Classe dirigente. Mappa del potere in Italia fra la Seconda e la Terza Repubblica 8868335492, 9788868335496

Dopo aver indagato le logiche del piduismo e la sua eredità politica in "Da Gelli a Renzi (passando per Berlusconi)

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Classe dirigente. Mappa del potere in Italia fra la Seconda e la Terza Repubblica
 8868335492, 9788868335496

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Presentazione

Dopo aver indagato le logiche del piduismo e la sua eredità politica in Da Gelli a Renzi (passando per Berlusconi), Aldo Giannuli torna a sondare le responsabilità della Prima Repubblica, disegnando i contorni della crisi della Seconda e il profilarsi di quella che Giannuli non esita a definire la Terza, con i suoi nuovi potentati più o meno occulti. Dal ruolo del presidente della Repubblica a quello dei capi del governo e dei servizi segreti, dal mondo della finanza alle intese industriali agli scandali bancari, dalla realtà della criminalità organizzata – con le relative ramificazioni e tangenze – al rinnovamento delle logge massoniche, dal degrado delle università e degli intellettuali allo sfaldamento dei partiti e delle tradizionali alleanze internazionali: il saggioinchiesta di Giannuli delinea acutamente uno scenario presente e futuro dalle tinte fosche. La prospettiva critica si innesta sull’attualità: il fallimento del referendum del 4 dicembre 2016 ha 2

davvero inferto un colpo mortale al renzismo, lasciando emergere nuovi attori politici? E ancora: è ipotizzabile arrivare in tempi brevi alla promessa riforma del sistema elettorale? O si resterà in balia dei consueti populismi e di mal formulate (e mal concepite) richieste di democrazia diretta? In definitiva: come cambierà adesso il potere in Italia? Aldo Giannuli è ricercatore in Storia Contemporanea all’Università degli Studi di Milano. Già consulente delle Procure di Bari, Milano (strage di piazza Fontana), Pavia, Brescia (strage di piazza della Loggia), Roma e Palermo, dal 1994 al 2001 ha collaborato con la Commissione Stragi, contribuendo alla scoperta dei documenti non catalogati dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno, nascosti in quello che poi è stato definito come l’«archivio della via Appia». Per Ponte alle Grazie ha pubblicato, fra l’altro: Da Gelli a Renzi (passando per Berlusconi) (2016), Guerra all’ISIS (2016), Come funzionano i servizi segreti (n. ed. 2013), Come i servizi segreti usano i media (2012).

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© 2017 Aldo Giannuli Edizione pubblicata in accordo con Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency © 2017 Adriano Salani Editore s.u.r.l. – Milano Redazione e impaginazione: Scribedit - Servizi per l’editoria Progetto di copertina: Marco Figini Grafica: PEPE nymi Ponte alle Grazie è un marchio di Adriano Salani Editore s.u.r.l. Gruppo editoriale Mauri Spagnol ISBN 978-88-6833-779-7

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Prima edizione digitale: maggio 2017 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

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A Gianroberto Casaleggio

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Introduzione

Verso la fine del 2012, stavo iniziando uno studio sulle classi dirigenti del nostro paese, analizzandone comportamenti, ordinamento gerarchico, struttura ecc. quando, nel marzo, uscì in libretto di Giulio Sapelli, mio collega di dipartimento, intitolato Chi comanda in Italia 1 che analizzava lo stato del potere in Italia, in una prospettiva storica e nel quadro delle evoluzioni della globalizzazione e dell’Unione europea in particolare. L’autore notava come l’esperienza del governo Monti lasciasse un paese stremato e privo di prospettive, sottolineava come il «Potere», nella sua dimensione politica, si stesse decomponendo e lanciava l’allarme sul vuoto che si stava producendo. Il piccolo libro (151 fittissime paginette di piccolo formato) ebbe il dono di vedere nel futuro: uscito a marzo, ovviamente, non poteva prevedere l’esito delle elezioni politiche del 28 febbraio 2013 e tanto meno lo scioglimento del «salotto buono» 8

della finanza italiana che avverrà nell’estate successiva. Iniziai a considerare il problema da un’altra visuale, approfondendo l’aspetto storico e legando ancora più strettamente l’andamento della vicenda italiana al contesto internazionale. Successivamente, nell’ ottobre dello stesso anno, una copertina de l’Espresso recitava «Qui non comanda più nessuno» e l’articolo correlato constatava il declino di tutti quei soggetti che per decenni hanno retto il potere in Italia (Vaticano, partiti, sindacati, Confindustria, grande finanza, imprese multinazionali con targa tricolore, massoneria...). Soggetti in via di ridimensionamento pur se ancora potenti. Da qui la diagnosi di alcuni intervistati dal settimanale: il potere in questo Paese si sta sgretolando. La sensazione diffusa era che si stesse andando verso l’entropia di sistema. Ormai l’idea che si fosse ad un passo dal crollo iniziava a diffondersi, anche con una percezione più chiara di quella che precedette il crollo della prima Repubblica, a cavallo fra gli ultimi anni ottanta ed i primi novanta. Pochi mesi dopo, la travolgente avanzata di Renzi creò, al contrario, la sensazione che si stesse riorganizzando un nuovo sistema di potere ed anzi che si stesse profilando un «regime forte», in grado di compensare, almeno in parte, quella sensazione di 9

vuoto ed assorbire poteri e funzioni che erano stati di altri soggetti «forti» (dettaglieremo meglio in seguito). Renzi stava tentando una rifondazione della Seconda Repubblica, il cui effetto immediato fu quello di rendere opaca quella percezione di crollo imminente che era andata diffondendosi pochi mesi prima. Ma fu solo un’illusione: quando il tarlo che rode un potere giunge alla struttura portante del sistema, non basta qualche abile trovata per invertire la tendenza ed evitare il crollo. Personalmente continuavo ad indagare la realtà (ne fanno fede gli articoli che ho pubblicato via via sul mio blog e che ora mi sembrano un diario di questa crisi) nell’ottica della dissoluzione sistemica, anche perché, già nell’estate del 2015, era possibile osservare un appannamento del «carisma» renziano. Poi, dal 4 dicembre 2016, i fatti sono precipitati e nulla è stato più come prima: il Pd, che, con la sola eccezione della sua piccola ed impotente sinistra interna, era sembrato trasformarsi in una falange compatta, tornava alle contorsioni precedenti, subendo una scissione, avviando un congresso assai litigioso e con infausti presagi nei sondaggi (condizionati anche da qualche vicenda giudiziaria). Il maggiore partito italiano -e principale pilastro del sistema politico- sembra avviato verso l’implosione, mentre la destra cerca di riaggregarsi con alterne vicende, ma restando ancora scarsamente in grado di 10

riproporre la propria guida al paese. La sentenza della Corte Costituzionale del 28 gennaio 2017 ha bocciato parti qualificanti del sistema elettorale «Italicum» lasciando un residuo sistema un po’ proporzionale ed un po’maggioritario, ed ha aiutato il «liberi tutti» che sta trasformando il sistema dei partiti italiani avviando scissioni, fusioni, rimescolamenti di carte che, realisticamente, sono solo all’inizio e proseguiranno per alcuni anni in cui è ragionevole pensare che potrebbero esserci ripetuti scioglimenti anticipati del Parlamento. Il 2013 (lo vedremo meglio più avanti) è stato per la Seconda repubblica quel che fi il 1987 per la prima: l’inizio della fine. Il paradosso dell’attuale situazione è che, pur essendosi stata più chiara percezione dell’imminente rovina del sistema, quando poi questa è giunta, ha colto un po’ tutti di sorpresa, tanto che si esita a parlare di Terza Repubblica. Condizionato dall’andamento alterno delle vicende italiane, questo libro che avete fra le mani, ha avuto un percorso tormentato, costringendomi a continui aggiornamenti (non fosse altro sulle qualifiche dei personaggi citati) ma è venuto costruendosi capitolo dopo capitolo, paragrafo dopo paragrafo e persino pagina dopo pagina, come su un binario, spinto da una sorta di forza interna. In qualche modo questo è il prosieguo del precedente Da Gelli a Renzi che ne costituisce una 11

sorta di premessa logica. A fare da spartiacque fra i due c’è l’esito del referendum: il 4 dicembre non c’è stata solo la bocciatura del rifacimento renziano della Costituzione, o del sistema elettorale dell’Italicum che costituiva un pacchetto organico con quella riforma. C’è stato molto di più: è finita la seconda repubblica. Certo, il quesito referendario era molto più circoscritto e la gran parte degli elettori, forse, nemmeno lo voleva o, per lo meno non immaginava che questo avrebbe potuto essere il risultato. Ma non è la prima volta che un regime cade per un voto su ben altra materia e senza che gli attori abbiano consapevolezza della portata del loro voto. Accadde, per esempio in Spagna, nel 1931, in occasione di un voto amministrativo che, con la vittoria netta ed imprevista dei partiti repubblicani, decretò la fine della monarchia e l’esilio di Alfonso XIII. Fu il flebile colpo di vento che fece cadere una foglia già secca: la Spagna era afflitta da un crisi economica che le dittature militari imposte dal re non avevano saputo risolvere ed, anzi, avevano peggiorato la situazione con misure repressive che avevano azzerato il livello di credibilità della corona. E speriamo che la somiglianza con il caso spagnolo degli anni trenta si arresti qui. Siamo di fronte alla fine di un sistema politico e quando un sistema di potere crolla non c’è una sostituzione automatica: perché si definisca il nuovo ordinamento 12

di potere, occorre attendere l’esito di una serie di scontri sociali, politici, economici. Lo ripeteremo altre volte nel corso di queste pagine, per far sempre presente al lettore che l’assetto di potere attuale è solo provvisorio e che contiene in nuce diverse soluzioni possibili, una delle quali di affermerà come l’assetto stabile dei prossimi anni. Questo libro si ripromette di fare una ricognizione dei processi in atto per capire dove stiamo andando. E per farlo sviluppa i due approcci di metodo cui abbiamo fatto cenno: l’analisi internazionale e la prospettiva storica. Nel mondo della globalizzazione non esistono isole autosufficienti: ai fini di quel che accadrà in Italia non è affatto indifferente chi vincerà in Francia (al momento in cui scriviamo non è ancora accaduto, ma lo sarà quando il libro sarà distribuito) se, nell’impatto di Basilea III, ci sarà una ripresa della crisi finanziaria o no, se la Cina realizzerà la sua via della seta e come, se Trump riuscirà a togliere le sanzioni a Mosca o no, se la City si trasferirà a Milano o no. Le variabili sono molte e non è possibile esaurirle nell’ambito di un libro (e di questo in particolare), ma si può dare una schematica mappa dei problemi e delle tendenze in atto. Di qui la necessità di alzare gli occhi su tutto il campo da gioco e non guardare solo all’orto italiano. 13

Quanto al metodo storico, è del tutto indispensabile per capire le tendenze che si profilano: se vuoi capire dove sta andando a cadere la freccia del tempo, devi vedere da dove è partita e se qualche vento non ne abbia modificato la traiettoria. Nel tempo smemorato del neoliberismo, che vive nella dittatura del presente, il recupero della storia è l’unico modo per immaginare il futuro che è sempre un tempo diverso dal presente. E per questo abbiamo iniziato con una breve ricognizione sul mondo della Prima Repubblica, per poi passare all’esame di come, in questi vent’anni, di infelice Seconda Repubblica, sia cambiato il potere (in tutte le sue dimensioni: politica, economica, finanziaria, amministrativa, dell’informazione) per poi immaginare che tendenze si stiano profilando. Se ci siamo riusciti o no lo deciderà il lettore che invitiamo a partecipare al dibattito che proseguirà sulla pagine del blog www.aldogiannuli.it . ALDO GIANNULI Milano, 4 aprile 2017

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Capitolo primo Il mondo della Prima Repubblica

Il progetto di una Nuova Italia nella Costituzione Il fascismo e la guerra sono stati il maggiore shock nella storia dell’Italia Unita e dunque ben si comprende l’aspirazione successiva a una repubblica realmente democratica (e perciò stesso nemica delle oligarchie sociali), con un preciso programma: inserire le masse nello Stato, eliminando quella debolezza strutturale che aveva portato la democrazia liberale al collasso davanti al fascismo. La Costituente volle la Repubblica come stato sociale di diritto, basato su ampie libertà democratiche e solidi diritti sociali, con una Costituzione rigida e procedure aggravate per l’eventuale revisione, una Corte Costituzionale 1 che avrebbe sorvegliato sulla conformità delle leggi alla 15

«norma fondamentale» e un capo dello Stato garante dell’ordinamento. Una Costituzione di schietta ispirazione kelseniana come, peraltro, tutte quelle coeve di Francia, Germania, Giappone e Austria. Sul piano economico l’ispirazione venne da Rathenau e Keynes: la Repubblica assumeva su di sé il compito di realizzare l’eguaglianza sostanziale fra i suoi cittadini (art. 3, II comma), di garantire una estesa gamma di diritti di libertà e sociali. Pertanto, l’intervento statale in economia, che non è menzionato nel testo salvo una fuggevole citazione (art. 41, III comma), in qualche modo, è tacitamente supposto e preparato da una serie di norme strumentali di cui la più rilevante è l’art. 42, che sancisce la funzione sociale della proprietà privata e la possibilità di esproprio per fini di pubblica utilità, salvo indennizzo. A garanzia di questo impegno a realizzare una democrazia sociale, si predisponevano le condizioni di una forte partecipazione popolare alla vita politica e sociale, in primo luogo attraverso i partiti, poi attraverso i sindacati e altre forme di vita associativa e con l’introduzione del referendum abrogativo. Partiti e associazioni avrebbero avuto il compito di aggregatori e organizzatori della domanda politica. La realizzazione di questo programma era affidata all’architettura costituzionale di una Repubblica parlamentare basata sulla divisione dei 16

poteri, nella prevalenza del legislativo. 2 L’esecutivo avrebbe esercitato un’azione legislativa secondaria e in particolare per situazioni di necessità e urgenza e, per il resto, avrebbe avuto funzioni di indirizzo politico soprattutto in politica estera. Il potere giudiziario avrebbe goduto di piena autonomia attraverso un organo di autogoverno. La figura del capo dello Stato era un compromesso fra il potere neutro teorizzato da Benjamin Constant, arbitro fra i tre poteri dello Stato e garante dell’ordinamento, e quella di dormiente da attivare negli stati di crisi che riecheggiava, in parte, la Costituzione di Weimar. L’ordinamento era completato da una articolata rete di enti locali (Regioni, Provincie, Comuni). Tutto questo presupponeva un accentuato pluralismo, che sfociava naturalmente nella formazione di governi di coalizione e in tale visione pesava la diffidenza verso un partito che potesse gestire da solo il potere. Tutto l’ordinamento (dall’elezione degli organi di garanzia e del presidente, alla formazione del governo, al bicameralismo perfetto) presupponeva un accentuato pluripartitismo che sfociava nella forma di «governo di coalizione». 3 E l’intera architettura costituzionale poggiava tacitamente su un sistema elettorale proporzionale, che privilegiava il principio di rappresentanza, suprema garanzia in particolare in 17

tema di revisione costituzionale. Dunque, l’ordinamento della Costituzione formale descriveva un regime a centralità parlamentare, con ampie garanzie per le minoranze e un ruolo servente dell’esecutivo. Ma la concreta prassi politica ribaltò questa architettura, subordinando il Parlamento al governo, attraverso il vincolo disciplinare dei partiti e il voto di fiducia al governo, che faceva sì che questo godesse di una maggioranza precostituita su ciascuna questione. A forzare in questa direzione fu anche la presenza di «legittimatori esterni» rappresentati dalle alleanze internazionali del paese. D’altra parte, nonostante il vincolo disciplinare dei partiti (o, forse, proprio per questo), il modello che si affermò fu quello del «governo debole», 4 a favorire il quale furono sia la forma di governo di coalizione (accentuata dalla forte autonomia ministeriale sancita dall’art. 95), quanto la strutturazione dei partiti in correnti rivali. Ne conseguì un’accentuata debolezza tanto del presidente del Consiglio verso i ministri, quanto del segretario del partito di governo verso le componenti interne. Questo (relativo) indebolimento dell’autorità centrale ebbe la conseguenza di accentuare l’incapacità di riforme reali che, inevitabilmente, si 18

scontravano contro interessi particolaristici che produssero tanto il fenomeno del «diffuso potere di veto», quanto quello del particolarismo legislativo di cui parla Alessandro Pizzorno. 5 E il tutto produceva l’ossimoro di una classe politica fortissima e impotente, depositaria di un consenso difficilissimo da erodere, perché solidamente radicato nel potere sociale, ma incapace di usare quel potere per governare e cambiare il paese. Una delle aporie del sistema fu che, nonostante la sua relativa debolezza verso i ministri e verso i partiti della maggioranza, il presidente del Consiglio si affermò come la figura centrale del sistema. Nel complesso, il sistema ha girato per mezzo secolo intorno alla figura del capo del governo che, pur assai dissimile da quella del ventennio fascista, fu ben più pesante di quella analoga di epoca liberale. La presidenza del Consiglio si qualificava come organo puro di indirizzo politico, privo, o quasi, di personalità amministrativa, 6 anche per l’incompatibilità con la guida di un Ministero. A questo si accompagnava la «ritirata» del Parlamento rispetto al centro del sistema decisionale. Dagli anni sessanta, il governo fece sempre più frequente ricorso alla decretazione di urgenza, che, perduto sostanzialmente ogni carattere di reale necessità e urgenza, divenne una modalità abituale di produzione legislativa. Considerando anche 19

l’attività legislativa delegata e il ricorso ai disegni di legge, si comprende come, già dai primissimi anni settanta, il governo fosse il motore dell’attività legislativa, con una inversione esatta del modello formale, come già rilevava la dottrina del tempo. 7 A questi meccanismi se ne affiancavano ben presto altri come gli strumenti di intervento statale in economia (come gli enti delle Ppss o le nomine nel settore creditizio), quali strumenti di organizzazione del consenso, o l’estendersi dei meccanismi dello stato sociale in particolare nelle Regioni meridionali. Il presidente del Consiglio assumeva, in questo quadro dei rapporti di forza, una posizione assolutamente preminente: egli come capo dell’esecutivo era, nello stesso tempo, capo della coalizione di maggioranza e il limite maggiore al suo potere veniva proprio dai partiti che, d’altro parte, rappresentavano il suo principale punto di forza, assicurando la leale e docile collaborazione dei gruppi parlamentari. Quel che trovò ulteriore sanzione nella legge 23 agosto 1988 n. 400 che, per la prima volta, dava attuazione alla riserva di legge contenuta nel III comma art. 95 della Costituzione, ma assorbendo nel testo molte modifiche introdotte dalla precedente prassi quarantennale. 8 Il tratto di maggiore evidenza nella evoluzione costituzionale di epoca repubblicana si è determinato nel contraddittorio sviluppo fra la norma della 20

Costituzione scritta, orientata verso una forma «debole» di presidenza del Consiglio, e la prassi politico-istituzionale, orientata sempre più verso un ruolo centrale della presidenza del Consiglio, esaltato anche dal suo ruolo di cerniera verso gli organi dell’Alleanza atlantica, cui ha dovuto sempre conformare il suo orientamento politico. In questo delicato equilibrio istituzionale, fatto più di taciti automatismi che di norme scritte, un ruolo essenziale era ed è svolto dai servizi di informazione e sicurezza, rilevanti sia sul piano dei rapporti con l’Alleanza, quanto su quello delle relazioni con i dicasteri «sensibili». E altri poteri vennero al presidente del Consiglio dallo sviluppo dello scontro economico-sociale nel paese che, già dalla metà degli anni settanta, condusse al metodo della «concertazione» triangolare governo-sindacati-Confindustria. E, dunque, è questo complesso intreccio istituzionale fra presidenza del Consiglio, Alleanza atlantica, servizi di informazione e sicurezza, partiti, sindacati e organizzazioni imprenditoriali a disegnare una fitta rete di relazioni che ha al suo centro il presidente del Consiglio, figura istituzionale ben più rilevante e condizionante di quella disegnata dalla Costituzione formale. Questa lunga parentesi sul presidente del Consiglio ci introduce al tema centrale della storia 21

costituzionale dell’Italia repubblicana: la crescente divaricazione fra Costituzione formale e Costituzione materiale e il nesso con le pratiche di «politica coperta». Per Costituzione materiale si intendono cose diverse: il concreto atteggiarsi reciproco dei poteri istituzionali; l’insieme degli attori del sistema politico; la concreta prassi costituzionale che dà luogo a consuetudine; la struttura sociale di riferimento in riferimento all’azione dello Stato. Come si vede, significati in relazione fra loro e parzialmente sovrapponibili, ma per quel che ci riguarda usiamo il termine prevalentemente nei primi due significati. Costantino Mortati sostenne nel 1957 che, nel contrasto fra Costituzione formale e Costituzione materiale, prevale la seconda: non era un auspicio ma la semplice constatazione di un dato di fatto. Se poi questo debba ritenersi una legittimazione sufficiente è altra questione, ma l’esperienza storica insegna che le Costituzioni si sono sempre affermate sulla base degli equilibri di forza e si sono legittimate da una fonte fatto più spesso che da una fonte atto. La torsione, nel caso italiano, iniziò a 22

manifestarsi già nel 1948, all’indomani della chiusura dell’Assemblea Costituente. In primo luogo, si produsse una doppia linea di demarcazione sul piano della legittimazione: la Costituzione scritta stabiliva la discriminante antifascista, riconoscendo piena legittimità a tutti gli altri partiti, mentre la Costituzione materiale, al contrario, aveva al suo centro la discriminante anticomunista ed era assai meno severa verso la destra missina e monarchica. A questo seguì logicamente un lungo periodo di «congelamento» della Costituzione, la cui attuazione si trascinò per decenni: nel 1953 venne approvata la legge istitutiva della Corte Costituzionale ma il suo insediamento ci fu solo nel 1956; nel 1958 venne istituito il Consiglio Superiore della Magistratura; nel 1970 fu attuato l’ordinamento regionale che, dopo una legislatura costituente, inizierà a funzionare nel 1975; nel 1971 fu approvata la legge istitutiva dei Tribunali amministrativi regionali che iniziarono a funzionare nel 1975; nel 1971 venne approvata la legge istitutiva del referendum; nel 1984 si realizzò la revisione del Concordato fra Stato e Chiesa; 23

nel 1988 fu approvata la legge sul presidente del Consiglio in parziale attuazione degli artt. 76-77; per ricordare solo le tappe principali. Alle divergenze iniziali rispetto al modello formale ne seguirono ben presto altre come l’inversione della centralità fra Parlamento e governo, la trasformazione dei partiti da canali di trasmissione della domanda politica in feudi inespugnabili di una nuova oligarchia, il ruolo crescente dei servizi di informazione e sicurezza nel sistema politico, a partire dalla loro riorganizzazione senza nessuna decisione del Parlamento, e con semplice atto amministrativo nel 1949. Infine l’espandersi della corruzione e delle pratiche malversative uscì gradualmente dall’ambito della devianza per assumere caratteri sistemici che intaccavano lo stesso meccanismo democratico, falsandone il funzionamento. Tutte cose certamente opposte al progetto costituzionale; ma occorre dire che il varco a questa trasformazione fu offerto anche da alcuni punti deboli dell’architettura del testo costituzionale e, primo fra tutti, l’insufficienza dei controlli. In primo luogo il presidente della Repubblica: è comprensibile che egli non venga esposto al mutare delle maggioranze parlamentari o all’iniziativa (magari improvvida) di un qualsiasi magistrato, ma 24

la Costituzione «blinda» il presidente rendendolo, di fatto, non perseguibile per qualsiasi reato. In teoria, il presidente (durante il suo mandato) risponde penalmente per l’alto tradimento o l’attentato alla Costituzione, due fattispecie assolutamente vaghe e imprecisate. L’attuale assetto costituzionale lascia al presidente eccessiva discrezionalità, ad esempio, in materia di scioglimento delle Camere. In secondo luogo, è evidente che aver affidato il potere di messa in stato d’accusa al Parlamento è stata una scelta infelicissima, che non ha assolutamente funzionato. È palese che, in un ordinamento che prevede il voto parlamentare di fiducia al governo e si basa sulla disciplina di partito degli eletti, la decisione della messa in stato d’accusa subisce un immediato processo di politicizzazione che non ha nulla a che fare con la valutazione dei comportamenti di merito. Ma l’idea di un organo terzo, appositamente previsto, non si affacciò mai nei dibattiti della Costituente. Anche il governo, nel nostro ordinamento, gode di una iperprotezione, sia perché a decidere l’eventuale messa in stato d’accusa dovrebbe essere lo stesso Parlamento che gli concede la fiducia, sia perché l’ordinamento accorda ai ministri una larga discrezionalità (di cui si avvalse, ad esempio, Cossiga, nel 1965, nella sua difesa del ministro Trabucchi, per gli scandali dei tabacchi e delle 25

banane 9 ). E tanto meno sono risultati efficaci strumenti come l’interrogazione o l’interpellanza, o le stesse commissioni di inchiesta che non hanno mai dato grandi risultati. Da ultimo, anche l’esperienza delle Commissioni parlamentari di vigilanza, sulla Rai e, ancor più, sui servizi di informazione e sicurezza, non ha mai dato risultati significativi. Il punto è che la funzione di controllo parlamentare aveva un senso all’origine, nei sistemi delle monarchie costituzionali e non parlamentari, quando il Parlamento non aveva il potere di concedere la fiducia e aveva gruppi parlamentari legati da una debole disciplina. 10 Ma perde completamente di senso in un organo investito di poteri di indirizzo politico (fiducia al governo, attività legislativa, mozioni ecc.) che non può istituzionalmente svolgere una efficace azione di controllo e garanzia. E lo stesso Parlamento ha goduto, a sua volta, dello stesso regime di controllo puramente formale: la proclamazione degli eletti è compito di commissioni espresse dallo stesso Parlamento cioè della sua maggioranza. Quanto al potere di autorizzare la magistratura a procedere 11 (dal 1993 ridotto alla sola autorizzazione all’arresto) non è neppure il caso di dire tanto è noto l’abuso che se ne è fatto, con reciproci scambi di favori fra 26

maggioranze e opposizioni. Anche la magistratura ha goduto del medesimo trattamento: la Costituzione italiana è l’unica, nel mondo, che concede poteri vastissimi (assunzioni, distribuzione degli incarichi e, soprattutto, funzione disciplinare) a un organo di autogoverno della magistratura, maggioritariamente composto da eletti della stessa magistratura. Anche qui siamo nei limiti di una pur parziale autodisciplina, che affida ai giudicandi il potere di eleggere i propri giudici e, per sovrappiù, gli affida il potere di reclutamento. 12 E, infine, non poteva mancare la Pubblica amministrazione, con organi disciplinari formati tutti per via interna e schermata da una giustizia amministrativa, spesso composta da personale che proviene dalla stessa Pubblica amministrazione, dotata di un proprio organo di autogoverno e separata dalla magistratura ordinaria (una vera e propria giurisdizione speciale, come era quella dei tribunali militari di pace, sino alla loro abolizione). Infine i servizi di informazione e sicurezza, schermati da ogni possibile intervento giudiziario, dalla cortina impenetrabile del segreto di stato, ribadito e rafforzato dalla riforma-beffa del governo Prodi (legge 3 agosto 2007, n. 124 e successive), sottratti anche a un vero controllo parlamentare e di fatto responsabili solo di fronte al presidente del Consiglio che, peraltro, deve basarsi solo sulle 27

informazioni offertegli dagli stessi servizi. Di fatto, la scelta del Costituente (cosciente o involontaria, conta poco stabilirlo) è stata quella di favorire una corporativizzazione di ogni potere: si è costituita la corporazione della società politica, quella giudiziaria, quella amministrativa (con la corporazione speciale dei servizi di informazione e sicurezza). E dunque un’architettura adattissima alla edificazione di un «potere irresponsabile» che è stato il vero tarlo che ha corroso la Prima Repubblica, portandola alla sua fine ingloriosa nella melma di Tangentopoli.

La repubblica dei partiti L’espressione «repubblica dei partiti» fu proposta dallo storico cattolico Piero Scoppola in un suo libro a conclusione della stagione della Prima Repubblica 13 e coglie molto bene l’aspetto centrale di quel periodo storico. I partiti furono i domini del nuovo ordinamento, dove il Pnf era stato il dominus di quello precedente. La «forma partito» diventava «forma partiti» ma con una continuità assai maggiore di quella che si sarebbe voluta ammettere. In particolare, l’elemento di maggiore continuità fu rappresentato dall’«autodichia», un punto che 28

merita una ampia spiegazione, perché centrale nella nostra ricostruzione. In epoca liberale non ci fu mai un intervento giurisprudenziale che riguardasse un partito in quanto tale, ma, d’altra parte, i partiti non esistevano né come entità giuridiche a sé stanti né come realtà organizzative distinte dai gruppi parlamentari. Anche, con la nascita del Psi, i diversi processi ai dirigenti socialisti riguardarono personalmente ciascuno degli imputati e sempre per singoli fatti ritenuti eversivi (come i fasci siciliani o i moti milanesi del 1898), non implicarono mai l’organizzazione in quanto tale e non ci fu mai uno scioglimento, per sentenza, del Psi. Né ci fu mai (né fu mai richiesto) alcun intervento della magistratura nella vita interna di un partito, magari per la contestazione di risultati congressuali o irregolarità amministrative interne. I partiti, giuridicamente, erano organizzazioni di fatto, non riconosciute e, in quanto tali, erano al di fuori della sfera d’azione giudiziaria. Il primo caso che, pur senza investire il partito in quanto tale, ne colpì il vertice, si verificò con l’omicidio di Giacomo Matteotti, in occasione del quale il Senato sentenziò non esserci elementi che provassero la responsabilità personale di Mussolini e che il capo di un partito non è chiamato a rispondere dell’operato di aderenti al partito stesso. 29

Ma, con le leggi fascistissime del 1925, tutti i partiti diversi dal Pnf vennero messi fuorilegge. Dunque, restava come unico partito organizzato legalmente il Pnf, ma di fatto sottratto in toto alla magistratura ordinaria. Ovviamente, non era pensabile un intervento della magistratura contro il Pnf in quanto tale, trattandosi, oltre tutto, di un partito assistito da leggi di rango costituzionale, il cui statuto era approvato con decreto reale (art. 6 dello Statuto come modificato nel 1929), oltre che essere il partito di governo. Ma neppure si prospettò mai la possibilità di ricorsi all’Autorità giudiziaria di singoli membri, contro decisioni degli organi di partito (si badi che, per l’art. 18 dello Statuto, l’espulso era «messo al bando della vita pubblica»). Ormai sarebbe stato difficile sostenere che il Pnf era una associazione di fatto sfornita di stato giuridico, date le leggi che lo riguardavano, ma l’ipotesi di un contenzioso giurisdizionale per questioni interne al partito, semplicemente, non era neppure presa in considerazione. Si creò una situazione per cui un partito diventato ormai soggetto di diritto pubblico e, addirittura costituzionale, non era soggetto alla giurisdizione ordinaria per quanto potesse attenere al contenzioso interno. Di fatto al partito era estesa l’autodichia riservata alle Camere: il suo foro interno era l’unico che potesse regolarne la vita 30

interna. Nei fatti, questa particolare situazione si ripeterà nel sistema repubblicano: i partiti non saranno mai regolamentati per legge. Quasi subito scattò un tacito patto fra i partiti e fra essi e la magistratura: la vita interna di partito era sottratta a qualsiasi controllo giudiziario, costituendo giurisdizione autonoma, quel che una giurisprudenza costante ratificò regolarmente con il risibile pretesto dell’autonomia sociale. Per cui i partiti (che erano il «principe» reale del sistema politico, attraverso il potere di nomina nel governo e nel sottogoverno e quello di formazione delle liste elettorali) da un punto di vista giuridico erano considerati alla stregua di mere società di fatto, prive di qualsiasi regolamentazione giuridica. Una qualsiasi società commerciale, fosse anche una società in accomandita semplice, aveva molti più obblighi statutari e amministrativi da rispettare di quanti non ne avessero partiti di massa come la Dc o il Pci. A far notare l’illogicità della situazione di fatto, fu un giurista di chiara fama come Francesco Galgano (che però, e rilevarlo non è privo di significato, non era un costituzionalista ma un commercialista) in uno scritto a cavallo degli anni sessanta e settanta, 14 poi ripreso in un testo più recente. 15 A opporsi a una qualsivoglia regolarizzazione legislativa di questo delicato meccanismo di potere fu una serie di concause. Alla base, ovviamente, 31

c’era una diffusa insofferenza verso qualsiasi briglia imposta ai partiti che rappresentavano il nuovo: una loro regolamentazione incontrava la diffidenza dei più, che sospettavano un attentato allo stesso principio pluralistico e un modo di imporre una dittatura mascherata del partito di governo. Questo ragionamento trovava orecchie attente a sinistra, dove il Pci aveva ragione di temere che una eventuale legge sui partiti fosse solo un espediente surrettizio a suo sfavore. In particolare il Pci temeva che l’eventuale legge proibisse il modello organizzativo basato sul centralismo democratico (in sostanza, il divieto di formare correnti interne) che era la caratteristica organizzativa che lo rendeva diverso da tutti gli altri partiti. E forse non si trattava di sospetti infondati. In un secondo momento, anche gli altri partiti ebbero motivo di non ritenere auspicabile che le proprie vicende interne potessero essere squadernate in un’aula di giustizia. E della regolamentazione per legge dei partiti non se ne parlò più. 16 Certamente quella di reggersi su un sistema pluralistico di partiti non è una esclusiva italiana: tutte le democrazie liberali lo sono e, mentre negli Usa il modello è quello dei «partiti senza iscritti», con elezioni primarie al posto di congressi, in Europa il modello di partito è quello classico di iscritti organizzati territorialmente. Il che non 32

esclude, peraltro, che ci siano importanti variazioni tanto negli assetti istituzionali quanto nelle soluzioni statuarie dei singoli partiti. La particolarità italiana è semmai un’altra: nessun altro ordinamento prevede, insieme, una così estesa serie di poteri affidati direttamente o indirettamente ai partiti e una così completa deresponsabilizzazione giuridica dei partiti. Essi, nel nostro ordinamento, sono principi legibus soluti. E questa è l’eredità più significativa dell’ordinamento precedente. Altra particolarità del sistema italiano è il numero dei partiti e la loro distanza ideologica (che porta alcuni studiosi, come Giovanni Sartori, a parlare di «pluralismo polarizzato») e che alcuni attribuiscono alla presenza, per lungo tempo, di una legge proporzionale. Ma il numero dei partiti precede la scelta del sistema elettorale e dipende dall’ambiente socio-politico, in particolare dalle linee di frattura che lo attraversano, come insegna Lijphart. 17 Applicando questo metodo alla storia italiana, possiamo identificare queste cinque linee di frattura operanti: quella storicamente sempre presente di natura confessionale (Stato-Chiesa, poi laici-cattolici), poi quella rilevantissima – storicamente derivante in gran parte dalla prima – di legittimazione del sistema (nuovo potere contro legittimisti prima, dopo Stato contro repubblicani, 33

anarchici e socialisti 18 ), quindi quella socioeconomica (conflitto di classe), quella territoriale (sviluppo duale Nord-Sud) e, infine, quella di politica estera (asse franco-inglese contro triplicismo, poi atlantismo contro neutralismo ecc.). Tutte, in qualche modo, riconducibili allo scontro sulla modernizzazione del paese e alle sue modalità. Dopo la guerra, in primo piano venne la questione della legittimazione del sistema (sul doppio versante che opponeva fascismo ad antifascismo e comunismo ad anticomunismo), che si collegava strettamente a quella di politica estera (che opponeva atlantici ad antiatlantici) e a quella socio-economica (nella forma di un acuto conflitto che aveva l’epicentro nella grande industria). A proposito di legittimazione, abbiamo detto che, mentre la discriminante antifascista è sancita dalla Costituzione formale, quella anticomunista ebbe ben altro peso nella Costituzione materiale, dopo il 1947. E proprio questa sarà la particolarità del cd. «caso italiano» sino a tutti gli anni settanta: nessuna altra democrazia occidentale ha ospitato nel suo seno contemporaneamente opposizioni antisistema (o percepite come tali) sui due fianchi e in nessun paese (salvo il Giappone) c’è stata una così ininterrotta permanenza al governo di uno stesso partito. Per di più l’Italia della Prima Repubblica ha avuto una struttura elettorale molto 34

stabile: per quasi 40 anni i partiti sono stati sostanzialmente gli stessi e hanno mantenuto più o meno lo stesso posto nella graduatoria delle preferenze: prima la Dc fra il 36 e il 42%, secondo il Pci fra il 22 e il 34%, terzo il Psi (fra il 9,5 e il 14%), quarto il Msi (fra il 4,5 e l’8,5%), quindi il Psdi (fra il 5 e il 7%), sesto il Pli (fra l’1,5% e il 7%), settimo il Pri (fra l’1,5% e il 5%). Questa straordinaria stabilità dell’elettorato (che non ha riscontro in alcun altro paese europeo), nonostante il gran numero di partiti, si spiega con il forte indice di penetrazione dei partiti nel tessuto sociale, in parte dovuto alla «presa ideologica» che dava luogo a forti quote di elettorato «di fedeltà» o «identitario», in parte alla intensa militanza di base e alla diffusa ramificazione organizzativa dei partiti, che svolsero una fondamentale opera di alfabetizzazione politica soprattutto delle classi subalterne. Nel complesso, dunque, o tramite la sua opera educativa e la tensione ideologica 19 o attraverso la politica di grandi riforme (la maggior parte delle quali venne attuata, appunto, fra il 1950 e il 1970) o attraverso la distribuzione selettiva delle risorse, il sistema dei partiti riuscì a rispondere alla domanda politica del paese per tutto il primo quarto di secolo. Ed è questo alla base del successo della prima fase della «repubblica dei partiti». La dialettica politica 35

del sistema, sino alla metà degli anni sessanta, era completamente assorbita dai partiti e dai maggiori soggetti socio-economici: i sindacati e le associazioni imprenditoriali, in primo luogo la Confindustria. Il sistema si paralizzò e, già nel 1971, Alessandro Pizzorno indicava queste principali cinque patologie del sistema politico italiano: dispersione del potere e diffuso potere di veto; incapacità di riforme; particolarismo legislativo; diffusione del sottogoverno; frammentazione della rappresentanza. In particolare, l’incapacità di operare grandi riforme (malamente compensata dall’accentuato particolarismo legislativo, che andava incontro alle pulsioni corporative della nostra società) diventava un dato particolarmente evidente e che divenne un aspetto endemico del sistema politico italiano, ben oltre il centro-sinistra. La base materiale fu fornita dal processo di burocratizzazione dei partiti. L’innesco fu dato dal confronto-scontro con il Pci, la cui caratteristica principale era il carattere monolitico, prodotto dalla regola del «centralismo democratico», che proibiva le correnti interne, e la natura di partito di apparato di funzionari professionali che prevalevano sui 36

parlamentari. Al contrario, tutti i partiti non comunisti (Msi, Dc, Pli, Pri, Psdi e monarchici) erano partiti articolati in correnti, avevano una struttura nella quale il ceto politico elettivo prevaleva sul funzionariato, avevano una base meno militante (con l’eccezione del Msi) e, sino a metà anni cinquanta, erano caratterizzati da una forte quota di notabilato politico e strutture più da movimento di opinione che da burocrazia moderna di tipo weberiano. I primi parlamentari democristiani, liberali, socialdemocratici (parzialmente anche socialisti) furono essenzialmente medici e soprattutto avvocati che raccoglievano le preferenze all’interno della loro clientela professionale, talvolta sindacalisti votati dai propri iscritti. Fu proprio la temibile concorrenza del Pci (che giustamente Orsina definisce l’«Arcipartito» 20 ) a spingere gli altri partiti a dotarsi di un minimo d’apparato e, soprattutto, di una costosa articolazione di sezioni territoriali e di organizzazioni fiancheggiatrici (sindacali, di categoria, culturali, giovanili, femminili ecc.). Un paradosso per il quale il Pci era «un partito isolato politicamente […] ma un modello organizzativo di riferimento per tutti gli altri partiti»: 21 quel che si dice un «perdente di successo». Questo processo fu particolarmente evidente nel caso della Dc che, 37

inizialmente, utilizzava le parrocchie come sedi delle proprie sezioni e aveva un debolissimo apparato di partito. Con la segreteria di Fanfani, dal 1954 in poi, la Dc si dette sedi proprie e un minimo di struttura di funzionari. 22 Tutto questo accelerò la professionalizzazione del ceto politico degli altri partiti, ma con una differenza: nei partiti non comunisti il funzionariato restava marginale, per cui la professionalizzazione investì il ceto politico elettivo. Scomparvero quasi del tutto i notabili, il numero di preferenze necessario a essere eletti crebbe costantemente e vertiginosamente: se nel 1948 erano sufficienti meno di 10.000 preferenze (e in diversi casi ne bastavano 4-5.000) per entrare in Parlamento (parliamo degli ultimi degli eletti), quaranta anni dopo, nel 1987, salvo rarissimi casi, la soglia minima era salita oltre i 30.000 voti e quella media si aggirava intorno ai 50.000. Ovviamente, numeri simili non potevano essere raggiunti solo con la clientela personale di un avvocato o di un medico, per quanto importante. Si rendeva necessaria la costruzione di un apparato di sezioni «amiche», di organismi di fiancheggiamento, «studi» con numerosi segretari dediti al disbrigo delle pratiche clientelari (parliamo di clientele politiche non professionali), mettere propri seguaci alla testa di enti pubblici e assessorati ecc. E naturalmente, questo richiedeva grandi quantità di 38

denaro che occorreva procurare in qualche modo. Ben presto non furono solo i parlamentari a essere impegnati nella politica a tempo pieno, ma anche molti consiglieri di enti locali (soprattutto le Regioni, dopo la loro approvazione nel 1970), presidenti di enti pubblici, presidenti di associazioni fiancheggiatrici o semplici mestieranti che si procuravano il denaro attraverso pratiche corruttive. Il ceto politico (intendendo per esso i politici di professione) prolificò molto rapidamente: considerando i parlamentari nazionali ed europei, i relativi assistenti, i consiglieri regionali, gli assessori provinciali e delle principali città capoluogo, i funzionari di partito, i redattori degli organi di partito, il personale impiegato dalle correnti e negli «studi» dei singoli parlamentari, i funzionari sindacali e degli enti collegati a essi, quelli delle altre organizzazioni di massa, i dipendenti dei centri studi e istituti culturali di partito ecc., non è infondato stimare il ceto politico fra le 500.000 e le 700.000 unità già nei tardi anni settanta. Questo determinò a sua volta una serie di conseguenze a catena: il bisogno di controllare risorse, per poterle distribuire in modo selettivo, spinse a moltiplicare gli enti pubblici, determinando un processo di «occupazione del potere», come lo definì Ruggero Orfei. 23 Questo consolidò la base di massa dei partiti anticomunisti, ma spinse anche a 39

una crescente appropriazione illecita di risorse, attraverso il meccanismo delle tangenti sui lavori pubblici e la distrazione per peculato, soprattutto nelle banche pubbliche di raccolta. Il Pci, a sua volta, non restò immune dal fenomeno e, in particolare dagli anni settanta in poi, iniziò a sviluppare un ceto politico sempre più simile a quello degli altri partiti: il funzionariato calò di numero e di peso, in favore del ceto politico degli enti locali e collaterali e, qui e là, non mancarono neppure disinvolte pratiche tangentizie, anche se pur sempre restava il rapporto di dipendenza dal partito che decideva ancora sugli eletti proibendo la raccolta individuale delle preferenze. A sua volta, questo produceva il fenomeno della moltiplicazione delle «correnti» basate su caciccati locali. A questo si accompagnò una accentuata reverenza dell’Autorità giudiziaria verso il mondo dei partiti, che riprendeva, questa volta al plurale, il principio dell’autodichia partitica. Le sentenze in materia di corruzione politica furono per decenni rarissime e quasi mai di condanna, nella maggior parte dei casi le denunce non ebbero alcun seguito o, al più, terminarono con proscioglimenti in istruttoria o per prescrizione. Come nel caso dello scandalo Ingic, che vedeva coinvolti esponenti di tutti i partiti (governativi e di opposizione), la cui istruttoria, iniziata nel 1954, ebbe termine 17 anni dopo – nel 40

1971 – con l’archiviazione per tutti i mille imputati per la sopravvenuta prescrizione. 24 Ovunque i partiti entrassero dalla porta, il diritto usciva dalla finestra: un far west giuridico che non avrebbe mancato di dare i suoi frutti. L’insieme delle dinamiche economiche e politiche appena descritte ebbe come sua conseguenza un sistema che Pizzorno descrisse come una poliarchia caratterizzata dalla frammentazione della rappresentanza politica in «partiti arcipelago». 25 La burocrazia politica dei partiti, negli anni, si sviluppò a ridosso di quella borghesia di Stato che allignava negli enti economici del paese, soprattutto man mano che la costruzione del sistema regionale portava alla nascita di enti collaterali di interesse locale, che furono spesso la «porta girevole» fra la burocrazia politica e la «borghesia di Stato». Ne nasceva un blocco di interessi che raggiunse il suo pieno sviluppo negli anni ottanta, quando la quasi totale omologazione del ceto politico (ormai aveva perso senso la distinzione fra il Pci e i partiti non comunisti) portò alla nascita della «borghesia burocratica di Stato». Ma, se l’innesco di questo fenomeno fu il confronto con il Pci, le cause predisponenti erano già presenti da tempo e dipendevano da altro. 26 Già dal suo sorgere, il sistema dei partiti portava 41

con sé le premesse della sua degenerazione. I partiti promettevano una democrazia ampia e diffusa che riducesse, se non eliminasse del tutto, le tradizionali oligarchie, ma divennero essi stessi portatori di una nuova oligarchia che si affiancava alle precedenti. Era un esito inevitabile? Probabilmente no, ma c’erano fattori fortemente predisponenti come la struttura verticalizzata, la disciplina militaresca, che traeva origine dalla stessa origine nelle formazioni della Resistenza e si alimentava del clima della guerra fredda, l’insofferenza a qualsiasi controllo esterno ma, soprattutto, l’influenza del precedente modello fascista, che, appunto, aveva prodotto un suo tipo di oligarchia. Infatti, a partire dagli anni sessanta, i partiti conobbero un lento ma inarrestabile processo di burocratizzazione: la partecipazione democratica venne mortificata o semplicemente azzerata, una tendenza destinata a proseguire sino ai nostri giorni, 27 gli apparati di partito crebbero costantemente, l’istituzione delle Regioni e di nuovi enti locali fece ulteriormente aumentare il ceto politico, lo sviluppo del sistema delle Partecipazioni Statali e la fungaia di enti pubblici e parapubblici fecero nascere un ceto politico di complemento alimentato dalle loro ricche prebende, il sindacato conobbe una espansione organizzativa senza precedenti che portò con sé lo sviluppo di 42

poderosissimi apparati di funzionari. Ma, più ancora che dai numeri, il processo di burocratizzazione fu indotto da altri due fattori concomitanti: la presa di coscienza di sé del ceto politico e lo sviluppo di modelli centralistici nei partiti. Infatti, la rapida estensione dei privilegi e del potere sull’economia e la società sviluppò inevitabilmente degli interessi comuni al ceto politico distinti da quelli delle basi sociali rispettivamente rappresentate. In un paese a forte vocazione corporativa, la burocrazia politica si costituì in «corporazione delle corporazioni», per usare una espressione cara a Marx. Tutto questo spense ogni vita democratica interna ai partiti: i congressi si basarono sempre più su tesseramenti truccati e terminavano con risultati concordati a tavolino, la militanza ideale e politica cadde, sostituita da apparati clientelari unicamente dediti alla raccolta del voto di preferenza, la produzione culturale dei partiti si azzerò. Nella Dc questo processo avvenne parallelamente all’affermazione dorotea, che interpretava questo modo di essere della politica tutto orientato alla dimensione gestionale della politica e del tutto insensibile a quello culturale. Le premesse di questa involuzione, come abbiamo detto, erano presenti sin dall’inizio, ma, per tutta la prima stagione repubblicana, le tendenze alla 43

centralizzazione autoritaria convissero in un rapporto ambiguo e oscillante con la partecipazione militante e con la spinta propulsiva al radicamento della democrazia. Poi, questa ambiguità si sciolse negli anni settanta, facendo cadere l’albero sul versante antidemocratico. Una tappa fondamentale di questa definitiva metamorfosi dei partiti, da canali di trasmissione della domanda politica in apparati neofeudali, al servizio di ristrette oligarchie di vertice, fu rappresentata dall’approvazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti decisa quasi all’unanimità dal Parlamento (salvo il Pli). Non si era mai registrata una così decisa convergenza generale, dal Msi al Pci. E già questo fu un segnale della sostanziale omologazione del ceto politico che stava iniziando a prodursi. L’aspetto più rilevante della legge fu la rimozione dell’ultimo ostacolo che si frapponeva alla sua approvazione: la necessità di depositare annualmente il bilancio di ogni partito: 28 con un abile gioco di norme, si trasformò il bilancio in un mero rendiconto al netto della situazione patrimoniale (che però continuò a chiamarsi bilancio); in questo modo, i partiti erano di fatto esentati da ogni controllo contabile di qualche efficacia. Cosa significhi questo, lo chiariranno trentacinque anni dopo vicende come lo scandalo 44

Lusi della Margherita, Belsito della Lega e la vicenda non chiara dell’Italia dei Valori.

L’architettura di potere e la Costituzione materiale della Prima Repubblica Possiamo distinguere cinque diverse componenti del blocco dominante nella Prima Repubblica: il nucleo proprietario, la nuova classe politica, il management delle imprese pubbliche, il polo cattolico e l’alta dirigenza della Pubblica amministrazione. Il «blocco proprietario» alleava industriali, banchieri, proprietari terrieri e di immobili, rappresentati dalle rispettive associazioni di categoria: Confindustria, Abi, Confagricoltura, Confedilizia, Confcommercio, Confartigianato e Coltivatori diretti. In realtà, a pesare politicamente furono solo la Confindustria e l’Abi. Al centro del blocco c’era la «grande borghesia nazionale» cioè i maggiori potentati industriali (Fiat, Pirelli, Falk, Pesenti, Costa ecc.), che mantenevano quella connotazione familiare che paesi come l’Inghilterra, gli Usa o la Germania avevano superato già dagli anni trenta. Già nel periodo fascista iniziarono a configurarsi 45

due polarità parzialmente sovrapponibili: quella che contrapponeva la finanza laica a quella cattolica e quella che contrapponeva il polo milanese a quello romano. La finanza laica aveva le sue roccaforti nella Commerciale e nel Credito Italiano e, dunque, essenzialmente nel polo milanese, mentre la finanza cattolica, pur avendo la sua principale base nel polo romano (Banco di Roma fortemente connesso allo Ior e istituti intermedi), ebbe una diffusione molto maggiore nel territorio, con molte Casse di risparmio, rurali e artigiane e, soprattutto, con il Banco Ambrosiano, la Banca San Paolo di Brescia e il Banco Antoniano. Mentre il polo laico-milanese esprimeva una maggiore propensione industriale e internazionale, il polo romano mostrava maggior inclinazione per l’edilizia (i «palazzinari» sono una fauna tipica dell’ambiente capitolino), con relative speculazioni e una più ristretta ottica locale. All’indomani della guerra, i primi due problemi che si posero ai potentati industriali furono quelli del come reperire il denaro per la ricostruzione (molti stabilimenti erano stati distrutti) e, in questo contesto, come evitare scalate azionarie, tanto straniere quanto di qualche nuovo arrivato nazionale. A questo scopo, sin dal 1944, il direttore della Banca Commerciale Italiana, Raffaele Mattioli, aveva iniziato a pensare a un ente specializzato per i prestiti a medio termine. La legge bancaria del 1936 46

proibiva le banche «miste», cioè sia di raccolta che di affari. La soluzione per aggirare il divieto fu trovata in una banca d’affari, di cui le principali banche di raccolta (le milanesi Comit, Credit, e il Banco di Roma) e alcune grandi imprese industriali fossero azioniste. L’operazione venne affidata a Enrico Cuccia, all’epoca funzionario della Comit. Cuccia sino alla sua morte, nei primi anni novanta, fu il deus ex machina della sua creatura, Mediobanca, che divenne ben presto lo stato maggiore finanziario del potere economico italiano. Forse fu solo per la mediazione di Luigi Einaudi e di Alcide De Gasperi che si ricostruì un assetto di potere che preservò l’autonomia del polo milanese (Credito e Commerciale dipendevano dall’Iri e, come tali, risentivano del possibile intervento del potere politico nella formazione dei vertici). In questo quadro, nel 1946, le due grandi banche milanesi proposero la costituzione di Mediobanca, allo scopo di assicurare alle imprese il credito a medio-lungo termine attraverso il collocamento dei loro titoli sul mercato finanziario. La terza banca di interesse nazionale, appunto il Banco di Roma, resistette tenacemente al progetto, con l’appoggio di una parte della Dc, ma l’operazione andò in porto e anche il Banco di Roma, obtorto collo, aderì. In un primissimo momento Mediobanca ebbe come suoi azionisti le tre Banche di Interesse 47

Nazionale (d’ora in poi Bin), che si spartivano il totale delle azioni, ma già nel 1958 le tre banche avevano ridotto al 68% complessivo la loro partecipazione azionaria, ed erano entrati piccoli azionisti e soggetti privati che accrebbero man mano la loro presenza dal 4 al 25% (Assicurazioni Generali, Olivetti, Fiat, Pirelli, Ras, Italmobiliare, Fondiaria ecc.). A partire dagli anni cinquanta, la banca sviluppava un complesso sistema di partecipazioni incrociate fra essa e i principali azionisti, a loro volta reciprocamente partecipati. Nasceva in questo modo il «salotto buono», l’esclusivo club che assumeva la leadership della finanza italiana. L’operazione Mediobanca era pensata come una complessa operazione di ingegneria finanziaria, per la quale il principale gruppo di azionisti assumeva il controllo dell’ente al riparo da possibili scalate esterne: nasceva in questo modo il «capitalismo di relazione» all’italiana. L’operazione ebbe quattro valenze: proteggere il polo milanese da quello romano, schermare la finanza dalla politica, impedire la nascita di «sfide» al potere costituito finanziario dall’interno del paese, varare una compagine di capitale nazionale in grado di resistere a sfide esterne. E questo «retrostante» fu il primo patto non scritto della nuova Costituzione materiale. 48

Dunque, un patto eminentemente difensivo, concluso proprio a causa della fragilità del capitale finanziario italiano. E qui il discorso merita un approfondimento. Le due principali tecniche del capitale di relazione sono il sistema piramidale e i patti di sindacato. Per il primo, intendiamo un sistema per il quale un soggetto vara una o più società nelle quali detiene la maggioranza assoluta, che a loro volta danno vita a società di cui acquistano il 51% delle azioni, che a loro volta ne acquistano o generano altre partecipate sempre a maggioranza e così via. Possono esserci sistemi piramidali anche a sei-sette livelli, nei quali un soggetto controlla una società possedendo anche meno del 3% del capitale effettivo del gruppo. Per patto di sindacato, intendiamo l’accordo fra diversi soggetti di votare in modo compatto all’interno di una società, dopo essersi consultati e aver deciso a maggioranza la posizione da assumere. Per evitare il rischio di scalate esterne al patto di sindacato, gli accordi prevedono spesso un «diritto di prelazione» per il quale il singolo azionista non può vendere a esterni al patto tutta o parte della sua quota, se non dopo che gli altri partecipanti abbiano rinunciato ad acquistare (ovviamente non a prezzi di mercato). E, per ovviare al rischio che qualcuno dei contraenti venga «scalato» dall’esterno, spesso, i patti prevedono 49

partecipazioni incrociate (per cui ciascuno acquista pacchetti azionari dell’altro) tali da blindare, per quanto possibile, ogni singolo contraente e, con esso, la relativa quota di sindacato. In soldoni, questo significa sottrarre al mercato finanziario una serie di società, rendendole non conquistabili. Sia il sistema delle piramidi che i patti di sindacato sono cose perfettamente legali in Italia come negli altri paesi europei. Ma questo significa deprimere il valore delle azioni delle società piramidali o rette da patti di sindacato, perché, di fatto, questo significa offrire solo azioni di risparmio, in quanto le eventuali azioni ordinarie (con diritto di voto) lo sarebbero solo virtualmente, essendoci già una maggioranza precostituita e non scalabile. Dunque, da un punto di vista strettamente economico sono patti che non convengono e, infatti, in genere vi si ricorre poco: in Francia le piramidi societarie riguardano il 25% delle società, in Spagna il 20%, in Germania il 15% e in Inghilterra nessuna, mentre in Italia il fenomeno ha riguardato sino al 45% delle società. Per quanto riguarda i patti di sindacato, la media degli altri paesi è del 15% delle società mentre in Italia è il 40% e, inoltre, ben il 58% delle nostre società adotta un doppio meccanismo di controllo. 29 Una blindatura che si spiega solo con l’ossessione del controllo del «territorio» dalle 50

ingerenze del potere politico, da eventuali penetrazioni straniere, e da sfide interne. Dunque, il capitalismo di relazione non è una singolarità italiana in sé, lo è il suo uso abnorme, che deprime il valore delle azioni ma blinda vecchie aristocrazie e impedisce l’emergere di nuovi soggetti dinamici, più o meno desiderabili che siano. Il rachitismo della borsa valori italiana è il prodotto di questo assetto, anche se occorre riconoscere che questa costruzione del capitalismo nazionale ha finanziato il miracolo italiano degli anni cinquanta e sessanta. Tuttavia, nel tempo ha anche rappresentato il maggiore fattore di sclerosi del sistema economico del nostro paese. La seconda componente del blocco fu la burocrazia politica, che iniziò ad avere una profonda trasformazione sin dalla seconda metà degli anni cinquanta. Le classi proprietarie venivano dall’esperienza di un regime che, pur rispettando il «sacro» diritto della proprietà privata, però aveva talvolta influito sulle scelte imprenditoriali. Per di più la crisi del 1929 aveva fatto sorgere un sistema di intervento pubblico che, per quanto necessario a salvare le banche e sostenere l’industria, non mancava di insospettire industriali e finanzieri. Il ricordo della legge bancaria, su cui né l’Abi né la Confindustria (assorbite nelle rispettive corporazioni) avevano potuto metter becco, era ancora troppo recente. Si comprende la diffidenza 51

del ceto proprietario nei confronti di una nuova classe politica che, anche nelle sue componenti moderate, manifestava inquietanti tendenze socialeggianti come quelle espresse dal «codice di Camaldoli». 30 L’operazione Mediobanca fu pensata anche per schermare il mondo finanziario dagli interventi politici (ed è interessante notare come il management finanziario pubblico si era subito allineato al blocco privato), ma a rafforzare questa linea di demarcazione venne il contesto politico del periodo. Il terzo gruppo, il polo cattolico, con l’avvento dell’era democristiana, visse la sua stagione d’oro, nella quale la sovrapposizione fra esso e la burocrazia politica determinava un assetto minaccioso per il polo milanese-laico. Ma la situazione politica, segnata dalla presenza di un «pericoloso» partito comunista, imponeva un patto fra i vecchi nemici laici e cattolici e il patto doveva comprendere tanto la sfera politica quanto quella finanziaria, essendo inimmaginabile che, alleati nelle sfera politica, i due continuassero a combattersi in quella finanziaria. E qui torniamo al patto non scritto di Mediobanca, da cui discesero altri due patti parimenti non scritti: il «patto della reciproca esclusione» e il «patto della X». Per il primo, gli esponenti politici non avrebbero rivestito cariche negli enti finanziari di cui avrebbero 52

garantito l’autonomia anche per la parte di diritto pubblico, ma gli esponenti del mondo finanziario si sarebbero astenuti dal partecipare in prima persona a competizioni politiche. Per il «patto della X», ai cattolici sarebbe toccato il ruolo dominante in politica, ma avrebbero lasciato il controllo delle grandi banche d’affari al mondo laico, mentre i laici avrebbero avuto la parte meno importante in politica e al mondo cattolico sarebbe andato il controllo della seconda linea del mondo bancario, quella degli istituti di raccolta (Casse di risparmio, casse rurali e artigiane ecc.). Appunto come in una X. Questi patti costituirono il cemento principale dell’edificanda Costituzione materiale. Un ruolo particolare lo ebbe il polo cattolico, nel nuovo sistema di potere. La Prima Repubblica coincise per il primo decennio con il pontificato di Pio XII, che fu il punto più alto del «nuovo papato» sorto dalle ceneri dello Stato pontificio. E fu il momento di massimo fulgore del potere cattolico in Italia, quantomeno sino al 13 maggio 1974, quando l’esito impietoso del referendum sul divorzio, decretò che i cattolici erano minoranza nel paese. Dopo quella data, iniziò una lenta decadenza e la nascita di una sinistra cattolica 31 che ruppe il dogma dell’unità politica dei cattolici, ma, sino a quel momento, la Chiesa fu (insieme alla Nato e al blocco industrial-finanziario) 53

uno dei tre «poteri forti» italiani esterni alla politica ma in grado di condizionarla e talvolta determinarla. Come si sa, la Chiesa cattolica è oggi uno dei primissimi attori geopolitici a livello mondiale, che, a quella spirituale e culturale, somma le dimensioni della potenza economica e, per molti aspetti, politica, anche se non dispone di un esercito. E senza la sua potenza economica la Chiesa non avrebbe neppure quella spirituale o politica. Molto sinteticamente, osserviamo queste particolarità della Chiesa dal punto di vista strettamente economico: il suo vertice, una monarchia assoluta ma elettiva, non si muove secondo una logica economica di massimizzazione del profitto, è alimentato da una contribuzione di origine prevalentemente volontaria (l’Obolo di San Pietro oltre che donazioni, elemosine, sottoscrizioni, meccanismi simili a quello dell’8 per mille ecc.); tutte le cariche, ovviamente, non sono ereditarie e la posizione di comando è situazionale: il Papa pro tempore ha potestas suprema, plena, immediata et universalis sulla Chiesa, ma non ne possiede i beni; il sistema organizzativo della Chiesa si avvale di una enorme quantità di lavoro volontario, non 54

retribuito o, comunque, a basso costo (ordini religiosi, associazioni di volontariato, missionari laici ecc.), particolarmente nei settori della sanità e dell’insegnamento; la Chiesa dispone di un patrimonio immobiliare e artistico accumulato nei secoli e di valore incalcolabile. Intorno all’apparato ecclesiale strettamente considerato, sorge una pluralità di enti, istituzioni, banche, associazioni laicali, università, cooperative, sindacati ecc. che danno vita a un fittissimo sistema organizzativo, all’interno del quale si è formata una borghesia di tipo particolare. Non si tratta solo di una diversità di natura culturale, determinata dal difficile rapporto fra cattolicesimo e modernità capitalistica: in fondo, un banchiere o un industriale cattolico ha lo stesso tipo di rapporto con i mezzi di produzione che ha un suo collega laico e, dal punto di vista dei principi, la finanza cattolica, ormai, non differisce più da quella laica. A rendere diverse le cose è il contesto organizzativo entro il quale essi si muovono. Non è un caso che, storicamente, i cattolici abbiano da sempre (e non solo in Italia) una presenza molto significativa nelle banche di raccolta (talvolta esplicitamente denominate «cattoliche»), mentre stentino molto di più nel mondo della finanza d’affari internazionale. Le banche cattoliche o 55

guidate da cattolici si avvalgono spesso di una committenza e di una rete di rapporti ecclesiali. Ad esempio, l’intreccio fra banche cattoliche, Ior e proprietà immobiliare della Chiesa è spesso così fitto da rendere i confini indistinguibili. Quanto alle attività industriali o imprese di servizi, gli imprenditori cattolici possono godere, in Italia, di un appoggio in sede politica da parte di partiti, correnti e singoli esponenti cattolici. Dunque, non è errato parlare di una «borghesia cattolica» simile a quella laica e caratterizzata da rapporti giuridici di produzione identici, ma distinti da quella sia dal punto di vista culturale sia, cosa più importante, dai reticoli di solidarietà su cui può fare affidamento. Passiamo ora al management delle industrie private e delle Ppss. Con la crisi del 1929, iniziò a prendere corpo, a livello internazionale, l’intervento dello Stato nell’economia (sia in forma di interventi straordinari, sia in forma di imprese di Stato) e parallelamente si iniziò a distinguere fra proprietà e gestione delle imprese. Ne derivò la nuova figura sociale del manager dotata di una sua peculiarità: da un lato i manager si proponevano come «i primi dipendenti dell’azienda» e, quindi, elementi di mediazione fra la proprietà e le organizzazioni dei lavoratori, dall’altro come il reale potere d’impresa, 56

respingendo la proprietà in un mero ruolo di rentier. 32 Negli Usa questo è stato accentuato dalla dimensione del flottante di capitale, che frammentava la proprietà, mentre in Italia la tendenza alla crescita di potere del management venne frenata dalla caratteristica familiare del nostro capitalismo e dall’asfittico mercato borsistico. Le grandi famiglie del capitalismo italiano hanno continuato a lungo a esercitare direttamente la gestione delle proprie società e a rivestire incarichi societari di primo piano, con il risultato di produrre una sorta di capitalismo managerial-familiare, privo degli strumenti di garanzia peculiari del vero capitalismo manageriale. 33 Il manager gestisce un capitale d’impresa che non gli appartiene ma, nel caso dell’impresa privata italiana, questo trovava un limite nella proprietà familiare, che invece mancava nell’impresa pubblica. In teoria, quel ruolo avrebbe potuto essere svolto dall’autorità politica, da cui quei manager dipendevano: almeno per quanto riguarda le figure apicali, la permanenza nel proprio incarico, la destituzione o la promozione a un incarico di maggior potere e prestigio, dipendevano dalle decisioni dell’autorità politica (in un secondo momento, queste scelte furono soggette alla contrattazione fra i partiti di maggioranza, secondo 57

un particolare modello di spoil system). In realtà, sarebbe errato credere che la «borghesia di Stato» fosse solo un docile strumento nelle mani dell’autorità politica; il management di Stato ha esercitato a sua volta un potere di condizionamento del sistema politico avendo la disponibilità di ingenti somme: Mattei fece largo uso di queste risorse sino a fondare una sua corrente nella Dc. Inoltre, il manager è sempre possessore di conoscenze particolari e spesso esclusive che gli assegnano un vantaggio nei confronti di chi lo ha nominato. E dispone di una rete di rapporti anche fuori del mondo politico, ad esempio nel mondo dell’intelligence: tutte le imprese di rilievo strategico hanno inevitabilmente rapporti con i servizi segreti per proteggersi dallo spionaggio industriale, penetrare un mercato straniero, o prevenire eventuali sabotaggi ecc. E, d’altra parte, anche i servizi hanno bisogno di informazioni o di coperture per i propri agenti all’estero che un’impresa di Stato può facilmente offrire. Ma, soprattutto, tanto il capo dell’impresa pubblica quanto il direttore di un servizio segreto hanno un comune interesse a proteggersi dall’autorità politica e dai suoi mutamenti di uomini o di pareri. E, dunque, a convergere nel condizionamento di essa. Il fenomeno Cefis e la sua particolare autonomia dal ceto politico si spiega in gran parte con questa sua 58

posizione a cavallo fra finanza e intelligence. 34 La «borghesia di Stato», 35 già nel 1952, controllava la produzione del 60% della ghisa, il 42% di acciaio e laminati, il 25% del materiale rotabile ferro-tranviario, della meccanica di precisione e dell’energia elettrica, il 60% della produzione di armi e il 60% degli apparecchi telefonici. 36 Dagli anni cinquanta ai settanta le Ppss non fecero che espandere il loro spazio nell’economia nazionale, mentre il loro capitale di dotazione si moltiplicava. Certamente non mancarono deprecabili sprechi, clientelismi e numerosissimi episodi di corruzione, non sempre le scelte strategiche furono le migliori ma, nel complesso, le Ppss ebbero una funzione preziosa e anzi insostituibile nella ripresa economica del paese (si pensi in particolare al ruolo dell’Eni nel passaggio dal carbone al petrolio). Anzi, nel successo italiano (almeno sino a metà anni settanta) le Ppss ebbero meriti maggiori dell’impresa privata. Certamente, la «borghesia di Stato» ebbe suoi interessi, approcci politici e culturali diversi e per certi versi contrapposti a quelli della borghesia privata e del relativo management, ma i confini non furono sempre così netti come questa constatazione farebbe pensare: se l’apparato manageriale delle imprese industriali ebbe sempre caratteristiche ben diverse da quelle delle industrie private, nelle 59

banche il discorso è assai meno netto, come dimostra la presenza delle tre Bin in Mediobanca a fianco di tutto il Gotha dell’imprenditoria privata. I manager bancari non furono mai allineati all’azione di governo e agirono sempre di conserva con il blocco proprietario. Da ultima, la dirigenza amministrativa dello Stato. Già nel periodo fascista, la «casta amministrativa dello Stato» aveva conquistato una posizione molto rilevante, anche per la prassi mussoliniana di cumulare diversi portafogli ministeriali guidandoli attraverso il rapporto diretto con i direttori generali. Questo ebbe ulteriore rafforzamento a causa delle frequenti crisi ministeriali del regime repubblicano, per cui fu sempre più vero che «i ministri passano e i direttori generali rimangono». Ben presto i ripetuti fallimenti delle commissioni e uffici per la riforma dell’amministrazione (da quella di Lucifredi 37 a quella di Cataldi 38 ) resero manifesta l’impotenza del ceto politico nei confronti della corporazione amministrativa. Dal 1957, il quadro della Pubblica amministrazione subì un lungo periodo di immobilità, sia in termini di normativa che di crescita quantitativa del personale che restò quasi invariato in rapporto alla popolazione. Crebbe, invece, in modo sensibile il parastato: in particolate con il governo Fanfani, ma anche con i seguenti, gli 60

enti pubblici conobbero una nuova impennata sia per numero che per dipendenti. Il «governare per enti», inventato da Giolitti e sviluppato dal fascismo, estese la sua mano sullo sviluppo industriale. La burocrazia degli enti diventò un perfetto complementare dell’impresa privata nel governo dell’economia, da un lato, e una propaggine autonoma dell’amministrazione centrale dello Stato dall’altro, con non infrequenti passaggi dall’una all’altra. Gli enti, soprattutto nel Sud, furono il principale organo di collegamento fra sistema politico e imprese, per governare le assunzioni clientelari finalizzate alla raccolta elettorale dei partiti di governo e, con ciò stesso, uno dei più importanti pilastri del sistema. 39 Quando i governi di centro-sinistra tentarono una razionalizzazione del sistema introducendo il criterio della programmazione, dovettero fare i conti con una corporazione divenuta troppo forte e numerosa per essere piegata e il tentativo naufragò nuovamente, così come l’efficacia di diverse riforme venne attenuata attraverso il profluvio di circolari interpretative o regolamenti che promanarono dai vertici amministrativi. Né fu minimamente possibile eliminare o anche solo contenere il ruolo della burocrazia, soprattutto del parastato, nel meccanismo clientelare, anzi esso crebbe, anche perché vi si aggiunsero anche gli esponenti 61

socialisti, ben presto convintisi dell’assoluta inutilità dei tentativi di introdurre la programmazione. Sabino Cassese lamenta l’assenza di una noblesse d’État come accade in altri Stati europei come Francia e Regno Unito, e attribuisce questo all’assenza di una selezione meritocratica, sostituita dal doppio criterio dell’anzianità e della promozione per «meriti politici», 40 entrambe cose vere ma parziali. Innanzitutto, ci pare che sia errato scaricare sul solo ceto politico le responsabilità di una selezione raccomandatizia, perché non tiene conto della prevalente responsabilità dei vertici della corporazione in questa prassi. Si osserverà che i vertici ministeriali sono di nomina politica, ma occorre tener conto di diversi fattori che limitarono molto la capacità di scelta dei ministri. In primo luogo, i direttori generali non potevano essere rimossi, per cui molti ministri dovettero adattarsi a quelli che già c’erano. In secondo luogo, la scelta, una volta effettuata, non poteva essere revocata e non pochi direttori, una volta nominati, acquistavano forte autonomia dal loro generoso benefattore e questo soprattutto in riferimento alle promozioni dei sottoposti. In terzo luogo, in diversi ministeri, le nomine apicali dipendevano (e dipendono) da un consiglio di amministrazione in cui erano presenti diversi rappresentanti della corporazione. Infine, la scelta non poteva avvenire nel vuoto assoluto, ma 62

fra i pochi possessori delle qualifiche necessarie alla nomina. Tutto ciò considerato, si comprende come solo pochi ministri «di lungo corso», 41 cioè che avevano retto il medesimo dicastero per molti anni di seguito, ebbero il potere di effettuare una scelta reale, tale da creare una vera affiliazione politica di una cordata ministeriale. E, infatti, pochissimi politici potettero godere della fedeltà dei propri protetti, una volta passati ad altro incarico o usciti del tutto dal governo. Dunque, la burocrazia ministeriale non fu mai quel docile «braccio secolare» della volontà politica che spesso si dipinge, ma fu un vero e proprio soggetto a sé, partecipe di quel processo di feudalizzazione del potere di cui si è detto. E questo fu ancor più vero che altrove in tre amministrazioni: esteri, difesa e interno. Della diplomazia e dei militari, gelosissimi custodi della propria autonomia di corpo, non c’è bisogno di dire; qualche parola in più la merita il Viminale, dove le corporazioni erano due: quella prefettizia e quella di Polizia, dove l’autonomia di corpo era, per certi versi, simile a quella degli altri due ministeri, ma dove i poteri dell’autorità politica erano per certi versi più penetranti e dove, per necessità, era necessario trovare un modus vivendi fra apparati e ceto politico, per cui ci fu sempre una sorta di co-gestione. 63

Già questo dice perché lo schema «anzianità + interferenze politiche» da solo non basti a spiegare la bassa qualità della nostra «nobiltà di Stato». Il punto principale è che nella nostra amministrazione non ha mai messo radici il senso dello Stato, che, invece, è spiccatamente presente nelle burocrazie francese, inglese, tedesca. Questo dipende da una serie di ragioni culturali generali (il debole senso dello Stato di tutti gli italiani anche per il radicato antistatalismo cattolico, il persistere di consolidate solidarietà regionali, il diffuso senso di corpo ecc.) ma anche particolari del ceto amministrativo: come pretendere senso dello Stato in un’amministrazione nella quale il reclutamento, sin dai gradi più bassi, è fatto in termini clientelari e raccomandatizi? E per quanto riguarda la formazione apicale della nostra amministrazione, si immagina che nessuna persona di buon senso provi a paragonare le nostre strutture formative alla École national d’administration o alla London School of Economics. Questo assetto di poteri restò sostanzialmente unito e privo di «sfide» sino alla fine degli anni sessanta, salvo l’alternarsi al governo dei socialisti con i liberali. I primi mutamenti negli assetti di potere italiani riguardarono proprio il conflitto, via via più esplicito e diretto, interno al blocco dominante. 42 La continua espansione del settore 64

dell’economia pubblica produsse la spaccatura tendenziale del blocco dominante in due schieramenti abbastanza variegati al loro interno: il primo era composto dalla Confindustria e dai grandi gruppi industriali privati (Fiat, Pirelli, Falk, Italcementi ecc.) riuniti nella «torretta» (una sorta di super-direttivo occulto dell’associazione), dalla grande finanza d’affari raccolta in Mediobanca, dai partiti laici e dalle correnti di destra della Dc come i dorotei. Pertanto, il «salotto buono» aveva in Mediobanca lo stato maggiore finanziario e nella «torretta» confindustriale lo stato maggiore politico. Il secondo schieramento era costituito dalla «borghesia di Stato» delle Partecipazioni Statali e dalla relativa espressione associativa (l’Intersind), alleata alle correnti di sinistra della Dc, al Psi che poteva godere dell’appoggio esterno dei sindacati e di una cauta simpatia del Pci. Con la crisi del centro-sinistra la spaccatura si approfondì assumendo caratteri particolari. In qualche modo il ceto manageriale pubblico (escluso quello bancario) acquistò coscienza del proprio ruolo politico e si autonomizzò dal ceto politico, diventando il nuovo soggetto della «borghesia di Stato» che accorpava anche il vertice degli altri enti economici di Stato (Casmez, Isveimer ecc.). In primo luogo, il fenomeno dei «partiti 65

arcipelago di correnti» raggiunse la sua piena maturazione. In secondo luogo, il processo di unità sindacale, intrecciandosi con la fase di intenso conflitto sociale, portò alla ribalta il sindacato unitario come ulteriore soggetto nel sistema di potere, a sua volta interrelato con il gioco delle correnti di partito. Ancora: la nascita dell’ordinamento regionale comportò un’ulteriore proliferazione del ceto politico. Tanto la nascita delle Regioni quanto l’affermazione del sindacato unitario avviarono la consociazione al potere del Pci. Ne derivò una «guerra per bande», che, ai due blocchi precedenti (quello privato-finanziario di Mediobanca con, al centro, l’asse Cuccia-Agnelli e quello della borghesia di Stato intrecciata alle correnti di partito), aggiunse due nuovi soggetti: Cefis-Montedison, che costituiva un polo distinto tanto da quello di Mediobanca, quanto da quello della borghesia di Stato da cui Cefis proveniva, e il polo Andreotti-Sindona-Rovelli, che tentava di travolgere il monopolio laico della grande finanza d’affari con la forza degli ingenti capitali di mafia e di una consolidata presenza nel potere politico. Il quadro si complicò ulteriormente con il graduale e parziale ingresso del Pci nel blocco dominante. Al di là degli spazi di potere concessi (non irrilevanti, ma pur sempre decisamente al di 66

sotto della sua quota elettorale), la maggior concessione fu un’altra: il riconoscimento quale interlocutore privilegiato sia delle altre forze politiche che delle grandi aziende (e dunque di Mediobanca) dotato di un potere di veto. Il Pci conquistò la presidenza della Camera e di molte commissioni parlamentari, il governo di sette Regioni e di otto delle principali 22 città italiane, ebbe la presidenza della Sipra (l’agenzia pubblicitaria della Rai), entrò nei consigli di amministrazione di molti enti soprattutto nelle Ppss, ebbe molto spazio nell’università, nei mass media, nei teatri stabili e in diverse istituzioni culturali, la corrente comunista dominava la Cgil e attraverso questa era alla testa della Federazione unitaria CgilCisl-Uil e la Lega delle Cooperative divenne uno dei 10 principali gruppi finanziari. Ma non riuscì a entrare al governo, pur mantenendo un certo potere di veto per qualche tempo. Questo sino al referendum del 1984 sul decreto Craxi, che segnò il vero declino del partito. Da quel momento, la Federazione unitaria Cgil-Cisl-Uil si sciolse e ogni centrale sindacale restò a sé stante, caddero molte giunte di sinistra (Roma, Milano, Torino, Napoli, le Regioni Piemonte, Lazio ecc.), sostituite da altrettante giunte di «pentapartito». 43 Soprattutto il partito non ebbe più il potere di veto, se non per margini residuali. E questo si 67

accompagnò a una forte decadenza organizzativa: perdita di iscritti, continue flessioni elettorali, chiusura di testate di partito (come Rinascita) o contigue (come Paese Sera e l’Ora), caduta verticale delle forme di partecipazione e militanza ecc. sino alla decisione di Occhetto di cercare un rilancio con il passaggio al Pds e, soprattutto, al sopraggiungere di Mani Pulite, che liquidò tutta l’area del pentapartito. L’assimilazione imperfetta del Pci durò quindi un decennio, lo spazio di tempo necessario al blocco di potere per superare l’ondata della stagione dei movimenti, alla cui sconfitta il Pci dette il suo apporto determinante. Non sempre la scelta più moderata è quella che paga di più. Il Pci fu prima l’indispensabile nemico per cementare il blocco di potere, quando poi questo venne sfidato dalle lotte sociali ne fu il sostegno, dopo non fu più utile, ma con la decadenza del Pci iniziò anche lo sgretolamento della Costituzione materiale nata nel 1945.

