Chi ha ucciso realmente i proci. Ulisse, Nessuno, Filottete. Scoperto dopo tremila anni il protagonista nascosto dell'Odissea 8887621764, 9788887621761

Fu proprio Ulisse a compiere la strage dei Proci, oppure Telemaco si fece aiutare da qualcun altro? Chi poteva essere ve

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Chi ha ucciso realmente i proci. Ulisse, Nessuno, Filottete. Scoperto dopo tremila anni il protagonista nascosto dell'Odissea
 8887621764, 9788887621761

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Fu proprio Ulisse a compiere la strage dei Proci, oppure Telemaco si fece aiutare da qualcun altro? Chi poteva essere veramente il miste­ rioso straniero, giunto a ltaca dopo vent'anni e che nessuno era in grado di riconoscere? Una attenta lettura deii'Odissea ci rivela la miriade di indizi lasciati da Omero per la sorprendente soluzione. Ulisse non era ... Ulisse, ma il migliore degli arcieri achei: Filottete! Con questa chiave, il poema omerico assume improwisamente una logica che nessuno prima d'ora aveva mai neanche sospettato.

"La questione omerica é diventata un labirinto, non meno complesso di quello che si immagina architet­ tato da Dedalo [...] Se la mitologia (non solo greca!) è ricca di sdoppiamenti, in essa non mancano curio­ se identificazioni tra personaggi apparentemente op­ posti, che agli occhi degli dei (e dei lettori) si rivela­ no la stessa cosa" Giulio Giorel/o

Alberto Majrani è nato a Milano dove vive e lavora. Laureato in Scienze Natu­ rali, collabora come giornalista e fotografo con alcune delle maggiori riviste di scienze e di viaggi italiane e straniere. Il suo archivio fotografico, costruito insieme con il fratello Marco e visitabile sul sito www.photomajrani.com, com­ prende circa mezzo milione di immagini di tutto il mondo. Ha creato il sito di scienza, viaggi e curiosità www.filottete.it.

È

membro deii'UGIS (Unione dei

Giornalisti Italiani Scientifici) e di diverse altre associazioni culturali. Circa cin­ que anni fa, l'intuizione che lo ha portato a scrivere questo libro.

ISBN 9788887621761

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È più facile spezzare un atomo che un pregiudizio. Albert Einstein

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Alberto Majrani

CHI HA UCCISO REALMENTE I PROCI?

ULISSE, NESSUNO, FILOTTETE Scoperto dopo tremila anni il protagonista nascosto dell’Odissea

Prefazione di Giulio Giorello

LoGisma editore 3

Alberto Majrani, Chi ha ucciso realmente i Proci? Ulisse, Nessuno, Filottete. Scoperto dopo tremila anni il protagonista nascosto dell’Odissea Copyright © 2008 Alberto Majrani Copyright © 2008 LoGisma editore www.logisma.it - [email protected] ISBN 978-88-87621-761 Tutti i diritti riservati

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Indice

Prefazione di Giulio Giorello .

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Il protagonista dell’Odissea? Filottete!

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Introduzione

Cap. 1

Non illudetevi: Ulisse è morto (ma non sepolto) 17

Cap. 2

Filottete, chi era costui? .

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Cap. 3

Diamo un po’ i numeri .

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Cap. 4

Ma chi era questo Omero?

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Cap. 5

Quel giramondo di Ulisse e i messaggi in bottiglia

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Cap. 6

Ulisse era proprio nessuno

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Cap. 7

Ah, le donne, che inferno!

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Cap. 8

I guai non finiscono mai .

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Cap. 9

Ulisse, cioè Filottete, cioè Teoclimeno .

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Cap. 10 Ulisse il corridore, Filottete lo zoppo

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Cap. 11 Come si organizza una strage di Stato

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Cap. 12 Massacro e lieto fine

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Conclusione Eccesso di paté de fois gras?

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Dizionario dei nomi e dei luoghi .

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Appendice Ma Omero era un geografo? Bibliografia e sitografia .

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Prefazione

La questione omerica è secolare, se non millenaria. Avverte opportunamente l’autore di questo volume che già nell’Antichità si desiderava saperne di più circa il “cieco” Omero, il cantore di cui si potrebbe dire “che ai numi per la voce somiglia”, come leggiamo dell’aedo Femio nel I libro dell’Odissea. È stato un curioso filosofo-filologo, Giambattista Vico, a spostare i termini del problema, vedendo in Omero semplicemente un nome per quella sapienza dei popoli che riusciva a esprimersi nella “concreta” logica del mito. Del resto, il protagonista dell’Odissea era assurto a esploratore troppo audace con Dante, a simbolo di “eroico furore” in Giordano Bruno, a machiavellico consigliere politico (non digiuno di astronomia copernicana!) in Shakespeare. Nell’Ottocento Ulisse è diventato il simbolo del “prudente” ricercatore, per la penna di quell’Ulisse moderno che si sentiva Charles Darwin nel suo Viaggio sul Beagle; nel Novecento si è risvegliato residente in Eccles Street n. 7 e cittadino di Dublino nei panni di Leopold Bloom, “ebreo greco” o, se si preferisce, “greco ebreo” gettato nell’Irlanda divisa tra repubblicani e orangisti, tra uomini d’ordine e risoluti ribelli pronti all’uso della “forza fisica”. E al nuovo Omero del XX secolo, cioè il cieco (in vecchiaia) James Joyce era familiare la bizzarra ipotesi di Samuel Butler, che riteneva che il vero autore dell’Odis-sea fosse... un’autrice – più precisamente, una nobile siciliana dell’Età del Bronzo. La questione omerica é diventata un labirinto, non meno complesso di quello che si immagina architettato da Dedalo, e in un momento di lucida sincerità Alberto 7

Majrani confessa: «Ma se io fossi così pazzo da scrivere un libro su quest’idea, Lei sarebbe così pazzo da farmene la prefazione?». Il Lei sono io. La mia non mi sembra troppo grande; quanto alla follia dell’Autore, diremo con Manzoni che giudichi chi sa – e con Shakespeare che comunque in tali follia c’è del metodo. Ma non sveliamo – per non sciupare la sorpresa al lettore – la soluzione dell’enigma. Basterà dire qui che non si tratta tanto della risposta alla domanda Chi è Omero?, bensì a quella ancor più impegnativa Chi è Ulisse? L’eroe, infatti, ha due nomi: Ulisse e Nessuno. Uno evoca sofferenza, ma anche odio; l’altro la non-identità. Il che vuol dire che quella costellazione di miti che si dispiega sopra Itaca e sopra Troia lascia aperto il gioco dell’interpretazione. Majrani pensa ai primo dei tanti Omero possibili come a un cantore di corte che «si occupa di raccontare una storia che giustifichi la presa del potere del suo signore, avvenuta tramite una congiura di palazzo». Fin qui, tutto bene; ma poi sostiene che quel «geniale inventore» avrebbe disseminato la sua opera di indizi per farci intendere una più profonda versione degli eventi: fino a spostare persino le Colonne d’Ercole dal Mediterraneo alle coste dell’Ulster, dove sorge quella “straordinaria formazione naturale” nota oggi come Giant Causeway. Chissà se ne sarebbero stati contenti Butler, Joyce o l’epico W.B. Yeats? Se la mitologia (non solo greca!) è ricca di sdoppiamenti, in essa non mancano curiose identificazioni tra personaggi apparentemente opposti, che agli occhi degli dei (e dei lettori) si rivelano la stessa cosa, un po’ come capita coi Teologi di un celebre racconto di Borges. Quella di Majrani non sarà forse la storia vera, ma è comunque ben trovata. Ci spiace solo una cosa: che il suo “infallibile arciere” consumi alla fine la propria vendetta, mentre le nostre umane simpatie vanno a quell’avatar 8

che è il già citato Bloom. Il quale (a proposito di radici ebraiche!) non “lapida” la sua adultera, né (a proposito di radici greche!) uccide il pretendente, ma si insinua dolcemente nel letto dell’infedele Penelope-Molly, affascinandola con le parole con cui racconta la sua quotidiana Odissea dublinese.

Giulio Giorello*

*

Giulio Giorello insegna Filosofia della Scienza presso l’Università degli Studi di Milano. È editorialista del «Corriere della Sera» e collabora con il Piccolo Teatro della Città di Milano. Dirige, presso Raffaello Cortina Editore, la collana Scienza e idee. Nel 2001 è stato insignito della Medaglia per alti meriti scientifici dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Recentemente ha pubblicato: Prometeo, Ulisse, Gilgameš. Figure del mito (Milano 2004), Di nessuna chiesa (Milano 2005), e con Pier Luigi Gaspa, La scienza tra le nuvole (Milano 2007).

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Ringraziamenti

Un particolare ringraziamento a Giulio Giorello per aver scritto la prefazione del mio libro. A Rosa Calzecchi Onesti per le eccellenti traduzioni omeriche. A Felice Vinci per l’infinita quantità di spunti e suggerimenti. A Elisa Sanna e Davide Viziano per la foto di copertina. Alla mia famiglia per il contributo critico e a tutti coloro che mi hanno incoraggiato a perseverare diabolicamente nello sviluppo della mia ipotesi. E, naturalmente, grazie al caro vecchio padre Omero, per il serio divertimento che continua a procurarci da alcuni millenni. a.m.

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Introduzione IL PROTAGONISTA DELL’ODISSEA? FILOTTETE!

Strana storia, quella di Ulisse. Possibile che uno se ne stia lontano per vent’anni, struggendosi dal desiderio di rivedere la sua patria, abbandoni una bellissima ninfa immortale per tornare da una moglie non più giovane, rientri a casa dopo una pericolosissima traversata in solitaria, nessuno lo riconosca, neanche il padre o la moglie stessa, ne ammazzi tutti i pretendenti rischiando di provocare una mezza rivoluzione, e finalmente, quando avrebbe tutto il diritto di starsene un po’ tranquillo, decida di ripartire di nascosto lasciando tutti con un palmo di naso? D’accordo, è un racconto mitologico, però, insomma, non è molto... logico! Una possibile ricostruzione realistica della vicenda ci arriva dal formidabile “Omero nel Baltico”, saggio sulla geografia omerica di Felice Vinci, di cui potete trovare un’ampia analisi critica nell’appendice di questo volume. Quasi di sfuggita, tra le pieghe del discorso, Vinci ipotizza che il figlio di Ulisse, Telemaco, abbia ingaggiato un mercenario per interpretare Ulisse e fare strage dei Proci, i pretendenti alla mano della madre Penelope. Lo stesso Telemaco avrebbe poi scritturato un poeta per raccontare una fantasiosa storia che potesse giustificare tutti gli anni di assenza del padre; oggi forse un avversario politico invidioso definirebbe quel poeta un “pennivendolo di regime” (esistevano già allora, a quanto pare!). Tutto ciò allo scopo di liberare la reggia dai pretendenti che gli stavano mangiando tutte le sostanze; si aggiunga poi che se qualcuno ne avesse sposato la madre, Telemaco avrebbe perso il diritto alla successione e al regno; era lei infatti di stirpe nobile, essendo figlia del po11

tentissimo re Icario, mentre Ulisse era un “parvenu” che si era arricchito con l’arte dei commerci, della pirateria e del saccheggio. I pretendenti stessi, poi, stavano tramando per toglierlo di mezzo, e quindi bisognava anticiparli al più presto. Stavo rimuginando sulla faccenda, quando improvvisamente una possibile soluzione ha attraversato la mia mente come un lampo. Oh perbacco, io so chi era quel mercenario! Riuscite a immaginarlo? Provate a pensarci... eppure ce lo suggerisce Ulisse stesso... quando si trova nella terra dei Feaci. Ulisse afferma di essere il migliore degli Achei nel tiro con l’arco, subito dopo Filottete! Filottete, chi era costui? L’Iliade ci narra che egli era a capo di un contingente degli Achei che andavano alla guerra di Troia. Ma era stato morso ad un piede da un serpente che gli aveva causato un grave ferita. La lesione si era infettata tanto da costringere i compagni ad abbandonarlo sull’isola di Lemno. La tradizione mitica, ripresa da Sofocle in una sua opera teatrale, racconta che, secondo una profezia, Troia sarebbe caduta solo con l’aiuto delle armi di Ercole. Filottete era stato allievo di Ercole e ne aveva ereditato l’arco e le frecce, per cui venne recuperato sull’isola e curato dal medico acheo Macaone; poi, proprio Filottete avrebbe ucciso Paride, dando un contributo determinante alla sconfitta dei Troiani. Ma certo! Il mercenario era Filottete! Questo spiega molte cose: conosceva da tempo Ulisse, e quindi si prestava bene ad interpretarlo, inoltre era “amico di famiglia”, e dunque poteva essere disposto a rischiare la pelle in una impresa così pericolosa; era poi un abilissimo arciere, evidentemente abituato a un “numero da circo” come quello di attraversare con una freccia gli anelli di dodici scuri allineate, il che presuppone anche un certo allenamento, cosa che Ulisse non poteva più avere dopo tanti anni per mare. Ammesso poi che fosse realmente dotato di questa abilità, visto che in tutta l’Iliade, poema che è molto più realistico dell’Odissea, lo stesso Ulisse 12

non usa mai l’arco, neanche durante i giochi in onore di Patroclo, nei quali vince invece le gare di lotta e di corsa. Logicamente, i giovani di Itaca non conoscevano Filottete, ma certo qualcuno dei vecchi avrebbe potuto riconoscerlo, per cui sarebbe stato necessario eclissarsi al più presto a missione compiuta. Come abbiamo detto, egli era stato ferito gravemente al piede dal serpente, il che doveva avergli lasciato una evidente zoppìa. E infatti Omero, pur senza dirlo apertamente, fa di tutto per farci capire che il misterioso straniero zoppica, fino alla trovata davvero geniale della vecchia nutrice che riconosce “Ulisse” dalla ferita al ginocchio causata da un cinghiale (cosa che non viene mai accennata né nell’Iliade né nel resto dell’Odissea, in cui le gambe del corridore Ulisse sono assolutamente perfette). Però Filottete non si accontentava di una cospicua ricompensa, ma voleva anche la gloria eterna! Ma siccome non si poteva rivelare l’inganno, ecco l’idea di cantarlo come “il migliore degli arcieri achei”, a detta addirittura del grande Ulisse. Ma vi pare che lo stesso Ulisse, che si potrebbe definire quasi un “miles gloriosus” ante litteram, avrebbe ammesso, nel poema a lui dedicato, che c’era qualcuno più bravo di lui?? La sua frase, più che un lapsus freudiano è un vero e proprio “messaggio in bottiglia” lanciato ai posteri, come a dire “chi ha orecchie per intendere, intenda!”. E Omero ha lasciato una miriade di messaggi simili in tutto il poema, per farci intuire il reale svolgimento della vicenda. Quanto ad Ulisse, probabilmente doveva essere morto da tempo, ucciso in battaglia o annegato sulla via del ritorno. Lo si può dedurre dal fatto che, in tutta l’Odissea, l’idea che l’eroe sia ormai defunto viene ripetuta più volte in modo deciso, mentre l’ipotesi che possa essere ancora vivo viene posta in modo dubitativo. La stessa dea Atena, sotto l’aspetto del mercante Mente, si contraddice in modo palese, quando afferma di non essere un indovino, ma che vuole formulare lo stesso una profezia, per annunciare che Ulisse tornerà. Ma Mente... mente! 13

Ed anzi esorta Telemaco a pensare egli stesso a come cacciare i Proci, essendo ormai diventato grande, per cui il figlio di Ulisse parte a cercare notizie del padre proprio dai suoi migliori alleati. Che dire poi del fatto che Ulisse ad un certo punto discende nel mondo dei morti? O che nell’episodio di Polifemo dichiara di chiamarsi Nessuno, per cui il ciclope ripeterà che Nessuno lo acceca, Nessuno lo uccide? Altri messaggi in bottiglia! E ancora, non appare molto sospetta la straordinaria coincidenza temporale, per cui Ulisse torna ad Itaca dopo vent’anni, e dopo poche ore suo figlio sbarca sulla stessa spiaggia, situata dalla parte opposta rispetto al porto principale? E poi, cosa dovremmo dedurre dalle tradizionali biografie, secondo le quali Omero era cieco? Vediamo di ricostruire con ordine la vicenda, come potrebbe essersi svolta nella realtà. Il principe Telemaco, adolescente complessato con qualche problema con la madre, si annoia a Itaca e sta meditando il modo di liberarsi dai Proci, prima che loro si liberino di lui. È arrivato a corte un vecchio cantore cieco o quasi, affetto da cataratta oppure vittima di una ferita, che ai tempi della guerra aveva assistito agli avvenimenti. Magari è stato chiamato, ironia della sorte, dai Proci stessi per il proprio divertimento. Telemaco ascolta la storia dell’Iliade e gli viene in mente un piano diabolico: partire con la nave e andare a cercare un arciere abilissimo, killer infallibile, per eliminare la concorrenza. Che poi passi dalla reggia di Nestore, sapendo di trovarlo lì, che l’idea gli venga dallo stesso Nestore o da Menelao, oppure si rechi direttamente da Filottete, e inventi una storia per giustificare la sua partenza improvvisa, questo non è dato sapere, ma ha poca importanza. Durante il viaggio di ritorno, Filottete e Telemaco perfezionano il piano: metteranno assieme una serie di racconti e leggende di marinai, ambientati in terre lonta5ne, per giustificare la lunga assenza di Ulisse. E così, Filottete viene sbarcato nottetempo in un angolo di Itaca, 14

assieme alla sua ricompensa in oro e oggetti preziosi (fatta passare come dono dei Feaci ad Ulisse); anche Telemaco sbarca sulla stessa spiaggia con la scusa di andare a visitare le sue proprietà, e tornare in città a piedi, mentre la nave fa il giro e arriva in porto (per questo i Proci in agguato non la vedono transitare). Filottete-Ulisse non viene riconosciuto da nessuno, tranne che dal cane (che non può testimoniare, anche perché muore subito), dalla vecchia nutrice rimbambita, e in seguito dal padre Laerte, tutti destinati a morire da lì a poco senza potere smentire la loro testimonianza. Quanto a Penelope, difficile che non ne sapesse niente fin dall’inizio, visto che è proprio lei in persona a indire la gara di tiro con l’arco da cui prenderà avvio il massacro dei pretendenti, e comunque non sarà certo lei a denunciare il figlio. Compiuta la strage, Omero viene incaricato di mettere in bella copia la storia dell’Odissea, e magari di aggiungere qualcosina (raccontata dalla viva voce di “Ulisse”) all’Iliade. E se qualcuno avesse avuto di che eccepire, il poeta sarebbe sempre stato in grado di giustificarsi: “Sono cieco, come potevo riconoscere Filottete? Nulla vidi, tutto sentii!”. Ma c’è un altro “messaggio in bottiglia”, che vale la pena di notare: durante il viaggio di ritorno dalla reggia di Nestore ad Itaca, Telemaco porta con sé un certo Teoclimeno, in fuga per avere assassinato un uomo. Teoclimeno viene presentato a corte, dichiara di essere un indovino e profetizza che Ulisse è già in patria. Ci si aspetterebbe che Teoclimeno, se non altro per gratitudine verso Telemaco che lo ha accolto togliendolo dai guai, si offra di dare una mano nel momento cruciale della strage dei Proci. Invece niente, sul più bello sparisce dalla narrazione e non si fa più vedere! Già, ma sarà semplicemente un caso che “Teoclimeno” sembri quasi un approssimativo anagramma di “Filottete”? Ma torniamo ad Omero, il cui nome può significare anche “ostaggio”: è possibile che fosse un Troiano, finito 15

prigioniero degli Achei. Questo spiegherebbe il motivo per cui si avverte che fa il tifo per i Troiani, e che conosce troppe cose accadute entro le mura di Troia; se fosse stato un cronista acheo, gli sarebbe stato difficile ricostruire gli avvenimenti troiani dopo la caduta della città. Ciò potrebbe forse spiegare anche le differenze stilistiche tra Iliade ed Odissea; per quanto simili, Achei e Troiani dovevano avere delle piccole diversità di lingua e di religione, e dopo essere vissuto per vent’anni tra gli Achei, lo stile del poeta potrebbe essersi adattato alle usanze della nuova patria. Invece il buon Telemaco doveva essere un contaballe di prima categoria, ma che a sua giustificazione poteva esclamare “tale il padre, tale il figlio!”. Per dare un’idea di che bel tipo fosse, basta leggere la scena in cui strangola con gusto le ancelle infedeli. E comunque, era tutt’altro che un ragazzino spaurito, ma una specie di piccolo Stalin che liquidava ogni oppositore, e modificava pure la storia a suo uso e consumo! Da Omero ad Orwell c’è davvero poca differenza! Che ne pensate? Mandiamo questa storia a Sherlock Holmes oppure al tenente Colombo? Per concludere, devo aggiungere che per me questo è stato un “serio divertimento”. Però... però ho sottoposto la mia ipotesi ad alcuni grecisti, che dopo essere sobbalzati sulla sedia ed avere strabuzzato gli occhi, hanno balbettato qualcosa come “Mah, sì, è possibile..., però non racconti in giro che glielo ho detto io!”. Nelle prossime pagine vedremo come il poema omerico, letto in questa chiave, senza perdere nulla del suo immenso valore letterario, assuma improvvisamente una unitarietà e una logica che nessuno prima d’ora aveva mai neanche sospettato. “Quandoque bonus dormitat Homerus”, ogni tanto dorme anche il buon Omero, proclamava Orazio... ma forse Omero era molto più sveglio di quanto si sia sempre creduto! 16

Capitolo 1 NON ILLUDETEVI, ULISSE È MORTO (MA NON SEPOLTO)

L’Odissea di Omero è forse il libro più conosciuto sulla faccia della terra. Chi non ha mai sentito parlare di Ulisse (o Odisseo che dir si voglia) e delle sue peregrinazioni per tornare all’amata isola d’Itaca, dalla fedele moglie Penelope e dal figlio Telemaco? E quanti libri, e saggi, e romanzi, e dipinti, e film, e persino comuni modi di dire hanno per protagonisti il mitico Ulisse e suoi compagni di sventure? Anche il più moderno dei mezzi elettronici, Internet, fornisce parecchi milioni di pagine da consultare che contengono il suo nome. Ma quanti possono affermare tranquillamente di aver letto tutto il poema, e di conoscerlo perfettamente? Già questi non sono tantissimi, in verità, ma bisogna ammettere che sono comunque in buon numero. Eppure, finora mai nessuno è stato così folle da pensare che il vero protagonista dell’Odissea non sia… Odisseo, ma un personaggio molto più oscuro, quasi sconosciuto, di cui anche nel testo si parla pochissimo: Filottète. Ma se vorrete seguirmi nell’analisi del capolavoro omerico con questa insolita chiave, vi accorgerete che con essa si aprono quasi tutte le porte. Insomma, come Shakespeare fa dire di Amleto, “in questa follia c’è del metodo”. Dunque cominciamo: per le citazioni mi sono avvalso della traduzione di Rosa Calzecchi Onesti, che, a detta degli esperti, è tutt’ora una delle migliori e più fedeli al testo originale, confrontandola, in caso di dubbio, con quelle di altri traduttori professionisti. Ho evitato le versioni poetiche classiche, tipo quelle di Vincenzo Monti (per l’Iliade) o di Ippolito Pindemonte (per l’Odissea), che non garantiscono lo stesso grado di fedeltà. 17

Per i più distratti, ricordiamo che i poemi omerici narrano le vicende della guerra di Troia, provocata dal rapimento della bella Elena, moglie del re acheo Menelao, ad opera del principe troiano Paride. In seguito a tale gesto sconsiderato, gli Achei, detti anche Danai o Argivi, organizzano una spedizione punitiva alla volta di Troia (chiamata anche Ilio), per riprendere la regina rapita e saccheggiare la città. La coalizione, comandata dal re Agamennone, fratello maggiore di Menelao, comprende alcuni noti personaggi come Ulisse, Achille, Patroclo, Nestore, Aiace e, naturalmente, il nostro Filottete. In fondo a questo libro si trova un breve dizionario dei nomi e dei luoghi, per aiutare il lettore a districarsi nel complesso mondo della mitologia, senza appesantire la narrazione con spiegazioni superflue. Accanto ai nomi greci delle divinità ho comunque indicato anche il corrispondente nome romano per facilitarne l’identificazione. Mentre l’Iliade è più che altro una continua cronaca di battaglie, l’Odissea si occupa del “nostos”, ovvero del complicato e talvolta drammatico ritorno a casa degli eroi achei dopo dieci anni di assedio e la distruzione della città nemica. Il poema narra che Ulisse ritorna a casa da solo, dopo una infinita serie di peripezie durante le quali ha perso i compagni, e uccide a colpi di freccia tutti i Proci, cioè i pretendenti alla mano di Penelope e al trono di Itaca, che si sono insediati come padroni nella sua reggia. Poi Ulisse sarà destinato a riprendere il mare in cerca di nuove avventure. Ma è questa la verità? La vicenda si è svolta veramente così, oppure Omero ci manda dei segnali che ci fanno capire che l’Odissea può essere letta in tutt’altro modo? Il poema è diviso in 24 libri, contraddistinti da numeri o da lettere dell’alfabeto greco. Già nei primi libri, l’idea che Ulisse sia morto viene affermata più volte con decisione, e da personaggi reali, mentre l’ipotesi che sia ancora vivo è sempre data in modo dubitativo, e da per18

sonaggi più o meno immaginari, come gli dei. Ecco dunque che la narrazione si apre con il concilio degli dei, che si stanno accordando per far finalmente tornare Ulisse dalla sperduta isola di Ogigia; qui l’ha fatto naufragare il potente dio del mare Poseidone Enosictono (cioè Nettuno “lo Scuotiterra”), che odia Ulisse perché ha accecato e sbeffeggiato suo figlio Polifemo. Per cui Zeus (Giove), il più potente degli dei, spiega: Perciò Poseidone Enosictono, se pur non l’uccide, fa errare lontano dalla sua terra Odisseo. (libro I, versi 74-75)

Già quel “se pur non l’uccide” è significativo: perché mai Poseidone non dovrebbe fare fuori anche Ulisse, come ha fatto con tutti i suoi compagni? Ma ora l’azione si sposta a Itaca, dove Telemaco Sedeva tra i pretendenti, crucciato nell’anima, sognando il nobile padre nel cuore, se a un tratto venisse e liberasse da tutti i pretendenti la casa e riavesse il suo onore e sopra i suoi beni regnasse. Questo, seduto tra i pretendenti, sognava. (I, 113-117)

Appunto, il ritorno del padre è solo nei pensieri di Telemaco, che poi si lamenta dell’arroganza dei pretendenti: questo piace a costoro, la cetra, il cantare, oh certo!, perché divorano impunemente l’altrui, gli averi d’un uomo di cui l’ossa bianche alla pioggia marciscono sopra la terra, o forse nel mare l’onda le rotola. Ma se lo vedessero tornare qua in Itaca, tutti farebbero voto d’esser più lesti di piedi, che ricchi d’oro o di splendide vesti. Invece è finito cosi, di mala morte, e noi non abbiamo conforto più, se anche qualcuno fra gli uomini dice che tornerà; il giorno del suo ritorno è perduto!” (I, 159-168) 19

Qui si trovano già tutti i temi della vicenda: Telemaco sa che il padre è morto, ma capisce che solo il suo ritorno potrebbe liberare la casa da tutti i parassiti che la infestano. Così la dea Atena, che ha assunto le sembianze di Mente, capo dei navigatori Tafi, si preoccupa di rincuorarlo e dargli i giusti consigli. Da notare che tutti coloro che potrebbero dare una testimonianza della congiura che sta per essere messa in atto sono destinati a sparire rapidamente. Mente è un mercante sempre in viaggio, e se anche qualcuno l’avesse potuto rintracciare, avrebbe potuto sempre rispondere di non saperne niente, dato che quella che parlava con la sua voce era la dea Atena e non lui. Come vedremo, qualcosa di simile si potrà dire del quasi omonimo Mentore, l’amico di famiglia, del popolo dei Feaci, di Laerte, della nutrice Euriclea, di Teoclimeno e persino del cane Argo! E dunque Mente-Atena dichiara: Perché sulla terra morto non è Odisseo luminoso, ma ancora vivo nel vasto mare è impedito, forse in un’isola in mezzo all’onde, gente feroce l’ha in mano, selvaggia, che suo malgrado lo tiene. Ma farò un vaticinio, come dentro nell’animo gl’immortali m’ispirano, e credo avrà compimento, per quanto io non sia né indovino, né esperto d’uccelli: non molto tempo lontano dalla sua terra paterna starà, neppure se ferrea catena lo tiene; saprà tornare perché è ricco d’ingegno” (I, 196-205)

Cioè afferma di non essere un indovino, ma di voler fare una previsione: come dire, “sono un bugiardo, puoi credermi!”. Ed infatti mostra di smentirsi subito: Molto spesso ci trovavamo noi due, prima che si imbarcasse per Troia […] Da allora non ho più visto Odisseo, né me lui. (I, 209-212)

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e Telemaco, di rimando: L’hanno annientato, come nessuno tra gli uomini (I, 235) L’hanno travolto le Arpie, senza gloria, non visto, ignoto è scomparso: e a me gemiti e pene ha lasciato (I, 241-243)

E Mente dà il consiglio giusto: T’esorto intanto a pensare come puoi toglierti i pretendenti di casa (I, 269-270) Va’ a Pilo, prima di tutto, il chiaro Nestore interroga, e di là a Sparta, dal biondo Menelao, che è tornato per ultimo fra gli Achei chitoni di bronzo. E se del padre saprai vita e ritorno, quantunque stremato, un anno ancora sopporta: se invece senti che è morto, che non è più, allora tornato alla terra paterna, alzagli il tumulo, offrigli i doni funebri, molti, come è giustizia, e affida a un marito la madre. Quando infine avrai fatto e compiuto ogni cosa, medita allora nell’animo e in cuore come potrai massacrare in casa tua i pretendenti, se di nascosto, d’inganno, o apertamente: non devi fare il bambino che non hai tale età. Non senti che gloria s’è fatta Oreste divino fra gli uomini tutti, uccidendo l’assassino del padre, Egisto ingannatore, che il nobile padre gli uccise? Anche tu, caro, poiché bello e aitante ti vedo, sii forte, che ci sia chi ti lodi ancora fra i tardi nipoti. Ma all’agile nave ormai tornerò, e ai compagni, che certo sono irati aspettandomi. E tu abbi a cuore la cosa, e ai miei consigli da’ ascolto (I, 284-305)

Davvero un bel consiglio: istigazione all’omicidio, anzi, al massacro! Ma se l’esortazione viene da una dea, come dire di no? Non dimentichiamoci comunque che 21

siamo in un’epoca all’alba della civiltà, quando i rapporti tra gli uomini venivano frequentemente risolti in modo brutale con la forza delle armi. Così va spesso il mondo… voglio dire, così andava nell’età del bronzo… Ma continuano le “dichiarazioni di morte presunta” di Ulisse. Mentre l’aedo Femio canta le vicende della guerra di Troia e del penoso ritorno degli Achei, Telemaco commenta: Ché non il solo Odisseo perdette il ritorno a Troia, ma molti altri eroi vi perirono (I, 354-355)

