Che cos'è la politica? Essenza, finalità, mezzi 8886812604, 9788886812603

In che misura la politica rappresenta una sfera d'azione dotata di autonomia? Esiste un'essenza della politica

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Che cos'è la politica? Essenza, finalità, mezzi
 8886812604, 9788886812603

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Julien Fnu1d

Cb18e cos'è ? pol·t· I 1ca. Essenza finalità mezzi

a cura di Consuelo Angiò nota introduttiva di Alessandro Campi

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IDEAZIONE EDITRICE

INDICE

Nota introduttiva

di Alessandro Campi

Prefazione

di Julien Freund

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Introduzione. Dell'azione politica 41 1. L'antagonismo dei fini, p. 43; 2. La povertà della filosofia dell'azione, p. 48; 3. La politica è un'attività sui generis?, p. 54; 4. La decisione, p. 57; 5. Il coraggio, p. 63. 67 Capitolo I. Il fine specifico del politico 1. Tre finalità, p. 69; 2. Il bene comune come fine del politico, p. 70; 3. La sicurezza esterna, p. 73; 4. La concordia interna e la prosperità, p. 83; 5. Sicurezza e concordia: aspetti di uno stesso bene, p. 89; 6. La possibilità di realizzare il bene comune varia con le condizioni storiche, p. 95; 7. Che cos'è un obiettivo?, p. 101; 8. I mezzi e il metodo, p. 103; 9. Le conseguenze, p. 110; 10. La scelta, p. 120; 11. La competenza, p. 126; 12. Responsabilità e colpevolezza, p. 130; 13. La responsabilità politica, p. 137; 14. Il regno dei fini, p. 149; 15. Il ruolo regolatore dei fini, p. 153; 16. L'arsenale delle giustificazioni, p. 158.

Capitolo Il. Il mezzo specifico del politico 169 1. Due mezzi?, p. 171; 2. La forza non è da disprezzare, p. 174; 3. Il concetto di forza, p. 178; 4. Non esiste politica senza forza, p. 188; 5. La coercizione, p. 194; 6. Forza e diritto, p. 203; 7. I due livelli, p. 214; 8. La fecondità dell'astuzia, p.

223; 9. Tentativo d'analisi del concetto d'astuzia, p. 229; 10. L'astuzia in politica, p. 237; 11. La forza è il mezzo specifico del politico, non l'astuzia, p. 241; 12. Rapporto di forze e civiltà, p. 251.

Conclusioni 259 1. Definizione della politica, p. 261; 2. Considerazioni sul significato del politico, p. 261; J. Storia e metafisica, p. 271.

NOTA INTRODUITIVA

Cos'è fare politica, se non dire al tuo prossimo che non è solo? Massimo Cacciari

Il nome di Julien Freund - filosofo della politica e sociologo nato nel 1921 e scomparso nel 1993 - è poco familiare ai lettori italiani. 1 Nel corso degli anni, diversi suoi volumi e saggi sono stati tradotti e pubblicati in Italia, in alcuni casi anche da importanti editori. 2 Ma ciò non è bastato, almeno sino ad oggi, a favorire una approfondita conoscenza di questo autore, adeguata alla qualità della sua produzione intellettuale ed all'importanza che egli ha rivestito, a mio giudizio, nel panorama europeo degli studi politico-sociali. Tra gli studiosi, la sua figura viene solitamente abbinata a quelle di Max Weber e di Carl Schmitt: del primo è stato in effetti un brillante traduttore in lingua francese ed un accorto interprete, del secondo viene abitualmente considerato un seguace fedele ed un epigono. La sua opera principale e più conosciuta, L'essence du politique, pubblicata nel 1965, si trova spesso citata nei manuali di filosofia politica, ma

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Alessandro Campi

quasi sempre nel quadro delle discussioni sul concetto schmittiano di «politico» (fondato, come è noto, sulla contrapposizione amico/nemico). In realtà, Freund non può essere considerato un «discepolo di Schmitt» 3 ( dal quale pure ha ripreso spunti teorici e concetti e del quale è stato in effetti un amico, un ammiratore ed un divulgatore )4 e nemmeno l'autore di un solo libro (peraltro più citato che letto). È stato, a ben vedere, molto di più: uno studioso puntuale ed in alcuni casi innovativo, dal punto di vista critico-intepretativo, dei grandi classici del pensiero politico antico, moderno e contemporaneo (da Aristotele ad Aron, da Hobbes e Locke a Pareto e Simmel, da Bodin a Clausewitz, da Machiavelli e Naudé a Proudhon e Sorel); un attento analista sociale, interessato soprattutto alle dinamiche delle moderne società industrializzate; un appassionato cultore, insieme a Gaston Bouthoul, di studi polemologici, come dimostrano i suoi lavori sui concetti di pace e guerra, sul disarmo, sul pacifismo, sul terrorismo, sulla strategia militare, sulla violenza e sui concetti di «nemico» e di «terzo»; un filosofo incline alla metafisica; l'autore di interessanti approfondimenti sull'epistemologia delle scienze umane, sulla natura del diritto e dell'economia, sui caratteri propri del pensiero utopico, sul destino della scuola, sul valore della pedagogia e dell'insegnamento e sulla fenomenologia della religione. 5 Dal punto di vista delle opzioni di valori, non ha mai nascosto, senza per questo tradire la sua

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Nota introduttiva

pro(essione di fede weberiana e la sua vocazione scientifica, la propria inclinazione cattolico-liberale, intrisa di pessimismo culturale e segnata da un certo tradizionalismo storico-religioso. Politicamente, si è spinto sino a definirsi, con un evidente gusto della provocazione, un «reazionario di sinistra» ed ha declinato le proprie appartenenze ideali secondo quest'ordine: francese, gollista, europeo e regionalista. Non priva di interesse è stata la sua stessa personalità intellettuale: spigolosa, libera e quasi ribelle, molto poco salottiera e per niente parigina. Nel 1979, a soli cinquantotto anni, non ha esitato ad abbandonare l'insegnamento in polemica con l'amministrazione universitaria e disgustato dalle camarille accademiche. Senza troppo badare alla propria reputazione ha interloquito, nel corso degli anni, sia con i giovani contestatori dell'estrema sinistra (pur non condividendone il rivoluzionarismo nichilista ed il settarismo ideologico) sia con gli esponenti della cosiddetta «nouvelle droite» (senza tuttavia apprezzare, di quest'ultima, il volontarismo nicciano e superomistico, tendenzialmente anticristiano): in entrambi i casi si è lasciato guidare dal gusto per il confronto e per la disputa intellettuale e dalla passione per le idee. Estraneo, come ogni pensatore che si rispetti, alle compartimentazioni disciplinari tipiche del sapere universitario, Freund ha dedicato la maggior parte del suo tempo e dei suoi sforzi all'analisi in chiave concettuale e fenomenologica della

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Alessandro Campi

politica, da lui considerata una categoria dotata di autonomia rispetto alle altre sfere dell'agire umano e quindi contraddistinta da mezzi e finalità peculiari. Da questo punto di vista, il suo nome merita di essere affiancato a quello dei numerosi autori che, soprattutto nel corso del Novecento, hanno cercato di comprendere la natura dei fenomeni politici secondo un'ottica realistica ed antiideologica. Proprio seguendo un percorso - esistenziale ed intellettuale - tipico di molti esponenti del cosiddetto «realismo politico», Freund ha abbracciato lo studio in chiave empirica e positiva della politica a partire da una cocente disillusione giovanile, maturata a seguito della sua partecipazione alla resistenza ami-nazista francese, della sua militanza nelle fila dell'Union Démocratique et Socialiste de la Résistance e della sua esperienza come sindacalista. Il coinvolgimento nei violenti contrasti in-: terni alla resistenza (tra comunisti da un lato e socialisti e gollisti dall'altro) e, una volta terminata la guerra, quello nei «drammi» relativi alla compilazione delle liste elettorali ed alla gestione dei finanziamenti dei partiti lo hanno portato a rinunciare all'impegno politico diretto, ad abbandonare la sua concezione ingenua ed idealistica della politica ed a scegliere la carriera intellettuale e la ricerca scientifica. 6 Della politica - ricorderà Freund a distanza di anni ripercorrendo il filo della sua vicenda intellettuale - «avevo avuto fino ad allora una conce-

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Nota introduttiva

zione candida ed intellettuale, che nella pratica mi aveva causato soltanto delusioni e disinganni. Il mio scopo era di abbandonarmi ad una approfondita ricerca, la più obiettiva possibile, sulla base dell'esperienza storica degli uomini, a costo di rivedere per intero i miei giudizi precedenti».7 Da qui la decisione, assunta del 1950, di realizzare una tesi di dottorato sul tema «Essence et signification de la politique», la cui redazione lo ha impegnato per circa un quindiéennio. Presentata e discussa alla Sorbona il 26 giugno 1965 con il titolo definitivo «L' essence du politique», questa tesi, avallata in qualità di direttore da Raymond Aron8, ha rappresentato non solo un brillante esordio scientifico, ma anche la rinuncia definitiva a qualunque visione edificante ed illusoria della politica: «Solo con l'adozione del metodo sociologico e fenomenologico sono riuscito a sviluppare un'analisi che, per quanto irritante, mi ha però permesso, durante la discussione della tesi, di considerare superata la mia delusione. Non avendo più illusioni avevo compreso che la politica è un'attività indispensabile, che per sua natura è al servizio delle esigenze minime della vita in società. Abbandonai anche la mia concezione moralizzante, nel senso che questa maggiore conoscenza della politica mi ha portato a comprendere meglio anche la morale. Mano a mano che redigevo le pagine della tesi, guarivo me stesso dalle mie iniziali idee utopistiche». 9 Nei circa trent'anni successivi non c'è ambito

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Alessandro Campi

della politica - considerata nei suoi molteplici e talvolta contraddittori significati: come categoria filosofica e come realtà storica, come sfera d' azione individuale e collettiva, come arte del comando, come strumento di regolazione dei conflitti, come modalità di governo della società, come forma di mediazione degli interessi, come vocazione e destino, come avventura spirituale, come ricerca del bene comune, come espressione del potere, come manifestazione della volontà e della potenza, come garanzia di protezione degli individui, come baluardo per la libertà - che Freund non abbia esplorato ed indagato con tutti gli strumenti a sua disposizione, con spirito sistematico e critico al tempo stesso, cercando sì di offrire una comprensione globale e rigorosa dei fenomeni politici, ma sempre con la consapevolezza che qualunque attività umana - e quindi anche la politica - è soggetta per definizione alle imperfezioni, alle ingiustizie ed agli errori e che proprio il «diritto all' error~>~ rapJ'resenta anzi il fondamento della libertà politica. 2. La politica è una realtà o un'invenzione? È qualcosa di connaturato alla natura umana oppure un frutto della storia e l'espressione di una data civiltà? L'analisi di Freund presuppone - nel solco del classico modello aristotelico - una scommessa teorica di grande portata, relativa alla possibilità di vedere nella politica una dimensione permanente ed immutabile, propria dell'uomo in quanto esse-

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Nota introduttiva

re sociale. La sua opera del 1965 si apre con queste parole: «Il y a une essence du politique», intendendo con tale espressione che in ogni collettività umana esiste una sfera d'azione comune, appunto la politica, che di ogni collettività è parte integrante e costitutiva e che si caratterizza per possedere dei caratteri permanenti, che prescindono dunque dalle contingenze storiche e dalle forme organizzative ed istituzionali attraverso le quali la politica si esprime nei diversi contesti spazio-temporali. La prospettiva freundiana - che è possibile definire di tipo ontologico-essenzialista - si basa sulla distinzione tra il politico (che rappresenta qualcosa di immutabile e di eterno, di connaturato alla sfera sociale) e la politica (che deve essere invece intesa in una dimensione contingente e dinamica, come concreta manifestazione storica del politico, come tale soggetta a cambiamenti e trasformazioni che tuttavia non possono alterarne la natura profonda). Secondo lo schema teorico messo a punto dallo studioso francese, il politico (inteso come essenza, come sostanza) rappresenta - insieme all'economico, al morale, all'economico, al religioso ... una delle essenze che naturalmente strutturano la società e le relazioni che gli individui intrattengono tra di loro. Ogni essenza possiede, secondo Freund, presupposti propri, dei mezzi peculiari e delle finalità specifiche: una dimensione dunque di regolarità e di costanza storica. Nel caso del politico i presupposti sono rappresentati dalla relazione comando-obbedienza, dalla relazione pubblico-

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Alessandro Campi

privato e dalla relazione amico-nemico; il mezzo, dalla forza; il fine, dal bene comune. La politica (intesa come fenomeno storico, come istanza) non può in alcun modo svilupparsi, quale che sia il contesto spazio-temporale, prescindendo da quelli che sono i suoi presupposti, il suo mezzo ed il suo scopo peculiari e tipici. La politica ha regole e caratteristiche costanti, che non possono essere ignorate o addirittura negate da chi agisce politicamente o da chi analizza i fenomeni politici. Ciò non significa, ovviamente, che essa sia sempre eguale a se stessa, quindi ripetitiva e meccanica o peggio prevedibile. Se in politica non cambiano i presupposti, il mezzo e lo scopo, cambiano invece i valori e gli obiettivi, le modalità d'azione ed il contesto istituzionale, gli attori e le formule di giustificazione del potere, i rapporti tra forze e la strumentazione tecnica, i modelli di autorità ed i vincoli ambientali: un insieme di fattori spesso non prevedibili, da cui deriva il carattere vitale e dinamico, innovativo e creativo, che la politica comunque possiede. Da ciò discende che il fatto che la politica possa essere studiata ed analizzata scientificamente, con imparzialità e distacco, alla stregua di qualunque altro fenomeno sociale, non significa che essa sia, in sé, qualcosa di neutrale e di obiettivo. La politica - con il suo carico di passioni e di interessi, di ambizioni e di valori, di simulazioni e di astuzie non è una scienza, è arte; non è conoscenza, è azione. La politica, vista alla luce della storia, è

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Nota introduttiva

abitata dall'incertezza, dall'incoerenza, dalla contingenza, dal caso e dalla volontà. Per essere compresa e studiata occorre rifarsi ali' esperienza, dunque alla storia, prima che alla dottrina. Freund, sulla scia di Weber, ha sempre assegnato un grande valore, sul piano della conoscenza, all'esperienza umana generale, il che tra l'altro spiega il suo modo di argomentare e di presentare le proprie conclusioni: quasi didascalico, senza intellettualismi ed inutili complicazioni terminologiche. L' esperienza, in quanto tale, è alla portata di ogni uomo. Ne consegue che la politica - in quanto connaturata alla società e dunque legata all'agire concreto degli uomini - può essere meglio compresa solo partendo dalle esperienze che, nel corso della storia, gli uomini hanno accumulato su di essa. 3. A chi può interessare, nell'Italia odierna, questo brillante tentativo di descrivere i caratteri costitutivi della politica, di spiegarne mezzi e finalità e di illuminare, alla luce dell'esperienza storica, individuale e collettiva, le dinamiche proprie, in ogni condizione e in ogni luogo, dell'azione politica? Sulla politica si è abbattuto, in particolare nel corso dell'ultimo decennio, un pesante discredito, determinato da un complesso di (legittime) ragioni d'ordine storico, ideale e culturale in senso lato. Nel corso del Novecento, la politica, resa assoluta dall'ideologia, ha indubbiamente fallito nella sua pretesa di rifondare l'ordine sociale e la natura

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umana. La sua aspirazione ad una felicità, ad una eguaglianza e ad una giustizia perfette, la sua ambizione ad occupare ogni sfera vitale ed ogni spazio sociale, si sono rivelate fallaci e pericolose, determinando, come legittima reazione, non solo un rigetto di tutte le dottrine salvifiche e palingenetiche, ma, alla fine, un rifiuto della politica cometale. Ma non è stata solo l'esperienza rovinosa dei totalitarismi a produrre un tale risultato. Molto ha contribuito il modo con cui, nella seconda metà del secolo, è andata evolvendosi la politica nei regimi democratico-rappresentativi, caratterizzati da classi politiche sempre più autoreferenziali e staccate dal sentire comune dei cittadini, da partiti invadenti e scarsamente attenti all'interesse generale, da una crescente paralisi decisionale, da un vero e proprio blocco istituzionale, da unaridotta capacità a rappresentare la società nelle sue diverse articolazioni, da una scarsa capacità a gestire le crisi e le sfide poste in essere, specie nel corso degli ultimi quindici-venti anni, dalla cosiddetta globalizzazione. La storia politica italiana recente, come in parte quella europea, si è così sviluppata all'insegna dell' antipolitica, di una generalizzata diffidenza nei confronti della politica: dei suoi mezzi, delle sue logiche d'azione, delle sue finalità intrinseche e dei suoi attori abituali. Tale diffidenza ha assunto, come è noto, molteplici manifestazioni. Nelle sue forme estreme e più virulente si è presentata con i tratti del qualunquismo, della demagogia e

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di un ostentato disprezzo nei confronti dei politici di professione e, più in generale, della sfera pubblica. In forme culturalmente più sofisticate essa si è espressa in una crescente richiesta di spoliticizzazione dei processi decisionali e delle procedure di governo, motivata dal bisogno, che sarebbe proprio delle società economicamente e socialmente più avanzate, di affidarsi alla neutralità della tecnica per dare soluzione adeguata ai problemi che le caratterizzano. In tutti questi anni l'antipolitica si è nutrita di retorica sulle virtù della cosiddetta «società civile», polemicamente contrapposta ad una classe politica giudicata intrinsecamente rapace ed inetta; di inviti ad una politica ora «bella» ora «buona», quindi sempre più spogliata delle sue attribuzioni fondamentali, che sono nel fondo antagonistico-conflittuali; di polemiche contro il cosiddetto «teatrino della politica», quasi che possa darsi azione politica al di fuori di una qualche dimensione scenica e, alla lettera, «rappresentativa»; di un approccio moralistico alle problematiche del potere e delle relazioni di autorità; dell'illusione che la vera libertà individuale possa realizzarsi al di fuori delle limitazioni che la politica necessariamente impone ai membri della comunità (oltreché a se stessa). Ne è risultato un circolo perverso: da un lato la politica ha progressivamente perso il suo ruolo civilizzatore, la sua capacità di regolare i conflitti sociali e di mediare tra la diversità degli interessi e delle identità, dall'altro essa si è vista scalzata, in queste su funzioni, da altri

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centri di potere, spesso privi di qualunque legittimazione appunto politica (la magistratura, le grandi imprese, gli apparati tecnico-burocratici nazionali e sovranazionali). Il volume di Freund, oltre a costituire una preziosa introduzione alla politica realistica - un antidoto quindi nei confronti della politica ideologica e dell'utopia di un mondo senza conflitti e senza tensioni - rappresenta anche un'appassionata difesa della politica e delle sue ragioni, quindi una critica serrata sia ai teorici della «fine della politica» sia ai fautori dell' «antipolitica», difesa tantopiù utile e necessaria in una fase storica come l'attuale, segnata proprio, come detto, da una tendenziale subordinazione della sfera politica alla dimensione tecnico-economica. La politica non è, come talvolta si sostiene quasi con rassegnazione, un male necessario, bensì, per dirla con Bernard Crick, un «bene realistico», al quale nessuna società può rinunciare del tutto senza pagare lo scotto di una progressiva perdita della libertà. C'è chi pensa, nel mondo d'oggi, che sia possibile, e finanche auspicabile, governare le collettività affidandosi unicamente alle competenze tecniche, alla proiezione nella sfera pubblica dei singoli interessi individuali, ad un rapporto senza mediazioni tra classe politica e cittadini, alle pressioni dei gruppi, alla neutralità delle burocrazie, agli automatismi propri di ogni organizzazione complessa, alla retorica delle belle parole, ad una miscela virtuosa di etica universalistica e di spirito

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Nota introduttiva

degli affari, alla propaganda ed all'immagine dei capi scientificamente veicolate. Ma si tratta si una pericolosa deriva culturale: con l'idea di liberarsi dal peso della politica, si rischia infatti di cadere in forme diverse e ben più pericolose di controllo sociale e di privazione dei diritti di libertà. In realtà, altro è manifestare un legittimo disagio nei confronti di un modo di concepire la politica, e di farla, personalistico e ideologico, indifferente ai valori e privo di respiro progettuale, assolutistico e tecnicamente inefficace, altro è pensare di poter fare a meno, totalmente, della politica e delle sue regole, per quanto imperfette. E ciò tanto più in società altamente complesse e differenziate come le attuali, alle prese con problemi in larga parte inediti e fonti potenziali di conflitti e di contrasti: il declino del modello politico dello stato-nazione, l'immigrazione dal Terzo mondo, il degrado ambientale, la definizione di nuove regole di convivenza internazionale, la tutela ed il riconoscimento delle nuove soggettività ed identità sociali, il conseguimento di una maggiore equità su scala mondiale, la gestione delle nuove forme di conflitto armato. Chi può pensare, oggi, di trovare a questi problemi una soluzione che non sia, prima che tecnica, innanzitutto politica, ispirata cioè ad un complesso equilibrio di ragioni ideali e di compatibilità economiche, di opzioni etiche e di calcolo degli interessi, di disponibilità tecniche e di valori storici? Ciò che si deve temere realmente è dunque non

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la politica - da sostituire magari con l'etica o la tecnica - bensì la scomparsa della politica, che per quanto imperfetta, cruda e talvolta ingiusta, rimane pur sempre l'unico strumento attraverso il quale gli uomini, individualmente ed in forma associata, possono garantirsi, oltre la libertà, giustizia, benessere e sicurezza. Per concludere, alcuni chiarimenti sulla presente edizione italiana del volume di Freund. Qu'est-ce que la politique? rappresenta, come chiarito dall'autore, la sezione finale dell'opera L'essence du politique (per l'esattezza si tratta della terza parte, intitolata nella versione originale «La finalité du politique» ). La data di pubblicazione del testo, il 1965, deve essere tenuta presente per comprendere riferimenti storici, esemplificazioni ed accenni polemici oggi del tutto anacronistici, per di più inseriti in un contesto storico-politico, soprattutto internazionale, profondamente mutato. Nella traduzione - curata da Consuelo Angiò - si è cercato, per quanto possibile, di mantenere lo stile dell'autore, poco incline, in effetti, al gergo accademico. Per facilitare la comprensione del testo, sono stati eliminati, senza darne indicazione al lettore, alcuni passaggi nei quali erano contenuti richiami erimandi alle altre due parti dell'opera principale. L'autorizzazione a pubblicare il volume in traduzione italiana è venuta da Marie-France Freund Kuder, vedova dello studioso francese, alla quale va sia il ringraziamento dell' editore per la liberalità con la quale ha concesso i diritti sia la mia personale gratitudine per il sostegno che, nel corso degli anni, mi ha offerto ogni qual volta è stato necessario reperire testi e materiali relativi al lavoro intellettuale e scientifico svolto da Freund. Alla riuscita di

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Nota introduttiva

questa iniziativa editoriale hanno egualmente contribuito il prof. Piet Tommissen, esecutore testamentario di Freund, la dott.ssa Mariangela Miotti, che ha rivisto la traduzione in alcuni punti, e la dott.ssa Cristiana Vivenzio, che si è sobbarcata la fatica di rileggere il testo e di seguirne la realizzazione finale. Alessandro Campi Università di Perugia, maggio 2001

Note 1. Nella stessa Francia l'approfondimento critico del pensiero freun-

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diano è appena agli inizi. Nel dicembre 2000, presso l'Università di Lille è stata presentata e discussa una dettagliata tesi di dottorato in tre volumi redatta da Alain Cambier ed intitolata Pouvoir et puissance dans la philosophie politique de ]ulien Freund. L'unico studio d'insieme sulla sua opera è apparso in Spagna: cfr. J. Molina,Julien Freund. Lo politico y la politica, Madrid, 2000. Nell'ordine, in Italia sono apparsi i seguenti volumi: Sociologia di Max Weber, Milano, 1968; Pareto. La teoria dell'equilibrio, Roma-Bari, 1976; La fine dello spirito europeo, Roma, 1983; Diritto e politica. Saggi di filosofia giuridica, Napoli, 1994; Il Terzo, il Nemico, il Conflitto. Materiali per una teoria del Politico, Milano, 1994; Voci di teoria politica, Roma, 2001. N. Bobbio, Teoria generale della politica, Torino, 1999, p. 18. Cfr. J. Freund, Préface a C. Schmitt, La notion de politique-Thèorie du partisan, Paris, 1972, pp. 7-38; Idem, lntroduction a C. Schmitt, Terre et mer. Un point de vue sur l'histoire mondiale, Paris, 1985, pp. 9-16; Idem, Le linee-chiave del pensiero politico di Cari Schmitt, in «Futuro presente,., n. 3, autunno 1993, pp. 7-26; Idem, La mia corrispondenza con Cari Schmitt: 1959-1965, in «Studi perugini,., n. 1, gennaio-giugno 1996, pp. 179-220. Per una panoramica sulla produzione freundiana cfr. l'ampia rassegna bibliografica messa a punto con la consueta perizia da Piet Tommissen e comprendente circa cinquecento titoli: La bibliogra-

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Alessandro Campi

fia di]ulien Freund, in «Studi perugini», cit., pp. 17-73. 6. Su queste vicende cfr. J. Freund, L'aventure du politique, intervista a cura di C. Blanchet, Paris, 1991, 27-33 e 41-43. 7. J. Freund, Un profilo autobiografico, in «Studi perugini», cit., p. 109. 8. Sul ruolo svolto da Aron, subentrato a Jean Hyppolite in qualità di patrocinatore della tesi freudiana, cfr. J. Freund, Raymond Aron directeur de thèse, in «Commentaire», n. 28-29, febbraio 1985, pp. 55-58. 9. Freund, Un profilo autobiografico, cit. p. 109. 10. J. Freund, L'essence du politique, Paris, 1986, p. 828.

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PREFAZIONE

Tutto tende ai nostri giorni a mascherare la vera natura del politico. La tradizione platonica, il prestigio della scienza, l'apparente autorità degli intellettuali, l'influenza ogni giorno più manifesta dei tecnocrati, persino il crescente sviluppo delle scuole o degli istituti di scienze politiche e di sociologia politica inducono a far credere che la politica sia divenuta ormai un puro e semplice oggetto di conoscenza e che il suo futuro sviluppo dipenderebbe quasi esclusivamente dall'analisi e dalla ricerca scientifica. Nessuno contesterà che l'approfondimento e la diffusione del sapere, sia nell'ambito delle scienze fisiche che in quello delle scienze economiche e sociali, abbiano introdotto cambiamenti significativi nell'universo politico. Queste trasformazioni non hanno tuttavia come scopo esplicito quello di alterare la politica. Ciò non toglie che essa sia stata travolta, come la religione, l'arte o la morale, dallo sconvolgimento generale che ha profondamente cambiato il mondo e il panorama comune degli uomini. Per compiere il suo dovere e per rispettare nel modo più fedele possibile la propria vocazione, la politica è dunque obbligata a misurarsi con tali trasformazioni, a cercare di dominarle per metterle al servizio del bene comune, vale a

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Ju/ien Freund

dire la sicurezza esterna e la concordia interna delle diverse unità politiche. Ciò significa riconoscere che scopo della politica non può essere la conoscenza. Essa rimane ciò che è sempre stata: azione. Ed è come tale che occorre comprenderla. La relazione fondamentale di ogni azione è quella tra mezzo e fine. Questa relazione, in politica, si può considerare sotto diversi punti di vista, tre dei quali ci sembrano essenziali. Innanzi tutto, la si può considerare rispetto alle categorie morali del bene e del male - posizione che si ritiene essere la più onorevole e degna, il che spiega perché sia anche quella più diffusa, sebbene alquanto scontata e fonte di grande confusione e di equivoci. Va da sé che qui non si tratta di sottrarre la politica al giudizio morale, né di isolare l'una dall'altra queste due attività, ma semplicemente di riconoscere che esse non sono la stessa cosa. Morale e politica, infatti, non hanno assolutamente il medesimo scopo. La prima risponde ad un'esigenza interiore e comprende la rettitudine degli atti personali secondo le norme del dovere, il che significa che ogni individuo deve assumersi la piena responsabilità della propria condotta. La politica, al contrario, risponde a una necessità della vita sociale; chi intraprende questa strada intende dunque partecipare, facendosene carico, al destino globale di una collettività. Già Aristotele distingueva tra la virtù morale dell'uomo probo, che aspira alla perfezione individuale, cioè alla propria realizzazione, e la virtù civica del cittadino, che è invece relativa ali' attitudine al comando, ali' obbedienza e al benes-

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Prefazione

sere della comunità. Per quanto possa essere auspicabile che l'uomo politico rimanga sempre un uomo probo, tuttavia egli può talvolta non esserlo, tanto più che all'interno di uno Stato non tutti i cittadini sono uomini onesti e virtuosi. In altre parole, la politica si occupa della comunità in quanto tale, indipendentemente dalle qualità morali e dalla vocazione personale dei membri che la compongono. È anche possibile «essere buoni cittadini senza possedere la virtù per la quale l'uomo è buono». 1 Questa classica distinzione resta sempre valida a dispetto delle ideologie che cercano di asservire gli individui all'epifania della giustizia e dell'uguaglianza sociale oppure dell'ordine morale che esse promettono in vista di un futuro indeterminato. L'identificazione tra morale e politica è inoltre una delle fonti del dispotismo e delle dittature. 2 Ne risulta che la morale non è né concettualmente né logicamente inerente all'attività politica: agire politicamente non è la stessa cosa che agire moralmente e viceversa. Incontriamo qui un'altra distinzione classica, quella tra moralità e legalità. La legge morale è autonoma, il che vuol dire che in questo caso obbediamo a un obbligo che noi stessi ci imponiamo, mentre la legge politica è eteronoma, il che significa che ci sottomettiamo ad una regola che ci viene imposta dall' esterno, da un potere legislativo che potremmo chiamare Governo, Parlamento o Consiglio comunale. In poche parole, la morale è un problema di disciplina, la politica di coercizione. Se politica e morale sono dunque da considerarsi

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Julien Freund

due attività distinte per natura, avendo esse scopi differenti, chiaramente lo stesso principio vale per quanto riguarda i loro rispettivi mezzi. La mera convinzione etica non è garanzia di efficacia politica. È questa la base dell'opposizione stabilita da Max Weber tra l'etica della convinzione e l'etica della responsabilità. Egli dimostra, in particolare, che la sincerità, la generosità e la bontà possono compromettere la realizzazione degli obiettivi politici, se si parte dalla convinzione che solamente il bene possa generare il bene ed il male unicamente il male. L'esperienza e la storia contraddicono questa opinione; non di rado, infatti, accade che l'ideale morale conduca a conseguenze spiacevoli, se non disastrose, e che una decisione moralmente reprensibile possa avere esiti felici e favorevoli. Colui che in politica concepisce la relazione tra mezzo e fine solo dal punto di vista morale condanna se stesso all'inazione e conseguentemente all'impotenza, poiché è portato a rinchiudersi in una perenne contestazione. Costui può solo rifiutare il mondo o maledirlo o, al limite, volerlo gettare nel nulla di un'apocalisse chiamata «rivoluzione». 3 In secondo luogo, si può considerare la relazione tra mezzo e fine in politica in modo pratico, sia dal punto di vista delle «ricette>>, dei consigli, dei procedimenti e delle tecniche indicanti come si debba agire per giungere al potere, per esercitare il comando, per fare una rivoluzione o anche per restare al potere una volta che lo si è conquistato, sia dal punto di vista prettamente pragmatico dell'apporto della scienza e della ricerca nel caso concreto di una determina-

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Prefazione

ta impresa, quando, fissato l'obiettivo, l'uomo politico consulta gli specialisti per sapere quali siano i mezzi più appropriati per realizzarlo. Il primo metodo richiede una sensibilità politica poco comune, ma è soprattutto pieno di rischi, dato che in questo campo si rasenta continuamente il cinismo o il ridicolo; esso non ammette dunque né l'ovvietà né la banalità pretenziosa né l'affettazione enfatica. Nondimeno, uomini di grande levatura intellettuale si sono resi illustri lasciando opere tra le più insigni della letteratura politica come Il Principe di Machiavelli, le Considerazioni politiche sui colpi di stato di Gabriel Naudé, Che fare? di Lenin, Il filo della spada di Charles de Gaulle. La lettura di queste opere e l'analisi dell'azione di uomini di Stato come Pericle, Richelieu, Cromwell, Churchill e altri ancora, ci permettono di comprendere come la politica sia un'arte e non semplicemente un mestiere. Si può fare politica per guadagnarsi da vivere, come altri praticano la pasticceria, la culinaria o costruiscono strade. Per quanto sarebbe un errore disprezzare coloro che fanno bene il proprio mestiere, ciò non toglie che in politica, dato il suo fine, la mediocrità sia più pregiudizievole che in qualsiasi altra carriera. Utilizziamo in questa sede il concetto di arte nel senso comune del termine - che mette giustamente in risalto la relazione tra mezzo e fine - come la messa a punto dei procedimenti più appropriati al perseguimento del fine desiderato. L'arte politica è essenzialmente arte della decisione, il che significa che occorre possedere l'intuizione della misura che sembra più

