Cinema video Internet. Tecnologie e avanguardia in Italia dal futurismo alla net-art 8849126816, 9788849126815

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Cinema Video Internet Tecnologie e avanguardia in Italia dal Futurismo alla Net.art a cura di

Cosetta G. Saba

ORKS ARTW

di a cura Poian Cristiano

diritti del ti tutti i tario proprie Sono riserva ore e del ta. Vietate produtt e parzial era registra totale o dell’op sa zione espres la duplica disco senza ore di questo e del produtt zazion autoriz tario. e del proprie

con CD-Rom

2006 © Clueb CB 3993

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MEDIAVERSI 7 Collana diretta da

Pier Luigi Capucci

Comitato Scientifico: Alberto Abruzzese (Università IULM, Milano) Francesco Casetti (Università Cattolica, Milano) Franco La Polla (Università di Bologna) Geert Lovink (Institute of Network Cultures (INC), Amsterdam) Lev Manovich (University of California, San Diego) Alessandro Serra (Università di Bologna) Peter Weibel (Zentrum für Kunst und Medien (ZKM), Karlsruhe) http://www.mediaversi.it

PRESENTAZIONE [Italiano] < mediaversi > è una collana editoriale che si propone di riflettere in maniera interdisciplinare sulle relazioni che intercorrono tra i media (non solo quelli digitali), le tecnologie emergenti e la società nelle sue manifestazioni fondamentali: cultura, rappresentazione, comunicazione, forme artistiche e di espressione. Per approfondire le interrelazioni, le ibridazioni e le sinergie tra media e tecnologie spesso anche molto diversi e distanti tra loro, nonché per affrontare le problematiche e i fenomeni – comunicativi, creativi, sociali – che si generano, si ritiene necessario un approccio interdisciplinare. Tale approccio vede convergere contributi provenienti sia da discipline umanistiche che scientifiche. < mediaversi > vuole essere un osservatorio critico delle trasformazioni culturali che le attuali scienze e tecnologie stanno producendo. < mediaversi > è pubblicata dall’editore CLUEB e coprodotta da NoemaLab. Ha un Comitato Scientifico internazionale che ne rispecchia la vocazione transnazionale e interdisciplinare. [English] < mediaversi > is a series of books which aims at reflecting in an interdisciplinary way on the relations among the media (not only the digitally based ones), the emergent technologies and the society in its fundamental expressions: culture, representations, communications, arts. We think that an interdisciplinary approach is important to deepen the relationships and synergies among media and technologies which are often different and distant, and to face the issues and phenomena – on communications, creation, society – that are being generated. This approach relies on the convergence of humanistic and scientific disciplines. < mediaversi > aims at becoming a critical observatory focused on the cultural transformations that the new sciences and technologies are producing. < mediaversi > is published by CLUEB and coproduced by NoemaLab. It has an international Scientific Committee which reflects its transnational and interdisciplinary dimension.

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Cinema Video Internet Tecnologie e avanguardia in Italia dal Futurismo alla Net.art a cura di

Cosetta G. Saba

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© 2006 by CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna

Tutti i diritti sono riservati. Questo volume è protetto da copyright. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta in ogni forma e con ogni mezzo, inclusa la fotocopia e la copia su supporti magnetico-ottici senza il consenso scritto dei detentori dei diritti.

Cinema Video Internet. Tecnologie e avanguardia in Italia dal Futurismo alla Net.art / a cura di Cosetta G. Saba. – Bologna : CLUEB, 2006 (Mediaversi / collana diretta da Pier Luigi Capucci ; 7) 303 p. ; ill. ; 24 cm ISBN 88-491-2681-6

In copertina: Torre delle trilogie (part.), 1998, 60 monitor, computer, 6 centraline - Mario Sasso. Courtesy Mario Sasso. CD-Rom: Artworks. Un ringraziamento particolare a Mario Sasso, Barbara Lattanzi, Matt Roberts, Niko Stumpo e a Cristiano Poian. Progetto grafico: Oriano Sportelli

CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna 40126 Bologna - Via Marsala 31 Tel. 051 220736 - Fax 051 237758 www.clueb.com

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INDICE

Prefazione Paolo Bertetto ......................................................................................................

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Premessa ..............................................................................................................

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Capitolo 0 In luogo di un’introduzione. Coesistenze, intersezioni, interferenze tra forme mediali e forme artistiche Cosetta G. Saba ...................................................................................................

19

Capitolo 1 Dall’«immaginazione senza fili» al «meraviglioso futurista»: la poetica marinettiana come teoria indiretta, intuitiva, del cinema Wanda Strauven ...................................................................................................

89

Documenti Ricostruzione futurista dell’universo, 1915 .......................................................... La cinematografia futurista, 1916 ........................................................................

112 115

Capitolo 2 Cinema e «poliespressività». Il secondo Futurismo Cosetta G. Saba ...................................................................................................

119

Documenti L’aeropittura futurista, 1928 ................................................................................. Manifesto futurista della radio (Radia), 1933 ...................................................... La cinematografia, 1938 .......................................................................................

137 139 142

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Capitolo 3 Con (e senza) macchina da presa. Estetica e tecnologia dagli anni ’30 agli anni ’70 Bruno Di Marino .................................................................................................

145

Documenti Cinema sperimentale e mezzi di massa in Italia, 1976 Adriano Aprà .......................................................................................................

177

Torino sperimentale, 2002 Paolo Bertetto ......................................................................................................

197

Capitolo 4 Cinema-video e ritorno. Trent’anni di ricerca fra arte e tecnologia Sandra Lischi .......................................................................................................

205

Documenti Manifesto del movimento spaziale per la televisione, 1952 .................................

224

Classificazione dei metodi d’impiego del videotape in arte, 1973 Luciano Giaccari .................................................................................................

225

Note sul mio uso del video, 1974 Vito Acconci ........................................................................................................

226

Capitolo 5 Avanguardie in Rete Cristiano Poian ....................................................................................................

229

Artworks/Cd-Rom: EG Serene; HF Critical Mass; AMG Strain di Barbara Lattanzi A New Movie; Conner Times Ten; Duct Tape; Alpha Beta Disco: Godard Remix di Matt Roberts ABCGMUNK; The Third Place, Destroy Everything; Autopoiesis; Rooms di Niko Stumpo

Bibliografia ..........................................................................................................

251

“Archivi” Alessandro Bordina .............................................................................................

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Prefazione Paolo Bertetto

Le interpretazioni dell’avanguardia novecentesca muovono sostanzialmente in due direzioni, non solo diverse, ma antitetiche. Sono due linee che innanzitutto vivono nei diversi movimenti d’avanguardia e che si affermano l’una accanto all’altra, prima di diventare due percorsi interpretativi, due modi di leggere la galassia avanguardista. La prima linea considera l’avanguardia come affermazione dell’irriducibilità dello spirituale, dell’esistenziale, del soggettivo alla razionalizzazione scientistica effettuata dall’affermazione della tecnica, delle scienze e del positivismo. In questa prospettiva l’avanguardia si configura come l’esperienza di rivolta e la sperimentazione dell’alterità non mediabile, che si contrappone alle standardizzazioni razionalistiche della cultura e delle arti. È l’affermazione del non esistente contro il mondo organizzato, dell’anomalia contro la riduzione all’identico, dell’irrealtà contro la prevalenza degli oggetti e delle macromacchine di controllo, della follia sperimentale contro il controllo sociale e ideologico. La seconda linea lega l’avanguardia alla macchina e alla tecnologia, considerandola come un’oggettivazione nel campo delle pratiche significanti della modernità contemporanea. La tecnologia è infatti una delle determinazioni qualificanti dell’intera esperienza dell’avanguardia, innanzitutto come componente rilevante delle configurazioni iconiche via via assunte o come tema o mito della modernità: la grande ondata dell’arte meccanomorfa, da un lato e il tema della macchina e delle modificazioni che produce nella vita sociale dall’altro sono forme particolari di oggettivazione dell’orizzonte tecnologico affermato come elemento connotante l’avanguardia. La tecnologia non opera tuttavia nell’avanguardia soltanto come tema o icona, ma ne diventa uno dei modelli essenziali, in quanto l’avanguardia assume come forma simbolica interiore il principio tecnologico dell’innovazione permanente, l’idea delle ricerca e della trasformazione continua. Se non si vuole considerare l’avanguardia come una semplice variante all’interno dei processi di modificazione storica dell’artistico, si tratta di riconoscere l’irresistibile spinta alla sperimentazione e all’innovazione come motore dell’avanguardia stessa. L’avanguardia in fondo non si dà se non come proiezione continua sul nuovo, elevazione del nuovo a cri-

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terio di composizione, surdeterminazione della ricerca che si preclude la ripetizione delle forme consolidate per inseguire costantemente l’affermazione dirompente dell’altro. L’avanguardia è radicalità del nuovo che cambia tutti i criteri e i parametri dell’universo artistico e culturale. Questa ricerca forsennata del nuovo ha la sua radice e il suo modello nella dialettica tecnologica dell’innovazione: non nel senso che la serie simbolica segue la serie materiale e socio-produttiva, ma nel senso che un nuovo modello di concezione della pratica e della ricerca si afferma nella svolta epocale della modernità piena. L’innovazione costituisce l’avanguardia come una radicalità assolutamente nuova che non ha eguale nella storia della letteratura e dell’arte. Non è un movimento o uno stile che subentra a un altro, segnando una modificazione storica più o meno importante. È il segno di un cambiamento continuo del simbolico, che diventa la configurazione rivelativa di un’epoca. E questa struttura interiore, questa forma dinamica particolare si nutre della dialettica dell’innovazione permanente che caratterizza anche la ricerca tecnologica. Quindi analizzare l’avanguardia filmica in relazione alla tecnologia – come fa il volume curato da Cosetta G. Saba – significa affermarne una delle determinazioni più rilevanti e insieme frequentare una delle fondamentali linee di interpretazione, elaborando un discorso di indubbia intensità simbolica e di particolare rilevanza noetica. L’iperdeterminazione del nuovo nella sua connessione strutturale con la tecnologia, infatti, segna in maniera particolare tutta l’esperienza del cinema, ma diventa oggettivazione consapevole solo con l’avanguardia. Sono soprattutto le ricerche e le teorie delle cosiddette correnti di sinistra dell’avanguardia russa ad affermare lucidamente il nesso avanguardia/tecnologia/cinema – Vertov ed Ejzenôstejn innanzitutto –, ma anche gli artisti teorici legati al Bauhaus e all’avanguardia ipermodernista tedesca, olandese e alcuni artisti francesi insistono sulla radicalità di quella sintesi: da Moholy-Nagy a Ruttmann, da Baumeister a Hirschfeld-Mack, da Van Doesburg a Léger, tutti pensano al cinema come alla nuova arte dell’innovazione tecnologica radicale. E tutti questi teorici e artisti muovono in una prospettiva che apertamente o implicitamente si confronta con la ricerca e con le poetiche del Futurismo, che è sicuramente il movimento impegnato a teorizzare in modo più palese la necessità per l’arte di sviluppare la lezione della macchina e le sue implicazioni simboliche. Vertov ed Ejzenôstejn riprendono le parole d’ordine e a volte anche le frasi del Futurismo, altri ne rilanciano in forme nuove l’assunto macchinico e modernolatrico. D’altra parte oltre ai vari manifesti futuristi, anche quello dedicato al cinema coglie brillantemente e spesso criticamente alcuni caratteri fondamentali del cinema dei primi decenni, a cominciare dalla pratica critica (e sub-teorica) di rimozione sistematica della natura tecnologica del cinema.

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Tuttavia non è l’avanguardia più radicale e antinarrativa, ma è in genere l’avanguardia allargata (industriale e narrativa) che sviluppa in modo più avanzato la sperimentazione tecno-linguistica e la valorizzazione delle tecnologie del cinema: oltre ad Ejzenôstejn e a Vertov, Gance e Lang, L’Herbier e Dulac, Dupont e Wiene, Epstein e K. H. Martin, che certo non appartengono all’avanguardia in senso stretto, ma condividono il principio delle produzione del nuovo nell’orizzonte tecno-linguistico: l’affermazione dell’immagine tecnomorfa segna l’allargarsi dello spirito dell’avanguardia all’interno della grande stagione del cinema degli anni ’20. Sono quindi i film industriali d’autore a diventare il vettore trainante della sperimentazione tecnologica nel cinema, facendo quindi del cinema un’immagine dinamica ed esemplare della modernità: sono film narrativi ma non rappresentativi, in quanto sono caratterizzati da una aperta opzione per la formalizzazione innovativa dell’orizzonte visivo e l’esibizione di nuove forme del visibile, rese possibili dalle ricerche della tecnologia cinematografica. Nell’avanguardia radicale dei Man Ray, Fischinger, Richter, Ruttmann, Léger-Murphy, Chomette, Dulac, e dei primi Clair e Buñuel, invece, meno forte è il peso della ricerca tecnologica e l’innovazione si configura a volte come micro-sperimentazione da laboratorio, che ricupera quasi alcune procedure pretecnologiche, proprie delle arti visive tradizionali. In queste ricerche l’innovazione è in alcuni casi separata dalla tecnologia e appoggiata piuttosto ai modi del laboratorio dell’artista, appena adeguati alle esigenze della ripresa con pellicola. Componenti di sperimentazione linguistica legate alla tecnologia del cinema sono invece più limitate: alcune soluzioni del Richter di Vormittagspuk (1927), di Rennsymphonie (1928), di Inflation (1927), certe innovazioni tecniche del Ruttmann di Berlin, die Symphonie der Grosstadt (1927) e di Melodie der Welt (1929), il Lichtsspiel (1930) di Moholy-Nagy, poche cose di Clair e di Chomette o della Dulac della cinégraphie intégrale, e alcune invenzioni tecniche di un’esperienza marginale, ma significativa come il film tardo-futurista torinese Vitesse/Velocità di Cordero, Martina e Oriani. Ma, sempre, anche in questi casi più avanzati, la dimensione del laboratorio sembra prevalere sull’orizzonte della grande sperimentazione tecnologica. Questa sintesi forte tra avanguardia-tecnologia-sperimentazione-tecnolinguistica che vive variamente dentro il cinema d’avanguardia degli anni ’20, investe poi in forme nuove la ricerca del cinema sperimentale degli anni ’50 e ’60 e la straordinaria ondata dell’underground americano. In questo orizzonte, la tecnologia è pensata non più come segno della modernità, ma come uno strumento di liberazione della macchina da presa e di ampliamento delle possibilità di fare cinema. L’8mm e il Super-8 diventano possibilità che la tecnologia offre a qualsiasi giovane artista di misurarsi con l’immagine dinamica e di fare cinema con la stessa facilità con cui si potrebbe scrivere

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un romanzo o dipingere un quadro. La tecnologia funziona qui non come un orizzonte di apertura a forme più innovative del visibile, ma come la possibilità di proporre apparecchiature leggere e facili, capaci di democratizzare e semplificare l’accesso alla realizzazione cinematografica. Ancora una volta le tecnologie più complesse e avanzate sono impiegate dalla grande produzione per l’innovazione radicale di tutta la gamma degli effetti speciali, che conosce a partire dagli anni ’70 un significativo rilancio sperimentale. Nell’avanguardia invece la tecnologia è utilizzata non per la forza innovativa, ma per la semplificazione delle procedure di ripresa. È un uso al ribasso, non certo intensivo e valorizzante, ma è esattamente il modo che garantisce un’estensione radicale della possibilità di fare cinema. L’affermazione, poi, di tecnologie video, ancora più leggere, facili ed economiche, garantisce la realizzabilità di quella apparente sperimentazione della vita in diretta che è un film come Anna (1972-75) di Grifi e Sarchielli. Con il video infatti la tecnologia viene a svolgere un ruolo ancora più rilevante e si modifica radicalmente non solo la costruzione del visibile, ma la struttura stessa dell’immagine e del testo (audio-)visivo-dinamico. L’immagine filmica è caratterizzata da una differenza e una somiglianza rispetto al visibile, è una copia di una copia senza originale, cioè un’immagine simulacro – come ho argomentato in un libro di prossima pubblicazione (Lo specchio e il simulacro, Bompiani). L’immagine video si allontana ancora di più dal mondo, perché è un flusso di energia, una corrente elettronica che si dispiega e forma una configurazione visiva: è un insieme di segnali in costante e rapidissima mutazione. L’immagine video rende ulteriormente obsoleti alcuni paradigmi delle ideologie tradizionali del rapporto cinema-realtà e fa risultare vecchie anche altre dicotomie, il rapporto astratto-concreto, il nesso immagine-realtà-verosimile, la relazione con il profilmico. La configurazione del visibile è sottratta al rapporto con l’esterno e porta a compimento la natura simulacrale dell’immagine filmica, costituendone una radicalizzazione ancora più forte. Le esperienze di creazione attraverso l’immagine elettronica costituiscono dunque un allargamento delle possibilità formative e un incremento significativo della gamma di potenzialità del visibile. L’immagine non dipende più da un profilmico che viene registrato sulla pellicola, ma diventa il territorio di una creazione tecnologica assolutamente nuova. In questa prospettiva la computer grafica e l’avvento dell’immagine digitale costituiscono poi una possibilità ancora più produttiva, in quanto consentono due grandi possibilità di realizzazione: da un lato la creazione di un visibile simile al mondo esterno, ma che tuttavia non esiste, e dall’altro, e soprattutto, l’invenzione di un visibile assolutamente innovativo e privo di riscontri nell’orizzonte oggettivo. La prima prospettiva è stata usata metodicamente nella produzione di

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effetti speciali e di immagini irreali che si potevano accordare perfettamente con il verosimile narrativo. La seconda prospettiva ha invece reso possibile l’allargamento delle possibilità del vedere oltre ogni limite, in forme radicalmente nuove, sino ai confini stessi dell’immaginazione. Il passaggio al digitale infatti non solo modifica ulteriormente la struttura dell’immagine che diventa numerica e matematica, ma costituisce l’immaginabile come possibilità del visibile, come orizzonte che il digitale può disegnare. In questa prospettiva la tecnologia innovante diventa l’asse stesso dello sviluppo della creatività e assume un ruolo assolutamente più forte di quello svolto durante la prima avanguardia. La radicalità del cambiamento investe qui l’orizzonte stesso dell’estetica e implica una considerazione differente dell’artistico e la configurazione di una struttura ermeneutica nuova. Questa nuova complessità delle questioni estetiche relative all’arte digitale è ulteriormente problematizzata dalle esperienze significative e ancora più radicali della Net-art, che assumono caratteri del tutto distruttivi verso i concetti novecenteschi e sicuramente moderni dell’estetica dell’immagine. Pratiche come quelle della Net-art infatti realizzano improvvise e radicali dissoluzioni delle nozioni cardine dell’estetica. L’idea di forma, di compiutezza dell’opera, come quelle di coerenza interna e di significatività del testo, o di autore, non vengono soltanto disarticolate, ma rischiano di diventare improduttive per comprendere il nuovo della Net art. Qui infatti la composizione diventa plurale, perennemente trasformabile, non solo aperta, ma sollecita di interventi esterni e finisce per delinearsi come una processualità mai finita, creata da più persone o da più centri informatici che dialogano senza fine. Sono esperienze che sembrano dissolvere ulteriormente la riconoscibilità del soggetto e dell’autore da un lato e la integrità e la coerenza definibile dell’opera/testo dall’altro. Sono pratiche che delineano al tempo stesso non solo nuovi modi di produzione e nuove configurazioni del visibile, ma riformulano le problematiche della formatività artistica e le relative implicazioni filosofiche, in una direzione che soltanto le filosofie antiuniversalistiche e il weak thought possono interpretare: una prospettiva di allargamento infinito dei modi dell’artistico con cui la riflessione estetica non potrà non misurarsi. In questo ampio orizzonte di problemi – evocato qui solo per linee generali – si muove il volume Cinema Video Internet. Tecnologie e avanguardia in Italia dal Futurismo alla Net.art, curato da Cosetta G. Saba, che ricostruisce con particolare impegno interpretativo l’articolarsi italiano di una relazione a volte produttiva, a volte più difficile, ma sempre rilevante. Insieme il volume si presenta anche come una sorta di rilettura complessiva dell’avventura dell’avanguardia e dello sperimentalismo italiani, che non avevano mai avuto la sanzione di una ricostruzione unitaria in un libro generale. È stato detto che

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il cinema italiano, dopo l’esperienza futurista, si è caratterizzato come una delle esperienze nazionali in cui il ruolo delle avanguardie è stato meno forte. Ma il volume documenta un percorso rizomatico della sperimentazione, che emerge e si inabissa negli anni, senza perdere dinamicità e mantenendo la vitalità delle ricerche differenti. Ed è sicuramente significativo che il sottotitolo del volume enunci apertamente la pertinenza della Net art con la ricerca delle tecnologie d’avanguardia legate al cinema. È il segno di un allargamento della ricerca tecnologica verso orizzonti in cui i confini disciplinari si fanno sempre più deboli e si afferma l’idea di una sperimentazione sull’immagine che si può sviluppare all’infinito.

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«[…] bisogna che la meditazione essenziale sulla tecnica e il confronto decisivo con essa avvengano in un ambito che da un lato è affine all’essenza della tecnica e, dall’altro, ne è tuttavia fondamentalmente distinto. Tale ambito è l’arte.» Martin Heidegger, “La questione della tecnica”, in Saggi e discorsi (1954).

Premessa

Nel quadro dei processi di interrelazione tra istituzioni, industrie culturali, “paesaggi” mediali, forme di consumo, modi di produzione e di rappresentazione, che si sono avvicendati sull’asse della storia del cinema e dei media, ci si propone di tracciare la storia “altra” dell’avanguardia secondo la pertinenza delle tecnologie, ma anche delle tecniche. Lo slittamento semantico tecnologia-tecnica, come sostiene René Berger,1 rivela infatti che «ogni tecnica, anche se indica un insieme di procedimenti, non si riduce all’efficacia del fare», ma implica una «conoscenza». Nondimeno, la differenza tra “tecnologia” e “tecnica” assunta come una delle ipotesi regolative dell’attività di ricerca sottese alla preparazione del volume, può rivelarsi piuttosto produttiva. Si ritiene, infatti, che l’osservazione e lo studio dell’avanguardia tra cinema, video e Internet possa contribuire a spiegare iuxta propria principia il progressivo slittamento metonimico dell’uso di “tecnologia” come termine equivalente di “tecnica” evidenziandone la dimensione “linguistica” o, più precisamente, “tecno-linguistica”. Anche in relazione all’intrinseco tecnomorfismo dell’immagine filmica, il cinema presenta nel discorso dell’avanguardia (artistica) una centralità mai incrinata, semmai mutata sia sul piano linguistico sia sul piano culturale. Il cinema con la sua tradizione linguistica è tanto una forma storica della significazione audio-visiva e della tecno-comunicazione, quanto un modello da sperimentare sul piano testuale. Ciò continua ad accadere anche nella Rete in forma di “cinema redisegned” definito da software che “riscrivono” testi filmici in particolare d’avanguardia – come accade, ad esempio, ad A Movie (1958) di Bruce Conner con il software A New Movie e Ten Second Film di

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Matt Roberts – o vi insistono in chiave “decostruttiva” – come avviene con EG Serene e HF Critical Mass (2002) di Barbara Lattanzi su Serene Velocity (1970) di Ernie Gehr e Critical Mass (1971) e di Hollis Frampton – ma non solo [cfr. 5]. La visione “sub specie cinematografica” è percepita e pensata come forma della sguardo e al contempo come “messa in forma” dello sguardo; un modo di guardare (côté Dziga Vertov dell’avanguardia) alternativo, parallelo, interferente, per alcuni coincidente con quello, per così dire, “quotidiano”. Anche in tal senso, rispetto cioè alle tecno-logie via via implicate, «l’avanguardia cinematografica è […] in primo luogo un modo di pensare il visibile, una maniera di concepire il vedere».2 Non solo. In Rete lo “sguardo cinematografico” viene rimesso in forma, ri-enunciato, “navigato” in un processo interminabile che ne muta il senso. L’articolazione tematica del volume3 è pensata attraverso la scansione cronologica delle tecnologie mediatiche (produzione, distribuzione, ricezione) di volta in volta emergenti, dalla seconda metà degli anni ’10 alla contemporaneità, in relazione alle evenienze storiche di movimenti, autori, film-maker, videoartisti, infografisti ecc., che in modo affatto problematico sono riconducibili al concetto (piuttosto controverso) di “avanguardia”.4 Molti sono i problemi convocati da termini chiave quali “tecnologia” e “avanguardia” in ambito cinematografico o audio-visivo. A cominciare da quello terminologico: cinema d’avanguardia cinema di ricerca, cinema sperimentale, cinema d’artista, cinema indipendente, underground, video (video d’artista, video performance, video militante ecc.), Net art, Software art. Nondimeno, la vaghezza delle denominazioni possibili sottende una qualche corrispondenza tra “avanguardia” e “tecnologia”. Le avanguardie hanno impiegato in modi differenti, secondo precisi orientamenti politici ed estetici, le tecnologie coeve, soprattutto a “basso costo”, portandone al limite il potenziale espressivo, innovando tecniche e modi enunciativi del linguaggio audio-visivo anche attraverso la contaminazione con altre arti e linguaggi. L’avanguardia sussume e trasforma la tecnologia. Ne fa un principio di coerenza per il funzionamento proprio delle tecniche espressive scelte. In tal senso, il concetto di “avanguardia” tende ad assumere una valenza tecnologica immanente. Riguarda l’uso, e finanche il non uso, in chiave linguistica delle tecnologie. Dunque la tecnologia non è qualcosa che aggiunge o che si aggiunge al linguaggio audiovisivo e nemmeno qualcosa che si pone tout court come linguaggio; la tecnologia ha incidenza sulla forma dei linguaggi e sulle loro trasformazioni. Investita in modo programmatico dal paradosso della “tradizione del nuovo” (nulla si dà ex novo ed ex nihilo), dall’obsolescenza del futuro (come

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sapeva d’anticipo Marinetti) l’avanguardia, tuttavia, è un “campo” di accelerazioni, superamenti e precorrimenti. I testi dell’avanguardia (tutti, anche quelli recentissimi della Rete), nonostante il declino inarrestabile dei dispositivi tecnologici che li hanno prodotti, e al di là del loro contenuto immediato, risultano “attuali” proprio perché paradossalmente “inattuali”: è la condizione5 stessa del loro compimento – che oltrepassa l’obsolescenza delle tecnologie e delle modalità comunicative mediatiche e artistiche che li ha prodotti – a gettarli nella contemporaneità come testi, opere, modi enunciativi [cfr. 0] in grado di rendere evidente, in chiave sia storiografica che teorica, i processi linguistico-culturali che essi hanno “anticipati”, almeno per quanto riguarda: – la “transtestualità”,6 la dimensione metatestuale e intertestuale, l’interdiscorsività, la “metaliguisticità”, l’indebolimento e la progressiva cancellazione degli “specifici”, le interferenze linguistiche, la scrittura “melting pot”, la “creolizzazione dei linguaggi” (nell’accezione di Édouard Glissant);7 – lo snodo dell’identità culturale nazionale e transnazionale; – il pensiero (sociale, politico, estetico) riferito all’altro, all’alterità; alle connessioni rizomatiche tra i “saperi”; – il corpo (dalla sinestesia all’interattività delle opere-ambienti); – la messa in crisi dei concetti di “autore”, “stile” e “genere”; – l’autonomia produttiva. L’implicito, la cifra sottesa, è che attraverso l’uso o il non uso delle tecnologie tra media e arte – dal Futurismo alla Net.art – le avanguardie abbiano strategicamente e tatticamente parlato “linguaggi minori”. Secondo Gilles Deleuze e Félix Guattari, che si riferiscono al problema dell’espressione posto da Kafka in relazione alle cosiddette “letterature minori” (come, per esempio, la letteratura ebraica a Varsavia o a Praga), «una letteratura minore non è la letteratura di una lingua minore, ma quella che una minoranza fa in una lingua maggiore».8 Allo stesso modo accade che “minoranze” utilizzino le “lingue maggiori” del cinema, del video e della Rete. Il “coefficiente di deterritorializzazione” posto come uno dei caratteri dei “linguaggi minori” è dato qui dall’esclusione (elaborata e tramutata in scelta di “autoesclusione”) di queste “minoranze” dai sistemi industriali di produzione “high tech” del cinema, del video e di Internet [cfr. 0]. Si tratta dunque di presenze “deterritorializzate” sospese tra le “storie” del cinema, dell’arte, del video; presenze accomunabili da due termini chiave: avanguardia e tecnologia. Proprio perché le avanguardie forzano – sia sul piano delle teorie che delle pratiche – i dispositivi tecnologici di espressione, ne modificano gli assetti e per questa via sperimentano nuove forme di linguaggio e tracciano così i propri discorsi.

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[0]. In quel prisma di temporalità differenti e sovrapposte che è la “storia” delle arti e dei media – dal Futurismo alla Net.art (e oltre) – il saggio introduttivo delinea l’interrelazione tra avanguardia e tecnologie (avanguardie storiche e neoavaguradie tra cinema, video e Internet). Ne emerge da un lato una serie di piani in interferenza: comunicazione mediatica, controinformazione, arte, estetica; dall’altro si evidenziano una serie di postazioni sociali e culturali “minoritarie” decostruttive, polemiche, alternative. Contestualmente viene in chiaro il rapporto complesso che le avanguardie intrattengono con le tecnologie del cinema, del video, di Internet che sono “tecnologie dello sguardo” o, più precisamente, che forgiano uno “sguardo tecnologico orientato” con le implicazioni linguistiche ed espressive che ne discendono. Tali aspetti si rendono piuttosto evidenti tra la seconda metà degli anni ’60 e i primi anni ’70; si tratta di un periodo in cui l’autonomia, l’indipendenza e l’accesso ai mezzi di espressione “low cost” ha dato luogo a una complessità interlinguistica che si dispiega per la prima volta tra due forme di linguaggio audiovisivo e due dispositivi tecnologici, tracciando un’intersezione tra il cinema sperimentale, in particolare nella forma del cinema d’artista, e la nascente videoarte. Ma è dal Futurismo, “matrice” dell’avanguardia, sin dalla sua “primissima” fase, che si estende sino alla fine degli anni’ 10, e in quelle successive, che il pensiero e l’azione artistica sub specie tecnologica assume rilievo per l’espressività. [1]. Dall’«immaginazione senza fili» al «meraviglioso futurista» si delinea d’anticipo come Filippo Tommaso Marinetti prefiguri e, intuitivamente forse, «teorizzi una vera e propria poetica del montaggio» [cfr. 1]. Il programma futurista è leggibile attraverso una doppia ottica: da un lato, i manifesti della letteratura e del teatro configurano una teoria indiretta della cinematografia e, dall’altro, l’idea stessa del “cinema” – in particolare per Marinetti – assume una valenza “tecno-logica”, vale a dire assurge «a tecnica concettuale, virtuale (anziché concreta, reale)» [cfr. 1]. [2]. Il “secondo Futurismo” introduce l’idea di “cinematografo” quale reagente del progetto di “arte poliespressiva” formulato nei manifesti e sperimentato in pittura, letteratura, teatro ecc. La tecnologia sub specie cinematografica è pensata, dunque, non tanto come dispositivo di produzione che investe progetto espressivo, mezzi e tecniche scelti per concretizzarlo, ma come impasse che apre nuovi percorsi di ricerca e di sperimentazione linguistica anche unicamente sul piano delle dichiarazioni programmatiche e quindi, ancorché per via indiretta, sul piano della teoria. [3]. Tra l’avanguardia futurista e l’“underground”, il capitolo getta luce sul “cinema” quale punto di convergenza rispetto alle altre arti (in particolare rispetto alla pittura) e agli altri media (non ultimo quello televisivo), sno-

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do di importanti trasformazioni ed esiti intertestuali ad opera di autori impegnati in altri ambiti artistici e mediatici. Ne emerge l’attenzione verso l’impatto della tecnologia sui linguaggi (dai formati, ai tipi di m.d.p., agli obiettivi ecc.) e ai modi enunciativi che ne derivano (multischermo, stratificazione dell’immagine ecc.). [4]. Dell’interconnessione-trasformazione cinema-video (e ritorno), che si compie in Italia a partire da Anna (1972-75) di Alberto Grifi e Massimo Sarchielli, si rendono evidenti le valenze linguistiche delle tecnologie video [cfr. 5] e si tracciano i lineamenti di una storia del video nelle sue estensioni politiche, sociali ed estetiche e nei suoi sconfinamenti infografici. [5]. Ma è nella Rete che il filo dell’“avanguardia” si annoda e snoda incessantemente in continuità o in contrasto con le avanguardie precedenti. Con una serie di mutazioni irreversibili. A cominciare dell’evidenza tecnologica (software/hardware) che il “mezzo di produzione” e il “mezzo di diffusione-distribuzione” sono definitivamente coincidenti. Non è un caso quindi che – se a ciascun passaggio tematico e argomentativo sono riferiti dei “documenti” differenti – in forma di manifesto piuttosto che di “ricerca” o di saggio – a questa sezione corrisponda, attraverso lo strumento del CD, un ancoraggio diretto alla opere citate.

NOTE 1 Cfr. R. Berger, Il nuovo Golem. Televisione e media tra simulacri e simulazione, Raffello Cortina Editore, Milano, 1992, p. 15. 2 P. Bertetto, “Minimalismo eidetico”, in Il grande occhio della notte. Cinema d’avanguardia Americano 1920-1990, a cura di P. Bertetto, Lindau, Torino, 1992, p. 65. 3 Il volume è uno degli esiti dell’attività di ricerca, sul tema “Le rivoluzioni delle avanguardie, dal Futurismo alla contemporaneità”, svolta dall’Università di Udine nell’ambito del Programma di Ricerca Nazionale Interuniversitaria Le tecnologie del cinema. Le tecnologie nel cinema (2002) promosso dalle Università di Bologna, Firenze, Milano - Cattolica, Milano IULM, Pavia, Pisa, Torino, Trento, Udine. 4 A cominciare dalle diverse accezioni che il “concetto” assume nei diversi ambiti culturali europei e statunitensi e alle differenti “postazioni” (sociali, politiche, mediatiche, artistiche) che all’avanguardia vengono attribuite in tali contesti. E ciò vale a fortiori per le avanguardie cinematografiche che non possono essere pensate – in termini di definizione, di periodizzazione, di suddivisione – secondo i criteri elaborati per descrivere le “altre arti” e questo, come rileva François Albera, in forza di ragioni che sono riferibili, in prima istanza, alle «differenze strutturali caratteristiche del campo cinematografico – che si costituisce progressivamente molti anni dopo l’apparizione del cinematografo – rispetto ai campi intellettuale, letterario e artistico già costituiti al momento della sua apparizione» e, in seconda istanza, alla qualità mediatica del “cinema”. Cfr. F. Albera, Avanguardie, Il Castoro, Milano, 2004, p. 5.

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18 5 Cfr. R. Krauss, L’arte nell’era postmediale. Marcel Broodthaers, ad esempio, Postmedia, Milano, 2005; cfr. R. Krauss, Reinventare il medium, a cura di E. Grazioli, Bruno Mondadori, Milano, 2005. 6 Secondo la definizione di Gérard Genette «la transtestualità, o trascendenza testuale del testo» è «tutto ciò che lo mette in relazione, manifesta o segreta, con altri testi». G. Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Einaudi, Torino, 1982, p. 3. 7 E. Glissant, Poetica del diverso, Meltemi, Roma, 1998. 8 G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, Macerata, 1997.

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Capitolo 0

In luogo di un’introduzione. Coesistenze, intersezioni, interferenze tra forme mediali e forme artistiche Cosetta G. Saba

I contenuti impliciti del “sapere” e del “saper fare” di cui le tecnologie sono portatrici hanno una valenza assiologica, sono orientati da logiche economiche, da pratiche sociali e producono delle trasformazioni culturali. Essi danno luogo a un campo di interrelazioni complesse che assumono la forma di “discorsi” socialmente condivisi e istituzionalizzati. In Occidente, il campo delle formazioni discorsive1 che ha accompagnato il processo della rappresentazione sub specie tecnica del “visibile” – attraverso dispositivi quali la macchina fotografica (1839), il cinematografo (1895), il videotape (1960), la camera digitale (1980) – ha attualizzato (e sul piano comunicativo continuamente ricondotto a rimediazione)2 i modi di tale rappresentazione3 in una “forma simbolica”4 di visione modellata su uno sguardo di tipo monoculare, “planare”,5 statico e “centrato” che si è definito attraverso lo schema della prospettiva (messo a punto da Filippo Brunelleschi e codificato nel 1435 da Leon Battista Alberti in De pictura). Schema che ha forgiato l’ottica delle “machines-à-voir” fotochimiche, elettroniche e digitali e non solo, giacché ha trovato estensione nelle applicazioni grafiche 3D, nella Realtà Artificiale e nella Realtà Virtuale. La persistenza percettiva e cognitiva della “forma prospettica” è rilevata con la consueta acutezza da Roland Barthes che, riferendosi alle arti diottriche («cioè tutte le “arti” diverse dalla musica»), sostiene che la rappresentazione ci sarà sempre «finché un soggetto (autore, lettore, spettatore od osservatore) dirigerà il suo sguardo verso un orizzonte e vi ritaglierà la base di un triangolo, di cui il suo occhio (o la sua mente) sarà il vertice».6 Ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936) Walter Benjamin rispetto alla dimensione artistica, dopo aver constatato che l’opera d’arte è sempre stata riproducibile anche se ciò accade “nella storia a intermittenza”, rileva come «con la fotografia, nel processo di riproduzione figu-

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rativa, la mano si vide per la prima volta scaricata delle più importanti incombenze artistiche, che ormai venivano ad essere di spettanza dell’occhio che guardava dentro l’obiettivo».7 Ma nella tradizione culturale occidentale a questo particolare statuto tecnico dell’immagine, che concerne il rapporto rappresentativo fra il “visibile” e la sua “riproduzione”,8 è sotteso il principio o, più puntualmente, la credenza secondo la quale «la conoscenza passa sempre attraverso una visione».9 E ciò si rifrange anche rispetto alla definizione dell’arte “vera” pensata quale “forma di conoscenza” in quanto presenta una qualità imitativa rispetto al “reale” (adeguazione al “reale”) o più precisamente in quanto traduce un’idea rispetto alla quale viene modellata la “realtà” che l’opera è chiamata a imitare (in tal senso Georges Didi-Huberman ha sottolineato la funzione assunta dalla pratica del disegno in relazione alla forma prospettica e alla concezione classica della rappresentazione).10 Come prima dell’avvento della fotografia, il segno pittorico si rendeva trasparente, “invisibile”, lasciando apparire le “cose”, il “mondo” (di fatto chiusi nello spazio ideale e prescrittivo della rappresentazione), ma cancellando o dissimulando lo sguardo impositivo del Soggetto che appunto li rappresenta, dopo l’impatto “del fotografico”, il “visibile”, proprio mediante gli strumenti di riproducibilità tecnica dell’immagine, trova un’oggettivazione, diviene “oggettivo” nel senso che è interpretato come “impronta”, “calco”,11 o traccia fotografica presuntiva del “reale”, “indice”12 piuttosto che “icona” di una “semiosi delle cose”. Tale processo “riproduttivo” del visibile rivela un’ontologia implicita, uno slittamento semantico fra il concetto di “realtà” e quello di “verità” o di “effetto di verità” in base al quale ciò che appare in un’immagine tecnica13 è ciò che sembra o, ancora, è ciò che è-stato del “reale” (come scriveva problematicamente Barthes ne La camera chiara, 1980). Si evidenzia un postulato che definisce la rappresentazione del “visibile” in primis come ri-presentazione del “reale” – quale dispositivo di sostituzione (che fa sì che quello che ora non c’è, il “reale”, ma che c’è stato, si ripresenti in forma d’immagine) più che di rinvio segnico (aliquid stat pro aliquo) – e come sua “riproduzione” (secondo le più diverse concezioni di “realismo”, cioè secondo diversi modi di interpretare, di leggere, di vedere, di pensare la “realtà” sul piano estetico). Nondimeno, si tratta di una “realtà” che passa attraverso un processo tecnico e “semiotico” che le conferisce una forma propria: è la “realtà” mediata dallo “sguardo della macchina” (fotocamera, cinepresa, telecamera, camera digitale, elaboratore elettronico ecc.), ovvero “il visibile”, a divenire “oggetto”, immagine materializzata, cifra linguistica, ”discorso”. Ma mentre nel campo delle teorie (della fotografia,13 piuttosto che del cinema, del video14 e persino, in negativo, rispetto alla a-referenzialità/autoreferenzialità dell’infoicona15) permane l’assunto secondo il quale si definisce

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lo statuto di dipendenza ontologica dell’immagine tecnica da ciò che vi appare (sia in chiave “indicale” – come “impronta” o “calco” – sia in chiave “iconica” – quale analógon del “reale” e rinvio referenziale al “reale”),16 nelle pratiche artistiche tale assunto è posto in una situazione critica, viene decostruito, disatteso, reso inessenziale. Si tratta non solo della decostruzione (spesso non programmatica) della pretesa ontologica implicata dalla riproduzione tecnica delle immagini, ma anche di un processo di de-figurazione o di ri-figurazione che agisce sullo schema enunciativo17 sotteso ai modi della figurazione stessa secondo il “punto di vista” centrato e prefigurato della rappresentazione prospettica. Quest’ultima, con il suo corollario di regole ottico-geometriche, come si è anticipato, definisce anche l’immagine sub specie tecnologica attraverso un punto di vista attribuito alle “macchine” (quali apparati di produzione e di ricezione) e costruito come un’interfaccia (non limitata alla percezione, al patemico, ma estesa alle dimensioni assiologiche ed epistemiche) tra l’articolazione dello “sguardo” di chi ha guardato (l’enunciatore, sia esso cine-pittore, cineasta, film-maker, videoartista ecc.) e quello di chi guarda, o guarderà (l’enunciatario, lo spettatore), che si trovano ad essere confluenti. Ed è dentro questa “confluenza” che prende forma e si trasforma lo sguardo in immagine tracciando percorsi enunciativi che prefigurano la “visione” e la “lettura” dell’opera. E li pone frequentemente in una “sospensione critica” che produce un intervallo, un interstizio tra “visione”, “sguardo” e “leggibilità”. Ma anche se vi sono esempi precedenti di sottili “decostruzioni” del dispositivo pittorico (si pensi all’opera di Veermer e alla “lettura” che ne dà Daniel Arasse)18 o riferimenti a una «mobilità dello sguardo» presente in pittura prima dell’avvento della fotografia e del cinematografo,19 tuttavia è con la tecnologizzazione dello sguardo, non a caso dopo l’“invenzione” della fotografia, che prende a introdursi una mutazione in pittura: da Paul Cézanne la forma simbolica dello spazio prospettico prende a deformarsi e con il Cubismo e il Futurismo lo spazio pittorico si frammenta e dinamicizza. Non solo. Quando gli effetti del “cinematografo” erano già attivi nelle arti visive, il primo Futurismo ne tematizzava l’incidenza estetica “oltre” la pittura. E la pittura tendeva a scaricarsi dal figurativo, ridefinendo l’immagine in modo astratto (Piet Mondrian, Vasilij Kandinskij, Kazimir S. Maleviôc ecc.), o trasfigurandola (Max Ernst, Salvador Dalì, Joan Mirò). Inoltre, la riproducibilità tecnologica delle opere fa sì che la pratica pittorica si complichi in senso interlinguistico prendendo a basarsi sull’elaborazione di immagini fotografiche (come accade, ad esempio, con Edward Munch, Egon Schiele, Francis Bacon ecc.), o su pratiche di proiezione (in Italia ne sono esempio le opere di Tano Festa e Sergio Lombardo) in un progressivo debordare ed estendersi al mezzo cinematografico, televisivo/videografico e infografico (come nel caso dell’opus di Mario Schifano).

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È propriamente rispetto al modo di rappresentare e al modo di pensare il “visibile” che l’impatto tecnologico e mediale della fotografia e del cinema, tra l’Ottocento e il Novecento, induce delle trasformazioni nel sistema dell’arte sia conformemente a percorsi socialmente condivisi, maggioritari e istituzionalizzati, sia secondo vie avanguardiste, sotterranee e “minoritarie”. Queste ultime sono criticamente contrapposte alle prime, differenti da esse e rispetto ad esse alternative. Una relazione complessa tra la negazione della costituenda tradizione comunicativa del cinema “ufficiale” (volta alla messa a punto del proprio “dispositivo” sul piano linguistico mediante la saldatura di “rappresentazione” e “narrazione”)20 e il suo radicale superamento (che si esprime anche attraverso il rifiuto della dimensione tecnologica propria del sistema produttivo dell’industria cinematografica)21 si traccia con particolare evidenza nell’azione della prima avanguardia cinematografica. Si tratta di un processo “preparato” già nel corso degli anni ’10 [cfr. 1], che rivela come l’avanguardia ricerchi e trovi nell’immagine-movimento, nella tecno-logia del “cinema”, la cifra della modernità [cfr. 2] e come, al contempo, ne rifiuti il piano istituzionale (codici, costruzioni enunciative, modelli discorsivi ecc. in quanto vocati, sul piano della costruzione rappresentativa e narrativa, a svolgere una funzione di omogeneizzazione dell’immaginario non solo cinematografico) rispetto al quale esprime estraneità, progettando un modo “altro” di vedere. Come rileva Paolo Bertetto immaginare un altro cinema possibile è infatti il grande impegno degli artisti, dei registi, dei teorici: un cinema diversamente inventato e teorizzato, di volta in volta organico alle poetiche e alle ricerche linguistiche dei vari movimenti di avanguardia, o capace di realizzare in modo assolutamente puro e rigoroso le potenzialità e le specificità del cinema come arte autonoma. […] Cinema d’avanguardia e cinema puro, Absolute Film e cinema onirico, cinema astratto, cinema sperimentale e sinfonia visiva si mescolano e si sovrappongono continuamente rivelando il proteismo del cinema differente, ma rappresentando insieme anche prodotti diversi, a volte omogenei, a volte disomogenei, caratterizzati da assunti estetici e da poetiche assai articolate, che richiedono un’indagine precisa, capace di individuarne le differenziazioni strutturali.22

Dell’avanguardia storica Bertetto fa emergere un doppio gesto, negativo e affermativo al tempo stesso, un gesto differenziante senza telos, che cioè non configura tanto «la critica in re della rappresentazione filmica, o delle strutture linguistiche subordinate alla narratività spettacolare» come perseguimento di una finalità estetica essenziale e definitiva, quanto come «determinazione processuale, negatività in atto che si supera continuamente»; per questa via si procede alla violazione dei codici costituivi «del modello rappresentativo-narrativo della visione, cioè di un modo di organizzare il visibi-

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le», inteso come «macroschema di strutturazione della percezione, un sovramodello di sapere», «fondato sulla sua riduzione a una catena di rappresentazioni dominata dalla narratività».23 Ora, come sostiene Bertetto: intervenire contro questo pattern, cercare non già di smontarlo e di decostruirlo analiticamente (come sarà fatto in seguito dal cinema sperimentale dell’epoca della linguistica e dello strutturalismo), ma di superarlo nel processo di invenzione di altri modelli, è stato il lavoro concreto degli artisti sperimentali e d’avanguardia operanti nel cinema.24

La forma del visibile è la posta in gioco dell’avanguardia. Non solo. È anche in termini semiotici un tratto distintivo delle opere, dei film d’avanguardia, e delle teorie implicite di cui sono portatrici. Nel processo formale costitutivo dell’opera filmica l’uso delle tecnologie diviene incidente, diviene cioè un fatto linguistico. Ciò implica un altro tratto distintivo, quello che definisce sub specie tecnica e tecnologica le interferenze e le fusioni sul piano espressivo o concettuale dei diversi linguaggi delle arti (musica, pittura, teatro, fotografia, cinema, videoarte, software art, che nulla hanno a che vedere con nostalgie di un’arte totale sul modello della Gesamtkunstwerk wagneriana e che, semmai, riguardano l’intermedialità). Si tratta di una complessità ulteriore che si viene ad aggiungere ai “normali” processi di “migrazione” nelle arti di “motivi”, “temi”, “figure”.25 Tali interferenze e fusioni tra le arti portano a evidenza come il processo di trasformazione sub specie tecnologica del “visibile” in immagine (che, lo si ripete, assume forme linguistiche e può implicare una trasposizione di uno o più sistemi di segni in un altro sistema di segni, oppure riportare nel linguaggio di un medium ciò che intrinsecamente è proprio al linguaggio di un altro medium) prenda ad agire sul piano enunciativo attraverso la dimensione transtestuale.26 Le opere dell’arte sono “testi” – nella doppia accezione di testes (testis “testimonianza”) e texta (textum “tessuto”) – e attraverso di essi si costruisce il discorso e l’innesco di un processo interlinguistico che l’azione artistica oppone al mandato sociale destinato alle tecnologie di riproduzione del “visibile”; mandato che delle tecnologie definisce esplicitamente funzioni, modalità operative, usi, interpretazioni, e implicitamente stabilisce l’assetto ideologico a esse sotteso (ideologia intesa qui in senso barthesiano come “naturalizzazione della cultura”, ovvero secondo una strategia valoriale, che attraverso sottili spostamenti semantici, accentuati dalla comunicazione mediatica, fa passare per un fatto “naturale” un fatto “culturale”).27 Le tecnologie di riproduzione del “visibile” sono dispositivi ideologici in relazione ai quali le “avanguardie” hanno programmaticamente introdotto, da una postazione sociale e culturale “minoritaria”, dei percorsi teorici e degli indirizzi operativi alternativi a quelli dominanti nelle pratiche artistiche e mediatiche coeve. Alternativamente a una condizione orientata dello “sguar-

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do” in immagine, come chiarisce bene Woody Vasulka, l’azione delle “avanguardie” è volta, direttamente o indirettamente, contro la produzione tradizionale di immagini, che […] appare essenzialmente legata al principio organizzativo della camera oscura o del foro di spillo (foro di stenoscopio). Questa tradizione, che ha modellato la nostra tradizione visiva, si è rafforzata con il cinema e la televisione. È la dittatura di un foro di spillo, per quanto ridicolo o stupido possa parere.28

Si tratta di un atteggiamento critico riferito al concetto di “rappresentazione” che, dagli anni ’60, non è solo riconducibile alla critica rispetto al nesso “tecnica e ideologia” degli apparati rappresentativi (teatro, pittura, fotografia, cinema ecc.)29, ma incrocia, su piani diversi, anche il pensiero filosofico europeo contemporaneo da Jean-François Lyotard a Gilles Deleuze, a Jacques Derrida. Rispetto al campo delle formazioni discorsive del cinema, della televisione e della Rete e ai loro “dispositivi” – ovvero quegli ambiti istituzionali di pratiche sociali (strategie culturali di diffusione e di comunicazione, legislazione di sostegno, politiche di censura ecc.) ed economiche (produttive e distributive), di strategie di aggiornamento tecnologico, di modalità di riproduzione del “visibile” e della sua rappresentazione – è possibile evidenziare attraverso l’azione delle avanguardie ciò che Michel Foucault definiva, ne L’archeologia del sapere, come «dispersione»30: uno snodo, una possibilità inserita nei discorsi del cinema, della televisione, di Internet – partendo dagli stessi elementi e dal medesimo contesto di “formulazione” – di scelte differenti, di modi differenti di pensare e praticare la cinematografia, la videografia e l’infografica. L’azione dell’avanguardia – intesa qui quale pratica di ricerca e di sperimentazione in grado di produrre discontinuità, di interagire criticamente con l’assunto ideologico sotteso alle tecniche mediatiche e artistiche prevalenti – si traccia in una pluralità di discorsi che si intersecano, si sovrappongono, si affiancano, si contraddicono o si escludono polemicamente e danno luogo a fratture culturali, a delle soluzioni di continuità. Inoltre, l’avanguardia attiva processi di autocomprensione del fare artistico, spesso innescati da innovazioni o da obsolescenze tecnologiche, che non si lasciano pienamente ricomprendere nella tradizione delle arti. L’“avanguardia” è un problematico fuzzy concept che definisce provvisori sistemi di relazioni tra attività collettive e individuali, descrive punti di contatto intermediali e marca gli attraversamenti e le intersezioni tra le arti, evidenzia una forte capacità polemica, a carattere non necessariamente militante, ed esprime un indirizzo transnazionale. L’avanguardia catalizza l’attenzio-

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ne e l’azione rispetto alla funzione sociale dell’arte e dei media non tanto secondo il criterio della ricerca del “nuovo”, quanto secondo la modalità della trasformazione e dell’ibridazione dei linguaggi. Evidenza o ipotesi interpretativa che sia, già con il Futurismo «il nuovo è arrivato al punto di eliminare se stesso».31 Del resto gli “effetti sociali” di quell’anticipazione trasformativa della cultura che è l’avanguardia si rendono evidenti anche nella misura in cui l’azione discorsiva si “catacretizza”, diviene oggetto di ipercodifica, quando cioè viene esteticamente e culturalmente assimilata dalle formazioni discorsive dominanti nel campo dell’arte stessa, come nel cinema o nella videomusic o nella comunicazione pubblicitaria. Nondimeno – come era stato osservato già nel 1970 durante il “Seminario Internazionale di Studi sul Cinema Underground” (a cura di Ernesto G. Laura, nel quadro dell’attività della Mostra d’arte cinematografica de La Biennale di Venezia) – l’“addomesticazione” e l’assorbimento per ipercodifica sembra aver corso proprio attraverso il recupero delle tecniche espressive, ma sconnesse dai contenuti che quelle stesse tecniche avevano prodotto. Non a caso, come rileva Massimo Bacigalupo, “qualcosa” ha impedito che intorno all’avanguardia cinematografica si formasse il gioco d’interessi che si riscontra nelle altri arti: situazione vantaggiosa in quanto scoraggia la speculazione, ma anche svantaggiosa perché avvolge il discorso nell’indifferenza. Non so tuttavia se sia preferibile l’apparenza di discorso che sussiste, per motivi economici, per le altre avanguardie. Intanto quella cinematografia, almeno per quanto riguarda l’Italia, rimane la sola a non essere stata inventata o recuperata dall’industria culturale.32

– Cinema, video, Internet sono le dimensioni mediatiche rispetto alle quali si dispiega l’interrelazione tra avanguardia e tecnologie la cui posta in gioco implicita è la definizione della funzione dell’arte come pratica sociale, che si configura come ri-significazione della pratica artistica. Anche nel sistema dell’arte ogni nuova tecnologia trasforma le tecnologie preesistenti similiari e non, ma definisce inoltre un contesto di compresenze fra tecniche tràdite e tecniche inedite. Nei diversi contesti storici, dal Futurismo alla Net.art (e per estensione alla Software art), è in tale processo di trasformazione che s’inscrivono le coesistenze, le intersezioni, le interferenze tecnologiche tra forme mediali e forme artistiche. In questo senso è interessante analizzare i processi innescati nell’arte dalle tecnologie di riproduzione del “visibile”. Tanto più interessante se si osserva come in Europa, prima de L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di Walter Benjamin, – a partire dalle estetiche idealiste e sostanzialmente sino alle estetiche pragmatiste33 e “oltre” (con l’eccezione forse de “La questione della tecnica” posta da Martin Heidegger)34 – la filosofia (dell’arte) abbia pensato l’attività ar-

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tistica non solo al “margine” del pensiero estetico, ma anche disimplicandola dalla materia espressiva (nella quale nondimeno “entra”, si forma e si manifesta) e, a fortiori, dissociandola dalle tecniche e tanto più dalle tecnologie attraverso le quali si produce.35 Da tale concezione emerge la funzione non essenziale, accessoria, spuria svolta dalla tecnica nei processi generativi dell’arte alla quale si correla il disconoscimento della materia espressiva nei modi di messa in forma dell’opera d’arte. Contro questa concezione ha agito l’avanguardia ripensando la presenza della materia e riflettendo sull’uso della tecnologia e sul sensorio. Non è un caso che sia stato il Futurismo a introdurre la tecnologia nell’arte36 come contenuto programmatico trasversale ai diversi “manifesti” che tematizzano una rivoluzione percettiva,37 quella della “realtà” mediata dalle macchine, dai mezzi tecnologici; contenuto che si presenta in modo evidente negli assunti del fotodinamismo (anche in negativo nella critica oppositiva ad esso avanzata da Umberto Boccioni) e secondo caratteri più indiretti nelle forme della figurazione della sguardo dell’aeropittura, nonché riguardo alla prefigurazione del medium televisivo.38 A partire dal primo ’900, in Occidente, si delinea soprattutto a livello delle poetiche e delle pratiche delle singole arti – attraverso la pointe delle avanguardie storiche – una tendenza connotata dalla esplosione/implosione dell’estetico fuori dai quadri istituzionali delle arti elaborati dalla tradizione. In termini molto generali, un denominatore comune delle diverse avanguardie (dalle avanguardie alle neoavanguardie) si manifesta nel rifiuto del limite dell’estetico fissato dalla tradizione filosofica, di accezione neokantiana o neoidealistica, che pensa l’arte come momento separato e “specializzato”, come “domenica della vita” (nell’accezione di Hegel). Le avanguardie, invece, si vanno definendo quali portatrici “marginali” di nuovi modelli culturali e politici (teorizzati come strumenti privilegiati di presa conoscitiva sul reale). Rispetto a tale presupposto, l’esplosione dell’estetico fuori dagli ambiti istituzionali di fruizione-ricezione ridefinisce il “valore” dei luoghi e delle prassi sociali dell’arte. La produzione delle opere (d’arte) tende programmaticamente, nelle pratiche delle avanguardie storiche e delle neoavanguardie, a rendere problematico il quadro di tali ambiti o luoghi di valore, collocandosi, anche transitoriamente, oltre i limiti istituzionali degli “specifici” artistici. Scrive a tale proposito Gianni Vattimo: «Uno dei criteri di valutazione dell’opera d’arte sembra essere, in primissimo luogo, la capacità dell’opera di mettere in discussione il proprio statuto […]». Tale autocontestazione, se relazionata all’impatto delle tecnologie sulle poetiche e sulle pratiche artistiche, produce in modo cruciale una frattura epistemica; infatti, un fatto decisivo, per il passaggio dall’esplosione dell’estetico quale si configura nelle avanguardie storiche – che pensano alla morte dell’arte come soppressione dei limiti dell’estetico, in direzione di una portata metafisica, o sto-

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rico-politica, dell’opera – all’esplosione quale si verifica nelle neoavanguardie, è l’impatto della tecnologia, nel senso decisivo indicato da Benjamin nel saggio del 1936 […]. L’uscita dell’arte dai suoi confini istituzionali non appare più esclusivamente, e neanche principalmente, legata, in questa prospettiva, alla utopia della reintegrazione, metafisica o rivoluzionaria, dell’esistenza; bensì all’avvento di nuove tecnologie che, di fatto, permettono e anzi determinano una forma di generalizzazione dell’esteticità.39

L’azione dell’avanguardia ha avviato un processo di “ricerca” e di progressiva ridefinizione dei contesti istituzionali delle arti ai quali comunque si relaziona per negazione e (/o) per affermazione critica. Dai manifesti del Futurismo al Manifesto INTRODUZIONE ALLA NET.ART40 (di Natalie Bookchin e Alexiei Shulgin, 1994-1999), tale azione ha anche prodotto – e non solo sul piano teorico – la dissoluzione del “limite”, della soglia tra la dimensione artistica e quella sociale. Ma attraverso lo snodo della “ricerca” nella dimensione socio-culturale, oltre che artistica, si dà una connessione tra “avanguardia” e “sperimentazione” o “sperimentalismo”. Umberto Eco oppone lo sperimentalismo all’avanguardia secondo l’assunto che il primo agisca in chiave innovativa, dentro un determinato ambito istituzionale (letterario, cinematografico ecc., rispetto alla tradizione), «sull’opera singola» (dalla quale diviene possibile «estrapolare una poetica»), mentre la seconda giochi «sul gruppo di opere o di non-opere» le quali si pongono, fuori da qualsiasi ambito specifico istituzionale artistico, da una postazione sociale, culturale e politica, come manifestazione di una poetica “altra” («dalla poetica si estrapola l’opera»).41 Dunque, sperimentalismo e avanguardia sono due modalità di azione, non mutuamente esclusive, che possono coesistere nell’opus di un autore o di un artista o nelle pratiche di un singolo artista dentro un movimento, come esemplifica efficacemente Eco: Quando Pietro Manzoni dipinge una tela bianca fa ancora della sperimentazione: quando immette nel museo una scatola ermeticamente chiusa ed annuncia che contiene “merda d’artista”, fa dell’avanguardia. Nel primo caso discute le possibilità stesse della pittura, nel secondo l’idea stessa di arte e di museificabilità.42

La coesistenza di “sperimentalismo” e “avanguardia” è l’interfaccia tra “testo” e “contesto” di una radicale “messa in questione” delle forme e dei mezzi artistici e mediatici prevalenti o dominanti. – Cinema, video, Internet – ciascuno con la propria piattaforma tecnologica, la propria storia mediatica e le proprie strategie enunciative – attraver-

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so le avanguardie sono entrati a far parte della pratica artistica al contempo come focus teorici e come strumenti di decostruzione di quella stessa pratica. Questo processo di decostruzione ha investito gli ambiti, i contesti di presentazione, ma anche gli spazi di visualizzazione delle opere – tradizionalmente la cornice e il quadro, il basamento su cui poggia la scultura, lo schermo cinematografico, il monitor tv, il display del computer – proprio in quanto regolati da una serie di convenzioni, di codici specifici che si sono progressivamente trasformati, cambiando di segno e mutando i contesti di ricezione. È emersa inoltre, come rilevato da Documenta 11 (2002),43 una condizione delle arti visive contemporanee definibile come attraversamento, incrocio, metissage, melting pot e “creolizzazione” dei loro linguaggi; esse nella complessità del panorama mediatico e artistico contemporaneo – rispetto al quale insistono le differenti definizioni di mediazione,44 rimediazione,45 multimedialità, intermedialità e postmedialità46 – si manifestano in forme espressive determinate (ancora in qualche modo distinguibili sul piano mediale in “pittura”, “scultura”, “cinema”, “videoarte” ecc.) e nondimeno “linguisticamente” quasi inclassificabili. Tale complessità evidenzia come una ricostruzione storica integrata e comparativa sia necessaria, ma non sufficiente a delineare non tanto le connessioni quanto le interrelazioni tra le arti visive contemporanee attraverso l’uso e persino il non uso delle “tecnologie”. L’orientamento di una tale ricostruzione non può essere dunque quello della rincorsa alla neo-tecnologia, alla novità da essa eventualmente mutuata o mutuabile, ma è stricto sensu quello delle modalità di assunzione-sussunzione o di negazione delle capacità costruttive delle tecnologie ricondotte ai linguaggi dell’arte. È nel passato recente che pare rendersi particolarmente “leggibile” la rilevanza dei modi e delle forme di tale assunzione-sussunzione che certo non si configurano come mera accettazione degli strumenti tecnologici (e dei loro progressivi aggiornamenti), bensì come loro rifunzionalizzazione. L’aggiornamento tecnologico progressivo, le “nuove” o, più precisamente e provvisoriamente, “ultime” tecnologie,47 innescano processi formali che aprono una serie inedita di possibilità espressive (a vari livelli, dalla Body art al cinema ecc.) e configurano una rinnovata rete di relazioni tra i media e i loro linguaggi. La ricerca linguistica, l’uso e la sperimentazione artistica delle tecnologie mediali si attestano sulla base di un evidente processo di socializzazione delle strumentazioni tecniche sin dalla “Pathé d’occasione” recuperata da Arnaldo Ginna, per girare Vita futurista (1916), alla Arriflex utilizzata da Alberto Grifi48 o da Mario Masini, alle cineprese 8mm (formato, introdotto dalla Kodak nel 1936, che è alla base del cinema di Massimo Bacigalupo,

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Antonio De Bernardi, Pierfrancesco Bargellini), al “portapak” della Sony (videoregistratore portatile con nastro da 1⁄2 pollice bianco e nero, commercializzato negli Usa a partire dal 1965, che ha avuto un impatto determinate nelle pratiche videografiche tra gli anni ’60 e i primi anni ’70), alla camera digitale (che ha indotto l’elaborazione del Manifesto: Dogma 95 firmato da Lars von Trier e Thomas Vinterberg)49, ai linguaggi informatici e al software (Net e Software art; cfr. 5). Nel sistema delle arti sub specie tecnologica il percorso di una possibile condivisione delle tecnologie – con le relative politiche di standardizzazione (della “visione” e dei suoi canoni “fotografici” e “forme simboliche”) che presiedono alla loro implementazione, all’uso sociale su vasta scala – sembra compiersi con il digitale (processo di diffusione e non certo di “democratizzazione” data la supremazia di Microsoft). Anche in Italia, tra la seconda metà degli anni ’60 e i primi anni ’70, soprattutto in ambito cinematografico, l’utilizzo socialmente diffuso delle tecnologie audiovisive e il basso costo delle attrezzature tecniche hanno reso perseguibile la via dell’autonomia espressiva, l’indipendenza relativa dal dominio economico dell’industria, la definizione di differenti modelli produttivi e distribuitivi, nonché la ricerca di spazi “altri” di ricezione. In ambito cinematografico si è cioè reso possibile un accesso ai mezzi di produzione con modalità diverse: dall’acquisto di attrezzature usate alla definizione di una rete di noleggi degli strumenti di ripresa (in particolare rispetto all’uso della cinepresa Arriflex 2C, 3C, 35mm) o al loro prestito, o ancora al ricorso ai pagamenti rateali anche per l’acquisto della pellicola o per la stampa; le risorse economiche derivavano in prevalenza da finanziamenti e premi disciplinati da leggi sul cinema.50 In generale, anche se non necessariamente, il 35mm si attesta come formato standard del cinema mainstream, il 16mm quale formato del cinema amatoriale-artigianale e l’8mm e il Super-8 (introdotto nel 1965) come formato tipico dei film di famiglia che per le neoavanguardie cinematografiche tende però a divenire una delle “dimensioni” filmiche ed esistenziali in cui si traccia la relazione tra “arte” e “vita quotidiana”. Anche in tal senso la destinazione amatoriale dell’8mm è intercettata dai film-maker. Stan Brakhage pensava che l’8mm potesse istituire nuove modalità di visione in un “film da camera” che lo spettatore poteva vedere e rivedere allo stesso modo in cui sentiva e risentiva un disco. Bargellini ha definito questo processo come “mutamento filmico”: vi sono spettatori che con l’8 millimetri hanno fatto dei film che non ritengono tali, essi credono che il cineasta sia un’altra cosa […]. In passato i “veri film” sono stati fatti da grandi cineamatori; al contrario, oggi, sono i film ad essere amatoriali (in % sono la maggioranza dell’intera produzione) e a farli vi sono i registi.

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Molta gente di cinema si è liberata se non della tecnica, del manuale, così vi sono film a passo normale sovraesposti, con la grana, con l’inquadratura tagliata come capita, con le immagini che ballano, con la fotografia contrastata (senza la gamma dei grigi) e così via. A questo mutamento filmico ha contribuito il fatto che mentre veniva spazzato via il manuale, i costruttori cineottici hanno rivisto aggiornando le cineattrezzature ufficiali “garantite con il marchio della caratteristica per tradizione”, cioè a dire questa cinepresa è molto pesante, non è un difetto ma è un pregio. Contrariamente con il mercato amatoriale esistevano da tempo alcune 8mm finemente automatizzate per circuiti a transistor, elettroniche fin nell’obbiettivo (zoom)…51

Per Antonio De Bernardi, in particolare, l’8mm diviene una scelta tecnica che rende possibile fare del cinema che “accompagni nel vivere”, nello stesso modo in cui la scrittura della Recherche du temps perdu ha accompagnato l’esistenza del suo autore. Questa “poetica” evidenzia come possano trovare definizione sia la “forma breve” che la “forma interminabile” (la proiezione-fiume). Spesso la diffusione e la socializzazione dei dispositivi, non necessariamente low-tech (come si è detto Grifi gira in 35mm con Arriflex), avvengono senza implicare l’accettazione del limite tecnico, anzi introducono modificazioni, manipolazioni sino all’invenzione di macchine o all’aggiornamento di tecnologie marginalizzate e dimenticate. Ciò accade anche attraverso operazioni decostruttive riferite sia al metodo di “rifilmare dei film” – come ad esempio nei casi di Tom, Tom, The Piper’s Son (1967-71) di Ken Jacobs (che “rifotografa” analiticamente il film omonimo, realizzato nel 1905 da Billy Bitzer), o di Birth of a Nation (1973) di Klaus Wyborny – sia ai “film senza macchina da presa”: dai rayogrammi di Man Ray al riuso intertestuale di materiale filmico nella modalità found-footage a cominciare da Rose Hobart (1939) di Joseph Cornell, o ancora, in ambito videografico e infografico, dalle immagini generate elettronicamente, ma senza telecamera, dai Vasulka all’infoicona. Quest’ultima, secondo la definizione di Edmond Couchot, «non è la riproduzione ottica e analogica di un oggetto originario che avrebbe lasciato una traccia luminosa sullo schermo. Non c’è più un oggetto presente. Tra questo oggetto e l’immagine si frappone lo schermo del linguaggio informatico».52 La tecnologia implica, sottende l’uso del “dispositivo ideologico” e non solo la pratica che lo ha istituito verso la quale può agire, sul piano linguistico, in modo contrario intervenendo direttamente sulle “macchine” forzandone le funzioni, traducendole da un medium all’altro (come, ad esempio, con la messa a punto del vidigrafo a opera di Grifi) fino a rendere inessenziali le specificità del medium di cui costituiscono il congegno tecnologico proprio, reinventandone il funzionamento, come accade con la camera stenopeica53 di Paolo Gioli [cfr. 3], con la camera analitica54 di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi e con le macchine modificate di Grifi [cfr. pp. 179-180].

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Questo stesso processo, tra la fine degli anni ’60 e primi anni ’70, rispetto alla standardizzazione delle tecnologie videografiche ha implicato una differenza tra “alta” e “bassa” definizione delle immagini che corrisponde a una più marcata diversità tra uso amatoriale e uso professionale. La storia delle applicazioni della tecnologia video in ordine alla sua diffusione professionale è costellata da rapide obsolescenze e da estinzioni.55 La piattaforma base delle tecnologie amatoriali in uso non aveva la capacità di consentire un controllo elettronico dei sincronismi e ciò, soprattutto per quanto attiene alle pratiche di montaggio, ha comportato l’impossibilità di qualsiasi intervento sulle immagini, ad esempio, anche solo per estenderne o accelerarne il flusso. La postproduzione, determinando de facto la qualità tecnica dell’immagine, circoscrive il campo in cui gioca il confronto del “saper fare” / “poter fare” tra l’uso amatoriale e professionale del videotape dati gli elevatissimi costi delle apparecchiature. In generale, il processo di diffusione delle attrezzature e delle strumentazioni tecniche ha reso possibile la via dell’autonomia e la messa a punto di altri modelli produttivo-ricettivi, economici, distributivi e gestionali: dalla cooperativa cinematografica al centro di produzione e distribuzione video sino al potenziale azzeramento della distinzione tra produzione, ricezione e distribuzione indotto dalle piattaforme hardware e software, problematicamente agito dai “movimenti” in Rete [cfr. 5]. Nondimeno è tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 che si colloca il periodo in cui l’autonomia, l’indipendenza e l’accesso ai mezzi di espressione hanno dato luogo a una complessità interlinguistica che si dispiega, per la prima volta, tra due forme di linguaggio audiovisivo e due dispositivi tecnologici, tracciando un’intersezione tra il cinema sperimentale, in particolare nella forma del cinema d’artista, e la nascente videoarte. Per Maurizio Calvesi56 la videoarte trova origine nel “film d’artista”; secondo Alberto Farassino57 il cinema d’artista (“cinema dei pittori”) tende a confondersi con il video-recording. Per Adriano Aprà58 la sperimentazione e la ricerca di certa videografia definiscono un continuum, ancorché con mezzi diversi, di certo cinema sperimentale. Anche Silvia Bordini rileva continuità tra il cinema d’artista e la videoarte.59 Vittorio Fagone sostiene che «cinema d’artista e video convivono per un certo periodo nella pratica degli artisti. La scelta di un mezzo linguistico o dell’altro è determinata dalla consapevolezza delle risorse del mezzo stesso».60 Ma è la discontinuità non tanto del cinema sperimentale nel video, quanto delle modalità d’intersezione dell’uno e dell’altro a tracciarsi evidenziando, al contempo, gli ampi margini irrelati tra i due insiemi; ed è tale “discontinuità” ciò che è importante rilevare e studiare. Essa distingue un’intersezione dinamica che ha molti modi di manifestazione61 (certo tutti quelli che

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pertengono alla transtestualità pensata però in chiave sincretica e intrasemiotica) e che si marca, sul breve periodo, con maggior definizione in certe fasi quasi frammentarie. Tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70, il rilievo di una tale intersezione non può che procedere da un primo abbozzo d’analisi delle pratiche discorsive e dei campi teorici che cinema sperimentale e videotape (quale videoarte in nuce) rivelano, a diversi livelli, proprio nei modi d’uso della tecnologia così come del linguaggio audiovisivo. 1. Cinema, tecnologia, arte Il rapporto che intercorre tra cinema, tecnologia e arte porta a interrogarsi sul cinema, quale arte tecnologica e mediatica e, al contempo, sulla necessità di una definizione relazionale e funzionale dell’arte, giacché un film, come del resto qualsiasi altro oggetto estetico, non è ipso facto un’opera d’arte. L’opera dell’arte è investigabile da una prospettiva gnoseologica e non ontologica, in modo problematico, non dogmatico e secondo un indirizzo semiotico, giacché l’arte produce senso (significazione) in quanto è comunicazione e quindi “linguaggio”. Christian Metz62 sosteneva che il cinema è linguaggio artistico piuttosto che mezzo specifico. Nato dall’unificazione di più forme di espressione preesistenti che non perdono per intero le proprie leggi (l’immagine, la parola, la musica lo stesso rumore), il cinema è fin dall’inizio obbligato a comporre, in tutti i sensi del termine. È di primo acchito un’arte, sotto la pena di non essere niente del tutto. La sua forza o la sua debolezza consistono nell’inglobare espressività anteriori: alcune sono pienamente linguaggi (l’elemento verbale), altre non lo sono che in senso figurato (la musica, l’immagine, i rumori). […] In quanto totalità, il discorso filmico è specifico grazie alla sua composizione. Mettendo insieme “linguaggi” primari, il film istanza superiore, si trova forzatamente proiettato verso l’alto, nella sfera dell’arte, salvo ridiventare un linguaggio specifico in seno al suo stesso inviluppamento nell’arte. Il filmtotalità non può essere linguaggio se non per il fatto di essere già arte. […] La specificità del cinema è data dalla presenza di un linguaggio che vuol farsi arte all’interno di un’arte che vuole farsi linguaggio.63

Dominique Noguez rileva come certe pratiche filmiche mettano in atto una serie sistematica di scarti dai codici, dalle regole e dai canoni che convenzionalmente “normano” il cinema narrativo, tale da far ritenere che il cinema sperimentale più che un genere particolare della specie cinematografica si attesti esso stesso in quanto specie.64 La complessità di definizione si evince finanche dalla pluralità delle etichette terminologiche che ne nominano gli indirizzi prevalenti identificandoli come cinema “d’avanguardia”, cine-

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ma “indipendente”, cinema “sperimentale”65 e cinema “d’artista” (AvantGarde Film, Indipendent Film, Experimental Film e Artist’s Film); si tratta di diverse “nominazioni” che accentuano aspetti particolari, come ad esempio: la determinazione del cinema quale crocevia estetico, effetto dell’esplosioneimplosione dell’arte fuori dal contesto della propria tradizione ad opera delle avanguardie storiche e delle neovanguardie; l’autonomia finanziaria, produttiva e distributiva dall’industria cinematografica; la sperimentazione linguistica e tecnologica anche in chiave autoespressiva;66 l’utilizzo del mezzo cinematografico nel campo delle arti visive. Tale pluralità di caratteri sottende, da un lato, l’argomento fondamentale dell’artisticità e del posizionamento del cinema sperimentale nel sistema delle arti coevo e dall’altro lato, evidenzia la complessità di testi filmici fortemente idiolettali che nondimeno presentano una prossimità di istanze estetiche e tematiche senza però consentire l’individuazione di un corpus omogeneo di film, ma solo il riconoscimento di un’attività cinematografica marcata sul piano linguistico da specifici tratti caratterizzanti. Malgrado le diversità delle teorie e delle pratiche cinematografiche perseguite da ogni singolo film-maker, è possibile rilevare una “identità di gruppo” delineata dal progetto condiviso di indipendenza e di cooperazione produttiva e distributiva che investe mezzi tecnologici e finanziari. È possibile cioè individuare una precisa cinematografia (intesa quale complesso di attività tecniche, linguistiche, artistiche, finanziarie-produttive-distributive fuori dall’industria) il cui tratto distintivo fondamentale è la “sperimentazione” praticata come ricerca, studium, che mira alla ridefinizione del linguaggio audiovisivo secondo modalità “altre”, “avanguardiste”, esterne all’industria del cinema, al suo dispositivo di produzione e di ricezione. Sin dalle istanze programmatiche elaborate sul finire degli anni ’20 nell’ambito del Congresso di La Sarraz [cfr. 2], nell’indipendenza dall’industria questo tipo di cinema fa risiedere la forza della propria attività espressiva saldando, dalla fine degli anni ’50 ai primi anni ’70, controinformazione e attività sperimentale; anche da ciò deriva la sovrapposizione dell’impegno politico-culturale alla ricerca estetica che si delinea sia in ambito cinematografico che videografico. La battaglia contro l’istituto della censura è «praticamente l’unico ostacolo che […] impedisce di accettare la distribuzione commerciale».67 La politica della distribuzione è un punto centrale. Infatti, per il cinema sperimentale e indipendente non si tratta tanto di opporre una negazione critica al cinema d’intrattenimento e, quindi, di operare la negazione della comunicazione (attuando “la comunicazione della negazione della comunicazione esistente”, secondo la nota definizione data da Gianni Scalia a certe pratiche della neoavanguardia letteraria) quanto di ricercare un nuovo “spettatore”. Alfredo Leonardi tematizza la responsabilità che un tale spettatore deve saper assumere sul piano della cooperazione interpretativa: «Mentre il film di consu-

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mo deve persuadere e coartare lo spettatore ad ogni svolta, l’underground castamente rinuncia ad applicare le tecniche dell’attenzione. Questa, anziché strappata allo spettatore, deve da lui venire coscientemente devoluta nei riguardi di un discorso che non vuole essere accattivante. Ciò che avviene sullo schermo ha senso solo se questa decisione del guardare è stata presa a monte dei rapporti che poi si verificano variamente nel tempo di proiezione. Viene così meno lo spettacolo unidirezionale, nasce un cinema come rapporto, in situazione ovviamente precaria e disarmata, ma comunque diversa: è qualcosa che nel cinema rappresenta una novità».68 Il cinema indipendente frequenta l’utopia del cinema come rapporto, in cui il testo allinea autore o, meglio, film-maker e spettatore in modo esemplare con interessanti conseguenze semiotiche e, sul piano della ricezione culturale, con scontati ed esigui esiti sociali. Come sapeva Carmelo Bene, certi film il pubblico non li voleva proprio vedere nelle sale cinematografiche: emblematico il caso del “ritiro” di Nostra Signora dei Turchi dal cinema “Gioiello” di Torino. Ma diversamente da Bene, contro la “trascendenza” dell’industria culturale, il cinema indipendente si pone tentativamente come cinema “altro” rispetto al cinema convenzionale. Bacigalupo, citando T. S. Eliot («For us, there is only the trying. The rest is not our business») spiega: Essendo il tentativo, e la sua intensità l’unica cosa che realmente ci interessa (né lo spettatore sarà qui diverso dall’autore, dovendo compiere un lavoro assai simile durante la visione, procedendo appunto per ipotesi), dovranno per forza cadere numerosi termini che certa critica, mancando ancora degli strumenti adatti per affrontare questo cinema, tende spesso a rispolverare.69

Il fatto di «accompagnare i film», film che come sottolinea ancora Leonardi «hanno un elemento in comune, che è quello di una estrema soggettività e quindi una estrema fuggevolezza rispetto a dei canoni che sono ora di giudizio artistico, ora di giudizio morale, ora di giudizio sulla vita civile, che sono insomma delle regole della società, il fatto di portare lo spettatore a capire e a rispettare questo, a cercare di distruggere tutti i suoi diaframmi, di abolire tutti i suoi apriorismi, di accettare, di cercare di capire e di vedere quello che l’autore vuole dire, non porta a capire meglio quello che l’autore dice, perché questo nessuno lo saprà mai, neppure l’autore lo sa; ma porta lo spettatore a una grande creatività, perché è lui che riempie di nuovi contenuti, di nuova vita, o semplicemente di vita, uno stimolo che gli viene dato; e questo crea o può creare in lui lo scatenamento di un principio di autonomia, di creatività che manca o è addormentata nella maggioranza delle persone; creatività che non si deve esprimere solo nei confronti dell’arte ma globalmente, come per l’artista, per il quale la cosa più importante in fondo non è l’arte ma la vita, l’arte è solo il suo modo di riflettere sulla vita».70

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Tra il Futurismo e l’“underground”71 il cinema sperimentale è riconducibile, in quanto medium e linguaggio, sia all’opus di singoli artisti e/o cineasti in funzione di mezzo e materiale espressivo (come accade nell’opera di Luigi Veronesi, di Silvio e Vittorio Loffredo, di Cioni Carpi; cfr. 3) sia all’attività di “movimento” rispetto al quale la costituzione nel 1967 della Cooperativa Cinema Indipendente diviene per i film-maker uno strumento organizzativo temporaneo. Tale processo si viene definendo iuxta propria principia anche negli Stati Uniti (non solo in forza del legame con l’Europa attraverso la presenza di Maya Deren, di Gregory Markopoulos, di Jonas Mekas) e si manifesta nell’opera di Bruce Conner, di Robert Breer, di Stan Brakhage. In USA, nei primi anni ’60, si viene definendo il New American Cinema (NAC) e soprattutto si viene formando il discorso sul cinema che porterà nel 1962 alla fondazione a New York, ad opera di Mekas, della Film-Makers’ Cooperative. Il NAC si presenta in Italia, già nel giugno-luglio 1961, al Festival dei Due Mondi di Spoleto con un programma presentato da David Stone che comprendeva film di Hill, Mekas, Drasin, Frank, Harrington, Rise, Broughton, Brakhage, Breer, Markopoulos, VanDerBeek, Rogosin. Questo programma venne riproposto da P. Adams Sitney nel giugno-luglio 1964 alla terza Mostra Internazionale del Cinema Libero di Porretta Terme, in una rassegna notturna.72 In Italia i percorsi sotterranei del cinema sperimentale non hanno, almeno apparentemente, contatto con quelli del cinema di “superficie” se non, in modo piuttosto problematico, con quelli delle “nouvelles vagues”. Il riferimento dichiarato del Cinema Indipendente Italiano (CII) è costituito dal New American Cinema, nel cui manifesto di fondazione73 Jonas Mekas e Lewis Allen scrivevano: «Noi non vogliamo film falsi, rifiniti, suasivi. Noi li preferiamo rozzi, malconfezionati, ma vivi. Noi non vogliamo film rosei. Noi li preferiamo del colore del sangue». Ma come rilevava Lino Micciché, citando “Howl” (da Jukebox all’idrogeno, 1956) di Allen Ginsberg: «In Italia non v’è una Hollywood “i cui schermi sono piantati nella gola di Dio”, né un Greenwich Village alla cui Voice affidare funzioni di portavoce dell’avanguardia».74 Si tratta di un riferimento motivato da un contatto reciproco, da un percorso autonomo e mutuamente indipendente, che presenta però una matrice comune transnazionale derivata dalle avanguardie storiche e dal loro superamento. I film-maker del cinema indipendente italiano pervengono autonomamente, ancorché per vie complesse e singolari, a una sintesi culturale e politica collettiva – implicata dall’avvio del processo di “globalizzazione”75 e dall’impatto della comunicazione di massa su scala planetaria, vale a dire dal-

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l’avvento della cosiddetta “videosfera” (di cui sono segno sul piano sociale il movimento stesso della rivolta del ’68,76 e sul piano mediatico la trasmissione in diretta televisiva dello sbarco sulla luna77) – le cui forme di dissenso erano transnazionali. Si comincia cioè a esperire la coesistenza di una molteplicità di temporalità differenti, ancorché concomitanti, in luoghi diversi (Europa, USA), ma che nondimeno subiscono le stesse trasformazioni culturali, gli stessi influssi sociali. Allo stesso modo della Pop Art, il cinema underground «espande linguaggi differenti nella globalizzazione di uno stile poggiante su alcune costanti, al di là del continente in cui si manifesta».78 Tant’è che quando Mekas venne in Italia nel 1967 si dichiarò entusiasta de Il mostro verde (1967) di De Bernardi – uno dei film manifesto dell’underground italiano (realizzato con la collaborazione di Paolo Menzio) – perché «sembrava di essere a New York»; il film era tenuto in estrema considerazione anche da Allen Ginsberg, come ricorda Bacigalupo; il quale però non manca di sottolineare che: «In realtà New York c’entrava ben poco con la minacciosa presenza del Mostro nella periferia torinese (dove, come una volta osservò Leonardi Howl passa, ma la Signorina Felicita resta)».79 Un ulteriore caso di “dislocazione culturale” è riscontrabile nel fatto che il New American Cinema trovò, come si è detto, il tempo e lo spazio della sua prima manifestazione nel giugno-luglio 1961 al Festival dei due Mondi di Spoleto – a Spoleto prima che a New York! [cfr. 4] – con il già citato programma presentato da David Stone. A livello transnazionale, dopo la fase delle avanguardie storiche, proprio nel corso degli anni ’60 non è casuale il ridelinearsi in una “zona underground” della centralità del “cinema” che ritorna, come già negli anni ’20, a farsi crocevia di altri linguaggi e di altre arti. Tendenza annunciata in Europa con il passaggio dalla letteratura al cinema di Alain Robbe-Grillet e di Pier Paolo Pasolini e che, sia negli Stati Uniti sia in Italia, si andava esplicitando in modo esemplare come punto di intersezione tra pittura e cinema nell’opera di Andy Warhol e di Mario Schifano. Questi nel 1962 a New York espone insieme a Tano Festa con i “Pop” americani alla mostra New Realists; due anni più tardi è a New York dove frequenta Warhol e lo studio del fotografo Bob Richardson e realizza il primo cortometraggio Reflex (16mm, 1964); in viaggio tra New York e il Messico gira Round Trip (16mm, 1964). Seguono i cortometraggi: Serata (16mm, 1967), Ricordo (16mm, colore, 1967), Anna Carini in agosto vista dalle farfalle (16mm, 1967), Jean-Luc cinéma Godard (16mm, 1967), Pittore a Milano (16mm, 1967) e Film (16mm, 1967). Per Schifano il cinema – come è intuibile in particolare rispetto ai lungometraggi Satellite (16mm e 35mm, 1968), Umano non umano (16mm e 35mm, 1969), Trapianto, consunzione e morte di Franco Bròcani (16mm e 35mm, 1969) –

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segna il momento in cui ha pensato di smettere di dipingere [cfr. 4.1]. Schifano cercava di scoprire il cinema pensando «che avesse un destino», nondimeno afferma: nei miei film non c’era l’amore per il cinema, ma l’idea che il cinema potesse dire qualcosa di più della pittura. Quando dicevo: “La pittura è finita”, era un tentativo di mettersi in crisi, non una vanità, un tentativo di dire che bisognava riscoprire tutto e ricominciare, una sorta di azzeramento. E con il cinema ho tentato lo stesso tipo di operazione dei miei esordi con i monocromi, una ricerca piana […], lo stesso tipo di operazione che poi ho tentato con la fotografia.80

Nel tracciare una definizione del cinema d’artista nell’ambito del cinema d’avanguardia o cinema indipendente Vittorio Fagone rileva come le opere di Brakhage e Mekas, di Heians e Markopoulos, di Gidal e Le Grice, di Grifi, Gioli, Schifano, Bacigalupo, Bargellini, Leonardi, Lombardi ecc. occupino uno spazio singolare nella cultura visiva contemporanea. Il cinema si rinnova criticamente dentro questo spazio estremamente specifico e diverso. Da lì media anche alcune esperienze che appartengono allo sviluppo delle arti visive. Ma nella stessa zona di scambio arriva il cinema degli artisti, non più come mezzo esterno, ma assorbito alla realtà della ricerca visuale dall’esplosione metalinguistica che gli ultimi anni hanno registrato. Il cinema d’artista vale a questo livello in una doppia direzione: esso è un utile tramite di vitali sconfinamenti, di assorbimenti metalinguistici, e una sperimentale processualità di analisi dello spazio, non solo fisico dell’immagine e del fare immagini. Così il film d’artista può tenere nella sua illusoria realtà le dichiarazioni del gesto e del corpo, la dilatazione dell’ambiente di relazione e nello stesso tempo rivolgersi a questi momenti analizzandone, ordinandone, sovrainvestendone gli attimi costitutivi: farsi oltre che oggetto, strumento di pratica analitica. Ma, in ogni caso, esso non perde la sua referenzialità originaria, o tiene a non perderla. E questo contraddistingue una diversa “indipendenza”. Per quanto esile possa sembrare questa differenza, essa ha, e dà, un senso. Sperimentale, d’avanguardia sono sempre etichette alle quali il cinema d’artista può essere ricondotto utilmente. Ma va ribadito, con una riduzione di specificità. Il cinema d’artista non pretende /di avere quale esito/ un film d’arte […], pretende di registrare il codice di un linguaggio visivo, di permutarlo, di operare in esso secondo un rapporto critico e creativo. Una delle preoccupazioni dei cineasti indipendenti è di arrivare all’opera, di riuscire a essere letti prima che come artisti, impegnati nella ripetizione con minime variazioni di uno stesso procedimento creativo, come realizzatori di opere autonome e chiuse. È una preoccupazione che rispecchia la sfida, su tempi lunghissimi, tra il cinema di consumo e il cinema di ricerca, e ha una sua logica.81

