Chi Troppo, Chi Niente
 9788817063067

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EMANUELE FERRAGINA (Catanzaro 1983) insegna Politiche sociali a Oxford, è membro della Fonderia Oxford (www.fonderia.org), il laboratorio politico creato da un gruppo di giovani ricercatori italiani all’estero. Ha partecipato come ospite e opinionista a diversi programmi televisivi, come Servizio pubblico e Rapporto Carelli e scrive regolarmente sul “Fatto Quotidiano”.

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TUTTI GLI ANIMALI SONO UGUALI. MA ALCUNI LO SONO PIÙ DEGLI ALTRI. GEORGE ORWELL

CHI TROPPO CHI NIENTE

Ormai sembrano tutti d’accordo: l’Italia deve cambiare. Eppure nessuna delle ricette proposte è ancora riuscita a curare lo Stivale dai suoi mali storici. All’ombra di parole d’ordine quali “austerity” e “taglio del debito” si ritrovano a pagare sempre gli stessi, mentre i soliti noti rafforzano i propri privilegi. La nostra penisola è marchiata da crescenti disuguaglianze che deprimono l’economia, esasperano lo scontro sociale, e soprattutto riducono l’efficienza del sistema-paese. È questa la tesi, semplice ma esplosiva, di Emanuele Ferragina, giovane docente “espatriato” in Inghilterra ed esperto di politiche sociali: occorre ridurre le disuguaglianze, non per ragioni ideologiche, ma per rendere il sistema più funzionale. Il comportamento lobbistico degli ordini professionali; una spesa sociale sbilanciata verso il passato pensionistico e incurante del futuro lavorativo dei giovani precari; il crollo della coesione sociale dovuto alla disuguaglianza crescente; un federalismo ingiusto sbandierato come slogan. Una penetrante indagine sull’iniquità e l’inefficienza del nostro paese, e una ricetta per cambiarlo. Una ricetta che converrebbe alla maggioranza degli italiani.

EMANUELE FERRAGINA

Proporre di ridurre la disuguaglianza significa, in ultima analisi, portare alla ribalta un’agenda ormai ignorata da tutti i partiti politici, anche quelli che ne avevano fatto una bandiera. Invocare, finalmente, la ridistribuzione non per scelta ideologica, ma per far funzionare meglio il nostro Paese.

EMANUELE FERRAGINA

CHI TROPPO CHI NIENTE Perché l’Italia non può più permettersi i costi della disuguaglianza. Dagli ordini professionali, alla previdenza, dal lavoro alla coesione sociale e al federalismo, un progetto inedito e concreto per rendere finalmente giusto ed efficiente il nostro Paese.

Emanuele Ferragina

CHI TROPPO CHI NIENTE

F U T U R O P A S S A T O

Proprietà letteraria riservata ©2013 RCS Libri S.p.A., Milano

ISBN 978-88-17-06306-7 Prima edizione BUR Futuropassato marzo 2013

Impaginazione: PEPE nymi – Milano

Per conoscere il mondo BUR visita il sito www.bur.eu

Premessa

Tanto come cittadino quanto come studioso mi confronto ogni giorno con la questione delle diseguaglianze. Certo, le esperienze personali plasmano gli interrogativi più profondi di ognuno di noi, ma mi rendo conto che a guidarmi nella realizzazione di questo lavoro è stata soprattutto una convinzione maturata in lunghe ore di ricerca, osservazione dei dati e confronti con colleghi: oggi più che mai, nel contesto di austerità permanente e crisi sistemica dell’Italia e del mondo occidentale,1 c’è la necessità di convergere su un principio unificante. Un principio tale da guidare tutte le azioni e le microfratture destinate a cambiare il nostro paese. Credo fermamente che questo principio, la nostra stella polare, sia l’uguaglianza. Chi parla di uguaglianza oggi, anche quei partiti o gruppi che si dichiarano più sensibili al tema, lo fa ormai incidentalmente e senza uno straccio

Sul tema vedi Piero Bevilacqua, Miseria dello sviluppo, Laterza, Roma-Bari 2008. 1

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d’analisi, quasi con stanchezza, trasformandola spesso in un «rimpianto della storia»: qualcosa che poteva essere e non è stato. Un terreno di mera possibilità che spazia dall’Utopia di Thomas More alla Città del Sole di Campanella, dal socialismo utopico di Fourier a quello scientifico di Marx, dalla promessa mai avveratasi dell’Unione Sovietica come alternativa al sistema capitalistico occidentale alle pseudo dittature del proletariato in democrazie fasulle e popolari. Anche i partiti socialdemocratici europei, che ne avevano fatto una bandiera dopo il secondo conflitto mondiale, hanno progressivamente abbandonato l’idea di redistribuzione. Nel contesto di deregulation, venutosi a creare a partire dagli anni Ottanta per incentivare lo scambio e lo sviluppo di un mercato senza frontiere nazionali, i partiti socialdemocratici hanno finito per inseguire quelli conservatori, sacrificando sul presunto altare dell’efficienza il principio di uguaglianza. Dai laburisti inglesi ai socialdemocratici tedeschi, al Centrosinistra italiano, sono state perseguite politiche che hanno favorito la privatizzazione dell’istruzione, la riduzione delle tutele sul mercato del lavoro e l’aumento della disuguaglianza. Gli esempi sono molteplici. Nel Regno Unito il New Labour guidato da Tony Blair ha radicalmente trasformato l’offerta politica e gli obiettivi del partito dopo il lungo periodo di governo dei conservatori negli anni Ottanta e

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Novanta. È stata introdotta per la prima volta una tassa per l’università, prima con un tetto massimo di mille sterline nel 1998, innalzato poi a tremila. I conservatori hanno quindi completato l’opera, triplicando le tasse e portando il massimale a novemila sterline nell’anno accademico 2012/2013. Gli effetti in termini di uguaglianza e accesso all’istruzione saranno devastanti. Molti rinunceranno a un’istruzione universitaria che costa sempre di più e garantisce sempre meno l’accesso al mercato del lavoro (vista la crescita esponenziale dei tassi di disoccupazione fra chi ha seguito questo percorso). Inoltre, anche a livello simbolico, l’uso delle parole «uguaglianza» e «redistribuzione» è progressivamente sparito dai programmi elettorali del Partito laburista nell’ultimo ventennio: il confronto tra le linee programmatiche degli anni Settanta e quelle degli anni Novanta e Duemila, fortemente influenzate dalla «terza via» di Anthony Giddens,2 non lascia spazio al dubbio. In Germania, il Partito socialdemocratico, con le riforme Hartz, ha drasticamente ridotto il livello di protezione sociale per i disoccupati; un processo già avviato dall’Unione cristiano democratica nel 1999. Si è progressivamente deregolamentato il mercato del lavoro (specie per i più giovani), portando molti cittadini tedeschi ad accettare lavori sottopagati e insicuri, occupazioni 2

Vedi Anthony Giddens, La terza via, il Saggiatore, Milano 1999.

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ribattezzate «mini-jobs». I mini-jobs permettono di guadagnare massimo quattrocento euro al mese e sono stati disegnati per coloro i quali non hanno nel lavoro pagato la propria attività principale: studenti e donne non tradizionalmente occupate. I mini-jobs servono alle aziende per fare fronte ai picchi di produzione senza dover stipulare contratti onerosi, permettendogli di assumere personale per un periodo limitato e poi liberarsene senza incorrere in obblighi contributivi e amministrativi. Tuttavia questi lavori part-time – su cui praticamente non esistono oneri previdenziali e le imprese non pagano tasse – hanno l’effetto di ridurre l’incentivo ad assumere lavoratori a tempo pieno, con contratti tradizionali, in occupazioni poco qualificate. In Germania ci sono sette milioni di contratti mini-jobs; questo nel lungo periodo frenerà la creazione di posti di lavoro regolari e contribuirà alla crescita di un autentico esercito di lavoratori occasionali senza diritti né previdenza sociale.3 Eppure la riforma tedesca del mercato del lavoro è stata indicata per tutto il 2012 dal nostro governo tecnico come il modello da seguire. Inutile sottolineare come simili riforme abbiano contribuito all’aumento della disuguaglianza economica nell’ultimo decennio e accresciuto il

Vedi The age of dualization, a cura di Patrick Emmenegger et al., Oxford University Press, Oxford-New York 2012. 3

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divario tra i giovani (occupati sempre più spesso in lavori sottopagati e con minore protezione sociale) e i più anziani (che dispongono di lavori a tempo indeterminato e di una protezione sociale molto più generosa). Questo fenomeno è stato definito dualization.4 La dualizzazzione è la creazione di un sistema che accresce differenze di reddito e protezione sociale tra chi ha un’occupazione stabile e chi non ce l’ha; e la soglia di discrimine coincide sempre più spesso con una linea di demarcazione generazionale. Purtroppo tale processo in Italia è anche più marcato rispetto alla Germania. Nel nostro paese sia le forze progressiste, 5 sia quelle conservatrici, hanno mirato a mantenere il sistema di protezione sociale intatto per chi ha un’occupazione a tempo indeterminato e ha cominciato a lavorare prima del 1978, scaricando completamente i costi delle riforme e della precarietà su chi ha cominciato a lavorare dopo il 1996. Chi si trova oggi ad avere un’occupazione precaria è doppiamente penalizzato: da un lato non è coperto dal rischio di disoccupazione con ammortizzatori sociali adeguati, dall’altro riceverà una pensione da fame. Si è mantenuta una visione rigida del mercato del lavoro per chi è entrato nei decenni passati, mentre chi entra oggi – o lo ha fatto nell’ultimo decennio – paga tutte le conseguenze di una

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Vedi The age of dualization, cit. In particolare la Cgil.

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flessibilità che, diversamente da molti altri paesi europei (come quelli scandinavi), si traduce automaticamente in precarietà.6 In un certo senso anche noi abbiamo seguito l’evoluzione tedesca senza veramente riformare il sistema, arroccandoci solo sulla protezione dei diritti acquisiti e senza curarci minimamente di quelli dei nuovi lavoratori. Anche alla luce di questi esempi, proporre oggi la riduzione delle disuguaglianze non significa rispolverare senza riflessione critica vecchie ideologie del Novecento o peggio ancora non curarsi dell’efficienza; vuol dire, piuttosto, interrogarsi sulle falle del nostro sistema socioeconomico. Falle che ci impediscono di sfruttare un enorme potenziale umano, che giace inutilizzato per le sperequazioni del sistema e invece potrebbe concorrere alla trasformazione, finalmente in chiave moderna, dell’Italia. Proporre di ridurre le disuguaglianze significa, in ultima analisi, portare alla ribalta un’agenda ormai ignorata da tutti i partiti politici, anche quelli che ne avevano fatto una bandiera. Questa agenda si basa su un principio razionale: abbattere la disuguaglianza per avviare una lotta serrata contro l’inefficienza del sistema. Invocare, finalmente, la ridistribuzione non per

Vedi Fabio Berton, Matteo Richiardi e Stefano Sacchi, Flexinsecurity: perché in Italia la flessibilità diventa precarietà, Il Mulino, Bologna 2009. 6

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scelta ideologica, ma per far funzionare meglio il nostro paese. Ogniqualvolta si propone la ridistribuire della ricchezza, si levano forti proteste da chi accusa quest’approccio di essere foriero solo di conseguenze negative sull’economia. Secondo i sostenitori di tale logica, non intervenire per ridurre le disuguaglianze è l’unica strategia capace di garantire il funzionamento del mercato: le disuguaglianze economiche e sociali sarebbero necessarie per fornire i giusti incentivi e guidare le decisioni d’imprese e individui verso comportamenti favorevoli alla crescita economica. In poche parole, ridurre le disuguaglianze colpirebbe la crescita, perché permetterebbe a chi è più povero o ha meno opportunità di dipendere da quanti lavorano più duramente, senza sforzarsi di migliorare autonomamente la propria condizione. A questo argomento classico, vecchio come l’economia politica di Adam Smith7 e pragmatico come l’uomo della strada, viene spesso aggiunto un corollario: la crescita, generata lasciando le persone libere di agire senza essere imbrigliate da politiche

Adam Smith, nell’opera del 1776 An inquiry into the nature and causes of the wealth of nations, teorizzò che comportamenti motivati dal puro interesse individuale sono, nel lungo periodo, portatori di un miglioramento del funzionamento del sistema economico nel suo complesso. Si tratta della cosiddetta «mano invisibile». Vedi l’edizione italiana: Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, Newton Compton, Roma 2011. 7

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redistributive, nel lungo periodo favorisce paradossalmente anche l’uguaglianza, perché spinge coloro i quali possiedono meno a impegnarsi di più per ottenere come premio finale ricchezza e benessere. Insomma, intervenire per ridistribuire gli spicchi di una torta troppo piccola sarebbe una politica dannosa, perché rimuoverebbe gli incentivi ad ampliare la grandezza della torta. Spiegherò nelle pagine che seguono quanto sia inappropriata, oggi, una tale visione in Italia. In un paese in cui le disuguaglianze galoppano in molti settori della vita sociale ed economica ma non c’è crescita da più di un decennio, ridistribuire la ricchezza e le opportunità non costituirebbe un ostacolo allo sviluppo economico, ma significherebbe accrescere invece la coesione sociale e l’efficienza del sistema-paese. Il processo redistributivo del quale discuteremo nel libro, fondato sulla riforma degli ordini professionali, del sistema pensionistico, degli ammortizzatori contro la disoccupazione, sulla crescita della coesione sociale e sulla riforma complessiva della struttura dello Stato in chiave federale, non potrà essere avviato con successo senza: 1) implementare politiche per la crescita;8

Quali la tassazione di vantaggio (si tratta di una riduzione delle aliquote fiscali in alcune aree geografiche e per alcune categorie demografiche) per le aree meno sviluppate o l’abbassamento delle aliquote fiscali per le donne neoassunte. 8

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2) tassare con decisione i patrimoni e i profitti delle imprese multinazionali e dei cittadini più ricchi; 3) ridurre la speculazione finanziaria, disincentivando i flussi troppo rapidi di capitale.9 Tali flussi stanno destabilizzando le economie di molti paesi sviluppati e contribuiscono a creare un clima di incertezza che ha un effetto diretto negativo sui tassi di interesse pagati per coprire il debito pubblico. Inutile sottolineare che questi movimenti speculativi di capitale hanno principalmente colpito i paesi meno produttivi ed economicamente più deboli (quelli mediterranei). La situazione sta diventando critica. Il profitto risiede sempre di più in poche mani, che accumulano ricchezza senza sottostare alle regole e alla tassazione imposte dagli Stati alle imprese tradizionali. Prendete il recente caso di Amazon nel Regno Unito. La famosa impresa di e-commerce – che ha generato un giro d’affari di 3,3 miliardi di sterline lo scorso anno e distribuisce il 25% dei libri venduti – non paga nessun tipo di corporate tax (tassazione di impresa) nel paese della regina. Questo perché la proprietà ha base in Lussemburgo, occupando solo centotrenta persone10 che ricevono la maggior parte dei pagamenti e degli

Con l’introduzione magari di una Tobin tax sui flussi speculativi di capitale a breve termine. 10 Assunte in Lussemburgo e non nel Regno Unito. 9

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utili prodotti dall’azienda. Secondo l’autorevole quotidiano inglese «The Guardian»,11 negli ultimi tre anni Amazon avrebbe evaso almeno cento milioni di sterline di corporate tax nel Regno Unito. L’esperto di tassazione Richard Murphy ha dichiarato, in un intervento ripreso dall’articolo del «Guardian», che Amazon Regno Unito non dovrebbe poter evadere semplicemente dichiarando una base operativa in Lussemburgo, perché i suoi profitti sono generati tutti in Gran Bretagna. Si tratta di un abuso, in quanto i profitti su consumi operati nel Regno Unito finiscono tutti in Lussemburgo, nelle mani di pochi. All’esempio di Amazon – che da qualche tempo opera anche in Italia – potremmo aggiungere quello di decine di imprese multinazionali che continuano a fare profitto senza pagare tasse, ma anche quello dei flussi di capitali incontrollati che destabilizzano tutti i paesi sviluppati con conseguenze drammatiche per le casse pubbliche. Per tutte queste ragioni, se l’Italia vuole davvero avviare un processo di redistribuzione deve portare avanti, assieme alle riforme a livello nazionale delineate in questo libro, anche una strategia concertata con tutti gli altri paesi europei per tassare profitti e rendite a vantaggio della

Vedi Ian Griffiths, Amazon: £7bn sales, no UK corporation tax, guardian.co.uk, 4 aprile 2012, http://www.guardian.co.uk/technology/2012/apr/04/amazon-british-operation-corporation-tax. 11

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collettività. Abbiamo scelto, invece, politiche di «austerità competitiva», che sono volte a ridurre il costo del lavoro e gli oneri del welfare state per limitare il debito pubblico. Si tratta di una strategia che continua a favorire solo grandi imprese multinazionali e banche, a svantaggio dei lavoratori e delle classi medie che si portano sulle spalle quasi tutto il carico fiscale. Occorre tappare le falle del sistema che permettono a queste imprese di accumulare profitti enormi, in modo da avere risorse addizionali da ridistribuire. Partendo da simili premesse – che hanno radici globali, nazionali e locali – l’intenzione di questo scritto è dimostrare al lettore, anche quello più scettico, che la ridistribuzione della ricchezza e delle opportunità è un principio unificante da cui partire per avviare un processo di riforma complessiva dello Stato. E ciò perché la riduzione delle disuguaglianze non è semplicemente un obiettivo legato all’idea di giustizia ed equità sociale (finalità già di per sé importanti), ma anche uno strumento per il miglioramento generalizzato dei meccanismi che fanno vivere e prosperare un paese. La nostra è una nazione in crisi, percorsa da tensioni economiche e sociali ben più forti di quelle di molti altri paesi sviluppati. Da anni cerchiamo affannosamente soluzioni ai problemi che attanagliano un paese bloccato: dalla scarsa produttività del sistema economico alla rigidità del mer-

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cato delle competenze professionali, dalla «fuga dei cervelli» alla spesa eccessiva per le pensioni (nonostante la recente riforma), dall’inadeguatezza della protezione dei lavoratori precari alla debolezza della società civile, dalla mancanza di coesione sociale alla riforma della struttura istituzionale. Ma lo facciamo come se questa serie di problemi collettivi potessero essere risolti singolarmente, in modo autonomo. Stringendo la cinghia qua e là, continuando ad adottare soluzioni frammentarie e dimenticando che a problemi collettivi bisogna, per forza di cose, dare risposte coniugate al plurale. È arrivato il momento di mettere da parte le tradizionali diatribe ideologiche e guardare a come perseguire una politica redistributiva fondata sul supporto alle categorie più deboli. In Italia esistono circa undici di milioni di persone che percepiscono meno di mille euro al mese di pensione;12 quasi quattro milioni di lavoratori precari13 e quasi tre milioni di persone disoccupate e in cerca di lavoro.14 A questi bisogna ag-

Cifra calcolata sulla base dei dati Istat 2009, ampiamente discussi nel capitolo dedicato alle pensioni. 13 Dati consultabili sul sito http://www.aboliamolavoroprecario. it/licenza-joomla.html?start=2. 14 Vedi Fabrizio Galimberti, Il termometro che misura la «febbre» del lavoro, ilsole24ore.com, 22 aprile 2012, http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2012-05-09/termometro-misura-febbrelavoro-173631.shtml?uuid=AbYN0BaF. 12

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giungere coloro i quali non ha mai lavorato o sono occupati in modo irregolare e i lavoratori che percepiscono un reddito inferiore ai milleduecento euro mensili. Si tratta di una «coalizione potenziale» da più di venticinque milioni di voti, che oggi si trova a votare partiti diversi afferenti all’intero arco costituzionale, ma che avrebbe l’interesse a supportare le misure redistributive discusse in questo libro ove fossero proposte da un partito politico o una coalizione di governo. Un tale elettorato potrebbe sovvertire la geografia del voto se solo fosse mobilizzato attraverso il principio chiaro, trasparente e unificante, dell’uguaglianza. Oggi nessun partito politico, nessun movimento o personalità è nelle condizioni di unificare e catturare il voto di questo vasto gruppo potenziale. Per questa ragione, mi rivolgo a coloro i quali vogliono superare le vecchie divisioni della politica nostrana, proponendo il principio di uguaglianza come «idea federativa» per combattere l’inefficienza del sistema con la redistribuzione delle risorse. Questo libro fa appello alla razionalità e all’interesse della maggioranza degli italiani, che oggi si trovano rappresentati da partiti e movimenti che non hanno perseguito e non perseguiranno il loro interesse, ma solo quello della fetta più ricca della popolazione. Prima di iniziare la trattazione vera e propria desidero però tornare sulle motivazioni personali che mi hanno spinto a scrivere queste pagine. Qualche tempo fa, di fronte alle mie rimostran-

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ze su alcune storture del mondo accademico anglosassone, un caro amico concluse una lunga conversazione telefonica con un invito: «Non dimenticare mai da dove vieni». Sono nato a Catanzaro, da genitori insegnanti; trent’anni dopo insegno in una delle più prestigiose università del mondo. Alcune cose succedono per caso, tante altre no. La mia Calabria è la regione più povera dello Stivale e l’essere calabrese è un «marchio di fabbrica» che sento sulla pelle tanto nella buona quanto nella cattiva sorte. Per capire l’Italia, io parto idealmente da Catanzaro: il capoluogo della regione più povera d’Italia, dove la criminalità regna sovrana.15 Catanzaro è la Bangalore d’Italia con i suoi call center che pagano meno di cinque euro lordi l’ora. È un posto dove si possono truccare esami e concorsi a volontà, e tutti possono cullare il sogno di diventare un colletto bianco. Catanzaro è un agglomerato urbano in cui non esiste alcun tipo di coesione sociale, con una pianta urbana che riflette la totale incapacità di pianificazione dei suoi più illustri politici e abitanti. Catanzaro è città senza marciapiedi, perché il potere pubblico ha ormai da troppo tempo abdicato al privato; è terra di professionisti arricchitisi senza merito; è un esercito di impiegati e dirigenti svogliati e frustrati; è la miopia di poche

Vedi anche l’interessante capitolo sulla città proposto in Federico Fubini, Noi siamo la rivoluzione, Mondadori, Milano 2012. 15

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famiglie dominanti, che si dicono imprenditrici ma hanno un piglio solo «prenditoriale» e accentrano tutte le risorse cittadine senza dare nulla in cambio. Catanzaro è una città che vive di calcio, con una squadra dalle antiche glorie relegata ad allenarsi in un fazzoletto di terra di dieci metri, con uno stadio monco e fatiscente perché manca l’agibilità di un intero settore. Catanzaro è prevaricazione continua dei diritti e degli spazi dei più deboli. Catanzaro è ogni giorno più vecchia: i suoi giovani qualificati e non – con l’ovvia eccezione di rampanti figli di papà – devono confrontarsi con due sole possibili «scelte»: la fuga senza ritorno o l’asservimento al politico di turno, per ottenere un posticino nella pubblica amministrazione o come cassiere in un supermercato. Catanzaro è terra di precari che sbarcano il lunario ogni mese; è terreno fertile per il disagio sociale, la reazione violenta, l’egoismo, l’assenza di spirito civico. Catanzaro è una rappresentazione dei problemi del Mezzogiorno, ed è una metafora estrema della crisi del nostro paese. Da questa posizione, a cavallo tra privilegio e svantaggio secolare, mi sono interrogato sulle ragioni che costringono molte persone nel nostro paese a dissipare il loro potenziale straordinario. Mi sono interrogato, come uomo e come studioso, sui meccanismi perversi che frenano un intero sistema e lasciano spesso tanti, tantissimi individui volenterosi e capaci a languire in posizioni precarie senza meritarlo. Questo interrogativo

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mi ha spinto a impegnarmi nell’ambito politico. Dove per politico intendo ciò che gli inglesi chiamano policy: la ricerca continua di strategie attuabili, sulla base di studi e discussioni, per il miglioramento delle condizioni di una comunità o di un paese. Fedele a questo spirito, ho intrapreso la mia carriera accademica occupandomi di disuguaglianza, coesione sociale e politiche di welfare e allo stesso tempo mi sono dedicato, assieme a un gruppo di giovani ricercatori, al progetto della Fonderia Oxford. Un think tank che si occupa di discutere e proporre nuove soluzioni politiche per l’Italia, senza pregiudizi, con un’ottica comparativa. Alla Fonderia abbiamo un obiettivo comune: trasformare la distanza, un fattore spesso frustrante per gli italiani all’estero perché associato a passività di fronte al corso degli eventi, in un’occasione: quella di partecipare con autorità al dibattito politico. Proprio da un articolo scritto con l’amico e collega Paolo Falco sul blog della Fonderia Oxford,16 dopo una serie di accese discussioni con leader sindacali e importanti esponenti di partiti politici, si è materializzata l’idea di questo libro. Chi troppo chi niente è un invito alla riflessione personale e collettiva; una riflessione che dovrebbe generare voglia di partecipazione attiva al dibattito pubblico. 16

Il blog è consultabile all’indirizzo http://www.fonderia.org.

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Come sottolineava Michel Crozier descrivendo – in un saggio del 1970 – i profondi cambiamenti che sconvolgevano la Francia alla fine degli anni Sessanta,17 in una società bloccata come quella italiana ci sono due ingredienti che possono aiutare a cambiare radicalmente la situazione: la volontà dei cittadini di avvicinarsi al dibattito pubblico attraverso il rafforzamento di partiti e associazioni e la capacità del sistema-paese di proporre innovazioni sociali compatibili con le nuove esigenze che si affacciano alla ribalta. Con questo scritto, e più in generale con le attività della Fonderia Oxford, provo nel mio piccolo a concorrere a questi ambiziosi obiettivi, spostando il focus del dibattito sulla disuguaglianza. Il libro esplora questo tema, discutendone l’entità numeri alla mano e illustrando attraverso cinque esempi come le disuguaglianze nel nostro paese vadano di pari passo con l’inefficienza del sistema. Partendo dalla struttura degli ordini professionali, dall’iniquità del sistema pensionistico, dalla mancanza di protezione per i lavoratori precari, dall’importanza della coesione sociale e della necessità di una riforma «solidale» della struttura istituzionale, intraprenderemo un viaggio che unisce discussione accademica e storie di vita vissuta. Daniela aspirante magi-

Vedi Michel Crozier, La société bloquée, Editions du Seuil, Parigi 1994. 17

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strato, Stefano operatore di call center, Luciano camminatore solitario di Catanzaro: tutte le loro storie hanno un valore simbolico che si fonde alla discussione puntuale di problemi e riforme da attuare. La conclusione costituisce la sintesi fra analisi e proposte. C’è una sola vita di uscita alla situazione attuale: la capacità di coniugare piccoli cambiamenti nel quadro di un disegno più ampio. Questo libro è uno sguardo su un paese frammentato e dilaniato da problemi che non sono mai stati affrontati dalla classe politica, ma anche una proposta di sintesi armonica fra varie riforme. Riforme che migliorerebbero la condizione di tutti i personaggi che appaiono nel libro, così come quella della maggior parte degli italiani. Riforme istituzionali mirate, e una miriade di microfratture: grandi e piccole azioni, tutte ispirate dal principio unificante dell’uguaglianza.

1 Le disuguaglianze in Italia

Spesso nel dibattito pubblico si tende a dare per scontato che la disuguaglianza sia primariamente di tipo economico (peraltro in rapida crescita, come vedremo). Ciò induce a ignorare pericolosamente quanto il fenomeno sia complesso, diffuso e bisognoso di risposte di ampio respiro. In realtà esistono svariate forme di disuguaglianza, e prima di discutere le politiche concrete che potrebbero contribuire a ridurle è necessario comprendere a fondo le molteplici sfumature del concetto. Le disuguaglianze si declinano su tre livelli: quello del trattamento, quello delle opportunità e quello della condizione. La disuguaglianza di trattamento si manifesta per esempio nell’assenza di condizioni paritarie di accesso alla giustizia, nelle relazioni asimmetriche di genere, nella mancanza di diritti per gli immigrati, nell’assenza di omogeneità dei servizi resi dalla pubblica amministrazione e nel controllo insufficiente dell’evasione fiscale. La disuguaglianza di opportunità si ritrova invece nella chiusura degli ordini professionali, nel percorso a ostacoli per accedere al mercato del lavoro, nelle difficoltà

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per ottenere un finanziamento per una nuova impresa e nello svantaggio cronico per chi nasce in alcune aree geografiche. La disuguaglianza di condizione, infine, si evidenzia nei diversi trattamenti che lo stato sociale riserva a cittadini che dovrebbero essere tutti uguali, e nell’eccessivo divario economico tra loro. Al momento l’Italia è sottoposta a una sorta di «tempesta perfetta» in cui le tre tipologie coesistono: la durezza della nostra crisi è dovuta proprio alle profonde disuguaglianze che ci troviamo di fronte; per questa ragione nel resto del libro ci focalizzeremo su cinque esempi situati ai tre diversi livelli descritti, fornendo potenziali suggerimenti di policy da attuare. Le diseguaglianze deprimono il sistema e acuiscono lo scontro sociale, ma forniscono anche un’occasione storica: ridistribuire, per rendere il sistema più efficiente e accrescere la coesione sociale. La prevalenza di comportamenti individualistici su quelli collettivistici è cosa consueta nel nostro paese; in economia ciò si spiega molto semplicemente attraverso il cosiddetto «dilemma del prigioniero». Immaginate due prigionieri che si sottopongono a un interrogatorio della polizia. L’interrogatorio può avere tre esiti: 1) se entrambi si professano colpevoli, ciascuno riceve una pena di cinque anni di reclusione; 2) se un solo prigioniero confessa, esso sarà scarcerato, ma l’altro non reo confesso riceverà dieci anni di reclusione;

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3) se entrambi i prigionieri non confessano, essi saranno reclusi solamente per un anno. Se i due prigionieri conoscessero con sicurezza il comportamento dell’altro, logica vorrebbe che entrambi scegliessero di non confessare, ottenendo la pena collettiva più breve. Tuttavia, in assenza dell’aspettativa di comportamento cooperativo da parte dell’altro prigioniero, entrambi confesserebbero nella speranza che l’altro non lo faccia. Questo atteggiamento individualistico porterebbe a cinque anni di reclusione per ciascuno invece di uno solo. L’Italia vive un gigantesco «dilemma del prigioniero». Se tutti ci impegnassimo a ridurre l’incidenza delle disuguaglianze il sistema ne guadagnerebbe a livello complessivo, e con esso la maggioranza dei cittadini. Invece non lo facciamo perché ci aspettiamo che gli altri si comporteranno in modo non cooperativo, guardando solamente al loro interesse. Questo nel lungo periodo rafforza la posizione dei più privilegiati (il prigioniero scarcerato sulla base della sua confessione), rispetto al resto della popolazione (il prigioniero che non confessa e subisce la detenzione più lunga possibile). L’arroccamento dovuto alla mancanza di fiducia negli altri e la convinzione che difendere i propri interessi di categoria sia la migliore strategia hanno effetti negativi perniciosi. Ridurre le disuguaglianze servirebbe, allora, a mostrare i vantaggi del gioco di squadra, in cui «i cooperanti» guadagnano e «gli egoisti» vengono puniti severamente.

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A questa situazione generale che non favorisce la cooperazione, si aggiunge l’atteggiamento dei partiti politici: da anni hanno ormai abbandonato l’idea di proporre una visione complessiva e innovativa di società. Così, con il crollo delle grandi ideologie, cittadini ed elettori si sono rintanati in una forma cronica di pessimismo, che ha come corollario l’individualismo più bieco. Si è persa insomma, assieme all’aspirazione globale dei partiti a cambiare il mondo, la voglia dei cittadini di stringersi attorno alla speranza condivisa di immaginare un futuro migliore basato su parametri diversi. Eppure, in tutto questo, la gravità della situazione attuale fornisce una grande occasione per abbandonare le posizioni settarie e irrazionali attorno alle quali molti cittadini e partiti politici si sono arroccati. Perciò, se l’obiettivo della nostra classe dirigente è quello di far migliorare il paese, è necessario sottrarre il dibattito sull’uguaglianza alle secche della guerriglia ideologica in cui si è incagliato. E ciò perché, se a livello individuale disuguaglianza vuol dire differenza fra chi ha e chi non ha, fra chi ha accesso e chi non ce l’ha, a livello collettivo significa frammentazione sociale e, soprattutto, mancanza di efficienza. Un paese diseguale, ancora prima di essere ingiusto, è inefficiente.1

Per una visione alternativa sulla relazione tra uguaglianza ed efficienza vedi Arthur Melvin Okun, Equality and efficiency. The big trade off, The Brookings Institution Press, Washington D.C. 1975.

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Le disuguaglianze continuano a crescere Le disuguaglianze in Italia sono molto elevate e in continuo aumento (da almeno trent’anni a questa parte).2 Per misurarle si possono usare indicatori diversi; quello più comune, il coefficiente di Gini, guarda al livello complessivo di disuguaglianza economica in tutta la popolazione. Se per esempio tutto il reddito fosse in mano a una sola persona e niente in mano a tutti gli altri cittadini del paese – il livello massimo di disuguaglianza concepibile a livello teorico – il coefficiente di Gini sarebbe uno. Se invece il reddito fosse equamente suddiviso fra tutti – il livello massimo di uguaglianza concepibile a livello teorico – il coefficiente di Gini sarebbe zero. Sulla base di questo indice, l’Italia si piazza al quinto posto per il livello di disuguaglianza di reddito fra i trentaquattro paesi dell’Ocse, superata solamente da Messico, Turchia, Portogallo e Stati Uniti. Tutti gli altri paesi dell’Unione Europea hanno un livello di diseguaglianza economica più basso. Tanto per fare qualche esempio, i paesi scandinavi hanno un coefficiente di Gini compreso tra 0,22 e 0,23; paesi più simili al nostro per popolazione come la Francia e la Germania hanno un coefficiente di Gini compreso tra 0,27 e 0,29; l’Italia si attesta a 0,34.

Come chiaramente dimostrato dai rapporti Growing unequal? Income distribution and povery in Oecd countries, Oecd, Parigi 2008 e Divided we stand: why inequality keeps raising, Oecd, Parigi 2011.

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Come se non bastasse, il nostro è anche un paese «immobile» a livello sociale: le differenze esistenti nello status socioeconomico di una generazione tendono a essere trasmesse inalterate a quella successiva. In parole povere, le diseguaglianze esistenti fra i genitori tendono a riprodursi in modo simile tra i loro figli. Una società con bassa mobilità intergenerazionale, con figli che occupano posizioni simili a quelle dei loro padri, non fa altro che sprecare continuamente talento, impedendo ai giovani provenienti da tutti i milieu sociali di esprimere il proprio potenziale. In Danimarca solamente il 15% delle differenze di reddito esistenti tra i genitori vengono trasmesse ai figli, mentre in Italia questa percentuale sale al 50%: un livello quasi tre volte e mezzo superiore. Alla luce di questi dati,3 l’Italia è assieme al Regno Unito il paese più immobile d’Europa. Ancora una volta, al di là delle differenze ideologiche e di ciò che riteniamo giusto ed equo, questo tipo di disuguaglianza comporta inefficienza. Il cognome, o meglio la famiglia dalla quale si proviene, è spesso più determinante delle competenze acquisite per ottenere un lavoro. Questo non è efficiente in un’economia di mercato, in cui le differenze dovrebbero essere prevalentemente create dalle diverse abilità, anziché dalla professione dei genitori.

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Vedi Growing unequal, cit. e Divided we stand, cit.

