Chiamarlo amore non si può. 23 scrittrici raccontano ai ragazzi e alle ragazze la violenza contro le donne 9788889684672, 8889684674

23 scrittrici per ragazzi ci offrono questi racconti per aiutarci a riflettere e a dialogare, perché non rimaniamo in si

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Chiamarlo amore non si può. 23 scrittrici raccontano ai ragazzi e alle ragazze la violenza contro le donne
 9788889684672, 8889684674

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D a un’idea di A nnam aria Piccione

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Proprietà letteraria riservata Copyright 2013 Casa Editrice Mammeonline Mammeonline Comunicazione snc, Foggia www.casaeditricemammeonline.it [email protected] Prima edizione: novembre 2013 L’illustrazione in copertina è di Paola Sorrentino www.storiedimusicistidistratti.it/ Stampa: Grafiche Turato, Rubano (PD) Tutti i diritti sono riservati a norma di legge e delle convenzioni internazionali. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta con sistemi elettronici, meccanici o di altro tipo senza l’autorizzazione scritta dell’Editore. ISBN: 978-88-89684-67-2

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Autrici varie

Chiamarlo amore non si può 23 scrittrici raccontano ai ragazzi e alle ragazze la violenza contro le donne

C asa Editrice Mammeonline

INDICE

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Sugar di Anna Baccelliere

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Ferita di Alessandra Berello

27

L’intervista di Rosa Tiziana Bruno

35

A piedi nudi di Fulvia Degl’Innocenti

43

La ragazzina delle 6,30 di Ornella Della Libera

47

Perché odi Davide? di Giuliana Facchini

53

Chéhérazade non abita più gui di Maria Guidantoni

59

C’è sempre una scelta di Laura Novello

69

Marta libera tutti di Isabella Paglia

77

La /ine di un inganno di Daniela Palumbo

83

Mirtillo di Elena Peduzzi

5

89

La strada da Jinire di Cristiana Pezzetta

97

La porta chiusa di Annamaria Piccione

103

Fitta come la nebbia di Manuela Piovesan

109

Luna park di Livia Rocchi

119

A little Princess di Maria Giuliana Saletta

123

Una nuova Alba di Chiara Segrè

131

Prove di Juturo di Luisa Staffieri

139

Taddeo e la pasticcera di Annalisa Strada

143

Un ragazzo di Pina Tromellini

151

Lezioni d’amore di Pina Varriale

159

Tre rose di Laura W alter

165

Fuori di Giamila Yehya

173

P ostazione di Daniela Finocchi

180 6

Le autrici

Le ragazze fanno grandi sogni, forse peccano d'ingenuità... ma l ’audacia le riscatta sempre, non le fa crollare mai.

Edoardo Bennato C’è chi ti esalta, chi ti adula c’è chi ti espone anche in vetrina si dice amore, però no chiamarlo amore non si può. da La Fata di Edoardo Bennato

Nota dell’editrice Mi è molto caro questo libro, per tanti motivi. Intanto perchè la sua pubblicazione giunge in contemporanea al de cimo anniversario della casa editrice, una casa editrice al fem minile, nata per sostenere una comunità di donne e cresciuta anche battagliando su leggi contro le donne, dalla legge 40 sulla procreazione assistita a quella sull’affido condiviso, e che è diventata sempre più una casa editrice di libri per bambini e bambine, ragazzi e ragazze, per parlare loro di emozioni e paure, di temi come adozione, pedofilia, bullismo, identità di genere, disturbi dell’apprendimento, intercultura. Poi, perchè questo è un libro che avevo nel cuore da molti anni, da quando ho cominciato ad avere, e come me tante, la percezione sempre maggiore del problema della violenza contro le donne e di come in proposito si parli sempre trop po poco di prevenzione. Come possiamo mai sperare che le nostre bambine e le no stre ragazze siano donne determinate nelle relazioni, sicure di sé e delle proprie scelte, capaci di proteggersi da uomini posses sivi e violenti, se diamo loro solo un certo tipo di modelli? Se non parliamo loro di affettività, di educazione sentimentale? A che serve ridurre la soluzione a mero problema penale, affan narsi a discutere sull’irrevocabilità della querela o sul braccialetto elettronico o sullo stabilire come aggravante la relazione affettiva con la vittima se non si lavora invece sull’educazione, sulla prevenzione? Se sin da bambine le circondiamo di libri scolastici pieni di stereotipi, di immagini di abuso del corpo femminile, con un linguaggio declinato al maschile che mor9

SUGAR di Anna Baccelliere

Smettila, Sugar. Non farmi fare brutte figure con i miei nuovi amici. Facciamo solo un salto su a Vason per bere qual cosa e torniamo prima che faccia buio. Non insistere! Non posso portarti con me... E non mettermi il broncio! Sei assur do, sai? Ti prego... Non guardarmi con quegli occhi... Non riuscirai ad intenerirmi. No e poi no! Resterai qui. Almeno questa volta... Ti porto sempre dappertutto, ma ora proprio non posso. E non incominciare a seguirmi di nascosto. Mi dà fastidio. Non pensarci neanche! Non puoi farmi ancora da tata. Ho quattordici anni. Capisci? Quattordici anni! Mi metti in ridicolo. Con i compagni di scuola va bene, tanto ti conoscono da una vita, ma con questi è diverso. Mi faresti fare la figura della poppante. Resta qui, aspettami e poi, ti prometto, faremo una passeggiata nel bosco. Dai, Sugar, fai il bravo. Stanno guardando dalla mia parte. Devo andare. No, tu no, Sugar! Non fare il finto tonto. Al mio ritorno faremo il nostro solito giro del laghetto e, a sera, guarderemo le stelle abbracciati abbracciati e sdraiati sull’erba. Ma sì, dai, ti farò vedere anche le lucciole se prometti di non spaventarle come fai sempre con il tuo vocione. Sì, lo so che vuoi solo salutarle, ma potresti essere un po’ più gentile con loro. Non è carino vedere un nasone scuro ed umidiccio che è cento, mille volte più grande del tuo corpo che ti annusa... Coraggio, starò via il

pochissimo. M agari facciamo così: schiaccia un pisolino e quando aprirai gli occhi io sarò qui accanto a te... E va bene, stasera a cena ti farò anche assaggiare un po’ della m ia pizza. M a solo un po’. Lo sai che il dottore ha detto di m etterti a dieta. Bravo, Sugar. A ttendim i qui sul pontiletto. Tornerò presto. M i aspettano. Vado... Sugar, ti ho detto di non seguirmi! Basta! O ra m i arrabbio sul serio. Lo sai! E poi niente passeggiata, niente stelle, niente prato, niente abbracci, niente lucciole, niente pizza. N iente di niente. N on farmi diventare cattiva. Sì. Così. Bravo, bra vissimo Sugar. Ecco: l’om bra del nocciolo è il posto ideale per aspettarm i. Fresco e riparato. Così, bravo, tenerone mio! Torno presto. D orm i, amico mio.

G

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tu tto

Il sole fa ru m o re sulle m ie p alp eb re con p rep o te n za . T en to di ap rire gli occhi, m a n o n ci riesco. A d ir la verità n o n riesco p ro p rio a m u o v erm i. N o n riesco a far nulla. Faccio fatica an ch e a pensare. U n tu rb in io vo rtico so di pen sieri am o rfi soffoca il m io risveglio. La gola è riarsa. H o la bocca im p astata, asciu tta. La lin g u a è di carto n e. La passo sulle lab b ra e cerco in v an o di u m e tta rle . Scorre le n ta m e n te sui d e n ti sfio ran d o li u n o p er u n o . Si ferm a su u n incisivo te n ta n d o di rico n o scern e la fo rm a, m a u n angolo ha il b o rd o ta g lien te e n o n la c o n su eta ro to n d ità . Le tem p ie p u lsan o im pazzite. Sollevo u n braccio e, con g ran d e fatica, passo u n a m an o tra i capelli. Son d u ri, appiccicosi, sem b ran o u n ti. Perché? Li ho lavati poco fa. Q u a n d o ? N o n so. N o n ricordo. Provo a g irarm i su u n fianco p er evitare la luce del sole che c o n tin u a a ferire i m iei occh i chiusi. N o n ce la faccio. Il co rp o è di legno. S em bra che n o n m i ap p arten g a . Istin tiv a m e n te p o rto la m an o sulla fro n te a p ro teg g e rm i. M i sento in to n tita . H o la nausea. U na v ertig in e m i scuote. Q u a n ta luce, m a p e r ché c’è ta n ta luce? Le lucciole? N o, n o n possono essere le lucciole. L’o cchio sin istro m i d u o le. Al ta tto appare go n fio e d o lo ra n te . E l’u n ica p a rte del c o rp o che sen to m ia. La m an o scivola p ian o sulle g uance, sul naso, sulle lab b ra, sul m en to . C erco di rico n o scerm i so tto il to cco lieve delle d ita che si m u o v o n o con delicatezza e tim o re su ogni angolo del v olto che m i sem b ra sc o n o sciu to , n o n m io. Q u asi a ria p p ro p ria rm e n e . In d u g io . Poi la m an o c o n tin u a a scivolare. Tocco il collo, il seno, la p an cia, il p u b e, le cosce. Sono n u d a. C o m p le ta m e n te n u d a . S trano. N o n cap ita m ai che m i a d d o rm e n ti così.

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La m ia m an o si blocca terro rizz ata sul g in o cch io . B rucia. Fa m ale... E ru v id o , u m id o . S tro fin o tra di loro in d i ce, pollice e m ed io con cui l’ho to ccato . E p o i li guido p ian p ian o al naso p er a n n u sarli. U n o d o re d o lciastro m i arriva al cervello. O ra h o p a u ra di ap rire gli occhi e sco p rire le d ita co lo rate di rosso. U n o stra n o ronzio nelle o recch ie m i im p ed isce di p ercep ire i ru m o ri della stanza. C erco d i c o n c e n tra rm i p er vedere, se n tire ... N u lla. Solo u n o d o re acre e p u n g e n te di u rin a. E u n c o n tin u o ronzio di m osche. N el silenzio d ip in to di tin te fosche vedo o m bre in d is tin te che, in u n carosello senza fine, si ag itan o tra le pieghe d i rico rd i sb iad iti. M a n i. Tante m ani. E corpi nudi. E sudore. E respiri a f fa n n o si. G irano tu tt'in to rn o senza sosta. Sono tra le nuvole in m ezzo a l fragore d i una tempesta. B otte e risate e ancora botte. No. Con il bastone no. Basta. Basta. Ancora respiri affannosi e nebbia. Buio. E nebbia. Le m ani. Q uante m ani. Tante, troppe. A vide, indiscrete. Fermi. N on voglio. Ferm i. E botte e muco e lacrim e e risate. Un torpore strano m i vince. F inirà, presto fin irà . P rim a o p o i fin irà . H o un conato di vom ito. Vorrei sollevare la testa per n o n rim ettere. N o n faccio in tem po. R im etto anche l’a n i m a e tu tto scivola dalla bocca sul m en to , sul collo, tra i ca pelli. M am m a, aiu tam i. V ieni. Son qui. M a dove? Com e? U rla m u te im p rig io n ate nella gola che lacerano il silenzio assordante che m i circonda. M am m a, papà, presto, veni te. Sono qui. Q u i. Q u i dove? N o n so... Sugar, vieni, corri. N o n asp ettarm i p iù sul p o n tile tto . N o n p o trò venire. E tardi per le lucciole... O forse tro p p o presto. M o lto p re sto. N o n so. N o n ricordo.

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I l molo. Le moto. La strada polverosa. I l bar. N on so. N on sento. N on vedo. Vason. E il d rin k. N on bevo alcolici. N on ce alcool. C ’è fr u tta . C e ghiaccio. Bevi. E fr e sco. Starai bene. E fresco. H o sete. Bevi. Solo fr u tta . Gira tutto. Gira intorno. Senza sosta. Senza sosta. Volo fu o r i da me. Lontano. H o caldo. Il sole bru cia sulla pelle del volto, m a ho freddo. U n lungo brivido m i corre dalla schiena alla fro n te. Sudo. V om ito ancora. Tossisco. A ncora e ancora. U n ru m o re di passi poco lo n tan o . C h i siete? C h i sono? Voci confuse. Dove? Dove? Sugar! Sugar sento che sei qui. V icino. C o rri. V ieni. D a sola n o n ce la faccio. N o n aspettarm i sul p o n tile tto . H o bisogno di te. Svegliati. Svegliati. Su gar. N o n d o rm ire più. M i senti, Sugar? M i senti? M i sente, signorina? M i sente? E qui! A ccanto alla fine stra. C orrete! Presto! M a rtin a , si svegli! Si svegli. N o n si preoccupi. Stia tran quilla. È finita. C i sono la sua m am m a. Il suo papà. Il suo cane. Sugar. Sugar. A m ico m io. Sapevo che saresti v en u to . T i farò vedere le lucciole. Te l’ho prom esso. E ti darò anche un p o ’ di pizza. N o n lo direm o a nessuno. Sarà il n ostro se greto. U no dei ta n ti, Sugar. T i voglio bene, ten ero n e m io.

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Pastore tedesco quasi cieco aiuta le forze dell1ordine nella ricerca della sua padroncino scomparsa

QUANDO L’AMORE HA IL FIUTO DI UN CANE Vittima della «droga dello stupro» la quattordicenne è stata ritrovata in una malga abbandonata.“Hanno versato droga nel mio drink senza che me ne accorgessi.” Tre giovanotti perbene conosciu ti per caso e un drink in un bar di Vason. E per Dora (nome di fan tasia), 14 anni, giovanissima tu rista in vacanza a Lagolo con i suoi genitori, è stato un intermi nabile giorno di terrore. “Fino a qualche giorno fa era una ragaz za allegra e gioviale; ora sem bra un’altra persona” ha dichia rato suo padre. E stata però pro prio la giovialità di Dora, pur troppo, a farla cadere nel tranel lo di tre ragazzi, di ottima fami glia e senza precedenti penali. La quattordicenne passeggiava sulla strada principale dell’amena fra zione di montagna con Sugar, il suo inseparabile pastore tedesco di tredici anni quasi cieco. I tre garbatamente l’hanno avvicina ta conquistando presto la sua fi ducia e invitandola a fare un gi ro in moto a Vason, località a cir ca tredici chilometri. Un incontro casuale tra adolescenti, come tan ti. “Un drink”, le hanno proposto “e una corsa con le moto sino ad un bar nei pressi deH’orto botani 16

co di Viotte”. Ma, quando Dora è uscita un attimo dal locale per rispondere ad una telefonata, in quel drink analcolico alla frutta, Giuseppe S., Marco L. e Antonio R, hanno messo un po’ di rohypnol. La potente droga è diventata, sorso dopo sorso, padrona incon trastata della mente e del corpo di Dora come fosse una marionetta nelle mani di un invisibile e cru dele burattinaio. Di nulla si sono accorti gli avventori del bar. “Mi sembrava alticcia” ha dichiarato Domenica, la proprietaria del lo cale, “tanto è vero che ho invita to i ragazzi che erano con lei a ri accompagnarla a casa. Non avrei mai immaginato quello che sta va succedendo. Sembravano gio vanotti molto ammodo.” E così Giuseppe, Marco e Antonio, sotto le mentite spoglie di buoni sama ritani, sorreggendola per le brac cia l’hanno accompagnata fuori amorevolmente. Caricandola poi sulle spalle co me fosse una bambola di pezza, Antonio R, seguito dai due amici,

l’ha portata in una malga dirocca ta poco distante dove i tre a turno le hanno usato violenza. I ricor di dell’incubo vissuto, nella te sta di Dora, sono oggi fotogram mi sbiaditi. “Mi ricordo bene so lo del ghigno sui loro volti. Quei ragazzi così belli e gentili si erano trasformati in mostri. Avrei volu to ribellarmi, urlare, prenderli a calci, ma il corpo non rispondeva più alla mia volontà.” I suoi per secutori però li vedeva e li sentiva bene Dora. Capiva perfettamen te quello che stavano facendo. Un incubo senza fine vissuto nell’in capacità di reagire mentre le ma ni dei violentatori le strappavano i vestiti, la picchiavano senza un plausibile perché. Forse solo un passatempo diverso da ricordare per riderci ancora su, magari du rante le noiose giornate inverna li. E mentre i tre mostri “perbe ne” si divertivano, Dora moriva dentro, attimo dopo attimo, vio lenza dopo violenza, paralizzata dalla «droga dello stupro» che an nienta il corpo, annebbia la men te e dà sintomi analoghi all’ubria chezza. Dora è stata stuprata ri petutamente in quel luogo luri do e fatiscente, incapace di rea gire, con la bocca impastata dal la droga e gli indumenti laceri si no a che i tre non si sono stancati e sono fuggiti. Poi si è addormen tata. È stata ritrovata solo il gior no successivo dai Carabinieri ma,

soprattutto, grazie a Sugar, vero eroe dell’impresa. Il vecchio pa store tedesco ha infatti condotto i tutori dell’ordine sino alla malga dove la padroncina era stata ab bandonata, guidato dal suo fiu to e dal suo grande amore. Dopo averla attesa invano su un pontile, ha dato l’allarme della sua scom parsa, abbaiando in modo insoli to e allertando i genitori che, do po aver cercato inutilmente la fi glia, si sono rivolti ai Carabinieri. Sugar ha così guidato le ricerche sino al luogo nel quale Dora gia ceva in evidente stato confusiona le, con il corpo seviziato e l’ani ma distrutta. Le forze dell’ordine, grazie alle numerose testimonian ze, hanno arrestato dopo un solo giorno i tre bruti. Uno dei tre ha dichiarato: “Adesso fa la santarellina, ma era una che ci stava! Ha accettato subito di salire con noi a Vason. Non ha fatto per nien te storie.” Ora si indaga sul co me abbiano fatto i tre a procurar si la droga perché il rohypnol è un farmaco difficile da reperire. Do ra, affidata alle cure dei suoi ge nitori, di un’equipe medica e di uno psicologo, si trova adesso in un ospedale di Trento. Il suo cane Sugar l’aspetta fuori notte e gior no, piantonando il portone d’in gresso, abbaiando a tutti gli sco nosciuti, probabilmente deciso a non lasciarla mai più da sola tra... le bestie. 17

FERITA di Alessandra Berello Lei era sempre stata la più bella. Avrà avuto cinque anni, quando se ne era resa conto per la prima volta. Era stato alla ludoteca, in mezzo ad altri bambi ni piccoli come lei; una delle animatrici, indicandola, aveva detto: - Avete mai visto una bambina più bella? - e tutti ave vano detto che no, non l’avevano mai vista. Aveva gli occhi azzurro chiaro, come il cielo al mattino d’estate, e i capelli di un biondo naturale che adesso che ave va quattordici anni si era leggermente scurito. La più bella. Voleva dire tante cose, quello; lo aveva imparato nel tem po. All'inizio, solo che riceveva più sorrisi e complimenti delle altre bambine. Poi, che molti la trattavano con una particolare gentilezza, senza che lei facesse niente; e che, so prattutto da quando era diventata un po’ più alta e riempiva meglio le camicette, quando entrava in una stanza tutti la guardavano. E adesso voleva dire che era proprio lei, quella che Marco Strampisti aveva cercato all’uscita da scuola per chiederle il numero di cellulare. Marcostrampisti, come dicevano tutto d’un fiato certe ra gazze della scuola; che aveva diciassette anni, i vestiti giusti e sarebbe stato benissimo in qualunque film. 19

- Sarà anche figo - aveva detto Lara, che era sua amica dal le elem entari - però non sappiam o com ’è messo di cervello. Lei aveva sorriso. Tipico di Lara, che scriveva poesie e guardava le trasmissioni politiche, preoccuparsi per prim a cosa del cervello. Prim a ancora che del problem a principale, e cioè che lei n on lo aveva, un cellulare. - T utta colpa di m ia madre! Sua m adre, che non aveva altro che sguardi severi, e al lacciati la camicia, e siediti com posta, e no, non puoi uscire stasera, n on puoi andare, non puoi invitare, non puoi avere un telefono. N o n le lasciava nem m eno tenere il com puter in camera. Chissà di cosa aveva paura. Chissà perché n o n capiva che se lei avesse voluto fare cose strane, o brutte, o proibite, il m odo lo avrebbe trovato lo stesso. - E quindi, che gli hai detto? - le aveva chiesto Valentina, che a differenza di Lara andava sem pre al sodo. - C he era inutile dargli il num ero perché adesso è rotto. N o n volevo fare la figura di una sfigata! - N o n m i sem bra il massimo, iniziare una relazione con una bugia - aveva com m entato Lara. La solita esagerata. U na relazione. C om e quelle degli adulti. C om e quelle che avevano, qualche volta, i genitori di nascosto. - E m m adonna, guarda che le ha chiesto il num ero, m ica di sposarla! Lei ridacchiò alla battuta di Valentina, m a dietro alla risata sentiva il cuore battere forte. Forse, M arco voleva davvero una relazione con lei. N on era sicura di cosa volesse dire, m a di cer to c’erano poche cose più desiderabili per una ragazza del pri mo anno del Gioberti di una relazione con M arco Strampisti.

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Dopo, era andato tutto veloce, come in una gara di corsa, di quelle che faceva alle medie e adesso non più perché si vergognava. Lui l’aveva aspettata il sabato davanti all’edicola in fon do al parco, abbastanza vicino a casa da arrivare a piedi, m a abbastanza lontano da non rischiare di essere vista per caso da una vicina, o peggio, dalla m am m a, che era convinta che fosse da Lara a studiare. Per un po’ avevano cam m inato fianco a fianco, e lui le ave va parlato, m a lei non avrebbe saputo dire di cosa; ricordava solo che parlava e parlava, e poi di botto si era ferm ato. Era passato un bel po’ di tem po e a lei sembrava di aver girato mezza città tentando di annuire nei m om enti giusti, e in un angolo in cui non c’era gente, in una strada un po’ nascosta che lei non conosceva, l’aveva schiacciata contro il m uro e le aveva messo la lingua nella bocca. Era successo così in fretta che lei no n aveva avuto tem po di pensare a niente: a dove fossero esattam ente, a cosa si stessero dicendo un secondo prim a, a come fosse il viso di lui visto da vicinissimo; aveva solo sentito la pressione sul lucidalabbra appiccicoso che le aveva prestato Valentina di nascosto, e finto che quella cosa le fosse già successa, visto che nessuno avrebbe creduto alla verità. E cioè che lei, un bacio, non lo aveva mai dato prim a. Forse perché nessuno aveva avuto mai il coraggio di provarci, prim a di M arco Strampisti. O forse perché nessuno le era piaciuto abbastanza; m a in fondo non era nem m eno sicura che lui le piacesse. M a certo che le piaceva. Era uno dei più belli della scuola, era figlio di qualcuno m olto ricco di cui lei non ricordava la professione, aveva sempre vestiti alla m oda, i capelli a posto e un grande sorriso con i denti perfetti.

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Ecco, doveva concentrarsi su quel sorriso, e strinse forte gli occhi ricostruendolo nella sua testa m entre il suo prim o vero bacio sembrava svolgersi senza di lei. D opo, per fortuna, lui no n insistette per riaccompagnarla: aveva n on so che im pegno, e lei fu sollevata di non dover inventare scuse per sem inarlo prim a di arrivare a casa, dove la m am m a o qualcuno dei suoi emissari avrebbe p o tu to in tercettarli. Sollevata, e leggermente sm arrita in quel quartiere che non era il suo. Se avesse avuto alm eno il cellulare, avrebbe usato il navigatore com e faceva sempre Vale. M a se la cavò, e appena arrivata a casa si attaccò al telefono fisso per rac contarle tu tto . Evitando di confessare che, più di tutto, si era sentita fuori posto. La sua storia con M arco Stram pisti durò esattam ente tre settim ane e due giorni, e finì, cosa che stupì lei stessa, non per colpa di lui. La colpa fu tu tta di lei. Alle am iche disse che n on ne poteva più di inventarsi scuse con la m am m a. A Valentina, in realtà, perché con Lara le cose si erano un po’ raffreddate. O vviam ente Vale le aveva fatto il terzo grado, m a lei se l’era cavata così. D i certo non poteva dirle la verità. La verità era che lui era diventato strano. La verità era che un giorno che erano a casa sua, e m entre lei era in ansia al pensiero che la m am m a potesse cam biare program m i e tornare, lui aveva provato a spogliarla e lei non se l’era sentita e allora lui aveva alzato la voce e le aveva dato uno spintone. Cose che succedono, e poi in fondo era norm ale che lui volesse quello che tu tti alla loro età volevano e facevano, ed

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Su facebook, su cui lei poteva andare solo dieci m inuti, quella sera scoprì che era partita una catena di cattiverie su di lei, m a nel poco tem po m onitorato dalla m am m a non riuscì a capire da chi fosse partita. Sembrava che i com m enti cattivi si sfrangiassero, perdendosi in rivoli che colavano sulle bacheche di più o m eno tu tti i com pagni. Persino su quella di Valentina trovò un com m ento che diceva che lei faceva troppo la superiore. D ue giorni dopo m entre faceva pipì lesse sul m uro del bagno una frase orribile. N o n era la prim a volta che vedeva scritte volgari. M a era la prim a volta che riguardavano lei. Q u an d o si tirò su, si sentì vacillare. E poi le venne da piangere, e invece di tornare in classe restò lì. Fu Lara a trovarla, mezz’ora dopo. Fu Lara ad abbracciar la. Fu Lara a dirle che tu tto quel che stava succedendo era colpa di M arco Strampisti. Era stato lui a m ettere in giro quelle voci, possibile che lei non se ne fosse resa conto? N o, non lo aveva capito. O forse non aveva di nuovo ascoltato quella voce che sapeva le cose, dentro di lei. A spettò M arco fuori di scuola, il venerdì, quando lui fini va un quarto d ’ora dopo. - Ti devo parlare. - D i cosa? - aveva detto lui, freddo. - Perché dici in giro quelle cose di me? Lui fece spallucce. - N on dico niente. E com unque te lo m eriti, penso. No? Aveva sentito gli occhi che si bagnavano. - Senti, se vuoi che tutto sm etta, rim ettiti con m e e basta. Aveva scosso la testa.

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Lui l’aveva presa per il braccio. - Tanto so che mi hai m ol lato perché sei una stronza. T i ho visto che facevi la scema con quel tuo com pagno sfigato. Lei n on capiva. N o n sapeva nem m eno di cosa stesse par lando. Le faceva male il braccio. - Ti credi tanto superiore, eh? Sei la prim a che fa tanto la preziosa. Q uello che ti succede te lo m eriti - aveva sibilato lui, lasciandole il braccio. Lei era rim asta da sola in cortile per un po’. A pensare a come le cose potevano essere diverse da quello che sembrava no. A come dietro a un sorriso perfetto si potesse nascondere una persona cattiva. A cosa poteva farci lei adesso. Le cose non m igliorarono. Avrebbe voluto parlarne con qualcuno, forse con Lara; m a si vergognava. E poi, sapeva che l’amica la disapprovava per ché si era rimessa con lui. Perché alla fine lo aveva fatto, si era rimessa con lui, spe rando che fosse la soluzione. M a lui era cam biato. La trattava male e alzava la voce. Lo aveva lasciato di nuovo. Lui le aveva dato uno schiaffo. Nessuno se ne era accorto, perché era uno di quegli schiaf fi col dorso della m ano, che non lasciano il segno. A lm eno non sulla guancia, m a in qualche posto profondo sì. In un posto nascosto che nessuno poteva vedere. - Derevini, puoi ferm arti un attim o per favore? La lezione era finita, lei era stata interrogata la settim ana prim a, non con un gran risultato, m a la sufficienza l’aveva strappata. C he cosa voleva da lei la Boriati? - Prof... ha bisogno di qualcosa?

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Erano rim aste solo loro due. La p ro f l’aveva guardata d ritto negli occhi, e lei lo aveva saputo: aveva visto quel che agli altri restava nascosto, la sua ferita. - D a un po’ le cose non vanno bene, vero? Lei aveva abbassato la testa e fissato il banco. Il vecchio, rassicurante banco, per sfuggire a quello sguardo che la scan dagliava. C om e una bolla, qualcosa dentro di lei gonfiò e gonfiò, lottando per salire in superficie. Se solo non fosse stato così difficile fidarsi. Pensare che qualcuno le avrebbe creduto. - Elena - l’aveva chiam ata la prof, abbassando la voce. Lei aveva sollevato gli occhi.

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L’INTERVISTA di Rosa Tiziana Bruno Quindici minuti. Questo era il tempo che il direttore aveva ottenuto per l’intervista. Non era stato facile rintracciare il per sonaggio più famoso del mondo. Indagando sul suo passato, le tracce delle sue imprese risalivano a quando tutto era nato, il momento in cui ogni cosa aveva iniziato ad esistere. Era l’uni ca persona al mondo nata all’inizio di tutto, e ancora vivente. A qualcuno la sua notorietà disturbava, perché in fondo non aveva compiuto nessun atto eroico. La donna più famosa del mondo era nata da una famiglia ricca, soltanto alla soglia dell’adolescenza aveva incontrato dei problemi, ma del resto capita a tutti. Era poi riuscita a ribaltare la situazione, sposando un uomo nobile. Come fosse diventata tanto famosa, con una storia così ba nale, restava un enigma. Tutti, dopo un periodo di notorietà, vedono il proprio nome sbriciolarsi sotto il peso del tempo. Nessuno è mai stato immortale. Nessuno tranne lei. In ogni angolo del mondo conoscevano la sua storia, da sempre. Il personaggio pubblico per eccellenza: Cenerentola. Qualcuno, sia chiaro, sollevava anche delle polemiche contro di lei. La sua storia banale contrastava con le lotte per l’emancipazione femminile. Crescere sognando di sposare un principe è ridicolo, con tutte le cose meravigliose che una donna potrebbe realizzare! 27

Di fatto, però, lei restava in assoluto la più famosa e am m irata del pianeta e un buon giornalista deve attenersi ai fatti. M ark lavorava per un giornale di Londra, letto in tu tto il m ondo. Il suo direttore, o ttenuta l’intervista, pregustava già l’aum ento delle vendite. Era la prim a volta in assoluto che C enerentola si concedeva! O n o rato dell’incarico, M ark pensava di avere finalm ente l’o p p o rtu n ità di sfatare un m ito inutile, nato forse dalla parte m eno evoluta dell’anim o um ano. La sua intervista avrebbe sgonfiato l’enorm e bolla di banalità intorn o alla figura di C e nerentola, svelandone la misera realtà. Era ora di iniziare a raccontare qualcosa di diverso, storie m oderne e di migliore qualità. Poi, questa faccenda dell’eternità non gli andava proprio giù, per m eritare l’im m ortalità occorre aver fatto qualcosa di speciale, non solo per sé, m a per l’um anità intera. Così, M ark s’im barcò di b uon m attino sul volo per N a poli. Erano state necessarie lunghe ricerche per trovare C e nerentola, mesi di verifiche e contro verifiche. T rattandosi di Napoli, poi, le verifiche erano state raddoppiate, anzi tripli cate. E vero, non bisognerebbe credere agli stereotipi, ma la prudenza non è m ai troppa. A ppena atterrato, M ark prese un veloce caffè al bar e s’in filò in un taxi m ostrando il foglietto con l’indirizzo al tassi sta. D opo qualche m in u to si accorse di trovarsi in una zona periferica della città: - Scusi se dom ando, m a ha controllato bene l’indirizzo? esclamò nel suo italiano stentato. - C erto, signore, tra un m inuto arriveremo a destinazione.