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In Italia il cinema sperimentale si precisa nei “film d’artista” di Gianfranco Baruchello, Luca Patella, Ugo Nespolo, Tano Festa, Franco Angeli, Giosetta Fioroni, Nato Frascà, Claudio Cintoli, Paolo Gioli e in chiave performatica il cinema si presenta nell’opera di Fabio Mauri;82 Sylvano Bussotti, compositore, espone nelle gallerie d’arte grafi musicali e realizza brevi film;83 Mario Ricci nel “teatro immagine” usa l’immagine cinematografica «come momento espressivo primario»; Cioni Carpi dal cinema approderà alla pittura; Alfredo Leonardi, teorico del Cinema Indipendente Italiano e tra i fondatori della Cooperativa di produzione e lavoro Cinema Indipendente passa dal teatro al cinema; Carmelo Bene migra dal teatro al cinema e da quest’ultimo al video.84 È il cinema sperimentale degli anni ’60 a fare del linguaggio audiovisivo e del “cinema” tout court un dispositivo estetico di “riscrittura” e di transtestualità. In un contesto storico-culturale in cui l’interscambio fra teatro, musica e arti visive (Pop Art, Arte concettuale, Happening, Performance Art e della nascente Body Art, Land Art, Video Art, teatro di strada ecc.) si fa imprescindibile, il cinema sperimentale programmaticamente avvia, quasi da un grado zero, una ricerca intertestuale sub specie filmica, facendo del linguaggio audiovisivo lo strumento di analisi, di studio e di esperienza d’incroci e sovrapposizioni, d’interferenze e contaminazioni del cinema con se stesso e con altre forme espressive estetiche e non (pubblicità, telegiornali, film di genere, film d’autore, documentari, reportage, film di famiglia ecc.). Ma non si tratta più di contatti multimediali (cinema-teatro-musica ecc. con le loro varianti combinatorie), bensì di un contagio intermediologico e interdiscorsivo: la posta in gioco del sistema di relazioni intercorrenti tra cinema e arte consiste propriamente nelle modalità attraverso le quali si dispiega l’interlinguisticità. Un film di riferimento in tal senso è senz’altro La verifica incerta (196465) di Gianfranco Baruchello e di Alberto Grifi, dedicato a Marcel Duchamp (presente, insieme a Man Ray, Max Ernst e Matta, alla proiezione parigina del 1965).85 Il materiale filmico compositivo CinemaScope (tratto da 150.000 metri di pellicola di scarto, in prevalenza di film di genere hollywoodiano anni ’50, selezionati attraverso le tabelle di numeri casuali) oggetto del “riuso” è stato montato da Grifi con l’impiego di una “pressa Catozzo” modificata e, secondo l’intenzione di Baruchello, veniva proiettato senza lente anamorfica, “compresso” a 4⁄3. Sul piano tecnologico, dunque, Grifi e Baruchello agiscono per addizione (la modificazione della “Catozzo”, la tornitura dei “dentini” per la perforazione quadrata del CinemaScope, anziché rettangolare, che consentiva di “girare” specularmente la pellicola e di innescare repentini rovesciamenti delle inquadrature) e per sottrazione (ovvero la proiezione senza lente anamorfica) definendo il film come un’operazione critica metalinguistica. L’intervento sub specie tecnica agisce in modo decostrut-

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tivo sulle correlazioni segniche, sui livelli connotativi rispetto ai tòpoi, alle ipercodifiche dei film di genere, rispetto alle azioni e ai gesti tipici, rispetto ai corpi delle star; in ultima istanza l’operazione critica destruttura i processi narrativi interni alle “campionature” filmiche. Non è casuale del resto che La verifica incerta, come sottolinea Carla Subrizi,86 sia contemporanea a Elementi di semiologia di Roland Barthes. Altro film di riferimento è Immagine del tempo di Masini (il film è del 1964 ed è stato girato con una Paillard 16mm, bianco e nero, sonoro ottico); è un documentario sull’omonima litografia di Emilio Vedova e, al contempo, uno studio sul mezzo cinematografico. Il cinema sperimentale e indipendente italiano pone la propria attività in un ambito di totale “ritestualizzazione” dell’immagine. Massimo Bacigalupo, ad esempio, ha molto pensato al cinema secondo una modalità transtestuale, lasciando deliberatamente allo spettatore il compito della ricostruzione del senso del film.87 Nel movimento del cinema indipendente le due fasi dell’impegno estetico e politico tendono a dar origine a delle sovrapposizioni: la prima va dal 1964-1967 e marca l’attività creativa (inventiva) del cinema underground italiano, anche se vi sono film di sperimentazione precedenti: Nonotte (1961) di Grifi e Beppe Lenti e Il sogno di Anita (1963) di Masini (entrambi i film sono introvabili); la seconda va dal 1967 al 1969-70 e segna l’attività politicamente orientata: «o si fa parte dell’establishment o lo si combatte apertamente su un piano politico» scriveva Leonardi (il quale peraltro non mancava di denunciare «le rudi critiche della sinistra che non concepisce come ci si possa ancora occupare della propria autoespressione quando tanti squilibri e ingiustizie minacciano la vita dei più»). Ma nel breve periodo 1967-1969 è la Cooperativa di produzione e lavoro Cinema Indipendente a divenire il punto di confluenza del cinema underground italiano. Si viene presentando però in una complessa rete di adesioni e defezioni, come è possibile constatare attraverso la semplice lettura dei tre cataloghi pubblicati con i film in distribuzione: il primo nel 1967, il secondo nel 1968, il terzo e ultimo risale alla primavera del 1969. La Cooperativa Cinema Indipendente, sul modello della Film-Makers’ Cooperative, individua quali circuiti alternativi di distribuzione «i cine-club di ogni tendenza e colore», circoli cultuali, associazioni varie, gallerie d’arte, librerie che si trovano di fatto fuori dal controllo della censura [cfr. 3]. Leonardi nella comunicazione della costituzione della Cooperativa (avvenuta il 22 maggio 1967 a Napoli), la cui base assembleare deteneva, rispetto al consiglio d’amministrazione, «gran parte del potere decisionale», evidenzia l’aspetto fondamentale del cinema indipendente pensato in primo luogo come attività in cui le figure del regista e del produttore si identificano.88

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Si tratta, quindi, di una cooperazione a carattere economico («unirsi per iniziare lo sfruttamento commerciale delle opere che altrimenti circolerebbero clandestinamente e stentatamente»), che mette in gioco un’azione culturale che mira alla sottrazione dall’istituto della censura. La base finanziaria della cooperativa «è costituita dai proventi del noleggio dei film, attività che interessa la maggioranza dei membri, parecchi dei quali producono da se stessi i loro film, ma lo statuto prevede un’attività di produzione che sarà proporzionale alle disponibilità finanziarie che potrà interessare tutti coloro i cui progetti saranno stati approvati dalla commissione culturale, molto vasta…, e ritenuti realizzabili dati i fondi in cassa».89 La Cooperativa, la cui rivista di mediazione è “Ombre elettriche”,90 si scioglie ufficialmente nella metà del 1969; ciò nondimeno il “gruppo indipendente” rimane attivo sino al 1970-71 spostando l’asse di intervento da Napoli a Roma. La crisi della CCI fu determinata, almeno in parte, dagli eventi del ’68 e dalla diversità delle risposte a tali eventi che i film-maker venivano elaborando. Tutto, tutto nello stesso istante (1968-69, 25’ 16mm, colore, sonoro ottico), unico documento filmico collettivo della CCI (composto dai contributi di Bacigalupo, Bargellini, Baruchello, Chessa, De Bernardi, Epremian, Leonardi, Lombardi, Meader, Menzio, Turi, Vergine) è una risposta ai fatti di Valle Giulia e alla contestazione alla Convenzione di Chicago ed è programmaticamente il «risultato di una operazione priva di qualsiasi finalità estetica» (cfr. ultimo Catalogo della CCI), ma che tuttavia rende evidente, una volta di più, come la CCI fosse un punto di “contatto” di autori «dai linguaggi più eterocliti». Tali linguaggi il film li «dà a vedere in un contesto che va situato nello sconfinato versante che sta tra “l’activity” e il “patetico”».91 Nondimeno, la confluenza temporanea dei film-maker indipendenti nella CCI, come rileva Bacigalupo, «ha lasciato un segno netto sull’attività di ognuno».92 Come si è detto, nonostante le diversità delle teorie e delle prassi perseguite da ogni singolo film-maker è possibile evidenziare una “identità di gruppo” delineata dal progetto condiviso di indipendenza e di cooperazione produttiva e distributiva che investe mezzi tecnici e finanziari. Nonostante le differenze “estetiche” dei film, dei corpora filmici di ogni film-maker – a seconda delle fasi storiche e degli indirizzi di ricerca – è possibile individuare una precisa cinematografia, al contempo sperimentale e d’avanguardia, nel cui ambito la contestazione del cinema dominante è un dato implicito e non l’aspetto determinante. Non si è trattato quindi tanto della decostruzione programmatica del sistema di rappresentazione istituzionale (con il suo corollario di convenzioni narrative), quanto semmai di una critica radicale volta al cinema d’autore e al concetto stesso di “autore”.93 Come afferma Bacigalupo: «Scopo della CCI era accogliere tutti gli autori veramente indipen-

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denti del cinema italiano, e privare la figura dell’autore della sua autorità».94 Tale assunto porta a evidenza come il fatto strutturale dell’indipendenza economica determini la ridefinizione del concetto di autorialità: e ciò avviene attraverso la definizione del ruolo di film-maker, cioè paradossalmente in presenza di un’autorialità oltremodo forte, giacché essa assimila a sé un sistema produttivo-creativo complesso. Il film-maker è tendenzialmente operatore, montatore, regista-produttore, è quasi sempre proprietario del negativo, spesso è anche attore e, non solo per il tramite cooperativistico, distributore. Il cinema indipendente è un cinema che si pone programmaticamente contro “l’autorità” dell’autore e in tale senso è un cinema “anti-autore”, che tuttavia investiga la soggettività e pone il tema del “soggetto” o, meglio, del “soggetto nel linguaggio”. Ed è soprattutto intorno a questo argomento che si misura tutta la distanza e l’alterità del cinema di Carmelo Bene.95 Guido Lombardi sosteneva che il cinema è un «modo di vedere che si attua in forme molto più oggettive di qualsiasi altra arte». «Come trasformazione della realtà in immagini e delle immagini in realtà, il cinema “inizia” da una cosa vista, guardata semplicemente per vedere, ma che contiene in sé la possibilità di una trasformazione, di un’altra esistenza nella vitalità dell’immaginazione che continua la realtà».96 Il cinema è semplicemente una delle tante forme della realtà. Ma dentro la realtà con gli oggetti e gli ambienti c’è sempre e anzitutto lo sguardo che li vede e li “media”, il pensiero che li rivede, la passione che li deforma. Così la registrazione oggettiva, sia essa quella della percezione e della memoria o della cinepresa, è anch’essa “un’interpretazione”97 e per questa via ritorna al tema della “soggettività” (centrale nella teoria e nella prassi cinematografica di Pier Paolo Pasolini). Tale poetica dello sguardo molteplice, al contempo dentro l’immagine e separato da essa, esterna, trova un inedito indirizzo nel progressivo estendersi dell’opera all’ambiente: dalle videoinstallazioni all’environment (in Italia attraverso Mario Ceroli e Pino Pascali). Talvolta la pratica “transtestuale” dà luogo a interferenze linguistiche tra “realtà” documentata, teatro, performance musicali, come accade ad esempio con i documentari Indulgenza plenaria (1964), Living & Gloriuos (Mysteries e The Brig, 1966) e Musica in corso (1966) di Leonardi. La metatestualità e l’intertestualità costituiscono i tratti distintivi del cinema indipendente; si tratta di aspetti enunciativi della “transtestualità” che si traducono nel discorso dei film legandosi ai materiali e alle tecnologie. La metatestualità, secondo Gérard Genette, indica «la relazione, più comunemente detta di “commento”, che unisce un testo ad un altro testo di cui esso parla, senza necessariamente citarlo (convocarlo), al limite senza neppure nominarlo». «È, per eccellenza, la relazione critica». L’ipertestualità

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definisce non solo la relazione di derivazione che lega un testo A anteriore, o ipotesto, a un testo B, o ipertesto, ma anche la loro compresenza.98 È l’interferenza tra metatestualità e ipertestualità (che definiscono appunto dei tipi di relazioni transtestuali evidenziati da Genette, 1982) a costituire uno dei tratti pertinenti del cinema sperimentale o d’avanguardia. Metatestualità e ipertestualità definiscono una strategia relazionale che è alla base di un modo enunciativo praticato come “analisi critica” che un dato film compie di se stesso in rapporto a un altro film, o ad altri film, anche in chiave compositiva ed ermeneutica. Si tratta di una operazione che mira propriamente alla “dimensione metalinguistica”, che secondo Christian Metz (1992) «è localizzata nel cuore stesso del linguistico», nel senso che il “metalinguaggio” è la funzione che ogni linguaggio attiva non solo quando “parla di se stesso”, ma proprio quando “parla”. L’enunciato allora non riflette soltanto ciò che è detto, mostrato, significato ma anche il fatto che è detto, mostrato, significato, ovvero “riflette” l’enunciazione.99 Questa sembra essere la scoperta “teorica” praticata dal cinema indipendente e giocata in chiave estetica ed etica, sino all’estenuazione della relazione tra “film-maker” e “spettatore”, poiché retta da una testualità stratificata, complessa, la cui immediatezza visibile richiede per poter essere “interpretata” rinvii continui all’intertesto, di cui si sostanzia. Cosicché la sperimentazione “meta-linguistica” del mezzo cinematografico (e per estensione videografico o infografico) è coestensiva all’apertura della forma filmica alla “transtestualità”, al discorso sul testo interno al testo. La pratica del metalinguaggio critico agisce in modo autoriflessivo all’interno dei corpora filmici di singoli film-maker. Ciò è particolarmente evidente nell’opera di Leonardi e di Bacigalupo: il girato, o anche certi passaggi montati di film precedenti divengono materiali per nuovi film. Ad esempio alcune sequenze di Quasi una tangente (1966) confluiscono nella terza parte di Ariel loquitur (1967), dove vengono rienunciate o rifunzionalizzate (come accade nel caso di Romano Scavolini, che trasferisce frammenti delle sequenze finali di A mosca cieca in Prova generale, 1968) e dove assumono una valenza analitica e critica secondo il metodo praticato e teorizzato da Stan Brakhage in Dog Star Man (1961-64) e nel film ad esso strettamente collegato The Art of Vision (1961-65), che ne contiene tutto il materiale visivo e lo reinterpreta, lo svolge analiticamente nei complessi processi costitutivi dai quali individua e isola gli elementi caratterizzanti, facendone derivare una serie di modificazioni.100 Nel Manuale per riprendere e ridare i film (1963, editato in Italia nel 1970 da Feltrinelli, insieme a Metafore della visione, con la traduzione di Bacigalupo) Brakhage chiarisce come sia «impossibile comunicare certe informazioni

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estetiche a pubblici ignoranti del piano tecnico […] perché vi è un’area vasta in ogni arte dove la grammatica di quell’arte e la sua tecnica sono interrelate e persino sinonime…; ed una delle definizioni di qualsiasi mezzo espressivo potrebbe e forse dovrebbe farsi in termini delle limitazioni tecniche di quel mezzo».101 Brakhage tratta di processi linguistici che riguardano i formati, le giunte visibili, i graffi sulla pellicola e le raschiature dell’emulsione, l’inchiostrare o il “dipingere” (dissolvere) immagini “persino con la colla” (mescolata a colori, clorox, sali e lacche); tratta inoltre del “sincronismo” (inteso come il mettere tutta l’esperienza di film molteplici su unica pista ottica), delle pratiche del rifotografare (fotografare le immagini, ogni immagine attraverso mascherini oppure mascherare il film nella fase di stampa con le tecniche della sovrimpressione) e della luce che sola può «dare vista al mezzo “con, non attraverso, l’occhio” (William Blake) con piuttosto che attraverso la macchina, con qualsiasi mezzo a […] esposizione (piuttosto che a disposizione)».102 Forse non è un caso che in Italia il cinema indipendente abbia trovato il proprio incipit nei film di Grifi e Masini, film-maker che avevano una grande competenza tecnica che ha consentito loro la forzatura del limite delle tecnologie a basso costo soprattutto attraverso la sperimentazione del sonoro, della colonna sonora aggiunta, secondo modalità performatiche (Il sogno di Anita, 1963), sovrapposta (X chiama Y, 1967) o multilivellare (Transfert per Kamera verso Virulentia, 1966-67). Certo il cinema indipendente italiano non ha espresso l’attenzione tecnologica e formale al mezzo cinematografico e al suo “linguaggio” che invece ha caratterizzato l’underground statunitense (e anche quello britannico) soprattutto nella “articolazione” strutturalista (“structural film”)103 o, meglio, “decostruzionista”. Nondimeno, la sperimentazione tecnica e formale del medium cinematografico è comunque un tratto caratterizzante della cinematografia indipendente italiana. Tutto il cinema di Bargellini è cinema-techne. Per Bargellini il «cinema è luce». «Film di luce e di pulsazioni» è, infatti, Trasferimento di modulazione (1969), che «a ogni proiezione è diverso, “materialmente” diverso […]». «La luce del proiettore e la grandezza dello schermo lo trasformano e ne fanno, ad ogni proiezione, un film unico, che vive e muore nell’arco di quella singola proiezione. Non solo. Per il modo particolare in cui è stato fabbricato, Trasferimento di modulazione è un film irriproducibile, e l’unica copia che ne esiste è quindi destinata a scomparire dopo un numero x di proiezioni»104 [cfr. pp. 180-181]. Anche in Trasferimento di modulazione agisce una pratica intertestuale: l’“ipotesto” è un film pornografico, che Bargellini ri-filma, sviluppa e stampa, dal quale il “trasferimento di modulazione” estrae colori, immagini in negativo, frammenti di corpo, pulsazioni visive attraverso le quali produce il proprio discorso. In Macrozoom

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(1968) egli sperimenta l’uso dell’obiettivo transfocatore e ne studia l’applicazione sulle tecniche di “sceneggiatura”, “tournage” e “montaggio”. Un’attenzione formale è evidente anche in Esercizio di meditazione (1968) di Leonardi, articolato in serie composte da inquadrature fisse, di durate variabili, di Piazza Navona che formano una rotazione di 360° o in Sviluppo n. 2, sempre di Leonardi, (cortometraggio, 1968) che mira all’azzeramento della scrittura filmica, cancella le “figure” in un monocromo grigio ottico che “invade il fotogramma” e lascia affiorare impercettibilmente fantasmi iconici (volti, città, spezzoni di film, oggetti ecc.). Un altro tratto distintivo è l’azione sul tempo filmico in forme espanse, contratte, o in loop. Film ininterrotti, dalle durate abnormi secondo la “poetica” del fare del cinema che «accompagni nel vivere» come accade in Dèi di De Bernardi (1968-69, sei bobine di circa 120 metri l’una, progetto attualizzato in un “racconto” dello sguardo attraverso l’impiego dell’8mm e in “tempo reale”), ma anche come avviene, ad esempio, in Fractions of Temporary Periods (1965-69)105 di Bargellini dedicato a una bambina osservata nei gesti quotidiani nel corso degli anni: una bambina che «esce sul balcone con i pattini, guarda in giù, cresce, parla con un’amica, s’allaccia il vestito, chiacchiera con gli amici davanti alla porta, e soprattutto aspetta, sempre davanti al portone, che la vengano a prendere. Ha i libri tenuti da un elastico».106 Osservare la realtà è per Bargellini «affacciarsi alla finestra e guardare fuori è come vedere un film. Filmare è un modo per prolungare la condizione di spettatore ed estraniarla».107 Una temporalità estesa, fenomenologica, articola X chiama Y (1967) di Masini, che utilizzò nella prima parte del film una Kodak del 1929/1930 (16mm a 16 fotogrammi al secondo), una Paillard e pellicola scaduta che restituiva un’immagine più “sgranata”, con meno contrasto (il film 16mm è stato poi gonfiato a 35mm). X chiama Y è una riflessione sul “film di famiglia”. L’intento è quello di cogliere i cambiamenti, le trasformazioni, la crescita fisica di una famiglia, della propria famiglia, nel corso di un lungo periodo (due anni e mezzo) e di “riprenderli” in modo dissociato in due momenti autonomi, ma paralleli, quello dell’immagine e quello sonoro. Masini ha registrato il sonoro indipendentemente dall’immagine e poi li ha montati congiuntamente. Il suono è disgiunto dall’immagine (tutto è fuori sincrono ad eccezione di un’unica scena girata al mare proprio col ciak) e, nondimeno, ricrea la stessa “storia”. Immagini e suoni sono oggetto di un’associazione che lo spettatore compie a posteriori. Anche Ciao ciao (1967) di Adamo Vergine108 è un intervento riflessivo sul “film di famiglia” e più precisamente su il più tipico stilema del cinema dilettantistico-familiare [che] è quello del “saluto”. Infatti in ogni film-ricordo c’è sempre una persona che, o ferma o cor-

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rendo o venendo incontro alla cinepresa, ad un certo punto alza il braccio ed agita la mano a salutare. La cosa [ha colpito Adamo Vergine perché egli ha] ricevuto la sensazione che questo gesto, inconsapevole e istintivo, ma comune a tutti i personaggi di tale cinema, nascesse dall’esigenza di recuperare “l’umano” messo in crisi dalla situazione a tre che determina la cinepresa, inframmettendosi fra il familiare-attore ed il familiare-regista. Infatti nessuno si sognerebbe mai di salutare una cinepresa, se per esempio fosse sola e sistemata su un treppiedi, con un autoscatto; invece nella situazione l’attore “si sente” guardato, ma non “si vede” guardato e questo mette in crisi il suo rapporto umano per cui istintivamente saluta […].109

Si tratta dunque di un intervento metalinguistico sullo “sguardo in macchina” (una forma dello sguardo che al cinema è definito in termini enunciativi come “interpellazione”)110 su quattro sequenze di un “film-ricordo”, girato durante una gita nel 1955, che sono state unite ad anello, in modo che si ripetessero sempre, e proiettate su un vetro smerigliato. Questa proiezione è stata ripresa da una macchina 8mm., utilizzando tutte le variazioni che essa permetteva di velocità e di focale (zoom). Inoltre, poiché la pellicola 2x8mm. è come una 16mm. che dopo lo sviluppo viene tagliata in due per la lunghezza, la pellicola di questo film non è stata tagliata e quindi viene proiettata come se fosse 16mm., così che si vedono contemporaneamente 4 fotogrammi: due per la ripresa di sinistra e due per quella di destra. Per entrambi i lati si è utilizzato lo stesso schema di ripresa (variazioni della velocità e della focale), ma in senso inverso. Tale schema è stato stabilito sulla base di due motivazioni. Dare al contenuto scelto una forma che avesse una sua logica di inizio e fine, e secondo, che questa fosse estranea al contenuto stesso. Infatti ci sembra che questa struttura porti in se stessa un significato: la presenza della cinepresa. La pellicola non è stata tagliata affinché vedendo il film si potesse avere la sensazione di vedere anche la pellicola: fatto che certamente non si verifica quando viene proiettata normalmente, perché l’attenzione visiva è rivolta esclusivamente all’immagine che è rappresentata e lo spettatore si cala in quella finzione. Per lo stesso motivo si è stabilita anche l’inversione dello schema della ripresa di sinistra e quella di destra. Questo film potrebbe anche essere visto come una analisi cinematografica di un tipico stilema mid-cult cinematografico.111

Il continuum esistenziale della dimensione privata e pubblica è il “sottotesto” della filmografia di Leonardi; in Se l’inconscio si ribella/rivela (1967) viene in chiaro l’immediato processo di trascrizione della vita attraverso lo sguardo filmico nelle immagini di suo figlio Francesco, di Silvana, del Living Theatre, di Julian Beck ecc.

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Ma a ben pensarci tutto il cinema indipendente italiano è un processo in divenire, un continuum audio-visivo attraversato dalle figure dell’interferenza, della sovrapposizione, del “contagio”. In Si prenda una ragazza, una qualunque, lì a caso… (1968) Guido Lombardi e Anna Layolo svolgono un’operazione di rienunciazione decostruttiva su Blow up112 (1966) di Michelangelo Antonioni (che ritorna in frammento anche nel film B del 1969) le cui immagini – quelle di David Hemmings e di Vanessa Redgrave – sono “rifilmate” in proiezione (con pellicola 8mm in una cinepresa 16mm; cfr. 3). I frammenti originali del film sono interpolati alle immagini di un film di famiglia che i film-maker ritirarono per errore da un laboratorio di sviluppo e stampa, e sono state ancorate agli estratti letterari de Il gioco dell’oca (1967, cap. LVIII) di Edoardo Sanguineti [cfr. 3, p. 157]. «Un primo piano di Monica Vitti che cerca di piangere» sul set di Deserto rosso diviene una sorta di “ready-image” ne L’occhio è per così dire l’evoluzione biologica di una lagrima (35mm, 1965-67) di Grifi. Questi aveva «ricomprato dal macero tutti gli scarti e i doppi di Deserto rosso» perché voleva rimontarlo.113 Rispetto al cinema indipendente le tecniche linguistiche e le procedure enunciative presentano dei tratti caratterizzanti comuni definibili attraverso un certo uso (o il non uso) delle tecnologie comunque portate al “limite” sul piano espressivo. • L’inquadratura tende a dissolversi – sia attraverso le tecniche di montaggio fratto e ultrarapido sia attraverso le stratificazioni multilivellari della pellicola (come nelle sovrimpressioni di Brakhage) o nelle sovrapposizioni fatte “in macchina” (come nella tecnica dell’esposizione multipla già praticata da Kenneth Anger, Ron Rice, Ernie Gehr) – divenendo frammento di un collage o punto di passaggio di un flusso d’immagini. Per quanto attiene all’articolazione formale e strutturale vi è invece un’insistenza, un’estenuazione spazio-temporale dell’immagine che agisce sullo schermo. Frequente è il ricorso al rallentamento del motore della m.d.p. in fase di ripresa, come sosteneva Brakhage: «Si può tenere la macchina in mano ed ereditare mondi di spazio». La dissoluzione dell’inquadratura, l’estensione del tempo e l’insistenza della durata sono tratti distintivi anche del videotape. • Rilevante è l’uso a mano della m.d.p. che conferisce al movimento di macchina un valenza quasi-corporea; ciò che assume rilievo è il gesto, l’azione della m.d.p. che inquadra attraverso la mano dell’operatore (ossia del film-maker). • Il montaggio delle immagini fa implodere il principio stesso della “messa in serie”, della messa in sequenza, con velocità di scorrimento esasperate o fissità insistenti. Il montaggio è un processo operativo, un modo di trattare il materiale girato, una pratica di rienunciazione critica. Inoltre incidente è l’uso del montaggio “in macchina”. 60 metri per il 31 marzo (1968, 8 e

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16mm) di Bacigalupo, ad esempio, è stato montato interamente in macchina, film pensato (“girato”) come «unità di luogo (la pellicola non montata) e di tempo (il 31 marzo)».114 In Amore amore (primo lungometraggio di Leonardi prodotto da Enzo Nasso, ma realizzato in condizioni di assoluta autonomia), Leonardi usa il montaggio in funzione antinarrativa (mirata all’eliminazione della “storia”: abolizione del protagonista ecc.) e di interpolazione di immagini preesistenti tratte da da cortometraggi ecc. • Vi è poi, quale altro tratto distintivo, un’eterogeneità materica che investe o, meglio, s’inscrive sul supporto della pellicola: si tratta di elementi non fotografici, disegni, “sovrapposizioni di materiali naturali sul supporto di celluloide (à la Brakhage)”, incisioni, graffi, raschiature, bruciature sulla pellicola. Inoltre la matericità del film è tematizzata attraverso la resa visiva del fotogramma o della giunta; o anche mediante la presa fotografica che sperimenta il negativo, l’invertibile 8 e 16mm, il fuori fuoco, le variazioni degli obiettivi e loro détournement scalare (ad esempio, lungofocali impiegati per dei PPP); o ancora attraverso l’utilizzo di filtri e schermature varie (dai vetri colorati alle stoffe ecc.) e mutazioni di diaframma, nonché mediante l’impiego di “sovra” o sottoesposizioni della pellicola. • Oltre alla chimica del cinema, alla materia, ai supporti sul piano espressivo ha incidenza enunciativa pure la proiezione dell’immagine filmica mediante schermi multipli115 (come accade in particolare nel già citato Il mostro verde di De Bernardi, film “espanso” su «due schermi sovraccarichi d’immagini diverse [o uguali ma spostate nel tempo]») e anche la forma della proiezione-installazione, come avviene nelle già menzionate proiezioni su oggetti o su corpi, secondo una modalità praticata dal Lettrismo, ad opera di Fabio Mauri. Un caso estremamente significativo è dato da Motion/Vision di Umberto Bignardi (che si è avvalso della collaborazione di Leonardi), la cui proiezione ha avuto luogo alla galleria L’Attico di Roma nel 1967 (nel quadro della nota esposizione, curata da Alberto Boatto e Maurizio Calvesi, intitolata “Fuoco, Immagine, Acqua, Terra”): la proiezione avveniva sul “rotor”, una “macchina inventata” da Bignardi, ovvero un cilindro in movimento composto da specchi, plastica e legno. • Anche il sonoro svolge un ruolo fondamentale spesso come evento performativo, esterno al film. Nel già citato Il sogno di Anita (1963) Masini faceva accompagnare la proiezione dalla musica (di Schönberg e di altri compositori) messa al ralenti o in “variazione”, se era un disco a 78 giri o a 45 lo mandava a 33, alzando e abbassando il volume. In Vieni, dolce morte (1968, titolo desunto da una cantata di Bach) la musica è costituita da dischi che Brunatto sceglie nel corso della proiezione e a «ogni proiezione il reciproco compimento delle note e dei fotogrammi […] è sempre diverso»; la possibi-

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lità di invertire l’ordine delle bobine fa sì che Vieni, dolce morte si modifichi a ogni proiezione, «si evolva continuamente pur rimanendo quello che è».116 L’asincrono, la presa diretta, il “silenzio” (dal cinema lirico di Brakhage a quello del cinema strutturale), ma anche la casualità della sincresi con l’immagine, le forme sfalsate di sovrapposizione voce-rumore, musica-rumore, le «voci off dialettiche», il suono che si distende nell’over-lapping costituiscono le principali modalità enunciative adottate dal cinema sperimentale sul piano sonoro. Nel già citato Amore amore di Leonardi il montaggio produce delle relazioni-attrazioni che collegano le inquadrature per analogia o opposizione ritmica o segnica; è importante rilevare le cadute del ritmo, l’alternanza di stili eterogenei di “racconto visuale” con cui entra in interferenza la colonna sonora costituita da musiche di Don Cherry, Gato Barbieri, pezzi di Pietro Grossi e collage sonori di Giorgio Bretschneider elaborati indipendentemente dalla colonna visiva; in Quasi una tangente (1966) di Bacigalupo al jazz di Thelonious Monk, di John Coltrane, di Ornette Coleman si intercalano brani di musica pop (Eve of Distruction cantata da Barry McGuire, ad esempio, “linearizza” sul piano sonoro la frammentazione spazio-temporale dell’incontro tra il protagonista, Paul, e l’amico Harold). Tak! (1968-69, 8mm, colore) è un’opera composta da 15 pezzi che Brunatto ha chiamato «canzoni visive» (immagini “pittoriche”, interventi manuali sulla pellicola) e richiama l’articolazione di un Lp di musica Pop, musica della quale intende essere omaggio. Riferimento prototipico, in questo senso, è Scorpio Rising (1963) di Kenneth Anger. A Charlie Parker (16mm) è l’unico film di Perla Peragallo e Leo De Bernardinis realizzato nel 1970 in cui si sperimenta la possibilità di un “pensiero cine-musicale” e dove la parola doveva assumere una dimensione acustica attraverso la piattaforma tecnologica cinematografica (pellicola, microfoni, m.d.p., montaggio). Si tratta di tecniche discorsive che nonostante siano divenute – per catacresi – corrive nel cinema contemporaneo over-ground, nella videomusic e nella comunicazione pubblicitaria, continuano a porre sub specie semiotica una serie di problemi, quali scissioni o déplacements tra espressioni e contenuti, autonomie e anomalie dei significanti. • Una figura propria del cinema sperimentale è quella del corpo, della presenza cinematografica del corpo. Come sostiene Jonas Mekas, nel contesto di una tradizione della raffigurazione del corpo nella storia dell’arte occidentale, il cinema underground rivela della corporeità aspetti diversi da quelli rilevati dalla scultura e dalla pittura. Il “corpo” diviene un punto di tangenza tra teatro, cinema, video, Performance art, Body art e infografica. • Le linee tematiche caratterizzanti riguardano “il quotidiano” e “l’altrove”. “Quotidiano” che si esprime in forma pseudo-diretta, come ad esempio

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in X chiama Y di Masini, o in forma narrativizzante, come avviene nel film di Bacigalupo Quasi una tangente. In quest’ultimo viene mostrato-raccontato “in soggettiva” il protagonista, Pierre «([…] il suo giorno e come tristemente finì: narratività poco eroica, qua e là ponendo ritmi più tesi e giochi di luce, una fine»; film il cui montaggio dislocante produce continue commutazioni temporali nel “racconto” delle ventiquattro ore coperte dalla “storia”. Con Insomma (1965, 35mm, a colori e in bn) Brunatto e Masini mettono in campo una potente frantumazione audiovisiva del “quotidiano” come del “filmico” (la musica è di Vittorio Gelmetti). Anna (1972-75) di Grifi e Marco Sarchielli invece investiga il “quotidiano” sub specie filmica tra verità e finzione [cfr. pp. 188-189] passando transitivamente, con importanti esiti “linguistici”, dalla pellicola al videotape (vennero impiegati del nastro magnetico da 1⁄4 di pollice e un videotape Akai a bassa definizione) e poi di nuovo alla pellicola (attraverso l’“invenzione” del vidigrafo diveniva possibile trascrivere il nastro magnetico di prima generazione sulla pellicola). “L’altrove” – il viaggio, il Nepal, l’India, il Pakistan, l’Afghanistan, la Turchia, l’Iran – assume forma documentaria “mentale” come accade in Vieni dolce morte di Brunatto, o in “Migrazione” (che compone la tetralogia del Fiore d’eringio [1969-70] il cui nome è tratto dal fiore, l’eryngium appunto, raffigurato in un autoritratto di Dürer) o ancora in “Versus” (1968) di Bacigalupo, film quest’ultimo (che compone la serie Un dittico e un intervento) fissato nella contemplazione di un’immagine fotografica: una strada desolata di Gerusalemme scattata dall’interno di una corriera. • Un altro tratto caratterizzante è costituito da una certa attenzione dedicata ai media riscontrabile in modo particolare nell’attività cinematografica dei cinepittori (si pensi, in chiave di negazione del medium e del linguaggio televisivo, a Television Limiter [1965] e a Enoncé impossibile [1967] di Baruchello). Si tratta di immagini mediatiche, di dé-collage, di prelievi testuali dal flusso dell’informazione: telegiornali (che documentano la guerra del Vietnam, la rivoluzione culturale cinese, il movimento del ’68 ecc.), servizi giornalistici, sigle, “caroselli” ecc., che sono quindi già “immagini di immagini”, da “estraniare con mezzi visivi”. La dimensione mediatica è presente soprattutto nel cinema di Schifano, in particolare in Satellite (1968, il cui incipit è marcato dalla notizia della morte di Carl Theodor Dreyer), in Umano, non umano (1968) e nei cortometraggi (come in Soirée [1967] costruito attraverso innesti di testi televisivi: telegiornali, inchieste, pubblicità, sport). Il montaggio (per sovrimpressioni multiple) fa scartare il ritmo televisivo in quello cinematografico anche attraverso i “viraggi”, le mutazioni cromatiche e mediante l’audio quasi sempre “altro” e scomposto rispetto all’immagine, “fuori campo”, e manipolato con effetti di disturbo. A corpo (1968) di Lombardi e Layolo è un continuum

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idiosincratico di immagini televisive d’epoca deformate, secondo un procedimento videografico à la Nam June Paik, da un magnete avvicinato al tubo catodico, cui segue un finto telegiornale di controinformazione sugli eventi del Vietnam, che termina con la nota azione dimostrativa della bandiera americana data alle fiamme di fronte all’ambasciata USA di Roma. Cinegiornale (1967) di Leonardi è un film breve found-footage che, su musica di Erik Satie, isola immagini da documentari bellici. Questo film è dedicato a David Riesman e s’intitolerà “Capolavoro” (1967) di Bargellini è composto da immagini fisse (fatto, a detta di Bargellini stesso, contro il genere cui pure appartiene); immagini tratte quasi completamente da materiale fotografico non originale desunto da riviste, periodici largamente diffusi (da “L’Espresso” a “Playboy”); si tratta di immagini ampiamente circuitate, conosciute e “consumate” (i beat e i Beatles, le modelle e la minigonna, il fumetto e la pubblicità, il cinema ecc.); i materiali sonori sono “prelievi” da programmi radiofonici e televisivi. • Elemento distintivo (soprattutto nella fase tra il 1967 il 1969) è l’attenzione politica, ma in senso radicalmente cinematografico: “vedere è un modo di pensare” è il titolo di un ciclo di film che comprende Esercizio di meditazione (1968) e Può la forza di un sorriso (1968) di Leonardi (girato quest’ultimo alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro nel ’68 durante un episodio di contestazione). Questi già nel suo primo cortometraggio Indulgenza plenaria (1964), con attenzione foucaultiana, elaborava il tema dei luoghi della sorveglianza e della punizione; attenzione che ritorna anche in Amore, amore, summa di tutta la poetica cinematografica di Leonardi nella cui rete intertestuale la foto di Ian Palach interferisce con immagini di maniquines in posa, alternandosi alle opere di Cesare Tacchi e di Pino Pascali e dove entrano in interferenza in un flusso d’immagini: il Vietnam, Mao, Marilyn, il funerale di Palmiro Togliatti, Jean-Paul Sartre, i Beatles, gli Stones, artisti (Mario Ceroli, Jannis Kounellis), città, programmi televisivi (telegiornali, previsioni del tempo e pubblicità), musica pop, rock e jazz. Ne deriva, una volta di più, un’intertestualità POP, un “melting pot” pittorico, musicale, mediatico. Questa serie di tratti linguistici caratterizzanti la cinematografia “underground” italiana va a delineare in modi differenti le diverse filmografie dei film-maker e definisce i modi propri della sperimentazione linguistica del mezzo cinematografico che sono coestensivi all’apertura della forma filmica alla “transtestualità”, che tuttavia di per sé non era certo una nuova modalità espressiva: ciò che davvero innovava tali pratiche discorsive era l’uso critico della tecnologia. E sotto questo rispetto quello che è importante rilevare è come parte della ricerca sul mezzo tecnologico si sia spostata progressivamente dal “cinema” al “videotape”.

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2. VIDEOTAPE, videoarte in nuce Nel corso degli anni ’60 l’opera, tra gli altri, di Nam June Paik e di Fluxus è stata contemporanea all’attività dell’underground andando a tracciare un’intersezione tra il cinema sperimentale e la videoarte dei primordi, il cui minimo comune denominatore è riconducibile al decondizionamento della percezione e alla deautomatizzazione del linguaggio audiovisivo, ovvero alla relazione tra l’“immagine”, il “testo visivo”, e lo “spettatore”. Tale intersezione si rende piuttosto evidente, ad esempio, tra gli indirizzi di quel particolare ambito del cinema sperimentale distinto come “cinema strutturalista” (secondo la definizione di P. Adam Sitney, che andrebbe con urgenza corretta in cinema poststrutturalista o, più precisamente, “decostruzionista”) e le ricerche videografiche di Steina e Woody Vasulka.117 L’interrogarsi circa la tecnologia e il rapportarsi a essa è un modus operandi dei Vasulka, che tematizzano «il dialogo tra gli strumenti, le macchine e le immagini» rispetto al quale l’artista interagisce, progetta il proprio intervento, lo vede in atto, vi assiste. La sperimentazione delle tecnologie non può non avere delle implicazioni di tipo formale (nell’accezione semiotica del termine). E questo vale anche quando la tecnologia presenta un “grado zero” di funzionamento, come accade nei videotape di Vito Acconci. Egli rileva come il dispositivo del circuito chiuso produca un “feed-back con se stessi”, evidenziando le potenzialità autoconoscitive che il mezzo elettronico conferisce al performer: «la capacità di vedere se stessi fare qualcosa nell’esatto momento in cui la si sta facendo». Acconci precisa: Ho allora usato il video, come un processo conoscitivo, un dispositivo di correzione: potevo fare qualcosa – potevo controllare ciò che stavo facendo, vedere come lo facevo, scoprire dove sbagliavo – potevo correggere i miei errori e andare avanti passo passo.118

Sempre la tecnologia “agisce” e “reagisce” sul piano formale; la registrazione delle performance di Joseph Beuyes, ad esempio, su pellicola o in video (indifferentemente) non è solo un atto documentario, ma una precisa scelta di mediazione espressiva (come accade, tra le altre opere, con Filz TV, 1970, o con I like America and America likes Me, 1974). Come rilevava Gerry Schum l’impiego del videotape (e del mezzo televisivo), come del mezzo cinematografico, è in funzione della realizzazione di un’idea che tuttavia «include il fatto che la riproduzione […] sia parte della realizzazione»119 stessa. Il videotape, in particolare, non si dispone alla registrazione automatica e “trasparente”. Diviene in forza della propria specificità tecno-linguistica strumento e metodo di ricerca; videotape come Slow Angle Walk (Beckett Walk), Stamping in The Studio, Walk with Contrapposto (1968), Revolving Upside

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Down (1969) di Bruce Nauman, Home Movies, Indirect Approches, Full Circle, Theme Song (1973) di Vito Acconci, Confrontation with my Video Image, Mouth Piece, Slow Motion (1974) di Arnulf Rainer, Eclipse e Gravitational pull (1974) di Bill Viola non sono “balbettii” della videoarte, ma processi autoconoscitivi, sessioni di lavoro sull’autoespressione e sul medium [cfr. pp. 226-228]. La registrazione non consiste in modo neutrale nella ripresa e nella trasmissione di eventi o di performance. Implica invece una trasformazione o, più precisamente, come rileva Silvia Bordini, la produce. Esposta al pubblico, la registrazione dell’evento diventa essa stessa un evento; l’azione transitoria, una volta fissata nell’immaterialità dell’immagine riprodotta, composta da un flusso vibrante di impulsi luminosi, si configura e si legge come un’altra opera, che tende ad acquisire modalità proprie; si modificano le relazioni tra osservatore e osservato, tra spazio e tempo, attraverso le potenzialità autoriflessive dello sguardo meccanico del video.120

Il videotape è parte della ricerca che artisti diversi portano avanti con mezzi differenti: così, ad esempio, Daniel Buren estende il processo segnico della serie Photo/souvenir. Affichages sauvages (wild signboards), 1968, al video in Vidéo-souvenir, “Recouvrant/Effaçant (1974); Gino De Dominicis procede con le note azioni tentative: Tentativo di far formare dei quadrati invece che dei cerchi intorno ad un sasso che cade nell’acqua (1969) e Tentativo di volo (in Identifications di Gerry Schum, 1969); Jannis Kounellis dalla performance del 1973 Senza Titolo (Apollo) estrae il videotape No Title (1973); Giulio Paolini in Unisono (1974) – pensando alla «ripetizione dei fotogrammi fissi» che «nello “spazio” di un minuto» «producevano in successione l’uno dopo l’altro, la “summa di un’immagine”»121 – attiva una prodigiosa interferenza linguistica e la successiva fusione interstestuale tra “pittura” (92 quadri visualizzati, opus del periodo 1960-74), “cinema” e “videotape” (Unisono è stato in effetti realizzato su pellicola, in 16mm e successivamente è stato trasposto su nastro magnetico). L’impatto formale delle tecnologie vale per le macchine “inventate” o modificate da Grifi e, a un altro livello di complessità (date le piattaforme hardware e software elettronico-digitali), anche per le macchine progettate e realizzate dai Vasulka. Con la differenza che negli USA la rete delle istituzioni universitarie, delle fondazioni e persino della stesso apparato industriale ha consentito che si potesse definire un campo di pratiche applicative della ricerca, in cui inventori-progettisti di elettronica hanno potuto operare con forte indipendenza, forgiando una cultura tecnologica alternativa, come si evince dalle strumentazioni elettroniche ideate e realizzate da Eric Sigel, Stephen Back, Bill Hearn, Steve Rutt, Bill Etra, George Brown, Shuya Abe, Dan Sandin, Don MacArthur.122

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Attraverso la tecnologia elettronica e i “limiti” stessi di tale tecnologia la forma linguistica audio-visiva derivata dal cinema subisce una mutazione. Le caratteristiche tecnologiche del videotape, anche le più elementari, incidono strutturalmente sulle modalità enunciative: il nastro magnetico si può registrare, visualizzare, cancellare e registrare nuovamente; la registrazione in diretta, il “circuito chiuso” telecamera (anche multicamera) e monitor – che dà luogo alla visione immediata dell’opera, nonché al controllo visivo diretto sull’opera in fieri –, presenta delle implicazioni teoriche sia rispetto al sistema di relazioni intercorrenti tra “soggettività” e “oggettività” e le loro costruzioni enunciative, sia rispetto ai modi enunciativi autoriflessivi/metalinguistici e autoreferenziali (le cui marche enunciative prevalenti sono: la scarsa profondità di campo; la presenza di specchi e monitor; la temporizzazione delle riprese; le strumentazioni di video-recording a vista ecc.). I videomaker e i videoartisti ricercano la bassa definizione dell’immagine video (e inoltre la perdita progressiva di definizione che il segnale analogico subisce a ogni duplicazione), la rarefazione e l’instabilità del segnale (spesso anche attraverso interventi deliberatamente mirati a sbilanciare la sincronizzazione e la stabilità dell’immagine), nonché l’interferenza del rumore rispetto al segnale e l’uso del rumore di fondo audio-visivo come segnale (come “fonte d’immagine”). Anche l’“errore”, un non-segnale, può assumere valenze “testuali”. È esemplare in tal senso Information (1973) di Bill Viola.123 Su questa base tecnologica e “linguistica”, a livello transnazionale, si delineano l’uso del videotape nel campo dell’arte e la nascita della videoarte. Come per il “cinema sperimentale”, anche per il video si pongono problemi di definizione oltre che di molteplicità terminologica. La pluralità delle competenze disciplinari convocate rispetto alla “videoarte” dall’overcrossing delle pratiche del cinema sperimentale e d’artista, della musica, della pittura, della scultura, delle arti performative ecc. si riflette sulle definizioni lessicali plurime. Tra i primissimi tentativi di definizione vi è quello di Luciano Giaccari il quale traccia una Classificazione dei metodi di impiego del video in arte124 (editata dalla rivista “Videocritica” nel 1972; cfr. pp. 225-226) in cui – per interdefinizione tra aspetti teorici e produttivi dell’opera video – vengono evidenziate situazioni di rapporto diretto tra artista e mezzo televisivo (ovvero il “videotape”, la “videoperformance”, il “video-environment”) e situazioni di rapporto mediato tra artista e mezzo televisivo (quali la “videodocumentazione”, la “videoinformazione”, la “videodidattica”, la “videocritica”). La molteplicità lessicale – i cui termini sono composti da suffissi derivati da movimenti artistici o da specificità mediali – da un lato evidenzia in modo definitivo la preminenza linguistica delle tecnologia (anche se mantenuta a un livello zero, quello della semplice registrazione) e dall’altro, e proprio per

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questo, sembra destinarsi sin dalla fase originaria alla “metamorfosi” perpetua fatta di trasformazioni formali ricorsive ed “estensive” (tra obsolescenze e innovazioni tecnologiche). Tale molteplicità lessicale sembra insistere non tanto sulle relazioni selettive rispetto alla musica, al cinema, al teatro, alla pittura, alle arti performative ecc., sui percorsi di ricerca sia dei singoli artisti che dei movimenti – quanto su una ridefinzione inedita della nozione stessa di arte in chiave interlinguistica e intermediale. Non solo, essa prende a porre in evidenza una volta di più la differenza tra l’ambito estetico e quello artistico. Così il videotape – forma audiovisiva derivata dal mezzo televisivo, dal quale si è reso autonomo e autosufficiente e rispetto al quale si è posto come forma mediale alternativa (dalle provocatorie utopie di Nam June Paik alla realtà sperimentale della “Fernseh-Galerie Berlin” di Gerry Schum) – è divenuto uno degli ambiti interni alla ricerca della arti visive. E ciò in Italia accade nel 1952, nell’ambito del Movimento spaziale, con un precorrimento estremamente significativo dal Manifesto dello spazialismo al Manifesto del movimento spaziale per la televisione [cfr. p. 224]. Non solo. La formazione della videoarte nelle pratiche del videotape è contestuale alla presenza della Pop art, del Minimalismo, dell’Arte povera, dell’Arte concettuale, di Fluxus, del Lettrismo, dell’Happening, della Land Art, dell’Environment, della Body Art, della Performace Art, della Digital Art.125 Il contesto di formazione è quello delle “neoavanguardie”, dove muta il concetto di “opera”. L’opera non è più necessariamente qualcosa che ha un’esistenza in qualche modo “fisica” (ciò vale soprattutto in ambito artistico rispetto alla concretezza delle opere pittoriche o scultoree), ma è anche qualcosa che non ha un esito, un “resto” e può essere un evento, un’azione, una situazione che accade hic et nunc. Il videotape si è posto, in funzione inter-mediale, quale dispositivo di sperimentazione e di osservazione dei differenti “linguaggi” dell’arte contemporanea in particolare per la Body Art e la Performance Art (come è evidente nelle video opere del periodo di Vito Acconci, Marina Abramovic, Bruce Nauman, Gary Hill, Richard Serra, Joan Jonas ecc.) e si è anche definito, soprattutto nella fase emergente (nell’attività, tra gli altri, di Steina e Woody Vasulka, Ed Emshwiller, Dan Sandin, Nam June Paik e Shuya Abe ecc.), come pratica di ricerca e di studio autoconoscitiva sul piano teorico, tecnologico ed espressivo.126 Il videotape è stato utilizzato dagli artisti secondo due modalità prevalenti: come “materiale”, strumento da usare tra gli altri possibili a supporto della propria espressione artistica, del proprio opus, a “servizio di un’idea”, oppure come mezzo specifico sul quale riflettere, attraverso il quale attivare il processo generativo dell’arte in video. Si tratta di modalità che implica-

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no l’uso del mezzo elettronico con gradi differenti di competenza tecnicolinguistica rispetto alla quale la videoarte dei primordi da un lato mutua criticamente le costruzioni linguistiche dal linguaggio cinematografico e al contempo ne “muta” i modi enunciativi, mentre dall’altro lato interviene sulle componenti strutturali del mezzo televisivo (tempo, segnale elettronico, rumore) manipolandole, utilizzandole secondo modalità espressive “altre” e inedite. Nondimeno, ciò che di più interessa agli artisti è ciò che è proprio della video-immagine, ovvero la sua capacità di restituire l’immagine del tempo, l’immagine nel tempo. La “visibilità” della durata nel videotape è data sin nell’apparente staticità dell’immagine, che di fatto è un flusso de-costruttivo interminabile. Si tratta della costruzione-decostruzione della texture elettronica, di un continuum in trasformazione da un punto all’altro della sua trama dove fluttuano e si trasformano i puntini luminosi che la compongono; si tratta della «manifestazione dell’energia elettromagnetica strutturata nel tempo». Come rileva Woody Vasulka: il video è un medium che obbliga a porsi il problema specifico del tempo e dell’energia. D’un tratto l’energia diventa un certo gioco di brillanze, e il tempo diventa la posizione di quell’energia particolare sulla griglia temporale, e questa è l’immagine in video. Queste due cose diventano così concrete che la nozione astratta di luce o di posizione della luce nel tempo diventa una condizione per definire le immagini elettroniche. Con questo medium [Vasulka si è messo] in grado di trattare il tempo e l’energia come mezzi espressivi. Successivamente il calcolatore ha svolto ancora un altro ruolo (il codice digitale, codice unificato a tutte le forme espressive).127

La materia visuale è trama elettronica; il segnale video (i cui elementi costituivi sono le onde elettroniche) è un flusso “senza immagine”; esso è generatore di immagini e può essere impiegato come supporto “plastico” (come accade nell’opera di Steina e Woody Vasulka). L’azione degli artisti, sia sull’oggetto fisico di trasmissione-ricezione, sul monitor, che sul dispositivo di produzione (sul circuito telecamera-monitor di controllo) anche nella forma della videoinstallazione, si viene attestando in diversi modi: – mediante la “decostruzione” fisica dei monitor TV (televisori tagliati, squarciati ecc., in particolare negli interventi di Wolf Vostell); – con l’intervento diretto sui monitor o, più precisamente, sulle loro “trasmissioni” attraverso manipolazioni mirate al flusso delle immagini (dalla distorsione del segnale video dovuta all’uso di magneti, che modificano il tracciato dei fasci di elettroni all’interno del tubo catodico, alle modificazioni interne al circuito elettrico come, ad esempio, l’inversione di un diodo che

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produce delle modulazioni luminose quali forme astratte autogenerate, senza cioè l’impiego della telecamera); – attraverso un processo di fusione intermediale (ad esempio, con l’utilizzo dell’entrata audio per generare o alterare il segnale video su monitor) che agisce sul piano interdiscorsivo; così, ad esempio, in TV Bra for Living Sculpture (1969), di Nam June Paik e Charlotte Moorman, il suono del violoncello di Moorman in tempo reale cambia, modula, rigenera l’immagine. L’interrelazione tra segnale video e segnale audio (un segnale audio può definire la forma di un segnale video e viceversa o, detto altrimenti, un suono può essere utilizzato per generare un’immagine e viceversa) dà luogo a un processo formale che è alla base della costruzione della texture audiovisiva. In Italia procedure enunciative di questo tipo sono presenti nei videotape di Giuseppe Chiari, di Michele Sambin, di Claudio Ambrosini; – mediante la decostruzione semiotica del linguaggio cinematografico e televisivo. Questo si evince, in modo esemplarmente “didattico”, attraverso la pratica decostruttiva di Steina Vasulka nella serie Machine Vision dove si produce una ridefinizione della “visione” della telecamera mediante la dissociazione dei suoi possibili movimenti e angolazioni dalle costruzioni enunciative codificate in precise e stereotipiche figure dello sguardo cinematografico-televisivo (campi e piani di presa e i movimenti di macchina). L’analisi decostruttiva agisce anche quando il linguaggio audiovisivo all’apparenza si conferma nelle sue tecniche espressive, ad esempio, nella variazione scalare dei “piani”, come avviene in Migration (1973) di Bill Viola;128 – secondo l’uso integrato di strumentazioni tecnologiche diverse (sistemi che integrano le funzioni di sintetizzatore, missaggio e colorizzazione) che consentono la pratica interdiscorsiva e il dispiegarsi della trantestualità, come accade, ad esempio, attraverso l’uso del sintetizzatore video e dell’incrostazione. È una dimensione tecnologica che agisce sul piano interdiscorsivo e che riguarda però le immagini in quanto accade attraverso le immagini, tra le immagini, per contaminazione, ibridazione, meticciato. Oltre che come dispositivo di “mixaggio” tra immagini diverse e testi differenti, tale piattaforma tecnologica agisce anche come una sorta di “camera analitica” a un doppio livello “intertestuale” e “metatestuale” (inteso qui come pratica significante che opera su un’altra pratica significante), come accade rispetto a Incatenata alla pellicola (Zakovannja fil’moj, 1918) diretto da Nikandr Turkin, interpretato da Vladimir Majakovskij e Lili Brik; film perduto di cui rimane un frammento di due minuti che Gianni Toti (nel 1983) ha ri-enunciato in video. La videoarte presenta un carattere intermediale129 (una forma ibrida, un “mixaggio” di immagini e linguaggi diversi pittorici, cinematografici, musicali, teatrali ecc.) e una componente interattiva costituiva. Si tratta di un’in-

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terattività prefigurata, implicita, implicata dal discorso del testo130 nella forma monocanale, oppure di una interattività esplicita, dichiarata nella forma estesa della videoinstallazione (multicanale nella quale tuttavia il monitor diviene un’unità discreta dove si compongono e attraverso cui transitano le immagini). Nondimeno, in entrambi casi l’interattività spettatoriale è il focus della semiosi dell’opera. L’interattività è divenuta una pratica enunciativa della videoarte e nella contemporaneità, attraverso le tecnologie digitali, essa assume di per sé le caratteristiche di un medium proprio. L’utilizzo del videotape si attesta in Italia (tra i 1970 e il 1972)131 con un délai temporale rispetto al resto dell’Europa e agli Stati Uniti dove l’attenzione è portata sia sul mezzo comunicativo che sul dispositivo tecnologico e linguistico. Nel 1963 alla Galleria Parnass di Wuppertal ha luogo Exposition of music-electronic television dove, tra manichini, pianoforti preparati e rovesciati ecc., vengono installati ad opera di Nam June Paik 13 televisori fuori sintonia i cui schermi diventano le superfici di un flusso di “immagini” distorte per effetto di un magnete avvicinato ai circuiti del tubo catodico, che va modificando il circuito orizzontale e verticale di modulazione delle immagini. L’azione artistica viene diretta sul funzionamento della “macchina” televisiva, sulla “fonte” generativa costituita dal segnale, sull’oggetto tecnologico elettronico. In generale, come si è detto, i monitor sono manipolati dagli artisti in quanto oggetti fisici (con colate di colore sulla superficie dello schermo, “decostruiti”, smontati nelle loro componenti elettriche o ancora “distrutti” segati in due, schiacciati, seppelliti ecc.), oppure vengono modificati in quanto canali di trasmissione-ricezione anche attraverso l’interazione spettatoriale prefigurata in molti modi. Vostell, sin dal 1958, con i suoi TV Dé-collage, come Paik con Magnet TV, implica la cooperazione fattiva degli spettatori, non limitata cioè alle pratiche della “visione” e della “lettura” (che pure si evidenziano nel circuito intertestuale del dé-collage, una sorta di “immagine televisiva trovata”). Per effetto della moltiplicazione dei monitor, che modulano lo spazio espositivo attivando il coinvolgimento cine-estesico dello spettatore nell’intellezione dell’opera, viene introdotto, proprio attraverso l’opera, un processo interattivo derivato dalla dimensione liveness del dispositivo elettronico. Si tratta di una diversa implicazione dello spettatoreosservatore che emerge con chiarezza nelle forme della videoinstallazione a circuito chiuso, nella quale lo spettatore diviene al contempo il “soggetto” e l’”oggetto” della propria visione; visione che non è solo predisposta per lui, ma prodotta evenemezialmente attraverso di lui. Lo spettatore, la sua funzione e il suo agire divengono parte dell’opera; il corpo stesso dello spettatore

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diviene elemento concettuale e materiale della video-opera. Ciò accade in particolare nelle viedeoinstallazioni a circuito chiuso come, ad esempio, in Video Corridors (1968) di Bruce Nauman o, qualche anno più tardi, in Present Continuous Past(s) (1974) di Dan Graham dove ha luogo l’interazione diretta, in situ, tra opera e spettatore, che si attiva tra feed-back video e tempo differito. Si tratta di un intervento in cui è “messo in scena”, come sostiene Anne-Marie Duguet, «il dispositivo della camera obscura, concepito per riprodurre il reale con dati ottici, e considerato da Leonardo da Vinci la metafora stessa dell’occhio».132 In Present Continuous Past(s) «due pannelli murali adiacenti sono coperti di specchi dei quali uno è posto di fronte a un monitor incassato che diffonde l’immagine della camera sopra di esso».133 «La telecamera filma il riflesso del suo obiettivo e quello dell’immagine sul monitor, ma con uno scarto di otto secondi. Non si tratta di un semplice feed-back. Lo spettatore si trova di fronte a due immagini simultanee di se stesso, una immediata sugli specchi, l’altra già trascorsa, continuamente riciclata nella precedente all’infinito. In questo caso il punto di fuga diventa un punto temporale».134 L’implicazione spettatoriale nell’azione artistica si rende evidente, in modo esemplare, tanto ne Le lait chaud (1972) nel gesto di Gina Pane di puntare la videocamera sugli spettatori per includerli nell’azione di Body art,135 quanto nella “versione multipla” del videotape Art must be beautiful / Artist must be beautiful (1975) di Marina Abramovic: la prima versione è stata girata con il pubblico assente, la seconda in presenza del pubblico le cui reazioni sono state registrate solo sul piano sonoro e fungono da “reagente” rispetto alla videoperformance della Abramovic. In Concerto al buio (1974) di Giuseppe Chiari lo schermo elettronico è nero, ma l’immagine non per questo è cancellata; essa si sostanzia dei passaggi musicali del pianoforte, dei rumori, dei suoni che “fanno sentire” la presenza del pubblico sino all’applauso finale. Il “video” è sia un oggetto (il monitor tv) sia un dispositivo tecnologico che regola il circuito della produzione, della diffusione e della ricezione televisiva:136 nel circuito della comunicazione di massa si viene tuttavia definendo quale mezzo estetico e, insieme, quale strumento di formazione di una contro-cultura che intende essere incidente non solo rispetto alla comunicazione artistica, ma rispetto alla comunicazione tout court. In Italia, già dai primi anni ’50, Lucio Fontana riconduce il medium televisivo alla funzione di mezzo tecnologico per un’arte nuova; strumento teorizzato e utilizzato unicamente in una trasmissione sperimentale per la RaiTV di Milano (messa in onda il 17 maggio del 1952).137 Contestualmente viene redatto il già menzionato Manifesto del movimento spaziale per la televisione (17 maggio 1952)

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firmato da Ambrosini, Burri, Crippa, Deluigi, De Toffoli, Dova, Donati, Fontana, Giancarozzi, Guidi, Joppolo, La Regina, Milani, Morucchio, Peverelli, Tancredi, Vianello. Il mezzo televisivo, in funzione dell’esperienza artistica e quale strumento di cambiamento sociale, è il criterio di ricerca e di selezione degli artisti e delle tendenze artistiche che ha orientato il programma Fernseh-Galerie Land Art138 di Gerry Schum. Land Art è il film realizzato da Schum e successivamente trasferito in video e poi trasmesso dalla rete televisiva Freies Berlin il 15 aprile del 1969: si tratta degli interventi artististici in spazi aperti di Dennis Oppenheim, Richard Long, Robert Smithson, Jan Dibbets, Berry Flanagan, Marinus Boezem, Michel Heizer e Walter de Maria. In Identifications (1970) sempre di Schum, presentato nel 1971 alla galleria L’Attico di Roma, viene messo in evidenza nella serie di brevi azioni concettuali e “performatiche” il processo artistico tra l’opera e l’artista «nel tentativo di superare ciò che li separa»139 (gli artisti coinvolti furono Giovanni Anselmo, Joseph Beuys, Alighiero Boetti, Stanley Brouwn, Daniel Buren, Pierpaolo Calzolari, Gino De Dominicis, Ger van Elk, Hamish Fulton, Gilbert & George, Gary Kuehn, Mario Merz, Klaus Rinke, Ulrich Rückriem, Reiner Ruthenbeck, Richard Serra, Keiht Sonnier, Franz E. Walther, Lawrence Weiner, Gilberto Zorio). Identifications presenta un’articolazione simile a quella del film SKMP2 che Luca Patella aveva realizzato nel 1968 definendolo un “reportage iconico-visuale”, a colori e intonazioni di colore, diviso in quattro sezioni dedicate ad azioni artistiche di Mattiacci, di Kounellis, di Pascali e di se stesso. Gli aspetti mediatico e artistico si precisano quando il 24 giugno 1977 il terzo canale delle televisione di stato tedesca trasmette le performance che Paik, Beuyes e Douglas Davis avevano tenuto a Documenta 6, a Kassel, l’anno precedente. Ma è dal 1969 che in Europa ha corso la commercializzazione degli strumenti di video-recording amatoriali. In Italia nei primi anni ’70 si rende più accessibile l’utilizzo del dispositivo elettronico; accessibilità che si traduce in un’espansione innovativa del linguaggio “cinematografico” sperimentale (Anna, 1972-75, di Grifi e Sarchielli è in un certo senso il segno dell’espansione del cinema in video e viceversa) e che si concretizza anche nell’avvio di centri di produzione e di distribuzione di videotape. L’interesse teorico e la ricezione critica sono però in Italia, in quel periodo, piuttosto limitati. Oltre a una serie di esposizioni (tra le prime la mostra Gennaio 70, che ha luogo al Museo Civico di Bologna ed è curata da Renato Barilli, Maurizio Calvesi, Tommaso Trini e Andrea Emiliani)140 si vengono definendo dei “luoghi”, degli ambiti programmatici di ricerca, di studio e di sperimentazione del medium videografico la cui cura è riconducibile a figure quali quelle di Luciano

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Giaccari che a Varese nel 1967 apre lo Sudio 970/2, di Lola Bonora che nel 1971 fonda l’unico centro a carattere pubblico per la produzione e la diffusione della videoarte, ovvero il Centro Video Arte141 a Ferrara, di Paolo e Gabriella Cardazzo che, con la Galleria del Cavallino di Venezia, fin dal 1972 si occupano di videoarte e di Maria Gloria Bicocchi che, a Firenze, avvia nel 1973 e dirige sino al 1977142 l’attività di art/tapes/22, un centro sperimentale di produzione e di distribuzione a carattere internazionale di videotape di artisti con sedi a Parigi e New York (sulla base di accordi di collaborazione come ad esempio quello con la Castelli-Sonnabend Videofilms, Corp.). Art/tapes/22 è stato un centro produttivo e centro di diffusione delle diverse forme della cultura artistica contemporanea; luogo di passaggi e permanenze di artisti simile in questo alla Electronic Kitchen143 (dove venivano accolti artisti, le loro équipes e attrezzature) laboratorio e centro di produzione gestito, a New York nei primi anni ’70, da Steina e Woody Vasulka come una struttura aperta, flessibile, multifunzionale. Art/tapes/22 è stato un centro di diffusione della cultura videoartistica a diversi livelli: dalle fiere (quale ad esempio Art Basel) alle esposizioni internazionali (di grande interesse è la mostra itinerante Americans in Florence: Europeans in Florence realizzata nel 1974 con la collaborazione di David A. Ross e Artist’s videotapes, esposizione curata da René Berger nel 1975, che ha avuto luogo al Palais des Beaux Arts di Bruxelles).144 Ha svolto inoltre una funzione di archivio (come già lo Sudio 970/2 di Giaccari e il Centro Video Arte di Lola Bonora) che si è precisata nella devoluzione del fondo art/tapes/22 all’Archivio Storico delle Arti Contemporanee della Biennale di Venezia.145 Caratteristiche queste che fanno di art/tapes/22 un centro di riferimento per la nascente videoarte in Europa e spiegano come le opere del “fondo” non solo presentino in nuce, sul piano tecnologico e sul piano linguistico, i tratti distintivi della videoarte tra la fine degli anni ’60 e la prima metà degli anni ’70, ma anche evidenziano come esse siano una “campionatura” rilevantissima della presenza del videotape nella pratica artistica tout court. La piattaforma tecnologica art/tapes/22 registra anche un sistema videoportatile ovvero 1 portapak Sony146 e si compone principalmente di: videocamere Sony AVC 3200 CE, videocamera commutatrice Sony C.S.M. 110 C.E., videocamera wiper, videoregistratori Sony AV 3620, AV 3670 ed EV 320 CE (questi ultimi con capacità di editing), monitor b/n Sony CVM 90 UM 9 pollici/23 cm, monitor a colori Sony Trinitron 17 pollici/44 cm, mixer stereo Sony MX 12 M, registratore stereo Revox equalizzatore stereo JVC SEA 10, cinepresa Super-8 Canon autozoom 518, proiettori Super-8 Lyton 130, Bell/Howell 16mm, cinepresa Super-8 Hymart. Inoltre, dal 1974 al 1976 è Bill Viola a svolgere il ruolo di operatore video nonché di direttore del settore tecnico di art/tapes/22. Ruolo che come Vio-

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la stesso precisa, era quello di “tradurre” ciò che gli artisti volevano fare con il mezzo video; alcuni come Urs Lüthi avevano progetti precisi e programmati, altri, come Arnulf Rainer, improvvisati.147 Ma la “traduzione” avviene nel passaggio da un progetto che l’artista pensa, intende realizzare nella sua propria modalità espressiva (“idioletto estetico”),148 alla manifestazione del progetto concretato, attraverso la mediazione tecnologica, in una forma linguistica ad esso necessaria. In una prima fase i registratori video erano tutti a bobina aperta, con il nastro magnetico che veniva inserito a mano. Il montaggio aveva luogo registrando l’immagine una seconda volta o, meglio, su un secondo videoregistratore sincronizzato con il primo. Come ricorda Viola: Tutte e due le macchine erano avviate a mano, i nastri arrotolati indietro per una quantità di tempo specifica prima del punto di montaggio. Tutto ciò era misurato in pollici e marcato sul nastro con una matita grassa. Il montaggio era fatto premendo il pulsante di registrazione a mano nel momento preciso in cui le due macchine giravano. Il montaggio era un’arte manuale. […] Le videocamere stesse usavano tubi a raggi catodici e non microchip per registrare un’immagine e di conseguenza erano estremamente sensibili alla luce, e spesso soggette all’image lag dove gli oggetti nell’immagine apparivano macchiati e offuscati quando si muoveva la macchina. I tubi erano anche suscettibili di venire bruciati; una condizione nella quale l’immagine latente di un oggetto molto luminoso sarebbe rimasta visibile sullo schermo per molto tempo, alcune volte per sempre. Una volta Sandro Chia lasciò la macchina puntata sulla fiamma di una candela […],149 lasciando l’impronta immortale della sua idea su tutte le immagini registrate dopo con quella macchina, per sempre.150

Viola affronta in modo piuttosto interessante le limitazioni, i ritardi di innovazione tecnologica applicata al video che riscontra in Europa, e che sono dovuti ai contrasti, motivati da interessi economici, rispetto all’adozione degli standard internazionali,151 sia rispetto alle tecniche relative al processo di codifica e di decodifica del segnale, sia rispetto al colore. Egli rileva che: C’è un determinato numero di linee che possono essere scandite sulla superficie di uno schermo in un dato intervallo di tempo (60 Hz – giri al secondo – in America, 50 in Europa). In un sessantesimo di secondo si contano 212 linee e mezza; in un cinquantesimo, circa 312. Dunque una cosa si chiarisce, una volta tolti di mezzo tutti questi elettroni: in Europa si hanno immagini che si completano ad una velocità leggermente inferiore, ma che contengono un centinaio di linee in più rispetto alle corrispondenti americane. Dunque nel vecchio continente si producono immagini dalla fermezza (e dai particolari) notevolmente superiore. Quando giunsi a Firenze per la prima volta, la prima cassetta che vidi era stata ripresa con una “portapak” in bianco e nero,

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in esterni e in piena luce solare (una condizione ideale per le riprese). A parte il leggero tremolio ottico (causato dalla velocità inferiore – 50 giri –, alla quale ora sono completamente abituato) la qualità dell’immagine era stupefacente. Il dettaglio e la chiarezza di quella cassetta non avevano eguali in niente che avessi mai visto negli Stati Uniti. Per quanto riguarda il colore, il discorso è un altro; le differenze tecniche sono troppo complicate per parlarne in questa sede, ma si può dire che il diverso sistema di riproduzione del colore, unitamente alla sempre maggior resa dell’immagine, si risolve in un prodotto televisivo a colori che ha dello straordinario per un figlio del NTSC. L’Europa ha adottato il suo sistema dopo l’America: ecco un esempio calzante in cui, dal punto di vista del nostro argomento, il ritardo è salutare. […] La mia esperienza a Firenze mi ha insegnato di più, a proposito del mezzo stesso, di quanto non possa fare qualsiasi elenco teorico di caratteristiche volto a definire il video europeo.152

I video di art/tapes/22 sono quasi tutti monocanale, ma con caratteristiche non “filmiche” e da essi emerge una ridefinizione del concetto di immagine; l’immagine elettronica non solo rende progressivamente inessenziale il linguaggio cinematografico (l’inquadratura, il fuori campo, il montaggio ecc.),153 dal quale tuttavia deriva, ma agisce in chiave decostruttiva sul “linguaggio” stesso, sul processo artistico. Come già nel cinema sperimentale emerge la rilevanza del corpo in immagine: del volto in primo e primissimo piano e dei particolari. Il volto in video, insistentemente nella forma del ritratto e dell’autoritratto dell’artistaautore (dialogando per questa via con la tradizione artistica da Rembrandt a Bacon), pone in evidenza i temi dell’identità e, al contempo, della soggettività oggettivata dal dispositivo elettronico, dal circuito chiuso tra telecamera e monitor di controllo, dal corpo e dallo sguardo dell’artista stesso come accade in Portrait de Laura Papi, in Limite E (1973) e Limite B (1973) di Jean Otth, in Theme Song (1973) di Vito Acconci, in Mouth Piece (1974) di Arnulf Rainer,154 in Self/Portrait (1974) e in Morire d’amore (1974) di Urs Lüthi, in Self Identity # 1, 2, 3 di Taka Ito Iimura e in No Title (1973) di Jannis Kounellis che al proprio volto sovrappone una maschera apollinea (richiamo alla performance Apollo, che nel 1973 ebbe luogo presso la Galleria La Salita di Roma). La pratica “pittorica” del ritratto, mediata dallo “sguardo” delle macchine (della telecamera e del monitor) e dalla riflessione speculare, è il tema del videotape Portrait de Laura Papi (1974) di Jean Otth. Le azioni dei performer, di Jean Otth e Laura Papi, s’inscrivono nello spazio chiuso dell’immagine elettronica. Otth ritrae, segna l’immagine di Laura sullo specchio, nel quale è riflessa, ma guardandola attraverso il monitor che tiene davanti a sé. L’oggettività dell’immagine speculare di Laura Papi è interferita dai monitor,

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quello puntato contro lo specchio sul quale è puntata a sua volta la telecamera e quello attraverso il quale guarda l’artista; quest’ultimo solo ne media lo sguardo che si traduce nel gesto pittorico sulla superficie dello specchio. Il processo, il farsi dell’opera video è ripreso dall’interno del “set” anche attraverso le fotografie scattate da Stefano Melotti. In Self/Portrait (1974) e in Morire d’amore (1974) di Urs Lüthi la riflessione sembra agire intorno al primo piano cinematografico. La struttura è la stessa: due immagini parallele tagliano in verticale lo schermo, non sono giustapposte né autonome; sono invece poste in relazione e non solo attraverso la semplice concomitanza di ciò che vi accade. Il sistema delle relazioni tra le immagini parallele e il suono amplificato innesca un processo di transitività dell’una nell’altra e viceversa: ciò che accade nell’una si rende sensibile in ciò che accade nell’altra. In Self/Portrait è il rumore amplificato dello scorrere di un liquido bianco che mette in relazione le due finestre che compongono l’immagine del videotape: il primo piano di Lüthi (il suo volto è bagnato dall’acqua che rarefatta incessantemente scende su di lui) e il piano non troppo ravvicinato di un bicchiere sul quale viene ininterrottamente versato del liquido lattescente anche quando deborda dal bicchiere come dallo spazio della “finestra”, insinuandosi nell’interstizio dell’altra “finestra” attigua. In Morire d’amore al primo piano, in campo nero, di Lüthi che illumina in modo intermittente, con una torcia elettrica il proprio volto, si affianca una “finestra”, che viene a inscriversi all’interno della videoimmagine; attraverso le due “finestre” si configura un’immagine multipla che presenta i due primi piani paralleli e “interpellanti” di Elke e Urs Lüthi; lui come nella prima parte del videotape, accende e spegne la luce della torcia elettrica sul proprio volto; lei fuma e nulla accade sino a quando impassibile, con un gesto immotivato, spara contro la videocamera; Lüthi, nella finestra attigua e parallela, cade a terra come se il proiettile lo avesse colpito. In Morire d’amore l’intervento decostruttivo sembra concentrarsi sulla sintassi cinematografica del campo-controcampo e del sistema di relazioni che regola la doppia spazialità: tra il campo e il fuori-campo;155 nell’interstizio, tra i due spazi è posto, bloccato, lo sguardo spettatoriale. Si tratta di un intervento decostruttivo che attiva per lo spettatore un richiamo intertestuale,156 un’inquadratura de The Great Train Robbery (La grande rapina al treno, 1903) di Edwin S. Porter quella in cui il bandito Barnes, il capo dei fuorilegge, guarda e spara “in macchina”, verso gli spettatori. L’inquadratura poteva essere montata dal proiezionista indifferentemente sia in testa che in coda in forza dell’anomalia rappresentata dal volto in primo piano nel cinema dei primordi, nonché in relazione all’impatto destabilizzante dello “sguardo in macchina”, che successivamente diverrà una costruzione enunciativa interdetta, data sua capaci-

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tà di “interpellare” lo spettatore ovvero di disvelare la condizione finzionale della narrazione filmica. Lo sguardo rivolto verso la telecamera, l’interpellazione, è al centro della riflessione metadiscorsiva di Gino De Dominicis in Videotape (1974). Si tratta di un intervento metalinguistico sul medium espressivo, sul dispositivo di comunicazione sotteso e sul farsi dell’opera, sul prodursi autoesplicativo del discorso dell’opera, che è un “metavideotape”. Lo spazio è compresso in una sorta di circuito chiuso, la telecamera fissa è puntata sulla performer che vi è seduta di fronte, che a sua volta orienta lo sguardo verso la telecamera distogliendolo a volte di lato, spingendolo oltre. Dallo spazio del set, fuori campo (dietro la telecamera), proviene la voce di De Dominicis stesso che entra in dialogo con la performer, la quale dice «I would they put all the tape of Gino De Dominicis». Non accade nulla e la performer ancora chiede: «But is it this the De Dominicis’s tapes?». La voce “fuori campo” di De Dominicis risponde: «Yes, this is it». Ma la performer dichiara: «Well, I only see people looking at me? I wonder what their looking hath». Poi lascia il “campo vuoto”. Rilevanti sono i “silenzi testuali”, l’incidenza della durata, dei “tempi morti” e del “campo vuoto”. Videotape è una riflessione sull’atto stesso dello sguardo nel suo costituirsi attraverso la forma video. Lo sguardo attoriale, quello della performer, non è più “cieco”, chiuso nello spazio del set; l’interpellazione – nel circuito della simultaneità di ripresa e di riproduzione-visualizzazione dell’immagine – rispetto alla forma cinematografica – è ri-enunciata: la perfomer, il soggetto attoriale attendendo di vedere Videotape, l’opera di De Dominicis, vede di fronte a sé solo gli altri che la guardano («I wonder what their looking hath»), si vede come oggetto, si vede vista. E non comprendendo di essere l’elemento cardine, esce dall’opera. Ma gli altri che guardano siamo noi, gli spettatori. In Video Blind Touch (1975) di Gerald Minkoff è la cecità trasposta, in modo aptico, nel paradosso di uno sguardo in soggettiva, a essere al centro della riflessione. L’immagine è costruita come una soggettiva diretta, intrinseca, come se l’immagine che si vede fosse vista attraverso lo “sguardo cieco” del performer, il quale “vede” attraverso il “tatto”: una voce fuori campo ripete la parola “video”; la parola “viene visualizzata come una composizione in codice braille attraverso le fiammelle di candele poste a terra e mostrate, dall’alto, in una “soggettiva” impossibile; le mani del performer “leggono” la scritta seguendo il calore delle candele. La parola “video” sul piano contestuale rimanda a “video”, “io vedo”, dal latino “vid1ere” e sul piano semantico all’atto del vedere, che viene sussunto dal “tatto” e il cui precipitato è, per sinestesi, l’apticità dello sguardo spettatoriale. La costruzione enunciativa dello sguardo in soggettiva è oggetto della riflessione di Viola nei videotape Hallway (1973), dove lo sguardo è “immersi-

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vo”, e Level (1973) dove la dimensione soggettiva dello sguardo è fatta confliggere con quella oggettiva, rispetto alla quale è coestensiva. Il circuito telecamera-monitor, come si è detto, fa sì che la ripresa e la riproduzione-visualizzazione dell’immagine siano concomitanti, avvengono cioè contemporaneamente: così la soggettività è oggettivata, in modo che il controllo su ciò che è ripreso, l’immagine di sé, è anche controllo sul proprio corpo oggettivato, estraniato in immagine. Sulla stesso asse di ricerca di Bruce Nauman in Lip Synch (1969), Taka Ito Iimura in Self Identity # 1, 2, 3 (da “Self Identity Series”, 1971) riflette in modo complesso sulla contemporaneità della ripresa e della riproduzione dell’immagine video inserendo un ritardo, uno sfasamento tra immagine e suono, mancando la sincresi tra parola proferita e vista proferire sulle labbra (con particolari insistiti) – «I’m Taka Ito Iimura…», «You’re Taka Ito Iimura…», «He’s Taka Ito Iimura…» – e il suono udito con un ritardo irreparabile: Iimura in queste frazioni di tempo, prima che il suono “appaia”, si accende una sigaretta, guarda altrove... Iimura in Fields Works, I, II, III (1974) riprende il tema identitario («I’m not Taka Ito Iimura») attraverso uno spazio visivo definito da una telecamera, uno specchio e un monitor. Il sistema telecamera-monitor è un dispositivo di auto osservazione e di analisi del linguaggio del corpo e del gesto artistico in Confrontation with my Videoimage (1974) di Rainer, in Art must be beautiful / Artisti must be beautiful (1975) di Abramovic, in Theme Song (1973) di Acconci, in The Florence Tapes: clothing, walking, lifting, learning (1974) di Davis ecc. In Ciò che sempre parla in silenzio è il corpo (1974) di Alighiero Boetti il gesto “specchiato” e silenzioso della scrittura tracciandosi apre l’immagine video: Boetti, di spalle alla videocamera, partendo dal centro dell’immagine, scrive simultaneamente con la mano destra e con la mano sinistra l’enunciato che titola il videotape; gesto di scrittura, che porta le braccia di Boetti a tendersi in orizzontale sino al limite dell’estensione corporea, “sovrascritto” dal gesto dell’operatore che dilata l’immagine con uno zoom out progressivo. È la ripresa e la “variazione” di un modo enunciativo già sperimentato nel programma Identifications di Gerry Schum. La dimensione temporale, che come si è detto è consustanziale alla texture video, è tematizzata in modi diversi nelle opere del fondo art/tapes/22. In Children Tape (a selection, 1974) di Terry Fox il tempo è quello dell’innesco di micro-eventi predeterminati, autonomi e autoconclusi e dell’attesa del loro accadere. Principio strutturale simile a quello che agisce in Tempo medio per un videotape (1975) di Sandro Chia. Allan Kaprow in Then (1973) pone attenzione alla temporalità di microavvenimenti o, più precisamente, alla percezione del tempo del loro svolgersi

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in video, dunque alla loro durata: ad esempio, lo sciogliersi del ghiaccio in bocca. Otth nel dittico Fenêtre 1, Fenêtre 2 riflette invece, in modo affatto warholiano,157 sulla durata, sul tempo e sulle variazioni della luce, viste attraverso il vetro delle finestre, e marcate da segni. In Di come il fuoco rigenera la candela (1975) di Chia la struttura temporale è a palindromo e la durata è straniante. Gravitation pull (1974) di Viola, realizzato nello studio di produzione, presenta un intervento di editing audio-visivo unico rispetto al fondo art/tapes/22; Viola introduce la frammentazione della dimensione spazio-temporale in circuiti di ripetizione e di sovrapposizione temporale, dei loop, dei rallentamenti (dei “stiramenti” dell’immagine) volti alla ri-enunciazione differente sempre delle medesime azioni compiute da Viola stesso: cambiare una lampadina, salire e scendere da una scala, accendere e spegnere la luce, accendere un fuoco, spegnerlo. Ma si tratta di azioni la cui narratività viene scardinata, sul piano causativo e cronologico, dal “montaggio”: ad esempio, il fuoco appena spento nell’immagine successiva è ancora acceso. Art/tapes/22 ha in distribuzione sotto l’etichetta Random selected i video di Steina e Woody Vasulka il cui discorso è rivolto alla specificità intrinseca del segnale elettronico, alla video-immagine al di là della dimensione figurativa (iconica) o plastica (astratta).158 Nell’opera dei Vasulka è teorizzata l’incidenza della tecnologia sul piano generativo. Le macchine (hardware e software) contribuiscono al processo produttivo, “creativo”, giacché molti elementi e funzioni di tale processo ne dipendono. Si tratta di video-opere che attivano dei percorsi di riflessione sul processo visivo stesso e richiedono allo spettatore una visione attiva. Random selected è un corpus di opere composto, tra le altre, da: Elements (1971) che è un continuum di rimodulazioni del feed-back video, incrostate e colorizzate, dove la videoimmagine è funzionale al suono; Vocabulary (1973) in cui la dimensione iconica è ibridata da quella plastica attraverso l’uso dell’incrostatore, del colorizzatore e del processore di scansione Rutt/Etra (Rutt/Etra Scan Processor); 1 2 3 4 (1974) dove le “immagini” dei numeri producono delle modificazioni secondo i rapporti primi piani /retro piani; Home (1973) che si articola in tre sequenze dai richiami figurali magrittiani. Dal campione Random selected dei Vasulka si evidenzia un “nuovo codice visivo” dato propriamente dalla visione senza telecamera prima, sperimentato attraverso il codice analogico poi, dalla seconda metà degli anni ’70, attraverso il codice digitale (Artifacts, 1980).

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3. Tecnologia e linguaggio Dell’intersezione cinema sperimentale e videoarte sono state evidenziate due situazioni: la prima, nel corso degli anni ’60, che riguarda l’assunzione temporanea di certa parte del cinema indipendente italiano della struttura cooperativistica; la seconda che, nella metà degli anni ’70, concerne l’attività di un centro di produzione e distribuzione a carattere privato quale art/tapes/22. Su molti piani (uso delle tecnologie, sistema produttivo-distributivo) tali situazioni fungono da cartine di tornasole per il rilievo dello snodo tecnologia e linguaggio quale elemento di definizione del sistema di relazioni intercorrenti tra cinema e video nel contesto delle arti visive contemporanee. Detto altrimenti, attraverso di esse è possibile verificare come l’attività “d’avanguardia” si giochi quale strategia di ricerca e di studio criticamente mirata al sistema di relazioni che intercorrono tra “tecnologie” e “linguaggi”; nel senso che, tanto per la Cooperativa del cinema indipendente, quanto per art/tapes/22, si è trattato di separare la tecnologia dal proprio linguaggio implicito (dal “punto di vista” che la informa, dalle modalità dello sguardo che vi sono prefigurate ecc.), di creare una distanza, una distorsione, una deautomatizzazione, per deviare il linguaggio verso forme “altre” di espressione e di comunicazione e ciò in vari modi, che sono stati oggetto di pratiche espressive, di poetiche, di teorie estetiche, con infinite gradazioni, da un livello minimale che prevede l’assunzione della tecnologia come medium linguisticamente azzerato a un livello massimo di uso linguistico della tecnologia. È una questione che riguarda il grado di pertinentizzazione (semiotizzazione) della tecnologia nel fare artistico. La tecnologia, quando è pertinentizzata dalle pratiche artistiche, non è solo un’evidenza ulteriore di come l’opera d’arte sia un’interfaccia culturale tra “testo” e “contesto”, ma anche rende esplicita l’azione del linguaggio nella costruzione delle opere stesse: la forma “tecnologica” del linguaggio significativamente si opacizza159, o si rende trasparente, ma sempre si manifesta nella sua funzione costruttiva, ovvero proprio nel farsi dell’opera (del “testo estetico”). Ma in entrambi i casi sempre la materia160 espressiva e i mezzi tecnologici sono coestensivi all’opera, all’immagine. La rilevanza della tecnologia, fuori da ogni “determinismo”, delinea una pluralità di piani: – la tecnologia investe non solo il processo di produzione e di ricezione tipico del dispositivo (sia esso cinematografico, videografico, o infografico), ma il processo generativo della materia stessa di cui si sostanziano le opere, i testi audiovisivi e a fortiori quelli estetici;161 – la tecnologia influenza le specifiche possibilità produttive e di ricezione (applicazioni dei campi e degli ambiti disciplinari della meccanica, ottica, chimica, elettronica, informatica) attraverso molteplici capacità di ibridazio-

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ne e di “interfusione” che si estendono alla dimensione ambientale, allo spazio-tempo della ricezione; – la tecnologia funziona iuxta propria principia, presenta proprie tecniche e teorie applicative; le tecniche di funzionamento acquisiscono, attraverso l’uso, valenza “linguistica”; – la tecnologia procede e si sviluppa attraverso reciproche influenze tra media e successive mutazioni; infatti l’effetto rebound di un medium sull’altro porta a evidenza come i “nuovi media” (intesi semplicemente come caratterizzati cronologicamente dalle “ultime” innovazioni tecnologiche) ridefiniscano gioco-forza quelli che li hanno preceduti, quelli preesistenti che necessariamente trovano un nuovo assetto. Questo processo di trasformazione nell’ambito dei media audiovisivi, a carattere estetico o meno, rende sempre più esplicita la “specificità eventualmente molteplice”162 dei loro codici che trasmigrano da una materia dell’espressione all’altra, in sistemi omo-mediali (stesso supporto di diversa generazione, diversi formati, trasposizione di formato ecc.), in media variabili, o in forme mixed media, ma sempre attraverso le immagini. La variabilità è un tratto distintivo dei nuovi media; con essi come sostiene Lev Manovich: è possibile creare diverse interfaccia che portano allo stesso contenuto. Queste interfaccia presentano diverse versioni della stessa opera, come in WaxWeb di David Blair (http://jeffersin.village.virginia.edu/wax), oppure differiscono radicalmente tra di loro, come in Last Real Net Art Museum di Olga Liliana (http://myboyfriendcamebackfromth.ewar.ru). Questo è uno dei tanti modi in cui si manifesta il principio di variabilità dei nuovi media in base al quale il nuovo oggetto mediale è costituito da una o più interfacce che portano a un database di materiale multimediale.163

I mixed media implicano che i dati – secondo diverse tecniche di produzione (software e medium simulati: matita, videocamera, fotocamera ecc.), ma anche attraverso metodiche di acquisizione da diverse fonti e mediante varie tecnologie periferiche (schede video, camere digitali, scanner ecc.) – siano suscettibili di essere oggetto di output diversi; detto altrimenti, data la “matrice”, attraverso il PC in cui i dati vengono processati questi possono essere trasferiti e registrati indifferentemente su diversi tipi di supporti, dall’hard disk al Dvd ecc. Nondimeno, la configurazione testuale che essi assumono, se è oggetto di “ri-mediazione”, può portare le tracce, i “segni” del medium e del linguaggio di provenienza. Sul piano testuale la materia formata (sostanza dell’espressione nei termini hjelmsleviani)164 si carica dell’incidenza della tecnologia, trasparente od opaca che sia, così come delle strategie enunciative della rappresentazione o della simulazione.

