Clara, ovvero Sulla connessione della natura con il mondo degli spiriti

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Friedrich Wilhelm Joseph Schelling

Clara ovvero

Sulla connessione della natura con il mondo degli spiriti a cura di Markus Ophàlders Premessa di Giampiero Moretti

Con una nota conclusiva di Alfred Baeumler

ZANDONAI

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Titolo originale: Clara oder ùber den Z.usammenhang derNatur mit der Geister'welt Tutti i diritti riservati © 2009, Emanuela Zandonai Editore, Rovereto (TN)

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ISBN 978-88-95538-21-1 È vietata la riproduzione non autorizzata, anche parziale, a semplice uso interno o a fini didattici, con qualsiasi mezzo. Le riproduzioni potranno essere concesse dall’editore con specifica autorizzazione e soltanto per un numero di pagine non superiori al 15% del volume. Per informazioni [email protected] Progetto grafico: Francesca Ameglio Pulselli

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Realizzazione editoriale: Gottardo Marcoli e Roberto Barbieri

In copertina: Rosie Hardy, Outcasted, 2008 (dettaglio) © Tutti i diritti riservati

www.zandonaieditore.it

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Indice

Premessa Tra Clara e Séraphita di Giampiero Moretti

VII

Clara Introduzione

1

Il pastore racconta

9

Dialoghi in autunno

29

Dialoghi nella sera di Natale

44

Dialoghi durante una passeggiata di fine inverno

94

La primavera

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Sul significato del mondo degli spiriti per la storia del pensiero filosofico in Germania di Alfred Baeumler

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Postfazione Anima, corpo, secolarizzazione della morte di Markus Ophàlders

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Tra Clara e Séraphìta di Giampiero Moretti

Poco tempo fa, introducendo la nuova edizione italiana del Seraphita di Honoré de Balzac,1 scrivevamo di un romanzo il cui percorso conduce ad affacciarsi sull’invisibile; un invisibile, tut­ tavia, che i sensi umani, se adeguatamente stimolati e pronti, rie­ scono a percepire. Ora, con il Clara di Schelling - anchesso presentato in una nuova edizione, arricchita peraltro da un im­ portante e inedito scritto di Alfred Baeumler - abbiamo la pos­ sibilità di proseguire quella riflessione, approfondendone almeno in piccola parte origine ed esiti. Da luogo di passaggio e di pae­ saggio, oltre che di innumerevoli incontri e scontri tra culture, il confine renano tra la Francia e la Germania assume, nel mo­ mento in cui queste due opere si fissano reciprocamente, l’aspetto di un legame spirituale paragonabile a quello che secondo Schel­ ling sussiste tra Nattir e Geisterrujelt, onnvcg tra natura e mondo degli spiriti. Proviamo allora a prendere brevemente in esame al­ cuni temi di questo legame, senza con ciò sovrapporci alle con­ siderazioni del Curatore, né a quelle di Alfred Baeumler. Poca, pochissima attenzione gli interpreti hanno accordato al Clara.1 Ma non è affatto un male, è anzi un bene prezioso, spe-

1 Nella bella traduzione italiana di Pia Cigola Fulgosi (Zandonai, Rovereto 2008).

1 Basti vedere come, nel suo Leggere Schelling (2004), Wilhelm G. Jacobs non conceda a Clara spazio alcuno (trad. it. di Carlo Tatasciore, Guerini c Associati, Milano 2008). Molto recentemente Davide Sisto, con il suo Nell'attesa di un giorno notturno: il legame divino tra natura e spirito nel Clara schellinghiano (in “Estetica", 2/2008, pp. 115-125) c, soprattutto, con il suo importante lavoro di Dottorato di Ricerca in Filosofia dal titolo In cammino verso VII

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cialmente per il lettore privo di preconcetti. Il motivo per cui i filosofi di professione si sono disfatti con facilità e senza ecces­ sive remore di questo stravagante scritto è proprio la ragione del suo notevole interesse. Riprendendo per un istante l’immagine del confine tra Francia e Germania, tra natura e mondo degli spiriti, possiamo dire che Schelling scrive il suo Clara3 come af­ facciandosi dal parapetto di un ponte tra le due sponde del Reno, mentre da lontano scorge Séraphita che guarda verso di lui. In questo spazio franco e come sospeso, che dista da filosofia e letteratura tradizionalmente intese all’incirca quanto distano tra loro le due sponde del Reno, Schelling si sofferma a con­ templare un paesaggio strano, e racconta ciò che vede con una freschezza forse maggiore dello stesso Balzac, il quale pare a tratti più timoroso di infrangere i confini del romanzo di quanto Schelling non lo sia stato nei confronti dei limiti della filosofia sistematica. Se infatti prendiamo le mosse da quella che qui è indicata come VIntroduzione di Schelling (non sappiamo in realtà se a un altro scritto coevo e parallelo, oppure al Clara stesso, ma questo non è importante), constatiamo immediatamente qual è la preoccupazione che ha mosso il filosofo alla stesura del Clara'. la tendenza dell’epoca, e la tensione, tradizionalmente intrinseca alla filosofia stessa, a “spiritualizzare” ogni cosa che essa tema­ tizza, ha condotto la filosofìa delle scuole a “sbarazzarsi” troppo frettolosamente della “natura”. Parrebbe allora, a prima vista, di trovarsi nuovamente di fronte alla risaputa polemica di Schelling con Fichte sul signi-

la trasfigurazione. La malinconia della natura nello Schelling intermedio (1809-1815), ha invece meritatamente riportato l’attenzione degli studiosi sugli aspetti essenziali di quest’opera di Schelling. Per quanto concerne l’importante questione della melanconia, rinviamo qui alla bella scelta antologica, intelligentemente curata da Roberto Gigliucci, dal titolo La melan­ conia (BUR, Milano 2009).

2 La nostra lettura di Clara ha i suoi presupposti in Schelling: H lampo e la notte oscura-, in Schelling: dalla Natura al mondo degli Spiriti, e in Arte natura e "vita dell'anima". La Rede schellinghiana del1807, tutti contenuti in G. Moretti, I^a segnatura romantica. Filosofia e sen­ timento da Novalis a Heidegger, Hestia, Cernusco L. 1992, pp. 95-162. Per quanto concerne alcuni aspetti del rapporto tra Schelling c Swedcnborg (c non solo), si veda il volume di Tonino Griffcro, Il corpo spirituale. Ontologie "sottili" da Paolo di Tarso a Friedrich Christoph Oetinger (Mimcsis, Milano 2006), che però soffre di alcune curiose amnesie bibliografiche.

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Tra Clara e Séraphita

fìcato della filosofia della natura per la compiutezza sistematica del pensiero filosofico, una riedizione insomma di quanto era accaduto circa un quindicennio prima. Tuttavia non è così. Da un lato, infatti, i bersagli polemici di Schelling sono adesso sem­ mai Hegel e tutti coloro che non hanno compreso il vero signi­ ficato dialettico della sua filosofìa della natura, ma, d’altro canto, con il Clara Schelling entra in polemica anche con se stesso, o, per meglio dire, con il proprio sé sistematico. Ed è proprio que­ st’ultimo aspetto, a nostro avviso, il più importante del Clara. Stando alle indicazioni del figlio di Schelling, come accen­ nato, è incerto se FIntroduzione faccia espressamente parte del Clara, oppure se Schelling l’avesse pensata per un vero e proprio trattato su quello che gli apparve come il necessario passaggio dalla filosofìa della natura alla filosofìa del mondo degli spiriti. Di fatto, il Clara e questa Introduzione rappresentano quanto ci resta di uno Schelling “visionario” come non mai. Una visiona­ rietà, va tuttavia immediatamente aggiunto, che rivendica per sé il ruolo di “avvistamento” di quel passaggio dalla natura al mondo degli spiriti che, nell’impossibilità di essere compreso e comunicato filosoficamente, si affida per scelta alla narrazione, al cohoquio, al dialogo. Non commettiamo allora l’errore di cre­ dere di trovarci di fronte, con il Clara, alla riscoperta o alla ri­ proposizione del genere platonico del dialogo, come talvolta è stato scritto e come se il dialogo platonico fosse un “genere” cui il pensiero filosofico può impunemente attingere. Siamo invece dinanzi al dato di fatto per molti versi stupefacente per cui. come lo stesso Schelling precisa, avendo di mira «unicamente il passaggio scientifico dall’ambito della natura a quello dei 3 mondo spirituale», il filosofo non soltanto non trova altra strada che alludere a tale passaggio in una narrazione visionaria affidata alle voci di alcuni personaggi, ma sceglie di farlo in un esperi­ mento narrativo visionario. Tuttavia, ed è questo per così dire il senso del passaggio visionario dal regno della natura al monde degli spiriti, nonché tra di essi, non se ne può parlare se nor mentre già la Natur scorge la Geisterwelt, il mondo degli spiriti la deduzione “logica” della necessità dell’esistenza della GeisterIX

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•welt non basta: occorre, infatti, che la natura la veda, e faccia della visione una sperimentazione nel linguaggio. Il compito di tale anticipazione visionaria è il compito proprio dell’uomo. La cosiddetta filosofìa “positiva”, quella che secondo Schelling non può e non deve accontentarsi dell’esistenza meramente concet­ tuale, “negativa” della realtà, è dunque già all’opera in Clara. Eppure. Non sarebbe stato ben più semplice e ovvio parlare di spiritualità come insieme di valori, trascendenti e condivisi, o di spiritualità come universo morale, religioso, teologico per­ fino? Cos e, invece, che “costringe” Schelling a parlare di mondo degli spiriti e non semplicemente di mondo spirituale, sfidando così i sorrisi degli ambienti accademici che «non possono neanche udire l’espressione Geister,welt» senza arricciare il naso? Non era sufficiente, per questo Schelling, e non lo era poiché il mondo spirituale di cui parlano la filosofìa e la teologia è privo di quella “carne”, che invece gli spiriti, nel “loro” mondo e natu­ ralmente a “loro” modo, continuano per Schelling a possedere. Il Clara costituisce dunque la pre-visione del regno in cui la na­ tura (l’elemento fisico dell’uomo e, con ciò, anche il suo corpo),4 ridotta a essenza dalla morte, si rovescia nel tempo e nello spazio in cui lo spirito, e non più la materia (come invece nel nostro mondo) è (sarà) sostanziale. Pre-visione, abbiamo detto. La fi­ losofia, che si trascende in sentimento, sentimento dello spiri­ tuale nelle leggi della corporeità fìsica, questa filosofìa si confronta con ilpre, quella dimensione a un tempo anticipatrice e categoriale che rappresenta al meglio anche la sua tensione all’“a priori”. La letteratura (che nel Clara, come dicevamo in precedenza, corre sempre il rischio di essere scambiata e persino offuscata dall’eco del dialogo platonico erroneamente inteso come un genere tra gli altri) prende ora su di sé, a metà del ponte

* Non possiamo naturalmente affrontare in questa sede la questione, peraltro essenziale, del rapporto tra la posizione schcllinghiana e la dottrina cristiana dell’incarnazione. Segnaliamo qui l’interessante contributo di Guido Beffi, La natura, iltempo, la morte dell'uomo. Necessità dell'antropologia: Schelling (1809-1821), in C.Tatasciorc (a cura di), Dalla materia alla co­ scienza. Studi su Schelling in ricordo di Giuseppe Semerari, Guerini c Associati, Milano 2000, pp. 273-308.

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Tra Clara e Séraphita

tra Francia e Germania, il carico di una scrittura che non può non essere “visione” e racconto, infrangendo così, ancor prima che fossero saldi, i confini tradizionali del romanzo nel mentre la filosofìa come sogno sistematico si consuma da sé. Non è, tutto ciò, genuinamente romantico? Non fa compagnia questo Schelling ai suoi vecchi “amici” Hòlderlin e Novalis? Il Clara è insomma anche il tentativo “genuinamente roman­ tico” di dare risposta a due insufficienze, vissute e sentite come tali dal romantico Schelling: in primo luogo, quella della filo­ sofìa, incapace di dare un volto all’invisibile se non in negativo, in astratto, mancanza che di lì a non molti anni avrebbe preso la forma della cosiddetta filosofìa positiva; e, in secondo luogo, l’insufficienza del linguaggio tradizionalmente romanzesco a raccontare, se non per metafore individuali e arbitrarie, senti­ mentalismi irrazionali, quanto quel volto dell’invisibile splende, in realtà già fin da questa vita, e universalmente, e non come interiorità della coscienza, bensì nella sua realtà più umana e “fìsica”. Queste due insufficienze Schelling denuncia nel Clara con una forza altrove — probabilmente — mai più raggiunta, e ciò sia perché vi è spinto dal dolore abissale per la morte del­ l’amata, sia perché quel dolore, in virtù di un esercizio ancor più doloroso, viene nella sua scrittura come “depurato” dall’ele­ mento irrazionale e arbitrario della singolarità, per divenire in­ fine visione. Un monito e un’indicazione all’artista e a chiunque voglia incamminarsi sul sentiero dell’opera d’arte, un sentiero che — così pare — deve immancabilmente conoscere la medesima rarefazione, pena il proprio consegnarsi alla caducità priva di speranza. Cosa c’è, in apparenza, di più caduco, di maggior­ mente destinato a passare, di un legame, di una connessione? Eppure, proprio la connessione, dice Schelling, è quanto vi è di massimamente destinato a permanere, sia pure in modi che non escludono la trasformazione, anzi, la richiedono. La connessione tra Nature. Geisterwelt è dunque, per Schel­ ling (e come, prima di lui, per Novalis), ciò che permane nel­ l’uno e nell’altro stato della vita, è vero e proprio Zustandy una condizione che appartiene anche alla trasformazione della coXI

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scienza umana in entrambi i regni. Qui pre-visione. E “lì”? Forse, immaginazione in atto, espressione di cui però subito la filosofia tradizionale si impadronisce, a meno di non riuscire nell’impresa di soffermare lo sguardo principalmente su quellesser-relato, proprio intimamente della connessione, che non diviene mai “relativo” finché l’immaginazione e il sentimento lo sostengono offrendogli in sacrificio la “realtà”. La prima realtà sacrificale è però costituita dalla “propria” anima, che è resperi­ mento che l’uomo ha più vicino a sé, nel senso che è destinato a viverlo, di connessione in atto tra natura e mondo degli spiriti. Il racconto dell’arte è allora il racconto dell’anima come con­ nessione tra Natur e Geisterwelt, un racconto che è autentico se è pre-visione del destino dell’anima stessa. “Autentico” qui vuol dire: l’anima si manifesta come quella relazione tra mondi, che essa già sempre è, né l’interrompe, né la rende unilaterale (indi­ rizzandola verso uno dei due poli soltanto). L’arte è la custodia di questa relazione, e nelle pagine, davvero ispirate, in cui Schel­ ling parla di fantasia-immaginazione come facoltà aperta al “peccato”, essa è custodia in forma proprio della relazione dina­ mica, d’anima, tra Natur e Geisterwelt. In quella custodia, l’arte garantisce che i due poli siano autenticamente in contatto. Lungi perciò dall’essere, quello di Clara, uno Schelling lon­ tano o persino indifferente al mondo dell’arte, come spesso si legge, ci troviamo di fronte a un’implicita rivendicazione, e af­ fermazione, della facoltà artistico-estetica come unica e vera fa­ coltà in grado di custodire la relazione tra i due regni, custode cioè del continuo trapasso dell’un regno nell’altro, che l’opera d’arte racconta, come dicevamo all’inizio, non più nei termini tradizionali di contenuto e forma, né di genere. L’arte autentica trasforma e mostra in opera il frutto della pre-visione: ma lì, e quando, l’immaginazione diviene chiaroveggenza. In quell’at­ timo la necessità di filosofìa e letteratura si azzera, come la loro stessa distinzione.

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Introduzione*

A partire dal momento in cui si sono sciolti i pacifici rapporti, nei quali fino a non molto tempo fa le scienze vivevano insieme, il carattere particolare della filosofìa può essere individuato in una vivace tendenza verso ciò che è spirituale, alla quale corri­ sponde una altrettanto decisa incapacità di elevarsi fino a esso. L’antica metafìsica si dichiarava attraverso il proprio nome come una scienza che era successiva alla conoscenza della natura e che ne costituiva un proseguimento potenziato; di conse­ guenza, essa concepiva quella conoscenza, di cui si vantava in quanto al di là della fìsica, con disciplina e solidità, ovvero nel­ l’unico modo utile a colui che ricerca la conoscenza. La filosofìa moderna aveva sciolto il suo legame immediato con la natura, o non aveva saputo affermarlo, e disdegnava con orgoglio qualsiasi connessione con la fìsica; continuando a portare avanti le sue prerogative di ricerca di un mondo superiore, non era però più metafìsica, bensì iperfìsica. Tuttavia, si manifestava in quel mo­ mento anche la sua completa incapacità di raggiungere la meta che si era posta. Poiché intendeva spiritualizzarsi compietamente, essa dapprima gettò via la materia [5/^Z], che invece per un tale processo è indispensabile, e, fin dall’inizio, non conservò

* Nota di K.F.A. Schelling, figlio, nonché curatore dei Sàmmtliche linerie: «Questa Introdu­ zione sembra non sia stata destinata a un dialogo bensì a un trattato; tuttavia, essa appartiene al seguente dialogo in quanto il trattato, con il titolo Esposizione delpassaggio dallafilosofia della natura allafilosofia del mondo degli spiriti, doveva avere lo stesso contenuto; nel mano­ scritto, del resto, l’introduzione è legata al dialogo. Una breve parte del progetto di tale trat­ tato è conservata nel lascito manoscritto».

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altro che lo spirituale. Ma se si spiritualizza lo spirituale, che cosa ne verrà fuori? Ovvero: se nella natura vogliamo che tutto sia spirituale, che cosa ci rimarrà per il mondo degli spiriti? Questa considerazione può essere sufficiente per spiegare perché la filosofia sia precipitata nel più profondo abisso pro­ prio quando voleva confrontarsi con lo spirituale al livello più alto, e perché sia diventata sempre più insufficiente e incapace nei confronti di tutte le questioni più elevate. Per un certo tempo si è lasciato fare, ma alla fine tutto ciò è stato percepito in modo così vivo che alla filosofia non rimaneva altro che pro­ cessarsi da sola, non soltanto riconoscendo la propria impo­ tenza spirituale, ma anche rendendola evidente. Nel frattempo anche questo risultato è stato utilizzato per spingere la spiri­ tualizzazione a un grado ancora successivo. Non era sufficiente, si diceva, aver sciolto la connessione con l’oggettività, ovvero con la natura priva di intelletto, se poi si continuava, nel sog­ gettivo, a tollerare un concetto così grossolano come quello del sapere; lo stesso sapere è troppo materiale [massiv], la spiritua­ lizzazione sarà compiuta unicamente quando al posto del sa­ pere rimarrà soltanto un profumo delicato ed evanescente di presagi e sentimenti, quando cioè anche il soggettivo verrà soggettivizzato. Da allora, alcuni si stanno dando da fare per of­ frire, al posto dello spirito vero e proprio (la conoscenza), un suo surrogato che in certo qual modo sia ancor più spirituale dello spirito stesso, e si fa ora così, come solitamente di neces­ sità, di ignoranza virtù. Di fronte a questo stato di cose, non esisteva forse altro mezzo per ricostituire la filosofia se non il riportarla prima di tutto alla terra, non però dal cielo al quale aveva rinunciato, bensì da quello spazio vuoto nel quale stava sospesa tra cielo e terra, e ciò accadde attraverso la filosofìa della natura. Il fatto che gli spiritualizzatoti [ Vergeisliger] fino ad allora attivi si agi­ tassero di fronte a questo cominciamento [Beginnen] — consi­ derandolo un abbassamento della filosofìa, un rinnegamento di tutto ciò che è spirituale, e anzi del sacro e del divino stesso — era del tutto normale e non cera altro da aspettarsi. 2

Introduzione

Tuttavia, fin dall’inizio, la natura veniva spiegata soltanto come un lato dell’universo al quale veniva opposto il mondo degli spiriti. Così anche la filosofia della natura veniva pur sem­ pre considerata solo come una parte dell’intero e il centro della scienza filosofica era costituito dalla spiegazione della contrap­ posizione e della connessione di queste due parti. Dal mo­ mento che ora ci accingiamo a confrontarci con tale questione, assunta da noi fin dai nostri primi passi nella filosofia, si può prevedere che proprio a costoro un simile cominciamento [Beginnen] sembrerà superficiale, forse esaltato, ma in ogni caso innaturale. Ma non è forse proprio quel che accade ai loro con­ cetti e alle loro dottrine, le quali, non appena oltrepassano la natura, assumono il carattere di vera innaturalezza rivelando, proprio per questo motivo, di non possedere vigore nei con­ fronti della vita? Costoro diventeranno infatti amici proprio di quelli con i quali solitamente dichiarano di polemizzare, ma con cui si trovano molto più d’accordo di quanto non credano; parlo di coloro che non possono neanche udire l’espressione “mondo degli spiriti” senza cadere nella loro peculiare paura di fronte agli spiriti; malattia che, nel suo grado più alto, si spinge fino a negare che la più intima interiorità dell’uomo possa es­ sere spirito e che, nei gradi inferiori, si limita a provvedere pre­ murosamente che l’uomo sia completamente separato dal mondo degli spiriti e creda unicamente ai propri spiriti e a quelli che vivono contemporaneamente a lui. Queste due correnti comprenderebbero la nostra impresa in maniera del tutto errata, se pensassero che in qualche modo in­ tendiamo creare la conoscenza del mondo degli spiriti, o anche soltanto parlarne, in modo immediato. Per nostra esplicita di­ chiarazione, infatti, si intende evidenziare unicamente il pas­ saggio scientifico dall’ambito della natura a quello del mondo spirituale. Per capire dunque in quale modo la natura costituisca il nostro punto di partenza, essi non sbaglierebbero affatto se considerassero questo trattato come un trattato di fisica; esso si fonda, infatti, soltanto sulla considerazione che, così come è stato possibile nella scienza naturale collcgare attraverso la legge 3

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di gravità la terra al cielo, e così come possiamo essere lusingati dal trovarci, attraverso la catena doro della luce diffùsa in tutto l’universo, in amichevole e reciproca comunicazione anche con le stelle più lontane, che quasi non riusciamo a vedere neppure con gli strumenti ottici più potenti, proprio allo stesso modo deve essere possibile trovare anche nello spirituale un legame che parta dalla natura e attraverso il quale le nostre scienze, per ora soltanto terrene, possano elevarsi al cielo, che sembra pro­ priamente essere la loro vera patria. Ora è compito loro negare una tale progressiva crescita [T^r/•wachsen] della natura verso il mondo spirituale e lo negheranno. Tuttavia ammettono — qualora non neghino completamente l’esistenza di un tale mondo degli spiriti, cosa che qui non di­ scuteremo - che la natura sia subordinata al mondo degli spiriti. Tale elemento subordinato trova a un certo punto, in relazione a quello superiore, il proprio limite, la propria fine determinata. Ma come possono allora credere che tale elemento trovi la pro­ pria meta e che sia compiuto in sé, senza allo stesso tempo pre­ supporre che l’ultimo momento che esso sviluppa da se stesso non rappresenti già qualcosa che lo oltrepassa e che gli appar­ tiene soltanto con la parte subordinata della sua essenza, così come accade con l’uomo rispetto alla terra? E non deve allora ogni elemento inferiore, proprio a causa del fatto che rappre­ senta un gradino verso l’elemento superiore, trovarsi con que­ st’ultimo in una relazione naturale? Essi dovrebbero dunque prima di tutto dimostrare che tra la natura e il mondo puramente spirituale esista quell’abisso che essi presuppongono, o almeno dovrebbero confutare le nostre dimostrazioni del fatto che tra l’una e l’altro esiste una connes­ sione naturale, prima di opporsi a questa impresa con le solite affermazioni. Soltanto a questa condizione noi stessi riteniamo possibile assolvere il compito preposto. Noi riteniamo infatti che ogni sapere, che non sia puro sviluppo a partire da ciò che è presente e reale, sia un sapere superficiale, che conduce alla fantasticheria \Schvjàrmerei\ e all’errore. Perciò dichiariamo che, per quanto potremo mai spingere verso l’alto la costruzione dei 4

Introduzione

nostri pensieri, non avremo prodotto nulla se il tempio, la cui ultima punta si perde in una luce irraggiungibile, non poserà interamente nella natura le proprie fondamenta più profonde. Dall’altro lato, oseremo dunque ciò che è permesso a colui che è consapevole di un fondamento sicuro e discuteremo di cose più alte con maggiore determinatezza rispetto a quella che finora è stata possibile. Per così dire, ha diritto alle questioni massimamente spirituali soltanto colui che prima ha conosciuto fino in fondo il loro opposto. Nelle sue imprese, anche in quelle scientifiche, l’uomo fallisce più di rado a causa di ciò che intra­ prende che non per il fatto di non procedere nella conoscenza in modo progressivo; infatti, anche nella scienza, nulla viene impedito a colui che ne rispetta le condizioni. L’albero che dalla terra attira in sé forza, vita e linfa può infatti sperare di spingere la cima fiorita fino al cielo; ma i pensieri di coloro che fin dal­ l’inizio ritengono di potersi separare dalla natura, assomigliano — anche quando sono davvero pieni di spirito - soltanto a quei tenui fili che alla fine dell’estate stanno sospesi in aria, ugual­ mente incapaci sia di raggiungere il cielo sia di toccare, con il proprio peso, la terra. Nella consapevolezza degli strumenti scientifici, garantiti dalla natura del nostro procedimento, non correremo il ri­ schio di prendere in considerazione qualcosa di esterno al­ l’essenza [Aufierwesentliches], o che in modo diverso possa condurre all’errore. In questo trattato non troverà posto alcun volo dell’immagi­ nazione, in particolare quelli da cercare nell’esteriorità, e ancor meno un certo parlare a cuor sereno dell’immortalità dell’anima, di cui scrittore e pubblico sembrano compiacersi a vicenda. Non intendiamo suscitare opinioni, né favorire la fantasticheria [Scbwàrmerei], la cui causa fondamentale consiste sempre nella mancanza o nell’insufficienza della scienza. Dove quest’ultima ammutolisce nei confronti di cose che per l’uomo sono le più essenziali, il popolo deve aiutarsi da solo. Quanto infatti esso è più avanti, rispetto agli eruditi, nella precisione [Bestimmtbeit] del modo di pensare! Al popolo non potevano essere sufficienti

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le nostre dimostrazioni morali, e di altro genere, dell’immortalità dell’anima. L’intelletto comune sa bene che il fondamento che lo convince di un’esistenza qualsiasi, deve allo stesso tempo es­ sere in grado di garantirgli necessariamente anche una cono­ scenza di come tale esistenza sia fatta; sa inoltre che ogni fondamento che non abbia queste caratteristiche non può essere quello vero e naturale, bensì soltanto uno inventato e artificioso. Ma ancora oggi vale per gli eruditi ciò che già in passato valeva: hanno gettato via le chiavi della conoscenza e, siccome non rie­ scono ad accedervi, impediscono l’ingresso anche agli altri che vogliono entrare. Persino l’ultimo rifugio che rimaneva al po­ polo, e cioè quello delle verità della Rivelazione, gli viene sot­ tratto poiché chi le insegna ne ha una concezione puramente letterale oppure genericamente morale. Coloro che ne hanno fatto esperienza sanno in quale altra luce appaiano le verità della Rivelazione quando si conferisce loro un significato reale e se ne evidenzia la relazione naturale \physikalische Beziehung\. L’abisso che si apre tra la Rivelazione e la scienza deriva dal fatto che la prima contiene sviluppate fin dall’inizio tutte le verità a un grado di determinatezza individuale, mentre la nostra filo­ sofia, continuamente sospesa nell’astrazione \im Allgemeinen\, non ha ancora saputo raggiungerle. Dunque non si sospettino di fantasticheria [SchtDàrnterei], o di istigazione a essa, coloro che anche nelle questioni più spiri­ tuali cercano la determinatezza della conoscenza, ma piuttosto si sospettino coloro che le si oppongono, foss’anche con la pre­ tesa di un sentimento che supera ogni scienza. Se la supersti­ zione [Aberglaube] ignora del tutto la connessione naturale delle cose, allora la miscredenza [ Unglaube] nasce dal soffocamento — attraverso la massa del naturale che non riesce a muoversi nella direzione di un vivo, continuo e progressivo sviluppo verso lo spirituale — del divino che si agita nell’interiorità. La fede \Glaubé\y che si presenta in opposizione alla scienza, si trova nella stessa situazione. E impossibile infatti che sia vera fede quella che si sviluppa da una iniziale miscredenza e che condi­ vide con questa il medesimo punto di partenza. 6

Introduzione

Tuttavia, anche soltanto dal punto di vista della forma, biso­ gna senza dubbio chiamare veri fantasticatoti [Phantasten] co­ loro che considerano il mondo della scienza come un grande spazio vuoto, nel quale ognuno può, arbitrariamente, inserire tutto ciò che gli piace; coloro cioè che non sanno che cosa si­ gnifichino il ritorno alle origini o il formarsi progressivo e re­ golare verso l’alto, esattamente coloro che, se si chiedessero di quale certezza sono consapevoli nei propri procedimenti filo­ sofici, dovrebbero, con un minimo di onestà, ammettere di non possederne nemmeno tanta quanta viene richiesta anche sol­ tanto, facciamo un esempio, per copiare una pagina di un libro scritto in una lingua qualsiasi, dove occorre sapere se si deve ini­ ziare da sinistra o, come nell’ebraico, da destra. Nei confronti di una questione che si trova in rapporti mol­ teplici e intimi con i più profondi sentimenti dell’essenza umana, uno scrittore, qualora si interessi soltanto di sortire degli effetti, non può mancare il suo scopo se è in grado di mettere in campo anche soltanto quegli stessi sentimenti in modo leg­ gero e piacevole. Colui che invece miri a conseguire una precisa comprensione scientifica, deve piuttosto desiderare di metterli a tacere. Non concederà nulla all’inclinazione, nulla al desiderio [Sehnsucht] più giusto, accrescerà la serietà della scienza attra­ verso l’altezza della questione posta, discuterà unicamente ciò di cui si può dare una comprensione scientifica e rinnegherà se stesso votandosi alla causa dell’inestimabile raggiungimento di una verità imperdibile. Il più profondo sentimento trova la pro­ pria piena conferma soltanto nella scienza che non si mescola con esso; una loro mescolanza viene rifiutata sia dal sentimento sia dalla scienza. Soltanto con la fede [GZrzwZ’e], l’amore e la spe­ ranza, egli spera di non trovarsi mai in contrapposizione; mai disprezzerà ciò che da essi proviene, soltanto perché non è pos­ sibile darne una giustificazione scientifica, in quanto forse si può ritenere, insieme al poeta, che in quegli spazi sereni si man­ terrà la parola nei confronti di ogni sentimento bello e gentile. Tuttavia, nonostante essi rappresentino l’essenza intima e sacra che conferisce a tutte le opere della scienza e dell’arte l’ultima 7

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trasfigurazione [Verklàrung\, la loro natura è troppo intima per apparire come principio visibile dell una o dell’altra. Poiché spetta a noi decidere se comunicare i nostri pensieri anche in una forma più accessibile, scegliamo di dare la prece­ denza a quella più severa e di fornire forse, con questo trattato, un esempio del metodo che si distingue da quello finora usato, per il fatto di essere propriamente inseparabile dal contenuto e di darsi attraverso il contenuto così come quest’ultimo è dato attraverso il metodo. Non si poteva evitare che si abusasse di al­ cune delle sue formule nella maniera più vergognosa (all’interno di questo metodo ancora nessuno è penetrato fino in fondo), in quanto proprio ciò che è più vivo richiede prevalentemente di essere trattato con l’intelletto. D’altra parte, abbiamo potuto no­ tare come questo metodo — in caso di indagini reali in cui, forse senza saperlo, si è concessa una certa influenza alle sue formule — si sia dimostrato favorevole più di ogni altro; questa circostanza dimostra che lo stato della scienza inizia a esigerlo in diversi set­ tori. Chi intende rovesciare questo metodo, non deve attaccare il suo utilizzo privo di spirito, anzi neppure deve attaccare il metodo stesso, bensì la cosa.

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Il pastore racconta*

Il giorno dei Morti il medico e io andammo in città per ritor­ nare la sera stessa insieme a Clara, che alcuni giorni prima vi si era recata in compagnia delle mie due figlie. Quando la bella città, che sorge pressappoco nel mezzo della montagna proprio nel punto dove si apre una gola, ci apparve stagliata nella vasta pianura retrostante, scorgemmo una gran folla avanzare in schiera verso una lieve altura che s’innalzava un po’ a lato. In­ tuimmo subito dove era diretta la processione e ci unimmo a essa per assistere almeno una volta da vicino alla commovente festa che in questo giorno, nelle città cattoliche, si celebra in memoria dei morti. Il luogo era già pieno di gente. Era una cosa singolare osser­ vare la vita sopra quelle tombe, illuminate dal tiepido e presago sole autunnale. Non appena ci allontanammo dai sentieri bat­ tuti, ci apparvero folti gruppi di persone raccolte intorno alle tombe: qui, fanciulle nel fiore degli anni con i fratelli minori per mano posavano una corona sulla tomba della madre; là, una madre sostava in silenzio sulla tomba di figli prematuramente scomparsi, e non le era necessaria l’acqua benedetta per simulare

* Questo è il primo e unico titolo indicato esplicitamente da Schelling per un’eventuale suddivisione del presente dialogo, il quale, come sappiamo, oltre a essere un vero e proprio esperimento filosofico c linguistico, rimase incompiuto, e dunque privo di una precisa e de­ finitiva struttura. I titoli successivi, per larga parte introdotti arbitrariamente nella presente edizione, si ritengono un utile strumento di lettura, redatto nello spirito in cui lo stesso Schelling scelse il primo. [AG/.C.]

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le lacrime: i sepolcri erano irrorati da un pianto che scendeva dolcemente e che la tristezza rendeva sacro. Qua e là, uomini seri e pensosi si soffermavano di fronte a tumuli che forse cu­ stodivano un amico troppo presto scomparso oppure un’amica indimenticabile. Tutte le relazioni vitali recise si rinnovavano qui per l’osservatore che fosse a conoscenza delle persone e delle circostanze. I fratelli si univano nuovamente ai fratelli, i figli ai genitori, e tutti erano nuovamente una famiglia. Solo all’amata, a cui la morte aveva strappato l’amato, non era concesso di mo­ strarsi in questa schiera. Forse aveva preferito l’alba per bagnare con le sue lacrime, insieme alla rugiada del mattino, il luogo amato, al riparo da sguardi indiscreti. 11 bel monumento di un giovane, spirato in questi luoghi come uno straniero, era ornato di fiori in modo così dolce e sapiente da riconoscervi l’opera di mani amorose. «Come è commovente questo costume» disse il mio compa­ gno «e come è ricco di significato questo ornamento di fiori tar­ divi sulle tombe. Non è forse giusto dedicare i fiori dell’autunno ai morti che in primavera, dai loro angusti loculi, ci fanno poi dono di fiori più gioiosi, a testimonianza della vita perenne e della resurrezione eterna?» Nel mezzo della piazza c era una piccola cappella incapace di accogliere quella folla. Poco dopo il nostro arrivo si era talmente riempita che fuori dalla porta, lungo i viali disseminati di tombe, si era formata una lunga fila di persone. Ci sedemmo così a lato di una vecchia pietra tombale piena di muschio, le cui iscrizioni erano da tempo divenute illeggibili, e restammo ad ascoltare il rito solenne; potemmo seguirne lo svolgimento soltanto attra­ verso i gesti di coloro che erano rimasti fuori. Rimanemmo lì seduti, avvolti da una silente mestizia. Quanti di coloro che ora incedono lungo queste tombe riposeranno a loro volta sotto terra prima della fine dell’anno? Ma la nostra amica dov’era? Di tanto in tanto ci sembrò di vederla da lontano, ma in mezzo a tanta gente non riuscimmo mai a riconoscerla o avvicinarla. Ricordammo allora che ci re­ stava ancora un lungo cammino da compiere. Ella infatti ci aveva 10

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pregati di raggiungerla nel monastero benedettino, che si trovava su una collina al di là della città, dove avremmo in ogni caso do­ vuto riunirci al momento della partenza. Era dunque tempo di rimetterci in cammino, e subito ci allontanammo in silenzio.

Trovammo la città vuota e desolata; ci fermammo per qualche tempo a rinfrescarci un poco e poi cominciammo a salire verso il maestoso monastero. Appena giunti, ci condussero nella bi­ blioteca dove ci attendeva un monaco giovane e colto, che ci parve avesse l’incarico di ricevere i forestieri e d’intrattenerli de­ corosamente. Il giovane ci raccontò che il principe, recente­ mente scomparso, lo aveva inviato in viaggio e che ora egli era diventato il custode di quella biblioteca e al contempo maestro delle scienze filosofiche nel monastero. Ci mostrò poi alcune delle rarità affidate alle sue cure. Ma più di quei tesori morti ci attirava la meravigliosa vista che oltre le vetrate spaziava sulla pianura lontana: fino ai piedi dell’altura dove ci trovavamo, essa era disseminata di città e di borghi, e attraversata da un fiume impetuoso che a tratti appariva, qua e là, come uno stretto na­ stro argentato. Fin dal nostro arrivo il monaco ci aveva riferito che avremmo dovuto attendere Clara in quella sala, poiché ella doveva ancora parlare con l’abate di alcune questioni. Numerosi possedimenti del monastero confinavano infatti con le tenute della famiglia di Clara, e tra i suoi più generosi benefattori il monastero an­ noverava alcuni antenati di quella famiglia, di cui il monaco ci indicò i ritratti che ornavano le pareti della sala. Il fratello di uno di loro era stato rappresentato in abito monacale e ve­ nimmo a sapere che egli aveva realmente preso i voti, e che in quel luogo era morto e stato sepolto. Della verità della sua af­ fermazione, se mai avessimo avuto motivo di dubitare, ci avrebbe in ogni caso convinto l’evidente similitudine tra l’uomo del ritratto e la nostra amica. Grande fu la nostra meraviglia per quella somiglianza che ricompariva dopo due secoli: anche il monaco ammise che di fronte a una tale evidenza era difficile non credere nella trasmigrazione delle anime. 11

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«Ciò che forse è ancora più curioso» dissi io allora «è che tra i destini interiori di questi due lontani parenti regna un’affinità tanto profonda quanto quella tra le loro sembianze esteriori, se­ condo le quali si dovrebbe ritenerli almeno fratello e sorella. Chissà che cosa spinse questo precoce fratello (giacché così devo chiamarlo) tra queste mura solitarie e che cosa lo indusse a con­ cludere qui la sua vita, nell’isolamento? Probabilmente furono circostanze simili a quelle che ora spingono la nostra amica a prediligere la quiete della nostra valle silenziosa alla vita nel mondo oppure soltanto in una città più grande. Più volte l’ab­ biamo incitata a recarsi in città perché ci pareva che la solitu­ dine, che conserva sempre profonda e intatta l’intensità di ogni ricordo, avrebbe alla lunga minato la sua salute.» «Abita dunque ancora in quella casa isolata dove le feci visita sei anni fa?» disse il monaco. «Sì, nella stessa» risposi. «Molti anni addietro un altro stra­ niero, comperato il terreno, l’aveva costruita; sei anni fa, mentre stava fuggendo,1 Clara la trovò vuota, l’acquistò insieme ai suoi giardini e ai suoi vigneti a un prezzo conveniente e ora vi abita di nuovo poiché è stata costretta un’altra volta ad abbandonare le proprietà paterne.» «In quel periodo» disse il monaco «ella non aveva rapporti con il nostro monastero; così, in modo furtivo e segreto, mi de­ cisi a farle visita, spinto al tempo stesso dalla curiosità e da un cauto riguardo. Lo stato in cui si trovava era certamente dolo­ roso; inoltre il prelato del monastero, recentemente deceduto, che da sempre esercitava una grande influenza sulla famiglia di Clara, era particolarmente contrario al matrimonio della gio­ vane con un protestante. Come lui, la pensava del resto tutta la nobiltà cattolica delle vicinanze in quanto, tramite lei, ultima

’ Schelling si riferisce agli sconvolgimenti provocati dalla Rivoluzione francese e dalle guerre rivoluzionarie che la seguirono fino a quelle condotte da Napoleone c ai loro esiti percepibili non solo in Svevia e in Baviera dove, negli anni della stesura del Clara, Schelling viveva c lavorava. Durante le secolarizzazioni delle proprietà ecclesiastiche c le espropriazioni di quelle dell’aristocrazia, molti, soprattutto tra i nobili, dovettero fuggire. Dopo la sconfitta di Napoleone, i rapporti di proprietà vennero in gran parte restaurati.

