Chopin racconta Chopin. Con un’appendice di interviste e lettere

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Chopin racconta Chopin. Con un’appendice di interviste e lettere

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Economica Laterza 555

Piero Rattalino

con un’appendice di interviste

e lettere

Editori Laterza

© 2009, Gius. Laterza & Figli Nella «Economica Laterza» Prima edizione 2011 Edizioni precedenti: «i Robinson/Letture» 2009 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel gennaio 2011 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9560-6

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

per Ilia, con immutato ed immutabile amore

Indice

Quaderno A

3

Di George ed io..., p. 5 Di quando lasciai per sempre..., p. 10 Del mio amico Titus..., p. 13 Di quando arrivai a Parigi..., p. 17 Di una baronessa che affittava camere a Vienna..., p. 22 Del grande maestro Kalkbrenner..., p. 25 Dello zar di tutte le Russie..., p. 30 Delle marette che Kalkbrenner provocò involontariamente a Varsavia..., p. 34 Di alcune belle cantanti che mi deliziarono la vista..., p. 38 Di quello che un grosso critico parigino scrisse su di me..., p. 44 Di come il mio vecchio maestro cercò di impartirmi una lezione di vita e di patriottismo..., p. 48 Degli splendori e delle miserie del teatro d’opera..., p. 52 Di quando ebbi a Vienna cupe visioni e di come vi soffrii indicibili pene..., p. 57 VII

Quaderno B

63

Di come Robert Schumann parlò della mia Sonata op. 35 e del granchio che prese..., p. 65 Del gotico nella mia arte..., p. 70 Di un mio discepolo, delle mie idee sulla tecnica, di tante mie allieve aristocratiche..., p. 76 Di una borsa di studio che mi fu negata...., p. 81 Di alcuni miei vecchi compagni di studio, del castello di Antonin e dei pericoli che si corrono con le allieve graziose..., p. 90 Ancora dei miei tormenti a Vienna e della mia amata Konstancja..., p. 96 Della morte di mio padre..., p. 102 Della morte di Kalkbrenner e della Catalani..., p. 107 Dei miei rapporti con la contessa Marie d’Agoult..., p. 114 Del mio arrivo a Londra..., p. 121 Delle mie avventure a Londra e in Scozia..., p. 128 Delle mie idee sul matrimonio..., p. 134 Di come, grazie ad un veggente, fu ritrovato un plico che si era volatilizzato..., p. 141

Appendice. Interviste e lettere

Con Justyna Krzyz˙anowska in Chopin ed Izabela Chopin in Barcin´ski, p. 151 Con il nobiluomo Titus Woyciechowski, p. 160 Con il maestro Moritz Ernemann, p. 169 VIII

149

Con il maestro Carl Czerny, p. 174 Con il signor Camille Pleyel, p. 177 Con Maria Wodzin´ska, p. 185 Con il conte Wojciech Grzymała, p. 189 Con il marchese Astolphe de Custine, p. 201 Con Hector Berlioz, p. 208 Con George Sand, p. 210 Con il maestro Stephen Heller, p. 221 Con il maestro Julian Fontana, p. 225 Con miss Jane Stirling, p. 235 Con Solange Dudevant, p. 239 Con il reverendo abate Alexander Jelowicki, p. 250 Con madama Pauline Garcia in Viardot, p. 253 Con la contessa Delphine Potocka nata Komar, p. 255 Con mastro Nicolas Ridel, p. 257

Cronologia della vita

di Fryderyk Franciszek Chopin

259

Nota dell ’autore

271

Quaderno A

Di George ed io, della mia Sonata in si bemolle minore, di un mio grave busillis, e di quando comperai una mazurca da una forosetta Oggi, 10 agosto 1839, ho ultimato un ciclo di quattro mazurche. Sono belle? Non so. Io mi dichiaro, sì, mi dichiaro... soddisfatto. Se siano belle o no, ripeto, non so. Belle sembrano a me, così come i figli più piccoli sembrano belli ai genitori. Ai genitori, preciso, che invecchiano. Non ho figli e non ne avrò, le mie composizioni sono la mia prole, e dispongo di una discendenza più numerosa di quella di Priamo. Dunque, se queste quattro neonate mazurche mi sembrano belle, mi chiedo, sarà forse perché sto invecchiando? E che ci sarebbe di male? Ho compiuto ventinove anni in marzo. Ma la vecchiaia come io l’intendo non è una questione d’età: da vecchi, non da canuti, il mondo e la vita ti appaiono sotto una luce diversa e migliore, la vecchiaia è un invidiabile traguardo, non un’inevitabile disgrazia. Più presto ci arrivi, meglio è. E nell’ultimo anno trascorso io ho preso delle decisioni che non avrei mai supposto di dovere o di saper prendere. Una, sopra tutte, per me molto grave. Avevo sempre pensato di sposarmi, di essere in amore saggio come Mendelssohn, non folle come Liszt. Invece, ora, convivo. Sì, convivo. Per Nostra Santa Madre Chiesa sono un pubblico concubino. Non so come mi giudichi l’Altissimo che la mia mamma adorata venera con tanta purezza di cuore, ma la macchina ecclesiastica del suo Vicario in Terra mi condanna, 5

mentre la società, che a parole si proclama laica, se non finge di non vedere fa suo l’anatema della Chiesa. E questo mi crea purtroppo dei problemi, spiccioli ma spinosissimi, che tanto volentieri avrei lasciato cadere nella polvere. Ci sono dei nodi che devo, che dobbiamo affrontare insieme, io ed Aurore (la quale, in realtà, se ne impippa altamente, ma che rispetta le mie paure e che mi aiuta con pazienza a districarle). Ad esempio, ho sul leggio una Sonata in si bemolle minore non ancora finita e che tuttavia, mi sento di dirlo sotto voce a me stesso senza falsa modestia, non sarà del tutto indegna delle grandi sonate dell’epoca classica. Ho composto di slancio il primo movimento e lo scherzo, come terzo movimento utilizzerò una marcia funebre che avevo scritto or sono due anni senza saper bene, allora, cosa farne, e per il finale ho già in mente un qualcosa di molto breve, tre pagine, forse, della mia scrittura, un moto perpetuo tutto in pianissimo con le due mani all’unisono. La finirò fra breve, la sonata che già mi sembra bella – sto invecchiando?, sono invecchiato? – e poi cercherò un editore che me la acquisti pagandola per quel che merita. Schlesinger si lamenta sempre perché sono troppo caro, Probst dice smoccolando che le mie richieste sono enormi e che i suoi padroni di Lipsia lo sgridano, ma tutti in cuor loro sanno bene che ho pochi concorrenti, e alla fine allentano seppur a malincuore i cordoni della borsa. Devo ancora terminare, oltre alla sonata, uno scherzo che ho cominciato mesi or sono, ho già consegnato un ciclo di preludi, una ballata, due polacche, ed ho pronti due notturni e le quattro mazurche. Conto di ricavare da tutto ciò una certa somma bene in carne, ma... Ma qui viene, e me ne vergogno un po’, il mio busillis. Da tempo immemorabile è d’uso che ogni composizione abbia una dedica, che ogni composizione sia per qualcuno un dono e un segno di alta considerazione. Le mie dediche sono molto ambite, io le centellino con estrema cura, in modo da soddisfare la vasta clientela che alimenta le mie lezioni priva6

te di pianoforte, perché le lezioni rappresentano per me il certo, e le composizioni l’incerto. Ora, acclarato che tout le monde sa, sebbene nessuno si azzardi a dirlo, che “Chopin vive in concubinaggio”, posso io arrischiarmi a mettere in cima alle mie composizioni i blasonati nomi di rispettabili dame? Una dedica muliebre, in questo preciso momento della mia esistenza, non potrebbe forse gettare un’ombra di complicità sull’onorabilità della dedicataria? E le rispettabili dame di cui sopra potranno ancora venir a pianottare nello studio d’un pubblico concubino? Santi numi, ci sto proprio perdendo il sonno. “Ma chi se ne fotte?”, butta là Aurore, togliendosi il sigaro di bocca (Aurore, essendo di sinistra, è molto disinibita, fuma il sigaro, porta i pantaloni, la domenica non va alla messa e talvolta usa un linguaggio da scaricatore di porto). “Ma chi se ne fotte?”, ripete placida. Poi si fa meditabonda. “In fondo in fondo”, osserva, “ti capisco, cioè non posso fare a meno di capirti e di compatirti. Il tuo mondo non è il mio, io scrivo romanzi” – scrive romanzi firmando George Sand – “e non ho rapporti diretti e personali con i miei lettori. Ma tu, con tutte quelle puzzettasottilnaso che prendono lezioni da te...”. “Non sono affatto delle smorfiose”, protesto, “sono persone squisite, colte, che pendono dalle mie labbra, ma che ovviamente...”. “...ma che devono ovviamente rispettare certe convenzioni, certe regole che la società applica in modo molto rigido”, mi interrompe Aurore, rimettendosi il sigaro in bocca. “Proprio così”. “Proprio così, ne convengo. L’adultero, o il concubino, se non salva le apparenze, dev’essere bandito dalla buona società. Io ero moglie d’un barone e, in quanto adultera fuggita dal tetto coniugale, sono stata bellamente emarginata. Ma sono stata accolta dalla società degli artisti, degli intellettuali”. “Che non prendono lezioni di pianoforte a venti franchi all’ora”. 7

“Già. Ma non angustiarti, Chip-Chip, il mondo lo conosciamo bene tutt’e due, una soluzione la troveremo. Fino a che resteremo qui a Nohant, per intanto, non avremo problemi. Fammi piuttosto sentire le mazurche che hai appena finito”. Da quasi dieci mesi viviamo insieme, Aurore ed io, lontano da Parigi. All’inizio di giugno siamo arrivati a Nohant, nella casa di campagna di lei, io sono curato e accudito meravigliosamente, non devo dar lezioni, posso passeggiare, dormire, conversare, oziare, suonare e comporre come più mi aggrada. Aurore conosce la musica per quel poco che gliel’ha insegnata sua nonna ma, artista com’è, la musica la sente con molta forza e partecipazione. Suono per lei le quattro mazurche che mi sembrano belle, scacciando dalla mente il rovello del “ma a chi cavolo le dedico?”, e come per incanto mi ritrovo, ragazzino, a Szafarnia durante le vacanze estive del 1824, quando intuii che la missione affidatami dall’Altissimo era di rivelare attraverso la mazurca l’anima antica e profonda della mia terra, quella che il mio amico Adam Mickiewicz ha così ben celebrato nel dramma Dzyady. Ospite di una famiglia amica dei miei, venivo mandato in piena Mazovia (la terra dalla mazurca) perché mi rinvigorissi e mi distraessi, ed io, che ero un ragazzino giudizioso, diligentemente seguivo le principali prescrizioni dietetiche che mi venivano raccomandate: tutti i santi giorni bevevo il latticino e il caffè di ghiande e la tisana, e facevo lunghe passeggiate. Un pomeriggio, arrivando presso un casolare, sentii una voce di donna che cantava. Era una mazurca. Mi fermai, preso da una vertigine, da una magia che mi portava lontano lontano lontano, in tempi remoti. La canzone aveva molte strofe con musica sempre uguale, e così fissai rapidamente nella memoria la melodia. Ma non riuscivo a capir bene le parole, e comunque non avrei potuto ricordarle. Mi scossi dall’incantesimo. Una rustica staccionata mi divideva dalla donna. Le girai attorno, scorsi una bella ragazza che seduta su uno sgabello da mungitore cantava come in trance. Veden8

domi comparire si alzò di scatto, rovesciando lo sgabello, e fuggì verso casa. “Non scappare, ti prego”, le gridai alzando il braccio, “non scappare, io volevo solo vedere chi era la creatura che cantava così meravigliosamente”. Avevo già conosciuto Angelica Catalani, grandissima cantante e grandissima diva che poi è restata per me una cara amica, e sapevo bene quale colata di miele odoroso sarebbe stato per una bella voce un complimento ben tornito. La ragazza si fermò, guardandomi in tralice ma quasi sul punto di sorridere. “Non avevo mai sentito questa mazurca, ho molto goduto il tuo canto così appassionato”, le dissi, “e vorrei che tu me la facessi ascoltare di nuovo: scriverò le parole nel mio taccuino”. La ragazza, con le labbra serrate, scosse decisa la testa. “Perché no?”, obbiettai. “Io ci tengo. Molto”. Lei scosse di nuovo ostinatamente la testa, arrossendo. Capii che si vergognava e che neppure il più tornito dei complimenti sarebbe bastato a smuoverla, quella Catalani di villaggio. Allora tirai fuori dal borsellino qualche moneta, gliela mostrai dicendo: “So bene che un’artista non è tenuta a cantare gratuitamente per uno sconosciuto seccatore, e perciò mi permetto di offrirti questo piccolo omaggio”. Gli occhi della rustica Catalani si spalancarono – era davvero bella – al pensiero di stringere nella mano qualche moneta. Probabilmente non ne aveva mai posseduto una. Si rassettò con cura i capelli e la veste, cercando di ritrovare l’ispirazione, e riprese a cantare. “Vedi come di là dalle montagne danza il lupo”, diceva la canzone, “di là dalle montagne danza il lupo. Non ha la femmina, e perciò è così desolato”. Mentre scrivevo le parole mi accorsi che ad ogni strofa la ragazza introduceva nella musica qualche piccola variante. E che musica! Del tutto diversa da quella delle mazurche che si ballavano a Varsavia. Non li ho mai citati nelle mie composizioni, quei suoni che comperai da una forosetta dalla voce d’oro, ma su di essi ho via via modellato le mie mazurche, cercando di ritrovare le radici profonde che li avevano alimentati. E adesso posso dire che forse, grazie a Dio, ce l’ho quasi fatta. 9

Di quando lasciai per sempre la Polonia, del pragmatismo di mio padre, e di come il granduca Costantino, fratello dello zar, prese una cotta per una mia marcetta Mio padre Nicolas, saggio e sentenzioso com’era, mi diceva sempre che nella vita di ciascuno di noi capita inopinatamente un giorno risolutivo, un giorno in cui tu imbocchi, senza sapere esattamente come, una strada che non faceva parte di un itinerario prefissato ma che diventa immediatamente la tua strada, e che sarà senza ritorno. Capitò a lui quando aveva sedici anni e sei mesi, a me quando avevo vent’anni, otto mesi e un giorno. Nicolas Chopin, nato in Lorena, nel villaggio chiamato Marainville, il 15 aprile 1771, partì nell’autunno del 1787 per la Polonia e non fece mai più ritorno nel paese natio. Fryderyk Franciszek Chopin detto Frycek, nato in Polonia, a Z˙elazowa Wola, il 1º marzo 1810, il 2 novembre 1830 partì da Varsavia, soggiornò a Vienna per sette mesi e ventotto giorni, e dal settembre 1831 visse a Parigi. Non è più tornato nella madrepatria e, ne sono sicuro, non ci tornerà mai più, se non, forse, con i piedi in avanti. Non ci tornerò mai più, nella mia Polonia che amo con la mia mente e con i miei visceri. Ufficialmente, ben s’intende, sono franco-polacco, monsieur le maître Frédéric Chopin, e il francese l’ho parlato fin dalla più tenera infanzia. Ma la mia lingua saetta agevolmente soltanto nella liquida parlata polacca, e le mie orecchie si beano soltanto dei ritmi e delle melodie polacche, e i miei occhi si illuminano soltanto quando ripenso alle dolci pianure polacche. Io sono polacco, polacco, polacchissimo, ...ma vivo in Francia. Perché me ne sono andato dalla mia amatissima patria? Perché non mi passa nemmeno per l’anticamera del cervello la tentazione di ritornarci? Forse sarò un po’ bizzarro, forse sarò un po’ troppo delicato di pelle, ma adesso io lo so, il perché, sebbene non lo sapessi in quel 2 novembre che ricordo come se fosse oggi: me ne andai perché i miei connazionali mi avevano cari10

cato di ambizioni che erano loro, non mie, me ne andai perché solo allontanandomi fisicamente dalla Polonia avrei potuto celebrarla a mio modo, senza leggere negli occhi dei miei la delusione e senza sentirmi un verme. Quando venni al mondo la Polonia già non esisteva più come Stato indipendente. Ai tempi del gran re Ladislao III Jagellone si era estesa dal Baltico fino al Mar Nero e all’Adriatico, al tempo del gran re Jan III Sobieski gli eserciti polacchi avevano liberato Vienna dall’assedio dei turchi, ma ormai la mia Polonia, dopo essere stata fatta a pezzi e bocconi dai famelici confinanti, si era ridotta al solo granducato di Varsavia, creato da Napoleone e da lui assegnato al re di Sassonia. Già nel 1813, tre anni dopo la mia nascita, i russi rioccuparono Varsavia. Due anni più tardi il Congresso di Vienna ricostituì il Regno di Polonia, sempre amputato però dei territori occupati dai prussiani e dei territori occupati dagli austriaci, e ne donò graziosamente la corona allo zar di tutte le Russie. Amen! Mio padre, che pure nel 1794 aveva combattuto contro i moscoviti le ultime disperate battaglie per l’indipendenza, sotto i moscoviti si adattò a vivere. Che avrebbe potuto fare, del resto? Sposato, con quattro figli da tirar su, con un impiego pubblico... Ragionava da pragmatico, mio padre, e siccome così era e tutto diceva che non poteva essere diversamente seppellì quei sentimenti che gli avrebbero soltanto portato dolore e frustrazione, ci mise su una croce e visse serenamente. Anch’io, bambino, vivevo serenamente. Ero piuttosto bravo con la musica, e molto precoce. A sette anni avevo già composto un paio di polacche ed una marcia, parecchi aristocratici, ansiosi di sentirmi, mi invitavano nelle loro sontuose dimore. Avevo otto anni quando un giorno papà, guardandomi fisso negli occhi e con le labbra un po’ tremanti, mi disse solennemente: “Fryderyk”, disse proprio Fryderyk, non Frycek, e ciò mi fece drizzar le orecchie, “Fryderyk, Sua Eccellenza il granduca Costantino ha sentito parlare di te e vuole vederti. Ci recheremo a palazzo dopodomani”. Rimasi sba11

lordito. “Sua Eccellenza il granduca?”, balbettai. “Proprio lui, proprio lui”, confermò mio padre, con una faccia compunta che improvvisamente mi sembrò quella d’un mansueto cavallo da tiro. Il granduca Costantino, accipicchia! Il granduca, comandante in capo dell’esercito polacco, teneva in pugno il regno di Polonia in nome di suo fratello, lo zar Alessandro I. Essere convocato a palazzo, per mio padre, oscuro professore di francese nel liceo di Varsavia, era un onore inaudito. E a procurargli l’invito ero stato io, un bimbetto di otto anni! Mi sentii cresciuto di un buon palmo, se non fisicamente per lo meno moralmente: la musica, pensai, serviva pure a qualcosa. Ripassai diligentemente al pianoforte le mie composizioni, la mamma mi vestì e mi pettinò con cura amorosa, papà mi prese per mano e... ci avviammo. Il granduca ci ricevette subito. “Ah!, questo è il giovanotto di cui ho sentito tanto parlare”, esclamò giovialmente. “Un po’ gracilino, mi pare, poco esercizio fisico, credo, dovrebbe giocare a fare il soldato”. “Eccellenza”, replicò mio padre, rispettosamente ma con fermezza, “mio figlio è di salute un po’ delicatina, però è sanissimo”. “Mmh!”, fece il granduca, “per la salute fisica e mentale non c’è di meglio che la vita militare, anche per gioco. Ne sono profondamente, ne sono incrollabilmente convinto”. E batté due volte la mano sulla spalla di mio padre, vigorosamente. Il granduca Costantino andava pazzo per le parate militari, tutte le domeniche presenziava gongolando alle manovre dei reggimenti sulla piazza di Sassonia, ed era soldato dalla punta dei capelli alle piante dei piedi. “Beh!”, proferì ruvidamente, “vediamo un po’ come te la cavi con la musica, giovanotto”. Andai al pianoforte, e sentendomi perfettamente a mio agio suonai una polacca e la marcia (il trac, il panico, mi entrò in corpo più tardi, brutto schifoso, allora, anche in presenza di estranei, correvo e saltavo sui tasti come lo scoiattolo corre e salta sui rami). Il granduca mi fulminò con lo sguardo. “L’hai proprio scritta tu, questa bella marcia, senza l’aiu12

to di nessuno?”. Avevo la gola chiusa in una morsa, riuscii solo ad annuire muovendo vigorosamente la testa mentre papà balbettava “Eccellenza, le posso assicurare che...”. “Allora me la prendo io, già, me la prendo senza chiedere il permesso all’illustre autore”, concluse il granduca, sorridendo che gli si vedevano tutti i denti. Fece un cenno al suo aiutante di campo, che era rimasto impalato come uno stoccafisso per tutto quel tempo vicino alla porta: “Capitano, dia un po’ su questa musica al capobanda della mia guardia. Voglio sentirla eseguita con trombe e pifferi e tamburi, è così vivace, così carina”. E perciò, la domenica, sulla piazza di Sassonia venne soffiata nei tubi d’ottone e martellata sulle pelli d’asino la mia marcia trascritta per la fanfara reggimentale. Mi fece una grande impressione, mi procurò una montagna di complimenti, papà, mamma, le mie tre sorelle, gongolanti, non stavano più nella pelle. Il granduca non mi rese il manoscritto, io non ne avevo fatto una copia, e perciò la marcia che composi a sette anni è pressoché svanita dalla mia mente. Era, questo lo ricordo, era ingenua, infantile. E del resto il granduca Costantino era come un bambino innocente che giocava alla guerra con soldatini in carne ed ossa. Nel ’30, quando Varsavia insorse, non schierò guerrescamente le truppe tanto accuratamente addestrate per le parate pacifiche, e con la sua guardia russa scappò come una lepre prima che gli facessero la festa.

Del mio amico Titus, di quando feci naufragio nella città imperiale di Vienna, e di come la mia santa madre raddrizzò la mia barca a Parigi Partito da Varsavia il 2 novembre, arrivai a Vienna il 23. Il viaggio fu molto piacevole, anche perché da Kalisz mi accompagnò Titus Woyciechowski, mio grande amico e mio confidente (in faccende amorose). Ci fermammo quattro 13

giorni a Breslavia, dove ero già stato e dove un vecchio amico del mio maestro tanto mi pregò che mi convinse a suonare in pubblico, ci fermammo una settimana a Dresda, dove fui così pazzo da concedermi di noleggiare una portantina per sbarcare con più pompa ad una serata mondana a cui ero stato invitato, ci fermammo un paio di giorni a Praga. Conoscevo Dresda e Praga – c’ero passato l’anno prima – e mi piacevano molto. Ritornandovi ritrovai le vecchie conoscenze e ne feci di nuove e interessanti, fra le quali la mia futura amica Delphine Komar, una bellezza, mamma mia!, da lasciarti stordito. Poi passammo in Austria e raggiungemmo la capitale dell’impero, che anche sotto il pallido sole novembrino mi parve ancora più splendida di come la ricordavo. A Vienna dovevamo trovare prima di tutto un alloggiamento che non gravasse troppo pesantemente sulle nostre finanze, ...cioè soprattutto sulle mie, perché Titus, agiato possidente terriero, poteva spendere con una certa larghezza, mentre mio padre, per finanziare il mio viaggio, aveva dovuto prendere a prestito del denaro, cosa che mi responsabilizzava terribilmente ogni volta che mettevo mano al borsellino per cavarne un kreutzer. Titus si mise subito in moto, e dopo una settimana in cui cambiammo albergo quasi ogni notte, limando progressivamente il prezzo, trovò una brillante soluzione. L’amicizia con Titus era nata un po’ per caso e un po’ per volontà del destino. Papà, già l’ho detto, aveva una numerosa famiglia a cui provvedere, e con il suo stipendio di professore di liceo, sia pure integrato da un analogo incarico presso la Scuola d’Artiglieria, non c’era di che stare allegri e spensierati. Valendosi delle grandi doti di massaia della mamma, mio padre... Che splendida persona era, anzi, che splendida persona è mia madre. Nata a Długie il 14 settembre del 1782, lontanissimamente imparentata con una grande famiglia polacca, gli Skarbek, i conti Skarbek, la mamma aveva lavorato presso di loro come governante. Papà, precettore del contino dopo i suoi giovanili trascorsi di sfortunato patriota, aveva impiegato quattro anni prima di accorgersi di essere capi14

tato a un passo dalla donna della sua vita. Si erano sposati il 2 giugno 1806, i miei genitori, nel 1807 era nata la mia sorella maggiore, Ludwika, nel 1810 io, nel 1811 e nel 1812 le mie sorelle minori, Izabela ed Emilia. Una famiglia felice, la nostra. Però le ristrettezze finanziarie si erano fatte sentire sin da quando il clan Chopin si era trasferito da Z˙elazowa Wola a Varsavia, e allora papà... Non ho mai conosciuto una donna che fosse più operosa, più retta, più giusta, più saggia di mia madre, e più capace di non far pesare queste sue qualità, anzi, di nasconderle dietro una maschera di semplicità e di umiltà che la faceva sembrare una persona comune mentre era invece un essere eccezionale. Con quale naturalezza, quando il mio primo concerto a Parigi era andato economicamente maluccio ed io non sapevo dove sbattere la testa, mi mandò tutti i suoi risparmi! Mio padre aveva finanziato il mio viaggio nella previsione – sua e, del resto, anche mia: avevo ormai più di vent’anni – che durante i soggiorni nelle varie città sarei stato in grado di guadagnarmi da solo il pane e il companatico. Invece soltanto all’ultimo momento, a Vienna, avevo rimediato qualche fiorino con la cessione di una mia composizione ad un editore. Il 29 giugno, mentre stavo per partire per Parigi via Monaco e Strasburgo, papà mi aveva mandato, come diceva lui, un “piccolo rinforzo”, aggiungendo bonariamente qualcosa che m’aveva fatto sudar freddo: “Avendo rilevato dalle tue lettere che hai già intaccato il denaro destinato alla continuazione del tuo viaggio, riceverai insieme con questa un piccolo rinforzo, più conforme alla nostra situazione che alla nostra buona volontà”. E poi, dopo avermi spiegato come incassare il denaro in banca senza pagare alcuna commissione perché a questo aveva già provveduto lui, concludeva in questo modo: “Così, mio caro ragazzo, siccome i tuoi fondi non saranno grandi, cerca di non restare a lungo a Monaco, per non spendere il poco che hai. Conto sulla tua prudenza. Risparmia più che puoi, mi sanguina il cuore per non poter fare di più”. E concludeva con il solito “Ti abbraccio con tutto il cuore”. 15

Placidamente preciso e realistico, com’era nel costume di papà. Ma tremendo, per me. La lettera di mio padre era la risposta ad una mia lettera del 23 giugno, nella quale, imbarazzato come mi sentivo per non essere economicamente indipendente, già avevo proposto ai miei di vendere l’anello prezioso che mi era stato regalato dallo zar Alessandro I. Riferendo dunque a casa sull’esito del mio concerto a Parigi, artisticamente ottimo, non mancai di dire incidentalmente che l’incasso non aveva coperto le spese. Ma non chiesi alcun aiuto. La mamma, che non mi scriveva mai, mi mandò allora una letterina che diceva: Mio caro Fryderyk, ho ricevuto la tua lettera del 16 di questo mese con la quale mi comunichi che stai bene. Per me è un vero regalo. Oh, come vorrei stare con te, avere cura di te come un tempo! Ma siccome ciò non può essere, bisogna conformarsi alla volontà dell’Altissimo che nella sua misericordia ti manderà degli amici che mi sostituiranno. Così, mio beneamato, abbi fede in lui e sii felice. Suppongo che tu abbia adesso bisogno di un po’ di denaro; ti mando quello che posso, milleduecento franchi. Ed ora, che Dio ti benedica e ti dia la salute, è quello che io imploro per te. Tua madre che t’ama.

Milleduecento franchi. Qualche anno dopo, con le mie lezioni, io li avrei guadagnati in dieci giorni e anche meno. Per mia madre quelle quattro svanziche rappresentavano invece i risparmi di tutta la vita matrimoniale. Ed io sapevo che ognuno di quei franchi aveva una storia, una storia di piccoli sacrifici quotidiani, di piccole continue rinunce, zloty su zloty. Come avrei voluto stringere fra le braccia mia madre, in quel momento! Come vorrei stringerla ora! Come vorrei che la dolcezza del suo sguardo mi accompagnasse nell’eterno riposo, perché non mi resta molto da vivere, lo so, la tosse, gli sbocchi di sangue finiranno per soffocarmi. Purché io non sia seppellito vivo. Se ne dicono tante, sulle morti apparenti, questo pensiero mi terrorizza. No, dovrò provvedere, e provvederò: chiederò che il mio corpo venga aperto. 16

Farò così, di sicuro. Ma, ...ma che dico mai, sciagurato imbecille che sono? Perché mi lascio andare a queste fantasie funerarie? Non i miei terrori notturni devono essere suscitati dal pensiero di mia madre, ma i giorni felici della mia infanzia, e di quando mi innamorai – non trovo una diversa parola che renda altrettanto bene il mio sentimento – quando a prima vista mi innamorai di Titus. Avevo cominciato a dire poco fa che mio padre, avendo soppesato le grandi doti di massaia di mia madre, decise di aprire un pensionato per ospitare qualcuno, sei o sette, dei tanti ragazzi che venivano a studiare a Varsavia dalle città e dai borghi della Polonia soggetta ai russi. E così io conobbi Titus, che arrivava da Poturzyn, e Jan Białobłocki di Sokolowo, e Eustace Marilski di Pencine, con i quali mi legai in solidissima amicizia. Ma il prediletto era Titus, studente di agronomia che praticava anche la musica, componeva qualcosina e suonava con me a quattro mani. Quando arrivammo a Vienna fu lui che, con il suo spirito pratico da gentiluomo di campagna, trovò un buon alloggiamento dopo pochi giorni passati in vari alberghi (dispendiosi). Le mie faccende sarebbero forse andate a Vienna diversamente – in meglio! – se Titus fosse restato con me. Ma dopo poco più d’una settimana lui tornò in Polonia, ed io mi sentii solo come un cane. E come un cane polacco venni trattato dagli austriaci che tenevano nelle loro mani la fetta più nobile e sacra, Cracovia, della mia patria.

Di quando arrivai a Parigi, di come il mio amico Mendelssohn riuscì meglio di me a farsi avanti, del mio esordio in Francia, del trac che mi perseguitò e che per una volta fu guarito da Aurore Ero arrivato per la prima volta a Vienna nell’agosto del 1829, due anni dopo la morte di Beethoven, con l’idea di vedere la città e di cominciare ad orientarmi nel suo prestigiosissimo 17

ambiente musicale: con mia somma meraviglia venni invece invitato subito a tenere due concerti con orchestra che andarono piuttosto bene, tanto che diversi giornali ne parlarono simpaticamente e, letti a Varsavia, alzarono di un bel po’ le mie quotazioni nella mia città. A me gli onori... e a me gli oneri, perché in cambio delle mie brillanti prestazioni non intascai nemmeno un mezzo ducato. Arrivai a Vienna la seconda volta nel novembre del 1830 con l’idea – da quel pollo che ero – di poter mettere finalmente a frutto il capitale artistico che avevo guadagnato un anno prima. Con mia incommensurabile sorpresa trovai ferreamente sbarrate tutte le porte a cui bussai. Oh!, non lesinai gli sforzi, sebbene non fosse nella mia natura di fare il postulante, non mi risparmiai le visite, venni cameratescamente appoggiato da Jan Nepomuk Hummel, che conoscevo perché era stato a Varsavia per concerti e che era una somma autorità musicale e che mi aveva in simpatia. Il risultato grandioso fu che ricevetti tante belle promesse e che non cavai un ragno dal buco. O meglio, cavai solo un ragnetto perché suonai l’11 giugno in un concerto a beneficio di un danzatore, Dominik Mattis, che naturalmente si produsse in un balletto... Feci insomma quello che fa il giovane artista quando si presta a rimpolpare il programma della serata di un altro, ringraziando calorosamente per essere stato benignamente scelto fra i molti, fra i moltissimi sitibondi giovani artisti disponibili sulla piazza. In agosto, di passaggio a Monaco, ebbi un incredibile colpo di fortuna: senza che neppure muovessi un dito fui scritturato – e pagato! – per suonare il mio Concerto in mi minore. E con che successo! Tutti impazzivano per me. Perciò, dimenticando le vergogne di Vienna, arrivai a Parigi pieno di speranze. Avevo un po’ di lettere di presentazione, feci delle visite, conobbi molti personaggi di peso del mondo musicale. A Parigi operava, e vi opera ancora adesso, una famosa orchestra sinfonica, l’orchestra del Conservatorio diretta da François Habeneck, che teneva una regolare stagione di con18

certi. Chissà, pensavo, se ce l’avrei fatta ad infilarmici... Non ce la feci. Ce la fece Felix Mendelssohn, arrivato bel bello a Parigi tre mesi dopo che c’ero arrivato io. Mendelssohn non suonò il Concerto in sol minore che aveva composto da poco. Furbo come una volpe tedesca, il mio amico Felix (e, questo lo dico sottovoce, furbo come una volpe tedesca ebrea; convertito al protestantesimo, sì, ma suo padre era un Abraham, suo nonno un Moses, e il buon sangue non cambia solo perché c’è stata un’abiura). Felix arriva, fiuta l’aria. Capisce immediatamente che Habeneck va pazzo per Beethoven, e che fa? Ovvio: propone un Concerto di Beethoven, quello in sol maggiore. Habeneck si scioglie in un brodo di giuggiole e lo introduce nel santuario. Io non li suonavo, perdiana, i concerti di Beethoven. Io suonavo solo i miei! Di cui ad Habeneck, ovvio, non importava un fico secco. E così, se volevo farmi sentire dai parigini il concerto me lo dovevo organizzare da me. Per Giove, che fatica! Che fatica, mio Dio! Non si attira il pubblico, questo lo sanno tutti, con l’ignoto: lo si attira con il noto. E siccome monsieur le maître Frédéric Chopin è ignoto, da ignoto deve procurarsi la presenza di un noto. Va dunque a trovare Friedrich Kalkbrenner, un grande maestro, una celebrità, uno che se muove un dito se ne accorgono tutti. Monsieur Kalkbrenner, che è anche un grand seigneur, prende monsieur Chopin sotto le sue ali, gli promette di apparire come artista ospite nel concerto del giovane collega con una sua Polacca per sei pianoforti preceduta da Introduzione e Marcia. Un grandissimo pianoforte per lui, per me un pianoforte più piccolo ma con un suono d’argento come un campanellino, quattro normali pianoforti d’accompagnamento. Per di più, essendo socio del fabbricante Camille Pleyel, Kalkbrenner farà mettere a disposizione la prestigiosa Salle Pleyel e i prestigiosi pianoforti Pleyel. Vittoria! E i pianisti accompagnanti? In quattro e quattr’otto si trovano Mendelssohn, Hiller, Osborne e Sowin´ski, tutti felicissimi di venire in soccorso al collega. 19

In verità, bisognerebbe adesso scritturare l’orchestra per il Concerto e per le Variazioni sul tema del Don Giovanni di monsieur Chopin. Quanto costa, l’orchestra? Costa, non importa nemmeno quanto. Costa, e il derelitto Chopin non è in grado di spendere neppure un baiocco. Ma i pezzi per pianoforte e orchestra possono essere eseguiti con accompagnamento del solo quartetto d’archi perché, come accertato da insigni trattatisti, quando il quartetto va bene, tutto va bene. Un illustre violinista, Pierre Baillot, si mette a disposizione: accompagnerà i due pezzi di Chopin e suonerà il Quintetto op. 29 di Beethoven, molto “leggero”, persino un po’ italianeggiante. Altra vittoria. E come la ciliegina sulla torta si rende disponibile per soprammercato un celebre oboista, Henri Brod. Dunque, tirando le somme, abbiamo nel mazzo Kalkbrenner, Baillot, Brod, il quartetto di pianisti (e Chopin). Che bel platò. Ma dice, chi sa, dice chi sa che non basta ancora, che oltre agli strumentisti ci vuole per forza qualche cantante perché per il pubblico la torta non è completa se le manca la ciliegina della voce. Si trovano i cantanti, il concerto viene fissato al 25 dicembre. La direzione dell’Opéra scopre all’ultimo momento di non poter rinunciare ai servizi dei suoi canterini e annulla il placet. I manifesti – stampati a spese di Chopin – devono essere rifatti, il concerto viene spostato al 15 gennaio. Il 15 gennaio Kalkbrenner è ammalato. Spostamento al 26 febbraio. Oltre a Kalkbrenner e a Chopin suonano Hiller, Osborne, Sowin´ski e Stamaty (che sostituisce Mendelssohn), suona il Quartetto Baillot, suona l’oboista Brod, gorgheggiano le signorine Tomeoni e Isambert. La sala non è piena, il piatto piange, ma il successo è vivissimo, diversi giornali parlano del jeune homme con entusiasmo. E il jeune homme prende il coraggio a due mani e il 13 marzo scrive ai signori della Società dei Concerti del Conservatorio: “È mia somma ambizione d’essere ascoltato in uno dei vostri ammirevoli concerti, e perciò sollecito da voi questo favore. In mancanza d’altri titoli per ottenerlo oso spera20

re che nella vostra benevolenza verso gli artisti vogliate accogliere favorevolmente la mia domanda. Ho l’onore d’essere, Signori, il vostro umile e obbediente servitore”. Risposta: “La domanda arrivò troppo tardi”. Difetto di tempestività, jeune homme che con casato francese vieni dalla Polonia. Ma non ti si dice che la tua umilissima richiesta verrà tenuta in conto per la stagione successiva. Troppo tardi, e basta. Ah, che ipocriti! La firma era illeggibile, altrimenti mi farei un dovere di passare ai posteri il nome del burocrate che mi diede quel bruciante schiaffo morale. Con l’orchestra del Conservatorio suonai tre anni più tardi, il 26 aprile 1835, in un concerto a beneficio di Habeneck, e quindi come artista ospite che si presta a rimpolpare il programma. In fondo, fu una mia debolezza, accettare. Vero è che non sono rancoroso (in questo ho preso da mia madre). Però... Non è un segreto per nessuno che io non mi esibisco volentieri nei concerti con orchestra, e nemmeno nei concerti in genere. Soffro di trac e suono volentieri solo per gli amici, quando voglio farlo, quando mi viene l’estro di farlo. E allora penso soltanto alla musica, e sono felice e fatico persino a smettere. Se c’è il pubblico mi sento come se avessi delle scarpe nuove, strette. Eleganti, lucide, ma strette: non vedo l’ora di togliermele. E nei giorni che precedono il concerto, brrr... Quando mi balzò in mente l’idea di riprendere il controllo della mia clientela mediante un concerto che doveva diventare il clou della stagione, come poi divenne, Aurore smontò i miei terrori in questo modo spiccio. “Senti, Chip-Chip”, mi disse, “da quanto vai ripetendo da giorni e giorni io ho certificato con notarile precisione che: 1) non vuoi che ci siano i manifesti, 2) non vuoi che ci siano i programmi, 3) non vuoi che se ne parli, 4) non vuoi che ci sia molto pubblico. Visto e matagrabolizzato tutto ciò, ti propongo il seguente accomodamento: 1) che tu suoni senza illuminazione, 21

2) che tu suoni senza uditori, 3) che tu suoni su una tastiera muta”. Risi, e feci un concerto memorabile. Ma, decisamente, il concertismo non fa per me. E che importa? A portare le mie musiche in teatro ci pensa il mio amico – una volta, adesso non più tanto, per parte mia – il mio amico Liszt.

Di una baronessa che affittava camere a Vienna, di altre graziose femminelle sparse qua e là, e di come entrai trionfalmente nel ruolo di Eterno Fidanzato Eravamo a Vienna da quasi una settimana, Titus ed io, e, come ho già detto, avevamo cambiato più volte l’albergo perché dopo ogni notte, al risveglio, mi sembrava di stare spendendo una fortuna. Una mattina sul tardi il mio compagno, entrando con l’aspetto dell’homo ridens nella camera in cui stavo ancora oziando, mi disse: “Ho trovato quello che fa per noi: un appartamentino in centro. Ce lo affitta per una somma ragionevolissima una baronessa, vedova, ma piuttosto giovane”. “È carina?”, mi scappò detto prima ancora di complimentarmi con Titus per il successo. Lui si rabbuiò: “Oh, non ci ho mica badato, a questo. Tu sai come la penso, e mi meraviglio persino un po’ di te, che dovresti sentirti come io mi sento”. Questa risposta che, oggi, sembra sibillina persino a me, non era sibillina allora. Titus amava disperatamente una ragazza che aveva ben altre idee, e ben altri corteggiatori per la testa. Si chiamava Alexandra Pruszak detta Olesia, e avrebbe poi sposato un tizio che a me stava antipatico (e che di ciò, meschinazzo, si rammaricava molto). Titus, uomo tetragono, avrebbe portato rancore a lei per tutta la vita. Ed anche, non si sa bene perché, anche al marito. Ma in quella fine di novembre a Vienna, scoraggiato sì e tuttavia non ancora definitivamente sconfitto, Titus rimaneva fedele all’immagine di Olesia che aveva stampata negli occhi, e nella baronessa af22

fittacamere era stato in grado di vedere, appunto, solo l’affittacamere e la baronessa, non la donna. Ed io? Io avevo afflitto Titus con lettere e chiacchiere parlandogli di Konstancja, il grande amore che mi aveva ispirato il secondo movimento del Concerto in fa minore. L’amavo disperatamente senza, per fortuna, aver ricevuto alcun rifiuto perché mi ero ben guardato dal dichiararmi. Mi comportavo come il trovatore, o addirittura come il paggetto che silenziosamente si è votato alla castellana, ma mi ci trovavo benissimo, sebbene fossi poi soggetto ad accessi di furiosa gelosia quando gli ufficialetti della guardia russa con lo spadino tintinnante ronzavano nelle serate di ballo intorno alla mia bella, mentre io me ne stavo impalato in un angolo come un salame. Secondo Titus, comunque, tutte le donne, eccetto Konstancja, avrebbero dovuto essere per me dei manichini senza volto. Invece mi si era persino offuscata la vista, a Dresda, davanti alla radiosa e sensuale Delphine Komar, infelicemente sposata al conte Potocki. E il pensierino di andare ad abitare presso una giovane vedova – viennese! – quel pensierino, beh!, non mi lasciava affatto indifferente. Le donne mi piacciono, ed io piaccio alle donne. Non so perché. Sono di statura media, magro, non prestante, i miei tratti sono delicati, ho mandibola lievemente prognatica e naso prominente. Però le donne mi reputano distinto e mi trovano simpatico. Una litografia di Nicolas Maurin, che per ora è ancora in fase di preparazione per la stampa, ma che è già completa e che si intitolerà Famosi virtuosi del pianoforte, mi mostra insieme con Rosenhain, Döhler, Dreyschock, Thalberg, Wolff, Henselt e Liszt. Döhler è un bel ragazzo dai tratti delicati (la principessa Belgiojoso, donna stupenda e fatale, è pazza di lui), Liszt è bello e fascinoso, Thalberg sembra un pesce lesso, Rosenhain uno sfigato, Wolff un golosone, Dreyschock e Henselt due funzionari austriaci. In me si notano le guance incavate, lo sguardo perduto nel vuoto e – forse è una mia fissazione, su questo punto sono molto sensibile – il gran naso affilato. Che dire? Non-brutto è il massimo 23

che mi concedo. Però, alle donne, io piaccio. Che cosa troveranno in me? Che cosa troveranno in Liszt il rubacuori? In Liszt, secondo me, trovano il ritratto del sesso. In me trovano il ritratto del sentimento. Liszt è l’Amante, io il Fidanzato. Anzi, l’Eterno Fidanzato. E a me, fino allo scorso anno, andava bene così (ora non più). La baronessa, la vedovella presso la quale alloggiai durante tutto il mio disgraziato soggiorno a Vienna, era veramente carinissima e simpaticissima. Di lei scrissi con entusiasmo ai miei: “Figuratevi che la padrona di casa è una baronessa, vedova e carina, ancora assai giovane e che, ci ha detto, ha fatto un lungo soggiorno in Polonia. A Varsavia avrebbe sentito parlare di me. Ha frequentato l’alta società ed è stata in rapporti con gli Skaryn´ski. Ha chiesto a Titus se conosceva la giovane e bella madame Rembielinski, ecc. Una persona così degna val bene da essa sola venticinque fiorini renani o di più, perché le piacciono molto i polacchi e non troppo gli austriaci. È prussiana e donna di buon senso”. Con lei passai in vivaci conversari delle bellissime ore. Un’altra coinquilina molto, molto graziosa la trovai a Parigi. Al n. 27 del boulevard Poissonière, in un freddo inverno, lei abitava al quarto piano, io al quinto. Era sposata, il marito stava fuori di casa dal primo mattino alla sera, la trascurava... Più volte mi invitò ad entrare da lei. “Venga, ho acceso il fuoco, facciamo un po’ di conversazione, sono così sola”, mi sussurrava con occhi quasi imploranti e con un irresistibile sorriso che le scavava fossette nelle guance. Irresistibile per tutti, ma non per me. Non avevo nessuna voglia di farmi bastonare, se lo sposo avesse dovuto scoprire di aver la testa come un cesto pieno di lumache. E a Monaco, quattro mesi prima, avendo fatto uno strappetto alla mia natura di Eterno Fidanzato con una certa Therese presentatami da un certo August, appena conosciuto, che mi chiamava Fritzerle e che nel mio album scrisse due dichiarazioni di eterna amicizia... Ero piuttosto candido, allora, un ragazzo a cui della Grecia era noto che era insorta contro i turchi e che nell’insurre24

zione ci aveva rimesso la pelle lord Byron. E stop. Adesso ho motivo di sospettare che il mio eterno amico August, non più rivisto da allora e che non rivedrò mai più, avesse un bel penchant per l’amore greco. Comunque, fu lui a portarmi da Therese, con il risultato che, appena arrivato a Parigi, dovetti correre da un medico che in verità mi prese in giro facendomi arrossire – “Perché mai ti spaventi per una piccola infiammazione? Mi sembri un pivello” – ma che prescrivendomi un blando rimedio mi tolse dall’imbarazzo. Lo spavento, però, me l’ero preso, e forte. Con la sposina trascurata dal marito, per quanto piacevolissima da rimirare, non volevo dunque gustare il frutto proibito, visto che con lei il ruolo di fidanzatino non sarebbe stato per nulla appropriato. Con la bella Alexandrine de Moriolles la reciproca simpatia si spinse fino al punto che l’occhialuta, la pettegola Varsavia ci considerò prossimi al fidanzamento, proprio nel momento in cui mi ero innamorato come un pazzo di Konstancja Gładkowska. Anzi – ero stranito per vari aspetti, in quel momento – coltivai le apparenze pensando astutamente (!) che Alexandrine mi sarebbe servita come schermo impenetrabile perché nessuno sospettasse delle mie mire, del resto platoniche, su Konstancja. Tirando le somme, sono stato fidanzato con un’unica ragazza: Maria Wodzin´ska. Fidanzato, come dire?, in pectore, fidanzato segreto perché così volle fermissimamente madame Wodzin´ska. E segretamente buttato giù dal cocchio nuziale. Ma questa è tutta un’altra storia.

Del grande maestro Kalkbrenner, di come lo agganciai e di una sua onesta proposta, suppostamente pelosa Quando mi presentai a Kalkbrenner per strappargli il patrocinio al mio concerto d’esordio a Parigi, di lui sapevo già parecchie cose, e non solo perché era famosissimo, né perché le sue musiche arrivavano regolarmente nell’unico negozio specializzato di Varsavia, né perché avevo studiato assiduamen25

te il suo Concerto in re minore, ma anche perché nella mia città era tornato dopo sei anni di studi a Parigi Alexander Rembielinski, con il quale avevo stretto amicizia. Alexander aveva studiato con Kalkbrenner, e suonava benissimo. Provai un certo stupore, di cui feci immediatamente partecipe Jan Białobłocki: “Ha passato sei anni a Parigi e suona il pianoforte come non l’ho sentito mai suonare da nessuno. Puoi immaginare la nostra gioia! Non avevamo mai conosciuto niente di così perfetto! Non posa da artista, ma da dilettante. Non mi dilungherò sulla sua esecuzione rapida, elegante, agevole. Ti dirò soltanto che la sua mano sinistra è sciolta come la destra, cosa straordinaria in una sola persona. Mi ci vorrebbe una pagina intera per descriverti il suo delizioso talento”. A Jan mandai anche dei valzer di Rembielinski, lodandoli molto. Presentandomi alla porta di Kalkbrenner sapevo dunque come orientare la conversazione. Consegnai il biglietto da visita al cameriere, che mi introdusse nell’anticamera. Trascorsero appena due minuti e Kalkbrenner, con mia grande sorpresa, venne lui stesso a prendermi. “Buon giorno, buon giorno, monsieur Chopin, felicissimo di fare la vostra conoscenza”. Ero sbalordito. Ma come, il grande Kalkbrenner... “Maestro illustre, Ella mi mette in confusione con la sua accoglienza così, così...”. “Ma no, ma no, dico sinceramente, senza complimenti, diverse persone mi hanno già parlato di voi, sono veramente felicissimo di conoscervi. E poi, non apparteniamo tutt’e due alla razza dei Fritz?”. Era una battuta. Risi. Kalkbrenner si fregò le mani: “Venite, carissimo, passiamo nel mio studio dove staremo comodi”. Mi fece strada verso lo studio, ampio, luminoso, lussuoso, in cui troneggiavano due grandi pianoforti Pleyel. Sedemmo in due poltrone di cuoio, Kalkbrenner cominciò spiegandomi tutto quel che aveva fatto per migliorare i pianoforti Pleyel, divenuti ormai i più quotati rivali dei più noti Érard. 26

Finalmente mi rivolse lo smagliante sorriso per cui, anche, andava famoso, oltre che per la sua bravura e il suo narcisismo: “Ma ditemi di voi. Venite da Varsavia, vero? Ma siete francese”. “Vengo da Varsavia e sono polacco. Padre francese, trapiantato in Polonia a sedici anni, madre polacca. Mi sento, sono polacco”. “Oh!, allora siete in buona compagnia. Io sono parigino d’adozione e tedesco di famiglia e di nascita”. Era una battuta. Risi. “E come vanno le cose in Polonia?”, disse Kalkbrenner, soddisfatto. “Molto male, ora. L’ordine regna a Varsavia, come disse alla Camera il ministro francese degli esteri”. “Oh, già, che sbadato! Scusate. Intendevo artisticamente, non politicamente”. “Varsavia non è né Parigi, né Vienna, né Londra, artisticamente. Però le vostre musiche ci arrivano, io ho studiato con passione il vostro Concerto in re minore ed ho anche avuto modo di ammirare, maestro, il vostro lavoro di didatta, ascoltando con grandissimo piacere Alexander Rembielinski”. “Alexander...”. “Rembielinski”. “Oh, certo! Rembie-linski, un caro ragazzo, dotatissimo e studioso. E che fa ora?”. “È deceduto, purtroppo. Giovanissimo”. “Oh, poveretto! E voi?”. “Non sono deceduto, sebbene lo desiderassi molto, a Stoccarda, tre mesi or sono”. “Ma sapete che siete prontissimo nel mettermi alla berlina? Siete un birichino. Suvvia, bando alle chiacchiere. Fatemi sentire qualcosa di vostro”. Gli diedi la partitura del mio Concerto in mi minore, che più tardi gli dedicai, e glielo feci ascoltare. “Musica interessante, originale”, mi disse, “e suonata comme il faut. Siete stato allievo di Field?”. 27

“No, maestro”. “Strano. Avete il suo tocco. E lo stile di Cramer”. Era un bel complimento, e il mio cuore si colmò di gioia. Ma non sapendo bene come rispondere – potevo mai dirgli di essere stato allievo di un tale chiamato Z˙ywny? – mi limitai ad inchinarmi, mettendo la mano destra sul cuore. Kalkbrenner andò al pianoforte per farmi sentire la sua ultima composizione. E subito – di sicuro Dio lo punì per la sua sicumera – subito si impappinò e dovette fermarsi. Sorpreso come se avesse visto un fantasma a mezzogiorno stirò le braccia con un moto di stizza e riprese a suonare. Il pezzo non poteva più interessarmi, dopo quello che avevo passato, e composto, a Vienna. Ma l’esecuzione! L’esecuzione! Come scrissi a Titus, “gli Herz, i Liszt, gli Hiller, ecc., sono tutti degli zero in confronto a Kalkbrenner. Se Paganini è la perfezione stessa, Kalkbrenner è il suo eguale ma in una tutt’altra maniera. È molto difficile descriverti la sua calma, quel suo tocco che ti strega, l’uguaglianza senza pari della sua esecuzione e quella maestria che s’afferma in ciascuna delle sue note. È un gigante che mette a terra gli Herz, i Czerny, ecc., e di conseguenza anche me”. Ero talmente fuori di testa da non poter parlare. Presi le mani di Kalkbrenner e le strinsi con un calore che diceva più di mille parole. E il maestro mi gratificò un’altra volta del suo celebre sorriso. Parlammo ancora un poco. Poi, mentre mi congedavo, Kalkbrenner mi disse: “Lasciatemi il vostro indirizzo. Verrò a trovarvi”. Ero paralizzato dallo stupore. Ma Kalkbrenner salì per davvero i cinque piani di boulevard Poissonière 27, ed io tornai a trovarlo e suonai per lui altre cose mie, evitando naturalmente lo Scherzo in si minore scritto a Vienna che, ben lo sapevo, lo avrebbe lasciato scandalizzato. Dopo avermi studiato ben bene affrontò un argomento a cui doveva aver pensato fin dal primo momento: “Vi confermo, caro Frédéric, l’impressione che ebbi di voi la prima volta. Tuttavia”, aggiunse, profondamente meditabondo, “permettetemi di dirvi che non... avete... che non avete... 28

scuola. No, proprio non ce l’avete. Potete suonare in modo delizioso, se siete ispirato, ma potete suonare mediocremente, molto mediocremente, se lo Spirito della Musica si ritira da voi, cosa che a me non capita mai”. Ascoltavo, un po’ stupito e un po’ sospettoso. “Il fondatore dell’arte pianistica, come sapete”, continuava intanto Kalkbrenner, “è stato Clementi, che vive ancora ma che già da parecchi anni ha esaurito il compito che la Storia gli aveva affidato. Io ho studiato con Clementi, dopo aver studiato con Louis Adam, e ne ho sviluppato i princìpi, gli eterni princìpi. La grande scuola rischia di morire con me. Voi possedete le qualità per diventarne l’erede. Ma non potrete mai fondare una nuova scuola senza conoscere l’antica. Perciò vi propongo”, e sorrise quasi timidamente, “di studiare con me. In tre anni...”, ed esitò, “in tre anni...”. “Tre anni?”. “Tre anni saranno sufficienti perché acquisiate tutto il patrimonio di cui sono in possesso. Vi impegno il mio onore. Che ne dite?”. “Non so, non so rispondere. Sono cosciente di quel che mi manca, ma non voglio essere, scusate tanto, non voglio essere un... un vostro imitatore”. “Non si tratta affatto di questo, credetemi”. “Non ho difficoltà a credervi. Ma non so. Devo parlarne con i miei, che stanno finanziando il mio soggiorno all’estero”. “Troppo giusto, non c’è fretta alcuna. Pensate alla mia proposta, ne riparleremo”. “Intanto, però, bisogna che io esordisca a Parigi, lo devo ai miei e alla mia città, se lo aspettano da me senza fallo. E sto cercando di organizzare qualcosa senza spendere al di là delle mie scarse disponibilità”. “Capisco. È giusto. E se lo desiderate mi impegno a prendere parte al vostro concerto e a chiedere al mio socio Pleyel la disponibilità della sala e, ovviamente, dei pianoforti”. Strinsi le mani di Kalkbrenner, mentre il cuore mi balzava in gola come impazzito. Avevo vinto senza neppure dover 29

combattere. Ma quei tre lunghissimi anni mi guastavano l’esultanza che provavo.

Dello zar di tutte le Russie, di come imparai un poco alla volta a detestarlo, dell’opera nazionale polacca e di un mio mancato appuntamento con il destino Il mio primo incontro con l’arciduca Costantino fu seguito da molti altri, specialmente dopo il matrimonio del suddetto con una ragazza polacca, Joanna Grudzin´ska. Lo zar sapeva che, archiviato il Congresso di Vienna e spartiti definitivamente i territori polacchi fra Russia, Prussia e Austria, soci e sodali autoritari e arcigni nella Santa Alleanza, ai polacchi non restava oggettivamente alcuna speranza di riconquistare l’indipendenza. Se avessero rialzato la cresta sarebbero stati investiti dalla Russia a est, dalla Prussia a ovest e dall’Austria a sud, e né la Francia né l’Inghilterra avrebbero messo in mare una flotta per soccorrerli dal nord, dal Baltico. Ma sapeva anche, lo zar, che nel 1794, in una situazione in gran parte analoga, quei pazzi mentecatti di polacchi erano insorti e che sotto la guida del generale Kos´ciuzko avevano dato del filo da torcere ai russi. Perciò procedette con la tecnica sopraffina di chi capisce che una goccia di miele fa catturare più mosche di un secchio di fiele: enfatizzò la sua amicizia con il nostro principe Adam Czartoryski, suo compagno di studi nell’accademia militare, concesse ai polacchi l’autogoverno, permise che venisse eretto un monumento al principe Józef Poniatozski, morto nella battaglia di Lipsia combattendo dalla parte dei francesi, tentò persino di far rientrare in patria il generale Kos´ciuzko, e per l’incoronazione a Varsavia si presentò alla dieta in costume polacco. E Costantino, per parte sua, sposò Joanna. Però, se lo zar era il bonario piccolo padre, il fratello era il pugno di ferro nel guanto di velluto, cosa di cui i polacchi, un poco alla volta, ben s’accorsero. Io venivo invitato spesso a palazzo: la mia presenza diver30

tiva l’arciduca e le mie improvvisazioni calmavano le furie omicide di quell’uomo collerico. Ero il suo Orfeo (modestamente). Il 26 settembre 1818 conobbi la zarina madre, in visita nel liceo in cui insegnava mio padre: suonai per lei e le offersi le mie due prime polacche, pubblicate da un piccolo editore locale. E nel maggio del 1825 lo zar in persona mi ascoltò suonare nella Chiesa Evangelica uno strumento di nuova invenzione, l’Aelomelodicon, mezzo pianoforte e mezzo organo, e mi regalò il prezioso anello con diamanti di cui ho già detto en passant. Vivevo in un mondo artificiale, la felice Polonia su cui felicemente regnava Alessandro I. Cominciai a prendere coscienza di ciò a sedici anni, quando acquistai le Romanze e Ballate di Mickiewicz, pubblicate quattro anni prima. Leggendole tutte d’un fiato mi entusiasmai a tal punto che subito ne comprai un’altra copia per spedirla come regalo di Natale al mio amico Jan Białobłocki a Sokolowo. Per me le Romanze e Ballate rappresentarono un capovolgimento di prospettiva che mi fece capire la miseria del presente. Le glorie dell’antico Regno di Polonia erano note a tutti, e tutti ne erano fieri. Ma l’esaltazione di un passato storico è sterile, genera solo nostalgia e malinconia. Il Giglio e Il Bardo di Mickiewicz erano rifacimenti di testi di canzoni popolari e rivelavano un passato mitico in cui si annidava l’anima della nazione polacca. Questo lo capii forse più tardi, ma a sedici anni lo intuii chiaramente. E l’ultimo verso di Romanticismo – “Abbi un cuore e guardaci dentro” – mi colpì più di qualsiasi altro insegnamento che avessi mai ricevuto. Nel 1826 terminai con un anno d’anticipo il liceo. Mi iscrissi al Conservatorio, non all’università, perché già avevo deciso di diventare musicista, ma ancor prima di uscire dal liceo avevo frequentato all’università il corso di letteratura polacca, di stilistica e di estetica di Kazimierz Brodzin´ski, che militava nel movimento romantico. Imparai molte cose, e nella caffetteria Dziurka conobbi alcuni intellettuali come Moriz Mochnacki, Bohdan Zaleski, Stefan Witwicki, Severin 31

Goszczyn´ski, che non condividevano affatto la generale acquiescenza nei confronti del giogo russo. Si stava lentamente preparando l’insurrezione dell’autunno 1830, ed io vissi quel momento aurorale in piena coscienza, pur senza rendermi conto di dove sarebbe sfociato e, tanto meno, che si sarebbe concluso in una catastrofe di immani proporzioni. L’incontro con la Catalani di villaggio, di cui ho detto prima, mi aveva intanto aperto uno spiraglio verso una civiltà musicale che il mio futuro maestro Elsner e il direttore del Teatro dell’Opera Karol Kurpin´ski, autori di melodrammi ispirati alla storia della Polonia, avevano ignorato. Il Król Łogietek di Elsner e il Kazimierz Wielcki di Kurpin´ski, celebrando le glorie della Polonia, citavano la musica polacca come un elemento di colore, pittoresco e grazioso, mentre le basi del loro linguaggio erano tributarie della civiltà tedesca e, soprattutto, dell’opera italiana. Io sapevo di dover operare diversamente, ma non sapevo come. Dal 1821 al 1826 composi pochi pezzi e fui veramente soddisfatto di uno soltanto, il Rondò in do minore che fu pubblicato a Varsavia e che più tardi ripubblicai a Parigi assegnandogli il numero d’opera 1. Dall’estate del 1826, terminato il liceo, presi a comporre intensamente. Tenevo conto sia degli insegnamenti di Josef Elsner, slesiano di nascita e viennese di studi, sia dello stile dei maggiori pianisti-compositori dell’epoca, come Cramer, Hummel, Field, Moscheles, Kalkbrenner. Non dimenticavo tuttavia di essere polacco. Da Parigi, nel giorno di Natale del 1831, scrivendo a Titus gli dissi: “Tu sai quanto ho sempre cercato di esprimere il sentimento della nostra musica nazionale e come ci sia in parte arrivato”. Così era stato, nelle mie intenzioni. Ma nei finali dei miei due concerti, nel finale delle Variazioni op. 2, nella Fantasia su arie nazionali polacche op. 13, nel Krakowiak, in varie polacche e mazurche, e un po’ meno nel Rondo à la Mazur op. 5 i miei “polacchismi” erano ancora legati allo stile internazionale, come se indossassi il costume polacco senza essere polacco e senza saper parlare il polacco. Però i miei lavori di 32

pianista-compositore e le poche canzoni per canto e pianoforte che scrissi vennero considerati, da Elsner e dagli intellettuali che frequentavo, alla stregua di araldi di una grande svolta patriottica: dovevo diventare il creatore dell’opera nazionale polacca. Nacque così il grandioso disegno di mandarmi a Vienna, e da Vienna in Italia, patria del melodramma, nell’ingenua convinzione che lì mi sarei impadronito dei ferri del mestiere e che con quelli avrei realizzato l’opera capace di innalzare nell’universo mondo il nome della Polonia. Di più, della nazione slava. Questo argomento venne affrontato con me dal poeta Stefan Witwicki, del quale avevo musicato alcuni versi. “Caro Fryderyk”, esordì seriosamente mentre, seduti alla Dziurka, stavamo sorbendo una cioccolata calda, “i vostri concerti e le canzoni che avete composto di recente, facendomi l’onore di musicare i miei versi, mi hanno dato la certezza che un mio grande sogno sta per avverarsi. Io ho sempre lodato gli sforzi del signor Elsner e del signor Kurpin´ski, come ben sapete, e sono convinto che essi abbiano meritoriamente cominciato ad esplorare un continente, un continente straordinariamente importante per la nostra povera patria, oggi vinta e prostrata”. “Così è, ne sono convinto”, risposi. E poi, misurando le parole: “Credo però che, essendo ancora giovani – Elsner ha sessant’anni, Kurpin´ski quarantaquattro, se non erro –, credo, dicevo, che trovandosi in un’età in cui le forze creative permangono pressoché intatte, essi potranno verosimilmente...”. “Non state parlando di Beethoven e di Weber, caro il mio ragazzo, pur con tutto il rispetto che meritano Elsner e Kurpin´ski. Le loro qualità non sono quelle del genio, sono soltanto quelle del buon talento e del buon professionismo”. Non risposi, sapevo che aveva ragione: non ero riuscito a distrarlo dal suo proposito assassino, che indovinavo benissimo; e infatti la botta mi arrivò subito addosso. “Voi”, affermò 33

con enfasi Witwicki, battendo il pugno sul tavolo, “voi siete il genio di cui aspettavamo l’apparizione. Voi darete alla Polonia l’opera nazionale, voi sarete la voce dei popoli slavi”. Mi spaventai: “Non ditelo nemmeno per scherzo, amico mio. Io sono solo un pianista, solo ed esclusivamente un pianista”. “Ma che pianista”. Witwicki andava ormai sparato a tutta birra. “Ma che pianista, Chopinek! Certo, lo siete. Lo era anche Mozart. Ma questo è solamente l’inizio, il prologo, direi persino l’antefatto”. E batté di nuovo il pugno sul tavolo, facendo sobbalzare certi pacifici signori che lì vicino sorbivano il caffè. “Voi, voi creerete...” “Tacete, vi scongiuro”. “Nemmeno per sogno. Lo dico, anzi, lo scriverò”. “No!”. “Sì!”. E davvero lo scrisse nel giornale nazionale: “Di già ascoltato e apprezzato a Vienna, ammirato da Hummel e Czerny, egli può esser certo di farsi rapidamente un nome in Europa. Fra meno d’un mese deve partire per l’estero. Gli auguri dei suoi compatrioti l’accompagneranno ovunque. Speriamo che nessuna capitale straniera lo trattenga per sempre ma che, aureolato di nuovi allori, egli ritorni nel seno della sua famiglia, nella sua città natale, per consacrarsi alla gloria dell’opera polacca, che può legare al suo nome grandissime speranze”. Lusinghiero, per me, molto lusinghiero. Tuttavia Witwicki, focoso poeta e ardente sognatore, non fu buon profeta.