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Non è finita. Molti studi nel campo delle scienze sociali hanno dimostrato, sulla base di indagini campionarie, che esiste una percezione precisa dei livelli di disuguaglianza tollerabili in ogni società. Un sondaggio, commissionato dalla Bbc nel febbraio 2008, ha evidenziato come due terzi delle persone intervistate nei paesi più sviluppati del mondo pensino che la ricchezza negli ultimi anni non sia stata equamente suddivisa tra la popolazione. Nel nostro paese questa percentuale è tra le più alte (assieme a Corea del Sud, Portogallo, Giappone e Turchia) superando l’80% degli intervistati. Questo significa che il problema delle diseguaglianze, al di là della diatriba ideologica, è percepito come tangibile dalla stragrande maggioranza della popolazione. Un altro elemento, spesso non adeguatamente considerato nel dibattito pubblico, è che la recente crisi economica ha colpito con maggiore forza i paesi che hanno adottato politiche di tassazione regressiva, ovvero sistemi che avvantaggiano chi ha un reddito più alto e un patrimonio più cospicuo rispetto a chi ha un reddito medio-basso. I paesi mediterranei, così come gli Stati Uniti e il Regno Unito, hanno adottato da molti decenni un sistema di tassazione fortemente regressivo. In più in Grecia, Spagna, Portogallo e Italia, alla tassazione regressiva si somma un’evasione fiscale elevatissima, che contribuisce a ridurre in maniera determinante il gettito fiscale che lo Stato può investire. Al contrario, nei paesi in cui le entrate provenienti dalla tas-

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sazione sono molto più elevate, la crisi si è avvertita con meno intensità. Questo perché l’investimento pubblico e la maggiore redistribuzione hanno un effetto stabilizzante sull’economia nei momenti di crisi. Il caso più estremo è la Svezia, dove il gettito fiscale rappresenta il 54% del prodotto interno lordo. Lì le tasse le pagano tutti, specie i più ricchi. La redistribuzione operata con la spesa pubblica permette a queste economie di essere più stabili di fronte alle fluttuazioni del mercato, senza gravare sul debito. Ciò succede perché in un’economia dove non c’è grande crescita, la redistribuzione favorisce il mantenimento di un livello sufficiente di consumi, che a loro volta sostengono il settore produttivo. La teoria economica illustra come una persona di ceto medio-basso tenda a spendere la maggior parte di qualunque reddito aggiuntivo, mentre una persona con reddito più elevato non ha la stessa propensione. Non è un caso che negli ultimi anni siano tornate in voga le teorie keynesiane, messe nel cassetto a partire dagli anni Ottanta. Questo punto, però, richiede una chiarificazione, dal momento che la figura di Keynes e le sue teorie sono da molti decenni al centro di un dibattito serrato tra i suoi sostenitori e i suoi detrattori. I sostenitori affermano che la Teoria generale, pubblicata nel 1936,4 propone una diagnosi perfetta

Vedi John Maynard Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Utet, Torino 2006. 4

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dei problemi e dei rimedi da perseguire nei momenti di grave crisi economica. Secondo Keynes le crisi economiche non sono un segnale decisivo del mancato funzionamento del sistema capitalistico, come sostenuto dai marxisti, ma delle depressioni passeggere che sorgono a causa di un’insufficienza di domanda aggregata. Per domanda aggregata in economia si intende la somma dei consumi di ogni singolo cittadino, che si tramuta in sostegno alla produzione delle imprese, capaci in condizioni normali di piazzare i loro prodotti e sostenere così l’economia. Le crisi più violente del sistema capitalistico, in questa prospettiva, si configurerebbero come degli shock dovuti all’abbassamento della domanda aggregata. Governi attenti, secondo Keynes, dovrebbero rispondere singolarmente e in concerto attraverso politiche fiscali espansive, per rimettere le cose a posto. Il che significa semplicemente immettere moneta nel sistema per accelerare la domanda. Questo può essere fatto per esempio lanciando un grande piano di opere pubbliche che sostenga l’impiego. Misure del genere furono adottate durante la Grande depressione da Franklin Delano Roosevelt. I detrattori di Keynes sostengono che la sua teoria sia un tradimento dei principi di base dell’economia, che può portare a intraprendere strade pericolose. Le misure proposte da Keynes si configurerebbero come strumenti per rispondere a una fluttuazione momentanea della domanda, ma in realtà nel lungo periodo il mercato tende-

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rebbe a trovare un equilibrio automatico tra domanda e offerta, non necessitando di una «mano pubblica». L’idea di usare in modo eccessivo la politica fiscale per risistemare le cose sarebbe, in tale contesto, dannosa perché sovvertirebbe la struttura «normale» di incentivi e disincentivi presenti sul mercato, avendo come sola conseguenza diretta la crescita dell’inflazione. Oggi ci troviamo in una condizione di bassa domanda aggregata ma anche di debiti pubblici molto elevati. Sembra quindi improponibile l’idea di rilanciare la domanda aggregata sulla base delle politiche espansive suggerite dai keynesiani, ma al contempo aspettare il riaggiustamento automatico suggerito dai suoi detrattori pare altrettanto fuori luogo (come lo fu negli Stati Uniti subito dopo la Grande depressione). Per questa ragione molti macroeconomisti ritengono invece si debba seguire la strada dei paesi più egualitari, dove la redistribuzione aiuta in periodo di crisi a sostenere la domanda della popolazione con redditi medio-bassi (seguendo quindi l’esempio dei paesi scandinavi) senza gravare eccessivamente sul debito pubblico. Ridistribuire servirebbe dunque ad accrescere il reddito del ceto mediobasso, e questo sarebbe funzionale a sostenere la domanda aggregata. A proposito di redistribuzione, nei paesi mediterranei un lavoratore dal reddito medio-basso paga circa il 70% delle tasse versate dal suo omo-

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logo svedese,5 mentre i più ricchi (l’1% più ricco della popolazione) pagano solamente il 20% dei loro cugini scandinavi.6 Allora è giusto scagliarsi contro lo strapotere della finanza quando si parla di crisi, ma occorre rendersi conto che veniamo duramente colpiti anche a causa della struttura regressiva del nostro sistema di tassazione. Ancora una volta le politiche redistributive e la lotta all’evasione fiscale non vengono proposte per ragioni ideologiche, ma per rendere il paese più solido rispetto agli shock esterni (come l’attuale crisi economica, appunto). In assenza di crescita, non ci salverà l’austerità (per quanto necessaria) ma la redistribuzione. E, in tema di misure votate alla redistribuzione, non bisogna solamente pensare a quelle di tipo economico. Contrastare la crisi potrebbe essere per esempio una buona occasione per lanciare politiche volte a favorire l’integrazione della donna nel mondo del lavoro. L’Italia non è solo uno dei paesi più diseguali del mondo occidentale, è anche uno di quelli in cui le donne tendono a partecipare meno alla forza lavoro. Per questa ragione ridistribuire favorendo l’impiego femminile potrebbe rivestire una doppia funzione, in-

Avendo un reddito più basso. Vedi Vicente Navarro, Crisis and class struggle in the Eurozone, counterpunch.org, 19-21 agosto 2011, http://www.counterpunch. org/2011/08/19/crisis-and-class-struggle-in-the-eurozone/. 5 6

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tegrare una parte della popolazione esclusa dalla forza lavoro e innalzare al contempo la produttività del sistema. A questo va aggiunto che la riduzione delle disuguaglianze favorisce anche la partecipazione sociale e politica, e con essa la coesione. In particolare, nella Penisola le forti disuguaglianze sono accompagnate da una partecipazione debole dei cittadini alla vita pubblica e da una ridottissima fiducia nelle istituzioni e negli altri. Viviamo in un paese spaccato, diviso attorno a linee di demarcazione che impediscono di discutere in modo sereno su come applicare politiche pubbliche funzionali allo sviluppo economico e sociale. Queste linee di demarcazione non hanno più nulla a che vedere con l’ideologia, ma sono posizioni assunte sulla base di convenienze opportunistiche o a volte, più semplicemente, nascono perché i problemi non vengono discussi sulla base di dati empirici puntuali. Prendete la battaglia sull’articolo 18: dobbiamo urgentemente riformare il mercato del lavoro garantendo una fonte di reddito e un’adeguata formazione a chi perde il lavoro (cosa che la nuova riforma non fa). Invece siamo finiti ostaggio di un dibattito ideologico «senza ideologia», tra chi vede l’articolo 18 come un nemico della trasformazione del lavoro e chi lo concepisce coma una protezione essenziale. In realtà le imprese non sono per nulla condizionate nella loro crescita dall’articolo 18, e lo stesso protegge solo una piccola parte di lavoratori. Da

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ambo le parti, Confindustria e governo da un lato e sindacato dall’altro, l’articolo 18 è stato usato come uno strumento di mobilizzazione del consenso. Sarebbe stato molto più utile, per i nostri disoccupati e lavoratori precari, passare questi ultimi mesi a discutere di forme di supporto adeguato e di reperimento di risorse. Questo è solo uno dei tanti esempi in cui il clima da stadio e lo schieramento su linee di demarcazione preconcette ha un effetto negativo devastante, sulla dinamica del dialogo sociale e sulla ricerca di soluzioni pragmatiche. La miopia del dibattito è spesso provocata dalla totale mancanza di fiducia tra gli interlocutori. I cittadini non danno ascolto alle parole dei politici e non si fidano delle istituzioni; i politici non interloquiscono fra loro sulla base delle proprie idee ma si affrontano come su un ring, partendo dal presupposto che le posizioni saranno in ogni caso inconciliabili. Troppo spesso non ci rendiamo conto di come fiducia e coesione sociale siano ingredienti fondamentali per lo sviluppo di un paese.7 Un discorso del genere può sembrare astratto, ma in realtà ha dei riflessi di-

La fiducia è un elemento base di ogni transazione economica. L’assenza totale di fiducia riduce la propensione dei cittadini a intraprendere partnership e proporre nuove iniziative imprenditoriali. Pensate all’effetto devastante della mancanza di fiducia nelle istituzioni, che scoraggia molti individui dall’intraprendere qualunque forma di iniziativa economica, culturale e sociale.

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rompenti sulla vita quotidiana. Se consideriamo una città, ci rendiamo facilmente conto di come l’esistenza di elevate disuguaglianze e sacche di povertà favorisca il radicamento della criminalità: la minaccia continua dell’uso della violenza per scopi criminali rende il godimento di alcuni quartieri difficile o rischioso; la gente reagisce diventando diffidente, e ciò danneggia pesantemente il sistema città. Un circolo vizioso ormai evidente nel nostro paese, e con ancora maggiore forza nel meridione. Ridurre le disuguaglianze avrebbe un impatto diretto sulla fiducia e la coesione sociale, con tutte le conseguenze positive che questo comporterebbe a livello locale e nazionale.8 L’uguaglianza come principio unificante Nel libro illustrerò diversi tipi di disuguaglianza che minano la coesione sociale e riducono l’efficienza del sistema-paese. Si tratta di esempi, scelti tra i tanti per dimostrare come l’abbattimento delle disuguaglianze sia una necessità improcrastinabile. Che cosa ci guadagna la collettività dai privilegi attribuiti ad alcuni ordini professionali? Che bene deriva dall’aver tarato le politiche sociali sui bisogni dei più privilegiati, lasciando

Vedi Emanuele Ferragina, Social capital and equality: Tocqueville’s legacy, «The Tocqueville Review», XXXI(1), 2010. 8

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senza protezione i giovani? Cosa otteniamo a non difendere i lavoratori precari, che sono spesso anche i più produttivi e qualificati? Che cosa si può conseguire dalla mancanza di coesione sociale e da pesantissimi squilibri regionali? L’idea di sradicare le disuguaglianze nei cinque ambiti affrontati viene proposta come principio guida unificante, perché troppo spesso le riforme in Italia sono state concepite come svincolate fra loro e mosse da necessità contingenti. In realtà, se si vuole cambiare il paese occorre proporre una serie di policy che abbiano un fine comune e spiegare chiaramente per quali ragioni questo principio unificante comporterà benefici alla maggioranza della popolazione. Se si considerano i paesi più sviluppati (Italia compresa), molti dei problemi sociali che si trovano a fronteggiare sono strettamente legati all’esistenza di profonde disuguaglianze. E così, ad esempio, l’abbassamento delle disparità contribuirebbe a ridurre l’incidenza di numerose patologie mediche, in concomitanza al miglioramento della situazione socioeconomica.9 Come riportato dalla prestigiosa rivista «Social Science and Medicine», centocinquantacinque studi accademici testimoniano che nelle società più

Vedi Richard Wilkinson e Kate Pickett, La misura dell’anima. Perché le diseguaglianze rendono le società più infelici, Feltrinelli, Milano 2012. 9

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egualitarie la mortalità infantile è più bassa e la condizione generale di salute dei degenti è meno grave.10 Ancora, spendiamo tantissimo per risolvere singole criticità. Ad esempio chiediamo più poliziotti per contrastare il crimine, o più operatori sociali per ridurre l’incidenza dell’uso di sostanze stupefacenti; eppure rafforzare eccessivamente questi servizi (che comunque in misura normale servono in ogni società) è inefficiente: simili interventi puntuali concorrono solo in parte ad arginare i problemi. In realtà, come chiaramente evidenziato dalla maggior parte degli studi accademici in materia di povertà e disuguaglianza, tali questioni non possono essere affrontate con un approccio specifico, ma serve coniugare queste misure in un contesto più ampio. In effetti i problemi ricorrenti tra chi vive al di sotto della soglia di povertà in ogni paese sviluppato sono anche quelli più comuni nelle società ad alta disuguaglianza. In entrambi i casi la fiducia scarseggia, le malattie mentali hanno un’incidenza maggiore, si accorcia l’aspettativa di vita mentre sale la mortalità infantile, l’obesità è diffusa, i bambini esibiscono performance peggiori nel sistema educativo, gli omicidi aumentano, c’è più gente in carcere e la mobilità sociale è bassa. A tutto ciò va aggiunto che la persistenza di que-

Vedi Richard Wilkinson e Kate Pickett, Income inequality and population health: a review and explanation of the evidence, «Social Science and Medicine», 62 (7), 2006. 10

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sti fenomeni è più legata alla disuguaglianza che alla mancanza di reddito. Ciò significa che, per migliorare la situazione socioeconomica di un paese, ridurre le disparità è più utile che incrementare il reddito pro capite. Tutte le politiche specifiche che propongo nel prosieguo del libro sono una logica conseguenza di questo semplice ragionamento.

2 Ordini professionali: corporazioni contro le nuove generazioni?

A ventotto anni Daniela, dopo notti in bianco e discussioni accese, ha deciso di abbandonare la professione d’avvocato e tornare sui libri. Tenterà la strada impervia dei concorsi pubblici, nonostante sia consapevole delle moltissime incognite che, specie in un tempo di crisi come questo, incontrerà sul suo cammino. «Ma non avrei più potuto vivere in quel modo» racconta sicura di aver fatto la cosa giusta. Per dodici ore al giorno sgobberà sui manuali di diritto e sui codici commentati: sosterrà il concorso in magistratura, uno dei più complessi e difficili in Italia. Scommetterà sul proprio talento sapendo che la posta in palio, questa volta, è davvero molto alta. Quando nel nostro paese si presenta la questione degli ordini professionali, e succede ciclicamente ormai, nessuno pensa a Daniela e alle migliaia di persone come lei. Il dibattito, limitato al solito «pro o contro», diventa presto una guerra di trincea sostenuta da interessi fortissimi e opposti. Non s’intravede mai uno straccio di analisi sulle conseguenze che il sistema produce, non una

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proposta coerente su come ridefinirne i contorni: solo confusione e parole d’ordine. E se queste ultime sono efficaci quando si tratta di ottenere il consenso immediato di una parte, risultano inutili e dannose se l’obiettivo è trovare soluzioni sostenibili a problematiche complesse. Tutti noi entriamo in contatto con gli ordini professionali nel corso della nostra vita. La tutela di beni fondamentali come salute e giustizia, per esempio, passa infatti attraverso prestazioni quotidiane regolamentate dagli ordini di medici e avvocati. In Italia oggi esistono ventisette ordini professionali: il 28% dei laureati italiani appartiene a uno di essi.1 Anche Daniela è membro di un ordine, ma ha avvertito la presenza ingombrante di queste organizzazioni relativamente tardi, più o meno all’inizio della sua carriera professionale. Lei è una donna cresciuta con i legal-thriller americani, quelli in cui affascinanti avvocati proclamano l’innocenza del proprio assistito in aule silenziose e solenni. In quel tipo di film, spesso l’arringa finale rappresenta la scena madre. Così, terminato il liceo, Daniela si è iscritta alla facoltà di Giurisprudenza, laureandosi con il massimo dei voti e nei tempi stabiliti: un percorso senza in-

Vedi Family ties in licensed professions in Italy, a cura di Michele Pellizzari, Fondazione Rodolfo Debenedetti, Milano 2011, consultabile al sito http://www.frdb.org/upload/file/family_professions_fRDB_050711.pdf. 1

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toppi insomma. Poi ha iniziato il praticantato obbligatorio presso uno studio legale della sua città, sperando di poter vivere da protagonista, anche solo per un giorno, la scena madre di uno di quei film. E invece ha dovuto scontrarsi con una realtà molto diversa da quella di Hollywood. «Ma non sono così ingenua da pensare che la mia vita potesse scorrere perfetta come un film, solo immaginavo non fosse così deprimente» ripete ora. All’inizio a Daniela sono affidati i compiti più semplici: si occupa di cancelleria, scrive lettere, fissa appuntamenti, fotocopia documenti. Per lei la gavetta consiste nel diventare una segretaria modello. Poi le cose cambiano, e anche piuttosto in fretta. Daniela passa alla redazione degli atti giuridici e comincia a familiarizzare con i meccanismi che regolano uno studio legale. «Se vuoi impegnarti e hai il giusto talento per questa professione, in appena sei mesi puoi acquisire una certa autosufficienza» mi spiega convinta. Un laureato in Giurisprudenza come lei, dopo quattro anni di università, ventisei esami sostenuti e una tesi di laurea, deve investire altri tre anni della propria esistenza tra scuole di specializzazione e praticantato, se vuole l’abilitazione all’esercizio della professione. Tre anni in cui l’indipendenza economica resta un vero e proprio miraggio. Anche quando lavora da segretaria a tempo pieno, Daniela in pratica non vede un soldo, nonostante una norma del codice deontologico forense preveda almeno un rim-

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borso spese. Qualche euro arriva soltanto per le feste di Natale e Pasqua, ma bisogna sperare che l’avvocato sia ben disposto. Per tutto quel tempo sono i genitori a mantenerla, e trovare spazio per un altro lavoro nelle sue giornate le sembra un’impresa quasi impossibile. «Una mia collega di corso ci ha provato. Faceva la cameriera in un pub cinque giorni a settimana. A volte si trovava a servire clienti dello studio e colleghi che avrebbe incontrato il giorno dopo in tribunale. All’inizio non conta niente, perché è come se fossi ancora una studentessa universitaria, poi le cose assumono un significato diverso... e so che non dovrebbe essere così, ma anche la tua credibilità di professionista sembra messa in discussione» dice Daniela, vergognandosene un po’. Prima di addentrarci nelle proposte concrete per riformare gli ordini professionali favorendo l’uguaglianza nelle condizioni d’accesso e con essa il miglioramento effettivo del funzionamento del sistema, è importante soffermarsi su come queste organizzazioni, nella loro forma presente, costituiscano un freno all’ingresso sul mercato di molti giovani lavoratori come Daniela. Gli ordini hanno una funzione centrale nel sistema: quella di regolare mercati molto particolari («asimmetrici», come vedremo) supportando il consumatore nelle sue scelte. Tuttavia, a oggi essi non assolvono pienamente questa funzione; piuttosto si configurano spesso come strumenti che favoriscono il nepotismo e accrescono la rendita di

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posizione di alcuni agenti presenti sul mercato, anziché tutelare il consumatore. Un esercito di giovani senza diritti Solo a Roma, i praticanti avvocati sono più di settemila. Un esercito di giovani senza diritti, solo doveri da compiere anche per molte ore al giorno, dentro e fuori lo studio legale presso cui lavorano. Nel 2008 Pierluigi Bersani, segretario del Partito democratico, aveva parlato della necessità di una norma che rendesse obbligatorio vergognarsi se si fa lavorare gratuitamente un tirocinante,2 ma solo a marzo del 2012 qualcosa da questo punto di vista è cambiato. Una norma del decreto cosiddetto «Cresci Italia» del governo Monti ha imposto che ogni tirocinio non possa avere durata superiore a diciotto mesi, stabilendo l’obbligo di un rimborso forfettario dopo il sesto mese. Questa direttiva ha incontrato molte resistenze e non rivoluzionerà la vita dei tirocinanti, ma ha comunque cominciato a dispiegare i suoi effetti. Penso per esempio al caso dei praticanti dell’Inps che recentemente ha fatto molto scalpore anche grazie all’articolo di Rachel Do-

L’episodio è ricordato su molti siti. Vedi ad esempio il blog ospitato da repubblica.it: http://vecchio.blogautore.repubblica. it/2012/02/26/pagate-i-praticanti/. 2

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nadio sul «New York Times».3 Negli Stati Uniti risultava davvero difficile comprendere la storia dei tirocinanti di un ente pubblico che lavoravano a servizio dello Stato senza percepire un euro. Semplicemente sfruttati, come se la pubblica amministrazione fosse l’avvocato di Daniela, ma senza neanche i riconoscimenti una tantum prima delle feste. Una situazione insostenibile che oggi grazie al decreto del governo Monti viene parzialmente sanata con la corresponsione di una somma tra i 300 e i 450 euro al mese. In ogni caso sta proprio qui il primo punto critico del sistema: gli ordini, con le loro regolamentazioni, restringono eccessivamente l’accesso alla professione, diventando spesso una barriera insormontabile che si pone fra il giovane e il mondo del lavoro. Da anni ignoriamo gli effetti deterrenti che gli ordini hanno nei confronti di chi deve scegliere il proprio percorso formativo. Ed è purtroppo impossibile quantificare lo scoramento prodotto dalla loro esistenza, perché si può monitorare solo ciò che succede a chi prova ad accedere all’albo (riuscendoci o meno). Pensate a quanto talento sprecato, per esempio, fra chi sceglie di dedicarsi a un diverso percorso di studi solo per-

Vedi Rachel Donadio, Europe’s young grow agitated over future prospects, nytimes.com, 1° gennaio 2011, http:// www.nytimes.com/2011/01/02/world/europe/02youth. html?pagewanted=all&_r=0.

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ché scoraggiato dall’eventuale gara a ostacoli che dovrà intraprendere. O da chi decide di partire per esercitare la sua professione senza sottostare alle regole vigenti in Italia. Da questo punto di vista, la discussione sugli ordini professionali si lega inevitabilmente a quella sulla «fuga dei cervelli». Non è solo retorica: basta considerare il saldo fortemente negativo fra lavoratori qualificati che lasciano l’Italia e quelli che arrivano dall’estero. Immaginate un architetto fresco di laurea che, scoraggiato dalle barriere di accesso alla professione e privo del sostegno di un familiare o un amico che possa aiutarlo a costruire un portafoglio-clienti adeguato, viva le restrizioni alla concorrenza imposte dall’ordine come un ostacolo insormontabile. Certo la sua decisione di lasciare il paese per andare in Australia sarebbe parzialmente influenzata dalle restrizioni al mercato imposte dal funzionamento degli ordini. È realistico stimare che circa 60.000 under 40 lascino l’Italia ogni anno.4 Di questi 60.000 oltre 45.000

Vedi Sergio Nava, Ecco numeri e costi della nuova emigrazione italiana, ilsole24ore.com, 20 dicembre 2010, http://www. ilsole24ore.com/art/economia/2010-12-20/numeri-costi-nuovaemigrazione-173135.shtml?uuid=AYCrxOtC. Vedi anche il blog di Chiara Cucchiarato www.vivoaltrove.it (dal quale è stato tratto il libro Vivo altrove, Bruno Mondadori, Milano 2010). Entrambe le testimonianze si basano su dati forniti dall’Istat e dall’Aire, l’anagrafe degli italiani all’estero. 4

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sono laureati; e uno di questi 45.000 laureati che lasciano l’Italia ogni anno senza essere adeguatamente rimpiazzati da cittadini stranieri con pari livello di qualifica, potrebbe essere proprio il nostro architetto scoraggiato e frustrato. Un simile assunto non è così improbabile, considerato che come abbiamo visto il 28% dei laureati italiani fa parte di un ordine. Ciò significa che la difficoltà di accesso e la rigidità del mercato generate anche dagli ordini professionali contribuiscono a spingere molti lavoratori qualificati a lasciare il paese, e ne disincentivano molti altri ad approdare dall’estero. Si può quindi ipotizzare che, al di là del costo diretto esercitato dagli ordini tramite la limitazione della concorrenza (che analizzeremo più avanti), esista anche un altro effetto difficilmente valutabile in termini numerici ma che pesa come un macigno sull’efficienza del sistema-paese: le rigide regolamentazioni riducono la possibilità di avere una libera circolazione dei professionisti. A questo proposito mi è capitato moltissime volte in Inghilterra di avere colloqui con medici, avvocati o commercialisti indiani o tedeschi: incontri decisamente meno consueti in Italia. In un’economia moderna gli ordini professionali non dovrebbero rappresentare un capriccio legislativo, o uno strumento di difesa degli interessi particolari di potenti e inflessibili lobby; dovrebbero essere concepiti, invece, come garanti del consumatore che si deve orientare in mercati dif-

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ficili e particolari. Eppure la realtà italiana mostra chiaramente come oggi gli ordini professionali siano innanzitutto organizzazioni generatrici di disuguaglianza, capaci di ridurre solo l’efficienza complessiva del sistema, senza aiutare il consumatore nelle sue difficili scelte. Gli ordini professionali e la regolamentazione di mercati asimmetrici Come accennavamo, le prestazioni professionali regolate dagli ordini si inseriscono in mercati particolari, in cui il consumatore non può seguire una strategia di acquisti ripetuti fino all’ottenimento di un servizio della qualità desiderata.5 Questi servizi non si configurano come altre prestazioni acquistabili sul mercato proprio a causa delle forti asimmetrie di informazione. Vediamo nel dettaglio perché. Un mercato caratterizzato da una forte asimmetria d’informazione è un mercato in cui l’informazione necessaria per procedere all’acquisto è detenuta quasi interamente da un solo attore, sia esso il compratore o il venditore. Nel caso di un servizio specializzato, come quello fornito da un membro di un ordine professionale, l’informazione

Come nel caso di acquisti alimentari, di vestiario o simili, in cui si possono provare marche diverse e confrontarne il rapporto qualità/prezzo/soddisfazione. 5

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è prevalentemente detenuta dal venditore. Immaginate di trovarvi a scegliere un avvocato per una causa o un medico per una visita delicata. Senza la conoscenza diretta di qualcuno che si sia rivolto all’avvocato o al medico in questione, o dove mancasse un’indicazione sulla reputazione del professionista, vi trovereste nella completa impossibilità di determinare se il fornitore del servizio di cui avete bisogno faccia al caso vostro. A questo aggiungete che in una situazione di contrattazione libera sarebbe difficilissimo determinare un prezzo equo per la prestazione. I servizi offerti da un medico o da un avvocato sono praticamente impossibili da comparare fra loro (non essendo omogenei). Oltretutto, anche se aveste la volontà e la possibilità di discutere con diversi medici e avvocati della vostra città, per determinare quale scegliere, difficilmente sareste in grado di capire chi vi stia offrendo la migliore qualità al minor prezzo. Come scegliere quindi le prestazioni di uno specialista, se non possiamo verificare direttamente le sue credenziali e non conosciamo già qualcuno che abbia usufruito dei suoi servizi? A questo punto entrano in gioco gli ordini professionali: essi certificano in anticipo, attraverso una complessa regolamentazione, che il servizio che andrete ad acquistare soddisferà le vostre esigenze basilari; quindi, per esempio, che un medico sia capace di operare nel suo campo di specializzazione o un avvocato sia capace di gestire una cau-

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sa in tribunale. Gli ordini sono, da questo punto di vista, organizzazioni professionali che intermediano fra chi provvede a garantire un servizio specialistico e il cittadino che lo deve acquistare, nelle situazioni in cui è difficile per il consumatore stabilire se il prezzo è equo e la prestazione fornita adeguata. L’ordine dovrebbe fare da intermediario tra il consumatore e il professionista, garantendo che quest’ultimo: abbia uno specifico titolo di studio, abbia sostenuto un esame abilitante, abbia svolto un periodo di formazione per uniformare la qualità del servizio prestato e si conformi a un codice deontologico. Gli ordini dovrebbero quindi essere preposti a proteggere il consumatore, escludendo dal mercato tutti i professionisti che non sono in grado di fornire un servizio adeguato. Ricapitolando, da un lato l’esistenza degli ordini professionali è giustificata dalla necessità di tutelare il consumatore in mercati caratterizzati da forti asimmetrie d’informazione e nei quali lo stesso consumatore non può scegliere una prestazione d’opera sulla base di acquisti ripetuti (perché sarebbe troppo rischioso); dall’altro, proprio la garanzia esercitata dagli ordini riduce la competizione sul mercato, comportando una restrizione dell’offerta. Se gli ordini professionali non assolvono adeguatamente la loro funzione di regolamentazione di mercati asimmetrici, innalzando la qualità media dell’offerta, viene a mancare qualunque argomento razionale per

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giustificare il loro controllo dell’accesso alla professione.6 La storia e i numeri In Italia, l’ho scritto, esistono ventisette ordini professionali. La storia di queste organizzazioni inizia molto prima del 1913, data in cui si registra l’istituzione dell’ordine dei notai. Sono infatti i Collegia opificium dell’epoca imperiale romana, deputati a mantenere unite le forze economiche e intellettuali connesse alla produzione, a rappresentare gli antenati degli ordini e dei collegi moderni. I Collegia, nati dalla libera iniziativa associativa, divennero successivamente un aggregato dipendente dal potere statuale, che riconosceva agli stessi Collegia e agli associati notevoli privilegi quali, ad esempio, l’esonero dalle imposte o dal servizio militare. La caduta dell’impero romano e le invasioni barbariche ridussero notevolmente l’importanza di tali associazioni che, per mantenere un sufficiente equilibrio socioeco-

A questo proposito è stato pubblicato un interessante studio: Michele Pellizzari e Giovanni Pica, Liberalizing professional services: evidence from italian lawyers, Igier working paper n. 372, Università Bocconi, Milano 2010, consultabile al sito ftp://ftp. igier.unibocconi.it/wp/2010/372.pdf. Anche il citato Family ties in licensed professions in Italy fornisce una serie di dati puntuali e analisi dettagliate sugli effetti della presenza degli ordini professionali sul nostro sistema economico. 6

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nomico, si riorganizzarono. Alcune si riproposero nel territorio bizantino, altre si manifestarono negli stessi territori occupati dai barbari. Ciò determinò, nel successivo periodo medioevale, due tendenze: una di influenza romano-bizantina, che si radicò sopratutto in Campania, Sardegna, Sicilia e Veneto, e un’altra di influenza germanica, che ebbe diffusione nelle zone centrali e interne della Penisola. In una prima fase si svilupparono corporazioni nell’ambito soprattutto dei cosiddetti ceti inferiori (i saponai di Napoli, i panettieri di Otranto, i tintori di Roma). Successivamente, dall’XI secolo, cominciarono a costituirsi le corporazioni delle professioni intellettuali (notai, medici, giureconsulti, speziali); in questo periodo associazioni simili si svilupparono anche in Germania e Francia. Le differenze sostanziali fra corporazioni romane e medioevali possono essere così riassunte: quelle romane facevano parte dell’organizzazione statale, avevano carattere coattivo e prescindevano dal senso religioso; quelle medioevali invece erano libere, non facevano parte dello Stato e avevano anche carattere religioso. Le corporazioni medioevali – che si distinguevano in intellettuali, consortili, militari ed economiche – ebbero uno sviluppo formidabile, assumendo un ruolo dominante nei comuni con impronta democratica (Firenze, Pisa, Bologna, Perugia), mentre svolgevano un ruolo subordinato in quelle realtà a forte connotazione autoritaria come Venezia e Napoli.

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La loro storia ha avuto luci e ombre determinate spesso dall’incapacità della classe dirigente di porsi al di sopra degli interessi particolari, con forme esagerate di protezionismo e legislazioni di privilegio che portarono anche a reazioni popolari come il tumulto dei ciompi a Firenze. Con l’avvento delle signorie, dei principati e dei regni le corporazioni vennero ridotte a semplici organismi di regolamento, senza poteri e con limitatissima giurisdizione. Tale decadenza si accentuò sempre più nei secoli XVI e XVII fino alla loro cancellazione, conseguente anche alla Rivoluzione francese: essa infatti travolse quegli ideali di libertà economica e professionale che avevano contraddistinto l’Italia dei comuni e le stesse corporazioni nella lotta contro l’impero. Le corporazioni furono definitivamente abolite nel periodo che va dal 1770 al 1862. Nel XIX secolo videro la luce i primi ordinamenti professionali: l’adeguamento delle originarie corporazioni alla struttura dello Stato moderno e alla funzione sociale svolta dalle singole professioni. Essi mettevano in primo piano gli interessi della collettività generale, per cui furono posti sotto la vigilanza e il controllo dello Stato. Nel 1926 (legge 563/1926), dopo l’avvento del fascismo, vennero istituiti i sindacati unici di categoria, cui furono assegnati i compiti dei vari ordini professionali, soppressi con un decreto del re nel 1935. Caduto il fascismo, gli ordini vennero ricostituiti nel 1946.

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Proprio dal dopoguerra si registra un’esplosione del numero di ordini e collegi professionali, e ne sono stati regolarmente introdotti di nuovi anche nell’ultima decade: prima è venuto il turno di molte professioni legate alla salute (veterinari, medici, ostetrici, farmacisti e infermieri tra il 1946 e il 1954), poi di professioni via via più specifiche: geologi e giornalisti nel 1963, tecnici di radiologia nel 1965, biologi nel 1967, agronomi nel 1976, consulenti del lavoro nel 1979 e agrotecnici e guide alpine nel 1986. Negli ultimi venticinque anni, poi, si sono aggiunti i periti agrari (1989), gli assistenti sociali (1993), i tecnologi alimentari (1994) e infine i commercialisti e i consulenti in proprietà industriale (2005). Gli ordini professionali oggi presenti in Italia contano 1,3 milioni di membri, il 5,8% circa della forza lavoro ma soprattutto, come sottolineato in precedenza, il 28% dei laureati. Diversamente dalla maggior parte dei paesi sviluppati, da noi il fare parte di un ordine professionale è un requisito fondamentale per stare sul mercato. Ciò non significa che negli altri paesi, anche quelli più votati a favorire la libera concorrenza sul mercato delle professioni, non esistano regole e certificazioni. La grande differenza con l’Italia risiede nell’ammontare complessivo di queste regolamentazioni e nel completo controllo dell’accesso alla professione da parte di chi è già membro di un ordine. L’Italia è il terzo paese nel mondo occidentale per difficoltà

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di accesso alla professione, superata in questa speciale classifica solamente da Lussemburgo e Sudafrica. 7 Tutti i nostri principali partner commerciali, dalla Francia alla Germania, dagli Stati Uniti al Regno Unito hanno una modalità di accesso più semplice. La Commissione europea e le authority per la concorrenza (italiana ed europea) hanno lamentato in varie occasioni, attraverso rapporti ufficiali, che le condizioni di accesso sono eccessivamente restrittive rispetto agli standard degli altri paesi sviluppati. Ciò non significa che non debba esserci regolamentazione e controllo delle attività professionali, ma che queste hanno da noi raggiunto un livello eccessivo, minando l’interesse del consumatore invece di ridurre l’asimmetria di informazione. Per questa ragione, tutte le norme che non sono volte a tutelare il consumatore dovrebbero essere abolite. Molti studi in campo economico hanno confermato i rapporti delle istituzioni internazionali, sottolineando come gli ordini favoriscano l’annidarsi di pratiche distorsive della competizione, che continuano a favorire l’interesse di piccoli gruppi a detrimento di quello collettivo. Per comprendere al meglio questi problemi e le conseguenti distorsioni al mercato occorre focalizzarsi sulle condizioni di accesso agli ordini.