E rivolgendosi ad uno dei capi dei pretendenti: Eurimaco, perso è il ritorno del padre: non credo a notizia, chiunque la porti, né profezia mi interessa, se a volte la madre, profeti invitando a palazzo, ne interroga (I, 413-416)

Le vicende si svolgono in un periodo storico in cui il diritto regale non è ancora codificato. La dignità di re non è ereditaria, e quindi Telemaco non può aspirare automaticamente al trono di Ulisse; se poi la regina Penelope si risposasse, lui perderebbe ogni diritto; persino Ulisse, se tornasse, dovrebbe faticare per imporsi. È infatti l’assemblea che comanda: si è re non tanto per volere divino o per discendenza dinastica, ma perché il popolo riconosce l’autorità regale: Non è un male essere re: la sua casa subito abbonda di beni, ed egli è molto onorato. Ma principi achei ce ne sono anche altri, e molti, a Itaca cinta dal mare, giovani e anziani. Qualcuno di loro abbia il regno, se è morto Odisseo luminoso. (I, 392-396)

Siamo solo alla fine del primo libro, e Omero ci ha già ripetutamente fornito tutti i temi che confermano que22

sta tesi: Ulisse è morto, tocca a Telemaco liberarsi dei concorrenti se vuole diventare re; ma, ovviamente, non può farlo da solo, ha bisogno di aiuto. Quindi convoca l’assemblea del popolo, piange la morte del padre e si lamenta dell’invadenza dei pretendenti. Molto si perde. Perché non c’è l’uomo che era Odisseo per cacciare il malanno di casa. Noi non valiamo per ora a cacciarlo: e anche in futuro, forse, saremo meschini e non esperti di forza: ma li caccerei, se avessi il potere. (II, 58-61)

Telemaco quindi sta già pensando di cercare “un aiutino” all’esterno. Ma qui si ha una prima rivelazione: Penelope non ha la minima intenzione di risposarsi. Antinoo, il “boss” dei pretendenti, racconta la famosa storia della tela tessuta e continuamente disfatta per far trascorrere il tempo. Lei sa che per risposarsi dovrebbe ritornare a casa del padre Icario, ma preferisce evidentemente restare come regina a Itaca insieme con il figlio. Probabilmente anche Penelope capisce che se si risposasse e desse all’isola un nuovo re, Telemaco rischierebbe di essere brutalmente eliminato dal nuovo padrone. Per cui Antinoo si lamenta: Verso di te non i pretendenti achei sono colpevoli, ma la madre tua cara, che sa troppe astuzie (II, 87-88) … e astuzie, come nessuna sentimmo, neppure delle antiche […] nessuna di quelle seppe pensieri come Penelope (II, 118-121)

Quella di essere “abile negli inganni” non doveva essere una caratteristica del solo astuto Ulisse, ma una peculiarità che coinvolgeva l’intera famiglia: Penelope, Telemaco e persino, come vedremo, il nonno di Ulisse. Una sana tradizione che durava da tempo! Ma anche i pretendenti non scherzano, e si sono installati nella reggia a mangiare e bere per forzare la regi23

na a rompere gli indugi: chi crede di aver inventato qualcosa con le occupazioni e gli “espropri proletari” non immagina neanche dove questa forma di protesta abbia avuto inizio! Ed ecco che due aquile volano sopra la folla, e un vecchio indovino predice dai loro movimenti che Ulisse sta per tornare e portare rovina ai pretendenti; come sempre, chi dice che Ulisse è vivo viene smentito subito, e infatti Eurimaco sarcastico commenta: Io molto meglio di te so spiegare queste cose: uccelli, molti sotto i raggi del sole ne girano, e non tutti fatali: quanto a Odisseo è morto da un pezzo: e fossi morto tu pure con lui, che non diresti sciocchezze spiegando gli auguri (II, 180-184)

Con la nostra mentalità moderna e razionale noi sentiamo di dover dar ragione a Eurimaco. E forse anche Omero, che, come stiamo cercando di spiegare, era tutt’altro che irrazionale, anche se ricorreva alle mitologie per motivi… di lavoro. Eh sì, il conflitto tra scetticismo e superstizione, tra scienza e fede non è un problema moderno ma ha origini parecchio più antiche! L’assemblea si scioglie in modo inconcludente, il popolo resta a guardare e non si schiera da nessuna parte. Telemaco decide di partire in nave con Mentore ed un equipaggio di 20 giovani, suoi coetanei, alla volta di Pilo e Sparta, ufficialmente per cercare notizie del padre. Ma i pretendenti subodorano che ci sono guai in arrivo: Ahi ahi! Telemaco vuol macchinarci la morte. Certo si porterà difensori dal Pilo arenoso Oppure da Sparta, perché atrocemente ora smania! (II, 325,327)

Si noti che Telemaco, per far provviste prima di partire, sale nella stanza del padre 24

Ampia, dove oro e bronzo giacevano a mucchi, e vesti nei cofani, e molto olio fragrante, e vasi di vino vecchio dolce da bere (II, 338-341)

Guarda caso, sono più o meno gli stessi doni che “Ulisse” riceverà dai Feaci, i navigatori che lo riporteranno a Itaca sbarcandolo dall’altra parte dell’isola, e che verranno prima deposti sulla spiaggia e poi nascosti in una grotta. Come pure, Telemaco porterà dei doni simili nel suo viaggio, e altrettanti ne riceverà da Menelao prima di ritornare. Semplici coincidenze? O non è più logico pensare che questo continuo spostarsi di regali non sia altro che una specie di gioco delle scatole cinesi per confondere le idee, e per non far capire da chi provengono e a chi sono destinati? E che quindi, in realtà, questa non fosse altro che la ricompensa per il “lavoretto” che avrebbero dovuto compiere i “difensori” appositamente ingaggiati?

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Capitolo 2 FILOTTETE, CHI ERA COSTUI?

Telemaco arriva dunque a Pilo, dal vecchio re Nestore, che era stato uno dei capi della spedizione a Troia. Gli chiede notizie del padre e, nonostante che la dea Atena, stavolta sotto le spoglie di Mentore, lo abbia appena incoraggiato a sperare, al solito non sembra dubitare della sua morte: Ma tutti gli altri che coi troiani lottarono, sappiamo dove ciascuno di triste fine perì; di lui persino la morte ha reso ignota il Cronide (III, 86-88)

Nestore rievoca le sorti degli Achei sotto le mura di Troia e loda Ulisse: Ebbene, là mai nessuno volle con Odisseo misurarsi d’ingegno, ché troppo ci superava Odisseo luminoso in tutti gli inganni, il padre tuo (III, 120-122)

E poi osserva come Ulisse l’ingannatore rassomigli a Telemaco (e ora cominciamo a capire perché…). Quindi comincia a narrare dei difficoltosi ritorni a casa dei vari comandanti achei e se ne esce subito con una dichiarazione molto interessante: Bene -mi dicono- sono arrivati i Mirmidoni forti con l’asta Che il figlio glorioso del magnanimo Achille guidò, e bene Filottète, lo splendido figlio di Peante (III, 188-190)

Eccolo qui il nostro eroe, colui che sarà il vero esecutore di tutto il piano per eliminare gli odiosi pretendenti. Ma chi era questo Filottete? Vari racconti mitologici narrano che Eracle (Ercole), moribondo e sofferente per 26

un avvelenamento, voleva suicidarsi facendosi dare fuoco sulla propria pira funeraria; nessuno però aveva il coraggio di accendere il rogo, tranne appunto Filottete. Per questo gesto Eracle, riconoscente, gli donò il suo arco e le frecce, con i quali Filottete divenne un arciere infallibile e re di Etolia. Egli aveva promesso di non dire a nessuno dove si trovava la tomba di Ercole, ma un giorno, con una di quelle “furbate” tipiche degli Achei che abbiamo cominciato a conoscere, pensò bene di indicare il luogo non a voce, ma battendo il piede per terra nel punto esatto. Naturalmente gli dei punirono questo comportamento scorretto: infatti, mentre guidava un contingente di Achei alla volta di Troia, venne ferito proprio al piede da un serpente (o forse da una delle sue stesse frecce). La lesione si infettò tanto da emanare un puzzo micidiale; inoltri gli acuti lamenti del povero ferito angosciavano talmente i compagni che essi si videro costretti ad abbandonarlo sull’isola di Lemno, dove rimase vivendo di espedienti per quasi tutta la durata della guerra. Omero racconta nell’Iliade del suo gruppo di guerrieri: di questi guidava Filottete esperto dell’arco sette navi: e cinquanta rematori in ognuna salivano, esperti a combattere gagliardamente con l’arco. Ma egli giaceva in un’isola, soffrendo violenti dolori, in Lemno divina, dove lo lasciarono i figli degli Achei, che spasimava per la piaga maligna di serpe funesto; Egli giaceva laggiù straziato, ma presto dovevano ricordarsi gli Argivi, presso le navi, del sire Filottete (Iliade II, 718-725)

Infatti una profezia avvertiva che Troia sarebbe caduta solo grazie alle armi di Eracle. Per cui Filottete, con le armi ereditate dal forzuto eroe, fu recuperato nell’isola, curato e rimesso in sesto dai medici achei. Proprio una delle sue frecce ucciderà Paride, il principe troiano che aveva dato inizio a tutti i guai rapendo la bella Elena, moglie di Menelao. È importante notare che Omero non racconta che Filottete fu abbandonato a Lemno per ordine 27

di Ulisse: questa è un’elucubrazione dei mitografi successivi, poi ripresa anche da Sofocle. Quindi non c’è motivo per pensare che Filottete dovesse covare del risentimento nei confronti di Ulisse o dei suoi familiari. Riepilogando, Filottete aveva sicuramente due caratteristiche: la prima, l’abbiamo vista, quella di essere un eccellente arciere; l’altra, che non viene mai messa in evidenza, ma che doveva esserci sicuramente, era quella di essere zoppo, per le conseguenze della grave infezione al piede. E vedremo come questo particolare sarà uno dei motivi di certi strani comportamenti del falso Ulisse che giungerà ad Itaca; mentre al contrario, il vero Ulisse, di cui si raccontano le imprese in giro per il mondo, è un eccellente corridore in perfetta forma. Ma c’è un altro personaggio della mitologia classica che è tipicamente zoppo: il dio Efesto (Vulcano), che lavora come fabbro nella sua officina. Si noti che di solito gli antichi disprezzavano la deformità fisica, mentre nel caso di Efesto questo grave handicap non gli aveva impedito di essere un dio e soprattutto di sposare Afrodite, cioè Venere, la più bella delle dee. E vedremo come ci siano continui rimandi tra le vicende di Efesto e quelle di Filottete. Del resto anche lo stesso Filottete, in tempi migliori, era stato uno dei pretendenti alla mano di Elena, la più bella delle donne. E i pretendenti, prima che venisse scelto come sposo Menelao, si erano giurati un leale patto di reciproca assistenza, da cui era derivato l’obbligo morale di aiutare lo stesso Menelao a riconquistare la moglie rapita. A parte naturalmente ogni considerazione di carattere economico, visto che il buon Paride, oltre che la regina, si era pure fregato abilmente il tesoro della corona, e che viceversa gli Achei, in caso di vittoria, si sarebbero spartiti tutti i beni della ricchissima città nemica. Ma un’altra notizia clamorosa potrebbe riguardare Filottete: si narra che dopo essere rientrato felicemente in patria sia ripartito errando a lungo per il mare e fondando numerose città. Quindi il celeberrimo inizio dell’Odissea 28

potrebbe non riguardare Ulisse, che infatti viene nominato solo dopo venti versi, bensì proprio Filottete! L’uomo ricco di astuzie raccontami, o musa, che a lungo errò dopo aver distrutto la rocca sacra di Troia; di molti uomini le città vide e conobbe la mente, molti dolori patì in cuore sul mare, lottando per la vita e per il ritorno dei suoi (Odissea, I, 1-5)

Dopo questo shock non da poco, torniamo alla nostra storia: Nestore invita Telemaco a recarsi a Sparta, a casa di Menelao, non prima di avere accennato alle vicende di Agamennone. Lo stesso Menelao racconta la storia del fratello, che ricorda per molti versi quella degli stessi Ulisse e Penelope. Rientrato dopo la guerra, Agamennone viene ucciso a tradimento durante un banchetto da Egisto, amante della moglie Clitemnestra. Poi il figlio Oreste provvede a vendicare la morte del padre. Come abbiamo già visto, il racconto è un modo per suggerire a Telemaco come comportarsi. Da notare altre similitudini: il traditore tende un agguato con 20 uomini, dopo aver messo un uomo di sentinella a scrutare il mare, la stessa cosa che tenteranno di fare i Proci con Telemaco. E intanto, sia Menelao che Telemaco non perdono nuovamente occasione per far capire al lettore, o meglio all’ascoltatore, che il povero Ulisse è morto e non potrà tornare mai più. Mentre il figlio di Nestore, che ha accompagnato Telemaco, non esita a mostrare come si potrebbe aiutarlo: Molte pene un figlio di padre lontano è costretto a soffrire in casa, uno che altri difensori non abbia, come ora Telemaco ha il padre lontano e non ha nessun altro che lo difenda dalla sventura tra il popolo (IV, 164-167)

Dato che la scena avviene mentre Menelao sta presenziando ad un banchetto di nozze, possiamo anche presumere che ci fossero parecchi invitati provenienti dalle 29

località vicine, tra i quali magari reclutare i difensori necessari. Ma questa è solo una supposizione, naturalmente. Poi Menelao racconta di quando si trovava nell’isola di Faro, senza più niente da mangiare e senza vento per tornare in patria, e di come si fosse fatto aiutare dalla figlia di Proteo, il Vecchio del mare che era in grado di cambiare continuamente aspetto e anche di fare profezie, ma solo se trattenuto strettamente. Su suggerimento della fanciulla, Menelao ed altri tre compagni si travestono da foche per tendere un agguato al Vecchio e interrogarlo. Preso e immobilizzato, Proteo raccomanda quindi di tornare fino in Egitto dove fare dei sacrifici agli dei, per riprendere finalmente incolume la rotta verso casa. Che bisogno c’era di raccontare questo episodio? Forse è un modo per suggerire come anche Filottete dovrà mascherarsi da Ulisse per battere i pretendenti. Anche i personaggi sono un padre e una figlia (che riunisce i caratteri di Penelope e Telemaco), che deve tessere un inganno per ottenere il suo scopo; e c’è pure una situazione statica senza via d’uscita, con gente che mangia le provviste su di una piccola isola, con quattro uomini che devono agire, così come al momento giusto saranno in quattro a compiere la strage dei Proci: Telemaco, “Ulisse” (ovvero Filottete), il porcaro Eumeo e il mandriano Filezio. Menelao inoltre si lamenta del fetore emesso dalle pelli delle foche che lui e i compagni usano per travestirsi: molto raramente la “puzza” fa la sua comparsa nella mitologia, che tende ovviamente a privilegiare argomenti più elevati. Ma, come abbiamo visto, pure la ferita di Filottete, quando era ancora infetta, presentava in modo drammatico lo stesso problema: quindi anche questa può essere una indicazione per richiamare alla mente la sua vicenda. Come sempre, anche i racconti mitologici più improbabili non sono fini a se stessi, ma suggeriscono in modo nascosto quale sarà l’esito finale. Osserviamo che, pure 30

in questo caso, i personaggi immaginari sono gli unici a dire che Ulisse è ancora vivo. Proteo afferma infatti che Ulisse è naufragato sulla lontana isola della ninfa Calipso e non è in grado di tornare; poi profetizza a Menelao quale sarà il suo futuro: ma se è in grado di conoscere il futuro, come mai non sa prevedere il destino di Ulisse? Allo stesso modo possiamo vedere il finale del IV libro, con la dea Atena che appare in sogno a Penelope come il fantasma della sorella, per tranquillizzarla del fatto che Telemaco sta per tornare. Al che Penelope non perde tempo e domanda del marito: Se un nume sei, e voce ascolti di numi, dimmi dunque anche di quel misero, se ancora è vivo e vede la luce del sole oppure è morto, è nelle case dell’Ade. E rispondendo le disse l’evanescente fantasma: No, questo non te lo dirò chiaramente se è vivo o morto: è male fare chiacchiere al vento (IV, 830, 837)

Sorella dispettosetta, eh?

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Capitolo 3 DIAMO UN PO’ I NUMERI

Ma quanti anni avevano i protagonisti? E quanto è durata effettivamente la guerra di Troia? Vediamo di fare un po’ di conti: la chiave di tutto è l’età di Telemaco, che è chiaramente un adolescente, dato che comincia a spuntargli un po’ di barba (XVIII, 176 e 269). I Proci poi lo trattano come tale, e loro dovevano avere l’età per sposarsi, diciamo tra i 20 e i 25 anni circa. Teniamo presente che siamo nell’età del bronzo, e quindi, analogamente a quello che si può vedere ancor oggi nelle tribù primitive, si maturava e si invecchiava prima. Diciamo che Telemaco poteva essere un ragazzotto tra i 16 e i 18 anni. Essendo il primo e unico figlio di Penelope, si può ragionevolmente supporre che la regina l’avesse partorito ad un’età compresa tra i 15 e i 20 anni, quindi lei doveva avere tra i 31 e i 38 anni. Considerato che Penelope era nobile, poiché era figlia e sposa di re, si può dedurne che avesse goduto di una vita abbastanza agiata; inoltre avendo avuto una sola gravidanza doveva portare molto bene i suoi anni ed essere una vedova ancora piacente. Visto poi che si portava in dote un intero regno, sia pure di una piccola isola, era senz’altro un partito appetibile. Poiché Telemaco, quando Ulisse partiva per la guerra, era un bimbetto attaccato al seno della madre (XI, 448), si può supporre che allora avesse da 1 a 3 anni. Quindi la durata totale dell’assenza di Ulisse deve essere stata tra i 13 e i 17 anni. I 20 anni di cui parla Omero sono un arrotondamento o una esagerazione, adottata anche per giustificare il fatto che Ulisse (che in realtà è Filottete) appare più vecchio di quel che dovrebbe essere. Ed infatti la dea Atena lo avverte: 32

Ecco, ti renderò irriconoscibile a tutti, la bella pelle t’avvizzirò sulle agili membra, i biondi capelli ti farò sparire dal capo (XIII, 397-399)

Salvo poi, come vedremo, ringiovanirlo giusto il tempo di farlo “riconoscere” come padre da Telemaco; e poi ridargli di nuovo l’aspetto malconcio e avvizzito. Ma le dee possono questo ed altro, e intervengono sempre quando ce n’è più bisogno. Anche la tradizionale durata di 10 anni dell’assedio di Troia appare un’esagerazione, fatta per giustificare la lunga assenza dell’eroe. In effetti l’Iliade non narra tutta la guerra, ma solo un episodio centrale, quello dell’Ira di Achille. In quel momento la guerra sarebbe già incominciata da nove anni, tuttavia ad un certo punto si narra che Elena, stando sulle mura di Troia, indica al vecchio re Priamo i vari combattenti achei: una cosa simile dovrebbe ragionevolmente avvenire all’inizio dell’assedio, e non dopo ben nove anni! Magari non si trattava di dieci anni ma di dieci mesi. In realtà i conti in Omero non tornano mai bene, il che contribuisce a far sospettare che ci siano stati degli “aggiustamenti” nei due poemi per giustificare la lunga assenza di Ulisse. Già che siamo in tema di età, si può supporre che Achille piè veloce avesse intorno ai 25-30 anni, un’età in cui si ha ancora potenza e scatto, unite però alle doti di tecnica ed esperienza; il che faceva di lui il migliore e più famoso tra i guerrieri achei, anche se cominciava ad essere stufo di combattere. Suo figlio Neottolemo, che partecipa alle ultime fasi della guerra e che, secondo la tradizione (non Omero), contribuisce a far ritornare in campo Filottete, doveva essere anche lui un giovanottone intorno ai 17-18. Qualcuno forse sta pensando che la carriera dei guerrieri dell’antichità non dovesse essere poi molto diversa da quella dei calciatori odierni, che cominciano l’attività 33

professionistica intorno ai 17-20 anni e raggiungono l’apice intorno ai 27-30. E in effetti il gioco del calcio, come altri sport, in fondo non è altro che una battaglia ritualizzata, con i giocatori che sono i guerrieri, le squadre che sono gli eserciti con le loro divise, gli allenatori che sono i condottieri, i cronisti che sono gli aedi, lo scudetto o la coppa che sono il frutto del saccheggio. E talvolta anche la popolazione civile, ovvero i tifosi, partecipa alla battaglia e ne subisce le conseguenze… Quanto agli arbitri, potrebbero essere considerati gli equivalenti degli Dei, che dovrebbero assistere imparzialmente agli avvenimenti, ma che vengono spesso accusati di avere un occhio di riguardo per i loro protetti! Mentre la tradizione di scambiarsi le maglie tra avversari trova un illustre precedente in un passo del VI libro dell’Iliade, quando il troiano Glauco e l’acheo Diomede, riconoscendo gli antichi vincoli di amicizia delle rispettive famiglie, rinunciano al combattimento e si scambiano lealmente le armi. Al che Omero non può fare a meno di notare come l’astuto acheo avesse ancora una volta fatto fesso l’ingenuo troiano, dato che le armi del primo erano di bronzo, mentre quelle dell’altro erano d’oro! Ma torniamo ad Achille, e approfittiamone per smentire un pettegolezzo che circola da un po’ di tempo (almeno 2500 anni!): non c’è alcun motivo di pensare che tra lui e il suo amico fraterno Patroclo ci fosse un qualche tipo di relazione omosessuale! Omero non ne parla mai, si tratta di una diceria nata in epoche successive, ad opera di qualche mitografo (pure un po’… mitomane): anzi, la famosa “Ira di Achille” nasce proprio perché il suo capo Agamennone gli frega la schiava preferita Briseide, e non credo che Achille avesse motivo di adirarsi perché la bella biondona era particolarmente brava a cucinare o a rammendare i calzini! E ad un certo punto della narrazione, Achille e Patroclo se ne vanno tranquillamente a letto 34

con delle altre schiave: solo per utilizzarle come scaldini? Ma va là! Esaminiamo ora l’età di Ulisse, che potrebbe essersi sposato poco dopo i 20 anni, dato che appare già “navigato” come pirata e razziatore, ed essere partito per la guerra intorno ai 26 anni o giù di lì. Visto che vince le gare di lotta e di corsa ai funerali di Patroclo si può stimare che all’epoca fosse nel massimo dell’efficienza fisica, diciamo intorno ai 27-30 anni. Il che è abbastanza compatibile con la sua condizione di membro autorevole dell’alleanza, ma non di capo assoluto. In un passo dell’Iliade afferma di essere nato prima di Achille, ed essere quindi in grado di dargli dei consigli. Sommando l’età della partenza ai 13-17 anni della “latitanza” di cui abbiamo parlato prima, possiamo ragionevolmente pensare che all’epoca in cui si svolge l’Odissea egli avesse sui 40-45 anni, il che è anche plausibile col fatto che avesse ancora lunghi capelli e che potesse gareggiare coi giovani feaci. Invece Filottete doveva avere all’incirca una decina d’anni di più, il che gli garantiva ancora un certo grado di efficienza fisica, ma solo sui brevi periodi e in condizioni di superiorità; di qui l’aspetto più malconcio, la scarsità di capelli, la necessità, come vedremo, di battere il mendicante Iro con un solo colpo bene assestato, l’uso dell’arco per uccidere a distanza i Proci, peraltro dopo averli furbescamente disarmati, ed evitare così un pericoloso corpo a corpo. Da notare che il pretendente Eurimaco ricorda che … me pure il distruttore di rocche Odisseo, spesso sulle ginocchia tenendo, carni arrostite in mano mi mise e vino rosso mi porse (XVIII, 442-444)

quindi egli all’epoca doveva avere intorno ai 7-10 anni, il che fa tornare il discorso con l’età presumibile dei pretendenti, tra i 20 e i 25 anni circa. Da notare che anche Eurimaco, pure un attimo prima di morire, dubita di avere 35

di fronte Ulisse, che conosceva bene, e non un altro vecchio un po’ folle. Se proprio sei l’Itacese Odisseo che ritorna… (XXII, 45)

Ma il dubbio resterà a lui, e agli altri, per tre millenni.

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Capitolo 4 MA CHI ERA QUESTO OMERO?

Dall’antichità fino ai giorni nostri, i luoghi di potere sono echeggiati del canto e della musica di artisti che sbarcavano il lunario tessendo le lodi del potente di turno, o semplicemente cercando di allietarlo con belle storie. A volte tali artisti erano così bravi che le loro opere hanno continuato ad essere ammirate per parecchi secoli dopo che era venuto meno il motivo per cui erano state create, e il cantore è diventato più famoso del suo mecenate: quanti saprebbero dire presso chi lavorava Dante Alighieri? Ma pensiamo anche al più famoso poeta di Roma, Virgilio, che scrisse l’Eneide per compiacere l’imperatore Augusto e dare lustro alla sua casata. In effetti, Virgilio utilizzò una serie di leggende che già esistevano e ne aggiunse delle altre inventate di sana pianta per narrare le gloriose origini della Gens Iulia: oggi la chiameremmo una “compilation a tema”. Se ne vergognava un pochino, a dire il vero, tanto che in punto di morte ordinò che fosse bruciata: il che non avvenne per l’intervento dello stesso imperatore, e per la gioia degli studenti dei duemila anni successivi. Si può ragionevolmente pensare che anche Omero, circa dieci secoli prima di Virgilio, abbia fatto qualcosa di simile: prendere una serie di leggende, adattandole e legandole assieme attraverso un filo comune. Naturalmente si trattava di esaltare la famiglia reale di allora, composta da Telemaco e Penelope, ed attribuire loro una dignità regale confermata non solo dal “miracoloso” e vendicativo ritorno del titolare Ulisse, ma anche dalla volontà divina. Vista poi l’influenza di Penelope come regina, era bene esaltare anche la condizione femminile: da 37

qui l’importanza di personaggi come Arete, Circe, Calipso, Nausicaa, che sono comunque in grado di soggiogare il povero maschio con il potere politico, le arti magiche o semplicemente l’ingenuità e la bellezza. Ma… nella vita dei cantori c’è sempre un ma… Omero ha trovato il modo di inserire tutta una serie di messaggi, più o meno criptici, per far capire come la vicenda si fosse sviluppata veramente. In pratica, Omero, che alcuni biografi antichi dicevano “amante degli enigmi”, ha raccontato un autentico “giallo”, fornendo tutti gli indizi per scoprire l’assassino, senza però fornire la soluzione finale. Ho quasi l’impressione che ci stia osservando con un sorriso beffardo pensando: “Razza di zucconi, ce ne avete messo di tempo per scoprire come sono andate le cose!”. E il bello è che Omero trova anche il modo di parlare di se stesso in modo lusinghiero, come sempre mettendo i discorsi in bocca ad altri. Ed ecco infatti che quando l’aedo Femio prende in mano la cetra, il “saggio” Telemaco zittisce i pretendenti: Ora il banchetto godiamoci e non facciamo schiamazzi perché è cosa bellissima ascoltare un cantore com’è costui, che ai numi per la voce somiglia (I, 370-371)

E Ulisse alla corte dei Feaci, parlando di Demodoco, ripete le stesse parole ampliando il discorso: questa è cosa bellissima, ascoltare un cantore com’è costui, che ai numi per la voce somiglia. E io ti dico che non esiste momento più amabile di quando la gioia regna tra il popolo tutto, e i convitati a palazzo stanno a sentire il cantore seduti in fila; vicino son tavole piene di pani e di carni, e vino al cratere attingendo, il coppiere lo porta e lo versa ai calici: questa in cuore mi sembra la cosa più bella. (IX, 5-11)

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Mentre Menelao assegna addirittura al cantore un compito istituzionale molto più importante di quello di un semplice artista di corte. Parlando della moglie dell’Atride Agamennone: Le era vicino il cantore, a cui molto raccomandò, andando a Troia, l’Atride di sorvegliargli la sposa (III, 267-268)

Certo che oggi Omero potrebbe venire accusato di auto-promozione, pubblicità occulta, conflitto di interessi e chissà cos’altro! Notiamo che nel primo caso, Femio è arrivato ad Itaca al seguito di un gruppo di pretendenti provenienti da Zacinto; non è contento di lavorare per loro e avrà la buona ventura di essere risparmiato da Ulisse al momento della strage. Mentre Demodoco ha assistito alla guerra di Troia ma è diventato cieco (un utile pretesto per non riconoscere Ulisse). Così i due cantori possono benissimo rappresentare una “proiezione” dello stesso Omero: dire di essere cieco nel suo caso poteva essere una buona scusa per non aver riconosciuto Filottete che si spacciava per Ulisse, e quindi poter raccontare solo quello che aveva sentito. Nel terzo caso il cantore svolge una funzione simile a quella di Mentore, l’“amico di famiglia” che dà sempre saggi consigli, spesso parlando per voce della dea Atena. Un altro personaggio che potrebbe rappresentare lo stesso Omero va individuato nell’indovino Calcante, presente solo nell’Iliade. Troiano ormai inserito tra gli Achei, e trattato con una certa deferenza, si narra che fosse anch’egli esperto di enigmi, tanto da morire per la rabbia di aver trovato qualcuno più bravo di lui! Si può benissimo pensare che Omero abbia “calcato” le orme di Calcante e che fosse un Troiano catturato dagli Achei: il nome “Omero” può infatti significare “ostaggio”. Come ho già scritto nell’introduzione, si avverte che parteggia per i 39

Troiani, e che conosce troppe cose accadute entro le mura della città assediata; se fosse stato un cronista acheo, gli sarebbe stato difficile ricostruire gli avvenimenti troiani dopo la caduta della città. Ciò potrebbe forse spiegare anche le diversità stilistiche tra Iliade ed Odissea; per quanto simili, Achei e Troiani dovevano avere delle piccole differenze di lingua e di religione, e dopo essere vissuto per vent’anni tra gli Achei, lo stile del poeta potrebbe essersi adattato alle usanze della nuova patria. Già che siamo in tema di nomi, può essere interessante andare a vedere il significato etimologico di alcuni dei nostri protagonisti. Cominciamo da Filottete, che può voler dire “colui che ama possedere”, “amante di possedimenti” (ideale quindi per un mercenario), mentre Teoclimeno potrebbe significare “colui che ascolta dio” (ottimo come indovino). Anche Antinoo, “mente ostile”, ben si addice al personaggio, come pure Alcinoo, “mente potente”, è perfetto per un re, così come Odisseo è “irato”, o “colui che odia”, Telemaco è “battaglia decisiva”, Autolico “il lupo stesso”, buona scelta per un ladro e imbroglione, e Calipso “la nasconditrice”. Dovremmo dunque dedurne che l’intero poema è solo un’invenzione letteraria? A parte che alcuni altri nomi, come Penelope “anatra striata”, non hanno un particolare significato in rapporto al loro ruolo all’interno della trama, possiamo formulare alcune ipotesi: Omero può avere usato degli pseudonimi onde evitare possibili vendette o rimostranze da parte di eventuali discendenti o parenti dei protagonisti; oppure ha utilizzato per il suo racconto i soprannomi attribuiti ad alcuni degli stessi protagonisti dopo lo svolgimento dei fatti, ignorando i nomi precedenti. In effetti, in tutta la mitologia, non solo nell’Odissea, i nomi corrispondono spesso al ruolo o alla vicenda del personaggio a cui si riferiscono, tanto da sostituire completamente il nome originale. Ce ne dà un esempio lo stesso Omero, quando, parlando dell’accattone Iro (Iros), lo mette in relazione 40

con la messaggera degli dei Iride (Iris): Arnèo era il suo nome; questo gli diede la nobile madre al suo nascere; ma i giovani tutti lo chiamavano Iro, perché portava ambasciate, se lo mandava qualcuno (XVIII, 5-7)