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Capitolo secondo Dalla Prima alla Seconda Repubblica

Una lunga decadenza Con la chiusura brutale della stagione dei movimenti provocata dall’irruzione del partito armato, il sistema dei partiti conobbe una momentanea ripresa di consenso: gli italiani reagirono all’insensata avventura terrorista offrendo una tregua alla classe politica, che ne fece pessimo uso. Alla successiva evoluzione del sistema contribuì non poco anche la storica sconfitta del Pci che, dopo aver abdicato alla sua funzione di opposizione costituzionale, si trovò egualmente estromesso dall’area di governo e nuovamente sottoposto alla conventio ad excludendum. Questa secca sconfitta politica ne determinò il progressivo e costante calo elettorale, sino al suo scioglimento. 69

Al termine degli anni settanta, le opposizioni di destra e di sinistra apparivano isolate e senza prospettive, mentre il blocco di centro si ricompattava nella formula del pentapartito. Quell’esito aveva rotto l’incanto: il Pci non era più «invincibile» (sino al 1979 non era mai arretrato in nessuna elezione politica, neppure nel 1958 dopo il 1956) e non era più credibile come partito capace di cambiare il paese. Sino alla solidarietà nazionale, tale incapacità di cambiamento era stata messa sul conto della Dc e del groviglio di interessi clientelari, corporativi, persino malavitosi che si erano incrostati intorno a essa; per converso, le aspettative si appuntavano sul Pci, nuovo Alessandro che avrebbe saputo troncare con un deciso colpo di spada il nodo gordiano dei particolarismi. Alla prova dei fatti, il Pci rivelò una cultura di governo del tutto insufficiente e, peggio ancora, di non essere per nulla estraneo al sistema di interessi particolaristici (anche se si trattava di particolarismi diversi dai precedenti). Ma era l’intero sistema politico che non dava segni di risposta alla domanda politica del paese e la «grande bonaccia delle Antille» era diventata la grande palude: un nuovo vento può sempre sollevarsi, ma una palude resta sempre la stessa. Anche il tentativo di Craxi di rilanciare una politica riformista finalizzata a una decisa 70

modernizzazione del paese non ebbe miglior esito: il progetto fu spesso poco concreto e produsse solo l’illusione degli anni della «Milano da bere». Anche il Psi si rivelò inferiore al compito, perché troppo condizionato dal peso delle clientele. Dopo un decennio di grandi passioni e di forte partecipazione, negli anni ottanta, iniziarono a moltiplicarsi i segni della disaffezione degli italiani verso la politica: la partecipazione elettorale diminuì costantemente, le adesioni ai partiti furono sempre più rare (nonostante i dati del tesseramento gonfiato dicessero il contrario), i giornali dei partiti vendettero sempre meno copie, tramontò la militanza, nei referendum l’elettorato mostrava di tenere sempre in minor conto le indicazioni di voto dei partiti, i tassi reali di sindacalizzazione iniziarono a decrescere. Parallelamente, iniziavano a raccogliere consensi nuove formazioni politiche dichiaratamente antisistema, come la Liga Veneta (entrata in Parlamento nel 1983), poi la Lega Lombarda, che ebbe il suo primo eletto nel 1987. Tutti segnali sottovalutati dal ceto politico, soprattutto non ci fu attenzione alla presa sempre maggiore della «critica alla partitocrazia», che, sino agli anni settanta, aveva avuto seguito contenuto e sempre nascosto nelle pieghe dell’elettorato di destra. Il punto merita un approfondimento per capire la 71

successiva evoluzione politica italiana e l’irrompere dell’ondata populista. Già all’alba della Repubblica si manifestarono diverse opposizioni, e di diversa parte politica, al progetto di una democrazia fondata sui partiti e in esse pesava il ricordo negativo del regime fascista basato sul partito. I liberali come Croce, Einaudi e Gabriele Pepe auspicavano il ritorno al Parlamento eletto su collegi uninominali, nella speranza di tornare al regime dei notabili dell’epoca precedente al fascismo, l’azionista Omodeo propendeva per un sistema basato non su partiti ma su leghe e movimenti tematici che concludevano alleanze momentanee e che per sciogliersi, una volta ottenuto l’obiettivo, erano sostituiti da altre aggregazioni similari, il vecchio leader democratico pre-fascista Nitti accusava il governo in carica di essere immobilizzato dalle polemiche fra i «troppi» partiti e gli faceva eco il socialdemocratico Paolo Rossi che rimproverava ai partiti molte altre cose. 1 In qualche caso la polemica si dirigeva verso i partiti, in altri verso la politica in quanto tale. Espressione di questo misto di avversione ai partiti e alla politica fu l’iniziale (ed effimero) successo dell’Uomo Qualunque, che predicava uno Stato tutto amministrativo, proponendo come unica carica quella da affidare a un onesto ragioniere che, alla fine di ogni anno, presenti il rendiconto di 72

entrate e uscite dello Stato «e non sia rieleggibile per nessuna ragione». 2 Dopo, la parola passò a un ristretto nucleo di intellettuali, primo fra tutti Giuseppe Maranini, 3 poi Panfilo Gentile, 4 Mario Vinciguerra, 5 Gianfranco Miglio, 6 Giacomo Perticone 7 e diversi altri. In questi autori, soprattutto Maranini (che del 1965 fondò Alleanza Costituzionale per una riforma della legge elettorale in senso uninominale maggioritario), la critica era rivolta ai partiti in quanto organizzazioni gerarchiche e organizzate stabilmente sul terriorio. Sul piano strettamente politico, a far propria la critica della partitocrazia o a esprimere qualche consonanza furono personaggi come Luigi Sturzo, Randolfo Pacciardi, Edgardo Sogno, Carlo Costamagna e alcuni altri: tutti esponenti di destra o di centro-destra. Le cose mutarono con il movimento del Sessantotto, quando iniziò a farsi strada una critica da sinistra alla forma partito, sino a quel punto patrimonio degli anarchici, che rappresentavano una ristrettissima minoranza. Il primo segnale venne da Adriano Sofri che, nel 1969, scrisse un testo 8 – oggi quasi dimenticato – nel quale rimetteva in discussione uno dei capisaldi della cultura politica comunista: il partito come avanguardia esterna al proletariato, proponendo la nascita di un partito diverso creato dalla fusione 73

delle «avanguardie interne» dei movimenti. Si riscoprì il pensiero di Rosa Luxemburg e dei teorici consiliaristi, contro cui Lenin aveva scritto il suo celebre pamphlet sull’«estremismo, malattia infantile del comunismo». Questo filone proseguirà poi con il movimento del Settantasette, che si caratterizzò per le teorizzazioni dalla «critica della politica» (Franco Berardi «Bifo», Umberto Melotti, Raffaele Sbardella, Piero Bernocchi), confluito nel filone dell’«autonomia» (Toni Negri, Sergio Bologna, Franco Piperno ecc.). Questa area criticava la democrazia fondata sui partiti proponendo una forma di democrazia diretta, con una forte caratterizzazione anarchica e, per certi versi, anomica. Parallelamente, i radicali (Pannella, Roccella, Spadaccia) 9 iniziarono una critica al modello di partito di insediamento sociale, tipico della tradizione europea, proponendo una federazione di movimenti di opinione (sul modello americano) e riscoprirono Maranini e la sua critica alla partitocrazia; l’esito iniziale fu quello della proposta del partito carismatico e senza delega ispirato al modello americano, più tardi Pannella sarà il proponente della riforma elettorale uninominale maggioritaria che, in alleanza con Segni e Occhetto, portò al referendum del 1993. Ai partiti venivano (e vengono tuttora) 74

rimproverate cose diverse e contrastanti: di essere troppo ideologici e distrarre l’attenzione dai problemi concreti o, all’opposto, di essere privi di identità culturale e mossi solo dal desiderio di ottenere il potere delle loro oligarchie; di essere verticisti e creare una gerarchia di privilegiati, fonte di carrierismi e personalismi o, all’opposto, di cedere per demagogia alle pressioni populiste; di frammentare inutilmente la rappresentanza creando instabilità o, al contrario, di dar vita a una classe politica sostanzialmente omogenea che propone solo finte alternative; di produrre conformismo (il celebre luogo comune del «portare i cervelli all’ammasso»); di introdurre vincoli di solidarietà trasversali alle istituzioni che vanificano la divisione dei poteri; di essere ostacoli alla democrazia introducendo un filtro fra le masse e lo Stato; di creare centri di potere paramafioso che alimentano clientelismi e malaffare, di assorbire legalmente o illegalmente, comunque indebitamente, risorse dello Stato per mantenere i loro costosi apparati. A volte queste critiche attribuiscono tali difetti alla natura ideologica dei partiti, altre alla loro organizzazione, che sarebbe di per sé causa di burocratizzazione. Molte di queste critiche colgono aspetti reali, ma danno per scontati effetti degenerativi che non sono affatto inevitabili. Alcune di queste critiche, in realtà, possono 75

essere riferite non solo alla prassi partitica, ma a qualsiasi forma di organizzazione politica o regime: clientelismi, nepotismi, corruzione sono sempre stati presenti (ovviamente in misura varia) a prescindere dal tipo di regime politico e la storia della Chiesa, che non è un partito, lo dimostra ad abundantiam. La formazione di una élite governante che, in un modo o in un altro, assuma decisioni da cui è esclusa la maggioranza dei cittadini (o dei sudditi) è anche essa una caratteristica di qualsiasi società organizzata e le teorie di Mosca, Pareto e Michels, limitatamente a questo punto, sono inoppugnabili, anche se si può cercare di bilanciare le derive oligarchiche. Esse sono un rischio connaturato al vivere sociale e, comunque, a ogni forma di Stato, e, da questo punto di vista, i più coerenti sono certamente gli anarchici o le correnti prossime (come quelle dell’«autonomia»), che negano lo Stato, e dunque la politica in quanto tale, e rivendicano la totale democrazia diretta. L’unico problema è stabilire se questo sistema sia praticabile o meno. Altri rilievi (il costo delle campagne elettorali, la demagogia per raccogliere voti, il rischio opposto di degenerazione oligarchica della classe politica) sono propri di qualsiasi regime rappresentativo, che esistano i partiti o no, così come la particolare frequenza delle crisi di governo e l’instabilità sono 76

caratteristiche proprie della forma di governo parlamentare, che ci siano o no i partiti, come dimostra l’esperienza dell’Italia liberale, nella quale i partiti non c’erano (se non come gruppi parlamentari) ma le crisi di governo erano ugualmente frequenti. L’unico sistema per evitare questo fenomeno e avere un governo di durata prestabilita è la repubblica presidenziale che, peraltro, non esclude affatto i partiti. Allo stesso modo, le solidarietà trasversali ai diversi poteri che ne neutralizzano la separazione non sono una esclusiva derivazione della presenza dei partiti: anche una confessione religiosa può avere lo stesso ruolo o la Massoneria, che sorse proprio in quanto partito «orizzontale» (dunque trasversale tanto ai partiti quanto ai diversi poteri), programmaticamente orientato a condizionare l’esistenza dei diversi poteri. Semmai, va osservato che la separazione netta fra potere legislativo e potere esecutivo aveva un senso nelle monarchie costituzionali, dove il governo era di derivazione regia e il Parlamento di investitura popolare, ma nella forma di governo parlamentare, dove il governo dipende dal voto di fiducia parlamentare, la fonte di legittimazione è unica e ha poco senso parlare di separazione di questi due poteri, 10 al massimo si potrà parlare di separazione di funzioni fra essi e la dialettica potere di decidere-controllo si 77

sposta dal confronto Re-Parlamento a quello fra partiti di governo-partiti di opposizione. Quanto alla critica di essere fonte di conformismo, inducendo gli individui a «schierarsi» piuttosto che a pensare autonomamente, è la più ingenua che si possa immaginare: la politica, di per sé, crea schieramenti contrapposti e la politica democratica traduce tutto questo in votazioni (che si tratti di elezioni o referendum non cambia nulla) in cui le alternative si propongono in forma schematizzata e in numero limitato, come è inevitabile che sia. Quanto al conformismo e alla predica sui cervelli portati all’ammasso, anche qui non è una esclusiva dei partiti: Chiese, eserciti, mass media, scuola, sette, associazioni ecc. hanno spesso prodotto conformismo e la capacità individuale di resistere a esso è affidata al senso laico di ciascuno, a prescindere se tesserato o meno a un partito, così come è possibilissimo dire totali banalità pure non essendo iscritti ad alcun partito e predicando contro di essi. 11 Che un partito possa essere una cricca di potere o un genuino canale di partecipazione democratica non è cosa scontata né in un senso né nell’altro, molto dipende da una serie di fattori interagenti: il momento politico, il livello di formazione e informazione degli aderenti, la loro carica ideale, come sono distribuiti gli incentivi materiali, quale 78

sia il sistema elettorale, quali i controlli, i poteri attribuiti alle istituzioni in cui i partiti esercitano la loro funzione, le caratteristiche culturali e politiche delle leadership, il metodo attraverso cui sono scelte ecc. Nel caso italiano, le cause principali della degenerazione furono, prima fra tutte, l’autodichia partitica, che, escludendo il foro esterno della giurisdizione ordinaria, azzerò ogni possibile controllo sulla vita interna dei partiti, nella quale le oligarchie formatesi ebbero agio di fare il bello e il cattivo tempo. In secondo luogo, ebbe peso la particolare struttura del sistema politico, solcato da quella linea di frattura principale sulla legittimazione che di fatto azzerò per quasi mezzo secolo ogni possibile ricambio di governo e questo in un paese in cui i partiti avevano un larghissimo potere non solo nella politica, ma anche nell’economia nazionale. Da questo discese una distribuzione eccessiva di incentivi materiali a favore degli apparati che, così, erano motivati a ogni illegalità pur di mantenere i benefici acquisiti. Influì anche la cultura autoritaria che discendeva dal Pnf che, in un modo o nell’altro, infettò tutti i partiti che scaturirono dal 1943 in poi. Ad esempio il deprecabile costume di «lavare i panni sporchi in casa» 12 difendendo sempre e comunque l’operato dei propri dirigenti e consoci di partiti, con un 79

costume omertoso che è stato ottimo concime di ogni pratica corruttiva. Questo, a sua volta, ha portato a nascondere tutto quello che riguardava la vita interna ai partiti, dei quali si offriva solo la «vetrina» congressuale o la propaganda elettorale. 13 Ci fu chi disse che i partiti sarebbero stati «case di vetro», ma occorre anche che, di tanto in tanto, i vetri vengano lavati. A questo si è sommata la consueta opera di «cooptazione selettiva» che ha man mano «addomesticato» i partiti rispetto alle centrali di potere interne ed esterne, stimolando la separazione dei gruppi dirigenti dalle rispettive basi. Come si vede, nulla che fosse inevitabile… se si fosse voluto evitare. E in questo va detto che anche se le responsabilità dei gruppi dirigenti sono state sicuramente prevalenti, anche la base degli iscritti e quella elettorale hanno accettato tranquillamente la prassi che ha poi portato alla degenerazione dei partiti. In fondo, ogni popolo ha la classe dominante che tollera e che, quindi, si merita. L’esperienza storica, peraltro, dimostra che ci sono solo due alternative reali alla democrazia dei partiti: il modello liberale che ha negli Usa la sua realizzazione più concreta, e la democrazia diretta. La prima si è regolarmente dimostrata elitaria e non democratica e per molti aspetti peggiore della democrazia dei partiti (ad esempio per il conflitto di 80

interessi o per la corruzione). La seconda, sicuramente preferibile sul piano della democrazia, però non è stata mai realizzata e nessuno saprebbe come realizzarla in società di grandi dimensioni e complesse come le nostre. Va detto però che è possibile innestare sui nostri sistemi politici diversi elementi di democrazia diretta (referendum propositivi o consultivi, forme di autogestione nella produzione, di controllo popolare diretto tanto nella politica quanto nella finanza ecc.) che potrebbero migliorarne sensibilmente il funzionamento. Dunque, la critica alla partitocrazia che prese piede dagli anni ottanta in poi conteneva molti aspetti contraddittori ed era caratterizzata da molta confusione (non sempre disinteressata, peraltro), ma ebbe successo anche per il favore dei mass media che, dagli ultimissimi anni ottanta, mutarono l’atteggiamento sino a quel momento del tutto allineato con le élite politiche. Si formò una vulgata che confluì nel limaccioso fiume in piena dell’antipolitica e quello che era stato pensato come il processo a una classe di governo divenne rapidamente il processo all’arco costituzionale. Ancora nel 1992, i partiti che derivavano dall’ex arco costituzionale (Pli, Pri, Psdi, Psi, Dc, Pds e Rifondazione Comunista) totalizzavano il 75% circa dei voti, ma, già nelle elezioni successive, i partiti riconducibili a quella radice (Pds, Rifondazione, Ppi, 81

lista Segni, Psi) assommavano a meno del 45%. Parallelamente i partiti della destra formatisi al di fuori dell’arco costituzionale (Msi e Lega Nord), che alle elezioni del 1992 ottennero poco più del 14%, nelle elezioni successive – con l’aggiunta di Forza Italia – passarono al 43%. Nel 2008 i tre partiti di destra – integrati dalla Destra di Storace – oltrepassano il 50%. Cercheremo ora di spiegare come si è giunti a questo esito.

La corruzione sistemica e la prima ondata populista La corruzione politica, che negli anni sessantasettanta era diventata generalizzata, con gli anni ottanta divenne sistemica. E ciò non solo per l’estesa gamma della tipologia tangentizia o per la diffusione all’intero paese, ma soprattutto per la sua coincidenza con il funzionamento stesso del sistema politico. Sino alla metà degli anni settanta, la corruzione, pur estesissima, tuttavia si concretava in una numerosissima serie di casi indipendenti l’uno dall’altro. Non erano certamente mancati neppure «megascandali» di grandi proporzioni finanziarie come, ad esempio, quello sugli ammassi della Federconsorzi; 14 e, ovviamente, poteva accadere 82

che un certo potentato politico si alleasse con un altro, per condurre a buon fine una determinata operazione di finanziamento illegale, ma questo accadeva episodicamente. Ma, a partire dagli ultimi anni settanta e poi, sempre più nei decenni seguenti, si manifestò una forte propensione alle pratiche corruttive in tutta Europa 15 e con effetti economici crescenti 16 e questo non poteva risparmiare un paese, come l’Italia, storicamente predisposto alla malversazione 17 e nella cui società c’erano numerosi elementi strutturali favorevoli alla sua espansione. 18 Dagli ultimi anni settanta in poi, ci fu una rapida successione di eventi che determinarono il passaggio dell’Italia dalla corruzione diffusa a quella sistemica. 19 Con la solidarietà del ceto politico trasversale ai partiti e agli schieramenti, si determinò una convergenza di interessi che divenne, appunto, regola del sistema. A un certo punto, divenne inevitabile il concerto generalizzato per condurre le operazioni di finanziamento illegale. Il punto di svincolo fu la legge 8 agosto 1977 n. 584 (votata da tutti i partiti della solidarietà nazionale; Pci compreso) che riordinò la normativa degli appalti, introducendo come forma prevalente quella dell’«appalto concorso». 20 Come si sa, 83

nell’appalto concorso, l’Amministrazione può limitare l’accesso a un certo numero di aziende. Altri meccanismi analoghi consentirono man mano di restringere a un piccolo gruppo di concorrenti (sempre gli stessi) le aziende che si sarebbero spartite l’intero monte-lavori. In questo modo ogni azienda aveva determinati referenti politici (una o più correnti di partito). Per poter escludere altri concorrenti e, nello stesso tempo, massimizzare il profitto delle operazioni, si rendeva necessario evitare scontri fra le diverse cordate aziendal-politiche. Nacque in quel periodo la prassi – poi evidenziatasi nel corso delle inchieste giudiziarie – per la quale l’intero montelavori in sede locale (Regione, Province e Comuni) veniva preventivamente diviso, nel corso di riunioni, cui partecipavano tanto le aziende, quanto i rappresentanti delle diverse correnti di partito e assessori interessati. Si giunse al punto che, per evitare sorprese dell’ultimo momento, ogni azienda inviava la propria documentazione a quella che avrebbe dovuto vincere la gara, in modo che fosse questa a formulare l’offerta di tutti gli altri concorrenti ed essere quindi matematicamente certa della vittoria. Ovviamente, questo implicava la distribuzione di quote-tangente per ciascuna opera pubblica a ogni corrente di partito coinvolta nella trattativa. 84

Questo sistema funzionava a patto di ottenere una certa acquiescenza del Pci, perché spesso uno dei tre livelli istituzionali (Regione, Provincia o Comune capoluogo) era retto da una amministrazione di sinistra e non sarebbe stato possibile spartire «equamente» il monte-appalti senza che esso fosse considerato nella sua interezza. Pertanto si provvide a estendere il sistema anche al Pci, che, però, vi partecipò in modo diverso dagli altri: ovviamente nel Pci non vi erano correnti e il partito trattava in quanto tale, ma, in linea di massima, non per chiedere alcuna tangente, quanto per garantire una quota dei lavori per le società della Lega delle Cooperative. Poi la Lega trovava modo di sovvenzionare il partito in altro modo (pubblicità sui giornali di partito, partecipazione ai festival dell’Unità, assorbimento di funzionari in eccesso, facilitazioni varie). Qualcosa che non era propriamente illegale ma che rasentava molto il margine del codice penale. Come scrive Cicconi, 21 nacquero tre «riti» di pratiche corruttive: il rito milanese, quello classico, basato sul passaggio diretto di denaro fra impresa e potere politico; quello emiliano (o felsineo) che riguardava il Pci con l’intermediazione della Lega delle 85

Cooperative e le società legate in modo indiretto al partito; quello palermitano, che riguardava la mafia e che passava attraverso il meccanismo dei contratti di nolo e fornitura. 22 In questo modo, la corruzione negli anni ottanta divenne sistemica, cioè basata su un funzionamento combinato che metteva in relazione necessaria i diversi soggetti della pratica corruttiva a livello generalizzato. E non ammetteva eccezioni. È per questo che la denuncia della «questione morale», fatta da Berlinguer nella famosa intervista concessa a Repubblica il 28 luglio 1981, fu totalmente inefficace, in primo luogo perché la «questione», molto più che in termini morali, si poneva in termini politici, economici e istituzionali, in secondo luogo perché partiva da un presupposto semplicemente non vero: quello della «diversità comunista» che, ovviamente, implicava una estraneità del Pci al sistema che non c’era e non poteva esserci. L’intervista è del 1981, quando la corruzione sistemica iniziava a manifestarsi, soprattutto a livelli locali, pertanto è possibile che, personalmente, il segretario nazionale del Pci non ne fosse al corrente, ma il fatto è che il sistema di Tangentopoli non avrebbe mai potuto funzionare senza un pieno coinvolgimento del Pci: è 86

immaginabile che una pratica corruttiva così vasta, diffusa e regolare potesse svolgersi senza che una opposizione con poco meno di un terzo dei seggi di ogni livello istituzionale ne avesse, quantomeno, percezione? Se così fosse, ne conseguirebbe una patente di incapacità politica senza precedenti. Più realisticamente è da prendere in considerazione l’ipotesi di una serie di concause che favorirono questa «consociazione al ribasso del Pci»: la caduta della tensione ideale nel quadro intermedio e la sua omologazione al resto del ceto politico, il timore di fornire argomenti al terrorismo e, in generale, a quanti sostenevano l’irriformabilità del sistema e, dunque, l’inutilità degli sforzi del Pci, la pressione del mondo cooperativo per poter entrare nel gioco e altro ancora. D’altro canto, basti confrontare il ruolo attivo di denuncia e di battaglia politica che il Pci ebbe sino a metà anni settanta sui grandi casi di malversazione (come quello citato della Federconsorzi o altri come i casi dei tabacchi e delle banane, dell’aeroporto di Fiumicino, Italcasse ecc. 23 ) e quello cauteloso e silente, al limite dell’inesistenza, nel caso EniPetromin 24 o Imi-Sir 25 o in quello Enimont, per non sospettare che questo sia stato il riflesso di precise scelte politiche che prevedevano l’abbandono del terreno della lotta alla corruzione, per favorire l’accesso del Pci nell’area della 87

legittimazione. Alcune forme di finanziamento surrettizio non erano neppure nascoste: quando nei primissimi anni ottanta emersero contributi di alcuni enti a Ppss a favore di alcune correnti della Dc e del Psi, l’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita sostenne che quello del finanziamento alla politica era uno dei «fini sub-istituzionali» delle Ppss. Tutto questo, insieme al proliferare delle pratiche clientelari, determinò un irrigidimento del sistema politico che, ben presto, perse ogni capacità di autoriforma. A concorrere a tanto fu anche la sostanziale inerzia del sistema giudiziario nei confronti della dilagante corruzione, sino alla fine degli anni ottanta. Nei primi anni ottanta esplose un vistoso scandalo a Savona, che ebbe come protagonista un assessore socialista aderente alla P2, Alberto Teardo. Nel caso erano presenti in nuce tutti gli elementi di quella che, dieci anni più tardi, verrà chiamata «Tangentopoli», ma l’inchiesta ebbe vita difficile e il magistrato Michele Del Gaudio andò incontro a molte traversie disciplinari. 26 È da notare anche l’isolamento politico del magistrato, determinato anche dall’atteggiamento del locale Pci. Perché Mani Pulite non esplose dieci anni prima? Certamente, può darsi che abbiano giocato fattori casuali di luogo, persone, circostanze istruttorie ecc., 88

ma questo non basta a spiegare l’isolamento in cui il magistrato savonese venne lasciato dalla corporazione giudiziaria, né la scarsa attenzione data al caso dai mass media. In realtà, non erano ancora maturate le condizioni politiche che avrebbero reso possibile Mani Pulite: il crollo dell’Urss, il trattato di Maastricht, il conseguente diverso atteggiamento dei poteri economici nei confronti della classe politica, soprattutto in vista delle privatizzazioni. Soprattutto, sino agli anni ottanta, il sistema, nel complesso, fu in grado di accogliere la domanda politica della maggioranza dell’elettorato, finanziando le scelte con il debito e con la manovra monetaria, ma dagli anni ottanta le cose iniziarono gradualmente a cambiare con il «divorzio» fra Banca d’Italia e Tesoro, e con i vincoli stabiliti a Maastricht che imposero politiche antinflattive 27 e il sistema iniziò ad andare in crisi tanto dal punto di vista economico quanto, e soprattutto, politico. L’eccessiva frammentazione correntizia dei partiti, la sempre minore produttività del sistema politico, l’incomprensibilità dei suoi riti, come si è detto, iniziarono a produrre un forte rigetto. Sin dal 1979, i tassi reali di adesione ai partiti (iscrizioni, vendita della stampa, sottoscrizioni ecc.) crollarono parallelamente, spingendo ancor più verso la ricerca di risorse attraverso la corruzione. Nello stesso periodo iniziò a profilarsi una 89

tendenza al «leaderismo carismatico»: Pannella prima e Craxi subito dopo tentarono di proporsi come leader che parlavano direttamente al corpo elettorale, senza la mediazione del proprio partito, ridotto ad appendice personale. Il piccolo Partito Radicale fu, sin dagli inizi degli anni settanta, il supporto personale del suo leader e lo statuto adottato in quel periodo fu modellato esattamente in questa funzione. Diversa la vicenda del Psi, nel quale Craxi doveva comunque fare i conti con i «boiardi» del partito, i cui seguiti clientelari rappresentavano una quota maggioritaria dell’elettorato socialista. A partire dal congresso di Palermo (1981) si stabilì una sorta di compromesso: al segretario la linea politica, in un clima di crescente unanimismo (la «maggioranza bulgara» di cui si dirà imbarazzato lo stesso Craxi al congresso di Verona, 1984), ai boiardi mano libera negli «affari». Una sorta di «leaderismo imperfetto» che, tuttavia, rivitalizzò il Psi, che dal 1963 in poi aveva conosciuto un costante declino elettorale. Inizialmente, la «cura carismatica» rafforzò i partiti che la adottarono (non solo Pr e Psi, ma anche la Dc, che la tentò, in modo assai più moderato, con De Mita), ma per convertirsi nel principale fattore di debolezza quando il sistema iniziò a fare i conti con i condizionamenti esteri e con i rovesci della finanza 90

pubblica. 28

Dalla repubblica dei partiti alla repubblica dei populismi Il crollo della Prima Repubblica avvenne fra il 1992 e il 1993, ma la frana iniziò almeno cinque anni prima, nel 1987. Lo scioglimento anticipato delle Camere fece sì che, cinque anni dopo, si sarebbe creato l’«ingorgo istituzionale» per la coincidenza delle elezioni del Parlamento e del presidente della Repubblica. E tutti iniziarono a manovrare in vista di quella scadenza, perché il nuovo presidente sarebbe stato scelto dal Parlamento eletto nel 1992. Di conseguenza, chi aveva rapporti di forza favorevoli nel Parlamento precedente (in particolare Giulio Andreotti) aveva interesse a spingere il presidente in carica alle dimissioni, per votare prima del suo scioglimento. E, infatti, Andreotti rivelò l’esistenza di Gladio soprattutto al fine di mettere Cossiga con le spalle al muro e costringerlo a dimettersi, cosa che, però, non accadde. Nelle elezioni politiche che ne seguirono, le Leghe del Nord ebbero un paio di eletti. Contemporaneamente, a Palermo la mafia riversava i suoi voti su socialisti e radicali per mandare un segnale alla Dc, dalla quale si riteneva delusa per le 91

condanne fioccate nel «processone» partito dall’inchiesta di Giovanni Falcone. Dunque iniziava a incrinarsi il rapporto fra la Dc e alcuni suoi tradizionali serbatoi elettorali (alta Lombardia, Veneto, Sicilia). I socialisti, dal canto loro, ottennero la loro migliore affermazione, ma dovettero accettare di cedere alla Dc la presidenza del Consiglio, in ossequio al «patto della staffetta», ed entrarono «in apnea», in attesa che la mano passasse a loro. Il Pci era definitivamente nell’angolo: in declino elettorale e senza credibili progetti di alleanze. Di lì a un anno, Alessandro Natta lascerà il posto ad Achille Occhetto, che avviò la trasformazione del partito in senso neoliberista. Un anno dopo, De Mita conquistava la presidenza del Consiglio, pur mantenendo la segreteria della Dc: una concentrazione di potere, sempre invisa ai democristiani, per di più in vista della scadenza quirinalizia. Ne derivò il patto trasversale fra Craxi, Andreotti e Forlani (detto Caf) che lo avrebbe impallinato in breve. Dunque, mentre si confermava l’effervescenza del corpo elettorale, iniziata nel 1983, gli attori del sistema politico si paralizzavano a vicenda con i giochi tutti interni al Palazzo (la staffetta, le alchimie correntizie in vista dell’elezione del capo dello Stato, l’isolamento del Pci). 92

Nello stesso tempo, i mutamenti sociali ed economici iniziarono a scivolare dal passo al trotto e dal trotto al galoppo. In particolare a livello internazionale, 29 soprattutto a causa del ritorno della Grande Germania. 30 Nel luglio 1987, entrò in vigore l’Atto Unico istitutivo del «grande mercato europeo», la cui piena attuazione era prevista, appunto, per il 1992, quando, con il trattato di Maastricht, si prospettò la nascita dell’euro. 31 E quell’atto prevedeva, fra l’altro, la possibilità per qualsiasi azienda europea di partecipare a gare d’appalto per lavori pubblici in ciascun paese dell’Unione. Ciò avrà il suo peso nell’orientare i ceti imprenditoriali che considerarono non più economicamente conveniente la prassi tangentizia, sino a quel punto regola costante. Ben difficilmente il sistema delle «aziende fiduciarie di partito» avrebbe potuto reggere senza provocare l’esclusione delle aziende italiane dalle gare negli altri paesi europei. D’altra parte, la prospettiva della moneta unica rendeva molto pesante la situazione del debito pubblico. A novembre il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati registrò una punta altissima di voti ostili alla casta giudiziaria, su cui si riversava il malcontento popolare per il pessimo funzionamento del sistema giudiziario. Il risultato sarà vanificato 93

dalla successiva legge, ma la vicenda scavò un solco profondissimo fra magistratura e classe politica (in particolare i socialisti, che erano stati i proponenti del referendum insieme ai radicali), ponendo le premesse dell’ondata di Mani Pulite. D’altra parte, a far salire la temperatura contribuirono anche il riemergere di vecchie partite non regolate e iniziò a ribollire il fondo limaccioso delle inchieste per strage: nel 1987 la Corte d’Assise di Venezia condannava in primo grado i responsabili della strage di Peteano e, con loro, diversi ufficiali dei Cc responsabili dei depistaggi, nello stesso tempo, tornava in Italia Stefano Delle Chiaie e prendeva avvio la prima Commissione Parlamentare di Inchiesta sulle stragi. Tutti avvenimenti che prepararono il terreno al caso Gladio che, con le inchieste di mafia e quelle di Mani Pulite costituirà il tridente che trafiggerà il sistema. Cosa troppo spesso trascurata. Infatti, parlando della crisi della Prima Repubblica, nella maggior parte dei casi, si punta l’attenzione solo sul tema della corruzione, ma, in realtà, essa avverrà su altri due piani egualmente delegittimanti: mafia e stragi irrisolte. Si trattò di un quadro di insieme che metteva sotto accusa l’intero ceto politico e gli apparati statali. Per di più anche alcuni equilibri internazionali, che avevano garantito l’inamovibilità della classe 94

politica italiana per mezzo secolo, iniziarono a tremare. In Urss il progetto di rinnovamento gorbacioviano non riusciva a trarsi fuori dalla trappola afghana e, pertanto, si avviava rapidamente verso la crisi finale del 1991. Come si vede, da quegli anni parte una serie di fili che poi si intrecceranno più tardi per stringersi al collo della classe politica. Nello stesso periodo, dopo un quarantennio in cui i partiti erano stati protagonisti assoluti della scena politica in tutta Europa, iniziò a spirare un vento populista e antipolitico, con manifestazioni non secondarie in Germania (i Republikaner), Polonia (Stanislaw Tyminski), Francia (Énergie radicale di Bernard Tapie), Spagna (Convergenza democratica di Catalogna di Jordi Pujol), cui si aggiunsero in seguito i casi di Olanda (Pym Fortuyn), Austria (Partito della Libertà Austriaco di Jörg Haider). Una novità per il vecchio continente, a differenza degli Usa e dell’America Latina, dove ci sono sempre state correnti populiste di notevole consistenza (il maccartismo e poi il movimento di Ross Perot negli Usa, il peronismo in Argentina e, dopo, il movimento di Collor de Mello in Brasile e quello di Alberto Fujimori in Perù). In Europa gli unici precedenti erano stati quelli dell’Uomo Qualunque in Italia, del poujadismo a metà anni 95

cinquanta in Francia e il movimento di Mogens Glistrup 32 (tutti di destra), ma si era trattato di ventate effimere durate solo qualche anno. Ma questa prima ondata di populismo ebbe una caratterizzazione politicamente più differenziata: nella maggior parte dei casi si trattò, come sempre, di movimenti di destra (chiaramente come i Republikaner, il Fn francese o Haider, più velatamente nel caso di Tyminski), ma non sempre: Tapie era originariamente socialista e restò sostanzialmente nel perimetro della sinistra, Pujol era più centrista, Fortuyn aveva una caratterizzazione libertaria, anche se era islamofobo. Alle origini molti di questi movimenti presero le mosse dalla protesta antifiscale, ma dopo vennero via via caratterizzandosi come movimenti identitari o nel senso della xenofobia anti-immigrati (Republikaner, Fn, Fortuyn, Haider) o come movimenti etno-regionalisti (Pujol e Lega in Italia). Altro elemento comune fu la reazione antipolitica alimentata dalla serie di scandali per corruzione esplosi, più o meno contemporaneamente, in Francia, Germania, Spagna e, come vedremo, Italia (in Belgio l’equivalente fu lo scandalo pedofilia). Non sembra privo di significato che questa ondata abbia coinciso sostanzialmente con: 1. l’attenuarsi della minaccia sovietica già dai primi 96

2. 3.

4.

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anni ottanta, che pose fine al bipolarismo; il sempre più scarso rendimento politico dell’azione di governo un po’ in tutti i paesi; l’avvento della rivoluzione neoliberista, con la conseguente delegittimazione della politica nei confronti dell’economia e, soprattutto, della finanza, proposta come unico timone credibile delle società occidentali; il passaggio dei partiti socialisti (e del Pci) in campo liberista e l’eclissi della sinistra in Europa; il forte declino dello Stato sociale, peraltro non accompagnato da una significativa riduzione della pressione fiscale.

L’Italia – anche per le evoluzioni del quadro politico prima descritte – fu, in qualche modo, l’epicentro di questa prima ondata, che iniziò a manifestarsi con le Leghe nel Nord, cui seguirono la nascita di Forza Italia, di Alleanza nazionale e dell’Italia dei Valori, che daranno vita a forme differenziate di populismo. In qualche modo forme incipienti di antipolitica si erano manifestate già nel decennio ottanta: del Partito Radicale si è detto; mentre elementi extrapolitici, o ipo-politici, vennero anche dai movimenti ecologisti (ad esempio il ritornello «non siamo né di destra, né di sinistra», il carattere 97

monotematico ecc.) e pacifisti (la non violenza come espulsione del conflitto dalla dimensione politica, l’ossessione eticista ecc.). Due in particolare i tratti comuni al Pr e a questo tipo di movimenti: il rifiuto della complessità della politica, spesso ridotta a dimensione monotematica, e il rifiuto dell’organizzazione, in favore di soluzioni debolmente strutturate, poco o per nulla formalizzate, che promettevano quella democrazia che nei partiti era morta, ma che, alla fine, non si dimostrava affatto più vitale in queste nuove aggregazioni. La stessa classe politica aveva seminato in questo senso. Mentre tutti i segnali indicavano la forte caduta di consenso dei partiti, essi cercavano di resistere aumentando a dismisura il loro finanziamento pubblico, accentuando l’azione clientelare e cavalcando disinvoltamente temi e forme di azione e comunicazione che strizzavano l’occhio alla vena populista che andava manifestandosi. Lo stesso linguaggio della politica si faceva sempre più orientato al linguaggio comune quotidiano: «parlare come la signora Maria di Voghera» era l’imperativo, ma, per la sua evidente artificiosità, questo si dimostrò ben presto un grottesco espediente volto più a nascondere che a rivelare le vere dinamiche politiche. Dal Palazzo partiva persino una denuncia dei mali della politica 98

(come non ricordare Pertini che tuona contro i mancati soccorsi ai terremotati?). Misure in sé auspicabili: disfare il linguaggio della politica barocca, superare i riti istituzionali, denunciare i guasti della politica sono tutte cose sicuramente positive, quel che le rese micidiali fu il cocktail con una prassi clientelar-corruttiva sempre più evidente. La corruzione, come si è detto, non è una «questione morale» ma una questione, appunto, politica e istituzionale, che deve trovare contrasti di tipo politico e istituzionale e certamente non basta la pretesa «diversità morale» di un partito. A spianare definitivamente la strada all’ondata populista fu il trio Pannella-Segni-Occhetto con la campagna contro il sistema proporzionale e per il passaggio al maggioritario, tutta svolta sui più classici temi populisti (i «troppi» partiti, la necessità di un leader chiamato a guidare la coalizione, l’illusione di rendere l’elettorato protagonista nella formazione del governo, la polemica contro il voto di preferenza ecc.): c’erano già tutti gli elementi che faranno la fortuna di Berlusconi. Tutti questi elementi prepararono il terreno all’esplosione populista che, fra il referendum del 18 aprile 1993 e la vittoria della destra nelle politiche del marzo 1994, spazzò via la Prima Repubblica per inaugurare la Seconda: dalla Repubblica dei partiti alla Repubblica dei populismi. 99

E forse non è inutile una riflessione costituzionale su quel referendum che ebbe aspetti davvero singolari. In primo luogo, ricordiamo che sulla base delle considerazioni fatte nel capitolo precedente, anche se la Costituzione non fa cenno alcuno sul carattere del sistema elettorale, tutta la sua architettura (bicameralismo perfetto, norme sull’elezione del presidente e dei membri degli organi di garanzia costituzionale e norme sulla revisione) sottintende un sistema pluripartitico sostenuto da una legge di tipo proporzionale. 33 Nel 1987, la Corte bocciò una proposta abrogativa del sistema elettorale del Consiglio Superiore della Magistratura, 34 perché la legge elettorale è parte integrante del dispositivo di attuazione di un organo costituzionale, che deve sempre essere perfettamente operante in qualsiasi momento, per cui non è ammissibile nemmeno un breve periodo di vuoto normativo, sino all’approvazione della legge successiva. Dunque, un referendum in materia di legge elettorale di un organo costituzionale può essere ammesso solo se il quesito sia parziale e manipolativo, lasciando, dopo l’eventuale abrogazione, una legge logica e immediatamente applicabile. Questa considerazione, ovviamente, vale a più forte ragione per il Parlamento, che è l’organo che poi dovrebbe provvedere alla nuova legge, per cui, in caso in cui sopravvenisse lo 100

scioglimento del Parlamento, non si saprebbe come rieleggerlo. E, infatti, nel 1991 35 la Corte bocciò un quesito referendario che intendeva manipolare la legge elettorale per il Senato rendendola prevalentemente maggioritaria, perché la normativa residua conteneva una palese illogicità, per cui non sarebbe stata applicabile. Questo perché la legge era scritta in modo tale da non permettere la manipolazione in questione, senza produrre effetti illogici. Allora il Parlamento, investito della questione, modificò la legge in modo da rendere possibile il referendum e la Corte lo ammise, solo che: 1. questo accadde a Camere già sciolte, nel febbraio 1992, ed è quantomeno dubbio che un Parlamento possa modificare (per quanto solo formalmente) la stessa legge con cui dovrebbe essere eletto, quando già è stato sciolto; 2. e ancor più rilevante: le firme, sul quesito che la Corte valutò ammettendolo, erano state raccolte sul testo precedente e non su quello modificato dal Parlamento, per cui si sarebbe potuto obiettare che la proposta di referendum non fosse valida e occorresse procedere a una nuova sottoscrizione. Tuttavia la Corte passò disinvoltamente anche su questi aspetti certamente formali, ma, come insegna 101

Kelsen, in democrazia, la forma è sostanza. Perché in così breve tempo la Corte era diventata così disponibile? Era accaduto che era mutata la situazione politica: nel giugno 1991 si era svolto il referendum sulla «preferenza unica» in cui avevano prevalso fortemente i Sì e il pressing mediatico a favore del movimento referendario era fortissimo. La piena populista stava montando e una sentenza di rigetto del referendum, per quanto impeccabile sul piano costituzionale, sarebbe parsa un inammissibile favore alla «partitocrazia». Non sempre i magistrati, anche delle giurisdizioni più alte, hanno il coraggio del proprio ruolo. Nel 1992, i processi di sfaldamento del sistema giunsero al punto critico: le elezioni segnarono una clamorosa vittoria della Lega e una parallela sconfitta di tutti i partiti della maggioranza governativa (non era più accaduto dopo il 1953), la frattura con la mafia si fece manifesta e cruenta, prima con l’uccisione di Salvo Lima (messaggio chiaramente indirizzato ad Andreotti) e dopo con la strategia stragista dei corleonesi. L’elezione del presidente, trascinatasi stancamente fra cento manovre di corridoio, precipitò drammaticamente nel giro di poche ore, sotto la violenta pressione dello stragismo mafioso. Nello stesso tempo lo smantellamento delle Ppss 102

e l’avvio delle privatizzazioni stimolarono la nascita di una serie di progetti speculativi che, per massimizzare il vantaggio, meditavano di congedare una classe politica troppo pretenziosa, per collocarne un’altra «più trattabile». Nel quadro che registrava sul piano interno il declino inarrestabile del Pci, e su quello esterno la fine dell’Urss, la mediazione di quel ceto politico di governo non appariva più necessaria come nel passato e le sue pretese sempre meno accettabili, soprattutto in vista delle privatizzazioni: è troppo nota, perché qui se ne debba dire, la vicenda della crociera a bordo del «Britannia» (lo yacht della Regina Elisabetta), nell’estate 1992, durante la quale manager ed economisti italiani discussero della prospettiva delle privatizzazioni in Italia. Qualche anno prima, Bettino Craxi aveva imposto la manager di area socialista Marisa Bellisario quale presidente dell’Italtel (gruppo a Ppss) e dopo aveva cercato di confermarla alla guida della Telit, il grande gruppo italiano delle telecomunicazioni, che sarebbe dovuto sorgere dalla fusione fra Italtel e Telelettra (di proprietà della Fiat), ma si scontrò con il veto della Fiat. In realtà, la Bellisario aveva fatto un ottimo lavoro all’Italtel e le resistenze Fiat non erano rivolte contro la sua persona, quanto contro quello che il grande gruppo privato percepiva come una «colonizzazione politica» del Psi su un settore 103

strategico; pertanto, nel 1987 l’affare saltò. Questo precedente aveva lasciato il segno, facendo sorgere in molti imprenditori il dubbio che il Psi (ma, in realtà, l’intero ceto politico) si apprestasse a ricavare onerosi tributi dalle incipienti privatizzazioni, dalle quali i potentati finanziari si ripromettevano lucrosi guadagni che non avevano intenzione di condividere con un ceto politico ingombrante quanto ormai inutile. È qui che si determina il crollo della «Costituzione materiale» che aveva retto il sistema sino a quel momento, con il «divorzio» fra i ceti proprietari e la classe politica della Prima Repubblica che, per di più, non aveva più l’appoggio popolare. Un’anima populista e qualunquista molto consistente (probabilmente fra un quarto e un terzo dell’elettorato) era sempre esistita nel popolo italiano, ma la Dc aveva saputo incorporarla e usarla con il meccanismo della distribuzione selettiva delle risorse. Quando il meccanismo non resse più, per l’impatto con le rigidità imposte da Maastricht, gli «antipolitici» ritirarono la delega alla Dc distribuendosi fra Lega, Forza Italia e An. E con la comparsa di Forza Italia, si completava il passaggio dalla Repubblica dei partiti alla Repubblica dei populismi. Occhetto tentò di giocare la carta del populismo «antipartitocratico», ma era il segretario di quello che, fino a pochissimo tempo prima, era l’Arcipartito e non era e non poteva essere credibile: 104

scosse l’albero ma i frutti li raccolse Berlusconi. In questo quadro da «rompete le righe» si svolsero l’inchiesta di Mani Pulite e la campagna referendaria contro il sistema proporzionale, che determinarono la rottura costituzionale. Il meccanismo che aveva garantito ampia messe di consensi alla classe politica subiva un’improvvisa battuta d’arresto: «Mani Pulite» fu l’«infarto» del sistema, le cui premesse erano in quelle dinamiche. Il sistema dei partiti si disintegrò nel giro di pochi mesi e non crollò perché ci fu Mani Pulite ma, al contrario, Mani Pulite ci fu perché stava crollando tutto. Grande, a questo punto, è la tentazione di cercare un «principio ordinatore» di tutti questi avvenimenti in un «grande complotto» e c’è tutta una letteratura, pur assai ineguale, che va in questo senso. 36 Ma basta scorrere la serie di avvenimenti per comprendere che quello che è accaduto è la risultante di diversi progetti politici non riconducibili a unità e anche di errori, ritardi o pura casualità. Ad esempio, si può pensare che il caso Gladio faccia parte, insieme a Mani Pulite e all’istruttoria palermitana di Caselli, di un unico piano ispirato dal Pci? Ma, in questo caso, dovremmo pensare che Giulio Andreotti (che aprì la strada al giudice Casson) fosse complice dello stesso progetto che lo vedeva imputato a Palermo per 105

collusioni con la mafia e a Perugia quale mandante dell’assassinio Pecorelli. Oppure dovremmo sostenere che il ministro guardasigilli, il socialista Vassalli, abbia coscientemente lavorato a potenziare il ruolo di quelle Procure della Repubblica che avrebbero affossato il suo partito. 37 E dovremmo pensare che Occhetto, Segni e Pannella fossero d’accordo nel progetto di portare Berlusconi al governo. O che Berlusconi abbia intenzionalmente contribuito con le sue emittenti alla campagna di Occhetto, Segni e Pannella. In realtà, ci fu un arrembaggio simultaneo alle istituzioni di pirati di ciurme rivali. Un processo storico, come quello che portò al crollo del sistema politico fra il 1992 e il 1993, non può essere ridotto alla dimensione di un complotto più o meno articolato. Quando l’assetto di potere va in crisi, non c’è bisogno di alcun organo occulto: i meccanismi del nucleo cesareo del potere si mettono in moto da soli, magari con nuclei concorrenziali sino a quando uno non riesca a prevalere sugli altri. Il sistema non è solo un insieme occasionale di attori irriducibili uno all’altro, ha anche una sua logica propria che agisce da centro gravitazionale. E, dunque, di «complotti» semmai ce ne furono più d’uno e alcuni erano divergenti e si elidevano a vicenda, altri, invece, furono tacitamente 106

convergenti, ma l’aspetto prevalente fu quello delle trasformazioni sociali, politiche ed economiche di ampio respiro e il parallelo processo di chiusura autoreferenziale del sistema politico. Come scrive Tremonti: La Prima Repubblica è finita quando ha cominciato a ruotare vertiginosamente sull’asse del debito pubblico e, di riflesso, è rimasta schiacciata sotto il peso dell’insofferenza fiscale popolare. 38

Quel che accadde fra il 1992 e il 1994 fu la vittoria postuma di Costantino Mortati, che aveva avvertito come una Costituzione formale non possa sopravvivere alla Costituzione materiale da cui è stata originata se non come testo solo formalmente vigente. Alcuni accademici pedanti 39 tengono a precisare che non di Seconda Repubblica si deve parlare ma di «secondo tempo della Repubblica» perché non è cambiata la Costituzione, che sarebbe come dire che il fascismo è stato il secondo tempo dell’Italia liberale, perché lo Statuto albertino era rimasto nominalmente vigente. Semmai, sarebbe più pertinente osservare che, al crollo della Costituzione materiale della Prima Repubblica non ne è succeduta una altrettanto stabile e organica e, semmai, abbiamo assistito a un processo di decostituzionalizzazione dell’ordinamento. L’architettura di potere della Seconda Repubblica è subito parsa un coacervo di accordi occasionali 107

incapaci di dar vita a un sistema di regole condivise, anche se solo tacite. I conflitti di interesse, la sempre più penetrante influenza delle istituzioni europee, gli scossoni della globalizzazione, la fragilità delle basi del consenso popolare 40 lo hanno impedito. Non c’è stato un nucleo che sia riuscito a imporsi agli altri come «nucleo cesareo del potere» e la manifestazione più evidente è data proprio dal cammino penosamente erratico delle riforme costituzionali, incapace di approdare a un nuovo testo. Con il primo governo Berlusconi, ci fu un tentativo di riscrittura complessiva della Costituzione, affidato al ministro Francesco Speroni, che iniziava con queste esilaranti parole: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sulla libertà di mercato». Non se ne fece nulla. Anche questo dimostra come non ci fosse un progetto organico né sul piano costituzionale né sugli altri. Ovviamente le promesse di maggiore democrazia, di fine delle oligarchie partitiche e così via, sono andate tradite (ma erano solo propaganda ingannevole sin dal primo momento della campagna referendaria) e il sistema politico che ne è sorto è ancora meno democratico, basato su partiti del leader se non proprio su partiti di proprietà privata, con parlamentari nominati di imperio dalle 108

ristrettissime oligarchie partitiche ecc. E questo ci porta a parlare degli sviluppi del processo corruttivo e della delegittimazione del ceto politico che esso produsse. In fondo il cuore della rivolta era stato proprio la protesta contro la corruzione, molti pensarono a una sorta di catarsi nazionale che avrebbe messo fine alla piaga eterna della corruzione. Effettivamente, ci fu un tentativo di varare una legislazione di contrasto alla corruzione: abrogazione dell’immunità parlamentare – salvo che per l’arresto –, nuova disciplina degli appalti, il passaggio al sistema uninominale che «eliminava» il voto di preferenza (individuato come una delle cause principali del malaffare), introduzione del reato di «voto di scambio» ecc. ma i risultati furono irrisori. Infatti, una parte di queste misure era semplicemente incongrua o utilizzava il tema della corruzione come pretesto surrettizio in funzione di altri obiettivi politici. Ad esempio, l’abolizione del voto di preferenza fu solo un’illusione ottica: anche il candidato del collegio uninominale ha il problema di raccogliere voti e il fatto che il voto personale non sia disgiungibile da quello del partito ripropone le logiche precedenti e le esaspera. L’abrogazione dell’immunità parlamentare ebbe effettivamente qualche effetto pratico, consentendo ai Pm di indagare su un parlamentare senza dover 109

chiedere l’autorizzazione alla Camera di pertinenza, ma aprì problemi di altro genere. Il deficit di controlli che abbiamo segnalato non poteva trovare una risposta nell’intervento senza limiti del potere giudiziario (potenzialmente assai pericoloso) ma, semmai, nell’istituzione di un organo terzo che eliminasse l’autodichia senza sostituirla con la rissa fra poteri dello Stato. Tuttavia l’effetto maggiore fu essenzialmente di ordine simbolico ed ebbe una valenza «punitiva» nei confronti della classe politica, come anche l’abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti (peraltro, subito compensata da più lauti rimborsi elettorali e da una più robusta legislazione di finanziamento indiretto). Ci fu una reale battuta d’arresto nella corruzione per qualche anno, ma essa fu frutto da un lato del blocco delle opere pubbliche per oltre un lustro, dall’altro dal contraddittorio e lento processo di riorganizzazione del sistema politico e del mutamento stesso dei meccanismi della corruzione politica. E, più di tutto, incise la particolare prassi giudiziaria che investì la classe politica. Peraltro, lo stesso intervento dell’Autorità giudiziaria non andò indenne da squilibri: i politici vennero trattati con molta più severità delle aziende (quasi si trattasse di casi di concussione e non di 110

corruzione), alcuni partiti vennero passati al pettine fine, mentre per altri si usò un pettine a denti assai più larghi, il comportamento mutò da Procura a Procura, in particolare nel trattamento dei «collaboranti», e i processi ebbero velocità differenziate. Soprattutto si produsse una giurisprudenza assai discutibile. In particolare, sulla scia della giurisprudenza contro il terrorismo, che dilatava il reato associativo oltre ogni limite sino a ribaltare l’onere della prova («se sei delle Br sei ipso facto ritenuto responsabile di ogni delitto loro ascritto, salvo dimostrazione di prova contraria»), si affermò un principio che, nel caso di Mani Pulite, assunse la forma apodittica del «non poteva non sapere». In realtà, di processi giunti a sentenza definitiva con regolare dibattimento ce ne furono molto pochi. Un quarto si arenò in istruttoria con proscioglimento. Poco meno di un decimo non superò l’udienza preliminare o terminò con l’assoluzione definitiva degli imputati. Ma più della metà dei casi si risolse con il rito abbreviato o il patteggiamento e pene irrisorie. Dal punto di vista dell’esito finale, Mani Pulite non fu caratterizzata da nessun particolare rigore (salvo per alcuni singoli personaggi come Bettino Craxi), né portò all’affermazione di verità processuali particolarmente chiare e sconvolgenti. Ma segnò la 111

fine di una classe politica attraverso il solo avviso di garanzia. Ciò accadde per il circuito mediaticogiudiziario che si determinò. 41 Qualche effetto lo ebbero l’introduzione del reato di «voto di scambio» e qualche norma in materia di concorsi pubblici. Ma, nel complesso, la manovra non ebbe efficacia perché mancò del minimo di organicità necessaria e perché non toccò il nodo degli assetti di potere sociali e politici che erano alla base del fenomeno. Mancò la volontà di una seria azione di risanamento, sicuramente le misure furono dettate da una analisi assai superficiale del fenomeno, di cui non si coglievano i tratti sistemici nella società e nel sistema politico. Nel complesso, passò l’idea che bastasse decapitare la classe politica del pentapartito per risanare il paese. 42

La trattativa Stato-mafia La fine della Prima Repubblica segnò anche una svolta importante sul piano della criminalità, con l’emergere della borghesia mafiosa. Come è noto la mafia siciliana, e le consimili organizzazioni calabresi e campane, sono una delle eredità del passato più antico di questo paese. E, sino agli anni cinquanta, esse erano solo una 112

sopravvivenza del mondo premoderno, destinata a scomparire man mano che la scolarizzazione di massa, lo sviluppo della rete stradale, la riforma agraria, l’industrializzazione e la conseguente urbanizzazione ecc. avessero riscattato il Sud dalla sua secolare arretratezza. Sino alla strage di Ciaculli (1963) le sinistre dovettero faticare molto persino perché si accettasse l’idea che la mafia c’era ancora ed era un insieme di organizzazioni criminali molto ben definite: per la Dc e per la «stampa d’opinione» del tempo, i numerosi delitti, che pur accadevano, erano regolarmente casi di delitti d’onore o azioni di criminalità comune, come ce n’erano in ogni parte d’Italia. Fu solo nel 1962 che venne istituita una Commissione Parlamentare di Inchiesta sulla mafia. Si può dire che sino ai primi anni ottanta non ci fu una azione di contrasto specifico alla mafia e l’unico contrasto restò quello del diritto penale ordinario e delle consuete misure di polizia, cose del tutto al di sotto della bisogna. Questo formidabile ritardo non restò senza conseguenze: a partire dagli anni sessanta, la mafia iniziò a strutturarsi in vista del «grande affare del secolo», il traffico di stupefacenti. 43 Nello stesso periodo, lo sviluppo urbanistico di Palermo offrì alla mafia l’occasione per spostare il centro dei suoi interessi dalla campagna alla città, realizzando 113

guadagni immensi grazie alla compiacente amministrazione democristiana del Comune. Altro ossigeno venne dal gioco d’azzardo e dal «pizzo» imposto ai commercianti della città. Furono questi proventi a consentire alla mafia di subire l’urto della modernizzazione e passare dal precedente modello arcaico allo status di grande organizzazione criminale del tempo presente. Quando la legislazione antimafia giunse, la realtà era già andata più avanti: non si trattava più della «robba» classicamente intesa (campi, palazzi, qualche gioiello, un primo conto in banca) ma di somme considerevoli da investire. Quel che richiedeva intermediari fidati ed esperti, come lo fu, sin dalla metà degli anni sessanta, Miche Sindona, del quale, già dal 1964, le fonti della Polizia segnalavano cospicui investimenti nel Manitoba, in Canada. Ma il pieno sviluppo della sua azione venne con l’acquisto della Banca Privata Finanziaria da Giangiacomo Feltrinelli (1968). Fra gli anni sessanta e gli anni ottanta decollava così anche in Italia quella «rivoluzione criminale» iniziata negli Usa negli anni del proibizionismo e poi estesasi in molti altri paesi, dalla Francia al Giappone, dalla Colombia alla Cina, dal Messico al Kossovo. Già a metà anni ottanta, il processo di accumulazione finanziaria della mafia aveva raggiunto risultati apprezzabili. E, sulla stessa scia e 114

nello stesso tempo, la ’ndrangheta calabrese e la camorra campana subivano lo stesso processo di modernizzazione, mentre una quarta mafia sorgeva in Puglia con la Sacra Corona Unita, che avrà il suo massimo sviluppo grazie alle guerre balcaniche degli anni novanta. Tuttavia una seria battuta d’arresto nel processo di strutturazione della borghesia finanziaria criminale venne con il maxi processo di Palermo seguito alle rivelazioni del collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta. I risultati di quel processo furono assai considerevoli e, per la prima volta, la mafia subiva una sconfitta di vasta portata con oltre 500 condanne. La costituzione dell’apparato antimafia proposto da Giovanni Falcone (specifiche Procure antimafia presso le corti d’Assisi, Procura Nazionale Antimafia, nuclei operativi speciali presso l’arma dei Carabinieri, la Polizia e la Guardia di Finanza) fece pensare che fosse arrivato il momento di debellare questa particolare forma di criminalità. E lo pensò anche la mafia, che agì di conseguenza, con l’attentato di Capaci, nel quale morirono Falcone, la moglie e la scorta. Due mesi dopo, toccò a Paolo Borsellino. L’apparato proposto da Falcone fu ugualmente costituito e non si può dire che l’azione di contrasto alla criminalità sia mancata (nella prima metà degli anni novanta furono arrestati importanti boss) ma il 115

colpo di Capaci non restò privo di conseguenze: al di là del fatto che esso privò lo Stato dell’insostituibile ideatore di quella strategia antimafia, ebbe rilevanti effetti psicologici e politici. L’attentato, per l’importanza dell’obiettivo e per le modalità di attuazione (mai era stato fatto un attentato con mezza tonnellata di esplosivo), assumeva il carattere di una vera e propria azione di guerra, che prospettava una evoluzione di tipo colombiano. 44 Ma, forse, ci fu anche una fonte ispiratrice più vicina: i cinque anni della strategia della tensione dal 1969 al 1974, conclusisi con una generale assoluzione degli stragisti. Anche in quel caso le stragi cessarono e il disegno politico degli stragisti fallì, ma si ebbe anche una sostanziale resa dello Stato sul piano della giustizia penale. Con questa strategia militarista la mafia lanciava una precisa intimidazione allo Stato, ma lo Stato riuscì ad aprire una prima fessura nella Cupola: non tutti condivisero la scelta dello scontro militare sino alle sue conseguenze più estreme, non ritenendo l’organizzazione in grado di reggere l’urto con le Forze Armate. L’arresto di Riina portò alla liquidazione della strategia militarista, ma nello stesso tempo, segnò anche una caduta secca dell’azione di contrasto alla mafia. Se ci fu una esplicita trattativa fra le massime autorità istituzionali e la mafia lo stabilirà la 116

sentenza definitiva del processo in corso, ma, secondo Beppe Pisanu, il presidente della Commissione parlamentare che ha indagato sulla supposta trattativa: Sembra logico parlare, più che di una trattativa sul 41bis, di una tacita e parziale intesa tra parti in conflitto. 45

Che si sia trattato di esplicita trattativa sull’abrogazione del 41bis, o, come dice Pisanu, di una «tacita intesa» fra lo Stato e la mafia, fa una certa differenza sul piano penale, ma sul piano politico ed effettuale i risultati non furono diversi: lo stragismo cessò, ma si affievolì molto anche l’azione di contrasto alla mafia, che seppe approfittarne, anche se a trarne maggior beneficio, più che la mafia siciliana fu la ’ndrangheta calabrese. 46 Da quel momento iniziò un nuovo corso della storia di mafia: niente azioni eclatanti, rarissimi episodi di sangue, azione silenziosa, spostamento su traffici redditizi ma meno osservati (scorie radioattive, discariche dei rifiuti urbani, immigrazione clandestina ecc.) o sui classici affari più legati alla corruzione – come gli appalti di opere pubbliche –, dove si poteva giocare su più estese complicità nel mondo politico. 47 Ma, soprattutto, iniziò un percorso di penetrazione organica dei mercati finanziari. Già nel 1992 la Corte dei Conti valutava che circa il 15% dei titoli di debito 117

pubblico italiano fossero in mano a organizzazioni di stampo mafioso, il che, considerando l’ammontare del tempo, significava approssimativamente 240.000 miliardi di lire (circa 120 miliardi di euro attuali). Una cifra di tutto rispetto che, ormai, richiedeva sbocchi nei mercati finanziari internazionali. Quanto pesa finanziariamente la mafia oggi? Dalle stime di «Sos Impresa» (l’osservatorio della Confesercenti) si deduce che i ricavi complessivi delle organizzazioni di stampo mafioso sarebbero pari a 138 miliardi di euro, con un utile di 105, circa il 10% del Pil nazionale. Invece, secondo, i documenti investigativi ufficiali, l’intero settore dell’economia criminale darebbe ricavi di 34 miliardi con un utile fra i 15 e i 30 miliardi, pari all’1,7% del Pil. 48 Dati abbastanza distanti fra loro che chiedono qualche spiegazione: la stima di «Sos Impresa» è elaborata sulla percezione del fenomeno da parte degli imprenditori che subiscono l’estorsione e, pertanto, è possibile che sia sovradimensionata dalla percezione soggettiva; la stima sui documenti investigativi ufficiali è invece ricavata sui casi oggetto di indagine, che sicuramente riguardano una porzione minoritaria del volume effettivo e, pertanto, sottovalutano fortemente il fenomeno. Ad esempio, in occasione dell’operazione «Domino», che colpì uno dei 118

principali tre clan baresi della Sacra Corona (quello di Savinuccio Parisi), si appurò che il volume di affari annuo del clan era di 130 milioni di euro e, sicuramente, era una valutazione approssimata per difetto. Prudenzialmente possiamo tenerci su una mediana del 6-7% del Pil nazionale, pari a 65-75 miliardi di euro che, comunque, rappresentano una fetta molto ragguardevole del reddito nazionale. Però occorre anche dire che questi sono dati «interni», mentre bisogna tenere ben presente l’irradiazione mondiale dell’impresa criminale italiana. Ad esempio, la ’ndrangheta, che delle quattro mafie è quella più internazionalizzata, è fortemente radicata con propri affari locali, anche in Canada, Australia e Germania, e ha una fitta rete di affari in Iraq, Libano, Thailandia, Turchia, Kossovo, Portogallo, Francia, Spagna, Svizzera, Marocco, Belgio, Inghilterra, Danimarca, Paesi Bassi, Repubblica Ceca, Usa, Argentina, Brasile, Cile, Perù, Ecuador, Venezuela, Colombia, Panama. Dunque, almeno per le organizzazioni ’ndranghetiste, il volume d’affari andrebbe quantomeno quadruplicato rispetto al dato italiano. E, dunque, non sembra esagerato dire che i flussi di capitale di origine criminale italiana costituiscano un insieme di diverse centinaia di milioni (e forse raggiungono il miliardo) di euro. Ovviamente, non 119

ha senso dire (come spesso si legge) che «la mafia nel suo complesso rappresenta la maggiore azienda del paese», perché si raffrontano le singole imprese dell’economia legale con un insieme di soggetti molto frammentato e indebitamente considerato unitariamente, ma è indubbio che i maggiori clan mafiosi, camorristi e ’ndranghetisti possono stare tranquillamente a fronte di alcuni dei soggetti medio-grandi dell’economia legale. E la tendenza è destinata a peggiorare con la crisi che falcia le aziende legali, mentre quelle mafiose possono giovarsi di una invidiabile liquidità accumulata e costantemente accresciuta dall’ulteriore liquidità proveniente dalle nuove attività criminali. Per cui la grande criminalità è uno dei soggetti finanziari in grado di dettare l’agenda di molte banche o hedge fund. E questo ci porta ad affrontare il tema della «borghesia grigia». 49 Abbiamo detto che, già sul finire degli anni sessanta, le cosche mafiose disponevano di somme apprezzabili che molti banchieri avrebbero visto con favore affluire nelle proprie filiali. Ma quello di malavita è un cliente molto particolare, che chiede profitti ben superiori a quelli degli interessi normalmente corrisposti alla clientela e che possono venire solo da impieghi molto rischiosi e non solo dal punto di vista finanziario. Spesso occorre accettare che il cliente di questo tipo faccia 120

versamenti ingenti tutti in moneta di basso taglio (tipico degli spacciatori di droga al minuto) e questo dovrebbe comportare una segnalazione agli organi di Polizia, cosa, peraltro, molto rischiosa sul piano fisico. E, inoltre, se uno scandalo rivelasse che una banca ha nella propria clientela certi nomi, questo potrebbe avere effetti di immagine devastanti. Per cui si rende necessaria una sorta di «camera di decantazione» per cui i maleodoranti capitali di provenienza «nera», prima di affluire nei canali della finanza bianca, debbono subire un trattamento che li renda presentabili o, quantomeno, anonimi. Insomma, occorre una mediazione. 50 Peraltro non è solo la mafia ad avere questo bisogno: anche la corruzione politica spesso richiede giri tortuosi, pratiche disinvolte al limite del falso ecc., per cui, anche in questo caso, sono utili canali di trasmissione ad hoc. In Italia, inoltre, negli anni sessanta e settanta, un’occasione ulteriore venne dall’esportazione di capitali in Svizzera o Liechtenstein per evadere il fisco. Come si vede, un campo assai vasto non sempre orientato a pratiche illegali, ma utile anche a operazioni in sé legali ma poco confessabili: un monsignore che investa in azioni di una casa editrice porno o un partito che riceva una somma di denaro da uno Stato straniero, un uomo politico che investa in una operazione speculativa rivolta contro i titoli di debito pubblico 121

del proprio paese, non fanno alcun reato (quantomeno tale non era in quegli anni), ma avrebbero poco da vantarsi se scoperti e comprensibilmente cercano i canali più adatti a mantenere il più stretto riserbo sull’operazione. Così, come alcune società finanziarie hanno bisogno di prestiti per operazioni che rasentano il codice penale ma sono ancora nei limiti della legalità, troverebbero difficoltà con una banca, per così dire, più «convenzionale». Su questo vasto pascolo d’affari a cavallo della linea di mezzeria fra legale e illegale sorge, già nei tardi anni cinquanta, una serie di attori in grado di offrire il servizio richiesto (piccole banche, società finanziarie, studi legali o commercialistici «specializzati», uffici di pubbliche relazioni ecc.) È questa la «borghesia grigia», un’area sociale di fresca formazione, quasi sempre composta da arrampicatori sociali e homines novi (finanzieri di prima generazione, politici improvvisati, avvocati più che spregiudicati e avventurieri di ogni tipo e colore). Un’area, per sua natura, dai confini assai labili, che si muove fra i palazzi del potere politico e quelli di giustizia, fra le banche e i giornali, fra la mafia e la Chiesa e in particolare la sua articolazione finanziaria, lo Ior. Parallelamente all’ascesa della grande criminalità è cresciuta anche la «finanza grigia», che 122

rappresenta un settore a sé stante del mondo finanziario di dimensioni pari o forse superiori a quelle della «finanza illegale» tout court. Non fa piacere dirlo, ma fra «finanza nera e grigia» è forse questo uno dei settori in cui il nostro paese si difende meglio. Oggi uno dei soggetti italiani più in grado di affrontare le insidie dell’economia mondiale è proprio la criminalità mafiosa, che (’ndrangheta docet) è sicuramente molto più avanti sulla via della globalizzazione del nostro capitalismo tradizionale.

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Capitolo terzo I mutamenti sociali della globalizzazione e l’Italia

Un processo mondiale Il processo di globalizzazione ha preso avvio negli anni settanta, con la dichiarazione di non convertibilità del dollaro (e il connesso avvento della fiat money) e con la guerra del Kippur, seguita dallo sviluppo delle piazze finanziare off shore. 1 Ma è solo con la caduta dell’Urss che esso si è dispiegato pienamente, abbattendo l’ordine mondiale bipolare e affermando la piena integrazione economica e finanziaria mondiale, quella dei trasporti e delle telecomunicazioni, ma, paradossalmente, creando insieme una serie di aree culturalmente più incomunicabili e conflitti sempre più irriducibili. 2 Il sistema di imprese multinazionali, già presente 124

da tempo, ha avuto modo di integrare in sé anche paesi sino a quel punto restati al di fuori. Questo ha determinato l’affermazione del dominio della finanza sull’intera economia. Il mondo – comprese le aree più remote – è ormai totalmente compreso nella rete di un mercato finanziario emancipato dell’economia reale. L’«ipercapitalismo finanziario» 3 (come è stato definito) detta le sue regole all’economia e alla società, dirottando enormi flussi di ricchezza dalla remunerazione del lavoro a quella del capitale. Per garantire il nuovo ordine mondiale, che si progettava intorno agli Usa, ebbero un forte impulso gli apparati sovranazionali connessi alle Nazioni Unite e ai relativi organismi del Fmi e della Banca Mondiale: L’alta burocrazia degli organismi internazionali, di certo meno numerosa di quella delle multinazionali, è ormai intimamente legata a essa. A causa del moltiplicarsi degli organismi specializzati, ma anche del loro decentramento nei principali Stati per mezzo di uffici locali in contatto permanente con le amministrazioni locali e il settore privato, la burocrazia internazionale è diventata una tela di ragno che avvolge tutto il pianeta dall’epoca del crollo dell’Urss e dell’apertura della Cina. 4

L’affermazione di questa forma di potere sovranazionale ha avuto come suo inevitabile riflesso la crisi dell’ordine inaugurato dal trattato di Westfalia (1648), da cui nasceva il moderno concetto di sovranità, premessa storica necessaria 125

degli Stati-nazione che si affermeranno fra il XVIII e il XIX secolo. 5 La sovranità apparteneva a ciascuno Stato, che non riconosceva alcuna autorità superiore a esso. Con la globalizzazione, al contrario, si ricostruisce l’idea di un’autorità superiore a ciascuno Stato e si sancisce il superamento dell’interesse nazionale in favore di un interesse comune globale. Anzi c’è chi ha teorizzato, con l’avvento della postmodernità, la fine tout court delle nazioni e della loro cultura particolaristica. 6 La concreta esperienza storica di questo ventennio appena trascorso, tuttavia, ha dimostrato che il processo è assai meno coerente e semplice di quanto non si immaginasse: i paesi emergenti (India, Cina e Brasile in primo luogo) hanno avuto processi che sono andati in direzione esattamente opposta, rafforzando la loro posizione di Stati nazionali nel sistema internazionale e mettendo spesso in discussione l’operato e la legittimità di alcuni organismi sovranazionali. Peraltro, mai come in questo periodo è cresciuta la tendenza alla formazione di Stati nazionali (arrivati al numero senza precedenti di 194), mentre nuove tendenze separatiste si registrano in Spagna, Regno Unito, Francia, Turchia, Iraq, Iran, Siria, India, Cina, Canada, per citare solo i casi più noti e virulenti. Di fatto, il processo di depotenziamento dello Stato nazionale ha riguardato soprattutto l’Europa e, 126

per il resto, si è presentato in modo non uniforme, creando nuove asimmetrie nell’ordine internazionale. 7 Come è noto, il progetto di nuovo ordine mondiale monopolare è entrato in una fase difficile dopo la crisi iniziata nel 2008 e con l’esito sfavorevole agli Usa delle guerre in Medio Oriente. Tuttavia, il dollaro resta la moneta di riferimento mondiale e la supremazia militare americana è ancora salda, così come lo è la supremazia finanziaria di Wall Street e quella Usa nella rete di organismi sovranazionali. Ma, nello stesso tempo, cresce, soprattutto ad opera dei paesi emergenti del Brics, la pressione per un ordine mondiale multicentrico, basato su un limitato gruppo di potenze di interesse regionale. Nessuna delle due ipotesi ha sinora prevalso e lo scontro è ancora in corso. Ciò non di meno, alcuni effetti del progetto neoliberista di globalizzazione sono restati e anzi si sono ulteriormente sviluppati. In primo luogo la subordinazione della politica alla finanza: è di tutta evidenza che non solo la politica sociale, ma anche quella economica e finanche monetaria degli Stati sono strettamente subordinate alle decisioni del mondo finanziario e obbediscono alla «dittatura del rating» (sulla quale torneremo). Questo è stato particolarmente vero nel 127

mondo occidentale, dove una conferma viene dallo scarso valore intellettuale delle élite politiche affermatesi nell’ultimo ventennio. Spesso, in Italia, ci si lamenta della scarsa preparazione culturale, della miopia, dell’incapacità di disinteresse personale dell’attuale ceto politico, che resta diverse spanne al di sotto di quello della Prima Repubblica, e l’osservazione è condivisibilissima, ma se il profilo della classe politica italiana è particolarmente basso, la tendenza è comune a tutti, almeno in Occidente. Basti confrontare presidenti come Roosevelt, Kennedy, Johnson e anche Nixon con i personaggi mediocri o men che mediocri che si alternano da Bush padre in poi (Obama compreso), per non dire dell’ultimo inquilino della Casa Bianca, Trump. Oppure presidenti come De Gaulle e Mitterand con Chirac, Sarkozy o l’imbarazzantissimo Hollande. O anche Adenauer, Brandt, Khol con Schröder o la Merkel. E gli esempi potrebbero continuare a lungo. Nell’ordine neoliberista non servono grandi politici, ma modesti amministratori che garantiscano la continuità dell’ordine esistente. Oppure servono politici-finanzieri: contrariamente a quanto si pensa comunemente, il caso Berlusconi, con il suo evidentissimo conflitto di interesse, non è affatto un’eccezione italiana ma un fenomeno largamente diffuso. I due petrolieri Bush, 128

il polacco-canadese Stanislaw Tyminski, Henry Ross Perot, Henry Paulson, Bernard Tapie e persino il cinese Wen Jiabao (tanto per fare solo qualche esempio) sono tutti esempi di commistione fra politica e affari, che configurano conflitti di interesse non meno macroscopici di quello italiano e, se pensiamo a Gerhard Schröder, disinvoltamente passato dalla Cancelleria tedesca alla presidenza del gasdotto Northstream della russa Gazprom, sorge qualche legittimo dubbio sulla correttezza di questa scelta. Dunque, in forme diverse e contraddittorie, ma pur sempre si segnala la subordinazione della politica alla finanza, che esige politici in funzione servente o finanzieri che entrano in prima persona. E tutto questo non richiede politici di grandi capacità strategiche. Per il resto sono le grandi tecnostrutture internazionali sganciate da ogni controllo democratico quelle cui si chiede di assicurare il governo del mondo, insieme alla grande finanza. È dall’incrocio di questi fenomeni che si determina l’autunno della democrazia. Peraltro, alla frammentazione statuale e alla fine dell’equilibrio bipolare, si è accompagnato un inedito «ritorno della guerra» e le spese militari che, con il tramonto dell’equilibrio bipolare avrebbero dovuto decrescere, si sono moltiplicate a livelli mai toccati precedentemente. 129

In realtà, il progetto di globalizzazione neoliberista ha implicato una alleanza diretta fra il potere finanziario e gli apparati di forza dello Stato (esercito, Polizia, magistratura, servizi segreti) che confina il potere politico in una funzione meramente servente. Definiamo questo nuovo «blocco storico» come l’«alleanza fra la spada e la moneta» (dove la spada non è solo quella delle Forze Armate ma anche quella delle forze di Polizia e della magistratura, che se ne serve, oltre che il relativo complesso industriale). E, infatti, le operazioni di peacekeeping sono regolarmente presentate come «operazioni di polizia internazionale», che trovano la loro legittimazione nel permesso dell’Onu e che perfezionano tale legittimazione nelle decisioni della Corte Internazionale per i crimini di guerra (come quella che ha giudicato Milošević) o in omologhi nazionali (come la Corte di Bagdad che ha giudicato Saddam Hussein). L’età neoliberista vive fra i silenzi della finanza e il fracasso delle armi. Accanto a questo lo Stato ha subito una profonda trasformazione anche dal punto di vista amministrativo: conformemente agli indirizzi di liquidazione dello Stato sociale, non solo ha smobilitato le sue eventuali imprese economiche, ma ha privatizzato molte sue funzioni fra le più tradizionali (in alcuni Stati degli Usa, persino le carceri). Ma, soprattutto, si è introdotto un sistema 130

di rapporti di diritto privato anche nella stessa amministrazione, i cui vertici hanno assunto molti tratti in comune con il management privato, a cominciare dalle retribuzioni, cresciute senza alcun precedente, per finire con il superamento del rapporto di dipendenza gerarchica dall’autorità politica. C’è stato un vero processo di privatizzazione dello Stato 8 che ha completato il processo di subordinazione di esso alla finanza e ne erode ulteriormente la dimensione nazionale. La crisi dello Stato nazionale ha avuto come suo riflesso una sorta di «snazionalizzazione» delle classi dirigenti o, quantomeno, della loro parte economico-finanziaria. Il fenomeno non è nuovissimo: già dopo la pace di Berlino, nel 1878, iniziarono a diffondersi le società multinazionali 9 (in particolare nelle ferrovie) e alla vigilia della Prima guerra mondiale esse avevano raggiunto un forte livello di sviluppo. 10 Le due guerre mondiali e la grande crisi del 1929 provocarono una parziale «ritirata» nazionale, ma il fenomeno riprese a crescere dagli anni sessanta in poi. Tuttavia, le norme sulla limitazione di movimento dei capitali, il sistema di dazi protezionistici, la rigida separazione fra banche di raccolta e banche di investimento, l’ordine monetario a parità fisse, il diffuso intervento economico statale ecc. limitarono il fenomeno mantenendo il carattere prevalentemente nazionale 131

del capitale quantomeno sino agli anni ottanta. Con gli accordi di Marrakech (1993), che registravano gli orientamenti del cd. Washington Consensus, l’intervento economico statale dovette cessare, dando il via alle privatizzazioni e alla piena libertà di circolazione dei capitali. Poco dopo venne travolta la separazione fra banche di raccolta e banche d’affari, poi la fine (o quasi) di ogni barriera protezionistica. Tutto questo ha dato vita a intrecci finanziari senza precedenti, che si sono sommati ai processi di delocalizzazione industriale, per cui spesso la maggior parte della produzione avviene in paesi assai diversi da quello in cui i vari pezzi sono assemblati, a sua volta diverso da quello in cui ha sede legale la società, che non sempre è il paese in cui risiede effettivamente il suo gruppo dirigente. Tutto questo ha prodotto una sorta di borghesia «extranazionale», che comprende i proprietarirentier, ma che ha la sua punta di lancia nei manager, il cui ruolo sociale è molto cambiato dalle origini (sintomaticamente, oggi in prevalenza non sono più ingegneri, ma laureati in legge o in economia). A determinare questo è stata soprattutto la pratica delle stock options: per spingere i dirigenti d’azienda a realizzare il massimo di profitto, le maggiori società, già dai primi anni ottanta, concessero loro un pacchetto di azioni a titolo di donazione provvisoria, alla scadenza i possessori le 132

avrebbero acquistate stabilmente, qualora il prezzo d’esercizio (strike price) fosse stato inferiore al valore di mercato cui era quotata l’azione sottostante. E, naturalmente, percependo, nel frattempo, il relativo dividendo. Pertanto, il compenso dei manager cambiava natura, assommando alla parte fissa (il salario base) una parte variabile, della quale le stock options erano magna pars. Dunque, il manager da «primo dipendente dell’impresa» si è trasformato nel «più recente dei proprietari». Tutto ciò induceva i dirigenti a massimizzare il rendimento dell’azienda nel breve periodo e, siccome l’investimento finanziario (quando va bene) è sempre molto più rapido di qualsiasi investimento nell’economia reale, i manager furono indotti a cercare il risultato sul breve periodo a scapito della dimensione industriale. La pratica dello shareholder value (cioè creazione di valore per l’azionista), sorta nel campo dei fondi pensione, si estese rapidamente in tutto il campo imprenditoriale e con particolare riguardo nelle banche: Si tratta propriamente di estrarre dalle imprese un valore che va ben oltre il profitto considerato normale. [...] una redditività finanziaria pari al 15%. Una percentuale che si è imposta rapidamente pur senza possedere alcun fondamento reale, e che viene considerata dagli investitori come una garanzia di efficacia dei propri investimenti. Le pratiche legate a questa creazione di valore per gli azionisti coinvolgono tutte le imprese quotate sulle varie piazze finanziarie

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del mondo. Ma, a partire dal 2000, i grandi investitori si interessano sempre di più alle imprese non quotate. Poiché in questo caso il rischio è maggiore, l’esigenza di redditività passa a un livello nettamente superiore, nell’ordine del... 25%! Se si pensa che fino al 2007 l’economia mondiale è cresciuta al ritmo di un tasso annuo medio del 4%, una simile percentuale appare smisurata perché predatrice rispetto all’attività e ai risultati dell’impresa.