Delle marette che Kalkbrenner provocò involontariamente a Varsavia e di come io navigassi perigliosamente fra Scilla e Cariddi La proposta di Kalkbrenner mi lasciò sulle prime interdetto. Ma poi, ripensandoci e ripensandoci, quasi mi convinsi dell’opportunità di accettarla. In quel momento non avevo ancora rinunciato del tutto alla tradizionale carriera del pianista-compositore, del campione che gira il mondo presentando i suoi lavori per pianoforte e orchestra, che ha una vasta schiera di allievi, pubblica i suoi studi e il suo metodo e i suoi 34

pezzi di intrattenimento, diventa eventualmente socio in una fabbrica di pianoforti in cui investe i suoi guadagni e la fa progredire mettendo a frutto le sue esperienze di virtuoso, e passa infine alla Storia come Caposcuola. Era questa la prospettiva in cui mi ero mosso fino al momento in cui ero partito da Varsavia. I mesi passati a Vienna l’avevano resa per me obsoleta, ma ciò non mi era ancora del tutto chiaro, e quindi la proposta di Kalkbrenner mi era parsa, riflettendoci sopra, piena di lusinghe. Perciò, scrivendo in novembre al mio amico Norbert Alfons Kumelski, dissi: “Penso di restare qui tre anni. Ho forti legami con Kalkbrenner, il primo pianista d’Europa. Ti piacerebbe certamente. È il solo al quale non sono degno di spolverare i sandali. Gli Herz, ecc., sono, te l’assicuro, dei semplici fanfaroni; mai suoneranno meglio di lui”. Comunicando la notizia ai miei mi mostrai dunque assai possibilista, quasi convinto. Apriti cielo! Mio padre, dopo aver consultato Elsner, mi scrisse una lettera che era un capolavoro di paterna diplomazia: L’amicizia che ti testimonia il signor Kalkbrenner è per te lusinghiera ed io, come padre, ho verso di lui ogni possibile obbligazione. Ma, mio buon amico, io non mi capacito di come con le tue capacità, che dice di aver notato, egli creda che ci vogliano ancora tre anni, sotto i suoi occhi, per fare di te un artista e per darti una scuola. Non sono nella condizione di capire quest’ultima parola, sebbene ne abbia chiesto il significato al tuo vero amico Elsner. Tu sai che ho fatto tutto quello che dipendeva da me per assecondare le tue disposizioni e sviluppare il tuo talento, che in nulla ti ho contrariato; tu sai inoltre che il meccanismo del suonare t’ha portato via poco tempo e che il tuo spirito è stato occupato più delle tue dita. Se altri hanno passato intere giornate a far muovere una tastiera, tu hai di rado passato un’intera ora ad eseguire le opere degli altri. Considerato tutto ciò, il termine di tre anni è al di sopra del mio comprendonio. Tuttavia non voglio contrariarti in niente, soltanto tu mi farai il piacere di differire ancora la decisione dopo aver ben considerato, ascoltato e riflettuto. Non mi sentirai ritornare su que35

sto argomento. Spero che al momento in cui ti scrivo avrai già ricevuto il piccolo rinforzo che t’ho mandato.

Equanime e generoso come sempre, senza dubbio: il mio straordinario padre non si smentiva mai. Tuttavia quell’accenno al “piccolo rinforzo” era per me come una coltellata in pieno petto: quanti altri rinforzi, e non piccoli, ci sarebbero voluti durante tre anni di studio? Izabela, sorella minore, mi manifestò soprattutto la prima impressione che la mia lettera aveva fatto in famiglia: Ludwika ed io non abbiamo potuto dormire dalla contentezza. Ma la nostra immaginazione lavorava alla grande. Mentre rileggevamo più volte ogni frase ci sembrava di vedere in chi t’ha offerto la sua protezione un uomo di valore. Eravamo felici di saperti nelle sue mani. Ma ogni gioia deve ridimensionarsi quando, come la nostra, non riposa su alcuna base veritiera. Non puoi immaginare quanto queste espressioni, fratello e padre, superiorità morale, m’abbiano interessato. Mi figuravo quest’uomo come un padre, non come Papà ma come colui che, con i suoi consigli, ti avrebbe dato l’orientamento verso il tuo avvenire. Vedevo, o piuttosto capivo che sarebbe stato per te un fratello su un pari grado di istruzione. Ma queste illusioni, pur rallegrandomi, non mi impedivano di avere dei dubbi, suscitati da quei tre anni fatali. Per riconoscere e apprezzare un talento come il tuo bisogna essere di molto superiori a te. Tu parli di differenze ed io non ti contesto nulla, ma credo che tu arriverai a farle sparire in meno di tre anni. Tuttavia ciò che ti scrivo non è un consiglio perché non te ne darei mai; ho voluto soltanto dirti quale influenza ha avuto sul nostro spirito la tua lettera.

La lunghissima lettera di Ludwika, sorella maggiore, ripercorreva passo per passo tutto il dramma: Io capisco molto bene che la mia lettera d’oggi possa causare in te un po’ di fastidio perché sono in parte d’opinione diversa dalla tua; ed io mi scuso se, per questo motivo, tu dovessi provare qualche dispiacere. Al primo momento la proposta di Kalkbrenner ci 36

ha fatto così tanto piacere che, appena letta la lettera, mi sono messa a scriverti, sebbene fossero già passate le nove. Volevo annunciarti con entusiasmo che nessuno di noi s’opponeva alla realizzazione di questi progetti e che, di comune accordo, ti mandavamo il desiderato sì. Mi stupivo persino che tu avessi potuto credere alla eventualità d’un rifiuto. La mia immaginazione mi faceva vedere in lui un uomo come io vorrei che, con l’aiuto di Dio, fossero tutti. Vedevo la sua nobiltà, la sua superiorità morale, e in una parola (se si fosse trattato di me), avrei firmato un patto con lui, l’avrei firmato pure per te senza esitazione.

La mia adorabile sorella evocava, senza accorgersene, una specie di patto col diavolo. Ma adorabile, e generosissima, era per davvero: né lei, né Izabela erano ancora sposate, e il costo dei miei studi a Parigi avrebbe limitato la disponibilità economica di mio padre al momento del loro matrimonio. Tutt’e due erano disposte a sacrificarsi per me. Mi vennero le lacrime agli occhi. Ludwika così proseguiva: Tuttavia siamo andati il giorno dopo a trovare il buon Elsner, che non solo ti vuole bene forse più di ogni altra persona al mondo, ma che desidera per te la gloria ed una scienza approfondita. (Mi esprimo senza dubbio male, mio caro, ma tu mi perdonerai). Ebbene! Dopo aver ascoltato la lettura della tua lettera non s’è mostrato come noi contento della proposta. Scuotendo la testa si è messo a gridare: “Ecco di già l’invidia. Tre anni!”. Allora, molto meravigliata del fatto ch’egli fosse di avviso contrario al nostro, gli parlai delle qualità di Kalkbrenner e del suo amore per l’arte, gli lessi più volte la frase della tua lettera nella quale tu dici che nessun interesse spingeva Kalkbrenner, ecc. ecc. Ma non servì a nulla. Fece una smorfia e disse che ti avrebbe scritto. Poi aggiunse: “Io conosco Fryderyk, è buono, non è vanitoso, ha poca fretta di migliorare il suo stato e lo si domina facilmente. Gli scriverò per dirgli come io interpreto tutto ciò”. In effetti, questa mattina ci ha portato la lettera che ti mando ed ha continuato ad intrattenerci su quest’affare. Noi, che giudichiamo le persone con la semplicità del nostro cuore, pensavamo che Kalkbrenner fosse il più onesto degli uomini. Elsner non è del tutto di quest’avviso. Ci ha detto: “Ha vi37

sto il genio di Fryderyk e già teme di essere sopravanzato da lui. Per questo vuole tenerlo sotto tutela per tre anni al fine di fermare quello che la natura farebbe da sola. Kalkbrenner, per la sua costituzione morale, è un vero italiano”.

Italiano? Gli italiani sono così astutamente doppi? Non mi sembra che quelli a me noti, a cominciare da Soliva, da Malfatti e da Rossini, rispondano a questo cliché. Il succo del ragionamento di Elsner era però un altro: Il signor Elsner non vuole vedere in te solamente un concertista virtuoso, un compositore per pianoforte e un pianista celebre, perché queste sono le cose più facili e di minor valore. Vuole che tu scriva delle opere, desidera vederti raggiungere il fine verso il quale ti spinge la natura e per il quale ti ha creato. Il tuo posto è fissato fra Rossini, Mozart, ecc. Il tuo genio non deve sedersi davanti al pianoforte da concerto, tu devi immortalarti con le opere. Elsner dice che, educato come sei, superiore forse, malgrado la giovane età, a tutti gli autori celebri di oggi, devi con un tale genio aspirare alle cime dove il tuo genio ti spinge e non seguire le altre.

Ludwika continuava ancora per pagine e pagine, cara creatura votata soltanto al mio bene, riprendendo più volte gli stessi ragionamenti in una maniera che manifestava chiaramente, e in modo commovente, l’agitazione del suo animo e il suo infinito amore per me. Dietro le lettere delle mie sorelle c’era di sicuro l’attenta regia di nostro padre. Ammirai la sua saggezza. Ma mentre mi accingevo ad aprire l’epistola di Elsner era già maturata in me la risposta.

Di alcune belle cantanti che mi deliziarono la vista, oltre che l’udito, e del mio gusto per il “travesti” (femminile) Se qualcuno leggerà questi miei scarabocchi – forse no, ma non si può mai dire –, se qualcuno mi leggerà si chiederà, come si chiedevano e mi chiedevano i miei amici se, avendo di38

mestichezza con molte cantanti, con una o con più d’una di loro fosse scoccata qualche scintilla. Konstancja era cantante, o più precisamente allieva della scuola di canto, ma il mio amore per lei fu profondo e, come ho già detto, non glielo feci mai neppure sospettare. Nei primi tempi della mia residenza a Parigi conobbi diverse canterine che, come scrissi a Titus, avrebbero tanto voluto gorgheggiare con me in duetti non canori. Io so accompagnare i cantanti. Al pianoforte, per lo meno. A Varsavia fui quasi l’accompagnatore ufficiale della classe di canto di Carlo Soliva (Konstancja era una delle sue allieve). A Vienna, in casa di Giovanni Malfatti, il medico curante di Beethoven, mostrai tutta la mia abilità accompagnando a memoria il tenore Franz Wild in un’aria dell’Otello di Rossini. E quante volte ho accompagnato Delphine, sempre ammirandone non solo le angeliche grazie ma anche la voce, tutt’altro che angelica, anzi, intinta nel peccato e come il peccato attraente. Dicono che sia stata la mia amante. Ha avuto più d’un amante, Delphine, ma tra questi non c’è il noto Chopin che però l’ama, che l’ama molto, quella creatura discesa dal cielo. Non proprio platonicamente, se devo essere sincero con me stesso. Direi eroticamente ma non sessualmente. Ho accompagnato la bella Laure Cinti-Damoreau, grandissima cantante e grande attrice prediletta da Rossini e da Auber, che fu tanto gentile da prender parte al mio concerto del 1841 cantando le due arie della Rose de Péronne di Adam. Per quel concerto, in verità, avrei voluto avere Pauline Viardot, disgraziatamente impegnata a Londra. Pauline quasi si offese, e un po’ per scherzo e un po’ sul serio si sfogò scrivendo ad Aurore, cioè a George: “Mi incanta, che il bravo Chip-Chip si sia deciso a farsi sentire, ma sono desolata di non poter avere una piccola parte nel suo programma. Che malvagio: perché aspetta che io sia assente, per dare un concerto? È un brutto tiro, quello che mi gioca, un brutto tiro che bisognerà riparare prima o poi. Complimenti e cari saluti agli amici. Io tiro i biondi capelli del biondo Chip, io acca39

rezzo i lunghi baffi di Maurice ed abbraccio Solange, il piccolo mostro”. Pauline non è affatto bella, secondo me, solo il giovane sventato Maurice, figlio d’Aurore, ne è pazzamente innamorato. Ella non è incantante, come scrissi una volta, in italiano, di una ragazza che a momenti... Ma lasciamo perdere. Non è incantante, Pauline. Se però togliamo l’“in” e guardiamo a quel che resta, accipicchia! Brava, Pauline, brava quanto la sorella Maria Malibran, che viceversa era anche una bellezza sfolgorante. Peccato che sia morta così giovane, povera Maria. Con la moda di oggi la venustà delle donne si rivela nel viso, nella capigliatura, nelle orecchie, nelle braccia, nelle mani, nel busto e, se la gonna scivola o viene fatta scivolare, nei piedini. Ma dalla vita alle caviglie, con tutto quel tripudio di sottane, è come se la bellezza muliebre fosse calata nel basamento d’un monumento. Così è, disgraziatamente. Tranne che, ballerine a parte, per qualche eccezione. E Maria Malibran faceva eccezione perché tra i suoi ruoli preferiti c’era il Romeo dei Capuleti e Montecchi del povero Bellini che l’amava così tanto e che morì anche lui troppo giovane. Apparendo come Romeo in vesti maschili e in costume rinascimentale, con le belle gambe strettamente fasciate nelle calze e l’orlo della casacca che le arrivava soltanto fino a mezza coscia... Che spettacolo era, rimirarla tutta allungata presso la tomba di Giulietta, a terra, mentre protesa verso il corpo dell’amata cantava “Ah, se tu dormi svegliati”! Figura ed espressione vocale, che spettacolo, che spettacolo, ripeto! Anche Giuditta Grisi, che fu Romeo a Parigi dopo la Malibran, era però tutt’altro che male, a vedersi e a sentirsi. Prima che da quelli della Malibran e della Grisi io ero rimasto fulminato a Vienna dal travesti di Sabine Heinefetter, che venne poi anche a Parigi e che fu la prima deliziosa Adina nell’Elisir d’amore di Donizetti. Scrissi di lei a Jan Matuszyn´ski, sfoggiando – ero giovane – un giudizio critico da esperto su questa cantante che come donna mi piaceva moltissimo: “Wild e la Heinefetter sono gli unici pilastri dell’O40

pera di Vienna, mentre il resto è miserevole e del tutto indegno d’una tale città. Tuttavia la signorina Heinefetter è quasi del tutto priva di sentimento. Una voce come non si arriverà mai di sicuro a sentirne una simile”, a Parigi, si capisce, le avrei sentite, “tutto è cantato bene, ogni nota tenuta esattamente, purezza, scioltezza, portamenti, ma tutto ciò è così freddo che quando sono seduto nella prima fila quasi mi si gela il naso. Bella a vedersi in scena, soprattutto in travesti. Nella Clemenza di Tito di Mozart è stata un bel Sesto”. Con Sabine nacque una schietta amicizia quando, nel 1835, ci trovammo a partecipare insieme ad un concerto a Parigi. Il mio allievo Gutmann, che la conosce, mi dice che parla sempre di me con grande simpatia. In un certo senso io sono un dongiovanni, un dongiovanni del flirt, e non per nulla sono stato attirato dal duettino “Là ci darem la mano” al punto di scriverci delle variazioni. Un’altra cantante, tanto graziosa da perderci la testa, era la giovanissima Francilla del Castillo Göhringer, figlia adottiva – più tardi, ma io equivocavo – del pianista-compositore Johann Peter Pixis. Avevo conosciuto Pixis e pupilla durante il viaggio da Vienna, rividi lui a Parigi. Mi invitò ad andarlo a trovare. Sapevo che era ombroso, e l’avevo detto a Titus: “Pixis ha la massima stima di me – sia a causa del mio modo di suonare, sia perché è geloso: la sua giovane ragazza, effettivamente, si dà da fare più con me che con lui”. Quando andai a trovarlo mi capitò quello che mi affrettai a riferire a Titus: “Sappi che sotto il suo tetto vive una graziosissima piccola signorina di quindici anni ch’egli si propone (dice lui) di sposare. Ne avevo fatto la conoscenza a Stoccarda. Appena arrivato qui, Pixis mi invita ad andare da lui senza dirmi (perché forse ci sarei andato prima) che la sua signorina – del resto non pensavo più a lei – l’aveva accompagnato a Parigi. Ora, ecco che incontro la pupilla sulle scale. Lei manifesta la più gran gioia, m’invita ad entrare dicendo che non c’era in ciò alcun male. Ed aggiunge: ‘Il signor Pixis non c’è, riposatevi, non tarderà’, ecc. ecc. (una sorta di tremore ci prende 41

tutt’e due). Mi scuso, sapendo quanto il vecchio sia geloso, e le dico che ritornerò un’altra volta, ecc. E mentre del tutto innocentemente parliamo così, con dolcezza, sulla scala, ecco che arriva Pixis. Punta diritto lo sguardo attraverso i suoi grossi occhiali per vedere chi, là in alto, parla alla sua bella. Si affretta, poveretto. Subito si ferma davanti a me dicendo bruscamente: ‘Buon giorno’. Poi, voltandosi verso di lei, aggiunge ‘Che fate qui?’ prima di opprimerla con un’interminabile geremiade mischiata d’imprecazioni teutoniche per aver osato ricevere in sua assenza un giovanotto”. Avrei voluto aiutare Francilla, che se ne stava lì tutta mortificata. Ma un diavoletto mi suggerì, per gettare un po’ di pepe sulla ferita di Pixis, di comportarmi da provocatore. Come dissi a Titus: “Sorridendo (e con aria negligente), feci notare, come per approvare Pixis, che Francilla era uscita dalla camera vestita leggermente, con una semplice vestaglia di seta. Alla fine il vecchio si calma, mi riconosce, mi abbraccia e, non sapendo cosa far di meglio mi fa entrare nella sala”. Ma un rovello gli torceva le viscere: lei in veste da camera sulle scale, insieme con me. Ero appena arrivato, o mi stavo congedando? Povero Pixis! “Senza dubbio paventava”, dissi a Titus, “che, contrariato per non averlo trovato, io mi fossi lasciato andare a giocargli un qualche brutto scherzo in sua assenza o, piuttosto, a giocarlo alla sua pupilla. Alla fine mi accompagnò fino alle scale ma, accorgendosi che ero pur sempre allegro (in effetti non potevo dissimulare il mio divertimento: era la prima volta che incontravo qualcuno che mi supponeva capace di qualcosa di simile), siccome vide dunque che avevo l’animo pieno di gioia, Pixis entrò dal portinaio e lo sentii chiedere se era molto tempo che ero salito, ecc. Da allora Pixis non ha abbastanza lodi per vantare il mio talento presso gli editori e in particolare presso Schlesinger. E costui mi ha consigliato di scrivere delle variazioni su temi del Robert le Diable, questo Robert che ha comperato da Meyerbeer per 24.000 franchi! Che ne dici? Io – un seduttore!”. Beh!, a Pixis, che alla fin fine era un gran bravuomo, dedicai 42

la mia Fantasia su arie polacche op. 13, ...dopo che lui mi aveva dedicato le sue Variazioni per pianoforte e orchestra. La prima cantante con la quale feci un duettino da Eterno Fidanzato fu la celeberrima Henriette Sontag, soprano scelto da Beethoven in persona per la Nona Sinfonia e per la Missa solemnis, nonché da Weber per l’Euryanthe. Henriette – ero autorizzato a chiamarla così – venne a Varsavia per concerti nella primavera del 1830 dopo essere diventata, senza che lo si sapesse, la contessa Rossi (nobiltà piemontese, non proprio da Gotha; ma dopo il matrimonio lei si era comunque ritirata dalle scene, perché così era di prammatica). La ascoltai, mi piacque immensamente (a parte la Catalani, era la prima grande cantante che sentivo), le fui presentato, mi trovò simpatico e mi invitò a farle visita in albergo. In albergo e, nota bene, nella sua camera... per mettere a punto delle variazioni su una dumka ucraina composte per lei dal principe Radziwiłłl e che non si adattavano del tutto alla sua voce. Non era precisamente bella, ma charmante al massimo grado, charmantissima, e campionessa di coquetterie, di coquetterie spinta fino al punto in cui diventa naturale perché non si può credere che sia possibile raggiungere una tale naturalezza senza conoscere a fondo tutte le risorse della coquetterie. Subito subito scrissi a Titus: “Non puoi immaginare quanto piacere mi ha dato conoscerla più da vicino, cioè nella sua camera, su un canapé, perché non ci permettemmo niente di più con quel ‘messaggero degli dei’, come lo chiamano quelli che ne vanno pazzi”. Io amavo Konstancja, però il fascino di una donna di gran classe esercitava su di me un’irresistibile attrattiva. Come dicevo prima, non per nulla avevo scelto il duetto “Là ci darem la mano” per farci sopra delle variazioni... Tuttavia, quando Henriette cantò per il granduca Costantino non l’accompagnai al pianoforte e con mio grande dispiacere non assistetti neppure al concerto. Tutti si meravigliarono, ben pochi capirono che da un pezzo avevo cessato di vivere nella felice Polonia su cui felicemente regnava Alessandro I. 43

Di quello che un grosso critico parigino scrisse su di me, un po’ prendendoci e un po’ no, e di come scivolai senza graffiarmi fra gli scogli di Scilla e Cariddi Il concerto del 26 febbraio 1832, il concerto che dovevo dare per impormi a Parigi, anche se ormai mi stavo avviando per un’altra strada, fu utile per un solo motivo, perché François Fétis, critico influentissimo, lo recensì positivamente. Fétis, che mi prese subito in simpatia, era un tipo abbastanza bizzarro. Ne parlai con Titus: “Fétis, che conosco e che può insegnare molte cose, abita in periferia e viene a Parigi solo per dare delle lezioni, altrimenti, a causa dei debiti che i suoi guadagni con la sua Revue Musicale non potrebbero coprire, sarebbe da lungo tempo internato a Sainte-Pélagie. Bisogna sapere che a Parigi i debitori non possono essere arrestati fuori dal loro domicilio, e perciò Fétis ha lasciato il suo abituale alloggiamento per la periferia, dove la legge, per un po’ di tempo, non può niente contro di lui”. Io ammiravo Fétis. Un’immensa erudizione, una penna brillante, il coraggio di caricarsi di debiti per pubblicare una rivista musicale che orientava il gusto dei parigini e non solo dei parigini, anche se non sempre nel modo che piaceva a me. Ad esempio, fra Liszt e Thalberg lui si mise dalla parte del secondo, che io avevo conosciuto a Vienna, con il quale ero in ottimi rapporti personali e che prendeva le decime come io le ottave e suonava splendidamente, ma che non era proprio il mio uomo: faceva il piano con il pedale invece che con le dita ed era talmente blasé da portare bottoni da camicia intarsiati di brillanti. Thalberg fu molto gentile con i miei, e pieno di riguardi, quando andò a Varsavia, tanto che mio padre mi chiese di ricambiare: “Forse vincerai la tua ripugnanza; ti assicuro che ha parlato molto bene di te”. Non lo mettevo in dubbio, ma Sigismond proprio non era il mio uomo (chi lo è? Un tempo lo era Liszt, oggi ammiro di più Moscheles, campione della vecchia scuola). 44

Ritorno al mio concerto. Fétis lo recensì il 3 marzo nella sua Revue Musicale dicendo: Ecco qui un giovanotto che, abbandonandosi alle sue impressioni naturali e non prendendo alcun modello ha trovato, se non un rinnovamento completo della musica pianistica, per lo meno una porzione di ciò che cerchiamo invano da molto tempo, cioè l’abbondanza di idee originali che non si trovano da nessuna parte. Non si può dire che il signor Chopin sia dotato d’una organizzazione potente come quella di Beethoven, né che abbia nella sua musica quelle forti concezioni che si rilevano in quel granduomo. Beethoven ha composto musica per pianoforte, ma io parlo qui della musica dei pianisti, ed è in paragone con quella che io trovo, nelle ispirazioni del signor Chopin, il segnale di un rinnovamento di forme che potrà esercitare in seguito molta influenza su questa parte dell’arte.

Ho già detto che non suonavo i concerti di Beethoven. Avevo studiato a Varsavia il Concerto in re minore di Kalkbrenner, avevo eseguito in pubblico, dopo averlo studiato tutto quanto, il solo primo movimento del Concerto in sol minore di Moscheles, e al mio esordio da bambino, il 24 febbraio 1818 nel palazzo del principe Radziwiłł, avevo eseguito il Concerto in mi minore di Adalbert Gyrowetz. Avevo eseguito anche il Concerto n. 3 di Ries e il Concerto n. 5 di Field. Conoscevo ed apprezzavo i Concerti in la minore e in si minore di Hummel e il Concerto in la bemolle di Field. Da tutti questi, tranne che da Gyrowetz, avevo preso qualcosa, da Beethoven nulla, e quindi Fétis mi collocava giustamente fra i pianisti-compositori. A Vienna mi ero avvicinato sì a Beethoven, ma l’ombra di questo gigante non appariva ancora nei pezzi che presentavo a Parigi. Tutto considerato, la prima parte della recensione di Fétis mi piacque molto e pensai che a Varsavia l’avrebbero letta spalancando gli occhi dallo stupore e dalla gioia. Non mi dispiacque neppure il seguito. Eccolo: Il signor Chopin ha fatto ascoltare nel concerto che ha dato il 26 del mese passato nei saloni dei signori Pleyel e Soci un Concer45

to, era quello in mi minore, che ha provocato nel suo uditorio tanto stupore quanto piacere, sia per la novità delle idee melodiche che per i passaggi, le modulazioni e la disposizione generale del pezzo. C’è dell’anima nei suoi canti, c’è della fantasia nei passi e c’è dell’originalità nell’insieme. Troppo lusso nelle modulazioni, disordine nel collegamento delle frasi, sicché sembra talvolta di sentire un’improvvisazione piuttosto che della musica scritta, tanti sono i difetti che si mescolano alle qualità che ho appena segnalato. Ma questi difetti appartengono all’età dell’artista: spariranno quando sarà arrivata l’esperienza. Se il seguito dei lavori del signor Chopin risponderà ai suoi inizi non si può dubitare che egli ne ricavi una reputazione brillante e meritata.

Questo per il compositore. E il pianista? “Come esecutore”, proseguiva Fétis, “questo giovane artista merita pure degli elogi. La sua esecuzione è elegante, facile, graziosa, ha della brillantezza e della nitidezza. Cava dallo strumento poco suono ed assomiglia, sotto questo aspetto, alla maggior parte dei pianisti tedeschi”. Non so proprio quali pianisti tedeschi fossero capitati sotto le orecchie di Fétis. A Vienna avevo ascoltato nel 1829 Leopoldine Blahetka, che aveva solo un anno meno di me... A proposito, come ho fatto, prima, a dimenticare di includerla tra i miei flirt? Poco più d’un mese dopo essere ritornato a Varsavia scrivevo a Titus: “Tu capirai benissimo la necessità d’un nuovo viaggio. Non credere che io desideri intraprenderlo per rivedere la signorina Blahetka, la giovane graziosa ragazza che suona bene e di cui ti ho parlato, perché, forse per mia disgrazia, ho già incontrato il mio ideale, che servo fedelmente da sei mesi senza averle parlato dei miei sentimenti”. Leopoldine, che ha sposato un francese e che adesso abita a Boulogne-sur-Mer, mi incantò quando la vidi da vicino. Prima, quando l’avevo sentita solo suonare, no. E alla mia famiglia, parlando dell’impressione che avevo fatto sul pubblico, avevo detto: “Secondo l’opinione generale la mia esecuzione è stata di sonorità troppo debole, o piuttosto troppo delicata per ascoltatori che come quelli di qua sono abituati a sentire gli artisti sfondare il pianoforte. Mi aspetto di trovare questo rimprovero nei giornali, 46

tanto più perché la figlia d’uno dei critici pesta terribilmente sul suo strumento. Questo non ha nessuna importanza. È impossibile che non ci sia qualche ‘ma’, ed io preferisco quello al sentirmi dire che suono troppo forte”. Non so, ripeto, da dove ricavasse le sue impressioni il mio amico Fétis. Il quale dava però per già scontato per me il rimedio: “Ma lo studio che di questa parte della sua arte egli fa sotto la direzione di Kalkbrenner non potrà mancare di dargli quella importante qualità, da cui dipende il nerbo dell’esecuzione e senza la quale non si possono modificare gli accenti dello strumento”. Anche a Vienna un giornale aveva scritto che “nell’esecuzione del giovane artista si è notato qualche difetto, segnatamente l’assenza di accento per annunciare l’inizio delle frasi musicali”. Un mio amico aveva inoltre sentito una distinta signora che diceva: “Che peccato, il ragazzo non ha presenza scenica”. Ma io avevo scritto ai miei dicendo: “Ho conquistato i sapienti e i sensibili”. Insomma, in realtà stavo tentando di intraprendere un mestiere per il quale mi ero sì preparato, ma per il quale non ero tagliato. Lo capii dopo il concerto del 26 febbraio a Parigi. E, in seguito, suonai con orchestra tre volte soltanto: con l’orchestra del Conservatorio sotto la direzione di Habeneck, come ho detto, a Parigi in una serata di beneficenza a favore degli esuli polacchi, e a Rouen, lontano da Parigi, per compiacere un amico polacco. La proposta di Kalkbrenner, che Fétis dava per passata in giudicato, aveva suscitato un vespaio non solo a Varsavia ma anche fra le mie conoscenze parigine. Per me la questione non era se Kalkbrenner, invidioso della magnitudine dei miei talenti, volesse azzannarmi in un sol boccone e masticarmi per tre anni, bloccando il mio sviluppo naturale, o se volesse per lo meno aggregarmi al suo carro trionfale. La questione, per me, era se la nuova prospettiva che mi si era aperta a Vienna come compositore e se le ricerche e le relative scoperte che come pianista stavo facendo con gli studi che pubblicai più tardi dedicandoli a Liszt rendessero o no compatibile una qualche forma di alunnato presso Kalkbrenner. Sulla buonafede 47

del quale non ebbi mai dei dubbi, come scrissi a Titus il 26 dicembre: “Egli trova che ci sia del carattere nelle mie composizioni e afferma che sarebbe proprio un peccato se non mi mostrassi all’altezza delle promesse. Così dunque, se tu fossi qui, mi diresti: ‘Impara, ragazzo mio, finché sei in tempo’. Molti me l’hanno sconsigliato. Essi pensano che io sia capace di suonare altrettanto bene di Kalkbrenner e ritengono che egli sia mosso dal suo orgoglio e che voglia poter dire che sono allievo suo, ecc. ecc. Non sono altro che facezie; sebbene tutti provino qui la più grande stima per Kalkbrenner, nessuno può sopportare l’uomo perché non fraternizza affatto con il primo imbecille che si presenta. Come è vero che ti voglio bene, lui è al di sopra di tutto quello che ho sentito fino ad ora”. Kalkbrenner non si risentì affatto per il mio sostanziale rifiuto, e i nostri rapporti rimasero cordiali. Io gli dedicai il Concerto in mi minore, lui scrisse delle variazioni sulla Mazurca in si bemolle maggiore che apre la mia opera 7, alcuni suoi allievi vennero a studiare con me senza rompere con lui. Non ci siamo più visti di frequente ma siamo rimasti amici. E mi dispiace che il mio implacabile padre abbia continuato a dipingermelo come un farabutto da cui devo guardarmi. Certo, ai miei allievi non faccio studiare le musiche di Kalkbrenner, né quelle di Herz, altrettanto famose, mentre ritengo utili, e faccio studiare, quelle di Cramer e di Moscheles e di Field, e soprattutto quelle di Hummel. Così la vedo io, sul contributo che al progresso della musica pianistica hanno dato i grandi pianisticompositori della generazione che precede la mia, e così mi comporto. Il tempo dirà se ho visto giusto o no.

Di come il mio vecchio maestro cercò di impartirmi una lezione di vita e di patriottismo, e di un certo compito storico che rifiutavo di caricarmi sulle spalle Sapevo benissimo quel che avrei trovato nella lettera di Elsner: le stesse cose, dette in tono dottorale, che in tono esalta48

to mi aveva scritto Witwicki mentre ancora mi trovavo a Vienna. Quel bel matto, rimasto insaziato anche dopo l’articolessa pubblicata nel giornale nazionale, mi scriveva: Voi dovete assolutamente essere il creatore dell’opera polacca; sono profondamente convinto che potreste diventarlo e che come compositore polacco potreste aprire al vostro talento una via estremamente ricca che vi porterebbe ad una rinomanza poco comune. Purché abbiate sempre in vista la nazionalità, la nazionalità e ancora la nazionalità. Questa è una parola pressoché vuota di significato per un artista ordinario, ma non per un talento come il vostro. C’è una melodia natale come c’è un clima natale. Le montagne, le foreste, le acque e le praterie hanno la loro voce natale, interiore, sebbene non ogni anima la colga. Sono persuaso che l’opera slava, chiamata in vita da un vero talento, da un compositore pieno di sentimenti e di idee, brillerà un giorno nel mondo musicale come un nuovo sole e che forse s’innalzerà persino al di sopra degli altri ed avrà tanta melodia quanta ne ha l’opera italiana, ancora più di sentimento e incomparabilmente più di pensiero.

Mancava solo il pugno sul tavolo. La melodia slava... Io mi ero impegnato sulla melodia della Mazovia, e non era stato un compito facile, sebbene mi sembri alla fine di aver creato qualcosa di non troppo lontano da quanto volevo. Ma Witwicki, da esaltato poeta nazionalista e da mistico panslavista, volava più in alto: “Fareste bene, se andrete in Italia, a fermarvi per un certo tempo in Dalmazia e in Illiria per conoscere i canti di questo popolo fratello, e pure in Moravia e in Boemia”. Ma mi ci vedeva, Witwicki, a percorrere in barchetta le coste della Dalmazia, abitate peraltro da popolazioni veneziane? E l’Illiria? Il mio delirante amico aveva presente la divisione amministrativa creata da Napoleone, quella delle Province Illiriche: ne avevamo parlato nei nostri incontri nella caffetteria. Nel 1830 quel territorio, cioè la Croazia, era tenuto in pugno, com’è ancora, dall’Austria. Quanto sarebbero stati contenti, a Vienna, se avessi chiesto un passaporto per andare a raccogliere i canti slavi fra i croati! E 49

perché mai la Boemia e la Moravia, e non piuttosto l’Ucraina che al tempo dei tempi era stata parte del Regno di Polonia? Che mattacchione, Witwicki! Siamo diventati poi grandi amici, amici per la pelle, da quando è venuto ad abitare a Parigi dopo l’insurrezione ed ha rinunciato a vedere in me il Weber (o il Meyerbeer) della nazione polacca. Ma nel 1830 il suo sogno di palingenesi slava lo portava fuori dal mondo. Gli argomenti di Elsner li conoscevo ad abundantiam. Invece il tono espositivo, apparentemente distaccato ed equanime, mi sorprese non poco, dopo quello che mi aveva detto Ludwika. L’inizio era pacato: Ho appreso con il più grande piacere che Kalkbrenner, il primo dei pianisti (come dici), t’abbia ricevuto così bene. Ho conosciuto suo padre a Parigi nel 1805 e, a quell’epoca, il giovane Kalkbrenner era già celebrato fra i migliori virtuosi. Tanto più mi rallegro della sua accoglienza in quanto t’ha promesso di rivelarti i segreti della sua arte, ma mi stupisco che abbia fissato un termine di tre anni per farti raggiungere lo scopo. Come ha potuto, l’impressione prodotta da una prima audizione, come ha potuto fargli dedurre che sarebbe necessario un tale periodo per iniziarti al suo metodo? Come ha potuto fargli pensare che il tuo genio musicale dovesse votarsi unicamente al pianoforte, e il tuo talento unicamente alle composizioni per questo strumento? Una conoscenza più approfondita delle tue capacità gli farà, penso, mutare opinione, sempre che, inculcandoti la sua scienza, egli voglia, attraverso la tua persona, servire l’arte in generale. Se per te è un amico, sii per lui un allievo riconoscente.

Poi arrivava la prima, elegante stoccata: Quanto a me, io vorrei, lo confesso, avere come allievo il tuo amico Linowski. Ma non ho mai pensato di fare di te, o di Nidecki, un allievo. Lo dico con orgoglio, sebbene mi congratuli con me stesso per avervi dato lezioni d’armonia e di composizione. Insegnare la composizione non consiste nel dettare regole, soprattutto quando si è in presenza di discepoli le cui capacità sono evidenti. Spetta a loro di trovare da soli il modo di arrivare un giorno a superarsi. Anche la maniera più perfetta di suonare uno strumento, per esempio quella 50

di Paganini per il violino o di Kalkbrenner per il pianoforte, con tutto quello che comporta di conseguenza, sia per il carattere particolare dello strumento, sia per l’originalità della composizione adattata alle sue specificità, tutto quello che costituisce il complesso di queste cose non è tuttavia, nel campo della musica, altro che un mezzo per arrivare alla espressione dei sentimenti.

Ben detto. Anzi, detto splendidamente. Subito dopo, però, Elsner, che non era pianista, prendeva una bella cantonata: La gloria di cui hanno goduto in passato Mozart e Beethoven come pianisti si è spenta da molto tempo e, sebbene i valori classici in esse contenuti reggano al tempo, le loro composizioni pianistiche sono state abbandonate in favore di opere di più nuova concezione. Ma i loro lavori non composti per un solo strumento, le loro opere, le loro romanze, le loro sinfonie sono vive fra noi e permangono a fianco delle produzioni artistiche le più moderne di oggi. Sapienti pauca.

Il sapiens non concordava affatto. Il ragionamento di Elsner ripartiva con un colpo d’ala che dimostrava la formazione illuminista del mio carissimo maestro, e che tuttavia non condividevo proprio per intero: Non bisogna consigliare agli allievi di attardarsi sullo studio d’un solo metodo, d’una sola maniera, né dello stile d’un solo popolo. Ciò che è vero e bello non dovrebbe essere imitato ma vissuto secondo le leggi sue proprie e superiori. Come modello (come non plus ultra) né un uomo né un popolo può essere utile, ma solo la natura eterna e invisibile che tutto contiene in sé. In una parola: l’artista (traendo profitto da tutto quello che lo circonda e spargendolo attorno a sé), l’artista non può trovare che in se stesso, attraverso il suo proprio perfezionamento, ciò che stupirà i contemporanei. La causa di questa ammirazione e d’una gloria realmente meritata nel presente e nell’avvenire non è altro in effetti che la sua individualità geniale, trasposta nelle sue opere e che continua a vivere in esse.

Gli uomini e i popoli avevano offerto a lui dei temi di ispirazione per le sue opere serie, che spaziavano dal mito greco a 51

Carlo Magno ai re polacchi. Ma a Mickiewicz avevano offerto di più, ed era a Mickiewicz che io volevo riferirmi. Elsner affrontava poi un argomento spicciolo. Kalkbrenner mi aveva consigliato di abbreviare l’esposizione orchestrale del mio Concerto in mi minore, e mi aveva messo in mano una matita rossa perché segnassi il taglio. Elsner così commentava: Mi ha divertito il fatto che Kalkbrenner t’abbia passato la matita rossa. Mi sono ricordato in effetti come, ritornata dall’Inghilterra dove aveva fatto appunto la conoscenza di Kalkbrenner, la signora Szymanowska, che doveva dare un concerto, ci distribuì durante una prova delle matite rosse per farci tagliare certe battute nel Concerto in si minore di Hummel, che del resto già aveva abbreviato considerevolmente. Peggio ancora: nelle variazioni di non so più quale autore, a cui già aveva fatto subire la sorte del povero Hummel, inserì un Andante di Field. Era un abuso. Ci vedemmo costretti a prestare attenzione soltanto all’esecuzione della signora Szymanowska e ad ammirare unicamente le sue dita.

Maria Agatha Szymanowska, nella quale il pubblico ammirava insieme la bravura della pianista e – cavoli! – la marmorea bellezza della donna, con delle spalle che, si diceva, avevano fatto diventare strabico Field, componeva piccoli pezzi graziosi ma non era in grado di scrivere concerti ed eseguiva dunque quelli di altri. Aveva o no il diritto di aggiustarseli a sua misura? È una domanda che, con la rarefazione attuale dei pianisti-compositori, sta diventando sempre più pregnante. Ci sto facendo qualche riflessione.

Degli splendori e delle miserie del teatro d’opera, di un mio incontro con Rossini, e di come chiusi il duello con il mio vecchio e venerato maestro Alla lettera così affettuosa e seria di Elsner era dovuta una risposta ben ponderata e cortese, sebbene – e questo lo sapevo con assoluta certezza – sebbene nettamente negativa, e ta52

le da chiudere per sempre la questione che ci divideva. A me l’opera piaceva, piaceva da pazzi. A Varsavia avevo ammirato prima di tutto i melodrammi di Mozart e di Rossini. Sempre a Varsavia avevo conosciuto il Freischütz di Weber, a Parigi ero rimasto folgorato sia dallo splendore esecutivo della compagnia del teatro italiano diretto da Rossini, sia dal Robert le Diable di Meyerbeer. Il Barbiere di Siviglia con la Malibran, Rubini e Lablache, l’Otello, ancora con la Malibran, Rubini e Lablache, l’Italiana in Algeri con Rubini, Lablache e la Raimbeaux! “Non puoi immaginare” scrissi a Titus, “che cos’è Lablache. La Pasta, si dice, non è più la stessa d’un tempo, ma io non avevo ancora sentito niente di più sublime. La Malibran, con la sua voce miracolosa, ti incanta. Meraviglia delle meraviglie! Rubini, tenore eccellente, canta a voce piena, mai in falsetto. Le sue roulades durano talvolta due ore (ma gli capita di ornamentare per troppo tempo e di far vibrare deliberatamente la sua voce. Infine, prolunga all’infinito i trilli, cosa che gli procura del resto i più vivi applausi). La sua mezza voce è incomparabile”. E il Robert, produzione dell’Opéra nella quale era stata impiegata per la prima volta sulla scena lirica l’illuminazione a gas! A Titus così scrissi: “Dubito che mai si sia raggiunto in teatro un grado di magnificenza al quale è arrivato Robert le Diable, l’ultima opera di Meyerbeer, l’autore del Crociato”. Avevo visto il Crociato in Egitto a Vienna, durante la mia prima visita alla città, nel 1829, l’avevo mancato per un pelo a Dresda, in viaggio verso casa, ed ero tornato a vederlo a Vienna nel 1830 (cantava la mia favorita, la Heinefetter). L’opera mi era piaciuta moltissimo, il Robert mi piacque ancora di più e Les Huguenots mi convinsero definitivamente della grandezza del loro autore: sono ben lontano dal condividere il disprezzo che Schumann dimostra nei confronti di Meyerbeer. Scrivendo a Titus, dunque, continuai dicendo che il Robert era “il capolavoro della nuova scuola”, cioè del grandopéra. E poi: “Ci si vedono dei diavoli, cori immensi che 53

cantano nel sottopalco e anime che escono dalla tomba per gruppi di cinquanta o sessanta. Il teatro è un diorama, all’estremità del quale si vede l’interno della chiesa e tutta la chiesa illuminata come a Natale o a Pasqua”. Era la scena finale, nella quale la cattedrale appariva come se ci si arrivasse volando. “Sui banchi si vedono dei monaci e una folla di fedeli con gli incensieri ecc., e, cosa la più straordinaria, l’organo, la cui voce, venendo dalla scena, incanta, stupisce, e quasi sovrasta quella dell’orchestra. Meyerbeer si è immortalato”. Aggiungevo però, e da ciò, oltre che da altre ragioni, derivava il mio scetticismo sulle mie possibilità di diventare operista, aggiungevo però che Meyerbeer era rimasto per tre anni a Parigi prima di riuscire a far rappresentare la sua opera, sebbene vi fosse arrivato con una fama già consolidata in Italia e in Germania, e che per avere la compagnia adatta alla inusitata spettacolarità del suo nuovo lavoro aveva sborsato di tasca sua ben ventimila franchi. Se io avessi scritto un’opera il teatro di Varsavia mi avrebbe di sicuro aperto con entusiasmo le sue porte. Ma a che mi sarebbe servito un successo a Varsavia? E quanto avrei dovuto penare, per entrare in uno dei due grandi teatri di Parigi, il francese e l’italiano? Di più, che tipo di opera sarei stato in grado di scrivere? Essendo stato presentato a Rossini, che si era mostrato molto benevolo con me, andai a trovarlo per chiedergli se non avrebbe incontrato difficoltà nel permettere che alcuni dei cantanti del suo teatro prendessero parte al mio concerto. “Io non ho di certo problemi nel favorire le vostre aspirazioni, mio giovane amico e collega”, mi rispose. “Ma bisogna che sentiamo il condirettore, il signor Robert”. Fece chiamare monsieur Robert, che subito insorse come se lo avesse morso la tarantola: “Concedere qualche permesso vuol dire ricevere altre due o trecento domande analoghe. Illustre Maestro, non mettiamoci da soli nell’imbarazzo, non facciamo casini”. Rossini, spaventato, si rivolse a me: “Avete sentito, ami54

co mio? Io non devo interferire nell’organizzazione della casa. Ma voi, essendo francese, potrete trovare facilmente udienza all’Opéra”. “Non sono francese, maestro”. “Ah!, no? Dal cognome, scusate, mi sembrava certo che...”. “Francese di nascita era mio padre, ma trasferito in Polonia quand’era ragazzo. Io sono polacco”. “Ma pensa un po’, per Giove pluvio, non l’avrei mai immaginato. Sapete che il protagonista del mio Sigismondo, disgraziatamente caduto senza rimedio alla Fenice di Venezia, è un re di Polonia? Ne ho riciclato qualche pezzo, pensate un po’, nell’Adina, che è una turcheria”. E rise come un matto. Io pensai che sarei forse riuscito a scrivere un’opera di argomento polacco ma di stile rossiniano, e che avrei fatto un buco nell’acqua. Il 14 dicembre 1831 vergai dunque senza la minima esitazione la risposta a Elsner: “La vostra lettera m’ha dato nuova prova dell’interesse paterno e dei voti veramente sinceri che volete riservare al più fedele dei vostri allievi. Nel 1830 io mi rendevo conto di tutto quello che mi mancava, io sapevo quale cammino avevo ancora da percorrere se mi fossi lasciato tentare da uno degli esempi che m’avevate proposto. Tuttavia, allora, io dicevo a me stesso: ‘Mi avvicinerò a lui, fosse anche solo un poco e, se non un Łokjetek, dal mio cervello uscirà un Łaskonogi’. Ma ho perduto ogni speranza di questo genere. Sono costretto ad aprirmi una via nel mondo come pianista e a rimettere a più tardi le prospettive maggiori che vivamente mi consigliate nella vostra lettera”. Il Król Łoketjek, ispirato alla vita di Stanislao IV Il Breve, o Il Nano, era la migliore opera di Elsner, e Stanislao IV era stato un grande, vittorioso re di Polonia, mentre il suo predecessore Stanislao III detto Łaskonogy, Dalle Gambe Stecchite, era stato cacciato dal trono ed era morto miseramente in Germania. Su Stanislao III ci avevo fatto veramente un pensierino – mi attraeva la sua tragica figura – ma niente di più. Comunque, quel che dicevo a Elsner, in sostanza, era vero. 55

Dopo aver parlato delle difficoltà enormi che si incontravano per mettere in scena un’opera, difficoltà, facevo notare, alle quali non era sfuggito lo stesso Meyerbeer, calavo in tavola le mie carte squadernandole sotto gli occhi del mio maestro: “Per me si presenta oggi un’occasione unica di mantenere le promesse di cui le mie capacità innate hanno fatto intravedere la realizzazione. Perché non afferrarla? Non permetterei a nessuno dei pianisti tedeschi di darmi dei consigli perché se più d’uno ha capito che mi manca ancora qualche cosa, nessuno tra di loro ha potuto decidere che cosa. Quanto a me, non m’accorgevo allora di questa polvere nel mio occhio che oggi mi impedisce di vedere più in alto. Tre anni sono molti, sono troppi (dopo avermi studiato più da vicino lo stesso Kalkbrenner lo riconosce, cosa che dovrebbe dimostrare come un vero virtuoso meritevole della sua gloria sia immune dalla gelosia). Avrei pure accettato tre anni di lavoro se avessi potuto, grazie ad essi, fare un grande passo verso la realizzazione dei miei progetti... Sono realmente convinto che non sarò mai una copia di Kalkbrenner, che nulla potrebbe distogliermi dall’idea e dal desiderio, forse troppo audace ma nobile, di creare un mondo nuovo, e se lavoro è per tenermi più solidamente sui miei piedi”. Creare un mondo nuovo. Mica una bagatella, per un ragazzo di ventun anni e dieci mesi. Mi viene oggi persino da sorridere un po’, ma con tenerezza, di quel me stesso così sicuro della sua missione. Però, però... Lo Scherzo in si minore, gli studi, un pezzo in sol minore che mi creava tanti problemi e che non sapevo ancora come intitolare mi dicevano che ero in grado di riuscirci. E il succo del mio nuovo stile era polacco, autenticamente polacco. Concludendo la lettera al mio maestro con le parole “vogliate gradire, Signore, l’assicurazione della mia riconoscenza e del rispetto con il quale resto per sempre il Vostro allievo più fedele” mi sentivo con la coscienza in pace. Non so quale effetto facessero su Elsner le mie parole: la mia risposta chiuse per sempre la partita. 56

Di quando ebbi a Vienna cupe visioni e di come vi soffrii indicibili pene, scoprendo grazie ad esse la mia vera vocazione poetica Come ho detto prima, ci eravamo appena sistemati a Vienna, Titus ed io, quando il mio compagno mi lasciò per rientrare precipitosamente in patria. Era giunta la notizia che Varsavia era insorta contro gli occupanti e che dopo la capitale era insorta tutta la Polonia russa. L’arciduca Costantino, come ho già ricordato, era fuggito a gambe levate, i russi avevano sgombrato, ma era certo che avrebbero scatenato presto la controffensiva, e tutti gli uomini in grado di impugnare un’arma dovevano tenersi pronti per fare il loro dovere di patrioti. Avrei voluto partire anch’io. Titus mi dissuase, i miei, tenuto conto della mia salute delicata, furono del resto dello stesso parere. Invece di occupare l’appartamento del terzo piano che era stato scovato da Titus salii più in alto, al quarto, in un quartiere più piccolo e più a buon mercato che la graziosissima baronessa, padrona del palazzo, graziosissimamente mi offrì dimostrandomi tutta la simpatia che provava per me. Mi fermai dunque, seppur di malavoglia, e torturandomi per essere partito da casa nel momento peggiore, mi fermai dunque a Vienna, triste, scontento, preoccupato, ...e solo. Andai a trovare Giovanni Malfatti, il medico italiano che aveva sposato una polacca e che aveva curato Beethoven. Si diceva che Beethoven avesse amato la nipote di Malfatti, figlia di suo fratello, ma io mi guardai bene dall’appurare con lo zio la veridicità della notizia. Malfatti fu con me straordinariamente gentile, mi buttò le braccia al collo, mi invitò più volte a pranzo facendomi sempre trovare piatti polacchi. Una volta che per discrezione esitavo nell’accettare un ennesimo invito mi minacciò scherzosamente: “Se non vieni ti taglio le palle”. Era medico, era un cuor d’oro, e ascoltava pazientemente i miei sfoghi ipocondriaci e cercava di tirarmi su di mo57

rale dicendo: “Credi a me, Federico, l’artista è cosmopolita”. Eh! no, dottore, io sono polacco! Parlando la mia lingua con la signora Malfatti e gustando i cibi del mio paese ritrovavo una scheggia del mio mondo. Ma ci voleva ben altro, per me: da quando avevo ricevuto la notizia dell’insurrezione soffrivo di nostalgia in un modo torturante. Lo scrissi a Jan Matuszyn´ki: “Se non fosse che al momento attuale sarei forse un peso per mio padre, rientrerei immediatamente a Varsavia. Maledico l’istante della mia partenza. Essendo, come sei, al corrente della mia situazione, ammetterai che su di me, dopo il ritorno in Polonia di Titus, si sono abbattuti troppi tormenti. Tutti i concerti, i pranzi, le serate, le danze... Ne ho fin sopra i capelli, m’annoiano. Tutto, per me, è qui talmente triste, talmente cupo e tetro. Andare in società mi piace, ma non in circostanze così crudeli. Non posso far nulla di quello che vorrei: devo vestirmi, pettinarmi, mettermi le scarpe. Nei salotti sembro calmo, ma una volta rientrato a casa fulmino sul pianoforte”. La musica come io l’intendo è il linguaggio dei sentimenti. Ho tentato più volte, negli appunti che di tanto in tanto metto giù per un metodo per pianoforte che forse non vedrà mai la luce, ho tentato più volte di dare una definizione della musica. “L’arte che si manifesta attraverso i suoni è detta musica”. Non va: via. “L’arte di esprimere i propri pensieri attraverso i suoni”. No: anche la poesia si serve di suoni. “L’arte di maneggiare i suoni. Il pensiero espresso attraverso i suoni. L’espressione delle nostre percezioni attraverso i suoni. La manifestazione del nostro sentimento attraverso i suoni”. Niente da fare: non va. “La parola indefinita (indeterminata) dell’uomo è il suono. La lingua indefinita è la musica”. Meglio, ma non ancora convincente. “La parola nasce dal suono – il suono prima della parola”. Ecco! Se mai pubblicherò il mio metodo adotterò questa definizione, aggiungendo che la parola è una certa modificazione del suono e che ci si serve dei suoni per fare della musica come ci si serve delle parole per fare un linguaggio. Non 58

sarà una scoperta sublime ma è la mia convinzione: la musica viene prima del linguaggio. L’insurrezione e il pensiero di quello che avrebbe potuto subire il mio angelo, Konstancja, se mai i russi, i moscoviti, fossero tornati con tutta la loro rabbia e con tutta la loro ferocia, aveva provocato in me l’eruzione di un lancinante sentimento antizarista, un sentimento di odio di cui mai mi sarei creduto capace. E sul pianoforte avevo fulminato. Oh!, se avevo fulminato! Nella lettera a Jan avevo anche detto: “Vorrei che i suoni che mi furono ispirati da un sentimento cieco, furioso, scatenato, avessero il potere di ritrovare, almeno in parte, i canti che cantarono gli eserciti di Jan e i cui echi dispersi errano ancora sulle rive del Danubio”. Gli eserciti di Jan III Sobieski, io me li immaginavo, io li vedevo, quando passeggiavo tristemente sui bastioni. Vienna assediata dai turchi, i comandanti cristiani che guardando dalle mura hanno sotto gli occhi gli accampamenti variopinti di Kara Mustafà e scrutano ansiosamente l’orizzonte, spasimando nell’attesa di veder apparire le insegne polacche. E quando i vessilli si profilano lontano lontano, la speranza che rifiorisce... E la battaglia, la battaglia che non soltanto salva Vienna ma che arresta per sempre l’avanzata della mezzaluna verso Occidente. Se l’Ungheria non è più occupata dai turchi, se il principe Eugenio di Savoia poté riconquistare Belgrado, il punto di svolta nella lotta fra cristiani e musulmani si verificò con la sconfitta che Kara Mustafà subì sotto le mura di Vienna ad opera dei polacchi. I due accordi stridenti che aprono il mio Scherzo in si minore mi uscirono dalle dita che si abbattevano sulla tastiera, come le pennellate violente che tagliano il Massacro di Scio del mio amico Delacroix (Eugène mi disse una volta che un critico – si parla di vent’anni or sono – definì il suo capolavoro come “il massacro della pittura”). E quando improvvisai l’ultima pagina non so qual demone fece sì che dalle corde del pianoforte uscisse un violento blocco di suoni che non era mai stato analizzato nei trattati e che non è stato analizzato 59

neppur oggi, tanto che nessuno sa spiegare che cosa sia secondo la venerabile scienza dell’armonia. Odio, disperazione, ...e nostalgia: nello Scherzo ho costruito la parte centrale sul canto popolare natalizio (polacco) “Dormi, piccolo Gesù”. Ah!, quel Natale del 1830, quel Natale da incubo! Ero così teso che non riuscivo più a controllare le mie reazioni emotive. Passavo al fermo-posta tutti i giorni, sperando sempre di trovare delle lettere da Varsavia e sentendomi torcere il cuore se l’impiegato scuoteva con indifferenza la testa. Ma quando arrivavano... Appena uscito dalla posta leggevo un giorno una lettera di Matuszin´ski che, facendo un accenno a Konstancja, passava dal polacco al francese (era una precauzione, un trucco, per il caso che la lettera fosse andata dispersa in Polonia: mi ossessionava la paura, in realtà immotivata, di compromettere la mia amata). Appena lessi le parole di Jan mi si piegarono le ginocchia come se fossi stato un burattino, un passante che camminava dietro di me si precipitò a sostenermi prendendomi sotto le ascelle. “Che succede, che avete?”, mi disse, tutto preoccupato. Io lo abbracciai. “Una buona notizia”, sussurrai con il pianto nella voce. E avevo voglia di fermare tutti i passanti e di abbracciarli. Era la vigilia di Natale. Avevo un invito a pranzo da certi conoscenti polacchi, i Bayer. La padrona di casa si chiamava Konstancja, sugli spartiti di musica, sui tovaglioli, sui fazzoletti spiccava la K. Ed io ero beato. Nel pomeriggio conversammo e giocammo alle carte. Uscii che stava cadendo la notte. Andai a passi lenti verso la cattedrale di Santo Stefano. “Quando vi arrivai”, scrissi a Matuszyn´ski, “non c’era ancora nessuno. Non per devozione, ma per contemplare a quell’ora quell’immenso vascello restai in piedi alla base di un pilastro gotico nell’angolo più buio. Impossibile descrivere la magnificenza e la grandezza di quelle immense volte. Regnava il silenzio. Soltanto i passi d’un sacrestano che al fondo della chiesa accendeva dei ceri rompevano talvolta questa calma letargica. Dietro di me, una tomba; sotto i miei piedi, una 60

tomba. Ne mancava solo una sopra la mia testa. Una lugubre armonia si sollevò in me... più che mai sentii la mia solitudine. Bevvi con delizia alla fonte dell’emozione, rappresentata per me da questa grandiosa visione, fino al momento in cui uomini e luci cominciarono ad affluire. Allora, rialzando il colletto del mio mantello come talvolta nel quartiere di Cracovia a Varsavia, tu ricordi, mi avviai verso la cappella imperiale per sentire della musica. Traversai a piedi le più belle strade di Vienna; ma non ero più solo, una folla festante mi circondava. Raggiunsi così il castello dove, dopo aver ascoltato tre pezzi d’una messa poco interessante, ed eseguita in modo soporifero, rientrai all’una passata per coricarmi. Ho sognato di te, di voi, delle mie sorelline, dei miei cari. Un invito a pranzo mi risvegliò il mattino dopo. Mi alzai e suonai tristemente”. E nacque il Notturno in si bemolle minore, nel quale, alla fine, mi tornò sotto le dita, ma non più furioso, solo doloroso, quel tale accordo che la scienza dell’armonia non sa spiegare. Non rinnego nulla di ciò che scrissi prima, e anche nei primi anni di Parigi non mi vergognai, per assecondare le richieste di certi editori, di resuscitare il vecchio Chopin, il pianista-compositore che si attaccava alla tradizione così come oggi, con questa nuova invenzione che sta sconvolgendo il mondo, si attacca al treno un vagone in più. Ma fu la disperazione senza sbocco di Vienna a permettermi di avere un cuore, di guardarci dentro, e di cominciare a costruire un mondo nuovo.

Quaderno B

Di come Robert Schumann parlò della mia Sonata op. 35 e del granchio che prese, nonché di un confortante colloquio con il saggio Moscheles Robert Schumann recensisce nella sua rivista la mia Sonata in si bemolle minore. Devo dire che non si smentisce mai, Schumann: nessuno scrive come lui. Questa volta si inventa un organista di campagna che si reca in città per fare delle compere musicali. Il bravuomo entra in un negozio, scartabella fra le novità del giorno, non ci capisce una mazza, si impazientisce. Ma finalmente un commesso astuto gli mette in mano una cosa del buon tempo antico, una sonata. Entusiasta, l’organista dice a se stesso “ecco quello che fa per me”, e acquista il fascicolo senza neppure sbirciarne una nota. Arrivato a casa lo mette sul leggio, comincia a scorrerlo e, rimanendo orripilato, non va oltre la prima pagina. Però un giorno, forse, un nipote dell’organista riprenderà il fascicolo abbandonato e dirà che quella musica non era poi tanto male. E questo, secondo Robert, sarebbe il mio scopo: ma che c...! Poi Robert esamina da critico il mio pezzo. Da critico severo che, frammezzo alle lodi, non manca di tirarmi le orecchie perché scrivo in modo spesso armonicamente troppo complicato. Appena gli sembra che capiti l’occasione mi molla una botta mancina, asserendo – e lo dice proprio a me! – che il “gusto nazionale polacco” delle mie prime opere va un poco alla volta scomparendo e che, passando per la Germania, io sto puntando sull’Italia. La mia melodia avrebbe ad65

dirittura un certo sapore belliniano! Il mio amico Bellini. Grande melodista. Ma che ha a che fare con me? La marcia funebre è per Schumann un “qualcosa di repulsivo” e il finale – l’ultima sparata – “non è musica”. Il mio finale, le mie tre pagine in pianissimo con le due mani all’unisono, non è musica! Che cosa sarà? Sarà la macchina del vento? In teatro la si usa, eccome, la macchina del vento, e la si usa per fare musica, sia pure imitativa. Ma Schumann recensì nel 1831 le mie Variazioni op. 2, quelle sul tema del Don Giovanni, in un modo, in un modo talmente, talmente... “Giù il cappello, signori: un genio!”. Scrisse proprio così. Avevo diciassette anni, quando composi di getto quelle Variazioni. Comunque, vero è che anche Elsner, al momento del mio congedo dal Conservatorio, scrisse nel registro: “Talento straordinario. Genio musicale”. Un conto è però una frase messa lì in un registro scolastico, un altro conto è una frase pubblicata nella più autorevole rivista di musica tedesca. C’era da rimanere sbalorditi, a tal punto che la rivista fece seguire a quella di Schumann un’altra recensione, molto più pacata. Però, e di questo non potevo che essergli eternamente grato, lui si era esposto con un coraggio persino temerario. A parte il folgorante inizio, Schumann parlava del mio pezzo come se io avessi anticipato il mio amico Berlioz della Sinfonia fantastica. Lo lessi più tardi. Ma il suo futuro suocero, Friedrich Wieck, lo aveva parafrasato in un articolo che fu pubblicato a Kassel e che mi pervenne non appena arrivai a Parigi. Louis Plater, che conosce il tedesco meglio di me, me ne faceva la traduzione: “Senti un po’: la prima variazione sarebbe aristocratica e civettuola, con il Grande di Spagna che scherza con la contadinella, nella seconda variazione si vedono rincorrersi Don Giovanni e Leporello”. Nella seconda variazione le due mani suonano velocissimamente all’unisono. Che c’è di diverso, rispetto al finale della Sonata? Quei quattro accordi in croce dell’orchestra. Ed è questo, ciò che basta a far diventare musica un fruscio? Mah! “Nella terza varia66

zione”, proseguiva Plater, “ci sono chiaro di luna e magia di fate, Don Giovanni che abbraccia Zerlina mentre – ma questa è proprio comica – mentre nella parte della mano sinistra c’è Masetto che impreca”. “Che immaginazione, per Dio!”, mi scappò detto. “Altro che. E senti un po’ quest’altra. Nella quinta variazione, esattamente alla quinta battuta, al re bemolle maggiore, Don Giovanni bacia Zerlina”. “E quando mai”, sbottai, “Don Giovanni può baciare Zerlina? E anche abbracciarla? Quando lei sta per seguirlo nel casinetto arriva la guastafeste, Donna Elvira”. “Queste”, ribatté ridendo quel burlone di Plater, “sono meschine osservazioni da notaio, che vorrebbero tarpare le ali alla critica. Io mi chiedo piuttosto dove si collochi questo benedetto re bemolle maggiore, su Zerlina, intendo”. “Sulle mani, penso”. “O non piuttosto sulle...”, e fece un gesto rotatorio con le mani a coppa, “doveva avercele belle sode, la contadinotta”. “Ma va là, scostumato”. “Scostumato io? Stiamo parlando, gioia mia, di Don Giovanni”. Nella recensione dei miei due concerti Schumann fece un’osservazione che mi piacque da pazzi: “Se il potente autocrate del nord sapesse quale nemico si cela nelle opere di Chopin, nelle semplici melodie delle sue mazurche, proibirebbe la sua musica. Le opere di Chopin sono cannoni nascosti sotto i fiori”. Perfetto, più vero del vero. Ma ultimamente dev’esserci stato qualcosa in me che muove in lui i più cattivi umori. La recensione dei Preludi non era favorevole (“rovine e penne d’aquila”, ma che vuol dire?), e adesso arriva questa della Sonata, che nella sostanza è negativa. Non so bene che pensare. Alla fine, si capisce, Robert è sempre un amico: mi ha dedicato i Kreisleriana (che non ho mai avuto il tempo di leggere), gli ho dedicato la Ballata in fa maggiore... Ma qualcosa fra di noi si è guastato. Strano: Ignaz Moscheles, che è più vecchio di Schumann, per la Sonata non mi fece altro che ponderati complimenti (è un uomo ponderato in tutto, un adorabile puntualizzatore). Gli feci sentire la Sonata in casa di George, il 30 ottobre 1839, 67

il giorno dopo che avevamo suonato insieme alla corte di Luigi Filippo a Saint-Cloud. Moscheles, che da molti anni viveva a Londra, si trovava a Parigi per mettere a punto il metodo scritto in collaborazione con Fétis (e per quel metodo mi commissionò tre studi). Era stato invitato a corte assieme a me, ciascuno di noi suonò una piccola scelta dei propri pezzi, e insieme eseguimmo la Sonata a quattro mani di Moscheles (la conoscevo bene, l’avevo eseguita anche con Liszt). È bella, quella Sonata, un buon lavoro di uno che sta in equilibrio fra il classico e il romantico, che affonda solidamente le radici nel passato ma che fiorisce nel presente. E che non respinse né la mia Sonata, eseguita da me, né il mio Scherzo in do diesis minore che ascoltò dal mio allievo Adolph Gutmann, al quale l’avevo dedicato (bisognerà che spieghi poi il perché, adesso non voglio perdere il filo). “Ho letto tutte le vostre composizioni che sono state pubblicate a Londra da Wessel e Stapleton”, mi disse Moscheles dopo i soliti “bello”, “originale”, “magnifico”, “e devo confessarvi che...”. “Per amor del cielo”, lo interruppi, “spero che non abbiate prestato fede a quei titoli osceni che Wessel e Stapleton hanno aggiunto senza consultarmi”. “Osceni?”. “Artisticamente osceni”. “Capisco. Io non sono affatto contrario, adesso, ai titoli caratteristici: i miei Studi op. 95 li hanno, mentre non li avevano gli Studi più vecchi, quelli dell’op. 70”. “Studi che conosco benissimo e che faccio adottare dai miei allievi. Vedo però che seguite la moda dei nostri giorni. Non ho nulla da obbiettare. Ma io... sono all’antica, e non mi va che i miei Notturni op. 9 diventino a Londra i Mormorii della Senna e lo Scherzo op. 20 il Banchetto infernale”. “Titoli, effettivamente, osceni. Artisticamente”. “Mi fa piacere, mi fa enormemente piacere che siate d’accordo con me. Con Wessel e socio ho protestato più volte, sempre inutilmente”. 68

“Il pubblico inglese è molto sentimentale, sapete, molto sentimentale, e quindi...”, mormorò Moscheles tirandosi con entrambe le mani i favoriti, grossi e folti. “Ma, come vi stavo dicendo, io avevo letto tutte le vostre musiche edite a Londra, e molto spesso mi ero trovato spiazzato di fronte a certe vostre modulazioni. Non riuscivo a capirle, mi sembravano forzate e artificiose. Non avrei capito quelle della Sonata, se l’avessi semplicemente letta. Ma ascoltando i vostri pezzi da voi e dal vostro allievo, ieri e oggi, tutto è scivolato via liscio, tutte le cose per me più enigmatiche mi sono parse non solo logiche ma naturalissime”. “Sono molto sorpreso, confesso”. E lo ero per davvero. “Anch’io. Non credevo che ad una musica nuova, originale, dovessero corrispondere una nuova, originale maniera di esecuzione e una concezione così flessibile del tempo. Le mazurche eseguite da voi mi sembrano scritte in misura binaria, non ternaria”. “Fermatevi per favore, se no... mi arrabbio. Questo argomento l’ho discusso con Meyerbeer, molto a lungo e accanitamente. In realtà, il ritmo della mazurca non può essere reso con la nostra notazione se non in modo assai rozzo”. “Già. Molto logico. Ma ciò non esclude che anche al di fuori della mazurca il vostro ritmo abbia margini inconsueti di flessibilità. E anche la dinamica. Il vostro piano è talmente tenue, un soffio, che per ottenere il chiaroscuro non avete bisogno di un grande forte. Né avete bisogno di effetti orchestrali sebbene, a veder la musica, sembrerebbe che ci fossero”. Le osservazioni così cortesi ma così acute di Moscheles, musicista di grande esperienza, mi fecero riflettere. La mia musica, eseguita da me nell’ambiente più appropriato, viene capita. La mia musica, eseguita da Liszt nell’ambiente meno appropriato, perché lui suona in grandi sale e in teatri, viene capita. Mia sorella mi scrisse una volta di aver sentito dire da Józef Brzowski, violoncellista e compositore che era stato per qualche tempo a Parigi, che “due sole persone al mondo sono capaci di eseguire Chopin: Chopin e Liszt”. Ed io, tor69

nando a Schumann, mi chiedo: il suo mutato atteggiamento nei confronti della mia musica sarà dovuto ad un discernimento critico divenuto con il progredire dell’età più profondo e raffinato, o non sarà dovuto piuttosto ad una incapacità di immaginare l’esecuzione nel modo giusto, nel modo che la rende immediatamente comprensibile?