Secondo i dati dell’Ocse, estrapolati da Family ties in licensed professions in Italy, cit. 7

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Le condizioni di accesso La regolamentazione all’accesso delle professioni dovrebbe servire a garantire la qualità del servizio e proteggere il consumatore; in realtà si configura spesso come una mera turbativa della concorrenza. Anche se gli ordini professionali e le norme che li regolano sono molto diversi fra loro, esistono alcune forme di regolamentazione all’accesso comuni: 1) l’esistenza di un test d’ingresso, al quale di norma si può partecipare solo se si è in possesso di una qualifica specifica (laurea o diploma a seconda dei diversi ordini); 2) l’obbligo di svolgere corsi di specializzazione (quasi sempre a pagamento) e tirocini (quasi sempre senza alcuna retribuzione); 3) il controllo del numero di professionisti che possono accedere (applicato solo in alcuni casi, gli esempi più noti sono quelli di farmacisti e notai); 4) codici di deontologia professionale che regolano la professione ma spesso riducono eccessivamente la concorrenza. L’esame d’entrata è la prima barriera che ci si trova davanti, e simboleggia la funzione di controllo-qualità esercitata dall’ordine. L’esame di entrata testa il valore del professionista al di là della qualifica accademica già ottenuta con un percorso formativo. Forme di esame e accreditamento alla professione esistono in ogni paese. Per esempio nel Regno Unito per diventare contabili o commercialisti occorre accreditarsi pres-

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so alcune associazioni, sostenendo degli esami simili a quelli che si svolgono in Italia. Questa procedura, necessaria per assolvere alla funzione primaria degli ordini professionali, assume però spesso nel nostro paese connotati che potremmo definire quanto meno devianti. Per prima cosa, l’ammissibilità è giudicata dagli stessi membri dell’ordine della città nella quale si richiede l’iscrizione all’albo; si crea così la situazione paradossale per cui una persona viene giudicata idonea alla professione da chi tra qualche tempo sarà un suo diretto concorrente. Inoltre il tasso di superamento degli esami d’accesso varia enormemente attraverso la Penisola; un dato ampiamente dimostrato dai numeri,8 ma anche discusso lungamente sui principali quotidiani nazionali. Alcuni esempi sono illuminanti per la discussione:9 – fra gli aspiranti architetti nel 2008 il tasso di successo medio è stato del 49% (con la percentuale più alta nella sede di Bari [74%] e quella più bassa nella sede di Palermo [18%]); – fra gli aspiranti commercialisti nel 2008 il tasso di successo medio è stato del 48% (con la percentuale più alta nelle sedi di Catania e Palermo [100%] e solo l’8% in quella di Venezia);

Vedi Family ties in licensed professions in Italy, cit. Tratti da Family ties in licensed professions in Italy, cit, e raccolti attraverso varie fonti, dagli ordini stessi al ministero di Università e ricerca. 8 9

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– fra gli aspiranti avvocati nel 2009 il tasso di successo è stato del 26% (con la percentuale più alta a Napoli con il 56% e quella più bassa a Caltanissetta con il 16%). A questo possiamo aggiungere che all’esame per l’avvocatura del 1997, nella sede di Catanzaro 2295 test su 2301 erano esattamente identici. Dopo che lo scandalo fu reso pubblico le regole per la prova d’accesso furono cambiate nel 2006, e da quel momento in poi i tassi di superamento sono diventati, non sorprendentemente, molto più omogenei (senza per altro raggiungere ancora un livello ottimale). Oltre all’esame di entrata esiste anche l’obbligo di svolgere tirocini e corsi di specializzazione. Come si diceva in precedenza, i tirocini sono quasi sempre non retribuiti, mentre i corsi di specializzazione sono spesso costosi e di difficile accesso. Ci troviamo così in una specie di far west, nel quale alla necessità di svolgere le suddette attività formative non corrisponde obbligo alcuno per i datori di lavoro/formatori di riconoscere un adeguato indennizzo ai praticanti. Questa situazione alimenta le disuguaglianze. Naturalmente solo i più benestanti, coloro i quali dispongono di una famiglia in grado di farsi carico di tutte le spese, potranno svolgere la loro attività formativa in modo sereno, mentre agli altri resta lo spettro di una precarietà diffusa, dato che per mantenersi durante l’attività di formazione dovranno trovare altre forme di guadagno.

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Aggiungete che la possibilità di attingere a manodopera gratuita mette spesso il datore di lavoro/ formatore nella condizione di non preoccuparsi eccessivamente del tirocinante (per il quale non si è fatto alcun investimento) e della sua resa lavorativa. Al di là del ruolo giocato dagli ordini professionali nello specifico, la struttura di tirocini e corsi di formazione riduce fortemente gli spazi di accesso ad alcune cariche pubbliche nel nostro paese. Pensate all’esame per la magistratura che sarà svolto da Daniela. Esso prevede un lungo corso di specializzazione senza adeguate coperture economiche; inutile chiedersi chi si potrà permettere di preparare serenamente questi concorsi, in barba a qualunque selezione di merito che un concorso pubblico dovrebbe teoricamente garantire. Le restrizione quantitative, cioè il fatto che si stabilisca un numero limitato di posti disponibili per accedere a una professione, sono la forma di regolamentazione che più delle altre sembra cozzare con la tutela del consumatore. Gli esempi più importanti sono quelli di farmacisti e notai. Essi, infatti, sono sottoposti a regolamentazioni basate su criteri demografici e socioeconomici, che hanno generato e continuano a generare immeritate rendite di posizione: quei vantaggi che un agente economico acquisisce sul mercato per il solo fatto di possedere il diritto esclusivo sulla vendita di un servizio o di un prodotto. L’esempio dei farmacisti è illuminante per il livello di

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disuguaglianza prodotta. Esistono tre modi per acquisire una farmacia: 1) partecipare a una competizione pubblica per i posti vacanti; 2) comprare una farmacia (questo succede molto raramente); 3) ereditarne una esistente da un membro della famiglia. La cosa più incredibile è che una farmacia può essere ereditata anche senza possedere la qualifica specifica di farmacista. Mi pare chiaro che simili regole non hanno nulla a che vedere con la tutela del consumatore e le sue scelte di acquisto. Un’ulteriore forma di controllo dell’accesso alla professione è costituita dai codici di condotta e di deontologia professionale. Questo tipo di regolamentazione dovrebbe tutelare il consumatore prevenendo comportamenti potenzialmente dannosi, ma in molti casi si configura semplicemente come una restrizione alla concorrenza. I codici di condotta hanno spesso l’effetto negativo di ridurre la diversità dell’offerta professionale e innalzare i costi per il consumatore. L’esempio più eclatante di come i codici possano danneggiare il mercato è quello del controllo delle tariffe. I prezzi amministrati10 possono avere un effetto negativo sulla competizione, ac-

Ovvero tariffe minime per le prestazioni, decise all’interno dell’ordine. 10

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cresciuto spesso da pratiche collusive tra i membri dell’ordine.11 Per questa ragione, nel 2009, l’Autorità per la concorrenza ha suggerito (in un rapporto pubblico12) agli ordini di eliminare tutti i codici di condotta che non fossero strettamente mirati a innalzare/mantenere l’alta qualità del servizio. Da sempre, gli ordini professionali giustificano la necessità dei prezzi amministrati con l’argomentazione che una tariffa troppo bassa scoraggerebbe i professionisti migliori a entrare sul mercato, abbassando i profitti al di sotto di una soglia accettabile. In più i codici di condotta spesso bollano la concorrenza come una prassi ingiusta verso i colleghi. Per esempio, nei codici di condotta di avvocati e notai viene espressa una forte critica contro le pratiche di «accaparramento della clientela». Non si capisce davvero come in una moderna economia di mercato sia ancora possibile addurre argomentazioni di questo genere contro la concorrenza. Perché un giovane avvocato che pratica prezzi più bassi e offre un servizio migliore per cercare di costruirsi un portafoglio clienti starebbe violando un codice di deontologia professionale?

Una pratica collusiva implica un comportamento concertato tra i membri di un ordine, che sfavorisce la concorrenza e quindi il «benessere» del consumatore. 12 Si tratta di un’indagine conoscitiva riguardante il settore degli ordini professionali, consultabile al sito http://www.agcm.it/indagini-conoscitive-db/open/C12564CE0049D161/A9CA192134E9 B8D6C1257274005618D8.html. 11

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Perché un giovane avvocato non può comportarsi come un qualunque altro agente economico che opera in un mercato concorrenziale, cercando di fare profitto grazie alla sua maggiore competitività? Queste domande richiedono un’attenta riflessione e risposte importanti da parte del legislatore. Ordini professionali e familismo Dopo aver illustrato la funzione che gli ordini dovrebbero assumere sul mercato (il loro ruolo di tutela del consumatore), aver definito la loro entità numerica e le regole a cui sottopongono i membri, apriamo la discussione sul fenomeno del familismo. Il ruolo che i legami familiari giocano nell’accedere alla professione è ben conosciuto e spesso i quotidiani nazionali l’hanno documentato mettendo in luce casi eclatanti di malcostume.13 Proviamo ora, sulla base dei dati e delle ricerche disponibili, a fornirne un quadro complessivo. Avere un parente occupato in un settore professionale può influenzare in due modi la posizione lavorativa di una perso-

Vedi Gian Antonio Stella, Ordini e professioni, quando il merito dipende da famiglia e area geografica, «Corriere della Sera», 4 luglio 2011, consultabile anche all’indirizzo http://archiviostorico.corriere.it/2011/luglio/04/Ordini_professioni_quando_merito_dipende_co_9_110704018.shtml. 13

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na.14 Primo, la famiglia costituisce un fattore di crescita del capitale umano, spesso più importante della scuola. I figli dei professionisti o dei membri di un ordine professionale hanno un vantaggio chiaro nell’accumulazione di competenze specifiche: un genitore impiegato in una professione porta spesso il lavoro a casa, ne parla con i familiari, struttura la sua vita privata in relazione a esso; i figli in questa dinamica «socializzano» con quel tipo di professione a partire dalla più tenera età. Secondo, avere un genitore in un ordine significa spesso una semplificazione «automatica» delle condizioni di accesso e un cospicuo supporto nella creazione del portafoglio clienti. Nella letteratura economica esiste un indicatore, denominato Ics (Informational content surnames, letteralmente «contenuto di informazione dei cognomi»), che stima la probabilità di accedere a una professione confrontando chi ha e chi non ha un parente con lo stesso cognome iscritto all’albo. Quindi, se il cognome fosse irrilevante ai fini di accedere alla professione, le due probabilità (quella di chi ha un parente e quella di chi non c’è l’ha) dovrebbero coincidere e l’indice dovrebbe essere 1. Sulla base di ciò, più alto è l’indice, più alto è il ruolo del cognome e quindi maggiore l’impatto del familismo sull’accesso al14

Vedi Family ties in licensed professions in Italy, cit.

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la professione. L’indice più alto è tra i medici (4), seguiti da farmacisti e avvocati (3,25).15 A questi dati si aggiunge il fatto che in tutte le altre professioni, dove esiste un mercato più aperto e non vi sono le restrizioni imposte dagli ordini, l’indice Ics è molto più basso. Questo dimostra che la storia familiare è più importante nel determinare l’accesso alla professione lì dove esistono gli ordini rispetto ad altri tipi di lavoro. Un’importante eccezione è costituita dai professori universitari. Qui l’impatto del cognome conta più che fra i medici. Gli scandali di parentopoli in varie università italiane sono ben documentati da approfondite inchieste giornalistiche, per questa ragione tale dato non dovrebbe destare grande sorpresa fra i lettori. Una cosa però voglio segnalarla. Il fatto che l’Ics sia più alto fra i professori universitari che fra medici e avvocati mette in evidenza come nel nostro paese l’accesso alla professione non sia bloccato solamente dagli ordini professionali ma anche da altri comportamenti devianti; per questa ragione la semplice abolizione degli ordini non è la panacea contro tutti i mali. Occorre disegnare una riforma organica con misure diffuse volte a far funzionare gli ordini nell’interesse dei consumatori e non degli iscritti all’albo, e in aggiunta si deve intervenire sulla trasparenza di tutti i concorsi pubblici, specie quelli che avviano a carriere dirigenziali di alto livello. 15

Vedi Family ties in licensed professions in Italy, cit.

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Gli effetti del familismo, poi, non si esauriscono con la maggiore/minore possibilità di accesso sulla base del cognome. Avere un parente con lo stesso cognome tra i membri di un ordine accelera anche la velocità di accesso.16 In poche parole chi ha un parente iscritto all’albo locale accede mediamente all’ordine più giovane degli altri. A questo punto, la domanda sorge spontanea: tale elevato tasso di familismo è una semplice pratica nepotistica, oppure è funzionale a tenere fuori dall’ordine i peggiori prestatori d’opera, favorendo coloro i quali hanno accumulato una maggiore competenza tramite la famiglia? L’esempio dei cambiamenti avvenuti nel concorso per l’accesso all’ordine degli avvocati sembra segnalare la prevalenza della pratica nepotistica a detrimento dell’interesse del consumatore. La riforma Bersani del 2006 ha favorito l’ingresso di giovani qualificati,17 migliorando la qualità complessiva del servizio; inoltre ha dimostrato che attente politiche per ridurre le barriere all’entrata (ci riferiamo a tutte quelle barriere che non proteggono il consumatore) hanno un effetto positivo sul mercato delle competenze professionali. L’evidenza empirica non è conclusiva per tutte le professioni, ma solo per gli avvocati; tuttavia una cosa interessante al di là dei numeri emerge chia-

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Vedi Family ties in licensed professions in Italy, cit. Vedi Liberalizing professional services, cit.

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ramente dagli studi in materia:18 gli ordini in cui esiste una correlazione più forte tra familismo e accesso alla professione sono anche quelli che hanno frapposto più resistenza alla raccolta dei dati (dati che dovrebbero essere pubblicamente disponibili). Lasciamo le conclusioni al lettore. Proposte di riforma Gli ordini professionali, come sottolineato, hanno una funzione fondamentale all’interno della nostra economia: devono tutelare gli interessi del consumatore in mercati caratterizzati da forti asimmetrie d’informazione, in cui è difficile fare una scelta senza l’ausilio di un’autorità garante che certifichi in anticipo la qualità della prestazione che si riceverà. La difesa dell’interesse collettivo e del consumatore giustifica alcune pratiche volte a ridurre la concorrenza. Tuttavia negli anni gli ordini professionali, al lato della loro funzione necessaria, hanno sviluppato anche dei meccanismi distorsivi che giovano solamente ai propri membri. Per questa ragione non crediamo che la soluzione possa essere una loro totale abolizione, ma è evidente la necessità di riforme puntuali, che ne esaltino l’utilità collettiva riducendone gli effetti distorsivi. Una riforma che si configuri con queste caratteristiche favorirebbe 18

Vedi Liberalizing professional services, cit.

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l’uguaglianza – permettendo un accesso più agevole ai giovani professionisti (anche quelli che non hanno un genitore o un parente all’interno dell’ordine) – ma anche e soprattutto l’efficienza, garantendo migliori servizi a prezzi più bassi. Il primo problema sul quale agire è la struttura delle prove d’accesso. Non è possibile che i membri stessi della professione siano anche chiamati a giudicare gli esami: è un ovvio conflitto d’interessi. Immaginate se in ogni settore economico i competitori principali avessero il potere di esaminare i loro futuri concorrenti e decidere se essi siano qualificati o meno per accedere. Riformare questo aspetto è semplice. Si potrebbe seguire il modello usato nei concorsi per l’avvocatura a partire dal 2006, creare cioè commissioni esaminanti fatte da esperti che non sono iscritti a quello specifico ordine (per esempio docenti universitari), oppure concorsi nazionali standard giudicati da una commissione unica, oppure ancora, dare vita a concorsi locali che abbiamo come membri giudicanti iscritti all’ordine di altre regioni. Il secondo livello di azioni da intraprendere è quello sui codici di deontologia professionale, abolendo tutte le pratiche che distorcono inutilmente la concorrenza. Come sottolineavamo in precedenza, una delle cose più difficili per un giovane professionista è crearsi un portafoglio clienti. Questo compito diventa praticamente impossibile se i prezzi sono amministrati; ma se gli

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esami di ammissione fossero svolti in modo serio, non ci sarebbe nessun bisogno di controllare in modo così rigido i prezzi e combattere contro chi cerca di accaparrarsi clienti fornendo un migliore servizio a un minor costo. I professionisti più bravi e concorrenziali riuscirebbero a mantenere il loro portafoglio clienti, tuttavia nuovi competitori potrebbero sottrarre quote di mercato a chi non riuscisse a garantire standard elevati a prezzi di mercato.19 Terzo, occorrerebbe inserire degli indennizzi per i tirocini così da supportare i giovani che si stanno formando per accadere alla professione, migliorando la misura recentemente introdotta dal governo Monti e standardizzando le opportunità formative. Inoltre, l’esistenza di un indennizzo porterebbe i professionisti/formatori a sfruttare al meglio i periodi di formazione, facendo lavorare in modo produttivo i tirocinanti. Si sa, quando una persona investe di tasca propria in un’attività è molto più vigile a che essa funzioni. Lo Stato potrebbe fornire degli incentivi ai formatori più virtuosi (quelli che supportano per esempio un adeguato inserimento nel mercato del lavoro dei loro tirocinanti o che gli offrono condizioni vantaggiose di impiego) attraverso sgravi fiscali sull’assunzione di personale dopo il tirocinio, o

Il tutto seguendo le regole etiche basilari imposte dalla professione, sulle quali gli ordini dovrebbero continuare a vigilare. 19

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non apponendo alcuna tassa sul reddito da lavoro percepito dal tirocinante. Il tutto senza contributi a fondo perduto o pagamenti diretti: solo sgravi fiscali, in modo da non sperperare inutilmente denaro pubblico. A ciò si potrebbero aggiungere attività di tirocinio già all’interno del percorso universitario. Esistono poi alternative più profonde di riforma, come per esempio la via inglese. Lì gli ordini non esistono, ma vi sono certificazioni da ottenere (pensate ai prodotti elettronici e agli standard Iso) attraverso esami qualificanti. Inoltre si potrebbe accrescere la trasparenza sul mercato creando delle banche dati disponibili su internet, nelle quali i professionisti pubblichino i risultati della loro attività in modo comparabile a quella dei concorrenti. Si verrebbe così a creare un meccanismo virtuoso basato sulla crescita della reputazione. La maggior parte dei cambiamenti elencati non richiederebbe misure drastiche ma semplici accorgimenti e riforme graduali. Il problema risiede come sempre nell’esistenza di una volontà politica a favorire l’uguaglianza e l’efficienza. Occorrerebbe una volontà ferrea pronta a colpire le lobby, che continuano a utilizzare gli ordini professionali come fossero strumenti privati a tutela dei loro interessi. La possibilità di riformare un settore della vita economica che assorbe più di un quarto della manodopera qualificata del nostro paese passa dall’affermazione del principio di uguaglianza e utilità collettiva.

3 Il prezzo del passato

Lo stato sociale (o welfare state) è un sistema comprensivo di tutele, pensato per garantire un’assistenza adeguata contro alcuni rischi sociali, come la malattia o la disoccupazione. In questo senso si prende l’onere di proteggere il cittadino con una sorta di «assicurazione collettiva», assumendo che una polizza individuale sarebbe meno efficace. Prendiamo l’esempio della sanità. In Italia, così come in molti altri paesi europei, esiste un sistema sanitario nazionale che garantisce assistenza a ogni cittadino indipendentemente da quante volte riceve delle cure. Il costo del servizio è pagato da tutti mediante tasse progressive. Caso opposto è quello degli Stati Uniti, in cui sono garantiti attraverso la fiscalità generale solo i servizi sanitari agli indigenti; gli altri devono rivolgersi al mercato. Lasciando da parte ogni valutazione di merito sui vantaggi e gli svantaggi dei due modelli, è facile intuire che un sistema basato su una polizza individuale comporti rischi più elevati per alcune categorie specifiche: chi è affetto da una malattia cronica, perché presenta un rischio più alto di finire in ospedale per con-

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trolli e accertamenti (questi soggetti saranno così obbligati a pagare premi assicurativi molto più elevati degli altri); chi ha occupazioni poco sicure (di solito l’assicurazione sanitaria è legata alla posizione lavorativa); chi dispone di un reddito medio-basso, tale da non consentirgli di pagare un’assicurazione privata, ma che allo stesso tempo lo esclude dal supporto pubblico (come quello corrisposto da Medicaid1). Un sistema così strutturato ha portato all’esplosione della spesa sanitaria. Questo perché, non potendo negare le cure a nessuno in un pronto soccorso, tutti i non assicurati si rivolgono alle strutture ospedaliere invece che ai medici di base; ciò accresce la spesa complessiva, perché è sempre valido l’adagio «prevenire è meglio che curare» (e costa anche meno). Ne consegue che l’insieme della spesa pubblica e privata per la sanità negli Stati Uniti è più o meno doppia rispetto a quella del nostro paese (in rapporto al prodotto interno lordo). Dopo aver chiarito l’importanza dello stato sociale come assicurazione collettiva, occorre analizzare quali sono i rischi da cui il welfare state dovrebbe proteggerci. William Beveridge, politico e studioso inglese, definì, nel suo celebre rapporto,2 questi rischi «cinque giganti», cui op-

Medicaid è il programma sanitario predisposto dal governo federale per le famiglie a basso reddito. 2 Il rapporto di William Beveridge, Social insurance and allied 1

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porsi attraverso un’assicurazione collettiva piuttosto che individuale: l’indigenza e la povertà, la mancanza di alloggi adeguati, la malattia, l’ignoranza, l’ozio e l’inattività. Secondo Beveridge, un liberale e non certo un giacobino, lo Stato aveva il dovere di tutelare i suoi cittadini al di là del loro reddito o status professionale. Non si poteva accettare, in una società capace di produrre grande benessere, che molti cittadini versassero in uno stato di indigenza perenne, che soffrissero condizioni abitative precarie, che non ricevessero adeguate cure mediche, che non fossero capaci di leggere e scrivere, o che si lasciassero andare all’ozio e all’inattività. In più, ai rischi definiti da Beveridge nel suo celebre rapporto va anche aggiunta la necessità di tutelare chi non è più in condizione di lavorare per vecchiaia; una tutela questa già esistente sin dai tempi di Bismarck. I sistemi di protezione sociale, quindi, non furono disegnati da pericolosi sovversivi (anzi i partiti socialisti si opposero con forza alla creazione del welfare state, etichettandolo come uno strumento per assopire la coscienza di classe e stabilizzare il capitalismo3) ma da politici liberali e conser-

services, presentato nel 1942 all’ Inter-Departmental Committee del Parlamento inglese, è consultabile al sito http://www.sochealth.co.uk/public-health-and-wellbeing/beveridge-report/. 3 Come nel caso della Germania di Bismarck; il cancelliere tedesco con grande pragmatismo usò la concessione di alcune politiche di welfare (assicurazione lavoro, malattia e vecchiaia) per

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vatori che, preoccupati dallo stato d’indigenza di molti cittadini e dalla potenziale avanzata del socialismo, ridistribuirono parzialmente la ricchezza cercando di garantire uno standard di vita decente alla maggior parte della popolazione. Di seguito analizzeremo in un’ottica comparata come tali rischi vengano coperti dal nostro sistema di welfare. Concentrandoci primariamente sulle pensioni, vedremo come il welfare state italiano non solo alimenta le disuguaglianze, ma ripartisce anche la spesa in modo inefficiente.4 Si tratta purtroppo di un sistema che guarda troppo al passato e non scommette sul futuro. Il modello sociale italiano in una prospettiva comparata Stato sociale significa cose diverse in paesi diversi.5 Convenzionalmente i diversi modelli so-

contrastare l’avanzata del partito socialista e migliorare i livelli di produttività della forza lavoro. 4 La scuola e l’università non vengono tradizionalmente considerate come parte integrante del welfare state. E questo non perché ininfluenti sulla creazione di benessere nella società, ma perché lo sviluppo delle politiche educative segue logiche diverse dagli altri comparti della spesa sociale. Questo libro non si propone di analizzare le disuguaglianze del sistema educativo, non perché siano limitate o addirittura non esistano, ma perché servirebbe un libro apposito per discuterle. 5 Esiste un vasto dibattito su come distinguere i vari sistemi di welfare. Non è mia intenzione addentrarmi in questa discussione

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no stati suddivisi in tre categorie, i cosiddetti «mondi dello stato sociale», emersi tra il XIX e il XX secolo dal conflitto e dal successivo compromesso raggiunto fra le élite al potere e le classi subalterne. Secondo questa chiave di lettura, le condizioni socioeconomiche di ciascun paese avrebbero portato alla prevalenza di uno dei tre movimenti politici e ideologici esistenti in Europa: quello liberale, quello conservatore e quello socialdemocratico. Il modello liberale si è affermato dove le élite al potere sono riuscite a controllare il processo di modernizzazione e industrializzazione, lasciando poco spazio alle richieste delle classi sociali più svantaggiate. La prevalenza del modello liberale si manifesta nel tentativo di mantenere al minimo gli obblighi dello Stato a tutelare i cittadini contro i rischi sociali, che vengono invece coperti mediante assicurazioni individuali (come esemplificato dal caso della sanità americana) o anche

di carattere squisitamente accademico; mi baserò quindi, per approfondire il caso italiano, sulla famosa classificazione proposta dal sociologo danese Gøsta Esping-Andersen in The three worlds of welfare capitalism, Polity Press, Cambridge 1990. È inoltre utile consultare due analisi approfondite sull’Italia: Maurizio Ferrera, Modelli di solidarietà, Il Mulino, Bologna 1993, e Ugo Ascoli, Le caratteristiche fondamentali del welfare state italiano, in Cittadinanza: individui, diritti sociali, collettività nella storia contemporanea. Atti del convegno annuale Sissco, Padova, 2-3 dicembre 1999, a cura di Carlotta Sorba, Ministero per i beni e le attività culturali, Roma 2002.

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tramite il supporto del terzo settore6 e della famiglia. Quello liberale è, senza ombra di dubbio, il modello di protezione sociale che meno si interessa alla riduzione delle disuguaglianze. Il welfare state ha la funzione di assistere solo chi è indigente, secondo l’assunto che un supporto più generoso costituirebbe un disincentivo a cercare lavoro. Per questa ragione l’assegnazione di trasferimenti monetari e servizi sociali è basata sulla cosiddetta «prova dei mezzi»: una dettagliata verifica delle condizioni economiche dell’individuo, che dovrebbe garantire l’accesso al welfare solo ai più poveri. Gli Stati Uniti, il Canada, l’Irlanda e il Regno Unito sono tradizionalmente considerati dei paesi liberali.7 Il modello conservatore si è affermato nei paesi in cui le élite al potere sono riuscite a controllare agevolmente il processo di modernizzazione e industrializzazione, ma diversamente dai paesi liberali hanno dovuto concedere tutele più generose alle classi svantaggiate per evitare l’avvento del socialismo. L’esempio classico è quello della Ger-

Ovvero le associazioni di volontariato. Anche se il Regno Unito presenta alcuni aspetti del modello socialdemocratico, come l’esistenza di un sistema sanitario nazionale (la famosa Nhs), creato subito dopo la Seconda guerra mondiale. Si tratta del primo sistema sanitario nazionale pubblico posto in essere nel mondo. Un modello, successivamente, esportato in tutti i paesi europei, e anche in Italia verso la fine degli anni Settanta. 6

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mania di Otto Von Bismarck, in cui lo stato sociale nacque proprio a partire da queste condizioni. Il modello conservatore è basato sulla coesistenza di diversi «schemi di assicurazione sociale» a copertura dei principali rischi per i cittadini. Il compito assegnato al welfare state è quello di assicurare il cittadino fornendo una protezione sociale proporzionale ai contributi versati. Per questa ragione il modello conservatore tende a mantenere le differenze fra i cittadini, ma garantisce una maggiore copertura contro i rischi sociali rispetto a quello liberale. Lo stato sociale salvaguarda le differenze dovute alla posizione lavorativa e delega molti compiti al terzo settore, specialmente a organizzazioni di tipo religioso. L’ispirazione di questo modello – prevalente in Germania, Francia, Belgio e Austria – è cristiano-democratica. Infine il terzo mondo dello stato sociale, quello socialdemocratico, si è sviluppato lì dove le classi subalterne hanno avuto la forza di imporre alle élite un compromesso a proprio vantaggio. In questi paesi si è diffusa l’idea che lo stato sociale deve tutelare tutti i cittadini in modo egualitario e universale, i poveri così come i ricchi. La protezione sociale è basata sull’idea di cittadinanza inclusiva: tutti hanno gli stessi diritti non solo nella sfera civile e politica (così come in ogni altro paese europeo) ma anche in quella sociale. È il sistema di welfare più generoso, in cui le disuguaglianze sono minori. Il basso livello di disuguaglianza è stato determinato da una tassazione

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sul reddito molto progressiva e dal carattere redistributivo delle prestazioni e dei trasferimenti sociali (diversamente dai paesi liberali, in cui i trasferimenti sono limitati solo ai poveri, e dai paesi conservatori in cui i trasferimenti sono legati al livello di contribuzione). Svezia, Finlandia e Danimarca sono paesi con un welfare state di chiara ispirazione socialdemocratica. Per usare una metafora, che esemplifichi come questi modelli di welfare abbiano influenzato nel corso dei decenni il livello di diseguaglianza economica e sociale, potremmo dire che essi sono simili ai tre pistoleri nati dalla fervida immaginazione di Sergio Leone: il buono, il brutto e il cattivo. Il modello socialdemocratico è un po’ il Clint Eastwood della situazione: il buono, universalistico e generoso con tutti. Il modello conservatore è Eli Wallach, il brutto, capace di qualche gesto caritatevole verso i più poveri ma non indirizzato a ridurre il livello di disuguaglianza fra i cittadini. Il modello liberale è Lee Van Cleef, il cattivo, che non ha alcuna volontà di ridurre l’incidenza della disuguaglianza. E l’Italia, a chi assomiglia dei tre pistoleri? Sicuramente quello che ci rappresenta più fedelmente è il brutto: il modello sociale italiano è caratterizzato, come quello dei paesi conservatori, dal meccanismo assicurativo-contributivo (chi versa di più ottiene di più) e dalla delega di molte prestazioni sociali ad associazioni di volontariato con finalità

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religiosa (pensate agli sgravi fiscali e agli incentivi economici per la Chiesa cattolica). Però il welfare state «all’Italiana», rispetto a quello di paesi come Francia e Germania, ha cinque peculiarità;8 esse lo rendono, dal punto di vista della creazione della disuguaglianza, «più brutto del brutto»: 1) il predominio del particolarismo sull’universalismo; 2) il clientelismo diffuso a macchia d’olio; 3) il dualismo; 4) la prevalenza dei trasferimenti monetari sulla fornitura di servizi ai cittadini; 5) l’impatto della cultura familistico-patriarcale. La prevalenza del particolarismo sull’universalismo ben riflette la matrice conservatrice del nostro modello di protezione sociale. I trasferimenti diretti e i servizi sociali sono enormemente differenziati sulla base dello status lavorativo di ogni cittadino. Certo esistono alcuni elementi universali, come il sistema sanitario nazionale (creato nel 1978) e la pensione di anzianità per tutti (introdotta nel 1969); tuttavia, il particolarismo è preminente e ha radici profonde nella cultura politica: sorprendentemente anche a sinistra non è stata mai concepita l’idea di trasformare il welfare in senso universale, sul modello dei paesi scandinavi.

Come sottolineato in Modelli di solidarietà, cit. e Le caratteristiche fondamentali del welfare state italiano, cit. 8

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È incredibile come su «Rinascita», periodico del Partito comunista italiano, ancora nel 1988-89, quando alcuni studiosi e intellettuali progressisti propongono una riforma pensionistica in senso universalistico e parlano di diritto alla pensione come diritto di cittadinanza, alla pari del diritto al lavoro, all’istruzione o alla tutela della salute, le reazioni siano le seguenti: «Ma come? Dovremmo dare ad Agnelli e agli operai lo stesso tipo di pensione, a carico della collettività?». In sostanza il pregiudizio anticittadinanza, antiuniversalistico, così come una cultura dei diritti conquistabili solo con la partecipazione al mercato del lavoro regolare, hanno sempre albergato profondamente nella cultura italiana, in generale, e in quella riformista, in particolare.9

L’esistenza di una cultura clientelare diffusa e l’uso del welfare state (così come della pubblica amministrazione) come una sorta di bancomat per la creazione di consenso elettorale, sono realtà conclamate nel nostro paese. Duole dover rimarcare come, fino a poco tempo fa, la maggior parte delle leggi che venivano promulgate in Parlamento non erano rivolte alla tutela collettiva, ma ad aumentare il clientelismo a scopi elettorali. Chi lavorava alla ricostruzione delle politiche pensionistiche giunse a scoprire come fra il 1976 e il 1980 l’Inps si fosse dovuta uniformare a ben duecento disposizioni di legge sul sistema pensionisti-

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Vedi Le caratteristiche fondamentali del welfare state italiano, cit.

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co: c’erano state mediamente, ogni anno, quaranta leggi nuove, sempre sostitutive delle precedenti. Ciò significa che il nostro Parlamento, fra il ’76 e l’80, sfornava mediamente ogni dieci giorni una legge, una leggina, un articolino, un emendamento o quello che fosse, per modificare il sistema pensionistico vigente. Ciò sta a dimostrare come la risorsa «pensione» venisse largamente utilizzata per scambi clientelari di grande o piccolo cabotaggio. Le grandi riforme non «uscivano» dal Parlamento, mentre le piccole riforme «striscianti», magari camuffate in questo o in quel disegno di legge che aveva un titolo assolutamente «lontano», procedevano spedite.10

Il caso delle pensioni d’invalidità è forse quello più emblematico: negli anni Settanta queste furono estese anche a chi risiedeva in aree economiche svantaggiate, lì dove era molto difficile trovare lavoro.11 Ciò portò nel 1974, poco dopo l’entrata in vigore del provvedimento, a versare più nuove pensioni di invalidità che di vecchiaia. Si creò così un circuito vizioso, che fece divenire le pensioni d’invalidità uno strumento diretto per la creazione di clientela e lo scambio di favori in chiave elettorale. Il circuito parte dalla domanda per ottenere la pensione di invalidità: talvolta è persona poco

10 11

Ibidem. Ibidem.

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alfabetizzata e quindi si avvale di un patronato sindacale; il patronato a sua volta viene remunerato dalla Stato per ogni pratica di invalidità portata avanti, a prescindere dal buon fine della pratica; si moltiplicano così i patronati e si apre un importante canale di finanziamento pubblico di un’attività sindacale; dopodiché la pratica arriva al vaglio del comitato provinciale Inps, dove siedono in maggioranza i rappresentanti delle organizzazioni sindacali più rappresentative, che hanno evidentemente rapporti assai stretti con le principali formazioni politiche; la normativa lascia ampi margini di interpretazione e di discrezionalità agli attori; può quindi accadere che una pratica venga «velocizzata» o approvata grazie a facili contiguità locali; tali prestazioni o «grazie ricevute» si scambiano facilmente nel mercato politico con il consenso elettorale (voti di preferenza); se la pratica non viene approvata può essere ripresentata, rifinanziata e si può ritentare l’avventura.12

Da questa analisi si evince chiaramente che le distorsioni più singolari all’interno del nostro modello di protezione sociale riguardano le pensioni (questo non esclude l’assenza di clientelismo in altri settori). Quelli descritti da Ascoli possono sembrare solo aneddoti, ma più avanti in questo capitolo «daremo i numeri», osservando come la gestione scellerata del sistema previdenziale 12

Ibidem.