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erede della stirpe, tutti quei beni e quelle ricchezze sarebbero passati alla parte avversa. Quella di oggi è la prima visita di Clara al monastero dove, come ricordo con chiarezza, aveva messo piede solo raramente in compagnia dei suoi genitori. Forse la proprietà di beni così ragguardevoli, di cui ella è oggi divenuta nuovamente padrona, ha trasformato il suo atteggia­ mento verso il monastero; inoltre, l’attuale abate ha una visione meno ristretta su molte questioni e giudica più adeguatamente questi tempi in cui tutti dovrebbero pensare alla salvezza co­ mune piuttosto che fomentare discordie limitate e locali.» Il medico, che fino ad allora non aveva cessato di contemplare i numerosi ritratti, ci interruppe esclamando: «Mi sembra che nulla come questa raccolta di ritratti renda più manifesta la differenza tra i nostri tempi e i precedenti. Quali teste possenti, squadrate e scolpite in ogni parte, sono queste ef­ fìgi dei principi della guerra dei Trent’Anni e di tempi ancora più remoti! Che fronti, che occhi hanno questi condottieri, que­ sti uomini valorosi, ciascuno contraddistinto dalle proprie gesta e ora riuniti qui tutti insieme! Mi domando se uno solo tra gli ultimi discendenti di queste famiglie sappia esprimere un così alto sentimento spirituale unito a una forza di carattere come quella che si scorge in questa testa; o forse, nel tempo della de­ cadenza della stirpe, le austere sembianze degli avi possono nuo­ vamente manifestarsi soltanto nelle fattezze femminili?». In quell’attimo Clara entrò nella sala con grande allegria e la sua somiglianza con l’avo ci apparve così straordinaria da incu­ terci timore e dovemmo trattenerci per celare il nostro senti­ mento. Infatti, non compresi perché ciascuno di noi evitasse di rivelare la scoperta o di farvi cenno. Clara mi trasse con gli occhi verso la finestra aperta e quando il suo sguardo cadde sugli az­ zurri monti lontani, si sciolse in lacrime e disse: «Là, oltre quei monti dove tra breve il sole tramonterà e che per questo diventano sempre più azzurri, là è sepolto il mio Tutto. O Albert, Albert, così ci toccò abbandonare il tranquillo rifugio che, di qui dai monti, ci univa, solo per essere divisi tanto 13

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a lungo, e chissà per quanto ancora! Ti ho appena perduto e già mi cacciano di nuovo, strappandomi questa volta anche dall’ul­ tima cosa che mi è rimasta di te, da quel minuscolo spazio di terra che ti custodisce. Banditi profanano le tombe dei miei padri; ma tu riposi con loro. Oggi anche il più misero degli uo­ mini si reca a far visita alla tomba dei suoi cari; io sola non posso ornare la tua; ma qui le mie lacrime scorrono quiete e non pro­ fanate: da quella parte di terra che le vorrà accogliere esse flui­ ranno con magica forza fino a te e ti doneranno fresco sollievo nella tua tomba». Di fronte allerompere di quella passione repentina e inattesa mi spaventai e cercai di placarla tentando di portare la conver­ sazione su un argomento più generale. «Le confesso» dissi «che questa commemorazione dei defunti mi ha profondamente impressionato. Una volta di più mi è ap­ parso con chiarezza come sia limitata questa vita che ora vi­ viamo, che sarebbe interamente compiuta solo se si unisse a essa quell’elemento spirituale più alto, se coloro che chiamiamo de­ funti non cessassero di vivere con noi, ma formassero in certo qual modo un’altra parte dell’intera famiglia. L’usanza degli an­ tichi Egizi ha qualcosa di ripugnante e tuttavia si fonda su una concezione in sé vera e giusta. Bisognerebbe mantenere vive le feste e le tradizioni che ci rammentano l’esistenza di un legame con il mondo ultraterreno.» «Vi prego di scusarmi» ci interruppe il monaco, che nel frat­ tempo si era avvicinato e aveva ascoltato le mie ultime parole «se, circa questo problema, credo di dover esprimere un’opinione diversa. La commemorazione odierna reca certamente in sé qualcosa di commovente; se tuttavia fosse destinata soltanto a tener desto il pensiero dei rapporti che possiamo intrattenere con gli abitanti dell’altro mondo, la dichiarerei addirittura dan­ nosa e tollererei di buon grado che anch’essa, come già tante altre celebrazioni nella vostra Chiesa, fosse abbandonata.» Siccome nessuno gli rispose, continuò: «Noi viventi siamo necessariamente legati a questo mondo. Qui dobbiamo compiere tutto il bene possibile offrendo amore 14

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e fedeltà a coloro cui siamo uniti, finché ci troviamo insieme sul cammino di questa vita. Certo, adempiremmo questo reciproco dovere con più rigore e precisione se rammentassimo continuamente che i nostri cari sono mortali e che con la loro morte si spezzerà ogni legame tra noi e loro; a partire da quel momento essi saranno irraggiungibili sia dalla passione del nostro amore sia da quella del nostro odio, il sentimento più meschino». «Ciò che è basso» replicò allora Clara «non può probabil­ mente influire su ciò che è alto, ma certamente l’elemento più alto può agire su ciò che è basso; in questo modo l’idea di un influsso non sarebbe poi così insensata.» Allora il frate continuò: «Questo avviene quando entrambi sono compresi nel mede­ simo mondo, così come a un unico mondo appartengono nella vita terrena il nostro spirito e il nostro corpo. Per questo mondo sensibile, tuttavia, il defunto è irrimediabilmente perduto, e gli è impossibile esercitare un influsso in una regione per la quale non possiede né strumenti né ricettività». «Il suo discorso» gli dissi «mi ricorda la spiegazione che og­ gigiorno i nostri teologi che si occupano di filosofìa offrono del miracolo ritenendolo uno straordinario influsso di Dio sul mondo sensibile, senza con ciò pensare a quanto, in questo mondo della sensibilità, non è per nulla sensibile.» «E tuttavia necessario» ribattè egli «rispettare questi antichi limiti. Solo con rammarico, infatti, l’uomo ragionevole potrebbe accettare un loro spostamento, poiché altrimenti tutto si con­ fonderebbe nell’indistinzione e noi in breve non saremmo più propriamente a casa né nell’uno né nell’altro mondo.» «Lei però ammette» disse Clara «che almeno in noi viva un’essenza diversa da quella sensibile, e cioè lo spirito. Dovrà dunque anche ammettere che, tramite esso, ci troviamo effetti­ vamente in comunicazione con il mondo dell’aldilà e che, sep­ pure dovessimo concedere l’esistenza di una scissione tra il sensibile e lo spirituale, questa separazione non sarebbe ancora una prova contro una possibile connessione dell’elemento spi­ rituale in noi con le forze di un altro mondo.» 15

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«Lo ammetterei» rispose il monaco «solo se il nostro spirito fosse davvero capace di elevarsi alla spiritualità pura, se cioè esso, a causa della sua commistione con la materia, non fosse comple­ tamente separato dalla purezza di quel mondo, al quale è destinato a elevarsi soltanto dopo lo scioglimento di questo vincolo.» «Data una così totale scissione» replicai «lei dovrebbe di con­ seguenza respingere qualsiasi concetto di mondo ultraterreno.» «Infatti è così» rispose. «Io respingo qualsivoglia concetto che di esso tentino di formarsi l’intelletto o la ragione. L’uomo reca in sé un unico punto aperto attraverso il quale il cielo può giun­ gere a risplendere in lui. Questo punto è il nostro cuore o, per dir meglio, la nostra coscienza morale.2 In essa ci è dato trovare una legge e una destinazione che non possono essere di questo mondo, con il quale esse si trovano piuttosto in conflitto. In que­ sto modo la coscienza morale ci serve come pegno di un regno superiore ed eleva colui che ha imparato a seguirla al pensiero consolante dell’immortalità.» «E a nulla di più?» domandò Clara. «Questa parola “immor­ talità” è troppo debole per il mio sentimento. Che cosa possono offrire al mio fervido desiderio3 queste parole gelide e questi concetti solamente negativi? Può forse bastarci, in questa vita, un’esistenza così vuota? La natura ci può forse tacitare con tali astrazioni generali?»

2 Nell’originale: das Gexoissen. Il riferimento è qui alla filosofia morale di Kant c ai postulati della ragione pratica (qui soprattutto quello dellimmortalità), ma anche al concetto di su­ blime (cfr. I. Kant, Critica della ragion pratica, a cura di V. Mathieu, Bompiani, Milano 2004; Id., Critica deliafacolta di giudizio, a cura di L. Amoroso, BUR, Milano 2004). Il termine è stato stabilmente introdotto nella lingua tedesca da Lutero che lo riprende da Notker III, detto anche Labeo o Teutonicus il quale, intorno all’anno Mille, lo coniò in una glossa al Salmo 68,20 come calco sia del latino conscientia sia del greco syneidesis. J Nell’originale: die Sehnsucht (letteralmente: “fervente brama"). Si tratta di una parola-chiave nel contesto del Romanticismo tedesco che nelle traduzioni italiane viene spesso resa con "struggimento" o “nostalgia”; si è preferito tuttavia usare un termine meno problematico c con un senso più determinato come “desiderio". Tale scelta è motivata anche dal fatto che il termine Sehnsucht assume, nelle speculazioni metafisiche c religiose di Schelling, conno­ tazioni molto lontane da quelle che si c soliti attribuirgli. Si ricorrere al termine “nostalgia" solo in casi in cui il suo campo semantico lo giustifica. Si veda a questo proposito, tra gli altri, L. Mittncr, Storia della letteratura tedesca. Dal pietismo al romanticismo (1700-1820), Einaudi, Torino 1982, t. Ili, pp. 699-700.

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«La fede è lapidaria» rispose il monaco «come il dovere dal quale proviene.» «Lei pretende» riprese subito Clara «di fondare ogni più alta certezza sul cuore, e tuttavia al cuore non dà nulla. Non pos­ siamo veder allontanarsi un amico, al quale siamo da molto tempo affezionati e che il dovere ha chiamato lontano da noi, senza accompagnarlo con il pensiero in quelle regioni distanti, senza immaginare in modo vivo la sua situazione e il suo am­ biente, e infine senza il desiderio di sapere come in quei luoghi si siano mutate o conservate le sue abitudini di vita.» «Una cosa è la separazione in questa vita,» disse egli allora «un’altra il trapasso in un mondo che con questo non ha nulla in comune.» «Non credo sia così» dissi. «Ciò che è più distante è anche ciò che si trova più vicino. Deserti, montagne, vasti paesi e mari possono separarci da un amico in questa vita, la lontananza dell’altra vita da questa non è però più grande della differenza tra la notte e il giorno e tra il giorno e la notte. Già un pensiero intimo, spogliato da tutto ciò che è esteriore, ci trasporta in quell’altro mondo che ci è forse tanto più nascosto quanto più ci è vicino.» «Non lo nego» rispose il monaco. «Quel mondo spirituale può realmente sbocciare in noi e tuttavia noi non sbocciamo in esso; il nostro sguardo rimane limitato alla nostra interiorità e non può seguire il destino degli amici defunti, la qual cosa è un desiderio in cui scorgo pur sempre il segno di un amore egoistico.» «Perché?» chiese Clara. «In questa vita» rispose «immaginiamo e pretendiamo so­ vente che amici e compagni siano nostri, quando in verità essi sono soltanto di Dio, esseri liberi che non servono a nulla al di fuori dell’Uno. Noi li possediamo soltanto come doni; questo, almeno, ci rammenta la morte. Così mi sembra ugualmente sag­ gio ricordare che anche nella vita non vi è nulla di propriamente nostro, e che il voto della povertà, della castità e in particolare dell’ubbidienza verso una volontà più alta c nascosta è un voto 17

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che ogni uomo dovrebbe far suo.4 Saremmo quindi molto più prudenti nel godimento di tutti i beni, e soprattutto di quelli più nobili, che l’amore e l’amicizia ci procurano, se rammentas­ simo che l’essenza dell’anima — che con tutte le forze del nostro spirito e del nostro cuore attiriamo a noi e che vogliamo rendere interamente nostra (sì, se fosse possibile, la vorremmo fondere completamente con la nostra esistenza) - se rammentassimo, dicevo, che l’anima si trova unicamente nelle mani di Dio, nelle quali prima o poi dovremo rimetterla. Non dovremmo mai scor­ dare che giungerà un momento in cui essa non ci apparterrà più, ma in cui si unirà nuovamente al Tutto. Qui l’anima ritroverà la sua libertà originaria5 e forse, secondo la volontà di Dio, si avvierà su un nuovo cammino che non incrocerà più il nostro, perse­ guendo scopi assolutamente differenti da quelli che raggiungeva in questo mondo, contribuendo allo sviluppo della nostra inte­ riorità e nobilitando la nostra essenza.» «Allora» disse Clara «lei non pensa che nell’amicizia e nel­ l’amore viva qualcosa di eterno, un legame che Dio ha stretto e che né la morte né Dio stesso possono sciogliere.6 Mille rapporti possono lacerarsi assieme a questa vita. Forse essi non hanno toccato la nostra interiorità se non in modo ostile o inquietante. Al contrario, il legame di un amore veramente divino è indis­ solubile come l’essenza dell’anima, nella quale si fonda, eterno come una manifestazione stessa di Dio. Se mi fossero donati dei bimbi e poi mi fossero strappati tutti insieme, non potrei ri-

4 Traduciamo l'originale Entbehrung (letteralmente: “privazione”, “sacrificio", “rinuncia") con “castità" restringendo quindi l’estensione semantica del termine alla sfera della rinuncia ses­ suale, per rispettare la tradizionale triade dei voti propri deH'Ordinc benedettino: povertà, castità, obbedienza. 5 Riferimento alle riflessioni sull'essenza della libertà umana e il suo rapporto con Dio e con il fondamento della sua esistenza, che Schelling stava svolgendo nello stesso periodo. Cfr. EWJ. Schelling, Ricerchefilosofiche sull'essenza della libertà umana egli oggetti che vi sono connessi, a cura di E Moiso c E Viganò, con un commentario a cura di A. l’iepcr c O. Hòffc, Guerini, Milano 1997. b Si ricordi a questo proposito quanto Schelling aveva scritto sulla tomba della moglie Caroline, scomparsa improvvisamente il 7 settembre 1809: «Dio me l’ha data, la morte non può rapir­ mela» (cfr. L. Pareyson, Schelling. Presentazione e antologia, Marietti, Torino 1975, p. 51).

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tenere un cieco caso o un destino fugace il fatto di essere la madre di quelle anime. Io sentirei, sì, ne sarei certa, che essi sa­ rebbero miei eternamente, come io sarei loro, e che essi non po­ trebbero essere strappati a me, come io a loro, da nessuna forza della terra e nemmeno del cielo.» «Questo» disse il monaco «è certamente l’autentico e vero sentimento materno; eppure, anche qui, non è il rapporto na­ turale a produrre il sentimento eterno, ma al contrario è il sen­ timento a rendere eterno il rapporto. E, poi, perché mai ci sarebbero tante madri adottive? Tutto ciò ci dimostra che non vi è nulla di eterno tranne il sentimento. E se non possiamo os­ servare senza devozione questi rapporti naturali, che sorgono senza la nostra partecipazione e che vengono stretti da una mano invisibile, che posseggono dunque un interno rafforza­ mento divino...» «Lei forse non crede» lo interruppe bruscamente Clara «che anche i rapporti più alti, come l’amore e l’amicizia, siano di na­ tura divina? Che vi sia una necessità silenziosa e inconscia, ma proprio per questo motivo ancor più potente, grazie alla quale le anime si attraggono reciprocamente tra loro?» «Io non nego» disse «l’opera di una tale forza naturale, anche se non la comprendo. Dal momento in cui, tuttavia, l’uomo è entrato in conflitto e in contraddizione con la natura (cosa che ugualmente non comprendo), e da quando nella natura umana si è consolidata un’aberrazione così profonda da impedirle di attingere con purezza sia all’una sia all’altra delle fonti vitali — al punto che è divenuto ugualmente rischioso orientare l’uomo tanto verso la libertà quanto verso la necessità - dopo tale aber­ razione, confesso di essere profondamente dubbioso circa i rap­ porti nei quali la volontà libera ha una parte anche minima, e non mi arrischio volentieri in un siffatto labirinto. Non mi ri­ fiuto con ciò di giustificare il calore di tutti i cuori devoti, ma invito a guardarsi dal voler tramutare le ispirazioni del nostro sentimento e le fantasie del nostro desiderio in verità universali. In questo modo, infatti, verrebbe meno ogni limite. L’animo oscuro e desolato possiede ugual diritto di quello gioioso e 19

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quieto, e tuttavia noi sappiamo quali mostri siano scaturiti dal­ l’impulso a realizzare le creazioni di un desiderio sfrenato o di un’immaginazione selvaggia.» Il medico, che già da tempo appariva contrariato da questa conversazione, a quel punto s’intromise e disse: «Lei ha ragione; solo gli animi più ordinati ed equilibrati dovrebbero interrogarsi sulla vita futura; solo gli animi sereni do­ vrebbero avvicinarsi a quelle regioni della serenità e della quiete eterne, non coloro che sono privi di un fondamento solido e per­ manente sul quale erigere, nella natura che li circonda, i propri pensieri. Solo colui che ha compreso la vita terrena dovrebbe par­ lare della morte e della vita futura. Ogni sorvolare sopra ciò che è presente, così come ogni sapere che non si sviluppi dal presente e dal reale e che voglia anticipare qualcosa a cui il cammino na­ turale dello spirito non conduce è da condannare: porta solo alla fantasticheria7 e all’errore». «In questo modo» disse il monaco «lei pregiudicherebbe, quanto me, qualsiasi sapere sulle cose future; infatti, chi potrebbe mai af­ fermare di aver compreso fino in fondo la vita?» «Non so» ribattè il medico «se qualcuno possa dirlo; ma so que­ sto: che non lo ritengo totalmente impossibile. Noi dobbiamo solo non cercare la vita troppo in alto, non dobbiamo recidere fin da principio la radice che dal suolo più profondo della natura at­ trae a sé forza, vita, linfa, e che poi, forse, innalza i suoi fiori fino al cielo. Inoltre, dovremmo rinunciare al pensiero di voler com­ prendere la vita a partire da qualcosa di più elevato e di diverso dalla vita stessa. Non scendere dall’alto verso il basso, ma elevarsi dal basso, questo è il mio motto che, come credo, è anche suffi­ cientemente conforme all’umiltà che per molti versi ci si addice. Ora, però» aggiunse «mi accorgo che il sole sta già calando tra i monti e temo che l’aria autunnale della sera possa essere dannosa per la nostra amica. Ci permetta quindi di partire.»

' Nell'originale: die Srlnvàrmerri (\cvtcn\mcntc: “esaltazione",“infatuazione",“fervore”), ter­ mine che costituisce una cifra emblematica non solo per Wackcnrodcr, ma anche di certi orientamenti della Spatromantik.

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Clara si congedò da quei luoghi rivolgendo un rapido sguardo ai monti lontani e, dopo esserci riuniti alle mie due figlie che ci attendevano in città, ci avviammo di nuovo giù dove cominciano le montagne, verso la nostra valle. Restammo seduti nella nostra carrozza taciturni, muti, l’uno accanto all’altro. Clara rimase tranquilla e sprofondata in se stessa finché il medico avviò una conversazione sulla vita monastica. «Come può accadere» domandò «che taluni siano soliti im­ maginare numerosi lati gradevoli e belli nella vita dei monaci? E forse perché a ciascuno piace immaginare, sotto le sembianze dell’abito monacale, l’ideale di un uomo quieto, chiaro e in com­ pleto equilibrio interiore, un ideale che ognuno desidererebbe volentieri si realizzasse in se stesso, ma che tuttavia non rag­ giunge mai? Perché, invero, i motivi esteriori come la vita co­ moda, l’assenza di preoccupazioni proprie di quell’ordine, e di altri simili, possono influenzare soltanto la plebaglia.» «Per quanto mi riguarda» disse Therese «potrebbero sedurmi semmai la bella posizione dei monasteri, i monti sui quali così spesso vengono eretti o le fertili valli dalle quali essi sono cir­ condati.» «Tutto ciò non dipende forse» dissi io «dal fatto che ciascuno reca in sé l’oscuro sentimento che il non possedere nulla appar­ tenga alla beatitudine, dal momento che ogni possesso causa preoccupazioni e impegni, e che, siccome la povertà e la rinun­ cia sono cose dure e dolorose, la vita monastica deve apparire come un vero ideale, perché in essa ognuno può vivere bene e tranquillo, senza possedere nulla?» «Mi pare» disse allora Clara «che tutte le cose immutabili ci inducano a un profondo rispetto, come del resto non vi è nulla che diminuisca la nostra reverenza più delle cose effimere. L’uomo, così come l’osservo nelle più comuni situazioni della vita, rimane sempre a mio avviso un essere esitante e incerto. Chissà se il medesimo uomo, che in questo momento agisce ge­ nerosamente e in modo sincero, una volta piegato dalla forza delle cose, non agirà in modo meschino e contrario al suo cuore? E come sapere se questo stesso uomo, che oggi ci appare retto, 21

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libero e puro, non sarà prima o poi reso schiavo, ottenebrato e lacerato da una passione violenta? Ma l’uomo che prende una decisione per tutta la vita, e che la prende chiamando Dio e il mondo a testimoni, in condizioni che le imprimono il sigillo della indissolubilità, questo uomo susciterà sempre il mio più alto rispetto ogniqualvolta me lo rappresenti nel suo agire libero e avveduto. Perché mai, poi, si è soliti affermare che nessuno prima della sua morte sia beato, eccetto quell’uomo che, po­ tremmo dire, muore ancora vivendo?8 E che altro è mai il so­ lenne voto della privazione e della rinuncia al mondo se non un morire vivente?»9 «Mi meraviglio» dissi «che nessuno menzioni l’effetto bene­ fico che la solitudine imperturbata potrebbe esercitare sulle arti e sulle scienze.» «Potrebbe!» rispose il medico. «E tuttavia da molto tempo non l’ha più esercitato. Se fosse così, noi dovremmo piuttosto citare come prove le opere di erudizione e quelle che sono frutto di un puro zelo da collezionista.» «Però» dissi «le arti e l’erudizione subirebbero un danno non ir­ rilevante se tutti questi ricchi monasteri con i loro meravigliosi edi­ fici, le loro cospicue raccolte di libri, le chiese con affreschi, le pale dipinte sopra gli altari, le artistiche incisioni in legno, sparissero.» «Sì» disse Therese «e insieme a ciò tutto il paesaggio si tra­ muterebbe in un deserto. Non conosco spettacolo più bello di quello dell’abbondanza di una campagna circondata da campi di spighe ondeggianti, in lontananza acque, boschi e vigneti, dove tutte le cose sono vivificate dal lavoro di uomini operosi e in mezzo alla quale si erge un edifìcio illustre e meraviglioso con torri affilate e alte cupole. La più bella delle città non è in grado di suscitare in me questo effetto. La città scaccia la natura, che spesso si ritrova soltanto a una grande distanza da essa. Ma la semplicità di un paesaggio di campagna, la sua libera rie-

* SuU'asccsi c sulla vira come «esercizio di morte-, si veda Platone, Fedone (67b-68b). * Nell'originale: ein Todbei lebendigem Leibe (letteralmente: “una morte a corpo vivo”).

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chezza unita allo splendore e alla magnificenza, nulla come tutto ciò può dare la giusta impressione.» «Se le cose stanno così» dissi io «allora la mia Therese do­ vrebbe ammirare allo stesso modo i castelli e le belle tenute dei nobili.» «Ma no» ribattè lei. «lo amo soprattutto ciò che è duraturo, ciò in cui scorgo un consistere e un permanere. Anche nel no­ stro tempo le ricchezze e i beni passano di mano in mano. Una famiglia si estingue, la nobiltà si ritira nelle città e, se di tanto in tanto ne esce, lo fa soltanto per offendere la quiete e la grazia di queste belle valli, con il contrasto dei suoi costumi e il chiasso dei suoi divertimenti.» «Hai ragione, bambina mia,» replicai «ma non dimenticare che la tua opinione su questo problema non può essere quella gene­ rale, tanto meno nei tempi agitati cui stiamo andando incontro. Di tutti i significati che una volta questi edifici erano soliti evo­ care, oggi forse è rimasto soltanto quello pittoresco. Così si giun­ gerà più facilmente e agevolmente a lasciarli andare in rovina, piuttosto che ricondurli, in un modo conforme ai nostri tempi, al loro significato originario. Spesso, scorgendo uno di questi mo­ nasteri silenziosi sul fondo della valle, o passando ai piedi di un colle dall’alto del quale un altro sorveglia, pensai tra me e me: vo­ glia a uno dei nostri prìncipi, una volta giunta l’ora fatale per tutti questi monumenti di un tempo antico, venire l’idea di conservare almeno uno o due di questi asili e di salvare i loro beni insieme alle costruzioni per poi, da ultimo, trasformarli in un luogo dedi­ cato alle arti e alle scienze. Il vero uomo spirituale10 non è forse quell’uomo che vive realmente nello spirito, e cioè lo studioso e l’artista? Il solo esercizio della devozione, imposto alla vita come un compito e non connesso a un’attiva e viva ricerca scientifica,

10 Nell’originale: der Geistliche. Nell’uso comune, il termine significa “religioso” nel senso del “chierico" e “uomo di Chiesa": l’uomo che coltivava lo spirito era infatti tradizionalmente identificato con l’uomo di Chiesa o con il monaco; il termine proprio per designare l*“uomo dello spirito", in quanto intellettuale laico, sarebbe invece der Geistige.

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conduce al vuoto e infine a quel meccanismo senza cuore né anima che già ai nostri tempi ha reso sospetta e invisa la vita mo­ nastica.11 In quei secoli in cui la conoscenza era scarsamente dif­ fusa e in cui i monaci erano gli unici depositari delle scienze e del sapere, erano essi i veri uomini spirituali, ma da quando il restante mondo si è ampliato fino ad affermarsi così potentemente sopra di loro, essi hanno via via perduto tale ruolo. Le scienze e la reli­ gione hanno un’unica meta ultima; i loro tempi più belli erano e sono quelli dove esse si trovano in armonia. Esistono persino paesi nei quali, con la Riforma, i monasteri sono stati trasformati in scuole: ma non intendevo parlare di questo.» «E allora di che cosa?» domandò il medico. «Volevo dire che là su quel colle si dovrebbe comporre la nuova grande poesia dei Tedeschi e che qui, in questa valle dovrebbe raccogliersi un’accademia platonica come quella di Cosentina. Qui, i cultori di ogni arte e scienza dovrebbero vivere una vita realmente spirituale, in armonia e liberi da ogni preoccupazione: essi non dovrebbero starsene rinchiusi nelle città, lontani dalla natura e prigionieri degli angusti rapporti sociali che vigono in esse. Lo spirito tedesco ama infatti la solitudine quanto la libertà. Qualsiasi convenzione lo opprime. A differenza degli eruditi e dei poeti addomesticati, che si lasciavano sedurre dalla cosiddetta società accettando dalle sue mani e dalle sue labbra tanto la lode e l’applauso, cibi della vanità, quanto i beni materiali per soddi­ sfare le loro esigenze terrene, lo spirito tedesco ama vagare libe­ ramente attraverso boschi, monti e valli, allevato e nutrito soltanto dalla natura. Esso non è dunque come un fiume regolare che, ben arginato, scorre soltanto lungo rive e attraverso paesi prestabiliti, ma è come l’acqua sotterranea, i cui percorsi segreti nessuno indaga e che, nonostante ciò, penetra in tutto e, dove vuole, tutto vivifica, e che, chiara e libera, irrompe dovunque, in­ curante se qualcuno incroci la sua strada per rinfrescarsi con essa, e rinforza e ristora colui che non teme i sentieri solitari della

11 Con il termine “vuoto”, Schelling si riferisce probabilmente al peccato della akeiiia che spesso riduceva la vita dei monaci alla noia e alla mestizia.

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lìpastore racconta

montagna, le rocce e le valli sperdute. Purtroppo, ogniqualvolta me lo immaginavo, ero costretto a dirmi che tutto questo sarebbe rimasto soltanto un sogno piacevole, poiché il destino dell’uomo tedesco sembra quello di non essere mai considerato e trattato secondo il suo carattere più intimo. Egli deve infatti sottomet­ tersi a norme estranee poiché coloro che sarebbero in grado di mutare le cose, raramente hanno il cuore per dimostrare carattere nelle loro azioni: che cosa direbbe infatti il vicino se per una volta si trattassero i Tedeschi come Tedeschi?»12 «Perciò» disse il medico «dobbiamo rallegrarci della fortunata condizione in cui ci è possibile vivere i nostri giorni, in continuo rapporto con la natura senza essere separati dal mondo. Ho visto i più stupendi monasteri della terra e spesso - per esempio a Montecassino, nella foresta di Camaldoli, oppure nei meravi­ gliosi monasteri del Meno e del Reno — mi ha colto il desiderio per la vita contemplativa che in questi luoghi sembra trascorrere in una quiete eterna. Ma ogni volta mi sono discostato da tali pensieri rendendomi conto di come questa forma di vita con­ duca lontano dalla natura e di come l’incomprensione e persino il disprezzo per essa siano la conseguenza di una tortura e di un supplizio autoimposti, e indotti da una legge che, severa, pesa su coloro che a lei si sono votati. Desidererei tuttavia che, tra tutti i possibili ordini monastici, uno soltanto venisse conser­ vato, che mi sembra possedere una necessità per la società umana: l’Ordine dei Certosini. Quanti uomini hanno trascorso, sottomessi alla regola dell’Ordine, una vita che diversamente, in ogni altro luogo, sarebbe stata insopportabile! Esso è il solo asilo per chi è autenticamente infelice, per coloro che debbono pentirsi di un’azione avventata cui furono trascinati dall’audacia giovanile o dall’influsso di cattive compagnie, oppure di uno sbandamento le cui conseguenze si rivelarono spaventose e ir-

11 Schelling si riferisce nuovamente alla Francia e in particolare alla reazione, nella maggior parte negativa e antifrancese, del popolo e degli intellettuali tedeschi che presto sfocerà nei vari movimenti nazionalisti i quali, nella Hocbromantik e soprattutto nella Spàtromantik, svolgono un ruolo significativo.

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rimediabili. Il mondo con il suo meccanismo, che afferra tutti coloro che non se ne distaccano, o che soltanto ne partecipano derivandone il loro destino, spezzerebbe il cuore a costoro. La stessa vita sarebbe per loro fonte di vergogna, se in questo mondo non li accogliesse un regno di quiete e di distacco simile a quello nel quale giungiamo dopo la morte, dove il dolore del­ l’irrevocabile si scioglie in dolce mestizia e nella consapevolezza universale che questa vita, per colui che l’ha superata, non con­ serva più nulla di desiderabile e che la sorte degli uomini mortali è triste più di ogni altra. In nessun luogo ho avuto incontri più interessanti che nei monasteri certosini, soprattutto in Francia, e in nessun altro luogo ho appreso a penetrare la vita umana e i suoi molteplici intrecci in modo più intimo. Quale rifugio, esclusa la tomba, rimarrebbe all’infelice che si è giocato la feli­ cità della vita a causa di una colpa non voluta13 se non gli aprisse le braccia questa caritatevole comunità, che sotto l’apparenza esteriore della durezza custodisce un proposito umano? E nella quale la vita scorre come senza tempo, e che nell’esistenza quieta delle piante, l’unica cosa cui i suoi adepti ancora partecipano at­ tivamente, gli mostra un modello permanente della tranquillità e del distacco? Anche riguardo alla mia arte ho imparato molto dai membri di questo Ordine, i quali, attraverso una lunga os­ servazione, dedicata in special modo alle piante, hanno pene­ trato i meravigliosi rapporti di esse con l’uomo.» «E vero» dissi. «Mi sono spesso meravigliato dei risultati che lei ha ottenuto con mezzi apparentemente inefficaci e umili, che sembravano privi di ogni rapporto con la gravità e il pericolo delle circostanze.» «Mezzi» soggiunse egli «che proprio per questo motivo non avrei mai potuto usare in una grande città, dove gli uomini sono a conoscenza dei preparati più dannosi e non hanno alcuna fi­ ducia nelle cose più semplici.»

n Ncllbriginalc: durch unvcnchuldete Schuld (letteralmente: “attraverso una colpa incol­ pevole").

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Ilfattore racconta

«È per questo» disse Clara «che lei avrebbe preferito il sog­ giorno in un piccolo borgo di campagna a quello in una grande città?» «Non soltanto per questo» rispose. «Colui che indaga la na­ tura appartiene alla campagna. Ho appreso più cose dalla fisica dei contadini che da quella dei professori. L’osservazione resta ciò che più conta. Quanto ci offre da osservare una sola lunga giornata estiva, la cui fine si crede di non poter reggere, vissuta all’aperto dall’alba fino all’assoluta quiete della notte! In quelle occasioni ho compiuto osservazioni sugli effetti universali della natura, sulla luce, il suono, il gioco dell’acqua sulla terra e tra le nuvole, sull’alternarsi delle forze naturali, sulla vita degli animali e, in particolare, su quella delle piante. Nessun professore avrebbe potuto comunicarmi tali esperienze. Chi non concepi­ sce la vita della natura nella sua totalità come un continuo, non impara a comprendere il suo linguaggio nemmeno nel partico­ lare e in ciò che è piccolo. Costui ignora in qual grado sia vero che il corpo umano altro non è che una minuscola natura al­ l’interno della natura più grande, con la quale ha incredibil­ mente tante analogie e tanti legami ai quali mai nessun uomo penserebbe se non glielo avessero insegnato l’osservazione e la pratica.»14 «Spesso inorridisco» disse Clara «di fronte a questi legami e di fronte al pensiero di come tutto si trovi in rapporto con l’uomo. Se non ci fosse in me un’altra potenza che tenesse testa a questo brivido suscitato dalla natura, morirei al pensiero di questa notte eterna e di questa Riga della luce, di questo essere eternamente in lotta e mai essente \dies ewìg ringende, nieseyende 5eyn]. Soltanto il pensiero di Dio riporta la luce e la pace nella nostra interiorità.»

14 Implicito riferimento non solo alla dottrina del coq>o umano come "micro-cosmo" in cui si rispecchia la natura dell'intero universo o “macro-cosmo", ma anche a una concezione organica della natura e del suo rapporto con l’uomo in polemica con il meccanicismo new­ toniano, molto difìùso in quegli anni in Germania.

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In quel medesimo istante le luci di una casa vicina, non di­ stante dall’abitazione della nostra amica, filtrarono nella car­ rozza che dopo pochi minuti si arrestò dolcemente.Therese salì insieme a Clara, mentre noi proseguimmo ciascuno per la pro­ pria strada verso casa.

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Dopo il suo ritorno, cominciammo a scoprire nella nostra amica un intenso e quasi costante desiderio di discorrere sugli oggetti dell’altro mondo. Gli avvenimenti di quell’epoca, che lasciavano prevedere un avvenire ancora più buio, congiunti alla particolare sofferenza in cui allora Clara si agitava, avevano strappato a que­ sta anima bella15 il carattere quieto che sempre le avevamo co­ nosciuto. Il dolore suscitato dal passato si trasformò in un’inesprimibile aspirazione verso il futuro. Al tempo stesso, v’era una sorta di violenza nel suo sforzo per oltrepassare la na­ tura e il reale. L’idea di forze naturali oscure e nascoste di cui ella si era già nutrita nella casa paterna, più tardi la compagnia di Albert che una passione per certe operazioni della natura aveva legato in amicizia col medico — e già da lungo tempo, come avevo sempre supposto - tutto ciò aveva dovuto riempirla del sentimento della presenza, nella natura, di una forza terri­ ficante e senza nome, verso la quale si sentiva tanto attirata da

” Nell'originale: die schòne Seele. Esanima bella" è una figura che ritorna più volte nella tra­ dizione filosofica occidentale. Già Plotino, nelle Enneadi, parlava della talepsyebecome del­ l’anima che ritorna in se stessa o è se stessa. Nel suo senso specifico l’espressione fu usata per la prima volta da Schiller: la schòne Seele incarna l'ideale di un’anima in cui la sensibilità c la legge morale appaiono conciliate; dall’armonia delle due sfere essa trac la sua “grazia” e quindi il suo equilibrio interiore. Goethe, nel Libro VI del Wilhelm Meister, intitolato Con­ fessione di un'anima bella, ribadisce sostanzialmente il concetto schilleriano. Infine, la figura della bellezza dell'anima è centrale in Novalis. Per una critica radicale di tale forma dell'in­ teriorità romantica, si vedano invece le pagine della Fenomenologia dello Spirito di Hegel (a cura di G. Garelli, Einaudi,Torino 2008, pp. 434-435).

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un piacere fremente quanto respinta. Non potemmo entrambi nasconderci il pericolo di questo stato e convenimmo di incon­ trarci il giorno seguente per cercare di dare ai suoi pensieri un corso più quieto, senza tuttavia contrastare troppo violente­ mente la sua inclinazione del momento. «Con quanta indifferenza» dissi tra l’altro «trattiamo spesso la conoscenza, come se in noi potesse aver posto un concetto che non agisca su di noi, che non abbia delle conseguenze sulla nostra vita. Come sono numerosi coloro per i quali una cono­ scenza in contraddizione con il loro stato morale si trasforma nel veleno che, agitando penosamente la massa d’impurità che è in loro, li trascina a eccessi di rabbia e a tremende esplosioni! Quanti altri ho visto consumarsi completamente nello sforzo di raggiungere una conoscenza per la quale non erano maturi! Forse ciascuna natura esige di avere una conoscenza forgiata a misura di sé e nella quale soltanto essa possa sentirsi bene.» «Credo» disse il medico «che la nostra amica stia vivendo un processo la cui conclusione salutare dipenderà dal modo bene­ fico in cui si saprà sostenere la crisi. Ciò che è accaduto ha in­ fetto una sorta di violenza alle idee che ella aveva fino a questo momento; numerosi sentimenti che sonnecchiavano inconsa­ pevoli in lei sono stati risvegliati; la concezione del mondo che ella aveva fino a questo momento non è più sufficiente al suo animo intimamente agitato; Clara non troverà pace finché non si creerà un mondo nuovo, adeguato all’intensità dei suoi senti­ menti. Ormai, però, non è possibile arrestare nulla arbitraria­ mente e bisogna soltanto confidare nella forza della sua natura.» Fu dunque questo il modo in cui noi ci rappresentammo il suo stato. Dopo la sua morte, tra le sue carte, fu trovata una prova che il pensiero della morte e delle cose future l’aveva colpita molto precocemente, ma con una calma e una serenità che nulla era an­ cora giunto a turbare. Un foglio scritto dalla tenera mano della giovane fanciulla, ahimè rimasto frammento, diceva così... [brano mancante nel manoscritto]

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Ecco tutto quello di cui disponiamo. Quando, nei giorni seguenti di quella meravigliosa estate che volgeva al termine, andammo a prenderla per una passeggiata all’aria aperta, Clara insistette per seguire un sentiero che cor­ reva attraverso una valle stretta tra due colline, fino a un punto in cui esso si biforcava in due sentieri di montagna, l’uno rivolto verso l’altura di sinistra, l’altro verso quella di destra. Come ci fùmmo incamminati, ella disse: «Qui, in questa piccola valle familiare, mi sento meglio. L’au­ tunno non ha ancora potuto rubarle molto. Più di altri luoghi, essa trattiene il calore del sole tanto da crearci l’illusione di es­ sere ancora nella bella stagione. Qui si effonde ancora il pro­ fumo del timo che rafforza la memoria; già da tempo sul prato ondeggia il colchico16 il cui tenero azzurro evoca il pallido colore del ricordo nel quale alla fine tutto si disperde. Si suol dire che sia una pianta velenosa. Ovunque le cose stanno finendo così e ciò che la natura possedeva al suo inizio deve anche mostrarsi al suo termine. Anch’essa sembra recare in sé un veleno segreto che la divora: ma perché mai lo reca ai suoi figli, perché ne siano così anch’essi divorati?». «Il suo lamento mi sembra ingiusto» disse allora il medico. «La natura stessa, secondo la sua opinione, soffre di un veleno nascosto che essa vorrebbe eliminare o rigettare senza tuttavia riuscirci. Non partecipa forse anch’essa al nostro lutto? Noi pos­ siamo lamentarci, ma la natura soffre in silenzio e può parlarci solo attraverso segni e gesti. Quale silenziosa melanconia per­ vade molti fiori nella rugiada del mattino e nell’impallidire dei colori verso sera!17 Le manifestazioni in cui si mostra terribile

16 Nell’originale: die Zeitlose (letteralmente: “latcmporale"),espressione tedesca per designare il “colchico", genere di piante appartenenti alla famiglia delle Liliaccc che crescono nei prati c nei monti; la specie più importante è il “colchico d’autunno", il cui bulbo scccrnc un succo velenoso adoperato in medicina come antigottoso. 17 Si veda quanto Schelling scrive nelle Lezioni di Stoccarda del 1810: «Ciò che vi è di più oscuro e quindi di più profondo nella natura umana è la nostalgia (Sehnsucht), che è, per così dire, la fòrza di gravità interiore dell’animo (die innere Schwerkraft dei Gemuti), e che

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sono rare e sempre passeggere. Tutto ritorna subito nei limiti abituali e, nella sua vita ordinaria, essa appare sempre come una forza piegata che infine ci commuove per la bellezza cui, in que­ sto stato, dà vita.» «E vero» disse lei. «Io trovo per esempio una dolce sofferenza nel profumo di alcuni fiori e ogni volta penso che la causa di questo loro profumo sia una sofferenza, identica alla mia, che li pervade.» «Anche secondo me» dissi allora «l’intera essenza della natura sembra testimoniare che non si è subordinata di buon grado al suo stato e che ancora aspira a venire redenta dalla caducità. Il fatto stesso che nulla perdura, la necessità interiore, tanto più orribile quanto più è silenziosa, secondo la quale tutto viene in­ fine distrutto, proprio questo è quanto di più angosciante ve nella natura. Da dove viene questa potenza universale e inesau­ ribile della morte? I filosofi possono forse dire: non esiste la morte, in sé nulla perisce; in questo modo, però, essi presuppon­ gono una spiegazione arbitraria e della morte e della caducità. Ma ciò che noi, altri uomini, chiamiamo morte non viene per questo meno né tanto meno si lascia dissolvere o spiegare con parole.» «Questo» disse il medico «è pur sempre un cattivo espediente. E tuttavia la terribile realtà della morte non dà il diritto all’uomo di accusare la natura; ch’egli accusi piuttosto se stesso!» «Quale idea!» esclamò allora Clara. «Un’idea» le rispose il medico «che spero di renderle chiara se vorrà rispondere a qualche domanda.» «Molto volentieri» disse lei. «E dunque» domandò il medico «che cosa intende con il sem-

perciò nella sua manifestazione più profonda è malinconia (Sclnvermut). È in particolare per mezzo di essa che viene mediata la simpatia dell’uomo con la natura. Anche ciò che vi c di più profondo nella natura è malinconia: anchessa s’attrista per un bene perduto [...]» (F.W.J. Schelling, Lezioni di Stoccarda, in Id., Scritti milafilosofia, la religione, la libertà, a cura di L. Pareyson, Mursia, Milano 1990, pp. 177-178; cfr. inoltre \à.. Ricerchefilosofiche sull'essenza della libertà umana, cit.).

