vivi. In fondo, le mascherate spaventano già i bambini, e continuano a spaventare gli adulti. Dobbiamo smascherare le cose e le persone. E una volta tolta la maschera, sotto la morte angosciosa troveremo semplicemente la morte naturale, che i semplici e i poveri accettano senza paura. Felici coloro che riescono a morire senza aver concesso il tempo, a chi organizza le mascherate, di mettere in scena la loro macabra esibizione.

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Libro III. La psiche infausto ti ha sottratto tutti i doni della vita». Ma non aggiungono: «Tu comunque non rimpiangi più nessuno di quei doni». Se lo facessero, e ci credessero, non soffrirebbero, e non si preoccuperebbero più per te. Dicono anche: «Tu ti sei addormentato in un sonno eterno e riposi in pace. Ma noi piangiamo un pianto eterno e vegliamo senza pace». Si potrebbe però chieder loro cosa ci sia tanto da piangere e vegliare, se veramente credono che la morte si riduca, in fondo, soltanto a un lungo sonno e una gran pace. Quando mangiano e bevono sdraiati sui triclini, con le coppe traboccanti in mano e le corone intrecciate in testa, i commensali sospirano: «Il piacere dura poco, svanisce presto, e prima o poi non tornerà più». Ed è di questo che dovremmo preoccuparci: che da morti non avremo più fame e sete, e non moriremo più di desiderio come da vivi? Nessuno però compiange sé stesso e rimpiange la vita, quando la mente e il corpo dormono. Eppure, la coscienza è a portata di mano, e verrà prontamente riacquistata non appena i sensi assopiti si risveglieranno. A maggior ragione, nessuno compiangerà sé stesso e rimpiangerà la vita, quando la mente e il corpo dormiranno un sonno senza risvegli, e la coscienza si sarà irrimediabilmente dissolta. Così parlò la Natura, severa e burbera: «Cosa ci trovi di tanto grave, o mortale, da doverti lasciar andare a tutti questi lamenti? Perché frigni, e ti lagni della morte? Se hai ricevuto molti doni e hai potuto accumularli, se la vita te la sei goduta, e non è stata per te come un vaso bucato o un fiume nel deserto, perché non te ne vai soddisfatto, con la pancia piena alla fine del banchetto? Perché non accetti l’offerta di una casa di riposo eterno, al termine di una marcia estenuante? Se invece odi la vita, e hai perso tutto ciò che hai ricevuto, perché insisti a voler continuare a giocare? Perché vuoi ricevere altre delusioni e infliggerti altro male? Non staresti molto meglio, se la finissi con la vita e gli affanni? Ormai non c’è più nulla che posso fare per te. Ti ho già dato tutto ciò che potevi desiderare e volere, e non potrei inventarmi niente di diverso. Anche se tu invecchiassi ottimamente, pieno di salute e di vigore per mille anni o in eterno, non vivresti comunque altro che una stanca e noiosa ripetizione di ciò che hai già vissuto.» Possiamo forse darle torto? Non dobbiamo forse ammettere che ha effettivamente ragione?

La festa è finita (931-951)

Se a lamentarsi della morte prossima fosse un vecchio ormai alla fine, la Natura farebbe bene a redarguirlo così: «Asciuga le tue lacrime, o vecchio, e piantala di piangere. Ti sei goduto la

Rimbrotto a un vecchio (952-977)

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L’uomo All’inferno gli epicurei!

Lucrezio avrebbe declassato Dante, in quanto cantore di miti sull’inferno, a poeta fantastico. E Dante declassa Lucrezio, in quanto epicureo, a personaggio da favola. Nell’Inferno (X,13-15), infatti, gli epicurei sono posti nella Città di Dite, nelle tombe scoperchiate e infuocate destinate agli eretici: Suo cimitero da questa parte hanno con Epicuro tutti i suoi seguaci, che l’anima col corpo morto fanno. La loro pena conferma la diagnosi dei versi III,978-979 di Lucrezio, che «le favole che si raccontano sull’inferno sono trasposizioni fantastiche di ciò che patiamo veramente nella vita». Perché il motivo per cui gli epicurei sono posti in una tomba nella città dei morti, è che da vivi non han creduto alla vita eterna. In una di quelle tombe, se ci fossero, ci finiremmo pure noi. Fortunatamente, come ci insegnano Epicuro e Lucrezio, e più in generale il buon senso e la ragione, l’inferno è solo una favola a metà fra l’horror e il pulp fiction, presa sul serio dagli ingenui lettori della Divina Commedia, ma non da quelli accorti del De rerum natura.

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Libro III. La psiche vita, ma ora stai marcendo. Continui a smaniare per quello che ti manca e a disprezzare quello che hai, ma la tua ingrata e incompiuta vita ormai volge al termine. La fine sta per arrivare e la morte è ormai al tuo fianco, pronta a coglierti prima che tu possa ritenerti soddisfatto e sazio. Faresti meglio ad arrenderti, staccandoti volontariamente da quanto comunque non avrai più. Tanto, non hai scelta.» Sarebbero parole ben dette, perché tutto ciò che è vecchio deve lasciar spazio al nuovo, e permettere che la Natura abbia il suo corso. Ma non ci si deve preoccupare, perché in ogni caso nessuno finisce all’inferno. C’è solo bisogno di materia per le nuove generazioni, che un giorno diventeranno vecchie a loro volta, e dovranno cederla ad altre più nuove di loro. Così funziona il ciclo della vita: nessuno l’ha in dotazione esclusiva e perenne, e tutti la ricevono solo in uso temporaneo. L’eterno tempo passato che è trascorso prima della nostra nascita, per noi non è esistito. E la Natura ci mostra, come in uno specchio, l’eterno tempo futuro che trascorrerà dopo la nostra morte. Ci vediamo forse qualcosa di orribile o triste? O, piuttosto, non ci sembra più sicuro e tranquillo di qualunque sonno senza sogni? Le favole che si raccontano sull’inferno, in realtà sono solo trasposizioni letterarie e fantastiche di ciò che patiamo veramente nella vita. Il supplizio di Tantalo lo terrorizza, perché sul capo gli pende perennemente un macigno pronto a cascargli addosso e schiacciarlo [come pena per i suoi ripetuti peccati nei confronti degli dèi]. Ma sta solo a indicare che l’uomo è assillato dalla paura delle divinità che incombono pesantemente su di lui, e delle avversità che la mala sorte può scaricargli contro. Il gigante Tizio giace riverso nell’Acheronte [ucciso da Artemide e Apollo per aver insidiato sessualmente Latona, amante di Giove]. Il suo smisurato corpo è ancorato a terra, e gli avvoltoi gli divorano perennemente il fegato. Ma, per quanto enorme possa essere il fegato di un gigante, quanto mai potranno andare avanti? Nemmeno tutti i prodotti dell’intera Terra potrebbero sfamarli in eterno! In realtà, Tizio siamo noi in preda a un’ansia angosciosa, quando ci rodiamo il fegato per amore, tormentati e lacerati dagli uccelli rapaci della passione e della gelosia. Sisifo invece, reo di aver sfidato gli dèi, è condannato a dover perennemente spingere su per una montagna un masso, che altrettanto perennemente rotola giù per la china. Anche lui, l’abbiamo sempre dinanzi agli occhi: è chi brama e insegue i fasci littori, simboli dell’autorità e del potere, e nelle alterne fortune della vita politica vanamente li conquista, e inesorabilmente li perde. [Dopo esser state rapite e sposate a forza dai loro cugini, le quarantanove sorelle Danaidi uccisero i loro mariti, e furono condannate nell’inferno a riempire continuamente d’acqua dei vasi bucati.] La loro è la storia della

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L’inferno è qui e ora (978-1023)

L’uomo Newton, novello Epicuro

Lo stesso elogio che Lucrezio attribuisce a Epicuro nel verso III,1043 (qui genus humanum ingenio superavit, “che sovrastò per ingegno il genere umano”) è riattribuito a Newton dalla statua eretta nel 1755 nella cappella del Trinity College a Cambridge, in un ideale passaggio di testimone. Fu Edmund Halley, dal quale prende il nome l’omonima cometa, a usare per primo espressioni lucreziane per lo scienziato. Nel 1687 l’astronomo premise alla prima edizione dei Princìpia, da lui finanziati e curati, l’ode in latino All’opera fisico-matematica dell’illustrissimo Isaac Newton, somma vetta della ricerca e del genere umano, che si conclude così: Voi, che vi cibate del nettare degli dèi, cantate con me il nome di Newton, caro alle Muse, perché egli ha disigillato i nascosti tesori della Verità. Apollo ha diffuso la luce della propria divinità così profusamente nella sua mente, che nessuno, dio o uomo, può avvicinarla. È difficile capire chi dei due stimasse di più il proprio idolo: se Lucrezio Epicuro, o Halley Newton. Ma sappiamo già (p. 72) che Newton stimava Lucrezio: se anche Epicuro avesse stimato Halley, il cerchio si sarebbe chiuso.

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Libro III. La psiche folta folla degli ingordi, mai contenti di ciò che la Natura saggiamente ci dispensa, e sempre bramosamente in cerca di qualcos’altro da possedere. Non parliamo poi di Cerbero [il cane che latra a tre gole]. E delle Furie, [dalla bocca spalancata e la chioma di serpenti]. E dell’inferno stesso, avvolto nelle tenebre e fucina del fuoco eterno. Tutte sciocchezze inesistenti, che non stanno né in cielo, né in terra. Ma sulla Terra si commettono certamente crimini e misfatti, e se ne temono i giusti castighi: il carcere, le frustate, le torture, i supplizi, l’esilio. Fino alla pena di morte, come quella orrenda del salto giù dalla Rupe Tarpea del Campidoglio. E, anche per chi la fa franca, ci sono sempre le non meno gravi e dure pene che ciascuno si autoinfligge: il rimorso per ciò che si è perpetrato, e il timore di poter essere scoperti, giudicati e condannati, sia nell’adiqua che nell’aldilà. È così che gli stolti si costruiscono un inferno con le loro proprie mani. Io credo che tu potresti ben dirti: «Sono morti tutti i potenti del mondo e i capipopolo, che hanno dominato sulle nazioni e le genti. È morto il buon Anco Marzio, re di Roma, che fu tanto migliore di me. È morto l’ardito Serse, re di Persia, che costruì un ponte di barche sull’Ellesponto per far passare le sue legioni a piedi sulle acque del mare. È morto il glorioso Scipione l’Africano, vincitore di Annibale e dei Cartaginesi, come se fosse stato l’ultimo schiavo. Sono morti tutti gli scienziati e gli artisti. È morto Omero, padre dei poeti, come se fosse stato uno qualunque di loro. È morto Democrito, che quando la vecchiaia gli mostrò che stava perdendo la memoria, offrì spontaneamente il collo alla falce. È morto, addirittura, lo stesso Epicuro, che sovrastò per ingegno il genere umano e oscurò tutti, come il Sole fa con le stelle. E non dovrei forse morire anch’io, che in confronto a tutti loro ho sempre vissuto quasi come un “morto vivente”? Io, che non solo dormo quasi tutto il giorno, ma anche da sveglio continuo a sognare ad occhi aperti? Che spesso sto male, senza saper nemmeno bene perché? Che mi lascio assalire da timori e tremori, quando sono ubriaco? Che vago incerto, ondeggiando tra le nebbie della mente?»

Nessuno viene risparmiato (1024-1052)

Ah, se chi sente un peso nell’animo che lo schiaccia sotto di sé, potesse conoscere le cause del proprio malessere e della pena che alberga nel suo cuore! Smetterebbe di vivere come vive, meccanicamente, senza sapere cosa vuole. Smetterebbe di muoversi di qua e di là, forsennatamente, senza che questo possa liberarlo. La gente si annoia a stare in casa da sola. Esce a passeggio o a fare un giro a cavallo, ma presto rientra perché si annoia anche fuori. Torna indietro frettolosamente, quasi gli stesse andando a fuoco la casa. Ma appena rien-

L’alienazione della vita (1053-1094)

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L’uomo Lucrezio al muro (della biblioteca) Nel 1571, il giorno del suo trentottesimo compleanno, Michel de Montaigne abbandonò la vita pubblica e si ritirò nel castello di famiglia in Dordogna, nel Sud-Ovest della Francia. Passò il resto della sua vita, fino alla morte nel 1592, a elaborare una saggezza filosofica che trovò molti spunti negli stoici e negli epicurei. In particolare, in Lucrezio, citato per ben centoquarantanove volte nei famosi Saggi: meno di Orazio, ma più di Virgilio. Una dozzina di queste citazioni proviene dalla riflessione sulla morte che conclude questo libro del De rerum natura (III,830-1094). E, a sua volta, funge da ossatura per un’analoga riflessione dei Saggi (p. 136). Sul soffitto della sua biblioteca, al terzo piano della torre circolare, Montaigne aveva fatto incidere una sessantina delle sue citazioni preferite, quattro delle quali di Lucrezio. Una di queste era il verso III,1081: nec nova vivendo procuditur ulla voluptas, “né vivendo si incontra alcun nuovo piacere”. Alcune delle citazioni furono in seguito cancellate, per lasciar posto ad altre nuove: forse, perché non rispecchiavano più il pensiero di Montaigne. In particolare, il verso di Lucrezio fu sostituito con sicut ignoras quomodo anima coniugatur corpori, sic nescis opera dei, “se ignori come l’anima si coniughi al corpo, non sai niente dell’opera di Dio”: una parafrasi del verso XI,5 dell’Ecclesiaste, in realtà riferito all’entrata dell’anima nel feto. L’episodio è ripreso nel saggio Il gatto di Montaigne di Saul Frampton (Guanda, 2012), dove viene collegato a “un passaggio dalla filosofia della morte alla filosofia della vita: dal non aver paura di morire, al non aver paura di vivere”.

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Libro III. La psiche trata, ricomincia a sbadigliare. Fa un sonnellino, si dedica a qualche svago, e poi esce di nuovo. In realtà, noi cerchiamo di fuggire da noi stessi ammazzando il tempo. Ma la cosa è impossibile, e la convivenza con noi stessi è obbligata. Sappiamo di soffrire, ma non capiamo perché. Se ne vedessimo le cause, smetteremmo di vivere come viviamo, e ci dedicheremmo a conoscere la natura delle cose. Perché il problema non è come vivere il breve tempo che ci è concesso, ma come non temere l’eterno tempo che seguirà. Cos’è questa smania di vivere, che ci fa tanto trepidare per cose di dubbia utilità? La fine della vita è certa, la morte inevitabile. Noi ci muoviamo in tondo, sempre nello stesso punto, a ricercare sempre gli stessi piaceri della vita: né, vivendo, se ne incontrano di nuovi. Ottenere ciò che non abbiamo sembra essere la cosa più importante, ma non appena lo otteniamo passiamo subito a desiderare qualcos’altro: il nostro appetito di vita è vorace, la nostra sete di vita insaziabile. Non sappiamo che sorte ci riservi il futuro, cosa ci porterà il caso e quale fine ci attenda. Ma prolungando la vita non sottraiamo certo del tempo alla morte, e non rimarremo sottoterra meno a lungo per questo. Una morte eterna attenderebbe anche chi vivesse per secoli, e chi muore oggi non rimarrà meno a lungo senza vita di chi è morto mesi o anni fa.

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Libro IV Fisiologia e psicologia

Felix qui potuit rerum cognoscere causas Nelle Egloghe (VI,32-35) Virgilio rappresenta allegoricamente Lucrezio come il satiro Sileno, cinto dalla corona citata nei versi IV,3-5, che declama il suo poema: «Cantava come nel grande vuoto si unissero gli atomi di acqua, d’aria, di terra e insieme di puro fuoco, e come da questi elementi primi si fossero aggregate tutte le cose, e lo stesso molle globo del mondo». Ma l’elogio più noto che gli fece è quello delle Georgiche (II,490-492): «Felice chi ha potuto conoscere le cause delle cose, e mettere sotto i piedi ogni paura, e il destino inesorabile, e lo strepito dell’avido Inferno». Un elogio ripreso da Ovidio nei Fasti (I,297-298): «Felici coloro che vollero per primi conoscere queste cose, e innalzarsi verso le sfere celesti». Basta un poco di zucchero Benché i versi IV,11-17 siano diventati classici, tanto da essere identificati come la fonte dell’espressione “addolcire la pillola”, in realtà essa risale al secolo -IV, nei Detti memorabili di Socrate di Senofonte (IV,2): «È giusto che se un figlio non vuole prendere la medicina, il padre gliela presenti come se fosse un cibo gustoso». E prima di Lucrezio era già stata usata da Platone nelle Leggi (II,659600), per suggerire l’impiego del divertimento (poesia, musica, danza) a fini educativi. In seguito la metafora è stata variamente ripresa. Ad esempio, nel 1581 da Torquato Tasso, nel proemio della Gerusalemme liberata: «Così a l’egro fanciul porgiamo aspersi di soavi licor gli orli del vaso: succhi amari ingannato ei beve, e da l’inganno sua vita riceve». Nel 1881 da Carlo Collodi, in Pinocchio: «Prima voglio la pallina di zucchero, e poi beverò quell’acquaccia amara». E nel 1964 da Robert Stevenson, nel film Mary Poppins: «Basta un poco di zucchero e la pillola va giù, tutto brillerà di più». 146

Penetrerò ora, col potere della mente, un’altra regione ancora inesplorata del territorio delle Muse. Mi piace abbeverarmi a fonti pure. Mi piace cogliere fiori novelli e intrecciarmene una corona, quale mai nessuno ha ricevuto dalle Muse. Anzitutto, perché insegno grandi cose, e cerco di sciogliere i nodi annodati nell’animo dalla religione e dalla superstizione. E poi, perché compongo canti così lucidi su cose così opache, con un tocco artistico. E questo non è insensato. D’altronde anche i medici, quando prescrivono l’amaro assenzio ai bambini, toccano col dolce miele l’orlo della tazza, per approfittarsi a fin di bene della loro ingenuità, e far loro trangugiare la sgradevole medicina che li curerà. Io faccio lo stesso con te, perché certi argomenti sembrano amari a chi è intellettualmente infantile e ingenuo, e vanno addolciti col miele della letteratura. Come un medico dell’animo io ti propino dunque le mie parole alate, per conquistare la tua attenzione a proposito della natura delle cose.1

Il miele della letteratura (1-25)

Dopo aver parlato a lungo della natura della psiche e della sua composizione atomica, passiamo ora a un argomento collegato. Si tratta dei simulacri che si staccano dalle superfici delle cose e si spargono in ogni direzione, fino a insinuarsi nella nostra mente. Assomigliano alle visioni allucinatorie che ci turbano nel dormiveglia, o ai fantasmi spettrali che ci spaventano nel sonno. A volte queste im-

Fantasmi e spoglie (26-62)

1 Vedi I,921-950. Non si sa se la ripetizione sia dell’autore, o di qualche curatore. E, nel primo caso, se fosse da considerare definitiva o solo temporanea, in attesa di una decisione sulla collocazione finale.

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L’uomo Fotografie La teoria dei simulacri, anticipata nei versi IV,63-109 e sviluppata nel seguito del libro IV, costituisce una corretta anticipazione del meccanismo della visione. La quale non è, come si credeva in genere nell’antichità, provocata da agenti sporadicamente emessi dall’occhio dell’osservatore, come la luce di una torcia che illumina il buio quando viene accesa. Bensì, è provocata da agenti continuamente emessi o riflessi dai corpi osservati, che vengono sporadicamente intercettati dall’occhio e percepiti dall’osservatore. Questi agenti sono fotoni (p. 92): cioè, pacchetti di energia elettromagnetica che, secondo la dualità della meccanica quantistica, posseggono una doppia natura di particella e di onda. Quelli di una particolare lunghezza d’onda, compresa fra l’infrarosso e l’ultravioletto, non sono assorbiti dall’atmosfera e costituiscono la luce visibile, che è in grado di stimolare la retina dell’occhio e provocare la visione (p. 152). Micrografie I versi IV,116-122 spingono lo sguardo nel mondo microscopico, e sono stati ripresi nel 1658 da Pascal nei Pensieri (223): «Cos’è un uomo nell’infinito? Per sperimentare un prodigio meraviglioso cerchi, tra ciò che conosce, le cose più minute. Un acaro gli offre, nella piccolezza del suo corpo, parti incomparabilmente più piccole: zampe con giunture, vene in queste zampe, sangue in queste vene, umori in questo sangue, gocce in questi umori, vapori in queste gocce». Ma poco dopo, con l’avvento del microscopio, le speculazioni intellettuali lasciarono il posto alle impressioni sensoriali. Nel 1665 Robert Hooke pubblicò infatti lo storico volume della Micrographia, in cui mostrò le immagini di ciò che aveva potuto osservare con il nuovo strumento, e alcune di esse divennero classiche. Ad esempio, quella della pulce, mostrata nei suoi dettagli (a sinistra). O quella della struttura del sughero (a destra), dalla forma a piccole celle, a cui Hooke diede il nome oggi usuale di cellule.

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Libro IV. Fisiologia e psicologia magini ci risvegliano bruscamente, ma non dobbiamo temerle, perché di certo non si tratta di anime sfuggite all’inferno o rimaste a zonzo fra noi: sappiamo già, infatti, che dopo la morte l’animo e l’anima si dissolvono. Come ogni corpo possa emettere dalla sua superficie tenui effigi e labili immagini di sé stesso, quasi fossero membrane o cortecce, lo si può comprendere in vari modi. Alcune cose visibili rilasciano particelle che si disperdono, come il calore del fuoco o il fumo della legna che brucia. Altre lasciano vere e proprie impronte di sé: l’esoscheletro che le cicale cambiano d’estate, la pelle che i serpenti abbandonano fra i rovi, i sacchi amniotici che ancora avvolgono i vitelli dopo il parto. Non sappiamo perché solo alcuni corpi rilascino immagini macroscopiche di sé, ma possiamo immaginare che tutti ne rilascino di più o meno microscopiche. E tanto più velocemente, quanto più queste immagini consistono di particelle minute e superficiali, e dunque difficili da ritenere. A volte i teloni gialli, rossi e ruggine che ricoprono i teatri all’aperto, tesi fra i pali e appoggiati sulle travi, vengono scossi dal vento e spandono una polvere colorata sulla scena, sugli ospiti di riguardo e sul pubblico. E quanto più i muri schermano il vento, tanto più tutto appare ridentemente colorato. Ma come i teloni rilasciano particelle colorate, anche la superficie di ogni altra cosa emetterà simulacri analoghi. Essi volteggiano dovunque attorno a noi, benché non li possiamo percepire isolatamente. E poiché provengono dalla superficie delle cose, mantengono la forma degli oggetti che li hanno emessi, staccandosene senza traumi. Le particelle che si disperdono, come il calore o il fumo, affiorano invece dall’interno dei corpi, e ne erompono disordinatamente, perché devono superare molti ostacoli prima di potersi staccare dalla superficie. Anche le immagini delle cose riflesse dagli specchi, dall’acqua o dai corpi lucidi devono derivare da simulacri emanati da esse, perché ne preservano fedelmente l’aspetto. Questi simulacri devono dunque essere presenti tutto intorno a noi, benché noi non li possiamo percepire in condizioni normali, fino a quando non rimbalzano sullo specchio o su altri piani.

I simulacri delle cose (63-109)

Per capire quanto tenue sia l’immagine veicolata dai simulacri, considera quanto piccoli sono gli atomi che li compongono, ben al di sotto della soglia della percezione dei sensi e della capacità di discernimento della vista. D’altronde, ci sono al mondo animaletti così piccoli, che non si riuscirebbe più a vedere se venissero divisi anche solo in due o tre parti. Essi hanno viscere, cuore, occhi e zampe, ma quanto grandi potranno mai essere questi loro organi? Per non parlare degli atomi del loro cervello e del loro sistema nervoso! Ci sono anche piante che mandano forti odori, se solo si sfregano: ad

Il mondo è piccolo (110-128)

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L’uomo Una vera panacea I versi IV,124-125 citano piante oggi poco note, eccetto che in erboristeria, almeno con quei nomi. A partire dalla panacea, il cui nome latino panax derivava dal greco panàkeia, “cura tutto”: da cui il significato sia di “panacea”, come rimedio universale, sia di Panacea, come dea della guarigione universale attraverso le erbe. Quest’ultima era figlia di Esculapio, dio della medicina, e sorella di Igea, dea dell’igiene. Oggi la panacea è più conosciuta con il suo nome cinese di ginseng, “pianta dell’uomo”, dovuto alla più ricercata delle varie e strane forme assunte dalla sua radice. Naturalmente, anche in Oriente la pianta ha una fama taumaturgica, in particolare afrodisiaca, ma alcuni studi recenti sembrano confermare un suo effetto positivo in vari campi, almeno negli animali da laboratorio. Anche se sicuramente non è un toccasana, non è dunque detto che sia soltanto un rimedio per allocchi e proseliti del new age.

Effetto notte

Nel cinema “effetto notte” era una tecnica di ripresa diurna che simulava un’ambientazione notturna, mediante l’uso di filtri blu che producevano un risultato analogo a quello che Lucrezio attribuisce alle nuvole nei versi IV,168-175. Questa tecnica, oggi diventata superflua con la digitalizzazione delle immagini, in inglese si chiamava day for night, e in francese la nuit américaine: come nel titolo originale del film di François Truffaut del 1973, tradotto in italiano appunto con Effetto notte. Il film è interessante anche come opera autoreferenziale, e tipico esempio di “film al quadrato”. Esso narra infatti le riprese del film Vi presento Pamela, e gli attori, la troupe e il regista moltiplicano i loro ruoli, sul set e nella vita reale: da un lato, come protagonisti e operatori di Vi presento Pamela, e dall’altro, come protagonisti e operatori di Effetto notte, in un gioco di specchi che anche Lucrezio accennerà nei versi IV,969-970 (p. 174).

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Libro IV. Fisiologia e psicologia esempio, la panacea, l’assenzio, l’artemisia e la centaurea. E questi odori derivano da impercettibili particelle superficiali che vengono sprigionate dallo sfregamento. Possiamo dunque immaginare che dalle cose si sprigionino analogamente simulacri d’ogni sorta, impalpabili e invisibili, che si spandono dovunque senza che noi neppure ce ne accorgiamo. Affinché tu non creda che gli unici simulacri siano quelli emanati dalle cose, sappi che ci sono anche simulacri che si formano spontaneamente nell’atmosfera. Sono variegati e multiformi. Si addensano senza fatica come le nubi, quando corrono insieme a coprire il cielo sereno. E assumono la forma del volto di un gigante che proietta una grande ombra, di un monte o un masso che oscura il Sole, o di una belva che va a caccia delle altre nuvole. E cambiano continuamente aspetto, passando da una forma all’altra. A volte poi il cielo, fino ad allora limpido e sereno, diventa improvvisamente cupo e minaccioso, tanto da far credere che le tenebre abbiano abbandonato gli antri dell’inferno per andare a occupare le volte celesti. Allora i nembi producono un tetro “effetto notte”, e incombono dall’alto come visioni paurose.

Le nuvole (129-142, 168-175)

I simulacri si generano facilmente e velocemente, staccandosi dalle cose che li emettono. Quando raggiungono cose penetrabili, come il vetro, le attraversano senza fatica. Quando raggiungono cose impenetrabili, come la pietra o il legno, vi si spezzano senza rivelare l’immagine che trasportano. Ma quando incontrano cose lucide e riflettenti, come gli specchi, non succede nessuna delle due cose: l’immagine non solo si preserva, ma diventa visibile. E per quanto improvvisamente noi poniamo uno specchio di fronte a qualcosa, subito esso ne forma l’immagine: il che significa che i simulacri vengono continuamente emessi dai corpi, in qualunque istante e in velocissima successione. Infatti, come il Sole deve emettere raggi a getto continuo, per poter far risplendere la sua luce sempre e dovunque, così devono fare le cose con i propri simulacri, affinché gli specchi possano riflettere sempre e dovunque le loro forme e i loro colori.

Gli specchi (143-167)

Procederò ora a parlare della velocità con la quale i simulacri si muovono nell’aria, che permette loro di percorrere lunghi spazi in brevi tempi, in tutte le direzioni. E lo farò in maniera più soave che diffusa, perché il breve canto del cigno prima della sua morte è migliore del lungo clamore della gru disperso dal piovoso vento del Sud.

Più veloci della luce (176-215)

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L’uomo Veloce come la luce I versi II,142-164 avevano argomentato a favore di una velocità degli atomi nel vuoto superiore a quella della luce del Sole nell’atmosfera. I versi IV,176-215 ripetono l’affermazione, limitandola questa volta ai fotoni che compongono i simulacri. Per gli atomi in generale l’affermazione è certamente sbagliata, ma per i fotoni (p. 92) nel vuoto è sostanzialmente corretta. Esiste infatti una velocità limite, di circa 299.800 chilometri al secondo, che non può essere raggiunta da particelle con massa non nulla, come gli elettroni, ma lo è da quelle con massa a riposo nulla, come i fotoni nel vuoto. Ma la luce che attraversa un mezzo, rallenta: nell’aria considerata da Lucrezio la velocità scende a circa 299.700 chilometri all’ora, nell’acqua a 230.000, nel vetro a 200.000, nel diamante a 125.000, e in certi condensati noti col nome di Bose-Einstein praticamente si ferma.

Ci vedi da questo occhio? I versi IV,230-268 riducono correttamente la visione all’effetto dei fotoni che entrano negli occhi, e stimolano i bastoncelli e i coni della retina. I primi sono di un solo tipo, e servono per la visione notturna in bianco e nero. I secondi sono di tre tipi, sensibili rispettivamente alle lunghezze d’onda di ciò che chiamiamo rosso, verde e blu (p. 88), e servono per la visione diurna a colori. L’occhio è invece cieco a tutte le lunghezze d’onda che esulano dallo spettro visibile, compreso fra l’infrarosso e l’ultravioletto. La percezione della distanza non ha invece niente a che vedere con la pressione citata nei versi IV,244-255. Come spiegò Newton nell’Ottica del 1704, deriva piuttosto dalla visione binoculare: le due immagini bidimensionali fornite dalle retine sono leggermente differenti, e vengono combinate in un’unica immagine tridimensionale dal cervello mediante una valutazione inconscia delle loro differenze, che permettono di calcolare la distanza di un oggetto sulla base degli angoli che esso forma con i due occhi. 152

Libro IV. Fisiologia e psicologia Anzitutto, spesso vediamo che è veloce ciò che è leggero e formato di atomi piccoli. Tali sono, ad esempio, la luce e il calore del Sole, che esso genera emettendo a getto continuo atomi che penetrano l’aria. E tali devono essere i simulacri che si muovono quasi istantaneamente, sospinti dalle loro sorgenti e formati di materia impalpabile e invisibile. Inoltre, gli atomi di luce e calore che il Sole emette arrivano dal suo interno, ma in un istante inondano il cielo e si diffondono sui mari e le terre. Che dire, allora, degli atomi dei simulacri, che emanano direttamente dalla superficie delle cose, senza che niente ne ostacoli l’emissione? Non vedi quanto più veloci e più lontani devono andare, e quanto più spazio devono percorrere, nello stesso tempo in cui i raggi del Sole inondano il cielo?2 Ma forse l’esempio più convincente di quanto i simulacri siano veloci ce lo mostra il fatto che, non appena portiamo un catino d’acqua all’aperto in una notte stellata, subito gli astri vi si riflettono radiosi. Capisci quanto poco ci mettano, le loro immagini, a fare il viaggio dalle rive celesti alle rive terrestri? Dobbiamo certamente riconoscere quanto sia sorprendente che le cose irradino atomi che colpiscono gli occhi, provocando la visione. Che i fiori diffondano profumi, i fiumi frescura, il fuoco calore, le onde marine la salsedine che erode i muri prospicienti le spiagge. Che l’aria risuoni di voci. Che al mare le labbra si inumidiscano di un sapore salmastro, e che percepiamo l’amaro dell’assenzio già quando se ne prepara un infuso. Atomi di ogni genere fluiscono da ogni cosa, incessantemente. Si diffondono dovunque, in tutte le direzioni. E i nostri sensi li percepiscono costantemente, permettendoci di vedere, udire e odorare tutto ciò che ci circonda.

I sensi (216-229)

Poiché riconosciamo con gli occhi, al chiaro, ciò che abbiamo toccato con le mani, al buio, la vista e il tatto devono avere cause affini. Ma se tocchiamo un corpo quadrato al buio, cos’altro potremo vedere di quadrato al chiaro, se non una sua immagine? Dunque, le immagini sono la causa della vista, e senza di esse non potremmo vedere niente. Queste immagini di cui sto parlando, sono simulacri ottici. Esse si muovono dovunque e dappertutto, ma le possiamo appunto vedere soltanto con gli occhi: è per questo che dobbiamo girare la testa, se vogliamo percepire le forme e i colori delle cose che ci stanno attorno. Sono sempre le immagini a permetterci di capire quanto le cose distino da noi, attraverso la pressione dell’aria che viene provocata dalla sorgente che le emette: quanto più una cosa è lontana, tanto più c’è aria fra noi ed

La vista (230-268)

2

Vedi II,142-164. Ma l’argomento qui è diverso.

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L’uomo Cosa si vede allo specchio? I versi IV,269-291 propongono una fantasiosa ed errata spiegazione del perché vediamo un’immagine reale al di là dello specchio. In realtà a fornire immagini reali sono le lenti, mentre gli specchi forniscono soltanto immagini virtuali, non proiettabili su schermi cinematografici o imprimibili su pellicole fotografiche. Inoltre, le immagini virtuali sono grandi quanto gli oggetti riflessi, ma vengono percepite come molto più piccole: per accorgersene basta segnare il contorno della propria faccia sullo specchio appannato. I versi IV,292-301 ripropongono la credenza, tuttora diffusa ma errata, che lo specchio scambi la destra e la sinistra: invece, l’immagine di un dito parallelo allo specchio continua a puntare nella stessa direzione in cui punta il dito. È l’immagine di un dito perpendicolare che viene invertita, invece, e punta nella direzione contraria! Dunque, lo specchio lascia invariate la destra e la sinistra, così come l’alto e il basso, ma scambia l’avanti e l’indietro. Il fatto che lo specchio sembri scambiare la destra e la sinistra è soltanto un’illusione psicologica: noi ci mettiamo nei panni dell’immagine riflessa, e notiamo che ciò che vediamo a sinistra, ad esempio un orologio, essa la vede a destra, e viceversa. Ed è un’illusione anche l’inversione delle scritte riflesse: il foglio lo giriamo noi, per porgerlo allo specchio, e se è trasparente possiamo verificare che ciò che vediamo è esattamente uguale a ciò che lo specchio ci mostra. Volendo veramente vedere un’inversione fra destra e sinistra, basta specchiarsi con i fianchi rivolti allo specchio. E per vedere un’inversione fra alto e basso, basta mettere lo specchio sul pavimento, o sul soffitto, invece che sulle pareti, e specchiarsi da in piedi. Ma non da sdraiati, come si fa negli alberghi a ore, perché in tal caso saremmo di nuovo da capo, e verremmo comunque distratti da altre cose.

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Libro IV. Fisiologia e psicologia essa, e quest’aria premerà sui nostri occhi, una volta smossa dall’emissione dell’immagine. E tutto si svolge così velocemente, che in uno stesso istante vediamo l’oggetto e percepiamo la sua distanza. Non dobbiamo comunque stupirci di non percepire le singole immagini, ma solo le cose stesse. Allo stesso modo, quando un vento gelido ci sferza, non percepiamo gli atomi di freddo, ma solo il cambiamento di temperatura. Quando un corpo ci colpisce, non sentiamo una serie di piccoli urti localizzati sulla nostra pelle, ma un unico urto distribuito che ci dà la sensazione di un solo colpo. E se tocchiamo un sasso con un dito, non percepiamo le particelle di colore che stanno in superficie, ma la durezza dell’intero sasso. Sta’ a sentire, ora, perché vediamo l’immagine di uno specchio dall’altra parte, oltre la sua superficie. Lo stesso succede quando dall’interno di una casa vediamo, attraverso una porta aperta, le cose che stanno all’esterno. In entrambi i casi interviene un duplice volume d’aria: il primo dentro la casa, per vedere fino all’uscio, e il secondo all’esterno, per vedere al di fuori. Nel caso dello specchio, quando la sua immagine si sprigiona, essa muove l’aria fino a noi, e ci provoca la vista dello specchio stesso. Nello stesso momento anche noi sprigioniamo la nostra immagine, che arrivata allo specchio rimbalza, muovendo dapprima l’aria da noi allo specchio, e poi l’aria dallo specchio a noi. Arrivando dopo, con un percorso doppio, la nostra immagine viene percepita più lontana, a una distanza doppia di quella dello specchio, come accade per le cose oltre la porta. Sta’ anche a sentire perché vediamo la nostra parte sinistra riflessa come se fosse la destra, e viceversa. Questo accade perché l’immagine, quando rimbalza sullo specchio, non si gira facendo “dietro front”. Piuttosto, si rovescia come una maschera di creta fresca sbattuta contro una colonna o una trave, che conserva la forma, ma inverte il concavo e il convesso. Così, quello che prima era l’occhio sinistro diventa il destro, e viceversa. Le immagini si possono anche riflettere da specchio a specchio, creando effetti ottici sorprendenti. Ad esempio, è possibile vedere dal di fuori anche gli oggetti delle stanze più interne, riflettendoli successivamente in specchi disposti in maniera strategica. E nei vari passaggi, ogni volta si invertono la destra e la sinistra, alternando immagini speculari e fedeli. Invece gli specchi cilindrici orizzontali, incurvati come i nostri fianchi, non scambiano fra loro destra e sinistra. Forse, perché l’immagine viene riflessa due volte dalla curvatura. O forse, perché viene rivoltata durante la riflessione, e si gira verso di noi.

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Giochi di specchi (269-323)

L’uomo Attraverso lo specchio I versi IV,318-321 prefigurano un’opera come Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò di Lewis Carroll, del 1871, che aggiunge un tassello al progetto lucreziano di letteratura divulgativa. Nel caso specifico, il problema affrontato è quello dell’invarianza delle leggi scientifiche rispetto alla riflessione speculare. A livello non soltanto macroscopico, ma anche microscopico, come quando la piccola dubita che “forse il latte speculare non sarebbe buono da bere”. I fenomeni biologici e chimici risentono infatti dello scambio tra destra e sinistra, ma quasi tutti quelli fisici no. Soltanto la forza nucleare debole, coinvolta nel decadimento radioattivo, manifesta un’asimmetria, scoperta nel 1956 dai cinesi Tsung Dao Lee e Chen Ning Yang, vincitori nel 1957 del premio Nobel per la fisica. E un esempio di fenomeno non speculare è il senso, rigorosamente antiorario rispetto alla direzione del moto, della rotazione (detta spin) dei neutrini: Alice avrebbe dunque dovuto vederli ruotare al contrario. Lucrezio illuminista Il verso IV,337 (e tenebris autem quae sunt in luce tuemur), che in realtà si riferisce a un innocuo fenomeno ottico, venne interpretato in senso metaforico da Denis Diderot, che lo assunse a motto dell’illuminismo, e nel 1753 lo usò come esergo dei Pensieri sull’interpretazione della natura. Già la prima frase del libro, «Scriverò sulla Natura», è un implicito riferimento al poema di Lucrezio. E il resto continua riprendendo vari aspetti del De rerum natura, dal razionalismo filosofico all’atomismo scientifico. Diderot si ispirò a Lucrezio anche per il deismo anticlericale che precedette il suo ateismo. Negli scandalosi Pensieri filosofici (IX) del 1746 scrisse: «Si starebbe tranquilli a questo mondo, se si fosse sicuri di non dover temere niente nell’altro: la gente non si preoccupa che Dio non ci sia, ma che sia come ce lo raccontano». E sulla sua copia del libro Voltaire annotò: «Cioè, che si debbano temere tormenti eterni dopo la morte», citando letteralmente il verso I,111 del De rerum natura.

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Libro IV. Fisiologia e psicologia Potresti quasi credere che le nostre immagini camminino insieme a noi, e imitino i nostri gesti, perché una volta passate attraverso lo spec chio non sono più in grado di tornare dalla nostra parte. Ma la verità è che la Natura costringe ogni immagine a rimbalzare sulle superfici, con angoli di incidenza uguali agli angoli di riflessione. Le cose troppo splendenti non si riescono a guardare. Il Sole acceca chi cerca di fissarlo, perché i suoi raggi sono troppo potenti, e bruciano gli occhi. E lo stesso fanno tutte le luci troppo folgoranti, essendo costituite di particelle ustionanti. Gli itterici vedono tutto dipinto di giallo, perché dapprima la loro pelle giallastra riflette il suo colore sulle immagini in arrivo, e poi queste vengono ulteriormente ingiallite dai pigmenti malati presenti nel bulbo oculare. Quando siamo al buio riusciamo a vedere le cose illuminate, perché la luce che sopraggiunge è più forte delle tenebre che si erano impadronite dell’occhio. Infatti le sue particelle, essendo mobili, piccole e potenti, rischiarano facilmente il buio e aprono la strada alle immagini delle cose illuminate. Viceversa, quando siamo alla luce non riusciamo a vedere le cose che stanno al buio. Infatti le particelle delle tenebre, essendo lente, grandi e deboli, non riescono ad aver la meglio sulla luce, e non permettono alle immagini delle cose non illuminate di sopraffare quelle delle cose illuminate. Se poi guardiamo da lontano una torre quadrata, la vediamo tonda. In generale, gli angoli distanti si smussano nella percezione, perché più da lontano le loro immagini provengono, e più vengono levigate dagli urti con ciò che incontrano nel tragitto. A distanza sufficiente gli spigoli appaiono dunque arrotondati, ma in una maniera sbiadita, e non nitida come quella delle cose veramente rotonde.

Stranezze ottiche (324-363)

Quando ci muoviamo al Sole, pare che la nostra ombra si muova, seguendo i nostri passi e imitando i nostri gesti. Ma quello dove c’è ombra è solo un luogo senza luce, che ovviamente non cammina e non gesticola. Semplicemente, la terra viene via via privata della luce del Sole nei punti in cui noi ci poniamo, impedendole di arrivare. E ritorna ad avere la luce nei punti da cui ci allontaniamo. Per questo sembra che una stessa ombra ci segua continuamente. Ma in realtà, in ogni istante e in ogni luogo, si blocca o si cede il passo a sempre nuovi raggi del Sole, come lana che si sfila nel fuoco. È dunque tanto facile spogliare la terra di luce, quanto lo è rivestirla, o lavarne via le macchie nere delle ombre. E infatti gli occhi non si ingannano neppure per un momento, in questo caso: in fondo, fa parte del loro compito vedere dove ci sia luce, e dove ombra. È invece la mente a confondersi, se dubita che si tratti di una stessa

L’ombra (364-386)

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L’uomo Sotto coperta di un gran naviglio I versi IV,387-390 anticipano il famoso esperimento di pensiero di Galileo nel Dialogo (212213), che dall’indistinguibilità dei fenomeni osservati sia sulla terraferma, sia «nella maggior stanza sotto coverta di un gran navilio», arriva a dedurre quello che diventerà noto come il principio di relatività galileiano: «Le leggi del moto appaiono identiche a osservatori che si muovono di moto rettilineo uniforme». In realtà, già Virgilio aveva citato Lucrezio nell’Eneide (III,72): «Salpiamo dal porto, e le terre e le città si allontanano». L’immagine era poi stata ripresa da Nicola d’Oresme nel Trattato del cielo e del mondo, del 1377, da Copernico nello storico trattato Sulle rivoluzioni degli orbi celesti (I,8), del 1543, e da Giordano Bruno nel terzo dialogo della Cena de le ceneri, del 1584: tutti con lo scopo di argomentare, come Galileo, a favore del principio di relatività.

Una via di fuga I versi IV,426-431 sono una conferma del fatto che la prospettiva, lungi dall’essere stata scoperta nel Quattrocento, era già nota nell’antichità. Le prime opere prospettiche di cui si ha notizia risalgono al secolo -IV, e sono Le nozze di Alessandro e Rossana di Aezione, e Alessandro che impugna una folgore di Apelle (Botticelli si ispirò alla descrizione di un’altra opera di Apelle per la sua Nascita di Venere, riprodotta a p. 29). Alcuni pittori rinascimentali erano comunque consci di aver riscoperto una tecnica antica. Ad esempio, nell’introduzione al famoso trattato Sulla prospettiva del dipingere, del 1480 circa, Piero della Francesca elencò vari esempi di pittori antichi che l’avevano usata. E nel 1519 Giovanni Antonio Bazzi, detto Il Sodoma, riprodusse nella Villa Farnesina il perduto dipinto di Aezione, sulla base di una descrizione che ne aveva data Luciano di Samosata (sotto).

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Libro IV. Fisiologia e psicologia ombra che si muove. Ed è sempre la mente a vederci chiaro, se risponde di no, come abbiamo appena detto. Dobbiamo dunque stare attenti a non imputare agli occhi un difetto della ragione. Quando il mare è calmo, e noi stiamo navigando a vele spiegate, non ci accorgiamo del moto della nave. Ci sembra, anzi, che le altre navi all’àncora nel porto ci superino, e che i campi e le colline fuggano a poppa. E quando navigando scorgiamo due isole, tanto distanti fra loro da permettere il passaggio di una flotta, possiamo a volte scambiarle per una sola. Le stelle ci appaiono immobili, sospese alla volta del cielo, ma si muovono continuamente: sia durante la notte, che nel corso delle stagioni. Lo stesso accade per il Sole e la Luna, che sembrano fermi, ma sorgono e tramontano ogni giorno, e in luoghi differenti durante l’anno. Al tramonto, quando ormai si accendono i primi tremuli lumi delle stelle, il Sole infuocato si abbassa dietro i colli e sembra toccarli, quasi distasse da noi solo qualche migliaio di tiri di freccia, o qualche centinaio di giavellotto. Eppure, sappiamo che la sua distanza è tanto grande, da poter contenere tutti i mari, le terre, gli animali e i popoli. Se invece assistiamo all’aurora o al tramonto navigando in mare, ci sembra che il Sole sorga da esso e vi si inabissi, visto che da una nave non si vede altro che acqua e cielo. Ai bambini che giocano a girare su sé stessi come trottole, e si fermano di colpo, sembra che gli edifici continuino a girare nella direzione opposta, minacciando di rovinare su di loro. Una pozza d’acqua non più profonda di un dito, sul margine della strada o fra due pietre del lastricato, sembra estendersi in profondità quant’è alto il cielo, e nascondere miracolosamente dentro di sé alberi e nuvole. Quando durante il guado un cavallo focoso si impunta immobile in mezzo al fiume, e noi guardiamo le acque che scorrono impetuose sotto di noi, sembra che il cavallo venga trascinato a forza controcorrente, insieme a tutto ciò che sta sulle rive. Infine, un portico a colonnati perfettamente paralleli, se guardato nella direzione della lunghezza, dà l’impressione che le sue pareti, il suo pavimento e il suo tetto siano come le facce di una piramide. Cioè, che convergano verso un vertice lontano quanto un punto all’infinito, nel quale si incontrano le colonne di destra e di sinistra, e i basamenti con i capitelli.

Paradossi visivi (387-431)

Non bisogna credere a cuor leggero che i sensi vacillino da tutte le parti. Ma gli ignari di nautica possono credere che le barche ormeggiate nel porto poggino storte sulle onde, con gli aplustri spezzati. Infatti, le parti dei remi e del timone che sporgono fuori dall’acqua appaiono diritte. Ma le

Inganni dei sensi (432-468)

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L’uomo Spezzeremo le remi alla Grecia Già Platone riporta, nella Repubblica (X,602), l’illusione ottica ripetuta da Lucrezio nei versi IV,438-442: il fatto, cioè, che un remo o un ramo parzialmente immersi nell’acqua appaiono spezzati. Il motivo è che l’acqua offre un ostacolo maggiore dell’aria alla propagazione della luce: quando i raggi vengono rifratti, nel passaggio attraverso la superficie che separa i due mezzi, l’immagine dell’oggetto si piega, anche se l’oggetto ovviamente no. Ma ci sono innumerevoli altri paradossi percettivi, come ricorda il verso IV,462. Ad esempio, quello già illustrato dai Romani in un mosaico del Puy de Dome (a sinistra), in cui le righe di una scacchiera possono non apparire parallele, se sfasate fra loro. O quello scoperto nel 1908 da James Frazer, in cui un fascio di cerchi concentrici può apparire come una spirale, se viene attraversato da curve di disturbo (a destra).