Un tale tipo di sostituzione dei nomi ha continuato ad essere applicato anche in tempi più recenti: tutti sanno che Augusto (“consacrato”) fu il nuovo appellativo di Ottaviano quando assunse la carica di imperatore, ma ben pochi saprebbero dire chi fosse l’eroe Rodrigo Diaz de Bivar, se ad esso non venisse aggiunto il soprannome de El Cid Campeador (il signore campione); o per fare un esempio più noto, non tutti sanno chi è Edson Arantes do Nascimento, mentre tutti conoscono il calciatore Pelé; ed è curioso notare come tale epiteto gli sia stato affibbiato da ragazzino dopo che aveva sbucciato, cioè “pelato”, un pallone, evento che in tutta la carriera gli capitò ben di rado! Fin dall’antichità è sorto il problema di capire chi fosse in realtà Omero, e quale origine avessero avuto i suoi poemi più famosi, ossia l’Iliade e l’Odissea. In realtà non c’è quasi niente di certo: tutto ciò che è stato detto e scritto fino ad oggi appartiene al campo delle ipotesi, non suffragate però da alcuna “prova” inoppugnabile. Talvolta queste ipotesi si sono consolidate, tanto da apparire come fatti del tutto acquisiti e indubitabili: niente di più sbagliato! Riassumiamo brevemente quanto sembra emergere dagli studi di filologi, storici ed archeologi: in base a vari elementi, si pensa che Omero fosse un poeta vissuto in Grecia intorno all’VIII (alcuni dicono VI) secolo avanti Cristo, ma che gli eventi da lui narrati risalgano al XIIIXII secolo circa avanti Cristo, poiché le caratteristiche della società e della tecnologia (per esempio le armi di bronzo), sono molto più arcaiche di quelle dell’ottavo se41

colo. Purtroppo non si trova niente che possa far risalire gli avvenimenti a prima dell’ottavo secolo: né scritti, né vasi, né affreschi, né altro che possa essere messo in relazione con i personaggi omerici, se non a costo di acrobatici esercizi di fantasia, per non dire di vere e proprie forzature. Il reperto archeologico più antico finora rinvenuto è la cosiddetta Coppa di Nestore, risalente al 725 avanti Cristo (ma alcuni ritengono sia più recente), che è stata trovata nell’isola d’Ischia, ai tempi colonia greca. La coppa riporta un’iscrizione in cui si fa riferimento al re acheo Nestore, il che indicherebbe che i personaggi omerici erano conosciuti già a quell’epoca nel bacino del Mediterraneo. La lingua dei due poemi è il dialetto ionico, arricchito da elementi in eolico e in attico. Si è pensato che i poemi siano il risultato di una lunga tradizione orale, iniziata nel XII secolo e durata fino all’VIII, quando qualcuno avrebbe provveduto ad accorpare e a trascrivere vari canti, creati e modificati da vari cantori, in un tutto omogeneo. Come pure si è pensato che, viceversa, su di una base unica siano stati aggiunti altri elementi. Dall’esame di certe differenze stilistiche, alcuni studiosi ritengono che Omero sia il nome solo dell’autore dell’Iliade, oppure solo dell’Odissea, e che il nome dell’altro autore sia andato perduto. Altri pensano che le somiglianze stilistiche tra i due poemi siano molto maggiori delle differenze, e che l’Iliade sia stata creata da Omero in età giovanile e l’Odissea in età avanzata. Già nell’antichità i grammatici alessandrini Senone ed Ellanico avevano messo in dubbio che Omero fosse l’autore di entrambi i poemi, ma l’autorità dello studioso Aristarco di Samotracia, convinto assertore di un Omero autore di Iliade e Odissea, mise a tacere la questione per lungo tempo. Altri ancora ritengono che “Omero” fosse solo il nome generico di una compagnia di cantori girovaghi della tarda preistoria. 42

Le versioni giunte fino a noi dei poemi risalgono a epoche medievali e rinascimentali, e furono copiate da manoscritti andati in gran parte perduti, se si esclude qualche frammento di papiro. In epoca romana il poeta Orazio si permetteva di schernire il suo illustre predecessore per le sue incongruenze, affermando che “Ogni tanto dorme il buon Omero” (Quandoque bonus dormitat Homerus). Nel XVII secolo fu coniato il termine “questione omerica” per indicare la miriade di problemi irrisolti, e apparentemente irrisolvibili, legati alla persona di Omero e alla genesi dei suoi poemi; la disputa sulla questione omerica è ancora viva ai nostri giorni e quanto ora abbiamo raccontato è solo un breve cenno. Ma a questo punto, alla luce di quanto sta emergendo dal nostro studio, si può tentare di rispondere ad alcune domande fondamentali: Omero è dunque un personaggio realmente esistito? Ora si può pensare realisticamente di sì, anche se non si sa niente di certo: i suoi biografi hanno lavorato molto di fantasia. Ed è sempre lui l’autore di entrambi i poemi? Anche ciò è probabile: potrebbe pure essere che egli abbia scritto solo l’Odissea, e che l’Iliade fosse un testo che esisteva in precedenza, al quale sono state apportate alcune modifiche utili a far quadrare i conti: del resto anche Femio e Demodoco sono due poeti diversi, che narrano però le stesse cose. Ma i poemi raccontano dei fatti realmente accaduti, o sono soltanto una serie di miti che non trovano riscontro nella realtà? Adesso tale concetto è da rivedere: con queste chiavi, la percentuale di invenzione mitologica si abbassa drasticamente, ed aumenta invece quella di realisticità di entrambi i poemi. I miti non nascono dal nulla, ma sono funzionali allo svolgersi del racconto. Le differenze stilistiche sono l’effetto di un lavoro di rielaborazione compiuto su vecchie leggende, teso ad ottenere uno sviluppo unitario della trama. Nell’appendice potremo vedere come un’altra chiave, forse ancor più sorprendente, ci consenta di indi43

viduare l’origine di certe mitologie di cui finora non si è mai capito molto. Parafrasando la celebre frase appena citata, ora magari si può dire che Omero era ben sveglio, mentre a dormire per tre millenni sono stati il buon Orazio e tutti i suoi colleghi.

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Capitolo 5 QUEL GIRAMONDO DI ULISSE E I MESSAGGI IN BOTTIGLIA

Ma riprendiamo con ordine l’analisi del testo omerico. Con il quarto libro si interrompe la Telemachìa, cioè la descrizione del viaggio di Telemaco, e comincia la narrazione delle vicende di Ulisse. Dopo che per una ventina di volte ci è stato ripetuto che è morto, eccolo che lo troviamo che “giace” (V,13) da sette anni nella sperduta isola di Ogigia. La bellissima ninfa Calipso, che lo ama, non vuole che parta e gli promette addirittura l’immortalità. Ma Ulisse risponde: O dea sovrana, non adirarti con me per questo: so anch’io, e molto bene, che a tuo confronto la saggia Penelope per aspetto e grandezza non val niente a vederla: è mortale, e tu sei immortale e non ti tocca vecchiezza. Ma anche così desidero e invoco ogni giorno di tornarmene a casa, vedere il ritorno. Se ancora qualcuno dei numi vorrà tormentarmi sul livido mare, sopporterò, perché in petto ho un cuore avvezzo alle pene. Molto ho sofferto, ho corso molti pericoli tra l’onde e in guerra, e dopo quelli venga anche questo! (V, 215-224)

E costui era l’astuto Ulisse? Sarò un bieco maschilista dal cuore di corindone, ma non mi convince molto! Ma andiamo avanti con la storia: Ulisse parte con una zattera per attraversare lo spaventoso tratto di mare tra Ogigia e la terra più vicina. Dopo 17 giorni, quando è in vista della patria dei Feaci, il suo nemico Poseidone, che fino a quel momento non s’era accorto di nulla, gli scatena addosso una tempesta paurosa, tanto che persino

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Ulisse annuncia la sua ormai imminente e ineluttabile dipartita: ora l’abisso di morte è sicuro per me. O tre o quattro volte beati quei Danai, che allora perirono nell’ampia Troade, in grazia degli Atridi! Così anch’io fossi morto, avessi seguito il destino, il giorno che in folla le lance di bronzo mi scagliavano i Teucri intorno al morto Pelide. Avrei avuto gli onori dei morti e la mia gloria gli Achei vanterebbero, invece m’era destino di misera morte essere preda. (V, 305-312)

Questo è un altro delle miriadi di “messaggi in bottiglia”, cioè di indizi nascosti atti a dipanare la trama del “giallo”, che Omero ci lascia: Ulisse è morto, lo conferma lui stesso, lo volete capire sì o no? Ma Superman non può morire, per cui Ulisse riesce a salvarsi rocambolescamente, con l’aiuto di una delle solite divinità che spuntano fuori al momento giusto, e riesce a toccar terra nella Scheria, la patria dei Feaci. Qui lo raccoglie la dolce Nausicaa, figlia del re Alcinoo e della regina Arete, che tanto per cambiare manda anch’essa un bel “messaggio in bottiglia”: Non esiste uomo vivente, né mai potrà esistere, che arrivi al paese delle genti feace portando guerra: perché noi siam molto cari agli dei. Viviamo in disparte, nel mare flutti infiniti, lontani, e nessuno viene fra noi degli altri mortali (VI, 201-205)

Naturalmente la bellissima principessa, che è in età da marito, si è subito innamorata cotta dello straniero: Oh se un uomo così potesse chiamarsi mio sposo, abitando tra noi, e gli piacesse restare! (VI, 244-245)

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E persino il re suo padre, subito dopo averlo conosciuto, e senza neanche ancora sapere chi sia, sarebbe contento: Oh, se bello come tu sei, unanime con me nei pensieri, la figlia mia avessi e ti chiamassi mio genero, restando qui! Io ti darei casa e beni, se ti piacesse restare (VII, 312-314)

E l’astuto Ulisse che fa? Credete che ci pensi su un momentino? Ma neanche per sogno, anzi, nonostante sia stremato per la fatica, prenota subito il viaggio per tornare dalla moglie, un tantino stagionata, e per massacrare i poveri pretendenti! Un bell’esempio di fedeltà coniugale, in un’epoca in cui questa non era certo una virtù molto diffusa! Ma continuiamo, che il bello deve ancora venire: i giovani feaci si sfidano in varie gare di forza e abilità, e invitano l’ospite a partecipare notando che: Di corpo non è certo gracile, e gambe e cosce… (VIII, 134-135)

Alt, fermiamoci un momento. Quando Ulisse arriverà a Itaca, verrà riconosciuto dalla vecchia nutrice Euriclea per una profonda cicatrice sopra il ginocchio, causata da un cinghiale che gli aveva strappato un ampio lembo di carne quand’era ragazzo. Un po’ strano che ora i Feaci non la notino. Anzi, Ulisse si vanta di essere esperto in varie discipline: … pugilato, o lotta, o anche corsa (VIII, 206)

Difficile, se davvero avesse subito una ferita così profonda proprio in quel punto. Anche nell’Iliade Ulisse vince la gara di corsa contro tutti gli altri guerrieri (XXIII, 754-784). Ma ecco la rivelazione fondamentale, dalla viva voce di Ulisse: 47

Solo Filottete mi superava con l’arco in terra troiana, quando d’arco tiravamo noi Achei. (VIII, 219-220)

Già, appunto, solo Filottete. Dopo aver elencato altri celebri guerrieri, come Ercole, ormai trapassati, ecco che proprio Ulisse ci fornisce l’indicazione su chi poteva essere degno di sostituirlo. Questa è l’ultima volta che Filottete viene nominato in tutto il poema, ma vedremo come la sua presenza continuerà ad aleggiare in modo più o meno velato. Per esempio si può notare come a volte vengano menzionati personaggi che hanno qualche assonanza con Filottete, come se Omero volesse in qualche modo far ronzare nella testa questo nome. È vero che il prefisso “filo-” nella lingua greca significa “amante di qualcosa”, ed è comune nei nomi. Tuttavia troviamo nel poema una Filò, ancella di Elena, un altrimenti ignoto Filomelide, re di Lesbo, un Filaco, personaggio di una leggenda minore, e una località di Filache che sembrano messi lì senza alcun altro scopo. Come peraltro, a proposito di nomi, si possono fare dei parallelismi tra l’arrogante pretendente Eurimaco e il feace Eurialo, che si comporta in modo insolente con Ulisse; ma che, a differenza del primo, si ravvede per tempo e domanda scusa, evitando guai peggiori. Ma abbiamo detto che Filottete doveva essere zoppo come il dio Efesto, ed ecco che, guarda caso, il cantore Demodoco si mette subito a narrare una vicenda che ha come protagonista il dio dei fabbri, la moglie Afrodite (Venere) e il suo amante Ares (Marte). Efesto vuole sorprendere i due amanti e perciò fabbrica una grande rete di catene di metallo che li imprigionerà al letto. Poi “lo zoppo glorioso” finge di andarsene… e dove va? Proprio sull’isola di Lemno, la stessa su cui era vissuto Filottete! Dopo di che fa scattare la trappola che incatena al letto i

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due amanti e li espone al pubblico ludibrio, facendo ridere tutti gli dei dell’Olimpo. Anche questo episodio, per quanto scherzoso, ha numerosi richiami con la vicenda reale: lo zoppo Filottete dovrà arrivare di soppiatto e giocare d’astuzia per punire chi tenta di sedurre Penelope. Non fruttan bene le male azioni; il lento acchiappa il veloce. Come appunto ora Efesto, che è lento, acchiappò Ares, il più veloce tra i numi che hanno dimora nell’Olimpo, lui, lo zoppo, con l’arte sua; e pagherà l’adulterio! (VIII, 329-332)

Da notare che l’unico degli dei che non ride è Poseidone, che afferma di essere disposto a pagare di persona i danni procurati dagli incauti amanti. È forse un modo per indicare che Omero accollerà a Poseidone tutti i danni subiti dal povero Ulisse? Poi Demodoco, imbeccato da Ulisse, si mette a cantare il celebre episodio del cavallo di Troia, usato per fare entrare con l’inganno gli Achei nella città nemica e fare strage dei Troiani. Anche qui sono evidenti i parallelismi con la vicenda reale: Filottete dovrà sembrare quello che non è, per entrare indisturbato nella reggia e sterminare gli avversari. A questo punto il re Alcinoo, che ha visto l’ospite turbato dal racconto, si decide a domandargli il suo nome, non prima di aver fatto una significativa dichiarazione: dopo aver affermato che le navi feace possono andare dappertutto velocissime e indisturbate: Solo questo una volta udii predire dal padre, da Nausitoo: diceva che si adirerà Poseidone con noi, che di tutti siamo i trasportatori impuniti. Un giorno, diceva, una solida nave delle genti feace tornante da un accompagno sul mare nebbioso, distruggerà, e poi coprirà la nostra città d’un gran monte. (VIII, 364-369) 49

Cosa che puntualmente avverrà, dopo che i Feaci avranno riaccompagnato “Ulisse” a Itaca. E il bello è che Ulisse sta proprio per raccontare che Poseidone è adirato con lui! Eppure i Feaci non se ne preoccuperanno minimamente, e gli déi, che tanto si impegnano per salvare quel mascalzone di Ulisse, non muoveranno un dito per difendere un intero popolo che, come aveva assicurato Nausicaa, era a loro molto caro! Così, se qualcuno, a Itaca o dintorni, avesse avuto l’uzzolo di intraprendere una gitarella fin dalle parti della terra Feacia in cerca di testimonianze, non avrebbe trovato un bel niente. Et voilà, ecco fatto: nessun testimone, il delitto perfetto!

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Capitolo 6 ULISSE ERA PROPRIO NESSUNO

E così Ulisse comincia a raccontare le proprie disavventure, che servono anche per giustificare la graduale perdita di tutti i compagni. Partito da Troia, si sofferma a saccheggiare la terra dei Ciconi, e nella battaglia muoiono parecchi uomini; l’episodio contribuisce a spiegare la presenza a bordo di una notevole quantità di ottimo vino, sottratto ai locali, che tornerà utile tra poco. Poi arriva alla terra dei mangiatori di loto, la pianta che fa scordare la voglia di tornare. Alcuni compagni se ne cibano, ma lui li trascina a viva forza sulla nave e riesce a ripartire: forse l’aneddoto serve per sottolineare il desiderio del ritorno da parte dell’eroe. Giunge quindi all’isola di Polifemo, il gigante monocolo e cannibale che, dopo averli imprigionati nella sua caverna, si pappa una mezza dozzina di Itacesi. Ulisse gli fa credere di chiamarsi Nessuno, per cui il ciclope manda un primo messaggio in bottiglia: Nessuno io mangerò per ultimo, dopo i compagni (IX, 366)

Da notare che Nessuno nel greco omerico si dice Outis (Oudeis nel greco classico), mentre Ulisse è Odysseus; si tratta di uno dei tanti giochi di parole, il più famoso ed evidente, che piacevano tanto ad Omero e che si perdono nella traduzione. Grazie al vino Ulisse riesce ad ubriacare il gigante e ad accecarlo mentre dorme pesantemente. Per cui Polifemo si lamenta con i suoi colleghi ciclopi gridando un altro bel messaggio in bottiglia: Nessuno, amici, mi uccide (IX, 408) 51

Perciò i suoi simili non si preoccupano minimamente di lui, visto che il male non gli viene da nessuno. Così Ulisse e compagni riescono a uscire dalla caverna del ciclope cieco aggrappandosi sotto al vello dei montoni; però poco prima Omero aveva narrato che Polifemo Nell’ampia caverna spinse le pecore pingui, tutte quante ne aveva da mungere; ma i maschi li lasciò fuori, montoni, caproni, all’aperto nell’ampio steccato (IX, 237-239)

Ma stranamente il ciclope cambia idea il giorno dopo, spingendo tutte le pecore, maschi compresi, dentro la caverna. e subito nel vasto antro spinse le pecore pingui, tutte quante: non ne lasciava all’aperto nella corte profonda o per qualche suo piano, o forse un dio così volle (IX, 356-360)

Cosa che permetterà ad Ulisse e compagni di sfruttare il… passaggio offerto dai montoni. La leggenda del gigante con un occhio solo è di origini antichissime ed è ampiamente diffusa in tutto il folklore europeo; possiamo pensare che questa evidente contraddizione sui montoni sia stata creata da Omero proprio per far capire di aver utilizzato delle mitologie già note, che non hanno niente di realistico. Cioè, come al solito, Omero prima racconta una cosa, poi la smentisce per fare apparire logico tutto il resto. In realtà, tutte queste avventure servono solo per giustificare la lunga assenza di Ulisse da casa, e la perdita del suo equipaggio. Intanto anche Polifemo pronuncia il suo bel vaticinio, imprecando contro Nessuno, il quale non credo che scamperà alla morte… (IX, 455) Mentre Ulisse, fuggendo, non perde l’occasione per 52

fare lo spaccone: Ciclope, se mai qualcuno dei mortali ti chiede il perché dell’orrenda cecità del tuo occhio, rispondi che il distruttore di rocche Odisseo ti ha accecato, il figlio di Laerte, che in Itaca ha casa. (IX, 502-505)

Non solo gli dice il nome, ma pure l’indirizzo! Astutissimo davvero! Per cui Polifemo leva la sua preghiera al padre Poseidone: dammi che in patria non torni Odisseo distruttore di rocche, il figlio di Laerte che in Itaca ha casa. Ma se è destino che egli riveda gli amici e che torni alla solida casa e alla terra dei padri, tardi, male ci arrivi, perduti tutti i compagni, su navi altrui, trovi in casa sciagure. (IX, 528-535)

Preghiera che puntualmente verrà esaudita: nella sua seconda parte, se si dà retta al racconto omerico, così come l’abbiamo sempre letto; già nella prima parte, come invece riteniamo che si sia verificato realmente, e come Omero sta cercando di farci capire. Le avventure di Ulisse proseguono: viene ospitato da Eolo, padre dei venti, che quando riparte gli affida un otre contenente tutti i venti tranne Zefiro. Quando il soffio di Zefiro sta per riportare le navi in patria, i compagni di Ulisse aprono l’otre credendo di trovarci i tesori di Troia, per cui i venti si scatenano e riportano le navi da Eolo. Il quale prima rimane sorpreso di ritrovarsi l’eroe tra i piedi, e quindi si arrabbia e lo scaccia esclamando: Non è lecito a me dare aiuto o accompagno a un uomo ch’è in odio ai numi beati (X, 73-74)

Un altro bel messaggio sia per i Feaci sia per chi ancora crede che Ulisse troverà alla fine il vento propizio 53

per tornare. Da notare inoltre che, a questo punto, sulle navi, evidentemente, i tesori di Troia non ci sono più. Un indizio in più per supporre che Ulisse sia morto da tempo, magari in una delle fasi finali della guerra. Il racconto prosegue: approdano alla terra dei Lestrigoni, altri giganti che si mangiano un bel po’ di equipaggio, e poi, con l’unica nave sopravvissuta integra, giungono all’isola della maga Circe. Molti di questi miti, come quelli di Circe, dei Lestrigoni, e in seguito delle Sirene e delle vacche del Sole, si ritrovano nelle storie di Giasone e degli Argonauti, che sono antecedenti alla guerra di Troia. Quindi è logico dedurne che Omero abbia riciclato dei miti esistenti per ricucirli addosso ad Ulisse. Sbarcato nell’isola di Circe, l’astuto Ulisse non può fare a meno di andare in cerca di altri guai, e di coinvolgere i sempre più scarsi compagni, che infatti vengono subito trasformati in porci dalla maga. Lui invece si salva, grazie a un’erba miracolosa datagli da uno dei soliti “deus ex machina” che saltano fuori al momento giusto. Anche nel caso di Circe ci sono analogie con la vicenda di Penelope: entrambe vivono su un’isola, sono delle regine, sono in posizione dominante sugli uomini, lavorano al telaio, tessono intrighi. E c’è pure un marinaio, Euriloco, che irrita Ulisse e che ricorda nel nome sia il feace Eurialo che il pretendente Eurimaco. Apriamo qui una parentesi: in italiano è evidente il gioco di parole tra porci e Proci (cioè i pretendenti), come pure, identico, in latino. In greco le due parole suonano completamente diverse: il porco si dice sus (come anche maiale in latino), plurale sues, mentre i pretendenti sono i mnesteres. Quindi la coincidenza dovrebbe essere solo casuale. A meno che… chi ci dice che Omero non sapesse il latino, o una lingua affine? Roma venne fondata nel 753 avanti Cristo, ma il latino si parlava già da parecchio tempo, e non solo nel Lazio: Omero era un uomo che a54

veva viaggiato, ed era senz’altro uno dei personaggi più colti della sua epoca. Niente di strano che conoscesse anche qualche lingua straniera, e che abbia voluto creare uno dei tanti enigmi e giochi di parole di cui era appassionato, senza dare naturalmente la soluzione. Quindi si può pensare che Circe domini i porci così come Penelope domina i Proci, e che il porcaro Eumeo a sua volta scannerà i Proci con lo stesso gusto con cui scanna i porci che alleva. C’è poi pure il caso di Mente e di Mentore, i quali “mentono” quando parlano a nome della dea Atena; anche in questo caso in latino l’assonanza tra il nome Mentor e il verbo mentior sono evidenti, ma si perdono in greco: come sempre le coincidenze prese di per sé non significano niente, ma quando si sommano e vengono inserite in un contesto diventano degli indizi. Nella nostra narrazione abbiamo sempre indicato il corrispondente romano dei nomi greci: gli dei greci e quelli romani in effetti si assomigliano moltissimo, anche se hanno nomi diversi, il che potrebbe indicare una loro origine comune, o comunque dei contatti tra le due culture fin da tempi molto remoti. Ma questa, lo ripeto, può darsi che sia solo una divertente e un po’ bizzarra casualità. Riprendiamo la narrazione: Ulisse riesce a far riavere l’aspetto umano ai compagni e diviene per un anno l’amante della bellissima maga. Poi, sollecitato dai suoi uomini, decide di ripartire. Però Circe lo avverte che per poter tornare incolume ad Itaca deve prima passare dall’Ade, l’oltretomba, per fare sacrifici e interrogare le anime dei defunti. Al che il povero eroe si lamenta: All’Ade nessuno mai giunse con nave nera (X, 502)

Appunto, nessuno.

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Capitolo 7 AH, LE DONNE, CHE INFERNO!

Seguendo le indicazioni di Circe, Ulisse giunge alle terre dell’Ade, compie un rito per fare apparire le ombre dei morti, scavando una fossa (particolare forse significativo) e sacrificando degli animali. Cominciano a presentarsi le anime dei defunti: per prima, quella del marinaio Elpenore, morto da poco in un banale incidente, che giace ancora insepolto sull’isola della maga. Elpenore supplica Ulisse di non dimenticarsi di lui quando ripasserà da Circe, di alzargli un tumulo e piantargli in cima … il remo, con cui da vivo remavo in mezzo ai compagni (XI, 76-77)

Ricordiamo che anche Telemaco, se avesse saputo che il padre era morto lontano, avrebbe dovuto erigergli un tumulo. Mentre, subito dopo, l’indovino Tiresia profetizzerà ad Ulisse che, se anche fosse riuscito faticosamente a rimpatriare, avrebbe dovuto ripartire ben presto portando con sé un remo. In effetti, Ulisse è stato mandato fin qui da Circe proprio per interrogare l’anima di Tiresia e conoscere il suo destino. Tiresia giustamente lo informa della presenza dei pretendenti a Itaca. In questo modo Ulisse è preavvisato della necessità di rientrare a casa di soppiatto, cosa che il suo collega Agamennone non aveva fatto, andando incontro alla morte. Si noti che persino i defunti sospettano che Ulisse non sia del tutto vivo: Perché infelice, lasciando la luce del sole, venisti a vedere i morti e questo lugubre luogo? (XI, 93-94)

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Ulisse poi vede la madre, che lo rassicura sulla devozione della moglie. Dopodiché incontra tutta una serie di donne famose, alcune di specchiata fedeltà e virtù (visto che, se tradivano i mariti, lo facevano solo con qualche eccelsa divinità…), ed altre come La madre d’Edipo vidi, la bella Epicaste, che gran colpa commise con animo ignaro, sposando il figlio (XI, 271-273)

Forse un modo per far capire che se anche Telemaco avesse pensato di risolvere i suoi problemi sposando la madre, la soluzione non sarebbe stata accettabile. Ulisse a questo punto interrompe la narrazione, chiedendo ai Feaci di lasciarlo partire. Al che il re Alcinoo lo prega di restare ancora un po’ per finire il racconto. E quindi prorompe in una esclamazione che rappresenta un autentico capolavoro dell’ironia omerica: O Odisseo, davvero noi non pensiamo, vedendoti, che un ciurmadore o un furfante tu sia, come molti la terra nera ne nutre, genti di tutte le razze, fabbricatori di false avventure, di cui nessuno mai saprà nulla. Ma tu hai bellezza nelle parole e, dentro, saggi pensieri, e il tuo racconto, come un aedo, con arte l’hai fatto (XI, 364-368)

Chi ci ricorda? Ma sì, la celeberrima orazione funebre nel “Giulio Cesare” di Shakespeare, quando Marcantonio seguita a ripetere che “Bruto è uomo d’onore” e intanto continua ad elencare le sue malefatte, in modo da far capire agli ascoltatori che la verità è esattamente l’opposto. E così Alcinoo, dopo che Ulisse ha raccontato più panzane di Pinocchio, Bertoldo e il Barone di Münchhausen messi assieme, lo blandisce affermando che lui non è certo un fabbricatore di false avventure! Ma no, ma non sia mai, poffarbacco! Meraviglioso Omero! E poi il re dei Feaci rincara la dose: 57

Ma su, dimmi questo e parlami franco: se hai visto qualcuno dei compagni divini che insieme con te vennero a Ilio e là trovarono morte. (XI, 370 – 372)

O forse la frase doveva essere “vennero ad Ilio e là trovarono morte… insieme con te”? Ma proseguiamo. Ulisse riprende a raccontare, e dice che molti Achei, sopravvissuti alla guerra, nel ritorno perirono per colpa di una donna funesta (XI, 384)

Infatti ecco arrivare Agamennone che, dopo aver narrato nuovamente come la moglie e il di lei amante l’abbiano ucciso a tradimento al suo ritorno, si lamenta: Ah, non c’è niente di più odioso e più cane, di donna che tali orrori nel cuore si metta come colei pensò orrendo delitto (XI, 427-429)

E ancora: … Quel perfido mostro coprì se stessa d’infamia e tutte in futuro le donne, anche se ce ne fossero di buone. Parlava così, e io rispondendogli dissi: Ah, troppo il seme d’Atreo Zeus vasto tuono paurosamente perseguitò con trame di donne fin da principio: per Elena quanti perimmo! E a te Clitemnestra ordì inganno mentre eri lontano (XI, 432-439)

E infine, come ciliegina sulla torta: È un essere infido la donna (XI, 456)

Tutte queste affermazioni si riallacciano a quella del capo dei pretendenti, Antinoo, riguardo a Penelope, che abbiamo già incontrato nel primo capitolo. Nel 1897 lo 58

scrittore inglese Samuel Butler diede alle stampe un saggio intitolato “L’autrice dell’Odissea”, in cui sosteneva che il poema doveva essere stato scritto da una donna. A parte che i cantori nell’antichità erano tutti maschi, mi pare che le ultime affermazioni di Ulisse ed Agamennone mal si concilino con una simile ipotesi. Oppure possiamo divertirci a fare arrabbiare le femministe, dicendo che in fondo quel tale non aveva tutti i torti: dato che nell’Odissea non ci si capiva niente, bisognava pensare che fosse opera di una donna! Ma stiamo proprio cominciando a vedere come, avendo una chiave di lettura completamente diversa, tante cose diventino improvvisamente molto più chiare: Ulisse è morto da tempo, le sue incredibili avventure sono un espediente per giustificarne la lunga assenza, chi prende il suo posto è un arciere, Filottete, chiamato da Penelope e da Telemaco per liberarsi dei possibili usurpatori. Omero è il geniale cantore di corte che, prendendo spunto da racconti mitologici già esistenti, cucirà assieme la trama con un filo invisibile ma robustissimo, disseminando la storia di indizi che diventano evidenti solo se si conosce già la soluzione. E giusto per finire il giro turistico nell’oltretomba, ecco appunto altri due indizi: appare prima Achille, il quale inizialmente si lamenta della sua condizione di morto, anche se molto onorato, e poi si rinfranca al sapere che suo figlio Neottolemo si sta facendo onore come guerriero. Le analogie con i personaggi di Ulisse e Telemaco sono evidenti. Per ultimo arriva Eracle, il maestro di Filottete, con la sua dotazione di arco e frecce, quasi a chiudere un cerchio di coincidenze tra personaggi defunti e personaggi reali. Ma quando Ulisse si sente assediato da una marea di cadaveri, preferisce darsela a gambe e ritornare da Circe.