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plice concetto di natura? Una forza essenzialmente produttiva?» «Senza dubbio» disse Clara. «Quindi una forza che secondo la sua essenza tende solamente a produrre?» «Certamente» rispose. «E che, di conseguenza, non può mai tendere alla distruzione?» «Perché no?» replicò lei. «Mi sembra infatti che la stessa forza che produce sia anche quella che distrugge.» «Io domandavo» rispose allora egli «se quella forza potesse giungere alla distruzione a partire da se medesima, perché questo è ciò che ritengo impossibile. Essa piuttosto, finché sarà libera e senza freno, soddisferà incessantemente il puro piacere di pro­ durre. Ma se si scontrasse con una materia che le opponesse re­ sistenza, che si lasciasse plasmare solo fino a un certo punto, che dunque limitasse il suo piacere di produrre, essa l’abbandonerebbe o addirittura la distruggerebbe intenzionalmente, soltanto per gioire sempre di nuovo del piacere di creare, pur sapendo che in ogni nuova creatura essa ritornerà al medesimo punto.» «E possibile pensare la cosa in questo modo» disse Clara. «Allora, in tal caso,» proseguì lui «la ragione per cui la forza che produce diverrebbe una forza che distrugge, e dunque anche la ragione della distruzione, non si troverebbe nella forza pro­ duttrice stessa, ma in qualcosa di estraneo, che si è introdotto in essa e che la frena e la limita.» «Indubbiamente» disse lei. «In questo modo» riprese il medico «la natura sarebbe in sé innocente e non avrebbe alcuna colpa della distruzione.» «Così sembra» disse Clara. «E dunque» continuò lui «in che modo Dio, considerato per sé e secondo la sua natura, potrebbe essere roriginario creatore della morte? Non è piuttosto necessario affermare che Dio, ben più profondamente della natura stessa, trova il suo piacere nel creare e non neU’annientare, nel formare e non nel distruggere?» «Ciò è innegabile» disse lei. «Ma che cosa resta al di fuori di Dio e della natura?» do­ mandò lui. 33

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«Vedo chiaramente dove vuole arrivare» disse Clara. «A ciò che si trova tra Dio e la natura: all’uomo. Lei però sa bene che tali argomentazioni non mi soddisferanno mai. Ciò che io non vedo accadere e svilupparsi qui, di fronte ai miei occhi, non ha per me alcun senso.» «Bene,» disse lui «le porrò ancora due domande e poi proce­ derò narrandovi una storia. Non opponiamo forse alla natura il mondo degli spiriti?» Clara assentì. «E non ci è forse possibile considerare l’uomo come il punto di unificazione e di passaggio tra i due mondi?» Anche su questo Clara fu d’accordo. «Così, non dovremmo forse credere che sia per destinazione divina che la natura si elevi dapprima fino all’uomo per trovare in lui il punto di unione tra i due mondi, e che in seguito, attra­ verso l’uomo, si attui un passaggio immediato di un mondo nell’altro, per cui la crescita del mondo esteriore prosegue senza interruzione nel mondo interiore o mondo degli spiriti? Certa­ mente avviene un passaggio anche ora, quando ciascuna cosa, o almeno l’uomo, morendo, passa nel mondo degli spiriti. Questo passaggio, però, si compie solo mediatamente, attraverso la morte, e dunque con una rottura completa con la natura, di modo che né di questa vita, né di quell’altra si può dire che formi un tutto, ma solo parti della totalità indivisa della vita. Allora, secondo la mia opinione, non ci sarebbe stata morte alcuna. Già qui l’uomo avrebbe vissuto contemporaneamente una vita spi­ rituale e corporea; l’intera natura, in lui e con lui, si sarebbe ele­ vata al cielo ovvero alla vita eterna che non perisce. Dio non voleva un legame morto e necessario, ma libero e vivente, tra i due mondi (interiore ed esteriore), e l’uomo recava il verbo di questa relazione nel suo cuore e sulle sue labbra. «Dalla libertà dell’uomo dipendeva anche l’elevazione dell’in­ tera natura.Tutto era rimesso alla possibilità che l’uomo dimen­ ticasse quel che era dietro di lui, cogliendo ciò che gli stava innanzi. L’uomo però tornò a voltarsi indietro (e come ciò sia accaduto, come Dio l’abbia permesso, questo non è ora il mio 34

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problema) e, di più, tornò a desiderare e ad avere nostalgia del ritorno in questo mondo esteriore, fino a perdere in tal modo il mondo celeste, arrestando non soltanto il proprio sviluppo, ma anche quello dell’intera natura. «Chi ha visto con i propri occhi quali terribili conseguenze abbia sul corpo umano uno sviluppo bloccato che, tuttavia, la natura reclama con forza, oppure come nel corso di una ma­ lattia la crisi arrestata da un intervento maldestro, o resa im­ possibile da una prostrazione presente fin dall’inizio, provochi la caduta di tutte le forze in una debolezza mortale, causando inevitabilmente la morte, costui potrà formarsi una qualche idea delle rovine e della devastazione che l’uomo, imponendo bruscamente un ostacolo alla sua evoluzione, ha fatto subire alla natura intera. «Le forze che si erano sollevate pienamente e potentemente, pronte a elevarsi al mondo superiore e a raggiungere il punto della loro trasfigurazione, ricaddero nel mondo che le circon­ dava, soffocando così l’impulso di vita interno che certamente agisce ancora come un fuoco covante, ma che, resasi impossibile ogni sua autentica elevazione, è solo un fuoco di tormento e di angoscia, che da ogni lato ricerca uno sfogo. Ciascun grado che conduce verso l’alto è pregno di gioia, ma il medesimo, raggiunto precipitando, è tremendo. Non è forse tutto una testimonianza di una vita decaduta? Sono forse sorte queste montagne tali quali si trovano qui? Lo stesso suolo che ci sostiene si è formato attra­ verso un’elevazione o piuttosto dopo uno sprofondamento? E tutto ciò, per di più, non è opera di un ordine stabile e costante poiché in esso, una volta ostacolate le leggi proprie dello svi­ luppo, ha fatto irruzione anche il caso. O forse qualcuno crederà che i diluvi - la cui azione universale si rivela con tanta evidenza - che hanno scavato queste valli e abbandonato dietro di sé nelle nostre montagne così numerose creature marine, che i diluvi, di­ cevo, abbiano causato tutto ciò secondo una legge interiore? Am­ metterà forse qualcuno che una mano divina abbia posato quegli enormi massi rocciosi sopra l’argilla friabile per poi farli precipi­ tare nel vuoto, tramutando le pacifiche valli, disseminate di abi35

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tazioni umane, in tremendi campi di rovine e seppellendo nel mezzo del loro cammino i gioiosi viandanti? «Non quelle macerie di un antico splendore dell’uomo, alla ricerca delle quali il curioso esploratore si spinge nel deserto della Persia e nelle solitudini dell’india, sono le vere rovine. La terra intera è una grande rovina, dove gli animali soggiornano come fantasmi, gli uomini come spettri, e dove mille forze e te­ sori giacciono nascosti, come imprigionati da potenze invisibili, come incantati da un mago. E sono forse queste le forze represse che vorremmo accusare, invece di pensare per prima cosa a li­ berarle dentro di noi? «Certo, a suo modo, l’uomo non è meno stregato e incantato. Per questo, il cielo inviava di tanto in tanto degli esseri superiori che, con canti meravigliosi e parole magiche, scioglievano l’in­ cantesimo nell’interiorità dell’uomo per aprirgli nuovamente lo sguardo verso il mondo superiore. Ma, per lo più, gli uomini sono completamente prigionieri di quel che il loro sguardo vede nel­ l’esteriore, nel quale credono di trovare ogni cosa. Come contadini che strisciano attorno a un vecchio castello diroccato o incantato con la loro bacchetta da rabdomante nella mano, o che illuminano con le loro candele le camere sotterranee crollate, servendosi al contempo di grimaldelli e leve, nella speranza di trovare oro e altri oggetti preziosi, così l’uomo si aggira attorno alla natura, penetra in qualcuna delle sue stanze segrete, e chiama tutto ciò “scienze naturali”. I tesori però non sono soltanto ricoperti di macerie, ma un incantesimo, che solo urialtra parola magica può sciogliere, li ha incatenati nelle rovine e nella pietra stessa.»*18

* Nota a margine di Schelling: «Un mondo totalmente diverso da come crediamo e sepolto colà. Odissea dello spirito». ’* Si veda quanto Schelling scrive in Filosofìa e religione (1804): «La storia è un epos com­ posto nello spirito di Dio; le sue parti principali sono due: la prima descrive l’uscita del-

l’umanità dal suo centro fino al massimo allontanamento da esso, e la seconda descrive il ritorno. La prima è per cosi dire l'Iliade, la seconda l’Odissea della storia. Nella prima Ibrien-

tamento era centrifugo, nella seconda diventa centripeto» (F.WJ. Schelling, Filosofia e re­ ligione, in Id., Scritti sullafilosofia, la religione, la libertà, ci t., p. 67).

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Ascoltando questo discorso, giungemmo al punto in cui il sen­ tiero finiva. Clara sembrava stanca e si sedette sulla panchina di pietra che un abile tagliapietre aveva posto in quel luogo serven­ dosi dei blocchi di roccia delle vicine cave. Fino a quel momento il sole si era mantenuto alle nostre spalle, ma quando ci vol­ tammo si trovava già di lato rispetto all’apertura della piccola valle; così, mentre uno dei versanti era in ombra, l’altro, forte­ mente illuminato, ci colpiva tanto di più con le sue informi masse rocciose sulle quali spuntavano in gran numero fitti cespugli dalle foglie autunnali rosse e gialle. Dai meli, che a partire dalla pan­ china e lungo tutta la ripida altura formavano quasi un bosco, i soffi della brezza staccavano qua e là una foglia appassita depo­ sitandola sul grembo o sui capelli di Clara. Ella non sembrava curarsene e io cominciai a ricordarla, nella primavera dell’anno passato, seduta in modo tanto diverso sotto questi stessi alberi che stendevano su di lei i loro fiori. Il medico, salito nel frat­ tempo sul ciglio per cercare qualche bacca, che solo dal freddo e dalla rugiada delle notti autunnali riceve un po’ di dolcezza, ri­ tornò in quel momento. Clara si voltò verso di lui e disse: «Lei mi ha illuminata. Come desideravo. Avevo già da tempo supposto un rapporto magico tra l’uomo e la natura. Se gli occhi di tutte le creature sono rivolti verso l’uomo, è perché tutto è stato concepito in sua funzione. Tutto sembra accusarlo attra­ verso sospiri silenziosi, oppure si avventa su di lui come verso il nemico universale. E a buon diritto che tutte le frecce della na­ tura sono dirette contro di lui. E a buon diritto che il terribile e gelido vento del nord infuria qui contro di lui, mentre là, nel meridione, si alza il vento avvelenato del deserto che consuma le sue forze vitali. E a buon diritto che le sue case crollano sopra di lui, quando la terra trema, scossa dalla forza del fuoco che cova rinchiusa in essa; è a buon diritto che la corrente di lava erompe devastando con i suoi massi selvaggi le faticose opere del suo zelo. La forza che nell’animale era pronta a crescere si è trasformata, da quando fu risospinta nell’interiore, in rabbia di­ vorante e veleno, ed è infine a buon diritto che essa si scaglia soprattutto contro l’uomo». 37

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«Ma pensi anche» disse il medico, interrompendola «alle nu­ merose forze della natura quiete e benefiche. La natura non ha ancora dimenticato che attraverso l’uomo si compirà la sua ele­ vazione e sarà liberata, che in lui si trova ancora oggi il talismano attraverso cui essa dovrà essere redenta. Perciò, quando l’uomo sparge i semi nella terra e quando addolcisce e ingrassa il terreno duro e selvaggio, la natura mostra all’uomo la sua gratitudine e lo ricompensa con una pienezza sovrabbondante. Mi sembra dunque che il suo più profondo sentimento verso l’uomo sia l’amicizia e spesso la pietà.» «E tuttavia» intervenne Clara «la natura resta spesso impas­ sibile di fronte agli spettacoli di pena e di disperazione. Qui giace prostrata una povera creatura spossata dalla febbre bru­ ciante, che implora di essere rinfrescata e alleviata da un soffio d’aria fresca; ma il sole, implacabile, scaglia i suoi raggi più forti che, diffondendosi, trasformano l’aria e la terra in una soffocante fornace. Là, un esule abbandona la dimora dove una donna e i suoi bambini lo rimpiangono disperatamente, mentre il cielo scatena la bufera, e pioggia, neve e grandine feriscono il capo nudo del misero proscritto.» «Proprio in questo momento» disse il medico interrompen­ dola nuovamente «l’infelice troverà la natura in accordo con sé, più di quando essa lo lusinga con un vento calmo e con un bel raggio di sole. Allo stesso modo potrebbe però ingannarsi quell’uomo che pensasse che la natura gli sorride proprio il giorno in cui egli è felice. Infatti, nel suo corso rivolto all’univer­ sale, la natura può forse prendere parte solo raramente al destino e all’umore del singolo individuo. Inoltre, senza i movimenti si­ multanei della natura universale, non si è forse nemmeno mai prodotto alcun grande cambiamento nella vita di interi popoli. Tutti i libri di storia sono pieni di tali eventi e molti segni nel cielo, nell’aria e sulla terra hanno preceduto con la loro appari­ zione le epoche fatali. Tutto ci parla e vorrebbe farsi compren­ dere da noi. Molte sono le cose che testimoniano la loro benevolenza verso l’uomo e, per poco che egli presti loro ascolto, esse manifestano la volontà di annunciargli il suo avvenire. A 38

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questo proposito potrei riportare molte osservazioni probabil mente incredibili.» «E fin troppo vero» replicò lei. «Tutto si rivolge all’uomo con ostilità o con amicizia; ogni cosa non fa che cercare l’uomo e aspira a impadronirsi di lui. Ecco perché egli non sa resistere al fascino magico dell’oro, alle seduzioni dell’universo e all’in­ canto della bellezza terrena. Nulla lo lascia indifferente e tutto lo emoziona.» «Infatti è lui che dovrebbe muovere tutto» disse allora il me­ dico «e tuttavia non prende coscienza della sua forza interiore grazie alla quale potrebbe dominare su tutto ed essere libero. Il languore e l’inerzia sono i peggiori nemici dell’uomo e una con­ seguenza della prima caduta. Chi non possiede se stesso diviene in breve schiavo di una cosa estranea. Chi non vuole avanzare regredisce. In che cosa consiste, ancora oggi, il male, se non in un cammino regressivo della natura umana che, invece di volersi elevare alla sua propria essenza, si mantiene costantemente, cer­ cando di realizzarlo, in ciò che dovrebbe essere soltanto la con­ dizione della sua attività, il silenzioso e passivo fondamento della sua vita? Da dove deriva la malattia se non da un’inerzia nello sviluppo, se non dal fatto che la forza singola rifiuta di procedere con il Tutto, di spegnersi nel Tutto, e al contrario vuole ostinatamente essere per sé? Noi dovremmo dunque, prima di ogni altra cosa, lottare contro questo stato in noi stessi. L’uomo che si muove non è perduto. Dio aiuta colui che agisce e gli perdona molte cose. E incredibile quanto ci sia di positivo nel semplice fatto di essere attivi in sé e per sé.» «Conosco questa forza dell’interiorità» disse allora Clara, al­ zandosi per prendere la via del ritorno «e so per esperienza che essa può elevarci al di sopra di tutte le cose esteriori; ma so anche in quale contraddizione con il mondo esteriore possa precipitare, ancora prima di rendersene conto, la migliore delle interiorità.» «Anche ciò» disse il medico «è una conseguenza necessaria della prima regressione. Dopo che il mondo venne fissato una volta per tutte come esteriore, ogni realtà più alta e divina può certo elevarsi da esso così come il fiore spunta dalla terra; ma 39

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tale realtà, in questo modo, resterà qualcosa di estraneo al mondo, che si limiterà a sostenerla, senza tuttavia poterla acco­ gliere in sé. La legge dominante mira soltanto a conservare que­ sto sostrato e questa base; rispetto a tale legge ogni altra realtà è e deve essere contingente.» «È innanzitutto per questo motivo, ancor prima che per ogni altro, che di fronte a questa legge l’uomo è una realtà contin­ gente» disse lei. «La più sacra necessità del mio essere intimo non è una legge per la natura. La stessa necessità divina acquista in essa il colore e l’apparenza del caso, e ciò che all’inizio era meramente accidentale agisce in seguito, una volta presente, con la violenza irresistibile di una tremenda necessità. Fosse almeno possibile mantenere il nostro essere interiore libero da questa contraddizione! Ma è proprio qui che essa mostra la sua forza più grande. Ci costringe a diffidare dei più dolci sentimenti del nostro cuore, poiché noi siamo esseri che non amano impune­ mente; di più, la legge del nostro essere intimo potrà esigere da noi delle azioni che ogni cuore sensibile dovrebbe aborrire ed esecrare. Già in quel che vi è di più semplice, di primario e di innegabile, trovo prove sufficienti per confermare la mia im­ pressione: ciò che è orribile non soltanto si produce e si pro­ durrà, ma deve prodursi.» «Dobbiamo ammetterlo senza riserve» disse il medico. «Non serve a nulla distogliere lo sguardo, chiudere gli occhi per non vedere questo stato di cose. Umanamente, possiamo lamentarci del declino di quanto di più bello e di più dolce vi è nel mondo; nello stesso tempo, tuttavia, dovremmo considerare ciascuno di questi casi con una sorta di gioia silenziosa, perché in essi è con­ tenuta una conferma del punto di vista a partire dal quale dob­ biamo comprendere questo mondo e perché essi costituiscono il rinvio più immediato a un mondo diverso e più alto. Quanto più felici sarebbero molti uomini, e quanti vani desideri si dis­ solverebbero, quanto sarebbe più facile sopportare e abbando­ nare la vita, se tutti tenessero incessantemente presente che tutto ciò che è divino è qui solo un’apparizione, non una realtà, e che la stessa realtà più spirituale non è libera, ma si manifesta sol40

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tanto a certe condizioni, che può essere fiore, qua e là anche frutto, ma giammai tronco e radice!» «Questo è quel che dicono tutti, o almeno la maggior parte» disse allora Clara. «Senza dubbio lo affermano» replicò lui «e tuttavia pensano che la cosa potrebbe essere altrimenti e perciò accusano l’uomo al quale, per questa ragione, vorrebbero negare ogni rapporto con la natura. Partendo da tale presupposto, poi, commettono errori sia nei loro sistemi e nelle loro opinioni sia nelle loro dot­ trine morali. Cominciano da ciò che vi è di più universale e spi­ rituale e per questa ragione non riescono mai a discendere nel particolare e nella realtà. Si vergognano di prendere le mosse dalla terra, di salire attraverso le creature come lungo una scala traendo i pensieri sovrasensibili in primo luogo dalla terra, dal fuoco, dall’acqua e dall’aria; per questo anche i loro sforzi non conducono a nulla, e le loro reti di pensieri sono piante senza radici e non poggiano su nulla; i grovigli della ragnatela per lo meno sono appesi ai cespugli o sui muri, invece le loro reti di pensieri galleggiano, come questi fili delicati di fronte a noi, nell’azzurro dell’aria. E tuttavia, essi pensano con ciò di raffor­ zare l’uomo, di potere al contempo risollevare la loro epoca, che invece soffre precisamente di una situazione in cui, mentre una parte è completamente affondata nel fango, l’altra parte, innal­ zandosi oltre misura, si è smarrita a tal punto da non poter più trovare il terreno sotto i piedi. Se noi vogliamo che già in questo mondo tutto sia spirituale, che cosa ci resta per il mondo futuro? Mi sembra che in passato gli uomini abbiano avuto idee diverse e molto più determinate sull’altra vita. In quei tempi essi si mantenevano ancora in questa vita poggiando solidamente sulla terra con tutta la mole delle loro ossa. Solo chi ha conosciuto fino in fondo il suo contrario, può fissare in volto lo spirituale; allo stesso modo, può dirsi realmente libero solo chi conosce il necessario e le condizioni alle quali gli è possibile agire. Così l’uomo deve divenire maturo per la libertà; anch’essa, in questo mondo, si eleva dalla notte della necessità, ed è soltanto nella sua apparizione finale che irrompe come inesplicabile, divina, 41

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come un lampo d’eternità che squarcia le tenebre del mondo; nel momento stesso della sua realizzazione, però, l’oscurità di nuovo la inghiotte.»19 «Spesso ho pensato» disse allora Clara «che la visione della libertà, non di quella che è solo un nome, ma della vera e au­ tentica libertà, dovrebbe essere insopportabile agli uomini, che tuttavia hanno costantemente questa parola sulle labbra facen­ dosene un gran vanto. Essi si appagano così volentieri nel de­ terminare secondo delle ragioni o dei principi le loro azioni e, in seguito, immaginano che tale schiavitù del loro cuore sia la libertà. Ora, non so se m’inganno, ma questa specie di libertà mi appare, tra tutte, come la più subordinata. Una mia amica soleva dire: “La libertà è il cielo”; se però la libertà fosse vera­ mente il cielo, allora dovrebbe anche essere una libertà totale, illimitata e divina.» «Concordo pienamente con la sua opinione» disse il medico. «La maggior parte degli uomini teme la libertà, come teme la magia e tutto quanto è inesplicabile, in particolar modo il mondo degli spiriti. La libertà è la vera e propria apparizione degli spiriti; il suo apparire costringe gli uomini a prostrarsi di fronte a essa; il mondo stesso le si inchina. Ma quanto poco l’uomo sa servirsi di questo dolce segreto! Ecco perché spesso vediamo diventare folli coloro che si sono trovati nella condi­ zione di esercitare questo diritto degli dèi: afferrati dalla follia dell’arbitrio, cercano di affermare la libertà con azioni alle quali manca ogni impronta di necessità interiore e che per tale motivo sono le più contingenti. La necessità è l’intimo della libertà. E per questo che non si può dare ragione dell’azione veramente libera: essa è così perché è così, puramente e semplicemente, è incondizionata e perciò necessaria. Ma, in quanto tale, la libertà non è di questo mondo. Infatti, coloro che si occupano del mondo possono esercitarla solo raramente o addirittura mai.

” Si veda nuovamente EWJ. Schelling, Ricerche filosofiche sull'essenza della libertà umana, dt.

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Costoro dovranno consacrarsi all’arte piuttosto che alla libertà* nel regno esclusivo dell’esteriore, ciò che vi è di più interiore - e tanto più quanto più è interiore - deve assumere l’aspetto dell’esteriore, di una apparente subordinazione all’esteriore per poter essere tollerato. Così sembra abbia voluto Dio, perché, dapprima, tutto divenisse il più possibile esteriore e la vita in­ teriore si manifestasse combattendo attraverso la lotta più dura e le resistenze più tenaci. Quanto più riconosceremo la limita­ tezza di questo mondo, tanto più ci diverrà sacra qualsiasi appari­ zione in esso di un mondo più alto e migliore. Non solleciteremo mai tali manifestazioni con la violenza, ma là dove esse si ma­ nifestino da sé, là dove troveremo un cuore che rechi il cielo in sé, un’anima che sia un quieto tempio dove il cielo si rivela, un’azione o un’opera in cui l’esteriore e l’interiore si mostrino riconciliati come da una divina dolcezza, qui noi le afferreremo con un impeto pieno d’amore, le considereremo sacre onoran­ dole come segni di un mondo in cui l’esteriore è subordinato all’interiore, quanto in questo mondo l’interiore è sottomesso all’esteriore.» «Oh!» esclamò Clara, voltandosi ancora una volta verso il sole che tramontava «rivolgiamo il nostro sguardo a queste regioni! In questo istante, l’alto e sacro regno degli spiriti mi è più vicino della natura, del mondo e della vita stessa!» Così varcammo in silenzio la porta della cittadina e accom­ pagnammo Clara attraverso una stretta via fino all’altra porta, nei pressi della quale si trovava la sua casa.

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Le giornate diventavano rapidamente uggiose e tetre e non ci permettevano più di passeggiare all’aria aperta. Osservando la nostra amica, vedevo chiaramente che il me­ desimo problema non cessava di preoccuparla. Un meraviglioso fervore del sentimento, che poteva giungere fino all’intuizione, traspariva in qualche suo discorso isolato; le mancava tuttavia la capacità di chiarire le sue intuizioni dispie­ gandole completamente. Conosco gli effetti benefici che pro­ duce la capacità di ordinare con precisione i rapporti dei nostri pensieri tra loro; è infatti un bene per l’anima poter contemplare esteriormente e in modo ordinato nell’intelletto, come in uno specchio, quello che essa ha percepito interiormente come sotto l’influsso di una ispirazione o per una sorta di intuizione divina. Gli animi fervidi temono questo processo che pare loro una per­ dita e una fuoriuscita da se stessi, e bramano sempre di far ri­ torno nella loro propria profondità per gioire incessantemente della felicità di trovarsi nel punto centrale e focale. Decisi così di fare al più presto qualcosa contro questa ten­ denza della nostra amica, cercando di cogliere la prima occasione; ero persuaso che, una volta deciso di riflettere tutto nell’intelletto, si considera ogni cosa più magnifica e più meravigliosa ancora di come si credeva di averla trovata nell’intuizione. Nel frattempo, però, fu lei stessa a prevenire il mio desiderio. Era la sera di Natale. Clara aveva invitato i miei bambini per rallegrarli con qualche sorpresa e per sostituirsi in quel giorno alla loro madre perduta. 44

Dialoghi nella sera di Natale

Durante tutta la serata, vi fu in Clara una sorta di trasfigu­ razione, una serenità indescrivibile che da molto tempo non avevamo più ravvisato in lei. Dopo che le prime grida di gioia dei piccoli si furono spente e dopo che le mie figlie più grandi - l’una con le poesie che da tanto tempo desiderava, l’altra con il libro di figure che le era stato donato - si furono sedute da parte, Clara si ritirò in fondo alla stanza e, come noi ci acco­ stammo a lei, cominciò a parlare: «La vista di questi fanciulli ben educati risveglia in me e in lei l’immagine della madre che io non ho conosciuto e insieme mi reca la chiara certezza che ella è, che ella vive e prende parte alla nostra gioia. Mi sembra infatti che questo giorno ci riavvi­ cini ai defunti; non è forse vero che, una volta, questo giorno ha nuovamente riunito la terra e il cielo?».20 «Certamente» dissi. «Ed è per questo che gli angeli festeg­ giarono la nascita rendendo gloria a Dio nell’alto dei cieli e pro­ clamando la pace in terra; perché in quel giorno l’alto si è ricongiunto al basso e la catena per lungo tempo spezzata è stata nuovamente ricongiunta.» «In istanti come questi» proseguì lei «la mia convinzione non ha bisogno di ragioni; io vedo tutte le cose come se fossero pre­ senti; è come se la vita degli spiriti già mi avvolgesse e mi com­ penetrasse, come se camminassi ancora sulla terra, ma fossi un essere del tutto differente, senza dolori né bisogni, sorretto da un elemento dolce e tenero. Perché non ci è possibile fermare questi istanti?» «Forse» risposi «quest’intensità del sentire e del fervore non si concilia con la limitatezza di questa vita, il cui specifico ca­ rattere sembra essere quello di non poter conoscere nulla se non separatamente e in modo frammentario. E certamente» ag­ giunsi «quando lei si trova in tale stato, tutto il suo essere le sembrerà concentrarsi come in un punto cruciale e non essere altro che luce e fiamma.»

20 Evidente allusione all’evento dell’Incarnazione.

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«Questa, esattamente, è la mia impressione» disse lei. «Quando poi abbandona questo stato, si sente forse infelice?» «In ogni caso molto meno felice» rispose. «E non può evitare di abbandonarlo?» aggiunsi. Clara disse che ciò le accadeva indipendentemente dalla sua volontà. «Ci deve dunque essere» dissi «una necessità nell’alternarsi di tali stati come in ogni altro mutamento di questa specie. L’in­ tuizione centrale, che ci inonda col sentimento della più alta gioia, non sembra adeguata alla sobrietà della vita presente; dob­ biamo considerarla un dono straordinario, senza tuttavia disde­ gnare lo stato ordinario.» «Ma con che cosa» disse lei allora «dobbiamo riempire il vuoto che avvertiamo quando lo paragoniamo a quel primo stato?» «Con l’attività» risposi «o più propriamente cercando di ot­ tenere anche per questo stato ordinario i beni di quello supe­ riore.» «E come è possibile?» domandò lei. «E possibile» dissi «porre nuovamente di fronte a noi, in modo diviso, proprio ciò di cui abbiamo avuto un’intuizione im­ mediata in modo, per così dire, indiviso; e dunque, da una co­ noscenza che in ciascuna delle sue parti appare come un qualcosa di disperso, è infine possibile riprodurre un tutto simile a quello che noi avevamo allora intuito e del quale possiamo tuttavia ugualmente gioire quando la felicità della contempla­ zione ci è sottratta. Ed è precisamente questo dispiegarsi della conoscenza, il quale costituisce la sua elevazione a scienza, che mi sembra essere la determinazione spirituale più propria del­ l’uomo in questa vita.» «Di fronte alla scienza» disse lei «ho sempre avvertito il ri­ spetto che una persona prova per una cosa che le è personal­ mente negata e della quale scorge tuttavia i meravigliosi risultati. Sa bene con quale fiducia mi sia sempre rivolta a lei come a un uomo di scienza il cui consiglio intelligente - ne ero convinta non mi sarebbe mai mancato. Una certa sicurezza, affidabilità e costanza mi sembrano poter sussistere solo attraverso la scienza. 46

Dialoghi nella sera di Natale

La mia stima sarebbe tuttavia doppia se la scienza avesse la forza prodigiosa di conservare la felicità dello stato contemplativo.» «In verità io sostengo che la scienza non è in grado di farlo» replicai. «La scienza dona una sensazione diversa, più quieta, più misurata e più duratura; e tuttavia ho anche detto che la co­ noscenza, che nell’intuizione spirituale è soltanto transitoria, sebbene si mostri all’anima con la più grande chiarezza e come una realtà ineffabile, viene conservata dalla scienza come un fe­ dele ricordo, e che è solo questo che la rende nostra nel vero senso della parola.» «E con quali mezzi» domandò nuovamente lei «giunge a con­ servarla?» «Attraverso concetti chiari,» risposi «grazie ai quali divide e separa ciò che noi abbiamo conosciuto in modo indivisibile, per poi ricondurlo dalla separazione all’unità.» «Dunque una separazione deve pur sempre aver luogo?» chiese. «Certamente» risposi «e consideri lei stessa quanto ci è ne­ cessaria per assicurarci questa conoscenza immediata come un bene duraturo. Sarebbe insensato voler soccorrere la certezza immediata di una vita dopo la morte, che lei assicura di avere in sé, servendosi ancora delle prove, che producono sempre e soltanto una conoscenza meramente mediata. Ma non affer­ mava lei una volta di esigere l’immortalità per l’uomo intero?» «Lo affermavo» rispose. «In questo caso è dunque necessario distinguere con chiarezza le parti da cui è costituito l’intero uomo e porle, per così dire, di fronte a noi per sapere che cosa si debba intendere con l’espressione “Tutto l’uomo”: non vuole per una volta tentare di stabilire insieme a me queste distinzioni?» Clara acconsentì. «Dunque» dissi «nell’uomo intero lei comprende anche il corpo?» «Senza dubbio» rispose. «E insieme al corpo, anche lo spirito?» «Sì» ribattè. 47

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«E lei pensa che questo sia una stessa e identica cosa con il corpo, oppure che sia diverso da esso o persino opposto?» «Opposto» rispose. «Ma in che modo, secondo lei, queste due cose opposte si possono unire in un medesimo Tutto?» «Mi sembra che ciò sia possibile solo grazie a un legame veramente divino» rispose. «E non dovremmo cercare anche un’espressione atta a defi­ nire questo legame? Non dovrà esso essere presente in noi che formiamo l’uomo intero?» «Senza alcun dubbio» disse. «Allora deve esserci noto?» «Naturalmente.» «E ciò che unifica non deve forse prendere parte in egual mi­ sura a entrambe le cose unificate?» «Così sembra.» «Esso deve dunque essere un elemento medio tra lo spirito e ' il corpo?» «Certamente.» «Forse la sua opposizione al corpo non è brusca come quella dello spirito, ma tale medio è, per così dire, un essere21 più mite che, con la sua parte superiore, si congiunge allo spirito, mentre, con la sua parte inferiore, discende fino al corpo mescolandosi alla materia. E così?» Anche questo sembrò a Clara evidente. «E dunque, come chiameremo questo essere di natura media e meno brusca che si trova in noi?» Clara pensò di non poterlo immaginare. «Mi meraviglio» dissi allora io «dal momento che esso ci è così vicino. Non è forse vero» proseguii «che attribuiamo lo spi­ rito a certi uomini in modo particolare?»

21 Traduciamo così, in senso sostantivato, il termine tedesco dai Wrten (letteralmente: “es­ senza"), quando, rispetto alla sua accezione più comune, il suo senso concettuale non costi­ tuisce il centro del suo significato.

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«Sì.» «E chi sono costoro?» «Gli uomini che si occupano principalmente di oggetti spi­ rituali e che mostrano in ciò una grande forza.» «Ma è poi» continuai «lo spirito in e per sé che ci ispira l’amore, che guadagna la fiducia del nostro cuore?» «Non lo credo,» disse lei «poiché lo spirito considerato per se stesso reca spesso in sé qualcosa di ripugnante, e se certamente lo stimiamo, tuttavia non ci accostiamo a esso se non con diffi­ denza.» «Ciò a cui il nostro cuore si apre maggiormente» dissi «non è forse l’umano nell’uomo?» «Certamente» disse. «E non sarebbe dunque lo spirito ciò che è propriamente umano nell’uomo?» «Non mi sembra» disse. «E che cosa sarebbe dunque?» «Confesso» disse «di non capire dove vuol giungere con le sue domande.» «Rammenti quel che dicevamo: alcuni uomini posseggono lo spirito in modo elevato; egualmente, potremmo affermare che altri uomini, al contrario, sono altamente corporei. Ora, non esiste forse una terza categoria?» «Sì, sì» esclamò. «Ora comprendo. Di questi altri uomini si è soliti dire che hanno anima.» «Ed essa è ciò che in realtà amiamo con predilezione, ciò che ci attira in maniera quasi magica: gli uomini in cui riconosciamo un’anima ci ispirano una fiducia particolare e immediata.»22 «Ammettiamo che sia così» disse Clara. «Sarà quindi l’anima ciò che vi è di propriamente umano nell’uomo?»

?? «Questa cosa più alta, la terza potenza, è l’anima. Già il linguaggio comune distingue gli uomini dotati di spirito dagli uomini che hanno un’anima. Perche anche l’uomo più dotato di spirito può essere senza anima» (F.WJ. Schelling, Lezioni di Stoccarda, cit., p. 180).

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«Assolutamente» disse lei. «Ed essa, dunque, sarà anche quel dolce essere mediatore tra il corpo e lo spirito?» Clara riconobbe anche ciò. «L’uomo intero sarebbe dunque propriamente un Tutto com­ posto da questi tre elementi: corpo, spirito e anima?» «E così» disse. «Ora,» proseguii «come dovremmo pensare il legame di que­ sti tre elementi in un solo Tutto?» «E evidente che è difficile rispondervi» disse lei. «Vediamo» dissi allora. «Ciò che unisce di per sé due opposti in un Tutto non dovrebbe possedere una natura superiore ai due opposti stessi?» «Così sembra.» «L’anima è dunque di un genere superiore a quello dello spirito e del corpo?» Anche in questo caso Clara assentì. «E tuttavia» dissi «in rapporto allo spirito essa sembra di nuovo porsi più in basso dal momento che, per così dire, è più prossima al corpo dello stesso spirito.» Così le sembrò. «Allo stesso modo, possiamo forse affermare» domandai «che uno soltanto dei tre elementi costituisca in modo esclusivo il le­ game di tutti gli altri? Non è forse ciascuno a sua volta un mezzo di unione per l’altro? Lo spirito passa nel corpo attraverso l’anima, ma attraverso l’anima il corpo è a sua volta elevato allo spirito. L’anima non si rapporta allo spirito se in questo stesso non esiste un corpo, ed essa non si rapporta al corpo, se in esso non vi è insieme uno spirito; infatti, se l’uno dei due viene meno, essa non può essere presente come unità, ovvero come anima.23 Considerato nella sua interezza, l’uomo sembra dunque essere una sorta di circuito vivente, in cui ogni termine scorre conti­ nuamente nell’altro e in cui nessun elemento può separarsi

25 Probabile riferimento implicito all'antica dottrina di matrice ncoplatonica dell’anima come copula mundi.

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dall’altro, richiedendosi tutti reciprocamente.» «Un’idea meravigliosa» disse lei «alla quale non posso far altro che acconsentire.» «E tuttavia» dissi «l’anima possiede un vantaggio, rispetto agli altri elementi.» «E quale?» domandò lei. «Se il corpo fosse posto semplicemente per sé» risposi «sa­ rebbe per ciò stesso necessario che anche lo spirito fosse posto insieme a esso?» «Non sembra,» disse lei «dato che entrambi sono tra loro opposti.» «Allo stesso modo, il corpo sarebbe necessario allo spirito?» «Assai poco» disse lei. «Ma se fosse posta l’anima, allora sarebbero necessariamente posti anche il corpo e lo spirito?» «E così» disse. «L’anima dunque sarebbe il più nobile* di questi tre elementi, dal momento che essa soltanto include in sé gli altri due, cia­ scuno dei quali, considerato per se stesso, non comprende in sé né il suo opposto né l’anima?» Clara concesse anche ciò. «Se dunque noi parliamo di una vita dell’intero uomo dopo la morte» dissi «non potremmo accontentarci di una sopravvi­ venza del solo corpo.» «Certamente no» affermò lei. «Non più che di una sopravvivenza del solo spirito?» «Non di più.» «Se invece qualcuno potesse offrirci la ferma certezza di una vita dell’anima dopo la morte, non saremmo allora soddisfatti?» «Sembra per lo meno che potremmo esserlo» rispose. «Per quanto mi riguarda» dissi allora «ciò sarebbe del tutto certo, ed ecco pressappoco come gli risponderei. Se, quando avevo vent’anni, un’indovina mi avesse rivelato che sarei vissuto

* Nota a margine di Schelling: «11 germe più intimo che cerca propriamente di venire alla luce attraverso gli altri due».