Sensi o ragione? Già i presocratici si divisero sul problema fondamentale dell’epistemologia: se il fondamento della conoscenza stia nei sensi o nella ragione. Eraclito si schierò a favore dei primi, e Parmenide della seconda. Poiché la virtù sta nel mezzo, Aristotele mediò fra le due posizioni, ed effettuò la prima grande sintesi filosofica fra i due estremismi nella Metafisica. I versi IV,469-521 mostrano che Lucrezio sta dalla parte dei sensi, come l’aborrito Eraclito (p. 48). Il problema si ripresentò tale e quale nella filosofia moderna. La triade degli empiristi anglosassoni, costituita da John Locke, dal vescovo George Berkeley (il cui motto esse est percipi riecheggia il verso IV,499) e da David Hume, parteggiò per i sensi. La triade dei razionalisti continentali, costituita da Renato Cartesio, Baruch Spinoza e Gottfried Leibniz, prese invece le parti della ragione. La seconda grande sintesi fu effettuata questa volta da Immanuel Kant, nel 1781, con la mediazione della Critica della ragion pura.

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Libro IV. Fisiologia e psicologia parti sott’acqua sembrano spezzate, e quasi galleggianti all’insù verso il pelo dell’acqua. Quando di notte qualche nube quasi trasparente viene sospinta dal vento, sembra che siano le stelle del cielo a scivolare su di essa in direzione contraria. Se invece ci premiamo un occhio con un dito, tutto ciò che guardiamo sembra sdoppiarsi: doppie lanterne, doppie fiamme, doppi mobili, doppi visi e doppi corpi. Infine, quando il sonno ci avvolge con il suo sopore e il corpo riposa le sue membra, ci sembra comunque di rimanere svegli e di continuare a muoverci. Nel cieco buio notturno, vediamo il Sole e la luce del giorno. Nel chiuso della nostra stanza, navighiamo per il mare aperto e camminiamo sui prati. Nel silenzio che avvolge il mondo, udiamo suoni e parole. Siamo vittime di moltissimi altri inganni del genere, che si coalizzano tutti a farci dubitare dei nostri sensi. Ma invece è quasi sempre la mente a farsi ingannare, quando interpreta i dati sensoriali e crede di aver visto ciò che non ha affatto visto, ma solo dedotto. E niente è tanto difficile, quanto riuscire a tener separati i fatti certi dalle interpretazioni incerte. Lo scettico che crede che non si può sapere nulla, deve anche credere che non si può sapere, in particolare, che non si può sapere nulla. È dunque inutile mettersi a discutere con lui, visto che ragiona con i piedi. Ma, anche dandogli ragione per un attimo, gli si potrebbe domandare: com’è possibile distinguere il sapere e il non sapere, se prima non si è mai conosciuta nessuna verità? Da dove deriva la nozione stessa di verità? Perché mai il certo e l’incerto sono diversi? La risposta è che la nozione di verità deriva dai sensi, perché le percezioni sensoriali sono inconfutabili. Non c’è niente di più attendibile, di ciò che non si può smentire. E nemmeno la ragione può confutare i sensi, perché è proprio su di essi che si fonda: se fallissero i sensi, fallirebbe anche la ragione. Possono forse le orecchie o gli occhi riprendere le narici o la lingua? Può il gusto argomentare contro il tatto, confutare l’olfatto o smentire la vista? Ovviamente no, perché ogni senso ha la sua area di competenza, e l’insieme dei sensi si spartisce le percezioni di ciò che è freddo o caldo, molle o duro, dolce o amaro, colorato o incolore. Poiché sono dei sensi diversi a sentire i sapori, gli odori e i suoni, essi non potranno mai smentirsi a vicenda. E nemmeno è possibile che uno dei sensi smentisca sé stesso: poiché ogni percezione è insindacabile, tutte le percezioni devono essere credute, con lo stesso grado di affidamento. Dunque, vero è ciò che vero appare. E se la ragione non riesce a risolvere l’enigma di come mai ciò che era quadrato da vicino appaia rotondo da lontano, è meglio che si inventi

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Scetticismo ed empirismo (469-521)

L’uomo Ci senti da questo orecchio? Lucrezio dedica molti versi a sottolineare che i suoni hanno un’origine materiale: evidentemente, ai suoi tempi la cosa doveva essere controversa, mentre oggi è pacifica. I suoni sono infatti riconducibili alle onde sonore prodotte dalle sorgenti acustiche e trasmesse dalle vibrazioni dell’aria. Come nel caso dell’acqua per le onde marine, le molecole d’aria oscillano su e giù, perpendicolarmente alla direzione di propagazione dell’onda, senza spostarsi longitudinalmente insieme ad essa. L’orecchio è un sofisticato e complesso amplificatore e analizzatore delle onde sonore, ed è in grado di scomporle nelle loro componenti atomiche: i cosiddetti suoni puri, analoghi a quelli prodotti da un diapason. E di percepire una grande porzione del mondo acustico: la decina di ottave dello spettro del suono udibile, appunto, compreso fra gli infrasuoni e gli ultrasuoni. Inoltre, la percezione stereofonica fornita dalle due orecchie permette una localizzazione della sorgente di provenienza del suono. Lucrezio intuì che le caratteristiche percettive di un suono sono riconducibili a quelle fisiche della corrispondente onda: il volume del suono è determinato dalla distanza verticale fra le creste e le valli (l’ampiezza dell’onda), l’altezza dalla distanza orizzontale tra due creste consecutive (la lunghezza), e la tessitura dalla combinazione delle varie componenti (le armoniche). La lingua del corpo Nel verso IV,551 Lucrezio usa il verbo articolare, dal doppio significato linguistico e fisiologico: ad esempio, gli “articoli” sono piccoli “arti”. La metafora corporea per il linguaggio ha una lunga storia, e si estende a termini quali giunzione, che può indicare una “congiunzione” o una “giuntura”. O colon, che indica il tratto finale non solo dell’apparato digerente, ma anche di una subordinata (ancor oggi, in inglese sta per “:”). E così via, con appendice, copula, flessione, legamento. E, ovviamente, lingua. Parole al vento La musica del verso IV,559 (conturbari vocem, dum transvolat auras) risuona anche nell’ultimo canto del Paradiso (XXXIII,65-66): così al vento ne le foglie levi si perdea la sentenza di Sibilla. E nella canzone Blowin’ In The Wind di Bob Dylan, del 1962: the answer, my friend, is blowin’ in the wind, “la risposta, amico mio, sta soffiando nel vento”.

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Libro IV. Fisiologia e psicologia spiegazioni sbagliate, piuttosto che provare a minare la fiducia riposta sui sensi. Perché è proprio sui sensi che si basano non solo la ragione, ma anche la vita e la sopravvivenza stesse. D’altronde, anche in architettura bisogna usare regoli diritti e livelle precise. Se no, si finisce per costruire edifici non solo sbilenchi e sgraziati, ma pericolanti e pericolosi, pronti a crollare alla prima occasione. Allo stesso modo, i ragionamenti sono fallaci e illusori, se non si basano saldamente sui sensi. Dopo la vista, rimangono da spiegare i funzionamenti degli altri sensi. Per quanto riguarda l’udito, i suoni e le voci si odono quando penetrano nelle orecchie e stimolano il sistema uditivo. Infatti, per poter stimolare un senso, anche i suoni e le voci devono essere materiali. Se spesso, parlando concitatamente o urlando, sentiamo raschiare la gola e il palato, è perché gli elementi della voce si affollano uscendo dai polmoni, tanto da poter appunto dar fastidio o ferire. Anche discutere a lungo, tirandola fino a notte tarda o all’alba, stanca la testa e sfibra il corpo intero. E se fa perdere così tante energie, la voce deve sicuramente essere materiale. L’abrasività della voce deriva dalla ruvidezza di alcuni suoi elementi costitutivi. E non possono essere uguali gli elementi del suono grave di una tromba, che rimbomba barbaramente, e quelli del dolce canto di un cigno morente [che gioisce di essere prossimo a rivedere Apollo]. Ad articolare le parole che noi traiamo dall’interno del corpo ed emettiamo dalla bocca, sono la lingua e le labbra. Una volta emesse, a breve distanza le parole preservano la loro struttura e si percepiscono in maniera chiara e distinta. A grande distanza, invece, la struttura si dissolve poco a poco e la voce si turba, disperdendosi nel vento. A volte, una sola parola pronunciata da un banditore arriva chiaramente all’intera folla. Un’unica voce si moltiplica dunque istantaneamente, tante volte quante sono le orecchie che la odono. E anche più, perché molte altre copie non arrivano a nessun orecchio e si disperdono senza che nessuno mai le oda.

L’udito (522-569)

Una voce o un suono possono urtare contro degli ostacoli e venirne respinti, producendo un’eco illusoria ma udibile. Spesso, quando ricerchiamo compagni che si sono smarriti in luoghi solitari e silenziosi, può capitare che il nostro richiamo ci torni alle orecchie, al posto della risposta che attendevamo. E posso testimoniare personalmente di aver assistito alla moltiplicazione di un’unica voce in sei o sette copie, che si rincorrevano a vicenda da un colle all’altro. Si immagina che i luoghi che producono l’eco siano abitati da satiri e ninfe:

L’eco (570-594)

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L’uomo Fotoni e fononi La differenza di comportamento fra luce e suono, rilevata nei versi IV,595-614, fu usata da Newton in due famosi saggi: Una nuova teoria della luce e dei colori, del 1672, e Un’ipotesi per la spiegazione delle proprietà della luce, del 1675. Il suo argomento era che, poiché il suono è costituito di onde e aggira gli ostacoli (ad esempio, si trasmette attraverso un tubo ricurvo), la luce non può essere costituita di onde perché non aggira gli ostacoli: dunque, dev’essere costituita di particelle, che oggi chiamiamo fotoni (pp. 92 e 148). Ma oggi sappiamo anche che quella tra onde e particelle, più che una contrapposizione, è una complementarità. E che la cosa vale non soltanto per la luce, ma anche per il suono! Albert Einstein e Peter Debye, in seguito premi Nobel per la fisica e per la chimica, introdussero infatti nel 1908 e 1912 degli analoghi dei fotoni chiamati fononi, “suononi” o “vocioni” (da phoné, “suono” o “voce”), che sono quanti di onde sonore propagantisi all’interno di un solido, e forniscono la versione particellare delle onde sonore. Che gusto ti rimane in bocca? Benché i versi IV,615-616 assimilino il gusto alla vista e all’udito, si tratta in realtà di sensi completamente diversi: mentre gli ultimi due sono fisici, e provocati da onde luminose o sonore, il primo è chimico, e provocato da molecole che stimolano appropriati recettori in base a un meccanismo del tipo “chiave-serratura”, o “maschio-femmina”. Cosa peraltro correttamente intuita da Lucrezio nei versi IV,649-662, che prefigurano la tipologia dei cinque tipi di recettori disposti in altrettante zone diverse della lingua. Ovviamente, le cose sono un po’ più complicate di quanto potesse immaginare Lucrezio. Ad esempio, molecole simili come lo ione idrogeno e lo ione sodio sono percepite una acida, e l’altra salata. Viceversa, molecole diverse come la saccarina e l’aspartame vengono entrambe percepite dolci. Quanto ai recettori del gusto, quelli dell’acido (verde) e del salato (arancio) fungono da canali ionici, appunto, mentre quelli dell’amaro (viola), del dolce (azzurro) e dell’umami (giallo) sono più complessi, e passano a serpentina attraverso la membrana cellulare dei neuroni.

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Libro IV. Fisiologia e psicologia a partire da Eco stessa, che ha dato il nome al fenomeno perché era stata condannata a ripetere ciò che gli altri dicevano. Si dice che l’eco sia uno scherzo giocato dai fauni, un effetto del loro strepito notturno. Si assicura che derivi dal suono del flauto di Pan, in cui egli soffia mentre scuote la sua corona di pino. Si raccontano storie di tutti i colori, condite di prodigi e meraviglie, pur di non ammettere che ci sono luoghi deserti e dimenticati dagli dèi. Si raccontano in buona o in cattiva fede, per ignoranza o interesse, miracoli di ogni tipo. Anche perché il degenere genere umano è avido di orecchie che ascoltino, da un lato, e di bocche che ingannino, dall’altro. Non deve meravigliare che il suono possa superare ostacoli che fermano invece la luce. È infatti possibile origliare una conversazione attraverso una porta chiusa, perché la voce può passare attraverso i pori storti delle cose, mentre la luce lo può fare solo attraverso pori dritti come quelli del vetro. Inoltre, le voci possono diffondersi dovunque, perché si moltiplicano come scintille sprizzate dal fuoco: per questo riempiono anche i luoghi bui, nei quali non penetra la luce. E i suoni non sono costretti a muoversi solo in linea retta, come i simulacri: per questo si sentono anche al di là di un muro, oltre il quale non si può vedere. Anche la voce comunque risente degli ostacoli, perché si attutisce via via, fino a diventare incomprensibile e inaudibile.

Luce e suono (595-614)

Il senso del gusto non richiede spiegazioni più lunghe, o più difficili, di quelle già date per la vista e l’udito. I sapori si sentono anzitutto in bocca, quando la masticazione spreme il cibo come fosse una spugna piena d’acqua. Il cibo spremuto si sparge poi sulla lingua, e i diversi atomi che lo compongono producono sensazioni diverse: a seconda che siano lisci o ruvidi, li percepiamo come dolci o amari. Ma il piacere o il dispiacere sono confinati in bocca, perché in gola e nello stomaco non ci sono più organi del gusto. Piacere a parte, non ha molta importanza quale cibo ingeriamo, purché sia digeribile e nutriente, in modo da poter essere assimilato per nutrire le membra. Naturalmente, specie diverse richiedono cibi diversi, e ciò che per alcune è buono e utile, per altre è cattivo e dannoso. Ad esempio, il serpente muore addentandosi da solo, se contaminato con saliva umana. E le capre e le quaglie sono ghiotte di elleboro, che per noi è velenoso. Per capire come mai, devi ricordare ciò che abbiamo già detto: che le varie cose sono composte di tipi diversi di atomi. E gli esseri viventi, così come differiscono per il loro aspetto esterno, differiscono anche per la loro struttura atomica interna. In particolare, hanno recettori diversi sulla lingua: alcuni più piccoli e altri più grandi, alcuni tondi e altri quadrati,

Il gusto (615-672)

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L’uomo Cosa stai subodorando? L’olfatto non è soltanto analogo al gusto, in quanto senso chimico, ma è strettamente associato ad esso: ad esempio, quando si è raffreddati si sentono meno i sapori. Oltre al numero di recettori (p. 96), il motivo per cui sentiamo molti odori, ma pochi sapori, è anche dovuto al fatto che i neuroni olfattivi appartengono a singoli recettori, e riconoscono singoli odori: dunque, sono specializzati. I neuroni gustativi appartengono invece a diversi recettori, e riconoscono più sapori: dunque, sono generici. Lo studio dei geni olfattivi è stato intrapreso da Richard Axel e Linda Buck, che hanno vinto per questo il premio Nobel nel 2004. Circa 1000 dei nostri geni, su un totale di circa 23.000, sono dedicati alla codifica di recettori olfattivi, ma la maggioranza di essi non si esprime. Da un lato, il loro grande numero dimostra l’importanza dell’olfatto all’origine della nostra specie, paragonabile a quella di altri animali. Dall’altro lato, il loro diffuso silenziamento rivela la diminuzione di questa importanza nel corso dell’evoluzione. Chimere e mostri sensoriali Lucrezio dedica ben tre brani (II,700-729, IV,722-756 e V,878-924) a fittizie chimere intellettuali, ma esistono anche reali chimere sensoriali. Prima fra tutte la cosiddetta sinestesia, scoperta nel 1871 da Gustav Fechner sotto forma di una visione colorata delle lettere dell’alfabeto, dovuta all’esistenza di inusuali connessioni neuronali fra le rispettive aree cerebrali. Ma ne esistono di vari tipi, inducibili anche artificialmente da droghe quali l’Lsd, come testimoniò nel 1954 Aldous Huxley in Le porte della percezione. Un altro tipo di mostro sensoriale è invece la cosiddetta visione cieca: una cecità cosciente, accompagnata però da una visione inconscia, che permette di descrivere e manipolare oggetti che “a prima vista” non si percepiscono. La spiegazione fisiologica è questa volta che gli stimoli visivi arrivano al cervello attraverso due vie: una antica e inconscia, e l’altra recente e conscia. E quando solo la seconda è interrotta, si continua a vedere comunque, anche senza esserne coscienti.

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Libro IV. Fisiologia e psicologia alcuni regolari e altri irregolari. E cosa sia dolce o amaro per gli uni e per gli altri, è determinato della facilità o difficoltà di ricezione di uno stesso tipo di atomo in recettori diversi. Qui sta la spiegazione di tutto. Perché quando a qualcuno viene la febbre per un travaso di bile, o qualcosa scatena la furia di un morbo, l’intero corpo ne soffre, e viene modificata la struttura dei suoi atomi. Così alcuni dei cibi che prima si adattavano bene ai suoi recettori, ora non vi si adattano più, e viceversa. I vari tipi di atomi sono infatti mescolati fra loro, come abbiamo già mostrato e dimostrato più volte. Ora è la volta dell’olfatto, e di come gli odori solletichino le narici. Perché ci sono molte cose da cui essi si sprigionano, spargendosi dappertutto. Come già per i gusti, anche gli odori si adattano diversamente ai vari esseri. Così le api sono attratte dal dolce del miele, anche da lontano, e gli avvoltoi dal putrefatto dei cadaveri. I cani da caccia si scatenano all’odore della selvaggina, mentre le oche scappano starnazzando da quello dell’uomo: così quelle del Campidoglio salvarono la città dai Galli, come fossero state cani da guardia. I diversi odori attirano dunque le varie specie ai propri pasti, e le respingono dai propri veleni. Alcuni odori arrivano più lontano di altri, ma nessuno tanto lontano quanto il suono o la luce. Infatti, essi vagano lentamente e svaniscono presto, mescolandosi agli aliti dell’aria. E questo perché sono sprigionati dall’interno delle cose, come dimostra il fatto che si percepiscono di più da tutto ciò che si rompe o viene spezzato, pestato o cotto. Rispetto al suono, poi, l’odore è costituito di atomi più grandi, che non riescono ad attraversare i muri così facilmente. E non è così facile scoprirne la provenienza, perché al contatto con l’aria l’odore si stempera e ci arriva indebolito: per questo i segugi spesso si sbagliano, nell’inseguire una preda.

L’olfatto (673-705)

Come già per gli odori e i sapori, anche i colori non vengono percepiti ugualmente da tutte le specie. Ad esempio, il gallo che accoglie l’aurora con il suo canto, e scaccia la notte con i suoi battiti d’ala, è una vista insopportabile per i leoni, che di fronte a lui se la danno a gambe: probabilmente, perché i suoi colori contengono alcuni pigmenti che non si accordano con i loro occhi. Ma il nostro sguardo, invece, non ne rimane minimamente ferito.

Il gallo e il leone (706-721)

Confrontiamo ora le immagini delle cose che la mente vede, e le cose immaginate che vediamo solo con la mente.3

Centauri e mostri (722-756)

3

Vedi II,700-729 e, soprattutto, V,878-924.

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L’uomo Divi del cinema I versi IV,771-772 sui sogni, così come gli identici IV,800-801 sulle immaginazioni, oggi sono applicabili anche ai film. E qualcuno pensa che potrebbero esserlo anche alla realtà: ad esempio, Konrad Zuse, che nel 1969 ha proposto in Spazio calcolante l’idea che l’universo possa essere un gigantesco computer cellulare, e il movimento soltanto un’illusione come quella provocata dalle luci autostradali che si accendono in posti diversi nel tempo, ma in cui niente si muove effettivamente nello spazio. La connessione di Lucrezio col cinema è evidente dalla tecnica dei fratelli Auguste e Louis Lumière, che nel 1895 ottennero appunto l’illusione del movimento tramite la veloce proiezione di una sequenza di immagini scattate a breve intervallo. Ma, più sorprendentemente, questa connessione era già stata anticipata molto prima da Diderot, nel Salone del 1767, in una recensione del quadro Il Delfino morente di Louis Lagrenée: Per liberarci dagli stretti confini di questa composizione, lasciatemi mostrare con un esempio come il miglior quadro poetico sarebbe difficile da trasporre su una tela, un soffitto o una galleria. Per conservare al quadro dei versi I,1-4 del De rerum natura tutta la sua immensità, ci vorrebbe un edificio alto cento piedi. E, comunque, come potrebbe un pittore sperare di catturare la maestà della dea? O di raffigurare «i cieli dei pianeti e delle stelle, i mari solcati dai naviganti e le terre ricolme di frutti»? Ma è soprattutto nelle poche righe dei versi I,29-40 che Lucrezio è riuscito a mostrare la successione di molti istanti distinti, e credendo di dipingere un solo quadro ne ha dipinti parecchi. Nel primo istante, nel primo quadro, Marte si getta nelle braccia di Venere. Nel secondo, il dio posa la testa sulle ginocchia della dea e ne rimane intossicato. Nel terzo, Venere si china teneramente su di lui, gli apre il suo corpo celestiale e gli parla di pace. Non è tutto molto più piacevole e mobile di un unico quadro?

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Libro IV. Fisiologia e psicologia All’origine di entrambe ci sono i simulacri delle cose, che vagano dovunque e in ogni modo: essi sono sottili e pronti a congiungersi nell’aria, come lievi foglie d’oro che si impiglino in una ragnatela. Sono queste combinazioni, più evanescenti dei simulacri che provocano la visione, che quando penetrano nel corpo attraverso canali diversi dagli occhi suscitano visioni fantastiche nella mente. È così che si sono immaginati centauri come Chirone, mostri marini come Scilla e cani a tre teste come Cerbero, o che si è creduto di scorgere fantasmi di persone morte e sepolte. È così che sono nati questi ibridi, messi insieme alla rinfusa a partire da brandelli di simulacri di cose veramente esistenti. Ovviamente l’immagine di un centauro non è il simulacro di una cosa esistente, ma la combinazione dell’immagine di un uomo e dell’immagine di un cavallo, congiunte in virtù della loro citata natura sottile ed evanescente. Le altre immagini si formano allo stesso modo, e tutte si insinuano facilmente nella mente perché ne condividono la mobilità e l’impalpabilità. Che le cose stiano proprio così, è facile dimostrarlo. Infatti, poiché le immagini reali e i simulacri immaginari sono simili, devono avere cause simili. E il falso leone immaginato nella mente non differisce sostanzialmente dal vero leone visto dagli occhi, se non per il fatto di risultare un po’ più sbiadito. Analogamente, quando il corpo dorme ma la mente sogna, possiamo vedere le stesse cose che vediamo da svegli. E, addirittura, anche rivedere le persone che non rivediamo più da svegli, perché ormai già morte e sepolte. Tutto questo è possibile per due ordini di motivi. Primo, perché i sensi assopiti hanno abbassato la guardia, e non contestano le false immagini alla luce dei fatti veri. Secondo, perché anche la memoria è assopita, e non contesta il falso presente alla luce del vero passato. Non è nemmeno strano che le immagini che vediamo in sogno si muovano realisticamente, come corpi animati che camminano, gesticolano e parlano. Il movimento, infatti, è solo un’illusione causata dal rapido scorrere di immagini statiche, prodotte in sequenza una dopo l’altra, ciascuna in posa leggermente diversa dalla precedente. E la profusione di immagini richieste da un sogno è assicurata dall’abbondanza degli atomi e dei loro moti, e dunque delle immagini da essi create.

La sostanza dei sogni (757-776)

Se vogliamo esaurire l’argomento, dobbiamo ancora discutere e chiarire molte cose. Prima di tutto, come sia possibile farsi venire in mente immagini a comando. Forse immagini di ogni genere si affollano attorno a noi, pronte per ogni evenienza, e accorrono al nostro bisogno quando noi evochiamo il

L’immaginazione (777-822)

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L’uomo Oltre Lamarck, già prima di lui

Aristotele aveva affermato, nella sua opera Le parti degli animali, che «la funzione crea l’organo», e gli stoici in questo concordavano con lui. È con tutti loro che Lucrezio se la prende nel verso IV,833: «Chi dice così, sragiona». Nel 1759 anche Voltaire mise alla berlina la stessa posizione, attribuendola fin dalla prima pagina del suo Candide al professor Pangloss, una spietata caricatura di Leibniz e della sua teoria del “migliore dei mondi possibili” (p. 196): È dimostrato, diceva Pangloss, che le cose non possono essere altrimenti: giacché tutto è fatto per un fine, tutto è necessariamente per il miglior fine. Notate che i nasi sono stati fatti per portare occhiali: infatti abbiamo gli occhiali. Le gambe sono visibilmente istituite per essere calzate, e abbiamo le brache. Le pietre sono state formate per essere tagliate e farne dei castelli, e infatti monsignore ha un bellissimo castello: il massimo barone della provincia dev’essere il meglio alloggiato. E poiché i maiali sono fatti per essere mangiati, mangiamo maiale tutto l’anno. Perciò, quanti hanno asserito che tutto va bene hanno detto una sciocchezza: bisognava dire che tutto va per il meglio. Nel 1809 la Filosofia zoologica di Jean-Baptiste Lamarck propose una prima teoria (sbagliata) dell’evoluzione, basata sui princìpi della creazione di nuovi organi in base alle funzioni, e della loro trasmissione attraverso l’ereditarietà dei caratteri acquisiti. Il suo esempio paradigmatico, passato alla storia, era il collo della giraffa, che si sarebbe via via allungato per permetterle di raggiungere foglie sempre più in alto. Nel 1859 L’origine delle specie di Darwin (pp. 216 e 218) gettò le basi per una seconda teoria (corretta) dell’evoluzione, basata al contrario sui princìpi dell’acquisizione dei caratteri ereditati, della creazione di nuove funzioni in base agli organi, e della selezione degli organi in base alle funzioni. Ovvero, “l’organo crea la funzione, e la funzione seleziona l’organo”.

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Libro IV. Fisiologia e psicologia mare, la terra o il cielo? O forse la Natura si pone al nostro servizio e crea le immagini a richiesta, non appena noi evochiamo persone, cerimonie, banchetti e battaglie? Sembra più verosimile la prima ipotesi, visto che servono troppe immagini. Anzitutto, perché anche nel breve tempo di una parola passano molti istanti, e in ciascuno possiamo immaginarci qualcosa. E poi, perché anche nel ristretto spazio di una stanza stanno molte persone, e ciascuna può immaginare cose completamente diverse. Che dire, poi, di quando immaginiamo danzatori che muovono gambe e braccia flessuosamente, [o militari che marciano al passo]? Devono essere ben artistici e addestrati, questi simulacri, per poterci dare spettacolo a ogni ora del giorno! Ma, come già per i sogni, il loro movimento è solo un’illusione causata dal rapido scorrere di immagini statiche, prodotte in sequenza una dopo l’altra, ciascuna in posa leggermente diversa dalla precedente. Poiché queste immagini sono evanescenti, la mente può percepire solo quella su cui si concentra in un dato istante, mentre tutte le altre svaniscono. La stessa cosa fa l’occhio, con le cose lontane o mimetizzate. Ma anche con quelle vicine e palesi, a dire il vero, perché senza concentrazione nemmeno ci accorgiamo di ciò che ci sta attorno. Perché dunque stupirsi, se la mente si concentra solo su un’immagine per volta, e si perde tutto il resto? E se poi trae massime deduzioni da quei minimi indizi, inducendo sé stessa nella tentazione dell’illusione? Per non parlare del fatto che a volte gli indizi sono contraddittori, come quando nell’immaginazione o nel sonno una donna si trasforma in un uomo, o una persona muta faccia o età. E questo non ci turba perché stiamo appunto sognando, a occhi aperti o chiusi. Evita attentamente di compiere l’errore di pensare che gli occhi siano stati creati perché noi possiamo vedere, i piedi e le gambe per camminare, le mani e le braccia per afferrare. Chi dice così sragiona e scambia gli effetti per le cause, perché non sono le funzioni ad aver creato gli organi, ma gli organi le funzioni. La vista non esisteva prima degli occhi, né la parola prima della lingua. Anzi, la lingua venne molto prima che si incominciasse a parlare, e le orecchie molto prima che si incominciasse a udire. Tutte le membra sono state create prima che noi trovassimo il loro uso. Dunque, non sono state create perché fossero usate, bensì sono state usate perché erano state create. Diverso è il caso degli oggetti artificiali. Molto prima che esistessero le frecce, già si lottava e ci si dilaniava. Prima che si inventasse lo scudo, già si cercava di evitare le ferite. Si dormiva da molto prima che si facessero letti e

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L’organo crea la funzione (823-857)

L’uomo Attento a come cammini Come dimostrano i versi II,877-906, la locomozione ha sempre affascinato gli osservatori. In una lettera del 23 settembre 1624 a Federico Cesi, Galileo raccontò di aver scrutato al microscopio il movimento di pulci, zanzare e mosche. Nel libro Sul moto degli animali, del 1681, Giovanni Alfonso Borelli osservò che gli esapodi muovono prima le zampe posteriori, poi quelle centrali e infine quelle anteriori. E nel 1878 Eadweard Muybridge mostrò per la prima volta in fotografia i movimenti del cavallo e di altri animali. Ma la spiegazione di come il movimento avvenga, a vari ritmi (passo, trotto, galoppo, salto) e in vari tipi di animali (bipedi, quadrupedi, esapodi, centopiedi, millepiedi), ha dovuto attendere Una rete modulare per la locomozione a gambe di Martin Golubitsky, Ian Stewart, James Collins e Luciano Buono, del 1998. Sorprendentemente, per render conto dell’intera gamma dei movimenti non basta un solo oscillatore per gamba: ce ne vogliono due, variamente collegati in reti neurali asimmetriche. L’onda pilota I versi II,896-904 istituiscono un parallelo, in verità un po’ traballante, tra due sistemi: “ventovele-nave” da una parte, e “respiro-polmoni-corpo” dall’altra, anche se il vero obiettivo sembra essere il sistema “mente-sensi-corpo”. Ma nel 1927 il principe Louis de Broglie, premio Nobel per la fisica, ha istituito un parallelo analogo, e molto più solido, tra altri due diversi sistemi: “radar-motore-nave” da un lato, e “onda-particella-corpuscolo” dall’altro. L’obiettivo questa volta è quello espresso nel titolo di un lavoro di David Bohm del 1951, che sviluppò il parallelo: Un’interpretazione della meccanica quantistica in termini di “variabili nascoste”. E consiste nel tentativo di spiegare il modo in cui lo spostamento di un corpo microscopico è determinato dalla sua natura particellare e pilotato dalla sua natura ondulatoria (p. 92), analogamente al modo in cui lo spostamento di una nave è determinato dal lavoro meccanico del motore e pilotato dall’informazione fornita dal radar.

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Libro IV. Fisiologia e psicologia coperte, e si beveva quando ancora non c’erano le coppe. Dunque, tutti questi oggetti sono stati studiati per soddisfare un uso preesistente, determinato dai bisogni della vita. Tutto ciò che è stato creato dalla Natura, invece, ha trovato un uso solo in seguito. Ed è stato così, in particolare, per gli organi e i sensi. Per questo, ripeto, non devi sbagliare a credere che essi siano stati creati per un uso specifico. Un’altra cosa che non deve stupire, è che un corpo richieda del cibo. Ti ho già detto che gli atomi si staccano continuamente dalle cose, e soprattutto dagli esseri viventi. Questi infatti si muovono, sudano, respirano, ansimano, si stancano e soffrono. Per ripristinare gli atomi perduti dal corpo, sostenere le membra e temprare le forze, noi sentiamo appetito e mangiamo. E per ripristinare l’acqua perduta, oltre che per spegnere il fuoco dell’incendio che ci infiamma lo stomaco o ci fa sudare, sentiamo arsura e beviamo. Così calmiamo la fame e la sete che ci assalgono continuamente.

Mangiare (858-876)

Ora ti dirò com’è che possiamo camminare a comando, come possiamo muovere gli arti con un atto di volontà, e come la mente riesca a sospingere il nostro corpo materiale. E tu ascolta bene cosa ti dico. Dapprima la mente si forma un’immagine del movimento che vuol far compiere al corpo, e questo suscita la volontà: nessuno, infatti, decide di fare una cosa senza prima farsene un’immagine mentale. Quando l’animo arriva a prendere la decisione di muoversi, la trasmette all’anima mettendo in moto il sistema nervoso. E attraverso i nervi il comando raggiunge i muscoli e fa muovere gli arti. Il tutto è facile non solo a dirsi, ma anche a farsi, perché animo e anima sono collegati fra loro e costituiscono un’unica psiche, che a sua volta è collegata al resto del corpo. Anche il respiro ha la sua parte nel camminare, come dimostra il fatto che più camminiamo veloci, e più ansimiamo. Attraverso la respirazione l’aria entra nei polmoni e rende meno denso il corpo, facendone aprire le aperture. Essendo in perenne movimento, essa penetra poi per ogni poro e raggiunge così ogni singolo anfratto del corpo. Il corpo è dunque come una nave, mossa simultaneamente da due cause: le vele e il vento. E il paragone ci permette anche di capire, senza stupirci, come un corpo macroscopico e pesante possa essere mosso da atomi microscopici e leggeri. Una nave enorme, infatti, viene sospinta da un vento quasi immateriale, le sue vele sono governate da un’unica mano, e un unico timone la indirizza in qualunque direzione. Analogamente, un gran peso viene sollevato senza sforzi da un sistema di carrucole e pulegge.

Camminare (877-906)

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L’uomo Lucrezio autoreferenziale I versi IV,969-970 forniscono un doppio motivo di meditazione, perché offrono in un sol colpo due esempi archetipici: uno di indistinguibilità tra sogno e veglia (p. 176), e l’altro di autoreferenzialità di un’opera d’arte. A proposito di quest’ultima, il brano di Lucrezio anticipa l’incipit di Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino (pp. 20 e 120), del 1979: «Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino...». Ma si possono trovare innumerevoli altri esempi di autoreferenzialità letteraria. Nell’Iliade, Elena ricama una veste di porpora che raffigura i passi salienti dell’Iliade. Nel Mahabharata, si narra del poeta Vyasa che detta il Mahabharata. Nell’Amleto, si mette in scena una tragedia che è la stessa dell’Amleto. Nel Don Chisciotte, i protagonisti della seconda parte hanno letto la prima. Nei Sei personaggi in cerca d’autore, i sei personaggi cercano un autore che racconti la loro stessa ricerca. Tutto ciò ricorda ovviamente Effetto notte di Truffaut, del 1973 (p. 150), analogo al precedente 8 ½ di Federico Fellini, del 1963: un film autobiografico, che veniva dopo i “sei film e tre mezzi film” che il regista aveva già girato, e che lo mostra mentre pensa al nuovo film che deve girare. Un’idea simile si ritrova nel 1980 in Stardust memories di Woody Allen, in cui inoltre la finzione dell’assassinio del regista anticipa la realtà di quello del cantante John Lennon, che avverrà poco dopo con modalità analoghe. La pittura, da parte sua, ha spesso cercato di produrre opere che non solo alludano a sé stesse, o si descrivano, ma addirittura si autorappresentino. Il primo ad avere l’idea fu Giotto, verso il 1320: nel retro del suo Polittico Stefaneschi si vede infatti l’omonimo committente che offre a san Pietro un modello (a sinistra) del polittico stesso (a destra). E nel modello si vede ovviamente l’immagine di un modellino, e così via, all’infinito.

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Libro IV. Fisiologia e psicologia Procederò ora a parlare di come il sonno riposi le membra del corpo e calmi gli affanni della mente. E lo farò in maniera più soave che diffusa, perché il breve canto del cigno prima della sua morte è migliore del lungo clamore della gru disperso dal piovoso vento del Sud.4 E tu ascoltami con orecchie dritte e mente attenta, per non venire poi a negare ottusamente le mie verità senza averle sentite, o a confutare testardamente le mie ragioni senza averle capite. Quando ci addormentiamo, la percezione si riduce drasticamente: in parte, perché il sistema nervoso cessa alcune sue funzioni, e in parte, perché ne rallenta altre. Di conseguenza, le membra giacciono inerti e la psiche è silente, anche se non in maniera definitiva: altrimenti, non di sonno si tratterebbe, ma di morte. È come quando il fuoco cova sotto la cenere, sopito ma non spento, e pronto a ravvivarsi. E ora ti dirò i motivi per cui dormiamo, e perché il corpo e la psiche si acquietano giornalmente, sperando che non siano parole buttate al vento. Anzitutto, i corpi sono continuamente sferzati dai soffi di aria, e colpiti da traumi d’ogni genere: per ripararsene gli alberi usano la corteccia, i molluschi la conchiglia, i serpenti le squame. Inoltre, gli animali che respirano inalano aria, e questa apre un secondo fronte d’attacco all’interno del corpo, oltre a quello esterno. Nel corso della giornata, l’effetto cumulativo di tutti questi attacchi sfibra l’organismo, che alla fine crolla. La psiche si ritira, in parte smettendo di funzionare del tutto, e in parte passando a funzionare a ritmo ridotto. I sensi si spengono o si assopiscono. Le membra si illanguidiscono, le ginocchia si piegano, gli occhi si chiudono, le forze scemano. Anche dopo mangiato si sonnecchia o si dorme, perché il cibo produce sconvolgimenti simili. E se la sera si va a dormire subito dopo mangiato, il sonno è ancora più profondo, perché si soggiace agli attacchi congiunti della giornata e del cibo.

Dormire (907-961)

Nei sogni reincontriamo in maniera immaginaria le cose che ci hanno più impegnati durante la giornata, o a cui ci dedichiamo più assiduamente, o che ci danno più piacere. Sognando, l’avvocato continua a far cause per i clienti, il militare ad attaccare i nemici, il marinaio a combattere coi venti. Io, invece, sogno di indagare la natura delle cose, di comprenderla e di spiegarla in un libro intitolato La natura delle cose. E ogni altra professione o arte occupa i sogni di colui che la pratica.

Sognare (962-1036)

4

I versi IV,909-911 sono identici ai versi IV,180-182.

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L’uomo Sogno o son desto? Passando all’altro motivo di meditazione offerto dai versi IV,969-970 in particolare, e dall’intero discorso sui sogni in generale, possiamo notare che l’Occidente non ha dovuto attendere il 1635 e Calderón de la Barca per formulare il dubbio che, forse, La vita è sogno. Già nel secolo -IV, molto prima di Lucrezio, anche Platone l’aveva sollevato nel Teeteto (158), osservando che quando siamo svegli possiamo dubitare di sognare, e quando sogniamo sembriamo credere di essere svegli. Più o meno nello stesso periodo di Platone, nello Chuang Tzu, l’omonimo autore taoista raccontò: «Una volta Chuang Tzu sognò che era una farfalla svolazzante e soddisfatta della sua sorte, e ignara di essere Chuang Tzu. Bruscamente si risvegliò, e si accorse con stupore di essere Chuang Tzu. Non seppe più allora se era Tzu che sognava di essere una farfalla, o una farfalla che sognava di essere Tzu». Il paradosso dell’indistinguibilità tra sogno e veglia fu riproposto nel 1637 da Cartesio, nel Discorso sul metodo. Egli lo superò notando come in entrambi i casi non dubitiamo comunque di pensare, e come il cogito fornisca dunque un punto di partenza indubitabile. Ma per risolvere il paradosso non poté fare a meno di appellarsi a un Dio buono e onesto, che non impieghi tutte le sue arti per ingannarci: in tal caso, se crediamo di essere svegli e di non sognare, dovrebbe essere proprio così. Nel 1981 il paradosso del sogno è stato trasposto da Hilary Putnam al cervello nella vasca, le cui terminazioni nervose sono stimolate da un computer che gli fa credere di essere attaccato a un corpo. E vari film di fantascienza hanno esplorato le possibilità di mondi informatici popolati da esseri virtuali che credono di essere reali: da Nirvana di Gabriele Salvatores, del 1997, alla trilogia Matrix dei fratelli Andy e Larry Wachowski, del 1999-2003.

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Libro IV. Fisiologia e psicologia Chiunque sia andato a uno spettacolo che l’ha impressionato, continua a sognarlo anche quand’è finito da tempo, e trova così un modo di riportarne alla memoria le immagini. A volte queste continuano a rigirargli talmente in testa, che anche da sveglio egli rivede le mosse flessuose dei danzatori, risente il suono liquido della cetra e il discorso delle sue corde, ricorda il pubblico e il luccicare delle scene. L’attività onirica è talmente importante e piacevole, che la praticano abitualmente non solo gli uomini, ma anche gli animali. Si vedono infatti possenti cavalli sudare nel sonno, e ansimare come se stessero contendendosi la vittoria alle corse, o schizzando fuori dalle sbarre del recinto. E cani da caccia agitare le zampe e fiutare l’aria, lanciandosi all’inseguimento di prede immaginarie se risvegliati di colpo. E cagnolini casalinghi stirarsi e ringhiare come di fronte a sconosciuti. Più una razza è combattiva, e più sembra agitarsi nei sogni. Di notte capita che gli uccelli che dormono si levino di colpo in volo cinguettando, disturbando il sonno delle divinità boschive, quasi credessero di essere attaccati da uccelli predatori. Gli uomini che di giorno compiono grandi imprese, spesso continuano a compierle anche di notte: combattono guerre, sconfiggono re, vengono imprigionati e giustiziati. Molti si dimenano e lanciano urla lancinanti, come se venissero sbranati da pantere o leoni. Altri parlano nel sonno, e spesso si tradiscono raccontando infedeltà o delitti. C’è chi in un sonno quotidiano muore, passando a un sonno eterno. Chi crede di cadere in montagna, e si spaventa talmente che quasi non riesce a risvegliarsi. Chi sogna di essere assetato, e lo si vede bere a una coppa o una fonte immaginarie. Chi sente lo stimolo di andare in bagno, e sognando di tirarsi su la veste di fronte a una latrina o un vaso, la fa sulle preziose coperte babilonesi. Infine, c’è l’adolescente in preda ai bollenti spiriti, che sogna qualche ragazzina bella e prosperosa, e gli si inturgida il membro, fino a che eiacula a larghi e caldi fiotti per la prima volta nella vita, imbrattandosi la veste. A proposito del seme, esso inizia appunto a formarsi nell’uomo con l’arrivo dell’adolescenza. Con l’età dello sviluppo e il raggiungimento della maturità sessuale, i testicoli si attivano e iniziano a secernere gli umori della sessualità. I genitali diventano sensibili all’eccitamento, e quando si inturgidiscono sorge la voglia di riversare il seme nell’obiettivo della nefasta libido (dira libido): il corpo che ha causato una ferita d’amore nella mente dell’uomo. Quasi tutti cascano sulla ferita, il sangue sprizza nella direzione da cui è stato sferrato il colpo, e se il nemico è vicino viene investito dal fiotto. Così chi è colpito dalle frecce di Venere, non importa se scoccate da un fanciullo prepuberale o da una donna fremente, si protende verso chi l’ha ferito e brama di unirsi al suo corpo, per spremergli dentro il succo del proprio.

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La nefasta libido (1037-1056)

L’uomo La più grave malattia venerea I versi IV,1037-1287 costituiscono un trattatello antimetafisico sull’amore, nello stile del resto del De rerum natura. Se si guarda alla lingua, infatti, si osserva che “l’amare” è la sostantivizzazione di un verbo, ottenuta aggiungendo un articolo determinativo all’infinito, che dà un nome all’azione descritta dal verbo. E lo stesso si può fare con gli agenti dell’azione, aggiungendo un articolo determinativo al participio attivo o passivo. Non ci sono problemi a farlo con verbi che descrivono sensazioni concrete, come “vedere”. In tal caso si passa a “il vedere”, “il vedente” e “il veduto”, e tutto fila liscio. Almeno finché ci si limita a dire “il vedente vede il veduto”, o “il vedente e il veduto sono il soggetto e l’oggetto del vedere”, e non si pretende di fare contorsioni linguistiche quali “il vedere vede”, che ovviamente non significa nulla (anche se i filosofi si divertono con “l’essere è”, che non significa nulla neppure esso). Nel caso di un verbo come “amare”, che descrive un sentimento astratto, la faccenda si complica. È infatti ancora chiaro cosa siano “l’amante” e “l’amato”, ma lo è molto meno “l’amare”. Anzi, ci sono forti dubbi, sollevati appunto da Lucrezio, che la parola significhi qualcosa, al di là dell’atto materiale che era l’oggetto del “desiderio” e della “passione” costituenti il significato letterale sia del sanscrito kama (da cui Kamasutra, “canto dell’amore”) e del suo derivato latino amor, sia del greco eros (da cui “erotismo”). Nel verso IV,1058 Lucrezio allude a un legame non solo mitologico, ma anche etimologico, dell’amore con Venere, il cui nome deriva dall’indoeuropeo *wen-, “desiderare”. Dall’altro suo nome Afrodite, che ne richiama la nascita dalla spuma del mare (aphros), deriva invece afrodisiaco, “venereo”. L’amore è dunque una letterale “malattia venerea”, come confermano i versi III,993 e VI,1158: entrambi usano infatti una stessa espressione (anxius angor, “ansia angosciosa”), in un caso per l’innamorato e nell’altro per l’appestato.

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Libro IV. Fisiologia e psicologia Il muto amore (muta cupido) lascia presagire la voluttà. Infatti, è l’amore sensuale che noi identifichiamo con Venere. È dal desiderio sessuale che deriva la parola “amore”. È di qui che è sgorgata per la prima volta dal cuore una goccia di venerea soavità, a cui è seguìto un gelido affanno. Se ciò che si ama è lontano, lo si può riavvicinare rievocandone le immagini e mormorandone il nome. Ma è meglio rifuggire dalle immagini e allontanare il calice dell’amore, volgendo altrove la mente e scaricando il proprio seme in un corpo qualsiasi. Trattenerlo nell’attesa dell’unico sempiterno amore, è invece garanzia di affanni e dolori. Se la si nutre, la piaga dell’amore si infetta e si aggrava, e l’infatuazione e il dolore non fanno che aumentare di giorno in giorno. L’unica cura è scacciare i chiodi vecchi con dei chiodi nuovi, e distrarre la mente passando da una Venere all’altra: così, le ferite prodotte da ciascuna di esse vengono curate dalla successiva.

Il muto amore (1057-1072)

Chi evita saggiamente l’amore, non si deve certo privare del sesso: al contrario, può godere delle sue gioie senza doversi sobbarcare le sue pene. E ne ricava una pura voluttà (pura voluptas), più adatta alle persone sane di mente che a quelle malate d’amore. È proprio nel momento del possesso sessuale che l’ardore degli amanti vacilla, ed essi non sanno più dove incominciare a mettere le mani o rivolgere gli occhi. Abbracciano forte il corpo che hanno bramato, gli mordono le labbra fino a fargli male, lo possiedono con un furore ben lontano dalla pura voluttà, che frenerebbe i morsi e mitigherebbe le pene. Gli amanti sperano che lo stesso corpo che ha infiammato mentalmente il loro desiderio, possa spegnere fisicamente quell’incendio. Ma la Natura frustra la loro speranza, perché se c’è una cosa al mondo che non rende mai sazi, è proprio quella: più se ne ha, e più se ne vorrebbe. Mentre il cibo e l’acqua ci riempiono lo stomaco, fino a saziarci, il volto e il corpo di un amante non li possiamo introiettare: non ci lasciano altro che memorie e ricordi, che la vana speranza rapisce nel vento.