Del gotico nella mia arte, di Palma di Maiorca, paradisiaca e infernale, e dei miei ventiquattro Preludi che mi costarono di molta e annosa fatica Mentre il gigante Gutmann suonava con molta diligenza e senza grande charme il mio Scherzo in do diesis minore, in verità imparato da poco... Gutmann, Adolph di nome, venne a Parigi per studiare con me, da Heidelberg, quando aveva quindici anni. Adesso ha più di vent’anni, è sempre stato un allievo diligente e suona in modo per lo meno soddisfacente. Scrissi al granduca di Baden Baden pregandolo di esentarlo dal servizio militare. Affermai che sarebbe stato veramente un peccato se la carriera d’un artista che faceva così bene sperare fosse stata intralciata proprio mentre iniziava. In verità, non credevo che Adolph avrebbe fatto una carriera di rilievo. Scrive graziosi pezzi da salotto, insegnerà, avrà una vita tranquilla, ...e avrebbe potuto senza danno fare il servizio militare. Ma al granduca spiattellai una piccola bugia perché ad Adolph volevo, e voglio bene, è alto, robusto, ingenuo, entusiasta... Ma stavo dimenticando il motivo per cui sento il bisogno di stendere questa nota. Moscheles ascoltò con estrema attenzione lo Scherzo, mi strinse calorosamente la mano, lodò l’esecuzione (Adolph arrossì di piacere e bofonchiò un qualcosa di incomprensibile), e poi fece un’osservazione che subito mi colpì: “Sapete”, mi disse, “che questa vostra nuova composizione, questa vostra nuova e ammirevole composizione mi ha fatto pensare ad un monastero gotico? E un al70

cunché di gotico ce lo trovo anche nella Sonata, ammirevole essa pure, e di una originalità..., di una originalità che – non lo dico in senso negativo – oserei definire sfrenata”. “È un po’ sorprendente per me, caro Ignaz”, risposi, “che mi diciate queste cose. Ma in verità non ho motivo di stupirmi, se non per la vostra perspicacia, per il vostro acume di musicista. Ho iniziato a comporre lo Scherzo in una cella monastica di un’abbazia gotica, la Certosa di Valldemosa nell’isola di Maiorca”. “Davvero?”, fece Moscheles, sorridendo beato come se avesse vinto una mano di whist. “Sono contento di averci azzeccato. Non riesco in verità ad immaginare un’abbazia gotica immersa nella flora lussureggiante di un’isola mediterranea, io penso piuttosto a Fontehill Abbey, la villa di William Beckford che all’esterno riproduce un edificio gotico in rovina. Ma nella vostra musica ho sentito, come dire?, l’aura del gotico”. “L’aura del gotico. Dite bene. Avevo quindici anni quando scoprii il gotico, a Torun´, dov’ero andato in gita”. “Torun´? Forse dove (mi sembra) è nato Copernico?”. “Precisamente. Visitai la casa natale di Copernico, le imponenti fortificazioni e le chiese costruite dai cavalieri teutonici (la più antica è del 1231), la torre pendente e il municipio, che ha tante finestre quanti sono i giorni dell’anno, tante sale quanti sono i mesi e tante stanze quante sono le settimane”. “Ma che meraviglia. Non lo sapevo, e non sono mai stato a Torun´. Se mai andrò a S. Pietroburgo cercherò di passarci, la vostra descrizione mi incuriosisce molto”. “L’architettura gotica del municipio di Torun´ è forse quanto di più grandioso io abbia visto, escluse le cattedrali. Io avevo quindici anni, come vi dicevo. Ammirai il gotico, che si rivelava ai miei occhi in tutta la sua magnificenza. Ma da buon quindicenne ammirai anche, e molto, ...il panpepato. Quello di Torun´ è celebre in Polonia, i pasticceri gli dedicano cure infinite. Io visitai i magazzini del panpepato, certi 71

lunghi corridoi in cui erano stipati i cassoni con i dolci, classificati per genere e qualità. Quando scrissi al mio amicone Jan per descrivergli la gita gli dissi che niente di quello che avevo visto superava il panpepato”. “Siete goloso?”. “Non particolarmente. Il profumo del panpepato mi dava però la vertigine, come l’architettura gotica. Era un po’ il suo corrispettivo... olfattivo”. “Dovreste dirlo a Rossini. Darebbe fuori da matti, e metterebbe sossopra tutta l’Europa, per arrivare ad assaggiare il panpepato di Torun´”. “Ah sì! Mi avete dato un’idea! Glielo dirò, se rientrerà a Parigi. Peccato che sia tornato in Italia, ho sempre ammirato le sue opere, e come persona è stato simpaticissimo con me”. “Non ho mai avuto l’occasione di incontrarlo, purtroppo”. “Vi auguro di poterlo conoscere: ne vale la pena. Dunque, come vi dicevo, io porto nel mio cuore l’aura del gotico da quando visitai la città di Torun´, polacca un tempo, ora, disgraziatamente, occupata dai prussiani. Il gotico spagnolo è certamente diverso. Un po’ diversa la parte gotica di Barcellona, ma non radicalmente. Maiorca, invece... Immaginate di trovarvi in un immenso giardino botanico: palme, cedri, cactus, olivi, rosai, alberi di aranci, limoni, aloe, fichi, melograni, e un cielo di turchese, un mare di lapislazzuli, le montagne di smeraldo, sole dal mattino alla sera, enormi balconi da cui pendono a grappoli i tralci, e i bastioni di epoca araba: l’Africa quale me l’ero immaginata guardando le stampe o, come diceva Aurore, la poesia, la solitudine, tutto quello che esiste al mondo di più artistico, insomma, la Terra Promessa”. “Che meraviglia. E come vi brillano gli occhi. Quanti bei ricordi”. “Bei ricordi, sì. Però non solo quelli. In questo paesaggio di sogno, a poche leghe dalla città e vicino alle montagne trovammo l’abbazia, abbandonata dai monaci, con un chiostro meraviglioso, un vecchio cimitero, i resti di antichi mosaici, i 72

resti di una moschea. Certi olivi, ci dissero, avevano mille anni. Ci installammo nelle antiche celle dei monaci, io avevo recuperato la salute, solo mi dava noia la mancanza del pianoforte, che avevo ordinato a Parigi ma che non arrivava mai”. “Componete al pianoforte?”. “Certamente. E voi?”. “Non sempre. A volte compongo scrivendo quello che ho già in testa”. “Io ho bisogno del pianoforte. Mi metto ad improvvisare, le idee emergono a contatto con il suono, cerco di scoprire la musica e di formarla, la scrivo, poi correggo e ricorreggo, talvolta i miei manoscritti diventano illeggibili persino per me. È una grande gioia ed è un grande tormento, per me, il comporre. Ma la musica devo sentirla. E nei primi giorni a Palma di Maiorca sentivo solo le chitarre, oh!, quante chitarre, la sera, sembrava che i maiorchini non facessero altro che grattare la pancia della chitarra. Noleggiai un pianoforte locale, talmente cattivo che, invece di sentirmi sollevato, provai una crescente irritazione”. “Non era la Terra Promessa, dunque”. “Lo era, ...e non lo era. L’impressione dei primi giorni fu presto contraddetta. Gli sbalzi della temperatura erano frequenti, io ricominciai a tossire e tossire. Aurore chiamò a consulto i tre migliori medici dell’isola. Il primo annusò, con licenza parlando, il mio sputo, il secondo mi picchiettò qua e là per capire da dove sputavo, il terzo mi palpò, ascoltando come sputavo. Il primo disse che sarei crepato, il secondo che stavo per crepare, il terzo che ero già crepato. Con estrema fatica riuscii a scansare i salassi, i vescicanti e gli impacchi. Dopo pochi giorni stavo di nuovo benissimo”. “Effetto del clima, evidentemente. Ma esistono ancora i medici alla Molière, oggi? E vennero a visitarvi nell’abbazia?”. “Esistono, per lo meno a Palma di Maiorca. No, non vennero nell’abbazia (che in verità, per essere precisi, è una Certosa). Fu prima che ci trasferissimo. Vi dicevo che pochi gior73

ni dopo essere stato malissimo stavo di nuovo benissimo. Ma non durò”. “Sempre effetto del clima?”. “Così presumo. Il tempo era in genere splendido, proprio da Terra Promessa, ma terribili temporali e venti tremendi abbassavano d’improvviso la temperatura, le acque rodevano le strade, giganteschi smottamenti erano all’ordine del giorno. Ed io tossivo e tossivo e tossivo”. A Maiorca, alla fine, ero stato più male che bene, e quando me ne andai stavo decisamente peggio di come quando c’ero arrivato. Durante la traversata da Palma a Barcellona sputai sangue, ripetutamente. Per fortuna il medico di un bastimento francese che era nel porto seppe curarmi, tanto che potei fare una gita e sopportai poi bene le trentasei – trentasei! – ore di traversata da Barcellona a Marsiglia. L’albergatore di Barcellona, stupido e cafone, accortosi delle mie condizioni di salute concluse senza tante indagini che ero un tisico all’ultimo stadio e pretese che gli pagassi il letto in cui avevo dormito. Che fu bruciato. Non posso ricordare volentieri il mio soggiorno a Palma di Maiorca. Però, evidentemente, se Moscheles ha ragione, la bellezza misteriosa e il misterioso fascino della Certosa abbandonata non rimasero senza influenza sulle mie idee musicali. La mia cella era come una grande bara, con un’enorme volta polverosa, una finestrucola che mi apriva il panorama del giardino, con gli aranceti, le palme, i cipressi. Una branda, una specie di pesante leggio quadrato scomodissimo per scrivere, un candeliere di piombo, una sedia, e il mio pianoforte Pleyel, arrivato dopo un secolo. Questo era tutto l’arredamento. Sulle pareti, nude, si vedevano i resti di un rosone filigranato di stile moresco. Oltre alle carte da musica che riempivo di note avevo soltanto il Clavicembalo ben temperato di Bach, che avevo ripreso a studiare con grande passione, e qualche scartafaccio restato lì dal tempo dei monaci, qualche vetusto scartafaccio che mi guardai bene dall’aprire perché la polvere dei secoli mi avrebbe fatto tossire fino a sputar l’anima. 74

Tutte queste cose non le dissi, a Moscheles. Mi limitai a fargli sapere che, dopo avere penato con il pianoforte noleggiato sul luogo avevo preso a comporre furiosamente quando era arrivato il mio bel Pleyel. “E così avete cominciato lo Scherzo. Avete scritto anche dell’altro, suppongo”. “Certamente. Era come se fossi uscito da un digiuno, e sebbene mi venissero i brividi ogni volta che mi svegliavo nella mia cella, spettinato, con servizi che a dirli rudimentali è fargli un complimento, senza comodità e senza il mio cameriere, mi gettavo sul pianoforte come il naufrago, restato per settimane su una zattera, si getta in un letto con doppio materasso. Aurore si occupava di me maternamente, ma doveva badare anche ai suoi due ragazzi, e aiutava la cameriera brontolona, in cucina e nel rassettare e pulire, perché era impossibile trovare sul posto una domestica capace. Di notte scriveva, il romanzo Spiridion fu finito a Palma e a Valldemosa. Non so come riuscisse ad essere così attiva. Ma badava a tutto, e per badare a tutto doveva lasciarmi solo per molte ore. Siccome non mi piace fare passeggiate, la composizione era la mia esclusiva distrazione”. “Che cosa avete composto, oltre ai magnifici pezzi che ho sentito?”. “Parecchie cose. Sono soprattutto orgoglioso di essere arrivato a finire i ventiquattro Preludi, ai quali lavoravo da diversi anni. Non è affatto facile, mettere insieme ventiquattro pezzi nelle ventiquattro tonalità maggiori e minori, che formino un blocco artisticamente non soltanto valido, ma coerente. C’è riuscito solo Bach e, un po’, il Clementi dei Preludi ed Esercizi”. “Sono d’accordo con voi. Non ci sono riusciti né Hummel né Kessler, che ci hanno provato di recente. Ma un altro ci è riuscito, ne sono sicuro come sono sicuro che esiste Jahvé, il mio Dio”. “E chi sarà mai costui?”. “Ma è Chopin”. 75

Di un mio discepolo, delle mie idee sulla tecnica, di tante mie allieve aristocratiche, e di come con l’aiuto di Aurore trovai la soluzione del mio busillis Non vorrei apparir cinico, ma la ragione che mi spinse a dedicare a Gutmann lo Scherzo in do diesis minore fu essenzialmente... egoistica: non sapevo a chi altro dedicarlo. La decisione di diventare il convivente della celebre romanziera George Sand, nota oltre tutto per i suoi amori vorticosi e per le sue simpatie di sinistra, fu da parte mia molto sofferta. L’ho già detto prima. I miei redditi provengono in larga misura dalle lezioni private di pianoforte, ed ho una clientela di persone facoltose che possono permettersi di versarmi un onorario molto alto, il più alto che venga pagato a Parigi. Sì, le mie lezioni costano come il fuoco, io sono carissimo. Più di tutti, persino più di Kalkbrenner e più di Herz, inventore, il primo, del Guidamani, inventore, il secondo, del Dactylion, che vengono usati come attrezzi ginnastici per ottenere una tecnica sciolta e sicura e ai quali si affidano legioni di pianistici coscritti. Senza citare né Kalkbrenner né Herz, ma avendo in mente proprio loro, mi sono appuntato un pensierino che inserirò nel metodo a cui sto lavorando, a intermittenza, da molto tempo: “Sottopongo a coloro che imparano l’arte di suonare il pianoforte delle idee pratiche molto semplici che l’esperienza mi ha dimostrato essere realmente utili. Si sono tentati molti mezzi inutili e fastidiosi per imparare a suonare il pianoforte, mezzi che non hanno nulla in comune con lo studio di questo strumento. Come se si imparasse a camminare sulla testa per fare una passeggiata. Da ciò consegue che non si sa più camminare correttamente sui piedi, e nemmeno troppo bene sulla testa. Non si sa più suonare la musica propriamente detta – e il genere di difficoltà che si pratica non è quello della buona musica, la musica dei grandi maestri. È una difficoltà astratta, un nuovo genere di acrobazia”. 76

I miei allievi, ma dovrei dire le mie allieve, perché il mio zoo è formato in grandissima misura da splendidi animali femmine, sono quasi tutte dilettanti di un rango sociale molto elevato, che sotto la mia guida arrivano a suonare con grazia, sensibilità e gusto le musiche che scelgo per loro. In moltissimi casi posseggono un’abilità pari a quella dei professionisti, ma la classe sociale a cui appartengono non permetterebbe loro – a parte il fatto che non ne hanno la necessità – di trasformare la loro abilità in moneta sonante. Per loro è essenziale fare bella figura nei salotti chic, che non sono affatto di facile contentatura. Io so come addestrarle a dovere, le mie leonesse, e così posso tenere alti i miei onorari. Onorari che, con la convivenza, rischiavo di mettere a repentaglio. Qualche settimana dopo il colloquio di cui ho detto all’inizio, e dopo aver ben rimuginato senza venire a capo del problema, ripresi con Aurore l’argomento che mi angustiava. “Sono usciti alla fine dello scorso anno i miei tre Valzer op. 34. Il primo è dedicato alla figliola dei Thurn-Hohenstein, famiglia boema di altissimo rango, di cui sono stato ospite, il secondo alla baronessa d’Ivry, il terzo alla signorina d’Eichtal, la sorella, ricordi?, del barone. Adesso, oltre alle quattro mazurche che conosci, ho pronte parecchie altre cose, a cominciare da due notturni. Penso di pubblicarli insieme. Il primo non è difficile, il secondo è un po’ scomodo da suonare. So bene quali delle mie allieve possono studiare l’uno o l’altro, e so che una dedica sarebbe molto, molto ambita”. “Figurarsi!”, sbotta Aurore, che quando si parla di aristocratici impugna subito lo spadone vendicatore. “Figurarsi! In salotto, dopo la cena squisita, la madama della casa o il suo tenero virgulto femminile che dice flautando: ‘Signore e signori, con il vostro permesso vorrei farvi ascoltare un nuovo notturno che il grande maestro, l’incommensurabile Frédéric Chopin, ha composto espressamente per me’. Roba da far schiattare d’invidia tutte le altre smorfiose”. “Ma no”. “Ma no? Le vedo, le vedo, le altre gallinelle, agitare il ven77

taglio come tanti mulini a vento per nascondere il sangue che gli monta agli occhi. Che trionfo, per la fortunata dedicataria. E come se la ride sotto i baffi, lei”. “Se la metti su questo tono”, le dissi, ed ero un po’ risentito, “possiamo chiuderla lì. Io ti sto chiedendo un consiglio, e tu te ne approfitti per fare un comizio”. “Chip-Chip, scusami tanto. In fondo, si tratta di affari, e gli affari devono essere trattati seriamente, senza farsi saltare la mosca al naso”. “Oh, così va bene”. “Dunque, le dediche. Ci ho pensato anch’io, e per ora non ho trovato la soluzione. L’unica scappatoia che vedo è di non pubblicare nulla, prima che le acque si siano un po’ calmate. Perché si calmeranno, vedrai. Basta che noi riusciamo a costruire un castelluccio di apparenze in cui mettere al riparo le paturnie di questa tua gente”. Accettai il consiglio, e per tutto il resto del ’39 non pubblicai nulla. Ma gli editori mi stavano addosso, e d’altronde io avevo bisogno di ricevere da loro quello che mi spettava. Nell’inverno del ’40 presi la decisione che mi parve la più salomonica: da maggio a luglio pubblicai senza dedica la Sonata op. 35, l’Improvviso op. 36, i Notturni op. 37 e il Valzer op. 42. Nessuna dedica, nessun imbarazzo per nessuno. Già dall’anno precedente avevo però deciso di ricambiare con la Ballata op. 38 la dedica di Schumann, che mi aveva destinato i suoi Kreisleriana. Feci una piccola riflessione. A Schumann non importava di sicuro un fico secco, che io fossi o no un concubino. Dunque... La sua dedica era “Al suo amico F. Chopin”. Esitai per un attimo, poi decisi di dedicare la Ballata “Al signor R. Schumann”. Una piccola vendetta? Non so: qualcosa mi costrinse a fare così. Assolvere un obbligo verso un amico-non-amico mi diede l’idea di cercare altri dedicatari che non si sarebbero doluti del dono: destinai a Camille Pleyel l’edizione francese e a Joseph Kessler l’edizione tedesca dei Preludi op. 28, la cui uscita era stata ritardata rispetto alle previsioni, a Gutmann l’op. 39, al mio vecchio compagno di scuola Julian Fon78

tana la Polacche op. 40 e al poeta Stefan Witwicki le Mazurche op. 41. Tutti questi pezzi uscirono nell’autunno del ’40 (lasciai invece senza dedica la Tarantella op. 43). La situazione restava però ambigua, e in sostanza irrisolta. Per andare a Palma eravamo partiti da Parigi separatamente. Aurore, Solange, Maurice e la cameriera Amélie avevano viaggiato comodamente, fermandosi la notte in albergo. Io avevo percorso la distanza da Parigi a Perpignan, dove ci eravamo riuniti, in diligenza postale: quattro giorni e quattro notti con le sole indispensabili fermate per il cambio dei cavalli. Una pazzia. Eppure avevo sopportato bene la fatica, tanto che Aurore, radiosa, felice di vedermi, mi disse: “Ah, eccoti qua, finalmente: fresco come una rosa, e rosa come una rapa”. Che tipo! A Port-Vendres ci eravamo imbarcati per Barcellona, e dopo una settimana eravamo salpati da lì per Maiorca. Al ritorno ci eravamo fermati per quasi tre mesi a Marsiglia, facendo una gita a Genova. A Marsiglia – città vecchia ma non antica, ...e sporca – un bravo medico con i suoi vescicanti, la dieta, le pillole, i bagni, e Aurore con le sue angeliche cure mi avevano rimesso in salute: magro da fare spavento, pallido come un lenzuolo, ma in salute (e affamato). Il 22 maggio partimmo per Nohant, dove restammo fino alla metà d’ottobre. Julian Fontana, che avevo seppellito sotto una valanga di istruzioni, alla fine, dai e dai, era riuscito a trovare in affitto un bell’appartamento per me in rue Tronchet, e per Aurore due padiglioni nel giardino di un palazzo, al n. 16 della rue Pigalle. In uno dei padiglioni andò ad abitare Aurore con i ragazzi, nell’altro potevo fermarmi io se dopo la cena non mi andava di tornarmene a casa. Ma dopo quasi due anni mi stabilii nel secondo padiglione. Con la mia compagna che pencolava a sinistra ci fu un piccolo battibecco a proposito delle stampe da appendere nella sala in cui avrei fatto le lezioni. Quando dissi che bisognava scegliere qualcosa, Aurore, sogghignando, si offrì di occuparsene personalmente: “Ci penserò io, so cosa serve”, esclamò, e scoppiò a ridere come una 79

matta. “Cercherò una grande riproduzione del Concerto campestre di Giorgione: la musica e le nudità femminili saranno l’ideale per le tue caste miss”. Immaginai i commenti non tanto delle caste miss quanto dei chaperon... La brillante soluzione che avevamo escogitato faceva sì che le mie allieve potessero un po’ di soppiatto ma decentemente venire nel mio padiglione durante la giornata, mentre nessuno era tenuto a sapere se la sera Aurore traversava il giardino e bussava ad un’altra porta. Il castelluccio delle apparenze fu perfetto. Fu perfetto. Prima, però, finché abitai ufficialmente a rue Tronchet, il mio rientro in società mi sembrò furtivo, e non mi soddisfece. Parlai ad Aurore anche di questa mia insoddisfazione, di questo mio disagio. Rifletté un momento. “Dovresti dare un concerto”, mi disse. Posò il sigaro e batté con forza il pugno sinistro sul palmo della mano destra. “Dovresti dare un concerto. Il Tout-Paris non potrebbe lasciarsi scappare un evento così straordinario. Parlane con Habeneck, sarà felice di mettersi a tua disposizione con la sua orchestra”. “Per l’amor del cielo, Aurore”, replicai spaventato, “Per l’amor del cielo, non posso pensare a suonare di nuovo i miei concerti. Ho il terrore di ritrovarmi a lottare con l’orchestra. E poi i miei pezzi da concerto sono cose vecchie. Ho la debolezza di credere che le mie creature più recenti siano migliori”. “Giusto”. Aurore, meditabonda, riprese il sigaro e lo rigirò fra le dita. Di botto me ne puntò contro la brace ardente della punta, tanto che sobbalzai: “Giusto. Ma allora bisogna pensare a qualcosa di più intimo, e di più esclusivo. Liszt adesso suona da solo, fa, come dice lui, il recital. Fallo anche tu”. L’idea mi sembrò buona, e mi tentò: “Un recital? Forse. Ma non in una grande sala. Da Pleyel, magari”. “Quanti posti ci sono, nella Sala Pleyel?”. “Più o meno trecento”. “Non è male. Anzi, è proprio quello che ci vuole per mettere un sacro fuoco sotto al popò delle tue miss. Fissa un prezzo alto, farai per giunta un buon incasso. All’opera, maestro”. Gettò via il sigaro e mi abbracciò. Mi ero già pentito di essermi lasciato scappare quello che 80

mi ero lasciato scappare. Ma ero ormai incastrato, Aurore non mi avrebbe dato più requie. E non me ne diede, come ho già detto. Fissai il costo del biglietto, e i biglietti andarono esauriti in un baleno (incassai seimila franchi). Feci il recital il 26 aprile 1841, vennero a sentirmi Kalkbrenner, Berlioz, Liszt, Mickiewicz, Heine, Delacroix e uno stuolo di profumate dame e damine froufrounnantes con i loro cavalieri. Liszt, che proprio il giorno prima aveva suonato nel Conservatorio il Concerto n. 5 di Beethoven sotto la direzione di Berlioz, pubblicò nella Gazette musicale una recensione osannante, osannante ma anche criticamente intelligentissima: “Rivolgendosi ad una società piuttosto che ad un pubblico, Chopin poteva mostrarsi qual era: poeta elegiaco, profondo, casto e sognatore. Non aveva bisogno né di stupire né di trascinare, sin dai primi accordi tra lui e il suo uditorio si è stabilita una stretta comunicazione”. Léon Escudier scrisse sulla France musicale una frase che mi piacque immensamente e che mi fece ricordare quello che avevo detto a Elsner tanti anni prima (tanti? meno di dieci, ma per me era come se fosse passato un secolo): “Si può dire che Chopin è il creatore d’una scuola di pianoforte e d’una scuola di composizione”. Successo artistico, successo mondano, successo finanziario. La mia rentrée era stata trionfale... e gli effetti che avevo sognato non tardarono ad arrivare. Durante l’estate terminai la Polacca op. 44, che uscì in novembre. La sorella minore di Delphine Potocka, Ludmila, che era stata una delle mie prime allieve a Parigi e che aveva sposato il principe di Beauvau, ne aveva accettato con entusiasmo la dedica: il mio mondo era di nuovo prono ai miei piedi.

Di una borsa di studio che mi fu negata, di come il mio amico Nidecki riuscì a Vienna meglio di me, di Hummel e Czerny e dei loro protetti Mi capita talvolta di ripensare a Vienna, in parte con gioia, in parte con disappunto. Con gioia, perché Vienna mi costrin81

se, in un certo senso mio malgrado, a diventare quello che sono, e con disappunto, perché nulla di quanto avevano immaginato e sognato per me i miei concittadini si realizzò. Dovrei essere contento e in pace con me stesso, e lo sono. Talvolta non posso tuttavia fare a meno di sentirmi, come dire?, in colpa per non essere riuscito a realizzare neppure una scheggia dei piani che tanto occupavano i sogni dei miei compatrioti. Vero è però che la mia patria mi offrì il suo cuore senza aprire i suoi forzieri. Che cosa c’era, di strutturalmente sbagliato, nella mia seconda andata a Vienna? Prima di tutto, credo, il fatto che ci fossi arrivato senza una borsa di studio governativa, e quindi con la preoccupazione, per non pesare troppo sulle magre finanze di mio padre, di dover fare immediatamente dei guadagni. Già nel 1829 papà aveva presentato al Ministro della Pubblica Istruzione la domanda per la borsa di studio, contando sul fatto che l’anno prima una borsa era stata assegnata al mio condiscepolo Tomasz Nidecki. “In questo momento”, aveva scritto papà, “mio figlio ha soltanto bisogno di visitare dei paesi stranieri, in particolare la Germania, l’Italia e la Francia, al fine di potersi formare sufficientemente, partendo da buoni esempi”. Il Ministro della Pubblica Istruzione diede parere favorevole. Ma il Ministro dell’Interno e della Polizia, il cui parere era d’obbligo, scrisse in calce alla domanda di non poter consentire che “fondi pubblici servissero ad incoraggiare tali artisti”. Stupido idiota! Nel 1830 mio padre non ripresentò l’istanza, che sarebbe stata sicuramente respinta per la seconda volta, ed io mi trovai a Vienna ad amministrare un piccolo gruzzolo che, come ho già detto, vedevo scemare con terrore e vergogna. Nidecki, che aveva tre anni più di me, era un simpatico ragazzo. Si chiamava Tomasz, ma aveva un secondo nome che nascondeva accuratamente, Napoleon. Si capisce, era nato quando l’imperatore francese faceva ancora tremare tutta l’Europa, mentre nel 1830... Comunque Tomasz Napoleon era, è un musicista ferrato. Rimase a Vienna per una decina 82

d’anni, scrisse diverse opere (in tedesco, nessuna in polacco), da qualche tempo è il sovrintendente dell’Opera di Varsavia ed ha sposato la figlia di Elsner. Avevo rivisto Tomasz a Vienna nel 1829, e avevo avuto da lui una grande prova d’amicizia perché mi aveva aiutato nella correzione delle parti d’orchestra delle mie Variazioni op. 2. Mi era stato sempre vicino, aveva sinceramente gioito del mio successo, mi aveva accompagnato alla stazione delle diligenze al momento della partenza: un vero amico, insomma. Lo rividi nel 1830, ci ritrovammo spesso insieme, e la sua vicinanza, solo e abbandonato come mi sentivo, fu per me molto confortante. Il grande costruttore di pianoforti Graff, che dopo avermi ascoltato nel 1829 mi stimava sinceramente, mi aveva fatto avere un bellissimo strumento, che troneggiava nel grazioso appartamento in cui vivevo, ospite pagante della bella baronessa vedova. Tomasz, che con la sua borsa di studio era riuscito a procurarsi appena uno sgangherato pianoforte a tavolo, veniva quasi ogni giorno da me per studiare. Una volta mi disse: “Io suono il pianoforte come suono il violino, non da virtuoso, anzi, tutt’altro. Conoscere il violino mi servirà per dirigere l’orchestra, conoscere il pianoforte mi servirà per istruire i cantanti”. “Pensi di comporre prima o poi l’opera nazionale polacca?”, gli chiesi. “Non ci tengo”, rispose scuotendo la testa, “quella la dovrai comporre tu, è questo che tutta Varsavia, che tutta la nostra povera Polonia si aspetta da te”. Rimasi interdetto. Persino Tomasz, così dotato ma così modesto, aveva abdicato alle ambizioni di ogni compositore polacco perché tutte le speranze nazionali si erano concentrate su di me. Rabbrividii. E replicai: “Credo onestamente che tu sia più adatto di me per il mestiere di operista. Sei musicista nel profondo, e il teatro musicale ti interessa molto più di quanto interessi a me”. “È vero che il teatro mi interessa, ed io so di essere stato il migliore allievo di Elsner, ...però fino a che non sei arrivato tu”. 83

“Elsner non è di questo parere, ti stima quanto stima me”. E infatti, come ho già detto, Elsner mi avrebbe scritto un anno dopo di non aver “mai pensato di fare di te o di Nidecki un allievo”. Strinsi affettuosamente il braccio a Tomasz, e ripetei: “Il Maestro ti stima quanto stima me”. Commosso per la mia amicizia, ma non scosso nelle sue certezze, Tomasz sospirò, pensieroso. Tacemmo per qualche istante. “Il discorso ha preso una piega inattesa, Frycek, e che mi mette un po’ in imbarazzo”, riprese sorridendo il mio amico. “Ritorniamo all’inizio. Quel che volevo chiederti, e che ti parrà strano, a me farebbe un immenso piacere e mi renderebbe un gran servizio. Non sono un virtuoso, ma il pianoforte lo so suonare e sono tenace nello studio. Ecco, il tuo Concerto in mi minore mi piace talmente che, con il tuo permesso, vorrei studiarlo e, se ci riesco, vorrei eseguirlo in pubblico. Il periodo della mia borsa di studio sta per scadere e ci terrei a ripresentarmi a Varsavia con qualche articolo di giornale che parlasse bene di me, come è avvenuto a te lo scorso anno”. Che caro compagno! E che candore! Il Concerto in mi minore era una delle carte che intendevo sfoderare a Vienna, se qualcuno mi avesse usato la misericordia di scritturarmi. Era una parte non marginale del mio capitale artistico. Tuttavia cedetti volentieri, sospettando in verità che Tomasz non ce l’avrebbe fatta ad impararlo, il Concerto, e tanto meno a trovare chi glielo facesse suonare. “La musica è lì sul mio tavolo”, gli dissi, “comincia quando vuoi. Però, ...potrei comporre un concerto per due pianoforti, tenendo conto delle tue e delle mie caratteristiche, e potremmo suonarlo insieme. Che ne dici?”. Tomasz mi abbracciò, entusiasta. L’idea mi era balenata lì per lì ma non mi abbandonò. Scrivendo ai miei il 22 dicembre li misi a parte del progetto: “Nidecki viene da me ogni mattina. Quando avrò scritto un concerto per due pianoforti lo suoneremo insieme in pubblico. Ma prima di tutto bisogna che io mi faccia sentire da solo”. Ci credevo ancora, alle mie chances di tenere un concerto, ed 84

avevo persino discusso con Wilhelm Würfel, mio vecchio insegnante d’organo a Varsavia che si era trasferito a Vienna, se convenisse di più fare per primo il Concerto in fa minore o il Concerto in mi minore. Il 1° dicembre avevo scritto ai miei dicendo: “Ho passato questa settimana ad occuparmi del mio naso” – ero raffreddatissimo – “e ad andare a teatro e da Graff, dove suono tutti i giorni per sciogliere le mie dita intorpidite dal viaggio. Ieri gli ho presentato Nidecki. Non so davvero come ho passato questa settimana, non abbiamo avuto il tempo di distrarci, e nulla è stato ancora deciso a proposito del mio concerto. Domanda. Quale concerto dovrei suonare: in fa o in mi? Würfel sostiene che il Concerto in fa è più bello di quello in la bemolle maggiore di Hummel, che è stato appena pubblicato”. Würfel precorreva i tempi al punto da sconsigliarmi vivamente di suonare gratis. E Graff mi consigliava di scegliere – di scegliere! – la Landständischer Saal, il migliore e il più bel posto che ci fosse per i concerti. Sempre il 1° dicembre affrontavo questo argomento con i miei: “Per potervi suonare ci vorrà l’autorizzazione di Dietrichstein” – l’intendente dei teatri, amico di Beethoven, che si era vivamente complimentato con me nell’agosto del ’29 – “autorizzazione che mi sarà facile ottenere grazie a Malfatti. Va tutto bene. Spero che grazie a Dio e a Malfatti (all’eccellente Malfatti) tutto andrà meglio ancora”. Vivevo il mio sogno, ed ero baldanzoso. Due mesi più tardi, scrivendo a Elsner, dipingevo una situazione per me non più così rosea: “Spero che voi, Signore, che mi conoscete, non mi rimprovererete per aver lasciato che i miei sentimenti per il mio paese prendessero tutta la mia attenzione e per non essermi ancora occupato di organizzare un concerto. Difficoltà incomparabilmente più grandi di prima ostacolano oggi del resto questo progetto. Non soltanto una sequela ininterrotta di concerti di pianoforte, mediocri, che corrompono questo genere di musica, ne hanno allontanato il pubblico, ma soprattutto gli avvenimenti di Varsavia hanno trasformato la mia situazione a Vienna tanto spiacevolmente quanto avreb85

bero potuto agire in mio favore a Parigi. Ho tuttavia la speranza che tutto in qualche modo s’aggiusterà e che potrò, al tempo del carnevale, fare sentire il mio Concerto in fa minore, il favorito di Würfel”. Poi riferivo a Elsner di Nidecki: “A proposito di Nidecki, sono andato ieri con lui da Steinkeller, che gli ha commissionato un’opera”. Rudolph Steinkeller era il proprietario del Leopoldstadttheater; eravamo diventati buoni amici e alla mia partenza da Vienna mi avrebbe prestato del denaro nell’attesa che ricevessi il “piccolo rinforzo” di mio padre. Eravamo amici, ...ma neppure lui poté rischiare con me, per farmi fare un concerto. Poi proseguivo così: “Schuster, celebre buffo, canterà, Nidecki può farsi un nome. Questa notizia, spero, vi farà piacere. Lui ha sì ricevuto la commissione dell’opera, ma non ancora il denaro. Nidecki ha imparato di sua propria iniziativa il mio Concerto in mi minore. Dovendo farsi sentire in pubblico a Vienna prima della sua partenza e non avendo nient’altro di suo che delle belle variazioni, mi ha richiesto il mio manoscritto. Ma a questa situazione è stato posto rimedio e Nidecki si produrrà, come compositore invece che come virtuoso. Vi scriverà lui stesso a questo proposito. Farò eseguire la sua ouverture nel mio concerto. Spero che vi faremo onore (a meno che non vi facciamo onta. Aloys Schmidt, pianista di Francoforte, è stato qui ben maltrattato; vero è che ha più di quarant’anni e la musica che compone ne ha ottanta)”. Io mi illudevo ancora di riuscire a farmi scritturare, e pensavo di adoperarmi per Nidecki includendo nel programma una sua ouverture. La realtà era invece che Tomasz, non io, s’era imbattuto in un inatteso colpo di fortuna. L’opera che gli era stata commissionata da Steinkeller, Kathi von Hollabrunn, andò in scena nel 1831 e gli procurò la commissione per Schneider, Schlossel und Tischler, rappresentata pur essa nel 1831. Così, allo scadere della borsa di studio Nidecki rimase a Vienna come libero professionista, diresse il Leopoldstadttheater di proprietà di Steinkeller e si costruì la fa86

ma che lo portò a tempo debito alla sovrintendenza dell’Opera di Varsavia. Posso ben dire che a Vienna le tentai tutte, ...cannando tutti gli obbiettivi perché dell’ambiente musicale conoscevo soltanto quello che mi era concesso di conoscere, cioè la facciata. A casa di Würfel, mio vecchio maestro d’organo, buon pianista stimato da Beethoven e che a Vienna si era guadagnato una tranquilla posizione come quarto maestro della cappella di corte, a casa di Würfel, dicevo, che per me si sarebbe gettato nel fuoco ma che non aveva alcun potere, conobbi un giovane violinista di Praga, Josef Slavik, virtuoso sensazionale, secondo solo a Paganini. Era stato molto amico di Schubert, che gli aveva dedicato una fantasia per violino e pianoforte, ed era bene accolto ovunque. Simpatizzammo immediatamente. “Tornate a casa?”, mi disse quando ci congedammo da Würfel. “Ma sì”. “Ebbene, venite piuttosto con me dalla vostra compatriota, la signora Bayer”. Per una Bayer avevo una lettera di presentazione che non ero riuscito a consegnare perché a Vienna ce ne sono migliaia, di Bayer. “Bene”, risposi a Slavik, “ma devo passare a prendere una certa lettera”. La Bayer della lettera era proprio la Bayer da cui mi portò Slavik. Aveva sentito parlare di me, mi invitò a pranzo, anzi, ci invitò a pranzo per la successiva domenica. Il 22 dicembre riferii ai miei ciò che avvenne: “Slavik suonò e, Paganini a parte, mi incantò. Il modo di suonare di Mia Maestà gli piacque, e decidemmo di scrivere insieme un duo per violino e pianoforte di cui già a Varsavia avevo avuto l’idea. È un grande artista, un violinista geniale. Quando avrò fatto la conoscenza di Merk, che trio formeremo! Devo vedere Merk molto presto”. Suonai con Merk, grande violoncellista, gli dedicai la Polacca che avevo scritto per il principe Radziwiłł. Ma né scrissi il duo con Slavik né suonai in pubblico con lui e con Merk. I burattinai che tenevano in mano i veri fili del potere erano altri, e per quanto riguardava il pianoforte erano due: Hummel e Czerny. 87

Hummel fu con me di una gentilezza squisita, mi presentò al direttore del Kärthenthortheater, portò da me suo figlio, disegnatore, che mi fece il ritratto (assai somigliante). Ma nel suo cuore, e nei suoi interessi di didatta autore di un metodo monumentale c’era Sigismund Thalberg, suo allievo, che si era presentato al pubblico di Vienna il 3 aprile 1830 con il secondo e il terzo tempo di un suo Concerto in fa minore. Conobbi Thalberg, come ho già detto, e pur frequentandolo non provai per lui alcuna simpatia, né come artista né come persona. Lui guardò i miei concerti, apprezzandone soltanto le parti in cui suonava la sola orchestra... Thalberg era stato compagno di studi del Duca di Reichstadt, cioè del figlio di Napoleone e dell’arciduchessa Maria Luisa d’Austria. E chi era stato l’istitutore del Duca di Reichstadt? Ma il conte Moritz Dietrichstein che, si diceva, era il padre naturale di Thalberg. Che interesse poteva mai avere Hummel, e Dietrichstein con lui, a muovere le leve del potere per far conoscere al mondo un oscuro polacco, autore di due concerti e di tre pezzi da concerto che avrebbero forse fatto ombra alla fama nascente dell’astro Thalberg? Carl Czerny era il didatta che succedeva a Hummel come continuatore della grande scuola pianistica di Vienna. Liszt e un bel po’ di fulgide promesse del pianoforte avevano studiato con lui, e lui era effettivamente un abilissimo istruttore. Gli ero stato presentato nell’agosto del ’29, mi aveva sentito e si era molto complimentato con me, ero stato più volte a casa sua ed avevamo suonato insieme a due pianoforti. Scrivendo ai miei avevo lasciato cadere sul suo conto una piccola malignità: “È più sensibile e più tenero di tutte le sue opere”. E scrivendo a Titus avevo detto che Czerny era “un bravuomo, niente di più”. Non ero stato più... benevolo nel dicembre del 1830: “Sono andato da Czerny. Cortese come sempre e con tutti, mi ha chiesto se avevo studiato assiduamente. Ha trascritto un’altra ouverture per otto pianoforti e sedici esecutori ed è soddisfatto!”. Con Czerny, che era veramente un bravuomo, mantenni tuttavia rapporti amichevoli. 88

Chissà, pensavo, avrebbe potuto aiutarmi. Come mi illudevo! Czerny doveva concentrare tutte le sue forze per curare l’esordio di un suo allievo, Theodor von Döhler, più giovane di me di quattro anni, nato a Napoli da genitori tedeschi ma protégé del Duca di Lucca, che lo aveva mandato a Vienna pagandogli gli studi. Il 28 maggio assistetti ad un concerto in cui suonarono un mediocre violinista di nome Herz, che avevo già ascoltato a Varsavia, e Döhler. Döhler eseguì musiche di Czerny, Herz certe sue variazioni su un tema polacco. “Poveri temi polacchi!”, scrissi ai miei, “voi non sapete con quali canzoni ebraiche sono stati avvelenati, pur chiamando ciò musica polacca per attirare il pubblico! Provatevi poi a difendere la musica polacca, provatevi a parlarne con conoscenza di causa, e vi tratteranno come dei pazzi, tanto più che Czerny, il fabbricante viennese, specialista di pasticcini musicali, non ha ancora preso dei motivi polacchi come temi per le sue variazioni”. Ero un po’ acido, in verità, ma a veder trattare così superficialmente la musica polacca ci soffrivo, e non poco. Non si può dire che Döhler non abbia poi contribuito ad accrescere la fama del didatta Czerny. Già dopo l’esordio a Vienna fu nominato, a diciassette anni, virtuoso di camera del Duca di Lucca, compose studi e pezzi favoriti dai dilettanti, girò molto in Europa e venne a Parigi, dove conquistò il cuore di Cristina di Belgjoso. Cosa io pensi del suo unico Concerto, op. 7, lo rivela una frase un po’... spinta che scrissi a Julian Fontana da Nohant, nel 1839 (con gli amici, qualche volta, mi faccio tentare dal linguaggio goliardico): “Se Moscheles è già arrivato a Parigi fagli fare un clistere con gli oratori di Neukomm, avvelenato con il Cellini e con il Concerto di Döhler”. Ahimé, anche il Benvenuto Cellini del mio amico Berlioz, visto nel 1838, non mi aveva entusiasmato... Insomma, quando arrivai a Vienna con grandi speranze e grandi illusioni non sospettavo minimamente di essere entrato in un soavissimo tritacarne. Sarebbe andata diversamente, se avessi avuto la borsa di studio? Probabilmente sì. Ma, co89

me dicevo, non sarei diventato quello che sono... E adesso? Olé, compañeros, come si dice a Maiorca: sono un illustre caposcuola – lo ha sancito Escudier – sia del pianoforte che della composizione.

Di alcuni miei vecchi compagni di studio, del castello di Antonin e dei pericoli che si corrono con le allieve graziose, e delle avventure parigine del mio vecchio amico Jozéf Con i miei compagni di studio ho mantenuto pochi contatti. Mi spiace sinceramente di non aver più rivisto Tomasz Napoleon Nidecki, per il quale provavo un affetto profondo ed intenso. Mi spiace moltissimo di non aver più visto Titus Woyciechowski. Nel 1839, mentre mi trovavo a Nohant, i miei mi fecero sapere che Titus mi consigliava di comporre un oratorio. Pregai i miei di chiedergli perché lui non costruiva un chiostro per i camaldolesi o per i domenicani invece di una fabbrica dello zucchero. E aggiungevo, parlandone con Fontana: “Il bravo Titus possiede ancora un’immaginazione da collegiale, cosa che non mi impedisce di amarlo come quando eravamo al liceo. Ha avuto un secondo figlio e gli ha dato il mio nome. Lo compatisco”. Julian Fontana, che mi ha reso generosamente dei servizi da segretario e da factotum, è un compagno di studi con il quale ho mantenuto stretti rapporti. Ho visto spesso Antoni Orłowski fino a quando è rimasto a Parigi, e su sua richiesta sono andato a Rouen, dove si era trasferito, per tenervi un concerto. Fu un bel concerto. Il mio amico Ernest Legouvé venne a sentirmi e pubblicò nella Revue et Gazette musicale un inno che finiva così: “Animo, Chopin, animo! Che questo trionfo vi decida; non siate egoista, date a tutti il vostro bel talento. Consentite a passare per quello che siete, concludete il dibattito che divide gli artisti, e quando si chiederà chi sia il primo pianista d’Europa, se Liszt o Thalberg, che tutti possano rispondere come quelli che vi hanno ascoltato: è 90

Chopin”. Amichevole, e sincero, ...ma incompetente. Liszt, lui sì, che ci aveva preso. Ho visto a intermittenza Jozéf Nowakowski, conosciuto a Sanniki. Nowakowski, allievo di Elsner e di Würfel, è di dieci anni più anziano di me ma, in quanto a testa, è un eterno pargolo. Mi è già accaduto di ricordare le mie vacanze a Szafarnia. Ci andai due volte, nelle estati del 1824 e del 1825, presso una famiglia amica dei miei genitori. Nel 1828 passai invece l’estate a Sanniki, nel 1829 fui ospite del principe Radziwiłł ad Antonin, in un magnifico castello con attorno un enorme parco. Oh!, Antonin, Antonin, come ho fatto a dimenticarti quando parlavo dei miei trascorsi di dongiovanni da flirt! Il principe – gran signore che suonava il violoncello e componeva, compose persino le musiche di scena per il Faust di Goethe – aveva due figlie, Elise e Wanda. Come tutte le ragazze dell’aristocrazia che o suonano il pianoforte o cantano, anche Elise e Wanda erano musiciste. Ed io, musicista, non potevo venir meno ai doveri che chi viene ospitato ha verso chi lo ospita, specie se l’ospitalità, è proprio il caso di dirlo, è principesca. Per il principe violoncellista scrissi la Polacca che pubblicai più tardi a Vienna (“effetti brillanti per i salotti e per le dame, niente di più”, dissi a Titus), e gli dedicai il mio unico Trio, che piaceva alla follia a lui e ad Elise. Ad Elise e a Wanda diedi delle lezioni di pianoforte, ...provandoci gusto. Lo scrissi a Titus: “Volevo che la principessina Wanda potesse imparare questa Polacca. Le ho dato delle sedicenti lezioni durante il mio soggiorno. È giovane, diciassettenne, e graziosa e, per Dio, è molto piacevole metterle le dita sulla tastiera. Ma, scherzi a parte, ha veramente molto sentimento musicale. Non c’è bisogno di dirle: qui crescendo, là piano, o più svelto, o più lento, eccetera. Non ho potuto rifiutare di mandare ad Antonin una copia della mia Polacca in fa minore, che interessa alla principessa Elise”. Il contatto fisico che si stabilisce in certi momenti fra il maestro di pianoforte e l’allieva, beninteso se l’allieva è bella, ben di rado è totalmente casto. E questo lo si sa a tal punto 91

che nessuna signora in età non sinodale, e nessuna signorina in attesa di marito fa la sua lezione se non in presenza di una anziana dama di ineccepibile moralità, lo chaperon, pronta ad intervenire se qualche gestuzzo o parolina appaiono ambigui o sospetti. Ma può il povero chaperon capire se, correggendo la posizione della mano dell’allieva, i polpastrelli del maestro indugiano nel contatto perché così esige la sua scienza o perché così esige il piacere di una carezza lieve e bruciante? Quando parlavo tranquillamente con Francilla, lei sul pianerottolo, io alla sommità della scala, improvvisamente fummo presi entrambi da un inspiegabile tremore, inspiegabile perché arrivò in quel preciso momento, spiegabilissimo in relazione con ciò che lo causava. E se in quel preciso momento avessi dovuto prendere la mano di Francilla per condurla nella posizione che io ritengo quella giusta per salire sulle scale, sulle altre scale, intendo, quelle con diesis e bemolli, beh!, penso che uno chaperon non proprio orbo o sonnacchione avrebbe avuto qualche motivo di allarmarsi. Ma stavo parlando di Nowakowski. Ero arrivato a Parigi da poco più di sei mesi quando ricevetti una sua lettera... esplorativa. “Caro Nowakosiu”, gli risposi, “quello che mi chiedi mi tocca il cuore e l’anima. Tu sai quanto sarei felice di vederti qui, di suonare e di sospirare con te, di scambiare le nostre impressioni e di trovare insieme delle distrazioni. Soltanto, non partire senza denaro per non trovarti in difficoltà. A Parigi è molto difficile avere degli allievi e più difficile ancora è organizzarvi dei concerti. La società è preoccupatissima per diverse questioni e soprattutto per la situazione politica. Questa paralizza tutto il paese. Per di più, c’è qui una vera moltitudine d’asini e di diavoli che ostacolano i talenti autentici e che impediscono loro di prodursi dignitosamente. Il pubblico è stato ingannato da così tanti ciarlatani che non ha più fiducia in nessuno”. Per quella volta Jozéf rinunciò, ma più tardi arrivò bel bello a Parigi, e mio padre mi raccomandò di aiutarlo. Poi ritornò a Varsavia, sempre cercando cocciutamente l’occasione per aprirsi una strada nella capitale francese e frequen92

tando ingenuamente i miei per ingraziarseli. A Parigi, ostinato come un mulo, ricapitò dunque come si va alla Terra Promessa. Arriva, viene a trovarmi, si commuove, mi abbraccia, balbetta con la sua voce acuta che sembra una trombetta infantile: “Che piacere, che piacere, dopo tanto tempo. Come stai? Ti trovo bene, un po’ smagrito, ma stai bene, hai un bell’aspetto. Che piacere!”. “Il mio peso, Jozéf carissimo, va un po’ su d’estate, quando sono a Nohant, e va un po’ giù quando sono a Parigi. E anche la mia tosse fa l’altalena. C’è chi dice che tossisco con grazia infinita, la mia tosse è come un abbellimento, un trillo. Io però dò la preferenza al canto spianato, non al canto ornato. Quello che non cambia mai è il mio naso”. Menavo il can per l’aia perché un oscuro timore mi vietava di rispondere a Nowakowski nel modo più ovvio. Lui si mise a ridere rumorosamente: “Oh!, il naso, il tuo naso! È ancora sempre il tuo tendine d’Achille?”. Non risposi, e non risi. Io posso scherzare sul mio naso, non gli altri. E se lo fanno sono molto suscettibile. Feci un passo indietro, l’oscuro timore si era dissolto: “Come sta il mio figlioccio?”, chiesi cortesemente. Avevo tenuto io a battesimo il primo marmocchio che Nowakowski aveva messo al mondo, e quindi la domanda era del tutto pertinente. “Sta benone”, rispose Jozéf, “grande e grosso quanto me, è ormai vicino ai vent’anni. Ti saluta, ti saluta tanto affettuosamente”. “E come sta la madre?”. “Non so”, rispose farfugliando, “non la vedo da tempo”. E arrossì violentemente. Nowakowski aveva ingravidato la governante di casa Pruszak, a Sanniki. La ragazza, con le occhiaie segnate dalle notti insonni e con i conati di vomito che le capitavano di frequente, aveva messo in sospetto la contessa Pruszak, che aveva svolto le sue brave indagini. E su quale furfante l’avevano indirizzata, le sue brave indagini? Ma su Fryderyk Chopin, per la buona ragione che il candidissimo Fryderyk Chopin era stato visto più volte, la sera in 93

sul crepuscolo, a passeggio in giardino in compagnia della governante. Durai fatica a convincere madama di essere innocente come un agnellino, e fra le tante ragioni che esposi feci scivolare anche quella che con la ragazza era piacevole conversare ma che, insomma, non provavo per lei alcuna attrazione fisica. “Ella non è incantante”, scrissi a Titus (l’ho già detto, mi pare), al quale raccontai tutta la faccenda usando l’italiano per evitare che ne avesse notizia in casa Woyciechowski chi avesse visto per caso la mia lettera. Nowakowski aveva patito molto questa tragicomica vicenda e si era vergognato – a ragione, per dindirindina! – per non essersi subito fatto avanti quando tutti sapevano che in cima alla lista dei sospettati c’ero io. Aveva poi riconosciuto il marmocchio, che era stato dato in adozione, mentre la ragazza era stata rimandata a Danzica, la sua città. Non era una vicenda di esemplare moralità e Nowakowski si sentiva in grave imbarazzo se qualcuno gliela resuscitava. Vedendolo arrossire, il risentimento che avevo provato nei suoi confronti sparì di colpo. Lo feci sedere in poltrona, gli chiesi che cosa facesse a Parigi. Arrossì di nuovo, ma in modo diverso. “Avrei degli studi che... Ma questo non è veramente importante. Ti ho portato le Canzoni Popolari raccolte da Oskar Kolberg. Penso ti interessino”. “Certamente sì”. Oskar è il fratello di Wilhelm Kolberg, mio grande amico al tempo dei miei anni da studente: per lui avevo scritto nel 1826 la Polacca in si bemolle minore, usando per la parte centrale, quale simbolo di affettuosa amicizia, il tema “Vieni fra queste braccia” della Gazza ladra di Rossini che avevamo visto insieme, divertendoci molto. In verità, dopo averle lette, pensai che le canzoni raccolte da Oskar fossero una dimostrazione lampante di buone intenzioni e di spalle troppo gracili. Realizzazioni come queste mi portano a pensare che sarebbe meglio non avere nulla, perché un lavoro così imperfetto può soltanto disorientare le ricerche del genio che arriverà un giorno alla verità e che saprà restituire a queste bellezze tutte il loro valore. Fino a quel momento queste canzoni 94

rimarranno mascherate sotto il belletto e sfigurate da nasi finti. Con le gambe tagliate, oppure appollaiate sui trampoli susciteranno soltanto la curiosità maligna degli osservatori superficiali. Comunque, questo lo penso adesso. A Nowakowski risposi soltanto: “Certamente sì. Mi interessano. Grazie. Ma che mi dicevi degli studi, degli studi tuoi, immagino?”. Le guance di Jozéf avevano sempre il colore delle ciliegie mature e la sua voce suonava più che mai come una trombetta infantile. “Sì, sono tredici studi che ho composto. Vorrei, con il tuo permesso, dedicarli a te. E naturalmente mi farebbe tanto piacere se un editore di qui...”. “Ho capito. Ti ringrazio. Lasciami gli studi, vedrò quello che posso fare”. Il colore di ciliegia si mutò di botto in colore d’aglio. Se non fosse stato seduto, Jozéf sarebbe di sicuro piombato a terra. Essere pubblicato a Parigi! A Parigi, caspio! Era un mondo nuovo e favoloso che si spalancava davanti ai suoi occhi imbambolati. Mi fece tenerezza, aprii il manoscritto che mi porgeva con mano tremante, ...e mi bastò un’occhiata: troppo vecchio, Jozéf, sia per imparare qualcosa di nuovo che per mettere ordine nel suo cervello. Ma un bravuomo. Quello che gli si mette in bocca lo mangia. Capii che mi piaceva qual era, povero Nowakowski, e lo aiutai come potevo, e gli studi a me dedicati vennero pubblicati. In verità bussai più volte alla sua anima ma non mi rispose mai. La sua capigliatura copriva un gran vuoto, cosa di cui si rendeva conto lui stesso. Avevo dimenticato che in Polonia esistevano ancora molte persone che non più di lui sapevano perché, come, di che vivere. Lo aiutai. Ma era persino una faticaccia, aiutarlo. Il mio amico Franchomme, il violoncellista, gli propone una sera di andare in visita in un posto in cui si possono conoscere molte persone importanti e in cui si può sentir cantare una stella del teatro italiano come Lablache. Non ne vuole sapere (e Franchomme commenta con me: “È un perfetto imbecille”). Ha una lettera di presentazione per Jules Janin, 95

grande giornalista. Me lo dice. Ci troviamo in una serata dai Gavard, vedo Janin, voglio presentarglielo: rifiuta. Qualche giorno dopo viene da me: “Ho consegnato la lettera a Janin. Scriverà un articolo su di me ma ha bisogno che entro le quattro tu gli mandi per scritto qualche parola sulle mie composizioni. Lo farai, vero? Ti scongiuro”. “Sei andato da Janin? Ti ha accompagnato qualcuno?”. “Sì, ci sono andato. Mi ha accompagnato un suo intimo amico, un redattore del Courrier”. “Del Courrier conosco il redattore-capo, Durieu. Era lui?”. “No. Era Dubois”. “Non so chi sia. Senti, oggi non posso, scusami. Andrò domani a parlare con Janin. Non sarà un giorno, a cambiare qualcosa”. Il giorno dopo vado da Janin: “Sono venuto per...”, ecc. ecc. “Ma parbleu”, esclama Janin, stupitissimo, “ho detto a Nowakowski che sarebbe bastata una parolina di Chopin per raccomandarmelo, non che mi serviva una parolina di Chopin per parlare delle sue opere. E poi, che strano uomo: si è fatto presentare da un imbecille di cui manco conosco il nome”. Scoppiamo a ridere tutt’e due. “Nowakowski”, dico, cercando di scusarlo, “è una buonissima persona. Ma che balordo! Del resto, in francese sa dire soltanto garçon de café, bougie, cocher, dîner, jolie Mademoiselle, bon musique”. Proprio così. Che balordo! Ma è un bravuomo ed è una vecchia conoscenza. E con lui posso parlare in polacco. Che Dio l’abbia in gloria, lui e la sua donna che non fu per me incantante.