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ancora trent’anni, non avrei interpretato quelle sue parole come se il corpo che possedevo in quel momento sarebbe dovuto re­ stare il medesimo per altri tre decenni, in quanto avrei saputo che già in quei vent’anni, quanto alla sua materia, esso era dive­ nuto completamente diverso da ciò che era all’inizio; tanto meno, perciò, avrei potuto credere che sarebbe dovuto restare lo stesso il mio spirito, il quale aveva acquisito convinzioni e con­ cezioni molto differenti da quelle che si era formato prima, du­ rante il breve periodo che avevo già vissuto; avrei piuttosto pensato, per quanto concerneva il corpo e lo spirito, che sareb­ bero ancora sopravvenute le più diverse modificazioni. Al con­ trario, ciò che fin da principio ero stato io stesso e che, fino a quel momento mi aveva fatto apparire a me stesso e agli altri come la stessa persona, ciò che attraverso tutti i mutamenti gli altri avevano odiato o amato in me, questo elemento sarebbe re­ stato sempre identico attraverso le metamorfosi di trent’anni. Ma tu mi dici che la mia anima vivrà eternamente e io non in­ tendo le tue parole come se significassero che né il mio corpo né il mio spirito potrebbero conoscere i più grandi mutamenti, bensì nel senso che questo essere interiore, il mio più proprio sé, che non sarebbe né il corpo né lo spirito, ma l’unificante co­ scienza di entrambi, ovvero l’anima, vivrà eternamente. Non sa­ rebbe forse già un grande guadagno - continuai rivolgendomi a Clara - l’aver scoperto ciò di cui esattamente si parla quando si afferma che la vita prosegue oltre la morte e che questa (il vero e intimo germe della vita) non è niente altro che l’anima?» «E indiscutibile» rispose lei. «E non vediamo in tal modo che i filosofi non hanno errato del tutto preferendo sempre parlare dell’immortalità dell’anima, come se con ciò tutto fosse già risolto, benché forse non sapes­ sero esattamente quel che dicevano?» «Io, però, ho ancora dei dubbi» rispose lei. «E via» dissi «ora tocca a lei interrogare, poiché questo ruolo è stato mio troppo a lungo.» «Ecco» cominciò Clara «quello che in primo luogo mi dà da pensare. Sebbene abbiamo salvato l’anima dalla dissoluzione, 52

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sembra tuttavia che il corpo e lo spirito, dal momento che se­ condo la nostra ipotesi l’anima è l’unità di entrambi, debbano anch’essi conservarsi. Temo però sia possibile rovesciare la no­ stra tesi, e affermare che, se lo spirito e il corpo si separano nella morte - e ciò si deve necessariamente ammettere - allora anche il loro legame viene in se stesso dissolto, poiché o non resterà alcuno degli elementi dapprima unificati, o soltanto uno dei due, o infine essi sussisteranno entrambi, ma completamente scissi. Ma ancora più problematico mi sembra il punto seguente: noi affermiamo che ciò che perdura effettivamente è l’anima e, tuttavia, siamo tutti d’accordo, noi compresi, nel definire “mondo degli spiriti” il mondo in cui si compie il passaggio dopo la morte, scorgendo così negli uomini che ci hanno ab­ bandonati essenzialmente degli “spiriti”.» «E veramente ammirabile» dissi «il modo in cui lei ha avver­ tito tutto ciò. Spero anch’io di poter risolvere pienamente, e con uguale chiarezza, tutta l’oscurità che ancora circonda la que­ stione. Forse abbiamo parlato in modo confuso dell’anima come legame del corpo e dello spirito, presupponendo soprattutto nelle nostre affermazioni che non potessero mai esserci né un corpo per sé né uno spirito per sé. Se ciò infatti fosse possibile, allora la scissione del loro legame sarebbe inconfutabile. Ma, nel nominare questi tre elementi, non abbiamo fin dal principio riconosciuto che ciascuno di essi aveva reciprocamente bisogno dell’altro, che l’uno non poteva fare a meno dell’altro e che, dun­ que, dal momento che essi sono insieme, formano l’uno con l’al­ tro una catena attraverso un legame di fatto indissolubile?» «Senza dubbio» disse lei. «Non abbiamo forse presentato» domandai ancora «il loro re­ ciproco rapporto come un circuito vivente, nel quale ciascun elemento si compenetra sempre nell’altro, in modo tale che o tutti devono cessare insieme di esistere, oppure, se l’uno sussiste, tutti sussistono necessariamente?» «Era certamente così» rispose. «E dunque non sono essi, almeno durante la nostra vita ter­ rena, incatenati l’uno con l’altro in questo modo?» 53

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«Certo» disse lei. «E non in modo casuale, bensì in modo essenziale, dal mo­ mento che nessuno di essi può essere eliminato senza che tutti lo siano.» Clara acconsentì. «Non potrei quindi ricavare da questa catena che essi for­ mano una prova della sopravvivenza dopo la morte del tutto di­ versa da quella che i filosofi sogliono sviluppare a partire dalla semplicità dell’anima?24 E questo, se il nostro proposito fosse veramente quello di fornire delle prove.» «Così sembrerebbe» disse lei «se non fosse fin troppo mani­ festo che la morte strappa a questo circuito un elemento, in­ sieme al quale, se tutto non può sussistere che nell’insieme, tutto dovrà in egual misura crollare.» «E proprio qui, mia cara amica, che volevo arrivare» dissi. «Consideri infatti con attenzione se ciò che lei presuppone sia poi così certo e così inconfutabile, come sembra credere la mag­ gior parte degli uomini quando vede nella morte una lacerazione e una scissione assoluta dello spirito e dell’anima dal corpo e del corpo da quelli. Se infatti la cosa stesse così, noi che filosofiamo non dovremmo accettarla così come essa appare nella sua im­ mediatezza. E dunque, prima di tutto, dovremmo domandarci che cosa sia la morte e quale mutamento ingeneri nella circola­ zione della vita presente. Questo concerne anche quanto affer­ mava poco fa come secondo punto: che essendo l’anima ciò che propriamente perdura, sembra curioso osservare come tutti gli uomini parlino dell’altra vita come di una vita degli spiriti. O forse intendeva un’altra cosa?» «Intendevo questo» disse lei. «Non è questa d’altronde la sola ragione della nostra meraviglia, ma più in generale la maniera in cui così universalmente ci rap­ presentiamo come spirituale lo stato che deve seguire la nostra condizione presente, come se noi ci fossimo trovati fin da princi-

24 Probabile riferimento polemico alla terza dimostrazione deirimmortalità dell’anima ela­ borata da Platone nel Fedone (78b-81a) e poi divenuta un topoi della tradizione. 54

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pio di comune accordo o ci avesse mosso un sentimento naturale. Infatti, se si volesse ammettere un perdurare della vita, allora non costerebbe nulla far passare immediatamente l’anima fuggita via in un altro corpo, e non necessariamente in quello di un animale, come sostengono coloro che insegnano la trasmigrazione delle anime, o nel corpo di un nuovo uomo, bensì in un corpo a essa adeguato senza perdere la propria personalità. Quale potrebbe es­ sere il fondamento di questa concezione quasi universale della morte? Non abbiamo infatti il diritto di pensare che tale opinione ci offra un concetto positivo della morte, in luogo del concetto semplicemente negativo in virtù del quale la morte dovrebbe con­ sistere in una separazione dell’anima dal corpo?» «Mi sembra già un enorme guadagno» disse lei «il fatto che la morte venga rappresentata come il passaggio positivo a uno stato spirituale e non soltanto come la cessazione dello stato presente. E tuttavia non so quale possa essere la ragione del ca­ rattere così universale di questa idea, a meno che non vogliamo cercarla nella dottrina della nostra religione, e a meno di non dover affermare che è naturale per ciascun uomo concepire lo stato, nel quale si passa attraverso l’abbandono dello stato pre­ cedente, come opposto a questo stesso.» «Questa spiegazione» dissi «mi sembra di fatto fondata. Dun­ que quegli uomini hanno ammesso che lo stato presente del­ l’uomo sia quello corporeo?» «Certamente.» «E non si trova forse in questo stato corporeo l’intero uomo, non soltanto il corpo, ma anche lo spirito e l’anima?» «Naturalmente.» «In questa stessa corporeità, poi, l’essenza dell’uomo e il pro­ priamente umano nell’uomo non è forse l’anima?» «Anche questo è stato ammesso» disse lei. «E da questo stato, l’uomo non passa forse nello stato opposto e dunque in uno stato spirituale?» «E così.» «E anche in questo stato spirituale, l’uomo è ancora l’intero uomo?» 55

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«Non so se fosse questa la loro opinione.» «E comunque quel che dovrebbero pensare. Se infatti la morte, secondo la loro rappresentazione, non è altro che il pas­ saggio dallo stato corporeo a quello spirituale e se, nel primo stato, fatta astrazione della corporeità, tutto l’uomo - ovvero corpo, spirito e anima - è presente, allora non ve ragione perché in questo passaggio debba andare perduto un qualsivoglia ele­ mento di ciò che costituisce l’intero uomo. Ma che cose più pro­ digioso: che, nello stato della spiritualità, l’uomo permanga nella sua interezza, e dunque come corpo, anima e spirito, o piuttosto che, nello stato corporeo, l’uomo sia stato non soltanto corpo, ma nello stesso tempo spirito e dunque anche anima?» «Quest’ultimo fatto non è in sé meno prodigioso di quello.» «Rammenti, infatti,» proseguii «quello che il nostro amico mi aveva recentemente reso assai plausibile, ovvero che nella vita presente l’anima è incantata dalla materia.» «Lo ricordo» disse lei. «Se dunque già in questa vita» continuai «accade all’anima di essere interamente tenuta prigioniera dal corpo benché essa sia l’elemento essenziale dell’uomo, non dovrebbe accaderle di es­ sere tanto più incantata e tenuta prigioniera dallo spirito?» «Questo richiamo è indubbiamente comprensibile» rispose lei. «Ma ciò che non è ancora stato spiegato è la trasposizione dal corporeo nello spirituale.» «Forse» replicai «deve restare per noi un mistero finché non l’avremo esperita noi stessi. Non mi è nemmeno possibile defi­ nirla inconcepibile, dal momento che già nell’ambito limitato del presente alcune di tali trasposizioni accadono continuamente.» «E quali?» domandò lei. «Innanzitutto» dissi «si verificano ogniqualvolta passiamo dalla veglia al sonno e viceversa; infatti la circolazione della vita non viene soppressa nel sonno, ma soltanto trasposta da un ele­ mento in un altro. Nel sonno, lo spirito non è forse immerso, senza tuttavia che ce ne ricordiamo in seguito, in pensieri, sco­ perte e altre attività che gli vengono senz’altro attribuite e che possiamo desumere da numerose tracce? Proprio come per 56

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l’anima, che anche nel sonno non perde la capacità di volere, di amare e di odiare.» «Mi sembra, amico mio, che in questo modo lei spieghi ciò che è oscuro, se non proprio con ciò che è altrettanto oscuro almeno con quasi altrettanta oscurità» disse Clara. «Ha ragione,» risposi «ma qui m’interessa soltanto questo: mostrare come la circolazione, che è posta attraverso il corpo, lo spirito e l’anima, possa trapassare da un mondo nell’altro senza venire distrutta.» «Allora» proseguì lei «non deve insieme pensare che, nella morte, l’anima si elevi ad anima spirituale?» «Senza dubbio» dissi. «Nella vita presente, dunque, l’anima sarebbe stata soltanto un’anima corporea?» «Certo.» «Ma come può affermarlo» disse «dal momento che fin dalla vita presente l’anima stabilisce un rapporto con oggetti sovramondani e celesti?» «Ah!» risposi. «Tutto è certamente contenuto in tutto: il li­ vello inferiore contiene presagi del livello superiore, ma non di meno resta l’inferiore. Anche l’animale vuole oltrepassare se stesso: il castoro erige con intelligenza quasi umana il suo pa­ lazzo acquatico; altri animali vivono in società costituite come quelle degli uomini e intrattengono rapporti domestici parago­ nabili a quelli umani. Così, già ora, numerosi aspetti conducono l’uomo verso il mondo superiore; già fin d’ora alcuni muoiono coscientemente e volontariamente alle cose che dovranno ab­ bandonare nel giorno della morte e cercano di vivere una vita il più possibile spirituale. Ma qui noi possiamo mantenere sol­ tanto la determinazione del livello più generale di questa vita, e non possiamo cercarla in quegli uomini che sono caratterizzati dall’abbandono proprio di questo livello generale.» «E il corpo?» disse. «Se l’anima diviene spirituale nell’altra vita, ciò vale ugualmente per il corpo?» «Certamente» dissi. «E tuttavia questa non mi sembra l’espressione esatta; anche per ciò che concerne l’anima mi av-

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vedo solo ora che avremmo dovuto esprimerci diversamente.» «E come?» domandò lei. «Noi non intendevamo affermare che l’anima divenga spiri­ tuale dopo la morte, come se non lo fosse stata già prima, bensì che lo spirituale, che si trova già in essa e che qui appare più le­ gato, divenga libero e domini sull’altra parte di essa, quella at­ traverso cui l’anima è più vicina al corporeo e che domina in questa vita. Allo stesso modo, non dovremmo più affermare che il corpo diviene spirituale nella vita superiore, come se non lo fosse già stato fin dall’inizio; dovremmo piuttosto dire che il lato spirituale del corpo, che qui era nascosto e subordinato, di­ viene là manifesto e predominante.» «Così» disse lei «non sarebbe soltanto l’anima ad avere due lati, ma forse anche lo spirito e ancor di più il corpo?» «Indiscutibilmente» replicai «e anche a tal riguardo lei ricor­ derà ancora il discorso del nostro amico in cui affermava che la terra, e quindi anche il corpo che proviene da essa, non era de­ stinata a essere meramente esteriore, ma doveva essere esterio­ rità e interiorità e, in entrambi questi aspetti, una cosa sola; se il Tutto appariva come puramente esteriore, ciò era la conse­ guenza di uno sviluppo bloccato, che, sebbene non avesse potuto annientare l’essere interiore, aveva tuttavia potuto avvilupparlo, legarlo e quindi assoggettarlo all’esteriore. Non è dunque natu­ rale che, mentre quella forma del corpo in cui l’interiore era in­ catenato dall’esteriore si disgrega, l’altra forma, quella in cui l’esteriore è come dissolto dall’interiore e dominato da esso, di­ venga al contrario libera?»25 «Allora» disse lei «questa forma spirituale del corpo avrebbe già dovuto essere presente nella sua forma puramente esteriore?»

25 «La morte non è perciò una separazione assoluta dello spirito dal corpo, ma soltanto una separazione da quell’elemento del corpo che è in contrasto con lo spirito, c quindi separa­ zione del bene dal male c del male dal bene (per questo ciò che rimane non è chiamato “il corpo", ma “il cadavere"). Immortale non è dunque soltanto una parte dell’uomo, bensì l’uomo intero, secondo il suo vero esse, e la morte è una reductio ad essentiam. L’essere che nella morte non vien lasciato indietro (quest’ultimo infatti è il caput mortuum), ma viene 58

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«Certamente,» risposi «ma come germe, che cerca di svilup­ parsi e che, però, oppresso dalla violenza della vita esteriore, può mostrare la sua presenza solo parzialmente e in occasioni particolari.» «In effetti» disse Clara «ricordo di aver spesso sentito parlare di un corpo più sottile contenuto nel corpo più grezzo, che si separerebbe da questo nella morte; ma, non so perché, tale im­ magine mi ha sempre recato così poca soddisfazione.» «E così» dissi «per tutte le opinioni trovate solo per caso. Ciò che non ci viene offerto dalla necessità di un intero contesto, non può mai influire veramente sull’anima.» «Del resto» disse lei «anche il senso di questa opinione era del tutto diverso.» «Certo, poiché con “essere intermedio” s’intende soltanto una cosa corporea più fine, e non una forma realmente più spiri­ tuale.» «Questo celeste germe di vita» proseguì «dovrebbe trovarsi solo in noi, oppure indistintamente in tutti gli esseri organici, non trovandosi invece in quelli inorganici? Che cosa pensa a questo proposito?» «Non vedo perché» risposi «il germe di una vita superiore non dovrebbe trovarsi in ciascuna cosa, essendo soltanto più mani­ festo nell’una e più nascosto nell’altra. La natura intera era in­ fatti destinata a manifestare, nel loro pieno accordo, l’interiore e l’esteriore, e ogni creatura, come afferma la Scrittura, aspira con noi, come noi, a una vita superiore, che negli uomini è sol­ tanto più sviluppata già in questa vita.» «Allora» disse lei «la presenza di questo germe non dovrebbe realmente manifestarsi in tutte le cose?» «Non so» dissi allora «se abbiamo il diritto di attribuire un significato così elevato ai fenomeni vitali dei corpi che cono-

foggiato, e che non è ne meramente spirituale, né meramente fisico, ma l’elemento spirituale del fisico c quello fìsico dello spirituale, noi lo chiameremo, per non confonderlo col pura­ mente spirituale, “il demonico"» (EWJ. Schelling, Lezioni di Stoccarda, cit., pp. 185 -18t>). 59

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sciamo, all’alterno gioco elettrico delle forze, oppure alle tra­ sformazioni chimiche; non ritengo impossibile che una serie as­ solutamente nuova di fenomeni ci si manifesterebbe, se ne potessimo non soltanto modificare l’esteriorità, ma se potessimo anche agire immediatamente su questo intimo germe della vita. Non so se io mi stia ingannando, o se così voglia il mio partico­ lare modo di pensare, ma tutte le cose, anche le più corporee, mi sembrano pronte a produrre dei segni di vita completamente differenti da quelli che ora conosciamo.» «Ma allora tutte le cose dovrebbero morire?» domandò ancora Clara. «Così sembra» risposi. «Ma la prego di chiarire lei stessa que­ sto punto.» «Non è forse la morte» disse «la liberazione della forma inte­ riore della vita dalla forma esteriore che l’opprime?» «Perfettamente» dissi. «E non è forse necessaria la morte dal momento che queste due forme di vita, non potendo esistere simultaneamente dopo la caduta della natura in un essere meramente esteriore, dove­ vano esistere una dopo l’altra?» «Così è» dissi. «E lei ha espresso questo concetto in modo meraviglioso.» «Ma le due forme di vita non si trovano forse in ogni cosa?» «Così abbiamo ammesso» risposi. «Dunque» disse lei «tutte le cose, senza distinzione, devono morire.» «Anche questa necessità mi sembra innegabile» dissi. «Tuttavia» continuò «non ci appare forse un tale genere del morire soprattutto nel corso delle trasformazioni chimiche?» «Non so» risposi.

«Per parte mia» proseguì «non dimenticherò mai il modo in cui ho osservato per la prima volta la solubilità dei metalli negli acidi: rifiutavo di credere che un liquido trasparente e incolore come l’acqua di sorgente potesse contenere dell’argento dissolto, e un’acqua azzurra come il cielo del rame, e così di seguito, fin­ ché la testimonianza dei miei occhi non mi convinse.» 60

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«Anche questo è davvero singolare» dissi «e offre molto da pensare sull’essenza della corporeità.» «Non possono queste acque dissolventi» continuò lei «essere definite spiriti? E non si dovrebbe definire la loro facoltà di dis­ solvere i corpi più duri e più densi una reale dissoluzione del corporeo nello spirituale e, dunque, una morte?» «Vi è sicuramente qualcosa di analogo» risposi. «Noi vediamo di quale elevazione sono capaci le cose più corporee quando uno spirito più alto s’impadronisce di esse. Ma lei pensa che sia pos­ sibile anche ricomporre tutte queste cose riconducendole al loro stato corporeo iniziale?» «Certamente» disse lei. «Mi domando, dunque,» dissi allora «se si produca qui una modificazione diversa da quella che si produce su una parte del nostro corpo accidentalmente bruciata e ricostituita a poco a poco attraverso mezzi esteriori.» «Ma non manifestano tutte le cose corporee un impulso a spiritualizzarsi?» proseguì lei. «Che cos’è dunque il profumo di un fiore e quale sarà la spiritualità degli effluvi dei corpi profu­ mati che durano per anni senza svanire? Non vuole ogni cosa farsi aria per ricongiungersi a questo elemento puro e sacro che preferirei considerare come un essere autonomo e indivisibile, la cui forza trasmuta e rende simile a sé tutto quello che contiene per quanto diverso possa essere?» «Tutto questo si comporta così» dissi «e prova che tutte le cose tendono a un’esistenza più libera e indipendente da ogni legame, benché portino loro malgrado le catene di cui sono pur sempre prigioniere. Ma chi, del resto, vorrebbe definire come morte una semplice trasformazione in aria? La morte mi appare come qualcosa di molto più serio.» «Dunque» disse lei «non è possibile trovare qualche esempio di morte al di fuori del regno degli esseri organici?» «Non lo so» dissi «ma così mi sembra. Noi esseri organici possiamo morire perché ciascuno di noi è un Tutto a sé. Ma le altre cose non sono che parti di un Tutto superiore, la terra, e possono certamente, all’interno di questo Tutto, essere mesco61

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late e modificate in mille modi, secondo quanto esige lo svi­ luppo vitale del pianeta; per loro, tuttavia, il benefìcio della morte, ovvero di una totale liberazione della forma spirituale della vita, non si verifica fintantoché il pianeta non pervenga alla sua meta stabilita e finché non sia morto esso stesso.»

In queU’istante entrò il medico interrompendo per un attimo la nostra conversazione. Gli spiegai di che cosa avevamo discusso fino a quel momento e, dopo che ebbe compreso l’essenziale ri­ flettendovi per qualche tempo, disse: «Dunque nella morte si produrrà una separazione». «In quale misura?» replicai. «Evidentemente, una separazione dal corpo.» «Certamente,» dissi «ma non una scissione dall’essenza intima del corpo, ma dal corpo nella misura in cui esso è solo un’este­ riorità e una parte della natura semplicemente esteriore.» «Ma durante la vita attuale» disse il medico «questa essenza spirituale del corpo non è forse già presente nel corpo sempli­ cemente esteriore?» «Almeno in germe» risposi «sì.» «Sembra dunque seguirne» proseguì «che la vita presente rechi in sé una perfezione maggiore della vita futura.» «E come?» dissi. «Mi sembra assolutamente chiaro» rispose. «Oltre all’essenza spirituale del corpo, alla vita infatti appartiene in più il corpo esteriore, il quale viene poi meno nella vita futura: ciò è mani­ festamente un vantaggio di quella su questa.» «Quello che potrei ribattere a questa argomentazione» dissi «mi sembra così evidente da osare a stento pronunciarlo.» «Lo dica pure» proseguì lui «poiché in tale questione vi è an­ cora un non so che di oscuro.» «Penso che lei non chiamerà ricco l’uomo che possiede una gran quantità di cose, ma tutte di poco valore e che, al contrario, non chiamerà povero colui che possiede solo poche cose, o anche una soltanto, ma di valore inestimabile, un gioiello che risplenda su tutti gli altri.» 62

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«Certamente no» disse «ma non credo che lei consideri il cor­ po esteriore come un’imperfezione o una cosa di poco valore.» «Per poco che c’intendiamo, sembra che questo si possa af­ fermare. Siamo infatti d’accordo nel porre una differenza di va­ lore tra interiore ed esteriore; in effetti l’esteriore mi sembra il mero Essere [Seyrc] dell’interiore, l’interiore al contrario l’Essente [Seyendes] di questo esteriore; non è così forse?» «Sono d’accordo» disse. «E l’Essente» proseguii «conosce l’Essere, mentre al contrario l’Essente non è conosciuto dall’Essere.» «Ammetto anche questo» disse. «Ma ogni conoscenza non è forse un porre [SeSzen] ?» «Certamente» disse. «E l’Essere è dunque anch’esso un porre?» Su questo punto egli sembrò riflettere. «Almeno un porre se stesso?» domandai. «In questo caso certamente» rispose. «E, tuttavia, un porre che non riconosce se stesso, dal mo­ mento che affermiamo che è conosciuto soltanto dall’Essente?» Egli lo ammise. «E dunque l’Essente che pone questo porre \das Seyende ist... das Setzendejenes Setzens\ì» «E una conseguenza inevitabile.» «Non è a questo punto necessario definire l’Essente qualcosa di superiore o, più precisamente e come mi sembra almeno cor­ retto affermare, la potenza superiore dell’Essere?» Egli acconsentì. «La differenza tra l’interiore e l’esteriore» proseguii «sarebbe quindi simile alla differenza tra una potenza superiore e una in­ feriore. Non sarebbe tuttavia per questa ragione che considererei restcriore in sé come un’imperfezione o come una cosa di minor valore. L’Essente necessita dell’Essere, così come l’Essere dell’Essente. E tuttavia non è impossibile che questa differenza scompaia completamente.» «E come sarebbe possibile?» domandò allora Clara, che aveva attentamente ascoltato i nostri discorsi. 63

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«Se l’esteriore» dissi «fosse completamente compenetrato dall’interiore, in modo da avere in se stesso riunito ciò che co­ nosce e ciò che è conosciuto, e se in più l’interiore avesse posto in sé l’esteriore, in modo che ciò che conosce contenesse in sé anche ciò che è conosciuto, e se entrambi - un tale esteriore in­ sieme a un tale interiore — esistessero allo stesso tempo, allora dovremmo certamente definire questa vita come la più piena di beatitudine e la più perfetta, e tra interiore ed esteriore non vi sarebbe più alcuna differenza, poiché entrambi avrebbero il me­ desimo contenuto.» Entrambi i miei interlocutori furono d’accordo. «E dunque» dissi «in noi, tali quali siamo attualmente, e in parte allo stesso modo, benché molto più imperfettamente, negli altri esseri viventi, l’esteriore sembra essere formato fino al punto da contenere in sé ciò che conosce e da ottenere, perciò, una certa autonomia. Infatti anche gli animali, ai quali non possiamo attribuire una vera interiorità, e anche alcuni uomini che siamo costretti a considerare quasi allo stesso livello, non cessano per questo di conoscere attraverso una sorta di necessità esteriore; affermo questo per provare che, in essi, l’esteriore contiene l’es­ sere che conosce.» Entrambi acconsentirono. «Ma per quanto concerne la seconda condizione» proseguii «ovvero che l’interiore contenga anche l’esteriore come posto in sé, siamo ancora ben lontani dal poterla soddisfare.» «Certamente» disse Clara. «Se così fosse, infatti,» dissi «l’esteriore non contraddirebbe tanto universalmente l’interiore; non vi sarebbe alcun bisogno dell’esperienza e di tutto il travaglio della ricerca per giungere alla conoscenza delle cose; l’atto interiormente possibile sarebbe tale in modo immediato anche esteriormente e, in una parola, questa sarebbe una vita completamente felice e simile a quella di Dio. Se anche l’esteriore fosse posto originariamente nell’in­ teriore, così come l’interiore lo è nell’esteriore, non avremmo più alcun bisogno né dell’educazione né dell’insegnamento. Sareb­ bero infatti privi di questo interiore perfetto quegli uomini che 64

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non hanno ricevuto un’educazione umana e che, come molti esempi hanno mostrato, sono finiti tra gli animali nei primi anni della loro vita?» Il medico acconsentì. «E non dipendono forse molte cose dall’ambiente in cui l’uomo ha vissuto la sua infanzia?» Anche su ciò si trovò d’accordo. «Questo interiore non è dunque nulla di dato. E allora qual­ cosa che viene formato e coltivato come un fiore trapiantato in una terra straniera?» «Sì, certo» mi si rispose. «Ma non è forse ogni sforzo verso la conoscenza uno sforzo per porre il più possibile l’esteriore nella nostra interiorità?» «Null’altro» dissero insieme. «E ci sarebbe forse bisogno di un simile sforzo se questo in­ teriore perfetto fosse già presente in noi?» «Impossibile» disse Clara. Il medico, però, a questo punto intervenne. «Mi sembra che siamo giunti al punto giusto. Infatti, questo sforzo verso la conoscenza, e gli altri molteplici tentativi con i quali cerchiamo di rendere il più possibile interiore ogni este­ riorità, non sono forse uno sforzo interamente libero?» «Certamente» risposi. «E non è forse anche possibile alla nostra forza libera subor­ dinare fin dalla vita presente il corpo all’interiore, in modo tale da vivere una vita pura e incontaminata?» Io acconsentii anche su ciò. «Noi possiamo dunque in un certo grado cominciare a rea­ lizzare già qui ciò che ci attende nell’altra vita, ovvero la subor­ dinazione dell’esteriore all’interiore; tutti i discorsi dei filosofi sono pieni di espressioni di tal genere, come quando parlano di colui che ama la saggezza e che vive come un morto fin da que­ sta vita; ma, in più, qui noi abbiamo il corpo esteriore; consideri lei stesso se la vita attuale non manifesti con evidenza un van­ taggio sulla vita futura.» «Caro amico» risposi «ciascuna cosa ha i suoi propri vantaggi 65

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che l’altra non possiede, ma non per questo è più apprezzabile. La ricchezza, per esempio, presenta certi vantaggi rispetto alla povertà; ma se essa rendesse a tutti più difficile o impossibile l’accesso al regno della verità, e se al contrario la povertà rendesse questo accesso più facile, non vi sarebbe alcun uomo saggio che esiterebbe a scegliere la povertà. Chi potrebbe disconoscere i van­ taggi della vita presente? Se non ne avesse, chi potrebbe soppor­ tarla? Tuttavia, si pone pur sempre il problema di sapere quale dei suoi vantaggi sia in se stesso il più grande. Esso mi sembra consista nel fatto che già da qui ci è consentito coltivare e svi­ luppare in noi il germe divino, godendo così in parte della felicità dell’altra vita. Senza questa perfezione interiore, la stessa vita esteriore perderebbe infatti il suo autentico stimolo, che certa­ mente non sta nella soddisfazione dei desideri sensuali, ma nel sentimento nei confronti della bellezza e di ciò che è propria­ mente interiore in ogni esteriore; mentre infatti l’individuo rozzo e corrotto non prova alcun piacere che provenga dalla natura, l’individuo spirituale ne trae il piacere più grande.» «Sarà dunque il secondo» disse lui «che perderà di più nella morte, mentre il primo subirà una perdita minore.» «Certamente» dissi. «Ma, anche se colui al quale la grandine ha devastato mille iugeri di terra perde più di colui al quale ne ha devastato uno solo, quest’ultimo è più infelice del primo. Il vero problema è tuttavia sapere se, in generale, vi sia una perdita. Questo è solo il discorso di quelli che restano quaggiù e che non si sono abituati a gettare lo sguardo in quell’altro mondo; pres­ sappoco come se qualcuno fosse stato bruscamente elevato dal suo aratro e dal suo gregge al potere, e i suoi antichi compagni lamentassero ch’egli ha perduto e l’aratro e il gregge. Mi sembra dunque che noi dobbiamo domandarci che cosa guadagni nella morte l’uomo che già in questa vita abbia vissuto spiritualmente, e la risposta mi sembra indubitabile: egli ottiene la perfezione di ciò a cui già nella vita presente ha aspirato e che dev’essere quindi necessariamente superiore alla vita presente. Non è forse perché l’esteriore possiede già qui una sua perfezione, in quanto contiene in sé anche l’interiore, mentre l’interiore è ben lontano 66

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dal contenere nello stesso modo in sé l’esteriore - non è per que­ sta ragione che qui l’esteriore deve avere una forte preponde­ ranza sull’interiore? E non ne segue forse che l’esteriore stesso dal momento che non si accorda con il perfetto interiore, non possa ancora porsi al culmine della sua perfezione? Se infatti fosse così, non vi potrebbe più essere alcuna contraddizione tra esso e l’interiore.» «Questa è certamente la conseguenza» disse «di quanto fu precedentemente affermato.» «E non segue forse in egual modo» proseguii «che l’esteriore e l’interiore in questa vita non sono ancora uguali tra loro, ma ineguali? Per il fatto che non soltanto l’interiore perfetto non si trova nell’esteriore perfetto, ma nemmeno nell’esteriore in quanto tale?» «Anche questo» disse «è necessario; se infatti fosse perfetta­ mente nell’esteriore, allora l’esteriore stesso si risolverebbe imme­ diatamente nell’interiore e questo nuovamente nell’esteriore.» «L’esteriore non è forse ancora, quaggiù, un esteriore subor­ dinato, che si comporta verso l’interiore perfetto come l’inferiore si comporta verso il superiore?» «Certamente» disse. «E in un simile cerchio vitale, di fronte a questa prepotenza che l’esteriore ha raggiunto, sarà mai possibile l’interiore perfetto?» Il medico lo negò. «E tanto meno il perfetto esteriore?» «Tanto meno» disse. «Così, dunque, per ottenere l’interiore massimamente per­ fetto è necessario abbandonare la sfera di questa vita?» «E necessario.» «E passare a una sfera superiore?» «Sì.» «La morte non sarà dunque un semplice rovesciamento del rapporto? Con essa l’esteriore non sarà semplicemente subor­ dinato all’interiore, e lo stato che seguirà non sarà soltanto in­ verso rispetto a quello attuale? La morte, pur essendo senza dubbio anche questo, non sarebbe forse a un tempo l’elevazione 67

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a una potenza più alta, a un mondo reale diverso e superiore?» «Era proprio dove volevo arrivare» disse lui. «Il saggio e il giusto non abbandoneranno con dispiacere lo stato attuale per quello superiore; al contrario, abbandoneranno la terra imperfetta dalla quale è sorto l’elemento divino, che hanno coltivato e con cura sviluppato in sé, quando esso avrà raggiunto la sua perfetta pienezza così da poter dispiegare le ali; essi proveranno allora il medesimo sentimento di quel delicato e variopinto uccello della leggenda indiana, che spicca il volo dall’albero i cui fiori, per una metamorfosi, l’avevano generato.» «Tutto questo è molto bello» disse. Ma io subito replicai: «Tuttavia non tutto è ancora chiaro. Lei ha concesso infatti alla vita presente il vantaggio di recare in sé, benché fosse infe­ riore, il germe di una vita superiore, di possedere quindi un con­ tenuto più ricco della stessa vita superiore. Non era forse così?». «Era certamente così» rispose. «Ora,» dissi «quando la pianta ha compiuto la sua crescita, non vi è più bisogno del germe come tale, e il fatto che questo sparisca non costituisce una perdita. Non so, tuttavia, se ci po­ trebbe essere una risposta diversa.» «Dovrebbe fornirci anche questa» disse. «Non ora» dissi. Mi ero accorto infatti che la nostra amica già da qualche tempo era sprofondata nei suoi pensieri e non pareva ascoltare fino in fondo i nostri discorsi. Ma, non appena restammo in si­ lenzio, ella si riprese e, come se fossimo rimasti fermi a un di­ scorso precedente, disse: «Tutto ciò mi spinge nuovamente a pensare che sarebbe dav­ vero auspicabile sapere quali sensazioni prova il defunto, poiché questa sarebbe la miglior risposta al problema.» (Io supposi che intendesse riferirsi ai vantaggi della vita futura.) Fummo entrambi d’accordo con lei. «Da dove deriva dunque» proseguì Clara «il fatto che la morte venga così universalmente rappresentata come un addormen­ tarsi? Non dovrebbe piuttosto essere un risveglio?» 68

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«Forse» dissi. «E tuttavia» disse «è dolce pensare che i morti siano come dormienti che si riposano dalle loro fatiche.» «Certo» risposi. «Non so» proseguì «ma il fulgore e lo splendore del giorno mi appaiono pur sempre come esteriori; è solo quando il giorno declina che sorge l’autentico interiore; ma perché la notte?» «Perché la notte» risposi «ci mostra che questo autentico in­ teriore non ha ancora attinto in noi la sua pienezza e rimane così nella sfera delle cose velate, delle cose a venire.» «Se una luce si levasse nel cuore della notte» continuò lei «e se un giorno notturno, una sola notte nella quale fosse sorto il giorno, ci avvolgesse tutti, qui, invero, si troverebbe la meta ul­ tima di ogni nostro desiderio. Non è forse per questa ragione» aggiunse «che la notte di luna piena tocca il nostro essere intimo con una dolcezza così intensa da far rabbrividire il nostro cuore con il presentimento di una vita spirituale prossima?» «Certamente» dissi. «Mi ritorna in mente ciò che diceva ui; uomo spesso incompreso, il quale più di una volta mi aveva ri petuto: l’uomo che nello stato di veglia potesse compiere ciò cui è spinto quando dorme, solo costui sarebbe il filosofo per­ fetto. E io ogni volta aggiungevo: solo costui sarebbe perfetta­ mente felice. E sono anche fermamente convinto che ai beati, tra coloro che ci hanno abbandonato, sia riservata una tale sorte, e per questo si dice di essi che “dormono il sonno della morte” e non soltanto che sono “addormentati”,26 come se, nel sonno, fossero nuovamente sfuggiti al sonno e pervenuti allo stato di veglia, dor­ mienti tuttavia piuttosto che desti, poiché quaggiù il sonno è più prossimo alla vita interiore di quanto lo sia la stessa veglia.» «Un celebre religioso» proseguì Clara «che noi tutti cono­ sciamo e al quale non sarebbe giusto negare il dono dell’osser-

2b Abbiamo reso con “dormire il sonno della morte"c “addormentarsi" l’opposizione tra entschlafen c schlafen (rispettivamente “morire” e “dormire") letteralmente intraducibile in ita­ liano senza perdere il verbo che accomuna questi termini.

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vazione, mi ha sovente narrato come, nel momento in cui si as­ sopisce, un’indescrivibile serenità inondi tutto il suo essere, men­ tre nello stesso tempo l’anima si trova nello stato spirituale e morale più delicato; tutti i suoi errori gli si presentano con grande pena ma, di contro, più il suo cuore si sente puro, più questo istante intermedio tra la veglia e il sonno è felice. Se­ condo lui questo stato è così immensamente diverso da tutto ciò che vien detto “sogno” che la sua chiarezza supera persino le nostre rappresentazioni più vive nello stato di veglia e che, in­ fine, al confronto di questo stato, tutti i nostri modi abituali di esistere sono soltanto sogno, torpore e morte. Egli viene dunque trasposto in una dimensione del tutto nuova, in una sorta d’in­ tuizione priva di immagine \eine Art bilderlosen Anschauens\ì nella quale tuttavia ogni cosa è distinta con la più grande pre­ cisione e senza alcuna confusione. Ma questo stato dura solo un secondo (come egli desume da diversi segni, benché non ne sembri sicuro); esso scompare con un brusco sussulto, lasciando nell’anima soltanto una grande brama di vederlo durare. In se­ guito egli cade nel sonno più profondo.» «Questo sussulto» disse il medico «è generalmente ricono­ sciuto come segno del sonno magnetico.»27 «Questo sussulto» dissi «non potrebbe essere dunque la mossa attraverso cui la natura spegne la luce o la visione interiore che cercano di risalire alla superfìcie, trasformandole in mero sonno?» «Perlomeno» disse lui «non vi è prova più grande della onni­ potenza della natura esteriore sulla nostra vita attuale del fatto che essa trasforma in sonno lo stato della nostra più alta inte­ riorità.» «Se però è vero» proseguii «ciò che assicurano numerosi uomini degni di fede, e in particolare i medici, e cioè che alcuni esseri umani sotto l’influenza di altri uomini, con i propri sensi esteriori completamente spenti e come morti per ogni altra cosa eccettuato lo sguardo di chi agisce su di essi, pervengono alla più alta chia-

27 Nell’originale: ein -wac/xs Einuhlafen (letteralmente: “un addormentarsi svegli"); Schelling si riferisce qui al sonno ipnotico.

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rezza interiore e a una coscienza di se stessi che non è nemmeno lontanamente paragonabile a quella che posseggono nello stato di veglia, allora questo caso - credo — rappresenterebbe l’espe­ rienza di uno stato che potremmo davvero definire superiore e considerare come un sonno desto o una veglia dormiente. E per questo che non paragonerei tale stato alla morte, ma allo stato che segue la morte e che sarà - ne sono certo - una chiaroveg­ genza suprema che nessun risveglio interromperà mai.»28 «Del resto» disse il medico «l’approssimarsi del sonno supe­ riore è molto simile all’awicinarsi della morte.» «Ciò è necessario» dissi «dal momento che una sorta di morte deve in ogni caso precedere questo stato elevato.» «Ho sentito molto parlare di questi fenomeni oscuri» disse Clara «ma in mia presenza mi venivano sempre tenuti nascosti. Tuttavia la loro manifestazione esteriore non mi attira e desi­ dererei piuttosto conoscere le sensazioni che gli uomini addor­ mentati in tal modo provano nel loro stato.» «Se davvero» disse il medico «volessimo dedurre queste sen­ sazioni dal loro aspetto esteriore, potremmo dire che essi pro­ vano un indescrivibile benessere. Ogni tensione patologica sul loro volto si attenua, hanno un aspetto più felice, più intelligente e spesso persino più giovane; ogni traccia di passione scompare dai loro volti rasserenati e nello stesso tempo tutto diviene più spirituale, soprattutto la voce.» «O mano benevola della morte,» gridò Clara «ti riconosco in questi segni! Lasciatemi ricordare l’amica prematuramente scomparsa che fu l’angelo custode della mia vita; lasciatemi ricordare come ciò accadde, come una trasfigurazione celeste

n «Per quanto riguarda nelle sue particolarità lo stato interiore dopo la morte, esso viene no­ toriamente paragonato al sonno, dove per sonno s’intende naturalmente l'estinguersi dell’intcriorc in seguito al predominio dell’esteriore. Questo stato va invece pensato piuttosto come una veglia dormiente o un sonno vegliarne = clairuoyance, ove si ha con gli oggetti un rapporto immediato, non mediato da organi» (F.W.J. Schelling, Lezioni di Stoccarda, cit., p. 187). Nel presente passo Schelling tuttavia traduce la parola francese c usa il tedesco llelkehen, che di conseguenza abbiamo tradotto in italiano. Ove invece compare il termine francese verrà lasciato in originale.

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s’irraggiasse da tutto il suo essere quando già la stavano sfio­ rando le ombre della morte: credevo di non averla mai vista così bella come nell’attimo in cui era prossima a spegnersi; non avrei mai creduto che potesse esservi tanta grazia nella morte. Gli accenti sempre melodiosi della sua voce divennero allora una musica celeste, accordi spirituali che ancora oggi risuonano in me più profondamente della vecchia soave ar­ monia del carillon.» «Se si domanda a coloro che si sottopongono a ipnosi»29 pro­ seguì il medico «come si sentano, essi assicurano di provare sen­ sazioni deliziose, non sentono più il loro corpo né il loro dolore passato, e una chiarezza celeste, una calda luce inonda il loro essere.» «Sì» disse Clara «prima della morte anche gli assalti della ma­ lattia si quietano, i dolori cessano, e molti uomini, i migliori al­ meno, se ne vanno in un’estasi celeste.» «Tuttavia» proseguì il medico «questo stato è solo un mero avvicinarsi allo stato superiore; essi restano infatti ancora intac­ cati dalle cose esteriori; benché abbiano gli occhi chiusi, vedono tutto ciò che si trova allésterno, e molti dei loro sensi sembrano ancora più acuti.» «E che cose mai questo stato superiore?» domandò Clara. «Quello» disse «in cui questi uomini sono interamente distac­ cati dal mondo dei sensi e in cui non hanno più alcun rapporto con le cose esteriori se non attraverso la mediazione di chi li tiene sotto la sua influenza; soltanto allora, per il mondo esteriore, si comportano come se fossero del tutto morti. Se prima, infatti, erano eccessivamente sensibili a ogni minimo brusio, anche ai suoni più lontani che nessun orecchio può percepire se non avvi­ cinandosi, ora invece né lo sferragliare dei carri, né il tuonare dei cannoni li risvegliano, nessuna parola umana se non quella di colui con il quale sono in comunicazione giunge loro.»

r> Letteralmente: Entuhlafene e dunque “morti". Schelling, di conseguenza, avvicina lo stato dell’ipnosi a quello supcriore che si verificherebbe dopo la morte e non soltanto a quello del sonno.