La pura voluttà (1073-1096)

Gli assetati vorrebbero avere dell’acqua, ma non trovano sollievo se la bevono solo in sogno, fosse pure quella di un immaginario fiume in piena. Allo stesso modo, gli innamorati vorrebbero possedere una persona, ma non trovano sollievo perché la possono solo contemplare con gli occhi o accarezzare con le mani, sia pure sull’intero corpo. Quando si uniscono per cogliere il fiore dell’amore, preparando alla semina l’uno il proprio vomere e l’altra il solco del proprio campo, gli amanti presagiscono il piacere e si inchiodano avidamente l’uno all’altro. Premono smaniosi le loro labbra, mescolano le lingue e la saliva, si respirano in

Pene e fatiche d’amore (1097-1140)

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L’uomo La mia bella cornacchia spennacchiata Gli ironici versi IV,1153-1169 sono diventati un topos nei discorsi sull’amore cieco. Uno dei primi a riprenderli fu Ovidio, nell’Arte di amare (II,657-671) e nei Rimedi contro l’amore (325346): nella prima, come mezzo per conquistare le amanti, e nei secondi, per disinnamorarsene. Nelle Satire (I,3) Orazio effettuò invece una traslazione dall’amore coniugale a quello filiale, all’insegna del detto napoletano: “Ogni scarrafone è bello a mamma soja”. Nel 1666 Molière ha riproposto i versi nel Misantropo (II,711-730): «Di solito l’amore non ha leggi, e ogni amante magnifica la sua scelta. La passione è cieca, e tutto diventa amabile nell’amata. Si vedono i difetti come perfezioni, e li si chiama con nomi meravigliosi. La pallida è un gelsomino, la nera una splendida bruna. La magra è agile e slanciata, la grassa maestosa. La gigantessa è divina, la nana un riassunto di splendore. La slavata è trascurata, l’orgogliosa regale, la furbastra spiritosa, la stupida buona. La chiaccherona è simpatica, la taciturna pudica. Lo spasimante innamorato ama persino i difetti dell’amata». Anche Lorenzo da Ponte ha frequentato la “scuola degli amanti” di Lucrezio, come mostra la trilogia delle opere italiane con Wolfgang Amadeus Mozart. Nella prima, Le nozze di Figaro del 1786, il servo invita gli uomini ad aprire gli occhi e guardare cosa sono le femmine, «chiamate dee dagli ingannati sensi, a cui tributa incensi la debole ragion». Nella seconda, Don Giovanni del 1787, il catalogo di Leporello elenca alcuni dei versi IV,11531169: «Nella bionda egli ha l’usanza di lodar la gentilezza, nella bruna la costanza, nella bianca la dolcezza. Vuol d’inverno la grassotta, vuol d’estate la magrotta. È la grande maestosa, la piccina è ognor vezzosa». La terza, infine, Così fan tutte del 1790, è tutta giocata sui fraintendimenti degli amanti, all’insegna del «voi le amate, queste vostre cornacchie spennacchiate».

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Libro IV. Fisiologia e psicologia bocca, ma invano: riescono solo a scalfirsi la pelle, senza potersi veramente penetrare e perdere a vicenda, come vorrebbero. Dopo che il desiderio accumulato è esploso e ha trovato uno sbocco, le membra si sciolgono e il violento ardore può prendersi una piccola pausa. Ma presto torna la furia e la frenesia assale di nuovo gli amanti, mentre essi si chiedono cosa veramente vogliano, e come possano trovarlo. E in questa incertezza si struggono, senza riuscire a sanare la loro invisibile ferita. Come se non bastasse, gli amanti si affaticano e si spossano a vicenda, oltre a passare la vita soggetti l’uno ai capricci dell’altro. In nome dell’amore si trascurano i propri doveri e si perde la faccia. Si sperperano patrimoni in profumi, gioielli, scarpe e vestiti, che poi si sgualciscono imbrattandoli di sperma. Si fa tutto invano. Dopo cene ben organizzate, con cibi e bevande, fiori e regali, sgorga sempre una goccia d’amaro dalla fontana del dolce incanto. Una volta è l’animo che rimorde, perché si accorge di sprecare la vita. Un’altra è una parola che scappa, e rinfocola qualche recriminazione che covava sotto la cenere. Un’altra ancora è uno sguardo incauto, che scatena la gelosia. Se già così sono gli amori fortunati e appagati, immaginiamoci quelli delusi e infelici! In tal caso, di argomenti a sfavore ce ne sono infiniti, e si vedono chiaramente anche a occhi chiusi. Dunque, è meglio starne ben alla larga, perché è più facile evitare di cascare nella rete, che riuscire a liberarsi dalle sue maglie. Ma anche chi ne fosse rimasto invischiato e irretito potrebbe sfuggire al pericolo, se non si facesse del male da solo, e aprisse invece gli occhi sui difetti fisici e psichici dell’amata. In genere però accade l’esatto contrario, e coloro che sono accecati dalla passione le attribuiscono pregi inesistenti. Magari si accorgono dei difetti delle donne altrui, ma non di quelli della propria. È così che le donne brutte si trasformano in bellezze, ricercate e adulate. Le scure vengono considerate “abbronzate”, le grossolane “naturali”, le scheletriche “scattanti”, le nane “minute”, le enormi “maestose”. Le balbuzienti diventano “timide”, le insopportabili “focose”, le pettegole “argute”, le moribonde “cagionevoli”, e quelle già morte “tanto delicate”. Quelle con gli occhi storti hanno lo strabismo di Venere, se posseggono attributi giganteschi sono delle Giunoni, e così via all’infinito. Ma quand’anche una donna fosse veramente bella e attraente, non sarebbe comunque l’unica. E se vivevamo bene senza di lei prima di conoscerla, potremmo vivere altrettanto bene anche dopo. E comunque, a letto e altrove, non potrà che fare le stesse cose di tutte le altre. Ma non c’è ragione che tenga. L’innamorato respinto continuerà a portar

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Amanti scimuniti (1141-1191)

L’uomo Come nascono i bambini

I versi IV,1037-1287 costituiscono anche un trattatello fisiologico sul sesso, sempre nello stile del resto del De rerum natura. E per quanto concerne la riproduzione, considerata più da vicino nei versi IV,1209-1277, l’atomismo porta in maniera naturale alla concezione che essa dipenda direttamente dai semi maschili e femminili (p. 54), e sgombra il campo dalle idee superstiziose o religiose che ancor oggi continuano ad alimentare la percezione popolare. Lucrezio intuisce la proprietà fondamentale del sesso, che è quella di combinare i caratteri dei due genitori, tramite la fecondazione dell’ovulo femminile da parte di uno spermatozoo maschile (sopra). La caratteristica principale della riproduzione sessuata è stata scoperta nel 1866 da Gregor Mendel, nel Saggio sugli ibridi vegetali: semplificando, ogni carattere di un individuo dipende da un gene (o più), di cui egli possiede due varianti chiamate alleli, ciascuna delle quali può essere dominante o recessiva. Le due varianti di un gene di un individuo gli sono trasmesse dai genitori: una dal padre, e l’altra dalla madre. Se entrambe sono dominanti, o entrambe recessive, egli manifesta il carattere corrispondente. Se invece sono una dominante e l’altra recessiva, l’individuo manifesta soltanto il carattere dominante, ma può trasmettere il carattere recessivo alla prole, ed esso potrà eventualmente manifestarsi in figli, nipoti o altri discendenti. La determinazione del sesso del nascituro dipende invece dai cromosomi sessuali X e Y: le donne ne hanno due di tipo X, e gli uomini uno di tipo X e l’altro di tipo Y. Al momento della fecondazione, i genitori ne forniscono al nascituro uno ciascuno. Poiché il contribuito della madre è necessariamente di tipo X, il sesso del figlio dipende soltanto dal contributo del padre: esso sarà maschio se il padre gli ha fornito un cromosoma Y, e femmina altrimenti.

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Libro IV. Fisiologia e psicologia fiori in lacrime alla sua porta, e a chinarsi a baciare le orme dei suoi piedi. Eppure, basterebbe che lei lo facesse entrare e si lasciasse scappare qualche odorino o qualche rumorino, perché lui trovasse subito una scusa per darsela a gambe. Così cadrebbe l’intero castello di carte, ed egli tirerebbe un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo, capendo finalmente di aver attribuito doti divine a una comunissima mortale. Tutto ciò le nostre Veneri lo sanno benissimo, ed è per questo che stanno ben attente a nascondere i retroscena della propria vita agli spasimanti. Ma è inutile, perché certe cose non c’è bisogno di vederle: si possono benissimo immaginare, se solo lo si vuole. Non sempre una donna finge, stando a letto con un uomo, quando lo copre di umidi baci, e geme e ansima con lui. Spesso lo fa sinceramente, ricercando anche lei lo stesso piacere, e incitando il compagno a correre verso lo stesso traguardo. D’altronde, perché mai le pecore, le leonesse e le cavalle dovrebbero soggiacere ai loro maschi, assecondandoli nella monta, se non perché sono anch’esse in calore e hanno voglia di sfogarsi come loro? A volte si vedono dei cani che stanno accoppiandosi di fronte a un bivio, e prima ancora di finire sono già protesi in due direzioni diverse, pronti a scattare ciascuno sulla propria strada. Certo non lo farebbero, se non provassero entrambi uno stesso piacere che momentaneamente li distrae e li incatena. Ti accorgi, dunque, che spesso coloro che sono incatenati alla stessa catena del piacere si tormentano per una stessa pena? Per questo, ti ripeto, il piacere è di entrambi.

Anche le donne godono (1192-1208)

Nel mescolarsi dei semi, quello che vince determina se i figli somiglieranno di più al padre o alla madre. Se invece pareggiano, senza che nessuno dei due prevalga o soccomba, i figli somiglieranno ugualmente a entrambi. A volte succede che i figli somiglino invece ai nonni, o ai bisnonni, perché i genitori portano nascosti nel proprio corpo, mescolati in vari modi, i caratteri degli antenati. E la Natura trae a sorte quelli da assegnare ai nuovi nati, riproducendo gli occhi, i capelli e le voci degli uni o degli altri: anche questi caratteri sono determinati dai semi, infatti, esattamente come i volti, i corpi e le membra. Il seme di entrambi i genitori è necessario, sia per i figli che per le figlie: gli uni e le altre richiedono sia lo sperma del padre che l’ovulo della madre. E, indipendentemente dal sesso, la somiglianza con uno o l’altro dei genitori è determinata dalla percentuale predominante di uno dei due semi. La fertilità dei genitori non dipende dal capriccio degli dèi, come crede

Genitori e figli (1209-1277)

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L’uomo La bella africana Il trattamento disincantato dell’amore nei versi IV,1037-1287 scatenò le reazioni degli incantatori di serpenti cristiani, i quali diffusero la storia di una fine ingloriosa del poeta. Tutto risale a quel pervertito di san Girolamo, grande avvocato del celibato ecclesiastico, che nel secolo IV si inventò un Lucrezio «spinto alla follia da un filtro d’amore», e «suicida a quarantaquattro anni». La migliore rappresentazione letteraria di questa stupidaggine storica si trova nel capitolo su Lucrezio delle Vite immaginarie di Marcel Schwob, del 1896, che si conclude così: Piangeva, ma sapeva che il pianto proviene da un moto particolare delle piccole ghiandole che stanno sotto le palpebre e che sono agitate da una processione d’atomi, uscita dal cuore, quando lo stesso cuore è stato colpito dalle successive colorite immagini che si staccano dalla superficie del corpo d’una donna amata. Sapeva che l’amore non è altro che il gonfiarsi di atomi che vogliono unirsi ad altri atomi. Sapeva che la tristezza causata dalla morte non è che la peggiore delle illusioni terrestri, perché un morto cessa di essere infelice e di soffrire, mentre chi lo piange si commuove sui propri mali e pensa cupo alla propria morte. Ma, conoscendo esattamente la tristezza e l’amore e la morte, e pur sapendo che diventano immagini vane quando si contemplano dallo spazio sereno nel quale deve raccogliersi il saggio, egli continuò a piangere lacrime, e a desiderare l’amore, e a temere la morte. Tornato nell’alta e cupa casa degli antenati si avvicinò alla bella africana, che faceva cuocere una bevanda sopra un braciere, in un vaso di metallo. Aveva sognato a lungo anche lei, e i suoi pensieri erano risaliti alla sorgente misteriosa del suo sorriso. Lucrezio guardò la bevanda ancora ribollente, che schiarì a poco a poco e diventò simile ad un cielo torbido e verde. La bella africana scosse il capo ed alzò un dito. Allora Lucrezio bevette. E subito la sua ragione si smarrì ed egli dimenticò tutto. E, per la prima volta, impazzito, conobbe l’amore e nella notte, essendo stato avvelenato, conobbe la morte. 184

Libro IV. Fisiologia e psicologia il marito che si reca nei templi a fare offerte sugli altari, per ottenere la grazia di ingravidare la moglie e di poter essere chiamato padre da un tenero figlio. È inutile pregare o consultare gli astri, per queste cose. Tutto dipende dalla qualità del seme dei genitori: se lo sperma è troppo denso o troppo liquido, se viene emesso con minore o maggiore vigore, se l’ovulo lo accoglie o lo respinge, se attecchisce meglio o peggio nell’utero, se persiste nella gravidanza o abortisce. Le unioni sessuali sono estremamente variegate. Alcuni riescono meglio a ingravidare certe donne, e alcune riescono meglio a farsi ingravidare da certi uomini. Alcune sono state sterili con vari mariti, fino a che ne hanno trovato uno che le ha rese feconde. Lo stesso per certi uomini e le loro mogli. Quello che conta è la compatibilità dei semi. E su questo influisce la dieta che si segue, perché certi cibi potenziano il seme, e altri lo indeboliscono. Ma influisce anche il modo in cui ci si congiunge fisicamente: sembra che sia meglio farlo da dietro, alla maniera delle bestie (more ferarum), perché è la posizione più diffusa in natura. Non c’è invece bisogno che le mogli si comportino in maniera lasciva. Anzi, più la donna si agita e si dimena, assecondando con le anche e il busto il piacere dell’uomo, più rende difficile al vomere di dissodare il solco, e al seme di impiantarsi. Per questo le prostitute sono esperte in quei movimenti, e li praticano non solo per eccitare i clienti, ma anche per evitare le gravidanze. Cosa di cui le mogli non hanno bisogno. Non è per volere divino, né per le frecce di Venere, che a volte si ama una donnetta (muliercula). Può essere lei stessa, con i suoi gesti morigerati, i suoi modi a modo, la sua cura del corpo, a rendere facile il passare la vita con lei. L’intimità, in fondo, concilia l’amore. Alla lunga, si può domare e piegare ciò che si batte a colpetti costanti. Non si dice forse che, col tempo, la goccia scava la roccia?5

5

Vedi I,313 (p. 40).

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La donnetta che amiamo (1278-1287)

Il macrocosmo

Libro V La Terra

Dèi umani, troppo umani Nel verso V,8 Lucrezio usa per Epicuro l’espressione deus ille fuit, deus. Ma era stato Epicuro stesso, nella sua Lettera sulla felicità (135), a dire che chi avesse seguito le sue dottrine sarebbe vissuto come “un dio fra gli uomini”. La prima cerimonia di deificazione di un uomo, chiamata apoteosi in greco, risale al -324, quando Alessandro Magno la pretese per sé, dopo esser venuto a conoscenza delle proprie “origini divine” dall’oracolo di Amon (p. 270) nell’oasi di Siwa, in Egitto. Anche se già suo padre, Filippo il Macedone, aveva avuto pruriti analoghi. L’abitudine attecchì non solo per i faraoni tolemaici, ma anche per i poeti: primo fra tutti, Omero (sopra). A Roma fu adottata dapprima per Giulio Cesare, e poi per l’imperatore, che venne appunto chiamato divus, “divo”. Ancora nel 1865, un’Apoteosi di Washington fu dipinta nella cupola del Campidoglio statunitense (a destra). Anche la leggenda della fine di Ercole, che viene assunto in cielo e diventa dio, appartiene alla storia fantastica dell’apoteosi. Ma Lucrezio cita l’eroe per contrapporre le sciocche storielle mitologiche delle sue dodici fatiche, sulle quali non conviene perdere tempo, alle serie ricette filosofiche per la pace interiore di Epicuro. Una versione religiosa “moderna” dell’apoteosi è l’elevazione agli “onori degli altari” di un uomo come Padre Pio, o una donna come Madre Teresa. In casi eccezionali, come per Giovanni Paolo II, la folla richiede a gran voce la proclamazione immediata (“santo subito”) al momento della morte: nella tradizione degli imperatori romani, appunto. 190

Chi può intonare, da un petto possente, un canto degno della maestà della Natura e delle scoperte su di essa? Chi può tessere, con parole adeguate, un elogio che renda giustizia a colui che ha fatto queste scoperte, e ce le ha tramandate? Nessun mortale, credo. E infatti, o lettore, l’unico modo corretto di esprimersi è dire che fu un dio (sì, un dio!) colui che arrivò per primo alla sapienza, illuminò le tenebre dell’ignoranza e placò le tempeste della vita. Confronta le sue scoperte con quelle di altre divinità del passato. Si dice che Cerere e Bacco abbiano introdotto la coltivazione del grano e della vite, ma si può vivere anche senza pane e vino: e infatti, alcuni popoli ancora non li conoscono. Invece non si può vivere senza la pace interiore, soavemente insegnata da Epicuro alle genti, e per questo egli ci appare come un dio. Certo sbaglieresti di grosso a pensare che le imprese di Ercole siano state superiori alle sue. Che problemi ci causerebbero mai i mostri da lui sconfitti, quali l’invulnerabile leone di Nemea, che diede origine alla costellazione del Leone? O il poderoso cinghiale di Erimanto? Il furioso toro di Creta? La viscida idra multicefala di Lerna? Il gigante a tre corpi Gerione? Le feroci arpie del lago Stinfalo? I cavalli antropofagi di Diomede, che soffiavano fuoco dalle narici? Il drago a cento teste, che sorvegliava i pomi d’oro delle Esperidi? Che male avrebbero potuto farci questi e altri mostri mitologici, se anche fossero esistiti e avessero continuato a vivere? In fondo, la Terra è piena di bestie feroci, che infestano monti, boschi e foreste, ma basta che ce ne teniamo alla larga e non ci succederà niente. Se invece non purifichiamo la nostra mente, quante battaglie dovremo combattere, e quanti pericoli dovremo correre, anche controvoglia? E quanti desideri irrealizzati, quanti 191

Terzo elogio di Epicuro (1-54)

Il macrocosmo Ne uccide più la penna che la spada La versione più antica che si conosca del verso V,50 (dictis, non armis, “a parole, non con le armi”) si trova nella Storia di Ahiqar, che raccolse verso il -500 i detti di un saggio assiro vissuto un paio di secoli prima. Naturalmente, il significato è ambiguo: Lucrezio intendeva dire che “gli argomenti convincono più delle imposizioni”, ma volendo si può intenderlo anche nel senso che “gli insulti verbali feriscono più delle violenze fisiche”. Nella Lettera agli Ebrei (IV,12) Paolo afferma che «la parola di Dio è più affilata di una spada a doppio taglio». Maometto riporta le cose in terra con «l’inchiostro del copista è più santo del sangue del martire». Il detto inglese the pen is mightier than the sword, “la penna è più potente della spada”, è invece di Edward Bulwer-Lytton, che nel 1839 lo mise in bocca al cardinale nella sua opera teatrale Richelieu, o della cospirazione. Di che marca è la macchina del mondo?

Nel verso V,96 Lucrezio parla di machina mundi, e vien da chiedersi a quali “macchine” potesse pensare. Forse alle sfere armillari (a sinistra), che modellavano i moti celesti: come quella costruita da Archimede, e requisita dai Romani nel -212 alla presa di Siracusa. Da queste sfere Cicerone dedusse, nella Natura degli dèi (II,97), l’argomento “settecentesco” dell’orologiaio del mondo. Ma c’erano altri meccanismi complessi: ad esempio, la misteriosa calcolatrice rinvenuta ad Antikythera nel 1901, e coeva di Lucrezio (a destra). L’idea di paragonare l’universo alla più sofisticata macchina disponibile è ubiqua nei secoli. Nel Settecento, la metafora principe fu l’orologio meccanico. Nell’Ottocento, il motore termodinamico. Agli inizi del Novecento, la rete elettrica e la rete telefonica. E oggi, ovviamente, il computer e la rete informatica. Nessuno di questi modelli cattura completamente la complessità del “dedalo delle cose” del verso V,234, ma ciascuno fornisce un aspetto su cui concentrarsi, fino all’avvento della prossima diavoleria tecnologica. 192

Libro V. La Terra affanni irrisolti, lacerano il cuore dell’uomo turbato? Per non parlare dei danni provocati dalla superbia, l’avarizia e l’arroganza, così come dal lusso e dalla pigrizia. Perché mai non avrebbe il diritto di essere annoverato fra gli dèi l’uomo che ha definitivamente sconfitto tutti questi mostri psicologici, e li ha scacciati dal nostro animo non con la forza delle armi, ma con la persuasione delle parole? Non è un vero dio proprio lui, che ha rimesso i falsi dèi al loro posto, e ci ha svelato tutta la natura delle cose? Io mi muovo sulle orme di Epicuro, seguendone il pensiero, e nel mio discorso dimostro quali siano le immutabili leggi della creazione e dell’evoluzione delle cose e del mondo. Ad esempio, ho mostrato in precedenza come la natura della psiche sia indissolubilmente legata a quella del corpo, e come essa si dissolva con la morte. E ho mostrato come siano i simulacri a ingannarci, quando crediamo di vedere in sogno coloro che ci hanno lasciato. Ora mostrerò come anche il mondo stesso nasca e muoia. E come la materia si aggreghi a formare la Terra, il mare, il cielo, la Luna, il Sole e le stelle. Come siano nati gli esseri che sono nati, e non siano nati quelli che non sono nati. Come gli uomini abbiano iniziato a usare il linguaggio e i nomi delle cose. E come si sia insinuato nell’animo il timore degli dèi, e abbia portato a erigere dovunque immagini divine, e a consacrare altari, templi e luoghi sacri. Mostrerò anche come si muovono il Sole e la Luna, o lettore, affinché tu non pensi né che lo facciano in maniera spontanea, per contribuire volontariamente alla crescita delle messi e al sostentamento dell’uomo, né che siano guidati dagli dèi. Infatti, anche coloro che già sanno che gli dèi vivono distaccati dalle faccende umane, quando si domandano stupiti come sia possibile tutto ciò che avviene in cielo e in Terra, rischiano di ricadere nella religione. Perché se non riescono a capire come stanno le cose, e quali siano le cause degli eventi, finiscono col tornare alle vecchie superstizioni, e a continuare miseramente a credere in divinità tiranniche e potenti.

Uno sguardo indietro e uno avanti (55-90)

Per cominciare a mantenere le mie promesse, ti propongo di guardare anzitutto la Terra, il mare e il cielo. La triplice macchina del mondo, costituita di tre sistemi così diversi nelle tre forme, ma così simili nelle tre strutture, si fermerà di colpo in un sol giorno, benché abbia funzionato per tanti anni. So bene che l’idea della fine del mondo può risultare non solo nuova e sorprendente, ma difficile da dimostrare.1 È tanto difficile capirla, quanto udire una cosa con le orecchie, senza poterla guardare con gli occhi o toccare

La macchina del mondo si rompe (91-109)

1

Vedi II,1144-1174.

193

Il macrocosmo La vera Apocalisse I versi V,91-109 introducono l’argomento della fine del mondo, discusso a fondo nel seguito. La mitologia al proposito abbonda, dall’Apocalisse di Giovanni, del secolo I, all’Armageddon di Michael Bay, del 1998, ma è confinata nel fantastico, quando non sconfina nello psicotico. Il verso V,108 invoca invece un approccio razionale, cioè scientifico. Nel 1854 Hermann Helmholtz ha anticipato l’idea della “morte termica dell’universo”, che è una conseguenza del secondo principio della termodinamica: “un sistema isolato tende verso lo stato di massima entropia”, in cui non è più disponibile energia per compiere nessun tipo di lavoro. E nel 1922 Aleksandr Fridman ha mostrato che ci sono solo tre tipi di scenari relativistici, in due dei quali l’universo finisce: in un’implosione (Big Crunch) dovuta a un’inversione dell’attuale espansione, o in uno “strappo” (Big Rip) dovuto a una sua accelerazione. Per quanto possa interessare, quest’ultima ipotesi sembra al momento la più “probabile”.

I Giganti I versi V,117-118 ricordano che secondo la mitologia greca i Giganti, figli di Gaia (p. 198) e Urano, avevano assaltato l’Olimpo per scalzarne gli dèi, ed erano stati puniti con una reclusione sotterranea: in particolare, Encelado sotto l’Etna, della cui attività vulcanica divenne la causa, tramite i suoi sbuffi e tremori. In Lucrezio la gigantomachia diventa un ovvio simbolo della ribellione contro le divinità e la religione. In una delle sue ultime opere, Sull’innumerabile, immenso e inimmaginabile (IV,1) del 1591, Giordano Bruno riprese la citazione positiva di Lucrezio e fece stupire Encelado del fatto che gli uomini continuassero ad adorare gli dèi, invece di onorare i loro simili che avevano osato sfidarli. La stessa opera, inoltre, riprese anche l’argomento della freccia dei versi I,968-983, a proposito dell’infinità dell’universo (pp. 58-59). 194

Libro V. La Terra con le mani: cioè, con i due sensi più immediati per la percezione e più convincenti per l’intuizione. Ma la esporrò comunque. E forse saranno i fatti a confermarla, quando la Terra verrà scossa da terremoti tremendi e tutto crollerà in un attimo. Ma che il caso ce ne scampi! Speriamo di poterci limitare ad argomentare razionalmente sulla fine del mondo, senza dover assistere di persona all’orribile fragore del disfacimento universale. Prima di iniziare a profetare sul futuro, benché in maniera molto più veritiera e ragionevole dell’oracolo di Apollo che profetizza vanamente dal suo tripode,2 ti farò alcuni discorsi saggi e confortanti. Vorrei infatti evitare che le pastoie della religione ti frenino, impedendoti di capire che i corpi celesti come Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno non sono esseri divini e immortali, nonostante il loro nome. Ma tu non devi temere che, poiché i Giganti sono stati schiacciati nella loro lotta contro gli dèi dell’Olimpo, lo saranno anche coloro che con i propri argomenti abbattono le mura del mondo, sostengono che il Sole si spegnerà, e screditano gli immortali con discorsi mortali. E devi invece sapere che le religioni hanno ben poco a che fare con le cose divine e supreme, e molto a che fare con le cose insensate e irreali. Non puoi infatti credere per davvero che la psiche possa albergare in qualunque corpo. La Natura ha stabilito dove ciascuna cosa debba stare, e come debba vivere. Gli alberi non volano per aria, le nubi non si tuffano in mare, i pesci non nuotano nei campi, il sangue non irrora gli alberi, e la linfa non circola nei sassi.3 Quanto all’animo e all’anima, non possono esistere senza un corpo provvisto di un cervello e di un sistema nervoso. Se no, anche nell’uomo avrebbero potuto stare altrove: nelle spalle, sotto i piedi o in qualunque altra parte. E poiché invece devono stare in un posto preciso anche nel corpo umano, a maggior ragione non possono stare al di fuori di un corpo animato. In particolare, non nell’aria del cielo, nell’acqua del mare, nel fuoco del Sole o nella terra dei pianeti: i quali, dunque, non hanno proprio niente di vitale, e meno che mai di divino.

Le pastoie della religione (110-145)

Non puoi nemmeno credere per davvero che gli dèi ci siano vicini. Il loro corpo sottile, infatti, è intangibile ai sensi e immaginabile solo col pensiero: ma tutto ciò che noi non possiamo toccare, non può nemmeno toccare noi.  Torneremo a lungo in seguito sul fatto che, poiché le loro dimore devono essere sottili come i loro corpi, gli dèi non possono risiedere nel nostro mondo,

Gli dèi sono lontani (146-194)

2 3

Vedi I,738-739. Vedi III,784-797.

195

Il macrocosmo Chi ha combinato questo pasticcio?

Epicuro ideò un semplice e convincente argomento a proposito del problema del male. Nel romanzo Gli dei hanno sete, del 1912, Anatole France lo fa riassumere così dal suo protagonista, che porta sempre con sé il De rerum natura: «O Dio vuole impedire il male, e non può. O può e non vuole. O non può e non vuole. O vuole e può. Se vuole e non può, è impotente. Se può e non vuole, è perverso. Se non può e non vuole, è sia impotente che perverso. Se vuole e può, perché mai non lo fa?». I disarmanti versi V,198-199 argomentano che, per dimostrare che il mondo non è stato creato da un Dio, basta guardare quant’è mal riuscito. Nel 1710 Leibniz cercò di confutarli nella Teodicea, “Giustizia di Dio”, sulla base del sofisma che Dio poteva creare solo mondi possibili, e ha scelto il migliore tra essi. L’argomento faceva già ridere di per sé, ma dopo la stroncatura di Voltaire nel Candide (p. 170) è diventato impossibile prendere sul serio l’espressione “migliore dei mondi possibili”. I poeti hanno risposto in maniera meno ingenua all’evidenza disincantata dei versi V,195234. Nelle Georgiche (I,118-159) Virgilio sostenne argutamente che Giove aveva reso la vita difficile agli uomini per evitare che essi si rammollissero. Nel 1836, nella Ginestra, Giacomo Leopardi accusò invece pessimisticamente la Natura di essere «matrigna e inimica», per averci condannati a «un’aspra sorte in un depresso loco». Ma oggi l’evoluzionismo (p. 218) ci ha spiegato il motivo per cui il mondo è così mal fatto: semplicemente, perché è stato prodotto dal caso, invece che dalla bontà di Dio o dalla cattiveria della Natura. Come scrisse lo stesso Darwin nella sua Autobiografia, uscita postuma nel 1887: «Un piano che regoli la variabilità degli esseri viventi e l’azione della selezione naturale non è più evidente di un disegno che predisponga la direzione del vento». 196

Libro V. La Terra ma solo in un al di là. Per ora concentriamoci sulla follia di chi crede che gli dèi hanno creato il mondo per il nostro bene, e che perciò dobbiamo essere loro grati. O di chi afferma che il mondo è eterno, ed è un sacrilegio negarlo o dubitarne. O di chi si inventa e colleziona altre scemenze del genere. Che vantaggio avrebbero mai potuto trarre, gli dèi, a fare qualcosa per noi? E che motivo avrebbero mai avuto, dopo una lunga vita beata, a cercare qualcosa di diverso? È solo chi non è felice e soddisfatto, che vuole un cambiamento. Ma chi non ha mai sofferto ed è sempre stato bene, che desideri potrebbe mai avere? Quanto a noi, che male ci sarebbe stato, se non fossimo mai stati creati? Forse che la vita era tenebrosa e mesta, prima che arrivassimo noi? Chi è nato vuole naturalmente continuare a vivere, finché se la gode. Ma a chi non ha mai potuto amare la vita, perché non è mai nato, che fastidio può dare il non esistere? E il modello per la creazione stessa dell’uomo, come sarebbe venuto in mente agli dèi? Come potevano sapere in che modo si sarebbero combinati gli atomi, se non stando a guardare la Natura che li combinava? Infatti, gli atomi sono così tanti, i loro moti così variegati e le loro interazioni così imprevedibili, che non c’è bisogno di invocare nessuna pianificazione per la creazione del mondo e dell’uomo. Quanto a me, anche se ignorassi i princìpi delle cose potrei comunque affermare, già solo guardandomi intorno, che il mondo ha così tanti difetti, che non può certo essere stato pianificato dagli dèi per gli uomini.4 Anzitutto, una buona parte di ciò che sta sotto il cielo è costituita da monti e boschi, popolati di belve feroci. Ci sono poi le terre aride e desertiche, le paludi malsane e maleodoranti, e i mari profondi e minacciosi. Delle terre abitabili, una buona parte è inospitale a causa degli eccessi di calore o di freddo. La Natura coprirebbe comunque una buona parte di ciò che rimane con rovi ed erbacce, se gli uomini non la lavorassero duramente col sudore della fronte, dissodandola e diserbandola. Non ci sarebbero gemme e virgulti primaverili e raccolti estivi o autunnali, se i contadini non coltivassero i campi arandoli e seminandoli. E spesso, quando tutto è già coperto di foglie e di fiori, piombano siccità, inondazioni, gelate, grandinate o tempeste di vento a distruggere le messi e i frutti. Perché poi la Natura genera e preserva innumerevoli specie di animali feroci e dannosi, e le diffonde sulle terre e nelle acque? Perché le varie stagioni ci portano malattie di ogni tipo? Perché la morte prematura si aggira fra noi? Il neonato giace impotente come un naufrago rigettato sulla spiaggia dalle onde furiose, incapace di parlare e di sopravvivere senza aiuto. Non stupisce che, appena partorito dal grembo materno, pianga il lamento straziante di chi è approdato a una vita che gli riserverà così tante pene, sofferenze e sventure. 4

Vedi II,165-181.

197

Il problema del male (195-234)

Il macrocosmo Questa è Gaia! I versi V,235-246 prefigurano un’ipotesi introdotta nel 1979 dallo scienziato James Lovelock nel suo libro Gaia: un nuovo sguardo alla vita sulla Terra. Si tratta dell’idea che il pianeta sia nel suo complesso un superorganismo, che ha per costituenti tutti gli organismi vegetali e animali viventi nell’atmosfera, sulla crosta terrestre e nelle acque. Che nasce e vive come se fosse un unico “essere”. E che può ammalarsi e morire, a causa degli squilibri e delle malattie delle sue varie parti. In particolare, Lovelock intendeva sottolineare il fatto che il mantenimento della vita collettiva della Terra dipende dal mantenimento delle vite individuali delle varie specie vegetali e animali. E che turbamenti di alcuni fattori cruciali per l’equilibrio omeostatico del sistema, come la temperatura dell’atmosfera o la salinità dell’acqua marina, possono produrre variazioni evolutive non soltanto delle singole specie, ma anche dell’intero sistema: compresa, ovviamente, la possibilità della morte non solo di singole parti, ma del tutto. Uno degli obiettivi primari dell’ipotesi Gaia era ovviamente l’inquinamento atmosferico, che minaccia di modificare sostanzialmente la composizione dell’atmosfera e la sopravvivenza delle specie aerobiche. D’altronde, è stato un analogo inquinamento, chiamato catastrofe dell’ossigeno, avvenuto circa due miliardi e mezzo di anni fa e causato dall’accumulo nell’atmosfera dell’ossigeno prodotto dalle neonate specie aerobiche, a provocare la scomparsa delle specie anaerobiche che avevano dominato la vita fino ad allora. Il nome associato a quest’idea del “pianeta vivente” è un ovvio riferimento alla dea Terra, che in attico si chiamava Gea (p. 86), e in ionico Gaia. Il suo mito è raccontato da Esiodo nella Teogonia, secondo cui Gaia sarebbe nata dal Caos, e avrebbe dato origine alla generazione degli dèi dell’Olimpo da un lato, e dei Titani e dei Giganti dall’altro: alcuni in maniera autonoma, e altri attraverso vari gradi di incesto. E furono appunto alcune beghe di famiglia a provocare la gigantomachia (p. 194) tra i due ordini di potere celeste.

198

Libro V. La Terra Invece le pecorelle e i vitelli, ma anche i lupetti e i leoncini, nascono già quasi autonomi, e non hanno bisogno di sonaglietti e ninnenanne. Da adulti non cambiano vestiti a ogni stagione, non devono girare armati per difendersi, non costruiscono mura o steccati per custodire le loro proprietà. La Natura e il dedalo delle cose dispensano a loro tutto ciò di cui hanno bisogno, mentre costringono noi a conquistarcelo.. Il mondo intero è mortale, essendo costituito di elementi mortali come la terra, l’acqua, l’aria e il calore: non può infatti mantenersi in eterno niente che sia costituito di parti caduche. Quando dunque vediamo la terra sgretolarsi, l’acqua evaporare, l’aria diffondersi e il calore disperdersi, capiamo che il cielo e la Terra hanno avuto una origine e avranno una fine. Per convincerti ulteriormente della caducità degli elementi del mondo, considera anzitutto che la Terra, seccata dal Sole e calpestata dai passanti, solleva un polverone che i venti spargono dovunque. La pioggia la trasforma in fango, e i fiumi la erodono. E poiché i prodotti che la Terra elargisce le ritornano, attraverso il ciclo vitale, essa risulta allo stesso tempo il ventre materno e la pietra tombale di ogni cosa. In tutti questi processi la terra si logora e si rigenera, come ogni cosa mortale. Non c’è poi bisogno di ricordare che perennemente i mari, i laghi e i fiumi cedono vapore e ricevono acqua: basta osservare l’incessante fluire dei fiumi e il loro continuo sfociare nei laghi e nei mari. E se questi ultimi non traboccano, è perché da un lato il loro strato superficiale viene rimosso dai venti e dal calore, e dall’altro lato il loro strato profondo viene assorbito dal terreno. Il vapore si condensa poi in piogge e nevi, che a loro volta alimentano le sorgenti dei fiumi, in un ciclo senza sosta.5 Quanto all’aria, anch’essa muta il proprio corpo senza sosta. Tutto ciò che evapora finisce infatti nell’aria, ma se non venisse restituito in qualche forma, alla fine tutte le cose si dissolverebbero. Ancora una volta, dunque, ci troviamo di fronte a una manifestazione del ciclo vitale nel quale le cose si generano, vivono, muoiono e si rigenerano, in un flusso perenne.

Ogni cosa terrestre si consuma (235-280)

Anche il Sole, che offre generosamente i propri limpidi raggi e inonda assiduamente il cielo di chiarore, deve continuamente fornire nuova luce alla luce. Questa è infatti costituita di particelle luminose, che si spengono quando raggiungono il bersaglio. Per convincersene, basta notare come l’interporsi delle nubi tra noi e il Sole blocchi la parte inferiore dei suoi raggi e provochi il rabbuiamento del cielo. Il che significa che una particella di luce illumina le cose solo

Ogni luce celeste si spegne (281-305)

5

Vedi VI,608-638, dove questo discorso sarà ripreso e sviluppato.

199

Il macrocosmo Nascita della Natura Uno dei diritti di primogenitura che Lucrezio rivendica implicitamente nei versi V,335-337 è la coniazione della parola natura, che è il participio futuro femminile di nasco, così come nata è il participio perfetto femminile. Letteralmente “natura” significa dunque “nascitura”, o “colei che è (continuamente) sul nascere”. E i libri V e VI del De rerum natura, letteralmente “La nascita delle cose”, forniscono appunto una descrizione del processo evolutivo ed evoluzionistico della Natura. Lucrezio ha però inventato solo la parola latina per la “generazione perenne”, e non il concetto: questo era già presente nel greco physis, “il generare” o “la generazione”, ottenuto analogamente dal verbo phyo, “genero”, e dal quale deriva la nostra fisica. I poemi dei presocratici si chiamavano appunto Perì physeos, “Sulla generazione”: compreso quello di Parmenide, che sostituì però questa visione dinamica della Natura con una statica, divenuta poi classica. La visione di Parmenide ha portato col tempo all’identificazione della Natura con la materia. In origine la parola latina indicava il tronco dell’albero, e derivava da mater, “madre”, che a sua volta derivava dal sanscrito matra, “misura” o “ordinamento”. Agli inizi l’idea stessa di generazione era dunque collegata al processo di formazione dell’ordine, individuale o cosmico, secondo una dualità che abbiamo già incontrato anche parlando dello “spirito” (p. 110). Il titolo del De rerum natura non parla però di materia, ma di cose: una parola che in italiano deriva etimologicamente da causa, “cagione” o “ragione”, ma che traduce il latino res, “oggetto”, il quale a sua volta traduceva il greco pragma, “fatto”. È dunque alla struttura degli oggetti, materiali o dell’attenzione, che Lucrezio dedica il suo poema, disdegnando tutto ciò che è sovrastruttura: cioè, letteralmente, la superstizione (da superstare, “sovrastare”), che egli correttamente identifica con la religione. 200

Libro V. La Terra istantaneamente, e che per continuare a essere viste le cose devono essere illuminate in continuazione da un fascio di particelle. Lo stesso succede con tutte le luminarie notturne che usiamo su questa Terra. Le lampade appese e le torce fumanti distribuiscono la loro luce a ogni tremolio delle loro fiammelle, senza interruzioni. E la luce non si spegne di colpo, solo perché ogni sua morte istantanea viene velocemente celata dalla fiamma successiva. Allo stesso modo dobbiamo pensare che succeda per il Sole e le altre stelle, che non devono dunque essere credute immutabili e immortali, bensì sorgenti di luce deperibili come le lampade. Non vedi che anche le pietre vengono vinte dal tempo, e le rocce si sgretolano? Che i templi e le loro statue vanno in rovina, e neppure gli dèi possono opporsi al fato e cambiare le leggi della Natura? Che i ruderi dei monumenti agli uomini illustri ti domandano se davvero credi che non siano invecchiati? Che prima o poi i massi si staccano dai monti e rovinano a valle, dimostrando di non aver resistito indenni alle usure del tempo? Soprattutto, non vedi che tutto ciò che la Terra contiene dentro di sé e accoglie su di sé, tutto ciò che da essa viene e ad essa ritorna, è costituito di materia che nasce e muore? E che la stessa Terra dev’essere nata e dovrà morire, perché generare le cose da sé e accoglierle dentro di sé sono cambiamenti che si addicono solo a ciò che non è immutabile né immortale?

Tutto finisce (306-323)

Se la Terra e il cielo non hanno una storia finita, ma sono sempre esistiti, come mai non ci sono pervenuti poemi più antichi del Ciclo tebano e del Ciclo troiano, che cantino imprese precedenti alla guerre di Tebe e di Troia? Perché sono state dimenticate le gesta dei tanti eroi che avrebbero preceduto Edipo o Achille, e la loro fama non è stata preservata in opere come l’Edipo re o l’Iliade? Io credo che sia perché il mondo è giovane, e la sua origine recente.6 Per questo le scienze e le arti si stanno ancora sviluppando e affinando: è da poco che si sono evolute le navi, ed è progredita la musica. Anche la scoperta della vera natura delle cose è recente, e io sono il primo a esporla in maniera popolare. Se comunque tu credi che invece siano esistiti molti popoli che si sono estinti, per qualche calamità naturale come una carestia o un’inondazione, e che le tracce delle loro città e dei loro monumenti siano state cancellate da terremoti o incendi, anche in quel caso dovrai concedere che questa è una prova della caducità di tutte le cose. Oltre che un motivo per credere che se tanta distruzione è già avvenuta, altrettanta o più ne potrà avvenire. D’altronde, è proprio quando ci prendiamo le stesse malattie che hanno già portato altri alla tomba, che ci ricordiamo di essere mortali pure noi.

Ars brevis, vita brevis (324-350)

6 In II,1144-1174, per coprirsi le spalle, Lucrezio aveva sostenuto l’esatto contrario: che il mondo ormai è vecchio, e la sua fine vicina.

201

Il macrocosmo La fine del mondo nel fuoco Il mito di Fetonte, che rischiò di distruggere la Terra dislocando il Sole dal suo percorso, sembra essere ispirato alle “stelle cadenti”: cioè, alla caduta di meteoriti. E, forse, anche al passaggio delle comete. Entrambi i fenomeni possono suggerire la possibilità, e generare la paura, che un corpo celeste esca dalla sua orbita, e precipiti sulla Terra. La storia è riportata da Euripide nel Fetonte, e da Platone nel Timeo. E fu ripresa da Dante, che la cita nell’Inferno (XVII,106-108): «Maggior paura non credo che fosse quando Fetonte abbandonò li freni, per che ’l ciel, come pare ancor, si cosse». Nel Purgatorio (IV,71-72): «La strada che mal non seppe carreggiar Fetonte». E nel Paradiso (XXXI,124-125): «Il temo che mal guidò Fetonte». La fine del mondo sott’acqua Il mito del diluvio universale, che rischiò di sommergere la Terra, sembra essere ispirato a qualche inondazione o alluvione eccezionale. O a qualche maremoto o tsunami, provocato da eruzioni o terremoti sotterranei: come quello descritto nel -426 da Tucidide nella Guerra del Peloponneso, ad esempio, o quello del dicembre 2004 nell’Oceano Indiano. O dall’impatto di un grande meteorite caduto in mare. O anche, infine, dal ricordo di qualche deglacializzazione preistorica. Versioni della leggenda sono riportate nel Gilgamesh sumerico e nel Genesi ebraico. Ma Lucrezio si riferisce a quella greco-romana, raccontata da Pindaro nelle Odi olimpiche (IX), e da Platone nel Timeo: Deucalione, una sorta di Noè, si imbarca su un’arca con la moglie Pirra, e dopo il diluvio i due ripopolano la Terra, gettandosi dietro le spalle delle pietre. Appunto, una delle tante “sciocchezze” stigmatizzate da Lucrezio. 202

Libro V. La Terra In ogni caso, tutto ciò che è eterno è indistruttibile, per uno di tre motivi. Primo, perché è insensibile agli urti che potrebbero distruggerlo, come gli atomi. Secondo, perché è immune da quegli urti, come lo spazio vuoto. Terzo, perché non ha spazio attorno in cui potersi distruggere, come l’intero universo.7 Il mondo non appartiene a nessuna delle tre categorie. Infatti, non è insensibile agli urti, perché contiene il vuoto. Non è immune dagli urti, come abbiamo mostrato in vari modi. E ha molto spazio attorno, dal quale possono arrivare meteore in grado di provocare cataclismi tremendi, e nel quale possono disperdersi le macerie delle mura del mondo. La porta della morte non rimane dunque sbarrata per il cielo, il Sole e la Terra: anzi, li attende spalancata, come una minacciosa ed enorme voragine. E se il mondo deve morire, dev’essere anche nato: altrimenti, in un tempo infinito i fattori della distruzione avrebbero ormai avuto la meglio su di esso.

La porta della morte (351-379)

Se le massime membra del mondo si combattono l’una con l’altra in una tremenda guerra intestina, si può comunque prevedere quando ne arriverà la fine. Cioè, quando il calore esterno del Sole e quello interno della Terra avranno prosciugato tutta l’acqua, come stanno già cercando di fare da tempo, senza esserci ancora riusciti. I fiumi e i mari infatti si difendono furiosamente, cercando di inondare a loro volta ogni cosa. Ma invano, perché il vento li scuote e il Sole li evapora, l’uno e l’altro coalizzati contro le acque. La guerra è ad armi quasi pari, e le sorti oscillano fra i contendenti: infatti, nel passato una volta ha già quasi vinto il fuoco, e un’altra volta l’acqua. Il fuoco andò vicino a vincere quando Fetonte prese la guida del carro del Sole, perse il controllo dei cavalli e permise loro di correre imbizzarriti nel cielo, avvicinandosi tanto alla Terra da far diventare un deserto la Libia. Ma Giove si adirò, e con un fulmine sbalzò Fetonte a terra dal carro. Il Sole riprese poi il controllo dei cavalli perduto dal figlio perduto, rimise il carro sul suo cammino e ripristinò l’ordine del cielo. Così almeno hanno cantato gli antichi poeti greci, ma si tratta naturalmente di sciocchezze. Perché per prevalere veramente, il fuoco dovrà attaccare in gran forza: dopo di che, o le fiamme verranno rintuzzate e domate, o tutto verrà bruciato e cremato. Un’altra storia racconta che una volta fu l’acqua ad andare vicina alla vittoria finale e definitiva, quando il diluvio sommerse terre, piante, animali e uomini. Ma anche in quel caso si trattò solo di una vittoria parziale e temporanea, perché poi le piogge cessarono, le acque defluirono e fu ripristinato l’ordine della Terra.