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opportuna così come il senso di responsabilità nei confronti della causa che si difende. Non si tratta affatto di opportunismo che, in fondo, è solamente un vano agitarsi dovuto alla mancanza di fiducia nella causa che si intende servire. Nulla, più della vanità, è contrario a quest'arte della decisione e della responsabilità; vanità che, come dimostra Max Weber, diventa ebbrezza del sensazionale e dell'interessante per l'assenza della distanza necessaria che permette all'uomo di lasciare operare su di sé, in una riflessione tutta interiore, il disordine degli eventi che occorre appunto dominare. Il secondo aspetto di questa valutazione pratica della relazione tra mezzo e fine è più modesto; esso consiste nel proporre e non nel decidere, benché ai nostri giorni la tecnocrazia si caratterizzi per il desiderio di influenzare in modo definitivo la decisione politica senza assumersene la responsabilità: essa esercita il ruolo di mediatrice. Come in passato il re si circondava di «consiglieri privati», il capo politico moderno consulta specialisti o esperti per poter fornire una base più razionale possibile ai suoi progetti, tenuto conto delle condizioni, dei mezzi disponibili o di quelli da approntare, delle conseguenze prevedibili e della portata generale dell'impresa. In effetti, qualunque sia la relazione tra mezzo e fine in politica, nessuno dei due elementi si sviluppa in stretta conformità alle previsioni e ai calcoli, poiché nel corso dello svolgimento occorre continuamente far fronte a emergenze, a ostacoli imprevisti e a sorprese, a conseguenze secondarie che possono, all' occor-

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renza, rimettere tutto in discussione; oppure bisogna ricorrere a mezzi che, in un primo momento, si erano scartati in ragione di certi valori o divieti, ma che diventano inevitabili per portare a termine l'impresa. I difetti di un'azione si rivelano solo nel corso dell'azione stessa. Questo aspetto della relazione tra mezzo e fine è dunque essenzialmente critico, in quanto si tratta di definire, nei limiti dell'obiettivo che ci si è prefissi, le possibilità e le impossibilità tecniche, i valori ultimi che sono in gioco o che rischiano di essere chiamati in causa così come le eventuali conseguenze dell'operazione. In politica, infatti, ogni relazione tra mezzo e fine comporta, oltre lo scopo desiderato, effetti non voluti di cui occorre farsi carico, pena la vigliaccheria. La vera responsabilità politica è dunque una fiducia senza assicurazione, un rischio senza garanzia, una determinazione senza certezza. Anche gli esperti sbagliano; sarebbe noioso stilare un elenco dei loro errori. Infine, possiamo considerare questa relazione da un punto di vista fenomenologico. Se la politica rappresenta un'attività autonoma allo stesso titolo della scienza, dell'arte, dell'economia, della religione e della morale, se è vero che essa non si può ricondurre a nessuna di queste categorie, quali sono allora il suo fine specifico e il mezzo ad essa proprio? Il compito non è facile, poiché occorre superare gli ostacoli che si presentano lungo il cammino e che tentano di snaturare la finalità del politico, come ad esempio i comunismi, i socialismi, i liberalismi, i progressismi, i dispotismi, i federalismi e i parlamen-

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tarismi, le democrazie, le aristocrazie, le plutocrazie e le teocrazie, le monarchie, le anarchie e le oligarchie, le fraseologie, le ideologie, le apologie e le eresie, le perorazioni, le dichiarazioni, le proclamazioni, le declamazioni, le affermazioni, le confutazioni, le negazioni e le contronegazioni. Secondo tutte queste teorie, dottrine e regimi, trattazioni e ritrattazioni, la politica potrebbe avere i fini più disparati e più contraddittori: la libertà, l'uguaglianza, la giustizia o l'equità sociale, la fraternità, la lotta di classe o la sua fine, il prestigio di una nazione, la purezza di una razza, il regno del diritto, la solidarietà, la pace, ecc. Ci sono persino partiti che arrivano a conciliare l'inconciliabile nel proprio programma scritto, in grado di soddisfare tutti senza accontentare nessuno. Ogni generazione ricomincia tutto da capo, e la politica finisce col diventare un contenitore porta-tutto. Analogamente, non si lesina sui mezzi: lotta, astuzia, forza, negoziazione, violenza, terrore, sovversione, guerra, diritto, ecc.; essi sono tanto vari quanto i fini sono disparati. La demagogia non ha altro significato. A seconda delle circostanze essa recupera la teologia o la denigra; invoca grandi princìpi o se ne fa beffe; glorifica o condanna la psicologia, la sociologia, la demografia, le armi atomiche; invoca la legalità contro la legittimità o viceversa; esalta la tolleranza o caldeggia il fanatismo; reclama o vilipende la libertà di stampa, di informazione e di coscienza; divinizza l'arte o la denigra. Si presenta la politica come strumento di liberazione dell'uomo, ma la scienza, la religione, l'arte e l'eco-

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no mia vantano la stessa pretesa. Non si sa più se essa sia morale, scienza, arte o economia: è tutto e niente. In un certo senso la politica può mettersi al servizio di qualsiasi fine e utilizzare qualsiasi mezzo. Il problema, tuttavia, è di sapere se possieda uno scopo e mezzi propri come la scienza, l'arte o la religione. Le pagine che seguono hanno per l'appunto l'intento di risolvere il problema della finalità della politica, operando una distinzione chiara tra escatologia, tecnologia e teleologia. Per precisare il procedimento adottato, consideriamo due esempi, quello della libertà e quello della pace. Alla diffusione della libertà nel mondo non contribuisce solo la politica, che peraltro della libertà può anche essere una nemica: la scienza, l'arte, la religione e la morale hanno, in ogni caso, la stessa ambizione liberatrice. Non si può dunque sostenere che la libertà sia un fine specifico dell'una o dell'altra di queste attività; essa, infatti, è il fine ultimo, per così dire escatologico, di tutte le attività umane. Ciascuna di esse tende a promuoverla a modo suo senza che mai nessuna in particolare né tutte assieme giungano a realizzarla in maniera completa e definitiva. La politica partecipa a quest'opera comune alla sua maniera, entro i limiti del fine che le è proprio, cioè la sicurezza esterna e la concordia interna di un'unità politica, così come nei limiti del suo mezzo specifico, cioè la coercizione o la forza. Stando così le cose, è chiaro che la libertà politica non può consistere in un atto gratuito, vale a dire in una deroga alla norma generale o nella violazione della legge, ma nel rispetto

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delle norme e delle leggi fintanto che queste non chiamino in causa e non minaccino le altre attività, quali l'arte, la morale o la scienza. In effetti, il significato profondo della coercizione come mezzo della politica è di permettere a ciascun individuo di obbedire alla sua vocazione nell'ambito della comunità, senza causare inevitabili pregiudizi agli altri membri. In altre parole, l'autorità normativa è la condizione politica della libertà degli individui. Questa condizione è differente per le altre attività. Ciò non significa che la libertà politica esiga la soppressione dei nemici; questo sarebbe contrario alla sua essenza, poiché essa vive della rivalità, dell'opposizione tra partiti e ideologie, della diversità antagonistica delle opinioni, dei valori e dei fini così come della varietà concorrente delle possibili soluzioni da impiegare per risolvere il problema del bene comune. La libertà politica così intesa pone dunque inevitabilmente la questione della pace in politica. La negazione del nemico conduce all'irenismo (attualmente in voga, in particolare in certi ambienti religiosi che si occupano di politica), che non è però la pace, ma una falsificazione, una menzogna. Consiste nel credere che la tolleranza sia un rapporto tra idee, mentre essa è un rapporto tra uomini, un problema di comportamento. Nessuna idea, infatti, è liberale, nemmeno l'idea stessa di liberalismo; per loro natura, tutte le idee affermano qualcosa e negano qualcos'altro. Da questo punto di vista, l'irenismo è più che una carenza di giudizio: ne è l'assenza.

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Dato che si muove guerra contro un nemico, è proprio con quest'ultimo che occorre fare la pace, il che vuol dire, politicamente, che non c'è pace senza nemico. Ne consegue che la pace non è un ordine capace di mantenersi da solo, indipendentemente da ogni tipo di forza, sulla base della sola virtù del diritto, della giustizia o della solidarietà, ma dipende da una volontà politica che si concretizza in accordi o in un trattato. L'idea di una pace senza trattato, vale a dire senza norme e senza sanzioni è politicamente un nonsenso. Ciò che si chiama la pace delle anime non può che avere un significato religioso. Dal momento che la pace definisce, come la guerra, un rapporto tra Stati, essa è in primo luogo una questione pubblica; non si può dunque assimilarla a un silenzio totale della lotta o a una assenza assoluta di conflitti e di antagonismi. Ciò che la caratterizza, a differenza della guerra, è che essa non cerca di vincere, di sconfiggere o di annientare il nemico, ma lo riconosce, lo accetta così come è, su una base paritaria, con le sue differenze e la sua alterità. In poche parole, la pace politica non esclude il nemico, bensì lo include. Allo stesso modo, ogni proclamazione o proposito di pace che implichi la soppressione o la negazione del nemico, in una forma qualsiasi, è una dichiarazione di guerra dissimulata o mascherata. In questo senso, la pace non è, come la libertà, un fine ultimo di ordine escatologico, ma costituisce un obiettivo concreto della politica, uno scopo realizzabile con i mezzi che le sono propri, nei limiti della sicurezza di ogni Stato. La pace, così intesa, è uno degli aspetti del fine

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specifico della politica. Essa non potrebbe costituire il fine di altre attività, come la religione, la scienza o la morale, sebbene, date le relazioni tra le diverse attività umane, la politica debba tenere in conto, per stabilire una pace durevole, anche gli aspetti economici, religiosi o morali dell'intesa tra gli Stati. Non occorrono lunghe spiegazioni per comprendere come questa analisi fenomenologica della relazione tra mezzo e fine in politica riconosce che l'attività politica ha un fine e dei mezzi propri solo a condizione di ammettere che anche le altre attività umane quali la morale, l'economia, la scienza, l'arte o la religione abbiano rispettivamente uno scopo e mezzi propri, vale a dire che ciascuna di esse sia autonoma, malgrado le inevitabili relazioni reciproche; il conflitto e l'amicizia costituiscono il fondamento della storia umana. Ciò significa che non si può ridurre la politica alla morale, all'economia o alla scienza e viceversa, che essa non deriva nemmeno da una di queste attività né viceversa ed infine che non si può, senza cadere nell'arbitrio filosofico, considerare l'una come l'infrastruttura di cui le altre sarebbero le sovrastrutture. A ragione Marx rimprovera Bruno Bauer di aver affermato ne L'ideologia tedesca, senza dimostrarlo, che la politica, l'arte o l'economia si riducono «in ultima analisi» alla religione. Ma questo argomento vale anche contro la concezione di Marx, dato che egli non adduce prove più consistenti per dimostrare che l'insieme delle attività umane si riduce «in ultima analisi» all'economia.

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Note 1. Aristotele, Politica, libro III, cap. IV, 1276 b 34-35. 2. In un'opera sul diritto, attualmente in corso di elaborazione, mostriamo come il rapporto tra morale e politica sia di natura dialettica. [L' opera in questione, Le droit d'aujourd'hui, è stata pubblicata da Freund nel 1972 (n.d.c. )]. 3. Alcuni lettori della mia opera L'essence du politique mi hanno pregato a più riprese di operare, alla luce di queste considerazioni, una critica filosofica della dottrina o della teoria politica di J.P. Sartre. A mio parere, ciò sarebbe un lavoro inutile e impossibile, dato che Sartre non ha una dottrina politica e non ha fatto che esternare reazioni morali di fronte al susseguirsi degli avvenimenti politici.

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Lo studio che segue costituisce la terza parte di un'opera più importante, intitolata L'essence du politique, pubblicata nel 1%5 dalle edizioni Sirey. La prima parte di quel libro è dedicata all'analisi dell'origine del politico, la seconda a quella dei presupposti che condizionano ogni attività e fanno sì che in politica esistano delle costanti, malgrado le circostanze storiche e la varietà delle situazioni. Vorrei ringraziare M. Vergé, direttore delle Edizioni Sirey, per aver voluto accettare di offrire ad un pubblico più ampio queste pagine dedicate alla finalità dell'azione politica.

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INI'RODUZIONE

DELL'AZIONE POLITICA

1. L'antagonismo dei fini

Si tratta qui di definire il fine del politico. In qua.rito specifico dell'essenza del politico, il fine deve restare il medesimo, quale che sia la collettività o il paese, deve cioè essere invariabile nel tempo e nello spazio, e indipendente dalle contingenze, dalle idee dominanti di un'epoca così come dalle dottrine o dai partiti che pretendono di comandare a turno l'attività politica. Che il regime sia liberale o socialista, democratico o tirannico, che lo Stato sia piccolo o grande, che si tratti di una tribù, di una città, di uno Stato o di un Impero, il fine deve restare concettualmente immutabile, così come i presupposti che lo condizionano. La determinazione chiara, precisa ed univoca di questo fine e dei mezzi specifici del politico incontra tre tipi di difficoltà. La prima trae origine dall'ambiguità della nozione di finalità. Abbiamo già insistito a più riprese sulla pluralità e sull'antagonismo dei fini. La società politica ha forse il compito di stabilire e preservare la libertà, di instaurare l'uguaglianza, di far regnare la giustizia o ancora di garantire la sicurezza dei suoi membri? È possibile soddisfare allo stesso tempo tutte queste aspirazioni? Dal momento che libertà ed eguaglianza non sono affatto la stessa cosa e che

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l'una non può sostituirsi all'altra o farne le veci, entrambe contengono anche la possibilità di un conflitto, che rischia di scoppiare non appena si dia priorità all'una rispetto all'altra. Non è forse vero che la costituzione di una società egualitaria si accompagna in genere, se non necessariamente, alla limitazione della libertà individuale e delle libertà pubbliche, persino ad un disprezzo per esse? Si può davvero realizzare una società egualitaria? Come conciliare gli imperativi della giustizia e quelli della sicurezza? Non solo tali impellenze alimentano continuamente i conflitti, ma in se stesse, vale a dire concettualmente, sono già divergenti. In poche parole, non è vero che il giusto sia sempre utile e che l'utile sia sempre in armonia con le esigenze morali. Intellettualmente, senza dubbio, non c'è alcuna difficoltà a combinare tutti questi fini, a confondere i concetti e a identificare, ad esempio, il vero, il bene e il bello; a livello d'azione, al contrario, non si possono trascurare impunemente le deviazioni e le necessità, le passioni e le ambizioni umane, le impazienze e le follie. Un atteggiamento imperturbabile può trattare tutti questi incidenti come «peripezie», ma il loro ripresentarsi e il loro valore ritardano e spesso impediscono la realizzazione dei progetti teorici, quando non ne snaturano il senso nel corso dell'impresa stessa. Qualsiasi politica è, come dice Alain, «un gioco di politiche» 1 e per questo motivo è ridicolo fare politica contro la politica. Presentarsi come un uomo non politico, preoccupato unicamente del servizio e del

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benessere del Paese, è molto astuto da parte di un candidato al potere, ma che pensare di coloro che credono sinceramente che una volta giunti al potere ·non faranno politica, che si terranno a distanza dalle manovre, dagli intrighi, dalle trattative e altri equivoci? Desiderare il potere, esercitarlo, significa fare politica nel senso peggiorativo ed elogiativo del termine, e tutti i sofismi e le arguzie non cambieranno mai questo dato di fatto. Non è mai esistita e non esiste una politica assolutamente pura, corretta e disinteressata a fianco di un'altra che sarebbe irrimediabilmente corrotta, disonesta e deplorevole. La storia non fornisce esempi di un uomo di Stato che nell'esercizio della sua carica si sia sempre tenuto lontano da quello che si suole dire il gioco politico; esistono solamente quelli che, per inconsapevolezza, credono di evitarlo. Questo non significa che ogni uomo politico sia fatalmente un «politicante» o che si debba ridurre la politica a manovre di corridoio, a ricatti e favoritismi, ma che aWoccasione ogni uomo politico si presta inevitabilmente a questo gioco, lo usa, senza necessariamente soccombere. L'errore grave consisterebbe nel far passare, come spesso accade, queste manovre e contrattazioni per il fine della politica. Comunque sia, sussistono pur sempre ottime possibilità che questo equivoco persisterà a dispetto di tutte le denunce. Chiunque ritenga che la propria vocazione consista nel dedicarsi alla causa pubblica, non può fare altro che diventare un uomo politico, il che presuppone una certa ambizione politica.

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Non basta dire: «io sono l'uomo della situazione» - perché si aprano automaticamente le porte del potere. Al contrario, ogni aspirante al potere si scontra inevitabilmente con altri candidati o con il governo in carica; entra dunque necessariamente in lotta con dei concorrenti, il che implica la presenza di sostenitori e di militanti, un'azione di propaganda, manovre, ambiguità, intrighi - per quanto nobile sia la causa sostenuta da ciascun candidato. Come distinguere in questo groviglio di favori, generosità, ambizioni, rivalità, ideali e dottrine, il vero fine del politico? Consiste forse nel far trionfare un'idea o un uomo, nel rendere una collettività potente o felice? Si tratta di trasformare la società o solamente di governare, di amministrare bene il Paese? Che volevano, ad esempio, i miliziani anarchici durante la guerra di Spagna quando, in nome dei loro princìpi, non accettarono di obbedire ai capi regolari dell'armata repubblicana e si rifiutarono di scavare trincee con il pretesto che un simile lavoro era solo un segno di umiliante vigliaccheria?2 Volevano salvare la repubblica o solamente far trionfare i loro princìpi, almeno temporaneamente? Prendiamo l' esempio di un partito di governo: il partito socialista. Il suo scopo è da principio quello di prendere il potere, ma anche di instaurare il socialismo ed infine di garantire la sicurezza della collettività. Di fatto tutti questi fini sono politici, ma costituiscono forse il fine del politico? I non socialisti non ammetteranno che esso possa consistere nell'instaurazione del socialismo. Viceversa, i socialisti non accetteranno che pos-

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sa ridursi a una semplice gestione degli affari pubblici. In quest'ultimo caso, non si confonde forse la funzione con il fine? D'altronde, possiamo forse ricondurre il fine alla somma delle funzioni esecutive, legislative, giudiziarie, amministrative, economiche, ecc.? A turno le dottrine politiche, le ideologie, i partiti e le idee dominanti di un'epoca attribuiscono all'attività politica l'uno o l'altro dei fini che abbiamo appena elencato - la lista non è restrittiva. Certo, in politica esistono anche le famiglie spirituali, e tanto per rimanere in epoca contemporanea, caratterizzata dalla divisione dei gruppi in destra e sinistra, si può dire che la destra di preferenza considera il fine della politica come una gestione sana e prudente, un'amministrazione competente della sicurezza nazionale, mentre la sinistra, incline all'ideale e al progresso, pensa soprattutto alla trasformazione della società, sebbene continui a discutere sul modello da realizzare. Tutto considerato, la sinistra si trova divisa riguardo la natura dell'ideale e l'azione rivoluzionaria quanto lo è la destra sulle riforme da proporre. Si deve essere prigionieri del proprio tempo per non accorgersi che l'opposizione tra la destra e la sinistra non ha niente di specifico e che rappresenta, in fondo, solo la trasposizione ideologica di quello che Guillaume Appolinaire chiama ne La jolie Rousse l'eterna, lunga contesa tra la tradizione e l'avventura. Sembra, dunque, del tutto ragionevole chiedersi se il fine del politico sia effettivamente univoco, o se non ce ne siano invece molti. In quest'ultima eventualità, non sarebbe evidentemente più il caso di parlare del

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politico come di una essenza, ma come di una pura dialettica tra forze, tra potenze fondate o meno su idee diverse. Si può constatare inoltre che la politica impiega i mezzi più disparati: la forza, l'inganno, la violenza, la legalità, la persuasione, ecc. È possibile, in questi casi, parlare di un mezzo specifico del politico nello stesso senso in cui la matematica è caratterizzata da un metodo specifico, la dimostrazione, e la religione dal culto? Persino il vocabolario risulta confuso ed equivoco: esiste una differenza tra le nozioni di scopo, di fine e di obiettivo? E, se esiste, quale è? L'incoerenza terminologica forse non è che il riflesso di una confusione mentale, ma, viceversa, l'esatta determinazione dei significati aiuterà forse a mettere ordine tra le cose che essi designano. Seguiremo più avanti quest'ultima via per tentare di fare chiarezza su una questione così complessa come quella della finalità politica. 2. La povertà della filosofia dell'azione

La seconda serie di difficoltà trae origine dall'ambiguità dell'azione concreta. La preoccupazione di ottenere un risultato immediato in una particolare impresa oscura il fine più remoto, di modo che ciò che rappresenta solo una tappa nell'azione politica globale finisce con il monopolizzare tutta l' attenzione e tutti gli sforzi e con l'eclissare la visione del fine del politico. Regoliamo il nostro comportamento sulla base delle circostanze e, nella frenesia dell'azio-

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ne, occupati come siamo a rompere le resistenze immediate e a lottare per le questioni particolari, dimentichiamo l'intenzione iniziale. Come ogni azione, anche quella politica ha un senso soprattutto esistenziale, vale a dire che a forza di affrontare il fatto concreto instabile, contingente e incidentale, essa finisce talvolta col trascurare l'aspetto più importante. Sono piuttosto rari gli uomini politici capaci di dominare il dettaglio e di risolvere le situazioni che si presentano non solo in funzione del caso immediato e dell'emergenza, ma in funzione del loro vero obiettivo. Tutta la difficoltà consiste nel conciliare il colpo d'occhio capace di approfittare delle circostanze e la distanza che domina l'insieme. Da questo punto di vista è corretto dire che l'autore di una nuova dottrina non è sempre il più adatto a metterla in pratica. Non si agisce come si pensa: tutti lo sanno, ma tutti si comportano come se l'ignorassero. L'azione non solo è oscura, ma comporta altresì una buona parte di irrazionalità che stimola lo sforzo di spiegazione. Come la volpe della favola che alla fine trovò troppo acerba l'uva che non poteva raggiungere, allo stesso modo il filosofo ha la tendenza a giustificare la sua rinuncia di fronte alla fatica che l'analisi dell'azione comporta. Non sorprende che, stando così le cose, tutta l'indagine attorno a questo concetto si riduca in genere a una semplice casistica, adornata all'occorrenza da alcune indicazioni più profonde, ma frammentarie. Qualche rara volta, questo o quell'uomo d'azione - Napoleone, Lyautey, Lenin o de Gaulle (Il filo della spada) - ci ha lasciato in ma-

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niera non sistematica le proprie riflessioni, che sfortunatamente i lettori o le fazioni trasformano sconsideratamente in precetti dogmatici. Nondimeno, per quanto interessanti siano tutte queste confidenze, queste osservazioni e questi documenti, essi non costituiscono un'analisi sistematica dell'azione in generale. Non c'è dubbio che il metodo leninista, ad esempio, intelligentemente applicato, risulti talvolta affascinante per la sua efficacia e il suo rigore, ma apporta solo qualche elemento in più ad una filosofia dell'azione in generale, poiché di per sé resta soltanto una riflessione su un tipo particolare di azione, l'azione rivoluzionaria, da una prospettiva anch'essa particolare, quella del marxismo. Comunque sia, il fatto merita di essere sottolineato: non esiste una filosofia dell'azione come invece esistono filosofie della conoscenza. L'epistemologia ha soffocato la prassiologia. Tutto questo non è affatto sorprendente. L'uomo di conoscenza è naturalmente portato a prestare attenzione alla conoscenza, mentre l'uomo d'azione agisce senza cercare di scrivere l'azione. Tutt'al più alcuni filosofi, in particolare Cartesio e Alain, ci hanno fornito molte indicazioni preziose e penetranti, ma frammentarie. In mancanza di una filosofia dell'azione in generale, si è in compenso scritto molto sull'azione morale e meno sull'azione politica. Per colmo di assurdità e di ipocrisia, i pochi temerari, Machiavelli, Michels, Pareto e alcuni altri, che hanno avuto il coraggio di cimentarsi in un'analisi positiva dell'azione politica, vengono tacciati di indegnità intellettuale da molti specialisti della cosa politica - co-

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me se gli uomini avessero orrore di sapere come essi agiscono realmente. In verità, esiste un vero e proprio pregiudizio nei confronti dell'analisi fenomenologica dell'azione in generale e dell'azione politica in particolare. Per non incorrere nel biasimo quasi unanime, l'audace deve anzitutto trovare una copertura e fare atto di obbedienza nei confronti di una parrocchia, di un partito o di una dottrina alla moda prima di azzardarsi ad esaminare un problema così delicato. In poche parole, in ogni tempo il pregiudizio intellettualistico del dover essere e del metodo della giustificazione è stato così forte da riuscire quasi sempre a condannare al supplizio le velleità della fenomenologia dell'azione, salvo trovare ogni sorta di scusa per coloro che, in qualsiasi campo, non sono riusciti a realizzare i progetti della «bella» teoria. Tutta la perspicacia piena di contraddizioni, poiché la realtà esistenziale è equivoca, non ha potuto trattenere Proudhon dal cadere a sua volta nel solco comune e di riassumere in modo sorprendente l'opinione generale: «L'azione, sappiatelo, è l'idea, e si agisce a sufficienza non appena si diffondono nell'atmosfera intellettuale i germi della società futura». 3 I sogni, le finzioni e talvolta le utopie prendono il posto della teoria dell'azione. Quanto a sapere come l'azione provi a realizzare concretamente i fini e le promesse, il filosofo non se ne cura. Se ne lava le mani, si accontenta di protestare o di polemizzare. Lo spirito in quanto spirito è cieco: l'occhio appartiene al corpo. L'abbiamo già dimostrato: è proprio dell'essenza del politico l'essere azione. Chiaramente, non è que-

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sta la sede per fare la filosofia dell'azione in generale: possiamo solo tracciarne le grandi linee. Converrebbe, innanzitutto, fare l'analisi dell'azione, cioè descriverne la motivazione, le ragioni e le intenzioni, la relazione fondamentale tra mezzi e fine, esaminare il problema dell'efficacia e delle conseguenze, siano esse prevedibili o imprevedibili, e porre così la questione della responsabilità che l'impegno puramente intellettuale ha allontanato, ai nostri giorni, dal suo senso originario. Si tratterebbe, in secondo luogo, di analizzare lo svolgimento dell'azione con tutte le questioni collaterali della previsione e del caso, del1' audacia e della prudenza, della spontaneità e dell' esperienza, della sicurezza e del rischio, della scelta e della necessità, del giudizio e della passione, di ciò che è possibile e di ciò che è permesso, dell'astrazione derivante dalla parola, dai concetti, dalle idee e della realizzazione pratica. Si constaterà allora che molto spesso il successo immediato e d'effetto è ottenuto a scapito dell'efficacia reale, che «operando si scuoprono quelli consigli che, standosi, sempre si nasconderebbono»,4 che lo sviluppo stesso dell'impresa fa comparire possibilità, prospettive e risultati ai quali non si era pensato e che la realizzazione trova in se stessa risorse in grado di rafforzare i mezzi disponibili fin dall'inizio. Si potrà ugualmente vedere che ogni azione implica una reazione, che essa solleva continuamente contraddizioni di cui in seguito si nutre. Potremo anche valutare l'importanza dell' esperienza, derisa da quanti non ne hanno affatto o non ancora, poiché bisogna aver acquisito esperienza

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per comprenderne il valore, così come occorre essersi liberati da un errore per essere in grado di rifletterci sopra. Potremo allora comprendere che cos'è un fallimento e quale ne sia il significato. Si capirà infine che esiste un'ebbrezza dell'azione e che il successo conduce all'azione per l'azione, vale a dire che dopo aver conseguito ciò che è necessario e utile, l'uomo è portato a fare anche ciò che è nocivo, pericoloso e inutile. Infine, bisognerebbe analizzare i diversi tipi di azione: morale, economica, politica, ecc. Ripeto, la filosofia dell'azione costituisce un tema così vasto che il suo sviluppo e le spiegazioni finirebbero con l'aggiungere un altro libro a quello che stiamo scrivendo, dato che le indicazioni che abbiamo appena fornito rimangono esse stesse frammentarie. In effetti, un'analisi dettagliata solleverebbe ulteriori problemi come quelli relativi al carattere esistenziale di qualsiasi opera, al confronto tra pensiero e azione e, conseguentemente, tra l'uomo d'azione e l'intellettuale, all'insolenza del dottrinario che in quanto spettatore sa tutto e meglio, dimentico delle parole di Saint-Just: «la forza delle cose ci conduce forse a risultati ai quali non avevamo pensato». Un conflitto provoca altri conflitti, cosicché possiamo parlare di una maledizione che pesa sull'azione: alla fine otteniamo solo ciò che ci siamo prefissi in partenza, ma se in partenza, per negligenza, per fretta o per avidità, non abbiamo preso coscienza con chiarezza dei dati reali, otteniamo in genere un risultato che contraddice l'intenzione iniziale. L'assenza di un'indagine sull'azione in generale e sull'azione poli-

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tica in particolare distoglie il politologo dalla questione del fine e del mezzo specifici del politico. Egli preferisce rifugiarsi nel dover essere, nel regno dei fini, nella critica sarcastica o in quel tipo di giudizio che sono i consigli, credendo in completa buona fede di fare una analisi positiva. Ma quest'ultima esige che si faccia un'effettiva conversione della nostra inclinazione naturale che ci porta a vedere le cose essenzialmente sotto la luce del desiderio. 3. La politica è un'attività sui generis? La terza ed ultima difficoltà non è esterna al problema come le due precedenti, poiché riguarda direttamente l'essenza del politico: quest'ultimo dà forse luogo a un'attività sui generis? E chiaro che in caso di risposta negativa non ci sarebbero più né un fine né un mezzo specifici del politico né, ancora più in generale, un'essenza del politico. Quest'obiezione, sotto l'influenza di certe correnti socialiste, del marxismo e dell'anarchismo, ha preso corpo principalmente nella nostra epoca: il politico non sarebbe che un riflesso, una sovrastruttura dell'economico, di modo che la rivoluzione proficua che si opererebbe in quest'ultimo settore significherebbe la riduzione e la scomparsa del politico, che perderebbe ogni sostanza ed ogni significato in seguito alla scomparsa di qualsiasi conflitto o lotta. L'argomento si presenta talvolta in una forma meno dottrinale: non si potrebbe concepire l'attività politica in modo astratto, indipendentemente da un'economia da razionalizzare, da

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finanze da gestire, da una giustizia da amministrare, da un esercito da mantenere e da trattati da concludere. In poche parole, non vi sarebbe una decisione propriamente politica, ma esisterebbero solamente decisioni riguardanti l'economia, le finanze, l'esercito, la giustizia, la diplomazia, ecc. Voler controbattere in modo puntuale alla prima obiezione è una perdita di tempo; essa infatti pone subito tra parentesi esperienza e storia reale, abbandona cioè il terreno nel momento stesso in cui l' argomentazione acquista un senso per rifugiarsi con l'immaginazione in un avvenire indefinito, condannando così la realtà in nome di una costruzione puramente ideale. Cosa rispondere a colui che fa appello all'inesistente e alla fantasia contro l'esistente, che rifiuta in nome di un preteso umanesimo ciò che l'uomo vive ed ha sempre vissuto, che rinnega la storia in nome dello storicismo, la scienza in nome dello scientismo, l'economia in nome dell'economicismo? Questa obiezione non si fonda nemmeno su un'ipotesi critica, ma su una semplice credenza di tipo millenaristico. A che giova, in questo caso, opporre quanto è ed è sempre stato alle affermazioni gratuite a proposito di ciò che, secondo la dottrina, dovrebbe essere? Non serve a nulla constatare che anche lo Stato socialista possiede una polizia, dei giudici, un esercito, dei ministri, una burocrazia con pregi e difetti analoghi a quelli delle istituzioni degli altri Paesi, dato che si risponderà con una semplice professione di fede che quell'esercito non deve più veramente rivestire il ruolo di un esercito (salvo in caso di ne-

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cessità transitoria), ma che è destinato ad annullarsi, e così anche per quanto riguarda la polizia, la burocrazia, ecc. Quanto agli elementi positivi di questa tesi essi servono solamente a giustificare una filosofia monista in più, certo con carattere dialettico, volto cioè ad affermare che, in ultima analisi, tutto si riduce all'economia, così come altre teorie tentano, in ultima analisi, di ricondurre tutto alla religione, ali' etica, alla psicologia, ecc. La seconda obiezione sembra apparentemente più solida. Anch'essa tende a negare l'esistenza dell' ambito politico, quello dell'autonomia del pubblico. Ma cosa pensare di una filosofia della religione che negasse il carattere sui generis della vita religiosa per farne una somma di atti di culto, riti e cerimonie e che negasse la fede, la distinzione tra il sacro e il profano e l'idea stessa di Dio? Cosa pensare di una filosofia della morale che riducesse queseultima ad una mera casistica di doveri verso se stessi e verso gli altri, verso la collettività politica e economica e verso la famiglia e che non tenesse conto dei problemi di coscienza, della libertà, della responsabilità e della distinzione tta il bene e il male? Ora, anche l'obiezione nei confronti del politico procede allo stesso modo. Questa interpretazione, infatti, è essenzialmente atomistica. Essa dissolve l'unità dell'autorità di una collettività politica in una molteplicità frammentata e discontinua di decisioni oppure ignora la fonte dell' autorità {l'unità politica) da cui emanano le decisioni per considerare solamente la diversità degli oggetti (finanze, esercito, diplomazia, giustizia, economia,

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ecc.) ai quali esse si rapportano. Il governo ha una sua realtà come istituzione, non è solamente una collezione di ministri; allo stesso modo un'amministrazione non è semplicemente un insieme di servizi. Ora, questa interpretazione vede solo i ministri e non il governo, le decisioni e non l'autorità, la procedura e non le istitl!zioni, le funzioni politiche e non il fine del politico, gli attributi dello Stato e non lo Stato.5 In altre parole, non si può dissociare la politica dalla continuità di una collettività, dalla sua unità concretizzata in uno Stato sovrano, dall'esistenza di un governo, dai rapporti tra amico e nemico o tra privato e pubblico, senza i quali le decisioni relative alla diplomazia, ali' esercito, alla giustizia o ali' economia non avrebbero più senso né consistenza. 4. La decisione

Al centro del dibattito si trova la questione della decisione. In genere, si studia questo concetto dal punto di vista psicologico e filosofico come uno dei momenti della volontà, quello che annulla l'indeterminazione e precede l'esecuzione con il suo carico di conseguenze. 6 Anche a questo livello, la volontà appare già come una manifestazione della potenza, per il fatto che si trasforma in potere rompendo con le esitazioni del sapere. Prendere una decisione significa manifestare un'autorità e non affermare una verità, tanto più che ciò che appare razionalmente vero non è necessariamente pratico o ragionevolmente utile. Una decisione è estranea ad ogni sussunzione,7