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Capitolo 8 I GUAI NON FINISCONO MAI

Ulisse e compagni tornano dunque all’isola di Circe, che dapprima li accoglie con un tipico messaggio in bottiglia: Infelici, che vivi scendeste alla casa dell’Ade, due volte mortali, quando una volta sola muoiono gli altri (XII, 21-22)

Quindi ragguaglia Ulisse sui pericoli che ancora dovrà affrontare. Infatti provvede subito a lanciare un altro bel messaggio: Alle Sirene prima verrai, che gli uomini stregano tutti, chi le avvicina. Chi ignaro approda e ascolta la voce delle Sirene, mai più la sposa e i piccoli figli, tornato a casa, festosi lo attorniano (XII, 39-43)

Come sempre viene prevista la morte, ma subito viene trovata una possibile soluzione: Ulisse può turare le orecchie dei compagni e farsi legare all’albero della nave per ascoltare il canto delle Sirene. Poi Circe lo avvisa di evitare le “rupi erranti”, perché Mai scampò nave d’uomini che qui capitasse (XII, 66)

Quindi l’incontro con il mostro Scilla e il gorgo di Cariddi, e infine all’isola Trinachìa, dove pascolano le vacche sacre al Sole, che sono sacre e intoccabili. Naturalmente tutto si verifica puntualmente, ma quando i sempre più scarsi superstiti sbarcano a Trinachìa, il solito Euriloco combina un altro guaio: propone di passare lì la 60

notte per riposarsi, ma una tempesta continua li obbliga a restare fermi per un intero mese. Gli uomini sopravvivono consumando le loro scorte e vivendo di caccia e raccolta, ma quando non hanno più da mangiare rivolgono inevitabilmente le loro attenzioni alle ben pasciute vacche divine. Ulisse cerca in tutti i modi di frenarli, ma Euriloco e compagni approfittano di una sua breve assenza per dare inizio al banchetto. Tutta colpa degli dei, naturalmente, che prima mandano la tempesta per un mese, e poi fanno addormentare Ulisse proprio dopo che era andato ad invocarne la protezione. Ma non era il loro prediletto? Così, invece, il Sole offeso minaccia di smettere di brillare sulla Terra, per cui Zeus lo rassicura che punirà il gesto sacrilego. La vicenda si riallaccia anch’essa alla storia che si sta svolgendo ad Itaca: il quasi omonimo Eurimaco e i suoi compari non si sono limitati a mangiare quello che poteva spettar loro come ospiti, ma sono diventati tracotanti, andando al di là del limite consentito, e perciò saranno puniti. Così come vengono puniti i marinai superstiti: infatti Zeus li illude facendo cessare il maltempo e poi provvede a fulminare la nave in mare aperto. Naturalmente solo Ulisse si salva aggrappandosi ai relitti, finché dopo nove giorni riuscirà ad approdare all’isola di Calipso. E qui il racconto di Ulisse ai Feaci si chiude, per cui il re Alcinoo comanda ai principi riuniti di riempire di doni l’ospite straniero: non solo oro e splendide vesti Ma diamogli ancora un tripode grande e un lebete a testa; poi, raccogliendo tra il popolo, noi ne avremo rivalsa, perché è pesante senza rivalsa donare (XIII, 13-15)

Mica male questa affermazione; ricorda certi governanti (dei tempi passati, chiaramente!). Quindi Ulisse saluta tutti invocando pace e prosperità; sale sulla barca e subito si addormenta di 61

Un sonno profondo simile in tutto alla morte (XIII, 80)

Tanto che i Feaci lo sbarcano in piena notte sulla spiaggia di Itaca ancora addormentato, scaricano tutta la chincaglieria e ripartono senza che lui manco se ne accorga. E Poseidone cosa ti va a pensare? Visto che ormai Ulisse è a casa, chiede al fratello Zeus di potersi vendicare sui Feaci, distruggendo la nave e coprendo la città d’un gran monte, come diceva la profezia. Così la smetteranno di accompagnare i mortali. E gli altri dei, Zeus in testa, che amavano tanto i Feaci, non muovono un dito per impedirglielo! Una simile situazione ricorda la battuta di un noto umorista: “Se fate del bene a qualcuno, ricordatevi che prima o poi dovrete pagarne le conseguenze!”. I Feaci, dalla riva, vedono la loro nave che ritorna trasformarsi in pietra e si ricordano della profezia: per cui giurano solennemente di non accompagnare più nessuno con le loro navi e cercano di placare la collera del dio con il sacrificio di dodici tori. Omero non ci racconta come va a finire, se cioè Poseidone porterà a termine la sua vendetta distruggendo la loro città, oppure se accetterà il dono dandosi finalmente una calmata. Comunque, come abbiamo visto, con questo sistema abbiamo risolto il problema della presenza di troppi testimoni del ritorno di Ulisse. No Feaci, no problem! Da questo punto in poi, quando parleremo di “Ulisse”, dovremo sempre tenere presente che non si tratta del vero Ulisse, ma di Filottete, che è stato sbarcato sull’altro lato dell’isola per prepararsi alla messinscena della vendetta del re che ritorna. Ecco infatti che “Ulisse” si sveglia e non riesce a riconoscere la sua isola, da tanto che ne è stato lontano: Per questo tutte le cose sembravano estranee al sire, i lunghi sentieri, i comodi porti, le rocce inaccessibili e gli alberi floridi (XIII, 194-196) 62

Ora, che un re torni e non riconosca la sua isoletta dopo vent’anni è un po’ improbabile. Capiremmo un berlinese che tornasse oggi nella sua città, vent’anni dopo la caduta del muro, ma di certo nell’età del bronzo le cose non cambiavano così rapidamente! Ma la colpa naturalmente è della dea Atena, che ha avvolto tutto nella nebbia, e che ora gli si presenta con l’aspetto di un giovinetto. Al quale Ulisse racconta di essere fuggito dalla sua terra per avere ucciso un uomo, e di avere avuto un passaggio da una nave fenicia. Più o meno, come vedremo, la stessa storia che racconterà Teoclimeno per essere preso a bordo della barca di Telemaco. Al che la dea lo saluta con un complimento quantomeno singolare: Furbo sarebbe e scaltrito chi te superasse in tutti gli inganni, anche se è un dio che t’incontra. Impudente, fecondo inventore, mai sazio di frodi, non vuoi neppur ora, in patria, lasciar da parte le astuzie, e i racconti bugiardi, che ti son cari sin dalle fasce. (XIII, 291-295)

Anche Ulisse è un po’ sorpreso di trovare la dea che un tempo a Troia gli era benigna, ma che non si è più fatta vedere per un bel po’, nonostante tutti i guai che ha passato. Comunque si fa aiutare a nascondere la sua ricompensa… pardon, i “doni” dei Feaci, mentre la dea provvede a farlo diventare più vecchio e malconcio in modo da renderlo irriconoscibile. Da notare che gli fornisce anche un bastone per appoggiarsi: la trasformazione dall’aitante Ulisse allo zoppo Filottete è ormai avvenuta completamente. Ma intanto anche Atena lascia partire il suo bel messaggio in bottiglia: andrà a chiamare Telemaco che A Lacedemone vasta contrada, da Menelao è andato a cercare tue nuove, se ancora sei vivo (XIII, 414-415) 63

Anche lei vuol far capire come sono andate le cose. Logica la domanda di “Ulisse”: Perché non gliel’hai detto, tu che in cuore sai tutto? (XIII, 416)

Al che la dea glissa, replicando che il ragazzo non corre pericoli, a parte un trascurabile agguato dei Proci, ma che ciò gli servirà per fare un po’ di esperienza e acquistare nobile fama. Come sempre in Omero c’è latente lo scontro tra la magia e la razionalità. Lasciamo per un attimo la parola a Rosa Calzecchi Onesti, che in una nota alla sua traduzione scrive: «Il motivo folcloristico della trasformazione del protagonista non è mantenuto con coerenza nel resto del poema. Che Atena abbia trasformato magicamente Odisseo in una persona diversa è presupposto nel riconoscimento di Telemaco (XVI, 172 sgg.) e nella battuta ironica di Eurimaco sulla sua calvizie (XVIII, 355). Ma per il resto Odisseo appare solo mutato dagli anni e dal travestimento: Euriclea intuisce che è lui prima di vedere la cicatrice (XIX, 380 sg.); Filezio e Penelope capiscono che il mendicante è di stirpe regale (XX, 194; XXI, 334-35); Penelope non lo riconosce perché è coperto di stracci (XXIII, 95), oltre che, s’intende, per gli anni che sono passati. In Omero gli elementi magici tendono a cedere il posto a una narrazione più realistica». Adesso comprendiamo perché: Omero non può rivelare che Ulisse è in realtà Filottete, ma continuerà a fare di tutto per farcelo capire.

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Capitolo 9 ULISSE, CIOÈ FILOTTETE, CIOÈ TEOCLIMENO

E così, “Ulisse” si incammina verso la modesta capanna del porcaro Eumeo, che era stato suo servo fedele ai bei tempi, e che naturalmente non lo riconosce. Ma continua a rimpiangere il padrone e a ripetere che Ulisse (quello vero) è morto e non c’è niente de fare: ... e lui, forse, privo di cibo erra per terre e città d’altri uomini se pur vive ancora e vede il raggio del sole (XIV, 42-44)

Anche Eumeo ha motivi di risentimento verso i pretendenti, visto che lo trattano con arroganza e che gli stanno sbafando i porci che alleva amorevolmente. Mentre Ulisse gli aveva promesso una casa, un podere e una bella moglie. Ora possiamo pensare che questa sarà la ricompensa che Telemaco gli darà in cambio del suo aiuto. Ed Eumeo si lamenta: Così m’avrebbe fatto un gran bene il mio re, se invecchiava tra noi. E invece è morto (XIV, 66-67)

Quindi provvede ad informarci che nonostante i Proci stiano scroccando a più non posso, le ricchezze di Ulisse continuano ad essere enormi, quasi inesauribili: Perché Odisseo aveva beni infiniti; nessuno tanti ne aveva tra gli altri principi (XIV, 96-97)

Un modo per suggerirci che Ulisse, o il suo erede, sarebbe stato ampiamente in grado di ricompensare chiunque si fosse schierato dalla sua parte. E intanto ribadisce il concetto che Ulisse è morto, anche se ogni tan65

to arriva a corte qualche vagabondo portando false notizie: Chiunque errando arriva tra il popolo d’Itaca, va dalla mia padrona e le spaccia menzogne; e lei fa buona accoglienza, l’ospita, chiede ogni cosa, e tra i singhiozzi le cadono giù dagli occhi le lacrime: com’è costume di donna, quando le è morto lo sposo lontano. Tu pure subito, o vecchio, fabbricheresti frottole, se un mantello, una tunica, se vesti ti dessero! No! rapide cagne e uccelli han già strappato la pelle dalle sue ossa: l’ha abbandonato la vita. O forse in mare lo divorarono i pesci; e le sue ossa giacciono sulla riva, di molta sabbia coperte. È morto così, chi sa dove (XIV, 126-137)

Al che Filottete prova a controbattere, giurando che Ulisse tornerà, già nel corso dello stesso mese. Ma, come al solito, le previsioni di un rapido e felice ritorno di Ulisse vengono immediatamente smentite pochi versi dopo. Eumeo infatti ribatte: Mai più Odisseo verrà a casa (XIV, 167) Il giuramento, lasciamolo andare (XIV, 171)

Poi Filottete comincia a raccontare la storia, più o meno inventata, della sua vita: che era figlio di un nobile, era un guerriero, aveva partecipato alla guerra di Troia, aveva molto errato e infine che era caduto in disgrazia. Nello stesso momento, la dea Atena va a Sparta per sollecitare Telemaco a ripartire, e a navigare di notte per evitare l’agguato dei Proci. Per cui Telemaco torna alla sua nave e a questo punto viene avvicinato da un certo Teoclimeno, in fuga per aver ucciso un uomo ad Argo, che gli narra una storia molto simile a quella raccontata da Filottete ad Eumeo e prima ancora alla dea Atena. Teoclimeno afferma inoltre di essere un indovino e chiede a 66

Telemaco come si chiama e da dove viene (ma allora che razza di indovino è?). Telemaco risponde di essere figlio di Ulisse, morto di misera morte. E qui l’indovino si guarda bene dal controbattere che invece Ulisse è vivo… comunque viene accolto sulla nave. Telemaco ritorna quindi ad Itaca, evitando col favore delle tenebre l’agguato dei pretendenti. Sbarca così alle prime luci dell’alba sulla stessa spiaggia dove prima era approdato Ulisse, ovvero Filottete, e si accinge a mandare la nave con i compagni nel porto, avvertendoli che tornerà a piedi facendo un giro per visitare i suoi possedimenti. Teoclimeno vuole sapere dove andare ad alloggiare e Telemaco gli suggerisce di chiedere ospitalità a… Eurimaco, il più ricco e nobile dei Proci, nonché più autorevole candidato al trono di Itaca. Al che Teoclimeno, osservando un falco che stringe tra gli artigli una colomba e vantando la sua fama di indovino, lo blandisce affermando che Altro sangue non c’è che è più regio del vostro tra il popolo d’Itaca: e voi avrete per sempre potenza (XV, 532-533)

Per cui Telemaco preferisce mandarlo dal suo amico Pìreo. Ora ci si aspetterebbe che Teoclimeno, se non altro per gratitudine verso Telemaco che lo ha accolto togliendolo dai guai, si offra di dare una mano nel momento cruciale della strage dei pretendenti. Invece si limiterà a predire loro sciagure per l’imminente arrivo di Ulisse, sparendo dalla narrazione proprio sul più bello. Scrive ancora Rosa Calzecchi Onesti: «Non si capisce perché Telemaco voglia mandare l’ospite proprio dal suo peggiore nemico (ma poi lo affiderà opportunamente a Pireo). Tutto ciò che concerne il personaggio di Teoclimeno è poco chiaro: egli è stato introdotto con una lunga presentazione, come una figura importante, e come tale sarà ripresentato quando darà a Penelope (XVII, 132-161) una 67

nuova interpretazione dell’auspicio già spiegato in questo canto; ricompare infine oracolando nel libro XX (350 sgg.). La poesia epica non introduce con tanto rilievo personaggi che poi restano praticamente inoperanti: in qualche storia parallela Teoclimeno doveva fare qualche cosa di notevole, che noi ignoriamo». Proviamo a risolvere anche questo problema cominciando ad analizzare i due nomi: Teoclimeno e Filottete, vedendo quante lettere hanno in comune. La spiegazione è un po’ lunga, dato che purtroppo non è semplice traslare esattamente il greco antico in italiano. Ho cambiato la fi  -  ph, come si fa di solito (è comunque una lettera sola) e la theta  , th, (idem) e poi trasformato tutto in lettere latine (comunque non ho considerato le h come lettere). A numero uguale corrisponde lettera uguale (numeri da 1 a 4) o lettere tra loro assimilabili (numeri da 5 a 8): 5 61237 8 4 Th e o k l y m e n o s ,0 # 0 " 7 31256 8 4 Ph i l o k t e t e s -  22" Gli studiosi ritengono che prima di essere messi per iscritto, i poemi omerici abbiano avuto un periodo di trasmissione orale più o meno lungo, e quindi non è possibile dire come venissero pronunciate esattamente certe parole. Si tenga presente che la T iniziale di Teo   ,    è esattamente la stessa lettera in greco della t 2         è piuttosto simile. E inoltre che negli alfabeti delle lingue arcaiche le vocali spesso non venivano indicate, quindi anche la # di un nome (trascritta come y        tta come i            0 

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                di Philoktetes. Nel greco antico le due lettere erano molto simili, anche se oggi i greci moderni tendono a pronunciarle in modo diverso. Nel greco antico ci sono due tipi di e (ed anche due o, la “omicron” e la “omega”): una,          0      è la “e breve” (quella che ritroviamo nel nome di Teoclimeno);          è scritta rassomiglia alla nostra n corsiva ma con la zampa più lunga, è la “e lunga”, quella di Filottete. Nel greco moderno, la eta adesso si pronuncia i, ma questa non è una buona ragione per considerarla i anche nel greco antico! Infatti i Greci per dire “Atene” pronunciano “Atinai”, ma in tutte le lingue del mondo, dal latino in poi, la eta di Atene si rende sempre come e! Del resto, in italiano, come in latino, Filottete è proprio pronunciato con le due e. I due nomi hanno dunque in comune quattro lettere, numerate da 1 a 4, più altre quattro, numerate da 5 a 8, che possono essere considerate assimilabili. Perciò non è tanto illogico pensare che i due nomi siano una specie di primitivo anagramma l’uno dell’altro! Qualcosa di analogo, come abbiamo visto, al gioco di parole tra Outis, Oudeis e Odysseus con cui Ulisse inganna Polifemo. Quindi anche questo può essere uno dei tanti messaggi nascosti che Omero si è divertito a costruire per farci capire come si sono svolti realmente i fatti. “Ulisse” non è altro che Filottete, che si è imbarcato con Telemaco facendosi passare per Teoclimeno; così può ingannare anche i giovani compagni di Telemaco, che avrebbero testimoniato in assoluta buona fede che quel tale che aveva viaggiato con loro non poteva essere né Ulisse né tantomeno Filottete! Da notare che nei versi successivi Omero non pronuncia il nome di Teoclimeno tra quelli che risalgono a bordo, ma fa solo il nome di Pireo e, in modo generico, dei compagni. Dato che Omero è solitamente un pignolo che descrive ogni cosa con minuzia, questo particolare può essere significativo. Bisogna stare molto 69

attenti a quello che Omero dice, ma anche a quello che non dice! Il personaggio del “sosia” che si sostituisce al protagonista di una vicenda è ampiamente diffuso in tutta la letteratura antica. Qui Teoclimeno è addirittura il sosia del sosia! Con questa geniale trovata l’inganno è perfetto: se anche qualcuno degli abitanti anziani di Itaca che avevano conosciuto Ulisse (per esempio gli stessi genitori dei Proci) avesse visto Telemaco o Eumeo in compagnia di uno strano tipo, mai visto prima, si sarebbe potuto tranquillamente sostenere che quello non era Ulisse, né ovviamente Filottete, ma lo sconosciuto Teoclimeno. Una specie di gioco delle tre tavolette, ideato appositamente per confondere le idee, come abbiamo già visto nel caso del continuo scambio di doni tra i vari personaggi. Quanto alla proposta di far alloggiare Teoclimeno da Eurimaco, indicandolo tra i più papabili alla successione sul trono di Itaca, è messa proprio in modo da essere smentita immediatamente con l’affermazione che solo Telemaco è il degno erede di Ulisse. Parola di indovino. Adesso si capisce perché Eurimaco non li vedeva tanto di buon occhio!

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Capitolo 10 ULISSE IL CORRIDORE, FILOTTETE LO ZOPPO

Telemaco sale fino alla capanna di Eumeo, dove, secondo la “versione ufficiale”, incontra per la prima volta il padre, senza naturalmente riconoscerlo. Dopo aver salutato con affetto il porcaro gli chiede del misterioso ospite con un discorso molto significativo: Vecchio, di dove quest’ospite viene? Perché i marinai lo condussero a Itaca? Chi si vantavano di essere? Non credo che a piedi potesse venirci (XVI, 57-59)

Sono quasi le stesse frasi che Eumeo aveva rivolto ad Ulisse-Filottete poco prima (XIV, 189-190), e che Telemaco ripeterà (XVI, 222-224) ad “Ulisse” dopo che questi si sarà rivelato. Perché queste parole sono così importanti? Perché qui si comincia a nominare insistentemente i “piedi”. Come abbiamo detto, Filottete aveva subito una brutta ferita a un piede, che doveva avergli lasciato un segno ben visibile e una evidente zoppìa. Ma Omero non può raccontarlo direttamente, perché altrimenti tutto il grosso complotto diventerebbe evidente. Quindi comincia a inserire il vocabolo “piede” un po’ dappertutto e a cercare di far capire che il finto Ulisse zoppica perché ha un piede che funziona male. Ma proseguiamo con il racconto: Telemaco prega Eumeo di andare ad avvertire la madre che è tornato e sta bene, e resta solo con l’ospite. Interviene la dea Atena per ridare temporaneamente ad Ulisse l’aspetto più giovane per farsi riconoscere da Telemaco. Qui Omero ci manda altri due messaggi:

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Telemaco - poiché non ancora credeva che fosse il padre gli disse di nuovo, rispondendo, parole: No, tu non sei Odisseo, non sei il padre mio… (XVI, 192-194)

Mentre Ulisse controbatte: Un altro Odisseo non potrà mai venire… (XVI, 204)

Ora, qualcuno può pensare che stiamo facendo una operazione scorretta estrapolando solo le frasi che convengono alla nostra tesi, evitando di citare le parole successive che vanno in senso contrario: perché sono io, proprio io, che dopo aver tanto errato e sofferto, arrivo dopo vent’anni alla terra dei padri (XVI, 205-206)

Tuttavia, ritengo che proprio seguendo questo metodo si possa riuscire a intuire come sono andate realmente le cose. È del tutto logico pensare che, se uno è partito per la guerra e non è più tornato dopo vent’anni, ciò significa che è morto. E così pure che se qualcuno si presenta in sua vece, ma nessuno lo riconosce, deve essere qualcun altro. Mentre per la tesi contraria bisogna inventarsi continuamente interventi divini più o meno miracolistici, strane coincidenze temporali, imprese epiche e tutto il resto. D’altronde, poesie, aforismi, paradossi che cominciano in un modo e poi finiscono in un altro sono sempre esistiti. Per esempio, una testimonianza preziosa su di esse ci è offerta dall’operetta dal titolo Agone tra Omero ed Esiodo, compilazione di età adrianea (II sec. d.C.), che dipende da uno scritto perduto del retore Alcidamante (IV sec. a.C.), il quale rielabora a sua volta materiale ancora più remoto, risalente addirittura, secondo alcuni, all’VIII secolo a.C. (che per molti antichi storici doveva essere all’incirca l’epoca in cui era vissuto Omero). Il testo racconta di una sfida di cui sarebbero stati protagonisti i due massimi esponenti dell’epica arcaica, 72

Omero ed Esiodo. La competizione (che probabilmente è il risultato della sovrapposizione di diverse prove combattute in tempi e luoghi diversi) si articola in sei distinti momenti, che vengono illustrati in modo particolareggiato. Vediamone alcuni: lo sfidante pone delle domande paradossali, e lo sfidato è sollecitato a improvvisare sulla base di una trama narrativa apparentemente inconcepibile; per esempio: [Esiodo] Musa, t’invoco: il presente, il futuro, il passato

non mi cantare; ma ispirami un canto diverso.

Missione impossibile? Non per Omero, che infatti risponde: [Omero] Mai sulla tomba di Zeus cavalli dall’unghia sonante

fracasseranno il cocchio, lottando per la vittoria.

In un altro caso entrano in gioco le espressioni ambigue, che consistevano in una difficile prova di prontezza e abilità tecnica: lo sfidante recitava un verso dal senso incongruo o assurdo, senso che lo sfidato doveva ripristinare articolando un nuovo verso che completasse il precedente; ecco due esempi: [Esiodo] Banchettarono per tutto il giorno, senza aver nulla [Omero] portato: offriva Agamennone, re dei guerrieri. [Esiodo] A tutti costoro l’Atride augurò di perire [Omero] sul mare giammai, e disse levando la voce [Esiodo] mangiate, amici, bevete: nessuno tra voi

a casa ritorni e alla cara sua terra natale [Omero] ferito: illesi possiate tornare alle vostre dimore.

Naturalmente nel caso dell’Odissea non c’è una contrapposizione tra due poeti diversi, ma il gioco è molto simile.

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Ma riprendiamo il racconto, dove incontriamo subito un altro esempio: Telemaco illustra ad Ulisse la consistenza degli avversari; prima avverte: I pretendenti, non una decina o due sono, ma molti di più, e presto saprai il loro numero (XVI, 245-246)

Quindi spiega che 12 vengono da Itaca e gli altri dalle isole vicine: in totale sono 108, più alcuni servi. Ulisse suggerisce di renderli inoffensivi: toglieranno le armi appese alle pareti con la scusa di pulirle, e inoltre, per rendere più plausibile il loro gesto, spiegheranno ai Proci di voler anche evitare che qualcuno di loro, ubriaco, possa ferirsi in una rissa. Quindi nello scontro cruciale da una parte ci dovrebbero essere 108 pretendenti, e dall’altra solo un vecchio arciere e un giovane alle prime armi, a cui si uniranno il porcaro Eumeo e il mandriano Filezio, oltre naturalmente all’aiuto degli dei. Possiamo pensare che queste cifre siano realistiche? Direi proprio di no, considerato poi che i Proci avevano comunque con sé i coltelli per tagliare le carni, e i tavoli dietro cui ripararsi. Non si può sapere con certezza quale fosse il vero rapporto numerico tra le forze in campo, ma già quel “non una decina o due” può essere un indizio. In Omero ci sono due numeri che ricorrono insistentemente, senza che la narrazione ne abbia un assoluto bisogno: il 20 e il 9. Per quel che mi risulta, sono numeri che non hanno un particolare significato esoterico, o astronomico, o astrologico. Possiamo immaginare che fosse questo il reale rapporto tra i pretendenti e gli alleati di Telemaco? O che lo scontro si sia risolto in una questione interna tra gli Itacesi, con un minimo coinvolgimento dei principi delle isole vicine? A meno di clamorose scoperte archeologiche, queste, per quanto plausibili, rimarranno solo ipotesi. Intanto si ricomincia a parlare di piedi, perché Ulisse, o meglio Filottete, che sta per recarsi a palazzo tra74

vestito da mendicante, raccomanda a Telemaco di non reagire scompostamente se i pretendenti dovessero maltrattarlo: Se nel palazzo m’offendono, il tuo caro cuore sopporti nel petto di vedermi angariato, quand’anche attraverso la sala mi trascinassero fuori per i piedi (XVI, 274-276)

E poi, dopo che la dea gli ha ridato l’aspetto malconcio, chiederà ad Eumeo: “Dammi un bastone, se ce l’hai già tagliato, che m’appoggi, perché dicevate che la via è sdrucciolevole” (XVII, 195-196)

La parola bastone viene poi ripetuta più volte, giusto per ribadire il concetto. Telemaco si incammina rapidamente verso la città, mentre Eumeo e Filottete lo seguono più lenti. Ed ecco che a loro si avvicina l’antipaticissimo Melanzio, il capraio amico dei Proci (non temete, farà una brutta fine…), e comincia ad insultare il povero mendicante, dicendo tra l’altro: Costui appoggiandosi agli stipiti si finirà le spalle (XVII, 221)

E dopo altri insulti Così diceva, e passando gli diede un calcio, lo stolto, sull’anca; (XVII, 233)

È il tipo di cattiveria che un essere odioso può fare nei confronti di uno zoppo. Filottete non reagisce, rinunciando a fracassargli il cranio col bastone, e quello prosegue il cammino: E così detto, li oltrepassò, ché andavano piano (XVII, 254)

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Lentamente arrivano al palazzo, dove il vecchio cane Argo sembra riconoscere il suo padrone… ma subito dopo muore. Neanche il cane potrà “testimoniare” di aver visto Ulisse. Tanto che Eumeo rimarca: Quello è il cane di un uomo morto lontano (XVII, 312) Ora è malconcio, sfinito, il suo padrone è morto lontano (XVII, 318)

Il mendicante entra quindi nella sala da pranzo dove stanno banchettando i pretendenti e comincia a chiedere loro qualcosa da mangiare. Antinoo lo apostrofa in malo modo e tenta di colpirlo con uno sgabello, e poi anche lui si mette a parlare di piedi; o più precisamente, di un piede solo: Mangia là, zitto e seduto, straniero, o va’ via, che non ti tirino i giovani, per quello che dici, attraverso la sala per un piede o pel braccio e ti spellino tutto (XVII, 478-480)

Poco dopo sopraggiunge l’accattone Iro, che individua nel mendicante un pericoloso concorrente. E con quali parole lo minaccia? Vattene, vecchio, dall’atrio ché non ti trascini via per un piede (XVIII, 10)

Quindi il bersaglio viene messo sempre più a fuoco: prima “i piedi”, poi “un piede o un braccio”, e infine “un piede”. Iro sfida il mendicante a fare a botte, e i Proci s’affollano subito per godersi lo spettacolo. “Ulisse” si spoglia dei cenci e mette in mostra le cosce belle e robuste (XVIII, 68)

e i pretendenti commentano stupiti: 76

Ah, presto Iro, povero Iro, avrà il malanno che cerca, tali cosce dai cenci mette fuori quel vecchio! (XVIII,73-74)

Come vedremo tra poco, a tarda sera la vecchia nutrice Euriclea riconoscerà “Ulisse” proprio per una profonda cicatrice sopra il ginocchio; qui invece, in pieno giorno, nessuno se ne accorge! Così l’anziano mendicante, ovvero Filottete, rifila un possente sganassone a Iro e lo mette subito fuori combattimento, tra lo sghignazzare dei Proci. Viene buio, e Filottete si accinge a passare la notte nella sala del palazzo, per cui un’ancella arrogante lo apostrofa: Straniero meschino, tu sei balordo di testa; non vuoi dormire in qualche bottega di fabbro o sotto una loggia qualunque (XVIII, 326-328)

Come abbiamo già spiegato, Efesto (Vulcano), il dio dei fabbri, era zoppo. Alcuni studiosi ritengono che nei tempi antichi vigesse l’uso, piuttosto crudele, di azzoppare il fabbro della comunità: ciò per impedirgli di fuggire e di divulgare i segreti della fabbricazione delle armi alle tribù nemiche. Altri pensano, più semplicemente, che l’attività di fabbro venisse svolta da chi non era in grado di combattere, a causa di qualche menomazione, così come i ciechi riuscivano a campare con il lavoro di cantore. Quindi, perché di tutti i luoghi possibili, stalle, fienili, porcili, l’ancella lo dovrebbe maleducatamente invitare ad andare a dormire da un fabbro, se non proprio perché lo straniero è zoppo? Ma non solo, Efesto era anche ambidestro: ed ecco che Filottete afferma che in caso di guerra prenderebbe due lance (XVIII, 377). Anche il fatto che il mendicante venga chiamato “straniero” può essere significativo: provenendo da un’altra isola, o dalla terraferma, è probabile 77

che Filottete avesse un accento leggermente diverso da quello degli abitanti di Itaca. Arriva Penelope, che desidera interrogare lo straniero a tu per tu, ora che tutti sono andati via: gli racconta che non ha nessuna intenzione di risposarsi, anche se Ulisse è morto, e che fa di tutto per rimandare le nozze. Da notare che, poco prima, aveva detto ai pretendenti che lo stesso Ulisse, mentre si accingeva a partire per la guerra di Troia, le aveva dato il permesso di risposarsi se non avesse fatto ritorno, non appena il figlio avesse cominciato ad avere un po’ di barba. Quindi perché mai Ulisse, se davvero fosse stato lui, avrebbe dovuto fare una strage di tutti i pretendenti della moglie, visto che lui stesso aveva dato il consenso per nuove nozze? Tutt’al più avrebbe potuto chiedere un cospicuo risarcimento per tutti i beni consumati, come infatti gli offrirà inutilmente Eurimaco prima di essere ucciso. Ammazzare tutti i possibili aspiranti al trono di Itaca è invece l’unico modo per garantire a Telemaco di mantenere il potere nelle sue mani. Naturalmente Penelope non riconosce il marito, che infatti gli racconta di essere un principe caduto in disgrazia, Etone di Creta (un nome che forse potrebbe essere messo per assonanza con le ultime lettere di Filottete). Che un tempo aveva conosciuto Ulisse, che forse è sulla strada del ritorno. Ora, poiché il colloquio avviene in assenza di testimoni, noi possiamo anche immaginare che in realtà Penelope sapesse della congiura messa in atto da Telemaco e Filottete, oppure che abbia riconosciuto quest’ultimo e abbia provveduto a definire con lui le ultime parti dell’inganno. Intanto anche Penelope non rinuncia all’argomento di conversazione preferito di questa parte di poema, e improvvisamente ordina: Ora, ancelle, lavate i piedi a quest’uomo (XIX, 317)