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Detto altrimenti, i diversi media definiscono il film, come il video, indipendentemente dal supporto fotochimico o magnetico, in una sorta di dimensione «immedia»165 perché, appunto, viene meno la specificità del supporto e non esiste più un medium stricto sensu; anche se rimane il linguaggio. Tuttavia, il linguaggio, a sua volta, non può non risentire della trasformazione e del processo di “ri-mediazione” di cui è fatto oggetto attraverso i testi, le opere. È un linguaggio fatto di altri linguaggi, un linguaggio métissé. Ripensando un noto assunto di Marshall McLuhan, secondo il quale «il contenuto di un medium è sempre un altro medium […]»,166 Jay David Bolter e Richard Grusin, in termini generali, hanno tematizzato la “rimediazione”167 come la «rappresentazione di un medium all’interno di un altro» che procede secondo la doppia logica dell’immediatezza (“trasparenza”) o dell’ipermediazione (“opacità”) [cfr. 5]. Ma non è tanto il processo di rimediazione, che è fondamentalmente un processo di reinterpretazione e di riuso, quanto il concetto di “postmedialità” che diviene cruciale per lo studio delle avanguardie “tecnologiche”. È sulla base di una rilettura de L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e Breve storia della fotografia di Walter Benjamin che Rosalind Krauss evidenzia una condizione di postmedialità. Rispetto alla fotografia, ma per estensione anche rispetto agli altri media, Krauss sostiene che l’attestazione definitiva di un medium – che può essere “misurata” in termini di «successo commerciale, accademico e museologico» si realizzerebbe proprio nel momento della sua capacità di eclissare la nozione stessa di medium e di emergere come oggetto teorico proprio in quanto eterogeneo. Ma, in un secondo momento, storicamente non molto distante dal primo, questo oggetto perderà la sua forza decostruttiva uscendo dall’ambito dell’uso sociale e passando nella zona crepuscolare dell’obsolescenza. […] La fotografia diventa allora improvvisamente uno di quegli scarti industriali, una nuova curiosità, come il jukebox o la trolley car. Ma è proprio a questo punto, e in questa condizione di fuori moda, che sembra essere entrata in un nuovo rapporto con la produzione estetica. Questa volta, tuttavia, la fotografia funziona contro le intenzioni della sua precedente distruzione del medium, divenendo precisamente nella forma dell’obsolescenza, uno strumento di ciò che bisogna chiamare un vero e proprio atto di reinvenzione del medium. […] essa riguarda l’idea di medium in quanto tale, di medium come insieme di convenzioni derivate (ma non identiche) dalle condizioni materiali di un supporto tecnico dato, convenzioni al di fuori delle quali sviluppare una forma di espressività che possa essere sia proiettiva che mnemonica.168

Ma ciò che nella contemporaneità sembra complicarsi enormemente è tanto l’assunto che ogni arte possieda un suo particolare “medium” da “reinventare” quanto l’implicazione che tale medium sia particolarmente adatto

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per un determinato tipo di comunicazione e che esso implichi in qualche modo un “linguaggio” specifico. Probabilmente il compiersi del processo di obsolescenza definisce una volta di più la mutazione sub specie tecnologica del linguaggio verso forme complesse di metissage mediale. Così nella “condizione postmediale”, la poliespressività tematizzata dal Futurismo, l’intermedialità definita alla fine degli anni ’60 da Fluxus, il concetto di expanded cinema proposto nel 1970 da Gene Youngblood169 (e attualmente riconfigurato in rapporto alle tecnologie digitali) sono solo alcune evidenze della rete interdiscorsiva che nel ’900 ha delineato intersezioni, snodi, sovrapposizioni di processi storici concomitanti che contribuiscono a definire il contesto di “formazione” del cinema, del video, di Internet tra tecnologie, media e arte.

NOTE 1 Cfr. M. Foucault, L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1969; cfr. M. Foucault, L’ordine della discorso e altri interventi, Einaudi, Torino, 2004 (I ed. Einaudi 1972); cfr. M. Foucault, Microfisica del potere, Einaudi, Torino, 1977. 2 Cfr. J. D. Bolter, R. Grusin, Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, a cura di Alberto Marinelli, Guerini e Associati, Milano, 2002; cfr. L. Manovich, Il linguaggio dei Nuovi Media, Edizioni Olivares, Milano, 2002. 3 Cfr. P. Francastel, Lo spazio figurativo dal Rinascimento al Cubismo, Einaudi, Torino, 1957. 4 Cfr. E. Panofsky, La prospettiva come forma simbolica e altri scritti, Feltrinelli, Milano, 1961; cfr. H. Damisch, Teoria della nuvola. Per una storia della pittura, Costa & Nolan, Genova, 1984 (1972); H. Damisch, L’Origine de la perspective, Flammarion, Paris, 1987. 5 Cfr. R. Arnheim, Film come arte, Feltrinelli, Milano 1983; R. Arnheim, Arte e percezione visiva, Milano, Feltrinelli 1986. 6 Cfr. R. Barthes, “Diderot, Brecht, Ejzenôstejn”, in L’ovvio e l’ottuso, Einaudi, Torino, 1985, p. 89 (1982). 7 W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1986 (12a ed.), p. 21. 8 Cfr. E. H. Gombrich, Arte e Illusione, Einaudi, Torino, 1960. 9 Cfr. U. Eco, Kant e l’ornitorinco, Bompiani, Milano, 1997, p. 81. 10 Cfr. G. Didi-Huberman, Devant l’image. Questions posées aux fins d’une histoire de l’art, Minuit, Paris, 1990, p. 96. 11 Cfr. G. Bettetini, L’audiovisivo dal cinema ai nuovi media, Bompiani, Milano, 1996, p. 83; cfr. G. Bettetini, La simulazione audiovisiva, Bompiani, Milano, 1991. 12 Cfr. Secondo la problematica ricezione, nell’ambito degli studi sull’audiovisivo, della semiotica di Ch. S. Peirce (Collected Papers of Charles Sanders Peirce, editati postumi dal 1931 al 1935). 13 Cfr. R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 1980; cfr. R.

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Krauss, Teoria e storia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano, 1996; cfr. J-M Floch, Forme dell’impronta, Meltemi, Roma, 2003. 14 Cfr. G.Bettetini, La simulazione audiovisiva, Bompiani, Milano, 1991. 15 Anche se, come rileva Fausto Colombo, l’immagine video «non può essere considerata un’impronta fisica dell’oggetto rappresentato, giacché essa nasce da un processo di astrazione-costruzione molto forte e modulare, sempre uguale e costante indipendentemente dall’oggetto di rappresentazione prescelto (sono i singoli pixel a variare di intensità, non la divisione in punti e linee». F. Colombo, Le ombre sintetiche, Liguori, Napoli, 1990, p. 41. I caratteri distintivi dell’infoicona sono la numericità e la discontinuità. La discontinuità è una caratteristica che l’infografica condivide con le altre forme di icone tecniche anche se per queste ultime si tratta di una discontinuità parziale, mentre per l’infoicona si tratta una discontinuità totale perché pure l’intensità luminosa di ogni pixel è un semplice correlato di valori numerici. È nel pixel (Picture Element) che si verificano la trasformazione e il passaggio dal numerico all’iconico e viceversa. 16 Come si evince dalla vexata quaestio dell’iconismo, l’irrisolto teoretico della semiotica. Per un inquadramento generale si veda T. de Lauretis, Semiotica, teoria e pratica sociale. Una storia critica della semiotica italiana in “Versus”, n. 23, maggio-agosto 1979, pp. 58-79; M. Bonfantini, Le tre tendenze semiotiche del novecento in “Versus”, n. 30, settembre-dicembre 1981, pp. 21-38; F. Casetti e S. Ghislotti, Le teorie cinematografiche. Lo scenario francese in “Bianco e Nero”, anno LXI, 1985, n. 4, pp. 88-105; O. Calabrese, Il linguaggio dell’arte, Bompiani, Milano, 1985; F. Casetti, Teorie del cinema, Bompiani, Milano, 1993; G. Bettetini, L’audiovisivo. Dal cinema ai nuovi media, Bompiani, Milano, 1996; R. Stam, R. Burgoyne, S. Flitterman-Lewis, Semiologia del cinema e dell’audiovisivo, Bompiani, Milano, 1999. In ambito filosofico cfr. R. Fabbrichesi Leo, La polemica sull’iconismo (1964-1975), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1983. 17 Cfr. L. Marin, Della Rappresentazione, a cura di L. Corrain, Meltemi, Roma, 2001 (1994). 18 Cfr. D. Arasse, L’ambizione di Vermeer, Einaudi, Torino, 2006 (1993). 19 Cfr. J. Aumont, L’occhio interminabile. Cinema e pittura, Marsilio, 1991, pp. 23-47. (1989). 20 Cfr. N. Burch, Il lucernaio dell’infinito. Nascita del linguaggio cinematografico, Pratiche, Parma, 1994 (1990). 21 Cfr. P. Bertetto (a cura di), Il cinema d’avanguardia 1910-1930, Marsilio, Venezia, 1983, p. 36; su avanguardia e tecnologia si rinvia a P. Bertetto, L’avanguardia cinematografica: tecnologia e dialettica del valore, in “Filmcritica”, n. 251, gennaio-febbraio 1975. Si rimanda anche T. De Lauretis e S. Heath, The Cinematic Apparatus (edited by), St. Martin’s Press, New York, 1980. Per un inquadramento generale della dimensione tecnologica (tecnico-linguistica) e dei suoi esiti “stilistici” nella storia del cinema si veda B. Salt, Film Style and Technology. History and Analysis, Starword, London, 1992 (2nd Expanded Edition). In ambito italiano, riferiti agli anni ’60, si vedano: A. Farassino e U. De Berti, “Le invenzioni: dalla tecnica allo stile”, in Storia del cinema itali e Superano, volume X, 1960/1964, a cura di G. De Vincenti, Marsilio/Bianco&Nero, Venezia-Roma, 2002; P. Simoni, “8mm e Super-8, in L’arte del risparmio: stile e tecnologia. Il cinema a basso costo in Italia negli anni Sessanta, a cura di G. Manzoli e G. Pescatore, Carocci, Roma, 2005; Paolo Noto, “La confusione dei formati”, in G. Manzoli e G. Pesatore, op. cit., 2005; C. Caranti, “Tecnica e tecnologia in Italia: brevetti e modelli negli anni Sessanta, in G. Manzoli e G. Pesatore, op. cit., 2005.

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P. Bertetto, op. cit., 1983, p. 10. P. Bertetto, op. cit., 1983, p. 12 e p. 15. 24 Cfr. P. Bertetto, “Differenza e intensità. Le strutture formali del cinema d’avanguardia, in Cinema d’avanguardia in Europa (dalle origini al 1945) a cura di Paolo Bertetto e Sergio Toffetti, Il Castoro, Milano, 1996, p. 67. 25 Cfr. E. Panofsky, Il significato nelle arti visive, Einaudi, Torino, 1962 (1955); cfr. E. Panofsky, Tre saggi sullo stile: il barocco, il cinema e la Rolls-Royce, Electa, Milano, 1996. Cfr. Ph-A. Michaud, Aby Warburg et l’image en mouvement, Macula, Paris, 1988. 26 Cfr. G. Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Einaudi, Torino, 1982; cfr. p. nota 6. 27 R. Barthes, op. cit., 1985, pp. 22-41. 28 Estratto dalle note del programma della mostra al Kitchen 1978-1979. Cfr. Lucinda Furlong, “Dal segnale video al trattamento di immagini digitali, in R. Albertini e S. Lischi (a cura di), Metamorfosi della visione. Saggi di pensiero elettronico, ETS Editrice, Pisa, 1988, p. 126. 29 Cfr. J-L. Comolli, Tecnica e ideologia, Pratiche, Parma, 1982 (i saggi antologizzati risalgono ai primissimi anni ’70). Sulla relazione cinema e pittura e forma “prospettica” si veda la nota critica avanzata da A. Costa in Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino, 2002, pp. 131148, p. 222. 30 Cfr. M. Foucault, op. cit., 1969, pp. 51-53. 31 Cfr. H. Rosenberg, La sdefinizione dell’arte, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 211; cfr R. Krauss, L’originalité de l’avant-garde et autres mythes, Macula, Paris, 1998. 32 Cfr. M. Bacigalupo (a cura di), Il film sperimentale, “Bianco e Nero”, n. 5-8, maggioagosto, 1974, p. 3. 33 Cfr. J. Dewey, L’arte come esperienza, La Nuova Italia, Firenze, 1966 (2a ed.; ed. orig. 1934). 34 Cfr. M. Heidegger, “La questione della tecnica”, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1976-1980 (1954), pp. 5-27. 35 Rispetto a tale lignée è piuttosto significativo il modo in cui, per la prima volta, la presenza del cinematografo è tematizzata in chiave estetica, nel sistema tradizionale delle altre arti, da Ricciotto Canudo in Trionfo del cinematografo (1908), in Nascita di una sesta arte. Saggio sul cinematografo (1911) e nel “Manifesto della Settima Arte” (1911). 36 Cfr. M. Calvesi, “Documenti di un percorso”, in P. Sega Serra Zanetti, M. G. Tomomeo (a cura di), La coscienza luccicante - Dalla videoarte all’arte interattiva, Gangemi Editore, Roma, 1998, p. 55. 37 In particolare si veda “Ricostruzione futurista dell’universo”, manifesto firmato da Giacomo Balla e Fortunato Depero nel 1915 [cfr. pp. 112-114]. 38 Cfr. “Manifesto del teatro radiofonico (Radia)” firmato da Filippo Tommaso Marinetti nel 1933 [cfr. pp. 139-142]. 39 Cfr. G. Vattimo, La fine della modernità. Nichilismo ed ermeneutica nella cultura postmoderna, Garzanti, Milano, 1985, p. 62. 40 www.easylife.org/netarte. 41 Cfr. U. Eco, “Il Gruppo 63, lo sperimentalismo e l’avanguardia”, in Sugli specchi, Bompiani, Milano, 1986, pp. 93-104. 42 U. Eco, op. cit., 1986, p. 98.

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73 43 Cfr. Documenta 11_Plattform5: Exhibition. Catalogue, Hatje Cantz Publishers, Ostfildern-Ruit 2002 (English edition, 620 pp.) Kassel, June 8 - September 15, 2002. 44 Cfr. M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano, 1967. 45 Cfr. J. D. Bolter, R. Grusin, op. cit., 2002. 46 Cfr. R. Krauss, L’arte nell’era postmediale. Marcel Broodthaers, ad esempio, Postmedia, Milano, 2005; cfr. R. Krauss, Reinventare il medium, a cura di E. Grazioli, Bruno Mondadori, Milano, 2005. 47 Cfr. F. Beau, Ph. Dubois, G. Leblanc (sous la direction de), Cinéma et dernières technologies, De Boeck Université, Paris-Bruxelles, 1998. 48 Cfr. ”Appendice I. Alberto Grifi, cineasta-inventore”, intervista a cura di Monica Dall’Asta, in L’arte del risparmio: stile e tecnologia. Il cinema a basso costo in Italia negli anni Sessanta, a cura di G. Manzoli e G. Pescatore, Carocci, Roma, 2006, pp. 156-157. 49 Cfr. Lars von Trier, Il cinema come Dogma, Mondadori, Milano, 2001, pp. 161-162. 50 Con il secondo governo Aldo Moro (1964-1966), il 24 giugno 1965 la Camera, dopo il Senato, approva la legge n. 1213 (L. 4 novembre 1965, n. 1213 - Nuovo ordinamento dei provvedimenti a favore della cinematografia) a sostegno dell’industria cinematografica che sostituisce la legge n. 897 del 30 luglio 1956. La nuova legge norma gli incentivi alla produzione e alla programmazione, provvede alla costituzione di un fondo speciale per lo sviluppo e il potenziamento delle attività cinematografiche, pone attenzione alle istituzioni cinetecarie e museali, nonché alle relazioni tra cinema e televisione, prevede premi di qualità (art. 28) e sgravi sul costo minimo d’interesse per il denaro avuto in prestito (Sezione autonoma per il credito cinematografico della Banca Nazionale del Lavoro) per film con finalità artistiche con la formula della compartecipazione (il contributo era del 30% sul costo del film) o per la costituzione di cooperative di autori e di tecnici. Cfr. V. Pravadelli, “Documenti”, in Storia del cinema italiano, 1965-1969, a cura di G. Canova, Marsilio, Edizioni Bianco & Nero, Venezia, 2002, pp. 539-567. 51 Frammento inedito di P. Bargellini, in AA.VV., Il cinema sperimentale italiano degli anni ’60 ’70 e la Cooperativa Cinema Indipendente, Catalogo della rassegna di Bologna 5 e 6 marzo 1992, p. 23. 52 Cfr. E. Couchot, “La sintesi numerica dell’immagine. Verso un nuovo ordine del visuale”, in R. Albertini e S. Lischi (ed.), Metamorfosi della visione. Saggi di pensiero elettronico, ETS Editrice, Pisa, 1988, pp. 127-132. 53 La tecnica del foro stenopeico, che è al centro del dispositivo della prospettiva e pertiene al “modo in cui si riprende e si forma l’immagine”, è giocata nondimeno da Gioli contro il punto di vista prospettico stesso (ad esempio, attraverso la cancellazione dell’interlinea tra i “fotogrammi” oppure mediante la scomposizione o la coesistenza simulatanea à la Echer degli spazi). Cfr. R. Valtorta (a cura di), Paolo Gioli - fotografie, dipinti, grafica, film, Art&, Udine, 1996. 54 Per il film Dal Polo all’Equatore (1982-1986), tratto dal materiale d’archivio di Luca Comerio, è «stata costruita una camera analitica costituita da due elementi. Nel primo scorre verticalmente l’originale da 35mm. Può accogliere la perforazione Lumière e le pellicole con vari gradi di restringimento e di decadimento del supporto e dell’emulsione fino alla perdita dell’interlinea del fotogramma e della sua cancellazione totale. Lo scorrimento è effettuato manualmente, a manovella, data la precarietà dello stato delle perforazioni, dal continuo rischio d’incendio del materiale infiammabile. La griffa è composta di due denti mobili anziché quattro. Le lampade usate sono lampade fotografiche con temperature variabili

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attraverso un areostato. Questa prima parte della camera è il risultato della trasformazione di una stampatrice a contatto. Il secondo elemento è una camera aerea in asse con il primo elemento di cui assorbe per trasparenza l’immagine. È una camera aerea con caratteristiche microscopiche, più fotografiche che cinematografiche, ricorda più le esperienze di Muybridge e di Marey che quelle dei Lumière. […] La camera è munita di meccanismi per lo scorrimento laterale, longitudinale e angolare in tutte le direzioni, può rispettare integralmente il fotogramma, la sua struttura originaria e la sua velocità di apparizione in senso filologico. Oppure penetra in profondità il fotogramma per l’osservazione dei dettagli, nelle zone marginali dell’immagine, nelle parti incontrollate delle inquadratura. La camera può rispettare il colore del viraggio originale o della coloritura a mano del fotogramma, ma può anche dipingere autonomamente vaste zone del film. La velocità di scorrimento è in funzione della velocità originaria sempre diversa in ogni brano filmico e di ciò che si intende sottolineare. In generale il valore del ralenti è di 3-4 per fotogramma. Il valore aumenta nelle parti sfuggenti, negli accadimenti in unico fotogramma e nei frammenti. La camera lavora all’interno della sequenza, talvolta scomponendola in più sequenze. Confronta le forme del repertorio primitivo per metterne in luce i particolari. Con le tecniche sperimentate per la prima volta da Mikhail Kaufmann nel 1928, viaggia nello spazio e nel tempo filmico». Cfr. P. Mereghetti, E. Nesi, (a cura di), Cinema anni vita Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Il Castoro, Milano, 2000, p. 39. 55 I sistemi di videoregistrazione si sono avvicendati dal 1⁄2 pollice a bobina aperta (“open reel”), all’U-matic (con nastro in tre quarti di pollice rapportabile al 16mm), ai due pollici, al pollice e al Betacam (1⁄2 pollice). Sul piano “amatoriale” lo standard, per politiche concorrenziali tra Sony e JVC, nel 1975 passa dal Betamax (1⁄2 pollice) al VHS. Dagli anni ’90 si attesta l’uso amatoriale camrecorder Video8 (Hi8) gestibile anche in chiave professionale nel campo della comunicazione televisiva attraverso operazioni di adattamento broadcast. 56 Cfr. M. Calvesi, op. cit., 1998. 57 Cfr. A. Farassino, “A proposito di “artisti di cinema”, in Arte e cinema: per un catalogo di cinema d’artista in Italia 1965/1977, a cura di V. Fagone, Marsilio, Venezia, 1977. 58 Cfr. A. Aprà, B. Di Marino (a cura di), Il cinema e il suo oltre. Verso il cinema del futuro. Film, video, CD-Rom, xv Rassegna internazionale retrospettiva, Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, Pesaro, 19-24 ottobre 1996; cfr. A. Aprà (a cura di), Le avventure della non fiction. Il cinema e il suo oltre - 2, XVI Rassegna internazionale retrospettiva, Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, Pesaro, 25-30 novembre 1997. 59 Cfr. S. Bordini, Videoarte & arte. Tracce per una storia, Lithos, Roma, 1995. 60 Cfr. V. Fagone, L’immagine video. Arti visuali e nuovi media elettronici, Feltrinelli, Milano, 1990, p. 51. 61 Sulla rete di relazioni tra cinema e video: J-P. Fargier (a cura di), Où va la vidéo?, “Cahiers du Cinéma”, n. speciale, 14, luglio 1986; R. Bellour, L’Entre-Images. Photo. Cinéma. Vidéo, La Différence, Parigi 1990; R. Bellour, L’Entre-Images 2. Mots, images, POL, Parigi, 1999; V. Valentini (a cura di), Dissensi, tra film video televisione, Sellerio, Palermo, 1991; Ph. Dubois, M. E. Melon, La création vidéo en Belgique (1970-1990) Points de Repère, Parigi, 1991; M. Chion, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Lindau, Torino, 1997; D. Noguez, Éloge du cinéma expérimental, Éditions Paris Expérimental, Parigi, 1999 (1979); M. M. Gazzano, (a cura di), Il “cinema” dalla fotografia al computer. Linguaggi, dispositivi, estetiche e storie moderne, QuattroVenti, Urbino, 1999; S. Lischi, Visioni elettroniche. L’oltre del cinema e l’arte del video, Biblioteca di Bianco & Nero - Documenti e strumenti, n. 4, 2001; A. Amaducci, Segnali video. I nuovi immaginari della videoarte, GS, Santhià, 2000.

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75 62 Nel saggio “Il cinema: lingua o linguaggio” ripreso da Ch. Metz in Semiologia del cinema, Garzanti, Milano 1972 (1968). 63 Cfr. Ch. Metz, op. cit., 1972, pp. 97-98. La definizione metziana di specificità molteplice che ne è successivamente derivata e, soprattutto, il rilievo delle «interferenze semiologiche tra i linguaggi» tuttavia non sono stati sufficienti a mettere in chiaro i processi di «manifestazione molteplice», di migrazione e di mutazione delle forme attraverso più materie dell’espressione. Cfr. Ch. Metz, Linguaggio e cinema, Bompiani, Milano, 1977, capitoli X.2, X.3, X.4 (1971). Una volta di più si constata come l’estetica così come le semiotiche dell’arte e del cinema, al di là delle dichiarazioni d’intenti, non “pensino” la valenza linguistica della materia e della tecnologia nell’arte. 64 Cfr. D. Noguez, “Le canard et la brosse à ongles: le cinéma expérimental, un os pour la sémiologie, 25 ans de sémiologie, in “CinémAction”, N. 58, janvier 1991. 65 Secondo Bertetto: «La ricerca filmica sperimentale della seconda metà degli anni ’60 è sostanzialmente articolata lungo tre assi fondamentali: 1. il cinema d’artista, realizzato da artisti visivi impegnati ad allargare l’orizzonte della propria attività creativa e a misurarsi con le tecniche del cinema; 2. il cinema underground e autoespressivo, che punta a oggettivare visivamente il quotidiano e/o i fantasmi e le visioni degli autori; 3. il cinema decostruttivo o micro-strutturale, inteso a smontare e decodificare i meccanismi della comunicazione cinematografica e audiovisiva. Sono tre linee di ricerca, di diversa rilevanza, che talvolta si intrecciano e sovrappongono, ma che riflettono insieme biografie culturali, eterogenee, interessi artistici molteplici e soprattutto concezioni differenti del cinema e dell’orizzonte artistico». P. Bertetto, in “Tutto, tutto in un istante”, Storia del cinema italiano, 1965-1969, a cura di Gianni Canova, Marsilio, Edizioni Bianco & Nero, Venezia, 2002, p. 314. 66 Come rileva P. Bertetto, op. cit., 2002, pp. 313-325. 67 Cfr. Tavola rotonda sul cinema italiano. Produzione e distribuzione, intervento di A. Leonardi, in “Cinema e Film”, n. 5-6, estate 1968, p. 114. 68 Ibidem. 69 Cfr. M. Bacigalupo, Cinema Sperimentale, intervento pubblicato nel catalogo del XIV Festival di Rapallo, tenutosi dal 2 al 6 gennaio 1968. Rispetto alla capacità di lettura della “critica” Sirio Luginbhul sottolinea polemicamente come il discorso critico si sviluppasse «sempre con una grande disattenzione al mezzo. Di Brakhage meravigliavano le ali di insetti direttamente incollate sulla pellicola, di Blu Movie di Warhol più il carattere eversivo dell’amplesso che la particolarità della ripresa, di James Whitney più l’originalità delle immagini astratte che gli approfonditi studi di pittura, animazione, fotografia e musica che erano alla base dei loro film». Cfr. S. Luginbhul, “Da un incontro con Greory Markopoulos”, in AA.VV., Il cinema sperimentale italiano degli anni ’60 ’70 e la Cooperativa Cinema Indipendente, Catalogo della rassegna di Bologna 5 e 6 marzo 1992, p. 35. 70 A. Leonardi, op. cit., 1968, p. 121. 71 Underground existence a definire la vita sotterranea, “clandestina” della cinematografia sperimentale. 72 Cfr. A. Leonardi, Il cinema libero di Porretta Terme, in “Il Marcatré”, n. 8-10, 1967, pp. 168-170. 73 Formulato il 30 settembre 1960 e ripreso in The First Statement of the New American Cinema Group, “Film Culture”, n. 22-23, estate 1961. La fondazione del NAC risale però al 28 settembre 1960.

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Cfr. L. Micciché, Il cinema italiano degli anni ’60, Marsilio, Venezia, 1975, p. 244. Vi è, infatti, una cifra “globalizzante”, per quanto complessa, che riguarda in modo specifico il cinema degli anni ’60 nella storia del cinema e nella storia del’900. Come scrive Gianni Canova: «Lì, nei Sixties rabbiosi e mai appagati, ogni film realizzato in qualunque parte del mondo – documentario o denuncia che fosse, ricerca antropologica o essai ritmicovisivo – rinviava a un background collettivo che gli garantiva un surplus di senso e che lo riassorbiva in una fitta rete di assonanze, interferenze e complicità; fuori da lì, prima o dopo gli anni sessanta, quasi tutti i film realizzati con analoghi intenti rinviavano invece (e continuano a rinviare) quasi solo a se stessi (o al proprio autore, al suo personale percorso di ricerca, o tutt’al più all’ipotesi di lavoro di quel piccolo gruppo o di quello specifico contesto geografico, sociale e culturale)». «Quel cinema esprimeva l’epica della globalizzazione con trent’anni d’anticipo». G. Canova, “Scoccò per tutti l’ora dei forni”, in Italo Moscati (a cura di), 1967. Tuoni prima del maggio. Cinema e documenti degli anni che preparano la contestazione, Marsilio, Venezia, 1997, p. 63 e p. 65. 76 Cfr. S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni novanta, Marsilio, Venezia, 1992, p. 347. Cfr. P. Ortoleva, Mediastoria. Comunicazione e cambiamento sociale nel mondo contemporaneo, Pratiche, Parma, 1995; cfr. P. Ortoleva, I movimenti del’68 in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma, 1998. 77 Inoltre vi è la nuova dimensione planetaria della comunicazione. «Evento mediatico che segna irreversibilmente – anche sul piano simbolico – la fine dell’egemonia del cinema nei processi di costruzione dell’immaginario collettivo: la diretta dello sbarco sulla luna (21 luglio 1969) decreta l’inizio dell’era televisiva e innesca una “mutazione mediologica” i cui effetti sono ancora oggi in corso». (In Italia lo sbarco sulla Luna venne commentato in studio da Tito Stagno ed Enrico Medi; la prima mondovisione risale al 25 luglio 1967). Cfr. A. Costa, “La nascita della videosfera. La diretta dello sbarco sulla luna”, in Storia del cinema italiano, 1965-1969, Marsilio, Edizioni Bianco & Nero, Venezia, 2002, pp. 339-346. 78 Cfr. A. Bonito Oliva, “Pop art e globalizzazione dello stile”, in I LOVE POP. EuropaUsa anni ’60. Mitologie del quotidiano, a cura di W. Becker, M. Boyden, L, Hegy, G. Mercurio, Electa, Milano, 1999, p. 45 e p. 47. 79 Cfr. M. Bacigalupo, op. cit., 1974, p. 5. 80 Cfr. “Mario Schifano”, da Il cinema italiano d’oggi, 1970-1984, a cura di F. Faldini e G. Fofi, Mondadori, Milano 1984. 81 V. Fagone, Arte e critica. Per un catalogo del cinema d’artista in Italia. 1965-1976, Centro Internazionale di Brera, Milano maggio 1976, pp. 126-127. 82 Degli Schermi (1957-58) di Fabio Mauri alcuni sono bianchi, altri contengono frammenti di pellicola, altri ancora recano la scritta “The End”. Nel corso della trasmissione televisiva Happening, Mauri, invitato a parlare di happening e di performance, lascia affiorare sullo schermo televisivo la scritta “Il televisore che piange” (1972). Come ricorda lo stesso Mauri: «Per tre minuti lo schermo diventava bianco, profilato di nero: un’eternità. Molti spettatori chiamarono per protestare. In sottofondo si udiva un mio pianto per le cose del mondo. Quindi si interrompeva tutto ed appariva “The End”. In seguito ricomparivo io e spiegavo. È stato il mio happening televisivo». Cfr. A. Madesani, Le icone fluttuanti. Storia del cinema d’artista e della videoarte in Italia, Bruno Mondadori, Milano, 2002, p. 179. Risalgono al 1975 le “cineinstallazioni”: si tratta di prelievi di sequenze di film da proiettate ad anello o, meglio a ciclo continuo, su diversi supporti: – G.W. Pabst Westfront (proiezione su un ventilatore acceso);

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– Senza ideologia: Sergej Ejzenôstejn Aleksander Newskij (proiezione su un secchio pieno di latte); – Intellettuale Vangelo secondo Matteo (in origine proiettato sullo stesso Pasolini e, in seguito, su una maglietta bianca distesa sulla spalliera di una sedia) e altri ancora [cfr. 3, p. 175, nota 24]. Pratica anticipata da Man Ray che, come ricorda P. Bertetto, «a una festa della contessa Pucci-Blunt proietta un film di Méliès colorato sui corpi degli invitati vestiti di bianco». P. Bertetto, op. cit., 1996, p. 78. 83 Si ricordi Rara film (1967-70) realizzato con la collaborazione di A. Leonardi e M. Masini. Il film fu proiettato per la prima volta al Musée d’Art Moderne di Parigi il 22 ottobre 1970. Cfr. S. Bussotti, “Rara film”, in L’occhio dell’immaginario. Il cinema sperimentale e il cinema d’artista in Italia, a cura di P. Bertetto e U. Nespolo, Galleria d’Arte Moderna Torino 22/26 maggio 1978, pp.19-20. 84 C. G. Saba, Carmelo Bene, Editrice Il Castoro, Milano 2005 (2a ed.). 85 Verifica incerta sarebbe dovuto diventare il focus di una performance, giacché – come rivela il sottotitolo Disperse Exclamatory Phase – i frammaneti compositivi del film avrebbero dovuto essere “disseminati” tra il pubblico che prendeva parte alla prima proiezione parigina. Cfr. G. Baruchello, “Da Verifica incerta all’immagine in movimento”, in Verifica incerta. L’arte oltre i confini del cinema, a cura di C. Subrizi, DeriveApprodi, Roma, 2004, p. 94. 86 Cfr. C. Subrizi, op. cit., 2004. 87 Tra gli altri 60 metri per il 31 marzo (1968) è un film costruito da una serie di sei episodi per ciascuno dei quali è stato stabilito un doppio incrocio di riferimenti letterari e pittorici: Pound-Kandinsky; Brakhage-W.C Williams; Cummings-Botticelli; Donne-Bosch-Caravaggio; Durrel-Ernst; Katha-Upanishad e Piero della Francesca. Il palintesto sonoro di “Migrazione” si forma, tra gli altri richiami, attraverso Erodoto (Storia di Gige e Cadaule, dalle Storie I.812), J. S. Bach “Quia respexit humilitatem” e “Omnes generationes” dal Magnificat BWV 243; K. Stockhausen (da Momente: “Ich bin schwartz aber schön”, testo dal Cantico dei cantici; Franz Kafka “Storia di Amalia” dal Castello (cap. XV, letto in tedesco); John Cage da “String Quartet”; un canto da Taittiri Upanishad ecc. L’incipit visivo è dato dagli affreschi di Santa Maria Antiqua a Roma; cfr. M. Bacigalupo, Il film sperimentale, “Bianco &Nero”, maggio-agosto, 1974, p. 31. 88 Il regolamento della CCI, per il periodo di avvio dell’attività, prevedeva il conferimento al regista-produttore del 50% lordo degli incassi relativi ai suoi film (percentuale che nel futuro si ipotizzava di portare al 75%, percentuale adottata dalle cooperative americane) e il rimanente 50% alla Cooperativa stessa. Inoltre, ogni socio era obbligato a corrispondere una quota di iscrizione di ventimila lire. A. Leonardi, La cooperativa del cinema indipendente”, in “Filmcritica”, n. 179-180, luglioagosto, 1967, p. 395. 89 A. Leonardi, op. cit., 1967, p. 394. 90 “Ombre elettriche. Rivista di cinema indipendente”, il cui direttore responsabile era Marialuisa Grosso. Nel periodo 1967-1968 uscirono tre numeri. 91 Cfr. M. Bacigalupo, op. cit.,1974, p. 9. 92 M. Bacigalupo, op. cit., 1974, p. 7. 93 Come emerge dagli atti della Tavola rotonda sul cinema italiano. Produzione e distribuzione (I), “Cinema e Film”, n. 5-6, estate 1968, pp. 111-123. Con la consueta lucida e provocatoria vis polemica Leonardi rileva che il cinema d’autore (riferendosi anche agli astanti ov-

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vero a Paolo e Vittorio Taviani, Bernardo Bertolucci ecc.) «è condizionato nel suo linguaggio da certe richieste precise del mercato e da certe caratteristiche proprie del cinema commerciale», da convenzioni narrative date e violate, contestate (come nel caso considerato “estremo” del cinema di Jean-Luc Godard). Bertolucci confuta tale “lettura”, sostiene che i film underground difettino di pensiero perché sono costruiti come arte figurativa, non audiovisiva, e definisce il cinema underground rispetto al “nuovo cinema” come “reazionario”, “rinunciatario”. Leonardi obietta che i film underground non mancano di “pensiero”, ma che semmai «mancano di parola, o, meglio, di sonoro labiale sincrono». 94 M. Bacigalupo, atti della Tavola rotonda sul cinema italiano. Produzione e distribuzione (I), “Cinema e Film”, n. 5-6, estate 1968, p. 6. 95 Cfr. C. G. Saba, op. cit., 2005. In merito al tema fondamentale “del soggetto del linguaggio” si rinvia a É. Benveniste, Problemi di linguistica generale, Il Saggiatore, Milano, 1990 (1966); É. Benveniste, Problemi di linguistica generale II, Il Saggiatore, Milano,1985 (1974); Ch. Metz, L’enunciazione impersonale o il luogo del film, ESI, Napoli, 1995 (1991). 96 Cfr. G. Lombardi, Lo spazio inosservato, “Filmcritica”, n. 216, luglio 1971, p. 135. 97 La particolare implicazione del côté documentario, che dal cinema indipendente porterà al collettivo di “Videobase” (1973), ma in funzione militante, emerge con chiarezza quando Leonardi sostiene «Non per niente quando siamo stati convocati a casa di Zavattini che voleva proporci di fare dei cinegiornali liberi la cosa non ci ha sorpreso: le scelte di tipo generale che lui ci proponeva noi le avevamo già fatte da due anni e avevamo già superato lo stato di gemmazione che lui si proponeva, riunendoci in un gruppo e distribuendo le nostre opere, cosa che lui ancora non aveva fatto (e sembra che questo sia il grosso punto debole del meccanismo)»; cfr. Cooperativa del Cinema Indipendente, in “Cinema & Film”, n. 7-8, inverno primavera 1969, p. 113. La dimensione documentale si precisa anche in relazione all’impatto delle nuove tecnologie e, soprattutto, alla presenza del medium televisivo che si attesta quale medium di comunicazione di massa dominante. Si pensi all’opus di Paolo Brunatto, ma anche al cinema di Mario Schifano. 98 Cfr. G. Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Einaudi, Torino, 1997 (1982). 99 Ch. Metz, op. cit.,1995. 100 Cfr. A. Leonardi, Occhio mio dio. Il New American Cinema, CLUEB, Bologna, 2003, p. 9 (1970). 101 Cfr. S. Brakhage, Metafore della visione e Manuale per riprendere e ridare i film, Feltrinelli, Milano, 1970, p. 186. 102 S. Brakhage, op. cit., 1970, p. 199. 103 Structural Film è il titolo dell’articolo di P. Adams Sitney pubblicato, nell’estate 1969, nel n. 46 di “Film Culture”. Sitney rileva quali tratti formali distintivi: la fissità della cinepresa, l’effetto “flicker” (stroboscopico), la stampa a loop e il procedimento di rifotografare un film proiettato sullo schermo. Il “cinema strutturalista”, come rileva Paolo Bertetto, «ha una forte connotazione autoriflessiva e metafilmica, che non è oggettivata nel visibile, ma radicata nella stessa struttura formale». Cfr. P. Bertetto, “Minimalismo eidetico”, in Il grande occhio della notte. Cinema d’avanguardia Americano 1920-1990, a cura di P. Bertetto, Lindau, Torino, 1992, pp. 137-152. 104 A. Aprà, Prometeo liberato, in “Cinema & Film”, n. 9, estate 1969, p. 271.

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79 105 Fraction of Temporary Periods (I parte) ovvero Plans-séquences per una bambina (28’30’’, 8mm, sonoro su pista magnetica, 1965-1968) e Fractions of Temporary Periods (II parte): Due ore pomeridiane della bambina (gennaio) (21’ 8mm, sonoro su pista magnetica, 1969). 106 M. Bacigalupo, op. cit., 1974, p. 170. 107 Ibidem. 108 Adamo Vergine fu il “presidente” della CCI. 109 Cfr. M. Bacigalupo, op. cit., 1974, pp. 179. 110 Cfr. F. Casetti, Dentro lo sguardo. Il film e il suo spettatore, Bompiani, Milano 1986; cfr. F. Casetti, F. di Chio, Analisi del film, Bompiani, Milano, 1990. 111 Cfr. M. Bacigalupo, op. cit., 1974, p. 179-180. 112 Cfr. M. Bacigalupo, op. cit., 1974, pp. 130-133. 113 M. Bacigalupo, op. cit., 1974, p. 35 114 M. Bacigalupo, op. cit., 1974, p. 108. 115 Come già Napoléon (1927) di Abel Gance e, come racconta Stan Brakhage (1970), Inauguration of the Pleasure Dom (1954) di Kenneth Anger, montato in una versione a trittico, o The Chelsea Girls (1966) di Andy Warhol. 116 Cfr. E. Ungari, India, in “Cinema & Film”, n. 10, inverno 1969-70. 117 I Vasulka dal 1973 al 1979 dirigono il laboratorio di video al Media Study Center dell’Università di Stato a Buffalo e nello stesso dipartimento sono impegnati anche Paul Sharits, Hollis Frampton e Tony Conrad. 118 Cfr. V. Acconci, “Una testimonianza”, in Cominciamenti a cura di V. Valentini, Taormina Arte 1988, III Rassegna internazionale del Video d’Autore, De Luca Editore, Roma, 1988, p. 77. 119 Cfr. “G. Schum, Fersenhausstellung Land Art”, Hannover, 1970, in V. Valentini, op. cit., 1988, p. 55. 120 Cfr. S. Bordini, “Memoria del video: Italia anni Settanta”, in Videoarte in Italia, “Ricerche di Storia dell’arte”, n. 88, 2006, p. 9. 121 Cfr. A. Cigala (a cura di), “Giulio Paolini, una testimonianza”, in V. Valentini, op. cit., 1988, p. 79. 122 Cfr. D. Bloch, “Art et vidéo 1960-1980/82”, in V. Fagone (sous la direction de), L’Art Vidéo 1980-1999, Vingt ans du VideoArt Festival, Locarno. Recherches, théories, perspectives, Mazzotta, Milano, 1999, pp. 90-91. 123 Cfr. B. Viola, Reasons for Knocking at an Empty House. Writings 1973-1994, The MIT Press, Cambridge, Massachusetts, 1995 (Third Printing 2002, p. 30). 124 Cfr. L. Giaccari, classificazione ripresa in AA. VV., Impact Art Vidéo Art 74, Galerie Impact, Lausanne 1974. La Classificazione venne presentata nel 1975 da Gillo Dorfles all’Espace Cardin di Parigi nel quadro Incontri Internazionali del Video. 125 Già da Cybernetic Serendipity: The Computer and the Arts all’Ica di Londra 1968 esposizione curata da Jasia Reichardt presso l’Institut of Contemporay Art. 126 cfr. S. Bordini, op. cit., 1995, pp. 20-25; cfr S. Bordini, op. cit., 2006, pp. 5-7. 127 Cfr. K. Ausubel, “Parlando con Woody”, in R. Albertini, S. Lischi, op. cit., 1988, p. 81. 128 Cfr. B. Viola, op. cit., 2002, pp. 42-45. 129 Nine Evenings: Theater and Engineering (1966) l’opera di Robert Rauchenberg e Billy Klüver già nel 1966 è stata definita da Dick Higgins come un fenomeno “intermedia”.

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Sul concetto di “intermedialità” cfr. M. M. Gazzano, “Le cinéma et l’oeuvre d’art intermedia”, in V. Fagone, op. cit., 1999. 130 Come accade in modo affatto esemplare in The Florence Tapes: clothing, walking, lifting, learning, 1974, e in Austrian Tapes di Douglas Davis. Nei suoi primi videotape Vito Acconci forza attraverso la “presenza” del monitor l’assenza spettatoriale: (im)pone una relazione “face to face”. 131 Per quanto attiene alla ricostruzione dei contesti espositivi della videoarte in Italia nel corso degli anni ’70 cfr. M. R. Sossai, Artevideo. Storie e culture del video d’artista in Italia, SilvanaEditoriale, Cinisello Balsamo-Milano, 2002; S. Bordini, op. cit., 2006. 132 A-M. Duguet, “Vedere con tutto il corpo”, in R. Albertini, S. Lischi, op. cit., 1988, p. 61. 133 Cfr. Ph. Dubois, L’ombre, le miroir, l’index, in “Parachute”, n. 26, 1982. 134 A-M. Duguet, op. cit., 1988, p. 61. 135 Cfr. D. Bloch, Art et Vidéo, Flaviana, Locarno, 1982. 136 Nixon’s Tape, McLuhan Caged, Lindsay Tape (1969) di Nam June Paik sono esempi piuttosto significativi del metadiscorso critico che la videoarte elabora circa la comunicazione televisiva. 137 Cfr. G. Celant, Offmedia. Nuove tecniche artistiche: video-disco-libro, Dedalo, Milano 1977; cfr. S. Bordini, op. cit., 1995, pp. 20-25. 138 La già citata Fersenh-Galerie Berlin” (Galleria televisiva a Berlino) che Schum apre nel 1969 e muta nel 1971 in “video-galleria” con sede a Düsseldorf. 139 G. Schum, “Introduzione alla mostra televisiva Land Art”, in V. Valentini, op. cit., 1988, p. 45. 140 Cfr. AA.VV., Gennaio 70. III Biennale internazionale della giovane pittura, Edizioni Alfa, Bologna, 1970. 141 Cfr. L. Magri, a cura di, Centro Video Arte 1974-1994 videoarte, performance partecipazioni, catalogo, Ferrara, Gabriele Corbo Editore, Ferrara, 1995. 142 Sospende l’attività produttiva non potendo più sostenere l’impegno finanziario; non essendosi ancora definite per la nuova forma d’arte una “rete” di collezionisti, di gallerie d’arte e di musei e nemmeno una “critica d’arte” (fatta eccezione per Germano Celant e Achille Bonito Oliva), Maria Gloria Bicocchi cede all’Archivio Storico delle Arti Contemporanee della Biennale di Venezia i videotape, che sono stati recentemente fatti oggetto di un’attività di restauro preservativo digitale presso i “laboratori” LA CAMERA OTTICA e CREA dell’Università di Udine. Cfr. Cosetta G. Saba, Autour de art/tapes/22. Penser la préservation de la bande vidéo. Une introduction, in “CINEMA & Cie. International Film Studies Journal”, no. 8, “Cinéma et art conteporain/Cinema and contemporary art, Fall 2006. 143 Così denominato perché collocato nelle vecchie cucine del Broadway Central Hotel, a Soho, in Mercer Street. Cfr: www.vasulka.org. 144 Art/tapes/22 (a cura di), Americans in Florence: Europeans in Florence, catalogo della mostra itinerante, Centro Di Firenze, 1974. 145 Su art/tapes 22 si veda: F. Salvadori, (a cura di), Gli art/tapes dell’ASAC, catalogo della rassegna, Ca’ Corner della Regina, Venezia 1977; V. Valentini, op. cit., 1988; P. Sega Serra Zanetti, M. G. Tolomeo (a cura di), La coscienza luccicante. Dalla videoarte all’arte interattiva, Gangemi, Roma, 1998; V. Collavini, Amnesie italiane. Lo strano caso di art/tapes/22, in Videoarte in Italia, “Ricerche di Storia dell’arte”, 88, 2006, pp. 25-38.

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81 146 Nel 1965 la Sony presenta i primi “portapak”, videoregistratori portali con telecamera, diffusi sul mercato a partire dal 1967. Paik riprende dal finestrino di un taxi Café Gogo in Greenwich Village, 152 Bleeker Street; in Bum Les Levine riprende gli homeless newyorchesi. 147 B. Viola, “Un rinascimento a Firenze”, in M. G. Bicocchi, Art/tapes/22, Edizioni Il Cavallino, Venezia, 2003, p. 10. 148 Cfr. U. Eco, Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano, 1975. 149 B. Viola si riferisce al videotape Di come il fuoco rigenera la candela (1975). 150 B. Viola, “La scena europea e altre osservazioni”, in V. Valentini, op. cit., 1988, p. 81. 151 Lo standard SECAM diffuso nei paesi di lingua francese e in Unione Sovietica, negli altri paesi è presente il PAL, negli Stati Uniti e in Giappone è adattato lo standard NTSC. 152 Cfr. I. Scneider e B. Korot (a cura di), Videoart an Anthology, New York e London, 1976, in V. Valentini, op. cit., 1988. 153 Ph. Dubois, “Video e scrittura elettronica. La questione estetica”, in Il video a venire, a cura di V. Valentini, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, Catanzaro, 1999, pp.17-30. 154 Arnulf Rainer serie “Face Farces” (1968-1969) “autoritratti” fotografici (foto autoscattate) rielaborati, studi sul “linguaggio del volto”. Cfr. A. Rainer, Face Farces, Galleria Ariadne, Wien-Köln, 1971. 155 I bordi dell’immagine pongono dei limiti tra ciò che di un insieme di elementi di un mondo diegetico è mostrato, rappresentato e ciò che non lo è. Ogni inquadratura istituisce il proprio fuori-campo reversibile/irreversibile; neutro/marcato; concreto/immaginario; relativo/assoluto; cfr. N. Burch, Prassi del cinema, Pratiche, Parma 1980; cfr. P. Bonitzer, Décadrages. Peinture et cinéma, Éditions de l’Étoile, Paris, 1987. 156 Qui nell’accezione di Michael Riffaterre che definisce l’intertestualità come la percezione che il lettore (e per estensione anche lo spettatore) ha dei rapporti tra un testo e tutti gli altri testi che lo hanno preceduto e seguito. Cfr. M. Riffaterre, La production du texte, Seuil, Paris, 1979. 157 Lo stesso automatismo indifferente del tempo di registrazione, la stessa passività della m.d.p. di Empire, (1964, 16 mm, b/n, fotografia di Jonas Mekas) 16 immagini al secondo, per 8 ore e 5 minuti di ripresa dell’Empire State Building, durante la notte del 25 giugno 1964, dal 44 piano del Time-Life Building. 158 Cfr. J. A Greimas, “Sémiotique figurative et sémiotique plastique”, Atcs Sémiotiques. Documents, 60, Paris,1984 159 In particolare, anche se non esclusivamente, quando le ricerche linguistiche e le sperimentazione formali costituiscono esse stesse il focus dell’opera, il linguaggio audiovisivo diviene oggetto di analisi, di autoanalisi o metalinguaggio esplicito. 160 Si consideri, ad esempio, la non casuale rilevanza che il concetto di “materia” dell’opera d’arte ha assunto nella teoria del restauro. Cfr. Cesare Brandi, Teoria del restauro, Einaudi, Torino, 2000. Cfr. O. Chiantore, A. Bava (a cura di), Conservare l’arte. Problemi, metodi, materiali, ricerche contemporanee, Electa, Milano, 2005. 161 Cfr. U. Eco, op. cit., 1975, pp. 325-343. 162 Cfr. Ch. Metz, op. cit., 1977. 163 L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, Edizioni Olivares, Milano, 2002, p. 283. 164 Cfr. L. T. Hjelmslev, I fondamenti della teoria del linguaggio, Einaudi, Torino, 1968 (1943). 165 Cfr. E. Couchot, Image puissance image, in “Revue d’esthétique”, n. 7, 1984, p. 129.

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82 166 M. MacLuhan, Gli strumenti del comunicare, Garzanti, Milano, 1967, pp. 16-17 (1964). 167 J. Day, Bolter, R. Grusin, op. cit., 2002, p. 73 e pp. 82-83. 168 Cfr. R. Krauss, op. cit., 2005, pp. 57-58; cfr. “October”, n° 100, Obsolescence. A Special Issue, Spring 2002. 169 G. Youngblood, Expanded Cinema, Dutton, New York, 1970.

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1. Vita futurista (1916), Arnaldo Ginna con la collaborazione di Filippo Tommaso Marinetti, Emilio Settimelli, Bruno Corra e Giacomo Balla.

2. Vitesse (1930-31), Tina Cordero, Guido Martina, Pippo Oriani.

3. Immagine del tempo (1964), Mario Masini.

4. La verifica incerta (1964-65), Gianfranco Baruchello, Alberto Grifi.

5. Insomma (1965), Paolo Brunatto e Mario Masini.

6. Quasi una tangente (1966), Massimo Bacigalupo.

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7. Transfert per Kamera verso Virulentia (196667), Alberto Grifi.

8. X chiama Y (1967), Mario Masini.

9. Se l’inconscio si ribella/rivela (1967), Alfre- 10. Il mostro verde (1967), Antonio De Bernardi (con la collaborazione di Paolo Menzio). do Leonardi.

11. Rotor, installazione con la proiezione del film Motion/Vision e diapositive (galleria L’Attico, Roma 1967) di Umberto Bignardi.

12. “Versus” da Un dittico e un intervento (1968), Massimo Bacigalupo.

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13. “Migrazione” da Fiore d’eringio (196970), Massimo Bacigalupo.

14. Satellite (1968), Mario Schifano.

15. Umano non Umano (1968), Mario Schifano.

16. Non accaduto (1968), Gianfranco Baruchello.

17. Si prenda una ragazza, una qualunque, lì a caso… (1968), Guido Lombardi e Anna Layolo.

18. Morte all’orecchio di Van Gogh (1968), Pierfrancesco Bargellini.

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19. Trasferimento di modulazione (1969), Pierfrancesco Bargellini.

20. Nelda (1969), Pierfrancesco Bargellini.

21. Immagini disturbate da intenso parassita 22. Il televisore che piange (1972), Fabio Mauri. (1970), Paolo Gioli.

23. L’uomo senza macchina da presa, film stenopeico (1973 - ’81 - 89), Paolo Gioli.

24. Information (1973, art/tapes/22), Vill Viola.

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25. Olfatction (1973-74, art/tapes/22), Bill Viola.

26. Theme Song (1973, art/tapes/22), Vito Acconci.

27. Portrait de Laura Papi (1973, art/tapes/22), 28. Self/Portrait (1974, art/tapes/22), Urs Lüthi. Jean Otth.

29. Morire d’amore (1974, art/tapes/22), Urs Lüthi.

30. Random Select Version # 1: Vocabulary (1973 art/tapes/22), Woody Vasulka.

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31. Random Select Version # 1: Soundsize (1975 art/tapes/22), Woody Vasulka.

32. Senza Arte (Giovanna d’Arco), 1975, Fabio Mauri.

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Capitolo 1

Dall’«immaginazione senza fili» al «meraviglioso futurista»: la poetica marinettiana come teoria indiretta, intuitiva, del cinema* Wanda Strauven

Nel 1919, dieci anni dopo la fondazione del Futurismo, Piero Gobetti osserva in un articolo pubblicato su Energie Nove che «l’estetica di Marinetti applicata all’arte dello schermo sarebbe un’estetica giustificata logicamente».1 L’errore, invece, è stato che Marinetti ha elaborato quest’estetica per la letteratura, per la pagina scritta. Il contatto fisico con il “cilindro della benzina” di un aeroplano e la prospettiva aerea, “a picco”, hanno rivelato nel 1912 al poeta futurista la necessità di liberare le parole, di tirarle fuori dai periodi lunghi e pesanti della grammatica tradizionale.2 In tre successivi manifesti “tecnici”3 della letteratura futurista, Marinetti espone la sua nuova poetica che consiste nella distruzione della sintassi e nella concatenazione di «immagini telegrafiche», di «metafore condensate». Propone un rinnovamento della scrittura, una grafia meccanica, automatica, che si scrive da sé e che abolisce l’io letterario per dare maggior rilievo al lirismo della materia. Secondo Gobetti «il cinematografo ha proprio tutti i caratteri che Marinetti vorrebbe dare alla poesia». Il giornalista torinese inoltre aggiunge: «Ci trovi la velocità e la varietà, la superiorità dell’elemento fisico sullo psicologico, il regno della sensazione, dell’ebbrezza della natura. Marinetti ha sentito tutto ciò e ha creduto di poterlo portare nella letteratura. Ne è venuto una specie di meccanismo esteriore».4 Il sistema poetico che Marinetti sviluppa agli inizi degli anni ’10 può, in effetti, essere letto in chiave strettamente cinematografica: non solo abolisce la sintassi tradizionale per promuovere il principio dell’«immaginazione senza fili», ma elabora anche una scrittura in cui la parola non funge più da segno linguistico, bensì da immagine, da segno visivo, dinamico e libero. Intuitivamente, forse del tutto inconsapevolmente, teorizza una vera e propria

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poetica del montaggio a partire dal concetto chiave di “analogia”. Oltre alla concatenazione analogica che risulta concretamente in «strette reti d’immagini», Marinetti invita anche al montaggio sonoro («Ascoltare i motori e riprodurre i loro discorsi» (TIF, 51) e, più particolarmente, alla concatenazione onomatopeica (“Zang Tumb Tuuum”). Occorre qui sottolineare la preoccupazione persistente di Marinetti per la dimensione acustica o, meglio, per l’immediatezza tipica dell’espressione orale. Le sue creazioni parolibere sono in gran parte concepite come «partiture da declamare».5 Nonostante la dimensione fortemente visualizzatrice, composizioni come l’epopea guerresca Zang Tumb Tumb (1914) andrebbero interpretate come poemi essenzialmente onomatopeici destinati a essere recitati durante le serate futuriste; motivo, questo, per cui i poeti futuristi, riconosciuti rispetto a tale uso di effetti sonori, venivano denominati peggiorativamente i «futuristi del bumbum».6 Marinetti stesso era un ottimo declamatore. Per tutti gli anni, anche dopo il periodo eroico del Futurismo, ha continuato a impressionare pubblici internazionali con la sua capacità declamatoria. Eccellente sia in materia di gesticolazione che nella facoltà vocale, era un vero e proprio artista della performance. Folgorava decisamente per la sua présence, per le sue qualità di ”performer” difficilmente sostituibili con l’immagine “morta” e muta di un attore cinematografico. Per Marinetti l’azione scenica significava azione politica, cioè un’esperienza artistica per agitare il pubblico e per aggredire la vita (il che rientra perfettamente nel programma generale di “arte-azione”). Convinto del fatto che la scena fosse lo strumento ideale per condizionare i cervelli passatisti, Marinetti non tentò di sfruttare le immense potenzialità offerte dal cinema in quanto mezzo di agitazione propagandista (o agit-prop). Preferiva il gesto individualistico del teatro al gesto collettivo del cinema, ignorando così lo slogan mussoliniano riguardante la settima arte: «Il cinema è l’arma più forte». Se Marinetti non si è mai convertito pienamente al cinema è perché era appunto un uomo di teatro o, meglio, un «uomo-spettacolo».7 Non credeva nel cinema come mezzo (o strategia) futurista perché escludeva la provocazione e l’improvvisazione hic et nunc davanti a un pubblico vero. Malgrado questa linea di condotta “teatrocentrica”, Marinetti fa ricorso anche nel campo teatrale, come nel campo letterario, al procedimento (filmico) del montaggio. Si pensi non solo al teatro sintetico in quanto montaggio di “attimi”, ma anche e soprattutto al meccanismo del «meraviglioso futurista» che consiste nel concatenare «innumerevoli sforzi inventivi» (TIF, 82). Nel presente saggio vorrei dimostrare più in dettaglio come il montaggio si possa dire inerente alla poetica marinettiana, sia letteraria che teatrale. L’intento è doppio: si tratta, da un lato, di leggere il programma futurista per la letteratura e per il teatro come una teoria indiretta della cinematografia e,

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dall’altro, di rilevare come per Marinetti il cinema funge da “tecno-logia”, vale a dire da tecnica concettuale, virtuale (anziché concreta, reale). Per tale lettura mi concentrerò sul Futurismo del periodo cosiddetto “eroico” che si estende fino alla fine degli anni ’10,8 indicando, dove possibile, eventuali anticipazioni di ricerche del “secondo Futurismo”. 1. Un aviatore percepisce per analogia… Se prendiamo il fondatore del Futurismo alla lettera, la tecnologia che ha contribuito concretamente alla nascita di un nuovo occhio, alla rivoluzione percettiva, è stata l’aviazione. Secondo Marinetti è grazie all’esperienza della velocità aerea che l’uomo ha potuto sviluppare la «percezione per analogia»: un modo più rapido e più immediato di osservare il mondo. Sostiene, inoltre, di aver capito la «psicologia intuitiva della materia» contemplando il mondo dall’alto, da quella nuova prospettiva vista dall’aeroplano: «Guardando gli oggetti, da un nuovo punto di vista, non più di faccia o per di dietro, ma a picco, cioè di scorcio, io ho potuto spezzare le vecchie pastoie logiche e i fili a piombo della comprensione antica». (TIF, 52). Si tratta di una vera e propria rivoluzione percettiva: siamo spettatori di vedute perpendicolari con strani effetti di profondità, di vedute con una così forte angolazione («di scorcio») da divenire illogiche. Tale decondizionamento dello sguardo, basilare per l’aeropittura e l’aeropoesia del secondo Futurismo, diventerà fine a se stesso in certi film d’avanguardia, da Paris qui dort (1925) e La Tour ô s Kinoappara(1928) di René Clair, al capolavoro di Dziga Vertov, Celovek tom (L’uomo con la macchina da presa, 1929). La percezione per analogia si trova alla base di una nuova scrittura sia letteraria che plastica. Emblematico, a questo proposito, è il manifesto “Le analogie plastiche del dinamismo” (1913) di Gino Severini. Distinguendo due tipi di analogia, quella reale e quella apparente, il pittore spiega come l’espressione plastica del mare, che – per analogia reale – evoca la visione di una danzatrice, dia simultaneamente – per analogia apparente – la visione di un gran mazzo di fiori. Ne segue una nuova realtà: «mare = Danzatrice + mazzo di fiori».9 Insiste inoltre sul fatto che «malgrado […] le opere di creazione rappresentino una vita interiore del tutto differente dalla vita reale», l’arte futurista nondimeno si può chiamare «pittura e scultura d’après nature»10. In altri termini, il nuovo linguaggio artistico (cioè analogico) riflette il cambiamento del sistema percettivo, ne rende un’immagine fedele. Questione centrale nell’arte futurista è la ricerca del movimento. Si tratta di tradurre il movimento con mezzi immobili, di crearne un’analogia plastica. Giacomo Balla s’ispira direttamente agli studi cronofotografici di Etien-

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ne-Jules Marey e alla cinematografia per sviluppare una specie di cinegrafia pittorica, tecnica questa che consiste nel descrivere traiettorie di uomini ed automobili in corsa, nello scomporre i loro movimenti in diverse fasi successive (si pensi alla famosa Ragazza che corre sul balcone [1912], a La mano del violinista [1912] o ai suoi numerosi studi di automobili in corsa realizzati nel 1913). Balla riconosce apertamente che il cinematografo l’ha spinto a rompere con la pittura tradizionale, ad uscire dai limiti del quadro passatista, statico, per sperimentare una scrittura del movimento (o cinegrafia). Nel catalogo della sua mostra Fu Balla - Balla Futurista, organizzata nel 1915 a Roma, dichiara inequivocabilmente: «Col perfezionamento della fotografia la pittura statica passatista ha perso ogni prestigio; il cinematografo uccide la contemplazione statica. Assistendo ad una rappresentazione cinematografica ci troviamo avanti una pittura in moto che successivamente si trasforma per riprodurre una data azione».11 Umberto Boccioni si oppone precisamente a quest’idea della successione (o sequenzialità). Rigetta la tecnica della traiettoria, della scomposizione del movimento, in breve, della discontinuità, per promuovere una tecnica sintetica. Così le tele Dinamismo di un foot-baller (1913) e Dinamismo di un ciclista (1913) sono tentativi di rappresentare il corpo umano in quanto sintesi di muscoli serrati in un moto non-lineare, rotazionale. Nel manifesto “Fondamento plastico della scultura e pittura futuriste” (1913), Boccioni confuta con fervore l’accusa dell’analogia cinematografica, aggiungendo che tale accusa lo «fa ridere come una volgare imbecillità».12 Nonostante la sua profonda avversione per il dispositivo filmico, Boccioni realizzò nel 1911 alcuni dipinti dall’aspetto fortemente cinematografico, tra cui Visioni simultanee. Questo quadro è la mise en scène (e en abîme) di un’angolazione dall’alto; raffigura la nuova prospettiva aerea che consta – per riprendere le parole di Marinetti – nel guardare «gli oggetti, da un nuovo punto di vista, non più di faccia o per di dietro, ma a picco, cioè di scorcio». Il quadro rappresenta non solo tale veduta, ma anche lo spettatore, cioè colui che guarda lo spettacolo dall’alto in basso. Noi, spettatori esterni, guardiamo insieme a questo spettatore interno, da dietro la sua spalla sinistra (proprio come in un’inquadratura di quinta, o over-the-shoulder shot). Rilevante è la frantumazione del paesaggio urbano resa in questo quadro: come indica il titolo, non si tratta di una singola veduta, ma di una sovrapposizione (o sovrimpressione) di visioni sincrone mostrate da angoli visuali diversi; insomma, ne risulta una prospettiva multifocale, dall’alto. Il cambiamento del sistema percettivo impone quindi all’artista futurista un nuovo linguaggio espressivo, più fedele alla nuova realtà (o esperienza) della modernità. In questo contesto, l’aviazione può essere considerata una tecnologia virtuale: l’artista diventa un pilota che nelle sue opere cerca di

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rendere la percezione aerea. Così l’aviazione ha imposto anche al poeta Marinetti una nuova scrittura che è parolibera e analogica. Nella poetica marinettiana, l’analogia è una figura retorica che consiste nel connettere «cose distanti, apparentemente diverse ed ostili» (TIF, 48). Contrariamente all’analogia tradizionale che rimane sostanzialmente «una specie di fotografia», l’analogia futurista è vastissima e può attingere, come il linguaggio cinematografico, dall’infinità della materia: «Lo stile analogico è dunque padrone assoluto di tutta la materia e della sua intensa vita» (TIF, 48). Tecnicamente (cioè grammaticalmente), Marinetti suggerisce di fare seguire ogni sostantivo direttamente dal suo «doppio», sopprimendo «il come, il quale, il così, il simile a» (TIF, 47). L’analogia futurista sostituisce quindi il rapporto tradizionale della comparazione con il rapporto d’identità. Un uomo non è come una torpediniera, l’uomo è la torpediniera; una donna non è simile a un golfo, la donna è il golfo.13 L’idea di base è che i sostantivi doppi formano un’immagine “scorciata”, condensata o telegrafica, corrispondente alle nuove esigenze di velocità. Invece di perdersi in lunghe descrizioni metaforiche bisogna «fondere direttamente l’oggetto coll’immagine che esso evoca, dando l’immagine in iscorcio mediante una sola parola essenziale» (TIF, 47). 2. Meccanismo “filmico” e del pensiero L’originalità di Marinetti è di aver sviluppato non solo una teoria dell’immagine, ma anche (e soprattutto) una teoria di immagini in sequenza. Non basta creare analogie, bisogna anche concatenarle l’una all’altra: «Per avviluppare e cogliere tutto ciò che vi è di più fuggevole e di più inafferrabile nella materia, bisogna formare delle strette reti d’immagini o analogie, che verranno lanciate nel mare misterioso dei fenomeni» (TIF, 49). Il teorico Marinetti propone di selezionare, secondo il principio dell’«immaginazione senza fili», immagini dal nostro magazzino mentale e di montarle in reti, o concatenazioni continue, per farle seguire automaticamente l’una dopo l’altra. Mediante tali reti analogiche mira a rendere i «movimenti successivi» di oggetti, come risulta dal “Manifesto tecnico della letteratura futurista”: «Per dare i movimenti successivi d’un oggetto bisogna dare la catena delle analogie che esso evoca, ognuna condensata, raccolta in una parola essenziale» (TIF, 49). Una successione di analogie (immagini o parole totalizzanti) serve a tradurre il movimento della materia, proprio come succede mediante la serie di fotogrammi nel dispositivo filmico. Queste immagini futuriste possono essere o raggruppate «a due a due» (TIF, 49) per formare i sostantivi doppi, o montate in catene, in reti che tendono all’infinito: «benzoino tabacco incenso anice villaggio rovine bruciato ambra gelsomino case sventramenti abban-

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dono giara-di-terracotta TUMBTUMB violette ombrìe pozzi asinello asina cadavere sfracellamento sesso esibizione» (TIF, 60). Una scrittura analoga, basata sull’associazione e sulla giustapposizione di immagini distanti, si ritrova nell’opera del grande maestro sovietico Sergej M. Ejzenôstejn, più particolarmente nella sceneggiatura del Capitale che egli elabora tra 1927 e il 1928 durante il montaggio di Oktjabr’. Esempio: «pepeDreyfus-Figaro». Si tratta di una mini-sequenza prodotta sullo schermo (immaginario) a partire dall’immagine di un minestrone che viene impepato. Questa catena condensata, di sapore decisamente “futurista”,14 risulta da una rete analogica più lunga, logicamente (e metonimicamente) organizzata: «Pepe. Caienna. L’isola del diavolo. Dreyfus. Lo sciovinismo francese. Il Figaro nelle mani di Krupp. La guerra. Le navi affondate al porto».15 Altro esempio: una calza bucata è accostata ad una calza di seta, il che dà luogo a una catena metaforica che conduce all’arte e alla morale. Si ha a che fare con una scrittura basata sull’«attrazione intellettuale», che è anche adoperata nella famosa sequenza degli idoli di Oktjabr’. A proposito di questa sequenza, Ejzenôstejn spiega come grazie al montaggio si possa seguire, logicamente, «lo sviluppo del pensiero». Così come il montaggio intellettuale ejzenôstejniano intende tracciare «lo sviluppo del pensiero», le parole in libertà marinettiane mirano a rendere «il dinamismo ininterrotto del pensiero» (TIF, 58). Anche l’idea di poter esprimere tramite l’analogia i «movimenti successivi d’un oggetto» implica che per Marinetti esista un certo legame tra il montaggio e il pensiero. Intuitivamente, teorizza un cinema-pensiero interiore, cioè un sistema mentale che funge da schermo su cui si svolgono immagini in successione, in sequenza, rappresentative dei diversi momenti di un movimento. Piuttosto che riprodurre meramente il meccanismo del pensiero, il montaggio intellettuale concepito da Ejzenôstejn vuole istigare un determinato pensiero nello spettatore, provocare una collisione di idee (tramite una collisione di immagini), suscitare nello spettatore – come lo definisce Paolo Bertetto – uno «choc intellettuale».17 In altri termini, Ejzenôstejn riconsidera con il montaggio intellettuale il principio del montaggio delle attrazioni teorizzato nel 1923 (in seguito alla messinscena de Il saggio18): l’accostamento di realtà lontanissime, dopo precisi calcoli, deve provocare uno choc (non più emotivo, ma cerebrale), che susciti un cambiamento profondo nella mentalità del pubblico. È vero che anche Marinetti vuole produrre un dato effetto sullo spettatore con le sue performance oratorie; se fa ricorso agli strumenti della provocazione e dello scandalo è appunto per destare mediante l’effetto-choc la nuova sensibilità futurista. Ma il metodo dell’analogia marinettiana non è “efficiente”19 come quello dell’attrazione ejzenôstejniana: in quanto momento aggressivo (emotivo o intellettuale che sia), l’“attrazione” è calco-

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lata “matematicamente” al fine di produrre un certo numero di choc in un determinato ordine. Ejzenôstejn aspira a organizzare le idee associative, a orchestrarle razionalmente (e non intuitivamente), mentre Marinetti incita precisamente a un montaggio intuitivo che consiste nell’«orchestrare le immagini disponendole secondo un maximum di disordine» (TIF, 50). Inoltre, laddove l’analogia marinettiana dà luogo a giustapposizioni di termini, eventualmente uniti a due a due (A-B C-D...), il cinema-pensiero ejzenôstejniano vuole creare a partire da due dati (o immagini) un significato tutto nuovo, secondo il principio dialettico (A + B = C). Basato sul famoso effetto-Kuleôsov, questo tipo di montaggio vuole creare un significato che non solo è indipendente dai significati delle immagini prese separatamente, ma ne supera anche la somma. L’essenziale, quindi, non si trova nell’immagine, ma tra le immagini. Ejzenôstejn applicava questo stesso principio già al teatro nel 1923: un’attrazione, anche se considerata unità teatrale a sé stante, non acquista significato che in relazione alle altre attrazioni dello spettacolo. Il significato è nel montaggio, nello scontro con altri elementi. Si potrebbe a questo punto ridurre l’intera teorizzazione ejzenôstejniana al solo concetto di collisione, o di conflitto. L’arte di Ejzenôstejn è «l’arte degli urti violenti».20 Montare vuole dire contrastare, creare effetti di straniamento (o ostranènie, secondo la terminologia formalista), accostando elementi contrapposti (o “ostili”, come direbbe Marinetti). Tutto ciò con l’intento di dare un «cinepugno» in faccia al pubblico. Siccome anche Marinetti ricorre al principio del conflitto per creare analogie, si è propensi a supporre che da questi conflitti nasca, secondo il principio dialettico, un nuovo significato, che insomma il significato vero e proprio non si trovi nelle analogie considerate separatamente bensì nella loro concatenazione. Nella poesia futurista nascono certo nuove immagini (del tipo «uomo-torpediniera» e «donna-golfo»), ma la catena che aggancia queste immagini non sembra svolgersi in maniera significativa, o logicamente costruttiva. Marinetti stesso esclude la possibilità di rivelare nel suo montaggio di analogie un significato a livello strutturale quando afferma che le analogie vanno espresse «con parole slegate e senza fili conduttori sintattici» (TIF, 72). Piuttosto che organizzare dialetticamente le nuove immagini, Marinetti vuole darne «il seguirsi illogico». Pertanto la poesia futurista rimane sostanzialmente una giustapposizione di immagini parallele non soggette ad alcun processo di trasformazione (A // B // C...), contrariamente all’operazione del montaggio Ejzenôstejn che mira alla fusione dei concetti contrapposti, cioè alla sintesi di tesi e antitesi (A + B = C). Dal punto di vista meramente tecnico, il funzionamento del linguaggio poetico teorizzato da Marinetti riflette – paradossalmente meglio del funzionamento del sistema ejzenôstejniano – quello del linguaggio filmico in quanto

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successione lineare di immagini. Il concetto di un “cinema intellettuale”, d’altra parte, è fondato su procedimenti tipicamente letterari, in particolare quelli della metonimia e della metafora, che favoriscono la sostituzione piuttosto che la giustapposizione. In altri termini, sembra che Marinetti si basi sui principi del linguaggio filmico per sviluppare una nuova letteratura (analogica), mentre Ejzenôstejn parta dalla letteratura per elaborare una nuova scrittura filmica (metonimica/metaforica). 3. La poesia dei “secondi termini” L’idea di “fondere l’oggetto con l’immagine che esso evoca” e di condensare ogni analogia “in una parola essenziale” porta Marinetti a teorizzare non solo l’analogia in praesentia, ma anche quella in absentia. Fin dall’inizio architetta una poesia composta unicamente di “secondi termini” d’analogie futuriste: «Noi inventeremo insieme ciò che io chiamo l’immaginazione senza fili. Giungeremo un giorno ad un’arte ancor più essenziale, quando oseremo sopprimere tutti i primi termini delle nostre analogie per non dare più altro che il seguito ininterrotto dei secondi termini» (TIF, 53). Marinetti propone quindi di raccorciare le catene dei sostantivi doppi (A-A’ B-B’ C-C’ D-D’... ) in catene essenziali, che conterrebbero soltanto i secondi termini delle analogie (A’ B’ C’ D’... ). Ad esempio, il brano analogico «battaglioni-formiche cavalleria-ragni strade-guadi generale-isolotto staffette-cavallette sabbie-rivoluzione obici-tribuni nuvole-graticole fucili-martiri shrapnels-aureole» (tratto da Battaglia Peso + Odore) diventerebbe nella nuova poesia progettata da Marinetti «formiche ragni guadi isolotto cavallette rivoluzione tribuni graticole martiri aureole». Non senza motivo, il teorico futurista aggiunge: «Bisognerà, per questo, rinunciare ad essere compresi» (TIF, 53). Nelle “Risposte alle obiezioni”, pubblicate tre mesi dopo il “Manifesto tecnico della letteratura futurista”, per difendersi dai numerosi attacchi della stampa europea, Marinetti ribadisce a due riprese questo nuovo concetto poetico: «La poesia ideale che io sogno, e che altro non sarebbe se non il seguirsi ininterrotto dei secondi termini delle analogie, non ha nulla a che fare con l’allegoria». E più avanti: «[...] io aspiro a dare il seguirsi illogico, non più esplicativo, ma intuitivo, dei secondi termini di molte analogie tutte slegate e molto spesso opposte l’una all’altra» (TIF, 56-57). Se questo «seguirsi illogico» dei secondi termini venisse messo in immagine, si otterrebbe una bella sequenza di cinema sperimentale. Bisogna dare ragione a Gobetti il quale sostiene che trasferendo questo funzionamento del montaggio filmico alla letteratura, ne deriva «una specie di meccanismo

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esteriore». L’immaginazione senza fili teorizzata da Marinetti funzionerebbe senza dubbio molto meglio sullo schermo che non sulla pagina. L’hanno dimostrato in seguito, negli anni ’20, gli esperimenti cinematografici dei dadaisti e dei surrealisti. Così Un chien andalou (1929) di Luis Buñuel e Salvador Dalì offre allo spettatore l’analogia tra la luna “tagliata” da una nuvola e l’occhio tagliato da una lametta da barba, tra i peli delle ascelle e un riccio, tra i libri e le pistole, tra i seni e le natiche. E la sequenza del pianoforte, nello stesso film, è stata definita da Jean Mitry un «assemblaggio assai laborioso di analogie o di associazioni di idee (pianoforte-bourgeoisie, bovino-società di consumo, seminaristi-religione)».21 Nella farsa dadaista Entr’acte (1924) di René Clair, si può individuare l’analogia pugilato-traffico, ottenuta tramite la sovrimpressione dei guantoni sull’immagine di una strada trafficata. Segue un’altra sovrimpressione di capelli e fiammiferi: l’infiammarsi di questi sembra provocare prurito a quelli. Le applicazioni di «analogie cinematografate» in absentia sono più difficili da reperire, per il semplice fatto che il primo termine è omesso. Si può soltanto tentare di indovinare quale oggetto ha evocato, ad esempio, l’immagine di un’oca in Vormittagsspuk (Fantasmi del mattino, 1927-28) di Hans Richter. Altrettanto, nello stesso film, per quanto riguarda le bombette che volano in aria e il tubo annaffiatore che serpeggia: i primi termini di queste analogie in absentia sono forse, rispettivamente, “uccelli” e “biscia”? Sembra proprio che il dadaista Richter abbia preso alla lettera la prescrizione di Marinetti e abbia rinunciato ad essere compreso… 4. Dall’“uomo-macchina” all’uomo meccanico, smembrato e moltiplicato L’analogia più futurista, più marinettiana, è senza dubbio quella che connette l’uomo alla macchina. Secondo Roberto Tessari, l’analogia altro non sarebbe che uno strumento per rispondere alle nuove condizioni di vita che volgono verso una vera e propria simbiosi uomo-macchina; così «ogni segno riferito all’uomo ha (per destino) un’amorosa anima gemella, in un diverso e parallelo segno riferito alla macchina o alla materia».22 Applicazioni di tale simbiosi non mancano nella pittura futurista: basta pensare al Dinamismo di un ciclista (1913) di Boccioni o agli studi di «velocità astratta» di Balla nei quali il corpo dell’automobilista, di cui rimane ogni tanto riconoscibile/rintracciabile il profilo, si dissolve nel corpo meccanico della macchina in corsa. Oppure il curioso quadro di Carlo Carrà intitolato Ciò che mi detto il tram (1910-11), in cui il mezzo pubblico viene antropomorfizzato in quanto essere dialogante e i passeggeri si “frantumano” e “fondono” con la carrozza. Anche il cinema d’avanguardia internazionale ha prodotto numerosi

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esempi di «uomo-macchina».23 Pensiamo al Ballet mécanique (1924) di Fernand Léger e Dudley Murphy, in cui si applica il “nuovo realismo”. In questo balletto d’oggetti (per la gran parte utensili di cucina), sono inseriti frammenti del corpo umano al fine di mettere in risalto la concordanza tra macchina e uomo, di creare insomma l’analogia «macchina-uomo» (o «uomomacchina»). Altro caso esemplare è Impatience (1928) del belga Charles Dekeukeleire, dramma a quattro personaggi (la Montagna, la Moto, la Donna e Blocchi astratti), in cui il corpo meccanico, quello della Moto, è associato in modo assai ossessivo con il corpo femminile, prima vestito di pelle e in seguito anche nudo. Attraverso il montaggio, Dekeukeleire scompone i due corpi i cui differenti pezzi s’alternano. Il risultato è una specie di simbiosi moto-donna/donna-moto. Un altro esempio significativo, infine, è dato dalla filmografia di Ejzenôstejn che si rivela particolarmente ricca di analogie animalesche ed erotiche. Per quanto riguarda l’analogia uomo-macchina, il regista sovietico produce un caso notevole ne Bronenosec Potëmkin (La corazzata Potëmkin, 1925), più particolarmente nella sequenza della sala macchine, mediante uno “short cutting”24 di immagini metonimiche delle due entità distanti, umana e meccanica (mani-ruote, facce-manometro, petto-caldaia ecc.). Oltre alla figura retorica dell’analogia che rudimentalmente può essere definita un montaggio di parole o, meglio, di parole-immagini, Marinetti lancia, all’interno del suo programma letterario, due concetti di tecnologia futurologica (e/o eugenistica) che sono connessi al progetto della simbiosi uomomacchina: l’«uomo meccanico dalle parti cambiabili» e l’«uomo moltiplicato dalla macchina». L’uno è citato nel “Manifesto tecnico della letteratura futurista” per annunciare il «regno meccanico» che porrà fine al «regno animale»; l’altro appare nel manifesto “Distruzione della sintassi - Immaginazione senza fili - Parole in libertà” (1913) nel contesto della nuova sensibilità (meccanica). Se dalla prospettiva del secolo ventunesimo questi due concetti permettono di collocare Marinetti nella tradizione dei teorici (pionieri) del cyborg, vanno anzi tutto situati, contestualizzati, nella complessa immaginazione popolare degli inizi del ’900. Così entrambe le nozioni evocano certe immagini del cinema truccato. Pensiamo ad esempio alla comica Cretinetti e le donne (1909), in cui Cretinetti (André Deed) è inseguito da una schiera di donne amorosamente impazzite che alla fine lo spezzano, lo smembrano, lo riducono letteralmente a pezzi o «parti cambiabili». Deed imparò questo trucco dello smembramento da Georges Méliès, nella cui filmografia abbondano gli esempi del corpo umano sbranato, tagliato in varie parti sostituibili: Un homme de têtes (1898), Dislocation mystérieuse (1901; con l’interpretazione di Deed), Une indigestion (1902), Le cake-walk infernal (1903), Le mélomane (1903), Le bourreau turc (1904) ecc. Nel “Manifesto tecnico della let-

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teratura futurista” c’è un riferimento diretto a questo trucco del cinema primitivo. Per illustrare come il mezzo filmico possa offrire visioni insolite e inedite, impercettibili ad occhio nudo e rendere i «movimenti della materia» illogici, Marinetti osserva: «Il cinematografo ci offre la danza di un oggetto che si divide e si ricompone senza intervento umano» (TIF, 51). Non si tratta di uno smembramento, scomponimento/ricomponimento, di un corpo umano, ma il principio è lo stesso. Oltre all’applicazione dell’«uomo meccanico dalle parti cambiabili» ante litteram, Méliès dimostrò anche esemplarmente come moltiplicarsi attraverso la “macchina da presa”: mediante la tecnica della sovrimpressione si sdoppiò in numerosi film, fino a sette volte in L’Homme-orchestre (1900). Un altro modo per moltiplicarsi utilizzando il mezzo cinematografico fu sperimentato dall’artista di varietà Leopoldo Fregoli. A cavallo dei secoli diciannovesimo e ventesimo, Fregoli era conosciuto nel mondo intero per la sua capacità di trasformarsi. In una serata riusciva a interpretare più di sessanta personaggi, cambiando continuamente costume, voce e sesso. Attorno al 1900 Fregoli incominciò a filmare i propri numeri di trasformazione che poi proiettava sullo schermo del Fregoligraph. Nel film Segreto per vestirsi l’artista si metamorfosa nelle quinte con l’aiuto di tre assistenti che gli infilano i vestiti dei vari personaggi successivi. Tale numero del “trucco svelato” figurava anche tra le varie attrazioni che Fregoli eseguiva dal vivo, sulla scena. Era il cosiddetto “teatro al rovescio”: Fregoli recitava allora per un pubblico finto, la faccia girata verso lo sfondo di scena (che rappresentava appunto un teatro con spettatori immaginari); sul proscenio veniva a operare le sue trasformazioni sotto gli occhi del pubblico reale. Registrando su pellicola questo “teatro al rovescio”, Fregoli sfruttava l’attrazione cinematografica per prolungare sullo schermo la sua arte proteiforme esibita sul palcoscenico, per ottenere, insomma, un effetto di «uomo moltiplicato dalla macchina». Metteva il cinema al servizio non solo della scena, ma anche del proprio mestiere.25 Laddove il nome di Méliès non è menzionato in nessun manifesto futurista, quello di Fregoli figura ben due volte nel manifesto del “Teatro di Varietà” che Marinetti pubblica nel 1913. Prima il nome dell’artista romano è citato per illustrare una delle «leggi dominanti della vita» (vale a dire «sintesi di velocità + trasformazioni») (TIF, 85), poi appare in uno dei metodi proposti per «Prostituire sistematicamente tutta l’arte classica sulla scena» (vale a dire «Mettere a fianco a fianco sulla scena Zacconi, la Duse, e Mayol, Sarah Bernhardt e Fregoli») (TIF, 89). Quest’ultima idea sembra direttamente ispirata agli spettacoli fregoliani e al montaggio alternato delle interpretazioni dei vari personaggi. Esemplare, a questo proposito, è il numero del cakewalk che consisteva in una specie di cross-cutting dell’apparizione di (sottinteso Fregoli nelle vesti di... ) una signorina frivola e quella di (sempre sottin-

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teso Fregoli nelle vesti di... ) un dandy che la rincorreva al ritmo meccanico di una danza afro-americana.26 La formula «sintesi di velocità + trasformazioni», d’altra parte, potrebbe riferirsi all’invenzione del Fregoligraph e all’uso di certi trucchi filmici, anche se è più verosimile che Marinetti alluda alle metamorfosi fulminee che Fregoli compie sul palcoscenico (senza l’artificio del cinematografo). In termini generali, è assai probabile che Marinetti miri con il concetto di «uomo moltiplicato dalla macchina» oltre una mera applicazione su pellicola. Senza dubbio aspira piuttosto a una vera e propria fusione dell’istinto umano con la macchina in una specie di cuore-motore che consenta all’uomo non solo di moltiplicarsi, ma anche di vincere la morte (o almeno il sonno27). Per quanto riguarda l’«uomo meccanico dalle parti cambiabili», il concetto implica più direttamente l’idea del montaggio, meccanico e filmico. Si avvicina, infatti, alla creazione dell’uomo meccanico attraverso il montaggio filmico come profetizzata da Dziga Vertov nel 1923: «Da una persona prendo le mani, le più forti e più abili; da un’altra prendo le gambe, le più veloci e più proporzionate; da una terza, la più bella e più espressiva testa – e attraverso il montaggio, creo un nuovo uomo, un uomo perfetto».28 Laddove Vertov vuole creare (l’illusione filmica di) un uomo in carne ed ossa, Marinetti sembra più interessato alla costruzione di un uomo artificiale, cioè non umano: «Con la conoscenza e l’amicizia della materia, della quale gli scienziati non possono conoscere che le reazioni fisico-chimiche, noi prepariamo la creazione dell’uomo meccanico dalle parti cambiabili» (TIF, 54). Forse ha in mente un uomo metallico, robotico, di cui il prototipo apparirà sugli schermi italiani nel 1922 con il film di André Deed, L’uomo meccanico.29 Il principio del montaggio, tuttavia, risiede nell’interscambiabilità delle parti del corpo dell’uomo, proprio come nella visione del cineocchio vertoviano. 5. La tecnica del «meraviglioso» Il principio di montaggio è anche alla base di ciò che Marinetti chiama il «meraviglioso futurista», concetto questo che non va confuso con quello del fantastico o fantasmagorico. Nella concezione/teoria marinettiana, il «meraviglioso» è una tecnica teatrale. Si tratta di una miscela caotica, apparentemente fortuita, di trovate d’ogni sorta: bisticci, caricature, scene ilari o satiriche. Nel manifesto del “Teatro di Varietà”, Marinetti elenca quattordici elementi di cui può essere composto questo «meraviglioso»: 1. caricature possenti; 2. abissi di ridicolo; 3. ironie impalpabili e deliziose; 4. simboli avviluppanti e definitivi; 5. cascate d’ilarità irrefrenabile; 6. analogie profonde fra l’umanità, il mondo animale, il mondo vegetale, e il mondo

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meccanico; 7. scorci di cinismo rivelatore; 8. intrecci di motti spiritosi, di bisticci e d’indovinelli che servono ad aerare gradevolmente l’intelligenza; 9. tutta la gamma del riso e del sorriso per distendere i nervi; 10. tutta la gamma della stupidaggine, dell’imbecillità, della balordaggine e dell’assurdità, che spingono insensibilmente l’intelligenza fino all’orlo della pazzia; 11. tutte le nuove significazioni della luce, del suono, del rumore e della parola, coi loro prolungamenti misteriosi e inesplicabili nella parte più inesplorata della nostra sensibilità; 12. cumulo di avvenimenti sbrigati in fretta e di personaggi spinti da destra a sinistra in due minuti (“ed ora diamo un’occhiata in Balcani”: Re Nicola, Enver-bey, Daneff, Venizelos, manate sulla pancia e schiaffi tra Serbi e Bulgari, un couplet, e tutto sparisce); 13. pantomime satiriche istruttive; 14. caricature del dolore e della nostalgia, fortemente impresse nella sensibilità per mezzo di gesti esasperanti per la loro lentezza spasmodica esitante e stanca; parole gravi ridicolizzate da gesti comici, camuffature bizzarre, parole storpiate, smorfie, buffonate (TIF, 82).