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non deriva cioè necessariamente da norme, da leggi, da un programma e nemmeno da decisioni prese in precedenza. Essa rappresenta un tutt'uno in sé e per sé e trae la sua forza dalla volontà che l'anima. Data una costituzione, non possiamo prevedere quali saranno le scelte di coloro che deterranno successivamente il potere. Ogni decisione è indipendente e talvolta si discosta dalle stesse ragioni che l'hanno condizionata, rompe con la deliberazione che altrimenti non avrebbe fine. Questa irrazionalità si può a rigore comprendere, ma non si spiega. Nemmeno una casistica può renderne conto. Tutto ciò che si può dire è che essa limita le possibilità operando una scelta. «Non avete, scriveva Napoleone a Decrès, una mente abbastanza esclusiva per una grande operazione. È un difetto da cui dovete correggervi, poiché è lì che risiede l'arte dei grandi successi e dei grandi affari». 8 È chiaro che, in questo senso, non esiste e non può esistere una decisione assolutamente oggettiva. Il suo compito è di essere opportuna ed efficace. Tutte queste considerazioni valgono anche per la decisione politica, sebbene qui entrino in gioco altri fattori che la rendono un tipo di azione a sé stante. Anche la decisione politica, ovviamente, è presa da un individuo - colui che comanda - e può dunque essere arbitraria. Essa però si indirizza agli altri a modo suo, in quanto essi fanno parte di una collettività politica. Che intervengano elementi personali come l'ambizione e il desiderio di gloria è cosa indiscutibile, ma l'essenziale consiste nel fatto che essa non)mpegna solamente l'individuo che la assume ma l'inte-

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ra unità politica, che se ne gioverà oppure subirà le conseguenze fauste o infauste che ne deriveranno. Le decisioni riguardanti l'organizzazione delle forze armate, ad esempio, non sono solamente militari ma anche politiche, sono prese cioè in vista della sicurezza della collettività e del bene pubblico - il che non impedisce che talvolta possano essere infauste, imprudenti o disastrose. Politicamente le forze armate non sono un fine in sé, malgrado abbiano un loro specifico scopo: esse sono sempre al servizio del potere politico. Non è nemmeno in virtù di ragioni strettamente militari che un paese decide, ad esempio, di dotare il suo esercito di una forza d'urto nucleare. Analogamente, non si può dire che una decisione politica riguardante l'economia sia solamente un «aspetto» dell'economia. Ancora una volta, essa è indirizzata alla collettività, come si può notare negli esempi delle nazionalizzazioni e delle socializzazioni. I decreti di nazionalizzazione di una industria sono lungi dal rispondere sempre a necessità economiche - talvolta non hanno altro risultato che quello di destabilizzare per lungo tempo l'economia - ma sono presi per ragioni politiche, perché i nuovi detentori del potere si professano appartenenti ad un'ideologia politica e considerano le nazionalizzazioni un bene per la collettività. Succede anche, malgrado gli insuccessi economici e i ripetuti fallimenti, che alcune nazioni mantengano a dispetto di tutto e con la forza, dunque artificialmente, la collettivizzazione delle terre, unicamente per restare fedeli a una dottrina politica e al suo programma economico. Il rife-

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rimento alla comunità è dunque determinante per tutte le decisioni politiche poiché la comunità sta ad indicare che esiste un ambito proprio del politico, il quale condiziona un'attività sui generis. Benché, come diceva Tucidide, «La cosa più temibile sia la perenne incertezza delle decisioni»,9 non c'è ragione di coltivare un fanatismo della decisione. Sebbene sia un atto a sé stante che rompe con la serie delle ragioni, non la possiamo separare dal contesto e dalla situazione ambientale. È difficile che un governo parlamentare prenda una decisione di collettivizzazione quando il Parlamento e il Paese le sono ostili. È altrettanto stupido prendere una decisione intempestiva che non può essere eseguita, date le condizioni, quanto rimanere nell'indecisione quando la situazione esige una scelta. Perfino in un secolo cosiddetto di «movimento» in cui le cose evolvono rapidamente, non è il caso di riformare e sconvolgere tutto. Il rivoluzionarismo o la smania per i programmi che si propongono di fare riforme per principio, fino a voler modificare per mezzo di decisioni prive di ragione strutture del tutto soddisfacenti, non sono che un altro aspetto del culto dell'azione per l' azione. L'azione pura è il vero nichilismo, poiché significa svalutare le idee, discredito degli interessi o dell'utilità e disprezzo dell'uomo. È ciò che Max Weber chiamava l' «agitazione sterile» dell'intellighentsia · che, sotto l'influenza dello storicismo e di un preteso progresso qualitativo dell'umanità, crede che l'essere nato più tardi degli altri sia un segno di superiorità. Aver fiducia nell'uomo significa credere nella possi-

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bilità di migliorare le condizioni di vita, di creare una maggiore concordia tra gli uomini e le società, ma anche di riconoscere che coloro che ci hanno preceduto non erano necessariamente degli incompetenti, degli esseri limitati e mediocri. Il rispetto delle idee implica anche la stima dell'esperienza e della tradizione. Se si ammette che il fine dell'uomo in quanto uomo sia quello di una vita ragionevole, la difficoltà consiste nel conciliare pensiero e azione, poiché secondo la nota massima di Goethe: «Pensare è facile, agire è difficile, agire secondo il proprio pensiero è quanto di più difficile vi sia al mondo». Anche la decisione è una questione di perspicacia e di equilibrio, se è vero che in talune circostanze l'indecisione è funesta quanto una decisione inopportuna. La giusta misura non si deduce da un concetto, è una questione d'intuizione. Saper decidere significa, comunque sia, prendere l'iniziativa. Perciò c'è qualcosa di sbalorditivo in ogni decisione: essa getta gli altri nello sconcerto. Che Lenin decida di sciogliere l'Assemblea costituente o Hitler di entrare in Austria o Churchill di proseguire la guerra o Kennedy di porre l'embargo contro Cuba, il vantaggio viene acquisito prima che l'avversario abbia tempo di riprendersi. Il carattere irreversibile di una risoluzione seguita da atti mette in genere l'avversario in una posizione di inferiorità, non solo a causa della sorpresa, ma perché lo si obbliga a battersi e a contrattaccare su un terreno che non ha scelto e talvolta non ha nemmeno previsto. L'importante resta, tuttavia, essf?re all'altezza delle conseguenze e questa presa di

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coscienza (talora salutare) fa sì che a volte la politica debba limitarsi a impedire che venga presa una decisione. Una decisione dunque non ha valore in sé anche se ha un obiettivo. Essa richiede di essere sfruttata, e per questo occorre perseveranza, poiché nessun problema viene mai risolto definitivamente e al riparo da complicazioni impreviste o da contromisure. La perfezione è propria delle idee. La necessità di correggere continuamente gli effetti di una decisione e più in generale la continuità stessa dell'azione indicano che non esiste una soluzione ideale. L'utopia consiste nel credere che arriverà il giorno in cui l'uomo non avrà più bisogno di agire politicamente né economicamente e che potrà risparmiarsi di. decidere e di scegliere, perché le cose si regoleranno da sole. In effetti, queste ultime osservazioni appartengono a una filosofia generale dell'azione. Nondimeno possiamo constatare che, laddove non c'è un fine, non c'è neanche decisione e laddove non c'è un fine specifico del politico e dunque un ambito politico proprio, anche la decisione politica perde ogni significato. Di conseguenza, non si può ridurre l'attività politica a un semplice aspetto dell'attività economica, religiosa, culturale, ecc., per quanto le decisioni riguardanti le altre attività siano prese nell'interesse della collettività. Solo nel caso in cui esistesse un'unica collettività, totalmente pacifica ed egualitaria, quella dell'intero genere umano, la nozione di fine specifico del politico non avrebbe più senso, poiché allora il politico non avrebbe, a sua volta, alcun senso.

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5. Il coraggio La decisione è segno di coraggio nella misura in cui è fermezza nella risoluzione. L'errore consiste nel concepire la decisione semplicemente come una scelta tra diverse opinioni o soluzioni possibili. Essa è qualcosa di differente da una preferenza, in quanto implica un intento, si propone cioè un obiettivo con la volontà di raggiungerlo. In altre parole, essa si . . , . protrae necessanamente m un attenz10ne costante durante il corso dell'azione. Essa intraprende, non solamente nel senso che prende una iniziativa, ma nel senso che si sforza per portarla a termine. È in questa accezione che la decisione diviene coraggio, tanto che si può dire che il coraggio è la virtù tipica dell'azione. Ritenere che questo rappresenti il giusto mezzo tra i due estremi, per difetto e per eccesso, che sono la viltà e la paura da un lato, la temerarietà e l'ardore dall'altro, significa fraintendere l'analisi di Aristotele, di cui resterebbe solo la nozione del giusto mezzo. Aristotele non solo afferma che il coraggio continua ad essere contraddittoriamente alimentato dalla paura e dall'ardore, ma dimostra pure che questa virtù consiste soprattutto nel superare la contraddizione grazie ad una sicurezza temperata dalla ragione. Si tratta dunque, usando i suoi termini, di un'azione virile per cui la perseveranza nel perseguimento del fine costituisce il fondamento della sicurezza.10 Il giusto mezzo rappresentato dal coraggio . non significa che esso sia un equilibrio determinato da forze opposte che si annullano, ma che supera gli

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estremi della paura, della temerarietà e anche la semplice preferenza con una volontà che la decisione proietta verso un atto da compiere. Analogamente, una misura dettata dalla necessità o dalla pressione esterna non potrebbe essere definita coraggiosa più di quanto possiamo definire coraggiose l'eccitazione febbrile e l'ebbrezza. Nel coraggio sono presenti al contempo determinazione e aspirazione, risolutezza e speranza. Esso ripone costanza nella decisione e al tempo stesso comporta un'energia e un dinamismo che fanno sì che non sia un giusto mezzo nel senso comune del termine. Se il coraggio è prima di tutto la virtù dell'azione, non si potrebbe utilizzare questo concetto, se non per analogia, per connotare la semplice audacia delle idee, l'adesione a fini grandiosi, l'elaborazione di una dottrina politica o di un'utopia o l'analisi fenomenologica di una nozione, anche quando essa giunge a risultati apparentemente sorprendenti o spiacevoli. Allo stesso modo, l'impegno per una causa non richiede valore, salvo il caso in cui colui che la sostiene corra dei rischi politici e sociali e accetti le conseguenze del suo atteggiamento. Non c'è coraggio dunque nel compromettersi in regime di libertà, quanto piuttosto nel farlo per la causa della libertà. Al pari del senso di responsabilità, il coraggio politico si basa principalmente sulla scelta spesso penosa dei mezzi, quando questi urtano contro le nostre convinzioni, e sulla risolutezza con cui affrontiamo le conseguenze previste e impreviste delle nostre azioni. Esso consiste, dunque, nel farsi carico del de-

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stino, come Lutero dichiarava di fronte ai suoi accusatori della dieta di Worms: Hier, stehe ich, ich kann nicht anders. Gott helfe mir. Amen. 11 Il solo fatto di manifestare un atteggiamento impavido costituisce per una decisione un vantaggio straordinario, poiché causa indecisione e perplessità nell'avversario. Così, per capire bene il coraggio, non basta analizzare il comportamento di colui che ne dà l'esempio; occorre anche considerare i suoi effetti: il coraggio getta scompiglio, talvolta sconcerto e panico nel rivale. L'esitazione, l'incertezza e la confusione che esso crea contribuiscono a consolidarlo. L'uomo coraggioso vince la paura suscitandola negli altri.

Note 1. Alain, Politique, Paris, 1952, p. 272. 2. H. Thomas, La Guerre d'Espagne, Paris, 1961, p. 256. 3. P.-J. Proudhon, Correspondence de Proudhon, Paris, 1872, t. IV, p. 197 {lettera del 24 gennaio 1852 a Ch. Edmond). 4. N. Machiavelli, !storie fiorentine, libro VI, cap. XIII. 5. C. Schmitt che, in Il concetto del 'politico', § 4, tendeva a negare, in nome di una concezione puramente decisionista, che la politica potesse avere un proprio ambito, caratterizzato essenzialmente dall'intensità del rapporto amico-nemico nelle varie associazioni religiose, economiche e d'altro tipo, si è trovato a rivedere la sua posizione. Nella prefazione alla seconda edizione della Teologia politica del novembre 1933 egli aggiunge ai due tipi di pensiero giuridico-politico - il normativo e il decisionista - un terzo tipo che chiama «istituzionale», sottolineando in questo modo che esiste una realtà che supera la volontà personale di chi detiene il potere e la discontinuità delle decisioni. Questo nuovo tipo di pensiero si sviluppa nella sfera impersonale e sovrapersonale dell'unità e della continuità di una collettività.

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6. Ad esempio P. Ricoeur, Philosophie de la volonté, Paris, 1949, pp. 3764, ma anche G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, §§ 116. 7. C. Schmitt, «Das Reichsgericht als Hiiter der Verfassung», in Verfassungsrechtliche Aufsatze, Berlin, 1958, p. 79. 8. Lettera del giugno 1805, citata da Napoleone, Pensées pour l'action, Paris, 1943, p. 81. 9. Tucidide, La guerra del Peloponneso, libro III, cap. XXXVII. 10. Aristotele, Etica Nicomachea, libro III, cap. VI-IX. 11. «Qui resto, non posso fare altrimenti. Dio mi aiuti. Amen». [n.d.t.]

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CAPITOLO

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1. Tre finalità Non c'è modo di far chiarezza su una questione così complessa come quella della finalità del politico se prima non si risolvono alcuni problemi di terminologia, non a scopo dimostrativo, ma per rispettare il significato comune delle parole. Ci sembra che occorra fare una distinzione tra il fine specifico del politico, che corrisponde alla sua qualità di essenza e di attività umana sui generis; gli obiettivi concreti, spesso discontinui, delle azioni reali e spazio-temporali, destinate a realizzare per approssimazioni successive questo fine specifico; e, da ultimo, i fini, che sono in genere di natura extrapolitica, di ordine etico, religioso, economico, ecc., tesi ad orientare l'attività politica in modo dialettico oppure considerati in parte attualizzabili grazie a quest'attività. Il fine specifico del politico si determina in funzione del senso di una collettività, consiste cioè nella volontà da parte di un'unità politica di conservare la propria integrità e indipendenza nella concordia interna e nella sicurezza esterna. Per realizzare questo fine, il potere agisce sul piano diplomatico, finanziario, economico, culturale o sociale, si pone cioè degli obiettivi concreti e materiali, che assieme mirano a sostenere in ogni istante e per tutto il tempo il fine specifico del politi-

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co che in sé è astratto e formale. Infine, data l'interazione delle diverse attività umane, la politica è anche l'ambito - ma non il solo - in cui l'uomo tenta di dare consistenza ai fini umani generali ed ultimi come la giustizia, la libertà, la felicità, ecc. Nella finalità del politico, possiamo, dunque, distinguere tre livelli: - il livello propriamente teleologico, che ne determina il fine specifico; - il livello che si potrebbe definire tecnologico, caratterizzato dalla realizzazione di obiettivi concreti e limitati, che devono essere continuamente rielaborati; - il livello escatologico del regno dei fini.

2. Il bene comune come fine del politico All'inizio dell'Etica Nicomachea, Aristotele sottolinea che ogni arte, ogni indagine, ogni azione, in poche parole ogni attività tende verso un fine o, se vogliamo, verso un bene. La medicina intende far ritrovare al malato la salute e quello è il suo fine specifico; la strategia cerca di assicurare la vittoria di una collettività in caso di guerra e quello è il suo fine specifico. Egli nota, inoltre, che esistono attività primordiali fondamentali cui sono subordinate attività secondarie. L'azione militare o strategica è subordinata all'attività politica, il che vuol dire, secondo la terminologia precedentemente definita, che rispetto alla politica il fine della strategia è solo un obiettivo. In genere, l'uomo agisce sempre in vista di un bene, di un interesse. Qual è allora il bene specifico dell'atti-

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vità politica? Va da sé che non si tratta del bene particolare dei singoli individui, e nemmeno della somma dei beni particolari, appartenenti a individui o a gruppi subordinati, come la famiglia o una qualsiasi associazione professionale economica, e non si tratta nemmeno del bene dello Stato in quanto Stato, ma di quello dell'intera collettività in seno alla quale gli individui sono integrati in quanto membri che si danno uno Stato come istituzione. In altre parole, non si tratta del bene dello Stato o della Repubblica in sé né di quello di ciascun membro della Repubblica, ma, come Hobbes non si stanca di ripetere, del bene comune della Repubblica e del popolo che, insieme, costituiscono una collettività politica. In effetti, se gli uomini continuano a vivere in collettività politiche è perché hanno interesse a farlo, in quanto vi scoprono un bene che giustifica la collettività e la loro vita in comune. Ci sono buone probabilità che, se la natura umana non trovasse alcun vantaggio in questo genere di vita, nessuna unità politica potrebbe essere stabile né duratura. Risolviamo subito una difficoltà puramente formale, che nasce dall'imprecisione della terminologia nella denominazione del fine specifico del politico. A seconda delle epoche e degli orientamenti politici dei filosofi le espressioni variano. Sulla scia di San Tommaso d'Aquino, i teologi ed alcuni politologi cattolici impiegano ancora di preferenza il concetto di «bene comune». 1 Nel Medio Evo, gli statuti delle città parlavano anche di «generalità». Hobbes si serviva più spesso del concetto di salus populi, ed è noto il

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ruolo che durante la rivoluzione francese ha avuto l'idea di «salute pubblica». Rousseau parlava di «interesse comune», Hegel di «bene dello Stato», Tocqueville di «bene del Paese». 2 Ai nostri giorni, J. Dabin, in seguito a una lunga disputa terminologica, ha optato per l'espressione «bene pubblico temporale», che non risulta affatto conveniente. 3 Altri ancora utilizzano i concetti di interesse pubblico o generale o sociale, oppure di utilità pubblica, comune o sociale. In fondo, tutte queste denominazioni indicano la stessa cosa e la differenza riguarda solo i dettagli. In mancanza di un termine perfettamente adeguato, noi utilizzeremo indifferentemente le espressioni «bene comune» e «bene pubblico», poiché sono quelle più comunemente recepite e poiché beneficiano dell'autorità di una lunga tradizione, senza adottare chiaramente tutte le sfumature teologiche che possiede, ad esempio, l'espressione «bene comune» nella tradizione scolastica. L'importante è darne una definizione precisa. L'abitudine di inserire i fini etici nella definizione del fine specifico del politico è una tendenza che risale almeno alla scuola socratica, in particolare per ciò che riguarda la promozione della Giustizia (questa virtù è dominante in Platone e Aristotele, e San Tommaso d'Aquino ne fa la base del bene comune). Qualche teorico isolato, come Machiavelli e Hobbes, ha seguito un metodo più positivo, che consiste nel determinare questo scopo in modo strettamente fenomenologico, senza fare intervenire elementi extrapolitici. Hobbes, ad esempio, ripeteva spesso la formula: salus populi suprema lex, 4 inten-

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dendo con questo che, sebbene il sovrano non sia vincolato da nessuna legge, non può né deve venire meno a questo imperativo che lo trascende. A suo avviso, il «bene del popolo» consiste nella protezione dai nemici esterni, nella pace interna, nella promozione della ricchezza, tenuto conto degli imperativi della sicurezza, e nel godimento di una «innocente libertà». 5 Egli riassume anche questo fine in due punti: la sicurezza e la prosperità. 6 E questa è anche la via che seguiremo in questa sede. La sociologia americana contemporanea considera i problemi dei gruppi o delle collettività sotto due aspetti: quello dell'ingroup e quello dell'outgroup. Questa distinzione è vantaggiosa, benché non sia nuova, poiché corrisponde alle due facce di qualsiasi politica: interna ed esterna. Diremo, dunque, che il fine specifico del politico, o bene comune, consiste, da una parte nel consolidamento delle relazioni esterne, che corrisponde alla sicurezza e alla protezione di Hobbes, e dall'altra nel mantenimento del1' ordine e nella creazione di condizioni ragionevoli di vita, che corrisponde al concetto hobbesiano della pace interna nella prosperità. 3. La sicurezza esterna Questo primo aspetto del bene comune è condizionato, innanzitutto, dal presupposto dell'amico e del nemico, nel senso che il compito della politica consiste nel superare o vincere l'inimicizia reale o virtuale, nello stabilire la pace e, eventualmente, la

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più stretta alleanza tra i popoli. La questione può essere esaminata, a sua volta, sotto due diversi aspetti: uno positivo e uno negativo. Ora, da quando esiste una storia, l'aspetto negativo è sempre risultato prevalente in virtù della forza delle cose. Per questa ragione, lo esamineremo per primo. Dal momento che il politico esiste solo dove c'è un nemico, uno dei ruoli essenziali di un'unità politica consiste nel proteggere la collettività dalle minacce esterne provenienti da altri Stati, che tendono ad opprimerla o sopprimerla. Si tratta, dunque, di far rispettare la propria indipendenza oppure di ritrovarla, sia tramite un'azione militare, che tramite una negoziazione, in genere impiegando entrambe, in modo simultaneo o in successione. Pertanto, da questo punto di vista, l'attività di un governo consiste essenzialmente, sebbene non esclusivamente, nella difesa della collettività da qualsiasi aggressione possibile. Seguendo il principio della previsione del peggio, il governo ha il dovere di mantenere un esercito, dotandolo dei mezzi più efficaci e più all'avanguardia per scoraggiare l'eventuale aggressore, per fare la guerra qualora il Paese venisse attaccato e, all'occorrenza, per condurre una campagna preventiva. 7 Quest'ultimo punto solleva molti tipi di obiezione, ma sarebbe insensato scartarlo a priori, poiché, come abbiamo già visto, la campagna preventiva può, in certi casi, rappresentare una saggia soluzione. Ad ogni modo, essa è conforme alla logica del fine del politico. È una vecchia idea sempre attuale: guerra con funzione protettiva. Nelle condizioni storiche attuali, nessun Paese potrebbe

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fondare la sua politica sul rifiuto assoluto e incondizionato dell'azione bellica condotta con mezzi propri oppure nel quadro di un'alleanza. Non solo perché si esporrebbe rapidamente a disordini interni, ma anche perché, in poco tempo, diventerebbe, in un modo o nell'altro, preda dello straniero. R. Aron sottolinea giustamente che Paesi neutrali come la Svizzera o la Svezia «dispongono di armamenti considerevoli in rapporto alla loro popolazione. La Svezia ha spinto l'organizzazione della difesa passiva civile, i preparativi per l'evacuazione delle città, la costruzione di rifugi sotterranei, oltre quelli di qualsiasi altro Paese, inclusi i due Grandi». 8 È anche normale che le nazioni cerchino di dotarsi della massima potenza militare, comprese le armi nucleari, per quanto sia loro consentito da mezzi economici e di altro genere. 9 È molto probabile che questa situazione durerà fintanto che la pace è e rimarrà imposta dal timore di nuove battaglie, finché sarà l'espressione di un rapporto di potere, o meglio «il rapporto tra le capacità di a?iire l'una sull'altra che le unità politiche possiedono». 0 L'altra tattica, difensiva o offensiva, è quella della diplomazia, cioè la via o la regola che tenta di risolvere le controversie attraverso negoziazioni, in genere sulla base di un compromesso. Da questo punto di vista, non si può essere un convinto sostenitore della negoziazione e, al tempo stesso, un accanito avversario delle soluzioni di compromesso - contraddizione non rara nella vita politica. Inoltre, sarebbe un errore gravido di conseguenze credere che,

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per principio, qualsiasi negoziazione sarebbe vantaggiosa, saggia e virtuosa, facendosene un'idea pura, nel senso di una diplomazia pura che cercherebbe unicamente di convincere senza fare ricorso a mezzi di pressione diretti o indiretti. 11 In realtà, la negoziazione, dal momento che rappresenta un avvenimento politico, si realizza sulla base di un rapporto di forze e mira al raggiungimento dell'accordo e alla sicurezza nella potenza. Essa può essere un fattore di pace fintanto che le parti rispettano le clausole del compromesso, ma può anche servire una volontà egemonica mascherata da volontà di pace, perseguire disegni imperialistici, ratificare pretese aggressive e condurre direttamente a una catastrofe politica. Tutte le discussioni sollevate dagli accordi di Monaco del settembre del 1938 (che continuano a ossessionare molti uomini non appena si presenta l'occasione di una nuova intesa internazionale di largo raggio) dimostrano l'ambiguità della negoziazione, sebbene in genere si adotti un atteggiamento di principio, invece di interrogarsi, con l'aiuto di questo esempio, sulla nozione di negoziazione e sul suo significato politico. Essa dà indubbiamente la precedenza alla persuasione sulla violenza, alla parola sulle armi, ma queste apparenze non costituiscono di per sé una garanzia di sicurezza. Quest'ultima non ha mai valore, se non in virtù della volontà politica che anima i governi. Ma come sapere se l'avversario rispetterà le clausole del trattato, dal momento che lo stratagemma è uno dei fondamenti della diplomazia? Inoltre, il margine di manovra può essere più o meno limita-

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to, a seconda che da una parte o dall'altra le forze potenziali siano valutate diversamente o che si voglia sinceramente l'accordo. Anche se la sincerità è presente entro limiti ragionevoli, resta il fatto che ciascuna delle parti cerca di ricavare il massimo profitto, in quanto in un momento successivo gli apparenti vantaggi potrebbero rivelarsi inconvenienti, tanto più gravosi quanto più l'accordo è diventato duraturo poiché è stato rispettato. La diplomazia è certamente considerata a ragione come il sostituto della guerra, ma, sebbene non manifesta, la violenza è spesso presente in modo nascosto, sotto forma di pressioni, di minacce e di paura, astutamente alimentate. Inoltre, sebbene sia il mezzo razionale delle relazioni tra le unità politiche, occorre anche considerare che, in genere, una negoziazione trasforma la congiuntura politica in modo tale che, la maggior parte delle volte, essa finisce col determinare un vincitore e un vinto, malgrado al momento della firma questi due ruoli non siano nettamente designati. Per tutte queste ragioni, bisogna evitare di attribuire alle possibilità della diplomazia un valore decisivo e, soprattutto, bisogna guardarsi dal giudicarla unicamente dal punto di vista morale, facendone una sorta di dovere «etico» della cosiddetta coscienza mondiale, - come se la guerra fosse fatalmente un crimine e la negoziazione necessariamente un atto di coraggio e di ragione. Coloro che oggi fanno appello alla coscienza mondiale probabilmente domani la biasimeranno nel caso in cui dovesse diventare favorevole ai loro avversari, attualmente ad essa contrari. Il

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fatto è che nelle condizioni attuali delle forze militari, nucleari, economiche e ideologiche schierate, la negoziazione sembra favorire coloro che la elevano al rango di principio universale e, per così dire, unico della politica. Solamente colui che la considera per quello che è, vale a dire un atto politico, sa che, con un cambiamento della congiuntura, taluni attivisti della negoziazione rischiano di divenire vittime del loro stesso zelo, in quanto non sono consapevoli degli stratagemmi e degli inganni che essa implica. La negoziazione in sé non ha mai rappresentato un pio desiderio di pace, bensì una maniera di assicurare una supremazia o una vittoria. Come tattica, l'alleato del nemico preconizza sempre la negoziazione. Quando, dunque, attribuiamo alla negoziazione un valore. positivo, non intendiamo dire . che sarebbe una ncetta o una panacea, ma pmttosto un atto obiettivo e opportuno in relazione al fine specifico della politica (protezione e sicurezza) e tenuto conto del rapporto di forze e della previsione del peggio. Ci sono casi in cui l'azione militare è il mezzo più efficace per salvaguardare o affermare l'indipendenza, ve ne sono altri (in genere più numerosi) in cui è la negoziazione a rivestire questo ruolo. L'esempio della decolonizzazione ne è la conferma più recente. Ma occorre sempre che ci sia da ambo le parti effettiva volontà di negoziare e rispetto del compromesso affinché l'intesa non sia solo un elemento di pura propaganda. L'ultimo mezzo di quest'aspetto negativo della protezione e della sicurezza è l'alleanza, che si trova

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a metà strada tra l'azione militare e la negoziazione. Per compensare la debolezza, o meglio, per accrescere la forza, le unità politiche sono portate a stringere amicizia con altre unità politiche su una base di mutua assistenza o di garanzia unilaterale. Bisogna aggiungere che con questi stessi criteri una collettività conclude trattati non militari - ad esempio trattati commerciali, ma anche trattati per la sicurezza dei suoi membri che vivono all'estero o che vi si recano, e per proteggere i loro beni materiali, individuali o collettivi. Da questo presupposto nasce il duplice aspetto del diritto internazionale come diritto pubblico e privato. Inoltre, le convenzioni basate sugli scambi commerciali o culturali, sulla protezione delle minoranze, sull'estradizione o sulla regolamentazione dei trasporti o dell'igiene, anticipano già l'aspetto positivo della sicurezza, dal momento che presuppongono un mondo non del tutto dominato dall'ostilità e dalla preoccupazione della difesa, ma che si apre alla collaborazione tra le unità politiche, con possibilità di integrazione di talune collettività in un insieme più ampio. In questo modo, il bene comune non si lascia ridurre alla stretta autarchia. Alcune collettività non potrebbero vivere nell'isolamento totale e austero del puro nazionalismo, poiché ciò significherebbe la negazione del politico. A seconda delle epoche e delle idee in voga, si sono avuti contatti più o meno aperti e duraturi, ma in nessun caso inutili. Un'umanità le cui unità politiche formassero delle monadi senza alcun tipo di rapporto, neanche ostile, non solo sarebbe utopica, ma non po-

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trebbe nemmeno essere definita pacifica. La pace è propria di un ordine razionale, non è la giustapposizione di volontà presumibilmente neutre che si ignorano reciprocamente. L'aspetto positivo della sicurezza (inteso come ricerca e senso formale delle speranze dell'umanità e non come realizzazione pratica) si orienta sulla base del concetto di amicizia intelligibile, sotto forma di unità politica mondiale unica o, altrimenti, di una comunità internazionale coerente, omogenea e il più pacifica possibile. Si tratta, a quanto pare, di un' aspirazione che rimarrà indubbiamente sempre ideale e utopica, malgrado, all'occorrenza e in certi periodi, essa riesca a concretizzarsi nel collaudo di istituzioni destinate a garantire la sicurezza collettiva degli Stati. Queste speranze, sempre deluse e sempre rinascenti, si fondano su un noto fenomeno: oltre una certa soglia la potenza più grande diviene nemica di se stessa. In effetti, la massima forza è ben lungi dal corrispondere alla massima sicurezza, poiché a un certo livello si produce una rottura tale da indebolire la crescita della forza stessa, sia che, per invidia o per paura, amici e alleati si distacchino e raggiungano il campo avversario, sia che il senso di superiorità susciti una falsa impressione di sicurezza conseguente ad un rilassamento interno, dovuto alla mancanza di una aperta competizione; sia che i calcoli di prudenza e la previsione del peggio degenerino in precauzioni pusillanimi, sia, infine, che l'ebbrezza della gloria faccia perdere di vista gli obiettivi politici. D'altro canto, sebbene in genere le organizzazioni internazionali

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nascano su iniziativa degli Stati vincitori, all'indomani di una lunga e penosa guerra, nella speranza, spesso delusa, di riuscire in questo modo a consolidare maggiormente la propria supremazia, le piccole nazioni manifestano più spesso una fiducia quasi istintiva in un sistema di sicurezza collettivo e sono dunque portate a favorire simili progetti, credendo di trovarvi il beneficio di una potenza quantomeno apparente. Senza entrare nel dettaglio per valutare ciò che è possibile e ciò che è probabile con un confronto tra esperienza ed essenza del politico, si può notare, tuttavia, che queste tendenze si lasciano classificare in tre categorie principali. Innanzitutto, l'elaborazione di un diritto internazionale razionale, omogeneo, coercitivo e, soprattutto, indipendente dal rapporto di forze di volta in volta presente; dunque, un diritto che si fondi su norme proprie e non sulla successione dei trattati che sanciscono i successi dell'una o dell'altra nazione e che non si accontenti di ratificare i colpi di forza e i successi diplomatici. In secondo luogo, l'istituzione di organizzazioni internazionali sulla base di un riconoscimento, che non sia condizionale, e di una parità assoluta tra potenze grandi e piccole, nel rispetto dei particolarismi propri ad ogni Stato. Infine, un disarmo generale e controllato. Va da sé che queste aspirazioni si scontrano con ogni tipo di difficoltà e d'impossibilità umane e l'olitiche. Come rendere allora il diritto coercitivo? E possibile combattere una nuova ideologia che si richiami a un sistema internazionale eterogeneo, senza compromet-

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tere la libertà di pensiero e senza contrastare l'inevitabile evoluzione dell'intelletto? Con quale mezzo sopprimere il potere, se continuano ad esistere Stati grandi e Stati piccoli, ricchi e poveri? Come impedire il sovvertimento del sistema da parte della propaganda? Come costringere un Paese in possesso della forza nucleare a distruggere le proprie armi? Non si perverrebbe, forse, a una pace coattiva e l'umanità non sprofonderebbe nel più sterile conservatorismo? Per finire, ci si può anche domandare se la realizzazione di tali progetti rappresenti l'assoluta sicurezza desiderata, dato che il vuoto militare non è senza pericolo né senza rischio. D'altra parte, è altamente probabile che quest'aspetto positivo della protezione, sotto forma della più generosa e fiduciosa amicizia collettiva, non possa mai concretizzarsi, per non parlare poi delle esigenze ideali che spesso servono a dissimulare le inadempienze delle condizioni elementari di coesistenza tra le nazioni. Ciò non vuol dire che queste tendenze siano prive d'ogni tipo di significato per la sicurezza. Esse hanno già contribuito, e possono continuare a contribuire, in ambiti ristretti, a umanizzare alcuni aspetti della lotta, a promuovere un mutuo soccorso internazionale, a fare pressione a favore della regolamentazione di certe vertenze da parte dell'arbitrato, a sollecitare uno sviluppo desiderato, ecc. Tuttavia, dato che la politica è inevitabilmente polemica, questo aspetto sarà più positivo sul piano teorico dell'amicizia formale che su quello pratico della gestione reale degli affari mondiali.