Al che Filottete, preoccupatissimo, risponde di non 78

essere più abituato alle comodità e quindi Nemmeno un lavacro ai piedi è gradito al cuore: nessuna donna toccherà i piedi miei tra quelle che in palazzo ti servono se non c’è qualche vecchia antica, fedele, una che in cuore abbia tanto sofferto, quanto io ho sofferto: a questa non vieterei di toccare i miei piedi (XIX, 343-348)

Evidentemente, la ferita al piede di Filottete era in qualche modo occultata dalle calzature. In effetti, Omero non racconta che lui, dopo aver passato la notte nella capanna del porcaro, si infila i calzari. Operazione che invece compiono sia Telemaco che Eumeo dopo aver dormito, com’è logico. Probabilmente li aveva tenuti indosso anche mentre dormiva, oppure aveva una specie di bendaggio o di imbottitura, a protezione della cicatrice. Il suo timore era che le ancelle, spettegolando con i Proci, li potessero avvisare che quel misterioso straniero aveva la ferita caratteristica di un celebre eroe, compagno di Ulisse. Penelope quindi gira l’ordine alla vecchia schiava Euriclea, che era stata la nutrice di Ulisse. Questa i piedi ti laverà, benché ormai malridotta (XIX, 356)

Ed Euriclea si accinge a farlo: il suo discorso è un autentico capolavoro: Ti laverò i piedi, sì, per Penelope e anche per te, perché batte, dentro, il mio cuore d’angoscia. Ah! comprendi la parola che dico: molti stranieri infelici e tapini qui giunsero, ma nessuno, ti dico, così somigliante a vedersi, come tu, corpo, voce, piedi, somigli a Odisseo. E rispondendole disse l’accorto Odisseo: O vecchia, così dicono quanti ci han visti con gli occhi entrambi, che molto simili siamo fra noi, come tu appunto, che sei molto saggia, dichiari”. 79

Cosi parlava; intanto la vecchia aveva preso il lebete lucente, per lavare i suoi piedi, e in abbondanza versava acqua fredda, poi aggiunse la calda; Odisseo al focolare sedeva, ma verso il buio si volse di scatto; d’un tratto in cuore gli venne paura che ella toccandolo la cicatrice riconoscesse, e tutto fosse scoperto. Lei, dunque, lavava il suo re, standogli accanto: e davvero la cicatrice conobbe, che gli fece un cinghiale con la candida zanna, quando al Parnaso salì, con Autòlico e i figli, col nobile padre della madre, che tra i mortali eccelleva per ruberie e spergiuri (XIX; 376-396)

Quindi il concetto di “piedi” viene ripetuto continuamente, fino al riconoscimento della cicatrice. Ecco che il cinghiale, un attimo prima di essere ucciso da Ulisse, lo ferisce gravemente … ma, più veloce, il verro colpì sopra il ginocchio; strappò con la zanna un gran lembo di carne (XIX, 449-450)

Come abbiamo appena letto, le cosce che “Ulisse”, cioè Filottete, mette in mostra davanti ai Proci sono assolutamente perfette. Inoltre, come abbiamo già visto, Omero ci fa sapere che Ulisse, quello vero, era un eccellente corridore: aveva vinto infatti la gara di corsa con gli altri Achei duranti i giochi in onore di Patroclo (Iliade, libro XXIII); inoltre se ne era vantato con i giovani Feaci (Odissea, VIII, 206). Per di più, una leggenda, non raccolta da Omero, narrava che Ulisse avesse potuto impalmare la bella Penelope dopo aver vinto una gara di corsa tra tutti i pretendenti, indetta dal di lei padre, il possente Icario. Tutto questo è logicamente incompatibile con la gravità della ferita subita da ragazzo, il “gran lembo di carne” strappato proprio sopra il ginocchio. E infatti Omero ci fa capire che sta raccontando una clamorosa frottola lodando Autolico, il nonno di Ulisse, che “eccelleva 80

per ruberie e spergiuri”! Formidabile Omero, ha lasciato indizi dappertutto! Da notare che la gara per sposare Penelope era stata indetta come “premio di consolazione” per i pretendenti alla mano di Elena, dopo che essa aveva sposato Menelao. Elena e Penelope erano infatti cugine, dato che Icario era fratello di Tindaro, padre di Elena. Poiché sia Ulisse che Filottete erano stati tra i pretendenti di Elena, anche Filottete, che ai tempi non aveva ancora subito la sua menomazione, aveva molto probabilmente partecipato alla gara. E quindi Penelope doveva conoscerlo bene. Ed ecco che la nutrice riconosce la cicatrice: Ora la vecchia, toccando la cicatrice con le due mani aperte, la riconobbe palpandola, e lasciò andare il piede (XIX, 467-468)

Riepilogando: il concetto di “piede” viene ripetuto più volte fino a che il discorso gira sulla ferita al ginocchio. Quindi Omero vuole farci capire che il problema sta nel piede, e non nel ginocchio! Filottete, che impersona Ulisse, è chiaramente zoppo a causa della sua vecchia ferita al piede: arriva appoggiandosi a un bastone, viene villanamente colpito all’anca, viene invitato ad andare a dormire nella bottega di un fabbro, ed è preoccupatissimo che gli lavino i piedi. Non mi risulta che nelle mitologie ci sia qualche tabù che riguardi i piedi. Al contrario, nel Vangelo, lavare i piedi era un atto di grande ospitalità e sottomissione. Mentre nel Medioevo era umiliante subire in pubblico una “lavata di capo”, termine che è rimasto nel linguaggio colloquiale. Di piedi non parla nessuno. Curiosamente c’è uno strano verso nell’Iliade, dove Achille invoca lo Zeus di Dodona, attorno a cui i Selli vivono, interpreti tuoi, che mai lavano i piedi (“aniptopodes”) e dormono in terra. (Iliade, XVI, 234-235)

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Considerate che “Ulisse” nell’Odissea per due volte menziona la località di Dodona, parlando con Eumeo e con Penelope (Od. XIV, 327; XIX, 296), dicendo che Ulisse (quello vero) si sarebbe dovuto recare proprio là a consultare l’oracolo di Zeus prima di tornare a Itaca. Ed è immediatamente dopo la seconda citazione di Dodona che a Penelope viene in mente (XIX, 317) di far lavare i piedi al misterioso straniero! E infine, dopo che la nutrice Euriclea ha “riconosciuto” la cicatrice, ecco che lascia ricadere... il piede! A questo punto “Ulisse”, che evidentemente non aveva in simpatia tutti quelli il cui nome comincia con “Euri”, s’avventa al collo della vecchia per imporle di non parlare. Euriclea promette di non rivelare niente a nessuno. E riattraversa la sala per andare a prendere altra acqua, dato che tutto s’era versato. Naturalmente Penelope non s’accorge di nulla, perché Atena le distrae la mente. Possiamo interpretare tutto questo lungo episodio in vari modi: Euriclea può aver riconosciuto Filottete, che magari aveva frequentato la reggia nei tempi passati, ma non intende tradirlo; oppure è già a conoscenza della congiura, ma essendo uno dei servi più vecchi e fidati di Ulisse e della sua famiglia, è completamente d’accordo; terza interpretazione, la storia è tutta inventata e serve ad Omero per farci capire un’altra volta come stanno veramente le cose; infine, ultima possibilità, io sono pazzo e quello che solo Euriclea, e nessun altro, riconosce, è veramente Ulisse, come ci hanno raccontato fin da bambini. Inutile dire che, arrivato a questo punto, forse mi conviene proseguire trascinando anche voi, incolpevoli lettori, nel vortice della follia. Ma, come diceva giustamente Erasmo da Rotterdam: «l’unico fatto certo è che senza il condimento della follia non può esistere piacere alcuno». E quindi proseguiamo: Penelope racconta di aver sognato venti oche che beccano il grano (ritorna il nu82

mero venti) e che arriva un’aquila che le uccide. Il mendicante interpreta il sogno dicendo che Ulisse sta tornando e ucciderà i pretendenti. E Penelope, sempre fingendo di ignorare chi sia lo straniero, gli racconta che intende sottoporre i pretendenti ad una prova di abilità in cui eccelleva Ulisse: tendere l’arco e attraversare con una freccia dodici scuri ben piantate e allineate. Chi vincerà avrà diritto a sposarla, e a portarla via dalla bella casa in cui vive e si trova tanto bene. E ciò avverrà già l’indomani, nonostante tutti i segni che stanno ad indicare un imminente ritorno del marito, e che, secondo logica, dovrebbero indurla a pazientare ancora un po’. E naturalmente l’arciere Filottete la incoraggia a farlo. Ovvio che Penelope sa cosa sta per succedere. La trappola finale è pronta a scattare.

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Capitolo 11 COME SI ORGANIZZA UNA STRAGE DI STATO

Viene la notte, che Filottete trascorre dormendo per terra nel portico, mentre Penelope è nella sua stanza, ancora a ripensare al marito morto: Così m’annientino i numi che han le case d’Olimpo, o mi colpisca Artemide riccioli belli, ch’io scenda sotto la terra odiosa a vedere Odisseo (XX, 79-81)

Omero vuole mantenere alta la tensione fino all’ultimo, anche se, come abbiamo visto, c’erano già tutti gli elementi perché la regina riconoscesse Ulisse nel misterioso straniero, se davvero fosse stato lui. Ecco perché Penelope non lo ospita di nascosto nel suo letto. Ma anche in questo caso, viene nuovamente ripetuto il concetto che Odisseo è ormai defunto. Al mattino, Telemaco esce nella piazza, forse per cercare altri aiuti, mentre nel palazzo cominciano ad arrivare i fornitori di vettovaglie. Tra questi sopraggiungono il porcaro Eumeo, che saluta Filottete con cordialità, e ancora l’odioso capraio Melanzio, che invece riprende ad insultarlo (e ne pagherà le conseguenze, eccome se le pagherà!). Arriva anche un nuovo personaggio, il bovaro Filezio, amico di Eumeo, che si unirà ai nostri nel momento del bisogno: Terzo tra loro venne Filezio, capo d’uomini, sterile vacca ai pretendenti portando e floride capre. Traghettatori gli avevano dato passaggio, quelli che tutti gli uomini traghettano, chi va da loro (XX, 185-188)

Filezio si occupa di portare al pascolo sul continente 84

le mandrie che Ulisse gli ha affidato quando era ancora ragazzo: sotto le sue cure il numero dei capi è aumentato di molto, e quindi anch’egli spera che Ulisse ritorni e gli dia una ricompensa per l’ottimo lavoro svolto. Naturalmente neanche Filezio ama i pretendenti che stanno sbafando a più non posso. E neppure lui riconosce Ulisse nel mendicante, pur notandone il portamento regale. Tuttavia dichiara che se Ulisse fosse ancora vivo, se dovesse tornare, sarebbe fiero di aiutarlo. Può essere significativo il soprannome di Filezio, ripetutamente chiamato “capo d’uomini”: è possibile che i traghettatori non si siano limitati a portare lui solo, ma pure qualcuno dei suoi aiutanti, anche se Omero non lo racconta per far sembrare più evidente la disparità con il numero dei Proci. Del resto, anche il porcaro Eumeo aveva due aiutanti sotto di sé. Così Filezio, mandriano di cospicue mandrie, doveva certamente avere anche lui dei “cowboys” alle sue dipendenze, un po’ come i fattori delle nostre campagne, che spesso avevano un potere non indifferente sui semplici contadini. Proprio il capo dei pretendenti Antinoo ci darà un altro suggerimento: Oggi tra il popolo c’è la festa solenne di Apollo (XXI, 258-259)

quindi questo non è un giorno qualunque, ma è la festa di Apollo arciere: in un epoca in cui pochi sono in grado di usare un calendario, se dei congiurati devono darsi un appuntamento, possono farlo solo in un giorno particolare, ben noto a tutti. Dato che Apollo era il dio della luce, possiamo azzardare addirittura l’ipotesi che potesse essere una festa solare, come il solstizio d’estate, che era un giorno particolarmente importante per gli antichi. Ha inizio il banchetto, e i Proci riprendono a insultare il mendicante, a ripetere che Ulisse è morto, e a sollecitare Telemaco affinché lasci che la madre si risposi. Al 85

che Telemaco risponde che non è lui a impedire le nozze della madre. La risposta provoca un riso irrefrenabile tra i pretendenti… Prende a questo punto la parola l’indovino Teoclimeno, che annuncia un imminente futuro di tenebre e di morte. Eurimaco lo sbeffeggia dandogli del pazzo, e invitandolo ad uscire per vedere se davvero è notte (in effetti la notte del solstizio estivo è la più breve dell’anno). Teoclimeno gli risponde chiamandolo per nome (cosa un po’ strana se davvero fosse appena arrivato), e poi abbandona la sala. Non ricomparirà più per tutto il resto del racconto, se ne va proprio un attimo prima che si scateni la tempesta. Ma, come abbiamo visto, forse questo Teoclimeno non è altro che Filottete stesso, e nessuno dei Proci vivrà abbastanza a lungo per poterlo raccontare. Ed ecco che Penelope si decide ad andare a prendere nel magazzino l’arco e le frecce che erano appartenute ad Ulisse, il quale le aveva ricevute in regalo da un certo Ifito Euritide. Osservate che se prendiamo le ultime lettere di questo nome, fito-tide, otteniamo di nuovo un nome molto simile a quello di Filottete. E anche Ifito Euritide aveva avuto a che fare con Ercole, che lo aveva ucciso a tradimento, in un attimo di follia, mentre era ospite da lui. Anche qui sembra che la storia sia inventata apposta per introdurre in modo enigmatico il personaggio di Filottete, arciere ed erede di Ercole. E come al solito, chi potrebbe fornire una testimonianza fondamentale è già morto. E Omero ci spiega anche come mai l’arco si trova lì: … Dunque Odisseo luminoso andando alla guerra sopra le navi nere mai prendeva quell’arco, ma per ricordo dell’ospite amato lo serbava in palazzo, lo usava nella sua terra soltanto (XXI, 38-41)

Quindi Penelope rientra nella sala con in mano l’arco e le frecce, mentre le ancelle portano una cassa di armi, 86

che torneranno utili ai congiurati, dato che le altre armi, quelle che ornavano le pareti, sono già state nascoste da Telemaco e Filottete con la scusa di ripulirle. E adesso Penelope propone ai Proci la gara: avrà diritto a sposarla chi riuscirà ad eguagliare le capacità del suo perduto marito; tendere l’arco e con una freccia attraversare dodici scuri allineate. Ora, si è molto discusso su come dovevano essere disposte queste scuri, e sono state proposte diverse interpretazioni: forse avevano degli anelli da qualche parte, oppure erano prive del manico, per cui bisognava passare con la freccia attraverso i buchi; in effetti le scuri non verranno utilizzate da nessuno come arma al momento della strage. Di sicuro quello proposto da Penelope non era un esercizio facile, tanto che i Proci si stupiscono già nel vedere come Telemaco le dispone con perizia: E prima le scuri piantò, scavata una fossa in traverso, una per tutte, lunga: la fece diritta a livella; poi intorno calcò la terra. Stupore prese tutti a vedere come le mise tutte in bell’ordine: e prima non le aveva mai viste (XXI, 120-124)

Anche qui dobbiamo pensare che un tale “numero da circo” sia stato accuratamente programmato: un motivo in più per dedurne che il misterioso straniero non possa essere Ulisse, appena arrivato. E infatti neanche Antinoo lo riconosce: Non c’è nessuno fra tutti costoro, che sia uomo tale qual era Odisseo; io l’ho veduto, e lo ricordo; certo allora ero un bambino (XXI, 93-95)

Lo stesso Ulisse non mostra mai una particolare abilità nel maneggiare l’arco, neanche nell’Iliade dove non lo usa né in guerra, né durante i giochi in onore di Patroclo; a dire il vero, c’è un cenno ad un arco nel decimo libro dell’Iliade, quando Ulisse e Diomede compiono una 87

pericolosa incursione notturna nel territorio troiano: però l’arma viene data ad Ulisse da un altro guerriero, Merione, e viene usato dallo stesso Ulisse in modo improprio, cioè solo per frustare i cavalli. Inoltre, molti critici ritengono che il decimo libro sia stato inserito nell’Iliade in un secondo tempo, magari ad opera del poeta autore dell’Odissea, proprio per dare al personaggio di Ulisse un’importanza maggiore. Evidentemente, Itaca non era terra di arcieri, infatti nessuno sembra sapere bene cosa fare. Ci provano prima Telemaco e uno dei Proci, ma non riescono neanche a tendere la corda. Solo Antinoo, che ha un pochino più di esperienza, intuisce che l’arco per funzionare deve essere prima scaldato e ingrassato, per cui ordina che sia acceso il fuoco. Ciononostante, tutti i Proci, tranne Eurimaco e Antinoo, i più forti di tutti, provano inutilmente a tenderlo. A questo punto il mendicante fa un cenno ad Eumeo e Filezio ed esce con loro dalla sala. Ed ecco che “rivela” ai due di essere Ulisse, chiedendo il loro aiuto nel compiere la sua vendetta e promettendo un premio notevole: All’uno e all’altro darò una sposa, ricchezze darò; e una casa innalzata accanto alla mia; pel futuro compagni e fratelli sarete, per me, di Telemaco (XXI, 214-216)

Attenzione: non dice “sarete miei compagni e fratelli” ma “per me sarete compagni e fratelli di Telemaco”. È evidente che quello che parla non è il re di Itaca Ulisse, ma un altro. E per farsi riconoscere scosta i cenci e mette in mostra la cicatrice sul ginocchio: abbiamo già visto come tale “prova” avesse ben poco valore. Rientrano quindi nella sala, mentre Eurimaco si lamenta di non riuscire a tendere l’arco. Per cui Antinoo, per evitare brutte figure, propone di rinviare la gara all’indomani, con la scusa che, evidentemente, il dio A-

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pollo non vuole che si faccia sfoggio di bravura nel giorno della sua festa. E allora Filottete, con l’aria più innocente del mondo, chiede di provare anche lui, per vedere se nelle sue stanche membra è rimasto un poco dell’antico vigore. Naturalmente i Proci si sentono offesi ad essere sfidati da un simile pezzente, ma Penelope interviene ribattendo che se anche lo straniero dovesse riuscire a tendere l’arco, non lo sposerà, ma che gli verranno comunque tributati onori e ricchi doni. Anche Telemaco, tra le urla dei pretendenti, approva. E poi intima alla madre di ritirarsi nelle sue stanze, ordine che Penelope esegue immediatamente senza discutere, mentre il bovaro e il porcaro provvedono a sbarrare le porte per impedire ogni fuga durante la “mattanza”. Quindi “Ulisse” prende in mano l’arco, cominciando ad esaminarlo e a palparlo accuratamente, tanto che due giovani commentano: Certo costui era un esperto, un uomo pratico d’archi. E forse anche lui possiede archi simili in casa (XXI, 397-398)

Chiaramente, nessuno a Itaca aveva mai visto un arco di quel tipo: probabile quindi che Filottete se lo fosse portato dietro da casa. Magari era stato nascosto tra i cosiddetti doni che Menelao aveva fatto a Telemaco: in effetti, quando Penelope lo prende per portarlo nella sala, lo estrae dalla sua custodia, che stava a sua volta in mezzo alle arche contenenti le vesti. Quindi è plausibile che nessuno l’avesse visto mentre veniva introdotto nella reggia. E ora Filottete tende la corda dell’arco, prende la mira, scaglia la freccia e infila al primo colpo gli anelli delle dodici scuri, tra lo stupore generale. E Telemaco gli si mette accanto armato di tutto punto: è tempo di cambiare bersaglio.

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Capitolo 12 MASSACRO E LIETO FINE

Filottete si piazza sulla soglia e punta l’arma su Antinoo, del tutto ignaro di quello che sta per accadere. La freccia gli trapassa precisa il collo e Antinoo rende l’anima… all’Ade. I Proci insultano e minacciano il mendicante, credendo che la freccia sia stata scagliata per errore, e cercano invano qualche arma per vendicare la morte del loro capo. A questo punto “Ulisse” si rivela ai pretendenti stupefatti e annuncia la sua vendetta. Eurimaco, ancora dubbioso di avere a che fare col vero Ulisse, tenta inutilmente di placarlo scaricando in modo ipocrita tutte le colpe sul defunto Antinoo, e offrendo di pagare molto di più di quello che è stato consumato. Ma Filottete non può accettare perché sa che finché ci saranno in vita pericolosi concorrenti, la leadership di Telemaco sarà sempre a rischio. Per cui rifiuta qualsiasi offerta: Eurimaco tenta allora di aggredirlo col pugnale ma viene colpito da una freccia in pieno petto e stramazza. Ci prova un altro dei Proci, Anfinomo, ma Telemaco lo trafigge con la lancia. Poi Telemaco corre nel magazzino per prendere altre armi in numero di quattro, per sé, per “Ulisse”, per il bovaro e per il porcaio. Anche il capraio Melanzio, l’amico dei Proci, intuisce che le armi si trovano su nel magazzino, e quindi sale di corsa e ritorna con un sacco di chincaglieria: Là dodici scudi prese, e lance altrettante, tanti elmi di bronzo, folti di coda equina; tornò indietro, e in fretta li distribuì ai pretendenti (XXII, 144-146)

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Ora, è un po’ difficile che uno riesca a portare tutta questa roba da solo. Abbiamo visto come i pretendenti itacesi fossero in numero di 12. In effetti, Omero fa un elenco di nomi degli uccisi, e il loro totale è di 14, anche se indica genericamente la presenza di altri individui colpiti. Anche le ancelle infedeli, che si accoppiavano coi Proci, e che verranno alla fine poco democraticamente impiccate dal buon Telemaco, sono in numero di 12. Quindi è probabile che il numero reale dei pretendenti fosse intorno ai 20, come si ricava da molti indizi, di cui 12 provenienti da Itaca e pochi altri dalle isole vicine. Mentre Telemaco e soci sono almeno in quattro, cifra alla quale si devono aggiungere eventuali dipendenti di Eumeo e Filezio, nonché l’amico di famiglia Mentore, che continua ad apparire e scomparire, dato che in lui si incarna la dea Atena. E l’odioso capraio Melanzio, che fine fa? Come avevamo preannunciato, sarà ridotto piuttosto maluccio: Eumeo e Filezio lo sorprendono mentre sta tentando di sottrarre altre armi dal magazzino, lo afferrano e lo legano come un salame appendendolo ad un’alta trave. Poi provvederanno ad amputargli mani, piedi, naso, orecchie, e ogni altra appendice… sporgente del suo corpo (sì, avete capito bene!). Gli unici che si salvano dalla strage sono l’araldo Medonte, che non aveva nulla a che fare coi pretendenti, e il cantore Femio (proiezione dello stesso Omero) che così supplica “Ulisse”: Ti scongiuro, Odisseo: risparmiami, abbi pietà. Tu avrai rimorso, un giorno, se uccidi il cantore perché per i numi e per gli uomini io canto. Da solo imparai l’arte, un dio tutti i canti m’ispirò in cuore; mi sembra che davanti a te canterei come davanti a un dio: perciò non tagliarmi la testa. Anche Telemaco, il tuo figlio caro, può dirtelo, che non per mia voglia o per mia domanda venivo nella tua sala a cantare fra i pretendenti dopo il banchetto, 91

ma loro, così numerosi e potenti, mi trascinavano a forza. (XXII, 344-354)

Possiamo ben immaginare come il cantore abbia saputo ringraziare i vincitori con la sua arte. La strage è compiuta, ma come diceva Eduardo De Filippo, gli esami non finiscono mai: “Ulisse” deve ancora farsi riconoscere dalla moglie e dal padre Laerte. Così manda la nutrice Euriclea a svegliare Penelope che dorme (come se niente fosse) nella sua stanza al piano superiore, per annunciare la lieta novella del ritorno del marito. Ma Penelope, che pure avrebbe dovuto ben sapere chi fosse il misterioso straniero, continua a ripetere che non può essere vero: Nutrice cara, non rallegrarti ancora, esultando e gridando. Tu sai quanto atteso apparirebbe in palazzo, da tutti, da me sopra tutti, e dal figlio che generammo; ma non è vera la parola che dici; qualcuno forse dei numi ha ucciso i pretendenti splendidi, irato per la violenza che morde il cuore, e per l’opere infami. Perché nessuno onoravano degli uomini in terra, né il tristo né il buono, chi arrivasse fra loro. Così pel folle orgoglio, sono andati in malora; quanto a Odisseo ha perso il ritorno lontano dalla terra d’Acaia, è perito (XXIII, 59-68)

Ma Euriclea risponde che ha riconosciuto Ulisse da un segno chiarissimo: la famosa cicatrice sopra il ginocchio! Al che la regina replica scettica: Ma andiamo ugualmente dal figlio mio, per vedere I pretendenti morti e colui che li uccise” (XXIII, 83-84)

Quindi scende nella sala e si siede di fronte a “Ulisse”: Ma lei muta a lungo sedeva, stupore il petto le empiva; guardandolo, a volte lo conosceva in modo evidente, a volte non lo conosceva, così coperto di cenci (XXIII, 93-95) 92

Penelope continua a non riconoscere Ulisse, e chiede di interrogarlo per vedere se ricorda alcuni particolari segreti della loro vita coniugale. “Ulisse” intanto viene lavato e rivestito di tutto punto, mentre la dea Atena provvede a fargli ricrescere i capelli e a ridargli un bell’aspetto da uomo robusto nel pieno vigore. Ciononostante Penelope continua a dubitare, per cui egli chiede di potersi riposare nel suo letto. Lei risponde dando ordine che il letto di Ulisse venga portato nella sala, al che lui replica che ciò non è possibile, perché lui stesso ha fabbricato il suo letto attorno a un tronco d’ulivo con le sue solide radici, e gli ha costruito intorno la stanza. Questo è il segno, che solo loro due conoscono, grazie al quale Penelope può finalmente riabbracciare il suo Ulisse. Viva gli sposi! Ma… c’è ancora qualcosa che non va. Come abbiamo visto, la stanza dove Penelope dormiva era al piano di sopra, mentre il letto di Ulisse era evidentemente a pianterreno: una cosa un po’ strana per due sposi fedeli e innamoratissimi. Certo, si potrebbe replicare che Penelope non dormiva più nel letto matrimoniale da quando il marito era partito, però il poema non fa mai cenno a niente di simile. Anche questa sembra quindi un’altra delle incongruenze create apposta da Omero. Comunque sia, “Ulisse” e Penelope se ne vanno a godere dei piaceri coniugali, e a raccontarsi l’un l’altro le proprie vicissitudini; e quando lui le dice che prestissimo dovrà ripartire, e lasciarla di nuovo sola, la brava mogliettina non batte ciglio e si rassegna serenamente alla volontà degli dei. Poco verosimile anche questo. Qualcuno maliziosamente può chiedere: ma allora Penelope e Filottete erano amanti? Oppure anche questo era il “premio” per l’impresa compiuta? Difficile dare una risposta, visto che comunque queste vicende si svolgono in assenza di testimoni, e possono essere una invenzione del poeta. 93

I mitografi successivi ad Omero hanno provato a spettegolare anche su Penelope, insinuando che fosse l’amante di Anfinomo, uno dei Proci, oppure addirittura che avesse avuto rapporti con tutti i cento e più pretendenti, generando il dio Pan, o che avesse sposato il figlio nato dall’unione tra Ulisse e Circe. Stranamente, nessuno di quelli che hanno tanto chiacchierato sulla presunta relazione omosessuale tra Achille e Patroclo ha mai avuto niente da ridire su questa regina, che dopo essersi maritata ha avuto un solo figlio, rifiuta di risposarsi con i più bei giovani del circondario, se ne sta sempre nella sua stanza da letto con le sue ancelle, non si preoccupa minimamente che il marito riparta andando a trovare la morte chissà dove… Senza contare che, se anche avesse avuto qualche figlioletto da una relazione clandestina, poteva sempre giustificarsi dicendo che un dio le era apparso con le sembianze del marito (era questa la scusa più comoda in uso tra le virtuose donne dell’epoca). Comunque, la povera Penelope ha avuto la soddisfazione di passare alla storia come la migliore delle mogli possibili. Molti critici ritengono che la versione originale dell’Odissea finisse a questo punto, con il ricongiungimento tra i due, e che la parte finale sia un aggiunta di un poeta successivo ad Omero. Come abbiamo cercato di spiegare finora, certe incongruenze che i critici hanno attribuito ad una stesura a più mani dei poemi omerici, possono essere invece il risultato del continuo gioco di incastri e enigmi creati ad arte dallo stesso Omero, mentre la presenza di parti in stile e linguaggio diverso possono essere dovuti ad un lavoro di assemblaggio di leggende e poemi anteriori. Quindi proseguiamo con la nostra analisi. Infatti c’è ancora molto da fare; come spiega Filottete a Telemaco: Chi un uomo solo ha ucciso in paese, e molti vendicatori ne restano, fugge, lasciando i congiunti e la terra dei padri: 94

e noi il sostegno della città massacrammo, i più nobili fra i giovani d’Itaca; questo t’invito a pensare (XXIII, 118-122)

Quindi c’è una sola soluzione: l’unico vero re di Itaca, che può arrogarsi in un certo senso il diritto di vita e di morte sui suoi sudditi, è Ulisse, che deve prendere su di sé la responsabilità del massacro, ed autoesiliarsi. In questo modo Telemaco avrà la strada sgombra per insediarsi sul trono. Intanto l’ultimo libro dell’Odissea comincia con la discesa nell’oltretomba delle anime dei Proci. L’anima di Agamennone si stupisce di vedere tutto il meglio della gioventù itacese scendere nell’Ade, per cui si rivolge a uno dei morti, Anfimedonte, rammentandogli di averlo già conosciuto: O non ricordi quando laggiù entrai in casa tua con Menelao divino, venuto ad invitare Odisseo, che per Ilio con noi partisse sulle navi bei banchi? (XXIV, 115-117)

Quindi anche Anfimedonte doveva essere già grandicello quando aveva visto Ulisse partire, e neanche lui l’aveva riconosciuto. Così comincia a fare un riassunto degli avvenimenti passati, molto interessante perché conferma certe impressioni che avevamo già avuto: Dunque a te tutto quanto e sinceramente dirò, la mala ventura di nostra morte, come successe. Pretendevamo la sposa del sire Odisseo, da molto tempo lontano; e lei né rifiutava le odiose nozze né le compiva, preparandoci morte e tenebrosa Chera. (XXIV, 123-127)

Il racconto dovrebbe quindi essere sincero (del resto che interesse avrebbe un morto a mentire?), e dimostrare che Penelope doveva far parte della congiura fin

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dall’inizio. Poi continua narrando che Ulisse era giunto vestito da mendicante, appoggiandosi a un bastone: E nessuno di noi poté capire ch’era Odisseo all’improvviso riapparso, nemmeno i più anziani (XXIV, 159-160) Poi la sua sposa con piano astuto incitò che ai pretendenti offrisse l’arco e il ferro canuto (XXIV, 167-168)

Quindi anche Anfimedonte ci conferma molte delle impressioni che avevamo avuto nel corso della narrazione: Penelope sapeva, ed era d’accordo con “Ulisse”. Quando il giovane finisce la sua triste storia con la strage e la morte di tutti i pretendenti, l’Atride Agamennone, anziché consolare le povere vittime, prorompe in una esclamazione quanto mai significativa: E a lui l’ombra dell’Atride diceva: Felice Laerziade, Odisseo ingegnoso, con grande virtù ti scegliesti la sposa; che nobile cuore ha avuto la fedele Penelope, figlia d’Icario, che buon ricordo serbò d’Odisseo, del suo sposo legittimo! Per questo non morrà mai la fama del suo valore, e ai terrestri un canto faranno i numi, glorioso per la fedele Penelope (XXIV, 192-198)

Ma a chi sta parlando? Ad Anfimedonte, ad Ulisse che si trova ad Itaca, oppure all’anima di Ulisse che si trova proprio lì a poca distanza, nell’oltretomba? L’azione ritorna bruscamente ad Itaca, dove “Ulisse”, cioè Filottete, e i suoi si stanno recando a fare visita al vecchio Laerte. Qui si verifica un’altra incongruenza: Ulisse dovrebbe ormai aver ripreso il suo aspetto di uomo nel pieno vigore fisico, e vesti adeguate alla sua condizione di re; tuttavia decide di mettere alla prova il vecchio padre, e vedere se lo riconosce. Un espediente del 96

tutto inutile, ora che i rivali sono stati massacrati. Comunque “Ulisse” non può fare a meno di provocare il vecchio chiedendogli notizie del figlio. Al che Laerte risponde che è morto lontano: certo, lontano dai suoi e dalla patria, o i pesci del mare lo divorarono o sulla terra di fiere, d’uccelli fu preda: non l’ha sepolto la madre, non pianto, né il padre, noi che lo generammo (XXIV, 290-293)

Finalmente, questa è l’ultima volta (sarà almeno la cinquantesima) in cui ci viene ripetuto che Ulisse è morto; ed è anche l’ultima in cui un amico o un parente stretto non lo riconosce nel misterioso straniero. E solo quando il vecchio si mette a piangere, l’eroe si commuove e gli “rivela” di essere il figlio lungamente rimpianto. E come prova, cosa c’è di meglio della solita, cara, vecchia cicatrice sul ginocchio? A questo punto si riuniscono a pranzo tutti insieme appassionatamente con anche i servitori di Laerte. Ma i parenti dei morti stanno arrivando a reclamare la vendetta. Non tutti, perché almeno la metà ha rinunciato a vendicarsi, quando ha saputo dall’araldo e dal cantore che gli dei erano schierati chiaramente dalla parte di Ulisse. Filottete e i suoi sono ora in numero di dodici, tanto per cambiare: i soliti quattro, più Laerte, il suo fedele servitore Dolìo e i suoi sei figli. Le due parti si fronteggiano e la dea Atena ispira a Laerte la forza di scagliare la sua lancia contro Eupite, il padre di Antinoo, che è a capo dei rivoltosi, facendolo secco. Inizia lo scontro, Filottete e i suoi cominciano già ad avere la meglio quando intervengono di nuovo Atena e suo padre Zeus, ordinando che si ponga fine al massacro e che si stabiliscano nuovi patti di civile e pacifica convivenza. L’Odissea termina qui. L’ordine regna a Itaca.