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impatti in modo drammatico sulla struttura del nostro welfare state. Il marcato dualismo del sistema si esprime nelle differenze regionali, nella diversa generosità del sistema per persone con occupazioni diverse e nel profondo squilibrio generazionale. Questo fenomeno ha una sua precisa origine storica. Nel primo Novecento, durante il processo di modernizzazione del paese, molte prestazioni sociali non erano garantite dallo Stato ma da opere pie e società di mutuo soccorso. Il successivo sviluppo di un sistema di protezione sociale pubblico si è innestato su questa base consolidata. Nelle regioni in cui queste società di mutuo soccorso erano particolarmente attive (nel Centro-nord) i servizi si sono strutturati in modo più efficiente, mentre nelle altre la moderna creazione del welfare state non ha sortito gli effetti sperati. Lo stato sociale e in generale l’amministrazione pubblica sono divenuti, in queste aree, oggetto del clientelismo più sfrenato: un’occasione per impiegare più persone possibili in aree con altissima disoccupazione, invece di creare una rete efficiente di servizi. Si è venuta così a creare quella che Sabino Cassese ha definito la «meridionalizzazione della pubblica amministrazione»,13 cioè l’impiego di

Vedi L’amministrazione centrale, a cura di Sabino Cassese, Utet, Torino 1984, nono volume dell’opera Storia della società italiana dall’Unità a oggi della Utet. 13

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dipendenti pubblici meridionali in eccesso per arginare la disoccupazione dilagante in quest’area del paese. Tuttavia, il «dualismo Italiano» non si esprime solo a livello territoriale ma anche generazionale: la sproporzione nel livello di tutela fra le diverse generazioni è pazzesca. Quando parliamo di «prezzo del passato» ci riferiamo a un’erronea allocazione delle tutele, tutte a vantaggio di una sola generazione (coloro i quali hanno cominciato a lavorare prima del 1978). Immaginate che il welfare state sia una macchina e la politica il guidatore. Il sistema di protezione sociale è stato condotto solo guardando nello specchietto retrovisore e dimenticando che la strada giusta da imboccare si può controllare unicamente guardando al di là del parabrezza. Il welfare state italiano – oltre a essere particolarista, clientelare e duale – è anche basato in modo sostanziale su trasferimenti diretti in denaro anziché sulla fornitura di servizi.14 Questo significa che, per la classe politica, negli anni è stato molto più semplice usare il welfare come uno strumento per conquistare voti clientelari (concedendo trasferimenti diretti agli elettori come descritto in precedenza) invece che per costruire servizi utili alla cittadinanza. Un welfare tarato

Basti pensare alla preminenza, nel nostro sistema, di pensioni e assegni familiari (trasferimenti monetari) rispetto agli investimenti in asili o servizi alla persona (fornitura di servizi). 14

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sui servizi sarebbe sicuramente più difficile da usare a fini clientelistici e aiuterebbe a ridurre le disuguaglianze fra Nord e Sud.15 L’ultimo elemento che caratterizza il nostro sistema di welfare è l’impatto della cultura familistico-patriarcale, che ha teso a escludere la donna dal mercato del lavoro conferendole pochissimi diritti. C’è stata una netta inversione di tendenza in questo senso negli anni Ottanta e Novanta ma la posizione della donna, specie nelle regioni meridionali, resta ancora precaria e poco tutelata rispetto a quella dell’uomo. Dopo aver discusso i principi ispiratori dei vari sistemi di welfare, il loro impatto sul livello di disuguaglianza e le caratteristiche del sistema italiano, è arrivato il momento di illustrare, numeri alla mano, perché il nostro sistema è così squilibrato. Uno squilibrio strutturale Spesso nel dibattito pubblico si sottolinea come l’elevata pressione fiscale per finanziare il welfare state freni lo sviluppo. Tuttavia, se da un lato è vero che il livello di tassazione sul lavoro e sulle im-

Torneremo su questo aspetto discutendo la proposta di un federalismo solidale. 15

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prese è esorbitante (questo sì, freno allo sviluppo del paese), dall’altro la spesa per le politiche sociali in Italia è in linea con la media europea, costituendo quasi un quarto della ricchezza nazionale (il 24,86% del prodotto interno lordo nel 200716). Tra i paesi più sviluppati, hanno una spesa maggiore solo Francia (il 28,40% del Pil), Svezia (27,30%), Austria (26,42%), Belgio (26,35%), Danimarca (26,10%), Germania (25,16%), Finlandia (24,93%); invece spendono meno Portogallo (22,52%), Spagna (21,58%), Grecia (21,33%), Norvegia (20,80%), Regno Unito (20,54%), Paesi Bassi (20,08%), Giappone (18,70%), Svizzera (18,52%), Nuova Zelanda (18,39%), Canada (16,86%), Irlanda (16,31%), Stati Uniti (16,20%) e Australia (16,02%). Questi dati mostrano come esistano economie che si stanno ben comportando pur avendo livelli di spesa superiori al nostro (Germania e paesi scandinavi su tutti); ciò che essi non ci dicono, però, è che la spesa pubblica italiana è pesantemente sbilanciata. Per mettere in evidenza in modo dettagliato tale fenomeno occorre analizzare la spesa nei vari settori del welfare state separatamente (pensioni, disabilità, salute, casa, famiglia, lavoCome dimostra il Social Expenditure Database dell’Oecd per il 2010, consultabile al sito http://www.oecd.org/els/familiesandchildren/socialexpendituredatabasesocx.htm. Dove non diversamente indicato, tutti i dati presentati nel capitolo provengono dalla medesima fonte. 16

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ro), comparando l’Italia ad altri paesi che appartengono ai tre mondi dello stato sociale illustrati in precedenza: ad esempio Finlandia, Francia, Germania e Regno Unito. La Finlandia rappresenta il modello socialdemocratico; l’ho preferita alla Svezia,17 perché ha un livello di spesa praticamente uguale all’Italia18 ma riesce a fornire servizi migliori, riducendo parallelamente le disuguaglianze generate dal mercato. La Francia e la Germania rappresentano il modello conservatore, mentre il Regno Unito quello liberale. Il primo settore di spesa riguarda le pensioni di anzianità e per i superstiti (come quelle erogate alle vedove dopo la morte del marito, o viceversa): il comparto che rappresenta la «spesa per il passato». Non fraintendiamoci: supportare i pensionati che hanno contribuito al benessere del nostro paese è doveroso, ma si tratta di una spesa passiva, non serve cioè a migliorare la performance del sistema socio-economico. L’Italia spendeva nel 2007 circa il 14% del Pil – più del 57% dell’intera spesa sociale – per finanziare il passato. Nessun paese investe una percentuale così elevata del suo Pil per coprire i rischi connessi alla vecchiaia.19 Questo dato ci fa capire L’esempio classico tra i paesi socialdemocratici nelle comparazioni internazionali. 18 Poco meno del 25% del Pil. 19 C’è anche chi non concorda con questa visione. Ad esempio lo Spi (il ramo della Cgil che si occupa di pensioni), la cui 17

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perché la prima riforma strutturale del governo Monti sia stata indirizzata proprio al contenimento della spesa previdenziale.20 Durante una trasmissione televisiva alla quale ho partecipato, il leader della Cgil Susanna Camusso, messa di fronte all’evidenza di simili numeri, ha sottolineato che la spesa per le pensioni in Italia sembra così alta solo perché include erroneamente il trattamento di fine rapporto (tfr). Tuttavia, il tfr non incide in modo sostanziale sull’ammontare totale che spendiamo in pensioni (meno dell’1% del Pil), inoltre in molti altri paesi programmi analoghi vengono conteggiati nelle statistiche così come in Italia (il final salary

posizione può essere evinta dal documento consultabile al sito https://docs.google.com/viewer?a=v&q=cache:Ymexn9j4CLEJ: www.tosc.cgil.it/moduli/output_immagine.php?id%3D2067+p ensioni+la+favola+della+spesa+previdenziale+alta&hl=en&gl= uk&pid=bl&srcid=ADGEEShAq3FRuEtbcm5dTzwr9_xfMGum5AwONosrHQGJWegJie7Fm7GZd2e0YeW6h09IdrPOe4-eY VGBO4qb62owb5T76aUTjlHJ8l1IWPm77013DoqDDtRUs mhn-U56jY7hqBMigcCg&sig=AHIEtbTrDcIawWUeLKsb_ T8YrOyu4VVL3g. Tuttavia i dati presenti in questo report chiariscono come molti pensionati percepiscano meno di 750 euro (vedremo che si tratta di un’evidenza inconfutabile e confermata dalle analisi Istat), ma non dimostrano che la spesa previdenziale italiana sia molto più bassa di quella quantificata dall’Ocse. Pur escludendo il tfr e la cassa integrazione, la spesa resta a livelli altissimi. 20 Analizzeremo nel dettaglio tutte le riforme che si sono susseguite, mostrando come spesso e volentieri non abbiano intaccato il carattere iniquo del sistema. Un’iniquità inter e intragenerazionale.

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scheme21 inglese, per esempio). Ciò significa che, pur escludendo il tfr dal conteggio (e sempre ammesso che si debba farlo per avere una stima corretta), il nostro sistema previdenziale resta comunque eccessivamente oneroso rispetto a quello degli altri paesi europei. A livello comparato, anche la Francia investe moltissimo nelle pensioni (il 13% del Pil), poco meno del 50% della spesa totale per il welfare.22 In Germania il livello di spesa è quasi tre punti percentuali più basso rispetto alla Francia e quattro rispetto all’Italia (rappresenta il 10% circa del Pil). In Finlandia, così come negli altri paesi scandinavi, la spesa si attesta intorno al 9% del Pil. Nel Regno Unito la spesa per le pensioni che viene sostenuta dallo Stato costituisce solamente il 6% del Pil, e in linea con il modello liberale molti cittadini partecipano a schemi previdenziali privati supportati dal datore di lavoro. Diversamente dalle pensioni, spendiamo relativamente poco per i disabili,23 così come Francia e Germania (meno del 2% del Pil). La Finlandia, invece, spende quasi il doppio. Questa marcata differenza dimostra come il modello socialdemocratico proponga un’idea di cittadinanza inLetteralmente «schema di fine carriera». Ricordiamo che la Francia spende tre punti di Pil più dell’Italia per la sua spesa sociale, circa il 28%. 23 Solo Stati Uniti, Giappone, Canada e Grecia fanno peggio di noi tra i paesi dell’Ocse. 21 22

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clusiva: i disabili non ricevono solo un sussidio come negli altri sistemi, ma anche una fitta rete di servizi per agevolare la loro integrazione nella società. Infine il Regno Unito si attesta a un livello intermedio (2,40% del Pil) rispetto ai paesi socialdemocratici e quelli conservatori. Nel campo sanitario occorre sottolineare come i livelli di spesa pubblica siano molto più omogenei rispetto agli altri comparti. Si va da quella minima sostenuta dalla Svizzera, il 5,60% del Pil, a quella massima del 7,85% sostenuta dalla Germania (molto simile anche a quella della Francia). Italia e Finlandia (così come Svezia e Danimarca) si attestano in una posizione intermedia con una spesa superiore al 6% del Pil. Nel nostro paese il sistema sanitario nazionale è sicuramente uno degli ambiti meglio funzionanti del welfare state. Tuttavia non si può certo negare l’esistenza di uno spiccato dualismo, che vede le strutture ospedaliere del Mezzogiorno non sempre capaci di fornire cure adeguate ai cittadini. I famosi viaggi della speranza dei malati meridionali, costretti a muoversi verso il Nord per accedere a molti trattamenti specializzati, fanno ormai parte della storia del nostro paese. Questo meccanismo accresce ulteriormente le differenze territoriali, perché i sistemi sanitari regionali del Sud continuano a spendere cifre ingenti per rimborsare le cure di chi si reca negli ospedali del Centro-nord. Si tratta di una perdita secca che non consente (assieme all’inefficienza dilagante

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di diversi presidi sanitari) alle regioni meridionali di migliorare il livello delle prestazioni fornite. La politica per la casa24 riceve pochissima attenzione in Europa; solo il Regno Unito spende più dell’1% del Pil, mentre Francia, Germania e Finlandia investono rispettivamente lo 0,76%, lo 0,61% e lo 0,24%. Se in Europa questa percentuale è irrisoria, in Italia si può affermare senza paura di essere smentiti che la politica per la casa in sostanza non esiste più. Si spende infatti ogni anno solo lo 0,02% del Pil. Si tratta una scelta precisa: si è deciso di incentivare l’acquisto della casa di proprietà e di svendere il patrimonio pubblico di alloggi popolari. Per tale ragione non si è sostenuto negli ultimi decenni un programma organico di affitti a tariffa agevolata, svantaggiando soprattutto le coppie giovani. Quando abbiamo affermato che la protezione sociale in Italia guarda solo al passato, ci riferivamo alla tendenza atavica a spendere tantissimo per le pensioni e lasciare le briciole per politiche familiari e lavoro (argomento del prossimo capitolo). La nostra spesa per la famiglia è assolutamente inadeguata: 1,40% del Pil, contro il 3% di Che in passato includeva un grosso investimento nelle costruzioni di edilizia popolare, mentre oggi si limita ad affitti agevolati per cittadini disagiati. Come ben evidenziato dal bassissimo livello di spesa, si tratta ormai di una spesa notevolmente ridotta, la cui importanza è stata marginalizzata. 24

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Francia, Regno Unito e Finlandia (e il 2% della Germania). Se in Italia i trasferimenti diretti, come il congedo di maternità o gli assegni familiari, sono simili a quelli degli altri paesi europei, lo stesso non si può dire per la fornitura di servizi. L’esempio più emblematico è quello della carenza cronica di asili nido, che raggiunge livelli inaccettabili nel Mezzogiorno. Come fanno due genitori a lavorare in condizioni serene senza un nonno o una nonna che si prendano cura del loro bambino durante le ore lavorative? Quando non c’è la famiglia su cui appoggiarsi, il nostro sistema di welfare non offre servizi adeguati. Occorre chiedersi come sia possibile continuare a ignorare l’importanza delle politiche familiari, visto che hanno come scopo l’uguaglianza di genere e l’incremento del tasso di natalità. L’ultimo settore riguarda le politiche per il lavoro. Possiamo dividerne la spesa in due categorie: quella tradizionale di sostegno durante un periodo di disoccupazione e quella che serve a riattivare il lavoratore.25 Entreremo nel merito delle diverse scelte di politica pubblica che si possono compiere nel prossimo capitolo; per il momento occorre sottolineare come il nostro paese spenda solamente lo 0,90% del Pil, mentre Francia, Germania e Finlandia spendono più del doppio

Questo tipo di politiche agiscono in ogni caso in modo concomitante. 25

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(oltre il 2%). Il Regno Unito, fedele al modello liberale, investe lo 0,50%, seguendo l’assunto che politiche generose contro la disoccupazione porterebbero molti cittadini a non cercare lavoro e ad accontentarsi del sussidio. Al di là delle considerazioni di merito, la totale assenza nel nostro paese di una strategia chiara contro la disoccupazione e di protezioni per chi si trova ad avere un contratto «atipico» è un problema gravissimo, particolarmente vivo nella coscienza pubblica. Riassumendo, il nostro modello di welfare si caratterizza per un livello di spesa in linea con la media europea. Tuttavia essa è oltre modo sbilanciata verso il passato (specie sulle pensioni di anzianità) e non supporta in modo adeguato i giovani, le coppie con bambini, i disoccupati, le donne o chi ha problemi ad affittare un’abitazione. Una riforma strutturale non può che partire dal passato per indirizzarsi verso il futuro: ciò significa liberare risorse dalle pensioni per investirle nelle politiche familiari e per il lavoro. L’iniquità generazionale del sistema previdenziale La previdenza italiana fino al 1996 ha funzionato sulla base della regola retributiva. Questo significa che i contributi versati dai lavoratori venivano utilizzati direttamente per pagare i pensionati, e l’importo della pensione non era connesso ai contributi realmente versati, ma veniva calcolato sul-

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la base dell’ultimo stipendio. Il modello retributivo presuppone l’assenza di riserve monetarie nel sistema: i contributi versati dai lavoratori devono essere in equilibrio rispetto alle pensioni erogate. Il cambiamento demografico ha portato però a una crescita esponenziale del numero di pensionati rispetto ai lavoratori, alterando il meccanismo su cui si basava il sistema retributivo. In più, molte scelte politiche (come l’elargizione di pensioni di invalidità non giustificate o la divisione organizzativa creata per favorire alcune categorie professionali) hanno contribuito a frammentare il sistema a scopi clientelari. Sono state per esempio introdotte norme scriteriate, come la possibilità per le madri di andare in pensione poco dopo aver raggiunto quattordici anni di servizio. Quindi le variazioni demografiche, la gestione sciagurata delle pensioni e l’eccessiva generosità (che permetteva ai pensionati di ricevere molto più di quanto avevano versato) hanno portato nei primi anni Novanta il sistema sull’orlo del collasso. Per far fronte a questa situazione si sono succedute varie riforme, che hanno: – ridotto la generosità dei criteri di rivalutazione delle pensioni, basandoli solo sull’inflazione e non più sull’aumento reale dei salari; – reso più restrittivi i requisiti e il numero di anni di contribuzione per accedere alle pensioni di anzianità; – innalzato l’età di pensionamento;

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– istituito la possibilità di creare fondi complementari privati; – sancito il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo. Prima di tali modifiche la pensione era calcolata solo sulla base della retribuzione ricevuta nell’ultimo anno di vita lavorativa: chi aveva lavorato per trentacinque anni riceveva almeno l’80% del suo ultimo stipendio netto. In più, ogni anno la pensione veniva rivalutata sulla base dell’aumento medio dei salari e dell’inflazione. Questa metodologia ha rappresentato «l’età dell’oro» delle pensioni italiane, e nessun paese europeo ne ha mai sviluppata una altrettanto generosa. La riforma Amato del 1992 ha decretato l’avvio di un processo di riforma progressiva, che ha radicalmente trasformato l’intero impianto: venne innalzata l’età per accedere al pensionamento, la rivalutazione venne agganciata solo all’inflazione e non più all’incremento dei salari reali e per la prima volta vennero introdotti schemi pensionistici complementari volontari. Dopo questo primo cambiamento, con la riforma Dini del 1995 una fetta consistente di cittadini passò dal sistema retributivo a quello contributivo. Quest’ultimo, diversamente dal precedente, calcola la pensione considerando solo i contributi effettivamente versati. Il sistema contributivo prevede quindi una drastica riduzione della pensione ricevuta rispetto a quello retributivo. Per

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un lavoratore giunto alla nuova soglia dei quarant’anni di contributi, il tasso di «rimpiazzo» scende considerevolmente: una persona che riceveva come pensione l’80% (ma anche il 100% in molti settori della pubblica amministrazione) del suo ultimo salario con il sistema retributivo, a parità di storia contributiva riceverà con il nuovo sistema circa il 50%. Ma la riforma Dini, necessaria per evitare l’esplosione della spesa previdenziale, contiene in sé tutti gli elementi particolaristici e paradossali del nostro paese: il sistema venne tripartito, creando (rispetto all’omogeneità precedente basata interamente sul criterio retributivo) diverse categorie di calcolo della pensione, con una progressiva tendenza verso l’uniformazione dell’applicazione del metodo contributivo. La prima fascia includeva gli ultimi privilegiati dell’età dell’oro, coloro i quali avevano un’anzianità contributiva superiore ai diciotto anni nel 1995 (cioè avevano cominciato a lavorare prima del 1978); loro restavano ancorati al sistema retributivo. La seconda fascia comprendeva coloro i quali avevano cominciato a lavorare dopo il 1978, e che quindi avevano una storia contributiva nel 1995 inferiore ai diciotto anni; per loro era previsto il passaggio a un sistema misto: per gli anni in cui avevano già versato i contributi, la pensione veniva calcolata su base retributiva, per quelli successivi al 1995 su base contributiva. La terza fascia infine era rappresentata da chi aveva cominciato a lavorare dopo il 1995: per loro la pensione veniva

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interamente calcolata con il metodo contributivo. In questo modo, come sottolineato in precedenza, difficilmente avrebbero superato con la pensione il 50% dell’ultimo stipendio percepito. A Oxford ho un amico che si interessa allo studio comparato dei sistemi pensionistici. Non essendo italiano è sempre stato incuriosito dalle stranezze di quello nostrano. Lui, per esempio, della riforma Dini non ha capito perché anche coloro i quali avevano più di diciotto anni di contributi prima del 1995 non siano passati a un sistema misto. Da studiosa della materia non sembra averlo mai capito nemmeno il ministro del Welfare del governo Monti: Elsa Fornero; infatti con la sua riforma, a partire dal 2012, il sistema contributivo è stato esteso a tutti. Mi viene da pensare che forse nel 1995 non eravamo abbastanza in crisi da dover spalmare i costi della cattiva gestione delle pensioni su tutti quanti. E così ci ritroviamo in una situazione unica nel mondo occidentale (a parte la Grecia), con i pensionati che hanno cominciato a versare contributi prima del 1978 che beneficiano di una pensione di importo uguale o superiore all’80% del loro ultimo stipendio, mentre per chi ha iniziato a lavorare nel 1996 questo valore scende al 50%. Prendete una persona con un salario di 1600 euro mensili: con il primo sistema la sua pensione ammonta a 1280 euro (e intorno a 1600 nel caso di molti dipendenti pubblici), mentre con il secondo a 800. Aggiungete che la prima pensione si rivaluta non solo alla luce dell’inflazione ma

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anche guardando ai salari di chi lavora, mentre la seconda tiene conto solo dell’inflazione. La tragedia è che la protesta si è sempre concentrata sulla difesa dei diritti di chi ha iniziato a lavorare prima del ’78, mentre partiti e parti sociali hanno «scaricato» chi ha iniziato a lavorare dopo il 1995. La riforma Dini ha rappresentato uno spartiacque, tuttavia la rimodulazione del sistema non si è fermata nel 1995. Le riforme, con un carattere incrementale più che radicale,26 si sono susseguite anche nel decennio successivo. Nel 2000 è stata allargata la possibilità di accedere a un piano individuale pensionistico e nel 2004, con la riforma Maroni, è stato introdotto un incentivo per andare in pensione più tardi. Nel 2007 il governo Prodi ha innalzato l’età di pensionamento sulla base di quote variabili: l’accesso alla pensione di anzianità è stato valutato sulla base della somma dell’età e degli anni in cui si è contribuito al sistema. Quindi, nel 2009 per andare in pensione occorreva raggiungere quota novantacinque (con almeno cinquantanove anni di età), nel 2011 quota novantasei (con almeno sessant’anni di età), nel 2013 quota novantasette (con almeno sessantun’anni di età). In più è stata introdotta

Nel senso che il processo di riforma è stato progressivo, con modifiche aggiunte di volta in volta, piuttosto che un cambiamento rapido e radicale come quello avvenuto in Inghilterra negli anni Ottanta. 26

Il prezzo del passato

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una revisione automatica ogni tre anni di questi coefficienti di calcolo, in funzione dell’aspettativa di vita media calcolata dall’Istat. Successivamente, con la legge 102 del 2009, l’età di pensionamento è stata innalzata a sessantacinque anni per le lavoratrici del pubblico impiego. Con la riforma Fornero si completa il processo di trasformazione del sistema pensionistico. Come accennato, le pensioni italiane vengono definitivamente modificate e uniformate, completando quello che la riforma Dini aveva lasciato incompiuto nel 1995. Dal 1° gennaio 2012 il sistema contributivo viene esteso a tutti. Quindi anche i lavoratori che hanno iniziato a contribuire prima del 1978 passano per tutti gli anni successivi al 2012 al sistema contributivo. Finalmente uguaglianza. La lunga marcia verso l’uniformazione delle pensioni sulla base del sistema contributivo è compiuta. Si sarebbe potuto fare anche con la riforma Dini, ma ovviamente è mancato l’accordo sociale e politico per spalmare su tutti i costi della riforma, e come sempre si è preferito far pagare i più giovani e non toccare i diritti acquisiti. Quindi a oggi abbiamo tre scenari in via di uniformazione: 1) quelli che hanno iniziato a contribuire prima del 1978 vedranno la loro pensione calcolata con il metodo retributivo fino al 2011, per poi passare al contributivo;27 27

In realtà il sistema è un po’ più complesso ed è basato anche

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Chi troppo chi niente

2) quelli con il sistema misto avranno la pensione calcolata con il metodo retributivo fino al 1995 per poi passare al contributivo; 3) quelli che hanno iniziato a contribuire a partire dal 1996 riceveranno una pensione calcolata solo in base al metodo contributivo. Loro sono nati fuori tempo massimo per beneficiare anche delle ultime vestigia dell’età dell’oro. Già a questo punto, colpiti dall’iniquità intergenerazionale del sistema pensionistico e dallo sbilanciamento della spesa a favore del passato, potreste pensare che nel paese delle disuguaglianze occorra voltare pagina e guardare alle politiche di investimento (in particolare le politiche per il lavoro discusse nel prossimo capitolo), ma c’è ancora un’altra forma di disuguaglianza da discutere: quella che esiste fra i pensionati della stessa generazione. Anche i pensionati dell’età dell’oro non sono tutti uguali Mi sono riproposto in questo libro di rinunciare alla produzione di noiosissime tabelle piene di numeri, ma questa ve la devo proporre. Ho fatto un po’ di calcoli, sulla base dei dati Istat del 2009, assieme all’amico Paolo Falco; i risul-

sull’anno di nascita, ma prendiamo questa semplificazione per buona per non rendere troppo complessa la spiegazione.

Il prezzo del passato

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tati fotografano un livello di iniquità del sistema pensionistico che va oltre l’immaginazione.28

Fascia di reddito (euro)

Numero di pensioni (milioni)

Percentuale sul totale delle pensioni

Importo medio mensile (euro)

Percentuale sulla spesa totale

TOTALE 2000

2.03

11%

2909

31%

Tutti

18.60

100%

1024

100%

UOMINI 2000

1.54

19%

3017

43%

Tutti

8.07

100%

1354

100%

DONNE 2000

0.49

5%

2569

15%

Tutti

10.53

100%

771

100%

Per completezza di informazione, sottolineo che nella tabella ho anche differenziato i dati per le pensioni fra uomini e donne. Questo per una ragione semplice: moltissime donne sono andate in pensione utilizzando la regola dei quattordici anni di servizio e altre non hanno mai lavorato o versato contributi in modo continuativo. Alla luce di ciò, per avere un quadro della generosità del sistema sarebbe forse più corretto guardare solo agli uomini. In ogni caso le sproporzioni discusse con i dati generali restano evidenti. 28

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Chi troppo chi niente

In Italia ci sono 18,6 milioni di pensionati. Io mi soffermerò solamente su 13,6 milioni di loro, essi appartengono a due categorie particolari. La prima è quella costituita dai pensionati che ricevono meno di mille euro al mese: sono 11,6 milioni, il 63% del totale, e per loro spendiamo il 33% del nostro bilancio previdenziale. Facendo la media fra le diverse pensioni, un appartenente a questo gruppo ritira ogni mese alla Posta (o ritirava, visto che ora deve essere per forza accreditata) 533 euro. La seconda categoria include i 2 milioni di pensionati con più di duemila euro al mese. Rappresentano l’11% del totale e per loro spendiamo il 31% del bilancio dedicato alla previdenza. Questa categoria percepisce una pensione media mensile di 2909 euro. In soldoni, spendiamo quasi la stessa cifra per gli 11 milioni di pensionati più poveri e i 2 milioni più ricchi. Qualcuno potrebbe obiettare che quei 2 milioni di pensionati hanno lavorato duro per ricevere ciò che oggi intascano ogni mese. Bene, non voglio discutere di chi meriti cosa (anche se sugli stipendi faraonici letteralmente regalati all’interno della pubblica amministrazione ci si potrebbe scrivere un libro a parte) ma illustrare brevemente chi ha contribuito e a che cosa. Lo faccio con le parole illuminanti di Maurizio Ferrera. Negli anni Sessanta furono introdotte formule pensionistiche completamente fuori linea rispetto alle aliquote contributive delle varie categorie,

Il prezzo del passato

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nonché agli andamenti demografici ed economici. Chi si è ritirato dal lavoro (e continua oggi a ritirarsi) con quelle regole ha pagato coi propri contributi la metà scarsa del trattamento di cui gode. In nessun paese si è creato un divario così enorme fra diritti previdenziali e obblighi contributivi, fra età effettiva di pensionamento (sempre più bassa) e speranza di vita (sempre più elevata). Questo divario ha finito per generare una vera e propria «cultura della spettanza senza condizioni»: l’aver lavorato per trentacinque o quarant’anni, indipendentemente dalla congruità dei contributi versati, è diventato il presupposto fondativo dell’accesso alla pensione. Governi, opposizioni, parti sociali, associazioni di categoria: tutti portano serie responsabilità per aver nascosto ai lavoratori italiani l’insostenibilità finanziaria e culturale di quel presupposto.29

Mi vorrei soffermare su due affermazioni di Ferrera, una più tecnica e l’altra di carattere più squisitamente politico. La prima, «Chi si è ritirato dal lavoro (e continua oggi a ritirarsi) con quelle regole ha pagato con i propri contributi la metà scarsa del trattamento di cui gode», si riferisce alla degenerazione di un sistema retributivo troppo generoso (di cui abbiamo ampia-

Vedi Maurizio Ferrera, Le verità nascoste dello stato sociale, corriere.it, 12 settembre 2011, http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_12/ferrera-verita-nascoste_5e30c2f0-dcfe-11e0a93b-4b623cb85681.shtml. 29

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mente discusso in precedenza). Per ognuno di quei pensionati, specie quelli che ricevono più di duemila euro, molti giovani di oggi patiranno una vecchiaia di stenti oltre a un presente fatto di precarietà lavorativa. Ogni volta che ho sottolineato, durante incontri pubblici e conversazioni private, quanto fosse iniquo il sistema mi è sempre stato risposto: «Ma noi abbiamo contribuito». Non è vero, non a sufficienza. Chi è andato in pensione con le regole dell’età dell’oro (con un’adeguata storia contributiva) raccoglie molto, molto più di quello che ha versato (oltre il doppio, come riportato da Ferrera). La seconda frase è: «Governi, opposizioni, parti sociali, associazioni di categoria: tutti portano serie responsabilità per aver nascosto ai lavoratori italiani l’insostenibilità finanziaria e culturale di quel presupposto».Tutti hanno contribuito alla creazione di un sistema pensionistico squilibrato fra le generazioni e profondamente iniquo.30 Tutti sono colpevoli: i partiti politici che hanno sostenuto in Parlamento leggi «particolari» e stabilito regole insostenibili (gli esperti in materia pensionistica sapevano già a partire dalla fine degli anni Settanta che il sistema era sbilancia-

Non dimenticate che spendiamo più o meno la stessa cifra per gli undici milioni di pensionati più poveri e per i due milioni più ricchi. 30

Il prezzo del passato

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tissimo31), le parti sociali che hanno pensato solamente al presente svendendo il futuro e anche le associazioni di categoria che hanno sempre avvallato la struttura del sistema. Riassumendo: il sistema di protezione sociale è molto squilibrato; non tanto nell’entità della spesa, in linea con quella europea, ma nella distribuzione fra i vari settori e fra i cittadini. Oltre il 57% della nostra spesa sociale si concentra su quello che abbiamo definito il passato (percentuale in calo per fortuna), con le pensioni di anzianità che la fanno da padrone. Restano solo gli spiccioli per quegli interventi che dovrebbero aiutare i giovani (e non solo) a costruire il loro futuro, a farsi una famiglia, a lavorare in modo stabile, a garantirsi una dimora adeguata. Il confronto con gli altri paesi europei è imbarazzante: in molte altre nazioni si è compresa per tempo l’importanza di queste politiche per supportare la creazione di ricchezza futura, noi invece siamo rimasti ancorati troppo a lungo a un modello di previdenza sociale suicida. Oltre al forte squilibrio generazionale, il sistema italiano ha favorito la crescita delle disuguaglianze fra i pensionati stessi. Due milioni di persone beneficiano di pensioni «generose», pur avendo contribuito solo per metà a quanto ricevono; gli 31

Vedi Le caratteristiche fondamentali del welfare state italiano, cit.

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altri stentano con pensioni da fame. La progressiva riforma del sistema pensionistico è stata compiuta in vent’anni, lo squilibrio si ridurrà progressivamente, ma saranno solamente coloro i quali sono entrati sul mercato del lavoro a partire dal 1996 a pagare il conto salato degli errori passati. Proprio quelli che oggi vivono condizioni terribili sul mercato del lavoro. Spesso nel dibattito pubblico è stato sottolineato (specie dai sindacati confederati) come non si possano modificare dei diritti acquisiti. In realtà, alla luce di quanto detto fin qui, io credo che la vera ingiustizia sia continuare a mantenere passivamente un sistema così profondamente diseguale. Per questo ritengo sia equo – oltre che utile – inserire una tassa di scopo su tutte le pensioni sopra i duemila euro (e proporzionata all’entità della pensione stessa). Il ricavato potrebbe essere investito nelle politiche per il lavoro descritte nel prossimo capitolo, in modo da ribilanciare almeno in parte la spesa sociale tra passato e futuro.

4 Investire sul futuro: lavoro tra protezione e sviluppo

Per la prima volta dopo tanto tempo, ho trascorso il 1° maggio in Calabria e, invitato da un vecchio amico, ho assistito al tradizionale comizio organizzato per la festa dei lavoratori. La piazzetta traboccava di gente, di vecchi simboli, di richiami a un passato recente che per tutti i presenti ha ancora una fortissima valenza simbolica. Ho scorto le vecchie bandiere comuniste accanto a quelle dei nuovi partiti politici, nati e finiti nello spazio di due decadi. Ho osservato i vessilli delle sigle sindacali: sbiaditi, certo, ma sempre lì a testimoniare la loro vicinanza ai lavoratori. Ho riconosciuto in sottofondo vecchie canzoni, diffuse da un amplificatore improvvisato installato alla meglio sopra una macchina che sembrava provenire da un’altra epoca. Ho ascoltato parole che mescolavano insieme l’orgoglio per le conquiste ottenute dai lavoratori negli ultimi decenni e la viva preoccupazione per le condizioni attuali, rese sempre più drammatiche dalla longa manus di una competizione globale che ha rimesso in discussione tante tutele faticosamente conquistate. Parole sacrosante, ma anche echi di una

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Chi troppo chi niente

retorica ideologica lì dove l’ideologia non sembra esistere più. Poi, tutto d’un tratto un dettaglio mi ha profondamente colpito: nella piazzetta vestita a festa, mentre le vecchie canzoni comuniste risuonavano come simulacri d’un mondo che non esiste più, il mio sguardo si perdeva tra la folla assiepata, incrociando solo raramente quello di altri giovani. Un osservatore critico potrebbe notare che il mio sguardo rifletteva in realtà solo un mero dato statistico: nei paesini della Calabria i giovani ormai si contano sulle dita di una mano. Tra calo demografico ed emigrazione, a custodire questi centri abbarbicati sulle colline e le montagne restano solo vecchi e donne fasciate di nero, personaggi figli di un passato sempre più remoto, un passato di campagna, lavoro in fabbrica, soprusi e frustrazioni. Ai miei occhi però, quell’assenza di giovani svuotava la festa dei lavoratori di significato, testimoniando con eloquenza che, per la mia generazione, quelle bandiere, quei partiti, quei sindacati, non hanno più alcuna valenza rappresentativa. Il 1° maggio è diventato una festa vuota, i suoi simboli reperti da museo. La gente della mia generazione quella mattina era altrove. In luoghi geograficamente, idealmente e socialmente lontani dalla quella piazzetta, rappresentazione ideale di un passato che non c’è più. Erano a distribuire volantini in un’affollatissima Leicester Square a Londra, a disegnare palazzi ecosostenibili su Autocad in un celebre studio di architetti

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a Sidney, a progettare motori in un centro ricerca della Bmw a Monaco di Baviera, a scrivere un rapporto per il ministero degli Affari sociali in Ecuador, a vendere pizze ad Aberdeen, a svolgere diverse mansioni sottopagate in una piccola impresa del Nordovest, con in tasca la loro laurea in ingegneria elettronica, un 110 e lode del Politecnico di Torino. Oppure a lavorare in un call center per pochi spiccioli a qualche decina di chilometri di distanza. Come Stefano, il «dottor Gennaro». No, non è quello il suo nome, così come non è Gennaro il nome dei ragazzi e delle ragazze che lavorano con lui. Eppure sono costretti a presentarsi in questo modo a ogni telefonata, dimenticando il proprio nome: qualche genio del telemarketing pare abbia scoperto che il potenziale cliente non attacca subito la cornetta, se dall’altra parte pensa di avere un dottore. Stefano ha firmato un contratto di lavoro a tempo determinato a cinque euro lordi l’ora. Per il suo capo, nel momento in cui ha iniziato a lavorare, Stefano è diventato debitore all’azienda: deve «produrre» almeno cinque euro l’ora. Se gli va bene, se è proprio bravo nel vendere ciò che deve, riesce ad arrivare quasi a duecentocinquanta euro al mese. Catanzaro è stata già definita da Federico Fubini la Bangalore d’Italia perché, proprio come la città indiana, registra un numero incredibilmente alto di operatori di call center. La mag-

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gior parte delle telefonate ai numeri di servizio e assistenza delle grandi imprese di telecomunicazioni che partono da tutta Italia, finisce a Catanzaro. La maggior parte delle telefonate promozionali che quelle stesse grandi imprese commissionano, partono sempre da Catanzaro. In questa antica città delle media borghesia impiegatizia, si è da qualche tempo sviluppato un grandioso mercato. Un mercato che arricchisce solo i titolari di «imprese» capaci di conquistare, a colpi di offerte al ribasso, appalti e subappalti. Gli altri, quelli che non si arricchiscono, sono come Stefano: occupano le giornate illudendosi di fare qualcosa di meglio del nulla, e magari aspirano a un contratto migliore, dentro un’azienda migliore. A volte queste aziende nascono e muoiono nel giro di pochi anni, giusto il tempo di agguantare delle buone commesse e un po’ di finanziamenti pubblici. A Catanzaro è successo più volte, e persone con contratti anche a tempo indeterminato si sono ritrovate senza nulla in poche ore. Persone capaci, con un livello d’istruzione medio-alto, che offrono la propria manodopera a un costo bassissimo. Uomini e donne che avrebbero costituito personaggi perfetti per un racconto orwelliano, riadattato dalla fredda e umida Londra alla ventosa Catanzaro. Stefano, per esempio, ha una laurea in Economia aziendale conseguita presso l’università cittadina. Un’università che ormai sforna perlopiù «dottor Gennaro» ed emigranti. «Ma io sono emigrante e “dottor Gennaro” insieme,»

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mi confida: «sul mercato del lavoro sarò vendibile ancora per poco, poi anche le aziende che intendono assumere cercheranno laureati più giovani di me. Dovrò decidermi a partire e dare un senso ai miei studi». Provvigioni, licenziamenti improvvisi, partenze definitive: è questo il quotidiano del nostro tempo. Non fraintendetemi: non mi spaventa certo la mobilità dei miei coetanei; io stesso vivo all’estero da parecchi anni. L’assenza di giovani in quella piazza, quel mancato incontro con la tradizione del 1° maggio e la storia di Stefano insieme a tutti gli altri, sono però rivelatori del fatto che il mondo del lavoro è radicalmente mutato, mentre la struttura produttiva e di protezione sociale del nostro paese restano ancorate a regole che non vanno più a tempo con la realtà. Sono cambiate le mansioni, le specializzazioni produttive, gli orari di lavoro, le tipologie contrattuali, le garanzie. Ma quello che più colpisce in relazione alla piazza vestita a festa è il cambiamento della relazione che intercorre tra il concetto di cittadinanza attiva e il mondo del lavoro: non esiste più quell’idea di solidarietà condivisa, basata sulla partecipazione stabile al processo produttivo. Insomma, quella festa che voleva dire fratellanza nel lavoro, affermazione di dignità, messaggio al mondo che tutti abbiamo diritto a un giorno di riposo, non significa più nulla, perché si è persa l’idea che lavorare è un diritto/dovere che ci rende parte di una

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stessa comunità. In più accanto al disinteresse di buona parte del mondo giovanile, troppo impegnato a saltare da un’occupazione precaria a un’altra per identificarsi con il proprio lavoro e il 1° maggio, si dipana un dibattito pubblico arido e ideologico nella forma, vuoto nei contenuti. Il governo, i partiti, i sindacati, Confindustria si sfidano discutendo di articolo 18 e di licenziamenti facili, come se vivessero in un mondo parallelo, in cui esistono solamente insiders con contratti a tempo indeterminato, da colpire secondo alcuni, da salvaguardare secondo altri. 1 Un dibattito pubblico retorico e miope, fatto di simboli e richiami a un passato che non c’è più; un dibattito che non interessa ai 3,2 milioni di giovani precari2 come Stefano a cui non si applica l’articolo 18, che ignora ancora una volta i due problemi principali del nostro mercato del lavoro: il dualismo (e con esso la mancanza di protezione per i lavoratori precari) e la necessità di rendere il sistema più trasparente e veloce, eliminando tutti i vincoli e gli intoppi burocratici che ostacolano le imprese e non proteggono i lavoratori. Ridurre il dualismo e migliorare l’efficienza del sistema amministrativo vorrebbe dire, per tornare al filo conduttore di questo libro, Per insiders si intende chi ha un lavoro a tempo indeterminato. Gli outsiders sono, al contrario, tutti coloro i quali hanno un contratto temporaneo o livelli di reddito al di sotto della soglia di povertà. 2 Vedi Flex-insecurity, cit. 1

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ridurre le disuguaglianze che attanagliano il sistema, rendendolo simultaneamente più equo e produttivo. Il lavoro è un campo di battaglia politica troppo importante per lasciarlo ancorato alle secche ideologiche dell’articolo 18 e dei licenziamenti facili. Occorre avere il coraggio di riformare il mercato del lavoro, garantendo una protezione sociale universale contro il rischio di disoccupazione, per fornire una speranza concreta di sviluppo sociale ed economico e per migliorare la qualità della nostra democrazia. Anche perché l’Italia, ove qualcuno lo avesse dimenticato, è una repubblica costituzionalmente basata sul lavoro e sul rispetto della dignità dei cittadini/ lavoratori. In un momento di crisi profonda del modello di sviluppo occidentale, l’Italia sta pagando a caro prezzo tutte quelle carenze peculiari che esistono all’interno di un sistema squilibrato e inserito in un contesto internazionale in rapido mutamento. In quest’ottica cercheremo di analizzare la situazione, evidenziando i limiti della riforma recentemente varata dal governo Monti e discutendo le varie strade che ci si aprono davanti per cambiare un sistema iniquo e inefficiente. Tanti cantieri da far partire al più presto, che richiedono il coraggio di ridistribuire alcune risorse: dalla ricchezza privata al comparto produttivo, dalle politiche sociali passive a quelle attive.