Umberto Artioli, in un’analisi dettagliata del concetto di «meraviglioso», ha voluto insistere sul legame di parentela tra teorizzazione futurista e surrealismo.30 Così coglie nel concetto futurista, oltre alla dimensione predadaista dell’assurdo, anche quella presurrealista del magico. Per l’undicesimo componente del «meraviglioso futurista», Artioli invita a vedere nel programma marinettiano una propensione al «contatto col soprannaturale», al mistero, all’inesplicabile. Comunque, a Marinetti non interessa tanto rivelare quella «parte più inesplorata della nostra sensibilità», tanto meno arrivare per mezzo di essa a una realtà più reale, a una cosiddetta surrealtà. Soprattutto, Marinetti non concepisce il «meraviglioso» in termini di un immaginario meraviglioso, di un universo dove realtà e sogno si fondono, dove il fantastico finisce coll’essere il reale. È invece un meccanismo inventivo che funge da tecnica teatrale, provocatoria, scioccante, e un concetto prettamente predadaista in quanto fa appello «all’assurdo, al ridicolo, al nonsensical, a tutto ciò che sconcerta e dissacra».31 Rimangono estranee al principio marinettiano le dimensioni dell’onirico, dello psicanalitico, del fantastico e, soprattutto, del bello – caratteristica quest’ultima che André Breton considererà intrinseca del merveilleux: «il meraviglioso è sempre bello, non importa quale meraviglioso, anzi non v’è che il meraviglioso che sia bello».32 Laddove per i surrealisti si tratta della categoria suprema dell’esperienza estetica, Marinetti concepisce il «meraviglioso» come un tipo di montaggio teatrale, produttore dell’ilarità e della fisicofollia. L’elogio della follia è certo un aspetto che permette di accostare le due poetiche, ma il motivo per cui tale forma mentale viene coltivata diverge: se per i surrealisti si tratta di scrutare tutti i misteri della psiche umana, di mettere a nudo il subcosciente, per Marinetti invece l’intenzione è quella andare

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a tutti i costi contro lo psicologismo e il sentimentalismo antropocentrico: «Mentre il Teatro attuale esalta la vita interna, la meditazione professorale, la biblioteca, il museo, le lotte monotone della coscienza, le analisi stupide dei sentimenti insomma (cosa e parola immonde) la psicologia, il Teatro di Varietà esalta l’azione, l’eroismo, la vita all’aria aperta, la destrezza, l’autorità dell’istinto e dell’intuizione. Alla psicologia, oppone ciò che io chiamo fisicofollia» (TIF, 87). Implicitamente Marinetti stesso invita a correlare il «meraviglioso futurista» all’avvento del cinematografo, quando specifica nel manifesto del “Teatro di Varietà” che questo concetto chiave è «prodotto dal meccanismo moderno». Anche il cinematografo è prodotto dal meccanismo moderno. Fin dalle origini è stato colto come mezzo adatto per generare, meccanicamente, visioni stupefacenti, per «far regnare sovrani» sullo schermo – come Marinetti lo vorrebbe sulla scena – «l’inverosimile e l’assurdo» (TIF, 88); con quell’unica differenza che sullo schermo il continuo rinnovamento è escluso: «l’inverosimile e l’assurdo», una volta registrati su pellicola, non possono più essere soggetti a cambiamenti improvvisati. Tuttavia, il cinema primitivo concedeva agli esibitori una certa libertà di improvvisazione, più particolarmente nel concatenare le vues animées. Ciò risultava non di rado in spettacoli assurdi, di nonsenso, anche perché il pubblico era propenso a leggere una continuità tra le attrazioni organizzate arbitrariamente, a scoprire una logica (non-intenzionale) nello spettacolo. Ad esempio: «Il monarca spagnolo e il re britannico si scannano per un foglio di carta, passa in un lampo una dozzina di paesaggi marocchini, seguita da qualche corazziere italiano in marcia e una dreadnought tedesca rombante in acqua».33 Da questa testimonianza di uno spettatore russo della prima epoca, si capisce – come sottolinea Yuri Tsivian – che «le impressioni di un film erano involontariamente trasferite al successivo con il quale era connesso solo dall’adiacenza fortuita nel programma».34 Mentre Tsivian parla dell’effetto-Kuleôsov (involontario e ante litteram), il fenomeno potrebbe anche essere definito un effetto del «meraviglioso». È la logica dell’illogico, la continuità del discontinuo, o – per riprendere la definizione del concetto di analogia – «l’amore profondo che collega le cose distanti, apparentemente diverse ed ostili». Ma anche all’interno dello stesso filmato, il «meraviglioso» può rivelarsi il meccanismo di base. Si pensi in particolare alle prime comiche, determinate da una ritmicità e un senso dell’assurdo prefuturisti. Maria Adriana Prolo descrive l’«orgia del movimento» in relazione ai film a inseguimento: «uomini insensati che rincorrono una signorina che insegue un prete che rincorre una grossa balia che rincorre un pompiere che insegue un cane che fugge con una interminabile filza di salamini».35 Peculiarità del genere burlesco, ta-

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le ritmicità è inerente anche ad alcuni film di Méliès. Come ad esempio accade in Sorcellerie culinaire (1904), il cui luogo d’azione è una grande cucina. Arriva un falso mendicante che, dopo essere cacciato brutalmente dal capocuoco, decide di vendicarsi trasformando la cucina in un inferno, o meglio in un «teatro di trasformazioni».36 Piccoli diavoli invadono la cucina: saltano dalla finestra, piroettano, scompaiano e ricompaiano. Le entrate e le uscite di questi acrobati non rivestono nessuna funzione narrativa, avendo soltanto come obiettivo il crescendo visivamente ritmico. Inoltre, il «meraviglioso» di Sorcellerie culinaire è direttamente legato al teatro di varietà: i diavoletti-saltimbanchi sono tutti interpretati da artisti delle Folies-Bergère. Se l’opera di Méliès può essere letta in termini di «meraviglioso futurista», non è solo per la dimensione del movimento. Anzi, è soprattutto per la cosiddetta «truccalità»,37 o la legge dei trucchi. Al fine di dimostrare nuovi trucchi, Méliès inventa un mondo libero da ogni legge fisica. Ricompone l’universo secondo le proprie leggi, secondo i capricci della propria ispirazione. Gli effetti comici sono sempre, in un modo o in un altro, al servizio del «meraviglioso» (prefuturista). O, come dice lo stesso Méliès, sono «a beneficio della fantasia meravigliosa».38 La «fantasia meravigliosa» è per Méliès un fine a se stesso in quanto gli permette di mettere in vetrina i suoi nuovi trucchi, i suoi ultimi «sforzi inventivi» (TIF, 82). Quello che gli interessa è la spettacolarità delle vues animées di cui la trama – una fiaba, un gioco di prestigio, un «viaggio attraverso l’impossibile» – è un mero pretesto. Indicativo, a questo proposito, è il commento di Eugenio Ferdinando Palmieri riguardante un film realizzato da Méliès nell’anno di fondazione del Futurismo: Illusions fantaisistes (1909), in cui un illusionista (Méliès in persona) fa apparire lanterne, panchetti, piante, un Egiziano e una Egiziana. Palmieri ne coglie l’essenza: «Una fantasia spettacolare, non di cose umane; ma una fantasia, voi intendete, che indica allo schermo una tecnica, un’altra possibilità: la possibilità del “meraviglioso”».39 Tale tecnica, esplorata da Méliès fin dall’inizio della sua carriera cinematografica, altro non risulta essere che una concatenazione di trucchi. Non di rado, questo «meraviglioso» filmico provoca il riso per la sua dimensione dell’assurdo, del puro nonsenso. Carl Vincent ha dato risalto alla stretta connessione tra il “meraviglioso” e il comico, osservando che è appunto «nella vena del meraviglioso che il comico di Méliès si rivela il più originale». Secondo Vincent, il comico nel cinema di Méliès riesce a raggiungere un’autentica dimensione poetica, a confondersi insomma con la poesia. Perché Méliès «trasporta il comico sul piano dello stupore, della sorpresa, dell’impossibile. Il motore di questo comico è il trucco, una cascata di trucchi». Per illustrare tale asserzione, Vincent cita alcuni casi tipici del «meraviglioso» prefuturista di Méliès: «Qui gli abiti prendono una volontà e una vita proprie, [...] l’obesa diventa magra dopo grotte-

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sche esperienze, il sole si leva sotto forma d’un pagliaccio allegro aureolato di fiamme e le costellazioni sotto forma di belle figliole».40 Come nel “meraviglioso” marinettiano, l’unica logica di questa concatenazione di trucchi risulta essere la sua illogicità. Le assurdità si accumulano senza finalità narrativa, anzi rendono impossibile ogni logica narrativa, ogni sviluppo della narrazione. 6. Ricostruzione dell’universo Quando nel 1916, Marinetti firma insieme con la nuova guardia fiorentina il manifesto della “Cinematografia futurista” [cfr. pp. 115-118], diversi concetti del suo programma letterario-teatrale sono integrati e “tradotti” in termini filmici. Non solo si propone di cinematografare analogie e «ricostruzioni irreali del corpo umano», ma ritorna anche l’idea del «meraviglioso» o libero montaggio. Il cinematografo è considerato uno strumento per arrivare alla «sinfonia poliespressiva» che consiste nel combinare tutti i più vari elementi, «dal brano di vita reale alla chiazza di colore, dalla linea alle parole in libertà, dalla musica cromatica e plastica alla musica di oggetti» (TIF, 140). Si noti in quest’elenco l’insistenza sull’aspetto musicale che i futuristi suggeriscono di rendere visivamente: vale a dire mediante la colorazione della pellicola («musica cromatica»), l’equivalente pittorica («musica plastica») o l’animazione («musica di oggetti»). Nel manifesto i futuristi considerano lo sfruttamento degli intonarumori di Luigi Russolo, senza tuttavia precisare se questi debbano essere integrati come suono diretto (accompagnatore delle immagini mute41), oppure come suono filmato e quindi muto (con la ripresa degli strumenti in questione42). Come ha fatto notare Dominique Noguez, il suono è una lacuna che viene allo stesso tempo “risentita e respinta” nel manifesto della “Cinematografia futurista”.43 Da un lato, i futuristi risentono l’assenza del sonoro come un vuoto che va colmato mediante «dissonanze, accordi, sinfonie di gesti, fatti, colori, linee, ecc.» (TIF, 143) o mediante «equivalenze lineari plastiche, cromatiche, ecc.» (TIF, 144). Dall’altro, l’assenza del suono non è risentita come tale: basta che la musica diventi musica cromatica e che le parole in libertà cessino di essere letteratura per divenire anch’esse pittura. Tutto ciò con l’intenzione di realizzare la «sinfonia poliespressiva». La strada per la poliespressività era stata preparata da Bruno Corra e Emilio Settimelli con il loro “Pesi misure e prezzi del genio artistico” (1914), manifesto in cui si introduce un nuovo concetto d’arte in termini di «mescolanza caotica, inestetica e strafottente di tutte le arti già esistenti».44 Nel 1916, i futuristi considerano il cinematografo, anziché un fine a se stesso, un mezzo per spingere all’estremo tale ricerca artistica, per concatenare (o montare)

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tutti gli aspetti immaginabili del programma di “arte-azione” futurista. La cinematografia futurista «sarà insomma pittura, architettura, scultura, parole in libertà, musica di colori, linee e forme, accozzo di oggetti e realtà caotizzata» (TIF, 140). Il concetto futurista di «realtà caotizzata» va riallacciato al progetto della deformazione della percezione umana. Si noti che si tratta di realtà «caotizzata», quindi non caotica, ma resa caotica. Messo in relazione con l’idea di inserire «bran[i] di vita», questo concetto di «realtà caotizzata» potrebbe anche essere letto in termini documentaristici. Un film futurista non escluderebbe la ripresa dal vero, anzi favorirebbe la combinazione (caoticamente organizzata) di diversi elementi strappati alla vita reale, o meglio alla “vita futurista”. Rivelatrice, a questo proposito, è la frase conclusiva del manifesto che dice: «Scomponiamo e ricomponiamo così l’Universo secondo i nostri meravigliosi capricci, per centuplicare la potenza del genio creatore italiano e il suo predominio assoluto nel mondo» (TIF, 144). Per «centuplicare» la forza del popolo italiano, i futuristi ricorrono alla capricciosità del Teatro sintetico, formula che consiste nel trarre dalla vita reale «elementi da combinarsi per capriccio» e al concetto di «ricostruzione futurista dell’universo» sviluppato da Giacomo Balla e Fortunato Depero nel loro omonimo manifesto del 1915 [cfr. pp. 112-114]. Questo manifesto, in cui sono introdotti nuovi mezzi plastici quali il «giocattolo futurista», il «paesaggio artificiale» e l’«animale metallico», costituisce una ridefinizione della Gesamtkunstwerk wagneriana in termini futuristi. Gli autori dichiarano che il paroliberismo marinettiano e l’arte dei rumori russoliano «si fondono con dinamismo plastico per dare l’espressione dinamica, simultanea, plastica, rumoristica della vibrazione universale». Se favoriscono tale fusione, è per ricostruire o, meglio, per ricreare ab ovo l’universo: «Noi futuristi, Balla e Depero, vogliamo realizzare questa fusione totale per ricostruire l’universo rallegrandolo, cioè ricreandolo integralmente. Daremo scheletro e carne all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile, all’impercettibile».45 Il mezzo più adatto all’espressione materiale dell’immateriale, o all’espressione visibile dell’invisibile, si rivela il cinematografo. E l’elemento della tecnologia filmica più conveniente a quest’aspirazione futurista di ricostruire l’universo, scomponendolo e ricomponendolo capricciosamente, è ovviamente il montaggio.46 Il montaggio permetterebbe ai futuristi di smantellare (o smontare) vecchi sistemi di percezione e credenza per rimontarli in seguito secondo le leggi della libertà associativa o “capricciosa”. È notevole che questo riferimento implicito al principio di base del linguaggio filmico appaia proprio nella frase finale del manifesto della “Cinematografia futurista”. L’ambizione di scomporre e ricomporre l’universo secondo i propri «meravigliosi capricci» va riconnessa all’idea di combinare i più ibridi elementi («dal

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brano di vita alla chiazza di colore, dalla linea alle parole in libertà») e di rendere così ogni continuità narrativa impossibile. Il montaggio futurista, tutto sommato, è illogico, deformatore, poliespressivo. Almeno in termini teorici. Per quanto riguarda la prassi, la produzione filmica dei futuristi si è rivelata meno ambiziosa (e capricciosa). Così Vita futurista, che fu realizzato nell’estate del 1916 a Firenze sotto gli auspici di Marinetti e la direzione tecnica di Arnaldo Ginna, anziché mirare a una vera ricostruzione dell’universo, illustrava varie attività della “vita futurista”, raccontava insomma la giornata del futurista: dal sonno dinamico (verticale) alla ginnastica mattutina alle Cascine, dalla creazione artistica all’invasione di un “thé passatista”.47 Il montaggio di Vita futurista era illogico in quanto non seguiva una determinata linea di narrazione. Invece univa più o meno arbitrariamente un certo numero di brevi sketch, il cui carattere disparato doveva rispecchiare la “plurisensibilità” dell’artista futurista. Quindi, il montaggio stricto sensu non era particolarmente deformatore, anzi si limitava alla concatenazione di attrazioni futuriste. Tuttavia, all’interno dell’inquadratura, la manipolazione dell’immagine filmica non mancava. Va ricordato soprattutto l’uso di specchi deformanti per la storia d’amore tra il pittore Balla e una seggiola (“sequenza” della quale si è salvato un fotogramma) e per la conversazione tra un obeso e un magro che «Marinetti […] ottenne cinematografando i due attori dentro due specchi deformanti, concavo l’uno e convesso l’altro. Le figure erano di un grottesco inarrivabile; ma l’atmosfera valeva anche di più. Le luci e i riflessi rimandati dagli specchi circondavano i due corpi d’una materia argentea filacciosa, quasi fossero stati immersi in un liquido che li impigliava e dava al ritmo della discussione qualcosa di stranamente impacciato e soffocante, come un incubo».48 Altri effetti speciali di Vita futurista erano l’uso dello “splitscreen” per inscenare due modi di dormire opposti (futurista vs. passatista (Fig. 1)) e il ricorso al viraggio (colorazione manuale della pellicola) per risolvere artisticamente un difetto, cioè la presenza di puntini bianchi causati dalla polvere.49 In breve, lo sperimentalismo di Vita futurista era limitato, se non addirittura incidentale. Agli antipodi della struttura arbitraria di Vita futurista si trova il film Thaïs, realizzato anch’esso nel 1916, del fotografo futurista Anton Giulio Bragaglia. Interamente imperniato sul tema della femme fatale, Thaïs presenta una narrazione coerente, logica e lineare, con un chiaro punto di partenza (l’amicizia di due donne di società) e un finale drammatico (il suicidio di Thaïs). Gli ingredienti principali sono il decadentismo dannunziano, il simbolismo di Baudelaire (per l’inserzione di versi tratti da Les fleurs du mal) e, soprattutto, il divismo. Il film acquista una dimensione futurista soltanto in termini scenografici (cioè formali), grazie alla partecipazione di Enrico

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Prampolini. La sua “scenoplastica” rimane meramente decorativa, fatta eccezione per il finale spettacolare che è stato interpretato da Millicent Marcus come una metafora della nascita del cinema futurista.50 Marcus vede nella protagonista Thaïs l’incarnazione del vecchio stile cinematografico, per cui la sua morte (volontaria) è necessaria per fare emergere un nuovo tipo di cinema, un cinema “puro” dove ritmo, luce e scenoplastica sostituiscono la narrazione tradizionale, dove lo specifico filmico diventa insomma linguaggio autosufficiente. E così negli ultimi minuti del film la scenografia di Prampolini, che nel resto del film ha una funzione puramente estetica, si fa elemento dominante e agente. Questo finale, per quanto imponente sia, non offre tuttavia una soluzione valida per ricostruire futuristicamente l’universo. Può soltanto farci sperare che un giorno il cinema futurista veda davvero la luce. 7. Una conclusione provvisoria Come è stato osservato da Scott MacKenzie, la «storia dei manifesti del cinema rappresenta una storia di fallimenti assoluti, l’uno dopo l’altro».51 E il primo manifesto del cinema futurista certamente non fa eccezione a questa regola. Il manifesto del 1916 era troppo progressivo per il suo periodo non solo in termini estetici, ma anche e soprattutto in termini tecnici. Dei vari studi cinematografici intrapresi negli anni che seguono, più particolarmente nel contesto del secondo Futurismo, la maggior parte rimane progetto su carta. Velocità, realizzato nel 1930-31 dai futuristi torinesi Pippo Oriani, Tina Cordero e Guido Martina, è una delle rare concretizzazioni della cinematografia futurista, ma nonostante ovvi riferimenti alla poetica marinettiana (in particolare per l’inserzione di drammi d’oggetti) questa pellicola è lungi dall’aspirare al programma filmicamente “poliespressivo” annunciato nel 1916.52 Altri scritti futuristi sul cinema seguiranno e Marinetti stesso firmerà nel 1938 un ultimo manifesto dedicato alla “Cinematografia” [cfr. pp. 142144] in cui i recenti sviluppi tecnologici (quali il sonoro, la policromia, la stereoscopia ecc.) sono citati come nuove soluzioni artistiche/avanguardiste. Ma anche questo manifesto rimarrà senza esito all’interno del Futurismo. In realtà, i manifesti del cinema futurista non solo erano troppo ambiziosi (o futurologici), ma miravano anche ad un’opera totale che oltrepassasse lo specifico filmico. Per raggiungere una ricostruzione futurista dell’universo non bastavano le tecniche cinematografiche (dell’epoca o future), ma occorreva una vera e propria sintesi di tutte le arti futuriste. Paradossalmente, lo specifico filmico è colto meglio negli scritti non dedicati appositamente al cinema e più specificamente nei manifesti teatrali e letterari di Marinetti. È

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proprio in questi manifesti che il fondatore del Futurismo prospetta – come ho cercato di dimostrare – una teoria del cinema. Si tratta di una teoria indiretta del cinema dove il linguaggio verbale viene meccanizzato e tecnologizzato, regolato dalla percezione analogica (o aerea) e dal principio del «meraviglioso» (o libero montaggio). Per riprendere le parole iniziali di Piero Gobetti, si tratta di un’estetica che «applicata all’arte dello schermo sarebbe [stata] un’estetica giustificata logicamente» e – aggiungerei – più produttiva di una letterale messa in pratica del manifesto della “Cinematografia futurista”.

NOTE * Diversi aspetti del presente articolo sono approfonditi nella mia monografia Marinetti e il cinema: tra attrazione e sperimentazione, Udine, 2006. 1 P. Gobetti, “Il futurismo e la meccanica di F. T. Marinetti”, Energie Nove, vol. 6, 1919, p. 89. 2 F. T. Marinetti, “Manifesto tecnico della letteratura futurista”, in Teoria e invenzione futurista, a cura di L. De Maria, Milano, Mondadori, 2001, pp. 46-52; d’ora in poi indicato nel testo con la sigla TIF. 3 Dopo il “Manifesto tecnico della letteratura futurista” (1912) seguono “Distruzione della sintassi - Immaginazione senza fili - Parole in libertà” (1913) e “Lo splendore geometrico e meccanico e la sensibilità numerica” (1914). 4 P. Gobetti, op. cit. 1919, p. 89. 5 Cfr. M. Webster, Reading Visual Poetry after Futurism, Marinetti, Apollinaire, Schwitters, Cummings, New York, Peter Lang, 1995, p. 28. 6 Cfr. J. White, Literary Futurism. Aspects of the First Avant-Garde, Oxford, Clarendann Press, 1990, p. 12. 7 Cfr. G. Antonucci, Storia del teatro italiano del Novecento, Roma, Edizioni Studium, 1986, p. 34. 8 Adotto qui la periodizzazione di Luciano De Maria secondo il quale: «Senza giungere all’estremo di chi negando un secondo Futurismo considera un’unica e continua fase del movimento dal 1909 alla morte del fondatore nel 1944 (ed è tesi sostenuta da Mario Verdone), riteniamo che il periodo eroico possa giungere almeno fino al 1920. Il distacco da Lacerba e la guerra non determinano a mio parere la fine del movimento. Si assiste in realtà solo a un mutamento di indirizzo e a un cambio di guardia: al gruppo lacerbiano si sostituisce nel 1916 il gruppo dei “giovani” de L’Italia Futurista (diretta da Bruno Corra ed Emilio Settimelli)». L. De Maria, Marinetti e i futuristi, Milano, Garzanti, 1994, pp. XIII-XIV. 9 G. Severini, “Le analogie plastiche del dinamismo” (1913), in Archivi del Futurismo, vol. I, a cura di M. Drudi Gambillo & Teresa Fiori, Roma, De Luca, 1958, p. 78. 10 Ibidem. 11 G. Balla, “Fu balla - Balla futurista (1915)”, in G. De Marchis, Giacomo Balla. L’Aura futurista, Torino, Einaudi, 1977, p. 112. 12 U. Boccioni, “Fondamento plastico della scultura e pittura futuriste” (1913), in Archivi del Futurismo, cit., 1958, p. 144.

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109 13 Questi due esempi sono basati sulle analogie nominali offerte da Marinetti stesso nel “Manifesto tecnico della letteratura futurista”. 14 Nel manifesto “Il montaggio delle attrazioni cinematografiche” (1924), Ejzenôstejn si riferisce ad un procedimento associativo che propone esplicitamente di denominare futurista. S. M. Ejzenôstejn, Au-delà des étoiles, Paris, Union Générale d’Editions (Collection 10/18), 1974, p. 139. 15 S. M. Ejzenôstejn, “Come portare sullo schermo il Capitale di Marx”, Cinema nuovo, n. 226, novembre-dicembre 1973, p. 433. 16 Ejzenôstejn citato in P. Bertetto, “Il cinema e il pensiero nella teoria di S. M. Ejzenôstejn (1923-35)”, in Sergej Ejzensô tejn: Oltre il cinema, a cura di P. Montani, La Biennale di Venezia, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 1991, p. 305. Secondo Bertetto, la scrittura filmica che Ejzenôstejn sviluppa a partire dal 1928 è basata sull’«analogia intellettuale»; si tratta di «una scrittura che non dimentica il legame con i modelli della letteratura simbolista e d’avanguardia, dal “démon de l’analogie” di Mallarmé, all’“immaginazione senza fili” di Marinetti, ma che si riqualifica soprattutto nell’elaborazione di una catena semantica liberamente coordinata». 17 P. Bertetto, op. cit. 1991, p. 306. 18 La messinscena de Il saggio era liberamente ispirata alla pièce di Ostrovski C’è abbastanza semplicità in ogni saggio e mirava a creare uno “choc emozionale” tra gli spettatori. Lo spettacolo si svolgeva interamente in funzione della spettacolarità dei singoli numeri e si concludeva con 25 “attrazioni”. Si veda S. M. Ejzenôstejn, “Montage of Attractions” (1923), in The Film Sense, a cura di Jay Leyda, San Diego/New York, Harcourt Brace & Company, 1975, pp. 230-233. 19 Si veda Jacques Aumont che ha proposto tre definizioni dell’attrazione ejzenôstejniana: l’attrazione come performance, come associazione d’idee e come “efficienza” (Montage Eisenstein, Paris, Albatros, 1979, pp. 56-67). Per Ejzenôstejn l’effetto dell’attrazione andava calcolato secondo certe leggi psicologiche e politiche, rispettivamente della riflessologia di Pavlov e dell’ideologia marxista-leninista. 20 N. Lebedev, Il cinema muto sovietico, Torino, Einaudi, 1962, p. 190. 21 J. Mitry, Le cinéma expérimental. Histoire et perspectives, Paris, Cinéma 2000/Seghers, 1974, p. 152. 22 R. Tessari, Il mito della macchina. Letteratura e industria nel primo Novecento italiano, Milano, Mursia, 1973, p. 232. 23 Per una lettura più dettagliata, rimando al mio Le mécanoïde et l’androïde: deux faces du mythe futuriste dans le cinéma d’avant-garde des années vingt. “CiNéMAS”, vol. 12, n. 3, primavera 2002, pp. 33-51. 24 Si veda Arnold Hauser che coglie la sequenza in questione nel modo seguente: «men working desperately, engine-room of the cruiser; busy hands, revolving wheels; faces distorted with exertion, maximum pressure of the manometer; a chest soaked with perspiration, a glowing boiler; an arm, a wheel; a wheel, an arm; machine, man; machine, man; machine, man». Ed aggiunge: «Two utterly different realities, a spiritual and a material, were joined together here, and not only joined but identified, in fact, the one proceeding from the other». (The Social History of Art. Naturalism, Impressionism, The Film Age, vol. 4, London, Routledge & Kegan Paul, 1962, p. 241). 25 Si veda anche A. Bernardini, “ Leopoldo Fregoli ‘cinematografista’ ”, in Cinema & Film, vol. I, Roma, Curcio, 1986, p. 91. Bernardini osserva giustamente che Fregoli si serviva del cinema «come di un alter ego».

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110 26 G. Pellegrini, Fregoli ou Le premier “appareil” de projection sonore, “La revue du cinéma”, n. 14, giugno 1948, p. 49. 27 Fin dalla fondazione del Futurismo, Marinetti è ossessionato dalla vittoria del sonno. «Avevamo vegliato tutta la notte» sono le prime parole del manifesto di Fondazione (1909). E più avanti: «La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno». Nello stesso 1909 Marinetti crea il personaggio Gazourmah, “Eroe senza sonno”, figlio artificiale (nato senza intervento femminile) di Mafarka il futurista. 28 D. Vertov, Kino-Eye, a cura di A. Michelson, Los Angeles/London, University of California Press, 1984, p. 17. 29 Negli stessi anni, uomini meccanici faranno anche apparizione sulla scena futurista, più particolarmente nel Ballo Meccanico Futurista (1922) di I. Pannaggi e V. Paladini e nell’Anihccam del 3000 (1923) di F. Depero. 30 U. Artioli, La scena e la dynamis. Immaginario e struttura nelle sintesi futuriste, Bologna, Pàtron, 1975, pp. 189-200. 31 Cfr. L. De Maria, Futurismo, Dadà, Surrealismo, “Lettere italiane”, XXVII, n. 4, ottobre-dicembre 1975, p. 386. 32 A. Breton, “Primo Manifesto del surrealismo”, in M. De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 331. 33 Citato in Y. Tsivian, “Some Historical Footnotes to the Kuleshov Experiment”, in Early Cinema. Space Frame Narrative, a cura di Th. Elsaesser, London, British Film Institute, 1990, p. 248. 34 Ibidem. 35 M. A. Prolo, Storia del cinema muto italiano, vol. I, Milano, Poligono Società Editrice, 1951, p. 21. 36 P. Cherchi Usai, Georges Méliès, Firenze, La Nuova Italia, 1983, p. 63. 37 La “truccalità” è un neologismo proposto da André Gaudreault per definire l’opera di Méliès. Si veda A. Gaudreault, “ ‘Théâtralité’ et ‘narrativité’ dans l’oeuvre de Georges Méliès”, in Méliès et la naissance du spectacle cinématographique, a cura di Madeleine MalthêteMéliès, Paris, Klincksieck, 1984, pp. 199-219. 38 Citato in C. Vincent, L’elemento comico in Méliès (con inediti di G. Méliès), “Sequenze”, n. 5-6, 1950, p. 17. 39 E. F. Palmieri, Vecchio cinema italiano, Venezia, Zanetti, 1940, p. 15. 40 C. Vincent, op. cit. 1950, pp. 18-19. 41 Come verranno sfruttati più avanti, alla fine degli anni venti, da Eugène Deslaw per la colonna sonora dal vivo della sua Marche des machines (1928). 42 Paragonabile al concerto muto che apre L’Uomo con la macchina da presa (1928) di Dziga Vertov. 43 D. Noguez, “Du futurisme à l’‘underground’”, in Cinéma: Théorie, Lectures, Klincksieck, Paris, 1978, p. 289. 44 B. Corra ed E. Settimelli, “Pesi misure e prezzi del genio artistico (1914)”, in Archivi del Futurismo, cit., 1958, p. 43. 45 G. Balla e F. Depero, “Ricostruzione futurista dell’universo (1915). 46 Si veda anche Millicent Marcus, Anton Giulio Bragaglia’s Thaïs; or, The Death of the

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Diva + the Rise of the Scenoplastica = The Birth of Futurist Cinema, “South Central Review”, XIII, nn. 2-3, 1996, p. 64. 47 Si veda anche il mio “Vita futurista e Velocità: due film fantasma di F. T. Marinetti”, in La novellizzazione: dal catalogo al trailer/Novelization: From the Catalogue to the Trailer, a cura di A. Autelitano e V. Re, Forum editrice, Udine, 2006. 48 C. Pavolini citato in F. T. Marinetti, “La Cinematografia astratta è un’invenzione italiana (1926)”, in M. Verdone, Cinema e letteratura del futurismo, Roma, Edizione di Bianco e Nero, 1968 (II ed., Rovereto, Manfrini editore, 1990), pp. 252-253. 49 Si veda la testimonianza di Arnaldo Ginna, Note sul film d’avanguardia Vita Futurista, “Bianco e Nero”, maggio-giugno 1965, pp. 156-158. 50 M. Marcus, op. cit. 1996, pp. 67-69. 51 S. MacKenzie, “Direct Dogma: Film Manifestos and the fin de siècle”, P.O.V., n. 10, dicembre 2000: http://imv.au.dk/publikationer/pov/Issue_10/section_4/artc6A.html 52 Per una lettura dettagliata di questa pellicola, si veda G. Lista, Futurismo cinematografico. Il film “Velocità”, di Cordero, Martina, Oriani”, “Fotogenia”, nn. 4-5, 1997-98, pp. 73-103.

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Ricostruzione futurista dell’universo Col Manifesto tecnico della Pittura futurista e colla prefazione al Catalogo dell’Esposizione futurista di Parigi (firmati Boccioni, Carrà, Russolo, Balla, Severini), col Manifesto della Scultura futurista (firmato Boccioni), col Manifesto La Pittura dei suoni rumori e odori (firmato Carrà), col volume Pittura e scultura futuriste, di Boccioni, e col volume Guerrapittura pittura, di Carrà, il Futurismo pittorico si è svolto, in 6 anni, quale superamento e solidificazione dell’impressionismo, dinamismo plastico e plasmazione dell’atmosfera, compenetrazione di piani e stati d’animo. La valutazione lirica dell’universo, mediante le Parole in libertà di Marinetti, e l’Arte dei Rumori di Russolo, si fondono col dinamismo plastico per dare l’espressione dinamica, simultanea, plastica, rumoristica della vibrazione universale. Noi futuristi, Balla e Depero, vogliamo realizzare questa fusione totale per ricostruire l’universo rallegrandolo, cioè ricreandolo integralmente. Daremo scheletro e carne all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile, all’impercettibile. Troveremo degli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell’universo, poi li combineremo insieme, secondo i capricci della nostra ispirazione, per formare dei complessi plastici che metteremo in moto. Balla cominciò collo studiare la velocità delle automobili, ne scoprì le leggi e le linee-forze essenziali. Dopo più di 20 quadri sulla medesima ricerca, comprese che il piano unico della tela non permetteva di dare in profondità il volume dinamico della velocità. Balla sentì la necessità di costruire con fili di ferro, piani di cartone, stoffe e carte veline, ecc., il primo complesso plastico dinamico. 1. Astratto. - 2. Dinamico. Moto relativo (cinematografo) + moto assoluto. - 3. Trasparentissimo. Per la velocità e per la volatilità del complesso plastico, che deve apparire e scomparire, leggerissimo e impalpabile. - 4. Coloratissimo e Luminosissimo (mediante lampade interne). - 5. Autonomo, cioè somigliante solo a se stesso. 6. Trasformabile. - 7. Drammatico. - 8. Volatile. - 9. Odoroso. - 10. Rumoreggiante. Rumorismo plastico simultaneo coll’espressione plastica. - 11. Scoppiante, apparizione e scomparsa simultanee a scoppi. Il parolibero Marinetti, al quale noi mostrammo i nostri primi complessi plastici ci disse con entusiasmo: “L’arte, prima di noi, fu ricordo, rievocazione angosciosa di un Oggetto perduto (felicità, amore, paesaggio) perciò nostalgia, statica, dolore, lontananza. Col Futurismo invece, l’arte diventa arte-azione, cioè volontà, ottimi-

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smo, aggressione, possesso, penetrazione, gioia, realtà brutale nell’arte (Es.: onomatopee. - Es.: intonarumori = motori), splendore geometrico delle forze, proiezione in avanti. Dunque l’arte diventa Presenza, nuovo Oggetto, nuova realtà creata cogli elementi astratti dell’universo. Le mani dell’artista passatista soffrivano per l’Oggetto perduto; le nostre mani spasimavano per un nuovo Oggetto da creare. Ecco perché il nuovo Oggetto (complesso plastico) appare miracolamente fra le vostre. LA COSTRUZIONE MATERIALE DEL COMPLESSO PLASTICO MEZZI NECESSARI: Fili metallici, di cotone, lana, seta, d’ogni

spessore, colorati. Vetri colorati, carteveline, celluloidi, reti metalliche, trasparenti d’ogni genere, coloratissimi, tessuti, specchi, làmine metalliche, stagnole colorate, e tutte le sostanze sgargiantissime. Congegni meccanici, elettrotecnici; musicali e rumoristi; liquidi chimicamente luminosi di colorazione variabile; molle; leve; tubi, ecc. Con questi mezzi noi costruiamo dei (ROTAZIONI)

1 Complessi plastici che girano su un perno (orizzontale, verticale, obliquo). 2 Complessi plastici che girano su più perni: a) in sensi uguali, con velocità varie; b) in sensi contrari c) in sensi uguali e contrari (SCOMPOSIZIONI)

3 Complessi plastici che si scompongono: a) a volumi; b) a strati; c) a trasformazioni successive (in forma di coni, piramidi, sfere, ecc.). 4 Complessi plastici che si scompongono, parlano, rumoreggiano, suonano simultaneamente. SCOMPOSIZIONE, TRASFORMAZIONE/FORMA + ESPANSIONE ONOMATOPEE, SUONI, RUMORI (MIRACOLOMAGIA)

5 Complessi plastici che appaiono e scompaiono: a) lentamente; b) a scatti ripetuti (a scala); c) a scoppi improvvisi. Pirotecnica - Acque - Fuoco - Fumi. LA SCOPERTA-INVENZIONE SISTEMATICA INFINITA mediante l’astrattismo complesso costruttivo rumorista, cioè lo stile futurista. Ogni azione che si sviluppa nello spazio, ogni emozione vissuta, sarà per noi intuizione di una scoperta. ESEMPI: Nel veder salire velocemente un aeroplano, mentre una banda suonava in piazza, abbiamo intuito il Concerto plastico-motorumorista nello spazio e il Lancio di concerti aerei al di sopra della città. – La necessità di variare ambiente spessissimo e lo sport ci fanno intuire il Vestito trasformabile (applicazioni meccaniche, sorprese, trucchi, sparizioni d’individui). – La simultaneità di velocità e rumori ci fa intuire la Fontana giroplastica rumorista. – L’aver lacerato e gettato nel cortile un libro, ci fa intuire la Réclame fono-moto-plastica e le Gare pirotecnico-plastico-astratte. – Un giardino primaverile sotto il vento ci fa intuire il Fiore magico trasformabile motorumorista. – Le nuvole volanti nella tempesta ci fanno intuire l’Edificio di stile rumorista trasformabile.

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IL GIOCATTOLO FUTURISTA

Nei giochi e nei giocattoli, come in tutte le manifestazioni passatiste, non c’è che grottesca imitazione, timidezza, (trenini, carrozzini, pupazzi immobili, caricature cretine d’oggetti domestici), antiginnastici o monotoni, solamente atti a istupidire e ad avvilire il bambino. Per mezzo di complessi plastici noi costruiremo dei giocattoli che abitueranno il bambino: 1. a ridere apertissimamente (per effetto di trucchi esageratamente buffi); 2. all’elasticità massima (senza ricorrere a lanci di proiettili, frustate, punture improvvise, ecc.); 3. allo slancio immaginativo (mediante giocattoli fantastici da vedere con lenti; cassettine da aprirsi di notte, da cui scoppieranno meraviglie pirotecniche; congegni in trasformazione, ecc.); 4. a tendere infinitamente e ad agilizzare la sensibilità (nel dominio sconfinato dei rumori, odori, colori, più intensi, più acuti, più eccitanti); 5. al coraggio fisico, alla lotta e alla GUERRA (mediante giocattoli enormi che agiranno all’aperto, pericolosi, aggressivi). Il giocattolo futurista sarà utilissimo anche all’adulto, poiché lo manterrà giovane, agile, festante, disinvolto, pronto a tutto, instancabile, istintivo e intuitivo. IL PAESAGGIO ARTIFICIALE

Sviluppando la prima sintesi della velocità dell’automobile, Balla è giunto al primo complesso plastico. Questo ci ha rivelato un paesaggio astratto a coni, piramidi, poliedri, spirali di monti, fiumi, luci, ombre. Dunque un’analogia profonda esiste fra le linee-forze essenziali della velocità e le linee-forze essenziali d’un paesaggio. Siamo scesi nell’essenza profonda dell’universo, e padroneggiamo gli elementi. Giungeremo così, a costruire L’ANIMALE METALLICO Fusione di arte + scienza. Chimica, fisica, pirotecnica continua improvvisa, dell’essere nuovo automaticamente parlante, gridante, danzante. Noi futuristi, Balla e Depero, costruiremo milioni di animali metallici, per la più grande guerra (conflagrazione di tutte le forze creatrici dell’Europa, dell’Asia, dell’Africa e dell’America, che seguirà indubbiamente l’attuale meravigliosa piccola conflagrazione umana). Le invenzioni contenute in questo manifesto sono creazioni assolute, integralmente generate dal Futurismo italiano. Nessun artista di Francia, di Russia, d’Inghilterra o di Germania intuì prima di noi qualche cosa di simile o di analogo. Soltanto il genio italiano, cioè il genio più costruttore e più architetto, poteva intuire il complesso plastico astratto. Con questo, il Futurismo ha determinato il suo Stile, che dominerà inevitabilmente su molti secoli di sensibilità. Milano, 11 marzo 1915 G. BALLA, F. DEPERO

astrattisti futuristi

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La cinematografia futurista Il libro, mezzo assolutamente passatista di conservare e comunicare il pensiero, era da molto tempo destinato a scomparire come le cattedrali, le torri, le mura merlate, i musei e l’ideale pacifista. Il libro, statico compagno dei sedentari, degl’invalidi, dei nostalgici e dei neutralisti, non può divertire né esaltare le nuove generazioni futuriste ebbre di dinamismo rivoluzionario e bellicoso. La conflagrazione agilizza sempre più la sensibilità europea. La nostra grande guerra igienica, che dovrà soddisfare tutte le nostre aspirazioni nazionali, centuplica la forza novatrice della razza italiana. Il cinematografo futurista che noi prepariamo, deformazione gioconda dell’universo, sintesi alogica e fuggente della vita mondiale, diventerà la migliore scuola per i ragazzi: scuola di gioia, di velocità, di forza, di temerità e di eroismo. Il cinematografo futurista acutizzerà, svilupperà la sensibilità, velocizzerà l’immaginazione creatrice, darà all’intelligenza un prodigioso senso di simultaneità e di onnipresenza. Il cinematografo futurista collaborerà così al rinnovamento generale, sostituendo la rivista (sempre pedantesca), il dramma (sempre previsto) e uccidendo il libro (sempre tedioso e opprimente). Le necessità della propaganda ci costringeranno a pubblicare un libro di tanto in tanto. Ma preferiamo esprimerci mediante il cinematografo, le grandi tavole di parole in libertà e i mobili avvisi luminosi. Col nostro Manifesto Il Teatro Sintetico Futurista, con le vittoriose tournées delle compagnie drammatiche Gualtiero Tumiati, Ettore Berti, Annibale Ninchi, Luigi Zoncada, coi 2 volumi del Teatro Sintetico Futurista contenenti 80 sintesi teatrali, noi abbiamo iniziato in Italia la rivoluzione del teatro di prosa. Antecedentemente un altro Manifesto futurista aveva riabilitato, glorificato e perfezionato il Teatro di varietà. È logico dunque che oggi noi trasportiamo il nostro sforzo vivificatore in un’altra zona del teatro: il cinematografo. A prima vista il cinematografo, nato da pochi anni, può sembrare già futurista cioè privo di passato e libero da tradizioni: in realtà, esso, sorgendo come teatro senza parole, ha ereditate tutte le più tradizionali spazzature del teatro letterario. Noi possiamo dunque senz’altro riferire al cinematografo tutto ciò che abbiamo detto e fatto per il teatro di prosa. La nostra azione è legittima e necessaria, in quanto il cinematografo sino ad oggi è stato, e tende a rimanere profondamente passatista, mentre noi vediamo in esso la possibilità di un’arte eminentemente futurista e il mezzo di espressione più adatto alla plurisensibilità di un artista futurista. Salvo i films interessanti di viaggi, caccie, guerre, ecc., non hanno saputo infliggerci che drammi, drammoni e drammetti passatistissimi. La stessa sceneggiatura che per la brevità e varietà può sembrare progredita, non è invece il più delle volte che una pietosa e trita analisi. Tutte le immense possibilità artistiche del cinematografo sono dunque assolutamente intatte. Il cinematografo è un’arte a sé. Il cinematografo non deve dunque mai copiare il palcoscenico. Il cinematografo, essendo essenzialmente visivo, deve compiere anzitutto l’evoluzione della pittura: distaccarsi dalla realtà, dalla fotografia, dal grazioso e dal solenne. Diventare antigrazioso, deformatore, impressionista, sintetico, dinamico, parolibero.

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Occorre liberare il cinematografo come mezzo di espressione per farne lo strumento ideale di una nuova arte immensamente più vasta e più agile di tutte quelle esistenti. Siamo convinti che solo per mezzo di esso si potrà raggiungere quella poliespressività verso la quale tendono tutte le più moderne ricerche artistiche. Il cinematografo futurista crea appunto oggi la sinfonia poliespressiva che già un anno fa noi annunciavamo nel nostro manifesto: Pesi, misure e prezzi del genio artistico. Nel film futurista entreranno come mezzi di espressione gli elementi più svariati: dal brano di vita reale alla chiazza di colore, dalla linea alle parole in libertà, dalla musica cromatica e plastica alla musica di oggetti. Esso sarà insomma pittura, architettura, parole in libertà, musica di colori, linee e forme, accozzo di oggetti e realtà caotizzata. Offriremo nuove ispirazioni alle ricerche dei pittori i quali tendono a sforzare i limiti del quadro. Metteremo in moto le parole in libertà che rompono i limiti della letteratura marciando verso la pittura, la musica, l’arte dei rumori e gettando un meraviglioso ponte fra le parole e l’oggetto reale. I nostri films saranno: 1. Analogie cinematografate usando la realtà direttamente come uno dei due elementi dell’analogia: Esempio: Se vorremo esprimere lo stato angoscioso di un nostro protagonista invece di descriverlo nelle sue varie fasi di dolore daremo un’equivalente impressione con lo Spettacolo di una montagna frastagliata e cavernosa. I monti, i mari, i boschi, le città, le folle, gli eserciti, le squadre, gli aeroplani, saranno spesso le nostre parole formidabilmente espressive: L’universo sarà il nostro vocabolario. Esempio: Vogliamo dare una sensazione di stramba allegria: rappresentiamo un drappello di seggiole che vola scherzando attorno ad un enorme attaccapanni sinché si decidono ad attaccarcisi. Vogliamo dare una sensazione di ira: frantumiamo l’iracondo in un turbine di pallottole gialle. Vogliamo dare l’angoscia di un Eroe che perdeva la sua fede nel defunto scetticismo neutrale: rappresentiamo l’Eroe nell’atto di parlare ispirato ad una moltitudine; facciamo scappar fuori ad un tratto Giovanni Giolitti che gli caccia in bocca a tradimento una ghiotta forchettata di maccheroni affogando la sua alata parola nella salsa di pomodoro. Coloriremo il dialogo dando velocemente e simultaneamente ogni immagine che attraversi i cervelli dei personaggi. Esempio: rappresentando un uomo che dirà alla sua donna: sei bella come una gazzella, daremo la gazzella. – Esempio: se un personaggio dice: contemplo il tuo sorriso fresco e luminoso come un viaggiatore contempla dopo lunghe fatiche il mare dall’alto di una montagna, daremo viaggiatore, mare, montagna. In tal modo i nostri personaggi saranno perfettamente comprensibili come se parlassero. 2. Poemi, discorsi e poesie cinematografati. Faremo passare le immagini che li compongono sullo schermo. Esempio: «Canto dell’amore» di Giosuè Carducci: «Da le rocche tedesche appollaiate sì come falchi a meditar la caccia ... »

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Daremo le rocche, i falchi in agguato. «Da le chiese che al ciel lunghe levando marmoree braccia pregano il Signor» ... «Da i conventi tra i borghi e le cittadi cupi sedenti al suon de le campane come cucùli tra gli alberi radi cantanti noie ed allegrezze strane». Daremo le chiese che a poco a poco si trasformano in donne imploranti, Iddio che dall’alto si compiace, daremo i conventi, i cuculi, ecc. Esempio: «Sogno d’estate» di Giosuè Carducci: «Tra le battaglie, Omero, nel carme tuo sempre sonanti la calda ora mi vinse: chinommisi il capo tra ‘l sonno in riva di Scamandro, ma il cor mi fuggì su ‘l Tirreno» Daremo Carducci circolante fra il tumulto degli Achei che evita destramente i cavalli in corsa, ossequia Omero, va a bere con Aiace all’osteria dello Scamandro Rosso e al terzo bicchiere di vino il cuore di cui si devono vedere i palpiti gli sbotta fuori dalla giacca e vola come un enorme pallone rosso sul golfo di Rapallo. In questo modo noi cinematografiamo i più segreti movimenti del genio. Ridicolizzeremo così le opere dei poeti passitisti, trasformando col massimo vantaggio del pubblico le poesie più nostalgicamente monotone e piagnucolose in spettacoli violenti, eccitanti ed esilarantissimi. 3. Simultaneità e compenetrazioni di tempi e di luoghi diversi cinematografate. Daremo nello stesso istante-quadro 2 o 3 visioni differenti l’una accanto all’altra. 4. Ricerche musicali cinematografate (dissonanze, accordi, sinfonie di gesti, fatti, colori, linee, ecc.). 5. Stati d’animo sceneggiati cinematografati. 6. Esercitazioni quotidiane per liberarsi dalla logica cinematografate. 7. Drammi d’oggetti cinematografati (Oggetti animati, umanizzati, truccati, vestiti, passionalizzati, civilizzati, danzanti – Oggetti tolti dal loro ambiente abituale e posti in una condizione anormale che, per contrasto, mette in risalto la loro stupefacente costruzione e vita non umana). 8. Vetrine d’idee, d’avvenimenti, di tipi, d’oggetti, ecc. cinematografati. 9. Congressi, flirts, risse e matrimoni di smorfie, di mimiche, ecc. cinematografati. Esempio: un nasone che impone il silenzio a mille dita congressiste scampanellando un orecchio, mentre due baffi carabinieri arrestano un dente. 10. Ricostruzioni irreali del corpo umano cinematografate. 11. Drammi di sproporzioni cinematografate (un uomo che avendo sete tira fuori una minuscola cannuccia la quale si allunga ombellicalmente fino ad un lago e lo asciuga di colpo). 12. Drammi potenziali e piani strategici di sentimenti cinematografati. 13. Equivalenze lineari plastiche, cromatiche, ecc. di uomini, donne, avvenimenti,

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pensieri, musiche, sentimenti, pesi, odori, rumori cinematografati (daremo con delle linee bianche su nero il ritmo interno e il ritmo fisico d’un marito che scopre sua moglie adultera e insegue l’amante – ritmo dell’anima e ritmo delle gambe). 14. Parole in libertà in movimento cinematografate (tavole sinottiche di valori lirici - drammi di lettere umanizzate o animalizzate – drammi ortografici – drammi tipografici – drammi geometrici – sensibilità numerica, ecc.). Pittura + scultura + dinamismo plastico + parole in libertà + intonarumori + architettura + teatro sintetico = Cinematografia futurista. Scomponiamo e ricomponiamo così l’Universo secondo i nostri meravigliosi capricci, per centuplicare la potenza del genio creatore italiano e il suo predominio assoluto nel mondo. F.T. MARINETTI, BRUNO CORRA, E. SETTIMELLI, ARNALDO GINNA, G. BALLA, REMO CHITI

Milano, 11 Settembre 1916

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«Ogni sogno ogni realtà sono cinematografie del mio cervello» Arnaldo Ginna

Capitolo 2

Cinema e «poliespressività». Il secondo Futurismo Cosetta G. Saba

1. Intorno all’(in)esistenza del cinema futurista La molteplicità contraddittoria delle argomentazioni finalizzate all’espressione artistica, ai linguaggi, alle tecnologie e ai media di supporto, la pluralità delle fasi storiche, i differenti “luoghi” (Roma, Firenze, Torino, Macerata ecc.) e, da ultime ma non ultime, le persone, la soggettività delle loro poetiche (pittoriche, letterarie, musicali, teatrali, cinematografiche ecc.), nonché le sintesi estetiche che ne sono derivate (riconducibili alla teoria-prassi del “manifesto”) sono elementi che concorrono alla definizione di “Futurismi” piuttosto che del Futurismo. Così che quella che si rivela iuxta propria principia quale matrice dell’avanguardia stessa è una matrice plurale. Si tratta di un’avanguardia che ha “pensato” il cinema senza praticarlo, traslandone il potenziale linguistico-tecnologico su piani espressivi differenti e molteplici. Soprattutto per questo, il cinema futurista non esiste stricto sensu. Non solo perché mancano i film per ragioni relative alla loro perdita,1 ma anche perché ragioni connesse ai sistemi di finanziamento, di produzione e di distribuzione, che si collocavano all’esterno del circuito commerciale dell’industria cinematografica, resero pressoché impossibile la realizzazione di molti progetti, da quelli marinettiani2 a quelli di Fortunato Depero.3 Ragioni, queste ultime, poste a definizione, nella prima metà del ’900, – in molti scritti4 più o meno militanti dell’avanguardia – del «cinema indipendente» a marcarne la differenza netta dal «cinema commerciale»5 e dibattute al Congrès International du Cinéma Indépendant, organizzato da Robert Aron a La Sarraz, presso Losanna, dal 2 al 9 settembre 1929 (che vide la partecipazio-

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ne, tra gli altri, di Hans Richter, Alberto Cavalcanti, Sergej M. Ejzenôstejn )6 e successivamente, dal 27 novembre al 1° dicembre 1930, a Bruxelles.7 In tali ambiti si pose in modo evidente l’esigenza di approntare, a livello internazionale, un programma di cooperazione per la produzione di film indipendenti dalle logiche dell’industria e per il loro scambio e circuitazione tramite sale specializzate che avrebbero consentito di stabilire un contatto permanente tra i diversi gruppi europei. Forse, davvero, si è trattato di un’esigenza tardiva,8 non in grado di tradursi nella concreta attuazione degli intenti dell’avanguardia in un contesto – politico, economico e culturale in “rapido, problematico cambiamento” – che, sul piano dell’assetto industriale cinematografico, esprimeva forti trasformazioni indotte dall’impatto delle tecnologie del sonoro; mutazioni che avevano accentuato le difficoltà di sperimentazione “indipendente” e determinato di fatto l’impossibilità a sottrarsi all’influenza dell’industria. Forse, tale impossibilità – significativamente posta da Germaine Dulac a fondamento del cinema che «è un’arte e insieme un’industria»9 – determinò l’emergenza di una contraddizione irrisolvibile che riguardava la definizione stessa del concetto di “avanguardia” e dei suoi correlati, quali “ricerca espressiva”, “sperimentazione linguistica e formale”, “autonomia”. Come scrive Gianni Rondolino: Era l’ambiguità stessa del concetto di avanguardia a precludere ogni iniziativa concreta. Sicché tutto il miglior cinema di quegli anni avrebbe potuto essere incasellato, per questo o per quell’aspetto, entro gli schemi dell’avanguardia o, viceversa, taluni film chiaramente sperimentali o di ricerca avrebbero potuto rientrare tranquillamente entro i confini del cinema commerciale.10

E tuttavia la posta in gioco dell’avanguardia cinematografica del primo ’900 sembra risiedere proprio in questa inconciliabile contraddizione. Il Futurismo ne attiva il dispositivo teorico non solo introducendo un modo altro di pensare il cinema,11 ma soprattutto ponendo il linguaggio cinematografico così ripensato alla base di una “nuova estetica”.12 Giovanni Lista sostiene che «i futuristi vedevano nel cinema e nella fotografia le possibilità di un nuovo linguaggio espressivo, ma li rifiutavano come medium»;13 non si tratta tanto di una sottovalutazione, piuttosto clamorosa, dell’impatto comunicativo mediatico del cinema, quanto di una concezione estetica che, riferendosi alla complessità tecnologica e produttiva del mezzo, difficilmente si rendeva traducibile in opere concrete. Non solo. Dall’analisi delle tracce di questi film irrealizzati (scritti, studi, schizzi, disegni, fotografie ecc.), così come della teoria sottesa ai manifesti del Futurismo, emerge che in fondo il progetto è più importante dell’opera stessa: quel che sembra essere rilevante e, si direbbe, quasi programmatico è il pensiero pro-

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gettuale che può renderla possibile e che in un certo senso la rende possibile anche se solo in termini “concettuali”. Il Futurismo dunque si sostanzia di cinema progettato, pensato, immaginato ed esibisce un’assenza incolmabile, quella dei film. Il significato di tale cinematografia “virtuale” sembra risiedere proprio nello scarto tra il progetto e la sua realizzazione effettiva, nonché nella rete tematica dei “manifesti” estetici che vi sono sottesi. Nondimeno anche quando si compie non è mai compimento del progetto, ma una sua variazione, come accade sia con Vita futurista14 (1916), film perduto di cui rimangono solo pochi fotogrammi15, sia con Velocità16 (1930-31) di Tina Cordero, Guido Martina e Pippo Oriani: film ritrovato – o, meglio, “scoperto” come sottolinea Lista. Il film, come si evince da fonti d’epoca,17 quando fu presentato a Londra venne distinto in due versioni più brevi, una delle quali, per quanto attiene al montaggio, potrebbe essere attribuita a Eugène Deslaw18 con il quale Cordero e Martina collaboravano. Il cinema è pensato come “progetto” e praticato come “variazione del progetto”. Ciò evidenzia d’acchito un doppio piano: quello delle dichiarazioni programmatiche, dei “manifesti” (ma anche dei soggetti, delle sceneggiature, delle note di lavoro, degli schizzi) e quello produttivo, ossia il piano delle opere “variate”. Anche in tal senso conviene pensare questi film come “tracce” piuttosto che come testi conclusi. Del resto, in ultima istanza, la difficoltà a fare dei film, ma non a pensare il cinema, concerne tutte le avanguardie e molti artisti (con particolare inerenza ai progetti sperimentali ascrivibili all’astrattismo di Survage, Schönberg, Richter, Eggeling ecc.). Cosicché, rispetto al cinema, la differenza tra “intenti” ed “esiti” sembra essere uno dei tratti che accomuna le diverse “prime” avanguardie. Inoltre, la stessa difficoltà di definizione sub specie cinematografica del Futurismo si registra anche in relazione alle altre avanguardie storiche, le quali parimenti presentano un corpus filmico sottile dai confini labili: la trasversalità della poetica di Man Ray da sola attraversa e risolve, con Le Rétour à la raison (Ritorno alla ragione, 1923)19 ed Emak Bakia (Id., 1926), il cinema Dada e con L’Ètoile de mer (Stella marina, 1928), Le mystère du Château du Dé (Id., 1929) concorre, insieme a Un chien andalou (Id., 1928) di Luis Buñuel, alla caratterizzazione del cinema surrealista, così come del resto Le ballet mécanique (Balletto meccanico, 1923-24) di Fernand Léger definisce il cinema cubista. La stessa pluriautorialità, più o meno latente, di film quali Vita futurista, Le ballet mécanique,20 Entr’acte21 (Intermezzo, 1924) e Velocità, è forse un indicatore estetico di rilevante importanza, giacché si riferisce a percorsi artistici “diversi” e “singolari” che attraversano l’avanguardia europea e mette in campo una nuova definizione di “opera”.

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2. Mezzo cinematografico: da strumento della poliespressività a elemento dell’arte poliespressiva Il Futurismo adotta una doppia strategia enunciativa, al contempo, distruttiva e costruttiva. La pars destruens è rivolta verso la cultura italiana, con le sue istituzioni tradizionali e “passatiste” (musei, biblioteche, le città d’arte con i loro monumenti ecc.); la pars costruens è rivolta verso la “modernità” in tutte le sue forme e manifestazioni, la cui determinazione presenta il carattere di un’ideologia del nuovo, del futuro, cui sono sottese idee di progresso e di identità nazionale; idea quest’ultima retta – in chiave polemica e ottimistica – da un principio di “unicità settaria” che rivendica i propri primati e “primogeniture” ma che, al contempo, si sostanzia della ricerca di nuovi miti, che appaiono come una messa in rapporto dei diversi elementi ritenuti “progressisti” della cultura italiana ed europea. La cifra modernista è motivata in primis dalla percezione di un cambiamento profondo della «sensibilità umana» per l’incidenza della progressiva tecnologizzazione del mondo e per gli effetti che l’uso di diverse forme e differenti mezzi di comunicazione e di trasporto – quali telegrafo, telefono, grammofono, treno, bicicletta, motocicletta, transatlantico, dirigibile, aeroplano, cinematografo, nonché il «grande quotidiano ([come] sintesi di una giornata del mondo)» [“L’immaginazione senza fili e parole in libertà”, Milano, 11 maggio 1913] –, che producono un fenomeno significativo: l’accelerazione della vita, la “velocità”, il “dinamismo”. Il cinema è medium, mezzo espressivo tipico della modernità. Non solo. Esso si pone, in una prima fase, quale adeguamento percettivo alla complessità e, al contempo, come potenziamento delle facoltà sensoriali. Attraverso il circuito percezione-espressione del cinema, lo sguardo diviene, tra le modalità del sensorio, la più capace di mobilitare nell’atto creativo il contatto tra stati percettivi e comunicativi inediti, indotti dall’incipiente automatizzazione della società, dai tòpoi visivi del ritmo, delle diverse velocità e dinamismi che traducono, sub specie imaginis, lo spazio-tempo metropolitani, dai mezzi di trasporto alla fabbrica. Dal punto di vista di una storia integrata del cinema22 – vale a dire dall’analisi delle interrelazioni di più serie di fenomeni, quali «i modi di produzione, i modi di rappresentazione, le forme di consumo, il quadro istituzionale, il paesaggio mediale e il contesto socio-culturale»,23 – il Futurismo italiano assume un’evidenza tutt’altro che marginale. A cominciare dall’arco temporale piuttosto ampio che si estende dal 1909 (anno in cui è stato pubblicato il Manifesto di fondazione)24 al 1944 (anno della morte di Filippo Tommaso Marinetti) e che presenta varie articolazioni interne. Viene distinto, alla fine

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degli anni ’50, da Guido Ballo25 e da Enrico Crispolti26 in “primo” e “secondo” Futurismo a definizione di fasi prevalenti e interrelate rispettivamente nei periodi tra 1909 e il 1915 e tra il 1920 e il 1930. Nelle sue argomentazioni Crispolti porta a evidenza come il secondo Futurismo si caratterizzi per «una originale partecipazione a momenti fondamentali delle cultura europea fra le due guerre», piuttosto che rispetto «a scrupoli di continuità letterale della lezione della prima generazione».27 Ma, appunto, tra il “primo” e il “secondo” Futurismo, in Europa vi è il contemporaneo dispiegarsi delle “altre” avanguardie: Cubismo, Cubo-futurismo, Raggismo, Suprematismo, Costruttivismo, Simultaneismo, Velocismo, Vorticismo, Dada, Surrealismo… Tale contemporaneità è fatta di interferenze, influenze, contrapposizioni, differenze.28 Ma anche da un punto di contatto, ovvero il pensiero e la sperimentazione dell’arte come eversione o negazione dell’arte stessa. È proprio la radicalità estrema dell’avanguardia a implicare sempre e paradossalmente una teoria dell’arte contro l’Arte, sia che persegua un’anti-artisticità assoluta (Dada) o relativa (Futurismo, Surrealismo). Tale radicalità trova nel cinema un fattore autocontestativo o, meglio, un fattore di “s-definizione dell’Arte”. La sottile rete di relazioni intercorrenti tra “cinema” e “Futurismo” rivela la significativa problematicità dello stesso punto d’avvio di un’ipotetica cinematografia futurista. Il primo film, Vita futurista, così come il primo manifesto, “La Cinematografia futurista”29 risalgono al 1916 e sono fortemente interrelati.30 Si rileva che tale data è successiva alla pubblicazione del fondamentale “Ricostruzione futurista dell’universo”31, manifesto (firmato da Giacomo Balla e Fortunato Depero) che segna tanto il nuovo corso del ”movimento”, quanto la risoluzione di una fase prima. Per quanto attiene alla fase successiva, ciò che dev’essere ancora acclarato è se il “cinema” semplicemente s’inscriva nella cornice del secondo Futurismo o se più radicalmente concorra alla sua determinazione. Comunque sia, di cruciale importanza è la valenza estetica attribuita alla tecnica e alle forme espressive costitutivamente “tecnologiche”. Si tratta di uno snodo decisivo per le arti visive: pertiene alla scoperta della “dimensione concettuale” dell’immagine, che viene definita dal Futurismo in termini di “astrazione”, e al superamento della logica della rappresentazione, che la tecnica cinematografica consente. Il manifesto della “Ricostruzione futurista dell’universo” delinea il passaggio teorico del movimento da una fase in cui l’attenzione estetica, nonostante le molte aperture, risulta orientata ancora verso le singole arti – soprattutto verso la pittura, la scultura e la letteratura – a un’altra fase in cui si enuncia il concetto di sconfinamento dell’arte non solo da questi singoli ambiti, oltre i limiti istituzionali degli “specifici” artistici, ma teorizza il debor-

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damento dell’arte tout court fuori dai quadri istituzionali elaborati dalla tradizione occidentale. Ciò determina una radicale ridefinizione dei “luoghi” e delle pratiche sociali dell’arte a essi ascrivibili attraverso il libro, la sala da concerto, la sala cinematografica, il “teatro” (quest’ultimo pensato non solo come spazio scenico, ma anche come spazio architettonico – come enunciato, ad esempio, nel manifesto “Teatro totale ‘per masse’”32 riferito ai principi architettonici di Antonio Sant’Elia). La produzione delle opere (d’arte), programmaticamente, tende a rendere problematico il quadro di tali ambiti o “luoghi” di valore estetico, tematizzando il momento della fruizione quale momento intrinseco all’opera stessa.33 La lunga teoria dei “manifesti” è proiezione di uno schema ideologico in progress a partire dal quale il Futurismo intende ritematizzare (risemantizzare?) il mondo e l’arte (pittura, scultura, letteratura, teatro, danza, musica, fotografia, cinema, radio; ma anche design, pubblicità, moda, cucina ecc.). L’ampiezza delle sperimentazioni e della diffusione geografica con le note aperture ed estensioni transnazionali34 e i radicamenti nazionali a Milano, Roma, Firenze, Torino, Macerata, Padova35 ecc., nonché l’estensione cronologica del Futurismo, pongono il 1916 (come si è detto, anno di pubblicazione del primo manifesto “La Cinematografia futurista”) e il 1938 (anno di edizione dell’ultimo manifesto “La Cinematografia”) quali terminus a quo e terminus ad quem del discorso che il Futurismo propriamente adduce alla teoria del cinema. Gli argomenti del Manifesto del 1916 costituiscono il focus principale del pensiero futurista sul cinema, la cui elencazione in punti programmatici è ripresa nel Manifesto del 1938 con importanti integrazioni, secondo la consueta pratica della riformulazione attraverso il montaggio tematico e il rilancio continuo degli assunti36 in una fitta rete di richiami e di rimandi intertestuali agli altri manifesti. La continua ridefinizione dell’idea di cinema che il Futurismo ha perseguito, soprattutto in modo indiretto, porta a evidenza la complessità e le contraddizioni del concetto di modernità che vi è sotteso. La presenza del cinema nel progetto estetico futurista è in effetti solo apparentemente ambigua. Da un lato, si pone quale «possibilità di un’arte eminentemente futurista e mezzo di espressione più adatto alla plurisensibilità di un artista futurista».37 Ma dall’altro, nonostante la breve esistenza del cinema potesse far pensare al mezzo di per sé come già intrinsecamente futurista, il suo recente passato e la sua recente tradizione ne facevano invece un «teatro senza parole» che «ha ereditate tutte le più tradizionali spazzature del teatro letterario».38 Si tratta di due fasi distinte. [1] Prima dell’avvento del sonoro, il programma futurista mirava a «liberare il cinematografo come mezzo di espressione per farne lo strumento ideale per una nuova arte immensamente più vasta

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e più agile di tutte quelle esistenti». In una prima fase dunque, il Futurismo pensa al cinema in quanto «[…] solo per mezzo di esso si potrà raggiungere quella poliespressività verso la quale tendono tutte le più moderne ricerche artistiche», cosicché «nel film futurista entreranno come mezzi di espressione gli elementi più svariati: […] pittura, architettura, scultura, parole in libertà, musica di colori, linee e forme, accozzo di oggetti e realtà caotizzata».39 Per quanto pertiene al potenziale tecnico-linguistico «tutte le immense possibilità artistiche del cinematografo sono dunque assolutamente intatte».40 [2] Ma, successivamente, per quanto attiene alla sua recente tradizione e a fortiori dopo l’introduzione del sonoro – come dichiarato nel “Manifesto del teatro radiofonico (Radia)” del 1933 – il cinema è dato come agonizzante. Il cinema tout court perde quindi la propria centralità estetica e diviene sic et simpliciter un componente, un mezzo di espressione tra gli altri. Detto altrimenti, in un primo momento, sulla lignée delle prime teorie (Ricciotto Canudo ecc.), il cinema è pensato come «un’arte a sé». Non solo, in questa prima fase del progetto estetico futurista il cinema diviene il mezzo che crea la poliespressività o, meglio, quella «sinfonia poliespressiva» già annunciata nel manifesto “Pesi, misure e prezzi del genio artistico” (1915). Nel Manifesto del 1916, l’ultimo punto programmatico, il punto 14, si conclude con: «Pittura + scultura + dinamismo plastico + parole in libertà + intonarumori + architettura + teatro sintetico = Cinematografia futurista», sommatoria significativamente cassata dall’interpolazione al punto 22 del Manifesto del 1938. Qui, in una seconda fase dell’azione estetica futurista, il cinema diviene un semplice componente e non l’elemento determinante della poliespressività. Marinetti e Ginna scrivono: «Noi principiamo a creare una nuova arte, la POLIESPRESSIVITÀ, fusione di tutte le arti, arte che nasce con noi, assolutamente italiana». L’estetica della poliespressività se da un lato si relaziona al simbolismo (aspetto tràdito), dall’altro istituisce un sistema di rapporti espliciti tra le diverse arti (aspetto inedito) e pone con insistenza il tema dell’interazione tra i linguaggi, ma non perviene fino in fondo all’elaborazione di una teoria dell’“interespressività” (“intercodificazione”); tematizza semmai trasmigrazioni dalla pittura, dal teatro, dalla letteratura, dalla scultura ecc., ovvero mette in moto processi di interazione tra diversi linguaggi dell’arte. La poliespressività non è pensata come un metodo, una tecnica espressiva, bensì come un mezzo d’espressione, come «una nuova arte» e il cinema è un modo linguistico e insieme un materiale funzionale alla resa dei processi estetici innescati nell’arte dalle tecniche di riproduzione. Il cinema è pensato come progetto artistico, essenzialmente come strategia progettuale interferente rispetto alle altre arti. Jean Mitry – in Storia del cinema sperimentale (1971) – scriveva che, nel

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primo Manifesto della cinematografia futurista, Marinetti «enunciava verità che il peggior film americano aveva reso evidenti ormai da parecchi anni (simultaneità delle azioni, movimento nello spazio e nel tempo, significato degli oggetti, primi piani ecc.)».41 È un’asserzione che dà da pensare. Rileva un certo ritardo della teoria cinematografica futurista e, al contempo, proprio per questa stessa ragione, non coglie la tangenza del cinema quale elemento costitutivo del concetto di “poliespressività”, che produce la crisi dei singoli linguaggi dell’arte e non solo. Infatti, il Futurismo è la prima avanguardia che mira a una trasformazione della cultura in senso antropologico, in chiave estetica e, per così dire, “multimediale” o meglio poliespressiva. Il modernismo – le innovazioni tecniche, le macchine e i meccanismi industriali, una certa idea di “progresso” lineare e prospettico – si collega a una “ideologia” e ad un’azione “politica”42 che si esprime attraverso la forma del “manifesto”43 e che pone al centro delle proprie molteplici e differenti attività la sperimentazione della continuità tra l’arte e la vita, già tematizzata dall’estetica inglese di fine ’800. Ma tale continuità è modellata sul confronto continuo tra i linguaggi e la presenza delle macchine. E il cinema è insieme linguaggio e macchina espressiva. Il Futurismo, come sottolinea Maurizio Calvesi, «è il primo movimento d’avanguardia che si presenta con caratteri non specificatamente orientati in un singolo settore di attività, ma come proposta integrale di rinnovamento della cultura e del comportamento stesso […]».44 Calvesi evidenzia anche che «un po’ tutti i fenomeni di sconfinamento e contaminazione dell’opera d’arte trovano infatti un precedente nel Futurismo: l’environment, il propagarsi della funzione artistico-espressiva dall’opera isolata ad un intero ambiente (si pensi ad esempio alle “camere tattili” di Marinetti), l’happening, la “poesia visiva”, l’integrazione sonora e “rumoristica” dell’opera figurativa».45 3. Precorrimenti e anticipazioni Il superamento dei limiti degli specifici artistici è un precorrimento del Futurismo che avrà un’influenza determinante sulla cultura contemporanea europea la quale, proprio per quanto attiene alla presenza dei movimenti dell’avanguardia, si appresta a divenire irriducibile a schemi interpretativi aprendosi a percorsi di ricerca complessi che appaiono “comunicanti per infinite vie”, ancorché in modi differenti. Le avanguardie storiche pensano la soppressione dei limiti dell’estetico in direzione di una portata metafisica (il concettualismo sotteso a Dada) o storico-politica dell’opera (la conciliazione tra “Freud” e “Marx” pensata dal Surrealismo), anche quando la negano.

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Ma va rilevato però che le avanguardie post-futuriste quali il Dadaismo e il Surrealismo, che intrattengono complicate relazioni di derivazione e opposizione (significativamente evidenti nella “Soirée du Coeur à Barbe”),46 non si pensano in quanto avanguardie. La loro asistematicità si collega strettamente, e polemicamente, al rifiuto di qualsiasi principio estetico. Nessuna teoria per Dada, solo l’assoluto rifiuto delle «accademie cubista e futuriste: laboratori di idee formali».47 Così che le opere non sono in alcun modo “saggi estetici”, bensì delle anti-opere, opere decostruttive, mirate alla distruzione di un certo modo di “pensare” e di “vedere”. Ma questo “certo modo” di pensare e di vedere non riguardava solo e soltanto il cinema commerciale e popolare, o meglio non lo riguardava in toto48, ma concerneva propriamente il cinema d’arte e “colto”. Furono soprattutto i film di Marcel L’Herbier, di Abel Gance, di Jean Epstein, di Dulac a essere fatti oggetto di contestazione. Tuttavia è pure evidente l’interferenza, la confluenza tra questo cinema “contestato” e il cinema “contestante” dell’avanguardia: nel 1923 Claude Autant-Lara diresse Fait divers (Fatto di cronaca) che da un lato richiamava stilemi espressivi riconducibili al Manifesto futurista del 1916 e dall’altro introduceva un’iconografia dello spazio urbano poi ricorrente nei film d’avanguardia. In Francia, Léger partecipò alla realizzazione de La Roue (La rosa sulle rotaie, 1922) di Gance e a L’Inhumaine (Futurismo, 1923) di L’Herbier; in Italia, qualche anno prima, Enrico Prampolini curò il décor di Thaïs49 (1916) e di Perfido incanto (1916, film perduto) di Anton Giulio Bragaglia; Antonin Artaud scrisse lo “scenario” de La coquille et le clergyman (La conchiglia e il sacerdote, 1927) e il film, diretto dalla Dulac fu oggetto, nel febbraio 1928, di una memorabile contestazione allo Studio delle Ursulines. In Europa il cinema è uno dei campi in cui si rivelano particolari aspetti delle avanguardie storiche dagli anni ’20 ai primi anni ’30. Il cinema sperimentale diviene infatti un punto di convergenza temporanea, un polo attrattivo – e non solo per i movimenti d’avanguardia stricto sensu – dove è possibile intravedere un fenomeno di interazione in cui le poetiche s’intersecano, interferiscono, sconfinano e si producono in una sorta di koiné. L’anticipazione fondamentale del Futurismo sembra consistere nel progetto di sovvertire e destituire il sistema di rappresentazione radicatosi iuxta propria principia nella tradizione delle diverse arti; progetto successivamente condiviso, anche se per vie diverse, dalle altre avanguardie. Gli intenti antinarrativi, antidescrittivi, antirealistici hanno una valenza dirompente. Il cinema quale tecnica espressiva e il film quale forma sperimentale divengono una sorta di cartina tornasole degli intenti anti-artistici perseguiti dal Futurismo proprio perché in grado di opacizzare il rinvio segnico per mezzo dell’utilizzo di analogie visive e concettuali poste al limite, sospese tra un senso letterale e un senso metaforico. La posta in gioco del cinema futurista sem-

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bra risiedere nella coesistenza del figurativo e dell’astratto. Le «analogie cinematografate» sono tematizzate attraverso l’uso della «realtà direttamente come uno dei due elementi dell’analogia»; l’altro elemento è invece immaginario, fantastico; la messa in relazione di tali termini restituirà la sensazione che si vuole dare: un processo d’astrazione della realtà, trasfigurazione “dell’immediato dato realistico”. Attenzione fortissima è stata data al concetto di decontestualizzazione dei suoni50 e delle immagini come degli oggetti in immagine: «oggetti cinematografati (oggetti animati umanizzati truccati vestiti passionalizzati civilizzati danzanti oggetti tolti dal loro ambiente abituale e posti in una condizione anormale che per contrasto mette in risalto la loro stupefacente costruzione e vita non umana)», come si legge nel Manifesto del 1916, punto programmatico successivamente ripreso nel Manifesto del 1938. È attraverso il tema dell’oggettualità che l’estetica del Futurismo incrocia l’altra avanguardia cinematografica. La decontestualizzazione degli oggetti, investiti da nuove modalità di relazione, è uno dei principi che regolano il movimento meccanico delle immagini e della forza invisibile che li muove in Le ballet mécanique di Léger. Gli oggetti – colletti inamidati, cappelli, cravatte, tazzine di caffè ecc. – in rivolta «contro la banale monotonia della loro vita»51 sono visualizzati da Hans Richter in Vormittagsspuk (Fantasmi del mattino, 1928); oggetti che, in Emak Bakia di Man Ray, attestano una autonomia defunzionalizzata. A proposito dell’influenza della poetica dell’oggettualità, è impossibile non citare l’operazione estetica Dada che nel 1913 Marcel Duchamp compie nell’esporre una ruota di bicicletta in una galleria d’arte; operazione risolta in un puro atto di decontestaulizzazione; atto ironico ma, soprattutto, preminentemente concettuale. Inoltre, nella poetica dell’oggettualità è riconoscibile una procedura di straniamento, che richiama Lautrémont, rinvia ad ô Apollinaire (Le mammelle di Tiresia, 1917) e rimanda alle teorie di Sklovskij (in particolare al concetto di ostranènie e alla rilevanza che assume in Teoria della prosa, 1925). La poetica degli oggetti è uno dei temi teorici del già citato Velocità (1930-31),52 unico film futurista visibile, che viene dopo tutto, dopo la rivoluzione espressiva portata dalle prime avanguardie e perviene alla ridefinizione dell’estetica del movimento alla luce di quanto l’avanguardia storica europea aveva già dato al cinema e all’arte e che si evidenzia nella fitta trama intertestuale di cui il film si compone (Le ballet mécanique, Emak Bakia, Vormitô s Kinoapparatom [L’uomo con la tagsspuk ecc. ma anche Fait divers e Colovek macchina da presa, 1929] di Dziga Vertov). Il dispositivo iconico messo in atto richiama Richter, il cinema d’animazione, certo Méliès, Cohl e la cinematografia pubblicitaria. Richiama la fotodinamica, in particolare la Dattilografa (1911) di Anton Giulio e Arturo Bragaglia, e soprattutto convoca tra gli

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oggetti le sculture di Mino Rosso (Architettura femminile [1928], Giocatori di palla ovale [1930] e Uomo in movimento [1930]), le ceramiche di Tullio D’Albisola e i quadri di aereopittura di Oriani e Nicolay Diulgheroff. Il film mira a mostrare gli oggetti investiti da una forza decontestualizzante, straniante che è propriamente quella della visione cinematografica. Non tanto nella direzione tracciata da Marinetti nel “Manifesto tecnico della letteratura futurista” (1912): «Il cinematografo ci offre la danza di un oggetto che si divide e si ricompone senza intervento umano». Quanto nel verso dell’oggettualizzazione dello stesso sguardo cinematografico, derivato dalla mediazione fondamentale ed esclusiva della m.d.p. e correlato al concetto complesso di soggettività, come posizionamento dello spettatore al centro dell’immagine, che il Futurismo (da Boccioni in poi) è andato via via elaborando. Velocità sembra svolgere il proprio discorso intorno al rapporto complesso che il cinema introduce tra oggettività e soggettività. Il modo enunciativo a tratti autoriflessivo è prossimo a quello impiegato, secondo procedure radicalmente metalinguistiche, da Deslaw in Autour de La fin du monde (1930)53. Ciò si rende evidente tutte le volte in cui lo sguardo meccanico del cinema, o meglio quello di una cinepresa multi-obiettivo Debrie Parvo, puntato in oggettiva verso lo spettatore si trasforma in visione soggettiva (della cinepresa) marcata dalla variazione focale e dallo scorrimento a scatti, in verticale, dei fotogrammi. Gli oggetti “ordinari”, della quotidianità e “non ordinari”, artistici (le sculture, i quadri) in Velocità sono fondamentali, ma non assurgono affatto al ruolo di personaggio, sono puri elementi compositivi delle immagini. L’inquadratura è “risultante plastica di oggetto e ambiente” solo attraverso il movimento. Gli oggetti, a differenza di quanto accade ne Le ballet mécanique, non «si mutano in forme astratte»; essi mantengono la loro identità e concretezza, nonostante perdano la loro funzione, e posti in un contesto altro, fortemente simbolico, sviluppano relazioni inedite e inaspettate, assumono una valenza ludica e sottilmente narrativa. Vi è tuttavia un processo di astrazione, ma nell’accezione ritmica che Deslaw attribuiva a questo termine, così che «il cinema astratto è il cinema ritmico».54 Frazioni di movimento si manifestano in unità cinetiche, derivate dall’opposizione fondamentale animato-inanimato, e riguardano le diverse velocità tra movimento portato sull’oggetto e movimento levato, estratto, astratto dall’oggetto. Ciò produce il passaggio dal concreto all’astratto indipendentemente dai caratteri figurativi degli oggetti. Portare il movimento sugli oggetti, dare del movimento agli oggetti è realizzare ciò che Léger definiva un «événement plastique» autoreferente, completamente svincolato dalla rappresentazione, dal ricercare ciò che essa rappresenta o può rappresentare. Il movimento trascina, porta e scompone sub specie cinematografica le forme secondo diverse velocità, nei

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suoi ritmi lenti o rapidi, variati o ripetuti. Ciò definisce nel complesso una situazione visiva simile a quella de La Femme qui monte l’escalier (inquadratura montata ad anello ne Le ballet mécanique) dove, come nota Siegfried Kracauer, «in realtà quel che guardiamo […]» è «il movimento del salire in se stesso».55 4. “Futurismo” nel cinema Se non esiste un cinema futurista stricto sensu, esiste tuttavia il “Futurismo” nel cinema; attraverso l’estetica futurista divengono filmabili le macchine, i “dinamismi plastici”, i loro ingranaggi, gli spazi metropolitani, ma fuori da una dimensione tradizionalmente documentaristica; vengono semmai rifondati i modi enunciativi del documentario. Si delinea così una sorta di flessibilità e indeterminatezza intergenere tra documentario a carattere finzionale, film artistico, film industriale e film pubblicitario. Si precisa l’intertestualità di temi e motivi iconografici anche nel cinema narrativo tout court che riguardano l’estetica delle macchine, l’integrazione cinema-pittura attraverso l’immagine-movimento e lo straniamento onirico. L’estetica delle macchine è resa cinematograficamente attraverso la via dell’astrattismo (ripresa dalle ricerche di Ginna e Corra e riformulata ad esempio nel film di musica visualizzata La gazza ladra56 [1934] attribuita a Corrado D’Errico) e la via figurativa, quest’ultima con precisi caratteri narrativi e commentativi: Acciaio (1933) di Walter Ruttmann, tratto da un scritto originale di Luigi Pirandello; I cantieri dell’Adriatico (1933) di Umberto Barbaro sugli stabilimenti navali di Monfalcone. L’estetica delle macchine si manifesta in particolare nell’attenzione allo spazio metropolitano investito dai tempi e dai ritmi della modernizzazione e si traduce nella composizione diegetica di “paesaggi urbani”. Non a caso, Duchamp definì il Futurismo come “impressionismo urbano”. In Stramilano57 (1929), attribuito a D’Errico (sul modello di Berlin, Die Sinfonie der Großstadt [Berlino, Sinfonia di una grande città, 1927] di Ruttmann) Milano, come Berlino, è ritratta nell’arco di una giornata anche se la linearità cronologica è disattesa dall’ordine in cui sono presentati “luoghi” e “tempi”. Il film si sviluppa per “capitoli di vita quotidiana” e la strategia enunciativa si avvale di un impianto prevalentemente descrittivo e commentativo. Leonardo Quaresima58 evidenzia come Stramilano possa essere ricondotto in modo diretto al Futurismo. Per un doppio ordine di motivi. Il primo riferito a quanto indicato dai titoli di testa «Presentato da Za Bum». Si tratta del marchio di una serie di produzioni di spettacoli di varietà realizzati tra il 1928 e il 1934 da Mario Mattòli e Luciano Ramo. Ciò lascerebbe supporre la

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proiezione del film nell’ambito degli spettacoli di teatro di varietà (che la compagnia Za Bum teneva al Nuovo Teatro Excelsior di Milano) secondo una teoria-prassi enunciata nel Manifesto del 1913. Il secondo, riferito al concetto di poliespressività, consentirebbe di ricondurre Stramilano al programma estetico de “La Cinematografia futurista” (1916) rilanciato nel Manifesto del 1938. Andrebbe anche considerata l’ipotesi59 che Stramilano si definisca in una sorta di genere cinematografico, composto appunto da “elementi più svariati” in qualità di “mezzi di espressione”, al quale sono riconducibili i primi tre numeri della Rivista LUCE.60 È possibile evidenziare un contatto con i repertori visivi delle avanguardie e con film quali La roue di ô s Gance, Thèmes et variations (Temi e variazioni, 1928) di Dulac, di Celovek Kinoapparatom di Vertov, nonché con i modi enunciativi dei film documentari anche in chiave anticipativa (Il ventre della città di Francesco Di Cocco [1932]). Immediato inoltre il rinvio intertestuale a certi passaggi de Gli uomini, che mascalzoni! (1932) di Mario Camerini; in particolare all’incipit, alla sequenza del viaggio ad Arona, alla sequenza della Fiera campionaria; e più in generale alla rappresentazione dello spazio urbano marcato dalla presenza massiccia della pubblicità. Del resto è il Futurismo degli anni ’30 a porre un’attenzione estetica sulla pubblicità, sino a pensarla come arte dell’avvenire. Depero afferma, ne “Il futurismo e l’arte pubblicitaria” (1930), che «l’arte dell’avvenire sarà potentemente pubblicitaria». Sono tantissime le tracce sia tecnico-linguistiche sia iconografiche dell’estetica futurista nel cinema. Si pensi, tra gli altri, ne la O la borsa o la vita61 (1933) di Carlo Ludovico Bragaglia, alla sequenza della Borsa (che richiama peraltro L’Argent [Il denaro, 1928] di L’Herbier), alla sequenza del volo aereo, all’innesto surreale della sequenza onirica. Il cinema d’avanguardia, come sostiene Rondolino, molto aveva dato al cinema di consumo e molto quest’ultimo aveva preso dal primo «utilizzando o reinterpretando moduli formali, ricerche espressive, sperimentazioni tecniche, allargando i campi di indagine, coinvolgendo il pubblico (non solo d’élite) in una nuova dimensione spettacolare»62 nella quale, peraltro, giocano un ruolo fondamentale i primi cineclub. Alberto Farassino63 rileva come in Europa, negli anni della transizione dal muto al sonoro, «al di là dei risultati stilistici di alcuni grandi autori, mobilità professionale e cosmopolitismo culturale producano un linguaggio transautoriale» che è stato definito «international style»: Forse mai come in questo periodo ha funzionato l’incontro fra la “volgarizzazione” delle avanguardie e la tendenza alla stilizzazione delle forme operante nella cultura di massa. Le avanguardie introducono nel linguaggio standard il montaggio ultrarapido (definito “montage” tout court)» per le scene concitate di movimento, lo sfrecciare di treni e automobili, il rapido succedersi di even-

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ti e sensazioni. Ma anche le illuminazioni contrastate ed “espressioniste”, le dissolvenze e le sovrimpressioni […], le angolazioni ardite e i movimenti di macchina violentemente espressivi, l’uso dello schermo come superficie articolabile e ritagliabile.64

Nella rete intricata e sottile dei film delle avanguardie e delle loro teorie si profila in nuce il “cinema europeo”. In questa storia costituenda e transnazionale il Futurismo ha la propria incidenza, non fosse altro in quanto avanguardia che ha teorizzato e praticato al contempo la “secolarizzazione” e la “continuità” dell’avanguardia tout court.

NOTE 1

Come accade a Vita futurista (1916) il primo «film futurista» definito così nel sottotitolo e attestato come «il primo film italiano della cinematografia di avanguardia» nel manifesto “La Cinematografia” del 1938 firmato da Tommaso Filippo Marinetti e da Arnaldo Ginna e pubblicato in “Bianco e Nero”, II, n. 4, Roma, 1938 e ripreso in “Gazzetta del popolo” di Torino e in conferenze e altri scritti di Marinetti. Spesso alla “perdita” si aggiunge anche il disconoscimento da parte del movimento futurista verso film che pure, per vari motivi, vi si richiamavano; come ad esempio i film astratti (1911) di Arnaldo Ginna e Bruno Corra o Mondo Baldoria (1914) di Aldo Molinari o, ancora, Thaïs (1916, visibile) e Il perfido incanto (1916, disperso) di Anton Giulio Bragaglia. 2 In chiave esemplificativa: Velocità (1916-17) è il titolo di un film progettato da Marinetti e mai realizzato [cfr. G. Lista, Un inedito marinettiano: ‘Velocità’, film futurista, in “Fotogenia”, n. 2, 1996, pp. 6-25]. Mani (1933) è il progetto di un film irrealizzato di Prampolini, il quale al Congrès Internationale du Cinéma Indipéndant aveva annunciato per il 1929 l’uscita di due suoi film, Rivolta dello schermo e La salamandra (su sceneggiatura di Pirandello) nonché l’uscita di Tremila, un film di Marinetti. La cinematografia irrealizzata del Futurismo presenta una notevole documentazione iconografica, testi scritti scenari, note lavoro ecc. 3 Tra i progetti irrealizzati: Il Futurismo italianissimo (1926), Equatore (1928), New York Film Vissuto (1928), Autofilm (1928), Gloria conquistata (1932-1933). 4 Cfr. P. Bertetto (a cura di), Il cinema d’avanguardia 1910 – 1930, Marsilio, Venezia, 1983. 5 Cfr. Germaine Dulac, “Il cinema d’avanguardia. Le opere cinematografiche d’avanguardia: il loro destino rispetto all’industria del film e al pubblico”, in Il cinema d’avanguardia 1910-1930, a cura di P. Bertetto, Marsilio, Venezia, 1983, pp. 283-293. 6 Cfr. “Appendice n. 1. Il Congresso Internazionale del Cinema Indipendente a La Sarraz (1929)” in Mario Verdone, Poemi e scenari cinematografici d’avanguardia, Officina, Roma, 1973, pp. 361-384; cfr. F. Albera, Avanguardie, Il Castoro, Milano, 2004. 7 Cfr. G. Rondolino, “La fine dell’avanguardia”, in Cinema d’avanguardia in Europa (dalle origini al 1945), a cura di P. Berretto e S. Toffetti, Il Castoro, Milano, 1996, pp. 131-139. 8 Cfr. G. Rondolino, op. cit., 1996.