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- Perdoni se insisto, m a tem o che sia la zona sbagliata. - M a no, ecco il portone! M i deve 18 euro. - Sto cercando dei nobili e qui vedo un palazzo popolare su una strada polverosa, non può essere il posto giusto! - Signore, siamo nel p u n to esatto che m i ha indicato. N o n gli restò che pagare e scendere dall’auto. Provò a te lefonare in redazione per verificare, m a gli fu risposto che strada e num ero civico erano giusti. U n odore di sugo al pom odoro invadeva il caseggiato, fic candosi con prepotenza nelle narici. Erano solo le undici del m attino. Superò la soglia del portone. Al piano terra qualcuno sbat teva una porta, m entre una voce anziana blaterava qualco sa d ’incom prensibile. Nessun ascensore, gli toccò m ontare a piedi, m entre nella trom ba delle scale salivano le voci dei bam bini dal cortile. G iunto al terzo piano, suonò il cam pa nello dell’interno nove, come da istruzioni. Una bambina gli aprì. M ark si presentò e spiegò di avere un appuntam ento con Cenerentola. La bimba lo invitò ad entrare: - Si accom odi sul divano, m ia m adre è in cucina, vado a chiamarla. Gli pareva di essere dentro u n grande scherzo: l’apparta m ento era di una eleganza straordinaria, le pareti adornate da quadri che addolcivano lo spirito, i m obili raffinatissimi, le tende di tessuto pregiato. G uardando in giù, si accorse che poggiava i piedi su un pavim ento m osaicato, dai disegni preziosi. Si sentiva frastornato. Q uel luogo appariva più bello di quanto il pensiero segreto di ognuno potrebbe mai immaginare. Nulla era fuori posto, anche se niente rispondeva alle regole e ai canoni conosciuti.

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U n’opera astuta della più grande fantasia di tutti i tempi. Q uan d o arrivò, C enerentola sembrava avere un aspetto ordinario. - Buongiorno, eccomi pronta per l’intervista - gli disse to gliendo il grembiule da massaia, e in quell’istante si trasformò. Il giornalista vide allora una figura deliziosa, di una bellezza difficile da descrivere, fasciata da un abito sopraffino, ricamato d ’oro. Sorrideva, lei, e tutto intorno sembrava ricambiare il suo sorriso. Lui si accorse di essere rim asto a bocca aperta solo quando C enerentola lo invitò ad iniziare. Im barazzato, tirò fuori il registratore. Era tu tto talm ente assurdo! - M i chiam o M ark, m olto lieto. - Lieta anch’io, diam oci pure del tu. - Va bene. Q ual è la tua attività oggi? - Faccio la principessa. - G iusto, che sbadato! Tuo m arito vive con te? - C ertam ente. - A bitate in questo appartam ento tu tto l’anno? - Viviamo in una fiaba, il luogo dell’impossibile, dove sot to le cose semplici sono nascoste meraviglie. In effetti, M ark si sentiva in un m ondo sospeso, in cui ogni dettaglio era la dim ostrazione che si può essere bellissi mi anche nell’ordinarietà. Sempre più frastornato, continuò: - C om e definiresti la tua storia? - E un’esperienza caduta in sorte a me, m a in realtà riflette la storia di una m oltitudine di persone. - A cosa devi il tuo successo? - Assomiglio alla gente, tu tti gli esseri um ani si som igliano per desideri e bisogni.

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- Raccontam i di tuo padre. - Sono nata dal piacere e dall’orgoglio di uno scrittore che, per crearmi, ha raccolto i sogni dell’um anità intera. - N o n eri figlia di un ricco vedovo? - G iam battista Basile, m io padre, era napoletano. Correva l’anno 1634, quando trasform ò la m ia leggenda in un’opera d ’arte. I sogni universali divennero parole. Roba da scrittori. - Bene. Perché non ti sei ribellata alla m atrigna? Si deve subire in silenzio? - M a io sono una ribelle! - Nella logica delle fiabe, forse. La realtà è diversa: se non uccidi il cattivo, lui ucciderà te. - No. Nella realtà i mostri spesso si celano dietro sembianze accattivanti e alcuni abitano anche dentro di noi. H o dovuto imparare a riconoscere i mostri, per capire contro chi ribellarmi. - Q uali mostri? - Credi che io non abbia m ai provato rancore? M ai sfio rato la disperazione? C ’è un attim o nel quale la stanchezza induce a credere che l’unica via d ’uscita dal m ale sia il male stesso, ricam biare il dolore oppure fingere di non sentirlo. È l’attim o in cui puoi guardare in faccia il tuo destino. Ero un’adolescente, la vita m i chiamava a scegliere chi volevo essere. N ei fatti che la sorte m i poneva davanti, im parai a staccare il cuore dalla carne, affinché fosse libero, senza cate ne. U n cuore prigioniero è destinato all’infelicità e io volevo essere felice. - Prigioniero di cosa? - D ell’odio e del rancore. E dell’incapacità di sperare. Per arrivare alla bellezza tocca im parare a sperare, a credere che sia possibile attraversare il fuoco delle difficoltà.

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- Sperare? Inten d i aspettare che un a farina bu o n a venga a liberarci? - ironizzò M ark. - Sperare non è credere in un colpo di fortuna. Significa avere la certezza che tutti gli eventi in cui siamo immersi abbiano un senso, che sta a noi scoprire. Perciò occorre un cuore libero, per potersi muovere alla ricerca del significato delle cose. La sorte meravigliosa va incontro solo a chi sa sperare. Per un’anima ot tusa non c’è scampo e ogni delizia le sarà proibita per sempre. - Suvvia, diciam olo, senza la bacchetta magica non avresti concluso nulla! - La fata è arrivata dopo. D opo che ho im parato a tenere a bada rancore e orgoglio, ad usare la gentilezza com e contrap p u n to all’invidia, a riconoscere il m ostro. La fiaba è roba per folli, perché insegna ad affrontare l’impossibile. Solo un folle può credere di uscire indenne dal fuoco! È roba per gente che rifiuta una vita misera, fatta di piccolezze, di m eschinità e pigrizia. Perché siamo tu tti chiam ati ad essere Re e Regine, questo insegna la m ia storia. - M a il desiderio di sposare un principe m i sem bra p iu tto sto m aterialista, no? - Desideravo essere felice, come tutti. La felicità è il più nobile dei progetti per una persona. E la nobiltà chiama nobil tà. H o guadagnato l’amore, m a solo dopo un lungo percorso, dopo aver im parato a riconoscerlo. Il m io cuore libero, la sera del ballo, m i ha permesso di vedere la felicità e di riconoscerla. - C ’erano dei m ostri anche al ballo?! - Si, ho dovuto dominare il mostro dell’ingratitudine. Avevo dato la mia parola. A mezzanotte l’ho m antenuta, rischiando di perdere tutto. C i sono riuscita solo perché, nelle difficoltà, avevo imparato che nessuna cosa al m ondo vale più della dignità.

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La dignità non allontana le persone, le fa ritrovare. - E il Principe? - La vita non è facile per nessuno. Lui ha com battuto il m o stro della superficialità e ha vinto. O gni ragazza a cui misurava la scarpa era una possibilità per cambiare idea. Tutte gentili, ben vestite, disponibili. Nessuna di loro è riuscita a farlo de sistere, perché i sentim enti veri sono così, non m utano facil m ente. Il mio Principe ha im parato ad osservare, ad aspettare, a perseverare, a sperare. Cose indispensabili all’amore. M ark n on aveva più voglia di dom ande, voleva restare se du to ad ascoltare il grande m istero dell’am ore, dove bellezza e paura si m ischiano in un intreccio meraviglioso, che mai era riuscito ad im m aginare. - La fiaba è il regno della passione e del dolore - continuò C enerentola - e il lieto fine attende chiunque im pari a do m i nare il m ostro. Il m ostro ha tante forme: l’assenza di qualcu no o la sua presenza m olesta, sentim enti negativi camuffati, ricatti velati, egoismo. M ark se ne andò in silenzio. C apì di non aver mai letto la vera storia di C enerentola. T ornò a Londra e scrisse un articolo che diceva più o m eno così: Im pariam o l'arte d i leggere le fia b e e pratichiam ola senza sosta, per tu tta la vita. Le fia b e ci guidano nel nostro mondo interiore, ci conducono dentro noi stessi per aiutarci a capire la nostra storia. R ifiutiam o ogni versione edulcorata che racconti d i scarpette d i cristallo o d i principi azzurri im bam bolati. Fuggiamo dai film e tti che prom ettono un facile intrattenim ento.

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A ndiam o a ll’o rigine delle storie, giriam o per biblioteche e li brerie in cerca delle parole autentiche, quelle che nessuno vuole p iù raccontare. N on crediamo a chi dice che i sogni sono robetta e che il drago non esiste e l ’orco non morde. Frughiamo tra gli scaffali della letteratura, divertiam oci a specchiarci nei libri buoni, quelli che ci aiutano a riflettere. È così che si arriva nel posto dove spesso non vogliamo arrivare, dove risiedono i mostri inconfessabili e gli inganni che im pedi scono la realizzazione dei desideri. Signore e signori, la fia b a non è un affare per bam bini, ma il regno dove s’impara a vedere l ’invisibile e a d ascoltare l ’i n tuito. Perché la ragione non vede tutto e se accantoniamo l ’i n tuito rischiamo d i rimanere prigionieri d i un incantesimo che toglie ogni libertà, in cambio d i una gratificazione apparente. Q uell’incantesimo che ci fa scambiare l ’assassino per un prin ci pe, il boia per un benefattore, la vipera per un gioiello. È l ’i n cantesimo peggiore d i tutti: l ’illusione. Se rinunciam o a ll’istinto il predatore si avvicina e ci devasta la vita. Le fia b e sono d i tu tti, perché raccontano la straordinaria potenza del desiderio. Curano ferite e nutrono i sentim enti. E mostrano che è possibile autodeterminarsi, anche imparando a chiedere aiuto. Term inato l’articolo, M ark tornò a casa. Sprofondò sulla sua poltrona preferita e aprì un libro di G iam battista Basile.

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A PIEDI NUDI di Fulvia Degl’Innocenti La suola di gomma delle nuove scarpe da ginnastica di Silvia cigolava al ritmo dei suoi passi ampi e decisi. I cigolìi si accompagnavano allo scricchiolio del vecchio parquet della biblioteca. Nel silenzio delle stanze piene di vecchi libri che nessuno consultava mai, quei passi risuonavano con la stessa violenza di un plotone in marcia. Eppure le teste restavano chine sui libri. Di studenti universitari per lo più. Ma anche di qualche liceale che, come lei, preferiva studiare nelle sale della biblioteca civica che a casa propria. Silvia frequentava il quarto anno del liceo psicopedago gico. I capelli castani e sottili le cadevano sulle spalle, una frangetta a coprirle la fronte. Aveva un viso dai tratti decisi: occhi scuri sotto folte sopracciglia, labbra piene che non ave vano bisogno del rossetto per risaltare con il loro colore su un incarnato chiaro, attraversato ai lati del naso da una costel lazione di minuscole efelidi. Sotto il labbro, un neo rotondo che quasi scompariva quando la bocca si apriva per sorridere. Il suo solito posto era occupato: era arrivata un po’ più tar di, perché era passata dal negozio di articoli sportivi a com prare le scarpe da ginnastica. Le aveva covate con gli occhi da giorni e le aveva indossate subito, impaziente di vedersele ai piedi. Speriamo che col tempo la smettano di cigolare, pensò mentre, dopo aver trovato una sedia libera, sistemava libri e 35

quaderni sul tavolo. Aveva solo qualche esercizio di m atem a tica e due capitoli di psicologia da ripassare. U na delle sue m aterie preferite, si sarebbe fatta interrogare. Poi, in scooter, avrebbe raggiunto gli amici in piazza, come ogni sera. Era concentrata su un problem a di geometria quando av vertì una presenza vicino a lei. Distolse gli occhi dal quaderno e a pochi centim etri dalla sua spalla vide la stoffa di un paio di jeans. Alzò lo sguardo e sopra i jeans c’era una camicia bianca di lino, e ancora più su, il volto abbronzato di un ragazzo che proprio in quel m om ento stava chinandosi verso di lei. La sua bocca puntava dritta verso la sua, prim a di deviare leggermen te più a sinistra e fermarsi all’altezza del suo orecchio: - Io vado fuori a fumare una sigaretta, m i fai compagnia? N o n aveva nem m eno finto di chiederle da accendere. D en tro di sé Silvia sentiva m ontare l’insofferenza per quell’ap proccio così diretto e improvviso. Il viso di quel ragazzo non le era del tu tto sconosciuto. L’aveva visto in biblioteca, anche se le era parso più dedito alle pause che allo studio. Forse si erano scam biati qualche cenno di saluto, come accadeva per tu tti i frequentatori della biblioteca che si riconoscevano an che se non si erano m ai parlati. N o n era bello, e lei non fumava. M a lo seguì. Il giorno dopo erano già una coppia. Davide, quattro anni più di lei, una famiglia di industriali alle spalle, frequentava giu risprudenza in una università privata. Pochi esami sul libretto e tanta voglia di divertirsi: la m oto, l’auto sportiva, il tennis, e il mito della barca vela attraccata in uno dei porticcioli turistici più esclusivi della città di mare in cui entrambi vivevano. Era sicuro di sé, e sapeva quello che voleva. E tra tante,

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nel suo m ondo fatto di occasioni da cogliere, aveva scelto lei, Silvia. Figlia di un operaio e di una casalinga che, quando gli altri due figli più piccoli erano a scuola, faceva la baby sitter a una coppia di gemelli. - Sei unica, lo sai? Sei speciale, sei vera. E nessun altro dovrà baciare quel tuo piccolo neo, è m io, com e sono miei i tuoi capelli, la tua bocca, le tue m ani affusolate, da pianista, le tue natiche sode fatte per essere strette. Silvia era stordita da quella venerazione che invase il suo tran tran da brava ragazza studiosa, per sparigliare le sue abitudini. N el pom eriggio, com e al solito, raggiungeva la biblioteca con lo scooter, m a quasi mai saliva le scale per accomodarsi a una scrivania e studiare. Trovava Davide ad attenderla, im paziente, la sigaretta in bocca, un giubbotto di pelle sgualcita sui pantaloni con la piega, oppure una giacca blu elegante sui jeans firm ati strappati ad arte. Gli piacevano gli abbinam enti inconsueti, eleganza m ista a finta trasandatezza, tu tto studiato, com e la barba incolta al pu n to giusto, la m on tatu ra rossa degli occhiali, un filo d ’oro al polso, il colore vivace dei calzini. Silvia si sedeva al suo fianco nella G o lf G ti color canna di fucile, la m usica già accesa: lui guidava sicuro verso uno degli angoli nascosti tra i boschi e le cave, nei m onti che abbrac ciavano il golfo. Gli amici in piazza non la vedevano più. La sua trasformazione cominciò con un com plim ento. - La linea del tuo seno è dolce come una collina. Perché nasconderla dentro maglie troppo larghe? U n altro giorno, un altro com plim ento: - H ai gam be lu n ghe fatte per essere guardate. M eglio un abito che i pantaloni.

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E ancora: - U n arco sottile di sopracciglia sarebbe la cor nice ideale per i tuoi occhi. Silvia, però, si sentiva bene nei suoi abiti sportivi, jeans non troppo attillati, scarpe com ode che rendevano elastica la sua falcata, maglie colorate. U n filo di trucco e orecchini a cerchio erano il suo om aggio alla fem m inilità. E ppure si scoprì a desiderarsi diversa, come lui la stava im m aginando. Via le scarpe da ginnastica, i capelli spenti sul collo, la pelle diafana, le felpe inform i, i pantaloni, via tutto. - Sarai la m ia sirena - le disse quel giorno in cui l’auto aveva cam biato direzione e invece di inerpicarsi tra le curve dei m onti aveva im boccato l’autostrada, direzione Forte dei M arm i, dove i genitori di Davide avevano una casa sul mare. M a era inverno e no n c’era nessuno. Nel salotto al secondo piano della villetta, le vetrate di una porta finestra occupavano u n ’intera parete lasciando che il m are invadesse la stanza con la sua massa scura. La sagoma nera di una ragazza addorm entata era adagiata sul divano: un abito corto e scollato pronto per essere indossato. Alla base del divano un paio di scarpe di vernice nera con un laccetto alla caviglia, in bilico su tacchi sottili. - Sono per te. Lui si era seduto sulla poltrona, le gam be accavallate, la schiena all’indietro nell’atteggiam ento di chi padroneggia la situazione, perfettam ente a suo agio nel ruolo di spettatore e regista. Silvia esitava di fronte a quella scena troppo studiata, in cui si sentiva quasi una m arionetta. Poi ricordò che n on erano m ai stati da nessuna parte, che n on l’aveva m ai p ortata a m angiare una pizza, a passeggia re nelle vie del centro m ano nella m ano, a condividere una

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coppa di gelato in un bar sul mare. E pensò che se avesse indossato quell’abito e fosse salita su quelle scarpe sarebbe cam biato tutto. Dopo, la accompagnò in un salone di bellezza, dove i suoi ca pelli furono lievemente scuriti e lucidati, e dove le insegnarono a truccarsi, valorizzando gli occhi con la m atita nera e l’om bretto sfumato, a disegnare le labbra e a sottolineare gli zigomi. Q u an d o tornarono alla villetta sul m are D avide le chiese di sfilare per lui. - Sei stupenda così. C om e n on gongolare di fronte a quella am m irazione, come non godere della sensazione di essere la più bella. C om e non sentirsi il cuore esplodere al suono di quel amo che prim a D avide non aveva pronunciato mai. E il giorno dopo erano davvero una coppia allo struscio serale, dove gli amici di sempre quasi non la riconoscevano, e tante facce sino ad allora sconosciute la salutavano. Q u an d o l’anno scolastico finì c’era qualche otto in m eno nella sua pagella, e qualche abito in più nel suo arm adio. Le passeggiate in centro diventarono quotidiane, così come gli aperitivi al bar più elegante, quello sotto i portici, dove m et tersi in m ostra nei tavoli all’aperto. - Fai attenzione a come cam m ini - le diceva spesso D avi de. - H ai un’andatura a sobbalzi, poco elegante. Saresti più arm oniosa se cam m inassi m uovendo lievem ente le anche, come fanno le m odelle. Lei era una sirena, dimenticava? Perché no n provare ad accontentarlo per così poco. Bastava rallentare il passo, ac corciare la falcata, appoggiare prim a la p u n ta e poi il tallone, oscillare alternativam ente le braccia lungo i fianchi. E im m a ginare di avere qualcosa in bilico sul capo.

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- U n p ortam ento da regina, la m ia regina. Q uan d o si distraeva, quando era presa da un pensiero, una conversazione che la coinvolgeva, l’em ozione per un in contro o per un paesaggio, la sua andatura un po’ marziale prendeva il sopravvento, e prim a che la facesse incespicare sui tacchi arrivava la voce di Davide, una p u n ta di irritazio ne, che le ricordava il corretto portam ento. - Silvia, te l’ho detto mille volte, stai più attenta. Aveva preso a controllarle quello che mangiava. - N on fi nirla la pizza... invece del gelato prendiam o una coca light. Poi quella dom anda: - C om ’è tua madre? È grassa? Per un istante pensò che si stesse interessando alla sua fa miglia. C he era un m odo, anche se u n po’ bizzarro, per chie derle di andare a conoscere i suoi genitori. La dom anda andava in realtà in tu tt’altra direzione: - Per ora hai un bel fisico, le forme al pu n to giusto. M i chiedevo però quanto durerà. Se per esempio tua m adre è in sovrappe so, questo potrebbe significare che hai la tendenza a ingrassa re e allora sarebbe utile porvi rim edio sin da subito... - C he devo fare, cam biare madre? - si sorprese a ribattere stizzita. Strano, con lui non riusciva mai a replicare, anche quando la assillava con i suoi consigli sulla postura da tenere a tavola, sul m odo di sorridere senza scoprire troppo i den ti, sul tono della voce che andava un po’ abbassata perché a tratti si faceva stridula, su quell’intercalare, , che stava diventando troppo ripetitivo. - Certo che no - disse lui con un sorriso indulgente. - Volevo solo dire che dovresti abituarti a mangiare di meno, tutto qui. In effetti sua m adre con l’età stava prendendo peso. E il pensiero del suo sedere debordante fasciato dai jeans e dalle

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braccia più che tornite la fece sentire in colpa due volte. Una, perché pensando a Davide se ne vergognava e due, perché quella vergogna le m etteva disagio. Per qualche giorno un alito di risentim ento soffiò sul fuoco della sua adorazione per Davide. Poi arrivò inaspettato l’invi to: - 1 miei genitori inaugurano la stagione al Forte con un apericena il prossimo sabato. Abbiamo cinque giorni per prepararci. N on era un invito, era una specie di ordine di scuderia. E come per i cavalli che devono cimentarsi in un dressage, nulla doveva essere lasciato al caso. Il dio Look innanzitutto, e poi: - U na dieta leggera, c’è un filo di pancia da smaltire. - A ttenta alla cam m inata. - Abbassa quel tono. - N on leggere troppo per non affaticare gli occhi... In mezzo a quella cascata di assillanti raccom andazioni, parole dolci che la facevano sentire speciale: - G uarderanno tu tti te. Tu che sei bella e lievem ente im perfetta. Unica. Silvia cominciava a sentirsi come il look di Davide, un accosta mento di perfezione e casualità apparente. Un cocktail, ecco che cos’era per lui. In cui, come un barman esperto, sapeva mescolare le giuste dosi di ingredienti e aggiungere alla fine la ciliegina. Eccola la ciliegina, in quel pacchetto che le stava porgen do poco prim a dell’ingresso ufficiale nella villetta di famiglia. U n braccialetto d ’oro con un piccolo lucchetto come cion dolo. A ccom pagnato da una frase a effetto: - A colei che tiene la chiave del m io cuore. La vista di quel lucchetto le suggerì ben altre sensazioni: una catena da cui giorno dopo giorno si sentiva sempre più stretta, e di cui Davide teneva la chiave. N o n c’era altro da fare in quel m om ento che recitare la parte della ragazza grata

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di tante prem ure, ben attenta a non eccedere nelle m anifesta zioni d ’affetto per non rovinare il trucco. Fu quando entrò nel giardino che dava sulla spiaggia e vide la m adre di lui, che capì. U na donna bellissima, ritocca ta con classe, un sorriso m isurato per non strizzare le rughe, salutava gli ospiti con parole studiate, m entre dietro di lei, come un’om bra, il m arito annuiva, lo sguardo della do n n a a cercare l’approvazione dei suoi occhi. C ’era una catena invi sibile intorno al suo collo, Silvia la percepiva con chiarezza. Finiva nelle m ani dell’uom o, term inando con un lucchetto del tu tto simile a quello che aveva appena ricevuto in dono. N o n solo riusciva a vedere la catena, m a sentiva com e toglie va il fiato, quando veniva tirata. Fu una m ancanza d ’aria improvvisa, la vertigine davanti agli occhi e lo scalciare del cuore a farle imboccare il cancello da cui era appena entrata, approfittando della distrazione di Davide che era salito in casa. Nessuno si era accorto di lei, nessuno la ferm ò quando, appena girato l’angolo della villetta, si mise a correre, fer m andosi solo per sfilarsi i sandali dorati con il tacco, per abbandonarli in un cestino dei rifiuti. E con i piedi nudi sull’asfalto tiepido di quella sera di fine giugno ritrovò il gu sto pieno della sua falcata, l’intonazione alta della sua voce che aveva voglia di cantare, e la sensazione di essersi liberata da una catena invisibile che le stava facendo male. Sul treno che la riportava a casa si ricordò del lucchetto d’oro. Fu con un gesto plateale e senza rim pianto che lo lanciò dal finestrino verso il binario parallelo su cui stava soprag giungendo un altro treno. N o n sarebbe più stata la m arionetta di nessuno.

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LA RAGAZZINA DELLE 06:30 di Ornella Della Libera

Le 06:30 era l’orario della prima corsa del trenino metro politano. La ragazzina delle 06:30 era bellissima. Non doveva avere nemmeno tredici anni: cosa ci faceva per la strada una fanciulla così piccina? Una storia come tante: la madre lavorava in un posto mol to lontano e lei andava a scuola esattamente dall’altra parte della città. Appena passava i tornelli, si accomodava nella sala d’aspet to e ripassava le lezioni seduta su una delle panchine di le gno, sperando d’incontrare qualche compagno di classe col quale farsi compagnia fino alla corsa delle 07:30. Quella giusta. Bella, giudiziosa, assennata. Maledettamente bella. L’uomo che la guardava, ogni mattino, aveva ventotto anni. A ventotto anni non si posano gli occhi sulle bambine: si fa amicizia con le donne. Con le ragazzine no. Ma dentro l’anima di quell’individuo dalla pelle olivastra, cresciuto in un’altra nazione, c’erano regole morali diverse dalle nostre: a lui, quella fanciulla piaceva e basta. A3

O gni volta, ogni volta che la scorgeva, gli si agitava qual cosa dentro, la sm ania di toccarla, di stringerle i capelli lu n ghi, belli, ondulati e dorati, il desiderio folle di strapazzarla e sentire la sua carne bianca e giovane tra le sue unghie di lupo. Le sedeva accanto e si avvicinava al suo profum o, al suo corpo acerbo, per sfiorarla con una scusa. Lei si spostava più in là. N on si accorgeva di nulla, non percepiva il turbam ento. La sua ingenuità lo faceva eccitare, lo faceva impazzire. C on una mano, allora, cercava di arrivare alla gamba, al jeans. C on l’altra, agitava il desiderio nella tasca dei suoi pantaloni. C hiudeva gli occhi per l’estasi. La ragazzina sentì un brivido gelido lungo la schiena. C o n uno scatto, cam biò panchina. N on era possibile che gli sfuggisse così; la sala d’attesa era pra ticamente vuota e lui la seguì, posizionandosi ancora vicino a lei. Q uasi addosso a lei. Perché gli piaceva che lo sentisse ansimare. Pochi utenti, distratti, assonnati. Nessuno che veda, nessuno che voglia vedere, nessuno che protegga nessuno: gli indifferenti. Paura. La piccola adesso aveva paura. N o n capiva il perché m a sapeva solo di avere tanta paura. O gni giorno così. Purtroppo. Il gatto e il topo. L’uom o dalla pelle am brata si alzava solo quando lo faceva lei, prendeva il trenino che prendeva lei, la pedinava da lon tano fino all’ingresso della scuola.

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Senza scollarle mai di dosso quegli occhi di brace. Senza che nessuno si accorgesse di niente. M a una volta lei osò. Fingendo di leggere il libro, scattò in piedi quando le por te del vagone stavano per chiudersi, alle 07:10, lasciandolo in preda al suo delirio amoroso. Q uesta fuga, lo fece impazzire. Adesso basta:lei deve essere mia. Soltanto mia. La rapirò, la farò a pezzi, deve appartenere a me e a nessun altro. Nessun altro prim a d i me. La ucciderò d'amore. Am ore per sempre. Poi basta. U n giorno uguale agli altri. Lei là, al suo posto. Bella come il sole. Q uasi sorridente. C om e se lo stesse aspettando. Lui sempre più voglioso, sempre più pazzo della freschezza e dell’ingenuità del suo piccolo angelo biondo. D i nuovo vicino a lei. Nella solita sala d ’attesa. Alle 06:30 del m attino. Stavolta ti prendo e ti porto via. C e un vialetto, prim a della scuola. Buio e solitario. 45

Ho parcheggiato un f u r g o n e :la tirerò le tapperò la bocca., la bocca d i fragola che desidero baciare E p o i via. Soltanto mia. Controllo il desiderio: è grande la voglia d i averla. M i guarda? M i sorride? Forse ha capito? Come mai? Allora, m i vuole anche lei? N on ha p iù vergogna? N on guarda p iù in basso? Però, che belli i suoi occhi a zzu rri1. Così belli come oggi non li avevo visti m ai... Che strano:non hanno paura e quasi quasi m i fa n n o paura. All’improvviso, quattro braccia sollevarono bruscam ente l’uom o. Sulla sua pelle am brata, l’acciaio delle m anette brillava m olto di più. La ragazzina delle 06:30 aveva raccontato tu tto a Luciana, la sua professoressa preferita che, senza perdere tem po, aveva com posto solo tre num eri sul suo telefonino: 113. Adesso, la piccina sembrava un po’ più grande, un po’ più alta, un po’ m eno triste, un po’ più tutto. La m am m a e la figlia, form avano un enorm e cuore, ab bracciate così, tra le lacrime e la felicità. Fuori dall’incubo. Invincibili.