In questo modo crebbero a dismisura le retribuzioni dei manager cui, inoltre, vennero riconosciuti bonus aggiuntivi: […] tutte le maggiori banche d’investimento (Goldman Sachs, Morgan Stanley, Merrill Lynch, Lehman Brothers e Bear Stearn) pagavano somme sempre più sbalorditive. Nel 2005 queste cinque grandi banche hanno distribuito bonus per 25 miliardi di dollari, nel 2006 per 36 miliardi e un anno più tardi per 38 miliardi. 11

Con la pratica dello shareholder value, gli azionisti-rentier assimilavano a sé anche i manager, divenuti azionisti come loro e ancor più spinti dai bonus a considerare le cose solo dal punto di vista della rendita finanziaria di breve o brevissimo termine. Pertanto, poteva accadere che settori come la ricerca, la formazione e anche la manutenzione venissero deliberatamente trascurati o abbandonati, perché destinati a dare risultati economici in un tempo troppo lungo. Questo, ovviamente, nel tempo avrebbe privato l’azienda di competenze professionali, di slancio innovativo, mentre gli impianti si sarebbero logorati anzitempo, dunque, 134

quel valore distribuito agli azionisti sarebbe stato parallelamente perso dall’azienda, ma, in questo caso, essa poteva rendere ugualmente se spezzettata e venduta, producendo altri dividendi da offrire agli azionisti. Le imprese andarono sempre più finanziarizzandosi e perdendo la dimensione propriamente industriale. Con la pratica dei subprime, il «carnevale della finanza» durò per diversi anni, finché non venne la quaresima del crollo dei prezzi immobiliari e, con essa, la crisi del 2008: Viene […] l’ora della verità: i creditori e i debitori in ultima istanza non riescono a rendere solvibili i loro beni e le loro attese, i valori borsistici e immobiliari crollano, i titoli azionari si divaricano dai valori produttivi fondamentali. […] Adesso è chiara la ragione ultima del colpo di stato plutocratico messo a segno dagli stockopzionisti: l’informazione e la trasparenza assoluta non erano compatibili con l’accumulo delle stock options. […] si è trattato, in definitiva, della conseguenza di una inusitata concentrazione di potere, resa possibile da una formidabile asimmetria informativa. 12

Restava da legittimare le formidabili retribuzioni dei manager agli occhi dell’opinione pubblica, che si chiedeva per quale ragione qualcuno dovesse prendere retribuzioni sino a mille volte (e talvolta molto di più) superiori a quelle dei suoi dipendenti. Iniziò così a prodursi una «ideologia del management» tendente a dimostrare che quelle retribuzioni non solo erano giuste, ma erano 135

garanzia di un migliore sviluppo economico. Sandro Catani, 13 ad esempio, sostiene che esse sono il prodotto della rarità del talento richiesto e del gigantismo proprio dell’era della globalizzazione. I manager prendono quelle cifre per la stessa ragione per cui prendono compensi altissimi anche David Beckham o Cristiano Ronaldo, che fanno la differenza fra una qualsiasi partita di calcio e un grande spettacolo. E che prendono molto più di Gigi Riva o di Pelé non perché siano più bravi di loro, ma perché ai tempi di Riva o Pelé una partita in Tv la vedevano 20 milioni di persone e ora 200, grazie ai sistemi satellitari. La retribuzione del talento è un argomento che può avere del vero, ma a condizione di stabilirne i limiti: in fondo, se il migliore chirurgo del mondo chiedesse 4 miliardi di dollari per ogni intervento, troveremmo questa richiesta un tantino esagerata. La risposta di Catani è molto semplice: i limiti li stabilisce il mercato, come per qualsiasi prestazione, per cui, sinché ci sarà qualcuno disposto a pagare determinate cifre, quello sarà il prezzo giusto. In realtà, la rarità dei talenti non è determinata da mancanza di persone idonee, ma dalla chiusura del gruppo sociale manageriale, che si guarda bene dall’aprirsi a una competizione puramente meritocratica e si riproduce per cooptazione. Infatti, la possibilità di accedere a ruoli dirigenti nel 136

management è strettamente correlata all’accesso a determinate fonti informative e alla capacità di relazioni sociali, entrambe risorse che è molto difficile formarsi dall’esterno della casta. Quello che il singolo manager porta, più che una pretesa capacità gestionale, è l’accesso a informazioni riservate. Peraltro, l’entità dei compensi del manager è formalmente decisa dal board della società, ma è noto che i manager, nella maggior parte dei casi, hanno molta influenza nell’elezione dei consiglieri che lo compongono. Ciò considerato, cosa c’entra il libero mercato con tutto questo? In realtà il manager assomiglia sempre di più alla vecchia figura dell’imprenditore padrone, con una differenza: in caso di fallimento dell’azienda, il «padrone» ci rimette il suo intero capitale, mentre il manager ci rimette in immagine ed eventualmente la sua quota azionaria. Peraltro, egli può benissimo cercare di disfarsi in tempo dell’incarico e passare ad altro gruppo o azienda, prima ancora che gli azionisti si rendano conto di quale sia il reale stato della società che gli era affidata. 14 I manager sono la più perfetta manifestazione del nuovo «potere irresponsabile» che rovescia il presupposto stesso del mercato e della democrazia. E la conferma viene dalla crisi del 2008 prodotta 137

proprio da questo management, che, peraltro, è rimasto in gran parte al suo posto anche dopo di essa: dei 74 manager responsabili del crack del 2008, 43 hanno cambiato impiego, ma sempre nell’ambito della finanza, e solo 7 sono usciti di scena, 15 mentre ben 24 di loro sono rimasti al loro posto. Persino Richard Fuld, ex Ceo della Lehman Brothers, è riuscito a riciclarsi, fondando un’apprezzata società di consulenza finanziaria, la Legend Securities. In realtà, l’attuale livello di reddito dei manager, al pari del loro smisurato e incontrollato potere decisionale, non trova alcuna giustificazione economica razionale ma si spiega solo con i rapporti di forza sul piano politico e sociale. Peraltro, le trasformazioni in atto non hanno riguardato solo la «pagina superiore» della società, quella legale e alla luce del sole, ma anche quella inferiore: il XX secolo ha segnato una rivoluzione con la nascita di vaste e potenti organizzazioni criminali, in grado di influenzare la politica e l’economia nazionale (Usa, Italia, Giappone, Cina, Colombia, in parte Spagna, sono gli esempi più evidenti, ma non i soli). 16 Negli ultimi trenta anni non solo il fenomeno si è esteso a nuovi paesi o ha rivitalizzato e modernizzato antiche organizzazioni (dalle Triadi in Cina, alla mafia russa, turca, kossovara, dalla yakuza giapponese alla mafia 138

albanese, per fare solo esempi limitati), ma ha dato luogo a un vero e proprio network mondiale del crimine e a una sua crescente compenetrazione con il capitale finanziario. 17 Oggi parlare di criminalità in termini di «marginalità» non ha molto senso, trovandoci in presenza di vasti processi sociali saldamente interconnessi ai processi socioeconomici di maggiore portata (ad esempio: sino a che punto la straordinaria performance dell’economia cinese è debitrice delle rimesse delle triadi o del risorgente fenomeno della pirateria nel Mar Giallo?). Questa serie di fenomeni sociali, economici, politici ha avuto la sua ricaduta anche in Italia e, per certi versi, possiamo dire «all’italiana», con molti adattamenti al costume nazionale e non certo per i suoi aspetti migliori. Anche qui i tradizionali assetti di potere hanno dovuto modificarsi, per inserirsi nei processi di sviluppo globale. La struttura sociale delle classi dominanti si è rimodellata identificando alcuni gruppi fra loro connessi. A rinforzo di questa sorta di «blocco storico» e intorno a esso, si schierano le «corporazioni forti» di questo paese (accademici, magistrati, ordini professionali di medici, notai, avvocati, architetti ecc.), da sempre esistiti e passati come salamandre nel fuoco dell’epoca neoliberista, anche grazie a una compiacente borghesia burocratica di Stato. Prima di 139

passare all’esame dei singoli gruppi ripetiamo tuttavia che si tratta di un blocco sui generis, in realtà segnato da numerosi conflitti interni, da forti tendenze centrifughe e da una accentuala volatilità di patti e alleanze, come cercheremo di dire più avanti.

La borghesia globalizzata in via di formazione Dopo la fase iniziata a fine Ottocento e durata sino al 1929, anche in Italia i processi di internazionalizzazione del capitale rientrarono e la tendenza «nazionale» durò ancora sino a tutti gli anni sessanta. I primi tentativi di integrazione della borghesia italiana nei processi multinazionali risalgono agli anni settanta, con operazioni quali la sfortunata ed effimera fusione Pirelli-Dunlop o il parziale, ma più duraturo, accordo Fiat-Citroen, oppure l’ingresso dei capitali libici nella Fiat. Nel complesso, tuttavia, il grande capitale italiano ha mantenuto prevalenti caratteristiche «nazionali» sino ai primi anni novanta, quando hanno iniziato a dispiegarsi i fenomeni della globalizzazione con i primi accordi soprattutto nel mondo bancario: come l’ingresso di Abn Amro, Libyan Arab Foreign Bank, Jp Morgan 140

Chase in Capitalia o di Harbor International Fund in San Paolo o l’intreccio Unicredit-Hvb. Ma per quasi un ventennio, la rete di patti di sindacato, partecipazioni incrociate, piramidali ecc. ha tenacemente resistito, proteggendo i fragili assetti italiani dai marosi della globalizzazione. 18 Il punto è che il capitalismo italiano ha una fragilità costituzionale che non ha superato. Nel settore industriale l’Italia vanta marchi come Olivetti, Ferrero, Pirelli ecc. ma ha perso molte posizioni e parecchi suoi marchi di prestigio sono stati acquistati da capitale straniero. La produzione industriale, che rappresentava il 4,5% di quella mondiale è oggi al 3,3% e l’Italia è scesa all’ottavo posto in graduatoria. Una posizione in declino e con molti punti di debolezza, ma ancora non irrilevante e in grado di riprendersi. Dove invece la debolezza italiana emerge con prepotenza è nel settore bancario. Nel 2016, i primi due gruppi bancari italiani, Intesa San Paolo e Unicredit sono, rispettivamente 26o e 56o nella graduatoria mondiale, mentre scompare dalla classifica il Monte dei Paschi di Siena, che nel 2013 era 249o. Le due banche, messe insieme, rappresentano una capitalizzazione di circa di 78 miliardi di euro, poco più del valore del solo Banco di Santander da solo, o di Paribas (61 miliardi) da solo, tanto per fare qualche raffronto 141

senza scomodare Usa o Inghilterra. Va meglio nel settore assicurativo, dove le Assicurazioni Generali sono all’ottavo posto nel mondo, ma nel 2013 erano al terzo. 19 Le caravelle italiane sono state in grado di svolgere il loro compito nel mare interno del capitalismo nazionale, ma risultano poco adeguate a reggere le tempeste oceaniche della globalizzazione. Il processo di trasformazione della borghesia nazionale in borghesia globalizzata è iniziato, ma procede con grande lentezza e molte esitazioni, come rileva The Economist: 20 le grandi famiglie si stanno lentamente sciogliendo nella rete degli intrecci proprietari e stanno ripiegando sempre più nella posizione di rentier, il «salotto buono» (come vedremo meglio) chiude i battenti o quasi, si sciolgono i patti e ciascuno riacquista una sua libertà d’azione. Ma non è affatto sicuro che tutti (o anche solo la maggior parte) ce la facciano in questo passaggio: ci sono consistenti rischi che molti ci rimettano le penne. E la speranza di una ripresa dell’imprenditoria italiana è, per ora, affidata a marchi come Moncler, o come Luxottica, che hanno trasformato il proprio successo di vendite in quello della quotazione in borsa. Né riflessioni più ottimistiche suggerisce lo stato del ceto manageriale italiano: il più pagato d’Europa 21 nonostante i risultati non proprio 142

brillanti (a proposito di giusti equilibri di mercato…). E se, magari, può trovare una relativa giustificazione, per la durata del lavoro e i risultati ottenuti, il compenso di 11 milioni e mezzo di euro riconosciuto nel 2012 a Giovanni Persinotto, di Assicurazioni Generali (anche per il fatto che la voce include una parte della liquidazione), o di 7,3 milioni percepiti nello stesso anno da Sergio Marchionne, o di 15 di buonuscita a Giovanni Bazoli per 25 anni di lavoro, si capiscono molto meno i 16,7 milioni di Cesare Geronzi per un solo anno di lavoro a Banca Intesa, i 6 milioni concessi a Massimo Sarmi dalla Cdp nel 2016, o anche gli 8 milioni riconosciuti dall’Eni a Paolo Scaroni per un periodo di circa 7 anni, e meno che mai i quasi 3 milioni di Franco Bernabè, che ha lasciato la Telecom in condizioni tutt’altro che brillanti, per non parlare dei favolosi compensi ai manager dell’Alitalia, che hanno prodotto uno dei più memorabili disastri della storia economica nazionale. E questo in una situazione in cui, a parere dell’Osservatorio Ambrosetti, già nel 2014 c’erano 86 miliardi di euro che avrebbero potuto essere investiti all’estero e che erano bloccati dalla struttura del management e della governance delle nostre imprese. 22 Più che l’avanguardia della borghesia globale in Italia, i nostri manager sono gli ultimi arrivati del 143

club delle 10.000 famiglie che da sempre sono la classe dominante di questo paese. La conferma viene da un sondaggio Wyser che, confrontando i manager di medio livello italiani con quelli stranieri, ricava che gli italiani sono poco propensi al rischio, non amano cambiare occupazione e privilegiano lo stipendio fisso rispetto alle possibilità di avanzamento di carriera passando ad altra impresa. 23 Il risultato è che, nonostante le altissime retribuzioni, l’Italia ha un management di qualità medio-bassa, come attesta il Global talent competitiveness Index secondo il quale l’Italia si attesta al 40o posto (era al 36o posto solo due anni prima) per la qualità del suo ceto manageriale ed è 81o (era 79o due anni prima) per la capacità di attrazione dei talenti dall’estero. 24 E questa è la borghesia italiana in via di globalizzazione.

I gattopardi di Stato L’ondata neoliberista impose, sin dagli anni novanta, da un lato la liquidazione dell’esperienza delle Ppss, dall’altro il più generale ridimensionamento del potere politico in economia. Ma la «borghesia di Stato», ovvero il ceto manageriale che vi regnava, non è restato affatto disoccupato: la gran parte è 144

semplicemente passata nelle nuove società che hanno sostituito le precedenti e di cui parleremo più avanti (Eni, Finmeccanica, Trenitalia ecc.), per il resto ha trovato collocazione nelle imprese private. Più complesse le vicende del ceto politico di partito. Risolto il dualismo Pci-partiti non comunisti con la piena assimilazione del personale politico del Pds-Ds-Pd nel sistema, 25 la «borghesia burocratica di Stato» dovette misurarsi con l’erosione del suo ruolo di organizzatore del consenso popolare, per la concorrenza della televisione commerciale, che si rivelò uno strumento ancora più efficace su quel terreno. Nello stesso tempo dovette superare la crisi del biennio di Mani Pulite. Entrambe le cose suggerirono l’idea dell’inutilità del partito politico – se non come «partito leggero», ridotto a poco più che confederazione di comitati elettorali – per assicurare il funzionamento della democrazia. La nascita di Forza Italia fu la certificazione di questa tendenza: partito contenitore, vagamente legato alle precedenti culture politiche liberali e cattoliche, ma non identificabile con nessun partito precedente, privo di funzionari, sedi, correnti e di un gruppo dirigente formalizzato, senza congressi o vere e proprie istanze dirigenti ai vari livelli. Era il primo esempio riuscito di «partito del leader» in Italia (come si è detto ci avevano tentato Pannella e Craxi, ma senza nessun successo). In un partito del genere, 145

gran parte del ceto politico tradizionale era obiettivamente ai margini, pur continuando ad avere un certo seguito elettorale. I partiti governativi (Dc, Psi, Psdi, Pli e Pri) furono i più devastati e i loro esponenti di primo piano, anche quando non direttamente colpiti da inchieste giudiziarie, risultarono non riciclabili e dovettero farsi da parte, così come gran parte delle seconde file, ma restarono in campo le terze file, che confluirono nei «nuovi» partiti, soprattutto Forza Italia. La Dc si sciolse e sopravvisse per qualche tempo come Partito Popolare, mentre i due maggiori partiti di opposizione, Pci e Msi, si trasformarono rispettivamente in Pds e An proprio per accogliere una parte dei consensi e del residuo ceto politico dei partiti di centro. Peraltro, anche Pds e An, che mantenevano una struttura più formale, avevano ridimensionato la struttura organizzativa precedente: dell’imponente apparato funzionariale del Pci sopravviveva la parte che operava nelle organizzazioni fiancheggiatrici (Arci, Cgil e, soprattutto, Lega delle Cooperative) e una piccola quota di funzionari di partito. A questo si aggiunsero le trasformazioni della forma di governo e della distribuzione delle quote di potere: i posti di parlamentare restavano gli stessi del passato, ma il Parlamento contava assai meno e 146

la possibilità di arrivarci, più che alla capacità di raccogliere consensi (come era al tempo del voto di preferenza), era legata alla benigna attribuzione di un buon collegio uninominale (o, più tardi, a una buona posizione nell’ordine di lista) da parte del ristretto gruppo nazionale. Tutto questo avrebbe dovuto tradursi nella liquidazione (o quantomeno, in un severo ridimensionamento) del blocco borghese-burocratico di Stato, ma le cose andarono diversamente, perché, di fronte alla sua totale delegittimazione, il ceto politico reagì con tecniche di aggiramento. In primo luogo, le retribuzioni dei parlamentari subirono una costante e ingente rivalutazione, sino a diventare fra le più alte della Ue: poco più di 5.000 euro di stipendio mensile, più un rimborso fortettario di altri 3.700 euro, altri 3.500 di diaria mensile e altri 1.100 per il rimborso spese per i trasferimenti da casa, tutto ovviamente esentasse, 26 ma pensionabile (questo sino al 2012, quando iniziò una inversione di tendenza per cui i redditi dei parlamentari furono tassati). Più avanti vedremo la funzione politica di questi aumenti. La reazione prevalente della borghesia burocratica di Stato (in qualche modo favorita dalle nuove norme per l’elezione di sindaci e «governatori» e dalla spinta «federalista») fu quella di ritirarsi negli enti locali, che, non a caso, videro 147

un considerevole aumento di seggi, di retribuzioni e di poteri. I consiglieri regionali, che, sino al 1990, erano circa 750 in tutta Italia, divennero 1.117, i consiglieri comunali, che erano circa 85.000, divennero 120.490. E le retribuzioni sono salite in modo considerevole: se consigli comunali e provinciali, sino al 1990, distribuivano solo gettoni di presenza per le riunioni, oggi i consiglieri ricevono un regolare stipendio (a Torino, ad esempio, è di 3.142 euro). Si è addirittura stabilito un compenso mensile per i consiglieri di circoscrizione (o municipio) in alcune delle città più grandi. Contrariamente a quel che comunemente si crede, la parte più cospicua della spesa politica non è nella pur considerevolissima spesa per gli organi centrali dello Stato, ma in quella degli enti locali, intorno ai quali è nata una fitta rete di società derivate dalla trasformazione delle vecchie municipalizzate (trasporti, nettezza urbana, in qualche caso acqua ed elettricità o gas ecc.) o sorte ex novo (in particolare le finanziarie regionali) e tutte dotate di sontuosi consigli di amministrazione che largiscono ancor più sontuosi compensi. Migliaia di consiglieri di nomina della relativa autorità politica fra i quali non è difficile riconoscere una parte di quel ceto politico riciclato dopo il terremoto del 1992-93. 148

Gli enti locali, inoltre, si sono arricchiti anche di una robustissima schiera di consulenti che rappresentano la nuova forma di ceto politico sostitutiva del funzionariato. È pressoché impossibile censire la folla di consulenti che si accalcano intorno agli enti locali, società economiche collaterali ecc. sia per la varietà delle forme di collaborazione, sia perché diversi consulenti prestano la loro opera presso più enti, sia per la diversa durata dei contratti poi rinnovati o meno, sia per l’opacità di troppi bilanci, ma, sulla base dei dati ricavati dagli scandali man mano emersi nelle principali città e in diverse Regioni, una stima di 100-120.000 persone è sicuramente assai prudenziale. È poi cresciuto in modo impressionante il personale «tecnico» o di segreteria: grazie alla pioggia di finanziamenti 27 per i gruppi parlamentari o consiliari e persino comunali nei grandi centri e alle apposite provvidenze per il personale che assiste i parlamentari e i consiglieri regionali (i famosi «portaborse» immortalati dal film di Moretti), si è formata una schiera di parecchie migliaia di «segretari» e collaboratori vari, fra i quali non scarseggiano parenti stretti dei politici «assistiti». Nella sola Regione Piemonte, nella scorsa legislatura, gli staff degli assessori impiegavano circa 90 persone con un costo di circa 4 milioni di 149

euro all’anno e, neanche a dirlo, con non pochi «parenti». 28 Mentre, nella Regione Lombardia, il solo ufficio stampa del presidente conta un direttore e 12 giornalisti per un costo di 1,7 milioni all’anno. 29 I più fortunati sono stati assunti nella burocrazia parlamentare, nella quale godono di retribuzioni decisamente alte e per 16 mensilità all’anno. 30 C’è poi stata una proliferazione delle fonti di finanziamento a giornali «organi di partito», a fondazioni, centri studi, agenzie, radio ecc., dove è difficilissimo dire quali siano giornali, agenzie, istituti e fondazioni che svolgono il lavoro di istituto (ce ne sono anche di veri) e quali sono solo coperture di partiti, correnti o anche apparati di singoli esponenti politici. E meno che mai è possibile distinguere fra il personale effettivamente impiegato per i fini dichiarati e quello fittizio dietro cui si nasconde del ceto politico imboscato. La Uil ha stimato a 960.000 le persone che vivono di politica in Italia, mentre altri parlano di 1.100.000 persone, 31 stime, come si vede, abbastanza convergenti e forse prudenziali: nel periodo della Prima Repubblica superavano di poco le 600.000, un numero già troppo alto che non aveva riscontri in Europa. Ma il prodotto principale di questo fiume di denaro non è stato tanto il gonfiamento degli 150

apparati, quanto l’assimilazione del ceto politico alla rendita finanziaria. In questi venti anni i partiti hanno ricevuto masse di denaro senza precedenti, che hanno alimentato la nascita di società finanziarie poi emerse con lo scandalo Lusi per l’ex Margherita, o con lo scandalo Belsito per la Lega. Per di più, un’improvvida normativa ha consentito agli enti locali non solo una maggiore capacità di indebitamento, ma anche di usare gli avanzi di bilancio (che, prima, dovevano essere utilizzati per acquistare titoli di Stato italiani) per acquistare liberamente titoli finanziari. Ciò ha, da un lato, spinto le giunte locali ad investire nei titoli più remunerativi (e perciò stesso più rischiosi 32 ), dall’altro ha spinto tutto il ceto politico a ritenere i proventi finanziari una fonte ordinaria di finanziamento. Tutto questo ha portato all’abbandono dei due antichi patti, quello della reciproca esclusione e quello della X, per cui il finanziere Berlusconi entrava in politica a vele spiegate, seguito da una frotta di imprenditori, ma il ceto politico si compenetrava nel mondo finanziario sia piazzando uomini propri nelle fondazioni bancarie, ancor più di quanto accadeva ai tempi della Prima Repubblica con le Casse di risparmio ecc., sia utilizzando il denaro dei lauti finanziamenti per investire in titoli finanziari, sia usando il capitale dei propri enti 151

integrandosi sempre più pienamente nel casinò della finanza internazionale. E, ovviamente, in un quadro del genere, l’antico patto della X fra cattolici e laici perdeva qualsiasi senso.

I buro-manager amministrazione

della

Pubblica

Nel periodo della Prima Repubblica, l’alta dirigenza statale godeva di notevole potere e riconoscimenti (retributivi, di sviluppo di carriera e di cooptazione dei subalterni, possibile promozione al Consiglio di Stato o alla Corte dei Conti ecc.) come, del resto, l’alta burocrazia statale di qualsiasi altro paese, e difendeva i suoi privilegi corporativi con accanimento, ma era pur sempre un ceto funzionariale subordinato gerarchicamente (almeno dal punto di vista formale) all’autorità politica e le retribuzioni, per quanto alte, erano incomparabilmente più basse di quelle attuali. Il processo di «privatizzazione dello Stato», di cui abbiamo detto a livello internazionale, era avviato in Italia con la legge delega 23 ottobre 1992 n. 421, e con il conseguente decreto delegato 3 febbraio 1993 n. 29 che avviavano la trasformazione della funzione pubblica. Il processo trovava poi conclusione con la cd. «riforma Bassanini» (leggi 5 152

marzo 1997 n. 59, 15 maggio 1997 n. 127, 16 giugno 1998 n. 191 e 8 marzo 1999 n. 50). Scopo di questa legislazione (che sostituiva l’impianto quasi secolare della «legge Giolitti» 25 giugno 1908 n. 290) era lo snellimento della funzione pubblica, la garanzia piena della sua imparzialità, la sua autonomia dall’autorità politica, che conservava solo poteri di direzione ma non era più sovraordinata gerarchicamente, lo svecchiamento della burocrazia da portare al livello del più moderno management. Da un giorno all’altro i nostri Oblomov diventavano i nuovi Henry Ford o Alfred Sloan, pur trattandosi, nella maggior parte dei casi, esattamente delle stesse persone di prima. La legge avrebbe voluto introdurre nella nostra amministrazione il principio americano dello spoil system, quantomeno nei gradi più alti, ma gli interessati opposero una tenace resistenza, sia in sede giurisdizionale che di lobbying parlamentare, riuscendo ad attenuare sensibilmente il tentativo. La riforma, poi, si incrociò con quella del titolo V della Costituzione (legge Cost. n. 3 2001), che deferì alle Regioni molte materie di competenza dello Stato centrale. Il risultato non sembra aver premiato le ottime intenzioni dei promotori della riforma: i tempi di operatività della Pubblica amministrazione e il suo grado di efficienza non sembrano affatto essere 153

migliorati, i ricorsi al Tar non sono affatto diminuiti, le carriere sono quelle di sempre. Inoltre, l’infelice riforma del titolo V della Costituzione (più volte rimaneggiata e peggiorata) ha aumentato la propensione alla spesa. In compenso è mutata la fisionomia sociale dell’alta dirigenza statale. In primo luogo è cambiata dal punto di vista retributivo, come accennavamo: 100 funzionari dello Stato, grazie ai superpremi, percepiscono quasi 200.000 euro all’anno e qualcuno come Franco Gabrielli (ex direttore del Sisde, poi prefetto dell’Aquila al tempo del terremoto, poi passato alla Protezione Civile, poi prefetto di Roma ora Capo della Polizia) ha raggiunto i 300.000 33 e non è certo l’unico. Era stato proposto di calmierare i superpremi o di «tagliare» parte dello stipendio a chi superava i 90.000 euro l’anno (circa 100.000 dipendenti fra magistrati, dirigenti ecc.), ma una provvida sentenza della Corte Costituzionale ha dichiarato illegittime queste decurtazioni, salvando dall’indigenza i malcapitati dirigenti e magistrati. 34 Il risultato è che le retribuzioni dell’alta dirigenza italiana, secondo quanto l’Ocse segnalava già nel 2013, sono triple rispetto alla media 35 e sono in assoluto le più alte del mondo. Né questo ha scoraggiato la proliferazioni delle nomine, come dimostrò l’ondata di promozioni 154

decisa dal ministro Alfano nel 2014, con la quale è stato raggiunto il numero top di 200 prefetti: 36 2 per Provincia e nel momento in cui dovrebbe esserci la chiusura delle Province: un confronto che non merita commenti. In secondo luogo, l’aumentata capacità decisionale ha conferito agli alti dirigenti una discrezionalità sconosciuta in passato e, con ciò stesso, ne ha aumentato il potere. In terzo luogo la nuova figura sociale così prossima a quella del manager di impresa ha istituito una sorta di «porta girevole» per la quale l’alto funzionario passa da un ruolo all’altro con disinvoltura. Come, ad esempio, è accaduto a Giovanni De Gennaro, balzato dall’incarico di Capo della Polizia e poi di sottosegretario a quello di presidente di Finmeccanica. Questo non deve far pensare che l’alta dirigenza abbia rinunciato all’inamovibilità di cui ha sempre goduto. Ad esempio il segretario generale della Camera dei deputati, Ugo Zampetti, nominato alla carica nel 1999 dall’allora presidente Luciano Violante, ha conservato a lungo il suo incarico e, dopo l’andata in pensione, è passato per qualche tempo al ruolo di segretario generale della presidenza della Repubblica (anche se senza retribuzione, occorre riconoscere). Dunque, una dirigenza che si sta 155

managerializzando, ma senza per questo rinunciare ai privilegi propri della burocrazia, donde l’appellativo di buro-manager, dotati di poteri sullo Stato che i manager aziendali, ovviamente, non hanno. Qualche differenza fra i due diversi ruoli esiste ancora e la principale fra esse è questa: i manager godono di retribuzioni più alte ma aspirano all’inamovibilità dell’alta dirigenza, che, per parte sua, si tiene ben stretta la sua sostanziale inamovibilità, ma vorrebbe le stock options dei primi. Ma, purtroppo, lo Stato non è (ancora) organizzato su base azionaria. Magari occorrerà attendere una delle prossime riforme.

Le mutazioni del polo cattolico Anche il polo cattolico non è rimasto estraneo ai mutamenti sociali di questo venticinquennio, anzi, per certi versi li ha anticipati. Infatti i mutamenti iniziarono già molto prima e c’è una data che fa da spartiacque nelle vicende del polo cattolico in Italia: il 13 maggio 1974, quando i risultati del referendum sul divorzio rivelarono che i cattolici erano minoranza nel paese. I Sì all’abrogazione del divorzio furono il 40%, quasi l’8% in meno della somma teorica dei partiti (Dc e 156

Msi) che avevano dato indicazione in questo senso. Dopo soli otto anni e su un terreno ancor più delicato, l’aborto, i Sì all’abrogazione erano scesi al 32%, due anni dopo, nel 1983, la Dc subiva la più cocente sconfitta elettorale dalla guerra in poi, collocandosi al 32% (la stessa percentuale dei Sì sull’aborto). Qualche piccolo segnale di ripresa ci fu nelle elezioni del 1987, ma ormai il declino del «partito dei cattolici» era irreversibile. Anche il «patto della X» iniziò a vacillare, con le presidenze del Consiglio Spadolini (Pri) e Craxi (Psi) che segnalavano una fase di particolare dinamismo dei laici. La vicenda di «Mani Pulite» spazzò via la Dc, cui sopravvisse un effimero Partito Popolare in breve dissoltosi con una serie di scissioni. Tutto questo era il prodotto del processo di secolarizzazione e laicizzazione della società italiana, che si compiva nel ventennio settantaottanta: crollava la frequenza alle cerimonie religiose e alla pratica dei sacramenti (in particolare aumentava fortemente il numero di bambini non battezzati, quello delle nozze civili e quello dei funerali laici), calavano fortemente sacerdoti e religiosi, mentre una cospicua fetta di italiani si dichiarava apertamente atea o agnostica. Le ricerche demoscopiche (e la verifica empirica) segnalavano che l’influenza elettorale della Chiesa oscillava fra il 157

12 e il 18% complessivo, ma la stessa Chiesa, ormai meno interessata allo scenario italiano e più protesa al grande disegno globale wojtyliano, lasciava cadere il principio dell’«unità dei cattolici in politica». Pertanto i cattolici riconfigurarono la loro presenza non più attraverso un solo partito, ma con gruppi, piccoli partiti, associazioni, movimenti distribuiti sia nella coalizione di centro-sinistra che in quella di centro-destra, oltre che nella quota residuale del centro. La stessa gerarchia vaticana si diversificò al suo interno fra i fautori di una coalizione e quelli dell’altra. È interessante notare come le maggiori vittorie laiche della storia repubblicana (divorzio e aborto) siano state ottenute quando c’era la potente Dc, mentre quasi nessuna delle istanze di parte laica (questioni bioetiche, finevita ecc.) abbia avuto successo nella Seconda Repubblica, quando i cattolici si sono dispersi nelle tre aree di destra, sinistra e centro. Questo esito è stato il prodotto di diversi fattori. In primo luogo, la caduta di tensione ideologica dei partiti (per cui non c’è più nessuno che si dichiari cattolico, salvo l’Udc, ma quasi nessuno si dichiara laico) ha incoraggiato pratiche opportunistiche di recupero del «voto marginale», per cui i cattolici sono percepiti dalle direzioni dei partiti come elettorato mobile fra i due schieramenti e, pertanto, la conquista del loro voto fa premio rispetto agli 158

elettorati di «appartenenza», ben più numerosi, ma meno mobili. È una riedizione della «politica dei due forni» proposta da Andreotti negli anni ottanta e, per certi versi, della prassi dell’Opus Dei in Spagna, che ha sempre rifiutato la costruzione di un partito cattolico, preferendo essere presente in tutti gli schieramenti. In secondo luogo, occorre tener presente la trasformazione del modo di porsi di alcuni gruppi cattolici. Tradizionalmente, le organizzazioni del laicato cattolico avevano espresso una limitata propensione all’impegno militante che, per di più, era ulteriormente calata nel tempo. Proprio in coincidenza con il referendum sul divorzio emerse un nuovo soggetto cattolico come Comunione e Liberazione, a forte impronta attivistica. Sino a quel momento, il gruppo della Gioventù Studentesca (immediato predecessore di Cl) aveva partecipato al movimento degli studenti di quegli anni ed era normalmente percepito come un gruppo di sinistra, uno dei tanti del «dissenso cattolico» di quegli anni. 37 Fu proprio la scelta di rompere con l’ala sinistra riunita nel movimento dei «cattolici per il No», in occasione del referendum, che segnalò Cl come il nuovo soggetto di area cattolica. Il gruppo di Don Giussani scontava di agire in una società che non era più pervasa dai valori cattolici, ma non accettava alcun arroccamento minoritario. Nel 159

modus operandi di Cl (marcato attivismo sociale, forte senso di appartenenza di gruppo ecc.) si avvertiva la contaminazione con i movimenti del sessantotto di cui Cl assumeva molte forme espressive. Quel che produceva un innesto assai dinamico che raccoglieva un cospicuo numero di voti: 38 con la Comunità di Sant’Egidio e l’Opus Dei, Cl ha rappresentato la maggiore novità cattolica in campo politico. Nel 2003 il ciellino Giorgio Vittadini creò la Fondazione per la sussidiarietà, che ebbe una sua proiezione nel gruppo interparlamentare per la sussidiarietà cui aderirono, fra gli altri, i pidiellini Maurizio Lupi e Angelino Alfano e l’allora margheritino Enrico Letta 39 (tutti nomi poi confluiti nel governo Letta). Sino al 2010 Cl ha ottenuto importanti posizioni istituzionali, come la presidenza della Regione Lombardia, il Ministero della Difesa (con il ciellinomontiano Mauro), quello dei Trasporti e infrastrutture (con il ciellino-berlusconiano Lupi), ha ottenuto numerosissimi assessorati regionali e sindaci (fra gli altri, viene dato per suo simpatizzante anche Matteo Renzi). Poi la tendenza si è invertita e alcune di queste posizioni, come la Regione Lombardia e il Ministero della Difesa, sono state perse. Cl ha generato anche un importante soggetto economico, la Compagnia delle Opere, sorta nel 160

1986 per volontà di Don Giussani e che attualmente organizza 34.000 piccole e medie imprese e un migliaio di associazioni no profit. Fra i suoi sostenitori, simpatizzanti o semplici amici, Cl ha allineato nel tempo nomi molto importanti della finanza cattolica come Calisto Tanzi, Corrado Passera, Giovanni Bazoli, e nei suoi meeting riminesi ha ospitato anche Alessandro Profumo, Tommaso Padoa Schioppa e molti altri. Questa rete di rapporti ha consentito a Cl e alla Cdo di avere una posizione centrale in Lombardia anche dopo la perdita del Pirellone. Ad esempio i consigli di amministrazione di Fieramilano, Expo 2015, Ferderlegnoarredo hanno ospitato (e in parte ancora ospitano) uomini della Cdo che, peraltro, vanta un rapporto consolidato anche con diverse imprese del gruppo Finmeccanica. Inoltre il braccio finanziario di Cl può contare su una partnership speciale con banche come Bnl-Paribas, Monte dei Paschi di Siena, Unicredit, Banco Popolare, Intesa-San Paolo, Cariparma, Banca Popolare di Milano, che hanno sottoscritto intese con la Cdo tali da garantire condizioni di forte favore alle sue consociate. 40 Un vorticoso giro di affari che ha causato anche diversi grattacapi giudiziari a singoli sodali di Cl e della Cdo (dal caso Parmalat a quello dei corsi di formazione professionale che ha investito Graziano Debellini, e altri ancora). È determinante capire (e 161

torniamo a un punto che abbiamo affrontato nel primo capitolo) che, come è caratteristico delle organizzazioni cattoliche, Cl ha potuto giovarsi di una grande quantità di lavoro volontario a basso costo o del tutto gratuito, e questo è alla base tanto del suo successo politico quanto, ancor più, del suo successo economico con la Cdo. L’altra novità politica in campo cattolico è stata l’Opus Dei, spesso indicata come il simmetrico della Massoneria in campo cattolico, soprattutto per il fatto che non rende pubblica la lista dei suoi aderenti. L’Opus fu fondata in Spagna nei tardi anni venti dal sacerdote Josè Maria Escrivà de Balaguer come strumento di contrasto alla penetrazione massonica nelle classi dirigenti spagnole. Fu costantemente alleata del regime franchista (anche se alcuni suoi membri parteciparono alle attività clandestine antifranchiste e furono anche imprigionati per questo) ed ebbe il suo momento di maggior fulgore nel periodo del «desarrollo» (195773) quando numerosi ministri erano «tecnocrati» allevati in casa Opus. In Italia, l’Opus non ha avuto la stessa fortuna conosciuta in Spagna, ma ha messo solide radici avendo simpatizzanti come Giulio Andreotti. A differenza di Cl, l’Opus non fa reclutamento di massa e chiede l’adesione a un modello di vita ascetico, con frequente ricorso a penitenze anche 162

corporali e umiliazioni che addestrino l’adepto alla più totale obbedienza. 41 Nell’Opus si entra per «chiamata», come attesta un suo prestigioso aderente, il senatore Marcello Dell’Utri. 42 L’organizzazione recluta nei più diversi ambienti sociali, ma dedica particolare attenzione alle classi più elevate (in questo seguendo esempi importanti nella storia della Chiesa come l’Ordine Domenicano o la Compagnia di Gesù). Molto successo l’Opus lo riscuote fra i finanzieri: fu dell’Opus Ruiz Mateos, uno dei più importanti finanzieri spagnoli, sino alla sua caduta negli anni ottanta, in Italia sovranumerari dell’Opus sono stati Ettore Gotti Tedeschi (rappresentante in Italia del Banco di Santander e poi governatore dello Ior sino al 2012) e Gian Mario Roveraro, altro importante finanziere, poi trucidato dopo una torbida vicenda finanziaria anglo-austriaca mai chiarita. 43 Soprattutto è stato aderente all’Opus Dei uno dei governatori della Banca d’Italia, Antonio Fazio. In sede politica ha sempre avuto adesioni di parlamentari come Paola Binetti (prima Margherita, poi Pd, poi rutelliana) o Alberto Michelini (deputato di Fi). Fra i benefattori e sostenitori si sono evidenziati Calisto Tanzi, Alberto Sordi, Giovanni Trapattoni. Don Giussani disse una volta che, se i ciellini sono i Balilla che lanciano i sassi, l’Opus ha i carri 163

armati. E, in effetti, quantomeno sul piano finanziario non c’è dubbio che l’Opus pesi molto di più del movimento di Don Giussani, anche se sul piano politico sembra aver avuto minore successo (per quel che se ne sa), anche se può contare su amici, simpatizzanti e difensori in tutti gli schieramenti politici, secondo la consolidata prassi trasversalista che la ha sempre contraddistinta. E anche l’Opus Dei ha avuto i suoi guai giudiziari o, quantomeno, il suo nome è rimbalzato in tutti gli scandali della finanza cattolica dal caso Calvi alla Parmalat, dal caso Cirio alla vicenda Banca d’Italia-Fiorani-Antonveneta, per restare ai casi più rilevanti. Cl, Sant’Egidio e Opus presentano diversi caratteri in comune: in primo luogo sono associazioni di laicato cattolico (anche se l’Opus al suo interno ha una fraternità sacerdotale e Cl organizza in qualche modo i suoi preti e vescovi) che vedono i laici come protagonisti, anche se spesso legati a voti particolari o vita in comune. In secondo luogo, si tratta di movimenti a spiccata vocazione politica e con una forte propensione attivistica. In passato c’erano associazioni del laicato come l’Azione Cattolica, che però avevano un intervento politico spesso non così esplicito e diretto e, soprattutto, avevano carattere assai meno militante. In terzo luogo sono associazioni che, 164

almeno nei casi di Cl e Opus, hanno una loro dimensione economico-finanziaria sin qui inedita per il laicato cattolico. 44 In quarto luogo praticano tutte forme di trasversalismo e non si muovono nell’ottica del «partito dei cattolici», ma dell’azione dei cattolici nei vari partiti. E questo ci sembra già una evoluzione della presenza politica dei cattolici, che segna un salto rispetto all’esperienza della Prima Repubblica: una tattica molto più efficace, soprattutto tenendo conto delle dimensioni molto più ridotte del consenso a formazioni cattoliche. Qualcosa del genere è accaduto anche nella finanza, dove è venuto meno il «patto della X». Come abbiamo detto, già i governi Craxi e Spadolini avevano rimesso in discussione quegli equilibri e, negli ultimi anni ottanta (dimenticati gli scandali Sindona e Calvi), i cattolici erano entrati a vele spiegate nel mondo della grande finanza d’affari. Il primo evento in questo senso fu la fusione fra il Nuovo Banco Ambrosiano e la Banca Cattolica del Veneto, che metteva le premesse di uno dei poli bancari maggiori del paese. Seguiranno una serie di perturbazioni dovute all’uscita del Credito Romagnolo dal gruppo e all’uscita anche della Banca Popolare di Milano, cui subentravano le Generali che ne acquistavano parzialmente le azioni. In realtà, dietro le Generali c’era la mano di Cuccia, 165

che tentava una scalata che portasse la nuova banca nell’area di influenza della Comit, neutralizzando così il tentativo di dar vita a un forte polo bancario cattolico. Ma Bazoli, intuita la manovra, associò all’operazione la grande banca cattolica francese, il Crédit Agricole, che all’epoca, in verità, non era una singola banca ma la federazione di moltissime banche agricole locali. Con un opportuno patto di sindacato, Bazoli blindò la sua operazione, dando vita all’embrione del polo cattolico che, dopo aver assorbito altre banche (Vallone di Galatina, rete della Citibank Italia), coronò l’operazione fondendosi con il San Paolo di Torino e costituendo il secondo gruppo bancario del paese. Meno fortunato sarà il tentativo di Cesare Geronzi di espugnare Mediobanca e le Generali, partendo dall’aggregazione romana di Capitalia (ex Cassa di Risparmio di Roma, Banco di Santo Spirito e Banco di Roma). 45 Con lo scioglimento della Dc e dei partiti laici, il «patto della X» cessava di avere senso perché non esistevano più gli antichi contraenti. È significativo notare che i due «grandi vecchi» della finanza italiana (o «banchieri di sistema» come preferiscono autodefinirsi) siano Cesare Geronzi e Giovanni Bazoli, rispettivamente rappresentanti del polo romano e di quello bresciano della finanza cattolica. E, se Geronzi è finito abbastanza ai margini, 166

Giovanni Bazoli è ancora la testa pensante del gruppo Intesa-San Paolo e gode di fortissimo ascendente riconosciutogli anche da chi non appartiene al suo mondo. D’altro canto è difficile negare che, dopo Cuccia, sia stato il banchiere italiano più abile. D’altra parte, con il fallimento della controffensiva laica, si è determinata una pax bancaria che sconta la definitiva assimilazione della finanza cattolica al mondo della finanza d’affari, lasciando cadere la primitiva discriminazione.

La rivoluzione dei media Uno dei processi di maggiore rilievo della storia repubblicana è stato certamente la rivoluzione dei mass media. Con la nascita della Tv di Stato (1954) si realizzava una sorta di duopolio, per cui lo Stato si riservava il controllo dell’informazione radiotelevisiva, mentre ai privati restava quello su carta stampata. 46 Questa linea di divisione era meno netta per le agenzie di informazione: la maggiore, l’Ansa, era proprietà di un consorzio di grandi testate giornalistiche, sia pubbliche che private, l’Agi era di proprietà dell’Eni, la Adn (più tardi Adn-Kronos) era privata ma coltivava qualche rapporto con il servizio segreto militare. 47 La Tv di Stato agiva, pertanto, in regime di 167

monopolio ed era alimentata essenzialmente dagli introiti del canone, pertanto assumeva un ruolo eminentemente «pedagogico-formativo», senza preoccupazioni di audience. Ne derivò una Tv a forte connotazione culturale 48 ma anche molto moralista e sessuofoba, filo-governativa a oltranza e un tantino noiosa. 49 In ogni caso, questo fu il primo atto della «rivoluzione dei media»: in Italia il consumo di quotidiani non è mai stato troppo generoso e dal 1938 in poi non ci si è mai molto discostati da quota 5 milioni di copie al giorno (quota oggi crollata). Dunque, un consumo che riguardava prevalentemente le classi medie, mentre quelle popolari restavano in larga parte escluse dall’informazione politica e culturale che al massimo arrivava tramite il giornale-radio. Con la Tv la capacità di penetrazione della Rai si moltiplicò: la Tv divenne il vero unificatore culturale della penisola, segnò la definitiva prevalenza dell’italiano sul dialetto, avvicinò ai consumi culturali anche classi sino a quel punto escluse, contribuì persino a unificare le gastronomie regionali e a equalizzare i consumi alimentari fra le varie Regioni. Ma più di tutto, la Tv, insieme a scuola, partiti, sindacati e movimenti, fu uno dei massimi strumenti di educazione politica del paese: il telegiornale e «tribuna politica» socializzarono all’informazione politica ed esaltarono il valore della 168

partecipazione, le trasmissioni speciali nella stagione degli «anniversari» (dal 1961, centenario dell’Unità, sino al 1972, cinquantenario della marcia su Roma) crearono un canone storiografico ampiamente condiviso che fu alla base dell’egemonia politica del canone antifascista. Più degli altri mezzi di informazione e di formazione di massa, la televisione formò il blocco della «cittadinanza antifascista», che fu quello che resse l’urto dell’attacco alla democrazia dello stragismo di destra e dell’armatismo di sinistra. La Tv di Stato fu il più potente alleato del sistema dei partiti, agendo in sinergia con essi; l’area ipo-politica (come la definisce Orsina) non scomparve, ma fu ridotta ai margini e si mimetizzò nei partiti dell’antifascismo moderato (Pli, Dc e Psdi), restando silente. Ma già a metà anni settanta gli equilibri iniziarono a cambiare con l’avvio del processo di concentrazione editoriale che portò alla scomparsa degli «editori puri» e alla nascita dell’oligopolio dell’informazione riunito intorno a pochi potentissimi gruppi, di cui i due maggiori erano Rizzoli-Corriere della Sera, di proprietà di una holding che rifletteva sostanzialmente il «salotto buono» di Mediobanca, e il gruppo EspressoRepubblica, che faceva riferimento alla Cir di Carlo De Benedetti. Nello stesso tempo, si verificava il boom delle radio libere – inizialmente a carattere 169

militante e con scarsi mezzi commerciali –, che portò alla serie di sentenze della Corte Costituzionale, che eliminarono il monopolio pubblico televisivo spianando la strada alla Tv privata commerciale. Dopo una prima confusissima fase (si parlò di «far west televisivo») si giunse alla formazione di un sostanziale monopolio della Tv commerciale da parte della Mediaset di Silvio Berlusconi, che assorbì le principali tre reti televisive. Monopolio poi ratificato con la legge Mammì sull’emittenza (1990). Questo segnò il secondo atto della rivoluzione dei media. La Tv commerciale, ovviamente, non godeva del canone e poteva finanziarsi solo con gli introiti della pubblicità, per i quali era determinante il livello di ascolti raggiunto. Quello che portava a spostare l’attenzione verso le fasce di spettatori che dedicano più tempo all’ascolto televisivo: per forza di cose, casalinghe e pensionati, cioè una porzione importante dell’area ipo-politica. È in quegli anni che nasce la figura della «signora Maria di Voghera», termine di paragone assoluto dell’ascoltatore televisivo medio. Quello che significò in primo luogo un consistente abbassamento culturale dell’emittenza commerciale: il teatro sparì, sostituito da interminabili telenovelas dai cui dialoghi venne intenzionalmente escluso l’uso del congiuntivo – che si ritenne non facesse 170

parte del parlato quotidiano della «signora Maria» 50 – lo sport assorbì buona parte del palinsesto, riducendo ai margini il tempo delle trasmissioni culturali. Molta fortuna ebbe la formula dei talk show, caratterizzati da un linguaggio assertivo e dall’assoluta indisponibilità a un reale confronto di idee, perché la «rissa» – possibilmente un po’ volgare e gridata – fa molti più ascolti. E ben presto anche la Tv pubblica si pose sulla stessa strada, pur se con maggiore moderazione. Nello stesso tempo, iniziava a spirare il vento culturale neoliberista con il suo contenuto fortemente antipolitico: il mercato bastava a sé stesso e la politica doveva astenersi il più possibile dall’intervenire nella società e, pertanto, dall’imporre un’alta pressione fiscale (quel che conquistò larga parte dei lavoratori autonomi, altri forti sostenitori della Tv commerciale). Si realizzò così l’innesco fra neoliberismo e populismi che verranno dopo, a partire dagli anni novanta, e che si manifestò, in sede politica, con l’inchiesta di Mani Pulite e il connesso referendum del 18 aprile 1993, vero colpo di stato contro la Costituzione. La Tv commerciale – e la fine dei partiti – risvegliò gli umori ipo-politici, richiamandoli alla luce e dando vita all’emulsione liberal-populista berlusconiana. Di colpo la sinistra, e quel che restava della Dc, scoprirono che il blocco della cittadinanza 171

antifascista non era più dominante e, anzi, era in minoranza, perché la Tv commerciale aveva creato un nuovo blocco socio-culturale: quello populistaneoliberista. Il ventennio berlusconiano ha prosperato proprio su di esso e il sistema elettorale maggioritario fu la migliore canalizzazione che esso potesse usare per affermare il «partito del leader» e l’egemonia culturale di questa nuova destra ipopolitica o antipolitica. E ancora oggi, l’area antiberlusconiana, che pure ha fatto proprie non poche forme espressive o elementi di cultura politica di questa destra, stenta a capire che, pur estromettendo il Cavaliere dalla scena politica, il berlusconismo, in quanto fenomeno culturale, è destinato a durare ancora a lungo, perché esso poggia su questo blocco sociale selezionato in gran parte dalla Tv commerciale e che ormai costituisce un dato strutturale del nostro sistema politico. La terza ondata della rivoluzione venne con i tardi novanta e il decennio successivo, che ha segnato l’ascesa della comunicazione web. Qui siamo di fronte a un medium che per la prima volta non è «direzionale» ma bidirezionale e interattivo. 51 Tutto questo sta determinando una rivoluzione molto più radicale delle precedenti e che è solo all’inizio. Non è una difficile previsione quella per cui gli sviluppi della rete modificheranno profondamente non solo la politica e l’economia, ma anche la 172

lingua, la cultura, la pubblicità, la psicologia di massa ecc. Ma non è possibile dire in che senso questo avverrà e se ci sarà un senso preciso o anche solo prevalente, o se questo aumenterà il tasso di entropia con tendenze onnidirezionali e contraddittorie. C’è chi pensa che la rete sia la nuova Agorà di una possibile democrazia diretta del duemila. 52 E le rivolte arabe, le battaglie dei blogger cinesi, il fenomeno degli indignados e poi Podemos, Occupy Wall Street, per non dire del M5S in Italia, forniscono altrettanti argomenti a sostegno. C’è chi pensa che, al contrario, sia il nuovo «Grande Fratello» e il caso Snowden e la tematica dei Big Data gli forniscono abbondanti argomenti di appoggio. 53 C’è chi pensa che internet sia il portatore di un’ondata iperpopulista di delegittimazione dei partiti politici 54 e c’è chi invece pensa che sia l’unico modo per rifondare i partiti superandone la dimensione burocratica. 55 C’è chi pensa che la rete sia il medium iperpopulista proprio perché suggerisce l’idea di una politica praticabile senza mediazione alcuna e la possibilità di intervenire su ogni singola questione, senza avere le necessarie competenze. E c’è chi pensa che la rete possa svolgere un ruolo di formazione e acculturazione di massa senza precedenti. E, nei fatti, la rete, per ora, è tutto questo 173

insieme. Ed è, soprattutto, un campo di battaglia, in cui si fronteggiano visioni opposte che tirano ciascuna nella propria direzione. Chi vincerà e come è impossibile dirlo. Per ora, tornando all’asse principale del nostro discorso, la rete ha prodotto l’aggregazione di un vasto pezzo di società che presenta caratteristiche generazionali, culturali e, direi, persino antropologiche proprie differenziate dal resto. Ad esempio la «cittadinanza internettiana» non è buona consumatrice di carta stampata e, se legge i quotidiani, spesso ne legge le edizioni on line, ma, soprattutto, non ama la Tv né pubblica né commerciale. Esattamente come la zolla della «cittadinanza antifascista», anche per ragioni generazionali o professionali, ama la carta stampata e segue la Tv pubblica, ma ama molto meno sia la Tv commerciale che il Web, che frequenta ma con molta diffidenza. E, del resto, come il blocco populista-neoliberista, che predilige la Tv ma non consuma che in modo marginale e minoritario la carta stampata e il Web. Dunque, si sono formate tre zolle socio-culturali, ciascuna con il proprio circuito comunicativo, il proprio linguaggio e, se vogliamo, i propri miti e antimiti, ciascuna autocentrata e scarsamente incline a confrontarsi con gli altri, che vede molto più simili fra loro che a sé. All’interno della «cittadinanza 174

internettiana» è emerso il M5S, che si pone come contropotere rispetto al potere economico e politico costituito con le sue istituzioni, partiti, banche, sindacati ecc. E, come per le due fasi precedenti, che hanno generato il blocco della cittadinanza antifascista e quello populista-neoliberista, anche in questo caso, chi c’era prima non comprende la novità e ritiene questa emersione un fatto accidentale destinato a essere rapidamente riassorbito, non comprendendone l’aspetto strutturale. Per il resto, il M5S è un movimento ancora giovane, che ha ottenuto di colpo il consenso di un elettore su quattro, cosa cui non era affatto preparato. 56 Ma, così come la scomparsa dalla scena di Berlusconi non significherebbe affatto la scomparsa del berlusconismo, della sua cultura politica e del suo blocco sociale, anche una eventuale scomparsa dalla scena di Grillo o la crisi del suo movimento non significherebbero affatto la «normalizzazione» di questa area di dissenso e un suo ordinato rientro nei bacini elettorali classici. La terza rivoluzione dei media ha prodotto questa area ed essa non scomparirà così facilmente: la tripartizione dell’elettorato italiano riflette questa stratificazione socio-culturale ed è destinata a permanere pur se con oscillazioni, alti e bassi, forse momentanee eclissi. E questo è uno dei dati più significativi della 175

crisi del potere del nostro paese.

Gli intellettuali Le considerazioni sulle evoluzioni dei media aprono la porta a una riflessione sul mutamento della figura sociale dell’intellettuale, grandemente cambiata in questi trenta anni. È andata in crisi la figura dell’intellettuale burocratico inventata dal fascismo ed esaltata dalla Prima Repubblica e sono emerse due nuove figure a carattere libero-professionale: quella del consulente tecnico (del governo, degli enti locali, delle banche, delle grandi imprese ecc.) e quella dell’intellettuale mediatico, che costruisce la sua influenza attraverso la partecipazione a talk show, la collaborazione a quotidiani, la consulenza a film, format televisivi, persino war game o simili. Lasciamo da parte quanto in tutto questo ci sia di clientelismo politico, favoritismi ecc.: non è questo il punto. Quello che conta è capire da dove viene e dove porta questa trasformazione in senso liberoprofessionale. Sulle cause non possiamo che partire dalla crisi dell’università: è certamente vero che l’università italiana è sotto finanziata e che gli stipendi del ceto accademico italiano sono fra i più bassi d’Europa, ma è anche vero che ben poche università del mondo 176

occidentale consentono ai propri docenti di ruolo di fare attività professionale senza limiti e nessuna chiede obblighi di tempo così modesti come quella italiana. Soprattutto è vero che gli indici di resa del sistema universitario italiano (in laureati, in titoli scientifici, brevetti, citazioni nella stampa scientifica internazionale, presenza nei dibattiti internazionali ecc.) sono fra i più bassi del mondo occidentale e, nelle graduatorie curate dalle varie agenzie di valutazione, le nostre università scivolano a posti dal 40o o dal 60o in giù, scavalcate non solo da università americane, inglesi, francesi e tedesche ma anche cinesi o indiane e di paesi che sicuramente per l’università spendono anche meno dell’Italia (ad esempio, spesso nelle classifiche gli atenei italiani vengono dopo quelli del Cairo). Il punto è che larghe fasce del mondo accademico si sono trasformate semplicemente in «rendita burocratica sine cura». Nel cinquantennio della Prima Repubblica, c’è stata una sostanziale collusione fra l’università e il ceto politico, che ha riconosciuto piena autoreferenzialità alla corporazione accademica, 57 ha tollerato la formazione di nicchie di scarsa o inesistente produzione scientifica, di evasione degli obblighi didattici, di selezione clientelare e nepotistica o di influenza partitica e, soprattutto, ha 177

regolarmente piegato ogni ipotesi di riforma ai desiderata della corporazione accademica e specialmente della sua «cupola». Altro elemento di lusinga del ceto politico verso l’accademia furono nomine e incarichi: dalla Corte Costituzionale e il Csm, alle consulenze ministeriali, dai consigli di amministrazione di banche pubbliche o della Rai alla presidenza di enti pubblici. Naturalmente, il corpo accademico ricambiò sempre tanto generosa disponibilità, svolgendo un ruolo di formazione del consenso e di copertura intellettuale delle scelte del sistema: soprattutto dai tardi anni settanta in poi, dalla politica estera alle scelte di politica energetica, dalla legislazione penale alla riforma del diritto di famiglia, e soprattutto in materia di scelte economiche e di riforma delle istituzioni, la netta maggioranza del ceto accademico è stata regolarmente al fianco del blocco di potere (al massimo, dividendosi fra i sostenitori di una fazione e quelli dell’altra). Dalla fine degli anni settanta, sarebbe stato vano attendersi un ruolo critico da parte di questa intellettualità. La spaccatura vera verrà con il referendum del 2016, ma non precorriamo i tempi. Ovviamente questo non significa che nell’università italiana siano mancati o manchino scienziati di grande valore che, per fortuna, non sono neppure pochi, ma che questa tendenza alla 178

mediocrità e alla rendita parassitaria è stata ed è in costante crescita. Ci sono molti talenti nell’università italiana, ma il loro lavoro è soffocato dalla «mano-morta» di troppi rentier. E questo è più vero nelle facoltà umanistiche. Nella Prima Repubblica agli intellettuali umanisti era affidato il compito di formare la coscienza civica, l’identità nazionale e la cultura sociale diffusa, ma con il tempo questa mansione, in sé di grande importanza, è andata via via scadendo: da formatori della coscienza civile, gli intellettuali si sono fatti strumenti di propaganda e formatori di consenso. Questo ha provocato parallelamente una caduta di prestigio dell’intellettuale umanista, che, da un lato, è rimasto del tutto disarmato di fronte all’offensiva neoliberista che ha ben scarso rispetto della cultura in generale e nessuno per una cultura che non sia orientata all’immediato profitto, dall’altro non è stato in grado di interpretare i fenomeni connessi alla globalizzazione. In molti paesi occidentali è stato cancellato l’insegnamento della geografia nelle medie superiori, in alcuni (come l’Inghilterra) a farne le spese è stata la storia, ritenuta poco meno di un ferro vecchio, gli insegnamenti di lettere classiche sono decimati dappertutto, gli iscritti alle facoltà di lettere sono in picchiata sia in Italia che in altri paesi. In tutto questo incide la natura storica del 179

neoliberismo che, sicuramente, è un fenomeno di regressione culturale fra i più gravi dell’epoca moderna, ma occorre riconoscere che l’attacco alle umanistiche (come in fondo all’università statale in quanto tale) ha le sue ragioni e che, almeno per quel che riguarda l’Italia, si basa in gran parte sul «suicidio» che il ceto accademico ha compiuto in questi decenni con la sua degenerazione. Gli intellettuali umanisti, in particolare, non hanno saputo rinnovarsi e riproporre l’utilità delle proprie discipline alla luce dei processi di trasformazione sociale in atto, ma hanno preferito insistere sulla vuota retorica dell’«utilità delle cose inutili» e in una contemplazione neo-arcadica della cultura classica, trasparente alibi della propria rendita burocratica. Il problema non è se le scienze umane siano utili o no: certo che sono utili e direi necessarie. Il problema è «quali» scienze umane. Sin qui il ceto accademico italiano di queste facoltà non ha fatto che ripetere lo stesso discorso, con le stesse metodologie e gli stessi argomenti di mezzo secolo fa. A scorrere i programmi di insegnamento si noterebbe che argomenti, taglio, metodo ecc. sono cambiati pochissimo in 40 anni. E lo dimostra il fatto che gli intellettuali umanisti non hanno neppure capito il perché della loro crisi e se la prendono con i tempi infausti come don Ferrante con la congiunzione degli astri. Nell’epoca della 180

globalizzazione serve un ripensamento complessivo di tutte queste materie e serve un approccio interdisciplinare che, per quanto possibile, colmi il tradizionale fossato fra scienze umane e scienze matematiche e naturali. Qualcuno osserverà che anche le facoltà «scientifiche» (che un mio professore di quaranta anni fa chiamava con un certo disprezzo «tecniche») se la passano male, anche se un po’ meno. Ed è vero, sia perché molti malvezzi (come la selezione clientelare e nepotistica, l’allegra gestione dei già scarsi fondi, la presenza di interessi professionali e personali ecc.) sono comuni a tutte le facoltà, sia perché anche qui c’è scarsa comprensione delle dinamiche sociali in atto e, di conseguenza, la didattica non è adeguata: prevale ancora la «lezione frontale», c’è ancora troppo poco laboratorio, è scarsissima l’interazione con gli studenti ecc. Infine, il modello universitario statale va difeso ma ripensato: la pretesa di fare dell’egualitarismo appiattendo tutto su schemi burocratici uniformi e intoccabili, che ammazzano qualsiasi sperimentazione e autonomia di insegnamento, è una scelta suicida in un’epoca come questa. In qualche modo, alcune di queste critiche possono essere applicate alla scuola media, dove, però, i docenti è innegabile che lavorino e con una passione certamente non giustificata dalla miseria 181

degli stipendi. Ma anche qui la dimensione burocratica che scambia l’eguaglianza con l’uniformità è una scelta fra le più infauste che si possano fare. Nell’epoca dei cambiamenti veloci ha senso avere ancora programmi ministeriali nelle medie o piani di studio standardizzati per tutti all’università? È il collasso dello Stato sociale (passato senza che gli intellettuali burocratici alzassero un fiato) che porta con sé la ritirata dello Stato dalla scuola e dall’università: i fondi per l’una e per l’altra sono scarsi, ma diminuiranno costantemente nei prossimi anni. E questo significa inevitabilmente la falcidia dei posti dell’intellettualità burocratica che, così, paga per i suoi silenzi di fronte all’offensiva neoliberista. E dove ci porta questa tendenza alla trasformazione in senso libero-professionale del ruolo dell’intellettuale? In primo luogo, la conseguenza più importante è nell’ideologia sottesa al ruolo dell’intellettuale tecnico, portatore di un sapere neutrale, oggettivo: è una delle manifestazioni del «teatro della neutralità» di cui parla Alessandro Colombo, 58 che dà luogo a uno dei più clamorosi autoinganni della società contemporanea. L’intellettuale «tecnico» è per sua natura incapace di critica al potere e, perciò stesso, è schierato con esso, perché le conoscenze di merito, 182

certamente necessarie, non possono sostituire la dimensione politica. Nessuna situazione ha mai una e una sola soluzione giusta: giusta relativamente a cosa e a chi? L’ostentata neutralità della tecnica è la copertura culturale di un potere anomico (come sempre è il liberismo) e che, perciò stesso, è governo di uomini e non di leggi e perciò «potere irresponsabile» di cui l’intellettuale tecnico è caudatario. È per questo che la critica storica, sociologica, antropologica e filosofica del tempo presente è tutt’altro che superata e deve tornare a svolgere il suo ruolo demistificante. Solo, occorrerebbe che gli intellettuali umanisti (storici in primo luogo) si accorgessero che questo è il tempo della globalizzazione, che siamo in società complesse e che occorre aggredire il nodo della modernità e che, per tutto questo, le ricette vecchie di sessanta anni servono a poco. Più sfaccettata è l’altra dimensione, quella dell’intellettuale come nuovo divulgatore. Certo c’è un aspetto che va esaminato ed è abbastanza preoccupante: alla fine, questo consegna il lavoro dell’intellettuale alla grande industria culturale che non è certamente neutrale. Un esempio efficace è quello della Economart: 59 come è noto, fra i maggiori acquirenti di opere d’arte ci sono le banche e, al seguito, le compagnie assicurative, le società finanziarie, gli hedge fund ecc. Questo non per una 183

particolare inclinazione al mecenatismo, ma per precise ragioni di affari: un quadro ha un suo valore di mercato che, normalmente, cresce nel tempo e, alla morte dell’autore, può anche raddoppiare o più. Quindi, le collezioni d’arte sono uno degli elementi che costituisce l’asset di un soggetto finanziario che, naturalmente, ha interesse a che il quadro o la scultura posseduta si apprezzino sul mercato. A determinare questo apprezzamento sono i critici d’arte che scrivono sui maggiori quotidiani (preferibilmente quelli economico-finanziari) e sulle riviste specializzate, sono le grandi gallerie che promuovono le vendite e magari organizzano la «personale» di un autore, i musei che valorizzano un autore piuttosto che un altro, i dipartimenti delle grandi università (come quelle inglesi, francesi o americane), le maggiori case editrici specializzate che pubblicano studi su questo o quell’autore ecc. Ma tutti questi soggetti, giornali, riviste, case editrici, musei, gallerie, dipartimenti universitari ecc. sono in rapporti strettissimi con banche e società finanziarie per la pubblicità, le sponsorizzazioni, le donazioni ecc., anzi può accadere che la personale di un autore o un volume che lo riguardi o una mostra o un convegno su di esso siano «sponsorizzati» proprio dall’ente finanziario che, casualmente, possiede un certo numero di opere di quell’autore. Anzi, può 184

addirittura accadere che una banca, per il tramite di una galleria, commissioni a un autore una certa opera e che, prima ancora che l’autore posi il pennello sulla tela o lo scalpello sulla pietra, si sia già organizzato il convegno di studi, la mostra personale in cui la nuova opera troneggerà, il catalogo della mostra curato dal celebre critico ecc. Inevitabile porsi un problema: in questa valutazione, quanto c’entra l’effettivo valore dell’opera e quanto l’operazione speculativa che gli sta dietro? Valutazioni simili si possono fare anche in altri campi, anche se di minor impatto economico, dalla musica alla letteratura o alla storia (come dimostrano le critiche sempre più violente che accompagnano ogni nuova edizione dei premi letterari o per la saggistica o alcuni festival musicali). Il problema è come proteggere una genuina valutazione del merito di un’opera dal Moloch organizzativo intorno a cui gira il mondo della cultura. Soprattutto, come evitare che si soffochino le avanguardie culturali e artistiche e si appiattisca tutto sulla ideologia dominante. Però, in questo diverso profilo professionale della divulgazione, c’è anche un aspetto interessante nella apertura di spazi alla creatività di intellettuali e artisti che, nel mondo imbalsamato della burocrazia culturale, non avrebbero alcuna possibilità di 185

esprimersi. Qui ci limitiamo a segnalare il problema.

Capitalismo all’italiana: dalle Partecipazioni Statali alla Cdp The Economist dedicò il servizio di copertina dell’ultimo dell’anno 2013 al «Capitalismo all’Italiana»; calcando molto la mano sul «capitalismo di relazione» che lo caratterizzava. In realtà, ci sono molti altri aspetti che fanno del capitalismo italiano un caso particolare: ad esempio il rapporto speciale con la Chiesa cattolica e le sue istituzioni finanziarie, oppure il suo carattere ostinatamente familiare. Ma l’aspetto più significativo è la commistione pubblico-privata. Lo Stato si è fatto carico di sopperire alla storica debolezza del capitalismo italiano rappresentata da un fragile sistema bancario, costruito a fine Ottocento in larga parte grazie all’intervento di capitali inizialmente tedeschi, poi anche francesi, svizzeri e russi. Negli anni trenta sorse l’Iri, cui si aggiunsero, dopo la guerra, Efim ed Eni, come già si è detto. Una vita difficile che doveva misurarsi anche con le pesanti ingerenze americane, che non consentivano una presenza troppo forte dell’Italia sui mercati 186

internazionali. 60 Il sistema delle Ppss, nel ventennio cinquantasessanta fu un eccellente volano di politica industriale, anche se, dal suo sorgere, conteneva una vocazione al disavanzo 61 teorizzato come «formula Iri» dall’allora presidente dell’ente, Giuseppe Petrilli, per la quale lo Stato assumeva su di sé i costi e le diseconomie generati dagli investimenti; era il «Patto della formula Iri», per cui l’impresa pubblica non doveva perseguire obiettivi di profitto, quanto di «utilità generale», anche se questo avesse comportato «oneri impropri», cioè effetti antieconomici. E anche la partecipazione dell’Iri nelle società a capitale misto pubblico-privato seguiva questa logica. Negli anni settanta, un passo avanti su questa strada spinse le Ppss ad assumere una funzione di ricovero delle aziende private decotte che, in teoria, avrebbero dovuto essere messe in grado di ripartire. In realtà, le Ppss divennero una forma di capitalismo assistenziale che raggiungeva punte di particolare mancanza di pudore nell’Egam, vera pattumiera delle imprese obsolete. Ma decisive in questo senso furono le condizioni politiche: il sistema di potere resse la crisi sociale degli anni settanta attraverso una politica di distribuzione clientelare e corporativa delle risorse, con interventi a pioggia e accoglimento di ogni 187

richiesta particolaristica corporativa o territoriale che fosse, allargando a dismisura la spesa pubblica. La disinvolta pratica dei «salvataggi» dell’insalvabile fu vivamente sostenuta dai sindacati, che – a loro avviso – tentavano di «garantire l’occupazione», socializzando l’onere del mantenimento di aziende antieconomiche. Più in generale, il sindacato ebbe la responsabilità di aver sostenuto l’allargamento spropositato della spesa, proponendo costantemente impegni aggiuntivi e mai sostitutivi di quel che già esisteva e, pertanto, anche essi entrarono nello spirito del «Patto della formula Iri», che scaricava sul contribuente i costi di tutto. E fu una delle voci più consistenti dell’ingrossamento del debito pubblico. E ci fu un altro ordine di conseguenze: gli enti a Ppss si trasformarono in conglomerate che non avevano più un preciso scopo industriale, ma assimilavano voracemente le più diverse attività (dall’alimentare 62 al siderurgico, dalla chimica al tessile, dall’aerospaziale all’editoria, dall’auto alle costruzioni, dalla finanza ai trasporti) con lo scopo dichiarato di garantire il maggior livello occupazionale possibile, anche a costo di palesi diseconomie. E tutto questo in un sistema che avviluppava imprese pubbliche e private nello stesso intreccio di piramidali, patti di sindacato, partecipazioni 188

incrociate, con la stampella del denaro pubblico. La formula del capitalismo italiano, metà privato e metà pubblico, aveva prodotto un meccanismo perfetto che socializzava le perdite e privatizzava i profitti. Nei primi anni novanta la situazione divenne insostenibile (l’Efim in particolare risultò infine avere debiti inizialmente stimati per 9.000 miliardi, ma alla fine per 18.000 miliardi di lire), anche per la serie di accordi nel frattempo sottoscritti (da quelli per l’Unione Monetaria Europea a quelli per il Wto), che imponevano una politica di privatizzazioni. Iri ed Efim vennero gradualmente «smontate» e liquidate (Gepi ed Egam erano già state rottamate da molto tempo). Le banche dell’Iri (Credito Italiano, Banca di Roma, Banca Commerciale) furono subito privatizzate e alcune società dell’Iri (Alitalia, Rai, Finmeccanica, Fincantieri ecc.) vennero «parcheggiate» presso il Ministero del Tesoro. In particolare Finmeccanica (che già dal 1982 aveva avviato un processo di assorbimento di Stet, Aviofer e Fin-Breda) incorporò molte aziende del settore elettronico, avio e spaziale, e diverse aziende dell’ex Efim (Breda meccanica, Breda costruzioni ferroviarie, Oto Melara, Officine Galileo, Agusta ecc.), divenne una società per azioni disciplinata dal Cpcm 28 settembre 1999, che sancisce che alcune società di interesse strategico devono essere 189

partecipate dal Ministero del Tesoro per non meno del 30% (Finmeccanica lo è per il 32,45%). Oggi Finmeccanica è la grande holding delle armi italiane e rappresenta una delle voci attive di maggior peso della nostra bilancia commerciale. Degli enti a Ppss, quello che mantenne la maggiore continuità fu l’Eni, che nel 1992 venne trasformato in società per azioni controllata dal Ministero del Tesoro. È da notare che anche l’Eni, negli anni novanta, usciva da un periodo tempestoso segnato dal malriuscito tentativo di fusione con la Montedison (nel progetto del grande polo chimico nazionale) e dalle connesse inchieste giudiziarie, durante le quali accadde il discusso suicidio dell’allora presidente Gabriele Cagliari. Il diverso destino dell’Eni, rispetto alle altre Ppss, fu determinato da una serie di fattori, come la maggiore concentrazione dell’ente sul suo core business – l’energia –, e, anche se esso aveva operato salvataggi come quelli del Pignone, della Lanerossi e della Sir, si presentava con i conti ben più in ordine. Peraltro, svolgendo la funzione strategica dell’approvvigionamento energetico del paese, nessuno pensò mai a un suo scioglimento. E oggi, anche se pure l’Eni ha avuto e ha i suoi guai giudiziari e finanziari, si tratta di uno dei primi gruppi a livello mondiale nel settore petrolifero (per la precisione il sesto). Nel complesso oggi 190

Finmeccanica e l’Eni sono fra le poche grandi aziende restate in piedi e sono, insieme all’Aise, le principali agenzie di politica estera dell’Italia, come pubblicamente dichiarato, per quanto riguarda l’Eni, dal presidente del Consiglio Matteo Renzi (un aspetto sul quale riflettere nel momento in cui si parla di privatizzazioni di alcuni loro asset strategici come Ansaldo o Snam). Ma rappresentano anche, e in forma ancor più pronunciata, la continuità di quella commistione pubblico-privata di cui si è detto. E non sono le sole sulla scena a perpetuare l’intreccio pubblico-privato del capitalismo all’italiana. Nel 1999 il governo D’Alema, con un riordino delle molte agenzie di promozione del settore, fondò la «Sviluppo Italia spa», con lo scopo di attirare investimenti stranieri in Italia e in particolare per lo sviluppo industriale del Meridione. La cosa, peraltro, non ha avuto grandi risultati. Di ben altro calibro è il tentativo in corso di fare della Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) il nuovo polmone pubblico dell’economia italiana, ovviamente negando sempre di starlo facendo. Con 236 miliardi di euro di raccolta postale, un patrimonio netto di 17 miliardi e 147 miliardi di disponibilità liquide, la Cdp è il soggetto finanziario che può offrire sponda al governo e i 150 miliardi depositati dalla Cdp in un conto presso il Ministero 191

del Tesoro (con un interesse grosso modo equivalente a quello di un titolo di Stato) sono stati uno dei principali ammortizzatori della crisi del nostro debito pubblico. Di qui la tentazione del governo di usare la Cdp come il suo «bancomat». 63 Ma la Cdp non è un ente come l’Iri o l’Efim, i cui disavanzi erano ripianati dallo Stato, e deve proteggere (almeno dovrebbe) gli interessi dei depositanti, per cui non può fare investimenti diseconomici. In effetti, la Cdp nel 2011 ha resistito al tentativo di parcheggiarvi l’Alitalia, in attesa di una soluzione stabile, proprio perché l’affare si prospettava con altissime probabilità di perdita. Ma, di fatto, si sta creando una sorta di «zona grigia» intorno all’ente, dove si capisce poco della natura delle transazioni. Già anni fa Fubini scriveva: C’è da ridurre il deficit per stare nel 3% del Pil? Il Tesoro di colpo vende a Cdp un portafoglio di immobili per mezzo miliardo di euro e questa dovrà piazzarli sul mercato o, più probabilmente, presso questa o quella banca. […] solo in futuro – chissà quando – rivelerà se la cessione sia avvenuta a prezzi di mercato o a valori gonfiati che non emergeranno finché qualcuno non troverà davvero un compratore che vuole entrare in questo o quel palazzo ex pubblico. C’è da ridurre il debito «privatizzando»? Sace, Fintecna e Simest vengono trasferite dal Tesoro alla sua controllata Cdp per 5,4 miliardi (0,3% del Pil) […] E, in effetti, Cdp è fuori dal bilancio dello Stato grazie a quella quota del 18% in mano alle fondazioni. Ma è davvero questo il modo di ridurre un debito pubblico che ormai si sta avviando verso il 135% del Pil? 64

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E la situazione non è mutata. L’allora Amministratore Delegato Gorno Tempini (un importante passato in Jp Morgan) definì «nuovo capitalismo di Stato» la Cdp, ma precisando che essa «non salva imprese decotte» e aggiungendo che «la missione di Cdp è di effettuare investimenti di lungo periodo in funzione anticiclica a favore degli enti territoriali e del sostegno alla crescita e internazionalizzazione delle imprese». 65 Insomma, un disegno parakeynesiano, ma il keynesismo si fa con i denari dello Stato, non con quelli dei correntisti. E lo Stato regge lo sforzo anche con l’emissione di moneta, quello che, però, oggi non è più possibile, dato che lo Stato non ha più questa disponibilità e non può nemmeno indebitarsi ulteriormente per i vincoli europei. Di fatto tutti invocano l’intervento della Cdp, dall’Ansaldo energia all’Alitalia, dal Mps a Telecom ecc.) e l’ente rischia di diventare la nuova grande conglomerata di sistema. 66 Come si vede, le intenzioni di non rifare un nuovo Patto della formula Iri saranno anche le migliori, ma, come si sa, di buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno.