Ancora dei miei tormenti a Vienna e della mia amata Konstancja, alla quale non dissi mai che l’amavo disperatamente Come dicevo prima, quand’ero a Vienna mi dispiaceva, per un certo verso, di non riuscire a fare ciò che a Varsavia tutti s’a96

spettavano da me, cioè a tenere dei concerti, anche perché, pensavo, un clamoroso successo mi avrebbe incoraggiato ad aprirmi finalmente con la ragazza di cui portavo da più d’un anno l’immagine impressa nel cuore. Ma per un altro verso mi interessava di più sviluppare ciò che stavo sperimentando in fatto di linguaggio musicale e di tecnica pianistica. La composizione che mi diede la chiave per penetrare in un mondo nuovo fu un pezzo in sol minore che fiorì formalmente in un modo per me inesplicabile. Lo cominciai a Vienna, lo terminai a Parigi quattro anni più tardi. Sembrava un primo movimento di sonata ma non era un primo movimento di sonata, piuttosto una ouverture da concerto ma non proprio una ouverture da concerto. Alla fine lo intitolai Ballata. C’erano state molte ballate per canto e pianoforte, nessuna per pianoforte solo o per strumenti senza voci. Io fui il primo, e con la Ballata in sol minore capii di poter dare al mondo il corrispettivo musicale delle Romanze e Ballate di Mickiewicz che tanto mi avevano impressionato quand’ero ancora un ragazzo. I miei tormenti a Vienna vorticavano intorno a due argomenti: come avrei potuto guadagnare del denaro? Quale sarebbe stato il destino dei miei dal momento in cui, dopo la rottura delle trattative diplomatiche che avvenne in febbraio, i russi si mossero per riconquistare la Polonia? Che cosa sarebbe accaduto a mio padre, a mia madre, alle mie sorelle, ai miei maestri, ai miei amici, ...a Konstancja? Ho già detto che quando Jan mi parlò di Konstancja, usando per eccesso di prudenza il francese, mi si piegarono le ginocchia e rischiai di andare bell’e disteso sul marciapiede davanti alla posta centrale. Di Konstancja non mi incantava soltanto l’aspetto – era davvero una bella ragazza, e di bellezze io m’intendo. Mi incantava anche la voce, la sua voce scura di contralto. Era allieva di Carlo Soliva, compositore italiano di un certo nome che con la sua prima opera, appena diplomato, aveva esordito alla Scala di Milano (il libretto, di Felice Romani, aveva vinto un concorso la cui commissione giudicatrice – Soliva ci teneva a farlo sapere – era presieduta dal 97

celebre poeta Vincenzo Monti). Soliva aveva dedicato a Beethoven un trio, bene accolto dal dedicatario; era stato poi in casa di Beethoven, che lì per lì aveva scritto in suo onore un Canone, “Te solo adoro”. Direttore dal ’21 della scuola di canto di Varsavia, e direttore d’orchestra all’Opera, Soliva era un musicista colto e di grande mestiere. Mi diede dei consigli per la orchestrazione dei miei lavori e diresse la prima esecuzione del mio Concerto in mi minore. Adesso abita a Parigi ed è diventato molto amico di George. Ci vediamo, parliamo anche dei vecchi tempi, ...ma mai di Konstancja. Il debutto teatrale di Konstancja Gładkowska avvenne nel luglio del ’30, in occasione della sessione annuale del parlamento, nell’Agnese di Paër. Il 15 maggio io scrivevo a Titus dicendo: “Ieri sera sono stato da Soliva. G. ha cantato un’aria aggiunta appositamente da Soliva per lei nell’opera. Dev’essere un pezzo di buon effetto. A dire il vero, contiene dei passaggi graziosi e Soliva ha ben adattato certe frasi del pezzo alla sua voce”. Qualche settimana più tardi Soliva portò Konstancja ed un’altra allieva dalla Sontag. Io ero presente. Le ragazze eseguirono un duetto del loro maestro, “Barbara sorte”, e la Sontag, pur lodandole, disse loro che a cantare così aperto c’era il rischio di perdere la voce! Questa osservazione mi parve eccessiva, e quando ascoltai Konstancja nell’Agnese trovai che la mia bella non avesse eguali per purezza di voce, intonazione ed alta qualità di sentimento. Queste doti preclare vennero confermate due mesi dopo, quando Konstancja cantò la Gazza ladra di Rossini. Le chiesi perciò di prender parte al mio concerto – anzi, lo chiesi a Soliva, e per... astuzia diplomatica lo pregai di far partecipare alla serata anche un’altra sua allieva. Konstancja, tutta in bianco con una coroncina di rose fra i capelli, cantò l’aria della Donna del lago di Rossini in un modo che, in un modo che... mi lasciò basito. Quando partii scrisse nell’album che mi fu offerto dagli amici due pensieri. Il primo diceva: “Tu compi i tristi cambiamenti del destino, Noi dobbiamo rassegnarci. Non dimenticare, o indimenticabile, Che sei amato in Polonia”. 98

Ah!, per le saette di Giove, se avesse scritto “che sei amato da me”. Ma le avevo forse mai detto di amarla? Le avevo forse mai chiesto di amarmi? Giravo intorno al castello della felicità e non ne trovavo la porta d’ingresso. Che diritti potevo vantare sulla signorina Konstancja Gładkowska? Meno di zero. Che diritto avevo di essere geloso? Meno di zero. Eppure ero geloso, furiosamente geloso, geloso in un modo del tutto irragionevole. Ma ne avevo ben donde. Una cantante che calca le scene è un po’ come una merce esposta in vetrina, e i militari sono gente che da quando mondo è mondo cerca occasioni di divertimento. Gli ufficialetti della guarnigione russa, che frequentavano assiduamente il teatro, la mia Konstancja se l’erano mangiata con gli occhi. L’avrebbero di nuovo invitata alle serate danzanti del loro circolo, io non sarei stato là a sorvegliare, e... Il 26 dicembre mi sfogai con Jan: “Konst... (non oso scrivere il suo nome, la mia mano non ne è degna). Ah! Mi strappo i capelli al pensiero che potrebbe dimenticarmi. Gresser! Bezobrazow! Pisarzewski! È troppo, è troppo! Che Otello sono oggi”. Chiedevo a Jan di fiutare il vento per capire se Konstancja avrebbe gradito di ricevere il mio ritratto, quello disegnato dal figlio di Hummel (i ritratti, si sa, se li scambiano i fidanzati). E spingevo il mio ardire fino ad includere un bigliettino per Lei. Salvo a spaventarmi e a scrivere a Jan, il 1° gennaio: “Hai ricevuto la mia lettera? L’hai consegnata? Oggi rimpiango di avertela mandata. Vedevo allora brillare un piccolo raggio di speranza là dove non scorgo più altro che disperazione e tenebre. Forse lei ne riderà, forse se ne burlerà!”. A momenti ero pazzo di lei, a momenti mi sembrava di non amarla: “La sua immagine”, scrissi nel mio diario ai primi di giugno, “è continuamente davanti ai miei occhi; mi sembra di non amarla più, e tuttavia non esce mai dalla mia testa”. Non riuscivo più a sopportare la lontananza: “Tutto quello che fino ad ora ho visto all’estero mi sembra vecchio, insopportabile, tutto mi fa soltanto sospirare la mia casa, quei momenti deliziosi che non stimai per il loro 99

valore. Quello che un tempo mi sembrava grande mi sembra ora ordinario, e quello che un tempo trovavo banale m’appare oggi incredibile, straordinario, troppo grande, troppo alto”. Il pensiero della mia casa e di Konstancja divenne ossessivo e raggiunse l’apice quando i russi, assalita la Polonia, marciarono su Varsavia. Dopo aver suonato a Monaco, come ho detto, ripresi la strada per Parigi e in settembre – settembre del ’31 – feci sosta a Stoccarda. A Monaco avevo festeggiato il successo in un modo per me inusuale e a Stoccarda mi sentivo in colpa, tanto più perché le poche notizie che giungevano dalla Polonia erano terrificanti. All’una della notte, mentre stavo per coricarmi, un pensiero bizzarro mi attraversò il cervello. Gettai febbrilmente sulla carta delle note che rivelavano bene il mio stato psichico completamente alterato. “Strana cosa. Questo letto in cui sto per coricarmi ha forse servito a più d’un moribondo. Questo pensiero non mi dà oggi alcun disgusto. Forse più d’un cadavere vi ha riposato, e riposato a lungo. Ma in che cosa un cadavere è diverso da me? Un cadavere non sa neppure lui nulla di suo padre e di sua madre, né delle sue sorelle, né di Titus. Un cadavere non ha la fidanzata. Non può parlare la sua lingua con quelli che lo circondano. Un cadavere è pallido come me. È tanto freddo quanto lo sono io adesso di fronte a tutti. Un cadavere ha cessato di vivere ed io pure ho vissuto fino alla sazietà. A sazietà? Un cadavere s’è saziato della vita? Se lo fosse avrebbe una buona cera, mentre è così miserabile. La vita ha dunque una così grande influenza sui tratti somatici, sull’espressione del viso, sulla fisionomia dell’uomo? Perché viviamo una vita così miserabile che ci divora e che non serve se non a fare di noi dei cadaveri?”. Un fiotto di disperazione mi travolgeva, ero sommerso dal più nero pessimismo: “È evidente che la morte è il migliore degli atti. Qual è dunque il peggiore? La nascita, poiché è il contrario del migliore degli atti. Ho dunque ragione di deplorare d’essere venuto sulla terra. Perché non mi è stato per100

messo di non venirci, visto che sono qui inattivo? A che serve la mia esistenza?” Solo un pensiero mi teneva lontano dalla tentazione del suicidio: “Non mi manca molto per fraternizzare matematicamente con la morte. Oggi non la desidero, a meno che voi siate infelici, miei cari, e che anche voi non vi auguriate niente di meglio che la morte! Se no, io desidero ancora di rivedervi. Non per la mia felicità diretta ma per la mia felicità indiretta, perché so quanto mi amate. Ma lei ha simulato d’amarmi; questo è un enigma da sciogliere. Sì, no, sì, sì, no, sì, no, sì, sì, un dito sull’altro; scivola... Mi ama? Mi ama di sicuro? Che faccia quel che vuole”. E concludevo con un altro pensiero, prosaico, che si infilava non so come nella mia disperazione senza lacrime: “Il mio passaporto scadrà il mese prossimo, non potrò più vivere all’estero – per lo meno, non lo potrò più ufficialmente. Allora sarò ancor di più simile a un morto”. Non sapevo ancora, in quel momento, che Varsavia era caduta. “Forse mio padre ha fame”, scrissi qualche giorno dopo nel diario, “forse non ha di che comperare il pane per mia madre! Le mie sorelle sono state forse vittime della rabbia della scatenata soldatesca moscovita”. E poi: “Che è di lei? Dov’è? Poveretta! Un moscovita la opprime, la strangola, l’assassina, l’uccide! Ah!, mia amata, io sono qui solo – vieni da me – asciugherò le tue lacrime, calmerò le ferite del presente ricordandoti il passato – i tempi in cui non c’erano ancora i moscoviti”. Ma questo non era vero. Ed io mi correggevo: “Allora tuttavia qualche moscovita voleva a tutta forza piacerti – e tu te ne facevi beffe perché c’ero là io, non Grab”. A Vienna mi era giunta qualche avvisaglia sulla corte che Jozéf Grabowski stava facendo a Konstancja. Ed era così: si sposarono entro l’anno. Ma a Stoccarda io deliravo, veramente, e delirando, come scrissi nel diario, sfogavo “la mia disperazione sul pianoforte”. “A che serve?”, mi chiedevo. Per i miei, per Konstancja, a nulla. Ma per l’arte – posso dirlo adesso, a mente fredda – a qualcosa serviva. 101

Della morte di mio padre, di come appresi la notizia, di come di lui mi scrisse mio cognato, e di quanto mi sentii simile a lui La morte di mio padre all’età di settantatre anni, in parte attesa e in parte no, mi colse in un momento in cui la mia salute era tornata buona dopo un periodo di sofferenza, seguito alla morte di Jan Matuszin´ski, mio medico e mio fraterno amico. Non provavo nulla di preciso, nessun dolore, per così dire, localizzabile, ma un malessere generale che Aurore chiamava “oppressione nervosa”. Scoprii allora, e fui poi un suo paziente fino alla sua morte, un medico omeopatico veramente eccellente, il dottor Jean Jacques Molin. Il dottor Cauvières che mi ebbe in cura a Marsiglia e il dottor Papet di Nohant mi rimisero in sesto, nel ’39, dopo che quei tre figuri dell’isola di Maiorca, che sembravano usciti dal Malato immaginario di Molière, mi avevano dato per spacciato. Sono grato al dottor Cauvières e al dottor Papet, e non mi intendo di medicina, ma con il dottor Molin mi trovai più a mio agio che con tutti. Lui mi spiegò anche cos’è l’omeopatia, mi parlò del suo maestro Hahnemann (che curava Kalkbrenner). Ma a me la teoria interessa poco persino nel mio campo, la musica. Figuriamoci quanto mi interessa nella medicina. Mi importa di star bene, e finché il dottor Molin fu in vita riuscii a star meglio. La morte di mio padre fu l’evento che consentì ad Aurore di uscire un poco dalla zona d’ombra in cui il nostro rapporto era stato tenuto nei confronti della mia famiglia. Aurore, quando prese carta e penna per scrivere a mia madre il 29 maggio 1844, si ricordò di essere George Sand, la grande romanziera: Signora, non credo di poter offrire altra consolazione all’eccellente madre del mio caro Frédéric se non con l’assicurazione del coraggio e della rassegnazione di questo ragazzo ammirevole. Voi sapete quanto è profondo il suo dolore e quanto è accasciata la sua 102

anima; ma, grazie a Dio, non è malato, e noi partiamo fra qualche ora per la campagna in cui prenderà infine riposo dopo una così terribile crisi. Egli non pensa che a voi, alle sue sorelle, a tutti i suoi che ama tanto ardentemente e la cui afflizione lo inquieta e lo preoccupa quanto la sua. Almeno, non siate per vostra parte inquieta per la sua situazione visibile. Io non penso affatto di sollevarlo da questa pena così profonda, così giusta e durevole; ma posso per lo meno darmi cura della sua salute e circondarlo d’affetto e di precauzioni quanto voi fareste. È un ben dolce dovere che mi sono imposta con felicità e a cui, ve lo prometto, Signora, non verrò mai meno, e spero che voi abbiate fiducia nella mia devozione per lui. Non vi dico che la vostra disgrazia m’abbia colpito come se avessi conosciuto l’uomo ammirevole che piangete. La mia simpatia, per quanto vera essa sia, non può addolcire questo colpo terribile, ma dicendovi che consacrerò i miei giorni a vostro figlio e che lo guardo come un figlio mio, so di potervi dare per questo aspetto qualche tranquillità di spirito. Per questo mi son presa la libertà di scrivervi per dirvi che sono profondamente devota alla madre adorata del mio amico più caro.

Mia madre rispose il 13 giugno e, devo dire con sincera ammirazione, seppe portarsi all’altezza della romanziera (lo so, che la mia mamma è un essere straordinario): Vi ringrazio, Signora, per le toccanti parole che m’avete indirizzato; esse hanno portato qualche tranquillità al mio povero essere, tormentato dalla tristezza e dall’inquietudine. Nella mia disgrazia non ho altra consolazione che le mie lacrime e il ricordo incancellabile della vita esemplare del mio degno compagno; la mia inquietudine a proposito di Frédéric era infinita. Dopo il colpo ricevuto non ho fatto che pensare al caro ragazzo che solo, in una terra lontana, con la sua fragile salute e il suo immenso sentimento, non avrebbe tardato ad essere abbattuto da una notizia delle più fatali. Circondata dagli altri miei figli soffrivo di non poter serrare fra le braccia, in quel momento terribile, quel figlio amatissimo, e di aiutarlo a risollevarsi dalla sua tristezza; ero desolata per lui e il mio spirito non aveva riposo. Ci voleva il cuore d’una madre, Signora, per intuirlo e per saper portare nel mio 103

cuore una vera consolazione; per ciò è la madre di Frédéric che vi ringrazia sinceramente e che affida suo figlio alla vostra materna sollecitudine. Siate, Signora, il suo angelo tutelare, così come siete stata il mio angelo consolatore, e vogliate credere che il nostro rispetto e la nostra riconoscenza per voi eguagliano la vostra inapprezzabile devozione.

Angelo tutelare, materna sollecitudine. Senza rendersene conto, o forse, non so, intuendo quello che stava accadendo, la mamma coglieva perfettamente nel segno. Aurore ed io vivevamo insieme da cinque anni e mezzo, e tutti i suoi legami amorosi si erano consumati in un tempo più breve. Nel sentimento da lei provato per me, che era stato all’inizio di bruciante passione, si era ben presto insinuato, ed era andato poi ingigantendosi, un aspetto protettivo. Aurore era stata un’amante devota quanto una moglie, ed era una moglie sollecita quanto una madre. Lei aveva ottenuto il divorzio nel ’36, io ero scapolo, le nozze avrebbero regolarizzato il nostro rapporto nei confronti di coloro che, pur facendo le viste di tollerarlo, aborrivano in cuor loro il concubinaggio. Ma Aurore disprezzava l’istituto del matrimonio che, diceva, era “sancito da una legge civile che consacra la dipendenza, l’inferiorità e la nullità della donna”. E la rottura fra di noi sarebbe arrivata proprio quando io, in una circostanza drammatica e pur con tutto il tatto e la discrezione possibili, avrei tentato di assumere contro di lei il ruolo antico del pater familias. Non voglio però parlare di una vicenda che risveglia in me un dolore profondo, incancellabile. Dicevo della morte di mio padre, che su mia richiesta mi fu raccontata da mio cognato Antoni Barcin´ski, il marito di Izabela. Antoni – ci conosciamo fin da ragazzi – è un uomo con la testa sul collo e di una rettitudine morale a tutta prova, un rappresentante, al meglio, della borghesia operosa che costituisce oggi l’ossatura della società. Secondo lui, ma era vero, mio padre apparteneva alla stessa razza: 104

Se possedessi il dono della parola e se fossi capace di narrare la sua vita lo farei per il bene generale, affinché gli uomini apprendessero come si deve vivere e morire se si vuole rimanere fino alla tomba vivi nel ricordo e meritare, di generazione in generazione, la stima e l’ammirazione di tutti. Coloro che desiderassero sapere quel che dev’essere la morte d’un giusto avrebbero dovuto essere testimoni della breve malattia e della fine edificante di nostro padre. Avrebbero potuto ammirare quella tranquillità di pensiero, inseparabile dalla calma della coscienza, e capire quale gioia interiore, quale consolazione procurano la felicità di aver bene allevato dei ragazzi che amano e rispettano i loro genitori, la certezza d’esser vissuti non per se stessi ma per il bene del prossimo e anche il dolce pensiero d’essere ammirati in forza d’un carattere a cui tutti rendono omaggio.

“Essersi accontentati del poco senza mai augurarsi né la fortuna né gli onori straordinari”, proseguiva Antoni, “prediligere la vita domestica, essere l’amico di una famiglia che si ama, vivere della sua felicità, rallegrarsi – e anche esserne orgogliosi – che Dio abbia voluto permettere di raccogliere nei figli, nei quali si possono vedere riflessi come in uno specchio la propria anima e il proprio cuore, i frutti di tante pene e di tanti sforzi”. Questo racconto mi commuoveva profondamente. Ma un paragrafo della lunga lettera di Antoni mi fece venire i sudori freddi, risvegliando in me un oscuro terrore che mi accompagna da molto tempo: Per dirti proprio tutto devo parlarti adesso di Belza, quest’intimo amico che da molto tempo vive in casa nostra, condividendo le nostre pene e le nostre gioie. Molto istruito e di cuore onesto, egli tenta da parecchi anni di realizzare la creazione a Varsavia di un edificio in cui i morti sarebbero custoditi per alcuni giorni prima d’essere sepolti. Molto addentro a questo problema, egli usava raccontare a nostro padre – quand’egli era ancora ben portante – e raccontare a tutti noi, certi casi fortuiti di morte apparente. E nostro padre l’incoraggiava a realizzare il suo progetto. Ecco perché, avendo la sua memoria così pronta ricordato negli ultimi giorni di vita tali circostanze, nostro padre ci chiese di far aprire il suo cor105

po dopo la sua morte, per evitargli la terribile sorte di quelli che si risvegliano nella tomba.

In un poscritto alla lettera del marito, Izabela mi annunciava che il signor Belza sarebbe venuto molto presto a Parigi. Ci incontrammo, e i suoi discorsi non furono per me affatto rassicuranti. Ma ho già detto di come penso di... premunirmi, seguendo l’esempio di mio padre, contro una tale terrificante eventualità. Aurore restò molto impressionata dal discorso di Antoni. “Tuo padre”, mi disse, “è morto come un patriarca. Non credevo che ne esistessero ancora, di famiglie così, ma devo ricredermi, perché nelle parole di tuo cognato non c’è nulla di forzato o di artificioso. E mi spiace di non aver conosciuto tuo padre. Chissà se mi sarà dato di incontrare tua madre”. “Mio padre e mia madre erano persone tanto sagge quanto modeste, e nelle parole di mio cognato rivedo mio padre come in un ritratto vivente. Ma non credo che mia madre si muoverà dalla Polonia, e non credo nemmeno che in Polonia andremo noi”. “Già! Peccato”. Leggendo la lettera di Antoni io avevo visto sì un ritratto vivente di mio padre, ma – questo non lo dissi ad Aurore – in mio padre avevo visto anche me stesso. Io ero nato per fare una vita come la sua. Avevo sognato infantilmente di averla, con Konstancja al mio fianco. Avevo sognato di averla con Maria Wodzin´ska, la mia fidanzata segreta. E l’avevo avuta, sì, l’avevo avuta, ma solo a Nohant, con Aurore e i suoi figli. Perciò mi manca tanto, Nohant, perciò rimpiango amaramente un tempo che non si è fermato. Se non fossi così malandato in salute direi che forse potrei ancora averla, la vita di mio padre, con Jenny Lind, la simpaticissima cantante svedese che da un mese – e ha solo ventinove anni – si è ritirata dalle scene dopo una carriera folgorante. L’avevo conosciuta a Londra l’anno scorso, mi aveva mandato un biglietto per la sua recita nella Sonnambula ed era venuta ad un mio concerto privato: si era congratulata con me con gli occhi che le bril106

lavano come stelle, ed era nata subito fra noi una di quelle inesplicabili profondissime simpatie che sono tanto rare. Che perfezione di canto, la sua! Scrivendo ad un mio amico a Parigi dissi che non era “illuminata da bagliori ordinari ma da una specie di aurora boreale”. Purezza assoluta della voce, sicurezza tecnica, un piano sostenuto ed uguale come un capello. Qualche giorno addietro Jenny è passata da Parigi ed è venuta a trovarmi. C’erano da me Delphine Potocka e sua sorella la principessa de Beauvau, e inoltre la signora Rotschild. Jenny ha cantato per me, divinamente. Si dice (lo dicevano le mie visitatrici prima che arrivasse) che abbia un fidanzato in Svezia ma che il suo unico, vero e grande amore, non... consumato, sia stato il defunto Mendelssohn. Ah!, se non fossi così malato come sono...

Della morte di Kalkbrenner e della Catalani, di quello che rappresentarono per me e della posizione storica di Kalkbrenner, mio mancato insegnante Dalla morte di mio padre sono passati più di cinque anni, ma a lui ho pensato quando, tre giorni or sono, ho avuto notizia di due... decessi illustri, quelli di Friedrich Kalkbrenner e di Angelica Catalani. Sia l’uno che l’altra sono morti di colera, la Catalani a Parigi, Kalkbrenner a Enghien-les-Bains dov’era scappato per sentirsi più al sicuro. Negli stessi giorni è morto Carlo Alberto, re di Sardegna in esilio, la cui scomparsa non è passata inosservata per me perché di lui mi avevano parlato a Genova, quando vi andai con Aurore in gita turistica (Genova è il maggior porto del Regno). L’Italia, io l’avevo sognata ben prima di vederne una scheggia... Come ho detto, il piano di battaglia elaborato a Varsavia prevedeva che io mi affermassi a Vienna come pianista per scendere poi in Italia a forgiarmi i ferri del mestiere di operista. In astratto, a parte la mia mancanza di vocazione per il teatro, non era affatto un disegno sbagliato, ...se ci fos107

se stata la borsa di studio. Ho già detto di Nidecki. Ma c’è dell’altro ancora. Una quindicina d’anni prima che io partissi per l’estero un musicista polacco – però di Cracovia, occupata dagli austriaci – di circa vent’anni più anziano di me era andato a Vienna e vi si era fermato per tre anni a studiare. Si chiamava Franciszek Mirecki. Il suo maestro di pianoforte era stato Hummel, aveva conosciuto Beethoven, Salieri, Moscheles. Finiti gli studi a Vienna era sceso in Italia, a Venezia e a Milano, poi era andato a Parigi ed era diventato allievo per la composizione di Cherubini. Mirecki, con alle spalle questa formazione soignée, era venuto a Varsavia quand’era ormai sulla trentina e vi aveva fatto rappresentare un suo singspiel (in polacco). Tornato quindi in Italia aveva esordito a Milano con un balletto, subito seguito da un altro balletto, e a Genova con un’opera; si era quindi spostato in Portogallo per concerti come pianista e per mettere in scena la sua seconda opera. È un farabutto, Mirecki, un farabutto che disprezza la musica popolare della sua patria e che si fa beffe dell’opera nazionale come di uno sciocco miraggio. Però si è affermato all’estero, ed attualmente dirige l’Opera di Cracovia. Io avrei potuto seguire un percorso analogo. E quando ci penso non mi rammarico di certo per avere operato in un modo diverso. Ma la mia mente immagina oziosamente la realtà ipotetica di uno Chopin che non si oppone ai progetti di Elsner. In fondo, se sono come sono non lo devo solo a me stesso ma anche ad un bel po’ di circostanze casuali. L’Italia, Genova, Angelica Catalani. Bella città, Genova. La raggiungemmo per mare da Marsiglia, ovviamente, con un battello a vapore. La traversata fu spaventosamente agitata (e il ritorno peggio ancora: quaranta ore di navigazione in rollio perenne; però per la romantica Aurore la tempesta era entusiasmante, gettava addirittura grida d’ammirazione verso i cavalloni che sballottavano la nave). Genova adagiata in riva al mare, la natura rigogliosa, i giardini a terrazze sulle colline, i palazzi del centro, certi quadri meravigliosi. Vi passammo 108

una dozzina di giorni, una dozzina di giorni di sogno. E siccome George è famosa ed io, insomma, un po’ mi difendo, la notizia della nostra gita volò sui giornali. Quando eravamo ormai a Nohant ricevemmo una lettera di Marie d’Agoult, la contessa che da qualche anno, abbandonato il marito, viveva con Liszt e gli aveva dato due figlie. La contessa e George erano state amiche intime, un tempo, si erano frequentate molto, il romanzo Simon della seconda era stato dedicato alla prima, poi il rapporto affettivo si era guastato perché Marie, a dirla proprio giusta, è una piccola vipera sempre pronta, se le capita l’occasione, a piantare i suoi aguzzi dentini nelle carni di qualcuno. Marie d’Agoult, che cercava di riprendere i vecchi rapporti, ci scriveva da Albano, vicino a Roma: “Si ha un bel dire, è una gran bella cosa vivere in tempi in cui ci sono battelli a vapore e giornali. Senza i battelli a vapore voi non avreste forse avuto l’idea di venire a Genova; senza i giornali io non l’avrei saputo”. Ci annunciava la nascita del figlio maschio che “succhia il latte della più bella donna di Palestrina” e ci invitava a raggiungere lei e il “padre di tre bambini in tenera età” a Lucca, nel casino (a me venne in mente il “quel casinetto è mio” del Don Giovanni) che avevano affittato per l’estate e dove ci sarebbe sempre stato pronto per noi “un piatto di macaroni”. Nemmeno parlarne, di mettersi in viaggio per Lucca: il solo pensiero della traversata da Marsiglia a Livorno mi faceva torcere le budella. Però Lucca era così vicina a Firenze e, a parte il rischio di incontrarvi il virtuoso di camera Theodor von Döhler, doveva essere una gran bella città antica. Era giocoforza rinunciare, ovviamente, però... Beh!, era proprio destino che dell’Italia io dovessi vederne soltanto un pezzetto. Il colera, dicevo, si è portato via Angelica Catalani. Italiana, ma nata in una città ben più prosaica di Lucca, Senigallia, e vissuta per la maggior parte a Parigi. Non posso che ricordarla con profonda commozione. Era stata una fenomenale cantante che, si diceva, poteva sbrigarsela con ruoli da contralto, da mezzosoprano e da soprano, ed era stata una gran109

de diva che si cavava tutti i capricci possibili e immaginabili. Aveva ormai sessantanove anni e da molto tempo non cantava più. Ma io l’avevo sentita nei suoi bei giorni, sia pure apprezzandone le qualità un po’ confusamente perché avevo allora solo nove anni e mezzo. La Catalani capitò a Varsavia per tenervi dei concerti, che le rendevano più dell’opera. Famosa com’era, poteva star sicura di vendere fino all’ultimo biglietto. E siccome le spese vive di un concerto sono infinitamente più basse di quelle di una rappresentazione operistica, la Catalani incassava somme favolose che puntualmente e con la robusta collaborazione del marito si incaricava poi di dilapidare buttando il denaro a destra e a manca. Anche con me, in fondo... Ma è bene che io proceda con ordine. Dopo che erano state pubblicate due mie piccole polacche e dopo che il granduca Costantino aveva fatto eseguire dalla fanfara la mia marcia ero diventato una celebrità locale. Già il 1° gennaio 1818 il Giornale di Varsavia mi dedicava uno stelloncino in cui si affermava che “se questo ragazzo fosse nato in Germania o in Francia avrebbe certamente già attirato su di sé l’attenzione di tutte le nazioni”. Il Giornale di Varsavia, immaginando che la sua diffusione fosse assicurata nei quattro angoli del mondo, concludeva in questo modo il pistolotto: “Che questo articolo proclami dunque che anche nella nostra terra nascono geni, e che solo la mancanza di informazione cela al pubblico la loro esistenza”. Così, se un qualche rinomato artista o personaggio straniero capitava a Varsavia io venivo puntualmente esibito come uno dei tesori posseduti dalla città. La Catalani ascoltò in un salotto una mia improvvisazione. Mi abbracciò e mi baciò, mi coprì di elogi con meridionale slancio. Ma nessuno si sarebbe aspettato quel che seguì. Dopo qualche giorno mi venne consegnato a casa un orologio da tasca con incisa una dedica in francese: “Donné par M.me Catalani à Frédéric Chopin, âgé de dix ans”. I dieci anni non li avevo ancora compiuti, in verità. Però, che classe, e che generosità, da parte di 110

un’artista che aveva l’intera Europa ai suoi piedi! Ci rivedemmo a Parigi, diventammo amici. Era venuta a trovarmi anche pochi giorni prima della morte: è stata per me una grande perdita. L’orologio era ben più che un dono: era una silenziosa offerta della grande Catalani, l’offerta di aprirmi le porte dei salotti di Parigi e di mettermi in contatto con il mondo in cui si decidevano le sorti della musica. Il padre di Liszt mollò temerariamente baracca e burattini, cioè gli sterminati greggi del principe Esterházy affidati alle sue cure, per portare il suo unico figlio a Vienna e lanciarlo in una carriera di fanciullo-prodigio. Mio padre, responsabile della vita di quattro figli, non di uno solo, non era un temerario (ed aveva ragione), e della offerta implicita della Catalani manco s’accorse. Ma quattro anni più tardi lessi nel Corriere del bel sesso di Varsavia un articolo in cui, recensendo la mia esecuzione di un concerto di Ries, si diceva, dopo grandi lodi a me tributate senza risparmio: “L’ultimo numero della Gazzetta Musicale di Lipsia riferisce in una corrispondenza da Vienna che pure in quella città un giovane dilettante, di nome Liszt, stupisce tutti per la precisione dell’esecuzione, la sicurezza e la potenza di suono con cui interpreta il concerto di Hummel. Noi non invidiamo di certo a Vienna il signor Liszt perché la nostra capitale possiede effettivamente, nella persona del signor Chopin, qualcuno che lo eguaglia e che forse persino lo supera”. Era la prima volta che leggevo il nome di Liszt e non potevo immaginare che un giorno gli avrei dedicato la mia prima raccolta di dodici Studi e che alla sua compagna avrei dedicato la seconda raccolta. Beh!, così è andata. Io ero salpato da casa per arrivare alle Indie e invece sbarcai a San Salvador. A Parigi giunsi che non ero più un ragazzino, e sia pure con qualche fatica iniziale riuscii a brillarvi. Per merito mio, e anche un po’ per merito dell’altra illustre vittima del colera, Friedrich Kalkbrenner. Di lui ho già parlato a lungo, e pour cause. Desiderava che 111

io diventassi suo allievo, ma mi appoggiò fattivamente prima che lo diventassi e non me ne volle quando fu chiaro che non lo sarei diventato. Anzi, mi invitò più volte a pranzo, fu presente ai miei concerti, frequentò assiduamente il salotto di Aurore, e alla fine del ’45 mi sorprese con una richiesta, per così dire, di consulenza: Caro Chopin, vengo a Voi per chiederVi un grande favore: mio figlio Arthur avanza la pretesa di eseguire la Vostra bella Sonata in si minore e desidera moltissimo che voi gli diate qualche consiglio per avvicinarsi quanto più possibile alle Vostre intenzioni. Voi sapete quanto mi piaccia il Vostro talento e non ho bisogno di dirVi quanto Vi sarei riconoscente per il favore che Vi chiedo per il mio piccolo bricconcello. Egli è a Vostra disposizione tutti i giorni dalle due alle quattro, e la domenica per tutta la mattinata. Mille scuse per questa libertà, ma voi mi avete abituato alla Vostra amicizia ed io ci conto. Mille saluti da tutta la famiglia.

Da tutta la famiglia, perché conoscevo le due figlie di Kalkbrenner, ragazze carine e simpatiche. Ecco, un grande maestro della vecchia scuola mi chiedeva a meno di sei mesi dalla pubblicazione di istruire suo figlio in una delle mie opere più complesse, e si rivolgeva a me con il rispetto, e insieme con la confidenza che si ha con i propri pari. A Vienna, a fare il bello e il cattivo tempo erano Hummel e Czerny. Entrambi mi trattarono con estrema gentilezza ma non mossero un dito per darmi quell’aiuto concreto che in effetti non mi era dovuto. A Parigi il bello e il cattivo tempo lo facevano Kalkbrenner e Pierre Zimmermann, che insegnava in Conservatorio e che contava fra i suoi allievi Charles-Valentin Alkan, mio amico fraterno, e virtuoso non inferiore a Liszt. Zimmermann mi aveva accolto con simpatia, ma Kalkbrenner mi appoggiò presso Pleyel e presso l’editore Schlesinger, e mi fece da padrino al mio concerto d’esordio. Checché ne pensassero Elsner e mio padre, con me fu generoso, e se considero gli odi feroci di cui è costellato il nostro mondo devo dire che fu incredibilmente generoso. La notizia della sua 112

morte a soli sessantaquattro anni mi ha sinceramente rattristato. Certo, come compositore Kalkbrenner non è fra gli artisti della sua generazione, secondo me, pari a Cramer, Hummel, Field, Moscheles, sebbene nello sterminato deserto della sua produzione fiorisca qualche oasi, come il Concerto in re minore che studiai da ragazzo. Per quanto riguarda la didattica del pianoforte io non trovo che il Guidamani brevettato da Kalkbrenner, e ormai diffusissimo, sia realmente utile. Chi si allena con questo attrezzo fa lavorare molto le dita e un po’ la mano ma non va oltre l’articolazione del polso. Ora, uno dei miei appuntini per un metodo dice così, a questo proposito: “Nessuno osserverà l’ineguaglianza del suono in una scala molto veloce, se sarà suonata con regolarità di tempo – il fine non è di saper suonare tutto con uguaglianza. Mi sembra che un meccanismo ben formato debba sapere ben sfumare una bella qualità di suono. Per molto tempo, esercitando le dita ad avere una forza uguale, si è agito contro natura. Essendo ogni dito formato in modo diverso è meglio non cercare di distruggere il fascino speciale di tocco di ciascun dito ma, al contrario, cercare di svilupparlo. Ogni dito ha la forza secondo la sua conformazione. Tanti suoni diversi quante dita. Il fatto è di saper ben diteggiare. Hummel è stato a questo proposito il più sapiente. Così come bisogna utilizzare la conformazione delle dita, bisogna utilizzare altrettanto il resto della mano, il polso, l’avambraccio e il braccio. Non bisogna suonare tutto di polso, come esige Kalkbrenner”. Polso, polso, polso. Un tedesco molto simpatico che cercò di avere delle lezioni da me, Carl Hallé, diceva che Kalkbrenner aveva radicata nel cuore una convinzione incrollabile: se l’Onnipotente avesse suonato il pianoforte lo avrebbe suonato di polso. Il tempo dirà se io ho ragione o se il Guidamani è veramente la panacea. Per intanto l’inventore del Guidamani non è più fra noi, povero Kalkbrenner: che riposi in pace. 113

Dei miei rapporti con la contessa Marie d’Agoult, compagna di Liszt, del mio concerto a Parigi nel ’48, del microscopio per le orecchie e della mia partenza per Londra Quando si sta preparando il mio concerto del 1841, quando il Tout-Paris è già entrato in ebollizione, quando il trac... preventivo mi fa soffrire le pene dell’inferno e quando Aurore me lo cura con robuste dosi di ironia, quella viperetta di Marie d’Agoult dice al pittore Henri Lehmann che “una piccola malevole cricca si sforza di resuscitare Chopin, che suonerà da Pleyel”. A questo arriva, quella strega! E sì che all’inizio, prima di lasciarsi travolgere dalla passione per Liszt, mi aveva, posso ben dire, corteggiato. Non le bastava che frequentassi di tanto in tanto il suo salotto. Mi voleva tutto per sé. Come quando – era un giovedì – mi mandò questo bigliettino profumato: Signor Chopin, Voi sareste molto cortese, Signore, se talvolta, essendo libero alle sei precise, veniste a cena da me. Mia madre, alla quale ho molto parlato di voi, desidera straordinariamente di fare la vostra conoscenza; quanto a me, voi sapete quanto mi faccia sempre piacere vedervi ed ascoltarvi. Sarebbe molto gentile se poteste venire domani, io sono stata malata e sono ancora un po’ sofferente; mi sembra che uno dei vostri notturni porterebbe a compimento la mia guarigione. Non me lo rifiuterete. La Contessa d’Agoult P. S. – Se non potete domani, venite sabato, se non sabato, domenica, ecc.

Un altro si sarebbe precipitato, io no: quella insistenza e quel tono imperioso che la forbitezza del discorso non riusciva a dissimulare del tutto mi mettevano in sospetto. Qualche tempo dopo Marie mi invitò a raggiungerla nella sua residenza di campagna, l’imponente castello di Croissy, a dieci chilometri da Parigi e costruito al tempo del Re Sole: 114

Sento da Liszt che siete stato molto malato. Vi ricordo, Signore, che Croissy sarebbe una eccellente casa di cura: se voleste venire a passarci qualche po’ di tempo godreste di aria buona. Vi prometto del latte delizioso e la musica degli usignoli, cosa che vi affaticherà meno del pianoforte. Lasciatemi dire tuttavia quanto io ammiri i vostri Studi, che sono prodigiosi; da molto tempo non avevo sentito nulla di altrettanto bello. Addio, Signore, e, spero, arrivederci: credete al mio autentico interesse. La Contessa d’Agoult

Marie aveva ascoltato i miei studi da Liszt, al quale li avevo dedicati e che effettivamente li suonava in un modo fantastico. Scrivendo a Ferdinand Hiller il 20 giugno 1833 avevo detto: “Vi scrivo senza sapere quello che la mia penna farfuglia perché Liszt suona in questo momento i miei studi e mi trasporta fuori dalle mie oneste idee. Vorrei rubargli la sua maniera di rendere i miei propri studi”. Pochi giorni più tardi ricevevo l’invito di Marie. Non dico che, se fossi andato a Croissy, ci sarebbe stato un attentato alla mia virtù. Ma il conte d’Agoult era in città, e con Marie un po’ di intimità, un po’ di amitié amoureuse sarebbe potuta nascere. Penso che lei lo desiderasse e che forse vedesse in me – chi potrà mai saperlo – l’Eterno Fidanzato. Sentendomi un po’ in imbarazzo incaricai Liszt di dirle che non potevo accettare il cortese invito. E lui le scrisse in questi termini: A meno d’un ordine preciso e formale, firmato dalla contessa d’Agoult (da Ma), ordine che io mi incaricherei volentieri di far eseguire dalla gendarmeria del regno, non contate affatto sulla visita del celebre pianista F. Chopin, perché il suddetto amico e pianista ha levato il campo la scorsa settimana e in questo momento si trova probabilmente a Tours, in compagnia del signor Franchomme, presso qualche bella ragazza semplice ed ingenua.

Andai effettivamente a fare le vacanze a Tours, invitato da Franchomme, ma la lettera di Liszt era sottilmente perfida: 115

con quell’accenno alla bella ragazza semplice ed ingenua voleva che lei si ingelosisse, e voleva infilarsi lui nel piccolo varco che io avevo aperto nel suo cuore. Lui ci teneva, a sedurre una contessa, e del resto era molto attratto da lei. Marie pencolava tuttavia ancora fra lui e me, e solo all’inizio dell’anno seguente successe il patatrac con il mio amico. Ma cinque mesi prima di quando, incinta della prima figlia, sarebbe fuggita a Ginevra con il suo amante, la contessa mi scrisse in questi termini: M’avete forse dimenticata, Signore? Non voglio crederlo, e soprattutto voglio sperare che la certezza di farmi un piacere grandissimo vi farà trovare qualche volta un quarto d’ora delle vostre serate per donarmelo. Non esco mai di sera e vi sarei molto grata del buon pensiero che vi fermasse davanti al numero 39 di rue Godot, in una di quelle ore in cui non si esamina rigorosamente l’impiego del proprio tempo. Addio, Signore, arrivederci, spero, e molto presto. Contessa d’Agoult

Le dedicai gli Studi op. 25, rimanemmo amici fino a quando non mi misi con la Sand. Perché mai una specie di postuma gelosia dovette farle dire che una malevola cricca tentava di resuscitarmi? Se mi si era dato per morto, comunque, io resuscitai, e gloriosamente. Tanto gloriosamente che dopo un anno me la sentii di ripetere l’esperimento. Suonai nella Sala Pleyel il 21 febbraio 1842; al concerto presero parte Pauline Viardot e Franchomme, e il successo fu pari a quello dell’anno precedente. Incassai una somma inferiore a quella del ’41, 5000 franchi, ma Aurore mi fece notare di quale effettiva entità fosse il mio guadagno: “Muovendo le dita per una sera tu incassi un quarto di quello che io, agitando la penna, mi procuro in un anno”. “Ah!, il tuo guadagno è...” “Eh sì!, è di 20.000 franchi, messi insieme con il lavoro diurno e notturno. E tu sai quanto tempo impiega un operaio, per mettere 116

insieme 5000 franchi?”. “Non ne ho assolutamente idea”. “Impiega cinque anni, caro mio, cinque interi anni. Ah! questa nostra società di merda!”. Dopo il ’42 mi astenni completamente dal suonare in pubblico per sei anni. Alcuni dei miei amici mi consigliarono però caldamente di riprendere questa attività, che non mi piaceva, dopo la rottura con George. “Dovreste dare un concerto”, mi disse Camille Pleyel, con il quale talvolta mi alteravo ma che era un fidatissimo amico. “Dovreste dare un concerto”, mi disse il conte Perthuis, aiutante di campo del re Luigi Filippo (sua moglie era una delle mie allieve). Il conte era un personaggio politico di prima fila, introdotto in tutti gli ambienti della capitale che contavano: non potevo lasciar cadere con leggerezza il suo consiglio. E ci si misero anche il banchiere Auguste Léo, e Thomas Albrecht, segretario dell’ambasciata di Sassonia e mercante di pregiatissimi vini, uno dei primi amici che m’ero fatto a Parigi (ero il padrino di battesimo di sua figlia; a lui avevo dedicato lo Scherzo op. 20). Un mattino vennero da me tutti e quattro insieme per dirmi che era ormai ora che mi decidessi e che non avrei dovuto fare altro che sedermi e suonare: a tutto il resto avrebbero pensato loro. Di fronte alle insistenze di così tanti amici fidati, e disinteressati, perché non avevo difficoltà a suonare per loro tutte le volte che me lo chiedevano, mi ero deciso a compiere il gran passo. Ne parlai il 10 febbraio 1848 con mia sorella Ludwika: “Da otto giorni non ci sono più posti disponibili. Il concerto avrà luogo il 16 di questo mese, nella Sala Pleyel. C’erano solo 300 biglietti a 20 franchi. Il re ha fatto prendere dieci biglietti, la regina dieci, e dieci il duca di Montpensier, sebbene tutti siano in periodo di lutto e nessuno di loro assisterà al concerto. Ci sono prenotazioni per un secondo concerto che non darò di sicuro perché già questo mi disturba”. Il Tout-Paris era di nuovo in fibrillazione. E non solo quello. Non appena i giornali scrissero che avrei forse dato un secondo concerto la Corte chiese quaranta biglietti ed arriva117

rono lettere di prenotazione da Brest e da Nantes. Il marchese de Custine, il mio vecchio devotissimo amico omosessuale che verso di me aveva delicatezze d’animo e scherzose collere da donna innamorata, mi scrisse sgomento, dal suo castello: “E che, il silfo del pianoforte si fa sentire ed io vengo a saperlo dalla voce pubblica? Questo è male: comprendete me e giudicatevi voi stesso! Volete trovarmi due biglietti? Avrei molto desiderato di chiedervene di più, ma sono fuori dal mondo e da tutto. Mille vecchie amicizie e centomila nuovi rancori”. Bisognava dunque che mi mettessi pianisticamente in tiro, e bisognava che scegliessi il programma. Chiesi di nuovo la collaborazione di Franchomme, interpellai il violinista Delphin Alard e, siccome Pauline era assente, mi rivolsi a sua nipote, Antonia Molina di Mondi, e in più al tenore Gustave-Hippolythe Roger. L’11 febbraio comunicai ai miei quello che stava bollendo in pentola: “Oggi devo mettermi a suonare, non fosse altro che per scarico di coscienza, perché mi sembra di suonare peggio di come abbia mai suonato. A titolo di curiosità suonerò con Alard e Franchomme un trio di Mozart. Non ci saranno biglietti di favore, né manifesti. La sala è elegante, può contenere 300 persone. Pleyel, che sempre mi punzecchia a proposito della mia stupida paura, farà addobbare la scala con fiori per incoraggiarmi a suonare. Sarò quasi come a casa mia e i miei occhi incontreranno soprattutto volti amici. Ho qui il pianoforte su cui suonerò”. Il concerto si aprì con il Trio in mi maggiore di Mozart. Solo quand’ero ragazzino-ragazzino e solo pochissime volte a Parigi, eccezionalmente, avevo suonato in pubblico musica non mia. Ma ormai i tempi stanno cambiando, e come!, soprattutto perché prima Moscheles in piccole e poi Liszt in grandi sale hanno proposto musiche del passato, e con successo. Scegliendo il Trio di Mozart, che del resto mi piaceva moltissimo, mi adeguai ad un costume che si stava evolvendo. La Molina di Mondi cantò le sue arie, Roger una nuova romanza che Meyerbeer aveva scritto per il Roberto il Diavo118

lo, con Franchomme eseguii il secondo, terzo e quarto tempo della mia nuova Sonata per violoncello e pianoforte, e da solo un mazzetto di pezzi miei, fra cui la Barcarola. Avevo provato con Franchomme la Sonata qualche mese prima, in casa di Delphine Potocka. Non è uno dei miei pezzi soliti, non è nello stile a tutti familiare, e malgrado ciò era piaciuto. Ma erano stati espressi alcuni dubbi sull’opportunità di metterlo in programma per intero. Perciò ne eliminai il primo tempo. Il concerto ebbe un grandissimo successo, il giornale dell’editore Schlesinger mi definì “l’Ariel dei pianisti”, il marchese de Custine mi scrisse con un tono che a dirlo estatico è ancora poco: Avete progredito in sofferenza e poesia; la melanconia delle vostre composizioni penetra più avanti nei cuori; si è soli con voi in mezzo alla folla, non è un pianoforte, è un’anima, e quale anima! Conservatevi per i vostri amici; è una consolazione, potervi ascoltare qualche volta; nei rudi giorni che ci minacciano solo l’arte come voi la sentite potrà riunire gli uomini divisi dall’aspetto materiale della vita; ci si ama, ci si capisce in Chopin. Avete fatto del pubblico una cerchia d’amici: infine, siete uguale a voi stesso, ed è tutto. Pensate a me, io non posso pensare che a voi. Sempre lo stesso. A. de Custine

Ci si ama in me? “Essi si amano in me”, disse Cristo dei suoi discepoli. Possibile che questo sia l’effetto della mia arte? E il marchese non rasentava la blasfemia, nel suo incontenibile entusiasmo? A castigare la mia soddisfazione ci pensò Henri Blaze de Bury, critico ma anche autore di opere, che sputava fiele su di me ad ogni occasione. Ecco il suo velenoso commento: “Il giorno in cui verrà inventato un microscopio per le orecchie monsieur Chopin sarà divinizzato”. Spiritoso! Comunque, io avevo suonato con tranquillità, e forse mi sarei lasciato andare ad accettare la proposta di ripetere il 119

concerto il 10 marzo. In una sera avevo di nuovo incassato seimila franchi, cioè il corrispettivo di trecento ore di lezioni private, cioè due mesi interi del mio solito lavoro di insegnante. Siccome non ci tenevo, siccome non ci ho mai tenuto – e mio padre me l’aveva bonariamente rimproverato non so quante volte – a mettere in banca dei risparmi, un concerto mi avrebbe permesso in pratica di disporre, senza insegnare, di due mesi in più per comporre. Non era una prospettiva da buttar via senza rifletterci. E se avessi avuto del denaro avrei persino potuto prendermi una lunga vacanza e tornare in incognito in Polonia per rivedere mia madre. La mamma aveva capito quanto mi avesse addolorato la rottura con Aurore, e in febbraio, cosa che non era nelle sue abitudini, mi aveva scritto per farmi gli auguri di buon compleanno. Poi mi aveva scritto di nuovo l’8 marzo per rallegrarsi dell’esito del concerto. E mi diceva: “Il Courrier aveva annunciato che avresti dato un concerto e che subito dopo avresti lasciato Parigi. E noi facevamo delle ipotesi: dove va? In Olanda, diceva qualcuno. In Germania, dicevano altri; altri ancora dicevano a S. Pietroburgo e noi desideravamo tanto vederti: qui da noi, forse. I Barcin´ski volevano darti il loro appartamento, Ludwika voleva darti il suo. Fu un vero gioco di bambini che soffiano le bolle di sapone”. Il desiderio di rivedere mia madre si faceva sempre più forte: dopo che io ero partito ci eravamo incontrati una sola volta, a Carlsbad, quando lei e papà s’erano finalmente decisi a prendersi una meritatissima vacanza all’estero. Ma nel momento in cui ricevetti la splendida lettera della mia adorata mamma tutto era stato già deciso: il 22 febbraio era scoppiata a Parigi la rivoluzione, poco dopo tutta l’Europa continentale era in subbuglio e nei polacchi in esilio era rifiorita una grande speranza. Scrivendo il 4 aprile a Julian Fontana, che si trovava a New York, feci un quadro della situazione politica e dissi: “Il Moscovita avrà del filo da torcere quando dovrà marciare contro i prussiani”, perché correva voce che lo zar avrebbe deciso di occupare il territorio di Pozn´an, soggetto alla Prussia, dove si 120

stavano concentrando in gran numero gli esuli polacchi. “I contadini galiziani hanno dato l’esempio a quelli della Volinia e della Podolia. Si svilupperanno di sicuro dei terribili avvenimenti, ma alla fine ci sarà una Polonia grande e prestigiosa: in una parola, La Polonia. Perciò dunque, malgrado la nostra impazienza, aspettiamo che le carte siano state ben mischiate per non perdere invano delle forze che, al punto giusto, possono diventare utilissime. Quest’ora è vicina ma non suona ancora oggi... Può darsi fra un mese... può darsi fra un anno. Qui si è convinti che il nostro affare prenderà corpo prima dell’autunno”. Le rosee speranze d’un mattino... La vita culturale nella Parigi postrivoluzionaria – Luigi Filippo aveva subito abdicato ed era stata proclamata la repubblica – non era per il momento favorevole a chi, come me, viveva del suo lavoro di insegnante con una clientela aristocratica. Dovevo andarmene per un po’, fino a che le cose si fossero riassestate. Ma dove? Con l’Europa in fiamme non c’era molto da scegliere. Accettai perciò il consiglio di una mia allieva scozzese e il 19 aprile partii per l’Inghilterra.

Del mio arrivo a Londra, di come capii che il mondo stava cambiando, nonché del mio incontro a Varsavia con Paganini e delle polemiche suscitate dalla sua arte Jane Stirling, così si chiamava la mia allieva devotissima, mi aveva prospettato delle possibilità di guadagno che non mi potevo permettere di trascurare. Tuttavia l’Inghilterra mi faceva un po’ paura. Come sarei stato accolto? Londra era ancora tutta per Mendelssohn, scomparso da appena un anno, che era stato il coqueluche della giovane regina Vittoria. E quasi otto anni prima il Musical World aveva recensito in un modo persino più che insultante le mie Mazurche op. 33: Frédéric Chopin ha raggiunto, con un mezzo o con l’altro che non siamo in grado di indovinare, una popolarità larghissima, una 121

reputazione troppo spesso negata a compositori dieci volte più geniali di lui. Chopin non è affatto un compositore mediocre; ma è, cosa che da molti potrebbe venire considerata il peggio, un compositore che produce le più assurde e iperboliche stravaganze. Il fatto che un così grossolano e limitato autore debba essere stimato, come è stimato in genere, un profondo e classico musicista, è una cosa sorprendente e che getta il ridicolo sulla capacità di pensare posseduta dai professionisti della musica.

E via di questo passo per un bel po’ di colonne, fino alla sferzante conclusione, con l’insulto spostato incredibilmente sulla mia vita privata: Vi è oggi un’attenuante ai misfatti di Chopin: egli è irretito nei lacci di quella maga che è George Sand, altrettanto celebrata per il numero e l’eccellenza dei suoi romanzi che dei suoi amanti. Ci sembra strano come essa, che una volta ha dominato il cuore del sublime e terribile religioso democratico Lammenais, possa ora adattarsi ad avvilire la sua eccezionale esistenza accanto ad una nullità artistica come Chopin.

I miei editori inglesi avevano protestato, sia pure in tono conciliante ed umilissimo per non provocare un’altra bella dose di improperi, il Musical World aveva replicato con minore astio ed era tornato poi varie volte sulle mie musiche con atteggiamento non più così arrogante. Tuttavia io sapevo che Londra avrebbe potuto guardarmi con anglica sufficienza e non mi fidavo interamente delle previsioni che faceva la candida Jane. Partito il 19 da Parigi, arrivai nella capitale inglese – prodigio del treno – già il 20, tre giorni prima della Pasqua. La Stirling e sua sorella mi avevano trovato un appartamento ed avevano pensato a tutto ciò che mi avrebbe messo a mio bell’agio, persino alla cioccolata calda di cui non posso fare a meno. Il periodo festivo mi permise di riposarmi, poi cominciai a fare delle visite: venni accolto da tutti con la più viva cordialità. I rappresentanti di Pleyel e di Érard mi mandarono i loro pianoforti, e mi mandò un suo pianoforte 122

anche Broadwood, che avevo conosciuto nel ’37, cosicché ebbi addirittura a mia completa disposizione tre splendidi strumenti. Con mia grande sorpresa mi venne subito proposto di suonare con orchestra alla Società Filarmonica. Nicchiai e dissi di no. Thalberg era stato scritturato per qualcosa come dodici concerti in teatro, Londra era piena zeppa di pianisti scappati dal continente e specialmente da Parigi, e il gusto locale era fortemente orientato sul classico, ...con l’ovvia appendice di Mendelssohn. Carl Hallé, diventato nel frattempo Charles, che conoscevo bene perché aveva studiato a Parigi con il mio amico Kalkbrenner, nutriva buone speranze di essere scritturato per suonare il Concerto in sol minore di Mendelssohn, mentre Émile Prudent, bravissimo allievo di Zimmermann, aveva fatto cilecca con il suo Concerto. Se almeno si fosse potuto provare uno dei miei concerti con la calma necessaria... Mi confidai con il mio amico Grzymała: “La Filarmonica m’ha chiesto di dare un concerto, ma io non ci tengo, sarebbe con orchestra. Ci sono andato e ho studiato il problema. Prudent ha fatto sentire alla Filarmonica il suo Concerto ed ha fatto fiasco. Bisogna suonare Mozart, Beethoven o Mendelssohn. Tuttavia i direttori ed altri mi hanno detto che i miei concerti sono stati eseguiti”. Erano stati eseguiti da Louise Dulcken, tedesca di nascita (sorella del violinista Ferdinand David, primo interprete del Concerto di Mendelssohn) ed inglese per matrimonio, che dava lezioni di pianoforte alla regina Vittoria e che era una celebrità locale. “Ma io”, proseguivo nella lettera, “preferisco astenermene perché non potrei attendermi alcun risultato favorevole. La loro orchestra assomiglia al loro roastbeef e alla loro zuppa di tartaruga: è forte, è rinomata, ...ma nulla più. E tuttavia ciò che dico non rappresenterebbe un ostacolo alla realizzazione del progetto se non vi si aggiungessero delle circostanze inaccettabili: il tempo ha per gli inglesi un tale valore che l’orchestra fa una sola prova, e che per di più questa prova è pubblica”. 123

A Londra capii veramente quanto stesse cambiando il mondo, e quale abbaglio avessi preso io nel 1830, quando avevo cercato di inserirmi in uno spazio professionale che ben presto avrebbe subito delle profonde modifiche. Seguendo l’esempio di Moscheles e delle sue celebri Variazioni sulla Marcia d’Alessandro avevo composto a diciassette anni le Variazioni op. 2 sul tema “Là ci darem la mano” del Don Giovanni di Mozart. L’anno dopo scrissi due lavori che accentuavano la mia appartenenza alla Polonia: furono il Krakowiak op. 14 e la Fantasia su arie nazionali polacche op. 13. Moscheles aveva dato inizio alla moda dei pezzi da concerto su musiche popolari con il Souvenir d’Irlande op. 69 e con gli Echoes from Scotland op. 75. Per la mia Fantasia scelsi la canzone popolare “La luna è già tramontata”, un krakowiak di un’opera di Karol Kurpin´ski ed una canzone contadina, “Jasio va a Torun´”, che avevo sentito in campagna. Il Krakowiak op. 14 era un rondò brillante, che aveva il suo ovvio precedente nei due rondò da concerto di Hummel, il quale era venuto a Varsavia nella primavera del 1828 per tenervi una serie di concerti. L’audizione di Hummel, e l’audizione di Paganini, che tra la fine di maggio e l’inizio di luglio del ’29, in occasione dell’incoronazione dello zar Nicola I a re di Polonia, tenne a Varsavia ben dieci trionfali concerti, mi avevano aperto gli occhi sulla realtà del virtuosismo strumentale contemporaneo, del virtuosismo verso cui ero stato già indirizzato da Wilhelm Wüferl, mio maestro d’organo ma eccellente pianista e, al contrario del mio primo maestro Z˙ywny, “moderno”. Würfel, pianista, come dicevo, eccellente, non era però un virtuoso di statura internazionale e alle sue esecuzioni delle pagine più brillanti – come alle mie esecuzioni, del resto – mancava quel raggiante splendore che scoprii invece nelle esecuzioni e nelle improvvisazioni di Hummel. I festeggiamenti per l’incoronazione di Nicola I non attirarono a Varsavia il solo Paganini. Venne anche Karol Lipin´ski, polacco di Lublino e rivale del Genovese. E il confronto fra i due fu quanto mai illuminante. 124

Il pubblico fu tutto per Paganini, tanto che Lipin´ski, offeso e deluso, se ne andò prima del previsto, ma la critica si divise e il mio amico Mauryczy Mochnacki cercò di trovare una sintesi fra le opposte posizioni. “Guarda un po’ qui”, mi disse un giorno, “quali cazzate scrive Lach Szyrma su Paganini” (Szyrma era un professore universitario, conservatore e classicista). “Che cosa scrive?”, risposi. “Una cazzata via l’altra, proprio una cazzata via l’altra”. “Ad esempio?”. Mauryczy sfogliò nervosamente il Giornale Generale Nazionale, e citò: “Lo spirito della sua esecuzione è lo stesso di quello della poesia di Byron”. “Mi sembra ben detto”, osservai. “Già, se Byron fosse nelle grazie di Szyrma. Ma siccome ama Byron come il diavolo l’acqua santa... Proseguo: i suoi suoni, dice, non sono né divini né angelici – come li qualificano talvolta i suoi ciechi ammiratori – ma dolorosi, lugubri, infernali. E poi dice ancora (ti faccio grazia di qualcosa): il suono naturale è puro, ma il suono del flautato ha talvolta qualcosa di stridente, di diabolico, e se non proviene dall’inferno proviene per lo meno dalla caverna del Freischütz”. “Beh!”, dissi, “ci prende un’altra volta senza volerlo, quel coglione. E del nostro Karol, che dice?”. “Dice così: questo grande artista della nuova scuola – ma che nuova, perdiana! Szyrma è proprio un coglione – si attiene strettamente alle regole dell’arte, non si scosta mai dal buon gusto, disprezza il brillante e, se capita che se ne serva, lo fa sempre da buon intenditore, in accordo con la sua aspirazione alla bellezza. E poi conclude, ovvio, che Paganini è romantico e Lipin´ski classico”. Lipin´ski era un artista di grande valore, ed era polacco. Feci allora la sua conoscenza, e più tardi, quando venne a Parigi, lo portai con me nei salotti che frequentavo e gli feci conoscere molti personaggi influenti. Poté esordire a Parigi, senza tuttavia ottenere il successo che sperava e che avevo sperato per lui; ma mi fu sempre riconoscente e una volta, scrivendomi per presentarmi il conte Tarnowski che voleva conoscermi, si dichiarò “vostro autentico adoratore”. Per Li125

pin´ski, artista esimio e uomo retto, provavo una grande simpatia. E tuttavia Paganini... Paganini apparteneva ad un altro mondo. Lo ascoltai e gli fui presentato. Era magrissimo, brutto, stava sempre un po’ storto, come se dovesse tenere perennemente il violino sotto il mento, le sue mani, anzi, i suoi lunghissimi artigli erano impressionanti. Ed era, stranamente, molto meticoloso, prendeva continuamente appunti su un quaderno dalla copertina rossa. Mi chiese di sillabargli il mio nome e lo annotò. Vidi, sbirciando sopra la sua spalla, che aveva scritto “Chopin giovane pianista”. Composi subito un piccolo pezzo in forma di variazioni, Souvenir de Paganini, sul tema del Carnevale di Venezia. Ma un anno più tardi scrissi due studi, che furono poi i primi due della mia op. 10, ispirati al violinismo paganiniano, il primo al rapidissimo balzellato sulle quattro corde, il secondo al moto perpetuo con i pizzicati della mano sinistra. E due anni dopo, con lo Scherzo op. 20 e la Ballata op. 23, entrai nel mondo stregato di cui Paganini mi aveva dato la chiave. L’articolo di Lach Szyrma provocò una tempesta di reazioni contrarie. Lessi nella Gazzetta di Varsavia un paragone ingiustificato: “L’esecuzione di Paganini possiede il fascino dell’ispirazione, quello di Lipin´ski tradisce un esercizio laborioso, Paganini è un maestro, Lipin´ski è l’allievo dei maestri”. Andai a cercare Mauryczy Mochnacki: “Questa è un’ingiustizia bell’e buona”, gli dissi. “Concordo. Secondo me è da folli, trafiggere uno per esaltare l’altro”. Il mio amico rifletté per un momento, poi mi chiese: “Che ne diresti, se io scrivessi un articolo, tentando di essere imparziale?”. “Direi che è una buonissima idea. Come lo imposteresti?”. “Mi sembra di poter asserire – correggimi se sbaglio – che l’arte di Paganini è personalissima, lirica e fantastica fino al grottesco, mentre l’arte di Lipin´ski è poeticamente oggettiva, e armoniosa fino al pittoresco”. “Io sono d’accordo. Ma non è un dire in modo diverso che l’uno è romantico e l’altro classico?”. “Sì, è così. Però non si tratta più di etichettare i due, e poi, io argo126

menterò il discorso in modo approfondito”. Così Mauryczy pubblicò un lungo e bellissimo articolo nella Gazzetta polacca, un articolo che aveva il merito di fare pacatamente chiarezza su una questione che era stata affrontata da altri con troppa partigianeria. Paganini suonava solo le sue musiche, Hummel suonava solo le sue musiche, Moscheles, Ries, Kalkbrenner, Field suonavano solo le loro musiche, e così avevano fatto i primi pianisti concertisti itineranti, come Dussek e Steibelt. Potevo io pensare, quando avevo vent’anni, che nel concertismo fosse imminente una grande svolta? Mendelssohn lo capì, ma lui viveva in un centro di cultura come Berlino, e a Berlino si stava creando il culto di Bach e della musica antica. Io non lo capii: vivevo a Varsavia. Né lo capii nell’estate del ’29, quando rimasi per qualche settimana a Vienna e vi tenni due concerti con musiche mie ed improvvisazioni. Tornato a Varsavia mi misi subito a comporre i due concerti, in modo da completare il mio repertorio, e prima di ripartire abbozzai anche la Polacca Brillante, e a Vienna schizzai il primo tempo di un terzo concerto che poi abbandonai (ne ho utilizzato gli abbozzi per l’Allegro da concerto op. 46). Avevo solo vent’anni, e nessun pianista, a vent’anni, nessuno, per la miseria, aveva mai messo in scuderia un repertorio così nutrito come il mio. Non mi servì. Forse e senza forse non ero tagliato per il concertismo itinerante, forse e senza forse non ero adatto ad affrontare le tournée. Tuttavia il repertorio che avevo preparato, e che sarebbe stato utile vent’anni prima, negli anni trenta non era più à la page. Che cosa fecero i concertisti un po’ più giovani di me, quelli che avevano fiutato per tempo il mutare del vento? Thalberg, Henselt, Döhler hanno scritto un concerto ciascuno, Liszt non ne ha scritti. Hanno però in repertorio molte loro variazioni e fantasie su temi di melodrammi, macchine virtuosistiche spettacolari per pianoforte solo che sono state la grande novità degli anni trenta e a cui non sono interessato. Liszt esegue i concerti di Beethoven, Weber, Hummel, Moscheles, 127

Mendelssohn, ...e i miei. Questo mondo che cambia, e che si volge verso il passato e lo valorizza, garantirà dunque la sopravvivenza di quei miei lavori che io non ho sfruttato? Che paradosso!