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G. Dulac, Il cinema d’avanguardia, cit., 1996, p. 283. G. Rondolino, op. cit., 1996, p. 138. 11 Cfr. P. Bertetto, op. cit., 1983, pp. 32-35. 12 Cfr. R. Jakobson, Futurizm, in “Iskusstvo”, n. 7, 1919; rieditato parzialmente in C. G. De Michelis (a cura di), Il futurismo italiano in Russia 1909-1929, De Donato, Roma, 1973; cfr. E. Bruno, La « nuova estetica » del futurismo, in “Filmcritica”, n. 241, 1974, pp. 17-21. 13 G. Lista, Cinema e fotografia futurista, Skira, Milano, 2001, p. 12. Tale rifiuto è un esito della strenua opposizione esercitata da Boccioni rispetto all’uso delle tecniche cinematografiche e fotografiche e delle loro implicazioni estetiche. In particolare, furono oggetto di contestazione ed esclusione dal movimento futurista sia la cine-pittura di Bruno Corra e Arnaldo Ginna che il fotodinamismo di Anton Giulio Bragaglia. Per quanto attiene alla teoria del “fotodinamismo”, nonché al complesso rapporto che Bragaglia intrattenne con il Futurismo, si rimanda ad A. G. Bragaglia, Fotodinamismo Futurista, Einaudi, Torino, 1980. Per le sperimentazioni cinematografiche “protofuturiste” di Ginna e Corra, il cui presupposto teorico era la sinestesia con derivazioni simboliste, si veda M. Verdone (a cura di), Manifesti futuristi e scritti teorici di Arnaldo Ginna e Bruno Corra, Longo, Ravenna, 1984. 14 Film senza sceneggiatura che si definisce nella testimonianza di Ginna come un filmperformance: «Le mie idee espresse in numerosi appunti contenuti in un libretto costituirono una specie di piattaforma su cui avrei dovuto costruire lo svolgimento del film. Invece, in pratica, si preferì ricorrere al metodo dell’improvvisazione. […] Così la lavorazione andò avanti a forza di immediati colpi di scena su ciò che dovevamo porre in opera: scelta degli attori, dei luoghi dove bisognava girare i pezzi del film, mezzi tecnici, provini, sviluppo, stampa, montaggio ecc.». A. Ginna, Le vicende di un film, in “Secolo d’Italia”, 21 febbraio 1969, Roma. Cfr. I. Innamorati, Peripezie di una pellicola d’avanguardia, “Quaderni di teatro”, anno IX, n. 36, maggio 1987, pp. 51-61. 15 Pubblicati quale documento iconografico dell’interessante saggio critico di J. Comin, Appunti sul cinema d’avanguardia, “Bianco e Nero”, I, n. 1, gennaio 1937-XV, pp. 6-33; due fotogrammi di Vita futurista sono stati riprodotti in M. D. Gambillo, T. Fiori (a cura di), Archivi del Futurismo, De Luca, Roma, 1958, vol. II, p. 498, nn. 16 e 17. 16 La copia di Velocità è conservata presso il National Film and Television Archive di Londra e risulta, dalla scheda d’archivio, provenire dalla Film Society. Lo schema di sceneggiatura non datato e intitolato Vitesse (con note di Pippo Oriani) non corrisponde in alcun modo alla copia ritrovata. È stato pubblicato da E. Crispolti ne Il mito della macchina, Trapani, Celebes, 1969 e ripreso in M. Verdone, Poemi e scenari cinematografici d’avanguardia, cit., pp. 306-318. 17 Lista rileva come dalla corrispondenza della “Futurista Film Paris” – che Cordero e Martina intrattennero con Ivor Montegu, tra aprile e maggio del 1931, per la presentazione di Velocità al Tivoli Palace di Londra (3 maggio 1931) organizzata dal cineclub Film Society – si evinca in un primo momento (lettera del 12 aprile 1931) che il film è muto, la lunghezza è di 650 metri e che risulta venduto in esclusiva per la Svizzera, l’Olanda, la Svezia, la Spagna e la Cecoslovacchia; e come, in un secondo momento (lettera del 20 aprile), annunciando l’avvenuto invio della pellicola a Londra, Martina riferisce della riduzione del film, rispetto la lunghezza originaria, a 400 metri «per ragioni artistiche». Lista sostiene che: «Le affermazioni di Oriani, che parlava di una pellicola di 90 minuti da cui Deslaw avrebbe tratto una versione di 45 minuti, non sono affatto confermate da queste lettere. Deslaw non viene menzio-

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nato e la riduzione del film sarebbe stata realizzata nel giro di una settimana. È invece possibile che Cordero e Martina abbiano solo effettuato dei tagli per rendere più incisiva la copia del film che doveva essere presentata a Londra». G. Lista, op. cit., 1996, pp. 97-98. 18 Nello schema di sceneggiatura elaborato da Oriani la produzione è attribuita a Cordero e Martina (che appunto avevano fondato la casa di produzione Futurista Film), la scenografia a Oriani, il montaggio a Deslaw e la regia a Cordero, Martina e Oriani. Martina e Cordero a Torino erano in contatto Alberto Sartoris redattore de “La Città futurista”; Sartoris ricevette l’incarico da Rober Aron di formare la delegazione italiana che avrebbe prendere parte al congresso di La Sarraz. 19 Cfr. P. Bertetto, L’avanguardia cinematografica: tecnologia e dialettica del valore, in “Filmcritica”, n. 251, gennaio-febbraio 1975. 20 Di Fernand Léger e Dudley Murphey. Ballet mécanique è un caso esemplare di “molteplici originali o testimoni diretti”. Cfr. Giorgio Manduca, “La lavandaia sulle scale. Una nota filologica al Ballet Mécanique”, in P. Bertetto, S. Toffetti (a cura di), op. cit., 1996, pp. 311-319. 21 René Claire dirige il film che però è appunto un intermezzo dello spettacolo Relâche di Francis Picabia; la partitura musicale è di Satie; Duchamp e Man Ray vi partecipano. 22 F. Casetti, “Teorie del cinema. Dal dopoguerra agli anni sessanta”, in Storia del cinema mondiale, Einaudi, Torino, 2001, pp. 519-540. 23 F. Casetti, op. cit., 2001, p. 537. 24 Nel “Manifesto del Futurismo”, pubblicato a Parigi, su “Le Figaro” il 20 febbraio 1909, il cinema non è menzionato, ma il tema della “velocità” in qualche modo lo sottende. Nel “Manifesto tecnico della letteratura futurista” (1912) Marinetti scrive che: «Il cinematografo ci offre la danza di un oggetto che si divide e si ricompone senza intervento umano. Ci offre anche lo slancio a ritroso di un nuotatore i cui piedi escono dal mare e rimbalzano violentemente sul trampolino. Ci offre la corsa d’un uomo a 200 chilometri all’ora. Sono altrettanti movimenti della materia, fuor dalle leggi dell’intelligenza e quindi di una essenza più significativa». Un ulteriore richiamo al cinematografo è posto nel “Manifesto del Teatro di Varietà” (1913). 25 G. Ballo, Pittori italiani dal Futurismo a oggi, Mediterranea, Roma, 1956. 26 E. Crispolti, Appunti sul problema del Secondo Futurismo nella cultura italiana tra le due guerre, in “Notizie”, a. II, n. 5, aprile 1958. 27 E. Crispolti, Il Secondo Futurismo: 5 pittori + 1 scultore, Torino 1923 – 1938, Pozzo, Torino, 1962, p. I. Cfr. G. Bartorelli, Numeri innamorati. Sintesi e dinamiche del secondo futurismo, Testo&Immagine, Torino, 2001. 28 Cfr. A. Costa, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino, 2001. 29 Firmato da Marinetti, Bruno Corra, Emilio Settimelli, Arnaldo Ginna, Giacomo Balla e Remo Chiti e apparso “L’Italia Futurista”, n. IX, 11 settembre 1916. 30 Cfr. I. Innamorati, Peripezie di una pellicola d’avanguardia, “Quaderni di teatro”, anno IX, n. 36, maggio 1987, p. 62. 31 Editato l’11 marzo 1915. Cfr. L. Scrivo (a cura di), Sintesi del Futurismo. Storia e documenti, Bulzoni, Roma, 1968, pp. 124-126. 32 Il testo di Marinetti è stato pubblicato nel 1933 dal periodico “Futurismo” (15 gennaio, n. 13, anno II) e dall’Almanacco letterario Bompiani” e successivamente ripreso in L. Scrivo, op. cit., 1968, pp. 199-201. Dagli archivi marinettiani è stata ricuperata una prima stesura del testo editato da Scrivo, ora pubblicata in M. Verdone, Il Futurismo, Newton&Compton, Roma, 2003, pp. 82-89.

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135 33 Il Futurismo pensa a una ricezione attiva, come esemplificato dalla strategia comunicativa sotteso alle “serate”. Cfr. U. Artioli, La scena e la dynamis, Pàtron, Bologna, 1975, pp. 2123; cfr. P. Fossati, La realtà attrezzata. Scena e spettacolo dei futuristi, Einaudi, Torino, 1977. 34 Per quanto attiene alla ricezione e all’estensione transnazionale del Futurismo cinematografico si rinvia a G. Lista, op. cit. 1996, pp. 112-126. 35 Di una certa rilevanza è l’attività cinematografica di futurismi “locali” (e particolarmente del gruppo di Padova) anche nel quadro della ricerca e sperimentazione tecnica dei movimenti dei CineGuf (istituiti nel 1934 per iniziativa di Luigi Freddi). 36 Interpolazione dei punti programmatici del Manifesto del 1916 (dal punto 1 al punto 14, fatta eccezione del 5) confluiti nei 24 punti del Manifesto del 1938 (1-9 e 23 e 24 ex novo). 37 “La Cinematografia futurista”, cit. 38 Ibidem. 39 Ibidem. 40 Ibidem. 41 J. Mitry, Storia del cinema sperimentale, Clueb, Bologna, 2002, pp. 33-35 (ed. or. 1971). 42 Cfr. F. Albera, op. cit., 2004. 43 In Francia, nel secondo ’800 sono numerosi casi di questo genere letterario come il celebre “Manifesto del Simbolismo” di Moréas pubblicato su “Le Figaro” nel 1886. 44 M. Calvesi, Le due avanguardie. Dal Futurismo alla Pop Art, Laterza, Milano, 2001, p. 47. 45 M. Calvesi, op. cit., 2001, p. 48. 46 “Irruzione” del gruppo di André Breton (7 luglio 1923) in opposizione al gruppo Dada coordinato da Tristan Tzara. Seguirà nel 1924 il primo “Manifesto del surrealismo” in André Breton, Manifesti del Surrealismo, Einaudi, Torino, 2003, pp. 9-49. 47 “Manifeste Dada 1918” di Tristan Tzara pubblicato nel dicembre del 1918. 48 È nota la predilezione dei surrealisti verso certo cinema popolare seriale (I misteri di New York, Vampires ecc.) e le sue icone (Irma Vep-Musidora, Fantômas, Pearl White ecc.). 49 Thaïs / Les Possédées (Novissima-film, Roma, 1917) non è riconducibile in alcun modo alla poetica cinematografica futurista, semplicemente si avvale, come sostiene Bertetto, «delle scenografie di Prampolini su soggetti melodrammatici e convenzionali». P. Bertetto, op. cit., 1983, p. 32. 50 Con il passaggio al «film sonoro» il Manifesto del 1938 tematizza «musiche e voci indipendenti» in parte scollegate «significativamente spostate» dalla loro provenienza schermica «e questo per musicare e sonorizzare liberamente gli stati d’animo». 51 Cfr. H. Richter, “Il cinema d’avanguardia in Germania”, in Roger Manvell (a cura di), Nascita del cinema, Il Saggiatore, Milano, 1961 (ed. orig. 1949). 52 Sono contestuali al film alcuni scritti programmatici: Avant-garde intégrale: Marinetti et le film futuriste (“Comoedia”, 5 marzo 1931), Le Cinéma d’avant-guarde en Italie (“Comoedia”, 19 aprile 1931) e Futurisme et Film Américain (“Comoedia”, 11 maggio 1931, firmato solo da Cordero e Martina). 53 Che Deslaw aveva girato a Joinville-le-Pont sul set di La Fin du Monde di Abel Gance. 54 Cfr. E. Deslaw, After my premieres, in “Close-Up”, n. 3, dicembre 1930 e Cinema and Robots, in “Close-Up”, n. 6, dicembre 1930 (tr. it. in Bertetto [a cura di], Il cinema d’avanguardia 1910-1930, cit., pp. 294-297).

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S. Kracauer, Teoria del film, Il Saggiatore, Milano 1995, p. 286 (ed. orig. 1960). La gazza ladra, “estratto” da La Rivista Luce n. 2 (Istituto Nazionale Luce, Roma, I 1934). Altri film, di innovato impianto futurista, prodotti dall’Istituto Luce e attribuiti a D’Errico sono: Elogio della velocità realizzato tra 1930 e il 1931 e il successivo Impressioni di vita n. 1: Ritmi di stazione. 57 Stramilano è anche il titolo di una “canzone-one step” (parole di Luciano Ramo, musica di Vittorio Mascheroni) della fine degli anni ’20. Va rilevato, inoltre il riferimento alla contrapposizione polemica tra i movimenti “Stracittà”, che faceva capo alla rivista “900” edita da Massimo Bontempelli tra il 1926 e il 1929, e “Strapaese” le cui istanze venivano divulgate da “Il Selvaggio” di Mino Maccari. 58 L. Quaresima, “Stramilano (1929)”, in La città che sale. Cinema, avanguardie, immaginario urbano, a cura di Gian Piero Brunetta, Antonio Costa, Manfrini, Calliano, 1990, pp. 238-240. 59 Cfr. S. Celli, “‘La gazza ladra’, film futurista di Corrado D’Errico”, in “Cinegrafie”, V, 1996, n. 9, pp. 129-136. 60 Furono editati 5 numeri (il primo e il secondo nel 1934; gli altri tre nel 1935). Cfr. M. Argentieri, L’occhio del regime, Bulzoni, Roma, 2003, pp. 139-144. 61 Tratto da una commedia radiofonica, La dinamo dell’erotismo, di Alessandro de Stefani; è uno dei principali film degli anni ’30 della Anonima Pittaluga. 62 G. Rondolino, op. cit., 1996, p. 132. 63 A. Farassino, “Cosmopolitismo ed esotismo nel cinema europeo fra le due guerre”, in Storia del cinema mondiale, L’Europa 1. Miti, luoghi, divi, Einaudi, Torino, 1999, p. 498. 64 Ibidem.

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L’aeropittuta futurista […] Noi Futuristi dichiariamo che: 1. le prospettive mutevoli del volo costituiscono una realtà assolutamente nuova e che nulla ha di comune con la realtà tradizionalmente costituita dalle prospettive terrestri; 2. gli elementi di questa nuova realtà non hanno nessun punto fermo e sono costruiti dalla stessa mobilità perenne; 3. il pittore non può osservare e dipingere che partecipando alla stessa velocità; 4. dipingere dall’alto questa nuova realtà impone un disprezzo profondo per il dettaglio e una necessità di sintetizzare e trasfigurare tutto; 5. tutte le parti del paesaggio appaiono al pittore in volo: a) schiacciate b) artificiali c) provvisorie d) appena cadute dal cielo; 6. tutte le parti del paesaggio accentuano agli occhi del pittore in volo i loro caratteri di: folto sparso elegante grandioso 7. ogni aeropittura contiene simultaneamente il doppio movimento dell’aeroplano e della mano del pittore che muove matita, pennello o diffusore; 8. il quadro o complesso plastico di aeropittura deve essere policentrico; si giungerà presto a una nuova spiritualità plastica extra-terrestre. Nelle velocità terrestri (cavallo, automobile, treno) le piante, le case ecc., avventandosi contro di noi, girando vicinissime le vicine, meno rapide le lontane, formano una ruota dinamica nella cornice dell’orizzonte di montagne mare colline laghi, che si sposta anch’essa, ma così lentamente da sembrare ferma. Oltre questa cornice im-

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mobile esiste per l’occhio nostro anche la continuità orizzontale del piano su cui si corre. Nelle velocità aeree invece mancano questa continuità e quella cornice panoramica. L’aeroplano, che plana si tuffa s’impenna ecc., crea un ideale osservatorio ipersensibile appeso dovunque nell’infinito, dinamizzato inoltre dalla coscienza stessa del moto che muta il valore e il ritmo dei minuti e dei secondi di visione-sensazione. Il tempo e lo spazio vengono polverizzati dalla fulminea constatazione che la terra corre velocissima sotto l’aeroplano immobile. Nella virata si chiudono le pieghe della visione-ventaglio (toni verdi + toni marroni + toni celesti diafani dell’atmosfera) per lanciarsi verticali contro la verticale formata dall’apparecchio e dalla terra. Questa visione ventaglio si riapre in forma di X nella picchiata mantenendo come unica base l’incrocio dei due angoli. Il decollare crea un inseguirsi di V allargantisi. Il Colosseo visto a 3000 metri da un aviatore, che plana a spirale, muta di forma e di dimensione ad ogni istante e ingrossa successivamente tutte le facce del suo volume nel mostrarle. In linea di volo, ad una quota qualsiasi, ma costante, se trascuriamo ciò che si vede sotto di noi, vediamo apparire davanti un panorama A che si allarga man mano proporzionalmente alla nostra velocità, più oltre un piccolo panorama B che ingrandisce mentre sorvoliamo il panorama A finché scorgiamo un panorama C allargantesi man mano che scompaiono A lontanissimo e B ora sorvolato. Nelle virate il punto di vista è sempre sulla traiettoria dell’apparecchio, ma coincide successivamente con tutti i punti della curva compiuta, seguendo tutte le posizioni dell’apparecchio stesso. In una virata a destra i frammenti panoramici diventano circolari e corrono verso sinistra moltiplicandosi e stringendosi, mentre diminuiscono di numero nello spaziarsi a destra, secondo la maggiore o minore inclinazione dell’apparecchio. Dopo avere studiato le prospettive aeree che si offrono di fronte all’aviatore, studiamo gl’innumerevoli effetti laterali. Questi hanno tutti un movimento di rotazione. Così l’apparecchio si avanza come un’asta di ferro doppiamente dentata ingranandosi da una parte e dall’altra coi denti di due ruote che girano in senso opposto a quello dell’apparecchio, e i cui centri sono in tutti i punti dell’orizzonte. Queste visioni rotanti si susseguono, si amalgamano, compenetrando la somma degli spettacoli frontali. Noi futuristi dichiariamo che il principio delle prospettive aeree e conseguentemente il principio dell’Aeropittura è un’incessante e graduata moltiplicazione di forme e colori con dei crescendo e diminuendo elasticissimi, che si intensificano o si spaziano partorendo nuove gradazioni di forme e colori. Con qualsiasi traiettoria metodo o condizione di volo, i frammenti panoramici sono ognuno la continuazione dell’altro, legati tutti da un misterioso e fatale bisogno di sovrapporre le loro forme e i loro colori, pur conservando fra loro una perfetta e prodigiosa armonia. Questa armonia è determinata dalla stessa continuità di volo. Si delineano così i caratteri dominanti dell’Aeropittura che, mediante una libertà assoluta di fantasia e un ossessionante desiderio di abbracciare la molteplicità dina-

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mica con la più indispensabile delle sintesi, fisserà l’immenso dramma visionario e sensibile del volo. Si avvicina il giorno in cui gli aeropittori futuristi realizzeranno l’Aeroscultura sognata dal grande Boccioni, armoniosa e significativa composizione di fumi colorati offerti ai pennelli del tramonto e dell’aurora e di variopinti lunghi fasci di luce elettrica. I Futuristi: BALLA BENEDETTA DEPERO DOTTORI FILLIA MARINETTI PRAMPOLINI SOMENZI TATO

1928

Manifesto futurista della radio (Radia) Il Futurismo ha trasformato radicalmente la letteratura colle parole in libertà l’aereopoesia e lo stile veloce simultaneo, svuotato il teatro della noia mediante sintesi alogica sorpresa e drammi di oggetti inanimati immensificato la plastica coll’antirealismo il dinamismo plastico e l’aeropittura, creato lo splendore geometrico d’una architettura dinamica che utilizza senza decorativismi e liricamente i nuovi materiali da costruzione la cinematografia astratta e la fotografia astratta. Il Futurismo nel suo 2° congresso nazionale ha deciso i seguenti superamenti: Superamento dell’amore per la donna «con un più intenso amore per la donna contro le derivazioni erotico-sentimentali di molte avanguardie estere le cui espressioni artistiche sono fallite nel frammentarismo e nel nichilismo». Superamento del patriottismo «con un più fervido patriottismo trasformato così in autentica religione della Patria». Superamento della macchina «con un’identificazione dell’uomo con la macchina stessa destinata a liberarlo del lavoro muscolare e immensificare il suo spirito». Superamento dell’architettura Sant’Elia «oggi vittoriosa con un’architettura Sant’Elia ancora più esplodente di colore lirico e originalità di trovate». Superamento della pittura «con una aeropittura più vissuta e una plastica polimaterica-tattile». Superamento della terra «con l’intuizione dei mezzi escogitati per realizzare il viaggio nella Luna». Superamento della morte «con una metallizzazione del corpo umano e la captazione dello spirito vitale come forza di macchina». Superamento della guerra e della rivoluzione «con una guerra e una rivoluzio-

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ne artistiche-letterarie decennali o ventennali tascabili a guisa di indispensabili rivoltelle». Superamento della chimica «con una chimica alimentare perfezionata di vitamine e calorie gratuite per tutti». Possediamo ormai una televisione di cinquantamila punti per ogni immagine grande su schermo grande. Aspettando l’invenzione del teletattilismo del teleprofumo e del telesapore noi futuristi perfezioniamo la radiofonia destinata a centuplicare il genio creatore della razza italiana abolire l’antico strazio nostalgico delle lontananze e imporre dovunque le parole in libertà come suo logico e naturale modo di esprimersi. LA RADIA nome che noi futuristi diamo alle grandi manifestazioni della radio E ANCORA OGGI a) realista b) chiusa in una scena c) istupidita da musica che invece di svilupparsi in originalità e varietà ha raggiunto una ributtante monotonia negra languida d) una troppo timida imitazione negli scrittori d’avanguardia del teatro sintetico futurista e delle parole di libertà Alfredo Goldsmith della Città della Radio di New-York ha detto: «Marinetti ha immaginato il teatro sintetico. Diversissimi nella concezione i due teatri hanno un punto di contatto nel fatto che per la loro realizzazione non possono prescindere da un’opera di integrazione da parte degli spettatori e da uno sforzo di intelligenza, il teatro radiofonico richiederà uno sforzo di fantasia, negli autori prima, poi negli attori, poi negli spettatori» Anche i teorici e gli autori francesi belgi tedeschi di radiodrammi avanguardisti (Paul Reboux, Theo Freischinann Jacques Rece Alex Surchaap Tristan Bernard F. W. Bischoff Victor Hinz Fuchs Friedrich Wolf Mendelsshon ecc.) elogiano e imitano il teatro sintetico futurista e le parole in libertà quasi tutti però sempre ossessionati da un realismo pur anche veloce da sorpassare LA RADIA NON DEVE ESSERE

1) teatro, perché la radio ha ucciso il teatro già sconfitto dal cinema sonoro 2) cinematografo perché il cinematografo è agonizzante a) di sentimentalismo rancido di soggetti b) di realismo che avvolge alcune sintesi simultanee c) di infinite complicazioni tecniche d) di fatale collaborazionismo banalizzatore 3) libro perché il libro che ha la colpa di aver resa miope l’umanità implica qualcosa di pesante strangolato soffocato fossilizzato e congelato (vivranno solo le grandi tavole parolibere luminose unica poesia che ha bisogno di essere vista) LA RADIA ABOLISCE

1) lo spazio o scena del teatro compreso il teatro sintetico futurista (azione svolgentesi su una scena fissa e costante) e nel cinema (azioni svolgentisi su scene ripidissime variabilissime simultanee e sempre realiste) 2) il tempo 3) l’unità d’azione 4) il personaggio teatrale

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5) il pubblico inteso come massa giudice autoeletto sistematicamente ostile e servile sempre misoneista sempre retrogrado

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LA RADIA SARÀ

1) Libertà da ogni punto di contatto con la tradizione letteraria e artistica Qualsiasi tentativo di riallacciare la Radia alla tradizione è grottesco 2) Un’Arte nuova che comincia dove cessano il teatro il cinematografo e la narrazione 3) Immensificazione dello spazio Non più visibile né incorniciabile la scena diventa universale e cosmica 4) Captazione amplificazione e trasfigurazione di vibrazioni emesse da esseri viventi da spiriti viventi o morti drammi di stati d’animo rumoristi senza parole 5) Captazione amplificazione e trasfigurazione di vibrazioni emesse dalla materia Come oggi ascoltiamo il canto del bosco e del mare domani saremo sedotti dalle vibrazioni di un diamante o di un fiore 6) Puro organismo di sensazioni radiofoniche 7) Un’arte senza tempo né spazio senza ieri e senza domani La possibilità di captare stazioni trasmittenti poste in diversi fusi orari e la mancanza della luce distruggono le ore il giorno e la notte La captazione e l’amplificazione con le valvole termojoniche della luce e delle voci del passato distruggeranno il tempo 8) Sintesi di infinite azioni simultanee 9) Arte umana universale e cosmica come voce con una vera psicologia-spiritualità dei rumori delle voci e del silenzio 10) Vita caratteristica di ogni rumore e infinite varietà di concreto-astratto e fatto-sognato mediante un popolo di rumori 11) Lotte di rumori e di lontananze diverse cioè il dramma spaziale aggiunto al dramma temporale 12) Parole in libertà La parola è andata sviluppandosi come collaboratrice della mimica e del gesto Occorre che la parola sia ricaricata di tutta la sua potenza quindi parola essenziale o totalitaria ciò che nella teoria futurista si chiama parola-atmosfera. Le parole in libertà figlie dell’estetica della macchina contengono un’orchestra di rumori e di accordi rumoristi (realisti e astratti) che soli possono aiutare la parola colorata e plastica nella rappresentazione fulminea di ciò che non si vede Se non vuole ricorrere alle parole in libertà il radiasta deve esprimersi in quello stile parolibero (derivato dalle nostre parole in libertà) che già circola nei romanzi avanguardisti e nei giornali quello stile parolibero tipicamente veloce e scattante sintetico simultaneo 13) Parola isolata ripetizioni di verbi all’infinito 14) Arte essenziale 15) Musica gastronomica amorosa ginnastica ecc. 16) Utilizzazione dei rumori dei suoni degli accordi armonie simultaneità musicali o rumoristici dei silenzi tutti con le loro gradazioni di durezza di crescendo e di

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diminuendo che diventeranno degli strani pennelli per dipingere delimitare e colorare l’infinito buio della radia dando cubicità rotondità sferica in fondo geometria 17) Utilizzazione delle interferenze tra stazioni e del sorgere e della evanescenza dei suoni 18) Delimitazione e costruzione geometrica del silenzio un suono per date il senso dell’ampiezza del locale dove la voce viene espressa Caratterizzazione dell’atmosfera silenziosa o semisilenziosa che avvolge e colora una data voce suono rumore 20) Eliminazione del concetto o prestigio di pubblico che ha sempre anche per il libro esercitato un’influenza deformante o peggiorante F. T. MARINETTI e PINO MASNATA

22 settembre 1933

La cinematografia [...] Occorre combattere qualsiasi tentativo di ritorno o sosta nella poesia e nelle arti È infatti un assurdo tentativo quello di avvilire e infrollire la nuova architettura italiana opprimendola sotto un rinnovato ibridismo di stili classici con la scusa di una momentanea mancanza di ferro in Italia Scusa vana poiché dovunque il genio futurista di Antonio Sant’Elia aleggia col suo sintetico splendore geometrico su centinaia di Dopolavoro e specialmente sulla stazione di Firenze sul Palazzo delle Poste di Napoli e sulle numerose stazioni ferroviarie dell’architetto futurista Angiolo Mazzoni Vi trionfa anzi razionalmente coloratamente e ascensionalmente con la più grande varietà di materiali costruttivi a disposizione dal ferro ai suoi surrogati dal legno alle pietre e ai marmi italianissimi Assurdo tentativo è anche quello di oscurare la poesia con gelidi ermetismi e preziosismi che provengono dalle poesie nordiche e specialmente da Mallarmé offendendo pessimisticamente il nostro virile tempo dinamico di rivoluzioni e veloci guerre imperiali Assurdo anche il tentativo di arcaicizzare la pittura offendendo e sfuggendo pessimisticamente con boscherecci nudi e nature morte archeologiche l’esteticità della macchina e le velocità plastiche simultanee della nostra ormai gloriosa aeropittura figlia della nostra gloriosa aviazione imperiale Egualmente occorre strappare la cinematografia alla sua attuale crisi eccitandone l’immancabile balzo in avanti A rallegramento del pubblico italiano ghiotto di novità e di vigore originale ricordiamo che ventidue anni fa venne lanciato dal Movimento Futurista in tutto il mondo un Manifesto della Cinematografia firmato da F. T. Marinetti Bruno Corra Arnaldo Ginna E. Settimelli Giacomo Balla Remo Chiti le cui idee geniali o filoni di trovate sono state finora utilizzate e applicate in minima parte

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Sempre nel settembre 1916 a Milano e a Firenze venne realizzato da Arnaldo Ginna in collaborazione con Marinetti Bruno Corra Settimelli Balla Chiti Nannetti Ungaro Spada il primo film italiano nella cinematografia di avanguardia Ora constatiamo che per opera degli americani e recentemente dei francesi il pregio caratteristico dei migliori film d’oggi consiste nell’arricchire le situazioni drammatiche meno originali o banali con molti particolari ossessionanti per tipicità e perfezione di fotografia e d’inquadratura = esempio Tovarich, ecc.1 Noi futuristi proponiamo quindi oggi: 1) Nel film sonoro musiche e voci indipendenti cioè non soltanto musiche e voci provenienti dallo schermo e questo per musicare e sonorizzare liberamente gli stati di animo ma spostate significativamente 2) Nel film policromo colori indipendenti oltre quelli legati alla realtà dei corpi e ciò per colorare e animare liberamente gli stati d’animo 3) Nel film stereoscopico rilievi indipendenti oltre quelli che servono a dare realtà ai corpi e ciò per volumetrizzare e moltiplicare gli stati d’animo 4) Nel film bianco e nero ombre e luci indipendenti oltre quelle che servono per dare realtà ai corpi 5) Sfruttamento delle possibilità cinematografiche di tempo da maneggiare e spadroneggiare a volontà con probanti effetti drammatici di anni e secoli elastici dal passato al futuro Maneggio dello spazio da spadroneggiare con cieli mari oceani elastici scomponibili ecc. (esempio un bosco in mano un oceano negli occhi) 6) Organizzazione interessante e commovente di pezzi di vita e di frammenti di drammi 7) Programmi di vita individuali o collettivi a scelta già realizzati in letteratura da F. T. Marinetti in «Novelle con le labbra tinte» 8) Prospettive non scientifiche proporzionate dall’emozione e dal capriccio favorenti o contrastanti gli effetti drammatici (esempio ingigantimento del pugno di un pugilista – esempio ingigantimento dei personaggi importanti e rimpicciolimento evanescente dei secondari) 9) Utilizzazione della tecnica dei cartoni animati per dare pure forme astratte in fusione o conflitto e per musiche cromatiche 10) Analogie cinematografiche usando la realtà direttamente come uno dei due elementi dell’analogia (esempio se vorremo esprimere lo stato angoscioso di un protagonista invece di descriverlo nelle sue fasi di angoscia daremo una equivalente impressione con un mare agitato fra gli scogli) i monti i mari i boschi e le città le foglie gli eserciti le squadre di aeroplani saranno le nostre parole espressive Coloreremo il dialogo dando velocemente e simultaneamente ogni immagine che attraversi i cervelli dei personaggi (esempio rappresentando un uomo che dirà alla sua donna sei bella come una gazzella daremo la gazzella compenetrata con la donna – esempio se un personaggio dice contemplo il tuo sorriso fresco e luminoso come un viaggiatore contempla dopo lunghe fatiche il mare dall’alto di una montagna daremo viaggiatoremare-montagna compenetrati) (Dal Manifesto del 1916) 11) Poemi discorsi e poesie cinematografati (Dal Manifesto del 1916) 12) Simultaneità e compenetrazione di tempi e di luoghi diversi cinematografate

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Daremo nello stesso istante-quadro 2 o 3 visioni differenti l’una accanto all’altra (Dal Manifesto del 1916) 13) Ricerche musicali cinematografate (dissonanze accordi di gesti fatti colori linee ecc.) (Dal Manifesto del 1916) 14) Cinematografie di esercitazioni per liberarsi dalla logica (Dal Manifesto del 1916) 15) Drammi di oggetti cinematografati (oggetti animati umanizzati truccati vestiti passionalizzati civilizzati danzanti oggetti tolti dal loro ambiente abituale e posti in una condizione anormale che per contrasto mette in risalto la loro stupefacente costruzione e vita non umana) (Dal Manifesto del 1916) 16) Vetrine d’idee d’avvenimenti di tipi d’oggetti ecc. cinematografati (esempio un nasone che impone il silenzio a mille dita congressiste scampanellando un orecchio mentre due baffi carabinieri arrestano un dente) (Dal Manifesto del 1916) 17) Ricostruzioni irreali del corpo umano cinematografate (Dal Manifesto del 1916) 18) Drammi di sproporzioni cinematografate (un uomo che avendo sete tira fuori una minuscola cannuccia la quale si allunga ombellicalmente fino ad un lago e lo asciuga di colpo) (Dal Manifesto del 1916) 19) Drammi potenziali e piani strategici di sentimenti cinematografati con figure umane o con forme astratte (Dal Manifesto del 1916) 20) Equivalenze lineari plastiche cromatiche ecc. di uomini donne avvenimenti pensieri musiche sentimenti pesi odori rumori cinematografate (daremo con delle linee il ritmo interno e il ritmo fisico) (Dal Manifesto del 1916) 21) Parole in libertà in movimento cinematografate (tavole sinottiche di valori lirici di drammi di lettere umanizzate o animalizzate drammi tipografici drammi geometrici sensibilità numerica) (Dal Manifesto del 1916) 22) Valorizzazione totalitaria dell’idea iniziale o soggetto senza la quale nulla si può ottenere di grande in cinematografia 23) Perfezionamento artistico del produttore che deve compiere la sua funzione di gran signore mecenate o almeno quella di intelligente industriale valutatore dell’ingegno altrui condizione indispensabile per l’avvenire della cinematografia Questo manifesto è stato ideato e scritto in collaborazione con Arnaldo Ginna F. T. MARINETTI e ARNALDO GINNA

1938

NOTE 1

Tovarich, cioè Tonight in our Night (1937) di Anatol Litvak.

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Capitolo 3

Con (e senza) macchina da presa. Estetica e tecnologia dagli anni ’30 agli anni ’70 Bruno Di Marino

1. Esperienze isolate: Veronesi, i Loffredo, Munari-Piccardo La sperimentazione cinematografica italiana degli anni ’30 è inevitabilmente una prosecuzione dell’estetica futurista. Stramilano (1929) di Corrado D’Errico e Velocità (1930-31) del trio Cordero-Martina-Oriani vengono realizzati proprio a cavallo dei due decenni e in essi confluiscono quei motivi classici ampiamente codificati nei “generi” della sinfonia urbana e dei balletti meccanici. Del resto neppure i film dell’artista milanese Luigi Veronesi si discostano dagli esperimenti astratti precedenti: i cortometraggi ritmico-cinetici dipinti su pellicola dai futuristi Arnaldo Ginna e Bruno Corra e La gazza ladra, realizzato nel 1934 con tecniche di animazione tradizionale sempre da D’Errico1. Veronesi, già in contatto negli anni ’30 con il movimento parigino Abstraction-Création e con il Bauhaus, è attratto dall’idea di una sperimentazione totale che lo porta a occuparsi di vari ambiti: pittura, fotografia, scenografia, cinema, illustrazione e didattica. La sua concezione del cinema è vicina a quella dell’avanguardia storica e degli astrattisti tedeschi in particolare; lo chiariscono alcune sue affermazioni del tipo: «il cinema è più vicino alla pittura che alla fotografia». La produzione cinematografica di Veronesi appare oggi molto limitata, se teniamo conto che, sia un gruppo di suoi film astratti – n. 1, n. 3, n. 5, n. 7 e n. 8 databili 1938-1943 – sia i film chirurgici realizzati tra il 1941 e il 1943, sono andati persi o distrutti a causa dei bombardamenti di Milano del ’43. In questi stessi anni l’artista scrive anche quattro sceneggiature, accompagnate da schemi e dettagliate annotazioni tecniche che chiariscono bene il suo approccio tecnico e linguistico al medium cinematografico. Risalgono infine al 1947 diversi metri di pellicola girati da Veronesi per un documentario sulla Fabbrica Olivetti di Ivrea: il film, rimasto incompiuto, è stato riscoperto dalla Cineteca Italiana di Milano qualche anno fa.

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I cortometraggi astratti di Veronesi2 sono una continuazione della sua arte e sono animati da una preoccupazione affine a quella di altri pittori-cineasti. «A me interessava», ha spiegato l’artista, «dare movimento alla pittura, non un movimento solo suggerito e non reale. Io cercavo un vero movimento, e l’unico strumento che poteva dare il moto alle mie forme e ai miei colori era il cinema; per questo io sostengo che non ho fatto dei film, ma ho utilizzato il mezzo cinematografico per fare della pittura in movimento, e, tranne pochi casi in cui l’immagine è ottenuta anche col mezzo fotografico, per il rimanente questi film sono dipinti a mano direttamente sulla pellicola».3 La particolarità dei suoi esperimenti risiede nel fatto che sono costruiti secondo la regola matematica di Fibonacci della progressione numerica (ogni numero è il risultato della somma dei due precedenti). Film n. 2 – Caratteri (1939) è la sua opera più costruttivista con intenti di ordine didattico: inizia come una sorta di documentario mostrandoci le fasi di fabbricazione di alcune lettere in legno in una falegnameria; i caratteri vengono poi animati creando composizioni di visual design. Veronesi produce ritocchi manuali sulla pellicola in bianco e nero o trasforma cromaticamente alcuni sfondi. Nell’ultima parte del film – girata a colori – ci viene presentato il risultato finale: l’utilizzazione della parola scritta per strada (i manifesti) o sulle pagine di libri e giornali. Anche in Film n. 9 (1943-47), Veronesi utilizza elementi reali: volti di donna in posa guardano verso l’alto o il basso con uno sguardo neutrale come statue o automi (riferimento al Léger di Ballet mécanique), illuminati da luci colorate, solarizzati o stampati in negativo. Totalmente astratti sono invece Film n. 4 (1940) e Film n. 6 (1941) dove si alternano balletti di linee oblique che si incrociano da destra a sinistra in modo da creare tendine cromatiche, giochi dinamici di punti e linee (sia rette sia ondulate), quadrati, triangoli, spirali, fondi retinati, forme circolari di varie dimensioni ecc. Nel dopoguerra Veronesi si dedica al cinema in un paio di occasioni. La prima è nel 1950 quando realizza Allegretto che, tra parentesi, è anche il titolo di un film astratto di Oskar Fischinger del 1936. Si tratta di una vera e propria esplosione di colori (gialli, rosa, viola, azzurri e verdi molto intensi) che danno vita a composizioni dallo stile vagamente informale o comunque in linea con il Movimento Arte Concreta, cui l’artista aderisce in questi stessi anni. In Allegretto Veronesi ri-fotografa i frame ingrandendoli, oppure crea un effetto craquelé molto affascinante su linee e superfici. Trent’anni dopo con Film n. 13 (1981-85), l’artista riprende i motivi degli altri cortometraggi con maggior padronanza di mezzi. Ecco ripetersi il gioco di linee che si incrociano, le strisce ondulate e spiraliche su fondo macchiettato, i puntini neri su superfici colorate cangianti, il contrasto tra geometrismo e astrazione libera; molto suggestive sono le sequenze con anelli di grandi dimensioni che si incrociano tra loro. In questo film, inoltre, Veronesi inserisce elementi lu-

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minosi ottenuti con il procedimento del contatto fotografico, già ampiamente usato da Man Ray e da Christian Schad.4 La tecnica che consiste nell’impressionare sulla pellicola emulsionata l’impronta di oggetti disparati l’artista l’aveva già utilizzata di frequente nei suoi quadri, ribattezzandola fotogramma. Nel cinema astratto di Veronesi la crescita e l’articolazione delle forme sono date soprattutto dal tracciare i segni non sul singolo frame, bensì prendendo in considerazione una serie di fotogrammi. Il rispetto verso le regole geometrico-matematiche si coniuga dunque con il sentimento di gioiosa anarchia che l’artista nutre nei confronti di una campitura cromatica o di una linea, segno che sconfina dalla cornice fino a regalarci ritmi meravigliosi che non hanno nessun bisogno della musica. Negli anni ’50 possiamo dire che in Italia la sperimentazione cinematografica langue. Se si eccettua il citato Allegretto, gli altri esperimenti d’artista vengono realizzati tutti all’estero: è quasi inutile citare il breve episodio astratto dipinto direttamente su pellicola da Gino Severini per il cortometraggio Eine Melodie, vier Maler (1954-55) del tedesco Herbert Seggelke,5 mentre Point and Counterpoint, il primo di una serie di film realizzati con tecniche di animazione dal milanese Cioni Carpi – di cui parleremo in seguito –, è databile al limite del decennio, 1959-60, e viene girato in Canada presso il National Film Board.6 Infine vi sono i brevi film in 8mm o 9.5mm, muti e in bianco e nero, di 60 metri ciascuno di lunghezza, che il pittore di origine napoletana, ma fiorentino di adozione, Silvio Loffredo, assembla da solo oppure insieme al fratello Vittorio (che si firma Victor, poi morto nel 1971) a partire dal 1951, prima a Parigi, dove vivevano dalla fine degli anni ’10, poi a Firenze. Di questi filmcollage – frutto di riprese originali fatte con la cinepresa Pathé-baby mescolate a spezzoni comprati al mercato delle pulci – cinque sono conosciuti con il titolo Le Court-Bouillon; gli altri hanno invece titoli come La lezione (1956), Grafites (1960), Figure in posa (1963), Cupid’s Busiest Day (1965-66), Lussuria (1966) o L’alluvione (1966). Complessivamente si tratta di quasi una quarantina di opere, alcune gonfiate a 16mm. L’ultimo di questi film, Venturino Venturi, è datato 1980. Come scrive Silvia Lucchesi, che ha condotto un’accurata ricerca negli ultimi anni sul cinema d’artista in Toscana, i cortometraggi dei Loffredo hanno una «struttura narrativa da reportage, passano dal ricordo personale girato dagli stessi autori – gli amici, il padre pittore napoletano che aveva scelto di vivere a Parigi al crepuscolo di una bohème impressionista, gli interni della propria abitazione – all’osservazione della realtà. Racconti privi di compiacimento che guardano l’uomo, le sue sofferenze, le sue gioie, nelle quali è l’artista che cerca di capire dal suo stesso fare cine-

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ma».7 Secondo i ricordi dello stesso Loffredo, le giunte della Pahté 9,5mm erano da lui cucite a mano esaltando in questo senso la matericità della pellicola, già objet trouvé per definizione, essendo tali spezzoni reperiti e poi montati casualmente. Lo stesso modo in cui Loffredo descrive il suo portarsi dietro la cinepresa, come una sorta di taccuino: in questo senso l’estetica del pittore-cineasta è un po’ simile al quotidiano resoconto diaristico alla Mekas. Inoltre la scelta di non aggiungere alcuna colonna sonora ha una motivazione affine a quella di Veronesi: «la musica del film è data dal ritmo stesso dell’immagine».8 Il materiale eterogeneo che compone la serie sembra montato in modo assolutamente casuale, senza ricercare alcun effetto o associazione particolare tra le immagini: sequenze di nudi, momenti sociali e politici, spezzoni di cartoni animati, riprese quotidiane dal sapore fortemente amatoriale, tutto si mescola senza soluzione di continuità. Si tratta di materiale molto consumato, spesso quasi consunto, che rende questa operazione di found-footage estremamente pauperistica e quasi anti-tecnologica. In area lombarda operano invece Gianfranco Brebbia, Bruno Munari e Marcello Piccardo. Il primo è un film-maker ancora tutto da rivalutare, che esordisce nel 1962 con Go-Kart, aderisce in seguito alla Cooperativa del Cinema Indipendente, realizzando centinaia di film fino agli anni ’70, tutti in 8mm o in Super-8, particolarmente interessanti dal punto di vista delle risoluzioni tecniche adottate. Piccardo e Munari – quest’ultimo artista e soprattutto designer noto a livello internazionale, la cui estetica è per alcuni versi affine a quella di Veronesi –, danno invece vita allo studio di Monte Olimpino, in provincia di Como, dove, tra il 1962 e il 1972, vengono ideati una serie di cortometraggi che potremmo definire in parte di ricerca, in parte industriali e pubblicitari commissionati da una serie di società come Upim, Fiat, Olivetti, Tissot, Omega, Ferrero, Zerowatt ecc. In realtà si tratta di filmati in cui c’è piena libertà di sperimentazione. Sulle scale mobili (1964) è per esempio una sorta di analisi comportamentale sui clienti de La Rinascente che adoperano le scale mobili: le persone sono filmate da una cinepresa nascosta. È molto straniante questo incrociarsi di diagonali architettoniche, questo muto salire/scendere di corpi, con sottofondo di musica elettronica, rimbombi, accenni wagneriani. Qualche anno dopo i due continuano questo tipo di analisi con altri film del genere come Upim ricerca n. 1 (1967) e Fiat ricerca n. 1 (1968-69), dove i protagonisti sono bambini, filmati nei grandi magazzini o alle prese con automobili. Il cinema di Piccardo e Munari, fatto in casa o in famiglia con il contributo anche dei figli di Piccardo, ha insomma un intento ben preciso, è funzionale a un discorso di volta in volta di ordine didattico, pedagogico scientifico e sociologico, ma naturalmente ha molti altri risvolti, come quello percettivo e sensoriale: pensiamo allo studio sulle variazioni luministico-cromati-

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che de I colori della luce (musica di Luciano Berio) che poi è cronologicamente il primo film diretto dalla coppia di autori9: gli effetti sono ottenuti con luce polarizzata e attraverso la scomposizione prismatica. Un altro film molto vicino alle teorie di psicologia della percezione è After Effects (1968), prodotto per conto di Olivetti, dove viene studiata la persistenza dei colori sulla retina dello spettatore. Tra i più riusciti è anche il breve Tempo nel tempo (1964), sponsorizzato dalla ditta di orologi Omega, che è invece realizzato con due macchine da presa, la prima normale, la seconda in grado di filmare a una velocità di 2.700 fotogrammi al secondo. Risultato: un salto mortale di appena un secondo viene prima mostrato a velocità normale, quindi riproposto al ralenti e quindi dilatato di parecchi minuti. Il film più formalmente “sperimentale” anche per il forte utilizzo di effetti è probabilmente Scacco matto (1965), girato per conto della Ferrania: un’unica inquadratura – due giocatori di scacchi studiano le loro mosse – riproposta all’infinito e sottoposta a tutti i trattamenti possibili in fase di sviluppo e stampa (mutazioni di colore, passaggio positivo/negativo, lampeggiamenti, solarizzazioni ecc.). Piuttosto singolare è anche il ritratto di Achille e Pier Giacomo Castiglioni, celebri designer colleghi di Munari, realizzato nel 1967, poiché non si tratta di un documentario ma di una documentazione creativa, caratterizzata dall’uso del fish-eye e accompagnata unicamente da un sottofondo di suoni distorti: la macchina da presa filma i due fratelli all’opera, mentre assemblano la Taccia, si aggirano tra le lampade Arco, o mostrano il loro sgabello Mezzadro, avvolti nel fumo della pipa o della sigaretta, in un’atmosfera irreale. L’esperienza di Monte Olimpino10 – che nel frattempo era divenuta Cineteca internazionale del cinema di ricerca – è piuttosto unica nel panorama italiano, proprio perché coniuga al meglio ricerca pura e informazione pubblicitaria, e ha come risultato una produzione piuttosto vasta e variegata. «Il nostro non era cinema scientifico», tende a sottolineare Piccardo in un dovizioso e a tratti divertente resoconto, ma «ricerca espressiva, cercava immagini che esprimessero al più lo stato di una cosa e lo stato del cinema, lei e lui, la cosa e il cinema allo stato espressivo; il più freddo risultato di cui andavamo alla ricerca era informazione».11 2. La scuola romana e la CCI Verso la metà degli anni ’60, mentre il cinema italiano tenta lentamente di affrancarsi dall’influenza neorealista e gradualmente si afferma una nuova estetica cinematografica sulla scia delle nouvelles vagues di tutto il mondo, alcuni artisti e film-maker indipendenti iniziano a realizzare film, o meglio espe-

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rimenti filmici di varia natura, in totale libertà da qualsiasi tipo di condizionamento. Qualcuno di essi – come ad esempio Mario Schifano – già nel ’64 si reca negli Stati Uniti, dove tra l’altro filma con una 16mm impressioni di New York raccogliendole nel corto Round Trip. Il New American Cinema di Mekas e compagni diventa naturalmente un modello imprescindibile e molti autori italiani avranno modo di vedere i film di Warhol, Anger, Mekas, Markopoulos o Brakhage, grazie a una serie di retrospettive12, tra cui le più significative sono quelle organizzate a Porretta Terme nel 1964 e a Pesaro nel 1967, mentre il Filmstudio di Roma, a partire dal 1967, diventa il cineclub privilegiato dai film-maker sperimentali, il luogo dove è possibile vedere sistematicamente l’underground italiano e internazionale. La capitale attraversa infatti un periodo di autentico splendore per quel che riguarda le arti visive – grazie tra l’altro all’attività di due gallerie come L’Attico e La Tartaruga, all’exploit della cosiddetta scuola di Piazza del Popolo e alla presenza di una fitta serie di artisti e iniziative – la musica elettronica, la letteratura e soprattutto il teatro. Difficile sintetizzare tutti gli intrecci che si stabiliscono in questi anni tra il cinema sperimentale e gli altri ambiti artistici, ma solo per citarne alcuni pensiamo che lo stesso Sylvano Bussotti realizza film, che Alvin Curran del gruppo di musica elettronica VIVA collabora con Alfredo Leonardi ed è amico anche di altri film-maker, che Alberto Moravia e Elsa Morante sono per esempio due scrittori attenti al cinema underground, meno forse Goffredo Parise, che però è il compagno di Giosetta Fioroni, la quale, oltre a essere pittrice, realizza anche quattro cortometraggi. C’è poi un rapporto molto stretto tra l’avanguardia teatrale e quella cinematografica: oltre a Carmelo Bene, autore di alcuni cortometraggi e di ben cinque lungometraggi, il Living Theatre è al centro di alcuni corti di Leonardi, mentre Giorgio Turi e Roberto Capanna (insieme all’artista Umberto Bignardi) realizzano inserti filmati per due spettacoli di Mario Ricci. Tutte le opere dell’underground sono pregne di citazioni e di riferimenti, oltre a essere vere e proprie gallerie di personaggi di ogni tipo: soprattutto i film di Leonardi e Schifano, dove compaiono da Pino Pascali a Franco Angeli, da Pierre Clementi a Carlo Cecchi, da Gerard Malanga a Carmelo Bene, da Tano Festa a Felice Gimondi, da Nanni Balestrini a Sandro Penna, da Alberto Moravia ai Rolling Stones, da Jean-Luc Godard a Marco Ferreri. Questa fitta rete di scambi genera una vera e propria âge d’or del cinema underground a Roma, che non si ripeterà più e che raggiunge il suo apice nel 1968, anno politicamente significativo e assai prolifico: viene tra l’altro realizzato il film collettivo Tutto, tutto nello stesso istante: assemblaggio di diversi episodi (ciascuno di circa 60 metri di pellicola ektachrome)13 girati da alcuni aderenti alla Cooperativa del Cinema Indipendente, nata l’anno prima sul modello della Filmmaker’s Coop newyorkese. Obiet-

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tivo della CCI – che avrà vita breve e morirà nel 1969 – è quello di distribuire i film in modo capillare, nonché di funzionare come polo di aggregazione per gli autori. Fondata ufficialmente a Napoli nel maggio ’67, i primi contatti tra i membri ci furono solo intorno al gennaio dell’anno successivo. Nella prima edizione del catalogo della CCI compaiono i film dei seguenti autori: Angeli, Bacigalupo, Baruchello, Bignardi, Capanna, De Bernardi, de Rinaldo, Dogliani, Elia, Epremian, Ferrero, Grifi, Leonardi, i fratelli Loffredo, Mantelli, Menzio, Oriani, Patella, Serna, Siniscalchi, Turi, Aldo, Adamo e Antonio Vergine. Per la maggior parte si tratta di autori romani o di Torino, città dove infatti viene aperta una segreteria della CCI, nonché di qualche napoletano come i fratelli Vergine. I film in catalogo erano una trentina, in formato 8mm e 16mm, distribuiti singolarmente o accorpati in una serie di programmi. Nella seconda edizione del catalogo si aggiungono i nomi di Bargellini e Festa, e di alcuni autori stranieri, i coniugi tedeschi Birgit e Wilhelm Hein, e l’americano Abbott Meader. Nella terza edizione (primavera ’69) si aggiungono, tra gli altri, Lombardi, Brebbia, Chessa, Centazzo, Anna e Marina Oberto e, tra gli stranieri Brakhage e Clementi; mentre non figurano più alcuni artisti come Angeli, Festa e Bignardi. Ma molti di questi film non arrivarono mai alla CCI; inoltre qualche autore riportato in catalogo, era magari amico solo di uno dei soci della cooperativa, dunque sconosciuto a tutti gli altri. Nel programma ciclostilato della prima rassegna del cinema indipendente italiano – che si svolse al Filmstudio dal 2 al 7 marzo 1968 – si può leggere tra l’altro: «La Cooperativa del Cinema Indipendente è un’ipotesi di lavoro. Un gruppo di amici, perché no? Chiunque abbia una pizza sottobraccio può aderire. [...] Questi film sono fatti soprattutto per essere visti. Non vi è ragione perché qualche spettatore particolarmente entusiasta o volenteroso non contribuisca in un modo qualsiasi alla diffusione di tutto questo amore». Diffusione che, ben presto, diviene capillare, come ricorda Leonardi (vero “motore” della cooperativa) durante un’accesa tavola rotonda pubblicata nel 1968 su “Cinema & Film”14, insieme a “Filmcritica” e a “Ombre elettriche” – la rivista che faceva capo al gruppo torinese di Ferrero, Centazzo, Sarri e Dogliani, tra le più attente all’underground. «I canali distributivi sono enormi» – osserva Leonardi in quell’occasione –: «in Italia esistono decine di migliaia di circoli del cinema, circoli culturali, associazioni di ogni genere che hanno un proiettore a 16mm, oppure che hanno una stanza, perché il proiettore possiamo portarlo anche noi, oppure che hanno un proiettore a 8mm, perché almeno la metà dei film che abbiamo in catalogo sono a 8mm. Ognuno ha i suoi contatti, crea un interesse, si crea un’abitudine a pensare che esistono questi film, i film si danno, se ne parla».

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In ordine di tempo il primo film a inaugurare la stagione romana è La verifica incerta (1964-65) di Gianfranco Baruchello e Alberto Grifi, che resta ancora oggi il film-chiave dell’underground italiano e anche quello più noto all’estero. Dichiarato omaggio da un lato a Duchamp, il cui volto compare di tanto in tanto tra i fotogrammi di b movies americani ed europei degli anni ’50-’60, quasi a sancire lo statuto di objet trouvé cinematografico; dall’altro a Joseph Cornell, che nel 1939 con Rose Hobart aveva compiuto un gioco equivalente di smontaggio e rimontaggio del film East of Borneo (1931) interpretato dalla sua diva preferita. Il criterio con cui sono selezionati gli spezzoni – derivanti da un campione di circa 150.000 metri di pellicola destinati al macero – è assolutamente casuale. La verifica incerta è insomma un film di montaggio che demistifica e demitizza l’immaginario cinematografico mainstream, anche da un punto di vista tecnologico, poiché il formato CinemaScope delle pellicole di scarto viene “mortificato” non proiettandolo con lente anamorfica, ma lasciandolo compresso a 4/3. Attraverso reiterazioni, salti, cesure, asincronìe sonore ecc. immagini e dialoghi assumono significati inconsueti e sempre diversi. Un tipo di operazione sul linguaggio (non sono quello cinematografico) che interesserà per esempio Umberto Eco, il quale a questo film dedica alcune pagine.15 La verifica incerta – come la maggior parte del found footage film – è un film anti-tecnologico sia perché realizzato quasi del tutto senza macchina da presa, sia per l’utilizzo di materiali di scarto, la cui riproposizione è volutamente errata, ma è pur sempre uno dei pochi film sperimentali italiani degli anni ’60 dove il lavoro di montaggio è particolarmente accurato. Per quanto random, la fase di editing richiese molto tempo. Se concettualmente il film è totalmente di Baruchello, dal punto di vista della realizzazione la paternità è di Grifi, che resta uno dei film-maker più attenti al dispositivo, nelle sue implicazioni anche strettamente “politiche”: l’idea di un cinema artigianale, che si ricollega alla tradizione familiare (il padre di Grifi era operatore alla truka, creatore di titoli di testa, inventore di macchine), all’arte di arrangiarsi, a un’autarchia tecnologica rispetto al sistema produttivo ufficiale. Grifi è colui che modifica le ottiche, che integra la macchina da presa con infiniti accessori tecnici di sua invenzione, che per Anna (1972-75) – primo lungometraggio in videotape girato in Italia –, si costruisce un vidigrafo (strumento per trasferire il nastro video su pellicola), all’epoca appannaggio solo della Rai; così mentre i cortometraggi di Baruchello successivi a La verifica incerta – una sorta di rituali funereo-gastronomici sorretti da una natura performativa – non hanno una particolare rilevanza dal punto di vista della messa in scena, quelli di Grifi hanno sempre un portato tecnico fondante che ne influenza decisamente il contenuto. In generale la sua filmografia è di difficile analisi poiché più che di singoli film compiuti, possiamo parlare di un enor-

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me corpus frammentario di immagini, considerabile ancora in progress anche a distanza di molti anni, un materiale vivo sul quale l’autore continua a metter mano. Bisogna anche sottolineare che Grifi ha girato spesso in 35mm, quindi – pur essendo totalmente autosufficiente per la grande padronanza tecnica e non supportato da una troupe – lo standard professionale dei suoi film è superiore a quello delle opere dell’underground. Con Transfert per Kamera verso Virulentia (1966-67) Grifi propone una rilettura dello spettacolo teatrale di Aldo Braibanti, attraverso lenti, prismi e specchi, moltiplicandolo per quanti sono i performer. «È una singolare operazione animistica tendente a coinvolgere la macchina da presa e i suoi obiettivi come esseri umani o meglio come organi aggiunti e retrattili del cameraman», scrive Giordano Falzoni.16 Il film è dunque anche un saggio di critica del linguaggio filmico e scenico, nel senso che Grifi sovrappone a questo psicodramma collettivo – risultato di un “montaggio” di esperienze reali che gli attori portano sulla scena, integrando vita, ricerca, poesia, amore –, la sua personale messa in forma cinematografica, con l’idea di ricostruire la storia dello sguardo e l’evoluzione biologica della specie, suggestionato dalla onto-filogenesi di Ferenczi. Anche Le avventure di Giordano Falzoni (1971) si ricollega a Transfert, intensificando il versante fantasmagorico, attraverso un’iconografia tra Méliès e Max Ernst, dove l’autore esibisce volutamente una serie di trucchi di animazione, di accelerazioni, di effetti visivi e un accurato lavoro sul colore, per raccontare – attraverso l’immaginario estetico di Falzoni, artista totalmente dimenticato – una metafora dell’arte “stuprata”, incarnata da un’adolescente/principessa/bella addormentata, che il protagonista, con una serie di giochi ottici e altri marchingegni, risveglia da un paesaggio coperto di neve, allegoria della creatività sottomessa al capitalismo e all’ideologia di classe. Una delle caratteristiche stilistiche di Grifi che ritroviamo particolarmente nei due cortometraggi citati, è l’uso del fish-eye, ancor più dirompente se combinato all’uso di superfici convesse: è un modo questo per specchiarsi e per consentire al cine-occhio di essere dentro il film. In Transfert il regista si lascia assorbire dall’azione teatrale, interprete e osservatore in grado di “truccare” il suo punto di vista fino a renderlo ancestrale e cosmico. L’ottica deformata del fish-eye o gli specchi a geometria simmetrica che ricordano i giocattoli dell’infanzia, oltre a rappresentare appunto la regressione degli interpreti a una condizione pre-uterina, rispondevano alla precisa esigenza «di rifondare – come scrive Grifi nel 1990 – un codice di immagini che ereditava l’esperienza della pittura, l’autopercezione delle forme interne del proprio corpo attraverso l’esperienza psichedelica ecc.».17 Un altro cineasta che nei suoi film esalta la visione grandangolare è Luca

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Patella. A parte che il cerchio o la sfera è una forma che ritorna nelle opere oggettuali e nelle installazioni dell’artista, in film comportamentali come Intorno fuori e Materiale per camminare (1967), nel “reportage ironico-visuale” SKMP2 (1968) o in Vedo vado! (1969) – lettura “scientifico-fantastica” dell’azione psicologica, messa in scena attraverso la graduale evoluzione dal capire al sentire al fare – il fish-eye è un meccanismo ludico che ad esempio racchiude l’immagine della città in una sorta di palla di vetro, come quelle dei souvenir con la neve finta, ma al tempo stesso è un dispositivo scientifico, una lente da microscopio che esalta segni e gesti. L’universo deformato – a differenza di Grifi – serve all’artista a riprodurre uno sguardo “marziano”, un punto di vista distante da cui osservare la realtà “umana” e i suoi comportamenti. L’occhio dell’artista-entomologo Patella non si auto-coinvolge nell’azione, come quello del film-maker militante Grifi, al contrario sembra mantenere la sua estraneità. È vero che anche Patella non rinuncia a volte ad autofilmarsi (come in Vedo vado!), ma sempre in modo oggettivo, non soggettivo, come quando ne Le avventure di Giordano Falzoni Grifi dialoga con l’amico in campo. In un contesto di per sé intermediale come quello del cinema di ricerca, il lavoro di Patella appare informato a un’integrazione di tecniche e supporti, nonché particolarmente attento alla natura ermeneutica del dispositivo. Questo perché, nella sua estetica «il concettualismo andava inventato attraverso i media e non semplicemente trasposto attraverso di essi»18 come l’artista ha precisato. Parliamo di anni in cui Patella sconfinava sistematicamente da quello che era considerato il suo campo di azione, ed era osservato, nel mondo dell’arte, con una certa diffidenza. La definizione “senza peso” che l’artista attribuisce alla sua estetica – in riferimento ai media (fotografia, cinema ecc.) da lui spesso innovati e rinnovati, in sostituzione di un’arte segnica, impressionista o espressionista, ancora legata appunto al “peso” della tradizione ottocentesca –, diventa un vero e proprio manifesto di prassi teorica, vòlto al graduale distacco dalla dimensione della “sensazione” e del “gusto”, a favore soprattutto di una “realtà mentale”, già al centro del suo primo film Ritratto tecnico-naturalista (1964). Ma la definizione adottata da Patella può anche avere altri significati. “Senza peso” nel senso di sconfinamento strutturale, per esempio in riferimento alla natura expanded della macchina visiva o, dal punto di vista teorico, come incapacità di classificare queste sperimentazioni (appartenenti a più categorie), travalicandole. Pur nella loro autonomia di opere filmiche, per una loro esatta comprensione è difficile separare queste sperimentazioni dal lavoro complessivo dell’artista. Immagini, scritte, contenuti e azioni, che vediamo nei film, infatti, ricompaiono continuamente nelle opere realizzate con altri media e tecniche, come la grafica, la fotografia, gli oggetti, gli “ambienti proiettivi animati” e, infine, i numerosi e artico-

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lati libri: vera sintesi visivo-testuale dell’immaginario patelliano dove testo e immagine si invertono di ruolo: come per esempio in Io sono qui. Avventure & Cultura19, sorta di pre-sceneggiatura del lungometraggio Luca Patella/Lu’ capà tella, che prende forma tra il ’70 e il ’73, di cui esistono alcune ore di girato mai però montate. Grifi e Patella sono tra i pochi autori dell’underground che si pongono in modo teorico e concettuale l’assunto tecnologico e mediale. In molti altri film-maker e artisti questa problematica rimane sullo sfondo, così come l’elaborazione tecnica dell’immagine resta minima, anche se funzionale al contenuto delle opere. Uno dei procedimenti maggiormente diffusi, per la facilità della sua messa in pratica, resta quello dell’esposizione multipla, che consiste nel riavvolge continuamente la pellicola nello chassis della cinepresa 16mm, ottenendo – direttamente in macchina – un effetto simile alla dissolvenza incrociata. A parte evitare un laborioso e anche costoso processo di laboratorio, l’esposizione multipla contiene in sé un’incognita: il cineasta può solo immaginare quale sarà il risultato finale, ma in realtà si trova quasi sempre di fronte a una sorpresa. Fa largo uso di questa tecnica Leonardi, il cui cinema, sintetizzabile nella frase «vedere è un modo di pensare», è dichiaratamente “autoanalitico” dove le persone “reali”, che assurgono al ruolo di personaggi, «si vengono a conoscere attraverso lo schermo»20 In Se l’inconscio si ribella/si rivela (1967) e Libro di santi di Roma eterna (1968) l’esposizione multipla crea una ricca texture visiva dove i corpi si sovrappongono all’infinito, coesistono in una dimensione stratificata di sospensione e di sogno, vivono una loro natura smaterializzata. Questa marcatura tecnologica serve a mettere in scena una comunità (reale e ideale) di persone (familiari, amici, artisti) legate dallo stesso modo di vedere, vivere, pensare, meditare sull’esistenza e sull’arte. Se l’inconscio si ribella/rivela è forse la sua opera più rappresentativa, dove il momento privato (la moglie, il figlio) si mescola con quello creativo (le azioni sceniche del Living Theatre), la politica (un discorso di Castro davanti all’assemblea) e con immagini di una sessualità naturale, panica. L’atto di vedere delinea un modus vivendi prima ancora di costituirsi in forma espressiva. Del resto vivere – come ha scritto l’autore «è la prima e più importante forma di creatività, la più ininterrotta e completa».21 Un altro autore legato alla CCI che utilizza l’esposizione multipla è Massimo Bacigalupo. Ad esempio in uno dei film che compongono il ciclo Fiore d’eringio (1969-70) intitolato “Migrazione”, l’autore fa largo uso delle sovrimpressioni emulando la tipologia dell’affresco che ha diversi strati sovrapposti: non è un caso che fra le prime immagini del film appaia la parete palinsesto della chiesa di Santa Maria Antiqua nei fori romani. Per Bacigalupo la sovrapposizione di più elementi è indispensabile per creare associazioni tra realtà di diverso tipo, citazioni pittoriche, letterarie, linguistiche. Per il

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resto in tutta la serie di Eringio, gli “effetti speciali” sono dati unicamente da guasti della cinepresa che consentono alle cose di prendere liberamente le forme che vogliono. 3. Il formato e la “struttura” Uno dei problemi che determinarono la scarsa visibilità del cinema indipendente e che gli avrebbe, comunque, impedito di uscire fuori dal circuito di gallerie, cineclub e associazioni, era rappresentato dalla censura, che gli autori della CCI si rifiutarono totalmente di riconoscere. Ma l’altro problema, di ordine strettamente tecnologico, è proprio dovuto al formato: non tanto il 16mm – che pure all’epoca aveva comunque la possibilità di essere gonfiato a 35mm – quanto il passo ridotto. A utilizzare l’8mm o il Super-8 sono in molti da De Bernardi a Brunatto, da Epremian al gruppo di Ombre Elettriche, da Brebbia all’artista Luigi Ontani che nel 1973 realizza una serie di 8mm che lo ritraggono in alcune sue azioni (queste pellicole oggi sono tutte in pessime condizioni). Oltre a Pierfrancesco Bargellini – anch’esso vicino alla CCI – sono numerosi gli artisti-cineasti sperimentali toscani, attivi soprattutto negli anni ’70, che utilizzano l’8mm e il Super-8: da Alberto Moretti ad Andrea Granchi, da Renato Ranaldi a Massimo Becattini a Remo Salvadori. L’8mm è un formato “povero”, che permette di conseguenza interventi limitati sulla pellicola, tanto è vero che Bargellini per sperimentare particolari effetti sceglie di girare in 16mm (Trasferimento di modulazione o Nelda, entrambi del 1969). Tuttavia vi sono diversi casi in cui i cineasti adottano l’8mm riuscendo a modificare a proprio vantaggio quelle che potrebbero sembrare carenze tecnologiche. Per esempio Adamo Vergine con Ciao ciao (1967) lavora proprio sull’estetica pauperistica da home movie dell’8mm [cfr. 0, p. 45], ma crea un effetto automatico e “diretto” che sarebbe possibile ottenere solo sul banco ottico attraverso un procedimento sofisticato. Anche gli 8mm realizzati da Guido Lombardi nel 1968, prima di fare coppia con Anna Lajolo, sono indicativi di una tendenza strutturalista che non deve necessariamente basarsi sul 16mm. Gli esperimenti sono: Sviluppo n. 2 (1968), A corpo (1968) e Si prende una ragazza, una qualunque, lì a caso... (1969), cui si aggiungevano Luxor Garden (1968) e Sviluppo n. 3 (1968), entrambi distrutti dagli autori. Il primo cortometraggio è una prova di azzeramento linguistico sull’esempio dello strutturalismo americano più estremo, una provocazione rispetto ai codici di attesa dello spettatore. Protagonista è il “grigio ottico” che invade il fotogramma e che produce una «liberazione di forme». Da questo strato monocromatico affiorano di tanto in tanto, im-

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percettibilmente, immagini di diverso tipo (volti, esterni urbani, l’interno di un grande magazzino, spezzoni di film, oggetti, ecc.) ottenute mediante una sottoesposizione calcolata. L’effetto stroboscopico è ottenuto utilizzando pellicola 8mm in una cinepresa 16mm, con il conseguente scarto di 4 fotogrammi a 1. Non siamo di fronte – spiega Lombardi – alla «riproduzione realistica di un’azione, di un gesto, ma a uno stato dinamico di continua instabilità ed espansione»,22 qualcosa di simile, insomma, al processo di creazione onirica. In Si prende una ragazza, una qualunque, lì a caso… i fotogrammi di Blow up di Antonioni vengono giustapposti alle inquadrature di un filmino casalingo, sottratto a caso dagli autori in un laboratorio di sviluppo e stampa. Le sagome “irreali” di Hemmings e della Redgrave – sgranate e rese stroboscopiche utilizzando nuovamente pellicola 8mm in una cinepresa 16mm e filmando le immagini di Blow up in proiezione – si mescolano alle figure “reali”, colte in una situazione di assoluta spontaneità e intimità (un pranzo natalizio), dall’occhio del cineamatore. Da una parte il grande cinema ufficiale visto da milioni di persone, dall’altro l’home movie fruito da una ristretta cerchia di parenti, dunque letteralmente “addomesticato”; da un lato i sentimenti congelati, proposti da Antonioni attraverso un filtro simbolico e una sofisticazione formale, dall’altro le sensazioni realmente vissute da un nucleo familiare e messe in scena nel modo più casuale e sgrammaticato. A scandire il tutto una serie di didascalie tratte dal romanzo sperimentale di Edoardo Sanguineti, Il gioco dell’oca, attraverso cui viene sottolineata l’operazione di “prelievo” e sezionamento dei due diversi materiali. Le didascalie alludono al procedimento tipico della pubblicità fotografica per rendere più persuasive le immagini di consumo: in questo senso le frasi si riferiscono al confezionamento dell’oggetto-Blow Up, in relazione alle aspettative del pubblico, anche se culturalmente preparato. Ma la contrapposizione in Si prende una ragazza, una qualunque, lì a caso… tra un’icona cinematografica ulteriormente manipolata (consumata allegoricamente da una sorta di virus della pellicola) e un’immagine documentaristica che resta invece incontaminata, potrebbe anche essere letta come critica verso gli stilemi di uno sperimentalismo che sconfina dall’esigenza di rappresentare liricamente la realtà, giungendo invece alla sua mistificazione. Anche Antonio De Bernardi, di area torinese ma molto vicino al gruppo dei cineasti romani, adotta il formato 8mm per una serie di film a partire da Il vaso etrusco. Il suo cinema non è particolarmente tecnologico, tuttavia fin dal suo film d’esordio, Il mostro verde (1967), co-diretto insieme a Paolo Menzio (l’unico girato in 16mm insieme all’episodio di Tutto, tutto nello stesso istante) sperimenta una forma di cinema “espanso”, poiché questo – come altri suoi film successivi – è concepito per essere proiettato su due schermi in contemporanea. Inevitabile non pensare al warholiano Chelesa Girls, realiz-

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zato l’anno precedente. Le immagini del film, dominate dal colore verde e da quello rosso, rese inoltre astratte dai movimenti di macchina e dalle sfocature, diventano ancora più frastornanti per effetto dello sdoppiamento di schermi. Ma il cinema di De Bernardi può essere considerato “expanded all’italiana” anche per l’“elasticità” che richiede al fruitore, per i tempi lunghi e variabili delle sue opere (di cui molte a lungo metraggio, a volte fino a 12 ore), per il sonoro separato dalla pellicola e composto da dischi e nastri magnetici, ma soprattutto per la proiezione su schermi molteplici: Il bestiario (1967-68) su 4 schermi in parte sovrapposti a croce sbilenca, Il sogno di Costantino (1967-68) è, invece, per tre schermi che formano una sorta di trifoglio, Cronache del sentimento e del sogno (1968-70) poteva essere proiettato a piacimento da 1 a 4 schermi e durare quindi da 23 a 184 minuti. Spiega De Bernardi: «Volevo fare come in quei grandi affreschi del ’3-400 che amo tanto ancora adesso. […] Volevo questo affresco dilatato ed espanso e mi interessava quella che io chiamo “narrazione”».23 In realtà i “film-installazioni” di De Bernardi non hanno narrazione, ma sono piuttosto studi di corpi, di volti dissolti, incrociati e sovrapposti (in questo caso c’è un lirico utilizzo dell’esposizione multipla, la necessità del montaggio in macchina). Un’altra opera monstre sotto il profilo della durata è Le opere e i giorni (1969) che dura tra le 8 e le 10 ore; si tratta di uno dei pochi film del cineasta dove compaiono immagini in bianco e nero, e questo elemento risalta subito in relazione anche alle parti colorate. Quando De Bernardi negli anni ’80 passerà al video, intenderà questo medium in senso nettamente anti-tecnologico, senza utilizzare alcun effetto particolare, ma esaltando semmai in primo luogo l’immediatezza della camera per cogliere la gestualità spontanea dei soggetti, la loro autentica emotività e in secondo la possibilità della lunga durata.24 Ci sono molti esempi di tecnologia “povera” nel cinema underground, ma spesso sono proprio gli espedienti più semplici, meno costosi e meno faticosi in termini di tempo, che sortiscono risultati migliori. È usuale montare direttamente in macchina, come fa Schifano nei suoi cortometraggi, soprattutto quando le immagini sono ottenute con lo scatto singolo e quindi risultano particolarmente accelerate: pensiamo a X chiama Y (1967) di Mario Masini [cfr. 0, p. 44]. Normale è utilizzare filtri, vetri smerigliati, vetrini o altre superfici trasparenti e riflettenti davanti all’obiettivo, come hanno fatto Grifi, Patella e molti altri. Lombardi e Lajolo sono due autori che preferiscono non essere troppo ridondanti di effetti nel loro cinema, ma sono particolarmente bravi a escogitare geniali soluzioni tecniche: in C - La casa del fuoco (1969) la finestra che si apre nell’inquadratura non è stata ottenuta attraverso un mascherino, bensì semplicemente proiettando l’immagine di un proiettore 8mm Eumig sullo schermo dove scorrevano le sequenze del film e rifilmando poi nuovamente il tutto. E ancora, nella prima parte de I Blues -

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Cronache del sentimento politico (1970), creano suggestive forme luminose semplicemente accostando all’obiettivo fonti di luce artificiale (un effetto molto simile ai Film Exercises realizzati nei primi anni ’40 dai fratelli Whitney), mentre le sequenze ravvicinate sulla frutta e la verdura sono ottenute smontando l’ottica della 16mm e muovendola manualmente come una lente d’ingrandimento davanti all’occhio: l’effetto ottenuto è quello di un potente macro. Il rapporto che il cinema sperimentale intrattiene con gli altri media – pittura, fotografia e video – è costante, e non solo per quei cineasti-artisti come Luca Patella o Paolo Gioli che praticano diverse forme artistiche. Sono diversi i film basati su fotografie, riprese con una truka professionale (come ad esempio La quieta febbre del 1964 di Romano Scavolini) o con metodi più artigianali – è il caso di Questo film è dedicato a David Riesman e s’intitolerà “capolavoro” (1967) di Bargellini o Her di Bacigalupo, episodio di Tutto, tutto nello stesso istante – entrambi basati su foto tratte da riviste. La presenza (e l’invadenza) dell’immagine televisiva nella realtà è qualcosa che si avverte già fortemente negli anni ’60. In tutto il cinema di Schifano compaiono spesso riprese dal monitor tv, immagini del Vietnam o di altri avvenimenti politici e sociali che condizionano oltre che l’esistenza quotidiana anche lo stesso “fare artistico”. Sono interferenze, immagini a bassa definizione, rese ancora più indistinte dalla linea di scansione dovuta alla differente velocità tra cinema e video. Schifano negli anni ’80 girerà video e soprattutto realizzerà quadri dipingendo su polaroid e fotografie desunte dallo schermo televisivo, completando questa integrazione tra pittorico ed elettronico. Un vero e proprio film-installazione è Satellite (1968), primo capitolo della sua trilogia: qui il salotto di casa Schifano – soprattutto nell’ultima parte – diventa luogo “espanso” in cui confluiscono immagini di vario tipo, televisive, proiettate in 8mm e 16mm o da diapositive. Ma l’interrelazione tra cinema-pittura-video raggiunge il massimo risultato in Immagini disturbate da un intenso parassita (1970) di Gioli, dove – attraverso una struttura di accostamento e sovrapposizione di riquadri – convivono diversi tipi di immagine. Un altro film basato invece esclusivamente su immagini tratte dalla tv è Scusate il disturbo (1968) di Giorgio Turi: qui mediante l’interferenza, mescolando frammenti di pubblicità, film, telefilm, sigle, documentari, telegiornali, partite di calcio ecc. in un montaggio sempre più incalzante, il film-maker romano arriva, lentamente, alla totale dissoluzione della forma. Attraverso la ripresa di solo alcune porzioni della superficie del monitor, l’uso di dissolvenze incrociate, il ricorrere agli effetti di distorsione dell’immagine elettronica, di sdoppiamento o perdita di sintonia, si giunge – verso la fine – a un grumo di linee, all’oscurità quasi totale della texture catodica, alla disintegrazione dell’icona televisiva.