Bankitalia 193

La Banca d’Italia, nell’ultimo quarto di secolo, ha acquisito un crescente peso nel sistema politico: da essa sono venuti presidenti della Repubblica e del Consiglio come Ciampi, Dini, e ministri come Padoa-Schioppa, Saccomanni o il ragioniere generale dello Stato Franco. Eppure non è argomento del quale si parli spesso e di cui l’opinione pubblica sappia granché. La Banca d’Italia era (ed è ancora) una banca di diritto pubblico con un consiglio di amministrazione espressione delle banche, ma con molti contrappesi: il consiglio aveva (e ha ancora) poteri molto limitati, sino al 1980 Bankitalia dipendeva dal Ministero del Tesoro, le quote non erano commerciabili e le banche più importanti appartenevano all’Iri. Di fatto, il potere reale dell’Istituto si concentrava nelle mani del governatore nominato a vita dal capo dello Stato, assistito dall’apparato tecnico, mentre al consiglio di amministrazione restavano poteri abbastanza marginali. A partire dai primi anni ottanta, diverse cose sono cambiate. Mentre si facevano velocemente strada gli indirizzi monetaristi della scuola di Chicago, di fronte all’ondata inflattiva seguita al secondo shock petrolifero (1979), il nuovo governatore della Fed, Paul Volcker, imponeva una svolta fortemente restrittiva nella politica monetaria, cui subito si 194

allinearono anche le banche europee. In Italia (dove l’inflazione superava il 20% e il fabbisogno statale superava l’11% del prodotto) la situazione era particolarmente difficile, anche perché metteva a repentaglio l’adesione del nostro paese allo Sme (Sistema Monetario Europeo) fortemente voluta dal l’allora ministro del Tesoro Beniamino Andreatta. In questa situazione, si faceva strada l’idea che, per ottenere la stabilità della moneta, fosse necessaria una «costituzione economica» che sancisse l’indipendenza del potere della Banca di determinare l’emissione di moneta dall’autorità politica che decideva la spesa pubblica (il governo) e introdurre il vincolo di bilancio nella spesa. L’indipendenza della Banca d’Italia (il «divorzio» dal Tesoro) prendeva le mosse da uno scambio di lettere (febbraio 1981) fra il governatore della Banca e il ministro Andreatta che non interpellò neppure il Comitato interministeriale per il Credito e il risparmio, facendo un colpo di mano. Il processo venne così avviato e, per circa un decennio, esso non fu completo, sinché nel 1992 non si stabilì definitivamente che la fissazione del tasso di sconto era competenza esclusiva del governatore. Nel frattempo, la spirale inflattiva era domata, ma il fabbisogno annuo dello Stato era calato solo limitatamente. A sostenere il disavanzo, non più retto dalla emissione di liquidità, sarà il crescente 195

indebitamento dello Stato, che nel 1994 arriverà al 120% del Pil. Il processo di autonomizzazione della Banca ebbe una nuova fondamentale tappa con il d.lgs. 10 marzo 1998 n. 43, che sottrasse la Banca d’Italia al governo italiano, sancendo l’appartenenza della stessa al sistema europeo delle banche centrali (Sebc), per cui la quantità di moneta circolante era decisa in autonomia dalla Banca centrale. Un tentativo di riforma che prevedeva che lo Stato assumesse la proprietà della totalità delle azioni della Banca (1999) fu rapidamente insabbiato, mentre calava il buio più fitto sulla reale composizione del pacchetto azionario della Banca. A squarciare il velo di tanto mistero fu il settimanale Famiglia Cristiana (4 gennaio 2004) pubblicando un’inchiesta basata sulle ricerche di Fulvio Coltorti, che, lavorando a ritroso sui bilanci di banche, società assicuratrici, enti previdenziali ecc. riuscì a ricostruire approssimativamente le quote di appartenenza della Banca. Poco dopo, nel settembre 2005, il governatore Antonio Fazio (pochissimo prima di essere sostituito da Mario Draghi), ormai travolto dallo scandalo Antonveneta-Bancopoli, rendeva disponibile l’elenco ufficiale dei possessori di azioni Bankitalia. Lo scandalo, peraltro, produsse una riforma dell’ente (dpr 12 dicembre 2006) che abrogava il 196

vincolo del controllo pubblico su Bankitalia. Nel frattempo, le tre banche Iri erano state effettivamente privatizzate. E questo iniziò a produrre una serie di effetti a catena. La Banca d’Italia, come si è detto, ha funzione di vigilanza sulle banche, per cui dovrebbe indagare sui comportamenti di suoi azionisti, il che era una contraddizione già nella normativa precedente, ma essa era meno stridente sinché le banche sono state pubbliche (e, come tali, assoggettate, almeno in teoria, ai controlli del Tesoro). Il mutamento maggiore fu prodotto dal processo di concentrazione bancaria degli anni novanta e primi duemila, per cui, mentre prima l’azionariato era molto più frammentato, la fusione di molti istituti portò Intesa San Paolo a possedere il 30,3% e Unicredit il 22,1%, cui si aggiungevano le Assicurazioni Generali con il 6,3%. Quindi, tre soggetti totalizzavano il 58,7%, il che, per quanto limitati fossero i poteri del consiglio di amministrazione, era cosa ben diversa dal passato. In questo quadro si giunse, nel gennaio 2014, al riassetto della Banca d’Italia deciso con la legge 29 gennaio 2014 n. 5, che: 1. autorizzava l’aumento di capitale della banca (rimasto a quota 300 milioni di lire, fissata con la legge del 1936, poi trasformata in 156.000 euro) sino a 7,5 miliardi di euro, utilizzando le riserve 197

statutarie; 2. riorganizzava il pacchetto azionario, stabilendo che nessuno possa superare il tetto del 3%; le quote eccedenti dovrebbero essere acquisite dalla stessa Banca d’Italia che le deterrebbe per un massimo di tre anni per poi ricollocarle sul mercato (ma ancora la situazione appare al punto di partenza, pur essendo prossimi alla scadenza triennale); 3. stabiliva che i sottoscrittori delle quote messe sul mercato avrebbero potuto essere banche e imprese assicurative con sede nella Ue, fondazioni bancarie, enti e istituti di previdenza e assicurazione con sede in Italia e fondi pensione; 4. aggiungeva che il Consiglio Superiore della Banca d’Italia avrebbe valutato «la professionalità e la onorabilità dei soggetti entranti e delle relative compagini, con un diritto di veto». L’italianità dovrebbe essere salvaguardata dall’obbligo per i soci di mantenere la sede legale in Italia e, nel caso questa condizione dovesse venir meno, l’interessato dovrebbe vendere la propria quota di partecipazione. Come si sa, la conversione in legge del decreto andò incontro a una vivace opposizione soprattutto del M5S, cui si aggiunsero Sel e Fd’I, che 198

sostennero l’interesse esclusivo delle banche all’approvazione. Infatti, in primo luogo, le banche ricavavano dalla rivalutazione delle loro quote in Bankitalia una conseguente e sostanziosa rivalutazione del proprio asset, utilissima in vista degli adeguamenti richiesti dagli accordi di Basilea III. L’operazione non parve limpidissima alla Bundesbank, che sollevavò obiezioni, 67 e anche la Bce non fu del tutto persuasa da quell’artifizio finanziario in violazione delle norme sulla concorrenza, per le quali lo Stato non può dare aiuti finanziari alle banche. In effetti, la valutazione di Bankitalia a 156.000 euro era assolutamente sottostimata (ci fu chi si spinse a dire che il suo valore reale si sarebbe aggirato sui 25 miliardi) ma questo, sin qui, non ha avuto alcuna importanza, perché non essendo commerciabili le azioni, la fissazione del valore era puramente discrezionale. Per di più, la remunerazione delle azioni era limitata solo ai dividendi di alcune attività dell’Istituto – che non comprendevano il signoraggio – per cui si trattava di pochi spiccioli. Con la rivalutazione, stanti le norme vigenti, la remunerazione annua per le banche può salire sino a 400 milioni di euro, che non è una cifra da capogiro, ma è pur sempre apprezzabile. Non tanto, però, da rendere particolarmente appetibile questo investimento finanziario, anche per i limiti 199

persistenti ai poteri degli azionisti. E, infatti, il punto più delicato riguarda la ristrutturazione del pacchetto azionario. Stanti così le cose, Unicredit, Intesa e Generali dovrebbero mettere sul tavolo circa il 49% delle azioni possedute, vale a dire quasi la maggioranza assoluta. Sin qui le azioni non erano commerciabili, ma con il decreto lo diventano, il che pone, prima di tutto, il problema di quel che faranno i tre gruppi principali: a chi le cederanno? Soprattutto, dove trovare una quindicina di acquirenti al 3% massimo delle azioni? La soluzione prevista dal decreto è che le incameri, per ora, la stessa Bankitalia, che dovrebbe ricollocarle. Però non è affatto chiaro se la cedibilità delle azioni possedute debba necessariamente passare per la Banca o l’offerta possa rivolgersi direttamente al mercato. E non è un particolare da poco, perché questo avrà un riflesso tanto sul prezzo di compravendita quanto sugli assetti futuri della Banca. Sul piano del prezzo, nel caso di acquisto da parte della Banca, non c’è dubbio che il pacchetto dovrebbe essere acquistato a prezzo pieno, per cui si tratterebbe di un più che cospicuo regalo a Credit, Comit e Generali. E non è detto che, quando Bankitalia dovesse ricollocare sul mercato le azioni, le rivenda allo stesso prezzo. In materia c’è un precedente non incoraggiante, quello della Northern 200

Rock, nazionalizzata dal governo inglese nell’autunno del 2008 e poi rivenduta, nel novembre di tre anni dopo (gli accordi internazionali non consentivano di protrarre ulteriormente il «parcheggio» presso il Ministero del Tesoro di Sua Maestà), ma con una perdita di circa 400 milioni di sterline. Per comperare al prezzo più vantaggioso, agli eventuali investitori interessati sarà sufficiente aspettare la scadenza, quando Bankitalia dovrà cedere comunque le azioni. E in questo gioco c’è solo da sbizzarrirsi a pensare a chi vi si potrà inserire, al coperto di opportune architetture finanziarie: uno degli attuali possessori eccedentari? Banche straniere collegate? Fondi sovrani? O forse il soggetto più liquido di tutti in questa fase: la borghesia mafiosa? Certo, il Consiglio Superiore di Palazzo Koch potrà sempre esercitare il suo diritto di veto, ma non è detto che abbia sentore dell’eventuale operazione nel tempo necessario. E, ovviamente, se qualcuno dovesse aver interesse alla cosa, il progetto sarebbe preparato per tempo. A questo punto, sorgono tre interrogativi: se questo decreto non sia stato solo l’inizio di una riforma, che rimetterà in discussione gli attuali assetti decisionali, dando ben altro potere agli azionisti (anche perché non ci sono limiti costituzionali in proposito, in quanto la Costituzione non parla affatto della Banca centrale) e, di 201

conseguenza, quale sarà il destino della riserva aurea: quella italiana è la quarta del mondo, dopo Usa, Germania e Fmi e ammonta a 2.400 tonnellate. Questione della quale si parla poco e si sa pochissimo (la riserva c’è ancora? Depositata dove? Data in garanzia e in che percentuale? Tutto quello che riguarda Bankitalia è sempre piuttosto oscuro). Per di più in un momento in cui le fluttuazioni monetarie stanno producendo forti ondate speculative che fanno ballare il prezzo dell’oro dal massimo di 1.920 dollari l’oncia a 1.228 in poco più di quattro anni, con le conseguenze che è facile immaginare sulle banche centrali. E questo, a sua volta, pone un altro interrogativo: se l’Italia volesse o fosse costretta a tornare alla sua moneta nazionale, in che condizioni potrebbe farlo se non avesse più la piena disponibilità della sua riserva aurea? Ma questo è materia del futuro.

2013: l’annus horribilis Il 2013 è stato l’anno nero della finanza italiana. Per la verità già il 2011 e il 2012 non erano stati felici: la crisi del debito pubblico aveva messo in serie difficoltà i grandi gruppi finanziari, che avevano in pancia una bella fetta di quei titoli; e, se nell’immediato questi fornivano interessi molto 202

appetitosi, in prospettiva facevano balenare l’incubo di un default che, di riflesso, avrebbe abbattuto i crediti di ciascuna di esse, mettendole in ginocchio. Così come era già successo nel 2008 con il crollo dei mutui subprime, di cui Unicredit in primo luogo, ma anche altri, avevano fatto indigestione. E, per di più, si avvicinava la scadenza fissata da Basilea III, che richiedeva di aumentare l’asset delle banche, per ridurre l’effetto leva a proporzioni più accettabili di quelle degli anni precedenti, quando si era arrivati a rapporti di 1 a 60 e anche più. Ma il 2013 è stato molto di più, uno di quegli anni in cui «va tutto storto». Già nei primissimi di gennaio la Guardia di Finanza aveva bloccato tutti i bancomat legati allo Ior, quel che non aveva precedenti e che dava la misura di quanto fosse compromessa la posizione dell’Istituto vaticano dal punto di vista giudiziario. Subito dopo, e in piena campagna elettorale, erano arrivate, come un fulmine, le dimissioni di Benedetto XVI, che era inevitabile porre in relazione alla gravissima situazione dello Ior. 68 Ovviamente, questo si rifletteva in primo luogo sulla finanza bianca, da sempre assai prossima all’Istituto vaticano, ma non solo su di essa: lo Ior è sempre stato un canale utilizzato dai più diversi soggetti finanziari per le operazioni più spregiudicate. E, infatti, la «banca del Papa» (come 203

impropriamente viene detto lo Ior 69 ) salirà alla ribalta per il caso del Mps in relazione all’acquisto di Antonveneta. Pertanto, non è difficile immaginare come l’approssimarsi di una tempesta, sia bancaria che giudiziaria, sullo Ior tenesse sulla corda molta parte della finanza italiana. Né l’elezione di Jorge Mario Bergoglio è servita a calmare quelle inquietudini ma, anzi, le ha peggiorate. Nello stesso tempo si svolgeva una campagna elettorale strana e convulsa, che, iniziata sotto il segno di una certa vittoria del Pd, andava via via diventando più incerta. Per la verità, gli osservatori più attenti e abituati a usare il pallottoliere elettorale sapevano che la coalizione di Bersani non ce la avrebbe fatta da sola al Senato e non solo perché sicuramente il Veneto, e con molte probabilità Sicilia e Lombardia, sarebbero state conquistate dal centro-destra, ma anche perché M5S e Scelta civica avrebbero preso parte dei senatori riservati alle minoranze. Per cui, a meno di un improbabile picco del Pd, al Senato, il centro-sinistra avrebbe avuto bisogno di alleati e la scelta sarebbe caduta certamente su Sc, nel segno della continuità con il governo Monti. Un esito che non dispiaceva affatto al «salotto buono» e soprattutto ai suoi frequentatori di finanza bianca, Giuseppe Guzzetti (Cariplo) e, più ancora, Giovanni Bazoli (Intesa), che aveva una 204

famiglia strategicamente disseminata nelle due formazioni. 70 Del Pd non si poteva fare a meno per battere l’odiato Cavaliere, ma una vittoria del solo Pd, per di più alleato a Sel, non era cosa che lasciasse tranquilli. E, dunque, l’asse Monti-Pd doveva essere il vero vincitore delle elezioni, nei disegni del salotto buono e della sua ala cattolica in particolare. Ma, come i cattolici dovrebbero sapere, l’uomo propone e Dio dispone, e qualche volta a metterci la coda è il diavolo, per cui le cose andarono molto diversamente dal previsto: Bersani e Monti fecero la campagna elettorale meno efficace che si potesse immaginare, al contrario, Berlusconi si produsse in una delle migliori performance della sua vita politica. Come se non bastasse, a tre settimane dal voto, piombò sulla scena, tanto politica quanto finanziaria, lo scandalo del Monte dei Paschi di Siena, che diversi elettori misero sul conto del Pd. Ma, soprattutto, il M5S si rivelò ben al di sopra dei pronostici. 71 Morale: la sommatoria Pd-Sc era al di sotto della maggioranza al Senato e il «progetto centrista dell’élite bancocentrica» 72 affondava senza speranze. Poi la tormentatissima elezione del capo dello Stato segnalò che il partito vincitore, il Pd, era solo un gelatinoso aggregato di tribù incapaci di esprimersi unitariamente. Per cui la necessità di scegliere fra M5S e Berlusconi, per fare un governo, 205

si sommava al massimo di instabilità possibile: la soluzione peggiore che la finanza potesse augurarsi. Più o meno nello stesso periodo, iniziarono a grandinare gli scandali finanziari: dopo la botta del Mps, il 18 luglio scoppiava lo scandalo Fonsai, che portava in carcere buona parte della famiglia di Salvatore Ligresti 73 e nel quale affiorava l’«ombra della massoneria». 74 Quasi in contemporanea arrivava un grappolo di inchieste su Finmeccanica e le sue consociate: già ad aprile 2012 si era aperta una inchiesta per tangenti versate da Finmeccanica per la vendita di elicotteri all’India e alcune avrebbero «coperto» tangenti per 10 milioni alla Lega 75 ma, come scriveva Alberto Statera, la questione degli elicotteri indiani era solo l’ultimo di una serie fittissima di scandali nella quale non era possibile orientarsi. 76 L’inchiesta della Procura napoletana era andata avanti per tutto il 2013 (quel che, poi, aveva causato la denuncia del contratto da parte dell’India 77 ) e aveva prodotto altri rami dell’inchiesta, come quello sulla Fincantieri in Libia, 78 o quello sugli appalti truccati delle società Finmeccanica. 79 Nel frattempo, si scopriva che il gruppo era in perdita per 165 milioni di euro e, a novembre, precipitava in borsa perdendo il 6% in una sola giornata. 80 A settembre partiva l’inchiesta sui «prestiti facili» della Cassa di Risparmio di Genova 206

(Carige), 81 che risucchiava dentro anche l’immancabile Ior. 82 Negli stessi mesi autunnali, si riaprivano le piaghe giudiziarie della Banca Popolare di Milano (Bpm), che coinvolgevano il senatore Alfredo Messina (Pd), l’on. Daniela Santanchè (Pdl), l’on. Ignazio Larussa (Centro-destra nazionale), l’ex ministro Paolo Romani (Pdl) 83 e poi l’ex premier Lamberto Dini, 84 mentre i titoli Bpm venivano declassati a «junk bond» (titoli spazzatura) da Fitch. 85 Sempre negli stessi convulsi mesi ebbe luogo la battaglia di Telecom e prendeva le mosse la nuova crisi Alitalia: la situazione finanziaria della società generava forti perplessità nei soci stranieri (essenzialmente il gruppo franco-olandese Air France-Klm) nel decidere se espandere la propria quota in Alitalia, 86 per cui venivano chieste più garanzie. 87 La situazione diventava disperata a metà ottobre, quando la compagnia rischiava il fallimento entro 15 giorni e aveva carburante solo per pochi giorni. La «cordata dei patrioti», formata nel 2008 su invito dell’allora presidente del Consiglio Berlusconi, non aveva retto alla prova dei fatti e Alitalia aveva solo accumulato altro passivo e la Cdp si defilava. E, quasi in perfetta sincronia, si apriva il caso Telecom. La struttura della compagnia telefonica 207

italiana, dopo l’uscita del gruppo Olimpia (Tronchetti Provera), si era assestata su un equilibrio che vedeva come pacchetto di controllo dell’azienda la Telco, composta per il 46,2% dalla compagnia spagnola Telefonica, per il 30,6% dalle Assicurazioni Generali, e per l’11,6% tanto da Mediobanca quanto da Intesa San Paolo. Il 24 settembre i giornali davano notizia dell’intesa per la quale, attraverso diverse fasi, l’impresa spagnola Telefonica rilevava buona parte delle azioni degli altri tre soci, fino a portare al 70% la sua quota di partecipazione in Telco. Nello stesso tempo, questo investiva la governance del gruppo e il presidente Franco Bernabè offriva le sue dimissioni, 88 per cui si programmava un’assemblea per il 20 dicembre in cui ridefinire l’assetto di governance della società. Il tutto apriva un delicato caso politico. «Non mi hanno nemmeno avvertito» dirà, con involontario autolesionismo, il presidente del Consiglio Letta, 89 dimostrando così in quale considerazione fosse tenuto tanto dagli azionisti di riferimento della Telecom, quanto – e questo è ancora peggio – dai responsabili dei servizi di informazione e sicurezza Aisi e Aise che, in ragione dell’interesse strategico della rete, avrebbero avuto il dovere di informarsi sull’andamento della trattativa e riferirne tempestivamente al capo del governo. E una 208

omissione del genere avrebbe dovuto far rotolare più di una testa, ma, a quanto pare, non rotolò niente. E infatti, solo dopo, tutti, dal governo al Copasir, ai servizi, alla stampa, si accorgeranno che la rete è una struttura strategica, perché attraverso essa passano le comunicazioni di esercito, Polizia, carabinieri, servizi segreti e anche del governo. 90 E non si tratta solo della sicurezza italiana: i cavi transoceanici della Telecom, dalla Sicilia, si irradiano verso il Mediterraneo meridionale, in particolare Israele, e, attraverso il Mar Rosso, raggiungono la Somalia, Dubai, il Pakistan, l’India, il Bangladesh, lo Sri Lanka, Singapore, le Filippine e la Corea del Sud. 91 E si stava parlando, proprio in quei mesi, di un intervento in Qatar, che presentava importanti risvolti di intelligence economica. 92 Letta prometteva con enfasi: «Rete strategica? La difenderemo!». 93 Chissà perché non ci si era pensato qualche anno prima, quando si era passati dal regime di concessione a quello di autorizzazione, con una normativa ben più permissiva nei confronti del gestore. Peraltro, la questione si intrecciava con lo scandalo Database suscitato dalle rivelazioni di Snowden sulle intercettazioni abusive americane, perché si scopriva che l’intelligence americana, già da molti anni, aveva accesso alla rete siciliana, da cui organizzava gli ascolti in questa area del mondo 209

(per proteggerci dal terrorismo mediorientale, ça va sans dire). 94 Per di più, a metà dicembre, si apprendeva all’improvviso che il potente gruppo americano Blackrock di colpo era passato dal 5 al 10,14% delle azioni senza che la cosa fosse minimamente passata dalla Consob (e non ne sapevano nulla anche i servizi: bella difesa degli interessi nazionali!). E, peraltro, non si sapeva neppure né se tenesse nascosto un altro pacchetto che avrebbe depositato in vista della assemblea del 20 dicembre, dato che non mancava chi riteneva che, in realtà, la quota fosse del 15,38%. 95 Per di più non si sapeva nulla di come avrebbe votato. La cosa seminava panico, mandando in bestia il responsabile della Consob Giuseppe Vegas, che sibilava trattarsi di una manipolazione e sollecitava Blackrock a chiarire quale fosse la sua quota e se intendesse partecipare alla riunione del 20 dicembre. 96 Lo scompiglio era generale, anche perché la fitta, inestricabile rete dei conflitti di interesse poneva le premesse per infiniti conflitti giuridici. E non si trattava solo della pur delicatissima questione del management del gruppo, ma anche di questioni non meno rilevanti come il destino della consociata brasiliana. 97 E, scontatamente, questo attirava l’attenzione della Procura della Repubblica alla ricerca di patti occulti, ma che ufficialmente escludeva che vi fosse già una ipotesi di reato come 210

l’ostacolo alla vigilanza. 98 La riunione del 20 dicembre segnò una tregua e il CdA non venne revocato, ma non così la questione dell’assetto Telecom, anzi: la telenovela Telecom è poi proseguita.

La fine del salotto buono Il 21 giugno, Alberto Nagel annunciava che Mediobanca avrebbe ceduto il 3% delle azioni delle Assicurazioni Generali a un fondo sovrano e che avrebbe rivisto la sua partecipazione in Rcs, Gemina, Pirelli, Italmobiliare, Teleco: 99 era l’inizio della fine dei patti di sindacato e dell’intreccio delle partecipazioni incrociate, in una parola, la fine del «salotto buono». 100 A ricaduta seguivano analoghe decisioni di altri che investivano gran parte delle maggiori società italiane. L’assetto del capitalismo di relazione, tipico del capitalismo italiano, finiva in frantumi. In realtà esso era in crisi già da diversi anni, come dimostrano alcuni libri usciti già a metà del decennio scorso. 101 Ma perché un collasso così repentino e inaspettato, quantomeno nelle modalità? Una prima spiegazione dell’accaduto la suggeriva Luigi Zingales mettendola in relazione a una decisione del tribunale di Parma sul caso 211

Parmalat-Lactalis da lui definita storica: Il motivo del contendere è […] l’acquisizione da parte di Parmalat di una società (Lag) posseduta dalla controllante (Lactalis) […] se una società compera dal suo azionista di maggioranza rischia di strapagare, scaricando il costo sugli azionisti di minoranza. Per questo nei paesi più evoluti queste decisioni sono regolate. Dal 2010 anche in Italia esiste un regolamento Consob ad hoc. Seguendo l’approccio americano queste operazioni non vengono proibite, ma sottoposte a una procedura di approvazione molto rigorosa volta a mettere i consiglieri indipendenti nella condizione di scegliere nell’interesse di tutti gli azionisti. Purtroppo, come molta legislazione anglosassone, si basa su una presunzione di correttezza di comportamento che è rara nel nostro paese 102 troppo piccolo e incestuoso perché la correttezza prevalga sull’amicizia. Ma qui è dove interviene la decisione rivoluzionaria. Nell’approvare l’acquisto di Lag da Lactalis, Parmalat sembra aver seguito le procedure formali: l’approvazione preventiva da parte del comitato di controllo formato da indipendenti, la nomina di un consulente esterno […] l’astensione in sede di deliberazione della parte chiaramente in conflitto ecc. Ma al tribunale di Parma questo non è bastato: la normativa sulle parti correlate «va osservata in modo non meramente formale». E qui sta l’aspetto innovativo in spirito anglosassone: il tribunale di Parma non si accontenta della pura forma, vuole che alla forma corrisponda anche una sostanza e nel farlo rivoluziona la nostra prassi di corporate governance.

L’articolo prosegue descrivendo dettagliatamente tutti i conflitti di interesse, gli intrecci e i condizionamenti presenti nella vicenda e conclude: Coerentemente con il modello americano cui il regolamento si

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ispira, il provvedimento Parmalat trasforma quello che era vantaggio in Italia (la relazione) in una presunzione colpevolezza. In questo colpisce al cuore il capitalismo relazione che di queste operazioni si è nutrito. Mediobanca capito il messaggio e sta cambiando il modello. 103

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Dunque, una conferma della capacità di produzione giurisprudenziale che va oltre la norma (anche nel senso di una sua interpretazione evolutiva) perfettamente coerente con quell’indirizzo di lex mercatoria di cui diremo a breve, e con il conseguente ruolo della magistratura come agenzia dei processi di globalizzazione giuridica. Non entriamo nel merito della questione e dei suoi successivi sviluppi sino alla sentenza, qui ci preme sottolineare come anche un osservatore attento come Zingales metta in relazione lo scioglimento dei patti di sindacato con un diverso orientamento giurisprudenziale determinato dai processi di mondializzazione dell’economia. D’altro canto, la citata decisione sul caso Parmalat non è stata l’unica significativa azione giudiziaria che può aver influenzato la decisione di Mediobanca, che è avvenuta nel pieno della grandinata di inchieste giudiziarie che abbiamo succintamente richiamato nel paragrafo precedente. E, tuttavia, questo solo movente di origine giudiziaria, che ha certo avuto il suo peso, non basta a spiegare da solo la fine di un assetto che durava da ben oltre mezzo secolo. 213

Una interpretazione più articolata è fornita dal presidente della Consob Vegas, che indica tre cause principali: le nuove norme in materia di conflitti di interesse e parti correlate, l’approccio più sostanzialista del passato da parte delle authority e l’impatto della crisi. Di particolare interesse ci paiono le considerazioni sul terzo punto: I patti di sindacato non sono più finanziariamente sostenibili. La società al centro del reticolo non ha più le risorse per sostenere gli aumenti di capitale nelle controllate. 104

Dello stesso parere fu anche Piergaetano Marchetti, per il quale lo scioglimento fu prodotto dalla necessità di «tenersi le mani libere» in un momento in cui «non c’è più un orizzonte di stabilità», e allora ogni investitore «se non ritiene strategica la sua partecipazione vuol riservarsi di poterla vendere quando vuole». 105 E i processi, proprio in ragione dell’incalzare della crisi, si fanno ormai molto più veloci e meno prevedibili, per cui il legislatore e gli agenti di regolazione non riescono a stare dietro al fenomeno, e dunque: Il risultato è la produzione di un volume di norme che restano inapplicate o che tendono a perdere il carattere generale per andare a disciplinare casi particolari. 106

Dunque, sostanzialmente la crisi da un lato produce una pressione senza precedenti sui soggetti 214

più deboli a causa della limitata liquidità, dall’altro, pur inducendo il legislatore e le authority a un orientamento più sfavorevole a prassi consolidate come quelle del «capitalismo all’italiana», mette in crisi anche la produzione di norme pattizie proprie della nuova lex mercatoria. E la risultante di queste pressioni è quella che porta a regolare i nuovi assetti sul piano brutale dei rapporti di forza. Che non sono favorevoli al piccolo capitalismo italiano.

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Capitolo quarto Il potere al tempo della globalizzazione

La fitta ragnatela degli accordi internazionali Per comprendere le trasformazioni politiche e giuridiche di qualsiasi Stato, dunque anche dell’Italia, è indispensabile partire dai mutamenti dell’ordine mondiale che hanno fatto irruzione negli anni novanta. Il vento della globalizzazione neoliberista iniziò a spirare a partire dalla dichiarazione di non convertibilità del dollaro in oro (15 agosto 1971) e dalla guerra del Kippur (1973) e prese consistenza nella seconda metà degli anni ottanta. Si affermava il principio della libera circolazione dei capitali a livello mondiale, che fu la premessa delle delocalizzazioni industriali, 1 determinante per 216

l’affermazione del nuovo ordine mondiale. Per la verità, prima ancora che questa libertà di circolazione dei capitali fosse sancita dagli accordi internazionali, iniziò a essere praticata già dalla fine degli anni sessanta e in dosi crescenti, ed è interessante notare il ruolo di punta dei capitali erratici di origine criminale o corruttiva. 2 Il debito dei paesi in via di sviluppo offrì il destro per formalizzare il modello di nuovo ordine mondiale. L’occasione venne nel 1989 con un saggio dell’economista John Williamson del Fmi, che prescriveva le 10 direttive di politica economica che i paesi in stato di crisi avrebbero dovuto adottare per ottenere gli aiuti del Fmi e della Banca Mondiale: la disciplina di bilancio statale orientata al pareggio, la riqualificazione della spesa pubblica, la riforma tributaria sfavorevole alla progressività sul reddito, la fissazione del valore della moneta sulla base delle fluttuazioni del mercato, la completa liberalizzazione del commercio e delle importazioni, l’apertura agli investimenti provenienti dall’estero, la privatizzazione delle aziende statali, la più ampia deregulation. La dottrina venne definita Washington Consensus, dato che sia il Fmi che la Banca Mondiale hanno sede a Washington, ma il termine lasciava trasparire anche un diverso significato in riferimento alla crescente potenza americana 217

nell’ordine monopolare. E, infatti, esso precedette di poco il collasso dell’Urss nel 1991, che determinava l’unificazione mondiale del mercato. Il completamento venne con l’istituzione del Wto, a seguito degli accordi di Marrakech (15 aprile 1994), che esigevano l’abbattimento di ogni ostacolo al libero scambio delle merci, estendevano la competenza del Wto anche ai settori dei servizi, dell’agricoltura, del tessile e della sanità e imponevano la tutela della proprietà intellettuale (garbato eufemismo che stava per «monopolio dei paesi occidentali» – e degli Usa in particolare – sul mercato dei brevetti). Marrakech fu la base del progetto di globalizzazione neoliberista e il suo braccio operativo fu la complessa tecnostruttura internazionale con i suoi funzionari Onu, Wto, Fmi, Bm, Bce, Brci ecc. e con le sue sedi di giurisdizione internazionale cui nessuno Stato può più sottrarsi, a meno di non rompere i patti sottoscritti. Il che, peraltro, non è detto che non accada e forse in meno tempo di quanto non si pensi. Fra le profonde trasformazioni del diritto prodotte dalla globalizzazione, la più rilevante riguarda la sfera del diritto pubblico e si riferisce al processo di decostituzionalizzazione che si sta producendo. Nella gerarchia delle fonti del diritto si è sempre riconosciuto alle convenzioni, agli accordi e ai 218

trattati internazionali il rango di norme «superprimarie», che, quindi, prevalgono anche sulla «norma fondamentale», che è la Costituzione, nell’interesse irrinunciabile di garantire la stabilità dell’ordine internazionale. E, sino ad epoca recente, questo raramente ha causato particolari attriti fra l’ordine costituzionale e la normativa internazionale, sia perché l’origine di trattati, accordi, convenzioni era di natura pattizia, dunque sottoposta preliminarmente al volere delle parti e alla ratifica parlamentare, che, in qualche modo, preveniva possibili conflitti, sia perché la produzione di questo tipo di norme era quantitativamente piuttosto contenuta, anche dopo il 1945, che vide l’istituzione di organismi sovranazionali come l’Onu, la Bm e il Fmi, sia perché aveva carattere prevalentemente bilaterale. Ma la globalizzazione ha creato organi di produzione normativa autonomi (Wto, Ue, Brci ecc.) o ha espanso le competenze normative soprattutto del Fmi e tali norme non sono sottoposte alla ratifica dei Parlamenti nazionali, dando per acquisita l’accettazione dal momento dell’adesione all’organo in questione, che presuppone una «messa in comune» della sovranità su materie specifiche. Tuttavia questo si è accompagnato a una crescente bulimia dell’ordine mondiale, che tende a trasferire sempre nuove materie al livello sovranazionale, che, 219

però, non ha nulla di paragonabile a una Costituzione. Inoltre si consideri che all’origine di questa massa crescente di norme ci sono tecnostrutture totalmente sottratte alle procedure democratiche, sia per l’origine, che non è mai espressione di un voto popolare (peraltro, agli organi in questione afferiscono anche numerosi paesi in cui non vige alcun tipo di democrazia), sia per la successiva applicazione di esse. Questo contesto organizzativo, che si somma all’ordine statuale mondiale, costituisce una sorta di «super-Costituzione materiale» che produce, sempre più spesso, punti di torsione delle Costituzioni formali, ridotte quasi al rango di Costituzioni provvisorie, in attesa di qualcosa che le sostituisca e che forse non verrà mai. Il processo di globalizzazione economica e finanziaria ha portato con sé una fittissima rete di trattati, accordi, intese, a loro volta sostenuti da una copiosa giurisprudenza internazionale. E la chiave di interpretazione più efficace è quella che osservi la metamorfosi del potere giudiziario indotta dalla globalizzazione. Come autorevoli giuristi (Teubner, Cassese, Galgano 3 ) hanno segnalato, la funzione della giurisprudenza è ormai prevalente sulla legge e, di conseguenza, assegna al giudice una funzione primaria nella produzione del diritto, che sopravanza quella dei 220

Parlamenti e dei governi. Ovviamente questo processo, che riguarda essenzialmente l’ambito del diritto privato e in particolare quello commerciale, inevitabilmente finisce per avere riflessi anche negli altri campi del diritto. L’ordine giudiziario è diventato quello che Cartesio avrebbe chiamato la «ghiandola pineale» fra Costituzioni formali e Costituzione materiale del nuovo mondo.

La dittatura del rating Un ruolo particolarissimo in questa nuova «Costituzione materiale» lo svolgono le agenzie di rating. In un mondo finanziarizzato in massimo grado, come il nostro, la gestione del rapporto fra crediti e debiti è il meccanismo regolatore principale. E questo non avviene nel vuoto astratto di un mercato privo di punti di riferimento. Determinante è la funzione del rating, anzi, la dittatura del rating, per parlare della quale dobbiamo premettere una spiegazione. Il mercato è basato su una fondamentale, ineliminabile asimmetria informativa: quella fra chi vende, che sa quel che vende, e chi compra, che non sa esattamente quel che sta comprando. E questo è 221

ancora più vero se si parla di mercati finanziari, dove l’opacità è la regola. Il vantaggio del venditore è massimo per i titoli di debito, perché solo lui conosce con esattezza il suo stato finanziario e, di conseguenza, quali siano i margini di rischio e il prezzo che dovrebbe pagare. L’interesse è funzione del rischio, ma il rischio lo può valutare solo il venditore. Ovviamente, il debitore nasconderà accuratamente le sue criticità, per offrire l’immagine più solida possibile e pagare meno interessi. Pertanto il contratto si concluderà sempre sul piano dell’immagine di sé che il debitore sarà riuscito a far passare sul mercato. L’acquirente può fare delle valutazioni, ma non può esaminare i «libri contabili» della controparte. Dunque, i mercati finanziari sono in primo luogo mercati dell’informazione, ma di un tipo di informazione che si genera con modalità imprevedibili e alla quale i mercati reagiscono determinando bruschi riallineamenti dei prezzi, sino al caso estremo dello sgonfiamento di una bolla. E il fenomeno ha un andamento esponenziale se parliamo di derivati, che, come si sa, sono «prodotti» finanziari composti da altri prodotti finanziari, a loro volta realizzati mescolando altri «prodotti» finanziari, e così via, per cui la pratica dei derivati si è rivelata un formidabile moltiplicatore 222

delle asimmetrie informative insite nel mercato, perché, di passaggio in passaggio, la mancanza di trasparenza cresce esponenzialmente. E, come se non bastasse, a conferire ulteriore opacità al sistema interviene la pratica del «sistema bancario ombra». Allo scopo di attenuare – se non eliminare – le asimmetrie informative, sono sorte le agenzie di rating, il cui compito è quello di «certificare» lo stato del debitore e il conseguente rischio di insolvenza, determinando così il prezzo del titolo in modo da dare una bussola al mercato finanziario. Questa funzione è esercitata attraverso un «voto» cui corrispondono diversi gradi di rischio: A: qualità alta del titolo, piena solvibilità del debitore. All’interno di questa categoria ci sono poi delle gradazioni: ovviamente tre A rappresentano il voto massimo, una sola A il minimo e il segno + o – è una sorta di «mezzo voto» (come a scuola, quando il professore mette 9 meno meno, per dire che lo studente è bravo ma può fare di meglio). B: media qualità. Al di sotto delle tre B, si parla di «investimento speculativo», e cioè due B «rimborso non adeguatamente assicurato» o una B titolo altamente speculativo e «poco affidabile». C: investimento con rischio considerevole (detto 223

anche junk bond: titolo spazzatura). D: default, debitore fallito. Ad ogni gradino della scala corrisponde una variazione di prezzo, per cui l’investitore prudente, interessato alla sicurezza del suo capitale più che all’alto guadagno, si terrà entro il limite della A o delle tre B, mentre dalle due B in giù investirà lo scommettitore che punta a forti guadagni, anche a rischio di perdere il capitale. Ovviamente, la riserva mentale dell’investitore ad alto rischio è quella di vendere il titolo un attimo prima che sprofondi verso il default lucrando, nel frattempo, i maggiori guadagni possibili. Ma fermiamoci a considerare un aspetto della questione: il servizio di rating sarebbe reso agli acquirenti, di cui si cerca di colmare il divario informativo rispetto al venditore. Dunque, dovrebbero essere gli acquirenti a pagare le agenzie, per il servizio loro reso. E, invece, accade il contrario: le agenzie sono pagate dai venditori per certificare il loro stato di salute finanziaria. In questo modo, i venditori possono presentarsi al mercato con una sorta di certificato di «buona salute» e farsi apprezzare di conseguenza. Anche un giudizio da due C sarebbe comunque preferibile a non avere alcuna valutazione del titolo, perché in tal caso ben 224

pochi investitori scommetterebbero un centesimo su di esso. Questo meccanismo, tuttavia, suscita alcuni dubbi e cioè che il «voto» delle agenzie non venga dato tanto in funzione del calcolo di solvibilità, quanto dell’onorario versato all’agenzia stessa. Tuttavia, si sostiene, l’agenzia può avere accesso ai libri contabili e alla documentazione interna dell’ente da giudicare, può interrogare i suoi dirigenti e funzionari ecc. solo se l’ente finanziario in questione glielo consente e questo consenso è implicito proprio nella richiesta di un intervento (solicited) da parte dell’agenzia. Diversamente, non sarebbe possibile fare alcun accertamento fondato. Anche questo argomento, però, non convince, perché le agenzie di rating emettono frequentemente anche giudizi unsolicited, quindi condotti senza avere accesso alla documentazione interna. Ne consegue che, o tale accesso è indispensabile e dunque i giudizi unsolicited sono infondati, o tali giudizi sono fondati e pertanto l’accesso non è indispensabile. A queste considerazioni va aggiunto che le agenzie di rating non motivano mai le loro valutazioni, perché non riferiscono sugli elementi raccolti, proprio perché conosciuti in via confidenziale e, dunque, destinati a rimanere riservati. Ebbene, che valore ha un giudizio non suffragato da alcun riscontro oggettivo? Ancora una 225

volta la garanzia sarebbe data dall’imparzialità dell’agenzia. Per di più, le agenzie di rating, normalmente, non rendono conto nemmeno dei loro metodi di indagine. In qualche caso possono ricorrere a un modello di simulazione, ma si guardano bene dal rivelarne gli algoritmi, che ritengono proprietà intellettuale da difendere dalla concorrenza. Oppure possono utilizzare il «metodo Delphi», cioè un sistema basato sulla consultazione di alcuni esperti i cui pareri vengono poi analizzati e mediati. Anche in quest’ultimo caso, sarebbe interessante conoscere i nomi di tali esperti (visto che, invece, vengono tenuti rigorosamente segreti) e in questo modo valutare se il loro giudizio si possa ritenere disinteressato e quindi credibile. Ma, nella finanza, esistono «esperti disinteressati»? E, così, i giudizi piovono sulla testa di Stati e società come editti imperiali che non hanno bisogno di motivazioni. Qualcuno può spiegarci sulla base di quali criteri Standard & Poor’s in questi anni ha assegnato il massimo punteggio agli Usa, che sono il massimo debitore mondiale, hanno una bilancia commerciale costantemente in passivo e un disavanzo dell’ordine del 30-35%, mentre assegna una sola A alla Cina, che è il massimo creditore mondiale in assoluto (e degli americani in particolare), ha una bilancia commerciale 226

costantemente in attivo, un debito pubblico complessivo che è la metà e un debito aggregato che è un terzo di quello americano? Né le stranezze finiscono qui. Si suppone che, per il delicatissimo ruolo che svolgono, le agenzie dovrebbero essere enti super partes così da evitare che qualcuno possa trarre profitto dal loro operato. E, invece, le tre maggiori agenzie non sono affatto indipendenti, perché hanno importanti partecipazioni in società di cui poi assicurano i titoli; inoltre, soprattutto Moody’s e Standard & Poor’s hanno azionisti in comune e sono una azionista dell’altra. A proposito di «capitalismo di relazione». Fitch, la minore delle tre grandi agenzie di rating, ha una struttura di gruppo abbastanza complessa alla cui base c’è una società per il 60% controllata dalla francese Fimalac e per il 40% dall’americana Hearst Corporation. Dunque, ha una buona parte del corpo in Europa, ma la testa a New York. Come dire che l’arbitro è organicamente dipendente di alcune società iscritte al campionato. Al solito, la ragione di questa anomalia è la seguente. Le agenzie di rating sono teoricamente esposte al confronto con la concorrenza. Questo, però, presupporrebbe la presenza su un piede di parità – o quasi – di una molteplicità di soggetti. Quel che, invece, non è. Certo, ci sono molte agenzie di rating nazionali e alcune di esse aspirano 227

a diventare internazionali, ma ciò è tutt’altro che semplice. In primo luogo, le tre società statunitensi sono le più antiche e godono di una notorietà incomparabile; in secondo luogo, sono dei giganti con bilanci stratosferici per centinaia di milioni di dollari all’anno e in qualche caso oltre il miliardo. Il che significa una potenza di fuoco ineguagliabile in termini di forza operativa, capacità di condizionamento dei soggetti, influenza sui mass media ecc. Inoltre, le tre agenzie possono contare sull’appoggio costante di una delle più grandi società di intelligence del mondo, la Kroll, definita la «Cia di Wall Street» a causa della sua specializzazione nel mondo finanziario. E non si tratta di un vantaggio da poco. Inoltre, se le tre americane declassano o promuovono uno Stato, i giornali specializzati di tutto il mondo, dal Wall Street Journal al Time, da Le Monde al Sole 24 Ore, dall’Economist al Financial Times, riportano puntualmente la notizia in prima pagina o in copertina; se a fare lo stesso è invece l’agenzia cinese Dagong, è una fortuna se la notizia non finisce nella pagina degli spettacoli. Infine, a tagliare la testa al toro ci pensa il Nationally Recognized Statistical Rating Organization (Nrsro) degli Stati Uniti, il cui riconoscimento è necessario per operare a Wall Street, che è la maggiore piazza finanziaria del 228

mondo; sino al 2003, il Nrsro ammetteva solo le tre «sorelle». In seguito, sono state ammesse anche l’australiana Baycorp, la canadese Dominion Bond Rating Service o la giapponese Japan Credit Rating Agency, e l’altra americana Best. Tuttavia, se le tre newyorkesi sono sorelle, queste ultime sono cugine. Di primo grado. Al contrario, quando la Dagong ha presentato domanda per operare a Wall Street, la risposta è stata «picche». Né v’è traccia di concorrenza fra le tre, che sembrano agire in palese accordo. Quindi non di oligopolio si tratta, quanto di monopolio leggermente imperfetto. E veniamo alla garanzia suprema del giusto operare delle tre agenzie: in caso di valutazione errata, esse ci rimetterebbero la faccia. Ma se dovessimo giudicare in base a questo principio, la questione sarebbe risolta molto semplicemente, perché vorrebbe dire che le agenzie la faccia l’hanno ormai persa da parecchio tempo, visto che hanno clamorosamente «sbagliato» in tutti e tre i maggiori scandali finanziari degli ultimi 10 anni (Enron, Parmalat e Lehman Brothers). Il giorno del suo fallimento, la Lehman Brothers aveva ancora un rating A+. Nonostante queste tre «scivolate», Standard & Poor’s, Fitch e Moody’s continuano a dettar legge al mercato finanziario mondiale. 229

Le sentenze delle agenzie di rating hanno effetti automatici prodotti da leggi, regolamenti e direttive: ad esempio, una serie di enti (come i fondi pensione) possono avere in portafoglio solo titoli a tripla A, mentre altri (banche, hedge fund ecc.), per disposizione delle autorità bancarie come l’Eba (European Banking Authority) o l’Esma (European Securities and Markets Authority), devono tenere conto delle variazioni di rating nella formazione del loro portafoglio. Inoltre, molti soggetti finanziari (banche o hedge fund, per esempio) sono a loro volta soggetti a valutazione di rating, e sanno che il possesso dei titoli declassati potrebbe a sua volta comportare un «effetto domino», per il quale finirebbero loro stessi per essere declassati. Ne consegue che, non appena si formalizza il declassamento da parte delle tre sorelle, una serie di enti devono (non «possono» ma «devono») vendere, in tutto o in parte, quei titoli. Questo crea un’ulteriore offerta di quei titoli sul mercato, con l’ovvio risultato di deprimerne ancora il valore. E c’è di più: non è per nulla necessario aspettare il declassamento formale per avviare il deprezzamento; è sufficiente che la notizia inizi a circolare negli ambienti finanziari e che, magari, venga preannunciata dalla stampa specializzata, perché si avvii la corsa alla «svendita» e quindi i titoli in questione comincino a perdere valore 230

giustificando il declassamento non ancora formalizzato. È il meccanismo della «profezia che si autoavvera», per il quale basta enunciare una previsione perché tutti si comportino di conseguenza, finendo per confermarla. I mercati non credono alle capacità oracolari delle tre agenzie newyorkesi, ma si inchinano alla loro potenza di fuoco, perché sanno che esse sono spesso in grado di determinare i declassamenti che annunciano. Lungi dall’essere il rimedio alle asimmetrie informative, il rating diventa così esso stesso una fonte di ulteriore opacità e, soprattutto, un’arma da guerra finanziaria.

Il mito di Europa e il suo declino La globalizzazione ha avuto riflessi particolari in Europa, con la nascita dell’euro, che, peraltro, è stato lo sbocco di un processo avviato sin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Con il grande massacro delle due guerre (che furono in larga parte europee) prese corpo l’idea di una grande confederazione europea che scongiurasse definitivamente il rischio di nuovi conflitti. Quando si parla di unità europea, il riferimento obbligato è al «manifesto di Ventotene» di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, che rappresenta l’anima democratica 231

del progetto. Ma non si fa quasi mai cenno al precedente di «Pan-Europa» teorizzato da Richard di Coudenhove-Kalergi, comparso già nel primo dopoguerra. Si tratta di un ben diverso orientamento, decisamente elitista, che, in concreto, si è rivelato molto più aderente a quello che la Comunità europea diventerà dagli anni sessanta in poi. L’Unione europea è sorretta dalle sue fondamenta da un progetto aristocratico-finanziario, che troverà una sua eccellente sintesi nella formula teorizzata da Mario Monti della «democrazia a trazione elitaria». Da questo punto di vista, la Ue (e prima di essa la Ueo, il Mec, la Cee ecc.) è stata il più grande laboratorio in cui si è sperimentata questa forma di governance mondiale tecnocratico-finanziaria. 4 Inizialmente, il dibattito fra i sostenitori del progetto di integrazione europea (che erano larga parte delle classi di governo nella parte occidentale del continente) opponeva i fautori della Federazione (come, appunto il Movimento Federalista Europeo fondato da Spinelli) a quelli di una più lasca «Confederazione», che avrebbe lasciato più spazio alle differenze nazionali. Ma, tanto in una versione quanto nell’altra, si pensava a una unificazione in primo luogo politica, che avrebbe avuto un’unica politica estera, un unico esercito, una sola moneta e un Parlamento sovraordinato a quelli nazionali. Questa ipotesi entrò rapidamente in crisi nel 1954, 232

con il voto contrario dell’Assemblea nazionale francese alla ratifica della Comunità europea di Difesa (Ced): venne così liquidato il tentativo di dar vita al nucleo originario della sovranità politica europea e, con ciò, si assestò un primo decisivo colpo alla prospettiva federalista, 5 che iniziò rapidamente a declinare. Il progetto proseguì essenzialmente sul piano economico, dove, dopo il successo ottenuto dalla Comunità europea del Carbone e dell’Acciaio (Ceca, 1951), si aggiunsero il Mercato comune europeo, 6 la Comunità europea dell’Energia atomica e la Comunità economica europea (trattati di Roma, 1957), che riprendevano il disegno di Jean Monnet (ideatore e primo presidente della Ceca) sulla precedenza dell’integrazione economica rispetto a quella politica del continente. In rapida successione si susseguirono altri insuccessi politici dell’Unione: lo scacco di Inghilterra e Francia a Suez (1956), che si sommava ai rovesci francesi nelle colonie, il mancato decollo del progetto di armamento atomico europeo, 7 che si ridusse ai soli arsenali nazionali di Inghilterra e Francia (1955-1970), la sconfitta politica dei francesi nel loro tentativo di superare il dollar standard (1965-66) e il conseguente isolamento di Parigi dopo l’uscita unilaterale dalla Nato. La prospettiva dell’unificazione proseguì, ma 233

rinviando sine die la dimensione politica, mentre si espandeva il tessuto della compenetrazione economica dei vari paesi. Per l’Italia, la prospettiva dell’Europa unita rappresentò un sogno: annegare in essa tutti i problemi che non si era stati capaci di risolvere in più di un secolo di vita unitaria (dal dualismo Nord-Sud a una pubblica amministrazione moderna ed efficiente, dal superamento di una moneta debole che produceva costante inflazione a una università non a livello di quelle europee). E da questa utopia sorse la dottrina del «vincolo esterno» teorizzata da Guido Carli, che, di volta in volta, fu ministro, governatore della Banca d’Italia, presidente della Confindustria e, sempre, massimo artefice della politica economica del paese. Carli non credeva nella capacità di autoriforma del paese e in particolare delle sue classi dirigenti, per cui pensò a spingere l’Italia sui binari dell’integrazione economica mondiale, che sarebbe stato il «vincolo esterno» dettato dal mercato, ma, in un secondo momento, modificò la sua posizione, passando dal «vincolo di mercato» al «vincolo di trattato». 8 Pur non apprezzando la burocrazia di Bruxelles, Carli sperava che potesse esercitare un contenimento verso la propensione all’allargamento della spesa propria del ceto politico italiano e della sua incapacità di riforme. Anche se ebbe molte perplessità sulla idoneità dell’Italia di aderire al 234

processo di unificazione monetaria in tempi brevi. Tornando all’asse principale del ragionamento, una decisa rivitalizzazione del progetto europeo venne con la fine del mondo bipolare: lo smantellamento del blocco dell’Est significò la riunificazione tedesca e la possibilità che i paesi dell’Europa orientale entrassero nella Ue. Come si dirà meglio, questo pose le premesse per la realizzazione di un antico sogno: l’unificazione monetaria del continente 9 e, con la moneta unica, tornò attuale anche il sogno dell’unificazione politica. La stessa moneta avrebbe fatto da locomotiva accelerando il processo di definitiva e completa unione europea. Nello stesso periodo l’Unione riceveva la domanda di adesione di altri 12 paesi, con i quali avrebbe raggiunto la cifra di 27 membri, il che poneva forti problemi di funzionalità per la necessità di prendere le decisioni all’unanimità. Il Trattato di Nizza (2000) adottò soluzioni provvisorie, snellendo in qualche modo le procedure e rinviando a una più puntuale definizione prima che divenisse operativa l’adesione dei nuovi membri prevista per il 2004. Di qui la decisione di adottare un trattato istitutivo che avesse le caratteristiche e le funzioni di una Costituzione (infatti era provvisoriamente denominato «Trattato che adotta una Costituzione europea»). In base ad esso si sarebbero dovuti 235

stabilire alcuni principi comuni a tutte le legislazioni nazionali, creando una fonte di produzione del diritto sovraordinata rispetto alle Costituzioni nazionali e, insieme, si sarebbe superato il limite dell’unanimità nelle procedure decisionali. Una base testuale venne presentata nel 2001 e poi elaborata e approvata dall’Assemblea di Strasburgo nel 2003. Alcuni paesi sottoposero la «Costituzione» a referendum popolare fra il maggio e il giugno 2005; mentre Spagna e Lussemburgo dettero esito positivo, Francia e Olanda bocciarono seccamente il progetto. Temendo nuove bocciature, Inghilterra, Danimarca, Polonia e Portogallo sospesero i referendum previsti e, con ciò stesso, anche Svezia e Repubblica Ceca, che avevano avviato una procedura solo parlamentare di adesione, sospesero la decisione. Di fatti era la fine del progetto, per cui qualche anno dopo si ripiegò su un Trattato di riforma della precedente base istitutiva (detto Trattato di Lisbona del 2007, poi entrato in vigore due anni dopo), che aveva assai meno ambizioni e che nessuno provò a sottoporre a referendum popolare, dandone per scontata la bocciatura in almeno alcuni paesi maggiori. E il progetto dell’unificazione politica tornava nuovamente nel cassetto. L’insuccesso ebbe la sua causa immediata nell’infelicissima formulazione del testo, 236

assolutamente illeggibile dalla stragrande maggioranza dei cittadini: oltre 600 articoli, irti di commi a loro volta arricchiti da sottocommi, che fissavano la regola generale, per poi stabilire le eccezioni e, infine, le eccezioni alle eccezioni, per un totale di oltre 500 pagine che, si immagina, non siano state lette neppure dallo 0,1% della popolazione europea e comprese da un ventesimo di quanti le avevano lette. In realtà, il «trattato» era una costruzione intellettualistica, frigida e inutilmente complicata, che non andava molto al di là di una collazione delle richieste dei diversi contraenti. Di fatto, si trattava di un esito scontato: per come si era venuto storicamente determinando, il progetto europeo si reggeva istituzionalmente su due gambe, quella dei governi nazionali (che incorpora la legittimazione democratica), e quella della tecnocrazia finanziaria, che esprime lo spirito cosmopolita ed elitario del progetto. Ma i ceti politici nazionali, che avevano appena ceduto la sovranità monetaria, non avevano alcuna intenzione di cedere ulteriori quote di potere alla componente tecnocratica e avevano affermato la propria impostazione, facendo leva sul fatto che nell’Assemblea di Strasburgo ad avere voce in capitolo sono le forze politiche di impianto nazionale e non gli apparati tecnocratici. E tutto questo riportava a galla i problemi 237

strutturali, rimossi per sessanta anni, che avevano di fatto impedito l’unificazione politica del continente e che conviene qui richiamare. Un primo ordine di problemi riguarda la forma di Stato, che deve essere o monarchica o repubblicana (che poi occorre specificare se parlamentare o presidenziale ecc.). Dunque occorreva (e occorre) definire la natura della federazione europea, che accoglie nel suo seno monarchie (Spagna, Lussemburgo, Olanda, Belgio, Svezia, Danimarca, Norvegia e Inghilterra), repubbliche presidenziali o semipresidenziali (Portogallo, Francia, Irlanda, Polonia ecc.) e repubbliche parlamentari (Italia, Germania ecc.). È ipotizzabile una repubblica con enclaves monarchiche o, viceversa, una monarchia con enclaves repubblicane? Gli Usa sono una Unione che è molto più vicina al modello confederale, ma sono una repubblica presidenziale e i singoli Stati hanno una struttura omogenea a quella centrale. Anche la Svizzera ha una sua omogeneità repubblicana, così come la «monarchia federativa» dell’Impero guglielmino aveva una comune caratteristica monarchica fra Prussia e Baviera e, se c’erano città o territori dotati di relativa autonomia, non c’erano repubbliche. Anche lasciando indeterminata la natura del nuovo Stato, resterebbero problemi non secondari di 238

convivenza fra monarchie e repubbliche sul piano dei principi costituzionali. Analoghe considerazioni si potrebbero fare a proposito della convivenza fra Stati unitari centralizzati (come la Francia), Stati federali (come la Germania) e Stati regionali (come Italia e Spagna). Occorre scegliere un criterio unico per l’intera Unione, così come è per Usa, Repubblica Federale Tedesca, Svizzera, Brasile, India, Canada ecc. E se gli Stati nazionali dovessero sopravvivere come unità federate, che senso avrebbe suddividerli al proprio interno in ulteriori unità federate? Esistono Stati unitari e Stati federali in due livelli, ma una soluzione in tre livelli non si è mai vista e non si capisce che funzionalità possa avere. Peraltro, non si dà Stato senza Costituzione. L’Inghilterra ne ha una consuetudinaria, ma la norma è quella delle Costituzioni scritte. Quando si è provato a scriverne una per la Ue, sono stati impiegati circa cinque anni e il risultato è stato quello che si è detto, non a caso: una Costituzione non nasce dal nulla, ma dalla cultura giuridica e dal contesto politico storicamente determinati, che in Europa hanno una forte radice nazionale. Ovviamente, tali differenze si possono superare per giungere a livelli di maggiore omogeneità, ma occorre un processo che ha i suoi tempi e le sue 239

modalità. Quelle seguite dall’esperienza europea di questo mezzo secolo, totalmente delegate a una ristretta aristocrazia tendenzialmente cosmopolita, erano la strada che non poteva produrre risultati diversi da quelli sotto i nostri occhi. Perché, per avere uno Stato unitario occorre non solo una Costituzione formale, ma anche una Costituzione materiale, un sistema politico unitario con agenti (partiti, associazioni, sindacati ecc.) a livello della statualità. Insomma occorre avere, ad esempio, partiti europei con un leader e un proprio organo dirigente, cui sono subordinate tutte le strutture periferiche a livello locale (dove per locale si intende Francia, Germania, Italia ecc.). Se i partiti europei restassero quello che sono – mere aggregazioni federative con vincoli interni molto laschi –, avremmo solo un Parlamento fatto da tanti sindacati territoriali (come la Lega), o poco più, incapace di decidere alcunché. Questo spingerebbe a una soluzione presidenzialdirettoriale, il cui punto di appoggio, più che il consenso popolare, non potrebbe che essere la struttura tecno-amministrativa dello Stato. D’altra parte, un sistema politico è fatto di una serie molto sofisticata di meccanismi che devono interagire fra di loro (poteri dello Stato, agenti politici, agenti sociali, sistema massmediatico ecc.) e questo porta alla questione della lingua. Senza una 240

lingua comune usata quotidianamente dai mass media, non si crea una opinione pubblica europea, ma si resta a opinioni pubbliche nazionali, che producono partiti, sindacati, associazioni imprenditoriali ecc. nazionali. La questione della lingua (mai voluta affrontare) è stata (ed è) il principale ostacolo al superamento degli Stati nazionali. Ovviamente, nessuno pensa che i tedeschi debbano smettere di parlare tedesco, gli italiani l’italiano, i francesi il francese ecc., anzi è giusto che le diverse culture nazionali continuino ad esistere, ma questo deve armonizzarsi con una lingua veicolare, magari a struttura fortemente semplificata, che consenta la formazione di un sistema informativo comune. Nessuno Stato unitario si regge senza una lingua dominante o, quantomeno, largamente diffusa: la Svizzera, spesso citata a sproposito, ha una lingua parlata dal 71% dei suoi cittadini, il tedesco, e altre tre parlate da minoranze linguistiche (20% francese, 8% italiano, 1% ladino). In India esiste di fatto una lingua comune che è l’inglese, retaggio della dominazione coloniale, in Cina è il cinese degli Han a dominare, nella vecchia Urss era il russo. In Yugoslavia si era formata una lingua serbo-croata largamente parlata anche nelle altre repubbliche della federazione. 10 Forse un esempio storico di impero multilingue è il solo Impero austroungarico, dove avevano corso una 241

decina di idiomi (tedesco, ungherese, ceco, slovacco, italiano, polacco, ucraino, croato, sloveno, ruteno), ma questo accadeva prima della nascita dei nazionalismi, e non è un caso che – con il connesso processo di formazione delle identità nazionali e della democrazia – quell’impero sia andato rapidamente in pezzi. Al massimo, ci sono state entità statali bilingui come il Belgio o la Cecoslovacchia, ma entrambi hanno avuto forti tendenze secessioniste, coronate dalla separazione nel secondo caso. Nel caso europeo abbiamo 28 paesi con una trentina di idiomi nazionali e il più diffuso, il tedesco, è parlato da meno del 20% del totale degli abitanti. Non è qui la sede per capire se si debba adottare come lingua comune una delle lingue nazionali (magari semplificata) o se sia preferibile una lingua artificiale come l’esperanto o una lingua morta come il latino (ripetendo l’operazione fatta in Israele, dove si è recuperato l’antico ebraico). Ci limitiamo a segnalare come quello della lingua resti il principale ostacolo strutturale alla costruzione di uno Stato comune, fosse anche una confederazione. Sino a quando l’Unione europea non avrà una lingua veicolare, il progetto di unificazione resterà solo la costruzione intellettualistica di una ristrettissima aristocrazia tecnocratica che produrrà quello che 242

abbiamo visto. 11

Una architettura ridondante e il ruolo della Germania Come si sa, l’Unione europea ha una serie di istituzioni, 12 recentemente ridefinite dal Trattato di Lisbona: la Commissione europea, nominata dal Consiglio di Europa con voto di ratifica del Parlamento europeo. Dura in carica 5 anni e rappresenta la Ue, di cui cura gli interessi generali. È la roccaforte dell’anima tecnocratica dell’Unione; il Parlamento europeo, eletto a suffragio universale dai cittadini europei, ha durata quinquennale; attualmente composto da 754 membri, ha poteri molto limitati e legifera tramite direttive che poi devono essere convertite in legge ordinaria dai Parlamenti nazionali; il Consiglio dell’Unione europea (o «Consiglio dei ministri»), è la riunione dei ministri degli Stati membri materia per materia (sanità, istruzione, finanze ecc.). Il presidente è un capo di governo (o dello Stato, nel caso di repubbliche presidenziali) a turno, che dura in carica per 6 mesi; 243

il Consiglio europeo ha un presidente che dura in carica due anni e mezzo ed è composto dai capi di governo; si riunisce periodicamente per discutere dello stato di attuazione del processo di unificazione e dei problemi cui esso va incontro; la Corte di giustizia dell’Unione europea, che vigila sull’applicazione del diritto comunitario; la Corte dei conti europea, che verifica il finanziamento delle attività dell’Ue; la Banca centrale europea, che ha competenza per la politica monetaria europea. Ciascun organo ha proprie regole per l’assunzione delle decisioni: inizialmente ciascuno Stato membro disponeva del proprio voto ed era necessaria l’unanimità. Con l’allargamento dell’Unione questo risultava paralizzante, per cui si è iniziato a prendere decisioni a maggioranza, di volta in volta, semplice, assoluta o qualificata (in base alla materia in discussione). Per evitare che si formasse una sorta di «direttorio» dei 4 paesi più popolosi, si sono adottati criteri di voto ponderale che davano più peso ai più piccoli e ciascun organo ha adottato una sua particolare formula, in base alla combinazione di elementi quali il voto uguale per tutti, la popolazione, il Pil ecc. Nel caso del Parlamento europeo la ponderazione è stata già fatta in sede di attribuzione dei deputati ad ogni singolo 244

paese: la Germania ne ha 99 per una popolazione di 81 milioni di cittadini (uno ogni 900.000 circa), il Lussemburgo 6 per 500.000 cittadini (uno ogni 85.000), Grecia, Portogallo ecc. uno ogni 200.000, Francia, Italia e Inghilterra 79 per popolazioni intorno ai 60 milioni di abitanti (circa uno per ogni 700.000 cittadini). La Germania ha il 13,2% dei parlamentari europei, ma nella Bce la Bundesbank ha sottoscritto il 18,94% del capitale e nel Meccanismo europeo di stabilità pesa per il 27,14% della azioni. Per limitarci ad alcuni esempi. È evidente che ogni spostamento di quote e maggioranze necessarie, in uno qualsiasi degli organismi della Ue, determinerebbe un riallineamento in tutti gli altri. Già questi brevi cenni danno l’idea della ridondanza dell’architettura istituzionale dell’Unione, caratterizzata da una dispersione del potere decisionale, da un diffuso potere di veto, da una forte opacità, da procedure decisionali complesse e ripetitive, ma, soprattutto, questa architettura incorpora e nasconde il dualismo fra gli Stati nazionali (arroccati nel Consiglio dei ministri d’Europa e nel Consiglio europeo) e la struttura tecnocratica alleata all’anima finanziaria (arroccate nella Commissione e nella Bce). In questo quadro, peraltro, era inevitabile che, 245

gradualmente, emergesse un soggetto forte fra gli Stati nazionali, affermandosi come vero mediatore con il blocco tecno-finanziario: ovviamente, la Germania. L’Unione europea è stata una occasione straordinaria, per la Germania, di uscire dalla prostrazione in cui la fine della guerra l’aveva lasciata. Inizialmente non era affatto scontato né che la Germania avrebbe riunificato tutte le sue parti e neppure che sarebbe sorta una Germania Occidentale. La decisione di riunificare i tre settori occupati rispettivamente da inglesi, francesi e americani avvenne essenzialmente per decisione di questi ultimi. Dei paesi vinti, la Germania fu quella che pagò il prezzo più alto in termini di cessioni territoriali e di sovranità ed entrò nel nuovo ordine bipolare in condizioni di totale subordinazione. La nascita della Comunità europea, a partire dalla Ceca, fu la precondizione della rinascita del paese, che già nei primi anni sessanta era ridiventato un gigante economico. Ma restando pur sempre un nano politico: i trattati, la Costituzione stessa, oltre che il naturale rigetto della guerra e del militarismo in un paese che aveva subito ferite gravissime per l’una e per l’altro, inibivano qualsiasi ipotesi di riarmo, limitando le nuove forze armate a poco più della stretta difesa territoriale. E in politica estera c’erano anche molti debiti da saldare, a cominciare da quello 246

verso Israele, di cui la Germania dovette essere l’alleato più sicuro dopo gli Usa, 13 ma anche la Ostpolitik (con la storica immagine di Brandt inginocchiato nell’atto di chiedere perdono per le atrocità naziste) fu, in qualche modo, il prezzo pagato al passato e alla speranza di una riunificazione anche con i Länder orientali. Politicamente, la Germania ebbe un ruolo assai marginale sino a tutti gli anni ottanta. L’asse con la Francia, intorno al quale si costruì la Comunità europea, era il prodotto di questi equilibri di forza, che imponevano la ricerca del rapporto privilegiato con uno dei vincitori e insieme il riflesso di un rapporto di forze interno che esaltava il ruolo dei Länder cattolici (come Baviera, Renania, Palatinato ecc.), rispetto a quelli tradizionalmente luterani – come la Prussia –, che erano in gran parte nella Rdt. La Germania pre-unificazione fu, in tutti i sensi, una Germania renana: alleata della Francia, orientata verso una politica filo-occidentale, europea e legata al modello di capitalismo renano. La riunificazione, nei primissimi novanta, cambiò molte cose sia sul piano interno che estero: in primo luogo, la nuova Germania iniziò a pensare a sé stessa non più come «Gigante economico e nano politico» ma iniziò a rivendicare un diverso peso internazionale, a cominciare dall’Europa. Il lungo Purgatorio del dopoguerra era finito, 247

l’involucro europeo aveva mondato Berlino dalle sue colpe, affrancandola dal conseguente complesso di inferiorità. E, lentamente, l’idea di una Germania che possa presentarsi al mondo senza l’involucro Ue non è parsa più tanto fuori della realtà, sino a spingere la Germania a una pur cauta politica di riarmo. E la Germania è diventato il super-Stato nazionale della Ue, il rappresentante dello spirito stesso della statualità nazionale e, insieme, chi detta legge agli altri Stati nazionali in materia di garanzia del debito. Il punto è che la Germania ha avuto un approccio tutto nazionale e non europeista all’unità europea. Come dice l’ex ministro Vincenzo Visco in una intervista 14 che non ha ricevuto tutta l’attenzione che avrebbe meritato: Un’Italia fuori dall’euro, visto il nostro apparato industriale, poteva fare paura a molti, incluse Francia e Germania, che temevano le nostre esportazioni prezzate in lire. Ma Berlino ha consapevolmente gestito la globalizzazione: le serviva un euro deprezzato, così oggi è in surplus nei confronti di tutti i paesi, tranne la Russia, da cui compra l’energia. Era un disegno razionale, serviva l’Italia dentro la moneta unica proprio perché era debole.

Questo era vero in tempi di euforia finanziaria, quando il debito pubblico dei paesi dell’area mediterranea (che non sarebbe mai sceso al 60% del 248

Pil, come le condizioni di ammissione avrebbero richiesto e come tutti, Germania inclusa, sapevano non sarebbe stato possibile) non faceva paura, perché l’abbassamento degli interessi, dovuto proprio all’adozione dell’euro (che avrebbe ispirato fiducia negli investitori), avrebbe consentito di continuare a tempo indeterminato. Dal 2008 le cose sono cambiate: prima con la crisi delle banche e dopo con la crisi del debito sovrano, dal 2010 in poi. E alla Germania non sta bene un euro ulteriormente indebolito, per di più, per colpa delle «cicale» meridionali. E qui un ruolo l’hanno giocato anche le diverse radici culturali dei vari paesi (aspetto sempre sottovalutato nel sessantennale processo di integrazione). Torna la «legge di Lutero», per la quale c’è una insanabile linea di frattura fra il rigorismo morale dei paesi luterani (e più in generale «riformati»), che ignorano e combattono la distinzione fra peccato veniale e peccato grave, e i paesi cattolici del Sud, con il loro supposto lassismo morale. Significherà pure qualcosa che in tedesco la stessa parola Schuld indichi tanto il «debito» quanto la «colpa» e che i paesi debitori del sud-Europa siano detti «Defizit-Sunder» cioè «Peccatori del debito». L’euro è stato la leva della Germania per entrare nella globalizzazione controllando l’Eurozona ed è oggi il campo di battaglia che la oppone ai suoi paesi 249

debitori.