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«Ed è soltanto allora» domandò Clara «che si realizza la chia­ roveggenza?» «Certamente» rispose il medico. «E qui che si mostra la vita interiore, la vita più alta. Tutto manifesta in essi la coscienza più interiore, ed è come se il loro essere si fosse concentrato in un punto focale che riunisse in sé passato, presente e futuro. Ben di­ stanti dallo smarrire il ricordo, per essi il passato più remoto, ancor di più il futuro, si rischiarano fino a grandi lontananze.» «La conseguenza di tutti questi fenomeni» dissi allora «non è forse che l’essenza spirituale della nostra corporeità, che ci segue nella morte, è già presente in noi fin dall’inizio, non sorgendo soltanto nell’attimo della morte, ma in esso divenendo libera e apparendo nella sua proprietà, dal momento che i sensi e gli altri legami della vita non l’incatenano più al mondo esteriore?» Il medico annuì e aggiunse: «Nel corso della vita una moltitudine di fenomeni, che non possiamo derivare né dall’anima né dal corpo in quanto tale, te­ stimonia la presenza di questo essere». «Ciò che prediligo in questo stato» disse Clara «è l’interiorità della coscienza. Non ho mai potuto capire come tanti uomini potessero pavidamente credere che, dopo la morte, la coscienza si spenga e si disperda. La morte mi è sempre sembrata racco­ gliere piuttosto che disperdere, interiorizzare e rendere interno piuttosto che esterno.» «Tali opinioni scettiche» dissi «sono nondimeno spiegabili con il fatto che per la maggior parte degli uomini la morte era ed è ancora oggi una separazione totale da tutto ciò che è fisico, e proprio l’elemento fisico mi sembra il fondamento di ogni consapevolezza [Bewufìtbeit].» «E in che modo?» disse Clara. «Mia cara amica,» dissi «la persistenza dell’identità di colui che è cosciente [der Bewiifitseiende] non è forse la prima condi­ zione della persistenza stessa della coscienza?» «Senza dubbio» disse. «E costui, fintante che permanga sempre lo stesso, non deve forse distinguersi da tutte le altre cose?» 73

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«Certamente.» «E non è forse in nessun luogo, se non in quello fìsico, che si trova un “questo” e un “quello”, condizioni necessarie di ogni di­ stinzione? Oppure» dissi un istante dopo «se ciò non le sembra sufficientemente chiaro, quando lei considera se stessa in quanto se stessa, e quindi come una persona distinta da tutte le altre, non sente allora che nel fondo della sua coscienza vi è qualcosa che non si lascia risolvere da alcun concetto, qualcosa di oscuro, una sorta di sostegno della sua personalità?» «Avverto davvero questa oscurità» disse Clara «e tuttavia vor­ rei eliminarla poiché turba la purezza dell’essenza.» «Ma una volta suscitata» dissi «non possiamo più eliminarla, amica mia cara, né deve essere eliminata, perché con essa scom­ parirebbe la personalità stessa; possiamo invece trasformarla fin­ ché diventi essa stessa luce, ovvero la silenziosa base della luce superiore conservando la propria singolarità soltanto come fon­ damento e radice per quella, ma non per se stessa.» «Allo stesso modo» domandò lei «in cui il diamante esiste soltanto per la luce? Affinché vi sia qualcosa in cui la luce, bril­ lando e riflettendosi in esso, possa cogliere se stessa?» «Proprio così» dissi. «Ora» proseguii «dobbiamo forse affermare che questo elemento in sé oscuro proviene dalla natura, o piuttosto da qualcos’altro?» «Senza alcun dubbio dalla natura.» «Ogni uomo porta dunque in sé fin dall’inizio questo germe oscuro, oppure esso non sarebbe che un’escrescenza accidentale?» «Questo è assolutamente impossibile» disse lei. «E questo germe è capace di trasformarsi incessantemente, ma non di venire distrutto? Oppure sarebbe distruttibile oltre che trasformabile?» «E necessario accogliere la prima ipotesi.» «Ma questo germe» domandai nuovamente «reca in sé qual­ cosa di fisico?» «Certamente» disse «se proviene dalla natura.» «Allora è anche necessario che qualcosa di fìsico ci segua nella morte?» 74

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«È necessario, se non altro perché questo germe ci segua.» «E per poco che ci resti la coscienza di noi stessi in quanto noi stessi?» aggiunsi. Clara acconsentì. «Ora» domandai «questo germe che ci segue non deve preci­ samente essere l’essenza spirituale della nostra corporeità?» «Così sembra» rispose. «La quale si è sviluppata dal corporeo stesso fino alla spiri­ tualità?» «Certo» disse. «Ma non conserva pur sempre i suoi rapporti con ciò che è fìsico?» «Certamente,» rispose «dal momento che è pur sempre l’es­ senza della corporeità.» «E non può mai perdere l’affinità con ciò da cui proviene?» «Mai, a quanto sembra.» «E dunque» proseguii «non è del tutto naturale che chi am­ mette indubitabilmente le molteplici influenze dello spirituale su ciò che è fìsico, ma rifiuta di comprendere come ciò che è fì­ sico agisca a sua volta anche sul mondo degli spiriti — non è dun­ que naturale che costui s’impaurisca se la morte, conformemente alla sua opinione, lacera e annienta interamente il legame tra l’anima e il corpo, in modo che anche la coscienza personale si sciolga e si dilegui, come il profumo di un fiore marcescente si spande nell’aria senza che ne resti alcuna traccia?» «Ciò è del tutto naturale» disse lei. «Ma non riesce forse solo a pochissimi» continuai «trasfor­ mare in luce fin da questa vita il germe oscuro che cova in essi? Nella maggior parte degli esseri umani, ho trovato finora sol­ tanto individui ostinatamente legati alla loro singolarità, che consideravano fondamentale farsi riconoscere, e affermare se stessi in quanto se stessi.» «Senza dubbio» disse lei. «E che inoltre giungono a pensare e giudicare in funzione di ciò, dirigendo tutta la loro facoltà spirituale in questa direzione: sono, per esempio, incapaci di obliare se stessi nei loro pensieri 75

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e di perdersi nella contemplazione dell eterno e del divino, per­ ché esigono sempre di nuovo qualcosa di esteriore che possano porre di fronte a sé e manipolare secondo il loro interesse, rifiu­ tando del tutto il divino quando si avvedono che non si lascia trattare così. Potrebbero dunque costoro, che immaginano di es­ sere coscienti di sé soltanto quando hanno un “fuori di sé”, essere capaci di questa coscienza superiore? O non sono piuttosto i nemici giurati di ogni forma di chiaroveggenza?» «Forse» disse lei. «Perciò, se si afferma che questa interiorità superiore della co­ scienza è precisamente lo stato cui dopo la morte accedono i mi­ gliori, non devono forse costoro credere e cercare di far credere agli altri, che nella morte si dissolva ogni coscienza personale?» «Sembra che debbano affermarlo.» «Ma allora» dissi «se questo germe, in origine oscuro, viene in noi trasformato completamente in luce, resta ancora qualcosa che ci distingua da Dio, oppure no?» «Non comprendo la domanda» disse Clara. «In realtà è davvero molto imprecisa» ammisi. «Tentiamo al­ lora di affrontare il problema da un altro lato. Non sono forse tutte le cose, o almeno noi esseri umani, in Dio?» «Anche ciò non è molto chiaro» disse lei «e può essere inteso in molti sensi.»30 «Bene. E tuttavia, almeno dei beati, si dice in generale che vadano a Dio, che siano di fronte a Dio, che infine riposino in Dio. O forse questi sono soltanto bei modi di dire cui non cor­ risponde nulla di reale?» «Assolutamente no» rispose. «Ma che essi, morendo, vadano a Dio, come si dice, non si­ gnifica forse che, prima, non erano presso di lui, ma separati da lui, non nella loro autentica patria, ma in una terra straniera?» «Senza dubbio.»

30 Eleo della discussione sul panteismo, a proposito della quale si veda F.W.J. Schelling, Ri­ cerchefiloiofiche tuircitenza della liberta umana, eie., pp. 35-43.

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«Ora, non potevano certo essere separati da Dio per ciò che in essi era autenticamente essente e perfetto.» «E questo che in generale si ammette» disse. «Dunque, soltanto per quello che in loro era falsamente es­ sente?» «Così sembra» rispose. «In modo dunque» proseguii «che Dio si trovava in ciò che vi era di perfetto in loro, e in modo che, al contrario, per quanto vi era di imperfetto in loro, non erano in Dio?» «Questo è chiaro» disse. «L’imperfetto deve dileguare e tramontare, o almeno essere trasformato in perfetto: deve dunque permanere come essente, ma soltanto per quello che è necessario a rendere il suo essere proprio il sostegno dell’essere superiore.» «Certamente.» «Negli uomini buoni almeno, questa trasformazione comin­ cia già quaggiù.» «E così in ogni senso.» «E più essi progrediscono nella perfezione, meno sono co­ stretti a restare separati da Dio.» «Certo» disse. «In tal modo, passano infine interamente in Dio e, nella mi­ sura in cui divengono perfetti, in lui si dissolvono.» «Mi sembra che ciò ne consegua naturalmente.» «Ma non vi è forse anche una sorta di timore in moltissimi uomini, spaventati dall’idea che, il giorno in cui fossero final­ mente trasfigurati e in cui la loro volontà singola fosse comple­ tamente oltrepassata, potrebbero allora dissolversi senza residui, senza trovarsi in alcuno spazio né in alcun tempo, ma confon­ dendosi del tutto in Dio? E non si trovano forse altri uomini che sanno formarsi un’immagine, della quale poi si compiac­ ciono come se la cosa stesse realmente così, secondo cui l’anima scomparirebbe in Dio come una goccia nell’oceano o come un raggio di luce nel sole?» «Ho letto anch’io cose di questo genere» disse. «Vi è tuttavia qualcosa di necessario in questa rappresenta77

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zione dal momento che la beatitudine è possibile soltanto nella perfetta unità con Dio; questo è ciò che tutti affermano e noi con loro.» «Certo» rispose. «Soltanto» continuai «non comprendo fino in fondo perché, se noi diveniamo interamente un’unica cosa con il divino, ne debba necessariamente seguire la perdita di ogni esistenza particolare. Infatti la goccia nellbceano, benché non si distingua più dalle altre, è pur sempre una goccia, e la singola scintilla nel fuoco o il singolo raggio nel sole (se mai ne esista uno) sono sempre questa piccola scintilla e questo raggio, anche se non è possibile coglierli nella loro particolarità. Allo stesso modo, se ci rappresentiamo le anime pie alla loro morte, attirate da Dio in un rapimento gioioso come dal magnete universale verso il quale tutto aspira, in modo tale che esse vengano interamente compenetrate da lui e che non vedano, né sentano, né vogliano se non in lui, allora davvero non comprendo come potrebbero perdere ogni loro singolarità. Op­ pure, se morendo esse entrano con Dio nello stesso rapporto che colei che dorme di un sonno magnetico ha con il suo medico e salvatore, e cioè se sono morte per tutti gli altri, ma per lui al sommo grado viventi e sensibili, e se colgono in lui tutte le altre cose, e non hanno altra volontà che la sua, allora in questo caso vorrei realmente sapere se esse perdano definitivamente ogni esi­ stenza propria, ovvero se questa non venga piuttosto elevata alla più alta interiorità. Non dovrà dunque apparirci chiaro che coloro che mostrano di temere l’annientamento della loro particolarità in questo perfetto divenire un’unica cosa con il divino, temono in realtà soltanto l’estasi e il totale abbandono, nello stesso modo in cui, già nella vita terrena, hanno paura di ogni ebbrezza, fosse anche l’ebbrezza dello spirito, non vedendo altro che follia in chi è riempito dalle cose più alte, e considerando l’atto di morire alla propria volontà particolare come la vera morte e anzi come una cosa peggiore della morte stessa?» «Mi sembra» disse Clara «che vi sia qui un punto che non abbiamo ancora chiarito.» «Può darsi» risposi. «Quale?» 78

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«Il seguente» disse. «Nel suo esempio, il più piccolo pulvi­ scolo tra tutti quelli che sono attirati dal magnete e sono trasci­ nati in questa relazione è certamente percorso per intero dalla forza del magnete e non desidererebbe, quand’anche lo potesse, sottrarsi a questo legame vivente (tanto sembra goderne); tut­ tavia esso reca in sé qualcosa che non ha ricevuto dal magnete. Esattamente come la dormiente nell’esempio precedente.» «Benissimo» dissi «e, come si dice, lei ha colto “il cuore della cosa”. Coloro di cui parliamo credono dunque che l’uomo non porti nulla con sé al di fuori della moralità, attraverso la quale potrà ricongiungersi al divino nell’altra vita, se già in questa si è sforzato di giungervi.» «Essi sono costretti a crederlo» disse. «Non vi è dunque nulla di fisico che segue l’uomo lassù» dissi. «Nulla, a quanto sembra.» «Nemmeno, dunque, questo germe inizialmente oscuro che solo a poco a poco riceve in sé la luce, attraverso una sorta di metamorfosi divina?» «Nemmeno questo.» «E tuttavia esso, quand’anche venga completamente trasfor­ mato, non rinnega mai la sua natura originaria rimanendo sem­ pre questo essente con i suoi stimoli?» «Così come anche il diamante più trasparente non cessa, mi sembra, di essere pesante e, in generale, corporeo.» «Questa oscura macchia della nostra esistenza» proseguii «la quale, anche quando sia interamente sciolta e trasfigurata, lascia sempre qualcosa in noi, che non proveniva da Dio.» «Ma da dove, dunque?» domandò Clara. «Non ha detto lei stessa che proveniva dalla natura?» «Certamente» disse. «Ma coloro che insegnano la scomparsa di ogni particolarità in Dio affermano che la stessa natura è Dio.» «Probabilmente essi,» risposi «come dice un vecchio prover­ bio, hanno udito i rintocchi dell’orologio, ma hanno scordato quante volte. Mi spiego: un giorno forse, hanno udito affermare che Dio è nella natura e hanno tuttavia dimenticato la paroletta 79

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“nella”, o forse intendevano la cosa come se la natura fosse l’interiorità di Dio e, generalizzando, affermavano quindi che la na­ tura è Dio.» «O amico mio,» esclamò allora Clara «quante volte ho udito lei stesso affermare che tutto appartiene a Dio e che non vi è nulla al di fuori di lui!» «Certo» dissi «nello stesso modo in cui molte cose ci appar­ tengono senza essere tuttavia noi stessi. E vi sono anche molte cose in noi, se parliamo di noi in generale, che non fanno parte di ciò che intendiamo per il nostro autentico noi stessi.» Attesi che mi rispondesse e le rivolsi lo sguardo. Ma Clara disse: «Prosegua pure, mi torna ora in mente una luce del passato, e un discorso quasi dimenticato rivive nuovamente in me». Allora proseguii e dissi: «Similmente, l’essenza spirituale che si sviluppa a partire dalla nostra corporeità e che è la sede del presentimento, un organo dell’avvenire, ci accompagna fedelmente in questa vita e ci segue nella vita futura; ma sarebbe infelice chi la considerasse come il suo proprio Sé, che dimora solo nello spirito. Allo stesso modo, o forse di più, il corpo e ciò che in noi è la sede dei desideri e delle passioni, ci appartiene certamente, senza tuttavia essere Noi stessi. Non esigiamo forse tutti che il nostro Sé autentico domini questo Sé differente e inautentico?». «Certamente» disse. «E non distinguiamo dunque quello da questo?» «Assolutamente» mi rispose. «Se la natura, quindi, appartiene realmente a Dio, allora non può appartenergli come il suo essere autentico e originario, ma come un essere inautentico e diverso da lui, come un non essente in rapporto alla sua intima essenza, 1 essente propriamente detto. Poco fa» continuai «abbiamo distinto interiore ed esteriore. Non abbiamo anche detto che l’interiore è ciò che è propriamente essente nell’esteriore e che, al contrario, l’esteriore non è che l’es­ sere di quello?» «Lo ricordo» disse. 80

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«Non possiamo dunque affermare che, nella natura, Dio è Tessente e che, al contrario, la natura è soltanto l’essere di Dio?» «Certamente.» «Aggiungendo poi soltanto che questo essere di Dio è a sua volta e in ogni sua parte intensamente vivente, nello stesso modo in cui gli artisti donano una parvenza di vita anche alla pianta del piede di Giove Olimpico. E se diciamo così, non af­ fermiamo in alcun modo che Dio e la natura siano una sola e medesima cosa.» «In nessun modo» rispose Clara. «Se dunque Dio ci trae e ci crea da questo elemento inferiore del suo essere, da ciò che non è Egli stesso, non è allora il nostro essere, secondo il suo fondamento, una cosa distinta da Dio?» «E così.» «E, precisamente per questa ragione, non può forse elevarsi a un’attività autonoma, per trasfigurarsi nell’essente secondo lo spirito oppure per opporsi a esso? Quasi come il fiore che cresce soltanto grazie alla forza fecondante del sole, ma che tuttavia si eleva in virtù di una forza propria, a partire da un fondo oscuro indipendente da esso, e che, trasfigurando infine da sé la sua oscurità originaria in luce, rimane comunque qualcosa di di­ stinto dalla luce e dal sole, traendo la linfa da una radice diversa, che pur riconciliata con la luce, non è tuttavia la luce stessa.» «Capisco» disse. «Benché dopo la morte, sprofondati nella delizia dello spinto e totalmente compenetrati della presenza divina, non vorremmo più uscire dal regno della beatitudine, anche se lo potessimo, malgrado tutto ciò resta pur sempre in noi qualcosa di diverso da Dio, qualcosa che giace certamente in quiete, e tuttavia resta eternamente presente come possibilità originaria di separarci da lui, in quanto Egli è Tessente, oppure di essere autonomamente in lui.» «E così.» «E dunque soltanto attraverso la completa trasfigurazione del­ l’oscurità originaria in noi che può sorgere la più chiara e intima coscienza di noi stessi e della nostra intera condizione, non sol81

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tanto presente, ma anche passata, ed è solo qui che essa, lungi dal doversi sciogliere come ghiaccio nell’acqua, diviene una coscienza perfetta, nei confronti della quale la nostra coscienza attuale, sem­ pre nuovamente oscurata e limitata dalla non-coscienza [Beimifitlosìgkeit\ che le oppone resistenza, è solo sogno e crepuscolo.» Clara accolse, assentendo, anche questa argomentazione. Da parte mia ero deciso a concludere qui la serata; già da qualche tempo infatti i bambini più piccoli si erano addormentati sui loro giocattoli; le fanciulle più grandi, non avendo più nulla che le te­ nesse occupate, erano entrate una dopo l’altra nella stanza se­ dendosi ai piedi di Clara. Il medico, però, aveva ancora in serbo una questione che mi espose brevemente e per la quale cercai una risposta altrettanto breve; e come succede durante la notte, in cui più volentieri si ascoltano discussioni su simili problemi, i quali, per i brividi che sanno provocare, servono abitualmente a tenere più a lungo riunita la compagnia, così anche noi fummo trascinati nostro malgrado a proseguire il dialogo più a lungo di quanto avremmo voluto. Il medico disse infatti che, in ciò che avevo descritto, lo contrariava soltanto l’idea secondo la quale lo stato di chiaroveggenza dovrebbe venir rappresentato come uno stato che segue la morte: avevamo infatti affermato che questo stato, in sé e per sé, era nello stesso tempo uno stato di beatitu­ dine; tuttavia, pochissimi uomini lo raggiungono, ed è impossi­ bile che tutti, lasciando questa vita, passino immediatamente in un tale stato beato. Io risposi dunque brevemente: «Ricordo di aver affermato almeno una volta con chiarezza che solo gli uomini migliori faranno questa esperienza; ma non ave­ vamo in effetti esaminato quello che concerne gli altri uomini». Secondo il parere di Clara, se non avessimo intrapreso anche questa indagine, la nostra discussione sarebbe rimasta incom­ pleta, e giacché eravamo tutti riuniti e io stesso, secondo la sua espressione, «ero così ispirato»... Io però le dissi: «Crede dunque che sia così facile parlare di questi argomenti in modo soddisfacente? Se volessi soltanto parlare deliestremo 82

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opposto allo stato buono, di ciò che attende coloro che sono as­ solutamente e totalmente malvagi, ciò sarebbe semplice; ma come in questa vita vi sono innumerevoli gradi intermedi tra il buono e il malvagio, così ve ne sono anche nell’altra vita tra la beatitudine e la dannazione: e l’aspetto del regno invisibile dell’aldilà non deve essere così semplice come molti pensano; esso deve piuttosto es­ sere straordinariamente multiforme, se è vero che ognuno sarà retribuito in proporzione a ciò che avrà fatto e pensato durante la sua vita terrena. Ma chi potrebbe avere l’audacia di sondare e di rivelare le meraviglie del mondo interiore, quando anche quelle del mondo esteriore, che percepiamo tutti i giorni con i nostri occhi, ci sono ancora così nascoste? In verità, chi osasse parlarne nei particolari dovrebbe essere morto come l’Armeno di Platone31 ed essere ritornato dalla vita dell’oltretomba nella vita presente, oppure il suo essere interiore gli si dovrebbe essere rivelato in modo diverso dagli altri come al visionario svedese32 per poter gettare lo sguardo all’interno di quel mondo». Il medico era tuttavia dell’opinione che, possedendo i due estremi di una cosa, si sarebbero potute concepire più facilmente anche le parti intermedie. Io risposi: / «Le cose non stanno sempre così; in realtà è proprio il dover trovare l’altro estremo che crea delle difficoltà; consideri sol­ tanto se non dobbiamo tornare ancora più indietro e se non ab­ biamo affermato troppo rapidamente e in modo troppo immediato che in generale la morte consista in una trasposi­ zione nello spirituale; infatti, tra la corporeità terrena di un

” Cfr. Platone, Repubblica (X, 613c-615d), dove è narrato il celebre mito escatologico di Er, nel testo platonico definito «figlio di Armonio».

u Schelling si riferisce qui al famoso mistico c visionario svedese Emanuel Swedenborg (Stoccolma 1688-Londra 1772). Dopo una profonda crisi religiosa culminata a Londra nel 1745, Swedenborg cominciò ad affidare alle sue opero le proprio visioni c i propri colloqui con gli spiriti dell’aldilà. Alla più celebre di esse,Arcana Coelestia (voi. Vili, 1749-56), Kant dedicò lo scritto I sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica ( 1776). Nel contesto del discorso di Schelling, Swedenborg viene assunto come emblema di una conoscenza im­ mediata e diretta del regno degli spiriti. 83

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uomo e la sua spiritualità, vi possono essere tanti gradi inter­ medi; dopotutto, sarebbe possibile che nella morte l’uomo venga liberato dalla corporeità senza tuttavia passare alla spiritualità, abbandonando completamente il mondo esteriore e corporeo. Anche l’uomo in cui covi il germe buono può divenire spirituale solo gradualmente; ma se qualcuno, quaggiù, è stato dominato da una volontà malvagia o regressiva, quando poi, con la perdita del suo corpo, si troverà costretto a progredire, verrà allora af­ ferrato da un’intensa collera e da una violenta nostalgia del corpo, particolarmente forti in questo essere spiritual-corporeo, che aveva l’abitudine di accogliere tutte le sue impressioni dal basso e dal corpo, senza essere né subordinato all’anima né gui­ dato dagli influssi di un mondo più alto. Questo elemento re­ sterà dominante anche successivamente e, come un peso avvinghiato all’anima, vorrà sempre di nuovo trascinarla indietro nella corporeità; e che ciò sia una necessità, lo provano le leg­ gende comuni a tutti i popoli, le quali, senza che nessuna abbia attinto dall’altra, raccontano di frequenti apparizioni di simili anime spiritual-corporee presso le tombe e sui campi di batta­ glie passate; lo provano sia che oggi si accettino ancora come vere queste leggende, sia che in modo moderno le si rifiutino in quanto completamente prive di verità». Come sempre accade quando un tale argomento viene affron­ tato in una cerchia di amici intimi, la conversazione acquistò maggior vivacità, suscitando una partecipazione più generale. Clara, in particolare, si dichiarò risolutamente contraria a tutti i racconti di quel genere. «Essi» disse «offendono ogni buon senso e già con la loro vol­ garità mostrano quale sia la loro origine; le raccolte di tali leg­ gende, invece di suscitare la credenza in ciò di cui parlano — cosa che è forse loro intenzione - provoca al contrario la più forte determinazione a opporvisi. Chi infatti può credere in ciò che gli appare basso e ripugnante?» Il medico, deciso a porsi come difensore, le ricordò dapprima in modo scherzoso che i dannati formano naturalmente la peg­ giore delle società e la vera feccia del genere umano; poi, le fece 84 E

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notare che tra quelle storie ve n’erano anche di più raffinate menzionando l’avventura di M.lle Clairon. «Sono proprio queste» disse allora Clara «le storie con cui non riesco a trovare alcuna affinità. Come potrei credere possi­ bile che ai morti rimanga una libertà tanto grande da produrre effetti arbitrari nella cerchia dei viventi o addirittura, come in questa storia, da vendicarsi dopo la morte di una tenera crea­ tura? Quanto a stabilire se questi racconti si possano considerare moralmente giustificati, non oso pronunciarmi.» «Ma se è vero» disse il medico «quello che riferiscono sotto la spinta dell’esperienza molti naturalisti, parlando di una sfera d’influenza spirituale di tutti gli esseri viventi e di una sorta di libertà grazie alla quale se ne può disporre, non dovrebbe essere possibile, una volta liberata questa essenza dalla corporeità, agire sull’identica essenza delle cose in modo totalmente diverso da quello cui siamo abituati, e produrre quindi dei mutamenti ir esse? Infatti, per produrre un suono o qualcosa del genere, noi provochiamo una modificazione nell’esteriorità delle cose, bat­ tendole, percuotendole, o in qualche altro modo; così l’interiore viene mosso solo in maniera mediata, se si eccettua il nostro proprio corpo in cui la volontà suscita subitaneamente, incon­ testabilmente e immediatamente lìnteriore e, solo attraverso questo, l’esteriore. Non è dunque impossibile che questa es­ senza, una volta liberata dal proprio corpo, possa con maggiore libertà agire sugli altri corpi come un agente catalizzatore per liberare anche in essi un’essenza simile; e forse proprio il suono, che sembra così affine a questa essenza, è ciò che più facilmente si può produrre in tal modo, poiché sembra che, anche nella na­ tura, si produca spesso non attraverso una scossa corporea, ma in termini spirituali. «In generale» proseguì «questa essenza a un tempo corporea e spirituale è fin d’ora l’organo proprio del libero arbitrio o il mezzo tramite il quale si producono i mutamenti attraverso la nostra sola volontà. Che cos’è mai l’essenza inafferrabile e tut­ tavia visibile, che si espande negli occhi, nell’entusiasmo del­ l’amore e della collera, e da dove proviene questa forza c questo 85

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incantesimo nel bene e nel male, che propriamente esercita la più spirituale di tutte le facoltà? Da dove viene la possente e in­ negabile influenza della stessa volontà sull’efficacia degli stru­ menti, in modo tale che spesso sembra che essi non siano altro che mezzi con i quali agisce l’intenzione di chi li usa? Quale po­ tenza esercitano coloro che si trovano nello stato di rapimento su questa essenza nello stesso tempo sensibile e spirituale, da poterla non solo far uscire interamente dal loro corpo, come quel sacerdote che riusciva a sottrarsi a ogni impressione sensibile, standosene disteso come morto e indifferente anche ai più vio­ lenti dolori, ma, di più, da essere capace di ridurre il senso del­ l’udito, che è quello che al momento della morte si mantiene più a lungo, fino al punto da percepire le voci di chi parla come echi infinitamente lontani! Sembra inoltre possibile separare da sé questa essenza e inviarla lontana con la semplice forza del desiderio. Quante volte, negli ospedali francesi, ho osservato quei poveri fanciulli svizzeri, profondamente malati di nostal­ gia,33 i cui corpi erano sì presenti, ma come a metà o come svuo­ tati interamente dell’anima; tacevano, erano quasi privi di espressione, avevano gli occhi fìssi su un unico punto, mentre (così pensavo) il loro spirito errava tra le rocce e le montagne del loro paese natale, dove forse si sarebbe potuto scorgerlo! Da quel momento, ho considerato veramente degno di fede ciò che rammento di aver udito o letto, e cioè che coloro che vivono nell’altra vita sono a conoscenza dell’arrivo imminente di un amico o di un parente, avvertendo la sua immagine qualche tempo prima, nella cerchia di coloro che vivono nei cieli.» «Preferisco» disse allora Clara «credere a queste apparizioni dell’aldilà piuttosto che a quelle che si producono quaggiù, per­ ché certamente l’anima non è là dove si trova, ma dove ama, e

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n Qui il termine “nostalgia" non traduce die Sebnsucht, bensì das Heimweh (dolore provato di fronte alfimpossibilità di poter tornare a casa), perché il termine tedesco Nostalgie venne creato come calco dei termini greci nostos (ritorno) c algos (dolore) dal medico svizzero Jo­ hannes Hofcr nel 1688, appositamente per tradurre Heim-weh in modo da denominare que­ sta patologia con un termine più scientifico. 86

Dialoghi nella iera di Natale

la nostalgia più vera è quella che si prova per l’altra vita.» «E tuttavia» proseguii io dopo un istante «l’uso arbitrario di questa essenza spiritual-corporea dopo la morte non è in ogni caso qualcosa di raro? Non vi sono forse tra la chiaroveggenza e il sonno propriamente detto numerosi stati intermedi? Il sogno mi sembra essere uno di essi, un tentativo imperfetto per suscitare nel sonno la veglia e dunque la chiaroveggenza.» «L’esperienza» rispose il medico «confermerebbe che i son­ nambuli non sognano e che, al contrario, quando perdono que­ sta proprietà, cominciano ad avere dei sogni e per giunta realmente profetici.» «Si potrebbe dunque pensare» dissi «che degli uomini, che nella morte cadessero quasi interamente in balìa della natura esteriore, sarebbero come trattenuti in un sonno, in cui verreb­ bero scossi da una tempesta di idee simili a quelle del sogno; e su ciò concordano anche numerose leggende. Oppure c’è nella vita del corpo qualcosa di più penoso che errare in sogno in una valle o in una foresta oscura senza poter trovare la retta via, cer­ care e percepire l’impossibilità di trovare, essere rinchiusi e non poter scavalcare le mura, come spesso accade a tutti coloro che sognano? Se in generale la fantasia \Imagination\ è la facoltà con cui maggiormente pecchiamo, non sarebbe in verità tramite essa che dovremmo anche essere puniti? I dolori che attendono i peccatori nell’altro mondo non dovrebbero essere dolori della fantasia [Phantasie], che avrebbero come oggetto, in particolare, l’antico mondo corporeo?» Il medico disse che anche per lui ciò era assai verosimile. «Ma se lo stato universalmente necessario dopo la morte» proseguii «fosse uno stato di chiaroveggenza, almeno per la ra­ gione che i morti sono in rapporto con il mondo corporeo solo attraverso l’essenza spiritual-corporea, si potrebbe ancora con­ cepire uno stato opposto a quello buono. Non ha infatti cono­ sciuto malati, ai quali lo stato d’ipnosi procurava la più benefica sensazione, la liberazione dalle sofferenze e la guarigione, men­ tre altri, posti in questo stato, pativano violenti dolori sprofon­ dando ancora più intensamente nel loro male?» 87

Clara

Egli annuì. «Qualcosa di simile» continuai «dovrebbe essere possibile anche dopo la morte, e lo stato di chiaroveggenza dovrebbe es­ sere il più felice per coloro che fin da quaggiù hanno vissuto in modo più interiore che esteriore, e ciò propriamente a causa della loro intensità interiore e della liberazione dalla mera esteriorità; al contrario, per coloro che hanno sempre avuto a che fare con il loro corpo e attraverso esso con le cose esteriori, per coloro che furono interamente sedotti dal carattere sensibile degli esseri esteriori, questo stato sarà una tortura, poiché fin da quaggiù essi hanno fuggito con tutte le loro forze ogni interiorità, insorgendo contro di essa, hanno cercato di far tacere il divino ch’era in loro e, di più, se si potesse, di ucciderlo, in una parola di vivere il più possibile in modo esteriore. Qui, nella vita terrena, potevano sen­ tirsi a loro agio, in parte perché la natura esteriore, nonostante la sua corruzione, contiene tuttavia ancora una grande dolcezza di­ vina, che si spandeva su di essi come un balsamo; in parte perché potevano riempire la loro anima di cose esteriori e, come dicono giustamente, perché grazie a esse potevano distrarsi. Ma là dove ogni cosa esteriore è scomparsa, là dove non resta loro nulla oltre questo intenso stato interiore, essi saranno armonicamente so­ spesi tra l’essere e il non essere. Incapaci di elevarsi fino all’au­ tentico essente e separati attraverso la morte da quel non essente che consideravano come l’autentico essente, tenteranno ogni cosa per mitigare questo tormento; vorranno elevarsi e inesorabil­ mente ricadranno; attraverso le loro fantasie vorranno ritornare in questo mondo, finché comprenderanno di nuovo che ciò non conduce a nulla e che queste sono soltanto aberrazioni dalla retta via; e sono infine felici se un aiuto supremo o il richiamo di uno dei beati che li ha preceduti li riconduce sul giusto sentiero. In questo stato scorgo l’autentica purificazione delle anime, che fu oggetto di numerose discussioni presso gli antichi e i moderni. Infatti sono solo un piccolo numero quelli che passano lassù così puri e così sciolti da ogni amore per le cose terrene da poter es­ sere immediatamente dichiarati liberi e giungere subito al luogo più alto. Anche coloro nei quali non ha mai messo radici una vo88

Dialoghi nella sera di Natale

lontà malvagia, coloro in cui l’originario germe del bene, benché più volte nascosto sotto le spine del mondo e ostacolato nel suo sviluppo, non fu tuttavia mai ferito o interamente distrutto, per­ sino costoro se ne vanno ancora appesantiti da molte vanità, da opinioni false, da fantasie e altre impurità, così che è loro im­ possibile giungere immediatamente nella comunità dei santi, dei perfetti beati e dei salvi; chi più e chi meno, devono tutti passare in questo cammino attraverso numerose purificazioni, e qui di­ morare più o meno a lungo secondo la loro condizione. E tale purificazione non si compie certamente senza dolore. In che modo infatti così numerose radici di corruzione potrebbero es­ sere estirpate da un’anima, tante storture essere raddrizzate, se non procurando un’inesprimibile sensazione del conflitto e della resistenza infinita che esiste tra ciò che è retto e ciò che è deviato, tra la luce della purezza divina che vuole discendere nell’anima e le disposizioni abituali di quest’ultima che le si oppongono? O forse si potrebbe rimuovere tutto ciò che vi è di impuro e di mal­ vagio senza operare un profondo e doloroso intervento, si po­ trebbe forse raggiungerlo, sottometterlo al suo contrario, distruggerlo o scacciarlo dal suo luogo in un’anima che non solo contenesse in sé questo elemento contrario come una parte sol­ tanto esteriore, ma ne fosse interamente penetrata, o intima­ mente mescolata e confusa con esso, in un momento in cui l’anima, nello stato della chiaroveggenza o in quello prossimo a questo, è molto più sensibile che nel suo stato precedente e abi­ tuale? E se non commetto un errore, non ho forse udito dalle sue labbra che, in questo stato, la semplice presenza di uomini impuri è avvertita vivissimamente e lo disturba in molti modi, giungendo fino a impedirlo?» Egli disse che era così e che lo aveva riscontrato in numerosi casi. «Così» dissi «la sua stessa presenza è una grande tortura per l’impuro che, dopo la morte, passa in uno stato simile: ora egli è solo con se stesso e raccoglie ciò che ha seminato; sì, se ogni desiderio e ogni slancio malvagio possono acquistare una sorta di personalità, e se ogni azione peccaminosa, come uno spirito 89

Clara

malvagio, resta nell’uomo, quanto deve essere penoso per l’anima questo seguito impuro che essa trascina con sé nel partire da qui! Ecco dunque — io credo — ciò che si potrebbe affermare con maggior verosimiglianza su questi stati contrari dopo la morte. Tuttavia, mi sembrerebbe alquanto limitato voler parlare soltanto di due stati opposti, nonostante sia, per la ragione già detta, fisi­ camente necessario che i puri e gli impuri vengano sottomessi a luoghi differenti e rigorosamente opposti. Già quaggiù, infatti, a partire dal visibile, si è condotti all’invisibile per numerose vie! Il corpo e la luce sono certamente visibili, ma il suono si può sol­ tanto udire ed è invisibile (a meno che ora qualcuno affermi di averlo reso visibile); e ciò che gli altri due sensi, l’olfatto e il gusto, distinguono nell’interno delle cose, non può essere reso sensibile all’intuizione esteriore con alcun altro mezzo, e lo si può ancor meno per quel che concerne i cambiamenti degli stati dell’aria e i loro effetti, visto che a voler concludere sulla base dei nostri or­ gani esteriori l’aria resta sempre la stessa; e, di conseguenza, anche per quel che riguarda l’agente attivo nelle malattie prove­ nienti dall’aria che estende la sua influenza sull’intero mondo animale e vegetale. Tutto ciò infatti — affermo io — pur mante­ nendosi nel visibile, ci è totalmente invisibile e nascosto, e se ogni essenza di tal sorta, il suono per esempio, sembra possedere un dominio proprio che permane di fatto per sé, non mescolandosi a nessun altro, allora non dovremmo esitare a credere che nel regno invisibile, nel quale entriamo dopo la morte, possano tro­ varsi numerosi regni particolari e mondi totalmente differenti, di cui ciascuno può essere il luogo di soggiorno di una o più spe­ cie, e che molti di questi luoghi meravigliosi non si trovano al di fuori della cerchia di ciò che generalmente si definisce il visibile. E questo, poi, se è vero ciò che già ci è apparso verosimile, e cioè che, dopo la morte, non ogni anima viene subito liberata e sciolta dai suoi legami con questa inferiore regione terrestre e perviene al vero e proprio sovrasensibile forse soltanto grazie a una spiri­ tualizzazione progressiva. «Tuttavia sarebbe altrettanto errato supporre che tutte le anime punite o precipitate in uno stato di per sé doloroso ri90

Dialoghi nella sera di Natale

mangano nei luoghi inferiori. Ovvero, coloro che hanno vissuto soltanto secondo la legge della natura esteriore, ma realmente in conformità a essa, e che sono stati uomini retti, coraggiosi e riflessivi, non dovrebbero forse essere accolti in un mondo di pace, in un’isola di beati, di modo che le parole degli antichi sull’Eliseo, così come la loro intera mitologia, non siano solo delle favole? E infatti diffìcile credere che essi passino imme­ diatamente nel mondo spirituale; ma più diffìcile ancora sarebbe ammettere che rimangano in uno stato d’afflizione; è più giusto che anche là ciascuno viva secondo la sua fede, e coloro i quali, come Socrate, muoiono aspirando al dio buono e saggio,34 o co­ loro che il dio chiama, poiché solo una mano divina li può sal­ vare, come Edipo trasfigurato nella sua morte,35 è più giusto che anche costoro giungano là a questo dio. «Quanto a coloro che fino a quel momento avranno preso parte alla natura esteriore, senza tuttavia aver condotto una vita infame o dimentica di Dio, costoro saranno forse trattenuti in un regno di silenzio, senza soffrire, in una vita simile a quella delle ombre, finché si risvegli in loro il desiderio di un’esistenza più alta, come quello nutrito dalla nobile anima dell’Achille omerico, che tuttavia esprime ancora soltanto il vano desiderio di ritornare in questa vita quando dice:

Vorrei essere bifolco, servire un padrone, un diseredato, che non avesse ricchezza, piuttosto che dominare su tutte l’ombre consunte?6

«Tuttavia, ciò che mi induce a credere in tali stati non è soltanto la considerazione del gran numero di uomini che vivono senza essere illuminati e senza il pensiero di una vita veramente su­ periore, e che per questa ragione non possono che tornare a vi-

M Cfr. Platone, Apologia di Socrate (28d-30b).

’5 Cfr. Sofocle, Edipo a Colono (Esodo). u Omero, Odissea, 1,XI, w. 489-491, trad. it. di R. Calzccchi Onesti, Einaudi,Torino 1982,

p.319.

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Clara

vere questa vita, benché in forma diversa come mera vita di ombre, ma sono anche le oscure parole dei Padri delTAntica Al­ leanza che parlano di un luogo di oscurità e nascondimento sotto la terra dove tutto riposa, e dell’inferno come di una po­ tenza, di un luogo di prigionia che non si lascia strappare la sua preda, anche se di tanto in tanto vi penetra un raggio di speranza ad affermare che il giusto non rimarrà in questo luogo. Non dobbiamo considerare queste parole come mere favole, se ci ri­ mane un po’ di rispetto per il carattere sacro delle antiche tra­ dizioni. Non si potrà forse credere che, nella misura in cui lo spirituale avrà fatto irruzione in questa vita esteriore, anche la potenza del mondo inferiore sui morti verrà nello stesso istante infranta? O dobbiamo forse considerare modi di dire comuni e svuotati di ogni senso le parole sulla vittoria di Cristo contro l’antico regno della morte? «Credo piuttosto che la morte fosse realmente divenuta una potenza. Quando l’uomo, secondo quanto lei afferma, si volse verso la natura esteriore e soppresse lo sviluppo verso la natura spirituale, suscitò questa terribile potenza che Dio aveva deter­ minata a essere soltanto un mero sostegno della creatura e la chiamò nella realtà. Pur non potendo distruggere l’uomo, Dio lo incatenò alla morte, a eccezione di coloro che sottrasse al suo dominio. Solo quando colui che in principio aveva creato tutte le cose discese nella natura caduta, ormai mortale e caduca, per divenire nuovamente anche in essa un legame della vita spiri­ tuale e naturale, solo allora il cielo, il vero mondo degli spiriti, fu nuovamente aperto a tutti e per la seconda volta fu stretta l’alleanza tra la terra e il cielo. Quando Egli morì, anche la luce della natura esteriore, la sola che fosse rimasta all’uomo, si spense quale segno della suprema violenza che la morte aveva compiuto. Ma appena Egli stesso entrò in quella regione oscura, la terra tremò, la tenda del Tempio, immagine della se­ parazione tra questo mondo e il Santo dei Santi, nel quale noi ora abbiamo la speranza di entrare dopo la morte, si lacerò e numerose apparizioni di santi addormentati nella morte mo­ strarono a tutta la città santa che la potenza della morte era 92

Dialoghi nella sera di Natale

vinta.37 Ed è così, amici miei, che siamo di nuovo tornati alla gioiosa festa che celebriamo oggi e con la quale commemo­ riamo autenticamente la nascita di tutta la natura e dell’uomo alla vita eterna; a partire da questo giorno comincia l’età spiri­ tuale della terra, poiché anch’essa deve percorrere tutte le età. «Ma ora, bambine mie, andiamo a casa e fermiamo qui i no­ stri discorsi. Proseguire oltre la mezzanotte non è bene, temo infatti che se qualcuno avesse ascoltato i pensieri che ci sono venuti, solo la notte potrebbe scusarli. Anche se non è così, bi­ sogna tuttavia fermarsi.» In questo modo ci separammo, tornando ciascuno alla pro­ pria abitazione.