Delle mie avventure a Londra e in Scozia, della regina Vittoria e della nobiltà affamata di musica, e di una strana notizia che dalla Scozia rimbalzò a Parigi La mia presenza a Londra fu notata prima ancora che mi fossi messo in moto per fare tutte le visite che avevo in programma, e i miei timori della vigilia si dimostrarono infondati. Cinque allievi mi chiesero delle lezioni nel giro di pochi giorni, un giornale parlò di me in termini estremamente elogiativi. E fu così che Jenny Lind mi mandò l’invito per la rappresentazione della Sonnambula. Il 12 maggio cenai con lei, ospiti entrambi della signora Grote che la proteggeva. Come dicevo, fra noi era subito scoccata una scintilla di calda simpatia. Dopo la cena Jenny cantò fino a mezzanotte delle canzoni svedesi, che mi interessarono molto. La musica svedese ha un carattere particolare e speciale quanto la musica polacca. Come scrissi a Grzymała, “la musica slava e la musica scandinava sono completamente diverse, e tuttavia sono vicine l’una all’altra più di quanto lo siano la musica italiana e la musica spagnola”. Forse era anche merito di Jenny: che artista, per Giove! Ad introdurmi nell’alta società inglese ci pensò la duchessa di Sutherland, che il 15 maggio mi invitò a suonare a casa sua in un trattenimento dato in occasione di un battesimo, presenti la giovane regina Vittoria, il principe Alberto suo marito, il principe di Prussia, il vecchio duca di Wellington e una quantità – ottanta persone all’incirca – di milordi e milordesse. Insieme con il pianista Julius Benedict, molto amico di Jenny Lind, suonai, facendo il dovuto omaggio al classico, le Variazioni in sol maggiore di Mozart e poi, da solo, qualcuno dei miei 128

valzer e delle mie mazurche. Non dico che fosse umiliante, per me, sentirmi chiedere di suonare Mozart, ma avrei certamente preferito se gli ospiti della duchessa avessero desiderato sentire una delle mie maggiori composizioni, una ballata, uno scherzo, la Barcarola o la Polacca-Fantasia. Pazienza! I bravi pianisti Benedict e Chopin erano però come le patate al forno e gli spinaci al burro rispetto alla maestosità dell’arrosto, e di arrosto ce n’erano quella sera tre specie pregiatissime: tre cantanti italiani celeberrimi, il tenore Mario, il baritono Tamburini, il basso Lablache. La regina si rivolse a me con cortesia, per due volte, e il principe Alberto si accostò a me mentre suonavo al pianoforte, cosa, mi fu detto, che capitava rarissimamente e che dimostrava un insolito interesse. La regina, coperta di decorazioni e di parure di diamanti, scintillava come un albero di Natale e si muoveva con un’eleganza suprema (la vidi scendere lo scalone del palazzo con piede fermissimo e sicurissimo). Con me, dicevo, fu cortese e carina. Ma era evidente che era stato il canto, a farla sentire in paradiso. Ed io non venni invitato a suonare a corte. La serata in casa della duchessa di Sutherland mi procurò molti inviti a pranzo e a cena, e tutti coloro che incontravo erano con me gentili. Ma io non mi ci trovavo bene, con gli inglesi, ed avevo per di più l’impressione che, essendo vestito con una certa ricercatezza, avendo le scarpe pulite e non avendo messo nel mio biglietto da visita la solita appendice del “dà lezioni private, suona in serate”, mi considerassero come una specie di dilettante, un gran signore che faceva per hobby il compositore e il pianista. Per la serata in casa della duchessa avevo ricevuto venti ghinee, prezzo richiesto per me dal costruttore Broadwood, che conosceva le tariffe e che sapeva trattare. Una sera la vecchia Rotschild mi chiese senza tante perifrasi: “Qual è il vostro prezzo per una serata?”. “Venti ghinee”, risposi. La saggia signora scosse la sua testa canuta: “Voi suonate davvero bene, nulla da dire. Ma vi consiglierei di chiedere di meno: a questo punto della season bisogna avere più moderazione”. 129

Un po’ sconsolato scrissi a Grzymała: “Se fossi nella condizione di spostarmi per tutta la giornata da Hanna a Caifa, se non sputassi sangue da qualche giorno, se fossi più giovane, se non fossi oppresso dalle mie amicizie, come lo sono, allora, forse, potrei iniziare una nuova vita. Le mie care dame scozzesi mi testimoniano un vivissimo affetto, sono sempre con loro quando non sono a zonzo. Ma hanno l’abitudine di andare in giro il giorno intero e di rompersi le reni in vettura per tutta Londra per lasciare i loro biglietti da visita. Vorrebbero che andassi da tutti i loro amici, ma è già tanto se io sono ancora in vita. Quando mi son fatto sballottare per tre o quattro ore in vettura è come se avessi fatto il viaggio da Parigi a Boulogne. Le distanze, qui...! C’è stato un ballo polacco, molto ben riuscito. Non ci sono andato, sebbene mi fosse stato mandato un biglietto d’invito, perché avevo pranzato da lady Kinlogh in compagnia di lord, cancellieri e il diavolo sa cosa, in ogni caso ogni sorta di gente con grandi cordoni sul gilet. Vengo presentato, ma io non capisco a chi, e a Londra non mi riconosco del tutto. Vent’anni di Polonia, diciassette di Parigi... Che c’è da stupirsi, se qui non mi sento a mio agio?”. Quando suonavo nei salotti gli ospiti ascoltavano senza fiatare. Era già un segno di somma distinzione, che si sospendesse la conversazione. Ma, quanto a capire la mia musica, ci correva molto. La borghesia inglese ha bisogno di qualcosa di straordinario e di meccanico, impossibile per me. Quanto al gran mondo, che viaggia, è altezzoso ma civile e, quando si decide a giudicare da solo, è competente; ma è talmente distratto da mille cose, talmente oppresso dalla noia delle convenienze e delle convenzioni che gli è diventato indifferente se la musica sia buona o cattiva: ne sente dalla mattina alla sera. Non c’è nessuna esposizione di fiori senza musica, nessun pranzo senza musica, nessuna vendita di carità senza musica. La mia unica preoccupazione, dopo un mese di vita londinese, era di dare qualche concerto privato che mettesse un po’ in sesto le mie finanze: se avessi trovato una 130

sala tra i centocinquanta e i duecento posti avrei potuto incassare un centocinquanta ghinee. Adelaide Sartoris, ex cantante che aveva fatto un matrimonio da favola, mise a mia disposizione il suo salone: vi suonai il 23 giugno, avendo come partner il tenore Giuseppe Mario, che cantò tre romanze, mentre io suonai varie mie composizioni brevi. Incassai, come previsto, centocinquanta ghinee. Tenni un secondo concerto il 7 luglio nel palazzo di Lord Falmouth, insieme con Pauline Viardot. Il fatto che Pauline, la migliore, la più devota amica di George Sand, mi avesse cercato ed avesse, anzi, cantato in teatro, senza che glielo chiedessi, le mie mazurche arrangiate da lei per la voce, mi aveva un po’ sorpreso e mi aveva reso felice. Seppi da Pauline, e mi fece piacere, che Aurore le aveva scritto per avere notizie della mia salute. Anche Mario, che era ospite fisso del teatro italiano di Parigi e che conoscevo bene, fu molto gentile nel, diciamo pure, darmi amichevolmente una mano: la sua fama aiutò il pubblico inglese a... digerire l’alto prezzo che avevo fissato per il mio concerto. Al secondo concerto assistette la moglie del grande scrittore Thomas Carlyle, che scrisse a Jane Stirling, mandandole dei versi composti da un suo amico “in suo onore e per la sua gloria”, cioè per il mio onore e per la mia gloria, e chiedendole di farmi conoscere la traduzione, visto che io l’inglese né lo capisco né lo parlo. Le parole di accompagnamento ai versi mi ricordarono le lettere di Astolphe de Custine e mi commossero. Jane me le aveva tradotte: “Io preferisco la sua musica a quella di tutti gli altri, perché essa non è un prodotto artistico offerto all’ammirazione del mondo, effetto che in me produce la maggior parte della musica, ma il riflesso d’una parte della sua anima, d’una particola della sua vita prodigiosa in favore di coloro che hanno orecchie per intendere e cuore per comprendere. Penso che ciascuna delle sue composizioni ha dovuto sottrarre dei giorni a quelli che gli erano dati da vivere! Oh, quanto vorrei che capisse l’inglese, quanto vorrei potergli parlare con tutto il mio cuore”. Anche il 131

marito fu con me gentilissimo. Conobbi inoltre un altro scrittore, che mi fu detto essere celebre: Charles Dickens. La season era finita, e con la fine della season si chiudeva il periodo della mia permanenza a Londra. Alla metà di luglio, amareggiato e depresso, scrivendo come al solito a Grzymała, che da anni era diventato il mio... confessore, tirai le conclusioni. “Sono snervato, soffro di stupida nostalgia e, malgrado tutta la mia rassegnazione, sono inquieto: che sarà di me? Di tutto il denaro che ho guadagnato ho dovuto sacrificare circa duecento ghinee (cioè, all’incirca, cinquemila franchi) per l’alloggio e la carrozza e il domestico. Quello che mi resta mi permetterebbe di vivere in Italia per un anno ma, qui, appena per sei mesi. Non ho dato un concerto dalla regina sebbene avessi suonato in sua presenza presso la duchessa di Sutherland. Attualmente la regina ha lasciato Londra. Può darsi che io sia stato scartato da qualche regio direttore per aver trascurato di rendergli visita, a meno che non sia per aver rifiutato di suonare alla Società Filarmonica”. Il direttore della Filarmonica era anche direttore dei concerti di corte: non ero andato a fargli visita, e forse se l’era legata al dito. Conclusione: “Se la season fosse durata sei mesi avrei potuto farmi conoscere a poco a poco. Mi è mancato il tempo. Così, tutto si è imbrogliato”. Mi era anche capitata qualche piccola disavventura finanziaria. Una mia allieva era partita per le vacanze tralasciando distrattamente (!) di pagarmi nove lezioni (nove ghinee perdute). Altre allieve che mi avevano impegnato per due lezioni alla settimana ne avevano fatte la metà di quanto previsto. Ad una signora arrivata da Liverpool avevo dovuto dare cinque lezioni in cinque giorni. Una lady voleva delle lezioni per la figlia. Ma siccome il suo maestro prendeva solo una mezza ghinea concordò con me una sola lezione alla settimana invece delle due di prammatica: tutto per poter dire che la figlia, d’altronde ben dotata, era stata mia allieva. In altre circostanze avrei mandato a quel paese e la dama di Livepool e la lady. Ma non ero nella condizione di esigere il rispetto che in teoria mi era dovuto. 132

In questo stato di incertezza accettai l’invito di Jane Stirling e della sorella, pensando di passare l’agosto in Scozia prima di raggiungere Manchester il 28, dove avevo accettato di prendere parte ad un concerto. Arrivando alla stazione di Londra per imbarcarmi sul treno espresso per Edimburgo, via Birmingham e Carlisle, ebbi la sorpresa di trovare un inviato di Broadwood che mi consegnò tre biglietti di viaggio. Uno per me, uno per il mio cameriere, certo. E il terzo per chi? Sempre per me: quel bravuomo di Broadwood aveva riservato, oltre al mio posto, anche quello in faccia al mio, per evitarmi il fastidio di trovarmi con un dirimpettaio: un’idea da gran signore, non da mercante! In dodici ore percorsi le 407 miglia da Londra ad Edimburgo, ad Edimburgo mi fermai un giorno e mezzo per riposare e per visitare la città, superbamente bella, e quindi raggiunsi in carrozza Calder House, a dodici miglia dalla capitale, dove sarei stato ospite di Lord Torpichen, cognato di Jane e della sorella. Il soggiorno a Calder House, nell’antico castello in cui non mancavano i lunghi corridoi oscuri, la legione dei ritratti di famiglia e il fantasma che si mostrava nei momenti più inaspettati (ma io non lo vidi) fu quanto mai piacevole. L’unico mio assillo – e non da poco – riguardava il mio futuro. Rimanere in Inghilterra? Me lo consigliavano in molti, ma io non me la sentivo di affrontare di nuovo il tourbillon della vita di società londinese e di cercare di piacere come pianista forzando la mia natura. Però non sapevo che cosa sarebbe accaduto, se fossi rientrato in una Parigi ancora agitata dai postumi della rivoluzione. Scrivendo a Grzymała gli confidai il mio cruccio: “Se soltanto fossi sicuro di avere da mangiare a Parigi, nel prossimo inverno”. Nell’ansia di mettere insieme quanto più denaro possibile presi parte al concerto a Manchester il 28 agosto e poi ritornai in Scozia, a Glasgow. Jane Stirling, ossessionata dall’idea di farmi conoscere ed apprezzare da tutta la noblesse scozzese, mi scarrozzò di qua e di là come se fossi un baule. Ebbi anche un brutto incidente di viaggio, dal quale uscii miracolosamente con poche con133

tusioni: la carrozza ribaltò in piena corsa e rotolò verso un precipizio, fermandosi nell’impatto con un albero. Vidi la morte in faccia. Paesaggi meravigliosi, dimore splendide, gente incuriosita che mi chiedeva di suonare e che dopo avermi sentito diceva invariabilmente “like water”, intendendo che la mia musica scorreva come l’acqua. Una vita d’inferno, distrutto com’ero dalle troppe premure delle mie due vestali. Lo scrissi a Grzymała: “Esse finiranno col soffocarmi con le loro gentilezze, ed io, pure per gentilezza, le lascerò fare”. Suonai a Glasgow e a Edimburgo, intascando un po’ di denaro. E mentre ancora continuavo a dibattere con me stesso le ipotesi quasi tutte tremendamente pessimistiche che facevo sul mio avvenire mi arrivò una lettera di Grzymała che mi chiedeva fresco fresco se era vero che stavo per maritarmi.

Delle mie idee sul matrimonio, del mio ritorno a Parigi, del mio ultimo e triste incontro con Aurore e dei miei ricordi di Nohant A Grzymała risposi subito, da Edimburgo (era il 30 ottobre): “Hai dunque dimenticato quello che sono, per dedurre dalle lettere in cui ti scrivo di sentirmi sempre più debole, oppresso, senza alcuna speranza, senza un tetto, per dedurre dunque da tutto quello che precede che sto per sposarmi?”. Abitavo presso un medico omeopatico polacco, il dottor Łyszczynski, coniugato con una scozzese e che in Scozia se la passava piuttosto bene. “Non voglio più fare visite in nessun posto”, scrivevo a Grzymała, “perché il colera non è lontano ed anche per non dover passare tutto l’inverno in qualche posto dove mi capiterebbe di crollare del tutto”. Aspettavo – sapevo bene che ci sarebbe stata – la visita di Jane Stirling e della sorella, che non avevo più visto da qualche giorno. Se non ero nelle loro vicinanze mi scrivevano, io non rispondevo ma loro mi scrivevano lo stesso. Erano così noiose, che Dio le perdoni! E mi volevano un bene dell’anima e avrebbero vo134

luto aiutarmi, anche..., sì, anche proponendomi in modo velato gli sponsali. Non posso sapere come fosse nata la voce che era rimbalzata fino a Parigi. Forse le mie due sante donne s’erano sconsideratamente lasciate scappare qualcosa del loro disegno e la notizia, data per certa, doveva aver fatto il giro del bel mondo, del bel mondo scozzese a cui, per la stagione della caccia, s’erano aggregati esponenti della nobiltà francese, polacca, italiana, tedesca. “Per sposarsi”, scrissi a Grzymała, “bisognerebbe provare una qualche attrazione fisica. Ora, quella che non è sposata mi rassomiglia troppo”. Era così magra, povera Jane, con un naso così lungo. “Come farei, ad abbracciare me stesso?”. Alla sorella di Jane, che mi aveva parlato della grande amicizia e del grande affetto che entrambe avevano per me, e della possibilità che, ehm, ehm, che l’amicizia, ehm, ehm, portasse a, ehm, ehm, avevo dichiarato seccamente che l’amicizia è l’amicizia, e basta. “E anche se mi innamorassi e fossi riamato secondo il mio desiderio”, dicevo a Grzymała, “non mi sposerei perché non avremmo da mangiare, né dove alloggiare. Le ragazze ricche cercano i ricchi e se si incapricciano dei poveri bisogna che questi non siano dei malati ma degli uomini giovani e ben portanti. Si ha il diritto di esser poveri da soli, ma l’esserlo in due è la più grande delle disgrazie. Sono disposto a crepare all’ospedale ma non voglio lasciare dietro di me una moglie nella miseria”. Quando non pensavo all’incerto avvenire ero roso dalla nostalgia: “Non penso a sposarmi”, conclusi, “penso alla mia casa, a mia madre, alle mie sorelle. Che Dio conceda loro di non avere altro che pensieri felici. Ma che cos’è della mia arte? E che ho fatto io del mio cuore? È già tanto se mi ricordo ancora di come si canta nel mio paese. Questo mondo svanisce davanti a me, io dimentico, io non ho più forza, io mi sollevo un po’ per ricadere più in basso. Non mi lamento con te, ma siccome mi hai chiesto dei chiarimenti ti spiego che sono più vicino alla bara che al letto nuziale. Il mio spirito è calmo”. 135

Ritornai a Londra ai primi di novembre, raffreddatissimo e con un feroce mal di testa. Un medico omeopatico venne a vedermi tutti i giorni (e costava caro), ricevetti moltissime visite (erano subito arrivate Jane e la sorella), e il 16 potei prender parte ad un concerto prima del ballo che si dava per raccogliere fondi per la Polonia. Alla fine avevo deciso di rientrare a Parigi ed avevo incaricato Grzymała di cercarmi un appartamento, perché quello che avevo ancora in affitto non era adatto per passarci l’inverno. Ma nello stesso tempo mi sfogavo: “Perché ritorno? Perché Dio dispone le cose in questo modo? Invece di uccidermi subito mi fa morire a poco a poco per questa febbre di indecisione. Ed oltre a questo le mie brave scozzesi m’annoiano di nuovo. La sorella di Jane, protestante molto praticante e gran brava donna, vorrebbe senza dubbio fare di me un protestante perché mi porta la Bibbia, mi parla della mia anima, mi indica quali salmi devo leggere. È religiosa e s’interessa straordinariamente alla mia salvezza; non la smette mai di dire che l’altro mondo è migliore di questo, ed io, che tutto ciò lo conosco a memoria, le rispondo, per dimostrarglielo, con citazioni della Sacra Scrittura”. Altro che salmi e Bibbia e Sacra Scrittura. Io mi torturavo perché, malato come continuavo ad essere, non potevo dare delle lezioni: mi restava quanto mi sarebbe bastato per vivere a Londra non più di tre o quattro mesi. Il 23 partii finalmente, accompagnato dal mio cameriere (irlandese, un bravissimo ragazzo) e da un compatriota, e il giorno dopo ero a Parigi. Avevo chiesto di riscaldare per bene il mio appartamento, senza badare a spese, ed avevo chiesto – mi concedevo un capriccio – di avere nel salone un mazzolino di violette, tanto per trovare un po’ di poesia prima di mettermi a letto dove, lo prevedevo, sarei rimasto a giacere per molto tempo, con la tosse, le nevralgie, i gonfiori, l’asma e l’insonnia. Appena arrivato seppi che era morto il dottor Molin, il mio dottor Molin che sapeva, solo lui, come tenermi sano. In questi ultimi mesi ho cambiato vari dottori, in genere omeopatici, che brancolano tutti a tentoni, che mi consigliano come tanti 136

pappagalli un clima diverso, calma, riposo. Un bel giorno lo avrò, il riposo, senza di loro. La mia salute non fa altro che andare su e giù come un altalena, ma ogni volta meno su e ogni volta più giù. Da qualche settimana ho deciso di non prendere più medicine e tisane, tanto non servono a nulla. Desidero soltanto che venga a Parigi – gliel’ho chiesto e richiesto – mia sorella Ludwika: ritrovarmi con i miei significherebbe mettere riparo ai morsi della nostalgia, e questa sarebbe senza dubbio la migliore delle medicine. Riesco ancora a dare qualche lezione, esco qualche volta. Sono andato a teatro – mia vecchia passione – ed ho assistito alla prima rappresentazione del Profeta di Meyerbeer, uno spettacolo magnifico, con l’impiego – per la prima volta nella storia! – della luce elettrica, con un incendio e un balletto di pattinatori su un lago gelato. I pattinatori avevano pattini a rotelle, ovviamente, non era possibile riprodurre in scena il ghiaccio, ma l’effetto era ugualmente superbo. Mi ha fatto piacere constatare che Meyerbeer compone poco ma non fallisce mai il colpo, anche se per me valgono ancora sempre le vecchie equivalenze: Rossini=genio, Meyerbeer=talento, Auber=grazia, Halévy=savoir-faire. Molte persone sono venute a trovarmi. Aurore, come già ho detto, s’è informata più volte, con amici comuni, sulla mia salute, ma non ha fatto lo sforzo di bussare alla mia porta. Dopo che ci siamo lasciati l’ho rivista una sola volta, il 4 marzo 1848. Dell’incontro scrissi a Solange, la figlia di Aurore che nel distacco fra sua madre e me, col suo matrimonio mal combinato, aveva avuto una parte non marginale. Ma di questo non voglio parlare: è una storia troppo triste e troppo amara. Dicevo del nostro incontro. Ero andato a trovare una comune amica, la contessa Charlotte Marliani. Uscendo dall’anticamera mi imbattei in Aurore, che stava giusto arrivando. “Buongiorno, Signora”. Fu tutto quello che in quel momento riuscii a spiccicare, non sapevo che altro dire. E lei non sapeva che altro rispondere. Disse però il semplice “Buongiorno” con voce ferma. 137

“Da quanto tempo non avete notizie di Solange?” Mi era venuta un’ispirazione. “Non ne ho da una settimana”. “Non ne avete da ieri, dall’altro ieri?”. “No”. Aurore mi guardava con un po’ di stupore e un po’ di fastidio. “Allora vi informo che... siete... nonna. Solange ha avuto una figlioletta, ed io sono molto contento di potervi dare per primo questa notizia”. Feci un rapido saluto, mi avviai e discesi le scale. C’era con me Edmond Combes, un bravo ragazzo molto devoto ad Aurore ma anche a me, e siccome avevo dimenticato di dire che Solange stava bene, cosa importante, soprattutto per una madre, quando arrivai al fondo delle scale mi rivolsi al mio accompagnatore: “Scusatemi, Edmond, se vi prego di risalire, io non ce la faccio, mi verrebbe un terribile accesso di tosse. Dite per favore alla signora Sand che sua figlia sta bene, e la bambina anche”. Aspettai che Combes ritornasse. Ricomparve dopo pochi minuti, ed insieme con lui c’era Aurore. “Mi dite che Solange sta bene? È vero? Ma perché non mi ha scritto?”. Aurore dimenticava di aver cacciato di casa la figlia. Evitai di farglielo notare. “Mi ha scritto lei stessa a matita due parole il giorno dopo la nascita della bimba”. “Ma avrà sofferto, immagino”. “Ha sofferto molto ma dice che la sua bimbetta le ha fatto dimenticare tutto”. “E suo marito è con lei?”. Aurore sapeva che il marito, lo sconsiderato scultore, aveva intenzione di andare a cercar lavoro all’estero. “Mi sembrò che l’indirizzo fosse di sua mano”. “E voi, come state?”. “Oh, va abbastanza bene. Vi saluto, signora”. “Addio. E grazie”. Chiamai il portiere, uscii, e mi avviai, taciturni entrambi, con Combes al mio fianco. Nei miei spostamenti per Parigi 138

non rinuncio mai alla carrozza. Ma quella volta ero così turbato che non ci pensai proprio, alla carrozza, tanto da farmi a piedi tutto il cammino, che non è poco, da Rue Godot de Mauroy, dove abitava la Marliani, fino alla Place d’Orleans, dove abitavo io. Ero triste, abbattuto. Vedere Aurore mi aveva riportato al mio primo soggiorno a Nohant, e non potevo che rimpiangere amaramente un luogo a me molto caro di cui mi ero, o ero stato, privato. Rividi il momento in cui Nohant era apparsa all’orizzonte. Eravamo partiti da Marsiglia in battello, eravamo arrivati ad Arles e l’avevamo visitata. Poi, viaggiando a piccole tappe, tanto che da Marsiglia a Nohant impiegammo una settimana, eravamo giunti a destinazione. Il paesaggio della Provenza s’era a poco a poco convertito nel paesaggio tutto diverso del Berry. Dolci avvallamenti, querce, olmi, castagni, salici in riva ai ruscelli, tutto mi ricordava la terra intorno al villaggio in cui ero nato, Z˙elazowa Wola. E sulle mura del castello – bello e comodo castello di residenza, non castello fortificato – vidi apparire gli arbusti della vitalba e delle rose rampicanti, proprio come nella casa in cui ero venuto alla luce. Non che fossi nato in un castello, no. Ero nato in una casa colonica presso la dimora signorile dei conti Skarbek. Ma il tuffo al cuore lo ebbi vedendo il muro ornato di vitalba e roselline: era come se fossi tornato bambino. Per parecchi mesi facemmo vita di famiglia, una famiglia di possidenti terrieri che educano i figli, hanno il loro medico che è ben più che un medico, ricevono ed ospitano gli amici venuti da lontano, trattano cordialmente i contadini e gli artigiani del posto, rivedono i parenti: vicino a Nohant abitava con la moglie e la figlia Hippolyte Chatiron, fratellastro di Aurore, un campagnolo ingenuo dal cuore largo, ed amante del buon vino, del quale divenni subito amico. Vero è che Aurore predicava contro il diritto di proprietà, tanto che io, essendo di parere del tutto opposto, una volta le dissi: “Il mio capitale consiste nelle mie dieci dita, tu sei la castellana di Nohant. Non dovremmo invertire le parti?”. Lei si arrabbiò un poco: “Che c’entra, questo? Io professo un principio, e 139

non avrei nulla da recriminare se diventasse legge”. Adesso è arrivata la repubblica, ma i principi socialisti dormono ancora in maestoso letargo ed Aurore è sempre la castellana di Nohant, sebbene durante la rivoluzione avesse dovuto andarsene da Parigi perché certi suoi articoli piuttosto incendiari sembravano incitare i francesi alla guerra civile, e sebbene avesse poi dovuto lasciare anche il suo castello e rifugiarsi a Tours perché i contadini del Berry l’avevano accolta con un’aria così truce che metteva paura. Nell’estate del ’39 Aurore prendeva molto sul serio, ed assolveva splendidamente, i suoi molteplici compiti: di mia innamorata, di madre, di istitutrice, di padrona di casa, di scrittrice, e, se necessario, di mia infermiera. Non aveva voluto prendere un istitutore, ed era commovente, vederla ponzare sull’enciclopedia di Pierre Leroux e Jean Reynaud per preparare le lezioni di Maurice e di Solange. A Valldemosa aveva letto a Maurice e a me molte pagine del De l’humanité, de son principe, de son avenir di Leroux e della Économie politique di Reynaud, aveva studiato l’Encyclopédie dei due che trattava dell’educazione e ce la metteva tutta nel seguirne scrupolosamente le direttive. Il suo idealismo si stava convertendo in programma politico, ma della politica capiva poco, come me, del resto. Lei sognava una Francia socialista, io una Polonia libera: la rivoluzione dello scorso anno non ha aperto le vie per la realizzazione né dell’una né dell’altra. A Nohant avevo occasione di ascoltare la musica popolare, che mi piaceva molto. La mia preferita era la Bourrée de Marsillat, che mi incantava quanto le mazurche della mia patria. Facevamo, in famiglia, persino del teatro. Io posso dire senza insuperbirmi a vuoto di avere un certo talento mimico: i salotti di Parigi hanno più e più volte applaudito le mie macchiette dell’inglese sentimentale e dell’inglese che parla un francese di fantasia, e la caricatura – che Dio mi assolva – di Federico il Grande. Quando mi trovo fra intimi amici, en petit comité, mi esibisco nella caricatura di Bellini, del mio amico Bellini, cioè di certi tratti tipici della sua musica. A Nohant 140

facevamo delle azioni mimiche e recitavamo, spesso io improvvisavo la musica di accompagnamento... E anche questo mi riportava alla mia adolescenza, quando con i compagni di liceo recitavo le piccole commedie che scrivevo con la mia sorellina Emilia, così ricca di talento, povera cara, morta così giovane, a quattordici anni, di tisi...

Di come, grazie ad un veggente, fu ritrovato un plico che si era volatilizzato, degli amici che mi stanno vicino e della malattia che forse mi porterà presto alla morte Il mio... agente immobiliare di fiducia Julian Fontana se ne stava a New York, come ho detto, e per trovare un alloggio più conveniente per l’inverno io mi ero rivolto a Grzymała, che per quanto volenteroso s’era rivelato meno accorto di Julian, tanto che dovetti trascorrere la brutta stagione nell’appartamento di Place d’Orleans, affittato nel 1842 e piuttosto umido, ma comodo, allora, per una ragione di... convivenza: ha due ingressi, uno sulla Place d’Orleans, l’altro sulla Rue St. Lazare. Umido e, dopo la separazione, troppo grande per me. In giugno, grazie ad un gran daffare che si dettero i miei amici, traslocai un po’ fuori città, sulla collina di Chaillot, adattissima per l’estate perché più fresca e salubre e, per di più, con una magnifica vista su Parigi, sull’immensità di Parigi, la città di un milione d’abitanti – un milione! – che nel 1831 avevo guardato senza credere ai miei occhi. A Londra e in Scozia non ero riuscito a scrivere musica, tranne un piccolo valzer, non commerciabile, per la sorella di Jane, e dal mio ritorno in Francia fino a quando traslocai a Chaillot ero rimasto inattivo come compositore. Niente da vendere agli editori, dunque, la salute che mi consentiva di dare poche lezioni... A giugno ero arrivato a raschiare il fondo del barile, e dopo aver consumato tutto il mio gruzzolo con le spese del trasloco non sapevo più come tirare avanti. Un giorno la buona signora Erskine, cioè la sorella di Jane, venne a trovarmi e cominciò a farmi dei discorsi incoe141

renti e incomprensibili. Pensando che volesse o ripropormi le nozze o impartirmi un’altra lezione di catechesi biblica evitai di chiederle delle spiegazioni. Alla fine lei si decise a pormi una domanda diretta: avevo per caso ricevuto, in marzo, un grosso plico senza il nome del mittente? Non avevo ricevuto proprio niente, risposi. Lei sbiancò, balbettò, strinse spasmodicamente il fazzoletto che non aveva cessato un momento di martoriare, e mormorando convulsamente uno “scusatemi!” scappò via a tutta birra. Ero sbalordito, non sapevo che pensare, e conoscendo il carattere tutt’altro che equilibrato della Erskine non feci neppure delle congetture e lasciai perdere. Lei mi scrisse il giorno dopo – seppi più tardi che aveva consultato Grzymała e che questi le aveva consigliato di essere chiara con me – per raccontarmi una strana faccenda. In marzo Jane, volendo mandarmi un cestino di violette, perché da quando avevo chiesto un mazzolino di questi fiori per il mio rientro a Parigi s’era fissata in testa che senza violette io non potessi vivere, dunque, per mandarmi le violette Jane aveva chiamato un commissionario, un commissionario che, vedendo il nome e l’indirizzo, le aveva detto: “Che strano, ho appena consegnato a questa persona un plico che da com’era sigillato sembrava importante”. Avendo capito dai nostri discorsi che, a meno di non essere smemorato (o pazzo, pensai io), quel plico proprio non l’avevo ricevuto, la Erskine si era preoccupata ed aveva rintracciato il commissionario, il quale le aveva confermato l’avvenuta consegna, non nelle mie mani ma in quelle della portinaia, la Stefania. Animate dal loro solito spirito filantropico la Erskine e Jane si erano allora recate in Place d’Orleans: la Stefania ricordava di avermi dato le violette – me lo ricordavo anch’io – ma non si ricordava del plico. E il commissionario, diceva la Erskine, non le aveva fatto firmare la ricevuta. Ero proprio proprio sicuro che... Le scrissi pregandola di venire da me quando le era comodo, cosa che avrebbe del resto immancabilmente fatto anche senza il mio invito. 142

Non solo venne, ma arrivò insieme con il commissionario, il quale, temendo di essere sospettato di negligenza, se non di furto, aveva preso una sorprendente iniziativa. “Maestro”, mi disse, “ho consultato il celebre veggente Alexis, il quale mi ha messo la mano sulla testa, è andato in trance, ha subito visto bene la scena e me l’ha descritta – ero stupefatto – con precisione: il qui presente commissionario aveva avuto l’incarico di portare al maestro Chopin un plico, sì, un plico molto importante, sì, un plico che non era mai arrivato nelle mani del destinatario”. “Chi era la persona, di grazia, che vi aveva chiamato per affidarvi quel plico?”, chiesi. “Non posso dirlo”, mi rispose tutto compunto il commissionario, “chi ha messo il plico nelle mie mani mi ha confidato di voler mantenere ad ogni costo l’incognito, e nel mio mestiere, come potete bene immaginare, l’affidabilità è essenziale”. Non replicai. “Alexis”, continuò il commissionario, “vide che il plico era stato consegnato, sì, in una piccola oscura stanzetta, alla più grossa di due donne che vi si trovavano. Questa donna, che teneva in mano una lettera, aveva preso il plico, assicurando che l’avrebbe consegnato subito al destinatario, ed era uscita. Ma mentre il commissionario se ne stava andando era tornata senza la lettera e con il plico ancora in mano”. La faccenda cominciava ad interessarmi. Era da un bel po’ che sentivo parlare di sonnambulismo, di telepatia, di magnetismo, di mesmerismo, di chiaroveggenza, di tutta una congrega di fenomeni paranormali, e questo Alexis era diventato del resto famoso per i suoi ritrovamenti. Mi rivolsi al commissionario: “Un veggente così mirabile saprà anche dunque dov’è finito il plico”. “No, purtroppo. Per scoprirlo, cioè per andare in trance e per avere la visione, ha bisogno di toccare dei capelli o un fazzoletto o dei guanti appartenenti alla donna che ha preso il plico in consegna”. Io ero incuriosito, la Erskine più che mai agitata. “Che possiamo fare, maestro? Che possiamo fare?”, mi chiese. Riflettei un momento. “Un’idea ce l’ho. Spero che non sia bislacca, ma tutta questa vicenda è così strana! Dite alla Stefania che nel mio apparta143

mento ci sono ancora dei miei fazzoletti e il dizionario di Boiste, che ho dimenticato di prendere, e pregatela di portarmeli. Riuscirò a procurarmi la ciocca”. Il giorno dopo arrivò da me la portinaia. Dopo averla ringraziata le dissi: “Stefania, la signora scozzese, che abita a St. Germain, ha conosciuto là una guaritrice sonnambula che sarebbe capace di fare una previsione sul decorso della mia salute se potesse toccare una ciocca dei miei capelli. Io non ci credo. Però, siccome non si sa mai, vorrei mandare una ciocca di capelli di una persona sana e di sesso diverso. Se la guaritrice si accorge dell’inganno, allora manderò una ciocca dei miei capelli. Volete aiutarmi?”. “E come? Dando una mia ciocca alla signora scozzese?”. Annuii. La brava Stefania rise di cuore e mi assicurò che avrebbe fatto quanto desideravo… Il giorno dopo la Erskine arrivò, esultante, insieme con il commissionario. “Siamo stati da Alexis”, dichiarò, “ha detto che i capelli sono quelli della persona giusta, che il plico è stato messo nel tavolino da notte, che è ancora lì e che non è stato aperto. Bisogna riavere ciò che vi appartiene, e Alexis ha assicurato che il commissionario può recuperarlo, ma che deve agire con prudenza. Lo autorizzate a compiere questa missione?”. “Certo che sì”, dichiarai. “Tutta questa faccenda è così stravagante che voglio vederne la conclusione. Anzi, vi ringrazio di cuore per la pena che vi siete data”. Dopo poche ore la mia scozzese ritornò, eccitata e rossa in viso, con il commissionario... e con il plico. “La Stefania era sola, quando il qui presente si è recato da lei. Lo ha riconosciuto, si è ricordata del plico e, su suggerimento di questo bravuomo, è andata a vedere nel comodino. E così il plico è risaltato fuori”. “Ma bene”, le dissi, “mi congratulo. E poiché è stato recuperato grazie alle vostre indagini volete aprirlo voi, questo fantomatico plico?”. La Erskine lo aprì dopo avere licenziato, con una bella mancia, il commissionario. Vedendone il contenuto le sfuggì un lungo “oh!” di meraviglia. Io, credo, diventai bianco, bianco come un lenzuolo di bucato: il plico conteneva delle monete d’oro. Le contai: venticinquemila franchi. 144

“Rallegramenti, rallegramenti”, esclamò la Erskine, talmente felice che sarebbe potuta uscire di senno da un momento all’altro. Ma nel suo “rallegramenti”, come prima nel suo “oh” c’era una sottile stonatura che non mi sfuggì. “Signora Erskine, io ho una certa idea di chi...”. “Ma sull’indirizzo, vedete, non c’è il nome del mittente”. “Non c’è. Tuttavia io non solo ho una certa idea, io so a chi devo questo gesto, questo gesto commovente”. La Erskine arrossì, fissandomi con uno sguardo d’agnellino che metteva compassione al solo vederlo. “È stata miss Jane, non è vero?”, le dissi, con un tono molto calmo. Lei assentì. “Signora, non vi so dire quanto sia grato a vostra sorella per questo gesto. La mia non brillante situazione finanziaria è nota ai miei amici ed io apprezzo lo slancio generoso che ha indotto miss Jane ad inventarsi questo dono di uno sconosciuto mio ammiratore. Ditele che la ringrazio, che la ringrazio con tutto il cuore. Ma vi prego di dirle anche che non posso accettare”. La Erskine mi prese la mano: “Maestro, vi assicuro che per Jane non si tratta di un sacrificio. Abbiamo entrambe molto più denaro di quello che ci serve, e non sappiamo che cosa farne. Accettando, voi fareste la felicità di Jane, e la mia”. Scossi la testa, ma lei continuò a parlarmi con molta dolcezza e con un tono di umile supplica. Alla fine mi propose di considerare quella somma come un prestito. Feci un calcolo di quanto mi sarebbe stato necessario per arrivare alla fine dell’anno, quando, pensavo, avrei potuto riprendere le mie lezioni, ed accettai quindicimila franchi. La storia del ritrovamento mi aveva molto colpito, al momento. Più tardi, ripensandoci, trovai che troppi particolari erano romanzeschi e che mal si conciliavano con il magnetismo, e conclusi che si era trattato di una messinscena escogitata dalle due scozzesi, nella speranza che io prendessi venticinquemila franchi senza mai cercar di scoprire chi me li aveva donati. Un cuore largo come il mare, una testa romanticamente perduta nelle nuvole, un misto di fantasticheria e di colossale ingenuità avevano fatto costruire a quelle due im145

pagabili donne la commedia che avevano inscenato, probabilmente compensando generosamente la parte recitata dal commissionario. Lo dissi a Grzymała, ma con loro non ritornai sull’argomento. E loro non me ne fecero più alcun cenno. Mia sorella Ludwika è arrivata, insieme con il marito e la figlioletta, ai primi di settembre. Per me è stata una benedizione, un dono del Cielo. Aurore ha subito scritto a Ludwika, chiedendo di me: “Avrò alla fine da voi notizie certe di Frédéric. Qualcuno mi scrive che è molto più malato del solito, altri che è debole e sofferente come l’ho sempre visto”. Gentile e premurosa, fino a qui. Ma poi il suo cattivo carattere le ha fatto sputare il veleno: “Scrivetemi, ve lo chiedo, perché si può essere misconosciuti e abbandonati dai propri figli senza cessare di amarli”. Ludwika non ha risposto alla lettera. Aurore e lei erano diventate molto amiche quando, anni prima, mia sorella era venuta a farmi visita ed aveva soggiornato a Nohant, trattando la mia compagna come una cognata. Più tardi si erano scambiate delle lettere. L’arrivo di Ludwika avrebbe dunque potuto diventare un’occasione non dico di riconciliazione ma per lo meno di ripresa di rapporti affettivi e comunque amichevoli. Aurore avrebbe voluto altro, avrebbe voluto, penso, che mi prosternassi e che umilissimamente implorassi il perdono al suo cuore magnanimo. Scherzi dell’orgoglio? Credo di sì. Ma brutti scherzi. Ho avuto l’occasione, purtroppo perduta, di rivedere Titus, che è stato in villeggiatura a Carlsbad e che poi si è recato a Ostenda. Gli ho scritto il 20 agosto, dicendogli che i medici mi vietavano di mettermi in viaggio e che speravo di fargli ottenere un visto d’ingresso in Francia. Ci ho provato mettendo di mezzo un personaggio un tempo influente, ma tra i repubblicani non ho amici (ce li ha Aurore), e la neonata repubblica teme l’arrivo di stranieri che potrebbero essere anarchici, comunisti o qualcos’altro di tremendo. Anarchico, comunista, il possidente Titus che cura la sua terra e dirige uno zuccherificio? Volevo partire ad ogni costo, ma i medici furono categorici nel vietarmelo. E mi vietarono anche di ac146

cettare l’invito di Delphine Potocka, che mi proponeva di passare l’inverno nella sua villa di Nizza. Ci sarei andato molto volentieri. Delphine, che a quarantadue anni è incantevole come il primo giorno in cui l’ammirai, è una creatura infelice. Matrimonio subito fallito ma tenuto in piedi per convenienza, diversi amanti, una lunga relazione con Zygmunt Krasin´ski, il poeta. L’ultima mia composizione prima di partire per l’Inghilterra fu una canzone su testo di Krasin´ski, che intitolai Melodia. Donai a Delphine il manoscritto, scrivendo sotto il mio nome pochi versi di Dante: “Nessun maggior dolore / Che ricordarsi del tempo felice / Nella miseria”. Valeva per lei, povera creatura, e valeva per me, purtroppo. Passare l’inverno a Nizza vicino a Delphine, ricordare con lei tante cose, e parlando in polacco... Oh, sarebbe stato meraviglioso. Ma non posso muovermi di qui (sono tornato a Parigi, ho un bell’appartamento in Place Vendôme, molto caro). Perché? Mi curano tre medici, Cruveilhier, Louis, Blache. Essi pensano che io sia tisico. Non me lo dicono, ed io non oso chiederlo. Ma indovino la loro diagnosi dalla sola medicina che Criveilhier mi ha prescritto: una mistura contenente della polvere di licheni. Del resto, i miei sintomi coincidono in gran parte con quelli di Jan Matuszyn´ski, mio amico d’infanzia con il quale divisi l’appartamento a Parigi e che morì fra le mie braccia, di tubercolosi polmonare. A Palma mi consideravano tisico, quei fottuti maiorchini, e anche l’albergatore di Barcellona ne era sicuro. Il dottor Cauvières che mi auscultò palpò picchiettò quasi ogni giorno a Marsiglia, il dottor Papet a Nohant, il dottor Molin a Parigi giudicavano che i miei polmoni fossero sani, delicati ma sani. Chi avrà ragione? Se la mia salute migliorerà andrò a Nizza, anche a costo di disubbidire ai medici. Ma se Cruveilhier vede giusto morirò presto, molto presto. Morirò come mia sorella Emilia. La morte vorrebbe dire la fine delle sofferenze, e io non la temo, come non la temeva Emilia. Ricordo la sua ultima poesia: “Morire è la mia sorte, / Io non temo la morte, / Ma te147

mo di morire / Nel vostro sovvenire”. Mia madre e mio padre, Ludwika, Izabela ed io non abbiamo mai dimenticato Emilia, i miei familiari, i miei amici non mi dimenticheranno. Grazie a Liszt, che ha inventato il recital, non periranno le mie musiche, anzi, spero che vivano, che vivano in eterno. E posso star sicuro che sulla mia tomba non mancheranno mai, finché lei avrà vita, le violette di Jane Stirling.

Appendice

Interviste e lettere

Nel gennaio del 1850 la sorella maggiore di Chopin, Ludwika, tornò da Parigi a Varsavia portando con sé, oltre a vari ricordi e al cuore del fratello, un pacco di lettere di George Sand. Giunta in Slesia, in prossimità della frontiera fra Prussia e Russia, Ludwika temette che la dogana ispezionasse il suo bagaglio e che le lettere di George Sand, nota in tutta Europa per le sue idee politiche di sinistra, potessero essere confiscate. Affidò perciò il pacco contenente le lettere ad un amico di suo marito, proprietario di un’impresa commerciale a Myslowice, nella parte della Slesia appartenente alla Prussia. Nel 1851 il letterato Samud Erdnas Kela, passando per Myslowice durante un viaggio in Polonia, venne casualmente a sapere dell’esistenza delle lettere, convinse il depositario a mostrargliele e cominciò a farne copia, ma alla fine riuscì a farsi consegnare tutto il plico, sostenendo che apparteneva di diritto a George Sand e che lui si sarebbe fatto carico di restituirglielo. Sia Samud Erdnas Kela che suo padre, famoso romanziere, conoscevano la Sand e avevano conosciuto Chopin. Le lettere della Sand, da lui scorse avidamente, suggerirono all’Erdnas Kela di preparare una biografia di Chopin, ed a tal fine egli si recò subito a Varsavia, dove poté avvicinare la madre e la sorella minore di Chopin. Si spostò quindi a Poturzyn, dove viveva Titus Woychiekowski, ritornò a Varsavia per incontrare il pianista Moritz Ernemann, e poi, una volta rientrato in Francia, cercò altre persone che avevano ben conosciuto Chopin, compresa George Sand, e parlò a lungo con loro o, quando non riuscì ad incontrarle, le contattò epistolarmente. La biografia, per ragioni che restano ignote, non fu tuttavia mai scritta. Si è molto fantasticato sul contenuto delle lettere, ma pare ormai accertato che la Sand le distruggesse. Non ci sono pervenute neppure le copie dell’Erdnas Kela.

CON JUSTYNA KRZYZ˙ ANOWSKA IN CHOPIN ED IZABELA CHOPIN IN BARCIN´ SKI

Dalla morte del marito la mamma di Chopin, Justyna Krzyz˙anowska, vive in casa della figlia Izabela, sposa di Antoni Barcin´ski. La signora Chopin, prossima a compiere settant’anni, è in buona salute e perfettamente lucida di mente. Ricorda avvenimenti di un passato ormai lontano con estrema precisione e parla del figlio con un affetto profondissimo. Durante il colloquio la signora Barcin´ski, bionda come il fratello, è intervenuta di tanto in tanto. Anche lei parla di Fryderyk con una devozione assoluta. S.E.K. – Gentile, e cara Signora Chopin, grazie per avermi generosamente fissato questo appuntamento, grazie di tutto cuore. Non voglio farvi perdere troppo tempo e perciò entro subito in argomento. Risulta dai miei appunti che voi abbiate conosciuto la buonanima di vostro marito a Z˙elazowa Wola. – Sì, è proprio così. Lavoravamo entrambi per la contessa Gora-Skarbek, separata dal marito, poverella. Il mio futuro sposo era stato in precedenza precettore dei figli di madame Lonczyn´ska, tra i quali c’era Marie, divenuta poi moglie del conte Walewski e che, come voi saprete di sicuro, diede un figlio all’imperatore Napoleone. Mio marito era successivamente diventato precettore dei giovani rampolli di casa Gorga-Skarbek. Così ci conoscemmo, il mio Nicolas ed io, così 151

volle il caso, o così volle Qualcuno che la sa più lunga di noi. Ci sposammo nella antica, magnifica chiesa di Bronchow. – I vostri primi due figli nacquero a Z˙elazowa Wola, non è vero? E gli altri a Varsavia. – No. Solo Fryderyk nacque a Z˙elazowa Wola. Anche Ludwika, la nostra primogenita, era nata a Varsavia, dove ci eravamo spostati momentaneamente perché il contino Skarbek doveva terminarvi i suoi studi. A proposito della data di nascita di Fryderyk devo farvi notare che quando venne battezzato – madrina e padrino furono i conti Skarbek – quando venne battezzato, il 23 aprile 1810, mio marito prese un abbaglio e disse al parroco che la nascita era avvenuta il 22 febbraio, mentre la data giusta era quella posteriore di una settimana, il 1° marzo. Il giorno era giusto, giovedì, ma con lo scarto di una settimana. – Scusate, mammà, ma così come l’avete detto sembra che la madrina e il padrino fossero i conti Skarbek moglie e marito, mentre erano la figlia e il figlio della contessa. – Hai ragione, Izabela, non era chiaro, ...però avevo detto che la contessa e il conte erano separati. – Vero: siete molto precisa, Signora, mi complimento con voi per la vostra memoria. Perdonatemi ancora tanto se vi sembro importuno. Mi serve una precisazione. Le date sono da intendere secondo il calendario giuliano o secondo il calendario gregoriano? – Secondo il calendario gregoriano. La Polonia non è la Russia, e comunque nel 1810 i russi erano fuori gioco (solo momentaneamente, purtroppo): avevamo allora il Granducato di Varsavia creato da Napoleone. – Quando lasciaste Z˙elazowa Wola? – Nello stesso 1810, in settembre. Mio marito aveva avuto la nomina a professore di francese nel liceo di Varsavia. Andammo ad abitare in una dépendance del Palazzo di Sassonia, e nel 1816 ci trasferimmo nel Palazzo Casimir, sede del liceo. Dopo la nascita della nostra ultima figlia tenemmo a pensione sei o sette ragazzi. Ce ne avevo da sbrigare, di lavoro domestico! 152

– Quando capiste che vostro figlio possedeva una forte predisposizione per la musica? – Molto, molto presto. Mia figlia Ludwika, che suonava il pianoforte, gli diede le prime lezioni. Quando aveva sette anni lo affidammo al professor Z˙ywny, grande amico di mio marito. Non sapeva ancora scrivere la musica, il mio Frycek, ma già componeva. Z˙ywny mise sulla carta una Polacca che Fryderyk aveva creato al pianoforte: fu subito pubblicata. – Quando imparò a scrivere la musica? – Tre anni dopo, nel 1820. Ma già nel 1816, a sei anni, conosceva l’alfabeto, leggeva e scriveva. A sei e a sette anni preparò e scrisse delle brevi poesie per gli onomastici miei e di mio marito. – Dei biglietti d’auguri in poesia, se ho ben capito. – Avete capito perfettamente. Per il San Nicola del 1818 scrisse un augurio in prosa: “Sarebbe per me più facile farti partecipe dei miei sentimenti se ciò fosse possibile con i suoni della musica, ma siccome il più bello dei concerti non arriverebbe a farti partecipe, mio caro papà, di tutto l’affetto che ti porto, devo impiegare le semplici parole che escono dal mio cuore per dirti che depongo ai tuoi piedi l’omaggio della mia riconoscente tenerezza e del mio attaccamento filiale”. Amò sempre moltissimo suo padre. – E sua madre. – E sua madre. È così. Era un bambino talmente dolce che mi si inumidivano gli occhi, guardandolo. A otto anni era già noto, a Varsavia: aveva suonato per l’arciduca Costantino e per la zarina madre, la sua marcia era stata eseguita sulla piazza di Sassonia, e nel Palazzo Radziwiłł si era esibito con grande successo in un concerto di un compositore che... Tu te lo ricordi, Izabela, chi era? – Certo, mammà. Era Adalbert Gyrowetz. Fryderyk suonò un movimento del suo Concerto in mi minore. – E quando iniziò a studiare la composizione? – Nel 1822, come allievo privato del professor Elsner. Nel 153

1823 si iscrisse al liceo e al termine dell’anno scolastico ricevette persino un premio. – Un allievo modello. – Faceva tutto con grande facilità ed aveva un ingegno multiforme. Il signor Z˙ywny, eccellente persona e professore quanto mai coscienzioso, era violinista, più che pianista. A Fryderyk insegnava la musica, e lui la realizzava al pianoforte senza fatica. Non si attardò mai su esercizi e studi. – Dove trascorrevate le vacanze? – Non potevamo permetterci vacanze da signori, e del resto non ne sentivamo affatto la necessità. Nel ’24 Fryderyk fu ospite, in agosto e in settembre, dei nostri amici Dziemanowski a Szafarnia. Nel ’25 andò in vacanza ancora a Szafarnia, e a Kowalewo, con escursioni a Torun´ e a Danzica. Nel ’26, preoccupati per lo stato di salute della nostra figlia minore e facendo uno strappo alle nostre usanze, passammo le acque a Reinertz, Fryderyk, Ludwika, Emilia ed io. La nostra Izabela, che aveva quindici anni, si sacrificò, restando a casa per tenere compagnia al papà. Nel 1827 fummo colpiti da una tremenda sciagura: Emilia morì, a quattordici anni. Il colpo fu così forte che non ce la sentimmo più, nella nostra desolazione, di abitare in un appartamento traboccante di tanti ricordi felici. Ci trasferimmo nel Palazzo Krasin´ski. – Mi è stato detto che Frédéric ed Emilia scrissero una commedia. – Una commedia in versi. La scrissero e la recitarono nel 1824. Frycek fu irresistibile, come Borgomastro Grantrippa. Più tardi fece un viaggio a Berlino in compagnia di un collega di mio marito, e al ritorno recitò in una commedia, in casa di nostri amici. Il suo talento letterario si era manifestato nel 1824 con il Corriere di Szafarnia, resoconto umoristico delle avventure della villeggiatura. Frycek raccontava fatterelli di poco conto con un brio straordinario, ci faceva ridere di cuore. – Vi ricordate, mammà, che si riferiva a se stesso come al “sieur Pinchon?”. 154

– Certo, lo ricordo. – Ma lo sapete voi, cara signora Chopin, che in Francia esistono le Associazioni Pinchon! È un nome molto comune. – Guarda un po’, non l’avrei mai immaginato. Izabela, com’era la storia del cameriere sul pero? – Un cameriere sale sul pero e ne scuote i rami per farne cadere i frutti, attesi da un gruppo di dame assetate. Scuoti e scuoti, nessun frutto si stacca, ma a un certo punto piomba a terra il cameriere. – Una storia banalissima, non vi sembra, dottore? Però quest’immagine delle dame che guardano in su come volpi fameliche, scrutando l’albero, e che vedono piombare giù un omone invece dei succosi frutti in cui piantare i candidi dentini, ci faceva sbellicare dalle risa. – È certamente vero che non il contenuto, ma il modo di esporlo diverte il lettore. Mi permetto di introdurre un altro argomento. Non pensaste mai di avviare a vostro figlio verso la carriera di enfant prodige? – Assolutamente no. La signora Catalani ci disse: “Questo ragazzino farebbe impazzire tutta Parigi”. Ma mio marito non era uomo da correre dietro alle chimere. Noi, dottore, siamo gente semplice. Ci piace la vita operosa e tranquilla, ci piace di avere molti amici fidati e della nostra condizione. Varsavia è più che sufficiente per noi. Fryderyk è diventato celebre e noi ne siamo immensamente orgogliosi e felici. Ma so che era giusto mandarlo al liceo, dargli un’istruzione regolare, lasciare che crescesse come tutti gli altri ragazzi, anche se era un po’, o molto, speciale. – Però, come dicevate prima, a Varsavia era conosciutissimo. – Lo invitavano in tutti i palazzi dell’aristocrazia, suonava, era vezzeggiato, ma ciò non lo rendeva superbo. In pubblico si esibì poche volte: nel 1825 in occasione della visita dello zar Alessandro, a Reinertz per beneficenza, a Poznan mentre era di ritorno da Berlino, alcune altre volte a Varsavia. L’orizzonte cambiò quando suonò a Vienna. 155

– Come cambiò? – Fryderyk aveva diciannove anni ed aveva terminato summa cum laude gli studi di composizione nel Conservatorio. Era ormai chiaro che avrebbe dovuto fare il musicista ed era perciò opportuno che studiasse all’estero, come era capitato e capitava ad altri ragazzi, anche molto meno talentuosi di lui. Non fu possibile ottenere subito una borsa di studio statale e perciò mio marito mandò Fryderyk a Vienna, per così dire, in viaggio-premio. – E il viaggio-premio a Vienna fu allietato da concerti-premio. – Fummo molto sorpresi, quando nostro figlio ci scrisse che avrebbe suonato. Una decisione estemporanea, non priva di incognite e di pericoli. “Dio mi aiuterà – ne ho la speranza”, ci scrisse. Ne fui orgogliosa. In quelle poche parole riconoscevo mio figlio. Dottore, io ho sempre confidato molto nell’Onnipotente e non ho mai avuto a pentirmene. – La vostra fede, signora, è ammirevole. Parlavamo dei concerti: furono due, mi pare. – Dopo il primo, Fryderyk ci mandò un preciso resoconto. La conclusione era: “Mi sento più saggio e più esperto di almeno quattro anni”. Il secondo concerto andò ancor meglio del primo. Fryderyk ci scrisse di essere “piaciuto alle dame e agli artisti” e di aver “conquistato i sapienti e i sensibili”. Restavano esclusi, osservò rudemente mio marito, restavano esclusi solo, scusi il termine, i cazzoni. – Mammà! – Oh!, lasciamelo dire, Izabela, il dottore non si scandalizza di certo. Vedete, dottore, eravamo così felici che avevamo bisogno di sfogare la nostra gioia con una grande risata liberatoria. Mio marito, che non era mai sboccato, capì che serviva qualcosa di enorme, e sì, di volgarotto. Trovò l’espressione giusta e noi ci sganasciammo da perdere il fiato. Ludwika ululava addirittura, e questo ci faceva ridere doppiamente. – I giornali di Vienna furono favorevoli, vero? 156

– I resoconti dei giornali confermarono che le impressioni di Frycek erano esatte. Dopo il suo ritorno, e dopo che ebbe scritto il Concerto in fa minore, cominciammo a fare dei piani, ambiziosi, per il suo futuro. – Andò tutto come previsto? – Al contrario, le previsioni furono completamente smentite dalla realtà, Fryderyk non poté avere a Vienna un vero esordio da professionista, non andò in Italia ed arrivò a Parigi molto tempo prima di quanto avevamo progettato. La sua carriera fu diversa da quella che era stata ideata nella nostra immaginazione ed avemmo occasione di rivederlo una sola volta nei diciannove anni che precedettero la sua morte. – Mammà, scusate se vi interrompo, ma ci tengo a farlo sapere al dottore. Frycek mi mandò da Vienna un portafortuna che mi è caro. Lui era molto preso dal ricordo del nostro re Jan Sobieski che aveva liberato Vienna dall’assedio dei turchi. Salì sul Kahlenberg che il re aveva scelto per il suo accampamento prima della battaglia e mi mandò una fogliolina presa lì da un albero. – Ricordo che ti sciogliesti in lacrime. Era stato un pensiero originale e tanto delicato. – Posso sapere, signora, dove rivedeste il vostro Frédéric? – A Carlsbad. Eravamo andati lì in villeggiatura, mio marito ed io, e nostro figlio ci raggiunse, senza preavvertirci. Fummo come tramortiti per la sorpresa. Rimanemmo insieme per tre settimane e fu un momento di grande felicità per noi e per lui. Ludwika lo rivide due volte, in Francia, Izabela non lo rivide più. – È stato un grande dolore, per me, non poterlo più rivedere. Io suonavo il pianoforte con impegno, e con impegno affrontavo le sue musiche, i tremendi Studi op. 10 e il primo movimento del Concerto op. 11. Li studiavo con quel bravuomo di Nowakowski. Poi studiai il Duo con il violoncello, le Variazioni op. 12, i Notturni op. 15. Quanto avrei voluto farmi sentire da lui, avere i suoi consigli per l’interpretazio157

ne. La partenza del mio adorato fratello ha creato nella mia vita un vuoto incolmabile. – Izabela, non bisogna lagnarsi, lo sai, se il volere dell’Altissimo non corrisponde ai nostri desideri. La lontananza di Frycek mi ha spesso rattristata, ma io credo che così il Cielo avesse inteso di segnare il suo cammino per condurlo alla gloria. – Voi pensate, signora, che la vita di vostro figlio sia stata felice? – La vita è fatta di gioie e di dolori, di un rapporto armonioso fra le une e gli altri. L’unica preoccupazione che avevamo per nostro figlio, mio marito ed io, era che si trovasse a corto di mezzi di sostentamento. Quante volte il mio Nicolas gli raccomandò di accantonare una parte dei suoi guadagni, che erano cospicui! Non lo fece, e l’ultimo anno della sua vita fu funestato da problemi finanziari. Me lo spiegò Ludwika, che su sua pressante richiesta andò a Parigi nell’estate del ’49 e che lo assistette fino al trapasso. Ricevette i Santissimi Sacramenti, e questo fu per me motivo di grande conforto. – Avete dei documenti riguardanti vostro figlio? – Abbiamo lettere, oggetti, manoscritti. Fryderyk aveva chiesto a Ludwika di bruciare tutta la musica che non era stata pubblicata. Lei non lo fece ed io approvai la sua scelta. Pensiamo di affidare ad un editore ciò che riterremo degno di pubblicazione, siamo in contatto con un amico e con una allieva di Frycek, una scozzese tanto per bene, e generosa, che ci ha mandato molte molte cose, fra cui anche l’ultimo pianoforte su cui mio figlio ha suonato. A me sarebbe dispiaciuto, ad esempio, se fossero andate distrutte le sue canzoni, così semplici, così toccanti, e credo che la decisione di mia figlia sia stata la più giusta. Ludwika saprebbe dirle di più su questo argomento, e sull’amicizia di Fryderyk con la signora Sand, stimabilissima persona, e sui suoi ultimi giorni. Purtroppo non è potuta venire qui oggi: suo marito è molto malato e lei deve assisterlo. Sono preoccupata per lei e per i bambini, ma come sempre prego con fervore e mi affido all’Altis158

simo, che meglio di noi sa quel che conviene alla salvezza della nostra anima. – Vi ringrazio, signora, e ringrazio anche voi, Izabela. Ho stenografato tutto quello che m’avete detto e non vi aggiungerò nemmeno una parola. Grazie ancora, a nome mio e di tutti gli innumerevoli ammiratori di quel grande artista che fu vostro figlio, che fu vostro fratello.