Ma che strana moneta Parlando dell’euro è bene partire da una considerazione: quando si decise il passaggio alla moneta unica, non c’era alcuna necessità di farlo, sia di ordine economico che, più strettamente, monetario. La decisione dipese da valutazioni di ordine squisitamente politico, determinate dalla fine del blocco orientale e dalla incombente riunificazione delle due Germanie, che si temeva facesse rinascere la «questione tedesca in Europa». Un punto di vista che aveva sostenitori in tutti i paesi del continente e delle più diverse posizioni politiche. Il direttore di Limes, Lucio Caracciolo, ricorda che si trovava nella Germania Est quando un telegiornale riportò una frase di Andreotti: «La Germania mi piace tanto che ne voglio due». 15 Al che, i militanti del partito di governo (comunista) presenti abbracciarono Caracciolo commentando: «Grande il compagno Andreotti!». 16 Per di più, l’esperimento del Sistema monetario europeo aveva creato molte inquietudini perché, di fatto, era la Bundesbank a dettare la politica monetaria a tutti gli altri, che dovevano inseguirla. Una Germania ancora più forte e 250

centrale, attraverso la moneta, avrebbe esercitato di fatto una dittatura monetaria nella comunità. Pertanto, il presidente francese François Mitterand pensò che la Germania unita non sarebbe stata un problema, se le si fosse «tolto» il marco. Facendo della fortissima moneta tedesca una moneta comune europea, si avrebbe avuto il risultato di una «Germania europea», saldamente ancorata all’asse renano con la Francia. Come dire: «usciamo dall’impasse con più Europa». A crederci poco fu la Thatcher, che rispose al presidente francese: «Più che una Germania europea, avrai una Europa tedesca». L’esperimento era ardito: una moneta che precedeva la costituzione dello Stato, quindi, per un certo periodo, una moneta senza Stato. Per la verità, se ne parlava da tempo, tanto che nel 1972 si formò il cd. «serpente monetario europeo», primo avvio di un coordinamento monetario del vecchio continente. A mettere in guardia contro l’alta probabilità di insuccesso della moneta senza Stato era stato Nicholas Kaldor, uno dei più grandi economisti del Novecento, in un suo importante saggio 17 poi dimenticato, ma che molti farebbero bene a rileggere oggi. 18 Alla base, dunque, ci fu il calcolo politico di Mitterrand, ma dopo il progetto seguì una strada strettamente economicistica. Il paradosso principale 251

di questa moneta è proprio il fatto di essere stata pensata in vista di una operazione politica e poi progettata in termini esclusivamente economici, ignorando ogni particolarità nazionale, politica o culturale che fosse. 19 Via via, la decisione si caricò di molti altri «fini virtuosi» che rendevano desiderabile l’esperimento della moneta comune: l’eliminazione delle spese di cambio avrebbe comportato di per sé economie pari a qualche punto percentuale di Pil; la moneta unica avrebbe innescato un processo di convergenza delle diverse economie del continente rendendole più simili fra loro; tutto questo avrebbe accelerato il processo di unità politica che sarebbe avvenuto in tempi non lontani; la moneta europea, forte del mercato più importante del mondo (tale era l’Europa al tempo 20 ), avrebbe fatto concorrenza al dollaro affiancandolo come moneta di riferimento internazionale. Un crescendo di ubriacatura ideologica spingeva a credere che tutti questi obiettivi sarebbero stati raggiunti in breve, forse in poco meno di un decennio. Ma, già dalla sua formazione, il processo iniziò a 252

incamminarsi su strade diverse, modificando il progetto originario. Di recente Giuseppe Guarino ha dimostrato come l’euro sia andato trasformandosi nel suo iter formativo, abbandonando l’impostazione del Trattato di Maastricht, che, ancora, prevedeva obiettivi di crescita anche a prezzo di indebitamento, per approdare al regolamento 1466/97, che ha soppresso l’unico spazio di attività politica soggetto all’influenza dei cittadini dei singoli stati membri, lo spazio delle politiche economiche a mezzo delle quali ciascun paese membro avrebbe potuto e dovuto concorrere al perseguimento dello sviluppo. 21

Di fatto, l’unico vincolo per i paesi membri, sin dal 1999, divenne quello del pareggio di bilancio. Ma ancora più interessante è ricordare la forzatura dei termini stessi del trattato istitutivo della moneta, che, proprio per evitare la presenza di economie troppo distanti fra loro, prevedevano tre condizioni per i paesi aderenti: un debito pubblico non superiore al 60% del Pil, un tasso di inflazione non superiore al 3% e un disavanzo annuale non superiore al 3%. E, conseguentemente, si stabiliva che i paesi che non possedessero questi requisiti – o non intendessero aderire subito – avrebbero potuto entrare nell’Eurozona (distinta dalla Ue) in un secondo momento. Ben presto fu chiaro che i paesi dell’Europa mediterranea non sarebbero stati in grado di 253

soddisfare quelle condizioni – come abbiamo detto – e il problema riguardava in particolare l’Italia, che aveva il debito pubblico più alto, in base al Pil, e che, a differenza di Portogallo, Grecia e anche Spagna, rappresentava una percentuale troppo rilevante sul Pil europeo perché la cosa non avesse riflessi sulla stabilità della moneta. Tanto è vero che il governo Dini fissò il 1998 (e non il 1997, come le condizioni del trattato avrebbero richiesto) come termine per il raggiungimento almeno delle due condizioni minori e, pertanto, si prefigurava un ingresso dell’Italia in un secondo tempo e sperando in una deroga per il parametro sul debito. Dunque, ci si concentrò sul contenimento dell’inflazione (peraltro di per sé bassa in quel tempo). Paradossalmente, fu proprio la Germania a «far saltare il banco» e per motivi oggi ben illustrati dall’allora ministro Visco nella citata intervista: Entrammo con il deficit al 2,7% del Pil, facendo l’eurotassa. Quando la sinistra tornò all’opposizione, nel 2001, lasciammo un avanzo primario di 5 punti, quello che adesso si cerca invano di raggiungere. I nostri guai derivano dalle scelte successive: si doveva continuare con il rigore, come richiedeva l’euro. Ma al governo c’era il centrodestra, da sempre ostile alla moneta unica, e le sue politiche hanno messo le basi dei guai attuali. […] Se uno vuole stare nell’euro deve mantenere il bilancio con un surplus primario, c’è poco da fare […] Si decise di provarci comunque per il 1997. Ma l’unico modo era fare una manovra dal lato delle entrate, il lavoro sporco fu delegato a me. 22

Dunque era ben chiaro ai governanti del tempo 254

(un governo di centro-sinistra presieduto da Romano Prodi) che l’ingresso nell’euro avrebbe tolto vantaggio competitivo alle nostre esportazioni, ma, evidentemente, le pressioni tedesche furono irresistibili e il ministro Visco si accinse al «lavoro sporco», che, essendo uomo d’onore, fece con grande impegno, portando la pressione fiscale ai livelli più alti della Ue. L’Italia, che fu funzionale all’«euro-marco» all’inizio, è il problema del «marco-euro» di oggi. Ma ciò fa parte di questo esperimento di «moneta senza Stato» che ne fa un unico al mondo. Peraltro, questa moneta presenta diversi aspetti davvero insoliti e particolari, alcuni di scarso rilievo (ad esempio il fatto che le banconote sono emesse dalla Bce e la moneta divisionale dalle banche nazionali), altri che destano maggiore curiosità. Se ci è consentita una piccola digressione, chi esaminasse una banconota euro con attenzione, sul retto delle banconote, accanto alla striscia in alto che riporta la sigla della Bce nei vari acronimi nazionali, sulla sinistra scorgerebbe un piccolissimo segno di copyright, che non compare in nessuna altra moneta al mondo. E pour cause: il copyright (letteralmente «diritto di copia») tutela il diritti di proprietà intellettuale, per cui proibisce la riproduzione non autorizzata di un’opera dell’ingegno (un brano musicale, un film, un’opera letteraria ecc.), in alcuni 255

ordinamenti la tutela comporta solo sanzioni di natura civilistica, in altri anche di natura penale. Ma si immagina che una moneta sia garantita nei confronti dei falsari da apposite leggi penali ben più severe. E, dunque, che bisogno c’è del copyright? E allora, giusto per una sorta di divertimento intellettuale, se un avvocato difensore sostenesse che i suoi assistiti debbono rispondere di violazione delle norme sul copyright e non del reato di falsificazione di moneta, 23 magari adducendo che la moneta è un attributo della sovranità e che il soggetto emittente, la Bce, non è soggetto di sovranità, questa linea difensiva apparirebbe così infondata? Certo, riflessioni al limite del sofisma, se vogliamo, ma allora perché c’è quel simbolo sulle banconote? Una moneta proprio insolita.

È possibile un altro euro? A distanza di un decennio dall’entrata in vigore dell’euro, è possibile un bilancio sugli obiettivi che esso si era dati: 1. «Germania europea»: sembra non ci siano dubbi sul fatto che sia stata la Thatcher ad aver avuto ragione e non Mitterand, l’asse franco-tedesco è franato e abbiamo, piuttosto, una «Europa 256

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tedesca»; risparmio sul tasso di cambio: c’è stato, anche se un po’ inferiore alle aspettative, ma, soprattutto, è stato un beneficio transitorio esauritosi già nei primi anni; convergenza delle diverse economie: la moneta unica non ha innescato nessuna convergenza, ma, al contrario, le diverse economie sono ancora più divaricanti; unità politica: non si è realizzata e, dopo le bocciature referendarie del 2005, appare ancora più lontana; affiancamento con il dollaro: l’euro è la seconda moneta negli scambi mondiali, ma non ha affatto intaccato la posizione egemone del dollaro.

Dunque, un bilancio nettamente in passivo che, per logica, richiederebbe un profondo ripensamento. C’è chi propone nuovi poteri autonomi della Bce («Che dovrebbe essere prestatore di ultima istanza come la Fed»), chi di affiancare alla Bce l’unione fiscale europea, chi l’unione bancaria. In realtà, diversi di questi suggerimenti dimenticano i vincoli dei trattati e la natura dell’euro come «moneta senza Stato»: la Fed può fare quello che fa proprio perché è la moneta di uno Stato, e ha piena sovranità sull’emissione di liquidità e sul tasso di sconto. Per dotare la Bce di questi poteri occorre un accordo di 257

tutti, il che significa scontrarsi con Germania, Olanda, Austria, Finlandia. Quanto all’unione fiscale, osserva giustamente Bagnai, «se la soluzione era così ovvia perché non ci si è pensato prima?». 24 Peraltro è cosa più facile a dirsi che a farsi: in una Europa che impone il fiscal compact, può accadere che la «formica virtuosa» Olanda vampirizzi le «cicale» portoghesi o italiane, attirando capitali con aliquote fiscali molto basse, che rendono conveniente spostare lì la sede fiscale, 25 ma proibisce alle «cicale» di abbassare le proprie aliquote, per raggiungere il mitico pareggio di bilancio, condannandole, quindi, al dissanguamento. E, allora, quando si parla di «unione fiscale» a che condizioni la si vorrebbe realizzare? Applicando aliquote uguali in tutta l’Unione? Non pare che questo lo proponga nessuno e, d’altra parte, è assai dubbio che le virtuose formiche del Nord accetterebbero. Per cui, di che unione fiscale si parla? In realtà, qualsiasi ragionamento passa per una intesa politica con Berlino, che riguarderebbe non solo la moneta, ma anche il costo del lavoro, in funzione di riequilibrare la bilancia commerciale. 26 Ma la Germania che interesse avrebbe a un simile negoziato? Chi propone questo accordo pensa che la Germania abbia interesse a non ammazzare il proprio principale mercato di sbocco, che è il resto 258

d’Europa, a cominciare da quella latina. Questo ragionamento, però, non tiene conto di importanti cambiamenti intervenuti dal 2009 in poi, che hanno segnalato un crescente interscambio verso Oriente (Russia e Cina in primo luogo, ma anche Turchia, Polonia, Kazakistan, Corea del Sud e, più in là, Indonesia). E il partner principale, in prospettiva, è la Russia, che è il suo esatto complementare: ricchissima di materie prime, ma povera di cultura manageriale, debole tecnologicamente, con una rete infrastrutturale pietosa e riserve finanziarie non abbondantissime. I tedeschi, al contrario, sono poveri di materie prime, ma ricchi di tecnologia, riserve finanziarie e cultura manageriale. Dunque, l’attrazione verso Est è nei fatti, prima ancora che nei progetti, e costituisce una formidabile carta di riserva al probabile indebolimento dei mercati dell’Europa meridionale e della Francia. E la moneta forte non è un impedimento in questo senso: anzi, permette di comprare a prezzi buoni le commodities russe consentendo a Mosca di rafforzare le sue riserve finanziarie, mentre l’assistenza nella costruzione delle reti infrastrutturali sarebbe l’ideale locomotiva per l’esportazione dei prodotti tecnologicamente avanzati delle industrie tedesche. E non è affatto un caso che, in materia di politica energetica, la Germania sia nettamente schierata con la Russia (si pensi a Northstream) e veda con 259

sfavore gasdotti alternativi che portino in Europa il gas mediorientale. Questa tendenza ha avuto una battuta d’arresto con la crisi ucraina e le conseguenti sanzioni economiche, ma, a meno della deprecata ipotesi di una guerra locale che accenda un conflitto generalizzato, è ragionevole pensare che riprenda, e con maggior vigore, quando la crisi dovesse essere superata. Nel frattempo, questa pausa nella «marcia verso Est» della Germania ha avuto il suo lato positivo, perché ha prodotto il blocco degli ingenti depositi russi nelle banche tedesche, il che, per la verità, ne ha consolidato la posizione in un momento assai difficile per le banche tedesche, che, per di più, devono passare l’esame di Basilea III. Tuttavia, superato questo particolare momento, è ragionevole che la Germania torni a considerare con comprensione le ragioni russe anche nella questione ucraina e le cose riprenderanno come prima. Peraltro, se è vero che, come paese manifatturiero ed esportatore, avrebbe tutta la convenienza a una moneta debole, per rendere competitive le sue merci, è anche vero che la Germania può fare affidamento sulla notevole appetibilità tecnologica dei suoi prodotti, che rende il loro acquisto non comprimibile oltre un certo livello. Si pensi all’acquisto di macchine industriali: in teoria un prezzo più vantaggioso dovrebbe 260

spingere l’acquirente a preferire l’offerta di un concorrente, ma questo potrebbe significare maggiore deperibilità o rischio di più rapida obsolescenza del macchinario o minore produttività. Sul lungo periodo, preferire una tecnologia acquistata a buon mercato, ma meno avanzata, determinerebbe un declassamento dell’azienda che avesse fatto questa scelta, avviandola verso la marginalità di mercato. Dunque, il rapporto qualità/prezzo, nel caso tedesco, consente prezzi più alti, anche se entro livelli di ragionevolezza economica. In altri termini: una moneta più debole, e, di conseguenza, dei prezzi più bassi delle merci tedesche sul mercato internazionale, difficilmente provocherebbero un aumento di vendite tale da compensare la perdita del margine di guadagno per pezzo, perché il mercato già assorbe una quantità elevata di quelle merci ai prezzi attuali. E d’altro canto, la Germania, oltre che ai mercati orientali, guarda con interesse a quelli sudamericani. Torniamo al discorso di prima: la Germania ha avuto dal primo momento una sua strategia per entrare nel mondo della globalizzazione, e ha visto molto più lontano dei suoi sfortunati partner europei. Ma, soprattutto, ci sono due ottimi motivi per i quali alla Germania sta bene l’euro così come è: essendo un paese creditore nei confronti degli altri europei, non ha alcun interesse a veder deprezzare la moneta 261

con cui sono denominati in parte sostanziosa i suoi crediti. In secondo luogo, la moneta «forte» consente alla Germania di rifinanziare il suo debito pubblico a costi limitatissimi degli interessi, tanto bassi da essere in alcuni momenti quasi inferiori al tasso di inflazione, dunque da diventare interessi negativi. Ma questo costo così basso è dovuto alla combinazione fra l’immagine di solidità dell’economia tedesca e una moneta stabile su livelli alti, che fa dei bond tedeschi un ottimo bene rifugio, tale da accettare anche interessi quasi nulli in cambio della sicurezza del capitale investito. E pertanto, mentre le economie del sud-Europa hanno bisogno di svalutare la moneta per rendere gestibile il loro debito, la Germania non ha interesse a questa soluzione, perché può gestire diversamente il problema del suo debito grazie ai bassissimi interessi e alle diverse prospettive che consentono di far calare il debito grazie alla crescita. C’è, infine, un ultimo motivo di ordine non economico ma storico-psicologico: per i tedeschi la moneta stabile non è una scelta economica, è un dogma di fede. L’esperienza dell’iperinflazione di Weimar ha scavato profondamente nella memoria dei tedeschi, passando da una generazione all’altra. Per i tedeschi fu l’iperinflazione a spalancare la porta all’inferno nazista con tutto quel che ne conseguì. Storicamente non è vero, perché 262

l’iperinflazione si arrestò nel novembre 1923 con il passaggio al nuovo marco, mentre a spianare la strada a Hitler, semmai, furono le misure di austerità del governo Bruning. Ma questo passaggio è totalmente rimosso 27 e il dogma della stabilità della moneta forte è la base della filosofia economica della Bundesbank così come dell’immaginario del tedesco medio. A Berlino, nessun governo sfiderebbe mai questo tabù. La totale anelasticità dell’euro, anche in presenza di emergenze che ne richiederebbero un impiego molto più flessibile, non viene dal caso o da una qualche particolare testardaggine o avarizia dei tedeschi, ma dall’equilibrio su cui si regge la costruzione europea, con i suoi veti, la sua architettura, dalla profonda disomogeneità delle sue tre aree. Il sistema politico tedesco si regge in gran parte sulla «moneta forte», che ha permesso di garantire la stabilità dei prezzi e dei livelli occupazionali (quel che ha spinto i sindacati ad accettare una dinamica salariale così poco remunerativa), ha garantito l’acquisto delle materie prime a prezzi favorevoli (con grande apprezzamento degli industriali), ha garantito la solidità dei crediti (con ovvio gradimento delle banche) ecc. Ogni scelta di moneta «debole» (o, peggio, di messa in comune del debito) minerebbe la compattezza di questo consenso. Perché mai Berlino 263

dovrebbe farlo, considerando che quello dei tedeschi è sempre stato un europeismo molto freddo e calcolato? Infatti la Germania ha già ricavato dall’Europa tutto quello che poteva ricavare in termini di rilegittimazione internazionale e oggi ha concretissime alternative alla sua attuale collocazione internazionale. La Germania non è interessata ad altro che al mantenimento di una Ue che accetti il suo ruolo egemone e sia funzionale alle sue nuove politiche di potenza. In questo quadro, l’Italia, con il suo grande debito, rappresenta il locus minori resistentiae da vigilare con maggior attenzione e severità. Il maggiore fra i vincoli esterni dell’Italia è proprio questa catena che passa per Bruxelles e Francoforte per arrivare a Berlino. Quando Schauble dice «Atene», in realtà, pensa «Roma».

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Capitolo quinto Istituzioni e politica nella Seconda Repubblica

La decostituzionalizzazione dell’ordinamento e il deperimento dello Stato centrale La globalizzazione ha portato con sé profonde trasformazioni del diritto e l’aspetto più rilevante è stato il processo di decostituzionalizzazione degli ordinamenti, perché le Costituzioni appartengono ai singoli ordinamenti nazionali, sempre più subordinati alla fitta rete di accordi internazionali e organismi sovranazionali. In Europa questo è stato ancora più accentuato per il ruolo del Parlamento e della Commissione come centri di produzione normativa, che prevalgono sulle Costituzioni dei singoli paesi, ma 265

non sono, a loro volta, limitati da una Costituzione europea (salvo il Trattato di Lisbona, che sta a una vera Costituzione come un plastico a un quartiere effettivamente costruito). In Italia questo è stato sancito da una serie di sentenze della Corte Costituzionale, che hanno aperto la strada a una reinterpretazione della stessa Costituzione alla luce delle norme comunitarie, anche in riferimento all’immediata applicabilità interna delle decisioni della Corte europea di Strasburgo. Ma il vulnus più grave inferto all’ordinamento costituzionale italiano è quello prodotto dal referendum sulla legge elettorale del 18 aprile 1993. Non stiamo qui a ripetere quanto già detto a proposito del rapporto fra legge proporzionale e architettura costituzionale, ci interessa piuttosto richiamare l’attenzione sugli effetti psicologici e politici di quel referendum. Per quanto i giudici costituzionali del tempo si siano (sciaguratamente) affannati a sostenere la perfetta compatibilità fra il testo costituzionale e il nuovo ordinamento elettorale maggioritario (istigati in questo dall’allora Pds), il «messaggio» che è giunto agli elettori era quello del superamento della Costituzione del 1948, di cui il mutamento elettorale era solo il primo passo. 1 E, infatti, tutti, cittadini, partiti e mass media, iniziarono a parlare di «Seconda Repubblica», dando per scontato che, a quella elettorale, sarebbe seguita 266

la riforma della Costituzione, con una forte propensione per il modello presidenziale, anticipato dalla stessa comparsa del nome del candidato premier sulle schede elettorali. E sul mutamento della forma di governo operò la «Commissione D’Alema» fra il 1996 e il 1998, ma approdando aun nulla di fatto. Dopo di che il percorso delle riforme istituzionali è proseguito sterilmente per un ventennio, ma lasciando sullo sfondo la questione della forma di governo e concentrandosi sulle ripetute – e fallimentari – riforme dell’ordinamento regionale e delle leggi elettorali, per approdare al fallimento finale della riforma Napolitano-Renzi. Nel complesso, una riforma costituzionale «a rate» erratica e sgangherata, priva di qualsiasi organicità e progettualità, che non sia quella di blindare i partiti maggiori e il loro ceto politico. La riforma è diventata un processo senza fine e giustamente c’è chi parla, ormai da molto tempo, di transizione «infinita», 2 chi «lunga» 3 chi «interminabile», 4 e c’è chi si chiede come «chiudere la transizione». 5 L’esito di questo stravagante assemblaggio fra forma di governo parlamentare, legge elettorale maggioritaria, devolution e prassi irrituale (di cui diremo) ecc. non ha prodotto un nuovo ordinamento costituzionale, ma la riduzione di quello attuale al rango di «Costituzione provvisoria» e più o meno modificabile per via ordinaria. Di fatto, quasi la 267

flessibilità dello Statuto, che fu la principale causa della sua progressiva inoperosità, poi conclamata dal 1915, si sta riproponendo in questi anni con l’attuale Costituzione. Anche se è possibile sperare che il perentorio risultato del 4 dicembre 2016 metta un punto fermo sulla questione, riconsacrando la carta del 1948 come la Carta fondativa dell’identità repubblicana del paese. E questo accompagna e approfondisce il processo di deperimento dello Stato centrale. Nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, c’è stato un sensibile declino dello Stato centrale, che ha perso quote di potere sia verso l’alto, sia verso il basso, sia «di fianco». Verso l’alto c’è stato un crescente trasferimento di quote di sovranità verso la Ue, di cui la perdita della sovranità monetaria è stato l’aspetto più cospicuo ma non unico. Verso il basso, con il trasferimento di importanti competenze (a cominciare dalla sanità) verso gli enti locali, con l’infelice riforma del titolo V della Costituzione. Quanto alla perdita di potere decisionale «di fianco», ci riferiamo alla nascita delle authority – che costituiscono veri e propri contraltari tecnocratici al governo – e alle privatizzazioni, che, determinando lo scioglimento delle Ppss (del caso particolare dell’Eni parliamo a parte), hanno privato 268

il governo del suo principale strumento di politica industriale.

Il presidente forte Uno degli esiti imprevisti della riforma elettorale del 1993, e del passaggio al sistema maggioritario, è stato il rafforzamento del ruolo del presidente della Repubblica. In teoria, la formazione di una maggioranza precostituita e la contestuale individuazione del capo del governo nel leader della coalizione vincente avrebbero dovuto ridurre considerevolmente due delle principali attribuzioni presidenziali: la scelta del presidente del Consiglio e quella dei ministri (attribuzioni che diventavano pura formalità). Inoltre, il passaggio al maggioritario avrebbe dovuto comportare la formazione di «governi di legislatura», per cui quello del presidente sarebbe stato sempre più un «potere silente». Le cose sono andate diversamente, anche perché il progetto di un sistema bipartitico si arenò sin dalle prime battute: l’Italia non ha un sistema bipartitico, né mai lo avrà, perché – come si è detto – è caratterizzata da una pluralità di linee di frattura che si intersecano, dando vita ad una serie di «zolle» politiche irriducibili l’una all’altra. Pertanto, si 269

ripiegò su un modesto bipolarismo la cui legge non scritta era: «Chi si divide perde, ma chi vince non governa». In 23 anni di sistema maggioritario (dal maggio 1994 al marzo 2017), si sono alternati 13 governi, con una durata media di 641 giorni (meno della metà della durata di una legislatura) e non un solo governo è durato tutta la legislatura: nel 1994 fu la Lega di Bossi a rompere il patto con Berlusconi dopo soli sette mesi; nel 1998 Rifondazione Comunista uscì dalla maggioranza di centro-sinistra, facendo cadere il governo Prodi, cui successe il governo D’Alema (sostenuto dal gruppo parlamentare mastelliano uscito dalla coalizione di centro-destra) che, nel giugno 2000, si dimise a sua volta per le tensioni interne alla maggioranza, lasciando il posto ad Amato; nel 2005 fu l’Udc di Casini a provocare la caduta del governo Berlusconi, cui seguì un nuovo governo Berlusconi che concesse la riforma del sistema elettorale con il «Porcellum»; nel 2008, dopo le fibrillazioni prodotte da Rifondazione Comunista sul rifinanziamento delle missioni militari in Afghanistan e Iraq, furono i gruppi di Dini e Mastella a far cadere Prodi e aprire la strada alle elezioni anticipate; nel 2010 la scissione di Fini dal Pdl ridusse ai 270

minimi termini la maggioranza di centro-destra, che poi crollò definitivamente nel novembre 2011 sotto i colpi dello spread; nel 2014 il governo Letta (sostenuto da una maggioranza diversa da quella che aveva vinto le elezioni) cadeva dopo meno di un anno per essere stato sostanzialmente sfiduciato dal suo stesso partito, che, però, lo invitava a «star sereno». Come si vede, nessuna coalizione ha resistito senza registrare rotture che hanno portato al crollo del governo. E in questi casi il ruolo e la funzione del capo dello Stato sono diventati ancor più penetranti del passato: nel 1994, di fronte alla richiesta del centro-destra di immediate elezioni dopo la caduta del governo, l’allora presidente Scalfaro incaricò Lamberto Dini di comporre un governo «di decantazione», che ebbe la fiducia di una maggioranza (Lega, Ppi, Pds e alleati minori, fra cui una parte di Rifondazione) diversa da quella che aveva vinto le elezioni. Si parlò di «ribaltone», cioè di qualcosa che aveva sovvertito il voto popolare, ma, dagli altri, venne impeccabilmente argomentato che la forma di governo vigente è quella di una Repubblica parlamentare, per cui, se c’è una maggioranza, 271

non si dà luogo a scioglimento delle Camere; ugualmente, nel 1998, il governo D’Alema sorse grazie all’appoggio di una scissione di Rifondazione (il Pdci), ma, soprattutto, grazie al passaggio alla coalizione di centro-sinistra dell’Udeur di Clemente Mastella, che si distaccava dal centro-destra, scissioni cautamente incoraggiate dal presidente Scalfaro; ma fu soprattutto nell’autunno del 2011 che il capo dello Stato, Napolitano, ebbe un ruolo direttamente politico nella formazione del governo Monti dopo la caduta di Berlusconi. Il ruolo del capo dello Stato ha subito una dilatazione crescente sin dalla presidenza Pertini 6 e poi in quella di Cossiga e di Scalfaro, ma è con la presidenza Napolitano che esso ha raggiunto la sua massima espansione. 7 Va detto che la tendenza a strabordare di Napolitano è stata parzialmente invertita dal suo successore, Sergio Mattarella, ben più sobrio nelle sue esternazioni. Ma va anche detto che Mattarella ha esercitato un ruolo propriamente politico nel rifiuto di sciogliere le Camere e formare il governo Gentiloni, e questo nonostante si trattasse di un Parlamento eletto con una legge dichiarata incostituzionale, che era stato sonoramente sconfessato dall’elettorato sulla riforma della Costituzione (che era lo scopo per il quale ne era 272

stata decisa la sopravvivenza), nel quale oltre un terzo dei membri ha cambiato partito e nel quale ci sono 23 gruppi parlamentari, dei quali solo 4 erano presenti sulla scheda elettorale del 2013. E se non è questo il caso di un Parlamento non più rappresentativo della Nazione, ditemi cosa altro dovrebbe accadere. Dunque, nessun dubbio sul carattere politico della decisione di mantenere in vita ancora 16 mesi queste Camere. Tornando a Napolitano, non c’è dubbio che abbia usato, ben più di Cossiga, il suo potere di esternazione, intervenendo nelle materie più disparate: dall’indulto alla legge elettorale, dalla penalizzazione del negazionismo storico alla legge di stabilità, dalla riforma della giustizia alla normativa in materia di immigrazione ecc. Anche in materia di «canone storico», il presidente non si è risparmiato, intervenendo su temi come la strategia della tensione, il bilancio di 150 anni di unità nazionale, la storia delle relazioni internazionali della Prima Repubblica ecc., pure se, di questa funzione pedagogica del capo dello Stato, non si rinviene traccia nel testo costituzionale. Persino i risultati elettorali sono vivacemente commentati da un’autorità che, non fosse altro per il suo ruolo super partes, sarebbe meglio non si pronunciasse. Questa incontinentia exprimendi ha avuto una palese funzione politica. A partire dall’insediamento 273

del governo Monti, Napolitano si è comportato esattamente come il presidente della Repubblica francese: una sorta di super-presidente del Consiglio, con un’unica variazione di rilievo: nel caso francese il capo dello Stato presiede il Consiglio dei ministri (art. 32 Costituzione della Repubblica francese), qui non ancora, ma il presidente, nel 2014, convocò alla sua presenza i capigruppo della maggioranza per un incontro collegiale: una cosa senza alcun precedente. In diverse occasioni il presidente ha esplicitamente legato la sua permanenza al Quirinale a precise condizioni quali l’approvazione delle riforme costituzionali e, di conseguenza, la permanenza in carica del governo Letta e la sopravvivenza della legislatura almeno sino al 2015. Sin qui, non era mai accaduto che un presidente condizionasse la sua permanenza alla sopravvivenza di un determinato governo (anche se poi Napolitano è restato altri 10 mesi dopo la caduta di Letta). E questo sia perché, legando la sua sorte a quella di un governo o di una maggioranza, il presidente cessa la sua funzione arbitrale (che è tale anche fra governo e opposizione), sia perché l’eventuale crisi di governo minaccerebbe di trasformarsi in una crisi istituzionale senza precedenti, sommando le dimissioni del capo dello Stato a quelle del presidente del Consiglio. È vero che il presidente del 274

Senato assumerebbe ipso facto le funzioni di capo dello Stato, ma, se si rendesse necessario sciogliere le Camere, il presidente provvisorio avrebbe il potere di farlo? Dunque, queste continue esternazioni (sostenute dalla minaccia di dimissioni) hanno avuto la funzione di dettare l’agenda al governo e alla maggioranza parlamentare. E già questo segnala una tacita trasformazione della forma di governo attraverso l’alterazione dei rapporti funzionali fra i vari soggetti costituzionali. Quel che è ulteriormente sottolineato dal ruolo del capo dello Stato quale rappresentante internazionale del paese. In passato ci sono stati presidenti che hanno perseguito di fatto indirizzi di politica internazionale divergenti da quelli del governo: su questo piano, Gronchi fu sicuramente più in sintonia con l’Eni che con il governo, Saragat ebbe una sua politica iperatlantica spesso confliggente con quella dell’allora ministro degli Esteri Moro, e di Cossiga potremmo dire cose analoghe. Ma con Napolitano è accaduto qualcosa di più: in particolare con il manifestarsi della crisi del nostro debito sovrano, il presidente ha assunto una funzione di vero e unico punto di riferimento della diplomazia internazionale, e si pensi alla famosa telefonata della Merkel che, a rigore, avrebbe dovuto esser fatta all’allora presidente del Consiglio 275

Berlusconi, anche se va detto che, nell’eccezionalità della situazione, incideva l’impresentabilità internazionale di Berlusconi. Dunque, non tutto può essere fatto risalire alla volontà di Giorgio Napolitano, occorrendo tener presente le dinamiche oggettive in atto. Questo, tuttavia, non toglie che delle trasformazioni istituzionali si siano determinate e questo anche grazie al persistere della prassi di Napolitano, anche dopo la caduta del governo Berlusconi. Anzi, con Monti, la proiezione internazionale del capo dello Stato si è accentuata ancor più, per culminare nel viaggio a Berlino nel giorno stesso delle elezioni politiche (altro episodio senza precedenti), della cui inopportunità c’è poco da dire e dei cui contenuti, peraltro, abbiamo saputo poco o nulla. Qui si segnala una sostanziale trasformazione del ruolo del capo dello Stato da garante della Costituzione in garante dei trattati internazionali sottoscritti dal paese (in primis quelli relativi all’adesione all’euro) e del suo debito pubblico. In questo senso il presidente finisce per avere una funzione a due facce: una di rappresentanza del paese verso l’estero (come è giusto che sia) ma l’altra di rappresentante della comunità internazionale, e in particolare quella europea verso l’Italia, il che è più insolito. Il processo di trasformazione istituzionale diventa più chiaro se i 276

comportamenti del presidente vengono letti insieme all’introduzione in Costituzione del vincolo di pareggio di bilancio. Così come acquista un senso ancora più preciso il processo di revisione costituzionale avviato proprio su ispirazione del presidente, con una prassi assolutamente non conforme al dettato costituzionale. Il punto non sta solo nel merito delle riforme prospettate (abolizione del bicameralismo perfetto, abolizione del Cnel, ricentralizzazione di alcuni poteri ora delegati alle Regioni ecc.) quanto in quello delle procedure. Per due volte, il presidente ha promosso (la seconda volta con legge votata dal Parlamento) una riforma costituzionale affidata a una commissione di «saggi» che avrebbe dovuto elaborare il nuovo testo e, nella seconda occasione, da sottoporre alle Camere ma non emendabile e da accettare o respingere in blocco. Apparentemente qualcosa di simile alla «Commissione dei 75» dell’Assemblea Costituente, nei fatti qualcosa di molto diverso, sia perché i membri della Commissione dei 75 erano tutti deputati dell’Assemblea, sia perché il loro progetto era emendabile (e fu poi effettivamente emendato in più parti) dall’Assemblea plenaria. Il punto è che si parlò di occasionale «deroga» alle procedure di revisione previste dall’art. 138, introdotta da una revisione compiuta attraverso le procedure del 138. Ma la Costituzione non prevede 277

alcuna possibilità di deroga: si può riformare l’art. 138 e, da quel momento in poi, eventuali revisioni seguirebbero le nuove modalità, ma non è possibile fare una legge di deroga, per una singola occasione ad hoc: in una Costituzione rigida non esiste il concetto di emergenza, per il quale si può derogare occasionalmente da essa. Tale discutibile soluzione si rese necessaria perché la prassi adottata era semplicemente incostituzionalizzabile. Per riassorbire in Costituzione la procedura in questione, si sarebbe dovuto modificare l’art. 138 in questo modo: «Il progetto di revisione costituzionale è affidato a un comitato di saggi scelti fuori dal Parlamento e di nomina governativa, la cui lista sia successivamente approvata dal Parlamento. A tale comitato spetta la redazione definitiva e inemendabile della riforma da sottoporre all’approvazione delle Camere». Il che non ha riscontri in qualsiasi altro testo costituzionale nel mondo. 8 Ed ecco, allora, lo stravagante escamotage della «deroga», che, tutto sommato, ha allungato i tempi e che, per di più, non ha avuto successo. La cosa acquista senso dove si comprenda che il succo della questione è nel precedente che avrebbe aperto la porta a ben altre modifiche della Carta costituzionale. A rendere la cosa ancor più simile ad una rottura 278

costituzionale è la circostanza che vede il promotore nel presidente della Repubblica, cui spetterebbe, semmai, il dovere di difendere la Costituzione vigente, avendo giurato di osservarla fedelmente. A tutto questo occorre aggiungere che, anche nell’esercizio delle sue attribuzioni sussidiarie, Napolitano ha manifestato una certa irritualità. È il caso del modo in cui ha usato il potere di grazia nel caso del colonnello Joseph Romano, condannato per il rapimento di Abu Omar. Poco dopo il suo primo insediamento, Napolitano aveva fatto sapere che, per criteri di opportunità, non avrebbe concesso la grazia in caso di condanne troppo recenti, per evitare di far sembrare l’atto una sorta di quarto grado di giudizio. Ma dal momento della sentenza passata in giudicato a quello della grazia a Romano erano passati meno di sei mesi. La deroga (ancora una deroga!) al principio generale veniva giustificata con l’opportunità di adottare un principio che si sarebbe invocato per la vicenda dei nostri marò arrestati in India. Peraltro, solo dieci giorni prima della decisione presidenziale, la grazia era stata sollecitata dal presidente Usa Barak Obama. Non è chiaro per quale motivo l’India avrebbe dovuto far proprio un criterio di clemenza usato dall’Italia per un condannato statunitense (e, infatti, non è andata così), ma è chiaro che il presidente intende il potere di grazia come un atto eminentemente politico e, in 279

questo caso, di politica estera. E infatti, nel caso di Sofri, il presidente Ciampi aveva concesso la grazia, ma il ministro Castelli non l’aveva controfirmata, bloccandola. Ne era seguito conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale, che dette ragione al presidente Ciampi. Ne sarebbe conseguito che la grazia diventasse operativa, ma, nel frattempo, Ciampi giungeva a fine mandato. Se non altro per un minimo di fair play nei confronti del predecessore, sarebbe stato opportuno che il presidente Napolitano desse seguito alla grazia, quel che non accadde perché il capo dello Stato, forse memore di antiche ruggini fra il suo partito e Sofri, non ritenne di farlo. Anche nella nomina dei senatori a vita è palmare che si sia trattato di precise scelte politiche, pensate a supporto di una particolare formula di governo. Non sono certamente in dubbio gli alti meriti, ad esempio, di Carlo Rubbia, Renzo Piano e Claudio Abbado, ma che siano stati scelti tutti in una precisa area politica – come poi ha dimostrato il loro conseguente comportamento di voto – è un fatto. Ad esempio, si poteva pensare anche a Dario Fo – che è un Premio Nobel al pari di Rubbia –, ma abbiamo il sospetto che a questo proposito abbia pesato il dubbio di un possibile voto contrario al governo Letta. Dunque, l’insieme della prassi di Napolitano suggerisce l’immagine di un capo dello Stato che 280

persegue un preciso indirizzo politico e con tutti i mezzi a sua disposizione. Ma può il presidente della Repubblica avere un suo indirizzo politico? Si badi, non un indirizzo costituzionale, che rientra perfettamente nelle sue funzioni arbitrali, ma un indirizzo propriamente politico di governo, come nel caso di una repubblica presidenziale o semipresidenziale. Forse, nei fatti, siamo più vicini al modello di Parigi di quanto non ci si accorga.

Il governo Abbiamo già detto che per una prima regolarizzazione amministrativa della presidenza del Consiglio (sin lì inesistente come ente giuridico a sé stante, le cui spese erano coperte dal Ministero del Tesoro e il cui personale era distaccato dalle amministrazioni di provenienza) si dovette attendere la legge 23 agosto 1988 n. 400. Questo rifletteva il processo di graduale rafforzamento del presidente del Consiglio dagli anni cinquanta in poi, e che, dagli anni ottanta, faceva intravedere uno sbocco costituzionale simile al Cancellierato, se non proprio a un semipresidenzialismo: orientamenti che si manifestarono in particolare con la «Commissione bicamerale Bozzi» nei primi anni ottanta. Ormai si pensava di costituzionalizzare i mutamenti già 281

intervenuti della prassi, che vedevano l’esecutivo prevalere sul legislativo, e il presidente del Consiglio sull’organo collegiale. 9 In teoria la svolta del maggioritario avrebbe dovuto approdare a una figura del capo del governo ancora più forte e la presidenza del Consiglio sarebbe diventata anche formalmente il centro di imputazione del potere reale. Ma le cose non sono andate così e, paradossalmente, Palazzo Chigi ha perso terreno rispetto ad altri palazzi, salvo la parentesi renziana di cui diremo. Come abbiamo visto, sicuramente rispetto al Quirinale. Come vedremo, rispetto alla Corte dei Conti e alla Ragioneria dello Stato. Ma anche rispetto ad alcuni ministeri «forti». Questo esito paradossale dipende, in realtà, dall’adozione del sistema maggioritario, che, senza determinare una struttura bipartitica del sistema, 10 non rafforzava neppure i poteri del presidente del Consiglio, ad esempio stabilendo che egli possa revocare un ministro, come è proprio del Cancelliere. Tutto questo faceva sì che la capacità di imporsi di un capo del governo alla sua stessa compagine di maggioranza dipendesse da una serie di fattori occasionali, come il grado di omogeneità della maggioranza. Considerando il periodo 19942015 (ed escludendo i governi «tecnici» di Dini e Monti), i governi di centro-destra sono stati sempre 282

più omogenei di quelli di centro-sinistra. Il centrodestra si è retto normalmente su 4 partiti (Fi, An, Lega e Udc), poi ridotti a due (per l’uscita dalla coalizione dell’Udc e la fusione An-Fi nel Pdl); viceversa, il centro-sinistra inizialmente aveva tre partiti maggiori (Pds-Ds, Ppi-Margherita, Rifondazione Comunista), ma con una serie di partiti piccolo-medi (Verdi, socialisti, poi, man mano, Udeur, Pdci ecc.); della coalizione che vinse nel 2006 ci fu chi osservò che andava «da Mastella a Luxuria». Inoltre, nel grado di incisività del presidente del Consiglio hanno sempre contato le caratteristiche personali esattamente come nel periodo dell’Italia liberale. Dunque, nel complesso, la riforma del «premier forte» non ha funzionato. Viceversa, ci sono stati mutamenti nella struttura del governo. La nostra Costituzione assegna ai singoli ministri la potestà esclusiva di determinare l’indirizzo del proprio dicastero. Ma è evidente che i ministeri hanno diverso peso politico: nella Prima Repubblica, si distingueva fra i Ministeri «politici» (Interno, Esteri, Difesa, Giustizia, Tesoro e Finanze) e quelli «tecnici» o settoriali (Industria, Istruzione, Sanità, Trasporti ecc.). Nella classificazione del «manuale Cencelli» per la distribuzione dei posti fra i partiti e 283

le correnti della coalizione, si distingueva fra Ministeri: di serie A: Esteri, Interno, Tesoro, Industria, Giustizia e Finanze (dove faceva premio il peso politico e la «visibilità»); di serie B: Istruzione, Difesa, Bilancio, Trasporti, Poste, Commercio Estero, Partecipazioni Statali, Sanità, Cassa per il Mezzogiorno (dove aveva peso il volume di spesa e, in parte, il peso politico); di serie C: Agricoltura, Lavori Pubblici e Trasporti (privi di peso politico e con un volume di spesa attenuato dalle aziende e società autonome); di serie D: Marina Mercantile, Turismo, Beni culturali e ministeri senza portafoglio. 11 Qualche spiegazione meritano alcune classificazioni. La Giustizia, che era da considerare fra i ministeri «politici» di primo piano, perse via via terreno dopo l’insediamento del Consiglio Superiore della Magistratura (1958), poi, ancora, man mano che è emerso il protagonismo della magistratura, soprattutto inquirente. Il Ministero delle Finanze spesso era declassato nelle fasi in cui non c’erano particolari decisioni da assumere, ma trascurando il fatto che il titolare di quel dicastero ha alle sue dirette dipendenze un corpo di Polizia, la Guardia di 284

Finanza, a differenza di quanto accade per Carabinieri e Polizia, che dipendono rispettivamente dalla Difesa e dall’Interno, ma non con rapporto diretto di dipendenza dal ministro. L’Industria, che di per sé non era un ministero «politico», aveva però un ruolo di particolare peso, distribuendo i contributi a vario titolo fra le aziende industriali. Nel tempo, accorpamenti e separazioni, variazioni di bilancio e particolari congiunture hanno fatto sensibilmente variare il peso di ciascun ministero. Ad esempio, la Difesa, che sino al 1966 sarebbe stato considerato un ministero di serie A, venne poi declassato sia per la riduzione del volume del suo bilancio, sia per la crescita della quota «vincolata» (spese per il personale e per la manutenzione del patrimonio), che riduceva parallelamente la discrezionalità del ministro. Ma la svolta più radicale è venuta con i governi della Seconda Repubblica. In questo quadro si sono verificati significativi mutamenti nei rapporti di forza fra i diversi ministeri, alcuni dei quali hanno visto crescere a dismisura il proprio potere, mentre altri lo hanno perso. Fra i perdenti, la vittima più illustre è certamente il Ministero degli Esteri – ironia della storia, proprio nella fase storica della globalizzazione che dovrebbe 285

vederlo assai più dinamico. In realtà, già dagli anni settanta la politica estera è stata via via fatta in prima persona dal presidente del Consiglio, anche per la crescente pratica dei Summit, nei quali è indispensabile la presenza del capo dell’esecutivo con il ministro degli Esteri che lo affianca. A partire dai primi anni novanta, la partecipazione italiana a missioni internazionali (come per la I guerra del golfo, poi Kossovo, Afghanistan, Somalia, Iraq, Libia ecc.) ha fatto sì che, sugli scenari operativi, il ruolo di rappresentanza dell’Italia sia stato affidato più ai comandi militari – e dunque al Ministero della Difesa e al servizio segreto militare – che alla Farnesina. Ma non si tratta solo di questo: la politica estera spesso è condotta più efficacemente – magari solo per singoli aspetti – da grandi aziende come l’Eni (per quanto riguarda tutto il comparto energetico), Finmeccanica, l’Enel, Telecom. E più spesso ancora a scendere in campo sono i servizi di intelligence, che godono del vantaggio dell’azione coperta. Senza trascurare potenti Ong come la Comunità di Sant’Egidio (detta l’«Onu di Trastevere» per il ruolo avuto nei negoziati di pace in Mozambico, Albania, Guatemala ecc.). 12 Del resto, la designazione quale ministro degli Esteri, nel governo Letta, dell’esponente di un partito (Emma Bonino) che ha raccolto solo lo 286

0,36% dei voti nelle precedenti elezioni politiche, al di là del valore della persona, segnala efficacemente la perdita di peso del Ministero. Anche il vecchio Ministero dell’Industria, oggi in gran parte confluito nel Ministero per lo Sviluppo economico, ha perso molto del suo peso originario, non avendo più da distribuire le risorse di un tempo. Viceversa, l’accorpamento dei vecchi ministeri delle Finanze e del Tesoro (quello del Bilancio era già stato inglobato nel Tesoro dagli anni novanta) nel nuovo megadicastero dell’Economia e Finanze ha generato la più macroscopica aggregazione di potere interna al governo, il cui titolare è diventato una sorta di alter ego del presidente del Consiglio (ricordiamo i frequenti battibecchi fra Berlusconi e Tremonti regolarmente vinti dal secondo, sino a quando, nel 2005, non venne estromesso per le pressioni dell’Udc e, in parte, di An; ma poi tornato nell’ultimo governo Berlusconi). È nuovamente cresciuto anche il peso del Ministero della Difesa per le numerose missioni internazionali delle nostre Ffaa e del relativo budget di spesa. Un notevole peso mantiene sempre il Ministero dell’Interno, che cumula una grande quantità di competenze (dall’ordine pubblico agli affari di culto, dagli enti locali ai referendum, dalle prefetture al servizio elettorale, dall’immigrazione – materia 287

condivisa con l’apposito Ministero – ai vigili del fuoco ecc.), cui si sono aggiunte una espansione del potere prefettizio – per via del raccordo con le Regioni a seguito della riforma del titolo V, che stabilisce una serie di materie soggette alla «legislazione concorrente» fra Regioni e amministrazione centrale dello Stato – e la lotta al terrorismo islamico, che ha acquistato grande perso dal 2001 in poi. Dunque abbiamo una «troika» dei ministeri più importanti che include Economia, Difesa e Interno, che, con il presidente del Consiglio, costituiscono il vero cabinet del nostro governo. Questa gerarchia di importanza dei ministeri si riflette anche nella spensierata gestione dei fondi di bilancio e fuori bilancio: dai dati della Ragioneria Generale dello Stato 13 ricaviamo che il Ministero dell’Interno ha contratto debiti fuori bilancio per 476 milioni di euro, la Difesa per 235, l’Economia per 94, mentre tutti gli altri ministeri messi insieme per 40, il tutto mentre esistono palazzi del Demanio inutilizzati per circa 5 miliardi di euro.

Il Parlamento Stando alla Costituzione, il Parlamento dovrebbe essere l’istituzione dotata di maggiori e più estesi 288

poteri di intervento. Ma la storia politica di questo paese racconta cose molto diverse, come si è visto. Alcune funzioni fra le più delicate del Parlamento furono assorbite da poteri esterni come il governo, le segreterie di partito o, anche, i capi delle correnti interne ai singoli partiti. Ma, pur sempre, tutto doveva passare attraverso le aule parlamentari e non sempre la discussione era solo formale: se era scontato il voto di fiducia una volta conclusi gli accordi di maggioranza, non era affatto detto che il governo poi sopravvivesse alle imboscate dei «franchi tiratori». Se era scontato che i partiti di maggioranza avrebbero impedito la messa in stato d’accusa del capo dello Stato o di un ministro, tuttavia il semplice annuncio della richiesta di aprire la procedura poteva portare alle dimissioni del presidente (Leone), così come, se al conteggio finale al ministro inquisito fosse mancata anche solo una manciata dei voti di maggioranza previsti, questo poteva costargli la carriera (Rumor). Allo stesso modo, il crescente ricorso alla decretazione di urgenza, già a partire dalla metà degli anni sessanta, 14 segnò un crescente esproprio del potere legislativo delle Camere, ma una pratica ostruzionistica (o qualche emendamento fortuitamente approvato) potevano far decadere o modificare significativamente il provvedimento. Ma, soprattutto, segreterie di partito e governo 289

trovavano un limite al loro potere di prevaricazione nel sistema elettorale e nei meccanismi congressuali dei partiti. Il voto di preferenza, per quanto desse luogo a deplorevoli degenerazioni clientelari, tuttavia assicurava ai parlamentari un rapporto di forza favorevole, perché solo eccezionalmente un segretario di partito avrebbe escluso dalle liste un parlamentare con decine di migliaia di preferenze. Allo stesso modo, lo stesso segretario di partito, per mettere insieme una maggioranza congressuale, doveva fare i conti con i «pacchetti» di tessere di ciascun potente locale. Una prassi certamente discutibilissima, ma che, comunque, rappresentava un freno alla concentrazione del potere nelle mani del governo e della ristrettissima cerchia dei segretari di partito. Il processo di decadenza del Parlamento fu preannunciato da alcune riforme regolamentari a cavallo fra fine anni settanta e primi ottanta, in particolare con la norma che prevedeva che il governo potesse far decadere tutti gli emendamenti ponendo la questione di fiducia. In questo modo non solo la votazione palese metteva al sicuro il governo dalle imboscate sugli emendamenti dei franchi tiratori, ma stroncava di fatto la possibilità di fare ostruzionismo sui decreti. Da quel momento, la strada sul crescente ricorso alla decretazione di urgenza fu spianata del tutto. 290

Con la fine della Prima Repubblica il processo precipitò e il Parlamento divenne l’organismo meno influente del sistema politico. Determinanti furono la delegittimazione di partiti seguita a «Mani Pulite» e la connessa riforma elettorale, che introduceva il maggioritario uninominale. La fine del sistema delle preferenze spostò seccamente i rapporti di forza a favore del vertice di partito, che aveva il potere di dare o negare un buon collegio. Peggio ancora con il sistema successivo del «Porcellum», nel quale è scomparso anche il possibile richiamo elettorale di un candidato locale, per cui l’elezione dipende solo dalla posizione nella lista. E il Parlamento dei nominati non sembra avere una qualità superiore a quella della Prima Repubblica. Anzi… La funzione legislativa è ormai quasi del tutto assorbita dal governo e al Parlamento resta una funzione di ratifica; anche le funzioni di controllo, già poco efficienti dagli inizi della Repubblica, sono quasi del tutto scomparse e anche il Comitato di Controllo sui Servizi di Informazione e Sicurezza si mostra poco incisivo. Restano sostanzialmente i poteri di elezione di altri organi costituzionali (presidenza della Repubblica, Corte Costituzionale, Csm), peraltro non sempre usati nel migliore dei modi.

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Le metamorfosi della magistratura Come si sa, dopo l’ondata di inchieste di «Mani Pulite» che investì in primo luogo le forze politiche, le inchieste della magistratura hanno via via colpito le maggiori aziende del paese. L’espresso segnalò (già nel 2013, anni chiave della nostra storia recente) come le inchieste penali ormai coinvolgessero l’Eni, la Bpm, la Telecom, il Monte dei Paschi di Siena, la Mediaset, la Saipem, la Fonsai, l’Unicredit, la Parmalat, Finmeccanica, Mediobanca e Luxottica, cioè 12 delle 40 «blue chip» italiane; sommando il valore di borsa di queste società, si ricavava che a essere inquisito era il 36% del listino di borsa. 15 Da tempo si sono sollevate molte lamentele su questo eccesso di interventismo delle Procure: «Il capitalismo non si cura in Tribunale», 16 sostiene Guido Rossi, 17 che parla di «supplenza giudiziaria», che sostituisce gli altri poteri. Altri mettono in relazione questo con l’abuso della custodia cautelare. 18 Altri ancora sostengono che la magistratura si muove come «gli elefanti nelle cristallerie» con il risultato di affossare l’Ilva e legare le mani alla Fiat. 19 Altre polemiche sono sorte dopo la conclusione del caso Fastweb, che poi ha visto assolti alcuni dei principali imputati. 20 Anche Giulio Sapelli sostiene che dall’inizio degli anni novanta abbiamo assistito alla 292

devastante trasformazione […] dell’ordine della magistratura in un potere autonomo che erompe nella politica e nell’economia con inusitata forza. 21

E, come è noto, tutta la destra accusa da tempo il complotto delle «toghe rosse» contro Berlusconi. È una analisi corretta? In realtà, le cose sono assai più complesse e meritano di essere viste in chiave comparativa con gli altri paesi. In primo luogo, l’ondata di inchieste sulla corruzione politica non si è verificata solo in Italia – dove c’è stata sicuramente la punta più acuta – ma anche in diversi altri paesi europei (Francia, Spagna, Germania e, con particolarità diverse, Belgio). In tutti questi casi si è assistito al protagonismo dei Pm, che sfidavano apertamente il potere politico, un fenomeno inedito, incomparabile con il periodo della guerra fredda, durante il quale la magistratura ha agito in costante sintonia con il potere politico. In parte questo era il prodotto della crescita senza precedenti della corruzione politica, toccando vertici che producevano una serpeggiante delegittimazione del sistema. Ma in parte fu l’effetto di una nuova cultura giuridica che andò formandosi in Europa fra la fine degli ottanta e i primi novanta e non necessariamente nell’ambito delle correnti di sinistra della magistratura. Per comprendere contenuti e metodi di questa nuova cultura giuridica è interessante leggere le interviste a magistrati di sei 293

diversi paesi curata da Denis Robert. 22 È interessante notare come non vi si parli solo di corruzione politica o criminalità di stampo mafioso, 23 ma si insista molto sul crimine finanziario nel nuovo ordine mondiale. E qui ci riferiamo ai mutamenti giuridici indotti dalla globalizzazione e all’emergere di una nuova lex mercatoria e dai connessi processi di mutamento del profilo professionale dei magistrati. 24 E, dunque, c’è un eccesso di interventismo dei magistrati, come lamentano molte voci prevalentemente, ma non esclusivamente, di destra? O, piuttosto, dobbiamo dedurre che stia emergendo una maggiore propensione a delinquere da parte del grande management? La questione è più complessa di quel che si crede e presenta aspetti molto contraddittori. Il mondo neoliberista, per definizione, mal sopporta vincoli normativi esterni alla legge del profitto e, quando anche un singolo soggetto non intenda procedere contra legem, è indotto a farlo dalla concorrenza. Se c’è una prassi scorretta nella vendita allo scoperto, sostenuta da pratiche di short selling, fatalmente tutti si adatteranno a quella pratica, anche se, magari, le autorità internazionali di controllo bancario, come la Bri, stabiliranno disposizioni opposte. Allo stesso modo, la corruzione politica è sicuramente un reato in 294

qualsiasi parte del mondo, ma in settori come il petrolio o la vendita delle armi è una prassi così generalizzata da essere inevitabile e ci si può ben indignare per le tangenti versate dalle società Finmeccanica in India, ma la prassi è tale che, senza tangenti, non si vendono neppure le pistole ad acqua. Ancor più grave è il fenomeno se si considera la prassi del riciclaggio del denaro della criminalità organizzata: come si sa, il denaro non ha odore, anche quello di mafia, che, in un ordinamento neoliberista, semmai profuma di gardenia. È ovvio che fra la finanza nera e quella «bianca» ci sia una fascia grigia, che faccia da vasca di stabulazione e ripulisca il denaro, ma la finanza bianca proprio non sa da dove proviene il denaro che accoglie? E se una società finanziaria attinge copiosamente al gettito del denaro sporco, potranno le altre astenersene, mettendosi in posizione di svantaggio? Se si andasse a curiosare nel portafoglio di molti hedge fund è probabile che non mancherebbero tante soprese. E tutto questo peggiora ancora durante una crisi finanziaria come quella che stiamo vivendo, in cui c’è disperato bisogno di liquidità: e chi c’è di più «liquido» della criminalità? La Jp Morgan ha chiuso il caso Madoff pagando la cifra astronomica di 1,7 miliardi di dollari pur di mantenere i suoi bilanci nel confortevole cono d’ombra che da sempre li protegge. 295

Ma più in generale, possiamo ben credere che, nella tempesta della crisi finanziaria, truccare un bilancio, o quantomeno sottoporlo a un certo maquillage, può diventare una questione di vita o di morte: ancora nel 2011 importanti banche francesi portavano a bilancio, e con il loro valore nominale, una buona porzione dei derivati dei titoli subprime che ormai valevano meno della carta su cui erano stampati. Ma, d’altra parte, è lo stesso caotico ordine neoliberista (tanto lontano da quella capacità di autoregolamentazione dei mercati di cui spesso si favoleggia) a esigere l’intervento della magistratura penale: perché lo fanno, in qualche modo, le parti soccombenti, perché la penetrazione del capitale criminale induce a misure difensive, perché occorre pur avere qualche tutela nello scambio dei valori finanziari, soprattutto nelle più disinvolte pratiche Otc, 25 perché occorre proteggersi anche da alcuni Stati ecc. Morale: nec tecum nec sine te vivere possum. E dunque alla magistratura tocca un ruolo arbitrale, anche al di là dei testi di legge. Ed è già qui la ragione del nuovo protagonismo dei magistrati, accentuato, nel caso europeo, dalla loro selezione esclusivamente per concorso e non per elezione, come accade negli Usa. Il corpo dei magistrati viene quindi a porsi come produttore di 296

diritto, in quanto depositario di un sapere specialistico, dunque come articolazione tecnocratica del sapere, sottratta alla formazione democratica che, invece, caratterizza il Parlamento. Tutto ciò dilata la funzione e il peso politico della magistratura, integrandola in quella rete di poteri tecnocratici internazionali – di cui abbiamo detto – diventandone una sorta di terminale interno dei singoli Stati, incrociandosi anche con le funzioni apicali della Pa. Come scrive Aresu: Si consideri il caso del ministero dell’economia e delle finanze nella 16ª legislatura. Mentre Giulio Tremonti parlava di «fascismo bianco» in Europa, di Carl Schmitt e Adam Smith, nel concreto Giuseppe Chinè e Vincenzo Fortunato (Capo ufficio legislativo e capo di gabinetto, entrambi magistrati) contavano più dell’intero Parlamento italiano, riempiendo i vuoti temporali e spaziali di un ministro impegnato all’estero e nella filosofia della storia. 26

Cinico, se vogliamo, ingeneroso verso il ministro, ma efficace nel dire del potere dei magistrati al vertice delle burocrazie ministeriali. Determinante in questa funzione ormai politica della magistratura è l’esser chiamata a combattere alcun fenomeni criminali come mafia o terrorismo: «la magistratura contro il terrorismo» o «contro la mafia». Dimenticando che alla magistratura spetta il compito di giudicare singoli imputati di questo o quel reato – magari di appartenenza a una organizzazione eversiva o della grande criminalità – 297

ma non combattere fenomeni criminali in quanto tali, compito che, semmai, spetta al potere politico, attraverso la legislazione e l’azione di polizia. Questo discorso è passato dalla lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata alla lotta alla corruzione, e il giudice è stato chiamato a partecipare alla rifondazione del sistema politico o, in contesti diversi, alla eliminazione di determinati soggetti, come accaduto a Bernard Tapie, o agli ex presidenti Collor de Mello o Fujimori. E un caso particolare ma significativo di queste tendenze è quello del presidente brasiliano Dilma Rousseff, dichiarata decaduta a seguito di una inchiesta per corruzione assai controversa, al punto che la Rousseff ha parlato (a nostro avviso non infondatamente) di colpo di stato. E determinante in questa funzione è stato l’uso selettivo dell’azione penale anche in quei paesi (come il nostro) che prevedono l’obbligo dell’azione penale, che, tuttavia, resta una pura istanza del dover essere, piuttosto che una realtà concreta (come dimostra il fatto che oltre la metà delle denunce è archiviata per decorrenza dei termini, senza che ci sia stato alcun atto istruttorio). Successivamente, questa tendenza si è estesa al campo economico e finanziario. In questo quadro la magistratura assume anche un ruolo arbitrale fra i diversi potentati finanziari o 298

una funzione di indirizzo politico, suggerendo le norme che sarebbe opportuno adottare, e magari in sinergia con i medesimi potentati (e i casi Enron, Madoff o Lehman Brothers negli Usa, oppure Antonveneta-Banca d’Italia, Parmalat ecc. in Italia, forniscono abbondante materiale di studio in questo senso). A favorire questa metamorfosi del giudice fu anche l’ibridazione del classico modello basato sulla codificazione, prevalente nell’Europa continentale, con quello di common law, che, come si sa, ha natura spiccatamente privatistica e giurisprudenziale. Questa particolare miscela ha prodotto dinamiche impreviste, fra cui il cortocircuito mediatico-giudiziario iniziato nel biennio 1992-93. Il rito accusatorio è per sua natura incline alla forte spettacolarizzazione del processo. Nello stesso tempo, un giornalismo reso sempre più compulsivo e sensazionalistico dall’irrompere della televisione commerciale placava la sua fame di scoop divorando avidamente i comunicati e le conferenze stampa delle Procure della Repubblica. Un avviso di reato valeva un titolo di prima pagina, che, oggettivamente, suonava come una sentenza di condanna. Tutto questo ha prodotto – in particolare in Italia, ma non solo in Italia – una diffusa aspettativa 299

di «giustizia sociale» nei confronti del potere giudiziario e dell’ufficio di Pm in particolare. Di fronte alla sordità del ceto politico e, in particolare, all’inefficacia dei meccanismi di controllo parlamentare e, più in generale, della politica, larghe fasce di opinione pubblica hanno rivolto alla magistratura una domanda di giustizia sociale. E sono sorti due populismi simmetrici e speculari: un populismo giudiziario, che cerca nella giustizia penale l’eliminazione dell’avversario politico «scorretto», e il «populismo antigiudiziario» di chi pensa che l’investitura popolare valga una immunità totale e definitiva. 27 E il riflesso è nel numero senza precedenti di magistrati passati nelle aule parlamentari e non solo nei gruppi di sinistra, ma anche in quelli di destra. Dunque processi che hanno caratteri sistemici, che vanno molto oltre l’eventuale appartenenza di un magistrato a una corrente piuttosto che a un’altra.

Le Regioni e gli enti locali Come abbiamo ripetutamente detto, la Seconda Repubblica ha segnato un netto spostamento di potere dal centro alla periferia, con l’aumento di peso di Regioni e Comuni. E il segnale più evidente sta proprio nel mutamento del cursus honorum dei 300

nostri politici: nella Prima Repubblica, un sindaco o presidente di Regione, una volta approdato in Parlamento, avrebbe puntato a ottenere un posto di ministro o almeno di sottosegretario e una eventuale nuova candidatura a sindaco o presidente di Regione sarebbe stata vissuta come una diminutio capitis o un prepensionamento. Viceversa, nella Seconda Repubblica, non è affatto infrequente il caso di politici di «prima grandezza» (ex ministri o segretari di partito, persino ex vicepresidenti del Consiglio) che si candidano a sindaco o presidente di Regione. Anzi, può accadere che un politico, pur potendo accedere ai «piani alti» della Repubblica, preferisca restare presidente di una Regione particolarmente ricca e importante, come è stato a lungo per Roberto Formigoni, restato alla testa della Regione Lombardia per ben 18 anni. Anche il lessico ha avuto la sua parte in questo passaggio di status: non si chiamano più presidenti di giunta regionale, ma Governatori all’uso americano, come se le nostre Regioni fossero degli states (a volte basta poco per sentirsi «come in America»). Come scrive Sapelli: Lo Stato ha perduto la sua unità giuridica per l’erosione di poteri che oggi provengono dalla localizzazione dei poteri: regionali, provinciali, comunali, con a centro lo sfrangiamento delle politiche economiche, sociali, sanitarie e financo educative realizzatosi a livello regionale. Un federalismo? Niente affatto. In verità una disgregazione non regolata contemperata dal ruolo

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sempre più rilevante del presidente della Repubblica, che di fatto domina in una Repubblica che, invece, è ancora parlamentare. 28

La riforma del titolo V ha spostato verso le Regioni una parte molto consistente della spesa pubblica, ma questo non è bastato al famelico ceto politico locale, che si è abbondantemente avvalso della facoltà di emettere propri titoli di debito attraverso il sistema bancario. Come sempre, abbassare il livello decisionale, avvicinandolo alla base elettorale, incrementa la propensione alla spesa. Se la spesa pubblica italiana è fuori controllo, lo è in gran parte per la spesa senza freni delle Regioni e delle loro 445 società «partecipate», che costano un miliardo all’anno per perdite e ripiani: ogni anno queste società perdono circa 100 milioni e ne assorbono quasi 800 di aiuti decisi dalle giunte regionali. 29 Nella spesa regionale a incidere è soprattutto la sanità, che, tuttavia, non è affatto migliorata, come l’esperienza quotidiana insegna: il costo del ticket sanitario medio è salito, i tempi di attesa per visite specialistiche e interventi non sono apprezzabilmente diminuiti, le esenzioni sono state ridotte, la gamma di farmaci offerti dal Ssn sfoltita e, soprattutto, le diverse normative regionali hanno solo introdotto ingiustificabili disparità di trattamento fra i cittadini di una Regione e quelli di un’altra. Questo slittamento di poteri verso le Regioni è 302

stato prodotto dalla concomitanza di due fattori: da un lato la spinta della Ue per la comune adozione del modello regionale negli Stati membri, dall’altro il successo elettorale della Lega nelle Regioni del Nord negli anni novanta, che ha spinto le altre forze politiche (e quelle della sinistra più ancora delle altre) verso una improvvisata e ambigua svolta federalista. Da questo punto di vista è corretto dire, come fa Diamanti, che la Lega è stata una sorta di «sindacato territoriale» del Nord, ma, con la sua proposta federalista possiamo anche dire che sia stata il «sindacato del decentramento», e in particolare dell’ente regionale. Fu per inseguire la Lega che il governo Amato, nel 2001, varò l’infelice riforma del titolo V della Costituzione. In realtà, tanto la spinta europea quanto quella leghista erano federaliste solo in apparenza: in particolare la Lega aveva un diverso progetto politico, che era la secessione del Nord del paese. Erano gli anni in cui la Lega teorizzava la separazione del paese per consentire al Nord di entrare nell’area euro, mentre da essa sarebbe restato escluso il Sud. Ma dal 1997 apparve chiaro che l’ipotesi secessionista non faceva passi in avanti, per cui la Lega ripiegò sull’ipotesi federalista, prendendo in prestito il modello della riforma della devolution, approvato proprio in quegli anni dagli inglesi per 303

fronteggiare le rivendicazioni separatiste della Scozia. Di qui il maldestro tentativo del governo di centro-sinistra di impossessarsi del tema con la riforma del titolo V (spacciato per tentativo di attuazione piena dei principi sanciti dall’art. 5 della Costituzione) nella vana speranza di riconquistare elettoralmente il Nord. La Lega, per parte sua, incassò la riforma, nella speranza di realizzare la «macro-Regione del Nord» e rilanciare in questo modo la linea secessionista. Il progetto leghista presupponeva la formazione di un’area «forte» all’interno della Ue, costituita intorno alla Germania, nella quale non mancavano sostenitori del progetto (soprattutto in Baviera). In realtà la Lega, al di là del rituale richiamo a Cattaneo (che è dubbio sia stato mai letto da qualche dirigente leghista), non ha mai avuto una reale cultura federalista, quanto piuttosto è stata portatrice di un diverso centralismo, milanese e non più romano, ma pur sempre centralismo. Le cose sono andate poi in modo assai diverso: la crisi finanziaria mondiale ha spezzato lo slancio verso l’unificazione europea e spinto la Germania verso posizioni diverse. L’ipotesi di un nucleo forte tedesco esiste ancora (con i Paesi Bassi, la Finlandia, l’Austria), ma non comprende più il Nord-Italia, che, pur separato dal resto dell’Italia, porterebbe con sé un imbarazzante debito. 30 304

E oggi la Lega punta a presentarsi come partito nazionale, caratterizzato su due proposte: lotta all’euro e rifiuto dell’immigrazione, sul modello del Front National francese. La risultante di questo confuso sovrapporsi di tatticismi ha prodotto solo un ceto politico locale dedito a pratiche corruttive da basso impero, come la valanga di scandali sulle spese «pazze» di Lazio, Lombardia, Piemonte, Emilia ecc. ha segnalato. Per il resto, le Regioni sono diventate un elemento di entropia del sistema, pericoloso per la stessa sopravvivenza dello Stato e il cui andamento incontrollato nessuno medita di fermare.

I guardiani del sistema In margine alla descrizione della nuova architettura istituzionale, dobbiamo far cenno al ruolo dei «guardiani del sistema»: Consiglio di Stato, Corte dei Conti e Ragioneria Generale dello Stato. Del Consiglio di Stato c’è poco da dire: ha continuato ad avere essenzialmente il ruolo di giurisdizione di secondo grado della giustizia amministrativa (una delle articolazioni più disastrose del nostro sistema giudiziario), ha svolto una funzione di compiacente consulenza giuridica per i 305

governi succedutisi e, per il resto, non è stato molto di più di un’onorevole buonuscita per gli alti burocrati. Maggiori sviluppi ha avuto la Corte dei Conti, diventata una sorta di «pubblico ministero contabile» del sistema: le relazioni del suo presidente sono ormai una sorta di controcanto dell’annuale relazione del governatore della Banca d’Italia, anche se con assai minore impatto mediatico e, soprattutto, potere decisionale. 31 Tuttavia, tali relazioni sono un’utile fonte documentaria per studiare lo stato delle finanze del paese. Ma è soprattutto la Ragioneria Centrale dello Stato ad aver registrato un sensibile incremento di potere, prima per l’andamento della crisi del debito pubblico e delle conseguenti politiche di spending review, dopo per l’introduzione del vincolo di bilancio in Costituzione. Scrive Alessanro Aresu: Il secondo e il vero potere tecnico è il potere di dire no, o potere di perdere tempo. E si pone in perfetto contrasto rispetto agli inviti a fare presto davanti alla gravissima situazione italiana. Chi esercita tale potere è anzitutto il vertice della burocrazia della cifra. La ragioneria generale dello Stato, attore fondamentale nel processo legislativo italiano. In questa sorta di dialettica dell’integration by stealth che in Europa alimenta il complottismo, c’è enorme attenzione per gli gnomi del Bilderberg, pochissima per gli gnomi burocratici. Il ragioniere generale dello Stato Mario Canzio non va a Davos e non riceve l’attenzione di decine post di Grillo-Casaleggio ma ha governato e governa l’epoca del contenimento della spesa. 32

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E non ha torto Aresu, a parlare di un trionfo della «burocrazia della cifra» data la disattenzione da cui è assistita. La protesta sociale si dirige verso obiettivi visibili come il governo, la politica, semmai le banche o Equitalia, ma non ha occhi per i meccanismi più grigi del sistema: l’organizzazione del Ministero dell’Economia e Finanza, la Ragioneria Generale dello Stato, la Cassa Depositi e Prestiti, Finmeccanica. Tutto ciò è percepito come qualcosa di lontano, ostico, che richiede uno studio specialistico ed è molto più facile spiegare tutto con i complotti di una élite mondiale, che non è meno sfuggente e lontana, ma che colpisce di più l’immaginario. Le ristrette oligarchie finanziarie e politiche del mondo esistono e si incontrano a Davos, ad Aspen, sul Lago Lemano o al Bilderberg, dove, certamente, concordano i loro piani di azione, compongono i loro conflitti, soprattutto combinano i loro affari ecc. Ma quello che decide non sono questi piani che, peraltro, spesso non funzionano o danno risultati controintuitivi, quanto, piuttosto, l’architettura del sistema che raccorda quell’apparato tecno-burocratico mondiale di cui abbiamo parlato agli apparati tecno-burocratici e alla magistratura di ogni singolo paese, creando quella corazza d’acciaio che perpetua i rapporti di potere esistenti. E il governo Monti ne fu un magnifico esempio. 307

I partiti della Seconda Repubblica Impietosi si sono susseguiti i sondaggi che, da anni, segnalavano il costante calo di consensi ai partiti: già nel 2011, la fiducia degli italiani nei partiti era scesa all’8% degli intervistati 33 e il dato ha continuato a scendere. Siamo ormai a valori infinitesimali. La Seconda Repubblica promise di restituire lo «scettro al principe» attraverso il sistema maggioritario, che avrebbe prodotto l’alternanza fra due partiti, abbattuto i costi delle competizioni elettorali abolendo il voto di preferenza, tratto i suoi uomini di governo direttamente dalla società civile, senza il filtro degli apparati di partito, reso la politica più concreta e meno ideologica, debellato la corruzione, debellato i partiti a struttura pesante e costosa, sostituiti dai «partiti farfalla», leggeri e poco costosi. La «Repubblica dei populismi» non voleva corpi intermedi fra il popolo e lo Stato: partiti, sindacati, associazioni ecc. erano solo greppie per politicanti e, come tali, da abolire. L’esito è sotto gli occhi di tutti. Dalle ceneri della Prima Repubblica è sorto un nuovo sistema partitico composto dalla trasformazione di parte di quelli precedenti (dall’Msi vennero fuori An e le sue scissioni successive, dal Pci il Pds-Ds, dalla Dc il Ccd e il Ppi, poi la 308

Margherita, e dalla fusione di essa con i Ds il Pd, sempre dal Pci Rifondazione Comunista e poi le sue scissioni Pdci e Sel), da alcuni nuovi (Forza Italia, Lega Nord, Italia dei Valori, e più tardi M5S), oltre a piccole sopravvivenze (Verdi, socialisti) e partiti transitori o personali (Lista Dini, Udeur, Lista Monti) finalizzati a operazioni politiche di piccolo cabotaggio. Ormai nessuna delle forze politiche esistenti usa più il nome «partito», come se questo eliminasse la causa della delegittimazione. Ma si tratta solo di una questione nominalistica: partito è (a prescindere dal modello organizzativo adottato) qualsiasi soggetto che chieda all’elettorato una delega generale ad agire nelle istituzioni, M5S incluso. In primo luogo una constatazione: i partiti in regime maggioritario non sono affatto diminuiti, ma aumentati. Lo sono anche con un semplice raffronto aritmetico (contro i 12 partiti del Parlamento eletto nel 1992, nelle legislature successive ci sono stati mediamente 21 partiti fra grandi, piccoli e piccolissimi, diversi dei quali nati in corso di legislatura da scissioni). Questo criterio meramente aritmetico, però, non serve a molto, perché quel che rileva è l’«indice di frammentazione» di un sistema politico. Spieghiamoci meglio: se in un paese ci sono 18 partiti, ma uno da solo ha il 66% dei voti e gli altri 17 il 2% ciascuno, non si può dire che il 309

sistema sia frammentato, perché a contare sarebbe il solo partito maggioritario, mentre tutti gli altri non avrebbero alcun peso politico, non ci sarebbe governo di coalizione e il partito dominante, di fatto, non avrebbe sfidanti. Mentre un sistema in cui ci siano soli tre partiti, ma tutti con il 33,3% dei voti, apparentemente sarebbe un sistema meno frammentato del precedente, ma di fatto lo sarebbe molto di più, perché sarebbe necessario trovare mediazioni e nessun partito sarebbe da solo dominante. Anche nel caso di un sistema elettorale maggioritario, l’eventuale vincitore per pochissimi voti sarebbe sempre sotto sfida degli altri. Due politologi finlandesi, Markku Laakso e Rein Taagepera, hanno elaborato una formula che calcola il «numero effettivo dei partiti», cioè degli attori politici rilevanti in un sistema, con il residuo dei minori, 34 applicando la quale si ricava che nella Prima Repubblica il numero effettivo dei partiti si è sempre aggirato sul 3,5 (con una tendenza all’aumento dei decimali verso la fine del periodo, ma sempre al di sotto di 4), il che corrispondeva alla constatazione di tre agenti principali, Dc, Pci e Psi, cui si aggiungevano i minori; mentre nella Seconda Repubblica il valore medio è sempre stato superiore a 4 e, in alcuni momenti, ha sfiorato i 5. E non serve a molto osservare che ci sono due coalizioni principali, in primo luogo perché in ogni elezione ci 310

sono stati almeno uno o due raggruppamenti fuori polo, in secondo luogo perché, come abbiamo detto, le coalizioni sono andare regolarmente incontro a dissociazioni interne, in terzo luogo perché frequentemente gli stessi partiti hanno registrato scissioni. Il numero più alto dei «partiti effettivi» nella Seconda Repubblica non è dato tanto dalla presenza di un maggiore numero di piccoli partiti, quanto dal minore numero di voti dei partiti maggiori: nella Prima Repubblica la sommatoria dei due principali partiti (Dc e Pci) ha oscillato fra il minimo del 60,88% del 1987 e il 73,8% del 1976. Nella Seconda Repubblica, la sommatoria di Forza Italia e Pds non ha mai raggiunto il 50% e ha superato di poco il 60% solo quando a confrontarsi sono stati il Pdl (che unificava Fi e An) e il Pd (che unificava Ds e Margherita). In ogni caso, non ha mai raggiunto il 70% e, nelle elezioni del 2013, la sommatoria Pd-M5S è stata del 51%. Il fenomeno si spiega con la concomitanza di tre fattori del sistema elettorale: 1. l’adozione di un sistema maggioritario che spinge ad assorbire il maggior numero di partner possibili, interessati a loro volta tanto a partecipare alla spartizione del premio di maggioranza, quanto a superare la clausola di sbarramento; 311

2. la possibilità di costituire coalizioni con vincolo di apparentamento, per cui le forze minori, aderendo, non perdono totalmente visibilità; 3. la persistenza di una quota di seggi distribuita in modo proporzionale. I partiti dell’attuale sistema politico presentano le seguenti caratteristiche politico-organizzative: 1. leadership fortemente personalizzata e nuclei centrali normalmente nominati dal leader; collegialità scarsa o assente; 2. formazione delle decisioni politiche prevalentemente in sede di partito piuttosto che di gruppo parlamentare (riflesso della perdita di peso del Parlamento); 3. declino della prassi congressuale (quasi assente nel caso di Fi, del tutto assente nel M5S), sostituta o integrata da forme diverse di consultazione come le primarie, le consultazioni on line, i referendum interni ecc., che vorrebbero essere forme integrative o sostitutive di democrazia diretta; 4. formazione dei gruppi dirigenti e delle liste per il Parlamento per cooptazioni decise dal nucleo ristretto centrale (consideriamo a parte il caso delle primarie del Pd e quello delle «Parlamentarie» on line del M5S); 5. assenza di gruppi dirigenti nazionali formalizzati 312

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(parziale eccezione del Pd e, sinché sono esistite, An e Margherita); scarsa articolazione territoriale e assenza di gruppi dirigenti intermedi (con la parziale eccezione del Pd e, sinché sono esistite, An e Margherita); profilo statutario poco definito, prassi spesso informale e scarsa democrazia interna, con frequenti misure disciplinari nei confronti di dissidenti (si pensi alle esclusioni di Fini e Fitto dal Pdl-Forza Italia, o alle troppo frequenti espulsioni dal M5S); scarsezza di dibattito interno sui grandi temi politici tanto nei residui gruppi dirigenti quanto nei gruppi parlamentari e totale assenza per quanto riguarda il corpo militante; assenza quasi totale di centri studi, riviste di cultura politica, convegni di studio. Rarissimi dibattiti occasionali presso i gruppi parlamentari, con esperti esterni ecc. I centri sudi sono sostituiti dalle fondazioni personali di alcuni esponenti politici, che, però, sono nella quasi totalità dei casi solo canali collettori di finanziamenti e non hanno alcuna produzione scientifica. Conseguente improvvisazione delle scelte operate anche su temi molto delicati come la bioetica, l’immigrazione, la crisi finanziaria, la politica estera ecc.; 313