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4. La concordia interna e la prosperità

Se la sicurezza tende essenzialmente alla conservazione della vita della collettività, a costo talvolta del sacrificio individuale di alcuni dei suoi membri, questo secondo aspetto riguarda l'esistenza all'interno della comunità e consente ai cittadini di trovare in essa una ragione di vita materiale e spirituale. Quest'aspetto è condizionato sia dal presupposto del comando e dell'obbedienza, che istituisce un ordine, sia dal presupposto del privato e del pubblico, che organizza l'ordine, non solo nel senso della potenza, ma anche nel senso del godimento dei beni e della migliore armonia tra i gruppi interni. Alcuni politologi sostengono, sulla base d'una lettura forse troppo superficiale di Hobbes, che quest'ultimo aspetto sarebbe secondario rispetto all'altro. Non solo una simile interpretazione è in contraddizione con la filosofia razionalista e utilitarista dell'autore del Leviathan, ma come abbiamo già indicato, Hobbes attribuisce espressamente al politico lo scopo di tutelare congiuntamente la sicurezza e la prosperità. La quasi totalità dei filosofi politici ha adottato la stessa posizione. Così Aristotele dichiara che gli uomini continuano a vivere in società non solo semplicemente per vivere (tou çiìv EVEK'.EV) ma anche per vivere bene (eù çiìv), 12 San Tommaso attribuisce allo Stato la missione di assicurare la bona vita 13 e Rousseau risponde alla domanda: «Qual è il fine dell'associazionismo politico? È la conservazione e la prosperità dei suoi membri». 14 Tra i pochi autori che fanno

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eccezione si trova in particolare Max Weber: «Non sono la pace e la felicità che dobbiamo procurare alle generazioni future, ma la lotta eterna per la conservazione e la costruzione del nostro carattere nazionale. Noi non abbiamo il diritto di abbandonarci alla speranza ottimista secondo cui il nostro compito sarebbe assolto con il pieno sviluppo della civilizzazione economica, dal momento che, in virtù dei meccanismi di una concorrenza libera e pacifica, la selezione contribuirebbe da sola alla nascita del tipo più evoluto». 15 Indipendentemente dall'aspetto talvolta polemico di questo testo, la cosa più sorprendente è che Weber consideri la lotta come un fine per così dire in sé, il che è in contraddizione con la nozione stessa di lotta, e che egli sviluppi quest'idea nella lezione in cui esamina i rapporti tra politica ed economia, laddove, senza dubbio, il benessere è quantomeno uno degli aspetti essenziali dello scopo dell'economia. In relazione a questo testo, si può sollevare un'altra obiezione: la prosperità non è forse il fine specifico dell'economico? Farne uno degli aspetti dello scopo del politico non significa forse cadere nella confusione dei generi? Niente affatto. Quello che Aristotele, Hobbes e Rousseau avevano in mente, era la prosperità generale della collettività come tale e non il benessere individuale. In ogni tempo, il compito della politica è sempre stato quello di organizzare la città nel modo più armonioso possibile, sulla scorta dell'idea che sembrava migliore, per dare agli individui la possibilità di soddisfare al meglio i

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bisogni che provavano a livello puramente economico. E in virtù di una decisione politica che Solone e Licurgo hanno definito la struttura sociale di Atene e di Sparta, così come ai nostri giorni l'autorità fa imboccare allo Stato la strada del liberalismo o del socialismo. Senza dubbio, queste decisioni si fondano sul presupposto della distinzione tra privato e pubblico. Senza entrare nei dettagli che riguardano l'attività quotidiana, dato che ne vedremo più avanti gli obiettivi, la politica comporta inoltre, come qualsiasi attività di gestione, la divisione e il coordinamento delle funzioni (esercito, polizia, giustizia, sanità, finanze, università, ecc.) anch'essi poggianti sullo stesso presupposto. Ed è ancora alla politica che spetta intervenire quando i conflitti tra schieramenti interni rischiano di provocare disordini o quando i beni particolari minacciano il bene comune. Dal punto di vista politico, la prosperità è dunque in primo luogo una questione di previdenza e previsione razionale, talvolta di pianificazione e ripartizione, ma anche d'impulso, nella misura in cui, ad esempio, l'economia interna dipende dalle possibilità offerte dal mercato internazionale. Viste da quest'angolazione, le condizioni della prosperità sono indice incontestabile del tipo d'organizzazione sociale scelto dal politico e, per questa ragione, rientrano nella definizione di bene comune. Tutte le possibilità offerte da queste strutture restano tuttavia subordinate all'esistenza di un ordine che, come abbiamo visto, stimola la dialettica tra comando e obbedienza. L'ordine in quanto tale, però, non potrebbe costituire il fine di un'atti-

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vità; esso è solamente la condizione elementare dell'unità e della stabilità della collettività. E poiché quest'ultima aspira naturalmente ad essere una comunità (una nazione, ad esempio), formata da un io comune e determinata da un interesse comune basati sulla lingua, sulla razza, sulla tradizione storica o su una semplice volontà collettiva, non può accontentarsi di essere una mera giustapposizione quantitativa di esseri umani, ma si prefigge di formare piuttosto un insieme unito, in virtù di una vocazione specifica. È proprio in questo momento che compare l'aspetto interno dell'amicizia o concordia. Considerato dal punto di vista interno, il bene comune prende, dunque, il nome di concordia che è al tempo stesso, secondo Aristotele, comunanza di vita e amicizia (ouvft0Etcx x:cxì cptUcx). 16 Nell'Etica Nicomachea egli precisa che la concordia è ben diversa dall'identità d'opinione o dall'unanimità cui dà luogo una dimostrazione scientifica, poiché in quest'ultimo caso l'amicizia è assente. La concordia presuppone, in effetti, oltre la comunanza di concezioni relative all'interesse comune della collettività, anche un'identità di sentimenti. Inoltre, essa è concordanza nella sfera dell'azione e non in quella della speculazione.17 Quest'analisi di Aristotele, breve ma estremamente pertinente, mette in evidenza i due elementi caratteristici del bene comune interno. In primo luogo, la concordia presuppone un interesse corrispondente alle aspirazioni fondamentali e allo spirito della collettività. Perciò, essa non è intima amicizia, ma consiste nella concordanza delle re-

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lazioni esterne tra gli individui e tra le associazioni e i gruppi, i cui fini specifici convergono nel bene comune e nell'unità della collettività o, quantomeno, non li ostacolano. Poco importa quale sia la natura di questi rapporti - gerarchici o di tipo egualitario purché l'insieme dei cittadini, di comune accordo, li trovi convenienti. Inoltre, la concordia non è legata a un particolare tipo di regime; essa può regnare sia in un regime repubblicano o democratico, che in un regime monarchico o aristocratico, a seconda che i cittadini preferiscano, insieme, una struttura piuttosto che un'altra. In caso contrario, continui dissensi turbano la società, la sua unità si disgrega e il bene comune diviene preda di fazioni rivali, l'ordine e la stabilità si sfasciano sotto la minaccia di una guerra civile, rischiando di mettere in gioco l'esistenza stessa della collettività. Il fatto è che i Paesi che non riescono a trovare la concordia interna sono continuamente teatro di colpi di Stato, di «rivoluzioni» e di sedizioni, mentre tutti gli altri regimi, anche i più contraddittori, si succedono gli uni agli altri. Non si vuole affermare che la concordia sia incompatibile con un'opposizione legale, ma essa non sopravvive alla competizione di partiti le cui concezioni del senso dello Stato e della costituzione siano radicalmente divergenti. In altre parole, la concordia presuppone che l'inimicizia interna sia superata. In secondo luogo, dal momento che la concordia è amicizia, essa ha per base anche un certo tipo di sentimenti che si concretizzano nella nozione di patria. Nessuna collettività potrebbe restare unita o du-

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rare nel tempo se i suoi membri non sentissero la necessità di partecipare, per così dire, affettivamente all'insieme sociale di cui fanno parte. Un Paese senza patrimonio comune, che sia di ordine culturale, etnico, linguistico o d'altro tipo, non è che una creazione artificiale, incapace di resistere alle prove della politica. Per quanto si possa ironizzare sul concetto di patria e concepire l'umanità in modo anarchico e astratto, come composta unicamente da individui isolati che aspirano solamente alla libertà personale, ciò non t(?glie che la patria è una realtà sociale concreta, capace di creare omogeneità e senso di collaborazione tra gli uomini. La patria è anche una delle fonti essenziali del dinamismo collettivo, della stabilità e della continuità di un'unità politica. Senza di essa, non esistono né potenza né grandezza né gloria, ma nemmeno solidarietà tra quanti vivono sullo stesso territorio. Non si può, dunque, essere d'accordo con Voltaire quando scrive alla voce «Patria» del suo Dizionario filosofico che «desiderare la grandezza del proprio Paese significa desiderare il male dei propri vicini». In effetti, se il patriottismo è un normale sentimento dell'essere umano alla stessa stregua della pietà familiare, qualsiasi uomo ragionevole comprende facilmente che uno straniero possa provare lo stesso sentimento. Non possiamo prendere a pretesto certi abusi di sciovinismo per denigrare il patriottismo come non possiamo imputare la persistenza di delitti passionali all'inanità dell'amore. Il patriottismo è anche una forma di giustizia morale. A ragione, Comte ha visto nella patria la mediazione tra la

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forma più immediata d'associazione, la famiglia, e la forma più universale di collettività, l'umanità. 18 Essa si fonda sul particolarismo che è inerente al politico. Quando la patria cessa di essere una realtà vivente, la società si sfalda, non come alcuni credono a vantaggio della libertà dell'individuo e nemmeno, come credono altri, a vantaggio dell'umanità; una collettività politica che non è più una patria per i suoi membri cessa di essere difesa, per cadere più o meno rapidamente sotto il potere di un'altra unità politica. Laddove non c'è una patria, diventano padroni i mercenari o lo straniero. Senza dubbio, la nostra patria è determinata dalla casualità della nascita, ma si tratta di una casualità che ci libera da altre. 5. Sicurezza e concordia: aspetti di uno stesso bene

Si pone ora una prima domanda: l'aspetto interno di questo bene ha una preminenza sull'aspetto esterno o viceversa? A seconda delle ideologie, delle epoche e anche delle circostanze, le opinioni variano. Ai nostri giorni, si tende ad attribuire la priorità alla realizzazione del bene interno poiché l'opinione pubblica è dominata da una corrente idealista, spesso utopica. 19 In effetti, il socialismo, tanto quello della prima metà del XIX secolo, cosiddetto utopistico, quanto il marxismo (che crede nella possibilità di una riconciliazione definitiva dell'uomo, della società e della natura), è la dottrina che ripropone in termini moderni il sogno dello Stato perfetto. La preminenza che esso attribuisce al sociale e all'orga-

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nizzazione il più possibile perfetta della società gli fa perdere di vista il problema della sicurezza e della protezione. Altri autori, e in genere tutti coloro che si richiamano alla scuola realista, in particolare Machiavelli, attribuiscono preminenza alla politica estera, dunque alle questioni della sicurezza e della difesa, condizioni primarie per la pace interna e per la concordia. È forse in Leibniz che questa idea viene esposta con maggior chiarezza: «La mia definizione di Stato o di ciò che i Latini chiamano Respublica è che si tratta di una grande società il cui scopo è la sicurezza comune. Sarebbe da augurarsi che si potesse procurare agli uomini qualcosa di più della sicurezza, cioè la felicità, e in questo senso occorre impegnarsi, ma la sicurezza è a dir ftoco essenziale, e senza di essa il bene viene meno». 0 Abbiamo fatto questa distinzione per chiarezza espositiva e per seguire la tradizione che distingue politica interna e politica estera, ma in realtà si tratta di due aspetti di uno stesso bene. Il fine di una collettività politica come la sua unità non si lascia dividere: esso resta sempre se stesso nella sua interezza. A seconda delle circostanze, esso evidenzia ora l'uno ora l'altro questi due aspetti. Così, in tempo di guerra o di crisi internazionale, darà priorità alla difesa e agli imperativi della sicurezza, ma, anche in quel caso, se non regnano la pace e la concordia interne, la sicurezza si troverà pericolosamente minacciata. Per rafforzare l'unità nazionale e placare gli animi durante la guerra contro Hitler, Stalin e gli altri responsabili della guerra misero in sordina la propaganda

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antireligiosa ed esaltarono le tradizioni del popolo russo a discapito dei fini partigiani del comunismo. Il bene comune è unico e questi due aspetti non sono solo complementari, ma inseparabili. Attribuire in via definitiva la preferenza all'uno o all'altro, significa andare incontro a delusioni. Ogni attività e ogni decisione politica ha, al tempo stesso, portata interna ed esterna ed è solo per opportunità, dettata dalle circostanze e dalle emergenze, che si può provvisoriamente attribuire priorità all'una o all'altra. È pressoché impossibile difendere una nazione da se stessa quando i suoi membri sono pronti a sacrificare l'indipendenza, se sperano, così facendo, di ,ottenere vantaggi materiali. Analogamente, un governo che si impone solo con la coercizione ed il terrore e al quale i cittadini non riconoscano la capacità di promuovere il bene comune, non è in grado di resistere a un attacco proveniente dall'esterno né ad una rivolta interna. Le questioni politiche non sono indipendenti le une dalle altre. In seguito a questi chiarimenti risulta più agevole comprendere il seguente concetto. Quando parliamo di bene comune o di bene pubblico, non neghiamo che le altre forme di associazione, come la famiglia, l'esercito, l'università o qualsiasi associazione di tipo filantropico, sportivo, ecc., aspirino ugualmente ad un bene comune che è loro proprio. Tuttavia, così come la società politica non è assimilabile alle altre società di grado inferiore, non lo è nemmeno il suo bene specifico e, dal punto di vista politico, non potrebbe essere posto allo stesso livello: esso è gerar-

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chicamente superiore a questi altri beni, li trascende. In poche parole, esso non è dato dalla somma dei beni specifici, ma è il bene della collettività in quanto tale, poiché il pubblico, come abbiamo visto precedentemente, malgrado la sua autonomia, regola anche con le usanze o le leggi la sfera privata ed i beni particolari che la compongono. Il bene pubblico dunque non è il bene della sola sfera dirigente, ma della collettività nella sua totalità, ivi compresa la sfera privata, e non esclude dunque gli altri beni. Questo è evidente in un'epoca in cui molte associazioni private reclamano lo statuto cosiddetto di «utilità pubblica», sebbene l'estensione dell'ambito pubblico e l'aumento crescente dei servizi e delle attività dello Stato lo rendano più vulnerabile. In effetti, lo Stato si scontra con un numero sempre maggiore di interessi e si espone a rivendicazioni senza fine che non è in grado di soddisfare contemporaneamente. A dire il vero, si tratta di una caratteristica particolare dello Stato moderno che, come Guglielmo Ferrero e Bertrand de Jouvenel hanno evidenziato e spiegato, perde l'autorità che aveva un tempo man mano che diviene sempre più potente. Senza soffermarci ulteriormente sul problema della crescita del potere, possiamo nondimeno domandarci se questo sviluppo non sia una conseguenza del sogno di un ordine sempre più razionalizzato, a scapito di una vita ragionevole, fondamento del bene comune. D'altronde questa razionalizzazione potrebbe a sua volta costituire l'oggetto di un'analisi sociologica e filosofica per constatare che il suo sviluppo nella civiltà raffor-

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za e libera, come per riflesso, le forze irrazionali. Una dialettica coerente non dovrebbe avere alcuna difficoltà a capire questa reciproca evoluzione, se la maggior parte delle filosofie dialettiche non escludesse l'irrazionale dal suo percorso teorico pensando che questa omissione possa accelerare il definitivo trionfo della ragione. L'unità del bene comune non è tuttavia quella di un'uniformità o di una totale armonia, quanto piuttosto quella di una coesione. Come l'unità politica della collettività, il bene pubblico non è privo di tensioni, di conflitti d'interesse e di idee e perfino di contraddizioni. In realtà, non è né potrebbe mai essere colto effettivamente nella sua pienezza concettuale, poiché è sempre oggetto di contestazioni, approssimazioni e aggiustamenti che si susseguono nel corso dell'attività politica quotidiana, anch'essa senza termine. A dire il vero, esso rimane sempre non un ideale ma un intento, cioè un compito indefinito degli obiettivi politici d'ordine militare, economico, culturale, sociale, amministrativo, ecc. Misurare il bene comune materialmente, determinare l'optimum di sicurezza e di prosperità è addirittura impossibile, dato che tali questioni danno luogo a discussioni senza fine tra i partiti politici e anche tra deputati e ministri, vale a dire coloro che sono direttamente responsabili del bene pubblico. Con ogni probabilità, le cose saranno sempre così e nessuna collettività politica realizzerà mai completamente il bene comune, non solo perché in tal caso si cristallizzerebbe in uno stato di immutabilità e cesserebbe di vivere po-

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liticamente, ma anche perché i desideri, i bisogni, le ambizioni e le passioni umane rimettono continuamente in questione quanto è stato acquisito e tentano incessantemente di superarlo. 21 Anche in questo caso risulta fondamentale la dialettica amico/nemico. Le collettività devono continuamente superare motivi di disaccordo, impedire la formazione di un nemico interno e proteggere i propri membri contro quello esterno, reale o virtuale, facendo regnare la concordia e l'amicizia civile all'interno dell'unità politica e promuovendo all' esterno l'amicizia tra gli Stati tramite il gioco delle alleanze e tramite una comunità internazionale pacifica. La finalità politica, intesa come promozione del bene comune, esige innegabilmente che sia data priorità all'amicizia nei vari sensi che abbiamo individuato sopra. In altre parole, il fine del politico è la pace interna ed esterna, sebbene tale finalità sia sempre oggetto di contestazioni, di lotte e talvolta di guerre, sebbene occorra quindi superare sempre e comunque l'ostacolo dell'inimicizia. Il fatto è che esistono diversi modi di concepire e di concretizzare la pace e l'amicizia interne (di qui la diversità di regimi e di costituzioni) così come la pace esterna (alleanze, sistemi di equilibrio di potere, creazione di organizzazioni internazionali). A seconda delle epoche e delle idee dominanti, l'amicizia assume dunque un aspetto differente nel momento stesso in cui deve far fronte alla forma particolare che assume l'inimicizia (che si manifesti cioè come ostilità tra nazioni, razze o classi).

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6. La possibilità di realizzare il bene comune varia con le condizioni storiche

Qual è il criterio della bona vita, del benessere e della felicità collettiva? Non ne esiste uno in assoluto. È difficile determinare, anche in maniera relativa, ciò che è ragionevole in politica quanto conoscere il giusto mezzo della virtù, la cui valutazione secondo Aristotele spetta alla retta ragione. Oggi noi crediamo alla filosofia economica dell'abbondanza, ma nessuno può assicurare che essa sia intrinsecamente quella valida dal punto di vista della sicurezza e della prosperità politica. In effetti, non siamo ancora in grado di valutarne tutte le possibilità né tutte le conseguenze, avendone un'esperienza ancora troppo limitata. La giudichiamo solamente come la più adatta alle condizioni generali attuali, nel senso inteso da Cournot: «Quando un sistema ha fatto il suo tempo, le buone ragioni non possono, più di quanto possano i sofismi, restituirgli il credito che ha perduto». 22 Che lo si voglia o no, tutte le previsioni e tutte le congetture sono limitate, soprattutto se hanno la pretesa di essere razionali, e le nostre anticipazioni sui secoli futuri, così frequenti in certi ambienti, hanno il valore delle profezie di Malachia o di Nostradamus. Come abbiamo già detto, niente sembra più discutibile dell'idea: la massima potenza è garanzia di sicurezza. Innanzitutto, essa non costituisce il fine specifico del politico, ma solo un mezzo per realizzarlo più efficacemente. Inoltre, ci possono essere contraddizioni tra potenza e sicurezza, come dimo-

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stra, ad esempio, la storia della Grecia del V e del IV secolo a.C., con il susseguirsi di numerose egemonie. Atene aveva appena raggiunto l'apice della sua potenza quando la guerra del Peloponneso pregiudicò il suo dominio a favore di Sparta. Una quarantina di anni più tardi, Tebe e Atene, che fino ad allora erano, per così dire, votate all'ostilità reciproca, si riconciliarono e fu Tebe ad assumere l'egemonia in seguito alla vittoria su Sparta a Mantinea. Non per molto però: una ventina di anni dopo, con la vittoria di Cheronea, Filippo II acquisì il potere a favore della Macedonia. Quanto tempo durò il predominio spagnolo, francese o il predominio tedesco in Europa? D'altronde, la sicurezza è del tutto relativa: talvolta si basa sulle forze proprie di una collettività, talvolta sulla debolezza dei possibili rivali. In queste condizioni, qual è il grado oltre il quale non si può andare per salvaguardare l'equilibrio e stabilire una pace duratura? Come indurre il nemico a rinunciare ai suoi progetti ostili o bellicosi, se rifiuta di negoziare o di rispettare i trattati? E quando, ai nostri giorni, assistiamo al tergiversare, forse calcolato, da parte delle due grandi potenze, gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica, che tirano per le lunghe i negoziati, che dilazionano continuamente le discussioni fondamentali per accordarsi poi solo su qualche punto di minore rilievo, possiamo considerare il loro atteggiamento prudente, poiché intendono raggiungere un accordo stabile, ma possiamo anche domandarci, a buon diritto, se da un lato come dall'altro, come tanti altri Stati prima di

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loro, non si cerchi di guadagnare tempo per acquisire migliori probabilità di successo prima del confronto diretto. La soluzione più saggia consiste nel prevedere il peggio e prendere di conseguenza le misure adatte, pur mantenendo la speranza e la volontà di un'intesa ragionevole e compiendo gli sforzi necessari per raggiungerla. In politica è nichilista colui che crede in una sicurezza e in una prosperità assolute, che nega il nemico e che, per debolezza o imprevidenza, abbandona la collettività politica alla mercé dei suoi rivali, poiché si è lasciato abbagliare dal miraggio dei fini ultimi. «La politica, diceva Max Weber, consiste in un lento e tenace superamento di dure difficoltà, da compiersi con passione e discernimento al tempo stesso. E perfettamente esatto, e confermato da tutta l'esperienza storica, che il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l'impossibile. Ma colui il quale può accingersi a quest'impresa non deve essere solo un capo, ma anche - in un senso molto sobrio della parola - un eroe. E anche chi non sia l'uno né l'altro, deve foggiarsi fin da ora quella tempra d'animo tale da poter reggere anche al crollo di tutte le speranze, altrimenti non sarà nemmeno in grado di portare a compimento quel poco che oggi è possibile. Solo chi è sicuro di non venir meno anche se il mondo, considerato dal suo punto di vista, è troppo stupido o volgare per ciò che egli vuol offrirgli, e di poter ancora dire di fronte a tutto ciò "Non importa, continuiamo!", solo un uomo siffatto ha la "vocazione" per la politica». 23

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Lavorare alla realizzazione del fine del politico è compito che non può subire interruzione, soprattutto dal momento che ai nostri giorni le condizioni generali cambiano pressappoco ogni dieci anni. Appena trent'anni fa, la pace e la guerra dipendevano dalle relazioni franco-tedesche; vent'anni fa gli Stati Uniti avevano il monopolio della potenza atomica; dieci anni fa la Gran Bretagna cominciava a cedere una ad una le sue posizioni nel mondo e la Russia a farsi conoscere in tutti i continenti. Nessuna sicurezza è invulnerabile e definitivamente consolidata, non ne esiste una che sia al riparo dalle contestazioni, dalle gelosie, dalla diffidenza e dal desiderio di potere delle altre collettività. Constatare queste variazioni della storia non vuol dire essere pessimisti - poiché, in fondo, i veri pessimisti sono i sognatori, i millenaristi, coloro che non hanno fiducia nel presente e rinviano la soluzione dei problemi al domani, quando le loro idee avranno trionfato. Sarà così? Esiste il trionfo assoluto di un'idea? Crederlo significa tenere in poco conto le possibilità dell'intelletto e della volontà dell'uomo, vuol dire degradarli in nome di una previsione utopica. Supponiamo il trionfo universale del marxismo. È sicuro che l'inimicizia sparirà perché questa dottrina, come parecchie altre, ha inserito nel suo programma la pace universale? Già la tensione tra la politica sovietica e quella dei cinesi dà una nuova forma storica all'inimicizia politica, solleva problemi di potere, d'influenza e modifica i rapporti di forza. Nessuna dottrina ha il privilegio della sicurezza e della prosperità totali, ma ciascuna deve im-

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piegare tutta la sua fede e la sua perspicacia nelle proprie imprese al servizio della collettività e dei rapporti con gli altri. Per riprendere una distinzione che abbiamo già usato più volte, diremo che il bene comune, fine specifico della politica, appartiene alla categoria del concetto e non dell'idea. I problemi pertinenti al concetto o all'analitica nascono dall'esistenza e dallo sviluppo d'attività reali come le scienze, l'arte, l'etica o la politica. Ora, è un fatto che esiste un'attività politica al servizio di un fine determinato, ossia il bene di collettività costituite. Il fine è un concetto, si lascia cioè determinare universalmente solo da un punto di vista formale, in quanto non può mai essere raggiunto definitivamente, ma si concretizza materialmente nella sicurezza, nella concordia e nella prosperità specifiche. Come la ricerca scientifica, che non si conclude mai, ma rimane indefinita, anche la politica è sempre alla ricerca di migliori garanzie di protezione e di felicità per una determinata collettività. Le condizioni formali del bene comune, valide per qualsiasi collettività politica, sono dunque la sicurezza e la prosperità, ma la realizzazione concreta di questo fine varia, dal lato pratico, con le circostanze storiche e le condizioni spazio-temporali. È proprio attraverso «obiettivi» concreti che la politica tenta di realizzare questo fine, il che significa, a seconda delle epoche: 1. tramite mezzi economici determinati, che sono stati quelli dell'economia domestica, del saccheggio, del semplice mercantilismo, del colonialismo, del capitalismo o che sono quelli del socialismo o di qual-

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siasi altra forma economico-sociale ancora a venire; 2. per mezzo di disegni politici, come la conquista, la costruzione di castelli con il sistema dei feudi, la politica delle frontiere naturali, il sistema dell' equilibrio delle potenze o, ai nostri giorni, un sistema di sicurezza collettivo multilaterale sotto la protezione egemonica o sotto la responsabilità di una organizzazione internazionale come la Società delle Nazioni o l'Onu. In poche parole, la realizzazione empirica del bene comune varia con lo sviluppo tecnico, con lo sviluppo dei trasporti, con quello dello sfruttamento delle ricchezze del suolo e del sottosuolo, dell'esercito, dei mezzi militari e anche delle idee e delle ideologie. Pertanto, in quanto concetto, il bene comune si lascia determinare. Non appartiene, dunque, alla categoria delle idee o al regno dei fini, poiché l'idea non corrisponde direttamente ad alcun oggetto dato dall'esperienza: l'idea appartiene alla categoria dell'incondizionato, dell'indeterminabile, dell'intelligibile puro; è pura nozione razionale e trascendente. Essa appartiene più al regno della speculazione che a quello dell'applicazione e ciò, come vedremo più avanti, non significa che sia vana o superflua. L'idea è pura forma; a differenza del concetto non ha sostanza empirica. Da ciò deriva che non si può considerare il bene comune come una nozione puramente soggettiva che ogni collettività può concepire in maniera diversa. Certo, storicamente il modo in cui si cerca di realizzarlo è contingente e varia a seconda delle epoche, delle tecniche e delle ideologie, ma dal momento che

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il suo concetto si lascia determinare formalmente nelle caratteristiche empiriche della sicurezza e della concordia, esso è una realtà oggettiva, poiché non esiste una collettività politica che non si dia come fine quello di garantire la propria sicurezza e di trovare le condizioni migliori di prosperità. Inteso come bene comune, ci rimane da distinguere il fine specifico del politico da quelli che abbiamo chiamato gli «obiettivi» concreti che stanno, per così dire, al di qua di questo fine, e dai «fini» che stanno al di là. 7. Che cos'è un obiettivo?

Chiamiamo «obiettivo» la sostanza materiale di un'azione empirica volta a realizzare il fine specifico del politico in concreto. Si tratta dunque, ogni volta, di un'azione limitata, particolare, contingente ed empirica, come una svalutazione monetaria, un trattato d'alleanza, un aumento salariale, ecc. La nozione di obiettivo deve inoltre essere presa in senso estremamente ampio, come designante un'azione di vasto raggio, come la guerra o la rivoluzione, e il disbrigo degli affari correnti e le misure di ordine minore che costituiscono l'incessante lavoro delle amministrazioni. Dal momento che il fine del politico non può mai essere definitivamente conseguito, gli obiettivi costituiscono la trama dell'attività politica quotidiana. In effetti, un governo è sempre esposto a difficoltà di ogni genere, poiché la vita collettiva solleva continuamente problemi. Senza tregua sorgono conflitti e antagonismi tra i membri o i raggruppamenti

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inferiori: rivendicazioni sociali, difficoltà economiche o finanziarie, contestazioni, ecc. Ma si tratta anche di risolvere le questioni sollevate dallo sviluppo stesso di un Paese e di prendere iniziative nei settori dell'industria, del commercio, dell'agricoltura, della circolazione, dello sfruttamento sistematico del territorio, ecc. Inoltre, le decisioni prese dai Paesi stranieri in ambito diplomatico (alleanze, intese), militare o economico (protezione, svalutazione, dumping) esigono allo stesso modo l'esercizio continuo del potere. Va da sé che tutte queste imprese, manovre, decisioni, iniziative e misure di protezione non sono necessariamente coronate dal successo, né tutte felici o opportune semplicemente perché mirano al bene comune. Anche l'attività politica è disseminata di fallimenti e di mezzi successi come qualsiasi altro genere d'attività. Può accadere che i responsabili politici si lascino talvolta distrarre dal raggiungimento degli obiettivi imposti dal bene comune per perseguirne altri rispondenti alle loro ambizioni e ai loro interessi personali. Non è possibile entrare nei dettagli dell'analisi di tutti questi obiettivi, sia perché quest'attività è continua, multiforme ma anche perché si rischierebbe di cadere nella sindrome del consigliere. Del resto, un insieme così disparato non si lascia sistematizzare; tutt'al più si potrebbe tentare di classificare tutti questi obiettivi sulla base delle competenze dei vari ministeri (il cui numero varia secondo i Paesi e i governi). Inoltre, questo metodo lascerebbe da parte un insieme di obiettivi altrettanto importanti di quelli che

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si potrebbero classificare: dove mettere, ad esempio, l'attività rivoluzionaria? È vero, nel 1848, Marrast aveva proposto di creare all'interno del Consiglio di Stato una sezione del progresso, incaricata di elaborare idee nuove! Di fatto, nessuna teoria è in grado di dominare tutti i compiti, le necessità, le urgenze, le priorità, gli affari importanti, i conflitti, gli sconvolgimenti e i ritardi. Nemmeno una casistica verrebbe a capo di tutta questa varietà. Noi ci limiteremo, dunque, a cogliere le grandi linee. È al livello degli obiettivi che si pongono i quattro grandi problemi d'ogni attività politica concreta e, d'altronde, dell'azione in generale: quello dei mezzi e del metodo, quello delle conseguenze, quello della scelta e quello della competenza e della responsabilità. 8. I mezzi e il metodo Un fine non si realizza da solo semplicemente perché viene concepito e desiderato, ma esige uno sforzo, un'esecuzione, il che presuppone tutta una serie di intermediari: i mezzi. Il fine non è che il possibile, solo i mezzi sono reali, poiché mettono in opera contemporaneamente la mente e il corpo. Non si può agire con strumenti possibili o eventuali, ma unicamente con quelli che sono materialmente dati. Fintanto che la volontà non si rivolge ai mezzi, essa è solo desiderio o preferenza; non è azione e nemmeno decisione nel senso proprio del termine. Per mezzi intenderemo dunque le risorse materiali che permettono di passare dal concepimento al compimento.