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4. Oltre l’underground Alla questione del formato è strettamente legata un’idea ben precisa di cinema. Ad esempio, i film di Scavolini (sia i corti che i lungometraggi A mosca cieca [1966] e La prova generale [1968]) o la trilogia di Schifano ambiscono a oltrepassare la cerchia ristretta dell’underground già a partire dal formato, oltre che a tendere naturalmente a una concezione diversa di cinema. Ciò vale anche per il lungometraggio Necropolis (1970) di Franco Bròcani e, in qualche modo, per i film di Carmelo Bene. Sono tutte opere girate o direttamente in 35mm oppure in 16mm e poi gonfiate a 35mm. Questi autori si misurano in alcuni casi con una dimensione più narrativa (anche se non lineare), e quindi basano i loro film su un minimo di scrittura, ma hanno comunque bisogno di interpreti, si circondano di una troupe (seppure minima) e a volte si avvalgono di vera e propria produzione. Detto questo i loro film sono sperimentali a tutti gli effetti, cioè sono molto diversi – anche per soluzioni tecniche e visive – dal quello che possiamo chiamare “cinema indipendente“ tout court. Ma questi autori sognano in grande, pur essendo amici e pur frequentando l’ambiente underground rifiutano la logica della CCI; Scavolini e Leonardi lavorano all’inizio per Nasso, poi Leonardi sceglie una strada di autoproduzione, mentre Scavolini resta nel “sistema”, anche se non si piega a compromessi; Schifano tenta di fare una società addirittura con i Rolling Stones e, successivamente, prova a farsi produrre un film, Laboratorio umano, da Carlo Ponti; Bene è naturalmente un caso a parte, ma il suo lungometraggio d’esordio Nostra signora dei Turchi (1968) – che resta forse nel panorama della sperimentazione, una delle opere più riuscite e visionarie – è l’unico film di questo genere a partecipare alla Mostra Internazionale d’Arte cinematografica di Venezia e a vincere un premio speciale della giuria. Schifano e Bene costruiscono i loro lungometraggi su una ridondanza di elementi visivi e usando una ricca gamma di effetti. Ogni inquadratura è estremamente pensata ed elaborata già in fase di ripresa attraverso ottiche particolari e filtri. Entrambi gli autori si affidano del resto a operatori professionisti. Schifano nei primi due film, Satellite e Umano non umano (1969) a Mario Vulpiani (che era all’epoca il direttore della fotografia di Marco Ferreri, molto amico dell’artista), mentre per il film che chiude la trilogia, Trapianto consunzione e morte di Franco Bròcani (1969-70) chiama Ivan Stojnov e gira lui stesso alcune sequenze. Nel salotto di Satellite domina l’assenza umana. C’è solo il proiettore che ripropone le immagini di altri suoi film. In Umano non umano si moltiplicano i personaggi anche se appaiono da una prospettiva “extraterrestre”, simulata da un uso ridondante del fish-eye che – come notano Aprà e Spila – «ne

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mette in risalto soprattutto l’energia propulsiva».25 La combinazione di filtri e altri effetti, la deformazione grandangolare in alcuni casi, come nella sequenza di un party, rende il film astratto; ma l’artista decide di usare questo tipo di obiettivo anche in momenti più “politici” come nelle immagini ricorrenti con il picchetto degli operai: il risultato è uno scarto tra il piano visivo (l’effetto è quello appunto di una de-realizzazione del reale) e quello sonoro (con l’operaio che commenta le motivazioni che hanno spinto allo sciopero). In Trapianto consunzione e morte di Franco Bròcani, infine, filtri azzurri, deformazioni e sovrimpressioni psichedeliche contribuiscono a intensificare la prospettiva allucinata del viaggio che il protagonista fa per le strade di Roma: i vagabondaggi per la città di Bròcani e i ricordi d’infanzia hanno il tono melanconico di una fine imminente. Qui, come negli altri due film e in qualche corto – attraverso le immagini a bassa definizione della tv – si materializza il sociale e il politico (un villaggio africano, i carri armati di Praga, il recupero dell’Apollo 13). In sottofondo registrazioni di assemblee politiche. Il ritorno intermittente al sincrono rappresenta, come in Umano non umano, il riemergere del reale rimosso. Il tema centrale della trilogia resta comunque quello dell’arte. L’età della purezza dell’opera d’arte non è mai esistita. Il bambino che disegna un paesaggio sulla tela, nel finale di Satellite, lo distrugge poi con cannoni e aeroplani. L’arte e la morte o la morte dell’arte erano già presenti in Umano non umano nella triste figura del poeta Sandro Penna, circondato dalle tele degli artisti contemporanei, commerciate per sopravvivere. In Trapianto consunzione e morte di Franco Bròcani è ben più forte questa sensazione. Nella sequenza dei due studenti sbarbati che parlano di lotta di classe e dittatura del proletariato, Schifano, fuori campo, riesce candidamente a sibilare «... e l’artista?», senza ricevere però nessuna risposta. L’operatore di Bene è invece Mario Masini – eccetto che per il cortometraggio Hermitage (1968) la cui fotografia è di Giulio Albonico e per Capricci (1969), fotografato da Maurizio Centini; Masini è anche autore – come si è detto – di alcuni film underground ed è in grado di ottenere il massimo anche in condizioni di ristrettezza di mezzi, cosa che avviene con Nostra signora dei Turchi dove non ha neppure un assistente ed è costretto a utilizzare rimanenze di pellicola, con un margine di errore quindi molto scarso. A partire da questo film – girato con una Arriflex ST in 16mm Ektachrome, cioè con pellicola invertibile, priva di negativo (che si otterrà solo col gonfiaggio in 35mm realizzato alla Microstampa) – si delinea l’idea di cinema di Bene, vissuto come luogo instabile, transitorio, liquido, carnale, in eterna decomposizione (anche attraverso la disintegrazione dell’immagine), luogo di metamorfosi e soprattutto di sdoppiamenti. Di ossessive ripetizioni verbali e sonore, di reiterazioni visive. Luogo dell’accumulo e dell’enunciazione schizo-

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frenica, del contorcimento e, naturalmente, dell’affabulazione e del melodramma. Nel claustrofobico Don Giovanni (1971) e in Salomé (1972) il regista invece spinge agli eccessi la sua estetica del montaggio, tributo a Ejzenôstejn e soprattutto a Vertov, esasperandola attraverso la frantumazione della messa in scena in migliaia di inquadrature. Oltre ai 4500 tagli, a colpire di Salomé è il lavoro sul colore: Masini inventa un procedimento del tutto nuovo, applicando su costumi e scenografie, lo scotch-light, nastro adesivo fluorescente prodotto dalla 3M, con risultati cromatico-luministici davvero strabilianti. Dopo l’orgia di immagini dei film precedenti, Un Amleto di meno (1973) può essere letto come il film più narrativo di Bene. Si tratta comunque di un’opera meta-teatrale, scenograficamente depurata rispetto al barocchismo già ampiamente sperimentato: a dominare negli interni è il bianco, uno spazio rarefatto quasi senza pareti riempito da alcuni elementi (mobili, libri) e dove risaltano i diversi personaggi vestiti con costumi sgargianti. Un film di “sottrazione” dunque, come suggerito dal titolo e notato da Maurizio Grande; un’opera filmica, come osserva Cosetta G. Saba,26 che anticipa quasi la dimensione del “teatro senza spettacolo” e la successiva produzione video. Abbandonato il cinema, infatti, Bene si dedicherà alla televisione, allestendo in funzione delle telecamere molti dei suoi spettacoli, con risultati sempre originali e creativi dal punto di vista del linguaggio. Tali riduzioni per il piccolo schermo rappresentano insomma vere e proprie opere video. 5. Due alchimisti: Bargellini e Gioli La tipologia del film strutturale è senza dubbio la più strettamente collegata alla dimensione tecnologica dell’avanguardia. Il vero soggetto di questi film è infatti il dispositivo stesso, protagonista è il processo tecnico in tutte le sue varianti. Eppure gli esempi riportati non possono essere considerabili come strutturalisti in senso pieno. Lo strutturalismo statunitense o quello di un Kubelka è culturalmente estraneo – a nostro giudizio – all’ambiente dell’underground italiano, in quanto eccessivamente freddo e a volte distaccato dalla realtà. Lo structure film “locale” (nazionale) è sfumato, spesso decisamente poetico. Non fanno eccezione i due cineasti sperimentali che maggiormente si sono confrontati con la dimensione tecnologica dell’immagine in movimento: Piero Bargellini e Paolo Gioli. «La parola “sperimentale“ è troppo impegnativa», ha scritto Bargellini, «io dico “cinema di ricerca“ nel senso di studio: ricerca sulle possibilità tecniche del mezzo. Il presupposto è imparare che cosa si può fare con lo strumento che si usa: mettersi al suo servizio, farsi usare, filmare come lui vuole

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e non viceversa».27 Il cinema del film-maker toscano, scomparso prematuramente nel 1982, si muove tra chimica e alchimia, ponendosi (o meglio non ponendosi) il problema della riproducibilità: un film come Trasferimento di modulazione (1968) esiste in copia unica proprio perché si basa su un procedimento non standardizzabile: l’unicità dell’atto creativo, la dose di improvvisazione, la natura “ambigua” dell’immagine fotochimica a produrre una personalissima estetica della materia e a materializzare quell’“immagine latente” che i processi industriali di sviluppo hanno cancellato. In Trasferimento di modulazione Bargellini trasforma radicalmente le immagini di un filmino porno “trovato“ mediante un elaborato processo, che consiste nell’arrestare il tempo di sviluppo della pellicola e l’illuminazione di alcune porzioni dell’immagine. Una fellatio o un amplesso tra un uomo e due donne, da un lato viene svuotato della corporeità dei soggetti e delle azioni, appena percepibili; dall’altro acquista una nuova matericità grazie alle zone color ruggine emerse sul supporto. Il film-maker replica questo procedimento in due film dell’anno successivo: Stricnina (1969-73) e Nelda (1969). Quest’ultimo è inoltre montato in camera ed è basato su un laborioso sistema di sovrimpressioni non casuali, ma molto calcolate: «Dopo aver rivisto mentalmente una per una le immagini», ricorda Bargellini, «iniziai con Nelda [un‘amica del cineasta, nda], su Nelda, a filmarle, montando l’intero film in macchina sequenza per sequenza, e all’interno di queste dovevo ricordare la numerazione del contafotogrammi per ciascuna serie di start-stop, per ottenere le sovrimpressioni al punto giusto, e per l’esatto numero di fotogrammi necessari; mentre Nelda doveva a volte rimanere immobile agli stop o ritrovare le esatte posizioni antecedenti, e così per due ore di seguito (durata complessiva della ripresa)».28 Il risultato è che il corpo della donna è come solarizzato, quindi sdoppiato, rappresentato in una infinita ex-stasis, sia per effetto delle dissolvenze, ma anche per l’instabilità della sua struttura pellicolare: l’immagine è bloccata nel suo trapassare da positivo a negativo, senza mai davvero fissarsi in una sola dimensione. La natura “doppia” del corpo di Nelda è richiamata fin dalla sua apparizione: entra in campo e passa davanti alla macchina da presa seguita dalla sua ombra proiettata sulla parete, e il procedimento tecnico di Bargellini produce un alone bianco intorno sia alla sua sagoma sia alla sua ombra, scontornandole dal contesto. Sempre nel ’69 Bargellini edita Fractions of Temporary Periods, esperimento indicativo di quanto sia singolare la natura strutturale di questo filmmaker. Il soggetto è la crescita, nell’arco di tre anni, della ragazzina che abita nel palazzo di fronte, filmata più o meno dalla stessa posizione.29 In realtà quella che potrebbe essere la tipica ossessione dello structural film, il lavoro sulla durata temporale, l’indagine continuativa su uno stesso oggetto/soggetto, si rivela un esercizio assai libero di affettuoso voyeurismo. Bargellini al-

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terna inquadrature “rubate” e quindi girate sempre con la camera a mano (una metodologia che contrasta con il rigore strutturalista), stampate in positivo ad altre in negativo, inframmezzate da cartelli che illustrano i comportamenti della bambina in diversi momenti della giornata [cfr. pp. 186-187]. Il vero scarto rispetto ad altri film del genere è proprio la partecipazione del film-maker all’esistenza di questa bambina, anche se registrata attraverso il distaccato occhio della cinepresa. Pittore, fotografo e cineasta, Paolo Gioli è l’unico tra gli artisti-cineasti del periodo underground, che continua ancora oggi a realizzare film sperimentali e a farlo con la macchina da presa 16mm, senza sostanzialmente mutare il suo discorso, basato su un intreccio indissolubile di tecnica e poesia: anche per questa ragione non ha senso circoscrivere cronologicamente la filmografia di Gioli che si è sviluppata coerentemente in questi decenni. Dal 1969, anno del suo primo esperimento, Commutazione con mutazioni (film dove vengono combinati tre formati diversi: 8, 16 e 35mm con una tecnica di incollaggio fotogramma su fotogramma) Gioli ha girato circa una trentina di film, non solo sperimentando tutte le tecniche possibili e immaginabili, ma modificando dispositivi, inventando metodi di ripresa, personalizzando i processi di sviluppo e stampa, portando avanti le sue ricerche nel campo della fotografia e, contemporaneamente, in quello del cinema. Alla fine degli anni ’70, è stato il primo a trasferire l’immagine polacolor su carta da disegno e sulla tela, avvicinando così la fotografia istantanea alla pittura. A detta di Barbara Hitchcock – curatrice della collezione Polaroid – Gioli è anche l’unico al mondo che riesca a trasferire su carta anche il polaroid bianco e nero. Ma questo artista, straordinariamente abile nella tecnica, è soprattutto un mago delle immagini impressionate senza ottica. Con il semplice foro stenopeico Gioli cattura la luce attraverso la mano chiusa a pugno nella quale nasconde un pezzo di pellicola, o attraverso qualsiasi tipo di buco, da un bottone a un cracker. Da qui la definizione di «uomo senza macchina da presa», titolo anche di uno dei suoi film. Una delle cinecamere stenopeiche di sua invenzione è composta da un’asta metallica alta due metri provvista di un unico sportello sul quale il cineasta ha inciso alcuni fori. Infilato un frammento di pellicola di 198cm, la singolare macchina viene posizionata di fronte a una persona, basta quindi aprire lo sportello per poche frazioni di secondo per impressionare la pellicola esplorando il corpo umano nella sua interezza; ciascun foro, infatti, riprende una porzione: piedi, ginocchia, ventre, torace, collo, testa. Un’altra cinecamera stenopeica inventata da Gioli ha dimensioni più ridotte: «Inizialmente avevo una semplice asta», spiega, «poi ho sentito l’esigenza di applicare due scatole alle due estremità, mettendoci dentro trenta metri di pelli-

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cola. Un po’ alla volta trascino la pellicola ed espongo simultaneamente tutti i forellini in prossimità del fotogramma a 16mm. Una volta esposto mezzo metro vado avanti e preparo un altro mezzo metro, e così via. Lo sportello è un otturatore unico. Questo esplora la natura e le cose, simultaneamente. 50 fotogrammi, dall’alto in basso e viceversa. Quando vai a proiettare cosa viene fuori? Un movimento che non è mai stato attuato. Insomma è la camera che si è fatta movimento».30 C’è una netta differenza, come sottolinea l’artista, tra il fuorifuoco della camera stenopeica e quello che si ottiene con una macchina da presa provvista di ottiche. Il fuorifuoco stenopeico è “vellutato”. Inoltre, aggiunge Gioli: «calcolando bene il foro, si può arrivare ad un’ottima definizione e, usando colpi di flash, si ottiene una definizione ancora più alta». Da questi esperimenti Gioli ha ricavato il cortometraggio L’uomo senza macchina da presa, film stenopeico (1973-89), in cui per pochi secondi affiorano visioni tremolanti e sensuali, frammenti immobili che si animano nella loro scansione cinetica. Così i corpi fissati nelle sue polaroid, stenopeiche o ottiche, sono fantasmi di luce, ectoplasmi monocromi o a colori che vengono poi trasferiti su carta, ritoccati a matita o con altre tecniche pittoriche. Pensiamo alle immagini stenopeiche degli anni ’80 o alla serie di polaroid ottiche degli anni ’90. Il fotografico finisce col trasmutarsi in pittura. Le immaginicollage di Gioli sono stampe, calchi, simulacri che sembrano urlare, attraversati da tagli, ferite, cerotti, incrostazioni. Anatomie che appartengono a più dimensioni contemporaneamente. È difficile infatti separare nel lavoro di Gioli le varie forme espressive, così temi, soggetti e stilemi si ripetono all’infinito con tutte le loro varianti da un supporto all’altro: dipinti a olio, disegni a carboncino, tele serigrafiche, stampe fotografiche, fotografie istantanee, film. Nei suoi film cinema e fotografia dialogano continuamente: in Anomimatografo (1972) Gioli anima con la tecnica del passo uno – con avvicinamenti ottici e tocchi stroboscopici – alcuni rullini di fotogrammi comprati da un rigattiere, ripetendo ossessivamente alcuni gesti, riproponendo alcune vedute. In L’assassino nudo (1984) e in Piccolo film decomposto (1986) ri-anima le cronofotografie di Muybridge e Marey, ricollegando il suo cinema “fotogrammatico” (che si articola e si struttura a livello del singolo frame) agli esperimenti dell’era pre-cinematografica, in nome di una idea similare di cinema “naturale” e pre-codificato, e quindi perfino pre-tecnologico. In Filmarilyn (1992) Gioli anima invece le istantanee dell’ultima seduta fotografica della Monroe: il film diventa quasi un commosso elogio funebre della diva. In due opere, Filmfinish (1986-89) e Volto telato (2002) Gioli adotta inoltre la tecnica del fotofinish, usato per immortalare le gare sportive, applicandolo alla macchina da presa. Spiega l’artista: «I soggetti sono stati esplorati e autoesplorati da una sottile fessura siste-

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mata orizzontalmente a metà del riquadro-fotogramma d’entrata, della cinecamera stessa. Le immagini dunque, si formano con una serie fittissima di linee come in un primitivo schermo video alla Nipkow. I ritmi cinetici del film, variano su accelerazioni e decelerazioni imposte fuori sincrono, tra cineprese e soggetti». Volto telato – che è poi una delle rare escursioni di Gioli nel campo del video – si basa sull’animazione a passo uno di una serie di fotografie scattate con la tecnica del fotofinish trasferite e rielaborate al computer. Ancora una volta fotografia e cinema si incontrano grazie alla tecnica dell’animazione frame by frame, presente in tutto il cinema di Gioli. Sovrapposizioni, dissolvenze, sdoppiamenti, ripetizioni, segmentazioni, inversioni da positivo a negativo e viceversa. L’immagine nei film (così come nelle foto) di Gioli è instabile, trans-migrante. Il suo cinema ci ricorda che il movimento è qualcosa di illusorio, poiché continuamente ricostruito. Ma una delle innovazioni più significative di Gioli riguarda l’invenzione di otturatori “naturali”. Ad una vecchia 16mm questo singolare Méliès veneto ha tolto l’otturatore. Perché? Per sostituirlo con un elemento esterno: per esempio la sua mano rivestita da un guanto nero che agita velocemente davanti all’obiettivo: «Volevo vedere cosa potevo ottenere col gesto della mia mano. Premendo il pulsante vado avanti con la pellicola, muovo il guanto nero e vado alla velocità che desidero. Le immagini nascono dal gesto, dal ritmo della mia mano e non da quello meccanico dell’otturatore dentro la camera». Ma perfino la natura può trasformarsi in dispositivo: «Certo. Le foglie di alcune specie di alberi, soprattutto a marzo, vibrano in una certa maniera col vento e fanno un certo movimento. Per cui funzionano da otturatore. La foglia oscura fa da maschera e crea immagini a seconda del suo ritmo, con le folate di vento. Se si ferma il vento si ferma il film. Tutto qua. Stop».31 Immagini travolte dalla ruota di Duchamp (1994) è un altro film basato su questa ricerca: Gioli oscura le porzioni tra i raggi di una ruota di bicicletta – che allude ad una delle più famose opere duchampiane –, trasformandola in un otturatore-esterno ed “incrostandovi” dentro altre immagini. Sempre nello stesso film un altro elemento – le vetrate di una finestra (rimando a un’altra opera di Duchamp, Fresh Widow del 1920) – vengono schermate e riempite da immagini elettroniche. Come abbiamo visto fin dal 1970 Gioli si era posto il problema del rapporto conflittuale tra cinema e video realizzando Immagini disturbate da un intenso parassita. Ma Gioli non ha brevettato solo dispositivi atti a modificare la ripresa filmica, è intervenuto anche nella fase di proiezione, costruendo nei primi anni ’70 il cosiddetto “schermo-oggetto”, una struttura rettangolare in legno con fessure ai lati per infilarvi sagome colorate, o meglio pannelli di compensato con composizioni astratte su cui proiettare i suoi film sperimentali. «L’ho

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usato un paio di volte», ha affermato Gioli, «durante la proiezione dei miei film in bianco e nero, inserivo queste forme. L’immagine si impastava un po’ col colore. Io però lasciavo all’interno delle “spie” geometriche per cui si intravedeva pur sempre lo schermo bianco». Anche in questo caso lo “schermo-oggetto” ha radici lontane, nasce dall’esigenza di molti artisti dell’avanguardia storica di superare la nozione comune di schermo.32 Classicismo e astrazione, tecnologia (seppure de-costruita, ripensata in modo totalmente artigianale) e arcaicità: questi sono i due poli tra i quali si muove l’arte di Gioli. L’artista si insinua, lavora su questo labile confine, ovvero tra i fotogrammi. E il fotogramma sembra essere la dimensione privilegiata dell’artista. Non c’è differenza se le immagini vengono proiettate, e quindi vivono nel tempo e sopravvivono per qualche secondo nella mente di chi le osserva; o se invece sono esposte e hanno dunque una loro esistenza nello spazio (il tempo in ogni caso lo aggiunge chi le guarda). Gioli è riuscito, da vero poeta visuale, a ricondurre la complessità dello sguardo, il meccanismo della percezione a un fenomeno “naturale”, non semplificandolo, anzi, semmai svelandone tutte le sfaccettature. Il suo è un cinema più che fisico o materico, chimico, biologico, organico. Filmare non è per lui come respirare, ma è direttamente respirare. Usare lo stesso corpo umano come foro stenopeico, produttore vivente e palpitante di visioni, vuol dire proprio questo: il fluire del sangue nelle vene corrisponde allo scorrere della pellicola nel caricatore. Respiro, battito, scansione, ritmo: attività corporea e creazione cinematografica vanno di pari passo. In questo senso Gioli, leonardescamente, non può separare la sua attività di artista da quella di scienziato, conoscitore del mondo e delle cose che lo circondano, osservatore e ricreatore di fenomeni. La figura umana, nel senso rinascimentale più completo, oltre a essere, comunque, al centro di ogni sua immagine filmica, fotografica, pittorica, rappresenta la misura di tutte le cose, trait d’union tra figurazione e astrazione, tra terra e cosmo. 7. L’animazione d’artista Il cinema d’animazione sperimentale è di per sé una tipologia – alla stregua dello “strutturalismo” – dove stile e contenuto sono fortemente legati alla techne. La pittura diretta su pellicola, il découpage (animazione di sagome ritagliate), l’animazione di oggetti, la pixillation (animazione di esseri umani) e molti altri procedimenti, costituiscono un catalogo di espedienti artigianali che si contrappongono all’animazione “industriale” o cosiddetta “ortodossa”33 rivolta al grande pubblico, che si basa sulla tecnica del disegno su acetato. In alcuni suoi cortometraggi come SKMP2 o Vedo vado! Patella utilizza

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spesso la pixillation o anima oggetti. In seguito con Sram & Cram (1974), film girato con gli allievi dell’Istituto d’Arte di Pomezia dove insegnava insieme alla moglie Rosa, l’artista realizza un divertissement, in cui alcuni concetti base della sua estetica vengono centrifugati e contaminati dalle invenzioni dei ragazzi, stimolati a cimentarsi con le tecniche più disparate. Intanto sia Patella che Rosa Foschi frequentavano da alcuni anni la Corona cinematografica, società dei fratelli Gagliardo specializzata in cortometraggi; altri due personaggi legati alla Corona sono Claudio Cintoli (che pure ha un ruolo importante nel contesto artistico romano degli anni ’60) e Magdalo Mussio (già grafico della famosa rivista “Marcatrè”). Si tratta spesso di film realizzati in breve tempo, della durata media di 10-12 minuti in modo da poter concorrere ai cosiddetti “premi qualità” indetti dal Ministero dello Spettacolo [cfr. 0, p. 73, nota 50]. Con questo incentivo molti film-maker e documentaristi hanno girato per molti anni tutto ciò che volevano, senza limitazioni o controlli (eccetto quelli relativi al budget), usufruendo delle migliori attrezzature e dei più moderni laboratori. In parte per guadagnare qualche soldo, ma anche per poter sperimentare liberamente, questi artisti hanno creato, spesso su esili pretesti narrativi, un immaginario assemblato, mescolando la fotografia al collage, le riprese dal vero al découpage, l’animazione di oggetti al disegno animato: Più (1964) e Mezzo sogno e mezzo (1965) di Cintoli – cronologicamente tra i primi esperimenti di questo tipo – risentono moltissimo dell’iconografia dei fumetti e del prelievo pop-artistico e sono avvicinabili ai coevi collage, acrilici e olii su tela dell’artista. Amour du cinéma (1969) e L’amore di don Perlimplino per Belisa nel giardino (1971), forse i lavori più interessanti della Foschi, pur riducendo gli interventi di animazione al minimo indispensabile, sorprendono proprio per la quantità del materiale messo in scena, “macinato” sotto la camera verticale o la truka, per comporre un coloratissimo continuum visivo, che trapassa con nonchalance da uno stile naïf, da disegno infantile, a immagini di tipo pop e optical. Il pretesto tematico iniziale – nel primo caso l’omaggio al cinema, rappresentato da una lunga galleria perlopiù di dive dal muto in poi, nel secondo, una storia d’amore tratta dalle poesie di Garcia Lorca – serve in realtà a divagare continuamente dal tema, inserendo “a bruciapelo” anche immagini stranianti (per esempio citazioni da Duchamp) o slittamenti ironici di gusto dada, a ricordarci che ci troviamo sempre e comunque in un laboratorio d’artista che “gioca” con le tecniche miste e con un dispositivo ibrido, a metà tra cinema e arti figurative. Il punto di partenza della Foschi, insomma, è proprio la marionetta di carta di Charlot, animata da Léger, in modo artigianale, all’inizio del suo Ballet mécanique, frammento di un intero film d’animazione purtroppo mai realizzato. Anche un altro protagonista dell’arte contemporanea di quegli anni, Pino

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Pascali, si dedica all’animazione, ma strettamente pubblicitaria. Negli schizzi, nei collages e nella creazione di pupazzi per la pubblicità, così come nelle sigle per le trasmissioni televisive (per esempio la celebre “Tv7”), ritroviamo spunti che saranno poi sviluppati nelle sue sculture. Come ricorda Vittorio Rubiu, Pascali realizza queste cose in un panorama dove si mescolano arte e cultura di massa: «e forse non è un caso – scrive – che Pascali (come già Warhol) esordisca proprio come grafico pubblicitario. […] Intendiamoci, non è che a quel tempo (primi anni Sessanta), Pascali avesse una consapevolezza per così dire storica del problema. Pascali non è Warhol».34 In questi lavori – per molti anni rimasti “anonimi”, anche perché realizzati sotto l’egida dello studio Lodolo – «c’è l’amore per il teatro» – prosegue Rubiu – «sia come azione che come scenografia. Ma soprattutto c’è l’immediata visualizzazione grafica di un’idea: ed è proprio questo completamento dell’oggetto con la parola a costituire l’oggetto nel modo più nuovo e imprevedibile. La lezione da trarsi da questi lavori è perciò molteplice, ma la prima e più importante riguarda proprio quanto Pascali ha assimilato e quanto ha amalgamato di tutta la svariatissima esperienza figurativa moderna, anche se il fascino di un maestro come Steinberg, e di quel tanto di Klee che passa attraverso Steinberg, è ancora quello che si fa sentire più fortemente».35 Negli anni ’70 c’è stato un altro artista che si è dedicato all’animazione destinata alla televisione. Si tratta del toscano Lanfranco Baldi che, insieme a Francesco Misseri, ha girato nel 1975 alcune serie di film in 35mm della durata di 5 minuti, utilizzando la tecnica del pigmento policromo su sabbia (AEIOU), della carta policroma (Quaquao) o del pongo policromo (Mio and Mao). Più sperimentale è il suo Campo (1974) basato su pittura a china su pellicola. Sempre di area toscana è Giampaolo Di Cocco, autore di una quindicina di film d’animazione (o con immagini reali e inserti animati, astrazioni, graffiti sulla pellicola), realizzati dal 1967 al 1979, utilizzando il formato 8mm o Super-8. Di Cocco si era costruito un piano orizzontale retroilluminato, su cui disponeva gli oggetti da animare a passo uno, sormontato da una rudimentale camera verticale. La figura di artista-animatore italiano più rilevante resta quella del milanese Cioni Carpi, il quale però dal 1948 vive all’estero: Parigi, Haiti, Stati Uniti e soprattutto Canada. È proprio qui, nel 1959, che inizia la sua attività cinematografica costituita da circa una quarantina di film sperimentali, molti realizzati con tecniche di animazione. Ma ciò che lo spinge a passare dietro la macchina da presa è l’incontro avvenuto a New York con Maya Deren, pioniera dell’underground statunitense. Per ragioni pratiche, tuttavia, Carpi sceglie la strada dell’astrazione e dell’animazione, dipingendo a mano su pellicola il suo primo esperimento, Point and Counterpoint (1959-60). La lezione del grande maestro scozzese (ma canadese di adozione) Norman McLa-

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ren36 si avverte immediatamente. Il film è composto da linee che si sdoppiano e si incrociano fino a trasformarsi in strati di pittura cangiante; le spirali, gli altri segni (frecce, puntini, asterischi) si muovono e lampeggiano sul fondo nero, accompagnati tra l’altro da una sapiente colonna sonora “concreta” realizzata dallo stesso Carpi (il “suono sintetico” è un’altro procedimento a lungo sperimentato da McLaren). L’obiettivo, come dice l’autore, è studiare «la permanenza dell’impulso luminoso sulla retina e di quello acustico sugli organi auditivi». Tra il ’61 e il ’62 Carpi realizza la serie dei cinque Chromograms, di cui la Cineteca Italiana ha restaurato il n. 3 e il n. 5, mentre del primo e del quarto non ci sono più i negativi, distrutti qualche anno dopo dallo stesso autore. Collage ed effetti luminosi sono i due elementi alla base di Chromograms 2, in cui superfici quadrate colorate (gelatine per gli obiettivi) si sovrappongono su una lastra di vetro retroilluminata (il visore della macchina da presa verticale) al ritmo di una sonata per clavicembalo di Paradisi: i risultati consistono in composizioni geometriche vagamente costruttiviste. Molto diverso è Chromograms 5: qui dall’oscurità più assoluta affiorano di tanto in tanto corpuscoli luminosi colorati, minime rifrazioni, fasci di luce, quindi in sovrimpressione si sussegue un ricco catalogo di simboli circolari. La colonna sonora è dello stesso Carpi ed è costituita da fonemi recitati e cantati, nonché da suoni naturali. Basati su elementi figurativi sono invece due film realizzati con disegni e animazione di sagome ritagliate: The Maya Bird (1961) e The Cat Here and the Cat There (1962); il primo prende spunto da immagini di uccelli raffigurati sui bassorilievi maya; il secondo inizia con un collage di varie teste di gatto che si moltiplicano, si muovono, lampeggiano sulla superficie, per poi ridurre l’icona dell’animale domestico a segno colorato in grado di formare altre svariate composizioni, sequenze acquatiche molto efficaci ecc. Risale invece al 1963 – periodo in cui Carpi ritorna provvisoriamente a Milano – One Day an Airplane, uno dei suoi film più riusciti (nonché anche l’ultimo realizzato con tecniche di animazione) musicato da suo fratello Fiorenzo, celebre compositore per il teatro e il cinema. Pittura e graffiti a mano su pellicola danno vita ad un caos di segni, lettere alfabetiche, parole, frasi (“homo homini lupus”) e altri elementi, trasferiti direttamente sul supporto; il momento clou del film è quando un aereo sgancia la sua bomba-freccia e le immagini, sospese come sempre tra l’astratto e il figurativo, diventano sempre più frenetiche fino a rappresentare la distruzione di case, cose e persone. È interessante soprattutto il modo con cui Carpi elabora il fondo su cui trasferisce le decalcomanie: una superficie molto pittorica trattata con il grattage, l’effetto craquelé e le retinature. One Day an Airplane si riferisce chiaramente alle bombe sganciate su Hiroshima e

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Nagasaki; il tema della violenza e della sopraffazione dell’uomo sull’uomo sta molto a cuore a Carpi: alla bomba aveva già dedicato I Will, I Shan’t (1961), dove viene espressa molto bene l’idea del fare e del disfare, del costruire e del distruggere, azioni ossessive che ritornano spesso nella sua filmografia, costituita – da questo periodo in poi – in gran parte da film-performance, opere dove l’artista milanese riesce a coniugare preoccupazioni sociali e politiche con una lucida analisi sul comportamento e sul linguaggio dell’uomo. «A me interessa soprattutto che il cinema parli dell’uomo o lo rappresenti», dice Carpi. Così le esperienze di cinema astratto (termine che l’autore trova «inappropriato») «non sono che ricerche visive attuate in un certo modo e con certi mezzi, intese come possibilità di generare nello spettatore reazioni a vari livelli, di indurre multiple e differenziate letture, di far sì che di rimbalzo quelle immagini si trasformino e si organizzino in pensieri legati da un comune denominatore costituito dall’uomo, meglio, dall’idea di uomo o dall’uomo come idea o come infinite idee». La definizione di «astratto» o «sperimentale» possono dunque apparire limitanti nell’ottica di un cinema «umanistico» e comportamentale come quello di Carpi, che studia e rappresenta, con l’arma della sintesi e della metafora, certe situazioni e le cause che le hanno generate. In Registreted (1968) – accostabile esteticamente al Film n. 2 di Veronesi – in mezzo a immagini di alfabeti, titoli di giornali, numeri, segnali stradali, grafemi, ideogrammi dipinti, appaiono la figura di una donna (Eve, sua moglie e collaboratrice in molti film) e soprattutto la fotografia dell’artista in tenuta da mimo, calzamaglia nera e viso truccato (non dimentichiamo che Carpi si è formato alla scuola del grande Jacques Lecoq): la polemica è tutta rivolta contro la ridondanza dell’informazione, contro la mania tipica della nostra società di registrare anche le minime cose; il film gioca sul contrasto tra la parola scritta e il gesto da un lato, il silenzio e l’assenza di comunicazione dall’altro. Per tutti gli anni ’70 Carpi gira vari film incentrati su azioni e coazioni a ripetere: Repeat (1970), 55cm Above Sea Level (1972), Muskoka Palimpsest (1975), Nero più bianco fa legge (1977), concludendo la sua attività cinematografica nel 1980 con One Way Walk37, interpretato dalla moglie Eve, già da tempo malata. Effetti di lettering scorrono in sovrimpressione sull’inquadratura quasi unica della donna che canta e compie una serie di gesti, tra cui quello di coprirsi con un velo. Si tratta di una messa in scena, di un rituale «per esorcizzare una condizione negativa», come scrive l’artista, tuttavia anche l’arte – che si sostituisce alla scienza essendo dotata della capacità illimitata di cogliere i significati dell’esistenza – è destinata a fallire. L’immagine conclusiva è quella desolante e metaforica di un televisore fuori sintonia. Il punto di arrivo di tanto cinema fatto di gesti e pensieri è il nulla. Eve morì

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poco tempo dopo One Way Walk. Carpi vendette le attrezzature e smise di fare film, dedicandosi per un altro decennio solo alla pittura. 8. Il crepuscolo degli anni ’70 Dopo la fertile stagione degli anni ’60, negli anni ’70, in Italia, il cinema sperimentale, underground e “d’artista”, attraversa una fase di marcata trasformazione, con un ricambio generazionale, una serie di esperienze giunte a termine e segnali che preludono a una graduale estinzione del “genere” che sarà via via sempre più evidente verso la fine del decennio. A scorgere le filmografie degli artisti e dei film-maker più interessanti e originali ci si rende subito conto che la maggior parte della loro produzione filmica si ferma – con qualche eccezione – al periodo 1969-1970. Due probabilmente sono i fattori di questo arresto: da una parte il diffondersi sempre più consistente del videotape, che costringe a ripensare completamente il concetto di cinema; dall’altro il passaggio da un uso estetico a un uso più fortemente politico del film. Questa nuova fase rappresenta ancora di più, nel panorama del cinema off, l’esplodere di singole personalità, l’assoluta frantumazione e diversificazione di stili e di obiettivi, senza contare che l’esperimento del CCI aveva unificato due categorie, quella degli artisti da una parte e dei cineasti dall’altra, che in futuro sono destinate a restare piuttosto separate.38 L’opera che segna un definitivo punto di non ritorno del cinema underground, mettendolo in rapporto da un lato con la dimensione del cinema-verità e dall’altro con il trapasso al video, è Anna (1972-75) di Alberto Grifi e Massimo Sarchielli – il primo, come suggerisce Enzo Ungari sulla rivista “Gong”39, regista fuori campo e il secondo (che è anche l’unico attore professionista a interagire con gli altri personaggi, veri) regista in campo. Protagonista è una sedicenne tossicodipendente e in stato interessante, con un passato fatto di riformatori, fughe, numerosi tentativi di suicidio ecc. Sarchielli la incontra per caso a Piazza Navona, lei gli chiede ospitalità, lui se la porta a casa e inizia ad avere un rapporto quasi paterno con la ragazza. Nasce l’idea di fare un film con lei e su di lei. Sarchielli decide così di chiamare Grifi e il progetto prende forma. Dapprima si gira in pellicola poi si passa al videotape. Intanto la vita (e la storia) di Anna si evolve: la ragazza partorisce e Vincenzo, l’elettricista della troupe, si innamora di lei e decide di occuparsi di Anna e del bambino, diventando anche lui uno dei protagonisti del film. Ma la ragazza ben presto abbandona tutto e tutti: il bambino, Vincenzo e il film. Tra Grifi e Sarchielli nel frattempo sono sorte incomprensioni che si acuiscono maggiormente quando, a Venezia, la paternità del film è attribuita quasi interamente a Grifi. La manegevolezza della camera e la libertà di tem-

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po offerta dal VTR, affranca autore e troupe dalle rigide imposizioni cui si è solitamente sottoposti dal sistema produttivo. Tutto questo influisce sul risultato estetico del film, sulla spontaneità delle azioni e dei dialoghi. Ma in realtà Anna resta – proprio per la sua incompletezza, dovuta al gesto di ribellione del soggetto/oggetto, e per il suo essere utopistico ritratto “in diretta” – ulteriore “verifica incerta”, opera ambigua e “politicamente scorretta”. Grifi e Sarchielli erano ben consapevoli di questa contraddizione, dell’aver sfruttato – in nome del “fantasma della realtà” e alla ricerca di un quoziente di autenticità che potesse rendere improvvisamente superfluo qualsiasi altro procedimento di messa in scena –, una ragazza fragile e psicolabile che, inevitabilmente, avrà il suo destino segnato. «Credo di non essere soddisfatto – rivelò sempre su “Gong” Sarchielli – il film non dice abbastanza su Anna, sul suo modo di esprimersi. Anna è progressivamente uscita dal film, anche mentre lo giravamo, e oggi Anna non è più un film sulla sua presenza ma sulla sua assenza. […] Ora Anna è un film che la gente vede, ma la vera Anna l’ho sentita l’ultima volta un anno fa. Mi ha telefonato dalla Neuro di Roma e mi ha minacciato: “Ti faccio carcerare. Hai fatto un film con una minorenne”. Ho tentato di registrare queste sue parole al telefono per incorporarle dentro il film, perché mi sembrava giusto che ci fosse anche questa accusa».40 È per questo motivo che Anna chiude un ciclo, una stagione, dove la politica non poteva essere disgiunta dall’estetica. Al risultato artistico, all’innovazione linguistica ha corrisposto lo smacco esistenziale, l’incapacità di poter cambiare il corso degli eventi, di sottrarre Anna alla sua tragica condizione.

NOTE 1 Giovanni Lista (Cinema e fotografia futurista, Milano, Skira, 2001), fa rientrare in pieno La gazza ladra nel contesto futurista, avvicinandolo anche alla grafica pubblicitaria del periodo. 2 Tutti i film di Veronesi che analizzo sono stati restaurati digitalmente dalla Cineteca Italiana di Milano nel 2002. Attualmente, dunque, non possono essere visionati né proiettati in pellicola – dettaglio non irrilevante – ma sono disponibili unicamente su supporto digitale. 3 Dichiarazione riportata in “R2” Bollettino della Galleria Rondinini, 26 gennaio 1976, p. 5. 4 Man Ray chiama la sua tecnica “rayogramma”, mentre invece Christian Schad la ribattezza “schadografia”. Sono naturalmente molti altri gli artisti che utilizzano questo tipo di procedimento, incluso Laszlo Moholy-Nagy. 5 Seggelke realizza 4 episodi, di cui alcuni in animazione, partendo dalle composizioni di quattro artisti: Severini, Nay, lo svizzero Erni e Jean Cocteau. 6 C’è un altro film in anticipo sui tempi, si tratta di A proposito di Ezra Pound del 1955,

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filmato in 8mm – in collaborazione con Gabriele Strocchi – dai coniugi genovesi Anna e Marina Oberto, che realizzeranno alcuni film nel periodo il 1968-69. 7 S. Lucchesi (a cura di), Cinema d’artista.Toscana (1964-1980), Regione Toscana/C Centro L. Pecci di Prato, 2005, p. 18. 8 Le poche dichiarazioni rilasciate da Loffredo, ormai molto anziano e quindi con i ricordi piuttosto sfumati, sono state raccolte dalla Lucchesi, op. cit., 2005, p. 19. 9 In realtà il primo lavoro realizzato dai due autori è il documentario Arte programmata (1962) sugli oggetti del gruppo T di Milano e del gruppo P di Padova, commissionato da Olivetti. Anche se solo il soggetto è di Munari e Piccardo, la regia è di Enzo Monachesi. Il negativo è da considerarsi perduto. Il primo vero film di ricerca del duo è quindi I colori della luce. 10 Tutto il cinema realizzato a Monte Olimpino, dai primi test, ai film di ricerca, ai film fatti dai bambini, è raccolto nel lungometraggio di 90 minuti M.O., editato nel 1971. 11 M. Piccardo, La collina del cinema, Como, Nodo Libri, 1992, p. 74. 12 La prima rassegna del NAC in Italia fu organizzata nel giugno-luglio 1961 nell’ambito del Festival dei due Mondi di Spoleto. Si tratta, a detta di Adriano Aprà, del «primo ufficiale battesimo» del NAC ancor prima che a New York (cfr. Catalogo New American Cinema - il cinema indipendente americano degli anni Sessanta, Festival Cinemagiovani di Torino, Milano, Ubulibri, 1986, p. 18). 13 Non tutti rispettarono questa misura. I diversi episodi sono assemblati in ordine sparso e non ne sono specificati gli autori, dunque alcuni contributi risultano “anonimi”, nel senso che alcuni membri stessi della CCI, dietro mia richiesta, non sono stati in grado di attribuirli. Nei titoli di testa, inoltre, comparirebbero nomi di autori che probabilmente non hanno poi realizzato alcun episodio. Di questo film non esiste negativo, ma solo una copia positiva – in buone condizioni – in possesso di Gianfranco Baruchello. C’è anche un altro film collettivo che viene realizzato in quello stesso periodo; si tratta di Mongolodie 70 (1969-70), girato da diversi artisti-cineasti toscani: Chia, Gattuso, Granchi, Infantino, Raffaele, Ragusa, Ranaldi e Salvadori. Si tratta di un Super-8 di 10 minuti, basato fondamentalmente su azioni. 14 Cfr. “Cinema & Film”, n. 5/6, 1968. 15 Gruppo ’63, Il romanzo sperimentale. Palermo 1965, Milano, Feltrinelli, 1966, pp. 7273. «Quando, come in Verifica incerta» – scrive Eco nel ’66 – «la porta si apre, e non esce nessuno, poi si riapre, poi appare ancora chiusa, quindi si vedono persone già uscite, infine queste persone escono di nuovo, in teoria c’è una spezzatura di un sistema di aspettative, di attese, di risoluzioni, che fa sì che lo spettatore si trovi improvvisamente in una situazione di shock, in una situazione di crisi». Ben presto tuttavia, il pubblico passa a uno stadio di accettazione e relativa gratificazione dei nuovi codici, poiché non si attende più la risoluzione del conflitto, ma la continua riproposizione di esso. In sostanza, Eco avverte che un po’ tutto il cinema sperimentale nello stravolgere le regole narrative e percettive, le sostituisce con altre che, una volta codificate e assimilate dal pubblico, diventano tradizionali dal punto di vista stilistico. Per non parlare del fatto che da qualche tempo anche il cinema “ufficiale” ha adottato – con molti decenni di ritardo – procedimenti linguistici propri del cinema sperimentale, come il montaggio “a salti”. 16 G. Falzoni, Grifi e la critica del linguaggio cinematografico dalla “Verifica incerta” a “Transfert per kamera”, in “Marcatrè”, 1968. 17 A. Grifi in Viaggio in Italia. Gli anni ’60 al cinema, a cura di A. Aprà, C. Biarese e S.

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Parigi, Palazzo delle Esposizioni, febbraio-marzo 1991, Edizioni Carte Segrete, Roma, 1991, p. 124. 18 Per un discorso più approfondito sul rapporto di Patella con i media, rimandiamo al volume I Media (ieri e oggi) “Art e Non art!”!, con testi di M. Baudson, J. Foncé, B. Wolf, FPM, Roma, 1999. Per quanto riguarda la definizione “senza peso”, essa è stata coniata dall’artista nel ’67 in occasione della mostra di film e diapositive, allestita presso la Calcografia Nazionale. 19 Il volume in questione è Io sono qui (avventure & cultura), La nuovo foglio editrice, Pollenza, 1975. 20 M. Mancini, R. Tomasino (a cura di), Conversazione con Alfredo Leonardi, in “Filmcritica” n. 187, 1968, ora in N. Lodato (a cura di), In Under Off - materiali sul cinema sperimentale 1959-1979, Bulzoni, Roma, 1981, p. 277. 21 Cfr. M. Bacigalupo (a cura di), Il film sperimentale, numero speciale di “Bianco e Nero”, fascicolo 5/8, maggio-agosto 1974, p. 121. 22 M. Bacigalupo, op. cit., 1974, p. 179. 23 T. De Bernardi, “Ricostruire la visione”, in S. Francia di Celle, S. Toffetti (a cura di), Dalle lontane province. Il cinema di Tonino De Bernardi, Torino, Lindau, 1995, p. 15. 24 Un altro esempio interessante di expanded sono le installazioni realizzate nel 1975 da Fabio Mauri che non ha però mai girato film e non frequentava i film-maker sperimentali. L’artista si diverte a prelevare dalla storia del cinema una serie di sequenze di film significativi, proiettandole in 16mm a ciclo continuo su diversi supporti materici allusivi: Senza ideologia: G.W. Pabst Westfront su un ventilatore acceso, tautologia della natura effimera del cinema; Senza ideologia: Sergej Ejzenôstejn Aleksander Newski su un secchio pieno di latte, richiamo alla neve sulla quale si svolge la battaglia finale, ma forse anche alla centrifuga di un altro famoso film del regista russo, La linea generale; Intellettuale. Vangelo secondo Matteo (in origine proiettato sullo stesso Pasolini e, in seguito, su una maglietta bianca distesa sulla spalliera di una sedia), ritorno quasi obbligato al corpo dell’autore il cui cinema è tutto all’insegna del corpo. E ancora, proiettati su altri modelli, Viva Zapata di Kazan o La battaglia di Algeri di Pontecorvo. Per Mauri il film letteralmente “prende corpo”, ovvero si modella su superfici variabili o deteriorabili che ne amplificano o ne modificano continuamente il senso. 25 La lettura di Aprà e Spila (Trilogia per un massacro, in “Cinema & Film” n. 9, estate 1969) resta ancora oggi valida: Satellite «film del passato mitico», il cui punto di vista è «mediano», cioè tra cielo e terra; Umano non umano «film del futuro utopistico», quindi «armonico» e «ottimista», visto da un’ottica «siderale»; Trapianto consunzione e morte di Franco Bròcani «film del presente storico», dunque volutamente imperfetta, «terrestre», film della disillusione e «sulla morte dell’arte». I tre stadi che queste opere riflettono sarebbero dunque: «caos», «creazione del mondo» e sua distruzione. È significativo che i due critici accostino il finale di Trapianto consunzione e morte di Franco Bròcani – con il delirio dell’amico Bròcani sul letto di morte e l’evocazione di amici-fantasmi che lo vegliano, fino a lasciare il campo alla sola Viva (attrice-feticcio di Warhol) – agli epiloghi disperati di due opere coeve: Capricci di Bene e Dillinger è morto di Ferreri (dove c’è lo zampino di Schifano: i quadri, la pistola dipinta ecc.). 26 C. G. Saba, Carmelo Bene, Il Castoro, Milano, 2005. 27 P. Bargellini, Estratti da una falsa(ta) intervista in “Cinema & Film” n. 7/8, inverno-primavera 1969. 28 M. Bacigalupo, op. cit., 1974, p. 41.

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Cfr. P. Bargellini, op. cit., 1969. Questa dichiarazione e le seguenti sono il frutto di una mia conversazione filmata con Gioli, avvenuta a Lendinara (RO) il 5 settembre 2005, trascritta e rielaborata. Il montato ha dato origine al documentario Laboratorio Gioli, incluso come extra del doppio DVD editato da Rarovideo. Queste dichiarazioni le ho poi riprese nel mio articolo Regista senza la cinepresa, “Alias”, anno 8, n. 51, 31 dicembre 2005. 31 Un altro dispositivo con otturatore esterno aggiunto è una macchina da cucire modificata. L’idea è venuta a Gioli da un aneddoto alle origini del cinematografo: «La sorella dei Lumière», racconta, «stava cucendo e i suoi fratelli erano in subbuglio perché non sapevano come risolvere il trascinamento della pellicola. Quando Louis ha visto il pattino della macchina da cucire che trascinava la stoffa e l’ago che andava giù, ha intuito che lo poteva diventare una griffa e l’ha trasferita alla cinepresa. Io ho aggiunto a questa Singer un otturatore di cartone che posso muovere ritmicamente con il pedale e che sistemo davanti alla cinepresa. Ne ho costruiti diversi di otturatori del genere». 32 Dallo schermo circolare progettato nel 1925 da Moholy Nagy, passando per le ricerche degli schermi ideati dai lettristi in Francia, fino alle visioni expanded di VanDerBeek all’interno del Movie Drome. 33 Cfr. la classificazione di Paul Welles nel suo Understanding animation, Routledge, London-New York, 1998. 34 V. Rubiu, Non è che il prologo in Pino Pascali - disegni per la pubblicità, catalogo mostra Galleria Arco d’Alibert, Roma, 1991, pp. 5-6. 35 V. Rubiu, op. cit., 1991, p. 7. 36 Carpi in realtà rifiuta un rapporto con McLaren, sentendosi piuttosto vicino ad un altro grande maestro dell’astrazione cinematografica, il neozelandese Len Lye, indicato erroneamente dall’artista come «l’autore che ha firmato la sequenza per Toccata e fuga in re minore di Bach all’interno di Fantasia di Walt Disney». Questa dichiarazione viene riportata in Angela Madesani, Le icone fluttuanti, Milano, Bruno Mondadori, 2002, p. 166, nonché ripresa nel quaderno che la Cineteca Italiana ha dedicato ai due autori in occasione del restauro: L. Caramel, A. Madesani, a cura di, Luigi Veronesi e Cioni Carpi alla Cineteca Italiana, Milano, Il Castoro, 2002, p. 82. In realtà è notorio che la suddetta sequenza è stata realizzata da Oskar Fischinger ma, evidentemente, la studiosa non ha verificato questa affermazione di Carpi, limitandosi a trascriverla. Purtroppo sia Le icone fluttuanti, sia il volume su Carpi e Veronesi – da cui abbiamo desunto le successive dichiarazioni di Carpi – contengono molteplici inesattezze spesso ereditate da altre fonti o dettate da incompetenza riguardo all’argomento trattato. Per quanto riguarda McLaren, infine, anche se Carpi non si sente esteticamente e spiritualmente vicino al cineasta canadese, è indubbio che ha assimilato alcune sue tecniche. 37 I lavori di Carpi – a parte una personale che gli ha dedicato alcuni anni fa il festival di Treviso – sono sempre stati difficilmente visibili, poiché custoditi presso il M.O.M.A. di New York. Nel 2002, per volontà dello stesso Carpi, le pellicole 16mm sono state riportate in Italia e attualmente sono custodite nell’archivio della Cineteca Italiana di Milano, che le ha restaurate digitalmente (insieme ai già citati film di Veronesi). 38 Eccettuate le collaborazioni Baruchello/Grifi, che realizzano una ventina di ore in videotape verso la fine del decennio sul tema del dolce, intervistando diversi filosofi e artisti francesi, o di Baruchello/Lombardi-Lajolo che daranno vita al gruppo Altrimenti. 39 E. Ungari, Anna se ne va, “Gong” n. 1, gennaio 1976. 40 E. Ungari, op. cit., 1976, p. 23.

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Cinema sperimentale e mezzi di massa in Italia* Adriano Aprà […] Quando si parla di sperimentalismo in campo cinematografico si fa riferimento di solito all’avanguardia, alla ricerca linguistica ed espressiva, a un’operazione da laboratorio di tipo estetico. Questo tipo di attività è sempre parsa marginale nel caso del cinema proprio per la struttura industriale di questo medium e per la diversa connotazione che esso ha dato al termine “arte”. Arte industriale, arte di riproduzione, il cinema ha promosso lo sperimentalismo in campo tecnico, al di fuori dei discorsi estetici, e solo nella misura e nella direzione dell’interesse industriale. Lo sviluppo di formati di pellicola diversi dal 35mm, l’introduzione del suono, del colore, i perfezionamenti delle macchine da presa e degli apparecchi per la registrazione del suono sono stati preceduti da ricerche di laboratorio sincrone con lo sviluppo dell’industria. Esse, anzi, ne riflettevano la validità, corrispondevano a un’industria in espansione. L’introduzione del suono e del CinemaScope, che pure coincidono con una crisi economica e con la diffusione della televisione, sono l’asso nella manica di un’industria che non ha nessuna intenzione di “cedere” e che riconosce di avere una funzione fondamentale nella società moderna. […] Le avanguardie, lo sperimentalismo, si manifestano in opposizione al cinema industriale, con a volte caratteri di chiusura corporativa nei confronti di esso (come nel caso del cinema underground americano). Il cinema sperimentale, qui inteso in un’accezione ristretta di sperimentazione linguistico-espressiva, si manifesta come reazione alla monoliticità del cinema industriale e si rinchiude in se stesso tanto più quanto più l’industria sembra respingerne le indicazioni. Le avanguardie degli anni ’60 – mi riferisco al cinema underground – si sono sviluppate facendosi forti di una rigida separazione nei confronti del Cinema con la “c” maiuscola. Questo ha condotto a un relativo ermetismo e a una frustrazione di fondo per la scarsa adesione del pubblico. Anche quando è giunto a organizzare un circuito distributivo, l’underground lo ha fatto con il desiderio e l’illusione di inventare un canale separato, senza interferenze e rumori. Questo lo ha condotto a un aristocraticismo artistico e a un rifiuto (reazionario) del cinema come mezzo di comunicazione di massa. Oggi,

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negli USA specialmente, l’underground si è chiuso nel museo (cineteca, galleria d’arte e sala specializzata), è come mummificato. Ma anche in questo caso la lettura che si può fare di questo cinema è sintomato1ogica: esso ci comunica un disagio, uno sfasamento, un desiderio insoddisfatto. Se il cinema underground è un cinema profondamente frustrato, esso si è però perlomeno dato l’illusione di una riscoperta del linguaggio cinematografico, e di questo si dovrà tenere conto. […] L’esperienza underground italiana appare come un fenomeno di germinazione spontanea e dallo sviluppo autonomo rispetto al resto del nostro cinema. Questo non deve sorprendere quando si consideri che il marginalismo e lo spontaneismo, l’opposizione alla pianificazione industriale, sono alla base di questo cinema. Ma nel caso italiano bisogna aggiungere che, nonostante i tentativi iniziali, non si è formato quello spirito cooperativistico ed elitario, quella ideologia dell’escluso che, specie in USA, caratterizza la produzione underground. Si ha l’impressione complessiva che il cinema sperimentale italiano non abbia storia, o che non abbia debiti col proprio passato. Senza molti preavvisi apparve, nel 1967, il primo nucleo di quella che venne poco dopo denominata Cooperativa del Cinema Indipendente (CCI). Ricordo che i programmi presentati alla fine del 1967 al “Filmtudio 70” di Roma costituirono una sorpresa per tutti, risultavano come prodotti irriconoscibili nel panorama italiano: non somigliavano a niente di ciò che si era visto, anche nel campo del “nuovo cinema”; dopo la prima sorpresa, si individuò un parziale retroterra per questi film: primo fra tutti l’underground americano, che era stato visto in Italia fin dal 1961 al Festival di Spoleto, e poi a quelli di Porretta Terme (1964) e di Pesaro (quest’ultimo, nel 1967, tolse al fenomeno ogni segretezza, perlomeno al livello di festival); va poi preso in considerazione il rapporto del cinema con le avanguardie italiane degli anni ’60 (Gruppo 63, nuovo teatro, nuova musica, avanguardie pittoriche), che costituisce uno stimolo per alcuni artisti – Schifano, Grifi, Baruchello, Leonardi, Brunatto – ma che ancora si manifesta in un rapporto esterno col cinema, considerato con troppo poca autonomia; infine non bisogna tralasciare quel cinema under-underground che è il cinema familiare (che nella sua forma più sofisticata si presenta secondo una modalità cineamatoriale), che attraverso le sue strutture – FEDIC, festival di Montecatini – ha rivelato alcuni dei maggiori autori della CCI (Bacigalupo, Bargellini, Vergine), i qua1i peraltro se ne sono subito allontanati, ma non senza conservarne una lezione profonda […]. Di fatto, il gruppo di autori che per qualche anno (dal 1967 al 1970, più o meno) si raccolse attorno alla CCI – i più importanti sono Massimo Bacigalupo, Pierfrancesco Bargellini, Antonio De Bernardi, Alfredo Leonardi, Guido Lombardi, Adamo Vergine – non si è spinto oltre l’abbozzo di una poetica comune e di un progetto di distribuzione comune, che di fatto hanno dato scarsi risultati. Si individuava la necessità di un rapporto più stretto fra autore, film e spettatore; il cinema underground appariva come privilegiato perché più libero; il pubblico che si ricercava era un pubblico ritagliato, raccolto ad hoc, e il film veniva possibilmente accompagnato dallo stesso autore. Attraverso il cinema si cercavano rapporti interpersonali più autentici. C’era al fondo un’opposizione moralistica (ereditata dal

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cinema underground USA) al cinema di consumo, di cui veniva individuato il carattere corruttivo con scarso spirito dialettico. La teoria di questo cinema, insomma, è stata troppo debole (e troppo difensiva) per potersi realizzare nella organizzazione, al livello produttivo e distributivo, di un movimento. Si potrebbe oggi dire che 1’underground in Italia non c’è stato, anche se restano dei film, dei cataloghi e perfino un volume a ricordalo (Il film sperimentale, numero speciale di “Bianco e Nero”, a cura di Massimo Bacigalupo). E questo per due motivi: perché questi film hanno circolato pochissimo, anche nei circuiti paralleli o alternativi; e perché non hanno sollevato un discorso critico (la critica ufficiale, che comprende anche quasi tutte le riviste specializzate, non ha letteralmente visto questo cinema; è questo anche un segno del venir meno, parallelamente a quella del cinema, di una funzione della critica in termini costruttivi, ma sarebbe un lungo discorso). È dunque giusto guardarli retrospettivamente e “recuperarli”, renderli cioè produttivi oggi, visto che ieri sono passati inosservati: i film underground italiani, dispersi nelle case degli autori e degli amici, sono oggi come dei reperti archeologici o dei manoscritti trovati in una bottiglia. Sono le prove testimoniali di un cinema rielaborato, rifondato, in uno spazio individuale, da analizzare e da cui ricavare “esperienza”. Valorizzarli, cioè identificarne le qualità e collocarli nello spazio astratto di una “storia dei cinema” che non c’è stata in pratica, mi sembrerebbe una operazione riduttiva. Questi film, nati per non essere visti, sono privi dell’aristocraticità americana oltre che della sua assertività; non avevano alcuna ambizione al Museo, semmai alla casa e allo spazio del quotidiano; per non essere mai nati, non sono neppure morti, e li si può vedere oggi nella maniera più produttiva, come mi sforzerò di fare. […] Cercherò […], attraverso una serie di esempi, di individuare le principali zone d’intervento degli sperimentalisti italiani. Uno dei primi elementi messi in questione è il materiale-base con cui si fa un film: la pellicola e la macchina da presa. Siamo stati abituati a considerare il cinema come una macchina che riproduce la realtà e a pesarne l’utilizzazione in termini che partono da una tale premessa. Cineasti come Piero Bargellini, Paolo Gioli e Alberto Grifi, invece, cominciano ad analizzare m.d.p. e pellicola, a vederle nella loro materialità e a manipolarle. Grifi, per esempio, forza l’ottica tradizionale della m.d.p. (quegli obiettivi, cioè, che conservano all’immagine ripresa il suo carattere realistico) e si serve di obiettivi speciali, deformanti, fino a giungere, attraverso le lenti, a una sorta di manipolazione pittorica della realtà ripresa. Penso a due film come Transfert per Kamera verso Virulentia e Orgonauti evviva!, dove a volte si ha l’impressione di vedere le immagini su un televisore, deformate con lo spostamento di una manopola, come oggi è possibile fare. Invece qui la deformazione avviene in un rapporto fra la realtà (che è quasi un pretesto), la m.d.p. con la sua ottica deformante ma rigida e la mobilità della mano che variando il rapporto fra ottica e realtà produce – disegna – l’immagine che viene impressa sulla pellicola. È, questo, un tentativo di forzare la natura stessa del cinema, un’ipotesi di cinema-limite in cui l’elemento più importante non mi sembra la lente, ma la mano: l’assunzione da parte dell’uo-

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mo della tecnologia cinematografica come un’estensione del suo occhio e della sua mano. Il ruolo della “mano” scompare invece nel cinema di Paolo Gioli. Il suo campo di sperimentazione non è l’ottica né la mobilità della m.d.p., ma la pellicola e il processo di stampa. Come molti cineasti underground, Gioli si è costruito il suo laboratorio e impiega il l6mm bianco e nero (il colore richiederebbe apparecchiature già troppo complesse). Ho l’impressione che il suo cinema somigli molto a quello di alcuni cineasti americani dove è difficile fare una separazione fra intenzioni espressive e intenzioni didattiche. I film, infatti, si presentano come cataloghi di usi insoliti dei processi di stampa, variazioni su un tema che è un tema tecnico: uso dell’immagine in negativo, sovrimpressione di azioni identiche, ma sfasate nel tempo; sdoppiamento speculare dell’immagine. Anche se le immagini conservano una referenzialità realistica, esse sono manipolate come pittura mobile […]. Siamo di fronte a tipici film di laboratorio, tecnicamente perfetti, ossessionati dalla nozione di doppio (sovrimpressione, doppia immagine speculare, opposizione positivo/negativo): ma l’ossessione è “controllata”, ridotta a oggetto di analisi. I film di Gioli sono film freddi e la loro destinazione ideale sembrerebbe quella della scuola (di cinema): vi si pongono elementi relativamente nuovi di linguaggio e se ne esemplifica l’uso, senza tentarne l’articolazione in un discorso. Molto più avanti va invece il cinema (un aspetto del cinema) di Pierfrancesco Bargellini. Mi riferisco qui soltanto ad alcuni suoi film, quelli che più direttamente mettono in questione la chimica dell’immagine cinematografica. Mentre Gioli fa dei film che in ultima analisi propongono uno standard e potrebbero facilmente essere realizzati in un laboratorio tradizionale (sia pure a prezzo di un lavoro di precisione), Bargellini si pone decisamente al di fuori dello standard. La sua messa in questione del laboratorio è radicale. Un film come Trasferimento di modulazione si pone come film-limite. Ciò che esso contraddice è la stessa possibilità riproduttiva del cinema, che si fonda sull’esistenza di un negativo (e comunque di un master) dal quale si possono riprodurre copie uguali all’originale – che come tale, quindi, non ha alcun senso. Trasferimento di modulazione è un film irriproducibile, esiste in copia unica, e non per un suo limite tecnico. Che cosa è successo? Bargellini ha rifilmato, in 16mm b&n, un pornofilm americano in 8mm proiettato su uno schermo. Ha così ottenuto un negativo. Nello sviluppare questo negativo ha compiuto due operazioni: ha arrestato lo sviluppo del negativo in momenti determinati e con tempi via via diversi (un film normalmente viene sviluppato secondo un tempo standard), e ha proiettato su determinati punti della pellicola una luce puntiforme con precisione artigiana. Il suo può essere definito il lavoro di un alchimista, che però per così dire torna all’alchimia dopo un viaggio dentro la chimica. Nel corso dello sviluppo differenziato, Bargellini ha individuato due soglie “proibite”: quella in cui il negativo si evolve in positivo e quella in cui il bianco e nero si evolve in colore. Sono soglie, queste, che un processo di sviluppo standard cancella, fissandosi decisamente sul positivo (o sul negativo, come Gioli) e sul bianco e nero. Invece Bargellini si fissa proprio sulla soglia, dandoci immagini ambiguamente positivo-negative, quasi evanescenti, e facendo emergere lame di colore granulare, chimico, in maniera quasi al-

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lucinatoria. Perché allora il film è irriproducibile? Perché – e sto semplificando un processo più complesso – la produzione di copie si fonda su uno standard (copie tutte uguali) che contraddice una tale “ambiguità”: se il film venisse riprodotto su pellicola bianco e nero, scomparirebbero i colori; se venisse riprodotto su pellicola a colori, il bianco e nero acquisterebbe una colorazione particolare che falserebbe tutta la struttura luministica del film. Il film – che pure è un film “improvvisato”: l’intero processo di sviluppo è stato realizzato in una mattina – si pone come una riflessione straordinariamente produttiva al livello sensoriale sulla nozione di consumo, di trasformazione e di morte. Ho detto che si tratta di un film pornografico. L’elaborazione chimica, o alchemica, è sempre in sincronia con le immagini, con la realtà riprodotta: nel gesto erotico viene colta, come una realtà latente che può emergere solo chimicamente e non fotografata, la pulsione di morte. C’è il tentativo, a mio avviso riuscito, di fissare sulla pellicola l’invisibile, ma non come “metafora” bensì proprio partendo dalla materialità stessa della pellicola. L’invisibile è allora proprio quella soglia, quella immagine latente, che la standarizzazione dei processi di sviluppo ha cancellato. Il lavoro di Bargellini si pone come un recupero dell’artigianato dopo la tecnologia. È una sfida, vertiginosa nel caso di questo film (e degli altri che Bargellini ha realizzato con questo metodo), ai limiti che la tecnologia stessa si è data per poter funzionare a livelli standardizzati; lo si potrebbe definire un viaggio nell’inconscio della tecnica cinematografica, che mette in questione la nascita stessa del cinema come riproducibilità tecnica. Devo aggiungere che l’esperienza di Bargellini è, per quanto ne so, unica nella storia del cinema. La produzione di Bargellini (che lavora in 8 e l6mm) è ampia e differenziata. I film “alchemici” sono soltanto uno dei suoi modi d’intervento. La serie La grande esibizione magica ne costituisce un altro. Si tratta di quattro film, realizzati fra il 1968 e il 1975: Morte all‘orecchio di Van Gogh, Un Ottofilm di Pierfrancesco Bargellini, Due silenzi e un’armonica e Dove incominciano le gambe, tutti in 8mm. Qui Bargellini affronta il problema della costruzione di un discorso cinematografico. Questo discorso nasce da uno sguardo, estremamente partecipe, sulla realtà circostante, che è quella della società moderna, di cui viene conservata l’oggettività ma non l’esteriorità: lo sguardo è uno sguardo soggettivo, privato. La realtà che interessa Bargellini è quella delle merci e del consumo, e della loro fascinazione (feticismo): sesso e pubblicità ne sono gli aspetti emergenti. È una realtà in questo senso “volgare”, con la quale il rapporto è di dissezione, di analisi tagliente, come un cadavere analizzato in obitorio. Ciò che interessa Bargellini sono le realtà profonde colte passando attraverso la superficie: una traversata oltre lo specchio. Mi rendo conto di quanto sia difficile parlare di questi film in termini descrittivi o semplicemente “logici”. Una delle caratteristiche del cinema underground è infatti anche quella di mettere in crisi il linguaggio critico, che aveva trovato una sua stabilità finché veniva applicato a film in cui il referente realistico era al centro della rappresentazione, in cui la riconoscibilità fotografica veniva in aiuto alla memoria e permetteva alla descrizione critica di avere un punto di contatto coerente (anche se di superficie) col film. Ma i film underground, come nel caso di questi di Bargellini, sfidano il cinema proprio

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sul piano della memorizzazione. Anche quando articolano un discorso, quando la successione dei vari momenti ha un suo sviluppo, questi film non impiegano quelle tecniche di memorizzazione che sono, per esempio, un intreccio, le leggi di un genere, la presenza di un attore. Queste tecniche si rivolgono alla coscienza dello spettatore, alla sua parte “sveglia”. Ma Bargellini opera più spesso (come Stan Brakhage, al quale accade di pensare vedendo i suoi film) alle soglie della coscienza e della memorizzazione. Per lui il cinema è un sogno ad occhi aperti e le immagini sono spesso dei flash. La successione delle “scene” (chiamiamole così, nella misura in cui i suoi film sono frazionabili) avviene per aggiunzione illogica, o analogica. Lo spettatore viene ad essere sollecitato a due livelli contemporaneamente: quello sensibile (le immagini del film sono “belle”, colpiscono l’immaginazione, sorprendono e divertono) e quello riflessivo (vedo certe immagini e poi certe altre: perché questa successione? che cosa produce il loro impatto?). […] Si può dire che al centro del cinema di Bargellini c’è questa domanda: come agiscono le immagini della realtà moderna, dell’universo tecnologico e dei mass media nel mio inconscio? Come reagisce il mio immaginario con l’immaginario del mondo moderno che il cinema – tecnologia moderna – mette alla portata del mio occhio? Come Bargellini non rifiuta il mondo moderno, così non rifiuta il cinema e la sua tecnologia; il suo occhio viene esteso dalla cinepresa, fa corpo con essa, è un occhio tecnologico, che si serve della sua nuova strumentazione con l’agilità con cui il corpo si serve dei propri muscoli. Anche qui, quegli standard tecnici che sono il fuoco, il diaframma, la velocità di scorrimento della pellicola vengono stravolti: la luce impressiona la pellicola con intensità e ritmi variabilissimi, regolati da una mano che manovra la cinepresa come un suonatore di sax manovra i tasti del suo strumento. […] Le cose si complicano ancora di più col cinema di Massimo Bacigalupo. Anche lui lavora sull’arbitrarietà del segno […]. Il suo ermetismo si applica a materiale proveniente dall’universo culturale e il discorso che il film svolge ha un sostrato filosofico, solo espresso con immagini. […] Ecco, per esempio, come è costruito 60 metri per il 31 marzo: «Per ogni episodio vi sono due riferimenti, uno letterario e uno pittorico, introdotti mediante sovrimpressioni. La serie credo sia: 1. Pound-Kandinskij, 2. Brakhage-W.C. Williams, 3. Cummings-Botticelli, 4. Donne-Bosch-Caravaggio, 5. Durrell-Ernst, 6. “Katha-Upanishad”-Piero della Francesca. Ma questi ultimi ricorrono in tutto il film. M’accorsi, quando già era praticamente fatto, che 1’“Upanishad” era anch’essa divisa in sei parti (o rami: valli), e pertanto ripartii dall’inizio e sovrimpressi delle frasi dalle parti rispettive». Sembra difficile, anche per chi potesse identificare i materiali artistici citati nel film, coglierli alla velocità con cui il film scorre. È questa una velocità elettrica che mette in corto circuito per un occhio moderno la cascata di immagini che lo colpiscono ogni giorno, qui ritagliate secondo le linee del museo e della biblioteca, ma non per questo meno precipitose. Versus è un film quasi teorico sull’arbitrarietà del segno: una fotografia (che dovrebbe essere il “dato preesistente”) e una serie di altre immagini (che dovrebbero essere 1’“intervento” sul primo dato). Ma come si interviene su un’immagine? Quali associazioni essa produce? Il risultato è un film “incomprensibile”, arbitrario, che lascia inquieti.

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È l’inquietitudine che nasce dalla manipolazione di un linguaggio la cui grammatica sembra indeterminabile (e di cui si rifiutano le grammatiche correnti, troppo semplicistiche), anche se nel caso di Bacigalupo esiste – lo si ricava dai suoi scritti – un progetto abbastanza elaborato e cosciente. Parlavo prima di cinema “elettrico”. Ecco: molto del cinema underground si muove a velocità che sembrano corrispondere molto bene a quelle, elettriche, della vita moderna. Il ritmo dei film tradizionali non è quello dei circuiti di un computer o, più semplicemente, delle luci nella piazza di una metropoli di notte; è al massimo il ritmo di un’officina meccanica. Insomma, è il ritmo che corrisponde a uno sviluppo tecnologico ottocentesco. Evidentemente, i tempi di percezione di un messaggio audiovisivo “commerciale” sono estremamente lenti, la ridondanza è normativa. In Bacigalupo l’elettricità è applicata più al processo mentale che alla realtà quotidiana (anche se alcuni film più recenti, come Warming Up, annunciano una evoluzione), al contrario di Bargellini. Ma in entrambi c’è questo sforzo di proporre un cinema veloce, che richieda in fondo allo spettatore la stessa agilità percettiva […]. In questi film si annuncia anche una propedeutica del vedere, in termini sincroni con la rapida trasformazione della realtà oggettiva e del nostro rapporto con essa promossa (e promessa) dalla tecnologia avanzata. Più scientifico è il cinema di Adamo Vergine. E più semplice. Ricordo di aver incontrato Vergine all’inizio del ’67: io presentavo a Napoli il primo numero di una rivista di cinema,1 lui mi presentava i primi film “sperimentali” che io avessi mai visto. Uno di questi (Irene, del fratello Aldo) mi colpì per gli effetti percettivi che provocava, di tipo subliminale; Vergine mi spiegò che il montaggio del film si basava su principi matematici, l’alternanza rapida di immagini a dominante bianca e nera (immagini di realtà fotografate) si basava su una formula. Mi parlò anche, vista la mia sorpresa, di altre attività sperimentali in questo campo e mi preannunciò la nascita di quella che sarebbe stata la Cooperativa del Cinema Indipendente (che peraltro, quando vidi poi altri film, mi apparve ben diversa da questa prima immagine “scientifica”). Mi parlò anche di ciò che si era visto a Napoli al “Centro di filmologia cinema sperimentale” e mi dette una scheda del gruppo MlD, di cui nulla sapevo e che non ho mai più sentito nominare; ma mi sembra qui importante riportarne una dichiarazione: «Lo studio MID, ricerche visive, è stato costituito a Milano nell’ottobre 1964 da: Antonio Barrese, Alfonso Grassi, Gianfranco Laminarca, Alberto Marangoni. Svolge attività di ricerca nelle comunicazioni visive a tutti i livelli e per tutti i canali di diffusione. Le ricerche sinora [1966] svolte, o in corso di svolgimento, riguardano: 1. Complessità ottimale delle immagini a) in senso statico b) in senso dinamico in rapporto al tempo di emissione. 2. Verifica della soglia di saturazione percettiva di immagini con struttura e complessità nota.

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3. Modi e tempi ottimali di lettura delle immagini.

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4. Studi di alcuni fenomeni percettivi complessi: stroboscopici, cromostereocinetici, allucinatori, dissociazione cromatica, luce-suono. 5. Verifica sulla possibilità di usare in sede fotografica o filmica alcuni dei sopracitati fenomeni (stroboscopico, cromostereocinetico, dissociativo)». Sembrerebbe di stare di fronte a dei test percettivi per studiare le reazioni fisiologiche degli spettatori, secondo le indicazioni della filmologia. Ma il discorso di Vergine era più ampio, la filmologia era solo un punto di partenza, che egli ampliava a un’indagine sull’immaginario in termini scientifici. (Bisogna dire a questo proposito che molti film underground USA recenti, prodotti però come film “artistici”, hanno la struttura di film-test: per esempio quelli di Hollis Frampton). Vergine è un medico diventato psicoanalista. È comprensibile il suo studio attraverso il cinema della strutturazione dell’immaginario ed è un peccato che egli abbia realizzato solo un film in questa direzione, Espiazione (Es-pi’AZIONE): ma è uno dei più belli della produzione underground italiana. Il film è stato realizzato con un apparecchio speciale che controllava il movimento dello zoom, avanti e poi indietro, in modo che risultasse continuo, e lentissimo, per tutta la durata del film (23’). Questo zoom inquadra una lampadina appesa al soffitto e accesa: la fonte della luce. Il piano è intersecato da una serie di rapidi flash in cui vediamo immagini-tipo (una valigia, una finestra, un bidet, la vagina di una donna… ). Sono immagini dal carattere insieme quotidiano e archetipo. Nulla ne giustifica l’inserzione in un determinato punto del film, ma il progressivo avvicinarsi al centro luminoso, o l’allontanarsi, produce nella sua matematica esattezza una struttura di organizzazione dell’immaginario suscitato da ogni immagine-flash. Come precisa Vergine: «Il film è unicamente una predisposizione registica di elementi che lo spettatore (attore) selezionerà e combinerà nel suo proprio “senso”, attraverso i vari meccanismi, coscienti ed incoscienti, di inclusione ed esclusione, di memorizzazione, di associazione, di proiezione, di analogie e di ricordi, per comporre o rifiutare la sua trama di latenze». Siamo passati dal test fisiologico al test analitico. Il cinema è concepito, scientificamente, come un linguaggio che modella non soltanto le immagini schermiche, ma anche quelle prodotte reattivamente nell’immagine dallo spettatore; il film è un’interazione fra schermo e spettatore. Non si può fare a meno di pensare a un classico del cinema underground, Wavelength di Michael Snow. Siamo di fronte a un cinema sintetico che seleziona rigorosamente i suoi materiali. Una strada opposta a questa è indicata dai “film familiari” di Antonio De Bernardi. Egli accompagna la sua vita con la m.d.p., filma l’universo familiare che lo circonda. Il cinema fa parte dell’universo quotidiano, ha una forma diaristica in cui però il fattore tempo non interviene come cronologia, ma come durata. L’atteggiamento di partenza è relativamente ingenuo: è quello del cineasta “amatore” che riprende la cerchia familiare e quella degli amici con una sufficiente fiducia nelle possibilità riproduttive del mezzo. In assenza di montaggio, l’unica forma di intervento, di “truc-

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co”, sembra essere la sovrimpressione, la cui funzione non si può dire però deformante; essa permette piuttosto al cinema di espandersi, sollecitando una lettura dell’immagine schermica su più spazi e su più tempi contemporaneamente (una volta si sarebbe parlato di montaggio “interno”). Il cinema serve a fissare il vissuto e lo spettatore è lasciato libero di fronte a questo vissuto, sollecitato ad assumere uno sguardo fiducioso e aperto. C’è in questi film un aspetto baziniano (come del resto in ogni “film familiare”). Ma la fiducia nella espressività della realtà come tale è solo un punto di partenza; la m.d.p. è sempre presente, poiché essa fa parte integrante della realtà. I personaggi (amici, familiari) “posano” per la m.d.p., come in Dèi, o guardano in macchina, o la evitano. E l’occhio che li guarda è un occhio fiduciosamente coinvolto, che esperisce la realtà secondo i propri tempi e i propri ritmi: è un occhio gestuale. È anche un occhio espanso, capace di operare sintesi spazio-temporali attraverso la sovrimpressione. I film di De Bernardi sono in genere lunghissimi (2, 6, 12 ore); essi non propongono uno spettacolo, ma una esperienza allo spettatore. Il cineasta si interroga sul proprio ego di autore e, senza rinunciare al cinema, cerca di cancellarlo: la realtà non si struttura per lui, ma è lui che si struttura per la realtà. «I film di De Bernardi – dice Massimo Bacigalupo – si producono da una decisione che egli ha preso: raccontare quello che vede, confermare la sua attenzione con i film e, se possibile, “salvare” se stesso ed il suo mondo nella sua opera e per mezzo di essa. Il cinema s’è sempre fatto in altro modo, con qualche eccezione (Lumière, Dziga Vertov): il cineasta non è un occhio che guarda, ma il centro che sempre attrae e manipola l’esperienza in funzione del film, oggetto arbitrario da gettare sul mercato. Nessuno fa il film per amore delle cose, senza imporre ad esse uno schema esterno, ma attendendo da esse una risposta alla sua ricerca. Il regista è come quel turista che fotografa e poi scappa via: fabbrica una realtà pretestuosa e la fotografa per non guardarla, peccando contro l’attuale che pare così avere senso solo nell’ambito della sua fantasia. (Anche il documentarista dispone ciò che intravede secondo una “scaletta”). Ma prendiamo l’atteggiamento ingenuo eppure particolaristico e dunque gretto del poeta familiare della domenica, liberiamolo da quei suoi limiti ed insegniamogli, con William Blake, a “vedere un Mondo in un granello di sabbia, un Cielo in un fiore selvatico, a tenere l’Infinito nel palmo della mano, e l’Eternità in una sola ora”, e avremo il cinema di De Bernardi». Il cinema di De Bernardi si rivolge anche a uno spettatore diverso. La durata dei film e il fatto che sono girati in 8mm e sonorizzati spesso con nastri e dischi sono aspetti che sconvolgono la nozione di sala, ipotizzando uno spazio più aperto ed elastico: anche la sala si espande, proprio perché essa, come la realtà filmata, non è concepita come spazio magico in sé concluso; il film non è un’“opera”, un dato privilegiato, ma fa parte dello spazio quotidiano, si inserisce nella continuità del vissuto. E anche se De Bernardi non si definirebbe come “moderno”, il suo uso del cinema lo è, poiché senza traumi la tecnica viene a far parte della vita. Quella di De Bernardi è, poi, anche la proposta di un cinema dell’armonia e della felicità: l’esperienza “tecnica” corrisponde alla ricerca di una totalità. Il cinema di Paolo Brunatto è anch’esso testimonianza di un vissuto, “autobiografia”, che però si struttura nei modi del documentario. Egli non rifiuta la “scalet-

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ta” di cui parla Bacigalupo, ma se ne serve per dare ordine a uno spazio pur sempre familiare, legato a un’esperienza data come quotidiana. La m.d.p. interviene solo in alcuni momenti del vissuto, prescelti come i più rappresentativi di tale esperienza. Ciò che ne risulta è uno spettacolo del quotidiano, regalato allo spettatore con buona dose di ironia: è il caso soprattutto di Oserò turbare l’Universo? girato in 8mm. Brunatto cerca in questo di recuperare l’ingenuità del cineamatore che filma non la durata della sua vita quotidiana, bensì quei momenti salienti, quei rituali e quelle cerimonie da registrare per un altro cerimoniale, quello del cinema. Ma la cerimonia non produce distanza dall’oggetto, essa ce lo avvicina perché si è scoperto che tutto è degno della narrazione: la realtà del quotidiano viene così epicizzata. Vorrei aggiungere un’altra cosa. In Tashi Jong, Super-8 girato in un villaggio indiano, la compostezza documentaristica, quasi paesaggistica, delle varie inquadrature fa sorgere un’interrogazione: che cos’è il montaggio in un film documentario? Esso sembrerebbe ridotto a una funzione di legamento di inquadrature già piene per conto proprio; ma il montaggio qui interviene (anche se fatto in macchina) accostando colori, forme, movimenti che fanno corpo con la realtà fotografata e costituiscono il vero racconto: il ritmo e la luce sono il “messaggio” di questo film meditativo. Luce e ritmo fanno già parte della realtà, per Brunatto. Per Gianni Castagnoli, invece, è la m.d.p. – col suo diaframma (che “mangia” più o meno luce), col fuoco (che rende più o meno evanescenti forme e colori), con i suoi movimenti (che trasmettono la mobilità del corpo del cineasta, il suo rapporto fisico con la materia ripresa) – a gestire la luce e il colore che è latente nelle cose riprese. L’atteggiamento di Castagnoli conserva la curiosità e la disponibilità dell’amatore; ma è anche totalmente cosciente e responsabile della natura meccanico-elettrica del suo sguardo. La m.d.p. è un’estensione dell’occhio, che guarda non attraverso ma con lo strumento. Cinema familiare è dunque cinema che ha familiarità con la tecnica; il cinema, ormai entrato con pieni diritti nello spazio quotidiano “snaturalizzato”, non è più né un mito né un feticcio. Al cinema diaristico di Jonas Mekas si può ricollegare anche l’attività di Alfredo Leonardi, che pur avendo promosso o propagandato l’underground, seguendo l’esempio del newyorckese, non ne ha mai fatta propria la ricerca teorica e la manifestazione di cinema-limite. Occhio privato sul nuovo mondo, girato in USA, è un buon esempio di questo cinema diaristico, in cui appuntare le impressioni visive di un viaggio. C’è la sorpresa e la velocità del primo sguardo poggiato su una nuova realtà, mentre l’articolazione degli appunti è elementare, segue per blocchi autosufficienti il tempo e lo spazio del viaggio. Radicale è l’esperienza di Bargellini col suo 8mm Fractions of Temporary Periods (in due parti). Egli ha ripreso nel corso di tre anni ciò che vedeva dal suo balcone nel balcone di fronte: una bambina, […], che passa del tempo, che è poi il tempo della sua crescita che si svolge davanti gli occhi dell’autore e dello spettatore. Questa crescita è colta attraverso alcuni brani di comportamento che lo spazio chiuso del balcone rende “teatrali”. […] Viene fatto di pensare a Andy Warhol, nei cui lunghissimi film il tempo è reso uniforme, appiattito e “consumato”, o alla definizione che Cocteau ha dato del cinema: morte al lavoro. C’è in più una caratteristica pre-

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ziosa del cinema familiare, quella di documentare il comportamento privato, un dato cioè della nostra esperienza che non ci è dato conoscere (conosciamo la nostra privatezza, non quella degli altri; se la conoscessimo essa sarebbe pubblica e non privata). Il cinema è uno strumento prezioso per questo tipo di conoscenza, e Bargellini lo pratica secondo la tecnica del voyeurismo. Egli ribadisce così anche la differenza profonda fra la vita e il cinema: quest’ultimo fissa la vita, che continua a scorrere per proprio conto, e così uccide, anche se poi la fa magnificamente e fittiziamente rivivere per virtù di riproduzione. Siamo così giunti a un gruppo di opere in cui si può parlare di “cinema verità” o “cinema diretto”. Come si sa queste definizioni sono nate in Francia, Canada e Stati Uniti in relazione a opere di carattere documentaristico realizzate con una strumentazione tecnica (l6mm) estremamente leggera e tale da consentire un minimo di mediazione tra chi filma e la realtà filmata. Si tratta di una strumentazione (m.d.p. Eclair-Coutant, registratore Nagra-Kudelski) che si è subito rivelata preziosa in televisione: essa è (o dovrebbe essere) la strumentazione-tipo di un cinegiornalismo moderno. (Tutto questo avveniva agli inizi degli anni ’60: oggi la tecnica mette a disposizione strumenti ancor più sofisticati e razionali, videotape e Super-8). La grande novità del cinema diretto era la presa diretta del suono. Questa era una novità ancora più grande per l’Italia, dove nel cinema commerciale la presa diretta era stata sostituita col doppiaggio in maniera massiccia, nel dopoguerra (il paradosso del neorealismo è anche questo, che ha introdotto un maggior realismo nell’immagine nello stesso tempo in cui lo ha eliminato col doppiaggio); d’altra parte, in campo documentaristico dominava il cliché della voce fuori campo di commento. Le rare esperienze di film o documentari in presa diretta (ad opera di Gian Vittorio Baldi, Gianfranco Mingozzi, alcuni film di Olmi, Bertolucci, Amico e pochi altri) sono state troppo marginali per avere qualche influenza. L’Italia è rimasta attaccata al principio del doppiaggio, cioè del suono rifatto in studio (voci e rumori), in una maniera che più di una volta sfida il ridicolo, specie per quanto riguarda il doppiaggio di film stranieri originariamente in presa diretta […]. Ma il problema che qui ci interessa è che questo abuso del doppiaggio ha praticamente impedito che si sviluppasse da noi una scuola documentaristica. Lasciando perdere in questa sede il problema della mancata riflessione teorica sul suono (spesso si ragiona del cinema come se fosse muto, considerando il suono un’aggiunta, o una didascalia, non appunto un suono), bisogna dire che la conseguenza maggiore di questo stato di cose è la scarsa pratica che gli operatori hanno con le apparecchiature per la presa diretta. […] Anche nei film italiani che qui interessano si sente la mancanza di pratica nel suono, il basso livello tecnico. Ciò non toglie che il problema venga affrontato e, in buona parte, risolto. I film di Guido Lombardi (proveniente dall’underground) realizzati in collaborazione con Anna Lajolo (per esempio D e &) e con Alfredo Leonardi (E nua ca simu a forza du mundu) tendono a realizzare una sorta di antropologia sociale col cinema. La cronaca è il materiale di base, il punto di partenza è l’intervista, l’inchiesta. Ma poi il materiale deve essere organizzato. Ecco quindi i due livelli dell’inter-

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vento: la presa diretta e il montaggio. Il materiale di base, grazie alla presa diretta del suono, acquista un suo valore di testimonianza, di prova, in cui intervengono tutta una serie di elementi sui quali l’informazione è scarsa; per esempio come parla un operaio (inflessioni dialettali, pronuncia incomprensibile), come si comporta di fronte a una cinepresa ecc. In questi film non c’è spazio per l’improvvisazione, la presa diretta non aiuta a cogliere l’avvenimento mentre si svolge, essa ha piuttosto la funzione di responsabilizzare colui che parla e colui che filma, poiché dà all’inquadratura una presenza fisica inconsueta. Si può dire che la presa diretta garantisca qui la scientificità dell’indagine sociale che sta alla base del film. La posizione della m.d.p. di fronte al personaggio intervistato è frontale, fino al rischio dell’estraneità telegiornalistica. Le situazioni da registrare in presa diretta sono scelte non come avvenimenti, ma come situazioni politicamente esemplari. Eppure non sono delle astrazioni: il cinema diretto ce le dà come verità di base. Si parte dalla realtà (che è anche la realtà del cinema: i personaggi parlano a una m.d.p. e a un microfono) per costruire un discorso che resta legato alla realtà. […] Il cinema non è un fine a se stesso, non è spettacolo, ma strumento d’intervento e di trasformazione: il finale [di &], con la discussione del film stesso dentro al film, rimanda alla discussione che il film si propone di suscitare fuori dal film, e qui solo avviata È un procedimento che era stato già adottato da un tipico film del cinema verità, Chronique d’une été di Rouch e Morin, e poi ripreso da Lombardi-Lajolo (e Leonardi) nel loro videotape L’isola dell’isola. Il film, fuori dallo schermo, si pone come strumento privilegiato (sintesi “saggistica”) per un uso didattico-politico. […] [Un altro] film di cui vorrei qui occuparmi non è per la verità un film, è un videotape trasferito successivamente su pellicola: […] Anna di Alberto Grifi e Massimo Sarchielli [che] costituisce a mio avviso l’esperienza più avanzata nel campo del cinema verità, fatto tanto più sorprendente se si tiene conto che il videotape-film è stato realizzato in un paese con scarsissima tradizione in questo campo. Non si può neppure dire che tecnicamente Anna sia opera avanzata. Esso è stato realizzato con nastro da 1/4 di pollice (Akai) e trasferito su pellicola l6mm b&n con un’apparecchiatura di tipo artigianale molto economica inventata da Grifi (il vidigrafo). Ma ciò che colpisce dell’esperienza è il fatto che essa, almeno teoricamente, non costituisce un exploit, non è un’esperienza “eccezionale”. I migliori film del cinema verità, da quelli di Pierre Perrault a quelli di Shirley Clarke e Andy Warhol, fondano la loro riuscita su circostanze eccezionali, in qualche modo irripetibili, dove il dato sorprendente è la presenza della m.d.p. e del microfono. Si è tanto più ammirati di ciò che si vede in quanto la “verità” indubbia dell’avvenimento si carica di spettacolarità per il fatto di essere stata filmata […]. Nel caso di Anna, invece, si è scelta una realtà quotidiana, dotata certamente di caratteristiche suggestive in partenza (una ragazza minorenne, incinta, senza casa né soldi), e la si è vissuta assieme alla strumentazione tecnica. Il gruppo che ha realizzato il film, cioè, ha tentato di integrare i mezzi di riproduzione alla vita quotidiana, subordinando l’opera alla vita stessa. La cronaca del vissuto, poi, si è strutturata in opera, addirittura in “intreccio”, sia perché ogni vita ha un intreccio, sia perché il gruppo ha costantemente interagito con i mezzi di riproduzione.