10. assenza di centri di formazione politica; 11. rifiuto della dimensione ideologica con conseguente debolissimo profilo della cultura politica di ciascun partito; 12. limitatissime differenze programmatiche dei diversi partiti; 13. crollo della militanza; 14. maggiori costi delle campagne elettorali (che, in gran parte, non si basano più sul lavoro volontario dei militanti e che richiedono forti investimenti pubblicitari). Questa struttura del sistema fa sì che la dialettica politica ruoti prevalentemente su due poli: il nome del leader dello schieramento e le alleanze da comporre. La necessità di ottenere un voto in più dell’altra coalizione induce ad associare il maggior numero possibile di partiti a tutto scapito della fisionomia programmatica della coalizione: è ovvio che, se una coalizione ospita cattolici e laici, avrà forti difficoltà a esprimere una posizione unitaria su temi come il fine-vita, le unioni civili, la tassazione degli enti ecclesiastici ecc., allo stesso modo in cui una coalizione che accolga «europeisti» e «antieuropeisti» difficilmente avrà una posizione comune sui temi connessi all’euro. Ne consegue un ulteriore indebolimento dell’offerta politica, che tende a sfumare verso il punto zero per ciascun 314

contendente. È interessante notare i comportamenti su alcuni fra i pochi temi su cui si accende (talvolta) il confronto. Il fisco: la destra ha sempre dipinto il suo avversario come il «partito delle tasse», ma non ha mai abolito le tasse introdotte dai governi di centrosinistra e ha votato tutti gli inasprimenti fiscali decisi dai governi Monti e Letta, persino la deploratissima Imu fu decisa, prima del governo Monti, dal quarto governo Berlusconi. Riforme istituzionali: sia la destra che la sinistra si sono vicendevolmente scambiate le accuse di volere un Parlamento di nominati o di voler falsare la volontà popolare con meccanismi iniqui di trasformazione dei voti popolari in seggi, finendo poi per convergere regolarmente su sistemi senza voto di preferenza e con forte premialità. Euro: la destra ha espresso frequentemente critiche all’adozione della moneta unica e alle sue modalità, mentre la sinistra se ne è sempre fatta paladina, ma nei comportamenti concreti nessuno dei due ha mai messo in discussione l’appartenenza dell’Italia alla moneta unica (salvo molto recentemente la Lega). Sull’immigrazione, apparentemente la sinistra sarebbe il partito più aperto verso gli immigrati e la destra quello più orientato alla chiusura delle frontiere, ma non si sono mai registrate differenze 315

sostanziali di comportamento fra l’azione dei governi dell’una e quella dell’altra. Dunque, il meccanismo della raccolta del consenso non può che essere impostato in negativo e il vuoto di contenuti politici viene riempito con una retorica che fa perno su due argomenti connessi: la delegittimazione dell’avversario e le caratteristiche personali dei candidati premier. La delegittimazione è la conseguenza inevitabile di questa campagna in negativo («vota me per non far vincere l’altro, che è il pericolo da battere») nello scontro immaginario fra la parodia di un fronte popolare antifascista e la caricatura di un fronte anticomunista. E questo trova la sua espressione più piena nell’attacco al leader della coalizione avversaria e nell’esaltazione del proprio. Di politica è rimasto ben poco. Peraltro, il palato dell’elettorato, dopo venti anni di cura populista, si è fatto molto facile e il confronto ha finito con l’assumere le modalità dello scontro fra due tifoserie calcistiche. D’altro canto, la metafora del football, dalla celebre «discesa in campo» di Berlusconi, che significativamente scelse il nome di «Forza Italia» per la sua creatura politica, in poi, ha regolarmente accompagnato tutta la Seconda Repubblica e la «conquista delle curve» delle varie tifoserie è diventata un obiettivo politico di riguardo. 35 316

Al voto di appartenenza ideologica si è sostituito il voto di fede calcistica. Questi risultati, così lontani dalle aspettative nutrite alla fine della Prima Repubblica, meritano una spiegazione che risiede in gran parte nell’analisi «clinica» delle patologie sistemiche della Prima Repubblica. Essa fu errata perché non partiva dalla necessaria distinzione fra partito politico e ceto politico. Le disfunzioni lamentate avevano il loro soggetto nel ceto politico, non nei partiti in quanto tali, che erano solo la forma dei soggetti. Identificare l’uno con gli altri è come prendersela con le scrivanie per gli errori dei burocrati. E, in effetti, l’esito della «rivoluzione» di Mani Pulite, e dell’antipolitica che si è trascinata dietro, non è stato una scomparsa o anche solo un miglioramento del ceto politico o un suo avvicinamento alla società civile, ma, al contrario, una regressione che ha prodotto un ceto politico sempre meno responsabile e di allarmante incompetenza. Quanto al profilo morale, ogni commento sarebbe di troppo. E, peraltro, va notato come il «partito farfalla» della Seconda Repubblica (o quel che si fa passare per tale) si è portato dietro molte delle patologie dei vecchi «partiti elefante». L’altro aspetto decisivo nel minare la vita democratica dei partiti già nella Prima Repubblica fu 317

l’incapacità di stabilire con certezza chi avesse diritto a votare nelle assemblee congressuali, perché ben presto dilagò nuovamente la pratica dei tesseramenti gonfiati, con elenchi di nomi fittizi e persino di defunti. Si provò ad arginare il fenomeno con misure come la necessità di essere iscritti da almeno un anno, la distribuzione dei delegati sulla base della media triennale del tesseramento o dei voti ottenuti nella zona di ciascuna sezione in occasione delle elezioni politiche ecc. Ma, nel complesso, si trattò solo di «pannicelli caldi» privi di qualsiasi efficacia reale. Il punto, non risolto ancora oggi, è quello di definire chi sia membro del partito. Se l’unica condizione è quella di iscriversi e versare regolarmente la quota di iscrizione, è inevitabile che possano aderire al partito e votare persone del tutto estranee (e magari anche iscritte ad altro partito) purché pagate per questo. E non sarà mai possibile dimostrare la pratica corruttiva, anche per l’inesistenza di un giudice esterno che indaghi. Questo problema si è trasmesso pari pari nei partiti attuali, dove continua regolarmente la lamentela sulle «truppe cammellate» portate a votare tanto nei congressi quanto nelle «primarie» di ogni tipo e grado, e questo ha riguardato tutti i partiti, da An a Rifondazione Comunista, passando per Pd e Udc, ma con l’eccezione di Forza Italia (che sostanzialmente non fa congressi) e del M5S, che 318

sostituisce i congressi con le consultazioni on line, che, peraltro, presentano altri problemi. E questo ripropone la questione dell’assenza di una giurisdizione esterna e/o di una regolamentazione per legge del partito politico (magari anche solo per stabilire l’obbligo di depositare lo statuto, come accade anche per una qualsiasi società in nome collettivo). La cattiva diagnosi sui mali del sistema politico della Prima Repubblica ha prodotto un sistema politico ancor meno democratico e che segna una maggiore autonomia della classe politica dalla società civile, all’opposto di quel che erano le promesse: il finanziamento pubblico dei partiti è aumentato a livelli stratosferici (anche se, negli ultimi tempi, c’è stata una qualche inversione di tendenza), la corruzione non è stata affatto debellata (anzi…), la partecipazione di base è stata sostanzialmente liquidata, i partiti sono divenuti «conglomerati di potere», con gruppi dirigenti sottratti, nei fatti, a ogni possibile verifica. Soprattutto si è affermato un modello di «partito del leader» con al seguito alcuni potentati locali che agiscono in una sorta di franchising improprio, per il quale «pagano», con l’appoggio elettorale, la concessione del simbolo di partito per le elezioni locali. E tutto questo ha prodotto il paradosso di un ceto politico sempre più forte e sempre meno 319

legittimo. 36

Fra lobby e azioni di influenza La crisi della forma partito ha portato con sé l’affermazione di altri modelli di intervento politico meno trasparenti e più trasversali. Si tratta di adattamenti all’italiana di forme mutuate dall’esperienza americana come il lobbismo. Nella tradizione anglo-americana il lobbying è una pratica legale da sempre, avviene alla luce del sole ed è conseguentemente regolamentata. Nella tradizione costituzionale dell’Europa continentale (e francese in particolare) la prevalenza dell’interesse generale ha sempre indotto a guardare con sfavore al lobbying, spesso considerato una pratica di natura corruttiva appena dissimulata. Da poco, anche nei paesi dell’Europa continentale inizia a esserci il riconoscimento legale dell’azione di lobbying, con qualche regolamentazione, ma, naturalmente, si tratta di una tendenza embrionale e non sempre ben armonizzata con il dettato costituzionale. In Italia le cose sono anche meno definite, per cui una vera e propria regolamentazione dei «gruppi di pressione» non c’è e, di fatto, le lobby agiscono sotto forma di società di public relations. Ovviamente resta illegale la pratica dell’agente 320

di influenza straniera, ove per esso si intende un cittadino che riceva denaro o altra utilità da un servizio di informazioni straniero e agisca in esecuzione delle sue istruzioni e indicazioni. 37 Ma questo resta al di fuori di questa indagine, nella quale considereremo solo l’aspetto della maggiore o minore prossimità di un determinato gruppo politico o imprenditoriale a un determinato orientamento di politica estera. Tuttavia, non sempre un orientamento di politica estera o una proposta di legge di interesse settoriale sono nettamente separabili dall’azione di lobbying o questa è distinguibile dall’azione di influenza. Per cui diventa un terreno minato per l’analista, tanto per la penuria di dati (dovuta, appunto, alla scarsa trasparenza) quanto, soprattutto, per l’ambiguità dei fenomeni in questione. La distinzione essenzialmente risiede nel prevalere di interessi di carattere generale o personale che caratterizzano l’azione del singolo. Cavour condusse una politica estera fortemente orientata verso Francia e Inghilterra, Giolitti fu neutralista e De Gasperi ebbe un orientamento atlantista, mentre Togliatti fu filosovietico, ma per nessuno dei quattro si può parlare di interesse personale. E non lo si può dire neanche nel caso di Mussolini, che accettò denaro francese per sostenere la campagna interventista, o di Lenin, che ne accettò dai tedeschi per portare la 321

Russia fuori dal conflitto: furono certo assai spregiudicati, ma non c’è dubbio che abbiano realizzato disegni politici da non confondere con l’interesse personale, perché Mussolini era realmente convinto che l’interesse generale dell’Italia fosse quello di entrare in guerra contro Austria e Germania e Lenin di dovere di uscire dalla guerra. Allo stesso modo, essere a favore delle richieste di un gruppo sociale in quanto tale non significa essere la lobby di quel determinato gruppo di interesse: il sindacato non è la «lobby del lavoro dipendente», sia perché rappresenta interessi largamente diffusi, sia perché ricorre a forme di pressione molto diverse da quelle praticate dalle lobby (che usano denaro per finanziare partiti e singoli parlamentari, fare campagne stampa ecc.). La caratteristica della lobby è quella di agire per conto di un cliente che la retribuisce e, a sua volta, agisce essenzialmente usando mezzi monetari. Fatta questa doverosa premessa, entriamo nel merito dei diversi orientamenti di politica estera e delle reti di relazione che essi costruiscono intorno a sé. Ovviamente il primo gruppo che prendiamo in considerazione è quello orientato verso gli Usa, che, già dagli anni cinquanta, rappresenta di gran lunga il polo di maggiore presenza e influenza nel nostro paese. 322

Ad esempio, va ricordato che tuttora gli Usa dispongono in Italia di numerose basi militari (ormai il 15% di tutte quelle presenti in Europa), con 13.000 soldati e 16.000 loro familiari. E ovviamente questo ha anche una ricaduta economica, considerando l’indotto che si muove intorno alle basi, così come non va trascurata la partecipazione di aziende italiane (come quelle del gruppo Finmeccanica) alla produzione di sistemi d’arma con imprese Usa. Non c’è dubbio che l’Italia sia il paese più filoamericano di tutta l’Europa occidentale, insieme a Inghilterra e Olanda (che, però, lo fanno con più spiccato senso dell’interesse nazionale). In Italia gli Usa non hanno mai difettato di amici sicuri, come alcune correnti Dc (basti leggere quello che scriveva Moro nel suo memoriale di Massimo de Carolis e gli hiltoniani), esponenti repubblicani come Pacciardi, liberali come Sogno o l’intero Psdi. Anche i radicali hanno sempre espresso una notevole propensione per gli Usa e, in tempi più recenti, tanto Forza Italia quanto An o il Pd hanno manifestato una larga prevalenza di simpatie filoamericane. Anche il segretario del Pd, Matteo Renzi, ha fra i suoi più stretti collaboratori qualche abituale frequentatore di un vecchio americano come Michael Ledeen. Inoltre va ricordato come molti politici e finanzieri italiani (Gianni Letta, Mario Draghi, Romano Prodi, Mario 323

Monti) sono stati advisors della grande banca americana Goldman Sachs, o come molti dei più importanti manager delle grandi aziende e banche italiane (Corrado Passera, Alessandro Profumo, Roberto Nicastro, Paolo Scaroni, Ettore Gotti Tedeschi, Mario Greco) si sono formati presso la McKinsey, la potente multinazionale americana che offre servizi di consulenza manageriale. O anche come moltissimi politici, finanzieri, manager, giornalisti, rettori universitari, intellettuali ecc. (Luigi Abete, Giuliano Amato, Lucia Annunziata, Fedele Confalonieri, Enrico Cucchiani, Gianni De Michelis, John Elkann, Franco Frattini, Gabriele Galateri di Genola, Gianni Letta, Enrico Letta, Emma Marcegaglia, Mario Monti, Lorenzo Ornaghi, Mario Pirani, Romano Prodi, Alessandro Quadrio Curzio, Paolo Savona, Giulio Tremonti, Giuliano Urbani, Giuseppe Vaciago, Elena Zambon) fanno parte del direttivo di una associazione di schietta ispirazione americana come l’Aspen-Italia. 38 Un ruolo di alto profilo è giocato dal Centro Studi Americani, attualmente diretto da Paolo Messa, divenuto consigliere di amministrazione Rai e ascoltatissimo esperto di relazioni internazionali soprattutto attraverso la sua rivista Formiche, di cui è editore. Tutto questo non vuol dire che le persone citate siano «uomini degli americani» e nemmeno che 324

siano più filoamericani che filo-altro (e ne troveremo qui di seguito di questi nomi, anche in altri gruppi legati a questo o quell’orientamento di politica estera), ce ne sono anche di molto critici verso gli Usa e persino qualche anti-Usa: gli americani sono molto laici, in questo senso, e non pretendono fedeltà assolute, accettano anche semplici interlocuzioni parziali. Tutto questo però dice della capacità di irradiazione dell’influenza americana in tutte le latitudini del nostro mondo politico e, pertanto, della centralità che gli Usa hanno nella rete di relazioni nel nostro sistema politico. A tutto questo si è aggiunta l’ulteriore penetrazione americana del tessuto economico italiano seguita all’ondata della globalizzazione neoliberista. In primo luogo con la nascita della divisione Italia di Goldman Sachs, che ha avuto in Claudio Costamagna (ex Montedison e Citibank) il suo pioniere e che può giovarsi di un’attivisssima schiera di «Goldman boys» 39 coordinati da Massimo Della Ragione (che gestì a suo tempo la fusione Unicredit-Hvb e il passaggio della Bnl alla Paribas, passando successivamente alla Jp Morgan, prima di arrivare alla Goldman). Altro potente vettore dell’influenza economica americana giunto di recente in Italia è la Black Rock, l’astro nascente di Wall Street e la più potente 325

società di investimento al livello mondiale, che ha inglobato la Merrill Lynch Investment Managers (Mlif) nel 2006 e la Barclays Global Investors (Bgi) nel 2009. È da segnalare il vivo interesse che essa sta dimostrando per l’Eni e vanno ricordati anche i molteplici rapporti che la legano alle maggiori società di rating. È da segnalare anche l’arrivo alla testa di Finmeccanica dell’ex capo della Polizia Giovanni De Gennaro, di cui sono noti i cordialissimi rapporti con il mondo istituzionale americano. Quanto alla Fiat, non possiamo non ricordare l’accordo Fiat-Chrysler, che ha suggellato sia il prevalere della dimensione americana su quella italiana del gruppo, sia la correlata e definitiva prevalenza dell’asse Elkann-Marchionne sul ramo torinese della famiglia Agnelli e su Cordero di Montezemolo. Dunque, nessun dubbio sulla netta prevalenza degli amici di Washington su tutti gli altri, ma occorre fare una considerazione a parte per un particolare gruppo di altissimi politici e finanziari (Mario Draghi, Giorgio Napolitano, Mario Monti, Enrico Letta) che, pur essendo sicuramente molto aperti verso le ragioni di Washington, costituiscono il nocciolo duro dell’area dei «pontieri» fra Usa e Ue, gli irriducibili «atlantici», sostenitori della partnership euro-americana. Su questo terreno giocò, 326

nella sua migliore stagione, Massimo D’Alema, che, però, non ebbe molta fortuna, essendosi visto precludere l’accesso alle più alte cariche internazionali (segretario generale Nato, Pesc ecc.) da un testardo veto inglese. Il secondo gruppo di influenza (anche qui la tradizione gioca un ruolo) è quello degli amici di Berlino, che hanno un peso nel nostro sistema bancario sin dalla nascita della Banca Commerciale (che fu fondata nel 1894, appunto, con capitali tedeschi). E grande sensibilità verso gli umori tedeschi, ancora oggi, si registra tanto nel gruppo Unicredit, quanto in quello di Intesa-San Paolo, ma soprattutto in Mediobanca, dove l’Ad Alberto Nagel mostra molta attenzione ai rapporti con la Germania, e nelle Assicurazioni Generali. In campo politico, sin dai primi anni novanta, la Germania ha sempre avuto un partito amico nella Lega, 40 ma, ancor più fattivamente, ebbe un interlocutore molto disponibile in Romano Prodi, in particolare a proposito del negoziato sull’euro. E ricordiamo anche Giuliano Amato, che è stato il principale consulente in Italia della Deutsche Bank. Con il procedere della crisi, le cose sono meno lineari ed evidenti: la Germania di Angela Merkel è piaciuta sempre meno agli italiani, che ormai la considerano la «matrigna d’Europa». Ne consegue che qualsiasi esponente politico è assai cauto nel 327

manifestare favore per Berlino, nel timore di attirarsi antipatie. Quanto alla Lega, è da molto tempo che le sue simpatie per Berlino e la Baviera si sono sensibilmente raffreddate e sono trasmigrate verso Mosca. Particolare è il caso dell’influenza francese, che sembra aver superato uno dei suoi momenti più delicati dopo lo sfavorevole esito della vicenda Alitalia-Air France; è molto forte l’influenza francese nella nostra economia, dopo lo shopping degli ultimi tre lustri: oltre che la Bnl e la Banca Antonveneta, sono passati in mani francesi decine di storici marchi dell’industria italiana come Edison, Ercole Marelli, Fiat ferroviaria, Passoni & Villa, Parmalat, Galbani, Invernizzi, Locatelli, Cademartori, Fendi, Loro Piana, Gianfranco Ferré, Bulgari, Pomellato e molti altri. Inoltre la grande distribuzione in Italia è in larga parte coperta dalle catene Carrefour, Leroy Merlin, Auchan. Negli ultimi tempi la penetrazione francese è entrata in una fase particolarmente intensa soprattutto per le iniziative del presidente del consiglio di sorveglianza della società Vivendi, sia in direzione di Mediobanca (di cui è il secondo azionista con l’8%), che delle Assicurazioni Generali, che verso la Fininvest. Dunque, dati i cospicui interessi accumulati nel nostro paese, non stupisce che la Francia cerchi di 328

coltivarvi un’ampia rosa di relazioni. Come è noto, gli italiani sono il secondo gruppo nazionale (i primi sono, ovviamente, i francesi) nella Legion d’Onore, un riconoscimento assai prestigioso concesso a molti nostri intellettuali (come Franco Rosi, Umberto Eco, Corrado Augias, Riccardo Muti), attrici (Claudia Cardinale), industriali e finanzieri (Giorgio Armani, Carlo De Benedetti), giornalisti (Ferruccio De Bortoli), ma soprattutto esponenti politici (Walter Veltroni, Massimo D’Alema, Luigi Berlinguer, Gianni Letta, Gabriele Albertini). Fra gli altri anche Fulvio Conti, ex Ad e direttore generale dell’Enel e Franco Bassanini, ex presidente della Cdp (membro del consiglio di amministrazione della prestigiosissima École nationale d’administration). Molto ascoltato a Palazzo Farnese, a Roma, è sempre stato anche Giuliano Amato. Discreta ma tenace è la presenza degli amici di Israele, tradizionalmente forti nei partiti laicosocialisti e fra i radicali, e poi sensibilmente cresciuti tanto nel blocco di centro-sinistra quanto in quello di centro-destra. Particolare è la condizione degli ex An (come Fini o Alemanno), che hanno costantemente mostrato sollecitudine verso Israele o la comunità ebraica, anche per prendere le distanze dall’imbarazzante eredità politica fascista. Il che, peraltro, è anche un giusto risarcimento. Ma anche a sinistra amici e simpatizzanti di Israele sono in 329

rigoglioso aumento. Il presidente Napolitano si è speso personalmente in appoggio alla proposta di istituire il reato di negazionismo, ad esempio, 41 ed è da segnalare che il consigliere economico del neosegretario del Pd, Matteo Renzi, è Yoram Gutgeld, nato a Tel Aviv (e poi naturalizzato italiano), laureato all’Università ebraica di Gerusalemme, poi direttore della McKinsey-Italia. Fra le aree di simpatia tradizionali, nell’ultimo decennio, si assiste invece a una caduta verticale delle lobby di Inghilterra e Olanda, più presenti negli anni fra i cinquanta e i novanta. Un calo forse legato a una caduta di interesse strategico del nostro paese nello scenario attuale. Ma sono da considerare anche altre influenze esterne al mondo occidentale. Una influenza da sempre presente in Italia è stata quella russa (all’epoca sovietica) per il tramite con il Pci. Beninteso: il Pci non è mai stato la cinghia di trasmissione del Cremlino in Italia, come la propaganda della destra pretenderebbe, ebbe sempre una sua autonomia e, in diversi momenti (1968-69, 1976-79, 1981), entrò in aperto conflitto politico con Mosca. Ma questo non riguarda gli affari, che non si sono mai interrotti, neppure nei momenti di conflitto politico. Certamente ci fu sempre un continuo flusso di denaro dal Pcus verso il Pci (come verso ciascun partito comunista), 42 ma non si trattò mai solo di 330

questo: il Pci riceveva circa l’1% del valore di ciascun affare intermediato fra aziende italiane e Urss. Dunque un legame e una influenza ci furono, anche se non pregiudicarono l’indipendenza politica del Pci. E, considerando che molti degli attuali dirigenti moscoviti fecero parte, a suo tempo, della nomenklatura sovietica, non meraviglia sapere che alcuni legami sono restati e che uomini che ebbero parte in quelle vicende, come Gianni Cervetti, siano ancora oggi molto ascoltati in Russia. Un caso particolare è quello di Antonio Fallico, presidente di Banca Intesa a Mosca. Già militante del Psiup (il Partito socialista italiano di unità proletaria) in Sicilia e poi del Pci in Veneto, amico di Marcello Dell’Utri, di cui fu compagno di scuola. Da giovane divenne uno dei maggiori dirigenti dell’associazione Italia-Urss (attuale Italia-Russia), che era il canale privilegiato per gli affari delle aziende italiane con l’Urss, attività nella quale si mostrò subito assai abile. A fine anni settanta, fu rappresentante a Mosca della Banca Cattolica Veneta, che, per suo merito, divenne praticamente esclusivista per l’oro russo sul mercato italiano (Vicenza è, con Valenza Po e Arezzo, il principale polo dell’oreficeria italiana. Peraltro la Russia, secondo produttore mondiale di oro, al tempo, non vendeva al fixing ma a trattativa 331

privata). Quando la «Cattolica» venne incorporata nel Nuovo Banco Ambrosiano (1989), Fallico divenne il rappresentante a Mosca del nuovo gruppo, così come, più tardi, lo sarà per il gruppo Intesa. In questo trentennio, Fallico è stato assai abile nel costruire una fitta rete di rapporti con gli uomini in ascesa nel Pcus, destinati a diventare la classe dirigente dopo il crollo dell’Urss. Fra gli altri conobbe anche Vladimir Putin, nei primissimi anni ottanta, quando era vicesindaco di Leningrado. Oggi è, forse, l’italiano più influente a Mosca, ha mediato i rapporti tra Eni e Gazprom, e ha introdotto nel mercato russo anche Enel, Pirelli e Indesit. È stato anche consulente di Fininvest in Russia. Attualmente, attraverso la banca da lui guidata, passa quasi il 100% degli investimenti russi in Italia e il 95% degli investimenti italiani in Russia. A suo tempo, Wikileaks parlò di un personaggio che avrebbe mediato il rapporto fra Eni e Gazprom e che sarebbe stato all’origine del giro di tangenti ai politici italiani, e qualcuno pensò di individuare in Fallico quel personaggio, ma non è stato mai provato nulla, neppure che ci sia stato effettivamente un passaggio di tangenti russe a politici italiani. Di fatto, è certo il rapporto privilegiato fra Silvio Berlusconi e Vladimir Putin che non è sicuramente riducibile ad un mero aspetto personale. Come 332

dimostra il fatto che in più di una occasione il Cavaliere ha manifestato forti aperture nei confronti di Mosca: nel 2002 ne propose l’ingresso nella Ue; durante la crisi georgiana dell’estate 2008 fu schierato a fianco della Russia; nei G8, dal 2009 in poi, è stato più spesso in sintonia con Putin che con Obama e in diverse occasioni si è presentato come mediatore di intese fra Usa e Russia (ma su questo avremmo i nostri dubbi). E la percezione che si ha sulla stampa europea è proprio quella che sia stato il capo di governo occidentale più vicino a Mosca. Così come è noto il ruolo di appoggio svolto da Berlusconi nella vicenda della russa Vtb, di cui si auspicava una partecipazione delle Generali. 43 Attualmente Mosca ha conquistato un nuovo importante alleato nella Lega, che ha sottoscritto un inedito patto con il partito Russia Unita di Vladimir Putin. E, ovviamente, è scontato l’orientamento dell’Eni (sin dai tempi di Paolo Scaroni 44 ) verso Mosca, peraltro obbligato dalla esigenze energetiche del paese. E le stesse ragioni energetiche stanno alla base della presenza del cd. «partito filo-arabo» in Italia sin dai primi anni sessanta, quando l’Eni di Mattei sostenne attivamente la rivoluzione algerina. In questo mezzo secolo il sodalizio più solido è stato certamente quello con la Libia di Gheddafi (a sua 333

volta aiutato dal Sid a realizzare il suo colpo di stato), ed è subito parso evidente a tutti che il maggiore interesse anglo-francese nell’intervento del 2011 era proprio quello di ridimensionare la presenza petrolifera dell’Eni. Così come è parso a tutti evidente l’imbarazzo del governo Berlusconi a intervenire. Anche la Tunisia (pur senza essere produttore di petrolio) è stato un alleato stabile dell’Italia, sin da quando il servizio segreto militare italiano ispirò il colpo di stato del 1987 che portò al potere Ben Alì. Altro «alleato» di Berlusconi, come si è detto, è stata la Turchia di Erdoğan, che il Cavaliere ha sempre appoggiato nella sua domanda di adesione alla Ue. Ma, dal 2011, la situazione è cambiata ed è ancora in forte movimento: in Tunisia è stato deposto Ben Alì, le prime elezioni hanno segnato un’affermazione dei partiti islamisti ed è in corso un braccio di ferro fra loro e i settori laici della rivolta. In Libia, dopo la sconfitta e la morte di Gheddafi, la crisi non si è affatto stabilizzata e perdura una situazione di guerra per bande, che mette spesso a repentaglio le forniture di petrolio. Quasi tutti gli alleati dell’Italia, più o meno recenti, sono caduti e, se consideriamo anche la situazione in Siria ed Egitto, tutto il Mediterraneo meridionale è in pieno caos senza che si possa 334

prevedere né la durata né l’esito di questo rivolgimento. Emergono, però, nuovi contendenti sulla scena, che potrebbero segnare rivolgimenti anche in casa nostra. È il caso della nuova potenza araba, l’emirato del Qatar, le cui riserve petrolifere e, soprattutto, di gas si stimano essere fra le maggiori del mondo e che già oggi ne hanno fatto uno dei paesi più ricchi del Medio Oriente e Nord-Africa. 45 E il Qatar ha un conto aperto con l’Italia (o forse solo con il governo Berlusconi), da quando nel 2005 chiese di potersi agganciare al gasdotto italo-libico-algerino per fare concorrenza al gas russo, e, per tutta risposta, non solo ricevette un rifiuto, ma la Gazprom venne associata al gasdotto libico in questione. Forse sarà un caso, ma il Quatar è stato fra i maggiori finanziatori della guerra in Libia. Considerando che il problema del Quatar è raggiungere i mercati europei, che la via più economica è quella di passare per il gasdotto libico o, comunque, agganciarsi alla rete di tubi italiana (l’unica pronta per collegare da sud le reti europee), è del tutto ragionevole attendersi che il Quatar torni a cercare interlocutori privilegiati in Italia. Così come è plausibile prevedere uno scontro con i russi: per quanto la Russia di Putin abbia alle spalle il grande mercato cinese e possa pensare anche a quello indiano, l’Europa è pur sempre un mercato di sbocco di 335

prima grandezza. L’accordo South Stream è stato pensato dai russi per aggirare l’infida Ucraina (che, dal punto di vista di Mosca, esigeva troppo per i diritti di transito), ma questa non è stata l’unica motivazione, perché con ogni evidenza l’ulteriore – e forse principale – scopo era quello di sbarrare la strada al gasdotto Nabucco, pensato dagli americani per portare agli europei il gas kazako e del centroAsia. E, infatti, dopo la definitiva conferma di South Stream, l’ipotesi Nabucco è svanita (anche se se ne profilano altre). Ma a seguito della recente crisi ucraina e delle sanzioni occidentali, è svanito anche il progetto South Stream. Se all’Europa giungesse l’offerta qatariota, il prezzi del gas russo sui mercati europei crollerebbero e per Putin sarebbe davvero un brutto affare. Infatti, la Russia sta volgendo il suo sguardo a Est con il grande accordo sino-russo del maggio 2014, per una fornitura di gas da 400 miliardi di dollari. Ultimo arrivato sulla scena italiana è il Dragone di Pechino. Ultimo, ma non meno importante. La Cina può contare su un gruppo ristretto, ma qualificatissimo di amici già da una ventina di anni. Il primo a scoprire le sue virtù fu l’allora ministro degli Esteri Gianni De Michelis, che, nel decennio in cui si allontanò dalla politica italiana (1994-2004, quando tornò in pista per le elezioni europee), fu attivissimo nel mediare fra Pechino e le aziende 336

italiane che cercavano di entrare in quel mercato. Tutt’ora è forse, con Prodi, il politico italiano con la migliore conoscenza dell’ambiente cinese. Fra gli amici storici di Pechino va annoverato a pieno diritto anche Giancarlo Elia Valori, storico fondatore della P2 (prima di esserne estromesso da Gelli), già presidente della Società autostrade, della Società meridionale di elettricità e della Confindustria romana. Autore di un libro nel quale spiega quali interessi strategici abbia l’Italia in una partnership privilegiata con la Cina, che – a suo avviso – renderebbe centrale l’area mediterranea; 46 nel complesso, il più riuscito tentativo di presentare le ragioni di una politica filocinese. In epoca più recente, fra gli estimatori del Dragone è giunto anche Franco Bernabè, ma, probabilmente, il nome più prestigioso degli amici di Pechino è quello di Romano Prodi, che è stato ripetutamente in Cina sia da presidente del Consiglio che dopo e che, nel difficile autunno del 2011, tentò ripetutamente di collocare una parte del debito italiano presso il fondo sovrano cinese (ma senza molta fortuna, bisogna dire) e ha tenuto diverse lezioni presso la scuola superiore del Pcc. Soprattutto, nel 2011, accettò di fare da consulente per l’Europa per l’agenzia di rating cinese Dagong. Sul finire del 2012, i servizi segreti del nostro paese approntarono, per l’allora presidente del 337

Consiglio Monti e per il presidente del Copasir D’Alema, un rapporto riservatissimo che, proprio per il fatto di essere riservatissimo, finì sui giornali 24 ore dopo. In esso, si lanciava l’allarme sulla penetrazione economica cinese in Italia. Secondo il rapporto, i cinesi avrebbero messo gli occhi sull’enorme area dismessa della Falck di Sesto San Giovanni, per aprire una filiale della Bank of China; avrebbero fatto man bassa azionaria nel settore dell’automazione industriale, della nautica da diporto, delle tecnologie ambientali ecc., mettendo i brevetti a rischio. Infine, si segnalava il prossimo arrivo in Italia di Dagong. Chissà perché, analogo allarme non era stato dato per la penetrazione francese. Il nome di Prodi non era fatto, ma tutti compresero che il vero bersaglio era lui, che, proprio in quei mesi, era un forte candidato al Quirinale. Ovviamente a tuffarsi golosamente nella faccenda furono i quotidiani di destra come Libero, che Prodi querelò. Ma, ragionevolmente, non furono solo a destra quanti bagnarono il pane in quella zuppa. Ad esempio è ragionevole pensare che almeno una parte dei 101 che affossarono la candidatura Prodi il 18 aprile 2013 ebbe qualcosa a che fare con quello scoop di qualche mese prima. Concludendo questa breve e sicuramente incompleta rassegna, qualcuno avrà notato che qualche nome è comparso in più di un gruppo, il che 338

potrebbe apparire strano. Forse lo sarebbe stato se fossimo ancora nell’ordine mondiale bipolare, per cui (salvo i rarissimi «terzaforzisti» o neutralisti) si stava da una parte o dall’altra, oppure si faceva il doppio gioco. Ma il mondo della globalizzazione è molto diverso: si regge su un ordine multipolare e con sistemi di alleanze «a geometria variabile», per cui due paesi possono essere alleati in un campo e concorrenti o, peggio, avversari in un altro. Uno stesso paese può avere al suo interno agenzie che si muovono in direzione diversa in base al rispettivo interesse settoriale e, soprattutto, la dimensione tattica ha preso decisamente il sopravvento su quella strategica, per cui gli umori possono mutare molto rapidamente. Ne consegue che è possibilissimo che un politico o una banca abbiano legami privilegiati in diverse direzioni, magari per materie diverse o solo in funzione di contrasto di terzi. Dunque, nessuna meraviglia per questa «sfaccettatura» delle partnership: nel mondo della globalizzazione anche le alleanze diventano «liquide», per riprendere il termine caro a Bauman. Quel che conferma, una volta di più, la dipendenza degli equilibri interni italiani da quelli internazionali. Semmai, ciò che colpisce è che, a questa abbondanza di amici degli stranieri in Italia, non fa riscontro la presenza di alcuna lobby italiana in casa 339

altrui. Ma il guaio ancora peggiore è che si faccia fatica a trovare una lobby italiana anche in Italia…

Confindustria e sindacati Dopo una prima fase assai grama, dal 1948 alla metà degli anni sessanta, i sindacati italiani conobbero una stagione di straordinaria fortuna politica e organizzativa. Negli anni settanta, le tre confederazioni stipularono un patto di unità d’azione che, pur non sfociando nell’unità organica, culminò nella costituzione della Federazione unitaria CgilCisl-Uil. Una legislazione assai favorevole (di cui la legge 22 maggio 1970 n. 300, lo «Statuto dei diritti dei lavoratori», fu il più importante ma non unico provvedimento) rese stabile e garantita la presenza del sindacato in fabbrica e il ricorso a forme di lotta «anomale» (sciopero articolato, «salto della scocca», picchettaggi ecc.) assicurò risultati senza precedenti nella contrattazione. Il boom delle iscrizioni (in breve le tre confederazioni passarono da 4 a 9 milioni di iscritti) e il favore di una larga fetta del sistema politico (Pci, Psiup, Psi, sinistra Dc) riconobbero al sindacato una sorta di mandato generale. Il sindacato non era più solo un organismo rivendicativo, ma un soggetto politico a pieno 340

titolo, 47 che si poneva come principale motore delle istanze di rinnovamento sociale ed economico del paese. A decretarlo fu lo sciopero generale per le riforme del novembre 1969. A dire del potere contrattuale del sindacato, basti ricordare le dimissioni del III governo Rumor, nel luglio 1970, al semplice annunzio dello sciopero generale. Alla fase più conflittuale succedette, in particolare dal 1975 in poi, l’epoca della «concertazione» fra governo, sindacato e imprenditoria, che durò sino ai primi anni novanta e che, in particolare dopo la fine della Federazione unitaria, nel 1984, vide gradualmente declinare la capacità di influenza del sindacato. L’epoca «d’oro» ebbe anche importanti riflessi organizzativi e pochi dati possono dare l’idea dell’imponenza organizzativa della Fu: l’apparato sindacale crebbe e, considerando tutte le sue dimensioni organizzative (sia il personale dirigenziale ai vari livelli sia i dipendenti tecnicoamministrativi, sia i funzionari veri e propri che i dirigenti distaccati dalla produzione o in permesso sindacale continuato, il personale delle confederazioni, quello dei sindacati di categoria e quello degli enti collaterali), raggiunse le 130.000 unità. Il bilancio delle tre organizzazioni del 1980 48 era stimato – molto prudenzialmente – intorno ai 400 miliardi, che però non includevano gli enti 341

collaterali. Il sindacato contava qualcosa come 12.000 sedi in tutto il paese con circa 20.000 linee telefoniche. Alcuni enti, come l’Inps, erano a gestione sindacale e circa 26.000 rappresentanti del sindacato sedevano nei consigli di amministrazione dei più diversi enti pubblici (dai conservatori musicali all’Inail, per limitarci a due esempi). In quel periodo i sindacalisti furono a buon diritto una delle tre componenti principali della borghesia burocratica di Stato, con il personale di partito e quello degli enti a Ppss. Fra la metà degli anni ottanta e la fine dei novanta, prendeva avvio la decadenza del sindacato, che perdeva gran parte del suo peso politico, pur conservando il suo gigantismo organizzativo. I processi di delocalizzazione industriale, il mutare del clima generale sempre meno favorevole al sindacato, la fine della Prima Repubblica e l’emergere di un sistema politico in larga parte ostile alle tre confederazioni maggiori, la diffusa precarizzazione del lavoro che ha allontanato le giovani generazioni dall’azione collettiva ecc. determinarono una rapida decadenza del sindacato nella società italiana. Ma a queste cause per così dire «esterne» occorre aggiungerne altre strettamente dipendenti dalle scelte politiche del sindacato: la rottura della Fu, seguita allo scontro sulla questione della scala 342

mobile, nella primavera del 1984, la crescente mancanza di democrazia interna con la correlata cristallizzazione dell’apparato sempre più senescente, l’abbandono della dimensione conflittuale in favore di pratiche cogestive e di forme di azione puramente dimostrative (l’inutile liturgia di scioperi generali senza reali obiettivi e senza una coerente azione politica precedente e successiva), l’affermarsi di una leadership apicale sempre più incolore e mediocre sono state cause ancora più importanti di questa marginalizzazione del sindacato. Va detto che anche in altri paesi occidentali il sindacato ha seguito la medesima traiettoria di sostanziale resa al neoliberismo che ne ha decretato la marginalità, come ad esempio nel caso australiano. 49 Da tempo il sindacato ha rinunciato a un ruolo politico di fattore di mutamento sociale e ha certificato questa sua inconsistenza con il sopravvenire della crisi economico-finanziaria, nella quale non è stato in grado di formulare alcuna proposta, né a livello nazionale né a livello europeo, dove la Ces continua a lavorare su aspetti assolutamente marginali dello scontro sociale. Non c’è stato neppure un tentativo di definire una politica comune dei sindacati europei né in risposta alla crisi né in tema di lotta all’evasione fiscale e alla rendita finanziaria, di gestione del debito pubblico, di 343

misure di contrasto alla delocalizzazione ecc. Da un punto di vista politico, il bilancio sindacale europeo di fronte alla crisi rappresenta uno zero assoluto. Di conseguenza, i sindacalisti oggi escono dalla galassia delle classi dirigenti, dovendo accontentarsi di sopravvivere alla testa di un apparato che ha il suo principale punto di forza nei patronati, che svolgono attività assistenziale nella compilazione delle domande di pensione, delle dichiarazioni dei redditi ecc. Essi ormai rappresentano solo il riflesso residuale di quella frazione della borghesia burocratica di Stato che erano stati. Parallela, anche se con una sfasatura nei tempi e qualche differenza nei modi è stata la vicenda del contraltare dei sindacati, la Confindustria, che è di gran lunga la più importante associazione imprenditoriale del nostro paese. Il ventennio della Seconda Repubblica era iniziato nel migliore dei modi per l’organizzazione di viale dell’Astronomia: lo scioglimento delle Ppss comportò a breve distanza quello dell’«eresia» di Intersind, l’organismo che rappresentava le aziende a Ppss. Le aziende già appartenute all’Iri e all’Efim confluivano ordinatamente in Confindustria, così come l’Eni e Alitalia, Ferrovie dello Stato ed Enel. Dunque Confindustria aveva il monopolio di rappresentanza del mondo imprenditoriale, per nulla scalfito dalla piccola Confapi che vive ai margini del 344

sistema contrattuale. E questo in un momento in cui iniziava il forte declino del sindacato. Ma già al momento di passaggio fra gli anni novanta e il nuovo secolo, iniziarono a manifestarsi i primi segni di una sua crisi. Il primo scontro riguardò l’elezione del presidente che avrebbe dovuto succedere a Giorgio Fossa. Sino a quel momento, la scelta del presidente della Confindustria aveva visto protagoniste le maggiori imprese e, prima fra tutte, la Fiat, grazie alla norma di statuto che attribuisce a ciascuna impresa un peso ponderale in base al numero di dipendenti. Per cui l’accordo di pochi grandi potentati (più o meno gli stessi frequentatori del «salotto buono») creava un blocco contro il quale la miriade dei piccoli non aveva molte speranze. Per cui, anche in quella occasione la Fiat, con i soliti amici del «salotto», presentò il suo candidato, Carlo Callieri; ma emerse un blocco di «piccoli» che candidò Carlo D’Amato, sul quale confluì l’appoggio di Silvio Berlusconi (che, oltre che la sua impresa, portava anche i voti di alcune imprese pubbliche confluite in Confindustria), che, in questo modo, si rifaceva della freddezza che la Fiat aveva sempre mostrato nei suoi confronti. 50 L’appoggio di Berlusconi e di qualche altro maggiorente ribaltò i rapporti di forza e D’Amato vinse. Era una sconfitta storica che, peraltro, rifletteva il mutamento dei 345

rapporti di forza fra le grandi imprese (con sempre meno occupati) e la miriade delle piccole e piccolissime imprese che si era andata formando, spesso per l’indotto di quelle grandi, ma con un numero di dipendenti in aumento. Montezemolo riconquistava la presidenza della Confindustria per conto della Fiat nel 2004, ma solo grazie a una alleanza con Emma Marcegaglia (con diritto di staffetta), Vittorio Merloni, Diego Della Valle, Luigi Abete e Andrea Pininfarina. Tuttavia la Fiat non riusciva più a essere egemone, soprattutto da quando Marchionne aveva iniziato a guardare verso gli Usa. Sembrò riconquistato l’antico equilibrio, ma la frattura era rimarginata solo superficialmente e la Fiat, anche per effetto della sua proiezione internazionale, fu sempre più un corpo estraneo in Confindustria, sino a quando, a seguito dei dissensi sulla contrattazione sindacale, nell’ottobre 2011, uscì da Confindustria. Ovviamente, l’uscita della maggiore impresa industriale del paese era un colpo molto serio per l’organizzazione, nella quale i maggiori azionisti diventavano Eni, Enel, Trenitalia, Poste Italiane, tutte imprese pubbliche che fanno riferimento al Ministero del Tesoro: a quel punto non era Confindustria ad aver assorbito l’ex Intersind, ma la vecchia Intersind ad aver fagocitato Confindustria. Un indicatore utile degli spostamenti di potere in 346

Confindustria sono le vicende di Assolombarda (la maggiore associazione regionale). Fino al 2001 ebbe presidenti graditi alla Fiat. Poi venne eletto Michele Perini (sulla scia dei voti dei piccoli imprenditori), quindi la milanesissima Bracco, cui seguì Alberto Meomartini, poi Gianfelice Rocca (Techint, Tenaris, Dalmine, Humanitas), l’uomo più ricco d’Italia insieme a Berlusconi. Tutta gente in gran parte espressione della piccola e media impresa, diversa dal giro abituale del salotto buono. Un nuovo fronte si aprì nel maggio 2013, con una lunga intervista di Guido Barilla (dell’omonimo gruppo), 51 nella quale si accusava la Confindustria di aver abdicato al suo ruolo di rappresentante del mondo industriale, in favore di una logica di sistema di tipo politico. E sollevava una questione di conflitto di interessi per aver accolto come membri Eni, Enel e Ferrovie, che non sono imprese manifatturiere, bensì loro fornitrici e, per ciò stesso, portatrici di interessi diversi e contrapposti a quelli delle aziende loro clienti. Ma questo argomento del conflitto di interesse, pure impeccabile in sé, non convince del tutto. È vero che nella stessa intervista Barilla attaccava anche la federazione di categoria del settore alimentare, per aver ammesso tanto i produttori quanto i trasformatori di materie prime, ma il cuore del problema era un altro: Eni, Enel, Ferrovie, cui va aggiunta Finmeccanica, sono 347

imprese di cui l’azionista di riferimento è il Ministero del Tesoro e rappresentano circa il 7% dei voti congressuali (si tenga presente che la Fiat non ha mai superato il 5% e la Telecom l’1%), un pacchetto di tutto rispetto, di cui ogni candidato alla presidenza non può non tenere conto (e il ricordo dell’elezione di D’Amato è ancora vivo). Quindi, il sottinteso di Barilla è che ogni presidenza è condizionata dal governo per il tramite del gruppo di società controllate dal Tesoro. Nello stesso periodo un gruppo di imprenditori essenzialmente lombardo-veneti, capeggiati da Paolo Agnelli (imprenditore metalmeccanico bergamasco, nessuna parentela con i più noti industriali torinesi), si distaccava da Confindustria dando vita alla Confimi-impresa, che, già poco dopo la fondazione, contava 23.000 aziende per un totale di 350.000 dipendenti. 52 Nello stesso tempo sono sorte una miriade di associazioni di impresa (impossibile la stima) diverse, le quali hanno iniziato a confederarsi dal 2013 nel movimento «Salviamo l’Italia», promosso alla Confapri di Massimo Colomban 53 e da Arturo Artom, e minacciano forme di «sciopero fiscale bianco» 54 e ricorsi alla Corte Costituzionale contro l’Irap. Si tratta di un movimento sorto dalla protesta contro l’euro e contro l’eccessiva pressione fiscale; accusano la Confindustria di non esercitare 348

un’azione efficace nei confronti del governo. Dunque, una crisi segnata da scissioni, perdita di peso politico, incrinature interne, ma caratterizzata soprattutto da un elemento: la perdita di ruolo della Confindustria nell’attuale quadro di relazioni sindacali e nell’attuale configurazione di potere del paese. La Confindustria ha avuto un ruolo in epoca liberale come rappresentante dell’imprenditoria industriale italiana, nei confronti di governo e del sistema bancario 55 e come avversario del nascente movimento operaio organizzato. Durante il fascismo ebbe un ruolo sempre come rappresentante dell’industria verso Stato e banche nel quadro corporativo. 56 Poi, durante la Prima Repubblica, tornò a essere il contraltare contrattuale del sindacato in un sistema di contrattazione collettiva nazionale di categoria. Alla quale, peraltro, si aggiunse un ruolo più generale nel periodo della «concertazione» triangolare fra Stato, sindacato e parti imprenditoriali. Ma, oggi, il sistema contrattuale di categoria è a pezzi e via via si fa strada una contrattazione aziendale con sempre più ampie deroghe, mentre una larghissima fetta di lavoro precario vive di fatto al di fuori di un vero e proprio sistema contrattuale e non è organizzato che in minima parte dal sindacato. La concertazione è diventata un ricordo lontano anche per la perdita di peso del sindacato e lo Stato è 349

largamente condizionato dalle raccomandazioni Bce. Di fatto, la crisi del modello di relazioni industriali del periodo welfarista si è tradotta nella crisi tanto del sindacato quanto della Confindustria che, pure, continua ad avere quasi 150.000 imprese associate per un totale di 5 milioni e mezzo di addetti, ma è solo una inutile burocrazia senza scopo.

Loggia Continua Quanto conta oggi la Massoneria in Italia? È ancora uno dei poteri forti? La Massoneria storicamente lo è certamente stata, uno dei poteri forti: massoni sono stati molti presidenti del Consiglio, Re e presidenti della Repubblica, legioni di ministri e parlamentari; alla Farnesina, nell’Arma dei Carabinieri, nelle Forze Armate, nella Banca d’Italia (per non dire del mondo bancario in generale) le Logge ebbero a lungo i loro santuari. La parentesi del fascismo non valse a sradicare la presenza massonica, che riprese in pieno all’indomani della Liberazione. Semmai un limite alla sua influenza veniva dalla storica divisione fra l’obbedienza più anticlericale di Palazzo Giustiniani e quella più «accomodante» di Piazza del Gesù, cui si era aggiunta, dal 1960, una terza obbedienza, quella degli «Alam». Basti 350

scorrere il piedilista della loggia P2 (che sappiamo incompleto) per rendersi conto del peso e dell’influenza massonica nei gangli più delicati dello Stato e della politica, in Italia. 57 Ma fu proprio l’esplosione dello scandalo P2, nel 1981, a innescare la più grave crisi dell’organizzazione nella storia italiana. Il gran Maestro Achille Corona (sostenuto dal presidente Pertini) cercò di ripulire l’associazione dal seguito gelliano, ma fu tutto inutile: la Massoneria divenne senz’altro sinonimo di P2 per gli italiani. In questo influirono una serie di condizioni sfavorevoli: il pregiudizio cattolico contro la Massoneria, l’ostilità dell’area comunista, che vedeva in essa (non a torto) uno strumento di propaganda anticomunista, l’intreccio fra la loggia gelliana e molti affari poco puliti della storia repubblicana, ma, più di tutto, influì il sospetto che da sempre la Massoneria suscita per la sua segretezza. E uno dei punti più controversi, sia nelle discussioni giudiziarie che nel seno dell’apposita Commissione Parlamentare di Inchiesta presieduta dall’onorevole Tina Anselmi, fu proprio se si dovesse considerare la P2 società segreta o no. Emersero tre posizioni (senza che, peraltro, il nodo fosse sciolto): c’era chi riteneva che segreta fosse solo l’associazione che tenesse celata la sua esistenza, chi diceva che tale fosse quella che non rendesse pubblica la lista dei suoi aderenti, e chi 351

pensava che rilevante fosse il segreto nelle sue discussioni interne e sulle sue azioni esterne. Come si è detto, inizialmente la Massoneria fu un soggetto di azione clandestina contro i poteri costituiti del tempo, ma, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, essa assolse soprattutto al compito di «partito orizzontale» delle classi dominanti, trasversale a ogni altro schieramento politico, settore professionale, appartenenza religiosa ecc. Dunque, non più opposizione che aspira a farsi potere costituente, ma potere costituito che usa il segreto come schermo delle proprie attività. Il segreto non ebbe più una funzione protettiva e attenuò fortemente la sua funzione simbolico-identitaria, per diventare parte degli arcana Imperii. La complessa simbologia massonica, pensata in funzione di un sapere iniziatico da negare ai non appartenenti al sodalizio, 58 è andata via via decadendo per ridursi a interessare pochi cultori della materia e anche la pratica rituale (che era una sorta di contraltare della liturgia cattolica) è andata gradualmente scomparendo. Quasi tutti gli aderenti alla P2 hanno riferito di iniziazioni assai sbrigative e per nulla conformi al cerimoniale stabilito, di assenza totale di ritualità nei rapporti interni e la stessa corrispondenza interna (il poco che è stato trovato) ha i caratteri di una qualsiasi comunicazione «profana» (per usare il linguaggio massonico). Quel 352

che contava era la capacità di influire sulla politica del paese. Anche dal punto di vista dei contenuti dell’azione, non c’era più nulla di riconducibile alla cultura massonica delle origini, celebrata da Fichte o Lessing, ma un orientamento perfettamente conforme alla cultura della destra conservatrice e basti confrontare il tanto citato «Progetto di Rinascita Democratica» con i progetti della Trilateral 59 per riscontrare i numerosi punti di convergenza. L’esplosione dello scandalo P2 diede vita a una immagine forzata della loggia di Licio Gelli, indicata come sorta di «stato maggiore occulto» della politica, della finanza, dell’informazione, dei servizi segreti ecc., essenzialmente in funzione «atlantica». In realtà le cose stavano in modo un po’ diverso, perché la P2 più che uno stato maggiore fu una «camera di compensazione» fra gruppi rivali, talvolta contrapposti sino al limite di estreme lacerazioni. Quello che conta nel metodo massonico non è l’organizzazione, ma la prassi, che è una prassi di relazioni coperte e trasversali. La conferma è venuta con i successivi casi (fra il 2010 e il 2012) «P3» e, più ancora, «P4». Il primo investì l’ex coordinatore del PdL Denis Verdini, il senatore Marcello Dell’Utri, il sottosegretario alla 353

Giustizia Giacomo Caliendo, il presidente della Regione Sardegna Ugo Cappellacci, il coordinatore del PdL in Campania Nicola Cosentino, il faccendiere Flavio Carboni, l’imprenditore Arcangelo Martino e il magistrato tributarista Pasquale Lombardi. Il secondo ha riguardato il deputato del Pdl Alfonso Papa e, soprattutto, Luigi Bisignani, che era un veterano della P2. In entrambi i casi la magistratura inquirente si è orientata verso l’ipotesi di una società segreta ma, almeno sin qui, non è emerso granché che dimostrasse l’esistenza di una società formalizzata e, per di più, in seno alla Massoneria. È stata appurata l’appartenenza, nella maggior parte dei casi passata, di taluni inquisiti a logge massoniche, ma non qualcosa che collegasse quei gruppi di persone a una specifica obbedienza massonica. Questa formula giornalistica («P3» o «P4») rischia di confondere le idee più di quanto non le chiarisca. Evocare il precedente della P2 fa pensare a una associazione segreta, con tanto di liste di affiliati, schede di adesione, cariche sociali ecc. Ma, per ora, nulla ci dimostra che questo organismo esista o sia esistito o che Bisignani ne sia stato a capo. Quello che è emerso sono le registrazioni delle sue conversazioni, le sue agende, la sua rete di rapporti e un mazzo di deposizioni che riferiscono di 354

fatti e comportamenti, ma non tirano in causa alcuna organizzazione segreta o no. Unico e vago contatto assimilabile a qualcosa del genere è quello che ha riferito Tremonti ai magistrati parlando di «cordate» nella Guardia di Finanza, ma si tratta di una cosa a sé stante e «cordata» non significa organizzazione. Quello che abbiamo davanti è una ragnatela di rapporti da cui scaturiscono episodi di corruzione, di condizionamenti del terzo e del quarto potere, di intrighi politici e finanziari, di carriere troncate e di rapide ascese. Bisignani ha presentato tutto questo come una attività di lobbying, lamentando che in Italia le lobby non siano riconosciute e regolamentate per legge. E, in effetti, negli Usa molte delle sue attività – come la raccolta di fondi per sostenere la campagna elettorale di un partito o di un candidato e la conseguente attività per ottenere benefici di legge a favore dei sottoscrittori – sarebbero considerate tipiche attività da lobbist. Il primo dato che balza agli occhi è proprio l’alta informalità di questa rete di potere: nessun rapporto di subordinazione formale lega Bisignani alla Prestigiacomo o a Scaroni o a Masi, né risulta che egli ricopra una qualche carica istituzionale o nel Pdl e neppure che abbia avuto una qualche delega formale da parte di Berlusconi. Eppure dalle tre «ministre» berlusconiane a Frattini, da Scaroni a 355

Masi, da Papa a Santini tutti hanno ritenuto di doverlo consultare e di considerare in sommo grado il suo illuminato parere. Ed è lui stesso a definirsi uno che, in ambienti e momenti particolari, deve essere consultato. 60 E per fare questo non ha bisogno di organizzazioni, gli basta una agenda e un telefono: la forza di Bisignani sta nella sua grande capacità di tessere relazioni e nel capitale di informazioni che ne deriva. Gianni Letta è stato sincero quando ha detto: «Luigi è persona brillante e bene informata. È amico di tutti. È l’uomo più conosciuto che io conosca. Bisignani è uomo di relazioni». Appunto, un uomo di relazioni molto ben informato. E questo ha un valore inestimabile nell’epoca della globalizzazione neoliberista, che, come abbiamo detto, ha segnato una sempre minore trasparenza del potere politico ed economico. E, quando il potere si fa opaco, l’informazione diventa un bene raro e, perciò stesso, ad altissimo valore aggiunto. Perché il diverso accesso alle informazioni crea asimmetrie informative che sono alla base dei rapporti di forza. Se io so, in anticipo rispetto agli altri, una notizia che provocherà una forte variazione del prezzo del grano, avrò un vantaggio determinante in borsa, allo stesso modo in cui se ho accesso esclusivo alle informazioni derivanti da intercettazioni telefoniche (di concorrenti finanziari 356

o politici, poco importa) ho un vantaggio non recuperabile dagli altri e così via. Forse una P4 o una P3 esiste, ma Bisignani (che fu il più giovane piduista) non ne avrebbe bisogno, perché lui stesso è una «P2» vivente. Anche la definizione di «faccendiere» (versione spregiativa di lobbist) che gli viene attribuita, quasi per un riflesso condizionato, gli va decisamente stretta: lui è molto di più. Egli è il «manager del potere nascosto» che gestisce importanti asimmetrie informative. Una nuova figura professionale (se ci si passa l’espressione) che assomma diversi profili precedenti e al massimo livello: il lobbist, l’avvocato d’affari, il public relations man, il consulente finanziario, il mediatore di conflitti, il tutto con una spiccata vocazione all’intelligence. Una figura richiesta proprio dagli assetti di potere attuali, che fondono politica e finanza, che chiedono costante aggiornamento informativo ma che, soprattutto, sono caratterizzati da una forte carenza di regole. Il funzionamento del sistema procede per «cordate», che, appunto, non sono organizzazioni o istituzioni e vivono sin quando ci sia convergenza di interessi, per riaggregarsi in altre cordate perdendo vecchi partner e acquisendone di nuovi. Una forma di organizzazione del potere basata solo sulla convenienza del momento, quindi, per definizione, instabile, ma, soprattutto, «coperta» e priva di regole 357

cogenti. È in questo quadro che acquista funzione la presenza di personaggi come Bisignani: questa assenza di regole condivise e questa organizzazione del potere per rete clanica esige la presenza di mediatori che compongano i conflitti, spianino la strada agli accordi, favoriscano la conclusione di affari. Tutte cose che richiedono senso politico, vasta rete di relazioni, conoscenze di ordine giuridico, economico e politico, ma soprattutto grande abilità nella raccolta di informazioni riservate. Per questo possiamo parlare di «manager del potere nascosto», che è ben altro che un semplice faccendiere o, se si preferisce, lobbist. D’altra parte, questa attività di «relazioni coperte» non è del solo Bisignani o della sola Massoneria. Si badi, affari non necessariamente illegali, perché nella maggior parte dei casi il cono d’ombra è un valore in sé, che perimetra e definisce soggetti e protegge assetti di potere. E che è funzionale alla gestione delle asimmetrie informative. Ma, allora, che differenza c’è rispetto al tanto celebrato «metodo Aspen»? Di esso leggiamo nella home del suo sito: Il «metodo Aspen» privilegia il confronto e il dibattito «a porte chiuse», favorisce le relazioni interpersonali e consente un effettivo aggiornamento dei temi in discussione. Attorno al tavolo Aspen discutono leader del mondo industriale, economico, finanziario, politico, sociale e culturale in condizioni di assoluta

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riservatezza e di libertà espressiva.

In Italia, peraltro, sono presenti anche delle «fondazioni» che si propongono come la versione italiana dei «think tank»: Ferdinando Adornato fondò, già negli anni novanta, la fondazione «Liberal», poi Massimo D’Alema e Giuliano Amato dettero vita a «ItalianiEuropei», cui fece seguito «Mezzogiorno-Europa» (Giorgio Napolitano), «Free Foundation» (Renato Brunetta), «Astrid» (Franco Bassanini), «Nens» (Vincenzo Visco-Luigi Bersani), «Glocus» (Linda Lanzillotta), «Magna Carta» (Gaetano Quagliariello), «Nuova Italia» (Gianni Alemanno), «Fare Futuro» (Gianfranco Fini), «Cloe» (Marco Minniti), «ItaliaDecide» (Luciano Violante- Alfio Marchini), e già esistevano da molto tempo la Fondazione Agnelli (Fiat), l’Ispi, lo Iai, Prometeia. Sulla carta, una simile proliferazione dovrebbe produrre una valanga di pubblicazioni, studi, ricerche, convegni, seminari ecc., che, per la verità, non è dato di vedere se non per pochissime sigle. In realtà, l’esperienza americana è ben altra cosa. I «Tt» nacquero nel periodo del New Deal come supporti istituzionali composti da sociologi, economisti, politologi, storici ecc. incaricati di approfondire l’analisi sui singoli problemi e proporre soluzioni adeguate (lo slogan era «aiutare il governo a pensare»). Poi, negli anni sessanta, 359

iniziarono a sorgere istituzioni private come la «Brookings Institution» e, in seguito, i «Tt» ideologici legati alla destra repubblicana (come la «Heritage Foundation», la «Hoover Institution», il «Cato Institute» ecc., di cui molte sono coordinate dalla «Philantropy Roundtable»), che avevano avuto un antesignano nell’American Entreprise Institute (Aei), fondato nel 1943. I «Tt» sono definiti «università senza studenti» proprio per il carattere eminentemente di ricerca che hanno. 61 Si tratta di organizzazioni di grandi dimensioni e forti finanziamenti: per fare qualche esempio, la Aei, nel 2007, ha avuto un bilancio annuo di 25 milioni di dollari, 71 ricercatori regolarmente stipendiati e 93 unità di personale tecnico amministrativo e ha pubblicato 17 volumi; la Heritage, nello stesso anno, ha avuto un bilancio di 46 milioni di dollari, 59 ricercatori, 134 dipendenti amministrativi e ha pubblicato 3 libri e 90 Policy briefs; la Brookings 58 milioni di dollari, 141 ricercatori, 160 amministrativi e ha pubblicato 52 volumi. In Italia, le uniche due cose che (almeno per produttività) possono essere paragonate a un think tank americano sono Il Mulino e la rivista Limes. Il Mulino è sorto nei primi anni sessanta con l’appoggio della Johns Opkins University di Bologna e ha dato vita a una importante casa editrice 360

che pubblica decine di riviste di carattere scientifico, prevalentemente nell’area delle scienze sociali e politiche. Limes ha una produzione ricca e di alto livello con una rivista che, con i supplementi, pubblica non meno di 2.000 pagine l’anno, cura un sito on line aggiornatissimo e organizza decine di conferenze e convegni all’anno. Un bilancio che non ha neppure l’Aspen Insitute Italia, che pure pubblica una rivista simile a Limes, e che ospita sostenitori (come quelli che abbiamo citato precedentemente) che, si immagina, non facciano mancare il loro generoso contributo. La netta maggioranza delle fondazioni Italiane non ha che pochissimi dipendenti (spesso fatti pagare surrettiziamente da qualche ente pubblico), non produce neppure un titolo all’anno, al massimo organizza qualche stanca conferenza con lo scopo di celebrare il proprio anfitrione. Un po’ corte del principe, un po’ canale collettore di finanziamenti, un po’ lobby, esse assolvono soprattutto al compito di organizzare una rete di relazioni intorno al proprio capo, come dimostra la forte ricorrenza di nomi nei consigli di amministrazione o nei «comitati scientifici» di ciascuna di esse. Appunto, un nodo per fare relazioni… non tutte le logge appartengono alla Massoneria.

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Capitolo sesto Dalla Seconda alla Terza Repubblica

Lo stato del paese Nel 2013, anno di apertura della crisi della Seconda Repubblica, lo stato del paese si presentava in questo modo: 1. il 29,9% degli italiani era a rischio povertà (e nel Sud il 48%); il 21,2% non era in grado di riscaldare la casa e il 16,8% aveva difficoltà a procurarsi un pasto proteico ogni due giorni; nella Unione europea si registravano dati peggiori solo nei paesi dell’Europa orientale (ma non in Polonia e Repubblica Ceca). 1 Di conseguenza, la morosità per bollette e rate condominiali, nel 2012, era cresciuta sino a 33,72 miliardi di euro, 2 mentre si segnalavano sempre maggiori casi di mancata corresponsione di alimenti a coniugi separati, di evasioni 362

contributive, di crescenti ritardi dei pagamenti a fornitori da parte delle imprese commerciali e industriali. 2. Altri segnali preoccupanti venivano dal settore immobiliare: nel secondo trimestre del 2013 la compravendita di case era precipitata del 23%, 3 mentre si segnalava un significativo aumento delle «vendite della nuda proprietà» di appartamenti e cioè molti anziani vendevano la casa (a un valore sensibilmente ridotto) riservandosene solo l’usufrutto a vita, azzerando l’eventuale eredità, a tutto vantaggio delle imprese immobiliari, che erano le maggiori acquirenti. Occorre anche considerare che nel 2012 gli italiani avevano pagato 41 miliardi di euro per tasse sulla casa (dei quali poco meno della metà provenienti dal gettito Imu). 4 3. Ma la situazione più allarmante era quella delle imprese e in particolare di quelle manifatturiere: nel solo 2012 (anno successivo all’introduzione delle misure di austerity di Monti) erano state chiuse 130 grandi fabbriche e, secondo l’Istat, le industrie con più di 250 addetti, che nel 2003 erano 1.534, dieci anni dopo erano calate a 1.466: fra il 2005 e il 2012 le grandi industrie avevano perso circa 120.000 dipendenti. 5 La crisi aveva fatto strage di aziende: dal 2008 al 2013 avevano chiuso i battenti in 1.600.000 6 ed 363

è significativo che nel 24,3% dei casi come motivo determinante fosse indicato l’eccesso di pressione fiscale. La produzione di auto, infine, era tornata ai livelli del 1958. 7 Nessuna Regione italiana figurava fra le prime cento Regioni dell’Unione europea per competitività. 8 In interi comparti produttivi l’Italia è stata espulsa e molti marchi di eccellenza – o comunque di prestigio – erano stati acquistati da investitori stranieri, e la tendenza è poi proseguita. Molti marchi italiani hanno un’ottima immagine internazionale e sono appetibilissimi, ma soffrono della storica scarsità di capitali che ha sempre afflitto la nostra industria e, in particolare con lo svilupparsi della crisi che ha stretto le imprese nella tenaglia di fisco e interessi bancari, essi devono ricorrere a capitali stranieri per sopravvivere. Al collasso della grande industria corrispondeva, però, un tenace tessuto di piccole e medie imprese, grazie al quale l’Italia, dopo la Germania, resta la maggiore economia manifatturiera d’Europa. Sulle sofferenze del sistema produttivo incideva, già nel 2013, l’endemico ritardo nei pagamenti da parte della Pubblica amministrazione. Nei primi mesi del 2012, l’allora presidente del Consiglio, Mario Monti, promise alle imprese di restituire entro l’anno 10 miliardi per i crediti maturati a vario 364

titolo: a gennaio 2013 ne erano stati restituiti solo 3 milioni, lo 0,03%. Considerato che le imprese vantano crediti verso lo Stato per 70 miliardi, se si fosse mantenuta la media di 36 milioni l’anno, il debito si sarebbe estinto in circa 1.900 anni. 9 Secondo il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, l’indice di competitività del nostro paese, nel settore manifatturiero, era costantemente peggiorato: negli anni settanta era di 6,5 per ora lavorata, negli anni ottanta era già di 3,2, per passare a 2,6 negli anni novanta e precipitare allo 0,4 del 2013: dal 2003 al 2012 era sceso del 2% all’anno. 10 Contemporaneamente, si era ulteriormente aggravato il peso dei ritardi burocratici: per realizzare un capannone ci volevano in media 258 giorni per avere le autorizzazioni necessarie, contro i 26 necessari negli Stati Uniti. 11 Conseguentemente, il tasso di disoccupazione era salito e nel Sud (da dove, in dieci anni, sono emigrate 2.700.000 persone) è al 28,4%: per la prima volta dopo l’Unità e dopo la breve parentesi dell’epidemia di spagnola nel 1919, i nati vivi nel meridione sono meno dei morti e il saldo demografico è negativo. 12 Anche le aziende del terziario avanzato, nello stesso decennio 2003-12, erano scese da 1.316 a 1.254. E neppure le banche se la passano troppo bene, se, rispetto al 2007, hanno dovuto chiudere 365

4.591 sportelli. 13 La borsa – da sempre non troppo florida in questo paese – era scivolata al 23o posto nella graduatoria mondiale, dopo aver sistematicamente segnato risultati negativi per dieci anni consecutivi. 14 Peraltro, la crisi, come sempre, aveva reso i poveri più poveri... e i ricchi più ricchi: come avvertono gli studi periodici elaborati dalla Banca d’Italia, la metà del patrimonio complessivo nazionale è in mano al 10% degli italiani e l’indice di concentrazione della ricchezza (Indice di Gini) è ulteriormente salito. 15 Stessa dinamica nelle retribuzioni: fra il 2008 e il 2012, mentre la retribuzione media dei dirigenti era calata del 4,3%, quella degli operai dell’8,3%. Già questi erano i dati di una Caporetto socioeconomica: la peggiore crisi economica del paese dal 1945 al 2013, ma nei due anni successivi la situazione, anche se di poco, continuò a peggiorare: nel 2015 la morosità per rate condominiali era triplicata passando dal 12 al 25%, 16 gli sportelli delle banche scendevano di ulteriori 400 unità circa. 17 Qualche timida ripresa si profilava a fine 2016 per il mercato immobiliare, nel quale si registrava un incremento medio delle transazioni del 20,3% rispetto al dato del 2014 e Nomisma stima che, se lo scenario si manterrà positivo, il 2017 366

dovrebbe registrare 552.602 compravendite, con un rialzo del 6,9% sul 2016. 18 Ma per tornare a ritmi più lenti nel 2018 (+4,9% a livello annuo). Va tenuto presente che in questo periodo il mercato immobiliare ha goduto dei tassi molto contenuti prodotti dai ripetuti quantitative easing della Bce. Dopo ulteriori cali nel 2014 e 2015, qualche altro timidissimo segnale di ripresa è venuto per le imprese nel 2016 con lo 0,7% in più rispetto all’anno precedente, ma più nel settore dei servizi che in quello della manifattura 19 (MovimpreseInfocamere, 31 gennaio 2017). A fine 2016, secondo i dati Istat, il tasso di disoccupazione complessivo si attestava al 12%, ma con un tasso giovanile ancora in salita che superava il 40%. 20 La cura di liquidità a getto della Bce ha ottenuto solo risultati marginali, che non hanno invertito le tendenze negative in atto. 21 L’economia italiana, che nei primi anni novanta era la quinta del mondo, non è neppure più fra le prime otto: superata anche da Brasile e Russia, è al nono posto e le previsioni parlano di una esclusione dalla «top ten» con un vicino sorpasso di Canada e India. 22 Come si vede, non si può parlare di alcuna ripresa ma al massimo di una stabilizzazione che, però, avviene ai livelli più bassi della storia recente 367

del paese. Anche dal punto di vista strategico, l’Italia ha perso peso: il crollo del blocco orientale le ha sottratto quella posizione di «marca di confine» che, sino a un recente passato, le assicurava qualche riguardo da parte del principale alleato; per di più l’asse strategico mondiale, da tempo, si sta spostando con decisione dall’Atlantico verso l’Oceano Pacifico e ciò implica un’ulteriore periferizzazione dello scenario mediterraneo e, di conseguenza, dell’Italia. 23 La tendenza è andata via via confermandosi soprattutto nel periodo dei governi di centro-destra: Berlusconi ha sempre ritenuto che per fare una buona politica estera fosse necessario, e sufficiente, che il premier fosse amico dei maggiori personaggi politici 24 e, in questo quadro, i rapporti preferenziali andavano verso gli Stati Uniti di George W. Bush e verso la Russia di Vladimir Putin (le due potenze concorrenti dell’Unione europea). Dall’altro in qualità di presidente del Consiglio, egli ha intessuto una politica internazionale basata su alcuni accordi economici chiave, nei quali ha guardato essenzialmente alla Russia, alla Libia e alla Turchia, trascurando del tutto i grandi mercati emergenti asiatici 25 e mancando di dare il necessario risalto politico, e non solo economico, all’Italia. Né ha giovato l’immagine personale del Cavaliere fra 368

scandali sessuali, pasticci giudiziari, interessi personali e gaffe internazionali. I governi di centro-sinistra non hanno migliorato di molto la situazione perché, pur non esibendo il profilo impresentabile degli altri, hanno svolto un’azione poco significativa e assolutamente priva di iniziativa che, alla fine, ha lasciato invariata la pessima immagine internazionale del paese ereditata da Berlusconi. I governi di centro-sinistra (Prodi 1996-98, D’Alema 1998-2000, Amato 2000-01; quindi Prodi 2006-08) hanno dato la sensazione di una forte instabilità e di mancare di un vero e proprio disegno di politica internazionale. E la situazione è peggiorata con i governi Monti e Letta, che hanno segnato un totale appiattimento sulle indicazioni della Bce senza alcun respiro politico. In questo periodo, l’Italia non ha sviluppato una azione internazionale che la caratterizzasse senza, peraltro, riscattare i luoghi comuni – il più delle volte ingiusti – che ne danneggiano l’immagine. Anche con il triennio renziano le cose non sono cambiate (o lo sono di pochissimo) e l’Italia continua a contare assai poco; 26 ci sono stati piccoli risultati, in un quadro generalmente men che mediocre, con brutte cadute per il mancato ingresso nel Consiglio di sicurezza e per il caso Regeni in Egitto. 369

Di fatto, dalla fine della Prima Repubblica, l’Italia ha smesso di avere una politica estera che fosse altro dal piccolo cabotaggio fra le due «fedeltà» del paese, quella «europea» e quella «atlantica» (i cui termini concreti non sono mai messi in discussione, così come la posizione genuflessa del nostro paese al loro interno). Sostanzialmente, l’unica politica estera caratterizzata in senso nazionale è quella legata all’approvvigionamento petrolifero o di gas, e che ha il suo principale attore nell’Eni, o quella delle esportazioni avio e di armi, in cui opera Finmeccanica. Questo è uno dei paradossi più lampanti del nostro paese: il fatto di dipendere molto più di altri dai giochi della politica internazionale, ma di nutrire scarsissimo interesse per essa. Le maggiori testate giornalistiche americane, francesi, inglesi, spagnole o tedesche dedicano regolarmente la prima pagina ai principali avvenimenti mondiali, mentre la politica interna vi compare solo in misura più ridotta. La gran parte della stampa italiana, invece, relega nelle pagine interne persino le notizie riguardanti il congresso del Partito comunista cinese, che, in fondo, costituisce il partito di governo della seconda potenza mondiale. Questo perché si dà per scontato che agli italiani non interessi la politica estera e dunque i giornali, 370

per vendere, devono adeguarsi. Di conseguenza, tale tema è considerato la cenerentola di tutti i dibattiti: da quelli parlamentari ai talk show televisivi, dalle campagne parlamentari alle feste di partito e ai corsi universitari di storia contemporanea. Infine, nessuno dei mali storici del paese è stato superato o anche solo migliorato (dal dualismo Nord-Sud, all’insufficienza della borsa, dal peso della rendita all’insoddisfacente andamento della ricerca scientifica); ma è soprattutto sul piano della corruzione che si è registrato il fallimento più pesante. Come abbiamo detto, la Prima Repubblica fu travolta dalle inchieste su «Tangentopoli» e, di conseguenza, la Seconda Repubblica si legittimò per l’aspettativa di un sistema politico non corrotto (o meno corrotto) perché non basato su partiti di massa e voto di preferenza, che vennero individuati come causa unica del fenomeno malversativo. Di fatto, dopo qualche anno di astinenza, dovuto, più che altro, al momentaneo blocco dei lavori pubblici, la «dazione ambientale» (come la definì Di Pietro nel suo memorabile saggio in materia) è ripresa allegramente, anzi estendendosi ad altri settori, dalle privatizzazioni alle banche, come testimonia la ricchissima serie di scandali e dissesti finanziari (Parmalat, Banca 121, Monte dei Paschi di Siena, Etruria, Popolari di Vicenza, Marche, Bari, Bpm, Genova ecc., per limitarci a pochi esempi). 371

Determinando la nascita di una nuova e più grande Tangentopoli. 27 Un acuto osservatore come Ernesto Galli della Loggia, passando in rassegna lo stato del paese, ha parlato senza mezzi termini di «fallimento delle classi dirigenti» 28 e il giudizio non pare eccessivo. Anzi, molti segnali lo corroborano, annunciando il montare di una nuova crisi: quella della legittimazione del sistema di potere, a cominciare dalla politica.

Siamo alla fine della Seconda Repubblica? E qui dobbiamo porci una domanda sulla natura della crisi in atto: semplice crisi temporanea o di sistema? Salto in avanti o indietro? Diversi osservatori (dei quali una caritatevole amnesia ci impedisce di ricordare i nomi), dopo la bocciatura del referendum del 4 dicembre 2016 e la claudicante sentenza della Corte Costituzionale che ha parzialmente ripristinato il sistema proporzionale, hanno sostenuto che siamo alla «restaurazione della Prima Repubblica»; con il sottinteso che non di un passo avanti si tratti, ma di un salto indietro, verso la Repubblica della corruzione, dell’allegra finanza e dei bilanci in dissesto, dovendosi, invece, parlare 372

della Seconda Repubblica «qual fulgido esempio di compagnia della lesina». E ciò dimostra quanto sia pericoloso lasciare la logica nelle mani degli acculturati recenti che scrivono su tanti giornali. Il ragionamento è questo: siccome il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica fu determinato dal passaggio dal proporzionale al maggioritario, ora con il passaggio inverso torniamo alla Prima Repubblica. Geniale applicazione di logica binaria! Le caratteristiche di un sistema politico sono certamente influenzate dal sistema elettorale adottato, ma non solo da quello quanto da molti altri fattori. La Prima Repubblica (e abbiamo speso diverse pagine iniziali per descrivere il suo mondo) appartenne a un tempo diverso ed ebbe caratteristiche largamente irripetibili nel bene e nel male. Questo che sta nascendo è diverso tanto dalla Prima quanto dalla Seconda Repubblica, anche perché ospita residui dell’una e dell’altra ma in un tempo diverso. E a farlo diverso è soprattutto il contesto internazionale di cui diremo a breve, ma anche ragioni interne, come le reazioni dell’opinione pubblica al disastroso stato del paese dopo il ventennio della Seconda Repubblica. Per tornare all’anno che abbiamo individuato all’origine della crisi del sistema, un sondaggio dell’ottobre 2013 avvertiva che solo il 28% degli 373

italiani nutriva fiducia nel governo (la media dei paesi Ocse, dopo la crisi iniziata nel 2007, è scesa al 40%, il punto più basso dalla fine della Seconda guerra mondiale, ma comunque nettamente superiore al dato italiano). 29 A fine dicembre, sempre 2013, un nuovo sondaggio segnalava che la fiducia nei confronti del presidente della Repubblica era scesa dal 54,6% di un anno prima al 49%; quella nell’Unione europea (già notevolmente calata negli ultimi anni) aveva subito una flessione passando dal 43,6 al 32,3%; quella nello Stato era passata dal 22,4% dell’anno precedente al 18,9%; ma i dati più catastrofici riguardavano il Parlamento al 7,1% (però in lievissima ripresa dello 0,2% dall’anno prima) e i partiti, ridotti al 5,1% (rispetto al 5,6% dell’anno prima). 30 Ma al di là dei sondaggi, su cui è sempre lecito formulare dubbi, ci sono dati «secchi» molto meno contestabili: alle elezioni politiche del febbraio 2013 i voti validi espressi furono 34.002.524 su 50.449.979 aventi diritto, il che significa che sono stati il 67,39% sul totale: un primato negativo nella storia repubblicana. Nelle stesse elezioni, il Movimento 5 Stelle (M5S), che si presentava per la prima volta a elezioni politiche, otteneva il 25% dei consensi: un dato senza precedenti. Accanto a questo iniziavano a moltiplicarsi le manifestazioni di scontento, come la cosiddetta 374

protesta dei «forconi», che nel dicembre del 2013 investì molte città italiane. Una contestazione non fortissima, ma assai minacciosa, che segnalava una novità assoluta: per la prima volta scendevano in piazza in modo turbolento frange di lavoratori autonomi, ovvero il ceto medio rancoroso, come qualcuno lo definì. Come sempre accade in questi casi, la classe dirigente non si è resa conto di essere messa in stato d’accusa nel suo complesso e ha tentato il gioco dello scaricabarile: i politici più autorevoli e le associazioni imprenditoriali se la sono presa con le banche, che concedono poco credito e a interessi esosi; le banche hanno accusato i politici di non fare le «riforme che l’Europa ci chiede» e gli industriali di non avere abbastanza coraggio; e industriali e banche si sono lamentati con il governo per la politica fiscale e così via. Nessuno percepisce che non si tratta di inadempienze di questo o quel potere, ma del fallimento di una classe dirigente nel suo complesso per il disastro del paese. Anche l’esperimento dei «tecnici» del governo Monti, che tante speranze aveva suscitato («la crema delle competenze del paese», si disse), con la loro «democrazia a trazione elitaria», ha sortito risultati semplicemente disastrosi: ha trovato un paese con un debito al 120% del Pil, lo ha coperto di tasse e lo ha lasciato con un debito al 130% del Pil. 375

E qui è scattata la seconda giustificazione cui spesso ricorrono le classi dirigenti in difficoltà: è colpa della situazione internazionale, dei creditori esosi, degli alleati avari e degli avversari sleali. Insomma tutti agenti esterni e perciò indipendenti dalla volontà delle classi dirigenti italiane. C’è del vero (anche se questo rimanda al modo in cui si sono accettati quei patti e al come si è stati dentro) e, tuttavia, non tutto può essere spiegato con i vincoli esterni. Una serie di sintomi grandi e piccoli indicano come, ormai, il processo di sfaldamento della Seconda Repubblica sia in atto: il disfacimento del Pd, l’atonia del governo Gentiloni, il ritorno degli scandali che «puntano in alto» e che ormai coinvolgono non solo la politica ma anche il giornalismo (e si pensi al penosissimo caso del Sole 24 Ore, le cui azioni ormai valgono carta straccia), ancora una volta i magistrati vengono a far da becchini al sistema, la macchina dello Stato è in panne con ogni evidenza, e la politica è un motore fuso, come dimostra il fatto che non sia in grado neppure di modificare la legge elettorale, anche solo per proprio vantaggio. Tutto questo non può essere ritenuto una perturbazione ordinaria, destinata a rientrare dopo un certo periodo. Ha un carattere che investe lo stesso sistema e prepara qualcosa d’altro di cui è 376

difficile, per ora, scorgere il profilo, anche perché devono consumarsi ancora molti scontri che modelleranno il nuovo sistema.