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Universalità e trasparenza in un mondo del lavoro flessibile Le criticità e i paradossi proposti dal mercato del lavoro italiano sono sotto gli occhi di tutti. L’autorevole Employment Outlook, fotografa la situazione in modo impietoso: Il mercato del lavoro è sempre più duale. La crisi ha colpito duramente i giovani (compresi quelli tra i quindici e i venticinque anni). Nella fase di recessione il tasso di disoccupazione giovanile è aumentato di 9,7 punti percentuali, raggiungendo il 28% nell’aprile del 2010. Da allora i segni di ripresa sono timidi: il tasso di disoccupazione giovanile si è ridotto di soli 1,3 punti percentuali per attestarsi al 27,6% nel luglio 2011, uno dei più alti nell’area Ocse. Inoltre il declino della disoccupazione appare dovuto interamente alla creazione di posti di lavoro con contratti a termine o atipici (inclusi i cosiddetti collaboratori), mentre il numero di posti con contratto indeterminato tende ancora a contrarsi. In particolare, tra il primo trimestre del 2010 e il primo trimestre del 2011, il numero di lavoratori con contratto permanente e a tempo pieno risulta essersi ridotto ancora di 72.000 unità. Questo suggerisce che il mercato del lavoro italiano sta diventando più segmentato, con lavoratori in età matura in impieghi stabili e protetti e molti giovani senz’altro sbocco immediato che posti più precari.3

3

Vedi il rapporto Employment Outlook 2011. L’Italia a confron-

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Un piccolo aneddoto riassume alla perfezione tutta la stortura del sistema. Qualche tempo fa, mi è capitato di incontrare una funzionaria pubblica: lei guadagna come dirigente circa seimila euro al mese e si dispera perché il figlio, dopo tre anni di lavoro da ingegnere (a circa seicento euro al mese) ha deciso di partire per andare a cercare fortuna all’estero. Inghilterra, Stati Uniti, Australia: non importa, la sua voglia di costruirsi un futuro basandosi solo sulle competenze professionali è più importante del distacco, probabilmente definitivo, dalla terra. Altro dettaglio: nella disperazione della madre non c’era riflessione critica. I ragionamenti ruotavano attorno a un unico tema: «Qui abbiamo tutto, che bisogno c’è di partire?». Il pensiero che forse abbiamo abusato del sistema, forse abbiamo creato un sistema che ha dato troppo ad alcuni e tolto la possibilità anche solo di provare a lavorare onestamente per mantenersi agli altri, non sfiora la donna. Lei continua, invece, con la sua litania contro le idee poco ortodosse del figlio. Mia madre la compatisce, come a dire: «E lo so bene che hanno queste idee strane, partire per cercare un lavoro». E io lì in mezzo, che invece di stare zitto avrei voglia di esternare la mia rabbia alla funzionaria, e dirle: «Ma possibile che non ti sfiori il pensiero che occorra ridistribuire per creare condizioni più favorevoli per tutti? Che occorra rinunciare a qualto con gli altri paesi, Oecd, Parigi 2011.

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cuno dei tuoi privilegi (fra l’altro neanche così meritati) ricavando risorse per dare una speranza a tuo figlio e a un’intera generazione?». La difficoltà di perseguire il cambiamento oggi in Italia, avviando una riforma seria del mercato del lavoro e una decisa ridistribuzione della protezione sociale e della ricchezza, sta tutta in questo aneddoto; nel genitore privilegiato dal sistema che si limita alla sterile invettiva contro la globalizzazione, invece di capire che suo figlio vorrebbe potersi giocare le proprie carte invece di stare a casa e farsi mantenere, perché con seicento euro al mese una vita autonoma proprio non te la puoi costruire. Occorre una «rivoluzione» nel modo di guardare alla collettività, alle politiche sociali, al ruolo dello Stato; una rivoluzione che porti gli insiders a comprendere che devono rinunciare a una parte del loro benessere e delle loro tutele, per favorire lo sviluppo di percorsi adeguati per i giovani, che poi sono i loro figli e i loro nipoti. Non ci vuole uno scontro tra le generazioni, ma un patto nato dalla comprensione che così non si può andare avanti, che alcuni diritti acquisiti senza merito hanno sbilanciato irreversibilmente il sistema. Occorre quindi ridistribuire i diritti per far funzionare la macchina collettiva, per dare una speranza alle nuove generazioni. Come sottolineato nel precedente capitolo sul «prezzo del passato», lo sbilanciamento eccessivo della spesa sociale a favore della generazione precedente ha

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portato alla creazione di un sistema di welfare iniquo e inefficiente, che andrebbe scardinato e ricostruito. Per fare ciò occorre rilanciare l’idea di ridistribuzione all’interno della spesa sociale, ricalibrandola in modo da ridurre il livello di generosità per chi ha beneficiato di una protezione eccessiva, e accrescendo le tutele per chi si trova oggi ad accedere al mercato del lavoro senza alcun supporto che non sia quello dei risparmi della famiglia di provenienza. Insomma: meno pensioni e protezione passiva legata al reddito e più welfare attivo e universale per i lavoratori,4 qualunque sia la loro forma di contratto, e per le famiglie, qualunque sia la loro composizione (più o meno tradizionale). Molti esperti5 di protezione sociale hanno sottolineato come l’Italia, rispetto agli altri paesi sviluppati, si connoti per il suo marcato dualismo. Per dualismo intendiamo il differenziale enorme di protezione sociale esistente tra gli insiders, coloro i quali hanno un contratto a tempo indeLe politiche passive sono quelle che proteggono l’individuo dai rischi sociali fornendo reddito senza richiedere alcun obbligo al lavoratore, come la cassa integrazione. Le politiche attive invece sostengono l’individuo ma richiedono anche un impegno diretto del ricevente. Un esempio tipico è costituito da quelle vigenti nel mercato del lavoro dei paesi scandinavi: ogni disoccupato riceve un sussidio molto generoso, ma deve concretamente formarsi e ricercare una nuova occupazione (pena l’esclusione dal sussidio). 5 Vedi ad esempio: Le caratteristiche fondamentali del welfare state italiano, cit., Flex-insecurity, cit. e Modelli di solidarietà, cit. 4

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terminato e riceveranno una pensione generosa basata quasi totalmente sul sistema retributivo, e gli outsiders, coloro i quali hanno un contratto a tempo determinato senza ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione e che percepiranno una pensione da fame alla fine della vita lavorativa. Da questa situazione deriva la necessità di implementare nuove politiche per il mercato del lavoro, capaci di migliorare la condizione di tutti i lavoratori (andando ben oltre l’ultima riforma appena varata) e, con essa, accrescere la competitività del nostro paese. Non utilizzare la leva delle politiche di protezione sociale per migliorare le condizioni dei giovani significa disperdere ogni giorno capitale umano, faticosamente costruito all’interno del sistema educativo. Ci troviamo di fronte al paradosso strutturale di uno stato sociale che accresce la disuguaglianza offrendo ingenti trasferimenti monetari a chi non ne avrebbe bisogno. Gli assegni al nucleo familiare e i sussidi di disoccupazione non arrivano alle fasce più povere: infatti i primi sono riservati ai lavoratori dipendenti e ai pensionati, mentre i secondi proteggono soltanto coloro che hanno già guadagnato l’accesso a una occupazione regolare. Queste limitazioni spiegano perché molte famiglie numerose e senza opportunità di accesso al mercato del lavoro regolare si trovino in condizioni di povertà nel Mezzogiorno. Queste famiglie non sono peraltro raggiunte neppure dal cosiddetto welfare fiscale,

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in quanto sono al di sotto della soglia di imponibilità Irpef e dunque non possono avvantaggiarsi delle previste detrazioni fiscali. [...] Per contrastare efficacemente la povertà bisogna innanzitutto ripensare le prestazioni familiari e le prestazioni di disoccupazione.6

Una protezione sociale monca Il mercato del lavoro risente della rigidità dell’intero sistema-paese. Siamo immersi in un contesto economico dinamico e competitivo, dove la flessibilità e la capacità di adattarsi ai cambiamenti non sono elementi opzionali ma una necessità quotidiana nel mondo dell’impresa, nella funzione pubblica, nel sistema educativo e anche, ovviamente, in quello della protezione sociale. Per questo, credo fortemente che occorra varare al più presto alcune misure che favoriscano la competitività, proteggendo allo stesso tempo in modo più adeguato i lavoratori. Questo significa ovviamente non limitarci a misure-tampone di breve periodo, indirizzate come sempre nel nostro paese solo a lenire la gravità della situazione contingente, ma a trasformare le politiche assistenziali in essere in politiche attive. Per tale

Vedi Maurizio Ferrera, Politiche contro la povertà: il welfare dei paradossi, lavoce.info, 23 luglio 2002, http://archivio.lavoce. info/articoli/pagina42.html. 6

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ragione, la riforma del mercato del lavoro costituisce un tassello fondamentale da cui partire se si vuole scardinare un sistema che non protegge adeguatamente il cittadino e non supporta lo sviluppo socioeconomico. Non possediamo, infatti, un ventaglio completo, efficace ed egualitario di politiche sociali per proteggere i disoccupati. In modo molto semplificato possiamo dire che gli aiuti esistenti per chi si trova senza lavoro si configurano come un mosaico ineguale e incompleto di protezione: 1) la cassa integrazione è destinata principalmente ai lavoratori del settore industriale; 2) la mobilità è solo per i lavoratori licenziati da un contratto a tempo indeterminato; 3) l’indennità di disoccupazione è prevista unicamente per chi ha maturato almeno due anni dei contributi ed esclude i lavoratori autonomi e parasubordinati. Questo puzzle di misure non supporta chi si affaccia per la prima volta sul mercato del lavoro e chi ha un contratto a tempo determinato o occupazioni saltuarie. Nel triennio 2008-2010, 1,6 milioni di disoccupati non hanno ricevuto alcun sostegno, e a essi vanno aggiunti circa 3 milioni di lavoratori in nero che non godono di alcuna protezione sociale. In più i sussidi distribuiti (neanche tanto generosamente) non hanno alcuna finalità di stimolo per il sistema produttivo. Essi, infatti, non possono accrescere la competitività

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delle imprese perché i disoccupati non vengono incentivati a formarsi e reinserirsi con successo sul mercato del lavoro. In questo quadro si innesta la legge di riforma del mercato del lavoro, che secondo il governo «dispone misure e interventi intesi a realizzare un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, in grado di contribuire alla creazione di occupazione, in quantità e qualità, alla crescita sociale ed economica e alla riduzione del tasso di disoccupazione». 7 Questi ambiziosi obiettivi dovranno essere ottenuti: 1) favorendo l’instaurazione di contratti a tempo indeterminato (il cosiddetto contratto dominante); 2) valorizzando l’apprendistato come modalità privilegiata di accesso al lavoro; 3) «ridistribuendo in modo più equo le tutele per l’impiego»,8 contrastando l’uso strumentale e non regolato della flessibilità e modificando la disciplina del licenziamento, prevedendo un procedimento giuridico specifico per redimere le controversie;

Vedi la legge del 28 giugno 2012, n. 92: Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita. (12G0115), pubblicata sulla «Gazzetta Ufficiale» n.153 del 3 luglio 2012, Supplemento Ordinario n. 136, e consultabile al sito http://www.lavoro.gov.it/NR/rdonlyres/3027E62A-93CD-444BB678-C64BB5049733/0/20120628_L_92.pdf. 8 Vedi la legge del 28 giugno 2012, n. 92, cit. 7

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4) «rendendo più efficiente, coerente ed equo l’assetto degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive in una prospettiva di universalizzazione e di rafforzamento dell’occupabilità delle persone»;9 5) contrastando usi elusivi di obblighi contributivi e fiscali degli istituti contrattuali esistenti; 6) promuovendo una maggiore inclusione delle donne e favorendo la creazione di nuove opportunità per i lavoratori ultracinquantenni che hanno perso il loro lavoro. Al di là delle belle parole espresse sulla spinta universalistica della riforma (il punto 4), non si fa molto a livello concreto per seguire questa direzione. Primo, continuano a proliferare le tipologie contrattuali. L’Italia ne ha ben quarantasei, un inutile ginepraio regolatorio del quale faremmo volentieri a meno, che complica l’applicazione della legge e dissuade molte imprese (specie straniere) dall’investire, senza per altro proteggere il lavoratore. Secondo, l’uso dell’apprendistato come canale privilegiato di ingresso al lavoro in sostituzione delle altre forme contrattuali «temporanee» non sembra essere convincente e modulato sui bisogni di una società complessa come quella italiana. Perché invece di stabilire una canale prefe9

Vedi la legge del 28 giugno 2012, n. 92, cit.

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renziale non si è cominciato a costruire le basi di un sistema universale in cui le tutele aumentano con gli anni di contribuzione a prescindere dal tipo di contratto del lavoratore? In molti paesi, la generosità degli ammortizzatori sociali e la loro durata nel tempo è agganciata a un semplice meccanismo contributivo progressivo. Più lungo è il periodo di contribuzione (a prescindere dal fatto di essere un lavoratore con contratto a tempo determinato o indeterminato) più duraturo e generoso è il sussidio. Una decisione in tal senso avrebbe portato a una progressiva armonizzazione del sistema, facendo cadere molti dei problemi legati alla protezione sociale stabilita sulla base delle diverse tipologie contrattuali. Terzo, l’enunciazione della lotta all’utilizzo di contratti parasubordinati a tempo determinato (come i contratti a progetto) in sostituzione dei classici contratti subordinati (che implicano oneri maggiori per il datore di lavoro ma anche una maggiore protezione per il lavoratore), di per sé un punto favorevole della riforma, non è stata seguita dalla creazione di strumenti forti e autorevoli di vigilanza. Resta quindi, a mio avviso, una mera dichiarazione di principio, piuttosto che un obiettivo verso cui tendere concretamente. Quarto, all’interno di un sistema economico come quello italiano, l’aumento delle aliquote contributive per finanziare l’Assicurazione sociale per l’impiego (Aspi) sui contratti a tempo deter-

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minato andrà inevitabilmente a gravare sulla già misera busta paga dei lavoratori, senza per questo creare un ammortizzatore universale. L’Aspi infatti, che in base al punto 4 prima discusso dovrebbe configurarsi come un ammortizzatore universale che sostituisce il mosaico di misure precedentemente descritto, lascia scoperti tutti i parasubordinati che non hanno due anni di anzianità contributiva (proprio coloro i quali hanno più bisogno dell’ammortizzatore sociale universale vista la loro posizione di precarietà). Per gli altri c’è la mini-Aspi a un livello bassissimo di «generosità» (circa 30% del salario dell’anno precedente) e durata di soli sei mesi. Quinto, la reintroduzione dell’una tantum, già utilizzata nel 2009 per lenire l’impatto della crisi sui lavoratori con contratti a collaborazione, ha le caratteristiche di tutte le politiche sociali italiane per gli outsiders: è molto stringente (con risorse limitatissime si devono escludere molti lavoratori), è erogata attraverso la fiscalità generale (e non a livello contributivo10), è la solita operazione di breve periodo per tamponare l’emergenza senza avere i crismi del miglioramento strutturale.

Non si configura quindi come una misura strutturale, ma come una semplice concessione di carattere temporaneo a partire dalla fiscalità generale. Questo significa che si continua la tradizione italiana della una tantum invece di creare diritti (l’ammortizzatore) e doveri (la contribuzione diretta di chi un giorno potrebbe usufruire dell’ammortizzatore) stabili nel tempo per tutti i lavoratori. 10

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Sesto, si fa pochissimo sulle politiche attive, quelle che dovrebbero avere la funzione di formare il disoccupato per poi rilanciarlo sul mercato del lavoro, politiche che sono ormai una realtà consolidata in molti paesi europei (quelli scandinavi, ma anche Paesi Bassi e Germania). Settimo, si introduce un ulteriore elemento di complicazione nel sistema, portando il giudice a dover discernere fra i licenziamenti arbitrari e quelli economici (il confine nella realtà è ovviamente molto labile). Si lascia così in piedi un iter cavilloso che ancora una volta ci contraddistingue in negativo fra i paesi europei. In fine, a corollario dei problemi elencati, la riforma ha risorse limitatissime: per il 2014 sono stati stanziati poco meno di tre miliardi di euro. Come vedremo, ne servono circa sette per garantire un reddito minimo di quattrocento euro al mese11 e almeno altri nove per implementare un sussidio universale di disoccupazione. Trasformare la protezione sociale Di fronte a questa riforma (che non aggredisce i problemi strutturali e il dualismo di fondo del

Il paragrafo successivo chiarirà chi e perché dovrebbe ricevere questi quattrocento euro mensili. 11

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mercato del lavoro), alle condizioni di precarietà in cui versano i giovani lavoratori italiani, all’iniquità di un sistema di protezione sociale che tutela solo gli insiders accrescendo le disuguaglianze e alla completa stagnazione della nostra economia negli ultimi vent’anni, dobbiamo rispondere con proposte precise, andando oltre la semplice e ricorrente lamentela. Ci troviamo nelle condizioni attuali perché non abbiamo mai avuto il coraggio di rimettere in questione la natura del sistema per trasformalo in chiave universalistica. La strada è indicata con chiarezza dal successo di molti paesi europei (come quelli scandinavi), che hanno perseguito queste riforme in passato e oggi raccolgono i dividendi delle loro scelte lungimiranti. Esistono fondamentalmente due misure attuabili in tempi brevi per riformare il sistema in senso più universalistico, riducendo significativamente i livelli di povertà e fornendo una protezione adeguata a tutti i disoccupati: il reddito minimo garantito e gli ammortizzatori universali per i disoccupati. Il reddito minimo è la garanzia di un livello minimo di base al di sotto del quale nessun individuo (a prescindere dalla sua condizione occupazionale) possa scendere. Questo livello varia ovviamente da paese a paese, ma costituisce in forma generale una garanzia minima di inclusione sociale e di cittadinanza per tutti quanti. La sua introduzione non costituirebbe una rivoluzione nel sistema sociale italiano, ma semplicemente il

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riconoscimento di un principio minimo in linea con gli altri paesi europei e un’armonizzazione delle varie misure esistenti in alcune regioni a beneficio di tutti i cittadini. Esistono studi in materia12 che dimostrano come il reddito minimo garantito potrebbe avere effetti molto positivi (a fronte di una spesa abbastanza limitata) nel ridurre i tassi di povertà, specie se fosse implementato a base variabile, cioè assegnando una cifra leggermente diversa a secondo del costo della vita in ogni regione. Questa misura costituirebbe un importante fattore di riequilibrio fra le aree più sviluppate e quelle più depresse del paese. È stato stimato che garantire un reddito minimo di quattrocento euro a persona (aggiustato a livello regionale e in base alla situazione familiare) costerebbe 7,1 miliardi di euro (circa lo 0,5% del prodotto interno lordo) e supporterebbe circa l’8% delle famiglie italiane.13 Questo calcolo è basato sull’assunto di distribuire il beneficio a tutti gli individui con reddito inferiore alla soglia stabilita. Si tratterebbe quindi di un reddito addizionale rispetto a quello percepito, fino ad arrivare a quattrocento euro mensili

Vedi Paola Monti e Michele Pellizzari, Implementing a guaranteed minimum income in Italy, «Giornale degli economisti e annali di economia», aprile 2010 (1), consultabile al sito http://didattica. unibocconi.it/mypage/upload/49536_20100302_041056_GMI_ MONTIPELLIZZARI.PDF. 13 Vedi Implementing a guaranteed minimum income in Italy, cit. 12

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a persona. Altro dato interessante è che attualmente solo il 27% delle famiglie al di sotto della soglia di povertà sono supportate direttamente dallo Stato, mentre con questa misura, a fronte di un costo non elevatissimo, questa percentuale salirebbe al 91%. Tuttavia sarebbe necessario introdurre un accurato dispositivo anti-frode (visto la percentuale notevole di reddito non dichiarato nel nostro paese). A questo primo schema di base andrebbe aggiunto anche un sussidio universale di disoccupazione, accompagnato dalla creazione di politiche attive sul mercato del lavoro. Diversamente dall’Italia molti paesi europei, fra cui quelli scandinavi, hanno introdotto una simile forma di protezione contro il rischio di disoccupazione, contribuendo ad accrescere la competitività del proprio sistema economico. Il loro esempio dimostra che il welfare state non è solo un sistema di protezione sociale, ma anche una leva imprescindibile per lo sviluppo economico. In conformità con questi elementi, sembra ragionevole la proposta di creare un sussidio universale di disoccupazione, accessibile a chi si trovi senza lavoro in qualsiasi momento della carriera. Tale sussidio dovrà essere condizionale, cioè limitato nel tempo e offerto solo se il disoccupato s’impegna attivamente per cercare un nuovo lavoro. Al sussidio andrà affiancata la creazione di centri specializzati che forniscano informazioni utili sulla disponibilità di lavoro e

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corsi avanzati di formazione professionale. Dati del 2008 14 stimavano che il costo di un sussidio simile ammonterebbe a circa 9 miliardi di euro l’anno.15 Nello stesso anno l’Italia spendeva quasi 240 miliardi di euro in pensioni.16 Lungi dal voler contestare la legittimità di pensioni accumulate nel corso di lunghe e oneste carriere, una tale sproporzione suscita il dubbio che stiamo investendo davvero poco nella sicurezza e nel futuro dei nostri giovani e dei nostri lavoratori precari: con meno di venti miliardi di euro l’anno (ovvero la somma dei costi realizzativi di reddito minimo e sussidio di disoccupazione) si riuscirebbe ad accrescere in modo esponenziale il livello di protezione per i lavoratori e i cittadini che vivono al di sotto della soglia di povertà, incrementando allo stesso tempo la produttività delle imprese, che beneficerebbero di un sistema più flessibile. Potrebbe sembrare paradossale ma in paesi come la Danimarca, dove la protezione per i lavoratori è tra le maggiori in Europa, è più facile licenziare un lavoratore a tempo indeterminato rispetto all’Inghilterra (dove la protezione è a un livello

Vedi Tito Boeri e Pietro Garibaldi, Ma quanto costa il sussidio unico di disoccupazione, lavoce.info, 10 marzo 2009, consultabile al sito http://archivio.lavoce.info/articoli/pagina1000994.html. 15 In realtà dopo la crisi economica il costo potrebbe essere più elevato. 16 Come discusso nel capitolo precedente. 14

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molto più basso). Questo perché la protezione non si basa sul rendere rigide e impercorribili le vie che portano al licenziamento, ma sul prendere per mano il lavoratore che per varie ragioni (competenze obsolete, ciclo economico negativo in un settore) si trova disoccupato. Tutto ciò avviene attraverso la garanzia di un reddito sostanziale per l’intera durata del periodo di inattività, e l’offerta regolare di opportunità formative per rientrare sul mercato del lavoro in una posizione più forte di quella precedente. È così che, a prima vista sorprendentemente, uno dei paesi con il livello di protezione maggiore per i disoccupati si rivela anche uno di quelli dove è più semplice licenziare (la cosiddetta flexicurity). Come si può facilmente intuire, un vantaggio sia per il lavoratore sia per le imprese. Misure aggiuntive per trasformare il mercato del lavoro Ovviamente per trasformare radicalmente il mercato del lavoro italiano non bastano le politiche sociali e le buone intenzioni, servono anche altre misure complementari: la riduzione del cuneo fiscale,17 la crescita degli investimenti in ricerca e sviluppo di pubblico e privato, la riduzione

Si tratta qui di ridurre la tassazione d’impresa per gli oneri sociali di ogni lavoratore. 17

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dell’evasione fiscale attraverso le politiche sociali, una migliore conciliazione tra vita familiare e lavoro,18 una semplificazione delle pratiche burocratiche, un ruolo più incisivo dello Stato nell’attività di regolamentazione, un’offerta trasparente delle opportunità lavorative, una ridistribuzione forte della tassazione dal lavoro al patrimonio. Primo, occorre ridurre il cuneo fiscale. In mancanza di ingenti risorse, si potrebbe pensare di partire con la tassazione di vantaggio19 per tutte quelle imprese che innovano e assumono giovani qualificati. Secondo, occorre stimolare gli investimenti in ricerca e sviluppo fatti dal pubblico così come dal privato. L’Italia è al sedicesimo posto (tra i ventisette paesi dell’Unione) per l’investimento pubblico e ancora più giù, al diciannovesimo, per quello fatto dal privato.20 Sicuramente il pubblico non fa abbastanza, ma anche i privati devono iniziare a rimboccarsi le maniche e investire parti più consistenti dei loro profitti in attività di ricerca applicata. Nel dibattito pubblico troppo spesso sentiamo lamentele da parte delle grandi imprese, ma vediamo poca propensione a fare ricer-

Discussa diffusamente nel resto del paragrafo. Si tratta semplicemente di un’aliquota fiscale più bassa per le imprese che innovano. 20 Dati Eurostat del 2011. 18 19

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ca. Lo Stato può fare la sua parte, incentivando l’investimento attraverso politiche diffuse di tassazione di vantaggio (come quelle proposte per il cuneo fiscale sui lavoratori), ma esiste purtroppo anche un problema di cultura di impresa, troppo conservatrice per affrontare adeguatamente la competizione in un mercato sempre più globale. Terzo, occorre mettere in campo uno sforzo strutturale per ridurre l’evasione e l’economia informale.21 Per quanto riguarda le politiche di protezione sociale, si potrebbe incentivare l’emersione dal sommerso legando la generosità dei benefici concessi come sussidio di disoccupazione al numero di anni di contribuzione. Questo accrescerebbe la spinta a non accettare contratti in nero o quanto meno ne ridurrebbe la frequenza. Quarto, occorre rendere più agevole la conciliazione fra cura familiare e lavoro retribuito. Le politiche familiari sono uno strumento fondamentale per permettere di conciliare il lavoro di cura (svolto a supporto di bambini, anziani e persone con handicap) con la progressione della carriera professionale, rendere più flessibili i

L’economia informale è l’insieme delle transazioni di beni e servizi che sfugge alla contabilità nazionale; include tutti i beni e servizi scambiati senza avere come contropartita un salario, tra cui quelli prodotti all’interno del nucleo familiare per autoconsumo e ampi settori quali quelli del volontariato (ma non le attività economiche onlus). 21

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lavoratori, migliorare la qualità della vita dei cittadini, accrescere i tassi di natalità22 e garantire l’uguaglianza di genere. In Italia viene concessa pochissima flessibilità ai padri e alle madri, a causa della carenza atavica di servizi per l’infanzia (basti pensare agli asili nido) e agli scarsi investimenti per i congedi parentali. Migliorare le politiche familiari significherebbe rendere più attivo lo stato sociale. Il congedo parentale di lunga durata (sul modello tedesco), per entrambi i genitori o in alternanza, il sostegno del reddito ove si scegliessero occupazioni part-time, maggiori investimenti in asili nido: sono misure che favorirebbero l’occupazione se poste in essere assieme alla partecipazione a corsi professionali o percorsi di reinserimento lavorativo. Quinto, occorre semplificare le procedure di arbitrato23 e velocizzare i pagamenti dei crediti da parte di pubblico e privato a imprese terze, snellendo e ammodernando l’apparato burocratico e la giustizia amministrativa. Non si può continuare così. Molte imprese non investono nel nostro paese perché non c’è certezza del diritto. Perché una multinazionale straniera, o una qualunque impre-

L’Italia sta diventando sempre più vecchia rispetto agli altri paesi europei, con costi aggiuntivi per la gestione di tutti i servizi sociali. 23 Ovvero quelle procedure di composizione delle questioni civili che dovrebbero contribuire a ridurre in linea generale i tempi biblici della giustizia italiana. 22

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sa, dovrebbe rischiare i propri capitali se lo Stato non vigila adeguatamente sul pagamento dei crediti? Perché un’impresa dovrebbe avviare complesse procedure burocratiche per piccoli servizi quando altri paesi offrono maggiore efficienza a condizioni più vantaggiose? Secondo la Banca mondiale (in un rapporto24 del 2012), l’Italia è l’80° paese nel mondo per facilità di fare business (ci superano tutti i paesi sviluppati tranne la Grecia, che si trova all’88° posto), il 128° per attrattività del sistema fiscale (a dimostrazione che il livello di tassazione sulle imprese è elevatissimo) e il 157° per il livello di rispetto dei contratti! Al di là di ogni riforma è lecito chiedersi come un paese moderno possa sperare di tornare competitivo se: non si rimuovono questi ostacoli dovuti alla burocrazia, non si semplifica un diritto amministrativo di stampo ottocentesco e non si riduce il grado di inefficienza della giustizia civile. Per far tornare l’Italia competitiva non si tratta di facilitare i licenziamenti, come qualche apprendista stregone vorrebbe farci credere, ma di far funzionare la macchina amministrativa adeguatamente. Sesto, serve più Stato. Non nel senso di un’accresciuta spesa pubblica, quanto attraverso una più Vedi il rapporto Doing business in a transparent world, The International Bank for Reconstruction and Development/The World Bank, Washington D.C. 2012, consultabile al sito http:// www.doingbusiness.org/~/media/FPDKM/Doing%20Business/ Documents/Annual-Reports/English/DB12-FullReport.pdf. 24

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efficiente attività regolatrice. Lo Stato non deve certo sostituire il privato o i cittadini, ma deve avere la forza di disincentivare i comportamenti negativi per l’economia del paese e incentivare quelli virtuosi. Non si va da nessuna parte se non si mette mano seriamente alla pubblica amministrazione. Diversamente da quanto ha provato a fare (con poco successo) l’ex ministro Brunetta, occorre fornire incentivi e disincentivi nelle varie divisioni dei servizi pubblici anziché accusare i singoli individui di essere dei «fannulloni». E siccome l’amministrazione pubblica produce beni pubblici, i premi e le punizioni dovrebbero essere collettivi. Giusto per fare un esempio: un Comune potrebbe decidere di dare un incentivo (monetario o di altro tipo) nel caso in cui gli impiegati riescano ad aumentare nel corso di un anno la propria produttività (che deve essere chiaramente definita a priori), magari processando più pratiche rispetto all’anno precedente o aumentando il livello di soddisfazione del cittadino. Questi risultati non sono misurabili a livello individuale e perciò premi e punizioni devono assumere un carattere collettivo; e dovranno essere i capidivisione a far funzionare la macchina monitorandola costantemente, assumendosi oneri e onori. Continuare a distribuire incentivi individuali, che spesso finiscono per essere dati a tutti in modo a-meritocratico perché non esistono criteri chiari di valutazione, è una pratica inutile. Ci vuole serietà, trasparenza e chiarezza degli obiettivi anche nel pubblico, per trasforma-

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re la macchina amministrativa da palla al piede per le imprese e i lavoratori a sostegno per l’attività produttiva. Settimo, occorre rendere trasparente il mercato delle offerte di lavoro. Pensate se nel settore pubblico, invece di pubblicizzare i lavori disponibili solo sulla «Gazzetta Ufficiale», li si mettesse online ogni giorno, permettendo a tutti con un semplice click di vedere le offerte e scoprire come inviare la propria candidatura. Questa è un’idea a costo zero attuata già parzialmente in Inghilterra (con tutti i lavori nel campo accademico), che riduce il tempo di ricerca e accresce il numero potenziale di candidati a un posto (incrementando dunque la possibilità di assumere qualcuno veramente qualificato). Ottavo, occorre più responsabilità da parte di tutti quando si partecipa al dibattito pubblico. Sbandierare ai quattro venti l’articolo 18 come la pietra angolare della protezione sociale italiana o viceversa come un tassello da rimuovere per far ripartire tutto il sistema è stato non solo inutile, ma anche fuorviante. L’articolo 18 è secondario rispetto ai problemi veri che affliggono il mercato del lavoro italiano: il dualismo (che comporta la totale assenza di protezione sociale per chi ha forme di contratto atipiche) e la lentezza e inefficienza della macchina amministrativa. Partiti politici, sindacati, associazioni di categoria dovrebbero smetterla di infiammare il dibattito,

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concentrando l’attenzione su un tema che non è fondamentale per migliorare il funzionamento del mercato del lavoro. In fin dei conti l’articolo 18 non si applica alla maggior parte dei lavoratori (chi non ha un contratto a tempo indeterminato e non lavora in un’impresa con più di quindici dipendenti) e inoltre non sembra ostacolare la crescita delle imprese: non c’è grande differenza nel numero di quelle che hanno quindici dipendenti e di quelle che ne hanno sedici. Se l’articolo 18 fosse un ostacolo vero alla crescita delle imprese e una delle ragioni del loro nanismo, sarebbe normale riscontrare un numero molto più consistente di imprese con quindici dipendenti rispetto a quelle con sedici. Ancora una volta questo non succede, lasciando l’impressione in molti commentatori che l’articolo 18 sia un richiamo da brandire per allineare le truppe nei vari campi, ma resti nella sostanza poco connesso con la risoluzione dei problemi enormi che ci troviamo ad affrontare. La conclusione di questo capitolo la voglio dedicare alla copertura finanziaria delle misure proposte, senza fare falsa retorica. Inutile basarsi sulla riduzione dell’evasione fiscale come panacea contro tutti i mali: combattere l’evasione può sicuramente incrementare il gettito fiscale, ma le risorse reperite non dovrebbero essere destinate a programmi di protezione sociale che hanno bisogno di un finanziamento costante. I soldi eventualmente recuperati combattendo l’evasione

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fiscale dovrebbero servire per creare opere pubbliche aggiuntive o misure spot di stimolo nel breve periodo. Per finanziare le riforme di cui abbiamo parlato in questo capitolo occorre avere il coraggio di dare vita a un duplice processo redistributivo. Il primo all’interno della spesa sociale, come già delineato nel capitolo precedente. Occorre tassare di più le pensioni sopra i duemila euro e impiegare le entrate per le politiche antipovertà, per la famiglia e per i disoccupati. Modalità e radicalità di intervento possono variare, ma il principio è chiaro: abbiamo bisogno di ridistribuzione intergenerazionale e all’interno del sistema di welfare. Il secondo processo redistributivo dovrebbe portare a far tassare di più il patrimonio e la proprietà, riducendo il costo del lavoro per le imprese. Si tratta di un intervento molto semplice, al di là degli orientamenti politici e ideologici. In Italia l’indebitamento pubblico è cresciuto a dismisura, non permettendoci oggi di investire sulle politiche di cui abbiamo bisogno (elencate e discusse in questo capitolo) e finanziando invece direttamente il risparmio delle famiglie italiane e dei privati cittadini (ovviamente alcuni ne hanno beneficiato molto più di altri). Si è dato vita a trasferimenti, pensionistici e non, al di sopra dei nostri mezzi; si è venuto a creare uno sperpero sistematico delle risorse nell’ambito dell’amministrazione pubblica; si è tollerata l’evasione fiscale e la bassa produttività del lavoro. In buona sostanza questo sistema ha gonfiato il portafogli di alcuni cittadini, impoverendo lo

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Stato. Non è ideologico affermare che per fare le riforme i soldi vadano presi da chi si è arricchito a dismisura grazie a questo sistema iniquo. Ciò significa tassare con severità il patrimonio e usare tali risorse per abbassare la pressione fiscale sul lavoro. Solo così potremmo nei prossimi anni aprire quei «cantieri» fondamentali per le riforme di cui il paese ha disperato bisogno.