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Queste poche puntualizzazioni sollevano già ogni sorta di difficoltà dal punto di vista filosofico. In effetti, occorre constatare che fino ad ora l'indagine è stata essenzialmente incentrata sulle condizioni esterne o «cause» dell'azione, come il clima, il suolo, il potenziale economico, e quasi mai su quelle interne, che sono i mezzi. Seguendo il primo punto di vista è pressoché impossibile sfuggire al determinismo, soprattutto quando viene postulata l'identità tra causa ed effetto. Al contrario, se spostiamo l'attenzione sui mezzi, c'imbattiamo nel problema dell'alterità: com'è possibile che non si possa realizzare un fine se non facendo intervenire delle realtà diverse dal fine stesso? Noi ci accontentiamo di menzionare il problema, che non è proprio dell'attività politica, ma appartiene a una filosofia dell'azione in generale, nel senso che l'alterità solleva a sua volta la questione della negatività e della libertà. Altro problema: il mezzo non ha valore intrinseco e non ha significato se non in rapporto al fine. Pur essendo materiale, non ha che un senso condizionale o «ipotetico», secondo l' espressione di Kant: se vuoi diventare ricco, occorre utilizzare tale o tal altro mezzo; se vuoi vincere la guerra, data la forza presunta del nemico, occorrono come minimo tanti soldati, tanti aerei, tanti carri, ecc. Si potrebbe partire da qui per riflettere sul carattere condizionale della materia e discutere le tesi del materialismo. Al di là di simili questioni, in questa sede dobbiamo studiare l'aspetto tecnico del problema dei mezzi nei limiti dell'analisi dell' «obiettivo». Sebbene il mezzo non abbia senso se non in rap-

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porto al fine, la relazione tra questi due termini non è né invariabile né unilaterale. In effetti, esistono sempre molti mezzi possibili per conseguire un risultato e ciò assume forma diversa nella catena delle conseguenze a seconda che sia stato ottenuto utilizzando una serie di mezzi piuttosto che un'altra. L' orientamento della politica tra due nemici di lunga data sarà differente a seconda che la pace sia stata negoziata oppure imposta da una capitolazione senza condizioni. La scelta dei mezzi comporta sempre una parte di imponderabilità, che fa sì che la logica raramente vi trovi riscontro. Inoltre, ogni obiettivo opera già da solo una selezione dei metodi. Quando un popolo è animato dalla volontà d'indipendenza raramente raggiunge i suoi fini se non usando una certa forma di violenza. Un partito rivoluzionario preconizza inevitabilmente procedure diverse da quelle di un partito puramente parlamentare. 24 Non si tratta sempre di agire prudentemente in rapporto ai propri mezzi, ma anche in funzione dell'obiettivo mirato, per dare a quegli stessi mezzi un'altra dimensione: quella dell'audacia. La quantità e la qualità dei mezzi non spiegano ogni cosa e soprattutto non costituiscono ancora una garanzia di successo. Con risorse analoghe l'uno fallisce dove l'altro riesce - constatazione che non fa che rafforzare il carattere condizionale dei mezzi. Il fatto è che intervengono anche il temperamento, il valore e le qualità personali di colui che agisce. L'azione è un uso intelligente e assennato dei mezzi e non un semplice sviluppo meccanico dei dati di par-

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tenza, altrimenti essa non comporterebbe alcun problema e, per conseguire un determinato obiettivo, sarebbe sufficiente dotarsi dei mezzi necessari e, al1' occorrenza, affidare l'impresa ad un tecnico che li azioni come ingranaggi di una macchina. Ora, quali che siano le risorse, occorre anche fare i conti con la sorpresa, l'imprevedibilità della manovra dell'altro, e così l'incertezza incombe sullo svolgimento dell'azione fintantoché l'obiettivo non è raggiunto. Non è raro che chi dispone di una superiorità schiacciante soccomba, alla fine, davanti a chi sa utilizzare con abilità, perspicacia e audacia il materiale di cui dispone: la storia militare non è avara di simili esempi. Succede anche che, di fronte ad una resistenza prolungata ed inattesa, chi agisce perda di vista l'obiettivo iniziale per trasformare uno dei mezzi in obiettivo e pensare quindi solo a superare l'ostacolo rappresentato dal mezzo. È così che in politica certi dirigenti finiscono col dimenticare l'applicazione del loro programma, ossessionati come sono dalla lotta contro l'opposizione o gli avversari. Questione d'intelligenza, la messa in opera dei mezzi è anche un problema di metodo, che consiste non solo in un'organizzazione razionale con tanto di programma e di pianificazione, ma anche in un'economia, al fine di ottenere il massimo risultato con i minimi mezzi. In politica, il metodo consiste soprattutto nel realizzare gli obiettivi senza mobilitare completamente l'insieme delle risorse materiali e spirituali. È perché Atene e Sparta, per considerare solo questi due esempi, hanno dato fondo a tutte le loro

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riserve per conquistare l'egemonia sulle altre città greche che il loro dominio è durato così pochi anni e che il loro trionfo preannunciava la caduta. Insomma, il metodo è un'arte, che può essere definita come l'eleganza nell'azione. Tuttavia, bisogna evitare di cadere nel fanatismo metodologico: anche l' applicazione delle regole esige l'intelligenza, la flessibilità che deriva dall'esperienza e il senso dell'anticipazione. Il migliore dei metodi non è di alcun aiuto a chi non possieda l'autorità necessaria, a chi non sia animato dalla passione per la causa e a chi manchi della perspicacia in grado di cogliere i cambiamenti che la propria azione o quella dell'avversario apportano alla situazione generale. Non solo accade spesso che chi agisce divenga vittima del suo metodo, ma anche che, accecato dalla sua frequente efficacia, egli rischi, come gli scolastici, di scambiare il metodo stesso per il fine. Per il fatto di essere riusciti una volta in certe condizioni, non si ha la certezza di rinnovare il successo in altre occasioni, applicando le stesse procedure. L'azione è figlia dell'azione e non del metodo. Gli insuccessi, quando non sono causati da un'inferiorità iniziale troppo grande, per effetto dell'impossibilità di aumentare le risorse, la maggior parte delle volte si spiegano con l'assoggettamento ad un metodo troppo rigido, vale a dire con un errore di manovra che non ha saputo creare nuovi mezzi e nuove possibilità all'interno dell'azione stessa. Dal momento che i mezzi non hanno un senso in sé né nella loro connessione, ma unicamente in relazione al fine da realizzare, è chiaro che anche in poli-

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tica un'azione che si riduca ad una semplice manipolazione dei mezzi non è che puro spettacolo. Le imprese, i cui obiettivi non sono al servizio del fine specifico del politico, si tramutano presto nel romanticismo dell'azione per l'azione; l'eroe può trovarvi una fonte d'ebbrezza personale, ma la sua opera resta in genere senza futuro. L'esempio più tipico ed eclatante di questo genere di attività di conquista fine a se stessa è quello di Tamerlano, 25 il cui immenso impero è crollato quasi immediatamente dopo la sua morte. 26 Conta solo il successo, inteso come il consolidamento del fine specifico del politico. Imprese analoghe a quella di Tamerlano - ve ne sono state altre in scala ridotta - possono dare l'illusione del successo e possono stupire il lettore, nondimeno azioni ridotte ad un mero concatenamento di mezzi non sono di alcun interesse all'interno di un'analisi dedicata all'essenza del politico, se non in senso negativo. Il vero successo politico, invece, si valuta sulla base del fine specifico del politico, e quasi mai un'unità politica troverà disonorevole il modo in cui sono stati utilizzati i mezzi che avranno permesso di garantire efficacemente la sua sicurezza. Il successo è buono in sé se la collettività vi trova una garanzia duratura per la sua conservazione. Essa è anche portata a attribuire ogni tipo di abilità a colui che ha successo, a perdonargli qualsiasi turpitudine morale, la trasgressione della legalità, gli atti arbitrari, a tacciare di invidia e malevolenza le critiche più pertinenti dell'opposizione: solo il successo importa. In compenso, colui che alla fine avrà fallito verrà schiac-

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ciato crudelmente. Salus populi suprema lex: nessuna collettività può rinnegare questa sentenza senza correre verso la propria rovina. Si tratta da un lato di vincere il nemico, non di interrogarsi con scrupolo sui mezzi impiegati, e dall'altro di vivere nella massima prosperità senza guardarne sempre il prezzo. La politica è dura, talvolta spietata, verso le esigenze di purezza morale. Una collettività ha bisogno di una coscienza pulita che può risultare irritante per gli altri, per i vicini e per i nemici, sebbene questi ultimi debbano averne a loro volta una pulita per muovere rimproveri. Non appena un'unità politica viene distrutta dal complesso di colpa, perde qualsiasi dinamismo politico, dubita di se stessa e si getta nellè braccia di chi - foss'anche un avventuriero - ha saputo risvegliare il suo bisogno di coscienza oppure è pronta a cadere sotto il dominio dello straniero che non si fa affatto scrupoli. La coscienza collettiva di una colpa significa, politicamente, una sconfitta. La colpevolezza appare infatti come un'ammissione di debolezza e di impotenza. Protezione e pace interna sono le due questioni vitali per qualsiasi unità politica, che non si può accontentare, in quest'ambito, di semplici promesse o di buone intenzioni, fossero anche le migliori. Così il più delle volte si mostra molto severa nei confronti del potere che non sa ispirarle fiducia, anche quando la sua attività è lodevole: essa preferisce una cattiva decisione all'irresolutezza. Capita inoltre, abbastanza di frequente, che essa si mostri ingiusta verso il regime più liberale, se questo non riesce a rassicurar-

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la. Ogni politica sperimentale la preoccupa, poiché non tollera le esitazioni, le indecisioni, i tentennamenti, i tentativi e gli errori. L'idea stessa di politica sperimentale, messa in circolazione da alcuni scritti di scienza politica con tendenze sociologiche e scientiste, poggia su un malinteso. La sperimentazione trova la sua collocazione nell'ambito della conoscenza, non in quello dell'azione. L'attività politica in particolare non è un campo di prova. Non si possono, infatti, modificare artificialmente i mezzi di un'impresa, come si modificano le condizioni di un esperimento. Non si può nemmeno ritornare su un'azione intrapresa, in quanto ogni principio d'azione, in politica, crea immediatamente un corso irreversibile e produce conseguenze e reazioni concrete che non si possono più cancellare. Persino l'errore commesso non può essere cancellato ma deve essere corretto, se possibile, nell'ambito dell'azione stessa. 9. Le conseguenze

Di tutti i problemi della filosofia dell'azione analizzati, quello sollevato dalle conseguenze è stato certamente il più trascurato dall'analisi: solo Max Weber e J. Nabert l'hanno approfondito o affrontato direttamente. 27 Tuttavia, umanamente parlando, si tratta dell'aspetto più toccante dell'azione (soprattutto in politica), perché quello più tragico. Se lo sforzo che viene concentrato sui mezzi, il più delle volte, riesce ad esaltare la volontà dell'uomo, la ri-

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flessione sulle conseguenze gli fa prendere coscienza dei suoi limiti, persino di un'impotenza quantomeno relativa, e dell'ironia del destino. Raramente la conclusione di un'azione è conforme alle intenzioni e al progetto iniziali. I mezzi adoperati, come il risultato, sviluppano infatti una serie di effetti inattesi e sconcertanti, che aumentano o diminuiscono la portata del successo, che aggravano o limitano il fallimento, che creano una situazione nuova con un tale sconvolgimento delle condizioni che l'obiettivo desiderato, anche se raggiunto, perde la sua grandezza, la sua importanza, la sua utilità e la sua ragione. L'azione può così trascinare l'uomo in un'infinità di conseguenze in grado di paralizzare l'immaginazione e la capacità di fare nuove previsioni e di disorientare a tal punto gli istigatori e gli attori da farli sembrare, in un certo senso, disadatti alla loro stessa opera e sopraffatti come l'apprendista stregone. Essi sono incapaci di riprendere il sopravvento, non per cattiva volontà, ma perché spiritualmente e moralmente non sono più all'altezza di questo «nuovo mondo». Ad eccezione dei temerari, l'uomo calcola le possibili conseguenze della sua azione prima di intraprenderla, fa delle previsioni, soppesa le sue possibilità, valuta il rischio, prende le sue precauzioni e orienta la sua impresa sulla base delle speranze, delle paure e dei possibili esiti favorevoli o sfavorevoli che intravede. Dispone i mezzi in base alle circostanze e utilizzerà gli uni piuttosto che gli altri a seconda che speri in un successo immediato oppure a termine o che voglia ottenere o no un risultato duraturo. Per

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salvaguardare la sua possibilità di manovra, comincerà col risolvere i problemi più facili oppure agirà di sorpresa cimentandosi immediatamente con quelli più difficili. Tutti questi fenomeni di anticipazione indicano chiaramente come la questione delle conseguenze sia al centro stesso dell'azione. Il possibile e il probabile sono categorie determinanti nell'utilizzo dei mezzi materiali a disposizione, nello stesso modo in cui i giudizi sull'attualità sono fatti di supposizioni, ipotesi, convinzioni, attese, verosimiglianze, pregiudizi, apprensioni, rischi, promesse, prospettive, ecc. Il vocabolario corrente è d'altronde assai ricco di termini che esprimono tutte le sfumature delle nostre previsioni sulle conseguenze, il che sembra testimoniare l'importanza della questione. La nostra attenzione nei confronti degli effetti e degli esiti è inoltre accentuata dall'esperienza che abbiamo del passato, sia per conoscenza personale, che insegna a ciascuno di noi quanto costi non prevedere e sbagliarsi sulle possibili conseguenze, sia per esperienza generale della storia, che ci istruisce sull'importanza di taluni avvenimenti le cui conseguenze hanno avuto un'influenza determinante sullo sviluppo dell'umanità o di una particolare collettività, mentre altri, che sembravano decisivi, hanno avuto solo una modesta portata. La nostra società non ha ancora finito di pagare le conseguenze della rivoluzione sovietica, né quelle della rivoluzione francese e ancor meno quelle derivanti dalla costituzione delle unità politiche negli Stati nazionali. Non è solo la dimensione dei problemi a turbare la mente, ma anche la loro interpreta-

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zione: qual è il vero legame tra un avvenimento o un'azione e i suoi effetti, soprattutto dato che quest'ultimi ispirano a loro volta altri avvenimenti e azioni? Si tratta di una semplice relazione di causaeffetto oppure di un'evoluzione che occorre comprendere senza tentare di stabilire rapporti diretti tra i fenomeni che si susseguono, o meglio ancora di un'influenza - impieghiamo questo termine in mancanza di uno più adeguato - di cui è difficile precisare le modalità di intervento? Tutte le interpretazioni positive della storia, il valore della filosofia della storia, come pure i fondamenti della sociologia, dell' etnologia, e delle scienze umane in generale sono, in questo modo, messe in discussione. A noi basta segnalare in modo sommario questi problemi di epistemologia, senza cercare di trovarvi una soluzione, e ritornare all'analisi dell'azione in quanto tale. Non si desidera mai un obiettivo in sé e per sé, ma in virtù delle ripercussioni che può avere su altre imprese o progetti. Dunque, non esiste affatto un obiettivo erratico o chiuso in se stesso, esso è sempre inserito in un insieme più o meno coerente di altri obiettivi e nella serie delle conseguenze. Non esiste nemmeno un obiettivo definitivo che costituisca il coronamento e il termine di tutte le possibili attività umane. Per quanto riguarda il nostro mondo umano, nulla mai ha principio in modo assoluto e nulla mai ha termine. Come la vita, tutta l'umanità passa di azione in azione, di speranza in speranza, di evento in evento e di conseguenza in conseguenza. In politica, in particolare, gli obiettivi concreti (guer-

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ra, pace, alleanze, misure sociali, economiche, finanziarie) hanno senso solo in relazione al loro effetto possibile e previsto sul fine formale del politico, sebbene possano anche favorire le ambizioni personali o il consolidamento di un partito. Quanti si adoperano a costruire l'unità europea non la desiderano in sé e per sé, ma per le conseguenze di ordine politico, militare, economico, sociale e culturale che si prefigurano. Lo stesso dicasi di coloro che lottano per l'instaurazione del socialismo, del comunismo o di qualsiasi altro stato politico e sociale. Tuttavia, come abbiamo già detto, il concatenamento delle conseguenze reali è ben lungi dal rispondere alla logica della teoria, e colui che raggiunge l'obiettivo che considerava un bene in sé passa in seguito di delusione in delusione, poiché talune conseguenze reintroducono il male che egli credeva di aver dominato. Due sono i tipi di conseguenze: quelle prevedibili e quelle imprevedibili. Tra le prime, vi sono quelle che sono state effettivamente previste e che costituiscono la ragione dell'agire e del volere un determinato obiettivo, e quelle che non sono state previste per negligenza, per fretta o per imprudenza e che, quando si manifestano, rischiano di disorientarci allo stesso modo delle conseguenze imprevedibili. La previsione è una questione di calcolo ragionato e, al contempo, di intuizione fondata sull'esperienza umana generale, tenuto conto della natura dell'obiettivo a cui si tende, dei dati di partenza, dei mezzi disponibili, dell'eventuale reazione dell'avversario e, all'occorrenza, della gradazione dei mezzi per spez-

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zare la resistenza, del temperamento, dell'intelligenza e della formazione dei collaboratori e, infine, della situazione nuova che il risultato deve creare. Non dobbiamo considerare in questa sede la fortuna e il caso, che non sono valutabili, sebbene, a cose fatte, colui che agisce tenda a metterli nel conto delle sue previsioni in caso di successo e di lamentarsene in caso di sconfitta. In genere, quando le conseguenze sfavorevoli sembrano, secondo la nostra valutazione, prevalere sugli esiti favorevoli, rinunciamo all'impresa, salvo nel caso disperato in cui ci affidiamo al rischio o alla fatalità, a meno che non intravediamo una possibilità di salvezza al di là delle conseguenze immediatamente sfavorevoli. Anche in questo caso interviene il principio fondamentale della previsione del peggio. Infatti, non esistono azioni le cui conseguenze siano completamente fauste o infauste. Le ragioni dell'azione ci obbligano a farci carico anche di quelle che non vogliamo. La libertà di manovra, dunque, non è mai completa; occorre anche fare i conti con le necessità, le sorprese belle o brutte che bisogna saper sfruttare. Non siamo nemmeno completamente padroni della logica dei concetti. Il capitalismo liberale è moralmente condannabile inteso come sfruttamento dell'uomo, ma nei Paesi dove rappresenta la base del sistema economico regna, in genere, una libertà politica piuttosto estesa. Al contrario, il socialismo, i cui fini sono a prima vista più seducenti, tende, nella misura in cui resta fedele alla logica del suo concetto, a limitare le libertà politiche, dato che un sistema di

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natura dirigista è portato per vocazione a procedere attraverso regolamentazioni, coercizioni e misure imposte dall'alto. In altre parole, il socialismo è, per sua stessa natura, una dottrina autoritaria. «È così, scrive N abert, che le idee socialiste o un certo ideale di società comunitaria possono perpetuarsi in istituzioni che in un primo momento sembreranno essere un successo e che ben presto si riveleranno un fallimento, non appena sarà chiaro che non fanno che coprire, talvolta esasperare, sentimenti o tendenze che erano da cambiare nella missione stessa dell'idea. E non esiste forse sconfitta più grave di quella che si accompagna all'ipocrisia richiesta alle coscienze, quando queste non acconsentono a prendere le distanze dalle idee che continuano a professare né dalle istituzioni che dovrebbero passare per la realizzazione di quelle idee e che non fanno che proteggere il rifiuto delle uniche trasformazioni che potrebbero essere validamente prese in considerazione a beneficio dell'efficienza e del valore delle idee». 28 Esiste una logica interna ad ogni sistema economico, politico o religioso, di cui occorre tener conto nella valutazione delle conseguenze prevedibili così come dei mezzi impiegati o della capacità di resistenza dell'avversario. Analogamente, si commetterebbe un grosso errore se si trascurasse la distinzione tra ciò che è possibile e ciò che è permesso. Non esistono né civiltà né collettività prive di divieti, che, di volta in volta, costituiscono, insieme alle opere proprie a ciascuna di esse, una delle caratteristiche della loro peculiarità e della loro originalità. Tuttavia, date le pas-

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sioni e le ideologie, l'interpretazione di questi divieti non è mai univoca. Così l'opinione mondiale - per non usare la magniloquente espressione «coscienza internazionale» - chiude gli occhi davanti a crudeltà commesse da talune collettività, ma denuncia e strepita per atti analoghi di cui si sono resi colpevoli altri Paesi. Essa non teme le contraddizioni e distribuisce gli elogi e i rimproveri, la tolleranza e i divieti, seguendo amicizie ed inimicizie effimere, salvo ritrattare a seconda che i suoi portavoce trovino un interesse immediato e circostanziale in questa o quell' operazione. Essa può dunque esercitare una pressione che restringe l'area del possibile, può creare ulteriore confusione e servire qualsiasi tipo di manovra equivoca. In poche parole, l'opinione mondiale biasima, disapprova e approva nella confusione e secondo l'umore, e così, senza lasciarsi sopraffare, occorre tenerla presente nel calcolo delle conseguenze e farla intervenire nelle previsioni per sfruttarla, per allontanarla o anche per blandirla. Le conseguenze imprevedibili sono logicamente, ma non materialmente, della stessa natura: esse costituiscono l'elemento assolutamente contingente di qualsiasi azione in quanto seguono il caso, il quale, è vero, si può valutare statisticamente in certe circostanze con il calcolo delle probabilità. Tuttavia, non è possibile prevedere un terremoto o una catastrofe naturale o la comparsa di un'epidemia, anche quando si siano prese le normali precauzioni igieniche. Come le conseguenze prevedibili, quelle imprevedibili possono essere favorevoli o sfavorevoli, laddove l'essenziale per colui che agisce è

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saperle affrontare con maggiore prontezza dell'avversario e quindi sfruttarle. In ogni caso, è il loro possibile intervento che fa sì che l'incertezza aleggi su ogni impresa, anche su quella preparata nel migliore dei modi. Nondimeno, non si giunge in genere a dominarle se non facendosene carico in modo risoluto, poiché è una verità raramente smentita che il caso arride solo a chi ha fatto le previsioni più corrette adottando grande flessibilità di metodo. Nel destino entrano, in parte, i punti deboli del nostro carattere. Non si tratta, dunque, solo di sfruttare i mezzi, ma di trarre vantaggio dalle conseguenze. Comunque sia, il senso della previsione rimane un fattore determinante per qualsiasi impresa e qualsiasi successo, a condizione di sapere farsi carico di tutte le conseguenze, comprese quelle non volute. È senza dubbio quest'atteggiamento che rende grande l'uomo politico e la sua opera. Conviene, ~nque, non soccombere all'ironia delle conseguenze e non lasciarsi sottomettere da ciò che Max Weber chiama le «potenze diaboliche» dell'irrazionale che animano ogni azione. Non è vero che dal bene discende solo il bene, che le cose utili e buone sono moralmente sante e belle, non è vero che la verità è sempre opportuna e ineccepibile e non è vero che le conseguenze della pace sono tutte pacifiche, che quelle di un regime di libertà e di eguaglianza sono tutte garantiste, quelle della guerra sempre nocive, che la realizzazione dei nostri ideali costituirà necessariamente un beneficio per l'umanità. Al contrario, politicamente parlando, è vero che in genere il vincitore ha ragione

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e il vinto ha torto. Poco importa se il vincitore o il vinto rappresenta un regime democratico, tirannico, monarchico, socialista o comunista. Qui usiamo, ovviamente, il linguaggio della potenza, non quello dell'idea. In effetti un'idea è invincibile, poiché, qualunque essa sia, si ripresenterà sempre. La vittoria su Hitler non è stata una sconfitta dell'idea di dittatura; questo genere di regime continua a trovare adepti nel mondo. Indipendentemente dalla loro politica di potenza mascherata da egualitarismo democratico, fu un'illusione degli autori del trattato di Versailles l'aver creduto che l'instaurazione della democrazia in Germania assicurasse di per sé un lungo periodo di pace. Non si rendevano conto che per essere stabile una democrazia deve essere accettata dalla popolazione, proprio perché si tratta di un regime democratico. In fondo, anche se la democrazia regnasse universalmente in tutti i Paesi del mondo, non potrebbe conquistare tutti gli animi né si entrerebbe necessariamente in un'era pacifica, in quanto un tale regime è in grado di adattarsi ad ogni forma di potere: liberale, tirannico, plebiscitario, aristocratico, ecc. Del resto, la politica è continuamente alle prese con le conseguenze e con le conseguenze delle conseguenze, poiché non c'è azione conclusa o che termini col raggiungimento dell'obiettivo. Ogni azione è al tempo stesso reazione e interazione. L'inazione, la debolezza o l'astensione subiscono le stesse conseguenze spiacevoli o disastrose del ricorso ai mezzi estremi. Lo stesso vale per la generosità, la carità e le altre virtù. È la legge del mondo umano: ogni nuova

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impresa si inserisce in una serie di conseguenze derivanti da imprese precedenti e, in virtù del suo risultato, causerà una nuova serie di conseguenze. Ecco perché successi immediati possono rivelarsi alla lunga, nei loro effetti, dei fallimenti e, viceversa, dei fallimenti possono rivelarsi delle vie di salvezza. Non esiste un miracolo universale in grado di purificare la storia passata o di discolpare quella futura grazie a un esorcismo delle conseguenze. 10. La scelta È a proposito degli obiettivi, cioè dei mezzi e delle conseguenze, che intervengono le opzioni vere e proprie, le quali si rapportano al fine specifico del politico. È unicamente a questo livello che si delibera, che si decide realmente e che si può parlare della «politica di un governo». Dati i presupposti, il fine specifico del politico rimane immutabile e non potrebbe costituire da solo l'oggetto di una scelta. In effetti, non c'è nulla da scegliere tra la sicurezza e l'insicurezza, tra la concordia e la discordia, bensì tra gli obiettivi che meglio si addicono all'una e all'altra. Il fatto che certe scelte provochino discordia non significa che si desideri la discordia in sé, anche se a volte la si ritiene utile. Ci si può solo stupire, dunque, del fatto che la maggior parte delle analisi teoriche della nozione di scelta finiscano col considerarla solo come il raggiungimento di una deliberazione e l'inizio di un progetto, mentre la scelta si fa sempre all'interno dell' azione stessa e in un determinato contesto, il che significa

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che essa rappresenta una decisione concreta e diretta, poggiante su una realtà oggettiva, quella della messa in opera dei mezzi in funzione di una determinata situazione, con l'intento di produrre certe conseguenze destinate a consolidare lo scopo del politico. È possibile scegliere solo se esiste realmente qualcosa da scegliere, il che presuppone una pluralità di possibilità. Dal momento che il fine del politico non può essere posto in alternativa a se stesso, rimane costante e formalmente identico, qualunque sia la collettività politica storica; è il fine che determina le scelte. In quanto tale, esso è l'intento cui mirano le scelte segrete e gli obiettivi. A dire il vero, nessuna azione costituisce mai l'oggetto di una scelta iniziale unica, ma si compone di una serie indefinita di opzioni fino al raggiungimento dell'obiettivo: occorre scegliere continuamente, quando si decide di fare intervenire un nuovo mezzo o di utilizzare altrimenti le sue risorse, quando sorge una difficoltà imprevista da superare, quando occorre rimediare a una conseguenza che rischia di annullare la portata del risultato. Scegliere non significa semplicemente munirsi di ragioni o di motivi, né esprimere una preferenza, bensì dirigere la volontà verso un oggetto, risolvere o piuttosto tentare di risolvere una difficoltà; significa, per essere esatti, agire. Non si può definire scelta una preferenza che non si trasformi in una decisione concreta dando inizio a una serie di conseguenze che comportano a loro volta nuove scelte. Così, un programma politico non è che un insieme di preferenze; la scelta è altrove, e talvolta accade che vada contro il programma.

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Come si potrebbe parlare delle conseguenze di una preferenza dal momento che solo idealmente essa gioca con le ragioni e i motivi? Al contrario, la scelta è spesso penosa e talvolta tragica perché l' opzione conduce a un certo numero di conseguenze che urtano le nostre preferenze, o perché i termini di un'alternativa possono essere entrambi giustificati da valide ragioni. Prendiamo un esempio di portata politica non straordinaria: il discorso che Abel Ferry tenne durante la seduta del Consiglio dei ministri del 16 febbraio 1915. Nel corso di un Consiglio precedente si era deciso di approvvigionare, tramite un comitato neutrale, la popolazione francese e belga delle regioni occupate dalle truppe tedesche. Questo progetto intendeva alleviare lo stato di ristrettezza di questi abitanti, dovuto al blocco di cui la Germania era oggetto al fine di indebolire, con la carestia, il suo potenziale di resistenza. Questi due milioni di Francesi e cinque milioni di Belgi erano, in fin dei conti, degli ostaggi, e, a rigore, i Tedeschi potevano trattarli come «bocche inutili». Sembrò che un simile approvvigionamento potesse avere conseguenze pericolose, in quanto i Tedeschi avrebbero potuto rivolgersi agli Americani e domandare se l'umanità non fosse solo una e se le donne e i bambini tedeschi non ne facessero parte allo stesso titolo delle donne e dei bambini francesi e belgi. Il Consiglio dei ministri rinunciò al suo progetto di aiuto. La scelta era fatta. Abel Ferry comprese che sarebbe stato sconveniente prestarsi al gioco del sentimentalismo e concluse la sua nota dicendo: «Ho la mia parte di responsabilità

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in questa decisione, ma preferirei tornare di nuovo all'8 ottobre a Fresnes-en-Woevre! In battaglia, la decisione era più leggera e il cuore più gioioso che qui». 29 Non c'è dubbio che tutti i ministri francesi avrebbero preferito venire in soccorso dei loro compatrioti (i motivi per farlo non sarebbero mancati) e tuttavia la loro decisione fu un'altra. Le preferenze non nuocciono a nessuno, restano a livello d'opinione; la scelta al contrario si traduce in atti. Tuttavia, non bisogna concludere che tutte le scelte abbiano il compito di risolvere la questione in modo categorico o di esprimersi ogni volta in decisioni secche e brusche. In realtà, la maggior parte delle scelte politiche sono equivoche e si presentano sotto forma di compromesso. In un mondo dai molteplici interessi, spesso contrastanti, il metodo unilaterale delle decisioni che si pronuncia autoritariamente farebbe presto a infrangere la concordia e la pace interna e a turbare le relazioni internazionali. La vita in comune non è possibile senza una sistemazione amichevole, senza accordi, senza accomodamenti talvolta confusi o senza concessioni reciproche. Dobbiamo dar ragione a Georg Simmel che considerava il compromesso come una «delle grandi scoperte dell'umanità». 30 Il più delle volte i diritti e gli interessi dei diversi gruppi e associazioni sono parimenti legittimi. Inoltre, ogni società è composta da diverse generazioni, ciascuna con i suoi problemi, i suoi bisogni, le sue aspirazioni e i suoi desideri. Sarebbe assurdo concepire il criterio di divisione degli Stati in base al1' età e preconizzare un'unità politica composta di soli

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neonati, un'altra di soli bambini, altre ancora di soli adolescenti, di soli giovani, di soli uomini di età adulta, di soli anziani. Allo stesso modo, sarebbe ridicolo contrapporre una generazione all'altra o privilegiare sconsideratamente l'una rispetto alle altre. Alcuni possiedono sapere ed esperienza, altri entusiasmo e audacia, senza che sia possibile dire che una di queste qualità sia assolutamente superiore alle altre. Pertan, . ' . to, e necessario trovare un armoma o quantomeno un accordo tra questi interessi antagonistici o le fantasie degli uni e le speranze degli altri, e tra le volontà che risultano dalla differenza di età, di professione e di adattamento. Senza compromesso più o meno stabile, fondato sulla gerarchia delle urgenze e delle priorità, la vita collettiva diventa impossibile. Ciò non significa che il compromesso equivalga all'opportunismo o al giusto mezzo. Infatti, occorre spesso molto più coraggio per risolvere i conflitti e le divergenze derivanti da interessi concreti opposti che per dare la propria adesione preferenziale ad un programma teorico. Il rifiuto di qualsiasi compromesso conduce o all'opportunismo, in quanto si è portati per forza di cose a pensare seguendo princìpi che sono in contraddizione con quelli che orientano la vita pratica, oppure al totalitarismo, che afferma la prerogativa di un particolare interesse di classe, di razza o di intelligenza sugli altri. Chiunque rifiuti la differenza di età, la legge cioè del tempo biologico, oppure la divergenza degli interessi e delle aspirazioni nega la libertà, in quanto è portato a proclamare l'egemonia di una categoria sociale.