La guerra intestina del mondo (380-415)

7

Vedi III,806-818.

203

Il macrocosmo La vera Genesi È intellettualmente e culturalmente scandaloso che l’infantile e sbrigativa mitologia del Genesi, che inizia con “lo spirito di Dio che aleggiava sulle acque”, non sia stata gettata nel cestino dei rifiuti della storia, e rimpiazzata dalla matura e dettagliata descrizione delle origini fornita da Lucrezio. Anzitutto, i versi V,416-431 si sbarazzano della “inutile ipotesi di Dio”, esattamente come fece e disse Pierre-Simon Laplace l’8 agosto 1802, quando spiegò a Napoleone Il sistema del mondo, appunto. Inoltre, i versi V,432-448 descrivono la «massa informe» di particelle che, circa 380.000 anni dopo l’esplosione iniziale del Big Bang e poco più di 13 miliardi di anni fa, lasciò la sua impronta nella radiazione cosmica di fondo. Essa fu prevista nel 1948 da Ralph Alpher e Robert Herman, in uno studio su L’abbondanza relativa degli elementi, e osservata nel 1964 da Arno Penzias e Robert Wilson, che vinsero nel 1978 il premio Nobel per la fisica. Ed è stata poi mappata nel 1992 col satellite Cobe (sopra) da George Smoot e John Mather, vincitori anch’essi del premio Nobel nel 2006. Infine, i versi V,449-470 intuiscono l’esistenza e l’evoluzione della “nebulosa primitiva”, che circa 4 miliardi e mezzo di anni fa diede origine al Sistema Solare (a fianco). Nel 1734 il visionario Emanuel Swedenborg ripropose l’idea nei Princìpi primi delle cose naturali. Essa fu sviluppata nel 1755 dal filosofo Immanuel Kant, e perfezionata nel 1796 dal fisicomatematico Laplace: per questo oggi si parla di ipotesi di KantLaplace. E, con opportuni aggiornamenti, la si applica alla formazione non solo del Sistema Solare, ma di qualunque sistema stellare.

204

Libro V. La Terra Ora inizierò ad esporre con ordine il modo in cui la materia ha formato la Terra e il cielo, gli abissi del mare e il corso del Sole e della Luna. Una cosa è certa: gli atomi non sono stati messi al proprio posto per una qualche pianificazione razionale, né hanno deciso per conto loro in che modo muoversi. Si sono invece aggregati grazie alle reciproche interazioni provocate dalla varietà dei loro moti nell’eternità del tempo. Il caso ha lentamente prodotto tutto ciò che si poteva produrre, e a forza di tentativi ed errori si sono infine formati i grandi aggregati che hanno generato la Terra, il mare, il cielo e gli esseri viventi.

Creazione senza Creatore (416-431)

In principio non c’era la ruota del Sole, che oggi rotola splendente in cielo. Non c’era neppure il cielo, né niente di simile a ciò che conosciamo: le stelle, la Terra, il mare, l’aria. C’era soltanto una massa informe di tutti i possibili tipi di atomi, simile a una nube foriera di una tempesta imminente. L’anarchica discordia iniziale degli atomi li portava ad andarsene ciascuno per conto proprio, in un turbolento via vai di forme, pesi, moti, incontri e urti. A causa delle loro diversità individuali, a lungo essi non riuscirono a interagire in maniera concorde e feconda, in modo da unirsi e articolarsi. Ma col tempo cominciarono a formare aggregati più o meno stabili, che si unirono a quelli simili a loro. Pian piano si delimitarono così i confini del mondo, si formarono le sue membra, e si separarono fra loro il cielo e i fuochi celesti, le terre e le acque.

In principio era il caos (432-448)

Agli inizi gli atomi più pesanti e complicati, che poi formarono la Terra, si ammucchiarono verso il centro di un ammasso primordiale. E quanto più si concentravano, tanto più escludevano gli atomi più leggeri e semplici, che poi formarono il mare, il cielo e le stelle. Il primo a sfuggire dai pori dell’ammasso e a liberarsene fu l’etere celeste, leggero e infuocato, e trasse via con sé molti altri fuochi, che divennero poi le stelle. Allo stesso modo, di mattina, mentre l’aurora rosseggia nel cielo che si illumina e i prati si imperlano di rugiada, vediamo esalare da laghi e fiumi una nebbiolina, e a volte sembra fumare la terra stessa. Queste esalazioni si condensano poi in nuvole, che vanno a velare il cielo sereno. L’etere, così sfuggito al centro dell’ammasso, gli si avvolse poi espansivamente attorno a formare il cielo, e abbracciò avidamente ogni cosa. Dopo di esso si staccarono dal centro gli atomi che formarono il Sole e la Luna, i cui globi ruotano fra la Terra e il cielo. Essendo questi atomi meno pesanti e complicati di quelli della Terra, non rimasero nel centro dell’ammasso. Ma essendo anche meno leggeri

La nebulosa primitiva (449-470)

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Il macrocosmo L’esperimento più lungo della storia Le due possibilità per il moto delle stelle, discusse nei versi V,509-525, sono entrambe realizzate. La prima, che le stelle siano ancorate a una sfera rotante, riguarda il loro moto apparente, come lo si osserva durante la notte dalla Terra (a sinistra). La seconda, che le stelle si muovano di moto indipendente le une rispetto alle altre, riguarda invece il loro moto reale, ed è molto più difficile da osservare. Nel secolo -II Ipparco compilò una dettagliata mappa di un migliaio di stelle “a futura memoria” degli astronomi, raffigurata sulle spalle dell’Atlante Farnese (a destra). Essa fu ripresa nel secolo II da Tolomeo nell’Almagesto, e tramandata nei secoli. Nel 1718 Edmund Halley (p. 140) notò che le coordinate di Sirio, Arturo e Aldebaran da lui misurate erano sensibilmente diverse da quelle riportate dagli antichi, e dimostrò così dopo duemila anni che le “stelle fisse” in realtà si muovono, confermando la seconda ipotesi di Lucrezio.

Non fingo ipotesi, Watson I versi V,526-533 costituiscono un’encomiabile dichiarazione scientifica: le possibili spiegazioni dei fenomeni sono solo ipotesi, che attendono di venir confutate da prove contrarie, o confermate da prove a favore. Per arrivare poi alla conclusione di Sherlock Holmes nel Vampiro del Sussex, del 1924: «Quando si è eliminato tutto ciò che è impossibile, quello che rimane, per quanto improbabile, dev’essere la verità». Ma già nel 1713, nello Scolio generale dei Principia, Newton aveva scritto: «La ragione delle proprietà della gravità non sono ancora riuscito a dedurla dai fenomeni, ma hypotheses non fingo. Qualunque cosa non sia deducibile dai fenomeni è infatti un’ipotesi, e nella filosofia sperimentale non trovano posto le ipotesi metafisiche o fisiche, occulte o meccaniche. In questo tipo di filosofia le proposizioni si deducono dai fenomeni e si generalizzano per induzione».

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Libro V. La Terra e semplici di quelli dell’etere, non salirono ai piani alti della creazione. Rimasero dunque in una zona intermedia, liberi di muoversi attorno al centro, come gli arti del nostro corpo attorno al busto. Una volta che si furono ritirati gli atomi leggeri del cielo e dei corpi celesti, e quelli intermedi del Sole e della Luna, la Terra crollò e si formarono gli abissi, poi riempiti dai mari salati. Man mano che il doppio calore del cielo e del Sole la stringeva dal di fuori in una morsa sempre più stretta, e la comprimeva in una palla sempre più piccola e densa, l’acqua ne veniva spremuta dal di dentro e inondava i campi, formando mari e laghi, mentre i residui di calore e aria evaporavano in cielo. Le valli sprofondavano e le montagne crescevano, perché non erano uniformi né la materia terrestre interna, né le azioni esterne degli elementi su di essa. Fu così che si formò la Terra, come se il fango del mondo si fosse sedimentato tutto al fondo, e sopra di esso si fossero disposti a strati il mare, l’aria e il cielo stellato, in un ordine determinato dal decrescere del loro peso e dalla loro densità.

Il globo terrestre (471-500)

L’etere celeste sta sopra tutto, essendo più leggero e fluido dell’aria stessa, con la quale infatti non si mescola. Tutto quanto ci circonda viene sconvolto dalle burrasche e dai venti, ma l’etere è insensibile alle bizze dell’acqua e dell’aria, e preserva imperturbato il moto delle stelle: in questo è simile al Mar Nero, che preserva imperturbato il flusso delle sue correnti. Vediamo allora le cause del moto delle stelle. La prima possibilità è che sia l’intera sfera celeste a ruotare, trascinata a sua volta da un movimento dell’aria attorno ai poli terrestri, che scorre nella stessa direzione in cui si muovono le stelle. Oppure, chissà, la sfera celeste è sospinta da un analogo movimento di qualcosa che sta fuori di essa: allo stesso modo, i fiumi fanno girare su sé stesse le secchie o le ruote. La seconda possibilità è che le stelle non siano ancorate alla sfera celeste, ma si muovano autonomamente. Forse perché trascinate da una corrente d’etere, o sospinte da un vento d’etere, come navi portate alla deriva da una corrente o una brezza marina. O forse perché dotate di moto proprio, come pesci che guizzano nel mare alla ricerca del cibo.

Il moto delle stelle (501-525)

È difficile dire quale delle due possibilità sia quella vera. Ma io ti espongo non soltanto come le cose sono, quando so come sono, ma anche come possono essere, quando non lo so. Naturalmente, la causa del moto delle stelle è una sola, ma in mancanza di prove a favore non possiamo fingere che le nostre ipotesi siano delle tesi.

Non fingo ipotesi (526-533)

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Il macrocosmo La sorpresa nell’uovo della Terra I versi V,534-538, benché di difficile interpretazione, lasciano supporre che Lucrezio immaginasse la Terra come una sfera a molti strati concentrici, via via più evanescenti: una specie di pallone pieno d’aria, galleggiante nell’atmosfera. In precedenza Aristotele, nella Fisica e nella Meteorologia, di strati ne aveva supposti solo quattro, corrispondenti agli elementi classici: aria, terra, acqua e fuoco. I primi tre erano direttamente riconducibili all’atmosfera, alla geosfera e ai mari. E l’ultimo veniva indirettamente dedotto dalle eruzioni vulcaniche (p. 264), che lasciavano intuire la presenza di materiale incandescente nel sottosuolo terrestre. Oggi sappiamo che la Terra ha un nucleo, solido all’interno e liquido all’esterno, di volume pari a circa il 15% del totale, un raggio di circa 3500 chilometri e temperature fra i 3000 e i 5400 gradi. Il nucleo è avvolto da un mantello solido e plastico, a vari strati, di volume pari all’84% del totale, altezza di circa 2900 chilometri e temperature fra i 500 e i 4000 gradi. All’esterno sta invece la crosta, continentale o oceanica, di volume pari all’1% del totale e altezza di una trentina di chilometri. Schrödinger tira le orecchie a Lucrezio L’idea dei versi V,564-613, che il Sole e la Luna siano effettivamente grandi “quanto appaiono”, oggi fa ridere i polli, e forse già allora faceva ridere i Galli. Nel 1948 Erwin Schrödinger, premio Nobel per la fisica nel 1933, notò in La Natura e i Greci che Epicuro e Lucrezio «non distinguevano tra grandezza angolare e lineare: secoli dopo Talete, che misurava la distanza delle navi per triangolazione». Poiché la grandezza angolare del Sole è di circa mezzo grado, anche se esso fosse sorto a 300 chilometri da Atene (sul monte Ida, come proposto nei versi V,663-665), Epicuro avrebbe dovuto dedurre che il suo diametro era di 30 chilometri! In realtà il diametro del Sole è di circa 1.400.000 chilometri: 110 volte quello della Terra, che a sua volta è circa 4 volte quello della Luna. La massa del Sole, invece, è circa 330.000 volte quella della Terra, che a sua volta è circa 80 volte quella della Luna.

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Libro V. La Terra Affinché la Terra possa star ferma al centro del mondo, bisogna che quando si scende in profondità la sua consistenza diminuisca poco a poco, fino a diventare evanescente come l’aria. In tal modo la Terra può rimanere sospesa, senza sprofondare da nessuna parte, allo stesso modo in cui le membra del corpo non gravano su di esso. Infatti, il collo non sente il peso della testa, né i piedi sentono quello dell’intero corpo. Ma basta che ci carichiamo qualcosa addosso, anche sostanzialmente meno pesante di noi, perché subito lo percepiamo. E questo dimostra quanto sia importante ciò che ogni cosa può (quid quaeque queat res). La Terra non si formò dunque all’interno di un’atmosfera già esistente, né vi fu immessa dal di fuori, ma fu concepita insieme ad essa fin dagli inizi. E ne fa parte integrante, allo stesso modo in cui le nostre membra fanno parte di noi. Ed è proprio perché la Terra forma un tutto unico con l’aria, che essa viene scossa completamente dai tuoni. D’altronde, a sostenere l’intero nostro corpo non è forse la materia sottilissima dell’anima che lo pervade? E non è quella stessa materia sottilissima a governare le membra, riuscendo addirittura a far fare al corpo dei balzi in aria? Non vedi quanto possa fare un corpo pesante, quando possiede una natura sottile, proprio come la Terra ha una natura aerea e il corpo una natura animata?

La struttura della Terra (534-563)

La grandezza e luminosità del Sole e delle stelle non possono differire sostanzialmente da quanto appaiono ai nostri sensi. Infatti, da qualunque distanza noi osserviamo un fuoco, non ne vediamo cambiare né l’intensità della luce, né la grandezza della fiamma. Analogamente accade per la Luna: sia che essa brilli di luce propria, sia che rifletta luce altrui. Infatti, le cose che si allontanano da noi le vediamo rimpicciolire solo dopo averle viste sfuocare alla vista, ma la Luna la vediamo nitidamente: dunque, dev’essere grande proprio quanto la vediamo. Tornando al Sole, non ci si può stupire che, pur essendo così piccolo, risulti così luminoso e caldo, tanto da riuscire a illuminare e riscaldare la Terra intera. Potrebbe infatti non essere altro che un’apertura attraverso cui sgorgano la luce e il calore che si accumulano da ogni parte del cosmo. Non vedi che succede così anche con le sorgenti d’acqua che irrigano i prati, e a volte addirittura li allagano? Può anche darsi che il Sole sia solo una fiamma che appicca il fuoco a un’aria pronta a incendiarsi: così accade nei campi coperti di messi e stoppie, ai quali basta una scintilla per far divampare in un baleno le fiamme. Oppure, può darsi che il Sole non sia che il piccolo nucleo visibile di un gran fuoco invisibile, che contribuisce al calore ma non alla luminosità.

Svarioni cosmici (564-613)

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Il macrocosmo Idee stagionate Nel suo elenco di spiegazioni per il moto stagionale del Sole, Lucrezio non cita l’unica corretta, che pure riporta poco dopo nei versi V,689-695: l’inclinazione di circa 23 gradi e mezzo del piano equatoriale terrestre rispetto al piano dell’orbita terrestre, che intersecando la sfera celeste (blu) determinano rispettivamente l’Equatore celeste (azzurro) e l’eclittica solare (gialla). I loro due punti di intersezione corrispondono agli equinozi primaverile e autunnale: tra essi, il Sole sale in estate e scende in inverno, fino agli estremi dei solstizi. In particolare, è sbagliata la teoria del “venerabile Democrito”, che si riferisce alle velocità diurne apparenti dei corpi celesti rispetto alla Terra, e non alle velocità annuali reali dei pianeti rispetto al Sole. Per la terza legge di Keplero, enunciata nel 1619 nell’Armonia del mondo, “quanto più un pianeta è lontano dal Sole, tanto più si muove lentamente, essendo più lontano dal vortice del Sole che lo trascina”: ad esempio, Mercurio è circa dieci volte più veloce di Plutone.

Oscurità sul giorno Anche parlando del giorno e della notte, Lucrezio sembra rimanere ancorato ai pregiudizi del suo tempo. Anzitutto per i richiami a quella specie di Madonna col Bambino che era Madre Matuta, da cui derivano “mattutino” e “mattino”. E alla Madre Terra nelle vesti di Demetra: cioè, De Meter o Da Mater, “Madre Da” o “Madre Ida”, da cui l’omonimo monte (p. 87). E poi, perché l’idea che ogni mattina l’aurora arrivi “puntuale”, non si sa bene rispetto a cosa, è più degna dei versi di una canzonetta, che di un poema. Puntualmente, in All things must pass, del 1970, George Harrison canta: The darkness only stays the night-time, in the morning it will fade away. Daylight is good at arriving at the right time, It’s not always going to be this grey. “L’oscurità rimane solo nottetempo, la mattina si dissolverà. La luce è brava ad arrivare al giusto tempo, così grigio non sempre sarà”.

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Libro V. La Terra Non è facile spiegare in maniera chiara come il Sole scenda verso la costellazione del Capricorno durante il solstizio d’inverno, e salga verso quella del Cancro durante il solstizio d’estate. E neppure come la Luna si muova nel corso dell’anno solare. Una prima spiegazione può essere quella proposta dal venerabile Democrito: che quanto più un corpo è lontano dalla Terra, tanto più si muove velocemente, essendo più vicino al vortice del cielo che lo trascina. Se così fosse, la Luna sarebbe più lenta del Sole, e il Sole più lento delle stelle. La Luna verrebbe dunque sorpassata da tutte le costellazioni, e il Sole rimarrebbe in ritardo rispetto a quelle più arretrate. Un’altra spiegazione possibile è che da regioni del mondo oblique all’eclittica fluiscano a stagioni alterne correnti alterne, una delle quali spinge il Sole dalle infuocate costellazioni estive a quelle gelide invernali, mentre l’altra fa l’opposto. Allo stesso modo, è possibile che simili correnti siano responsabili dei moti della Luna e dei pianeti, le cui periodicità variano da poche settimane a molti anni. D’altronde, non vediamo anche in cielo nubi più basse avanzare in direzione contraria a nubi più alte, sospinte da venti atmosferici diversi? Perché dunque non dovrebbero potersi muovere in maniera diversa anche il Sole, la Luna e i pianeti, sospinti da venti d’etere diversi?

Il moto del Sole e della Luna (614-649)

La notte sopraggiunge ad avvolgere la Terra di tenebre, per uno di due motivi. O perché il Sole si spegne la sera, stanco per il lungo percorso che ha compiuto in cielo durante il giorno. O perché esso, sospinto dalla stessa energia che l’ha condotto nel suo percorso diurno sopra di noi, prosegue il suo percorso notturno sotto di noi. Analogamente Madre Matuta, dea del Mattino, diffonde all’alba la rosea aurora ai bordi del cielo, per uno di due motivi. O perché annuncia il Sole, che torna puntualmente dal suo percorso notturno sotto di noi, e riempie di nuovo il cielo dei suoi raggi luminosi, quasi a incendiarlo. O perché in quel momento gli atomi di calore del Sole, che si erano disgregati la sera, si riaggregano puntualmente, in modo da riformarne uno nuovo. Si dice addirittura che questo avvenga sul monte Ida, dove la mattina si vedrebbero riunirsi in un unico globo i fuochi sparsi che formano il Sole. E non dovrebbe stupire che la cosa accada in un momento preciso e predeterminato, visto che anche per molti altri fenomeni succede così. Ad esempio, in un preciso momento gli alberi mettono i fiori, e in un preciso momento li perdono. In un preciso momento i bambini perdono i denti da latte, e agli adolescenti spuntano i peli e la barba. Le stagioni si avvicendano a intervalli regolari, con venti, nuvole, piogge, fulmini e neve. L’ordine delle cose si ripete regolarmente fin da quando le cose sono state create agli inizi.

Giorno e notte (650-679)

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Il macrocosmo Notti bianche, giorni neri

Nei versi V,689-695 Lucrezio riporta la definizione corretta dell’eclittica e dell’Equatore celeste (p. 210), e l’osservazione corretta che i punti nodali in cui essi si incontrano corrispondono agli equinozi, con il Sole a perpendicolo sull’Equatore. Ma propone tre spiegazioni fantasiose per l’allungarsi e l’accorciarsi dei giorni, che invece sono una diretta conseguenza dell’inclinazione di circa 23 gradi e mezzo dell’eclittica rispetto all’Equatore. Al solstizio d’estate il Sole si trova nel punto più alto rispetto all’Equatore, e illumina più a lungo l’emisfero settentrionale: i punti in cui esso è a perpendicolo a mezzogiorno definiscono il tropico del Cancro, a circa 23 gradi e mezzo Nord dall’Equatore. Analogamente per il solstizio d’inverno e il tropico del Capricorno, nell’emisfero meridionale. In passato ai solstizi il Sole si trovava nelle costellazioni del Cancro o del Capricorno, da cui i nomi dei tropici. Oggi non più, a causa della precessione degli equinozi. Comportamenti lunatici La spiegazione corretta delle fasi lunari è la prima proposta da Lucrezio, nei versi V,705714. La Luna gira attorno alla Terra in un mese siderale di 27 giorni, 7 ore, 43 minuti, e 11 secondi. Nel frattempo, però, la Terra si è spostata rispetto al Sole, e dunque le fasi lunari si ripetono in un mese lunare di 29 giorni, 12 ore, 44 minuti e 3 secondi: diversamente dal precedente, però, questo è solo un valore medio, perché la velocità della Terra nella sua orbita ellittica non è costante durante l’anno. Quando la Luna è dalla stessa parte del Sole rispetto alla Terra, sorge il mattino e tramonta la sera, rimanendo invisibile come Luna nuova, eccetto quando oscura il Sole in un’eclisse. Quando invece è dalla parte opposta del Sole, sorge la sera e tramonta il mattino, rimanendo visibile come Luna piena, eccetto quando viene oscurata dalla Terra in un’eclisse. Altrimenti appare come falce o come mezzaluna: in quest’ultimo caso, sorge a mezzogiorno e tramonta a mezzanotte se crescente, e viceversa se calante.

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Libro V. La Terra L’allungarsi dei giorni e l’accorciarsi delle notti, o viceversa, accade anch’esso per uno di tre motivi. Il primo è che i percorsi del Sole, sopra e sotto la Terra, possono essere di lunghezza disuguale. E il Sole, gradualmente, restituisce a uno ciò che gli ha sottratto, e sottrae all’altro ciò che gli ha aggiunto. Nel momento in cui i due percorsi sono uguali, si hanno gli equinozi. Infatti, coloro che hanno mappato il cielo, ponendo le costellazioni in bell’ordine lungo l’eclittica sulla quale si muove il Sole, hanno mostrato che gli equinozi accadono quand’esso si trova nei punti nodali: quelli, cioè, in cui l’eclittica stessa interseca il piano dell’Equatore terrestre. In tal momento, infatti, il Sole è a perpendicolo sull’Equatore, ed è dunque equidistante dai due tropici. Il secondo motivo è che l’atmosfera può cambiare densità, a seconda delle stagioni. In tal modo, d’inverno il Sole è rallentato nel suo percorso sotto la Terra, e fa fatica ad emergere a Oriente, impiegando di più a completare il suo percorso notturno. Il terzo motivo è che a cambiare secondo le stagioni può essere il tempo di riaggregazione degli atomi che costituiscono il Sole. In tal modo, d’inverno il Sole sorge dopo, perché ci vuole più tempo a riaggregarlo.

Equinozi e solstizi (680-704)

Anche lo splendore della Luna, può essere dovuto a uno di quattro motivi. Il primo è che essa brilli della luce riflessa del Sole, che ci rimanda allo sguardo. E quanto più ne riceve, a seconda del suo cammino, tanto più ne riflette. Così pensano coloro secondo i quali la Luna è una sfera in movimento attorno al Sole. E spiegano che essa è piena, o nuova, a seconda che si trovi opposta al Sole rispetto alla Terra, o dalla stessa parte. Il secondo motivo è che la Luna brilli di luce propria, ma si muova in coppia insieme ad un altro corpo opaco, che noi possiamo percepire solo indirettamente, tramite il suo effetto di oscuramento della Luna. Passandole di fronte rispetto a noi, questo corpo impedirebbe alla sua luce di arrivarci, facendocela apparire in fasi di vario splendore. Il terzo motivo è che la Luna consista di una palla, per metà luminosa e per metà opaca, che gira su stessa. In tal caso noi la vedremmo piena quand’essa volge completamente verso di noi la sua faccia luminosa, e nuova nel caso opposto, mentre le fasi corrisponderebbero al passaggio da un estremo all’altro. Quest’ultima è la dottrina dei Caldei, che respingono le dottrine dei Greci esposte in precedenza. Ma non c’è bisogno di decidere a favore di una o dell’altra, in mancanza di argomenti decisivi. Anzi, si può pure pensare che la spiegazione delle fasi lunari possa essere una quarta: che la Luna si comporti esattamente come il Sole, disgregandosi puntualmente la mat-

Le fasi lunari (705-736)

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Il macrocosmo La primavera di Lucrezio e di Botticelli

Nel 1482, qualche decennio dopo il ritrovamento di una copia del perduto De rerum natura da parte di Poggio Bracciolini (pp. 18-19), i versi V,737-740 ispirarono la Primavera di Botticelli. Puntualmente, all’estremo destro del dipinto, il vento di primavera Zefiro sospinge avanti la ninfa greca Clori, dea dei fiori, da lui ingravidata. Vicino a lei Flora, sua versione latina, sparge fiori. Al centro sta Venere, sovrastata dallo svolazzante figlio Cupido. A sinistra le tre Grazie, sue compagne, danzano. E Mercurio disperde le nubi, per mantenere il sereno. Zefiro (Favonio per i Romani) era il vento primaverile proveniente da Ovest. Analogamente, Noto (Austro) era il vento di fine estate proveniente da Sud, Euro (Volturno) quello autunnale proveniente da Est, e Borea (Aquilone) quello invernale proveniente da Nord. Le eclissi di Sole e di Luna Per i due tipi di eclisse, Lucrezio propone nei versi IV,748-770 tre spiegazioni, di cui solo la prima è corretta. Cioè, le eclissi di Sole sono provocate dall’interposizione della Luna tra esso e la Terra. E le eclissi di Luna, dall’interposizione della Terra tra essa e il Sole. Ma la spiegazione corretta delle eclissi di Luna è incompatibile con i versi V,575-584 criticati da Schrödinger (p. 208), secondo i quali la sua grandezza reale è uguale a quella apparente. In tal caso, infatti, le eclissi di Luna sarebbero molto più frequenti, e molto più lunghe.

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Libro V. La Terra tina e riaggregandosi puntualmente la sera, nella maniera richiesta dalle varie fasi. Certo è difficile decidere, sulla base di soli ragionamenti e di bei discorsi, come accada ciò che vediamo accadere in un ordine così preciso e complesso. Arrivano la Primavera, e la sua dea Venere. Avanza Zefiro, il messaggero alato. Sulle sue orme Flora, la madre dei fiori, colma la via e sparge di fronte a loro colori e profumi. Seguono l’arido calore dell’estate, la sua polverosa compagna Cerere, protettrice dei cereali, e il soffio dei venti estivi provenienti da Nord. Poi giunge l’autunno, accompagnato da Bacco e da altri venti: dapprima lo scirocco Austro, dai fulmini lucenti, e poi Volturno, dai tuoni sonori. Le nebbie annunciano neve e ghiaccio. E arriva infine l’inverno, con i venti boreali di Aquilone.

Le quattro stagioni (737-747)

Se le stagioni si avvicendano puntualmente, e tutto capita al momento giusto, perché mai stupirsi se questo avviene anche per le fasi della Luna? E lo stesso si può dire delle eclissi, di Luna o di Sole, che come al solito possono avvenire per vari motivi. Nelle eclissi di Sole, potrebbe essere la Luna a oscurare i raggi solari, intromettendosi fra la Terra e il Sole. Oppure, a intromettersi potrebbe anche essere un altro corpo opaco, non osservabile se non attraverso questo suo effetto. Infine, potrebbe essere il Sole a spegnersi, quando passa in un luogo nocivo alle sue fiamme, e a riaccendersi quando ne esce. Analogamente, nelle eclissi di Luna potrebbe essere la Terra a spogliarla della sua luce riflessa, quando la Luna passa nel gelido cono d’ombra solare da essa provocato. O, di nuovo, a provocare l’oscuramento potrebbe essere un altro corpo opaco. Se poi invece la Luna brilla di luce propria, potrebbe essere essa stessa a languire, mentre passa in certe zone nocive alla sua luce.

Le eclissi (748-770)

Finora ho spiegato come possano accadere i fenomeni celesti: dai percorsi del Sole, alle fasi della Luna. Ma soprattutto le loro eclissi, durante le quali l’uno e l’altra sembrano chiudere gli occhi e cessare di guardare la Terra, lasciandola stupefatta al buio, per poi riaprirli e gettare di nuovo il loro sguardo luminoso e onnivoro in ogni dove. Ora passo all’infanzia del mondo: a ciò che è scaturito dai molli campi della Terra, a ciò che essi partorendo hanno portato alle rive della luce e affidato all’incertezza dei venti.

Consuntivo e preventivo (771-782)

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Il macrocosmo Darwin e Lucrezio

Verso la fine della sua vita, fu chiesto a Charles Darwin (a destra) se avesse mai letto Lucrezio, viste le ovvie assonanze fra la teoria dell’evoluzionismo e le descrizioni del De rerum natura riguardanti L’origine delle specie e L’origine dell’uomo: cioè, appunto, gli argomenti sviluppati dallo scienziato nei suoi due capolavori del 1859 e 1871, e dallo scrittore nei versi V,783-820 e V,821-836. La risposta di Darwin fu negativa, e spiega perché egli non abbia citato Lucrezio nel “Compendio storico del progresso delle idee sull’origine delle specie” che apre il libro del 1859. Charles conosceva comunque le opere del famoso nonno Erasmus (a sinistra), che invece il De rerum natura l’aveva non solo letto, ma anche imitato ed emulato, per ben due volte. Il suo poema Giardino botanico, del 1791, e il suo trattato Zoonomia, del 1801, sono infatti scritti, consciamente ed esplicitamente, “nello stile di” e “alla maniera di” Lucrezio. Questo gli attirò le critiche di coloro che già non amavano la poesia divulgativa del maestro, e continuarono a non amare quella dell’allievo. Ad esempio, il poeta Samuel Coleridge, che nel 1815 (Lettere, IV,574) sentenziò: «In Lucrezio la poesia non è divulgativa, e la divulgazione non è poetica». E aggiunse che in Erasmus Darwin non c’erano «pensieri poetici», ma solo «pensieri in poesia». Detto altrimenti, nel letterato c’erano un poeta e un divulgatore che non si incontravano, mentre nello scienziato c’era un divulgatore, ma non si incontrava un poeta.

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Libro V. La Terra In principio la Terra generò le specie vegetali, e tinse di uno splendido verde smeraldo i colli e le pianure. Specie diverse di alberi gareggiarono fra loro a crescere nell’atmosfera. Come peli e pellicce spuntano sul corpo dei mammiferi, e piume e setole sulla pelle degli uccelli, così dalla terra spuntarono erbe e germogli. E in seguito apparvero molte specie animali, generate nei modi più disparati e aventi le nature più diverse. Gli animali infatti non possono certo essere caduti dal cielo, come pretendono gli stoici. Né essere usciti dagli abissi salati, come pensava Anassimandro. Dunque, rimane solo la possibilità che sia stata la Terra a generarli, meritando così il suo nome di Grande Madre. Inoltre, ancor oggi la Terra genera molti esseri, stimolata dall’umido della pioggia e dal calore del Sole. Non stupisce dunque che in passato essa ne abbia generati in quantità, varietà e dimensioni molto maggiori. Agli inizi gli uccelli facevano le uova, dalle quali i piccoli uscivano in primavera: allo stesso modo, le cicale in estate effettuano una muta e abbandonano istintivamente il loro involucro, per iniziare a cercare il cibo e vivere una nuova vita. Poi, in seguito, la Terra iniziò a generare i mammiferi. I campi, ormai umidi e caldi, traboccavano di uteri interrati e con radici, che portavano avanti le loro gestazioni. Quando arrivava il tempo della maturazione, i piccoli erano partoriti ed essi venivano letteralmente alla luce, uscendo dalla Terra e cercando l’aria. In quel momento la Natura li alimentava spremendo dalla terra un succo, così come ora fa sgorgare il latte al momento giusto dalle mammelle delle madri. La Terra offriva ai neonati il cibo, il calore dava loro una veste, e l’erbetta un comodo e morbido giaciglio. E questo era sufficiente, perché non c’erano né grandi freddi, né calori eccessivi, né venti sferzanti. Anch’essi, infatti, erano agli inizi e dovevano ancora crescere e fortificarsi, come tutto il resto.

L’origine delle specie (783-820)

Alla fine la Terra ha concepito e partorito il genere umano, meritando ulteriormente il titolo di Grande Madre. Un titolo già conquistato per aver generato, al momento giusto, ciascuna specie animale che corre all’impazzata sui monti, o vola festosa negli spazi aerei. Ma ora, come una donna in menopausa, la Terra ha ormai smesso di generare nuove specie. Il tempo, infatti, corrompe ogni cosa. Tutto cambia, passando da uno stato a un altro, e niente si mantiene uguale a sé stesso. Le cose vecchie marciscono e spariscono, dissolte dal passare degli anni, mentre nuove cose nascono e crescono. Anche la Terra subisce la stessa mutevole sorte, inflittale dal tempo. E oggi essa non può più ciò che poteva, ma può ciò che non poteva: infatti, non genera più molti esseri che sono esistiti nel passato, ma ne genera di specie che una volta non esistevano.

L’origine dell’uomo (821-836)

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Il macrocosmo Lucrezio evoluzionista In estrema sintesi, la teoria dell’evoluzione darwiniana si può condensare in tre punti: variazione dei caratteri dei figli rispetto a quelli dei genitori, selezione dei caratteri più adatti alla sopravvivenza, e adattamento all’ambiente. In particolare, la variazione avviene per mutazioni casuali del patrimonio genetico, la selezione in seguito alla lotta per la vita, e l’adattamento in base alle condizioni spazio-temporali, cioè geografiche e storiche. Di questi tre ingredienti, la variazione è evidente nei suoi effetti, anche se le sue cause furono scoperte solo a partire dal Saggio sugli ibridi vegetali di Gregor Mendel, del 1866 (p. 182). E l’adattamento è, come disse lo stesso Darwin nella sua Autobiografia, “un uovo di Colombo”. Il punto cruciale è dunque la selezione: essa fu mutuata dal Saggio sul principio della popolazione di Thomas Malthus, del 1798, e condensata nei Princìpi di biologia di Herbert Spencer, del 1864, nel famoso motto della “sopravvivenza del più adatto nella lotta per la vita”.

Di tipi di selezione, Darwin ne individuò quattro. Anzitutto, le selezioni artificiale e naturale, praticate da coltivatori e allevatori da un lato, e dalla Natura dall’altro. E poi, le selezioni sessuale e culturale, che in parte interferiscono con la selezione naturale. Lucrezio allude ai primi tre tipi nei sorprendenti versi V,837-877, e al quarto in V,1011-1027. Ma, per evitare di confonderlo con un Darwin ante litteram, notiamo che in V,849-854 egli sembra assegnare alla sessualità un ruolo universale che non ha in Natura, dove esistono invece sia riproduzioni asessuate, sia riproduzioni sessuate senza rapporti sessuali. In V,826-827 sembra pensare che il processo evolutivo sia ormai esaurito, mentre invece esso è continuo e senza fine, a causa della produzione spontanea di mutazioni genetiche. E in V,876, parlando di «lacci del proprio fato», sembra mantenere un concetto di fissità delle specie che è invece affine alle idee dei predecessori di Darwin, fino al suo ultimo precursore Jean Baptiste Lamarck (p. 170). 218

Libro V. La Terra In tempi andati la Terra cercò di generare mostri e portenti, con strane facce e strane membra. Alcuni erano androgini, ad esempio, senza un sesso definito. Altri non avevano mani, o piedi, o bocca, o occhi. Altri ancora apparivano come ammassi informi, impossibilitati a muoversi, cibarsi e difendersi. Ma questi mostri e portenti furono creati invano, perché la Natura ne impedì lo sviluppo, la riproduzione e la diffusione, come fiori congelati prima di poter sbocciare, o coppie sterili non in grado di copulare o procreare. Perché una specie cresca e si moltiplichi, infatti, c’è bisogno della convergenza di molti fattori: in particolare, l’esistenza di organi adeguati per l’alimentazione e per la riproduzione sessuale. Molte specie di esseri dovettero allora estinguersi, perché non erano adatte a sopravvivere e propagarsi. Quelle che sopravvissero, infatti, si mantennero intatte grazie alla forza, all’astuzia o all’abilità: ad esempio, i leoni grazie alla forza, le volpi all’astuzia, e i cervi all’abilità nella fuga. Altre specie si sono preservate grazie a noi, a causa della loro utilità. I fedeli cani da guardia, le servizievoli bestie da soma, le pecore da lana, i buoi da aratro e le mucche da latte, sono tutti esempi di specie affidate alla tutela dell’uomo. In cambio della loro utilità, noi offriamo loro una vita ben nutrita e protetta, lontana dalle insidie dei predatori. Ma le specie meno fortunate, che non hanno avuto dalla Natura la fortuna di poter sopravvivere autonomamente, o di essere utili all’uomo, sono vissute impacciate dai lacci del proprio fato, fino alla loro eliminazione definitiva dal gran gioco della vita.

La sopravvivenza del più adatto (837-877)

Al mondo non sono comunque mai vissuti centauri, o altri esseri ibridi.8 Che non sia possibile mettere insieme due corpi con due nature, in modo da estrarne un nuovo corpo con una sola natura che partecipi di entrambe, lo si può infatti dedurre da vari argomenti. Ad esempio, un cavallo raggiunge la propria maturità verso i tre anni, quando un bambino ancora cerca nel sonno il seno della madre. E quando un cavallo arriva alla fine dei suoi giorni, ormai vecchio e sfinito, un adolescente incomincia appena a mettere la barba. In generale, il motivo per cui non si può credere che dai semi di un uomo e di un cavallo possa nascere un centauro, o che una mezza dozzina di teste di cane si possano attaccare al torso di una ninfa per generare un mostro marino come Scilla, è che esseri diversi non maturano e invecchiano alla stessa maniera. E non hanno neppure bisogni, desideri e impulsi compatibili, a partire dal cibo. Di cicuta, ad esempio, le capre barbute si ingrassano, ma gli uomini muoiono. E se col fuoco i leoni si bruciano, come tutti gli altri animali cono-

Ibridi e chimere (878-925)

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Vedi II,700-729 e, soprattutto, IV,722-756.

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Il macrocosmo Specie, ibridi e chimere I versi V,920-924 prefigurano la moderna definizione di specie, formulata da Theodosius Dobzhansky nel 1937, in Genetica e l’origine delle specie, e da Ernst Mayr nel 1942, in Sistematica e l’origine delle specie: «Una specie è un gruppo di individui che in Natura possono soltanto riprodursi fra loro, ottenendo prole feconda». Il che non significa, come invece afferma Lucrezio, che non si possano generare, in cattività o artificialmente, esseri intermedi fra due specie, anche fecondi: se non dei centauri, certamente delle letterali chimere (sopra). Chimaros significa infatti “capra”, ed esistono sia ibridi capra-pecora, che chimere capra-pecora. Nella biologia moderna, con ibrido si intende un incrocio tra specie o generi differenti, vegetali o animali, che possiede caratteristiche miste. Come il mulo, incrocio tra un asino e una cavalla. Lo zebrallo, tra un cavallo e una zebra (a sinistra). O il tigone, fra una tigre e una leonessa. Con chimera, invece, si intende un organismo ottenuto fondendo artificialmente due ovuli fecondati, o due embrioni non ancora sviluppati, provenienti da coppie di genitori diversi. O anche, fondendo un uovo fecondato con un ovulo non fecondato, o con sperma. Un tale figlio di tre o quattro genitori può anche essere mostruoso: ad esempio, con alcuni arti di una specie, e altri di un’altra (a destra). E può anche essere fertile, benché possa trasmettere ai figli sono i geni della specie di provenienza dei propri organi sessuali.

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Libro V. La Terra sciuti, com’è possibile che la Chimera, che oltre alla coda di drago e al corpo di capra aveva appunto una testa di leone, sputasse fuoco dalla bocca? Perciò, chi crede che siano potute esistere creature come i centauri e le chimere, quando la Terra era giovane e il cielo appena formato, può tranquillamente lasciarsi uscire di bocca qualunque altra scemenza. Ad esempio, che scorrevano fiumi d’oro, crescevano alberi di perle, e nascevano giganti che toccavano il fondo del mare con i piedi e il cielo con le mani. Il fatto dunque che siano esistite agli inizi specie diverse da quelle che oggi conosciamo, non significa che si siano mai potute mescolare le specie, ricombinando alla rinfusa pezzi di una e dell’altra. Perché le piante e gli animali che esistono, crescono e vivono separatamente, senza mai confondersi tra loro. Tutte le cose hanno le proprie specificità, e tutte preservano le proprie differenze, secondo una precisa legge di natura. I primi uomini, generati dalla dura Terra, erano anch’essi dei duri. Avevano una corporatura più robusta e muscolosa, resistevano meglio al caldo e al freddo, erano meno soggetti alle malattie, si adattavano a mangiare qualunque cosa. E duravano più a lungo, conducendo una vita da animali vagabondi. Non c’erano contadini che dissodassero i campi con le vanghe, conducessero i buoi con l’aratro, seminassero il grano e potassero gli alberi. La Terra produceva, con l’aiuto del Sole e della pioggia, ciò che serviva e bastava ai primi uomini. I miseri si aggiravano tra le querce in cerca di ghiande, e d’inverno si cibavano delle bacche che ancor oggi si vedono rosseggiare fra i rovi, allora molto più diffuse. Delle cose aspre e amare che la Terra produceva, loro si accontentavano. A dissetare gli uomini bastavano i fiumi e le sorgenti, come ancor oggi i torrenti montani bastano per gli animali selvaggi. La sera i nostri antenati si rifugiavano nelle dimore silvestri delle Ninfe, dove le acque sgorgano a fiotti sulle rocce umide, ricoperte di muschio, per poi scivolare giù verso le pianure ed erompere nei campi. Non sapevano ancora cuocere i cibi sul fuoco per alimentarsi, né conciare le pelli animali per rivestirsi. Abitavano in grotte e foreste, per ripararsi dalle sferzate del vento e della pioggia. Non si interessavano del bene comune: non solo non avevano leggi, ma neppure consuetudini. Non dividevano le prede che la sorte regalava loro: ciascuno viveva per sé, e senza pensare agli altri. Il sesso era letteralmente selvaggio. Le donne si accoppiavano con chiunque, per amore o per forza. A volte, con chi le attraeva per un mutuo desiderio. Altre volte, con chi le violentava in una furia sfrenata. Altre ancora, per il magro interesse di ricevere in cambio qualche ghianda o qualche bacca. Per cacciare si affidavano a mani e piedi prodigiosamente forti. Inseguivano le fiere, e le attaccavano con pietre e clave. Alcune le uccidevano, e altre riusci-

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Lo stato di natura (925-987)

Il macrocosmo Dallo stato di natura al contratto sociale

L’espressione “stato di natura” fu coniata da Tommaso d’Aquino, nel trattato Sulla Verità, per indicare la condizione in cui si trova l’umanità quando segue la propria natura umana. Oggi la si usa invece nel senso di “stato primitivo”, o “stato dell’innocenza”: due espressioni coniate anch’esse da Tommaso, nella Summa teologica, ma indicanti la condizione in cui si trovava l’umanità prima dell’arrivo della civiltà. Nel secondo senso, lo stato di natura è stato interpretato in due maniere contrapposte. La prima, quella realistica dei versi V,925-987 di Lucrezio, fu ripresa nel 1651 dal Leviatano di Thomas Hobbes, ed è condensata nel suo motto bellum omnium contra omnes, “la guerra di tutti contro tutti”. Ma anche nell’homo homini lupus di Plauto, nel mors tua vita mea medievale, e nella legge della giungla di Rudyard Kipling. La seconda interpretazione, invece, quella romantica risalente al mito della perduta “età dell’oro” del poema Le opere e i giorni di Esiodo, fu ripresa nel 1755 dal Discorso sulla disuguaglianza di Jean Jacques Rousseau, ed è condensata nel mito del “buon selvaggio”. In accordo con l’inizio del suo Emilio, del 1762: «Ogni cosa è buona quando lascia le mani del Creatore, ogni cosa degenera nelle mani dell’uomo». Lo stato di natura del “tutti contro tutti” è una situazione tipica del cosiddetto dilemma del prigioniero della teoria dei giochi, introdotto da Albert Tucker nel 1950. Ma nel verso V,1020 Lucrezio propone un cambio di gioco, introducendo una versione della regola aurea degli Analecta di Confucio: “Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”, ripetuta nel Leviatano da Hobbes: quod tibi fieri non vis, alteri non feceris. Mediante il contratto sociale, fondato appunto su questo principio, gli individui rinunciano al diritto di far violenza, in cambio della sicurezza di essere protetti. E il risultante ordine sociale non richiede di essere imposto, come pensava Rousseau nel Contratto sociale del 1762, perché risulta vantaggioso per tutti.

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Libro V. La Terra vano a sfuggire. Per dormire, quando scendeva la notte si acquattavano sulla nuda terra come setolosi cinghiali, coprendo le membra irsute di fronde e foglie. I primi uomini non temevano comunque che il Sole potesse cessare di sorgere, condannando la Terra al buio perenne. Non si aggiravano impauriti e ululanti fra le ombre della notte, nell’attesa della rosea aurora. Ma aspettavano la luce del giorno dormendo silenziosamente, perché avevano imparato fin da bambini che le tenebre si alternano regolarmente ad essa. A impaurirli erano piuttosto le bestie feroci, che spesso minacciavano la tranquillità del loro sonno. A volte dovevano fuggire dai loro rifugi all’arrivo di un cinghiale con la bava alla bocca, o di un leone ruggente, a cui cedevano terrorizzati i propri giacigli di fronde e foglie. La morte naturale, per vecchiaia, non era più frequente allora di quanto non sia ora. Le bestie feroci azzannavano molte più persone, però, e le sbranavano da vive. Le urla dei poveri malcapitati riempivano i boschi, le foreste e le montagne. I loro corpi fornivano tombe viventi alle loro viscere palpitanti. E se anche qualcuno riusciva a sfuggire, poi copriva con mani tremanti le membra dilaniate, e invocava la morte con urla agghiaccianti, perché nessuno sapeva come curare le ferite. Comunque, ne morivano molti meno di quanti ne ammazzi, oggi, anche un solo giorno di guerra. O il naufragio di una sola flotta, scaraventata sugli scogli dal mare infuriato. Allora il mare insorgeva inutilmente, imperversava a vuoto e minacciava invano. E le allettanti lusinghe delle acque placide e delle onde sorridenti non potevano insidiare nessuno, perché l’umanità era ancora all’oscuro della funesta arte del navigare. Allora si moriva per la penuria di cibo, mentre ora ci uccide il suo eccesso. E la gente si avvelenava da sola, per incuria o ignoranza, mentre ora viene avvelenata da altri, con premeditazione e malizia.

La morte al tempo degli antichi (988-1010)

Il duro genere umano si ammorbidì quando gli uomini incominciarono a costruire capanne, indossare pelli e usare il fuoco. E anche quando le relazioni fra uomini e donne divennero più stabili, e le paternità più certe. L’abitudine al fuoco domestico rese difficile tollerare il freddo pungente all’aria aperta. La pulsione sessuale fu arginata e incanalata, e le blandizie dei bambini smussarono la asperità dei genitori. Si cominciarono a stringere amicizie tra vicini, e si decise di non far male agli altri, perché non fosse fatto male a sé. Si difesero collettivamente le donne e i bambini, e a gesti e suoni fu diffusa la pietà per i deboli. Non si raggiunse certamente una concordia completa, ma i patti furono in genere rispettati. Altrimenti, il genere umano non sarebbe sopravvissuto, e sarebbe stato annientato.