,7 Cfr. Mt. 27,50-55: «Gesù, dopo aver di nuovo gridato con gran voce, rese lo spirito. Ed ecco che il velo del Tempio si squarciò in due parti da capo a fondo, e la terra tremò e le rocce si fendettero; c le tombe si spalancarono c molti corpi di santi che riposavano risusci­ tarono; e usciti dalle tombe entrarono dopo la resurrezione di Lui, nella città santa c appar­ vero a molti [...]».

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Dialoghi durante una passeggiata di fine inverno

Pressappoco in questo periodo, qualche giorno o settimana più tardi, ricevetti un libro di filosofìa, che, pur contenendo molte cose eccellenti, era tuttavia scritto in una lingua incomprensibile e rigurgitava, per così dire, di barbarismi di ogni specie. Clara lo trovò sul mio tavolo e dopo averlo sfogliato qua e là disse: «Perché mai è proprio impossibile a coloro che oggi fanno fi­ losofìa scrivere come, almeno in parte, sanno parlare? Sono dav­ vero necessari questi sconvolgenti neologismi? Non è possibile esprimere lo stesso concetto in modo più umano e un libro, per essere filosofico, deve essere necessariamente e senza rimedio indigesto? Non mi riferisco all’oscurità che proviene da ciò che è profondo e può offuscare soltanto la vista di coloro i cui occhi sono abituati a scorrere sulla mera superfìcie delle cose. A mio modo di vedere, ciò che è più profondo dev’essere proprio quanto vi è di più chiaro; la cosa più chiara per me, per esempio un cristallo, proprio perché è tale, non sembra avvicinarsi a me, ma piuttosto allontanarsi e oscurarsi, e in una goccia d’acqua io posso gettare lo sguardo come in un abisso. Bisogna assolutamente distinguere tra ciò che è profondo e ciò che è torbido. Il profondo è una cosa, il torbido un’altra. La crescita naturalmente lussureggiante di un tronco vigoroso, dove su ciascun piccolo ramo crescono a loro volta nuovi germogli senza che l’artefice l’abbia voluto o previsto, è una cosa; la confusione intenzionale di differenti ingredienti e di differenti fibre di un tessuto artifi­ ciale che, se volessimo strappar via i fili, ci lascerebbe soltanto materie morte e senza valore, è un’altra». 94

Dialoghi durante una pasteggiata difine inverno

«Anch’io» dissi «preferisco vedere il filosofo portare sul capo una ghirlanda intessuta dall’amicizia piuttosto che la corona di spine della scienza, con cui egli si presenta al popolo come un vero Ecce homo, profondamente tormentato dalla sofferenza. Rammento quel pensiero dove Pascal afferma che, quando a un contenuto eccellente si accompagna uno stile naturale e semplice, siamo profondamente commossi e rapiti, perché invece dello scrittore che in tale libro ci attendevamo di trovare, davanti a noi si presenta l’uomo.38 Il profondo si comporta come il suo appa­ rente contrario, il sublime, il quale, venendo espresso con le pa­ role più semplici, quelle che anche i lavoratori e gli artigiani possono comprendere, genera un’impressione ancora più grande. La lingua del popolo esiste dall’eternità; la lingua artificiale creata dalle scuole è di ieri. Ciò che è eterno nell’oggetto, se è tale, cerca ciò che è eterno anche nell’espressione. E mi meraviglio che ciò accada così raramente nella filosofia, tanto di più oggi che le si rivolge in generale una certa attenzione, dal momento che per molti uomini essa è divenuta il sostituto della Rivelazione. Un grande generale del nostro tempo, sentendo avvicinarsi la morte in battaglia, non invoca più, come Saul, lo spirito dei Profeti per interrogarlo sull’immortalità, ma invoca piuttosto i filosofi. Oggi si incontrano, tra l’altro, molte donne nelle aule di filosofia. Non ha forse ciascuno un’amica cui ama comunicare le proprie con­ vinzioni? E se lo fa, perché non si serve di fronte a tutto il popolo dello stesso linguaggio di cui si serve per parlare alla sua amata, quando la intrattiene sulle cose superiori?» «Mi ricordo» disse Clara «che quando Albert era ancora con noi, tenevamo spesso tutti insieme dei dialoghi, che sarebbe stato sufficiente fossero trascritti per suscitare un interesse uni-

” Schelling olire qui la parafrasi della parte iniziale di uno dei frammenti dei Pensieri di Pascal; si tratta precisamente del frammento n.29, secondo l’edizione Bnmschvicg (1897). Riportiamo di seguito, nella versione italiana, il testo letterale del frammento pascaliano: «Oliando si vede lo stile naturale, ci si meraviglia e si è rapiti, perché ci si aspetta di vedere un autore e si trova un uomo [...]» (B. Pascal, Pensieri - Opuscoli - Lettere, a cura di A. Bau­ sola, Rusconi, Milano 1996, p. 411).

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Clara

versale. Perché - mi dica - i dialoghi filosofici non vengono scritti più spesso?» Io risposi: «Ah, mia cara amica, vi sarebbe molto da dire su questo ar­ gomento. I dialoghi filosofici, se non vogliono essere scialbi e privi di vita, richiedono personaggi viventi, ben determinati. Certamente non ci mancano uomini illuminati che godono dell’ammirazione di tutta la Germania, che attirano su di sé la medesima considerazione dei sofisti dell’antica Grecia, e nep­ pure siamo privi di arditi oratori, spesso quasi insolenti, che un Socrate scaltro potrebbe ricoprire di vergogna; solo che quel So­ crate, una personalità così nota e al tempo stesso concreta, ci manca. A ciò, inoltre, si aggiunga che i nostri filosofi conversano abitualmente attraverso un dialogo lento e discontinuo, fondato sul solo testo scritto, e la situazione si potrebbe paragonare a quella di due giocatori di scacchi alle prese l’uno con l’altro e di cui l’uno abitasse in Europa, l’altro in America. In questa con­ dizione, una vita autenticamente drammatica non sarebbe pro­ prio possibile. Infatti la scrittura e l’inchiostro da stampa, come suol dirsi, non possono arrossire, ed è per questa ragione che molti hanno lodato l’arte della stampa come un’invenzione me­ ravigliosa e realmente divina». «Allora a maggior ragione proprio i filosofi che se ne inten­ dessero, dovrebbero dar vita a brevi scene teatrali in cui mostrare dal vivo, di fronte agli occhi di tutti, l’intero dramma filosofico abbreviato, concentrato, per così dire, in un sol punto.» «Varrebbe la pena tentare» dissi «se soltanto l’imitazione e la messa in scena di personalità determinate non apparisse come un attacco individuale, cosa che non accadeva presso gli antichi. Ma, nella nostra epoca, e in certe mani, potrebbe davvero accadere!» «E dunque» disse «se i personaggi non possono essere presi dall’attualità, perché non prenderli dal passato?» «Ma non dall’antichità,» dissi «se non vogliamo che vada a fi­ nire come quelle numerose tragedie che si pretendono greche.» «No,» rispose lei «ma da periodi più vicini o recenti. Quali meravigliose personalità filosofiche dovevano offrire il XV o il 96

Dialoghi durante una passeggiata difine inverno

XVI secolo, se è vero ciò che si narra della corte medicea;39 e quante figure eccelse in tempi ancora più prossimi ai nostri!» «Sì, ma anche qui si ripresenta lo stesso problema» dissi «e cioè che il dialogo filosofico assomiglia più alla commedia che alla tragedia, poiché deve trarre la sua materia più dal presente che dal passato, per non apparire un’altra volta freddo e faticoso, quali che siano lo sforzo, la verità e la vita che vi si pongono. Il filosofo che abbia qualche idea scientificamente fondata da esprimere o esporre non si darà pena di ricercare particolarità remote, come invece sarebbe necessario per rappresentare la si­ tuazione in modo veritiero. Quanto a me, la rigorosa osserva­ zione dei modi di parlare e di vestire e, insieme, delle altre forme che caratterizzano un’epoca antica, si oppone già di per sé alla naturale libertà dell’opera d’arte; proprio per questo un dialogo, che deve provocare su di noi un effetto vivo, deve essere preso dal presente o esservi stato preso.» «Dunque» disse Clara «se il passato non può offrirci la ma­ teria, e se la realtà che ci circonda ce la offre in parte, pur gene­ rando alcune difficoltà, rimane in ogni caso una soluzione intermedia.» «Quale?» domandai.» «Che s’inventino dialoghi conformi alle caratteristiche della nostra epoca, ritagliati dal presente, senza tuttavia riferirsi a per­ sone determinate; dialoghi come si potrebbero tenere oggi, come, del resto, si tengono realmente. Ripeto ancora la mia domanda: perché mai non si potrebbe pensare a dialoghi come quelli che abbiamo l’abitudine di avere tra noi? Perché non redigere dialoghi come quelli che si svolgono nella realtà concreta?»

” Riferimento esplicito alla celebre Accademia fiorentina o platonica voluta da Cosimo de’ Medici, che a questo scopo nel 1462 donò la villa di Careggi a Marsilio Ficino perché vi si studiassero c traducessero i testi di Platone e della tradizione neoplatonica. Alle riunioni dcH’Accademia, che si tennero oltre che a Careggi anche a Camaldoli, alla Corte medicea c agli Orti Oricellai, presero parte, tra gli altri, Poliziano, Giovanni Pico della Mirandola, Leon Battista Alberti, Giuliano c Lorenzo de’Medici. Decaduta dopo la morte di Ficino e di Lorenzo, 1*Accademia fu sciolta nel 1552. 97

Clara

«O mia cara amica,» dissi «chi mai potrebbe rappresentare una Clara come quella che abbiamo di fronte, con tutta la grazia e la delicatezza dei suoi discorsi, tutto il fascino e l’incanto delle sue svolte improvvise, il gioco pieno d’anima ed eloquenza delle sue espressioni così dolci? Io, almeno, non ne sarei capace. In­ fine, bisognerebbe che il dialogo non apparisse come caduto dal cielo, e ciascuno, naturalmente, vorrebbe sapere sulle circostanze e le relazioni quanto è necessario per rappresentarsi i personaggi come individui reali.» «Ebbene» disse lei sorridendo «a quanto pare, per farlo, e per offrire un fondamento storico a un dialogo come il nostro, non vi sarebbe alcun bisogno di una straordinaria forza d’invenzione.» «E questo il punto» dissi. «Quali amari rimproveri si lancerebbero contro chi pubblicasse tali dialoghi, contro la mancanza e la pochezza della sua invenzione: soltanto pochi, infatti, si ac­ corgerebbero che qui l’esteriore deve occupare un posto del tutto subordinato e l’invenzione essere rivolta solo verso l’inferiore. E se, al contrario, fosse l’elemento storico ad avere maggior rilievo, a saltare agli occhi, so già che cosa si esclamerebbe: guardate, guardate questo ermafrodito composto da un romanzo e da un dialogo filosofico. Io conosco tuttavia qualche romanzo, giusta­ mente apprezzato, il cui contenuto, se l’opera fosse chiamata Dialogo morale, non tradirebbe il titolo.» «E che cosa vi sarebbe di spiacevole in questa composizione?» chiese Clara. «Davvero il romanzo, nella sua vita incerta, sospesa tra il dramma e l’epopea, non inclina al dialogico? Si potrebbe domandare se qualche altra forma più di questa si avvicini al dialogo filosofico del nostro tempo.» «Non lo so» dissi «ma il romanzo contraddice con la sua na­ tura l’unità di tempo e di azione, mentre nel dialogo filosofico ciò mi sembra tanto essenziale quanto nella tragedia, poiché in questa tutto procede in modo assolutamente interiore e tutto deve, per la stretta connessione dei pensieri, svolgersi per così dire sul posto, senza poter mutare il luogo in cui ci si è stabiliti una volta per tutte.» «Indubbiamente» disse lei sorridendo. «E ciò allo scopo di 98

Dialoghi durante una passeggiata difine inverno

non lasciar fuggire il delicato e fugace accordo dei pensieri, che spesso trova espressione in svolte improvvise del discorso?» «Certamente» dissi. «Tra tutte le obiezioni sollevate» prosegui «questa mi pare an­ cora la più significativa; ma nell’esecuzione si potrebbe certa­ mente evitare tale problema; oppure si potrebbe ricostituire l’unità, che in questo modo sarebbe lesa nel suo senso abituale, in un’unità superiore.» «Bisognerebbe fare una prova» dissi «poiché le sfumature pro­ prie di ciascuna forma artistica si apprendono soltanto nella sua esecuzione.» «Comunque vada» proseguì «avverto vivamente tutto il be­ neficio che questo modo di presentare le prospettive filosofiche potrebbe recare alla nostra epoca, che nella sua totalità aspira alla scienza. Ci si lamenta spesso delle insensatezze in cui si cade nel costruire i sistemi e le teorie filosofiche; ma non è forse per­ ché si utilizza un linguaggio artificioso?» «E vero» risposi. «Una testa del tutto priva di spirito può sem­ pre ripetere le parole artificiose, come si è potuto vedere in ogni epoca, e, di più, accostarle in modo personale, anche se questo fosse insensato o scorretto.» «Ma chi» disse «vuole presentare un argomento in un dialogo in modo familiare e privo di artifici deve veramente possederlo a fondo, averlo penetrato ed esserne stato penetrato. Del resto» aggiunse «non avrei alcuna stima di quel filosofo che non fosse capace di far comprendere il suo punto di vista fondamentale a ogni essere umano istruito e, se si presentasse il caso, a un sem­ plice bambino ben dotato e di buone disposizioni. E che cosa significa la separazione che esiste oggi tra i dotti e il popolo? In verità, vedo avvicinarsi i tempi in cui il popolo, condannato a divenire sempre più ignorante sulle questioni più profonde, in­ sorgerà e costringerà così i dotti a parlare: “Voi siete il sale della nostra nazione; perché non donate il vostro sapere anche a noi? Battezzateci nuovamente nel fuoco dello spirito; sentiamo di averne bisogno, poiché già troppo a lungo abbiamo languito e siamo precipitati in basso!”.» 99

Clara

Così, parlammo ancora a lungo di questo problema e di que­ sti rapporti, in parte in questa stessa conversazione, in parte in altre occasioni.

Verso la fine dell’inverno e l’inizio della primavera, scegliemmo una bella giornata per salire fino alla vecchia cappella nella fo­ resta. Strada facendo, Clara ci raccontò quello che il giorno prima le avevano detto i pescatori; il lago annunciava ravvici­ narsi imminente della primavera, l’improvviso innalzamento dello specchio dell’acqua e il suo repentino deflusso diminui­ vano, gli uccelli acquatici, che durante l’inverno scomparivano, erano ricomparsi. «Ho atteso con impazienza tutto l’inverno per vedere il lago» proseguì Clara. «Abbiamo parlato spesso e a lungo della vita degli spiriti, e avevo sempre dinanzi agli occhi l’immagine del lago. Non è certamente senza ragione che gli antichi hanno posto la dimora dei beati in isole bagnate dalle acque di un lago.» «Questa associazione di pensieri mi sembra del tutto natu­ rale» disse il medico. «II fiume è un’immagine della vita reale e trascina con sé la nostra immaginazione a immense distanze come in un lontano avvenire. Il lago è un’immagine del passato, dell’eterno silenzio e del compimento.» «Confesso che i suoi discorsi non mi hanno ancora soddi­ sfatto fino in fondo» proseguì Clara rivolgendosi a me. «Perché?» domandai. «Lo devo dire?» rispose. «Lei parla spesso di luoghi e regioni nell’invisibile, e anche di luoghi intermedi tra questo mondo vi­ sibile e il mondo propriamente invisibile; inoltre parla di un luogo superiore dove pochissimi uomini pervengono immedia­ tamente dopo la morte. Ebbene, è di questo luogo, che è l’au­ tentico cielo, che noi vorremmo formarci un’idea. Altrimenti, da dove verrebbe l’avidità con la quale accogliamo tutto quanto ci sembra dischiudere l’aldilà, anche quando ciò apparisse come un’illusione? Già il fatto che lei definisca questo soggiorno un luogo contiene un mistero. Anche gli spiriti potrebbero trovarsi in un luogo?» 100

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«Sicuramente» risposi «ciò appartiene a quanto vi è di più enigmatico, poiché questa affermazione si fonda sul mistero del luogo e dello spazio in generale, al quale non posso fare a meno di attribuire come fondamento qualcosa di reale. Consideriamo il problema nel modo seguente: come tutti gli esseri creati, noi non possiamo essere eternamente per noi stessi; dobbiamo dun­ que essere inclusi in un’altra cosa, che contenga anche gli altri esseri (ed è ciò che lei definisce “luogo”), così come molti hanno detto che Dio stesso è il cielo e il luogo degli spiriti, oppure che lo è la sua gloria.» «Dopo le sue parole» disse «non posso non considerare una rappresentazione quasi puerile la fantasia in cui molte persone si perdono cercando il loro futuro soggiorno o il loro cielo su una delle innumerevoli stelle che brillano sopra di noi.» «E tuttavia» dissi «la nostra ricerca intorno a queste alte que­ stioni sarebbe molto stimolata se avessimo maggiori certezze sul cosmo fuori dalla nostra terra, perché anche qui i nostri pen­ sieri non possono elevarsi in maniera sicura se non giungendo dal visibile all’invisibile; e come sarebbe possibile chiarire qual­ cosa intorno al mondo degli spiriti prima di aver riconosciuto il limite del mondo visibile?» «Questa conclusione non mi sembra molto chiara» disse il me­ dico. «E infatti importante conoscere i limiti nelle cose dai con­ torni fluenti e che si confondono le une con le altre; ma nel caso di cose radicalmente opposte tra loro, mi sembra indifferente.» «Già prima» risposi «ho dubitato, e ora dubito di nuovo, che la natura e il mondo degli spiriti siano opposti secondo la realtà così come lo sono secondo il concetto, infatti, il mondo degli spiriti è un mondo reale quanto il mondo sensibile; o dovremmo considerarlo un puro mondo di pensieri?» «Certamente no» rispose il medico. «Sicuro» dissi. «E abitudine della maggior parte degli uomini considerare lo spirituale come meno reale del corporeo; e tutta­ via, questa natura subordinata, di cui siamo i testimoni e gli os­ servatori, ci mostra già numerosi elementi spirituali che non sono in alcun modo meno reali né meno fisici di ciò che si in101

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tende in generale con queste parole. Inoltre abbiamo anche af­ fermato che qualcosa di fisico segue lo spirituale dopo la morte.» «E certamente così» disse. «Allora» continuai «non deve forse quest’altro mondo, o mondo spirituale, essere a suo modo fìsico, così come il mondo presente o fisico è a suo modo spirituale?» Tali parole parvero fare vivamente piacere a Clara, che mi do­ mandò perché non avevo detto queste cose già nella nostra prima discussione. «Forse è stato meglio così,» risposi «perché ora il suo piacere sembra due volte più grande; tuttavia già allora questa idea si trovava nei nostri pensieri.» Clara mi pregò con la più viva insistenza di dirle che cosa pensavo vi fosse di fìsico nell’altro mondo. Così affermai: «Nel momento in cui lei o un amico volete togliermi ogni in­ certezza circa questo cielo visibile, io voglio tentare di volgere gli occhi del mio spirito verso l’invisibile». «Tuttavia» disse Clara «questa incertezza non sembra essere così grande; nessuna scienza come l’astronomia è infatti così universalmente e giustamente lodata per la sua grandezza e la sua certezza dagli esperti e dai profani.» «La colpa» dissi «non si deve attribuire alla scienza, bensì a me. Come l’artista, anch’io ho un certo modello o archetipo nella mente, che condiziona il mio assenso. Se un’affermazione si accorda con esso, allora la sostengo, per quanto incredibile possa apparire esteriormente. Ma se questo archetipo interno la rifiuta, allora non posso credervi, quand’anche essa fosse este­ riormente tanto credibile quanto si voglia e anzi, come si suol dire, se anche fosse rigorosamente dimostrata. E esattamente questo che mi accade nei confronti dell’astronomia. Infatti tutto quello che gli astronomi possono aver scoperto della struttura del mondo nel suo insieme non trova in me alcuna rispondenza interiore, e quello che per me sarebbe interiormente verosimile non è stato ancora scoperto da nessuno.» «Allora» disse Clara «dovrebbe rivelarci che cosa è verosimile 102



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per lei nel suo sentimento intimo e che cosa inverosimile nelle opinioni comunemente riconosciute.» «Siamo qui tra di noi» dissi «e potrei anche tentare, ma non ora, soltanto quando avremo raggiunto la cima.» Eravamo infatti giunti a un punto dal quale, per la prima volta, si poteva vedere interamente il lago. Era una visione tale da estasiare. Senza un soffio di vento, il cielo azzurro con piccole nubi leggere riposava immobile sopra il lago e vi si rifletteva. Mossa dalla sua sola forza, l’acqua lambiva la riva con piccole onde; numerosi uccelli planavano qua e là sulla superfìcie del lago: parevano gioire della loro stessa immagine e molti sem­ bravano volerla catturare bagnandosi il capo e le ali. L’isola era interamente ricoperta da un colore verde speranza come da un tappeto; alcuni cespugli sparsi tra le tombe verso il centro erano già ammantati di foglie. Sulle montagne e nelle valli spuntava l’erba nuova; anche gli alberi delicati erano pieni di boccioli verdi; soltanto gli alberi vecchi e possenti, i faggi, le querce e altri ancora resistevano alla primavera elevandosi al di sopra degli altri, davanti e dietro di noi, nella loro nudità ancora in­ vernale. Sprofondammo per un lungo istante nel meraviglioso spettacolo di questo paesaggio che ritornava alla vita. Poi ci av­ viammo lentamente attraverso il prato che costeggiava il bosco fino alla vecchia cappella dove la nostra visita fu breve perché era ancora molto fredda e umida. Salimmo allora fino al limitare del bosco sedendoci sulle foglie, Clara in basso, di fronte al pae­ saggio, e noi di lato, mentre i fanciulli si sparpagliarono qua e là alla ricerca delle violette. Quando ci fummo riposati, il medico mi propose di spiegare nuovamente le mie idee. Allora iniziai a parlare. «Voglio cominciare con un racconto e una confessione che mi riguardano direttamente. Nella mia prima giovinezza avevo l’abitudine di prendere ogni cosa alla lettera. Così, quando mi dicevano che il sole e le altre stelle erano sopra di noi, credevo che si trovassero veramente in un luogo più elevato e più mera­ viglioso della nostra terra. Quando mi dicevano che Dio si tro­ vava in alto e che le anime degli uomini pii erano presso Dio 103

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nel cielo, intendevo tutto ciò letteralmente. Più tardi, quando crebbi, mi venne un insegnamento migliore. Mi si disse che l’alto e il basso erano solo concetti relativi e che sarebbe stato più esatto affermare che il sole si trovava al di sotto di noi poi­ ché, in realtà, noi cadiamo verso il sole tanto quanto siamo co­ stantemente attirati sia verso di esso sia verso la terra. Ma degli altri astri si potrebbe indifferentemente dire che si trovano al di sotto o al di sopra di noi. Da tutte le parti non vi era nulla se non un’insondabile profondità e, in fondo, null’altro che un mero “laggiù”. Non esisteva affatto un cielo come luogo supe­ riore ed eccelso; da ogni parte vi erano soltanto pianeti come la terra, che a loro volta avevano un basso in un sole simile al no­ stro, e probabilmente questi stessi soli erano a loro volta pesanti rispetto a qualche corpo ancora più grande, e se ne andavano così sempre più profondamente in un abisso incommensurabile, ma sempre più in basso; da parte mia, fui preso dalla vertigine, soprattutto di fronte ai numeri immani e alle masse incredibili. «Ora, avevo compreso bene (non è infatti difficile da com­ prendere) che i concetti quotidiani dell’alto e del basso si defi­ niscono in funzione della direzione in cui si orienta la gravità, ma tuttavia non cessavo di credere in un vero alto e un vero basso. Un giorno ebbi l’occasione di ascoltare una disputa tra due persone, delle quali luna affermava che l’universo era infi­ nitamente esteso nello spazio, l’altra che esso aveva un limite in qualche luogo; ma il primo, secondo il parere degli uditori, ri­ portò pienamente la vittoria, mentre l’altro se ne fuggì insieme a me sconfitto e pieno di vergogna. Durante il cammino, cercai di fargli coraggio dicendogli che aveva dovuto soccombere con­ tro l’affermazione opposta, senza tuttavia aver colpa alcuna: se infatti si accettava una volta per tutte, come loro due, che l’uni­ verso fosse completamente indifferenziato da qualunque lato e in qualsiasi estensione lo si fosse considerato, allora non vi era realmente ragione perché fosse limitato in alcuna parte; sarebbe stato più ragionevole affermare che si estendeva all’infinito. Se la pianta non crescesse fino al fiore e se non fosse limitata dal­ l’esterno, cosa che non è assolutamente pensabile nel caso del104

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l’universo, allora crescerebbe all’infinito. Ogni vivente può essere compiuto solo da un limite che gli doni un senso, ed è per questo che sarei pronto ad affermare che la testa, in un uomo, è l’alto, anche se non camminasse eretto, e in modo generale ammetterei sempre l’esistenza di un vero alto e di un vero basso, così come di una vera destra e di una vera sinistra, di un dritto e di un ro­ vescio. In generale, ciò che è compiuto è migliore e più eccel­ lente di ciò che è illimitato, anzi: nell’arte questo è il sigillo della perfezione. Tuttavia l’universo è il culmine della perfezione, non solo in sé, ma anche in quanto opera di un artista divino, e così domandai al mio interlocutore se non avrebbe fatto meglio ad affrontare il problema da questo lato, piuttosto che mediante concetti generali, e se non avrebbe dovuto porre al suo avversario il problema di sapere che cosa è più perfetto, una serie infinita di mondi, un eterno cerchio di essenze senza fine ultimo di per­ fezione, oppure il fatto che l’universo intero mettesse capo anch’esso a qualcosa di determinato, di perfetto. «Ciò lo illuminò assai ed egli sviluppò questa idea a mode suo, affermando che di un Tutto così compiuto non si potevi nemmeno affermare che lasciasse uno spazio fuori di sé; come, infatti, una statua ha il suo spazio in se stessa, e sebbene sia in­ differente al suo “fuori” (quand’anche ve ne fosse uno), così il Tutto dell’universo, in quanto opera d’arte contenente ogni cosa in se stessa, ha dello spazio soltanto dentro di sé e non è possi­ bile domandare che cosa esista fuori di esso. «Quanto a me, ormai perfettamente rafforzato nella mia fede, ammisi nuovamente resistenza di un vero alto e di un vero basso, e mi sforzai per prima cosa di estirpare la mortale uniformità che l’erudizione aveva introdotto nel mondo. Prima di tutto misi in dubbio che la gravità terrestre, estesa a tutto il sistema del­ l’universo con una speculazione troppo ardita, agisse al di fùori di un determinato ambito.40 Certamente la forza da cui proviene mi sembrava pur sempre universale, divina ed eterna, ma il suo

*’ Implicito riferimento polemico alla teoria della gravitazione universale di Newton.

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rapporto con i corpi terrestri non mi pareva né universale né ne­ cessario, e l’induzione con cui si passa dalla nostra terra agli altri soli mi sembrava un procedimento senza precedenti e non ri­ goroso in ogni parte. Così, invece di quell’unico rapporto della gravità al quale dovrebbero essere sottoposti i soli, e a loro volta i soli dei soli, immaginavo una grande moltitudine di altri rapporti e gioivo grandemente quando l’osservazione mi mostrava una cop­ pia di stelle che reciprocamente si muovevano luna attorno all’al­ tra, ma non attorno a una terza, oppure costellazioni la cui figura era incompatibile con l’esistenza di un punto centrale, per esempio gruppi di stelle dispiegati a ventaglio, o masse luminose confuse. Consideravo impossibile che la natura interiore o spirituale fosse stata originariamente separata da questa natura esteriore, come ora ci appare; giunsi dunque ad ammettere che il Tutto aveva preso questa forma attraverso una divisione e una separazione delle forze a partire da un Caos divino. «Se dunque in un lato dell’universo la grossolanità del cor­ poreo era cresciuta fino ad attingere necessariamente al suo punto estremo, allora dall’altro lato dell’universo l’elemento pu­ ramente demonico o spirituale aveva acquisito la preminenza, attingendo anch’esso in questa direzione un punto estremo, a partire dal quale si sarebbe prodotto un passaggio nel puramente spirituale. Soltanto in questo modo l’universo era veramente compiuto in entrambe le direzioni. «Se si ammette però, come tante ragioni spingono a pensare, che soltanto attraverso una corruzione più tarda una parte del­ l’universo sia stata interamente separata dalla natura spirituale, allora è tanto più necessario ammettere che, per.non lasciare in­ teramente cadere questa parte utilizzandola anche come materia per fini più alti, un nuovo processo di separazione abbia opposto ciò che rimaneva vivente e spirituale a ciò che era appassito e morto, e che sia così iniziato un nuovo sviluppo, attraverso cui persino dall’elemento corrotto potessero nascere dei frutti celesti. E dunque perché, in una parte dell’universo, la potenza dell este­ riore è divenuta la più forte e ha interamente respinto l’interiore, che l’altra parte si mantiene più libera, più pura e senza mesco106

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lanza: così si sono formati due mondi, mentre al principio la determinazione divina non ne aveva voluto che uno solo, ed è per questo che ora, attraverso la morte, dobbiamo passare in quest’altro mondo più puro. «E dunque questo luogo della purezza, dello splendore e della forza che chiamavo “il cielo” e che, non per lo spazio vuoto che si estende indifferentemente da ogni lato, ma per la sua stessa natura e la sua stessa essenza, non esitavo più a vedere come un luogo superiore; al contrario, consideravo la nostra terra come una parte di quella regione situata più in basso, nella quale, esat­ tamente come dice Socrate, abitiamo come sul fondo del mare, dove il sale dell’acqua corrode e dissolve ogni cosa, e dove non s’incontra mai nulla di puro e intatto, se non assai raramente.41 A proposito del cielo formulai l’ipotesi seguente: come la natura di ciò che è completamente investito dall’esteriorità è quella di non poter evadere da uno spazio definito, di non essere pene­ trata da alcuna cosa né di penetrarne alcuna, così al contrario il cielo penetra tutto e, conformemente alla sua natura, deve essere onnipresente. E poiché il cielo e la terra hanno conservato il ri­ cordo della loro unione originaria e sanno di appartenere pro­ fondamente l’uno all’altra, ciascuno di essi cerca l’altro; ma, in particolare, il cielo si sforza di attrarre il più possibile fuori dalla terra ciò che gli è simile e, nella morte, chiama a sé le anime purificate dal terrestre. Sono innumerevoli gli esempi dell’in­ fluenza del cielo sulla sfera terrestre, di modo che già ora la forza e la bellezza di ogni vita terrestre esistono solo grazie al cielo. «Fu dunque in questo modo che giunsi ad ammettere che il mondo spirituale, malgrado la sua contrapposizione al mondo

41 Schelling parafrasa qui un noto passo del Fedone platonico: «E in verità questa terra nostra e le pietre c tutta quanta la regione che noi abitiamo sono guaste c corrose come le regioni di dentro il mare sono guaste c corrose dalla salsedine; e nel mare non nasce cosa alcuna che abbia pregio c nulla v’è, diciamo pure, che sia perfetto, bensì vi sono abissi e sabbie c fango senza fine, e pantani dovunque sia anche terra, cose insomma che neppure sono da mettere a confronto con le bellezze di qui; c a loro volta le bellezze di lassù anche meglio dovranno apparire di gran lunga superiori a queste nostre di qui» (Platone, Fedone, llOa1 lOb, trad. it. di M. Valgimigli, in Id., Opere, Laterza, Bari 1974, voi. I, p. 175).

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visibile, è solo l’altro suo lato, e che entrambi, appartenendo ori­ ginariamente l’uno all’altro, non devono essere considerati così opposti come la maggior parte degli uomini suole credere. Mi divenne completamente chiara la totale realtà mondana [IVe/tlichkeit] del cielo, ovvero che esso era un insieme assai multi­ forme, ancora più multiforme di questo mondo visibile, una totalità e un universo immensamente ricchi di oggetti e di rap­ porti, in cui si trovava un gran numero di luoghi e di dimore. Sì, ammettevo anche una certa affinità tra i due mondi dal punto di vista della loro materia fondamentale. Infatti, tutto ciò che nel mondo visibile esiste in modo debole, passivo, sofferente e corporeo, nel mondo invisibile deve essere presente in modo attivo, forte e spirituale. «Giunsi inoltre alla conclusione seguente. Cose mai, dunque, ciò che anche nella cosa più sensibile ci rapisce? Non è forse precisamente lo spirituale? L’elemento corporeo e inattivo deve infatti rimanere senza alcun effetto sugli organi superiori dei sensi. Non agisce su di noi come un essere fugace e inafferrabile ciò che l’arte sottilissima di distinguere esercitata dai nostri sensi scopre nelle cose? Può esserci un rapimento più spirituale di quello a cui ci conduce la musica? Ciò che vi è di più delicato in ogni cosa è divino. Se dunque il divino e lo spirituale hanno veramente dimora e sono presso di sé solo in quell’altro mondo, allora lassù si deve incontrare qualcosa di simile a quello che quaggiù ci tocca spiritualmente attraverso i sensi, e ciò deve es­ serne la quintessenza, per così dire l’aroma e il profumo. Lassù, infatti, coglieremo l’essenza delle cose e non avremo più bisogno di distillare il succo dai loro rozzi contorni. Lassù ogni gusto deve essere buono, ogni suono melodioso, la lingua stessa deve divenire musica, in una parola, tutto deve trovarsi in un perfetto accordo; ma soprattutto quell’armonia che sorpassa tutte le altre, quella che nasce soltanto dalla risonanza identica di due cuori, sarà goduta molto più puramente e intimamente. Mi sembrava assolutamente incomprensibile che si fosse potuto dubitare che lassù il medesimo fosse unito al medesimo (voglio dire ciò che è interiormente il medesimo), e che ogni amore divino ed eterno 108

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già in terra vi trovasse il suo amato, non soltanto quello già co­ nosciuto quaggiù ma, di più, lo sconosciuto, quello verso cui aveva languito un’anima piena d’amore che in questo mondo aveva cercato invano il cielo corrispondente a quello che essa recava in petto; infatti, in questo mondo totalmente esteriore la legge del cuore non ha potere alcuno. Quaggiù le anime affini sono separate dai secoli, da immense distanze o dai rivolgimenti del mondo. Ciò che è più degno è posto in un luogo indegno, come l’oro mescolato al rame cattivo o al piombo che affiora tal­ volta in un filone. Un cuore elevato e pieno di nobiltà trova spesso intorno a sé un mondo selvaggio e vile, che rende laido e volgare ciò che è celestialmente puro e bello. «Ma lassù, dove l’esteriore sarà interamente subordinato al­ l’interiore, come qui è l’interiore che soccombe all’esteriore, lassù tutte le anime affini secondo il loro valore e contenuto interiori si dovranno attirare e dimorare in un’armonia non transitoria e caduca, ma eterna e indissolubile. E la simpatia che già quaggiù è una manifestazione del cielo, seppure debole e velata, lassù deve raggiungere un grado diverso di perfezione interiore, così come già qui noi osserviamo che i corpi, posti in stati più spiri­ tuali, avvertono più intimamente le affinità che li legano gli uni agli altri. Oppure, come mi è stato raccontato, spesso una toc­ cante compassione si stabilisce tra due persone che uno stesso medico ha posto in stato di chiaroveggenza, facendo in modo che l’una avverta le sensazioni dell’altra come se ne fosse lei stessa toccata, dividendo con l’altra il dolore e il piacere. E anche per ciò che concerne il modo in cui si esprime questa simpatia, non dubito che sia molto più perfetta lassù di quanto sia possi­ bile qui. Infatti anche il linguaggio contiene un’essenza spirituale e un elemento corporeo. 11 corporeo però, come ogni cosa, è li­ mitato ed è come morto di fronte allo spirituale; dal punto di vista corporeo, i linguaggi sono dovunque differenti e recipro­ camente incomprensibili. Vi sono casi sorprendenti in cui anche i corpi sembrano perdere questa proprietà gli uni rispetto agli altri: così si narrano certi strani casi, che non si possono negare, in cui uomini in estasi comprendevano lingue che prima erano 109

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loro sconosciute, o parlavano anche altre lingue come una volta accadde agli Apostoli.42 «Si potrebbe dedurre da ciò che, in tutte le lingue e specialmente nelle lingue più originarie, si trova qualcosa della purezza dell’elemento iniziale. Ma nel mondo degli spiriti, dove ci segue soltanto l’elemento corporeo interamente liberato e sciolto, si deve parlare la lingua vera e universale e si possono udire sol­ tanto quelle parole che sono una sola cosa con l’essenza e gli ar­ chetipi delle cose.43 Ogni cosa infatti reca in sé una parola vivente che lega l’elemento vocale e l’elemento consonante, e che è il suo cuore e il suo essere interiore. Lassù parlare non sarà né una necessità della comunicazione come qui, né un mezzo per dissimulare il proprio intimo essere invece di rivelarlo; ma come già quaggiù, anche se in modo molto ristretto, si può comunicare senza il mezzo di segni, attraverso un’influenza invisibile e forse fisica, così lassù questo modo di comunicare sarà perfetto e per­ verrà alla più alta libertà; non dubito quindi che quel divino gio­ vane uomo che, dipingendo la Trasfigurazione del Signore, abbandonò, trasfigurato egli stesso, il mondo, non avrà lassù alcun bisogno di pietre, di legno e di colore per rappresentare le cose, ma farà sorgere la rappresentazione degù archetipi, di cui quaggiù poteva mostrarci soltanto immagini, risvegliandola im­ mediatamente.44 Così, si potrebbero prefigurare ancora molte cose meravigliose sulla vita di lassù, non creando finzioni arbi­ trarie, ma deducendole da concetti ben fondati, benché la mag­ gior parte di queste cose potrebbe apparire incredibile ai viventi di quaggiù; ciò si può dedurre dal fatto che molti piangono i morti, non soltanto commiscrando se stessi perché sono stati abbandonati da quelli che erano stati più cari nella vita, ma com-

42Cfr. Atti 2,1-12. 43 Riferimento indiretto alla "lingua paradisiaca" nella quale, prima della caduta, Adamo impose il nome a tutti gli esseri viventi (cfr. Gen. 2,19-20).

44 Allusione a Raffaello e alla sua ultima opera, La Trasfigurazione di Gesù Cristo (1518-20), cui l'artista lavorò fino alla morte.