5 Uguaglianza e storia collettiva per accrescere il capitale sociale

Esiste a diverse latitudini una profonda differenza di comportamenti, partecipazione civica, fiducia reciproca, attaccamento alla famiglia e alle istituzioni. Quasi come se bastasse attraversare una linea di demarcazione, una frontiera, per stravolgere consuetudini, usi e costumi delle persone. Considerate i paesi scandinavi. Ogni qualvolta torno in Danimarca ho sempre la stessa sensazione: tutti (o quasi) sembrano rilassati e tranquilli, ognuno tende a fidarsi del proprio interlocutore e tutti sono sicuri che le istituzioni li aiuteranno concretamente nella vita quotidiana. Un atteggiamento che si manifesta nelle piccole come nelle grandi cose. Dall’attesa di un treno (che arriverà in orario), all’esistenza di trasporti e servizi a misura d’uomo; dalla cordialità di chi è preposto a dare informazioni, all’organizzazione funzionale e organica di quanto ti circonda; dalla gestione chiara e trasparente di ogni riforma sociale e previdenziale, alla tranquillità con la quale ministri e deputati se ne vanno in giro per le strade di Copenaghen.

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Guardate al nostro paese, invece, e con una caratterizzazione ancora più marcata al Mezzogiorno: pochi si fidano degli sconosciuti nelle situazioni di scambio economico o sociale, e l’inefficienza cronica delle istituzioni ci ha portato a diffidare di tutta la classe politica così come dell’apparato burocratico. Questa situazione ha generato negli anni la pericolosa tendenza a sposare la logica del «si salvi chi può» a detrimento dell’utilità collettiva. Come è possibile che nazioni con risorse naturali abbastanza limitate (con l’eccezione del gas norvegese) o che vivevano di agricoltura ancora dopo la Seconda guerra mondiale (come la Finlandia) siano riuscite a svilupparsi in modo così equilibrato? Come si giustifica la marcata differenza che esiste nella propensione all’azione collettiva e alla partecipazione politica e sociale in diverse aree del nostro paese? Come si può spiegare l’impatto di diverse strutture istituzionali sul comportamento individuale? Negli ultimi vent’anni la risposta della letteratura sociologica a queste domande è stata quasi sempre la stessa: la presenza/assenza di capitale sociale. Per capitale sociale intendiamo l’insieme di fiducia collettiva, rispetto delle norme che regolano la convivenza civile e partecipazione fattiva in associazioni del terzo settore; tutti elementi che migliorano il funzionamento di una società, promuovendo lo sviluppo di iniziative comuni.

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Il sociologo Americano Robert Putnam ha sottolineato come la performance delle varie istituzioni regionali italiane1 sia dipendente dal livello di capitale sociale presente in ciascuna di esse.2 Personalmente dopo anni passati a studiare questo concetto e a misurarlo nelle varie regioni europee,3 sono giunto alla conclusione che, al di là dell’affascinante discussione teorica sviluppatasi in questi anni, l’importanza del capitale sociale si veda nelle piccole cose, nei suoi effetti sulla vita di tutti i giorni. Per questa ragione intendo approfondire l’idea di capitale sociale partendo da un esempio di vita quotidiana. Farò poi il punto sulle teorie che sono state sviluppate per spiegarne l’importanza e illustrare le differenze marcate tra le regioni italiane e sottolineerò, infine, come l’uguaglianza in concomitanza con la «rivisitazione consapevole» di alcuni eventi di storia collettiva possano contribuire ad accrescerlo.

Putnam si riferiva alla capacità delle regioni di rispondere alle domande dei cittadini e implementare a livello pratico le disposizioni di legge. 2 Putnam, nel suo famoso e controverso libro del 1993 Making democracy work, ha reso popolare il concetto di capitale sociale, utilizzato per la prima volta nel 1916 da Lyda Hanifan. Vedi l’edizione italiana: Robert Putnam, Robert Leonardi e Raffaella Y. Nanetti, La tradizione civica delle regioni italiane, Mondadori, Milano 1997. 3 Vedi Emanuele Ferragina, Social capital in Europe: a comparative regional analysis, Edward Elgar Publishing, CheltenhamNorthampton 2012. 1

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L’Italia è un paese spaccato attorno a linee di demarcazione nette; gli interessi clientelari prevalgono spesso su una visione collettiva e condivisa: esistono per esempio ordini professionali gestiti a vantaggio dei membri piuttosto che del consumatore, e uno stato sociale frammentato che rinforza le disuguaglianze invece di proteggere i precari. In queste condizioni le riforme discusse restano quasi sempre mere costruzioni intellettuali; obiettivi pragmatici e utili, certo, ma chiaramente irraggiungibili. Un punto di partenza potrebbe quindi trovarsi aprendo il ragionamento in una prospettiva più ampia, proprio perché non esistono riforme puntuali senza un principio più alto che guidi la nostra azione politica. Ridurre le disuguaglianze vuol dire allora anche accrescere il capitale sociale e con esso spezzare progressivamente quelle linee di demarcazione, quel «settarismo particolaristico» che impedisce a cittadini, partiti politici, associazioni di categoria e sindacati, di sedersi attorno a un tavolo per il bene del paese. Un paese che richiede una guida illuminata e condivisa, ispirata da un principio unificante. Il capitale sociale nella vita di tutti i giorni Quando penso al capitale sociale, tornano alla memoria alcune immagini che fanno parte dei miei ricordi d’infanzia. Immagini vive, capa-

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ci di trasformare un concetto astratto in realtà tangibile. La mia città – la già più volte citata Catanzaro – nonostante non superi i centomila abitanti ha un traffico veicolare da metropoli sudamericana. Il traffico intenso è certamente frutto dell’espansione rapida di un piccolo centro tramutatosi di colpo in capoluogo di regione, ma anche e soprattutto delle abitudini dei suoi abitanti. Sento ancora l’eco delle parole di mio padre, uno dei pochi camminatori convinti della Città dei tre colli, quando ero bambino: «È pazzesco: in questa città maledetta nessuno fa dieci metri a piedi, tutti devono parcheggiare “dentro” il luogo di destinazione». E ancora: «Niente cambierà mai, è un problema culturale; una cosa del genere non succederebbe a Perugia, che pure ha poco spazio esattamente come Catanzaro». Implicitamente, il buon Luciano utilizzava la teoria del capitale sociale per spiegare il traffico e le cattive abitudini dei catanzaresi in comparazione con i perugini. Un esercizio del tutto analogo a quello svolto da Putnam, che spiegò il diverso grado di efficienza delle istituzioni regionali meridionali rispetto a quelle centro-settentrionali usando il concetto di capitale sociale (fornendo quindi, così come mio padre, una spiegazione culturale delle differenze tra Sud e Centro-nord). Ma vediamo di analizzare che cosa accomuna il traffico al funzionamento delle istituzioni, e più

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in generale come il capitale sociale sia il trait d’union di queste due manifestazioni sociali. Il traffico della mia città è dovuto alla sua conformazione geografica ma anche, come dicevamo prima, alle pessime abitudini degli abitanti. Parcheggi in doppia o tripla fila, macchine che invadono le zone pedonali e il centro storico ridotto allo stato di parcheggio abusivo sono la norma. La città si presenta così, come una selva confusa di autoveicoli e con un trasporto pubblico mal funzionante: una sorta di formicaio ebete. Ci troviamo in questo caso, come del resto in molti ambiti della vita sociale del nostro paese, in una situazione di «dilemma del prigioniero». Avevo utilizzato questa metafora per descrivere una situazione nella quale si persegue semplicemente il proprio interesse individuale assumendo che tutti gli altri faranno lo stesso, senza considerare che invece un comportamento virtuoso sarebbe utile alla collettività e anche a noi stessi. In questo caso si tratta di parcheggiare dove è più comodo anche contro le regole del codice stradale perché tutti faranno lo stesso, ignorando che se ciascuno parcheggiasse correttamente il traffico veicolare si ridurrebbe portando a una situazione generalmente migliore. L’esempio del traffico contiene tutti gli elementi che servono per capire l’importanza del capitale sociale. La gente parcheggia in modo sconsiderato incrementando il traffico veicolare perché le

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istituzioni preposte sono incapaci di indirizzare il comportamento individuale verso l’interesse collettivo, e perché non c’è capitale sociale tra gli individui. Come esemplificato chiaramente dalle parole di mio padre: «È un problema culturale dei catanzaresi essere individualisti e incapaci di pensare al bene collettivo». Se volessimo guardare all’ambito delle politiche pubbliche, si potrebbe dire che imporre di parcheggiare in maniera corretta – facendo multe e punendo severamente chi trasgredisce – contribuirebbe a generare nel lungo periodo il cambiamento di abitudini nefaste, dato che tutti usufruirebbero dei vantaggi di un traffico minore. Così come nell’esempio di Putnam, il corretto funzionamento delle istituzioni nel lungo periodo accrescerebbe il capitale sociale, e viceversa. Il problema però è andare oltre il semplice determinismo culturale4 delle teorie secondo cui l’assenza di capitale sociale è la radice di tutti i mali, come sostengono Putnam e mio padre. Occorre capire quali meccanismi portino a generarlo, e se la sua assenza sia la conseguenza delle profonde disuguaglianze che attanagliano il nostro paese.

Per determinismo culturale si intende l’attribuzione di specifici problemi presenti a eventi storici e peculiarità culturali. Molto spesso tali analisi non dimostrano i loro assunti, riducendosi a meri pregiudizi. 4

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La forza dei «gruppi secondari» Il dibattito accademico sul capitale sociale ha affascinato e continua ad affascinare la politica e l’opinione pubblica. Dopo due decadi di intensa discussione ci si può volgere alla sua analisi senza enfasi eccessiva, guardando cioè alle radici profonde del concetto e alle cause strutturali che determinano la sua presenza/assenza in uno specifico territorio, regione o Stato. Il concetto di capitale sociale, con la sua natura ambigua (un elisir miracoloso per salvare la democrazia per alcuni o una visione semplificata e pericolosa del mondo e delle relazioni sociali per altri) ha comunque aiutato ad approfondire lo studio del legame esistente tra funzionamento delle istituzioni e partecipazione civica.5 Il fortissimo interesse nel dibattito politico – testimoniato dal vivo coinvolgimento di Bill Clinton, Tony Blair (con la sua «terza via») e David Cameron (con la big society) giusto per citare gli esempi più illustri6 – è il frutto di un’autentica Robert Putnam ha trasformato un dibattito puramente accademico in uno dei principali temi di discussione pubblica a livello globale. Vedi Capitale sociale e individualismo, Il Mulino, Bologna 2004. 6 In tutti e tre i casi, al di là delle differenze ideologiche – con Clinton e Blair nel campo progressista e Cameron in quello conservatore – il capitale sociale e la partecipazione civica sono stati considerati come elementi fondanti del policy-making. In un certo senso la dialettica del capitale sociale è migrata rapidamente 5

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«alchimia concettuale». Essa propone l’analisi di una società in via di disgregazione a causa del crollo generalizzato della partecipazione associativa, ma che può ritrovarsi intorno al caposaldo dell’impegno civico. Quest’idea di Putnam, discussa attraverso il concetto di capitale sociale, non è totalmente nuova ma mutuata dai padri fondatori del pensiero sociologico, da Tönnies a Weber passando per Durkheim. Già alla fine del XIX secolo, infatti, era in atto una trasformazione preoccupante della società spinta dall’urbanizzazione e dall’industrializzazione feroce, con la distruzione dei legami di solidarietà tradizionale e la crescita esponenziale di «anomia»7 e «alienazione».8 La paura della disintegrazione progressiva della solidarietà tradizionale, dovuta alla rapida tra-

dall’uso accademico al dibattito politico, accomunando progressisti e conservatori. 7 Si tratta di un concetto introdotto dal sociologo francese Émile Durkheim nella sua opera del 1893 La division du travail social (ed. it. La divisione del lavoro sociale, Einaudi, Torino 2000). Anomia significa mancanza o inadeguatezza della legge, da cui consegue carenza dei poteri dello Stato e in definitiva stati di anarchia. In particolare Durkheim definì anomiche le società fondate sulla divisione del lavoro in cui manchi però solidarietà sociale. Per approfondire vedi il sito http://www.treccani.it/enciclopedia/anomia/. 8 Concetto codificato nel pensiero marxista, descrive la situazione dell’operaio salariato che viene spossessato di quanto produce dal capitalista, il quale detiene i mezzi di produzione e compra unicamente la forza lavoro. Vedi anche il sito http://www.treccani.it/vocabolario/alienazione/.

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sformazione tecnologica della società, è il leitmotiv dell’analisi di Putnam così come lo fu per quella di Durkheim. In quest’ottica, una società sprovvista di gruppi secondari9 e associazioni capaci di mediare tra l’interesse individuale e quello collettivo è destinata ad autodistruggersi. «Una nazione può funzionare in maniera adeguata solo attraverso la mediazione dei gruppi secondari, che sono dei corpi intermedi che mettono in relazione le pulsioni individualiste degli individui con la vita di una nazione: non perseguire la creazione di questi gruppi vorrebbe dire trasformare la società in una mostruosità sociologica».10 Anche nel nostro paese le associazioni sono gruppi intermedi fondamentali per canalizzare le proposte e le rimostranze che provengono dai cittadini. Tuttavia, manca quasi totalmente un filtro fra cittadini e istituzioni; non è un caso che il populismo abbia attecchito in diversi momenti della nostra storia, con leader che hanno sfruttato la debolezza perenne dei gruppi secondari per intavolare una relazione diretta con la massa: dal fascismo al berlusconismo (ovviamente in scala minore). I gruppi secondari sono forme sociali che stanno a metà strada tra i singoli individui e l’intero corpo sociale. Essi servono per filtrare le richieste individuali nell’arco sociale. Esempi di gruppi secondari sono i partiti politici o le associazioni di volontariato. 10 Vedi La divisione del lavoro sociale, cit. 9

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Oltre alle leadership carismatico-populiste, c’è da evidenziare come la debolezza dei gruppi secondari abbia spinto alcuni partiti politici a divenire egemoni per lunghi periodi della storia repubblicana. Su tutti la Democrazia cristiana nel Mezzogiorno e nel Nordest e, in misura minore, il Partito comunista nel Centro: dalla parrocchia al dopo lavoro ferroviario, dalle scuole di partito ai ritrovi per la Festa dell’Unità, dal legame strettissimo tra rappresentazione politica e rappresentazione sindacale alla costruzione di sistemi di potere impermeabili a qualunque influenza. Il risultato è che, nel bene e nel male, leader carismatico-populisti e partiti politici hanno «colonizzato» a fasi alterne quello spazio di aggregazione, discussione, potere e controllo della società costituito dai gruppi secondari. Lo spazio che secondo Putnam e Durkheim dovrebbe avere la funzione di legare l’interesse individuale a quello collettivo. Non è un caso che il crollo dei partiti tradizionali (a causa della corruzione e della fine delle grandi ideologie), la perdita di potere contrattuale da parte del sindacato (a causa del cambiamento radicale del mondo del lavoro e delle relazioni industriali) e l’appannamento della leadership populista di Berlusconi, abbiano lasciato incustodito quello spazio intermedio tra individui e società, lo spazio che in molte nazioni è ben presidiato da gruppi secondari forti e svincolati dal potere politico. Quello spazio di pertinenza della cosiddetta «società civile», tante volte tirata in ballo nel dibattito pubblico – il più delle vol-

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te a sproposito – e messa in contrapposizione al potere politico. In realtà, non abbiamo bisogno che la società civile entri in politica sostituendo l’attuale classe dirigente ma che finalmente gruppi secondari di nuova generazione si strutturino per influenzare, monitorare e discutere con chi è preposto a fare politica. Certo esistono meccanismi perversi che ci hanno portato a selezionare una classe dirigente mediocre e gretta, ma le cose possono cambiare solamente grazie all’impegno della maggioranza dei cittadini. L’attivismo civico, canalizzato attraverso gruppi associativi secondari, è l’antidoto alla malapolitica, alla corruzione, all’individualismo imperante. Tuttavia, far crescere l’attivismo civico in un contesto socioeconomico così negativo e in un paese tradizionalmente poco propenso alla partecipazione associativa è un’operazione molto complessa. Per questa ragione abbiamo il dovere di provare a interrogarci sulle cause profonde che hanno generato una simile debolezza endemica, per poi successivamente avviare un processo virtuoso di lungo periodo. Un processo volto a dimostrare che la maggiore partecipazione civica ha una ricaduta positiva sulla collettività e sulla vita di ciascuno di noi. Di seguito vedremo come la debolezza dei gruppi secondari non sia semplicemente conseguenza di un certo sviluppo storico – secondo quanto teorizzato da Putnam in

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La tradizione civica delle regioni italiane e ripreso dal politologo statunitense Edward Banfield, il cui pensiero approfondiremo – ma un’emanazione diretta delle diffuse disuguaglianze economiche e sociali che attanagliano il nostro paese. L’«anomalia meridionale» Non c’è discussione sul capitale sociale nel nostro paese che non prenda le mosse dal Mezzogiorno. Il tema della mancanza di partecipazione associativa in quest’area meno sviluppata del paese è infatti legato a doppio filo alla questione meridionale. A partire dall’Unità d’Italia, centinaia e centinaia di scritti hanno spiegato le ragioni della differenza marcata con il Centro-nord e proposto soluzioni al problema. Da Franchetti e Sonnino a Gramsci e Salvemini, passando per Turiello, Dorso e Colajanni,11 in un dibattito che ha seguito l’evoluzione storica e politica del nostro paese. Non è certo l’obiettivo di questo capitolo riassumere o entrare direttamente in un simile dibattito;12 ci interrogheremo invece sulle

Per una sintesi di questi scritti vedi Massimo Luigi Salvatori, Il mito del buongoverno: la questione meridionale da Cavour a Gramsci, Einaudi, Torino 1981. 12 Per un’interessante sintesi della discussione vedi Il mito del buongoverno: la questione meridionale da Cavour a Gramsci, cit. e Piero Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale, Donzelli, Roma 2005. 11

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ragioni che rendono gli abitanti delle regioni meridionali, ancora oggi, meno propensi all’azione collettiva rispetto ai loro connazionali. Nel fare ciò rivisiteremo il lavoro di due studiosi che hanno profondamente influenzato il dibattito, mettendo a nudo alcune criticità e mostrando che nel meridione (così come in altre nazioni e luoghi), uno dei fattori principali per spiegare il basso livello di capitale sociale è la disuguaglianza. Banfield spiegò le condizioni di povertà estrema del Mezzogiorno con la mancanza di azione collettiva e partecipazione civica.13 La causa di questa mancanza sarebbe il «familismo amorale»: quella propensione specificamente meridionale a occuparsi solamente della famiglia nucleare a detrimento dell’utilità collettiva. Lo studioso americano riassunse così la sua teoria per spiegare il comportamento «deviante» dei meridionali: «Tutti gli individui cercheranno di massimizzare il vantaggio materiale di breve periodo della famiglia ristretta; assumendo che gli altri si comporteranno allo stesso modo». Dunque ciascuno agirà secondo questa logica perversa, distruggendo ogni opportunità di azione collettiva. Il familismo amorale costituirebbe una sorta di «peccato originale» che renderebbe la condizione del

Nel saggio del 1958 The moral basis of a beckward society. Vedi l’edizione italiana: Edward Christie Banfield, Le basi morali di una società arretrata, Il Mulino, Bologna 2010. 13

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Mezzogiorno pressoché immutabile. Banfield elaborò la sua teoria durante uno studio etnografico di nove mesi svolto in uno sperduto paesino lucano, situato nel Parco nazionale del Pollino (Chiaromonte, chiamato nel libro con il nome fittizio di Montegrano). Lo studioso aveva scelto quella cittadina priva di collegamenti come il paradigma della condizione meridionale. Era incuriosito infatti da come, in un paese relativamente sviluppato come l’Italia degli anni Cinquanta, persistessero sacche di povertà così ampie. Fu subito colpito, più che dalla povertà, dalla totale mancanza di partecipazione civica e condivisione degli abitanti; mancanza testimoniata dall’assenza di quotidiani locali, attività caritatevoli, associazioni, dalle pessime condizioni della scuola e dall’instabilità del voto politico. A suo avviso neanche la povertà estrema poteva giustificare quell’assenza totale di spirito civico nella popolazione. Qualcosa di insito nella cultura preveniva la gente dall’agire collettivamente per migliorare il benessere della comunità. Devo rimarcare che, così come nell’esempio di mio padre con il traffico e di Putnam con le istituzioni, Banfield si rifugiò nella cultura per spiegare alcuni comportamenti devianti; quasi come se essa fosse una variabile indipendente totalmente svincolata dallo sviluppo socioeconomico. Pensateci un attimo. Spesso nella vita di tutti i giorni, ascoltiamo espressioni del tipo «i meridionali sono culturalmente incapaci di cambiare le co-

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se», o ancora «gli italiani sono più disonesti dei cittadini nordeuropei e perciò evadono le tasse». Questo modo di ragionare, ben simboleggiato a livello accademico da Banfield e Putnam e molto vicino al senso comune dell’uomo della strada, pone due ordini di problemi: uno cognitivo e l’altro strettamente politico. Il problema cognitivo è che consideriamo la cultura una variabile indipendente per spiegare altri fenomeni e manifestazioni sociali (il capitale sociale o l’evasione fiscale dell’esempio). In realtà la cultura non è indipendente in senso assoluto: essa evolve nel tempo, cambiando anche in relazione all’azione delle istituzioni. Così come, allo stesso tempo, le istituzioni evolvono sulla base delle influenze culturali in un continuo processo di feedback. Considerate per esempio quanto è cambiata nel nostro paese la visione della famiglia e del ruolo della donna dal dopoguerra a oggi. Pur senza divenire veramente liberali, come gli abitanti dei paesi nordici, anche noi italiani abbiamo profondamente mutato la nostra visione sulla scia della modernizzazione socioeconomica del paese. Per questa ragione i valori culturali, così come la performance istituzionale o la dotazione di capitale sociale, possono radicalmente mutare nello spazio di qualche decade. Per di più, le spiegazioni culturali hanno un impatto profondo anche sul comportamento politico. Far passare il messaggio che nulla può

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cambiare, perché profondamente ancorato ai valori culturali tradizionali di una specifica area geografica, è funzionale alla strategia di chi vuole preservare una posizione di vantaggio sopprimendo le spinte progressiste di quanti si trovano in una condizione peggiore. Sin da bambino ho ascoltato da politici, parenti e amici, la litania che chi vuole cambiare nel Mezzogiorno è uno stolto: meglio assuefarsi al sistema e andare avanti secondo logiche clientelari e varie forme di corruttela, per non perdere qualche piccolo vantaggio. In fin dei conti che senso ha immolarsi come Don Chisciotte contro i mulini a vento, se nulla può cambiare? In questo modo l’immagine del Sud resta immutata, pietrificata, dai Malavoglia a Cristo si è fermato a Eboli, dalle Basi morali di una società arretrata a La tradizione civica delle regioni italiane; una terra dominata da un destino crudele e ineluttabile. In linea con questa visione semplicista, per Banfield gli abitanti di Montegrano, sulla base della loro «cultura familistica», agivano senza tener conto dell’utilità collettiva in uno stato di perenne paura e incertezza che spingeva anche i più deboli nella società a essere conservatori. La gente preferiva restare povera sottostando all’ordine presente, piuttosto che venire completamente rovinata da uno nuovo. Così, secondo Banfield, l’unica possibilità di cambiamento era l’avvento di un gruppo esterno, che avrebbe dovuto assumere la leadership nelle relazioni sociali tracciando

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un nuovo sentiero per i cittadini di quelle terre perennemente arretrate. Tuttavia, pur fornendo una possibilità di cambiamento, la conclusione della sua analisi rimase improntata al pessimismo: secondo lui la cultura presente tenderà a perpetuarsi a lungo, anche se molte delle circostanze che gli hanno dato origine spariranno o non opereranno nella stessa maniera. «Modi di pensare e valutare le cose stabilitisi nel tempo hanno una propria vita indipendente dalle particolari condizioni in cui si sono generati.» 14 La conclusione di Banfield e la sua abilità nel discutere un argomento così caro al mondo politico e accademico italiano, proponendo una chiave di lettura provocatoria, hanno contribuito a creare un acceso dibattito che continua ancora oggi. Trentacinque anni dopo lo studio di Banfield, Robert Putnam riprese a discutere tesi simili sostenendo che la causa principale della diversità tra Nord e Sud fosse la presenza/assenza di capitale sociale. Ancora una volta la cultura veniva messa al centro dello schema interpretativo per spiegare l’arretratezza del Mezzogiorno. Per verificare la sua teoria, Putnam estese lo studio di Banfield a tutte le regioni italiane, sostituendo l’osservazione etnografica con l’analisi statistica. Dallo studio emerse che la qualità della performance istituzionale delle varie regioni era più 14

Vedi Le basi morali di un società arretrata, cit.

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dipendente dalla partecipazione civica che dallo sviluppo socioeconomico, e per questa ragione il capitale sociale poteva essere considerato il fattore più importante per spiegare la diversa performance istituzionale nelle regioni italiane. Tuttavia Putnam per quanto concerneva lo studio delle variabili socioeconomiche si era limitato all’analisi della ricchezza pro capite, tralasciando la disuguaglianza. In realtà la disuguaglianza, come evidenziato da Tocqueville, è un fattore che impedisce la libera associazione tra gli individui: perché essi tendono naturalmente a costruire legami e connessioni primariamente con chi ha uno status socioeconomico simile. Quindi si può razionalmente sostenere che nelle società più egualitarie è più facile dare vita ad azioni collettive, creando con esse capitale sociale. A tale proposito è interessante notare che le regioni italiane dove le disuguaglianze economiche sono cresciute di più negli ultimi vent’anni, sono anche quelle con i livelli più bassi di capitale sociale.15 Calabria, Campania, Sicilia, Puglia, Molise, Abruzzo, Sardegna hanno i valori più bassi di capitale sociale e quelli più alti di crescita della disuguaglianza economica. Per questa ragione, in un paese caratterizzato da una profonda crisi a livello socioeconomico e in cui le diseguaglianze sono cresciute ovunque 15

Vedi Social capital and equality: Tocqueville’s legacy, cit.

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(diciotto regioni su venti),16 non si può non riflettere sugli effetti devastanti che tale elemento ha sul capitale sociale, e più in generale sulla propensione all’agire collettivo. Si è attribuito, e si continua ad attribuire, nel dibattito pubblico un peso eccessivo alle variabili culturali (giudicate immutabili) per spiegare il basso livello di capitale sociale (specie delle regioni meridionali) e la pessima performance istituzionale, mentre non si è riflettuto adeguatamente sulla crescita delle disuguaglianze. Uguaglianza e «riappropriazione della storia» Oltre agli studi empirici che hanno mostrato come le disuguaglianze impattino direttamente sulla presenza/assenza di capitale sociale nella popolazione, altri lavori accademici hanno parzialmente contraddetto le tesi di Banfield e Putnam.17 Se è vero che nelle regioni settentrionali esiste un livello di capitale sociale più alto rispetto a quelle meridionali, non si può certo dire che questa differenza dipenda direttamente da una diversa concezione della famiglia.

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Ibidem. Vedi Emanuele Ferragina, Il fantasma di Banfield: una verifica empirica della teoria del familismo amorale, «Stato & Mercato», 92, 2011. 17

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Il ruolo della famiglia nel Mezzogiorno è stato eccessivamente enfatizzato da Banfield, che ha interpretato l’atomizzazione individuale, la mancanza di strutture sociali e l’inefficienza del mercato come il prodotto esclusivo di una cultura familiare deviante. Altre ricerche etnografiche18 hanno evidenziato come la solidarietà all’interno del nucleo familiare sia più forte in altre nazioni europee rispetto al meridione italiano. In realtà non è che i meridionali siano «familisti amorali», piuttosto la famiglia è l’unico organismo che protegge l’individuo laddove le istituzioni latitano, lo Stato è assente, c’è un controllo straripante del potere criminale e manca mobilità sociale. Così gli individui si attaccano alla famiglia e la utilizzano per sopravvivere in un contesto problematico. Analizzando l’impatto della famiglia tradizionale su partecipazione sociale e sviluppo economico ci si rende conto delle fortissime differenze fra le regioni italiane. Nel meridione, dove gli interessi privati hanno teso a divergere da quelli collettivi, la partecipazione si è ridotta. Il familismo è così divenuto una sorta di «solidarietà obbligata», consentendo la partecipazione sul mercato del lavoro e assicurando contro il rischio di disoccupazione; tutto ciò ha implicato un alto livello di obbligazione reciproca tra i membri della fa-

Vedi Susan Berkowitz, Familism, kinship and sex roles in southern Italy, «Anthropological Quarterly», 57(2), 1984. 18

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miglia, con un effetto perverso sulla propensione all’azione collettiva.19 Nelle regioni nordorientali e centrali, dove gli interessi privati hanno teso a convergere con quelli collettivi, il modello familiare ha consentito lo sviluppo di un’organizzazione produttiva originale durante gli anni Sessanta e Settanta del Novecento.20 In breve, formazione dell’identità individuale e sviluppo collettivo non si integrano funzionalmente se la famiglia diventa l’unica «risorsa istituzionale» di cui gli individui dispongono per l’intero arco della vita. Si può quindi affermare che Banfield ha legato familismo amorale e meridione perché a Montegrano la famiglia era la sola istituzione a funzionare, tuttavia il suo ruolo preponderante non sembra essere il prodotto di un ethos culturale ma piuttosto uno stato di necessità. Alla luce di queste considerazioni, occorre chiedersi come mai Banfield e Putnam abbiano avuto così tanto successo anche senza mai dimostrare veramente i propri paradigmi culturali. Una possibile spiegazione è l’esistenza di una forte continuità tra l’immagine stereotipata del Sud costruita nei secoli e le loro conclusioni. L’immagine del Vedi Mauro Magatti ed Enzo Mingione, Strategie familiari e sviluppo, in Famiglia meridionale senza familismo, a cura di Benedetto Meloni, Meridiana Libri, Catanzaro 1997. 20 Vedi Arnaldo Bagnasco, Tre Italie, la problematica territoriale dello sviluppo economico italiano, Il Mulino, Bologna 1977. 19

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Mezzogiorno esotico e decadente è stata diffusa dai diari di insigni viaggiatori come Goethe («una terra del passato dove ogni cosa dorme») ed Elizabeth Barret Browning («per fortuna hanno grandi memorie, nient’altro vive»), così come da molti intellettuali italiani che, dopo l’unificazione, hanno riaffermato la visione di un Sud moralmente riprovevole.21 Per loro l’unica possibilità per risolvere la questione meridionale era l’intervento di un gruppo venuto da fuori. Le basi morali di una società arretrata – come poi La tradizione civica delle regioni italiane – ripropose questa visone: Montegrano era un paradiso perduto abitato da diavoli, e i suoi contadini il simbolo dell’arretratezza meridionale. La teoria sociologica e politologica veniva così a completare una sorta di «colonizzazione della mente» iniziata tre secoli prima, integrandosi armonicamente con la visione stereotipata che tutti hanno del Mezzogiorno. Dunque per cambiare le cose, oltre alla ridistribuzione,22 occorre avere il coraggio di tornare a guardare alla storia di quest’area del nostro paese, abbandonando una volta per tutte l’immagine di immutabile stabilità e assenza di partecipazione civica che se ne ha. Anche nel

Vedi, anche per le citazioni proposte, Nelson Moe, The view from Vesuvius, University of California Press, Berkeley 2006. 22 Necessità largamente dimostrata dagli studi empirici citati in precedenza. 21

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Mezzogiorno, così come nel settentrione, sono esistiti esempi di lotta e partecipazione civica. Voglio, per questa ragione, chiudere il capitolo proprio con l’esempio emblematico dei fasci siciliani, che dimostra quanto fallaci e semplicistiche siano le teorie di Banfield e Putnam. I fasci siciliani furono un movimento spontaneo e pacifico di rivolta contadina che si sviluppò in Sicilia nel biennio 1893-94. La descrizione di questo movimento assume un significato simbolico nella discussione sul capitale sociale nel Mezzogiorno, aiutandoci a riflettere su tre aspetti: 1) le visioni pregiudiziali della letteratura sociologica e politologica sul meridione, secondo cui gli abitanti di questa zona del paese non sarebbero mai stati capaci di dare vita ad azioni collettive, ma sarebbero solo un agente passivo dello sviluppo storico; 2) il ruolo negativo giocato dal governo, che non permise lo sviluppo di forme innovative di partecipazione civica; 3) l’opportunità di rileggere eventi storici per preservare la memoria di importanti azioni collettive. I fasci siciliani non furono una semplice ribellione, ma un vero e proprio movimento organizzato che destò grande impressione tra gli osservatori europei. L’esistenza di un moto così esteso e strutturato contraddice l’immagine del Mezzogiorno soggiogato e passivo descritta da Banfield

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e Putnam, in cui i cittadini non sarebbero mai stati coinvolti nella vita sociale e politica. Essi erano in realtà stanchi di subire uno Stato vestito solo da gabelliere e carabiniere, e per questo chiesero con forza l’impegno delle istituzioni per migliorare le proprie condizioni di lavoro. I fasci siciliani in questo senso non furono un movimento distruttivo ma di proposta pacifica e concreta. Un movimento basato sull’impegno collettivo, simboleggiato dall’occupazione delle terre e il consolidamento di un’organizzazione capillare. Dopo l’iniziale rivolta spontanea essi cominciarono a strutturarsi, con l’ambizioso obiettivo di ottenere una riforma agraria equa (che pure tardò più di cinquant’anni) da perseguire attraverso l’elezione di rappresentanti politici nei villaggi, nelle città e nel Parlamento nazionale. Grazie alla formulazione di una concreta strategia di lungo periodo, il movimento costituì una straordinaria occasione di socializzazione politica per i contadini: si trovarono finalmente nella posizione di sperimentare l’importanza della partecipazione democratica. L’occupazione delle terre fu un atto collettivo che coinvolse migliaia e migliaia di contadini (150.000 secondo le stime di Colajanni, 50.000 secondo quelle del governo 23 ) e centinaia di comunità fino a quel momento tagliate fuori dalla

Vedi Napoleone Colajanni, In Sicilia, gli avvenimenti e le cause, Perna, Messina 1995. 23

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vita sociale e politica. Era stato addirittura creato un sistema ad hoc per diffondersi in tutta la Sicilia rurale, esso prevedeva una sottoscrizione e una struttura di rappresentanza a cascata24 basata su forme di solidarietà e aiuto totalmente innovative nell’Italia di fine Ottocento (per esempio la distribuzione di parte delle sottoscrizioni alle vedove dei contadini uccisi dai padroni delle terre e dall’esercito). Un simile sviluppo di forme di solidarietà collettiva, basate sul principio di uguaglianza e la creazione di legami orizzontali, mostra una realtà ben diversa da quella semplicisticamente descritta da Putnam e Banfield: non tutti i meridionali erano familisti interessati solo al vantaggio individuale di breve periodo. Il governo si oppose con forza a questo movimento pacifico, supportando invece i proprietari terrieri nella loro lotta per la conservazione dello status quo, accrescendo così la sfiducia dei contadini nelle istituzioni. L’esercito represse nel sangue tutte le manifestazioni; come quando, il 20 gennaio del 1894 nel piccolo villaggio di Catavolturo, cinquecento contadini disarmati (imbracciavano solo i loro strumenti di lavoro) occuparono pacificamente la terra. L’esercito ne uccise tredici, senza alcun motivo. Colajanni calcolò che durante gli scioperi del 1893 e 1894, furono novantadue i

Per rappresentanza a cascata intendiamo una governance molto decentralizzata. 24

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contadini uccisi a fronte di un solo soldato, confermando il carattere pacifico della rivolta. Crispi, il primo ministro (fra l’altro anche lui siciliano, come i contadini barbaramente uccisi), usò documenti falsi in Parlamento per invocare un’azione coesa contro i fasci, che secondo lui erano la coda di una lunga cospirazione dei Borboni e dei briganti per staccare la Sicilia dal nascente Regno d’Italia.25 Questa cospirazione non fu mai provata. Il governo, sulla base delle argomentazioni di Crispi, non ascoltò le proposte dei contadini e rifiutò di intavolare una mediazione tra loro e i proprietari terrieri; il diritto allo sciopero non fu garantito e l’aumento dei miseri salari giornalieri neanche considerato come un’opzione percorribile. Le istituzioni non tennero conto del fatto che per la prima volta i contadini erano entrati coscientemente nella storia del loro paese. «Un movimento di espressione libera», così come lo battezzò Colajanni, fu annientato con la violenza; assieme a quei novantadue contadini indifesi vennero uccisi anche i germi di una rivoluzione civica e sociale che partiva dai più poveri. Quella repressione distrusse la potenziale creazione di una relazione dialettica tra potere pubblico e popolazione; i contadini non ebbero la possibilità di sperimentare in modo completo una nuova forma di organizzazione sociale e politica, che probabilmente avrebbe accresciuto la loro coscienza collettiva. Molti di essi si 25

Vedi In Sicilia, gli avvenimenti e le cause, cit.