I primi patti sociali (1011-1027)

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Il macrocosmo Il corpo, tomba dell’anima Empedocle coniò il gioco di parole del “corpo (soma) tomba (sema) dell’anima”, espressione poi ripresa da Platone nel Cratilo (400c). Il sofista Gorgia parlò invece degli avvoltoi come “tombe viventi per i cadaveri” di cui si cibano. Ma nel verso V,993 a p. 223 Lucrezio cita gli Annali (138-139) di Ennio: Un avvoltoio fra le spine divorava un uomo infelice. Ahimè, in che crudele sepolcro deponeva le sue membra!

Natura contro cultura Nei versi V,1028-1055 Lucrezio si schiera a favore dell’innatismo non solo delle strutture linguistiche, ma anche della corrispondenza tra parole e cose. E contro il convenzionalismo dell’assegnazione dei nomi di Platone nel Cratilo (388e-390e), e il comportamentismo della “tavoletta non scritta”, o del “foglio bianco”, di Aristotele nel trattato Sull’anima (III,4): la famosa tabula rasa, ripresa nel 1689 da John Locke nel Saggio sull’intelletto umano. Oggi l’innatismo è alla base delle teorie linguistiche di Noam Chomsky. Egli le ha difese nel 1975 contro Jean Piaget, che invece assegnava all’apprendimento un ruolo essenziale, in un famoso dibattito su Linguaggio e apprendimento (Jaca Book, 1991).

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Libro V. La Terra 

È stata la Natura a stimolare l’uomo a parlare e a suggerirgli i nomi da dare alle cose, così com’è la Natura a spingere i bambini a indicare gli oggetti mediante dei gesti. Ciascun essere si comporta infatti istintivamente, nell’ambito delle sue facoltà. Prima ancora che gli spuntino le corna sulla fronte, il vitello carica furiosamente a testa bassa. Quand’ancora non hanno denti e unghie, i cuccioli di pantera e di leone già mordono e artigliano. Benché non abbiano mai volato, gli uccellini si buttano tremolanti per la prima volta dal nido. Pensare che qualcuno abbia assegnato un tempo i nomi alle cose, e che gli altri li abbiano poi adottati, è una sciocchezza. Perché mai qualcuno avrebbe dovuto esserne capace, e gli altri no? Da dove sarebbe derivata, a quel qualcuno, la capacità di capire cosa e come doveva fare? E come avrebbe potuto insegnare a parlare, a coloro che non ne erano ancora capaci? Sarebbe stato come voler parlare a un sordo, o a chi non capisce la lingua. Comunque, cosa c’è di strano nel fatto che si assegnino parole diverse a cose diverse, e si usino toni diversi in momenti diversi? Anche le pecore o i leoni non belano o ruggiscono allo stesso modo, a seconda che stiano manifestando paura, dolore o gioia. E lo stesso succede in molte altre situazioni. Il cane che ringhia rabbioso, e freme mostrando i denti, comunica diversamente da quando latra in maniera assordante. Se lecca o mordicchia affettuosamente i suoi cuccioli, giocando con loro, non mugola come quando guaisce acquattato, cercando di schivare le botte. O come quando abbaia senza sosta perché è stato lasciato solo in casa. Il giovane stallone nitrisce diversamente quando freme di voglia e impazza fra le cavalle, da quando dilata le narici e sta per attaccare, o da quando scuote la criniera e galoppa solitario. Le procellarie, quando cercano il cibo tra i flutti salati del mare, gridano in maniera diversa da quando lottano per difenderlo. Altri uccelli, come le cornacchie e i corvi, cambiano canto a seconda delle stagioni, tanto che si dice che a volte invocano le piogge, e altre richiamano i venti. Se dunque persino gli animali, che non hanno il dono del linguaggio, emettono istintivamente suoni diversi a seconda delle situazioni e delle sensazioni, a maggior ragione lo faranno gli uomini con le parole.

L’origine del linguaggio (1028-1090)

Se ti domandi da chi, o da cosa, gli uomini abbiano ricevuto il fuoco, la risposta non è Prometeo, ma i fulmini: sono stati loro, a far scoccare le prime scintille. Vediamo infatti molti oggetti terreni, colpiti dai fulmini celesti, prender fuoco e incendiarsi. Inoltre, vediamo anche che quando il vento impetuoso scuote gli alberi, e fa sfregare fra loro i rami o i tronchi, di nuovo per il violento attrito possono scoccare scintille, e appiccarsi incendi.

La scoperta del fuoco (1091-1104)

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Il macrocosmo Lucrezio comunista I versi V,1110-1111 contrappongono all’economia di mercato, tipica del capitalismo, l’economia del dono, tipica del cosiddetto “comunismo primitivo”, abbozzato da Lucrezio, e teorizzato nel 1884 da Engels nell’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato. E tipica anche della fase finale del comunismo maturo, preconizzata nel 1848 da Marx e Engels (a destra) nel Manifesto. L’accostamento tra Lucrezio e Marx non è casuale, ma causale. Nel 1841 quest’ultimo si laureò infatti con una tesi sulla Differenza tra la filosofia della Natura di Democrito e quella di Epicuro, che citava molte volte il De rerum natura. E in quest’ultimo si ritrova, oltre alla descrizione del comunismo primitivo, anche la visione della religione come “oppio dei popoli”, benché ovviamente non l’espressione. Sudar sangue Il verso V,1129 parla letteralmente di sanguine sudare, “sudar sangue”. Oggi l’espressione richiama immediatamente la leggenda di Cristo nel Getsemani, narrata nel Vangelo di Luca (XXII,44), ma la testimonianza di Lucrezio mostra che il fenomeno era già noto anche prima, e altrove. Tecnicamente si tratta di ematoidrosi o emocromatosi, dovute alla presenza di sangue nel sudore o di suoi pigmenti nei tessuti, e causate da un eccesso di ferro provocato da disfunzioni del fegato, trasfusioni di sangue, diete troppo ricche di ferro, o stress troppo intensi.

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Libro V. La Terra Sia l’una che l’altra di queste cause, cioè i fulmini e lo sfregamento del legno, possono aver offerto il fuoco al genere umano. E il Sole, mostrando che i raggi e il calore fanno maturare le cose nei campi, ha poi suggerito l’uso del fuoco per cuocere il cibo e renderlo più digeribile. Chiunque eccelse nell’ingegno o nell’intuito contribuì a migliorare sempre più lo stile e il tenore di vita dell’umanità, grazie al fuoco e alle scoperte che seguirono. I re iniziarono a costruire città e fortificazioni, per abitarvi e difendersi. Suddivisero campi e bestiami, assegnandoli a ciascuno secondo le proprie necessità, e imponendo a ciascuno di coltivare e allevare secondo le proprie possibilità. A quei tempi contavano molto i belli e i forti, ma l’invenzione della proprietà privata e la scoperta dell’oro cambiarono radicalmente le cose. Da allora in poi contarono di più i ricchi, mentre i belli e i forti si adattarono a seguirli come cagnolini. Ma per coloro che pensano con la propria testa, la vera ricchezza sta nel vivere serenamente e sobriamente: del poco, infatti, non c’è mai penuria. Gli insensati, invece, perseguirono fama e potere, per assicurare la propria fortuna, e accumularono denaro, per vivere agiatamente. Ma invano, perché il cammino che porta alla gloria è irto e difficoltoso, e una volta raggiunta la cima si rischia di essere inceneriti dai fulmini dell’invidia, e di precipitare a valle come sassi rotolanti. Le vette di qualunque genere, infatti, sono luoghi instabili e pericolosi. È molto più saggio obbedire e vivere quietamente, che voler comandare, e bramare onori e cariche. Meglio lasciare che siano altri a sudar sangue, ansimando sulla stretta e affollata via dell’ambizione. Meglio lasciare che siano loro a pensare con la testa altrui, invece che con la propria, e a perseguire l’approvazione altrui, invece che i propri desideri. Così è avvenuto nel passato, avviene nel presente e avverrà nel futuro.

Comunismo e capitalismo primitivi (1105-1135)

Poi si uccisero i re, si rovesciarono i maestosi troni, si buttarono nel fango i superbi scettri, si calpestarono le splendide insegne e i simboli del potere: ciò che è stato temuto e osannato, prima o poi viene distrutto e spregiato. Nell’anarchia susseguente alla caduta delle prime società organizzate, regnavano il disordine e la violenza. Ognuno cercava di conquistare influenza, e di instaurare un nuovo regime. Fu allora che si introdussero il diritto e la magistratura, come antidoto al caos. E il genere umano, che si era ormai stancato di vivere nella violenza e di morire nell’odio, si assoggettò volontariamente alle leggi e a chi le doveva far rispettare. Le vendette che ciascuno aveva in serbo

Dei delitti e delle pene (1136-1160)

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Il macrocosmo I primi codici Uno dei primi codici pervenutici è quello babilonese di Hammurabi (a sinistra), risalente al -1750 circa. Si basava sulla legge del taglione, “occhio per occhio, dente per dente”, che in teoria dei giochi si chiama tit for tat, “pan per focaccia”. Nel 1983 Robert Axelrod ha dimostrato che è ottimale per L’evoluzione della cooperazione nel dilemma del prigioniero giocato ripetutamente, come nello stato di natura (p. 222). I codici di Eurico e di Giustiniano (a destra), che posero nei secoli V e VI le basi dei diritti germanico e romano, erano di emanazione regale. La legge mosaica e la shari’a islamica pretendono di essere di origine divina, e puniscono “peccati”, non “reati”: una distinzione introdotta nel 1764 da Cesare Beccaria in Dei delitti e delle pene, che aprì la strada alla concezione moderna del diritto. La sostanza dei sogni Nell’Origine dell’uomo Darwin, come Lucrezio nei versi V,1169-1182, ritiene che gli uomini primitivi considerino esistenti gli esseri immateriali che vedono in sogno, e poi passino dagli spiriti alle divinità per estensione. Analogamente, anche gli animali che sognano possono avere sentimenti di natura religiosa: ad esempio, il padrone è per il cane ciò che Dio è per l’uomo. Nella Tempesta Shakespeare (a sinistra) deduce invece dai sogni l’immaterialità della vita reale, nel famoso: we are such stuff as dreams are made on, “siamo fatti della stessa sostanza dei sogni”. Una citazione ripetuta nel 1941 da Humphrey Bogart (a destra) nel film Il falcone maltese, e ripresa nel 2008 da Jovanotti nel testo della canzone A te.

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Libro V. La Terra per gli altri, e che gli altri avevano in serbo per lui, erano infatti ben più atroci e ingiuste delle punizioni previste dai codici. Da allora le gioie della vita vengono temperate dal timore per le pene. Perché il torto e il danno non rimangono impuniti, e spesso vengono ritorti su coloro che li provocano. E chi viola con le sue azioni i patti di serenità e di pace, spesso finisce per non avere comunque una vita serena e pacifica: anche se riesce a ingannare gli dèi e gli uomini, deve pur sempre stare all’erta per non tradirsi in vari modi, e non lasciarsi scappare le prove della propria colpevolezza. Non è difficile spiegare il motivo per cui si sia diffuso nel mondo intero il culto degli dèi. Si siano riempite le città di altari e statue. Si siano inventati e diffusi riti sacri e festività religiose. E si sia ispirato l’orrore che ha fatto innalzare innumerevoli templi, e costringe a frequentarli nei giorni di festa. Da sempre infatti gli uomini sognano, ad occhi aperti o chiusi, e nei sogni vedono immagini di esseri che sembrano viventi. Attribuiscono loro una vita indipendente, perché queste immagini sembrano muoversi e parlare. Credono che siano immortali, perché tornano regolari e immutabili. E li considerano esseri superiori, in quanto apparentemente intoccabili e invulnerabili, e in grado di compiere prodigi impossibili a coloro che non vivono nei sogni. Un’altra ispirazione per la religione venne invece dall’osservazione dei fenomeni celesti, e dall’impossibilità di capire le cause della loro regolarità. L’unica spiegazione che riuscirono a trovare fu che tutto era stabilito dagli dèi, e governato dalla loro volontà. E situarono gli dèi in cielo, in quanto sede del Sole, della Luna, dei pianeti e delle stelle. Ma anche dei venti, delle nuvole, della pioggia, della neve, della grandine, dei fulmini e dei tuoni.

L’invenzione della religione (1161-1193)

Oh, infelice genere umano, che attribuisti queste azioni agli dèi, e li immaginasti soggetti all’ira e capaci di vendetta! Quanti lamenti procurasti a te stesso, quante ferite a noi, e quante lacrime ai nostri figli! Non è certo devozione indossare dei paramenti, fare funzioni in un tempio, soffermarsi a pregare di fronte a un altare. Inginocchiarsi per terra, giungere le mani, alzare gli occhi al cielo, biascicare formule vuote. Fare offerte alle statue o sacrifici sugli altari, formulare voti su voti. Semmai, lo sarebbe contemplare ogni cosa pacatamente (pacata mente omnia tueri). Quando leva lo sguardo al firmamento, trapunto di stelle brillanti e pulsanti, o osserva i percorsi del Sole e della Luna, l’animo infettato dalla religione viene assalito dall’ansia, e pensa che lassù forse risiede un immenso potere divino, che gioca a biglie con gli astri. L’ignoranza della cognizione delle cause e la mancanza del senso della ragione annebbiano l’animo, e lo spingono a domandarsi se ci sia stato un

Infelice la stirpe dei credenti (1194-1240)

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Il macrocosmo I metallari Mentre i quattro elementi classici degli antichi (terra, acqua, aria e fuoco) non erano veri elementi chimici, quelli citati nei versi V,1241-1242 lo sono. In particolare, il ferro (Fe) è il 26-esimo della tavola periodica, il rame (Cu) il 29-esimo, l’argento (Ag) il 47-esimo, l’oro (Au) il 79-esimo e il piombo (Pb) l’82-esimo. Ordinati invece in base alla temperatura di fusione, il piombo fonde a 327 gradi Celsius, l’argento a 962, l’oro a 1064, il rame a 1085 e il ferro a 1535. Gli elementi citati sono tutti metalli, e i primi a essere scoperti furono naturalmente quelli le cui temperature di arrostimento (o separazione dai minerali) e di fusione erano più basse, nell’ordine ricordato da Lucrezio. Cioè, prima il piombo, l’argento, l’oro e il rame. Poi il bronzo, che non è un elemento, ma una lega, composta in massima parte di rame, e per il resto di un altro metallo: in genere lo stagno (Sn), il 50-esimo elemento, che fonde a 232 gradi. E infine il ferro. Non a caso, nella storia si sono succedute le ere del rame, del bronzo e del ferro. La prima è esemplificata da un lingotto di Zakros cretese (a sinistra), a forma di pelle di animale, ritrovato nel 1962. La seconda dal disco di Nebra tedesco (al centro), il più antico planetario conosciuto, ritrovato nel 1999. E la terza dallo scudo di Tal-y-Llyn gallese (a destra), ritrovato nel 1963.

Il compagno Lucrezio I versi V,1241-1257 furono tradotti per la prima volta in russo da Michail Lomonosov, fondatore nel 1755 dell’Università di Mosca, che oggi porta il suo nome. Lo scienziato russo formulò precisamente per primo, nel 1748, la legge di conservazione della massa vagamente anticipata da Lucrezio nel libro I del De rerum natura (p. 38). E nel 1752 ne imitò lo stile e i toni nel suo miglior poema, la Lettera sull’utilità del vetro, che partendo da quest’ultimo materiale allargava lo sguardo fino al sistema copernicano. Due secoli dopo, nel 1946, l’Unione Sovietica fu l’unico paese al mondo a celebrare il supposto secondo millennio dalla morte del poeta latino. Una prolusione su La fisica di Lucrezio, che ricordava il suo influsso da Newton a Marx, fu tenuta all’Accademia delle Scienze. E a tenerla fu il suo presidente, oltre che il più noto scienziato sovietico dell’epoca: il fisico Sergei Vavilov, noto per l’effetto Vavilov-Cherenkov, che valse al secondo autore il premio Nobel per la fisica nel 1958, qualche anno dopo la morte del primo.

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Libro V. La Terra inizio del mondo, e se c’era qualcosa o qualcuno anche prima. E a domandarsi se gli incessanti moti celesti proseguiranno in eterno, sprezzanti del tempo che scorre. O se invece ci sarà una fine, e cosa succederà dopo che le mura del mondo saranno crollate. Inoltre, chi non ha il cuore in gola per la paura, chi non viene assalito dal terrore, chi non sente fremere e tremare le membra, quando un fulmine infuocato si scarica dal cielo, e un tuono tremendo fa tremare la terra? Non si prostrano forse i popoli e i re di fronte agli dèi, temendo che sia giunto il momento del giudizio e della resa dei conti? E quando la furia estrema del vento spazza le acque del mare, il comandante di una flotta in balìa delle onde, insieme ai suoi marinai e ai suoi mozzi, non implora forse impaurito gli dèi affinché calmino gli elementi, e riportino il sereno e la calma? Spesso invano, perché a volte le navi vengono travolte e naufragano sulle rocce, mentre il loro carico di uomini ed elefanti annega e scompare tra i flutti. Una forza nascosta sembra accanirsi sulle faccende umane, sostituendosi al potere rappresentato dai bei fasci e dalle temibili scuri, prendendosene gioco e mettendoli in ridicolo. Che c’è dunque di strano se, quando la terra trema sotto i piedi e le città crollano, la gente perde fiducia nell’umanità e si piega rassegnata al dominio della divinità? A permettere di scoprire il piombo, l’argento, l’oro, il rame e il ferro fu il calore del fuoco. I campi e i boschi bruciavano, o perché colpiti naturalmente dai fulmini, o perché incendiati artificialmente dagli uomini, per i motivi più svariati: spaventare e mettere in fuga i nemici, deforestare e creare pascoli, cacciare selvaggina o scacciare bestie feroci. La caccia col fuoco e i fossati di contenimento è infatti più antica di quella con le recinzioni dei boschi e lo stanamento coi cani. Comunque, per qualsiasi ragione il fuoco sia stato appiccato, e abbia arso le foreste e cotto la terra, dalle vene bollenti del sottosuolo sono emersi a volte dei rivoli di piombo, argento, oro e rame. E una volta raffreddati, gli uomini hanno raccolto stupiti e affascinati dei frammenti lucenti e colorati, di forma modellata dai calchi delle buche. Capirono allora che, liquefacendo metalli e modellando stampi, avrebbero potuto ottenere oggetti metallici di qualunque forma. E avrebbero anche potuto forgiarli a martellate, producendo punte sottili e aguzze da usare come armi o utensili, per abbattere alberi o piallare travi, o per perforare, trapassare e trivellare. Agli inizi fecero oggetti d’oro e d’argento, ma si accorsero che risultavano meno resistenti e utili di quelli di rame. Questi divennero dunque più preziosi di quelli, mentre l’oro fu declassato e svilito. Oggi, invece, è il contrario, e l’oro vale più del rame e di qualunque altra cosa.

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La scoperta dei metalli (1241-1280)

Il macrocosmo Animali di distruzione di massa I versi V,1297-1349 costituiscono, almeno per noi, una delle sezioni più singolari dell’intero De rerum natura: abituati come siamo agli armamenti tecnologici, dai cannoni agli aerei, ci sorprende infatti l’uso degli animali più svariati alla stregua di macchine belliche. Ma naturalmente già allora il “vantaggio competitivo” fornito dal possesso di armi di distruzione di massa innovative, sia pure in piccolo numero, poteva fare la differenza. La fecero i 20 elefanti di Pirro, che gli permisero di invadere l’Italia meridionale tra il -280 e il -275, fino alla sconfitta di Malevento (ribattezzata da allora Benevento). La rifecero i 37 elefanti di Annibale, che passarono con lui le Alpi nel -218 e lo aiutarono a tenere in scacco l’Italia fino alla sconfitta di Zama del -202 (pp. 86 e 133). E la fecero anche i 15 cavalli a disposizione dello spagnolo Hernán Cortés, che tra il 1519 e il 1521 gli assicurarono la conquista del Messico e l’annientamento degli aztechi. L’apprendista stregone I versi V,1305-1312 mostrano chiaramente che già nell’antichità era in atto una corsa agli armamenti. La quale, d’altronde, non è che una versione della naturale strategia evolutiva nella lotta per la sopravvivenza: Lewis Carroll l’ha esemplificata nel 1871, in Attraverso lo specchio (p. 156), con la corsa della Regina Rossa, che non avanza di un centimetro perché nel frattempo il paesaggio si muove con lei. Poiché il tempo erode i vantaggi acquisiti, infatti, per rimanere in gara bisogna continuamente inventarne di nuovi. I versi V,1313-1349 mostrano invece, altrettanto chiaramente, che già allora si percepiva che le novità tecnologiche possono scappare di mano e rivoltarsi contro coloro che le introducono e le adottano: Wolfgang Goethe l’ha esemplificato nel 1797 nella ballata L’apprendista stregone, ispirata alla leggenda ebraica del golem, e in seguito musicata da Paul Dukas nel 1897, e animata da Walt Disney nel 1940 in Fantasia.

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Libro V. La Terra Così cambia la volubile percezione delle cose, col passare del tempo. Ciò che si considerava prezioso, o di moda, perde ogni valore, o fascino. Qualcos’altro si eleva al di sopra di tutto il resto, sottraendosi al disinteresse e all’anonimato: viene ricercato ogni giorno di più, se ne tessono le lodi e gli si tributano onori. Ora puoi capire da solo, o lettore, in che modo sia stato scoperto il ferro. Agli inizi si combatteva con le unghie e con i denti. Poi si passò alle pietre e ai bastoni. E, non appena si scoprì il fuoco, anche alle torce e alle fiamme. In seguito arrivarono il bronzo e il ferro: prima l’uno, che era più malleabile e abbondante, e poi l’altro. Col bronzo si costruirono utensili per coltivare e armi per combattere, che permisero di infliggere orrende ferite, e di razziare greggi e campi. Di fronte a uomini così armati, infatti, coloro che non avevano armi simili non potevano opporre resistenza. Venne infine il ferro, e con esso la spada, che surclassò la falce di bronzo. E venne anche l’aratro, che permise di solcare il suolo e di equilibrare le dubbie sorti della guerra. 

Prima gli uomini montarono armati a cavallo, tenendo le redini con una mano e la spada con l’altra. Poi, dopo aver aggiogato i cavalli, affrontarono i pericoli della guerra su bighe e quadrighe. E infine, su carri falcati. A insegnare a usare gli enormi elefanti in guerra, muniti di abitacoli a torrette, fu Pirro in Lucania: per questo, furono chiamati “buoi lucani”. Essi furono addestrati ad accusare i colpi, a usare il serpente della proboscide e a sgominare gli eserciti. Così la trista discordia istigò a sperimentare in guerra un animale dietro l’altro, per terrorizzare i soldati, e fece salire il terrore distruttivo un giorno dietro l’altro. Furono provati i tori in battaglia. Si cercò di aizzare i cinghiali contro i nemici. I Persiani impiegarono persino i leoni, condotti a un guinzaglio di catene da domatori armati, ma invano. Nella furia della battaglia le belve non distinguevano fra amici e nemici, e sbaragliavano chiunque veniva loro a tiro, scuotendo le spaventose criniere. E i cavalieri non riuscivano a calmare i cavalli, imbizzarriti dai ruggiti. I più feroci animali da guerra non si riuscivano a controllare, e scappavano di mano. Le leonesse lanciavano attacchi in ogni direzione, azzannando in volto chi cercava di fronteggiarle, ghermendo alle spalle chi provava a fuggire, rovesciando a terra gli uni e gli altri, inchiodandoli a sé con gli artigli adunchi e le zanne possenti. I tori si scrollavano di dosso i cavalieri e li calpestavano, incornavano i cavalli nel ventre e nei fianchi, e raspavano rabbiosamente la terra con

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L’evoluzione delle armi (1281-1296)

Animali da combattimento (1297-1349)

Il macrocosmo Dal telaio al computer I versi V,1354-1360 non devono essere intesi come espressione di un atteggiamento di superiorità dell’uomo nei confronti delle donne: il Giardino di Epicuro era infatti aperto ad esse, e costituiva una vera e propria associazione “femminista” ante litteram. E quando il verso V,1011 dice positivamente che “il genere umano si ammorbidì”, lascia intendere che gli uomini cessarono di essere “lupi” non tanto perché si “rammollirono”, bensì perché si “effeminarono”, raddolcendosi e malleandosi. I versi V,1350-1353 attirano invece l’attenzione sulla tessitura, come impresa ad alta tecnologia che ha segnato una tappa importante nell’avanzamento della civiltà. E fu proprio la tessitura il campo in cui iniziò la meccanizzazione del lavoro, agli albori della Rivoluzione Industriale. I primi progetti risalgono alla prima metà del Settecento: in particolare quello del 1740 di Jacques Vaucanson, più noto per una serie di automi realistici, tra i quali una famosa “anatra digerente” che mangiava, beveva e defecava. Ma il punto di svolta si ebbe con i telai a schede perforate di Joseph Marie Jacquard, il cui primo modello fu brevettato nel 1801 (a sinistra). I vari aghi della macchina entravano in azione indipendentemente quando la scheda aveva un buco nella corrispondente posizione, attraverso cui essi potevano passare. Il disegno del tessuto veniva dunque ridotto alla “programmazione” della scheda, in maniera analoga alla programmazione dei rulli nelle pianole meccaniche in voga a partire da metà Ottocento. La programmazione a schede perforate fu adattata ed estesa da Charles Babbage al calcolo meccanico. Il suo “motore analitico”, il cui primo progetto risale al 1837, era pensato come un calcolatore universale in grado di effettuare qualunque calcolo meccanico, e costituì il prototipo dei computer moderni, le cui prime versioni venivano infatti programmate su schede perforate analoghe a quelle dei telai Jacquard. Essi sono dunque stati, a un tempo, gli antesignani sia della robotica che dell’informatica.

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Libro V. La Terra le zampe. I cinghiali massacravano chiunque, infuriati dalle frecce e dalle lance che li colpivano, e seminavano a caso la morte fra fanti e cavalieri. I cavalli cercavano di scartare le belve per evitarne i morsi feroci, o si impennavano scalciando al vento, ma cadevano pesantemente a terra con i tendini recisi, sollevando una nuvola di polvere. Chi sperava di aver domato le belve in allenamento, si accorgeva in azione di non poterle controllare per il frastuono, il tumulto, il fragore, la paura e le ferite. In fuga, non riusciva a trattenerle o richiamarle, ed esse si disperdevano sul campo di battaglia e fra i combattenti. E così ancora si disperdono gli elefanti, benché incitati duramente con i ferri, e spesso procurano seri danni alle proprie truppe. Chissà se veramente qualcuno aveva pensato di poter piegare le belve feroci al proprio interesse. Io trovo difficile credere che non si potesse prevedere che sarebbero state incontrollabili, e avrebbero arrecato danni a tutti. Magari poteva andare diversamente in qualche mondo alternativo, ma non su questa Terra. E chi l’ha fatto, non sperava di vincere: si accontentava di morire insieme ai nemici. Gli intrecci vennero prima delle tessiture. Anche perché, per poter tessere, c’era bisogno di telai, di spolette, di fusi, e di altri strumenti: dunque, della tecnologia del ferro. A fare la maglia iniziarono prima gli uomini delle donne, perché le attività manuali sono soprattutto maschili. Poi il lavoro della terra rovinò le mani ai contadini, ed essi affidarono la maglia alle donne di casa.

La tessitura (1350-1360)

A suggerire la semina e l’innesto è stata la Natura stessa, madre di tutte le cose. Una volta osservato che le bacche e le ghiande cadute dagli alberi attecchivano a terra, e buttavano germogli, venne l’idea di piantare semi nel terreno, o di innestare germogli sui rami. Furono provate sempre nuove culture nei campi, e si notò che la cura e il lavoro miglioravano i frutti della terra. Si costrinsero boschi e foreste ad arretrare, per far posto alle coltivazioni. Si fecero prati e campi di grano, ruscelli e laghi, vigne e uliveti. Si modellò il paesaggio, impiantando alberi da frutta e tirando siepi, inondando tutto di una grazia diffusa.

L’agricoltura (1361-1378)

Per sviluppare la propria tecnica canora, gli uomini imitarono i canti degli uccelli. E per costruire le proprie zampogne e i propri flauti, si ispirarono al soffio del vento tra i canneti. Poi impararono a trarne dolci lamenti, con l’uso delle dita, e a effonderne musica naturalistica, in imitazione dei suoni dei boschi, delle foreste, e dei solitari pascoli in cui oziano gli dèi.

Le arti (1379-1415)

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Il macrocosmo Che bello ’o picnic I versi V,1392-1404, che riprendono e sviluppano i versi II,29-34, forniscono un elogio del picnic che può aver ispirato, dopo la riscoperta rinascimentale del poema di Lucrezio (pp. 18-19), il Concerto campestre: un dipinto del 1510 circa, variamente attribuito a Giorgione o a Tiziano, forse perché iniziato dall’uno e terminato dall’altro. Vi si trovano infatti tutti i temi accennati dal poeta: l’erbetta, gli amici, l’acqua, gli alberi, la musica, l’allegria, la sensualità, il divertimento... Gli stessi versi che possono aver ispirato il dipinto sono richiamati nel poemetto Lucrezio (213-214) di Alfred Tennyson, del 1868: No larger feast than under plane or pine With neighbours laid along the grass, to take Only such cups as left us friendly-warm. “Non c’è festa più grande che sotto un platano o un pino con i vicini distesi tutt’attorno sull’erba, a prendere solo quelle coppe che ci infondono un amabile calore”. Attraverso il quadro precedente l’ombra lunga di Lucrezio si staglia fino alla Colazione sull’erba di Édouard Manet, del 1863, che è direttamente ispirato al Concerto campestre. Il pittore vide infatti il quadro di Giorgione-Tiziano al Louvre, dov’era finito passando dalla collezione di Isabella d’Este, a quella di Carlo I d’Inghilterra, a quella di Luigi XIV di Francia. E dopo essersene innamorato lo reinterpretò alla sua maniera, sollevando lo scandalo dei benpensanti. 236

Libro V. La Terra Ogni era trae lentamente alla luce nuove arti, dal buio in cui giacciono. E tutte concorrono ad accarezzare e addolcire i cuori, soprattutto quando si ha la pancia piena di cibo e vino: perché è allora che si è più propensi e disposti a commuoversi ed eccitarsi. In realtà, basta stendersi sull’erbetta con gli amici, in riva a un fiume, sotto le fronde di un albero. Le piccole cose ristorano piacevolmente il corpo, soprattutto quando il tempo arride e la bella stagione cosparge i prati di fiori.9 Si fanno scherzi, battute, risate, e in quelle occasioni regna la musa silvestre. Un crescendo di allegria spinge a cogliere fiori per metterli fra i capelli, a muoversi in maniera sgangherata e sensuale, a battere goffamente i piedi a terra. Tutti sghignazzano e si divertono: così sono nate le danze. Ancor oggi, chi deve vigilare e vegliare si tiene sveglio cantando e suonando. Ancor oggi, gli eserciti marciano a ritmo di musica. Ma non ci si diverte di più quando si canta e si balla a tempo, secondo le regole, che durante le rozze e scatenate feste campestri e paesane. Semplicemente, i gusti cambiano. Quello che ieri piaceva, oggi è passato di moda. E il vecchio è stato sostituito dal nuovo, ma non necessariamente dal meglio. Così, poco a poco, gli uomini smisero di mangiare ghiande, di dormire sull’erba e tra le foglie, e di vestire pelli di animali. Ma in precedenza queste ultime erano state così ambite, che probabilmente il primo che ne indossò una fu fatto a pezzi da coloro che vollero rubargliela, se la contesero ferendosi a sangue, e finirono per stracciarla. Dopo le pelli e le pellicce, a monopolizzare gli interessi degli uomini e delle donne sono ora i gioielli e i vestiti: essi costituiscono i maggiori interessi e le massime preoccupazioni della nostra vita, benché non soddisfino alcun bisogno naturale. Mentre senza coprirsi di pelli i nostri antenati avrebbero infatti sofferto il freddo, non c’è nessun motivo per noi di coprirci d’oro e di porpora, quando un vestito ordinario sarebbe più che sufficiente. Il genere umano si affanna dunque senza motivo e senza scopo, e spreca la sua vita nella vana ricerca del possesso illimitato e del piacere sfrenato. Questo ci ha fatto andare alla deriva sul mare della vita, e ha rimestato dal fondo la melma della guerra.

Le mode (1416-1435)

A insegnare le nozioni di tempo cosmico e di legge della Natura sono stati i moti del Sole e della Luna: i due guardiani del mondo, che con la loro luce diurna e notturna perlustrano la volta rotante del cielo. Le città furono cinte di mura, e si tracciarono i confini dei campi. I flutti del mare vennero invasi dalle flotte a vela. La società si organizzò sulla base

La civiltà (1436-1455)

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Vedi II,29-34.

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Il macrocosmo La Storia continua I versi V,1436-1455 costituiscono un veloce riassunto della storia della civiltà, che naturalmente è continuata anche dopo Lucrezio. Anzitutto, con il lungo periodo che Petrarca definì come Secoli Bui, perché dominati dalla superstizione religiosa nella pratica, e dalla ricerca teologica nella teoria. Passato infatti il “momento unico” tra la morte degli dèi antichi e la resurrezione di quelli moderni (pp. 14-15), la religione ricominciò a “opprimere con il suo peso la vita umana” attraverso teocrazie secolari. La morte intellettuale del Medioevo fu seguita dal Rinascimento, che coincise con la riscoperta del De rerum natura e la sua uscita da un oblio millenario (pp. 18-19). La visione laica e naturalistica del libro si inserì perfettamente nello spirito dell’epoca, stimolandone a volte le arti e il pensiero: ad esempio, ispirando la Primavera di Botticelli (p. 214), il Concerto campestre di Giorgione e Tiziano (p. 236) e i Saggi di Montaigne (pp. 136 e 142). L’illuminismo si contrappose, fin dal nome, al buio del Medioevo: un verso di Lucrezio fu scelto da Diderot come motto del movimento (p. 136), e la visione del De rerum natura gli suggerì il Sogno di D’Alembert (p. 19). Sempre nell’era moderna il libro svolse anche un ruolo in molte tappe dello sviluppo della scienza: il principio d’inerzia di Cartesio (p. 72), l’esperimento sul vuoto di Torricelli (p. 42), la legge di conservazione della massa di Lavoisier (p. 38) e l’epidemiologia di Borelli (p. 278). La Rivoluzione Industriale, iniziata a metà dell’Ottocento e tuttora in corso, coincise infine con il periodo aureo della scienza. E il De rerum natura continuò a ispirare, direttamente o indirettamente, anche gli scienziati moderni: da Darwin per l’evoluzionismo (pp. 216 e 218) a Maxwell per la teoria cinetica dei gas (p. 68). E non solo loro: ad esempio, anche Marx e Engels per la nozione di capitalismo primitivo (p. 226).

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Libro V. La Terra di codici e leggi. I poeti iniziarono a cantare e a tramandare le gesta degli eroi. I letterati scoprirono la scrittura e l’alfabeto. E gli storici presero a registrare gli avvenimenti a futura memoria: non si può infatti conoscere il passato, se esso non lascia tracce. La pratica, l’esperienza e l’ingegno portarono a sviluppare la navigazione, l’agricoltura, l’architettura, il diritto, la difesa, la viabilità, l’abbigliamento, la musica, la pittura, la scultura, e tutti gli altri piaceri della vita. Poco a poco, il tempo concepisce idee nuove e la ragione le partorisce. Così gli uomini vedevano chiarirsi nella mente le cose, una dopo l’altra, fino a raggiungere le massime vette delle scienze e delle arti.

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Libro VI Meteorologia e geologia

Le scuole di Atene

I versi VI,1-34 celebrano il solo Epicuro come gloria intellettuale di Atene, ma le grandi scuole filosofiche per cui la città divenne famosa furono quattro. La prima a essere istituita fu l’Accademia, finanziata nel -387 con i soldi originariamente raccolti per pagare il riscatto di Platone, venduto come schiavo a Siracusa dal tiranno Dionigi, e poi liberato senza pagamenti. La seconda fu il Liceo, aperto da Aristotele nel -335, con i soldi guadagnati in Macedonia come precettore di Alessandro. Entrambe presero il nome dai luoghi in cui erano state fondate: un parco dedicato all’eroe Accademo, e un giardino dedicato ad Apollo Lykeios, “protettore dei lupi”. Motivi analoghi diedero il nome anche alle altre due: il Portico Dipinto (stoà poikìle) degli stoici e il Giardino Fiorito degli epicurei, fondate rispettivamente da Crisippo ed Epicuro verso il -300. O mio caro e buon Epicurù I vari elogi di Epicuro usciti dalla testa e dalla penna di Lucrezio (pp. 31, 109, 191 e 243) fornirono ai cristiani privi di fantasia un comodo metodo per coniare alcune belle preghiere, che da soli non avrebbero saputo elevare: bastava cancellare il nome del filosofo e sostituirgli quello di Gesù, secondo lo stile dei piccoli faraoni che cancellavano i cartigli di quelli grandi, per impadronirsi a buon mercato dei loro monumenti. Ad esempio, verso il 300 Lattanzio si impossessò dei versi VI,24-34 per una preghiera a Cristo, nelle Divine istituzioni (III,14,2 e VII,27,6). Più o meno nello stesso periodo, Arnobio fece lo stesso con l’inizio del libro V, nella sua Difesa della vera religione (in latino Adversus gentes, o Adversus nationes). In seguito anche l’Inno a Venere del libro I fu dirottato sulla Madonna, a dimostrazione del fatto che la nuova religione era solo una reincarnazione della vecchia.

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Fu Atene dal nome splendente, la prima città a diffondere idee salutari a beneficio degli infermi mortali. A rinnovare i costumi. A introdurre le leggi. A offrire dolci conforti alla vita. E fu Atene a generare un uomo come Epicuro, dotato di una mente in grado di articolare qualunque verità. La gloria postuma che le sue divine parole gli hanno meritato si è diffusa nel passato sulla Terra, e sta ormai ascendendo al cielo. Quand’egli arrivò, ad Atene le necessità quotidiane erano ormai quasi tutte soddisfatte. La vita era sicura e consolidata. Gli uomini si erano arricchiti materialmente e culturalmente. I figli mantenevano alto il nome dei padri. Ma, ciò nonostante, nel cuore degli ateniesi continuava ad albergare l’ansia. Il loro animo era tormentato, senza nessuna ragione apparente. I loro lamenti e sospiri affioravano dal profondo. Egli se ne accorse, e comprese che il male stava nel contenitore, e non nel contenuto. Era il vaso a provocare problemi, e non ciò che gli veniva messo dentro. Forse perché le sue pareti erano incrinate o bucate, e non si riusciva mai a riempirlo. O forse perché il materiale era infetto, e ammorbava ogni cosa che riceveva. Le parole di Epicuro purgarono le menti. Arginarono il desiderio e la paura. Mostrarono i veri obiettivi a cui tendere. Indicarono la via più breve per raggiungerli. Spiegarono quanto grande sia il male che alberga nelle cose mortali, per caso o per forza (seu casu seu vi). E come questo male nasca e si impossessi di noi. Come si debba affrontarlo. Come si possa combatterlo. E come spesso il genere umano si strugga invano.

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Celebrazione di Atene (1-34)

Il macrocosmo Non è così, Lucrezio mio Nelle Lettere a Lucilio (CX,7-8) Seneca (ritratto sotto nel momento del suo suicidio) commenta così i versi VI,35-38, ripetuti qui per la terza volta (pp. 69 e 111): Non è così, Lucrezio mio, non abbiamo paura in piena luce: ci siamo circondati di tenebre. Non vediamo niente: né ciò che ci è utile, né ciò che ci danneggia. Per tutta la vita urtiamo contro degli ostacoli, ma non per questo ci fermiamo, o avanziamo con più circospezione. È da pazzi correre al buio, perbacco! Così facendo, dovremo poi tornare da più lontano: ciò nonostante continuiamo a tutta velocità nella direzione intrapresa, senza sapere dove stiamo andando. Eppure, se volessimo, potremmo far risplendere la luce, nell’unica maniera possibile: conoscendo le cose umane e divine. Ma dev’essere una conoscenza profonda, non superficiale. Per quanto si sappiano, le cose bisogna continuamente riesaminarle e applicarle a sé stessi. Bisogna chiedersi cosa siano il bene e il male. Bisogna confutare le false definizioni. Bisogna investigare l’onestà e l’abiezione, e conoscere la Provvidenza. Cantami, o diva. Parlami, o musa I versi VI,92-95 ci ricordano che Lucrezio è un poeta classico, oltre che un divulgatore scientifico. Il carro su cui corre rimanda a quello, con le ruote cigolanti e tratto da cavalle, dell’apertura del poema Sulla natura di Parmenide. E l’invocazione a Calliope (a destra) rientra nella tradizione poetica precedente e successiva: da Omero, nell’Iliade e nell’Odissea, a Dante, nella Divina Commedia. La dea era figlia di Zeus e Mnemosine, e madre di Orfeo e dei Coribanti (pp. 87 e 89). Il suo nome significava Bella Voce, e la si rappresentava con una tavoletta di cera o un libro, a indicare la sua funzione di protettrice della scrittura. 244

Libro VI. Meteorologia e geologia Mentre i bambini hanno paura nel buio fisico, noi l’abbiamo anche alla luce del Sole, e temiamo cose che non sono affatto più temibili di quelle temute dai bambini. A dissipare le paure e le tenebre dell’animo non possono dunque essere l’arrivo del giorno e i raggi solari, ma solo la natura delle cose e la ragione.1 Per questo io continuerò a tessere la trama delle mie parole. E dopo aver udito che tutto al mondo nasce e muore, compreso il mondo stesso, tu ora ascolterai ciò che mi resta da dirti. E cioè, la spiegazione di tutti quei fenomeni sporadici e non periodici che gli uomini, col fiato sospeso e il cuore palpitante, vedono accadere in cielo e in Terra.

Quel che resta da dire (35-51)

Chi non comprende le cause di quei fenomeni, li teme. Per ignoranza, li attribuisce alla potenza del dèi. E finisce con l’umiliarsi di fronte ad essi, lasciandosene opprimere e cadendo sotto il loro dominio. Qualcuno può anche proclamare a parole che gli dèi vivono distaccati nelle loro dimore. Ma quando si stupisce che accadano fenomeni per lui incomprensibili, in cielo o in Terra, finisce col ricadere nelle vecchie superstizioni. E col postulare l’esistenza di tiranni astiosi e falsamente onnipotenti. Chi ignora cosa esiste e cosa no, chi non sa perché e come le cose accadono, chi non conosce le proprietà e i fondamenti delle cose, vive infelicemente in balìa dell’errore, e viene travolto dalla propria ignoranza. Se tu non rifuggirai da pensieri indegni degli dèi, e contrari alla loro distaccata attitudine, finirai col ledere la loro maestà. Non perché tu sia in grado di profanarne la natura, e provocarne la vendetta. Ma perché sarai tu stesso a immaginare gli dèi irosi e vendicativi, a visitarne i templi nello stato d’animo sbagliato, e a non beneficiare della pace che potrebbero ispirarti le loro corrette immagini. Puoi immaginare quali tragiche conseguenze questo possa avere per la tua vita, e quali benefici possano invece derivarti dalla dottrina sulla vera natura delle cose. Una buona parte te l’ho ormai esposta, ma rimane ancora molto da dire. In particolare, tu dovrai comprendere i fenomeni meteorologici, e io ti dovrò spiegare come avvengano le tempeste e i fulmini. Così non sarai costretto a porti affannato domande senza senso, riguardanti chi abbia mandato fuoco e fiamme, e da quale parte del cielo, e perché. E a darti risposte senza senso, che scomodino e coinvolgano gli dèi.

Scienza e religione (52-91)

O saggia musa Calliope, protettrice della poesia, ristoro degli uomini e piacere degli dèi. Mentre mi accingo a correre con il mio carro, tu mostrami la via per raggiungere il nastro bianco della meta. E fa’ che seguendoti io riesca a vincere la mia corsa, e a conquistare la gloria e la corona.

Invocazione a Calliope (92-95)

1

Vedi II, 55-61 e III, 87-93 (pp. 69 e 111).

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Il macrocosmo Lampi, fulmini e tuoni

La lunga sezione costituita dai versi VI,96-422 è dedicata alla descrizione fenomenologica di lampi, fulmini e tuoni, e a vari tentativi di una loro spiegazione teorica. Effettivamente, i tre fenomeni sono interconnessi, essendo rispettivamente le manifestazioni luminosa, elettromagnetica e acustica di un unico evento meteorologico, la cui natura rimane complicata da spiegare anche oggi. Il processo di formazione delle nuvole (p. 256) fa sì che i piccoli cristalli di ghiaccio tendano a caricarsi positivamente, e le gocce più grandi negativamente: i primi tendono poi a salire in alto, nelle parti più fredde, e le seconde a scendere in basso, in quelle meno fredde, formando così una differenza di potenziale elettrico. Quando questa raggiunge un valore di soglia, diventa sufficiente per superare la resistenza dell’aria e generare una corrente elettrica tra i due “poli”. L’energia elettrica accumulata viene poi scaricata sotto forma di fulmine, che in genere va da una nuvola in alto al suolo in basso, ma può anche andare da una nuvola all’altra, e dal basso in alto. La scarica avviene a “colpi di fulmine”, lunghi qualche decina di metri e della durata di circa un microsecondo (un milionesimo di secondo), a intervalli di circa 50 microsecondi: in genere i colpi sono tre o quattro, ma possono anche arrivare a qualche decina. Da un lato, gli elettroni scaricati reagiscono con l’atmosfera generando fotoni (p. 92), che vengono percepiti come il lampo associato al fulmine. Dall’altro lato, la scarica può raggiungere milioni di volt e surriscalda l’atmosfera fino a 30.000 gradi, pari a cinque volte la temperatura della superficie del Sole. La violenta espansione dell’aria produce onde d’urto che superano la barriera del suono e generano lo scoppio percepito come il tuono, analogo a quello di un aereo supersonico e ai rumori correttamente citati nei versi VI,108-120.