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miserando anche i morti stessi come se fossero stati privati di molte gioie di cui avrebbero potuto continuare a godere quag­ giù. Tuttavia non mi si potrà mai persuadere che una qualsiasi cosa squisita di cui questa vita subordinata ci abbia offerto il piacere, non s’incontri lassù più meravigliosa e più pura, né che la vita futura, lungi dall’essere per i buoni una vita migliore, sia piuttosto inferiore o peggiore. Se d’altra parte è vero che nel fondo di ogni cosa sensibile riposi una realtà spirituale, la quale sia in essa l’elemento veramente perfetto, tale realtà deve neces­ sariamente continuare a esistere, ed è questo che mi rende in­ capace di considerare la morte, come suol dirsi, un salto mortale, e, neppure, semplicemente un passaggio allo stato spirituale vero e proprio, ma un passaggio a una condizione maggior­ mente spirituale.» Durante il mio discorso, avevamo scorto una donna che, sotto gli alberi un poco più a valle, camminava su e giù nei pressi della cappella; la donna sembrava cercare la cassetta delle offerte e quando la trovò la vedemmo mettervi qualcosa. Poi cominciò a salire verso di noi lungo il sentiero, ma quando ci vide si arrestò a metà strada e parve esitare, come se stesse domandandosi se non fosse il caso di tornare sui suoi passi. Infine si riprese e per­ corse il sentiero fino in alto. La riconobbi subito. Era la moglie di un piccolo mercante di una cittadina situata a tre ore di cam­ mino. Quando ci salutò, le domandai che cosa l’avesse spinta fin lassù. Lei però tacque finché non le dissi di averla vista men­ tre faceva un’offerta alla chiesa e che quindi doveva nutrire un proposito particolare. «Va bene dunque,» rispose allora «vi confesserò tutto since­ ramente. So che siete un signore dal carattere mite e che avete rispetto del cuore. A Capodanno, il mio figlio più piccolo, un bimbo che mio marito preferiva a tutti gli altri, fu preso da una febbre maligna che diventava di giorno in giorno più pericolosa. Proprio in quel periodo il padre si trovava lontano, a una fiera, e io sprofondai in un’angoscia mortale. Mi dicevo: “Ah, devo proprio perdere il mio figlio prediletto e per giunta quando sono 111

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sola? Non crederà poi forse mio marito ch’io l’abbia trascurato e non soffrirà per questo due volte di più?”. Mentre mi lamen­ tavo così, un vicino mi prese da parte e mi disse: “In confidenza, vi voglio consigliare di fare un voto a san Walderich di... Egli ha già esaudito un gran numero di preghiere e ha compiuto dei veri miracoli”. Mi raccontò anche molte storie e mi disse che il santo, un giorno ch’egli si era trovato in uno stato di grande bi­ sogno, l’aveva aiutato. Allora gli dissi: “Che cosa dice mai? Io, una donna protestante, dovrei fare un voto a un santo cattolico? Se Dio lo vuole, mi aiuterà anche senza questo”. Tuttavia la cosa mi turbò, soprattutto quando costui mi raccontò che numerosi protestanti di tutta la regione riponevano in san Walderich la stessa fede dei cattolici; poiché la sua cappella si trovava là da tempi molto antichi e poiché era stata la prima nella regione, essi non avevano voluto abbandonare questa usanza e ogni anno venivano fatte molte offerte alla chiesa, benché i protestanti la lasciassero andare in rovina e non vi celebrassero più, se non di tanto in tanto, durante l’estate, la messa. Tuttavia, restavo ferma nelle mie convinzioni, benché quell’uomo conducesse con sé altre persone per persuadermi; una di loro mi disse tra l’altro: “Non rifiuti tutto in questo modo; così lei si addossa una re­ sponsabilità troppo grande; se suo marito fosse qui, lo farebbe certamente egli stesso”. Tutto ciò mi toccava profondamente il cuore. Infine, giunse la terribile sera in cui il medico mi disse che quella era l’ultima volta che sarebbe venuto, che dovevo farmi coraggio perché durante la notte il bimbo sarebbe morto. Mi sentii irrimediabilmente perduta e, quando lo stato del fan­ ciullo cominciò a peggiorare a vista d’occhio e non pareva più esserci alcun rimedio possibile, allora — fu più forte di me - nel profondo del mio cuore pronunciai il fervente voto di fare una grande offerta a san Walderich se mi avesse aiutato nella mia disperazione. Ed ecco che,» proseguì la donna «non era passata nemmeno mezz’ora, il bimbo cadde in un sonno profondo. Con­ tinuò a dormire fino al mattino, allorché mandai a chiamare il dottore. Quando giunse, si stupì profondamente che il bambino fosse ancora vivo. Al suo risveglio lo visitò e disse che ormai era 112

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salvo; era stato un miracolo — lo disse lui stesso — e tuttavia non sapeva nulla del mio voto. Qualche giorno più tardi tornò mio marito. Egli non fu meno felice di me e donò subito tutto quello che aveva guadagnato quell’anno, e forse anche di più, per man­ tenere la mia promessa. Oggi sono scesa al villaggio per prele­ vare una somma di denaro che un commerciante doveva ancora a mio marito. Ora sto tornando a casa, al di là del monte.» Allora dissi a quella donna: «Dio l’ha certamente aiutata perché Egli scruta i cuori; torni dunque a casa con l’animo in pace e saluti suo marito e i suoi bimbi». Il racconto ci aveva commossi e, prima di andarcene, re­ stammo seduti in silenzio ancora un istante. «Che piacere» dissi mentre c’incamminavamo «trovare nella nostra epoca ancora una traccia di fede! Come infatti ogni cosa, dalla più piccola alla più grande, si trova in rapporto con la fede, così è necessario che, quando essa viene a mancare, ogni nostra esperienza vacilli sempre più profondamente.» «Non si dovrebbe forse ammettere» disse allora Clara «che gli spiriti, che in certi luoghi furono oggetto di venerazione, siano divenuti per la magia di tale fede veri spiriti protettori di queste regioni? Non è naturale che coloro che furono i primi a portare in queste foreste la luce della fede, a piantare la vigna su queste colline e il grano in queste valli, divenendo così i fonda­ tori di una vita più umana in questi luoghi selvaggi e inaccessi­ bili, non è forse naturale che prendano parte in modo imperituro al destino del Paese e dei popoli che furono da loro educati e riuniti in un’unica fede? I padri del cielo dimenticheranno forse i loro figli rimasti sulla terra? Ed essi non sono forse veri e propri padri spirituali? Lo spettacolo di un popolo che custodisce an­ cora un santo protettore, verso cui può rivolgersi nei momenti del bisogno comune e da cui può attendersi aiuto e consolazione, mi commuove profondamente.» «Ma anche il “luogo” stesso» disse il medico «nasconde un mi­ stero. Certe opinioni che si professano, certe determinate visioni del mondo e delle cose sono legate a memoria d’uomo a certe 113

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regioni, e non soltanto presso i grandi popoli, come in Oriente, ma anche in piccole contrade e tra gruppi di uomini dai pensieri diversi. Tuttavia, anche l’organo superiore, che in questa vita è ri­ dotto ad apparire soltanto in modo fuggevole, è più costante e più saldo in certe regioni, e anche in questo caso non soltanto nei grandi regni, come nelle Highlands scozzesi dove viene chia­ mato “seconda vista”, ma anche - come so per esperienza - nelle regioni più piccole. Non erano legati a certe regioni e persino a determinati luoghi gli stessi oracoli degli antichi? E non do­ vremmo concludere che il luògo non è affatto indifferente per quanto concerne le cose superiori come si pensa comunemente? Non avvertiamo forse in ogni paesaggio una certa presenza spi­ rituale che qui ci attira e là ci respinge? E la medesima cosa vale anche per certi momenti particolari del tempo.» «In generale» dissi io «ci meraviglieremmo più spesso se, per­ dendo l’abitudine di guardare solo all’esteriorità delle cose e degli eventi, osservassimo che le circostanze che consideriamo come cause non sono che mezzi e condizioni, e che, senza che noi ci facciamo caso, gli spiriti si occupano di noi, conducendoci, a seconda che seguiamo gli uni o gli altri, alla felicità o alla in­ felicità.» «Ma perché» disse Clara «avviene così raramente e perché sembra così diffìcile che all’uomo si riveli la propria interiorità, attraverso la quale rimane tuttavia in costante relazione con il mondo superiore?» «Accade così» dissi «come per gli altri doni che la benevo­ lenza divina ci offre, in parte senza che li avessimo meritati, e attraverso i quali Dio eleva spesso ciò che è basso e che è con­ siderato meschino. In particolare vi è un segreto che la maggior parte degli uomini non vuole comprendere e cioè che questo dono non è mai offerto a colui che lo persegue e che, al contra­ rio, la prima condizione per ottenerlo è l’abbandono e la quiete della volontà. D’altra parte ho conosciuto molti uomini intelli­ genti che, non lasciando riposare la loro immaginazione né di notte né di giorno, hanno tentato con ogni mezzo di entrare in relazione mediante un’estasi — secondo quanto credevano - con 114

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i morti che avevano amato. Essi, tuttavia, non riuscirono mai a soddisfare il loro desiderio, mentre, al contrario, sembra che in ogni tempo vi furono uomini i quali, non cercando nulla di simile ma avendo l’anima pia e semplice, furono onorati della rivelazione dell’altro mondo. Trovo perciò giusto il comandamento che im­ pone all’uomo di non cercare mai rapporti con gli spiriti.» «Ogni desiderio violento è riprovevole e quell’aspirazione non mi sembra affatto possibile senza un elemento di violenza» disse Clara. «Non dovremmo in generale riservare con maggior premura ai defunti quella tenerezza che crediamo di dovere ai vivi? Chissà che essi non prendano più intimamente parte alla nostra esistenza di quanto pensiamo e chissà se il dolore che ci afferra violentemente, se l’eccesso di lacrime che versiamo per essi, non siano capaci d’inquietarli?» In quell’istante sbucammo dagli alberi che circondavano la chiesa e l’intero paesaggio, completamente illuminato da un dolce chiarore, si distese nuovamente di fronte a noi. Dopo un istante di contemplazione silenziosa, Clara disse: «Da dove deriva questo profondo attaccamento alla terra, per nulla legato a quelle che chiamiamo le gioie terrene, e che è compatibile con il sentimento della loro assoluta nullità? Perché questo legame, dal momento che siamo ardentemente convinti che l’altro mondo oltrepassa sotto ogni rispetto il mondo pre­ sente? Perché questo sentimento per cui è così duro separarsi dalla terra? Perché il brivido segreto che si prova, se non per la propria anima, almeno per quella degli altri, di fronte a questa separazione?». Allora dissi: «In questo tratto umano dobbiamo riconoscere la saggezza divina che l’ha posto nella nostra anima. Se un silenzioso sen­ timento non ci dicesse, anche dopo che il nostro giudizio su questa vita fosse stato ricondotto alla misura conveniente, che noi dobbiamo alla terra un certo attaccamento e che essa resterà sempre vicina al nostro cuore, non soltanto come una madre, ma anche perché divide con noi un unico e medesimo destino 115

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Clara

e un’unica e medesima speranza; e se l’Eterno non ci avesse proi­ bito di gettare uno sguardo chiaro e determinato sull’altra vita, chi mai avrebbe la pazienza di sopportare il tempo che Dio ha stabilito per lui, e chi non si sforzerebbe di andarsene al più pre­ sto da qui, dove anche nel corso della vita migliore non si rag­ giunge mai una sicurezza, una costanza, una vera soddisfazione, dove anche la gioia più pura lascia in noi un pungolo, dove un cuore, raramente in quiete, estrae dalla stessa dolcezza della vita un sottile veleno che infine ci conduce alla tomba? Io credo che persino qui si trovino un’intenzione e un disegno di Dio e che, anche dopo la morte, permanga nell’interiorità dell’uomo un sentimento di legame alla terra di cui era una parte, e che questa separazione sia veramente sofferta, perché al contrario la morte non sarebbe la morte; e questo sentimento affonda realmente le sue radici nel più profondo del nostro essere, perché senza dubbio Dio, meglio dei filosofi, si serve di tutto quanto noi la­ sciamo sulla terra di rozzo e grossolano». «Mi sembra» disse il medico «che riducendo la terra a un rango così mediocre, molte cose potrebbero anche mutare nelle rappresentazioni religiose.» «A mio parere non è così» replicai. «Certamente la terra non occupa più il centro. Nondimeno, se l’unico disegno finale di Dio è che l’interiore sia reso il più possibile manifesto nell’esteriore, allora le due estremità, quella in cui il più interiore è conservato in tutta la sua purezza e quella in cui esso è massimamente cor­ poreo ed esteriorizzato, acquisteranno un’importanza uguale; e se possiamo rappresentarci la creazione vivente e perpetua come un circuito in cui il corporeo è elevato costantemente allo spiri­ tuale e lo spirituale abbassato al corporeo, finché i due elementi si siano più o meno penetrati e unificati, allora questo circuito attingerà il suo vero fine solo nel momento in cui ciò che vi è di più alto e spirituale sarà disceso in ciò che vi è di più corporeo, in cui il più basso e il più opaco sarà elevato a ciò che vi è di più spirituale e radioso. Sarà su questo limite ultimo del mondo, in cui il frutto della creazione diviene interamente massa e corpo­ reità, che nel corso del tempo l’apparizione del più puro e del più 116

Dialoghi durante una pasteggiata difine inverno

spirituale diverrà necessaria, e che all’inverso ciò che proviene dal più basso e dal più grezzo, e cioè l’uomo, dovrà essere elevato secondo la sua ultima destinazione alla più alta e alla più delicata spiritualità. La creazione non potrà infatti trovare riposo se non quando il più alto sia ritornato nel più basso, e anche in questo caso è giusto affermare che i primi dovranno diventare gli ultimi e gli ultimi i primi.» «Comprendo bene questa idea» disse allora lui «e tuttavia non possiamo ammettere che la terra sia il punto più basso e più cor­ poreo dell’intero universo, poiché, anche a partire da tutte le nostre conoscenze, ciò è inverosimile. Possiamo invece supporre che la natura dei pianeti si liberi e si sciolga tanto più dal corporeo quanto più essi siano distanti dal sole; oppure potremmo attenerci soltanto al loro grado di densità così come gli astronomi l’hanno determi­ nato; in nessun caso, però, la terra apparirà un punto limite.» «Il senso di quel che volevo dire non era esattamente che il punto limite si trovasse in un solo pianeta; non si può tuttavia negare che i pianeti più bassi siano le regioni in cui la corporeità è dominante. Considerato per sé, l’uomo sarebbe sufficiente per convincermi di questo. In lui, l’essenza più fuggevole e delicata sembra legata a un elemento così tenace e così duro che per questo soltanto lo collo­ cherei su un gradino molto elevato della scala degli esseri, e com­ prenderei come sia stato favorito rispetto a quelle creature che Dio creò come a partire da se stesso, senza utilizzare per esse l’elemento esteriore che è presente nella nostra composizione; o anche rispetto a quelle che sono state formate dalla parte più delicata di questa materia estranea e così subito compiute.»45 «Sembra che in questo rapporto» disse Clara «accada al­ l’uomo quanto accade nell’opera d’arte. Ciò che è delicato, spi­ rituale, non riceve il suo valore più alto se non affermando la sua natura, una volta trasposto in un elemento che gli resiste e gli è estraneo. Là dove la dolcezza ha ragione della forza, è là che sorge la più alta bellezza.»

45 Cfr. Gcn. 2,7-8.

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Clara

«Ricordo» dissi «di aver udito in tempi lontani il visionario nordico46 parlare appropriatamente di queste cose. Nella mia gio­ vinezza, le sue parole su tale questione le trovai soddisfacenti. Egli pensava infatti che il Signore era nato su questa terra a causa dell’amore del Verbo, che soltanto qui avrebbe potuto essere ma­ terialmente trasmesso, scritto e conservato nella precisione della lettera. Sosteneva che noi giungiamo troppo rapidamente a con­ clusioni sulla base di similitudini. E in sé inverosimile che su qualche altro corpo celeste la specie degli esseri ragionevoli si trovi stretta da un legame così attivo e universale come - attra­ verso il commercio e i viaggi, le lingue e le leggi, la pace e la guerra - accade qui per il genere umano. Affermava anche che sugli altri mondi gli esseri vivevano semplicemente riuniti in fa­ miglie, lontani dai rapporti artificiali e dai molteplici intrecci ai quali il bisogno, il desiderio di attività e un istinto di socievolezza universalmente diffuso avevano condotto l’uomo. Là si stabili­ vano soltanto rivelazioni orali attraverso gli spiriti e gli angeli, che, non essendo legate a un medium così stabile come da noi, svanivano e si disperdevano facilmente. Negli abitanti dei diversi mondi, inoltre, si dovevano scorgere le differenti membra di un uomo immenso e, tra questi, l’uomo della nostra terra rappre­ sentava il senso naturale o esterno: era l’ultima tappa cui perve­ niva l’interiorità della vita e in cui riposava come nel suo proprio essere comune \gerneinschaftliches Wesen]. Ugualmente, la parola pronunciata e scritta era il termine e il punto finale di tutta la ri­ velazione divina, il luogo in cui essa era trapassata senza residui nell’esteriore e in cui il Verbo era, propriamente, divenuto carne. E, a mio avviso, si potrebbe ancora aggiungere che la lingua, come la conosciamo, è propria solo della terra. Forse, in altri mondi, essa è infinitamente più semplice e più prossima alla musica, forse ri­ sveglia sensazioni fiiggevoli piuttosto che comunicare pensieri e, forse, penetra fin nel profondo del cuore. E dunque compito di quelli che studiano la natura scoprire se, anche in altri rapporti, il

46 Ancora un riferimento implicito a Swedenborg (si veda, mf>ra, la nota 32).

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Dialoghi durante una passeggiata difine inverno

grado determinato di animazione da cui sorge la parola vivente sia proprio della terra. Allo stesso modo non è il più prezioso dei metalli, bensì un metallo meno prezioso, quello che getta la luce più viva; così il senso che esige gli organi più potenti e più corpo­ rei è anche il senso più interiore; al contrario, il senso esterior­ mente più interiore e più spirituale è intcriormente il più esteriore. Ma ciò sembra avvilupparci in garbugli troppo strani tra l’inte­ riore e l’esteriore perché io possa proseguire questo discorso.» «Prendendo però l’argomento nel modo più esteriore e comune,» replicò il medico «ovvero considerando le relazioni numeriche, non dovrebbe essere impossibile trovare significativi il punto e il luogo occupati dalla terra. Non so infatti quale segreto presentimento mi spinga a essere così fermamente convinto che, tra i pianeti, la terra debba avere una destinazione particolare, anche a prescindere dalla fede che vede in essa la scena della più manifesta e più perfetta ri­ velazione divina.Tuttavia, la maggior parte dei tentativi che si sono fatti fin qui per trovare la legge di una serie che ordinasse i differenti mondi mi sono sembrati o non essere abbastanza scientifici o de­ rivare da presupposti artificiosi e falsi.» «Se si volesse ritornare» dissi allora «all’antica maniera di con­ tare, che ha molti vantaggi, e servirsi nuovamente del numero sacro che ne possiede ancor di più (dopodiché ci si potrebbe at­ tendere che questa numerazione venga ulteriormente superata da nuove scoperte ed estesa), niente ci impedirebbe di ammet­ tere un Settenario che si ripetesse e nel seno del quale la terra occupasse esattamente il luogo di mezzo al livello più basso. Ma qualunque esso sia, un essere che può venire elevato da una notte così profonda a una luce così alta mi sembra giustificare le più grandi speranze. Vi sono metamorfosi di fronte alle quali anche i più grandi eventi della vita interiore ed esteriore dell’uomo perdono ogni importanza; e mi sembra che un essere vada in­ contro a tali metamorfosi quando appaia destinato a riunire in sé, come Dio, le più distanti estremità dell’esistenza...»

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La primavera

Ah, primavera! Ah, tempo del desiderio, di quale brama di vivere riempi il cuore! Da un lato, il regno degli spiriti ci attrae verso di sé poiché sentiamo che solo in questa altissima e fervida in­ timità della vita può consistere la vera beatitudine; dall’altro, at­ traverso innumerevoli meraviglie, la natura richiama i sensi e il cuore alla vita esteriore. Com’è duro a sopportarsi che l’interiore e l’esteriore siano di per sé insufficienti, e come sono pochi gli uomini capaci di riunirli entrambi in sé! In fondo è pur sempre una sola e medesima vita, sotto due forme differenti. Perché mai queste forme non possono esistere insieme, e perché un’unica vita non scissa non può essere fin dal principio la nostra sorte? Voi dite che sono state separate per colpa dell’uomo e invero devo crederlo dal momento che non scorgo nessun’altra possi­ bilità di spiegazione. Ma non esisteranno mai insieme? Sono separate per sempre? Non giungerà mai il tempo in cui l’inte­ riore avrà interamente penetrato l’esteriore e l’esteriore sarà completamente trasfigurato in interiore, e in cui insieme mani­ festeranno un’unica vita indistruttibile? O forse nella natura presente non si compirà ogni cosa attra­ verso tre gradi? La prima forza della natura non è forse diretta verso la sola esistenza singolare ed egoistica delle cose, e non agisce fin dall’inizio un’altra forza contro di essa, una forza orientata verso la spiritualizzazione, la fervida interiorità e unità del loro essere, finché le due forze riconciliate in un solo e identico essere assur­ gano a un livello superiore e si compia una vita organica, sempre 120

La primavera

mobile, aperta a tutto ed esistente di per sé? E non sono forse le medesime forze che, separate e in conflitto negli esseri inorganici, si mostrano unite e in armonia negli esseri organici? Non sono le medesime, in un senso più alto, che attivano il conflitto nella vita presente? Non ci si trova infatti in questa condizione nel primo stadio della vita? Non è forse la forza spiritualizzante che, nella morte, riporta la vittoria, e non siamo grazie a essa elevati a uno stadio e a una potenza superiori? In questo grande sviluppo della natura non si deve mai rag­ giungere lo stadio propriamente organico che d’altra parte essa raggiunge già nella cerchia limitata della vita interiore? Non do­ vremmo forse vedere apparire progressivamente queste stesse tre potenze che qui percepiamo contemporaneamente e l’una accanto all’altra? Non dovrà verificarsi anche nel tempo la me­ desima progressione che percepiamo nello spazio? Che cosa sarà mai quel triplice legame di anima, corpo, spirito? Ovvero, che cosa avverrà del compimento se nella vita presente il corporeo tenesse, per così dire, prigionieri lo spirito e l’anima? Se, nello stato che segue la morte, lo spirito divenisse libero senza chi l’anima si elevi mai alla sua vera essenza? L’anima infatti regne­ rebbe soltanto se le forze che qui ancora si combattono, se cioè lo spirito e il corpo, completamente riconciliati, fossero forme di una sola e medesima vita non scissa. La beatitudine [Seligkeit\ è libertà e dominio dell’anima [See/e]. E impossibile che lo stato in cui l’anima è subordinata allo spirito, e il corpo assorbito dal suo contrario, sia già la piena beatitudine. E impossibile credere che l’intera natura corporea sia stata tratta dal nulla per ritornare un giorno eternamente nel nulla, mentre a durare in eterno sa­ rebbe la sola vita spirituale. La corporeità non è imperfezione, al contrario: quando il corpo è penetrato dall’anima, è la pie­ nezza della perfezione. La sola vita dello spirito non è sufficiente al nostro cuore. Vi è qualcosa in noi che reclama una realtà es­ senziale; i nostri pensieri si arrestano solo all’ultima unità; la vita scissa deve essere seguita dalla vita unificata. La quiete definitiva dell’anima si trova soltanto nell’esteriorità compiuta: nello stesso modo in cui l’artista non si acquieta nel pensiero della sua opera 121

Clara

ma soltanto nella sua rappresentazione corporea, e come ogni uomo infiammato da un ideale lo vuole trovare e manifestare in una figura corporea e visibile, così il fine di ogni desiderio è il corporeo perfetto in quanto immagine riflessa e specchiata dello spirituale perfetto. Fu pressappoco così che Clara ci parlò, quando, nei primi giorni di primavera, ci recammo sul monte da cui si poteva scor­ gere il paese amato della sua terra natale. La vasta pianura si era tramutata in un mare di fiori e di luce; tutto era inondato da un piacere nuovo, ricolmo di estasi; era uno di quegli istanti in cui, rapiti dall’onnipotenza della vita della natura, ci sembra di essere in un presente eterno, inaccessibili agli attacchi della sofferenza. «Non vi meravigliate di questo brusco discorso» proseguì lei mentre stavamo ancora in silenzio. «Spesso e a lungo abbiamo parlato delle cose a venire, ma non mi sarei potuta acquietare prima di essere pervenuta col pensiero alla fine dei tempi. La primavera ha suscitato in me questa fioritura di pensieri e di speranza; mi è nuovamente apparso con chiarezza nell’intimo — e mi ha toccato il cuore — che noi siamo figli della natura, che le apparteniamo secondo la nostra prima nascita e non possiamo mai separarci interamente da essa; se non appartenesse a Dio, nemmeno noi potremmo appartenerGli, e se essa non potesse divenir una sola cosa con Dio, anche la nostra unione con Lui dovrebbe essere imperfetta e persino impossibile. Non soltanto noi, anche l’intera natura brama in Dio \sehnt sicb in Goti], dal quale è stata assunta nel principio. «Ora è certamente assoggettata alla legge dell’esteriorità e anch’essa, come tutto ciò che vive al suo interno, deve percorrere una dopo l’altra le due forme della vita che, seguendo il suo de­ stino, non ha potuto immediatamente unificare. Anche questa solida costruzione del mondo si risolverà un giorno nello spiri­ tuale; ma soltanto questa forma esteriore si dissolverà; la forza interiore e la verità rimarranno per riapparire in una nuova tra­ sfigurazione. Il fuoco divino, che ora riposa rinchiuso in essa, prenderà un giorno il sopravvento e allora consumerà tutto ciò che è entrato nella natura solo attraverso la violenza che ha re122

Lei primavera

spinto la vera interiorità; ritornando così al suo stato iniziale, essa non sarà più l’opera delle sue sole forze che trattiene in sé, prigioniere, le forze divine. Lo spirituale e il divino si riuniranno liberamente nell’essere purificato. «Io parlo di queste cose come chi sta soltanto presentendo, ma non possiede propriamente alcuna conoscenza. Anche noi, per concepire questa elevazione e questo ingresso nella perfe­ zione della materia, prenderemo le mosse da questo stato pre­ sente d’abbassamento e d’imperfezione. Dovremmo considerare per prima cosa le qualità che ora ci fanno apparire la materia opposta allo spirituale e la rendono realmente tale, per concepire poi quelle altre qualità attraverso cui un giorno la materia non sarà più che un solo essere con lo spirituale.»

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Note di Schelling per un ipotetico seguito dello scritto, apportate sul retro:

Realtà del mondo degli spiriti (del passato) Umanità perfetta degli spiriti Molteplicità. Sue rappresentazioni \Vorstellungen\ I.

La clairwoyance in generale

IL In particolare, in che cosa consista a) opposizione alla scienza, tutto è immediato, nulla di me­ diato; forse qualcosa della serie progressiva delle scienze tra loro. Tutto in un sentimento immediato. b) Senza lotta — La lunga quiete; anche il peccato è scom­ parso. c) Nessun ricordo delle cose come assenti. Nessun passato. d) Fervida interiorità della comunità, emanante dall’ultima parte.

III. Se lo stato di clairvoyancc è applicabile anche alla danna­ zione e se non esiste uno stato intermedio tra felicità e in­ felicità?

IV. Sulla questione del “dove”?

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Sul significato del mondo degli spiriti per la storia del pensiero filosofico in Germania♦5 di Alfred Baeumler

«Destinazione per l’aldilà» e cristianità sono inconciliabili perché il Verbo si è fatto carne. Per il filosofo il mondo feno-

* Questo breve testo proviene dal lascito di Alfred Baeumler. dal quale sono stati recente­ mente pubblicati alcuni frammenti di carattere estetico in A. Baeumler, Estetica e Annota­ zioni sulla teoria dell'arte, a cura di G. Lacchin, Premessa di G. Moretti, Unicopli, Milano 2009. Va qui ringraziata espressamente la signora Mariannc Baeumler per la gentile con­ cessione. Lo scritto di Alfred Baeumler è databile tra il 1961 e il 1966. Nella presente tra­ duzione le indicazioni bibliografiche, inserite da Baeumler in modo incompleto direttamente nel testo, sono state integrate, aggiornate c, ove necessario, rettificate; si è cercato, inoltre, di indicare le traduzioni italiane esistenti delle opere citate e, ove possibile, il passo citato. Le parti tra parentesi acute sono state cancellate da Baeumler. Le parti tra parentesi tonde () sono di Baeumler, quelle tra parentesi quadre [] contengono invece inserti del Cu­ ratore.

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Clara

menico non significa la terra nella sua fissità, né la sensibilità né la carne. Il mondo fenomenico, secondo costui, esiste sol­ tanto a causa dell’imperfezione delle monadi. E per lui dun­ que possibile il caso in cui esistano unicamente degli spiriti.1 Se la lode di Dio e del mondo intelligibile conduce a una sorta di superamento di questo mondo, allora la premessa dell’incar­ nazione è svanita, l’apparizione di Dio e della sua passione perde la sua serietà e la sua gravità. Pertanto questa qualità morale di Dio, che Lo rende il Signore o il Monarca degli spiriti, Lo concerne, per così dire, personalmente in un modo del tutto particolare. E proprio in questo che Dio si uma­ nizza, che Egli può essere oggetto di antropologie (il veut bien souffrir des anthropologies')* e che entra in società con noi, come un Principe con i suoi sudditi.3 U filosofo non sa nulla della “condizione di servo” \Knechtsgetalt\, per lui tutto è pura gloria. (Quanto questa discesa di Dio sia lontano da ciò che il Vangelo intende dire quando afferma che il Signore umiliò se stesso \Erniedrigimg des Herrri\* non occorre sottolinearlo.) La dottrina di Dio come sovrano degli spiriti costituisce il nocciolo delle rappresentazioni del mondo intelligibile nella fi­ losofia tedesca fino alla Logica di Hegel e perfino oltre. Essa però non può essere dedotta dal Luteranesimo originario. Non era possibile estrarre una filosofia della gloria umana dalla teo­ logia di Lutero. Ci imbattiamo qui in una relazione del pen-

’ Cfr. G.W. Leibniz, Essati de Théodicée, a cura di J. Brunschwig, Garnier-Flammarion, Paris 1969, parte II, cap. 120, pp. 174-176; trad. it. Saggi di teodicea, a cura di V. Mathicu, San Paolo, Milano 1994, pp. 274-276.

2 La traduzione tedesca citata da Baeumler riporta: er stimmi za, Menschlichkeiten zu erdtdden (letteralmente: “acconsente a sopportare cose umane”).

3 G.W. Leibniz, Discours de métaphysique strivi de Monadologie et autres texles, a cura di M. Fichant, Gallimard, Paris 2004, cap. 36; trad. it. Discorso di metafisica, a cura di A. Sani, La Nuova Italia, Firenze 1992, p. 76. 4 Cfr. FI. 2,8 (Baeumler rinvia erroneamente a FI. 2,5).

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Sul significato del mondo degli spiritiper la storia de!pensierofilosofico in Germania

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siero leibniziano con lo sviluppo della teologia protestante nel XVII secolo. La ribellione sociale e religiosa degli anabattisti continuò nel movimento pietista all’interno della Chiesa e, dopo lunghe lotte, sconfisse infine il potere dell’ortodossia ra­ zionalista. Pietismo significa: rinnovamento della Chiesa dal suo interno, a partire da una devozione cristologica. Si era con­ sapevoli che il Dio, fattosi carne, legava la fede della Chiesa a questa terra, per così dire, con i chiodi della croce. Si può dun­ que ancora fare un discorso su perfezione e imperfezione se non è più possibile parlare delle verità immutabili? Attraverso l’incarnazione il rapporto degli uomini con Dio viene gettato nel fluire del tempo, il rapporto con Dio diventa storico. Con la “carne” tutto è coinvolto: crimine e miseria, bellezza sensuale e piacere, esistenza storica e orrore, e, alla fine, la liberazione dalla morte e dal peccato. Soltanto a partire dall’unica rivela­ zione è possibile parlare di Dio in modo cristiano. Al posto della “perfezione” e dei suoi misteri [Mysterien] razionali è posto, terreno e greve, il Mistero [Gebeimnis]. Qui diventa evidente quale significato Hamann rivesta per il suo secolo. Con il ritorno a Lutero, egli inaugura un movimento contrario a tutto ciò che deriva da Leibniz, che sia ontologia o che nasca da un pensiero ontologico. Considerato dal punto di vista della teologia della croce, il discorso intorno ai mondi pos­ sibili deve apparire come sacrilego. Che cosa mai potrebbero es­ sere questi altri mondi? Essi sarebbero soltanto mondi privi di colui che ci ha portato il nuovo patto [Bund\ con Dio. La terra e la sensibilità che ci lega a questa terra compaiono in una luce mat­ tutina piena di promesse. Un eone che retrocede e uno a venire sono intrecciati l’uno all’altro, il bene e il male si combattono, tutto è in movimento. Una promessa è stata fatta, verrà il giorno della separazione della luce dall’oscurità e il Signore è vicino. Qui tutto è attesa di un evento, ciò che sta oltre il tempo è indissolu­ bilmente legato alla realtà di ciò che nel tempo pazienta e spera. Il mondo invece che, tra tutti i possibili, è stato scelto e rea­ lizzato per grazia di Dio, giace in una trasfigurazione senza tempo. Un’unione di essenze senza peso costituisce il suo noe129

Clara

ciolo. Il mondo delle monadi è come una comunità di piccoli dèi (petits dieux).s Ogni monade riposa in se stessa ed è stata accordata da Dio in armonia con tutte le altre. Le monadi con una facoltà rappresentativa più forte vengono definite come anime. Le anime dotate di ragione [Vemunft\ (àmes raisonnables) o gli spiriti (esprits) formano, insieme a Dio, il regno di­ vino, la cité de Dieu, la città di Dio che costituisce un mondo morale all’interno del mondo naturale (un monde maral dans le monde naturel).b Per descrivere la nostra unità con Dio, Leibniz si è sempre servito dell’espressione secondo la quale viviamo come «bambini nel regno di Dio». Tra i teologi che lo hanno influenzato, spetta un posto particolare a Johannes Cocceius.7 Il teologo riformato Cocceius (1603-1669) sposta il patto [Bund\ di Dio con l’uomo, spezzato da Adamo e rinnovato da Cristo, al centro di un si­ stema che riceve la sua impronta caratteristica dalla viva rap­ presentazione del percorso di salvezza da Adamo a Cristo. Per la “teologia federale” la ripresa del termine paleocristiano «mi­ nistero della grazia di Dio»8 è caratteristica. La traduzione di Lutero evita questa espressione. «Cielo e terra periranno» si può ’eggere nella confessione cristiana alla fine del Discorso di meta'sica, piuttosto che mutino la parola di Dio e ciò che riguarda economia della nostra salvezza.9 La parola “economia” (am­ ministrazione domestica [Haushaltung]) rinvia al patto [Bund]

5 Cfr. G.W. Leibniz, Système nouveau, a cura di C. Frcmont, Flammarion, Paris 1994, cap. 25 (Baeumler indica erroneamente cap. 5); trad. it. Il nuovo sistema, in Id., Scrittifilosofici, a cura di M. Mugnai ed E. Pasini, UTET,Torino 2000, voi. I, pp. 552-559; nonché Id., Discours de métaphysique, cit., cap. 36; trad. it. Discorso di metafisica, cit., pp. 75-77. 6 Cfr. Id., Monadologie, edizione bilingue francese-tedesco a cura di H. Hccht, Rcclam, Stuttgart 2005, cap. 86; trad. it. La monadologia, a cura di Y. Colombo, La Nuova Italia, Fi­ renze 1992, p. 184. 7 Johannes Koch, poi latinizzato in Cocccius, comunemente in italiano Cocccio, teologo protestante ed ebraista, antiscolastico con forti interessi verso la storia della salvezza.

8 Ef. 3,2; cfr. anche lCor. 4,1. La traduzione tedesca citata da Baeumler parla di òkonomie der Gnade (letteralmente: “economia della grazia”). 9 Cfr. G.W. Leibniz, Discours de métaphysique, cit., cap. 37; trad. it. Discorso di metafisica, cit., p. 78.

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Su! significato del mondo degli spiriti per la storia delpensierofilosofico in Germania

di grazia di Dio con gli uomini {foedus gratiaé) che, secondo Cocceius, è stato istituito dopo il patto [Bund] d’opere {foedus operunì). Con l’apparizione di Cristo comincia il regno della li­ bertà. Allo stato delle cose ante legem è seguito lo stato sub lege e a questo lo stato post legem. La legge ora non ci comanda più, come cristiani viviamo come i bambini nella casa del Padre.10 Il fatto che un’economia della grazia e la dottrina delle verità necessarie si escludano reciprocamente, non viene tenuto in con­ siderazione da Leibniz. Nel fallimento filosofico si riflette la ce­ cità nei confronti del problema cristologico. Gesù Cristo è apparso presso gli ebrei sotto Ponzio Pilato. Nel sistema delle ve­ rità necessarie e di quelle accidentali questo evento unico non trova collocazione. Non ci aiuta, non merita attenzione. «Verità contingenti di tipo storico non possono mai diventare prova di verità necessarie» dirà più tardi Lessing.11 La famosa affermazione si inserisce nella vivace discussione cristologica che costituisce il tema nascosto del XVIII secolo in Germania. Hamann rispose a Lessing nei Frammenti di una Sibilla apocrifa (1779) con la frase «hoc est corpus meum».n Si trattava della risposta del cristiano al­ l’emarginazione della sensibilità e della corporeità dell’uomo, dello spazio e del tempo da parte dell’ontologia leibniziana. Leibniz ha legato il concetto ontologico di perfezione al prin­ cipio di continuità. Questo principio presuppone che esistano passaggi per gradi dall’assoluta mancanza alla perfezione. In un

10 Cfr. G. Schrcnk, Gottesreich und Bund im àltcren Protestantismus, vornehmlich bei Johannes Coccejus, Bcrtclsmann, Giitcrsloh 1923 (ristampa anastatica WBG, Darmstadt 1967), p. 120. 11 G.E. Lcssing, Oberden Be-weis des Geistes undder Krafì, in Id., Werke, voi. XIX, a cura di L. Zscharnack, Olms, Hildeshcim-Ncw York 1970, p. 47; trad. it. Sopra laprova dello spirito e dellaforza, in M.F. Sciacca e M. Schiavane, Grande antologiafilosofica, voi. XV: lìpensiero moderno (secc. XPII-XPllI), Marzorati, Milano 1968, pp. 1557-1559. Nell’originale il passo citato recita però così: •Zufallige Geschichtswahrhciten kònnen der Brweis voti notwendigcn Vernunftsivahrheiten nie werden» («Verità contingenti di tipo storico non possono mai di­ ventare prova di verità necessarie di tipo razionale»).

12J.G. Hamann, Konxontpax. Fragmente einer apokryphischen Sibylle iiber apokalyptisebe Mysterien. Zzuey Scherjlein zur neuesten deutschen Litteratur. Recension der Critik der reinen Vemunft. BrieJ'e von 1779 bis 1784, in Id., Schriften, a cura di F. Roth, Rcimer, Berlin 1824, voi. VI, t. 6.

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mondo di Dio sottoposto alla lex continui l’apparizione unica di Cristo non può trovare posto. Questa è anche la ragione per cui nelle Idee di Herder si parla di Gesù Cristo soltanto come di un «maestro dell’umanità».13 La continua ascesa verso la perfezione può soltanto essere turbata da un’apparizione storica che, allo stesso tempo, spezza scandalosamente la storia. Quando Herder stava scrivendo le Idee era leibniziano e concordava con le ricer­ che naturali di Goethe. Lo legavano a Hamann ormai soltanto simpatie personali. mondo intelligibile. Per il mondo morale o per la cité de Dieu, Dio ha disposto tutto in modo che in questa parte del mondo {laplus noblepartie de lunivers) si dif­ fonda la più grande felicità possibile {félicite). Il depotenzia­ mento della salvezza religiosa {salut) a felicità {félicite) trasforma la concezione dell’uomo da dinamica in statica. All’interno di una concezione del mondo che è determinata dalle verità ne­ cessarie, le promesse e la speranza \Erwartung) non trovano posto, perché l’ontologia non può coesistere insieme alla dina­ mica temporale. Leibniz parla di àmes raisonnables ed esprits, e nessuno sa dire se si tratti di angeli o di uomini. Naturalmente pensa agli uo­ mini ma il metodo ontologico è indifferente nei confronti della distinzione. Dove il pensiero è determinato dall’ontologia non può nascere una dottrina filosofica dell’uomo perché qui l’uomo non è mai al centro. L’uomo come essenza autonoma può essere colto soltanto in connessione con la storia dell’umanità. Un ontologo parla sempre e soltanto di mondi nel senso che “mondo” significa una connessione regolata che riposa in sé. Il compito che con Leibniz era stato posto all’ontologia era quello di rico­ noscere la connessione del mondo morale tanto quanto quella del mondo naturale \physiscb\. Nonostante i suoi studi storici, e

13 Cfr. J.G. Herder, Ideen zar Philosophie der Geschichte der Menschheit, Aufbau, Berlin 1952, voi. XVII, pp. 492-532; trad. it. Idee per lafiloiofia della itoria deU'umanità, a cura di V. Verrà, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 331-335.