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Conclusione ECCESSO DI PATÉ DE FOIS GRAS?

Qualche tempo fa, mi è capitato di assistere ad un dibattito televisivo, a cui partecipavano anche due eccellenti uomini di cultura come il critico d’arte Philippe Daverio e il matematico e filosofo della scienza Giulio Giorello. La trasmissione era dedicata a certi romanzi di successo che propugnano più o meno sconvolgenti rivelazioni esoteriche. L’esilarante conclusione è stata che molte delle tesi riguardanti arcani misteri sono nate nella Francia dell’800, forse a causa di un “eccesso di paté de fois gras”! Cioè le difficoltà digestive, con conseguente pennichella post-prandiale, avevano obnubilato la mente di parecchi studiosi portandoli verso vette inaccessibili nella ricerca di misteriosi complotti ed incredibili collegamenti sotterranei. E del resto, ancor oggi non passa giorno senza che qualcuno se ne esca con qualche tesi balzana per spiegare l’origine di tutto il male del mondo, coinvolgendo immancabilmente gli stessi protagonisti di sempre: la CIA, il Vaticano, la Massoneria, e naturalmente i Cavalieri Templari e gli Extraterrestri, e scusate se dimentico qualcuno. Senza voler escludere niente a priori, mi sembra che l’overdose di fois gras mieta ancora parecchie vittime! Orbene, a me il fois gras non piace… anzi sto decisamente dalla parte delle oche, animali simpatici e ingiustamente calunniati, soprattutto se paragonati a certe categorie di persone. Sono laureato in Scienze Naturali, una disciplina che mi ha dato una visione ampia e interdisciplinare del sapere scientifico, dotandomi anche del giusto grado di scetticismo e di metodo nell’affrontare le cose. Ho viaggiato per il mondo in qualità di fotografo e giornalista scientifi98

co e turistico, e intanto ho continuato ad approfondire i miei studi. Per il mio lavoro mi trovo spesso ad esaminare teorie eretiche o insolite: normalmente mi bastano pochi minuti per muovere obiezioni pertinenti, in grado di far crollare molti castelli di carte costruiti su basi poco solide. Non lo affermo per vantarmi (di solito si dice così quando ci si vuole vantare…) ma solo per farvi capire che non amo le teorie che vogliono il complotto a tutti i costi. Tuttavia… mi sembra che questa ipotesi su Filottete non si basi solo su una serie di coincidenze e di fumose elucubrazioni, ma che funzioni, e funzioni maledettamente bene. Lo so che su Omero, su Ulisse e compagnia bella si è scritto e detto di tutto, e che io potrei essere definito un “omo sanza lettere”, se non fosse che questo epiteto è stato già rivolto a qualcun altro... Però, a volte, chi non è “del mestiere” riesce a vedere le cose da un’angolazione completamente diversa rispetto a chi invece viene inquadrato secondo tutta una serie di regole stabilite. Il problema è anche che Omero è sempre stato oggetto dello studio dei letterati, e non degli scienziati, e ancora oggi, e ancor più in Italia, la “cultura” è in gran parte considerata quella letteraria, e non quella tecnicoscientifica. Troppo spesso si sente dire, da certi professoroni di lettere “Io di matematica (o di scienza) non capisco nulla!”. Il tragico è che lo dicono senza vergognarsi, anzi, pure con un certo orgoglio! E oltretutto credono che siccome gli uomini di lettere non capiscono nulla di scienza, deve essere vero anche il contrario! Mi spiace deluderli, ma non sempre è così. Del resto, se esiste una “questione omerica”, che dura non da qualche secolo, ma da qualche millennio, forse ciò significa che quello che racconta Omero non è poi così chiaro, vi pare? Eppure, Iliade ed Odissea esistono, sono lì, da un bel po’ di tempo sotto gli occhi di tutti. È come per la bomba atomica, una volta che qualcuno l’ha inventata, non si può “disinventarla”: c’è e bisogna fare i conti con essa. E non si può neanche pensare che i rac99

conti omerici siano semplicemente una creazione letteraria: bisogna fare un grosso sforzo per immaginare che all’alba della civiltà, appena ideata la scrittura, o addirittura prima ancora, qualcuno si sia inventato di sana pianta due poemi di qualche migliaio di pagine! Così, invece, tutto diventa logico: un cantore di corte, come dovevano esserci già nell’età del bronzo fino quasi ai giorni nostri, si occupa di raccontare una storia che giustifichi la presa del potere del suo signore, avvenuta tramite una congiura di palazzo. Ma il poeta, che è anche un geniale inventore di enigmi, dissemina la sua opera di riferimenti per permettere di capire, una volta intuita la chiave, come stanno realmente le cose. Finché, dopo tremila anni, la storia capita sotto gli occhi del Majrani, che dopo averci pensato un po’ su, chiede al Prof. Giorello: «Ma se io fossi così pazzo da scrivere un libro su questa idea, Lei sarebbe così pazzo da farmene la prefazione?». Così è se vi pare. Lasciamo ora agli appassionati e agli specialisti di ogni ordine e grado il piacere di rompersi la testa e le ossa sulla questione. Ai posteri, e… ai postumi, l’ardua sentenza.

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Appendice MA OMERO ERA UN GEOGRAFO?

Fino ad ora abbiamo cercato di dimostrare come il racconto dell’Odissea non sia semplicemente un’opera di fantasia creata mettendo insieme un’accozzaglia di miti senza capo né coda, ma abbia una sua ferrea logica interna. Ora vediamo di affrontare brevemente, lasciando ad una prossima occasione l’opportunità di un’analisi più accurata, gli altri grandi problemi che riguardano le narrazioni omeriche: la loro collocazione geografica e cronologica. Per quanto ne sappiamo, l’Iliade e l’Odissea furono messe ufficialmente per la prima volta per iscritto nel sesto secolo avanti Cristo, all’epoca del tiranno Pisistrato. Gli eruditi del tempo provvidero a raccogliere e ad accorpare in due racconti organici le varie versioni dei poemi che giravano in Grecia a quell’epoca. Le prime testimonianze archeologiche che possono essere riconducibili a vicende narrate nei due poemi risalgono invece all’VIII secolo avanti Cristo. Il problema è che Omero descrive un mondo molto più arcaico di quello dell’ottavo secolo, e in molti casi persino della civiltà Micenea, che compare in Grecia intorno al XVI secolo. Le armi, tanto per cominciare, sono quasi sempre di bronzo, tranne che nelle ultime pagine dell’Odissea, mentre nel bacino mediterraneo l’età del bronzo era già finita intorno al XII-X secolo a.C., quando comincia a pieno titolo l’età del ferro. Anche il tipo di società appare più primitivo rispetto a quello che dovrebbe essere. C’è quindi un intervallo di alcuni secoli tra la presunta data della guerra di Troia, i primi reperti archeologici e la prima stesura per iscritto dei due poemi, il che ha indotto a pensare a un lungo periodo di trasmissione 101

orale delle vicende, nonché a una stesura a più mani, ad opera di poeti di epoche diverse, dei poemi stessi. Strano però che non si trovi niente di scritto, dato che forme di scrittura (come la “lineare A” e la “lineare B”) esistevano già in Grecia ben prima dell’ottavo secolo, quando cominciò a diffondersi la tipica scrittura alfabetica. Le antiche scritture venivano usate più che altro per scopi amministrativi; si trova solo qualche nome di persona che rassomiglia vagamente a nomi di personaggi dei poemi, ma senza alcun riferimento ad avvenimenti relativi alla guerra. Ma le guerre costano e comportano uno sforzo organizzativo notevole: bisogna costruire navi, forgiare armi, ammassare vettovaglie per gli eserciti, mandare messaggi, stipulare alleanza, reclutare uomini, premiare i migliori combattenti, e infine spartire il bottino. Eppure, nonostante esistano migliaia di documenti burocratici, non si trova niente che possa essere in qualche modo collegato agli eventi descritti nell’Iliade o nell’Odissea. C’è poi il problema della geografia: Omero nomina centinaia di luoghi, di questi alcune decine si ritrovano nel mare Mediterraneo, e tuttavia le loro descrizioni non corrispondono mai, e anche i resti archeologici dei luoghi descritti non riescono ad incastrarsi bene con le narrazioni. Già i geografi e gli storici antichi, come Strabone, Eratostene ed Erodoto, cercavano inutilmente di far quadrare i conti, spesso lavorando di fantasia, e nominando le terre e le isole che esploravano coi nomi dei presunti luoghi omerici corrispondenti. In effetti, quasi tutti i nomi dei luoghi e dei popoli dell’area mediterranea, che usiamo ancora oggi, derivano dai nomi che sono stati dati dagli antichi greci. Per un curioso contrappasso, il nome della Grecia non ha avuto origine nella stessa Grecia, ma è stato dato dagli antichi romani. Lo stesso Omero non parla mai di Greci, ma di Achei, Argivi, Danai. Dopo anni di studio, sconfortato, Strabone non poté fare altro che riscrivere la frase del suo collega Eratostene: «Si potran-

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no trovare i luoghi delle peregrinazioni di Ulisse quando si rintraccerà il calzolaio che ha cucito l’otre dei venti». Tuttavia, già nel II secolo avanti Cristo, Cratete di Mallo cominciò a formulare l’ipotesi che gli avvenimenti non si fossero svolti nel Mediterraneo ma nell’Atlantico, dalle parti della località portoghese di… Troia. Da allora parecchie decine di studiosi hanno elaborato varie teorie sulle possibili localizzazioni delle vicende, mentre molti altri hanno semplicemente liquidato la questione sentenziando che «Omero era un poeta e non un geografo». Non so se esista un sindacato dei poeti, che possa organizzare uno sciopero, o una marcia di protesta, contro questa idea che un poeta debba essere totalmente ignorante di geografia! E poi Omero era un pignolo, che descriveva ogni cosa con una accuratezza minuziosa, possibile che si sbagliasse continuamente e sistematicamente proprio sull’argomento principale dei suoi racconti, cioè la vita di eroi e popoli navigatori? E che nessuno, mentre declamava i suoi versi nelle corti, tra guerrieri, mercanti, marinai e altri cantori, gliel’avesse mai fatto notare? Vediamo allora di porci un po’ di domande. Tanto per cominciare: di che colore erano i capelli di Ulisse? Lasciamo da parte sceneggiati televisivi, film degli anni ’50 e tante altre invenzioni letterarie: Omero stesso ci dice che Ulisse era biondo. Anzi, forse anche tendente al rossiccio. E Menelao, Achille e molti altri guerrieri? Biondi pure loro. E le donne, come Elena, Afrodite, Briseide? Bionde anche quelle! Però, che strani greci erano questi Danai, sembrano proprio Danesi! Già, ma l’ambiente dell’Iliade e dell’Odissea è quello tipicamente mediterraneo, o no? Per niente, anzi, il clima è sistematicamente freddo, nebbioso, con la brina e la neve anche a livello del mare, tanto che tutti indossano spessi mantelli, e invocano il sole che li riscaldi persino quando sono in battaglia pesantemente armati; e il mare, che Omero non chiama mai Mediterraneo, è sempre cupo, violaceo, tempestoso. 103

Al principio degli anni ‘90 sono usciti quasi contemporaneamente due libri che collocano decisamente a nord l’ambiente dove si muovevano Ulisse e compagni: uno del giornalista Iman Wilkens, intitolato Where once Troy stood, cioè “Dove un tempo stava Troia”, che localizza l’antica Troia in Inghilterra, e che ha avuto un certo rilancio di recente grazie alla citazione che ne ha fatto il romanziere Clive Cussler nel suo Trojan Odyssey. L’altro, molto più convincente, pur con qualche piccolo errore che esamineremo, è il risultato di una accurata ricerca di un ingegnere nucleare appassionato di letteratura antica, Felice Vinci, pubblicata in un saggio intitolato Omero nel Baltico, ormai arrivato alla quarta edizione e recentemente tradotto anche in russo e in inglese. Già, perché il titolo sintetizza la sorprendente soluzione: tutte le vicende narrate da Omero non si sono svolte nel nostro Mediterraneo, come si è sempre pensato, bensì migliaia di chilometri più a nord, nel Mar Baltico! Esso era, fino al secondo millennio avanti Cristo, la culla di una sviluppatissima civiltà che ha lasciato impressionanti testimonianze come i molti monumenti megalitici, nonché migliaia di graffiti che mostrano guerrieri in battaglia e grandi navi con centinaia di uomini a bordo, che assomigliano sia alle navi vichinghe che a quelle greche. Il clima nordico allora era molto più caldo dell’attuale, all’incirca come quello della nostra Pianura Padana, ma un brusco cambiamento, innescato forse dalla gigantesca nube di cenere causata dall’esplosione del vulcano Santorini, rese quasi invivibili quelle terre, tanto che molte popolazioni dovettero migrare verso sud portandosi dietro il ricordo dei bei tempi andati, saghe e mitologie comprese. Il ricordo di questa migrazione si sarebbe perso poi nei secoli successivi, il cosiddetto “medioevo ellenico”, mentre i poemi si sarebbero tramandati oralmente per secoli fino a quando, in seguito al contatto con le più evolute civiltà mediterranee, i barbari nordici impararono l’arte della scrittura mettendo per iscritto le loro tradizioni orali. Gli inguaribili scet104

tici stiano tranquilli: il saggio di Vinci non è il solito lavoro di un dilettante dotato di molta fantasia e di scarsa attendibilità, al contrario tutti i dati sono stati attentamente verificati, ed anzi nuove scoperte e piccole correzioni di rotta sembrano convalidare ulteriormente gran parte della teoria. Gli archeologi sanno da tempo che a partire dal XVI secolo avanti Cristo delle popolazioni guerriere provenienti dal nord hanno invaso la Grecia, fondando città come Micene, ed espandendosi rapidamente nel mare Egeo, spesso cambiando i nomi delle isole e delle località rivierasche: per esempio Cipro si chiamava Alasia, e l’Egitto era detto “terra di Kem”. Inoltre nell’archeologia nordica si trovano reperti che hanno caratteristiche molto simili a quelli micenei. Ed ecco cosa potrebbe essere successo: i conquistatori fecero la stessa operazione compiuta secoli dopo dagli europei arrivati in America o in Australia, cioè assegnarono alle nuove terre i nomi già presenti nel loro lontano luogo di origine e tramandati dalle mitologie, spesso utilizzando vaghe somiglianze ed analogie topografiche, e creando così un (finora) inestricabile guazzabuglio. Ora si spiega perché Omero descrive Creta come una vasta terra dai molti fiumi, e non come un’isola, come è effettivamente la Creta mediterranea, nella quale peraltro non esistono rappresentazione dei personaggi omerici, e neppure della tipica mitologia classica, antecedenti il XVI secolo, nonostante vi fiorisse la civiltà minoica con abbondante produzione di vasi e affreschi; l’ineffabile ingegnere colloca Creta nell’attuale Pomerania, nel nord della Germania e della Polonia, e identifica i suoi abitanti, i Pelasgi di Omero, con i Polacchi, cioè i “Polski”; da notare inoltre che antiche mappe riportano i nomi di Pela e Pelagsa in corrispondenza della città russa di Pskov. Ancora, Omero rappresenta il Peloponneso come un’isola pianeggiante, tutto il contrario della montuosa penisola greca, e Vinci lo identifica con l’isola danese di 105

Sjaelland, su cui sorge Copenaghen, città che corrisponderebbe alla Micene del poema. Anche certe etimologie tradizionali andrebbero riviste: secondo alcuni storici antichi Micene dovrebbe aver preso nome dai funghi (in greco mykes) che colà crescevano: ma chi ha mai visto i funghi in un posto così caldo, arido e sassoso? Da notare che città come Sparta e Micene in Omero sono delle potenze navali, mentre in Grecia si trovano per decine di chilometri nell’entroterra. C’è poi il caso dell’Ellesponto, cioè il “mare di Elle”, tradizionalmente identificato con lo Stretto dei Dardanelli, tra Turchia e Grecia; solo che Omero lo definisce sempre largo, sconfinato. Ma se era uno stretto come faceva ad essere largo? La soluzione ci arriva da uno storico medioevale, Saxo Grammaticus, che racconta come gli antichi Danesi andassero a muovere guerra contro i popoli ellespontini: cosa avevano, dei razzi intercontinentali per colpire la Turchia? Oppure esisteva un altro Ellesponto da quelle parti, visto che Elle è anche il nome di una divinità nordica? E poi, Omero parla di Faro, un’isola piena di foche. Leggendo il quarto libro dell’Odissea, si trova che l’isola di Faro dista dal “fiume Egitto” un intero giorno di navigazione, con forte vento che strepita tra le sartie, che Menelao è preoccupatissimo all’idea di dover ripetere il percorso Faro-Egitto, che le foche si stendono al sole a mezzogiorno, e così via. Già gli antichi geografi si domandavano il perché di queste strane affermazioni, visto che tutti conoscevano la ben nota Faro: è l’isoletta (anzi, la penisoletta) su cui sorgeva l’omonimo faro di Alessandria, che si trova a meno di un miglio dal delta del Nilo; invece non conoscevano la Faro baltica (la svedese Fårön), situata giusto un giorno di nave dalla foce di un altro fiume, la Vistola! L’obiezione secondo la quale le foche vivono anche nel Mediterraneo non regge ad un’analisi più attenta. L’unica specie di foca del Mediterraneo è la foca monaca: il suo habitat terrestre è costituito 106

dalle coste ombreggiate ricche di grotte ed anfratti, dove partorisce e alleva i cuccioli. Per quanto riguarda l’Africa, si può trovare sulle coste del Marocco, della Tunisia e della Cirenaica, ma non sulle spiagge basse e roventi della Libia e dell’Egitto, per quanto disabitate. Un animale come la foca, ricco di grasso e di forma tondeggiante, andrebbe rapidamente in ipertermia in un ambiente così caldo. Molti naturalisti pensano che la scarsità di esemplari della specie sia dovuta alla caccia e alla presenza dell’uomo, ma probabilmente la foca monaca è una specie rara di per sé, a causa della rarità degli ambienti idonei alla riproduzione. L’uomo è solo un problema in più, ma non la causa principale. Questa opinione è forse dovuta anche a un’erronea lettura delle fonti storiche, che attribuiscono alle descrizioni omeriche una collocazione mediterranea. Cioè gli storici e i naturalisti dell’antichità hanno scritto che le foche abbondavano nel Mediterraneo, proprio perché si sono fidati delle descrizioni dell’Iliade e dell’Odissea! Comunque anche questo è un buon esempio delle conseguenze a largo raggio che può avere l’erronea ambientazione delle vicende omeriche, persino su delle scienze così distanti dalla letteratura, come l’ecologia e la zoologia! E che dire, solo per fare un esempio, di località omeriche come Scandia, Calidone, Temese, che ricordano gli antichi nomi della Scandinavia, della Caledonia, del Tamigi? Poiché i nomi dei luoghi non corrispondono alle descrizioni, finora si è sempre pensato che i nomi fossero giusti e le descrizioni sbagliate. Ma quando troviamo da un’altra parte dei luoghi con nomi molto simili (considerato poi che in tremila anni i nomi geografici possono cambiare anche totalmente), in cui le descrizioni corrispondono, è difficile pensare che le coincidenze siano solo casuali. E che dire ancora di molti fenomeni fisici, come le notti luminose, molto più adatte alle latitudini nordiche che alle nostre? Nell’Iliade una battaglia dura 107

ininterrottamente per due giorni, senza interrompersi per l’oscurità. E le “rupi erranti”, o “isole galleggianti” descritte nell’Odissea, non sembrano proprio degli iceberg? E il “fiume Oceano”, dove finisce Ulisse, non sembra proprio la corrente del Golfo? E il gorgo di Cariddi non assomiglia agli spaventosi “maelstrom” dei mari nordici? Mai visto nel Mediterraneo un gorgo che inghiotta le navi e le faccia a pezzi, mentre nel Mare di Norvegia si formano più volte al giorno. E la coincidenza tra le divinità classiche e quelle delle saghe nordiche, che era già stata notata dagli storici antichi? E tante altre incongruenze e misteriosi fenomeni descritti nei poemi omerici, non trovano una spiegazione se non ambientandoli nelle regioni del nord, anziché attribuirli a improbabili “licenze poetiche”? Ci sono poi continue analogie tra le vicende degli Achei e quelle dei Vichinghi, che duemila anni più tardi, proprio in corrispondenza di un nuovo riscaldamento del clima, sembrano avere mantenuto le abitudini dei loro antenati: per esempio quella di essere possenti guerrieri e abili navigatori capaci di andare dappertutto, di usare “concave navi”, di depredare i villaggi e di rapire le donne, dando inizio a sanguinose rappresaglie: fu proprio il rapimento di Elena da parte di Paride a scatenare la guerra, e a questo punto possiamo cominciare a pensare che non si tratti di una semplice favoletta, ma di un illustre precedente. E come gli eroi omerici, anche i Vichinghi avevano la consuetudine di allestire grandi banchetti, allietati dalla presenza di un cantore, con un’alimentazione ricca di carne e di grassi, così lontana dalla dieta mediterranea; e pure in Omero il vasellame è sempre di metallo, per i ricchi, o di legno, per i poveri, mai d’argilla, tanto che una tazza, cadendo, “rimbomba” ma non va in frantumi. Sintetizzare le miriadi di spunti del volume è praticamente impossibile; è stupefacente che molti degli “addetti ai lavori” lo ignorino tutt’ora, forse per aver superfi108

cialmente bollato la tesi come “assurda” senza averla esaminata con l’accuratezza che invece richiede. Possiamo solo aggiungere che la prefazione del libro è stata scritta dalla professoressa Rosa Calzecchi Onesti, una delle massime traduttrici di Omero, e che diversi studiosi di importanti università italiane e straniere stanno pensando di avviare i primi sopralluoghi nelle località identificate dal “mitico” Vinci, come l’isoletta danese di Lyø, che sembra corrispondere in tutto e per tutto ad Itaca. Come abbiamo visto, l’Odissea, soprattutto per quanto riguarda le avventure di Ulisse in paesi lontani, è molto più un’opera di fantasia rispetto all’Iliade, in cui le divinità si limitano a deviare qualche freccia o a scatenare fenomeni naturali come la nebbia o i fulmini. Le ricerche degli archeologi saranno perciò molto più indirizzate nei pressi del villaggio finlandese di Toija, il cui territorio è ricchissimo di reperti dell’età del bronzo (specialmente armi e tumuli sepolcrali), e che è circondata da paesi i cui nomi ricordano in modo impressionante gli alleati dei Troiani, come Askainen (Ascanio), Reso (Reso), Karjaa (Carii), Nästi (Naste), Lyökki (Lici), Tenala (Tenedo), Kiila (Cilla), Kiikoinen (Ciconi). Volendo riassumere in poche parole l’itinerario baltico, si può pensare che la coalizione achea sia partita dalla terra dei Danai (la Danimarca) e dalle coste della Scandia (la Scandinavia), doppiando capo Malea (l’odierna Malmö), l’isola di Faro (Fårön), lasciando Filottete ferito a Lemno (l’isoletta di Lemland) per poi sbarcare sulle coste finlandesi a Troia (Toija). Al ritorno Ulisse assaltava dapprima la terra dei Ciconi (Kiikoinen) per poi perdersi, anziché raggiungere la sua isoletta nell’arcipelago danese, tra le tempeste, i gorghi e gli iceberg del Mare del Nord e delle coste norvegesi. Qualcuno a questo punto potrebbe spazientirsi, e domandare: ma Troia, allora? Heinrich Schliemann ha ben scoperto una città nell’Asia minore! In realtà l’identificazione del sito turco di Hissarlik con la città 109

dell’assedio ha sempre lasciato perplessi gli studiosi; gli archeologi seri tendono oggi a metterne in rilievo più le differenze che le analogie. Per esempio, gli studi geologici dimostrano che l’ampia pianura alluvionale che si trova alla base della collina su cui sarebbe sorta Troia non esisteva ancora all’epoca del XII secolo avanti Cristo, data che viene comunemente considerata come la più probabile per l’evento della guerra. Il che significa che non c’era l’ampia spiaggia dove parcheggiare più di mille navi, non c’era la piana dove far correre i carri, e non c’era neanche il campo di battaglia! Schliemann, inoltre, nell’ansia di cercare i tesori dell’antica Troia, combinò dei disastri notevoli, scoperchiando i vari strati archeologici e danneggiandoli irreparabilmente. Credette di trovare il “tesoro di Priamo” nel secondo strato (risalente ad almeno mille anni prima della presunta data della guerra), identificando in seguito la città dell’assedio con il sesto o il settimo strato (gli strati archeologici vengono numerati in ordine progressivo dal più profondo, che è anche il più antico, al più recente). Tuttavia, molti archeologi la pensano in modo diverso. Per esempio, il prof. Dieter Hertel (che insegna Archeologia Classica all’Università di Colonia ed ha preso parte a diverse campagne di scavo nell’area di Hissarlik), nel suo libro Troia (Bologna 2003), dopo aver premesso che “fra i tanti strati che testimoniano le diverse ricostruzioni di Troia dopo ogni distruzione avvenuta nei secoli, le fasi Troia VI (1700-1300) e Troia VII (XIII secolo) non furono il teatro di famose imprese militari”, sottolinea che «non è possibile parlare di una spedizione di greci micenei contro la città, fosse essa Troia VI o Troia VIIa [...] Lo studio delle fasi Troia IVII [...] ci ha rivelato i contorni di una lunga epoca storica, dai caratteri del tutto diversi da quelli del mondo e degli eventi descritti da Omero». Inoltre, «non vi è alcun indizio che consenta di attribuire a una conquista la fine di Troia VI, VIIb1 e VIIb 2 [...] Anche nel caso in 110

cui Troia VIIa sia stata presa con la forza, questo evento non può aver trovato riflesso nella saga greca: nemmeno il minimo indizio depone a favore di tale possibilità». Per di più, aggiunge Hertel, «nei dintorni di Troia non è stato trovato alcun segno di un assedio contemporaneo agli strati di distruzione rinvenuti nello scavo della città, portato da greci micenei o da altre popolazioni; né trincee, né accampamenti fortificati per le navi, né alcunché di simile è stato scoperto nei dintorni della città, sulla                   numerose e alacri ricerche condotte». Da notare che i turisti vengono spesso portati a vedere resti come la cosiddetta “tomba di Aiace”: peccato che tali reperti archeologici risalgano all’epoca romana, circa un millennio dopo Omero, e furono costruiti per far contenti i già allora numerosi viaggiatori provenienti da Roma, compresi alcuni imperatori, che restavano affascinati nello scoprire quelle che Virgilio aveva raccontato essere le “radici” degli antichi romani! Si aggiunga poi che se si vanno a vedere le descrizioni che Omero fa di Troia, per esempio nei libri XII e XX dell’Iliade, ci si accorge che l’antica città di pietra del sito di Hissarlik, fondata nel 3000 avanti Cristo sulla costa turca, ha ben poco in comune con quello che sembra un tipico villaggio fortificato dell’Europa nordica. Omero riferisce che le mura del campo degli Achei sono ancor più imponenti di quelle di Troia, ma che vengono in parte abbattute durante un attacco troiano, e che sono poi spazzate via dalla successiva piena del fiume. La stessa Troia verrà poi completamente distrutta da un incendio: il tutto fa arguire che fosse fatta in gran parte di legno; Omero sottolinea che solo le case dei membri della famiglia reale erano di pietra. Si consideri quanta fatica fece secoli dopo Giulio Cesare per fare capitolare Alesia, la città dei Galli, per rendersi conto di quanto i villaggi del nord Europa fossero difficili da espugnare, pur essendo protetti solo da robuste palizzate di tronchi. L’eroe troiano Enea poi af111