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Libro VI. Meteorologia e geologia Iniziamo dai tuoni, che scuotono il cielo azzurro. Ci sono almeno otto possibili cause, o spiegazioni, per cui ciò avviene. Le nubi possono scontrarsi fra loro, sospinte da venti che soffiano in direzioni opposte. Il rumore non proviene infatti dalla parte serena del cielo, ma da quella maggiormente coperta di nuvole. E le nubi non sono tanto solide quanto le pietre o il legno, né tanto evanescenti quanto la nebbia e il fumo. Nel primo caso, perché cadrebbero a terra per il peso. E nel secondo, perché non riuscirebbero a contenere pioggia, neve o grandine. Il vento può scuotere le nubi distese sulle pianure del mondo, come se fossero panni stesi ad asciugare, o fogli sbattuti dalle folate. Il rumore del tuono è infatti simile a quello che fanno i tendoni che coprono i teatri, fissati ai pali e alle travi, quando vengono scossi dal vento. O al rumore che fa la carta tenuta con le dita, quando viene sbattuta con forza. Due nuvole, più che scontrarsi frontalmente, possono sfregarsi vicendevolmente, passando vicine in direzione contraria. Sentiamo infatti un analogo rumore secco quando ci freghiamo velocemente le mani una sull’altra, che cessa non appena le allontaniamo. Una nube, svuotata dal vento impetuoso e modellata come un involucro vuoto, può lacerarsi e scoppiare con un boato tremendo: allora ogni cosa attorno trema, come se stessero crollando le mura del mondo. Un rumore analogo, benché meno roboante, si sente quando scoppiano una vescica piena d’aria o un sacchetto di carta. Il rumore del tuono può essere prodotto da un forte vento che attraversa una nube, sconvolgendola e arruffandola. Il vento infatti rumoreggia tra gli alberi, scuotendone le foglie o rompendone i rami, durante le tempeste. E se è particolarmente impetuoso può completamente squarciare una nube in cielo, così come può divellere e sradicare un albero in terra. Le nubi possono anche creare delle onde celesti, analoghe a quelle terrestri del mare o di certi fiumi. E se queste si frangono con fragore sulle rive, forse potrebbero farlo anche quelle nell’aria. Il tuono potrebbe anche essere il rumore prodotto dall’incendio di una nuvola, innescato da un fulmine ardente e subito soffocato dal vapore acqueo della nuvola stessa: analogamente, si sente un forte sfregolio quando si immerge improvvisamente un pezzo di ferro incandescente nell’acqua fredda. Oppure, il rumore potrebbe essere provocato dall’incendio stesso, come succede nei boschi che bruciano. Addirittura, è lo stesso alloro bruciato sull’altare di Apollo a Delfi, a crepitare tremendamente. Infine, il rumore del tuono potrebbe essere lo strepito prodotto dal ghiaccio o dalla grandine, che si formano quando le nuvole vengono compresse dal vento. Infatti, si sente rumore quando si forma o si stacca del ghiaccio in un recipiente, o quando la grandine scroscia a terra.

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Tuoni (96-159)

Il macrocosmo Veloce come il suono I versi VI,164-170 affermano la verità che il suono è più lento della luce, ma la negano con la falsità che l’effetto è percepibile anche a brevi distanze. Effettivamente, il suono viaggia nell’aria a circa 1.200 chilometri all’ora, e la luce a circa 300.000 chilometri al secondo: dunque, il primo è circa 900.000 volte più lento della seconda. Ma sulle brevi distanze, come quella di un albero a qualche decina di metri, la differenza è praticamente impercettibile. Incomincia a diventare percepibile a occhio e orecchio nudo solo a distanze più grandi, come quelle delle nuvole citate da Lucrezio. In tal caso, poiché la luce continua a percorrere anche distanze chilometriche in tempi impercettibili, l’intervallo che intercorre tra il lampo e il tuono corrisponde al tempo impiegato dal suono a percorrere la distanza, che è di circa 3 secondi al chilometro (il “circa” dipende, tra le altre cose, anche dalla temperatura dell’aria). Veloce come il vento Nella religione naturalistica greco-romana i venti erano associati al semidio Eolo (junior). Da non confondere con suo nonno Eolo (senior), nipote di Deucalione (p. 202) e figlio di Elleno, che diede il nome di Elleni ai Greci, e di Ellade alla Grecia. Nell’Odissea (X,1-101) Ulisse approda all’isola galleggiante di Eolia, e riceve in dono da Eolo un otre nel quale egli ha imprigionato tutti i venti contrari alla navigazione, lasciando fuori solo uno Zefiro favorevole, che porta l’eroe alle coste di Itaca. Ma la ciurma apre l’otre e i venti riportano la nave in Eolia, dove la peregrinazione ricomincia. Nell’Eneide (I,52-56), invece, Virgilio descrive l’antro di Eolo in maniera direttamente ispirata ai versi VI,196-203 di Lucrezio: Eolo, nel vasto antro, blocca d’imperio i venti combattenti e le tempeste sonore, e li frena incatenandoli e imprigionandoli. Essi indignati, con gran mormorio, fremono attorno alle pareti del monte.

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Libro VI. Meteorologia e geologia Proseguiamo con i lampi, per i quali ci sono almeno quattro possibili cause o spiegazioni. Quando le nubi si scontrano, emettono atomi di fuoco, alla stessa maniera delle scintille sprigionate dalle pietre focaie o dal ferro battuto. Il motivo per cui percepiamo il tuono dopo il lampo, benché siano generati dallo stesso scontro, è che la velocità del suono è minore di quella della luce. Lo si constata anche quando si vede il colpo di una scure che si abbatte su un albero molto lontano, prima di udirne il suono. Spesso si vedono le nubi accendersi di luce interna e lampeggiare tremule. È il risultato dell’azione del vento, che le penetra a grande velocità e le riscalda: il moto infatti produce calore, arroventando le cose in movimento, e arrivando a fondere le palle di piombo delle fionde, che turbinano nella loro corsa. E quando le particelle infuocate vengono espulse dalla nube, le percepiamo come lampi fiammeggianti.

Lampi (160-184)

Perché queste cose succedano, le nuvole devono essere grandi, dense e ammassate fra loro. E così sono, perché non dobbiamo lasciarci ingannare dal fatto che dal basso esse ci appaiano molto più larghe che alte. Ci accorgiamo infatti delle loro vere proporzioni quando il vento sposta nell’aria nuvole grandi come montagne. O quando le possiamo confrontare con le montagne stesse, perché i venti tacciono e loro vi incombono sopra. Allora ci appaiono enormi, e possiamo riconoscere al loro interno delle vere e proprie grotte, come se fossero fatte di rocce sospese. Altre volte, quando scoppia la tempesta, i venti irrompono rabbiosi fra le nuvole, e ne rimangono ingabbiati come bestie feroci. Ruggiscono, ululano, s’infuriano, minacciano, si aggirano frementi in cerca di un’uscita. È allora che soffiano sul fuoco contenuto nelle nuvole, ne travolgono gli atomi e li sputano fuori folgoranti, dopo averne squarciato le pareti.

Intermezzo sulle nuvole (185-203)

Torniamo ai lampi, e alle loro due rimanenti cause o spiegazioni. Le nuvole abbondano di atomi luminosi, che assorbono dal Sole: lo si nota dal colore lucente e fiammante che hanno quando sono secche e senz’acqua. Sotto l’azione del vento che le spinge e le ammassa, esse si comprimono ed espellono riverberi dorati e infuocati, quasi come di fuoco liquido. Ma i lampi ci sono anche quando le nuvole si diradano nel cielo. In questo caso, gli atomi di fuoco cadono proprio perché esse si sfilacciano e si dissolvono, e non possono più contenerli. È allora che vediamo lampi che non sono seguiti da tuoni o rimbombi.

Ancora lampi (204-218)

Di che natura siano i fulmini, lo mostrano i loro effetti. Dai segni e dagli odori di bruciato che lasciano, è chiaro che essi non hanno a che fare con

Fulmini (219-245)

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Il macrocosmo Sinfonie pastorali All’interno della lunga spiegazione dei fenomeni meteorologici, i versi VI,246-270 costituiscono un intermezzo poetico nello stile dell’arte descrittiva e naturalistica: quella, cioè, che cerca e trova la propria modalità espressiva nella descrizione della Natura, fornendo in tal modo un complemento e un completamento artistico alle ricerche scientifiche. Detto altrimenti, si tratta della corrente che preferisce l’attenzione sensoriale verso la Natura nella sua interezza, a quella intellettuale verso l’uomo nella sua particolarità. Un tipico esempio in letteratura è La pioggia nel pineto di Gabriele d’Annunzio, del 1902. Non a caso, l’ispirazione per il componimento viene da un temporale che coglie all’improvviso due amanti che passeggiano in una pineta. Le parole cercano di riprodurre la musica che la pioggia suona con un’orchestra di strumenti naturali forniti dalla vegetazione. E gli stessi umani finiscono per trasformarsi in vegetali, annullando l’artificiale separazione tra Natura e uomo. Un tipico esempio in musica è invece la Sinfonia pastorale di Ludwig van Beethoven, del 1808. Questa volta l’ispirazione venne al compositore dai suoi lunghi soggiorni in campagna, e fu lui stesso ad attribuire l’aggettivo generico alla sua sesta sinfonia, aggiungendo titoli specifici per i cinque movimenti: “Risveglio dei sentimenti all’arrivo in campagna”, “Scena al ruscello”, “Lieta brigata di campagnoli” (p. 236), “Il temporale” e “Canto pastorale: sentimenti di gioia e riconoscenza dopo il temporale”. È però nel campo delle arti visive, dalla pittura al cinema, che la descrizione naturalistica trova la sua espressione più naturale. Ad esempio, nei quadri paesaggistici del “pittore della luce” Joseph Turner (a destra), della prima metà dell’Ottocento. O in quelli impressionisti di Claude Monet (in alto), che nel 1926, anno della sua morte, egli stesso descrisse come tentativi di «dipingere direttamente di fronte alla Natura, cercando di rendere le mie impressioni davanti agli effetti più fuggevoli».

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Libro VI. Meteorologia e geologia l’aria del vento o l’acqua della pioggia, bensì con il fuoco. Spesso arrivano direttamente ad appiccare incendi, ai tetti delle case o dentro le stanze. Il fuoco dei fulmini è costituito di atomi piccoli e veloci, in grado di trapassare qualunque ostacolo. Infatti, penetrano i muri come i suoni e le voci. Superano le rocce. Fondono i metalli. Addirittura, evaporano il vino senza intaccare gli otri, come se il calore dilatasse le pareti d’argilla e penetrasse all’interno. Ma la cosa non riesce ai raggi del Sole, il che dimostra che i fulmini sono più potenti e più veloci di loro. Ora ti spiegherò, senza ulteriore indugio, come essi siano prodotti. E come acquistino la forza e la velocità che permette loro di fendere le torri, abbattere le case, divellere le travi e le assi, demolire le statue, massacrare le bestie e uccidere gli uomini. Perché queste cose succedano, ci devono essere ammassi di nuvole. Infatti, non si vedono mai fulmini a ciel sereno, o quando le nuvole sono rade. Quando le nuvole si accumulano, invece, sembra che le tenebre abbiano abbandonato le grotte dell’inferno, per venire a riempire le caverne del cielo. E a volte ci sembra addirittura di riconoscere volti tetri e spaventosi, che incombono dall’alto nella notte diurna, mentre la tempesta si addensa. Altre volte una nuvola nera si inabissa in mare, come un fiume di pece che precipiti dal cielo. Mescolandosi tenebrosa alle onde, trascina con sé il suo carico di fulmini e venti, che va ad aggiungersi a quello che già incombe nell’atmosfera sulle acque. E vedendo lo spettacolo, a terra gli uomini si spaventano e corrono al riparo. Perché queste cose succedano, molti strati di nuvole devono essersi accumulati gli uni sugli altri. Altrimenti non riuscirebbero ad oscurare la luce del Sole. E il loro contenuto non basterebbe a far traboccare i fiumi e a inondare i campi. Per questo, tutto è carico di vento e di fuoco. Per questo, dovunque si vedono lampi e si odono tuoni.

L’addensarsi della tempesta (246-270)

Come abbiamo già visto in precedenza parlando dei lampi, una nuvola scavata dal vento è ripiena di atomi di fuoco, e altri ne ricava dai raggi del Sole. Lo stesso vento che ha scolpito la nuvola, da un lato mescola l’aria al fuoco, e dall’altro rimescola il tutto in un vortice. La nuvola si trasforma in una fornace celeste, che si accende in due modi possibili: o per l’attrito prodotto dal movimento interno, o per il contatto diretto con una scintilla. Quando la miscela dentro la nuvola si è riscaldata e ha preso fuoco, il fulmine è maturo e squarcia le pareti. La fiamma si sprigiona, illuminando il cielo plumbeo con guizzi di luce. Un tuono la segue, come se la volta celeste fosse scoppiata e crollasse a terra. Un tremore scuote la Terra, mentre il cielo continua a brontolare e ad agitarsi. La tempesta si scatena e infuria.

Lo scatenarsi degli elementi (271-294)

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Il macrocosmo Veloce come un fulmine Secondo il verso VI,324, «i fulmini cadono velocissimi». Volendo essere leggermente più precisi, si deve anzitutto aggiungere che la velocità dei colpi di fulmine dipende da molti fattori, compresa la conduttività dell’atmosfera e la direzione dei colpi: ad esempio, quelli di ritorno, che rimbalzano dal suolo, sembrano essere più veloci di quelli di andata verso di esso. Come se non bastasse, la velocità di una scarica varia durante il suo percorso. Per quanto riguarda i colpi di fulmine di andata, le misure effettuate e i dati riportati sembrano essere piuttosto variabili, ma forniscono velocità medie comprese all’incirca tra i 100 e i 1000 chilometri al secondo: dunque, molto maggiori della velocità del suono e del tuono (p. 248), ma molto minori della velocità della luce e del lampo (p. 152), e dunque osservabili a occhio nudo. Per quanto riguarda invece i colpi di ritorno, le velocità arrivano a essere anche 100 volte maggiori, diventando così paragonabili a quelle della luce.

Lucrezio in caduta libera sulla Terra Dopo aver già anticipato il fatto che la velocità di caduta dei corpi sulla Luna non dipende dal peso (p. 74), Lucrezio aggiunge nei versi VI,340342 l’ulteriore fatto che la velocità di caduta dei corpi sulla Terra è accelerata. Supponendo che l’accelerazione sia costante, ne derivano le leggi del moto pubblicate nel 1638 da Galileo, nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze: “la velocità è proporzionale al tempo trascorso, e lo spazio percorso è proporzionale al tempo al quadrato”. In realtà queste leggi erano già state anticipate nel secolo -II da Ipparco di Nicea, ed evidentemente non erano ancora state dimenticate ai tempi di Lucrezio. Per scoprire l’esistenza di un’accelerazione di gravità, era comunque sufficiente l’osservazione che un flusso d’acqua in caduta si restringe gradualmente: se la portata è costante, il restringimento della sezione del flusso deve dunque essere compensato da un aumento della velocità.

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Libro VI. Meteorologia e geologia Ora precipita anche la pioggia, che scende a dirotto, quasi che il cielo si fosse liquefatto e volesse sommergere la Terra in un diluvio. La nube squarciata diventa un enorme catino che riversa la sua acqua, mentre il vento turbina, i tuoni rombano e i colpi si abbattono. Oltre a quella appena vista, ci sono altre tre possibili cause o spiegazioni dei fulmini. La forza scatenata dei venti può abbattersi su una nuvola calda e matura. Invece che esplodere per cause interne, essa viene dunque squarciata dall’esterno, scatenando un fulmine alla stessa maniera di prima. E questo si indirizzerà nella direzione determinata dalla provenienza dell’urto. A surriscaldarsi nel suo moto vorticoso può essere invece il vento stesso, come una palla di piombo lanciata da una fionda. Allora il vento sprigiona scintille piccole o grandi, a destra e manca. E queste possono innescare lo scoppio delle nubi mature che incontrano sul loro cammino. Infine, il surriscaldamento può essere prodotto dall’urto tra il vento e la nuvola, allo stesso modo in cui si sprigionano scintille quando si batte un ferro con una pietra: in entrambi i casi, l’impatto tra due corpi freddi provoca calore. E a maggior ragione può provocarlo l’impatto tra una nuvola e il vento, perché quest’ultimo risulterà sempre almeno intiepidito dal suo moto vorticoso.

Ancora fulmini (295-322)

I fulmini cadono velocissimi e potentissimi perché vengono scatenati da una forza compressa nelle nuvole, come proiettili lanciati da una potente macchina da guerra. Inoltre, non subiscono resistenza perché sono costituiti da elementi minuti e lisci, che si insinuano dovunque con facilità. Infine, cadendo dall’alto in basso, vengono accelerati dalla tendenza a cadere che hanno tutti i corpi: un effetto esaltato dal fatto che cadono da molto in alto, e dunque rimangono a lungo soggetti all’accelerazione. Tutte queste cause concorrono a far convergere le particelle dei fulmini, convogliandole insieme in scariche concentrate. Inoltre, passando nell’atmosfera queste scariche possono raccogliere altre particelle, che con la loro azione ne aumentano ulteriormente la velocità. Scaricandosi infine sulle cose, i fulmini le trapassano come gocce di fuoco. Ne allentano e ne sciolgono facilmente i legami. E arrivano anche ad ammorbidire, quando non addirittura a fondere, il bronzo e l’oro.

Veloci come fulmini (323-356)

È soprattutto in primavera o d’autunno, quando i fiori sbocciano o le foglie cadono, che la volta celeste, trapunta di stelle lucenti, viene scossa dai temporali. Con il freddo invernale, infatti, il fuoco viene a mancare. E con il caldo estivo, i venti cadono e le nubi si rarefanno. Nelle stagioni intermedie, invece, si presentano le condizioni favorevoli ai

Le stagioni dei rovesci (357-378)

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Il macrocosmo Giove Tonante, Fulminante e Pluvio Tuoni, fulmini e pioggia erano tradizionalmente attribuiti alla giurisdizione di Zeus e Giove dalle mitologie greca e romana, e a quella del loro analogo Tinia dalla mitologia etrusca. In tutti e tre i casi si trattava di tipiche manifestazioni di una primordiale religione naturalistica, che tendeva a divinizzare i fenomeni celesti e terrestri. Ne rimane ancor oggi un retaggio nell’uso trinitario del nome di Mercurio per indicare allo stesso tempo la divinità, il pianeta e l’elemento chimico. Nei versi VI,96-422 Lucrezio compie un lavoro di decostruzione mitologica, riportando i fenomeni atmosferici nel loro ambito naturale, che è quello della scienza. I tuoni, i fulmini e la pioggia vengono così ricondotti alle cause naturali che sono loro proprie, e che vanno nella direzione di quelle che oggi vengono insegnate nelle scuole: almeno, nelle ore dedicate alle teorie del presente, e non alle mitologie del passato. Nell’Eneide (I,81-123) Virgilio effettua invece un processo inverso di restaurazione mitologica, permettendo alla fantasia di riattribuire agli dèi il potere sugli elementi atmosferici che la ragione aveva loro tolto. Ma nel farlo compie comunque un tributo a Lucrezio, usando un collage di citazioni tratte dai versi VI,96-422 per descrivere la tempesta scatenata da Giunone ed Eolo sulla flotta di Enea al largo della Sicilia, che portò l’eroe a naufragare sulla costa africana e a incontrare Didone a Cartagine. A proposito dei versi VI,417-420, nelle Catilinarie (III,8,19) Cicerone ricorda che nel -65 il Campidoglio, sede del tempio principale di Giove, era stato colpito da un fulmine. Possiamo immaginare l’effetto che questo fatto singolare, assimilato da Lucrezio a un atto di autolesionismo divino, abbia potuto avere sui Romani superstiziosi, vista la sorpresa che un fatto analogo accaduto l’11 febbraio 2013 su San Pietro, giorno dell’annuncio delle dimissioni di Benedetto XVI, ha suscitato nei cristiani superstiziosi.

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Libro VI. Meteorologia e geologia fulmini. Perché nelle strettoie dell’anno si mescolano il freddo e il caldo, che sono entrambi ingredienti necessari alle formazione dei fulmini nelle nuvole: è la loro discordia a provocare il tumulto che genera i venti e le scintille. La prima fase del caldo primaverile è l’ultima del gelo invernale, così come l’ultima fase del caldo estivo è la prima del freddo autunnale. In quei periodi, appunto per questo chiamati “strettoie dell’anno”, i diversi elementi combattono fra loro, agitandosi e mescolandosi. In quei tempi si levano in cielo torbide tempeste, e si sprigionano potenti fulmini, a causa dell’incerta e tumultuosa guerra tra l’aria, l’acqua e il fuoco. Il mio è un discorso che mira a conoscere la vera natura dei fulmini, e a scoprirne le vere cause. Ed è ben diverso dalle ciance degli aruspici etruschi, che scrutavano vanamente gli oscuri segni del volere degli dèi per determinare la zona celeste di provenienza delle loro saette infuocate, i luoghi terrestri in cui si sarebbero abbattute, e i danni che vi avrebbero provocato. Se è Giove Tonante e Fulminante, o qualche altro dio, a provocare in cielo il frastuono dei tuoni, e a saettare a terra i suoi dardi infuocati, perché mai non lancia le sue fiamme su infami colpevoli, fulminandoli come monito ai mortali? E perché invece le indirizza spesso su poveri innocenti, incenerendoli ingiustamente e senza pietà? E poi, perché sbaglia spesso il bersaglio, colpendo inutilmente dei luoghi deserti? Sta forse facendo solo dei tiri di prova, o di allenamento? Perché spreca così le sue munizioni, e non le manda invece a segno su coloro che se lo meritano? Perché, se governa i tuoni e i fulmini a suo piacere, non li manda mai a ciel sereno? Usa forse le nubi come tappeti volanti, per avvicinarsi al bersaglio e prendere meglio la mira? Perché spreca i fulmini inabissandoli in mare? Che colpe hanno mai le onde, i flutti e le correnti? Perché non si fa mai vedere mentre entra in azione, se vuole che scansiamo i suoi colpi? Perché ci preavvisa con i tuoni che stanno per arrivare i fulmini, se vuole colpirci a tradimento? E come fa a lanciarne simultaneamente in molte parti del mondo, quando piove contemporaneamente in molti luoghi? Ma, soprattutto, perché mai i suoi fulmini non risparmiano i templi e le statue degli dèi, e anzi distruggono gli uni e le altre? E perché colpiscono soprattutto i monti e le cime su cui essi hanno le proprie dimore? Forse Giove è autolesionista, o ha rapporti difficili con i suoi colleghi?

Giove Tonante e Fulminante (379-422)

È facile capire come piombino sul mare dal cielo le trombe marine: cioè, quei turbini d’aria incolonnata attorno a cui ribollono i flutti, e che travolgono qualunque imbarcazione si trovi sul loro cammino. Le trombe si formano quando un vento violento non riesce a penetrare

Trombe marine e tornadi (423-450)

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Il macrocosmo L’impero del cielo Nel -423 Aristofane concorse alle Dionisie, una specie di “premio Strega”, con la commedia Le nuvole. Essa rappresentava Socrate come un filosofo letteralmente sospeso a mezz’aria, che “non teneva i piedi per terra” e “aveva la testa fra le nuvole”: espressioni che sono poi diventate proverbiali. E proponeva di sostituire gli dèi con le nuvole, per sottolinearne l’evanescente ed effimera natura: una satira che invece non fu per nulla percepita, come dimostra la persistenza delle religioni. Le nuvole sono state osservate con interesse da molti artisti. Nel Purgatorio (V,39) Dante alluse ai repentini cambiamenti di colore delle «nuvole d’agosto» al tramonto. Nell’Amleto (III,2) Shakespeare paragonò le nuvole a cammelli, donnole e balene, e in Antonio e Cleopatra (IV,14) a draghi, orsi e leoni. E John Constable congelò la mutevolezza del cielo in una serie di quadri su «nobili nuvole ed effetti di luce, buio e colore», dipinti tutti nello stesso luogo e nella stessa ora nel corso dell’estate del 1821.

Nel frattempo il funzionamento delle nubi era stato svelato nel 1802, dal chimico Luke Howard. Goethe lo celebrò nel 1822 in La forma delle nubi secondo Howard, un verso del quale riassume la classificazione secondo cui «le nubi salgono (cirri), si ripiegano (cumuli) e si spargono (strati)». Mettendo insieme i tre tipi si ottengono i nembi, che sono le nuvole della pioggia: i cumuli producono invece acquazzoni, e gli strati pioviggine. Howard spiegò che nella formazione delle nuvole l’aria calda sale, si raffredda e condensa attorno alle impurità dell’atmosfera, come le perle crescono attorno alle impurità dell’ostrica. Si formano così goccioline d’acqua o cristalli di ghiaccio, tanto leggeri da poter rimanere sospesi per aria in forma visibile. Quando i cristalli si aggregano possono poi acquistare un peso sufficiente e cadere sotto forma di pioggia o neve, a seconda che si sciolgano o no nella caduta.

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Libro VI. Meteorologia e geologia una nuvola, ma la rimodella come una colonna, e la scaraventa a terra assestandole come un pugno o una spinta. Se poi la colonna si squarcia, il suo contenuto si riversa fragorosamente in mare e lo fa ribollire. A volte il vortice si può anche autogenerare fra le nuvole, ramazzando atomi di qua e di là, e diventando una tromba d’aria. E quando si dissolve a terra, vomita violentemente turbini e bufere. Ma i tornadi si osservano più raramente: sia perché avvengono di rado, sia perché spesso accadono in luoghi inaccessibili alla vista, invece che sul mare aperto e osservabile, come le trombe marine. Per la formazione delle nuvole ci sono quattro possibili cause o spiegazioni. Può succedere che molti atomi celesti si aggreghino spontaneamente, mentre volano nell’atmosfera, e stabiliscano fra loro deboli legami. Dapprima si addensano in piccole nubi, che poi si uniscono fra loro e vengono trasportate dai venti, fino all’insorgere di una tempesta. Ad aggregare gli atomi celesti può anche essere il vento, che li spazza lungo le pendici dei monti e li addensa attorno alla punta come un fumo dorato. A quel punto le nuvole diventano visibili, attorniano la cima come un lago lambisce la costa di un’isola, e si possono osservare scalando i monti. Una cosa simile succede anche sul mare: basta osservare le vesti stese vicino alla riva, per accorgersi di come si inumidiscano dei suoi vapori. Allo stesso modo, questi possono essere raccolti dal vento in nuvole. E lo stesso succede con i fiumi e con la terra: tutto sembra infatti esalare umidità, che poi si condensa a formare nebbie nelle vicinanze del suolo, e nuvole sotto la cappa del cielo stellato. Infine, le nuvole possono anche formarsi per aggregazione di atomi provenienti dall’esterno: sappiamo infatti che ce n’è un’infinità a disposizione nello spazio infinito, e che si muovono incessantemente in tutte le direzioni e a grandi velocità. Non stupisce, dunque, che a volte questi atomi possano penetrare attraverso i pori dell’etere nel nostro mondo, e formarvi aggregati plumbei sospesi in cielo, fino a ricoprire le terre e le acque.

Nuvole (451-494)

Ora ti spiegherò sia come la pioggia si condensi dentro le nubi, sia perché e in che modo cada a terra. Anzitutto, come il corpo e i suoi fluidi (sangue, sudore, lacrime, moccio, urina, sperma) si formano e crescono insieme, così fanno anche le nubi e la pioggia, a partire dal vapore acqueo che esala da tutte le cose. Spesso, poi, le nuvole assorbono l’umidità marina, come se fossero grandi velli di lana appesi al vento e sospesi sul mare. E anche i fiumi e i laghi contribuiscono a fornir loro umidità. Una volta che le nuvole siano ben impregnate e imbevute, esse scari-

Piogge (495-523)

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Il macrocosmo Sveglia, Lucrezio! «A volte dormicchia il buon Omero», diceva Orazio nell’Arte poetica (359). E a volte dormicchia pure il buon Lucrezio: ad esempio, nei versi VI,524-526, nei quali non si accorge neppure che l’arcobaleno costituisce un interessante problema, che fu risolto da Teodorico di Freiberg, nel De iride del 1307, e da Cartesio, nella Diottrica del 1637. La soluzione è che un raggio di luce che entra in una goccia d’acqua viene rifratto dalla parete di entrata, riflesso dalla parete interna, e di nuovo rifratto dalla parete di uscita. Cartesio dimostrò che c’è un angolo di impatto, di circa 42 gradi, per il quale la luce emergente dalla goccia è massima. Le gocce sospese nell’aria, e formanti il vertice di un angolo di 42 gradi tra il Sole e un osservatore che gli volga le spalle, producono così un arco luminoso (sotto). Il che significa che il fenomeno è apparente: c’è un arcobaleno diverso per ogni osservatore. Anzi, uno diverso per ciascun occhio, come dimostra a volte lo sdoppiamento dell’arcobaleno prodotto in giardino dall’acqua spruzzata da una pompa. Stiamo parlando dello sdoppiamento dell’arco principale di un arcobaleno a piccola distanza, e non del fatto che l’arcobaleno si compone in realtà anche di un arco secondario, oltre a quello primario. Quest’arco secondario è formato dalla luce che entra nelle gocce dalla base, invece che dalla sommità, e ne esce dopo aver subìto due riflessioni interne, invece che una sola. L’arco di impatto massimo in questo caso è di circa 50 gradi, anche se è meno intenso, e dunque spesso poco visibile (sotto). La spiegazione dei colori dell’arcobaleno fu invece data da Newton, nell’Ottica del 1704. Le rifrazioni in una goccia sono leggermente diverse per le varie lunghezze d’onda che compongono la luce bianca: mentre gli angoli di impatto massimo sono sempre intorno ai 42 gradi, essi differiscono leggermente per i vari colori, crescendo da un minimo per il violetto a un massimo per il rosso. In tal modo ogni colore genera un suo arco, e tutti questi archi insieme formano l’intero arcobaleno.

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Libro VI. Meteorologia e geologia cano la pioggia per due motivi. O perché i venti le strizzano l’una contro l’altra, come se fossero delle spugne. O perché il Sole le scioglie una ad una, dissolvendole con i suoi raggi come cera al fuoco. Quanto ai modi di cadere, la pioggia scroscia a dirotto quando i venti spremono con forza le nuvole. Scende invece regolare e continua quando le nuvole sono assiepate una sull’altra: esse grondano come vasi che perdono, e la terra se ne impregna. Infine, quando durante una nera tempesta il Sole splende con i suoi raggi contro gli spruzzi delle nuvole, spunta l’arcobaleno colorato.

L’arcobaleno (524-526)

Ora che ti ho dato le basi per comprendere i fenomeni meteorologici, potrai facilmente scoprire da solo come e perché accadano tutti quelli di cui non ho parlato, legati alle nuvole e all’acqua: la neve, la grandine, la brina… E, più in generale, la gran forza del ghiaccio, che può arrivare a congelare i fiumi e impedire lo scorrere delle loro acque. È dunque giunto il momento di cambiare argomento, tornare coi piedi per terra e passare a spiegare i fenomeni geologici.

Punto di svolta (527-534)

Incominciamo dai tremori della Terra, per i quali ci sono quattro possibili cause, o spiegazioni. Per capire la prima, devi sapere che la Terra è costituita di rocce, fosse, grotte, caverne e strapiombi: non solo in superficie, ma anche in profondità. E come ci sono fiumi all’aria aperta, ce ne sono anche di sotterranei, in grado di travolgere con i loro flutti le rocce nascoste. La struttura della Terra, cioè, è la stessa fuori e dentro. Quando dunque il passare del tempo erode le grotte e le caverne in profondità, esse crollano e la superficie trema. A volte sprofondano intere montagne, e le scosse diffondono tremiti che serpeggiano a grandi distanze. D’altronde, le case poste lungo la strada già tremano al passaggio di un semplice carro, e i carri già sussultano quando le ruote incontrano un semplice sasso. Anche quando una gran massa di terra si stacca da un monte e scivola in un gran bacino d’acqua, il contraccolpo può far tremare la Terra. Allo stesso modo, un vaso vacilla quando il liquido che contiene si muove in maniera turbolenta. Altre volte il vento infuria sottoterra, e preme sulle caverne in un’unica direzione. Le case in superficie si inclinano allora tutte nella stessa direzione, soprattutto le più alte. Le loro travi vengono divelte, e la loro stabilità è minacciata. Gli abitanti vedono incombere il pericolo, e temono che la morte e la rovina stiano per conquistare il mondo. Se il vento sotterraneo non calasse, niente potrebbe fermare il disastro.

La Terra trema (535-584)

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Il macrocosmo Cultura underground I versi VI,535-584 limitano le spiegazioni dei terremoti all’azione del vento e dell’acqua. In realtà, più che smottamenti del terreno, o crolli di caverne sotterranee provocati dall’erosione, i terremoti sono gli effetti di movimenti improvvisi causati dagli spostamenti delle placche tettoniche. Esse si muovono lentamente e si assestano continuamente, accumulando tensione, e incontrandosi producono delle faglie discontinue quando le rocce coinvolte sono fragili, e delle pieghe continue quando le rocce sono più malleabili. Quando la tensione accumulata supera il carico di rottura delle rocce, si sprigiona e genera onde sismiche nel terreno, che si manifestano in superficie come terremoti. La maggior parte di essi avviene in corrispondenza delle faglie situate nei punti di contatto fra le grandi placche: ad esempio, lungo le coste orientali dell’Asia e occidentali delle Americhe, dove si trovano zone fortemente sismiche come il Giappone e la faglia di Sant’Andrea. Più raramente i terremoti avvengono invece all’interno di una placca (sopra, gli epicentri tra il 1960 e il 2000). I versi VI,585-589 ricordano due tra i terremoti più famosi dell’antichità: quello di Sidone del -400 circa, citato da Strabone e Seneca, e quello di Egio del -372, citato da Ovidio nelle Metamorfosi. In Italia, che è anch’essa una zona sismica, il più disastroso terremoto recente fu quello di Messina e Reggio Calabria del 1908, nel quale morirono 120.000 persone, che produsse due effetti collaterali abbastanza tipici: l’incendio della città e un maremoto, o tsunami. Dal punto di vista del numero di morti, il gigantesco terremoto nello Shaanxi cinese del 1556 arrivò a circa 830.000 vittime, mentre nel Novecento quello di Tangshan del 1976 si fermò a circa 250.000. Dal punto di vista dell’energia liberata, misurata dalla scala Richter, il più forte terremoto è stato quello di Valdivia in Cile del 1960, che registrò 9,5 gradi. Dal punto di vista delle distruzioni, valutate dalla scala Mercalli, il più forte è stato invece quello di Haiyuan in Cina del 1920, che fu stimato a 12 gradi (il massimo possibile).

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Libro VI. Meteorologia e geologia In realtà, i venti sotterranei sono incostanti, e cambiano spesso di intensità e direzione: a volte avanzano all’attacco, altre volte si ritirano in difesa. La Terra minaccia dunque la rovina più spesso di quanto non la causi, e dopo essersi pericolosamente sbilanciata in una direzione, si riequilibra nell’altra. Per questo le case oscillano frequentemente in alto, a volte a metà, e solo raramente in basso. Infine, a produrre il gran tremito dei terremoti può essere un vento furioso in profondità, arrivato dall’esterno o generato dall’interno. Dapprima esso freme nelle caverne. Poi prende a girare vorticosamente. E quando acquista potenza erompe, squarciando le viscere della Terra e formando un’immensa voragine. Fu proprio questo che successe a Sidone di Siria, e a Egio nel Peloponneso: entrambe vennero distrutte dai tremendi getti d’aria e dai relativi terremoti. E i tremori del suolo abbatterono le mura di molte città, e ne fecero inabissare molte altre. Ma anche quando il vento che soffia sottoterra non erompe dalle crepe del terreno, continua a diffondersi come un brivido nei pori della Terra, e a farla tremare. Allo stesso modo, il freddo che penetra sotto la pelle fa tremare il corpo, e quando arriva fino alle ossa lo scuote violentemente. Un molteplice terrore circola dunque nelle città. Il terrore che crollino le caverne di sotto, e le case di sopra. E che la Terra, crepandosi all’improvviso, spalanchi le sue fauci e inghiottisca anche le rovine. Come si può dunque credere che la Terra e il cielo siano incorruttibili ed eterni? Al contrario, l’incombere dell’immane pericolo arriva a suscitare una tremenda paura. La paura che l’intera Terra perda il suo appoggio, e venga a mancare sotto i piedi. Che precipiti nell’immenso abisso, e sia seguita da tutte le cose. Che, spalancatasi la voragine cosmica, arrivi il momento della rovina del mondo.

Anche gli uomini tremano (585-607)

La gente si stupisce che il livello dei mari rimanga invariato, nonostante il costante ed enorme afflusso di acqua apportato dai fiumi. Al quale vanno aggiunte le incostanti piogge e tempeste che bagnano non solo le acque, ma anche le terre. E sotto la superficie ci sono pure fonti sommerse. Individualmente questi apporti sono solo come gocce nel mare, ma collettivamente contribuiscono a formarlo. Una gran parte, però, ne viene estratta dal Sole: per convincersene, basta esporre le vesti bagnate ai suoi raggi, e notare come esso le asciughi. E benché il calore non faccia evaporare che una piccola quantità di acqua dalla superficie, l’enorme estensione dei mari fa sì che in totale ne evapori una grande quantità. Anche i venti contribuiscono a spazzar via dalla superficie del mare

Il ciclo dell’acqua (608-638)

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Il macrocosmo Lucrezio accademico L’Accademia degli Umoristi, fondata nel 1600 e frequentata dai papi Clemente VIII e Urbano VIII, aveva come emblema (a sinistra) una nuvola da cui cade la pioggia sul mare, e come motto il verso VI,637: redit agmine dulci, “ritorna in dolce corrente”. La metafora alludeva al fatto che, come l’evaporazione trasforma l’acqua salata del mare in pioggia dolce, così l’Accademia intendeva trasformare l’ignoranza della società in cultura. Anche l’Accademia dei Lincei, fondata nel 1603 e della quale era membro Galileo, guardava con interesse a Lucrezio, e molti suoi membri lo leggevano, lo commentavano e lo imitavano: Virginio Cesarini, ad esempio, al quale Galileo aveva dedicato nel 1623 Il Saggiatore. Quando morì l’anno dopo, alle sue esequie vennero usati sia l’emblema, sia il motto lucreziano dell’Accademia degli Umoristi.

La Sicilia in fiamme L’eruzione dell’Etna a cui Lucrezio fa riferimento nei versi VI,639-646 è probabilmente quella esplosiva del -122, che provocò grandi danni a Catania. Ma la più nota dell’antichità è quella del -693, durante la quale due “pii fratelli” trassero in salvo i genitori portandoli sulle spalle, invece di mettere al sicuro gli averi. L’episodio ispirò a Virgilio la scena dell’Eneide in cui Enea salva nello stesso modo il padre Anchise dall’incendio di Troia, che a sua volta ispirò Raffaello nel 1514 per l’Incendio di Borgo delle stanze vaticane (a destra). Lucrezio non accenna al Vesuvio, anche perché all’epoca si pensava che fosse ormai spento: l’eruzione che distrusse Pompei ed Ercolano è del 79, più di un secolo dopo la sua morte. In realtà il Vesuvio alterna lunghi periodi di quiescenza, l’ultimo dei quali dura dal 1944, ad altri di attività distruttiva. L’Etna invece è in perenne attività, e mostra spesso il suo pennacchio di fumo, benché in genere abbia avuto effetti distruttivi più sulle cose che sulle persone.

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Libro VI. Meteorologia e geologia una certa quantità d’acqua: lo dimostra il fatto che una strada bagnata può asciugarsi velocemente anche di notte, se spira un forte vento. Allo stesso modo, anche il fango può seccarsi. Ti ho poi già mostrato in precedenza come le nuvole si impregnino a loro volta del vapore che emana dalle acque, e lo spargano poi ovunque sul resto del globo, come spugne che prima vengono imbevute e poi strizzate. Infine, una parte delle acque dei mari viene assorbita dalle terre che li circondano. La terra infatti è porosa, e come può far confluire l’acqua piovana verso il mare, può anche risucchiarla in direzione contraria. È così che l’acqua salata, filtrata dalla terra, risale fino alle sorgenti dei fiumi, e da lì ridiscende dolce verso i mari. Le fauci dell’Etna a volte eruttano fuoco in turbini violenti. Tempo fa la tempesta di fiamme, esplosa con distruttiva ferocia nelle campagne siciliane, attrasse lo sguardo attonito di coloro che si trovavano nelle vicinanze del vulcano. Essi videro fumare e scintillare l’intera volta celeste. I loro cuori si riempirono di paura e d’affanno. E le loro menti si domandarono cos’altro mai stesse tramando la Natura.

La grande eruzione dell’Etna (639-646)

Di fronte ad avvenimenti del genere, devi allontanare il più possibile il tuo punto d’osservazione e cercare di ottenere una visione d’insieme. Ricorda che lo spazio, il tempo e la materia sono infiniti, e che il nostro mondo non è che una minima parte del tutto: minore, in proporzione, di quanto non lo sia un sol uomo rispetto all’intera Terra. Se lo terrai in mente, non ti stupirai di molte cose che accadono. Ti stupisci forse del fatto che al mondo qualcuno abbia la febbre alta, o qualcun altro senta male da qualche parte? Ti si può gonfiare all’improvviso un piede. Ti può assalire un feroce mal di denti. Ti si può appannare la vista. Ti possono venire sfoghi ed eruzioni cutanee. La varietà degli atomi esistenti al mondo si riflette nella varietà dei malanni che ti possono colpire. Se ricorderai che il cielo e la Terra sono alimentati dall’infinito tutto, non ti stupirai che il nostro globo possa essere scosso da un improvviso terremoto. Che un tornado o un fulmine lo colpiscano, in mare o sulla terraferma. Che un vulcano sputi fuoco. E infatti, tutte queste cose accadono: il cielo divampa, la pioggia imperversa, la terra trema, la lava erutta. Tu dirai: «Ma il fuoco non può essere più intenso che in un incendio». Eppure, anche un fiume sembra troppo grande, a chi ha visto solo ruscelli. O un albero, troppo alto per chi ha visto solo fili d’erba. O un uomo, per una formica. Di ciascuna cosa, noi crediamo enormi gli esemplari più grandi che conosciamo, ma ci dimentichiamo che non sono niente di fronte all’infinità del tutto.

Una distaccata visione d’insieme (647-679)

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Il macrocosmo Altra cultura underground Come già per i terremoti, i versi VI,680-702 limitano le spiegazioni delle eruzioni vulcaniche all’azione dei venti e dell’acqua. In realtà, le eruzioni sono fuoriuscite di magma attraverso un camino principale che sfocia in un cratere. O anche attraverso fessure del terreno, come in Islanda. Il magma fuso risale fra le rocce per la spinta di Archimede, e a seconda dei gas che contiene può esplodere in un’eruzione di cenere e lapilli, formando un “vulcano grigio”, o tracimare in una colata di lava, formando un “vulcano rosso”. La maggior parte dei vulcani si trova in corrispondenza di punti di contatto fra placche tettoniche diverse (p. 260): ad esempio, lungo la costa orientale dell’Asia, come il Fujiyama, o la costa occidentale delle Americhe, come il Mount St. Helens. Alcuni vulcani si trovano invece in corrispondenza di punti caldi, che si spostano insieme alla placca su cui si trovano: è così che si sono formate, in successione, le varie isole degli arcipelaghi delle Hawaii, delle Galapagos, delle Azzorre e delle Canarie. Crociera sul Nilo Il ciclo delle piene di cui parla Lucrezio nei versi VI,712-737 incominciava verso gli inizi di giugno alla prima cateratta del Nilo, ad Assuan (sotto). L’acqua continuava a crescere fino agli inizi di settembre, quando si stabilizzava per un periodo di circa tre settimane. Riprendeva a crescere in ottobre, raggiungendo un massimo di 14 metri ad Assuan, 12 a Luxor (p. 270) e 8 al Cairo. Poi decresceva costantemente, fino al minimo del maggio successivo. Il ciclo si è interrotto nel 1970, quando è entrata in funzione la diga di Assuan. Il Nilo permise la fioritura della civiltà egizia, per una convergenza di benefici. Anzitutto, la coltivazione del deserto, grazie alla fornitura di acqua per l’irrigazione e il deposito di limo fertile per la concimazione. Inoltre, la navigazione dalla prima cateratta, che fungeva da confine con il Sudan, al Mediterraneo. E infine, la nascita della matematica come agrimensura, che è il significato letterale di geometria, per ristabilire i confini delle terre spazzati via dalle piene. 264

Libro VI. Meteorologia e geologia Ti dirò ora quali siano le possibili cause, o le spiegazioni, delle eruzioni vulcaniche. Anzitutto, i vulcani sono montagne cave, che contengono al proprio interno grotte e caverne. In queste si possono formare correnti, provocate dal movimento dell’aria, che sfregando contro le rocce si riscaldano e si arroventano. Al loro fuoriuscire si manifestano sotto forma di fiamme che si levano in alto, attraverso la bocca del vulcano. E insieme ad esse, oltre al fumo, vengono anche espulse cenere e rocce frammentate, a dimostrazione che nel processo è coinvolto il vento. Inoltre, quando un vulcano è vicino al mare, come l’Etna, risucchia gli spruzzi delle onde che si infrangono contro le sue pendici. Le grotte della cavità, a loro volta, possono comunicare sotterraneamente con il mare. In questi modi l’acqua penetra dunque all’interno, e fuoriesce dalla bocca dopo essersi riscaldata, trascinando con sé la sabbia del fondo e i frammenti di roccia delle pareti.

Vulcani (680-702)

Ci sono fenomeni al mondo che avvengono per una sola causa, all’interno di una molteplice lista di possibilità. Ad esempio, se vedi un cadavere per la strada, puoi essere sicuro di aver citato la causa della sua morte solo se hai enumerato tutte quelle possibili. Non sai infatti se sia morto di spada, di freddo, di malattia o di veleno, benché qualcosa del genere debba essere stato. E così dovremo fare ora, affrontando una serie di fenomeni singolari che succedono solo in certe parti del mondo, e di cui non conosciamo esattamente la causa.2

Fenomeni singolari (703-711)

D’estate il Nilo, unico tra i fiumi del mondo, straripa nei campi. E lo fa per uno di quattro possibili motivi. Di solito le piene avvengono al culmine della calura, quando i venti estivi provenienti dal gelo polare soffiano controcorrente. Forse il fiume viene così respinto dalla sua foce, il suo livello cresce, e le sue acque si riversano fuori dagli argini. Il Nilo nasce molto a Sud del paese, fra nere tribù di uomini dalla pelle bruciata. Forse la sabbia che trascina nel suo lungo percorso si accumula verso la foce. E unendosi a quella spintavi dai venti del Nord e dal mare, di nuovo impedisce che il flusso continui regolare, costringendo il fiume a straripare. Forse, ancora, in quel periodo i venti estivi spingono tutte le nuvole verso le regioni dove il Nilo nasce. Le piogge vi cadono particolarmente abbondanti, e le alte montagne le convogliano nel fiume, alzandone il livello.

Le piene del Nilo (712-737)

2

Vedi V, 526-533.

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Il macrocosmo Gite alle solfatare Lucrezio chiama «luoghi Averni» quelle che noi chiamiamo solfatare. La sua etimologia si riferisce agli effetti, e la nostra alle cause: si tratta infatti di località nei pressi di vulcani quiescenti o in estinzione, che emettono dal terreno vapori e gas con una forte percentuale di zolfo, percepibili all’olfatto e velenosi per certi tipi di animali, come appunto richiama l’etimologia “senza uccelli” (a-ornos) dei versi VI,740-741. L’esempio più noto da noi, citato nei versi VI,747-748, è la solfatara di Pozzuoli nei campi Flegrei, il cui nome significa “ardenti”. In vari punti infatti il terreno ribolle, e il collegamento con l’Averno è sottolineato dall’omonimo grande lago tuttora presente. I campi albergavano la sede della Sibilla cumana e l’entrata mitologica dell’Ade. E i calcoli effettuati da Galileo nelle Lezioni circa la figura, sito e grandezza dell’Inferno di Dante, del 1588, mostrano che vi si trovava anche la “selva oscura”. I dubitativi versi VI,756-759 si riferiscono all’odierna Pamukkale turca, il cui nome significa “castelli di cotone” e richiama le singolari formazioni provocate dalle precipitazioni calcaree di acqua satura di calcio e anidride carbonica (a sinistra). Hierapolis, che significa “città sacra”, era situata sull’altipiano delle formazioni geologiche. E il Plutonio, o “luogo del dio dei morti”, prendeva il nome dalle rocce ancor oggi chiamate plutoni, formate dal consolidamento sotterraneo del magma terrestre. Il più famoso esempio di solfatare al mondo è però probabilmente quello di Yellowstone, negli Stati Uniti. Anche qui si trovano formazioni calcaree analoghe a quelle di Pamukkale, oltre a centinaia di spettacolari geyser e altre manifestazioni vulcaniche (a destra). Il parco si trova infatti su un punto caldo analogo a quello delle Hawaii o dell’Islanda, che ha dato origine a un’enorme caldera o “supervulcano” di circa 4000 chilometri quadrati.