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Su! significato del mondo degli spiriti per la storia delpensierofilosofico in Germania

nonostante un vivace senso storico, come filosofo Leibniz non è entrato nel mondo storico e, di conseguenza, non ha fondato un’antropologia - sebbene nessuno quanto lui abbia contribuito così tanto alla conoscenza dell’uomo. Per porsi all’interno del fluire del tempo, per pensare in termini di eoni, avrebbe dovuto abbandonare il suo sistema ontologico. Tutte le teste pensanti del XVIII secolo vengono coinvolte in un gigantesco confronto sul mondo intelligibile. I filosofi parlano dell’uomo, intorno al quale comunque tutto ruota, molto spesso soltanto in modo casuale e a margine. La fre­ quente espressione “natura umana” non mira a un’antropologia autonoma. La problematica dei filosofi è tuttora, come per gli occasionalisti, incentrata sulla regolarità [Gesetzmàfìigkeit\ del mondo naturale [physisch] e di quello intelligibile. E questo il contesto che determina e condiziona la stesura degli scritti di filosofia morale di Kant. L’inizio di questi scritti si trova non a caso nelle ultime pagine dei Sogni di un ‘visionario chiariti con sogni della metafìsica (1766). Le difficoltà che la Critica della ragion pratica oppone a un’interpretazione esatta, affondano le proprie radici nel fatto che il pensiero fondamentale proviene da una situazione spirituale che è stata da tempo superata. La Critica della ragion pratica nasce a partire da un mondo di rappresenta­ zioni che dev’essere definito come “pre-critico”. Concetti come quelli del sommo bene, del regno di Dio e dell’intelligibile non si trovano a margine, bensì al centro della concezione. Con grande arte \Kunst\ il concetto stoico del dovere viene formalmente spo­ stato al centro, costringendo così lo scrittore Kant a una costru­ zione concettuale altamente sottile e virtuosa. Su questo sfondo la posizione storica di Kant si pone in una nuova prospettiva. Sulla soglia della critica della conoscenza si trova il confronto di Kant con le ingenue concezioni che Swedenborg aveva del mondo intelligibile {Sogni di un 'visionario chiariti con sogni della metafisica, Yltà)- Per il filosofo la difficoltà consisteva nel fatto di trovare una via d’uscita dalla confusione che era nata dall’identificazione di ontologia e morale nel sistema leibniziano. Attraverso la definizione della monas come sostanza 133

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semplice e rappresentante si era trasformata la morale in onto­ logia e l’ontologia in morale. Esistevano oramai soltanto diffe­ renze d’essere [Seinsdifferenzen] tra rappresentazioni chiare e oscure; sul terreno del sistema dell’armonia non era possibile un conflitto tra ciò che è e ciò che dovrà essere in futuro. Scompare l’elemento profetico-temporale della religione, la citéde Dieu può essere rappresentata unicamente come eterno presente e quindi in modo mistico. Qui non trova posto quella problematica del­ l’esistenza umana in riferimento al mondo intelligibile, tale da far nascere la morale. L’etica si scioglie nell’ammirazione della bellezza dell’universo, l’uomo perde il suo lato oscuro e la sua pesantezza. Tutto lo sforzo di Kant mira a preservare la serietà della nostra esistenza temporale con la sua contraddizione, senza sacrificare l’appartenenza dell’uomo a un mondo intelligibile. La Critica distrugge non il mondo degli spiriti, ma soltanto la folle illusione [ Wahn\ dell’accesso immediato a un mondo di essenze superiori, di un’esistenza di sostanze. L’errore fondamentale che nel XIX secolo è stato commesso nei confronti del senso autentico della Critica della ragion pura ha prodotto il grottesco fallimento di questo secolo nei confronti della metafisica. In tutta serietà si presupponeva che Kant avesse annientato per sempre ogni premessa di religione e metafìsica, quando invece il suo immane lavoro mirava a porre la fede nel mondo intelligibile su un terreno sicuro dal punto di vista an­ tropologico. Ammesso anche che la Critica della ragion pratica sia soltanto una costruzione di necessità, tale costruzione neces­ saria lascia comunque almeno intrawedere e riconoscere che si tratta dell’uomo e che questo uomo, senza ledere la propria in­ tellettuale coscienza morale [Gewissen], dev’essere definito nel modo più esatto possibile come essere dotato di una destinazione superiore. Cos’altro è questa impresa se non ciò che, durante gli ultimi anni di vita di Kant, Goethe e Schiller stavano tentando di raggiungere caparbiamente, con mezzi poetici, ma nello spi­ rito dell’Antichità e in coerenza con il proprio secolo? Il passo dalle anime e dagli spiriti verso gli uomini doveva in ogni caso essere fatto. Tuttavia, di fronte alla premessa della 134

Sul significato del mondo degli spiriti per la storia del pensierofilosòfico in Germania

dottrina delle monadi, in che modo ciò sarebbe stato possibile? A partire dal concetto delle àmes raisonnables non era possibile risolvere il problema delTagire morale. L’uomo che agisce pog­ gia i propri piedi su questa terra, vuole sapere ciò che deve fare qui e ora. Non è sufficiente alzare lo sguardo verso la saggezza e la bontà eterne. E impossibile spiegare sempre in ogni detta­ glio l’ammirevole saggezza di Dio (l'admirable économie de ce choix), fintantoché siamo dei viandanti su questa terra (dans ce monde). Nell’ambito della morale nasce necessariamente la que­ stione del soggetto dell’agire. Non è più sufficiente rinviare alla monade, qui si tratta di un essere [ Wesen] in condizioni terrene; detto in modo teologico: l’uomo in hac lacrimarum valle {dans cette vallèe de misères)™ Se si rispondesse alla domanda sul soggetto morale a partire dalla dottrina delle monadi, si otterrebbero strane conseguenze. Leibniz non ha tratto tali conseguenze ma noi le troviamo rap­ presentate dal giovane Schiller. All’epoca in cui stava proget­ tando VInno alla gioia, scriveva anche la Teosofia di Giulio.13 Il leibniziano Giulio trasforma la monade, che è interamente forza creativa, in un essere [Wesen] morale. Trasforma la forza in virtù e la virtù in forza. Noi stessi entriamo in quello stato che percepiamo. In quell’attimo nel quale le pensiamo siamo possessori di una virtù, autori di un’azione, in­ ventori di una verità, proprietari di una beatitudine. [...] La beatitudine che io mi raffiguro diventa la mia beatitudine, quindi sono interessato a suscitare queste rappresentazioni, a moltiplicarle, ad accrescerle - quindi sono interessato a distribuire intorno a me beatitudine.16

14 Si veda la variante Icibniziana nel testo in G.W. Leibniz, Ausgewàhlte philosophische Schriften, a cura di H. Schmalcnbach, Meiner, Leipzig 1914, voi. 1, p. 40, n. 129.

14 Cfr. F. Schiller, Theosophic des Julius, in Id., Werke in drei Bónden, a cura di H.G. Gòpfert e G. Frickc, Hanscr, Miinchcn 1966, voi. I, pp. 707-718; trad. it. Giulio e Raffaele. Lettere filosofiche e poesie scelte, a cura di M. Mayr, Il segno, Verona 1983. Si veda a questo proposito anche la lettera di Schiller a Rcinwald del 14 aprile 1783. 16 Ivi, pp. 709-710; trad. it. ivi, pp. 26 e 28.

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Con la leggerezza di un gioco si compie qui il passaggio dall’io al tu, dall’egoismo all’altruismo. Il coraggioso progetto di un’etica entusiasta era sufficiente, secondo Schiller, soltanto per un at­ timo; tuttavia esso si mantiene in forma modificata nell’“anima bella”. Grazia \Anmut], identificazione di spirito ed essere, per­ fetta leggerezza - in ciò è pur sempre ancora contenuto qualcosa dello stato di grazia [Gnade\, del quale partecipano le anime per­ fette in Leibniz. E stato lungo e pesante questo cammino che ha portato fuori dal mondo delle monadi e dentro l’esistenza umana. Kant lo ha percorso. Ma già Leibniz lo aveva visto con piena chia­ rezza. In che relazione stanno le nostre azioni rispetto a noi? Non sono esse predisposte da Dio? Non sono forse predestinate? «Forse è certo da tutta l’eternità che io peccherò?» O forse anche no! «Senza pensare a ciò che non potreste conoscere, e che non può darvi alcun lume, agite secondo il vostro dovere, che cono­ scete (suivant votre devoir que vous connaissez).»11 Il Discorso di metafìsica è del 1686. Nel 1766 viene pubblicato il libro di Kant su Swedenborg. Anche Kant rifiuta la specula­ zione metafisica e rinvia alla coscienza immediata dell’uomo. E che? L’esser virtuoso è forse cosa buona solo perché vi è un altro mondo, o piuttosto le azioni non diverranno un giorno meritorie solo perché esse furono in se stesse buone e virtuose? Non contiene il cuore dell’uomo immediate norme morali, e si deve forse, per muoverlo qui [allhier\ in conformità alla sua destinazione, mettere in tutto un altro mondo le macchine?18 11 fatto che in questo passo Kant si riferisca con una certa resistenza al mondo degli spiriti dei monadisti è evidente. Non ha egli forse,

17 G.W. Leibniz, Discours de métafhysicjue, dt., cap. 30; trad. it. Discorso di metafisica, dt., p. 64.

18 I. Kant, Tràume eines Geistersehers, erlàutert durch Tràume der Metaphysik, in ld., Werke in sechs Bànden, a cura di W. Wcischcdcl, WBG, Darmstadt 1998, voi. I, p. 988; trad. it. Sogni di un visionario chiariti con sogni della metafisica, in Id., Scritti precritici, a cura di R. Assunto e R. Hohencmser, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 404 (traduzione modificata).

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con i suoi accenni, prodotto proprio ciò che noi cerchiamo? Qui, di fronte a noi, sta l’uomo, un essere [ fflesen] di questa terra (fl/ìhier), un essere [fflesen] che trae da se stesso i motivi del proprio agire. Questo essere non pone domande metafisiche: sono colpe­ vole o non colpevole? determinato o libero? Tale essere agisce se­ condo la sua voce interiore. Sembra che sia avvenuta la grande scoperta: il soggetto morale, l’uomo, indipendente dalle teorie dei metafisici, è stato messo in marcia — verso una meta ignota. Tuttavia, è proprio vero che una definizione dell’uomo debba avvenire a margine [aàseits] della metafisica? La metafisica è forse soltanto una dottrina del mondo degli spiriti? Ciò che Kant vuole, si può capire: l’agire non deve dipendere dalla co­ noscenza di un mondo sovrasensibile, esso è chiamato alla sfida qui e ora. Infatti, la conoscenza non avrà mai fine, colui che agi­ sce, invece, non ha tempo. Non deve dipendere dalla compren­ sione razionale [Verniinfteinsicht] della natura spirituale dell’anima, se si conduce o meno una vita virtuosa. Fin qui tutto è chiaro. Ma è permesso spingersi oltre: la vera saggezza è compagni della semplicità [Einfalt], costruiamo dunque a partire dai sen­ timenti di un’anima ben formata [•wohlgeartet], sulla base di una «fede morale»! Con fede morale Kant intende una fede che non ha bisogno di aiuti storici come le sacre scritture o i santi nomi (lettera a Lavater del 28 aprile 1775).19 Deve dunque la filosofia concludersi con un rinvio alla sem­ plicità e all’immediatezza di una fede morale? Siamo giunti fino all’“uomo”, ma soltanto pagando il prezzo di aver rinunciato al­ l’aiuto della filosofia. Non si può misconoscere un tratto di ri­ sentimento nei confronti della metafisica se, alla fine dei Sogni, Kant si rivolge contro la speculazione:

Abbandoniamo dunque queste rumorose composizioni dottrinarie su oggetti così lontani alla speculazione e alla cura di teste oziose. Essi

” Cfr. Id., Gesammelte Schriften, Akadcmieausgabc, voi. X: Briefwecbsel 1747-17SS, de Gruy­ ter, Berlin 1922, p. 175.

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infatti ci sono indifferenti e la momentanea apparenza di ragioni prò o contra può decider forse del plauso di una scuola, ma diffìcilmente della sorte futura degli onesti.20

Senza dubbio questo è ingiusto e pecca di superbia perché alla spe­ culazione non interessano unicamente i «segreti dell’altro mondo». La metafisica è la dottrina dell’essere, la dottrina della conoscenza e dell’anima.Qui occorre inserire la leva! Questa è la via che Kant con la sua dissertazione del 1770 ha cominciato a percorrere e che lo ha condotto fino alla Critica della ragion pura. Il fatto che l’uomo giunga alla felicità unicamente attraverso la pratica, è una dottrina che Kant ha recepito fin dalla più gio­ vane età. Per essere certi della salvezza non occorre la cono­ scenza di dottrine sofisticate, bensì una vita devota. Desumiamo dai cenni sul rapporto tra filosofìa teoretica e pratica, risalenti all’epoca dello sviluppo dei suoi pensieri, con quale sicurezza il filosofo stava avanzando lungo il percorso che gli era stato pre­ disposto dalla praxis pietatis.

Se si traspongono i concetti ontologici su soggetti umani, nasce quella scienza idealista dell’uomo, che a volte viene defi­ nita come “etica”. Il passaggio leggero da concetti di sostanza a soggetti possiede un certo fascino; tale passaggio pone l’intel­ letto in uno stato di fresca ebbrezza, nel quale il possibile è anche l’effettuale e il reale \_das Wirkliche\. Che strana creatura è diventato l’uomo sulla via dell’ontologia! A quale mondo appartiene? Certamente a entrambi. «Infelice

30 Id., Tràumc eines Geistersehers, cit., p. 989; trad. it. Sogni di un visionario, cit., p. 405.

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cosa, a metà tra angelo e bestia» — la definizione di A. v. Haller21 non porta a espressione un’opinione ontologica, essa è piuttosto la formula del XVII secolo espressa in modo personale. Come derivazione dell’ontologia, l’uomo non si può distinguere da un essere angelico. Dal momento che l’ontologia tratta le con­ dizioni fondamentali più generali {unum, veruni, bonunì), essa è rivolta completamente al perfetto, al permanente e all’eterno. Come potrebbe concepire l’uomo se non come dotato delle qualità dell’essere più alto? Essa non tollera né contraddizioni insuperabili né imperfezioni nell’immagine dell’apice della creazione. Nel cerchio magico del “possibile” che diventa reale, si man­ tiene, sospeso tra definizioni etico-poetiche, uno spirito beato. Non si deve però essere così sprovveduti da conferirgli il nome di “uomo”. Quanto è grande lo svantaggio dell’ontologo in que­ sto campo nei confronti del naturalista, che è capace di descri­ vere così correttamente la “macchina” del corpo! Non si è andati oltre i due partiti dei naturalisti [Physiker\ e dei leibniziani. Ma poi è arrivato Kant e ha chiesto all’anima di mostrargli il passa­ porto; l’anima non ne aveva, poiché non era di questo mondo. E durante l’indagine sono state scoperte più cose di quante i materialisti e gli scettici avrebbero mai potuto immaginare. Pensieri razionali intorno a Dio, al mondo, all'anima dell'uomo e anche a tutti gli enti in generale', questo è il titolo della metafisica di Christian Wolff (1719). «Tutti gli enti in generale» sono le essenze {entid) dell’ontologia. Il programma di metafìsica che qui viene concepito è stato sviluppato al più alto livello soltanto dalla filosofìa dello spirito di Hegel: la logica tratta le “essenze” e la metafìsica tratta l’anima, il mondo e Dio. (La via traversa che porta Hegel dal trattato su Fede e sapere, attraverso la Feno-

21 Bacumlcr si riferisce al medico e botanico svizzero Albrecht von Haller (1708-1777) che scrisse anche numerose opere letterarie. L’autore cita, probabilmente a memoria, un passo dal secondo libro del poema ÌJber den Ursprung des Ubels {Sull'origine de! male], che però re­ cita nell’originale: «Zweideutig Mittelding t'ori Engeln und von Vieh» («Ambigua cosa, a metà tra angeli e bestie»). Cfr. Albrecht von Haller, Gedichte, a cura di L. Hirzcl, Verlag von J. Hubcr, Fraucnfcld 1882, p. 129 (ultima pubblicazione: Id., Versuch sc/rweizerischer Gedichte, Georg Olms, Ziirich 2006).

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inenologia, fino alla Scienza della logica e ^Enciclopedia è il per­ corso del destino della filosofìa tedesca. L’inizio di questo per­ corso si trova nella Critica della ragion pura. Ci rivolgiamo a quella sezione della Critica che si potrebbe definire come “guar­ diano della soglia”.) Nella prima sezione della dialettica trascen­ dentale, nei paralogismi della ragione pura, viene distrutto il concetto metafìsico di anima attraverso l’analitica. Nella di­ stanza da questa sezione si può misurare il percorso del pensiero verso gli abissi della filosofìa dell’io. Ciò che qualche definizione indica come conoscenza di sé, si fonda nell’autocoscienza. Si presuppone che l’anima dell’uomo possegga un accesso lineare a se stessa. L’espressione cogito ergo sum ha come significato: pensando io esisto [denkend existiere ich\. Il cogitare è legato al problema dell’essere, l’essere e la co­ noscenza dell’essere si uniscono nell’autocoscienza e diventano identici l’uno con l’altro.

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Postfazione

Markus Ophàlders (1962), nato negli Stati Uniti da genitori tedeschi, insegna Estetica all’Università degli Studi di Milano. Le sue ricerche vertono principalmente su problemi di teoria estetica e di filosofia della storia nella riflessione filosofica tedesca del XLX e XX secolo. Ha pub­ blicato numerosi saggi dedicati al Romanticismo e all’idealismo tedeschi nonché alla Scuola di Francoforte. Tra le sue più recenti monografie ri­ cordiamo: Labirinti. Saggi di estetica e critica della cultura (Milano 2008) e Filosofia, arte, estetica. Incontri e conflitti (Milano 2008). Ha inoltre cu­ rato i volumi Fenomenologie e arte. Immagini efigure rifesse nellafilosofia (Milano 2004); Etica dellafilosofia. Studi su Theodor W. Adorno (Milano 2007); Spengler. Ein Denker der Zeittuende (con G. Merlio e M. Gangl, Berlin-New York 2009). 142

Anima, corpo, secolarizzazione della morte di Markus Ophàlders

Ilproblema è questo: come devesserefatto un mondo per un ente morale?'

Non si conosce con precisione la data in cui Friedrich Wilhelm Joseph Schelling compose lo scritto Clara oder iìber den Zusammenhang der Natur mit der Geister'welt. Esso tuttavia appartiene certamente al periodo compreso tra il 1809 e il 1811, e con ogni probabilità all’anno 1810, quando Schelling, di fronte a un ri­ stretto gruppo di uditori e amici, tenne le cosiddette Lezioni di Stoccarda. Per la consonanza e la vicinanza di tematiche e pro­ spettive, Clara e le Lezioni sembrano infatti costituire un unico blocco all’interno dell’itinerario speculativo di Schelling. Il manoscritto di Clara è incompiuto: dei quattro dialoghi che, secondo la successione delle stagioni, avrebbero dovuto co­ stituire l’ossatura e la struttura dell’opera, possediamo soltanto i primi due, corrispondenti all’autunno e all’inverno, più un bre­ vissimo frammento, cui Manfred Schròter, nel 1946, attribuì il titolo La primavera nella sua edizione dei Weltalter (Età del mondo)} Schelling stesso sembra avesse manifestato il desiderio che il manoscritto, dopo la sua morte, venisse distrutto. Esso apparve invece postumo nel nono volume dei Sàmmtliche Werke, a cura del figlio Karl Friedrich Schelling, presso l’editore Cotta.3 Da allora, Clara ha conosciuto in Germania alcune edizioni sin-

1 G.W.F. Hegel (?), F.W.J. Schelling (?), F. Hoklcrlin (?), Ilpiù antico programma di sistema dell'idealismo tedesco, a cura di L. Amoroso, ETS, Pisa 2007, p. 21.

2 Cfr. F.W.J. Schelling, Die Weltalter, a cura di M. Schròter, Leibniz, Munchen 1946. ’ Cfr. Id., Sàmmtliche Werke, Cotta, Stuttgart 1856-1861, voi. IX, pp. 1-110.

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gole o in sillogi schellinghiane: un’edizione separata, che è stata prescelta per la presente traduzione in lingua italiana, nuova­ mente presso Cotta;4 una seconda edizione separata aus dem Nachlass ergànzt, a cura di Schròter, presso l’editore Leibniz.5 L’edizione più recente è quella oggi contenuta nella silloge Ausgewàhlte SchriftenlJHi Qlara esiste infine una traduzione francese a cura di Elisabeth Kessler7 e una inglese a cura di Fiona Steinkamp.8 La presente, seconda edizione italiana è frutto di una revisione della prima traduzione, uscita nel 1987 e curata insieme a Piercarlo Necchi che qui colgo l’occasione per ringraziare.9 Rispetto alla prima edizione il testo è stato in­ tegrato con XIntroduzione a un trattato filosofico dal titolo Darstellung des Ubergangs von der Philosophie der Hatur zur Philosophie der Geisterujelt (Esposizione delpassaggio dallafilosofia della natura alla filosofia del mondo degli spiriti) che Schelling avrebbe voluto scrivere e che, per le tematiche trattate e per il metodo utilizzato, dimostra avere una strettissima affinità con Clara, tanto da precedere il dialogo anche nei Sàmmtliche Werke. Inoltre sono stati aggiornati e integrati i rinvìi bibliografici con­ tenuti nell’apparato di note al testo. Per quanto concerne la collocazione dello scritto all’interno dello sviluppo tortuoso e “proteico” del pensiero di Schelling, Clara può dirsi appartenere al periodo comunemente definito della “filosofìa della libertà”, e va dunque letto in stretto rapporto

4 Cfr. F.W.J. Schelling, Clara, oder Zusammenhang der Natur mit der Geisteriuelt, Cotta, Stuttgart 18652, pp. 1-180.

5 Cfr. Id., Clara oder ùber den Zusammenhang der Natur mit der Geistcrucit. Ein Gespràcb, Leibniz, Munchcn 1948.

6 Cfr. \A.,Ausgc-wàhlte Schriften, a cura di Manfrcd Frank, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1985, voi. IV: Schriften 1807-1834, pp. 97-212. 7 Cfr. Id., Clara ou Du lieti de la nature au monde des esprits, L’Hcrne, Paris 1984. * Cfr. Id., Clara or On Nature'* connection to thè spirit tuorld, State University of New York Press, Albany (NY) 2002. ’ Cfr. Id., Clara, ovvero Sulla connessione della natura con il mondo degli spiriti, a cura di P. Nocchi c M. Ophàlders, Presentazione di S. Zecchi, Guerini e Associati, Milano 1987.

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/Inima, corf>o, secolarizzazione della morte

con le opere che — a partire dalla “svolta” di Filosofia e religione (1804), attraverso la complessa, ma centrale, riflessione meta­ fisica rappresentata dalle Ricerchefilosofiche sull'essenza della li­ bertà umana (1809) e la “parentesi” delle Lezioni di Stoccarda (1810) — preludono all’inesausto tentativo di portare a termine le Età del Mondo (1813-14), nelle quali si annuncia in tutta la sua radicale portata il problema di fondo dell’ultima filosofia di Schelling: la distinzione e il rapporto tra filosofia “negativa”, puramente logica, e filosofia “positiva”, che avrebbe dovuto co­ gliere il reale essere storico e all’interno della quale mitologia e rivelazione costituiscono le colonne portanti. Ma oltre lo sfondo speculativo e riflessivo, Clara sembra af­ fondare le sue radici anche nella tragica esperienza di vita del­ l’autore. Il 7 settembre 1809, infatti, era improvvisamente mancata Caroline che, dopo aver ottenuto il divorzio da August Wilhelm Schlegel, aveva sposato Schelling nel 1803. Si noti, a proposito, che il dialogo comincia proprio all’inizio dell’autunno e avrebbe dunque dovuto concludersi con una quarta parte de­ dicata all’estate. Caroline Michaelis (1763-1809), che Schiller, per la spietatezza dei suoi giudizi, chiamava Madame Luzifer, era stata una figura significativa del circolo romantico dell’Athenàum di Jena, e negli anni trascorsi con Schelling collaborò cori il filosofo alla stesura di alcune recensioni. La morte della mo­ glie gettò Schelling in una profonda disperazione. Come già Novalis a causa di Sophie e Hòlderlin a causa di Susette (Dio­ tima), anche Schelling attraversò in quel periodo l’esperienza del lutto e della perdita. A Monaco, dove non riusciva a trovare consolazione alcuna, la vita gli divenne insopportabile. Così de­ cise di trasferirsi a Stoccarda dove si fermò dal febbraio all’ot­ tobre del 1810 e dove, appunto, scrisse probabilmente di getto le pagine di Clara. A partire da qui, la riflessione escatologica e, alla fine, religiosa dell’opera, al cui centro si trova il problema del destino ultimo dell’uomo, della vita dopo la morte, e che fa di Clara - emblematicamente - il Fedone di Schelling, non può non apparire come il tentativo estremo del filosofo di corrispon­ dere con il pensiero e la parola, con la riflessione e il concetto, 145

Clara

a quel grumo opaco di dolore, alla «tremenda realtà» della morte, cui Schelling pare alludere quando, nelle Lezioni di Stoc­ carda, scrive:

Ci sono dei casi in cui l’intelletto non può più dominare la follia che sonnecchia nelle profondità del nostro essere. Così l’intelletto non può offrire consolazione a un certo dolore.10

Per questo, nel linguaggio di Clara, sarebbe stata necessaria un’uanima”. Il nucleo concettuale, intorno al quale il dialogo verte, può infatti essere individuato nel concetto di anima così come viene elaborato dall’io narrante, ovvero dal pastore, e dal medico; tale concetto viene rappresentato, però, soprattutto dalla persona di Clara, che è emblema dell’anima, bella, sensibile e attenta, ma soprattutto è colei che regge il filo conduttore del dialogo e che cerca continuamente di conciliare le posizioni del medico con quelle del pastore. Clara cerca di trovare una propria via attra­ verso i discorsi contrapposti dei due interlocutori che, in sintesi, possono essere considerati come rappresentazioni rispettiva­ mente del corpo e dello spirito, del naturalismo e dell’empiri­ smo, dell’idealismo e dello spiritualismo. Il personaggio di Clara è invece rappresentazione dell’anima, ma lo è all’interno di una problematica particolare, quella della redenzione e della salvezza non solo dello spirito ma anche del corpo; per Schelling, un possibile mondo superiore, un mondo degli spiriti, soprattutto dopo la morte, non può affatto limitarsi alla rarefatta presenza di esseri spirituali privi di corpo. Anzi, nelle sue più profonde visioni il mondo superiore dovrebbe essere pieno di corpi e di spiriti intimamente e profondamente mediati dalle anime. Na­ tura e mondo degli spiriti trovano un punto di contatto e me­ diazione attraverso l’anima: ciò che a Schelling interessa non è

10 F.W.J. SchcUing, Scritti sullafilosofia, la religione, la libertà, a cura di L. Pareyson, Mursia, Milano 1974, p. 181.

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Anima, corpo, secolarizzazione della morte

tanto il passaggio dal mondo naturale e fìsico a quello di un al­ dilà spirituale e incorporeo, quanto la possibilità di un’unione e di una mediazione tra il naturale e lo spirituale. In tale media­ zione la morte occupa un posto centrale, ma anch’essa deve es­ sere mediata, ovvero secolarizzata: la morte infatti è metafora di qualcosa che dobbiamo imparare a vivere qui e ora, non solo passaggio estremo nel mondo ultraterreno. Dal punto di vista fìlosofìco-metafìsico non meno che da quello esistenziale e con­ tingente, a Schelling interessa la Seligkeit, la beatitudine, la fe­ licità legata appunto all’anima, Sede, che è presente già ora, in questa vita, e che getta un ponte tra il nostro corpo sensibile e l’aldilà sovrasensibile, un aldilà che non deve contenere soltanto un residuo naturale o fìsico, ma tutta la natura nella sua presenza corporea, resa però eterna. In questo modo, al divenire inces­ sante e contingente della vita naturale e corporea, s’imprime­ rebbero le caratteristiche dell’essere imperituro ed eterno. Nel dialogo, la redenzione, sia quella dello spirito sia quella del corpo, viene affidata a Clara in quanto rappresentazione di un’anima viva nell’aldiquà e anelante a una vita nell’aldilà. In tal modo Clara assume anche le sembianze dell’“anima bella”, concetto attraverso il quale si stava cercando allora, contro la dicotomia della teologia morale kantiana, e soprattutto per me­ rito degli scritti di Schiller, di riconciliare il naturale con lo spi­ rituale, il sensibile e il sensuale con il razionale, l’ideale e l’etico. La mediazione infatti deve servire a superare la rigida contrap­ posizione kantiana, in cui il corpo viene sottomesso allo spirito razionale, attraverso l’anima che cerca di armonizzare sensibilità e ragione. Tale armonia tra corpo e spirito costituisce anche la base per la dottrina schellinghiana delle tre facoltà, secondo cui la natura umana sarebbe costituita da un circuito vivente tra spirito, anima e corpo che vicendevolmente si corrispondono. All’in­ terno di tale circolazione l’anima media tra le altre parti ma sog­ giace anche all’influsso ora dell’una ora dell’altra, a seconda della loro prevalenza. In tal modo sono da intendere le parole di Schelling secondo le quali, in questo mondo, l’anima è incate147

Clara

nata alla materia mentre, nell’altro, essa sarebbe più legata allo spirito. Tuttavia, il problema non è semplicemente quello di li­ berare un’anima presumibilmente pura dalle costrizioni di un contingente mondo malvagio perché troppo legato alla corpo­ reità naturale. Al contrario, Schelling si interroga su come anche il corpo possa sopravvivere alla morte: non si dà redenzione e salvezza, che non siano per l’uomo nella sua interezza, come es­ sere di corpo, anima e spirito. Rimane da approfondire il problema dei rapporti e delle di­ verse accentuazioni delle singole facoltà nella vita terrena, in quella futura e negli stadi intermedi che costituiscono altrettante soglie di passaggio, rispetto alle quali la morte del corpo sarebbe definitiva e ultima soltanto per l’incapacità degli uomini di guar­ dare, grazie alle facoltà conoscitive, oltre il limite trascendentale. Se la morte, in questo senso, è la grande mediatrice che sposta gli accenti all’interno del circuito vivente, i suoi effetti potrebbero essere percepiti già qui e ora. Dal momento che in tale circola­ zione avvengono solo degli spostamenti quantitativi all’interno di rapporti di analogia e di corrispondenza, ma non dei cambia­ menti qualitativi radicali, sorge allora l’idea che tra la vita con­ tingente, e spesso infelice, e una vita felice e forse eterna, vi siano infiniti passaggi graduali, contraddistinti da accentuazioni di­ verse. La stessa morte, infatti, non sarebbe che un’ulteriore forma di passaggio che si secolarizza in infinite altre di cui persino l’esperienza quotidiana può rendere testimonianza. La morte non è, come comunemente si intende, una scissione totale del­ l’anima e dello spirito dal corpo: la morte sarebbe invece una me­ tamorfosi, un semplice mutar forma dei rapporti all’interno del movimento circolare della vita. Il concetto di metamorfosi esige però che vi sia un unico elemento che, nel mutamento, si man­ tiene e che Schelling individua in ciò che definisce come «il no­ stro germe spirituale». Tale germe viene in seguito caratterizzato come essenza spirituale della corporeità umana la quale si svi­ luppa dallo stato corporeo a quello spirituale, in cui però la cor­ poreità, la fisicità sensibile e sensuale dell’uomo, sembrerebbe essere ancora contenuta. La metamorfosi del nostro germe spi148

An ima, corpo, secolarizzazione della morte

rituale, dunque, si svolge già nell’aldiquà e in questa vita; la morte non è che un momento di passaggio. Per un verso dunque l’uomo non è altro dalla natura; anzi, è proprio la sua superiorità spirituale che, non solo dialetticamente ma in qualche modo anche nello spirito della teleologia kantiana, dovrebbe spingerlo ad avvicinarsi maggiormente al naturale. La sua anima infatti è capace di sentire la natura, non soltanto di pensarla. Tuttavia, la possibilità di compiere e, in qualche modo, di anticipare la metamorfosi del germe spirituale differenzia nuovamente la natura umana dal resto della natura; tale circostanza obbliga però l’uomo ad assumersi il compito di tutelare la natura intera, perché egli è l’unico essere nel quale s’incontrano natura e mondo degli spiriti. Conseguentemente, sarebbe responsabilità dell’uomo non solo liberare il mondo degli spiriti dalle necessità naturali, ma anche e soprattutto re­ dimere la natura stessa: infatti, proprio a causa dei molteplici interventi dell’uomo, essa non è mai riuscita a compiere il pro­ prio cammino fino in fondo. Se così fosse stato — si legge tra le righe di questo dialogo - la natura avrebbe potuto accogliere l’uomo nel regno della libertà, concepita ora non solo in termini umani, ma anche come libertà della natura di realizzarsi in tutte le proprie potenzialità. Non solo nel movimento circolare individuato nell’uomo, ma anche nella concezione del rapporto vivente tra natura e mondo degli spiriti, l’anima rappresenta per Schelling una specie di le­ game (Band) tra il mondo sensibile e quello sovrasensibile. Se l’anima ha la sua sede propria e naturale nell’uomo, è tuttavia proprio l’uomo ad aver interrotto il movimento di passaggio tra natura e mondo degli spiriti. In quanto spirito infatti, si è al­ lontanato troppo dalle proprie origini naturali per poter ancora ascoltare la voce della natura e, in quanto corpo dotato di sen­ sibilità, non è più capace di intuire l’essenza spirituale della na­ tura stessa, che a sua volta chiede di essere redenta attraverso l’uomo. Come filosofo e teologo, l’uomo è troppo lontano dalla propria essenza naturale; come scienziato che indaga la natura è troppo distante dalla propria essenza spirituale. Già nel Più 149

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antico programma di sistema dell’idealismo tedesco (1797), di cui Schelling è, accanto a Hegel e Holderlin, almeno coautore, si afferma con forza che «non sembra che la fisica d’oggi possa soddisfare uno spirito creatore quale il nostro è o deve essere» e che occorre «una buona volta ridare ali alla nostra lenta fisica che procede a fatica tra gli esperimenti. Così, se la filosofia dà le idee, e l’esperienza i fatti, potremo finalmente ottenere quella fisica in grande che io mi aspetto da epoche avanzate».11 Tut­ tavia, la concezione della natura di Schelling non è né naturali­ sta o materialista né panteista, come si evince da alcune opere coeve, il Giornale difisica speculativa (1800-01) e il precedente dialogo Bruno, ovvero Sul principio divino e naturale delle cose (1802), e dagli ulteriori sviluppi della sua filosofìa della natura fino al 1811. L’Introduzione al trattato sulla Esposizione delpas­ saggio dallafilosofia della natura allafilosofia del mondo degli spiriti è, a questo riguardo, assolutamente chiara: occorre partire dalla terra, dall’indagine fìsica della natura, per poi successivamente spingersi, in modo altrettanto deciso e con la consapevolezza di fondamenti naturali ben saldi, fino alla luce più alta e irraggiun­ gibile dell’essenza spirituale e divina di tutte le cose. Più in ge­ nerale, il punto di partenza è infatti l’idea secondo la quale l’io dell’idealismo trascendentale e la natura, il divino e il naturale, non siano inconciliabili, come pensa invece Fichte, e che pro­ vengano da un principio d’identità più alto. Nei termini del dia­ logo Clara, il mondo degli spiriti non è una semplice ipotesi logica: esso è reale e presente anche nella natura in quanto i corpi naturali e gli spiriti trovano la loro unione in un’identità più alta. Tuttavia, lo spirito è pienamente reale soltanto negli uomini, perché soltanto in essi, come si è visto, risiede l’anima e soltanto l’uomo può essere dotato del genio capace di tradurre la natura in spirito; operazione quest’ultima che nel Sistema del­ l’idealismo trascendentale (1800) Schelling concepisce come un

” G.W.F. Hegel (?), F.W.J. Schelling (?), F. Holderlin (?), Ilpiù antico programma di sistema dell'idealismo tedesco, cit., p. 21.

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dono della natura che si manifesta in modo inconscio e libero perché non riducibile a regole logiche e consapevoli - nel­ l’azione conscia dell’artista che crea l’opera d’arte. Il mondo degli spiriti è dunque un mondo plurale che orbita intorno all’uomo e che solo attraverso l’uomo può manifestarsi. Per questo motivo, la morte costituisce il centro del dialogo uni­ camente nella sua dimensione propriamente umana. Oltre che in quanto secolarizzata, la morte viene considerata nella sua sin­ golarità, sempre e soltanto come morte di una persona deter­ minata. Epicuro sostiene che «la morte non è niente per noi, dal momento che, quando noi ci siamo, la morte non c’è, e quando essa sopravviene noi non siamo più», eliminando in tal modo alla radice il problema della morte. Per Schelling le cose stanno proprio al contrario: non solo la morte costituisce un problema in quanto fine della vita ma, come si è visto, ancor di più in quanto appartiene intimamente alla stessa vita. Non si tratta, come per Epicuro, di una morte astratta e impersonale, concepita in modo logico e concettuale — anche la secolarizza­ zione sarebbe in ultima analisi un’operazione meramente logica - bensì della morte di un singolo con tutti i sentimenti e tutte le emozioni che comporta. Nel caso di Clara si tratta della morte del suo amato Albert, con un’evidente corrispondenza, benché invertita, tra Schelling e Caroline. Se s’intende salvare, attraverso l’anima, non soltanto lo spirito ma anche il corpo nella sua naturalità, allora il piano di discorso coinvolge neces­ sariamente i concetti cristiani di individuo e di salvezza, con un allontanamento conseguente dalle impostazione generali che caratterizzano l’idealismo per diventare, a poco a poco, sempre più nominalista. Come, nella vita pratica, la libertà non può es­ sere semplicemente un valore generale, ma sempre dipende da ciò che, in date circostanze, il singolo riesce a realizzare, così anche la morte, nell’esistenza vissuta, non è concetto universale, valevole per tutti allo stesso modo, ma è sempre e soltanto morte di un singolo essere umano. Nelle sue più profonde intenzioni persino il sistema filosofico idealista si compone e si organizza muovendo dai particolari e la sostanza si costituisce a partire dai 151

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soggetti; soltanto così è possibile concepire la libertà in tutta la sua ampiezza e, di conseguenza, allo stesso modo, è possibile concepire la più dura necessità che le si contrappone, vale a dire la morte. Con questo significato, in una lettera del 4 febbraio 1795, Schelling scrive a Hegel di essere diventato spinozista, ma con una differenza importante: per Spinoza l’assoluto in­ condizionato è sostanza, natura, oggetto, non-io, per Schelling invece è «l’io, assoluto [...], non ancora affatto condizionato dagli oggetti, ma posto nella libertà»)1 Tale radicalità nell’impostazione del problema di una possi­ bile redenzione anche del corpo individuale rischia però di ri­ velarsi aporetica: il discorso potrebbe ridursi alla concezione di una singolarità assoluta priva della propria determinatezza e quindi di quelle qualità che la caratterizzano in quanto natura singola e particolare; oppure il tentativo di conservazione della propria individualità, di presupporre una possibilità di salvezza per il singolo individuo finito, nel momento stesso del proprio infinito annientamento, ovvero nella morte, si potrebbe arre­ stare al livello di una pura Sehnsucht, desiderio intransitivo e anche dolorosa nostalgia di fronte all’impossibilità del ritorno. Il singolo si dissolverebbe allora nella propria essenza spirituale o permarrebbe nella sfera del puro desiderio e dell’anelito, ca­ ratteri, questi ultimi, propri dell’anima bella e della coscienza infelice che, pochi anni prima della stesura del Clara., Hegel aveva sottoposto a dura critica nella Fenomenologia dello spirito. Che si seguano le leggi della riflessione filosofica oppure quelle della fede religiosa, in entrambi i casi la morte, per quanto se­ colarizzata e caratterizzata come ogni volta particolare, costi­ tuisce non soltanto un rovesciamento — prima, dominio del corpo sullo spirito; dopo, dello spirito sul corpo - ma anche un’elevazione. All’interno di questo processo, salvare il singolo corpo naturale e sensibile costituirebbe allora quasi un’assurdità che, alla fine, solo la fede, e anch’essa in extremis, può conside-

12 G.W.F. Hegel, Epistolario, a cura di P. Manganar©, Guida, Napoli 1983, p. 115.

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rare legittima in quanto il suo è un credo quia absurdum. Dal punto di vista filosofico invece, «filosofare intorno alla natura significa creare la natura», come afferma significativamente lo stesso Schelling, e tale creazione avviene a partire dallo spirito. Infatti, nel tentativo di concepire io e natura, soggetto e so­ stanza, all’interno di un rapporto organico in tensione dinamica, Schelling arriva a considerare la natura quasi esclusivamente in modo spirituale: il tanto ricercato raccordo tra natura e spirito si squilibra sempre di più verso quest’ultimo. Il movimento di­ namico tra corpo, anima e spirito - in cui si può ravvisare forse per l’ultima volta il tentativo schellinghiano di sintetizzare l’idealismo soggettivo di Fichte con il realismo della sostanza di Spinoza — si arresta di fronte all’impossibilità del pensiero di concepire la salvezza del corpo in quanto corpo individuale. Da questa prospettiva, e alla fine del dialogo con connota­ zioni sempre più evidentemente religiose, la natura diventa im­ magine distorta dello spirito decaduto, perché, nonostante le sincere intenzioni nate da profondo dolore, il tentativo di Schel­ ling di indagare natura e spirito nella loro corrispettiva relazio­ nalità dinamica non può che sfociare in un’aporia che rende impossibile il considerarli nella loro beata tensione circolare. Se infatti, in un primo passaggio, potrebbe sembrare che nel con­ cetto di anima siano contenuti anche quelli di corpo e di spirito e che, sopravvivendo la prima, sopravvivano anche gli altri due, per Schelling la morte rimane pur sempre una cesura e «l’intel­ letto non può offrire consolazione a un certo dolore». L’anima, infine, non costituisce un’unione dialettica di cor­ rispondenze tra natura e spirito, mediata in sé attraverso un pro­ cesso dinamico in divenire, ma un’unità caratterizzata da differenze solo quantitative, all’interno della quale il destino del corpo naturale e la sua verità sono fin da sempre sottoposti al­ l’anima stessa e quindi allo spirito; il moto delle potenze nella loro corresponsione si fìssa in una scala gerarchica. Nonostante l’impostazione originaria dichiarata con forza neWIntroduzione al trattato mai scritto sulla Esposizione delpassaggio dallafilosofia della natura allafilosofia del mondo degli spiriti e mantenuta nelle 153

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parti più profonde del dialogo Clara, il corpo viene infine re­ dento e salvato soltanto in quanto spiritualità. E questo non cor­ risponde certo all’intenzione di Schelling, anche in considerazione dei fattori esistenziali che confluiscono in questo dialogo e della lucida consapevolezza, dimostrata néHIntroduzione, delle difficoltà di sviluppare una filosofia della natura con fondamenti sostanzial­ mente idealisti. Tuttavia, i concetti e l’impostazione teoretica di fondo conducono, quasi per un’intrinseca forza di gravità, a tale risultato, nonostante gli sforzi riflessivi tesi a «riportare la filo­ sofìa alla terra» per poter indagare in modo naturale e persino fìsico anche lo spirito e, in modo spirituale e dialettico, la na­ tura. La metafora di una vita ideale: «morte a corpo vivo» spiega infatti emblematicamente soltanto che se, in questa vita, l’anima è «incantata» dalla materia, dopo la morte essa dominerà sul corpo. Non chiarisce però quale possa essere il ruolo del corpo in una vita felice, terrena o ultraterrena che sia. Nel 1854, anno della morte, Schelling ripete l’imbarazzante domanda che, nel 1801, un console francese pose a un erudito tedesco: «.Quest-ce que cest la matière^» e, nel tentativo di svi­ luppare una filosofìa “positiva”, mostra esplicitamente di con­ siderarla come la trappola della filosofìa, vale a dire vero e proprio scandalon. Occorre leggere dunque il dialogo Clara come il tentativo di dare risposte filosofiche e concettuali a que­ sto interrogativo, pur tenendo conto che, se nelle Lezioni di Stoccarda Schelling definisce la morte come una reductio ad essentiam, alla fine di questo dialogo — che comunque rimane in­ compiuto e che Schelling avrebbe voluto fosse distrutto — tale essenza sembra rivelarsi piuttosto come una reductio ad spiritum.

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collana

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Hermann A. Korff, Umanesimo e romanticismo Gilberto Forti, I latitanti

Giorgio Vigolo, Diabolus in musica Wolfgang Koeppen, La morte a Roma Walter F. Otto, Il poeta e gli antichi dèi Honoré de Balzac, Séraphìta

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Finito di stampare nel mese di marzo 2009 da la grafica srl - Mori (Tn)

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