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PERCHÉ ODI DAVIDE? di Giuliana Facchini Sdraiata su una panchina del parco, con le ginocchia ripiegate altrimenti non ci sto tutta, penso. Azzurro nitido e terso come lo sfondo del mio desktop e nuvole bianche che smuovono la fantasia: mi piace pensare guardando il cielo. I miei pensieri sono immagini: film del passato o del foturo, cose accadute che rivivo o sogni che assaporo. Niente musica. La musica aiuta ma indirizza i pensieri e io, oggi, voglio essere libera. Sono pensieri che fanno ancora male e devono far male, devono insegnarmi a essere più forte la prossima volta. In fondo non è successo niente, dice mia madre. Come se si potesse violare solo un corpo e mai una persona. Non si può toccare quello che mi è successo ma è successo e l’ho sentito. Chiudo gli occhi: nero. Li riapro: azzurro e nuvole. E partito il primo spezzone del film. Alto, con spalle larghe, occhi verdi e capelli color caramello con la frangia troppo lunga che va da un lato. Bocca grande, da baciare, che sorride spiazzando ogni ragazza sana di mente. Definiamo Davide: bello, affascinante, desiderabile. L’idea che avesse scelto me mi lusingava e mi faceva camminare a un metro da terra. Ci siamo conosciuti durante l’ultimo mese di scuola. È stata una cosa del tipo: al mattino arrivo in anticipo davanti al portone del liceo e torno tardi a casa all’ora di pranzo, esco a ogni campanella, vado al bagno con metodo e sto sempre in giardino con lui durante la ricreazione. M ’invidiavano tutte. Bibi-Beatrice la mia amica del 47

cuore era felice per me, ma si vedeva che appena lui le rivolgeva la parola si scioglieva come burro al sole. Jessica, l’altra del trio inseparabili, era sospettosa e timida. Considerava Davide un semidio e quindi fuori luogo sulla terra e specialmente nella nostra stessa scuola. Lui in terza, noi in seconda. Quasi caldo: mezze maniche, zaino per terra, sandali e Oddio m i danno un debito! Io sono stata promossa senza problemi, Bibi per caso e Jess in sospeso con due materie. Lui? Ovvio, lui è uno dalla media altissima: bravissimo in filosofia e matematica. (Per me uno con tali voti in certe materie andrebbe sempre tenuto d’occhio.) Insomma tra un gelato, una pizza e uno Spritz con i suoi o i miei amici, siamo diventati una coppia. Uno così piace anche alle madri: la mia, credo, si sia vantata di me con le amiche. Poi, per caso, dalla m attina alla sera, senza preavviso, come se un filo sottile avesse tirato via una tendina di velo trasparente, ho cominciato a vederlo come realmente era. Davide era un ragazzo come gli altri, con le stesse paure degli altri e con tutta la fragilità di uno che vuole apparire senza difetti. N on voglio dire che non mi piacesse più, ma non smaniavo per uscire con lui, non mi emozionava anzi m’infastidiva il suo essere sempre perfetto. Era uno che recitava e non ne capivo il perché. Credo recitasse per difesa. Mi stancai e poiché era ormai estate, lasciai scivolare via la cosa. Andai al mare con i miei e lui divenne possessivo. Più io dimenticavo il cellulare, più lui mi mandava poesie per messaggio che m’intasavano la memoria e poi m’inchiodava in conversazioni logoranti per sms. Ovviamente, quando tornai dal mare, lo lasciai tra l’incredulità delle mie amiche e di mia madre: nessuna poteva immaginare un buon motivo per mollare uno come Davide. Jessica e io facevamo parte di una piccola band: lei suonava la chitarra elettrica e io ero la voce. Nicola stava alla

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tastiera, Giulio al basso elettrico m entre alla batteria cera Danilo, il ragazzo di Bibi. Una cosa in famiglia, ma ci divertivamo. Io amo la musica e passare le serate nel garage insonorizzato della villetta di Danilo a suonare e ridere, mangiando pizza e bevendo coca-cola, pensavo fosse una cosa molto più figa che andare sempre in discoteca o sballarmi di birra. M i piaceva un sacco. M i faceva sentire protetta e felice e lui lo sapeva. Ovviamente anche Davide suonava uno strumento: il sax. Aveva provato con noi un paio di volte ma essendo un leader in ogni cosa che faceva, apparve subito inadeguato. Troppo bravo e troppo serio per noi che sul serio non ci eravamo mai presi e forse proprio per questo avevamo registrato due o tre pezzi pop davvero buoni, a mio parere. (Mio padre è musicista e quindi ho una concreta idea di cosa sia un buon pezzo). Ovviamente Davide non si lasciò scaricare facilmente. Sulle prime si faceva vedere, come fosse passato per caso, nel locale dove compravamo la pizza al taglio e teneva tutti bloccati a chiacchierare con lui, m entre le diavole e le capricciose si freddavano e finivamo per mangiarle tristemente in piedi accanto ai m otorini parcheggiati di fronte alla pizzeria. Bibi ama da m atti i cani e Davide ha un cane. Andarono insieme a sentire un paio di conferenze cinofile e Davide lo disse a Danilo con il pretesto di non farlo ingelosire e l’intento d ’ingelosire me. N on raggiunse il suo scopo e tem po una settimana si mise con Jessica. Fu un fulmine a ciel sereno e mi vennero i primi sospetti. N on che fossi gelosa ma mi preoccupavo per la mia amica. Il com portam ento del m io ex ragazzo era strano, m entre lei pareva in paradiso. Davide sembrava innamoratissimo, m a io sapevo che era bravo a recitare. Parlai con Jess. Fui cauta, delicata, non volevo pensasse che fossi invidiosa: davvero non lo ero. Semmai ero scocciata perché me

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lo sarei trovato ancora, inevitabilmente, tra i piedi. Jess è ossuta, con i capelli cortissimi neri e aveva un piercing sul naso. Una dura tendente all’heavy metal, da chitarra elettrica e birretta. Cosa ci faceva con un Davide-bravo-in-ogni-cosa, ma piuttosto bigotto, inquadrato, che se non ha tutto sotto controllo non si diverte? Ovviamente Jess non ascoltò i miei dubbi e dopo una settimana si era tolta il piercing. Inutile dire che Davide si univa al nostro gruppo molto più spesso di quanto avesse fatto quando stava con me. M i fece un bel discorsetto per non ferire la mia suscettibilità, disse che desiderava piena comprensione per la sua nuova relazione con la mia amica del cuore. N on feci una piega e ancora una volta non la feci perché davvero non me ne fregava nulla di lui e solo un po’ di Jess. Passarono un altro paio di settimane e Davide fondò un suo gruppo musicale, Jess lasciò la band e dopo un’altra settimana anche Danilo ci informò che andava a suonare con Davide. N on posso dimenticare le sue parole. Disse che quello era un gruppo serio, che Davide era un grande ed era fortissimo suonare con lui e, ciliegina sulla torta, mi chiese perché l’odiassi tanto. Rimasi di stucco. L’unico sentimento che provavo per Davide era l’indifferenza e i miei sospetti divennero certezze. Ovviamente Bibi e Danilo stavano insieme e quindi Giulio, Nicola e io rimanem m o gli avanzi di un gruppo di amici un tempo tanto felici insieme. Davide in uno slancio di generosità trovò un gruppo per Giulio e il suo basso, per me non riuscì davvero a far nulla! Nicola studiava pianoforte al conservatorio quindi non se la prese troppo. Ovviamente Bibi e Jess mi giurarono amicizia eterna, m a non le vidi più fino a che non tornam m o a scuola. M i spiegarono con sms che la band di Davide suonava già nei locali e loro avevano tanto da fare tra le prove e i sound check. Ero rimasta sola.

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incredibilmente falso. Era stato abile: non aveva lasciato prove se non dentro di me. Avevo una sensazione d’impotenza tale e così schiacciante che mi pareva di capire i sentimenti di quella ragazza suicida, finita sui giornali mesi fa. Arrivai a immaginare come sarebbe andata se fossi rimasta con lui. Forse avrei cantato con la band nei locali e sarei diventata la femmina più popolare della scuola. Quasi mi convincevo di aver sbagliato tutto, che ero stata una stupida, che non avevo più speranze. Q ualunque cosa era meglio della m ia solitudine oppressiva che portava sfiga. Poi, un giorno, mentre ero seduta su questa stessa panchina passò mio fratello dodicenne con una chitarra classica e me la mise in m ano. R icordo anche le sue parole: - Stai da schifo - disse. - Perché non provi con questa? C on la voce che hai e la tristezza che fai puoi tentare una carriera folk. Papà t’insegna se vuoi, oppure c’è una buona scuola dietro l’angolo. C on me hanno fallito entrambi! - Uno dei discorsi più lunghi che mi abbia mai fatto. Quella chitarra mi ha salvato dal vuoto in cui stavo precipitando. Le sue corde mi hanno smosso come fili di marionetta su fino all’argine del precipizio e la musicoterapia mi ha ridato ossigeno. Tornai a vivere. Andai nella scuola dietro l’angolo e mi feci dei nuovi amici. Lo feci subito, d’istinto e mi salvai prima che fosse troppo tardi. Davide ha perso interesse per Jess, l’ha lasciata durante il primo quadrimestre e credo lei ora abbia problemi di anoressia. Bibi è incinta e andrà a vivere con Danilo a casa di lui, fino al diploma. Davide, ovviamente, è stato proposto per una borsa di studio con la quale andrà sicuramente a studiare all’estero. Io auguro a qualunque ragazza che come me si sia trovata a precipitare nel vuoto, una chitarra cui afferrarsi per potersi salvare. Anzi: a lei la offro. Io. Adesso.

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CHÉHÉRAZADE NO N ABITA QUI di Maria Guidantoni Dedicato a mia madre per aver scelto mio padre - Kauthar non piangere, ti prego piccola mia. Le lacrime dei bambini mi fanno impressione. Non hanno consolazione. Vorrei prenderti in braccio e cullarti come quando eri piccina davvero... ricordi? Ma non ce la faccio più. - Mamma non sono più una bambina. Questo lo ricordi tu? Altrimenti non mi sarebbe capitato quello che mi fa piangere. - È la prima volta che mi chiami mamma. Ci sono voluti otto anni e forse io non l’ho voluto, a pensarci bene. Certamen te non te l’ho mai chiesto. Per te sono sempre stata soltanto Ta tie Sophie. Aspettavo anch’io il miracolo. Aspettavo di essere una vera famiglia per potermi sentire davvero una mamma, la tua. Invece ti sento davvero totalmente figlia ora che abbiamo vinto una battaglia, quella del tribunale, della giustizia e perso quella del cuore, della vita. Tu come me, ognuna per la propria parte, ha accusato una perdita irreparabile, forse. C ’è voluto questo dolore perché un giudice mi ritenesse degna, anche se sono sola e non lavoro come dipendente, di essere una madre. - Avresti potuto sposarti qualcuno solo per potermi adotta re, se ci avessi tenuto davvero, un sacrificio che una madre può sopportare. - E tutto molto più complicato di quanto immagini. Avrei dovuto dividerti, a quel punto, con un’altra persona, con tutte 53

le incertezze che ne derivano. Per sempre. M entre oggi nessu n o p iù potrà allontanarci. - M a tu mi hai sempre detto che non si può avere un figlio da sola, che un padre ci vuole, è im portante, è la legge della natura. - Si, se il padre è naturale, se avessi trovato qualcuno degno di ricoprire quel ruolo ma affidarti a qualcuno indegno, no. Questo mai. H o preferito rischiare di vederti volare via, verso una famiglia con la F maiuscola. - Avresti potuto lasciarlo... - Il divorzio non sancisce la fine dei rapporti. Allora com in cia un’altra storia, spesso infinita, dove i figli sono oggetto di baratto e vendette. - Ti sei battuta per i diritti di tutti, in giro per il m ondo, m a non per i miei. - Era l’unica strada, batterm i pubblicam ente per essere rico nosciuta come icona dei diritti e ottenere una via privilegiata per poterti tenere con me. Le regole del m ondo non le ho fat te io. Se mi fossi com portata secondo coscienza, rinunciando alla m ia attività e magari incatenandom i di fronte alla tua casa famiglia, oggi non saremmo insieme. Sai perché? Senza il suc cesso non si è pagati adeguatam ente e senza i soldi i diritti non sono riconosciuti; gli avvocati non svolgono il proprio lavoro per beneficenza. Difendere una scrittrice, una donna pubblica, è più gratificante e si hanno più chance di vincere in tribunale. E complicato e duro e mi dispiace parlarti così in un’età in cui ti stai appena aprendo alla vita e il m ondo dovrebbe essere una promessa. - Io quel sogno forse l’ho già infranto, perché chi non ha padre, né ha un cognom e rispettabile, può essere calpestato.

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- N on ti ho insegnato questo, almeno credo. - Le regole della società non le fai tu. Sei tu m am m a ad avermelo appena detto. - Oggi abbiamo una possibilità e sta a noi giocarla. O ra che il nostro amore è stato certificato, legittimato. Proviamoci. - N o n ho più niente da perdere tanto. - M a come parli? Tanto... tanto vale vivere! N on siamo di spensati da rinunciare alla responsabilità. Sai, la ricerca della felicità, non la pretesa di essere felici, è un diritto m a è anche una responsabilità. N on possiamo perm etterci di incrociare le braccia e piangere. D obbiam o rimboccarci le maniche e pro vare. - Per punire chi ci ha fatto del male. - Per capire chi ci ha fatto del male e, a dire il vero, fortuna tam ente ha tentato senza riuscirci. M olto più spesso di quan to tu possa credere gli uom ini non sono cattivi m a deboli. Ti ricordi quella gattina che vedevi la dom enica quando riuscivo a tornare in tem po in città a venirti a prendere e andavamo al parco? Ti arrabbiavi perché d graffiava. E ram m enti cosa ti dicevo? - C on voce stanca e rassegnata... - Certo. Vuole solo giocare con te m a le m anca la parola, non ha le m ani. È solo il suo m odo di accarezzarti. Com e i bam bini che per baciare e dimostrare il loro affetto, m ordono. - Così sono gli uomini. Tu sei stata punita doppiamente. Chi era così debole da non accettare che mi fossi allontanata da lui, per punirm i ha colpito chi amavo di più, te. Pensava che così mi sarei arresa e avrei ceduto. Se avessi piegato il capo, avrei con dannato anche te al suo ego smisurato, a chi scambia il possesso per conquista, a chi non sa amare m a lo vorrebbe tanto... - In fondo lo giustifichi.

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- No. Cerco di capirlo e ho provato ad aiutarlo m a non ne sono stata capace e allora ho fermato la sua rabbia, allontanan dom i e allontanandoti. - N o n ti capisco m am m a, ti sei pentita? Ti dispiace aver rinunciato ad un amore per me? - No. So che l’ho illuso e mi dispiace di averlo ferito perché desideravo un uom o che fosse un padre sopra ogni cosa m a non si può far essere un altro quello che noi vorremmo... U n uom o a tu tti costi per avere un titolo no. N on contro di te. A quel punto sarei stata disposta a lasciarti andare in una fami glia vera. Poi quella sera, quando ti ha ricattata, minacciata, ha cercato di abusare di te, m a sono sicura che non l’avrebbe mai fatto, questo mai perché a suo m odo ti voleva bene, è stata la sua condanna. D ’improvviso il vento ha girato a nostro favore. Avevo un’arma e l’ho usata. H o sacrificato sul banco degli im putati un amore per un altro, il suo per il tuo. N on avevo alter nativa. Sono sempre stata dalla parte dei più deboli. E questa volta sono stata anche dalla m ia parte, sapendo di meritarlo. Ti va di parlare di quello che è accaduto quella sera, quando sono arrivata tardi, troppo tardi, a casa? Ti farebbe bene. - N o n c’è niente da dire. - Verrà un giorno nel quale ti sentirai pronta a parlare. Pen sa che potresti aiutare altre ragazze. - M am m a ti occupi sempre del m ondo, tu... Accuso il colpo. Respiro. Prendo tem po. - C ’è un m om ento nel quale per guardare avanti occorre voltarsi indietro e rileg gere il proprio passato, soprattutto quello che non si conosce, ma che ci cresce dentro. - Ti voglio raccontare una storia, che non ti ho mai detto prim a perché non trovavo il finale che desideravo...

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- Era un pomeriggio estivo e m i ero addentrata tra i vicoli del Souq de la laine, a Tunisi, dove cercavo l'essenza di rosa prim a che le attività cessassero d i punto in bianco per dar modo ai credenti d i riposare e prepararsi all'IfTar, la rottura del digiuno. Era il tempo del Ramadan che quell'anno cadeva nei giorni della grande calura. La luceferiva, accecante, lo sguardo che si posava sui m uri a calce. Ero estenuata ma continuavo a camminare aspirando il profum o delle spezie fin o quasi alla nausea. Caldo, polvere, un frastuono d i voci, ma non potevo ferm arm i. Ero in fuga verso un altrove che non riconoscevo. A d un tratto sotto un arco ho in travisto una piazzetta riparata e non sapevo che sarebbe stata la porta del mio altrove. Ho incrociato lo sguardo d i una donna, una fessura dolente sotto il velo scuro. M i pareva in cerca d i confidenza del suo dolore e chiedeva consolazione. D'improvviso m i è manca to il respiro. N on capivo. N on avevamo le parole per comunicare, le nostre lingue erano distanti ma i gesti del dolore sono uguali, ovunque. E tra le donne ce un linguaggio che oltrepassa tu tti i confini, ricordalo. A l mercato e in sala parto siamo tutte uguali. È come se ci fossimo riconosciute. Le ho appoggiato le m ani sul le spalle e le ho chiesto in un tunisino stentato: - Kes maa? Un bicchiere d'acqua?- Poi ho abbassato lo sguardo vergognandomi d i non essermi ricordata che era tempo d i digiuno. Allora le ho sorriso e l'ho abbracciata. Era incredula Imen, che ha ricambiato il mio sorriso. Non potevo vedere le sue labbra ma leggevo i suoi occhi sorridenti. Imen, quel nome lo avrei saputo molto tempo dopo da una bambina, sua figlia. Era come se m i aspettasse. M i è sembrato un tempo infinito ma non abbiamo passato che una m ezz’ora insieme, solo che senza una lingua comune il tempo è interminabile. A d un certo punto ha scoperto una mano. Ho visto delle bruciature e mentre il mio sguardo vi annegava riconoscendo

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isegni d i una vita comune, m i ha messo la mano di una bam bi na, la sua, nella m ia e m i ha allungato un biglietto dove, in un francese approssimativo che qualcuno probabilm ente aveva scritto per lei, cerano p iù o meno queste parole: «La affido alla libertà, custodiscila e insegnale a pregare un dio, qualsiasi, m a fa i che possa guardare il cielo almeno una volta a l giorno. Vedo K authar che abbassa lo sguardo e torna a piangere. M a se mi ferm o so che non avrò più il coraggio di continuare. Stringo forte le sue m ani che ha appoggiato sulle mie ginoc chia, m i schiarisco la voce, e la m odulo come se stessi recitan do, cercando di mascherare l’emozione. - È una favola, anche se amara sussurro. M i guarda allibita comefossi im pazzita, ma si fid a e io spero che il racconto per m a gia si trasformi e che il lieto fin e arrivi prim a o poi. - Adesso avevo qualcuno per cui vivere e ritrovarmi, capisci. Ti ho... l ’ho stretta a me -il m io lapsus sono sicura che tito benissimo e sento che quella pu n tu ra acuta come l’aculeo di un insetto le si è conficcata dentro - ma il sogno si è trasfor mato in utopia in poche ore. Una volta tornata a casa l ’ho dovuta affidare a d un istituto. Una donna sola anche in Europa non è ritenuta degna d i essere madre. Avrei dovuto trovare le parole per sopportare insieme quella nuova umiliazione. Le ho promesso che sarei tornata a prenderla quando avessi incontrato un uomo degno d i esserle padre. Ho studiato l ’arabo e ho trovato le parole. M a le parole non sono bastate. Sto ancora cercando quell’uom o..

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C'È SEMPRE U N A SCELTA di Laura Novello Esiste violenza sottile che non lascia lividi sul corpo ma profonde ferite nell'anima. Bianca ha tutte le carte in regola per essere felice. Diciannove anni freschi, freschi; due occhi celesti in un viso di porcellana; una cascata di capelli biondi, sottili e morbidi come seta, e belle mani dalle dita lunghe e affusolate. Ma, soprattutto, ha un ragazzo stupendo che tutte le invidia no. Stanno insieme da tre anni. Come abbia fatto Alberto a innamorarsi di lei, Bianca, se lo domanda ancora. Lui avrebbe potuto avere qualsiasi ragazza. È bello, è simpatico, e, all’università di giurisprudenza a Milano, è tra i primi del suo corso. Sul suo futuro, poi, ha le idee chiare da sempre, lavorerà nello studio notarile della sua famiglia. Bianca ama la danza. Da un anno insegna alle bambine, e questo le dà molta gioia. Ma ora è tardi, le piccole se ne sono andate. La palestra è vuota, silenziosa e gli specchi sono tutti per lei. Le rimandano l’immagine del suo corpo, esile come un giunco e flessuoso, così aggraziato nei movimenti che riempi rebbe la stanza d’armonia anche in assenza di musica. Bianca preme il tasto dello stereo. Un respiro profondo e... si inizia. La coreografia è complicata, per questo la deve provare così tante volte. Con la sua insegnante hanno concordato di pre59

sentare alla prova di ammissione una variazione di Tchaikovsky

che lei dovrà eseguire in m odo perfetto. Bianca danza, gira, salta e il m ondo non esiste più, lei non esiste più. C e solo la musica e quel vortice meraviglioso di aria, colori, profumo che l’awolge completamente facendole dimenti care ogni cosa. U n sorriso affiora sulle sue labbra. Si sente felice. Cade, la caduta è dolorosa, ma lei non ci fa caso. Il dolore fa parte della vita. Le ballerine stringono i denti e vanno avanti. Daccapo. C ’è un passaggio che proprio non le riesce e il tem po è poco. Bianca non è soddisfatta. Danza finché non è esausta. È a pezzi m a una doccia sisteme rà tutto. Le piace l’acqua caldissima che lava via tutto, anche i pensieri. Vorrebbe sciogliersi in quell’acqua. Scomparire giù per lo scarico e finire chissà dove. Fuori è buio. Deve essere passato troppo tempo. N on importa. Sua madre è abituata alle sue assenze. N on dice nulla perché, in qualche m odo, Bianca a scuola se la cava e, sì, riuscirà anche a fare quel cavolo di esame di m aturità e a uscire finalmente dalla ragioneria, una scuola che più sbagliata di così, per lei, proprio non si poteva. L’orologio, Bianca non ce l’ha mai. Dopo averlo dimenticato in giro tante volte, alla fine ci ha rinunciato. Prende il cellulare dalla tasca dello zaino. 7 chiamate, 15 messaggi. Ma... Come? Chi? Bianca non ha amici. Potrebbe essere solo... Un nodo alla gola. Lui. Che cosa ho sbagliato? Oggi è giovedì. No... Oggi è venerdì. La sera in cui Alberto torna da Milano. La loro prim a sera del week end.

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Legge: - Dove sei? Il respiro rallenta ma lei non se ne accorge. Digita sulla tastiera: - Scusa, ho fatto confusione con i giorni ma, prima di inviare, il cellulare suona. - Pronto.. - Ah, finalmente! N on sembra arrabbiato, ride. Q uel riso nervoso che a lei non piace per niente, un preludio di qualcos’altro. - T i sei dimenticata! -N o . - Allora spiegami, perché non sei qui? - Scusa. - Cos’è successo? - Niente. - M a dove hai la testa? Pensavo che ti fosse accaduto qualcosa. Tua madre neanche sa dove sei. - Sono... alla scuola di danza. - Ancora? - Devo fare l’esame... - La danza è una cavoiata. Vieni qui, ho bisogno di te, mi manchi. Se vieni subito, mi dimentico di tutto. H o voglia di abbracciarti, ho voglia di... La sua voce diventa dolce e lei desidera solo raggiungerlo. Pensa a quanto è bello e che non lo vede da domenica. In casa non c’è nessuno. I genitori di Alberto sono al lavoro anche se è tardi. Il divano è morbido. La tv accesa riempie di bagliori la stan za, il volume è abbassato, non la guarda nessuno.

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Lui: - Di chi sei? - N on sono di nessuno. - No, dimmi, di chi sei? - Smettila. - D im m i che sei mia. -N o . - Dimmelo. - Sono tua. La sua bocca è troppo insistente e il suo tocco pesante, fasti dioso. Bianca non dice niente e rimane lì con lui. Se non fosse così stanca da desiderare solo di dormire, sarebbe diverso tra loro, sarebbe meglio. Lo guarda e pensa a quanto è bello. Occhi verdi screziati di pagliuzze d’oro che risaltano sul viso abbronza to, la barba rada e morbida; il fisico asciutto, atletico. M a ecco, lo stomaco brontola, le fa male. Bianca si ricorda di non aver mangiato, non ce n e stato il tempo. - Ci facciamo un toast? - chiede. - N o, usciamo, ci aspettano i miei amici al pub in centro. - Sono stanca, Alberto. - Tu sei sempre stanca. È la danza. Dovresti smettere e fare qualcosa di più serio. - Ma... Alberto, sai quanto mi piace... - Potrebbe piacerti anche qualcos’altro. Cerca di uscire bene dalle superiori e iscriviti all’università, piuttosto. Ecco, passata la fame! Basta l’ansia a riempirle lo stomaco, ora. Bianca abbassa lo sguardo, fingendo di concentrarsi sulla ca micetta che sta riabbottonando. N on desidera altre discussioni. Sembra che su quel punto non si troveranno mai d’accordo. Lui non capisce. M a ora, Alberto è di nuovo gentile. La abbraccia.

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- Ok, farai la ballerina e diventerai famosissima. Sei così bel la... Andiamo, dai! Ci divertiremo questa sera. Ti compro la bruschettà con la rucola e i pom odorini che ti piace tanto. Bianca è esausta, fa fatica persino a rimanere in equilibrio, ma... non ha scelta. - Va bene. - Si aggrappa a lui. A volte non dover scegliere è persino rassicurante. - M i divertirò - pensa. - Franco ed Elisa sono simpatici e la bruschettà mi piace, magari ne mangio metà. - C ’è sempre una scelta - le dice Matilde, raccogliendo i folti capelli scuri in una coda di cavallo. Bianca è di nuovo alla scuola di danza, l’unico posto che sen ta veramente casa sua. È nello spogliatoio, seduta sulla panca, con le ginocchia strette al petto che aspetta l’arrivo delle bambi ne. Immagina già il loro allegro vociare, le risate, i bisticci. H a bisogno di essere contagiata dalla loro spensieratezza. Matilde la sta fissando, come in attesa di una risposta. Si co noscono m a non si può dire che siano amiche. Bianca sa poco di lei, un piercing sul naso, uno sul labbro, il tatuaggio di un cuore trafitto che emerge dalla scollatura. Insegna nel corso di hip hop ed è più grande di lei. - N on è andata male, alla fine - le dice. - Hai fatto di nuovo quello che ha voluto lui. - Siamo andati al bar con gli amici, tanto alla tv non facevano niente... è stato meglio così. Matilde scuote la testa, poi la guarda negli occhi: - Q uanto tem po è che non esci con una tua amica? - N on lo so. - Andiamo a mangiarci una pizza io e te, questa sera?

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Bianca esita un momento. - N on posso. - Perché? - È venerdì. - Chiamalo e digli che c’è un cambio di programma. - N on posso. - Vabbè, fa niente, ma stai attenta... non rinunciare a te stessa. Bianca subito non capisce quella frase. Le bambine stanno arrivando. Ecco Maria, Stefania, Lucia... - Ciao maestra! Ciao maestra! Sono le nove di sera. Bianca sposta le tende per guardare fuori dalla finestra. Tra le macchine che passano m onotone ne cerca con lo sguardo una di familiare che si fermi davanti al suo portone. Proseguono tutte. Nel cellulare non ci sono messaggi, su W hatsApp nemmeno. Bianca com pone il suo num ero che conosce a memoria. Suona libero ma nessuno risponde. Alberto avrà avuto qualche inconveniente, il telefono sarà gua sto, forse la macchina... suo padre potrebbe averlo coinvolto in un lavoro dell’ultimo momento. Bianca richiama ma è inutile. N on rimane che aspettare. I suoi genitori sono fuori a cena, sua sorella è da un’amica. La casa è tranquilla e silenziosa. Si sta bene sul diva no color crema, tra i soffici cuscini di piuma. Bianca infila uno dei suoi cd preferiti nello stereo e la musica classica si diffonde intorno a lei, aiutandola a non pensare. È già accaduto tante altre volte. Troppo indaffarato, per poterla avvertire. N on importa, nessuno è perfetto. Lui è meraviglioso e Bianca lo ama così tanto... La sera dopo, Bianca ha preparato una cenetta romantica per loro due soli, in taverna.

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Insalata di tonno con il pesce fresco comprato al banco del mercato. Cucinare non è la sua passione ma Alberto adora quel piatto e Bianca ha pensato di fargli una sorpresa. Alberto ha ancora i capelli bagnati per la doccia. Infila in bocca una forchettata dietro l’altra senza fare commenti. - Com ’è andata la partita di calcetto? - Bene, abbiamo vinto. Poi alza lo sguardo verso di lei, esultante: - Franco ed Elisa ci hanno invitato al mare sabato prossimo, non è meraviglioso? Bianca lo guarda seria. - Che c’è? H ai una faccia da funerale... - Al mare? H o le prove del saggio. N on posso. Alberto ha ripreso a mangiare. Lei non riesce più a mettere in bocca neanche una foglia d’insalata. - D atti malata, che si arrangino. Sarà bellissimo! Il prim o ba gno della stagione... Io, tu, i nostri amici... - Alberto, non posso, davvero. - H o già confermato. - Te l’avevo detto, questa settimana ho le prove, la prossima, il saggio. - Sai che ti dico io, invece? Sono stufo di questi saggi. La danza è troppo impegnativa! Nei week end dovresti essere libera, smetti di insegnare, fallo per me. N on ti vedo mai. Bianca scuote la testa, non dice niente. Lui le prende il viso fra le mani e le sussurra all’orecchio: - Io ti amo, ti adoro. - Anch’io, però... Alberto... C ’è un’altra cosa che Bianca deve dirgli. Deve farlo presto. O rm ai che le cose si sono messe male, conviene andare fino in fondo. Bianca prosegue con un filo di voce: - Sai quell’audizione per cui mi sto preparando?

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-Sì? - Ecco... M ancano solo pochi giorni e se la prendono... - È per l’ammissione a una scuola di danza. - Lo so. A Milano, vero? Così saremo vicini e potrem o veder ci più spesso. - N on è a Milano. - Cosa? Tu m i avevi detto... - No, tu hai detto e hai creduto... - Dov è? - A Londra. La violenza con cui Alberto batte il pugno sul tavolo la fa sobbalzare. Il bicchiere si rovescia e macchia la tovaglia di rosso. La sua voce è cambiata, è densa di rabbia. - M a sei impazzita?! Q uanto tempo?! - U n anno... due, forse... - Un anno senza vederti? È così che mi ami?! O ra lui urla contro di lei. Bianca vorrebbe tapparsi le orecchie. H a già sentito altre volte quei discorsi. Lui incolpa la danza. - C he ti aspetti? N on ce la fa nessuno! E se ti sloghi una caviglia, sei finita. Lei vorrebbe rispondergli che danzare è la sua vita, spiegargli quanta soddisfazione e quanta gioia le dà. M a lui è fuori di sé, non l’ascolterebbe. Così Bianca rimane zitta, gli occhi gonfi di lacrime che le appannano la vista, un nodo in gola, la nausea che sale dallo stomaco e un solo desiderio: scappare. Per la prima volta si rende conto di avere paura di lui. E una cosa molto brutta. N on si può avere paura di chi si ama. Alberto ha colpito il piatto con un pugno, l’ha rotto e si è tagliato.

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MARTA LIBERA TUTTI! di Isabella Paglia

Martedì 5 giugno 2012 Giulia tesoro mio, non sai quanto sia difficile scriverti. È la prima volta che uso un’e-mail. Ma non è per questo. Prendere in mano i pezzi della mia vita e raccontarteli, è togliere schegge di vetro conficcate nella carne, nella mia anima. Non c’è un’anestesia sufficiente per evitare questo do lore. Non c’è un anestetico che può narcotizzare il senso di colpa che sento nei tuoi confronti. Ma è un’operazione che devo fare, prima di riuscire a guardarti in faccia, prima della prossima settimana, quando verrò a vivere a casa di zia, anch’io. Me l’ha detto anche la psicoioga del Centro che è una cosa buona parlarti. E una brava dottoressa. La chiamo la mia ostetrica per ché, a ogni nostro incontro, è come se lei mi aiutasse a rinascere, a tagliare quel cordone ombelicale che mi lega a giorni di paura e silenzio...

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Q u an d o si riferisce alla m ia situazione usando il tem po passato e sento che sta parlando di un ieri, non di un oggi o di un dom ani, mi sento confusa e sollevata. Anche le altre m i hanno detto di sentirsi così. Sai qui ci sono tante donne com e m e che hanno figlie com e te, al si curo, ora. T i prego di crederm i: io volevo per te una vita norm ale. Lo volevo davvero tanto e ce la m etterò tu tta per regalartela, ogni giorno, da adesso in poi. E solo che prim a che succedesse, vedevo le cose in m anie ra distorta, dalla parte sbagliata del cannocchiale. O ra lo so. Per tan to tem po m i sono sentita inutile, con le braccia, i piedi m orti e i polm oni che si rifiutavano di respirare l’aria che veniva da fuori. Volevo resistere al m ondo. A tu tta quella gente che, di tan to in tanto, dopo ogni se gno blu che m i lasciava tuo padre, cercava di intrufolarsi nel la nostra vita, fiutandom i sconcertata come un cane. O gni volta che incrociavo la vicina del pianerottolo, corre vo alla porta con la chiave pronta per essere velocemente infi lata nella toppa, per aggirare l’ostacolo, perché pensavo che il problem a fossero gli altri, quelli che non si facevano i fatti loro puntandom i come se avessi i capelli tinti di fluorescente. Perché in fondo... M io m arito è un brav uomo non ci fa mancare nulla. È un bravo papà per Giulia. È solo che ogni tanto ha il nervoso... M i ripetevo queste frasi ogni giorno com e un m antra. E poi ascoltavo i discorsi di m ia m adre che vantandosi di aver fatto le nozze d ’oro m i ripeteva:

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- Bisogna portare pazienza: l ’amore non è bello se non è litig a tilo e i p a n n i sporchi si lavano in casa perché lacrime d i donne sanno diventare fon ta n e d i m alizia e solo donne, asini e noci vogliono m ani veloci... Sì, ho portato pazienza, finché la m ia ostinazione a voler cam biare tuo padre è crollata e la sua ostinazione a volermi piegare, piegata. L’aria esterna è entrata, m io malgrado. Si è intrufolata in ogni m io singolo orifizio, nelle stanze vuote della m ia speranza con l’eco forte e dolce della voce di quella ragazzina... N o n sapevo la conoscessi e nem m eno che frequentasse il corso di nu o to con te. L’avevo solo vista salire le scale al piano di sopra. Era l’unica che quando m ’incontrava abbassava, triste, lo sguardo. E ora che respiro e vedo di nuovo, m i dispiace. D io sa quanto m i dispiace, di non essere stata io a fermare tu tto quel delirio... Mercoledì 6 giugno 2 0 1 2 M am m a, sono arrabbiata... sono furiosa! M a perché non m i hai m ai parlato così??? N o n ti sei chiesta neanche una volta perché stessi tu tto il giorno con gli auricolari appesi??? M a dove cavolo credi vivessi io??? A parte in camera mia, chiusa a chiave, con la testa spro fondata nel cuscino a m ordere il cotone e a rintronarm i con la m usica a palla!