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Libro VI. Meteorologia e geologia Forse, infine, le nevi delle montagne attorno alla sorgente si sciolgono al calore dell’estate, sotto i raggi cocenti del Sole. E le loro acque si riversano a valle, provocando una piena. Ti parlerò ora dei cosiddetti luoghi Averni, che prendono il nome dalla parola greca aornos, che significa “senza uccelli”. Infatti, quando gli uccelli volano su di essi, dimenticano di essere sostenuti dalle ali, ammainano le vele e precipitano a capofitto a terra o nell’acqua, a seconda dei casi, giacendovi riversi senza vita. Un lago Averno si trova a Puteoli, nei Campi Flegrei, dove i monti saturi di zolfo e ricchi di sorgenti calde fumano acremente. Ce n’è un altro dentro le mura d’Atene, proprio in cima all’Acropoli, vicino al tempio di Pallade Atena. Le cornacchie non vi si avvicinano mai, neppure quando gli altari traboccano di offerte. Secondo qualche stupida storia, raccontata da poeti greci come Callimaco, il motivo sarebbe che la dea ha proibito loro di avvicinarsi. Ma la realtà è che la cosa succede per motivi naturali, che ti spiegherò tra poco. Sembra che ci sia un terzo di questi luoghi in Asia Minore, il Plutonio di Hierapolis, e che a farvi la stessa fine degli uccelli siano addirittura i quadrupedi. Non appena vi entrano, cadono a terra di peso, come se avessero tagliato loro la gola su un altare sacrificale. Come ti ho già detto, tutte queste cose accadono per motivi naturali, chiari e precisi. E mi accingo appunto a spiegarteli, perché tu non creda che a questi luoghi si acceda attraverso le porte infernali di Plutone. O che essi attirino le anime morte dalle rive infernali dell’Acheronte, come si dice che i cervi attirino col proprio respiro i serpenti dalle loro tane, per mangiarseli.

L’Averno (738-768)

Prima di arrivare al dunque, ti ripeto che sulla Terra ci sono cose di ogni tipo: alcune nutrienti e vitali, altre tossiche e mortali. E ti ho già mostrato come, su esseri diversi, le stesse cose producano effetti diversi.3 Ce ne sono alcune che fanno male al naso o agli occhi, e altre che non si possono toccare o mangiare. Agli esseri umani, in particolare, molte cose procurano fastidio, disgusto o danno. Alcuni alberi emettono effluvi così molesti, che a sdraiarcisi sotto fanno girare la testa. Si racconta che il tasso del monte Elicona, in Beozia, addirittura uccide con l’odore dei suoi fiori. Tutte queste cose sono prodotte dalla terra, che contiene molti semi variegati e mescolati, e li divide e li dispensa a suo piacere. L’odore acuto che emana da una lampada a olio appena spenta può pro-

Sostanze tossiche (769-817)

3

Vedi IV, 615-672.

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Il macrocosmo Evitare gli odori molesti Nel 1856 un farmacista di nome Lucas ha isolato nelle foglie del tasso l’alcaloide tassina, che ha un effetto narcotico e paralizzante. Le foglie sono letali per alcuni animali, come i cavalli, ma innocue per altri, come i conigli. Le bacche sono commestibili per l’uomo, ma non i semi. In certe specie anche i pollini sono velenosi, e di qui nasce l’osservazione di Lucrezio nei versi VI,786-787, ripresa anche da Plinio nella Storia naturale (XVI,50-51). Per questi motivi il tasso veniva chiamato “albero della morte” o “del veleno”. Il castoreo è invece un estratto di ghiandole del castoro situate tra i genitali e l’ano, che secernono un liquido usato dall’animale per oliare il pelo. Oggi si adotta nella produzione dei profumi: ad esempio, per il Cuir de Russie di Chanel e la Magie Noire di Lancôme. I Romani pensavano che i fumi del castoreo bruciato inducessero l’aborto: di qui deriva il riferimento alla “donna mestruata” nei versi VI,794-796. Questa miniera vale un Perù I versi VI,811-817 ricordano giustamente i pericoli delle miniere, dovuti non soltanto ai crolli delle gallerie, ma anche alla presenza di gas: in particolare, il grisù nelle miniere di carbone, l’idrogeno solforato in quelle di zolfo, e il monossido di carbonio prodotto dalla combustione di torce, lampade a olio e motori. Anche senza questi pericoli, per la durezza del suo lavoro la miniera è stata spesso assimilabile a un gulag, e come tale era inteso dagli Spagnoli che vi impiegavano i nativi nel vicereame del Perù. Purtroppo, l’estrazione delle materie prime e dei materiali preziosi costituisce un’attività essenziale per tutti gli Stati. Anche oggi, dunque, le miniere sono in piena attività in tutto il mondo, con condizioni di lavoro solo in parte migliorate rispetto al passato. Basta ricordare, ad esempio, i grandi scioperi del 1983-1986 in Arizona, del 1984-1985 in Inghilterra e del 2012 in Sud Africa. O guardare le riprese nella miniera d’oro di Sierra Pelada, in Brasile, nel film Powaqqatsi di Godfried Reggio e Philip Glass, del 1988.

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Libro VI. Meteorologia e geologia vocare una crisi epilettica, in chi soffre di questo male. L’odore grave del castoreo addormenta la donna mestruata, che si lascia sfuggire in grembo dalle mani il ricamo. Molte cose hanno un effetto rilassante, e possono arrivare a far perdere i sensi. Un bagno caldo troppo lungo, a pancia troppo piena, può provocare uno svenimento. L’odore del carbone può dare alla testa, se non si beve dell’acqua per schiarire la gola dalle polveri. L’odore del vino può dare una mazzata, a chi abbia già la febbre. Dalla terra affiora lo zolfo, e si rapprende il bitume dall’odore nauseante. E quali puzze emanano dalle miniere di Scaptensula, la “Selva scavata” in Tracia, dove si tormenta il sottosuolo con i ferri alla ricerca di oro e argento? Quanto possono essere pestilenziali, le miniere! E come riducono le facce e il colorito di coloro che ci lavorano! Non vedi quanto quei poveracci vivano miseramente, e muoiano precocemente? Ecco quali miasmi la terra può produrre, e lasciar affiorare all’aria aperta. Tornando ai luoghi Averni, probabilmente emettono un odore letale per gli uccelli, che si leva dal suolo e si eleva nell’aria, avvelenando una parte del cielo. Non appena un uccello vi penetra, inala l’invisibile veleno, gli gira la testa, e cade sul luogo da dove l’odore proviene. Se poi fosse ancora vivo, le esalazioni e i miasmi al suolo gli daranno il colpo di grazia, facendogli vomitare la vita. Può anche essere che l’effetto di questi luoghi sia di provocare un vuoto d’aria tra la terra e il cielo, fino all’altezza a cui volano gli uccelli. In tal caso essi precipiterebbero per il venir meno del sostegno alle loro ali, schiantandosi rovinosamente al suolo.

Solfatare (818-839)

L’acqua nei pozzi diventa più fresca d’estate. Il motivo è che col caldo la terra si fa più porosa, e rilascia gli atomi di calore che contiene. Dunque, diviene più fredda, e raffredda anche l’acqua che contiene. Viceversa, l’acqua dei pozzi diventa più calda d’inverno, per il motivo opposto: la terra col freddo si contrae, e spreme i propri atomi di calore nell’acqua che contiene.

L’acqua dei pozzi (840-847)

Presso il tempio di Ammone a Tebe, nel deserto libico-nubiano, si dice che ci sia una fonte fresca di giorno, e calda di notte. I locali se ne stupiscono, e la immaginano riscaldata dal Sole, che durante il suo viaggio notturno le passerebbe più vicino di sotto, di quanto non faccia durante il suo viaggio diurno da sopra. Ma questa giustificazione è senza senso. Perché il Sole non può certo riscaldare indirettamente l’acqua da sotto, passando attraverso un denso strato di terra, più di quanto non riesca a scaldarla di sopra, passando at-

Al tempio di Ammone (848-878)

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Il macrocosmo Pellegrinaggi ai templi La città egizia di Tebe si trovava sulla riva sinistra del Nilo, nei pressi dell’odierna Luxor. Amon era la divinità più importante del pantheon egizio, con un ruolo analogo a Zeus in Grecia e Giove a Roma, e lo si venerava in una trinità composta anche dalla moglie Mut e dal figlio Khonsu. Il suo tempio principale era situato sulla riva opposta del fiume, nell’odierna Karnak, e rimase in attività per circa 2000 anni, a parte la breve parentesi monoteista di Akhenaton verso il -1350. Ancor oggi le rovine del tempio di Karnak (sopra) rimangono tra le più imponenti e meglio preservate dell’Egitto faraonico. Tra esse c’è effettivamente un grande recinto d’acqua, forse alimentato dalla sorgente di cui parla Lucrezio. Anche se, fra tutte le meraviglie che vi si possono osservare, alcune delle quali nel 1978 hanno fatto da sfondo al film Assassinio sul Nilo, tratto dal romanzo di Agatha Christie, la fonte è probabilmente l’ultima su cui soffermarsi. La città greca di Dodona (sotto) si trovava in Epiro, nei pressi dell’odierna Albania. Quando Erodoto andò a Tebe verso il -450, gli fu raccontato che era stata fondata da una sacerdotessa tebana, rapita dai Fenici e venduta come schiava in Grecia: in altre parole, la tradizione istituiva un legame di discendenza diretta fra Tebe e Dodona, da un lato, e Amon e Zeus, dall’altro. Sempre secondo le Storie (II) di Erodoto, l’oracolo del tempio di Dodona era il più antico della Grecia. Era dedicato a due nostre conoscenze: Giove Fulminante (p. 254) e la Grande Madre (p. 86). Secondo una pratica che fu poi mutuata da altri oracoli, compresa la Sibilla cumana citata da Dante (pp. 162 e 266), il responso della divinità veniva interpretato in base al frusciare delle foglie, come se esse fossero mosse dal suo spirito.

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Libro VI. Meteorologia e geologia traverso un rarefatto strato d’aria. Tanto più che le case attorno alla fonte non si scaldano affatto come la sua acqua. Qual è dunque il vero motivo? È che attorno alla fonte il terreno è più poroso che altrove, e quando di notte le onde di rugiada coprono la terra, questa si raffredda e si contrae. E, come una spugna spremuta da una mano, rilascia nell’acqua tutti i propri atomi di fuoco, riscaldandola. Viceversa, quando il Sole rinato riscalda di nuovo la terra con i suoi raggi, e la rende di nuovo porosa, essa riassorbe come una spugna gli atomi di calore dall’acqua, e la raffredda. Simultaneamente, il Sole riscalda l’acqua con i suoi raggi, e ne fa evaporare una parte, togliendole ulteriore calore. Quest’azione congiunta raffredda l’acqua, e in modo analogo può sciogliere il ghiaccio. Presso il tempio dell’oracolo di Dodona, nell’Epiro, c’è una fonte fredda che accende le stoppie e le torce posate sulle sue acque, e non le spegne se esse vengono lasciate a galleggiare sospinte dal vento. Il motivo è che quell’acqua contiene molti atomi di calore, che risalgono probabilmente dalle viscere della Terra fino alla superficie, anche se non in numero sufficiente a riscaldare l’intera fonte. A farli risalire è una qualche forza, che poi li costringe a ricongiungersi al sommo della fonte. Anche nel mare attorno all’isola di Arado, vicino alla costa siriana, c’è una fonte di acque dolci. E ce ne sono varie altre in giro per il mondo, nelle quali gli atomi di acqua dolce erompono in superficie nel bel mezzo del mare salato, e permettono ai naviganti di dissetarsi. Analogamente, dalla fonte di Dodona erompono gli atomi di calore che accendono le stoppie e le torce, già imbevute di altri atomi che le predispongono all’accensione. D’altronde, non hai mai visto che se accosti a una fiamma lo stoppino di una lampada appena spenta, si riaccende anche prima di toccarla? Anche le torce appena spente, e molte altre cose, si infiammano a distanza, senza un contatto diretto con il fuoco.

Dall’oracolo di Dodona (879-905)

Ti spiegherò ora come sia possibile che il ferro sia attratto dalle pietre che i Greci chiamano “magneti”, perché provengono dalla città di Magnesia, nell’Asia Minore. Gli uomini si stupiscono quando vedono cinque o sei anelli penzolare uno attaccato all’altro da una di queste pietre, come a formare una catenella tremolante nell’aria. E ciascun anello riceve dal precedente la forza della pietra, e la trasmette al successivo. Ma prima di potertene spiegare la ragione, dovrò richiamare e ribadire molte cose che ti ho già esposto in precedenza. Io farò dunque una lunga divagazione, e tu ascolta con orecchio e animo ancora più attenti del solito.

Le calamite (906-920)

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Il macrocosmo Calamite I versi VI,906-920 mostrano che il fenomeno del magnetismo era ben noto nell’antichità. Esso prende il nome dalla città di Magnesia, nella quale abbondavano quelle che noi chiamiamo calamite: pietre che generano un campo magnetico, non percepibile dai sensi umani, ma deducibile dai suoi effetti attrattivi sul ferro. In particolare, se si pone della limatura di ferro attorno al magnete, essa si dispone secondo le linee di forza del campo, che vanno da un polo magnetico all’altro. Se si spezza una calamita si ottengono due calamite, senza riuscire a separare i due poli. Poli isolati positivi o negativi, chiamati monopoli magnetici e analoghi alle cariche elettriche positive o negative, sono stati ipotizzati nel 1894 dal premio Nobel per la fisica Pierre Curie, marito della famosa Marie, ma finora non sono ancora stati trovati. Ciò nonostante, anche i poli magnetici non isolati si comportano in maniera analoga alle cariche elettriche: poli diversi si attraggono, e poli uguali si respingono (p. 276). Vetro e ambra Benché Lucrezio stranamente non ne parli, anche il fenomeno dell’elettricità statica era ben noto nell’antichità. Ed era altrettanto facile da scoprire: se si strofina del vetro con un panno, esso perde elettroni e si carica positivamente, mentre il panno si carica negativamente, e viene poi attratto dal vetro. Se invece si strofina dell’ambra, che in greco si chiamava elektron, succede il contrario: essa acquista elettroni e si carica negativamente, mentre il panno si carica positivamente, e di nuovo viene attratto dall’ambra. Il fenomeno era già stato notato da Talete nel secolo -VI, ma in maniera opposta a quello magnetico: invece di scoprire subito il campo elettrico, infatti, agli inizi si scoprirono le cariche elettriche, attraverso i corpi elettricamente carichi. E solo nel 1785 Charles Coulomb pubblicò la legge che porta il suo nome, e stabilisce l’esistenza di campi elettrici e magnetici regolati da forze che si comportano in maniera parallela fra loro, e analoga a quella trovata da Newton per la forza di gravità e il campo gravitazionale.

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Libro VI. Meteorologia e geologia Anzitutto, le cose che vediamo emettono continuamente corpuscoli in grado di colpire gli occhi, e stimolare la visione. Dalle cose profumate emanano gli odori, dai fiumi il fresco delle acque, dal Sole il calore, dalle onde la salsedine che erode i muri vicini alle spiagge. L’aria risuona sempre dei rumori e dei suoni più svariati. Un gusto salmastro ci colpisce quando siamo sulla riva del mare, e uno amaro quando osserviamo preparare gli infusi di assenzio. Dai corpi fluiscono continuamente corpuscoli di vario genere, che si diffondono ovunque nell’aria. Il loro fluire e la loro diffusione sono costanti e incessanti, stimolano perennemente i nostri sensi, e ci permettono di vedere, di odorare e di udire le cose attorno a noi.

Il fluire degli atomi (921-935)

Inoltre, come ti ho spiegato agli inizi di questo libro, tutte le cose sono piene di vuoto. È importante in generale, ma lo è soprattutto per l’argomento che stiamo affrontando, ribadire che tutto ciò che percepiamo è una mistura di materia e di vuoto. Le volte delle grotte trasudano umidità e gocciolano. Dai pori del corpo fuoriescono sudore e peli. Il cibo viene assimilato nello stomaco, si diffonde attraverso le vene fino alle estremità, e arriva persino alle unghie. Il freddo e il caldo penetrano attraverso il bronzo, e li percepiamo tenendo in mano coppe d’oro o d’argento. Le voci e gli odori si trasmettono attraverso le pareti di pietra delle case. Il fuoco si insinua addirittura nel ferro, e il contagio nel corpo. Le nuvole e le tempeste si dissolvono nell’aria, dopo essersi condensate dalla terra. Non c’è niente che non contenga anche il vuoto, insieme alla materia.

La pervasività del vuoto (936-958)

Aggiungo che non tutti i corpuscoli che si sprigionano dalle cose producono sempre gli stessi effetti. Il Sole secca la terra, ma scioglie il ghiaccio e le nevi dei monti, e fonde la cera. Il fuoco liquefà il bronzo e scioglie l’oro, ma restringe il cuoio e carbonizza la carne. L’acqua indurisce il ferro ancora malleabile, appena tolto dal fuoco, ma ammorbidisce la carne e il cuoio seccati dal calore. Alle caprette barbute l’olivastro piace da morire, quasi gustasse come l’ambrosia e profumasse come il nettare, mentre per l’uomo non c’è niente di più amaro. I maiali evitano la maggiorana, che per loro è velenosa, ma sull’uomo ha effetti benefici e curativi. D’altronde, i maiali amano sguazzare nel fango e nella sporcizia, che invece noi aborriamo.

Cause uguali, effetti diversi (959-978)

C’è un’ultima cosa da dire, prima di arrivare alla spiegazione del magnetismo. Ed è che, benché il vuoto produca molti pori e canali nelle cose, essi risultano diversi per natura e funzione.

La porosità delle cose (979-997)

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Il macrocosmo Personalità magnetiche La legge scoperta da Coulomb (p. 272) descriveva in maniera parallela e analoga il comportamento delle cariche elettriche e dei poli magnetici. La cosa avrebbe dovuto insospettirlo, ma egli credette fosse soltanto una coincidenza, dovuta alla presenza di “fluidi” simili, invece che l’indizio di qualcosa di più profondo. Furono André-Marie Ampère e Michael Faraday a trovare, rispettivamente nel 1826 e nel 1831, dei legami insospettati e profondi tra l’elettricità e il magnetismo. Da un lato, Ampère mostrò che una corrente che scorre in un filo elettrico genera un campo magnetico attorno al filo, e perpendicolarmente ad esso. Dall’altro lato, Faraday mostrò che un campo magnetico che scorre lungo un filo, e perpendicolarmente ad esso, genera una corrente elettrica nel filo. Dunque, correnti elettriche e campi magnetici sono solo due manifestazioni di qualcosa di più profondo, che li comprende entrambi come casi particolari, e si chiama campo elettromagnetico. I versi VI,998-1041 di Lucrezio ne prefigurano in parte il comportamento, come ebbe a notare il suo estimatore James Clerk Maxwell (p. 68). E se lo diceva lui, dobbiamo credergli, visto che sono proprio le quattro equazioni di Maxwell (a sinistra), trovate nel 1865, a descrivere in maniera definitiva il comportamento del campo elettromagnetico, riepilogando e integrando tutte le leggi scoperte da Coulomb, Ampère e Faraday, oltre che da Carl Friedrich Gauss nel 1835. Nelle equazioni di Maxwell compaiono due costanti: la prima misura la “resistenza” opposta dal vuoto ai campi elettrici, e la seconda misura la “accoglienza” mostrata dal vuoto ai campi magnetici. Una loro combinazione (l’inverso della radice quadrata del loro prodotto) stabilisce in maniera teorica la velocità nel vuoto, pari a circa 299.800 chilometri al secondo (p. 152), di tutte le onde elettromagnetiche: cioè, le onde radio, le microonde, i raggi infrarossi, la luce visibile, i raggi ultravioletti, i raggi X e i raggi gamma.

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Libro VI. Meteorologia e geologia Per questo gli esseri viventi possiedono sensi diversi, e ciascuno è adattato a un particolare stimolo: uno a udire suoni, un altro a gustare sapori, un altro ancora a odorare aromi. Per questo una cosa filtra attraverso le rocce, un’altra attraverso il legno, e altre ancora attraverso l’oro e l’argento, o il vetro. Di qui penetra la vista, e di là passa il calore. E per gli stessi luoghi, cose diverse penetrano con velocità diverse. Tutte queste diversità sono provocate dal rapporto reciproco fra i canali attraverso cui una stessa cosa passa, e fra le cose che passano attraverso uno stesso canale. Ora che ti ho ricordato le premesse necessarie per svelare come il magnete attragga il ferro, possiamo trarne assieme le conclusioni. Da questa pietra devono fluire molti corpuscoli. Anzi, un’intera corrente (aestus) magnetica, che riempie tutta l’aria tra la pietra e il ferro. Mentre la corrente svuota l’aria e libera lo spazio attorno alla pietra, le particelle del ferro vi si precipitano e trascinano con sé l’intero corpo. Non c’è infatti nessun elemento, i cui atomi siano più strettamente e duramente legati di quelli del ferro: esso corre dunque insieme a loro, ad attaccarsi alla pietra. Questo succede in qualunque direzione: dovunque la corrente riempia uno spazio vicino alla pietra, subito i corpuscoli di ferro vi vengono attratti. E non possono evitarlo, perché da una parte subiscono l’attrazione, e dall’altra non sono in grado di opporvi nessuna resistenza. A favorire il moto del ferro, si aggiunge poi un altro fatto: mentre lo spazio attorno alla pietra viene svuotato dalla corrente magnetica, il ferro viene spinto a entrarvi anche dall’aria che gli sta dall’altra parte. L’aria colpisce infatti sempre ogni corpo da ogni parte, mantenendolo in equilibrio. Ma quando l’aria viene a rarefarsi o a mancare da una parte, quella dalla parte opposta prende il sopravvento. Quest’azione l’aria la esercita infiltrandosi nei pori del ferro, fino ai più minuti, e sospingendolo come il vento fa con le navi a vela. La cosa non avviene solo per il ferro, perché tutti i corpi sono porosi, e tutti vengono sferzati dall’aria che li circonda da ogni direzione. Ma nel ferro vicino al magnete quest’azione dell’aria va ad aggiungersi a quella magnetica, e la rafforza.

L’attrazione magnetica (998-1041)

A volte il ferro, invece di essere attratto dal magnete, ne viene respinto. Io stesso ho visto che, se un magnete è posto sotto un bacile di bronzo, gli anelli di Samotracia o la limatura di ferro al suo interno saltellano qua e là, come se volessero fuggire lontano dalla calamita, invece che verso di essa. Sembra dunque che l’interposizione del bronzo tra il magnete e il ferro provochi una grave discordia. È come se il bronzo ostruisse i pori del fer-

La repulsione magnetica (1042-1064)

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Il macrocosmo A volte mi attrai, altre mi respingi I versi VI,1042-1064 notano correttamente che il magnetismo è sia attrattivo che repulsivo, come ci si poteva aspettare dall’equivalenza con l’elettricità. In entrambi i casi, poli magnetici o cariche elettriche di segno uguale si respingono, e di segno opposto si attraggono, in maniera proporzionale alla loro intensità. La gravitazione, invece, è puramente attrattiva: non esistono “masse negative”, e tutti i corpi si attraggono vicendevolmente in maniera proporzionale alle loro masse. Quanto alla forza nucleare forte, i quark up e down (pp. 30 e 116) possono avere due tipi di carica elettrica (2/3 o -1/3) e tre tipi di “colori” (rosso, verde, blu). Un protone è formato da tre quark di tre colori, due con carica positiva e uno negativa (totale 1). Un neutrone, invece, da due quark negativi e uno positivo (totale 0). La forza nucleare forte, che nei nucleoni è sempre attrattiva e costante, tiene insieme i tre quark in modo da contrastare la repulsione elettromagnetica che respinge quelli ugualmente carichi. Curiosità attaccaticce I versi VI,1068-1079 elencano una serie di curiosità sui legami fra le cose. Ad esempio, la colla di toro si faceva a Rodi, con il cuoio di toro. E, più in generale, con cartilagini, ossa e pelli di animali o pesci: ancor oggi la colla di pesce, ottenuta in origine in Russia dalla vescica natatoria dello storione, viene usata in cucina, soprattutto come addensante per i dolci. Ma ce ne sono anche di vegetali, come la colla di farina usata per incollare la carta, e la colla di acacia, chiamata anche “arabica” per la provenienza. Quanto al mescolamento dei liquidi, l’olio galleggia sul vino (e sull’aceto), e il vino sulla pece. Quest’ultima gocciola molto lentamente, come un singolare esperimento effettuato in Australia ha dimostrato: tra il 1930 e il 2000 sono infatti cadute, da un imbuto (sopra), soltanto otto gocce di pece liquida, ciascuna delle quali ha richiesto in media circa dieci anni per il lieto evento! Nel 2005 ai ricercatori coinvolti è stato attribuito il premio IgNobel per la fisica, che è una parodia del quasi omonimo premio Nobel.

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Libro VI. Meteorologia e geologia ro, e impedisse alla corrente magnetica di filtrarvi attraverso. Essa sbatte dunque contro il ferro, lo travolge e lo trascina via con sé, allontanandolo dal magnete. Ma non bisogna stupirsi che niente di tutto questo succeda con gli altri materiali. Alcuni, come l’oro, sono troppo pesanti per poter essere smossi in una direzione o nell’altra. Altri, come il legno, sono troppo porosi e la corrente li trapassa comunque, senza spostarli. Il ferro, invece, ha una natura intermedia che lo rende sensibile al magnete. Il legame tra magnete e ferro, benché strano, non è comunque l’unico caso di elementi capaci di legarsi soltanto fra loro. Le pietre, ad esempio, vengono tenute insieme solo dalla calce. Il legno si attacca talmente con la colla di toro, che è più facile per le assi creparsi lungo le vene, che non staccarsi nelle giunture. Il vino si mescola bene con l’acqua, ma non con l’olio o la pece. La porpora estratta dal murice si unisce alla lana in maniera indelebile, e non la possono lavar via le acque di tutti i mari. Non c’è modo di saldare l’oro, ma il bronzo si può saldare con lo stagno. Potrei continuare con molti altri esempi, ma di quanti hai veramente bisogno? È inutile che ti faccia tanti giri di parole: con il poco e il breve dovresti essere in grado di capire il molto. I corpi che meglio si uniscono sono quelli che hanno strutture complementari, così che i pieni degli uni combacino con i vuoti degli altri. A volte alcune cose riescono a tenersi unite fra loro come se fossero un gancio e un anello, e l’esempio migliore è proprio il modo in cui le calamite agganciano gli anelli di ferro.

Strani attrattori (1065-1089)

Da ultimo ti spiegherò quali sono le cause delle malattie infettive, e come possano sorgere delle epidemie letali per gli animali e gli uomini. Ti ho già detto che molte cose sono vitali per noi, e altre mortali. Quando queste ultime si radunano per caso, turbano l’ambiente e provocano infezioni. Esse possono piovere dal cielo, trasportate dalle nubi o dalle correnti, oppure spuntare dalla terra, per germinazione o putrefazione. Alcune infezioni sono endemiche, e determinate dalle condizioni climatiche e dalle abitudini alimentari dei vari paesi: lo dimostrano le malattie che colpiscono i viaggiatori, lontani dalla propria casa e dalla propria patria. Non ci sono forse differenze tra la Britannia e l’Egitto, lungo la direzione dell’asse terrestre? Così come tra il Ponto nell’Asia Minore e Cadice in Iberia, fino alle terre degli uomini dalla pelle bruciata, nell’altra direzione? In questi quattro luoghi tutto si oppone: il clima, i venti, i punti cardinali, ma anche il colore della pelle e le fattezze della faccia degli uomini. E si differenziano anche le malattie proprie del luogo. In Egitto, lungo

Malattie endemiche (1090-1118)

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Il macrocosmo Le ricette del dottor Lucrezio Nei versi VI,1090-1137 Lucrezio estende il suo riduzionismo atomistico al trattamento delle malattie, delle infezioni e delle epidemie: intuendo, in particolare, il ruolo delle condizioni ambientali e climatiche, da un lato, e dei contagi e delle nubi tossiche, dall’altro. Il nome elephas morbus, “elefantiasi”, usato ancor oggi, è una sua invenzione. La malattia è causata dalle larve di parassiti nematodi, veicolate dalle zanzare, e non è affatto confinata all’Egitto, come asserivano i versi VI,1114-1115. Ma certo colpiva anche quelle zone, come dimostra la statua del faraone Mentuhotep II, dell’XI dinastia, risalente a circa 4000 anni fa. La podagra è invece una forma di gotta che colpisce appunto i piedi, come indica il nome (da pous, podós, “piede”) e ricorda il verso VI,1116. Non è infettiva, ma è causata da una disfunzione del metabolismo associata a una dieta particolarmente ricca: per questo la gotta veniva associata al benessere, e chiamata “malattia dei ricchi”. L’edizione di Lucrezio curata dal medico Giovanni Nardi nel 1647 divulgò questa visione delle malattie in Italia, e contribuì a influenzare l’ambiente medico: in particolare, descrivendo la recente peste di Firenze del 1630 da un punto di vista epidemiologico. Gli effetti si videro immediatamente: ad esempio, già nel 1649 Giovanni Alfonso Borelli (maestro di Alessandro Marchetti) pubblicò uno studio Delle cagioni di febbri maligne della Sicilia negli anni 1647 e 1648, individuando le fonti del contagio in “lucreziani semi di pestilenza”. Un analogo influsso l’ebbe in Francia l’edizione curata da Pierre Gassendi nel 1649. E lo stesso avvenne in Inghilterra con la traduzione di John Evelyn del 1656, di cui fu pubblicato solo il primo libro: gli altri circolarono privatamente, ma fra le persone giuste. In particolare, tra i medici vicini al “circolo di Newcastle”, al quale apparteneva Thomas Hobbes. Il De rerum natura ebbe dunque un influsso non trascurabile sulla rivoluzione scientifica in medicina.

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Libro VI. Meteorologia e geologia tutto il Nilo, si trova l’elefantiasi degli arti. In Attica, la podagra assale i piedi. In Acaia, sono gli occhi ad ammalarsi. Ogni luogo è nocivo a membra o parti del corpo differenti, e la causa è il clima. A volte il cielo che sta su una regione dal clima a noi sfavorevole, si rannuvola. L’aria nociva si raccoglie e inizia a muoversi lentamente, sotto forma di nuvole o nebbie. Dovunque passa, infetta le cose e le costringe a mutare. E quando arriva da noi, contamina il nostro cielo e lo rende simile a sé. La nuova pestilenza (pestilitas) può scendere repentinamente sulle acque e depositarsi sulle messi, infettando i cibi degli uomini e i mangimi delle bestie. Oppure, può rimanere sospesa in aria, contagiandoci attraverso il respiro, e trasmettendosi anche alle mandrie di buoi e ai greggi di pecore. E non importa se siamo noi ad andarcela a cercare in luoghi lontani e malsani, o se è la Natura a consegnarci a domicilio una nuvola contaminata, contenente qualcosa a cui non siamo abituati e che ci attacca all’improvviso.

Epidemie (1119-1137)

Una di queste epidemie, una di queste alluvioni mortali, sparse una volta la morte nei campi della terra di Cecrope, primo re di Atene, svuotando le strade e spopolando la città. Arrivò da terre lontane, partendo dal profondo Egitto. Varcò vasti cieli e sorvolò campi ondeggianti. Alla fine piombò sull’intero popolo di Pandione, quinto re di Atene, e lo decimò con l’infezione e la morte.

La peste di Atene (1138-1144)

Agli appestati la testa incominciava a bruciare per la febbre. Poi gli occhi si annebbiavano e si arrossavano. Dalla lingua grondava il sangue, e la bocca se ne anneriva. La gola si occludeva per le piaghe, e la voce si affievoliva. Progredendo, il male invadeva il petto, arrivava al mesto cuore, e faceva vacillare le difese della vita. L’alito assumeva un odore atroce, come il puzzo dei cadaveri in putrefazione. Le forze e la volontà scemavano. Il corpo illanguidiva, ormai giunto alle soglie della morte. Al male intollerabile si aggiungeva un’ansia angosciosa, accompagnata da un pianto lamentoso. I singhiozzi continui, prolungati ininterrottamente per giorni e notti, provocavano spasmi estenuanti ai malati già spossati. La loro pelle risultava tiepida al tocco, benché dall’esterno il corpo apparisse come ustionato da un incendio. L’interno poi bruciava fino alle ossa, e nello stomaco ardeva una fiamma che scottava come quella delle fornaci. A dar refrigerio alle membra non poteva servire niente di delicato e leggero, ma solo un forte vento, freddo e continuo. Per calmare i bruciori qualcuno si gettava nell’acqua gelata dei fiumi. Altri si tuffavano a testa in giù

La morte nera (1145-1181)

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Il macrocosmo La peste letteraria

I versi VI,1138-1286 descrivono la peste di Atene del -430, e seguono da vicino la descrizione del testimone oculare Tucidide nella Guerra del Peloponneso (II,47-54): un vero e proprio capolavoro di osservazione fisiologica, psicologica e sociologica. L’epidemia arrivò dall’Africa, passò per il Medioriente e raggiunse infine la Grecia. Ad Atene trovò la città stremata da un anno di guerra e fece migliaia di vittime, la più illustre delle quali fu Pericle stesso. Eratostene racconta nel Platonico che durante la peste gli ateniesi consultarono l’oracolo di Apollo, e ricevettero la richiesta di raddoppiare il volume dell’altare cubico del tempio di Delo. Essi ne raddoppiarono ingenuamente il lato, ottuplicando così il volume, e la peste non si fermò. La soluzione corretta sarebbe stata di moltiplicare il lato per la radice cubica di 2, e Platone osservò che lo scopo di Apollo non era raddoppiare il suo altare, ma far vergognare i Greci di non conoscere la matematica. Alla descrizione di Lucrezio si ispirarono direttamente molti scrittori romani. Virgilio, nelle Georgiche (III,478-492), per un’immaginaria peste bovina del Norico, vicino all’odierno Tirolo. Ovidio, nelle Metamorfosi (VII,523-614), per una mitologica peste dell’isola greca di Egina, citata anche da Dante nell’Inferno (XXIX,58-66). E Tito Livio, nelle Storie (XXV,26), per la reale epidemia scoppiata tra le truppe romane durante l’assedio di Siracusa nel -212. Ma indirettamente il modello di Lucrezio continuò a essere ripreso anche in seguito. Da Giovanni Boccaccio nella cornice del Decameron, del 1353, per la peste di Firenze del 1348. Da Daniel Defoe nel Diario dell’anno della peste, del 1722, per la grande peste di Londra del 1665. Da Alessandro Manzoni nei Promessi sposi (XXXI-XXXII), del 1842, per la peste di Milano del 1630. E più recentemente da Albert Camus ne La peste, del 1947, per un’immaginaria epidemia a Orano, in Algeria.

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Libro VI. Meteorologia e geologia nei pozzi, a bocca aperta, per calmare l’insaziabile sete. Nessuna fonte forniva loro altro che poche gocce, in confronto al mare di cui abbisognavano. Il male non dava tregua ai malati, che giacevano esausti. I medici non ardivano parlare, e tacevano impotenti. E gli impazienti pazienti rimanevano con gli occhi stralunati e lo sguardo fisso, febbricitanti e insonni. Da molti altri sintomi, si intuiva che gli appestati sarebbero morti presto. Perdevano la testa. Erano perennemente ansiosi e corrucciati. Avevano lo sguardo allucinato. Sentivano continuamente ronzare le orecchie. Respiravano ansimando e a fatica. Grondavano sudore sul collo. Sputavano catarro giallastro. Faticavano a tossire. Dopo un po’, non riuscivano più a fermare le contrazioni delle mani e il tremore degli arti. Sentivano il freddo invaderli lentamente, a partire dai piedi. Vicini al momento estremo, le narici si chiudevano e la punta del naso si affilava. Gli occhi si infossavano. Le tempie si incavavano. La pelle si induriva e si raffreddava. Le mascelle cadevano. La fronte si gonfiava. In otto giorni, o al massimo nove, cessavano di vivere. E poco dopo, le loro membra si irrigidivano nel rigore della morte. Ma i pochi che sfuggivano al destino immediato, rimandavano soltanto la fine. Li aspettava infatti una morte più lenta per consunzione, con piaghe atroci e diarrea nera. O con feroci mal di testa e perdite ininterrotte di sangue dal naso, che si portavano via la materia e la forza del corpo. Chi poi sopravviveva anche alle tremende perdite di sangue, cedeva quando il male assaliva i nervi e i muscoli, fin dentro ai genitali. Alcuni si amputavano le membra o il membro, e altri ancora si cavavano gli occhi, per il timore di soccombere alla morte e la speranza di contenere il contagio. Altri perdevano completamente la memoria e la coscienza, fino al punto di non riconoscere neppure più sé stessi.

I morti viventi (1182-1214)

I cadaveri giacevano a terra senza sepoltura, ma gli uccelli e le bestie li rifuggivano per la puzza. E se solo si azzardavano a toccarli, venivano infettati e ne morivano in poco tempo. Ma in quei giorni gli uccelli non si posavano più a terra, e gli animali selvatici non uscivano più dai boschi. Il contagio aveva ormai raggiunto anche loro, e molti languivano agonizzanti. I cani fedeli giacevano per le strade, vicini ai propri padroni, e morivano come loro fra gli spasimi: la forza del morbo strappava infatti la vita dalle membra degli uni e degli altri. I funerali venivano officiati frettolosamente, e senza seguito. Non c’erano rimedi sicuri: ciò che a uno aveva permesso di continuare a respirare i soffi vitali e contemplare le volte celesti, a un altro risultava letale e ne causava la morte.

La città appestata (1215-1246)

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Il macrocosmo La peste scientifica Lucrezio non specifica la causa della peste di Atene, limitandosi a localizzare in Egitto la zona di provenienza del contagio. Effettivamente, già la prima epidemia bubbonica che si ricordi, databile al secolo -XI, descritta nel Primo Libro di Samuele e raffigurata nel 1630 da Nicolas Poussin in La peste di Azoth (riprodotta a p. 280, e modello dell’Incendio di Borgo citato a p. 262), aveva un’origine mediorientale. E già il racconto biblico la riconduceva a una vendetta divina, inaugurando una visione superstiziosa delle epidemie e delle catastrofi che non è ancora stata debellata. In realtà la peste è causata dal batterio Yersinia pestis, che è un parassita del ratto e di altri roditori, e prende il nome da Alexandre Yersin, che lo scoprì nel 1894. Il bacillo sopravvive nel tubo digerente della pulce del ratto (al centro), e vi si moltiplica (a sinistra). Si forma così un grumo di batteri, che impedisce alla pulce di ingerire il sangue che succhia dai ratti. Essa continua dunque a ingurgitare sangue e batteri, e alla fine il grumo è vomitato dentro un ratto che viene punto e infettato.

Il ciclo del contagio avviene dunque tra ratto e pulce. I bacilli sono presenti nei ratti in piccola quantità, non patogena. La pulce se ne satura fino a iniettarli in grande quantità, patogena, in un ratto che viene contagiato. Il passaggio all’uomo può avvenire con la puntura delle pulci, o il morso dei ratti. La forma bubbonica, caratterizzata appunto da bubboni, è un po’ meno grave e può anche non essere letale. Ma quella polmonare è quasi sempre mortale, e genera epidemie perché si trasmette per via aerea. Questo marchingegno diabolico ha finora ucciso qualcosa come 200 milioni di persone, nel corso di tre grandi pandemie. La prima tra il 542 e il 767, in tutto il mondo allora conosciuto. La seconda tra il 1330 e il 1779, partita dalle steppe asiatiche e arrivata in Europa sulle rotte commerciali. E la terza tra il 1855 e 1906, in Oriente. Oggi gli antibiotici e le condizioni igieniche limitano seriamente la malattia, che però non è stata completamente debellata.

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Libro VI. Meteorologia e geologia Quello che in quei momenti faceva più pena, e destava più compassione, era che la gente si sentisse condannata a morte. L’animo veniva sopraffatto e si accasciava senza speranza, nell’attesa dell’esecuzione. Si moriva nell’attesa del proprio funerale. L’attacco del morbo non si fermava, e allargava i confini delle sue conquiste a vista d’occhio: cadevano una dopo l’altra le pecore dei greggi, e uno dopo l’altro i buoi delle mandrie. I lutti si assommavano, e gli uomini temevano di visitare parenti e amici malati, per paura del contagio: così, quando toccava a loro, anch’essi morivano soli e senza aiuto. Se poi qualcuno rimaneva coraggiosamente al fianco di un ammalato, pagava per la sua generosità. Ascoltava i pianti e i lamenti altrui, fino a quando non incominciava ad aggiungervi i propri. I migliori morivano tutti in questo modo. Anche i pastori, gli allevatori e i contadini languivano. Giacevano stipati in capanne e tuguri. Erano condannati a morte dalla povertà, prima ancora che dalla malattia. A volte, i genitori cadevano sui corpi esanimi dei figli. Altre volte, erano i figli a esalare l’ultimo respiro sui cadaveri dei genitori. Al diffondersi dell’epidemia contribuì in non piccola parte l’esodo dei contadini, indeboliti e infetti, dalle campagne nelle città. Si ammassavano in folla dappertutto, da vivi. E poi finivano ammassati nei mucchi di cadaveri, da morti. Molti, abbattuti dalla sete e dal calore, giacevano vicino alle fonti e alle fontane, asfissiati per aver bevuto con troppa foga. Le strade e le piazze erano stracolme di contadini lerci, stracciati, scheletrici e sfiniti, già mezzi sepolti dalla sporcizia e dalle piaghe.

Le campagne contagiate (1252-1271)

I custodi dei templi avevano permesso ai fedeli di rifugiarvisi, ma non per questo la peste aveva risparmiato gli uni o gli altri. Le dimore degli dèi, ora, erano anch’esse piene di cadaveri. La religione stessa, non contava più molto. Il potere degli dèi era decaduto, schiacciato dal peso incombente del dolore immediato.

L’inutilità della religione (1272-1276)

Anche l’antica e sacra usanza di seppellire i morti, era caduta in disuso. L’ordine sociale era stato sconvolto, e ciascuno disponeva dei cadaveri dei propri cari come meglio poteva. La disgrazia e la miseria indussero gli ateniesi a molti orrori. Alcuni deposero urlando i propri parenti sulle pire preparate per altri, e appiccarono il fuoco accostandovi le torce. A volte scoppiarono risse violente e sanguinose, per non abbandonare i corpi a marcire all’aria. Così, prima di morire essi stessi, gli uomini gareggiavano per seppellire i

Cadaveri in fiamme (1277-1286, 1247-1251)

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Il macrocosmo Come on baby, light my fire Come ultima immagine degli effetti apocalittici della peste, Lucrezio propone l’accensione delle pire funerarie al posto della «antica e sacra usanza di seppellire i morti». In realtà, non c’è niente di disdicevole nella cremazione, che non solo rappresenta una valida alternativa alla sepoltura in molte civiltà orientali, ma viene ormai percepita anche in Occidente come una soluzione più civile, igienica e pratica delle tombe nei cimiteri. Ironicamente per Lucrezio, la sepoltura è stata una delle prime forme di religiosità adottate dall’uomo, poiché presuppone e/o incoraggia la credenza in una vita oltre la morte, se non addirittura in una resurrezione dei morti. Le prime tombe rinvenute risalgono a 100.000 anni fa, e sembra che nell’antichità siano state usate non soltanto dall’Homo Sapiens, ma anche dal Neanderthal. Dunque, più che un sintomo di civiltà, la sepoltura è il retaggio di un atteggiamento primordiale e magico nei confronti della morte. Un ulteriore passo nella direzione della preservazione del corpo, in vista di una vita nell’aldilà e/o di un ritorno nell’aldiquà, sono l’imbalsamazione e la mummificazione, adottate già nell’antico Egitto e in voga ancora oggi, per personaggi che vanno dai santi cattolici ai leader comunisti. Una versione più “moderna” è la criopreservazione: cioè, il congelamento, tipico dei romanzi di Philip Dick, nell’attesa e nella speranza di poter riprendere la vita in condizioni individuali o sociali migliori. In direzione contraria, la cremazione praticata in India, con l’eventuale dispersione delle ceneri nell’acqua o nell’aria, e la “sepoltura all’aria aperta” adottata in Tibet e dai Parsi, con l’offerta del cadavere in pasto agli avvoltoi (p. 224), suggeriscono invece la perdita di valore del corpo inanimato, che può essere reimmesso nel ciclo naturale della vita. L’ultimo grido in questa direzione è la cosiddetta promessione, che congela il corpo in azoto liquido e lo polverizza con vibrazioni meccaniche, evitando le emissioni tossiche della cremazione.

La chiusura del poema Non si sa se i versi VI,1277-1286, ai quali di solito vengono fatti seguire i versi VI,1247-1251, fossero la chiusura che Lucrezio intendeva dare all’opera, o se questa sia invece rimasta incompiuta. Da un lato, fa pensare alla compiutezza il fatto che il libro VI si chiuda con una visione catastrofica di Atene, così come s’era aperto con una sua celebrazione idilliaca: quasi a contrapporre la serenità della visione iniziale, derivata dall’atteggiamento epicureo, all’angoscia della visione finale, non mediata dalla saggezza filosofica. Dall’altro lato, fa pensare all’incompiutezza il fatto che Lucrezio avesse promesso, nei versi V,153-155: «Torneremo a lungo sul fatto che, poiché le loro dimore devono essere sottili come i loro corpi, gli dèi non possono risiedere nel nostro mondo, ma solo in un al di là». In realtà non ci tornò mai, nemmeno brevemente, ma forse pensava appunto a una chiusura sugli dèi e il loro ruolo, che bilanciasse in qualche modo l’Inno a Venere col quale si apre l’intera opera.

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Libro VI. Meteorologia e geologia propri morti gli uni sugli altri. Rientravano a casa sfiniti per le lacrime e i pianti. Si coricavano per la stanchezza e l’angoscia. Nessuno era stato risparmiato, e tutti erano stati colpiti: o direttamente dalla malattia, o indirettamente dal lutto.

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Ringraziamenti

Per l’ispirazione e il sostegno iniziale, ringrazio il compositore Nicola Piovani e il linguista Andrea Moro. Per i graditi suggerimenti, e i commenti sulle varie versioni del manoscritto, i latinisti Ivano Dionigi, Giuseppe Martocchia, Anna Vicari e Rita Zaino, il fisico Andrea Frova, i chimici Barbara Di Giacomo e Roald Hoffmann, il biologo Carlo Alberto Redi, la naturalista Elena Cussino e il medico Alfredo Pasin. E per l’ingrato e apprezzato lavoro editoriale, Lydia Salerno.

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Bibliografia lucreziana minima

Traduzioni Alessandro Marchetti, Della natura delle cose, a cura di Marco Saccenti, Mucchi Editore, 1992. Ugo Foscolo, Letture di Lucrezio, a cura di Franco Longoni, Guerini, 1990. Mario Rapisardi, La natura, Editrice Sandron, 1930. Luca Canali e Ivano Dionigi, La natura delle cose, Rizzoli, 1994. Renata Raccanelli e Carlo Santini, De rerum natura, Einaudi, 2003.

Commenti Lisa Piazzi, Lucrezio e i presocratici. Un commento a De rerum natura I,635-690, Edizioni della Normale di Pisa, 2005. Don Fowler, Lucretius on atomic motion. A commentary on De rerum natura II,1-332, Oxford University Press, 2002. Barbara Price Wallach, Lucretius and the diatribe against the fear of death. De rerum natura III,830-1094, Brill, 1976. Robert Brown, Lucretius on love and sex. A commentary on De rerum natura IV,1030-1287, Brill, 1987. Gordon Campbell, Lucretius on creation and evolution. A commentary on De rerum natura V,772-1104, Oxford University Press, 2003.