CON IL NOBILUOMO TITUS WOYCIECHOWSKI

– Chopin è stato per voi un compagno di studi ed un amico, non è vero? – Metterei prima l’amicizia. Il mio incontro con Fryderik fu dovuto al caso. Dovendo io frequentare le scuole superiori a Varsavia, mio padre – noi abitavamo in campagna – mi mise a pensione in casa Chopin. Fra i tanti ragazzi che vi trovai, non ebbi la minima esitazione nel riconoscere in Fryderyk – e l’attrazione fu reciproca – il cosiddetto amico del cuore. – Fino a quando rimaneste a Varsavia? – Fino al 1826. Durante l’anno scolastico vedevo Fryderyk ogni giorno, durante le vacanze ci scrivevamo, ma lo scambio delle lettere divenne veramente intenso, e molto confidenziale, dopo finito il liceo. Io non mi ero iscritto all’università – mio padre era scomparso prematuramente e dovevo occuparmi delle mie terre – e tornavo a Varsavia di rado. Il rapporto epistolare divenne quindi per noi l’unico modo di mantenere viva un’amicizia alla quale tenevamo molto entrambi. Fryderyk era, in realtà, un cattivo corrispondente, prendere la penna in mano era per lui una tortura, ma quando poi decideva di fare il sacrificio scriveva lettere chilometriche, e vivacissime e spiritosissime. Non le ho conservate tutte, purtroppo. – Parlatemi per favore della prima lettera che vi è rimasta. – Eccola qui: da Varsavia, il 9 settembre 1828. Fryderyk 160

stava per partire per Berlino, in compagnia di un professore di zoologia che vi si recava per un congresso, ed era al settimo cielo, eccitatissimo. Mi annunciava poi di aver riscritto per due pianoforti il Rondò in do maggiore e di averlo provato con Ernemann, pianista che aveva studiato a Berlino e che Fryderyk ammirava. Mi diceva anche – e mi vennero le lacrime agli occhi per la commozione e la gioia – di avermi dedicato le Variazioni op. 2. “Lo esigeva il cuore, l’amicizia ne dava l’autorizzazione, non prendertela a male”. Non prendertela a male, diceva. Si scusava per avermi dedicato il suo primo capolavoro! – Conoscevate le Variazioni? – Oh sì, erano state composte un anno prima e Fryderyk me le aveva fatte ascoltare. Suonavo anch’io il pianoforte, e componevo qualche sciocchezzuola. I lavori precedenti di Fryderyk mi erano piaciuti molto ma non mi avevano spaventato. Esercitandomi pazientemente, pensavo, avrei potuto eseguirli anch’io. Ma le Variazioni! Di una difficoltà terrificante, e così ingegnose come composizione. Fu quello, il momento in cui capii veramente che Fryderyk avrebbe fatto parlare di sé il mondo intero. – Del viaggio a Berlino ho sentito dalla madre. Mi è stato detto che al suo ritorno Chopin recitò nella rappresentazione privata di una commedia. – Dottore, voi toccate un tasto..., un tasto per me penoso anche oggi. Fryderyk recitò la parte di Pedro nel Progetto di matrimonio di Alexandre Duval, lo recitò in casa Pruszak. Io corteggiavo la figlia di madama Pruszak, Olesia, e quella commedia mi sembrava di buon augurio. Invece... – Invece? – Invece Olesia, ahimé!, mi trattò sempre e soltanto con distaccata cortesia. – Chopin recitava bene? – Recitava benissimo. E ballava benissimo: le ragazze lo adoravano anche per questo, mentre io sapevo sbrigarmela solo con la mazurca alla contadina. Facemmo parecchie com161

mediole, una delle quali scritta da Fryderyk e dalla sua sorella più piccola, Emilia. Fryderyk era un attore molto brillante, un caratterista di classe, e sapeva fare delle deliziose imitazioni. Ho qui la lettera in cui mi parla del Progetto di matrimonio. È del 27 dicembre 1828. Curiosa lettera. – Per via della commedia? – No. Per via di una piccola disavventura che gli era capitata durante le vacanze a Sanniki. Questa parte della lettera è in italiano. Gliela leggo così com’è: “N. ha fatto infelice la signorina governante della casa, nella strada Marszalowska. La signorina governante a un bambino nell’ventre, e la Contessa sive la padrona non vuole vedere di piu il seduttore. Il migliore evento è che credevano avanti, che tutto è apparito, ch’il seducente son io, perché io ch’era piu d’un messo a Sanniki, e sempre andava colla governante camminar nell’giardino. Ma andare camminar e niente di piu. Ella non è incantante. Imbecille io non ho avuto alcuno apetito, pour mon bonheur”. – Curiosa davvero. Sapete chi è N.? – Nowakowski, Jozéf Nowakowski. Un bravo ragazzo, ma uno sprovveduto come pochi. Buon musicista, però. Fryderyk fece eseguire una sua sinfonia nel penultimo concerto che tenne a Varsavia, il 22 marzo 1830. – Senza volerlo avete introdotto un argomento su cui vi avrei comunque chiesto delle delucidazioni: le donne, Chopin e il sesso femminile. – Eh, le donne! Frycek aveva l’animo di un dongiovanni, ma non era... predatore come il Don Giovanni vero. La bellezza fisica, la grazia dei movimenti, la vivacità della conversazione lo incantavano sempre, ed era perennemente innamorato. Però il suo amore si nutriva di fantasie. Fino a quando fummo in contatto non corteggiò apertamente nessuna donna, nessuna donna o ragazza. Nessuna. Meno che mai Konstancja. – Konstancja chi? – Konstancja Gładkowska. Oh, una bella ragazza bruna, di aspetto malinconico. Fryderyk mi scrisse che a lei era ispi162

rato il secondo movimento del Concerto in fa minore. È un pezzo dolcissimo, idilliaco, ma con una parte centrale molto drammatica che è un riflesso, credo, della gelosia. Frycek soffriva di terribili attacchi di gelosia ogni volta che Konstancja sorrideva a qualcuno o mostrava di gradire una compagnia maschile. Il suo era un amore intenso, possessivo, e... inespresso. Durò abbastanza a lungo, circa un anno, come una nota pedale sulla quale si inserivano capricciose armonie: incomprensibile, per me proprio... incomprensibile. – E Konstancja, secondo voi, intuì quello che passava nell’animo di Chopin? – Assolutamente no. Come avrebbe potuto? Lui non solo non fiatava, ma metteva in atto tutte le possibili strategie di mascheramento. Il suo era un sogno d’amore, non un amore. Più che nel Concerto il sentimento genuino che provava per Konstancja è espresso secondo me nel Valzer in re bemolle maggiore che scrisse nel 1829 e che non è stato pubblicato. – Dove lo si trova? – Io ho la copia che Fryderyk mi mandò. Il manoscritto originale, credo, sarà ancora in possesso della famiglia. Si parla ora della pubblicazione delle opere postume, forse quel valzer uscirà, cosa che mi farebbe molto piacere. La scrittura è piuttosto intricata, la mano destra suona spesso due parti in contrappunto, e non è facile realizzarle bene, con chiarezza. Nella parte centrale la melodia è alla mano sinistra. Frycek mi avvertì: “Nel Trio il canto deve dominare nel basso fino al mi bemolle della chiave di violino della quinta battuta. Ma che bisogno ho di dirtelo, visto che lo capirai da solo?”. Sempre gentile, sempre delicato, Frycek, sempre con il timore di offendermi quando appariva evidente la sua superiorità. Però quella volta avrei effettivamente capito le sue intenzioni anche senza l’avvertimento. – Questo racconto mi incuriosisce molto, e vorrei che mi faceste sentire il valzer. – Mi spiace, mi spiace proprio, però non è possibile. Non so nemmeno dove stia esattamente la musica e le mie dita so163

no ormai talmente arrugginite che non ne verrei a capo. Quel valzer era difficile per me già vent’anni or sono, quando suonavo spesso. Si figuri adesso, adesso che l’amministrazione delle mie terre e dello zuccherificio mi porta via tutta la giornata. – Peccato! Che fece, Chopin, dopo aver composto il concerto e il valzer? Scrisse subito l’altro concerto? – No, non subito. Andò ad Antonin, ospite del principe Radziwiłł, e si divertì molto. Gli piacevano, oh, quanto gli piacevano le principessine! – Parlavate spesso di donne? – Direi continuamente, fin da quando, ragazzini, ci eravamo accorti del fatto che l’umanità è formata da due sessi diversi. Le principessine Radziwiłł erano per lui “due Eve”. Però l’ammirazione per la bellezza era sempre unita all’ammirazione per il talento musicale. La maggiore delle due principessine lo conquistò anche perché era pazza di una sua Polacca in fa minore di cui possedevo io la copia (mi scrisse perché gliela mandassi), e della minore, a cui dava lezioni di pianoforte, mi assicurò che aveva veramente molta sensibilità musicale: “Non c’è bisogno di dirle: qui, crescendo, là, piano, in un altro posto, più svelto, là, più lentamente, eccetera”. Fryderyk stimava il principe anche in quanto compositore, sebbene ne parlasse come di un “gluckista arrabbiato”. – Si potrebbe dire che i Radziwiłł erano protettori di Chopin? – In un certo senso, sì. Il principe propose a Fryderyk di ospitarlo nel suo palazzo, se avesse deciso di andare a studiare a Berlino. Ma questa prospettiva non era allettante per il mio amico. Già nell’autunno del ’29 desiderava partire al più presto per Vienna, l’Italia e Parigi, e siccome dovette rinviare il viaggio fu in preda all’ipocondria per gran parte del 1830. Soffriva e gli piaceva soffrire, cosa per me inconcepibile. Il 17 aprile mi scrisse, ecco qua: “Che sollievo è stato per me, nella mia insopportabile malinconia, ricevere una tua lettera. Oggi avevo appunto bisogno di questo perché languivo 164

più che mai. Come caccerei via i pensieri che avvelenano la mia esistenza, se non provassi piacere nel coltivarli. Non so neppur io cosa mi manca”. Dice proprio “se non provassi piacere nel coltivarli”. Mah! – Sono stati d’animo molto diffusi anche oggi, e molto alla moda vent’anni or sono. – Sarà. A me sembrano smancerie. Fryc doveva comporre il nuovo concerto, altro che storie, doveva averlo pronto e provato prima della partenza! Nella stessa lettera mi parlava dell’Adagio: “Non vi ho cercato la forza. È piuttosto una romanza calma e melanconica. Deve dare l’impressione di un dolce sguardo rivolto verso un luogo che evoca piacevoli ricordi. È come una fantasticheria in un bel tempo primaverile, ma al chiaro di luna. L’accompagnamento è con sordina”. – Conosco quell’Adagio, l’ho sentito a Parigi da un allievo di Chopin, Carl Filtsch, che morì giovanissimo, e da un ragazzo, Gottschalk, che veniva dall’America, dalla Louisiana, e che è diventato famoso. È una meraviglia, quell’Adagio. – Oh sì! Frycek venne a Poturzyn durante l’estate e mi suonò tutto il concerto. Purtroppo non potei andare a Varsavia per la prima esecuzione, in ottobre. Fu invece presente alla prova il mio futuro cognato, il principe Poletyllo, che me ne parlò. Ma durante il viaggio per Vienna, a Breslavia, ascoltai il finale del concerto con orchestra perché Fryc si lasciò convincere dal maestro Schnabel. Un pianista tedesco avrebbe dovuto suonare il Concerto n. 2 di Moscheles, ma si spaventò udendo Fryc che provava il pianoforte, si spaventò talmente che si ritirò. E così io ebbi l’immenso piacere di sentire con l’orchestra per lo meno un terzo di quel Concerto in mi minore, così mostruosamente difficile che lo stesso Fryc aveva temuto di non riuscire ad impararlo. – Stavate prima parlando della malinconia. Credete davvero che si trattasse di una posa? – All’inizio sì, poi non più, poi mi preoccupò. Mi preoccupò la lettera del 4 settembre: “Sono sempre qui e non sento la forza di fissare il giorno della partenza. Se me ne vado, mi sembra, 165

a casa non tornerò più. E come dev’esser triste, morire in un luogo diverso da quello in cui si è vissuto. Quanto sarebbe spaventoso per me, vedere vicino al mio letto di morte non i miei, ma un medico compassato o un domestico. Credimi, ho sperato più d’una volta d’andare da te a cercare la calma, ma invece esco di casa, vado per strada, sono preso dalla nostalgia e rientro. Per cosa? Per languire. Non ho ancora provato il concerto. Come che sia, abbandonerò tutti i miei tesori prima della festa di San Michele e mi troverò a Vienna, condannato a sospirare in eterno. Che è dunque mai, questa perdita della nozione del tempo... Spiegami tu, che conosci così bene la natura umana: perché mi sembra sempre che oggi sarà soltanto domani? ‘Non essere stupido’ è la risposta che posso dirmi da solo. Se ne conosci un’altra, mandamela”. Non sapevo che dire, ma mi impressionava la sincerità della confessione. – A me sembra che dopo il ritorno da Vienna nell’estate del ’29 Chopin non vedesse l’ora di ripartire, e che nel momento in cui si avvicinava la partenza fosse in preda ad un’oscura paura. – Proprio così. Mi diceva di volersi fermare a Vienna per due mesi, dicembre e gennaio, e di voler poi passare l’inverno a Milano. E mi chiedeva di restare con lui. Lo avrei fatto molto volentieri, e il nostro viaggio fino a Vienna fu piacevolissimo. Trovai anche un delizioso appartamentino presso una giovane baronessa, vedova. Chopin mi chiese subito se era carina. Io in verità non ci avevo badato per nulla, ma effettivamente era molto carina, e simpatica. Quando la vide Frycek temette di non piacerle perché era raffreddato ed aveva il naso un po’ gonfio. Il naso era una sua fissazione anche senza il raffreddore, e al pensiero dell’impressione che avrebbe fatto sulla baronessa, mi creda, smaniava. Era un bel tipo, sempre pronto a prendere una sbandata malgrado il suo grande amore per Konstancja. – Come andò, il soggiorno a Vienna? – Andò benissimo nei pochi giorni in cui mi fermai. Ma poi rientrai in patria di corsa, e... 166

– Già, l’insurrezione. – La disgraziata insurrezione che portò la Polonia ad essere del tutto asservita alla Russia. Che tragedia per la nostra patria. E che tragedia per me e per lui. A Vienna si trovò così male che peggio non avrebbe potuto essere. Quando arrivò a Parigi mi scrisse una lunghissima lettera, piena di entusiasmo per la città e per l’ambiente musicale e sociale. Una successiva lettera, alla fine dell’anno, era ancora molto gaia, ma improvvisamente vi si infilavano certe considerazioni che mi raggelarono. Ne provai una gran pena, avrei voluto essergli vicino. – Di che si trattava? – Ho qui la lettera, che dice: “Nello stesso istante in cui stavo per iniziare la descrizione di un ballo in cui ero stato rapito da una divinità dai capelli neri ornati di rose, ecco che ricevo la tua lettera. Tutto il moderno esce dal mio spirito, mi avvicino ancora di più a te, ti prendo la mano e piango. Ho ricevuto la tua lettera da Lwow. Ci rivedremo forse più tardi, se mai ci rivedremo perché, a dire il vero, la mia salute è molto cattiva. Esteriormente sono allegro, soprattutto fra i miei (dico miei i polacchi), ma interiormente molte cose mi fanno soffrire. Certi presentimenti, dei sogni, delle insonnie, la nostalgia, l’indifferenza che incontro, il desiderio di vivere e, un momento più tardi, di morire, una serenità deliziosa, una specie di nodo alla gola, mi sento lontano da tutto e talvolta sono tormentato da precisi ricordi. L’amarezza, l’acredine, uno spaventoso miscuglio di sentimenti mi sconvolge e mi agita. Sono più bestia che mai. Ma perdonami. Basta. Vado a vestirmi, poi prenderò una carrozza per andare alla cena che si dà oggi in onore di Ramorino e di Langermann al Rocher de Concale, il più grande ristorante di Parigi”. – Molto penoso, davvero. Ed è strano, questo senso del dovere che lo induceva a prender parte ad un banchetto in onore di due eroi della resistenza polacca. – No, non è affatto strano. Chopin avrebbe voluto essere attivo nell’insurrezione, e non si perdonava di non essersi 167

mosso da Vienna. Diceva che avrebbe per lo meno voluto servire come tamburino! E per chi aveva rischiato la vita in battaglia provava una venerazione. – Vi scrisse ancora? – No. Ci perdemmo di vista, anche epistolarmente, mi scrisse di nuovo solo poche settimane prima della morte. Il mio più caro amico non l’ho più rivisto. Ed è spirato in un paese lontano, come gli aveva predetto il cuore.

CON IL MAESTRO MORITZ ERNEMANN

– Tutti mi dicono che voi, maestro, avete conosciuto bene Chopin e che siete stato suo amico. – Più che amico, lui fu per me, ed io per lui, un collega con il quale si intrattengono rapporti cordiali e privi d’invidia. Io avevo dieci anni più di lui ed ero tedesco di nascita e di studi. I suoi amici veri, i suoi amici fraterni erano suoi coetanei ed erano polacchi. Titus Woychiekowski, Jan Bialobłocki, Jan Matuszyn´ski. Titus era un ragazzone forte e sano, solido di corpo e di mente. Bialobłocki, bello come un arcangelo, morì di tisi a ventitre anni, e Matuszyn´ski, che era di costituzione gracile come Chopin, morì di tisi anche lui, a Parigi. – Ho conosciuto Matuszyn´ski perché conoscevo George Sand, e ricordo il momento della sua morte. Una morte atroce, che colpì Chopin in un modo terribile. – Anche la fine di Chopin dev’essere stata atroce. – Sì, per quello che ne so. – Povero Chopin. Ci vedemmo molto spesso negli ultimi due anni che trascorse a Varsavia. Io avevo studiato a Berlino con Ludwig Berger, allievo di Clementi, e con Berger aveva studiato anche Mendelssohn. Chopin era molto interessato a conoscere la scuola di Clementi. Quando andò a Berlino gli illustrai meglio che potevo la vita musicale della capitale e gli indicai in Mendelssohn uno dei pianisti più in vista. – Mendelssohn, che aveva solo un anno più di Chopin, era già famoso per aver diretto la Passione secondo Matteo di Bach. 169

– Voi siete in errore, amico mio. Chopin andò a Berlino l’anno prima che Mendelssohn vi dirigesse la Passione, avvenimento, quello sì, che gli diede grande fama in Germania. – Chopin conobbe Mendelssohn mentre si trovava a Berlino? – Lo vide ma, mi disse, non osò presentarsi (e non si presentò nemmeno a Spontini e a Zelter). Di fronte ai berlinesi, pur essendo conscio del suo valore, Chopin si sentiva provinciale. Andò a teatro per vedere il Fernand Cortez di Spontini e il Matrimonio segreto di Cimarosa, vide il Freischütz di Weber e un’opera di Onslow. Ciò che lo impressionò di più, a parte la grandezza e la pulizia della città, fu però la Cäcilienfest di Händel. Mi disse che questo oratorio era il più prossimo all’idea che s’era fatto della grande musica. – Titus Woyciechowski mi ha detto che voi suonaste con Chopin il Rondò in do maggiore per due pianoforti. – Nell’estate del ’28 Chopin passò le vacanze a Sanniki presso i Pruszak e modificò il Rondò. Lo provammo nel negozio di Buchholtz e pensammo di darne un’esecuzione pubblica. Ma non se ne fece niente. Qualche mese più tardi Chopin lo provò di nuovo, con Julian Fontana. Anche quella volta tutto finì lì. Il pezzo era brillantissimo. Purtroppo non è stato pubblicato. – I vostri incontri con Chopin, se ho ben capito, erano di lavoro. – Direi di sì. Io mi ero stabilito a Varsavia perché la mia carriera vi si sarebbe sviluppata più facilmente che a Berlino. Oltre a me si era spostato in Polonia un altro pianista tedesco, Joseph Kessler, di Augusta. Kessler organizzava a casa sua, tutti i venerdì, delle serate musicali senza programma prefissato. Chopin ed io vi andavamo regolarmente. – Che cosa vi capitava di suonare? – Leggevamo soprattutto le ultime pubblicazioni. Ricordo il Concerto in do diesis minore di Ries, il Trio in mi maggiore di Hummel, il Trio in si bemolle maggiore di Beethoven, il Quartetto con pianoforte del principe Luigi Ferdinando di 170

Prussia. E tante altre cose. Chopin restò molto impressionato dal Trio di Beethoven. Ma aggiunse una strana osservazione: “Beethoven si prende gioco del mondo intero”. – Chopin ascoltava soltanto o suonava anche? – Ciascuno di noi ascoltava e suonava, indifferentemente. Ci scambiavamo i ruoli anche fra un movimento e l’altro. Ricordo che Chopin suonò il Quintetto per pianoforte e fiati di Spohr. Gli piaceva, lo suonò benissimo, ma disse che la parte pianistica non entrava mai nelle dita e che era talvolta impossibile trovare una buona diteggiatura. “Insopportabilmente difficile”, disse. Ero d’accordo. Spohr è violinista e il pianoforte non lo conosce perfettamente. Di Spohr piaceva a Chopin anche l’Ottetto. Con grande soddisfazione suonammo varie volte le Variazioni di Hummel su La Sentinelle, che erano allora famosissime. Chopin era entusiasta della scrittura pianistica di Hummel. – Voi eravate presente ai concerti di Chopin in teatro, vero? – Naturalmente. Il 17 marzo 1830 il teatro era strapieno, ma Chopin non fu soddisfatto dell’esito, soprattutto perché la Fantasia su arie nazionali polacche op. 13 e il primo movimento del Concerto in fa minore non furono accolti con grande calore. Io gli espressi tutta la mia ammirazione, ma il maestro Elsner, che non possedeva il minimo savoir-faire, disse subito che il suono del pianoforte era sordo e che non si sentivano i bassi. Il concerto venne ripetuto il 22 marzo, e andò meglio sia perché venne cambiato il pianoforte, sia perché invece della Fantasia Chopin suonò il Krakowiak op. 14 e finì la serata con una improvvisazione su temi polacchi, cosa che fa sempre molto effetto sul pubblico. Gli chiesero di dare un terzo concerto ma rifiutò. – Perché? – Non era interamente soddisfatto né dell’esito artistico, né dell’esito sociale (perché una buona parte dell’alta società non era intervenuta: Chopin ci teneva, invece, all’alta società). Non fu confortante neppure l’esito finanziario (il gua171

dagno netto fu di soli cinquemila zloty). Andò meglio il concerto dell’autunno, l’11 ottobre. Lo ricordo bene. – Fu la serata in cui Chopin tenne la prima esecuzione del Concerto in mi minore? – Esattamente. Già in aprile Chopin mi aveva fatto sentire il primo movimento del nuovo concerto, che secondo me era migliore del precedente. In seguito ebbi l’occasione, in un certo senso, di rendere a Chopin un servizio. Nell’Agnese di Paër esordiva Konstancja Gładkowska, che poi si sposò e lasciò la carriera, ma che era una cantante molto notevole. Nel secondo atto dell’opera c’è una romanza che la protagonista canta accompagnandosi con l’arpa. Konstancja cantava, fingendo di accompagnarsi con una finta arpa presa in attrezzeria, mentre l’arpa vera avrebbe dovuto essere collocata in quinta. Ma il teatro non aveva disponibile né un’arpa né un arpista. In quinta mi ci misi io, con il pianoforte, e giocando con i pedali cercai di imitare il suono dell’arpa. Chopin venne a complimentarsi con gli occhi lucidi. Mi chiese che cosa pensassi della cantante, e dopo aver sentito il mio parere altamente positivo mi strinse con forza la mano. – La Gładkowska rappresentava per Chopin l’ideale della femminilità. – Io non lo sapevo, allora, ma sospettai subito che gatta ci covasse. Poco dopo Chopin mi fece l’onore di invitarmi ad assistere ad una prova del Trio e della Polacca con violoncello. Oltre a me erano stati chiamati solo Elsner, Z˙ywny e un allievo di Elsner, Linowski. Chopin voleva conoscere il nostro autorevole parere: incredibile! – E quale fu il vostro parere? – Il più positivo, ovviamente. Non so proprio perché ce lo avesse chiesto: da una parte era sempre sicuro di sé, dall’altra sentiva il bisogno d’essere rassicurato. Come a proposito della sordina nella Romanza del Concerto in mi minore. – Gli archi suonano con sordina, sì, me lo ha detto Woyciechowski. – Ed è un magnifico effetto. Ma Chopin, stranissimamen172

te, aveva dei dubbi: “Che ne pensi?”, mi disse. “La sordina diminuisce la sonorità e la rende nasaleggiante e argentina. Forse l’effetto è cattivo, ma perché si dovrebbe temere di scrivere male a dispetto delle proprie conoscenze, dal momento che solo il risultato può rendere manifesto l’errore?” In realtà, aveva già previsto di fare una prova con il solo quartetto d’archi, ma temeva, se fosse andata male, di fare la figura dell’inesperto. Lo rassicurai, ovviamente. – Il concerto di ottobre, dicevate, andò bene. – Andò veramente bene, e Chopin mi confessò che per la prima volta in vita sua aveva suonato con orchestra facilmente. Oltre al Concerto eseguì la Fantasia op. 13. Il successo fu anche favorito dalla direzione di Carlo Soliva che, al contrario di Kurpin´ski in marzo, si era dato la pena di studiare le partiture. Fu l’addio di Chopin alla sua città. Partì pochi giorni più tardi. Io andai a salutarlo e a fargli gli auguri, come tanti altri. Poi non solo non ci siamo più rivisti, ma non ci siamo più sentiti nemmeno per lettera. Acquistai tutte le composizioni di Chopin a mano a mano che venivano pubblicate, e fra le altre anche i due concerti. Il fatto che abbia praticamente scritto solo per pianoforte non esclude che egli sia, secondo il mio parere, uno tra i maggiori compositori del nostro tempo.

CON IL MAESTRO CARL CZERNY

Vienna, lì 18 agosto 1852

Stimatissimo Signor Dottor Erdnas Kela, ben volentieri aderisco al di Lei cortesissimo invito nel rammemorare i miei passati incontri con il caro Frédéric Chopin, che altamente mi onoro di aver conosciuto e di cui ammiro pressoché incondizionatamente le opere. Lo incontrai per la prima volta a Vienna nell’agosto del 1829. Era egli venuto nella mia città con l’animo modesto e rispettoso di chi s’affaccia sulla culla di una grande civiltà ma, stanti la stagione estivale e la poca presenza di musicisti valenti, venne invitato dal preclaro conte Gallenberg a subito esibirsi in un concerto e, visto il successo dell’esordio, in un secondo concerto che, se mal non m’appongo, ebbe luogo il 18 dell’agosto. Eseguì lo Chopin le sue stellari Variazioni op. 2, poco più tardi pubblicate dallo Haslinger, e il delizioso Krakowiak, ed improvvisò genialmente su un tema della ben nota Dame blanche. Alla somma eleganza del porgere ed alla signorile riservatezza dell’eloquio non fecero in essolui da complemento l’amplitudine del suono e la scolpitezza del fraseggio, tanto che una dama di fine intendimento dissemi, cito sue testuali parole, “peccato che il giovine non abbia tournüre”, volendo con ciò intendere, ed io convenni, non essere lo Chopin figura di teatrale presenza. 174

Ritornò poi lo Chopin a Vienna sul cadere del 1830 e rimasevi per mesi assai. Venne da me, mostrommi le partiture di due concerti novellamente composti, che originali e maliosi mi parvero, sebbene non virtuosi quanto oggimai richiedevasi dal nuovo modo del pianismo di bravura di cui erasi fatto campione il giovine e già esimio Thalberg. Il secondo soggiorno a Vienna del caro Chopin fortunato non fu, ed io medesmo, pure apprezzando onninamente in essolui e l’artista e puranco l’uomo, fornirgli non potetti, e molto me ne dolsi, quei pochi soccorsi di cui era necessitoso. Incontrai infine lo Chopin a Parigi nel 1837. Eravi stato io chiamato dal Liszt, mio antico discepolo, che fra sé e sé divisando di aprire una scuola per concertisti intendeva affidarne la direzione alla mia modesta persona. Il progetto non ebbe il felice esito a cui speranzosi guardavamo. Ma durante la mia permanenza a Parigi con sommo giubilo rinnovai la mia conoscenza con lo Chopin, che frattanto erasi illustrato con due mirabili raccolte di studi e con altre commendevoli cose per soprammercato, e conobbi nella sua interezza un lavoro a cui avevo preso parte per iniziativa della radiosa principessa Cristina Trivulzio in Belgiojoso. Volle ella promuovere un grande concerto al fine di raccogliere fondi a favore degli esuli italiani, ed intese giustissimamente presentarvi un pezzo-monstre che gran concorso di pubblico richiamasse. Fu scelto il duetto “Suoni la tromba, e intrepido” dai Puritani del sommo Bellini, che poco più tardi in ancor giovine età da questo mondo si dipartì. Su quel tema scrissero sei variazioni tre maestri della vecchia scuola, vale a dire il Herz, il Pixis e il sottoscritto, e tre della nova, vale a dire lo Chopin, il Liszt e il Thalberg. Ebbene, mentre quattro dei sei prescelti si attennero all’uso delle variazioni brillanti, preferì il Liszt una fantasticheria non priva di cupezza, e compose lo Chopin un Largo dolcissimo, un Notturno al chiaro di luna che veruna attinenza avea col clima guerriero del tema, ma che in sé e per sé era d’un magico incanto. Il Liszt compose inoltre l’in175

troduzione, il finale e i raccordi fra le variazioni, ed il pezzo, che appieno soddisfò i desideri della esimia Principessa committente, ebbe il titolo Héxaméron. Ella mi addomanda infine che cosa io pensi appetto al valore artistico dello Chopin pianista. Malgrado quel che prima dissi su quella mancanza di tournüre che in sommo grado posseggono il Liszt e il suo rivale Thalberg e il Henselt e il mio scolare Döhler, trovasi la mia risposta in una mia recente fatica letteraria, il Compendio Generale di Storia della Musica, in cui allo Chopin attribuisco la denominazione di Claviervirtuose, non di semplice Pianist. Oltracciò distinsi nel Metodo che nel 1839 vide la luce sei grandi scuole pianistiche: 1) di Clementi, 2) di Cramer e Dussek, 3) di Mozart, 4) di Beethoven, 5) di Hummel, Kalkbrenner e Moscheles, 6) di Thalberg, Liszt e Chopin. Risponde ciò bastantemente, com’io credo, al di Lei quesito? Ho l’onore, stimatissimo Dottore, di dichiararmi di Lei umilissimo servitore ed estimatore Carl Czerny

CON IL SIGNOR CAMILLE PLEYEL

– Come Le ho detto, caro Maestro, vorrei scrivere una biografia di Chopin e sto incontrando tutte le persone che possono fornirmi preziose informazioni di prima mano. Lei sarà per me, come dire?, una miniera di diamanti. – Farò quel che posso, amico mio, con la più grande disponibilità. Ma ad un patto: non mi chiamiate “maestro”. – Come! Voi, allievo di pianoforte del grande Dussek, allievo di composizione del vostro illustre padre, discepolo a sua volta di Haydn, Voi, autore di quartetti, di trii, di sonate... – ...e di pezzi per pianoforte. Sì, ho studiato e ho fatto la musica molto seriamente. Ma nel 1824, ed avevo trentasei anni, dovetti affiancare mio padre nella gestione della casa editrice e della fabbrica di pianoforti da lui fondate, e dal 1831, alla morte di papà, tutto venne caricato sulle mie spalle. Voi capite bene che... – Capisco benissimo. Dunque, Voi, invece che maestro, siete... – ...industriale e commerciante, non per vocazione ma per necessità: non potevo lasciar perire quello che era stato creato da quel granduomo di mio padre. – Come conosceste Chopin? – Mi fu presentato da Kalkbrenner, che nella nostra fabbrica aveva investito del denaro. Nel 1831, anno per me densissimo di avvenimenti, morì mio padre, come dicevo, sposai 177

la bellissima e talentuosissima pianista Marie Moke, che per me ruppe il fidanzamento con Berlioz, e conobbi Chopin, che a Natale avrebbe dovuto esordire nella nostra sala di concerti. Ma l’esordio dovette essere rimandato perché il dottor Véron, direttore dell’Opéra, si... rimangiò il permesso concesso ad una cantante che doveva prender parte al concerto. – Kalkbrenner stimava Chopin? – Lo stimava moltissimo, e avrebbe tanto desiderato che diventasse suo discepolo. Vedete, amico mio, Kalkbrenner era un uomo molto migliore di quello che di solito si pensa. La sua autostima era grande, ed era secondo me giustificata, ma risultava fastidiosa a molti perché veniva ingenuamente esibita. Con i giovani era però molto generoso e fu generosissimo con Chopin. Purtroppo non tutto filò liscio fra di loro, perché Chopin declinò l’invito di Kalkbrenner, e di conseguenza, all’inizio, non tutto filò liscio anche con me. – Che intendete dire? – Misi gratuitamente a disposizione di Chopin la sala che avevamo inaugurato nel gennaio del 1830, lui vi tenne il suo primo concerto a Parigi e Kalkbrenner vi prese parte. Però Chopin, mal consigliato da non so chi, firmò un contratto con un piccolo editore, Farrenc, che gli versò un acconto. Sciolse il contratto, con difficoltà e, se mi è permesso di dirlo, ciurlando nel manico. Quando Pixis lo raccomandò insistentemente al mio concorrente Maurice Schlesinger, le cui fortune avevano fatto un enorme balzo in avanti con il trionfo del Robert le Diable di Meyerbeer, da lui acquistato per una somma enorme, ventiquattromila franchi, Schlesinger commissionò a Chopin il Duo per violoncello e pianoforte su temi dell’opera di Meyerbeer, e divenne il suo principale editore. – Che cosa significa, che Chopin ciurlò nel manico? – Con Farrenc aveva un contratto ed aveva anche, come dicevo, ricevuto un acconto. Bene, cominciò a consegnare dei manoscritti con molte cancellazioni e difficili da leggere, ritardò nel fare le correzioni richieste, si giustificò dicendo di essere indolente e inesperto negli affari fino a che Farrenc 178

stracciò il contratto, accusandolo di essere un pigro e un eccentrico di cui non ci si poteva fidare. E così Frédéric ottenne quello che voleva senza colpo ferire. – Sorprendente davvero, da quanto so di lui non avrei immaginato che Chopin fosse il tipo da architettare una simile commedia. E per quanto riguarda voi, che cosa avvenne? – Per il momento divenni, e rimasi poi sempre, il suo fornitore di pianoforti. Schlesinger era legato al mio concorrente, Érard, che come suo... campione in scuderia aveva Liszt. Io avevo Kalkbrenner, mio socio, ed ebbi Chopin, che dopo il concerto d’esordio rimase per sempre fedele al mio strumento. – Mi scusi se vi faccio una domanda che potrà sembrarvi sciocca, ma era proprio così importante per i fabbricanti avere, come voi dite, dei campioni in scuderia? – Altroché, perbacco! Kalkbrenner e Chopin avevano una vastissima clientela di allievi ed allieve private, e Chopin, in particolare, si muoveva quasi esclusivamente fra la crème de la crème de la société. Queste persone, diventando allieve di Chopin, acquistavano con entusiasmo il pianoforte della marca prediletta dal Maestro, ed avevano mezzi più che sufficienti anche per cambiare lo strumento quando usciva un nuovo modello. – Questo aspetto dell’insegnamento è veramente sorprendente, non ci avevo mai pensato. – La stima di Chopin era per la mia fabbrica una specie di rendita assicurata. Non riuscii però mai, sebbene ci provassi, a concludere con lui qualche affare anche come editore. – Ad esempio? – Non riuscii ad avere, e me ne rammaricai molto, i Notturni op. 9 che Chopin dedicò a mia moglie. Uscirono presso Schlesinger. E assai più tardi non riuscii ad acquistare i Preludi op. 28, che mi furono dedicati. Chopin, che stava nell’isola di Maiorca, mandò in avanscoperta Julian Fontana, poi mi scrisse. Ho qui la lettera, da Valldemosa, il 22 gennaio 1839. Noti la sottilissima, la signorile adulazione dell’esordio: 179

“Caro amico, Vi mando infine i miei Preludi – che ho finito di comporre sul Vostro pianino, arrivato nel migliore stato possibile, malgrado il mare, il cattivo tempo e la dogana di Palma”. Avevo spedito a Chopin un pianoforte verticale, e la circostanza che il mio strumento avesse... fatto il suo dovere non poteva che inorgoglirmi. Chopin era assolutamente sincero, ma avrebbe anche potuto fare a meno di dirmi quello che mi diceva. – In un certo senso era una captatio benevolentiae. – Proprio così, ma... finissima. Subito dopo mi piazzava la botta: “Ho incaricato Fontana di consegnarVi il mio manoscritto. Voglio per esso millecinquecento franchi per la Francia e l’Inghilterra. Probst, come sapete, ha avuto per mille franchi la proprietà per Härtel in Germania. Sono libero da impegni con Wessel a Londra; lui può pagare di più. Quando ci avrete pensato consegnate il denaro a Fontana”. – Insomma, Chopin non apriva una trattativa. – No, fissava il prezzo e basta. Nella stessa lettera mi proponeva la Ballata op. 38 per mille franchi, lo Scherzo op. 39 per millecinquecento (per tutta l’Europa), e le Polacche op. 40 per millecinquecento. Io nicchiai, anche perché avevo avuto una brutta botta: era andata in fallimento una banca in cui avevo investito del denaro. Chopin rimandò da me Fontana, che venne con un atteggiamento molto battagliero, facendomi capire chiaramente che, in mancanza di immediato accordo con me, si sarebbe rivolto a Schlesinger. – Come andò a finire? – Dissi a Fontana che i prezzi mi sembravano un po’ alti, lui mi rispose che le disposizioni di Chopin erano chiarissime: se si dovevano abbassare i prezzi era preferibile vendere a Schlesinger. – E allora? – Alla fine, grazie all’abilità manovriera di Fontana, i Preludi li prese Catelin, e tutto il resto Troupenas che, penso, accettò il diktat e che acquistò altri pezzi ancora. Poi Chopin tornò da Schlesinger. Eppure Chopin ed io eravamo amici, 180

amici veri. Ma quando si trattava d’affari lui curava i suoi interessi... ed io i miei. Il fatto che preferisse Schlesinger mi feriva. Nello stesso tempo mi dicevo però che Schlesinger aveva fatto per lui, all’inizio, quello che non avevo fatto io, e che quindi era giusto così. – Molto nobile da parte vostra, lo dico sinceramente. – Ed io sinceramente vi ringrazio. Ecco, le cose stanno in questo modo: come editore, avendo dei soci e degli investitori a cui rispondere delle mie azioni, tenevo rigorosamente conto degli interessi della mia ditta, come amico mi sarei per Chopin gettato nel fuoco. – A quanto mi è stato riferito, voi sapete qualcosa sul fidanzamento di Chopin. – Sì, del suo fidanzamento segreto con Maria Wodzin´ka, quello che lui chiamava “la mia disgrazia”. Ma lo diceva in polacco: Moja bieda. – Che cosa avvenne? – I tre ragazzi Wodzin´ski, i maschi, erano stati allievi al liceo del padre di Chopin, e Chopin era particolarmente legato a Feliks. Nel 1831 i Wodzin´ski fuggirono dalla Polonia e presero dimora a Ginevra. A Ginevra conobbero il pianista Pierre Wolff, che di tanto in tanto si recava a Parigi (Chopin gli dedicò un piccolo preludio). Feliks e Maria diedero a Wolff una lettera da consegnare a Chopin, e Maria unì alla lettera delle variazioni che aveva composto lei stessa. Ero presente la sera in cui Chopin, nel salotto della contessa Potocka, improvvisò sul tema di Maria Wodzin´ska dopo aver parlato di lei con affetto. Era molto commosso. – Era già innamorato? – Direi proprio di no. Come sempre, gli faceva piacere ritrovare le vecchie conoscenze polacche. Vedete, Chopin era un carattere freddo, controllato, ma quando parlava della Polonia e dei polacchi gli tremava la voce e spesso gli luccicavano gli occhi. Con Maria aveva giocato a nascondino e le aveva dato qualche lezione di pianoforte. La ritrovava dopo anni, la immaginava cresciuta, provava un gran desiderio di rivederla. 181

– Che cosa fece? – Nulla, per il momento; non era, diciamo così, un uomo d’azione ma un sognatore. Dopo un po’ ricevette una lettera di mamma Wodzin´ska che gli chiedeva di procurarle autografi di personaggi celebri. Passò dell’altro tempo, i Wodzin´ski si spostarono da Ginevra a Dresda. Chopin, che dopo essere stato con i suoi genitori a Carlsbad si era recato in Boemia, ospite della famiglia Thun-Hohenstein, nel viaggio di ritorno passò per Dresda, vi si fermò per una settimana, rivide Maria e se ne innamorò. – E poi? – Un fratello di Maria, Antoni, venne a Parigi. Chopin lo accolse con tutto l’affetto, lo portò all’opera, gli prestò dei soldi (Antoni aveva le mani bucate). – Aveva le mani bucate come tutti i rampolli delle famiglie nobili. – La vostra supposizione è in generale ragionevole ma, nel caso in questione, è sbagliata. I Wodzin´ski passavano per conti ma non lo erano, non erano affatto nobili. E non possedevano un patrimonio veramente considerevole. Non erano né i Komar né i Czartoryski, insomma. Però si davano un gran tono. – Ma il fidanzamento segreto? – Quello arrivò due anni dopo che i Wodzin´ski si erano fatti vivi con Chopin. Chopin andò in vacanza a Marienbad, incontrò i Wodzin´ski, li accompagnò a Dresda e poco prima di lasciare la città fece la sua dichiarazione. La fece a Maria, che rispose di sì a patto che la mamma dicesse di sì. E la mamma disse di sì a patto che il papà dicesse di sì. Il papà non si trovava in quel momento a Dresda, il fidanzamento doveva rimanere sospeso, e quindi segreto. Povero Chopin! – Perché, povero? – Perché mamma Wodzin´ska era una donna senza testa. Andò a Varsavia per il matrimonio di suo figlio Feliks e incontrò i genitori di Chopin. Non disse loro nulla di preciso ma lasciò trapelare qualcosa, tanto che il padre scrisse a Cho182

pin per ricordargli come avrebbe dovuto fare per richiedere formalmente la mano di Maria. La Wodzin´ska madre mandava al futuro genero materni consigli: usare calze di lana, mettere le pantofole, andare a letto alle undici, ma Chopin, che pure aveva giurato di attenersi ai consigli della... promessa suocera, continuava a fare la vita, sregolata, che aveva sempre fatto a Parigi. Lei continuava a chiedere autografi, e Chopin mandava del denaro ad Antoni, che era andato a fare la guerra in Spagna. Ma intanto erano passati sei mesi e il pensiero di papà Wodzin´ski restava circondato dalle nebbie più fitte. Chopin era così scombussolato che andò a farsi fare le carte da una celebre chiromante! – Addirittura! – La chiromante disse che andava tutto per il meglio. Ma il fidanzamento segreto fu seppellito segretamente. Non se ne parlò mai più, come se nulla fosse mai successo. Allora intervenni io. – Voi? In che senso? – Diciamo, tanto per celiare, e voi prendetela in ridere, che di queste cose mi intendevo. Il mio matrimonio era... svanito ben presto. Beh!, avevo sposato una bellissima, spumeggiante, focosissima coquette, di ventitre anni più giovane di me... Vero è che Marie vive adesso a Bruxelles, è la compagna di François Fétis... – Il grande storico della musica. – Lui, in persona. Che ha quattro anni più di me. Evidentemente non era tanto una questione di differenza d’età, quanto d’altro. E Marie ha trovato la scarpa adatta al suo piede. Ma, come dicevo, io sapevo che cosa si prova, quando si è abbandonati. E dovendo andare a Londra per affari pensai di portare Chopin con me. Per distrarlo. – Ottima ricetta. Accettò? – Accettò. E fu allegrissimo. Londra non gli piacque affatto ma tutto, di Londra, muoveva il suo spirito ironico, e quindi lo divertiva. Mi fece osservare che nei grandiosi orinatoi pubblici quasi non c’era il posto per fare la pipì. Schiattò dal183

le risate quando vide l’insegna di Duppa & Co., dicendomi che in polacco dupa significa culo, culo e soci. Ridivenne malinconico e ansioso quando rientrammo a Parigi. Ma sapeva ed accettava che una pagina importante della sua vita fosse ormai chiusa e sigillata. Ripeto: sigillata. Moja bieda. Lo scrisse sul pacco contenente le lettere dei Wodzin´ski, e ci mise dentro pure una rosellina appassita. Le lettere verranno di sicuro pubblicate, prima o poi, e passeranno alla storia. Ci passerà anche lei, la rosellina appassita, come la reliquia di un grande tragico amore che i devoti contempleranno compunti, lacrimando. – Mi sembra di cogliere in ciò che voi dite un filo di non celata ironia. – E mal non vi apponete, amico mio. L’esito del fidanzamento segreto ferì Chopin, lo ferì il comportamento dei... promessi suoceri. Ma il suo amore per Maria non fu una passione bruciante: fu un sogno di felicità domestica. A Maria donò un valzer, cioè una copia di un valzer – osservate bene! – di cui tenne per sé l’originale. Un anno circa dopo la rottura del fidanzamento ne fece un’altra copia e la donò alla signora Peruzzi. Qualche anno più tardi donò una terza copia a Charlotte de Rotschild. E sempre – le ho viste tutt’e due – con su scritto “hommage de F.F. Chopin”. – Ammetto che questo comportamento mi cambia un po’ le carte in tavola. Beh! Peccato: credevo di trovare una di quelle vicende romantiche che segnano per sempre la vita dell’uomo e ci trovo un po’, come dire?, un affare andato a male. – Il rapporto con George fu completamente diverso. – Parliamone. – Un’altra volta. Adesso, caro mio, devo rientrare. Ho superato la boa dei sessanta e il mio medico mi impone di ritirarmi presto. Io non faccio promesse da marinaio, al contrario del mio amico Chopin. – Grazie, allora. – Non c’è di che. Anzi, è stato un piacere conversare con voi. 184

CON MARIA WODZIN´ SKA

Dresda, 23 settembre 1852

Egregio Dottore, mi costa molta fatica e molta pena, rispondere alla vostra lettera, così gentile, così delicata, ma che risveglia in me la nostalgia acuta di un sogno tramontato. Non mi sottrarrò tuttavia a quello che ritengo essere per me un debito che ho con la memoria di Fryderyk Chopin. Conoscevo Chopin fin da bambina, e lui, che era già un giovanotto, per compiacermi mi vezzeggiava e giocava a nascondino con me. Mi diede anche qualche lezione di pianoforte, correggendomi la posizione delle mani. Dopo che i russi ebbero rioccupato Varsavia – i miei fratelli avevano preso parte all’insurrezione – mio padre ci portò nella parte prussiana della Polonia, poi a Berlino, a Dresda, a Ginevra. Mentre eravamo a Ginevra la nostra casa divenne un ritrovo quotidiano per letterati ed artisti. Io partecipavo alle riunioni leggendo poesie – anche mie – e suonando al pianoforte pezzi alla moda – anche miei. Posso dire senza venir meno alla modestia di essere stata molto ammirata. Anzi, fui persino richiesta in moglie dall’anziano conte Momigny, console francese a Ginevra. Mia madre oppose un netto rifiuto, ed effettivamente la disparità di età fra il signor conte e me era enorme. Ma talvolta mi viene di pensare che l’amore non conosce ostacoli: mi ha sempre 185

commosso la storia della grande danzatrice Fanny Elssler, che a diciassette anni si innamorò di un signore ultrasessantenne e che fu felice con lui finché lui rimase in vita. Ma queste sono le fantasie che talvolta mi attraversano la mente, e di cui vi prego di scusarmi. Nel 1834 mio fratello Feliks scrisse a Chopin, invitandolo a nome di mia madre a farci una visita; io spinsi il mio ardire fino al punto di unire alla lettera un mio biglietto ed una mia piccola composizione. Chopin rispose con un lusinghiero apprezzamento del mio pezzo e mi mandò, con dedica, il suo Valzer op. 18, che subito studiai con fervore. La dedica diceva: “Hommage à Mlle M. W. de la parte de son ancien professeur F.F. Chopin, 18 jui. 1834”. Un anno più tardi – noi ci eravamo trasferiti di nuovo a Dresda – mia madre rinnovò l’invito, e Chopin venne. Arrivò il 19 settembre. Ci vedemmo ogni giorno e più volte al giorno, conversammo, suonammo, facemmo lunghe passeggiate. Al momento di partire, il 24 settembre, Chopin mi fece dono di un valzer, il mio valzer che non è stato mai pubblicato e su cui c’è scritto di sua mano “pour Mlle Marie”, oltre al luogo e alla data. Io aggiunsi “L’Adieu”. Lo suonai ripetutamente dopo la sua partenza, e tutti avevamo le lacrime agli occhi. Avevo allora sedici anni ed ero molto ingenua, ma avevo ben intuito che un certo sentimento si era insinuato nell’animo di Chopin. Gli scrissi e, con astuzia da ragazzina, gli chiesi se fosse lui l’autore della canzone “Se fossi il sole nel cielo non brillerei che per te”. Credo che lui capisse. In ottobre mio fratello Antoni andò a Parigi e fu accolto da Chopin con grande affetto. In una lettera che ci mandò, Antoni scrisse: “Fryderyk si alza dal pianoforte e dice: ‘Non dimenticare di dir loro che li amo tutti terribilmente, sì, terribilmente’”. Io credevo di sapere che cosa ciò significasse. Ma tornando a Parigi Chopin si era ammalato seriamente, tanto che su certi giornali era uscita la notizia della sua morte. I miei genitori avevano cominciato a preoccuparsi seriamente della sua salute, ed erano molto inquieti. Rividi Chopin a Marienbad il 186

28 luglio 1836. Sia lui che mia madre ed io alloggiavamo all’hotel Al Cigno Bianco. Trascorremmo a Marienbad tutto il mese d’agosto e fu un lungo idillio, un idillio senza parole, fatto di sguardi e di sospiri. In settembre, a Dresda, Chopin mi chiese se avrei acconsentito a sposarlo. Dissi di sì, ma aggiunsi che avrei comunque rispettato sempre il volere dei miei genitori. E Chopin parlò con mia madre, che acconsentì, dicendo però che la decisione ultima spettava a mio padre, in quel momento assente. La mamma, sempre inquieta e preoccupata, chiese comunque a Chopin di farsi visitare dal nostro medico, il dottor Paris, il quale, dopo averlo auscultato e interrogato, gli diede molti consigli. La costituzione, disse, era sana ma fragile, Chopin avrebbe dovuto tenere un regime di vita all’incirca opposto a quello che seguiva abitualmente: doveva evitare gli sforzi, evitare i ricevimenti notturni, evitare i colpi di freddo, vestire indumenti molto caldi e calze di lana, andare a letto al massimo alle undici, bere regolarmente certe pozioni salutifere (specialmente l’acqua di gomma). Mamma disse che prima di pensare alle nozze, e sempre fatto salvo il parere di mio padre, era necessario un anno di prova, durante il quale Chopin avrebbe dovuto seguire pazientemente e diligentemente le prescrizioni del dottor Paris. Chopin promise, e partì. Gli scrissi, gli mandai delle pantofole ricamate da me. Aveva promesso... Ma i polacchi che vivevano a Parigi e con i quali la mamma era in corrispondenza epistolare le fecero sapere che gli impegni presi erano stati in gran parte promesse da marinaio, e la mamma stessa, oltreché mio padre, concluse che non era il caso di pensare più alle nozze. Io soffersi un poco, sì, per la loro decisione. Solo un poco, però. Il pensiero delle nozze con Chopin lo avevo accolto in letizia, ma ero stata educata a seguire in tutto e per tutto il volere dei miei genitori e non feci la minima opposizione. Non rividi Chopin mai più . E questa, signor dottore, è tutta la mia storia. Una storia comune come ce ne sono tante altre, ...tranne il fatto che io 187

mi sarei legata ad un genio della musica di cui non cesso mai di ammirare le opere, così come non cesso mai di riprendere in mano il prezioso foglio dell’Adieu e di ripercorrerne le note mentre mi si inumidiscono gli occhi. Egregio dottore, ho l’onore di ben distintamente salutarvi Maria Wodzin´ska P.S. Dimenticavo di dirvi che a Chopin offersi una rosa. Mi assicurò che l’avrebbe conservata sempre, e vorrei tanto che così fosse avvenuto.

CON IL CONTE WOJCIECH GRZYMAŁA

– Come vi scrissi, signor conte, Chopin... – Per carità, amico mio, lasciate perdere il conte. Chiamatemi Wojciech o, se preferite, Adalbert. – Adalbert sarebbe il corrispettivo di... come avete detto? – Wojciech. Anche il primo maestro di Chopin, Z˙ywny, che ho conosciuto e che era una degnissima persona, si chiamava Wojciech. – Interessante. Ebbene, Adalbert, vengo subito al punto. Camille Pleyel mi ha parlato del disgraziato fidanzamento di Chopin, ed io vorrei... – Scusate se vi interrompo, ma quel “disgraziato”, sacrebleu, non mi suona del tutto giusto. – Ah, no? – Considerate la situazione finanziaria di Chopin. Impartiva lezioni private a persone dell’aristocrazia e frequentava i loro palazzi. Doveva essere alla loro altezza, ed aveva perciò il domestico fisso, la carrozza, il sarto, il camiciaio, il calzolaio, il guantaio, il parrucchiere, il profumiere... Guadagnava molto e spendeva tutto. – Già, me lo hanno detto la madre e la sorella. – Che, come il padre, pensavano che Fryderyk avrebbe dovuto risparmiare. Mettere da parte una pera per la sete, scriveva il padre, e Fryderyk sorrideva, nel dirmelo. No. Non era proprio, sacrebleu, questione di saper risparmiare. Quello che Chopin guadagnava bastava a fargli condurre la vita 189

che doveva condurre per guadagnare quello che guadagnava. Scusate il bisticcio. – Oh, è chiarissimo. – Con una moglie sarebbero aumentate le spese, e se fossero poi arrivati dei figli... – Ma la moglie avrebbe portato una dote. – Il cui frutto sarebbe stato di sicuro insufficiente a pareggiare l’aumento delle spese. I Wodzin´ski spandevano molto fumo, ma l’arrosto era poca cosa. – Me lo ha detto anche Pleyel. – Fryderyk non poteva fare più lezioni di quante ne faceva perché già erano fin troppe, e non poteva aumentare i prezzi perché già erano molto alti. – E allora? – L’unica possibilità di guadagno alternativo stava nei concerti. Ma avrebbe dovuto viaggiare, e la sua precaria salute ne avrebbe risentito. A parte il fatto, sacrebleu, che i concerti li vedeva come il fumo negli occhi. – Dunque? – Dunque fu una manna dal cielo, la decisione dei Wodzin´ski di non vedere in lui un buon partito per la figlia, che diedero invece in sposa ad uno Skarbek, ricco ma impotente, sacrebleu, proprio impotentia coeundi: il matrimonio non fu consumato e, pensate un po’ che scandalo, fu annullato dalla Sacra Rota. Fryderyk, per parte sua, passò con George i sette migliori anni della sua vita. Vero è che poi, negli ultimi due, le cose andarono sempre peggio, fino ad una rottura traumatica (almeno per lui) che gli avvelenò la vita. Ma una fine infausta non può cancellare gli anni felici. – Voi conoscevate sia Chopin che la Sand. – Conoscevo Fryderyk fin da Varsavia ed avevo anche scritto su di lui nei giornali (il mio mestiere era quello del militare, ma avevo qualche ambizione, poi rientrata, ahimé, di letterato). Dopo l’insurrezione, alla quale naturalmente partecipai con entusiasmo, emigrai a Parigi. Vi arrivai poco tempo prima di Fryderyk ed aprii la mia casa a scrittori ed arti190

sti, fra cui la Sand. Con George nacque una vera amicizia. Mi chiamava scherzosamente il suo sposo. – Vi è quindi nota tutta la storia del rapporto amoroso fra i due. – Credo di conoscerla meglio di chiunque, sacrebleu, anche meglio di Chopin perché non gli mostrai tutte le lettere che George mi mandò. Meno che mai quella, fluviale e torrenziale, e poematica (un vero manifesto dell’amore, sacrebleu) che mi fece pervenire quando la situazione... preliminare era arrivata al punto critico. – La Sand scrisse a voi, Adalbert? – Sì, perché con Fryderyk, ah! ah!, non cavava un ragno dal buco. Considerate che Chopin aveva conosciuto George nel 1836, quando il suo romanzetto con Maria stava ancora in bilico, e l’aveva trovata pochissimo femminile. “Ma è veramente una donna?”, mi disse. “Sono incline a dubitarne”. Un mese dopo la invitò tuttavia ad una serata musicale in casa sua (ne faceva spesso). Oltre a George c’erano Liszt e Marie d’Agoult. Rinnovò l’invito poco più tardi, allargando il numero dei convenuti: il celebre tenore Nourrit, Pixis, il violoncellista Franchomme, il romanziere Eugène Sue, Matuszin´ski, il marchese de Custine, il compositore polacco Jozéf Brzowski e qualcun altro che non ricordo. E anch’io. Due inviti a George a così poca distanza di tempo non potevano che mettermi in sospetto, sacrebleu d’un sacrebleu. – Chopin aveva cambiato parere? – Dottore, voi, che conoscete George come me, se non meglio, sapete quanto sia difficile resistere al suo fascino, specialmente quando decide di esercitarlo dispiegando tutto il suo repertorio di seduzioni. E con Fryderyk sfoderò le sue più potenti batterie. Marie d’Agoult, rientrata a Parigi dopo che lo scandalo della sua fuga a Ginevra con Liszt si era un po’ calmato, se ne accorse subito e cercò, quella sciacquetta, di mettere il bastone fra le ruote a George. Non appena George si allontanò da Parigi le scrisse, e me lo disse anche, divertendosi un mondo, per dipingerle Chopin come una bande191

ruola: “Chopin è l’uomo a cui non si può resistere, in lui non c’è di permanente altro che la tosse”. – Perfidia sottile, certo. E perché? Lo sapete? – Perché, presumo, la d’Agoult era molto portata all’intrigo, e perché era gelosa. Credete a me, sono sicuro di non sbagliarmi. La d’Agoult, bella, civetta, corteggiatissima, aveva messo gli occhi addosso a Chopin non appena l’aveva conosciuto. Oh, non credo che volesse farne un amante, ma un cavalier servente. Del resto, Fryderyk era un maestro, nelle schermaglie amorose. George mi disse, in un momento di buonumore, che Chip-Chip (lo chiamava così) poteva amare appassionatamente tre donne nella stessa serata di festa e andarsene tutto solo, non pensando ad alcuna di loro e lasciando ciascuna delle tre convinta di averlo essa sola incantato. Maestro delle schermaglie, dicevo, un maestro che dalle schermaglie non passava all’affondo. Liszt passava all’affondo, lui non se ne sarebbe andato a letto da solo, sacrebleu. Chopin no. La d’Agoult li avrebbe voluti per sé tutt’e due, i dioscuri. E vi dirò che qualcosa di simile agitò oscuramente anche la psiche di George. – In che senso? – È una faccenda molto complicata che cercherò di spiegarvi senza dilungarmi troppo. Alla fine, anche per questo motivo di rivalità segreta, l’amicizia fra George e Marie, che era stata molto forte, andò in fumo, e fino ad oggi non c’è stata riconciliazione. George, posso ben dire, mise l’assedio a Chopin con una corte serrata che fece infuriare Marie, e Chopin restò in bilico per un tempo interminabile: non rompeva e non saltava il fosso. Gli ci volle più d’un anno, prima di decidersi, e la decisione fu molto sofferta. – Più d’un anno! Un’eternità, per il bel mondo parigino. – E come no, sacrebleu! George invitò insistentemente Fryderyk a Nohant nel Berry, e lui non ci andò. Lei cercò persino di farsi aiutare da Marie d’Agoult, equivocando alla grande sui sentimenti che torcevano le budella dell’amica. Ma riuscì ad aprire una breccia solo nella primavera del ’38. 192

Una sera, dopo che Chopin aveva suonato in un salotto, divinamente, George scrisse su un foglio di carta a lei intestato “Vi si adora. George”. Marie Dorval, sapete, la grande attrice, che sedeva vicino alla Sand e che era curiosa più d’una biscia e impicciona più d’una comare, aggiunse però tre “e anch’io” che guastavano di parecchio il messaggio. Il foglio, tuttavia, fu recapitato, e Fryderyk, che teneva meticolosamente in ordine tutte le sue cose, lo inserì nell’album dei suoi ricordi più cari. – Cose da romanzo per le sartine. E aggiungiamoci pure il fatto che la Dorval, sì, insomma, professava la religione di Saffo. – Beh, non siate cattivo, e del resto i romanzi per le sartine non inventano le realtà amorose delle classi privilegiate, ma tutt’al più le enfatizzano. Proseguo con il romanzo. Poco dopo la consegna del foglio, una sera, nella casa in cui George era ospite di un’amica (io, vedendo come buttava, mi ero allontanato con un pretesto), ci fu tra i due un rapinoso contatto fisico, e ci fu una concitata spiegazione. George partì subito per Nohant. – Perché mai? Cosa si erano detti? – Era una commedia degli equivoci. George era allora legata – sentimentalmente e... carnalmente – all’istitutore dei suoi figli, Félicien Mallefille, che era di nove anni più giovane (la d’Agoult diceva che lo aveva assunto per filarselo più comodamente). Si sentiva perciò – poi vi spiegherò meglio – “come sposata”. Ma si guardò bene dal dirlo a Fryderyk. Il quale le confessò invece di essere attirato da lei ma di dover tener fede al fidanzamento con Maria Wodzin´ska. Dibatterono la questione, lui al momento non mi disse nulla ma era spaventato a morte. Passarono alcuni giorni, ed io ricevetti la grande epistola di George. – Oh, interessante, interessante, sebbene io conosca già lo scioglimento della commedia degli equivoci. – George si scusava per non avermi parlato mentre era ancora a Parigi. E mi diceva una cosa rivelatrice: “Mi sembrava 193

che ciò che avrei conosciuto avrebbe fatto impallidire il mio poema. Ed ecco che effettivamente si è oscurato, o piuttosto che è molto impallidito”. La confessione di Chopin l’aveva messa in un dilemma da cui voleva uscire a tutti i costi. E chiedeva imperiosamente il mio parere: “Ascoltatemi bene e rispondetemi chiaramente, categoricamente, nettamente. Questa persona che egli vuole, o deve, o crede di dover amare, è quella giusta per fare la sua felicità, oppure accrescerà le sue sofferenze e le sue tristezze? Non chiedo se l’ama, se ne è amato, se conta di più o di meno di me. So pressappoco, per quello che provo, quello che deve provare lui. Chiedo di sapere quale di noi due lui debba dimenticare o abbandonare per la sua quiete, per la sua felicità, infine per la sua vita, che mi sembra troppo vacillante e troppo fragile per resistere a grandi dolori. Non voglio ricoprire il ruolo dell’angelo cattivo”. – Ma perbacco, Chopin doveva averla impapocchiata mica male, questa storia. – “Se avessi saputo”, mi scriveva George, “che c’era un legame nella vita del nostro ragazzo e un sentimento nel suo animo non mi sarei mai impegnata per respirare un profumo riservato ad un altro altare. E così pure lui si sarebbe senza dubbio allontanato dal mio primo bacio se avesse saputo che ero come sposata. Non ci siamo affatto ingannati l’un l’altra, ci siamo abbandonati al vento che passava”, al vento che passava, sacrebleu, “e che ci ha trasportati per qualche istante in un’altra regione. Ma bisogna nondimeno che ridiscendiamo in basso, dopo questo abbracciamento celeste e questo viaggio attraverso l’Empireo”. – Volo pindarico e buon senso comune, direi. Ma tutt’e due sprecati. – E già. Posso offrirvi un tè? O un cognac, o un armagnac? – Vada per l’armagnac, grazie. Ma non perdiamo il filo del discorso, dell’intreccio. – L’armagnac non ce lo farà perdere. Quando ricevetti la lettera io, pur volendo sinceramente bene ad entrambi, con entrambi ero arrabbiatissimo. Lei era stata reticente, sacre194

bleu, lui era stato bugiardo, e a me toccava di fare o l’incendiario o il pompiere. Non sapevo veramente che pesci prendere, tanto più perché George si lanciava poi in una paradossale laudatio delle doti preclare di Mallefille, sostenendo addirittura che “è sacra per me la sua felicità”. – Forse, come dicono gli italiani, aspirava ad avere la botte piena e la moglie ubriaca. – Ebbi veramente questa impressione. Ma tutto il suo ragionamento, peraltro appassionato, viscerale, sincero, era viziato dalla premessa che Fryderyk fosse imprigionato in un patto d’onore con la fidanzata polacca e con la famiglia sua e con quella della promessa. E la povera George diceva, misticamente: “Dio non ha permesso che compissimo il nostro pellegrinaggio in terra fianco a fianco. Dovremo incontrarci in cielo, e i rapidi istanti che vi trascorreremo saranno talmente belli che varranno tutta una vita passata qui in basso”. – Non capisco se teorizzasse un amore platonico o incontri sessuali saltuari, in deroga, diciamo così, ad altri legami permanenti. – Teorizzava un melange di incontri saltuari e di amore platonico: “Se la sua anima eccessivamente, forse follemente, forse saggiamente scrupolosa rifiuta di amare contemporaneamente due esseri in due maniere diverse, se gli otto giorni che passassi con lui in una stagione dovessero impedirgli di essere nel suo intimo felice per il resto dell’anno, allora sì, allora vi giuro che mi impegnerei a farmi dimenticare da lui”. – Credevo di conoscere abbastanza bene George, ma non avrei mai immaginato che potesse concepire una simile traballante sintesi di amore-passione e amore-angelicato. – Fui molto sorpreso anch’io. Chopin, facendo, per dirla proprio schietta, facendo il furbo, aveva anche accennato a scrupoli religiosi. E George mi scriveva: “Per il mio gusto avevo aggiustato il nostro poema in questo senso: io non avrei saputo nulla, assolutamente nulla della sua vita positiva, né lui niente della mia, lui avrebbe seguito tutte le sue idee religiose, mondane, poetiche, artistiche, senza che io avessi mai a 195

chiedergliene conto, e reciprocamente, ma dappertutto, in qualche luogo e in qualche momento della nostra vita ci fosse capitato di incontrarci, la nostra anima sarebbe stata all’apogeo della felicità e delle sue superiori qualità perché, ed io non ne dubito, si è migliori quando si ama d’amore sublime e, ben lungi, dal commettere un crimine, ci si avvicina a Dio, fonte e focolaio di questo amore”. Il Paradiso Terrestre prima della Caduta. Io non credevo ai miei occhi. – Nemmeno io. Ma, più prosaicamente di voi, mi sembra di assistere al primo atto della Favorita. – L’opera di Donizetti? – Sì. Ma la drammaturgia è degli autori del libretto, Royer e Vaëz. – Non conosco l’opera. – In dieci secondi, caro Adalbert, vi spiego il nocciolo della trama. Eleonora di Guzmán è l’amante del re di Castiglia Alfonso XI ma incontra segretamente, su un’isoletta, un giovane che vi arriva bendato, con il quale ha intrecciato una relazione platonica. Naturalmente, come sempre negli amori platonici, tutto va a scatafascio e il giovanotto canta nell’ultimo atto la romanza “Spirto gentil, ne’ sogni miei brillasti un dì, ma ti perdei: fuggir dal cor, mentita speme, larve d’amor”. – Non fu però il caso di George. Poverina! Per pagine e pagine si torturava con quel pensiero martellante della fidanzata guastafeste, che non sapeva come togliere decentemente di mezzo. Voi mi avete citato la Favorita. Io potrei citarvi il balletto Giselle: la fidanzata tradita muore di crepacuore ma riappare come fantasma. Scommetterei che George ci aveva pensato. – È probabile. Però non c’era solo la fidanzata, da mettere in cornice: c’era da dare il benservito anche al giovane amante. – Certo. E George se ne rendeva conto e si rimproverava acerbamente: “Sono così abituata a vivere fra gli uomini senza pensare di essere donna che sono stata veramente un po’ confusa e un po’ costernata per l’effetto che ha prodot196

to su di me questo piccolo essere”, cioè il nostro Fryderyk. “Non mi sono ancora rimessa dal mio stupore e, se avessi un eccesso di orgoglio, sarei molto umiliata per essere caduta in pieno nell’infedeltà del cuore, nel momento della mia vita in cui credevo d’essere ormai calma e salda. Sono costretta a mentire come tutti gli altri”. Poveretta, ripeto! E povero Mallefille! – Una passione travolgente. Tanto più travolgente, credo, perché Chopin si rappresentava come una fortezza inespugnabile. – Inespugnabile sì, ma tentata di cedere. Sentite: “Fino a qui, lui era stato molto forte. Io non sono però una bambina. Vedevo bene che la passione umana faceva in lui dei rapidi progressi e che era tempo di separarci. Ecco perché, la notte che precedette la mia partenza, non volli restare con lui e quasi vi misi alla porta”. – Vi eravate accorto, Adalbert, che le cose si stavano avviando su questa china? – Sì e no. No e sì. Fryderyk mi sembrava spaventato, più che eccitato. Ma George mi spiegò anche questo: “Poiché vi dico tutto, voglio dirvi della sola cosa che in lui mi sia dispiaciuta. Aveva avuto delle cattive ragioni per astenersi. Fino a quel momento trovavo bello che si astenesse per rispetto a me, per timidezza, anche per fedeltà ad un’altra. Tutto ciò era sacrificio, e conseguenza della forza e della castità bene intese. Quello era ciò che più mi incantava in lui e che mi seduceva. Ma nel momento di lasciarci, e come volendo respingere un’ultima tentazione, mi ha detto due o tre parole che non rispondevano alle mie idee. Sembrava che disprezzasse, alla maniera dei bigotti, le grossolanità umane, e che arrossisse delle tentazioni che aveva avuto, e che temesse di sporcare il nostro amore con un trasporto in più. Questo modo di considerare l’ultimo abbracciamento amoroso mi ha sempre ripugnato. Se quest’ultimo abbracciamento amoroso non è cosa così santa, così pura, così devota come il resto, non è virtù astenersene”. 197

– Dice davvero “ultimo abbracciamento amoroso”? Non la facevo così pudica. – Pensate forse, sacrebleu, che una donna possa oggi, scrivendo ad un uomo, evitare la perifrasi e dire papale papale “coito”? – E perché no? – Perché certe cose le donne le fanno ma non le dicono, e se le dicono non le nominano. – Anche le donne emancipate, le femministe come George? – Anche loro. E per me, che sono nato nel secolo passato, va bene così, sacrebleu. Ma George stava ormai scivolando su un terreno diverso da quello in cui si era posta prima. “C’è mai amore senza un solo bacio, e c’è mai bacio d’amore senza voluttà?”. C’era stato, e tutto il poema dell’amore angelicato, più ancora che platonico, era alla fine della fiera soltanto una fantasticheria. Ma George era così presa e nello stesso tempo già così materna che per Fryderyk cercava una giustificazione: “Chi è dunque la disgraziata femmina che dell’amore fisico gli ha lasciato tali impressioni? Ha dunque avuto un’amante indegna di lui? Povero angelo”. – Una scuffia da non crederci. E sì che di uomini ne aveva avuti parecchi, prima dell’angelo. Più d’una mezza dozzina, se i miei calcoli sono esatti. – Eh già. E si metteva nelle mie mani: toccava a me, sacrebleu, trovarle la strada per uscire dal ginepraio. – Ce la faceste, evidentemente. Ma come? – Nel modo più semplice. Dissi a George che il fidanzamento di Fryderyk era già andato in cavalleria. Tutto il castello di carta crollò, e lei venne a Parigi a spiccare il frutto ormai maturo. Chopin, quando seppe dell’arrivo, mi mandò un biglietto chiedendomi di incontrarci a qualunque ora, anche dopo la mezzanotte: doveva chiedermi un consiglio. – E Mallefille? – Fu la vittima sacrificale. Ma di una pochade. Mallefille andò a Le Havre con Maurice, George ce lo aveva mandato. 198

Appena tornato pubblicò nella Gazette musicale un racconto ispirato alla Ballata n. 1 di Chopin. Tutto contento, tutto orgoglioso, non sospettava di nulla. Ma la freddezza che George gli mostrava gli mise una pulce nell’orecchio, e la gelosia gli aguzzò l’ingegno. Armato di pistola si mise di guardia davanti all’abitazione di Chopin, dove George, ospite durante il giorno di un’amica, la contessa Marliani, passava tutte le notti. Mallefille la sorprese che ne usciva, si lanciò verso di lei urlando improperi e brandendo l’arma, ma un grosso carro gli tagliò la strada. George scappò a gambe levate, vide un fiacre, vi si gettò dentro e scampò alla furia dell’ex-amante. – Mallefille si rassegnò presto? – Non tanto presto. Era disperato, adirato, offeso, George si sentiva in colpa con lui, Fryderyk paventava la scenate e non sapeva se prendere o no qualche iniziativa. Per un colpo di fortuna Mallefille si rivolse proprio a me. Ed io riuscii a calmarlo e a distoglierlo dai propositi omicidi. – Adalbert, ma lo sapete che in questa incredibile faccenda, in fondo, avete fatto un po’ la parte della mezzana? – Un po’ sì, lo so. E non me ne dispiace. Perché, come vi ho già detto, i primi sette anni “sandiani” furono i migliori della breve vita di Chopin. Peccato che non siano durati. – Ma potevano durare? – In realtà, no. I caratteri erano troppo diversi. Però anche la rottura, per una specie di nemesi, si basò su una commedia degli equivoci. – Raccontatemi. – Vi chiedo scusa ma si è fatto troppo tardi, e devo uscire. Ci vedremo magari un’altra volta, quando avrete cominciato a scrivere la biografia. Posso però confessarvi un piccolo segreto? – Certamente. – Avevo intenzione io di scrivere la biografia del mio amico, sacrebleu. Ma intervenne quella vestale del culto di Chopin... – Quale vestale? 199

– Jane Stirling, la scozzese che avrebbe voluto sposare Chopin, oh, con le più nobili e candide intenzioni, per toglierlo dalle preoccupazioni di natura economica. Adesso controlla come un cerbero tutto quello che riguarda il suo amatissimo maestro. – Ma che cosa c’entra, la Stirling, con la vostra intenzione di scrivere la biografia? – Quando glielo confidai serrò le labbra e fece un “uhm!” scozzese che era tutto un programma. Poi, dopo qualche giorno, venne da me e mi disse, con le opportune perifrasi, che secondo lei ero privo delle qualità del letterato e che non avrei saputo scrivere in modo degno del mio amico. Il bello, sacrebleu, è che mi convinse. – Stupefacente! – Voi non potete sapere quanto è forte quella donna, e quanto è battagliera e tenace e indomabile, quando si tratta di Chopin, del suo Chopin. Alla fine è commovente, ed io non gliene voglio. Ma stateci attento, se la incontrerete: vi passerà al setaccio.