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O gni livido che papà faceva a te, rimbalzava sulla m ia pel le, ogni tuo silenzio e fare finta che tu tto andasse bene grida va dentro di m e così forte che nem m eno con la testa sotto il cloro di quindici vasche riuscivo a evitare di sentirlo. Sì, lei veniva con m e in piscina. Stesso corso, stesso spo gliatoio dove m i sorprendeva a piangere bagnata. E così che siamo diventate am iche e non ho mai saputo se poi, gli occhi le si arrossassero per via degli occhialini difetto si o per i difetti della m ia vita. C om e credi m i sia sentita quando sono tornata a casa, dopo l’allenam ento, trovando il portone sfondato con i vici ni che affollavano l’uscio e m orm oravano: - Poverina. P erfortuna stavolta non è scappato il m orto... ??? In quel caos, tra tu tto quel vociare unto e la portinaia che scuoteva il capo passando lo straccio sulle scale, io avevo ca pito solo una parola. Sai quale? L ’ultima). Cazzo... Capisci??? Io credevo che tu fossi morta davvero e in quel m om ento invece avevo solo una gran voglia di lavarmi i capelli!!! Stavo già singhiozzando quan d o ho intravisto i carabi nieri. Allora, ho sentito il cuore in gola e m i sono afflosciata a terra. D a lì potevo sentire l’odore consum ato delle loro scar pe avvicinarsi m entre cercavo di sfuggire ai loro sguardi. C re do condividessim o la stessa segreta voglia di evitarci: - Suo padre è in ospedale. Poca cosa. H a solo due costole rotte. La libreria è caduta. È già stata avviata la procedura d i diffida e allontanam ento dalla casa fam iliare. Sua madre sarà ospitata da un Centro d i accoglienza fin ch é non si sarà ristabilita. A b

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biamo già preso contatti con sua zia Roberta. Sarà q u i a mo m enti. Andrà da lei, il tempo che le cose si sistemino... È stato allora che ho capito. Tra tu tta quella gente m ancava lei. L’indom ani avrebbe avuto il com pito di m atem atica e do veva prepararsi. Così, mi aveva salutato sventolando la cuffia con l’indice che m etteva in bella m ostra Io sm alto e la nailart m entre io rimanevo aggrappata alle boe galleggianti della corsia e la guardavo uscire prim a del solito. Capisci? Era uscita per aiutarm i. Era uscita per lavare via tu tta quella schium a sporca. Venerdì 8 giugno 2 0 1 2 Cara Giulia, sono stata a letto due giorni, senza dorm ire e toccare cibo. Le tue parole m i sono esplose com e un airbag. C ’erano nove passi dal salotto, dove di solito avvenivano i nostri scontri a fuoco, al telefono. Li ho contati percorrendo il corridoio, un centinaio di volte e un altro centinaio nella m ia testa. N onostante volessi farlo, non sono mai riuscita a com porre quel num ero, a chie dere aiuto. M a quel giorno, alle cinque e mezzo, quando tuo padre era a faccia in giù inghiottito dalla libreria, io quel giorno mi sono difesa. Volevo lo sapessi. Era la prim a volta. Sono riuscita ad aprire le braccia strette al corpo per ripa rarm i dai sui colpi.

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Sono riuscita a schiodarm i, a correre e a rifugiarm i die tro quei piani d ’appoggio in form ica, pien i di libri e di cianfrusaglie staccati dal m u ro e rico p erti dal nailon p e r ché dovevam o tinteggiare, ti ricordi? E m en tre lui prendeva a calci e a pu g n i tu tto quello che gli passava a tiro, io gli ho gridato, dal m io fo rtin o , che la m ia vita così faceva schifo. Era u n a vita di m erda. G li ho d e tto anche di peggio. E che no n era giusto perché la vita è tro p p o corta. E solo in quel m o m e n to , d ice n d o lo , che ho realizzato: n o n avevo p iù p a u ra di m o rire perch é ero già m o rta e se n o n volevo lasciarti sola, dovevo fare qualcosa p rim a che lui m i finisse. A llora la p a u ra è cad u ta ai m iei p iedi, accarto cciata com e u n a foglia di n o v em bre, in u n a pozza scura. H o appoggiato la schiena sul legno. H o fatto leva con i piedi p u n ta ti alla parete. H o sp in to forte quasi com e q u a n d o ti ho p a rto rito . Prim a che lui potesse raggiun germ i, gli scaffali e dieci chili di enciclopedie e to m i vari, com presi i suoi trofei di caccia, gli erano sopra. T u tto era a n d ato in fran tu m i m en tre il telefono c o n ti nuava a squillare, la pioggia a b attere co n tro il vetro e gli uccelli stam p ati delle ten d e prendevano il volo leggeri per lo sp o stam en to d ’aria. Q u el baccano e il to n fo della cad u ta devono aver fatto trasalire anche M arta dal suo libro di m atem atica. Ecco com ’è andata. C ’è u n tem p o norm ale, figlia m ia e, poi, ce n’è uno strano , m u tilato , in cui la vita reale sem bra scorrere su un b in ario parallelo.

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Io c’ero entrata e fino a che i carabinieri no n han n o sfon dato la porta, con il codazzo dei vicini a seguito, sono rim a sta lì, in piedi, in silenzio, a guardare tu o padre svenuto, a im m aginarti accarezzata dall’acqua m entre la pioggia faceva gorgogliare le grondaie e il m io cuore riprendeva a battere. Sabato 9 giugno 2 0 1 2 G ià sospettavo che essere adulti non significasse fare più errori m a solo essere più vecchi. M am m a m i m anchi... Stanotte ho fatto un sogno. Era sp u n tata una m ano a battere il m uro, com e quando ero piccola e si giocava a nascondino tra i palazzi del quar tiere. Q uella m ano piccola, con le unghie sm altate di tan ti co lori, prim a di toccare la parete, aveva com posto un num ero di telefono a tre cifre. Poi aveva urlato felice: M arta libera tutti!

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LA FINE DI UN ING ANNO di Daniela Palumbo Le dita leggere affondarono ancora nel piccolo vassoio, ma i cioccolatini erano finiti. Li aveva mangiati tutti, uno dopo l’altro. Doveva finirli. Anzi, doveva sterminarli. Serena aspettava quel giorno da quando aveva sette anni. Quei cioccolatini galleggiavano nella sua memoria da quindici, eterni, anni. Non c’era stato un minuto della sua vita senza che l’immagine dei quadrotti fondenti fosse im pressa dentro i suoi occhi, e poi più giù, in quel che restava. Ogni mattina il sipario si alzava sullo stesso ricordo. La sua vita era ammuffita insieme a quei cioccolatini e stava compressa in quella scatola, dentro un vecchio comodino. Una piccola scatola di latta, sopra c’era l’immagine di una bambina con gli occhi golosi che mangiava cioccolatini. Doveva essere stata così anche lei a sette anni. Gli occhi golosi e, dentro, la gioia per la promessa di cioccolata che luccicava sulla scatola. Come un rito sacro, come un ultimo giorno di sole, quella mattina Serena si era alzata ed era andata nel posto dove ave va lasciato la bambina di sette anni. Aveva aperto il cassetto segreto ed esitato di fronte alla scatola con i cioccolatini. Ma le era bastato alzare il sipario e il ricordo aveva spezzato ogni tentennamento. 77

C on la scatola tra le m ani aveva cercato di ritrovare dentro di sé la bam bina che era stata. M a quel ricordo era cieco e m uto. G uardava la scatola di latta e i cioccolatini scuri e luci di com e una no tte um ida, disegnati sopra. Sistemò i cioccolatini sul piccolo vassoio con i confetti bianchi, pallidi com e il vestito da sposa che indossava. Le sue dita sottili com inciarono ad afferrare i cioccolatini neri e, senza toccare le labbra, uno alla volta li ingoiò. C om e ingoia va ogni notte gli incubi che venivano a torm entarla. Poi, aveva ricordato, ancora una volta, quel m om ento... quando la sua vita si era chiusa. Aveva sette anni quando il padre del suo prom esso spo so l’aveva violentata. Era un am ico di famiglia, sorrideva sem pre bonariam ente e carezzava i capelli di Serena sotto gli occhi di tu tti. U na m attina, Serena era rim asta in casa con la n o n n a Adele. L’uom o l’aveva chiam ata nel suo ap partam en to al piano di sopra p rom ettendole i cioccolatini fondenti. L’aveva attirata nella stanza dove, prim a di rin negare il sorriso bonario, le aveva regalato la scatola con la bam bina dagli occhi golosi. Poi, fu dolore e vergogna. Fu insulti e schiaffi. Fu minacce e paure. Serena per tanto tem po era stata convinta che fosse lei la colpevole. Lui le aveva gridato: È colpa tua. Siete tutte marce. Puttane, a sette come a ottanta anni. Q uel giorno di quindici anni prim a, Serena tornò a casa da nonna Adele con i cioccolatini. Lui aveva preteso che li tenesse. Serena pensava di essere marcia, cattiva, di m eritare quello che le era accaduto.

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Tenne incisa nella carne quell’insulto per anni. Cercò solo uo mini che le ripetessero quell’affronto. Si lasciava sputare veleno e cercava dì provare dolore, ma non riusciva a sentire più niente. Per tu tta la sua vita, alla vista della cioccolata, Serena stava male. N o n n a Adele non capiva: era stata lei a iniziarla all’arte di assaporare piano la fondente: - L’unica che possa essere definita cioccolata, le ripeteva. Passarono gli anni e Serena nascose la scatola come una ver gogna. E chiuse lì dentro anche la vita che avrebbe dovuto essere. Fino a che un giorno, Serena aveva 15 anni, vide il figlio dell’uom o che le aveva reciso la voglia di vivere. Si chiamava M ichele, aveva 17 anni. Q uel giorno la guardò più a lungo, le sorrise. Anche lui, com e il padre. Lo stesso sguardo, lo stesso sorriso da padrone, gli stessi pensieri marci. N on era lei a essere marcia. Erano loro. Allora Serena decise che i cioccolatini, orm ai avariati, guasti com e i cuori degli uom ini che insozzano l’infanzia, li avrebbe ingoiati. Lo avrebbe fatto per vom itarli. Decise dove e come. D a quel giorno si trascinò dietro la sua vita, m inuto dopo m inuto, solo per questo. E il giorno... venne. Q uella m attina tu tti l’aspettavano nella piccola chiesa della città dove si celebrava il suo m a trim onio. C on M ichele. T utti erano convinti che lei amasse quell’uom o con il sorriso da padrone. T utti com e al solito vedevano solo ciò che volevano vedere. Serena, prim a di scendere da casa, aveva m asticato i cioc colatini m andandoli giù come una vendetta. O com e una punizione. F IN IT I.

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Si pulì la bocca con il velo bianco di sposa, prese la borset ta bianca che aveva preparato da tan to tem po e uscì di casa. I parenti l’aspettavano di sotto, nel portone. Lei aveva chiesto di essere lasciata sola prim a di scendere. T utti dicevano che Serena era strana, nessuno si stupì. N em m eno quindici anni prim a si erano stupiti se la bam bina si nascondeva ogni volta che vedeva l’uom o che l’aveva uccisa una m attina. Era un amico di famiglia, il padre di Serena aveva perso il posto di lavoro e l’uom o dei cioccolatini che aveva tanti amici lo aveva aiutato a trovarne un altro. Sorrideva sempre lui, era buono: glielo ripetevano continuam ente i genitori. I vicini di casa. La moglie dell’orco. Tutti. Lui era gentile, simpatico, sorridente. Lui aiutava le persone. Era Serena a essere cattiva, perché non riusciva a volergli bene come tu tti, era lei l’ingrata, la fem m ina ribelle. Lui aveva zanne al posto dei denti, aveva artigli al posto delle m ani, aveva acqua sporca di sangue dentro gli occhi, m a era solo Serena a vedere. Nella piccola chiesa, lei vide i boccioli di rosa bianchi si stem ati sull’altare. La m adre aveva voluto solo il colore bian co in chiesa: il candore e l’innocenza erano esposti come sui banchi del m ercato, merce stantia come i suoi cioccolatini messi in bocca quindici anni dopo averli ricevuti in regalo. Ecco, il giorno era venuto. U na m attina di sole. M a anche allora c’era il sole. Le giornate di sole confidano segreti di speranza a chi ha avuto un’infanzia di luce. Il sole si riflette su quegli specchi di innocenza e l’anim a si illum ina della gioia quieta. Serena non poteva saperlo.

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Lo sposo si avvicinò, le sorrise soddisfatto, da padrone. Lei aveva visto crescere quel ragazzino acerbo, incom pleto, diven tato un ragazzo rissoso, violento. Lo guardò adesso adulto, ar rogante, copia del padre. Serena aveva 15 anni quando aveva deciso che avrebbe sposato il figlio dell’uom o che l’aveva vio lentata. Per mozzare, per finire quella discendenza marcia. La musica dell’organo era finita. Gli sposi erano entrati. Il parroco invitò tu tti a sedersi per iniziare il rito m atrim oniale. Serena sentiva la cioccolata affacciarsi allo stom aco e gridare per uscire. N o n poteva aspettare di più. Si alzò e prese la sua borsetta. T irò fuori la pistola e sparò alla testa del suo prom esso sposo. Tutti erano atterriti. La sorpresa li aveva paralizzati. Serena non se ne curava, senza incertezza si girò verso il prim o banco della chiesa e guardò l’uom o della cioccolata. Il padre dello sposo capì, si coprì la testa, ma lei mirava al cuore. Era finita. Sotto lo sguardo sgom ento di tutti. M a lei a sette anni era sola. E per quindici aveva vissuto aspettando la fine di un inganno. Anche la cioccolata chiedeva vendetta. U n fiume nero le uscì dalla bocca e si riversò sul corpo dell’uom o dal sorriso bonario e um ido, gli restituì il suo regalo. Il nero fondente si univa al rosso del sangue del cuore dell’insetto um ano con le zanne e gli artigli che aveva contam inato la vita di una bam bina di sette anni. Lei quel giorno aveva solo desiderato di sciogliere piano in bocca la cioccolata, come le aveva inse gnato nonna Adele. E quello di nonna Adele fu l’unico sguardo che cercò Se rena. Solo allora lei comprese perché la sua bam bina a sette anni aveva com inciato ad avere la nausea della cioccolata.

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MIRTILLO di Elena Peduzzi

M i chiamo Francesca, ma tutti, da quando sono nata, mi chiamano M irtillo per via della piccola voglia che ho sul collo. Lo so, è un nome buffo. Anzi, non credo sia nemmeno un nome vero e proprio. Comunque, a me non dispiace. M i ricorda i bo schi freschi e ombrosi che ricoprono i versanti delle montagne. E, per una che è nata nel bel mezzo della pianura padana, dove le uniche cose che svettano sono gli alberi e le case, be non è un brutto pensiero. Non mi fraintendete, non ho nulla contro la pianura, nulla contro le cose piatte in genere. Io stessa sono piat ta, anzi piattissima, come un’asseda stiro. Solo un ta. Sono anche piuttosto piccola per la mia età. O almeno così dicono i grandi. E m i trattano di conseguenza, comefossi ancora una bambina, anche se di anni oggi ne compio sedici. E il primo giorno d ’estate e la mia vita non potrebbe essere più bella. M ia mamma entra silenziosa nella mia stanza e mi dà il buongiorno, con un bacio enorme, stampato dritto dritto sulla guancia. Schioccano sempre i baci di mia mamma. E mi fanno ridere. Poi apre la finestra, facendo entrare nella camera la luce straripante del sole, incontenibile e carica d ’estate: fantasie di cinguetta, chiacchiericci di cicale, profumi di fiori e di prati tagliati di fresco. E mi sento felice. 83

La m attinata vola via in un soffio, leggera come il mio umore. Dopo il pranzo con i nonni e i m iei fratelli, fa la sua compar sa la torta, rigorosamente a strati con crema pasticcierà, fa g o li ne d i bosco e tanta panna montata. Poco dopo arrivano anche i m iei amici, i fedelissim i d i ogni anno: Nico, Alle, Giada, Fra 1 e Fra 2, hollo, Penny, Edo e M anu. M anca Pietro, neanche a dirlo il ragazzo p iù carino e am bito della classe. M a io sono contenta comunque, perché presto arriverà Lola, la m ia migliore amica. Lola è l ’a mica perfetta: è allegra quanto basta, ma sa anche essere triste e malinconica quando serve. Un p o ’ d i sale e un p o ’ d i zucchero rendono vivace la vita, secondo mio nonno, l ’uomo p iù saggio che conosco. Lola, dicevo, fa battute divertenti e non è m ai permalosa. Sa un sacco d i cose perché è molto curiosa. H a un cane buffissimo d i nome Tombola, vinto a una sagra d i un paese vicino. Ln realtà il prim o prem io erano due pesci rossi, ma Lola desiderava a ta l p u n to un cucciolo che suo padre ha sostituito i pesci con Tombo la. Credo che lei questo non lo saprà mai. A proposito d i regali, li adoro, da sempre. N on tanto per quello che contengono, ma per la sorpresa che rappresentano. M i piace la carta che li copre, i nastri che li tengono stretti, m i piace svelare, lentamente, il loro contenuto. Per questo, ed è un mio vanto, non ne ho m ai cambiato uno, nemmeno una maglietta extra large arancione come quelle che indossano g li operai lungo le autostrade. E quel giorno ne ricevo parecchi. Pacchetti grandi e piccoli, d a l contenuto p iù o meno riconoscibile. Tra questi c’è anche lei: una bici nuova fiam m ante, rossa come una Ferrari California, e tu tta mia. Guardo la m ia vecchia Graziella, che prim a d i me è

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appartenuta a m ia m am m a e prim a ancora a m ia nonna, e non so a chi altro ancora prim a d i loro, con una velata malinconia. M i riprometto d i usarla ancora, d i tanto in tanto, ma poi... non userò p iù né quella, né la Ferrari. Lola e Tombola arrivano dopo tu tti gli altri. E questo è l ’u n i co difetto d i Lola: non è m ai puntuale. D urante un tragitto può capitarle qualunque cosa, persino una macchina che prende fuoco davanti a lei così, a ll’improvviso. Con lei accadono sempre cose strane. E persino il tempo assume una dimensione tutta sua. Si dilata e si restringe come una gigantesca fisarm onica, che non smette m ai d i suonare. Per questo non m i arrabbio mai. Nem m eno il giorno del mio compleanno. Rivedo ancora i suoi occhi azzurri fa rsi enorm i e lum inosi nel momento in cui m i consegna il suo regalo. -È per te - dice e m i porge un pacchetto grande quanto un libro, morbido e confezionato in modo un p o ’ artigianale. D i certo dalle sue m ani. La carta è molto bella, d i riso d i un bel rosso acceso. Tante cose lo sono quel giorno. Scarto il pacchetto con lentezza sacrale, per scoprire alla fin e la sorpresa p iù bella: una maglia degli A ll Blacks, la m ia squa dra d i rugby preferita. -E stupenda.!Grazie! - le dico gettandole le braccia a l collo. E lo è davvero, nera con il colletto bianco e ricamata sul petto la foglia simbolo della squadra campione del mondo. - H o pensato che la puoi usare per gli allenam enti d i Touch. - M a certo! - sapendo che non lo avrei fa tto mai. E una cosa troppo preziosa per sporcarla d i fango e farm ela strappare in allenamento.

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Lola però sembra felice della m ia risposta, così decido d i m an tenere quella piccola bugia. P iù tardi, p rim a che se ne vada, avverto una piccola fitta , proprio sotto il cuore, e p er poco non le dico la verità sulla m aglia e su l fa tto che la terrò come un tesoro. M a p o i non lo faccio e lei esce d i casa così. Se solo avessi saputo che non le avrei parlato m ai p iù ... Le cose sono sempre p iù fa c ili, dopo. Penso che si p u ò sempre rim ediare, così la indosso il giorno seguente, quando ho appuntam ento con lei, lungo il fiu m e. C i andiam o spesso p er trascorrere il tem po nelle pigre gior nate estive. Pedalo serena in sella alla m ia nuova bici rossa, incurante d el caldo afoso che rende Paria solida e m i avvolge come una coperta. LI cotone nero della m aglia A ll Blacks pare attirare tu tti i raggi d el sole su d i me. Sento caldo e tanto a f fetto , tu tto insiem e. Poi, in lontananza vedo il grande pioppo dalla chiom a buffa. N o i lo chiam iam o così perché sembra sia stato potato da un parrucchiere ubriaco. H a la chiom a tu tta storta e sproporzionata, con un grande ciuffo da una p a rte che pende verso terra. Lola crede che sia un pioppo m olto gentile, che d i proposito allunga la sua ombra su d i noi. Io so p e r certo che non ne esiste uno sim ile p er un bel tratto, p er tu tto quello che ogni giorno esploriamo e conosciamo meglio delle nostre tasche. Vedo il pioppo dalla chiom a buffa e accelero p er raggiun gerlo. In lontananza sento Tombola abbaiare. Sem bra pazzo. M i avvicino e scorgo Lola. È seduta a terra, la schiena appog giata a l tronco delTalbero. N on si muove. C'è una macchia rossa sulla sua m aglietta. Lascio la bici a terra e corro da lei.

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Ci sonoquasi quando sento qualcosa, una specie d i dolore alla schiena. Cado. L ’u ltim a cosa che vedo è Lola. Poi c’è solo tanto buio. - C om e sta oggi? - chiese una ragazza con indosso un vivace ab itin o a fiori. - Stazionaria direi - rispose l’uom o con il cam ice, lan ciando u n ’occhiata alla paziente, sdraiata nel letto. La ragazza si avvicinò a lei. Le accarezzò un braccio, m a non o tten n e che u no sguardo vuoto, in cam bio. - M irtillo, sono io, Lola. M i riconosci? N essuna risposta. G li occhi di M irtillo continuavano a fissarla, privi di qu alu n q u e espressione. - Secondo lei m i sente? - Difficile dirlo. Fissa spesso il soffitto, com e se g u ar dasse fuori da u n a finestra. Sorride, piange, fa espressioni sorprese. - N o n ricorda nulla di quello che è successo? Il d ottore scosse la testa. - F ram m enti. Parla del com ple anno, dell’albero dalla chiom a buffa, di lei appoggiata al tronco dell’albero. A volte n o m in a la m adre. Parole sparse, che n o n han n o un senso preciso. - M i sento così in colpa. Q uel bastardo voleva colpire me. L’avevo lasciato e non lo accettava. Lei ha cercato solo di difenderm i e lui... - disse Lola scoppiando a piangere. - C onosco bene la storia e rievocarla ti causerà solo altro dolore. Te lo ripeto ancora un a volta: n o n è colpa tua. Tu eri svenuta. - D o tto re, io no n me lo perdonerò m ai. N o n im porta quello che dice lei. Q uello che dicono tu tti. Sono passati sei

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anni e M irtillo se ne sta lì, com e se ci guardasse da fuori, se non fosse più tra noi... C osa darei per farla tornare! - C i vuole calma, e pazienza in queste cose. La violenza è difficile da superare. D obbiam o essere felici che sia, che siate vive. Lola distese il braccio e fissò la cicatrice che lo percorre va per il lungo. N e aveva altre sul corpo. A lcune più corte, altre più lunghe, ferite rim arginate nel tem po trascorso da quell’orribile giorno. M a la più dolorosa era ancora aperta, bruciava, ed era di fronte a lei. Si chiam ava M irtillo ed era la sua m igliore amica. O ra sorrideva, guardando la parete gialla davanti a sé. Lola era sicura che fosse in sella alla sua bicicletta rossa nuova fiam m ante e stesse pedalando con la m aglia degli All Blacks, che indossava quel m aledetto giorno. Poi la vide abbassare lo sguardo sulla foglia ricam ata sul petto della sua maglia nera. M irtillo la sfiorò con la p u n ta dell’indice destro. E sorrise. Poi chiuse gli occhi. A m o questa maglia. Lola me l ’h a regalata il giorno del mio sedicesimo compleanno. Faceva caldo. Fa sempre caldo il gior no del m io compleanno. Per questo andiam o a lfiu m e ... Perché c’è questo buio? N on vedo p iù nulla. Lola? Tombola? Cosa darei per poterli rivedere...

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LA STRADA DA FINIRE di Cristiana Pezzetta Dietro ogni grande donna c'è un uomo che ha cercato di fermarla Katherine Mansfield Un cigolio, e poi un rumore orribile! Scatto a sedere qua si avessi una molla a pulsante incastrata tra il bacino e la schiena. Non ho più aria nei polmoni, sono le 2:40 del mat tino, mi asciugo il sudore e prendo fiato. Silenzio. Infilo la mano tra il letto e l’armadio per assicurarmi che sia ancora lì. Lo prendo e me lo stringo forte addosso, men tre lacrime bollenti colano a picco fuori dagli occhi. Il suo diario, le sue emozioni, il suo odore, i suoi sogni. Mi manca, da morire. Sono tornata sola nel banco. Come quando lei è arrivata. Faceva freddo questa mattina, quando la porta della classe si è aperta. Gli sguardi, sempre gli stessi, puntati contro di me per segnare una distanza. A proteggermi e darmi coraggio ho solo questo velo sulla testa, contrassegno della mia differenza. - Ciao Amai! Benvenuta! Ragazzi lei è la nostra nuova compagna di classe. Viene dall’Egitto. Siediti pure dove vuoi, Amai. - Le aveva detto la prof con un sorriso pieno. M i sono seduta nelprimo posto libero p iù vicino. Si chiama Daria, la mia nuova compagna di banco. Non si è neanche 89

girata verso d i me, solo un segno im percettibile della mano. Ciao, io sono A m ai. Anche se non m i vedi. Am ai n o n m i aveva degnato di u n o sguardo. Si era lim i tata a tirare fuori dalla sua tracolla un m isterioso astuccio lungo di velluto verde, che aveva nascosto con un gesto ve loce sotto il banco. A ricreazione era sparita, l’avevo cerca ta con lo sguardo senza dare troppo nell’occhio. N o n c’era traccia del suo fazzoletto colorato nella massa di stu d en ti che affollavano il cortile gelido. Così ero to rn ata in classe e avevo sbirciato sotto il banco. A nche il suo astuccio verde era sparito. Bene!In fo n d o questa scuola non è p o i tanto male, ho tro vato già un posticino nel quale rifugiarm i. E continuare a suo nare. N ei giorni successivi ci eravam o più o m eno ignorate. Avevamo d en tro un a specie di calam ita messa al contrario, che ci respingeva ai poli opposti. Poi un giorno Am ai ave va cam biato verso alla sua e ci eravam o attratte, divenendo inseparabili. D aria non è p o i tanto male, soprattutto non ha g li occhi a fessura d i serpente come quelle quattro laggiù, che credono d i essere strafighe solo perché hanno il sedere d i fu o ri. Oggi l ’ho salvata. La p r o f d i ginnastica p er poco non le m etteva due. D aria fa sempre fin ta d i essersi dim enticata la tu ta a casa. E evidente che non le piace sudare. Così le ho prestato la m ia mentre io ho indossato i p a n taloni che uso per lavorare in nego zio. M i ha ringraziato come se l ’avessi salvata da un burrone. Sono stata contenta. Am ai m i aiutava in inglese, era bravissima! D al tre e m ez zo passai di colpo al sei. N o n capivo proprio come facesse

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A nche io le raccontai di me, anche se non c’era granché da dire. N o n potevo neanche vantare u na folta schiera di ra gazzi, perché li riuscivo m isteriosam ente a tenere alla larga. L’unica passione che ho sono i libri e poi m i piace scrivere, ma questo n o n glielo ho mai detto, mi vergognavo. A volte m i capitava di invidiare Am ai, sem brava così sicura di sé, com e se nulla le facesse paura, nulla la ferisse. Oggim i sonoproprio divertita a scuola. Ho chiuso la bocca a quelle quattro oche spium ate che m i parlano sempre alle spal le p er via del velo, con un proverbio d i m ia nonna: “Se ti fe rm i ogni volta che un cane abbaia, non fin ira i m ai la tua strada”. D aria m i ha guardato con g li occhi sgranati, incredula, e p o i siamo scoppiate a ridere. N on riuscivamo p iù a smettere. E ppure in alcuni m om enti la sentivo lontana, com e la sua terra. S o p rattu tto quando le arrivavano certe telefonate. Allora si rintanava sul balcone della m ia cucina e parlava sottovoce. F ilippo m i chiam a sempre p iù spesso, il cuore m i va a trem ila ogni volta. Ieri siam o sta ti a l telefono m ezzora. In i zia a piacerm i davvero. A nche se a volte non capisce che io non posso sempre fa re come m i pare. Come lu i che è grande e vìve già p er conto suo. Però è proprio carino. Q uando sono rientrata D aria m i guardava strana. Forse voleva che le rac contassi tutto, m a a me non va. N on voglio essere giudicata, soprattutto da lei. Fino a quan do un giorno era arrivata a scuola con un sor riso enorm e, m i era corsa incontro e m i aveva abbracciato forte. - Ti devo raccontare una cosa meravigliosa! D ai andia m ocene al parco...