ferma che la fondazione della sua città risale a sei generazioni prima, cioè a circa 200 anni addietro; quindi se la guerra datasse al 1200 avanti Cristo, e la fondazione al 1400, ci sarebbero “appena” 1600 anni di differenza con la data reale di nascita della città turca! Quindi la Troia della Turchia non è altro che una delle tante città chiamate così, come ce n’è una in Puglia, una in Portogallo, una Troyes in Francia, una Troynovant nell’antica Inghilterra, per non parlare della ventina circa di Troy negli USA. Del resto questo meccanismo di chiamare luoghi diversi con lo stesso nome ha continuato a perpetuarsi dall’antichità fino ai giorni nostri: basti pensare che il termine Eridano indicava anticamente un fiume europeo (non si è mai capito se il Rodano o il Reno) e poi ha designato il Po. O a quanti monti Olimpo ci sono: sette tra Grecia e Turchia, alcuni altri sparsi per il mondo, tra cui uno in America, e uno persino su Marte! Quindi Schliemann non ha scoperto la Troia omerica, ma solo un’importante città dell’antichità (sarebbe ora interessante scoprire quale), che poi è stata chiamata così. Niente di particolarmente difficile, in fondo: egli era un ricco mercante, che viaggiava molto ed era appassionato di archeologia, in un’epoca in cui i ricchi viaggiatori erano pochissimi, e gli archeologi ancora meno. Bastava solo chiedere un po’ in giro e lasciare qualche mancia, per scoprire resti interessanti. Bei tempi! Ma come potrebbero essere arrivati i poemi omerici fino in Grecia? Via mare o via terra? Esaminiamo per prima l’ipotesi navale. Abbiamo detto che i popoli nordici erano navigatori e costruttori di megaliti: in effetti, se si va a guardare la distribuzione dei principali monumenti megalitici in Europa, ci si accorge che si trovano in massima parte sulle coste atlantiche, ma con una presenza notevole sulle isole mediterranee, come le Baleari, la Sardegna, Malta, tutte pressoché allineate in direzione est ovest. Non è pensabile che l’origine del megalitismo sia da ricercare in una di quelle isole, perché assisteremmo 112

ad una distribuzione completamente diversa; quindi è da presumere che i costruttori di megaliti provenissero dal nord Europa, ed entrassero nel Mediterraneo nel giro di qualche settimana, magari seguendo le rotte di migrazione dei tonni. I resti megalitici sono molto più antichi del mondo descritto da Omero, ma comunque ciò significa che la strada era aperta. Si tenga presente che in quell’epoca non doveva essere difficile trovare dei grandi alberi millenari, con il tronco di tre e più metri di diametro, da scavare per ricavare delle grandi navi monoblocco, come fanno ancora adesso certe popolazioni rimaste all’età della pietra. Per dare un’idea, le caravelle di Colombo erano larghe circa 6 metri e lunghe 20, e andavano dappertutto. Probabilmente, la distruzione dei grandi alberi causò una grave crisi ecologica ed economica ai navigatori, crisi dalla quale si ripresero solo quando impararono a costruire nuovi tipi di navi tenendo assieme assi e fasciami. La penuria di alberi di grosse dimensioni potrebbe anche avere bloccato la diffusione della civiltà megalitica. Chissà perché molti archeologi si ostinano a negare che durante la preistoria ci fossero popolazioni in grado di compiere grandi tratte di navigazione? Eppure, solo ammettendo questa ipotesi si possono chiarire molti “misteri” dell’archeologia su cui si è scatenata l’immaginazione di una miriade di ricercatori dilettanti. A proposito, ci fu anche un archeologo dell’800 che liquidò come “fantasiose” tutte le teorie sulle civiltà megalitiche… al che un altro archeologo gli rispose di provare a dare un calcio ad un menhir, e di sapergli dire se lo trovava così fantasioso! Passando dall’età della pietra all’età del bronzo, le fonti storiche egizie ci parlano di misteriosi “popoli del mare” provenienti da verdi isole situate nell’Oceano, che entravano a far razzie nel Mediterraneo: a questo punto è facile pensare che questi possenti guerrieri provenissero dalle isole britanniche e dal nord Europa; lo proverebbero 113

anche le somiglianze tra molti reperti archeologici. Talvolta i guerrieri si fermavano a fondar colonie e a metter su famiglia: questo spiega la presenza al giorno d’oggi di individui con caratteristiche somatiche nordiche all’interno di popolazioni meridionali, come alcuni sardi atipici che sono alti, biondi e con gli occhi azzurri. Due millenni dopo, i Normanni avrebbero ripercorso le stesse rotte per arrivare in Sicilia. A questo punto si prospetta anche una possibile soluzione ad un altro enigma della storia: l’origine dei Fenici. Alcuni archeologi hanno sostenuto l’idea che questa popolazione, che viveva sulle coste dell’attuale Libano, fosse originaria dell’entroterra siriano. Arrivavano dal deserto per diventare subito i migliori navigatori dell’antichità? Poco verosimile! Già altri studiosi avevano notato le strane analogie tra le navi fenicie e quelle vichinghe, ipotizzando che i Fenici potessero essersi spinti fino ai mari nordici. E se fosse stato il contrario? La popolazione libanese attuale presenta frequentemente alcune caratteristiche somatiche nordiche. Gli stessi resti archeologici fenici sono spesso costituiti da teste di statuette con pelle chiara, occhi azzurri e capelli biondi. Il termine “phoinix”, con cui i greci li chiamavano, significa “rosso”. Alcuni storici antichi pensarono di attribuire l’origine di questa denominazione alla loro pratica di ricavare un prezioso colorante, la porpora, da alcuni molluschi del genere Murex. Solo che la porpora è un attributo divino (ancora adesso i porporati sono gli ecclesiastici di più alto rango), mentre “fenicio” era un insulto! Magari invece li chiamavano “rossi” perché la loro pelle si arrossava esponendosi al caldo sole mediterraneo (oppure erano spesso addirittura rossi di capelli). Le colonie fenicie erano quasi tutte distribuite sulla parte occidentale del Mediterraneo e anche sul lato atlantico della Spagna. Tutto ciò induce a pensare che il Libano, con le sue foreste ricche di prezioso legname, fosse un punto di arrivo e non di partenza! 114

Quindi, gruppi di navigatori provenienti dal Nord Europa possono essere arrivati fino alle spiagge della Fenicia, portandosi le proprie conoscenze tecnologiche di marinai e mescolandosi poi con la popolazione locale. Poi, come spesso accade, la lontana colonia era diventata più importante della terra di origine. Forse non è un caso che anche sulle coste dell’Irlanda e della Norvegia si trovi un mollusco (Nucella lapillus) in grado di produrre un tipo di porpora (di qualità inferiore), il cui uso è documentato in epoca antica. Anche Omero parla dei Fenici, che naturalmente si muovono in un mare nebbioso, e di Siria, o anche di Psiria, che però per lui sono delle isole! Quindi la via marina per far giungere in Grecia i poemi è plausibile, anche se probabilmente nella maggior parte dei casi i navigatori si fermavano prima. E poi un cantore a bordo di una nave sarebbe stato di ben poca utilità! Vediamo ora la via di terra, più lenta ma più sicura. Nelle tombe greche più antiche è presente una grande quantità di ambra, di indubbia provenienza baltica, che già al tempo veniva utilizzata come gemma per monili e collane. Esisteva infatti nella preistoria una “via dell’ambra” che portava la preziosa resina fossile dalle spiagge del nord Europa fino all’Italia, alla Grecia e all’India. E dove c’era una via, c’era evidentemente gente che la percorreva: non solo mercanti, ma anche popoli che migravano, guerrieri invasori, e naturalmente… cantastorie, che potevano viaggiare da soli oppure aggregarsi alle tre categorie anzidette. Questo spiega il motivo della parentela della lingua greca con gli idiomi del gruppo germanico e scandinavo, e non con le altre lingue del Mediterraneo, e chiarisce anche come mai i poemi omerici siano scritti in greco. In effetti, proprio intorno al XVI secolo avanti Cristo, in corrispondenza dell’ondata di freddo, si assiste ad un’ondata migratoria proveniente dal nord in diverse culture del vecchio mondo. Oltre all’arrivo degli Achei in Grecia, si hanno le invasioni de115

gli Arii in India, degli Hittiti in Anatolia, dei Cassiti in Mesopotamia, degli Hyksos in Egitto eccetera. Persino le analisi genetiche della popolazione europea mostrano che in molti di noi ci sono dei geni di origine lappone; inoltre la pelle bianca, i capelli biondi o rossi, gli occhi azzurri sono peculiarità dei popoli del nord, dove il sole è debole, ma quando troviamo queste caratteristiche somatiche in popolazioni indiane o greche ciò indica che la loro origine non è autoctona, ma nordica. Gli europei di razza bianca sono spesso indicati come “Caucasici”, individuando nel Caucaso la loro origine; il che può essere vero per quanto riguarda alcune caratteristiche scheletriche, ma non certo per il colore della pelle: se un bianco va sui monti del Caucaso senza crema protettiva il sole lo scortica vivo, quindi non ha senso pensare che la razza bianca abbia potuto avere origine da quelle parti. Qualche imbecille è arrivato a dire che questa è un’idea pericolosa e filonazista, e quindi da censurare. Viceversa, a ben guardare, l’idea che una grande civiltà si sia sviluppata nel Nord Europa, diffondendosi poi dappertutto, era tranquillamente accettata dagli archeologi e dagli antropologi di settant’anni fa. Poi è stata usata come base ideologica del nazismo e questo ha provocato un moto di repulsione da parte del mondo culturale, portandolo a rifiutare questa idea in toto; per cui alla fine l’impressione è che si sia buttato via il bambino con l’acqua sporca! Ma negare l’evidenza non è un atteggiamento molto intelligente, e non sarà di sicuro Omero a far nascere rigurgiti razzisti in Europa; per quello sono più che sufficienti certi intellettuali e politici, a cominciare proprio da coloro che dicono di voler combattere il razzismo, e creano le condizioni perché si sviluppi! D’altra parte anche il fascismo era l’esaltazione della romanità: dovremmo dire per questo che Roma non è mai esistita? Anche le mappe genetiche dell’umanità, recentemente pubblicate da Luca Cavalli Sforza e dal suo gruppo delle università di Stanford e Pavia, mostrano che nella 116

storia dell’Europa c’è stato un continuo andirivieni di migrazioni da sud a nord e viceversa. Del resto è logico: con la fine dell’ultima grande glaciazione, circa 10000 anni fa, le popolazioni cominciarono a spostarsi dal sud (il Medio Oriente) verso nord, man mano che i ghiacciai ritirandosi aprivano spazi a nuovi pascoli e terre coltivabili. Poi, con la fine dell’optimum climatico, si assistette al movimento inverso, e così via per le altre oscillazioni climatiche calde e fredde. Da notare che, mentre il movimento da sud a nord era generalmente pacifico, il movimento inverso poteva essere particolarmente bellicoso, perché il freddo portava ad una diminuzione dello spazio vitale. Ovviamente lo spostamento nord-sud non era perfettamente lineare, ma subiva delle deviazioni a causa della presenza di ostacoli naturali, come catene montuose e grandi fiumi. La preistoria dell’umanità è passata attraverso diverse epoche, che vengono tradizionalmente chiamate età della pietra, del rame, del bronzo, del ferro. Ma mentre la pietra, e anche il rame, si trovano abbastanza facilmente dappertutto, per il bronzo il discorso è diverso. Il bronzo è una lega di rame e stagno, molto più dura e resistente dei due metalli da cui prende origine; il principale minerale di stagno, la cassiterite, si trova in abbondanza solo in pochi luoghi al mondo, come le antiche miniere della Cornovaglia inglese. Quindi i popoli nordici avevano un accesso molto più agevole al prezioso metallo, ed erano pertanto in grado di costruire armi molto più efficienti di quelle in uso presso altri popoli, riuscendo così a batterli e a sottometterli. Piccoli oggetti di ferro, ricavato da qualche peraltro rara meteorite, erano già presenti nell’età del bronzo, ma la vera e propria età del ferro avrà inizio solo quando si imparerà a estrarlo dai suoi minerali più comuni, come magnetite ed ematite. Dove sbaglia, se sbaglia, Felice Vinci? Dopo aver passato alcuni anni a “far le pulci” alla sua teoria, ritengo 117

di avere individuato alcuni errori, alcuni veniali, altri più importanti. Devo dire che l’impianto generale vinciano è comunque più che realistico, e le obiezioni non intaccano la validità dell’assunto, che cioè i racconti omerici siano delle saghe nordiche trasportate in Grecia in epoca antica. Alcuni detrattori hanno voluto far credere che il suo lavoro fosse solo un mero elenco di località che presentano vaghe assonanze con i nomi geografici omerici: come abbiamo visto, e come ripete più volte Vinci stesso, questo rappresenta solo una parte della infinità quantità di dati che finiscono per concordare. E se anche questa fosse solo una incredibile serie di coincidenze, se cioè fosse l’evento di un caso, oppure, perché no, la risultanza di altre trasposizioni di nomi avvenute in altra epoca, resterebbero comunque validi tutti gli indizi di tipo archeologico, climatico, antropologico, linguistico, topografico, mitologico, astronomico e… gastronomico. In campo scientifico, si considera vera un’ipotesi quando in base ad essa si è in grado non solo di interpretare l’esistente, ma anche di formulare delle previsioni azzeccate e di spiegare nuove scoperte. Per esempio le mappe genetiche sono state pubblicate dopo che era uscito l’Omero nel Baltico. Per fare un altro esempio, c’è una straordinaria scoperta archeologica come il “disco di Nebra”: si tratta di un disco di bronzo, con rilievi in oro che rappresentano il Sole, la Luna, le Pleiadi e l’Orsa Maggiore, che risale al XVI secolo avanti Cristo ed è stato trovato in Germania pochi anni fa, vicino alla cittadina di Sangerhausen. Esso corrisponde alla descrizione che, nell’Iliade, Omero fa dello scudo di Achille: Vi fece la terra, il cielo e il mare l’infaticabile Sole e la Luna piena, e tutti quanti i segni che colorano il cielo le Pleiadi, l’Iadi e la forza d’Orione e l’Orsa, che chiamano col nome di Carro (Iliade, XVIII, 483-487) 118

Ma se Omero fosse stato greco, come avrebbe potuto descrivere una cosa che si trovava in Germania? Niente di simile è mai stato scoperto nel mondo mediterraneo. Da notare che Sänger significa cantore, mentre hausen significa abitare, quindi Sangerhausen doveva essere il luogo dove abitava un cantore! Per uno di quei curiosi contrappassi che a volte si verificano nella storia dell’umanità, il disco di Nebra è ora esposto nel museo archeologico della vicina cittadina tedesca di Halle, e Schliemann morì in seguito ad una infezione causata da una operazione chirurgica compiuta proprio ad Halle! Ma dicevamo degli errori… uno può essere quello di pensare che il leone descritto da Omero, che se ne va tra la pioggia e il vento, non possa essere un vero leone ma sembri più una lince o un orso. Secondo me, il leone descritto da Omero può essere realmente un leone, per diversi motivi: intanto un animale di grossa taglia non ha problemi ad adattarsi al clima temperato europeo, al limite una varietà con un po’ più di pelo può vivere anche sulla neve, basta pensare alle tigri siberiane. In effetti, in alcune caverne paleolitiche della Francia si possono ammirare graffiti raffiguranti leoni, ed eravamo già in piena epoca glaciale, e ancora un secolo fa vivevano leoni selvatici sui Balcani; è probabile che il “fattore limitante” dell’espansione ecologica dei leoni sia proprio la feroce caccia cui l’uomo li ha da sempre sottoposti. Inoltre gli antichi conoscevano le costellazioni dell’Orsa e del Leone ed erano due cose ben distinte. Infine, la porta di Micene in Grecia è la dimostrazione che i Micenei conoscevano i leoni fin troppo bene! A questo proposito, Omero non la descrive mai: Micene è “ricca d’oro”, ha “ampie vie”, ma mai una volta che racconti che ha una porta così caratteristica. Anche in questo caso, Schliemann ha solo scoperto una città che si chiamava così; come molti sanno, la famosa “maschera di Agamennone”, che egli credeva di avere trovato, non ha 119

in realtà niente a che fare con il celebre comandante degli Achei (anzi, qualcuno pensa addirittura che possa trattarsi di un clamoroso falso). Passando dalla zoologia alla botanica, diverso è il caso dell’ulivo, nominato più volte nei poemi. Vinci ritiene che, durante l’optimum climatico postglaciale, il clima consentisse la coltivazione di questa pianta nel nord Europa, analogamente a quello che avviene oggi sulle sponde dei laghi lombardi. Il che è plausibile: tuttavia in Omero l’ulivo è una pianta ben strana, dato che serve per fare attrezzi, oppure pali, come quello che acceca Polifemo; alcuni studiosi ritengono che ci sia stata una correzione di certe parole della lingua omerica (il dialetto ionico) per rendere più “comprensibili” certi termini: quindi può darsi che l’“ulivo” omerico fosse in realtà un’altra pianta, sconosciuta nell’ambiente greco, come forse una betulla o un tasso. Si aggiunga che Omero non parla mai di “olive” e che spesso parla di olio, che però non viene mai usato per usi alimentari, ma solo per ungere il corpo. Ammesso che non fosse addirittura un prodotto d’importazione, c’è da chiedersi che tipo di olio fosse; il mio sospetto è che potesse trattarsi di un olio di lino, visto che c’è un passo che mette in relazione la tessitura con l’olio: Dalle tele in lavoro goccia limpido l’olio (Od., VII, 107)

Ma non è neanche da escludersi un olio animale, di foca o di fegato di merluzzo, se non addirittura di balena. Un discorso analogo va fatto per il loto, la pianta che dà l’oblio di cui Omero parla nel nono libro; anche in questo caso l’identificazione con la pianta sacra che cresce nel Nilo, localmente chiamata “seshen”, è un’elucubrazione dei geografi greci. Il nome loto in realtà viene dato ad un gran numero di specie vegetali, tra loro diversissime; inoltre il loto dell’Odissea potrebbe anche essere una pianta di cui si è persa l’identificazione, se non 120

un’invenzione di Omero. Che la terra dei lotofagi potesse essere la regione scozzese del Lothian, o la Lettonia ? Ritornando a parlare di Polifemo, miti simili si ritrovano con qualche variazione in parecchie saghe nordiche; molti studiosi attribuiscono la nascita del mito dei Ciclopi al ritrovamento, da parte dei marinai dell’antichità, dei crani degli elefanti, in cui l’ampia fossa nasale di forma ellittica induce a pensare alla presenza di un unico grande occhio in mezzo alla fronte. Ed aggiungono che sulle isole del Mediterraneo erano presenti degli elefanti nani, estintisi in epoca preistorica, i cui resti potrebbero avere originato la leggenda dei giganti con un solo occhio. Io, da buon naturalista, ho fatto alcuni calcoli: il cranio di un elefante nano è lungo circa mezzo metro, e fatte le debite proporzioni, un uomo con un cranio simile dovrebbe essere alto all’incirca 4 o 5 metri. Non male per un gigante, ma troppo poco per terrorizzare un gruppo di valorosi guerrieri, né tantomeno per prenderli a due per volta nelle mani “come cuccioli” e sbatacchiarli brutalmente. Per far ciò bisognerebbe essere alti almeno il doppio, ed avere perciò il cranio di almeno un metro, come quello di un mammut! Quindi anche in questo caso il discorso fila: Polifemo aveva il cranio non di un raro elefante nano insulare, ma di un ben più grande e comune mammut, del quale non è difficile tuttora trovare i resti nelle regioni nordiche! Passiamo ora a localizzare le Colonne d’Ercole, un altro degli enigmi che già appassionavano gli antichi: in effetti la tradizionale ubicazione nei pressi dello stretto di Gibilterra è, come al solito, una mera ipotesi senza alcun sicuro elemento di prova. Ma andiamo ad esaminare chi era questo Ercole, o Eracle che dir si voglia. Senza stare ad elencare tutte le famose 12 fatiche, possiamo notare come alcune di esse abbiano una decisa collocazione nordica: il gigantesco cinghiale di Erimanto affonda nella neve fresca; i buoi di Gerione ricordano la saga danese dei buoi di Gefione; i 121

pomi delle Esperidi crescono nelle terre iperboree, cioè l’estremo nord. Inoltre, per raccoglierli, Ercole si fa aiutare da Atlante, il gigante che regge la volta stellata: ma il firmamento apparentemente gira intorno al polo nord celeste, quindi dove poteva stare Atlante per fare da perno e reggerlo, se non in prossimità del polo nord terrestre? Infine, la vicenda della cerva di Cerinea, una cerva dalle corna d’oro, che stava aggiogata al carro della dea Artemide, e che fugge anch’essa fino alle terre iperboree prima di essere catturata da Ercole. Ora, l’unico cervide in cui la femmina abbia le corna è la renna, l’unico cervide che può essere aggiogato a un carro è ancora la renna (Babbo Natale insegna…), e infine il cervide tipico dell’estremo nord, dove compie lunghe migrazioni, è sempre lei, la renna! Delle altre otto fatiche non si può dare con certezza una collocazione geografica, anche se spesso sono ambientate in territori ricchi d’acqua, come fiumi e paludi: i nomi dei luoghi, come al solito, possono essere frutto di una trasposizione. I miti non nascono dal nulla, ma da avvenimenti reali poi trasfigurati dalle interpretazioni e dai continui passaparola successivi: il difficile è riuscire a risalire alle vicende e alle collocazioni originarie. A questo proposito, si può notare come la Selva Ercinia, cioè la selva di Ercole, corrispondesse alla foresta che ricopriva la Germania, e inoltre che il culto di Ercole, chiamato anche Ogmio (o Ogmios, o Ogma, o Ogham), era diffusissimo in tutto il nord Europa, isole britanniche comprese, fin dalla più remota antichità. Quindi se Ercole era una divinità nordica, si capisce perché la collocazione delle Colonne d’Ercole nel Mediterraneo genera tanti dubbi... semplicemente, non erano nel Mediterraneo! E allora dove potevano essere queste colonne gigantesche, situate all’estremo limite del mondo conosciuto, prima del pauroso salto nell’Oceano, il “fiume Oceano” che ricorda la corrente del Golfo? Vinci pensa che potessero corrispondere alle isole Fär Oer, mentre io ritengo 122

che la localizzazione ideale sia la costa nord dell’Irlanda, dove sorge una straordinaria formazione naturale, oggi nota come il “Selciato dei Giganti”, costituita proprio da decine di migliaia di enormi colonne di basalto! E infine, non è che quei banchi di sabbia poco profondi che si trovano al largo delle Isole Britanniche siano proprio i resti di una certa isola affondata nell’Oceano al di là delle Colonne d’Ercole che in tanti stanno cercando? Verso il 3000 a.C. c’è stato un picco di freddo che ha interrotto il lungo optimum climatico postglaciale. Per effetto di questa piccola era glaciale, il livello del mare è rimasto più basso per qualche secolo, portando allo scoperto una vasto territorio, ma poi questa isola è stata nuovamente ricoperta dall’Oceano. Premesso che (sto scherzando, è chiaro!) finché non si troverà uno zerbino con su scritto “Benvenuti in Atlantide” qualsiasi luogo per la localizzazione della mitica isola perduta è buono, magari sarà il caso di fare un giretto in sommergibile da quelle parti… Affrontiamo ora l’altro grosso problema: la datazione del XVI secolo per l’arrivo della mitologia e dell’epos omerico. In effetti, Vinci ha sempre detto che essendo il mondo omerico più arcaico del mondo miceneo, le vicende dovevano essersi svolte prima. Ma questo non è affatto necessario! In molte cose il mondo baltico era rimasto comunque più arcaico del mondo greco! Il peggioramento del clima ebbe l’effetto di “congelare” anche lo sviluppo delle società nordiche. L’età del ferro nel Baltico è cominciata intorno al VI secolo a.C., quindi non c’è da stupirsi se le armi descritte da Omero sono di bronzo. I poemi potrebbero essere arrivati anche poco prima della fine dell’ottavo secolo, quando ci sono le prime tracce scritte in Grecia, magari addirittura con l’arrivo degli Ioni, dato che sono scritti in dialetto ionico. Molti studiosi ritengono che non solo i Micenei, ma anche altre popolazioni come Dori e Ioni siano di stirpe achea; taluni pensano che non sia casuale l’assonanza tra la stessa parola 123

“acheo” e la parola “acqua” (che è un termine di origine antichissima). Quindi gli “achei” non sarebbero altro che gli “uomini dell’acqua”, cioè i navigatori, i “popoli del mare”. Alcune frasi in lingue più arcaiche, presenti nei poemi, potrebbero essere dovute al fatto che essi sono una specie di “compilation” di diversi pezzi; un po’ come il Kyrie eleison che si sente risuonare ancora nelle messe in italiano. Tutto questo non mette in crisi la teoria, anzi allarga enormemente il ventaglio delle date possibili dell’evento. C’è poi il discorso di Dioniso, cioè Bacco, il dio del vino, che era molto importante sia nella Grecia arcaica che in quella classica, mentre in Omero è pressoché assente, tanto che gli eroi libano ad Apollo o a Zeus, ma mai al dio del vino. Se si collocano i racconti omerici in Grecia a metà strada tra l’epoca arcaica e quella classica, come si fa di solito, tale assenza è difficilmente spiegabile. Vinci ritiene che questa mancanza sia dovuta all’antichità dei poemi, ma potrebbe essere causata non da una distanza temporale, ma da una di spazio: poiché il culto di Dioniso arrivava dall’oriente, è logico che non fosse conosciuto nel Baltico. Anche il “vino”, descritto da Omero, potrebbe essere diverso dal classico vino d’uva, ma assomigliare al tipico idromele bevuto dai popoli nordici. Per quanto, numerose attestazioni storiche confermano che la vite cresceva anche nel nord Europa durante i periodi a clima più mite. Il resto della diffusione della mitologia, e una parte dell’operazione di rinomina dei luoghi può essere invece un evento avvenuto anche già prima. Questo spiegherebbe pure perché ci siano delle somiglianze tra le antiche mitologie indiane, mediterranee e nordiche mentre non vi si trovi traccia delle vicende dei protagonisti dei poemi omerici. Al limite, i poemi possono essere stati portati da un singolo cantastorie sceso lungo la via dell’ambra o arrivato via nave in qualche isola greca (del resto, anche 124

Gesù, Maometto, Buddha e tanti altri hanno cominciato da soli, e poi non si può negare che abbiano avuto un certo seguito!). Altri cantori potrebbero aver elaborato miti diversi, contribuendo a creare un bel po’ di confusione. Quanto al clima, è importante più che altro per dire che quando era più caldo favoriva lo sviluppo della civiltà e la navigazione, mentre quando era freddo invogliava a migrare verso sud. Per cui, l’epos omerico in sé può essere stato portato in Grecia intorno al X-VIII secolo a.C., anche in considerazione della scarsezza, per non dire assenza, di corazze, scudi, gambali (ben descritti nei poemi) prima di quell’epoca. Del resto, ci sono state oscillazioni calde e fredde anche dopo il XVI secolo, si tratterà solo di individuare, in base alle datazioni di Toija e dintorni, quale è stato il momento giusto. In questo modo non c’è più neanche la necessità di immaginare un lungo periodo di tradizione orale, oltretutto con un bellicoso “medioevo” in mezzo, prima che i poemi fossero messi per iscritto: tutto può essere avvenuto pochi anni dopo l’arrivo del cantastorie Omero, o di qualcuno della sua “scuola”, in Grecia. A questo punto persino la presenza nelle parti finali dell’Odissea di armi di ferro potrebbe essere pensato come un “aggiustamento” fatto dopo l’arrivo di Omero in Grecia, e dopo che aveva conosciuto l’uso del ferro. Mi sembra che queste considerazioni siano più che sufficienti per respingere tutte le ultime obiezioni alla parte fondamentale della teoria. Ne ho discusso anche con lo stesso Felice Vinci, il quale con molta modestia mi ha risposto che la mia idea può essere giusta, e che il suo libro vuole essere solo uno spunto per le successive ricerche degli specialisti. Più di cinquecento pagine, mica male come “spunto”! In ogni caso, lo studio dell’archeologia mediterranea rischia di rimanere inevitabilmente anch’esso… “zoppo”, se si continuerà ad ignorare la pesante influenza dei navigatori e guerrieri nordici della preistoria. Sia chiaro che nessuno vuole mettere in dubbio lo straordinario fascino della ci125

viltà greca, né tantomeno sminuirne l’importanza per lo sviluppo dell’intera cultura europea; tuttavia bisogna cominciare a domandarsi dove e come possa avere avuto origine la mitologia classica. Come allo stesso modo si può affermare tranquillamente che se Roma è la capitale del cristianesimo, Gesù Cristo non era certo romano. In definitiva, ci sono solo due dati veramente “certi” che riguardano l’Iliade e l’Odissea: il primo, ovviamente, è la loro stessa esistenza; il secondo, è che i due poemi dovevano essere conosciuti nel mondo mediterraneo nell’ottavo secolo o giù di lì. Tutto il resto, ovvero tutto quello che in tanti hanno detto e scritto su di essi fino ad ora, è frutto di una serie di supposizioni, se non di vere e proprie forzature, che si sono stratificate e consolidate nel corso degli ultimi 2500 anni, ma che hanno dato adito a una infinità di incongruenze, la cosiddetta “questione omerica”. È come il mistero del volo del calabrone: con quelle caratteristiche fisiche e anatomiche non dovrebbe essere in grado di volare, eppure… lui non lo sa e vola lo stesso! Allora, cosa si può fare? Quando stiamo lavorando al computer, e il perfido marchingegno si blocca e non ne vuole più sapere di funzionare, abbiamo solo una soluzione possibile: spegnere tutto e ricominciare da capo con i dati che possediamo. Questo è ciò che qui abbiamo fatto, ripartire da zero, cancellando due postulati che sembravano inamovibili, ma che in realtà non lo sono: nella prima parte, abbiamo ipotizzato che Ulisse non fosse… Ulisse, ma qualcun altro, presentato come il migliore degli arcieri achei. In quest’ultima parte, che gli stessi Achei di Omero non fossero Greci, come si è sempre creduto, ma che siano giunti in Grecia in un secondo tempo, portandosi dietro la loro mitologia e probabilmente anche la loro lingua. Ossia, anziché pensare che gli Achei siano scesi nel Mediterraneo e poi abbiano costruito le loro mitologie, incluse le vicende della guerra di Troia, bisogna pensare che le mitologie esistessero già prima, e che sia126

no state portate dai popoli che migravano verso sud e dai cantastorie che viaggiavano con loro. A questo punto, tutto comincia a girare a meraviglia, e tutti i pezzi di un complicatissimo “puzzle” trovano la loro naturale e logica collocazione. Solo un caso? Eh sì, come diceva quel tale, c’è del marcio in Danimarca… o era la Grecia? Dopo questa lunga analisi, che è servita più che altro per inquadrare ulteriormente la questione omerica, devo dire che in fondo la mia teoria su Filottete può funzionare bene in qualsiasi luogo le vicende si siano effettivamente svolte, nel Mediterraneo, come nel Baltico, come altrove. Qualcuno può pensare che tutto ciò diminuisca il fascino epico e mitico della poesia omerica. Al contrario, ritengo che in questo modo i due poemi assumano una dimensione molto più realistica, e che possano fornire una splendida chiave per aprire una porta che è rimasta chiusa per troppo tempo. Una porta che tutti provavano inutilmente a spingere, finché non ci si è accorti che… bisognava tirare! E se il personaggio mitico di Ulisse ne esce magari un po’ incrinato, la grandezza di Omero risulta ancor più ingigantita. Scandinavia o Grecia? Ulisse il corridore o Filottete lo zoppo? Per ora possiamo concludere qui questo excursus: la questione è aperta. Di sicuro, è difficile trovare un maelstrom nel Mediterraneo. E comunque, l’importante è seminare zizzania.