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È anche possibile che vi siano più virtù e potenza nel compromesso che nella purezza. Sarebbe non solo sleale, ma anche inopportuno da parte di un governo favorire un gruppo di interessi legittimi a scapito di altri, dato che il suo ruolo è quello di stabilire un ordine razionale di coesistenza o di gerarchia per il quale il compromesso risulta il mezzo di realizzazione più idoneo. Tale ordine può assumere diverse forme e può consistere in una sistemazione amichevole delle questioni o in concessioni reciproche, in negoziazioni; può anche dipendere dall'arbitrato di un terzo (limitato alla difficoltà in questione in quanto, nel momento in cui si sottopongono tutti i problemi politici ad un tale arbitrato, il governo si priva delle sue prerogative a vantaggio dell'arbitro e di un'autorità paragiuridica che svolgerebbe le funzioni del governo - la qual cosa è ben lungi dal rappresentare una soluzione valida). Quanti screditano il compromesso lo fanno più per vanità che per riflessione, più per stoltezza che per intelligenza. Inoltre, i governi autoritari e rivoluzionari fanno più o meno uso, nella pratica quotidiana, delle mezze misure utilizzate dagli altri. È finanche ridicolo vituperare il compromesso e caldeggiare contemporaneamente una politica di negoziazioni: queste ultime sono solo una specie di compromesso, unico inganno che ne permette la realizzazione. 31 Da ciò non deriva che tutti i compromessi siano validi; non si tratta nemmeno di farne l'elogio, ma di comprendere la loro necessità in politica prima di parlare della loro utilità in determinate circostanze. Saper fare dei

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compromessi e rifiutarne altri è una questione di potenza e di autorità. Solo una politica velleitaria rinuncia a 9-u~lu?-que compromesso per cadere nelle comprom1ss1om. Quando occorre risolvere un problema o una difficoltà con una decisione netta e quando con un compromesso? Non esistono regole generali, poiché la scelta dipende dalle circostanze e dalla situazione e anche dal temperamento personale del responsabile politico. Anche in questo caso si tratta di una questione di perspicacia, di intuizione, di abilità e di opportunità. Cattivi compromessi valgono talvolta più di una decisione inopportuna e inflessibile, ma una politica fondata esclusivamente su mezze misure finisce alla lunga con l'infastidire, poiché non si può sempre cercare di soddisfare tutti. In certe condizioni, nulla irrita tanto quanto l'assenza di decisione, ma in altre la decisione può diventare esasperante e funesta se presa intempestivamente. È inutile proseguire l'analisi dato che, giunta a questo punto, può solo perdersi nell'empirismo della casistica e dell' elencazione di esempi. 11. La competenza

È, infine, a proposito degli obiettivi che si può manifestare la propria competenza politica e che la responsabilità diventa, per usare un termine in voga, «autentica». Ciò è talmente ovvio che a malapena necessita di una spiegazione. Nella sua immaginazione, ogni giovane o studente può credersi chiamato a di-

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ventare un grande poeta, un grande artista, un grande filosofo, un grande storico o un grande biologo del futuro, ma è scrivendo i suoi poemi, realizzando un'opera che egli dimostra il suo genio, il suo talento o la sua mediocrità. Ogµi diplomato si ritiene un grande pedagogo (felice illusione!), ma non è un buon professore e un buon educatore se non davanti ai suoi allievi. Essere un teorico dell'economia politica è una cosa, dirigere con efficacia e autorità un'impresa è un'altra. Lo stesso ragionamento vale per la politica. Non è imbastendo i punti di un programma che si manifestano le proprie capacità di uomo politico. L'aspirazione alla libertà, alla pace, all'uguaglianza non è né un segno né un criterio di competenza. Quanti insuccessi hanno avuto inizio da buone intenzioni! Nessuno discute la nobiltà dei fini dei rivoluzionari del 1848, ma, come ha osservato Tocqueville senza alcuna acrimonia nei suoi Souvenirs, essi si sono scavati la fossa per incapacità, assenza di unità e di autorità e per mancanza di carattere. La competenza si misura in sagacia, abilità e intelligenza nell'utilizzo dei mezzi materiali, o nella previsione delle conseguenze, non nella perfezione dei fini. Ribadiamo ancora una volta che, politicamente, si ha successo o si fallisce solo sul piano degli obiettivi. Se consideriamo le cose dal punto di vista della competenza, occorre distinguere due tipi di successo che chiameremo il successo della popolarità e il successo della gloria. Il primo consiste nella riuscita passeggera dell'arrivista o del parvenu che in genere si ottiene con mezzi estranei all'attività propria del

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personaggio, con la pubblicità, lo scandalo o l'esibizione di doti fisiche. È risaputo che certi artisti o letterati hanno acquisito una celebrità temporanea non per i loro meriti intrinseci, per talento, genio artistico o letterario, ma grazie a espedienti o stravaganze che con l'arte hanno solo un lontano rapporto. Il successo della gloria, al contrario, si estende nel tempo e nei secoli, sopravvive alla persona e talvolta acquista tutta la sua risonanza solo dopo la morte: esito della fama che consacra il personaggio illustre. Questo successo è fondato sulla competenza poiché corona la maestria positiva e la superiorità in una o, talvolta, in più attività determinate. Questa differenza non è peculiare della nostra epoca ed è sufficiente avere qualche interesse per la storia aneddotica per rinvenirla in tutti i tempi. Pradon fu popolare in un dato momento, ma è a Racine che appartiene la gloria. A differenza di Chamfleury, Stendhal non fu mai di moda nel corso della sua vita, ma divenne uno scrittore illustre. Questa differenza è ugualmente rintracciabile in qualsiasi altro tipo d'attività, anche in economia e in politica. I generali Boulanger e MacCarthy hanno conosciuto un successo di popolarità per ragioni che erano in buona parte estranee alla politica propriamente detta e che, in ogni caso, non si basavano affatto sulla competenza. Questo non significa che la gloria non possa cominciare con la popolarità, ma la popolarità non ne rappresenta il criterio. In politica soprattutto, la popolarità precede la gloria, poiché si tratta di un'attività fatta di istanti e senza un compimento definitivo, dato che lo scopo

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che le è proprio non può mai essere raggiunto completamente, ma solo nei limiti degli obiettivi e della forza posseduta. Il fatto che ci siano stati uomini che in politica hanno conosciuto solo la fama non deve impedirci di riconoscere la necessità della popolarità immediata che annuncia la gloria futura dell'uomo politico. Pur non svolgendosi sempre alla luce del sole, l'attività politica rimane nondimeno spettacolare, sia che si assista alla caduta di grandi personaggi o di ministri, sia che ci si appassioni per le elezioni o che ci si preoccupi per le minacce del nemico. I suoi risultati sono quasi immediatamente percepibili poiché la situazione economica, finanziaria, diplomatica o militare permette di capire rapidamente e senza troppe riflessioni se gli obiettivi sono stati conseguiti o meno. Non è necessario, ad esempio, essere un esperto di economia per sapere se il salario è sufficiente o per notare il rincaro dei prezzi. La politica interessa direttamente tutta la collettività e perciò esige che si accordi almeno un minimo di fiducia al potere in carica (laddove questa fiducia rappresenta già da sola una riuscita), anche se non si è in grado di valutare tutte le conseguenze future delle decisioni prese oggi. Si può non essere abbastanza competenti per apprezzare l'opera di un artista e non possedere le cognizioni necessarie per comprendere una scoperta scientifica e dunque disinteressarsene o seguire l'opinione dominante, ma ciascun membro della collettività politica è direttamente interessato ai suoi beni e alla sua vita, in caso di guerra, di discordia civile o di disordini interni. Così si spiega come la ricono-

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scenza del Paese vada immediatamente a colui o a coloro che, per la loro competenza nella realizzazione degli obiettivi destinati a consolidare il fine specifico del politico (talvolta non ne danno, è vero, che una impressione illusoria), riescono a preservare la pace interna e il benessere e a parare i pericoli provenienti dall'esterno. Si comprende anche perché la massa rimanga insensibile alle critiche rivolte al potere fino a che riterrà la collettività efficacemente difesa e il bene comune gestito nella quasi generale soddisfazione. Questo conservatorismo è il corollario dell'apprezzamento della competenza nell'azione concreta, dato che le masse diffidano della critica che, in ultima analisi, considerano competente solo nel criticare. Un popolo che cessasse di essere conservatore non potrebbe costituire uno Stato. 12. Responsabilità e colpevolezza

Così come non è possibile dare prova della propria competenza politica se non realizzando con successo gli obiettivi, e non con semplici dichiarazioni sui fini, allo stesso modo solo a questo livello esiste una vera responsabilità. A rigore, una collettività può essere ritenuta responsabile delle disgrazie che l'affliggono per aver scelto male i suoi capi o per aver tollerato certe manovre. Di fatto, una tale responsabilità non è definibile né giuridicamente né moralmente né secondo a~cun altro criterio, soprattutto dal momento che un'unità politica non agisce mai come tale, ma esistono dei responsabili che agiscono

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a suo nome. In diritto, una collettività politica è sempre minorenne. Quest'elemento, politicamente fondamentale, non è stato compreso da Karl Jaspers, il quale insiste sulla responsabilità che il popolo tedesco si sarebbe assunto al momento dell'ultima guerra e chiede ai suoi compatrioti di compiere al riguardo uno sforzo di chiarezza. 32 Questo consiglio è difficile da seguire in quanto questa colpevolezza è talmente diffusa, e intessuta di tanta ignoranza, negligenza, omissione, paura, viltà, sottomissione servile, in poche parole di un comportamento così negativo la cui imputazione è quasi impossibile da determinare, che alla fine bisognerebbe mettere in discussione tutta la storia del popolo tedesco e, attraverso di essa, la storia dell'umanità. Ora, a questa stessa conclusione conduce anche l'affermazione, divenuta banale: ciascuno di noi è responsabile di una carestia che si è abbattuta sulla Cina. 33 Non è il caso di discutere qui la portata metafisica della tesi di Sartre laddove afferma l'esistenza di una totale solidarietà umana, di modo che, in virtù della mia responsabilità, io divento depositario della dignità umana intesa come concetto e non come fine, e laddove questa responsabilità assoluta presuppone la negazione, parimenti assoluta, del caso e di qualsivoglia «incidente». Non si tratta nemmeno di negare la relazione tra la responsabilità politica e la metafisica, ma dal punto di vista fenomenologico, che è il nostro, si tratta di prendere coscienza del fatto che, se ogni società in quanto tale è organizzata politicamente, economicamente e giuridicamente, non è

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possibile trasportare questa tesi «tale e quale» in ambito sociale, dove l'uomo utilizza la violenza e l'ingiustizia, così come vuole il diritto, la libertà e la giustizia. In altre parole, in una società organizzata (e non si ha società se non a questa condizione) bisogna poter determinare politicamente la responsabilità, altrimenti la vita in comune diverrebbe impossibile. Dobbiamo dunque domandarci se esiste una simile responsabilità e se è da considerarsi collettiva. Possiamo dire che la società politica è responsabile delle sue sciagure per aver scelto male i suoi capi o per aver tollerato azioni disumane? Di fatto, una consultazione elettorale, ad esempio, non è una decisione nel senso stretto del termine, essa indica solamente, con il gioco della maggioranza e della minoranza, quale uomo o partito sembra più idoneo ad assolvere il compito corrispondente alle esigenze del bene comune (noi supponiamo che l'elezione sia libera, e non ufficialmente truccata per ratificare la decisione di un partito unico). La maggioranza può sbagliarsi e tutta la collettività subirà le conseguenze di quest'errore. Si tratta veramente di responsabilità collettiva nel senso di colpevolezza collettiva? È possibile assimilare concettualmente l'errore di valutazione a una colpa? Dove c'è organizzazione, ci sono anche regole del gioco. Sarebbe irragionevole identificare l'errore di giudizio dell'elettorato nell'applicazione di una regola ad una colpa morale. Non è il corpo elettorale che fissa gli obiettivi né che decide al riguardo: esso dà fiducia all'una o all'altra formazione politica che può non essere all'altezza

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del suo compito. Ogni scelta politica comporta una parte d'incertezza, perché l'uomo non dispone di mezzi assolutamente sicuri per risolvere un problema politico, e anche perché non vi è mai una soluzione definitiva, in quanto ogni ordinamento solleva nuovi problemi o conflitti. La responsabilità, intesa come colpevolezza collettiva, molto semplicemente non tiene conto dell'esistenza del governo che è incaricato dell'azione politica e lo tratta come un'entità trascurabile o un'istituzione di pura forma; si finisce così per porre l'associazione politica sullo stesso piano di qualsiasi altra associazione. Se una carestia ha colpito la Cina, il governo cinese non ne porta alcuna responsabilità altrimenti altrettanto responsabili ne saremmo noi stessi. In queste condizioni, perché i cinesi avrebbero bisogno di un governo o di una rivoluzione? Una simile concezione non solo mette la politica teoricamente tra parentesi, ma la nega arbitrariamente. Esiste una colpa collettiva nel caso di atti disumani, di torture, di estorsioni e di altre procedure selvagge e brutali? Lasceremo da parte l'aspetto polemico (e, in quanto tale, eminentemente politico) della questione, quando la denuncia delle torture è spesso al servizio di una politica basata sulla distinzione amico/nemico. La tesi della colpevolezza collettiva solleva in realtà il problema della violenza: quest'ultima è inerente alla politica? Fenomenologicamente lo è. È esclusivamente in nome di un fine apolitico che è possibile condannarla, ma non in nome della politica stessa. Constatare questa correlazione tra

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violenza e politica non significa, tuttavia, come abbiamo già visto, che la violenza sia giustificata. Al contrario, tutti gli sforzi dell'uomo devono tendere a limitare il suo dominio in nome di princìpi apolitici, proprio in quanto la politica non è la sola attività umana e si ha uno scambio continuo tra l'arte, la religione, la scienza, la morale, l'economia e la politica - la qualcosa significa che ciascuna di queste essenze limita e modera l'altra. Nel momento in cui si subordinano tutte le attività alla politica, si è inevitabilmente portati a giustificare la violenza, poiché la politica diviene, in tal caso, il fine e il criterio di riferimento di queste altre attività. Seguendo un'altra strada, la tesi della colpevolezza collettiva finisce anch'essa col giustificare, almeno direttamente, la violenza e con l'ostacolare la sua limitazione. In effetti, se ciascuno di noi è responsabile degli atti di barbarie commessi da altri, non si vede come una vittima della Gestapo possa ancora essere considerata una vittima: allora, o il carnefice è a sua volta una vittima oppure l'uno e l'altro sono parimenti colpevoli. Perché allora opporsi ad un regime della Gestapo, perché combattere i metodi del nazismo? Perché commuoversi per l'esistenza dei campi di concentramento sotto il regime stalinista? Se io sono responsabile assieme a tutta l'umanità di un atto di violenza, non vi è più ragione di farne colpa ai capi che l'hanno ordinata o tollerata, in quanto tutti gli uomini ne sono colpevoli - a meno di voler istituire una casistica del grado di colpa. Per riprendere l'esempio della carestia in Cina, la popolazione cinese, in ultima analisi, sarebbe

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altrettanto responsabile della sua disgrazia di quanto lo sono i suoi capi: essa meriterebbe di morire di fame. 34 Dal punto di vista della colpa collettiva non si possono più fare distinzioni tra l'affamato e l' affamatore, tra il tiranneggiato e il tiranno, tra il governato e il governante, tra l'amico e il nemico, tra il professore e l'allievo, tra il padrone e l'operaio. L'assurdità di questa tesi discende da un'interpretazione unilaterale della responsabilità intesa unicamente nel senso negativo di colpevolezza, mentre essa possiede anche un aspetto positivo, cioè il merito. Se ciascuno di noi è responsabile assieme a tutta l'umanità di una carestia in Cina, non lo è anche della prosperità americana, della superiorità degli sputnik sovietici o dell'opera compiuta dai filantropi? Non è arbitrario eguagliare la totalità degli uomini nella colpa collettiva e imputare loro tutti i crimini, le torture e i massacri commessi nel mondo? Perché non eguagliarli, in virtù della responsabilità per il merito collettivo, attribuendo loro ugualmente tutto quello che si fa nel mondo in termini di bene, generosità e carità? Agli uomini capitano disgrazie ma anche eventi felici. Perché renderli responsabili unicamente delle prime e non dei secondi? E vero, la nozione di merito non può essere «democratizzata» come quella di colpa, in quanto ci rimanda alle nozioni di sforzo, di azione, di volontà e di competenza. In ogni caso, non ci sarebbe nulla da obiettare alla nozione di responsabilità collettiva se la si intendesse al tempo stesso come colpevolezza e come merito, poiché l'umanità non commette solamente errori, ma si onora

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anche di qualche virtù e di un po' di dignità. Se si va ancora più a fondo nel problema, si può vedere come questa tesi poggi su una confusione tra fallimento e colpa. Questo è particolarmente evidente in Jaspers, il quale pretende che il popolo tedesco si assuma la sua colpa e la sua impotenza: a suo avviso, per il fatto stesso di «rendersi garante» dello Stato, il cittadino deve pagare per i propri errori e al tempo stesso per quelli dello Stato (c'è in effetti, «colpa di tutti»), laddove il giudice può essere solamente il vincitore. Sebbene l'uomo tenda ad assimilare il fallimento alla colpa, occorre nondimeno distinguere queste due nozioni a livello concettuale, come ha fatto Max Weber in Politik als Beruf 35 Il fallimento è il segno di un'impotenza, imputabile a errori tecnici e metodologici, a negligenze, a impreparazione, a mancanza di discernimento, di temperamento e di audacia e all'intervento di eventi imprevedibili che non si è stati in grado di dominare; non è in sé il marchio di una turpitudine morale, altrimenti occorrerebbe vedere nel successo il criterio della bellezza e della superiorità etica. Che politicamente il vincitore faccia la legge nel tentativo di far gravare sul nemico anche la degradazione etica è una cosa, che abbia moralmente ragione è un'altra. Ora, i sostenitori della tesi della colpa collettiva sono in genere anche ammiratori del successo, a patto che si richiami alla giustificazione pseudoetica della dinamica di uno dei fini della storia. Con questo tipo di giustificazione la confusione è totale. In effetti, la giustificazione della colpevolezza collettiva è in genere

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fondata sul principio della corruzione dei mezzi utilizzati (soprattutto dall'avversario ideologico), mentre quella del successo si richiama alla grandezza del fine storico cui mira la parte in causa. Ma dove si colloca allora la responsabilità politica? Questo è il problema da chiarire. 13. La responsabilità politica Prima di tutto, non esiste responsabilità al livello del fine del politico, poiché è nella natura di ogni collettività cercare di proteggersi contro il nemico e le minacce esterne o interne e cercare di essere potente per poter difendersi meglio. Pertanto, sarebbe ridicolo rimproverare a un uomo di Stato, sia dal punto di vista etico che dal punto di vista politico, di adoperarsi per la grandezza della nazione di cui è responsabile. Il comunista al potere non transige su questo punto più di quanto faccia il capitalista o il sostenitore di qualsiasi altra dottrina. Non si è mai visto, e senza dubbio mai si vedrà, una collettività in piena espansione rinunciare spontaneamente alla propria potenza e alla propria indipendenza per amore della giustizia e della pace universale, se le altre collettività continuano ad obbedire alle leggi ordinarie della politica, poiché anche una federazione di Stati non mira che a consolidare e a rafforzare, tramite l'unione, la potenza comune e ad assicurare meglio la protezione di ciascun membro. Esiste una responsabilità al livello dei fini? Sarebbe irragionevole accusare Stalin di aver creduto al comunismo e ac-

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cusare Turgot, allo stesso modo, di aver voluto far trionfare i princìpi della fisiocrazia, o i rivoluzionari del 1830 di aver combattuto per le libertà pubbliche. Saremmo noi stessi colpevoli di non aver ancora creato lo Stato mondiale unico nel quale regni la pace perpetua, l'uguaglianza perfetta, la libertà assoluta e la giustizia universale? In realtà, nessuno di questi concetti è univoco: un comunista intende per libertà tutt'altra cosa rispetto a un democratico liberale e nessuna collettività politica concepisce la pace in modo esattamente identico alle altre collettività. Sebbene in genere gli uomini aspirino alla libertà, alla giustizia e alla pace, nondimeno si trovano in disaccordo tanto sul contenuto di ciascuna di queste nozioni quanto sui mezzi atti a promuoverle, al punto che la lotta politica nasce proprio da queste diversità. D'altronde, così come abbiamo già detto più volte, anche il regno dei fini è lacerato da contraddizioni e antagonismi, non solo in ragione delle divergenze nell'interpretazione di ciascuno di essi, ma anche a causa della difficoltà di conciliare tra loro libertà, uguaglianza e giustizia. La massima libertà è compatibile con la massima uguaglianza? Questo problema è ben lungi dall'essere risolto, benché si supponga che idealmente non dovrebbe esserci discordanza. Salvo alcune eccezioni, come ad esempio il razzismo, i fini cui l'uomo aspira sono tutti intrinsecamente buoni. Nondimeno, dato il disaccordo sulla concezione stessa di questi fini e sul loro rapporto reciproco, possiamo ritenere gli uomini politici responsabili di non averli ancora concretizzati in modo propor-

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zionale all'idealità? E ciò sarebbe possibile? Se ci fidiamo dell'esperienza e della storia, sussistono poche probabilità che si riesca a trasformare radicalmente la natura umana e a conciliare definitivamente la diversità delle sue manifestazioni empiriche. Sarebbe come considerare un cristiano responsabile per non aver raggiunto la perfezione divina. La responsabilità (la colpa così come il merito) è legata a degli atti, essa si colloca dunque al livello dei mezzi e delle conseguenze, in poche parole al livello degli obiettivi, in cui l'uomo politico decide, fa leggi, costruisce la difesa del Paese, risolve i conflitti sociali, opera in favore della pace e della libertà o al contrario prende misure che ostacolano direttamente la realizzazione di questi scopi. È aberrante condannare in nome del fine comunista i mezzi utilizzati dalla democrazia liberale quando il comunismo si serve esattamente degli stessi mezzi per realizzare i suoi obiettivi. Il liberalismo si propone teoricamente d'instaurare la libertà e la pace con almeno altrettanta convinzione del comunismo. Giudicate in base ali' etica dei fini, l'una e l'altra di queste dottrine sono ugualmente buone e sarebbe vano fare un confronto a questo livello d'idealità pura. Un simile confronto non condurrebbe a nient'altro che a mettere ancora una volta in evidenza le divergenze d'interpretazione. Nessuno può dimostrare che la Russia sovietica sia più vicina alla libertà «reale e autentica» degli Stati Uniti d'America o della Gran Bretagna. Infatti, quale potrebbe essere il criterio di paragone? La concezione personale della libertà di colui che giudica,

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quella del liberale oppure quella del comunista? Chi ci può dire che un tale sistema economico, politico e sociale sia più idoneo a realizzare, in un tempo ancora indeterminato, la bellezza dell'ideale della libertà? In questo ambito le previsioni non sono che predizioni, non supposizioni né tanto meno congetture ragionate. In virtù di quale autorità, se non la fede cieca in questa dottrina piuttosto che in quella, è possibile allora dichiarare colpevole e condannabile il sistema liberale, e meritorio il sistema comunista o viceversa? Procedendo in questo modo si rischia solamente di «istigare alla guerra» e di voltare le spalle alla pace di cui personalmente ognuno dei dottrinari vorrebbe essere artefice. Qualunque sia la dottrina politica al potere e qualunque sia la nobiltà dei suoi fini, i mezzi e le conseguenze sono la pietra di paragone della responsabilità e della competenza. Non vi sono altre prove che permettano all'uomo politico di mostrare le sue capacità o le sue carenze, le sue qualità o la sua crudeltà, la sua autorità o la sua disumanità. È facendo uso dei mezzi che egli riesce o fallisce, che diventa colpevole oppure no. Non è scritto nella dottrina liberale che colui che si richiama ad essa debba sparare sugli operai in sciopero; allo stesso modo, la dottrina marxista non afferma che l'istituzione del comunismo debba passare attraverso il dispotismo e l'instaurazione di un regime accentratore. Se si rifiuta la prima perché è macchiata del sangue dei proletari, secondo logica, occorre allo stesso modo ricusare la seconda per le stesse ragioni. Non serve a nulla cer-

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care di giustificare questo secondo tipo di violenza dicendo che è sacra poiché si professa più umana, perché il liberalismo ha esattamente la stessa pretesa. Non è possibile invocare l'onestà intellettuale e la buona fede quando si fa una cernita dei cadaveri dei proletari per benedire alcuni di loro con la scusa che sono dalla parte della storia. Il confronto è possibile solo al livello dei mezzi: si può distinguere allora tra un regime che fa della violenza e dei campi di concentramento un sistema e quello che si sforza di limitare, per quanto possibile, gli atti di violenza; e ancora tra quello che, senza realizzare la libertà ideale, dà ai cittadini almeno le possibilità di godere della massima libertà e quello che li priva di queste possibilità. L'uomo politico è responsabile (il che non significa necessariamente colpevole) dei mezzi che utilizza, delle imprese odiose che tollera o ordina. 36 La tesi della colpevolezza collettiva non tiene conto della volontà dei governi e della realtà materiale degli strumenti, delle istituzioni, delle strutture e delle organizzazioni sociali, per dissolvere la responsabilità nella solidarietà vaga e, per così dire, indifferente di una colpa che si suppone comune, ma soprattutto indiscernibile. Essa s'illude di assoggettare il male facendo di ogni coscienza la sua complice inconsapevole e involontaria. Essa schiaccia l'umanità sotto l'eccellenza dei fini e la bassezza dei mezzi. Ora, i fini non sono esterni ai mezzi; è da quest'ultimi che dipendono, in quanto se i fini acquisiscono mai una qualche realtà, è ai mezzi che lo devono. In altre parole, i fini possono essere raggiunti solo con i

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mezzi che li connettono al tessuto sociale, alle istituzioni e alle leggi che stabiliscono. Inoltre, occorre riconoscere che, conformemente all'opposizione tra merito e colpa, i mezzi non sono tutti ignobili o degradanti. Pertanto, non si potrebbe separare i fini dalle strutture sociali esistenti più di quanto si potrebbe separare la responsabilità dai mezzi impiegati, poiché altrimenti li priveremmo di qualsiasi significato positivo. La responsabilità politica verte precisamente sul modo in cui si cerca di trasformare una data collettività con le sue strutture e le sue istituzioni, realizzando un certo numero di obiettivi destinati a consolidare la protezione e la concordia al servizio dell'uomo. Se la collettività è minorenne, la responsabilità politica grava in primo luogo sugli uomini che detengono il potere, che hanno voluto raggiungerlo e hanno fatto della politica la loro vocazione come altri hanno scelto la carriera didattica, letteraria o scientifica. Questa determinazione è fondamentale a dispetto di tutti i sofismi che tentano di mascherarla. Tutt'al più si può dire che la responsabilità di una collettività è subita, nel senso che essa patisce per le decisioni inopportune o infelici dei suoi governanti: non si tratta di una responsabilità attiva. Il linguaggio comune sancisce d'altronde questo fatto in quanto per designare dirigenti e capi usa il termine di «responsabili». Così, se non possiamo ritenere responsabile un'unità politica di volere la concordia interna e la sicurezza esterna (l'elettorato può sbagliarsi sulle qualità degli uomini eletti), è tuttavia al raggiungi-

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mento del bene comune che si rapporta la responsabilità politica di quanti chiedono i voti. È ad essi che andranno merito e gloria se riusciranno a consolidare questo scopo ed è sul loro conto che verranno segnati i fallimenti e le negligenze. Così concepita, la responsabilità politica è una responsabilità professionale come qualsiasi altra, quella dello scrittore nei confronti della sua opera o quella del professore nei confronti dei suoi allievi. La sola differenza è che la prima è più ampia e più pesante, in quanto una decisione politica impegna il futuro della collettività nel suo insieme, e le sue conseguenze sono più considerevoli, più gravi e spesso più terribili. Sarebbe irragionevole accusare il socialismo o tutti i socialisti delle mancanze e delle debolezze del capo di un governo socialista come imputare ad un popolo l'incompetenza o il dispotismo di un tiranno di cui esso è la prima vittima. La confusione deriva dal fatto che resta difficile apprezzare correttamente la responsabilità politica e questo per diverse ragioni. In genere, l'uomo al potere non cerca deliberatamente la rovina del suo Paese; al contrario, egli è animato da eccellenti intenzioni, cerca di servire il bene comune, anche quando prende una decisione infelice o deplorevole. Non esiste un criterio che permetta di separare chiaramente la cattiva volontà da quella buona e nemmeno un metro adatto a valutare comparativamente l'intenzione e le conseguenze di un atto; spesso le decisioni in un primo momento più contestate hanno talvolta esiti felici, mentre altre, approvate quasi all'unanimità,

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producono conseguenze spiacevoli e perfino catastrofiche. L'eterna maledizione che pesa sull'azione politica, dunque, fuorvia costantemente i critici dalla responsabilità politica. Infine, in politica non esiste una soluzione definitiva, a causa delle conseguenze imprevedibili delle decisioni. Una difficoltà politica non si può risolvere allo stesso modo di un problema matematico o fisico, poiché non si tratta semplicemente di applicare delle regole note, ma di mettere d'accordo volontà spesso divergenti, di comporre un conflitto o di uscire da una situazione intricata di cui molti elementi sfuggono all'attenzione. In questo senso, si comprende facilmente come la saggezza politica si rifiuti in genere di trascinare un capo di Stato meschino davanti a un tribunale e che, fatta eccezione per i fanatici di qualche dottrina, gli uomini respingano di norma le condanne strettamente politiche. Succede che il responsabile, che si vuole giudicare per la sua incompetenza o per essere stato in disaccordo con i vincitori circa la politica da seguire, abbia a sua volta ereditato una situazione disastrosa, deteriorata proprio dal contributo dei fanatici che lo sopraffanno. Per questa ragione, persino i semplici processi politici non godono in genere di buona stampa. È normale e necessario che un governo faccia di tutto per far vincere la propria concezione di bene comune, che esiga pertanto l'obbedienza per mezzo della coercizione e che combatta con tutte le sue forze quanti cercano di ostacolarlo con la violenza. Tuttavia, gli appelli in favore di un'amnistia sono spesso accolti favorevolmente, in quanto i

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cittadini ritengono che anche l'opposizione sia animata dall'imperativo del bene pubblico le cui condizioni materiali di realizzazione non si lasciano mai determinare in modo definitivo, sebbene vi sia un accordo formale sulla necessità della concordia e della sicurezza. La dispersione dell'autorità in seno allo Stato moderno, razionalizzato e legalista, ha accentuato ancor più la diluizione della responsabilità politica nelle intenzioni e nei fini, assieme all'instabilità e alla successione dei regimi e all'impossibilità di definire una legittimità duratura a causa della rivalità delle ideologie. Mentre la responsabilità verte sull'insieme delle attività di governo e si esercita negli ambiti più diversi, economico, giuridico, militare, diplomatico, amministrativo e così via, il gioco della propaganda e della contropropaganda falsa le imputazioni: se i sostenitori del governo gonfiano i propri successi e dissimulano le debolezze, i loro avversari tacciono sulle decisioni opportune ed evidenziano solo le carenze. Inoltre, nella misura in cui, sotto l'influenza del crescente intervento del pubblico nella maggior parte dei settori della vita umana, i cittadini possono credere che la loro felicità e la loro infelicità individuale dipendano dallo Stato, sono portati a vedere la responsabilità solo come rivendicazioni e non come azione politica globale e positiva. Infine, l'inclinazione per così dire naturale dell'attenzione la porta a soffermarsi più sugli aspetti spettacolari che sulle imprese oscure. In particolare, l'attenzione si ferma sul problema cruciale di ogni politica, sul quale occorre

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ritornare costantemente: il problema della violenza. Il fatto è che oggi, con la diffusione dell'ideologia rivoluzionaria e della nozione di colpevolezza collettiva, tale questione si trova al centro del dibattito. Non ritorneremo su quanto abbiamo detto precedentemente circa la correlazione tra violenza e politica, per tentare invece qui di precisare solamente i rapporti tra responsabilità e violenza. Chiunque intraprenda la strada della politica deve sapere che rischia suo malgrado di compromettersi con la violenza, quantunque pure e nobili siano le sue intenzioni in partenza. In questo senso, la responsabilità politica richiede che ci si faccia carico della violenza. Metterla in conto, tuttavia, non significa giustificarla. Per quanto la responsabilità resti una nozione morale anche in politica, essa non approva né la violenza gratuita ed inutile né quella che viene sistematicamente applicata, soprattutto quando vi sono altre vie meno crudeli per risolvere i conflitti. Ora, ai nostri giorni regna a questo riguardo la più grande confusione, in quanto alcune dottrine, prendendo a prestito la violenza circostanziale che sorge in qualsiasi Stato, ne fanno una ragione sufficiente e la trasformano in principio di governo o in metodo di conquista del potere. Quando Lenin, ad esempio, scriveva che «l'esistenza dello Stato prova l'inconciliabilità degli antagonismi di classe», e che quest'ultimo è «un organo di oppressione»,3 7 cercava solo di giustificare il ricorso alla violenza che preconizzava a livello dottrinale per il proprio movimento, cioè cominciava col presupporre il suo nemico come assolu-

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tamente malvagio al fine di legittimare il terrore che era pronto a scatenare. Che vi siano sempre stati e che senza dubbio vi saranno sempre antagonismi di interesse, di classe e di idee è un dato di fatto, ma è errato affermare che la violenza rivoluzionaria sia in grado di sopprimere definitivamente simili conflitti, così come è storicamente e concettualmente inesatto dire che lo Stato è solo uno strumento di oppressione. La dottrina di Lenin non è che un tentativo per asservire tutti gli altri interessi ed idee a un interesse e a una determinata idea, prima di qualsiasi riflessione sociologica sulla natura stessa della società umana e dello Stato e sulla possibilità di risolvere gli inevitabili conflitti per mezzo del normale gioco politico. È dunque in virtù di un mero sofisma di parte che egli deduce la natura oppressiva dello Stato dall'esistenza storica dello Stato oppressore e dalla violenza sporadica. Al contrario, in virtù del fine specifico del politico, lo Stato ha la funzione di stabilire la concordia coordinando nel miglior modo possibile gli interessi vari e divergenti dei gruppi interni sia tramite una decisione diretta sia per via giuridica o arbitraria. Rosa Luxembourg vide molto chiaramente il difetto del pensiero di Lenin quando scrisse: «Sicuramente, qualunque istituzione democratica ha i suoi limiti e i suoi difetti, cosa che senza dubbio condivide con tutte le istituzioni umane. Solamente, il rimedio inventato da Lenin e Trotsky, la soppressione generale della democrazia, è ancor peggio del male che è sensato guarire: esso ostruisce, in effetti, l'unica fonte viva da cui possono sorgere le correzioni a tutte le

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carenze congenite delle istituzioni sociali: la vita politica attiva, senza intralci, energica, delle masse più estese della nazione». 38 Non c'è paragone tra la violenza voluta e applicata sistematicamente o organizzata metodicamente in virtù dei principi di una dottrina e la violenza occasionale, che compare casualmente in tutte le società umane. 39 Non esistono nella storia esempi di dottrine che preconizzando apertamente l'uso sistematico della violenza, una volta giunte al potere, non abbiano installato un regime di terrore. Il sofisma di taluni teorici della colpevolezza collettiva consiste nel rendere ogni individuo responsabile della violenza organizzata sistematicamente in certi Paesi, con la scusa che le altre collettività, che si sono date per regola la stretta limitazione della violenza, sono scosse di tanto in tanto da eccessi di brutalità. La fenomenologia ci obbliga a constatare che la politica produce violenza e che sorgono sempre nuove dottrine che la erigono a principio di governo, ma se ci poniamo dal punto di vista della morale e della responsabilità occorre deplorare il fatto che si cerchi di giustificare il terrore usando l'umanesimo come specchietto per le allodole. Questa incursione nell'ambito della morale era inevitabile poiché non è possibile parlare della responsabilità politica senza indicare almeno sommariamente che in essa si intrecciano i rapporti tra politica e morale. È senza dubbio doloroso per l'individualismo e l'idealismo etico che la politica non possa sempre evitare la violenza, ma può darsi anche che le concezioni teoriche della morale scivolino troppo fa-