Storia di tre anni: il renzismo Il M5S ottenne un inedito successo (sino a quel momento nessuna lista aveva raggiunto il 25% alla sua prima presentazione) e questo era stato il risultato di due anni di austerità montiana che aveva ridotto il paese nelle condizioni prima descritte. Ma il fatto non venne compreso dalla quasi totalità del ceto politico, che preferì pensare al M5S come a una meteora di passaggio. Pertanto, quando Renzi iniziò la sua fulminea ascesa, prima alla segreteria del partito e dopo a Palazzo Chigi, la crisi della Seconda Repubblica era già conclamata: il bipolarismo era saltato in aria, il Parlamento era stato costretto a rieleggere Napolitano, perché non riusciva a trovare un candidato che non si bruciasse in un amen, il salotto buono si era già sciolto sotto i colpi congiunti della crisi e della magistratura, l’indice di fiducia dei cittadini nelle istituzioni era già a livelli minimali e l’accordo del governo Letta (Pd-Forza Italia) era la semplice prosecuzione del montismo senza Monti, una risposta con ogni evidenza perdente. 377

Renzi si presentava come un leader dinamico, dotato di indiscutibile tempismo e buona capacità comunicativa e questo fu subito evidente, al punto che le rissose tribù del Pd lo riconobbero subito come leader indiscusso, decretandone l’elezione con un trionfate 70% di consensi. Poco dopo, Renzi riusciva a rimuovere l’incolpevole e indifeso Letta prendendone il posto. In pochissimi mesi, riuscì a smarcarsi dall’immagine dei suoi predecessori e, con il riuscito spot elettorale degli 80 euro di mancia ai ceti meno abbienti, 31 ottenne una brillantissima affermazione nelle elezioni europee, portando il suo partito dal 25 al 40% in un anno (per la verità approfittando del crollo del centro). Il mito di Renzi si costruì nei sei mesi che separavano le primarie del Pd dal voto alle europee. In breve, le opposizioni interne, già deboli, persero consensi e contrastarono le scelte del segretario con sempre minore decisione, i mass media divennero quasi tutti «renziani di ferro», i partner europei e atlantici iniziarono a prendere sul serio il nuovo inquilino di Palazzo Chigi e anche il presidente della Repubblica, che sino a maggio aveva mostrato una certa freddezza verso il giovanotto, iniziò una fattiva collaborazione con lui. 32 Ma la velocità dei suoi successi ha impedito di comprendere e analizzare gli aspetti più profondi del renzismo come nuovo fenomeno politico, che è 378

stato, prima di ogni altra cosa, fenomeno di contaminazione. Renzi, nel suo esperimento politico, ha mescolato sedimenti di Prima e di Seconda Repubblica, aggiungendovi elementi originali. Si tratta di culture politiche molto diverse fra loro: come quella della P2 di Gelli, 33 del Pci, del doroteismo e del berlusconismo, ovviamente debitamente rivisitati. Le due radici più prossime appaiono quella gelliana e quella berlusconiana: naturalmente nel disegno renziano ci sono differenze rispetto a entrambe, ma ci sono anche punti di contatto che vanno oltre una semplice somiglianza e lasciano intuire tratti di continuità genetica, che invece è assai più sfumata per gli altri due casi. Del modello gelliano ricorrono la radice toscana, la vicinanza alle banche minori, la pratica della politica di relazione, il radicamento nei servizi segreti e nei comandi militari, la sostanziale omogeneità al blocco storico capitalistico italiano, ma in un rapporto conflittuale. E non mancano neppure somiglianze nei contatti internazionali, come la vicinanza a Israele, ma soprattutto alla destra repubblicana americana, rappresentate dalla buona frequentazione di Luca Lotti con quello stesso Michael Ledeen, a suo tempo buon amico della P2. Da Berlusconi (e da Andreotti, che del doroteismo fu uno degli esponenti più 379

rappresentativi) Renzi ha ereditato la concezione della «conglomerata del potere», il nucleo che fonde potere politico, finanziario, mediatico e di intelligence, senza esclusioni reciproche di sorta. Gelli ci aveva provato, Andreotti e Berlusconi ci erano riusciti in varia misura in ciascun campo. Renzi si è ispirato al loro esempio, con la pratica del «giglio magico» di cui diremo, ma forse non ne ha avuto il tempo. Di Berlusconi, Renzi pratica attivamente il dialogo diretto fra il leader e la base elettorale, che non ha bisogno della mediazione del partito, se non come rete di comitati elettorali. In questa visione, gli iscritti sono solo supporter per le campagne elettorali. Qui torna un altro elemento di similitudine con il pensiero gelliano: l’insofferenza verso i corpi intermedi. Anche Renzi non li ama («non parlo con la Confindustria, parlo direttamente con le aziende», «non parlo con la Cgil, parlo direttamente con i lavoratori») e in questo supera lo stesso Berlusconi. Per questo la sua concezione dei partiti è più prossima a quella dei partiti-comitati elettorali all’americana che a quella europea dei partiti di massa e, pertanto, pratica questo modello in primo luogo con il proprio partito. Renzi considera i partiti inutili apparati funzionariali ai quali preferisce l’uso di tecniche populiste come il messaggio televisivo, il contatto diretto con le folle, il messaggio sui social, 380

l’uso rituale dell’irritualità (se ci si perdona il bisticcio di parole) e, quando se ne dia l’occasione, una punta di compiaciuta maleducazione. Della tradizione comunista, Renzi ha imparato a usare il patriottismo di partito come strumento di consenso: la base del Pd di origine comunista, abituata a una fede acritica nel gruppo dirigente identificato con il partito («meglio aver torto con il partito che ragione da soli»), è sempre stata disposta a sostenere qualsiasi linea del partito, purché «vincente», pertanto ha trovato in Renzi chi l’ha vendicata di decenni di frustrazioni, anche se Renzi ha sostenuto l’esatto contrario di quello che il Pci ha sostenuto per mezzo secolo e che, in parte, era stato il bagaglio del Pds-Ds-Pd. E la base ha dimostrato la sua fedeltà all’uomo piuttosto che all’idea, accettando anche di rovesciare di 180 gradi la difesa della Costituzione (uno dei capisaldi della cultura politica comunista) in occasione del referendum del 4 dicembre. Un certo tipo di militante comunista non è uomo di dubbi, ma solo di fede certa nel partito, che è rappresentato dal segretario. Questo tipo di seguace non è fedele all’idea ma allo strumento, non è fedele alla bandiera e, se questa si strappa, come in una delle ricorrenti scissioni, resta attaccato all’asta. Dove fedeltà fa rima con ottusità. Renzi questo lo ha capito e l’ha usato con disinvoltura. Del doroteismo, Renzi ha mutuato l’idea centrale 381

del «potere senza progetto»: l’occupazione del potere è stata sempre l’obiettivo unico dei dorotei (come abbiamo detto), nella convinzione che sia esso stesso fonte di consenso. I dorotei non ebbero mai altra strategia politica che perpetuare la loro presenza – come individui e come corrente – nelle posizioni di potere. Poi, tatticamente e con molto cinismo, sceglievano la posizione o l’alleato più utile al momento. «Il potere logora chi non ce l’ha», recitava la più celebre massima di Andreotti. Dove il preteso realismo è solo maschera del più bieco cinismo. Renzi ha dimostrato questo con la sua implacabile occupazione dei posti più delicati, dai servizi segreti all’esercito, dalla Cassa Depositi e Prestiti all’Eni, dalla Guardia di Finanza alla Polizia ecc., attraverso le due tornate di nomine capitate durante il suo mandato. 34 E un cenno in più lo merita la seconda ondata, nel marzo 2017, quando è riuscito a umiliare Gentiloni e Padoan, che hanno potuto solo prendere atto delle sue volontà, e in un momento in cui non solo non è presidente del Consiglio, ma non è neppure segretario del partito (che in periodo congressuale è retto da un garante) e non ha alcuna carica, neppure quella di semplice parlamentare. È semplicemente il capo di quella che si presume essere la corrente più numerosa del partito, candidato a tornare segretario. Ciò che lascia 382

immaginare come formerà le liste per le elezioni politiche qualora dovesse vincere il congresso e quanto converrà alle altre correnti uscire dal partito al più presto, prima di essere massacrate. L’occupazione del potere è un meccanismo perfetto che si autoriproduce, per cui l’occupazione dei posti di potere porta consensi elettorali e congressuali e il controllo del partito garantisce il potere di nomina nei posti di comando. 35 Questo singolare cocktail gellian-berlusconianocomunista-doroteo è alla base della sua ascesa, basata sul nucleo dei fedelissimi toscani di sempre: Marco Carrai, Luca Lotti, Maria Elena Boschi, ma soprattutto il meno noto Alberto Bianchi, allievo prediletto del grande giurista e noto esegeta del pensiero di Carl Schmitt, Alberto Predieri. Bianchi è a capo della fondazione Open, cassaforte del potere renziano, uomo al centro di molti potenziali conflitti di interesse e che molti ritengono lo stratega che è stato dietro le nomine negli enti pubblici. 36 Infatti, in primo luogo, troviamo un nucleo centrale – il «giglio magico» – che ha la stessa estrazione regionale e la stessa prossimità al mondo delle banche minori. Mutatis mutandis, siamo di fronte alla riproposizione dello storico «partito toscano», pur se con i mutamenti imposti dai tempi. In particolare, il tentativo di assalto alla sala di comando della finanza è stato ben presto sostituito 383

dall’esigenza di salvarsi, almeno in parte, dal naufragio nel tempo della crisi. E, singolarmente, al centro della tempesta abbiamo trovato la Banca Etruria. Nella tradizione italiana dei «partiti regionali», quello toscano (composto prevalentemente da un fitto tessuto bancario e da diverse logge, una sorta di lumpen-borghesia finanziaria) è da sempre stato sulla soglia della stanza dei bottoni senza mai riuscire a entrarvi. Qualche volta, ad esempio con Gelli, ha tentato di forzarne la porta, ma fallendo all’ultimo. Il «giglio magico» renziano ne è una riedizione probabilmente inconsapevole. Intorno al «giglio magico» si è aggregato il ceto politico del Pd (parlamentari, amministratori locali ecc.) e, soprattutto, le decine di migliaia di consulenti di enti nazionali e locali, gli amministratori di municipalizzate e di società regionali, il nuovo Parastato con le sue ricche prebende, 37 che è l’elemento più originale del blocco. Il giglio magico ha fatto una notevole politica di relazione (simile, del resto, a quella di altri), svolta in particolare da Marco Carrai e da Luca Lotti, con il fiancheggiamento dei «tre padri» (Boschi, Renzi e Carrai), e trovando altre importanti solidarietà regionali, come quella del senatore Denis Verdini, che ha rotto la sua pluriennale intesa con il cavalier 384

Berlusconi per consentire la sopravvivenza del governo Renzi. La conquista della casella centrale di Palazzo Chigi ha poi consentito a Renzi di espandere ulteriormente il suo raggio di alleanze, ad esempio conquistando posizioni importanti nella Guardia di Finanza, nell’alta dirigenza statale, nei comandi militari, soprattutto nei servizi segreti, come hanno dimostrato le due ondate di nomine del 2016 e del 2017. E a questo si è anche accompagnato un graduale e cauto favore dei poteri forti di finanza e Confindustria che, inizialmente poco entusiasti del nuovo venuto e rassegnati alla sua presenza, dopo un graduale adattamento passivo, sono passati a manifestazioni di consenso attivo che si esprimono nell’appoggio alla riforma della Costituzione. Ma come ha potuto conquistare il Pd un personaggio come Renzi, così palesemente estraneo alla tradizione del Pci e, in buona parte, anche a quella della sinistra Dc (l’altra anima del Pd)? Non tutto è merito (o colpa, dipende dai punti di vista) del «demone Renzi». A prepararne e facilitarne l’ascesa sono state molte cose partite assai prima che fosse anche solo presidente della Provincia fiorentina. Nel Pds-Ds-Pd, dal 1990 al 2013, il vecchio modello comunista fu smontato pezzo per pezzo, per approdare a uno strano miscuglio fra il partito dei 385

Club proposto da Gelli, il vecchio modello di partito di iscritti e il «partito senza iscritti» all’americana, basato su una edizione approssimativa delle primarie. Renzi ha già trovato tutto questo, anzi, la sua fortunata scalata ai vertici del partito è stata resa possibile proprio da questo modello organizzativo. La vittoria è stata, poi, facilitata dall’esasperata frustrazione del partito per le troppe sconfitte e dal finale insuccesso del 2013, e il quadro intermedio ha visto in Renzi l’uomo adatto a conquistare quella frazione di elettorato di centro e di destra necessaria a vincere. Ma cos’è stato il renzismo sul piano del sistema politico e che sedimento storico lascia? Renzi non è uomo di studi matti e disperatissimi e non è un genio, ma è il più sveglio dei nostri politici ed è molto rapido nel capire le situazioni e reagire. Pertanto egli capì perfettamente, prima di tutti gli altri, che il M5S non era una nuvola passeggera e che si profilava la crisi della Seconda Repubblica. Occorreva agire tempestivamente e anche i modi disinvolti del congedo di Letta («Enrico stai sereno»), anche se avevano a che fare con il personale desiderio di prenderne il posto, non possono essere ridotti a questo e rivelavano la consapevolezza del tipo di crisi in atto e dei limiti di tempo a disposizione. Molto lucidamente Renzi 386

scelse la stessa emulsione di retorica populista e disegno elitario che era stata alla base del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. Conseguentemente il primo passo fu la riforma del sistema elettorale pensata per isolare e rendere impotenti il M5S da un lato e il centro-destra dall’altro, rilanciare la centralità dell’esecutivo, la liquidazione del Parlamento e dei partiti ed esaltare la dimensione cesaristica del regime del Capo. Il progetto di riforma costituzionale ispirato dal Colle era perfettamente complementare a questo disegno e Renzi ci saltò decisamente su, varando un pacchetto unico che comprendeva la legge elettorale, la riforma costituzionale e il progetto di Partito della Nazione. 38 Renzi ha tentato di rifondare la Seconda Repubblica, traghettandola verso una risistemazione istituzionale che reggesse l’urto della protesta. E ha tentato di farlo curando il «populismo» degli altri con il suo «populismo». Ma non ci è riuscito, perché ormai era troppo tardi e il rimedio omeopatico non funzionava più nel cuore di una crisi socio-economica senza precedenti.

La scomposizione politico 387

del

quadro

Da circa un decennio, la crisi italiana si muove, dunque, in altre due crisi, inscritte una nell’altra: quella dell’ordine mondiale e quella della costruzione europea. Questo ha avuto riscontri nella scomposizione del quadro politico italiano, che si è prodotta in diverse fasi, iniziate con le elezioni del 2013, e non solo per l’affermazione del M5S, ma anche per altri due fattori: il deludente esito della lista Monti (che, data al 19% dai sondaggi, si era fermata intorno al 10%) e l’altrettanto deludente risultato del Pd. La combinazione di questi dati ebbe una serie di effetti a catena: da un lato liquidava definitivamente il progetto di un terzo polo collocato al centro fra gli altri due e in funzione di «ago della bilancia», dall’altro il cattivo risultato di Monti e quello del Pd impedivano che si formasse un governo di coalizione fra i due, perché al Senato i voti non erano sufficienti. Pertanto (dopo un inutile approccio di Bersani con i 5 Stelle) si dovette procedere a un governo di coalizione Pd-Forza Italia e centristi. Nel frattempo la lista Monti si frantumava e, alla decisione di Berlusconi di ritirarsi dal governo, seguiva la scissione di Forza Italia capitanata da Alfano, che restava nel governo. Dopo, Forza Italia subiva altre due scissioni: Fitto e Verdini. Poi iniziava la saga degli espulsi dal M5S (alla fine saranno quasi un quarto dei due gruppi parlamentari), quindi il processo di confluenza nel 388

gruppo del Pd di transfughi di Sel e delle liste di centro (anche singoli di M5S e Fi), mentre alcuni esponenti del Pd lo abbandonavano per dar vita a gruppi come «Possibile» e «Sinistra Italiana». Nello stesso tempo si verificarono la dissociazione della Lega da Fi e la conseguente frantumazione del polo di centro-destra. Alla fine, nel 2016 i parlamentari che avevano cambiato casacca erano circa 350. Ma sino al dicembre del 2016 esisteva ancora un punto di riferimento che teneva in piedi il sistema: il Pd, ricompattato da Renzi, come abbiamo visto, e verso il quale erano andati convergendo i transfughi degli altri gruppi. Poi, con il 4 dicembre ha iniziato a cedere anche questo residuo presidio della legislatura ed è cominciato il rimescolamento di carte a sinistra. In primo luogo si formava il campo progressista di Pisapia, poi il Mdp con la scissione di Bersani e D’Alema, cui seguiva quella di Sel, che andava in parte con Pisapia e in parte con Si. Marco Damilano sull’Espresso scriveva che il Pd è un partito «al capolinea, nella sua forma conosciuta e ora si farà in tre o in quattro». 39 Poi giungeva il caso Consip che toccava da vicino diversi «petali» del giglio toscano, come Denis Verdini. 40 È facile cedere alla suggestione di un replay dei primi anni novanta, quando tutti i partiti si 389

scomposero o mutarono, con l’emergere di nuove sigle, o per operazioni trasformistiche o per la nascita di formazioni effettivamente nuove. E anche il mondo sindacale ha avuto una evoluzione parallela: con la Cgil incuriosita dal Mdp e la Cisl dal Partito della Nazione di Renzi. Ma il Pd non è un partito come gli altri, un partito in più fra quelli in crisi: il Pd, dal 2011 in poi, è stato il pilastro che ha retto il sistema politico mentre l’altro polo andava in rovina. Se il Pd si sgretola a sua volta, il sistema non regge più. È un rimescolamento generale delle carte. Appunto: si ripropone la traiettoria del 1992-96, anche se non si scorge all’orizzonte il nuovo Berlusconi, ma è presumibile che in breve si affaccerà qualcuno. È possibile che il Pd si rompa ulteriormente fra chi, da un lato, torni ad accorparsi con Mdp, e chi, dall’altro, partecipi a una formazione di centro con rimasugli di Forza Italia e centristi, in un bonsai di Partito della Nazione. O, forse, ci sarà la comparsa di una nuova formazione, capeggiata da qualche autorevole esponente del mondo finanziario dotato di un certo carisma, dotato di rapporti internazionali e magari con una patina simil-keynesiana che rassicuri il ceto medio, almeno per un po’. Non è detto che tutto questo si produca entro le elezioni politiche prossime, forse avverrà dopo, man mano che la Terza Repubblica prenderà 390

corpo.

Perché cade la Seconda Repubblica Ma tutti questi, appunto, sono i sintomi, non le cause del crollo. Il malessere profondo, lo abbiamo detto, è iniziato anni addietro, nel 2013 che, per la Seconda Repubblica, è stato quello che il 1987 è stato per la Prima. La rovina di un sistema politico non si verifica mai in un solo momento, ha sempre un processo che inizia molto prima e diventa più veloce alla fine. Il 2013 ha segnato la rottura dell’equilibrio bipolare con l’irruzione sulla scena del M5S, poi la prima sentenza della Corte Costituzionale che metteva limiti al sistema elettorale maggioritario, quindi l’ondata di processi che sconvolgeva la testa di classifica delle imprese italiane, il conseguente scioglimento del «salotto buono» ecc. Dopo la breve e poco seria parentesi renziana (che ha rallentato, ma assolutamente non bloccato la decadenza del sistema e del paese), le tensioni hanno preso nuovamente ad addensarsi per esplodere il 4 dicembre 2016. Nessun sistema politico è eterno e ha una durata più o meno lunga: ma ce ne sono di durata maggiore, come l’Italia liberale (che durò dal 1861 al 1922, 51 anni) o la Prima Repubblica (1946-1993, 47 anni), e di brevi come il fascismo (1922 al 1943, 391

21 anni, 23 se includiamo anche l’occupazione nazista) o la Seconda Repubblica (1993-2016, 23 anni: più o meno la durata del fascismo). Ovviamente la durata dice anche della solidità di un sistema e, se la durata è troppo breve, significa che c’erano fragilità costitutive che non hanno retto alla prova del tempo. Peraltro, nessun regime crolla senza ragioni, e ciascuno ha le sue patologie finali. Nel caso della Seconda Repubblica siamo di fronte a un crollo relativamente prematuro e questo rinvia alle ricerche delle cause più o meno prossime. Circa quelle più vicine, è evidente l’impatto della crisi finanziaria e di quella, parzialmente intrecciata, dell’Unione europea. Così come la Prima Repubblica non resistette all’impatto della globalizzazione neoliberista, oggi la Seconda non regge alla crisi di quell’ordinamento. La crisi finanziaria si è riversata sull’economia, con la perdita di milioni di posti di lavoro in tutto l’Occidente, un abbassamento generalizzato di salari e consumi. Ormai questo dura da quasi 10 anni e, salvo brevi e poco significativi saltelli che si cerca pietosamente di spacciare per ripresa, non si vede ancora la luce dell’uscita dal tunnel. È questa la principale ragione dell’esplosione dei cosiddetti populismi, che poi sono moti di protesta diversi fra loro, ma che puntano tutti a una rivolta generalizzata 392

antisistema. L’Italia ha pagato anche un prezzo più alto di altri e, dunque, è abbastanza normale che il suo sistema politico sia squassato dalla tempesta più che altrove. E questo ci fa capire che c’è un «difetto di progettazione» nella Seconda Repubblica. Essa sorse da una curiosa «emulsione populista liberista» 41 per la quale, a una retorica fondamentalmente ipopolitica (se non antipolitica), corrispondeva un disegno sostanzialmente elitario-oligarchico, attraverso la liquidazione degli istituti della democrazia di massa e l’emergere di partiti-azienda raccolti intorno a un leader più o meno carismatico. Questa pasticciata mescolanza ha funzionato per qualche tempo, ma, come ogni emulsione, alla fine ha separato «l’acqua dall’olio» e non funziona più. L’inganno populista, in qualche modo, è stato tentato non solo in Italia, ma anche nel resto d’Europa e ha finito per ritorcersi contro i suoi stessi artefici, che oggi devono affrontare la rivolta populista che essi stessi avevano evocato. Il punto è che, piaccia o no, la democrazia ha messo radici, pur con tutte le sue carenze, e il popolo non rinuncia a dire la sua. Un personaggio sostanzialmente estraneo alla democrazia come Giorgio Napolitano (come dimostra il suo giovanile stalinismo, il suo appoggio all’invasione sovietica dell’Ungheria, poi la sua 393

lunga adesione alle regole disciplinari del Pci, infine, in età senile, la sua adesione toto corde all’elitarismo neoliberista) può anche pensare che ci siano materie come l’adesione agli organi internazionali da sottrarre alla decisione democratica, perché il popolo non è in grado di capire, e che questo è stato l’errore di Cameron. Ma, per fortuna, è una posizione destinata a infrangersi contro la solidità dei fatti. Dunque, dissoltosi l’inganno dell’emulsione, è venuto fuori il carattere genuinamente antidemocratico e oligarchico del neoliberismo, rivelato dall’urto della crisi. E questo sta travolgendo anche la costruzione ipertecnocratica della Ue. E con questa sta venendo meno un altro pilastro dell’ordine neoliberista e, di riflesso, del sistema politico italiano. D’altro canto, l’emulsione liberal-populista ha prodotto un effetto assolutamente non previsto: ha scemato un ceto politico semplicemente impresentabile, convinto che l’unica qualità richiesta a un politico sia quella di «forare il video» per parlare con la signora Maria di Voghera, e per il resto privo di qualsiasi capacità di previsione e di pensiero strategico. L’imbarazzante Hollande non ha neppure avuto il coraggio di ripresentare la sua candidatura dopo il mandato più disastroso della storia francese dal 1945 in poi. I politici greci delle grandi famiglie Papandreou e 394

Karamanlis hanno ridotto il loro paese in macerie. Cameron si è sgonfiato in breve. Rajoi vivacchia all’ombra di un Ps senescente. L’olandese Dijsselbloem (presidente dell’Eurogruppo, con decenza parlando) è un personaggio che dice cose degne di un ubriaco al bar dello Sport («I paesi del sud-Europa spendono tutto in donne e alcol»). Quanto alla politica italiana, non c’è bisogno di dire, tanto è evidente che sia ridotta da tempo a un festival permanente della cialtroneria, e i risultati sullo stato del paese sono quelli che abbiamo detto principiando il secondo capitolo. In questo deprimente paesaggio la pur mediocre Merkel sembra il Principe Ottone Bismarck. E, con una classe politica del genere, i risultati non possono essere che quelli sotto i nostri occhi e, se personaggi del genere sono ministri e capi di governo, la casalinga di Voghera, il disoccupato di Melzo e il pensionato di Ruvo di Puglia sono autorizzati a pensare: «Perché non io?». È questa la radice dell’attuale fenomeno «populista» che, alla fine, chiede conto al ceto politico di come abbia gestito il mandato affidatogli. Al pettine stanno venendo, uno dietro l’altro, i nodi intrecciati in questo quarto di secolo e a questo si aggiungono le specifiche ragioni italiane. Non una delle promesse della Seconda Repubblica ha trovato attuazione: non il 395

bipartitismo, non il governo di legislatura, non un ceto politico più corrispondente alla volontà popolare (anzi…), non la fine della corruzione, non la fine della grande criminalità organizzata, non un ordinamento più moderno e funzionale della Pubblica amministrazione, non la riduzione del debito pubblico, non la riqualificazione della spesa pubblica e una minore pressione fiscale, non servizi pubblici migliori e ci fermiamo qui. Nessuna delle «riforme» tentate ha prodotto gli esiti promessi e spesso ha comportato pesanti effetti controintuitivi. E a questo si è aggiunto il male antico della corruzione e del «potere opaco» che investe persino una delle istituzioni storicamente più venerate di questo paese, Bankitalia, come nel caso della «Popolare» di Bari, che vede bloccati i risparmi dei piccoli azionisti per la sciagurata acquisizione della Cassa di Teramo (già travolta dalle perdite), a suo tempo consentita dalla vigilanza della Banca nazionale. 42 Per non dire dei casi del Monte dei Paschi, della Banca Etruria, della Carimarche, della Popolare di Vicenza, della Banca Veneta, della Banca Popolare di Milano, della Carige… Con un bilancio così negativo, c’è da meravigliarsi che la protesta abbia tardato tanto. Ma adesso siamo al redde rationem.

396

Capitolo settimo Ma allora chi comanda (o comanderà) in Italia?

Quando muore un sistema politico: già e non ancora Se questo libro fosse uscito prima del 2013, sarebbe stato la fotografia del sistema di potere nell’Italia del tempo, e avrebbe potuto fermarsi al quinto capitolo; ma anche se fosse uscito nel 2016, avrebbe potuto segnalare l’inizio della crisi, però con un sistema di potere ancora funzionante, che avrebbe potuto rifondarsi. Ma con il 4 dicembre 2016 è tutto cambiato, come abbiamo visto. Per certi versi, il sistema di potere descritto in queste pagine è ancora vigente: le istituzioni non sono cambiate e, anzi, il referendum ha confermato il testo costituzionale, i partiti – più o meno – sono ancora quelli di prima e, soprattutto, il blocco sociale delle quattro classi è lo 397

stesso. Ma ora si tratta di una sorta di reggenza, un assetto provvisorio mentre ciascuno degli attori schiera le sue divisioni in vista dello scontro che definirà i nuovi assetti di potere. Per cui, dire chi comanda in Italia, in un momento del genere, espone al pericolo di arrivare troppo tardi, quando il sistema precedente sta già declinando, o troppo presto, quando quello nuovo non si è ancora formato. Siamo nella terra di nessuno del «già e non ancora». Previsioni se ne possono fare, ma solo come calcolo probabilistico via via perfettibile: ci sarà uno scontro, questo è certo, che coinvolgerà soggetti sociali e partiti, istituzioni politiche e finanziarie. Come sempre, quando c’è un conflitto, è impossibile sapere chi vincerà e come muteranno gli equilibri di potere. In questi casi, la cosa più ragionevole da fare è analizzare le premesse storiche, individuare le costanti e le soglie di discontinuità e ricavarne le possibili tendenze. La Storia serve a questo: a capire il presente per prevedere il futuro. E il punto di partenza è la ricognizione del terreno: identificazione dei soggetti, delle linee di frattura e materie di scontro, iniziando dal contesto internazionale.

Il contesto internazionale 398

Storicamente l’Italia è sempre dipesa in gran parte dall’esterno. Molte cose hanno contribuito a indirizzare la storia del paese in questo modo: la conformazione geografica esposta per tre lati al mare, la forma lunga e stretta della penisola solcata per lungo da una ininterrotta catena montuosa, la frammentazione dei centri di potere interni, ma soprattutto la spiccata propensione delle classi dirigenti italiane a ricorrere all’aiuto straniero per battere gli avversari interni, causa ed effetto della tardiva unificazione nazionale. Questo si riflette sino a oggi nella debole soggettività internazionale del paese di cui si è detto. Tuttavia, dal dopoguerra in poi, questa dipendenza si è accentuata e ha assunto il carattere di un vincolo esterno sancito anche da accordi formali via via crescenti. All’inizio il primo vincolo venne sancito dall’Alleanza atlantica, che legava il paese, sul piano politico e militare, a un blocco con caratteristiche inedite. Infatti, sino a quel momento, c’erano state alleanze cui l’Italia aveva partecipato (si pensi alla Triplice Alleanza o al Patto di Ferro), ma mantenendo totale autonomia organizzativa delle Forze Armate e, in una certa misura, della propria diplomazia. Con l’Alleanza atlantica nasceva una specifica organizzazione, la Nato, che integrava i comandi militari in una struttura permanente e in un 399

coordinamento diplomatico altrettanto permanente. Soprattutto nasceva il Nulla Osta di Sicurezza, concesso da uno specifico organismo della Nato, senza del quale non è possibile esercitare le proprie funzioni per militari, poliziotti, e, in alcuni particolari settori, per politici o imprenditori. 1 Successivamente, iniziarono a formarsi altri vincoli (prevalentemente di mercato) per la partecipazione agli organismi europei 2 via via più numerosi, pervasivi e vincolanti. Il punto di svolta in questo senso è venuto con gli accordi del 1992 (Trattato di Maastricht), che hanno posto le premesse per l’unificazione monetaria, cui si sono poi aggiunti gli accordi di Marrakech con la nascita del Wto (World Trade Organization), che sanciva il passaggio all’economia globalizzata. Il combinato disposto fra i due trattati aveva effetti particolarmente rilevanti sull’autonomia decisionale del paese in materia monetaria e di bilancio. Infatti, l’istituzione dell’euro privava i paesi europei della leva per la manovra sul cambio monetario e questo spingeva a compensare con un aumento del debito, ma gli accordi sulla libera circolazione dei capitali, a loro volta, sancivano l’internazionalizzazione del debito pubblico. Ovviamente questo riguardava non solo il nostro, ma anche gli altri Stati partecipanti ai patti, però per l’Italia ciò aveva un impatto particolarmente pesante, dato l’alto livello di 400

indebitamento del nostro Stato (quello italiano è il terzo debito pubblico a livello mondiale dopo Stati Uniti e Giappone). Ulteriore riflesso di questa situazione era l’esposizione dell’Italia alla «dittatura del rating» e alle fluttuazioni dei mercati finanziari (oltre che alle procedure per infrazione da parte degli organi della Ue): e basti ricordare quanto le impennate dello spread fra i titoli di debito italiani e quelli altrui abbiano interferito con le vicende politiche interne. Va ricordato come diversi politici italiani di prima grandezza (Guido Carli, Cesare Merzagora o Ugo La Malfa primi fra tutti) abbiano teorizzato la positività del «vincolo esterno» per migliorare e modernizzare l’economia italiana. Infatti, quella parte della politica più prossima al mondo finanziario, sin dagli anni settanta, perse la fiducia nella capacità di autocorrezione della politica italiana nel resistere alle pressioni corporative, ai condizionamenti clientelari e localistici ecc. che alimentavano la spesa pubblica, e pensò che la presenza di un forte vincolo esterno potesse compensare questa debolezza. Il risultato finale non sembra aver premiato queste aspettative, per cui il paese ha perso autonomia decisionale, ma senza che questo si sia tradotto in una correzione dei suoi storici limiti. 3 Nello stesso tempo è ulteriormente cresciuto il 401

livello di dipendenza nella sfera politico-militare, con la partecipazione dell’Italia a un numero crescente di missioni internazionali (allo stato attuale siamo a quota 58 fra grandi, piccole e piccolissime) che, oltre che sul piano economico, hanno un peso considerevole dal punto di vista della formazione delle carriere dei nostri ufficiali. Dunque, più che di «vincolo esterno» sarebbe opportuno parlare di una rete di vincoli politici, finanziari, militari che condizionano in modo crescente le decisioni dei nostri governi. Il paradosso è che, mentre cresce il livello di dipendenza del nostro paese dal resto del mondo, cala l’attenzione per la situazione internazionale tanto dell’opinione pubblica quanto del ceto politico, che ormai ha ridotto la politica estera a mera promozione commerciale, e questo in un momento in cui quel che sarà del nostro paese dipenderà sempre di più dalle evoluzioni del contesto internazionale e dalla nostra capacità di fare una politica estera vera, inserendoci nella riformulazione dei trattati o sollecitandola, rinegoziando il debito pubblico, ridefinendo la nostra collocazione fra Europa e area mediterranea. I decisori italiani (tanto in sede politica quanto in sede finanziaria) si baloccano coltivando, da un lato, la nostalgia del mondo bipolare e anguilleggiando fra Mosca e Washington, dall’altro osservando il 402

culto monopolare, che spinge a partecipare alla più insignificante spedizione internazionale, pur di strappare la benevolenza del superalleato americano. Ma il mondo si è buttato alle spalle l’ordinamento bipolare, e ha visto fallire anche il progetto monopolare che avrebbe dovuto sostituirlo. 4 È nato così l’embrione di un incerto ordine mondiale, basato su una sola superpotenza e un certo numero di grandi potenze regionali. 5 Qualcosa che non è più né una cosa né l’altra, senza per questo edificare un sistema di rapporti di forza davvero nuovo. La prima potenza è l’unica in grado di intervenire in ogni punto del pianeta, grazie alle sue basi militari, alle sue flotte sparse per il mondo e al predominio satellitare, ma anche le altre sono in grado di difendere militarmente il proprio spazio strategico. Per di più la globalizzazione ha moltiplicato i piani di scontro, rendendoli insieme interdipendenti (economia, finanza, guerra cognitiva, soft power, guerra coperta, iperterrorismo ecc.) e la stessa dimensione spaziale ha acquisito tre nuove sfere (sottosuolo marino, cyberspazio e spazio satellitare), per cui la difesa del predominio assoluto, in ogni dimensione e su ciascun piano di scontro, comporta costi proibitivi e questo rende sempre più imperfetto quel predominio unilaterale che sembrava 403

definitivo. Poi sono giunti nuovi attori di minore peso (Indonesia, Messico, Turchia, Egitto, Arabia Saudita, Argentina, Venezuela, Vietnam, Pakistan, le due Coree ecc.), che giocano in autonomia la propria partita nella rispettiva sfera territoriale e nel campo degli scambi commerciali. Contemporaneamente, i pilastri delle alleanze occidentali hanno iniziato a indebolirsi, mostrando vistose crepe: l’Unione europea, priva di un progetto strategico di sé, ha iniziato a naufragare, con il riemergere dei protagonismi nazionali, la Nato è andata perdendo senso, sotto i colpi dell’unilateralismo americano voluto da Bush e poi solo parzialmente smentito da Obama, nel Fmi iniziava a sentirsi la pressione dei nuovi soggetti (Cina in testa) e fra Usa ed Europa hanno iniziato a manifestarsi i sintomi di una guerra commerciale e monetaria. E il mondo ha iniziato a dividersi in tre aree, il blocco occidentale (Usa, Ue, Australia, Giappone), l’area Bric (India, Russia, Cina, Brasile, Sudafrica e i paesi intermedi fra Russia e Cina) e quella che definiremmo «della turbolenza», che include l’America Latina ispanofona, l’Africa, i paesi islamici e singole aree asiatiche come il Vietnam. Il tutto in un equilibrio precario pronto a far pendere un piatto della bilancia o l’altro. Non c’è più bipolarismo, ma nemmeno 404

monopolarismo e neppure si può parlare di un nuovo ordine westfalico. C’è solo un magma in permanente evoluzione, 6 dove ormai è difficile tenere separate le crisi interne ai singoli paesi da quella più generale dell’ordine mondiale. Diventa sempre meno possibile gestire le crisi internazionali per via della pressione interna: un decennio di crisi – non ancora finita – ha eroso il livello di vita delle classi popolari e, più ancora del ceto medio, che ormai è la punta di lancia della protesta, di cui il triplice segnale della Brexit, dell’elezione di Trump e del referendum costituzionale italiano costituisce la palmare evidenza.

La crisi irreversibile della Ue All’interno della crisi dell’ordine mondiale si colloca anche quella tutta peculiare della Ue, che ne era uno dei principali pilastri, a supporto dell’egemonia americana. Quando questo libro sarà nelle mani dei lettori, sapremo chi ha vinto in Francia (test decisivo per le sorti dell’Unione), ma, perché la Ue inizi pericolosamente a oscillare, non è necessario che la Le Pen vinca, ad esempio è possibile che possa avere una affermazione successiva nelle politiche previste per giugno, il che potrebbe portare a una 405

accentuata ingovernabilità. Qualcosa di simile potrebbe accadere a breve in Austria con le prossime elezioni politiche, e dopo verrà il turno dell’Italia, poi quello di Portogallo e Grecia. La maggior parte degli osservatori e analisti ragiona in termini di «chi» possa demolire la costruzione europea e vede nei «populisti» l’unica minaccia concreta: «Battuti i ‘populisti’ risolto il problema». Ma il problema non si pone affatto in termini di «chi» quanto di «cosa»: non di «chi» demolirà la costruzione tecnocratica ed elitaria della Ue, ma di «cosa» la farà implodere. Certo, se la Le Pen vincesse in Francia, ci sarebbe una decisa accelerazione della crisi europea e la fine potrebbe essere imminente. Ma non è affatto detto che se questo non dovesse accadere, la Ue non correrebbe più rischi di crollo. Chi pensa in termini di «chi» inverte l’ordine logico dei termini: non cade tutto perché stanno arrivando i «populisti», ma i «populisti» arrivano perché qui sta cadendo tutto. Non sono i «populisti» o i «nazionalisti» a far nascere i problemi di sopravvivenza della Ue, ma sono quei problemi non risolti ad aver determinato l’ondata in questione e quei problemi rimangono perché dipendono direttamente dal difetto di progettazione dell’edificio europeo che non ha tenuto conto delle difficoltà strutturali. 406

La Ue aveva promesso convergenza delle sue economie interne, prossima unificazione politica, stabilità dei prezzi, difesa di salari e consumi, libera circolazione dei suoi cittadini… Nessuna di queste promesse ha trovato applicazione. E non poteva andare diversamente: la costruzione era tale da avvantaggiare il contraente più forte, le regole finanziarie erano le stesse dell’ordinamento neoliberista, la caduta del welfare avrebbe portato con sé il peggioramento delle condizioni di vita dei ceti popolari, la politica di delocalizzazione avrebbe mietuto posti di lavoro. E la crisi ha svelato le dinamiche reali: l’esplosione del debito pubblico ha reso evidente la divaricazione delle economie nazionali sempre più lontane. Oggi l’euro è per i più deboli una camicia di forza che li soffoca. La Ue sopravvive per inerzia, perché nessuno sa come uscire dalla moneta unica e dal groviglio di accordi e trattati che le stanno intorno. Per uscire servirebbe la spada di Alessandro che recide il nodo di Gordio, ma per fare questo occorrerebbe avere una autorità politica unica e un pensiero strategico di cui, al contrario, sono del tutto prive le classi dirigenti europee, e tutto ciò avviene mentre la divaricazione degli interessi dei singoli paesi è tale da impedire anche la più elementare delle decisioni. L’unione è divisa su tutto: sulla crisi 407

dell’immigrazione, sulle politiche economiche, sulla gestione del debito pubblico, sulle sanzioni alla Russia, sulle guerre in Medio Oriente, sul rapporto con gli Usa di Trump, sulla politica energetica ecc. Che la costruzione stia franando lo dice la stessa proposta di Europa a due velocità avanzata dalla Merkel, che non si capisce bene cosa significhi e come possa attuarsi con una moneta che resta unica. Si capisce solo che occorre rivedere tutti i trattati istitutivi da cima a fondo, ma questo, con le regole attuali, è possibile solo con l’accordo di tutti, il che non appare realistico. Infatti, il vertice europeo del 10 marzo 2017 avrebbe dovuto lanciare il progetto dell’Europa a due velocità, ma l’opposizione polacca (sostenuta dagli altri del gruppo di Visegrad: Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) ha fatto saltare tutto e l’incontro si è concluso senza neppure il più formale dei documenti. 7 E il successivo vertice di Roma del 25 marzo ha approvato un documento che non poteva essere più formale e inutile. 8 Basti considerare che parole come «doppia velocità», «austerity», Schenghen ecc. neppure compaiono nel testo, a conferma del fatto che esso abbia eluso tutto i nodi politici sul tappeto. In realtà è evidente che si è in una pausa forzata sino allo scioglimento del nodo francese. Del crollo imminente di questa costruzione 408

tecnocratica si rende conto anche l’ex presidente della Repubblica francese, Valéry Giscard D’Estaing, che distingue fra l’Europa dei 28 (ormai 27), destinata a restare solo come progetto tecnico del Grande Mercato, l’area di circolazione dell’euro che dovrebbe rimanere con la seguente articolazione interna: un’area di 9 paesi (i sei originari – Francia, Germania, Italia e Benelux – con Spagna Portogallo e Austria) che darebbero vita a una aggregazione semistatale, unificando il loro sistema economico dal fisco al debito accumulato, con intorno un’area di circolazione della moneta (l’Europa bis) basata sui singoli Stati nazionali (Finlandia, Irlanda, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Slovacchia, Slovenia, Grecia, Cipro e Malta). 9 La proposta dell’ex Capo di Stato francese appare molto artificiosa e di difficile attuazione (chi convincerà mai i tedeschi alla messa in comune del debito?) ed è suscettibile di molte critiche, ma non è questo quel che conta, quanto il fatto che anche uno statista del livello di Giscard, che, ricordiamo, fu fra i politici che parteciparono alla formazione del Trattato di Roma, si renda conto del fatto che siamo a un punto morto. La Ue, erede non del progetto federativo di Colorni e Spinelli, quanto di quello confederale e diplomatico di Coudenhove-Kalergi e di quello tutto economico e tecnocratico di Jean Monnet, ha alla 409

base un difetto di progettazione: il mal risolto rapporto fra nazione e costruzione continentale che, in periodo di crisi, diventa ingestibile soprattutto sotto il profilo economico 10 e, di conseguenza, l’impossibilità di riorganizzare gli interessi sociali intorno a un polo attrattivo centrale. Di qui la disaffezione popolare è una conseguenza quasi meccanica. Ha ragione Eugenio Scalfari a dire che ora il bivio che ha di fronte l’Europa è diventare Stato federale o dissolversi, 11 quello che, però, l’insigne giornalista non coglie è che non sono mutate le condizioni strutturali che hanno impedito per sessanta anni che questo accadesse. Se l’unità politica non si è realizzata, in un arco di tempo così lungo, non è stato solo per una dimenticanza, qualche distrazione o una sfavorevole congiuntura astrale, ma per precise ragioni. Di solito, si fa carico di questo insuccesso ai ceti politici nazionali che, per mantenere il loro potere, hanno frenato sulla strada della federazione. Questo è in parte vero, ma non basta a spiegare tutto, ad esempio, resta da spiegare come mai i ceti politici non abbiano dovuto fare i conti con una pressione popolare che spingesse in questo senso. Se i popoli d’Europa avessero davvero voluto l’unità politica, in sessanta anni, avrebbero espresso classi politiche dotate di questa volontà. Al contrario, i movimenti federalisti sono 410

sempre stati piccole minoranze «illuminate» che hanno fatto da mosche cocchiere. Il punto irrisolto che ha condannato dall’inizio il progetto è stato l’assenza di una lingua veicolare comune. Sin qui, l’«europeismo» è stato solo una ideologia elitaria senza popolo. Certamente anche l’unità italiana fu l’idea di ristette élite sociali e culturali e fu realizzata più con le baionette che con i consensi, il peggiore dei modi, ma dopo ci fu un processo che, fra momenti di espansione democratica e momenti di involuzione autoritaria, riuscì a costruire una identità nazionale, in gran parte fondata sullo straordinario bagaglio culturale della lingua. La Germania ha creato l’identità nazionale dall’alto grazie alle baionette di Bismarck, mentre gli Usa hanno prodotto la loro identità nazionale grazie a un processo democratico in un ciclo durato quasi 90 anni, dalla rivoluzione contro gli inglesi alla guerra di Secessione. Al processo europeo sono mancate tanto le baionette quanto i processi rivoluzionari. Le baionette sono mancate perché l’unità europea è stata piuttosto il prodotto di una catastrofica sconfitta militare che non di una rivoluzione democratica o di una affermazione militare di uno dei contendenti sugli altri: la guerra la persero gli europei tutti, non solo tedeschi e italiani, mentre la vinsero sovietici e americani, con i secondi che 411

imposero all’Europa occidentale di avviare la sua unificazione. Il resto fu opera delle tecnocrazie e delle diplomazie, esattamente come ipotizzato da Coudenhove-Khalergi e parzialmente realizzato da Monnet. Ma un «popolo europeo» non c’è stato mai. Un popolo è tale se ha una cultura comune senza della quale non è un soggetto politico e una società ha bisogno di regole, soggetti, procedure che non nascono dal nulla ma hanno fondamento nel suo retaggio culturale. Senza di questo non è possibile organizzare lo spettro di interessi che caratterizza una società. L’Europa unita (o quella che ha preteso di esser tale) non ha mai trovato o creato un suo popolo, ma senza popolo è restata solo una esangue struttura elitaria. E ora i nodi vengono al pettine. In una situazione del genere non è neppure necessario che i «populisti» vincano in qualche paese importante. È sufficiente qualsiasi cosa per determinare la frana finale: il default di Atene, una nuova Brexit in qualsiasi paese, fosse anche l’Ungheria, Malta o il Lussemburgo, una impennata del debito italiano, una improvvisa crisi diplomatica con la Russia che divida drasticamente i paesi dell’Unione, un’ondata fuori misura di immigrati e rifugiati, una destabilizzazione dell’euro sui mercati internazionali. O qualsiasi altra cosa di qualche rilevanza. L’esito della crisi europea sarà decisivo per la 412

strada che prenderà quella italiana: persino ovvio è constatare che ben altra cosa è se l’ordine monetario dell’euro dovesse permanere o essere sostituito e da cosa e come. Ma c’è anche molto altro: i partiti di centro (da Fi al Pd) hanno costruito la loro legittimazione presentandosi come i sostenitori dell’ordine «europeo», va da sé che, se la costruzione crollasse, di questi partiti resterebbe solo cenere. E c’è anche di più: l’Italia, in questo caso, dovrebbe riconsiderare tutta la sua politica estera, dal rapporto con i paesi rivieraschi del Mediterraneo all’appartenenza alla Nato. Molti pensano che un rimedio al vuoto di potere che si sta producendo in Italia si potrebbe trovare nella «calata della Troika» (Commissione europea, Bce, Fmi), ma, al di là dell’assai dubbia auspicabilità di questo «rimedio», chiediamoci: ci sarà ancora una Troika? E per quanto? E non c’è da aspettare l’esito finale della crisi europea: essa influenzerà le vicende italiane, a cominciare dalle vicine elezioni politiche, già in corso d’opera. E sarà uno dei pezzi più importanti dello spartito.

Quali equilibri di potere si stanno formando? Come si è detto, lo sfaldamento del sistema è 413

iniziato nel 2013, e si è svolto sotto il cielo della più grave crisi finanziaria dal 1929 e del tramonto degli equilibri internazionali nati nei primi anni novanta. Ora, dopo anni di graduale disgregazione del sistema italiano, il processo sembra dispiegarsi pienamente: i poteri finanziari navigano a vista, come legni disalberati dopo un naufragio, il sistema dei partiti è attraversato da uno sciame sismico in crescendo, le grandi aziende vanno via o sono acquistate da stranieri, i media fanno fatica a resistere al calo di vendite e di ascolti, la magistratura rientra a piè pari nel riassetto dei poteri tanto finanziari quanto politici ecc. Dunque, il sistema di comando che abbiamo conosciuto sin qui è destinato a sparire, trascinandosi dietro nomi e volti dell’attuale nomenklatura. Certamente nulla passa senza residui e qualcosa resta sempre (come ci dicono le mura romane che resistono da secoli alla rovina): non tutti i volti e i nomi dell’attuale potere spariranno, qualche partito sopravvivrà, magari cambiando nome, alcune banche si fonderanno, delle aziende resteranno in piedi e, insomma, qualche pezzo di questo sistema di potere parteciperà al prossimo. E qualcosa già si intravede, ma non è mai possibile dire quali saranno gli equilibri di potere quando si passa da un sistema all’altro, perché questo dipende dagli esiti di uno scontro e nessuna battaglia ha un 414

esito sicuramente prevedibile. Come dice Clausewitz, la guerra è il regno dell’incertezza e questo vale per qualsiasi tipo di conflitto. Per cui sbaglia chi crede che, nel mondo, vinceranno sicuramente i «populisti» e sbaglia chi pensa che, con altrettanta sicurezza, vinceranno le attuali élite liberal-liberiste. Ma, soprattutto, sbaglia chi pensa che l’alternativa si riduca a questi due poli: non tutti gli attori sono già pronti sulla scacchiera e altri ne verranno fuori. Per quanto riguarda l’Italia, sbaglia chi pensa che, collassato il Pd, non resti altra scelta che il M5S e questo sia perché non è detto che non si determini una «coalizione dei vecchi» che riesca, nell’immediato, a fermare, almeno per qualche tempo, l’avanzata degli avversari, sia perché non è certo che il M5S resti quale è nel passaggio alla Terza Repubblica. Ma sbaglia anche chi non pensa che possa venir fuori altro: è in momenti come questi che nascono nuove offerte politiche. Ad esempio, a destra è iniziato il dopo-Berlusconi: anche se il Cavaliere è ancora vivo e ha ancora la forza di assestare qualche micidiale zampata, la sua successione non è un problema del domani ma dell’oggi e, anche qui, non è affatto detto che l’offerta resti quelle attuale di Forza Italia, Lega e Fdi. Soprese serie potranno venire nel giro di due o tre anni, magari attraverso nuove aggregazioni intorno a figure in qualche modo nuove come 415

Stefano Parisi o Carlo Calenda o l’irruzione in scena di Mario Draghi, che proprio alla fine del 2017 concluderà il suo mandato alla Bce e, sempre che non vada verso altri prestigiosi incarichi internazionali (ad esempio al Fmi), potrebbe essere tentato di scendere nell’area politica italiana, diventando il punto di riferimento di un nuovo raggruppamento di centro. 12 Non si tratterebbe solo di un avvicendarsi di nomi, ma dell’affermarsi di una nuova destra o di un nuovo centro. Così come il M5S, al pari delle altre formazioni di protesta «populista» (usiamo sempre questo termine fra virgolette, perché è un modo sommario di indicare una realtà ben più complessa e variegata di quanto non si creda), è probabile che attraverserà un tormentato processo di trasformazione. Anche nel nostro caso, la prima linea di frattura è certamente quella fra classi dominanti e classi subalterne. Per quanto un regime possa essere elitario, per quanto una democrazia possa celare un contenuto oligarchico, tuttavia le classi popolari hanno pur sempre una quota di potere che le consocia e ne giustifica il consenso. Se questo non ci fosse, il sistema crollerebbe (che è poi quello che sta accadendo un po’ dappertutto in Occidente), perché non esiste sistema politico (fosse anche dittatoriale) che può reggersi a lungo senza il consenso popolare. 416

Magari può trattarsi di un consenso meramente passivo di un popolo che si comporta secondo le norme del sistema, sorretto da inganni ideologicopropagandistici, ma pur sempre una forma di consenso senza la quale la disapplicazione delle regole diverrebbe automatica. E, da questo punto di vista, la democrazia è più fragile degli altri sistemi, perché basata ideologicamente proprio sul fondamento del consenso popolare.

Lo scontro fra élite e classi popolari In tutta Europa si sono affermati movimenti diversi fra loro ma accomunati dalla rivolta contro le élite: in Inghilterra (con la Brexit e la nascita dell’Ukip e la conseguente crisi del tradizionale bipartitismo), in Francia (con l’irruzione sulla scena del Fn e della sinistra di Melenchon), in Spagna (con Podemos e i Ciudadanos), in Austria (con il successo di Hofer, anche se non eletto). E segnali più ridotti si avvertono in Finlandia (con i Veri Finlandesi), Olanda (con i populisti di Wilders). E molti pensano che la rivolta sociale che cova si esaurisca in questi movimenti che, almeno per ora, si esprimono attraverso la partecipazione elettorale o, quando possibile, il ricorso a referendum. Al contrario, è realistico che questa ondata sia solo la 417

fase incipiente di una stagione di forti conflitti sociali e politici fra i ceti dominanti e quelli popolari, che provocheranno anche scontri all’interno delle classi dominanti. Costruendo lo spettro magnetico che tiene unita una compagine sociale, occorre concedere alle classi dominate una quota di ricchezza attraverso forme di redistribuzione e una quota di potere attraverso i meccanismi rappresentativi. Nelle democrazie europee questo è stato il compromesso socialdemocratico (e negli Usa il compromesso newdealista), che ha concesso il welfare-state e la contrattazione collettiva e una quota di potere sociale attraverso il suffragio universale integrato da specifici strumenti di trasmissione della domanda politica, quali i partiti di massa e i sindacati. Questa formula è stata distrutta dall’ondata neoliberista, che ha demolito in tutto o in parte il welfare e la contrattazione collettiva e ha emarginato o distrutto i partiti di massa e i sindacati. La formula neoliberista di compromesso sociale – che ha sostituito quella del compromesso socialdemocratico – prevedeva concessioni come l’offerta low cost di beni e servizi (basata sui bassi salari e la precarizzazione, sia all’interno sia, molto di più, nei paesi dove la produzione era delocalizzata), quote residue di assistenza sociale e, soprattutto, la creazione di denaro bancario 418

generosamente dispensato. Il «denaro bancario» ha creato per un certo periodo una liquidità aggiuntiva attraverso la concessione di carte di credito (che, anticipando la spesa, creavano una offerta di massa di liquidità), e di mutui più facili (negli Usa soprattutto per l’acquisto della casa, e dappertutto per l’acquisto dell’auto). In Italia, peraltro, alla falcidia dei posti di lavoro e al crollo dei salari, ha sopperito il welfare familiare basato sulle retribuzioni dei quaranta-cinquantenni che ancora godevano dei frutti dell’avanzata salariale degli anni settanta, sulla «pensione del nonno» e sui risparmi consentiti dall’epoca d’oro della contrattazione salariale. Sul piano politico si è accentuata la nota videocratica a tutto danno della partecipazione politica reale e si è data l’ingannevole sensazione di un maggiore potere decisionale con la scelta dell’uomo al comando, che, in realtà, blindava il ceto politico attraverso il meccanismo del «voto utile» e mascherava la marginalizzazione del Parlamento a vantaggio dell’esecutivo e del suo capo. L’Italia è stata un importante laboratorio in questo senso. Con la crisi finanziaria il meccanismo si è rotto: il denaro bancario si è rivelato un meccanismo ingannevole, che «mangiava» le risorse delle generazioni future. In concreto ha rimandato il 419

problema dei bassi redditi di una dozzina di anni, ma solo a costo di una crisi finanziaria devastante e non ancora risolta; i margini assicurati dai resti del welfare e della contrattazione collettiva si vanno consumando e le nuove generazioni sono del tutto scoperte. Di conseguenza, anche la truffa della «democrazia plebiscitaria», dove il popolo sceglie solo il semi-dittatore temporaneo, si è dissolta e i ceti popolari hanno rivolto la loro rabbia contro i rispettivi dirigenti politici, avidi, incapaci, corrotti. Sin qui la rivolta popolare ha avuto tre aspetti centrali: una rivolta fiscale contro una pressione insostenibile, che condanna molti paesi a una recessione permanente, una rivolta contro l’Europa identificata con la cupola tecnocratico-bancaria che sta dissanguando le economie nazionali, la richiesta di nuove forme di democrazia (come dappertutto accade con la proposta di referendum). Su tutto questo si è sovrapposta la reazione antiimmigrazione, determinata da un insieme di cause: la sensazione che questa gente sottragga risorse e occasioni di lavoro ai nativi, il timore per la sicurezza che indica negli immigrati una massa di criminali, ma soprattutto una reazione identitaria che teme di vedere sopraffatta la propria cultura, una reazione perfettamente simmetrica a quella dei popoli «altri» (mediorientali, indiani, russi, africani ecc.), che vedono – magari con maggiore 420

fondamento – nell’Occidente il sopraffattore. La globalizzazione, al contrario delle aspettative, che immaginavano una crescente convergenza delle diverse identità culturali verso un modello unico, ha avuto, per ora, l’effetto opposto di una generale rivolta identitaria di ciascuno dei soggetti coinvolti. Il fatto che gran parte dei motivi di questa reazione, soprattutto in Occidente, siano infondati, non toglie che essa sia reale e, di fatto, agisca come diversivo rispetto a una rivolta sociale contro l’ipercapitalismo finanziario che è alla base dell’attuale disastro sociale e contribuisce a orientare a destra la proposta in atto. È difficile dire che evoluzioni avrà il fenomeno, ma è evidente che è uno dei principali terreni di scontro nel prossimo futuro. La proposta dei poteri finanziari per spegnere la crisi è quella del «reddito di cittadinanza» o, se si preferisce «di sussistenza», in cambio dell’accettazione dell’attuale ordinamento da parte delle classi subalterne. Si concede qualche briciola dei profitti della delocalizzazione, della speculazione finanziaria, del sottosalario generalizzato in cambio della rinuncia a mettere in discussione gli aspetti di potere esistenti, ma sbaglia chi pensa che si tratti del classico «piatto di lenticchie», questo è meno di un piatto di lenticchie. È interessante notare come questa proposta sia tanto popolare anche a sinistra (e parlo della sinistra 421

radicale): trenta anni di diseducazione politica e di svalutazione culturale del lavoro hanno generosamente posto le premesse di questo naufragio politico e ideale della sinistra. Nel frattempo si affacceranno sulla scena le nuove generazioni, alle quali è negato ogni futuro e che, qualora non si dovessero lasciar sedurre dalla proposta corruttiva del «reddito di cittadinanza», potrebbero porre la questione del lavoro. In Francia è accaduto esattamente questo in occasione della protesta contro la riforma del lavoro del governo Valls (tanto simile al nostro jobs act). Nello stesso tempo, potrebbero prospettarsi varie forme di conflittualità sociale: dalla ripresa delle forme canoniche della lotta di classe a forme nuove come lo sciopero fiscale o altre forme di disobbedienza civile, manifestazioni di piazza sul modello di quelle del movimento dei forconi di alcuni anni fa. Realisticamente, il cuore dello scontro riguarderà la qualità del sistema democratico. Sbaglia chi pensa che gli equilibri istituzionali attuali di democrazia più o meno basata sullo Stato di diritto, sulla rappresentanza e sulle libertà di espressione, sciopero ecc. possano restare come sono. Dopo i brividi procurati dalla Brexit, dall’elezione di Trump ecc. non è realistico pensare che le classi dominanti accettino di mantenere questi margini di 422

partecipazione popolare: la prima misura da mettere in conto è la limitazione crescente dell’istituto referendario. Dopo verranno, in un modo o nell’altro, misure di ridimensionamento del suffragio universale: c’è chi propone una ulteriore riduzione di potere dei Parlamenti a tutto vantaggio delle élite tecnocratiche (la «democrazia a trazione elitaria» cara a Mario Monti e fatta proprio dal Foglio, tanto per dirne una), chi vorrebbe una seconda camera tutta di nomina dall’alto, chi progetta riforme del sistema elettorale pensate per blindare il blocco tecnocratico di centro e, per certi versi il «pacchetto Renzi» anticipava alcune di queste tendenze e non è affatto improbabile che il tentativo antidemocratico venga reiterato in un futuro non lontano. Ma c’è anche chi pensa di agire non attraverso i meccanismi istituzionali, quanto attraverso la repressione selettiva e la limitazione del diritto di espressione (la polemica sulle fake news e la «postverità» serve solo ad aprire la strada in questo senso). Ma verranno anche altre misure tese a garantire le élite politiche dal rischio di inopportune inchieste sulla corruzione o sui rapporti con la borghesia mafiosa. Dall’altro lato, la protesta popolare ormai chiede maggiore potere decisionale con forme di democrazia diretta e, soprattutto, di controllo. Non si tratta solo della rabbia contro la cupola tecno423

finanziaria della Ue, ma dell’esigenza di garantire la domanda politica dei ceti subalterni attraverso meccanismi che vadano oltre la democrazia rappresentativa. Si tratta di innestare sul tronco delle nostre democrazie forti elementi di democrazia diretta che lo rivitalizzino, si tratta di estendere la democrazia oltre la sfera politica, facendola penetrare anche nella produzione, nella cultura, nella ricerca, nell’informazione. E si tratta anche di «mettere al guinzaglio» i poteri extrapolitici, a cominciare dai poteri finanziari, che godono oggi di una libertà inconciliabile con il bene comune, di una impunità penale e di una franchigia fiscale ormai intollerabili. E insieme ai poteri finanziari occorre mettere «sotto controllo» anche la classe politica, troppo spesso incline a entrare in «rotta di collusione» con i poteri finanziari e con la borghesia mafiosa, e troppo facile a corrompersi. Dunque, delle due l’una: o i nostri regimi prenderanno la strada di una trasformazione in senso partecipativo e democratico, oppure l’involuzione elitaria, finanziaria e paracriminale del sistema finirà per compiersi.

Il rapporto fra potere economico e potere politico 424

La svolta neoliberista dei primi novanta disegnò una architettura di potere nella quale la politica fosse sottomessa alla finanza. In realtà, il disegno trovò attuazione solo in parte e poi la crisi, che ha richiesto i salvataggi di Stato, e l’approfondirsi delle crisi in Medio Oriente e nell’Est europeo hanno richiamato in servizio il protagonismo degli Stati e la costruzione si è ulteriormente destabilizzata. Dunque, nella ricomposizione del blocco dominante si porrà il problema della redistribuzione del potere fra pubblico e privato, fra politica e finanza. E qualche scossone già si è avvertito, ancora una volta a opera di Renzi. Abbiamo già accennato alle nomine operate da Renzi nell’arco di un anno, fra il marzo 2016 e quello 2017, conviene ora farne un esame più dettagliato per capire quale contenzioso si stia aprendo. Infatti, le nomine di Renzi hanno rappresentato un’evoluzione della Costituzione materiale del nostro paese. Da sempre le nomine ai vertici di alcune istituzioni (Arma dei Carabinieri, Aise, Aisi, Guardia di Finanza, Polizia, Eni, Finmeccanica ecc.) sono fatte essenzialmente con criteri di «vicinanza politica» e non potrebbe essere diversamente: spettano al governo (e in particolare al suo capo), non esistono criteri oggettivi di merito né procedure 425

concorsuali ecc., per cui non è possibile stabilire chi è il più idoneo a coprire un posto, e il governo sceglie quelli che ritiene più «amici». Al massimo ci sono criteri generici per poter accedere alla rosa dei «papabili», per cui il direttore del servizio militare deve essere un generale di divisione o ammiraglio, il direttore di quello civile deve essere parimenti un generale divisionario o un prefetto o dirigente superiore di Polizia, avere avuto precedenti manageriali in imprese di determinate dimensioni e così via, ma questo serve solo a formare liste di candidati piuttosto ampie. Non esistono né automatismi (per cui il vice succede al direttore uscente), né criteri di anzianità, né punteggi. Di solito, a quei livelli, tutti i «papabili» hanno curricula rispettabili (e se non li hanno, si fa in modo di farli sembrare tali), per cui è oggettivamente difficile stabilire se il generale Verdi sia più meritevole del questore Rossi o del prefetto Bianchi: uno ha diretto la tale operazione di peacekeeping in Africa, l’altro ha diretto una grande operazione antiterrorismo e il terzo ha coordinato i soccorsi per il terremoto di sei anni fa ed è stato nella missione diplomatica nucleare a Vienna: chi è il più meritevole dei tre? E peggio ancora se parliamo di enti economici, dove meriti e demeriti sono ancora più difficili da soppesare. Insomma, la legge lascia piena discrezionalità al 426

decisore politico che, ovviamente, sceglie quello che più è nelle sue grazie. Ai tempi della Prima Repubblica, quando c’erano governi di coalizione, c’era una spartizione fra i diversi capipartito, il che dava luogo a un mercato piuttosto indecente, la famigerata «lottizzazione», ma, nello stesso tempo, distribuiva le diverse leve di potere evitando pericolose concentrazioni. E così, almeno in parte, è stato anche nel periodo della Seconda Repubblica che, pur in modo molto attenuato, riproduceva i meccanismi del governo di coalizione. Le nomine di Renzi rappresentano, invece, una decisa novità, saltando del tutto i meccanismi della mediazione fra forze politiche e concentrando tutto nelle mani del presidente del Consiglio (e capo del partito, che da solo dispone di quasi la metà dei deputati), che si consulta con il solo presidente della Repubblica, peraltro facendo poi di testa sua, come nei casi Massolo o Toschi. 13 Il mercato sparisce ma solo per lasciare il posto a una pericolosa concentrazione di potere, accentuata dalla seconda novità di queste nomine: la durata sino alle prossime elezioni. Sin qui il rapporto fra alte cariche (soprattutto militari e di sicurezza) e potere politico era sottoposto a un riallineamento in caso di elezioni, ma senza nessun particolare automatismo, come invece accade nei sistemi di democrazia 427

bipartitica in cui vige lo spoil system. La lunga vigenza del sistema proporzionale che originava governi di coalizione, che non duravano l’intera legislatura, ha impedito questa forma di dipendenza particolarmente rigida dell’amministrazione dell’autorità politica, attenuandola. La consuetudine voleva che i responsabili dei tre vertici del servizi segreti mettessero loro nomine a disposizione del nuovo governo, che invitava i direttori a restare in carica; dopo alcuni mesi venivano le nuove nomine, o c’era anche una conferma. Ancora meno automatica era la nomina dei vertici militari, dell’Arma, della Polizia e della Guardia di Finanza, e ancor più lenta era la sostituzione al vertice degli enti economici di Stato. Questo anche perché la durata dei governi è sempre stata variabile e non ha mai coinciso né con l’intera legislatura né con la durata del mandato. Questo andamento ondulare garantiva una relativa autonomia dei dirigenti di enti e corpi militari e di sicurezza, attenuandone la dipendenza dal governo del momento. Con le nomine del 2016 Renzi compiva un salto verso lo spoil system: il termine secco e preventivo dei due anni (resta da capire se lo scioglimento anticipato del Parlamento possa abbreviarlo o resterebbe comunque valido sino al 2018), da un lato, allinea tutte le nomine in unico «pacchetto», dall’altro rende direttamente 428

dipendente dal successo dell’attuale maggioranza governativa l’eventuale permanenza nel posto degli attuali capi designati che, ovviamente, sono implicitamente sollecitati a collaborare a tale successo. E alcune di queste nomine, come quella della Guardia di Finanza, hanno un rapporto diretto con l’andamento degli affari finanziari soprattutto in tempi di scandali bancari (Etruria, Carimarche, Popolare di Vicenza…). A questo proposito, ricordiamo una curiosa coincidenza, per la quale, più o meno nello stesso periodo delle nomine, veniva approvata una legge che faceva obbligo ai funzionari di Polizia giudiziaria di riferire sui risultati delle loro indagini ai rispettivi Comandi generali (peraltro, c’è un punto da chiarire: sul testo approvato in via definitiva dal Senato sembra non esserci quel particolare paragrafo che poi risulta nel testo pubblicato sulla G.U. Forse una svista poi rettificata, ma sarebbe il caso di dare un chiarimento). Le nomine del 2017, riguardanti i vertici delle massime istituzioni economiche pubbliche (Eni, Dcp, Finmeccanica-Galileo ecc.), hanno confermato queste tendenze di Renzi, che ha imposto regolarmente suoi uomini, scavalcando bellamente il presidente del Consiglio in carica Gentiloni e ministri che, in qualche modo, avrebbero avuto voce in capitolo, da Padoan a Calenda e, questa volta, con 429

l’aggravante che Renzi non era né il capo del governo, né il segretario del partito, ma solo il candidato alla segreteria a capo della corrente più numerosa del partito. Il possibile (anche se non probabile) ritorno di Renzi a Palazzo Chigi, dopo le prossime elezioni politiche, lascia pensare che questo delle nomine diverrà uno dei principali terreni di scontro fra le diverse fazioni nel corso della ricomposizione del blocco dominante. Ma forse lo sarà comunque, qualunque sia il capo del governo.

Lo scontro sull’assetto istituzionale Il tentativo renziano di stravolgere la Costituzione Repubblicana è stato respinto, ma questo non significa che lo scontro sull’assetto istituzionale del paese sia finito e non ci saranno altri tentativi del genere, né che l’attuale assetto sia pienamente soddisfacente e, come abbiamo detto, su questo si scaricherà anche una parte dello scontro fra governati e governanti nei prossimi anni. Ma questo avverrà senza una logica precisa e, per diverso tempo, in modo confuso. Il progetto di Seconda Repubblica colse il momento favorevole dell’inchiesta di Mani Pulite e del referendum golpista di Occhetto, Pannella e 430

Segni, ma aveva alle spalle un progetto. Beninteso, un progetto afflitto da calcoli errati, come si è detto, e destinato a crollare, come la breve durata di questo regime ha dimostrato, un progetto che abbiamo detto ammantato di una retorica populista, che celava un intento sostanzialmente elitario. Tutto quel che vi pare, ma pur sempre un progetto che era stato lungamente covato e che, dagli anni ottanta, aveva avuto anche autorevoli avalli accademici 14 oltre che politici. Poi la sua realizzazione è stata stentata e oscillante, ricca di giravolte e condizionata da troppi interessi personali, ma, in ogni caso, ha avuto una direzione di marcia. Viceversa, al crollo della Seconda Repubblica ci arriviamo senza la più pallida idea di come costruire un nuovo sistema politico, una nuova repubblica. Anche nella battaglia referendaria, lo scontro ha visto lo schieramento del Sì contrapposto a quello del No, in cui prevaleva la semplice difesa della Costituzione del 1948, senza alcun tentativo di prospettare anche qualche elemento innovativo, anche solo per dimostrare che non era una difesa del «vecchio» contro il «nuovo». Certamente, l’esigenza di mandare un messaggio univoco e chiaro, che non confondesse le idee, imponeva questa impostazione. Ma non si è trattato solo di questo. Il fronte del No non aveva nulla in comune, se non l’idea di battere Renzi e la sua «Costituzione di partito», e sarebbe 431

stato vano attendersi dalla destra qualche idea del genere. Ma l’impostazione più conservatrice è stata quella della sinistra. La linea è stata dettata dal comitato dei costituzionalisti, che ha svolto un ruolo decisivo, per certi versi, ma che non andava oltre una noiosissima impostazione tutta tecnica. Nessun tentativo di aprire un discorso politico e sociale su quel che era stata la Seconda Repubblica e sulle sue disfunzioni, nessun accenno all’opportunità di correzioni anche minime e di superare la retorica della «Costituzione più bella del mondo». E il disastroso confronto fra l’abile Renzi e il più che professorale Zagrebelsky fu l’esempio più riuscito dell’inadeguatezza di questa impostazione. Per fortuna, altri elementi hanno determinato la schiacciante sconfitta del progetto renziano. Non vorrei che nascessero equivoci: ho partecipato alla battaglia in difesa della Costituzione Repubblicana, contro il progetto oligarchico di Renzi e rivendico con orgoglio di averlo fatto, sono convinto che la vigente Costituzione italiana sia una delle migliori fra quelle esistenti, riconosco che non era quello il momento più adatto ad aprire il discorso sulle carenze della Costituzione del 1948, ma non posso non notare come, dopo la squillante vittoria del 4 dicembre, i tenori del No siano rimasti senza fiato e non si senta parlare di alcuna proposta in materia. Eppure non è che la Costituzione sia così 432

perfetta, esente da errori e lacune anche da un punto di vista democratico e di sinistra. Qualche esempio? In primo luogo l’errore strategico di aver impostato debolissimi poteri di controllo, per cui il governo è controllato dallo stesso Parlamento che gli dà la fiducia e che giudica dell’eleggibilità e dell’autorizzazione a procedere dei suoi membri, i giudici rispondono disciplinarmente a un organo per i due terzi eletto da loro stessi e il presidente della Repubblica è praticamente blindato, qualsiasi cosa faccia. Se la decisione sulla messa in stato d’accusa non fosse dipesa da un Parlamento con una maggioranza precostituita, ma da un giudice più imparziale, Segni, Cossiga e Napolitano sarebbero stati tutti ugualmente prosciolti? È lecito dubitarne almeno per qualcuno. Dopo mezzo secolo di uso così «disinvolto» del segreto di Stato (e in materie come le stragi e i tentati colpi di stato), non sarebbe il caso di introdurre il tema in Costituzione, con limiti molto rigorosi al suo esercizio? Ha senso ancora oggi la diversa età per gli elettori e gli eletti di Camera e Senato? Se la Costituzione avesse avuto qualche norma a tutela della sovranità monetaria del paese, si sarebbe avuta lo stesso l’istituzione dell’euro e a quelle condizioni? E se il testo avesse fissato qualcosa riguardante la Banca d’Italia, sarebbe stata possibile 433

la «riforma» del 2014? Se la Costituzione avesse previsto qualcosa in tema di diritto all’informazione e di garanzia del suo pluralismo, avremmo avuto il duopolio RaiFininvest? Per non dire di questioni come i limiti ai poteri degli enti locali, in particolare in materia di indebitamento. E potremmo proseguire, ma ci basta per dare l’idea di quali potrebbero essere i fronti costituzionali per una sinistra cerebralmente meno ingessata di quella che abbiamo. Quanto al M5S, ha seguito l’impostazione della sinistra, dimostrando, per il resto, scarso interesse per l’ordinamento costituzionale. Dunque siamo di fronte a una terza fase della storia repubblicana, alla «Terza Repubblica» appunto, ma paradossalmente proprio l’assetto costituzionale è quello di cui si dice meno. Dunque, ragionevolmente, il testo costituzionale resterà invariato per qualche tempo e, con esso, resteranno i poteri formalmente riconosciuti a ciascuna istituzione (ma non facciamoci troppo affidamento perché l’assalto verrà rinnovato tra qualche tempo). Il che, tuttavia, non impedirà che possano esserci scivolamenti, correzioni e vere e proprie torsioni nella prassi concreta, come è accaduto per questi settanta anni di vita della Repubblica. C’è poi il problema della legge elettorale che, 434

allo stato attuale, è uno strano miscuglio fra proporzionale e maggioritario (lo definiremmo il «proporzionario»), per di più dissimile fra i due rami del Parlamento. In teoria, il Parlamento potrebbe e, forse, dovrebbe intervenire per razionalizzare il tutto, ma va considerato che: 1. questo è un Parlamento iperdelegittimato: eletto con un sistema dichiarato incostituzionale, ha prodotto una nuova legge elettorale a sua volta dichiarata incostituzionale, ha prodotto una riforma costituzionale sonoramente bocciata dal 60% degli elettori, ospita il più alto numero di inquisiti di qualsiasi legislatura, per un terzo circa è composto da parlamentari che hanno cambiato partito e ha circa 23 diversi gruppi, dei quali solo otto erano presenti sulla scheda del 2013 e raggruppati in coalizioni che non esistono più; 2. è paralizzato da una ondata di scissioni e riaggregazioni che è appena iniziata; 3. nel Senato ha una maggioranza inesistente; 4. ha pochissimo tempo davanti, considerato il doppio passaggio Camera-Senato e per le rispettive leggi elettorali, che significa 4 passaggi, con in mezzo la pausa estiva e la legge di stabilità da approvare in autunno; 5. ha interessi estremamente divergenti al suo 435

interno, che rendono difficile una intesa e, per di più, le divergenze aumenteranno man mano che ci si avvicini alle elezioni; 6. a modificare l’impianto, per esempio per tornare al Mattarellum, occorrerebbe, dopo, rivedere i collegi e/o le circoscrizioni, operazione che normalmente richiede un paio di mesi. Tutto questo considerato, non appare realistico che sia questo Parlamento a poter mutare la legge elettorale, salvo qualche ritocco marginale come ripristinare le coalizioni, sempre che ci sia un interesse comune a farlo, del che fieramente dubitiamo. 15 Dunque, la cosa più probabile è che si voti con il sistema elettorale attualmente vigente e altrettanto probabile è che nessuno raggiungerà il 40%, per cui avremo un Parlamento alla Camera di tipo sostanzialmente proporzionale (salvo le clausole di sbarramento), mentre al Senato, sia per le altissime soglie di sbarramento che per la persistenza delle coalizioni, avremo un Parlamento meno rappresentativo e di tipo para-maggioritario. Un ottimo modo per ottenere una legislatura di scarsissima durata. Per forza di cose, il futuro Parlamento dovrà mettere mano alla riforma elettorale, ma in una situazione nella quale avranno molto peso (soprattutto alla Camera) le formazioni interessate a mantenere uno schema proporzionale. 436

Difficile sapere come andrà a finire, ma la cosa più probabile è che proseguirà per qualche tempo. È prevedibile che nel periodo di assestamento destinato a durare qualche anno (come fu per la Seconda Repubblica nei primi anni novanta) il ruolo del presidente della Repubblica crescerà simmetricamente alla instabilità del quadro politico. Ed è realistico pensare che il ritorno parziale del proporzionale possa ridare identità e iniziativa alle forze politiche non più appiattite sulle coalizioni preconfezionate e questo porterà a una dialettica diversa nella maggioranza e nel governo, a tutto scapito del ruolo del presidente del Consiglio. Ovviamente, molto inciderà la personalità del capo del governo, ma solo fino a un certo punto: Craxi, Andreotti o Fanfani non mancavano certo di spiccata personalità, ma i limiti della forma di governo di coalizione impedirono sempre che potessero debordare oltre certi limiti. E, forse, per diverso tempo, non ci sarà più un Renzi… nemmeno se fosse Renzi. Molto lo determinerà la questione delle nomine, che probabilmente vedrà riaccendersi il conflitto fra il presidente del Consiglio e i ministri e fra il partito di maggioranza e quelli di coalizione, a meno che qualcuno dei contendenti ottenga il 40% alle elezioni e la tendenza all’accentramento riprenda più vigorosa di prima.