CON IL MARCHESE ASTOLPHE DE CUSTINE

– Perdonate, caro dottor Erdnas Kela, la mia pretenzione di farvi trottare fino a Saint-Gratien. A mia sola scusante posso dire che i miei lavori letterari mi impegnano a tal punto da impedirmi per il momento di spostarmi a Parigi, ...e non sono neppure tanto in gamba quanto vorrei. – Non c’è nulla di cui scusarsi, signor marchese. Sono venuto molto volentieri, e il servizio degli omnibus, come mi scriveste, è veramente ottimo. Aggiungo, vi confesso, di avere avuto anche la curiosità di conoscere il vostro castello. Quello che vedo non delude di certo le mie attese. – Sono lusingato e vi ringrazio. Mio nonno era un generale, mio padre un diplomatico, la mia dimora è ricolma di ciò che i miei avi illustri portarono qui da lontani paesi. – E di ciò che portaste voi, signor marchese. Sappiamo dei vostri viaggi, e il vostro La Russia nel 1839 è ormai un classico della memorialistica politica. – Non nego che quella mia modesta fatica sia stata baciata da Madonna Fortuna. Ha avuto molte traduzioni nelle lingue più diverse. Do you know, John, how many? Not? Questo ragazzo tiene bene in ordine la mia biblioteca, ma non possiede la memoria classificatoria. Bah, pazienza. Qui ci sono tante cose, tanti ricordi. E voi immaginate di certo quale sia per me il più prezioso. – Chopin? – Venite con me, passiamo nella sala della musica. Conob201

bi Chopin nel 1836. Era già celebre, le famiglie più altolocate se lo disputavano, avrei voluto invitarlo a pranzo ma temevo di ricevere un rifiuto. Il mio fornitore di vini era Herr Thomas Albrecht, che affiancava all’attività commerciale quella diplomatica (era attaché dell’ambasciata di Sassonia). Chopin era il padrino della figlioletta di Albrecht, e perciò chiesi a lui di inoltrare... diplomaticamente l’invito. Fu una buona idea: Chopin accettò, venne, suonò per i miei ospiti e per me, c’erano fra gli altri Victor Hugo e Alphonse de Lamartine, e ritornò più volte e mi invitò a casa sua. Ricordo una serata da favola con George Sand, Liszt, Marie d’Agoult, Pixis, Franchomme, Nourrit, Eugène Sue ed altri. Chopin e Liszt eseguirono la Sonata a quattro mani di Moscheles, Nourrit cantò dei Lieder di Schubert accompagnato da Liszt. Una storica serata. Da parte di Chopin era nata una sincera amicizia per me, e da parte mia una illimitata devozione per lui. – Provavate questo sentimento verso una persona che, mi sembra, era più giovane di voi? Di solito accade il contrario. – Chopin aveva vent’anni meno di me. Ma era fatto di un cristallo così puro, era una persona così eccezionale, oltre che uno straordinario artista da essere in sé, Lui, un’opera d’arte. – Verso la quale, ovviamente, non si prova amicizia ma devozione. – Precisamente. Oh, non prendetemi per un mentecatto. Fu lo stesso Chopin che indirettamente e inconsapevolmente mi chiarì quel che provavo per Lui. – Posso chiedervi di spiegarmelo? Mi interessa moltissimo. – Chopin mi disse di una lettera di Marie d’Agoult a... quella che non voglio nominare. Trovandosi a Genova con Liszt, la d’Agoult aveva visitato il Palazzo Durazzo ed aveva visto il ritratto di un giovane Durazzo dipinto da Rubens. Le era sembrato di vedere Chopin. Credete nella metempsicosi? – Veramente, no. – Non posso dire di crederci neppur io, però mi affascinò l’idea che Chopin fosse la reincarnazione di quel Durazzo, 202

non però del Durazzo in carne ed ossa ma del ritratto, la personificazione di ciò che un grande pittore aveva fissato sulla tela. Non so se mi spiego. Io vedevo, sì, io vedevo in Chopin una vivente opera d’arte. – Vi spiegate benissimo, e quel che dite è affascinante. Adesso ho capito. – Non mi giudicherete male per questo, spero. – Assolutamente no. – Bene. Ecco qui il pianoforte che varie volte fu destato nel suo sonno dal tocco magico di Chopin. Un Pleyel, naturalmente. Finché avrò vita nessuno lo toccherà, sarebbe una profanazione. – Chopin venne qui spesso? – Alcune volte. Due mesi dopo essere stato ospite nel mio appartamento di Parigi ricevette da me in dono alcune stampe (gli piacevano molto le stampe). Nella lettera accompagnatoria gli esposi un progetto. Lo invitavo a Saint-Gratien per un soggiorno che avrebbe compreso la visita di Ermanonville, Montefontaine e Chantilly. – Venne? – No. Andò a Enghien a passare le acque, vivendo in una pensioncina. Quando lo seppi gli scrissi, ed ero così costernato da dirgli che, se fosse tornato a Enghien, non avrebbe dovuto farmi l’ingiuria di non prendere alloggio da me. Poteva passare le acque anche a Saint-Gratien ma, se proprio voleva abbeverarsi a quelle di Enghien, che sta a un quarto d’ora da casa mia, gli avrei messo a disposizione una carrozza. Due giorni più tardi gli scrissi di nuovo per dirgli che era Lui la sola persona autorizzata a venire a Saint-Gratien senza prima avvertire dell’arrivo. – Venne? – Venne. E non se la prese quando mi capitò di chiamarlo Chopinet. Sapevo del resto che così lo chiamava il generale polacco Jozéf Bem. Lo sapevo da un esule, Ignaz Gurowski, che viveva in casa mia. Gli scrissi poi, per reinvitarlo, una lettera scherzosa, e scherzosamente gli facevo una proposta 203

che, in realtà, era basata su una falsa informazione. Riguardava madame Pleyel. – In che senso, scusate? Questa è nuova per me. – Marie Moke era stata l’amante di Ferdinand Hiller, che aveva abbandonato per unirsi a Berlioz. Per Berlioz era la prima amante in assoluto, e lui era quasi diventato pazzo quando lei lo aveva piantato in asso per sposare Pleyel mentre il fidanzato, vincitore del Prix de Rome, a Roma se ne stava… Dopo sposata, Marie si era incapricciata di Liszt, che non si tirava mai indietro, al contrario di Chopin, quando c’era da aggiungere un trofeo nella sua panoplia. Il fattaccio era addirittura avvenuto in casa di Chopin che, essendosi assentato da Parigi, aveva lasciato la chiave a Liszt. Un’indelicatezza da non credersi, che fece arrabbiare molto Chopin. Nel 1836 si diceva che la volatile Marie stesse facendo gli occhi languidi con Chopin. Perciò scrissi a Chopin di invitarla a Saint-Gratien per tutto il periodo delle feste di luglio. – La Presa della Bastiglia. – Già. Avevo preso un bel granchio, di cui Chopin rise molto. La Pleyel stava per raggiungere a Bruxelles Fétis, con il quale vive ancora, e Chopin stava per fidanzarsi con quella ragazza polacca. – Maria Wodzin´ska. – Di lei non so praticamente nulla. Ma Dio avesse voluto che la sposasse. Era di sicuro una degna persona. Non come quell’altra, quella megera! – Geo... – Non pronunciate il suo nome in mia presenza! Mi fa perdere il lume della ragione! Chopin sognava il matrimonio e faceva di tutto per compiacere la madre della ragazza, che collezionava manoscritti. Chiese anche a me di scrivere per lei qualche parola cortese, cosa che feci. E quando il fidanzamento fu sciolto scrissi a Chopin una lunga lettera. – Cercavate, immagino, di dargli una consolazione. – Molto di più. Gli amici veri si vedono in queste circostanze. Ho qui la brutta copia della lettera. Ve ne leggo qual204

che passo. “Voi”, gli dicevo, “siete malato. Potreste soprattutto diventarlo ben più seriamente. Siete sul limite dei dispiaceri dell’anima e dei mali del corpo; quando le pene del cuore si trasformano in malattie siamo perduti; ed è questo che voglio evitare per voi. Non tento di consolarvi, rispetto i vostri sentimenti, che del resto intravvedo soltanto; ma voglio che restino sentimenti e che non diventino dolori fisici. Vivere è un dovere, quando si ha, come voi avete, una fonte di vita nella poesia; non perdete questo tesoro e non trattate con leggerezza il buon Dio trascurando i suoi doni più preziosi. Ecco un crimine imperdonabile, perché Dio stesso non vi renderà il passato perduto da voi volontariamente”. – Capisco ancora di più la vostra devozione. È una lettera nobilissima. E quali consigli gli davate? – Proseguo. “Per conservare questo passato così pieno d’avvenire avete da prendere una sola decisione: lasciarvi trattare come un bambino e come un malato! Dovete persuadervi di avere una sola preoccupazione: la vostra salute; il resto ritornerà da solo. Ho per voi quanto basta d’amicizia perché mi permettiate di andare al fondo delle cose. È il denaro, che vi trattiene a Parigi? Se è questo, io posso prestarvene, me lo renderete più tardi, ma vi riposerete per tre mesi!!! Se vi manca l’amore lasciate almeno fare all’amicizia; vivete per voi, per noi; ci sarà tempo, allora, per arricchirvi. Tre mesi di riposo e di trattamento ragionato, coerente, basteranno per fermare il male; ma ce n’è bisogno! Nella solitudine vi perseguiterà l’inquietudine dello spirito: è vero, ma il riposo del corpo finirà per prendere il sopravvento sull’anima, e le ali del talento vi trasporteranno in un mondo che di ciò ci consola. Non restate nel tran tran delle vostre giornate di Parigi: avete qui da me un’occasione difficile da trovare altrimenti: un mese di campagna e di buon regime, poi un viaggio fino alle rive del Reno. Ignaz deve andare fino a Strasburgo con i miei cavalli; se questo modo di viaggiare vi pare troppo lento ne troveremo un altro; ma una volta arrivato sul 205

Reno siete a Ems, e di là siete dappertutto, perché il trattamento di Ems, fatto bene e bene applicato, è la salute!”. – So già che non accettò i vostri consigli e che andò con Pleyel a distrarsi a Londra. – Proprio così. L’anno dopo venne a Saint-Gratien poco prima di partire per le Baleari. Suonò una splendida Polacca in la maggiore, superba per potenza e vigore, un’opera traboccante di gioia patriottica, e un piccolo pezzo commovente che chiamava Preghiera dei Polacchi. Suonò poi una Marcia funebre che aveva scritto l’anno prima, al tempo in cui si era spezzato il sogno del matrimonio. Era malato, tutto nel suo aspetto denunciava la tisi, era come un’anima senza corpo. Straziante, per me, vederlo ridotto in quello stato. E piangevo, mentre suonava. Poi mi confidò – lo sapevo già, avevo i miei zelanti informatori – che partiva per la Spagna... E sembrava lieto. Mi disse che aveva bisogno di riposo. Ma io sapevo con chi partiva: partiva con un vampiro. Riposarsi in compagnia d’un vampiro. Pensai che non sarebbe più tornato, e mi si spezzava il cuore. – Non gli scriveste, mentre si trovava a Maiorca, se non altro per avere notizie della sua salute? – Partii quasi subito per la Russia, e rientrai nel novembre del 1839, dopo un anno. Chopin era arrivato da poco a Parigi. Gli scrissi, invitandolo nel mio palco del Teatro Italiano. Gli mandai un biglietto, non due. Non venne. Alla fine dell’anno gli scrissi un’altra volta, lamentando – pateticamente, lo confesso – di essere stato messo in disparte. Venne a trovarmi mentre ero a Parigi ed accettò l’invito per una serata alla quale avevo chiamato anche il suo grande amico Grzymała. Riprendemmo a vederci di tanto in tanto, sempre con una sceltissima compagnia ma senza... Il 27 giugno venne a Saint-Gratien, e suonò in un modo, in un modo... Restai sveglio tutta la notte e il giorno dopo gli manifestai con esaltazione tutta la mia ammirazione per la maturità che aveva raggiunto. “Questa maturità nella giovinezza è sublime”, gli scrissi, “è l’arte nella sua perfezione”. Avevo cinquant’anni, lui ne aveva trenta, ma sen206

tivo in lui una saggezza che andava ben oltre non solo la sua età, anche oltre la mia. Quattro giorni dopo venne a trovarmi a Saint-Gratien, in compagnia del vampiro. – Un bel rebus, per voi. – Mi ero messo il cuore in pace, per così dire, e spasimavo dalla voglia di rivederlo e di risentirlo suonare. Vennero il 2 luglio, con i ragazzini, Delacroix e Grzymała. Non andò male, ...ma nemmeno bene. Ed immagino che il vampiro facesse poi la sua parte. Ci perdemmo di vista. Assistetti al suo ultimo concerto a Parigi, nel 1848. Ah, quel Trio di Mozart che eseguito da lui risuscitava sotto i miei occhi attoniti la Grecia! Ah, la Barcarola, Venezia come in un dipinto di Turner! Sono lieto che quello sia stato il mio addio a Lui. Ne ho conosciuti, di artisti, e di grandi artisti: Chopin è per me il più grande di tutti. Posso pregarvi di rimanere per la cena? – Grazie, accetto ben volentieri. – Allora pernotterete qui da me. E parleremo ancora di Lui. Please, John...

CON HECTOR BERLIOZ

Weimar, questo 18 novembre 1852

Carissimo Samud, la tua lettera mi ha raggiunto qui a Weimar, dove il Capellmeister del granduca, Franz Liszt, ha programmato una settimana-Berlioz. La patria di Gluck apprezza la mia musica più della mia patria, e ciò mi rende nello stesso tempo orgogliosissimo e scocciatissimo. Ma non devo parlarti di me. Tu mi chiedi del mio caro Chopinetto. Certo, l’ho conosciuto bene e posso dire di esserne stato amico, sebbene la nostra amicizia non diventasse mai fraterna. Lo conobbi quando tornai da Roma a Parigi, nel 1832. Aveva l’apparenza e i modi dell’aristocratico, ma con gli amici era quanto mai cameratesco. Ci trovammo insieme molte volte, davanti ad una tavola imbandita o davanti ad un pianoforte pronto a servirlo. Ero presente la sera in cui, fra quattro amici, Liszt suonò gli Studi di Chopin appena pubblicati, in un modo da lasciare a bocca aperta, nonché noi, persino lo stesso Chopinetto. Con Franz e con Frédéric ci trovavamo spessissimo. Suonarono entrambi nel concerto che io promossi per raccogliere fondi a favore dell’attrice inglese che sarebbe diventata mia moglie, e che si era malamente fratturata una caviglia. Franz e Frédéric eseguirono a quattro mani la Sonata in fa minore di Onslow. Il 14 dicembre 1834 invitai Chopin a prender parte ad un mio 208

concerto (la sua sola presenza avrebbe messo in moto una bella fetta di aristocrazia). Accettò, suonò il Larghetto del suo Concerto in fa minore (che fece poco effetto). Chopin venne a trovarmi con altri amici a Montmartre, dove abitai per qualche tempo. Poi ci vedemmo di rado. Grande musicista, senza dubbio, grande creatore, e per il pianoforte un caposcuola. Ma per questo puoi leggere il necrologio che pubblicai nel Journal des débats. In camera caritatis, e tu fanne l’uso che credi, ti dirò che nei suoi concerti l’orchestra altro non è che un freddo e pressoché superfluo accompagnamento. E quando lo sentivo suonare non mi convinceva il suo rubato. Chopin, te lo dico brutalmente, non sapeva andare a tempo. Franz non è d’accordo con me (è venuto a prendermi: sto declamando ad alta voce quello che scrivo), e su questo punto protesta. Lui parla poeticamente del rubato, io pretendo di capire com’è fatta la battuta e dove sta il primo quarto. Ma Chopin era soltanto il virtuoso dei salotti eleganti, delle riunioni intime dove l’eccentricità celebra i suoi fasti... Quando sarò di ritorno potremo forse approfondire l’argomento. E ti racconterò della settimana-Berlioz. Scusa per ora la brevità, ma sono davvero molto indaffarato. Franz s’unisce a me nel mandarti un affettuoso saluto tuo Hector

CON GEORGE SAND

– Samud, vieni avanti, dammi un bacio, anzi, due, siediti, accendi un sigaro, bevi un cognac, togliti le scarpe, fai quel che vuoi, chiedimi quel che ti garba. Ma ti vieto nel modo più assoluto di parlare di Lucrezia Floriani. Verboten! Forbidden! – Pure... – Non c’è “pure” che tenga. Ti dico io papale papale quel che c’è da dire, che è poi una cosa sola: nel principe Karol, che causa la morte per crepacuore della sua amante Lucrezia, non ho affatto voluto raffigurare Chopin. Punto e a capo. – E a capo ritroviamo Chopin. – Nulla osta, signor mio. Chip-Chip è stato per me un grande amore, finito male per colpa sua. Ma ciò non ha più importanza, ormai. – Com’era cominciato? – Era cominciato che io, alla non più verdissima età di trentadue anni e con alle mie spalle un’esperienza di vita tutt’altro che strettina, ci ero cascata come una pera cotta, di fronte a quel biondino di sei anni più giovane di me. – So già che non fu facile, arrivare al redde rationem. – Scommetto che hai parlato con Grzymała. Eravamo molto amici, ma la rottura con Frédéric ci ha allontanati. Spero di riagganciarlo un giorno, mi manca la sua rude presenza di vecchio militare slavo. – George, ci hai azzeccato in pieno! Grzymała mi ha fatto un rendiconto molto accurato ed equilibrato di come arriva210

ste alla liaison, e mi ha detto, te lo giuro su ciò che ho di più sacro, che gli anni passati con te sono stati i migliori della vita di Chopin. – Ah!, riconosco il mio Adalbert, il mio sposo, come lo chiamavo. E ciò accresce il mio desiderio di rivederlo. Se Adalbert fosse stato presente il patatrac, forse, non sarebbe successo, o non nel modo sgradevole in cui avvenne. Ma di questo non voglio parlare, mi mette addosso troppa tristezza. – Mi dici che cosa ti colpì – o ti fulminò – la prima volta che vedesti Chopin? – Che lo vidi e che lo udii suonare. Giove mi scagliò addosso due fulmini, non uno solo. Da mia nonna avevo ricevuto una certa educazione musicale, basata sul Settecento, su Pergolesi, Porpora, Gluck, Haydn, Mozart, non su Bach e Händel. Appena arrivata a Parigi scoprii Rossini, e poi Beethoven e Weber, e infine Berlioz, Liszt, Meyerbeer. Franz, a Nohant, mi fece ascoltare i Lieder di Schubert da lui trascritti per pianoforte, sconvolgenti. Ma con Chopin fu un mondo fatato che s’aprì davanti ai miei occhi stupefatti. – Ah!, certo, il poeta del pianoforte. – E qui, benedetto uomo che sei, ti sbagli di grosso. Fétis afferma che non Chopin, ma Stephen Heller, quell’antipatico, è il poeta del pianoforte. Lui lo dice per malanimo, ma, in realtà, ha ragione. – Questa me la devi proprio spiegare: da solo non ci arrivo. – Per me è una cosa chiara come il sole. Pensa a quel che contano oggi, per l’umanità, non per le persone di cultura raffinata, i poeti. Un tempo i poemi in versi influenzavano l’evoluzione dell’umanità, oggi questo compito è passato al romanzo. Ti parlo senza falsa modestia di me. Chiedi a chiunque sappia leggere se conosce George Sand, e ti risponderà di sì. Chiedigli se conosce una poetessa squisita come Marceline Desbordes-Valmore, mia amica, e nel novantanove per cento dei casi ti risponderà di no. – In questo hai ragione. Non credo che Victor Hugo sa211

rebbe Victor Hugo se avesse scritto solo Les Orientales e non anche Notre-Dame de Paris. – Mi va a fagiolo il concetto ma non il personaggio, quell’ipocrita, quel tartufo di Hugo, con i suoi versi edificanti sulla famiglia e la sua scandalosa vita privata. – L’hugoismo, come dice Heine. D’accordo, non questionerò con te su questo punto. Però, dico, come puoi vedere il romanziere in Chopin, che si è servito soltanto del pianoforte? – E qui ti voglio, qui ti casca l’asino. Non appena lo sentii suonare capii che la sua musica riguardava l’umanità tutta e non una classe di essa, sebbene di una classe egli fosse il coqueluche e di uno strumento da salotto si servisse. Questo è il suo paradosso. Però, fra tutti i creatori di musica uno solo – intendimi bene! – uno solo, Mozart, è più grande di lui. E lui lo sapeva e lo riconosceva, il Don Giovanni e il Requiem stavano sempre sul suo leggio, e una volta, avendo dimenticato a Parigi le due partiture, non ebbe pace fino a che non gli furono spedite a Nohant. – Primo Mozart, secondo Chopin. C’è un seguito? E qual è? – C’è. Bach (che Chopin mi fece conoscere, insieme con Händel), Bach, ti dicevo, e Beethoven e Weber. Chip-Chip li aveva assimilati e li aveva superati: era i tre insieme ed era ancora lui stesso. – Quello che dici mi sorprende più che un po’. Di Chopin si apprezza in genere la capacità di rendere i sentimenti dolci, espressi da lui con una grazia, una spontaneità, una delicatezza e una freschezza di immagini incomparabili. – Puff, puff, puff! Che stupidaggine! Quale sesquipedale stupidaggine, Samud del mio cuore! L’espressione è in lui drammatica, austera, straziante, il suo genio è vasto, completo, sapiente quanto quello dei più grandi maestri. E la sua musica, sotto l’apparenza delicata, è bizzarra, misteriosa, tormentosa. Com’era del resto lui. Altro che sospiroso abatino: un vero, completo romanziere. – Però, come dicevi, era il coqueluche di una classe sola. 212

– Non è stato, non è ancora riconosciuto dalla folla. Questo è vero. Ci vorranno di grandi progressi nel gusto e nella comprensione dell’arte, perché le sue opere diventino popolari. Del resto, di una cosa sono convinta. L’ho messa in bocca a Porpora nella mia Consuelo: “La gloria dell’incoronazione non arriva quasi mai, per il vero genio, se non dopo la morte”. – Chopin è scomparso da appena tre anni. Ma tu sei convinta che ci sarà un progresso nel gusto e che perciò lui diventerà popolare. – Forse ci sarà bisogno di qualche aiuto. Penso che i suoi maggiori lavori dovrebbero essere trascritti per orchestra e dovrebbero apparire nei concerti sinfonici, seguiti da un pubblico non selezionato. Allora si vedrebbe che un pezzo di Chopin vale più di tutte le strombettate di Meyerbeer. – Se ti sentisse Meyerbeer... – Ma io apprezzo Meyerbeer, lo apprezzo come merita, per me rappresenta la conciliazione fra la possente intelligenza tedesca e la poesia appassionata dell’Italia, è un grande maestro, è un genio. Ma Chopin, Chopin! Chopin sta molto più in alto di lui. – Non so se come storico della musica tu sia pari alla tua creatività di romanziere. Accetto però il tuo giudizio. Dimmi adesso come fu la tua vita con Chopin quando si furono conclusi i... preliminari che mi sono stati narrati da Grzymała. – I primi mesi furono paradisiaci, ...con la brutta eccezione di Mallefille, lo sai, vero? – Lo so. – Povero ragazzo, non pensavo che si sarebbe arrivati a quel punto e mi dispiacque molto, per lui... e per noi. Avevo detto a Grzymała che da quella parte avrei potuto condurre la nave al disarmo senza drammi (lui aveva nove anni meno di me ed era piuttosto ingenuo). Invece... Bah!, pazienza! Mallefille se l’è poi cavata molto bene, nel ’48 la repubblica gli affidò persino incarichi diplomatici, e come commediografo non è malaccio. 213

– Dicevi che i primi mesi... – ...furono paradisiaci. Ero così fuori di me che in settembre – parlo del ’38 – scrivendo a Delacroix gli dissi di aver trascorso tre mesi di ebbrezza senza ombre. Gli confessai persino di cominciare a credere che ci fossero degli angeli mascherati da uomini che si facessero passare per tali e che rimanessero per qualche tempo sulla terra per consolare e per attirare con loro verso il cielo le povere anime affaticate e desolate, rassegnate a perire su questa bassa terra. – Accipicchia! – Prima, quando mi tormentavo vanamente, avevo avuto il torto, gravissimo, di separare lo spirito dalla carne, cosa che in realtà – lo scrissi a Grzymała – è contro natura. Quando finalmente li riunii, spirito e carne, fu un’ebbrezza, una follia. – In verità, perdonami, non lo facevo così rapinoso, il tuo Chopin. – Ma che ne sai tu? Che ne sai, per Dio? Che ne sai? Conosci la sua Sonata in si bemolle minore? – Quella con la marcia funebre? La conosco sì. – La scrisse durante quella che posso chiamare la seconda stagione del nostro amore, nel ’39, a Nohant. – Perché dici seconda stagione? – Poi te lo spiego, non farmi perdere il filo perché devo battere subito in breccia la somma bestialità che ti sei lasciato scappare fuori da quella boccaccia. Ebbene, l’anno scorso è stata qui da me una milady, mia ammiratrice. Abbiamo parlato anche di Chopin e della Sonata, e lei mi ha spiegato che secondo il punto di vista anglo-vittoriano nel primo movimento la musica diventa sempre più appassionata e nella parte conclusiva trascende i limiti della correttezza. Ostrega!, dico io, ricordando il mio soggiorno a Venezia. Ostrega! Proprio così: trascende i limiti della correttezza. Hai capito? Come rispondi? – Rispondo: ostrega! – Bravo! Adesso ti spiego delle due stagioni. Quando io partii per Perpignan con i miei ragazzi e la camerista, Chip214

Chip rimase ancora a Parigi per qualche giorno, perché nei suoi scrupoli, per me superflui, c’era il terrore che nascessero voci e pettegolezzi. Essendo solo e sentendosi solo e abbandonato andò a Saint-Gratien a salutare quel suo amico, quel marchese finocchio, ...de Custine. – Lo conosco, Astolphe de Custine. – Pensa che nel ’38, l’8 maggio (lo ricordo come fosse ora), ero in casa del marchese, che conoscevo abbastanza bene. Era presente Chopin, che suonò come sapeva suonare quando si era in pochi, dopo mezzanotte. Il cuore mi batteva all’impazzata, dovevo avere le guance del colore delle braci. Il marchese mi fissò come si fissa una serpe velenosa, e da quel momento mi detestò. – Avevi l’impressione che il marchese si filasse Chopin? – Impressione, dici? No, certezza, certezza assoluta. ChipChip lo teneva tranquillamente a bada, ma non lo mollava perché de Custine era uno dei pochi che sapevano esprimere nei suoi confronti degli apprezzamenti graditi, graditi perché acuti e profondamente sentiti: il finocchio era un intelligentissimo e finissimo intenditore di cose artistiche. Nell’estate del ’40 andammo insieme a Saint-Gratien. Il marchese fu impeccabilmente cortese con me, ma spandendomi addosso una tale corrente gelata che, una volta tornati a Parigi, io dissi a Chip-Chip: “Bimbo, quello lì bisogna lasciarlo a rimestarsi da solo le sue paturnie”. – Tutto ciò è interessante, ma tu continui a svicolare: cos’è la seconda stagione? – Dopo quei tre mesi di sogno andammo a Maiorca. Al primo momento ci sentimmo come nel Paradiso Terrestre, ma ben presto... – Ho letto il tuo Un inverno a Maiorca: natura incantevole, abitanti detestabili, tempo incostante con prevalenza di vento freddo. – E Chopin che si ammalò, che s’ammalò gravemente e che non poté essere curato da medici capaci. Mediconzoli da commedia erano quelli, non sacerdoti d’Esculapio. Chopin lo 215

curai io, mettendoci, se non la sapienza, tutto il cuore. E lui era un malato angelico, così paziente, così timoroso di dare fastidio, così umilmente grato per ogni minima gentilezza che riceveva. Quando, dopo Maiorca, arrivammo a Marsiglia, stava così male che decidemmo di fermarci. E migliorò a poco a poco, anche se il servizio funebre per Nourrit gli procurò molta pena. – Ma Nourrit, se ben ricordo, si suicidò a Napoli. – Certo, era andato in Italia per rivalersi dell’insuccesso avuto a Parigi dopo che a Parigi era comparso Gilbert Duprez con il suo do di petto. A Napoli Nourrit cantò varie opere, tra cui il Giuramento di Mercadante; giudicò che l’esito non era quello sperato e si gettò dal balcone dell’albergo. La sua salma arrivò per mare a Marsiglia prima di proseguire per Parigi. – E a Marsiglia ci fu un servizio funebre. – L’emozione era enorme. Il servizio si svolse nella chiesa di Notre-Dame-du-Mont e all’Elevazione Chopin suonò l’organo. Eseguì un Lied di Schubert che aveva spesso accompagnato a Nourrit. Erano stati grandi amici. – In quel periodo, stante la malattia di Chopin, i vostri sentimenti – scusa la domanda un po’ indiscreta – subirono un’evoluzione? – Domanda non indiscreta per me, e molto acuta, alla quale risponderò sinceramente. In me, accanto alla passione, nacque l’amicizia. L’amicizia della donna, in generale, è molto materna. Questo sentimento ha dominato la mia vita più di quanto avrei voluto. Ma non fu il caso di Chip-Chip. Provai per lui un forte sentimento di amore materno che lui ricambiò. E ciò arricchì il nostro legame. Quando andammo a Nohant e il periodo di... astinenza imposto dai medici poté cessare perché lui era tornato in buona salute avemmo, come ti dicevo, una seconda stagione d’amore, più ricca della prima. – Una felicità così piena, recita la sapienza popolare, non può essere che di breve durata. Mi puoi dire quando dalle ali del tuo angelo cominciò a cadere qualche penna? 216

– La prima penna, per riprendere la tua immagine, cadde quando in Chopin si manifestò una violenta gelosia, che riguardava sia il presente che il passato, il mio passato. – Un passato che doveva essergli noto da tempo, visto che non avevi mai fatto una vita di apparenze e di sotterfugi. – Non era geloso del mio passato in generale. Lo era, molto, di de Musset, tanto che trattò con freddezza la madre di Alfred che si rivolse a lui per raccomandargli un’allieva. Ma ebbe un accesso di vero furore quando senza minimamente pensarci su gli dissi di aver avuto una breve relazione con Pierre Bocage, l’attore. Dovetti scrivere a Pierre per pregarlo di tenersi alla larga da me e di stare attento, se mi scriveva, a contraffare sulla busta la calligrafia. Pensa un po’. Però questo avvenne più tardi, mi pare nel ’45. – La gelosia si manifestò dunque prima. – Oh sì, molto prima, praticamente subito. Si insinuò un poco alla volta nel nostro rapporto e crebbe come un’epidemia. Pensa che era geloso persino di Delacroix, nostro grande amico. Eugène mi scrisse quando stavo con Chip-Chip da qualche mese. Aprii la lettera, la lessi sorridendo (era una bella lettera), ma con la coda dell’occhio vidi che il mio amore se ne stava lì imbronciato come un cane bastonato. Mi accusai di indelicatezza, lo chiamai, gli mostrai la lettera, che piacque anche a lui. Lì per lì non ci feci caso, ma quella era già una manifestazione di gelosia. – Detto sinceramente, un po’ lo capisco. Delacroix, con quei baffi, quegli occhi, quella fama di rubacuori... – Ma dai! Te ne cito un altro. Chip-Chip era geloso persino di Grzymała, il suo amico più intimo. Un giorno incontrai per caso Adalbert e andai con lui in un caffè dove passammo qualche mezz’ora a conversare piacevolmente. Tornata a casa non dissi nulla a Chopin, perché mi avrebbe fatto un sacco di storie e non l’avrei sopportato, ma scrissi ad Adalbert per metterlo sull’avviso. In ogni moto di simpatia Chopin vedeva la scintilla di una passione amorosa. 217

– Mi stai elencando le piccole omissioni, le calcolate bugie, tutto il codice di ipocrisia del matrimonio borghese. – Dici benissimo. Chopin finì col porsi di fronte a me come amante, come marito, come proprietario dei miei pensieri e delle mie azioni. Una sorta di tirannia. Ma di questo non voglio parlare. Preferisco ricordare i momenti felici che non mancarono affatto anche dopo il 1839. Specialmente a Nohant, dove facevamo vita ritirata, dove lavoravamo fianco a fianco in pace e concordia (io gli leggevo tutto quello che scrivevo, lui mi faceva sentire tutto quello che componeva), e dove – chiedo perdono alla sua memoria per la cattiveria – la situazione rimaneva sempre sotto il suo vigile controllo. Se scriverai la sua biografia potrai ritrarlo come vorrai. Ma esigo da te un giuramento. – Di che si tratta? – Prima devi giurare! – Sta bene: giuro. – Grazie. Chip-Chip non era un angelo sceso in terra. C’erano nella sua educazione dei canali di giudizio religiosi, sociali, morali che condizionavano il suo pensiero e le sue azioni. Come artista andava ben oltre il suo tempo e la sua classe d’appartenenza, come uomo no. – Pregiudizi religiosi? Chopin era religioso? – La mia risposta potrà sorprenderti, potrà sembrarti paradossale, ma è vera. Chopin era polacco, ed era religioso in quanto polacco. La religione cattolica è ciò che differenzia i polacchi, privi di Stato, dai loro vicini, prussiani e russi. Per Chopin la fede cattolica era la testimonianza di appartenenza ad un popolo e alle sue più sacre tradizioni. Il suo conformismo in questo campo era un’attestazione di amor patrio. – Immagino che anche la malattia condizionasse il suo carattere. – I periodi di cattiva salute, che ricomparvero puntualmente fin dalla primavera del ’40 e che diventarono sempre più frequentemente ricorrenti, ebbero certamente un’influenza nefasta sul suo carattere, altrimenti non potrei spie218

garmi la trasformazione alla quale assistetti. La sua anima era la perfezione in un corpo malato, e di conseguenza in una immaginazione inquieta e in un carattere irresoluto e melanconico. Alla fine della nostra vita comune non era più il malato paziente di un tempo: era irritabile, intollerante, l’assisterlo diventava, invece di una gioia, un sacrificio. Tutto ciò puoi, e devi dirlo. Ma ricorda, e questo riguarda il giuramento, che Chip-Chip non fu mai ridicolo. – Non ho mai pensato che lo fosse. – Temevo che tu potessi equivocare, perché certi comportamenti patologici possono dare origine a considerazioni ironiche, se li si osserva senza partecipazione affettiva. Chopin – non so bene come dirlo – era al di sopra del ridicolo. Hai visto le statuette di Dantan? – Ho visto quelle di alcuni cantanti, non quella di Chopin. – Dantan è un genio, nel cogliere tratti somatici e atteggiamenti che si prestano alla caricatura. – Oh certo! L’eleganza dandistica con cui Gilbert Duprez spara il do di petto, e la fatica con cui Nourrit emette un acuto che do di petto non è sono esilaranti. – Guarda invece la statuetta che raffigura Chopin: Chopin, visto da un caricaturista, mantiene il massimo grado di distinzione e di signorilità. È un’icona, un essere intangibile. – D’accordo, rispetterò scrupolosamente il giuramento. Cambiamo adesso argomento. George, ho per te una sorpresa. Apri questo pacchetto. – Che cosa... Che cosa... Oddio, ma sono certe mie lettere a Chip-Chip. Dove le hai trovate? – Le ho recuperate in Slesia. Ludwika Chopin, rientrando a casa dopo la morte del fratello, le aveva lasciate in custodia ad un conoscente prima di varcare la frontiera fra la Polonia prussiana e la Polonia russa. Sono riuscito a farmele consegnare e te le ho portate. Sono tue. – Oh, Samud, quale dono inaspettato! Ostrega, proprio un dono del cielo. Ne hai fatto la copia? – In parte sì. Ma perché me lo chiedi? 219

– Perché, ...perché penso di distruggerle. E ti chiedo di distruggere comunque le copie. Sto scrivendo la storia della mia vita e sto ripensando a tutto ciò che fu, con distacco, con imparzialità, con serenità. Per lo meno, così mi sforzo di fare. Vedi, certe lettere che scrissi da Maiorca erano molto crude, nei confronti dei maiorchini. Un inverno a Maiorca, scritto tre anni più tardi, era un po’ meno violento, la Storia della mia vita lo è ancora di meno. E io voglio consegnare Chopin ai posteri secondo il bilancio che ne faccio ora, senza esaltazioni e senza furori, senza speranze e senza rimpianti, senza idealizzazioni e senza demonizzazioni. Ho forse torto? – Non lo so, onestamente. Ma sei tu che devi decidere, e qualsiasi decisione tu prenda sarà, ne sono sicuro, da rispettare. Grazie, George, per tutto quello che hai voluto confidarmi. – E grazie a te, Samud, per avermi ascoltata. Adesso vai, caro. Ho bisogno di rimanere sola con i miei fantasmi.

CON IL MAESTRO STEPHEN HELLER

Parigi, 16 dicembre 1852

Esimio Dottore, mi spiace assai che voi non mi abbiate trovato in casa ma, come forse potete immaginare, io spendo una buona parte della mia giornata in giro a dar le lezioni di pianoforte che mi procurano quel panem non garantitomi dai carmina. Simile in ciò allo Chopin di cui mi chiedete notizie, ma anche diverso. Chopin cominciò, come me, a far lezione recandosi in casa degli allievi ed entrando nelle suddette case dalla porta di servizio. Poi gli fu accordato l’onore di entrare dal portone principale, ed infine i suoi allievi – soprattutto allieve – gli usarono la cortesia, in considerazione della sua malferma salute, di recarsi essi stessi a casa sua. Risparmiò così parecchio tempo, Chopin, oltre a guadagnare di molti danari perché la sua tariffa era la più alta che in Parigi mai si fosse vista. Sentii parlare per la prima volta di Chopin quando, nel 1829, tenni due concerti a Varsavia. Avevo allora sedici anni, e chi mi accompagnava pensò bene di farmi incontrare, per averne consigli e protezione, il più reputato insegnante di pianoforte della città. Ci fu indicato il professor Moritz Ernemann, sussiegoso individuo che mi ricevette sì, ma che cercò in tutti i modi di smorzare il mio entusiasmo: il momento, disse, era sfavorevole, la città non era grande, c’era poco da spe221

rare con un concerto, era consigliabile andare altrove, e il generoso professorone era dispostissimo a darmi lettere di raccomandazione per altre città (purché mi togliessi dai coglioni). Io i concerti li feci, e andarono benissimo. Ci fu poi detto esservi in Varsavia un astro nascente, Chopin. Non venne ai miei concerti e non lo vidi. Lo vidi a Parigi, dove arrivai nel ’38, e gli fui presentato. Era cortese, ma altero. Con lui, nonché di amicizia, mestier non era neppure di franco cameratismo. E si era legato con artisti estranei al mio orizzonte e che io vedevo, giustamente, come sovvertitori delle sane tradizioni della musica: Berlioz, Liszt, Alkan. Artisti di grandissimo talento tutt’e tre, s’intende, grandissimi virtuosi gli ultimi due, grandissimo orchestratore il primo, e persona coltissima e umanamente interessante. Ma le loro opere... Toglietegli gli orpelli e vedrete quel che ne resta: quasi non c’è sostanza. Il creatore contemporaneo che rappresenta per me la moderna perfezione dell’arte musicale è Schumann, che benevolmente mi accolse nella Lega dei Fratelli di Davide (mi chiamò Jeanquirit, e sotto questo pseudonimo pubblicai parecchie corrispondenze da Parigi nella schumanniana Nuova Rivista della Musica). Nulla ho artisticamente a che spartire con Berlioz, Liszt, Alkan. E poco aveva a che spartirci anche Chopin. Ma fu con loro amico e sodale. Prese parte a due concerti di Berlioz, suonò varie volte in pubblico, a quattro mani e a due pianoforti, con Liszt, avallò con la sua partecipazione la mostruosa trascrizione di Alkan, per due pianoforti a otto mani, della Settima Sinfonia di Beethoven (oltre ad Alkan e Chopin suonarono Pixis e Zimmermann). Io, come Schumann, avevo molto ammirato, sinceramente, le prime composizioni di Chopin. E mi chiedevo perché convenisse egli con una tale brigata. La risposta mi parve alla fine chiarissima. Essi erano influenti nella società, e Chopin a loro erasi agganciato per opportunismo. Mi spiace di dir ciò, ma non posso venir meno alle mie convinzioni. Così come non posso non dire che la lunga convivenza con George Sand, superba pitonessa di tendenze comuniste o comuni222

stoidi, fortemente strideva con gli intensi e proficui rapporti intrattenuti dal professor Chopin con la più alta aristocrazia. Tenere il piede in due staffe: questa fu alla fine la ratio della vita di Chopin a Parigi. Il mio Schumann dilettissimo salutò l’apparizione di Chopin con le alate parole “giù il cappello, signori: un genio”. Col trascorrere del tempo egli emendò tuttavia in parte quel suo primo detto, più rapinoso grido di compiacimento che ponderato giudizio. Ed ecco oggimai il giudizio mio, maturato nel corso di quattro lustri. Chopin è un modello inimitabile quanto alla grazia e alla finezza che si trovano nelle sue incantevoli composizioni, merito che Liszt non ha e non avrà mai. E tuttavia, che sono in arte la grazia e la finezza? Sono accessori seducenti, sono soltanto qualità ma non costituiscono ancora, affatto, una grande opera. Beethoven possedeva certamente grazia e finezza; ma sarebbe ben ridicolo, parlando del suo genio, citare la grazia e la finezza delle sue composizioni. Beethoven è un maestro, è grande, è un uomo di genio. Ecco quello che si può dire: quando c’è vera genialità si può avere pure grazia e finezza, ecc., ma non se ne parla, è una misura troppo piccola per un grande talento. I Preludi di Chopin hanno aperto una via al genere in modo eccellente, e felice chi ha potuto trovare simili scintille di pensiero (cosa che sono per la maggior parte). Ma molti tra di essi presentano una forma troppo aforistica, per quanto ammirevoli siano questi aforismi. Rovine e penne d’aquila, come disse benissimo Schumann. Chopin era un grande pianista dalla sonorità ammaliante e dal gusto raffinatissimo. La sua tecnica era del tutto eterodossa e perciò, credo, tra i suoi allievi non si può enumerare alcun importante virtuoso. Lui suonava come se fosse stato di gomma, e le sue mani oscillavano lateralmente dando l’impressione della corsa d’un serpente. Era stupefacente, ma troppo personale. Io ritengo che una buona tenuta della mano si debba basare sulla quiete della scuola di Clementi. Vi ringrazio, dottore esimio, per avermi fatto l’onore di in223

terpellarmi a proposito di Chopin, e mi professo il vostro sincerissimo ammiratore Stephen Heller P.S. Ignoro se come storico oppure come amico voi intendiate comporre la biografia di Chopin. Nel primo caso servitevi secondo il modo che credete il migliore di quanto vi ho detto. Nel caso opposto non temete di recarmi offesa se l’ignorerete. Anzi, vi prego, in tale evenienza, di dare alle fiamme questa mia lettera.

CON IL MAESTRO JULIAN FONTANA

– Non so bene, maestro, se vedere nel vostro rapporto con Chopin più l’amico o più il collega. – Amico, collega, compagno di studi, amanuense, agente letterario, agente immobiliare. Scegliete come più vi piace. E compatriota. Sebbene Chopin portasse un nome francese, ed io uno italiano, eravamo entrambi, incrollabilmente, polacchi. – Vediamo allora il tutto con ordine. E cominciamo dall’amicizia. Amicizia nata sui banchi di scuola? – Non precisamente. Fummo compagni nel liceo e poi nel Conservatorio. Ma, vedete, Fryderyk era uno a cui tutto riusciva facile, io no. E nei suoi confronti mi sentivo in soggezione. Non so se mi spiego. – Vi spiegate benissimo. Se mi permettete di dirlo in modo un po’ brutale, c’era un continuo confronto e voi vi sentivate continuamente perdente. – Proprio così. – A cominciare dalla composizione, immagino. – Più che dalla composizione, dall’improvvisazione, durante il periodo in cui eravamo al liceo. Frycek componeva poco, allora, ma improvvisava in un modo da lasciare a bocca aperta me e non solo me. Poi, si capisce, anche dalla composizione, quando entrammo nel Conservatorio. – E il pianoforte? – Fryderyk era un talento naturale, un fantastico talento naturale. Eccettuata la potenza, che non gli interessava, sul 225

pianoforte poteva fare tutto quello che voleva. Possedeva un’agilità e una disinvoltura da giocoliere. – Dita di gomma, mani di serpente, dice Stephen Heller. – Giustissima osservazione: non teneva una posizione ferma della mano, come predicavano gli insegnanti all’antica, e non teneva costantemente curve le dita. Cercai di imitarlo, ma senza riuscirci; anzi, facendo così peggioravo. Io non ero un pianista naturale, dovevo rispettare le regole. – Quali regole? – Quelle che si trovano nei metodi classici. A Varsavia, negli anni venti, gli ultimi sviluppi della didattica moderna non erano ancora arrivati. Ci si basava sui metodi classici, e interpretati nel modo più restrittivo. – Mentre Chopin faceva di testa sua. – Già. Una volta mi propose di suonare con lui il suo Rondò in do maggiore per due pianoforti. Nel momento stesso in cui lo componeva, stando al pianoforte, lui sapeva suonarlo. Io studiai la mia parte per un mese intero, prima di sentirmi sicuro. Lo suonammo insieme, il Rondò, e Frycek, malgrado la sua innata gentilezza, mi guardava con una certa commiserazione. Capite bene che l’amicizia, in queste condizioni, non sarebbe nata con il vento in poppa. – Ma mi avete detto però che foste amici, amici veri. Come dunque lo diventaste? – Lo diventammo quando io... presi il sopravvento su di lui in un certo campo. L’insurrezione scoppiò a Varsavia mentre Chopin si trovava a Vienna in compagnia di Titus Woyciechowski. Titus ritornò subito in Polonia, Frycek no. Io mi arruolai e divenni ufficiale di artiglieria. – In un certo senso, dunque, voi superaste Chopin in patriottismo. – Non si dimostra il proprio patriottismo soltanto prendendo le armi e combattendo. Ma Frycek si vergognava di restare inattivo. In una lettera che scrisse a Jan Matuszin´ski disse persino, un po’ goffamente, “perché non posso servire almeno come tamburino?”. 226

– Curiosa espressione davvero, che mi era già stata riferita da Woyciechowski. Lei sa perché, pur provando questi sentimenti, Chopin rimanesse a Vienna? – Credo che a dissuaderlo dal ritornare fosse soprattutto suo padre, che temeva per la sua salute. La campagna contro i russi, iniziata in inverno, fu molto dura, e Jan, che vi prese parte e che anche lui era di costituzione delicata, come Chopin, si ammalò di tisi. – Dopo la capitolazione, se non sbaglio, voi vi rifugiaste subito a Parigi. – Non subito, restai prima per qualche tempo in Germania, ma poi, come tantissimi altri, preferii Parigi. A Parigi si formò una vera e propria colonia di emigrati polacchi, politicamente frantumata in sinistra, centro, destra. Io vi arrivai parecchi mesi dopo che vi era arrivato Chopin, lo cercai, mi fece un mucchio di domande sulla guerra e, ...mi trattò da amico. – Vedeva dunque in voi il combattente per la patria. – E ammirava il mio coraggio. In verità, di un’altra specie di coraggio, e molto, ebbi bisogno per affrontare la vita dell’esiliato. – Capisco bene quanto sia duro, specie per un artista, penetrare in un ambiente estraneo. – Era stato duro anche per Frycek, e il racconto di quello che aveva passato lui mi aiutò nel superare quello che stavo passando io. Chopin aveva fatto subito molte conoscenze ed era stato bene accolto da tutti, ma per parecchi mesi aveva consumato il denaro che riceveva da casa senza guadagnare di che vivere. A un certo momento, mi disse, gli era persino balenata in mente l’idea di emigrare negli Stati Uniti. Poi, senza che ne capisse il perché, tutto era cambiato e lui era diventato rapidamente un maestro alla moda. – Veramente non sapeva perché il vento avesse soffiato nella direzione opposta? – Credo avesse capito che erano state determinanti, per il suo successo, le numerose esibizioni nei salotti, più dell’uni227

co concerto nella Salle Pleyel. Aveva trovato ben presto molte lezioni nelle famiglie nobili polacche, poi Delphine Potocka, che a quel tempo era, beh!, era in relazioni molto... strette con un importante uomo politico francese, gli aveva spianato la strada verso l’alta clientela parigina. – Non vi seguo bene. Il concerto pubblico, mi pare, aveva avuto una buonissima eco nella stampa. – Ma la sala non era piena e gli spettatori erano in maggior parte polacchi, e non tutti paganti. Quando un artista organizza un concerto in proprio, alla fine si fanno tre bilanci: economico, artistico, mondano. Per parlare di successo bisogna che almeno due dei tre siano nettamente positivi, altrimenti è un insuccesso. Il primo concerto di Chopin a Parigi fu negativo sotto l’aspetto economico e positivo sotto l’aspetto artistico, ma non sotto l’aspetto mondano. – Che cosa c’era di diverso, nei salotti? – Nelle esibizioni estemporanee nei salotti valevano altri criteri. Lì non occorreva la potenza, lì si suonavano piccole pagine e la musica veniva capita meglio, lì le improvvisazioni di Frycek avevano un tono intimo, e vedendolo suonare da poca distanza si restava anche affascinati dai suoi gesti da giocoliere. Tutto ciò stimolava fortemente il desiderio di diventare suoi allievi. – Adesso capisco: ciò che avete detto mi sembra molto acuto. Chopin, in fondo, era come un fiore di serra e in un luogo aperto il suo profumo si disperdeva, mentre in un luogo chiuso... – ...diventava inebriante. Il successo di Chopin nei salotti era stato travolgente e i suoi guadagni, grazie anche ai sagaci consigli del... di Delphine, erano schizzati subito nell’empireo. La mia carriera fu molto più modesta, com’era giusto. Tenni una volta una matinée alla quale Chopin assistette insieme a George Sand. Fu molto gentile. Una certa nicchia, insomma, me l’ero fatta. Tuttavia mi ero spostato negli anni trenta anche a Bordeaux e a Londra, e nel 1842 partii per il Nuovo Mondo, dove mi fermai per dieci anni. 228

– Parlatemi dell’amicizia con Chopin. – Eravamo diventati amici intimi. Cosa curiosa, si poteva misurare il grado di amicizia di Frycek dal frasario che usava. Di solito parlava in punta di forchetta, ma con certi amici infiorettava il discorso con qualche espressione grassoccia, intendo in senso scatologico. – Mi ha accennato qualcosa, in tal senso, Camille Pleyel. – Al principio mi sorprese. Ma era così privo di malizia e di volgarità da diventare semplicemente sapido e giocoso. – Vi vedevate spesso? – Molto, molto spesso. Abitavamo entrambi in rue de la Chaussée d’Antin, lui al n. 5 e poi al n. 38, io al n. 10 e poi al 34, e ci saremmo incontrati anche senza volerlo. Andavo da lui, lui veniva da me, ci recavamo insieme dagli amici polacchi. Una volta, non ricordo più in casa di chi, mi fu chiesto di suonare perché le ragazze volevano danzare. Lo feci ma di malavoglia. Qualche giorno più tardi Frycek mi mandò un invito dei Komar, giurandomi scherzosamente che non avrei dovuto suonare per i ballerini. – Gentile, da parte sua, un segno di una delicata sensibilità. – Un’altra volta, invitandomi a una serata in casa sua, mi scrisse di portarvi per amore o per forza Liszt e due conoscenti polacchi, dicendo che forse avremmo organizzato “una piccola festicciola danzante”. Le serate in casa sua erano sempre molto brillanti, si suonava, si cantava, si conversava, si facevano scherzi, e Frycek era bravissimo nelle imitazioni, un vero trasformista. Altre volte invitava un gruppo d’amici a cena in un ristorante. Il tono dei suoi biglietti era sempre molto scherzoso. Mi scrisse una lunga lettera, spumeggiante, da Londra, dov’era andato con Camille Pleyel. – Compagno, collega, amico. Vediamo adesso l’amanuense? – Divenni il suo amanuense, posso dire di fiducia, quando si trovava a Maiorca. Mi mandò i Preludi chiedendomi di farne la copia insieme con un bravo pianista-compositore po229

lacco, Édouard Wolff, un po’ più giovane di noi due. Chopin trattava con due editori, uno per la Francia ed uno per la Germania, e quindi c’era bisogno, oltre che del manoscritto, d’una copia. Wolff ed io lavorammo con molta attenzione, ...e con molti dubbi, perché certe cose, nei Preludi, ci lasciavano sconcertati al punto da temere che si trattasse di errori o di trascuratezze di Chopin. Ma lavorammo con gioia, con entusiasmo. – Un editore per la Francia ed uno per la Germania. So, perché ma l’ha detto lui stesso, che l’editore francese era Pleyel. Chi era l’altro? – Probst, Heinrich Probst, che era anche stato editore in proprio ma che allora, dopo aver ceduto la sua azienda, faceva l’agente a Parigi di Breitkopf & Härtel di Lipsia. Il primo e più importante editore di Chopin a Parigi era stato Maurice Schlesinger, ebreo (questo ha la sua importanza). Pleyel, che a Chopin forniva i pianoforti, gli fece osservare che gli onorari pagati da Schlesinger gli sembravano piuttosto bassi e gli propose di diventare il suo editore di riferimento. Chopin mi affidò l’incarico di trattare con Pleyel e con Probst. Fu una fatica immane. – E Pleyel alla fine si tirò indietro. Ma mi dicevate che il giudaismo di Schlesinger aveva la sua importanza. Perché? – Gli ebrei, lo sanno tutti, hanno fama di strozzini, e Chopin, quando si arrabbiava, in ogni ebreo vedeva lo strozzino. Ebbe parole durissime persino per Auguste Léo, banchiere e suo grande amico, a proposito d’un prestito. Quando Pleyel nicchiava nell’accettare il prezzo dei Preludi, Chopin mi scrisse, da Marsiglia: “Procedimenti così giudei da parte di Pleyel mi stupiscono”. E aggiunse che avrei potuto portare i Preludi a Schlesinger: “Se si deve trattare con dei giudei, che siano per lo meno ortodossi”. – C’era in Chopin una vena di antisemitismo? – Assolutamente no. Parlando di ebrei-strozzini riprendeva una vecchia e tenace tradizione, molto presente in Polonia. Ma uno dei suoi amici più cari, Charles-Valentin Alkan, 230

era ebreo. Ed era tale, oltre all’amicizia, la reciproca stima, che la maggior parte delle allieve di Chopin, dopo la sua morte, si rivolse ad Alkan. – La vostra opera di agente letterario non riguardò solo i Preludi, vero? – Riguardò anche la Ballata op. 38, e le Polacche op. 40 che mi furono dedicate. Le mie trattative non ottennero il risultato pieno, ma Chopin fu soddisfatto del mio lavoro. Incassai le somme, feci i pagamenti che Chopin mi indicò e consegnai il rimanente a Grzymała. Con Probst, che era un osso duro, io non arrivai ad un accordo. Le trattative furono riprese da Chopin quando tornò a Parigi, e anche lui non riuscì a spuntare i 3500 che chiedeva: dovette accontentarsi di 2500. Probst era davvero un osso duro. Poveretto: morì suicida qualche anno più tardi. – Vediamo infine come faceste l’agente immobiliare di Chopin. – Ritornando a Parigi dopo un anno d’assenza, Chopin doveva affrontare il problema di trovare un appartamento che, senza imporre la coabitazione, favorisse la convivenza con George. Mi diede le istruzioni ed io trovai dopo molti tentativi ciò che gli conveniva. Mi occupai anche del cambio della tappezzeria. Frycek voleva della carta di color tortora, ma brillante e satinata, e con una bordatura verde scuro, non troppo larga. Mi occupai del trasloco dei mobili, sistemai le tende. Partecipai però anche, attivamente, alla ricerca dell’appartamento per George, che veniva fatta da un altro incaricato. Era un’impresa tutt’altro che facile. – Perché? – Le esigenze erano molteplici. Due piccole camere da letto (per Maurice e per Solange), una terza camera da letto separata dalle altre due, e attigua ad uno studiolo. La terza camera e lo studiolo avrebbero dovuto avere un ingresso separato. E calma, e silenzio, e nessun fabbro nelle vicinanze, e niente odoracci, e niente fumo, e nessuna... passeggiatrice, ed esposizione a Sud, e una bella vista... 231

– L’Araba Fenice. – Più o meno, in apparenza. Mi mandarono, George e Frycek, un elenco di quattro strade preferite, e uno schizzo di piantina d’appartamento, di mano di lui. Sembravano due bambini che volevano la luna. Ma visitando vari palazzi mi accorsi che la soluzione non era così disperata come m’era sembrata al primo momento. George aveva in mente un tipo d’appartamento che negli ultimi anni era diventato abbastanza comune, in certi quartieri. Trovai quello che ci voleva, e ad un buon prezzo, tanto buono da mettere Chopin in sospetto che ci fosse un qualche grave inconveniente nascosto. Mi diceva di verificare che non abitasse nel palazzo un suonatore di cornetta o di altri strumenti del genere. – Fu poi soddisfatto? – Alla fine non presi quell’appartamento, ma un altro. Frycek mi pressò a un punto tale che trovai in extremis la soluzione ottimale per George e indirettamente per lui: due padiglioni in un giardino, in rue Pigalle 16. Grzymała diede la sua approvazione, e con ciò ebbe termine il mio lavoro di agente immobiliare. Tuttavia Chopin non andò ad abitare nel secondo padiglione di rue Pigalle fin dal 1839. La sua situazione era troppo delicata ed egli temeva che il sospetto di una coabitazione senza matrimonio, per di più con una donna che come scrittrice non nascondeva la sua ostilità verso l’aristocrazia, avrebbe allontanato da lui il gran mondo. Traslocò a rue Pigalle – ed io mi occupai del trasloco – nell’autunno del 1841, dopo il trionfo ottenuto con l’ormai leggendario concerto nella Salle Pleyel. – Aveste ancora occasione di occuparvi degli affari di Chopin? Dico, quando lui stava a Nohant? – Trattai ancora con gli editori, ma di meno. Piuttosto, Frycek mi diede degli incarichi spiccioli. Nel 1841 mi mandò cento franchi per piccoli pagamenti e per comprare, e spedirgli, una manina d’avorio montata su bastone d’ebano per grattarsi la testa ...e anche il trattato di contrappunto di Cherubini. 232

– E come amanuense? – Feci la copia della Tarantella op. 43 e consultai la Tarantella di Rossini perché Chopin voleva che la misura del suo pezzo fosse la stessa del pezzo rossiniano. Copiai anche la Polacca op. 44, il Preludio op. 45, l’Allegro da concerto op. 46, la Ballata op. 47, i Notturni op. 48 e la Fantasia op. 49. – Chopin, perdonate l’indiscrezione, vi fece mai delle confidenze sul suo rapporto con la Sand? – Mai. Non era il tipo da fare delle confidenze. Per lo meno, non con me. A parte gli affari mi scrisse soltanto di un sogno che lo aveva spaventato: aveva sognato di morire all’ospedale. E mi disse: “Se sopravvivi a me saprai se bisogna fidarsi dei sogni”. Se fossi stato italiano di spirito come di nome avrei fatto le corna. – Mi avete detto, maestro, della stima di Chopin per Alkan. Sapete che cosa pensava di Liszt? – Di Liszt e della sua capacità di dominare qualsiasi platea con qualsiasi musica aveva la massima stima possibile. Ed erano anche amici. Della musica di Liszt pensava che fosse un fuoco d’artificio destinato a non durare. Nel ’41, da Nohant, mi scrisse: “Liszt sarà forse un giorno deputato o persino re d’Abissinia o del Congo. Quanto ai motivi delle sue composizioni, riposeranno insieme ai giornali”. Piuttosto crudo, non è vero? Chi legge i giornali del giorno prima? – I vostri rapporti si allentarono quando partiste per l’America. – Fu nel 1842, come dicevo. Nel 1848 arrivò a New York un tizio con una lettera di presentazione di Chopin. Nel poscritto alla lettera Chopin mi parlava della situazione politica in Europa, sconsigliandomi di ritornare. Io mi recai però a Londra, e Frycek mi scrisse dalla Scozia, dove si trovava. Mi diceva: “Respiro appena: sono pronto a crepare”. Ma scherzava: “Quel che mi rimane è un gran naso e un quarto dito non esercitato”. Chopin sosteneva che il tentativo di rendere il quarto dito indipendente dal terzo, imposto dalla didattica classica, fosse un andare contro natura. 233

– Vi incontraste? – No. Da Londra ripartii per New York e ritornai in Europa solo nel ’52. Abito a Parigi e sono in contatto con la famiglia Chopin. Può darsi che mi occupi della pubblicazione degli inediti del mio grande amico. Ludwika Chopin mi dice che c’è un gran materiale: mi sentirò molto onorato, se mi affideranno questo incarico, e cercherò di assolverlo con la più grande e scrupolosa attenzione.