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cilmente verso la condiscendenza e la futilità per l'incapacità di cogliere tutte le dimensioni conflittuali dell'etica. Ma è impossibile entrare nei dettagli della relazione tra politica e morale, poiché occorrerebbe innanzi tutto analizzare l'essenza dell'etico così come ora stiamo studiando quella del politico. 14. Il regno dei fini

Per fini bisogna intendere qui i valori ultimi che l'uomo si propone di realizzare attraverso la sua attività individuale oppure attraverso l'azione delle collettività e dei gruppi, al fine di dare un senso alla vita e alla storia. Concludere un trattato di pace duraturo, al fine di prevenire la guerra per un tempo indeterminato e il più lungo possibile, costituisce un atto che è un obiettivo politico e non un fine. Allo stesso modo, instaurare l'uguaglianza davanti alla legge, l'uguaglianza dei diritti e delle possibilità, lottare per la conquista delle libertà politiche (di stampa, di coscienza, di associazione) o istituire tribunali regolari al fine di evitare l'arbitrio e far regnare la più grande giustizia possibile, sono tutti compiti che costituiscono al contempo degli obiettivi. Essi non possono che essere conseguiti in condizioni concrete e inoltre occorre apportare continuamente correzioni ed emendamenti per adattarli all'evoluzione dell'intelletto e ai cambiamenti della condizione umana. Al contrario, aspirare alla libertà pura, all'uguaglianza, alla giustizia e alla pace, indipendentemente dalle condizioni storiche e sociali contingenti, significa

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perseguire dei fini. In questo caso, queste nozioni perdono il loro valore di concetti per divenire idee in sé dell'intelligibile. In questo senso, si può parlare di un'escatologia politica del liberalismo, del marxismo come pure del cristianesimo. Il conseguimento di questi fini pone un certo numero di problemi che non possono essere discussi in questa sede e che dobbiamo accontentarci di indicare. Esiste un solo fine ultimo oppure ve ne sono molti? Nel primo caso, qual è? E se ce ne sono molti, qual è il loro rapporto? Sono tutti sullo stesso piano oppure esiste un ordine di importanza? Sono la libertà, la giustizia e l'uguaglianza a costituire le condizioni della pace oppure è la pace a costituire la condizione della giustizia e dell'uguaglianza? O ancora, l'uguaglianza costituisce la condizione della libertà o viceversa e così di seguito? La discussione di simili questioni è, indipendentemente dall'indagine metafisica, ali' origine della differenza tra le filosofie, le concezioni del mondo e le ideologie politiche. Non vi è alcuna speranza di trovare una soluzione positiva e definitiva poiché si tratta di nozioni assolutamente trascendenti che oltrepassano le possibilità e i limiti dell'esperienza e dell'azione umane, le quali rimangono sempre condizionali. I fini non sono come i presupposti e le condizioni di un'essenza o di un'attività determinata; essi appartengono alla categoria delle aspirazioni. Sia la preferenza di un fine ad un altro che la scelta di una scala gerarchica sono oggetto di fede e di credenze più o meno fondate. È riguardo ai fini che non solo l'opposizione dello spiri-

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tuale al temporale acquista tutta la sua importanza, ma che sorgono anche l'entusiasmo più delirante, il fanatismo più crudele, la dedizione e l'eroismo più semplici e più sublimi e tanto più deliranti, crudeli e sublimi che spesso manca loro qualsiasi fondamento razionale. La convinzione funge da verità, 40 e in genere la speranza fa le veci della soddisfazione. Sebbene Hobbes e Spinoza non abbiano mancato di evocare la questione dei fini, nondimeno hanno insistito soprattutto sulla protezione e la concordia interna, vale a dire sul fine specifico del politico. È principalmente con Rousseau 41 e sotto l'influenza dell'ideologia rivoluzionaria che l'indagine si è impegnata nella definizione della politica sulla base dei fini e della speranza che questi suscitano. Ora, i fini sono extrapolitici o, più esattamente, essi non sono affatto specifici del politico. La morale, la religione o l'economia si prefiggono tutte il compito di promuovere la libertà, l'uguaglianza, la giustizia e la felicità, il che significa che si tratta di aspirazioni generali dell'umanità da realizzare congiuntamente da parte di tutte le attività umane e non esclusivamente o preferibilmente dall'una o dall'altra. Qualunque cosa se ne dica, l'economia non possiede da questo punto di vista alcuna priorità sulla politica o la religione e viceversa. In altri termini, si tratta di valori universali dell'uomo in quanto uomo, che non dipendono da nessuna attività in particolare. Se ai nostri giorni li riteniamo fondamentali per il fine del politico o dell'economia, è perché la politica e l'economia hanno acquistato maggiore importanza nei

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confronti della religione, con l'apparizione, ad esempio, delle masse e delle ideologie e lo sviluppo più razionale delle società. Questo spostamento non elimina tuttavia la confusione. Il fatto è che la politologia non distingue quasi mai tra i tre livelli della finalità che noi abbiamo separato: il fine specifico di un'attività, gli obiettivi concreti e i fini ultimi e, in fin dei conti, l'escatologia ha soppiantato la teologia nella definizione della finalità politica. Occorre anche notare che la confusione di questi tre livelli ha la sua origine nel linguaggio, soprattutto da quando, con la diffusione delle filosofie della storia e dell'idealismo filosofico, i problemi normativi del dover essere hanno preso il sopravvento sull'analisi positiva e puntuale delle essenze e più in generale sullo studio dell'essere o del reale. Quando in politica ci si propone di conseguire un obiettivo, uno scopo o un fine, si impiega un linguaggio formalmente identico: «occorre», «dobbiamo» e altre espressioni di questo tipo; da qui la tendenza a identificare lo scopo, l'obiettivo e il fine, in quanto le formule che li traducono sono logicamente le stesse, mentre materialmente i contenuti da raggiungere sono differenti. Quando dico: questa cosa è vera e quest'altra è falsa, le due frasi sono formalmente identiche, ma il contenuto affermato è ogni volta differente. Lo stesso quando diciamo: la politica tende a proteggere una collettività oppure la politica tende a far regnare la libertà, la giustizia e la pace. 42 Per la riflessione filosofica e soprattutto per quella fenomenologica il problema è non farsi intrappolare dal linguaggio e dalla

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grammatica nel corso 4ell' analisi delle nozioni. Sebbene i fini non siano specifici dell'attività politica, tuttavia essi sono tutt'altro che indifferenti o superflui. Il loro ruolo dipende dalle diverse condizioni. 15. Il ruolo regolatore dei fini

In primo luogo, - e questo è il loro significato corrente - i fini hanno un ruolo regolatore. Essi non sono mai, a dire il vero, oggetti dell'attività politica, nel senso in cui, come abbiamo precedentemente detto, lo sono gli obiettivi, cioè essi non si realizzano mai in quanto tali in un'opera fenomenica e empirica, ma organizzano l'attività, la orientano e le danno un senso. Le conferiscono un carattere sistematico, un'unità di veduta, di modo che le operazioni politiche non sono più semplicemente un insieme di azioni al servizio del solo fine specifico del politico, ma anche a servizio dell'uomo. Dal momento che la politica è una questione d'opinione, essa implica necessariamente delle credenze e una fede, che, a loro volta, presuppongono, per loro stessa natura, dei valori trascendenti anche se indeterminati. È necessario che l'uomo creda alla libertà come fine ultimo per dare un senso alla lotta in favore delle libertà politiche che è possibile instaurare praticamente o alla lotta volta a salvaguardare quelle già esistenti. Le credenze così intese non sono semplici idee accidentali, ma sostengono la speranza che abbiamo nell'uomo: supportano l'umanità e il suo avvenire. Non dipende da noi non credere, poiché esistono un tempo, un futuro,

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dunque delle possibilità e perché l'umanità non è perfetta. E se finiamo col credere che dipende da noi il non credere più, noi smettiamo di agire; siamo pronti per la disperazione e la tirannia. La fede è esistenziale, e come tale è al centro dell'azione, vale a dire che, se prendiamo l'esempio della libertà, l'uomo non è mai definitivamente liberato né individualmente né socialmente ma deve rendersi sempre l' artefice della libertà nella successione degli o biettivi politici. Il contenuto degli obiettivi è sempre contingente e circostanziale. Così, senza la fede, senza la credenza in verità eterne o in fini ultimi, l'attività politica non sarebbe nient'altro che una fatica di Sisifo. Dunque, è sbagliato vedere nella fede solo una consolazione, essa è il lievito d'ogni creazione. È in questo senso che Lachelier diceva in una delle sue lettere a proposito dei fini: «L'uomo non può restare se stesso, se non lavorando costantemente per elevarsi al di sopra di se stesso». 43 I fini sono sempre in fase di progetto, rimangono cioè delle idee che servono da norma o da modello agli obiettivi dell'attività politica concreta. Per questo motivo essi hanno un significato determinante. Dato che sono fini umani concernenti l'uomo in quanto uomo e che non sono esclusivamente e nemmeno essenzialmente delle aspirazioni politiche, essi costituiscono la ragione dell'integrazione della politica nel complesso della vita umana, in costante interdipendenza con le altre attività, economica, morale, religiosa che, dal canto loro, hanno ugualmente come riferimento la libertà, la giustizia, l'uguaglian-

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za, la felicità, o qualsiasi altro fine. In altre parole, dato che i fini sono comuni ad ogni attività umana, la politica non può isolarsi e costituire un'attività a sé, senza alcuno sbocco verso altre essenze e imprese umane; essa non è un fine in sé, ma è, come tutte le altre attività e congiuntamente ad esse, al servizio dell'uomo e del suo avvenire. Nemmeno la società è un fine in sé, a maggior ragione non lo è neppure una data unità politica. Con ciò s'intende che il fine specifico del politico non ha valore in sé, ma in virtù della sua partecipazione al movimento della condizione umana e della storia. Sebbene la concordia interna e la sicurezza esterna nell'amicizia formino la teleologia della politica in quanto attività specifica, la politica non può impadronirsi di tutti gli uomini per renderli suoi prigionieri, poiché essa stessa non ha senso se non in virtù dei fini ultimi che l'essere umano si prefigge di conseguire tramite la collettività particolare cui appartiene. Talvolta, l'attività politica subisce le pressioni della civiltà presente, talvolta è essa a dare alla civiltà un nuovo impulso. Questo scambio perpetuo tra la politica e le altre attività, così come la loro aspirazione a servire i fini ultimi, non è esente da tensioni e antagonismi; nondimeno si presume che quest'ultimi siano a loro volta al servizio dell'umanità. Malgrado questi conflitti interni, il regno dei fini sta a significare che l'uomo è fratello dell'uomo, che esiste un'umanità, che bisogna dunque sperare di poter stabilire un'amicizia che, malgrado le sue imperfezioni, possa rompere i particolarismi esclusivisti

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delle singole collettività indipendenti, laddove queste sarebbero tentate di costituirsi in monadi. Questo è il punto debole del realismo politico puro, che concepisce la politica solo al servizio di se stessa. Certo, è probabile che gli antagonismi che dividono il regno dei fini non lascino alcuna possibilità di raggiungere l'unità definitiva dell'umanità. Nondimeno, il mondo dei fini s'impone all'uomo, suo malgrado, e forse sarà possibile instaurare per lo meno una situazione relativamente pacifica paragonabile a quella che preconizzava lo j,us publicum europaeum descritto da Carl Schmitt, 4 vale a dire che, non potendo eliminare la relazione amico/nemico, in quanto presupposto del politico, i nemici accetteranno di riconoscersi come tali, si riconosceranno cioè come esseri simili erispetteranno così l'uomo nel nemico. Ad ogni modo, è solo a questa condizione minima che una pace duratura e stabile è possibile. Del resto, non esistono né libertà né giustizia senza il riconoscimento dell'uomo da parte dell'uomo. Dato che non sono affatto peculiari di questa o quell'attività, i fini possono anche acquistare un altro significato, estremamente importante per le tendenze della filosofia politica moderna. Essi rappresentano i valori grazie ai quali l'uomo può sperare di superare la politica e, in particolare, i suoi diversi presupposti del comando e dell'obbedienza, dell'amico e del nemico, del privato e del pubblico. Considerato sotto questo aspetto, il pensiero di Marx, ad esempio, si chiarisce in tutto il suo profondo significato; si tratta di una escatologia. Il marxismo è, infatti, proprio il

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tipo di filosofia che tenta di superare la politica e i suoi presupposti in nome dei fini ultimi. Ancora più in generale, i fini appaiono a Marx come richiami che invitano l'uomo a spezzare i propri limiti e la propria finitudine e, sebbene egli ammetta solo fini antropologici, escludendo ogni fine ultraterreno, questi invitano l'uomo a diventare l'artefice del proprio destino per mezzo della «appropriazione reale dell' essenza umana da parte dell'uomo e per l'uomo». 45 La domanda che viene subito in mente è la seguente: esiste una qualche possibilità che l'uomo arrivi un giorno a superare realmente la politica? Abbiamo già risposto a questa domanda, di modo che possiamo accontentarci di commentare la nostra risposta in funzione del problema dei fini. In verità, il regno dei fini non è che il modo, se vogliamo, umanistico di designare Dio. Che cosa è l'uomo liberato da qualsiasi catena, da qualsiasi costrizione, dalla tirannia dei bisogni e creatore di se stesso, se non un essere dotato di attributi divini? In fondo, l'ateismo di Marx46 è più una negazione della religione - sottomessa anch'essa a dei presupposti in quanto attività umana - che una negazione della divinità, poiché egli tende a sostituire la divinità umana al Dio delle religioni. Non bisogna dimenticare che l'ateismo è per Marx solamente un aspetto della critica diretta contro il Dio «straniero», in rapporto al quale l'uomo stesso è uno straniero, un essere alienato e, dal momento che l'uomo diviene creatore di se stesso, l'ateismo perde ogni significato: il nuovo Dio è nato. Una volta che l'uomo avrà occupato il trono di questo

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usurpatore che è il Dio straniero, non sussiste più alcuna ragione per perseverare nell'ateismo. E vediamo che la risposta alla domanda: è possibile che l'uomo un giorno superi la politica? - presuppofie che l'uomo possa diventare diverso da se stesso, da ciò che è sempre stato da quando ha coscienza di sé. Non sarebbe nemmeno il caso di risolvere la questione facendo appello alla teologia, che presuppone Dio come già esistente. La risposta ad una domanda gratuita non può che essere essa stessa gratuita, poiché per il pensiero teorico tutto è possibile, dalla finzione della scienza rigorosamente realizzata fino alle utopie della religione e della politica definitivamente superate. Comunque sia, l'uomo è naturalmente un essere di fede, crede al regno dei fini, ma questo regno, per l'esperienza che ne abbiamo, resterà lacerato da antagonismi. Da questo punto di vista, la risposta più pertinente è quella che ha dato Max Weber riprendendo Stuart Mill: «Partendo dalla pura esperienza si giunge al politeismo» 47 , cioè in un regno di dei e di fini che non cessano di combattersi. Il Dio unico è il Dio dell'intelletto e dell'amore. Tutte queste considerazioni non potrebbero, tuttavia, servire da pretesto per pregiudicare i risultati di una fenomenologia dell'essenza del religioso né dell'analisi più esaustiva della natura del politeismo e del monoteismo. 16. L'arsenale delle giustificazioni

I fini hanno, in ultima analisi, un significato negativo e polemico, come un arsenale di giustificazioni

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dove verità, ragionamenti logici, esperienze, proposizioni controllate e controllabili, verosimiglianze, probabilità, pregiudizi, controverità, menzogne, sofismi, illusioni, utopie, ipocrisie, sincerità, ingenuità, finzioni, chimere, stupore, visioni, passioni, ipotesi, congetture, contraddizioni, credenze, certezze, correzioni, credulità, dimostrazioni, sentimentalismo, evidenze, tradizioni, veracità, snobismo, buona e cattiva fede si intrecciano in modo confuso. All' occorrenza, i fini fanno di tutta l'erba un fascio e ciascuno può sperare di trovarvi il proprio tornaconto. Si comprende come, stando così le cose, il pensiero mediocre cerchi rifugio nelle giustificazioni mediante i fini. Quante presunte filosofie della politica improvvisamente sognano solamente di legittimare questo regime o quella forma di lotta, senza riflessione e senza analisi del fenomeno politico, pretendendo di stabilire la verità e di superare ogni possibilità di conflitto! Le giustificazioni esigono soprattutto eloquenza ed elasticità mentale: è sufficiente aderire a questo o a quel fine che già gli argomenti affluiscono, spesso identici a quelli dell'avversario nella forma e nella sostanza. I fini sono spesso un invito al «bel viaggio», alla beatitudine e permettono di dare libero corso alla soddisfazione personale. E chi diventa pubblicista, redigerà il suo articolo nel rispetto del suo stile personale, guardandosi bene però dal1' offendere i suoi amici politici e i cosiddetti fini comuni. Nel corso della redazione, prenderà la briga di rasentare l'eresia, la burla e la riflessione, vale a dire si darà l'aria, in principio, di fare un'analisi seria,

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chiara e ficcante per poi cadere perentoriamente, in conclusione, nel consueto ritornello delle giustificazioni attese. I fini consentono qualsiasi tipo d'offerta al rialzo. Dal momento che sono sempre in fase di progetto, che nessuno ne ha un'esperienza diretta e che, se mai gli uomini al potere che si richiamano agli stessi nostri fini commetteranno degli errori o delle atrocità, è facile allegare come scusa la deviazione, le necessità della situazione o l'opportunità (di cui si darà colpa agli avversari politici). Non c'è limite all'invenzione delle giustificazioni. È questo il risvolto della politica incentrata unicamente sulla proclamazione dei princìpi e dei fini ultimi. Le giustificazioni politiche non sono evidentemente tutte capziose, soprattutto dal momento che, come abbiamo visto, i fini sono generalmente buoni. La verità è che un partito moltiplica le giustificazioni quando, nella realizzazione dei suoi obiettivi concreti, è infedele alla sua causa. Questo è visibile soprattutto nei partiti di massa che reclutano militanti accesi, entusiasti e devoti attorno ai fini che essi patrocinano, ma esigono allo stesso tempo che, all' occorrenza, siano pronti, in nome di questi fini, ad assolvere le menzogne, le falsificazioni, i voltafaccia e a discolpare il cinismo e il crimine. Vi è un fenomeno ancora più curioso: i governi che si sono accontentati di lavorare con efficacia e senza enfasi etica per il bene comune non sono stati in genere apprezzati, a tal punto che persino gli storici stentano poi a riabilitarli, mentre, quando non li si consideri come modello o riferimenti, si cancellano con facilità gli errori, tal-

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volta notevoli, e le atrocità dei governi o dei regimi che hanno saputo appassionare i cittadini per i loro fini grandiosi. Ci si lascia facilmente prendere dal miraggio delle giustificazioni e delle promesse allorché i fini sono affascinanti. «Quando i fini sono elevati, diceva Nietzsche, l'umanità usa un altro metro di misura e non giudica più il "crimine" come tale, quand'anche si usassero i mezzi più efferati». 48 La deviazione di giudizio operata dalle giustificazioni produce un certo numero di conseguenze di cui ne nomineremo solo alcune, tanto sono frequenti e facilmente contestabili. Sul piano teorico, la scienza politica incentrata sui fini rinuncia ai presupposti dell'analisi dell'indagine positiva per mettersi a rimorchio di argomenti e di confutazioni, per inventarne delle nuove e studiare i regimi, i partiti e le istituzioni solamente alla luce di una pretesa etica: l'interpretazione diventa di parte. A livello pratico, il potere approfitta dell'esaltazione per i fini e dell'adesione alle giustificazioni per estendere il proprio potere, rafforzare il proprio controllo e divenire sempre più onnipotente. Evidentemente una fenomenologia del politico non deve prendersela con queste procedure, ma esaminarne la manipolazione e le conseguenze. A questo riguardo, non vi è nulla di più tipico della degenerazione delle rivoluzioni fatte, in principio, in nome di fini liberatori e che effettivamente, per un periodo brevissimo, liberano gli uomini dal1' assoggettamento, dalla coercizione oppressiva, dalle ingiustizie, ma che in seguito li asserviscono assai ra-

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pidamente in nome dei fini della rivoluzione. Ogni rivoluzione, all'inizio, crede di ritrovare l'innocenza del divenire, i suoi promotori sono infatti assolutamente convinti che gli errori saranno riparati, che l'arbitrio finirà e che la sicurezza di ciascuno sarà assicurata. Poi, bruscamente, nel vortice degli entusiasmi e delle giustificazioni fanno la loro comparsa le confische, le ghigliottine, i campi di concentramento, un'oppressione ancora più implacabile. 49 È Saint-Just che ha posto probabilmente il problema nel modo più ragionevole e pertinente, nonostante fosse il primo a fare il contrario - sempre la medesima ironia che, in politica, contrappone i fini e le intenzioni agli atti e alla realtà: «Non si tratta di rendere un popolo felice, ma di impedirgli di essere infelice. Non opprimete, ecco tutto. Ognuno saprà trovare la propria felicità. Un popolo presso cui si radicasse il pregiudizio che la sua felicità dipende da coloro che governano non la conserverebbe a lungo». 50

Note 1. Tommaso d'Aquino, Summa Teologica, la, Ilae, quest. 96, art. 3.

Questa nozione di bonum commune corrisponde senza dubbio al x:otvòv... navtcov tò epyov di Aristotele, De generatione animalium, I, I, 488a, 8. La nozione di bene comune è utilizzata ad esempio da G. Burdeau, Traité de science politique, Paris, 1966 t. I, p. 57 e ss.; G. Fessard, Autorité et bien commun, Paris, 1944; J. Maritain, La personne et le bien commun, Paris, 1947, pp. 44-47; B. de Jouvenel, De la souveraineté, Genève, 1955, p. 117 e ss. 2. J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, libro Il, cap. IV; G. W. F. Hegel,

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3. 4. 5. 6.

Lineamenti di filosofia del diritto, § 278; A. de Tocqueville, La democrazia in America, seconda parte, cap. 5. J. Dabin, L'État ou le politique, Paris, 1957, p. 62 e ss. T. Hobbes, De Cive, cap. XIII, § 2. Jbid., cap. XIII,§ 6. T. Hobbes, Elementi di legge naturale e politica, seconda parte, cap. IX, §§ 1 e ss. e Leviatano, cap. XXX, in cui l'autore definisce così questi due punti: the safety of the people e ali the contentments of life.

7. Questa soluzione è senza dubbio carica di rischi ed è suscettibile di condurre a qualsiasi tipo di abuso. Si tratta dunque di sottometterla a condizioni molto severe, al bisogno interno di un sistema internazionale di sicurezza coerente, poiché sarebbe una follia cimentarvisi se conseguenze disastrose (come lo scoppio di una guerra mondiale) dovessero annullare il beneficio dell'operazione limitata o ancora se una simile campagna dovesse compromettere la posizione internazionale e la potenza della collettività che intraprende una simile impresa. Il rischio principale deriverebbe da un mascheramento dello spirito di conquista come politica preventiva. Dunque non si tratta affatto di un metodo da raccomandare, ma da prendere in considerazione in condizioni particolari ed eccezionali, secondo il principio della previsione del peggio. Sarebbe più che pericoloso per un piccolo Paese minacciato da uno più grande e infinitamente più potente, avventurarsi da solo in un'azione preventiva. Occorre anche riconoscere che il problema assume un altro aspetto quando gli avversari sono in possesso di armi termonucleari. Quello che vogliamo sottolineare è che dal punto di vista strettamente politico la guerra preventiva non merita necessariamente tutti gli appellativi di cui è ricoperta in nome di princìpi extra-politici. 8. R. Aron, Paix et guerre entre les nations, Paris, 1962, p. 500. 9. Qui non consideriamo quale strategia politica sia attualmente migliore, ma ci poniamo unicamente sul piano della logica del politico e del suo fine, considerati dal punto di vista della loro essenza. 10. Aron, op. cit., p. 158. Questo presuppone evidentemente che si sia compreso come sulla base dell'essenza del politico il principio della pace non differisca in natura da quello delle guerre. 11. Sul concetto di «diplomazia pura», cfr. Aron, op. cit., p. 72. 12. Aristotele, Politica, libro III, cap. VI, 1278 b da 20 a 25. 13. «Quod quidem in studium in tria dividitur: ut primo quide subjecta

multitudine bonam vitam instituat; secundo ut institutam conservet; tertio ut conservatam ad meliora promoveat», citato da San Tommaso d'Aquino, De regimine principum. Non entreremo qui nella questione dell'autenticità di questa opera. 14. Rousseau, op. cit., libro III, cap. IX.

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15. M. Weber, «Der Nationalstaat und die Volkswirtschaftpolitik», in Gesammelte politische Schriften, 2a edizione, Tiibingen, 1958, p. 14. 16. Aristotele, De generatione animalium, III, 2, 753a. 17. Aristotele, Etica Nicomachea, libro IX, cap. VI. 18. A. Comte, Système de politique positive, Paris, 1912, t. III, p. 364. 19. E. Weil osserva giustamente in Philosophie politique, Paris, 1956, p. 140: «Tutte le utopie, tutti i modelli di Stato pedetto presuppongono l'isolamento di questo Stato, situato in un'isola lontana da qualsiasi altro Stato, troppo povero per suscitare invidia, riducendo così al minimo i suoi rapporti con gli altri: l'ideale presuppone dunque come risolto il problema della politica estera - riconoscendolo così come principale». 20. G. W. Leibniz, «Lettera a M. de Palaiseau», citata da P. Janet, Histoire de la science politique, 3a edizione, Paris, 1887, t. II, p. 247. 21. «All'ombra dell'apocalisse nucleare - scrive Aron, op. cit., p. 565 - come ieri ali' ombra delle divisioni blindate o l'altro ieri ali' ombra delle legioni o delle falangi, uomini di Stato e semplici cittadini devono agire con prudenza, senza illusioni né speranze di sicurezza assoluta». 22. A. Cournot, Revue sommaire des doctrines économiques, Paris, 1877, p. 338. 23. M. Weber, Le savant et le politique, Paris, 1959, pp. 200-201. 24. Sebbene rimproverasse Lenin e Trotsky di aver soppresso qualsiasi vita democratica in Russia, Rosa Luxembourg era d'accordo con loro nel riconoscere l'esistenza di una legge vitale della rivoluzione: «O avanzare con uno slancio rapidissimo e molto risoluto, abbattere con pugno di ferro tutti gli ostacoli e spostare i propri scopi sempre più avanti, o venir immediatamente rigettati ancor più indietro del proprio debole punto di partenza ed essere schiacciati dalla controrivoluzione. Fermarsi, segnare il passo, accontentarsi del primo risultato una volta conseguito, è impossibile nella rivoluzione», La Révolution russe, Paris, 1946, p. 14. Volere la rivoluzione è ben diverso dall'attendere di avere la maggioranza parlamentare prima di agire; si fa la rivoluzione per ottenere la maggioranza. E nemmeno si intraprende una azione rivoluzionaria utilizzando una tattica non rivoluzionaria. Ogni obiettivo richiede mezzi appropriati. 25. Non prenderemo in considerazione l'esempio di Alessandro il Grande, morto troppo giovane, prima di aver potuto veramente dare prova del suo senso politico. 26. Non mettiamo in dubbio il genio militare di Tamerlano, ma il suo genio politico. La storia delle sue campagne è semplicemente sbalorditiva, ma non vi si rinviene alcuna coerenza politica. «L'azione di conquista di Tamerlano è stata esercitata dal Volga a Damasco, da Smirne al Gange e allo Youldouz, e le sue spedizioni in questi diversi Paesi si

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27. 28. 29. 30. 31. 32. 33.

susseguirono senza alcun ordine geografico. Egli corse da Tachkned a Chiraz da Tauris a Khodjend a seconda delle aggressioni nemiche; la campagna in Russia si colloca tra due campagne in Persia, la spedizione in Asia centrale tra due incursioni nel Caucaso», R. Grousset, L'Empire des steppes, Paris, 1941, p. 497. Ogni conquista diviene oggetto di molte riconquiste. Egli ha conquistato e riconquistato il Khwarezm nel 1371, 1373, 1375 e 1379, e queste spedizioni erano inframmezzate da altre nelle regioni del Lli e dello Youldouz dove dovette ritornare sei volte senza mai ottenere un successo politico a coronamento dei sui trionfi militari, accontentandosi di massacrare i suoi nemici, ma senza risolvere alcunché. Bisognava ricominciare sempre tutto daccapo: due spedizioni in Persia orientale, tre in Persia occidentale, due in Russia, ecc. «Così, malgrado la loro minuziosa preparazione strategica, malgrado la loro impeccabile preparazione tattica, esse presentano, dal punto di vista della pura storia politica, un aspetto alquanto sconnesso che, a voler seguire l'enumerazione cronologica dei fatti, darebbe subito un'impressione di dispersione, perfino di incoerenza senz'altro interesse che la romantica personalità dell'eroe», Grousset, op. cit., p. 498. Non c'è alcun confronto possibile tra Tamerlano e Gengis-Khan. Quest'ultimo aveva saputo consolidare le sue conquiste, mantenere la pace interna, ispirare fiducia ai vinti e trarre profitto dall'esperienza politica della Cina e degli altri Paesi sottomessi. Inoltre, aveva un acuto senso politico come dimostra tra l'altro il suo atteggiamento nei confronti dei generali traditori. Condannò a morte quelli che avevano disertato il campo del loro signore prima della battaglia per rifugiarsi nel campo dei Mongoli. Secondo Gengis-Khan non ci si può fidare di colui che abbandona il suo capo nel momento della prova, poiché si rischia che questi possa ripetere il tradimento nei confronti del suo nuovo signore. Al contrario, affidò il comando delle sue armate ai generali valorosi del nemico vinto, che avevano continuato a combattere al suo fianco fino alla fine. Cfr. R. Grousset, Le conquérant du monde, Paris, 1944, pp. 142, 178,185,290. Weber, op. cit. in particolare pp. 179-188 e J. Nabert, Éléments pour une éthique, Paris, 1943. Nabert, op. cit., p. 23. A. Ferry, Les camets secrets, Paris, 1957, pp. 60-61. G. Simmel, Soziologie, Leipzig, 1908, p. 329. Sul compromesso si vedano le osservazioni estremamente pertinenti di Lenin in L'estremismo, malattia infantile del comunismo, §8. K. Jaspers, Die Schuldfrage. Ein Beitrag zur Frage, Zurich, 1946. Sembra che questa asserzione non sia che una volgarizzazione politica della tesi sostenuta daJaspers nell'opera appena citata (dove l'auto-

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re fa del popolo tedesco un colpevole non colpevole, in quanto non si sarebbe ribellato a Hitler, non sarebbe sceso in strada per protestare contro l'ingiustizia e la violenza, senza che si sappia chiaramente se si tratti di una colpa politica o morale, dato che K. Jaspers non ha compiuto a questo riguardo uno sforzo di chiarezza) e della tesi sostenuta da J.-J. Sartre in L'étre et le néant, Paris, 1943, pp. 638-642, dove si dice che l'uomo «porta il peso del mondo tutto intero sulle sue spalle: egli è responsabile del mondo e di se stesso in quanto è il suo modo di essere». Alla fine, ogni guerra diventa la mia guerra se rifiuto di sottrarmi ad essa col suicidio o la diserzione, di modo che io la merito in quanto l'ho personalmente «scelta». Simili propositi, che lusingano molto di più l'intelletto di quanto invitino alla riflessione, sono privi di qualsiasi intendimento politico in quanto fanno della collettività un semplice insieme di individui e di coscienze moralizzanti. Una responsabilità totale non può limitarsi allo spazio, ma deve estendersi a tutti i tempi. 34. Questa imputazione di colpa collettiva è dello stesso tipo di quelle che si ascoltavano in certe prediche o si leggevano in certi giornali o riviste alla fine del 1940 e che spiegavano la sconfitta della Francia con la scristianizzazione e la diffusione dell'ideologia repubblicana, laica, democratica, ecc. Senza sottovalutare l'importanza del fattore morale nella guerra, occorre ugualmente notare che una simile interpretazione dimentica che queste condizioni erano pressappoco le stesse di una ventina di anni prima, di modo che a rigor di logica si sarebbe dovuta accreditare la vittoria del 1918 al repubblicanesimo e al laicismo. In effetti, una simile spiegazione non tiene conto dei fatti essenziali: la debolezza della direzione politica in Francia, la sua imprevidenza, l'impreparazione dell'esercito francese, gli errori dei suoi capi e dall'altro lato il dinamismo dell'esercito tedesco, la superiorità strategica e tattica dei suoi generali. Accettare un simile ragionamento significa dimenticare che una sconfitta viene inflitta da un nemico capace d'affermare la propria superiorità. E poi, se veramente la disfatta francese del 1940 poteva essere imputata alla scristianizzazione della Francia e diventare una ragione di colpa collettiva, sarebbe stato necessario presentare Hitler come modello di cristianità. 35. Weber, op. cit., in particolare pp. 182-183. 36. Weber, in modo altrettanto magistrale e sintetico, ha indicato nelle pagine che egli dedica all'opposizione tra l'etica della convinzione e l'etica della responsabilità - cfr. op. cit., pp. 181-200 - come la responsabilità si determini in relazione ai mezzi e alle conseguenze. R. Aron ha analizzato lo stesso tema in termini teorici e pratici con riferimento ad esempi contemporanei nei volumi L'opium des intellectuelles, Paris, 1955 e Polémiques, Paris, 1955. Non c'è nulla che si possa dire

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in aggiunta a queste due trattazioni tanto vigorose quanto rigorose. Ad esse rinviamo il lettore. Lenin, «L'État et la révolution", in CF.uvres choisies de Lénine, ed. Mosca, 1954, t. Il, prima parte, p. 192. Luxembourg, op.cit., p. 34. In un suo studio - «Millénarisme ou sagesse?», in Polémiques, cit., p. 41 - Aron mette in evidenza questo aspetto del problema: «Per usare un linguaggio che i marxisti non disconosceranno, è la quantità delle vittime che crea la differenza di qualità. Alcune detenzioni arbitrarie (che si ha ragione a denunciare) sono inseparabili dall'imperfezione degli uomini e delle società. Milioni di persone nei campi di concentramento rivelano un sistema». Il nostro elenco dei fini non è esaustivo. A quelli che abbiamo appena indicato possiamo aggiungerne altri: la felicità, l'unità totale, il rispetto assolutamente incondizionato e reciproco della dignità umana, la fraternità universale, ecc. Rousseau, op.cit., libro II, cap. Xl. Per ulteriori spiegazioni rinviamo il lettore alla filosofia neo-positivista della cosiddetta Scuola di Vienna e all'opera di E. Topisch, Sozialphilosophie zwischen Ideologie und Wissenschaft, N eunvied, 1961, che fa di questa confusione uno dei punti centrali della critica epistemologica delle scienze umane. Lettera del 1 febbraio 1872 a Espinas, citata in G. Séailles, La philosophie de Lachelier, Paris, 1920, p. 146. C. Schmitt, Der Nomos der Erde, Koln, 1950. Dello stesso autore si veda anche l'articolo «Die Einhiet der Welt», in Merkur, gennaio 1952. K. Marx, Manuscrits de 1844, Paris, 1962, p. 87. Forse ora è più facile comprendere il passaggio sibillino di questi testi manoscritti in cui Marx dichiara: «Il comunismo è la forma necessaria e il principio energetico del prossimo futuro, ma il comunismo non è, in quanto tale, lo scopo dello sviluppo umano, la forma della società umana» (ibid., p. 99). Il fatto è che agli occhi di Marx il comunismo non è un fine, ma un obiettivo: l'obiettivo necessario che, una volta raggiunto e superato, aprirà il regno dei fini. In altre parole, il comunismo resta ancora sottomesso ai vari presupposti del politico e dell'economia, ma li utilizza per negarli, sopprimerli e, in quanto tale, risulta essere la mediazione negativa ed emancipatrice dell'uomo, che consentirà l'accesso alla positività dei fini ultimi. «Il comunismo - dice ancora Marx (ibid., p. 98) - pone il positivo come negazione della negazione, esso è dunque il momento reale dell'emancipazione e del recupero che l'uomo fa di sé, il momento necessario per lo sviluppo futuro della storia».