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BIBLIOGRAFIA AA.VV. Enciclopedia dell’Antichità Classica, Milano, Garzanti, 2000 BOYER R., La vita quotidiana dei vichinghi, Milano, Fabbri, 1998 BRANDAU B. - SCHICKERT H. - JABLONKA P., La misteriosa storia di Troia, Roma, Newton & Compton, 2004 CAVALLI-SFORZA L.L., Menozzi P, Piazza A., Storia e geografia dei geni umani Milano, Adelphi, 2000 CLARK G., La preistoria del mondo, una nuova prospettiva, Milano, Garzanti, 1989 FAURE P., La vita quotidiana in Grecia ai tempi della guerra di Troia, Milano, Fabbri, 1998 GIORELLO G., Prometeo, Ulisse, Gilgameš. Figure del mito, Milano, Raffaello Cortina, 2004 GRAVES R., I miti greci, Milano, Longanesi, 1979 HAWKES J., Enciclopedia della preistoria e antichità - Atlante cronologico delle civiltà dal 35000 a.C. al 500 d.C., Milano, Arnoldo Mondadori, 1978 HERTEL D., Troia, Bologna, Il Mulino, 2003 JENSEN J., Prehistory of Denmark, Copenhagen, Nationalmuseet, 1998 MELLER H., Ladri di stelle, l’avventurosa storia del disco di Nebra, National Geographic Italia, Gennaio 2004 MERCATANTE A.S., Dizionario universale dei miti e delle leggende, Milano, Newton & Compton, 2001 NEGRI M., Alfabeti - Preistoria e storia del linguaggio scritto, Verona, Demetra, 2000 OMERO, Iliade, trad. R. Calzecchi Onesti, Torino, Einaudi, 1990 OMERO, Odissea, trad. R. Calzecchi Onesti, Torino, Einaudi, 1989 PIGGOTT S., Europa Antica, Torino, Einaudi, 1976 RENFREW C., L’Europa della preistoria, Bari, Laterza, 1996 ROCCI L. Vocabolario Greco-Italiano, Roma, Società editrice Dante Alighieri, 1998 ROSATI G., Serio M., Scrittori di Grecia, Firenze, Sansoni, 2000 SCHLIEMANN H., Ilios: la scoperta della civiltà omerica, Torino, SAIE, 1958 128

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www.logos.it il Gruppo Logos è uno dei principali operatori mondiale nel settore della conoscenza delle lingue. Entrando nel sito, cliccate sulla bandierina italiana per selezionare la vostra lingua. Il sito dà molte possibilità di giocare con le parole, con anagrammi, cruciverba, curiosità; offre inoltre un dizionario multilingua per adulti e per bambini e la Logos library, o Wordtheque, una gigantesca biblioteca digitale che contiene migliaia di testi in più di 150 lingue, rapidamente consultabile tramite indici elettronici. www.biblio-net.com libera consultazione di opere di letteratura, storia e filosofia, con numerosi saggi, critiche e recensioni. Traduzioni di autori classici e moderni. it.wikipedia.org/wiki/Omero un sintetico excursus su Omero www.estovest.net/letture/omero.html un ampio riassunto del lavoro di Felice Vinci; un articolo diverso si trova su www.antikitera.net/download/Omero_nel_Baltico.pdf 129

molto altro materiale si trova inserendo le parole chiave (omero baltico vinci) su di un motore di ricerca www.bifrost.it www.i-2000net.it/mitologia www.miti3000.it tre siti per orientarsi nell’intricato mondo della mitologia http://it.wikipedia.org/wiki/Disco_di_Nebra www.archlsa.de/sterne due siti dedicati al misterioso disco di Nebra

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DIZIONARIO DEI NOMI E DEI LUOGHI

Acaia :

regione dove abitavano gli Achei, in seguito identificata con l’intera Grecia. Achei (o Achivi, o Argivi, o Danai) : popolazione stanziatasi in Grecia a partire dal XVI secolo avanti Cristo. Nemici dei Troiani. Alla coalizione achea, comandata dal re Agamennone, fratello maggiore di Menelao, appartengono alcuni noti personaggi come Ulisse, Achille, Patroclo, Nestore e Filottete. Achille : figlio di Peleo e di Teti, nato a Ftia, in Tessaglia, il più forte e il più famoso degli Achei venuti alla guerra di Troia. Detto Pelide dal nome del padre Peleo e anche Eacide, dal nonno Eaco. Ades, Ade : chiamato dai Romani Plutone, è figlio di Crono e di Rea, fratello di Zeus e di Poseidone, signore degli ìnferi sui quali regna insieme alla moglie Persefone. Per estensione, l’Ade indica anche l’oltretomba stessa. Afrodite (Venere nella mitologia romana) : figlia di Zeus e di Dione; secondo una tradizione era nata dalla spuma del mare. Dea dell’amore e della bellezza. Agamennone : re di Micene, figlio di Atreo e di Erope e fratello di Menelao. Comandante supremo dell’armata achea alla guerra di Troia. Alasia : antico nome dell’isola di Cipro. Alcinoo : figlio di Nausitoo, re dei Feaci, abitanti nella Scheria. Padre di Nausicaa e marito di Arete. Alesia : antica città della Gallia. Alessandro : altro nome di Paride. Ambra : preziosa resina fossile proveniente dalle spiagge del Mar Baltico, usata come gemma in monili e collane. Già in epoca preistorica era diffusa in tutto il continente eurasiatico. Amleto : celebre protagonista di una tragedia di Shakespeare, animato da una lucida follia. Anfinomo : uno dei pretendenti di Penelope alla corte di Itaca. Anticlea : moglie di Laerte e madre di Odisseo, morta di crepacuore durante l’assenza dell’eroe da Itaca. Antinoo : il più forte dei Proci a Itaca. Fu il primo a cadere sotto le frecce di Odisseo, quando l’eroe ritornò a Itaca. Apollo (Febo) : figlio di Zeus e della ninfa Leto e fratello gemello di Artemide.

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Ares :

Marte nella mitologia romana. Dio della guerra, figlio di Zeus e di Era. Arete : moglie di Alcinoo, re dei Feaci, e madre di Nausicaa. Argivi : abitanti di Argo. Usato come sinonimo di Achei. Argo : il vecchio e fedele cane di Odisseo a Itaca. Argo : una delle più antiche città achee. Argonauti : gruppo di eroi, tra i quali Giasone, protagonisti di un’epopea antecedente la guerra di Troia. Aristarco di Samotracia : grammatico e filologo greco (216-144 a.C.), diresse la biblioteca di Alessandria. Da non confondere con il quasi omonimo filosofo Aristarco di Samo. Arpie : secondo Omero sarebbero la personificazione dello spirito delle tempeste. Artemide (Diana) : figlia di Zeus e di Leto, sorella di Apollo, dea della caccia e personificazione divina della luce lunare. Ascani : alleati dei Troiani. Ascanio (Iulo) : figlio di Enea e di Creusa. Atena, Pallade (Minerva) : figlia di Zeus dal cui capo nacque armata. Dea della guerra e dell’intelligenza, era rappresentata con elmo e scudo. In Omero è, come Era, nemica dei Troiani. Atlante : uno dei Titani, figlio di Giapeto e di Climene. Per aver partecipato con gli altri Titani alla lotta contro Giove, fu da questi costretto a reggere sulle sue spalle il firmamento. Atlantide : mitica isola al di là delle Colonne d’Ercole, scomparsa nell’Oceano in epoca remota, di cui per primo parla Platone nei dialoghi “Crizia” e “Timeo”. Atreo : figlio di Pelope e di Ippodamia e fratello di Tieste. Padre di Agamennone e Menelao. Atridi : i due figli di Atreo: Agamennone e Menelao. Augusto : Vedi Cesare Ottaviano. Autolico : figlio di Ermete, padre di Anticlea e nonno di Odisseo. Bacco : nome romano di Dioniso. Barone di Münchhausen : ufficiale tedesco (1720-1797). Personaggio realmente esistito, divenne leggendario per le sue fanfaronate e vanterie inverosimili. Bertoldo : protagonista di un racconto di Giulio Cesare Croce, pubblicato nel 1620. Prototipo del contadino rozzo ma furbo. Briseide : figlia di Briseo, catturata dagli Achei nella presa della città di Lirnesso, prima della guerra di Troia, e assegnata come schiava ad Achille. Butler, Samuel : scrittore inglese che nel 1897 diede alle stampe un saggio intitolato “L’autrice dell’Odissea”, in cui sosteneva che il poema era stato scritto da una donna. Calcante : indovino di origine troiana che vive con gli Achei.

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Calipso : figlia di Atlante e signora dell’isola di Ogigia dove per sette anni trattenne Odisseo, sperando di farlo suo sposo. Cariddi : figlia di Poseidone e di Gea, fu da Zeus trasformata in mostro marino. Risiedeva in uno scoglio marino, vicina a Scilla, e per tre volte al giorno inghiottiva le onde del mare, rivomitandole poi per altrettante volte. Caronte : figlio dell’Erebo e della Notte, è il traghettatore del fiume Acheronte. Caucaso : catena montuosa tra il Mar Nero e il Mar Caspio. Cerere : Vedi Demetra. Cesare Ottaviano : il primo imperatore romano, figlio di Gaio Ottavio e di Azia, figlia di Giulia, sorella di Giulio Cesare. Fu chiamato Augusto, cioè “consacrato”. Chera o Chere : spiriti maligni, demoni della morte e delle disgrazie. Ciclopi : figli di Poseidone e Anfitrite. Giganti forti e rozzi con un occhio solo. Ciconi : alleati dei Troiani. Cid Campeador (il signore campione) : soprannome dell’eroe spagnolo Rodrigo Diaz de Bivar (1043-1099), protagonista della guerra contro i mori. Circe : figlia del Sole (Elios) e della ninfa Perse, è una maga incantatrice, abitante secondo Omero nell’isola Eea. Clitemnestra (o Clitennestra) : figlia di Tindaro e di Leda e sorella di Elena. Sposa di Agamennone, durante l’assenza del marito, impegnato nella guerra contro Troia, lo tradì con Egisto. Con quest’ultimo tramò anche l’assassinio del marito, il giorno stesso del suo ritorno da Troia. Colonne d’Ercole : limite del mondo conosciuto, in seguito identificate con lo stretto di Gibilterra. Colombo, Cristoforo : (1451-1506), navigatore a cui si deve la scoperta dell’America nel 1492. Colombo, tenente : poliziotto di eccezionale acume interpretato in una serie di telefilm dall’attore Peter Falk. Corindone : minerale di durezza elevata, inferiore solo al diamante. Le sue varietà più pregiate sono il rubino e lo zaffiro. Cratete di Mallo : filosofo e filologo greco del II secolo a.C.. Fu il primo a formulare l’ipotesi che le vicende descritte nei poemi omerici non si svolgessero nel Mediterraneo. Creta : la più grande isola greca a sud del Mar Egeo. Al tempo della guerra di Troia vi regnava Idomeneo; è descritta da Omero come una vasta terra ricca di fiumi. Crise : padre di Criseìde, re di Crisa e sacerdote di Apollo. Criseide : figlia di Crise, sacerdote di Apollo nella città di Crisa; fatta schiava da Agamennone poco prima che Troia venisse assediata, fu quindi restituita al padre grazie al consiglio di

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Calcante. Cronide : figlio di Crono. Crono (Saturno) : Figlio di Urano e di Gea, marito di Rea e padre di Zeus, Poseidone, Ade. Ctesippo : uno dei pretendenti di Penelope, abitante a Same, figlio di un padre ricchissimo. Cupido : figlio di Marte e di Venere e simbolo della passione amorosa. Era raffigurato come un bellissimo fanciullo alato, munito di arco e di frecce. Danai : altro nome degli Achei con riferimento al capostipite Danao, re di Argo. Dardano : figlio di Zeus e di Elettra e capostipite dei Troiani. De Filippo, Eduardo : Attore e commediografo napoletano (19001984). Demetra (Cerere) : Figlia di Crono e di Rea, ebbe da Iasione il figlio Pluto, dio della ricchezza, e da Zeus la figlia Persefone. Demodoco : il cieco cantore della reggia di Alcinoo a Scheria. Deus ex machina : Espressione del gergo teatrale, che indica l’intervento improvviso di una divinità che risolve una situazione senza via d’uscita. Diana : (Vedi Artemide) Diomede : forte guerriero acheo. Dioniso (Bacco) : figlio di Zeus e di Sémele, dio del vino, della gioia e del benessere fisico. Dodona : sede di un oracolo di Zeus. Dolìò : fedele servitore di Ulissa a Itaca. Dori : popolazione guerriera, forse di stirpe achea, stanziatasi in Grecia intorno al XII secolo avanti Cristo. Efesto (Vulcano) : Figlio di Zeus e di Era, dio del fuoco e maestro nella lavorazione dei metalli. È zoppo e ha sposato Afrodite. Egisto : figlio di Tieste e di Pelopia. Uccise il padre adottivo e s’impossessò del regno di Micene. A sua volta fu però cacciato da Agamennone, ma durante l’assenza di quest’ultimo alla guerra di Troia spinse all’infedeltà Clitennestra e, al suo ritorno dalla guerra, lo assassinò. Egitto : in Omero, nome di un fiume, poi identificato con il Nilo. Elena : la più bella donna dell’antichità. Figlia di Zeus (o di Tindaro) e di Leda, sposò Menelao, re di Sparta, ma fu rapita dal troiano Paride al quale era stata promessa da Afrodite. Il suo rapimento fu, secondo Omero, la causa della decennale guerra di Troia. In seguito tornò col marito Menelao. Ellanico : storico greco (circa 490-400 a.C.) Ellesponto : nome con il quale attualmente si indica lo stretto di mare che separa la Grecia dalla Turchia.

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Elpenore : compagno di Ulisse, morto sull’isola di Circe. Enea : figlio di Anchise e di Afrodite, principe dei Dardani che abitavano sul monte Ida, partecipò alla guerra di Troia a fianco dei figli di Priamo. A lui Virgilio dedicò il suo poema, l’Eneide, ritenendolo il capostipite degli antichi romani. Eneide : Vedi Enea. Enosictono o enosigeo : Scuotiterra, soprannome di Poseidone Eolo : Dio e custode dei venti. Era (Giunone) : figlia di Crono e di Rea, sorella e successivamente moglie di Zeus. Venerata come protettrice dei matrimoni e dei parti. Eracle : figlio di Giove e di Alcmena, eroe fortissimo, divinizzato dopo la morte. Dai romani chiamato Ercole. Il suo culto, con vari nomi, era diffuso nell’antichità in tutta Europa. Erasmo da Rotterdam : celebre erudito olandese, scrisse nel 1511 la sua opera più famosa, l’Elogio della follia. Eratostene : geografo, astronomo e matematico greco (284-192 a.C.) Ercole : Vedi Eracle. Erimanto : gruppo montuoso del Peloponneso. Ermete o Ermes (Mercurio) : figlio di Zeus e di Maia, messaggero degli dèi. Erodoto : storico greco del quinto secolo avanti Cristo. Eros : Dio dell’amore. Esiodo : poeta greco dell’VIII secolo avanti Cristo. Ettore : figlio primogenito di Priamo e di Ecuba, il principale eroe troiano nella guerra di Troia. Eumeo : il fedele porcaro di Odisseo, a Itaca; era in realtà di stirpe regale, essendo figlio di Ctesio, signore dell’isola di Siria. Eupite : padre di Antinoo, il capo dei Proci a Itaca. Eurialo : nell’Odissea, giovane feace. Nell’Eneide ha questo nome un guerriero troiano, compagno di Niso. Euriclea : schiava di Laerte e nutrice di Odisseo. Euriloco : il compagno di Odisseo che, insieme ad altri, si reca in perlustrazione alla dimora di Circe. Eurimaco : figlio di Polibo; uno dei pretendenti di Penelope a Itaca. Eurinome : figlia di Attore; una delle ancelle fedeli nella reggia di Odisseo. Feaci : gli abitanti della Scheria, che accolsero generosamente Odisseo quando vi giunse naufrago. Febo : Vedi Apollo. Femio : figlio di Terpio, cantore della reggia di Odisseo a Itaca. Filezio : mandriano di Odisseo, rimasto fedele e devoto al padrone. Filottete : famoso arciere acheo. Partito per la guerra di Troia, era stato abbandonato a Lemno in seguito alla ferita ad un piede.

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Recuperato e curato, uccise Paride dando un contributo fondamentale alla vittoria. Secondo la presente tesi, il misterioso straniero che giunge a Itaca e fa strage dei Proci, non è altro che Filottete che si spaccia per Ulisse. Ftia : città sulla quale regnava Peleo, padre di Achille. Gefione : divinità scandinava. Gerione : mostro a tre corpi e tre teste, ucciso da Ercole. Giasone : eroe dell’epopea degli Argonauti, precedente la guerra di Troia. Giove : equivalente romano di Zeus. Giunone : equivalente romano di Era. Glauco : figlio di Ippoloco, condottiero dei Lici, alleati dei Troiani. Glaucopide : epiteto di Atena che significa “dagli occhi scintillanti”. Iadi : stelle figlie di Atlante e sorelle delle Pleiadi. Icario : padre di Penelope, moglie di Odisseo. Ilio : altro nome della città di Troia. Ioni : popolazione stanziatasi in Grecia e nelle isole greche intorno al X secolo avanti Cristo. Ionico : dialetto greco in cui sono prevalentemente redatte l’Iliade e l’Odissea. Iperborea : regione dell’estremo nord d’Europa. Iris (Iride) : figlia di Taumante e dell’oceanina Elettra e simboleggiata dall’arcobaleno, fu considerata messaggera degli dei e in particolare di Zeus e di Era. Iro : un mendicante alla reggia di Odisseo. Itaca : isola patria e regno di Odisseo. Iulia, Gens : stirpe dei discendenti di Enea e di suo figlio Iulo (Ascanio). Iulo : figlio di Enea, chiamato anche Ascanio. Kem o Kemia o Kemit : antico nome dell’Egitto. Lacedemone : altro nome di Sparta, oppure indica la regione di cui era capoluogo Sparta. Laerte : padre di Odisseo. Leda : madre di Elena e dei gemelli Castore e Polluce, nati dal suo amore con Giove. Lemno (Lenno) : isola sacra al dio Efesto. Gli Achei vi abbandonarono Filottete ferito. Lestrigonia : la terra abitata dai Lestrigoni, giganti antropofagi. Loto : pianta non ben identificata in grado di fare scordare ogni cosa. Lotofagi : i “mangiatori di loto”. Macaone : medico acheo famoso, figlio di Asclepio e fratello di Podalirio, partecipò all’assedio di Troia. Marte : nome romano del dio Ares. Medonte : araldo della reggia di Odisseo che, per intercessione di Te-

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lemaco, sopravvisse al massacro dei Proci. Melantò : figlia di Dolio e sorella del capraio Melanzio, la più ostile delle ancelle infedeli a Odisseo. Melanzio : figlio di Dolio e capraio di Odisseo. S’era schierato dalla parte dei Proci. Menelao : re di Sparta, figlio di Atreo e fratello di Agamennone. Sposò Elena, la figlia di Leda e di Zeus. Essendogli stata rapita la moglie da Paride, figlio del re di Troia Priamo, ospite nella sua reggia, ebbe l’aiuto di vari principi achei e con essi partì per Troia, allo scopo di distruggere la città e riconquistare Elena. Menezio : padre di Patroclo, che dal suo nome spesso è chiamato col patronimico di Menezìade. Mente : figlio di Anchialo e re dei Tafi, popolazione di marinai e mercanti. Mentore : amico di Ulisse e consigliere di Telemaco. In lui si incarna la dea Atena. Mercurio : nome romano di Ermes. Merione : fortissimo guerriero ed arciere acheo. Micene : città di cui era re Agamennone. Miles gloriosus : prototipo del soldato fanfarone e donnaiolo, protagonista dell’omonima commedia di Plauto (206 a.C.). Minerva : nome romano della dea Atena. Minosse : il mitico re di Creta, giudice nel regno dei morti. Moira : Vedi Parca. Münchhausen : Vedi Barone di Münchhausen. Muse : figlie di Zeus e di Mnemosine, dee delle arti. Esse erano: Clio (storia), Euterpe (lirica), Talia (commedia), Melpomene (tragedia), Tersicore (danza), Erato (poesia amorosa e mimica), Polimnia (inni religiosi), Urania (astronomia), Calliope (epica). Nausicaa : figlia di Alcinoo, re dei Feaci, e della regina Arete. Neottolemo : figlio di Achille (vedi Pirro). Nestore : vecchio re di Pilo, figlio di Neleo e di Clori. Partecipò alla guerra di Troia soprattutto in qualità di consigliere, al comando di novanta navi. Nettuno : nome romano di Poseidone. Ninfe : divinità minori che simboleggiavano le forze della natura. Vi erano ninfe del mare, dei monti, dei boschi e perfino degli alberi. Noemone : figlio di Fronio, prestò a Telemaco una nave per recarsi a Pilo in cerca di notizie del padre. Oceanina : ninfa del mare, figlia di Oceano e Teti. Oceano : figlio di Urano e di Gea, il primogenito dei Titani. Ritenuto dagli antichi un fiume immenso che circondava tutta la

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terra, al di là del quale c’era l’ingresso dell’Ade. Odisseo : dai romani chiamato Ulisse. Figlio di Laerte e di Anticlea, marito di Penelope e re di Itaca. Celebre per la sua astuzia e per l’abilità oratoria. Ha dato il nome al secondo poema omerico. Ogigia : isola dimora della ninfa Calipso. Olimpo : nome di varie montagne, tra cui la catena montuosa tra la Tessaglia e la Macedonia la cui vetta più alta, coperta di nevi eterne, sfiora i 3000 metri. Era creduto la sede degli dèi e ivi Efesto aveva costruito la reggia di Zeus e le case di tutti gli altri dèi. Omero : poeta autore dell’Iliade e dell’Odissea. Di lui non si sa niente di certo (si legga il capitolo 4 e l’appendice). Omo sanza lettere : così si definisce Leonardo da Vinci per la sua ignoranza del latino. Orazio : Vedi Quinto Orazio Flacco. Orco : il regno dei morti, chiamato anche Ade, Inferi, Oltretomba. Ore : figlie di Zeus, presiedevano allo svolgersi regolare delle stagioni. Oreste : figlio di Agamennone e di Clitennestra; vendicò il padre, assassinato da Egisto e dalla moglie infedele. Orione : figlio di Poseidone, si innamorò della dea Aurora e per questo Artemide, la sua protettrice, lo uccise con una freccia. Dopo la sua morte gli dèi lo mutarono in una costellazione, che ha sede vicino alle Pleiadi. Orsa : costellazione nei pressi del polo celeste, detta anche Carro. Orwell, George : pseudonimo di Eric Blair (1903-1950). Scrittore inglese, nel suo romanzo di fantascienza “1984” preconizza un mondo angoscioso in cui il potere politico controlla totalmente ogni tipo di informazione. Ottaviano : Vedi Cesare Ottaviano. Pallade : “Colei che scaglia l’asta”. Epiteto di Atena. Parca : detta anche Moira, era la dea del destino e, in Omero, della sventura e della morte. Paride : principe troiano figlio di Priamo e di Ecuba, chiamato anche Alessandro. Recatosi a Sparta, alla corte di Menelao, ne rapì la moglie Elena, causando in tal modo la guerra di Troia. Parnaso : monte sacro ad Apollo e alle Muse. Patroclo : figlio di Menezio, re della Locride. Visse a Ftia, alla corte di Peleo, insieme ad Achille. Con quest’ultimo partecipò alla guerra di Troia e fu ucciso da Ettore. Pelasgi : popolazione preistorica della Grecia. Peleo : padre di Achille.

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Pelide : il patronimico di Achille, quale figlio di Peleo. Peloponneso : attualmente, penisola montuosa del sud della Grecia. In Omero è descritto come un’isola pianeggiante. Penelope : figlia di Icario, moglie di Odisseo, che essa fedelmente attese per vent’anni, nonostante le insidie dei Proci in Itaca. Pilo : città del Peloponneso, di cui era re Nestore. Pinocchio : notissimo burattino celebre per le sue bugie. Pireo : giovane amico di Telemaco. Pirro : detto anche Neottolemo, figlio di Achille e di Deidamia. Fu condotto a Troia da Odisseo dopo la morte del padre. Pisistrato : (600 ca. - 527 ca. a.C.), tiranno di Atene dal 560. Nell’Odissea, Pisistrato è il nome di uno dei figli di Nestore. Pleiadi : le sette figlie di Atlante e dell’oceanina Pleione; perseguitate dal cacciatore Orione furono da Zeus tramutate in stelle. Per i Greci il loro apparire in cielo nel mese di maggio segnava l’inizio della stagione della navigazione. Platone : filosofo greco del V secolo a.C. Plutone : Vedi Ade. Polifemo : il più famoso dei Ciclopi, figlio di Poseidone e della ninfa Toosa. Poseidone o Posidone : dai romani chiamato Nettuno. Figlio di Crono e di Rea e quindi fratello di Zeus e di Ade. Ricevette il regno del mare, nella profondità del quale viveva con la sposa Anfitrite. Nella guerra di Troia fu nemico dei Troiani. Nell’Odissea si accanisce contro Ulisse, colpevole di avergli accecato il figlio Polifemo. Proci : principi di Itaca e delle isole vicine che, ritenendo morto Odisseo, aspirano a sposarne la moglie Penelope. Priamo : ultimo re di Troia, figlio di Laomedonte e di Strimo. Proteo : una divinità minore del mare, che dimorava sull’isola di Faro. Aveva la facoltà di assumere forme diverse. Questione Omerica : insieme dei problemi irrisolti che riguardano Omero e i suoi poemi. Quinto Orazio Flacco : poeta latino (65.8 a.C.). Celebri le sue satire. Reso : figlio di Einéo, condottiero dei Traci, alleati dei Troiani. Santorini, o Santorino : isola greca di origine vulcanica, che esplose in modo catastrofico nel secondo millennio avanti Cristo, provocando disastrosi maremoti e una gigantesca nube di cenere. Secondo gli studi più recenti l’evento si sarebbe verificato nel 1628 a.C. Saturno : Vedi Crono. Saxo Grammaticus o Sassone Grammatico : storico danese medioevale (1150-1220)

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Scheria : patria dei Feaci. Schliemann, Heinrich : archeologo dilettante tedesco (1822-1890). Dal 1871 mise in luce in Turchia le rovine di una antica città che identificò con la Troia omerica; compì scavi anche in Grecia, a Micene e Tirinto. Scilla : ninfa marina che la maga Circe, per gelosia, trasformò in un terribile mostro latrante con dodici piedi, due teste e sei bocche con tre file di denti ciascuna, il quale prese dimora in uno scoglio marino, da dove ghermiva e divorava i marinai che gli si avvicinavano. Shakespeare, William : celebre poeta e drammaturgo inglese (15641616). Sherlock Holmes : acuto investigatore creato dallo scrittore inglese Arthur Conan Doyle (1859-1930). Sirene : esseri favolosi che con il loro dolcissimo canto ammaliavano i naviganti, conducendoli alla rovina. Omero non le descrive: gli antichi le rappresentavano con testa di donna e corpo di uccello, oppure di pesce. Siria o Psiria : in Omero, isola non identificata in cui era nato il porcaro Eumeo. Sofocle : poeta tragico greco del V secolo avanti Cristo. Nei suoi lavori riprende, ampliandoli, molti temi tipici della mitologia : È autore di un’opera dedicata a Filottete. Sole Iperione (Helios) : figlio di Iperione e di Tela e fratello della Luna (Selene) e dell’Aurora (Eos). Sorgeva dall’Oceano orientale e, dopo aver percorso sul suo fiammante carro la volta celeste, si rituffava nell’Oceano, a occidente. Sparta : città su cui regnava Menelao. Stalin : ³XRPR G¶DFFLDLR´ VHXGRQLPR GL ,RVLI 9LVVDULRQRYLþ 'åXJDãYLOL -1953), capo dell’Unione Sovietica. Mantenne il potere eliminando ogni oppositore ed esercitando un esasperato controllo delle fonti d’informazione. Strabone : storico e geografo greco,vissuto tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. Tafi : gli abitanti dell’isola di Tafo, su cui regnava Mente, amico di Odisseo. Taigeto : una catena di monti a sud dal Peloponneso che separa la Laconia dalla Messenia. Telemaco : figlio di Odisseo e di Penelope. Teoclimeno : indovino di Argo che, in esilio a Pilo, vi incontrò Telemaco che lo accolse sulla sua nave di ritorno a Itaca. Teucri : così chiamati i Troiani da Teucro, che fu il primo re di Troia. Tindaro : re di Sparta e padre putativo di Elena. Tiresia : un famoso indovino che fu accecato da Era o, secondo

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un’altra tradizione, da Atena. giganti figli del cielo e della Terra. Tentarono di scalare l’Olimpo quando Saturno venne spodestato da Zeus, ma questi li fulminò. Trinachìa : isola del sole: fu identificata con la Sicilia in tempi postomerici. Trinacria : la Sicilia, così chiamata dagli antichi per le sue tre punte: ha infatti forma triangolare. Troade : la regione di Troia. Troia : ricca città governata dal Re Priamo; fu assediata dagli Achei e infine bruciata. Chiamata anche Ilio, ha dato il nome al primo dei poemi omerici, l’Iliade. La sua identificazione con il sito archeologico scoperto in Turchia ha sempre lasciato perplessi gli studiosi (si legga in proposito l’Appendice di questo libro). Ulisse : nome con cui i Romani chiamavano Odisseo Venere : Vedi Afrodite. Virgilio : poeta latino del I secolo avanti Cristo, autore dell’Eneide. Vulcano : Vedi Efesto. Zefiro : vento che spira da ponente. Zeus : nella mitologia romana chiamato Giove. Figlio di Crono e Rea, spodestò il padre; fratello di Poseidone, Ares, Estia, Demetra, Era e Ade. Era il più potente degli dei, risiedeva sull’Olimpo ed era signore dei fenomeni atmosferici. Titàni :

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Finito di stampare nel mese di aprile 2008

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