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[…] La tecnica non è più vissuta come un di più rispetto all’esperienza reale, ma come facente ormai parte di questa esperienza. E si tratta di un’esperienza di gruppo, un’esperienza sociale, e non solo individuale come in molti cineasti underground (dove la m.d.p. è estensione dell’occhio o della mano del singolo). […] Che si sia usato il videotape dimostra come l’esperienza del cinema verità fosse una sorta di teoria dell’uso moderno della televisione (anche se poi l’impossibilità attuale della televisione di Stato a recepire prodotti del genere ha costretto a tornare al cinema per una sua circolazione). In questo il cinema dimostra un suo limite tecnico: il costo della pellicola, il fatto che una volta registrata essa non possa (al contrario del videotape) essere cancellata, la sua limitata sensibilità alla luce, la complessità del montaggio immagine-suono ecc. rendono, anche nel caso del l6mm e del Super-8, il cinema meno “semplice” del videotape, quindi in principio meno adatto a registrare la realtà là dove si voglia immediatezza, eppure il cinema verità ha cercato proprio questa immediatezza e lo ha fatto, diciamo così, forzando il mezzo; la presenza del videotape rende ora in molti casi superato il cinema, che appare invece uno strumento di maggiori possibilità là dove si voglia lavorare sul montaggio o si desideri un tipo di definizione dell’immagine che il nastro ancora non consente. In questo senso si può dire che il cinema verità ha anticipato il videotape e ne ha abbozzato una teoria con i film migliori (che però contraddicono la nozione di immediatezza proprio per la loro “eccezionalità”). Anna sembra raccogliere tutta la consapevolezza teorica del cinema verità e insieme ne supera l’eccezionalità servendosi di una tecnologia più adeguata, immediata, come il videotape. […] Alcuni film sperimentali particolarmente interessanti sono stati realizzati da autori che operano di solito al di fuori del cinema: Mario Schifano (pittura), Leo De Berardinis-Perla Peragallo (teatro; quanto a Carmelo Bene, direi che il suo cinema si è ormai integrato dentro l’industria). Alla base del cinema di Mario Schifano c’è un’insofferenza nei confronti della “improduttività” della pittura, del suo scarso o debole rapporto con la realtà: la cornice e la staticità la pongono in situazione subalterna. Schifano è particolarmente sensibile alla presenza dei mezzi di massa nella vita moderna, e anche la sua pittura ne è una testimonianza, nella misura in cui ne recepisce i “materiali” (fotografia, fotogrammi di film, immagini televisive); egli ha tentato di superare la contraddizione facendo direttamente un cinema, per così dire, non “d’artista”, che non fosse cioè pittura in movimento, che non fosse soltanto una sperimentazione sul linguaggio pittorico, una sua estensione. Infatti il suo cinema non ha difficoltà ad accogliere la dimensione realistica. Satellite e Umano non umano, in particolare, sono film che “contemplano” (relativa fissità dell’inquadratura, occhio carico forse di memoria “pittorica”) una realtà che si articola attraverso i mezzi di massa audiovisivi. Si potrebbe dire che Schifano filma la realtà come se essa fosse uno spettacolo di mixed-media; nel primo film, che si svolge interamente in un interno […] (il soggetto è l’occhio che guarda), i vari media – cinema, televisione, fotografie, diapositive, musica – invadono e sembrano avere un potere opprimente, per quanto affa-

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scinante; nel secondo si evade, si esce per strada, e ci si imbatte in una realtà politica in movimento, che ha sì una forte connotazione teatrale (la manifestazione politica come teatro totale), ma che finalmente risulta produttiva, non è “spettacolo” – com’è in fondo la pittura – ma azione. Eliminando dal suo cinema la presenza umana accentrante, il protagonista Schifano fa una radiografia della realtà contemporanea come realtà decentrata dei mezzi di massa, che sono le estensioni dell’uomo. A Charlie Parker di Leo De Berardinis e Perla Peragallo è un “registrato”, come lo definiscono gli autori, un film cioè che esiste soltanto nel processo di registrazione visiva e sonora. La forte presenza fisica del film, direi corporea, è l’esatto opposto di quella teatrale, appunto perché non pretende mai di essere “viva”. È la presenza dei mezzi di riproduzione fisicamente manipolati: pellicola, montaggio, microfono, “gestualità” della m.d.p. «Questo lavoro, partito da un elemento così semplice come il montaggio, doveva esasperare, compiere, e quindi aprire a nuovi sbocchi, tutta la fisicità dei nostri lavori [teatrali] precedenti. Doveva essere, sotto tutti i punti di vista, soltanto un’energia audiovisiva in reazione. Non dovevamo comunicare dei pensieri già elaborati, ma bisognava tentare di elaborare dei pensieri attraverso la macchina da presa e il registratore, gli strumenti, la voce ecc. Volevamo scoprire dei pensieri attraverso una nuova tecnica, partendo da elementi semplici, visivi o acustici […]. Era da evitare qualsiasi posizione critica, che fosse preaudiovisiva. Volevamo cioè fare della m.d.p. e degli altri strumenti più noti, dei mezzi conoscitivi e non di rappresentazione. Quindi doveva esserci un pensiero cine-musicale per così dire, non articolabile in parole; ciò non voleva dire assenza di parole, significava soltanto che anche la parola, nel caso fosse presente, doveva rientrare in una dimensione acustica. Da questi elementi semplici audiovisivi si passava a girare o registrare e queste operazioni non erano mai la materializzazione di quegli elementi, ma appunto una operazione, cioè una elaborazione tramite dialettiche, scontri, fra i vari elementi e chi teneva la macchina in mano o il microfono ecc.». Ancora una volta, ci troviamo di fronte al problema di una assunzione non esteriore dei mezzi di riproduzione (la realtà vista con e non attraverso la m.d.p.) e dell’elaborazione di un pensiero cinematografico (e non scritto-parlato “tradotto” in cinema). […] Ma lo sperimentalismo non si limita allo schermo, alla produzione di opere, all’ampliamento delle possibilità linguistiche del cinema. Esso si interroga anche sul processo di produzione dei film, sulla loro distribuzione, sulla nozione classica di sala cinematografica e di spettacolo. L’accesso al cinema in campo industriale si è, negli ultimi tempi, reso sempre più difficile a causa dei costi altissimi di una produzione media. Il paradosso è che questo avviene proprio nel momento in cui sono disponibili le tecnologie che consentirebbero costi bassi e quindi l’accesso al cinema di molte più persone. Fare il cinema è invece ancora un fatto eccezionale. Uno dei motivi fondamentali della lievitazione dei costi è l’ingigantimento della macchina burocratica e quello del lavoro (della troupe), che risultano tecnicamente non indispensabili alla fabbricazione del prodotto. Le norme sindacali oggi impongono in Italia una troupe di più di 30 persone, anche nei casi in cui non sia indispensabile un così gran numero di lavoratori. Di fatto, le tecni-

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che 16mm e soprattutto Super-8 consentono di realizzare un film con un minimo di due persone (operatore e fonico). D’altra parte, molti dei costi di un film non vanno nel film stesso, ma nella macchina burocratica: sono costi che “non si vedono” sulla pellicola. Molte spese sono del tutto improduttive. È questa una contraddizione che spiega anche il monolitismo dell’industria, il suo bloccarsi su posizioni di stallo. L’alto costo favorisce la ripetizione di film tutti simili fra di loro e privi di inventiva. Molti sperimentalisti hanno dimostrato, inoltre, di sapersi servire del cinema, anche non in direzione strettamente sperimentale, con costi molti più bassi, consentiti da una conoscenza professionale delle varie fasi del lavoro. Le parcellizzazione del lavoro della troupe tradizionale porta a uno spreco di energie, a una visione non d’assieme del processo di produzione. Gli sprechi economici vanno spesso a coprire degli “imprevisti” facilmente prevedibili. Il regista pensa di realizzare un determinato film senza conoscere specificamente come le sue idee possono essere tradotte nel processo di produzione, qual è il loro costo reale. Anna (l6mm, b&n, 3 ore 45’) costa complessivamente non più di 5 milioni […]. Il motivo del basso costo è da attribuirsi alla conoscenza specifica che il regista (il cineasta) ha delle varie fasi di produzione. Non si tratta di produzioni “povere”, ma di produzioni il cui basso costo è il risultato di una razionalizzazione del processo di produzione. La fase delle riprese è prevista in ogni dettaglio per evitare quegli sprechi che sono il frutto di una scarsa professionalità. […] La distanza tradizionale che separa il regista dall’operatore, l’artista dal tecnico, il lavoro intellettuale da quello manuale è superata dallo sperimentalista. Egli si responsabilizza nei confronti della tecnica, gestita in prima persona e non delegata. L’occhio del cineasta sperimentale è un occhio tecnologico. Si può dire che nel cinema tradizionale siamo alla fase della dettatura: al regista viene in mente un’idea ed egli delega i tecnici a materializzarla. Evidentemente, questi tecnici aggiungeranno all’idea di partenza la loro routine, le loro abitudini buone o cattive, che “passano” sullo schermo tanto quanto le “idee” del regista; ma se non pensate, esse risultano insignificanti. […] Il lavoro di gruppo che caratterizza molti sperimentalisti si oppone […] al lavoro gerarchico del cinema tradizionale. È un lavoro diciamo più democratico rispetto a un lavoro autoritario (la massima autorità è appunto l’“autore”, il regista). […] Ma anche il lavoro solitario va preso in considerazione. Non perché esso costituisce una eliminazione di impedimenti, un aumento di libertà, ma perché prefigura il rapporto di tutti col cinema, inteso non più come uno spettacolo che si manifesta al di fuori dell’individuo, bensì come un linguaggio “comune”. Questo è vero soprattutto per il Super-8 che offre possibilità non teoriche o solo espressive, ma realmente operative. Il basso costo e le facilità d’uso consentono davvero di andare oltre il cinemaspettacolo. Il cinema può allora servire per far parlare in linguaggio audiovisivo realtà che fino ad ora ne sono state escluse: realtà locali ma anche realtà non “realistiche”. L’occhio non vede soltanto secondo le coordinate della prospettiva quattrocentesca. […]

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FILMOGRAFIA

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Massimo Bacigalupo – Lilian, 1964-65, 8mm, colore, sonoro, 24 fts, 9’ – Quasi una tangente, 1966, 8mm, b&n, sonoro, 24 fts, 37’ – Ariel loquitur, 1967, 8mm, b&n e colore, muto, 24 fts, 50’ – Un dittico ed un intervento; comprende: 60 metri per il 31 marzo, 1968, 8mm, b&n, muto, 18 fts, 15’ (disponibile anche in copie 16mm); Versus, 1968, l6mm, b&n, muto, 24 fts, 14’; Her, 1968,l 6mm, colore muto, 24 fts, 3’ (quest’u1timo film costituisce l’intervento di Bacigalupo nel film collettivo della CCI Tutto, tutto nello stesso istante) – Lettere, 1968-69, 8mm, muto, 4’ (ne esistono due copie, una in b&n, l’altra a colori) – Fiore d’eringio o Eryngium; comprende: The Last Summer, 1969, 8mm, colore, sonoro, 18 fts, 30’; Né bosco (una conversazione), 1970, l6mm, b&n, muto, 24 fts, 20’; Migrazione, 1970, l6mm, b&n, sonoro ottico, 60’; Coda, 1970, l6mm, b&n, sonoro, ottico, 15’ – Warming Up, 1972-73, l6mm, colore, sonoro ottico, 40’ – Cartoline dall’America, 1975, 16mm, colore, sonoro (in lavorazione)

Piero Bargellini – La striscia, febbraio-marzo 1966, 8mm, sonoro, 18 fts, b&n, 15’ – … vogliate gradire questo semplice bouquet di parentesi appena sbocciate ((( ))), maggio-giugno 1966, 8mm, b&n, sonoro, l8fts, 35’ – Questo film è dedicato a David Riesman e si intitolerà capolavoro, maggio 1967, 8mm, b&n e colore, sonoro, 18 fts, 401 – Saluto, gennaio 1968, copie a 8 e l6mm, b&n, sonoro, 16 fts, 3’ 30” – Morte all’orecchio di Van Gogh, agosto-settembre 1968, 8mm, colore, sonoro, 24 fts, 65’ – Relazione filmata, girato nel settembre 1968, sonorizzato ed edito nel 1970, 8mm, colore, sonoro, 24fts, 13’ – Fractions of Temporary Periods (prima parte) ovvero Plans-séquences per una bambina, girato tra la fine del 1965 e la fine del 1968, 8mm, b&n, sonoro, l8fts, 28’ 30’ – 360° di Cinediario, girato durante tutto il 1968, 8mm, b&n, muto, l8 fts, 22’ – Macrozoom, luglio 1968, l6mm, colore, muto, 24 fts, 3’ 41” – Water-Closet ovvero attesa ad una defecazione, girato un giorno dell’agosto 1968 (fra le 14,15 e le 22,30), l6mm, b&n, muto, 24 fts, 2’ 11” – Baraccone, girato nello stesso giorno e ore dei film precedente, l6mm; b&n, muto 24 fts, 3’ 30” – Fractions of Temporary Periods (seconda parte): Due ore pomeridiane della bambina, gennaio 1969, 8mm, b&n, sonoro, 18 fts, 21’

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– Trasferimento di modulazione, febbraio 1969, l6mm, panortocromatico, muto, 24 fts, 9’ – Tempo-Tempio-Ritratto, febbraio 1969, l6mm, colore, muto, 4 fts, 4’ 41” – Stricnina, girato nel gennaio 1969, stampato ed edito nei giugno 1973, l6mm, colore, muto, 24 fts, 7’ – Abbandonate ogni illusione, preparatevi alla lotta, primavera 1969, 16mm, b&n e colore, sonoro ottico, 24 fts, 40’; scritto e diretto in coll., con Marco Melani e Stefano Beccastrini; Film politico prodotto dal PCI di San Giovanni Valdarno – Nelda, girato il 6 agosto 1969, 16mm, b&n, muto, 24 fts, 3’ – Un Ottofilm di Pierfrancesco Bargellini, agosto 1969, 8mm, colore, muto, 24 fts, 32’ – Zukie, gennaio 1970, 16mm, colore, sonoro ottico, 24 fts, 21’ – Gasoline, marzo 1970, 16mm, b&n, muto, 24fts, 14’ – Due silenzi e un’armonica, aprile 1971, 8mm, b&n e colore, sonoro, 16 fts, 30’ – Dove incominciano le gambe, dicembre 1975, 8mm, colore, sonoro, 24 fts, 30’ […] Paolo Brunatto – Vieni dolce morte...., 1967-68, 16mm, b&n, sonorizzato con dischi, 75’ – Tak!, 1968, 8mm, colore e b&n, muto, 18 fts, 45’ – Oserò turbare l’Universo?, 1970-72, 8mm, colore e b&n, 18 fts, 80’ – La voce di Esta Joy, 1972, Super-8, colore, sonoro su nastro, 18 fts, 30’ – Tashi Jong, 1973, Super-8, colore, muto, l8fts, 21’ – Les enfants de la terre, 1975, Super-8, colore, muto 11’ in collaborazione con la Karma Film realizza: Merry Mario, 1975, Super-8, colore, sonoro, 38’ – Non si sa mai, 1975, Super-8, colore, sonoro, 55’ Gianni Castagno1i Tutti i film sono in Super-8, a colori, e muti, salvo diversa indicazione; elenco parziale: – Desoxin, 1970 b&n, 12’ – Film performance, 1971, b&n, 6’ – Matrimonio, 1971, 9’ – Untitled, 1971-72, 20’ – Little Town Flirt, 1972, 30’ – Berlino, 1973, 20’ – Roma-New York, 1974, 8’ – Novella-Maquillage, 1974, 7’ – Prato, 1974, 7’ 1974, 5’ – Joujoga, 1974, 5’

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– Valentino Moon, 1974, sonoro, 12’ – La notte e il giorno, 1973-76, sonoro, 93’

Leo Berardinis, Perla Peragallo – A CharlieParker, 1970, 16mm (anche copia a 35mm), colore, sonoro ottico, 85’

Antonio De Bernardi – Il mostro verde (in coll. con Paolo Menzio), 1967, l6mm, 2 schermi, colore, sonoro, 30’ – La favolosa storia, comprende: Il vaso etrusco, 1967, 8mm, colore, sonoro, 23’; Il bestiario, 1967-68, 8mm, 4 schermi, colore, sonoro, 23’; Il sonno di Costantino, 1967-68, 8mm, 3 schermi, colore, 23’ – Fregio ovvero An angel came to me, 1968, 8mm, colore, sonoro, 23’ – La Vestizione, 1968, 8nim, colore, sonoro, 29’ – Nei giardini di Arturo R., 1968, 8mm, colore, muto, 12’ – Il passaggio, 1968, 8mm, colore, muto, 12’ – Dèi, 1968-69, 8mm, colore, sonoro, 140’ – La casa del soggiorno ovvero L’uomo che costruì le piramidi (in coll. con Mauro Chessa), 1969, 8mm, colore, muto 12’ – Le cronache del sentimento e del sogno, 1968-1970, 8mm, 1-4 schermi, colore, sonoro, durata variabile; comprende: Lune, Piena di fiume, Il giardino erboso, Ettore e Paride, Il castello, Ida (o Le tre donne), Il sogno, La strada del sole (ciascuno 23’) – Le opere e giorni, 1969, 8mm, b&n e colore, muto e sonoro, 8-10 ore; comprende: La casa dei parenti, Il viaggio, La ripresa – A Patrizia, l’irrealtà ideale, l’oggetto d’amore, 1968-70; 8mm, b&n e colore, muto, 55’ – La cerchia magica, 1970-71; 8mm, b&n e colore, sonoro, 6 ore circa – Definizione di spazio (il quadrato), 1971-73, 8mm, b&n e colore sonoro, 150’

Paolo Gioli Tutti i film sono in b&n, 16mm, sonoro: – Passando da una situazione ad un’altra, 1968, 20’ – Tracce di tracce, 1969, 10’ – Cromatico lento, 1969, 8’ (colore) – Commutazione con mutazione, 1969, 15’ – Immagini reali/immagini virtuali, 1970, 15’ – Immagini disturbate da un intenso parassita, 1970, 45’ – Secondo il mio occhio di vetro, 1971, 16’

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– Del tuffarsi e dell’annegarsi, 1972, 10’ – Ispezione e tracciamento sul rettangolo, 1970-73, 20’ – Geometrico continuo, 1970-73, 25’ – Porte alberi e manufatto, 1970-73, 15’ – Figure instabili nella vegetazione, 1973, 25’ – Cryptosfera, 1973, 81’ – Hilarisdoppio, 1973, 30’ – Traumatografo, 1973, 25’ – Cineforon, 1973, 15’ – Quando la pellicola è calda, 1974, 25’ – Anonimatografo (il tempo della ricerca ritrovata), 1975, 60’

Alberto Grifi – La verifica incerta (Diperse Exclamatory Phase), 1964-65, copie 16 e 35mm, colore, sonoro, 45’ (in coll. con Gianfranco Baruchello) – Transfert per Kamera verso Virulentia, 1966-67, copie 35 e 16mm, colore, sonoro, 20’ – L’occhio è per così dire l’evoluzione biologica di una lagrima, 1965-67, 35mm, colore, 20’ – Autoritratto Auschwitz, 1965-67, 16mm, b&n, sonoro, 30’ – Orgonauti, evviva! (Un viaggio con carburante erogeno), 1968-70, 35mm, colore, sonoro, 20’ – Vigilando reprimere, 1972, 35mm, colore, sonoro, 26’ – Anna, 1972-75, videonastro trasferito in 16mm, b&n, sonoro, 225’ – Parco Lambro, 1976, videonastro trasferito in 16mm, b&n, sonoro (in preparazione)

Alfredo Leonardi – Indu1genza plenaria, 1964, 35mm, colore, sonoro, 10’ – Living & Glorious, 1965, 35mm, b&n, sonoro 21’ – Musica in corso, 1966, 35mm, b&n, sonoro, 14’ – Amore amore, 1966, 35mm, b&n e colore, sonoro, 75’ – Cinegiornale, 1967, 16mm, b&n, sonoro 3’ – J & J& Co., 1967, 16mm, b&n, sonoro 9’ – Organum multiplum, 1967, 16mm, b&n, sonoro, 17’ – Se l’inconscio si ribella/si rivela, 1967, 16mm, b&n, sonoro, 21’ – Esercizio di meditazione, 1968, 16mm, colore, sonoro, 9’ – Può la forza di un sorriso, 1968, 16rnm, b&n, sonoro 5’ – Le n ragazze più belle di piazza Navona, 1968, 16mm, b&n, sonoro, 13’ – Libro di santi di Roma eterna, 1968, 16mm, colore, sonoro, 15’

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– Occhio privato sul nuovo mondo, 1970, Super-8, colore, sonoro, 70’ – Vampiro romano, 1970, Super-8, colore, sonoro, 25’ – Film in collaborazione con Guido Lombardi (vedi)

Guido Lombardi – A corpo, 1968, 8mm, colore, muto, 25’, 18 fts – Sviluppo n. 2, 1968, 8mm, b&n, muto, 34’ – Luxor Garden, 1968, 8mm, b&n, sonoro, 65’ – Si prenda una ragazza, una qualunque, lì a caso…, 1969, 16mm, b&n, muto, 12’ – A, 1969, l6nmi, colore, muto, 3’ (in coll. con Anna Lajolo) – B, 1969, I6rnm, b&n, muto, 10’ (in coll. con Anna Lajo1o) – C. - La casa del fuoco, 1970, l6mm, b&n, sonoro, 25’ (in coll. con Anna Lajolo) – D. - Non diversi giorni si pensa splendessero alle prime origini dei nascente mondo o che avessero temperatura diversa, 1970, 16mm, b&n, sonoro, 40’ (in coll. con Anna Lajolo) – La casa è un diritto non un privilegio, 1970, l6mm, b&n, sonoro (in coll. con Alfredo Leonardi e Paola Scarnati) – E nua ca simu a forza du mundu, 1971, l6mm, b&n, sonoro, 60’ (in coll. con Anna Lajolo e Alfredo Leonardi; produzione: “sperimentali” RAI) – & - Là il cielo e la terra si univano, là le quattro stagioni si ricongiungevano, là il vento e la pioggia si incontravano, 1972, l6mm, b&n, sonoro, 75’ (in coll. con Anna Lajolo) – I Blues - Cronache del sentimento politico, 1976, l6mm, b&n e colore, sonoro, 70’ (in coll. con Anna Lajolo) […]

Mario Schifano – Satellite, 1968, 35mm, colore, sonoro, 100’ – Umano non umano, 1969, 35mm, colore, sonoro, 95’ – Trapianto, consunzione e morte di Franco Brocàni, 1969, 35mm, colore, sonoro, 120’

Adamo Vergine – Ciao, ciao, 1967, 16mm, b&n, virato, muto, 6’ – Es-pi’AZIONE, 1968 copie 8 e 16mm, b&n, sonoro, 23’ – Lettera a Youpki, 1969, 8mm, colore, muto, 15’ […]

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NOTE * Da Cinema sperimentale e mezzi di massa in Italia, ricerca di Adriano Aprà curata, nel marzo-giugno 1976, per la Fondazione Angelo Rizzoli e dedicata allo studio dei processi di comunicazione di massa, e diffusa solo in alcune copie fotostatiche. 1 Si tratta della rivista “Cinema e Film”, diretta da A. Aprà, nata dalla scissione da “Filmcritica” di un gruppo di redattori (tra gli altri E. Ungari, G. Menon, U. Spila, L. Faccini, M. Ponzi ecc.); il primo numero è dell’inverno 1966-67, l’ultimo dell’estate/autunno 1970 [nota della curatrice].

Torino sperimentale* Paolo Bertetto Come città del cinema e dell’automobile, Torino è forse più di Milano la vera metropoli “tradizionale e futurista” evocata da Marinetti. E la sua vocazione alla tecnologia e alla ricerca, alla modernità e alla produzione dell’immaginario trova uno sbocco particolare nello sviluppo di una sperimentazione filmica, discontinua e intermittente, ma non per questo meno significativa. E una sperimentazione che investe la produzione torinese in fasi particolari, connesse alla storia della cultura e dell’arte della città, ma che mantiene una sua vitalità dentro logiche e ottiche differenti. E se un’attenzione alla sperimentazione tecnologica è particolarmente viva ad esempio nella produzione dell’Itala Film, anche grazie ai contributi di uno specialista internazionale come Segundo de Chomón, è tuttavia nei territori marginali o nei punti di intersezione tra il cinema e le arti visive che si realizzano le operazioni d’avanguardia e più radicali.

Velocità e il secondo Futurismo a Torino 1.1 L’esperimento di Velocità (Vitesse nella scaletta di Oriani), realizzato all’inizio degli anni ’30 da tre artisti torinesi come Martina, Cordero e Oriani, non riflette solo l’intenzione di annettere nuovi territori espressivi alla ricerca del secondo Futurismo, ma è anche un’affermazione esplicita della modernità come orizzonte di qualificazione e di pertinenza dell’avanguardia. Velocità infatti è insieme l’affermazione di Torino come metropoli del moderno all’interno dell’orizzonte italiano e l’affermazione della velocità come componente qualificante del moderno e come figura dell’avanguardia in quanto tale. Insieme il film è una sintesi della rapidità delle immagini, dei flussi di movimento e della varietà di stimoli della nuova vita associata: tutti temi che l’avanguardia ha già teorizzato e oggettivato nelle ricerche artistiche e cinematografiche, soprattutto nelle capitali

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della sperimentazione internazionale, ma che anche Torino riafferma agli inizi degli anni ’30. Un film come Velocità resta a tutt’oggi l’unico film futurista conservato – seppure in una versione ridotta –, poiché il melodramma Thaïs non può essere considerato un film futurista, nonostante la collaborazione di Prampolini alle scenografie, e Vita futurista allo stato attuale delle ricerche sembra definitivamente perduto. Considerato a lungo perduto e conosciuto indirettamente grazie allo scenario, il film è stato recuperato in una versione ridotta, rimontata, pare, da Deslaw. Probabilmente del film esistevano due versioni: una più lunga, fedele allo scenario, e una più breve (360 m.), con un montaggio analogico e ritmico. Come attesta lo stesso titolo, il film riflette un’adesione esplicita a una delle ideesimbolo fondamentali del movimento, e viene realizzato tra il 1930 e il 1931, nel contesto del rilancio anche torinese del secondo Futurismo di Fillia, di Djulgheroff, di Rosso e dello stesso Oriani. La versione ritrovata del film conferma il forte legame con il sistema di relazioni internazionali del Futurismo. Deslaw, infatti, non solo aveva realizzato Montparnasse, un film con la partecipazione di Marinetti, Russolo e Prampolini, che prevedeva un accompagnamento musicale con l’“intonarumori” di Russolo, ma stava sviluppando una ricerca centrata sul tema (futurista o neo-modernista) della macchina, di cui sono testimonianza film come Les nuits électriques, La marche des machines e Vers les robots. Velocità è quindi innanzitutto l’affermazione della rilevanza dell’avanguardia, della centralità del tema futurista della velocità e della funzione privilegiata del cinema nell’esprimere il dinamismo della modernità. In questo senso è caratterizzato forse da una maggiore pregnanza compositiva e simbolica rispetto alla prima sperimentazione più ibrida, eterogenea e a volte genericamente polemologica di Vita Futurista. Il film, in un certo senso, non propone solo un tema dell’avanguardia, ma pare riflettere sulla sua stessa forma essenziale. La velocità, infatti, non è tanto il visibile dell’avanguardia, quanto la sua forma interiore, il suo modo di funzionare, il suo stile. Un’idea centrale dell’avanguardia non è solo che l’arte deve interpretare il ritmo dei tempi nuovi, inscrivendone il dinamismo nella processualità di un flusso espressivo, e neppure la semplice convinzione che la velocità rappresenti lo spirito del moderno. È piuttosto l’intuizione che la velocità è espressa più dal discontinuo, dal flusso di eterogeneità, che dal continuo; più dalla rottura, dalla diversità, dallo choc del nuovo, dell’inatteso, che dalla fluidità, dallo sviluppo progressivo, dall’omogeneità. L’avanguardia capisce che l’informazione viaggia più veloce nel discontinuo che nell’omogeneo, nel frammentato che nel compatto, nel luminoso intermittente che nell’opaco e nel lucido diffuso. «Bisogna continuamente variare la velocità perché la nostra coscienza vi partecipi», scrive Marinetti in “La nuova religione morale della velocità” (1916). E aggiunge: «La velocità ha nel doppio svolto la sua bellezza assoluta… La velocità nello svolto e dopo lo svolto è la velocità aguzzata, cosciente». La velocità distrugge la rigidità, moltiplica all’infinito le immagini, realizza l’impensabile e l’immaginabile del futuro. «Velocità = sfarfagliamento + condensazione dell’io», scrive ancora Marinetti nel 1916. Ma l’infinitizzazione dell’io è anche la

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condizione dell’artista. «La velocità è la riproduzione artificiale dell’intuizione analogica dell’artista». Il discorso sulla velocità diventa anche discorso sullo statuto dell’immaginazione artistica del ’900. E la sperimentazione di Oriani, Martina e Cordero pare al tempo stesso investire i temi e le firme dell’avanguardia e proporsi come progetto tematicamente innovativo e insieme autoriflessivo. Ma fare all’inizio degli anni ’30 un film sulla velocità significa lavorare su un concetto già profondamente sedimentato nell’avanguardia, e quindi operare in una prospettiva di ripresa, di ripetizione differente, di citazione. Oriani, Martina e Cordero costruiscono un film che è segnato dalla consapevolezza di venire dopo, dalla destinazione a rappresentare una fase ulteriore della ricerca sperimentale. Velocità è infatti una sorta di meccanismo di secondo grado che elabora un sistema di citazioni articolate, che fa rivivere passaggi e immagini della prima ondata dell’avanguardia. È una rilettura cosciente, un “citazionismo” intenzionale che attesta una fase nuova, una sorta di seconda età dell’avanguardia. I riferimenti filmici sono numerosi e vale la pena di citarne qualcuno. L’utilizzazione e l’animazione degli oggetti della vita quotidiana (tazze, bicchieri, bottiglie e cristalli) ricordano Ballet mécanique e la poetica dell’oggetto di Léger. Altre immagini rammentano ancora Ballet mécanique: l’inquadratura dal basso dell’animazione di una grande città (Torino in luogo di Parigi) e le immagini di ruote meccaniche che girano a grande velocità. D’altronde il ricorso a immagini meccanomorfe e dinamiche è molto diffuso nell’avanguardia neomodernista degli anni ’20 (e dei primi anni’30), da Photogénies mécaniques di Grémillon a La marche des machines e Vers les robots di Deslaw, sino ai film di Vertov come L’uomo con la macchina da presa, o L’undicesimo, come anche è presente in film di grande produzione, ma sensibili alle problematiche della modernità, come L’Inhumaine o Metropolis. Al contrario, i tre volti che compaiono nell’oscurità richiamano Filmstudie di Richter (e ancora Metropolis), mentre l’immagine della cascata montata all’inverso ricorda Cineocchio di Vertov. La rotazione a 360° della camera su un asse verticale evoca il suo lancio in aria a opera di Man Ray in Emak Bakia, mentre la ripresa vorticosa dello spazio di piazza San Carlo a Torino, realizzata «legando la Debrie a una corda, lanciandola dalla finestra e imprimendole un movimento rotatorio», ricorda una ripresa di Dréville alla Borsa di Parigi nel documentario Autour de l’argent. Altri procedimenti e altre immagini rinviano ancora a Man Ray. La trasformazione di immagini esattamente definite in immagini flou di piccoli punti luminosi rammenta l’inizio di Emak Bakia, mentre l’utilizzo di un manichino disarticolato d’artista in un atelier ricorda ancora Emak Bakia e Le mystère du Château du Dé. Così Velocità risulta insieme un’affermazione della modernità e una citazione dei suoi modi, un film sperimentale e un’esperienza metasperimentale, che nel gioco delle rifrazioni e dei rimandi allarga e moltiplica il senso della ricerca.

Il cinema sperimentale degli anni ’60 2.1 A Torino, come nel resto d’Italia – a parte l’esperienza solitaria di astrattismo dinamico di Veronesi a Milano e la quasi occasionale prova di La gazza ladra di D’Er-

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rico –, la ripresa della sperimentazione filmica è in larga misura correlata alla riaffermazione dello spirito dell’avanguardia, legata al diffondersi di una nuova attenzione allo sperimentalismo letterario (il Gruppo 63) e artistico (dal Neoastrattismo all’Informale, dalla Pop art all’Arte povera) e alla presentazione nel 1967 a Torino, e poi alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema a Pesaro e a Roma, di una grande rassegna dell’underground americano, con la partecipazione di Jonas Mekas e Taylor Mead. La sperimentazione cinematografica torinese nasce quindi in un contesto di grande vivacità artistica e di accese discussioni sulle prospettive di un’altra arte, alternativa e antagonistica rispetto alla tradizione culturale e alla società formata. I giovani film-maker che operano a Torino, al di là di una generica opzione sperimentale, sviluppano nella seconda metà degli anni ’60 una ricerca che si articola lungo due linee diverse. Da un lato è una ricerca di artisti visivi che intendono misurarsi anche con il cinema. Dall’altro è l’opzione di appassionati di cinema, esterni al circuito produttivo che, sull’onda della libertà radicale dell’underground americano, iniziano una sperimentazione legata all’utopia di una vita differente e “alternativa”. 2.2 Tra i giovani artisti torinesi Ugo Nespolo inizia nel 1966 un’attività cinematografica che continua tutt’oggi. Il suo passaggio al cinema riflette insieme la volontà di allargare il discorso dell’arte e l’intenzione di sperimentare liberamente la macchina da presa e l’apparato tecnico e di mettersi alla prova come autore di cinema. «Partii con la Bell & Howell 16mm e con lo zoom Angenieux alla scoperta del cinema e fui fortunato», scrive Nespolo ricordando i suoi esordi di film-maker. Nel suo atteggiamento creativo confluisce innanzitutto la tradizione dell’avanguardia artistica del ’900, che nello sviluppo della ricerca inventa la propria forma e le proprie regole e tende ad attribuire all’atto creativo dell’artista uno statuto di riconoscimento estetico, valorizzando il Kunstwollen proprio della creatività artistica. Insieme c’è, più specificamente, la logica Dada di affermazione immediata del gesto e dell’invenzione come evento che produce un oggetto artistico-antiartistico dotato di un valore epocale intrinseco e inscritto in un processo di estetizzazione particolare. E il gesto duchampiano che insieme ritaglia nel tessuto della contemporaneità un oggetto o un micro-evento e poi lo carica di una forte valenza concettuale ed estetica. Nespolo comincia il suo cinema dentro questo meccanismo di autoriconoscimento e di definizione programmatica della propria operatività, con una serie di gesti filmici che diventano significativi nell’ottica della gratuità ipersignificante del New dada. In Grazie, Mamma Kodak e in Le gote in fiamme mescola la gratuità ostentata della microgestualità inscritta nel significante filmico che si intreccia con una destrutturazione delle tecniche del cinema, per realizzare una invenzione che ha insieme il gusto del ludico e la forza della provocazione paradossale. Questa esibizione New dada del gratuito diventa con La galante avventura del cavaliere dal lieto volto (1967) un percorso in cui il non senso e la raffinatezza del gioco linguistico si fondono in modo del tutto particolare. Film d’artista interpretato da artisti come Baj, Fontana e Volpini, secondo una tradizione elettiva del cinema d’avanguardia, che ricorre a pittori, musicisti e scritto-

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ri (Duchamp e Man Ray, Satie e Picabia in Entr’acte, Richter, Graeff e Hindemith in Vormittagspuk, Dall in Un chien andalou e Ernst, Artigas, Cossio e Pierre Prévert in L’âge d’or), La galante avventura del cavaliere dal lieto volto intreccia una rievocazione ironica e grottesca di un improbabile Risorgimento con i giochi, i paradossi e le ironie perpetrate da Nespolo con la complicità stralunata degli artisti amici. Il movimento frenetico dei personaggi, i gesti velocissimi, le azioni disordinate e inutili creano un ritmo rapido e incalzante, che realizza un grande paradosso visivo. La volontà di realizzare effetti ludici e di disegnare un mondo inverosimile spinge Nespolo a sviluppare una sperimentazione formale estremamente variata e ricca di soluzioni visive. Da un lato Nespolo ricorre a un montaggio dinamico che coordina e/o giustappone inquadrature brevi in una banda spesso frammentata; dall’altro potenzia le tecniche dello scatto singolo e dell’accelerazione per avere una visione sincopata dei movimenti e degli eventi, con effetti grotteschi e ironici. Nespolo lavora variamente l’immagine, introducendo disegni, macchie, graffiature direttamente sulla pellicola, con il risultato di rendere estremamente mobile e variabile la visione. E come se l’immagine avesse un surplus di qualificazione visiva: oltre all’oggetto ripreso, una mobilità supplementare e incontrollabile di segni elaborati o di graffiti grezzi in libertà si stende sulla superficie visibile, creando una sorta di balletto irragionevole che ricorda i dinamismi non programmabili delle puntine da disegno, del sale e del pepe in Retour à la raison di Man Ray o le graffiature di Reflections on Black di Brakhage o di Le film est déjà commencé di Lemaître. L’operazione assume una doppia connotazione: da un lato è legata alla produzione di effetti visivi particolari, si somma al montaggio rapido, allo scatto singolo, attestando un livello di particolare rielaborazione formale; dall’altro riflette una volontà di dissacrazione, di understatement dell’immagine stessa, che riflette a sua volta la volontà di creare un cinema di sperimentazione ludica, di mixage irridenti e giocosi. La sperimentazione è funzionale a un progetto di produzione di irrazionalità, le immagini si mescolano grazie a esperimenti tecnici differenti, creano un gioco ironico che si sviluppa senza regole prestabilite. È un cinema dell’ibridazione che, mescolando regimi, tecniche e procedimenti diversi, costruisce una nuova forma sperimentale. E l’idea di un cinema dell’istantaneità che pare riprendere la lezione tardodada di Entr’acte di Clair – quando Clair riconosceva a Picabia il merito di aver “liberato le immagini dal dovere di significare”, e Picabia teorizzava l’instantanéisme come risoluzione dell’artistico nell’evento. Il rapporto con l’avanguardia storica è in ogni modo fondamentale nelle opzioni progettuali di Nespolo. Nespolo opera per inventare una sorta di museo vivente immaginario, in cui il recupero del passato diventa un modo per ripensare il presente dell’arte e le sue possibilità di estendersi alla vita. Nel 1975-76 realizza Un Supermaschio, ispirato ad Alfred Jarry e impegnato a far rivivere lo spirito irridente, graffiante e anticonformistico dell’autore di Ubu roi. Il film è meno aggressivo dei testi di Jarry, ma effettua nuove intersezioni con il mondo dell’arte, ricreando una sorta di teatrino erotico cerimoniale, sviluppato in uno spazio che allude alla Factory warholiana. Nespolo allestisce uno scenario rituale, arricchito da citazioni e da allusività, che sottraggono metodicamente credibilità alla rap-

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presentazione, e introduce al centro della visione una grande testa di Beuys che si pone come simulacro artistico per eccellenza. Il risultato è una sorta di scenario rituale che si fa conte philosophique, apologo che parla di erotismo per parlare di arte e di poetiche della contemporaneità. Nel 1982, poi, Nespolo realizza un progetto di macro-opera di Man Ray, Revolving Doors, trasformando una nota progettuale dell’artista americano nel punto di partenza di un nuovo film. Le porte girevoli si presenta come un’estensione ulteriore del progetto di Man Ray, realizzata con un atteggiamento mimetico di identificazione, in cui l’artista all’opera si propone come figura vicaria, erede operativo, sosia creativo dell’artista dell’avanguardia storica. Altre operazioni di Nespolo vanno invece nella direzione della realizzazione di una sorta di museo dei musei dell’arte del Novecento. Dal 1967 comincia infatti una piccola ma significativa serie di film dedicati ai protagonisti della ricerca artistica torinese, che attraverso l’affermazione dell’Arte povera sta imponendosi sul mercato internazionale. È una prospettiva di intersezione arte/cinema, sviluppata anche nell’underground americano, con film di Marie Menken, di Jonas Mekas, di Andy Warhol, che Nespolo riarticola secondo due linee specifiche: da un lato la ricerca visiva sull’opera dell’artista; dall’altro la trasformazione dell’artista in performer anomalo e la registrazione di una sua prestazione. Neonmerzare (1967), Boettinbianchenero (1968) e Buongiorno, Michelangelo (1968-69), dedicati rispettivamente a Merz, a Boetti e a Pistoletto, insieme isolano un evento, un gesto, un’azione irrazionale dell’artista e la correlano alle sue creazioni, in un rinvio continuo in cui l’artistico e l’esistenziale si intrecciano in modi assolutamente particolari e anomali. Sono esperienze in cui l’artistico diventa l’orizzonte stesso della ricerca e in cui il lavoro di Nespolo dilata all’infinito l’avanguardia e la sua tradizione del nuovo. 2.3 L’altra linea torinese di ricerca punta invece a usare il cinema come nuova forma di autoespressione totalmente libera e capace di aderire all’immaginazione più sfrenata. E un cinema insieme visionario, radicato nella fantasia meno controllata, immerso nella produzione onirica e inconscia. Tonino De Bernardi è senza dubbio l’artista più inventivo del cinema di autoespressione. Con Paolo Menzio realizza, nello scenario degradato e favoloso di una discarica periferica torinese, vicino a Corso Giulio Cesare, una grottesca avventura sospesa tra Burroughs e Frankenstein, Ginsberg e Adamo ed Eva. II mostro verde (1967) è proiettato su due schermi, secondo il grande modello di The Chelsea Girls, e non solo allarga l’orizzonte del visibile e moltiplica gli effetti, ma produce tutta una serie di interazioni tra le due immagini. È un ampliamento della visione che sviluppa una dialettica particolare tra le inquadrature, che operano non più soltanto attraverso raccordi spazio-temporali, ma anche sul piano orizzontale. I personaggi che si muovono ora nello spazio deteriorato della discarica, ora in un interno artificiale, delineano percorsi insieme grotteschi e visionari. I corpi interagiscono con gli aggregati di immondizie, improvvisano gestualità e rapporti dentro una qualità innovativa e singolare dell’immagine. Poi De Bernardi sviluppa un bestiario infinito, un’avventura fantasmatica e oni-

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rica, che ha la concretezza dell’arte materica e l’improbabilità delle produzioni inconsce. Da Dèi (1968-69) a Le opere e i giorni (1969), che è un film di otto ore, De Bernardi persegue una sorta di cinema ininterrotto, di work in progress, in cui trovano forma, come in uno scenario senza limiti, i volti, le ossessioni, le figure di sogno che abitano la sua vita. È una ricerca senza fine, che prosegue con film come A Patrizia: l’irrealtà ideale, l’oggetto d’amore (1968-70, 55’), II quadrato: definizione di spazio (1971-72, 150’), L’io e le aggregazioni (frammenti del mondo scoppiato) (1977-79, 180’), sino a Donne (1980-82, 12 ore): una ricerca che sembra avere le dimensioni stesse dell’esistenza individuale e costituirne insieme una sublimazione irragionevole e lirica. Il lavoro di De Bernardi crea progressivamente un orizzonte dell’immaginario in continua trasformazione, un work in progress all’ennesima potenza, fatto di varianti infinite, di ossessioni personali, di slittamenti pulsionali e affettivi, di figure che irrompono dal profondo o di immagini che registrano il quotidiano e lo trasfigurano secondo modalità estremamente eterogenee. De Bernardi rielabora in chiave visionaria e strettamente soggettiva la mitologia delle star di Warhol, trasformando persone, amici, attanti in dei, dotati di uno shining, di un’intensità segreta, artificiale e autentica di singolare forza. In Dèi, in Cronache del sentimento e del sogno (196870), in Le opere e i giorni, De Bernardi trasforma le presenze esistenziali dei soggetti posti davanti alla macchina da presa in raggi di risonanza, maschere emozionali. De Bernardi punta a rivelare le vibrazioni profonde dell’anima delle persone, la loro impronta psichica, la sete di vita da cui sono attraversate. In Dèi fa travestire una serie di coppie non solo per fissare in una configurazione oggettiva le sue «esigenze di sogno e di fantasticheria», ma per mostrare attraverso la modificazione artificiale dell’apparenza, dell’aspetto (del trucco, dei vestiti), una linfa interiore, una verità oscura dei soggetti coinvolti nel film. In Cronache del sentimento e del sogno la volontà di scoprire le profondità delle persone si mescola con una «volontà di fissare una sofferenza, composta secondo un quadro e un’iconografia ben precisa», in quanto i personaggi rispecchiano «una certa scena vista, sognata nella vita primigenia». Gli attanti sono insieme colti nella loro quotidianità e inscritti nell’archetipo, riqualificati in una dimensione mitica. De Bernardi gioca liberamente tra i due registri e le due dimensioni, dilatando estremamente la rilevanza del quotidiano e insieme rifondando la mitografia nella vita ordinaria. È una operazione difficile, contraddittoria, realizzata magari in modo discontinuo, ma che certamente consente un allargamento assolutamente singolare dell’orizzonte dell’immaginario. Le sperimentazioni sulla dilatazione visionaria del mondo sono realizzate attraverso tecniche differenziate di messa in scena che, pur nella varietà di articolazioni, si configurano come stile. Soprattutto in Dèi, ma non solo, De Bernardi tende a ridurre se non a eliminare il montaggio e a sostituirlo con una proliferazione infinita di sovraimpressioni, che ricordano per la qualità e la ricchezza un film visionario come Inauguration to the Pleasure Dome di Anger. Insieme la sperimentazione del quotidiano, la sua volontà di registrare performance anomale, ricorda il cinema dissennato di Jack Smith e di Ron Rice, che De Bernardi conosce bene anche grazie alla mediazione di Taylor Mead.

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De Bernardi d’altronde è anche l’autore italiano che ha creato una sintonia più forte con i registi del New American Cinema e del cinema sperimentale europeo. La sua intensificazione visionaria moltiplica e trasfigura il mondo personale, facendolo diventare uno scenario della suggestione e dell’ossessione. Non a caso Jonas Mekas ha scritto di lui: «Il mondo ha bisogno della tua poesia, il mondo ha bisogno della tua dolcezza e dei frammenti di Paradiso che tu aiuti a tenere in vita nei tuoi film».

NOTE * Da Torino città del cinema a cura di D. Bracco, S. Della Casa, P. Manera, F. Prono, Il Castoro, Milano, 2002. Catalogo della mostra tenuta a Torino, 15 gennaio-29 aprile 2002.

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Capitolo 4

Cinema-video e ritorno. Trent’anni di ricerca fra arte e tecnologia Sandra Lischi

1. Ipertrofia tecnologica «Il video – scrive Jean-Paul Fargier – è la tecnica che fonda l’esistenza della televisione. Lontano dalle lentezze della chimica, madre della fotografia e nonna del cinema, questa tecnica permette di realizzare rapidamente, molto rapidamente, immagini che beneficiano della velocità della luce. L’immagine elettronica è capace di offrire senza scarto temporale riflessi del mondo. Istantaneamente. Il video è l’immagine immediata: è l’apparecchio che dice vedo perfino prima che il suo stesso utilizzatore abbia visto qualcosa. La televisione regna grazie a questa ipertrofia dell’io, della sua tecnica. Per generare l’arte video, sarà necessario che degli artisti si rivolgano innanzitutto a questo io gigante, onnivoro e in fin dei conti anonimo. L’arte video è nata contro la televisione».1 Fargier sostiene che proprio l’espressione videoarte, così insolita proprio per la volontà di caratterizzarla artisticamente, nasce appunto dalla necessità di arginare questa ipertrofia della tecnica: «una tecnica talmente tecnica che grava su ogni sublimazione poetica con la sua pretesa di compiere, anzi di sostituire, uno degli atti più semplici della vita: vedere».2 Questo peso della tecnica, che ha contraddistinto la nascita del video e il suo sviluppo, va di pari passo con la leggerezza che caratterizza e accompagna l’ascesa delle tecnologie di registrazione audiovisiva su nastro e lo stesso funzionamento dell’immagine elettronica: tecnologie leggere, immaterialità dei segnali, ubiquità del monitor, vibrazione delicata di fotoni sullo schermo. Non solo. Il peso dell’apparato televisivo va di pari passo con la leggerezza delle esperienze indipendenti e d’artista nate appunto dalla tecnologia della TV, ma con modalità produttive, distribuitive e di fruizione ben diverse. Fargier usa per descrivere l’io tecnologico ipertrofico della televisione l’aggettivo gigante. Non dimentichiamo che nei primi anni ’60 Marshall McLuhan aveva definito la televisione “il gigante timido” (prendendo a prestito l’e-

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spressione da Edith Efron).3 E che vent’anni dopo uno dei capolavori dell’arte video internazionale, Der Riese (Il gigante) di Michael Klier, cineasta e videoartista tedesco, ci offre un poema visivo-musicale con embrioni di narratività a partire dal “gigante” dello sguardo onnipresente delle telecamere di sorveglianza. “Il gigante” è l’apparato mediatico, il sistema di controllo non solo delle nostre esistenze spiate da mille occhi, ma anche del nostro immaginario e della nostra capacità di costruire storie che ci appartengano; della nostra capacità di riprendere possesso di quell’io evocato da Fargier: un io diversamente tecnologico, non anonimo e non ipertroficamente tecnico.4 Storie di scoperte “tecnologiche”quindi, quelle degli inizi della pratica video, e questo anche prima dell’immissione sul mercato delle attrezzature leggere di videoregistrazione. Storie di monitor “sradicati” dall’ambiente domestico e inseriti dietro le tele già alla fine degli anni ’50 (nelle esposizioni di pittura e scultura di Wolf Vostell) come materia plastica, luminosa e vibrante. Storie di effetti creati artigianalmente in diretta applicando un magnete sul tubo catodico e scoprendo così una televisione astratta, la distorsione danzante dell’immagine, le diverse volute create dal movimento stesso del magnete: l’intuizione e la dimostrazione della malleabilità in tempo reale dell’immagine elettronica (Nam June Paik). La televisione serve a questi artisti e a questi autori come campo di ricerca e détournement della tecnica televisiva. La sfida è quella di rovistare, di scavare nella tecnica stessa, fino scoprire il rimosso tecnologico della televisione. A partire dagli effetti elettronici, che in TV sono nient’affatto “speciali”, bensì il regime naturale, l’essenza stessa della trasmissione di immagini. Paik auspicava l’umanizzazione della tecnologia, cioè un azzeramento della distanza fra macchina e uomo, e praticava un approccio giocoso e dissacratorio alle macchine, ai dispositivi. La storia del video è anche storia del rovesciamento-riappropriazione e smitizzazione degli specialismi tecnici, una storia di “saper fare”, di laboratori domestici, di opere in cui corpo e dispositivo fanno un tutt’uno, di invenzioni (come il sintetizzatore video: fra i prototipi, quello messo a punto da Paik con l’ingenere giapponese Shuya Abe). Negli stessi anni McLuhan teorizzava i media come estensioni dei sensi e del sistema nervoso. E scriveva che il contenuto del medium era il medium stesso, invitando a superare le analisi contenutistiche e le problematiche relative all’uso del medium – la posizione, diceva McLuhan, dell’“idiota tecnologico” – per concentrarsi su un approfondimento “mediologico” il cui nucleo era l’attenzione alla tecnica e al linguaggio. Forse un’idea nuova di “specifico”, in questo caso televisivo, riecheggiata (o è, piuttosto, una suggestione nei due sensi, nel fertile e arioso clima culturale del periodo?) dagli artisti del video.

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2. Difficoltà di una tecnica “facile” Poi arriva il “Video Tape”. Siamo alla metà degli anni ’60. Fino ad allora le telecamere, ingombranti e pesanti, si trovavano solo negli studi TV. Ed erano talmente “pesanti” che nelle emittenti televisive si usava ancora, e molto, la tecnica cinematografica, soprattutto per le riprese in esterni. La pellicola e la cinepresa, fino ad allora, erano ritenuti mezzi leggeri rispetto alle telecamere. Fuori dagli studi, chi voleva girare immagini doveva e poteva procurarsi una cinepresa più o meno amatoriale: impossibile girare in video. Impossibile fino all’avvento del “portapak”: un’attrezzatura ancora molto ingombrante e tutt’altro che leggera rispetto alle odierne handycam, ma che consentiva finalmente di accedere a una tecnologia nuova e per molti aspetti più versatile di quella cinematografica: per riassumerne alcuni, l’economicità radicale del nastro magnetico rispetto alla pellicola, la riutilizzabilità del supporto; la maggiore durata delle riprese rispetto alla breve bobina del film; la possibilità di vedere immediatamente il girato (la simultaneità) e quindi di usare subito le immagini riprese, senza necessità di sviluppo e stampa; la maggiore sensibilità del nastro in condizioni di scarsa illuminazione; la possibilità di fare tutto da sé. Chi faceva riprese in video negli anni ’60 era una specie di homme-orchestre in grado di portarsi addosso tutto il necessario, anche se con un po’ di fatica: microfono e registratore video (separati dalla telecamera), batterie. La troupe, anche la più risicata, non era più indispensabile. Se gli artisti avevano “deviato” la tecnologia televisiva scoprendo la pittoricità dell’immagine elettronica, l’ubiquità non necessariamente domestica del monitor, le potenzialità creative e astratte dei campi di energia del segnale video, chi si accosta al Video Tape scopre la possibilità di una televisione che mostra senza censurare l’ebbrezza di piani-sequenza illimitati e del vedere-vedersi in tempo reale sullo schermo (il circuito chiuso) e la disponibilità di apparecchi per produrre e diffondere immagini e suoni a basso costo. L’attitudine è sempre anti-televisiva dunque (uno degli slogan degli anni ’60 è “VT is not TV”, il Video Tape non è televisione), la tecnologia è praticamente la stessa, benché ai videoregistratori portatili manchi l’apparato “gigante” dei ripetitori e degli studi, ovvero, in altre parole, il potere di quella tecnologia ipertrofica e alienante evocata da Fargier nel delineare le diverse caratteristiche della visione elettronica da parte della TV e da parte dell’io vedo, il video. L’euforia è innanzitutto di tipo tecnologico sia da parte delle case produttrici (con campagne pubblicitarie che arriveranno ai potenziali utenti solo vent’anni dopo, quando le attrezzature diveranno davvero leggere e semplici) che da parte di quanti cominciano a dotarsi del Video Tape con finalità

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culturali, politiche, controinformative. E, come alcuni studi hanno recentemente dimostrato, l’Europa, nel campo della sperimentazione “annidata” in TV e della ricerca video indipendente, non era da meno degli Stati Uniti, negli anni ’60; anche in Italia troviamo autori, opere, iniziative e attività pioneristiche e d’avanguardia.5 Fra la fine degli anni ’60 e la metà degli anni ’70 non solo nascono centri, collettivi, gruppi di controinformazione in cui si attua un passaggio (nei modi più diversi, e spesso con una compresenza fra i due media) dal cinema al video, ma si cominciano a elaborare frammenti di teoria, dichiarazioni di poetica, riflessioni. Anche tentativi di catalogazione per generi nuovi, come quello compiuto da Luciano Giaccari nei primi anni ’70 nel campo del video d’arte (con generi come la videoperformance e le videodocumentazioni), gravidi di riflessioni teoriche sulle potenzialità dello strumento [cfr. pp. 225-226]. Nel campo dell’arte contemporanea, centri come art/tapes/22 a Firenze e la Galleria del Cavallino a Venezia fanno del video uno fra gli strumenti dell’espressione artistica, ospitando e incoraggiando le ricerche di autori non solo italiani (e anche nel confronto con le esperienze delle avanguardie storiche e del cinema sperimentale, come nel caso veneziano). Nella Galleria del Cavallino l’attività produttiva ed espositiva si appoggia alle competenze tecniche di Paolo Cardazzo e Andrea Varisco. Accanto ad artisti italiani realizzano opere autori come Dalibor Martinis, Sanja Ivekovic, Douglas Davis e vengono realizzate documentazioni di performance pionieristiche e radicali come quelle di Marina Abramovic e Ulay. Non è da sottovalutare la componente della ricerca sonora, per cui ad esempio Michele Sambin si avvale della collaborazione di Alvise Vidolin, «ingegnere del suono e inventore e sperimentatore di alcune delle più avanzate tecnologie sonore, nonché amico e coadiutore di Luigi Nono e Claudio Ambrosini».6 Esperienze di questo tipo ridimensionano il luogo comune secondo il quale il video d’artista si sarebbe sviluppato secondo tecniche semplici e piane, documentative di performance, minimaliste, e costringono a prendere atto di un fervore sperimentale talvolta assai ricco e sfaccettato. In questi «videolaboratori – scrive Cardazzo – durante i quali la produzione dei video di artisti veniva alternata con la visione di opere video acquisite durantre i continui viaggi nelle capitali europee e nel Nord America, si fecero vari esperimenti sul linguaggio televisivo, sull’uso delle attrezzature di ripresa che venivano adoperate dagli artisti che talvolta collaboravano come cameramen o come tecnici del suono alla realizzazione dell’opera di un loro collega […]; vi era un continuo coinvolgimento durante i colloqui preparatori con gli artisti per verificare tecnicamente quanto volevano realizzare, per cercare nuove soluzioni, per “inventare” qualche escamotage per superare quanto le nostre elementari attrezzature non erano in grado di fare».7 Nel centro fiorentino art/tapes/22 gli artisti più

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importanti del periodo passano “attraverso” l’esperienza del video: da Giuseppe Chiari a Gino De Dominicis a Giulio Paolini. E si confrontano con autori come Marina Abramovic, Douglas Davis, Joan Jonas, Antoni Muntadas, Vito Acconci, Chris Burden, Charlemagne Palestine. Residenza, spazio espositivo ma anche produttivo, art/tapes/22 chiama significativamente un giovane artista statunitense, Bill Viola, dal 1974 al 1976, a svolgere funzioni di operatore video e direttore tecnico: l’esperienza tecnologicamente più avanzata maturata negli Usa gli consente di “assistere” gli autori italiani nel percorso (solo apparentemente facile, si è visto) di approccio al nuovo medium. Maria Gloria Bicocchi, ideatrice e conduttrice del centro, sottolinea a più riprese un’idea di video come momento di passaggio, possibilità, opzione fra i diversi materiali dell’arte, e non come strumento esclusivo (com’era o stava diventando per molti “videoartisti”), e rileva la differenza di valutazione della tecnologia negli USA e in Europa: «la perfezione tecnica in Europa non era perseguita come in America, dove è ritenuta parte indissolubile del messaggio che l’artista vuole dare. L’opera può allora scaturire solo dalla cooperazione perfetta tra artista e tecnico, ma l’artista deve comunque conoscere molto bene il mezzo, quindi deve essere un artista video, altrimenti il lavoro non sarà più suo, ma del tecnico che gli suggerisce i dati operativi. E questo in Italia, ma per certi versi anche in Europa, non potrà mai accadere, sia perché ci sono un tipo di cultura e una disposizione d’animo per cui la tecnica viene semmai usata per essere capovolta (come fa ad esempio Tinguely), sia perché, nella pratica, agli artisti vengono offerte pochissime occasioni per confrontarsi e lavorare con i mezzi video, che al contrario in America sono a disposizione nei musei e nelle Università […]».8 La riflessione sul medium coinvolge anche la versatilità espositiva del video rispetto alle tradizionali opere d’arte: «il videotape […], pur rappresentando un’opera unica d’artista, assolutamente non un multiplo, può viaggiare dentro una scatoletta di cartone. Per cui allestire una mostra diventa per alcuni versi più semplice, non c’è più bisogno di camion […]».9 Da citare in questo ambito anche l’attività (curata da Lola Bonora) del Centro Video Arte del Palazzo dei Diamanti a Ferrara, che ha avuto lunga vita, attraversando da protagonista la scena delle arti elettroniche fino alla metà degli anni ’90: documentazione del lavoro di artisti e di eventi culturali, ma anche organizzazione di manifestazioni e produzione di opere (dai primi Video Tapes fino, negli anni ’80, alle videosculture e videoinstallazioni; basti ricordare l’opera di Fabrizio Plessi, di Maurizio Camerani, di Giorgio Cattani). Anche in questo caso, il centro è luogo di incontro fra la produzione italiana (Gianni Toti, Gianfranco Baruchello, Studio Azzurro, Mario Schifano, Piero Gilardi, Alfredo Pirri ecc.) con le più avanzate esperienze internazio-

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nali e le opere di artisti (spesso anche invitati) come Paik, i Vasulka, Abramovic e Ulay, Jeffrey Shaw, Marie Jo Lafontaine.10 3. Rivoluzione tecnologica? Nel frattempo esce un manuale “pragmatico”, di chiara ispirazione anglosassone, il libro di Roberto Faenza Senza chiedere permesso. Come rivoluzionare l’informazione,11 in cui baluginano qua e là spiragli di un “discorso” sul medium che va oltre le istruzioni d’uso per enunciare la supremazia del processo sul prodotto finito, delineare le differenze fra film e video ed evocare sullo sfondo un più ampio scenario culturale, fra McLuhan e Gene Youngblood. L’enfasi sulla tecnica è già evocata dalla copertina, in cui un giovane a metà strada fra il beatnik e la guardia rossa brandisce, col fucile a tracolla, una telecamera; tale enfasi percorre (anche attraverso i disegni illustrativi) tutto il libro, caratterizzato da un empiristico entusiasmo per la “rivoluzione”, appunto, che il nuovo mezzo sembra permettere in campo informativo. Attitudine manualistica, tecnica, esplicativa, che affianca le notizie sulle esperienze culturali, artistiche, politiche “col video” a note molto dettagliate sull’acquisto delle attrezzature: formati, standard, marche, velocità di scorrimento, durate di registrazione, risoluzione (il libro presenta una vera e propria “pagella” dei videoregistratori esistenti in quegli anni) fino a cavi, microfoni, batterie. Un aiuto per orientarsi nelle effettive difficoltà di un mercato audiovisivo spesso incurante delle necessità dell’utente e privo di punti di assistenza tecnica adeguati. Si acquistava il VTR (Video Tape Recorder Akai, Sony, National, nastri 1⁄2 pollice o 1⁄4 di pollice) sull’onda della curiosità e del bisogno di produzione indipendente, e si restava impelagati nella fragilità stessa delle attrezzature, nell’impossibilità di ripararle o trovare pezzi di ricambio, in oggettive limitazioni del medium (ad esempio la questione del montaggio, questa sì più complicata allora in video che in cinema). Mentre insegna l’uso della tecnica video, tuttavia, il libro di Faenza ammonisce: «se hai vicino degli “esperti” cerca di poterne fare a meno il più presto possibile».12 Con questo entusiasmo empirico e questa esaltazione di una immediatezza e facilità tecnica (contraddetta del resto proprio dalle istruzioni e dalle tabelle stesse del manuale) polemizzano un anno dopo l’uscita del libro Anna Lajolo, Alfredo Leonardi e Guido Lombardi, creatori del collettivo “Videobase” (attivo a Roma dal 1971 al 1979): «molti hanno cominciato, dopo aver letto il libro, a usare lo strumento, e questo è stato un bene, ma vedendovi una falsa “facilità”, senza usare le attenzioni, la cautela e il rigore necessari. Abbiamo visto molti nastri che non si potevano vedere né ascoltare. Leggevano che con il videoregistratore non c’è bisogno di luci e registravano in

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qualunque condizione, oppure che il suono non è un problema e allora usavano il microfono incorporato, e così via. Credo che molti siano rimasti delusi dai risultati, che non erano i risultati del video, ma di un cattivo uso del video».13 La storia del video italiano negli anni ’70 è storia di attraversamenti: fra cinema e video, fra arte e tecnologia. Molti autori che lavoravano in pellicola si accostano al nuovo medium: oltre agli artisti contemporanei evocati prima (fra cui Fabrizio Plessi), anche Alberto Grifi, Daniele Segre, Silvano Agosti; del video si scoprono non solo l’economicità ma anche la versatilità, lo sguardo “diverso” che consente: «la videoregistrazione – afferma Silvano Agosti – è uno strumento enormemente evoluto rispetto al cinema […]. Col cinema facevo una fatica tremenda a cercare di documentare la realtà che mi scappava da tutte le parti mentre col video questo non succede […] e poi se nel cinema tagli le sequenze e monti sei un eroe, col video accade il contrario: ogni volta che tagli è perché hai commesso un errore. Più tagli ci sono e più scemo sei».14 Ma, come si è detto, le difficoltà tecniche non erano poche, e a queste si affiancavano le difficoltà distributive: ricordiamo che per la diffusione di Anna (1972-75) Alberto Grifi aveva dovuto mettere a punto uno strumento, il vidigrafo, per trasporre su pellicola le immagini video e far così circolare il “film” nella rete allora capillare dei cineclub. Il video poteva essere mostrato solo su monitor (la pratica della videoproiezione è arrivata più tardi) e quindi con una fruizione a piccoli gruppi e in spazi allestiti alla meglio e improvvisati. E chi ha partecipato al primo incontro italiano sul video, organizzato meritoriamente dalla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro nel settembre 1973 (“L’altro video. Incontro sul videotape”), ricorda bene la giungla di formati e di standard, la constatazione stupefatta dell’invisibilità dei nastri arrivati dagli USA, l’evidenza insomma di una “difficoltà” tecnica ancora assai diffusa e di fronte alla quale non si era attrezzati. Così, se in campo artistico gli autori (come Michele Sambin) “giocavano” ingegnosamente con la tecnica ancora rudimentale dei registratori video a bobina aperta, sulle sfasature temporali consentite dall’accesso diretto al nastro, come l’alterazione del suo scorrimento, nel campo della controinformazione ci si atteneva per lo più a un’estetica della lentezza e della lunghezza: frutto di una scelta culturale e, potremmo dire, etica, ma anche imposta dalle difficoltà tecniche del montaggio e dell’elaborazione successiva alle riprese. Spesso le carte si mescolano felicemente, tra arte e documentazione: come nel caso del Collettivo “Videobase”, appunto, estremamente attento sia alle questioni sociali (video sugli emigrati, le fabbriche occupate, i disoccupati, il carcere ... ) che alle questioni di linguaggio, tanto da trasformarsi poi, negli anni ’80, – una volta conclusa quella specifica esperienza – in un grup-

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po, “Altrementi”, formato da Lajolo, Lombardi e Gianfranco Baruchello, che torna a considerare l’immagine elettronica al fine di «sperimentare una nuova visione, nell’indefinibile e arbitrario gesto della creatività e per esteso dell’arte».15 Non è un caso che l’autore di riferimento, fin dai primi lavori degli anni ’70, sia stato Dziga Vertov. Ed è interessante notare come da un altro gruppo di “controinformazione”, il “Laboratorio di comunicazione militante” (a Milano, negli anni ’70), che organizza laboratori di smontaggio dell’universo mediatico e dei meccanismi di rappresentazione e autorappresentazione del potere, nasca e si sviluppi negli anni ’80 il gruppo videoartistico di “Studio Azzurro”. Lo sguardo della controcultura e della demistificazione dei media subisce uno spostamento di messa a fuoco e una mutazione, si ibrida con le ricerche estetiche delle avanguardie videoartistiche.16 4. Techne e avanguardie “poetroniche” L’attenzione per il dato “tecnologico”, per l’inestricabile commistione fra tecnica e linguaggi che il video sembra presentare, non caratterizza solo le straordinarie esperienze e riflessioni (e la pratica di inventore, ininterrotta dagli anni ’60 a oggi, con la messa a punto di macchine e sistemi per il restauro dei vecchi nastri) di Alberto Grifi, ma assume i più diversi aspetti, dalla manualistica alternativa (e le rassegne come quella di Pesaro) di cui si è appena parlato, a esperienze come “Videobase” che, come si è visto, dava una grande importanza a un uso meditato e non “spontaneistico” delle potenzialità tecniche del mezzo, invitando all’attenzione e alla cautela nell’uso del videoregistratore. Gli anni ’80 sono caratterizzati in Italia dalla nascita di nuovi gruppi, autori, esperienze in cui la documentazione politica e sociale lascia il posto (per una serie di motivi) a una ricerca più complessa dal punto di vista formale, più attenta ai modi dell’espressione, agli effetti, alle “figure di scrittura”. I sistemi di postproduzione elettronica consentono, seppure con alti costi e in studi professionali, di effettuare finalmente un montaggio accurato ed elaborato e le telecamere stesse si perfezionano. Le aziende produttrici rilanciano una tecnologia stavolta davvero più versatile di quella degli anni ’70, con la immissione sul mercato dei camcorder, telecamere che, a differenza di quelle precedenti, incorporano il supporto di registrazione negli apparecchi di ripresa (camera e recorder). «Sony Video 8 – annuncia nel 1986 una pubblicità della casa giapponese –. Tutta la tecnologia Sony in un unico, piccolo apparecchio. Leggero, compatto, facile da usare e da portare ovunque. Il suo formato è il formato del futuro […] ma non è tutto. Sony Video 8 è anche un

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videoregistratore. E quindi, ti consente di rivedere immediatamente quello che hai ripreso attraverso lo schermo del mirino elettronico, o semplicemente collegandolo con qualsiasi televisore o monitor». Così, ai lunghi piani-sequenza e agli effetti artigianali ottenibili modificando lo scorrimento del nastro nei registratori a bobina aperta si sostituiscono i primi effetti ottenibili coi mixer video, il chroma-key innanzitutto (o blue studio). Li usa Mario Martone nel passaggio dalla scena teatrale allo schermo televisivo con Tango glaciale (1982) intarsiando attori e coreografie in una scenografia “virtuale” e volutamente piatta, allusiva all’universo del fumetto, della grafica, della comunicazione pubblicitaria; e nei successivi video, anche non legati a una produzione televisiva, come Nessundove (1985), con Marina Vergiani. Negli stessi anni lavorano in Italia autori come Giacomo Verde e Theo Eshetu, che usano sia il monitor che gli effetti video più “pittorici” per opere che spaziano liberamente dal teatro alla tradizione figurativa; gruppi, come “Correnti Magnetiche”, i “Crudelity Stoffe”, i “Giovanotti Mondani Meccanici”, che cominciano, in modi diversi, a esplorare le possibilità della computer graphics; autori teatrali come Giancarlo Cauteruccio e il suo gruppo “Kripton” che sperimentano, fra l’altro, la tecnologia laser per gli spettacoli. Vari incontri (da quello promosso all’Università di Torino nel 1982 a quelli successivi svoltisi a Porretta, Bologna, Camerino, Alessandria, Pisa ecc.) sanciscono l’interesse anche teorico per il cosiddetto “cinema elettronico” – favorito fra l’altro dalla discussione su Il mistero di Oberwald (1980) di Michelangelo Antonioni – e la breve stagione RAI dedicata alla “Ricerca e sperimentazione programmi” si caratterizza per una sorta di poetica del tecnologico, esibendo nelle dichiarazioni dei suoi protagonisti un lessico in cui i termini tecnici abbondano, mescolati a una sorta di entusiasmo per la sperimentazione dei “nuovi” (per l’Italia) generatori di effetti e per modalità specificamente “elettroniche” di ripresa in studio. «Solo con l’avvento del colore – scrive Mario Iacona, uno dei dirigenti RAI del settore – si registra un significativo e autentico momento di crescita della televisione. Non tanto per l’apporto cromatico all’immagine, quanto per le aumentate possibilità di manipolazione delle componenti cromatiche del segnale elettronico che produce, fra l’altro, quell’intarsio detto chromakey, con il quale si ottengono in tempi reali una serie di effetti e suggestioni che il procedimento gemello cinematografico (blue-back) raggiunge, ma solo in parte, con complicatissime e lunghissime operazioni di ripresa, sviluppo e truka […]; il “visibile elettronico” cui il panel process dà vita grazie alla tecnica dell’assemblaggio e dell’intarsio, che rende possibile la costruzione di uno “spazio/tempo” autonomo e libero da ogni determinazione realistica […], è un visibile che sembra scardinare dall’interno lo statuto “analogicorappresentativo” dell’immagine cinematografica e televisiva tradizionale».17

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Ricordiamo che già il Moby Dick (1973) teatral-televisivo di Carlo Quartucci pionieristicamente si era avvalso della tecnica del chroma-key. Un frammento di avanguardia del video viene accolto e prodotto in questi anni dalla RAI mediante l’opera delle sedi regionali (è il caso della Campania, con Tango glaciale, ma non solo; fra le sedi più importanti quella di Torino, proprio per la sperimentazione di macchine ed effetti), ma soprattutto dalla Ricerca e Sperimentazione, sia per l’elaborazione di nuovi modelli narrativi – ma anche documentaristici – che si avvalgano delle risorse elettroniche sopra enunciate, sia per lavori più decisamente poetici. È il caso di Gianni Toti, poeta e scrittore, pioniere dell’avanguardia video in Italia, che realizza in RAI una serie di Videopoesie e Videopoemetti nei primi anni ’80, cui farà seguito la Trilogia majakovskiana (1982-83) e infine Squeezangezaùm, che già nel titolo contiene un termine tecnologico, il nome dell’effetto squeeze-zoom (così come nei titoli di testa e di coda di queste opere Toti gioca con il lessico tecnico televisivo: il chimeraman, il montautore, il technoman, l’audioman, il poemusicatronico). Dall’incontro di poesia ed elettronica nasce la “poetronica”, espressione coniata da Toti per condensare le possibilità linguistiche e creative del video, in grado di andare oltre la “macchina da prosa” della televisione corrente e del cinema narrativo. È densa di richiami al lessico tecnico del video (piegato alle esigenze della techne, dell’arte) la descrizione delle scoperte di quella stagione e dell’esplorazione «delle potenzialità retoriche e trans-retoriche implicite nell’“inconscio elettronico”, cioè nei segni, nelle figure, nelle memorie, nelle infinizzazioni delle messe-in-abisso, degli inneschi, delle dilazioni temporali e spaziali (il time-delay), dei carrelli ottici schiaccianti, nelle compressioni-moltiplicazioni e inversioni delle immagini totali e parziali, nello zoom all’infinito ecc.»;18 e di macchinari vecchi di almeno trent’anni ma “nuovi” perché mai utilizzati fino ad allora, o di effetti come una versione “minore” dello squeeze-zoom «accanto ai Digital Processor della Grass Valley, Quantel, Vital ecc.».19 La rivendicazione da parte di Toti del termine greco techne contro le varie teorizzazioni ipertecnologiche e le ubriacature del “nuovo” – che imperversavano in vari campi negli anni ’80 in Italia –, ma anche in polemica con le poetiche dello “sguardo di macchina” di autori affini e amati (come Steina e Woody Vasulka), pone l’accento sul fare artistico, sul linguaggio, sull’articolazione dell’opera come struttura autonoma, in cui la tecnica (vecchia o nuova che sia) è piegata, magari fino ai limiti estremi, alla costruzione di “visioni” diverse. La macchina è sempre umana, lo sguardo di macchina è pur sempre umano. Tutta l’arte è sperimentale, o non è arte. Per Toti, più che di tecnologia si dovrebbe ragionare di arte e, semmai, di scienza.

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5. La tecnica e il dibattito sul realismo L’esplorazione delle tecnologie elettroniche che si affermano negli anni ’80 costringe (perfino in RAI, almeno per la “nicchia” sperimentale) a un ripensamento della classica nozione di realismo. Grazie alla post-produzione in elettronica si può alterare il colore in senso anti-naturalistico (Antonioni); grazie ai mixer si possono modificare il ritmo e la velocità delle immagini; grazie alla tecnica dell’intarsio si possono creare spazi “virtuali”, non presenti nel profilmico, prelevati da altre realtà oppure disegnati, generati al computer. E non solo per la scenografia, ma anche sui corpi, sugli oggetti. E, ancora, si possono moltiplicare personaggi, gesti, azioni; si può scomporre l’inquadratura, che può includere contro-campo e fuori-campo. Lo spazio della visione è bucherellato, relativizzato, moltiplicato, le coordinate spazio-temporali soggette a brusche alterazioni. Non solo: via via che si affermano le tecnologie di diagnostica medica e scientifica, le riprese satellitari, telecamere sempre più mobili e versatili, l’idea di poter vedere l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande diventa (da sogno delle avanguardie storiche) realtà. Una realtà che costringe a ripensare non solo la visione, ma anche la dialettica fra immagine astratta e immagine realistica. Tanto più che negli stessi anni, fra la fine degli ’80 e gli inizi dei ’90, comincia ad affermarsi la possibilità di generare immagini via computer, facendo a meno della macchina da presa: l’immagine virtuale attrae molti gruppi video italiani, che redigono un “manifesto”, firmato anche da alcuni critici e teorici, sulle possibilità offerte dal “nuovo” medium. Qui si sottolineano le caratteristiche positive della virtualità come occasione di sostituire alla nozione di “soluzione” quella di “processo”, all’autore solitario l’autore collettivo; alla staticità il flusso; all’osservazione l’esperienza; all’avere l’essere; alla quantità la qualità. E l’importanza della plurisensorialità e dell’interattività («il fruitore non è più spettatore, ma diventa produttore di esperienza»).20 Nonostante i toni categorici ed eccessivamente ottimistici del manifesto, il testo ha il merito di sottolineare la necessità, anzi l’urgenza, di invadere “artisticamente” un’area a forte connotazione specialistica, tecnologica, che pareva indirizzata a un consumo spettacolar-mercantile o a sfere di ricerca ingegneristico-cliniche. Fra i firmatari anche il gruppo “Studio Azzurro”, nato come si è visto dall’esperienza “controinformativa” del “Laboratorio di Comunicazione Militante”. La riflessione sulla tecnologia – e la sperimentazione artistica dei nuovi dispositivi audiovisivi – da parte di questo gruppo è una delle più sottili e avanzate, e non solo in area italiana, in particolare nell’ambito delle videoinstallazioni degli anni ’90, o meglio dei “videoambienti”, come il gruppo preferisce chiamarle proprio per sottrarre il termine a una connotazione troppo tecnica, fino agli “ambienti sensibili” (con l’uso dell’interattività).

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“Studio Azzurro” utilizza, deviandone le finalità d’uso, tecnologie informatiche e avanzate tecnologie di ripresa: le telecamere a raggi infrarossi, le immagini satellitari, i sensori, le immagini a raggi X degli aeroporti. Ne nascono nuovi percorsi, come dall’uso del monitor in scena era nato un nuovo modo di fare teatro (ricordiamo La camera astratta con Giorgio Barberio Corsetti, negli anni ’80); nuovi modi di rappresentazione teatral-coreografica; nuovi modi di raccontare e di vivere lo spazio, antico o attuale; cortocircuiti di senso fra natura e tecnologia. Ma, commenta Paolo Rosa (di “Studio Azzurro”) a proposito del realismo (o meno) delle recenti esperienze in video: «abbiamo notato che ogni ripresa in elettronica ha in sé astrazione... ».21 Così che – come del resto avevano sostenuto McLuhan, e più tardi e più radicalmente, in Italia, Alessandro Amaducci – l’immagine elettronica in quanto tale non esiste, non è tangibile, è solo un campo sfuggente d’energia, un insieme di segnali in costante e rapidissima mutazione. Altri autori, nell’ambito dello stesso dibattito, sostengono come in video tutte le immagini siano forma, segno codificato, sottolineando l’obsolescenza della distinzione fra astrazione e naturalismo. A parte il tasso di elaborazione presente in qualunque immagine “naturalistica” e la legittimità del “diverso” sguardo dell’astrazione, è lo stesso «concetto di virtuale a far saltare definitivamente la dicotomia astratto-concreto, astratto-verosimile, informale-reale», come scrive Mario Canali. Del resto, osserva Amaducci, «la micro e la macroscopia, le deformazioni di percezioni date dallo spostamento rapido dell’osservatore, i difetti stessi della vista […] sono tutte sorgenti di astrattizzazione del visibile che comunque appartengono al mondo dei fenomeni».22 Non è un caso che nella produzione video di questi anni l’assunzione di tecnologie interattive e di strumenti anche sofisticati provenienti dal mondo scientifico venga combinata con fenomeni e oggetti naturali e modalità umane di percezione e comunicazione come il gesto, la voce, il toccare, il camminare, il tracciare scarabocchi, il soffiare. E che alcune installazioni (come quelle di Mario Canali, di Piero Gilardi) creino un cortocircuito fisiologicotecnologico in opere dinamiche il cui motore è il battito del cuore dello spettatore-utente o il suo modo di evolvere, di muoversi, nello spazio. Ancora una volta, umanizzazione della tecnologia, détournement ora serio, ora giocoso, del dispositivo tecnico. Quest’ultimo, a livello di immissione di nuove tecnologie sul mercato, vede un perfezionamento collegato all’immagine digitale non solo in relazione agli strumenti di ripresa, ma anche ai primi registratori con mixer audio e video “accessibili” agli utenti (con effetti vari di tendina, variazioni di colore, post-sincronizzazione). «Finalmente potete aspirare alla poltrona da regista», recita una pubblicità della Grundig del 1990. E prosegue: «Grazie al processore digitale per effetti video potete intervenire sulle immagini come mai prima d’ora. Scoprirete anche che il mo-

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do migliore per rendere unico un film è doppiarlo con la musica e il commento parlato preferiti. E pensare che continuano a chiamarlo videoregistratore». E, sempre nel 1990, Nordmende: «Fare un filmino o fare del cinema? Non è solo una questione di definizione» (pubblicità della videomovie super-VHS HS 700, con funzione Master Edit «che consente di fare da soli montaggi perfetti» e funzioni di «animazione e ripresa a scatti che permettono “gli effetti speciali”»). Negli stessi anni proprio la computer graphics apre la strada a una serie di autori che provano a spingersi oltre le possibilità della tecnica analogica: anticipata dall’utilizzo del paint-box (la tavolozza elettronica che consente di trasformare le riprese e di scrivere e dipingere, scontornare, creare collage sullo schermo), la tecnologia digitale si spinge fino alla tridimensionalità e alla simulazione. Gianni Toti elabora i suoi primi lavori in immagine di sintesi in Canada e a Marsiglia, in laboratori di post-produzione, grazie a residenze d’artista offerte dai centri stessi, mentre altri autori preferiscono combinare le tecniche, testare il digitale senza abbandonare l’analogico, addirittura mescolare cinema e video o tornare, in un certo (e diverso) senso, al cinema. 6. Ritorno al cinema? Si è visto come il video abbia consentito, per alcuni aspetti, di “tornare” ai sogni delle avanguardie artistiche (macchine da presa leggere e ubique, visioni impossibili all’occhio umano, metamorfosi e simultaneità); la forma creata ed elaborata al computer (ma anche, semplicemente, il paint-box) consente di trattare, ad esempio, le lettere dell’alfabeto come immagini, “futuristicamente”. È questo un ulteriore elemento di dialogo fra presente e passato, fra tecnologia e avanguardia (anche storica, appunto), che produce effetti non solo nell’ambito della cosiddetta videoarte, ma che si manifesta anche con interessanti esempi di “contaminazione” di generi, dal diario alla documentazione sociale, dal ritratto a tentativi di “nuove fiction, fino al teatro alla danza alla musica. Si è vista anche la difficoltà del montaggio; gli studi di post-produzione analogica e i primi studi di elaborazione digitale erano e sono stati a lungo assai costosi e riservati all’area della realizzazione professionale, di mercato (clip, spot, reti televisive). La storia tecnologica del video in Italia è anche storia di strutture talvolta aperte alla sperimentazione (come “Etabeta” e la SBP a Roma) in ore notturne o in cui gli studi erano inutilizzati; ed è storia di opere rimaste a lungo nei cassetti, alla ricerca talvolta spasmodica di spazi che ne consentissero il compimento. Spazi, cioè studi, e montatori specializzati: per la parte relativa al montaggio, il video è rimasto a lungo tutt’altro che “facile”. Alcuni autori hanno trovato maggiore ospitali-

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tà, e possibilità concrete dal punto di vista realizzativo, in centri esteri. Gruppi e autori che accedevano al privilegio (e al lusso) di poter usufruire di studi di montaggio e di montatori professionali potevano realizzare opere ovviamente assai più elaborate e ricche di effetti: parallelamente, in modo più o meno sotterraneo, una parte della produzione video indipendente e priva di accessi alle strutture di post-produzione si orientava, in maniera più o meno esplicita e cosciente (non solo in Italia), verso un ritorno a estetiche e pratiche povere che, attraverso la mancanza di effetti e di elaborazione, esibivano una certa voluta “semplicità”, la cifra dell’amatorialità. Pratiche queste che hanno peraltro sempre caratterizzato una parte della produzione italiana in video, anche efficacemente (si pensi a un autore come Carlo Isola; o all’uso di cineprese amatoriali in Roberto Nanni e nei “taccuini di viaggio” di Giuseppe Baresi). In un videofilm come L’amore vincitore, ritratto di Derek Jarman (Roberto Nanni, 1986), l’uso di diversi formati – 16mm, Super-8, video super VHS – accresce il senso di costante movimento e transito emozionale del personaggio, che entra ed esce di campo (pur intervistato seduto e apparentemente fermo), cita la mescolanza di supporti cara allo stesso Jarman, dà spessore e intensità al racconto. Giuseppe Baresi usa spesso i propri “appunti” amatoriali di viaggio in opere video (come La Febbre, con Giuseppe Cederna, 1994), ma si dedica anche a opere che sono dichiaratamente nel solco del film privato (come il brevissimo Uomini e onde, del 1991). Schematizzando un po’, questa ondata di opere “a mani nude” (per dirla con Vertov) ha imboccato da un lato la strada della videoperformance, un ritorno alla documentazione del gesto (o della gag) d’artista; dall’altro – come in questi ultimi esempi – la strada della rivisitazione del cinema, non tanto come sofisticata elaborazione di materiali d’archivio grazie alla tecnologia elettronica, ma proprio come recupero di formati e pellicole amatoriali e di estetiche di alcune avanguardie, dai surrealisti ai situazionisti al New American Cinema. Fa parte di questa poetica anche una dimensione (a dire il vero in Italia mai sopita) strutturata per collettivi e gruppi, dai “Fluid Video Crew” (Roma) ai siciliani “Famiglia Sfuggita”/ “Cane CapoVolto”. Così, se un autore per tanti aspetti “anomalo” (anche perché artista, teorico, VJ, critico, docente universitario) come Alessandro Amaducci (formatosi nell’Archivio Cinematografico della Resistenza a Torino, nonché all’Università di Torino), predilige la tecnica mista, spaziando dall’uso di frammenti di film a effetti digitali e mescolando un’amplissima gamma di elaborazioni e fonti e teorizzando polemicamente la supremazia dell’immagine elettronica sulla pellicola, i video-maker degli anni ’90, suoi coetanei peraltro, tornano al cinema come fonte di ispirazione e materia prima. Con un punto di contatto però con Amaducci: la teorizzazione della potenza simbolica dell’immagine, il richiamo esplicito alle avanguardie storiche, anche se più verso Man Ray e

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Fernand Léger, Maya Deren e Luis Buñuel che verso Dziga Vertov o Sergej M. Ejzenôstejn. Del resto, si pensi alle innumerevoli citazioni cinematografiche – (nel taglio dell’inquadratura, nella fotografia, nella composizione del quadro, per citare solo alcuni elementi) fra cinema classico, surrealismo, cinema povero brasiliano – nell’opera dei cine-videasti Ciprì-Maresco. Per “Cane CapoVolto” la strada è stata quella dell’esasperazione provocatoria dei meccanismi con cui si mostrano gli apparati ideologici di stato, come li definiva Althusser: quindi sottolineatura di quella falsa “neutralità” della voce fuori campo impostata, la voce acusmatica ubiqua di un narratore quasi divino nella sua onniscienza; esagerazione della “credibilità del falso”, accostamenti di suono e immagine improbabili e stralunati (come a porre l’attenzione sulla effettiva incongruenza dell’accostamento audio-visivo proposto dai media). Esercizi di addestramento alle infinite declinazioni del cinismo mediatico, alle possibilità incessanti di falsificazione, di deviazione, di distrazione dal vero con le scritture forgiate dai surrealisti, con le riflessioni audiovisive e scritte di Guy Debord, con le “verifiche incerte” di Grifi-Baruchello. Le opere del gruppo, isolate o costruite in serie (che corredate da apparati didattici, libriccini, seminari costituiscono anche un singolare esperimento di distribuzione capillarmente “alternativa”), provocano “incidenti di senso audio-video”, invitano a disconnettere vista e udito, a tenersi in equilibrio su un assurdo credibile, a farsi mettere in gioco dalle concatenazioni del montaggio, come accade nei video del progetto “Plagium”, che «tendono a riprodurre le condizioni per anomalia dei processi di apprendimento, ricercando una terza dimensione pseudo-scientifica del Plagiarismo, del FoundFootage Cinema e degli esperimenti di montaggio condotti su spettatori-cavie intorno agli anni ’20 dal russo Lev Kuleôsov», come scrivono gli autori nei materiali di accompagnamento dei seminari e dei DVD. Così, le combinazioni illogiche sprofondando lo spettatore nell’enigmaticità e nella indecifrabilità del testo audiovisivo, lo spingono in una specie di spazio vuoto, in un vortice, in un cortocircuito del senso. Il recupero e il rimontaggio di vecchi documentari scientifici e di vecchi film amatoriali va in questo senso; ma anche nelle riprese non d’archivio il gruppo ama avvalersi di cineprese e di formati non professionali, ritrovando lo sguardo selettivo del film-maker – il gruppo tributa omaggi anche all’underground –, la grana particolare della pellicola, in opere “povere”, prive di effetti, in bianco e nero, in corti spesso senza parola. Ma soprattutto questi autori mostrano “indifferenza” per formati e standard, si spostano dall’uno all’altro, senza teorizzare supremazie o “specifici”. I “Fluid Video Crew” si formano nel contesto dei centri sociali e lavorano al confine fra video sociale, cinema amatoriale, ricerche formali estreme, ponendosi anche – come “Famiglia Sfuggita”, nei primi anni ’90, quali centri

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distributivi, organizzatori di rassegne video (al centro sociale Brankaleone o al Forte Prenestino, Roma). Il linguaggio del clip, l’impaginazione serrata, il montaggio rapido, si ibridano nel loro lavoro con un sottofondo a vocazione realistica e sociale; anche qui formati e standard si mescolano, si riscopre la pellicola, si tentano escursioni nei generi e nella memoria, arrivando fino al salto verso la misura del lungometraggio. È in questa direzione, di incrocio fra il digitale e il “cinema-cinema”, alla ricerca di nuovi modi anche della narrazione, che sembrano muoversi, seppur con estetiche e riferimenti diversi, autori come Alessandro Amaducci e Louis Nero. Il primo nelle opere recenti, come Spoon River, video in progress (1999-2004, postproduzione analogica e digitale, elaborazione 2D, computer grafica 3D), costituito dalle storie narrate nella raccolta poetica di Edgar Lee Masters. Opera lunga costituita dal susseguirsi delle brevi poesie messe in immagini e che, a sua volta, si trasforma in spettacolo dal vivo: «In questo caso l’ambiente (preferibilmente una stanza, arredata, con pareti chiare) viene invaso nelle sue quattro pareti da immagini e suoni che sono la trasformazione in forme in movimento delle parole di più di venti personaggi scelti dalla Antologia di Edgar Lee Masters. Il live video è una forma d’espressione che consiste nel mixare dal vivo basi premontate in modo da gestire le immagini per ricreare, attraverso le luci e le ombre, lo spazio e per poter far vivere le immagini negli ambienti. Sta a metà fra qualcosa che accade sul momento e qualcosa che è stato già preimpostato. Sta a metà fra la performance video, il vjing e la videoinstallazione. Per questo motivo mi piace chiamare questo modo di elaborare le immagini Teatro degli Automi Luminosi o live video».23 Oppure la stessa opera si trasforma decisamente in versione per “videoambiente”, come nel recente allestimento milanese per la mostra “Techne 05”,24 ma il lavoro avrà quasi sicuramente e “naturalmente” anche una destinazione home video. Una concezione e una natura polimorfa, come si vede, dell’opera. Louis Nero si muove verso e dentro la misura del lungometraggio a metà fra il genere fantastico, il cinema delle avanguardie storiche e il videomusicale in Golem, seguito da Pianosequenza e da Hans, l’uomo scarafaggio. Una trilogia (2002-2005) dedicata al cinema, col passaggio da una postproduzione molto elaborata a un annientamento del montaggio, fino a una terza opera che ricompone i “manifesti” precedenti in una sintesi narrativa: «Scegliere per questo film vecchie conoscenze del cinema come Franco Nero e Silvano Agosti non è stato casuale, né tantomeno contraddittorio rispetto alla unicità del genere di cui si serve Louis Nero: la preferenza per attori noti nasce dalla volontà di confrontarsi con modelli altri di cinema».25 Sempre nel solco della narrazione (è stato recentemente distribuito nelle sale e su DVD) si muove il videofilm di Alina Marazzi Un’ora sola ti vorrei

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(2002), forse l’esempio più maturo e complesso di rivisitazione e ri-creazione di film di famiglia all’interno di un’opera – montata in digitale – che è allo stesso tempo diario, lettera, narrazione, riflessione sulla condizione della donna e sul rapporto madre-figlia, ritratto di un’epoca e delle sue trasformazioni non indolori, autoritratto. Film amatoriali, riprese odierne, musiche e canzoni, interventi in post-produzione, sonorizzazioni “postume” sono sapientemente miscelati in un lavoro che riesce a trasformare una storia privata in un’opera universale e toccante.26 Ed è ancora tutto da indagare l’approccio al digitale, sia per le riprese in alta definizione che per i software di montaggio, di autori indipendenti come Daniele Segre, che hanno finora sempre dichiarato di non fare differenza fra cinema e video (e di usare il video solo come cinema a basso costo) e che si sono caratterizzati per una grande “purezza” e asciuttezza della composizione visiva: è interessante, ad esempio, vedere come Segre in Vecchie (2002) e Mitraglia e il Verme (2004) usi il Beta digitale per “film” in bianco e nero, costruiti (usando la durata del video) come lunghi piani-sequenza in un unico ambiente, mentre ne Il progetto arte moderna e contemporanea della Fondazione CRT (2005), girato con telecamera digitale ad alta definizione e montato in digitale, approda a una soluzione opposta, ricca di effetti, con un’impaginazione mossa, una scomposizione del quadro e una proliferazione di immagini interne all’inquadratura del tutto insolite per questo regista. L’incursione e il viaggio nella geografia del video italiano, o meglio in alcuni dei paesaggi (e passaggi) più densi di interrogativi e di stimoli, sembra presentare alla fine una curiosa struttura circolare: ritorno alle tecnologie povere, riscoperta del cinema amatoriale? O piuttosto l’ultimo e amorevole saluto, da parte delle giovani generazioni di video-maker, alla pellicola? O invece, ancora, una ricerca che approda, grazie al digitale, a nuove modalità di racconto, arricchite dalla tradizione della videoarte e ibridate con il respiro e la tradizione del lungometraggio cinematografico? Oppure una decisa riscoperta del documentario, del diario, del reportage, dell’istantanea? Perché è chiaro che nel frattempo la “facilità” solo apparente (o comunque monca) della tecnologia video portatile ha sciolto uno dei suoi nodi: il montaggio, col digitale, è divenuto un fatto accessibile, domestico, possibile a tutti. Le riprese non devono più restare chiuse nei cassetti; gli effetti sono esplorabili, realizzabili, anche se non si hanno a disposizione studi professionali e montatori esperti. Le nuove macchine da presa minuscole, da taschino, la rapidità di collegamento riprese-montaggio, cambiano il panorama delle tecnologie “leggere”, ri-attualizzano (si pensi alle migliaia di telecamere presenti alle manifestazioni a Genova nel 2001) l’informazione “altra” e permettono una docu-

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mentazione diffusa. E il digitale riassorbe (sia nella tecnica di montaggio che nella capacità di rielaborare le più diverse fonti) i media precedenti, ed è anche in grado di simulare i colori delle vecchie pellicole Super-8 e i graffi che caratterizzano la pellicola usurata. Il cine-video-amatore può diventare un mont-autore, un autore totale, padroneggiare tutte le fasi del percorso, vivere con le proprie immagini nel processo di rielaborazione, come in una solitaria scrittura fatta di errori, cancellature, tentativi. Si apre un’altra stagione, e forse un’altra idea, di tecnologia audiovisiva (di techne). E quindi una nuova stagione di manuali d’autore,27 di poetiche e di linguaggi, di dialogo serrato con le macchine e i programmi, di possibilità produttive, di “reti” distributive. La “caméra stylo” (macchina da presa-penna) auspicata e teorizzata da Alexandre Astruc alla fine degli anni ’40 comincia a scrivere davvero?

NOTE 1 J-P. Fargier, The Reflecting Pool de Bill Viola, Yellow Now, Crisnée (Liège), 2005, pp. 32-33. Corsivo nel testo. 2 J-P. Fargier op. cit., 2005, p. 32. Corsivo nel testo. 3 M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano, 1967, pp. 328-329 (1964). 4 Si veda A. Lagorio, “Utopie negative. Per un discorso sul controllo in Der Riese”, in Le arti del video, a cura di S. Cargioli, ETS, Pisa, 2004. 5 Si veda A. Amaducci, Banda anomala. Un profilo della videoarte monocanale in Italia, Lindau, Torino, 2003. 6 D. Marangon, Videotapes del Cavallino, Cavallino, Venezia, 2004, p. 32. 7 P. Cardazzo, in D. Marangon, op. cit., 2004, p. 124. 8 M. G. Bicocchi, “L’avventura di Art/Tapes/22” (intervista di A. Cigala e V. Valentini ora in Le storie del video, a cura di V. Valentini, Bulzoni, Roma, 2003, p. 27. 9 M.G. Bicocchi, op. cit., 2003, p. 20. Sull’esperienza di art/tapes/22 vedi anche M. G. Bicocchi, art/tapes/22, Cavallino, Venezia, 2003 e “Una testimonianza sull’Art/Tapes/22”, in La coscienza luccicante. Dalla videoarte all’arte interattiva, a cura di P. Sega Serra Zanetti e M. G. Tolomeo, Gangemi, Roma, 1998. 10 Si veda F. Gallo, “La videoarte a Ferrara: ieri, oggi, domani,” in Elettroshock. 30 anni di video in Italia, a cura di B. Di Marino e L. Nicoli, Castelvecchi, Roma 2001. Vedi anche S. Bordini, “Le molte dimore. La videoarte in Italia negli anni Settanta”, in P. Sega Serra Zanetti e M.G. Tolomeo, op. cit., 1988. 11 R. Faenza Senza chiedere permesso. Come rivoluzionare l’informazione, Feltrinelli, Milano, 1973. 12 R. Faenza, op. cit., 1973, p. 183. 13 E. Ungari, Video per la base. Intervista a Guido Lombardi, Anna Lajolo e Alfredo Leonardi, “Gong” n. 7-8, luglio-agosto 1974; ora in Dissensi tra film video televisione, a cura di V.