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rinchiusero nell’idea, oggi così tristemente diffusa fra i meridionali, che la lotta politico-sociale per cambiare era inutile e pericolosa, e tornarono alle loro clientele e al familismo. Eppure questo esempio rimase un punto di riferimento costante nelle rivolte contadine del XX secolo. Le lotte continuarono in diverse forme anche dopo la Seconda guerra mondiale e contribuirono al cambiamento politico di certe aree del Mezzogiorno, confermando che i contadini non erano passivi e assenti come qualcuno vorrebbe farci credere. Le risposte istituzionali, però, restarono le stesse: la mattina del 28 novembre 1946, a Calabricata, Giuditta Levato fu barbaramente uccisa assieme al bambino che portava in grembo da sette mesi, per aver protestato contro le terribili condizioni di lavoro dei contadini delle zona. I fasci siciliani così come gli eventi di Calabricata, oggi quasi totalmente dimenticati nella narrazione storica del nostro paese, costituiscono uno straordinario esempio di partecipazione e impegno civico. I contadini avevano avuto il coraggio, partendo dalla loro uguaglianza di condizione, di sfidare con un’idea sovversiva tutto l’establishment del tempo: volevano sostituire alle relazioni verticali e clientelari quelle orizzontali e collettive. La rivalutazione storica di certi eventi, assieme all’impegno serio delle istituzioni per avviare un processo virtuoso di ridistribuzione della ricchezza e delle opportunità, potrebbe generare

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una crescita esponenziale della partecipazione politica e sociale. Esattamente quello di cui abbiamo bisogno per riformare il paese alla radice. La lezione dei fasci siciliani resta ancora valida più di un secolo dopo, e dimostra come il passato del nostro Mezzogiorno sia più complesso di quell’immagine passiva dipinta da molti studiosi. Forse allora le parole pronunciate da Giuditta Levato dovrebbero fare parte del nostro bagaglio culturale, per non dimenticare come anche nel meridione siano esistiti esempi concreti di voglia di libertà e cambiamento, venuti proprio dai più deboli e ignorati: Ho tutto dato io alla nostra causa, per i contadini, per la nostra idea; ho dato me stessa, la mia giovinezza: ho sacrificato la mia felicità di giovane sposa e di giovane mamma. Ai miei figli, essi sono piccoli e non capiscono ancora, dirai che io sono partita per un lungo viaggio ma ritornerò certamente, sicuramente. A mio padre, a mia madre, ai miei fratelli e alle mie sorelle, dirai che non voglio che mi piangano: voglio che combattano, combattano con me, più di me, per vendicarmi. A mio marito dirai che l’ho amato, e perciò muoio perché volevo un libero cittadino e non un reduce umiliato e offeso da quegli stessi agrari per cui ha tanto combattuto e sofferto…26

Vedi il sito http://emiliogrimaldi.blogspot.co.uk/2009/08/ giuditta-levato-di-calabricata-94-anni.html. 26

6 Per un federalismo solidale

Negli ultimi anni, la discussione sulla necessità di riformare le nostre istituzioni si è focalizzata prevalentemente sulla possibilità di responsabilizzare le regioni «meno virtuose» attraverso l’implementazione del federalismo fiscale,1 ignorando il tema delle diseguaglianze. In quest’ottica il federalismo è divenuto nel dibattito pubblico una sorta di panacea contro tutte le inefficienze, e il miglior disegno istituzionale per incentivare la partecipazione civica e ridurre gli sprechi della pubblica amministrazione. Tuttavia, una riforma organica della struttura istituzionale del nostro paese non può prescindere dal fatto che le regioni meridionali scontano un grave ritardo a livello socioeconomico e hanno una partecipazione civica tradizionalmente molto bassa. Non è un caso che nel disegnare il progetto della nuova Italia nel dopoguerra, i costituenti cercarono di tenere

Per federalismo fiscale si intende un decentramento delle funzioni fiscali dello Stato, primariamente riscossione e spesa dei tributi. 1

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conto di queste differenze, impegnandosi a limitare la proliferazione delle disuguaglianze economiche e sociali attraverso specifiche norme inserite nella Costituzione.2 La solidarietà fra le varie aree del paese e fra gli individui veniva promossa anche attraverso la parziale limitazione della libertà di iniziativa economica, quando essa si fosse trovata in contrasto con tale principio. Sulla scia dei valori fondanti della nostra Costituzione e sulla base dell’analisi del contesto socioeconomico italiano, credo fermamente in una riforma federale basata sull’idea di solidarietà piuttosto che su quella di competizione. Per inquadrare correttamente la questione, però, è necessario riassumere le principali riforme sul decentramento varate dal 1970 in poi e mostrare come il dibattito politico abbia privilegiato l’opportunismo particolaristico rispetto all’interesse generale, fossilizzandosi sull’idea di realizzare un federalismo fiscale competitivo e punitivo nei confronti del Mezzogiorno. Si devono poi analizzare le forti differenze nella spesa per le infrastrutture fra Centro-nord e Sud, in modo da comprendere a fondo quali possano essere le

Con l’adempimento dei doveri di solidarietà (art. 2), con la promozione dell’intervento del legislatore per rimuovere gli ostacoli economici e sociali che impediscono il pieno sviluppo della persona (art. 3), con il controllo dell’assolutezza dei principi della libera iniziativa economica (art. 41) e del godimento della proprietà privata (art. 42). 2

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correzioni adeguate da proporre; arriveremo così a supportare l’idea che la riforma federale debba essere basata sulla solidarietà fra le regioni e gli individui. Questo tipo di evoluzione richiederebbe una gestione centralizzata di alcune politiche di welfare, che hanno il potenziale per ridurre (o quanto meno contenere) le enormi disuguaglianze esistenti a livello regionale. Decentramento all’italiana Nei decenni successivi alla Costituente abbiamo assistito a diverse fasi di decentramento, caratterizzate da un progressivo trasferimento di funzioni e risorse dallo Stato alle regioni (e agli enti locali). Per la verità, l’idea del decentramento – e quindi anche quella di un’Italia federale – ha radici profonde. Cavour e Cattaneo già prima dell’unificazione avevano proposto due visioni alternative delle istituzioni. Da un lato Cavour, ispirato dal modello francese, era fautore di uno Stato centrale forte; dall’altro Cattaneo, ammiratore della Rivoluzione americana, si fece portavoce della necessità di costruire gli Stati Uniti d’Italia (all’interno degli Stati Uniti d’Europa). La visione del primo ministro del regno sabaudo prevalse, ma non si affermò la sua idea di Stato forte, capace di attivare lo sviluppo con azioni dirette in tutto il paese. Cattaneo fu riposto nel cassetto, per tornare d’attualità negli ultimi decenni sulla scia del processo d’integrazione europea.

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Per quanto concerne le regioni, da un punto di vista legislativo il loro riconoscimento formale avvenne solo con la promulgazione della Costituzione repubblicana; nella pratica, presero forma come organo politicamente eletto soltanto nel 1970. Da quel giorno i loro poteri sono cresciuti progressivamente, con un’accelerazione decisiva seguita alla riforma del titolo V della Costituzione approvata nel 2001. La legge di riforma costituzionale n. 3 del 2001, nel ridefinire l’ordinamento della repubblica in senso federale, ha attribuito infatti alle regioni nuove funzioni legislative e amministrative, oltre a un potere di autodeterminazione fiscale sia sul versante delle entrate che su quello delle spese.3 Ma non è il modello di un’Italia federale pensato da Cattaneo a ispirare le nuove tendenze istituzionali. Sebbene la riforma del 2001 sia stata approvata dal governo di Centrosinistra, ed esista una sostanziale convergenza tra gli schieramenti politici sul tema, in Italia la parola federalismo è associata a un movimento politico che è riuscito a emergere tra tutti gli altri grazie alla crisi del sistema partitico: la Il nuovo art. 119 (come modificato dall’art. 5 della legge costituzionale 3/2001) prevede infatti che «I comuni, le province, le città metropolitane e le regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa» [comma 1] e che gli stessi «hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al territorio» [comma 2]. 3

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Lega Nord. Al di là dei recenti scandali che l’hanno interessata, la Lega resta l’unico partito italiano a carattere chiaramente territoriale che possa vantare una cospicua e costante rappresentanza nel parlamento nazionale.4 Negli anni, Umberto Bossi e i suoi hanno strumentalizzato il dibattito sulla devoluzione dei poteri, facendo coincidere la necessità di una riforma federale con la frustrazione del Nord. La parola federalismo si è così spesso mescolata alla parola secessione e il Mezzogiorno, nei discorsi dei leader «padani», è divenuto una palla al piede sostenuta dall’assistenzialismo statale e dalla produttività del Nord. Allo stesso tempo, al Sud il federalismo fiscale è stato presentato come l’occasione di ridurre la distanza con le altre aree del paese, mediante la «responsabilizzazione degli enti locali». Responsabilità come parola cardine del nuovo assetto, dunque, meccanicamente sostituita a un’altra parola cardine del passato: solidarietà. Le ragioni teoriche a sostegno di tale visione non sono però un’invenzione italica: le ritroviamo tutte enunciate nel cosiddetto «federalismo competitivo». 5 Secondo questa teoria, un’or-

Le elezioni europee del maggio 2009 hanno visto il partito del Nord raggiungere un larghissimo consenso elettorale, anche sulla base della promulgazione della legge sul federalismo fiscale nel mese precedente (legge 42/2009). 5 Vedi Roberto Ezcurra e Andrés Rodríguez-Pose, Can the economic impact of political decentralisation be measured?, working 4

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ganizzazione federalista dello Stato metterebbe i livelli inferiori di governo in concorrenza tra loro e consentirebbe ai cittadini-elettori di incidere direttamente sulle decisioni politiche attraverso il voto. I teorici del federalismo competitivo ritengono quindi che il decentramento delle decisioni pubbliche (minimizzando la possibilità che politici guidati dai propri interessi «sfruttino» attraverso le tasse i cittadini) porterebbe a una più efficiente allocazione delle risorse. La realizzazione del federalismo competitivo, però, non esclude affatto la presenza di forti disparità di condizione tra individui e livelli inferiori di governo. Ed è proprio qui che questa discussione interseca la riflessione sulle disuguaglianze in Italia: quale assetto istituzionale è più adatto a limitare le disuguaglianze? E il federalismo fiscale, così come ci è stato proposto, aumenterà o diminuirà l’efficienza delle nostre istituzioni? Recentemente sono stati sollevati dei seri dubbi sulla capacità di un assetto federalista dello Stato di riequilibrare i tassi di sviluppo fra le diverse aree di un paese.6 In particolare, ci si è

paper n. 2011-02 dell’Instituto madrileño de estudios avanzados (Imdea) Ciencias sociales, 2011, consultabile al sito http://ideas. repec.org/p/imd/wpaper/wp2011-02.html. 6 Il citato Can the economic impact of political decentralisation be measured?, condotto su un campione di paesi Ocse, colma in parte il ritardo della letteratura empirica in materia e offre qualche

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interrogati sull’esistenza di una correlazione tra il grado di decentramento dei governi e il grado di disuguaglianza regionale all’interno del paese. A livello empirico, i paesi caratterizzati da un più elevato grado di decentramento del settore pubblico sono anche quelli con un maggiore differenziale di sviluppo tra le regioni. Sulla base di questi dati è legittimo supporre che un ulteriore accrescimento del decentramento fiscale in Italia non porterà una riduzione significativa delle disuguaglianze tra le regioni, ma anzi le accrescerà. Non ci si può attendere alcun miracolo dalla «responsabilizzazione» tramite il federalismo fiscale, in Italia, senza la predisposizione di misure specifiche volte a favorire lo sviluppo economico e sociale del Mezzogiorno. Quindi un federalismo fiscale senza strumenti correttivi sembra essere destinato ad accrescere le disuguaglianze e così condizionare negativamente anche la propensione dei cittadini a partecipare alla vita associativa.7 Il tutto proprio nelle regioni dove i livelli di partecipazione civica sono tradizionalmente più bassi. In questo senso, da un lato lo sviluppo delle regioni meridionali avrebbe dovuto essere posto come precondizione all’introduzione del federalismo fiscale in Italia; dall’altro, l’aver scelto una tale forma di organizzazione del settore pubblico costituisce una

indicazione interessante ai fini del nostro ragionamento. 7 In base ai meccanismi esposti nel capitolo precedente.

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forte spinta all’attivazione di politiche correttive per quest’area del paese. Un dibattito politico monco Nonostante esista un consenso quasi unanime sulla necessità di riformare le nostre istituzioni in chiave federale, sulla spinta del processo di integrazione europea, le proposte si sono susseguite all’interno di un dibattito schizofrenico che poco ha lasciato alla pianificazione di lungo periodo. Un dibattito in qualche modo «drogato» dalle rivendicazioni della Lega Nord. Il caso Lega può essere compreso guardando all’evoluzione di un altro paese europeo che si è trasformato progressivamente da Stato centrale a Stato federale: il Belgio. Qui le differenze etnico-linguistiche tra valloni e fiamminghi hanno contribuito significativamente alla progressiva trasformazione dell’intelaiatura istituzionale, da centralista a federalista.8 In Belgio la creazione di un doppio sistema partitico,9 inclusivo cioè di partiti diversi nelle due più grandi regioni,10 ha preceduto la riforma In quattro tappe, tra il 1970 e il 1993. Esistono cioè due partiti socialistici e due cristiano-democratici, uno in Fiandra e uno in Vallonia. 10 Occorre chiarire che il federalismo belga è basato sull’esistenza di tre comunità linguistiche (fiamminga, vallone e tedesca) e tre 8 9

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federale. Le tre grandi famiglie partitiche, quella liberale, quella socialista e quella cristiano-democratica, si sono divise (su base regionale) in seguito all’affermazione di due partiti a connotazione locale11 alle elezioni del 1961-65. Il loro successo elettorale dimostrò che una rappresentazione più strettamente legata al territorio fosse una carta vincente presso i cittadini. I leader dei principali partiti politici capirono quindi l’importanza di dare risposte connotate localmente, e ristrutturarono le proprie proposte in conseguenza di ciò.12 Il contesto italiano non è così polarizzato, ma l’esistenza di una forte frattura tra le aree del paese ha favorito l’ascesa di un partito come la Lega, contribuendo alla creazione di una coalizione di Centrodestra che ha partecipato spesso alle elezioni con due diverse composizioni al Nord e al Sud. L’esperimento parzialmente fallito del Movimento per le autonomie di Lombardo si ispira chiaramente a uno scenario politico «alla Belga». Dall’altra parte il Centrosinistra arranca, presentando un forte radicamento solo nelle regioni centrali, tradizionalmente vicine al Pci. Da questo punto di vista è possibile che il sistema politico italiano evolva in

regioni (Vallonia, Fiandra e Bruxelles capitale). Nel testo faremo riferimento a Fiandra e Vallonia parlando di regioni anche quando sarebbe più adatto usare il termine comunità, per non confondere il lettore. 11 Il Volksunie e il Rassemblement Wallone. 12 Esistono quindi per esempio i socialisti valloni e quelli fiamminghi.

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senso più federale, dato che la strategia della Lega e del Popolo delle libertà potrebbe essere imitata in futuro anche dal Centrosinistra (come suggerito da alcuni leader del Partito democratico). La riforma approvata nell’aprile del 2009 risente di questo clima, in cui i principali partiti politici sono sempre meno capaci di proporre strategie condivise a livello locale. In più l’unico partito che muove esplicitamente su logiche regionali ha un approccio totalmente asimmetrico, completando un quadro non favorevole alla proposta di riforme equilibrate. Si è così prodotto un dibattito monco: si parla di federalismo fiscale con un’ottica molto ristretta, punitiva nei confronti del Sud, mentre l’idea di federalismo istituzionale13 resta nel cassetto o viene sbandierata solo come propaganda elettorale. Razionalmente non si riesce a capire perché la decentralizzazione progressiva della riscossione dei tributi, peraltro già a uno stadio piuttosto avanzato, debba continuare a essere anteposta al riassetto politico e istituzionale. L’opportunismo politico sembra dominante rispetto alla creazione di un grande disegno di lungo periodo; un disegno che richie-

Il federalismo istituzionale implica un forte decentramento delle istituzioni e delle strutture di governo. Nei paesi che hanno un’architettura istituzionale basata su questo principio, una delle due Camere è eletta su base totalmente regionale (dando in alcuni casi, come in quello del Senato americano, una rappresentazione uguale a tutte le regioni a prescindere dal numero di abitanti). 13

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derebbe un processo costituente condiviso dalla maggior parte dei partiti, per il bene del paese. In merito alle innovazioni proposte dalla legge del 2009, occorre sottolineare come la bozza inizialmente proposta da Calderoli fosse molto più radicale.14 I leghisti tuttavia, per evitare contrasti con la ex maggioranza di governo, si accontentarono di una legge simile a quella proposta dal governo Prodi due anni prima. Va detto che allo stato attuale la legge è una mera enunciazione di principi: solo la sua attuazione nei prossimi anni ci darà la misura del reale cambiamento.15 La riforma si è articolata attorno a tre punti cardine. Prima di tutto, l’attribuzione agli enti locali del potere di imporre nuovi tributi; secondo, per ciò che concerne il finanziamento della spesa sanitaria, dell’istruzione e dell’assistenza, siamo passati dai costi storici a quelli standard;16 terzo, è stata

Per una sintesi delle disposizioni previste dalla bozza Calderoli vedi Emanuele Ferragina, Capitale sociale e Mezzogiorno. Federalismo, solidarietà e sussidiarietà, paper presentato alla terza Conferenza annuale Fondazione Field, 27 novembre 2009, e consultabile al sito http://www.emanueleferragina.com/attachments/002_5.%20Articolo_[field]_v5.pdf. 15 Sempre che questa attuazione proceda spedita nella situazione di completo caos e debolezza dei partiti che stiamo vivendo. 16 Con i costi storici, la spesa sociale veniva finanziata sulla base della media dei costi degli anni precedenti. Con i costi standard invece si calcola una media che viene soppesata sulle necessità di ogni territorio. 14

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prevista l’istituzione di un fondo perequativo,17 alimentato dalle regioni e monitorato da una conferenza della finanza pubblica,18 per la verifica delle eventuali richieste supplementari svolte dalle regioni. Nella genericità di questa legge esiste un elemento critico: il mancato riferimento all’idea di solidarietà e inclusione sociale (valori tenuti ben a mente dai costituenti). Ancora una volta, per comprendere la portata di questo principio possiamo fare riferimento al caso del Belgio, dove la riforma del 1993 ha attribuito la gestione della spesa sanitaria e dell’assistenza sociale al governo federale e non alle comunità o alle regioni. Esistono differenze nell’erogazione dei servizi, per adattarsi alle diverse esigenze dei valloni e dei fiamminghi, ma tutto è finanziato con il bilancio federale. Ciò comporta ovviamente un trasferimento diretto dalla ricca Fiandra alla meno abbiente Vallonia. I rappresentanti fiamminghi hanno più volte provato a proporre la federalizzazione anche di tali competenze, ma la presenza del diritto di veto da parte dei valloni ha sempre portato a prendere decisioni di compromesso in materia di politiche sociali. Così il principio di solidarietà si è affermato mantenendo saldamente le decisioni sul budget per Il fondo perequativo ha il compito di riequilibrare le risorse fra le regioni più ricche e quelle più povere. 18 Si tratta di una commissione interparlamentare preposta a calcolare i costi standard e stabilire i principi giuda per il fondo perequativo. 17

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l’assistenza sociale e la sanità al centro delle competenze federali. Questo principio tiene insieme la nazione belga (nonostante i recenti problemi a formare un governo nazionale), in un contesto in cui tutte le altre competenze (anche quella educativa) sono rigidamente divise. Il fatto che da noi tale principio sia sparito nell’ultima legge promulgata in materia di federalismo fiscale costituisce un forte elemento di preoccupazione, alla luce del gap socioeconomico esistente tra il Centro-nord e il Sud del paese. Politiche pubbliche e assenza di convergenza Come sottolineato nel capitolo precedente, l’Italia vive una situazione paradossale di assenza di convergenza tra le regioni, meglio nota come questione meridionale.19 Il divario tra Nord e Sud, in realtà, è spiegato prima di tutto da alcune precise scelte di investimento del governo centrale, che hanno sfavorito il Mezzogiorno.20 Se si considerano la costanza nei differenziali di

Per una chiara discussione del dibattito vedi Il mito del buongoverno: la questione meridionale da Cavour a Gramsci, cit. e Breve storia dell’Italia meridionale, cit. 20 Secondo la teoria economica tradizionale, se c’è un’area sottosviluppata all’interno di un paese, nel corso del tempo l’esistenza di un costo più basso del lavoro farà spostare molte attività produttive nell’area depressa, contribuendo a ridurre progressivamente il divario. 19

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crescita, le sperequazioni del sistema educativo, la concentrazione della povertà, l’emarginazione delle categorie più deboli nel mondo del lavoro, la disparità nella dotazione di strutture di assistenza, ci si accorge di una divergenza strutturale che non è stata mai ricomposta dalle politiche pubbliche, le quali anzi hanno contribuito ad accrescerlo. Il Pil tra il 2002 e il 200721 è cresciuto di più al Nord, e i livelli di istruzione secondaria restano più bassi al Sud. Nel Mezzogiorno circa il 25% dei giovani nella fascia di età compresa tra i 18 e i 24 anni possiede al più la licenza media, non ha concluso alcun iter professionalizzante e non frequenta corsi scolastici o attività formative, contro il 17% del Nord. Se si guarda al mondo dell’università, lo scenario cambia in modo quasi paradossale. Le regioni meridionali, infatti, hanno il numero più alto di immatricolati per abitante, in particolare la Calabria è in testa a questa graduatoria, ben al disopra della media nazionale. Il paradosso può essere spiegato considerando l’indice di autocontenimento degli studenti universitari22 e la tradizionale migrazione da sud verso nord. Tutte le regioni meridionali hanno più residenti iscritti all’università rispetto alla media nazionale, ma nello stesso

Consideriamo questo periodo perché precedente alla crisi economica. 22 Che misura quanto un sistema universitario regionale riesca a «trattenere» gli studenti residenti nel suo territorio. 21

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tempo tutte hanno dei saldi migratori negativi (a eccezione dell’Abruzzo). L’esodo dal Mezzogiorno continua, contribuendo economicamente e culturalmente ad alimentare il divario tra il Sud e il Centro-nord. La bassa presenza di iscritti nel settentrione è compensata dagli studenti che arrivano dal meridione, un po’ come succedeva con le fabbriche della Fiat nel passato. Ci ritroviamo in una situazione in cui l’istruzione professionale di base è molto più sviluppata al Nord mentre il Sud continua a «esportare» studenti, che spesso non tornano. Le regioni meridionali seguitano così a farsi carico del costo della formazione fino alla fine degli studi secondari, in seguito una parte rilevante di questi studenti consoliderà le proprie capacità professionali altrove, senza contribuire allo sviluppo del Mezzogiorno. Lo schema che si era sviluppato nel dopoguerra, con l’emigrazione di manodopera a basso costo dal Sud al Nord, è radicalmente cambiato ma continua a sfavorire il meridione, incapace di trattenere i suoi giovani più qualificati.23 Il divario tra Nord e Sud diventa ancora più evidente se si considerano i tassi di povertà. Nel 2007 il 65% delle famiglie indigenti del nostro

Questo fenomeno purtroppo esiste anche a livello nazionale: si tratta della cosiddetta «fuga dei cervelli». 23

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paese risiedeva al Sud e nelle isole. 24 Le famiglie al di sotto della soglia di povertà sono anche quelle che hanno un reddito proveniente dall’attività lavorativa più basso, in cui molto spesso uno o nessuno dei componenti ha un’occupazione fissa. Da questo punto di vista tale concentrazione della povertà può essere spiegata con l’incapacità del sistema di inserire i più deboli nel mondo del lavoro (donne, giovani, disoccupati di lungo periodo). Tra il 2000 e il 2008 la crescita dell’occupazione femminile nel Mezzogiorno è stata bassissima, passando dal 28,4% al 31,4% (rispetto al Nord in cui si è passati dal 49,7% al 56,1%), così che il differenziale tra le due aree del paese è salito da ventuno a venticinque punti percentuali.25 Questa situazione non potrà cambiare senza la creazione di infrastrutture che permettano la conciliazione del lavoro con la maternità, al di là dell’aiuto informale fornito dalla famiglia allargata. La percentuale di asili nido pubblici o privati convenzionati in Italia è bassissima, coprendo solamente l’11,1% degli aventi diritto, ma la situazione diventa ancora più grave se si considera che nel Mezzogiorno questo valore scende al 4,2%.26

Vedi il Rapporto annuale 2008 sugli interventi nelle aree sottoutilizzate del dipartimento per lo Sviluppo e la coesione economica, consultabile al sito http://www.dps.tesoro.it/rapporto_annuale_2008.asp. 25 Vedi Rapporto annuale 2008, cit. 26 Vedi Rapporto annuale 2008, cit. 24

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A fronte di tutto ciò, lo Stato continua a investire molto di più al Nord che al Sud, come dimostrato dalla spesa pubblica pro capite e dal differenziale di investimenti in conto capitale27 delle imprese nazionali.28 Se consideriamo il livello assoluto di spesa pro capite dello Stato tra il 1996 e il 2007 troviamo mediamente 14.349 euro per ogni cittadino del Centro-nord e solo 10.195 per uno del Sud.29 Questa gestione della spesa non aiuta certo le regioni meridionali a recuperare il loro gap. Lo svantaggio relativo del Sud in termini di investimenti è ancora più marcato se si considera la spesa pubblica in conto capitale delle imprese nazionali,30 ovvero quelle che fanno i grandi investimenti infrastrutturali (strade, ferrovie, energia, comunicazioni). Solamente l’Anas negli ultimi anni sta investendo più al Sud che al Nord, l’Eni si attesta su un livello di spesa in linea con la popolazione meridionale, ma tutte le altre (ferrovie e aziende ex Iri) investono considerevolmente meno, addirittura al di sotto del valore del Pil pro capite prodotto dal Sud. La situazione rispetto al passato non è migliorata: se si compara la quantità di investimenti tra il

L’investimento in conto capitale è un contributo a fondo perduto. Di solito per misurare la quantità d’investimento pubblico si considera la spesa in percentuale del Pil pro capite; tuttavia, questo indicatore risponde bene alla descrizione di contesti piuttosto omogenei, non certo del nostro paese. 29 Vedi Rapporto annuale 2008, cit. 30 Vedi Rapporto annuale 2008, cit. 27

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1996 e il 2007 si nota che solo l’Anas e le Poste hanno accresciuto la loro proporzione di spesa nel Mezzogiorno, resta stabile l’Eni, mentre le altre l’hanno addirittura ridotta.31 L’analisi di questi dati dimostra come retorica politica e realtà nel nostro paese siano spesso divergenti. Il Sud è sempre stato svantaggiato, lo Stato ha sempre investito di più al Nord e quando ha investito nel Mezzogiorno lo ha fatto male: in modo discontinuo e clientelare. Questi dati sono importanti, perché rilevano come continuare a discutere di federalismo fiscale invece che di quello istituzionale sia solo uno specchietto per le allodole; un modo per rispondere nel breve periodo alla frustrazione delle regioni settentrionali senza interessarsi alla risoluzione dei problemi strutturali che attanagliano il nostro paese. Nel rapporto annuale del dipartimento per lo Sviluppo e la coesione economica, redatto per conto del ministero delle Attività produttive nel 2008, si afferma chiaramente che: «Il dibattito in corso su decentramento amministrativo e federalismo fiscale non è sempre fondato su evidenze empiriche certe e soprattutto su un uso corretto delle informazioni disponibili».32 In effetti in Italia esiste, dalla riforma del 2001, una decentralizzazione della spesa e della riscossione

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Vedi Rapporto annuale 2008, cit. Vedi Rapporto annuale 2008, cit.

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dei tributi superiore a molti paesi europei con sistemi federali o fortemente regionalizzati (come Germania, Austria e Spagna). Inoltre dal 2007 le amministrazioni decentrate raccolgono più del 30% delle entrate tributarie che, per la prima volta, sono state superiori alle spese. Dopo aver costantemente decentralizzato la spesa negli ultimi anni, quello di cui abbiamo bisogno è una nuova intelaiatura istituzionale che risponda alle esigenze create dal decentramento finanziario, che lanci una visione solidale della gestione dello Stato e che risponda ai problemi socioeconomici del Mezzogiorno accrescendo l’efficienza e la competitività del paese. Un decentramento solidale La gestione delle politiche di welfare, in particolare nel settore dell’assistenza e della cura sanitaria, costituisce un ambito fondamentale attraverso cui uno Stato può creare meccanismi di solidarietà, trasferendo risorse dai cittadini più ricchi a quelli più poveri e – nel caso italiano – dalle regioni più ricche a quelle più povere. Come discusso in precedenza per il caso belga, queste politiche costituiscono un potente collante su cui posa lo spirito di solidarietà nazionale, anche in presenza di grandi differenze etnico-linguistiche. L’insegnamento che si può trarre è che un’eventuale negazione di questo principio potrebbe avere effetti devastanti, sul Mezzogiorno ma non

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solo. In questo senso, unicamente una riforma federale provvista di adeguati pesi e contrappesi potrà permettere alle zone più deboli di esprimersi e accrescere la propria efficienza. Limitarsi al decentramento fiscale non risolve il problema, e può potenzialmente solo aggravarlo. Passare dai costi storici a quelli standard, per quanto positivo per ridurre gli sprechi, non significa «federare» il paese: imporre un costo standard per un certo tipo di prestazione ha poco senso e va contro l’idea stessa di federalismo e autoregolazione, perché ogni regione dovrebbe poter adattare i suoi servizi a un contesto diverso. Bisognerà augurarsi che, in fase di implementazione della legge, i costi standard non vengano branditi come una scure per tagliare servizi di assistenza necessari nelle regioni più povere. Come abbiamo sottolineato in precedenza la crescita della disuguaglianza economica contribuisce a ridurre il capitale sociale di un territorio.33 In questo senso, l’obiettivo della riforma federale dovrebbe essere l’allocazione più efficiente della spesa, con lo scopo di ridurre le disuguaglianze per creare un ambiente più propizio alla sviluppo economico. L’idea di accrescere la competitività di un’area svantaggiata come il Mezzogiorno (dove le disuguaglianze sono più elevate rispetto alle regioni settentrionali), in assenza di coesione 33

Vedi Social capital and equality: Tocqueville’s legacy, cit.

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sociale è un mero richiamo retorico. Per uscire da questa impasse occorre prima di tutto riformare le istituzioni senza tentennamenti e «federare» il paese saldando la sussidiarietà verticale e quella orizzontale. La sussidiarietà verticale può essere garantita da istituzioni federali capaci di attribuire al giusto livello decisionale il potere per intervenire. La sussidiarietà orizzontale, che altro non è che la solidarietà, deve portare al mantenimento della gestione centralizzata delle principali politiche di assistenza, contribuendo così a ridurre progressivamente le disuguaglianze. La riforma federale dello Stato porterà benefici al nostro paese solo se l’attuazione a livello fiscale sarà completata da quella istituzionale, prestando attenzione alle esigenze delle regioni e dei soggetti più deboli. Non occorre sostituire all’assistenzialismo un approccio punitivo, ma interrogarsi sulla possibilità di creare meccanismi di «solidarietà responsabile». Non esiste libertà dove non c’è solidarietà e uguaglianza nelle condizioni di accesso ai servizi fondamentali; non esiste competizione dove non vi sono regole condivise. È come se volessimo partecipare a una gara automobilistica con una Cinquecento scassata contro Ferrari e Lamborghini di ultima generazione.34

Il Sud ha un grande bisogno di investimenti, ma le passate logiche di spesa vanno invertite. Non servono solo trasferimenti monetari alle famiglie meridionali, ma infrastrutture. E per infrastruttu34

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Come rilevò il grande politologo francese Alexis de Tocqueville oltre centosessant’anni fa: «Fra le nuove cose che attrassero di più la mia attenzione durante il mio soggiorno negli Stati Uniti, niente mi colpì di più dell’uguaglianza di condizioni […]. Più avanzavo nello studio della società americana, più percepivo che l’uguaglianza di condizioni è il fatto fondamentale dal quale tutti gli altri sembrano derivare, e il punto centrale al quale costantemente tutte le mie osservazioni terminano».35 Lo scrittore che maggiormente enfatizzò l’importanza del governo decentrato e delle relazioni orizzontali tra gli individui aveva intuito come non si possa costruire una società coesa senza uguagliare le condizioni d’accesso. Non è un caso che il padre del federalismo italiano, Carlo Cattaneo, fosse affascinato dall’opera immortale di Alexis de Tocqueville. Il pensiero di Cattaneo in questi anni è stato spesso volgarizzato, travisato e mal compreso. Lo scrittore lombardo non ha mai sposato l’idea di federalismo come sistema per far prevalere gli interessi particolari e localistici su quelli nazionali, ma lo vedeva come la forma di governo migliore

re si intende anche la creazione di servizi alla persona. Un esempio su tutti quello degli asili nido, senza i quali si mette a dura prova la possibilità per le donne di conciliare la maternità con il lavoro. 35 Nel suo saggio del 1835 De la démocratic en Amérique. Vedi l’edizione italiana: Alexis de Tocqueville, La democrazia in America, Bur, Milano 1999.