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N on ci c r e d o ,non ci credo! Filippo ed io ci siamo M i guardo allo specchio per vedere se sono ancora io, se si vede anche fu o ri quello che provo dentro. È stato bellissimo, alla fin e avevamo tu tti e due le m ani ghiacciate e g li occhi grandi. L u i m i ha stretto fo rte e io m i sono sentita a casa. M i ha anche regalato un velo nuovo, meraviglioso!D ice c con il velo. M i sono venute le lacrim e agli occhi e l ’h o baciato d i nuovo. Io l’ascoltavo con sospetto, un po’ invidiosa. D a quel giorno com inciam m o a vederci di m eno e ogni volta non faceva che raccontarm i di lui. Am ai iniziò anche a saltare il lavoro in negozio, per stare con lui. E il suo astuccio verde rim aneva spesso d im enticato sotto il banco. Facevo finta di niente, m a m i sentivo abban d o n ata e l’invidia com inciava a lasciarm i graffi sul cuore. Forse per questo no n m e ne accorsi subito. Ieri è stato il giorno p iù brutto della m ia vita. Filippo m i ha urlato contro che non lo amo abbastanza. Solo perché dove vo andare in negozio, e non potevam o stare insieme. M a glielo avevo già detto! N on è colpa m ia, come faccio a recuperare i soldi p o i?L u i si è arrabbiato ancora d i p iù , perché dice che i soldi me li dà lui, m a io non voglio! Sono scoppiata a piangere e lu i pure. A vrei fa tto qualsiasi cosa p u r d i non vederlo così. Io lo am o m a a volte è così difficile. C ontinuo a chiam arlo ma lu i non risponde. U n giorno la guardai negli occhi, erano rossi di pianto, m entre cercava disperatam ente di nascondersi nel velo. N on ce la faccio! H o paura d i perderlo e ho paura d i lui. M i sembra d i im pazzire. Filippo m i spia, Vho scoperto l ’a ltro giorno quando sono uscita d a l negozio. Ieri siamo stati insiem e

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tutto il p o m e r i g g i o , lu i voleva che andassimo a io non ho voluto. C i siamo bacnon com tremava, m i ha stretto così fo rte che alla fin e Ih o allontanato. H a com inciato a dire che m i desiderava da morire, che non ce la faceva p iù , che aveva una voglia incontrollabile d i fa re l ’a more con me. - A nche io ti amo da morire, m a non ce la faccio. M i p u o i capire? - L ’h o im plorato in lacrime, m a lu i se n è andato, spingendom i a terra. Sono Vederla in quello stato m i fece venire il m al di pancia. M i dispiaceva di averla invidiata e ora no n volevo che sof frisse così. Le dissi di lasciarlo perdere, che era m eglio star gli lon tan o per u n po’. M a lei si era presa una bella cotta e lui continuava a spiarla. C o n la scusa delle interrogazioni stu d iam m o insiem e per q u attro pom eriggi di fila, costantem ente in te rro tti dalle telefonate di Filippo. Cercai di m an tenere il controllo, anche se una rabbia sorda m i ribolliva dentro. La convinsi a spegnere il telefono. Le dissi, quasi supplicandola, che n o n doveva sentirsi in dovere di fare nulla di cui non fosse convinta o che peggio ancora andava contro ciò che sentiva in fondo a se stessa. Filippo m i ha chiesto scusa, dice che non ce la fa a vivere senza d i me. M i manca. Devo vederlo. Forse ha ragione lui, se davvero lo amo devo fid a rm i d i lui. È così difficile capire cosa davvero desidero e cosa no. Il giorno successivo non venne a scuola. E co n tin u ò a tenere il telefono spento. Ero di nuovo arrabbiata con lei. M i sem brava passato u n secolo da quan d o m i raccontava del suo paese, di B irm ingham , dei suoi sogni. O ra la sua vita appariva di colpo vuota. E p u rtro p p o anche la mia. M i m ancava, da m orire. M a no n volevo co ntinuare a chiam are 94

invano. Avevo anche io il m io orgoglio. Passarono tre giorni e com inciò a m ancarm i sul serio. N on trovo p iù niente dentro d i me, neanche una lac è tu tto fin ito . M i vergogno, ho vom itato, m i guardo allo spec chio e non vedo p iù me stessa. Sono andata a casa sua... non ce la faccio neanche a scriverlo... è stato orribile! Pensavo fosse giusto, credevo che Filippo m i volesse bene, m i amasse davvero. N on p u ò essere stato amore, m i sono sentita fu o ri d a l m io corpo m entre lu i invece prendeva possesso del mio. Vomito... Decisi che dovevo andare a casa sua. G uardai sotto al banco, c’era il suo astuccetto verde e un quaderno. U n’o t tim a scusa per andare a vedere che fine avesse fatto. M isi tu tto nella tracolla, aspettando l’orario di uscita. Invano. La vicepreside entrò spalancando la p o rta die ci m in u ti prim a dello squillo della cam panella. Am ai era scom parsa. La vicepreside chiedeva se qualcuno di noi sa peva qualcosa. T utti si voltarono verso di me. Scossi la testa senza dire una parola. C om inciai a sudare e m i sentii male. N on posso p iù tornare indietro. Filippo m i ha m inacciato d i dirlo a tu tti, a i m iei genitori, a D aria, m i ha detto che se non continuo a stare con lui, va a dire che Vho fa tto anche con altri, i suoi am ici. N on ho altra scelta. Sono vuota, non ce p iù niente dentro d i me, solo la vergogna e lo schifo. N on ho paura, non ho paura d i morire. N on ho scelta. D ei giorni seguenti ricordo poco, m ia m adre preoccu pata per me, u n ’ispettrice di polizia che venne per farm i delle dom ande, io svuotata di ogni em ozione. Poi u n boato fortissim o d en tro il petto e la sensazione di rim anere sorda per sem pre. Avevano trovato Am ai, schiantata sul greto del fium e, appena fuori città.

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Poche settim ane fa ho ritrovato il suo diario ancora vivo nella m ia tracolla insiem e al suo astuccetto verde. L’ho letto e riletto centinaia di volte, ho sentito le sue parole diventa re le m ie. Ieri ho fatto due copie, le ho im pacchettate per bene, ho scritto un a lettera. Fra qualche ora, quando sarà giorno, le spedirò, all’ispettrice che m i aveva lasciato il suo recapito. E ai genitori di Am ai che m eritano la verità. La storia di Amai n o n finisce qui, e nem m eno la mia. O ra conosco la verità e anche gli altri devono sapere. Per questo ho deciso di scrivere, com e aveva fatto lei nel suo diario, di continuare la sua storia, perché chi scrive fino al fondo di sé n o n m uore mai.

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LA PORTA CHIUSA di Annamaria Piccione Non chiudere quella porta, per favore. Lo so, non vuoi che le bambine ci sentano litigare, ma noi non lo faremo. Di scuteremo con calma, controllando i toni, provando a capire tu le mie ragioni, io le tue. La porta chiusa non risparmie rebbe loro angosce e incertezza, ma le vedrebbe moltiplicate, amplificate. Si chiederebbero perché non possono vederci, di cosa stiamo parlando, quando e se finirà. E dalla serratura, da ogni fessura, le nostre voci si farebbero urli e boati. I nostri silenzi, minacce. Conosco il lato oscuro di una porta chiusa, quando non sai cosa accade al di là di essa. Sono trascorsi tanti anni, ma non sono bastati a lenire le ferite del cuore. Sanguinano an cora, di un rosso vivo che non accenna a sbiadire. Era bella mia madre, bellissima, ma non era contenta di esserlo. Mia nonna non faceva che ripeterle che la bellezza era una sfortuna per le donne, perché le trasformava in prede negli artigli degli uomini, creature rapaci per natura. - Ac contentati del destino di una brutta. Per le belle sono solo disgrazie - le diceva, costringendola a indossare fagotti infor mi e a nascondere i capelli dorati in una crocchia da vecchia. Forse fu quel reiterato malaugurio a far sì che mamma rimanesse incinta alFultimo anno delle magistrali. Mio padre 97

n o n mi riconobbe e lei non insistette perché lo facesse, m a volle tenerm i a tu tti i costi.

M am m a bella, m am m a sorridente, m am m a bam bina: ap pare così nelle foto con me in braccio, un fagotto urlante grande quasi com e lei. Q uando lui apparve, avevo quattro anni. Vivevamo con la nonna, la cui pensione non ci consentiva sperperi, e lei non perdeva occasione per rinfacciarcelo. M am m a andava nei su perm ercati di periferia per spendere di m eno e fu in uno di questi che lo conobbe: era il proprietario e anche se aveva quasi v e n ta n n i più di lei, rimase pietrificato nel vederla spin gere con grazia il carrello. Ricordo bene quando lo incontrai la prim a volta. Arrivò carico di regali e di buste per la spesa che m andarono nonna in visibilio. A m e toccò una pistola che m i fece scoppiare in lacrime: non ero attratto dalle arm i e avrei preferito uno stru m ento musicale. Lui mi guardò storto, per poi sancire: - H ai frequentato troppe fem m ine, ora ci penso io. I prim i tem pi furono accettabili, anche se lui continuava a non piacermi e io non riuscivo a chiamarlo papà. Era il suo odore forse, fumava troppo e a tavola non risparmiava il vino. M am m a però era bellissima con i vestiti nuovi e i capelli fre schi di parrucchiere. Poi di colpo lui divenne geloso e com in ciò a vedere un nemico in ogni uom o la guardasse. Tornava a casa inatteso, convinto di trovare chissà cosa. Telefonava ogni mezz’ora e se lei non rispondeva, diventava una fùria. - D im m i chi è? C on chi vai quando non ti controllo? Tu sei mia. Mia, capisci?

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Dalla porta chiusa, ogni sera, lo sentivo gridare per ore e al m attino m am m a aveva sempre gli occhi rossi. D ue volte, nel cuore della notte, lei mi svegliò di nascosto per andare da nonna. Inutile: lui tornava pentito, con nuovi regali e nuove scuse. E no n n a lo difendeva sempre: - Ti ha preso con un figlio n on suo. C he vuoi di più? M am m a però voleva di più. Così una sera non andam m o dalla nonna, m a alla stazione. Era estate, m a m am m a indossava un vestito lungo che copriva i lividi di gambe e braccia. Avevamo solo due valigie, m a erano sufficienti per ricom inciare. Così prendem m o il prim o treno fino al capoli nea, una grande città dove non conoscevamo nessuno. Pochi mesi dopo com inciai la scuola e m am m a trovò un lavoro. Stringem m o amicizia con una vicina che viveva con sei gat ti e cucinava le lasagne più buone del m ondo: rimanevo a dorm ire da lei quando m am m a faceva tardi per frequentare la scuola serale. Voleva prendere il diplom a e coronare il suo sogno di diventare maestra. M am m a non disse a nonna dove eravamo nonostante le sue insistenze, m a a Natale cedette. - N on puoi negarm i il piacere di m andare un regalo a m io nipote - la pregò tra le lacrime e m am m a alla fine le diede il nostro indirizzo. Il regalo di nonna per m e non arrivò mai. M a arrivò lui. Era dim agrito e sembrava un altro. Chiese perdono e ancora perdono, prom ettendo di cambiare. Tornam m o a casa per C apodanno. Lui però non cambiò. Ripresero le scenate, i sospetti, gli occhi rossi di m am m a al m attino. E quella m aledetta porta chiusa, dalla quale il

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silenzio m i terrorizzava più degli urli. Arrivava all’im prov viso, dopo insulti, colpi sordi e singhiozzi soffocati, m a non era un presagio benevolo. Era carico di segreti irrivelabili, di dolore acuto, di tragedia im m inente. Lui mi aveva regalato un w alkm an con le cuffie e io m ettevo il volum e al massimo quando la porta si chiudeva. Forse era sbagliato, m a io avevo solo sette anni e m i addorm entavo con una voce sconosciuta che cantava: A m ille ce riè, nel mio cuore d i fia b e da narrar. Era maggio quando m am m a un m attino fece le valigie per l’ennesim a volta. - A ndiam o via, questa volta per sempre - mi svegliò con l’espressione risoluta. Capii che era successo qualcosa di diverso e la spiegazione la ebbi da m ia nonna, dove m am m a si diresse per organizzare la partenza. - H a m i nacciato di picchiare anche m io figlio - spiegò, per poi telefo nare all’am ica di città. - Alle sei, arriveremo alle sei. M ia n o n n a provò a convincerla a cam biare idea, m a m am m a le urlò contro, per la prim a volta nella sua vita. - Stavolta non m i farò trovare. Saluta tuo nipote, perché non lo vedrai più. M ia nonna uscì sbattendo la porta e dopo pochi m inuti con le sue chiavi entrò qualcun altro. Era lui che aspettava sulle scale: m i fece cenno di stare zitto, poi si diresse nella camera da letto. Q u an d o si chiuse la porta alle spalle, misi il w alkm an alle orecchie e alzai il volum e al massimo, così alto da non capire quasi quel che stavo ascoltando. Q u an to tem po trascorse? N o n lo so. Forse solo il tem po di una canzone. O di una favola.

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N on serve l'ombrello, il cappottino rosso, la cartella bella per venir con me. Basta un p o ’ d i fantasia e d i bontà. M ia nonna irruppe in casa con altre persone che non co noscevo. I volti erano terrorizzati e io non capii perché. Fino a quando n on aprirono la porta. N o n avevo sentito i due spari, uno per lei, l’altro contro se stesso. M i precipitai su m am m a e il m io m ondo parve diventare rosso. Rosso sul m uro, sulla sua cam icetta bianca, sulle mie m ani. Poi il rosso si trasform ò in nero e tu tto fu buio. Fui affidato a una famiglia di un’altra città e non ho più rivisto m ia nonna. I miei nuovi genitori ebbero m olta pa zienza con me, un bam bino torm entato dagli incubi, non solo a occhi chiusi. Per m olti anni ho avuto paura di vivere. Poi ti ho conosciuta. Bella, bellissima, m a tu no n la conside ravi una disgrazia. Vivevi la bellezza con naturalezza, senza ostentarla o averne tim ore. Am o tu tto di te. La tua forza, l’irruenza, la passione che m etti in ogni cosa. Anche in questa sciocca discussione, alla quale n on vuoi che le bim be assistano. Invece lo faranno. E vedranno due genitori che non si im pongono l’un l’altro, m a si ascoltano, si confrontano, o alm eno ci provano. C he forse non saranno scelti per una pubblicità di famiglie a colazione, m a sono persone vere che affrontano la vita vera, senza m u sichette di sottofondo. Q u in d i no, non farlo, per favore. N on chiudere quella porta, am ore mio.

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FITTA COME LA NEBBIA di Manuela Piovesan - Appena diventi maggiorenne, ti sposo! Giuro su Dio che lo farò... e ti renderò la donna più felice del mondo. Cesare sapeva sempre come far sorridere Agnese, riusciva a farla sentire la ragazza più fortunata del mondo. Lo ave va conosciuto due anni prima, quando aveva solo quindici anni, quando era già una conquista potersene tornare a casa da sola, e non era più riuscita a toglierselo dalla testa. Cesare aveva cinque anni più di Agnese, una faccia onesta da bravo ragazzo e due braccia muscolose che rinvigoriva col lavoro dei campi. - Che ti credi... che un contadino non possa mantenere la sua famiglia? Guarda mio padre! Non ha mai avuto bisogno di nessuno e con il suo lavoro ha cresciuto me e i miei quat tro fratelli, più quella santa donna di mia madre. - Ma io non ho nessuna intenzione di diventare una santa\ E nemmeno di avere tanti figli - gli aveva risposto ridendo Agnese che, a quell’età, non poteva certo sapere cosa signifi casse diventare donna. - Ti farò cambiare idea, bambina mia... - e Cesare l’aveva attirata a sé stringendola così forte da farle male. A volte sembrava quasi ossessionato dall’idea di perderla. - Tu sei mia, sei solo MIA! - le sussurrava all’orecchio. Agnese viveva quei momenti trattenendo il respiro. Le sem103

brava di vivere dentro ad una grande bolla di sapone, p ro tetta da un velo fragilissimo che avrebbe p o tu to spezzarsi da un m om ento all’altro. U na sensazione strana, ingiustificata e incom prensibile che poco a poco le si era incollata addosso com e un vestito bagnato. Eppure Cesare era affettuosissimo. Si sposarono appena lei ebbe com piuto diciotto anni e concluso gli studi all’Istituto Alberghiero di Piacenza. - M i piacerebbe m etter su un ristorantino - gli aveva confi dato durante la luna di miele - ... magari potrei diventare una cuoca famosa, andare in televisione, pubblicare le mie ricette... Cesare si era fatto scuro in volto e aveva contratto le m a scelle cercando di dom inare l’ira, un sentim ento che Agnese non pensava gli appartenesse. - N o n pensarci nem m eno, tu cucinerai solo per me! - e le aveva chiuso la bocca con un bacio. Agnese diventò una cuoca esperta m a no n cucinò solo per il m arito, perché a un anno dal m atrim onio la casa fu som mersa da pappe e pannolini. M artino, quattro chili e mezzo, era nato in una nebbiosa m attina d ’ottobre. A ncora la nebbia nella vita di Agnese, quella stessa nebbia che aveva ovattato il suo incontro con Cesare pochi anni prim a. Era strano da capire, m a p u r in un m om ento di gioia im m ensa, Agnese sentì forte un sentim ento di paura, come se la sua vita futura fosse destinata a diventare grigia. Per fortuna fu solo un m o m ento, perché l’am ore per M artino cancellò d ’un soffio ogni cattivo pensiero. Agnese non avrebbe mai creduto di provare un sentim ento così intenso, più forte di quello che provava per Cesare. Eppure, suo m arito faceva fatica a capirla. - N o n essere così assillante con il piccolo... Q uando un uom o torna dal lavoro, ha bisogno di attenzioni... di m an-

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giare bene e, alla fine, di coricarsi con la sua donna. M i sono spiegato? I miei fratelli sono cresciuti quasi da soli, sennò chi badava a m io padre? H ai capito cosa intendo? - le disse una sera, attirandola a sé in m aniera quasi brutale. E brutale Cesare lo fu anche quella notte, incurante della stanchezza di Agnese e desideroso solo di possederla. PLOP! La bolla si era im provvisam ente spezzata e da quel m om ento in poi niente to rn ò com e prim a. M artino cresceva senza dare grossi problem i e si fece un om etto in quattro e q u a ttr’otto; ogni giorno c’era qualche cam biam ento. Anche Cesare cam biò, m a divenne un altro uom o, com pletam ente diverso dall’uom o che Agnese aveva conosciuto. C om inciò a chiudersi in se stessa, a m ettersi in faccia un sorriso anche quando le sem brava che il m ondo le crollasse addosso e a recitare il suo ruolo di donna ogni qual volta Cesare lo richie deva. Vale a dire sempre; tu tti i giorni, o meglio tu tte le notti, come se dovesse darle una lezione piuttosto che am arla come le aveva promesso. E forse una lezione se la era m eritata, pen sò Agnese, quando fu chiaro che M artino sarebbe rimasto figlio unico. Si sentiva profondam ente in colpa. - M a com e è possibile? N on puoi darm i un altro figlio? N on capisco perché ti piaccia tan to quella dottoressa! N on ne azzecca una. E poi cos’è questa storia del cuore? D a q u an do in qua tu avresti male al cuore? M a se sei a casa tu tto il giorno e n on sei nem m eno obbligata a lavorare... tanto ci penso io, no? Sarà il caso che tu ti faccia consigliare da un m edico, intendo dire da un uom o. C he vuoi che ti dica... mi fido di più! Allora Agnese non si era sbagliata, aveva visto giusto! Suo m arito n on stimava le donne, sembrava che le disprezzasse

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proprio. A partire da sua moglie. Furono anni difficili quel li che seguirono a questa tristissima scoperta, anni colmi di silenzi e di cattivi presentim enti. Per non farsi soffocare dal dolore, Agnese com inciò a pensare che M artino, una vol ta cresciuto, l’avrebbe capita e sostenuta. M a non fu affatto così. Appena o ttenuta la licenza m edia, M artino non ebbe il tem po di scegliere, perché il padre aveva già deciso anche per lui. Così il ragazzo fu avviato al lavoro di m eccanico, non si poteva mai sapere. I trattori a volte si ferm ano, e chi avrebbe poi lavorato i campi? - E bravo M artino! - gli disse suo padre una sera, m entre Agnese stava rigovernando. E continuò: - H o visto che hai la tu ta nera come la pece, così alm eno tua m adre avrà qualcosada fare! - E padre e figlio risero per un bel po’. Agnese questa volta non rispose, m a si sentì letteralm en te travolta dalla disperazione. N o n era soltanto una battuta quella che aveva sentito. A poco a poco com inciò a dorm ire solo qualche ora per notte e a sentirsi m ancare il respiro sem pre più spesso. C om inciò anche ad aver bisogno di qualche farmaco per contrastare la depressione, in aggiunta alle gocce per il cuore. Nel frattem po, M artino continuava a ricono scere il padre come un vero leader e beveva avidam ente tu tto quello che gli veniva inculcato. Idee riguardo alla vita che Agnese non avrebbe mai pensato di sentir pronunciare, uno stillicidio verbale giornaliero da cui non sapeva più come d i fendersi. Provò a confidarsi con D on M ario, in fin dei conti era lui che l’aveva sposata. - Cara ragazza... - le aveva risposto - devi crederm i, tuo m arito è un brav’uom o, tu tto dedito alla famiglia. La donna deve avere pazienza, in fondo ti vuole un gran bene!

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- M a Padre... m i m anca di rispetto anche M artino, non posso accettarlo. M i aiuti alm eno lei! - Vedi Agnese... - le aveva risposto D on M ario, - la fam i glia è il bene più grande per una donna. Il tuo ragazzo ha bisogno di identificarsi col padre. E un passaggio obbligato, un m om ento della vita. Sono uom ini, in fin dei conti! Allora Agnese si rivolse a quelPU om o sulla croce: - A iuta mi tu, Signore! - lo pregò. Poi, uscita dalla chiesa, quel pom eriggio, ebbe un m anca m ento e cadde, m a nessuno la vide. La nebbia si era alzata all’improvviso e aveva offuscato an che i suoi pensieri. Agnese vide un uom o, o così im m aginò, che le andava incontro sorridente. C am m inava spedito, forte di quei muscoli che l’avevano fatta innam orare. D ietro, al seguito, un bam bino identico al suo papà come un a goccia d ’acqua. La stessa goccia, forse, che ora le stava scivolando sulla fronte, un po’ di nebbia sciolta. U n istante dopo, una fitta al cuore fortissima, una pugnalata che glielo spaccava in due. U n dolore trem endo... insopportabile, la stava portando via m entre quell’uom o e quel bam bino si perdevano in una fitta nebbia.

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LUNA PARK di Livia Rocchi Il Luna Park segreto appare di notte, dentro casa mia. Non si può vedere da fuori, né sentire. Non arriva tutte le notti e non si può sapere sempre quan do ci sarà e quando no. Le giostre cambiano in continuazione. Alcune a volte tor nano. Altre no. Gli autoscontri Stanotte ci sono gli autoscontri. Non li vedo, ma so che ci sono. Non hanno i ciambelloni di gomma attorno per attutire i colpi. Steso nel mio letto, al buio, li sento rombare in lontananza. All’inizio è appena un borbottio, poi diventa più forte come se qualcuno premesse il piede sull’acceleratore, sempre più spesso, sempre più a lungo. Poi il rumore si attutisce, smette. Il momento di silenzio fa ancora più paura perché so che ricominceranno a rombare, forte, sempre più forte. Poi smet teranno e ricominceranno e smetteranno e ricominceranno, fino allo scontro. Io qui, sotto le coperte, non posso fare nulla, solo aspettare. 109

Le m ontagne russe La settim ana scorsa, invece, c’erano le m ontagne russe. Sapete com ’è quando sei a bordo e si arram picano fatico sam ente in salita. A rrancano, sferragliano lente. La cim a è lì a pochi m etri, m a sem bra non arrivare mai. Poi ci sei sopra. Ti fermi per u n attim o, neanche il tem po di guardarti at torno, fare un respiro e am m irare il panoram a. M a forse è meglio tenere gli occhi chiusi. M olta gente lo fa. D opo un secondo cadi giù m entre lo stomaco quasi ti esce dalla bocca. Pensi si ,stacpensi ho paura. Pensi moriremo tutti? Poi il giro finisce. N on è m orto nessuno, questa volta. Però un giorno al telegiornale... M eglio n on pensarci che il prossim o potrebbe parlare di m am m a. E di me. Fa troppa paura. T i prendono in giro se hai paura. M i vergogno di avere paura. M i vergogno che a casa mia, spesso, ci siano le m ontagne russe. A casa dei miei amici non c’è il Luna Park. N o n posso raccontare del m io, n on capirebbero. Tanto non lo può vedere nessuno. O chiudono gli occhi, come in cim a alle m ontagne russe?

Il tagadà Anche questa è una giostra che com pare spesso. Assomiglia a una grossa insalatiera con dei divani sul bor do e lunghe sbarre di ferro a cui attaccarsi.

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Io sto sempre seduto, tengo strette le sbarre. Q u an d o la giostra inizia a girare, forte, sempre più forte, l’aria mi sbatte in faccia una carezza minacciosa. Stringo forte le m ani intorno al metallo freddo che ho die tro la schiena. La m am m a mi raccom anda sempre di tenerm i forte, di non lasciare andare la presa. È quello che faccio. La giostra gira. T utti gridano attorno a me. Le spalle mi fanno male, sento bruciare forte i palm i delle m ani. Presto appariranno le vesciche, grosse bolle sulla pelle che si riem piono d ’acqua. Fanno male. Scoppieranno. M a io mi tengo forte lo stesso. La giostra com incia a vibrare, a oscillare m entre gira: è un terrem oto dentro una centrifuga. Le urla aum entano. Le dita sudano, scivolano, anche i palm i delle m ani gridano, le spal le fanno il coro, il m io sedere viene spinto in alto, si stacca dal sedile poi ci sbatte sopra, le gambe sem brano nastri che sventolano inutili, l’aria in faccia mi soffoca, stringo forte il m io appiglio. Devo solo aspettare la fine del giro. C hiudo gli occhi. M i hanno detto che è più facile rim a nere in equilibrio al centro della giostra perché lì si muove meno. Gli altri ragazzi, lì in mezzo, a volte sfruttano le spinte del tagadà per fare salti altissimi. A volte scivolano, ma poi si rialzano. A me basterebbe anche solo stare in piedi... M a non ci provo nem m eno. Sto sui bordi e mi tengo forte come mi ha raccom andato mam m a. Se cado, io, potrei non riuscire più a rialzarmi.

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Il tu n n el d egli orrori È quella che appare più spesso. È una giostra al contrario perché non si paga il biglietto per entrare, m a per uscire. N o n ci sono m um m ie, serpenti, ragni o vampiri. C i sono solo voci. E buio. Si sentono le urla. C ’è m am m a in questo tunnel, m a non la vedo. E lei che urla. C ’è il m ostro. Le dice: - Vuoi che prim a ti parli e poi ti pesti o che prim a ti pesti e poi ti parli? Sento che m am m a piange. Vorrei abbracciarla forte, dirle che ci sono io. Vorrei pro teggerla. M am m a vuole uscire da questo tunnel. M a prim a deve pagare il biglietto. M am m a dice: - Prim a m i pesti e poi m i parli. M am m a vuole uscire prim a possibile, a qualunque costo. Vorrei trascinarla fuori io. M a non posso. Stringo forte il cuscino, piango insieme a lei come se po tessi m etterm i al posto suo. M a non posso. P iango in silenzio. Se il m o stro si accorge di m e è peggio. M i scappa, m i scappa, mi scappa! N on posso uscire e an dare in bagno. Dovrei passare davanti alla loro porta, farei rum ore, il m ostro mi sentirebbe e... chissà. H o nascosto sotto il letto la cassettina di plastica azzurra, quella dove il nostro gatto fa pipì.

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Scendo piano dal letto e la faccio lì dentro anch’io. Piano piano, ti prego, in silenzio! Sento dei colpi. U na voce soffocata. Le urla del m ostro. M am m a... Trem o forte m entre faccio la pipì. M i trem ano le m ani m entre nascondo la cassettina di nuovo sotto al letto. A pro la finestra perché no n si senta la puzza, piano, piano, oh no n cigolare, ti prego, ti prego, ti prego! Nevica. Tremo. È tu tto così silenzioso. Troppo. Forse ho fatto rum ore. Forse il m ostro mi ha sentito. Forse adesso... chissà. O p p u re si è addorm entato. D o rm idorm idorm i tipregotipregotiprego! Il suo russare è la m usica più bella del m ondo. N iente voci, niente colpi, niente parolacce, niente urla. N iente silenzio che fa ancora p iù paura. E com e quando cade la neve e copre l’im m ondizia. M i allontano dalla finestra socchiusa, i piedi scalzi non fanno rum ore sul pavim ento gelido. C om e la neve. M a non sta russando, c’è solo silenzio. Tremo. Torno sotto le coperte, trem o. La voce di m am m a m i arriva di nuovo attraverso il m uro, com e se anche lì ci fosse una finestra aperta. Piange. Dice: - T i prego. - A nche lei. M a n o n lo dice tre volte di seguito, forse è per questo che no n funziona? E il m io funzionerà?

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Ci prem o contro la faccia e piango. Vorrei prendere il volo. Vorrei che le catenelle si spezzasse ro e questa giostra mi lanciasse lontano. Vorrei atterrare dove andrà il m aestro M arco. Piango. Piango. Piango. Piango pensando: - D om ani è l’ultimo giorno con il maestro Marco. Piango pensando: - Perché il maestro M arco non è il m io papà? La casa d egli sp ecch i È apparsa di giorno. D en tro c’era la zia che diceva alla m am m a: - Q uelli che dicono , vi , di solito non am m azzano nessuno! - D i solito n on m i basta - ha risposto la m am m a. - D enuncialo! C ’è una legge che... - N o n m i basta la legge. Arriva sem pre tardi e ha sempre le m ani troppo legate. Le sue invece si m uovono in fretta, lo sai benissimo! - N on puoi pensare solo a te stessa, devi proteggere Benny. Vattene da qui! - H a detto che ci ritrova. E ci ammazza. Fosse solo per me va anche bene, m a Benny no, devo proteggerlo. Forse cam bierà... - C am bia sempre in peggio! M am m a sta zitta, la zia continua: - Svegliati! Denuncialo! M uoviti! Fai qualcosa! - Se faccio qualcosa ci ammazza. - E solo un vigliacco!

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- Proprio per quello. - E allora combatti! A ltrim enti sei più vigliacca di lui! - Forse sì. - Adesso smettila. - N o, è vero, è colpa mia... - No! Lo so che è difficile, c’è Benny... N o n piangere, su... non è colpa tua, è una situazione delicata, difficile. Lo capi sco... lo capisco... n on piangere. E soprattutto non dire che è colpa tua. N o n piangere, troverem o un m odo... d ’accordo? M am m a... N on è colpa tua. Vuoi proteggere me. E colpa mia. Anch’io vorrei proteggerti. Anch’io vorrei salvarti. M a come? Vorrei chiedere aiuto. M a dovrei dire che tu stai qui e prendi le botte, tante botte, per proteggere me. Sono io che ti tengo qui? Sono io che n o n so salvarti. Dovrei dirlo che è colpa mia. M a m i vergogno. La zingara Era identica al maestro M arco, barba compresa, m a aveva il rossetto, grandi orecchini a cerchio così enorm i che ci si poteva appendere un canarino, e lunghi capelli ricci coperti da un fazzolettone. M entre girava i tarocchi parlava con la voce del m aestro M arco e m i diceva le stesse cose che m i ha detto lui prim a di andare via, quando mi ha regalato il libro. M i ha spiegato che

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lì c è una magia m olto potente. Il nom e della parola magica me lo ricordo bene perché è bellissimo: metafora! H a detto che lo scrittore usa questa m etafora per dire le cose, m a non come sono realm ente, in un altro m odo, con un altro aspetto. Per esempio mi ha spiegato che il grillo parlante di Pinoc chio è la sua coscienza, m entre la balena è il dolore e la ver gogna che a volte sem brano volerci ingoiare in un boccone. È bellissimo raccontare le cose con questa metafora! Si può dire tu tto quello che si vuole senza far sapere che il pro tagonista del racconto sei proprio tu, che conosci un m ostro e fai la pipì nella cassettina del gatto. Così non ci si vergogna. È stato lì che ho deciso. H o raccontato al m aestro M arco che c’era una volta un orsacchiotto di pezza, e ogni notte nella sua caverna vedeva apparire un Luna Park... E m entre raccontavo sentivo che capiva. Capiva che l’o r sacchiotto ero io, m a no n m e ne im portava niente. Perché anch’io m entre raccontavo capivo. Capivo che se qualcuno doveva vergognarsi, non ero certo io.