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Valentini, Taormina Arte 1991, VI Rassegna internazionale del video d’autore, Sellerio, Palermo, 1991. 14 S. Agosti, “Memorie di un cinegiornalista”, in catalogo Videoteca Italia, a cura di A. Giancola, Gradoli 11-13 novembre 1988, p. 48. 15 G. Lombardi, A. Lajolo, “Il video di parte”, in V. Valentini, op. cit., 1991, p. 272. 16 Per un esame più esteso di questa mutazione rimando al mio testo “Senza chiedere permesso: il videotape e il cinema militante”, in Storia del cinema italiano, vol. XIII-1977/1985, a cura di V. Zagarrio, Centro Sperimentale di Cinematografia-Marsilio, Roma-Venezia, 2005. 17 M. Iacona, “Quo vadis video?”, in Ondavideo. La televisione e le nuove tecnologie elettroniche, atti dell’incontro omonimo svoltosi a Pisa nel maggio 1985 e promosso da Comune di Pisa, Dipartimento di Storia delle Arti dell’Università di Pisa in collaborazione con la RAI, Ondavideo, Pisa, 1986, pp. 16-18. 18 G. Toti, “Cuor di Tèlema. Ricerche per una nuova rileggenda cinetelematografica sperimentale e po’ematica”, in Atti del Festival dell’arte elettronica, Camerino 28-30 novembre 1985, Università di Camerino, 1986, p. 75. 19 Gianni Toti in L. Vitalone (a cura di), La nuova immagine del mondo (materiali del convegno “L’immagine elettronica”, Porretta Terme, 25-28 novembre 1982), Bologna-Porretta, 1983, p.107. 20 Per una nuova cartografia del reale (dattiloscritto), Milano, 14 gennaio 1993. Firmato da M. Canali (“Correnti Magnetiche-Pi Greco”), A. Caronia, G. Di Maggio (Galleria Mudima), A. Glessi (“Giovanotti Mondano Meccanici”), M. G. Mattei, P. Rosa (“Studio Azzurro”), G. Verde. 21 F. Pesoli, “Tutte le immagini sono astratte. Risposte di 10 autori a 5 domande”, in Un anno italiano in video-Selezione della produzione indipendente, a cura di S. Lischi, A&M Bookstore, Milano, 1996, p. 89. 22 F. Pesoli, op. cit., 1996, pp. 83 e 79. 23 A. Amaducci, presentazione dello spettacolo in occasione della prima a Torino, “Piemonte Share Festival”, 25 febbraio 2005. 24 Si veda il catalogo di “Techne 05”, Fra arte e tecnologia. L’immagine infinita. Schermi, visioni, azioni, a cura di A. Caronia, Revolver, Milano, 2005. 25 Dalla presentazione del film (conferenza stampa), Venezia, 3 settembre 2005. Il film è uscito in DVD per il noleggio e per la vendita nel 2006 (Medusa Video Spa). 26 Cfr. A. Marazzi e I. Fraioli, Un’ora sola ti vorrei. L’idea documentaria. Altri sguardi sul cinema italiano, a cura di in M. Bertozzi, Lindau, Torino, 2003. Sulle trasformazioni in atto grazie al digitale vedi anche M. Greco, Il digitale nel cinema italiano, Lindau, Torino, 2002 e U. Zagarrio (a cura di), La meglio gioventù. Nuovo cinema Italiano 2000-2006, Marsilio, Venezia, 2006. 27 A. Amaducci, Il video. L’immagine elettronica creativa, Lindau, Torino, 1997 (e varie edizioni successive) e, sempre di A. Amaducci, Il video digitale creativo, Nistri-Lischi, Pisa, 2003.

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Documenti

Manifesto del movimento spaziale per la televisione* Noi spaziali trasmettiamo, per la prima volta nel mondo, attraverso la televisione, le nostre nuove forme d’arte, basate sui concetti dello spazio, visto sotto un duplice aspetto: Il primo, quello degli spazi, una volta considerati misteriosi ed ormai noti e sondati, e quindi da noi usati come materia plastica; il secondo, quello degli spazi ancora ignoti nel cosmo, che vogliamo affrontare come dati di intuizione e di mistero, dati tipici dell’arte come divinazione. La televisione è per noi un mezzo che attendevamo come integrativo dei nostri concetti. Siamo lieti che dall’Italia venga trasmessa questa nostra manifestazione spaziale, destinata a rinnovare i campi dell’arte. È vero che l’arte è eterna, ma fu sempre legata alla materia, mentre noi vogliamo che essa ne sia svincolata, e che attraverso lo spazio, possa durare un millennio, anche nella trasmissione di un minuto. Le nostre espressioni artistiche moltiplicano all’infinito, in infinite dimensioni, le linee d’orizzonte; esse ricercano una estetica per cui il quadro non è più quadro, la scultura non è più scultura, la pagina scritta esce dalla sua forma tipografica. Noi spaziali ci sentiamo gli artisti di oggi, poiché le conquiste della tecnica sono ormai a servizio dell’arte che noi professiamo. Milano, 17 maggio 1952 (Ambrosini, Burri, Grippa, Deluigi, De Toffoli, Dova, Donati, Fontana, Giancarozzi, Guidi, Joppolo, La Regina, Milena Milani, Morucchio, Peverelli, Tancredi, Vianello) (Questo manifesto fu distribuito in occasione di una trasmissione televisiva allestita da Lucio Fontana).

NOTE * Da Lucio Fontana, Catalogo generale, a cura di Enrico Crispolti, Electa, Milano, 1986, p. 37 (2 volumi).

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Classificazione dei metodi d’impiego del videotapein arte*

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Luciano Giaccari I) SITUAZIONI DI RAPPORTO DIRETTO ARTISTA-MEZZO TELEVISIVO A - VIDEOTAPE

Nastro magnetico audio-video registrato elettronicamente, che costituisce il supporto materiale dell’azione artistica (come la carta, la foto, il film). Il videotape è in effetti l’opera stessa e può essere un unicum avere una tiratura più meno limitata. Es. Identifioations di Gerry Schum, serie TV out - 1 - 2 4 - 7 - 8 di Luciano Giaccari (Studio 970/2) B - VIDEOPERFORMANCE

È una performance basata sull’impiego di un circuito chiuso o di registrazioni televisive o di entrambi da parte dell’artista che si avvale di questi mezzi elettronici per creare una determinata situazione. Es. Videoperformances di Dennis Oppenheim, Dan Graham, Joan Jonas (Studio 970/2) C - VIDEO-ENVIRONMENT

È una situazione-ambiente creata dall’artista indipendentemente dalla propria presenza, sempre con l’impiego di un circuito chiuso televisivo, video-registrazioni ecc. Es. Dan Graham, Nam June Paik.

II) SITUAZIONI DI RAPPORTO MEDIATO ARTISTA-MEZZO TELEVISIVO VIDEO-DOCUMENTAZIONE

Consiste nella videoregistrazione di situazioni, per lo più uniche e irrepetibili, delle quali altrimenti non resterebbe documentazione. Il mezzo è particolarmente idoneo poiché, al contrario del cinema, può operare in condizioni di luce ambientale anche difficili, con il vantaggio di non disturbare e soprattutto di non falsare l’opera dell’artista. Quest’ultimo viene coinvolto nella situazione televisiva solo indirettamente. Es. TV out 3 Festival di Musica e Danza in USA (Studio 970/2 - Attico) B - VIDEOINFORMAZIONE

Sono videotape realizzati con criteri di reportage, non sono infatti delle registrazioni integrali degli avvenimenti, ma solo dei servizi giornalistici. Es. Videoreporter/I Contemporanea Roma, Project 74 Colonia (Studio 970/2)

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C - VIDEODIDATTICA

Corsi su videotape di storia dell’arte, della musica, del teatro ecc., destinati in una prima fase a scuole, musei, gallerie, e in una seconda fase, quando le apparecchiature avranno costi più accessibili, ad un pubblico più vasto. Es. Laboratorio di video-storia dell’arte, Le Avanguardie storiche e contemporanee. 30 ore. (Studio 970/2) D - VIDEOCRITICA

Rivista di critica su videotape. Il testo critico e le immagini vengono proposti in modo globale e non dissociato come avviene spesso nelle riviste stampate. Il testo, infatti, si presenta come sonoro o con espedienti televisivi e si integra perfettamente con le immagini. Queste ultime, inoltre, essendo in movimento, risultano meno mistificanti delle fotografie che “bloccano” un attimo “suggestivo” e quindi propongono in modo più diretto e partecipante il lavoro dell’artista cui si riferisce il procedimento critico.

NOTE * Nel maggio 1973 Luciano Giaccari, fondatore dello Studio 970/2 di Varese, Centro di studi ed attività video, ha pubblicato questa tesi di classificazione che si propone come primo tentativo di verifica e di analisi di una produzione altrimenti indifferenziata. Il testo è stato tratto da AA.VV., Impact Vidéo Art 74, Galerie Impact, Lausanne 1974.

Note sul mio uso del video* Vito Acconci 1. È un contatto faccia a faccia: una persona sullo schermo fronteggia una persona di fronte allo schermo. (Allo spettatore del video si fa incontro uno schermo che ha approssimativamente le dimensioni di un viso – laddove, nel film, lo spettatore incontra uno schermo di venti piedi d’altezza). 2. Film = paesaggio, silenzio (il suono proviene da qualcosa troppo grande per essere una persona – funzioni del parlare come musica di sottofondo, “titoli” che creano miti). Video = primo piano, suono. 3. Lo spettatore del video siede vicino allo schermo – la distanza che Edward Hall chiama “distanza personale”, dove la tridimensionalità è enfatizzata. Ma l’immagine su video è piatta, granulosa – il video, allora, serve a far diminuire la distanza, a raggiungere la “distanza intima” di Hall, dove la visione è sfocata e distorta (tipicamente, l’immagine video si presenta a puntolini). 4. Poiché si perde il fuoco preciso, c’è una dipendenza dal suono. Ma potrebbe

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essere difficile parlare di qualcosa (Martin Joos: «Parlare da una distanza ravvicinata impedisce di dare al destinatario informazioni dal di fuori della pelle del parlante... Il punto è semplicemente far venire in mente – non “informare di” – al destinatario alcuni sentimenti all’interno della pelle del parlante»). 5. Se entrambi, l’immagine e il suono, nel video sono solo “di base”, solo “contorni”, potrebbero esserci due approcci: o evitare in generale i sensi abituali, e concentrarsi sulla trasmissione della “energia pura” – o, dall’altro lato, essere umanamente “pushy” (impellenti): posso fare forza contro lo schermo, come se gettassi me stesso sullo spettatore, come se, per combattere la neutralità della situazione, mi spingessi attraverso. 6. Il video, allora, come luogo per continuare a muoversi, a parlare – improvvisare – ritrattare e cominciare di nuovo – abbarbicarmi alla mia posizione davanti allo spettatore, non abbandonarla, non perdere la di lui o la di lei attenzione. 7. Parafrasando Godard: il video potrebbe essere la paura dei puntolini, del grigiore, della neutralità, della piattezza, dell’interferenza, dello spettatore in poltrona... 8. Charlie Chaplin (a proposito della necessità delle riprese da lontano nei filmcomedy): «Non c’è niente di comico in una faccia alta venti piedi». Al contrario, il viso sul video può essere trattato, con un piccolo sforzo, si può farlo rimbalzare tutt’intorno come una palla. (Probabilmente il video rende difficile lavorare in un’unica chiave – niente tragedia, niente orrore, niente spettacolo, niente di sacro; addensa, o confonde, l’impasto). 9. I miei primi pezzi li ho giocati sulla concettualizzazione del monitor, la “video box”: ho lavorato da solo in “feedback” con me stesso, ho lavorato anche con un’altra persona, sia in “combattimento” fisico, sia in una sorta di ESP test. Lo spettatore è stato posto fuori di una stanza privata, a guardare un obiettivo che veniva raggiunto (cfr. le situazioni da soggiorno delle “soap-opera” televisive, o i cosiddetti “talkshow”). 10. Si potrebbe dire che le opere più recenti giocano sulla nozione dei “puntolini” del video: il monitor è un punto nello spazio che include lo spettatore, un circolo che da lui è completato – la mia idea mira allo spettatore, tira colpi nella sua direzione (cfr. i notiziari, gli “spot” pubblicitari). 11. La mia prima domanda è: dove sono in relazione con lo spettatore – sopra, sotto, di lato, dietro... Una volta stabilito questo, allora posso calcolare la ragione della mia posizione fisica, posso decidere che cosa devo fare, che cosa dovrei dire. 12. Un problema: è difficile per me considerare una videocassetta tanto seriamente quanto una installazione [l’installazione può includere, naturalmente, un video – ma, in quel caso, la cassetta è parte dell’intera situazione, e non solo una videocassetta – per es. Command Performance (Esecuzione di un ordine) al 112 di Green Street]. Nello stesso tempo, probabilmente penso ad alcune mie opere video come più “perfette”, più “complete” della maggior parte delle mie installazioni. 13. Il problema è che è troppo facile realizzare una videocassetta “completa” perché i termini di confronto – dato che attualmente sembrano esistere nella normale “cassetta d’artista” – sono limitati, isolati: non c’è un reale contesto di osservatori

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che possa essere considerato parte integrante dei termini di un’opera. (Per es., se il contesto fosse una trasmissione televisiva pubblica, allora, nella produzione di un’opera si dovrebbero considerare la dispersione, le diverse aree geografiche, i particolari tempi di osservazione ecc., nello stesso modo in cui io terrei conto delle caratteristiche particolari di una stanza per una installazione). 14. Il problema è che una videocassetta è “schiaffata” in una galleria. La stanza è di solito oscurata, probabilmente con posti a sedere fissi – la cassetta, allora, diventa uno spettacolo e perde la sua qualità di “compagna domestica”; c’è una folla di gente davanti al monitor – troppe facce con cui venire faccia a faccia; ci dovrebbe essere più di un monitor a mostrare la stessa cassetta – cosicché non potrei avere un punto definitivo in cui stare. 15. Possibilità per creare una situazione di osservazione: due pareti, ognuna di circa otto piedi quadrati, una di fronte all’altra, circa tre piedi di distanza fra di loro – il monitor è collocato nel mezzo di una parete, all’altezza degli occhi – il suono è regolato al volume normale del parlare. Lo spettatore, allora, deve incontrare attivamente l’immagine: non può stare al di fuori e dare solo occhiatine di sfuggita o cogliere borbottii; o può infilarsi fra le pareri e camminare di fianco fino ad essa oppure può avvicinarsi del tutto e mettere la sua faccia contro lo schermo. Traduzione di Francesca Ferraioli

NOTE * Vito Acconci, Some Notes on my use of video, in “Art-Rite” n. 7, autunno 1974, New York, tratto da Cominciamenti, a cura di V. Valentini, Taormina Arte 1988, III Rassegna internazionale del Video d’Autore, De Luca Editore, Roma, 1988, pp. 75-76.

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Capitolo 5

Avanguardie in rete Cristiano Poian

1. Nuove forme audiovisive al tempo dell’interconnessione globale Negli ultimi anni, all’interno della comunità scientifica dei Film Studies, si è dibattuto molto sulle modalità con cui i media digitali hanno cambiato e stanno cambiando i modi di pensare e fare il cinema, intervenendo in tutte le fasi di produzione del film e modificando contemporaneamente tecnologia, tecnica e linguaggio. Meno spesso, invece, ci si è concentrati sul rapporto inverso, ovvero sull’influenza che l’oggetto filmico ha avuto sull’evoluzione delle cosiddette nuove tecnologie, e sulle modalità di rimediazione della “forma cinema” da parte di pratiche artistiche inedite, legate all’utilizzo degli strumenti informatici contemporanei, che hanno portato alla proliferazione di nuove tipologie di testi audiovisivi totalmente estranei alle tradizionali logiche produttive e distributive, realizzati con tecnologie software e fruiti attraverso Internet secondo la logica del network. Ciò che pertiene maggiormente a un discorso sui legami tra tecnologie e neo avanguardie digitali non riguarda dunque il computer come strumento al servizio del fare cinema, ma il film come materia prima e luogo di metafore asservite all’opera d’arte (quasi sempre interattiva) fatta di codice informatico: Net art, Software art e Web Motion Graphic, oltre a cimentarsi con la generazione di audiovisivi radicalmente nuovi, si sono confrontate a più riprese, seppur in modalità e con strumenti molto differenti, con oggetti filmici (o, più generalmente, audiovisivi) provenienti sia dalla contemporaneità che dall’epoca pre-digitale. Va sottolineato però con forza come tali operazioni di recupero e rimessa in circuito non siano particolarmente legate a una specifica volontà di preservazione nei confronti dell’opera cinematografica, o a qualche forma di erudito rispetto nei confronti di ciò che viene spesso vissuto da parte dell’artista della Rete (secondo una logica di pensiero tipicamente avanguardista e antipassatista) come un passato da cui emanciparsi e allontanarsi con radica-

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lità, ma appartengano invece alle consuete logiche di rimediazione che interessano la storia “evolutiva” di ogni medium (cfr. Jay D. Bolter e Richard Grusin, 1999), nuovo o vecchio che sia. La stragrande maggioranza delle opere software, più o meno legate alle logiche produttive e distributive del networking, si confronta più volentieri con la propria contemporaneità digitale, quella del sistema di interconnessione globale della Rete, dando vita ad estetiche e poetiche indissolubilmente legate al proprio statuto tecnologico, manipolando e visualizzando flussi astratti di dati, sperimentando i limiti dell’interattività e ricercando forme utopiche di narratività, piuttosto che riferirsi a un regime scopico, quello del cinema, frenato dal desiderio di riprodurre o simulare il reale (o qualsivoglia universo finzionale). L’opera d’arte fatta di codice dell’universo net e software art, pur apparendo così distante e impraticabile a tutti i non addetti ai lavori (o meglio a tutti coloro che non sono abituati a vivere la rete come uno degli ambienti di interazione quotidiana), continua tuttavia ad avere un forte legame con il reale: non si tratta più della realtà oggettiva del mondo sensibile, ma di quella intangibile dell’universo informatico, lo spazio dei dati che circolano all’interno di Internet, fisicamente astratto ma decisamente “concreto” e impattante nella vita di tutti. Allo stesso modo, gli audiovisivi della motion graphic realizzati dalla giovane generazione degli artisti del web design utilizzando gli stessi strumenti software impiegati nella progettazione dei siti Internet, sono testi che rimandano a un background culturale e sociale assolutamente reale, fatto in prevalenza di pop culture, videogame, fumetti e videoclip. Il cinema della Rete, realizzato con tecnologie e linguaggi indissolubilmente legati alla produzione per il Web, è la forma espressiva della GameBoy generation, e si rapporta al reale tanto quanto quello della sala cinematografica. In tutto questo, Internet, e in particolare il World Wide Web, non rappresenta soltanto un insieme di tecnologie che compongono un inedito sistema di produzione, diffusione e fruizione dell’opera d’arte, ma si configura come il motore alla base del nuovo modello interpretativo e cognitivo dei rapporti sociali, economici e comunicativi tra individui della contemporaneità. Il Web è lo spazio di affermazione del modello di comunicazione a rete, paradigma in aperta contraddizione con il sistema piramidale di trasmissione dell’informazione tipico dell’era predigitale e del sistema capitalistico occidentale; per il sistema distributivo tradizionale il modello paritetico di veicolazione dell’informazione rappresenta una minaccia quanto mai attuale, in grado di mettere in profonda crisi la gran parte degli attori operanti sul mercato dell’intrattenimento culturale che non sappiano modificare le loro strategie di vendita. I sistemi di distribuzione basati sul modello di scambio peer to peer1 (perfetta incarnazione dello spirito libertario, egalitario e anarchico del modello di comunicazione a rete paritetica) modificano completamente il

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rapporto che intercorre tra autore, opera d’arte e fruitore: la riproducibilità tecnica dell’opera raggiunge il suo apice nel momento in cui viene svincolata dal tradizionale modello verticale di trasmissione dell’informazione. Dal punto di vista della produzione artistica, il modello a rete introduce un nuovo modo di pensare e realizzare l’opera d’arte fatta di software, oltre che naturalmente di diffonderla, basato sull’interattività: oltre che diventare immediatamente spazio di estensione delle comuni forme di comunicazione dell’arte tradizionale (si pensi al fenomeno dei musei online, alla vendita di musica o contenuti multimediali da parte di operatori specializzati o ai siti di trailer cinematografici) il World Wide Web dà vita a nuove forme d’arte indissolubilmente legate al modello reticolare, impensabili e irrealizzabili al di fuori della Rete: la Net art non è allora l’arte che viene diffusa attraverso Internet, ma l’insieme delle forme di creatività digitale possibili solo nella Rete e per mezzo delle tecnologie della Rete. Proprio per questa innegabile indipendenza da tutti i paradigmi artistici precedenti l’arte della Rete trova una difficile collocazione nei tradizionali ambiti disciplinari di studio: estranea ai Film Studies, solo marginalmente compresa da coloro che si occupano di arte contemporanea, altrettanto lontana dalle scienze informatiche, monolitiche nel loro pragmatismo, essa fatica a uscire dallo spazio virtuale del Web. In un’epoca dominata dalla logica economica del mercato, l’opera audiovisiva (spesso interattiva) fatta di software rimane confinata in un imbarazzante silenzio teorico dovuto molto spesso alla sua endemica impossibilità di generare profitto e ricchezza: l’artista digitale che si confronta con il modello produttivo della Rete fatica a veder riconosciuto economicamente il frutto del proprio lavoro, nonostante i sempre meno rari tentativi di uscire dallo spazio intangibile del cyberspazio informatico. La Net art non ha semplicemente senso fuori dal proprio habitat naturale, e per potersene staccare deve necessariamente trasformarsi e perdere la specificità e la radicalità che le sta alla base; impossibile inoltre focalizzare un discorso sulle forme artistiche e sperimentali della Rete limitandosi ad un contesto nazionale: la logica del network annulla ogni forma di appartenenza e separazione, rendendo il confronto e la collaborazione transnazionale le prassi più diffuse. Per poter comprendere la specificità del nuovo modello creativo, occorre innanzitutto far luce sulla differenza profonda che intercorre tra l’opera audiovisiva fatta di codice che vive in Rete e l’audiovisivo tradizionale, sia esso realizzato al computer (computer graphic) o con tecnologie analogiche (cinema e video): a scontrarsi non sono soltanto modelli produttivi e distributivi profondamente differenti, ma anche estetiche e poetiche. I canoni estetici di Net e Software art non sono tanto legati all’output, al prodotto finito: ciò che conta maggiormente sono i processi produttivi, il codice che soggiace al-

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la creazione, i propri meccanismi (informatici) di produzione. In questo, l’arte del network è arte d’avanguardia, legata a doppio filo alla propria tecnologia: l’arte del software riflette sempre sul proprio farsi e rivolge uno sguardo verso il proprio interno, verso il codice informatico che la compone, senza tentare di occultarne la presenza (operazione compiuta invece dal cinema contemporaneo, nel cui ambito la tecnologia digitale rappresenta quasi esclusivamente un potente strumento funzionale al raggiungimento di particolari effetti audiovisivi, ma da tenere ben nascosto ai propri spettatori). Net art e Software art sono due termini diversi che identificano ormai lo stesso (ampio) ambito creativo: mentre il primo sottolinea con più forza il concetto di interconnessione e dunque di appartenenza al sistema-rete, il secondo pone l’accento sul materiale costitutivo (il codice informatico) e sui processi produttivi (le fasi di traduzione e processamento da parte del computer). Entrambi, pur con sfumature diverse, si riferiscono a un insieme di pratiche molto vasto, che vanno dalla browser art (in cui si sperimentano modalità alternative di formattazione del contenuto delle pagine Web) alla manipolazione di software esistenti, dal plagiarismo (pratica tipica della Net.art storica) all’arte generativa, dalla game art (in cui il videogame diviene oggetto da decostruire e riassemblare in forme diverse, o strumento di contestazione sociale e politica) al data mapping (traduzione di flussi di dati in forma audiovisiva o sonora), dalla manipolazione di audiovisivi e testi cinematografici (molto spesso provenienti dal repertorio delle avanguardie storiche) alla radicalità della code art, in cui il listato di programmazione diviene oggetto artistico di per sé. Impossibile in ogni caso tentare di tener traccia di tutto ciò che accade nel cangiante universo dell’arte della Rete: l’opera net si modifica, muta e scompare alla stessa velocità con cui evolve il Web, e non sempre sono sufficienti i tentativi di bloggers, portali d’arte o e-zine dedicate per tener traccia di tutti gli artisti e le correnti che si cimentano in questo settore. L’arte della rete e del software non è dunque soltanto arte audiovisiva: la Rete è assieme medium e sistema contenente miriadi di altri media, è, in sintesi, veicolo assoluto di multimedialità. Ecco che l’opera software allora rispecchia tale caratteristica e fa della multimedialità una delle sue caratteristiche principali; in bilico tra immediatezza e ipermediazione, «le applicazioni ipermediali sono sempre atti espliciti di rimediazione: esse incorporano vecchi media in uno spazio digitale allo scopo di criticarli e rimodellarli».2 Indubbiamente Net e Software art hanno un rapporto di parentela con le sperimentazioni grafiche della Computer art delle origini: se negli anni ’60, soprattutto internamente a istituzioni di ricerca e laboratori scientifici, artisti come Stan VanDerBeek, John Whitney, Charles Csuri e Vera Molnar esploravano le potenzialità espressive del computer, spesso con l’aiuto di esperti programmatori,3 oggi gli autori della Net e Software art (di solito program-

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mando in prima persona il computer) indagano le possibilità della Rete come forma di generazione e trasmissione dell’arte. Nel corso di questa breve trattazione ci si limiterà a considerare i rapporti che intercorrono tra audiovisivo tradizionale, Net/Software art e opere in motion graphic di quella che Lev Manovich ha chiamato generazione Flash, mettendo in luce da una parte le modalità con cui alcuni artisti hanno utilizzato il testo filmico come materiale grezzo da manipolare utilizzando le tecnologie software legate alla produzione per i media digitali, e dall’altra alcuni esempi inediti di forme brevi audiovisive realizzate con tecnologie per il Web e diffuse attraverso Internet: un ambito sicuramente limitato rispetto alla vastità espressiva delle forme d’arte legate alle pratiche di networking, più avvezze a confrontarsi con materiali provenienti dallo stesso universo di senso, ma che sarà utile per mettere in luce alcune delle dinamiche chiave di funzionamento linguistico ed estetico dell’universo artistico contemporaneo. 2. La Net.art storica. Avanguardia nell’avanguardia In un breve saggio pubblicato su Giulyars.net,4 Vincenzo Casamento analizza l’importanza della Net art in relazione all’evoluzione delle altre forme di comunicazione visuale che hanno dato vita a movimenti d’avanguardia: confrontando lo sviluppo delle forme artistiche legate al Web con le esperienze delle avanguardie storiche e con la videoarte, l’arte della Rete pare collocarsi alla fine di un percorso di ricerca iniziato quasi cento anni fa e realizzare definitivamente la profezia di Nam June Paik, che immaginava un futuro in cui ognuno avrebbe gestito una stazione televisiva personale. Tralasciando le implicazioni socioeconomiche dovute al passaggio da una tecnologia di tipo push a una pull, in effetti, l’arte della Rete ha vissuto un periodo in cui davvero l’esperienza artistica di un gruppo di autori si è configurata come reale movimento d’avanguardia, degno erede dell’esperienza delle avanguardie storiche: la Net.art (il punto è sia elemento fondamentale di distinguo che retaggio della più nota leggenda secondo cui il nome è stato “scelto” non da un individuo, ma da un problema di visualizzazione del computer), esperienza dichiarata conclusa prima ancora che il pubblico fuori della Rete si accorgesse della sua nascita, si è effettivamente configurata come movimento artistico, organizzato secondo le logiche del networking (soprattutto grazie alla storica mailing list Nettime5), attivo globalmente e finanche dotato di capacità di coordinazione. Caratteristica peculiare, e in più sedi sottolineata, l’origine est-europea del fenomeno, che ha conferito ai lavori dei vari Vuk ‡osi¶, Olia Lialina, Jodi, Alexei Shulgin (solo per citare alcuni dei più noti) un’impronta fortemente identitaria, radicalmente antioccidentalista (soprattutto

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dal punto di vista della contestazione all’egemonia economica statunitense sulle tecnologie e gli standard della Rete) e, naturalmente, ludico (aspetto insito nel concetto di interattività). Fortemente collegata all’esperienza pionieristica delle prime BBS6 e dei network di comunicazione precedenti alla nascita del Web (cfr. Annemarie Chandler e Norie Neumark, 2005), l’opera della Net.art classica, che in Italia ha visto operare figure fondamentali come gli 0100101110101101.org (al secolo Eva e Franco Mattes) e il gruppo milanese epidemiC (www.epidemic.ws), ha rappresentato nella storia dell’arte contemporanea una rivendicazione di libertà, attingendo “a piene mani” dalle pratiche artistiche tramandate dal Dadaismo, dal situazionismo e dalle avanguardie storiche in generale: il sito Web, forma classica della comunicazione in Rete, è stato utilizzato come riserva di materiali da smontare, destrutturare, stravolgere nel significato. Quasi per nulla interessati alla rimessa in circuito di forme mediatiche esterne allo spazio del Web, i net.artisti operavano come “terroristi” semiotici contro i codici consolidati della comunicazione interattiva, progettando e realizzando lavori che non nascondessero il substrato tecnologico di base e che anzi lo mettessero in primo piano, dichiarandone ad alta voce il valore estetico e sociale dirompente, plagiando siti web istituzionali e stravolgendone i contenuti (emblematico il clone del sito della Santa Sede, Vatican.org, ad opera del collettivo 0100101110101101.org), oppure rubando contenuti protetti per renderli pubblici (come nel caso del celebre plagio del sito di Documenta X operato da ‡osi¶). In tutti i casi, a prevalere è la volontà di giocare con i codici e le strutture profonde che soggiacciono al modello di comunicazione reticolare del Web: i progetti della Net.art non sono opere da guardare con distacco; la componente interattiva è sempre fondamentale e garantisce all’utente un ruolo decisivo per la loro piena attualizzazione. La Net.art storica non è stata soltanto il primo movimento artistico davvero unitario nato su Internet, ma ha rappresentato soprattutto il volano grazie al quale si sono sviluppati molteplici percorsi artistici complementari. Nata ufficialmente nel 1996 in occasione del celebre convegno Net Art Per Se (tenutosi al Teatro Miela di Trieste il 21 e 22 maggio), in cui ‡osi¶ chiamò a raccolta tutti gli artisti che si stavano in un modo o nell’altro occupando di sperimentare le potenzialità creative del network, e dichiarata conclusa come esperienza ben prima dell’inizio del nuovo millennio (addirittura nel 1998, durante una conferenza tenuta al Banff Centre for the Arts, sempre ad opera dell’istrionico artista di Belgrado), la Net.art, smessi i panni del movimento (e abbandonato nel corso del tempo il caratteristico punto a separare le parole rete e arte), ha continuato a produrre una quantità enorme di opere e discussioni teoriche sulla dimensione artistica di Internet e sul ruolo della tecnologia informatica nella società occidentale contemporanea, allargando a

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dismisura il proprio raggio d’azione, edulcorando di conseguenza la propria radicalità politica e rinunciando quasi completamente alla contestazione antioccidentalista. Numerosi, da questo momento in poi, i tentativi di trovare le modalità più opportune per uscire dal Web e ottenere, finalmente, il riconoscimento di un pubblico più tradizionale. 3. From net to software: dal medium al processo È proprio a cavallo tra la fine del primo e l’inizio del secondo millennio che l’accento viene spostato dal concetto di network a quello più generale di software: risale al 2001 (anno in cui per la prima volta alla Transmediale di Berlino, festival internazionale di arte dei media, compare la categoria «artistic software») il saggio in cui Florian Cramer e Ulrike Gabriel tentano per la prima volta di delineare gli ambiti e le pratiche di quella che viene definita Software art, comprendendo con questo tutte le forme, fino ad allora piuttosto rigidamente separate, di arte realizzata con il computer (computer music, computer graphic, letteratura elettronica, net art, installazioni interattive controllate da computer… ), rivendicandone anche la piena indipendenza dalla videoarte. Se fino a quel momento ci si era focalizzati sul medium attraverso il quale l’oggetto artistico veniva diffuso e fruito, da questo momento invece l’attenzione si concentra sulle modalità produttive che accomunano tutte queste forme espressive: la manipolazione di codice informatico. Che si tratti di un progetto pensato per il Web, di un ambiente in realtà virtuale per cave o di un audiovisivo in motion graphic, la materia prima che viene modellata dall’artista è sempre il software, e può essere processata (e dunque dotata di senso per l’utente) soltanto dal computer. Cramer e Gabriel identificano le radici della Software art nell’arte concettuale teorizzata all’inizio degli anni Sessanta da Henry Flint, per cui la materia dell’arte debbono essere i concetti tanto quanto la materia della musica sono i suoni, e citano come esempio di opera seminale la Composizione 1961 No.1 di La Monte Young (il classico «Draw a straight line and follow it», composizione minimalista e istruzione per performance Fluxus allo stesso tempo). Radici sicuramente ben piantate, dato che, come ricordano ancora i due teorici, la prima grande esposizione di questo genere d’arte, curata nel 1970 da Jack Burnham al New York Jewish Museum, venne chiamata Software, per sottolineare la prossimità tra la programmazione in codice informatico e la proceduralità dell’arte concettuale. Software art means a shift of the artist’s view from displays to the creation of systems and processes themselves; this is not covered by the concept of “media.” “Multimedia’’, as an umbrella term for formatting and displaying data,

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doesn’t imply by definition that the data is digital and that the formatting is algorithmic. Nevertheless, the “Web Stalker” shows that multimedia and terms like Net Art on the one hand and software art on the other are by no means exclusive categories. They could be seen as different perspectives, the one focussing distribution and display, the other one the systemics.7

Prendendo ad esempio il browser artistico Web Stalker, realizzato nel 1997 dal collettivo britannico I/O/D (formato da Simon Pope, Colin Green e Matthew Fuller), gli autori operano un significativo slittamento di prospettiva e vanno a sottolineare l’importanza culturale e sociale del codice informatico, vera e propria materia costitutiva del substrato tecnologico della contemporaneità. Superfluo dunque concentrarsi sulla differenziazione mediale: Internet si è evoluta passando dallo status di infrastruttura a quello di sovrastruttura che permea completamente la quotidianità; la sua presenza si è fatta capillare, intangibile, trasparente. Nell’era del wireless, della trasmissione satellitare e della connettività a banda larga permanente, la Rete non può più essere vista come qualcosa di estraneo e staccato rispetto alla realtà tangibile, e dunque viene assimilata completamente ad essa fino a scomparire. Così come la Net.art storica, anche la Software art ha dato vita ad una ricca produzione di opere molto differenti tra loro, che trovano spazio, oltre che negli ambiti deputati della Rete (Rhizome.org e Runme.org, solo per citare i due casi più conosciuti), in un numero sempre maggiore di manifestazioni, festival ed eventi in tutto il mondo (i più importanti rimangono gli europei Transmediale di Berlino, Ars Electronica di Linz e l’itinerante Read_Me, organizzato da Alexei Shulgin e Olga Goriunova), e nello stesso tempo ha contribuito ad alimentare un acceso dibattito intellettuale sul ruolo del computer e del codice informatico nella produttività artistica contemporanea. Nelle sue Dieci tesi sulla software art (2003), Cramer puntualizza ulteriormente il ruolo della programmazione nei processi di generazione di forme d’arte digitali: Every digital artwork that is not itself a computer program exists only within the framework that prefabricated software has defined for it. All digital art is therefore “software art” at least to the degree that it is software-aided art. It becomes software art in the narrower sense, I would suggest, when it does not regard software as an external aid, but as part of its own aesthetics.8

Il codice dunque, nell’arte del software, non si limita a essere strumento funzionale per la generazione di un particolare output, ma assume esso stesso il valore di opera, determinando in tutto e per tutto la nascita di una nuova estetica legata alle procedure di generazione del senso (audiovisivo) finale di un prodotto.

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4. Generazione Flash e Web cinema Parallelamente al passaggio di consegne tra l’esperienza della Net.art storica e quella della Software art, un’altra forma di creatività altrettanto importante e originale si è progressivamente diffusa nello spazio del Web: la disponibilità di software per l’authoring multimediale a basso costo (Macromedia Flash su tutti) ha messo nelle mani di una nutrita generazione di giovani web designer gli strumenti per realizzare audiovisivi compatti, adatti alla diffusione su Internet, realizzati prevalentemente utilizzando elementi grafici vettoriali, immagini statiche e musica in formato compresso. Utilizzando gli stessi personal computer impiegati quotidianamente per lo studio o il lavoro, gli artisti di quella che Lev Manovich ha definito generation Flash (cfr. Lev Manovich, 2002) sperimentano i limiti del linguaggio audiovisivo applicato alla Rete, combinandolo con l’interattività tipica del sito web. In maniera del tutto spontanea, ancora una volta grazie alle potenzialità comunicative del network, un’inedita tipologia di audiovisivo breve prende forma nei luoghi del Web frequentati dagli addetti ai lavori: testi che assomigliano ai videoclip musicali più sperimentali, ma che il più delle volte rinunciano completamente ad utilizzare attori in carne ed ossa e grafica tridimensionale fotorealistica, preferendo operare in maniera simile ad un collage costruttivista in chiave Internet. Gli elementi grafici che si muovono, solitamente a ritmo vertiginoso, sullo schermo del computer sono immagini bidimensionali mutuate da interfacce software, videogiochi, pubblicità, banner e quanto altro circoli ogni minuto sulla Rete. Non si tratta di videoarte, né di animazione digitale: i clip realizzati dai creativi del Web costituiscono una nuova forma di cinema fatto senza la macchina da presa, utilizzando strumenti software largamente diffusi, che tradisce un forte collegamento con la realtà quotidiana vissuta dalle nuove generazioni: quella del network. Il web cinema nasce dal web design e affonda le proprie radici nella tradizione del design grafico e tipografico. Proprio con gli strumenti di comunicazione della Rete gli artisti/designer della generazione Flash si confrontano, si scambiano materiali e suggerimenti tecnici, diffondono le loro opere e si uniscono in comunità. Innumerevoli e in continua crescita i portali dedicati al fenomeno: limitata dalla rigidità delle richieste del committente di siti web commerciali, che devono rispondere necessariamente a ferrei criteri di usabilità e leggibilità, la creatività dei designer si esprime liberamente con l’opera sperimentale, che diviene biglietto da visita, oggetto di sfida, motivo di vanto all’interno della vita di community. Lontani dall’organizzarsi secondo la logica del movimento, gli artisti della generazione Flash sperimentano pratiche di auto-organizzazione rizomatica nella Rete, creano e abbattono luoghi di aggregazione, espongono

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i loro clip in siti vetrina che sembrano realizzati con lo scopo di distruggere ogni dettame di usabilità e accessibilità dei siti imposto dalle logiche di mercato della net economy. Solo una minima parte degli autori che operano all’interno di questo settore sono interessati a una discussione teorica sul senso delle loro creazioni o sullo statuto di artisticità delle opere in questione: sperimentare significa la maggior parte delle volte crescere in abilità, estremizzare la conoscenza tecnica dei software necessari al raggiungimento di certi risultati, padroneggiare meglio di altri la tecnologia. Il web cinema si evolve al ritmo della crescita tecnologica e spesso anticipa le linee di sviluppo future dei software. Ciò che ne deriva è la nascita di un’estetica comune al tempo stesso originale e riconoscibile, legata allo strumento tecnico impiegato, in cui molto spesso è la bidimensionalità grafica accoppiata alla vertiginosità del movimento il tratto distintivo. Un’estetica che travalica immediatamente i confini della Rete per entrare prepotentemente anche nello spazio del piccolo schermo televisivo: la generazione Flash fa il suo ingresso trionfale nel mondo della comunicazione pubblicitaria e sugli schermi (e molto spesso negli studi creativi) dei grossi network musicali come MTV, riprogettandone la motion graphic, contribuendo ad accelerare il processo di ibridazione che sta portando la schermata televisiva ad assomigliare sempre più ad una pagina web. Sigle, spot e stacchetti vengono realizzati spesso con lo stesso software (e dagli stessi creativi) usato per i clip del web cinema; ne copiano la struttura e il linguaggio, ne citano le caratteristiche principali. Anche un numero sempre più ampio di videoclip musicali destinati al broadcasting, innegabile fonte di ispirazione per i creativi del Web, vengono realizzati secondo i canoni del web cinema, invertendo il meccanismo di contaminazione. Il linguaggio visivo del web design esplode come fenomeno culturale ed estetico di massa, codice condiviso da una generazione che ha alle spalle lo stesso background e che vive la tecnologia digitale come un elemento basilare della quotidianità. Sarebbe tuttavia sbagliato pensare che i testi prodotti dalla generazione Flash siano sempre e soltanto una mera esibizione delle proprie capacità tecniche: molti designer hanno intrapreso percorsi di sperimentazione che li hanno portati allo sviluppo di stili assolutamente personali e riconoscibili, spingendo al contempo la ricerca tecnica fino ai limiti della tecnologia. Autori come Joshua Davis (Praystation.com), Mike Cina e Mike Young (Weworkforthem.com, Designgraphik.com, Trueistrue.com), Nando Costa (Hungryfordesign.com), Joost Korngold (Renascent.nl), Bradley Grosh (Gmunk.com) o l’italiano Nicola Stumpo (Abnormalbehaviorchild.com) e collettivi (spesso al contempo rinomate agenzie di design) come Lobo, The Designer Republic, MK12, Heliozilla, WDDG, Tronic Studio, dividono ormai

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la loro produzione tra web cinema sperimentale, web advertising, filmati pubblicitari e videoclip musicali. La generazione Flash è vicina di casa eppure lontana anni luce dalla Net.art e dalla sua vocazione sociale e politica. Gli artisti del web cinema vengono spesso da oltreoceano e utilizzano tecnologie proprietarie come Macromedia Flash per la progettazione dei propri lavori, rinunciando preventivamente a qualsiasi forma di protesta nei confronti dell’egemonia tecnologica delle multinazionali occidentali. Determinante, forse ancor più che per i net.artisti, il ruolo delle communities e dei portali Web sulle cui pagine segnalare, recensire, criticare o osannare le opere che quotidianamente vedono la luce in tutta la Rete. Emblematico il caso del più importante spazio virtuale di aggregazione per designer del Web italiano, Dollydesign.com. Nato nel 1998 dall’intuizione di due giovani web designer, si è in breve configurato come progetto collettivo di cooperazione tra creativi non soltanto del nostro paese, venendo riconosciuto anche dai media tradizionali come il punto di riferimento per la collaboratività artistica sulla Rete in Italia e allargando esponenzialmente il proprio numero di iscritti. Esperienza oggi conclusa, ma portata avanti da altri portali cresciuti nel contempo, Dollydesign ha rappresentato un caso davvero particolare nel panorama non soltanto del web cinema (contribuendo ad aprire una via nazionale al fenomeno), ma più in generale per la pratica della logica del network nella produttività artistica. Oggi, pur nell’estrema indecifrabilità delle tendenze artistiche della Rete, la generazione Flash pare aver terminato la propria spinta innovativa, dando vita a due fenomeni diversi. Da una parte, come si è già fatto notare, si è assistito all’uscita dalla Rete di molti dei più importanti designer, impegnati in produzioni televisive e pubblicitarie, fatto che sta modificando progressivamente la tipologia dei lavori realizzati, sempre più inclini a sfruttare altre tipologie di software più legati alla post-produzione audiovisiva tradizionale che all’authoring web. Dall’altra, una schiera di artisti orbitanti nella galassia web cinema ha avvertito la necessità di un approccio più ortodosso e consapevole all’opera software, avvicinando le proprie posizioni a quelle della Net e Software art, cimentandosi con l’attivismo della produzione di videogame sociali e politici a basso costo, alternativi e in contrasto con il mercato ufficiale (da diffondere rigorosamente su Internet), oppure investendo le loro energie creative nello studio di linguaggi di programmazione per la grafica interattiva basati su standard aperti come Processing,9 ambiente di sviluppo basato su Java ideato da Ben Fry e Casey Reas con il contributo dell’Aesthetics and Computation Group del MIT Media Lab.

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5. Il cinema ASCII di Vuk ‡osi¶ Dopo aver tentato di riassumere per sommi capi l’evoluzione delle forme artistiche legate a Internet (Net e Software art da una parte e web cinema dall’altra), ci si soffermerà ora ad analizzare alcuni casi peculiari del rapporto che intercorre tra audiovisivo tradizionale e forme brevi del network. Ancora una volta, lo scopo di tale operazione non è quello di fornire un’analisi esaustiva della produzione artistica del Web, ma di focalizzare l’attenzione su alcune opere che fanno parte ormai della storia della Net art e che in qualche modo hanno problematizzato e discusso il passaggio dall’era analogica a quella digitale, utilizzando spesso l’immagine cinematografica e audiovisiva della tradizione come oggetto da riplasmare in contesti diversi, inserendola in sistemi interattivi che permettessero all’utente di intervenire direttamente per stravolgere e ricombinare il senso finale di un testo. Opera di importanza seminale per un discorso sul dialogismo tra media appartenenti a epoche diverse, la serie di progetti in ASCII art di Vuk ‡osi¶: l’artista di Belgrado (ma con base a Lubjiana, dove ha fondato il Ljudmila, Ljubljana Digital Media Lab), che già con la serie Classics of net.art aveva considerato le potenzialità di distorsione temporale tipiche della Rete (costruendo una raccolta di lavori inediti, ma spacciati per classici del passato della Net.art), riflette sul nuovo status digitale dei media contemporanei, evidenziandone la natura di costrutti informatici attraverso la trasformazione di contenuti in codice ASCII. Come ben notato da Lev Manovich, ‡osi¶’s ASCII initiative is a systematic program of translating media content from one obsolete format into another. These projects remind us that since at least the 1960s the operation of media translation has been at the core of our culture.10

L’acronimo ASCII sta per American Standard Code for Information Interchange, e designa il codice, originariamente creato per le telescriventi già negli anni ’20, impiegato sui computer dagli anni ’60, che stabilisce la corrispondenza tra sequenze binarie di 8 bit e i caratteri alfanumerici impiegati per la scrittura testuale, garantendo la compatibilità del formato testo su tutti gli elaboratori che adottano tale standard (all’origine di 7 bit, poi ampliato a 8 per poter rappresentare fino a 256 simboli diversi). L’ASCII rappresenta un’estensione del precedente codice introdotto da Emile Baudot, che componeva ogni lettera dell’alfabeto con la combinazione di cinque cifre che stavano per un segnale aperto o chiuso di un circuito. Il procedimento alla base dell’ASCII Art sta nella traduzione di forme visive in caratteri alfanumerici che, sullo schermo, vanno a ricomporre l’immagine di partenza. Tra i vari progetti (Deep ASCII, Music Videos, ASCII Camera primer, ASCII Unreal,

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ASCII Architecture e ASCII Statues), è sicuramente ASCII History of Moving Images quello più noto e utile ai fini di questa analisi: in questo caso ‡osi¶ si confronta con il medium cinematografico con la sua caratteristica ironia dissacrante, e ambisce a ricostruire attraverso il codice ASCII la storia del medium, dai film dei fratelli Lumière alla contemporaneità. Il progetto rappresenta il Volume III di quella che l’artista continua a chiamare Official History of Net.art, con la consueta volontà di confondere il visitatore del suo sito Internet, facendogli credere di trovarsi di fronte a un classico di chissà quale passato. Utilizzando un particolare software (reperibile con facilità in Rete), ‡osi¶ trasforma alcuni spezzoni di famosi film in simboli alfanumerici che vanno a ricomporre visivamente la forma dell’oggetto di partenza: codice e output si fondono e vengono visualizzati contemporaneamente mettendo in evidenza lo statuto digitale delle immagini della contemporaneità. Ciò che il cinema nasconde usualmente, viene svelato dalla Net.art, che mette a nudo di fronte al pubblico la vera essenza dell’audiovisivo di oggi. Nel suo saggio per il catalogo dell’esibizione online Contemporary ASCII11, Lev Manovich sottolinea i collegamenti che l’opera di Vuk ‡osi¶ intrattiene sia con il particolare impiego di found-footage fatto da Konrad Zuse (un ingegnere tedesco che utilizzava gli scarti di pellicola 35mm cinematografica come nastro per il controllo di programmi di un elaboratore di sua invenzione), che con il primo film commerciale realizzato completamente con tecnologie digitali, Star Wars: Episode 1 – The Phantom Menace (La minaccia fantasma, 1999) di George Lucas. Laddove Zuse letteralmente sovrappone il codice digitale alle immagini cinematografiche, Lucas invece lo rende invisibile e nascosto sotto la superficie del film. ‡osi¶ fonde e rende visibili le due materie allo stesso tempo: What Lucas hides, ‡osi¶ reveals. His ASCII films “perform” the new status of media as digital data. The ASCII code that results when an image is digitized is displayed on the screen. The result is as satisfying poetically as it is conceptually – for what we get is a double image, a recognizable film image and an abstract code together. Both are visible at once.12

Sul sito web del progetto13 l’utente può trovare le versioni ASCII di alcune porzioni dei film tradotti da ‡osi¶, trasformati in applet Java: alcuni spezzoni di film dei fratelli Lumière, qualche scena di La corazzata Potëmkin (1925, S. Ejzenôstejn), King Kong (1933, M. Cooper e B. Schoedsack), Star Trek (non è chiaro se si tratti di un episodio della serie televisiva classica o di uno dei primi film della saga cinematografica), Blow up (1966, M. Antonioni), Psycho (1960, A. Hitchcock) e Gola profonda (1972, G. Damiano). La selezione di titoli è volutamente eterogenea, ‡osi¶ si diverte a mostrare l’as-

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soluta democraticità del codice digitale, che rimastica tutta la produzione filmica della storia, indipendentemente dal genere o dal valore autoriale dell’opera. A livello visivo, il visitatore del sito di ASCII History of Moving Images si trova di fronte a una serie di filmati a prima vista indecifrabili: dopo qualche attimo di disorientamento, ecco apparire come per un fenomeno percettivo di insight la trama visiva riconoscibile del film, che però non riesce a staccarsi completamente dall’artificiosità del materiale che va a comporla sullo schermo. Così come Neo in Matrix (1999, A. e L. Wachowsky), l’utente si trova a dover leggere il senso audiovisivo al di là del codice della macchina, comprendendo al tempo stesso la relazione di inscindibilità che intercorre tra output e processo. L’opera ASCII di Vuk ‡osi¶ rappresenta in definitiva uno dei più importanti trattati epistemologici sull’estetica del codice e sul ruolo della tecnologia. 6. Software art e rimediazione del film Si è fatto in precedenza notare come il termine Software art identifichi un insieme piuttosto vasto di pratiche artistiche in cui l’impiego della tecnologia e del codice informatico abbia un valore non soltanto funzionale ma anche estetico: eredi della tradizione dell’arte concettuale, della musica minimalista, dell’esperienza Fluxus, dell’arte generativa e della pittura epigenetica, gli artisti software utilizzano il computer per dar vita a progetti veicolati da media diversi, scrivendo da soli i loro programmi: si parla allora di arte algoritmica, di code art, di installazioni e performance software, di game art, di manipolazione di software esistenti.14 Proprio il concetto di manipolazione e manipolabilità del codice informatico sembra essere fondamentale nell’approccio della quasi totalità dei software-artisti: il computer nelle loro mani torna alla sua funzione primaria, quella di elaboratore, e viene impiegato per ridiscutere e rimodellare oggetti digitali di diverso tipo. In primo luogo vengono rimaneggiati i principali pacchetti software commerciali: emblematica in questo settore è l’opera di Adrian Ward, che riscrive letteralmente il codice di alcuni pacchetti software molto noti per modificarne il funzionamento e renderli sistemi ingovernabili, che auto-generano contenuti, in cui il ruolo dell’interfaccia decade completamente (un esempio su tutti, il celebre Autoillustrator,15 che stravolge il funzionamento del pacchetto per la grafica vettoriale di Adobe, premiato alla Transmediale berlinese del 2001). Altro materiale manipolato spesso dalla Software art è il videogioco, modificato secondo logiche che ne stravolgono il senso e l’ideologia sottesa: il duo belga Jodi (composto da Joan Heemskerk e Dirk Paesmans) si cimenta ad esempio con la decostruzione di alcuni dei più celebri FPS (first person shooter) della sto-

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ria videoludica (Wolfenstein 3D diventa allora SOD e Quake si trasforma in Untitled Game), Anne-Marie Schleiner riempie di graffiti (spesso pacifisti) i muri virtuali di Counter-Strike, uno dei più noti shooter multiplayer giocabili in Rete, sottolineando l’importanza ideologica del medium videoludico, mentre il collettivo RSG (Radical Software Group, gli ideatori del sistema di data sniffing Carnivore) mette in mostra bug ed errori del codice di famosi videogame nella serie di videoinstallazioni Prepared Playstation.16 Anche il testo filmico diventa nelle mani degli artisti software un insieme di materiali da scomporre e riattualizzare secondo logiche combinatorie inedite basate sull’interattività tra sistema e utente. Il film viene trattato alla pari di tutti gli altri oggetti fatti di bit che circolano sulla rete e vengono processati dal computer, costrutto fatto di codice che può essere plasmato dai software scritti per l’occasione per dar vita a oggetti inediti, solo marginalmente legati al testo originale. Scopo del gioco, ancora una volta, è farci riflettere sulla portata epocale del passaggio di consegne tra epoca analogica ed era digitale, sperimentando modalità interattive di personalizzazione dell’opera d’arte. Nel campo della progettazione di software per la manipolazione di materiali audiovisivi in chiave artistica, colpiscono i percorsi artistici di due artisti americani che dedicano al cinema un’attenzione particolare contraddistinta anche da un evidente affetto nei confronti del testo filmico di origine. Mi riferisco ai lavori di Barbara Lattanzi, attiva prima come film-maker (già negli anni ’80) e poi come autrice multimediale, e di Matthew (Matt) Roberts, fondatore di MPG, Mobile Performance Group, new media artist interessato anche agli aspetti performativi della software art. Con i suoi «software idiomorfici», Barbara Lattanzi rende disponibile per l’utente la possibilità di stravolgere, principalmente dal punto di vista temporale, i testi di riferimento, riconfigurando la sequenzialità tipica del cinema. AMG Strain17 (2002) è addirittura la premeditata rimediazione di una rimediazione artistica precedente: il software di Lattanzi (di cui è disponibile anche il codice sorgente,18 secondo la tipica logica open source della net art) si basa sull’opera video Strain Andromeda, The (1992) di Anne McGuire, che operava una decostruzione sistematica del film The Andromeda Strain (1971, di Robert Wise, basato su un romanzo di Michael Crichton) distruggendo il sistema di rappresentazione egemonico costruito dalle tipiche logiche del découpage classico hollywoodiano. AMG Strain estremizza le riflessioni di McGuire, fornendo al fruitore gli strumenti per generare interattivamente ordini temporali alternativi che abbattano le barriere precostituite dal regime rappresentativo di Hollywood. Con HF Critical Mass e EG Serene (entrambi del 2002), invece, Barbara Lattanzi dialoga direttamente e senza intermediari con la sperimentalità di

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Critical Mass (1971) di Hollis Frampton e Serene Velocity (1970) di Ernie Gehr. Utilizzando HF Critical Mass,19 l’utente può improvvisare performance video che enfatizzano l’approccio strutturalista e formalista dell’opera di Frampton (terzo capitolo della serie Hapax Legomena, tesa a riflettere sulle condizioni della rappresentazione cinematografica e sui limiti e paradossi di mostrazione e narrazione): metodi e struttura del film diventano le modalità attraverso cui agire sul materiale video importato direttamente dall’utilizzatore del software. Scrive la stessa Barbara Lattanzi sulle pagine del proprio sito web: With its particular video improvisation interface, HF Critical Mass software mediates the narrative reading of moving images, an approach modelled by Hollis Frampton’s film. It demos how this inter-active reading can shape, twist, morph and stress the particular temporal passage belonging to the viewer - that variously named “here-and-now” or “real time” during which the software is deployed.

Anche EG Serene costringe l’utente a dare in pasto al software alcuni video in formato Quicktime che risiedono sul proprio hard disk: come Critical Mass di Frampton, anche Serene Velocity di Ernie Gehr viene impiegato non per i suoi materiali audiovisivi, ma per la sua struttura formale e il suo modo di trattare la temporalità dell’immagine filmica. Il film dell’artista statunitense è un caso emblematico di cinema strutturalista interessato all’applicazione di regole matematiche precise all’inquadratura e alle possibilità della pellicola e del fotogramma come elemento strutturale di base: Serene Velocity è un film montato direttamente in macchina, in cui l’obiettivo inquadra un asettico corridoio da una prospettiva assolutamente simmetrica, allargando e restringendo continuamente lo zoom ogni quattro fotogrammi di pellicola, costruendo una straniante sequenza ritmica di vicinanza e lontananza, che svela e nasconde gli elementi dell’ambiente secondo una progressione ipnotica e ossessiva. Al pari di Ernie Gehr, Barbara Lattanzi è interessata all’esplorazione sistematica delle strutture formali dell’audiovisivo, ma attualizza tale ricerca attraverso l’impiego di software interattivi che permettono all’utente di modificare ad ogni utilizzo sia il materiale visivo di base che le regole di scansione temporale dell’immagine. Se dunque Lattanzi è impegnata nella progettazione di software che indaghino le possibilità di differenti organizzazioni temporali per l’audiovisivo prendendo il testo filmico sperimentale come metafora strutturale, Matt Roberts pare più interessato all’immagine vera e propria e alla potenzialità del software come strumento di liberazione e moltiplicazione del senso di un audiovisivo. Sia i suoi programmi che le sue performance20 fanno emergere un forte rispetto nei confronti dei testi originali, una sorta di reverenza verso

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l’opera, che viene trattata con un attenzione del tutto particolare all’interno del panorama della net e software art, spesso avvezza a strategie di rimediazione artistica del tutto dissacratorie e volutamente irrispettose. Roberts si rapporta all’opera di Bruce Conner (A Movie, del 1958, che dà origine al software A New Movie e Ten Second Film, che viene omaggiato con Conner Times Ten) e di Jean Luc Godard (Alphaville, del 1965, diventa database di immagini per la performance Alpha Beta Disco: Godard Remix) non per carpirne ed estrapolarne strutture e modalità di rappresentazione, ma per riattualizzarne il valore audiovisivo anche come materia di base per elaborazioni software contemporanee. Con A New Movie, Roberts mette a disposizione dell’utente un software in grado di rimontare diverse versioni del film di Conner utilizzando come input i movimenti del mouse sullo schermo durante una normale sessione al computer. Le operazioni compiute durante il lavoro quotidiano si trasformano in informazioni pertinenti per smontare e riassemblare le inquadrature di A Movie in ordini sempre differenti, estremizzando le operazioni di accostamento arbitrario di found-footage compiute dall’artista americano. Conner Times Ten è invece un’applicazione che elabora casualmente una serie di fotogrammi di Ten Second Film producendo di volta in volta una serie di immagini inedite, che intrattengono un doppio legame con l’originale filmico e con la tecnologia software di manipolazione. Diverso approccio invece quello utilizzato da Matt Roberts (questa volta all’interno del progetto collettivo DropBox) per la manipolazione di Alphaville di Godard: Alpha Beta Disco: Godard Remix non si configura come software scaricabile dalla Rete e utilizzabile da qualsiasi utente sul proprio computer, ma come performance multimediale in cui il materiale audiovisivo del capolavoro dell’autore della nouvelle vague è scomposto in elementi che entrano a far parte di un database di contenuti manipolabili, remixati in tempo reale dall’artista, che danno vita ad un audiovisivo nuovo e sempre differente. 7. Italian web cinema: i piccoli mondi digitali di Niko Stumpo Nicola (Niko) Stumpo è uno degli artisti più originali e poliedrici della motion graphic della Rete. Nato in Norvegia nel 1976, ma trasferitosi presto in Italia, Stumpo si avvicina al mondo del Web dopo che un incidente interrompe la sua carriera di skateboarder professionista, e in brevissimo tempo, a soli vent’anni, diventa uno degli autori più importanti e acclamati di Internet, per la sua capacità di miscelare sperimentazione artistica, design, video e musica.

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La produzione dell’artista italiano mette in crisi qualsiasi etichetta che tenti di limitarne l’ambito creativo a un’area piuttosto che a un’altra: grafico, illustratore, net artista, regista, web designer. Nicola Stumpo è tutte queste cose contemporaneamente, e la forza espressiva delle sue opere risiede proprio in questa commistione di stili, riferimenti e linguaggi sovrapposti. Parte integrante della generazione Flash, l’artista piega la tecnologia alla sua visione estetica dello spazio virtuale, usa la grafica vettoriale in movimento come nessun altro aveva fatto prima, rendendo l’ambiente di authoring multimediale commerciale più diffuso al mondo (Macromedia Flash, appunto) una scatola di pennarelli colorati con cui riempire di schizzi i muri (virtuali) dei propri spazi Web, esplorando i limiti tecnici dello strumento con una naturalezza senza precedenti; Destroy Everything, il suo primo lavoro online, realizzato con l’intento di avvicinarsi al mezzo espressivo, è stato immediatamente premiato con il Flash Forward Award,21 il riconoscimento più ambito da qualsiasi designer della Flash generation. L’immaginario visivo rappresentato nelle opere di Stumpo è un melting pot di fascinazioni provenienti da luoghi espressivi completamente diversi: i muri di Roma, palestra creativa della giovane generazione di writers e skaters, l’animazione tradizionale e la grafica illustrativa, i pixel dei primi siti web sperimentali di metà anni ’90. Il suo linguaggio, in bilico tra street art e visual design, racchiude tutti questi elementi, fondendoli in una multimedialità variopinta, estremamente ludica, in cui gli elementi di interattività presenti costituiscono una vera e propria sfida cognitiva per l’utente che si avvicina ai suoi progetti. Molte delle opere di web cinema di Nicola Stumpo sono disseminate di possibilità interattive nascoste, che spesso rimangono occultate all’occhio del fruitore. Occorre procedere a tentoni, tastando lo schermo in tutti i punti, tentando di squarciare la patina opaca che separa lo sguardo dall’interfaccia, per essere “premiati” e trovare l’azione corretta che faccia procedere i filmati di Stumpo. Da Destroy Everything a The Secret Garden (realizzato per Kaliber 10000, uno dei principali portali dedicati al web design), da My city a Thethirdplace (progettato per la prestigiosa esposizione online legata al lancio di Sony PlayStation2), da Rooms all’ultimo 4x4 (che rinunciano quasi completamente alle influenze della street art per lasciare maggior spazio all’utilizzo del video) tutte le opere di Nicola Stumpo sono raccolte su Abnormalbehaviorchild.com, lo storico sito web dell’artista, vera galleria d’arte personale in cui ammirare le tappe che lo hanno portato ad essere l’autore web italiano più premiato al mondo. Niko Stumpo può a ragione essere considerato il vero emblema della generazione Flash, e dunque di un modo di concepire la creatività come sfogo espressivo e maestria tecnica prima che come ricerca artistica, e della ferma

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volontà di non ricadere in nessuna definizione precisa, vivendo in maniera scanzonata anche la dicotomia artista/designer che pare interessare più ai critici che agli autori stessi: Stumpo dimostra di essere a suo agio tanto negli spazi deputati tradizionalmente all’arte (dalla Biennale di Tirana del 2001, ampiamente dedicata alla Flash Art, fino alla personale del 2005, intitolata Njoy! e curata a Milano da Jacopo Perfetti, è praticamente impossibile tener traccia di tutti i luoghi in cui sono state esposte le sue opere), quanto nel ruolo di art director al servizio di aziende di tutto il mondo.

NOTE 1 Con il termine peer si identifica un computer collegato ad Internet in rapporto gerarchico uguale ai computer a cui si conntette. I sistemi di condivisione di file con protocollo peer to peer sono caratterizzati dall’assenza di un server centrale. 2 Cfr. J. D. Bolter, R. Grusin, Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, a cura di A. Marinelli, Guerini e Associati, Milano, 2002, p. 79. 3 Stan VanDerBeek lavorò, ad esempio, assieme a un ingegnere informatico, Kenneth Knowlton, per la celebre serie Poem Fields (1964). Charles Csuri collaborò per il suo Hummingbird (1967) con il programmatore James Schaffer. 4 Disponibile all’indirizzo http://www.giulyars.net/quotation/casamento.htm. 5 La mailing list Nettime (www.nettime.org) mette a disposizione i propri archivi e alcune pubblicazioni da scaricare. 6 Bulletin Board Service, le bacheche virtuali di Internet prima del web. 7 F. Cramer, U. Gabriel, Software Art and Writing, in “American Book review”, issue “Codeworks”, Settembre 2001, disponibile online: http://cramer.plaintext.cc:70/essays/software_art_and_writing. 8 F. Cramer, 10 Thesen zur Softwarekunst, 2003, disponibile online: http://cramer.plaintext.cc:70/all/10_thesen_zur_softwarekunst, pp. 1-2. 9 Il sito ufficiale del progetto Processing è www.processing.org. 10 L. Manovich, Cinema by Numbers, 1999, disponibile online: www.manovich.net/ DOCS/cinema_by_numbers.doc>, p. 6. 11 Il sito di Contemporary ASCII è http://www.ljudmila.org/~vuk/ascii/. 12 L. Manovich, op. cit., 1999, p. 5. 13 Il sito è ancora disponibile all’indirizzo http://www.ljudmila.org/~vuk/ascii/film/. 14 Le categorie identificate dal principale portale dedicato alla software art, Runme.org sono addirittura ventiquattro. 15 Auto-illustrator di Adrian Ward è liberamente scaricabile per computer Windows e Macintosh all’indirizzo http://www.auto-illustrator.com. 16 Alcuni video della serie Prepared Playstation sono disponibili all’indirizzo web http://itserve.cc.ed.nyu.edu/RSG/PP/. 17 AMG Strain si può scaricare liberamente all’indirizzo http://www.wildernesspuppets. net/yarns/amgstrain/download.html.

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248 18 AMG Strain è programmato in Lingo, il linguaggio dell’ambiente per l’authoring multimediale Macromedia Director. 19 HF Criticalmass è disponibile all’url http://www.wildernesspuppets.net/yarns/hfcriticalmass/download.html. 20 Le opere di Matt Roberts sono reperibili sul sito personale dell’artista all’indirizzo http://www.mattroberts.info. 21 Flash Forward Award nella categoria “Graphic in Motion” al Flash Forward di San Francisco nel 2000.

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Artworks

Inserire il CD-Rom nel lettore e lanciare il file “index.htm”: il menu di navigazione si aprirà nel browser predefinito. Le opere-software contenute nel CD-Rom allegato, discusse e analizzate nel saggio Avanguardie in rete, di Cristiano Poian, sono le seguenti: EG Serene (Barbara Lattanzi): Software per Mac Classic HF Critical Mass (Barbara Lattanzi): Software per Mac Classic AMG Strain (Barbara Lattanzi): Software per Mac Classic A New Movie (Matt Roberts): Software per Mac Classic Conner Times Ten (Matt Roberts): Software per Mac Classic The Soft Bits (Matt Roberts): Filmato Quicktime Alpha Beta Disco: Godard Remix (Matt Roberts): Filmato Quicktime ABCGmunk 2001 (Niko Stumpo): HTML / Flash The Third Place (Niko Stumpo): HTML / Flash Destroy Everything (Niko Stumpo): HTML / Flash Autopoiesis (Niko Stumpo): HTML / Flash Rooms (Niko Stumpo): HTML / Flash Tutte le opere sono state concesse per la distribuzione su CD-Rom dai rispettivi autori. Alcune di esse richiedono una connessione ad Internet e il plugin di Adobe Flash Player per poter essere fruite completamente.

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“ARCHIVI” a cura di Alessandro Bordina The Andy Warhol Museum 117 Sandusky Street Pittsburgh, PA 15212-5890 Telefono: 412.237.8300 website: http://www.warhol.org/ ultimo accesso 5/07/2006

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L’Andy Warhol Museum possiede attualmente una collezione di 273 film dell’artista preservati, inclusi i recentemente restaurati Outer and Inner Space, Hedy e 228 four-minute Screen Tests. Il museo cura anche l’intera collezione di video di Andy Warhol, circa 4000 videotape, include 40 completi episodi di Andy Warhol’s T.V. e Andy Warhol’s Fifteen Minutesand Factory Diaries.

Anthology Film Archives 32 2nd Avenue New York, NY 10003 USA Telefono: (212) 505-5181 Fax: (212) 477-2714 e-mail: [email protected] website: http://www.anthologyfilmarchives.org/ ultimo accesso 5/07/2006 Anthology Film Archives è un centro internazionale per la preservazione, lo studio e l’esibizione di film e video e dedica particolare attenzione al cinema indipendente americano e di avanguardia e ai suoi precursori in Europa, Unione Sovietica e Giappone. Anthology è, al contempo, un “museo” del film, un archivio, una biblioteca e una galleria d’arte. Dopo 35 anni di esistenza, Anthology rimane l’unica organizzazione non-profit di questo tipo a New York.

Archives of Independent Danish Video Art Themstrupvej 36, DK-4690 Haslev, Denmark Telefono: +45 56 31 21 21 e-mail: [email protected] website: http://www.videoart-archives.dk/ ultimo accesso 5/07/2006 Il sito raccoglie informazioni sulla videoarte indipendente danese e su artisti danesi (non associati a gallerie commerciali) che lavorano con il video. Sul sito si trovano informazioni sui singoli artisti e brevi estratti delle loro opere.

ASAC – Archivio Storico delle Arti Contemporanee VEGA Parco Scientifico Tecnologico Edificio Lybra - Via delle Industrie 17/a 30175 Porto Marghera (VE) Telefono: 041 5218700 - Fax 041 5218747 e-mail [email protected] website: http://www.labiennale.org/it/asac/ ultimo accesso 5/07/2006

ASAC – Archivio Storico delle Arti Contemporanee VEGA Parco Scientifico Tecnologico Edificio Lybra - Via delle Industrie 17/a 30175 Porto Marghera (VE) Telefono: 041 5218700

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Fax 041 5218747 e-mail: [email protected] website: http://www.labiennale.org/it/asac/ ultimo accesso 5/07/2006 L’Archivio Storico delle Arti Contemporanee (ASAC) è un settore permanente di ricerca e produzione culturale nel campo delle arti contemporanee. Esso tutela, conserva e valorizza il patrimonio documentale della Biennale di Venezia dal 1895 a oggi. La collezione della Cineteca accoglie pellicole cinematografiche (fiction e documentari) presentate nel corso delle varie mostre internazionali del cinema e di altre manifestazioni o festival patrocinati dalla Biennale di Venezia. Attualmente essa raccoglie 1078 film, tra lungometraggi e cortometraggi, in formati 35mm., 16mm., 70mm. La Mediateca è costituita da materiali audio e video e da archivi elettronici (CDRom), tali da fornire a studenti e ricercatori, operatori artistici e culturali, una panoramica generale concernente le arti contemporanee. La maggior parte dei nastri audio e video documenta le manifestazioni e gli eventi artistici, musicali, teatrali, cinematografici promossi e organizzati dalla Biennale. La Mediateca raccoglie 8274 video originali in formato VHS, U-Matic, Betacam, DVD, Videobobina, 4472 dischi sonori (in vinile e CD), 3308 audionastri (in bobina e audiocassetta); 233 CD-Rom. Nel contesto della 63. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, l’ASAC ha presentato per la prima volta al pubblico il proprio nuovo sistema informativo multimediale che sarà completato entro il 2008. A regime conterrà milioni di dati e documenti in riproduzione digitale.

Canadian Filmmakers Distribution Centre 37 Hanna Avenue, Suite 220 Toronto, Ontario, Canada M6K 1W9 Telefono: (416) 588-0725 Fax: (416) 588-7956 e-mail: [email protected] website: http://www.cfmdc.org ultimo accesso 5/07/2006 Il CFMDC è il principale distributore non commerciale di film a produzione indipendente. Rappresenta approssimativamente 550 film-maker di tutto il mondo e presenta 2600 titoli, comprendenti alcuni dei più originali e conosciuti lavori d’arte del Canada. La collezione del CFMDC è varia, spazia dagli anni ’50 ad oggi, ed è in continua crescita. Con sede a Toronto il CFMDC fu fondato nel 1967 da un gruppo di film-maker con l’obiettivo di accrescere le opportunità distributive, il pubblico e la “visibilità” per gli artisti e per i film indipendenti.

Canyon Cinema 145 Ninth Street, Suite 260 San Francisco, CA 94103 Telefono/fax: 415-626-2255 e-mail: [email protected] website: http://www.canyoncinema.com ultimo accesso 5/07/2006 La collezione di più di 3500 film di Canyon Cinema traccia la storia del cinema sperimentale e di avanguardia dagli anni ’30 ad oggi. Il principale impegno di Canyon è la distribuzione di film

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di 16mm e di videotape di artisti indipendenti. I film-maker indipendenti, diversamente da quelli commerciali o dagli artisti, raramente ricevono compensi finanziari per il loro lavoro. Il denaro che Canyon Cinema riceve dall’attività di distribuzione viene devoluto ai film-maker a sostegno della loro opera.

Centre for Contemporary Images Saint-Gervais Genève 5, rue du Temple CH - 1201 Geneva Switzerland Telefono: (+41 22) 908 20 60 Fax: (+41 22) 908 20 79 e-mail: [email protected] web: http://www.centreimage.ch/ ultimo accesso 5/07/2006 Con oltre 1500 titoli (videotape e CD-Rom) il Media Library of the Centre for contemporary images costituisce una delle più importanti collezioni di opere riferite ai nuovi media in Europa. La Media Library è un importante “strumento” a disposizione di professionisti e appassionati: il catalogo è disponibile on-line e su New Media Enciclopedia. Contiene le opere complete di alcuni artisti storici – tra gli altri, Nam June Paik, Gary Hill, Bill Viola, Vito Acconci, Abramovic/Ulay, Bruce Nauman, Robert Filliou – e un’ampia sezione dedicata alla Svizzera e agli artisti internazionali – quali ad esempio, Pipilotti Rist, Christoph Draeger, Thomas Hirschhorn, Sylvie Fleury, Sadie Benning, Claude Closky, Lothar Hempel, Tracey Moffatt, Pierrick Sorin. Il Contemporary Image Centre Media Library attualmente ospita la più vasta collezione video in Svizzera e, a livello europeo, gioca un ruolo molto speciale per gli sforzi dedicati all’accessibilità.

Centre Pompidou Place Georges Pompidou 75004 Paris website: http://www.centrepompidou.fr ultimo accesso 5/07/2006 La collezione riflette la molteplicità delle tendenze artistiche internazionali (Fluxus, Body Art, Minimal Art, Conceptual Art, Post-Conceptual Art ecc.). Presenta lavori di artisti impegnati in opere che spaziano dalla performance, alla letteratura, al film, alle arti visuali. Alcuni degli artisti presenti sono Vito Acconci, Chantal Akerman, Robert Ashley, Joseph Beuys, Jean-Luc Godard, Mona Hatoum, Gary Hill, Jenny Holzer, Thierry Kuntzel, Bruce Nauman, Marcel Odenbach, Nam June Paik, Bill Viola, Robert Wilson ecc.

Cinédoc 18 rue Montmartre, 75001 Paris Telefono: 01 42 33 10 64 Fax: 01 42 33 63 35 e-mail: [email protected]

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website: http://www.cinedoc.org/ ultimo accesso 29/08/2006 Cinédoc e Paris Films Coop nascono negli anni ‘70. I principali obiettivi di Cinédoc sono: sviluppare un archivio di avanguardia e di cinema sperimentale; trovare e riportare in circolazione film che sono stati trascurati, dimenticati o persi e che appartengono all’eredità del cinema sperimentale (film come quelli di Hans Richter, Viking Eggeling, Henri Chomette, Man Ray, David Haxton, Claude Autant-Lara, Alexandre Alexeïeff, Pippo Oriani ecc.); curare proiezioni e programmi di film “innovativi”; provvedere informazioni e orientamenti per i curatori di rassegne. Paris Films Coop e Cinédoc distribuiscono attualmente 675 film e video di 165 film-maker e video artisti.

Collectif Jeune Cinéma 11, rue Carpeaux 75018 Paris FRANCE Telefono/fax: +33 (0)1 44 85 00 72 email: [email protected] website: http://www.cjcinema.org ultimo accesso 5/07/2006 Si tratta di un fondo riferito a un centinaio di cineasti con 200 opere che hanno segnato la storia francese e internazionale del cinema sperimentale. Nel “nuovo deposito” il catalogo contiene, per il momento e per la maggior parte, film e video d’autori contemporanei e d’artisti multimediali.

The Daniel Langlois Foundation for Art, Science, and Technology 3530, Saint-Laurent Boulevard, Suite 402 Montreal (Quebec) H2X 2V1 Canada Telefono: (514) 987-7177 Fax: (514) 987-7492 e-mail: [email protected] website: http://www.fondation-langlois.org/ ultimo accesso 5/07/2006 La collezione include una vasta gamma di documenti provenienti da diverse fonti. La Foundation detiene fondi, provenienti da gruppi o da singoli, concernenti la pratica dell’arte elettronica, digitale o delle media arts. Tra gli altri fondi presenti vi sono quelli di Woody e Steina Vasulka e di Frank J. Malina.

Electronic Arts Intermix 535 West 22nd Street, 5th Floor New York, NY 10011 e-mail: [email protected] website: http://www.eai.org/eai/ ultimo accesso 5/07/2006 Electronic Arts Intermix (EAI) è una delle fondamentali risorse non-profit per la videoarte e i media interattivi. EAI è stato fondata nel 1971. Il programma fondamentale concerne la distri-

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buzione e la preservazione di opere di artisti che utilizzano vecchi e nuovi media. EAI offre inoltre servizi di didattica, di accesso, di esibizione e di programmi espositivi pubblici. Il catalogo on-line comprende 3000 opere di 175 artisti della collezione EAI. Il database include biografie di artisti, estratti di opere in QuickTime, materiale d’archivio, riferimenti web.

Everson Museum of Art 401 Harrison Street Syracuse, New York 13202 Telefono: (315) 474 6064 Fax: (315) 474 6943 website: http://www.everson.org/ ultimo accesso 5/07/2006 L’Everson Museum of Art inaugura la sua video collezione tra la fine degli anni ‘60 e gli inizi degli anni ’70, all’emergere della video arte come “genere”: oggi, il museo possiede una delle più complete collezioni di video d’arte del periodo. I 500 nastri in archivio includono, tra gli altri, lavori di Nam June Paik, Mary Lucier, William Wegman e Bill Viola.

Experimental Television Center 109 Lower Fairfield Road Newark Valley NY 13811 USA Telefono/fax 607 687-4341 e-mail: [email protected] website: http://www.experimentaltvcenter.org/history/index.html ultimo accesso 5/07/2006 Il Video History Project è un progetto di ricerca che documenta la storia della video arte e della comunità televisiva e il modo in cui si sono evolute nelle aree urbane e rurali dello stato di New York e in tutti gli Stati Uniti. Dal 1994 Video History Project promuove diverse iniziative tra le quali ricerche, conferenze e siti Internet.

Filmform Svarvargatan 2 SE-112 49 Stockholm Sweden Telefono/Fax: + 46 (0)8-651 84 26. e-mail: [email protected] website: http://www.filmform.com/ ultimo accesso 5/07/2006 Filmform possiede un archivio di film e video che copre un arco temporale che va dal 1950, anno della sua fondazione, alla contemporaneità. La collezione contiene lavori di artisti e film-maker svedesi. Filmform è la più “antica” organizzazione esistente che si occupa di film indipendenti e videoarte straniera e svedese. Collabora con il Ministero della cultura (Kulturdepartementet), La fondazione Cultura del futuro (Framtidens Kultur) e l’archivio nazionale del suono e del film (Arkivet för Ljud och Bild, ALB).

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295 The Film-Makers’ Cooperative c/o The Clocktower Gallery 108 Leonard Street, 13 floor New York, NY 10013 USA e-mail: [email protected] website: http://www.film-makerscoop.com/ ultimo accesso 5/07/2006 La Film-Makers’ Cooperative cura il più grande archivio di film indipendenti e di avanguardia nel mondo; svolge anche attività di distribuzione. Fondata nel 1962, la Coop. ha più di 5000 film e videotape nella sua collezione.

Franklin Furnace Archive, Inc. 80 Arts - The James E. Davis Arts Building 80 Hanson Place #301 Brooklyn, NY 11217-1506 Telefono: 718 398 7255 Fax: 718 398 7256 e-mail: [email protected] website: http://www.franklinfurnace.org/ ultimo accesso 5/07/2006 Archivio di performance e lavori interdisciplinari. L’archivio fisico della Franklin Furnace è costituito dalla documentazione di eventi presentati o finanziati da organizzazioni dal 1976 ad oggi. La Moving Image Collection è composta quasi esclusivamente da video di artisti presentati o finanziati dalla Franklin Furnace.

GAM - GALLERIA CIVICA D’ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA Via Magenta 31 - 10128 Torino – ITALY Telefono: 0114429597 (dalle 15:00 alle 19:00); 0114429621(dalle 11:00 alle 14:30) e-mail: [email protected] website: http://www.gamtorino.it ultimo accesso 5/07/2006 A partire dal 1° ottobre 1999 la GAM - Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino ha aperto al pubblico un nuovo servizio di videoteca con l’intento di offrire uno strumento essenziale per la conoscenza e lo studio del video e del cinema d’artista. La GAM si è impegnata nella creazione di un archivio che riunisce le più importanti opere della storia internazionale di questa forma d’arte. Al suo interno sono presenti circa 1200 opere che vanno dai primi nastri di Bruce Nauman e di Vito Acconci alle più recenti esperienze di artiste come Pipilotti Rist e Gillian Wearing, così come, per il cinema sperimentale, la raccolta traccia un arco storico che va dai primi esperimenti del Surrealismo europeo fino al lavoro di Peter Fischli e David Weiss. Si è mirato al tempo stesso a costituire una collezione che non si esaurisse nella semplice costellazione di titoli e dei nomi più noti, riservando un’attenzione particolare alla attuale produzione italiana di video d’artista.

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296 The Kitchen 512 West 19th Street New York, NY 10011 (Between 10th and 11th Avenues on the south side of the street) e-mail: [email protected] website: http://www.thekitchen.org/ ultimo accesso 5/07/2006 The Kitchen è stata una potente “forza” nel definire il paesaggio culturale americano per più di tre decadi. Fondata come un collettivo artistico nel 1971 da Woody e Steina Vasulka e costituita come società non-profit due anni dopo, nella sua “infanzia” The Kitchen era uno spazio dove artisti e compositori sperimentali e performer potevano condividere le loro idee tra colleghi. L’archivio di The Kitchen conta 3600 videotape (dei quali circa 500 rimasterizzati) a partire dai primi anni ’70 ed è stato recentemente riscoperto un fondo di oltre 500 audio cassette contenenti i primi lavori di artisti quali Philip Glass, Pauline Oliveros, Charlemagne Palestine e Frederic Rzewski.

Light Cone 12, rue des Vignoles 75020 Paris France Telefono: + 33 (0)1 46 59 01 53 Fax: + 33 (0)1 46 59 03 12 e-mail: [email protected] website: http://www.lightcone.org ultimo accesso 5/07/2006 Fondata nel 1982 da Yann Beauvais e Miles McKane, Light Cone è una associazione non-profit con lo scopo di promuovere, distribuire e preservare il cinema sperimentale francese. Il suo ruolo primario è quello del “noleggio”di film sperimentali (Super-8, 16 mm, 35 mm) e videotape a istituzioni culturali, musei, organizzazioni non-profit, teatri, gallerie, università, film festival ecc. Con un catalogo di oltre 2300 film, Light Cone aiuta inoltre a divulgare i lavori coproducendo eventi, pubblicazioni e regolari proiezioni a Parigi.

LUX 18 Shacklewell Lane, London E8 2EZ, UK Telefono: + 44 (0)20 7503 3980 Fax: + 44 (0)20 7503 1606 e-mail: [email protected] website: http://www.lux.org.uk ultimo accesso 5/07/2006 La collezione del LUX presenta oltre 4000 film e video di oltre 1000 artisti internazionali, che vanno dagli anni ’20 al presente; contiene molti materiali rari e unici. Programmaticamente non intende porsi come un archivio passivo, ma come risorsa attiva e tutte le opere presenti nel catalogo sono quindi disponibili per esibizioni. La collezione continua a crescere, con l’aggiunta di nuovi opere e il restauro di classici.

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297 Museum Ludwig Bischofsgartenstr. 1 50667 Köln, Germany Telefono: 49-(0)221-22 12/34 91 e-mail: [email protected] website: http://www.museenkoeln.de/museum-ludwig ultimo accesso 5/07/2006

The Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía Audiovisual Works Department Santa Isabel 52, 28012 Madrid Telefono: (+34) 91.7741020 Fax: (+34) 91.7741021 e-mail: [email protected] website: http://www.museoreinasofia.es ultimo accesso 25/09/2006

The Museum of Modern Art 11 West 53 Street, between Fifth and Sixth avenues New York, NY 10019-5497 Telefono: (212) 708-9400 e-mail: [email protected] website: http://www.moma.org/ ultimo accesso 5/07/2006 Fondato nel 1935, la collezione comprende più di 22000 film e 4 milioni di foto da film; è la più importante collezione di film internazionali negli Stati Uniti. L’archivio video del Dipartimento Film and Media, costituito a partire dal 1970, include 1000 lavori datati dagli anni ’60 a oggi, che vanno dai documentari educativi alle opere di video artisti.

Netherlands Media Art Institute Montevideo/Time Based Arts Keizersgracht 264 1016 EV Amsterdam Telefono: 020 6237101 Fax: 020 6244423 e-mail: [email protected] website: http://www.montevideo.nl/ ultimo accesso 5/07/2006 Sin dalla sua fondazione, avvenuta nel 1978, il Netherlands Media Art Institute ha costituito un esteso fondo di video arte e media art, che è in costante espansione. Oltre alla propria collezione il Netherlands Media Art Institute gestisce anche il fondo video di De Appel e del Lijnbaan Centre. Al momento, la collezione comprende più di 1400 opere, che variano dai primi esperimenti di artisti nazionali e internazionali alle recenti produzioni di artisti indipendenti.

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298 Neuer Berliner Kunstverein e.V. - Video-Forum Kathrin Becker Chausseestr. 128/129 10115 Berlin, Germany Telefono: +49 30 2807020 Fax: +49 30 2807019 e-mail: [email protected] website: http://www.nbk.org/video-f.html ultimo accesso 5/07/2006 Il Video-Forum è stato fondato nel 1972 come posto d’incontro per video artisti e per quella parte del pubblico che nutre un interesse verso il nuovo medium. La costituzione del fondo di nastri di video arte internazionale è sempre stato, fin dal principio, uno dei principali obiettivi dell’istituzione. Attualmente, il fondo conta circa 500 titoli dagli inizi della video arte fino al presente. Il catalogo della collezione, disponibile on-line, offre informazioni sulle opere e sugli artisti.

New Media Encyclopedia e-mail: [email protected] website: http://www.newmedia-art.org ultimo accesso 5/07/2006 Raccoglie le collezioni di Centre National d’Art et de Culture Georges Pompidou, Centre pour l’Image Contemporaine Saint-Gervais Genève, Museum Ludwig, CNAP – FNAC. È concepito come “fonte” di informazioni, uno strumento per ricerche documentarie e studi accademici.

San Francisco Museum of Modern Art 151 Third Street (between Mission and Howard Streets) San Francisco, CA 94103 Telefono: 415.357.4000 Fax: 415.357.4037 website: http://www.sfmoma.org ultimo accesso 5/07/2006 La collezione di media arts dello SFMOMA comprende tutte le applicazioni dei media time-based, includendo videotape, installazioni video, film, installazioni sonore, multimedia, e nuovi media.

Tate Modern Bankside London SE1 9TG Website: http://www.tate.org.uk/ ultimo accesso 5/07/2006

The Vasulkas Route 6, Box 100, Santa Fe, New Mexico,

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87501, USA website: http://www.vasulka.org/ ultimo accesso 5/07/2006 Sito dei Vasulkas, contiene diversi estratti visionabili on-line delle opere di Steina e Woody e opere della Kitchen

Video Data Bank 112 S. Michigan Ave. Chicago, Il. 60603 Fax: 312.541.8073 Telefono: 312.345.3550 e-mail: [email protected] website: http://www.vdb.org/ ultimo accesso 5/07/2006 Fondato nel 1976, Video Data Bank è una delle principali fonti negli stati Uniti di videotape “di” e “su” artisti contemporanei. La sua collezione contiene innovativi video opere prodotte da artisti dal punto di vista estetico, politico o personale.

V tape 401 Richmond Street West, Suite 452 Toronto, Ontario M5V 3A8 Telefono: 416.351.1317 Fax: 416.351.1509 e-mail: [email protected] Website: http://www.vtape.org ultimo accesso 5/07/2006 Fondato nel 1980, V tape è un centro internazionale di distribuzione, esibizione e ricerca con particolare attenzione alle media arts contemporanee. V tape presenta oltre 5000 titoli di 900 artisti. V tape include postazioni per visionare le opere e una biblioteca accessibile per le attività di studio specialistico.

ZKM Center for Art and Media Lorenzstraße 19 D - 76135 Karlsruhe Telefono: ++49-[0]721-8100-0 Fax: ++49-[0]721-8100-1139 e-mail: [email protected] website: http://www.zkm.de ultimo accesso 5/07/2006 La collezione di video arte del ZKM comprende attualmente 600 titoli dei più importanti lavori di video arte, come 660 titoli del video magazine Infermental dagli anni ’80. Vi sono stati confluire, inoltre, i lavori premiati al \\international\ media\art\award.

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MEDIAVERSI Collana diretta da Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 24/08/2018

Pier Luigi Capucci Volumi pubblicati: 1. Gianna Maria Gatti, L’Erbario Tecnologico. La natura vegetale e le nuove tecnologie nell’arte tra secondo e terzo millennio. 2. Andrea Ganduglia, L’informazione radiofonica locale in Italia. 3. Federica Grigoletto, Videogiochi e cinema. Interattività, temporalità, tecniche narrative e modalità di fruizione. 4. Jean Mitry, Storia del cinema sperimentale. 5. Jean-Marie Schaeffer, L’immagine precaria. Sul dispositivo fotografico, traduzione e cura di Marco Andreani e Roberto Signorini. 6. Patricia Solini - Jens Hauser - Vilém Flusser, L’arte biotecnologica. Il luogo unico.

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CD Artworks

Inserire il CD-Rom nel lettore e lanciare il file “index.htm”: il menu di navigazione si aprirà nel browser predefinito. Le opere-software contenute nel CD-Rom allegato, discusse e analizzate nel saggio Avanguardie in rete, di Cristiano Poian, sono le seguenti: EG Serene (Barbara Lattanzi): Software per Mac Classic HF Critical Mass (Barbara Lattanzi): Software per Mac Classic AMG Strain (Barbara Lattanzi): Software per Mac Classic A New Movie (Matt Roberts): Software per Mac Classic Conner Times Ten (Matt Roberts): Software per Mac Classic The Soft Bits (Matt Roberts): Filmato Quicktime Alpha Beta Disco: Godard Remix (Matt Roberts): Filmato Quicktime ABCGmunk 2001 (Niko Stumpo): HTML / Flash The Third Place (Niko Stumpo): HTML / Flash Destroy Everything (Niko Stumpo): HTML / Flash Autopoiesis (Niko Stumpo): HTML / Flash Rooms (Niko Stumpo): HTML / Flash Tutte le opere sono state concesse per la distribuzione su CD-Rom dai rispettivi autori. Alcune di esse richiedono una connessione ad Internet e il plugin di Adobe Flash Player per poter essere fruite completamente.

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Finito di stampare da Editografica, Rastignano (Bologna) Novembre 2006

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