Saggi Marco Beretta e Francesco Citti (curatori), Lucrezio. La natura e la scienza, Leo Olschki, 2008. Ivano Dionigi, Lucrezio. Le parole e le cose, Patron Editore, 2005. Stephen Greenblatt, Il manoscritto. Come la riscoperta di un libro perduto cambiò la storia della cultura europea, Rizzoli, 2012. Lisa Piazzi, Lucrezio. Il De rerum natura e la cultura occidentale, Liguori Editore, 2009. Alieto Pieri, Non parlerò degli dèi. Il romanzo di Lucrezio, Le Lettere, 2003.

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Indice dei nomi

Adriano, 14 Aezione, 158 Agostino Aurelio, 116, 134 Akhenaton, 270 Alain de Lille, 62 Albani, Paolo, 7 Alessandro Magno, 190, 242 Alighieri, Dante, 16, 138, 244, 256, 270, 280 Allen, Woody (Allan Stewart Königsberg), 174 Alpher, Ralph, 204 Ampère, André-Marie, 274 Anassagora, 11, 55, 57 Anassimandro, 11, 217 Anassimene, 51 Anco Marzio, 141 Annibale Barca, 86, 133, 141, 232 Antonino Pio, 14 Apelle, 158 Archimede di Siracusa, 50, 192 Aristofane, 256 Aristotele, 42, 56, 74, 94, 128, 160, 170, 208, 224, 242 Arnobio di Sicca, 242 Aulo Gellio, 17 Axel, Richard, 166 Axelrod, Robert, 228

Babbage, Charles, 234 Bach, Johann Sebastian, 108 Baricco, Alessandro, 7 Bay, Michael, 194 Beccaria, Cesare, 228 Beethoven, Ludwig van, 250 Benedetto XVI (Joseph Ratzinger), 254 Benigni, Roberto, 9 Bentley, Richard, 48, 58,102 Berkeley, George, 160 Blake, William, 38 Blanchot, Maurice, 134

Blumenberg, Hans, 66 Boccaccio, Giovanni, 280 Bogart, Humphrey, 228 Bohm, David, 172 Boltzmann, Ludwig, 100 Bonaparte, Napoleone, 86, 204 Borel, Émile, 60 Borelli, Giovanni Alfonso, 172, 238, 278 Borges, Jorge Luis, 7, 62, 134 Botticelli, Sandro (Alessandro di Mariano di Vanni Filipepi), 18,19, 158, 214, 238 Boyle, Robert, 36 Bracciolini, Poggio, 18, 19, 214 Bragg, William Henry, 54 Bragg, William Lawrence, 54 Broglie, Louis-Victor, 172 Brown, Robert, 70 Bruno, Giordano, 58, 62, 100, 158, 194 Buck, Linda, 166 Bulwer-Lytton, Edward George, 192 Buñuel Portolés, Luis, 122 Buonamici, Francesco, 40 Buono, Luciano, 172

Calasso, Roberto, 7 Calderón de la Barca, Pedro, 176 Callimaco di Cirene, 267 Calvino, Italo, 20, 21, 120,174 Campanella, Tommaso, 66 Campbell, Bruce, 100 Camus, Albert, 280 Cantor, Georg, 48 Carducci, Giosue, 19 Carlo I, 236 Carroll, Lewis (Charles Lutwidge Dodgson), 34, 156, 232 Cartesio, Renato, 72, 160, 176, 238, 258 Cavendish, Henry, 50 Cecco d’Ascoli (Francesco Stabili), 16, 17

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Cecrope, re di Atene, 279 Cervantes Saavedra, Miguel de, 7 Cesare, Gaio Giulio Cesare, 190 Cesarini, Virgilio, 262 Cesi, Federico, 172 Chandrasekhar, Subrahmanyan, 50 Cherenkov, Pavel, 230 Chomsky, Avram Noam, 224 Christie, Agatha (Agatha Miller), 270 Chuang Tzu (Chuang Chou), 176 Cicerone (Marco Tullio Cicerone), 11, 14, 15, 17, 60, 108, 192, 254 Clemente VII, Giulio de’ Medici, 262 Clistene, 84 Coleridge, Samuel Taylor, 216 Collins, James, 172 Collodi, Carlo (Carlo Lorenzini), 146 Confucio, 222 Constable, John, 256 Copernico, Niccolò, 158 Cortés, Hernán, 232 Coulomb, Charles-Augustin de, 272, 274 Crisippo di Soli, 56, 242 Curie, Marie, nata Skłodowska, 272 Curie, Pierre, 272 Cusano, Nicola, 62, 100

Dionigi, Ivano, 34, 98 Disney Walt (Walter Elias Disney), 232 Dobzhansky, Theodosius, 220 Dostoevskij, Fëdor, 134 Dukas, Paul, 232 Dylan, Bob (Robert Allen Zimmerman), 160

Eccles, John, 94 Eco, Umberto, 9 Einstein, Albert, 22, 23, 58, 62, 70, 76, 92, 124, 164 Empedocle, 11, 38, 50, 51, 55, 62, 88, 130, 224 Engels, Friedrich, 226, 238 Ennio (Quinto Ennio), 33, 60, 108, 224 Epicuro, 11, 13, 19, 21, 23, 31, 32, 33, 34, 36, 40, 60, 76, 84, 102, 109, 119, 138, 140, 141, 190, 191, 193, 196, 208, 226, 234, 242, 243 Eraclito, 11, 48, 49, 51, 55, 116, 160 Eratostene, 280 Erodoto, 270 Escher, Maurits Cornelis, 62, 174 Esiodo, 198, 222 Esopo, 124 Euclide, 52 Eurico, 228 Euripide, 202 Evelyn, John, 278 Ewing, Ann, 50

Dalton, John, 36 D’Annunzio, Gabriele, 250 Da Ponte, Lorenzo, 180 Darwin, Charles, 40, 94, 170, 196, 216, 218, 228, 238 Darwin, Erasmus, 216 Debye, Peter, 164 De Crescenzo, Luciano, 7 Defoe, Daniel, 280 Della Bella, Paolo, 7 Demetrio Lacone, 52 Democrito di Abdera, 11, 36, 38, 40, 68, 118, 119, 141, 210, 211, 226 Dick, Philip Kindred, 284 Diderot, Denis, 18, 19, 156, 168, 238 Diels, Hermann, 23 Dionigi II il Giovane, 242

Fano, Gino, 52 Faraday, Michael, 274 Fatio de Duillier, Nicolas, 44 Fechner, Gustav, 166 Federico I di Hohenzollern, 108 Fellini, Federico, 174 Feynman, Richard, 44, 70 Filippo il Macedone, 190 Flammarion, Camille, 58 Flaubert, Gustave, 14, 15 Foscolo, Ugo, 8, 9, 78 Frampton, Saul, 142 France, Anatole (Jacques François-Anato-

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le Thibault), 196 Frazer, James, 160 Fridman, Aleksandr, 194

Jacquard, Joseph Marie, 234 Jovanotti (Lorenzo Cherubini), 228 Jung, Carl Gustav, 94, 116

Galeno di Pergamo, 90 Galilei, Galileo, 15, 34, 40, 42, 72, 74, 88, 90, 158, 172, 252, 262, 266 Gassendi, Pierre, 8, 42, 278 Gauss, Carl Friedrich, 274 Gesù Cristo, 15, 19, 90, 134, 226 Giorgione (Giorgio da Castelfranco), 236, 238 Giovanni XXIII, Baldassarre Cossa, 19 Giovanni Paolo II (Karol Wojtyła), 190 Girolamo, Sofronio Eusebio, 184 Giustiniano, 228 Glass, Philip, 268 Goethe, Johann Wolfgang von, 232, 256 Golubitsky, Martin, 172 Gorgia di Lentini, 224 Grassi, Orazio, 90 Greenblatt, Stephen, 18 Guglielmini, Giovanni Battista, 74 Guido d’Arezzo, 88

Kant, Immanuel, 15, 102, 124, 160, 204 Keplero, Giovanni, 11, 210 Kipling, Joseph Rudyard, 222

Halley, Edmund, 102, 140, 206 Hammurabi, 228 Harrison, George, 210 Helmholtz, Hermann L. von, 194 Herman, Robert, 204 Hilbert, David, 52 Hindemith, Paul, 11 Hobbes, Thomas, 222, 278 Hooke, Robert, 148 Howard, Luke, 256 Hoyle, Fred, 102 Hubble, Edwin, 100 Hume, David, 160 Huxley, Aldous, 166 Ipparco di Nicea, 206, 252 Ippia, 84 Isabella d’Este Gonzaga, 236

Lagrenée, Louis-Jean-François, 168 Lamarck, Jean-Baptiste (Jean-Baptiste Pierre Antoine de Monet cavaliere di Lamarck), 170, 218 Lambin Denis (Dionysius Lambinus), 72 Laplace, Pierre-Simon de, 50, 204 Lattanzio, 242 Lavoisier, Antoine-Laurent de, 38, 238 Lee, Tsung-Dao, 156 Leibniz, Gottfried Wilhelm von, 56, 94, 118, 160, 170, 196 Lennon, John, 174 Leopardi, Giacomo, 18, 19, 196 Le Sage, Georges-Louis, 44 Leucippo, 36 Levi, Primo, 5, 54 Libet, Benjamin, 114 Lilly, John, 122 Livio (Tito Livio), 280 Locke, John, 160, 224 Lomonosov, Michail, 38, 230 Lovelock, James, 198 Lucas, H., 268 Luciano di Samosata, 158 Luigi XIV, 236 Lumière, Auguste, 168 Lumière, Louis, 168 Lyell, Charles, 40 MacDougall, Duncan, 114 Mach, Ernst, 58 Malthus, Thomas, 218 Manet, Édouard, 236 Manganelli, Giorgio, 9 Manzoni, Alessandro, 280

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Maometto, 122, 192 Marchetti, Alessandro, 8, 9, 19, 28, 50, 278 Marchetto da Padova, 88 Marco Aurelio, 14, 15 Marx, Karl, 226, 230, 238 Mather, John, 204 Maxwell, Clerk James, 22, 23, 68, 80, 238, 274 Mayr, Ernst, 220 Mendel, Gregor, 182, 218 Mendeleev, Dmitrij, 82 Mentuhotep II, 278 Merleau-Ponty, Maurice, 118 Michell, John, 50 Molière (Jean-Baptiste Poquelin), 18, 19, 180 Monet, Claude, 250 Monod, Jacques, 76 Montaigne, Michel de, 18, 19, 136, 142, 238 Monti, Teresa, nata Pichler, 8 Monti, Vincenzo, 7, 8 Moseley, Henry, 82 Mozart, Wolfgang Amadeus, 180 Munro, Hugh, 23, 68 Muybridge, Eadweard, 172

Parmenide, 11, 160, 200, 244 Pascal, Blaise, 66, 148 Pasteur, Louis, 128 Patin, Henri, 21 Penzias, Arno, 204 Pericle, 280 Petrarca, Francesco, 19, 238 Piaget, Jean, 224 Piazzi, Lisa, 18 Piero della Francesca, 158 Pindaro, 202 Pio, Giovanni Battista, 72 Pio da Pietrelcina (Francesco Forgione), 190 Pirro, 232, 233 Pisistrato, 84 Pitagora, 94, 130 Planck, Max, 52 Platone, 36, 94, 130, 134, 146, 160, 176, 202, 224, 242, 280 Plauto (Tito Maccio Plauto), 222 Plinio (Gaio Plinio Secondo), 268 Plutarco, 60 Poincaré, Jules Henri, 100 Polieno, 52 Polignac, Melchior de, 21 Polignoto di Taso, 127 Poussin, Nicolas, 282 Proclo di Costantinopoli, 52 Putnam, Hilary, 176

Nardi, Giovanni, 42, 278 Nerva (Marco Cocceio Nerva), 14 Newton, Isaac, 21, 38, 44, 46, 48, 58, 60, 72, 80, 84, 92, 102, 140, 152, 164, 206, 230, 258, 272 Nicola d’Oresme, 158 Nietzsche, Friedrich, 66, 134

Queneau, Raymond, 20, 21

Oldenburg, Henry, 92 Omero, 8, 35, 112, 127, 141, 190, 244, 258 Orazio (Quinto Orazio Flacco), 66, 142, 180, 258 Ovidio (Publio Ovidio Nasone), 16, 17, 40, 66, 126, 146, 180, 260, 280

Raffaello (Sanzio, Raffaello), 262 Redi, Francesco, 128 Reggio, Godfrey, 268 Ricci, Michelangelo, 42 Roger des Genettes, Edma, 15 Rosch, Eleanor, 118 Rousseau, Jean-Jacques, 38, 222 Russell, Bertrand, 20, 21, 56 Rutherford, Ernest, 46

Pacuvio (Marco Pacuvio), 134 Pandione, re di Atene, 279 Paolo di Tarso, 122, 192

294

Salvatores, Gabriele, 176 Schrödinger, Erwin, 94, 203, 208 Schwarzschild, Karl, 50 Schwob, Marcel, 184 Scipione l’Africano (Publio Cornelio Scipione), 141 Scott, David, 74 Seneca (Lucio Anneo Seneca), 14, 132, 134, 244, 260 Senofane, 51 Senofonte, 146 Sermonti, Vittorio, 9 Serse, 141 Seurat, Georges, 76 Shakespeare, William, 228, 256 Smoot, George, 204 Socrate, 256 Il Sodoma (Bazzi, Giovanni Antonio), 158 Spencer, Herbert, 218 Spinoza, Baruch, 21, 94, 160 Stevenson, Robert, 146 Stevin, Simon, 74 Stewart, Ian, 172 Strabone, 260 Swedenborg, Emanuel (Emanuel Swedberg), 204

Talete, 51, 94, 208, 272 Tasso, Torquato, 146 Tennyson, Alfred, 236 Teodorico di Freiberg, 258 Teresa di Calcutta (Agnese Gonxha di Bojaxhiu), 190 Thompson, Evan, 118 Tiziano (Vecellio, Tiziano), 236, 238 Tolomeo (Claudio Tolomeo), 206 Tommaso d’Aquino, 222 Torricelli, Evangelista, 42, 238 Traiano (Marco Ulpio Traiano), 14 Truffaut, François, 150, 174 Tucidide, 202, 280 Tucker, Albert, 222 Turner, Joseph, 250

Ugolino da Orvieto, 88 Urbano VIII (Maffeo Vincenzo Barberini), 262

Varela García, Francisco Javier, 118 Vaucanson, Jacques de, 234 Vavilov, Sergej, 230 Virgilio (Publio Virgilio Marone), 16, 17, 142, 146, 158, 196, 248, 254, 262, 280 Vittorio Emanuele I di Savoia, 86 Vitry, Philippe de, 88 Vogt, Carl, 94 Voltaire (Marie -François Arouet), 20, 21, 32, 38, 102, 108, 156, 170, 196

Wachowski, Andy, 176 Wachowski, Larry-Lana, 176 Walker, Gordon, 100 Whitehead, Alfred North, 94 Wickramasinghe, Chandra, 102 Wilkins, John, 56 Wilson, Robert, 204 Wittgenstein, Ludwig, 20, 21, 56

Yang, Chen Ning, 156 Yersin, Alexandre, 282 Yourcenar, Marguerite (Marguerite Cleenewerck de Crayencour), 14

Zenone Sidonio, 52 Zimmer, Heinrich, 36 Zola, Émile, 126 Zuse, Konrad, 168

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Indice delle opere (letterarie, musicali, pittoriche e cinematografiche)

L’Abbondanza relativa degli elementi, Ralph Alpher e Robert Herman, 204 L’Acerba, Cecco d’Ascoli, 16, 17 Alessandro che impugna una folgore, Apelle, 158 All things must pass, George Harrison, 210 Almagesto, Tolomeo, 206 Amleto, William Shakespeare, 58, 174, 256 Amori, Ovidio, 17 Analecta, Confucio, 222 Andromaca prigioniera, Ennio, 108 Annali, Ennio, 33, 224 Anti-Lucrezio, cioè Dio e la Natura, Melchior de Polignac, 21 Antologia personale. La ricerca delle radici, Primo Levi, 54 Antonio e Cleopatra, William Shakespeare, 256 Apocalisse, 194 Aporie, Polieno, 52 Apoteosi di Washington, Constantino Brumidi, 190 L’Apprendista stregone, Wolfgang Goethe, 232 L’Ardore, Roberto Calasso, 7 Armageddon, Michael Bay, 194 L’Arte di amare, Ovidio, 180 L’Arte poetica, Orazio, 258 A te, Jovanotti, 228 Atlante Farnese, 206 Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, Lewis Carroll, 156, 232 Autobiografia, Charles Darwin, 196, 218 La Biblioteca di Babele, Jorge Luis Borges, 62 Blowin’ in the wind, Bob Dylan, 162 Breve resoconto di osservazioni al microscopio fatte sulle particelle contenute nel polline delle piante, Robert Brown, 70 Buchi neri nello spazio, Ann Ewing, 50 Candide, Voltaire, 170, 196 Il Carattere delle leggi fisiche, Richard Feynman, 44 Il Caso e la necessità, Jacques Monod, 76 Le Catilinarie, Cicerone, 254 La Cena de le Ceneri, Giordano Bruno, 158 Il Chimico scettico, Robert Boyle, 36

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Chuang Tzu, Chuang Tzu, 176 Codice di Eurico, 228 Codice di Giustiniano, 228 Codice di Hammurabi, 228 La Colazione sull’erba, Édouard Manet, 236 Commento, Proclo, 52 Concerto campestre, Giorgione o Tiziano, 236, 238 Confessioni, Agostino, 116 Confronto tra la Libra e il Saggiatore, Orazio Grassi, 90 Il Contratto sociale, Jean-Jacques Rousseau, 222 Così fan tutte, Lorenzo da Ponte e Wolfgang Amadeus Mozart, 180 Le Cosmicomiche, Italo Calvino, 20, 21, 120 Cratilo, Platone, 224 Critica della ragion pura, Immanuel Kant, 15, 124, 160 Decameron, Giovanni Boccaccio, 280 Gli Dei hanno sete, Anatole France, 196 De iride, Teodorico di Freiberg, 258 De la causa, principio et uno, Giordano Bruno, 62 Il Delfino morente, Louis-Jean-François Lagrenée, 168 De l’infinito universo et mondi, Giordano Bruno, 58, 100 Della natura delle cose di Lucrezio, Alessandro Marchetti, a cura di Mario Saccenti, 8 Delle cagioni di febbri maligne della Sicilia negli anni 1647 e 1648, Giovanni Alfonso Borelli, 278 De motu, Francesco Buonamici, 40 De motu, Galileo Galilei, 40 De rerum natura, Tito Lucrezio Caro, 11 Detti memorabili di Socrate, Senofonte, 146 Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, Galileo Galilei, 15, 34, 74, 158 Diario dell’anno della peste, Daniel Defoe, 280 Die Harmonie der Welt, Paul Hindemith, 11 Difesa della vera religione, Arnobio, 242 Differenza tra la filosofia naturale di Democrito e quella di Epicuro, Karl Marx, 226 Diottrica, Cartesio, 258 Discorsi e dimostrazioni matematiche sopra due nuove scienze, Galileo Galilei, 42, 252 Discorso sull’acqua, Galileo Galilei, 40 Discorso sulla disuguaglianza, Jean-Jacques Rousseau, 222 Discorso sul metodo, Cartesio, 176 Dissertazione sull’arte combinatoria, Gottfried Leibniz, 56 Divina Commedia, Dante Alighieri, 7, 16, 32, 138, 162, 202, 244, 256, 280 Divine istituzioni, Lattanzio, 242 Dizionario filosofico, Voltaire, 21 Don Chisciotte, Miguel de Cervantes, 7, 174 Don Giovanni, Lorenzo da Ponte e Wolfgang Amadeus Mozart, 180 La Dotta ignoranza, Nicola Cusano, 62, 100 La Dottrina dei cicli, Jorge Luis Borges, 134

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Ecclesiaste, 142 Edipo re, 201 Effetto notte, François Truffaut, 150, 174 Egloghe (VI), Virgilio, 146 Elementi, Euclide, 52 Emilio, Jean-Jacques Rousseau, 222 Eneide, Virgilio, 86, 132, 158, 248, 254, 262 Epilogo Magno, Tommaso Campanella, 66 Esperienze sulla generazione degli insetti, Francesco Redi, 128 Esposizione del sistema del mondo, Pierre-Simon de Laplace, 50 Il Falcone maltese, John Huston, 228 Fantasia, Walt Disney, 232 Fasti, Ovidio, 146 Fetonte, Euripide, 202 Filosofia dell’atomismo logico, Bertrand Russell, 56 Filosofia zoologica, Jean-Baptiste Lamarck, 170 Filosofie dell’India, Heinrich Zimmer, 36 Fisica, Aristotele, 74, 208 Fondamenti della geometria, David Hilbert, 52 La Forma delle nubi secondo Howard, Wolfgang Goethe, 256 La Gaia scienza, Friedrich Nietzsche, 66, 134 Gaia: un nuovo sguardo alla vita sulla Terra, James Lovelock, 198 Galleria di stampe, Maurits Cornelis Escher, 174 Il Gatto di Montaigne, Saul Frampton, 142 Genesi, 100, 202, 204 La Genetica e l’origine delle specie, Theodosius Dobzhansky, 220 Georgiche, Virgilio, 196, 280 Gerusalemme liberata, Torquato Tasso, 13, 146 Giardino botanico, Erasmus Darwin, 216 Gilgamesh, 202 La Ginestra, Giacomo Leopardi, 196 La Guerra del Peloponneso, Tucidide, 202, 280 Harmonices mundi, Keplero, 11 Iliade, Omero, 7, 13, 112, 128, 174, 201, 244 Incendio di Borgo, Raffaello Sanzio, 262, 282 Inno a Venere, Arnobio, 242 Interpretazione, Aristotele, 56 Un’Interpretazione della meccanica quantistica in termini di “variabili nascoste”, David Bohm, 172 Ipotesi per la spiegazione delle proprietà della luce, Isaac Newton, 164 L’Istante della mia morte, Maurice Blanchot, 134

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Ka, Roberto Calasso, 7 Laocoonte, William Blake, 38 Le Leggi, Platone, 59, 146, 147 Lettera agli Ebrei, 192 Lettera sulla felicità, Epicuro, 109, 119, 190 Lettere, Samuel Coleridge, 216 Lettere, Seneca, 132, 134, 244 Lettere dal Ponto, Ovidio, 40 Letture di Lucrezio, Ugo Foscolo, a cura di Franco Longoni, 8 Il Leviatano, Thomas Hobbes, 222 Lezioni americane, Italo Calvino, 23, 120 Lezioni circa la figura, sito e grandezza dell’Inferno di Dante, Galileo Galilei, 266 Libro di Samuele (I), 282 Limite del cerchio III, Maurits Cornelis Escher, 62 Linguaggio e apprendimento, Jean Piaget, 224 Lucrezio, Lisa Piazzi, 18 Lucrezio, Alfred Tennyson, 236 Lucrezio. Le parole e le cose, Ivano Dionigi, 34, 98 Lucrezio newtoniano, Georges-Louis Le Sage, 44 Mahabharata, 174 Manifesto del Partito Comunista, Karl Marx e Friedrich Engels, 226 Il Manoscritto, Stephen Greenblatt, 18 Mary Poppins, Robert Stevenson, 146 Matrix, Andy e Larry Wachowski, 176 La Meccanica nel suo sviluppo storico-critico, Ernst Mach, 58 Memorie della casa dei morti, Fëdor Dostoevskij, 134 Memorie di Adriano, Marguerite Yourcenar, 14 La Mente incarnata, Francisco Varela, Evan Thompson ed Eleanor Rosch, 118 Metafisica, Aristotele, 160 Le Metamorfosi, Ovidio, 66, 126, 260, 280 Meteorologia, Aristotele, 208 Micrographia, Robert Hooke, 148 Mirabiblia. Catalogo ragionato dei libri introvabili, Paolo Albani e Paolo della Bella, 7 Il Misantropo, Molière, 180 Monadologia, Gottfried Leibniz, 118 Nascita di Venere, Sandro Botticelli, 18, 158 Natura degli dèi, Cicerone, 60, 192 La Natura e i Greci, Erwin Schrödinger, 208 Naufragio con spettatore, Hans Blumenberg, 66 Newton, William Blake, 38 Nirvana, Gabriele Salvatores, 176 Nobili nuvole ed effetti di luce, John Constable, 256

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Notti Attiche, Aulo Gellio, 17 Nozze di Alessandro e Rossana, Aezione, 158 Nozze di Alessandro e Rossana, Giovanni Antonio Bazzi, detto il Sodoma, 158 Le Nozze di Figaro, Lorenzo da Ponte e Wolfgang Amadeus Mozart, 180 Le Nozze di Cadmo e Armonia, Roberto Calasso, 7 Una Nuova teoria della luce e dei colori, Isaac Newton, 164 Un Nuovo sistema di filosofia chimica, John Dalton, 36 Le Nuvole, Aristofane, 256 Ode olimpica, Pindaro, 202 Odissea, Omero, 13, 126, 127, 244, 248 Offerta musicale, Johann Sebastian Bach, 108 Opere complete, Federico il Grande di Prussia, 108 Le Opere e i giorni, Esiodo, 222 Oracoli della Pizia, Plutarco, 60 Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Friedrich Engels, 226 L’Origine delle specie, Charles Darwin, 40, 170, 216 Origine dell’uomo, Charles Darwin, 216, 228 Orlando Furioso, Ludovico Ariosto, 13 Ottica, Isaac Newton, 46, 92, 152, 258 8 1/2, Federico Fellini, 174 Le Parti degli animali, Aristotele, 170 Pensieri, Blaise Pascal, 66, 148 Pensieri filosofici, Denis Diderot, 156 Pensieri sull’interpretazione della natura, Denis Diderot, 156 La Peste, Albert Camus, 280 La Peste di Azoth, Nicolas Poussin, 282 Piccola cosmogonia portatile, Raymond Queneau, 20, 21 Pinocchio, Carlo Collodi, 146 Pinocchio: un libro parallelo, Giorgio Manganelli, 9 La Pioggia nel pineto, Gabriele d’Annunzio, 250 Platonico, Eratostene, 280 Le Porte della percezione, Aldous Huxley, 166 Povero Pinocchio, Umberto Eco, 9 Powaqqatsi, Godfrey Reggio e Philip Glass, 268 La Primavera, Sandro Botticelli, 18, 214, 238 Principia, Isaac Newton, 58, 72, 84, 102 Principi di filosofia, Cartesio, 72 Principi di geologia, Charles Lyell, 40 Principi matematici, Isaac Newton, 140, 206 Principi primi delle cose naturali, Emanuel Swedenborg, 204 Principio di biologia, Herbert Spencer, 218 I Promessi sposi, Alessandro Manzoni, 280 Punto, linea, superficie, Vasilij Kandinskij, 34

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La Repubblica, Platone, 160 Una Rete modulare per la locomozione a gambe, Martin Golubitsky, Ian Stewart, James Collins e Luciano Buono, 172 Richelieu, o della cospirazione, Edward Bulwer-Lytton, 192 Rimedi contro l’amore, Ovidio, 180 Saggi, Michel de Montaigne, 136, 142, 238 Il Saggiatore, Galileo Galilei, 42, 90, 262 Saggio sugli ibridi vegetali, Gregor Mendel, 182, 218 Saggio sull’intelletto umano, John Locke, 224 Saggio sull’origine delle forze morte, Georges-Louis Le Sage, 44 Saggio sul principio della popolazione, Thomas Malthus, 218 Saggio verso un vero carattere e un linguaggio filosofico, John Wilkins, 56 Salons, Denis Diderot, 168 Satire, Orazio, 180 Sei personaggi in cerca d’autore, Pirandello, 174 Sentenze capitali, Epicuro, 60 Se una notte d’inverno un viaggiatore, Italo Calvino, 174 La Sfera di Pascal, Jorge Luis Borges, 62 Sfottete, sfottete, William Blake, 38 Simon del deserto, Luis Buñuel, 122 Sinfonia pastorale, Ludwig van Beethoven, 205 Il Sistema del mondo, Pierre-Simon de Laplace, 204 La Sistematica e l’origine delle specie, Ernst Mayr, 220 Il Sogno di D’Alembert, Denis Diderot, 238 Stardust memories, Woody Allen, 174 «Sta scherzando, Mr. Feynman!», Richard Feynman, 122 Storia di Ahiqar, 192 Storia naturale, Plinio, 268 Storia universale della Natura e teoria del cielo, Immanuel Kant, 102 Storie, Erodoto, 270 Storie, Tito Livio, 280 Sugli elementi secondo Ippocrate, Galeno, 90 Sui processi irreversibili di irradiazione, Max Planck, 52 Sulla geometria, Demetrio Lacone, 52 Sulla natura delle cose, William Henry Bragg, 54 Sulla natura, Parmenide, 200, 244 Sulla prospettiva del dipingere, Piero della Francesca, 158 Sull’anima, Aristotele, 42, 224 Sulla verità, Tommaso d’Aquino, 222 Sulle rivoluzioni degli orbi celesti, Niccolò Copernico, 158 Sull’innumerabile, immenso e inimmaginabile, Giordano Bruno, 194 Sul movimento delle particelle sospese in un liquido stazionario, Albert Einstein, 70 Sul recente esperimento circa lo spazio vuoto, Pierre Gassendi, 42

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Storia degli animali, Aristotele, 128 Storia della filosofia occidentale, Bertrand Russell, 21 Storia della teoria cinetica dei gas, Clerk James Maxwell, 68 La Somma teologica, Tommaso d’Aquino, 222 Superstizione e scienza, Carl Vogt, 94 Teeteto, Platone, 36, 176 La Tempesta, William Shakespeare, 228 Teodicea, Gottfried Leibniz, 196 Teogonia, Esiodo, 198 Una Teoria dinamica del campo elettromagnetico, Clerk James Maxwell, 68 Ti con zero, Italo Calvino, 21 Timeo, Platone, 202 Tipi psicologici, Carl Gustav Jung, 116 Trattato del cielo e del mondo, Nicola d’Oresme, 158 Trattato elementare di chimica, Antoine-Laurent de Lavoisier, 38 Trattato logico-filosofico, Ludwig Wittgenstein, 20, 21, 56 Le Tuscolane, Cicerone, 108 Upanishad, 110 Il Vampiro del Sussex, Arthur Conan Doyle, 206 Vangelo secondo Giovanni, 112, 118 Vangelo secondo Luca, 116, 226 Vi presento Pamela, François Truffaut, 150 La Vita è sogno, Pedro Calderón de la Barca, 176 Vite immaginarie, Marcel Schwob, 184 21 grammi, Alejandro Iñárritu, 114 Zoonomia, Erasmus Darwin, 216

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Apparato iconografico

p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p.

8: Ritratto di Ugo Foscolo di François-Xavier Fabre, Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, © 2013. Foto Scala, Firenze - su concessione Ministero Beni e Attività Culturali 14: Marguerite Yourcenar, © Patrick AVENTURIER/GAMMA/Getty Images 18: Adorazione dei Magi di Sandro Botticelli dettaglio (autoritratto), Firenze, Galleria degli Uffizi, © 2013. Foto Scala, Firenze - su concessione Ministero Beni e Attività Culturali 18: Ritratto di Niccolò Machiavelli di Santi di Tito, Firenze, Palazzo Vecchio, © 2013. Foto Scala, Firenze 18: Ritratto di Michel de Montaigne di autore anonimo della Scuola Francese, Versailles, Musée du Château, © 2013. White Images/Scala, Firenze 18: Ritratto di Molière di Pierre Mignard, Chantilly, Musée Condé, © 2013. White Images/ Scala, Firenze 18: Ritratto di Denis Diderot di Charles-André van Loo, Parigi, Musée du Louvre, © 2013. Foto Scala, Firenze 18: Ritratto di Giacomo Leopardi di A. Ferrazzi, dettaglio, Recanati, Casa Leopardi, © 2013. White Images/Scala, Firenze 20: Ritratto di Voltaire di Maurice Quentin de La Tour, Versailles, Musée du Château, © 2013. White Images/Scala, Firenze 20: Bertrand Russell, © Keystone/Getty Images 20: Ludwig Wittgenstein, © Mondadori Portfolio/LEEMAGE 20: Italo Calvino, © Photo by Ulf Andersen/Getty Images 22: James Clerk Maxwell, © 2013. White Images/Scala, Firenze 29: Nascita di Venere di Sandro Botticelli, Firenze, Galleria degli Uffizi 32: Hipotesis Geocentrica - Armonia Macrocosmica, Barcellona, Biblioteca de Cataluña © Album/Oronoz/Mondadori Portfolio 32: Ritratto di Epicuro, Roma, Musei Capitolini, © 2013. Foto Scala, Firenze - su concessione della Sovraintendenza di Roma Capitale 34: Composizione VIII di Vassily Kandinsky, New York, Solomon R. Guggenheim Museum 36: Peshaixar di Alighiero Boetti, Londra, collezione privata, © 2013. Christies› Images, London/Scala, Firenze 38: In alto: Newton di Wiliam Blake, Londra, Tate Gallery, © Album/Prisma/Mondadori Portfolio 38: In basso: Ritratto di Lavoisier con sua moglie di Jacques-Louis David, New York The Metropolitan Museum of Art 40: A sinistra: raggio di sole nell’Antelope Canyon, © Shutterstock 40: A destra: veduta del Grand Canyon dal South Rim, © Shutterstock 42: L’esperimento di Torricelli, © SSPL/Getty Images 48: In alto: Ritratto di Isaac Newton, Parigi, Académie des Sciences, © 2013. White Images/ Scala, Firenze 48: In basso: Eraclito di Hendrick ter Brugghen, Amsterdam, Rijksmuseum, © akg-images/ Mondadori Portfolio 50: In alto: stella e buco nero © Mark Garlick/Science Photo Library/Corbis

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p. 50: In basso: Archimede di Domenico Feti, Dresda, Gemaeldegalerie Alte Meister, Staatliche Kunstsammlungen, © 2013. Foto Scala, Firenze/BPK p. 60: Immagine di scimmia alla macchina da scrivere, © Shutterstock p. 62: M.C. Escher’s “Circle Limit III”, © 2013 The M.C. Escher Company-The Netherlands. All rights reserved. www.mcescher.com p. 66: Zattera della Medusa di Théodore Géricault, Parigi, Musée du Louvre, © 2013. Foto Scala, Firenze p. 68: Statua di James Clerk Maxwell, Edimburgo p. 70: Pulviscolo atmosferico, © Getty Images p. 74: Torre di Pisa, © Shutterstock p. 76: Troupeau de moutons, Éragny-sur-Epte, 1888, Camille Pissarro, collezione privata p. 78: Mucca e vitello sul prato, © Shutterstock p. 84: Psicostasia tratta dal Libro dei morti © 2013. Foto The Print Collector/Heritage-Images/ Scala, Firenze p. 86: A sinistra: statuetta della Grande Madre, © Ali Meyer/The Bridgeman Art Library p. 86: A destra: statua di Cibele, Copenhagen, Ny Carlsberg Gyptotek, © Album/Prisma/ Mondadori Portfolio p. 90: In alto: Il Tribunale dell’inquisizione di Francisco Goya, Madrid Real Academia de San Fernando p. 90: In basso: Galileo davanti all’Inquisizione di Cristiano Banti, collezione privata, © 2013. DeAgostini Picture Library/Scala, Firenze p. 92: Prisma attraversato dalla luce, © Shutterstock p. 94: Foto tratta dal film di Woody Allen, Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso (ma non avete mai osato chiedere) © The Kobal Collection/Mondadori Portfolio p. 98: A sinistra: Giove di Smirne, Parigi, Musée du Louvre p. 98: A destra: Creazione di Adamo di Michelangelo, dettaglio, Vaticano, Musei Vaticani, Cappella Sistina p. 100: In alto: Galassia, © STScI/NASA/Corbis p. 100: In basso: Galassia, © Robert Gendler/Visuals Unlimited, Inc. p. 110: Pneumatici, © Shutterstock p. 112: Anfora greca in terracotta, Copenhagen, National Museum, © Getty Images p. 114: Locandina del film 21 Grammi di Alejandro González Iñárritu, © Focus Films Inc./Album/ Mondadori Portfolio p. 116: Sigillo ufficiale degli Stati Uniti, © Shutterstock p. 118: Sistema nervoso, © Shutterstock p. 120: A destra: conchiglie sulla spiaggia di Dzharylgach Island, © Getty Images p. 120: A sinistra: ragnatela, © Shutterstock p. 122: Mandala di sabbia dei navajo americani, © Getty Images p. 124: In alto: foto simbolica dell’Alzheimer, © Shutterstock p. 124: In basso: Il cieco e il paralitico di Jean Tucan, Arles p. 126: In alto: Ulisse e Tiresia, Roma, Villa Albani p. 126: In basso: Geco con la coda tagliata, © Getty Images p. 128: Studio di nudo dal vero (Patroclo) di Jacques-Louis David, Cherbourg, Musée Thomas Henry p. 130: Passaggio della staffetta, © Big Pictures Londra/Olycom p. 132: Carta dei tarocchi italiani del XV secolo realizzata da Bonifacio Bembo per la famiglia

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p. 136: p. 140: p. 146: p. 148:

p. 150: p. 154: p. 154: p. 156: p. 158: p. 166: p. 168: p. 170: p. 170: p. 172: p. 174: p. 174: p. 176: p. 178:

p. 180: p. 182: p. 182: p. 184: p. 190: p. 190: p. 190: p. 192:

Visconti-Sforza e raffigurante la Morte, New York, Morgan Library & Museum, © 2013. Foto Pierpont Morgan Library/Art Resource/Scala, Firenze La morte nella stanza della malata di Edvard Munch, Oslo, Munch-museet Statua di Newton, Cambridge, Cappella del Trinity College, © 2013. Foto Scala Firenze/ Heritage Images Foto tratta dal film Mary Poppins di Robert Stevenson, © Heritage/Olycom Micrografie di una pulce (a sinistra) e di una struttura di sughero e di un ramoscello di sensitiva visti al microscopio da Robert Hooke (a destra), Oxford, Museum of the History of Science, © 2013. Foto Scala Firenze/Heritage Images Radici di ginseng, © Shutterstock In alto: le montagne si riflettono nel lago Bettmersee, © Shutterstock In basso: Narciso alla fonte di Caravaggio, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica, © 2013. Foto Scala, Firenze - su concessione Ministero Beni e Attività Culturali Alice guarda lo specchio, illustrazione di John Tenniel da Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò di Lewis Carroll, © 2013. British Library/Foto Scala, Firenze Le Nozze di Alessandro e Rossana di Sodoma, Roma, Villa Farnesina, © 2013. Foto Scala, Firenze Lettere dell’alfabeto colorate, © Getty Images Marte disarmato da Venere e dalle Grazie di Jacques-Louis David, Bruxelles, Musée Royaux des Beaux-Arts A sinistra: Ritratto di Jean-Baptiste de Lamarck di Charles Thévenin, collezione privata © The Bridgeman Art Library A destra: giraffa, © Shutterstock Stampa fotomeccanica tratta da Animals in Motion di Eadweard Muybridge, Parigi, Musée d’Orsay, © Corbis In alto: locandina del film 8 ½ di Federico Fellini © Photo12/Olycom In basso: Polittico Stefaneschi di Giotto, Roma, Pinacoteca Vaticana © 2013. Foto Scala, Firenze Foto tratta dal film Matrix Reloaded di Andy e Larry Wachowski © ROADSHOW FILM LIMITED /Album /Mondadori Portfolio Venus Verticordia di Dante Gabriel Rossetti, Bournemouth, Russell-Cotes Art Gallery & Museum © Russell-Cotes Art Gallery and Museum, Bournemouth, UK/Supported by the National Art Collections Fund/The Bridgeman Art Library Donna nuda davanti a uno specchio di Fernando Botero, collezione privata © Album/Oronoz/Mondadori Portfolio In alto a destra: spermatozoo © Getty Images In basso: Tempio di Khajuraho, dettaglio, © Getty Images Pozione d’amore di Evelyn De Morgan, Londra, De Morgan Centre © The De Morgan Centre, London/The Bridgeman Art Library In alto: Apoteosi di Omero di Jean Auguste Dominique, Parigi, Musée du Louvre © 2013. Foto Scala, Firenze Al centro: Apoteosi di George Washington di Costantino Brumidi, Dettaglio, Washington, volta della cupola del Campidoglio © Shutterstock In basso: Madre Teresa di Calcutta e Papa Giovanni Paolo II © Livio Anticoli/GammaRapho/Getty Images Sfera armillare © Shutterstock

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p. 194: La fontana di Encelado di Gaspard Marsy, Versailles, Musée du Château © Shutterstock p. 196: Convergenza di Jackson Pollock, Buffalo, Albright Knox Art Gallery, © 2013. Albright Knox Art Gallery/Art Resource, NY/Scala, Firenze p. 198: A sinistra: Ara pacis Augustae, dettaglio, Roma, Museo dell’Ara pacis, © 2013. Foto Scala, Firenze - su concessione della Sovraintendenza di Roma Capitale p. 198: A destra: globo terrestre, © Shutterstock p. 200: Nascita di Venere di Fritz Zuber-Buhler, Varsavia, Museum of John Paul II Collection p. 202: In alto: Fetonte trascinato dal carro del sole di Romanino, Trento, loggia del Castello del Buonconsiglio, © 2013. A. Dagli Orti/Scala, Firenze p. 202: In basso: Diluvio universale di Michelangelo, Vaticano, Musei Vaticani, Cappella Sistina p. 204: Sistema solare, © SSPL/Getty Images p. 206: A sinistra: Sovrapposizione di oltre quattrocento scatti che ritraggono il movimento della Luna, di Giove e Venere, © Getty Images p. 206: A destra: Copia dell’Atlante Farnese, Napoli, Museo Archeologico Nazionale, © 2013. DeAgostini Picture Library/Scala, Firenze p. 208: Sezione della Terra, © Shutterstock p. 210: In basso a sinistra: statua di Demetra, Roma, Museo Pio Clementino, © 2013. Foto Scala, Firenze p. 210: In basso a destra: George Harrison, © Photo12/Olycom p. 212: Fasi lunari, © Shutterstock p. 214: In alto: Primavera di Sandro Botticelli, Firenze, Galleria degli Uffizi p. 214: In basso a destra: eclissi lunare, © Shutterstock p. 214: In basso a sinistra: eclissi solare, © Shutterstock p. 216: A sinistra: Ritratto di Erasmus Darwin di Joseph Wright of Derby, © The Gallery Collection/Corbis p. 216: A destra: Ritratto di Charles Darwin di John Collier, dettaglio, Down House, Downe © Andy Rain/epa/Corbis p. 220: Copia del bronzo etrusco della Chimera di Arezzo, Firenze, Museo Archeologico Nazionale © Getty Images p. 222: Lotta tra Carnevale e Quaresima di Pieter Bruegel il Vecchio, dettaglio, Vienna, Kunsthistorisches Museum, © DEA/G. Nimatallah/Getty Images p. 226: In alto: Statua di Marx ed Engels, Berlino, Alexanderplatz, © Shutterstock p. 226: In basso: Orazione nell’orto di Andrea Mantegna, Londra, National Gallery p. 228: In alto a sinistra: stele del codice di Hammurabi, dettaglio, Parigi, Musée du Louvre, © Gianni Dagli Orti/Corbis p. 228: In alto a destra: mosaico dell’imperatore Giustiniano, dettaglio, Ravenna, chiesa di San Vitale, © Shutterstock p. 228: In basso a sinistra: Ritratto di William Shakespeare di William Larkin, © Alfredo Dagli Orti/ The Art Archive/Corbis p. 228: In basso a destra: Humphrey Bogart, © Bettmann/Corbis p. 232: In alto: Annibale attraversa le Alpi di Jacopo Ripanda, Roma, Palazzo dei Conservatori, © 2013. DeAgostini Picture Library/Scala, Firenze p. 232: In basso: foto tratta dal film Fantasia di Walt Disney, © WALT DISNEY PICTURES/ Album/Mondadori Portfolio p. 234: In alto: tessitore peruviano, © Shutterstock p. 234: In basso: telaio Jacquard, © Getty Images 308

p. 236: In alto: Concerto campestre di Tiziano, Parigi, Musée du Louvre, © 2013. Foto Scala, Firenze p. 236: In basso: Colazione sull’erba di Edouard Manet, Londra, Courtauld Institute Galleries, © 2013. DeAgostini Picture Library/Scala, Firenze p. 238: Muro di Berlino, 10 novembre 1989, © 2013. Foto Scala, Firenze/BPK p. 242: Scuola di Atene di Raffaello, Vaticano, Musei Vaticani p. 244: In alto: La morte di Seneca di Peter Paul Rubens, Monaco, Alte Pinakothek, © 2013. Foto Scala, Firenze/BPK p. 244: In basso: Musa Calliope, Roma, Museo Pio-Clementino, © 2013. Foto Scala, Firenze p. 246: Fulmini, © Shutterstock p. 248: Nascita di Venere di Sandro Botticelli, dettaglio, Firenze, Galleria degli Uffizi p. 250: In alto: Stagno con ninfee, Claude Monet, collezione privata, © 2013. Foto Scala, Firenze p. 250: In basso: Cliveden sul Tamigi di William Turner, Londra, Tate gallery, © akg-images/Mondadori Portfolio p. 252: Cascate, © Shutterstock p. 256: A destra: Studio di cirri e nuvole di John Constable, Londra, Victoria & Albert Museum, © 2013. Foto Scala, Firenze p. 256: A sinistra: Studio di nuvole di John Constable, Londra, Victoria & Albert Museum, © 2013. Foto Scala, Firenze p. 262: In basso: Incendio di Borgo di Raffaello, dettaglio, Vaticano, Stanza dell’Incendio di Borgo, © 2013. Foto Scala, Firenze p. 264: In alto: vulcano Stromboli in eruzione, © Shutterstock p. 264: In basso: veduta del Nilo da Assuan, © Shutterstock p. 266: In alto: Pamukkale, © Shutterstock p. 266: In basso: il Grand Prismatic Spring, nel parco Nazionale di Yellowstone, © Shutterstock p. 268: Minatori di carbone a Cardiff © Getty Images p. 270: Il complesso templare di Karnak, a Luxor, © Shutterstock p. 270: Anfiteatro greco di Dodona, © DEA/A. Garozzo/Getty Images p. 272: Cavo elettrico, © Shutterstock p. 276: Aceto balsamico e olio di oliva, © Shutterstock p. 278: In alto: Nebhepetre Mentuhotep II da Tebe, Cairo, Egyptian Museum, © 2013. Foto Scala, Firenze p. 278: In basso: Persone affette da elefantiasi, © Maggie Steber/The Washington Post/Getty Images p. 280: La peste di Azoth di Nicolas Poussin, Parigi, Musée du Louvre, © 2013. Foto Scala, Firenze p. 282: Ratto, © Shutterstock p. 285: Pira funeraria nel villaggio indiano di Bikhiwind, © AFP photo/Narinder Nanu/Getty Images

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Indice

Premessa .................................................................................................................. 7 Introduzione .......................................................................................................... 11

Il microcosmo Libro I Gli atomi ........................................................................................................... 27 Libro II Fisica e chimica ................................................................................................ 65

L’uomo Libro III La psiche ......................................................................................................... 107 Libro IV Fisiologia e psicologia .................................................................................... 145

Il macrocosmo Libro V La Terra .......................................................................................................... 189 Libro VI Meteorologia e geologia ................................................................................. 241 Ringraziamenti .................................................................................................... 287 Bibliografia lucreziana minima............................................................................ 289 Indice dei nomi.................................................................................................... 291 Indice delle opere ................................................................................................ 297 Apparato iconografico .......................................................................................... 305 311