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A LITTLE PRINCESS di M. Giuliana Saletta Ultima chiamata per il volo A534 destinazione Rio de Ja neiro. Il signor Rossini è atteso al Gate 18. - Ci sono, ci sono! Permesso, mi scusi. - Questo è il suo posto signor Rossini. Metta il suo baga glio a mano nella cappelliera e si accomodi, dobbiamo chiu dere la procedura di imbarco, siamo in ritardo! - Chiedo scusa per avervi fatto attendere! - Non si preoccupi, metà dei passeggeri sono arrivati in ritardo, l'incidente sull’autostrada ha creato un ingorgo paz zesco, a quanto ci è stato detto. - Permesso, posso passare? Tre F, ho il posto vicino al fi nestrino! - Prego! Sono salito anch’io da pochi minuti, mi sono tro vato imbottigliato come tutti. Mai visto un incidente cosi grosso! - Davvero terribile! Piacere, sono Rossini, anche lei va a Rio per la partita dell’Italia? - Piacere, Graffietti! No, io vado per lavoro, ma se riesco a trovare un biglietto all’ultimo momento, non mi dispiace rebbe venire a fare il tifo. - Viaggio d’affari? - Sì, purtroppo, vado avanti e indietro abbastanza di frequen te. Sono un avvocato, lavoro per una grossa ditta che ha una 119

filiale a Rio e ogni volta che c’è una rogna devo partire. Una vera seccatura, certo economicamente ne vale la pena, ma la mia fa miglia è m olto sacrificata, soprattutto la mia piccola Principessa. H a dieci anni e soffre tantissimo ogni volta che parto. Questa m attina in m odo particolare non riuscivo a staccarmela di dos so, ho dovuto prometterle doppio regalo al mio ritorno. - N o n vorrà farm i credere che anche gli avvocati hanno il cuore tenero, eh? - Eh... eh... ebbene sì! M ia figlia mi ha stregato, è stato am ore a prim a vista, mai provato nulla di simile in vita m ia per una donna, m a la prego n on lo dica troppo in giro, ne va della m ia reputazione! E lei che mestiere fa? - Tranquillo avvocato, può contare sulla m ia discrezione! Io sono idraulico, ho una d itta m olto ben avviata con m io cugino. M io zio ci ha insegnato il mestiere e, senza falsa m o destia, siamo i migliori sulla piazza, un po’ cari forse, m a dove m ettiam o noi le m ani, è garantito che per altri v e n ta n ni nessuno avrà più nulla da fare. - Allora dovrà lasciarmi il suo biglietto da visita. M ia m o glie ha sempre problem i con la lavatrice, secondo me sono i dom estici a non saperla usare, che vuole che le dica, di questi tem pi trovare persone fidate e brave è sempre più difficile, ci si deve affidare agli extracom unitari, che vanno e vengono. E a cam biare spesso poi capitano questi guai. D lin D lon - I passeggeri sono pregati di riprendere posto a sedere e di allacciare le cinture di sicurezza, stiam o per incontrare una perturbazione che causerà alcuni vuoti d ’aria! - Rossini ha paura di volare? Vedo che si è appena fatto il segno della croce...

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- N o n ho paura della m orte in sé, io sono credente. M i faccio il segno della croce per affidarmi alla M adonna. N o n si sa mai, m etti che l’aereo cade, io m i sento più tranquillo se Lei m i è vicina. Le sem bra una b ru tta cosa? - A ssolutam ente no, io sono ateo, m a ho il massimo ri spetto di chi crede e anche, se posso dirlo, un po’ di invidia. Im m agino che sia una bella consolazione credere in qualcosa di più grande di noi, a cui potersi affidare. - Be’ penso di sì, per me è normale. Nella m ia famiglia è così da sempre: catechismo, oratorio, messa domenicale. N on credo di essermi mai posto il problem a di poter non credere. - H a dei figli, Rossini? - N o avvocato, sono quello che si definisce uno scapolo d ’oro! - M hm , Rossini, allora dovrò esserci anch’io in casa quan do verrà a sistemare la lavatrice! Eh eh... - M a scherza, avvocato? Le donne degli altri sono intocca bili e in m odo particolare quelle di amici e conoscenti! - A h be’, allora credo di poterm i fidare, lei ha l’aria della persona onesta e con una grande moralità! - A nche lei, Graffietti, per essere un avvocato non scherza! Eh eh... - Eh, sì, noi avvocati abbiam o una b ru tta fama, forse il no stro mestiere ci p orta a essere un po’ cinici, diffidenti verso gli altri, m a in verità è tu tta apparenza, credo faccia parte della nostra maschera. Ce lo insegnano all’università, un avvocato deve sempre sem brare di fretta, avere la ventiquattrore stra piena di carte (se non ne hai abbastanza, riem pila di giorna li!) e arrivare in ritardo cronico. D lin D lon

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- Abbiamo iniziato la procedura di atterraggio. Tra venti m inuti circa saremo a Rio de Janeiro. Sono le 16.50 ora locale e la tem peratura a terra è di 35°. Vi ringraziamo per aver scelto la nostra com pagnia e vi auguriamo un felice soggiorno. - Allora, avvocato, la saluto! Q uesto è il m io biglietto da visita se ne ha bisogno. Le auguro u n piacevole soggiorno e se riesce a trovare un biglietto per la partita me lo faccia sapere, possiam o andarci insieme! - Grazie Rossini, è stato un piacere viaggiare con lei, ho molto apprezzato la nostra lunga chiacchierata. Questo è il mio bigliet to da visita, spero non abbia bisogno di me professionalmente, ma non si sa mai. Auguro anche a lei un buon soggiorno e sicu ro la contatterò al ritorno per il problema della lavatrice. - A presto! - A presto!

Periferia di Rio, uno squallido locale fum oso, donne m ez ze vestite su divanetti rossi chiacchierano tra loro, in attesa, come carne in vendita sul banco del macellaio. U om ini van no e vengono. - Mr. Rossini, come this way, please! She’s w aiting for you. - Avvocato, anche lei qui! - Rossini, conto sulla sua discrezione. La carne è debole per tu tti, a quanto pare. - Eh, sì, avvocato, ha proprio ragione! - Mr. Graffietti, the young lady you asked for is upstair, she’s ten, as you like, and she’s a virgin! A little Princess.

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UNA NUO VA ALBA di Chiara Segrè

La prima fitta arrivò alla base del collo: un dolore acuto e totale. Alba avrebbe voluto vomitare e piangere allo stesso tempo. Non fece nessuna delle due cose, ma si morse il lab bro fino a farlo sanguinare; qualcuno le aveva detto, o forse lo aveva letto da qualche parte, che un dolore piccolo distrae da uno più grande. Non riusciva però a trattenere i sussulti del corpo. - Devi stare ferma! - intimò la voce alle sue spalle - O ti farò ancora più male. Alba stava sudando; poco lontano, in riva al mare, i gab biani stridevano nella brezza di fine aprile, ma in quella mi croscopica stanza al piano terra, incastrata tra un panificio e una tintoria, un buco nero aveva inghiottito l’aria, la luce, i suoni. Alba sentì l’uomo fermarsi, e il gorgoglio che seguì le fece capire che stava bevendo; il dolore si interruppe. E al suo posto, come sempre, tornarono le voci. Puzzi più tu di un cassonetto di pattume Vali meno di una zingara che chiede l ’elemosina Nei suoi sedici anni di vita, queste erano il genere di parole che aveva sempre sentito rivolgere da suo padre alla mamma. All’inizio, da piccola, le sembrava normale. Quando aveva iniziato la scuola, piano piano si era resa conto che i genitori 123

dei suoi com pagni di classe si dicevano altre cose, avevano un altro tono di voce e, soprattutto, si guardavano negli occhi e i loro volti erano sorridenti. Io ti ho preso solo perché m i facevi pena, brutta e grassa come sei, saresti rimasta sola come una cagna bastarda Le voci di suo padre furono scacciate dal nuovo dolore quando l’uom o dietro di lei riprese la sua opera; ora dal collo si stava diffondendo in am pi cerchi sulle spalle, sulla schiena e persino alla testa. Alba ricom inciò la sua guerra contro le lacrime. D opo un tem po indefinito (secondi o ore, non avrebbe saputo dirlo) Alba percepì sulla pelle qualcosa di caldo e vi scido. - È vaselina - le disse l’uom o in tono piatto - così sen tirai m eno male. - Alba annuì appena: le sembrava di avere appena ingoiato un barattolo di colla a presa rapida che le aveva aggrovigliato tu tte le viscere. Il sollievo ci fu, m a m o m entaneo; quando l’uom o riprese, il dolore riesplose nella carne più forte di prim a. U na parte di lei aveva un disperato bisogno di piangere; l’altra si sarebbe uccisa piuttosto che far cadere anche solo una lacrima. Del resto, farlo era stata una sua scelta. E fino a che era concentrata sul dolore fisico, riusciva a tenere i ricordi fuori dalla sua m ente. Era accaduto un anno esatto prim a. Q uella sera suo padre era rientrato presto dal lavoro. La m am m a stava preparando l’arrosto, che poi era quello che suo fratello le aveva chie sto, o meglio dire, ordinato che cucinasse per quella sera. Se M arco avesse osato rivolgersi così a lei, Alba l’avrebbe sicu ram ente m andato a farsi f... M a la m am m a no, lei ingoiava ed eseguiva.

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Suo padre non aveva nem m eno salutato; si era chiuso in bagno per oltre mezz’ora e ne era uscito confezionato con camicia pulita e stirata (non da lui, ovviamente) e una n u vola di dopobarba. Sulla porta, si era vagam ente girato nella direzione in cui si trovava la moglie e aveva detto, con la tranquillità di chi sta ordinando un espresso al bar: - Stasera non ci sono: tu tti i direttori d i reparto cenano col nuovo am m inistratore delegato. Ho detto che non ti sentivi bene. Cessa e scema come sei m i faresti sfigurare con le mogli degli altri. In quel m om ento Alba aveva deciso. La prim a volta Alba aveva sottratto solo cinque euro. La m am m a stava stendendo il bucato sul terrazzo; Alba aveva aperto il cassetto del soggiorno dove tenevano i contanti di uso quotidiano, per la spesa o per pagare Svetlana, la donna che faceva le pulizie da loro una volta alla settim ana. Era stato più facile del previsto, m a poi Alba non aveva dorm ito tu tta la notte, aspettandosi di vedere la m am m a com parire nella sua stanza e individuare con una sola occhiata il na scondiglio, tra le pagine del libro di scienze. U na parte di sé aveva ardentem ente sperato che la m am m a la scoprisse e la sgridasse. Alba le avrebbe urlato dietro, le avrebbe detto che lei faceva di testa sua e che no n si lasciava com andare dagli altri come faceva lei con suo padre e con M arco. Poi si sarebbero abbracciate e la m am m a le avrebbe promesso che se ne sarebbero andate, e avrebbero ricom in ciato da capo. M a la m am m a non era entrata quella notte in camera sua; n on aveva mai trovato quei cinque euro, né tu tti quelli che Alba sottrasse da quel giorno in poi.

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Infine venne il giorno in cui i soldi m ancanti erano troppi perché la m am m a riuscisse a tenerlo nascosto al m arito. Alba pensò (e, una parte di lei, sperò) che a suo padre sarebbe venuto un infarto. La faccia era paonazza e il collo gonfio e pulsante m entre vom itava sulla moglie un diluvio di insulti: - D onna inutile... cretina lobotomizzata! N on fa i un cazzo dalla m attina alla sera perché io m i spacco il culo per portare a casa i soldi e fa rti fare una vita da regina, a te e a loro due - il padre aveva mosso vagamente il collo nella direzione di Alba e M arco, inchiodati a una sedia in cucina e incapaci di muover si, - non sei neanche capace d i controllare quella zoccola che pago per pulire a l posto tuo. D evi proprio avere il lardo nel cervello oltre che nel culo per fa r ti rubare sotto il naso settecento euro. Il giorno dopo, suo padre aveva licenziato in tronco Svetlana. Alba aveva finto di sentirsi m ale e si era chiusa in bagno, per n o n dover affrontare lo sguardo disperato e sm arrito della dom estica che usciva da casa loro per l’ultim a volta. - A h h h h h h h - dopo il terzo ripasso sul collo, Alba non era riuscita a controllarsi e il sussulto del suo corpo era stato eccessivo. - Se ti m uovi così di scatto, rischi che ti faccia DAVVERO male - l’uom o era leggermente spazientito. - Forse è meglio se facciamo una pausa. - Alba avrebbe voluto dirgli di no, m a questa volta il male era davvero troppo forte... Alba non era m ai stata brava in disegno; ci aveva im pie gato mesi per im parare a falsificare la firma dei suoi genitori.

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Suo fratello ci avrebbe messo dieci m inuti, m a m ai e poi mai Alba gli avrebbe rivelato i suoi piani. M arco avrebbe preteso di leggere i m oduli del consenso, scoprendo quello che aveva intenzione di fare, e l’avrebbe sicuram ente usata com e arm a di ricatto. Suo padre n on aveva mai picchiato la m am m a o, se lo aveva fatto, Alba no n se n e ra m ai accorta. Diverse volte ave va quasi sperato, con vergogna, che lo facesse così forse la m am m a avrebbe trovato la forza di ribellarsi... o l’avrebbe avuta Alba per lei. Le botte forse Alba non le avrebbe sentite, se si fosse chiusa in cam era sua avrebbe p o tu to ignorarle. M a le parole, quelle volavano attraverso i m uri e i cuscini schiac ciati sulle orecchie, e avevano il perverso, oscuro potere di annientare ogni volontà di ribellione, com e una gigantesca m ano nera che la teneva inchiodata a terra e le tagliava il respiro. Alba odiava suo padre per quello che faceva, odiava M arco perché stava diventando com e lui e odiava la m am m a per non essersi mai ribellata, per non averli portati via da quella casa. L’uom o dietro Alba continuava la sua lenta tortura. O rm ai il dolore era un sottofondo continuo e ininterrotto, anche durante le brevi pause in cui l’uom o si asciugava il sudore. Alba continuava a ripetersi: - H o deciso io di farlo, lo volevo, 10 volevo davvero... E poi, im provvisam ente: - H o finito! Sei stata m o lto brava! T utta la parte alta della schiena di Alba era in fiamme, m a 11 dolore acuto era sparito, e questa volta no n sarebbe più tornato.

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- Se vuoi vederlo, fallo ora perché dopo applicherò altra vaselina e una benda, e per un po’ dovrai tenerlo coperto. Alba si avvicinò a un grande specchio appeso accanto alla porta. - Tieni anche questo - l’uom o le allungò uno specchio più piccolo, col bordo di plastica fucsia. - Così non ti sloghi il collo. Grazie al gioco di specchi, finalm ente Alba potè vederlo in tu tto il suo splendore: sulla sua schiena, ancora rossa e im perlata di m inuscole gocce di sangue, con le ali aperte e tese tra le scapole e la testa alta che dalla base del collo guardava all’insù, si stagliava uno splendido, fiero gabbiano. Il volto di Alba si trasfigurò per la gioia - È bellissimo! - Le venne da piangere per l’emozione. E questa volta Alba liberò tu tte le sue lacrime. - Ricordati di idratarlo ogni giorno e per quest’anno do vrai rinunciare all’abbronzatura: niente sole diretto sul ta tuaggio! - L’uom o si chiamava Davide: aveva le braccia com pletam ente tatuate, non un centim etro di pelle era più visi bile. U n’enorm e tigre con le fauci spalancate emergeva dalla m aglietta. Q u an d o le sorrise, un sorriso pulito e sincero, i piercing sulle labbra brillarono. - Ti pago in contanti. - Alba gli tese la busta che aveva estratto dalla sua sacca di tela: un pacchetto di banconote, tu tte allineate in ordine di taglio. Davide ci mise un po’ a contarle, perché erano quasi tutte da cinque e da dieci euro: - Settecento tondi - si fermò e fissò Alba per un attim o di troppo. - D o ripetizioni alle m edie da un anno - m entì Alba. Davide non disse niente, così come non aveva mosso un ci glio quando Alba, due ore prim a, gli aveva consegnato i m o-

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duli con le firme dei suoi genitori che consentivano alla loro figlia m inorenne di tatuarsi la schiena. Sul tavolo, accanto alla cassa. Alba vide una foto del tatuatore insieme a un bam bino e a una donna con i capelli rosso fuoco. Tutti e tre sorridevano, abbracciati e im m ensam ente felici. Alba sentì qualcosa dalle parti dello stomaco che asso migliava m olto, troppo, a una feroce invidia. - Devo andare - e imboccò la porta del negozio senza nem m eno salutare. Alba era in piedi sugli scogli, al m argine m eridionale della città. Il m otorino giaceva su un lato sotto un pino poco lon tano; il bruciore alla schiena orm ai era quasi del tu tto sparito e il caldo soffocante del negozio di Davide sembrava lontano anni luce. Chiuse gli occhi assaporando l’aria del m are, straripante del suono delle onde e dello stridio dei gabbiani. I gabbiani le erano sempre piaciuti; fieri, eleganti, puliti e soprattutto liberi. M ille e una volta avrebbe voluto unirsi a loro, lasciare per sempre quell’orrendo, squallido e schifoso buco nero che era casa sua, e vivere sem pre nella luce del mare. Fece un passo in avanti: ora sentiva il vento freddo che risaliva dall’acqua, centro m etri più in basso. M ille e una vol ta era venuta su quella scogliera pensando a quanto sarebbe stato bello volare com e un uccello in picchiata verso le onde, anche se solo per pochi secondi, e senza avere mai il coraggio di farlo. Fece un altro passo... le p unte dei piedi erano oltre il bor do della roccia. Aprì gli occhi: questa volta sapeva che avreb be saltato. Il vuoto non le faceva più paura. O ra sapeva che

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ne avrebbe avuto il coraggio. E proprio per questo Alba non saltò. Restò a lungo a osservare il m are che si spezzava contro le rocce, e i gabbiani che giocavano con le correnti. Q u a n do il sole si fu adagiato sull’orizzonte, Alba raccolse la sua borsa di tela, balzò in sella al suo m otorino e, accom pagnata dal suono delle onde, tornò a casa. O ra anche lei aveva le ali: qualunque cosa fosse successa in futuro, avrebbero po tu to portarla in salvo. In qualunque m om ento avesse deciso, avrebbe sempre p otuto volare via.

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PROVE DI FUTURO di Luisa S ta te ri

Mi chiudo la porta alle spalle. Senza quasi che me ne renda conto, il mio sguardo sfiora la targa sulla porta accanto. Sorrido. Papà ne avrebbe desiderato una grossa, visibile a distanza, sulla quale spiccasse il mio nome. La sua pelle non riusciva a contenere l’orgoglio per il traguar do conseguito dalla sua unica preziosa amatissima figlia e io, di solito così accondiscendente, per la prima volta e forse l’unica, mi imposi. Aborrivo l’idea del mio nome esposto sguaiatamente agli occhi di chiunque. Il mio desiderio, poi, non contemplava l’in dividualismo: avevo in mente un centro, presso il quale potesse recarsi chiunque avesse bisogno di sentirsi ascoltato. Sarebbe passato del tempo, prima che quel progetto diven tasse storia, avrei avuto bisogno di guardare bene in fondo agli occhi, coloro con i quali condividere pensieri e sogni. Ma ora c’è, e sulla targa c’è scritto solo Ti ascolto, centro di accoglienza. Anche dentro, su ognuna delle porte, c’è solo il nostro nome: Alice, Laura, Francesco, Veronica. E nella sala d’aspetto sedie e divani e, pensate e decise all’unanimità, due librerie zeppe di volumi per piccoli e gran di. Chi può mai dire quanti anni avrà la persona che varcherà quella soglia? 131

Al mattino ci siamo a turno: è il nostro m odo di concederci un margine di libertà. M a di pom eriggio siamo tu tti qui e quell’uscio resta sempre aperto, un paio di braccia spalancate, per accogliere chiunque lo voglia. D a sempre mi alzo molto presto e, se non ho impegni, spesso gironzolo un po’ e finisco per andare al vecchio mercato del quar tiere, dove gli ambulanti più anziani mi conoscono da quand’ero bambina e accompagnavo papà a far la spesa. Già allora era una festa per i miei occhi! I colori degli ortaggi, della frutta, attiravano la mia attenzione. M i avvicinavo ai banchi e scombinavo le complicate geometrie che i fruttivendoli avevano faticosamente costruito. Anche adesso, girare tra le cassette, ascoltare le cantilene di richiamo, ha su di me un effetto rilassante. Naturalmente ho i miei fornitori del cuore: la mia preferita è Lilina, una donna m orbida come la sua voce. M i ha sem pre chiam ato Alice, poi, un bel giorno buon giorno dottoressa. M i scherm ii, ma come, non sono p iù Alice, adessoì Chissà, pensava forse, come m olti, che il titolo scritto su un docum ento m eriti più rispetto di un essere um ano. N on provai nemm eno a protestare. Lilina non è disposta a trattare su taluni suoi convincimenti. Una mattina, qualche tempo fa, quando sono arrivata al suo banco, era stranamente affollato per l’ora, l’ho salutata, ma mi è sembrata distratta. Al m om ento di servirmi, m i è parso che m i rivolgesse stra ne occhiate, m a non c’è stato un seguito, così ho pensato di essermi sbagliata. Invece no, perché un po’ di giorni dopo mi ha fatto cenno di

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avvicinarmi, eravamo sole, e mi ha confidato il suo timore che qualcuno mi seguisse. - M a chi vuoi che mi segua, Lilina? - N on voglio spaventarla, dottoressa, ma... - e con un cenno degli occhi, mi indica qualcuno. Pago e mi volto per andarmene ed è allora che la vedo: una figura elegante e fiera, che, sebbene celata in abiti dimessi, non puoi fare a meno di guardare. Cos e che turba Lilina, mi chiedo? Poi gli impegni quotidiani mi assorbono e finisco per dim en ticare il curioso episodio. Solo la sera dopo, sto per lasciare il Centro e andare a casa, quando riconosco, nella sala d’attesa, la ragazza che mi aveva m o strato Lilina. Tra le mani stringe forte un libro. M i guarda. - Vuole accomodarsi? - le chiedo. Entra nello studio. Chiudo la porta e mi siedo. Lei invece re sta in piedi. N on le faccio domande, aspetto che sia lei a parlare. Si guarda in giro, ma senza curiosità, sfiora gli oggetti intorno con i suoi occhi seri. Poi: - L’ho seguita, sa? Avevo bisogno di capire. H o ascolta to il suono della sua voce, studiato il ritm o del suo passo, guardato le persone con cui ha parlato. Si può com prendere m olto, osservando le azioni di ogni giorno. Sentire fino a che p u n to , davvero, qualcuno avrà voglia di ascoltarti, fino a che p u n to vorrà ten d erti u n a m ano. Le vibrazioni sottili della sua voce e il suo passo sicuro m i han n o convinta ad arrivare fino a lei.

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Si alza e lentamente si avvicina allo scaffale dei libri per bambini, ne accarezza il dorso con i polpastrelli. N e prende qualcuno e lo tiene tra le mani con la stessa cautela che si dedica a un neonato. - Sa, la mia famiglia è formata da persone che non hanno potuto continuare la scuola, ma mia madre adorava i libri e ta gliava spicchi di tempo per poter leggere un po’, anche se questo significava ridurre ancora di più le sue già poche ore di sonno. M a non ci rinunciava. Ci sono luoghi segreti, in cui ti trasportano i libri, in cui nessuno può raggiungerti. Le parole dei libri attenuano anche il dolore, diceva. Raccontava che aveva dovuto accantonare la sua grande pas sione quando, nell’arco di venti mesi, si era ritrovata con due figli, ma non vedeva l’ora che crescessimo un po’ per poter co minciare a leggere anche per noi. Fu quel che fece. N on aveva soldi per comprarli, i libri, ma la fortuna volle che grazie ad alcune associazioni del paese, aprirono una piccola bi blioteca e quella diventò per lei il suo castello incantato. Fin da quando eravamo piccolissimi Luca e io, ci metteva insieme den tro una vecchia cesta e ci teneva vicini, un occhio alle faccende e qualche m inuto di lettura. N on capivamo nem m eno tutte le parole, allora, ma il suono della sua voce ci incantava. Luca e io siamo cresciuti legati come se condividessimo un unico cordone, mia madre diceva che se fossimo stati gemelli, non saremmo stati più uniti di così. O gnuno di noi si è sempre occupato dell’altro. Sempre. Q uando avevamo tredici, quattordici anni, una sera in cui c’era la festa del Santo Patrono e gironzolavamo tra le bancarelle, Luca camminava un po’ avanti con i suoi amici e io, con le mie amiche, stavo indietro. A un tratto, uno dei bulletti del paese mi

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madre imbarazzata, disse che doveva parlarci. Aveva scoperto di essere incinta e si vergognava di raccontarlo a due figli già gran di. Ridemmo forte noi e la abbracciammo, vuol dire che saremo genitori p iù chefratelli. La nostra reazione la tranquillizzò e le fece vivere quella gravidanza con più serenità M a ignoravamo ancora che quello era il principio della fine. Perché quando partorì, lei che si vantava di aver avuto dei par ti facilissimi, qualcosa andò storto e, in pochi giorni, mia madre e la piccola morirono. Ricordo prima lo stupore del dolore, perché certe cose pensi che a te non debbano mai toccare. E come una sentenza, le paro le di chi continuava ad abbracciarmi e a ripetere adesso sei tu che devi prendere il suo posto. Il suo posto. I giorni rotolavano lugubri e vuoti, incolmabili. M io padre era un’ombra, furtiva, quasi inesistente. Il perno attorno al quale ruotava la nostra vita se n era andato per sempre. Più il tempo passava, più sembrava restringersi lo spazio in torno. Fino a quella sera che diventò delle dim ensioni di una gabbia. Luca era fuori con gli amici, aveva detto che non sarebbe rientrato per cena. Il tonfo della porta mi avvertì che mio padre era tornato. Lo sentii farfugliare, parlare tra sé. N on capivo. Stavo m etten do a posto le ultime cose prima di cena, quando all’improvviso mi sentii afferrare dalle spalle. N on ebbi il tempo di realizzare cosa stesse accadendo, per ché... era già accaduto. Gemiti, parole sconnesse Usuo posto, sì, il suo posto.

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M i lasciò a terra, tremante, sporca, di un lereiume che nessun sapone può lavare e con addosso, indelebile, il suo odore, l’odore acre dell’ossessione. Mio padre. Era la prima volta, ma non sarebbe stata l’ultima. Un giorno, poi, Luca mi disse che gli avevano offerto lavoro in città, che ne aveva parlato a nostro padre, il quale gli aveva consigliato di cogliere l’occasione. E io? Cosa avrei fatto io? Vieni con me. 10 non avrei avuto lo stesso consenso, per più di una ragione. M a questo a Luca non potevo dirlo. Gli dissi soltanto che ci avrei pensato. D ’altronde mancavano pochi mesi ai diciotto anni. La fatica non mi spaventava e, aiutata da una buona vecchia amica della mamma, riuscii a trovare accoglienza in un collegio di suore e un lavoro come cameriera in un piccolo ristorante. 11 giorno dopo il mio diciottesimo compleanno, mio padre trovò davanti alla porta la modesta borsa che avevo preparato: i pochi indum enti che possedevo e il libro in cui avevo trovato finalmente le parole che leniscono il dofore. - Dove credi di andare? - mi ha detto. - Via da te. - N on puoi. N on te lo permetterò! - Prova a fermarmi - gli risposi, tenendogli testa per la prima e unica volta in vita mia - ho diciotto anni e in mano una minaccia di Luca a chi avesse osato mettermi le mani addosso; ammazzo ha detto e tu sai che lo farebbe davvero. Sono passati tre anni da allora, non so più niente di lui. Le parole di A nna sono state la corsa di un fium e che acquista velocità in discesa. Capisco che lei ha già dolorosa137

m ente sbattuto sui sassi del greto e, faticosam ente, da sola ha raggiunto l’argine. - M a io, Anna, cosa posso fare per te? - Vede, dottoressa, quando qualcuno viola il tuo corpo, hai come l’idea di essere tu la vera colpevole. Lo sporco dal quale ti senti ammantata, lo vivi come qualcosa di cui sei responsabile e non riesci a liberarti. Q uando accade ciò che è successo a me, c’è anche dell’altro. Ti chiedi mio paMa lui n doveva proteggermi?Il torm ento non ti dà tregua, non trovi una spiegazione allo scempio. Com e le ho già detto, dentro di me era vivo il pensiero di mia madre, trovare le parole che lenissero il dolore. E io le ho trovate e lo sa dove? In una fiaba. Cosi dicendo mi porge il libro che ha sempre tenuto con sé. Lo apro: Pelle d ’asino. - Lo sa dottoressa? Quella fiaba è la storia di un incesto mancato. Il re resta vedovo ma la regina, prima di morire, gli fa giurare che sposerà soltanto una donna che possa eguagliare le sue qua lità. M a di tutte quelle che incontra il re, nessuna è come sua moglie, tranne... sua figlia. Ed è lei che vuole sposare. M a lei riesce a fuggire coperta da una sudicia pelle d’asino. Se ne libererà alla fine, grazie all’amore e alla fiducia di un gio vane principe e dei suoi genitori, pronti ad accettarla così com’è. Ecco, dottoressa, adesso io ho vicino a me tutti i giorni qual cuno in cui riporre la mia fiducia, qualcuno che mi ha indirizzato da lei. Lei non mi ha chiesto niente, davvero ha solo ascoltato. M a io le chiedo qualcosa. Vorrei lasciare in mezzo agli altri que sto libro, la mia... pelle d’asino, perché ora forse, sono pronta a immaginare un futuro. Mi alzo, le restituisco il libro e insieme, come in una cerimo nia solenne, andiamo a poggiarlo sullo scaffale. 138

TADDEO E LA PASTICCERA di Annalisa Strada - Le tue torte mi aprono le porte del paradiso - disse Taddeo a Maddalena la prima volta che entrò nella sua pasticceria. Lei sorrise, il giorno dopo preparò una torta al cioccolato e aggiunse una goccia di miele, pensando a lui. Tutti i clienti ne avrebbero voluta una doppia porzio ne, ma lei difese l’ultima fetta con ardore e la tenne da parte per Taddeo. Gliela servì su un piatto coperto da un tovagliolino di carta leggera, bordato di rosa e azzurro, con una primula gialla disegnata in un angolo. Taddeo la mangiò piano, gustandola ad occhi chiusi e, dopo l’ulti mo boccone, disse: - Le tue torte mi aprono le porte del paradiso e i tuoi occhi mi spalancano il cuore. Ne mangerei volentieri una intera. Il giorno dopo Maddalena preparò una torta alla vani glia con il tocco segreto di una lacrima di latte di m an dorla. Non la volle vendere a nessuno per portarla tutta intera a Taddeo. Lui ne mangiò una fetta a larghi bocconi, tra l’invidia di tutti. Alla fine fissò i suoi occhi dritti in quelli della bella pasticcera e mormorò: - Le tue torte mi aprono le porte del paradiso e i tuoi occhi mi spalancano il cuore. Ne mangerei una a due piani, se la trovassi. - Poi si alzò e portò via quel che rimaneva del dolce. M addalena non l’aveva nemmeno assaggiato, ma non ebbe il tem po 139

di accorgersene perché corse nel suo lab o rato rio a cercare u n a ricetta ad atta per u n a to rta a due piani. Il g io rn o dopo M addalena aveva gli occhi gonfi e le braccia stanche, perché aveva rifatto tre volte la to rta a due pian i p rim a di essere so d d isfatta del risultato. A spettò T addeo con gli occhi fissi alla p o rta, servendo d istrattam en te gli altri clienti. Lui arrivò tardi, un po’ d istratto , m a m angiò volentieri una fetta della to rta a due piani che si trovò davanti appena seduto. Si pulì la bocca e prese la m ani di M ad d alena tra le sue: - Le tue to rte m i ap ro n o le p o rte del paradiso e i tu o i occhi m i spalancano il cuore. Vorrei m an g iarn e d iretta m en te dalle tue m ani. - A M a d dalena trem ò il cuore. Il giorno dop o M ad d alen a aspettò che lui entrasse, poi im m erse le m an i in u n a ciotola di zuppa inglese e gliele porse. Lui le leccò le d ita, le m ord icchiò i polpastrelli e poi le m angiò le m an i fino ai polsi. La guardò con sguardo tenero: - Le tue to rte m i ap ro n o le p o rte del paradiso e i tu o i occhi m i spalancano il cuore. N e m angerei dalla tu a bocca. - M ad d alena ebbe u n sussulto. Il giorno d o p o n o n c’erano to rte nella pasticceria e i clienti entravano, guardavano il bancone vu o to e se ne uscivano delusi, accom pagnati solo da un sorriso di M a d dalena. Lei, però, n o n sorrideva a loro. Sorrideva alla p o r ta da cui T addeo sarebbe en trato . A ppena lo vide, si chinò sul b an co n e e si riem pì la bocca di crem a al m ascarpone, poi voltò il capo verso di lui. T addeo le baciò le labbra e le divorò il volto fino so tto il naso. Aveva i baffi pieni di crem a, q u an d o le alitò in viso: - Tu mi apri le p o rte del paradiso e i tu o i occhi mi spalancano il cuore. T i m ange-

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rei tu tta . - A M addalena trem ò il cuore, m a n o n era più com e la p rim a volta. G li occhi le si riem p iro n o di lacrim e e avrebbe grid ato aiu to , se avesse avuto ancora la bocca. Il giorno d o p o, sola in mezzo alla sua pasticceria v u o ta, aspettò che T addeo arrivasse. Q u a n d o lui fu sulla so glia, fece cadere u n en o rm e vaso di cioccolato. La crem a si sparpagliò su pavim ento. Lei s’inginocchiò, respirò a fondo e poi si tuffo in q u ell’u ltim o lago di dolcezza. Si rotolò lì in mezzo, senza badare ai vetri che la ferivano, gli occhi fissi in quelli di lui che la guardavano bram osi. E si lasciò m angiare a bocconi, rim p ian g en d o di aver confuso l’am ore col possesso.