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Ma, allora, «chi» comanda in Italia? Abbiamo dedicato molta attenzione alla scomposizione del quadro politico, anche perché è quella più evidente e della quale i mass media si occupano di più, ma, in realtà, i primi colpi il sistema li ha incassati a livello del potere economico e finanziario. Il primo fu certamente lo scioglimento del «salotto buono», che invano si è tentato di ricostruire in scala più ridotta: il capitalismo di relazione all’italiana è tramontato perché ormai insostenibile, come disse a suo tempo il presidente della Consob. E con esso è tramontato anche il ponte di comando del capitalismo italiano a tutti i livelli. La Confindustria, dopo una travagliata elezione del nuovo presidente, 16 non ha superato le polemiche interne sulla sua composizione aperta al capitale pubblico e ha subito una scossa non da poco con la crisi-scandalo del suo giornale, Il Sole 24 Ore per il quale si preannuncia una ricapitalizzazione cui sembra interessato l’immancabile Bolloré. 17 Nello stesso tempo è venuta la tempesta bancaria, che ha travolto per primo il Mpd 18 per poi estendersi alla Bp, alla Carigenova, Banca Marche, Cassa di Cesena-Rimini, Popolare di Bari, Carife, e dilagare in Toscana e Veneto. Quel che merita una breve riflessione sulle caratteristiche ricorrenti nelle crisi di questi istituti bancari. Sono tutte «pesi medi» 438

che, però, hanno resistito al tempestoso risiko bancario di questo quindicennio cercando di entrare nel «grande giro». Un passo decisamente più lungo della gamba, che poteva sembrare alla portata negli anni euforici della finanza raider, ma che con la crisi è divenuto via via insostenibile. A questo proposito c’è un particolare che merita d’essere notato: due fra le maggiori banche popolari travolte dai crack di questi anni sono state la Banca Etruria e la Popolare di Vicenza, che, curiosamente, sono le due principali banche italiane per il trading dell’oro fisico, ed è appena il caso di ricordare che quelli dal 2009 al 2014 sono stati anni di montagne russe nel prezzo dell’oro e che, nello stesso tempo, intorno all’oro si sono intrecciati giochi non sempre chiarissimi come, ad esempio, l’esplosione dei negozi «compro oro», il contrabbando di oro proveniente da paesi sottoposti a sanzioni commerciali, e così via. In tutto questo, va detto che non sembra aver brillato la Banca d’Italia nelle sue vesti di ente preposto alla vigilanza, in compagnia di Consob e Ministero del Tesoro, 19 vittime di una serie di errori inspiegabile ma che occorre spiegare. Decisamente si avverte l’esigenza di una commissione parlamentare di inchiesta sugli scandali bancari, anche se per questa legislatura sembra troppo tardi. Ne riparleremo nella prossima. Dunque, anche qui occorrerà ricostruire 439

gerarchie, rapporti di forze, alleanze, equilibri e in questo gioco influirà anche l’urto delle tensioni internazionali, e si pensi alla Brexit, che potrebbe avere come conseguenza il trasferimento della City a Milano, quel che potrebbe avere un forte impatto globalizzante e cambiare anche il profilo merceologico della nostra manifattura, ad esempio attraverso un forte rilancio dell’industria del lusso milanese, che già 20 incalza da vicino quella parigina. La riorganizzazione dei poteri, dunque, sarà un processo complesso e forse anche lungo, in cui peserà quel vuoto di potere cui facevamo cenno nell’introduzione e che potrebbe aprire il varco a interferenze esterne sempre più invasive. Come bussola principale credo si possa avere quella delle tendenze sociali. Dello scontro fra classi popolari e classi dominanti si è detto, qualche frase in più dedichiamo qui in conclusione alle trasformazioni del blocco (o dell’ex blocco) dirigente e alle tendenze che si intravedono. Esaminando le trasformazioni delle classi dominanti derivate dal processo di globalizzazione, a partire dai primi anni novanta, abbiamo parlato di un «blocco» composto da soggetti quali: 1. la borghesia finanziaria in via di globalizzazione (blocco proprietario e management privato); 440

2. i «gattopardi di Stato» (ceto politico e suo indotto e management pubblico); 3. «buro-manager» della Pubblica amministrazione; 4. borghesia mafiosa; 5. polo cattolico (per la sua particolarità, distinto dal primo gruppo). Avvertivamo, però, che si trattava di un blocco sui generis, segnato da numerosi conflitti interni, da forti tendenze centrifughe e da una accentuata volatilità di patti e alleanze. Adesso, possiamo aggiungere che questo blocco era contraddistinto da una forte instabilità delle sue singole componenti, che sono state in permanente movimento in questo quarto di secolo. Veniamo ora alle tendenze che si profilano. Il primo gruppo (la borghesia finanziaria in via di globalizzazione) è quello che manifesta più chiaramente le tendenze in atto: continua il processo di trasformazione cosmopolita della classe dirigente economica attraverso l’emigrazione totale o parziale di grandi gruppi come la Fca (ex Fiat) e il processo inverso di investimenti di capitale straniero in imprese italiane o attraverso l’acquisto di marchi (che talvolta emigrano come stabilimenti) o con l’acquisto di significative quote di capitale azionario. Più raro il fenomeno opposto, quello di aziende italiane che fanno shopping all’estero, 441

questo accade nei casi di produzioni fortemente specialistiche, nelle quali una azienda italiana ha conquistato una posizione leader, come nel caso di Luxottica di Leonardo Del Vecchio, che (subito dopo aver assorbito il gruppo italiano Salmoiraghi & Viganò, nel gennaio 2017) ha incorporato anche la francese Essilor, diventando il primo gruppo mondiale nel settore delle lenti oftalmiche. Va però detto che la sede e la quotazione del nuovo gruppo saranno a Parigi, mentre la finanziaria della famiglia Del Vecchio continuerà ad avere sede (come già da diversi anni) in Lussemburgo, per cui anche qui assistiamo a una trasformazione di questa azienda in senso globalizzante. La fine del «salotto buono» ha accelerato la tendenza dell’integrazione del capitale italiano nel quadro della borghesia finanziaria sovranazionale, anche se il bancario ha accusato diversi colpi sia per il crollo del Mps, sia per la tempesta di popolari e casse di risparmio sia, anche, per le difficoltà dei due gruppi maggiori e di Unicredit in particolare. Nel complesso, l’economia di questo paese si regge essenzialmente sul ruolo di piccole e medie imprese. che assorbono la maggior parte della forza lavoro manifatturiera, rispetto alle quali i grandi gruppi industriali e finanziari si muovono in modo divaricante, aprendo una spaccatura che potrebbe avere un peso nella ridefinizione dei rapporti di potere nei prossimi anni, 442

e il primo angolo di osservazione sarà quello della Confindustria, esposta anche essa a rischi di nuove e più consistenti scissioni. A questo proposito, tuttavia, va detto che le tendenze potrebbero essere accelerate o ritardate dall’andamento della penetrazione del capitale straniero. Verso l’Italia e i suoi marchi hanno mostrato interesse investitori in particolare americani, tedeschi, cinesi, qatarioti, di Abu Dabi, di Singapore, ma soprattutto francesi. E basti citare la forte offensiva del gruppo Vivendi guidato da Vincent Bolloré che punta decisamente a tre asset strategici come Assicurazioni Generali, Mediaset e (a quanto pare) Sole 24 Ore. Se queste offensive dovessero essere coronate da successo, il quadro di potere del nostro paese risulterebbe sensibilmente condizionato dal vento d’oltralpe e, magari, molto più importante che sapere chi sia l’inquilino del Quirinale potrà esserlo sapere chi è l’inquilino dell’Eliseo. Anche il quadro del sistema politico ne risulterebbe direttamente influenzato: cosa sarebbe del centrodestra a trazione berlusconiana senza le tre reti Mediaset? Intendiamoci: per una serie di ragioni di ordine economico, culturale e politico, quelli francesi sono gli investitori stranieri preferibili e una più stretta partnership con Parigi potrebbe essere una prospettiva interessante in caso di collasso della Ue. Tuttavia non è una strada priva di rischi e va 443

tenuta presente nel processo appena iniziato, anche per la debolezza del quadro manageriale italiano. La generazione dei Tronchetti Provera, dei Luca Cordero di Montezemolo ecc. sta per uscire gradualmente di scena e, per la verità, senza aver lasciato eredità particolarmente brillanti, salvo qualche sinolo caso, ma dietro di essa c’è il nulla. Salvo qualche singolo caso come Alberto Nagel (peraltro non proprio giovanissimo), è constatazione generalmente condivisa quella del basso profilo del management italiano. Le retribuzioni continuano a esser le più alte, ma il profilo professionale appare piuttosto deprimente. Va da sé che proseguirà la tendenza generale all’espansione del ruolo dei manager rispetto alla proprietà, almeno sin quando la struttura del potere finanziario mondiale resterà quella che è, ma non è detto che le persone restino le stesse, soprattutto in caso di forte penetrazione del capitale straniero. Qualche breve riflessione merita il polo cattolico che, in questi anni, ha subito forti colpi in settori strategici come la sanità (fallimento del San Raffaele, difficoltà delle altre 4 grandi strutture ospedaliere riconducibili a esso), il potere locale (perdita del controllo della Regione Lombardia), la cooperazione (difficoltà della Compagnia delle Opere a seguito dell’indebolimento nel potere locale), e più ancora nel settore bancario, per le ben 444

note disavventure dello Ior. Ma incide molto di più un altro elemento: la forte caduta di interesse del papato per l’Italia iniziata con Wojtyla, parzialmente rallentata con Ratzinger e definitivamente conclamata con Bergoglio. Dai tempi di Paolo VI (ultimo papa interessato all’unità politica dei cattolici) la Chiesa ha assunto una fisionomia sempre più universalista e rivolta al mondo. Lo stesso episcopato italiano appare diviso sulle opzioni politiche, per cui, anche se il ritorno al proporzionale potrebbe suggerire la ricostituzione di un forte partito cattolico, 21 nei fatti non appare affatto scontato che questo accada, anche se ciò è possibile. Nel complesso, è plausibile che il polo cattolico andrà via via divaricandosi e le sue singole componenti in tutto o in parte si integreranno con i rispettivi interlocutori di settore. Tuttavia è plausibile che, pur se ridimensionato, il polo cattolico continuerà a esserci e a essere una delle componenti della nuova formazione di potere. Dei «gattopardi di Stato» (ceto politico e suo indotto e management pubblico) c’è poco da aggiungere rispetto al ceto politico, se non il ritorno a una dimensione centralizzata (dovuta anche ai vincoli di bilancio) per cui il ceto politico locale perderà parte della sua influenza. È invece probabile che proseguirà la tendenza a espandersi del ceto libero-professionale dei «consulenti», che ormai 445

costituiscono la principale articolazione del sistema di raccolta del consenso. È singolare come, nel pur agitato dibattito sui costi della politica, si parli tanto di stipendi dei parlamentari e di vitalizi, che rappresentano una porzione decisamente modesta del tutto, mentre passi sotto silenzio la ben più rilevante fetta di bilancio riservata a essi. Più complessa, invece, appare la questione del management pubblico, per via dei ricorrenti tentativi di privatizzazione. Ormai all’Eni e a Finmeccanica (o meglio alle sue aziende di maggior pregio, come l’Ansaldo) viene aggiunta anche la Cdp nel pacchetto che si minaccia di mettere in vendita. Nei primi mesi del 2017 la messa in vendita della Cdp appariva cosa fatta, se non si fosse opposto Renzi. È realistico che questo sarà uno dei campi di scontro nella prossima legislatura fra i fautori della privatizzazione e i suoi oppositori. Logica vorrebbe che la gran parte del ceto politico e il management pubblico facciano blocco per respingere le privatizzazioni, ma non è detto che questo accada e, soprattutto, non è detto che basti: bisogna tener conto delle pressioni italiane e non del famoso «vincolo esterno»: anzi è possibile che il dibattito su questo punto si incroci con quello sui rapporti con l’Europa e le «sue richieste» («È l’Europa che ce lo chiede!»). E anche questo determinerà i prossimi assetti di potere. 446

Molto meno c’è da dire sui buro-manager della Pa, la cui posizione non appare minacciata da nessuno (salvo che dai limiti di spesa dello Stato e dal suo possibile default), posizione stazionaria, quindi, ma in via di rafforzamento, data la competenza sempre più scarsa dei politici attuali e probabilmente prossimi. Mai come adesso è valido il detto: «I ministri passano e i direttori generali restano». Al contrario, c’è molto più da dire (e da indagare) sul polo della borghesia finanziaria mafiosa. Dopo la cattura di Provenzano (nell’aprile 2006), l’attenzione nei confronti della mafia (già allentata nel decennio precedente) è andata via via calando, sino a dare l’ingannevole sensazione di una semi-normalizzazione del fenomeno: non ci sono segnali di «guerre di mafia», con la sola eccezione di Matteo Messina Denaro 22 non ci sono più in libertà boss della grandezza dei Provenzano, Riina, Contrera ecc., salvo rari delitti di qualche risonanza (come quello dell’onorevole Enzo Fragalà) e anche i segnali sociali sono quelli di una sostanziale bonaccia. Nessuno lo dice esplicitamente, ma la sensazione diffusa e inespressa è quella che abbia avuto successo la strategia del containment e che si stia producendo una sorta di lento riassorbimento del fenomeno mafioso entro limiti sopportabili di criminalità ordinaria. 447

Non potrebbe esserci impressione più ingannevole. Come sanno tutti quelli che la conoscono per averla studiata, la mafia cresce e si trasforma proprio nei periodi come questo, quando essa sembra inabissarsi sott’acqua. Il passaggio dalla mafia rurale e tradizionale a quella urbana della speculazione e dei traffici di eroina fu preceduto da un periodo simile, fra la fine dei cinquanta e i primi sessanta, da un periodo di «pax mafiosa» interrotto dalla strage di Ciaculli (1962) e seguito da una nuova fase silente finita con la strage di viale Lazio (1969). I delitti non hanno mai giovato alla mafia e la strategia militare le ha creato più danni che vantaggi, risvegliando l’allarme sociale e la risposta dello Stato. E considerazioni simili potremmo farle anche per le altre mafie, come la ’ndrangheta, la camorra o la corona unita. In questi anni succeduti all’11 settembre 2001, l’attenzione degli apparati repressivi dello Stato, in larga parte, è stata riassorbita dal terrorismo jihadista, che è diventato la super-emergenza con priorità assoluta su ogni altra e questo ha obiettivamente creato condizioni di favore per la grande criminalità organizzata. Noi oggi sappiamo molto poco dei processi di cambiamento che stanno attraversando la nostra criminalità organizzata e quelle di molti altri paesi. Percepiamo, o forse solo intuiamo, con nettezza alcuni tratti: ad esempio 448

l’inserimento delle mafie negli spazi aperti dalla grande crisi mediorientale, con le nuove occasioni di affari come i traffici legati alle forti migrazioni di questi anni, dagli sbarchi clandestini all’inserimento nel grande business dei centri di accoglienza o allo sfruttamento della forza lavoro degli immigrati irregolari. Anche se si sa poco in materia, è intuitivo che la grande criminalità non possa essere rimasta estranea ai traffici d’armi, di petrolio, di reperti archeologici ecc. che ruotano intorno alla crisi siriano-irachena. Dunque, anche se sembra in regresso il mercato degli stupefacenti (peraltro sempre ravvivato dalla comparsa di nuove sostanze e dalla conquista di qualche nuovo mercato), gli affari di mafia sembrano comunque andare a gonfie vele e la grande criminalità è sicuramente uno dei soggetti «più liquidi» presenti sul mercato, il che, in un periodo di prolungata crisi finanziaria, non è un vantaggio da poco e offre molte occasioni d’affari. Ad esempio, è lecito chiedersi se e quanti rivoli dell’alluvione di liquidità offerta dalle banche centrali in questi anni siano finiti per vie traverse a impinguare le casse della criminalità. E si sa anche che molti figli di importanti boss hanno frequentato corsi di eccellenza o master di economia nelle più prestigiose università americane e inglesi, così come si avvertono i segni di una crescente presenza della 449

mafia nelle piazze finanziarie: ad esempio, è perfettamente un caso che si parli di ripetute frequentazioni londinesi di Matteo Messina Denaro? In particolare si percepisce, pur se da segnali incompleti e discontinui, un processo di trasformazione della mafia nel senso di una maggiore integrazione nel sistema della grande finanza, attraverso la crescita della «fascia grigia» (dalle finanziarie ombra ad alcuni hedge fund particolarmente aggressivi), e della formazione di reticoli criminali sempre più internazionalizzati. 23 Sempre più avremo davanti un soggetto (o più soggetti) finanziari ad altissimo tasso di internazionalizzazione e tutto questo presenterà a breve il conto. Stiamo per assistere a una svolta della «rivoluzione criminale», e il pensiero va alla grande svolta della pirateria fra il XVII e il XVIII secolo, quando pirati e corsari svolsero un ruolo determinante nel processo di «accumulazione originaria» che avrebbe plasmato il moderno capitalismo. Non è detto, però, che questa volta assisteremo a un processo altrettanto «pacifico». Quello che per ora si può ipotizzare è un processo di «yakuzizzazione». Mi spiego meglio: la yakuza 24 (la mafia giapponese, come si sa) è un caso unico al mondo di organizzazione criminale semilegale. Infatti le varie organizzazioni che la compongono, non solo non si celano sempre, ma spesso hanno 450

uffici nei quartieri centrali delle grandi città, con tanto di targa sul portone, e i boss non nascondono affatto ruolo e affiliazione che sono fedelmente riportati sui loro coloratissimi biglietti da visita. Inoltre, si tenga presente che, in Giappone, la pratica dei tatuaggi è riservata solo ai membri della yakuza che, inoltre, praticano l’amputazione della falangetta del mignolo all’iniziazione. Dunque, sono riconoscibilissimi. In teoria, la yakuza, o almeno alcune organizzazioni identificabili come tali, ricadrebbero sotto i rigori della legge antimafia approvata nel 1995 e poi ampliata nel 1998 (si badi alle date che indicano un contrasto assai tardivo), ma in realtà l’applicazione di queste leggi è assai discontinua e parziale; questo perché i vari gruppi della mafia nipponica sono spesso esplicitamente collegati a circoli politici (quasi sempre di estrema destra, ma non infrequentemente del partito di governo), associazioni sportive, gruppi finanziari, gruppi di interesse ecc., il che garantisce un radicamento sociale portatore di un ampio consenso. Ovviamente, ogni paese ha la sua storia criminale e i suoi equilibri sociali e non pensiamo a una riproduzione di queste modalità; usando il termine «yakuzizzazione» intendiamo un processo di integrazione, in particolare in ambito finanziario e politico. Ragionevolmente non arriveremo ad avere portoni di grattacieli con targhe del tipo «Clan 451

Bardellino» o «Cosca trapanese» e i nostri boss non lo scriveranno sui biglietti da visita, ma è possibile che nascano sempre più società finanziarie o addirittura banche dirette da figli di boss, organismi politici comunque denominati trasparentemente legati al vecchio apparato criminale, ma con una differenza rispetto al passato: sin qui la mafia (e la ’ndrangheta o la camorra) è stata una organizzazione criminale con una appendice affaristica, come puro possesso di una sorta di asset liquido affidato a qualche brillante commercialista o finanziere amico (come fu, già mezzo secolo fa, Michele Sindona); nel prossimo futuro, al contrario, avremo probabilmente soggetti politici o finanziari con una appendice violenta dedita ai traffici di sempre. E il cervello non sarà nella parte illegale, ma in quella legalissima del potere politico e finanziario. A restare occulta, ma sarebbe meglio dire «non apertamente provata», sarà la liaison fra le due facce di quella moneta che avrà libero corso in una sempre più vasta e indistinta «fascia grigia». Il vuoto di potere che si sta producendo, in attesa che si formi il nuovo sistema di comando, è la condizione ideale perché questo si verifichi. E forse questa sarà la novità più vistosa, anche se certamente la meno auspicabile, del nuovo sistema di potere se non dovesse realizzarsi in tempo un adeguato contrasto. 452

È dunque difficile dire quello che sortirà da questo scontro; esso sarà la risultante di tutte le componenti del conflitto, a cominciare dalla quota di potere di partecipazione e di controllo che le classi popolari riusciranno a strappare, per poi proseguire con gli esiti delle convulsioni europee, dell’andamento della crisi internazionale e, infine, dello scontro interno alle classi dirigenti italiane, pessime come sempre. Una sola previsione non teme smentite: nei prossimi anni non ci annoieremo di certo.

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Ringrazio Pasquale Guadagnolo, Ugo Poletti, Piergaetano Marchetti, Giulio Tremonti, Bruno Casati, Nico Perrone, Daniela Saresella, Lamberto Aliberti, Giuliano Tavaroli per le notizie fornitemi e per i generosi consigli. Ringrazio anche molto i ragazzi che mi hanno aiutato per il lavoro di ricerca di dati, di pulizia del testo ecc,: Ciro Dovizio, Elio Catania, Fabio Vercilli, Elia Rosati, Lorenzo Adorni. Ma soprattutto, per il supporto psicologico ed operativo Martino Iniziato ed Antonio Aiello.

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Note

Introduzione 1. Giulio Sapelli, Chi comanda in Italia, Guerini e associati, Milano, 2013.

1. Il mondo della Prima Repubblica 1. Enzo Cheli, Il giudice delle leggi, Il Mulino, Bologna, 1996. La Corte fu istituita con forti riserve da parte del Pci che ne diffidava temendo che diventasse una trincea dei conservatori contro la sovranità popolare. Francesco Bonini, Storia della Corte Costituzionale, Nuova Italia Scientifica, Roma, 1996, pp. 37 sgg. 2. Carlo Ghisalberti, Storia Costituzionale d’Italia 1849-1948, Laterza, Roma-Bari, 1974, pp. 419-425. 3. Giuseppe Guarino, Il Governo di coalizione, 455

Giuffrè, Milano, 1963. 4. Carlo Donolo e Franco Fichera, Il governo debole, De Donato, Bari, 1981. 5. Alessandro Pizzorno, Appunti sul sistema politico italiano, in Politica del diritto, II, 1971, pp. 199-209. 6. Alberto Predieri, Lineamenti della posizione costituzionale del presidente del Consiglio dei Ministri, Barbera, Firenze, 1951, p. 78. 7. Franca Cantelli, Vittorio Mortara e Giovanna Movia, Come lavora il parlamento, Giuffrè, Milano, 1974; Franco Cazzola, Alberto Predieri e Grazia Priulla, Il decreto legge fra governo e Parlamento, Giuffrè, Milano, 1975; Andrea Manzella, Il Parlamento, Il Mulino, Bologna, 1977; Giampaolo Boccaccini, Sistema politico e regolamenti parlamentari, Giuffrè, Milano, 1980. 8. Silvio Gambino, La razionalizzazione del potere esecutivo in Italia, in Quaderni Costituzionali, VIII, 3, dicembre 1988, pp. 554-555. 9. Orazio Barrese e Massimo Caprara, L’Anonima Dc, Feltrinelli, Milano, 1977, p. 165. 10. Salvatore Vassallo, Il governo di partito in Italia, Il Mulino, Bologna, 1994, pp. 24-26. 11. Art. 68 della Costituzione, parzialmente 456

modificato nel 1993, per cui l’autorizzazione resta necessaria solo per i provvedimenti restrittivi della libertà personale. 12. E sorge un dubbio: sarà questa la ragione dell’alto numero di patenti di primo grado di magistrati fra i vincitori di ogni concorso? 13. Pietro Scoppola, La repubblica dei partiti, Il Mulino, Bologna, 1991. 14. Francesco Galgano, Associazioni non riconosciute, in Vittorio Scialoja e Vittore Branca (a cura di), Commentario al codice civile, Zanichelli, Bologna, 1978, pp. 158 sgg. 15. Francesco Galgano, La forza del numero e la legge della ragione. Storia del principio di maggioranza, Il Mulino, Bologna, 2007. 16. È interessante notare come oggi si sia di fronte a una situazione assai simile: di fronte alla proposta di legge avanzata dal Pd di una legge di regolamentazione dei partiti, a opporsi è il M5S, che vede in questo un tentativo di metterlo fuori legge, non ammettendo il meccanismo delle votazioni on line (caratteristica del modello organizzativo del Movimento) e altrettanto interessante è notare la freddezza degli altri partiti di fronte a una proposta che pone le premesse per un intervento giudiziario nella vita intera dei partiti. 17. Arend Lijphart, Le democrazie 457

contemporanee, Il Mulino, Bologna, 2001. 18. Sul tema Lorenzo Di Nucci e Ernesto Galli Della Loggia (a cura di), Due Nazioni, Il Mulino, Bologna, 2003. 19. Che Orsina, nel suo pur ottimo lavoro, sottovaluta troppo, non cogliendo l’importanza del contributo dato al radicamento della democrazia in Italia. 20. Giovanni Orsina, Il berlusconismo, Marsilio, Venezia, 2013, p. 85. 21. Piero Ignazi, Il potere dei partiti, Laterza, Roma-Bari, 2002, p. 7. 22. A tal proposito si veda Giorgio Galli, Storia della Dc, Laterza, Roma-Bari, 1978, pp. 161179; Franco Cassano, Il teorema democristiano, De Donato, Bari, 1979, pp. 63 sgg. 23. Ruggero Orfei, L’occupazione del potere, Longanesi, Milano, 1976. Alessandro Pizzorno, in un suo celebre saggio poi raccolto nel volume I soggetti del pluralismo, Il Mulino, Bologna, 1980, parlò di «colonizzazione dell’economia». 24. Giorgio Galli, Affari di Stato, Kaos, Milano, 1991. 25. Pizzorno, Appunti sul sistema politico italiano, in I soggetti del pluralismo, cit. 26. Su questo punto debbo dissentire dal mio 458

antico maestro che fissa quasi esclusivamente la sua attenzione sul confronto con il modello terzinternazionalista quale causa prima della degenerazione della dialettica partitica nel nostro paese (Raffaele Chiarelli, La Repubblica italiana come governo degli uomini, Giappichelli, Torino, pp. 22-30). Al contrario, personalmente ritengo che l’eredità del modello fascista sia stata molto più «pesante» (come tento di dimostrare di seguito) e, peraltro, hanno giocato anche altri modelli di partito a forte istituzionalizzazione come la Spd e il Partito conservatore inglese. 27. Stefano Merlini (a cura di), La democrazia dei partiti e la democrazia nei partiti, Passigli, Firenze, 2009. 28. Luigi Rinaldi, Il bilancio del partito politico, Giuffrè, Milano, 1988. 29. Riccardo Sabbatini, Il Leone presidia 11 patti di sindacato, in Il Sole 24 ore, 20 ottobre 2006. 30. Nel giugno 1943 l’intellighentzia cattolica italiana si riunì a Camaldoli per discutere le prospettive dell’Italia dopo la caduta del fascismo e, in particolare, del modello economico da adottare che risultò ispirato, ovviamente, alla dottina sociale della Chiesa ma con evidenti influenze del pensiero del ministro dell’Economia della Repubblica di Weimar Walther Rathenau. Vedi Nico Perrone, Il 459

dissesto programmato, Dedalo, Bari, 1991. 31. Daniela Saresella, Cattolici a sinistra, Laterza, Roma-Bari, 2011, pp. 148-164. 32. Francesco Varanini, Contro il management, Guerini e Associati, Milano, 2010, pp. 20 sgg. 33. Franco Amatori e Francesco Brioschi, Le grandi imprese private: famiglie e coalizioni, in Fabrizio Barca (a cura di), Storia del capitalismo italiano, Cde, Milano, 1998, p. 120. 34. Eugenio Cefis in tempo di guerra era appartenuto al servizio segreto militare, nel quale contò sempre molti amici. 35. Sulla quale ci furono diverse indagini sociologiche soprattutto negli anni settanta: ricordiamo in particolare Alessandra Nannei, La nuovissima classe, Sugarco, Milano, 1978. 36. Antonio Mutti e Paolo Segatti, La Borghesia di Stato, Mazzotta, Milano, 1977, p. 120. 37. Guido Melis, Storia dell’amministrazione italiana, Il Mulino, Bologna, 1996, p. 228. 38. Ibid., p. 230. 39. Ibid., pp. 237-239. 40. Sabino Cassese, Governare gli italiani, Il Mulino, Bologna, 2014, pp. 348-349.

460

41. Fra cui ricordiamo Andreotti alla Difesa, Taviani all’Interno, Vanoni alle Finanze, Colombo al Tesoro e pochissimi altri. 42. Interessanti considerazioni – di poco successive – si leggono in Mutti e Segatti, La borghesia di Stato, cit., pp. 96 sgg. Più recentemente Franco Amatori e Francesco Brioschi, Le grandi imprese private: famiglie e coalizioni, e Fabrizio Barca e Sandro Trento, La parabola delle Partecipazioni Statali: una missione tradita, in Barca (a cura di), Storia del Capitalismo italiano, cit., rispettivamente pp. 118-153 e pp. 186-235. 43. Dal 1981 si costituì una maggioranza di governo composta da Dc, Psi, Pri, Psdi e Pli.

2. Dalla Prima Repubblica

alla

Seconda

1. Matteo Trufelli, La questione partito dal fascismo alla repubblica, Studium, Roma, 2003, pp. 161 sgg. 2. Sandro Setta, L’Uomo qualunque, 19441948, Laterza, Roma-Bari, 1975. 3. Che usò per primo il termine «partitocrazia» nella lezione inaugurale dell’anno accademico 194950 dell’Università di Firenze, termine che poi 461

sviluppò in successive opere, la più importante delle quali è la Storia del potere in Italia, Vallecchi, Firenze, 1967. 4. Panfilo Gentile, Polemica contro il mio tempo, Volpe, Roma, 1965; Id., Democrazie mafiose, Volpe, Roma, 1969. 5. Mario Vinciguerra, I partiti italiani dallo Statuto albertino alla partitocrazia, Calderini, Bologna, 1968. 6. Gianfranco Miglio, Il ruolo del partito nella trasformazione del tipo di ordinamento politico vigente, La nuova Europa, Milano, 1967, poi compreso nell’antologia Le regolarità della politica, Giuffrè, Milano, 1988. 7. Giacomo Perticone, La partitocrazia è uno spettro, in Il Politico, n. 2, 1959. 8. Potere Operaio (di Pisa), Il dibattito sull’organizzazione, relazione introduttiva di Adriano Sofri, in Giovane Critica, n. 19, 1968-1969, pp. 21-30. 9. Il Partito Radicale venne fondato nel 1954, prodotto da una scissione del Pli promossa da Bruno Villabruna, cui si unirono Ernesto Rossi e Eugenio Scalfari, ma inizialmente assunse forme organizzative piuttosto classiche, compatibilmente con il basso numero di aderenti. La svolta venne nel 1963, quando il gruppo dei «giovani» (sopra 462

menzionati) assunse la guida del partito proponendo un modello interamente diverso che poi resterà quello con cui il Pr conquisterà i suoi successi negli anni settanta. 10. Salvatore Vassallo, Il Governo di Partito in Italia, Il Mulino, Bologna, 1994, pp. 24-25. 11. Critica svolta in particolare da Simone Weil, Manifesto per la soppressione dei parititi politici, Castelvecchi, Roma, 2012. 12. Ancora oggi la Cisl espelle un suo militante per aver reso pubbliche notizie «private» come lo sfarzoso livello retributivo dei suoi dirigenti. 13. A volte mi è capitato di cercare dati sulla vita interna di alcuni partiti (iscritti, composizione sociale e territoriale, bilanci, eletti negli enti locali ecc.) e posso confermare di aver sempre dovuto sudare le classiche sette camicie per ottenerli e non sempre riuscendovi. 14. Gennaro Miceli, Pietro Ingrao e Giancarlo Pajetta, Lo scandalo dei mille miliardi in Parlamento, Editori Riuniti, Roma, 1963. Memorabile fu la campagna elettorale in Tv fatta da Giancarlo Pajetta su questo scandalo. 15. Ernesto Savona e Laura Mezzanotte, La corruzione in Europa, Carocci, Roma, 1998. Si vedano anche Donatella Della Porta (a cura di), 463

Corruzione e democrazia. Sette paesi a confronto, Liguori, Napoli, 1995; e Alberto Vannucci, Atlante della corruzione, Gruppo Abele, Torino, 2012. 16. Marco Arnone e Eleni Iliopulos, La corruzione costa, Vita e Pensiero, Milano, 2005. 17. Già nell’Italia liberale gli scandali non mancarono, ma si può anche andare più indietro nel tempo: un caso molto interessante è quello di cui si legge in Eloisa Mura, Un caso di corruzione nella Sardegna del Settecento: l’inchiesta segreta contro il viceré, marchese di Cortanze, in Studi Storici, anno 52, n. 3, luglio-settembre, 2011, pp. 606-638. 18. Mauro Magatti, Corruzione politica e società italiana, Il Mulino, Bologna, 1996, in particolare pp. 173-221, e Piercamillo Davigo e Grazia Mannozzi, La corruzione in Italia, Laterza, Roma-Bari, 2007. 19. Nel volume di Savona e Mezzanotte, La corruzione in Europa, cit., p. 73, l’Italia è in testa all’elenco dei paesi a corruzione sistemica, seguita da Spagna, Francia e Belgio, e ai paesi a «corruzione sistemica emergente» Germania e Grecia. 20. Ivan Cicconi, La storia del futuro di Tangentopoli, Dei, Roma, 1998; si veda anche Piero Della Seta e Edoardo Salzano, L’Italia a sacco. Come negli incredibili anni ’80 nacque e si diffuse Tangentopoli, Editori Riuniti, Roma, 1993. 464

21. Cicconi, La storia del futuro, cit. pp. 15104. 22. In ogni lavoro edilizio, una parte ingente è costituita dal lavoro di scavo e movimento terra, i cui macchinari sono molto costosi e, pertanto, spesso le imprese preferiscono noleggiarli da altre imprese specializzate che forniscono anche il lavoro di «movimento terra». Contrariamente a quanto comunemente si crede (lo credette anche il sindacato degli edili Cgil, che ne fece un suo cavallo di battaglia), la tangente alla mafia non passa tanto attraverso i lavori di subappalto – contro cui si accanì la legislazione degli anni novanta – quanto attraverso i contratti di nolo e fornitura che vennero risparmiati, così permettendo alla mafia di continuare a lucrare indisturbata. 23. Ruolo che, però, non ci fu per i casi Ingic e fondi neri Montedison e… pour cause. 24. Marion Morellato, Pétrole et corruption. Le dossier Mi.Fo.Biali dans les relations italolibyennes (1969-1979), Ens, Lyon, 2014. Donato Speroni, L’intrigo Saudita, Cooper, Roma, 2009. 25. L’Espresso, Corrotti e Corruttori, Motivazioni della sentenza Imi-Sir, Roma, 2003. 26. Michele Del Gaudio, La toga strappata, Tullio Pironti, Napoli, 1992. 27. Vedi Francesco Balletta, Debito pubblico 465

ed efficienza del mercato finanziario in Italia nella seconda metà del Novecento, in Giuseppe De Luca e Angelo Moioli (a cura di), Debito pubblico e mercati finanziari in Italia. Secoli XIII-XX, Franco Angeli, Milano, 2007, pp. 644 sgg. E, nello stesso volume, Domenicantonio Fausto, La politica del debito pubblico dell’Italia Repubblicana nelle relazioni della Banca d’Italia, pp. 685-697. 28. Nel 1993 si produsse la prima grande crisi in questo senso, che obbligò l’Italia a uscire transitoriamente dallo Sme e a svalutare la moneta di circa il 30%. 29. Per un quadro di insieme Antonio Varsori, L’Italia e la fine della guerra fredda, Il Mulino, Bologna, 2013. 30. Giorgio Gattei e Massimo Roccati, Era il 1992. L’anno della rinascita geopolitica della Germania, Ogni uomo è tutti gli uomini edizioni, Bologna, 2012. 31. Gianni De Michelis, La lezione della storia, Marsilio, Venezia, 2013. 32. Che nel 1973 divenne il secondo partito del paese, per poi dissolversi in breve. 33. È divertente notare che la Corte si accorga oggi, a distanza di 24 anni, della incongruità di un sistema maggioritario in una Repubblica parlamentare a bicameralismo perfetto, bocciando il 466

doppio turno. 34. Corte Cost. 3 febbraio 1987, n. 29. 35. Corte Cost. 2 febbraio 1991, n. 47. 36. Fabio Andriola e Massimo Arcidiacono, L’anno dei complotti, Baldini & Castoldi, Milano, 1995; Mario Di Domenico, Il colpo allo Stato, Si, Roma, 2010; Mauro Mellini, Il golpe dei giudici, Spirali, Milano, 1994; Alberto Raccatano, Dalle stragi del 1992 a Mario Monti, Nexus, Battaglia Terme, 2013. 37. Paolo de Lalla Millul, Topografia politica della Seconda Repubblica, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1994. 38. Giulio Tremonti, Bugie e verità, Mondadori, Milano, 2014, p. 80. 39. In genere storici che non capiscono nulla di Diritto costituzionale. 40. Segnalata dall’ulteriore crescita dell’astensionismo che ormai toccava spesso punte superiori al 40%, quel che non era mai accaduto nella Prima Repubblica. 41. Mellini, Il golpe dei giudici, cit. 42. Stanton H. Burnett e Luca Mantovani, The Italian Guillottine, Rowman & Littlefield, Laubam, 1998. 43. Michele Pantaleone, Mafia e politica, 467

Einaudi, Torino, 1962. Dello stesso autore Mafia e droga, Einaudi, Torino, 1966. 44. Tale è ancora oggi il parere del giudice per le indagini preliminari sull’ultima tranche processuale sull’attentato di Capaci. Corriere della sera, 23 maggio 2013, p. 22. 45. Il Sole 24 Ore, 9 gennaio 2013. 46. Enzo Ciconte, ’Ndrangheta International, in Limes, n. 10, 2013, pp. 35-42. 47. Roberto Scarpinato, Crimini dei colletti bianchi e attacco alla democrazia, in Alessandra Dino (a cura di), Criminalità dei potenti e metodo mafioso, Mimesis, Milano-Udine, 2009, pp. 81-94. 48. Piero Messina, Due conti in tasca a Mafia spa, in Limes, n. 10, 2013, pp. 51-56. 49. Mario Centorrino, Criminalità organizzata, sviluppo economico e distorsioni del mercato, in Alessandra Dino (a cura di), Poteri criminali e crisi della democrazia, Mimesis, Milano-Udine, 2011, pp. 127-131. 50. Donato Masciandaro e Alessandro Pansa, La farina del diavolo. Criminalità, imprese e banche in Italia, Baldini & Castoldi, Milano, 2000, pp. 171225.

468

3. I mutamenti sociali globalizzazione e l’Italia

della

1. Massimo Amato e Luca Fantacci, Fine della finanza, Donzelli, Roma, 2009, pp. 115 sgg. 2. Alessandro Colombo, La disunità del mondo, Feltrinelli, Milano, 2010. 3. Robert Reich, Supercapitalismo, Fazi, Roma, 2008. 4. Georges Corm, Il nuovo governo del mondo, Vita e Pensiero, Milano, 2013. 5. Ci sembra significativo che la pace westfalica sia andata incontro alla condanna papale con la Bolla Zelo domus Dei (1648): l’ultimo rappresentante dell’universalismo imperiale non accettava di riconoscere il principio della sovranità declinata al plurale. 6. Robert Cooper, La fine delle Nazioni, Landau, Torino, 2004. Vedi anche Paul Kennedy, Il mondo in una nuova era, Garzanti, Milano, 2001, pp. 162-178. 7. Peraltro registrate da una letteratura politologica già molto abbondante, della quale ricordiamo in particolare Prem Shankar Jha, Il caos prossimo venturo, Neri Pozza, Vicenza, 2007, e Lluis Bonet e Emmanuel Négrier, La fine delle 469

culture nazionali?, Armando, Roma, 2010; fra gli italiani segnaliamo Vittorio Emanuele Parsi, Interesse nazionale e globalizzazione, Jaka Book, Milano, 1998; vedi anche Raffaele Chiarelli, La Repubblica italiana, cit., pp. 17-19. 8. Frédéric Rouvillois e Michel Degoffe, La privatisation de l’Etat, Cnrs editions, Paris, 2012. 9. Per esse normalmente non si intendono tanto società che svolgono attività economiche in diversi paesi, quanto società con capitale misto di diversa provenienza nazionale. 10. Sandro Rogari, L’Età della globalizzazione, Utet, Torino, 2007, pp. 15-25. 11. Nouriel Roubini e Stephen Mihm, La crisi non è finita, Feltrinelli, Milano, 2010, p. 88. 12. Giulio Sapelli, La crisi economica mondiale, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, pp. 22, 30-31. 13. Sandro Catani, Manager superstar, Garzanti, Milano, 2010. 14. Una analisi impietosa di cosa sia davvero il management è contenuta nel citato librotestimonianza di Francesco Varanini la cui quarta di copertina avverte: «se il mondo della politica vi pare brutto, dovreste conoscere quello del management». 15. Il Sole 24 Ore, 24 novembre 2010. 470

16. Molto importanti sono due contributi: Jacques De Saint Victor, Patti scellerati, Utet-De Agostini, Novara, 2013, e Jean-Françoise Gayraud, Divorati dalla Mafia. Geopolitica del terrorismo mafioso, Elliot, Roma, 2010. 17. Xavier Raufer, Géopolitique de la Mondialisation criminelle. La face obscure de la mondialisation, Puf, Paris, 2013. 18. Luciano Vasapollo, Storia di un capitalismo piccolo piccolo, Jaca Book, Milano, 2007, pp. 333 sgg. 19. Dati tratti da Milanofinanza, L’atlante delle banche leader 2013, pp. 110-115, aggiornati al 2016. 20. The Economist, Capitalismo all’italiana, 4 gennaio 2014. 21. «Affari&Finanza», supp. de La Repubblica, 18 novembre 2013, p. 4 22. Corriere della sera, 25 novembre 2013, p. 8 23. Corriere della sera, 15 novembre 2013, p. 43. 24. «Affari&Finanza», supp. de La Repubblica, 16 dicembre 2013, p. 30. 25. Parte dell’apparato funzionariale ha vissuto una sua ultima malinconica stagione nel Partito della 471

Rifondazione Comunista, dove ha mantenuto una sua relativa prevalenza sino alla sostanziale dissoluzione del partito. 26. Corriere della sera, 11 dicembre 2011, p. 6. 27. Nella legislatura iniziata nel 2013 si è manifestata una moderata tendenza alla riduzione, ma non è ancora possibile una valutazione complessiva. 28. La Repubblica, 2 ottobre 2012, p. 9. 29. La Repubblica, 29 dicembre 2011, p. VII, suppl. locale. Vecchia legislatura, mancano i dati della nuova. 30. Il Sole 24 Ore, 5 gennaio 2012, p. 12. 31. Il Fatto quotidiano, 16 dicembre 2013, p. 3. 32. Ad esempio la Regione Lombardia ha acquistato intorno al 2010 una cospicua dose di titoli di Stato greci che, all’epoca, offrivano oltre il 15% annuo. 33. La Repubblica, 5 novembre 2013, p. 11. 34. La Repubblica, 12 ottobre 2012, p. 19. 35. Il Sole 24 Ore, 15 novembre 2013, p. 10. 36. Corriere della sera, 28 dicembre 2013, p. 8. 472

37. D’altra parte, la casa editrice vicina a Cl, la Jaca Book, pubblicava regolarmente testi di o su Marx, Rosa Luxemburg, Lenin, Mao, Che Guevara ecc. 38. Già nelle elezioni europee del 1984, Formigoni, come capolista della Dc sostenuto da Cl, raccolse ben 600.000 preferenze e attualmente il seguito elettorale di Cl è valutato fra 1 milione e 1 milione e mezzo di voti. 39. Carlotta Zavattiero, Le lobby del Vaticano, Chiarelettere, Milano, 2013, p. 101. 40. Ferruccio Pinotti, Finanza Cattolica, Ponte alle Grazie, Milano, 2011, pp. 243-245. Sull’intreccio fra finanza cattolica, Ior e finanza «grigia» molto interessante è il libro di Gianluigi Nuzzi, Sua Santità. Le carte segrete di Benedetto XVI, Chiarelettere, Milano, 2012. 41. Emanuela Privera, Dentro l’Opus Dei, Chiarelettere, Milano, 2011, pp. 12 sgg. 42. Ibid., p. 20. 43. Sul caso vedi Angelo Mincuzzi e Giuseppe Oddo, Opus Dei. Il segreto dei soldi, Feltrinelli, Milano, 2011. 44. Anche se l’Opera dei Congressi ottocentesca fu spesso dietro la nascita di banche cattoliche. 473

45. Massimo Mucchetti intervista Cesare Geronzi, Confiteor, Milano, Feltrinelli, 2012, pp. 160 sgg. 46. Con l’eccezione de Il giorno, che era dell’Eni, del Mattino e della Gazzetta del Mezzogiorno, che appartenevano al Banco di Napoli. 47. Mi scuso per la fastidiosa autocitazione, ma devo rimandare al mio Il Noto servizio. Le spie di Giulio Andreotti, Castelvecchi, Roma, 2013, pp. 70 sgg. 48. Ad esempio con una generosa porzione del palinsesto dedicata al teatro, ai concerti di musica classica, alle trasmissioni di valore culturale ecc. 49. Impossibile dimenticare la trasmissione «L’approdo», che andava in onda nella seconda serata del sabato. 50. Lo scoprii per caso nella prima metà degli anni novanta, quando un mio amico (ciao Carlo!) che scriveva i dialoghi delle puntate di una telenovela di grande successo, e che avevo rimproverato per il fatto di usare sempre l’indicativo, mi mostrò un opuscoletto di istruzioni mandatogli dalla Tv committente, che invitava esplicitamente a non usare il congiuntivo, ritenuto inadatto alla fascia di pubblico che prediligeva quel tipo di spettacolo. 51. Bruno Ballardini, La morte della 474

pubblicità, Lupetti, Milano, 2012, pp. 9-12. 52. Come Clay Shirky, The Internet by E-mail, Ziff-Davis Press, Emeryville, CA, 1994. D’obbligo il riferimento a Gianroberto Casaleggio, Aforismi, a cura di Maurizio Benzi, Chiarelettere, Milano, 2016; e, con Beppe Grillo, Siamo in guerra, Chiarelettere, Milano, 2011; e, con Beppe Grillo e Dario Fo, Il Grillo canta sempre al tramonto. Dialogo sull’Italia e il Movimento 5 Stelle, Chiarelettere, Milano, 2013. 53. Evgenij Morozov, L’ingenuità della rete. Il lato oscuro della libertà di internet, Codice, Torino, 2011. 54. Come Ilvo Diamanti, La Repubblica, 14 gennaio 2014, pp. 1 sgg. 55. Benedetto Vecchi, Una democrazia a colpi di mouse, in Il Manifesto, 15 gennaio 2014, p. 10. 56. E ad ammetterlo è stato lo stesso Beppe Grillo, La Repubblica, 31 agosto 2015. 57. Anche qui c’è un curioso precedente che lega l’ordinamento universitario della Repubblica a quello fascista e, più precisamente, quello di Salò: infatti fu la Rsi a introdurre l’elezione del Rettore da parte del corpo accademico (all’epoca i soli ordinari), costume poi mantenuto dopo il 1945. 58. Alessandro Colombo, Tempi decisivi, Feltrinelli, Milano, 2014, pp. 144-188. 475

59. Francesco Poli, Il sistema dell’arte contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 2011; Investire in arte, guide di Plus-Sole 24 ore, Milano, 2012. 60. Bruno Amoroso e Nico Perrone, Capitalismo predatore. Come gli Usa fermarono i progetti di Mattei e Olivetti e normalizzarono l’Italia, Castelvecchi, Roma, 2014. 61. Nico Perrone, Il disavanzo programmato, Dedalo, Bari, 1991. 62. Dove l’Iri riuscì a fare disastri irreparabili e si pensi a Buitoni, Perugina e più ancora Cirio: per riuscire a produrre voragini, vendendo pomodori pelati, in un paese come l’Italia, ci vuole del talento. 63. Federico Fubini, Cdp, quel ricco oggetto del desiderio. Mire e rischi del «bancomat» dei governi, in «Affari&Finanza», supp. de La Repubblica, 14 ottobre 2013, p. 2. 64. Ibid. 65. La Repubblica, 7 settembre 2013, p. 26. 66. «Affari&Finanza», supp. de La Repubblica, 21 ottobre 2013, p. 1. 67. Il Sole 24 Ore, 6 dicembre 2013, p. 6. 68. Elio Bonfanti, La finanza cattolica. Dal Banco Ambrosiano a Papa Francesco, Punto Rosso, Milano, 2014; Francesco Peloso, La banca del Papa, Marsilio, Venezia, 2015. 476

69. Impropriamente, in primo luogo perché lo Ior ha una sua autonomia ed è solo indirettamente dipendente dal Pontefice, che esercita il suo potere attraverso il collegio cardinalizio di vigilanza e attraverso la nomina del suo governatore, sia – cosa più importante – perché lo Ior non è una banca (e in quanto tale non è soggetto ai controlli dell’autorità bancaria internazionale), ma un istituto di diritto canonico che raccoglie i depositi di ordini ed enti religiosi e opera attraverso il reticolo delle banche cattoliche in tutto il mondo. 70. Il nipote di Bazoli, Alfredo, era candidato di parte renziana nelle liste del Pd, la figlia Chiara sosteneva Ambrosoli per la presidenza della Lombardia, mentre il genero Gregorio Gitti era nelle liste alla Camera di Scelta civica (e poi risulterà eletto). Il Foglio, 8 marzo 2013, p. 3. 71. I sondaggi lo quotavano regolarmente fra il 14 e il 18% contro il 25% che poi effettivamente prese: mai si era verificato prima un divario di 7-11 punti fra sondaggi e risultato reale. 72. Il Foglio, 8 marzo 2013, p. 3. 73. Corriere della sera, 18 luglio 2013, p. 10. 74. La Repubblica, 11 settembre 2013, p. 26. 75. La Repubblica, 24 aprile 2012, p. 16. 76. Alberto Statera, Le mani dei partiti sull’azienda. Così il dinosauro Finmeccanica è stato 477

spolpato fino all’osso, in La Repubblica, 26 aprile 2012, p. 12. 77. La Repubblica, 20 novembre 2013, p. 22. 78. Il Sole 24 Ore, 20 dicembre 2013. 79. Corriere della sera, 27 novembre 2013, p. 20. 80. Corriere della sera, 9 novembre 2013, p. 54. 81. La Repubblica, 7 settembre 2013, p. 29. 82. Corriere della sera, 24 ottobre 2013, p. 35, e 2 novembre 2013, p. 53. 83. La Repubblica, 12 ottobre 2012, p. 31. 84. Corriere della sera, 7 novembre 2013, p. 34. 85. Il Sole 24 Ore, 19 novembre 2013, p. 36. 86. Corriere della sera, 23 settembre 2013, p. 23. 87. Corriere della sera, 24 settembre 2013, p. 2. 88. Il Sole 24 Ore, 28 settembre 2013, p. 11. 89. Corriere della sera, 26 settembre 2013, p. 8. 90. La Repubblica, 26 settembre 2013, p. 15. 91. Il Sole 24 Ore, 29 settembre 2013, p. 12. 478

92. Il Foglio, 5 luglio 2013, p. 3. 93. La Repubblica, 26 settembre 2013, p. 12. 94. Il Sole 24 Ore, 25 ottobre 2013, p. 15. 95. Il Sole 24 Ore, 15 dicembre 2013, p. 6. 96. Corriere della sera, 15 dicembre 2013, pp. 7 e 31. 97. Il Sole 24 Ore, 19 dicembre 2013, p. 34. 98. Il Sole 24 Ore, 21 dicembre 2013, p. 18. 99. Il Sole 24 Ore, 22 giugno 2013, p. 25. 100. Corriere della sera, 22 giugno 2013, p. 51. 101. Giancarlo Galli, Poteri deboli, Mondadori, Milano, 2006; Massimo Mucchetti, Il baco del Corriere, Feltrinelli, Milano, 2006; Ludovico Festa, Guerra per banche, Boroli, Milano, 2006, per fare solo qualche esempio. 102. Mentre negli Stati Uniti è regola fissa: vedi il caso Enron… 103. Luigi Zingales, Ecco perché è finito il salotto, in Il Sole 24 Ore, 4 luglio 2013, p. 10. 104. Dal discorso di presentazione del secondo rapporto sulla corporate governance delle società quotate del presidente della Consob Giuseppe Vegas, in Il Sole 24 Ore, 19 novembre 2013, p. 9. 105. Il Fatto quotidiano, 11 dicembre 2013. 479

106. Vegas, dal discorso di presentazione, cit.

4. Il potere globalizzazione

al

tempo

della

1. Eric Laurent, Le scandale des délocalisations, Plon, Saint-Amand-Montrond, 2011. 2. Robin T. Naylor, Denaro che scotta, Comunità, Milano, 1989. 3. Gunther Teubner, La cultura del diritto nell’epoca della globalizzazione, Armando, Roma, 2005, in part. pp. 17-37; Francesco Galgano, Lex mercatoria, Il Mulino, Bologna, 2010; Sabino Cassese, Il diritto globale. Giustizia e democrazia al di là dello Stato, Einaudi, Torino, 2009, in part. pp. 17-47. Si veda anche Paolo Picone e Carlo Focarelli, Codice del diritto privato internazionale, Jovene, Napoli, 1996. 4. Corm, Il nuovo governo del mondo, cit. 5. Daniela Preda, Storia di una speranza. La battaglia per la Ced e la Federazione Europea, Jaca Book, Milano, 1990. 6. Interessante la ricostruzione di quel percorso fatta da Manlio Graziano in 1957: l’inizio dell’Europa, in La Lettura, 12 marzo 2017, p. 2. 480

7. Paolo Cacace, L’Atomica Europea, Fazi, Roma, 2003. 8. Paolo Savona, Un vincolo per domarli, in Il Foglio, 26 gennaio 2016 p. I. 9. Giovanni Magnifico, Una moneta per l’Europa, Laterza, Roma-Bari. 1976. 10. E non è perfettamente un caso che oggi, sciolta la federazione, sia partita una vera e propria «pulizia linguistica» (!) contro il serbo-croato, vedi Corriere della sera, 9 marzo 2017, p. 42. 11. Interessanti riflessioni sono proposte da Alberto Martinelli, Mal di Nazione. Contro la deriva populista, Università Bocconi Editore, Milano 2013, contro il risorgente nazionalismo e i pericoli che esso porta con sé, ma va anche considerato che, sin qui, noi non abbiamo conosciuto alcun esempio di democrazia sovranazionale. La democrazia ha avuto sviluppo ed esistenza solo in contesti nazionali e, nella rivolta attuale definita «populista», io non vedrei solo una deriva nazionalista ma anche una protesta democratica contro lo strapotere della tecnocrazia cosmopolita del Fmi, della Bce, della Ue ecc. 12. Felicetta Lauria, L’Unione europea, Utet, Torino, 1996. 13. Stranamente, però, questo debito morale la Germania non lo ha avvertito nei confronti di paesi 481

come Grecia o Jugoslavia, che pure avevano subito orrori assai gravi. 14. Il Fatto quotidiano, 13 maggio 2012, intervista rilasciata a Stefano Feltri. 15. Per la verità, la frase era di Raymond Aron e, come spesso accadeva, Andreotti la fece sua. 16. Dello scarso entusiasmo di Andreotti tanto per la riunificazione tedesca quanto per gli accordi di Maastricht dice anche Varsori, L’Italia e la fine della guerra fredda, cit., pp. 19-45 e pp. 189-226. 17. Nicholas Kaldor, The dynamic effects of the common market, in The New Statesman, 12 marzo 1971. 18. A essersene ricordato è stato il solo Alberto Bagnai in Il tramonto dell’Euro, Imprimatur, Reggio Emilia, 2012, p. 243. 19. Harold James, L’Europa è solo una moneta, in Il Foglio, 7 settembre 2012. 20. Ancora oggi la Ue nel suo complesso rappresenta il Pil più alto del mondo. 21. Giuseppe Guarino, L’Euro? Fu un regime change, in Il Foglio, 14 novembre 2013. Il lungo saggio di Guarino è uscito sul Foglio nei giorni 1314-15 novembre 2013. 22. Intervista rilasciata a Stefano Feltri, Il Fatto quotidiano, 13 maggio 2012. 482

23. Per la verità sulle lire, come su molte altre monete, c’era la scritta «La legge punisce i fabbricanti e gli spacciatori di moneta falsa», mentre questa scritta non compare, neppure come microscritta data la necessità di ripeterla in più lingue, sulle banconote degli euro. 24. Bagnai, Il tramonto dell’euro, cit., p. 246. 25. È esattamente quello che ha fatto la Fiat diventata Fca. 26. Domenico Lombardi, Il risanamento dell’euro passa per un patto politico con Berlino, in Il Foglio, 12 marzo 2013, p. 3. 27. Nel museo di Storia dei tedeschi a Berlino c’è spazio per il periodo dell’iperinflazione weimariana, ma Bruning e la sua politica di austerità non sono neppure ricordati.

5. Istituzioni e politica Seconda Repubblica

nella

1. È interessante leggere a questo proposito la più recente pronuncia della Corte (28/1/2017), che fa molti passi indietro, riconoscendo implicitamente come in una Costituzione basata su un bicameralismo perfetto e nella quale il principio di rappresentanza prevale su altri, l’adozione di sistemi 483

maggioritari deve sopportare vincoli abbastanza stringenti, come, ad esempio, l’impossibilità di adottare il doppio turno. Meglio tardi che mai, anche se ancora la Corte deve approfondire il tema. 2. Gabriele De Rosa, La transizione infinita, Laterza, Roma-Bari, 1997 (si badi: già 20 anni fa). 3. Giuseppe Cotturri, La transizione lunga, Editori Riuniti, Roma, 1997. 4. Gaetano Azzariti, La riforma interrotta. Riflessioni sul progetto di revisione costituzionale, Pliniana, Perugia, 1999. 5. Stefano Ceccanti e Salvatore Vassallo, Come chiudere la transizione, Il Mulino, Bologna, 2004. 6. Ad esempio sulla questione della nomina dei senatori a vita. 7. Davide Galliani, I sette anni di Napolitano, Università Bocconi Editore, Milano, 2012. 8. Anche se devo ammettere di non conoscere adeguatamente la Costituzione della Corea del Nord. 9. Per la verità non mancarono proposte anche abbastanza strambe, come quella di chi proponeva l’elezione diretta tanto del capo dello Stato, quanto di quella del capo del governo. 10. Anche perché la soluzione dell’apparentamento ha favorito la permanenza di 484

piccoli partiti necessari a ottenere la maggioranza relativa, ma non disciplinabili esattamente come in un governo di coalizione. 11. Renato Venditti, Il manuale Cencelli, Editori Riuniti, Roma, 1981, pp. 112-113. 12. Un interessante profilo del leader di Sant’Egidio: Paolo Rodari, Un capo molto elusivo, in Il Foglio, 14 gennaio 2012, p. II. 13. Il Foglio, 23 dicembre 2013, p. 1. 14. Come dimostra una abbondantissima letteratura in merito della quale ricordiamo solo alcuni testi: Franca Cantelli, Vittorio Mortara e Giovanna Movia, Come lavora il parlamento, Giuffrè, Milano, 1974; Franco Cazzola, Alberto Predieri e Grazia Priulla, Il decreto legge fra governo e Parlamento, Giuffrè, Milano, 1975; Andrea Manzella, Il Parlamento, Il Mulino, Bologna, 1977; Giampaolo Boccaccini, Sistema politico e regolamenti parlamentari, Giuffrè, Milano, 1980. 15. L’Espresso, 5 settembre 2013, p. 112. 16. Sono interessanti le considerazioni del magistrato Antonin Scalia in Il Terzo Potere, in Il Foglio, 5 marzo 2017, p. 1. 17. Il Sole 24 Ore, 21 luglio 2013, pp. 1-16. 18. Il Foglio, 10 marzo 2017, p. III. 485

19. Il Foglio, 14 settembre 2013, p. 3. 20. Il caso Fastweb, ovvero come i magistrati possono uccidere un’azienda per fare carriera, in Europa, 23 ottobre 2013. 21. Giulio Sapelli, Chi comanda in Italia, Guerrini e Associati, Milano, 2013, p. 30. È sintomatico che anche un osservatore acuto come Giulio Sapelli abbia iniziato a chiedersi, proprio nel 2013, chi comanda in Italia. 22. Denis Robert, La justice ou le chaos, Stock, Paris, 1996. 23. E proprio l’esplosione della criminalità organizzata è stata uno dei fattori di potenziamento del ruolo della magistratura, quel che ha, a sua volta, innescato polemiche sui modi di tale intervento. Il Foglio, 4 marzo 2017, p. IX. 24. Domenico Marafioti, Metamorfosi del giudice, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004; Alessandro Pizzorno, Il potere dei giudici, Laterza, Roma-Bari, 1998. 25. Transazioni Over the Counter sono quelle operazioni finanziarie che passano direttamente fra due soggetti (spesso con una semplice telefonata o mail) senza passare per la clearing house, che è la camera di compensazione che garantisce queste transazioni. 26. Alessandro Aresu, Chi comanda in Italia? 486

Il potere di perdere tempo, in Limes, n. 4, maggio 2013, pp. 66-67. Guarda caso un altro testo che, nel 2013, si chiede chi comandi in Italia. 27. Marco Tarchi, Italia populista, Il Mulino, Bologna, 2015. 28. Sapelli, Chi comanda, cit., p. 30. 29. Il Sole 24 Ore, 29 settembre 2012, pp. 1-3. 30. Che, nell’euforia degli anni novanta, la Lega prometteva di portare per intero a carico della Padania separata dal centro-sud. Chissà se qualche dirigente leghista se ne ricorda ancora. 31. Interessante l’articolo di Stefano Cingolani, Una corte tanto casta, in Il Foglio, 11 settembre 2016, p. V. 32. Aresu, Chi comanda, cit., p. 67. 33. Corriere della sera, 27 febbraio 2012, p. 12. 34. Lijphart, Le democrazie contemporanee, cit., pp. 130-131. 35. Si veda in proposito il quaderno speciale La palla non è rotonda, supplemento al n. 3 del 2005 di Limes. 36. Piero Ignazi, Forza senza legittimità, Laterza, Roma-Bari, 2012. 37. Alfonso Montagnese, L’agente di 487

influenza, in Gnosis. Rivista italiana di intelligence, n. 1, 2013, pp. 47-61. 38. Anche se non vuol dire necessariamente che i suoi componenti e dirigenti siano tutti di rigida osservanza a stelle e strisce, ma più semplicemente questo dice della vastità della rete di relazioni (e di conseguenza dell’influenza) del sodalizio che attraversa i due principali schieramenti politici italiani. 39. Gilberto Pozzi, Alessandro Dusi, Francesco Garzarelli, Antonio Gatti, Antonio Mattarella. 40. Gianfranco Miglio, Io, Bossi e la Lega, Mondadori, Milano, 1994. 41. Sia chiaro che chi scrive queste pagine è un avversario dichiarato e netto delle teorie negazioniste del genocidio ebraico perpetrato dai nazisti, che non hanno alcun fondamento scientifico. Ma è anche un convinto avversario dei reati di opinione e sostenitore della totale libertà di ricerca storica. Peraltro è assai dubbio che la penalizzazione delle opinioni negazioniste darebbe i risultati sperati di contrasto tanto al negazionismo quanto al risorgente antisemitismo. È più probabile che l’esito sia quello opposto, facendo un pessimo servizio tanto alla comunità ebraica internazionale quanto allo stesso Stato di Israele. 42. Gianni Cervetti, L’oro di Mosca, Baldini & 488

Castoldi, Milano, 1993. 43. Massimo Mucchetti intervista Cesare Geronzi, Confiteor, Feltrinelli, Milano, 2012, pp. 45 sgg. 44. Altro caso di frequentatore dell’Aspen non orientato in senso filoamericano. 45. Christian Chesnot e Georges Malbrunot, Qatar. Le secrets du coffre-fort, Michel Lafon, Paris, 2013. 46. Giancarlo Elia Valori, La via della Cina, Rizzoli, Milano, 2010. 47. Alessandro Pizzorno, I soggetti del pluralismo, Il Mulino, Bologna, 1980. 48. Il Mondo, 27 marzo 1980. 49. Sapelli, Chi comanda in Italia, cit., pp. 6465. 50. Quando divenne presidente del Consiglio, Berlusconi, in una intervista televisiva, ricordò come l’avvocato Agnelli non lo avesse mai invitato a cena e si chiese se questo atteggiamento fosse destinato a durare anche dopo la sua ascesa a Palazzo Chigi. Dopo qualche giorno arrivò l’invito dell’avvocato che offrì una cena a base di pollo freddo. E quella venne chiamata a lungo la «cena del pollo freddo». 51. La stampa, 21 maggio 2013. 52. «Affari&Finanza», supp. de La 489

Repubblica, 11 novembre 2013, p. 31. 53. Massimo Colomban è successivamente diventato assessore nella giunta Raggi, a Roma, e risulta vicino al M5S. 54. Sostanzialmente, non effettuerebbero più le trattenute fiscali e previdenziali dei dipendenti cui darebbero lo stipendio, lasciando poi a loro l’onere della dichiarazione dei redditi e del versamento. Quello che provocherebbe la paralisi del meccanismo esattoriale. L’Espresso, 23 gennaio 2014, pp. 46-49. 55. Giorgio Fiocca, Storia della Confindustria, Marsilio, Venezia, 1990. 56. Piero Melograni, Gli industriali e Mussolini, Longanesi, Milano, 1972. 57. Anche se non nella finanza, nella quale la P2 ebbe una penetrazione assai modesta, ridotta al polo toscano o a pochi casi non di primissima fila. 58. E poco importa se si trattava di un sapere iniziatico, privo di qualsiasi fondamento scientifico e spesso viziato da irrazionalismo. 59. Michel Croziet, Samuel Huntington e Joji Watanuki, La crisi della democrazia, Franco Angeli, Milano, 1975. Prefazione di Gianni Agnelli. 60. Luigi Bisignani e Paolo Madron, L’uomo che sussurra ai potenti, Chiarelettere, Milano, 2013. 490

61. Mattia Diletti, I «think tank», Il Mulino, Bologna, 2009.

6. Dalla Seconda Repubblica

alla

Terza

1. La Repubblica, 17 dicembre 2013, p. 11. 2. Corriere della Sera, 29 settembre 2013, p. 14. 3. La Repubblica, 13 dicembre 2013, p. 28. 4. Corriere della Sera, 13 gennaio 2013, p. 12. 5. La Repubblica, 9 settembre 2013, p. 24. 6. Il Sole 24 Ore, 7 dicembre 2013, p. 10. Anche se va detto che nell’altissimo numero sono considerate anche aziende che hanno chiuso, poi riaperto e poi nuovamente chiuso, ditte individuali e piccolissime unità familiari. 7. Il Sole 24 Ore, 24 ottobre 2013, p. 49. 8. La Repubblica, 25 agosto 2013, p. 26. 9. Il Giornale, 13 marzo 2013, p. 9. 10. Corriere della Sera, 17 settembre 2013, p. 3. 11. La Repubblica, 17 settembre 2013, p. 4. 12. Corriere della Sera, 18 ottobre 2013, p. 24. 491

13. Corriere della Sera – Economia, 9 dicembre 2013, p. 4. 14. Il Sole 24 Ore, 23 ottobre 2013, p. 12. 15. La Repubblica, 14 dicembre 2012, p. 17. 16. Il Centro, edizione Pescara, 7 gennaio 2015. 17. Dati Fisascat Cgil on line, 17 marzo 2017. 18. Il Sole 24 Ore, 19 gennaio 2017. 19. Movimprese-Infocamere on line, 31 gennaio 2016. 20. Il Sole 24 Ore, 31 gennaio 2017. 21. Claudia Cervini e Luca Piana, Che fine hanno fatto i soldi, in L’Espresso, 21 agosto 2016, p. 21. 22. La Repubblica, 23 ottobre 2013, p. 6. 23. Utile la lettura del fascicolo Asia-Pacifico: un nuovo Pivot, in Geopolitica, II, 2/3, estateautunno 2013. 24. Da Arcole ad Arcore, in Limes, n. 6, 2010, pp. 7 sgg. 25. Roberto Mania e Claudio Tito, Le strane traiettorie geopolitico-industriali del premier tycoon, in Limes, n. 6, 2010, pp. 97-102. 26. Si veda il bilancio non esaltante in L’Espresso, 14 agosto 2016, pp. 14-15. 492

27. Piercamillo Davigo, Il sistema della corruzione, Laterza, Roma-Bari, 2017. 28. Corriere della Sera, 20 ottobre 2013, p. 15. 29. «Affari&Finanza», supp. de La Repubblica, 9 dicembre 2013, p. 36. 30. La Repubblica, 30 dicembre 2012, pp. 2-3. 31. Mancia che, però, dovrà essere restituita nel 2017 da buona parte di quanti la percepirono a suo tempo. 32. Ad esempio non era affatto piaciuto al presidente della Repubblica lo stile poco protocollare del presidente del Consiglio che, in una occasione, andava via dal ricevimento per la festa della Repubblica senza salutare il padrone di casa. 33. Sul punto ci permettiamo di rinviare al nostro Da Gelli a Renzi passando per Berlusconi, Ponte alle Grazie, Milano, 2016, in cui ho avuto modo di sviluppare con ampiezza il tema. Chiedo scusa per la fastidiosa autocitazione ma è utile a evitare in questa sede inutili ripetizioni. 34. Pd, Emiliano è l’Antimatteo: Pensa solo a piazzare i suoi, in Il Fatto Quotidiano, 6 febbraio 2017, p. 3. 35. Tutte le manovre di Lotti per assicurare a Renzi il controllo del partito, in Corriere della Sera, 12 marzo 2017, p. 7. 493

36. Emiliano Fittipaldi, L’uomo che sussurra a Matteo, in L’Espresso, 2 giugno 2016, p. 34. 37. Si pensi allo stipendio della «consulente» Muraro (oltre 100.000 euro annui), che si è difesa dicendo: «Sono i valori di mercato», dove per mercato occorre intendere le laute concessioni medie degli enti locali ecc. 38. A comprendere l’organicità del progetto nelle sue tre proposte sono stati con grande lucidità Nadia Urbinati e David Ragazzoni, La vera Seconda Repubblica, Raffaello Cortina, Milano, 2016, pp. 179 sgg. 39. L’Espresso, 19 febbraio 2017, p. 23. 40. Nello Trocchia, Consip, le domande portano a Verdini, in L’Espresso, 12 marzo 2017, p. 38. 41. Rubo il concetto a Giovanni Orsina, Il berlusconismo, cit., che lo riferisce al solo berlusconismo ma che calza perfettamente anche per il Pds-Ds-Pd e che è la cifra stilistica dell’intera Seconda Repubblica. 42. Vittorio Malagutti, Banche, il giallo di Bari. Le carte segrete che accusano Bankitalia, in L’Espresso, 10 ottobre 2016, p. 39.

494

7. Dalla Seconda Repubblica alla Terza Repubblica 1. È noto il caso di un presidente del Consiglio, Amintore Fanfani, che non venne reso edotto della rete Stay Behind perché non ritenuto sufficientemente affidabile dagli uffici Nato. Anche per Moro si paventò la non concessione del Nos (poi effettivamente concesso) senza del quale l’allora capo del governo non avrebbe potuto partecipare alle riunioni Nato o dell’Unione europea occidentale. 2. Come il Mec – Mercato comune europeo – o l’Euratom (organismo per l’energia atomica). 3. Anzi, il paradosso è che se tagli alla spesa si sono determinati, questi hanno colpito la spesa sociale e quella destinata alla Ricerca e Sviluppo, ma non quella spesa clientelare, corporativa, parassitaria che si sarebbe voluta colpire. Ma la virtù economica è come il coraggio manzoniano: se uno non ce l’ha, non se la può dare e non può nemmeno ricavarla dal vincolo esterno. 4. Una visione di insieme molto interessante: Amedeo Maddaluno, Il caos globale, Aracne, Roma, 2017, in part. pp. 161 sgg., sull’influenza di queste dinamiche verso l’Italia. 5. Utili le considerazioni metodologiche di 495

Barry Buzan, Il gioco delle potenze, Ube, Milano, 2009. 6. Si veda in proposito il fascicolo Chi comanda il mondo, Limes, n. 2, marzo 2017. 7. Corriere della Sera, 11 marzo 2017, p. 11. 8. Anche se non mancano le estreme speranze di diversi osservatori su un rilancio della costruzione europea, e si veda il numero speciale di Formiche: Stelle cadenti, Europa fra crisi e rilancio, marzo 2017. 9. Intervista a Valéry Giscard D’Estaing, Ricomincio da Nove, in L’Espresso, 19 marzo 2017, pp. 22 sgg. 10. Andrea Montanino, Come funziona (o no) il nazionalismo economico, in Aspenia, n. 76, 2017, pp. 77-83. 11. La Repubblica, 26 marzo 2017, p. 1. 12. Bruno Manfellotto, A Francoforte c’è un grande supplente, in L’Espresso, 12 marzo 2017, p. 26. 13. La conferma del direttore del Dis Giampiero Massolo era data per sicura sino al giorno prima, quando Renzi si era recato a cena dal presidente della Repubblica, al quale non sappiamo se rese nota la sua decisione, il che non sembra sia accaduto. Va ricordato che Massolo, due mesi 496

prima, si era espresso sfavorevolmente alla nomina di Marco Carrai alla cybersicurezza sulla base di considerazioni di ordine giuridico-amministrativo. Carrai era il candidato di Renzi per quel posto. Si sa però che il capo dello Stato ha manifestato perplessità sulla nomina del generale Giorgio Toschi a capo della Guardia di Finanza per via dell’inchiesta sul fratello Andrea, presidente della Banca Arner per il caso Sopaf. Perplessità superate di slancio dal fiorentino. 14. Si pensi a Gianfranco Miglio, Una Repubblica migliore per gli italiani, Giuffrè, Milano, 1983. Ma si pensi anche ai contributi di Domenico Fisichella o Augusto Barbera, tanto per fare qualche nome. 15. Scontata l’ostilità del Movimento 5 Stelle, è assai dubbio che possano essere favorevoli Lega e Fratelli d’Italia che, comprensibilmente, sembrano più interessati a tenersi le mani libere nei confronti di Forza Italia. Potrebbero essere favorevoli i residui centristi, Forza Italia, il Pd e il Mps, ma, obiettivamente, con diverso grado di interesse, dato che, mentre l’interesse sarebbe massimo per Fi, al contrario il Pd potrebbe non essere interessato, sia perché più orientato a «liquidare» i suoi scissionisti, sia perché potrebbe guardare con sfavore al risorgere di una coalizione di destra competitiva, mentre minimo sarebbe il suo vantaggio. 497

16. Vedi Il Foglio, 29 gennaio 2016, p. 3. 17. Corriere della Sera, 11 marzo 2017, p. 21. 18. Luca Piana, Sul luogo del delitto, in L’Espresso, 14 agosto 2016, p. 33. 19. La Repubblica, 2 aprile 2017, p. 23. 20. Corriere della Sera, 13 marzo 2017, p. 37. 21. Relativamente forte, dato che si calcola che la Chiesa, con le sue varie articolazioni anche associative, influenzerebbe dal 10 al 15% dell’elettorato e, peraltro, con forti divisioni interne. 22. Riccardo Lo Verso, Il Matteo inafferrabile, in Il Foglio, 25 marzo 2017, p. IV. 23. E in questo senso, è la ’ndrangheta a dare i segnali più forti. Si veda Antonio Nicaso, ’Ndrangheta, Aliberti, Roma, 2010. Sulla confluenza di interessi fra «colletti bianchi» e mafia è molto interessante consultare gli atti del convegno sul «Metodo mafioso e criminalità dei colletti bianchi» svoltosi a Palermo il 19 novembre 2008 e poi ripreso il 7 marzo 2009, in Alessandra Dino (a cura di), Criminalità dei potenti e metodo mafioso, Mimesis, Milano, 2009. 24. Sulla yakuza sono stati pubblicati diversi volumi, ma a tutt’oggi fondamentale resta quello di David Kaplan e Alec Dubro, Yakuza, Edizioni Comunità, Milano, 1987. 498

Indice

Introduzione Capitolo primo – Il mondo della Prima Repubblica Il progetto di una Nuova Italia nella Costituzione La repubblica dei partiti L’architettura di potere e la Costituzione materiale della Prima Repubblica Capitolo secondo – Dalla Prima alla Seconda Repubblica Una lunga decadenza La corruzione sistemica e la prima ondata populista Dalla repubblica dei partiti alla repubblica dei populismi La trattativa Stato-mafia 499

Capitolo terzo – I mutamenti sociali della globalizzazione e l’Italia Un processo mondiale La borghesia globalizzata in via di formazione I gattopardi di Stato I buro-manager della Pubblica amministrazione Le mutazioni del polo cattolico La rivoluzione dei media Gli intellettuali Capitalismo all’italiana: dalle Partecipazioni Statali alla Cdp Bankitalia 2013: l’annus horribilis La fine del salotto buono Capitolo quarto – Il potere al tempo della globalizzazione La fitta ragnatela degli accordi internazionali La dittatura del rating Il mito di Europa e il suo declino Una architettura ridondante e il ruolo della Germania Ma che strana moneta È possibile un altro euro? 500

Capitolo quinto – Istituzioni e politica nella Seconda Repubblica La decostituzionalizzazione dell’ordinamento e il deperimento dello Stato centrale Il presidente forte Il governo Il Parlamento Le metamorfosi della magistratura Le Regioni e gli enti locali I guardiani del sistema I partiti della Seconda Repubblica Fra lobby e azioni di influenza Confindustria e sindacati Loggia Continua Capitolo sesto – Dalla Seconda alla Terza Repubblica Lo stato del paese Siamo alla fine della Seconda Repubblica? Storia di tre anni: il renzismo La scomposizione del quadro politico Perché cade la Seconda Repubblica Capitolo settimo – Ma allora chi comanda (o comanderà) in Italia? 501

Quando muore un sistema politico: già e non ancora Il contesto internazionale La crisi irreversibile della Ue Quali equilibri di potere si stanno formando? Lo scontro fra élite e classi popolari Il rapporto fra potere economico e potere politico Lo scontro sull’assetto istituzionale Ma, allora, «chi» comanda in Italia?

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