CON MISS JANE STIRLING

Edimburgo, 4 gennaio 1853

Gentilissimo Dottore, dottor Erdnas Kela, ho ricevuto la Vostra pregiata del 26 u. s., alla quale rispondo volentieri perché ho letto i Vostri scritti e ritengo Voi siate persona ben degna di scrivere la biografia del Maestro Sublime di cui tutti piangiamo la prematura scomparsa. Avete ben ragione di fare appello alla mia devozione nei confronti del Grande Artista di cui ho avuto l’incommensurabile onore di essere allieva per sei anni. La mia devozione per lui non ha limiti, il mio dolore per la perdita, e per le vicissitudini che travagliarono l’ultimo anno di vita del Maestro, non accenna a mitigarsi e, credo, non si mitigherà mai, il mio orgoglio per i grandi riconoscimenti postumi che si accumulano sul nome di Chopin cresce ogni giorno, e sempre più si radica in me la convinzione di aver potuto immeritatamente godere della vicinanza di uno fra i più Grandi Spiriti che l’umanità abbia avuto. Conservo in me con gelosissima cura il ricordo dei giorni e delle ore passate con Lui e sfoglio spesso le musiche che recano le annotazioni di diteggiatura e di espressione tracciate per me dalla Sua mano. La Sua presenza ha dato pienezza alla mia vita e non cesserà di dargliela fino alla mia morte, che spero vicina. Frédéric Chopin era un maestro serio ma non severo, un 235

maestro che con la gentilezza e l’indulgenza colmava la distanza siderale che mi separava da Lui, un maestro che spinse la Sua benevolenza fino al punto di dedicare a me – a me! – i due Notturni op. 55, il primo che in poche pagine racchiude tutto un mondo di cosmica tristezza, il secondo, all’opposto, come un duetto d’amore, così difficile da rendere ma così trascinante, così sublime che quando Lui lo suonò per me mi si annebbiò la vista ed arrossii. Nel mio paese si dice che in Chopin l’espressione del sentimento amoroso è talvolta impudica. Non condivido questa opinione ma devo ammettere che l’intensità bruciante che si sprigiona da certe pagine Sue mi fa persino provare un po’ di imbarazzo. Quel che dite a proposito del Suo ultimo viaggio risponde a verità: fui io a proporre al Maestro di recarsi a Londra e in Scozia nel 1848. Mia sorella ed io lo accogliemmo al Suo arrivo a Londra. Avevamo cercato di prevedere tutto quello che gli sarebbe occorso, ci ringraziò molto, e restò commosso perché gli avevamo fatto trovare la carta da lettere intestata. Lo accompagnammo in molte visite alle famiglie più in vista, forzandolo un po’ perché essere sballottato in carrozza per tutta la giornata non Gli piaceva (e, lo dico con un certo rimorso, probabilmente nuoceva alla Sua salute già molto compromessa). Noi facevamo del nostro meglio, ma non avevamo un piano preciso, selezionato, perché agivamo da dilettanti volenterose, non da esperte donne di mondo. A Londra Chopin ottenne poco, molto di meno, certo, di ciò che nella nostra ingenuità avevamo sperato. In agosto arrivò Egli ad Edimburgo e fu ospite a Calder House di un nostro anziano parente. Avrebbe potuto rimanervi per molto tempo, ma non voleva essere di peso a nessuno e desiderava guadagnare qualcosa con i concerti. Sapevo che la Sua salute ne avrebbe risentito, e tuttavia era per me impossibile, malgrado tutti i miei sforzi, di convincerLo a rinunciare. Andò a suonare a Manchester, a Glasgow e ad Edimburgo, riposando sì fra un concerto e l’altro, ma giammai abbastanza. Ai primi di novembre ritornò a Londra. Ci 236

andammo pure mia sorella ed io, ed eravamo veramente spaventate per il Suo aspetto e per il Suo umore malinconico. Ma, al solito, non sapevamo che fare. Mia sorella Lo infastidì con discorsi religiosi che subiva con angelica pazienza, sebbene Lo annoiassero gravemente. Mi arrabbiai con lei. Tuttavia non sapevo veramente che cosa fosse conveniente per il Maestro, e pensavo, e mi struggevo, e di nulla venivo a capo. Chopin prese ancora parte ad un concerto di beneficenza per i suoi compatrioti e partì per Parigi, mia sorella ed io Lo seguimmo dopo pochi giorni. A Parigi il Maestro era più sollevato di spirito, ma si dibatteva in mezzo a difficoltà economiche. Per darGli un aiuto senza offenderLo cercai di farGli arrivare anonimamente – una delle mie solite ingenuità! – una certa somma. Fu un tremendo pasticcio, di cui ebbi solo a vergognarmi. Ma alla fine Lui accettò un prestito, e per lo meno morì in pace. Gli fu vicina la sorella maggiore, donna di grande equilibrio e di grande bontà, con la quale ho continuato a mantenere affettuosi rapporti epistolari. Per onorare la memoria del Maestro ho cercato di classificare i documenti trovati nel Suo appartamento e li ho spediti alla sorella, alla quale ho fatto anche pervenire, dopo il suo ritorno in Polonia, il pianoforte Pleyel che il fabbricante aveva concesso – così si deve dire, me lo suggerisce mio padre, banchiere – che il fabbricante aveva concesso in comodato, e che ho riscattato. Mi sono occupata di sorvegliare la creazione del monumento funebre, bellissima opera di Auguste Clésinger (il marito di Solange, figlia di George Sand), che fu inaugurato un anno esatto dopo la dipartita del Maestro. In quella circostanza, sapendo quanto il Maestro le avesse amate, ricoprii la tomba di violette fresche. Sono molto impegnata anche per la pubblicazione degli inediti. A questo proposito non concordo del tutto con la scelta di Julian Fontana, amico d’infanzia sì, ma che fu assente da Parigi per un lungo periodo durante gli ultimi anni di vita del Maestro. Tuttavia convengo che la scelta spetta alla famiglia. Spero che un 237

giorno sia possibile rendere pubbliche le opere di Chopin con le aggiunte di Sua mano, quelle pagine che costituiscono il mio tesoro più caro e più esclusivo. E questo, gentilissimo dottore, è tutto quello che sono stata in grado di dirVi, forzando anche la mia ritrosia per essere del tutto sincera. È molto poco, in verità, è nulla rispetto al sentimento profondo che mi lega al ricordo di Lui. Posso solo dire che ho cercato, nella mia pochezza, di fare del mio meglio. Vogliate gradire, insieme con le mie scuse per non aver saputo veramente esprimere ciò che provo, i sensi della mia alta considerazione Vostra Miss Jane Wilhelmina Stirling

CON SOLANGE DUDEVANT

– Cara madame Clésinger, come vi ho scritto... – Sto affrontando, dottore, la causa di separazione da mio marito e mi riprendo il mio nome da ragazza. Basta Clésinger! – Solange Sand, allora? – Magari! Magari! Nelle mie partecipazioni di nozze figuro effettivamente come Solange Sand. Ma Sand è il nom de plume di mia madre, ed appartiene solo a lei. Solange Dudevant. Anzi, per voi, Sol, come mi chiamava Chopin. – Cara Sol, proprio di Chopin vorrei che mi parlaste, e anzi, se non sono indiscreto, della separazione da vostra madre, che non ho potuto affrontare con lei. – Per me sta bene. Ma vorrei che partissimo da più lontano. – Da quando? Da dove? – Da Perpignan, 31 ottobre 1838. Mio fratello Maurice aveva quindici anni, io dieci. Nostra madre ci aveva detto che saremmo andati in Spagna perché ne avrebbe tratto giovamento la salute di Maurice, che soffriva di reumatismi. Aggiunse che il nostro istitutore Félicien Mallefille non sarebbe venuto con noi e che avremmo invece avuto la compagnia del celebre pianista Frédéric Chopin, anche lui bisognoso di un clima caldo e asciutto e dell’aria di mare. Fummo subito molto eccitati. – Per la Spagna? O per Chopin? 239

– Per entrambi, ma di più per la Spagna. – La Spagna è un paese esotico anche oggi, è la Porta d’Oriente. Capisco la vostra agitazione. – Ma l’arrivo a Perpignan di Chopin – fresco come una rosa e rosa come una rapa, disse mia madre – fece arretrare per me la Spagna in secondo piano. Posso dirvi che mi innamorai di lui a prima vista. – Avevate soltanto dieci anni. Non guardate per caso la realtà col senno di poi? – Al contrario. Da adulta ho voluto bene a Chopin come ad un fratello maggiore. Ma da ragazzina egli fu per me il Principe Azzurro delle fiabe, il mio Principe Azzurro. – Ignoravate, penso, quali fossero i rapporti fra vostra madre e Chopin. – Naturalmente. Lo capii più tardi, anche dando un significato a certi brontolamenti della cameriera che veniva con noi in Spagna, a certe sue frasi allusive che diventarono chiare per me alcuni anni dopo. – In che cosa consisteva dunque il vostro innamoramento? – Volevo piacergli, volevo che mi dimostrasse affetto, che volesse bene a me più che alla mamma e a Maurice. Chopin era riservato, raramente ti abbracciava, raramente ti dava un bacio. Ma il suo sguardo era eloquente più di qualsiasi gesto. Io ero una ragazzina molto, molto vivace, e impertinente. Lo sguardo di Chopin mi rese mansueta. Durante la traversata soffrii il mal di mare, e Maurice, quando arrivammo in Spagna, disse che ero cambiata perché avevo vomitato tutto il veleno che c’era in me. Mentre eravamo a Valldemosa mia madre disse a Chopin – ed io lo sentii – di essere soddisfatta dei miei progressi: sebbene i miei istinti di resistenza fossero come sempre feroci, il mio carattere era molto migliorato. La realtà era diversa. Lo sguardo di Chopin mi intimidiva, e volevo piacergli a tutti i costi. – Ci riusciste? – Oh, sì! Chopin giocava con me, mi diede anche delle le240

zioni di pianoforte senza pretendere che mi impegnassi più di tanto, fece venire da Parigi i pezzi facili a quattro mani di Weber per suonarli con me. Quando presi confidenza con lui il mio temperamento vivace si risvegliò. Gli davo scherzosamente dei pugni sul petto, e lui si scansava ridendo. Ma, per rispondere in pieno alla vostra domanda, gli affibbiai – proprio non so perché – un soprannome: Senza Sesso. – Senza Sesso? Se io fossi il mio papà romanziere potrei farci dei ghirigori mica male, qui sopra. – Fateli pure, se vi garba, basta che non mi diciate niente. Non mi importa di sapere perché, da ragazzina, mi comportassi in un certo modo. Il mio rapporto con Chopin divenne profondamente affettivo da entrambe le parti, nel senso di amoroso ma non di erotico, dopo il mio matrimonio. – Cioè dopo che usciste dalla casa di vostra madre. Volete parlarmi di ciò? – Ancora un attimo di pazienza. Prima voglio ricordare i momenti felici in cui, senza rendermene conto, ebbi con la mamma e con Chopin una vita di famiglia. – E ciò avvenne quando? – Quando, dopo la Spagna e dopo Marsiglia, andammo a Nohant. A Marsiglia mia madre scrisse un saggio su Goethe, Byron e Mickiewicz, e per Mickiewicz, che era un suo amico, Chopin la aiutò molto. Il saggio piacque enormemente a Chopin e, patriota com’era, lo inorgoglì il fatto che uno scrittore polacco figurasse accanto ad un tedesco e ad un inglese. Credo che ciò avesse la sua importanza nel rinsaldare il rapporto fra la mamma e Frédéric. – A Nohant andaste molte volte, non è vero? – Ci andammo ogni anno dal ’39 al ’47, tranne che nel ’40. E nel ’47 Chopin non venne, cosa che affrettò la conclusione del dramma. – Si tratta di un periodo abbastanza lungo, e in questi casi, in genere, i rapporti fra le persone subiscono un’evoluzione. – Tutto andò a gonfie vele fino al ’42. Chopin divenne per Maurice, e soprattutto per me, un padre putativo. Nel 1840 241

la mamma andò a Cambrai per qualche giorno da sola e noi due fummo affidati a Chopin, che accantonò i suoi impegni per restare con noi. Anche quella fu una svolta nei nostri rapporti: lo sentimmo ancora più vicino, ancora di più come un componente la famiglia. Portò Maurice e me al galoppatoio a cavalcare, ci trattò come principini. Facemmo molte passeggiate, giocammo, parlammo per ore. Una volta, passando sui Champs Elysées, vedemmo una pesa pubblica. Chopin mi disse “allons”, e ci pesammo: 42 chili io, 48 e mezzo lui. A Nohant facevamo delle gite, noi a piedi, lui – che buffo! – su un asino. Lo prendevo in giro per ciò, e lui non si offendeva. Avevamo serate di teatro e serate di ballo. Era una vita magnifica, che durò, con qualche cedimento, fino al ’45. – Mi dicevate del ’42. – In quell’anno mia madre scrisse uno dei suoi capolavori, il romanzo breve La mare au diable. Lo dedicò a Chopin e gli regalò il manoscritto. Chopin non ricambiò la dedica, e sebbene mia madre non dicesse nulla penso che in cuor suo si risentisse un poco. Dopo il ’42, molto lentamente, la loro intesa cominciò a mostrare delle crepe. – In che senso? – Maurice era cresciuto, pretendeva di fare il padrone di casa e mal tollerava la presenza di un intruso che gli sottraeva un po’ dell’affetto materno. Cominciò anche a sbuffare dal dispetto se c’erano ospiti polacchi, e a fare acide osservazioni. A Chopin piaceva parlare nella sua lingua e si illuminava, quando arrivavano dei suoi connazionali. Una volta venne la contessa Laura Czosznowska, molto bella, vedova di un pazzoide che tanti anni prima, torturato dalla gelosia (ingiustificata) si era sparato un colpo in testa in presenza della moglie. – Conosco questa storia. Un dramma spaventoso e grottesco insieme. – Laura era una persona piacevolissima, ma Maurice non la sopportava. Quando lei andò via mio fratello fece delle osservazioni ironiche, Chopin si inalberò, ci fu una scenata e mia madre appoggiò Maurice. Venne preso di mira pure il ca242

meriere polacco di Chopin, Jan, a tal punto da farlo licenziare. Chopin divenne anche lui un ospite, non più uno della famiglia. E Maurice si oppose, per il solo gusto di opporsi, ad un progetto di viaggio in Italia a cui Chopin teneva molto. Mia madre stravedeva per il suo Bouli, come chiamava Maurice, e non accettava non solo il minimo dissenso, ma neppure la più blanda delle osservazioni critiche su argomenti, come l’educazione dei figli, in cui riteneva non dovessero esserci delle intromissioni. E cominciò anche ad essere turbata dalla gioiosa saldezza dell’intesa fra Chopin e me. – Credo di indovinare: voi crescevate, non eravate più una ragazzina... – Proprio così. Mia madre ebbe l’impressione che civettassi con Chopin e che lui mi... desiderasse. – La figlia che ruba l’amante alla madre: un classico della letteratura. – E della vita. Conosco diversi casi. Ma non si trattava di questo né per me, credetemi, né per Chopin. Tuttavia mia madre era diventata sospettosa. In un momento di rabbia mi disse una frase tremenda, anche se, in realtà, senza capo né coda. Mi disse: “Tu non gli concederai affatto ciò a cui lui non aspira, e che otterrebbe del resto, nello stato in cui è, solo lasciandoci il suo ultimo respiro”. Le cose peggiorarono, stranamente, quando mi fidanzai. Questo avrebbe dovuto metterla tranquilla, e invece... – Ma pensateci un momento, Sol. È un altro classico della letteratura. La figlia non è più una ragazzina, è una promessa sposa, fiorente e trionfante, che fa sentir vecchia la madre. Nella madre si accende l’ansia di piacere ancora agli uomini, e ciò vale tanto di più quando manca lo scudo protettivo del matrimonio. – Credo che abbiate ragione, anche perché i periodi in cui Chopin si ammalava erano frequenti e non brevi. I medici consigliavano, ...sì, consigliavano e imponevano l’astinenza. Mia madre, esagerando, mi disse di essere vissuta per anni, nel fiore dell’età, come una vergine. 243

– Vi eravate fidanzata con Clésinger, non è vero? – No. Mi ero fidanzata con un ragazzo del Berry, Fernand de Préaulx, che piaceva molto a Chopin e che mia madre considerava come fin troppo per bene. Clésinger irruppe nella nostra vita come un uragano, e il mio fidanzamento fu rotto per iniziativa di mia madre. Chopin espresse la sua disapprovazione. Aveva ragione lui, ma la mamma andò su tutte le furie. – Raccontatemi bene del vostro fidanzamento con Clésinger. Lo vedo come il preludio alla rottura fra Chopin e vostra madre. – E fra mia madre e me. Clésinger era un giovane scultore emergente. Fu invitato da mia madre ad un concerto privato che Chopin tenne in casa per pochi amici, lui ci invitò a visitare il suo atelier e si offrì di fare il busto marmoreo alla mamma e a me. Andammo a posare e lui cominciò a circuirci. – Forse calcolava i vantaggi che gli sarebbero venuti dal matrimonio con la figlia di una celebre romanziera. – Esattamente così. Era un uomo spregiudicato. Non mi vergogno di dirvi – ero giovane e inesperta – che riuscì subito a... sedurmi. – E ad offrire, immagino, le nozze riparatrici. – Mia madre era terrorizzata al pensiero che avrei potuto scoprirmi incinta. Mi sposai a Nohant il 19 maggio. Chopin fu informato delle nozze imminenti all’inizio del mese. Era restato a Parigi, ammalato. Rimase sbalordito e disgustato. – Cosa avvenne poi? – Fra mio marito e mio fratello c’era una totale incompatibilità di carattere. Mia madre, come dicevo prima, aveva sempre avuto un debole per Maurice, ...e Chopin per me. Nei contrasti che sorsero subito fra il figlio e il genero la mamma parteggiò per il figlio, ...dimenticando la figlia. In luglio ci fu una scenata terribile. Clésinger si lanciò contro Maurice brandendo il suo martello da scultore, mia madre, che cercò di ostacolarlo, si prese un pugno in pieno petto, mio fratello corse a cercare la pistola. Se in quel momento non fosse ca244

sualmente arrivato il parroco di Nohant sarebbe finita molto male. – Come finì, invece? – Mia madre cacciò fuori di casa mio marito. Io non approvavo il suo comportamento ma lo seguii. Ero incinta. Chiesi a mia madre di poter usare la carrozza di Chopin. Il permesso mi fu negato ed io scrissi a Chopin. – Per chiedergli la carrozza? – Anche. Lo pregai di attendermi prima di partire da Parigi per Nohant. Volevo vederlo, parlargli, consigliarmi con lui. Lui mi rispose offrendomi la carrozza, e scrisse in tal senso a mia madre. Mia madre, fuori di sé dalla rabbia, gli rispose che se fosse venuto a Nohant non avrebbe mai più dovuto pronunciare il mio nome in sua presenza. – Intanto voi avevate visto Chopin a Parigi. – Certo, e gli avevo aperto il mio cuore fino in fondo. Chopin scrisse alla mamma in modo pacato, ma rifiutando in sostanza di accettare l’imposizione. Le sue parole resteranno per sempre impresse nella mia mente: “Voi ricorderete che intercedevo sempre con voi in favore dei vostri ragazzi senza fare preferenze, ogni volta che si presentava l’occasione, essendo sicuro che voi siete destinata ad amarli sempre, perché sono questi i soli affetti che non mutano. La incomprensione può offuscarli ma non snaturarli. Bisogna che questa incomprensione sia assai potente oggi, tanto da impedire al vostro cuore di sentir parlare di vostra figlia, all’inizio della sua nuova vita, nel momento in cui il suo stato fisico esige più che mai delle cure materne. In presenza d’un fatto così grave che riguarda i vostri affetti più santi io non mi preoccuperò di ciò che mi concerne. Il tempo farà la sua parte, io aspetterò – sempre lo stesso. Vostro devotissimo Ch.”. – E così la decisione di rompere fu presa da vostra madre. – Sì. La sua ultima lettera, che Chopin mi mostrò e di cui feci la copia, tanto mi aveva colpito, era gelida: “Sta bene, amico mio, fate quello che vi detta ora il vostro cuore e prendete il suo istinto come il linguaggio della vostra coscienza. Capi245

sco perfettamente. Quanto a mia figlia, essa non ha bisogno dell’amore di una madre che detesta e calunnia. A voi piace di ascoltare tutto ciò e forse di crederci. Non ingaggerò un combattimento di questa specie: mi fa orrore. Preferisco vedervi passare al nemico piuttosto che difendermi da un nemico uscito dal mio seno e nutrito con il mio latte. Occupatevi di lei, visto che a lei credete di dovervi consacrare. Non ve ne vorrò, ma capite che io mi chiudo nel mio ruolo di madre oltraggiata e che nulla me ne farà ormai misconoscere l’autorità e la dignità. Già mi basta di essere ingannata e vittima. Vi perdono e non vi indirizzerò mai alcun rimprovero, visto che la vostra confessione è sincera. Mi stupisce un po’ ma, se così vi sentite più libero e più tranquillo, non soffrirò per questo bizzarro voltafaccia. Addio, amico mio, guarite presto da tutti i vostri malanni, ed io ringrazierò Dio per questo bizzarro scioglimento di nove anni d’amicizia esclusiva. Datemi di tanto in tanto vostre notizie. È inutile ormai ritornare sul resto”. – Ma è terribile, è persino perfida. Immagino quale effetto ebbe su Chopin. – Ne fu molto ferito, ma non cessò di rispettare mia madre. – Voi ritenete, Sol, che una crepa nella relazione fosse dovuta a Lucrezia, intendo al romanzo Lucrezia Floriani? – Questa è una tesi, è una voce che fece il giro del mondo. Ci credettero tutti. Io ho qualche incertezza in proposito. Mia madre lesse a Chopin quel romanzo a mano a mano che lo scriveva, come del resto faceva sempre, Chopin non vide se stesso rispecchiato nel principe Karol de Roswald, ed approvò la storia senza riserve. La mia incertezza nasce dal fatto che la mamma lesse a Chopin la prima versione di Lucrezia Floriani mentre erano a Parigi. Ai primi di maggio – parlo del ’46 – lei partì per Nohant, e lavorando intensamente riscrisse interamente il romanzo. Chopin arrivò a Nohant alla fine del mese. Può darsi che la seconda versione introducesse delle varianti che accentuavano la somiglianza fra Chopin e il protagonista. 246

– Il protagonista, che è il carnefice (morale), mentre Lucrezia, modellata su George Sand, è la vittima. Lucrezia è una donna sublime e generosa, Karol è un nevrotico che tortura la sua amante, più anziana di lui e madre di quattro figli, fino al punto di causarne la morte. A parte l’intreccio romanzesco, a me sembra che l’identificazione Lucrezia-George e Karol-Frédéric sia fuor di dubbio. I dubbi nascono sul carattere dei due: il romanzo non sembra rispecchiare la realtà. – Infatti, tutti o quasi tutti ritennero che attraverso l’odiosità della figura di Karol mia madre volesse giustificare una rottura premeditata e immotivata. Ma Mickiewicz, che conosceva bene entrambi, prese, stranamente, le parti di mia madre. Ciò mi stupì, e mi fece riflettere, ...senza costrutto. – Ho letto il seguito di Lucrezia Floriani, Le Château des Déserts, pubblicato due anni dopo la morte di Chopin. Il figlio di Lucrezia, Celio, dice che la madre fu “assassinata dall’ingiustizia e dalla follia d’un amante”. George Sand non ha dunque cambiato parere, e il fatto che, fra lei e voi, lui scegliesse voi causò nel suo orgoglio una ferita insanabile. – Un piccolissimo indizio mi dice che forse Chopin cambiò parere. Una volta, riferendosi alla mamma, la chiamò “Lucrezia”. – Credo, cara Sol, che non verremo mai a capo di questa questione, e quindi io la lascerei lì per aria, al punto in cui siamo arrivati. Che avvenne dopo la rottura? – Vidi spesso Chopin, anche in compagnia di mio marito, con il quale si era stabilito un rapporto di estrema cortesia. Anzi, quel pazzoide di Clésinger diventava, con Chopin, un agnello. Penso che capitasse a lui quello che tanti anni prima era capitato a me: voleva piacergli. – Chopin apprezzava la scultura? – Apprezzava soprattutto la pittura. Il nudo scultoreo gli sembrava sempre un po’ indecente. Criticò come troppo voluttuosa una scultura di mio marito, quella della ragazza – nuda – con una serpe che le striscia su una coscia. – Eravate incinta, mi dicevate. Maschio o femmina? 247

– Misi al mondo una bambina e la perdetti dopo poche settimane. Chopin prima mi scrisse, poi venne a trovarmi e suonò per me. Fu una vera consolazione. Ci scambiammo lettere quando si recò in Inghilterra e quando io andai a partorire – ebbi anche un maschietto – a casa dei miei suoceri. – E vostra madre? – Rivide Chopin una volta sola, casualmente. Con me riallacciò il rapporto – come Chopin aveva previsto – e, lo dico con grande gioia, fu più materna di prima. Credo che fra sé e sé riconoscesse le sue responsabilità nel mio malriuscito matrimonio. Ma non mi disse mai nulla. – Voi eravate presente, quando Chopin spirò? – Andai a trovarlo quasi ogni giorno, durante il suo ultimo mese di vita. A settembre era arrivata da Varsavia la sorella di Chopin, Ludwika, che prese le redini della casa. Oltre a me venivano spesso la principessa Marcelina Czartoryska, Adolph Gutmann, Thomas Albrecht, Franchomme, Grzymała, l’abate Jelowicki, il pittore Teofil Antoni Kwiatkowski che lo ritrasse sul letto di morte. Chopin era terrorizzato dall’idea di essere sepolto vivo. Con grande sforzo – non poteva parlare, era agli estremi – scrisse su un biglietto “Quando questa tosse mi soffocherà vi prego di far aprire il mio corpo perché io non sia sepolto vivo”. Poco prima della morte, era agonizzante, io lo tenevo un po’ sollevato, con la testa appoggiata sul mio petto. Ebbi paura e chiamai Gutmann, che lo prese fra le braccia. Morì alle due del 17 ottobre. Io ero presente, e con me c’erano la sorella, la principessa, Gutmann e Albrecht. – Se non sbaglio fu vostro marito a prendere la maschera mortuaria. – Sì. La maschera e il calco delle mani. Mio marito scolpì il monumento funebre, pagato con una sottoscrizione a cui parteciparono in molti, e inaugurato esattamente un anno dopo, il 17 ottobre 1850. Il mio matrimonio è andato a rotoli, e me ne dispiace. Ma qualche volta penso che se Chopin fosse stato vicino a noi avremmo forse imparato a sopportarci a vi248

cenda. La calma interiore di Chopin era una cosa meravigliosa, ...ed era contagiosa. – Sono stati espressi dei dubbi sullo stato di tisico di Chopin. Ne sapete qualcosa? – Mia madre, ed io di conseguenza, era convinta che i polmoni di Chopin fossero sani. Lo credette sino alla fine. Ma l’autopsia fatta dal dottor Creuveilhier non ha lasciato dubbi: i polmoni erano rosi dal male. – Come lo ricorderete voi, Chopin? – Non c’era mai stato uno come lui, e non ci sarà mai più.

CON IL REVERENDO ABATE ALEXANDER JELOWICKI

Parigi, 16 marzo 1853

Sia benedetto il Nostro Signore Gesù Cristo Molto onorevole dottore, le informazioni che avete raccolto sulla morte del mio caro compatriota Chopin sono esatte ed io le confermo per intero, con l’aggiunta di qualche significativo particolare che mi sta molto a cuore. Sì, Chopin spirò nella pace di Dio, posso affermarlo io, che raccolsi la sua confessione generale, che lo assolsi nel nome del Signore, che gli diedi la Santa Comunione e che gli impartii l’Estrema Unzione. Chopin raggiunse un mondo migliore a soli trentanove anni. Una fine edificante. Già da parecchi anni la sua vita era attaccata ad un filo. Il suo corpo debole e debilitato era sempre più consumato dal fuoco del genio. Tutti si stupivano del fatto che in un corpo così fragile l’anima potesse dimorare senza perdere né la vivacità dello spirito né il calore del cuore. Il suo viso sembrava d’alabastro: era come di ghiaccio, bianco e trasparente. Nei suoi occhi di solito un po’ velati si accendevano talvolta degli sguardi lampeggianti. Sempre dolce ed amabile, spumeggiante di spirito ed estremamente affettuoso, sembrava a stento appartenere alla terra. Ma, ahimé, non pensava al cielo. Aveva assai pochi amici buoni, e molti cattivi, sen250

za fede, e soprattutto questi ultimi formavano la cerchia dei suoi adoratori. E i trionfi che aveva riportato nell’arte più diffusa mettevano a tacere nel suo cuore i pianti ineffabili dello Spirito Santo. La pietas che aveva succhiato con il latte dal seno della sua madre polacca non era più per lui altro che un ricordo di famiglia, mentre l’empietà dei compagni e delle compagne dei suoi ultimi anni s’infiltrava sempre più nel suo spirito, tanto ricettivo, come una nuvola di piombo, e si depositava sotto forma di dubbio nella sua anima. E grazie soltanto alla sua elegante benevolenza egli non si prendeva gioco delle cose sante e ancora non le scherniva. In questo deplorevole stato fu attaccato da una mortale malattia di petto. Andai subito a trovarlo, gli parlai di sua madre, della Santa Vergine, poi di nostro Signore Gesù Cristo, gli tracciai il quadro più tenero della Misericordia Divina. Furono vani tentativi. Pregai per la sua salvezza, pregarono con me i miei confratelli, moltiplicai le visite. Finalmente, in un modo per me insperato, il giorno prima di entrare in agonia Chopin accettò, di sua spontanea volontà, di riconciliarsi con Dio. La pazienza, la confidenza in Dio e spesso anche la gioia lo accompagnarono fino al suo ultimo respiro. Nelle più acute sofferenze egli parlava della sua felicità, ringraziava Dio proclamando il suo amore per Lui e il suo desiderio di unirsi a Lui al più presto. Parlava della sua felicità agli amici venuti a dirgli addio e che vegliavano nelle camere vicine. Già gli mancava il respiro, già sembrava morire, persino non s’udivano più i suoi gemiti, aveva perduto conoscenza. Tutti, presi dalla paura, si accalcarono allora nella sua camera. All’improvviso Chopin riaprì gli occhi e, vedendo questa folla davanti a lui, disse: “Che fanno? Perché non pregano?”. E tutti caddero con me in ginocchio, ed io recitai la Litania e persino i protestanti mi risposero. E Chopin, che mai non si esprimeva se non con la più grande, con la più squisita delicatezza, volendo esprimermi la sua riconoscenza e descrivere la disgrazia di coloro che muoiono senza i Sacramenti, mi disse: “Senza te, mio caro, sarei crepato come un porco”. 251

Spero, onorevole dottore, che queste mie povere parole sianvi di qualche utilità per il compito meritorio che vi prefiggete, e salutandovi distintamente mi professo vostro umile servitore in Gesù Cristo A. Jelowicki

CON MADAMA PAULINE GARCIA IN VIARDOT

Parigi, 2 aprile 1853

Caro Dottore, avevo visto Chopin per l’ultima volta a Londra e non sapevo che fosse tornato a Parigi, né che fosse agonizzante. Ebbi notizia della sua morte atroce da persone estranee che vennero a chiedermi in pompa magna di prendere parte al Requiem che doveva essere eseguito per Chopin nella chiesa della Madeleine. Soltanto allora sentii quanto affetto gli portassi. Povero ragazzo, è morto martirizzato dai preti che gli hanno fatto abbracciare per forza delle reliquie durante sei ore fino al suo ultimo respiro, circondato da una folla di gente nota e ignota che veniva a singhiozzare al suo capezzale. C’era sua sorella, è vero, ma la povera donna era lei stessa troppo presa del suo dolore per pensare a mandar via gli importuni. Tutte le grandi dame di Parigi si sono sentite in obbligo di andare a svenire nella sua camera, piena di disegnatori che facevano alla svelta degli schizzi, un fotografo voleva far mettere il letto vicino alla finestra per avere il morente in luce. Allora il buon Gutmann, indignato, mise alla porta questi industriosi messeri. In mezzo a tutto ciò Chopin ha trovato la forza di dire ad ognuno una parola affettuosa. Consolava lui i suoi amici. Ha 253

pregato Gutmann, Franchomme ed altri musicisti di non suonare ai suoi funerali altro che della buona musica: “Fatelo per me, sono sicuro che la sentirò, e mi farà piacere”. Qualche istante prima della morte aveva pregato Madame Potocka di cantargli un salmo di Marcello, e s’è spento sull’ultima nota. Era una nobile creatura. Sono felice d’averlo conosciuto e d’aver ottenuto un po’ della sua amicizia. Vi saluto con la più sincera cordialità Pauline Viardot

CON LA CONTESSA DELPHINE POTOCKA NATA KOMAR

Nizza, 6 maggio 1853

Caro Samud, non posso confermarvi la notizia, anzi, devo rettificarla. Seppi della gravità dell’ultima malattia di Fryderyk mentre mi trovavo qui a Nizza (ho fondato, come forse saprete, un educandato per fanciulle). Partii immediatamente. Appena arrivata a Parigi – era il 15 ottobre – corsi al n. 12 di Place Vendôme. L’appartamento del mio sventurato amico non era situato nella parte del palazzo che dà sulla piazza, ma nel cortile, al piano rialzato, ed io stentai un po’ a trovarlo. Ero terribilmente agitata e la vista di Fryderyk, cereo, quasi privo di vita, mi raggelò il sangue. Mi accolse con un sorriso che non dimenticherò mai più, un sorriso celestiale. E mi chiese di cantare per lui. Sapete, tante volte aveva accompagnato al pianoforte il mio canto, aveva anche fatto per me una versione di “Casta Diva” della Norma. Quanto mi sarebbe piaciuto, cantare ancora per lui, mentre lui mi accompagnava. Ma era morente. E allora dissi a me stessa: “Coraggio, Delphine, per un po’ di tempo hai studiato con lui il pianoforte. Mostrati degna del tuo maestro”. Albrecht spinse il pianoforte, dalla stanza vicina, fin sulla porta della camera da letto. E così cantai, accompagnandomi da sola. Ma non un salmo di Marcello, bensì il Dignare Domine del Te Deum in re mag255

giore di Händel. Subito dopo, con sommo dispiacere, dovetti ripartire per Nizza, e non potei ritornare per i funerali. Avevo conosciuto Fryderyk a Dresda, lo avevo ritrovato a Parigi ed eravamo stati tante volte insieme per fare musica, per chiacchierare, per la gioia di essere amici. Era stato l’insegnante di pianoforte delle mie sorelle e mio, e quando stentava ancora, malgrado il suo genio, a trovare delle allieve, lo avevo presentato ad un distinto gentiluomo, il conte di Flahaut, molto amante della musica. Le contessine erano state le prime allieve francesi di Fryderyk, poi aveva avuto così tante richieste da non poterle soddisfare tutte. È stato il più caro amico che io abbia avuto, non ne piangerò mai abbastanza la perdita. Un affettuoso saluto da Delphine Potocka nata Komar

CON MASTRO NICOLAS RIDEL

Parigi, 28 maggio 1853

Stimatissimo Dottore, come battitore d’asta sono in grado di darvi, e lo faccio molto volentieri dopo aver consultato gli appunti che sempre prendo nell’esercizio del mio mestiere, le informazioni che mi chiedete. La morte del signor Frédéric-François Chopin fu immediatamente comunicata dal signor Thomas Albrecht al mio collega Eugène Pierre Louveau, giudice di pace. Secondo la legge francese, se in caso di morte non sono presenti tutti gli aventi diritto alla eredità si devono apporre i sigilli e si deve procedere all’inventario. Il signor Louveau, accompagnato dal cancelliere, si recò nell’appartamento occupato dal fu maestro Chopin al n. 12 della Place Vendôme, e dalle 12 alle 7 della sera (il defunto era spirato alle 2 della notte) fece diligentemente ciò che la legge gli imponeva di fare, tanto che io potei agevolmente predisporre l’asta. I mobili e gli oggetti inventariati furono trasportati all’Hotel des Ventes ed esitati da me in asta pubblica il 30 novembre 1849. Il materiale era stato diviso in lotti, e il mio martello batté settanta volte. Il ricavato della vendita fu di franchi 6.952,25 (dico franchi seimilanovecentocinquantadue e centesimi venticinque), somma che, dedotte le spese, si ridusse a franchi 6.142,40 (dico franchi seimilacentoquarantadue e centesimi quaranta). Ver257

sai la somma, in buona moneta metallica, alla sorella del defunto, la signora Louise, il 5 dicembre. La dama, squisita, ammirevole persona, si mostrò molto preoccupata. Mi confidò che la spesa da saldare, compreso l’acquisto di una concessione al cimitero Père-Lachaise, ammontava a franchi 7365,55 (dico franchi settemilatrecentosessantacinque e centesimi cinquantacinque), e che quindi restavano scoperti franchi 1223,15 (dico franchi milleduecentoventitre e centesimi quindici). Le espressi la mia solidarietà, purtroppo vana. Ma ero certo di essere riuscito a ricavare dalla vendita il massimo risultato possibile. Mi stupì invece il fatto che un artista così celebre e così ammirato, e la cui scomparsa aveva provocato ampie e laudative necrologie in tutti i giornali, lasciasse ai suoi eredi, invece di un patrimonio da spartirsi, un debito da saldare. E mi sovvenni dell’antico detto che non è tutt’oro quello che luce. Stimatissimo dottore, vi riverisco distintamente Mastro Nicolas Ridel P.S. No, nel lascito del defunto Maestro, stranamente, non si trovavano musiche.

Cronologia della vita

di Fryderyk Franciszek Chopin

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Nasce alle 18 del 1° marzo a Z˙elazowa Wola, ad una cinquantina di chilometri da Varsavia, secondo figlio di Nicolas e di Justyna Krzyz˙anowska (la sorella maggiore Ludwika era nata nel 1807 a Varsavia). Viene battezzato nella chiesa di Brochow il 23 aprile. Nell’atto di battesimo la data di nascita è indicata al 22 febbraio, ma diverse dichiarazioni scritte di Chopin e l’abitudine della sua famiglia di festeggiarne l’onomastico il 1º marzo ci dicono che la data del 22 febbraio fu probabilmente comunicata al parroco, per un banale errore di calcolo, dal padre. Il 2 settembre Nicolas Chopin viene nominato professore di lingua e letteratura francese nel liceo di Varsavia, appena aperto. La famiglia Chopin si trasferisce nella capitale. Nasce a Varsavia Izabela, sorella minore di Chopin. Nasce a Varsavia l’altra sorella minore, Emilia. Inizia a prendere lezioni di pianoforte con Wojciech Z˙ywny, sessantunenne musicista nato in Boemia e residente in Polonia da una trentina d’anni. Con lui Chopin studierà fino al 1822. Viene pubblicato a Varsavia il primo lavoro composto da Chopin, una breve Polacca in sol minore per pianoforte. Prima apparizione in pubblico, il 24 febbraio, in una serata di beneficenza nel palazzo del principe Radziwiłł: Chopin esegue un movimento del Concerto in mi minore di Adalbert Gyrowetz. Suona per l’arciduca Costantino, comandante dell’esercito polacco, e gli offre una Marcia che viene eseguita da una banda sulla piazza di Sassonia. Nel corso dell’anno e negli anni successivi Cho261

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pin viene spesso invitato a suonare nei palazzi dell’aristocrazia. Il 26 settembre la zarina madre visita il liceo di Varsavia: Chopin le offre il manoscritto di due sue Polacche. Angelica Catalani, a Varsavia per concerti, ascolta un’improvvisazione di Chopin e gli dona un orologio da tasca con incisa una dedica. Risale a quest’anno il primo manoscritto musicale conosciuto, di mano di Chopin: si tratta di una Polacca in la bemolle maggiore, offerta a Z˙ywny, il 23 aprile, per il suo compleanno. Inizio delle lezioni private di composizione con il Jozéf Elsner, cinquantatreenne musicista nato in Slesia, residente a Varsavia dal 1799 e direttore del locale teatro dell’opera. Il 24 febbraio esegue in pubblico il Concerto n. 3 di Ferdinand Ries e il 5 marzo il Concerto n. 5 di John Field. Viene iscritto nella quarta classe del liceo. La sua educazione era stata in precedenza curata da suo padre. Termina il suo primo anno di scuola con un’ottima classificazione. In agosto trascorre le vacanze a Szafarnia, dove studia il Concerto n. 1 di Kalkbrenner. Il 6 dicembre viene rappresentata in casa Chopin la commedia in versi L’errore o Il presunto imbroglione di Emilia e Fryderyk Chopin. I due autori interpretano i ruoli principali. All’inizio di maggio lo zar Alessandro I assiste nella Chiesa Evangelica Protestante di Varsavia al concerto di presentazione dell’Aelomelodicon, strumento misto fra pianoforte e organo, suonato da Chopin. Al termine dell’esibizione lo zar dona a Chopin un anello con brillanti. Il 27 maggio Chopin suona sull’Aelopantaleon, affine all’Aelomelodicon, il primo movimento del Concerto n. 3 di Moscheles. Prende lezioni di organo da Wilhelm Würfel, trentacinquenne pianista e compositore boemo, residente a Varsavia dal 1815, e suona ogni domenica l’organo durante la messa cantata dagli allievi del liceo nella Chiesa delle Visitandine. Vacanze a Szafarnia e a Kowalewo. Il 27 luglio ottiene con un anno d’anticipo il certificato di maturità liceale e il giorno successivo parte con la ma262

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dre e le sorelle Ludwika ed Emilia per Reinertz, dove trascorre le vacanze. L’11 agosto prende parte ad un concerto di beneficenza. A settembre si iscrive alla Scuola Superiore di Musica, studiandovi con l’Elsner. Muore di tubercolosi polmonare il 10 aprile, a quattordici anni, Emilia Chopin. Hummel arriva in primavera a Varsavia e vi tiene concerti al Teatro Nazionale e nel Municipio, eseguendo musiche sue (concerti con orchestra, musica da camera) e improvvisando. Chopin gli viene presentato e il famosissimo maestro assume verso il giovane genio un atteggiamento di schietta simpatia. Chopin si reca in settembre a Berlino in compagnia di uno zoologo che partecipa ad un congresso. Durante il viaggio di ritorno prende parte ad un concerto a Pozn´an. A metà maggio arriva a Varsavia Paganini, venuto in occasione dell’incoronazione dello zar Nicola I. Paganini si trattiene a Varsavia fino a metà luglio e tiene dieci concerti al Teatro Nazionale. Chopin gli viene presentato. Conclude in luglio gli studi di composizione. Percorrendo la strada di Cracovia si reca a Vienna, dove prende parte a due concerti l’11 e il 18 agosto; esegue le Variazioni op. 2 e il Krakowiak op. 14 e improvvisa su un tema della Dame blanche di Boïeldieu. Ritorna a Varsavia passando per Praga, Teplitz e Dresda. A Teplitz, in casa del principe Clary, improvvisa su un tema del Mosè in Egitto di Rossini. Il 3 ottobre, scrivendo all’amico Titus Woyciechowski, confessa di essere innamorato da circa sei mesi di Konstancja Gładkowska, cantante, allieva della scuola di musica. In ottobre soggiorna per una settimana presso il principe Radziwiłł nel castello di Antonin e il 19 dicembre prende parte ad un concerto a Varsavia. L’8 febbraio esegue il Concerto op. 21 in casa sua con un’orchestra ridotta. La prima esecuzione pubblica del Concerto e della Fantasia op. 13 ha luogo il 17 marzo nel Teatro Nazionale. Il 22 marzo viene ripetuto il Concerto, insieme con il Krakowiak op. 14 ed un’improvvisazione su una canzone popolare polacca. L’8 luglio prende par263

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te al concerto della cantante Barbara Majerova nel Teatro Nazionale, eseguendo le Variazioni op. 2. Il 22 settembre prova in casa sua, con un’orchestra ridotta, il Concerto op. 11, davanti ad un ristretto pubblico di invitati. L’11 ottobre esegue per la prima volta al Teatro Nazionale il Concerto op. 11, insieme con la Fantasia op. 13. Al concerto, che sarà l’ultimo tenuto da Chopin a Varsavia, prende parte Konstancja Gładkowska. Parte per Vienna il 2 novembre, salutato dagli amici che eseguono una piccola cantata in suo onore, composta da Elsner. Durante il viaggio suona a Breslavia, il 7 novembre, il terzo movimento del Concerto op. 11, e improvvisa su un tema della Muta di Portici di Auber; prosegue per Praga e Dresda ed arriva a Vienna il 23 novembre. Il 29 novembre scoppia a Varsavia l’insurrezione: i russi sono costretti alla fuga. Chopin vorrebbe rientrare in patria ma viene dissuaso dal padre. Conosce Giovanni Malfatti, medico di Beethoven, e il violinista Josef Slavik, con il quale progetta di scrivere un duo. Progetta inoltre di scrivere un concerto per due pianoforti, da suonare con l’ex compagno di scuola Tomasz Nidecki, che studia a Vienna. Nel corso dell’inverno fa un’intensa vita di società e conosce molti musicisti, ma non riesce ad organizzare un suo concerto. Il 4 aprile dovrebbe prender parte ad un concerto a beneficio della cantante Garcia-Vestris, che viene annullato. L’11 giugno esegue il Concerto op. 11 in una serata mista durante la quale ha luogo la prima rappresentazione del balletto Theodosia del conte Gallenberg. Il 20 luglio parte per Parigi. Il 28 esegue a Monaco il Concerto op. 11 e la Fantasia op. 13. Proseguendo per Parigi fa sosta a Stoccarda dove, in settembre, gli giunge la drammatica notizia della presa di Varsavia da parte dei russi. Arriva a Parigi alla fine del mese e in breve fa molte conoscenze fra i musicisti e gli artisti. In dicembre Konstancja Gładkowska si sposa. Dopo due rinvii ha luogo il 26 febbraio il concerto d’esordio a Parigi di Chopin, che suona nella Salle Pleyel, con accompagnamento del solo quartetto d’archi, un suo 264

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Concerto (quasi certamente l’op. 11) e le Variazioni op. 2, partecipando inoltre alla prima esecuzione della Introduzione, Marcia e Polacca brillante per sei pianoforti di Kalkbrenner. Kalkbrenner si propone a Chopin come suo insegnante per un corso di perfezionamento di tre anni. Chopin prima esita, poi, sentito il parere di Elsner, rifiuta. Comincia a dare lezioni private di pianoforte ad allieve dell’aristocrazia e in breve diviene l’insegnante più ricercato di Parigi. Trova in Maurice Schlesinger un editore disposto a pubblicare tutti i suoi lavori. Il 2 aprile prende parte ad un concerto organizzato da Berlioz, suonando a quattro mani con Liszt, e il 3 suona, con Liszt e i fratelli Herz, un lavoro di Henri Herz per due pianoforti a otto mani. Diventa membro della Società Letteraria Polacca. Passa le vacanze a Tours, nella casa paterna del violoncellista Auguste Franchomme. In maggio si reca ad Aachen in compagnia di Ferdinand Hiller e vi incontra Mendelssohn, conosciuto a Parigi nel 1832. In compagnia di Mendelssohn visita Colonia, proseguendo poi per Coblenza e Düsseldorf. Il 14 dicembre prende parte ad un concerto di Berlioz, eseguendo il secondo movimento del Concerto op. 21, e il 25 dicembre partecipa ad un altro concerto, suonando a quattro mani e a due pianoforti con Liszt. Il 22 febbraio prende parte ad un concerto di musiche di Hiller, suonando con questi a due pianoforti. Il 15 marzo prende parte ad un concerto di Camille Stamaty, il 5 aprile esegue il Concerto op. 11 e, con Liszt, il Duo di Hiller in un concerto a beneficio degli esuli polacchi. Il 26 aprile si presenta nella sala del Conservatorio per eseguire sotto la direzione di François Habeneck l’Andante spianato e Grande Polacca brillante op. 22. In luglio trascorre alcune settimane a Enghien-les-Bains ma, venuto a conoscenza della decisione dei suoi genitori di recarsi a Carlsbad, raggiunge il 15 agosto la località termale boema e vi si ferma per tre settimane. Dal 6 settembre soggiorna con i genitori a Tetschen nel castello del conte Thun-Hohenstein e dopo la metà del mese si reca a Dresda, dove incontra i Wodzin´ski, conosciuti a 265

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Varsavia negli anni del liceo, con i quali era in contatto epistolare dall’anno precedente. Il 26 settembre raggiunge Lipsia, dove incontra Mendelssohn, Schumann, Clara e Friedrich Wieck, e gli editori che pubblicano i suoi lavori in Germania. Durante il viaggio di ritorno si ammala: sui giornali tedeschi esce la notizia della sua morte. Il 28 luglio arriva a Marienbad e vi passa un mese di vacanza in compagnia dei Wodzin´ski. In settembre, a Dresda, chiede la mano di Maria Wodzin´ka: la ragazza e la madre acconsentono, ma manca il consenso del padre, in quel momento assente. L’11 settembre è a Lipsia, dove incontra Schumann. Il 5 novembre, nell’appartamento di Liszt e Marie d’Agoult nell’Hotel de France di Parigi, conosce George Sand. Il 13 dicembre la invita, insieme con altri amici, ad una serata musicale in casa sua. Durante l’inverno incontra varie volte George Sand. La corrispondenza con i Wodzin´ski, frequente ed affettuosa nell’autunno dell’anno precedente, si fa a mano a mano più rara e più distaccata. Del matrimonio non si fa più parola. In luglio Chopin si reca a Londra in compagnia di Camille Pleyel. Non accoglie l’invito di George Sand di passare alcune settimane dell’estate nella sua residenza di campagna a Nohant nel Berry. Il 25 febbraio suona nel Castello delle Tuileries per il re Luigi Filippo e per la famiglia reale. Il 3 marzo prende parte ad un concerto di Alkan. Il 12 marzo suona a Rouen, invitato da un amico polacco che ha preso la residenza in quella città, il Concerto op. 11. Alla fine di giugno la Sand e Chopin sono ritratti insieme da Delacroix in un quadro che dopo la morte del pittore viene tagliato (il ritratto di Chopin è ora al Louvre, quello della Sand nella Gipsoteca di Copenhagen). Fra giugno e luglio il rapporto con la Sand si evolve al punto che i due decidono di vivere insieme. Il 31 ottobre Chopin raggiunge a Perpignan la Sand, giuntavi con i due figli ed una cameriera. Il 1° novembre i viaggiatori si imbarcano a Port-Vendres e giungono a Barcellona il 2; il 7 si imbarcano per Palma di Maiorca, giungendovi l’8 e prendendovi alloggio in un appartamento in Calle de la Marina. 266

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Il 15 novembre Chopin, la Sand e i suoi familiari prendono alloggio nei sobborghi di Palma, il 10 dicembre, scacciati dal padrone di casa che vede in Chopin il malato di tisi, vengono ospitati dal console francese, e il 15 dicembre si spostano nell’abbazia gotica di Valldemosa. Valldemosa viene lasciata l’11 febbraio, il 13 il gruppo si imbarca per Barcellona, giungendovi il 14. Chopin, in pessimo stato di salute, viene curato dal medico di un bastimento francese. Dal 18 al 20 i viaggiatori restano ad Arenys de Mar, ospiti di un conoscente della Sand. Il 22 si imbarcano per Marsiglia, vi giungono il 24 e vi si fermano fino al 22 maggio, salvo che per una gita a Genova, con partenza il 3 maggio e ritorno il 18. Partendo da Marsiglia il 22 arrivano a Nohant il 1° giugno e vi restano fino al 10 ottobre. Il 29 ottobre Chopin e Moscheles suonano, singolarmente e a quattro mani, nel Castello di Saint-Cloud per il re e la famiglia reale. La Sand e Chopin restano a Parigi per tutto l’anno, facendo soltanto alcune gite nei dintorni della città. Il 26 aprile Chopin tiene un concerto nella Salle Pleyel in compagnia del soprano Laure Cinti-Damoreau e del violinista Heinrich Ernst. Soggiorno a Nohant dal 20 giugno al 31 ottobre, salvo una corsa di Chopin a Parigi dal 25 al 29 settembre. Maria Wodzin´ska sposa Jozéf Skarbek; il matrimonio verrà annullato dalla Sacra Rota. Il 21 febbraio Chopin tiene un concerto nella Salle Pleyel avendo come partner il contralto Pauline Viardot e il violoncellista Auguste Franchomme. Nello stesso giorno muore il primo maestro di Chopin, Wojciech Z˙ywny. Il 20 aprile muore a Parigi di tisi, a trentatre anni, Jan Matuszyn´ski, amico d’infanzia di Chopin. Dal 7 maggio al 28 luglio Chopin e la Sand soggiornano a Nohant, rientrano a Parigi dal 30 luglio all’8 agosto e sono di nuovo a Nohant dal 9 agosto al 27 settembre. A Parigi fino al 21 maggio, a Nohant dal 22 maggio al 28 ottobre, salvo un viaggio a Parigi di Chopin dal 13 al 17 agosto. 267

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Muore a Varsavia, il 3 maggio, Nicolas Chopin; la notizia della morte perviene a Chopin il 25 maggio. La Sand scrive alla vedova, che risponde ringraziando. Soggiorno a Nohant dal 31 maggio. Il 15 luglio Chopin si reca a Parigi per accogliere la sorella Ludwika e il cognato, fa loro visitare la città e rientra a Nohant il 26. Ludwika e il marito raggiungono Nohant il 9 agosto e vi restano fino al 27. Chopin li accompagna a Parigi e rientra a Nohant il 3 settembre. Fa una scappata a Parigi dal 22 al 27 settembre e vi ritorna definitivamente il 28 novembre, mentre la Sand resta a Nohant fino alla metà di dicembre. A Parigi fino al 12 giugno, a Nohant dal 13 giugno al 27 novembre, ma Chopin rientra a Parigi dal 19 al 25 settembre. Tra il 29 ottobre e il 1° novembre la Sand scrive il romanzo breve La mare au diable che dedica a Chopin, donandogli anche l’autografo. A Parigi fino al 26 maggio, a Nohant dal 27 maggio al 10 novembre. Dal 25 giugno esce a puntate sul Courrier français il romanzo di George Sand Lucrezia Floriani. Gli amici della coppia ritengono di riconoscere nella sublime protagonista la Sand e nel suo nevrotico amante Chopin. In novembre la figlia della Sand, Solange, si fidanza con Fernand de Preaulx. La Sand, la figlia e il fidanzato di questa, il figlio Maurice e una ragazza, lontana parente e protetta della Sand, arrivano a Parigi in febbraio. In marzo lo scultore Auguste-Jean-Baptiste Clésinger comincia a scolpire i busti della Sand e di Solange. Rottura del fidanzamento di Solange. In aprile la Sand e i suoi rientrano a Nohant, Clésinger vi si reca poco dopo e si fidanza con Solange; il matrimonio ha luogo il 19 maggio. Chopin, malato, non può recarsi a Nohant. Esplodono in luglio violenti litigi fra Clésinger e Maurice. La Sand scaccia il genero e Solange segue il marito. Chopin viene informato da Solange dell’accaduto e scrive alla Sand. Questa ha l’impressione che l’amante si sia schierato contro di lei e dalla parte di Solange e gli manda il 28 luglio una durissima lettera con la quale rompe il rapporto, definito “amicizia esclusiva durata nove anni”. 268

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Suona il 16 febbraio nella Salle Pleyel in compagnia del soprano Antonia Molina di Mondi, del tenore GustaveHippolyth Roger, del violinista Delphin Alard e del violoncellista Auguste Franchomme. Il successo pieno della serata consiglierebbe una ripetizione a breve termine, ma il 22 scoppiano a Parigi i moti che provocano l’abdicazione del re Luigi Filippo e la proclamazione della repubblica. Il 28 febbraio Solange partorisce una figlia, che muore il 7 marzo. Il 4 marzo Chopin incontra casualmente George Sand sulla soglia di casa della contessa Marliani: la breve conversazione che segue sarà l’ultima fra i due. Il 19 aprile, su invito pressante dell’allieva Jane Stirling, Chopin parte per Londra, dove arriva il 20. Conosce molti personaggi, suona il 15 maggio, nel palazzo della duchessa di Sutherland, in presenza della regina Vittoria e del principe consorte Alberto ma non viene invitato a corte. Tiene due concerti privati: il 23 giugno nel palazzo della ex-cantante Adelaide Sartoris e il 7 luglio nel palazzo di lord Falmouth. Il 5 agosto parte per Edimburgo, vi rimane qualche giorno e si reca quindi a Calder House, nei dintorni di Edimburgo, ospite di lord Torpichen, cognato della Stirling. Suona a Manchester il 28 agosto, il 27 settembre a Glasgow e il 4 ottobre ad Edimburgo. Ritorna a Londra il 31 ottobre. Il 16 novembre prende parte ad un concerto organizzato dalla Società Polacca di Londra: è la sua ultima apparizione come concertista. Il 23 novembre parte da Londra ed arriva a Parigi il giorno dopo, in pessimo stato di salute. La salute di Chopin ha un miglioramento in primavera, tanto che può riprendere a dare qualche lezione. Il 20 aprile assiste alla prima rappresentazione del Prophète di Meyerbeer. All’inizio di giugno trasloca in un appartamento sulla collina di Chaillot. Compone i suoi due ultimi lavori, le mazurche in sol minore e in fa minore pubblicate con i numeri d’opera postumi, rispettivamente, 67 n. 2 e 68 n. 4. Il 9 settembre arriva a Parigi insieme con il marito e la figlioletta la sorella Ludwika, che lo assisterà 269

fino alla fine. Negli ultimi giorni del mese Chopin trasloca in un nuovo appartamento, al n. 12 di Place Vendome. Il suo stato di salute peggiora rapidamente. Riceve i Sacramenti e spira alle 2 del mattino il 17 ottobre. Clésinger prende le impronte del viso e della mano sinistra. Nello stesso giorno, dalle 12 alle 19, il giudice di pace procede all’inventario dei beni ed appone i sigilli. Il dottor Jean Cruveilhier, medico curante di Chopin, procede all’autopsia ed estrae il cuore, che viene collocato in un bagno di formalina in un’urna. Il servizio funebre ha luogo il 30 ottobre, nella chiesa della Madeleine. Durante la cerimonia vengono eseguiti il Requiem di Mozart, la Marcia funebre della Sonata op. 35, orchestrata da Napoléon Réber, e i Preludi op. 28 nn. 4 e 6 trascritti per organo da Louis Lefébure-Wely. Il corteo, guidato dal principe Czartoryski e da Giacomo Meyerbeer, si avvia quindi verso il cimitero del Père-Lachaise, luogo della sepoltura; tengono i cordoni del carro funebre Alexandre Czartoryski, Franchomme, Delacroix e Camille Pleyel. Il cuore verrà portato a Varsavia dalla sorella e sarà collocato nella Chiesa di Santa Croce. Il 30 novembre ha luogo la vendita in asta pubblica dei beni di Chopin. Si forma un comitato degli amici di Chopin, presieduto da Delacroix. Il monumento funebre, scolpito da Clésinger, sarà inaugurato il 17 ottobre 1850.

Nota dell ’autore Mentre si avvicinava il bicentenario della sua nascita avevo in mente di dedicare a Chopin una pubblicazione, ma una pubblicazione che fosse destinata ad un lettore non specificatamente interessato alla musica quanto, piuttosto, alla conoscenza di un grande personaggio, di un protagonista nella storia della civiltà. Scartando quindi già in partenza la soluzione dell’analisi delle opere e della biografia combinata con l’analisi delle opere, scartai successivamente anche la soluzione della biografia pura. Nulla di veramente inedito era stato scoperto dopo l’ormai annosa pubblicazione del minuziosissimo F. Chopin, l’uomo (3 voll., Ed. Sapere, Milano-Roma 1974) di Gastone Belotti e del Frédéric Chopin di Tadeusz A. Zielin´ski (Polskie Wydawnictwo Muzycne, Varsavia 1993, trad. francese Fayard, Parigi 1995). D’altra parte, sia il Belotti che lo Zielin´ski, e con loro molti altri biografi, si erano occupati di Chopin e delle sue vicende mettendole in relazione con il contesto storico e culturale ma non, o molto marginalmente, con il contesto esistenziale in cui erano avvenute. Mi sembrò allora di poter fare un lavoro utile e non ripetitivo reimmergendo Chopin nel flusso della vita dal quale era emerso per passare alla storia, e di spiegare come le sue scelte di uomo e di artista fossero avvenute non in un campo aperto ma entro un raggio di possibilità ben delimitato. A questo punto l’unica soluzione che riuscii ad immaginare, senza gravare il testo di spiegazioni a piè di pagina, fu di far parlare lo stesso Chopin e coloro che con Chopin ebbero, almeno per un certo periodo, frequenti rapporti. Era evidente per me che questa decisione 271

comportava dei rischi, ma decisi che, dati gli scopi che mi proponevo, valesse la pena di correrli. E l’Editore, che ringrazio per ciò, condivise la mia scelta. Il documento sul quale mi sono in primis basato è l’epistolario curato da Bronisław Edward Sydow con la collaborazione di Suzanne e Denise Chainaye e di Iréne Sydow (Correspondance de Frédéric Chopin, 3 voll., Richard Masse, Parigi 1953-1960, ripubblicati nel 1981). Questo epistolario, a tutt’oggi il più completo che esista, fu a suo tempo una magnifica iniziativa, ma a distanza di mezzo secolo si presenta molto datato, povero com’è di note esplicative e condotto secondo criteri che appaiono nettamente superati. Tuttavia, nell’attesa di un nuovo epistolario scientificamente più attendibile, non c’è altro da fare che ringraziare ancora una volta il Sydow e... saccheggiarlo. Ho tenuto conto, oltre che delle biografie del Belotti e dello Zielin´ski, di altre che non cito perché non ho ricavato da esse nulla di utile per me. Mi sono valso inoltre dei pochi documenti contenuti in Sur le traces de Frédéric Chopin (a cura di Danièle Pistone, Librairie Honoré Champion, Parigi 1984). Per il rapporto fra Chopin e George Sand ho trovato preziose informazioni ed acute analisi in Chopin dans la vie et l’oeuvre de George Sand di Marie-Paule Rambeau (Société d’Éditions “Les Belles Lettres”, Parigi 1985) e in minor misura in Chopin chez George Sand à Nohant di Sylvie Delaigue-Moins (Les amis de Nohant, Châteauroux 1986). Ho consultato senza cavarne molto Un hiver à Majorque della Sand (Ediciones de Ayer, Palma di Maiorca 1971) ed ho scorso – non posso dire di averle lette – le novecento pagine del suo romanzo Consuelo (Éditions Phébus, Parigi 1999), in cui si parla molto di musica per la semplice ragione che la protagonista è una cantante, allieva di Porpora, e perché vi compaiono a profusione lo stesso Porpora e Haydn. Non mi è sembrato però che le idee sulla musica che si trovano nel romanzo siano da ricondurre a Chopin. Qualche spunto mi è stato offerto da particolari dell’epistolario Sandd’Agoult (Marie d’Agoult-George Sand. Correspondance, a cu272

ra di Charles F. Dupêchez, Bartillat, Courtry 1995) che non erano stati presi in considerazione dai biografi di Chopin. Dalla sola biografia esistente di Solange Dudevant (Solange. Fille de George Sand di Michelle Tricot, L’Harmattan, Parigi 2004) ho ricavato pochissimo. La frase riguardante la coda del primo movimento, nella Sonata op. 35, è stata ripresa dallo Chopin di Arthur Hedley (J.M. Dent & Sons LTD, Londra 1947). La nipote del medico Giovanni Malfatti fu effettivamente amata, e probabilmente richiesta in moglie da Beethoven; per lei fu scritta la bagatella che per un errore di lettura di chi per primo la pubblicò nel 1867 è nota con il titolo Per Elisa. Per gli appunti per un metodo mi sono servito della esemplare pubblicazione curata da Jean-Jacques Eigeldinger (Esquisses pour une Méthode de Piano, Flammarion, Parigi 1993) ed ho reperito qualche altra notizia interessante nello Chopin vu par ses élèves (À la Baconnière, Neuchâtel 1979) dello stesso Eigeldinger. I giudizi di George Sand su Chopin musicista sono stati ricavati dalla sua autobiografia (Histoire de ma vie, in Oeuvres autobiographiques, vol. II, Gallimard, Parigi 1971), quelli di Stephen Heller dalle sue lettere (Lettres d’un musicien romantique à Paris, a cura di Jean-Jacques Eigeldinger, Flammarion, Parigi 1981) e quelli di Berlioz dalle Memorie (Edizione Studio Tesi, Pordenone 1989). Per le trattative editoriali con Probst mi sono rifatto, oltre che alle lettere di Chopin, al volume di Hans Lenneberg Breitkopf und Härtel in Paris. The Letters of their Agent Heinrich Probst between 1833 and 1840 (Pendragon Press, Stuyvesant 1989). Chopin pubblicò composizioni con numero d’opera, tranne l’op. 4, dall’1 al 65, e pubblicò inoltre poche altre pagine senza numero d’opera. La Sonata op. 4, consegnata dall’Autore all’editore Haslinger di Vienna e da questi trattenuta, fu pubblicata solo nel 1851. Una scelta delle opere inedite, sottratte dalla sorella Ludwika e al rogo e alla vendita all’asta, fu pubblicata a Berlino e a Parigi nel 1855, a cura di Julian Fontana, con i numeri d’opera postuma da 66 a 73. Nel 1857, con 273

il numero 74, vennero pubblicate, solo a Berlino, diciassette canzoni. Gli altri inediti uscirono, saltuariamente, in un lungo lasso di tempo. Le composizioni in possesso di Jane Stirling con annotazioni autografe di Chopin vennero pubblicate da Édouard Ganche a Oxford nel 1932. Le stesse musiche, in fac-simile, furono ripubblicate nel 1982 a Parigi, a cura di Jean-Jacques Eigeldinger. Il lettore minimamente esperto di enigmistica avrà subito capito che il mio Samud Erdnas Kela è Alexandre Dumas letto a rovescio e con la x suddivisa in c dura e s. La storia del ritrovamento, da parte del Dumas junior, di un pacco di lettere della Sand a Chopin, è documentata: Dumas ne parlò ampiamente in una lettera al padre, dicendo di averne fatte delle copie, ma né le lettere né le copie furono mai ritrovate ed è opinione corrente, sebbene non da tutti accettata, che siano state distrutte. Le interviste e le lettere indirizzate al mio Erdnas Kela in vista della stesura di una biografia sono però una mia finzione. La lettera di Marie d’Agoult, che racconta a George Sand di aver visto a Palazzo Durazzo un ritratto, opera di Rubens, “qui ressemble à Chopin et qu’ai toujours contemplé en souvenir de ma passion malheureuse pour l’illustre pianiste”, è del 4 luglio 1838. L’architetto Mario Semino, che ringrazio di cuore, ha effettuato per me delle ricerche a Genova. Non è stato reperito alcun ritratto d’un giovane Durazzo, opera di Rubens, ma al Museo di Palazzo Reale si trova, catalogato con il n. 1196, un Ritratto di gentiluomo di casa Durazzo (olio su tela, 90×65 cm) in cui si nota effettivamente una notevole somiglianza, nell’ovale del viso e nel naso, con Chopin. Il dipinto è oggi attribuito a Domenico Parodi. P.R. Giugno 2009