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UN RAGAZZO di Pina Tromellini

UNO Non voleva indossare i calzoni corti; si chiudeva nel bagno a doppia mandata; si faceva con il gel una cresta di cui andava orgoglioso. A quattordici anni, Fausto percepiva che in lui tutto era sulla via della ridefinizione. Non riusciva a capire fino in fon do, ma sentiva che il corpo si andava ramificando e si drizzava verso l’alto come il germoglio di sambuco nel giardino di casa. Fino a poco tempo prima, le compagne di scuola gli erano indifferenti: anzi non tollerava il colore rosa, da femmine; non voleva saperne dei segreti che si sussurravano e non gli piaceva per niente quel modo lezioso di vestirsi. Poi, un giorno improvvisamente tutto cambiò e nel guar dare Alice provò una strana sensazione: si sentiva attratto da lei come un’ape dal miele. Non osava confessare a se stesso che Alice gli provocava un sussulto, ogni volta che incrocia va i suoi occhi e osservava la bocca carnosa e sorridente. Le gambe gli tremavano. La sentiva irraggiungibile e iniziò a pensarla in modo in tenso. Però gli piaceva ancora farsi prendere in braccio dalla madre. Sono un bambino o un ragazzo si chiedeva? In fa miglia nessuno gli aveva spiegato come comportarsi con le ragazze. Il padre sosteneva che era la madre a dover parlare di queste cose al figlio. La madre invece pensava il contrario. 143

Così i genitori non gli avevano svelato che cosa gli stesse succedendo la notte e pensava di avere una b ru tta m alattia. Cercava di fare scom parire le tracce, lavando il pigiam a e il lenzuolo con la speranza che la m adre non si accorgesse di nulla. Percepiva un disagio e nello stesso tem po il piacere che provava era così frem ente da lasciarlo privo di forze. In quei m om enti im m aginava che Alice lo baciasse con le labbra um ide e lo accarezzasse in tu tte le parti del corpo. D opo si sentiva un alieno. U n giorno, rovistando nei cassetti di casa, trovò delle rivi ste pornografiche; il padre ne leggeva di ogni genere. M olti sapevano di questa m ania, dato che il giornalaio, gran chiac chierone, lo aveva raccontato in giro. Il ragazzo iniziò a sfogliarle. I maschi apparivano aggressi vi e sguainavano peni enorm i; nelle donne i seni volum inosi dom inavano la scena. A Fausto inizialm ente quelle im m agini di sesso creavano stordim ento. Poi si abituò a pensare che tu tte le donne erano com e quelle che vedeva nelle riviste. Esclusa sua m adre però! Così dolce e carezzevole, non avrebbe mai fatto cose del ge nere. Forse il padre sfogliava le riviste per riderci su, perché i genitori non sarebbero stati capaci di com portarsi in quel m odo. Fausto si chiedeva se anche Alice, M argherita, Gloria, le sue com pagne di scuola fossero uguali a quelle anche se il corpo di Alice era longilineo, M argherita non aveva un seno volum inoso e Gloria parlava solo di com puter. Il padre sosteneva che il cervello delle donne era fantasio so e quello dei maschi logico.

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Poi a Fausto crebbe una leggera peluria sul labbro superio re, cam biò la voce e il sudore com inciò ad acquisire un afrore penetrante di m aschio adulto. Il padre lo prendeva in giro. O rm ai sei un uom o baffuto e devi darti da fare con le ragazze. Senza parlarne alla moglie, decise poi di portarlo da un’am i ca, che faceva il mestiere, perché lo mettesse sulla giusta via. - Q uella d o n n a è stata una nave scuola per m e e lo deve essere anche per m io figlio! L’esperienza risultò traum atica per Fausto e il padre Io ac cusò di essere un pappam olle. - Le donne vogliono un uom o dom inante, solo così apri ranno le gambe. Il ragazzo pensò che il padre fosse un vero uom o. Avrebbe dovuto im itarlo per diventare adulto? Q uel che che provava per Alice però aveva un sapore dolce e non aggressivo. DUE L’insegnante di storia decise di portare la classe di Fausto in gita tra le colline della città. Partenza alle otto. Prim a ferm ata al Castello di Arceto che nella seconda m età del X secolo aveva subito saccheggi e rifacim enti. Poi si spostarono a Iano, per osservare il Castello neomedioevale e a Ventoso, nel Castello trecentesco della Torricella. Alcuni ragazzi ascoltavano la prof che descriveva l’antica ghiac ciaia ancora intatta, le feritoie e il ponte levatoio. Fausto e altri due compagni camminavano allineati valutando le compagne. Sai che ci farei a quella là, le infilerei le m ani nelle m u tan de. La scoperei, fino a farla urlare. Le tette di Alice sem brano cocom eri, le succhierei come un ghiacciolo.

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La p ro f li ignorava m entre Alice e le com pagne non li perdevano di vista. Iniziarono ad inerpicarsi lungo il sentiero verso la Chiesa di Ventoso per poi proseguire fino al M onte delle Tre Croci sim bolo di preghiera e devozione. U na leggenda racconta che in quel luogo furono bruciate due presunte streghe, Clarice e Oriele, guaritrici che parlavano con i defunti. Alcuni ragazzi e ragazze arrivarono per prim i m a tornaro no subito. Sem bravano sconvolti. Sulla C roce centrale, croci fissa, c’era una bam bola gonfiabile, a m isura um ana, la bocca chiusa da un cerotto. Q uando tu tti arrivarono sullo spiazzo delle Tre Croci, il silenzio era inquietante. Alcune ragazze piangevano, tem endo che l’autore di quel delitto fosse anco ra nei paraggi. Alice ricordò La Crocefissione di Bellini, il Cristo doloroso l’aveva catturata. - Al posto di quella bam bola potrei esserci io! - sussurrò la ragazza. - O una qualsiasi di noi. La p ro f prom ise che ne avrebbero discusso in classe, ra gazzi e ragazze. - Q uella bocca chiusa non deve intim orirci, Alice. M a dobbiam o parlarne. Sono il silenzio e l’indifferenza che ge nerano la violenza contro le donne. I m aschi tacevano e Fausto non aveva parole per com m en tare. Su internet aveva visto la bam bola gonfiabile e gli era piaciuta. O ra non ne era più sicuro. II rientro a casa fu silenzioso e m esto, con le ragazze strette in un gruppo com patto.

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TRE Fausto corse dalla nonna a raccontarle tu tto . Era l’unica persona con la quale riusciva ad aprirsi. La no n n a gli dedicava tem po e nella vita era stata costret ta a superare ostacoli. Fausto le confessò che l’episodio del M o n te delle Tre C roci lo aveva scosso profondam ente. - N o n capisco le donne - rivelò alla nonna. - A pparten gono a un m ondo m isterioso. C he cosa voleva dire chi ha crocifisso quella bambola? Sono anch’io come lui? La n o n n a non si mise in cattedra per som m inistrargli una lezione di com portam ento, m a gli confessò la propria espe rienza di donna, vissuta per anni con un uom o, il non n o di Fausto. N o n gli nascose nulla delle violenze psicologiche che era stata costretta a subire, riuscendo ad emergere con la col laborazione di u n ’altra donna. - Gli uom ini debbono conoscere e rispettare i sentim enti delle donne, aggiunse prim a di iniziare a raccontare. Sai Fau sto, le parole am m azzano, soprattutto se te le senti ripetere ad ogni occasione. Per fortuna il m io carattere m olto adatta bile mi ha aiutato, altrim enti tuo nonno m i avrebbe d istru t ta. Sono però diventata insicura più di prim a. In tanti anni di m atrim onio ci sono stati dei periodi sereni m a le frasi che hanno costituito la cornice in cui sono stata collocata, hanno risuonato nella casa, nelle orecchie dei miei figli e a volte anche in quelle degli amici. Ho sposato unincapace. Sei unim branata! N on sei in grado d i fa r niente. Le galline e le oche hanno un cervello p iù grande del tuo. D ette così sem brano parole da poco m a se pronunciate

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con rabbia, miste a parolacce e a qualche bestem m ia, il clima cam bia e ti senti m orire dentro. U na burrasca quasi settim a nale che poi sbolliva, lasciando ogni volta segni terribili. Se uno dei figli com binava qualche guaio, e nelle famiglie capita spesso, la sua voce diventava sgradevole e la colpevole ero io. Cosavuoi pretendere, assomiglia a Con una madre del genere come vuoi che crescano i fig li! N o n si m etteva m ai in discussione come padre, non ren dendosi conto che l’esempio peggiore era proprio lui. Per farm ene una ragione, tentavo di convincerm i che non fosse cattivo e si com portasse così nei miei confronti per m i surare la sua superiorità. A volte ci riuscivo, a volte m i senti vo una d o n n a inutile, disorganizzata e confusa. H o attraversato periodi di depressione e di terribili mal di testa: i m edici non hanno evidenziato disturbi organici. Le parole della persona che avevo am ato m i ferivano come frecce che si conficcavano in ogni parte del corpo, del cuore e del cervello. N o n ho m ai p o tu to ribellarmi dato che dipendevo econo m icam ente. H o interiorizzato che lui era la persona forte ed io la debole costretta a chinare la testa. C hi m i ha aiutata è stata un’amica che si è confidata, dopo una separazione dolorosa, causata da m otivi simili ai miei: aveva vissuto per diversi anni con un uom o che le aveva spen to la stim a in se stessa. Parlandone insieme e confrontandoci, ho ritrovato la forza di andare avanti. S oprattutto per i figli. N onostante quello che aveva sostenuto m io m arito, ero una persona che sapeva ascoltare e consolare. M i sono sentita, forse per la prim a volta, all’altezza.

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Oggi con le am iche mi organizzo e vivo m om enti di au tonom ia; con tuo nonno ogni volta debbo contrattare una nuova posizione com e se fosse una conquista invalicabile. Senza d i me, non sei nessuno! D a sola non sai fa r niente. È stata la frase che m i sono sentita dire ultim am ente, se guita da una risata sarcastica dopo che gli avevo riferito che con alcune am iche volevo tentare di m ettere in piedi un’at tività. H o capito che lui preferiva che io fossi come il suo im m a ginario m i aveva creato. Sovente le violenze contro le donne sono sottili. U na d o n na la puoi uccidere in diversi m odi. Ti ho fatto una confidenza che non ho rivelato neppure ai miei figli. Perché a te? Perché sei giovane e puoi m igliorare e creare relazioni che oggi si liquefano in un vuoto esistenziale. E per indirizzarti verso alcuni principi che ritengo fondam entali per la convivenza tra un uom o e una donna. Sono di una generazione passata m a penso che i valori in cui credo e che vorrei trasm etterti, siano universali. Il R ispetto degli altri è il p u n to di partenza u nito all’A m o re e alla Bellezza del vivere. Si sa che la passione tra due persone di sesso diverso è un vento bollente che dura poco e se, alla base dell’incontro, m ancano l’Am ore, il Rispetto e la Bellezza l’esistenza diventa grigia. A scuola, dopo il fatto del M onte delle Tre Croci e quella visione barbara, ne avete discusso? Forse più che im bottirvi di nozioni la scuola dovrebbe lavorare sui valori relazionali che aiutano ad affrontare il m ondo. In classe voi maschi ave te com m entato e vi siete messi in gioco? O ppure siete stati

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incapaci di elaborare i vostri stati d ’animo? Q uando questo succede, tu tto rim ane nel profondo dell’anim a e non si sa che potrebbe generare in futuro. Vorrei tanto che con le ragazze di cui ti innam orerai ti com portassi da vero uom o. C hi è? È quello che sa com unicare con dolcezza anche nei m o m enti più dram m atici, m ettendosi nei panni dell’altra che è una persona e n on si deve sopraffare. Io sono vecchia e non so se avrò il tem po di vederti diventare un uom o. Secondo te, chi ha commesso il gesto di crocifiggere una donna, anche se finta, è un uomo? A rrogante, violento, igno rante com unque. D ebole e con m olti complessi di inferiorità. H a voluto crocifiggere tu tte le donne, privandole della voce e dei loro diritti, perché ne ha paura. E la m etafora della cattiveria contro e non dell’incontro. M i prom etti che diventerai un uom o che apprezza rin contro e non lo scontro? D opo aver parlato con la nonna Fausto si chiese quale po tesse essere il m odo migliore per far com prendere ad Alice il suo interesse per lei. Pensò a diverse frasi, diversi approcci poi decise sem plicem ente di andarle vicino e prenderle la m ano.

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LEZIONI D ’AMORE di Pina Varriale Ti guardo e neanche mi sembri tu. Non ti riconosco in questa posa scomposta, gli occhi sgranati, le labbra deforma te da una smorfia. Al collo, un filo rosso. Perle di sangue che ti ha regalato tuo marito. Mio padre. Fatico a pensare a lui come all’uomo che mi ha messo al mondo. E ha tolto a te la vita. - In fondo, mamma se l’è cercata - ha detto Luca, occhi asciutti e spalle dritte, immobile davanti al tuo cadavere, ri verso sul pavimento della cucina. - Lo sapeva che a papà non bisogna rispondergli male. E lei, testarda, non ha mai rinunciato a rintuzzarlo. Un singhiozzo gli ha impedito di continuare, ha fatto una mezza giravolta ed è andato in salotto a telefonare alla polizia. - Venite subito, hanno ucciso mia madre. Non ha detto che è stato mio padre, né che è fuggito su bito dopo l’omicidio. - Lo scopriranno da soli - mi ha spiegato. - I poliziotti non hanno bisogno del mio aiuto. Poi si è chiuso in camera sua e ha messo lo stereo a palla. Non preoccuparti, ci sto io qui con te, inginocchiata sul pavimento, ad aspettare la polizia. - Mamma, e adesso? E questo il mio unico pensiero, non ho altro nella testa. 151

Q u an te volte ti ho detto che sarebbe stato meglio andare via, m a tu no, n o n m i davi retta. - Tuo padre n on è cattivo - mi rispondevi. - È stato sfortu nato, per questo si arrabbia facilmente. M a poi gli passa, sai? Nascondevi i lividi al collo con i foulard. N e avevi di cen to colori, abbinati alle maglie troppo larghe in cui il tuo cor po esile quasi scompariva. Eri fatta di filo di ferro, tu. M ica come m e che a quindici anni sto ancora a trem are per un tem porale estivo. Resistevi a tutto: ai pugni, agli schiaffi, agli insulti e... alla verità. Dicevi che presto le cose si sarebbero aggiustate e che lui sarebbe tornato l’uom o m ite che avevi conosciuto. T ’illudevi e nascondevi la paura dietro sguardi sfuggenti e sorrisi di circostanza. - E adesso, che si fa? E una m aschera di gesso, il tuo viso, e n o n m i piace la smorfia che hai sulle labbra. T ’im bruttisce, ti fa sem brare una persona cattiva. E invece non sei che un’altra vittim a innocente. Ricordi quando ti parlavo delle donne uccise dagli uom ini che dicevano di amarle? Tante, troppe. U na strage quotidiana. - A me non potrebbe mai capitare - ribattevi, un poco risentita. - Tuo padre è un brav’uom o... M i fa rabbia, sai? M i fa rabbia ricordare quanto sei stata testarda. Perché non m i hai dato ascolto? - Sei troppo giovane - mi dicevi - non puoi capire certe cose. L’amore è fatto di giorni belli e di brutti. Bisogna capi re, adattarsi e saper aspettare... Ti guardo per trovare nel tuo viso stravolto dalla m orte qualcosa che m i faccia pensare a te, a come eri davvero.

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Allegra, quando lui non c’era e felice con poco. M a q u an do sentivi il rum ore delle chiavi nella serratura, cambiavi espressione e subito ci m andavi in cam eretta. - N o n avete i com piti da fare, eh? Su, ragazzi... sloggiate! Credevi davvero di imbrogliarci? Avevamo orecchie per sentire e occhi per guardare i tuoi lividi e il tuo volto tu m e fatto. - E ora com e facciamo? - ti chiedo, anche se lo so che non puoi risponderm i. Te ne sei andata via nel peggiore dei m odi e io non posso fare nulla per cam biare le cose. G ià sento le sirene. Tra poco la polizia sarà qui e tu non m i apparterrai più. Sarai un corpo coperto da u n telo, pre sto ingoiato dalle fauci ingorde dell’autoam bulanza che ti p o rterà via. Sento uno scalpiccio, delle voci concitate. Luca ha lasciato la porta aperta, spalancata sulle rovine di questa casa. E ntre ranno tu tti, dai poliziotti alla Scientifica, dai giornalisti ai curiosi. E cosa racconto poi, a scuola, quando mi chiederanno cosa si prova ad essere la figlia di un assassino? - Lo hanno preso. M arco parla con voce incolore. N on capisco se è contento che abbiano trovato m io padre oppure no. Z ia M arta fa del suo meglio per farci sentire a nostro agio. C i ha accolto in casa sua ed è stata l’unica a non farci do m an de. C i hanno interrogato tu tti, dalla polizia ai giornalisti e io n on ne posso più di ripetere sem pre la stessa storia. - D ov eri quando è stato commesso l’omicidio?

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Parlano di m am m a come se fosse qualcosa che non m i ap partiene. Vogliono dettagli, inezie, banalità solo per scrivere un trafiletto nella pagina della cronaca nera. - Ero a scuola. - È stato tuo fratello a trovare il cadavere, vero? Il cadavere ha un nom e e un passato. Si chiam a M artina ed era la m ia m am m a. - SI, mi ha chiam ato col cellulare e m i ha detto che era successa una disgrazia. - Q u in d i, tu non sapevi che si trattava di un delitto? - N o, Luca non m e l’ha detto. Sono corsa a casa col cuore in gola, convinta che m io pa dre avesse avuto un incidente stradale. N on è mica la prim a volta che beve e poi si m ette al volante! - E cosa hai provato, quando ti sei ritrovata sulla scena del crimine? La scena del crim ine era casa mia, alm eno fino a qualche giorno fa. Un m odesto appartam ento, alla periferia di Roma. D ue stanze da letto, un soggiorno, un ripostiglio e un picco lo giardino sul retro. Chissà se qualcuno si ricorderà di innaffiare i fiori. M am m a ci teneva così tanto alle sue dalie! - Credi che riuscirai a perdonare tuo padre? A questa dom anda non ho risposto. C om e potrei? N on so più chi sono, da dove sono venuta e dove andrò. M i sento come quegli alberi che una tem pesta improvvisa ha sradicato dalla terra. Luca è stato più furbo, invece. Si è sigillato le labbra e non ha risposto a nessuno. Cuffia nelle orecchie ed iPod regolato al massimo del volum e.

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- C he egoista! - mi ha detto, stasera. - Se m am m a ci avesse voluto bene, non si sarebbe messa in questa situazione. Scom m etto che lo ha provocato e lui, furioso com’è, ha reagito. C om e faccio a spiegare a un ragazzino di tredici anni che non è affatto così? Luca adorava m io padre e lo ha sem pre giustificato. Pensa che la forza di un uom o si m isuri coi p u gni, non capisce altro. - Se una ragazza m i avesse dato del cretino, anch’io l’avrei presa a schiaffi - mi ha confessato. H o freddo e non m i basta un plaid per riscaldarm i. Zia M arta è venuta a chiederm i se voglio una cam om illa. N o, grazie. N o n voglio dorm ire. Se m ’addorm ento, so gnerò ancora una donna massacrata a calci e sgozzata col col tello per il pane. Il giudice ci ha affidato alla zia M arta. Per il m om ento, n on corriam o il rischio di finire in una casa-famiglia. Tra qualche mese ci sarà il processo e Luca m i ha scongiu rato di andare in tribunale. - M a perché? Io no n voglio più vederlo quello lì. - Io sì e poi... m i m anca - ha aggiunto, distogliendo lo sguardo. C hiudo il quaderno di m atem atica e sospiro. C hi l’avreb be detto che i com piti m i avrebbero aiutato a distrarmi? Q u an d o studio, non penso a nulla e m i sem bra d ’essere una persona qualunque, con una vita uguale a quella di tante al tre ragazze della m ia età. D a principio, ho avuto tim ore di tornare a scuola. Poi però m i sono accorta che nessuno aveva voglia di farm i d o m ande. Così m i sono tranquillizzata e, un poco alla volta, ho

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ripreso ad ascoltare le spiegazioni in classe e a parlare con i miei com pagni. H o scoperto di avere un bel po’ di amici e perfino quelli che, fino a qualche tem po fa, m ’ignoravano, tu tto ad un tratto sono diventati gentili. - È difficile starti vicino - m i ha confessato Luisa, la m ia migliore amica. - E perché? Sono sempre la stessa. Lei ha storto la bocca e m i ha risposto: - N o n credo, sai? Tu sei cam biata e pure io... perché... perché quando sto con te, io mi sento in colpa. - E per quale motivo? N o n capisco. - Be’, il fatto è che... che io ho una famiglia e tu... Insom nia, hai capito, no? A dire il vero, ho capito benissimo, però ho fatto la finta tonta. E subito ho cam biato argom ento. - C he ne dici se vengo a studiare da te? Luisa non sapeva dirm i di no neppure prim a. Figurarsi adesso! Scatta sull’attenti come un soldatino e obbedisce sen za discutere. - Certo, così mi spieghi meglio la storia. Q uando parla la prof, lo sai che mi addormento. E talmente noiosa, povera donna! Luisa è un asso nelle m aterie scientifiche, io invece sono brava in quelle letterarie. Insieme, siamo una forza. - E tu m i svelerai tu tti i segreti delle equazioni, vero? Insom m a, sono diventata brava a fingermi tranquilla. Vivo com e se non fosse accaduto nulla e, finché sono in com pa gnia, riesco perfino a distrarm i. Però, quando m i ritrovo da sola torno subito, col pensiero, a quel m aledetto giorno. Il cadavere, il sangue e quel coltello piantato nel petto che ha spezzato per sem pre la vita di m am m a e pure la nostra.

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C om e si fa a guarire da un dolore così atroce? Io non lo so. A volte, rileggo le lettere che, da fidanzati, si scam biavano i miei genitori. M i sem bra di leggere una favola, m a il princi pe n on era che un orco e la principessa è m orta. C o m b attu ta tra odio e amore, sperim ento la follia dei sen tim enti. D etesto m io padre per ciò che ha fatto, eppure m i m anca l’uom o gentile che m i leggeva la favola della buona notte. Rabbrividisco nel saperlo un assassino m a ho pena di lui quando penso che nessuno gli ha insegnato cos’è l’amore. N o n è m ica un istinto! L’am ore s’im para. Ed è per questo che Luca m ’impensierisce. È arrogante, scortese, antipatico. Purtroppo m am m a non ha avuto il tem po di spiegargli nulla e m io padre n on è stato un buon esempio. Lo hanno condannato a ventiquattro anni. Il tribunale gli ha riconosciuto una serie di attenuanti ge neriche. C om e a dire che m io padre ha ucciso però, a ben cercare, forse ha pure qualche giustificazione. Sono indignata. Peggio. Sto malissimo. Se penso che ba stano poche decine d ’anni per ripagare una vita spezzata, mi viene voglia di urlare. Vale così poco una donna? Poi mi dico che, in realtà, ventiquattro anni sono davvero tanti per chi è costretto a starsene in gabbia, in com pagnia di altri delinquenti. Alla fine m i calmo e riconsidero la que stione. La rabbia non serve a nulla e poi non cam bia i fatti. H o detto a zia M arta che, quando finirò il liceo, m i iscri verò alla facoltà di giurisprudenza. D iventerò un avvocato e difenderò le donne da ogni genere di violenza. M ai più deve accadere ciò che è capitato a m ia m adre.

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TRE ROSE di Laura Walter

Mi guardo nello specchietto retrovisore, mi osservo con attenzione quasi maniacale, dopo aver sfilato i miei occhiali da sole, con un gesto elegante da diva. Li porto ininterrottamente da cinque giorni. Hanno fatto presto, a dare il nulla osta. Lo caccio, questo pensiero, voglio stare sul presente, sull’attimo, sull’adesso. Mi passo un dito nel solco blu dell’occhiaia, quasi dovessi riassettarmi un ombretto fumé di quelli da gran serata, messo però al rovescio. È tutto rovescio, in questa storia, di più: è rivoltante. Nessun trucco potrebbe ora mitigare questi occhi da rana, sono un rospo pallido con gli occhi tumefatti. Piangere fa gli occhi belli, diceva la nonna. Sembro più vecchia di dieci anni, sono brutta perché ho pensieri brutti, ossessivi, e cerco di scappare via da loro, con centrandomi sul minimalismo dei gesti. Fa bene fare cose, anche le più banali, quando si affollano pensieri, immagini e ricordi, clandestini pigiati disperatamen te su una nave che salpa alla ricerca di un porto sicuro, calmo. Via da questa guerra. Mi volto verso il sedile del passeggero per frugare nella borsa, alla ricerca del portafoglio. 159

È così che scorgo un clandestino vero, il corpo spontanea mente atletico che solo il sole dell’Africa sa forgiare, intento a rovistare nel cassonetto, alla ricerca, anche lui, di un’ancora alla quale aggrapparsi. U n paio di scarpe buttate, qualche oggetto logoro m a non finito, dal quale ricominciare. Così mi sento: logora. Q uella finita sei tu. Finito, basta. Banale, brutale. Avrei voglia di urlare, m a l’ho già fatto per alm eno tre giorni interi. Ululavo alla luna, rattrappita su me stessa come un feto senza protezione, m i ninnavo da sola, cercando di pensarti il m eno possibile, di pensarvi il m eno possibile, tu e lui. Invece la m ente prendeva il sopravvento, e vedevo le tue m ani insanguinate, lui, ridicolo, assurdo, con gli occhi da film horror di serie B, che infieriva come un forsennato, come aveva detto il giornalista, sentivo tu tto il tuo stupore bam bino. Allora vomitavo, vergognandom i quasi di essere viva, io. H o passato ore a ripetere un m antra addolorato, colpevo le, complice. Seduta per terra, sul falso cotto della cucina, m i dondola vo avanti e indietro, l’ossessione ritm ica di quella dom anda infinita. Perché. Perché, perché, perché. Perché l’ha fatto, perché glielo hai permesso. Perché io. Perché io non ho capito, prim a. N o n ho capito niente.

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Sono la tu a migliore amica, e non ho capito niente. Ridevamo di u n tipo un po’ troppo possessivo, a volte ti ho perfino invidiata. Lui ci teneva a te, m ica come gli uom ini che ho avuto io, mai un accenno di gelosia, nessuno. Il tuo lui ci teneva, a te, pensavo persino che eri un po’ fortunata. M anca meno di un’ora al tuo funerale, ho gli occhi che sem bra che m i abbiano pestata a sangue, invece ho solo pianto, io. So solo piangere, non ho avuto parole per nessuno, nean che per tua sorella. 10 piangevo come una fontana, ieri, lei sembrava una sta tu a di sale. N eanche mezza lacrima, un granito davanti all’assurdità di q uanto ti è capitato. Cerco ancora nella borsa, piena all’inverosimile com e la m ia testa, e scovo la boccetta miracolosa. N e prendo venti gocce, m i intontisce, m i annebbia il d o lore, come una neve candida sopra la città di smog. Sembra che m i faccia già effetto, torno all’oggi, al qui e ora. Apro la portiera, ripristino gli occhiali da sole, scendo, m uovo pochi passi, sorrido perfino ad un uom o che m i sop pesa con lo sguardo. Devo sembrargli elegante, perfino chic, tutta vestita di nero. 11 cam panello del negozio fa un tin tin n io festoso, fuori luogo, m a la commessa capisce subito. Q uan d o m i tolgo gli occhiali, capisce tutto, e si porta una m ano alla bocca. Era amica di quella ragazza, m i chiede. Sì, le dico. Poveretta, poveretta.

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Posso offrire i fiori io? Vuole partecipare anche lei, donando bellezza contro l’orrore. Le sorrido, faccio di sì con la testa. La farà sentire bene, quasi utile. Per m e è lo stesso. Si im pegna nella com posizione, m ette fiori di tu tti i colo ri, e tante rose rosa, sim bolo della fem m inilità, m i dice. Ed è lì, tra quei petali delicati, il prim o vero pensiero a cui aggrapparsi, dentro un diluvio di lacrime. Tre rose rosa e il rovescio di questa medaglia inaccettabile. M e ne ero quasi dim enticata. Q u an d o le cose scorrono, nella vita, restano nel magazzi no dei ricordi più dolci, n on ti ossessionano, sem plicem ente sono state. C onservano la loro essenza d ’amore, come una fragranza che ti accom pagna nell’andare, non ti blocca. A ccom pagnam i, allora. Q uelle tre rose m i sono state date quasi dieci anni fa da un uom o con m ani troppo grandi per portare mazzi di fiori in m odo aggraziato. Alto, biondo, possente, parlava italiano con una inflessio ne straniera che, assieme agli occhi azzurri, tradiva l’apparte nenza a paesaggi sovente carichi di neve. C ’eravamo conosciuti ad u n corso di fotografia ed era su bito scattato qualcosa. Così sosteneva, con un gioco di parole, il m io insegnante. Io m i schernivo com e una ragazzina, m a era vero. Provavo per lui la fam iliarità istintiva che è preludio dell’amore, quella che ti porta a parlare per ore, incurante

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dell’incedere della notte, e a stare divinam ente nel silenzio reciproco. Z itti, silenziosi, a lasciar vibrare l’aria all’unisono, l’uno accanto all’altra, in sintonia. L’invito ad andare insieme al cinem a n o n m i aveva d u n que colto di sorpresa, neppure la sua m ano intrecciata alla mia, con naturalezza, prim a dell’ingresso in sala. E così il sapore del bacio dato sul ponte, di sera, con le bocche che si fondono, e c’è un riconoscersi reciproco di odori, e m ani che stringono, accolgono, com pongono una m elodia. Eravamo già grandi, allora, entram bi quasi trentenni: non era il m io prim o uom o, e quando siamo saliti a casa mia, tu tto si è fatto p iù fitto, frenetico, ancestrale. D i certo avrem m o fatto l’am ore, lui ripartiva dopo pochi giorni, non c’era nulla di male, anche se quell’urgenza avreb be reso tu tto acerbo, m eno melodioso. Invece. Invece lui m i allontana piano, con una dolcezza fatta di rispetto, e parla con me. Sento il suo fiato vicino: è caldo, ha un vago sentore di tabacco, anche se non fum a. E il suo sapore da uom o. D a uom o vuole decidere con m e il da farsi: il desiderio c’è, è grande, spontaneo, facile seguirlo, m a anche lui ha la sensazione di un frutto colto acerbo. Sono uscito per stare con te, non per quello, mi dice. M i rispetta nella mia interezza di persona, di donna. Lo dice. Usa parole come carezze.