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per consolidare l’unità del paese. Il suo pensiero può essere letto alla luce della teoria del capitale sociale, nell’ambito di una struttura istituzionale federale riformata, nella quale i valori di solidarietà e sussidiarietà si fondano con quelli della libertà di adesione e iniziativa economica: «Il male non si è che il principio federativo non abbia una rappresentanza, ma bensì che non sia ancora popolarmente spiegato e popolarmente compreso. Siccome viene contrapposto alla pretesa unità, si cade facilmente a crederlo un principio d’isolamento e di separazione».36

Lettera di Carlo Cattaneo a Giuseppe Ferrari, del 29 ottobre 1851. Vedi Carlo Cattaneo, Carteggi. 1. Lettere di Cattaneo, vol. II: 16 marzo 1848-1851, Le Monnier, Firenze 2005. 36

Conclusione: riflessioni a margine del Condominio Italia

Mi è sempre piaciuto immaginare l’Italia come un condominio, e gli italiani come i suoi inquilini. Una rappresentazione di quelle facce, quelle storie, quelle individualità, quei personaggi che si incontrano nella vita di tutti i giorni e che insieme costituiscono ciò che chiamiamo società. Discutendo con loro, osservandone le differenze e i comportamenti – a volte virtuosi, a volte meschini – ti rendi conto che tutti possiamo contribuire a cambiare le cose. E cambiarle partendo da piccole azioni: microfratture in grado di scardinare un sistema tutto sbagliato perché fondato sulle disuguaglianze. Immaginate, per esempio, un lungo processo che porti gli abitanti del condominio, il Condominio Italia, a pianificare e realizzare una complessa ma finalmente condivisa ristrutturazione. Immaginate persone che a malapena si salutavano incrociandosi per le scale, sedersi intorno a un tavolo mettendo da parte piccoli interessi personali per raggiungere un risultato comune. Una vittoria dello spirito collettivo sull’individualismo bieco

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e spicciolo. Immaginate che la ristrutturazione possa prendere avvio ridistribuendo i costi sulla base della situazione economica e patrimoniale di ogni singolo inquilino. Certo questa soluzione farebbe storcere il naso ai «notabili» del palazzo, ma poi costituirebbe il fondamento per un accordo equo, capace di far realizzare gli interventi a lungo attesi. E allora, la metafora del Condominio Italia segna la strada da seguire: ridurre le disuguaglianze per riformare il paese e renderlo più funzionale. Il luogo più affascinante del Condominio Italia è la terrazza. Abbandonata alle intemperie dai suoi inquilini, se ne sta lì attendendo la ristrutturazione. Appesa al nono piano la terrazza, per quanto scarna e malmessa, è spaziosa, soleggiata e permette allo sguardo di vagare sulla città. Appollaiati lassù si può riguadagnare una visione unitaria del paese, distaccandosi da una prospettiva semplicistica e individualista. Ci si può sporgere a osservare vite possibili che si affastellano; immaginare come quella periferia, quella città, quel paese così bello, disorganizzato e ingiusto possano cambiare. Da lassù ci si rende conto che la situazione è complessa: i cambiamenti non avverranno da un giorno all’altro. Serve un percorso lento, graduale e condiviso: non rotture sistemiche improvvise ma l’accettazione progressiva di un principio comune. Quel principio comune è la ridistribuzione. La ridistribuzione per cambiare la sorte degli individui, la ridistribuzione

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per ristrutturare il Condominio Italia, la ridistribuzione per scardinare alla radice i meccanismi perversi che impediscono al paese di evolvere e prosperare. Considerate Roma. Una città certo bellissima, ma asfittica, nella quale è difficile muoversi: le persone hanno meno spazio delle macchine. Una città in cui è difficilissimo trovare un lavoro decente che permetta di fare fronte alle spese di ogni mese. Far ripartire il paese significa ripensare anche lo spazio urbano. Dobbiamo considerare la città come un laboratorio permanente, un punto focale di attrazione per gente che arriva da ogni dove con il suo bagaglio di idee ed esperienze. Viviamo ormai un conformismo monotono in cui diventa difficile innovare e provare nuove strade. Così molte energie non trovano spazio e vengono relegate ai margini, con persone incredibilmente qualificate e creative che si trovano a dover scegliere tra vite che non vogliono vivere e l’esodo. E allora serve trasformare anche le nostre città in luoghi d’innovazione e scambio. Luoghi da cui ripartire per rendere la società più egualitaria e aperta. Non basta limitarsi alle politiche strutturali – pur importanti, e tema centrale di questo libro – ma bisogna ragionare su più livelli, aprendosi al dibattito anche localmente, in ogni città e quartiere. Si deve, per forza di cose, coniugare la dimensione redistributiva ed egualitaria suggerita in questo scritto con le piccole azioni. Creare per

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esempio fondi a partecipazione pubblica e privata, ai quali ogni città possa accedere attraverso la presentazione di progetti dai risvolti innovativi e sociali. Conosco tantissime persone che non vedono l’ora di progettare gratuitamente per la loro città, e ci sono in giro per il mondo idee incredibili a cui ispirarsi. Orti urbani, progetti di «social housing»,1 costruzioni ecosostenibili, creazione di spazi sportivi o aree di incontro in fabbricati dismessi. Diamo sfogo alla sperimentazione e riproponiamo poi, in altri contesti, le iniziative che funzionano e hanno un costo basso per la collettività. Certo non risolveremo tutti gli annosi problemi del nostro paese, ma rilanciare l’idea delle città come spazio creativo e sociale, al di là dei progetti europei e delle politiche tradizionali, potrebbe avere un impatto rilevante. Il rilancio di aree in crisi, il richiamo alla partecipazione e alla collaborazione sulla base di una cittadinanza più attiva, la creazione di nuovi e impensati canali di sviluppo, l’attrazione di personalità eccentriche e originali, sono piccoli passi per rendere le città più interessanti e il nostro paese meno provinciale e ripiegato su se stesso. Nel film I cento passi di Marco Tullio Giordana, Peppino Impastato faceva un discorso inoppu-

Ovvero politiche volte a garantire affitti economicamente agevolati ad alcune categorie disagiate. Si è già evidenziato che spendiamo una cifra irrisoria nelle politiche per la casa. 1

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gnabile: a furia di osservare le molteplici brutture che caratterizzano le nostre periferie, le nostre città, il nostro paese, finisci tuo malgrado per convincerti piano piano che tutte le cose hanno una loro logica, una giustificazione per il solo fatto di esistere. «Fanno ’ste case schifose con le finestre in alluminio, i muri di mattone vivo, i balconcini. Poi la gente ci va ad abitare, ci mette le tendine, i fiori, i gerani, e dopo un po’ tutto fa parte del paesaggio. C’è, esiste, nessuno si ricorda più di come era prima o immagina come avrebbe potuto essere.» Come avrebbe potuto essere tutto più bello, tutto più funzionale. Non ci vuole nulla a distruggere la bellezza, o peggio ancora a dimenticarne l’importanza. L’Italia è proprio così. Viviamo in un paese bellissimo ma lo saccheggiamo continuamente. Il degrado urbano è solo una delle tante forme di quello sociale che ci attanaglia. Ci siamo assuefatti a ogni sorta di bruttura e stortura: dalle case con le finestre in alluminio alla disuguaglianza diffusa. Un giorno dopo l’altro, un anno dopo l’altro, tutte le storture sono diventate parte di un sistema immutabile. O meglio: un sistema che crediamo immutabile. Ci viene insegnato sin dalla più tenera età che chi vuole contribuire a cambiare le cose, specie nel Mezzogiorno, è nella migliore delle ipotesi un povero illuso innamorato di sogni irrealizzabili, e nella peggiore un pazzo senza cognizione della realtà in cui vive. Non ci stupisce più né l’evasione fiscale né il lavoro nero; diventano quasi la normalità in un pa-

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ese soffocato da lacci e lacciuoli, complicazioni burocratiche e una tassazione d’impresa esorbitante. Non ci stupisce più che gli ordini professionali abbiano come fine principale di protrarre il controllo di pochi privilegiati, anziché tutelare il consumatore e chi cerca affannosamente di entrare a farne parte sulla base di una qualifica acquisita con anni di studio e sacrifici. Non ci stupisce più che lo stato sociale accresca le disuguaglianze invece di ridurle, né l’esistenza di pensioni d’oro assegnate a chi ha versato la metà di quanto riceve, mentre i giovani precari vengono sacrificati sull’altare della flessibilità. Non ci stupiscono più le disuguaglianze regionali o la questione meridionale, come se fosse normale che una madre di Catanzaro non abbia il diritto di portare suo figlio all’asilo nido per essere indipendente dalla sua famiglia e attiva sul mercato del lavoro. Ammesso che oggi, a Catanzaro, una donna possa trovarlo un lavoro decente. Già, non ci vuole proprio nulla a distruggere la bellezza, o peggio ancora a dimenticarne l’importanza. Così come non ci vuole nulla a dimenticare quanto sia importante l’uguaglianza di condizione e di opportunità per costruire un paese sano. Oltre all’importanza della coscienza di classe e delle manifestazioni, forse bisognerebbe ricordare a tutti quanti, specie a chi si professa progressista, quanto è gratificante vivere in un paese dove si cura il bello e si combattono le disuguaglianze. Dovremmo ricordare a tutti quan-

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to è bello affacciarsi da una terrazza e osservare che le cose stanno migliorando, che la gente nel suo affaccendarsi quotidiano non si è dimenticata degli altri; perché per vivere meglio e in pace con se stessi è fondamentale che stia bene anche chi ci sta intorno. Il problema vero è proprio questo: ci limitiamo alle invettive, tutti, a Destra come a Sinistra; reazionari contro rivoluzionari, ma mai disposti a sacrificare quanto ci è stato ingiustamente attribuito a spese della collettività per rendere il paese in cui viviamo più egualitario e funzionale. Rinuncerebbero i nostri pensionati più ricchi a una piccola parte della loro pensione per pagare il sussidio di un trentenne disoccupato? Rinuncerebbero i membri degli ordini professionali a parte delle loro rendite di posizione per far inserire sul mercato del lavoro giovani e valenti professionisti? Io credo che queste siano le domande da porci, che da questo dovremmo partire per scardinare il sistema ingiusto nel quale viviamo. Non aspettare una marcia collettiva verso il nirvana, ma cominciare nel nostro piccolo; mentre gli altri, quelli «furbi», si prenderanno gioco di noi. Per farlo, però, serve un principio, una guida, un obiettivo alto verso cui tendere. Un obiettivo verso cui molti possano pian piano incamminarsi per convincimento razionale. Avviare le nostre piccole azioni, così come le riforme sostanziali di cui il paese ha bisogno, partendo dall’idea di uguaglianza. Iniziare a convincerci

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che solo la ridistribuzione salverà questo paese dal fallimento economico e sociale. Ridistribuire non solo per ragioni ideologiche ma anche e soprattutto per raggiungere una maggiore efficienza del sistema-paese. Ridistribuire la tassazione da imprese e lavoro al patrimonio; ridistribuire le opportunità lavorative a livello generazionale scoraggiando i comportamenti opportunistici di chi ha una posizione di mercato dominante; ridistribuire parte di floride pensioni a lavoratori precari e disoccupati che prima o poi meriterebbero da questo paese uno straccio di opportunità. Perché seguire il principio di uguaglianza non vuol dire diventare tutti uguali, come qualcuno vorrebbe farci credere, ma essere messi tutti nella condizione di esercitare i nostri diritti di cittadinanza. L’imprenditore di Trecate così come il disoccupato di Firenze, il pensionato privilegiato di Palermo così come il precario di Torino. L’uguaglianza come antidoto all’inefficienza: un programma per l’Italia che (forse) verrà Nei precedenti capitoli ho discusso cinque aree di intervento – riforme sostanziali della struttura socioeconomica di questo paese – raccordate dal principio di uguaglianza. In questa conclusione credo sia importante richiamare le policy proposte a vario titolo, aprendo anche ad altri settori

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di intervento. Settori non per forza direttamente connessi al principio di uguaglianza, ma comunque funzionali all’agenda che ho delineato nel corso del libro. La prima area di intervento è quella degli ordini professionali. Come detto, il 28% dei laureati italiani – la forza lavoro più qualificata del paese – ne fa parte. Gli ordini dovrebbero regolare mercati asimmetrici per agevolare le scelte di ogni consumatore. Purtroppo però troppo spesso non svolgono questa funzione: sono diventati negli anni uno strumento in mano a ristrette lobby, che difendono immeritate rendite di posizione e si disinteressano del consumatore e dei giovani che vogliono accedere alla professione. Così gli ordini inducono spesso anche a sperperare talento: tanti giovani laureati rinunciano a provare l’accesso a un ordine, partendo per paesi dove questo problema non esiste; molti altri scelgono diversi percorsi professionali, perché conoscono la gara a ostacoli che li attenderebbe per costruire una posizione professionale senza appoggi familiari. Ed è qui che la discussione sugli ordini professionali interseca quella sulla «fuga dei cervelli». La stragrande maggioranza di coloro che emigrano non sono disoccupati a bassa qualifica come accadeva in passato, ma laureati. Come dire: dalla valigia di cartone alla ventiquattrore, dalla manovalanza non qualificata alle competenze high-tech. Il flusso in uscita «di cervelli», senza

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un adeguato ricambio di giovani qualificati in entrata, è un problema gravissimo che riduce la competitività del nostro paese. Spendiamo fior di quattrini per formare giovani qualificati che poi perdiamo ogni anno per un tozzo di pane, visto che paesi più competitivi del nostro, in Europa e nel mondo, possono rapidamente impiegarli e renderli produttivi. Da noi, invece, un giovane laureato – italiano o straniero – trova barriere assurde, proprio come quelle costituite dagli ordini (che certo non sono le sole). Chiedetevi perché in Inghilterra capita spesso di essere curati da un medico italiano o indiano, mentre succede molto più raramente qui da noi. Siamo il terzo paese del mondo per complessità di accesso alla professione. Tutti i nostri partner commerciali forniscono ai loro giovani – e ormai anche ai nostri – una via d’accesso più agevole. Non è un caso che le autorità preposte a vigilare sulla concorrenza in Italia e in Europa abbiano più volte evidenziato come gli standard italiani siano troppo restrittivi, favorendo chi è già membro di un ordine e svantaggiando chi vorrebbe entrare a farne parte sulla base di competenze acquisite in un lungo percorso di formazione. Anche per questa ragione, oltre che per tutte quelle già evidenziate, credo fermamente che gli ordini professionali vadano modificati – e non smantellati come propone qualcuno senza considerare il loro potenziale in difesa del consumatore – abolendo tutte le norme che proteggono le rendite

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di posizione dei membri, e favorendo così l’interesse collettivo. Questo suggerimento di policy deriva dall’osservazione di studi economici e dati empirici che hanno dimostrato l’esistenza di pratiche distorsive della concorrenza all’interno degli ordini professionali. Incentivare la concorrenza significherebbe in tal senso accrescere anche l’uguaglianza nelle condizioni di accesso, consentendo a molti giovani di fornire servizi migliori a prezzi più bassi. Non è più possibile permettere agli ordini di imporre tariffe minime: i giovani professionisti devono poter competere sul mercato con quelli più anziani anche sulla base del prezzo. Solo così potranno affacciarsi serenamente sul nostro mercato e crearsi un adeguato portafoglio clienti, mentre i consumatori usufruiranno di tariffe più basse. La seconda area di intervento è quella della previdenza sociale e del welfare state più in generale. C’è la necessità di ridurre la «spesa per il passato» e accrescere quella per il futuro. Ho già ricordato come in Italia la spesa sociale sia in linea con la media europea (poco meno del 25% del Pil), ma è ormai evidente che la parte dedicata alle pensioni di anzianità è troppo elevata rispetto a quella consacrata all’aiuto di giovani, bambini, disoccupati, donne, immigrati e persone che hanno problemi ad affittare un’abitazione. Credo fermamente che si debba ancora intervenire sugli eccessivi privilegi garantiti a una piccola minoranza di pensionati (coloro i quali

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hanno una pensione superiore ai duemila euro) per liberare risorse da allocare alle politiche familiari e per il lavoro. Inoltre le forze che si definiscono progressiste nel nostro paese (sindacati in primis) hanno soprattutto difeso i diritti acquisiti da chi ha iniziato a lavorare prima del 1978 ed è stato escluso da buona parte delle riforme pensionistiche, abbandonando al loro destino i lavoratori che hanno cominciato dopo il 1996. Una nuova agenda progressista non può che partire da un ribaltamento di questa logica: ridurre i privilegi di chi riceve laute pensioni e usare i soldi ricavati per altre politiche sociali. Se vogliamo rendere il paese più egualitario dobbiamo per forza di cose prelevare da chi ha ricevuto e riceve troppo e ridistribuire alle categorie che oggi soffrono di più: i giovani precari e i disoccupati, che tutte le recenti riforme sembrano dimenticare ma che costituiscono il futuro del nostro paese. Così arriviamo alla terza area di intervento: quella delle politiche per il lavoro. Nel 2012 si è discusso (governo, partiti, sindacati, Confindustria) principalmente di articolo 18 e licenziamenti facili. Come se ci confrontassimo con un mercato del lavoro in cui tutti hanno un contratto a tempo indeterminato, con protezioni da ridurre secondo alcuni o da difendere secondo altri. Si tratta di una discussione miope, in cui ci si è arroccati su vecchi vessilli per «mobilitare le truppe» e ci si è

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completamente dimenticati di milioni di giovani precari a cui l’articolo 18 non si applica. Ne è venuta fuori una riforma che serve a poco, perché non affronta i due problemi più gravi: il dualismo insiders/outsiders e l’eccessiva opacità di regole e burocrazia che impediscono la creazione e la crescita delle imprese sul territorio nazionale. Bisogna riformare la protezione sociale sul mercato del lavoro tenendo presenti le condizioni reali. Seguendo un modello che ha avuto un successo considerevole in molti paesi europei, ho proposto di farlo attraverso due policy specifiche: il reddito minimo garantito e gli ammortizzatori universali per i disoccupati (andando tra l’altro ben oltre l’Aspi introdotta dal governo Monti). Il reddito minimo è una garanzia di inclusione sociale per ogni cittadino. Tutti i paesi europei, a eccezione di Italia e Grecia, lo hanno istituito anche in risposta alle pressanti richieste dell’Unione Europea. Tra l’altro l’introduzione di questa politica di protezione sociale avrebbe un costo limitato, dato che si tratterebbe semplicemente di armonizzare gli sforzi messi in campo da molte regioni. A tale intervento andrebbe affiancato un sussidio universale di disoccupazione, volto a incentivare l’attuazione di politiche attive sul mercato del lavoro. Tali politiche sono state utilizzate con successo, specie nei paesi scandinavi, per proteggere contro il rischio di disoccupazione e allo stesso tempo accrescere la produttività del

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lavoro (la bassa produttività del lavoro è uno dei principali problemi macroeconomici del nostro paese). Implementare politiche di questo genere significa superare la vecchia visione di un welfare assistenzialista, per abbracciarne una nuova: un welfare attivo, capace di proteggere i disoccupati ma anche migliorare la performance complessiva del sistema socioeconomico. Spendiamo circa 240 miliardi di euro per le pensioni, mentre proteggere adeguatamente i lavoratori contro il rischio di disoccupazione e fornire un reddito minimo contro la povertà costerebbe una cifra inferiore a 20 miliardi di euro, meno di un dodicesimo, meno dell’8%. Tassando in modo aggiuntivo chi gode di una lauta pensione sarebbe funzionale a proteggere e formare chi oggi arranca sotto il peso della crisi economica senza alcun tipo di ammortizzatore sociale. La creazione di un ammortizzatore universale di disoccupazione sarebbe funzionale anche a semplificare il contesto normativo. Ogni lavoratore dovrebbe essere protetto sulla base dei suoi anni di contribuzione al sistema, con la garanzia di un livello minimo per tutti. Così facendo si verrebbe a eliminare in modo automatico un ginepraio di forme contrattuali, utilizzate solamente per mantenere i lavoratori in posizione precaria. Questo ci aiuterebbe a superare vecchi dibattiti particolaristici e inutili (come quello sull’articolo 18 e la facilitazione dei licenziamenti). Un sistema simile alla flexicurity danese potrebbe agevolare

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il compito delle imprese e accrescere la protezione dei lavoratori precari. Insomma, quella che gli anglosassoni chiamano una win-win situation: una situazione in cui vincono tutti, coniugando uguaglianza ed efficienza. Ho già ricordato che a queste due misure di protezione sociale andrebbero associati altri sforzi per rimettere in moto il mercato del lavoro. Qui vorrei ancora soffermarmi, brevemente, su due punti in particolare. Innanzitutto: l’inadeguatezza degli investimenti pubblici e privati nella ricerca non è più tollerabile, soprattutto se vogliamo assumere un ruolo di leadership nelle future scelte – sociali, economiche e produttive – del nostro continente. L’altra priorità riguarda l’abbattimento delle complicazioni burocratiche – quello che in inglese viene definito red tape, una sorta di impedimento insito nel sistema per la crescita e la creazione di impresa – e l’accelerazione del pagamento dei crediti da parte di pubblico e privato: non è possibile attendere anni per un pagamento senza che la giustizia possa direttamente intervenire. Le imprese rischiano ogni giorno di fallire attendendo crediti legittimamente maturati per delle prestazioni fornite. L’economia di mercato non attende i tempi biblici della nostra giustizia. La quarta area di intervento è quella della coesione sociale. Viviamo in un paese frammentato, con bassissimi livelli di fiducia negli altri e nelle istituzioni. In un contesto come questo è diffici-

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le avviare processi di riforma durevoli ma anche assistere a comportamenti virtuosi da parte dei singoli cittadini. La mancanza di coesione sociale accresce l’individualismo, che comporta una perdita di efficienza netta per il sistema e si traduce in condizioni peggiori per ogni cittadino in ambito economico e sociale. La tendenza a sposare la logica del «si salvi chi può» si è progressivamente affermata, facendoci perdere di vista il perseguimento dell’interesse collettivo. Molti studi accademici hanno dimostrato che lo scarso livello di coesione sociale è direttamente correlato alla disuguaglianza. Quindi accrescere l’uguaglianza e migliorare l’efficienza del sistema-paese significherebbe contribuire a creare un’Italia più socialmente coesa. Abbiamo visto in dettaglio nel quinto capitolo come la mancanza di coesione sociale comporti la crescita del particolarismo e del settarismo a tutti i livelli, e con essi la creazione di linee di demarcazione fortissime tra gli schieramenti politici e le varie associazioni di categoria (e i sindacati). Proprio queste linee di demarcazione impediscono di mettersi attorno a un tavolo per predisporre le riforme di cui questo paese ha disperato bisogno. I problemi legati alla coesione sociale, per forza di cose, sono ancora più gravi nel Mezzogiorno dove le disuguaglianze economiche e di accesso ai servizi sociali sono ancora più elevate che nel resto della penisola. La disuguaglianza riduce la possibilità di accrescere la coesione sociale, per-

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ché gli individui tendono a creare legami soprattutto con le persone più vicine a loro in termini di status socioeconomico. Ciò comporta che nelle società più egualitarie esistano maggiori occasioni di confronto e scambio, con un incremento nel lungo periodo del livello di coesione sociale. Questo processo virtuoso non ha mai preso le mosse nel Mezzogiorno. La cosiddetta questione meridionale, uno dei temi più dibattuti della storia postunitaria, è legata a doppio filo proprio alla mancanza di coesione sociale generata in queste aree principalmente dall’alto livello di disuguaglianza e dalla costante denigrazione della storia locale. Per questa ragione, occorre avere il coraggio di associare al processo di ridistribuzione delle risorse economiche e delle opportunità anche una rivalutazione cosciente della storia delle regioni meridionali. Avere la forza di abbandonare l’immagine di immutabile stabilità e assenza di partecipazione civica che caratterizza il Mezzogiorno, anche richiamando alla memoria momenti gloriosi di associazionismo del passato. Il Sud può evolvere, migliorare, diventare più equo ed efficiente. La storia deve aiutarci a credere nelle immense risorse – fisiche e umane – che restano ancora inutilizzate in molte aree del meridione. La necessità di far crescere la coesione sociale si salda direttamente alla questione della riforma istituzionale: la quinta area d’intervento che suggerisco. Non si potrà avviare un processo di

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redistribuzione e crescita dell’efficienza in tutta la nazione senza riflettere su alcune questioni istituzionali che sono rimaste irrisolte. Nell’ultimo decennio, la discussione si è concentrata principalmente su come responsabilizzare le regioni «meno virtuose» tramite il federalismo fiscale, ma non si è affrontato il tema in relazione alle disuguaglianze. Il federalismo è stato considerato da più parti, per convinzione ideologica, una sorta di elisir capace di ridurre gli sprechi e far partecipare maggiormente i cittadini alla vita politica del paese. In realtà una riforma organica della struttura istituzionale non può prescindere dalla considerazione del pesantissimo divario socioeconomico fra le regioni centrosettentrionali e quelle meridionali. La sussidiarietà – ovvero il decentramento del processo decisionale al livello più vicino possibile al territorio – proposta dal federalismo deve essere coniugata alla solidarietà derivante dalle politiche sociali. Per questa ragione, le politiche di assistenza (come quelle alla persona o quella sanitaria) costituiscono ambiti fondamentali in cui lo Stato deve impegnarsi a ridistribuire risorse dalle aree più ricche a quelle più povere: al governo centrale deve restare il ruolo fondamentale di allocazione dei fondi per l’assistenza, in modo da evitare la crescita delle disuguaglianze fra le regioni e gli individui stessi. Una negazione dell’interazione tra sussidiarietà e solidarietà avrebbe effetti devastanti, non solo sul Mezzogiorno ma su tutti i soggetti più deboli. Non ci si può fermare al decentramento fiscale

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(come si è fatto in realtà negli ultimi anni): bisogna creare pesi e contrappesi istituzionali per permettere all’organizzazione federale di raggiungere i suoi obiettivi – riduzione degli sprechi e riavvicinamento della politica alla gente – senza accrescere le disuguaglianze. A queste cinque aree prioritarie di azione andrebbero associati altri interventi, per aumentare l’efficienza complessiva del sistema. La loro trattazione diffusa richiederebbe in effetti un ulteriore libro, ma per completezza li cito qui rapidamente. 1) Una lotta senza quartiere all’evasione fiscale. Attraverso una maggiore trasparenza nella dichiarazione dei redditi (che dovrebbe diventare un documento pubblico, come nei paesi scandinavi) e con il contrasto delle varie forme di produzione illegale diffuse su tutto il territorio nazionale, anche mediante l’utilizzo sapiente delle politiche sociali (come nel caso descritto in precedenza dell’assegno di disoccupazione legato agli anni di contribuzione, che disincentiverebbe i lavori in nero). 2) La creazione di infrastrutture fisiche e immateriali. Specie al Sud mancano strade e una rete ferroviaria adeguata. Il paese non si svilupperà senza trasporti efficienti e veloci. Inoltre alle infrastrutture fisiche andrà associata la creazione di una rete capillare di servizi alla persona, per

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prendersi cura di una popolazione sempre più vecchia e creare allo stesso tempo occupazione. 3) Riformare l’università, incrementando e concentrando le risorse allocate nei centri di eccellenza che esistono sul territorio, invece di disperdere in modo generalizzato i pochi fondi disponibili. Spendiamo troppo poco e lo facciamo malissimo, tenendo in piedi università che non avrebbero senso di esistere mentre affamiamo i dipartimenti che si distinguono a livello internazionale per la qualità della loro ricerca. 4) Incrementare la produttività del paese. Non ci sarà redistribuzione senza un più efficiente sfruttamento delle nostre capacità produttive. Resterà poco da ridistribuire se continueremo a distruggere ricchezza. Come Fonderia Oxford abbiamo recentemente lanciato una nuova proposta in tal senso, che vorrei provare a illustrare qui di seguito. L’Italia vive un paradosso. Se da un lato siamo uno tra i paesi Ocse con il più alto livello di ricchezza privata pro capite, dall’altro abbiamo anche il più basso livello di occupazione. Questa peculiarità ostacola lo sviluppo socioeconomico e andrebbe affrontata riattivando l’investimento nei settori più produttivi e supportando i consumi. Riattivare l’investimento significa migliorare l’intermediazione fra le opportunità esistenti sul territorio e il capitale privato. Accrescere i con-

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sumi significa ridistribuire reddito e patrimonio, aiutando le categorie più deboli attraverso la tassazione e le politiche sociali. Quando si parla di crescita e innovazione, troppo spesso nel dibattito ci si focalizza solo sulle politiche macroeconomiche. Si discute ancora troppo di siderurgia e troppo poco di innovazione diffusa. Tale visione è figlia di un’idea del sistema di relazioni industriali ormai obsoleta e poco competitiva. L’innovazione di cui l’Italia ha bisogno deve partire dal basso. In quest’ottica, lo Stato dovrebbe assumere il compito di incentivare le opportunità di investimento, evitando così finanziamenti a pioggia in settori non concorrenziali. Per perseguire questa logica proponiamo un progetto pilota: i «broker per l’innovazione». I broker per l’innovazione dovrebbero essere attori privati, che beneficiano di una tassazione di vantaggio per i primi 3-5 anni di attività. Il fine è quello di colmare la distanza tra i capitali privati e le opportunità di investimento esistenti sul territorio, con un effetto aggiunto: l’impiego di lavoratori qualificati nell’attività di intermediazione. Per fare un esempio concreto, un broker per l’innovazione (indipendente dall’azienda) potrebbe selezionare opportunità di investimento sul territorio e proporle a vari attori in grado di finanziarle. Per questa attività di intermediazione il broker otterrebbe un trattamento fiscale agevolato. La forza di tale proposta risiede nella creazione di incentivi per favorire la ricerca e lo

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sviluppo di nuove opportunità di investimento. Al centro di tutto c’è l’idea che siano gli attori privati (azienda, investitori e broker) a fronteggiare i costi e i rischi dell’investimento. Lo Stato avrebbe semplicemente il ruolo, con la detassazione, di incoraggiare l’iniziativa privata laddove è strutturalmente carente. Voglio concludere rispondendo a due domande pressanti e fondamentali: 1) da dove prendiamo i soldi per avviare le riforme discusse? 2) Chi avrebbe interesse a supportare l’agenda delineata, e più in generale delle riforme basate sul principio di uguaglianza? Per finanziare adeguatamente le proposte di riforma formulate bisogna avviare un duplice processo redistributivo: il primo volto a ribilanciare la spesa sociale, come abbiamo detto, dal passato al futuro; il secondo che porti a tassare maggiormente il patrimonio e le rendite finanziarie e meno il reddito da lavoro. Fatto 100 l’indice della ricchezza pro capite in Italia,2 nel 1987 i cittadini al di sotto

Fare base 100 significa che ogni anno la ricchezza media di un italiano viene considerata 100, e su questa assunzione si compara la ricchezza di un cittadino medio a quella di un cittadino che appartiene a una certa categoria professionale o fascia d’età. Per esempio nel 1987, fatto 100 l’indice di ricchezza del paese, un operario aveva un livello di ricchezza medio pari al 61,9% di quello di un suo connazionale medio. 2

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dei 34 anni avevano un livello di ricchezza pari all’82,5% di quello dei loro concittadini, mentre nel 2008 questa quota è scesa al 61,7%. D’altro canto, il livello di ricchezza pro capite dei cittadini al di sopra dei 64 anni è passato nello stesso lasso di tempo dal 65,5% al 100,2%. Ciò significa che i giovani hanno un patrimonio proporzionalmente molto più risicato di quello di cui disponevano i loro omologhi vent’anni fa, mentre per gli anziani la situazione si è capovolta. Quando parliamo di ridistribuzione dal passato al futuro, ci riferiamo esattamente a una riforma della protezione sociale che sostenga chi ha meno di 34 anni, prelevando anche da chi ne ha più di 64. Tuttavia la situazione non è peggiorata solo per i giovani, ma anche per le famiglie di estrazione operaia, che tra il 1987 e il 2008 hanno visto passare il loro livello di ricchezza pro capite rispetto alla media nazionale dal 60% al 45%. All’opposto, pensionati e dirigenti sono coloro i quali hanno visto un incremento maggiore del proprio livello di ricchezza pro capite rispetto alla media nazionale: sono passati dal 61,6% al 97,8% i pensionati e dal 201,5% al 245,9% i dirigenti.3 Questo dato è ancora più impres-

Per una panoramica complessiva sui dati vedi Giovanni D’Alessio, Ricchezza e disuguaglianza in Italia, occasional paper n. 115 della Banca d’Italia, 2012, consultabile al sito http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/quest_ecofin_2/QF_115. 3

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sionante se si considera che undici milioni di pensionati percepiscono una pensione inferiore a mille euro, come evidenziato in precedenza. L’aumento della ricchezza quindi, agevolato da un sistema pensionistico altamente iniquo, è andato a concentrarsi nelle tasche dei pensionati più ricchi. A ciò si aggiungono gli stipendi elevatissimi assegnati ai nostri dirigenti, che hanno fatto crescere il patrimonio di questa categoria mentre quello degli altri è andato proporzionalmente assottigliandosi. Non è più un problema ideologico, e anche la recente riforma proposta negli Stati Uniti da Obama ha indicato la via da seguire: i soldi vanno presi da chi (persone fisiche, banche, imprese multinazionali) si è arricchito grazie a un sistema iniquo. Come evidenziato recentemente: In Italia i dieci individui più ricchi posseggono una quantità di ricchezza che è all’incirca equivalente a quella dei tre milioni di italiani più poveri. […] La disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza è in effetti assai più pronunciata di quella sul reddito. […] Il 10% delle famiglie più ricche possiede oltre il 40% dell’intero ammontare di ricchezza netta, mentre il 10% delle famiglie a più alto reddito riceve solo il 27% del reddito complessivo.4

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Ricchezza e disuguaglianza in Italia, cit.

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A questo va aggiunto che: La ricchezza sta assumendo un ruolo via via crescente tra le risorse economiche che definiscono la condizione di benessere di un individuo. In questo quadro, è notevole che nel nostro paese il carico fiscale sulla ricchezza all’inizio degli anni 2000 fosse tra i più bassi d’Europa e che, al netto dei condoni, sia diminuito sensibilmente nel corso del decennio.5

Alla luce di questi dati inequivocabili, ci si rende conto che solamente ridistribuendo con coraggio la tassazione – cioè colpendo le ricche pensioni di anzianità e intervenendo con decisione sui patrimoni e le rendite finanziarie (che invece hanno beneficiato di una riduzione del livello di tassazione, mentre quella sul reddito cresceva) – si potranno finalmente mettere in cantiere le riforme proposte. Insomma, basta con l’enorme tassazione sul reddito da lavoro e sulle imprese che innovano; riduciamo invece gli eccessivi benefici concessi dal welfare a pochi cittadini fortunati e tassiamo di più le rendite spropositate che non contribuiscono a far crescere la produttività del sistema-paese.

Vedi Ricchezza e disuguaglianza in Italia, cit, ma anche Helmut Cremer e Pierre Pestieau, Wealth transfer taxation: a survey, working paper n. 20 del Delta, 2003, consultabile al sito http://ideas. repec.org/p/del/abcdef/2003-20.html. 5

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Chi troppo chi niente

Per passare al punto sull’interesse dell’agenda proposta, esiste una «coalizione potenziale» di più di venticinque milioni di votanti, cui ho già accennato, che avrebbe tutto da guadagnare a sostenere un tale programma di riforme: si tratta dei pensionati che percepiscono meno di mille euro al mese, dei disoccupati, dei lavoratori precari, di chi lavora in nero e di chi guadagna meno di milleduecento euro al mese (trovandosi al di sotto del reddito medio). Una coalizione potenzialmente maggioritaria, che esiste non solo in Italia ma anche negli altri paesi europei: l’agenda redistributiva qui proposta potrebbe diventare un programma a livello continentale, che federi tutte le forze progressiste partendo dalla condizione di chi oggi è più debole. Una proposta chiara e unificante per i progressisti italiani ed europei che oggi languono ai margini dello scacchiere politico-decisionale. Tuttavia, anche ove si riuscisse a mettere insieme tale «coalizione per l’uguaglianza», le cose non potranno certo cambiare di colpo. Non ci saranno spiriti rivoluzionari a ribaltare le logiche di questo paese. Come ha sottolineato Orwell in La strada di Wigan Pier, ogni idea rivoluzionaria trae la sua forza dalla convinzione segreta che nulla possa cambiare.6 Tutti quelli che credono

Vedi George Orwell, La strada di Wigan Pier, Mondadori, Milano 2002. 6

Conclusione

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oggi all’opzione rivoluzionaria stanno mentendo agli altri, e molto più tristemente a se stessi. Cambiare questo paese – e in una visione più ampia l’Europa – significa avere il coraggio di sposare un principio chiaro e forte, e perseguirlo attraverso obiettivi raggiungibili. Perseguirlo nelle piccole azioni così come nelle riforme politicoistituzionali. Forse, astraendoci ogni tanto dalle nostre preoccupazioni quotidiane e dal nostro interesse individuale, potremmo tornare ad affacciarci dalla terrazza del Condominio Italia, per guardare intensamente e con spirito critico quella periferia urbana diventata ormai una giungla senza regole. Un panorama fatto di vite e racconti, ingiustizie e azioni corali; un paese difficile da guardare con nitidezza e oggettività, ma un paese da vivere, cambiare e amare.

Indice

Premessa

5

1. Le disuguaglianze in Italia

23

2. Ordini professionali: corporazioni contro le nuove generazioni?

41

3. Il prezzo del passato

71

4. Investire sul futuro: lavoro tra protezione e sviluppo

107

5. Uguaglianza e storia collettiva per accrescere il capitale sociale

141

6. Per un federalismo solidale

171

Conclusione: riflessioni a margine del Condominio Italia

195

Finito di stampare nel febbraio 2013 presso Rotolito Lombarda – Seggiano di Pioltello (MI) Printed in Italy

ISBN 978-88-17-06306-7