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C i abbracciam o stretti, ci diam o un bacio lungo, sincero, con le anim e. Ci lasciamo così, senza aver colto un frutto fugace, m a lasciando che tu tto , se sarà, possa m aturare. Parte. Ci scriviamo regolarm ente, con tenera com plicità. Q uan d o , un anno e mezzo dopo, lo attendo trepidante al gate dell’aeroporto, si presenta con tre rose rosa. I tem pi sono m aturi e una volta a casa, facciamo l’amore in silenzio, più volte, lasciando parlare i nostri corpi, senten do le nostre anim e cantare. La voce della commessa m i strappa dalla m ia ancora, m i riporta al qui e adesso. Alle note stridenti del presente. Le sem brano adatti, mi chiede, m ostrandom i il frutto del suo lavoro. Ci ha messo tanto im pegno, m entre io respiravo dentro a questo ricordo, che le dico di sì. Però voglio un piccolo mazzo tu tto m io, le dico. C erto, ci m ancherebbe. II suo è dolore collettivo, svanirà nel giro di qualche gior no, una delle tante storture della vita. Il m io è diverso, è privato, è privazione. M erita rispetto anche nella banalità di una fioreria. Cosa ci devo m ettere, mi chiede. Tre rose, rispondo. Solo tre rose rosa.

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FUORI di Giamila Yehya

Finalmente il giorno era arrivato. Una congiunzione astrale mai vista: la fine dell’anno sco lastico, il suo compleanno e il suo primo sabato sera fuori, a ballare. Era l’unico regalo che aveva chiesto ai genitori per i suoi quattordici anni. Con le amiche avevano pianificato tutto nei minimi dettagli, fino al colore dello smalto sulle unghie dei piedi (fucsia, ovviamente). Tutta la settimana a studiare non storia o matematica ma i vestiti, i capelli e le parole esatte da dire quando avrebbe incontrato lui. Poi, fi nalmente il giorno era arrivato. Il locale era stato ricavato in una vecchia fattoria abbandona ta, ci si arrivava dopo un lungo saliscendi su per le colline, tra i campi di girasoli che riposavano al buio. Avevano chiamato un dj famoso, che veniva dalla città e si portava dietro l’animazione. La musica si sentiva già da lontano, nonostante il rombo della moto di lui, dietro cui sedeva ora, avvinghiata alla sua schiena per le molte scosse dovute al terreno fangoso. Lui, così bello con quella sua aria sempre un po’ triste, un po’ arrabbiata. Erano mesi che lo filava nei corridoi di scuola e poi, improvvisamente un giorno lui si gira e l’invita a quella festa. - Tu vieni con me, le aveva detto. - Non le aveva portato un pacchetto né un biglietto, ma quando era salita sulla moto, si era tolto il suo anello d’argento e glielo 165

aveva infilato, dicendole: - Q uesta no tte sei mia. - Lei si era sentita m orire. Il fango schizzava dietro, sulle m oto degli altri e anche un po’ sui suoi sandali nuovi, rosa. Le sue am iche urlavano come m atte, e bevevano, così ogni tanto anche lei si portava la bottiglia alle labbra e fingeva di prenderne un sorso (Puah! che schifo di sapore). C om e uno sciame di calabroni impazziti le m oto avanza vano in mezzo al nulla, tra i campi neri. Finalm ente erano arrivati. Faceva un po’ senso quel serpente tatuato sulla faccia e sul collo del buttafuori. Lui l’aveva salutato con grosse pacche sul le spalle e quello gli aveva infilato qualcosa in m ano, poi li ave va fatti entrare senza fare la fila. - I conti li facciamo dopo - gli aveva detto, strizzandogli l’occhio. L’interno era buio e freddo, si sentiva ancora l’odore del leta me intorno. I sandali nuovi scivolavano sul pavimento ed erano già tutti sporchi. La musica, altissima, vibrava in mezzo al petto. U n altro giro di birre e poi in pista a ballare. Lui l’aveva portata per mano, quasi trascinata, con quel braccio abbronzato e forte. Faceva m olto caldo. Gli altri si erano m ischiati e sparsi in giro; le sue amiche, sparite; gli amici di lui, rim asti soli, lo aspettavano per andarsene. Iniziava a essere tardi m a lui le aveva detto di non preoccuparsi, che l’avrebbe riaccom pa gnata in tem po. La testa le girava, voleva uscire a respirare aria pulita. Lui le andò dietro. Fuori c’era solo la notte, con il suono lontano dei grilli nei campi. Lui l’aw olse con quelle braccia possenti e la baciò. Ecco, la stava baciando!

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C he strano. U n po’ le piaceva, m a un po’ non vedeva l’ora che finisse. Però lui continuava. O ra sentiva il suo respiro sul collo sempre più forte e quell’odore di fum o e di alcol... Si tirò istintivam ente indietro. Lui la tirò verso di sé e l’aw olse più stretta. Puzzava, sì, puzzava, e ora ansimava anche, m entre le leccava il collo con una lingua così rasposa che in confronto quella del suo gat to M olly era liscia. Bleah! N o. N o n era così che l’aveva im m aginato. - Portam i a casa - disse, cercando di svincolarsi, m a lui la strinse di p iù e le infilò una m ano sotto al vestito. - M a che fai? - disse confusa. - Shhh - disse lui, e le si fece più addosso. O ra voleva solo sm aterializzarsi e fuggire via m a n o n riusciva a scivolare fuori da quella m orsa che la inchiodava al m u ro q u a n d o ecco rav v icin arsi di alcuni passi. - Lasciami andare, non voglio! - urlò in m odo da farsi sen tire, m a i passi si erano ferm ati, si sentivano dei risolini sof focati m a nessuno veniva a toglierle quella lingua dal collo. - Lasciami stare! - provò a urlare, m a lui disse: - Stai zitta, n o n era quello che volevi? - le mise una m ano sulla bocca e l’altra sugli occhi e tutto diventò nero. Fecero scempio del suo corpo e la sbranarono a turno. Lui e i suoi amici. N o n finivano mai, mai. U no aveva preso il cellulare e si era messo a filmare, un altro da dietro la teneva ferma per le braccia, le teneva i polsi così stretti che sentiva le vene scoppiarle e le braccia strapparsi

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insieme alla camicetta rosa, di raso, m entre lui, proprio lui, la sbatteva giù come se fosse un tappeto, Sbam!, così forte che at terrando sulla tem pia le si era rotto qualcosa dentro e ora un li quido giallo le colava lungo il collo. Poi era arrivato il serpente. In quel m om ento lei aveva socchiuso gli occhi e dalla fessura lo aveva intravisto. Dalla faccia gli scendeva giù per il collo, ci girava intorno due volte poi si inabissava nella maglietta. Fu allora che quella cosa ebbe inizio. Q u ando anche il ta tuato le era entrato dentro,lei aveva com inciato a usci ri. N o n sapeva bene come dirlo. La p ro f avrebbe preteso a quel p u n to proprietà di linguaggio ( , la sintassi!), esortandola a trovare una parola p iù appropriata. M a quale? La sensazione era la stessa di quel giorno a scuola, q uan do non aveva fatto colazione ed era svenuta come una pera. Pluffi Soltanto che allora era caduta in terra, m entre adesso si sentiva cadere verso l’alto. C erto, lo vedeva bene che quello sbatteva, sudava e ansimava sopra di lei m a non lo sentiva più, non sentiva p iù niente. La costrizione ai polsi era sparita. N o n sentiva più le ascelle lacere né le cosce im brattate, non sentiva più il dolore, era come se non fosse più lei, quella lì sotto. Forse era una che le somigliava, o forse no, com unque era una che lei, adesso, vedeva da fu o ri. M a fuori Q u an d o anche il serpente ebbe finito, si tirò su i calzoni e tornò al locale. Gli altri m ontarono sulle m oto, lui si infilò il casco e partì im pennando. Finalm ente se n’erano andati. C he cosa le era accaduto? G radualm ente, com e se qualcu no l’avesse sfilata da sotto i piedi, come un collant, era scivo lata fu o ri. Aveva attraversato la testa, le vertebre, il m idollo le

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cosce i fem ori e le tibie e poi era sgusciata fuori dagli alluci, sm altati di rosa. Sentiva di avere la consistenza di un liquido, un fluido che dentro stava compresso m a appena era uscito si era potu to espandere senza lim iti. A parte questo, non sentiva più nien te. N o n sentiva né le bruciature di sigaretta sulla pancia né il gusto amaro della birra che le avevano rovesciato nella bocca aperta a forza, ridendo. N iente. Provò a riaprire gli occhi, m a non vedeva più nulla. A un certo p u n to , dentro al buio, com inciò a distinguere un corridoio, un tunnel stretto e lungo, con in fondo un bagliore di scintille, come le girandole che accendeva a Capo danno. C he fare? Pensò di muoversi verso la luce, quando si accorse che stava già fluttuando nel tunnel, sospesa a mezz’aria. C on velocità incredibile lo attraversò e in pochi istanti si avvicinò al fon do, dove il buio sfumava in un verde sempre più intenso, una spirale di pulviscolo lucente che la avvolse e la trascinò con sé. Stava volando? Come altro definire quella perfetta assenza di peso? Mai, nemmeno a danza si era sentita così leggera, era diven tata una piuma, una nuvola che vagava verso la luce, quando dal fondo oscuro alle sue spalle udì un ronzio, un rombo lontano. Si voltò un istante e vide, dall’altro capo del tunnel, un m ucchietto di cose rosa raggom itolate vicino a una pozza di sangue. U n paio di sandali fucsia, tu tti sporchi di fango, illum inava appena quell’oscurità. Li riconobbe subito. E riconobbe il suo corpo. Sembrava un vecchio vestito gettato in terra, un cencio sporco e inutile. C he cosa le avevano fatto? Pensò di piangere, m a le lacrime non uscirono.

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Scartò com unque l’ipotesi di tornare indietro. Adesso vo leva solo avanzare. U n nuovo vortice viola la trascinò più su, catturandole i piedi in un vuoto vertiginoso, se si potevano chiam are piedi le due protuberanze filanti con cui le pareva di term inare verso il basso, e finalm ente sbucò fu o ri. Il cielo, al di là del tunnel, era senza fine. O gni cosa lo abitava. C ’erano luci e colori e fiori e c’era sua no n n a che le sorrideva (m a che sorriso triste!) e tu tto era lì fuori e scorreva davanti e intorno a lei, i libri che non aveva letto, quei pochi che aveva finito e il gatto Odisseo (il povero papà di Molly) e le sue scarpette di danza con le p u n te piene di pece, e più saliva e più c’era spazio. U no spazio rosa, aran cione, no, azzurro, sconfinato, in cui poteva volare, nuotare, vedere a occhi chiusi e spostarsi con la massa di luce alla ve locità di un desiderio. Libera... Fluttuava in quella luce felice com e un palloncino a cui avessero reciso il filo, soltanto il fruscio del suo volo accom pagnava il silenzio di quella perfetta pace, quando ecco che il rom bo di prim a tornò, più forte. Di nuovo si girò. U n fascio giallo (opaco, in confronto alla luce che ravvol geva adesso) squarciò raso terra l’oscurità del tunnel, per poi fermarsi, all’altra estrem ità, sopra al suo corpo rannicchiato nel fango. Più il boato si avvicinava, più il tunnel la risuc chiava. La m oto avanzava, e lei precipitava. O rm ai era di nuovo al di là del tunnel, al buio, vicino al suo corpo. Lui scese dalla m oto e si avvicinò. Rivoltò il corpo col piede e com inciò a frugargli addosso.

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N o n si accorse di lei. Frugò senza trovare nulla, im precò, poi lanciò un ultim o calcio e se ne andò via. All’im patto con l’anfibio nero, un sussulto le aveva attra versato la schiena, come una scarica da diecim ila volt sparati tu tti insieme nelle vertebre. Poi, il suo corpo in terra com in ciò a tossire e rantolare, e ad ogni rantolo si sentiva risucchia re dentro. Q u an d o la bocca sputò fuori qualcosa, il rantolo cessò: una cosa m etallica, che cadde tin tin n an d o in terra. Si avvicinò e provò ad allungare un tentacolo di luce: at traversò il corpo com e se fosse burro. Cercò con gli occhi, e con lo sguardo penetrò la camicia strappata e la pelle e le ossa e sotto vide un reticolo di vene che si diram ava a partire dal cuore, un pugnetto di carne che pulsava piano, rilasciando un sangue denso e lento. N ell’angolo dell’occhio destro, tra dentro e fuori, galleggiava una lacrima di ghiaccio. G uardò più giù e solo allora lo individuò. Sotto alla bocca, im pastato di sangue e vom ito, c’era l’anello. D ’argento, a form a di serpente, con la testa a p u n ta incastonata in un diam ante nero. L’anello che l’aveva uccisa e che ora la stava riportando in vita. Era stanca. Si lasciò cadere giù, sfinita, accanto al corpo. Voleva solo riposarsi un p o ’. La terra era tiepida e ora riusciva a sen tirla. Vi si raggom itolò. La sensazione di leggerezza stava d im in u en d o . Le pareva che ogni m olecola di luce si stesse squagliando d en tro alla terra opaca e che tu tto il peso del m o n d o fosse adesso sul suo petto. G radualm ente ricom in ciò a sentire i piedi, le caviglie, le tibie, le ginocchia, lo sto m aco, le spalle. Il sangue au m en tò il suo ritm o nelle vene e la forza che le stringeva i piedi com inciò a scuoterle le

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gam be che in un brivido rito rn aro n o a essere gam be e di nuovo ebbe coscienza delle ossa, delle vene dei m uscoli e del dolore (atroce), e di nuovo fu la realtà, sporca e lacera, com e la sua cam icetta rosa. U n frem ito le attraversò le dita che tornarono a prendere il colore del sangue e un sospiro lieve, penoso, le sfuggì dalle labbra. Era tornata dentro. D alla pozza di fango accanto a lei emerse un serpente che strisciò via per terra, in silenzio. M a ancora prim a di riapri re gli occhi lei sapeva che sarebbe rimasto pietrificato per sem pre dentro al suo cuore, come un diam ante nero.

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VOCI E RIFLESSIONI DAL CONCORSO LETTERARIO NAZIONALE LINGUA MADRE di Daniela Finocchi (Ideatrice del Concorso letterario nazionale Lingua Madre)

Recentemente, nel corso di un’intervista, mi sono state poste domande sulla condizione della donna nel mondo oggi. Per ri spondere ho raccontato un episodio accaduto nella mia famiglia. Mia madre fu allontanata da casa a 16 anni e fu mandata a vivere con la famiglia dello zio, lontana dalla sua terra d’origine e dai suoi affetti, perché aveva salutato un ragazzo sulla porta di casa, tornando dalla sua lezione di violino. Aveva semplicemente sorriso e detto ciao ma la vide suo fratello, che subito dopo si riunì con gli altri maschi della famiglia e, tutti insieme, decisero di allontanarla, per sempre, dal paese. Questo non è successo secoli fa, ma solo circa 70 anni fa. Oggi nessuno farebbe più nulla di simile. Quindi, moltissimo è cambiato. La violenza, la discriminazione nel lavoro, la povertà, la prosti tuzione ci sono sempre state, non sono fenomeni di adesso. Sem plicemente ora abbiamo più strumenti per venirne a conoscenza. Addirittura l’O N U ha riconosciuto la violenza maschile come la prima causa di morte e di invalidità per le donne in tutto il mondo. Il numero delle donne vittime di violenze supera, ogni quattro anni, quello delle vittime dell’olocausto! Dei racconti che arrivano ogni anno al Concorso letterario Lin gua Madre molti parlano di violenza subita. Tra tutti i flagelli mon173

diali, la violenza contro le donne è il più equamente ripartito: lo si trova in tutti i paesi, in tutù i continenti e presso tutti i gruppi sociali, economici, religiosi e culturali, come dimostrano i brani che seguono. Così il corpo delle donne continua ad essere imprigionato da un’immagine che non gli appartiene, in ogni Paese e ad ogni latitudine. Che sia in uno chador o che sia in un paio di tacchi di 12 centimetri o la chirurgia plastica, il discorso non è poi così diverso. C ’è un sottile filo che congiunge le storie delle donne stra niere e italiane che arrivano al Concorso letterario Lingua M a dre. Prima della nazionalità, della lingua o del ceto sociale, esiste una com une appartenenza allo stesso sesso, ad una m e desima specie. E un dialogo corale che non si arresta. Il cammino verso il cambiamento è ancora lungo se si pensa che più di un terzo delle donne in tutto in tutto il mondo (35,6%), sperimenta la violenza fisica nel corso della vita e per di più conosce il proprio assalitore: è l’uomo con cui condivide la casa e la vita. È questo il risultato scioccante del prim o studio com ple to pubblicato dall’Organizzazione M ondiale della Sanità nel 2013. M a c’è dell’altro. D al sito dei Carabinieri risulta che il 90 per cento delle d o n ne vittim e di violenza non denuncia il loro aggressore. Certo, è giusto informare e incoraggiare le donne a denunciare le vio lenze, m a non è giusto colpevolizzarle se non lo fanno. Insisto sul fatto che sono gli uom ini a doversi interrogare e non tanto le donne a dover rivendicare qualcosa che gli è dovuto. Bisognerebbe cambiare anche il linguaggio. Un linguaggio rispettoso della differenza è fondamentale. I sostantivi possono essere maschili, fem m inili o neutri e occorre usarli, del resto si tratta di una regola della gram m atica italiana e non c’è motivo perché term ini quali m inistro o sindaco non siano declinati

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E quel giorno la m ia vita cambiò. Come per magia com inciai a esistere nella m ia fam iglia, m i sentivo sempre p iù considerata. Potevo parlare con gli uom ini, partecipavo alle loro riunioni, potevo uscire e andare da sola alla fo n te a prendere l ’a cqua, p o tevo andare a pascolare il gregge e, perfino, potevo studiare. M i comportavo da uomo. Finalm ente sentivo l ’a ffetto che la m ia fa m ig lia non m i aveva dimostrato in tredici anni... Adesso m i chiamo Z e f Roza è morta, l ’ho uccisa, dicevo. Ero talm ente fe lice perché non pensavo p iù a l mio essere donna. Agnes O n ea (Rom ania)3: Ero una bam bina che non voleva suo papà, perché era un uomo cattivo che picchiava la m am m a anche se l ’a mava, un uomo a l quale portava però molto rispetto e a l quale voleva molto bene. M a che non voleva come marito della m am m a, perché lu i non la meritava. Laila W adia (India)4: A quattordici an n i M ira si fece attra ente, anche se in modo ruspante per m ancanza d i bei vestiti e cure del corpo. A l contempo, l ’interesse letterario del Signorino A m it transitò da A lfred Hitchcock e Agatha Christie a Playboy e Penthouse. M ira, che doveva sempre sistemare la sua stanza, in un pomeriggio d i pioggia, mentre tu tti stavano schiacciando un pisolino, entrò, come le era stato ordinato, a fa re le pulizie. Quando ne uscì non era p iù la stessa. Un fiu m e d i fango e in sulti la travolsero. In concomitanza alla perdita d ell’onore, M ira sembrò anche perdere l ’uso della lingua. N on diede m ai una spiegazione per quello che era accaduto, non colpevolizzò il suo stupratore né avanzò l ’ipotesi d i sporgere denuncia. N on la sfiorò 3

Agnes Onea,

4

Laila Wadia, // m o n d o

d i M ira

s tr a n ie r e in I t a li a , Seb27,Torino

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in L in g u a 2006.

O g g i h o d e c is o d i s c r iv e r e

d i d o n n e s tr a n ie r e in I t a li a , Seb27, Torino

in L in g u a 2007.

M a d r e D u e m ila s e i-R a c c o n ti

M a d r e D u e m ila s e tte -R a c c o n ti d i d o n n e

m inim am ente l ’idea d i chiedere un indennizzo. Sua madre la picchiò violentemente, ma la ragazza non pianse mai. Suo padre le diede tante cinghiate nella speranza d i provocare un aborto e lei lo guardò fisso negli occhi senza fiatare. A lla fine, la Signora Sanghvi le porse m ille rupie e l ’indirizzo d i una clinica privata. Anche i m atrim oni forzati sono una forma di violenza, scri ve Giil Ince (Turchia)5: È tutto pronto. D om ani partiamo. M i hanno dato un passaporto, sopra c’è la m ia foto, ma il nome è di qualcun altro. N on m i chiamo p iù Elif. Il mio nome è D eniz, D eniz... che bel nome... Mare, vuol dire D eniz. M io padre stasera è venuto a dirm i che durante il viaggio non sarò da sola, ci sarà un’a ltra ragazza, con me. Anche lei va in Germania, ma diver samente da me lei rimane là. Invece io vado prim a in Germania e poi in Italia, dove il mio fu tu ro marito m i aspetta. D om ani saremo due spose. D ue spose illegali, senza mariti, né matrimoni. Karla Pegorer Dias (Brasile)6: Un triste giorno, il vento del nord portò con sé un imponente cavaliere, la sua astuzia e una proposta lusinghiera: sette paia d i piccoli sandali, fatiscenti, ma indispensabili allego d i chi dalla vita aveva ricevuto quasi nulla. Le labbra d i Idriss, da poco tatuate d i nero, fissarono gli occhi d i sperati d i sua madre e, in quel momento, capì che nulla a l mondo avrebbe permesso, a una prim ogenita come lei, d i sfuggire alla pro pria sorte. N el deserto, niente era dovuto, persino avevano un prezzo. N on ci furono saluti né parole d i conforto, Idriss non portò con sé il dela e nessuno richiese m ai ilgoroga per l ’uccisione dei suoi sogni. A nch’essi avevano un costo, ed era stato concordato 5

Giil Ince,

M a re v u o l d ir e D e n iz

in

L in g u a M a d r e D u e m ila tr e d ic i-R a c c o n ti d i

d o n n e s tr a n ie r e in I t a li a , Seb27, Torino

2013. 6 Karla Pegorer Dias, F a v o la d i S p e r a n z a in L in g u a c o n ti d i d o n n e s tr a n ie r e in I ta lia , Seb27, Torino 2013.

M a d r e D u e m ila tr e d ic i-R a c

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e pagato in quell’infausto pomerìggio in Ciad. Partirono verso est. Guardando i palm eti dell’oasi d i Fada che scomparivano a l tra monto, Idriss strinse a sé il proprio cuore e si addormentò; quando si fece l ’alba, non era p iù una bambina. Protetto da ll’immensità oscura d i quella notte, il maestoso cavaliere si era spogliato dallo chèche, svelandole il mare d i malvagità nel quale avrebbero navi gato i suoi anni a venire. E fu fedele alla sua promessa. (...) Dopo una lunga battaglia contro la sorte, a Idriss, finalm ente, era stato concesso d i scegliere, e lei aveva scelto la vita. In ospedale, ascolta rono con ribrezzo la sua storia e le dissero che portava in grembo il figlio dell’orrore; ma Idriss sentiva che ero una fem m ina, sorrise, e decise d i chiam armi Speranza. Celia R. C aputi Daileader (USA)7: N ell’ascensore dell’ospe dale, accanto a l corpo comatoso d i sua moglie, mio padre scher zava istericamente con gli infermieri. Gli inferm ieri guardavano fisso davanti a loro - rigidi - testimoni riluttanti d i un comporta mento vergognoso, quello d i mio padre. Dopo questo episodio per me insopportabile, l ’ho subito perdonato. Sapevo che era caduto in un inferno psicologico che io non potevo nemmeno immaginare. Io adoravo m ia mamma; senza d i lei, il mondo sarebbe stato ter rificante. L ui l ’a mava, l ’aveva trascurata, l ’aveva picchiata. Tiziana Perna (Italia)8: Ho attutito i colpi d i braccia violen te, soffocando lam enti tra denti serrati. Prigioniera d i un amore, che si è fa tto fo rza della m ia invisibilità.

c i- R a c c o n ti d i d o n n e s tr a n ie r e in I ta lia , Seb27,

7

Celia R. Caputi Daileader, L a g o

in L in g u a Torino 2013.

8

L in g u a M a d r e D u e m ila d o d ic i-R a c -

Tiziana Perna,

d e lla b u s s o la

L 'In fe rn o e ( i l P a r a d is o )

in

c o n ti d i d o n n e s tr a n ie r e in I t a li a , Seb27, Torino

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2012.

M a d r e D u e m ila tr e d i-

Il Concorso letterario nazionale Lingua Madre, nato nel 2005, è progetto permanente della Regione Piemonte e del Salone Internazionale del Libro di Torino - con il patrocinio del M inistro per l’Integrazione, della rappresentanza in Italia della Commissione Europea e di Pubblicità Progresso - ed è diretto alle donne straniere (o di origine straniera) residenti in Italia, con una sezione per le donne italiane. Vuole essere un’opportunità per dar voce a chi abitualm ente non ce l’ha, cioè gli stranieri, in particolare le donne che nel dramma della migrazione sono discriminate due volte. Un’occasione d’in contro e confronto, perché il bando non solo ammette, ma incoraggia la collaborazione fra le donne straniere e italiane nel caso l’uso della lingua italiana scritta presenti delle difficoltà. G iunto alla IX edizione, il progetto è cresciuto grazie alle nu merose collaborazioni con enti e istituzioni, associazioni, scuo le. Si può partecipare inviando un racconto e/o una fotografia. Ogni anno le opere selezionate sono pubblicate in un libro e le immagini esposte in una mostra. L’attività si svolge durante tutto l’anno su tutto il territorio nazionale. Il bando, le attivi tà e altre informazioni sono su www.concorsolinguamadre.it, Twitter, Facebook, Youtube.

CONCORSO LETTERARIO NAZIONALE

Lìngua Madre.

Patrocinato da: Regione Piemonte Ministro per la cooperazione Pubblicità Progresso

Racconti di donne straniere in Italia

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LE AUTRICI Anna Baccelliere, insegnante di scuola media, è autrice di libri per bam bini e ragazzi. Cura apparati didattici di testi scolastici e conduce laboratori e incontri di prom ozione della lettura presso scuole, biblioteche e librerie. Alessandra Berello è nata in Piem onte e ha girovagato per il N ord Italia e la Francia, per poi stabilirsi a M ilano, dove lavora come editor di libri per ragazzi. È coautrice di Football , se rie incentrata su calcio, amicizia e temi sociali (Einaudi Ragazzi). Rosa Tiziana Bruno, sociologa, insegnante e scrittrice. C on duce studi sull’uso della fiaba nella didattica e scrive di educazione e scuola sul Corriere della Sera online. Tra i suoi libri: La paura è fa tta di niente, La pasticceria Z itti, Parole come stelle. Fulvia D egl’Innocenti, giornalista per ragazzi, è autrice di n u merosi libri per bam bini e per adolescenti. H a vinto il Premio Bancarellino 2011 con La ragazza d ell’E st, sulle giovani prostitute vittim e della tratta. Ornella D ella Libera, scrittrice, ispettore capo della Polizia di Stato. Autrice di canzoni tra le quali Lo Stelliere scritta con Edo ardo Bennato, vincitrice dello Zecchino d ’oro. I suoi libri hanno vinto diversi premi letterari. Si occupa d’infanzia negata e di m i nori in difficoltà. Giuliana Facchini è nata a Roma, ma vive vicino al lago di Garda con un m arito, due figli, due gatti e un cane di nome Bry ce. Da sempre scrive, legge e racconta storie, alcune di quelle sto rie sono diventate romanzi per ragazzi.

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Ilaria Guidantoni, fiorentina, vive e lavora tra Roma, Milano e Tunisi. Giornalista, blogger e scrittrice, si occupa soprattutto di mediterraneità. Ha pubblicato svariati saggi e romanzi. L’ultimo è Chiacchiere, datteri e thè. Tunisi, viaggio in una società che cambia. Laura Novello scrive libri per ragazzi. H a pubblicato con Mammeonline, Sassi Junior, La Spiga Edizioni, Edizioni Ets. Col labora con riviste, enti e associazioni e conduce laboratori di let tura e scrittura creativa (www.lauranovello.com). Isabella Paglia (Monselice, 1969) è un’apprezzata autrice di li bri per bambini e ragazzi. Dopo aver lavorato in Italia e all’estero con riviste legate al mondo dell’infanzia e della creatività, è redat trice di Book Avenue e del giornalino per bambini Giulio Coniglio. Daniela Palumbo è giornalista a Scarp de’ Tenis, storico giorna le di strada della Caritas Ambrosiana. Nel 2010 ha vinto II Battello a Vapore con Le Valigie di Auschwitz. E autrice di libri Piemme, EL, Paoline, Mondadori (www.danielapalumbo.wordpress.com). Elena Peduzzi vive a Milano. Laureata in Lettere classiche con indirizzo archeologico, ha lavorato nella redazione di libri per ra gazzi di una grande casa editrice. I suoi romanzi, pubblicati dai più noti editori, sono stati tradotti in numerose lingue. Cristiana Pezzetta si occupa di letteratura per ragazzi per i siti Editoriaragazzi.com e BookAvenue.com. Ha vinto, con Gioia Marchegiani, il primo premio al concorso Syria Poletti 2013, con l’albo illustrato Nadeema e Shair. Annamaria Piccione è nata e vive a Siracusa. H a scritto oltre cinquanta libri per ragazzi. I bam bini la chiam ano La signora dei gatti.

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Manuela Piovesan è autrice per ragazzi, studiosa di letteratura per l’Infanzia e giornalista. Organizza laboratori per scuole e biblioteche e workshops di scrittura creativa. Ha pubblicato con le Ed. Campanotto, Edicolors, Falzea, Lineadaria e Caccole & Coccole. Si occupa di Libri d’Artista e collabora con la Scuola Internazionale di Grafica di Venezia. Livia Rocchi scrive dal 2004 su riviste femminili. Dal 2008 collabora a progetti didattici (De Agostini - Piemme) e pubblica libri e racconti per ragazzi tra cui la serie Talent Angels (Camelozampa). Maria Giuliana Saletta, ideatrice e penna di Echino Giornale Bambino., è attenta osservatrice del m ondo infantile e lo descrive nelle sue emozioni, le sue fatiche, le sue sfide, le sue gioie. Realizza laboratori creAttivi per scuole e biblioteche. Chiara Valentina Segré, milanese, del 1982. Di giorno è bio ioga e divulgatrice scientifica. Di notte scrive. E autrice degli albi illustrati Gedeone (Il Gioco di Leggere), Lola e io (Camelozampa) e Ciabattina Coccinella al contrario (Astragalo Edizioni). Luisa Staffieri, foggiana, si definisce maestra per caso ma è anche scrittrice per passione. Tutti i suoi libri sono stati pubblicati dalla Casa Editrice Mammeonline, con cui collabora anche per Echino Giornale Bambino. Annalisa Strada, bresciana, si ostina a non staccare mai le dita dalla tastiera e qualche volta se ne dichiara soddisfatta. Pina Tromellini, pedagogista e scrittrice, vive a Reggio Emi lia. Ha scritto per la Salani La tenerezza e la , con Marcello Bernardi. E molti altri libri per genitori ed educatori, oltre a libri per ragazzi.

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Pina Varriale è nata e vive a Napoli, si è occupata di ragazzi a rischio, collabora con giornali e periodici e scrive romanzi per adulti e ragazzi. Tra i suoi libri: Ragazzi di camorra che ha vinto numerosissimi premi, tra cui il Bancarellino e il Premio Cento. Laura Walter è autrice di numerosi libri per ragazzi. Crede nelPimpegno civile, per promuovere il buono e il bello. Per questo Vi invita a visitare la pagina facebook “ with Children". Se volete sapere di più su di lei: www.laurawalter.it

Giamila Yehya, nata a Roma, è dottore di ricerca in Storia delle scritture femminili, scrive su riviste e periodici, ha pubblica to un romanzo per ragazzi (. Amiche a prim a insegnante di yoga, ed è la mamma di Alba.

Paola Sorrentino è la giovanissima autrice del quadro in co pertina. Frequenta l’ultimo anno del liceo classico e ama scrivere, dipingere, studiare storia '* ne la pensa.

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