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46. Prendiamo il marxismo come esempio poiché è la filosofia moderna più elaborata per quanto riguarda la teoria del regno dei fini. 47. Weber, op. cit., p. 31. 48. F. Nietzsche, La volontà di potenza, t. Il, libro III, § 644. 49. B. de Jouvenel ha egregiamente studiato questo fenomeno nel suo libro Du pouvoir. Histoire naturelle de sa croissance, Genève, 1947, cfr. in particolare pp. 263-268. 50. L.-A. Saint-Just, «lnstitutions républicaines», in CF,uvres de Saint]ust, Paris, 1946, p. 295.

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CAPITOLO

Il

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1. Due mezzi? A partire da Machiavelli la forza e l'astuzia vengono tradizionalmente considerate i due mezzi propri del politico, visto che tutti gli altri mezzi possono infatti essere ricondotti, in ultima analisi, all'uno o all'altro. Si è voluto vedere nella forza una sorta d'immagine metafisica del corpo, nell'astuzia della mente, di modo che la distinzione dei due mezzi non farebbe che riprodurre a livello del politico la separazione classica in filosofia e in psicologia tra l' estensione e il pensiero, tra il fisico e lo psichico. Questi due mezzi sono stati anche considerati all'origine di istituzioni politiche distinte: la forza sarebbe il principio dell'esercito e della polizia, che utilizzano elementi materiali e tecnici; l'astuzia sarebbe quello della diplomazia, che fa appello alle risorse dell'intelligenza. Talvolta, si è perfino cercato di stabilire una differenza assiologica tra le due: la forza adopera mezzi piuttosto rozzi, vili e degradanti; l'astuzia, invece, impiega mezzi più nobili e onorevoli che presuppongono acume, scaltrezza e perspicacia. Di fatto, la storia si mostra spesso sprezzante nei confronti dei capi che hanno vinto solo perché manipolavano masse stupide e selvagge, che hanno trionfato solo grazie alla forza bruta e barbara, e attraverso spargi-

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mento di sangue, uccisioni e massacri, mentre loda la destrezza dei capi calcolatori e ingegnosi, che hanno trionfato grazie all'astuzia, alla malizia; e taluni storici o giuristi, come Vattel, giungono addirittura a vedere la vera gloria dei grandi condottieri proprio negli stratagemmi. In fin dei conti, la forza passa per il mezzo dell'ignoranza e l'astuzia per quello della civiltà. Esiste anche un'altra ragione di discredito della nozione di forza: l'interpretazione volgarmente moralizzante dell'opposizione tra forza e diritto, spesso fondata su una lettura superficiale e poco meditata del dialogo tra Socrate e Callicle nel Gorgia di Platone o del terzo capitolo del primo libro del Contratto sociale di Rousseau. Quest'opposizione può essere indiscutibilmente giustificata entro certi limiti e a condizioni precise, ma non le si può attribuire il significato scolasticamente e comunemente universale che taluni manuali di filosofia o altri scritti le attribuiscono. Il linguaggio corrente indica già a sufficienza come l'interpretazione meramente peggiorativa del concetto di forza sia eccessiva ed insensata. Quante espressioni utilizzano la nozione in un senso elogiativo! Ad esempio: la forza dell'età, per designare l'esperienza e la stabilità dell'uomo maturo, nel pieno possesso delle sue facoltà; la forza morale o forza di carattere, per designare l'uomo padrone di sé, calmo e coraggioso; senza contare che il termine è spesso sinonimo di vigore fisico ed estetico (uno stile pieno di forza), di talento, d'autorità, di energia, di attività, di fermezza e di salute. L'astuzia, al contrario, evoca

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spesso la disonestà, la frode, l'inganno, l'equivoco, la furberia, ecc. Non dimentichiamoci, poi, l'aspetto artistico della forza, fonte d'ammirazione. Lungi dal1' essere un elemento estraneo alla civiltà, essa ne è parte. Lo scultore greco vedeva nella forza la vita rigogliosa e gioiosa, l'armonia dell'atleta, e il pedagogo il segno della virilità, da cui l'importanza della ginnastica e degli altri esercizi in grado di svilupparla. Alcune città nominavano addirittura il vincitore dei giochi di Olimpia alla guida del governo; c'è qualcosa di vero nella tesi di Nietzsche secondo la quale il cristianesimo fu in parte responsabile della denigrazione filosofica della forza, nella misura in cui esso disprezzava il corpo. Non si tratta, tuttavia, di ricostruire tutte le componenti di un processo, quanto piuttosto di prendere coscienza della necessità di sbarazzarsi di idee preconcette e spesso false, perpetuate nei secoli dalla religione, dalla filosofia, dal diritto, dalla morale e dal pensiero politico, prima di procedere all'analisi del concetto di forza. Dopo aver chiarito quest'aspetto, il vero problema consiste da un lato nell'analizzare le nozioni di forza e di astuzia e dall'altro nel determinare i loro rapporti. Si tratta di due mezzi eterogenei, nel senso della presunta opposizione tra corpo e spirito? Sono, l'una e l'altra, ugualmente specifiche del politico? O, al contrario, l'impiego della forza richiede l'intelligenza strategica e tattica nonché diplomatica, dunque l'astuzia? Se così è, ci si può domandare se i successi dell'astuzia in politica non siano precari quando non sono sostenuti o non possono essere sfruttati

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dalla forza, di modo che questa apparirebbe il solo vero mezzo specifico del politico e l'astuzia solo un modo di impiegarla. 2. La forza non è da disprezzare

Prima di affrontare l'analisi della forza, sbarazziamoci subito d'una questione spesso usata come preambolo in ogni esame di questa nozione: occorre o no, si deve o no impiegare la forza in politica? La domanda è oziosa in quanto l'uomo fa normalmente ricorso alla forza e per questo la politica non può ignorare la sua natura. Questa domanda è insensata quanto la seguente: occorre o no utilizzare l'intelligenza nella scienza? L'uomo possiede ed utilizza la forza in quanto uomo, così come possiede una mente e ne fa un uso a volte buono a volte pessimo. La forza non è dunque estranea all'uomo né alla civiltà né alla cultura; essa non è nemmeno qualcosa di fortuito o di acquisito da cui l'uomo potrebbe separarsi o di cui potrebbe sbarazzarsi. La forza gli è data in quanto essere umano, e pertanto è futile cercare di giustificarla o di condannarla come sarebbe vano domandare se è giusto, lecito o meno che l'uomo possieda una ragione, degli occhi, delle orecchie o degli organi di riproduzione. Pertanto, sarebbe sofistico prescindere da essa per comprendere lo sviluppo storico dell'umanità come ignorare l'intelligenza. Qualsiasi potere politico, di destra o di sinistra, liberale o socialista, comunista o fascista, anche se dichiara che governerà solo per mezzo della legge, utilizza inevi-

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tabilmente e normalmente la forza poiché non può esistere uno Stato senza istituzioni, senza giustizia e senza polizia. In genere, una simile domanda dissimula insidiosamente una presa di posizione soggettiva e ha più un carattere polemico che realmente filosofico, poiché si tenta di giustificare in nome di ragioni apparentemente neutrali l'appello alla violenza di un partito o di un regime per meglio sopraffare, in nome di presunti princìpi filosofici, il rivale ideologico che si limita ad utilizzare la sua forza. In altre parole si condanna solo ed unicamente la forza dell'altro. C'è chi approva in una determinata occasione che gli scioperanti facciano uso della forza e biasima la polizia, qualcun altro sarà di parere contrario, ma il secondo adotterà l'atteggiamento del primo e viceversa, in caso di un cambiamento di regime. Gli stessi che chiudono gli occhi davanti ai metodi dei rivoltosi ai quali va la loro simpatia e condannano le atrocità commesse dal governo legittimo, in un'altra occasione sosterranno il governo legittimo se questo si conforma alla loro tendenza ideologica per indignarsi contro i procedimenti utilizzati dai rivoltosi. La guerra di Spagna, le guerre d'Indocina e d'Algeria, la rivoluzione castrista a Cuba e tanti altri avvenimenti recenti, per non menzionare le diverse posizioni adottate ancora oggi nei confronti della crociata degli Albigesi, delle guerre di religione, della rivoluzione francese, ecc., ne sono dimostrazioni sufficientemente eloquenti. La verità è che ogni governo esige che la legge venga rispettata e utilizza la forza contro

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quanti la trasgrediscono, e nel caso in cui quest'ultimi pervengano al potere faranno esattamente la stessa cosa. «Tutti i governi, scrive Pareto, fanno uso della forza, e tutti asseriscono di avere.il loro fondamento nella ragione». 1 Quel partito che giustifica l'insurrezione contro la monarchia considera illegale la resistenza alla volontà popolare, ma questa volontà acquista un significato diverso per i suoi interpreti a seconda che essi siano al potere o cerchino di conquistarlo. In questo modo, la legalità e l'illegalità della forza cambiano campo ogni volta, a seconda che le nostre simpatie vadano al governo o all' opposizione. Ciascuno di noi può trovarne conferma nel corso della storia, ma anche sondando i cambiamenti dei propri giudizi, per poco che voglia usare la sua intelligenza critica nei confronti di se stesso, senza cercare nella nobiltà dei fini una facile scusa. C'è un'altra constatazione, politicamente f.iù interessante, evidenziata in particolare da Pareto : gli uomini insorgono e si indignano contro l'abuso della forza di cui si rende responsabile per esempio l'autore di un crimine compiuto allo scopo di conseguire vantaggi individuali, ma tendono ad essere indulgenti quando tale abuso viene operato da una collettività o anche da un seguace che uccide in nome di un'idea politica o di un partito. Questa differenza di valutazione si traspone anche sul piano sociologico della sanzione giudiziaria: i tribunali sono in genere severi nel primo caso, mentre la repressione è più blanda nel secondo. A maggior ragione i governati sono pronti, soprattutto se il potere è riconosciuto come

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legittimo, a tollerare se non addirittura ad approvare la fermezza ed il rigore eccessivo dello Stato. Queste discriminazioni hanno almeno un significato indicativo: i membri di una comunità politica riconoscono la necessità della forza e ammettono l'utilità di attribuirne allo Stato l'uso legittimo, poiché altrimenti non ci sarebbero più né diritto né giustizia regolare in grado di dare scacco agli abusi della forza arbitraria individuale. Si sa per esperienza che quando lo Stato è debole nascono gruppi privati che sostituiscono le loro forze irregolari alla forza pubblica che è carente e risolvono a loro piacimento e a modo loro i conflitti, che, del resto, spesso provocano intenzionalmente. Si tratta dell'anarchia nel senso comune del termine, caratterizzata dalla rottura tra la forza e il diritto. Cosa sono, infatti, una città o uno Stato se non istituzioni che proteggono i cittadini con la legge la quale, a detta di Solone, unisce la forza e il diritto? L'anarchia è una di quelle situazioni in cui si vede a quali conseguenze conduce la separazione tra la forza e il diritto; l'altra è il dispotismo, dove l' eccesso di coercizione statale sopprime il diritto abbandonando il potere nelle mani degli sbirri e dei gregari dell'autocrate. Lo Stato appare così come la disciplina della forza: da un lato regolamenta le proprie forze, altrimenti diventerebbe dispotico; dall'altro rivendica il monopolio dell'uso legittimo della forza, a scapito dei gruppi privati, altrimenti la collettività cadrebbe nel disordine, fonte d'ingiustizie. Così, lungi dal contribuire a screditare la forza, l'anarchismo e il dispotismo dimostrano indirettamen-

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te la sua necessità nella vita politica ordinaria. Non più di quanto gli abusi di democratizzazione screditano la democrazia, l'anarchismo e il dispotismo, che sono rispettivamente carenza ed eccesso di forza, possono costituire degli argomenti in grado di svilire il mezzo normale della politica. 3. Il concetto di forza Ci siamo già trovati a parlare della forza in una o due occasioni, in particolare per confrontarla con la nozione di potenza. Occorre tornare su questo punto per eliminare il malinteso cui danno luogo talune interpretazioni filosofiche della forza che la definiscono come potenzialità o virtualità. A noi sembra invece che essa sia attualità, che valga solo in virtù dei suoi effetti. Dire che una forza è disponibile, significa affermare che essa esiste, che è presente e pronta, ma inutilizzata, inerte, come un certo numero di soldati in una caserma o di carri armati o di aerei in un hangar. Le forze disponibili in un paese si possono enumerare, contabilizzare, calcolare e consentono di fare previsioni. La forza non ha nulla di misterioso, al contrario della potenza che è imprevedibile, talvolta occulta, poiché è illimitata. Il malinteso trae origine dal fatto che l'uso della forza esige una volontà, soprattutto nel caso della forza umana. La volontà non è una macchina, ma una potenza, vale a dire che con forze minime, ma intelligentemente impiegate, essa è in grado d'annientare un'altra forza materialmente e quantitativamente superiore. Il fatto

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ricorre non solo in politica, ma in qualsiasi ambito in cui vi siano delle forze in competizione: sport, biologia, ecc. Una delle singolari constatazioni riguardanti la vita nei campi di concentramento fu che quanti sembravano essere i più forti e più robusti erano in genere i primi a soccombere per mancanza di resistenza. Non si tratta dunque di fare della potenza e della forza nozioni antitetiche. Al contrario, non c'è potenza senza forze, ma la potenza aggiunge ai mezzi materiali e misurabili l'intelligenza, l'autorità, il prestigio, il senso della decisione, la fermezza, ecc. È in questo senso che nel corso di tutto questo lavoro abbiamo presentato la politica come un fenomeno di potenza e non unicamente di forza, essendo questa solo un mezzo, per quanto specifico del politico. 3 Come qualsiasi altro mezzo, la forza è efficace solamente se applicata, se cioè è messa in opera da una volontà o da un organo. «La potenza, diceva Rivarol, è la forza organizzata, l'unione dell'organo e della forza. L'universo è pieno di forze alla ricerca di un organo per divenire potenze. I venti, le acque sono forze; applicate a un mulino o a una ompa, che sono i loro organi, diventano potenze». È la nozione di resistenza che ci fornisce, per analogia con le scienze fisiche, la chiave di analisi della forza. In queste scienze si definisce infatti la forza come l'azione che modifica lo stato di movimento o di riposo di un corpo, il quale permane nel proprio stato fintanto che un'altra forza non lo costringe a modificarlo. Ricordiamo anche il principio dell'equilibrio che definisce il riposo come lo stato di un cor-

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po sollecitato da forze contrarie che si annullano, come nel caso dell'azione e della reazione. Senza spingere l'analogia fino ad identificare forza sociale e forza fisica (la presenza della volontà impedisce alla vita sociale di essere un meccanismo), essa resta tuttavia istruttiva. In effetti, ci rendiamo conto che, qualunque sia il sistema, non si può parlare di forza al singolare, poiché ogni forza presuppone altre forze che le oppongono resistenza, la combattono o l'annullano. La forza è l'ostacolo di un'altra forza, vale a dire che è sempre necessaria una forza per combattere la forza. Questo è vero anche in politica, sia nel caso della relazione tra comando e obbedienza, tra amicizia e inimicizia e in quello della lotta, che mettono in gioco forze opposte; sia a proposito dell'ordine, che è un equilibrio di forze diverse che si rispettano sotto l'azione della forza maggiore del potere statale, sebbene questo equilibrio non sia mai razionalmente perfetto, in quanto l'azione combinata di alcune forze e lo scontro di altre modificano continuamente lo stato della collettività politica. Così la forza ci appare in politica come il mezzo della coercizione, sia che il potere statale riesca a far vivere nella concordia le forze talvolta eterogenee che si agitano in seno alla collettività e a salvaguardare la propria integrità contro le forze esterne, sia che, al contrario, una delle forze interne, fino ad allora controllata, riesca a spezzare la resistenza del potere costituito, a impossessarsene e a dominare a sua volta le altre forze interne, sia che una forza esterna trionfi sulla collettività imponendole le sue condizioni.

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Tutte queste azioni e reazioni fanno sì che con il tempo le forze si consumino, così come le forze vitali declinano con l'età (ricordiamo a titolo informativo la definizione che Bichat dava della vita: «l'insieme delle funzioni che resistono alla morte») e così come la resistenza dell'atleta e del campione si fiacca. Non esiste una forza assoluta, osserva Gusdod, sono tutte vulnerabili, fragili. 5 Si può nello stesso senso parlare della consunzione di un governo, del declino di un regime, della decadenza di un'unità politica e anche del decadimento di una classe sociale, sia per effetto dei conflitti interni, sia per la pressione di forze esterne. Con questo vogliamo dire che non c'è mai un vuoto, un'assenza delle forze: quando alcune pericolano, altre sorgono e si sviluppano. La rivoluzione instaura una nuova forza che si sostituisce ad altre in via di disgregazione. Oltre a questo fenomeno di consunzione, occorre porre l'accento anche su un altro fenomeno: nessun essere, nessun regime politico può riunire in sé tutte le forze. Nessuno è al tempo stesso un giornalista straordinario, un romanziere eccellente, uno scaltro poliziotto, un uomo politico di grande levatura, un insigne attore di teatro o di cinema, un filosofo geniale, un grande imprenditore, un eminente saggio, un atleta, un operaio specializzato in tutti i campi, un funzionario efficiente, un elemento ammirevole ecc. Nessun regime è al tempo stesso un esempio di oppressione e di libertà. Tantomeno le forze sono uniformi. Sono diverse in un velocista e in un fondista; per mancanza di resistenza un giovane atleta fatica ad adattarsi alla prova

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della marcia Strasburgo-Parigi dove vincono generalmente uomini di età matura. Ogni forza è debolezza in rapporto ad altre forze e queste debolezze relative contribuiscono a spostare sia il rapporto tra le forze che l'azione di una forza preponderante. Dal momento che la forza è attuale, essa può svilupparsi solo se è presente, il che richiede addestramento, esercizio, disciplina o educazione. Ci si illude spesso sulle virtù costitutive della pedagogia. L' educazione non dona intelligenza a chi ne è sprovvisto né autorità a chi non la possiede né forza a chi non ne ha, ma può solo sviluppare l'intelligenza e la forza di ciascuno. Anche il migliore allenamento non è in grado di procurare ad un atleta che ne sia privo il vigore di un Sindelar, di un Puskas o di un Di Stefano, le qualità di scalatore di un Vietto, di un Coppi o di un Bobet. Sulla scorta di Comte, Alain osserva che «ogni individuo governa secondo la propria forza. Uno è abile nella conduzione della caccia o della guerra; è la sua forza a metterlo al governo. Un altro sa fare piani, conti e previsioni; finché si tratta di lavori e di impresa, egli prevale di nuovo grazie alla propria forza. Un altro sa giudicare gli uomini, persuaderli, prevederli, ingannarli; anche questa è una forza e definisce la sua capacità come amministratore o poliziotto. Un uomo sa comporre lavori teatrali; egli domina in quel campo». 6 Il ridicolo emerge, e talvolta anche la violenza, non appena si tenta di estendere questa forza specifica a settori in cui essa non è più competente: ad esempio, quando il giornalista si considera un riformatore del

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genere umano, il capo di un partito si ritiene una autorità in campo artistico o scientifico oppure lo studente iscritto al sindacato si crede un esperto in questioni amministrative e pedagogiche. Comunque sia, noi siamo quel che siamo grazie alla forza e grazie al pensiero. I detrattori della forza si reclutano in genere tra quanti non hanno che idee di poco valore e che, risentiti e inaspriti nel vedere che il mondo non gira a loro piacere, se la prendono con la resistenza che incontrano, predicano contro la forza con il pretesto che essa non fonda nulla e la identificano con l'oppressione. Ci si domanda su quale base fondino le loro ragioni tutti coloro che vedono nella forza solo sconvolgimento, ingiustizia, errore e perversione. In effetti, ogni forza che si rispetti, in pieno possesso di se stessa, ci dà un'idea di salute e ci affascina per l'equilibrio, la sicurezza, la sovranità, la vitalità e la grazia. Ammiriamo l'eleganza di una dimostrazione matematica, la sobrietà di un'opera artistica, cioè la loro forza. A meno di avere lo spirito afflitto e tormentato da non so quale pensiero meschino, perché non dovremmo lasciarci meravigliare dalla virilità dell'atleta, dall'eleganza dei movimenti che vincono lo sforzo, la rigidità e la goffaggine o ancora dal coraggio e dall'audacia che sono segni di dominio, dunque di forza? Il disordine, l'incoerenza, la confusione, la brutalità e la violenza sono in genere segni d'impotenza e di debolezza, il che significa che si stigmatizza, si denigra la forza per risentimento, mentre essa è serena, pacifica e perfino confortante. Il calciatore in

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forma si destreggia con una facilità, un'eleganza e una sobrietà che disorientano l'avversario, al quale spesso non restano altre risorse, per sopperire alla propria debolezza e spezzare l'armonia, che opporre la brutalità e il «fallo». Un esercito che non si sente più forte non è nemmeno più sicuro di sé e diventa rapidamente preda dell'indisciplina, della confusione e della violenza. La forza, che è padronanza, non solo è esteticamente armoniosa ma molto spesso è anche indice di nobiltà d'animo. Lo si è detto e ridetto, ma non è vano ripeterlo: la virtù è forza. Tutto sommato, il purismo di quanti la denigrano è sterile quanto ipocrita. Esso mira a relegare la forza nella sala oscura di un museo della storia della morale, con il pretesto che essa è umanamente illegittima, mentre trova ogni tipo di scusa e di giustificazione a favore della violenza cosiddetta «storica». Non si tratta di fare della forza il fondamento unico o determinante della vita, poiché l'uomo non è solamente un essere di forza, senza contare che «la forza smisurata cessa di essere ragionevolmente utilizzabile>/, ma si tratta di riconoscere in essa uno dei poteri essenziali dell'umanità, insieme all'intelligenza, alla ragione e al sentimento. Come tutte le altre facoltà essa dà luogo ad abusi e suscita conflitti e contraddizioni, e pertanto non si vede per quale motivo la discriminazione dei moralisti dovrebbe farsi a suo detrimento, quando essa è una delle condizioni dell'armonia e dell'equilibrio umano. Privare l'uomo della forza significherebbe mutilarlo come se lo si privasse della ragione. Significherebbe anche renderlo irragionevole poiché

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tutte la altre facoltà umane vacillerebbero sotto lo stesso colpo e verrebbero ridotte all'impotenza. «La forza, diceva Saint-Just, non fa la ragione né il diritto; ma forse è impossibile farne a meno per far rispettare il diritto e la ragione». 8 In fondo, il discredito della forza è più apparente che reale. In effetti, nella pratica essa continua a giocare un ruolo determinante come in passato, ed è solo da un punto di vista puramente speculativo che la sua autorità è messa in discussione. Forse occorre attribuire questo sfasamento tra la realtà e la teoria alle pretese dell'intellettualità che, come ha ripetuto Hegel, è astuzia. Quest'ultima, tuttavia, si dà assai spesso la zappa sui piedi poiché si illude troppo delle proprie capacità credendo di limitare effettivamente il dominio della forza, mentre non fa che mascherare la sua presenza e la sua azione. Anche se gli uomini si rendono talvolta complici di questa astuzia, raramente ne sono tratti in inganno, poiché riconoscono istintivamente il diritto della forza. Nella forza essi vedono persino una forma di schiettezza, di veracità e uno strumento di chiarezza nella vita politica. Non solo la debolezza attira il disprezzo e accresce l'insolenza degli avversari, mentre la forza suscita la stima o quantomeno il rispetto, ma la stessa pace è duratura solamente se poggia sulla forza e soprattutto su un equilibrio nel rapporto tra le forze. Se è vero, come abbiamo visto precedentemente, che non esistono forze senza controforze, è sbagliato renderla unicamente responsabile delle guerre: al contrario essa è il fondamento della pace tra le nazioni e della concor-

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dia interna. Ad eccezione della pace imperiale, che sotto certi aspetti può sembrare la più stabile e la più duratura, tutte le altre forme di pace, comunque le si voglia chiamare, presuppongono un equilibrio di forze tra gli Stati. Finché questo equilibrio non viene stabilito o riconosciuto la pace non regna. Lungi dall'essere l'elemento malvagio, perturbatore e demoniaco che ci si compiace di denigrare, la forza in politica è al contrario un mezzo essenziale e talvolta l'unico in grado di assicurare efficacemente la stabilità, l'ordine e la giustizia. Sarebbe semplicemente folle - sempre che la cosa fosse possibile - cercare di bandirla, poiché nessuno Stato potrebbe sussistere senza di essa. La politica, come qualsiasi altro tipo di azione, non potrebbe restare nell'indecisione in attesa di trovare la soluzione scientificamente o oggettivamente più giusta di un conflitto oppure la certezza razionale da cui derivino le ragioni dell'agire. La ricerca della verità scientifica è indefinita, ma soprattutto può, senza danno, perpetuarsi nel dubbio e nella sperimentazione, variare e provare uno ad uno i diversi metodi e i diversi procedimenti. L' emergenza politica al contrario non ammette tregua, ma esige una decisione ferma, lungimirante e il più rapida possibile, perché sono in gioco non solo gli interessi, ma anche la vita dei membri della comunità, la loro libertà o il loro relativo benessere e talvolta perfino l'esistenza stessa dell'unità politica. Rifiutarsi di far fronte alla difficoltà per accertarsi prima se l'avversario ha ragione di minacciare o di attaccare significa perdere inutilmente e pericolosa-

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mente il proprio tempo. Quando sono in conflitto interessi ugualmente giusti e rivendicazioni ugualmente fondate, ma contrastanti, a quale di essi bisogna dare la priorità? In mancanza di una certezza logica e razionale, solo la forza può decidere senza esitazione. Questo non vale solo per il potere, ma anche per i governati che, stanchi di non essere ascoltati, fanno ricorso alla forza, allo sciopero ad esempio, per ottenere una decisione. In mancanza di altre ragioni perentorie, esatte ed incontestabili, la forza è un mezzo per avere ragione, e perfino un mezzoragionevole. Che lo si voglia o no, quando esistono pericolo, conflitto e lotta, lo scambio di argomenti serve più spesso a mantenere e aggravare la rivalità che a porvi termine. Molto spesso è perfino impossibile determinare chi è nel proprio diritto poiché ambo le parti lo sono allo stesso modo, nella stessa buona e cattiva fede. Come si può fare intendere ragione agli avversari totalmente presi dalle loro passioni e dalla loro imprudenza, se non con la forza, dal momento che la loro ragione è venuta meno? Questo genere di riflessioni fondato sull'analisi della realtà quotidiana e storica può irritare i detrattori sistematici della forza che si dilettano a preconizzare teoricamente ed intellettualmente una soluzione armoniosa dei conflitti, come se questi fossero solo l'espressione di contraddizioni logiche. Questo metodo, tutto sommato non è che un modo di risolvere il problema negandolo, poiché i conflitti sono precisamente dei confronti o delle prove di forza che talora spingono la rivalità fino in fondo, fino alla sconfitta di una delle

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parti, talora si adattano ad un compromesso. Prescindere dal dato elementare della forza significa non avere alcun senso del conflitto e non conoscerne la natura. Prescindendo dal numero non si risolve nemmeno un problema di aritmetica. Noi chiamiamo forza l'insieme dei mezzi di pressione, di coercizione, di distruzione e di costruzione che la volontà e l'intelligenza politiche, fondate su istituzioni e associazioni, adoperano per contenere altre forze nel rispetto di un ordine convenzionale oppure per spezzare una resistenza o una minaccia, combattere forze avverse o ancora per trovare un compromesso o un equilibrio tra le forze che si confrontano. 4. Non esiste politica senza forza

Quale ruolo gioca la forza in politica? Le considerazioni precedenti ci fanno capire che essa è un giudizio, e perfino un giudizio giusto e ragionevole. Contrariamente a quanti la considerano una sospensione del diritto, la forza «fa il diritto», secondo l'espressione di Proudhon. 9 Certamente, egli considera quasi esclusivamente il diritto della forza nel quadro delle relazioni tra gli Stati, vale a dire sotto la forma del diritto di guerra, e da questo punto di vista lo considera legittimo quanto il diritto dell'intelligenza, il diritto del lavoro o il diritto dell' amore. 10 In questo senso, la forza riveste il ruolo di principio costitutivo degli Stati, talora perché, per mezzo di conquiste, Stati fino ad allora autonomi si fondono in uno Stato nuovo e più grande, talora perché, in se-

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guito a guerre di indipendenza, un territorio si stacca dal vecchio Stato per formare una nuova unità politica. A ragione Proudhon pone quanti negano la forza di fronte alle loro contraddizioni: «Si nega il diritto della forza; lo si tratta come una contraddizione, una assurdità. Che si abbia dunque la buona fede di negarne anche le opere; che si domandi la dissoluzione di questi immensi agglomerati di uomini, la Francia, l'Inghilterra, la Germania, la Russia: che si attacchino queste potenze, che certamente non sono nate tutte armate delle energie della natura, e che nessun sofisma potrebbe far dipendere da un principio diverso dalla forza». 11 Questa risulta non certo come lo strumento di formazione della società in generale, poiché l'uomo vive normalmente in società, ma delle comunità politiche particolari. Naturalmente, non è sempre necessario che la forza intraprenda la via del conflitto per riunire gli Stati in unità politiche più grandi o per distaccare una nuova unità politica dalla vecchia: la minaccia o la paura della forza e della guerra pervengono talvolta al medesimo risultato. Consideriamo qualche esempio contemporaneo. L'unità europea che alcune menti politiche preconizzavano sin dal XIX secolo, ha cominciato a diventare una realtà più o meno concreta sotto l'effetto della pressione che la Russia esercitava sull'Europa occidentale intorno agli anni '50, mentre le antiche colonie francesi in Africa sono divenute Paesi indipendenti, da un lato perché la Francia si spossava nella guerra d'Algeria e dall'altra perché voleva evitare che si ripresentassero i problemi già emersi in Madaga-

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scar e Camerun. A prescindere dal tipo di Stato o di regime, la forza e la paura della forza sono determinanti. Pertanto, negare la loro importanza nello sviluppo della civiltà, di qualsiasi civiltà, significa voltare le spalle alla realtà. Se è vero che la forza è una cosa buona, utile e feconda e che rappresenta uno dei motori della civiltà, occorre anche tirarne le conseguenze, e accettarla come uno degli aspetti della giustizia e della dignità umana in politica. Allorché scoppia un conflitto, il fatto che gli uomini immediatamente si schierino con una delle forze rivali non sta proprio a significare che ad esso si attribuisce la capacità di far giustizia, foss' anche sotto la forma d'una colpevolezza unilaterale? Quando si ammette che la causa di uno dei belligeranti o antagonisti è buona e giusta e che quella dell'avversario è cattiva ed iniqua, ciò non significa per l'appunto riconoscere che si accorda alla forza il valore di un giudizio? Questo modo di amministrare la giustizia è tuttavia puramente clericale. È infatti assurdo condannare il principio della forza e giustificare alcune delle sue manifestazioni particolari e storiche. Quando si riconosce in un modo o nell'altro una capacità giurisdizionale alla forza, la retta ragione vuole che la si consideri giusta, tenuto conto degli abusi, da una parte e dall'altra. In effetti, nulla sembra più insensato, in presenza di un conflitto, dell' accordare le proprie simpatie ad una delle forze malgrado gli abusi, fossero anche infamanti, e di scagliarsi contro l'altra a causa degli abusi che commette. Le discriminazioni di questo tipo invocano in ge-

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nere un fine morale per giustificare le loro preferenze, il che significa che esse finiscono con lo screditare anche la morale. Infatti, la morale non è mai stata un congegno per discolpare in modo discrezionale abusi ed errori: la morale non è una apologetica. Chiunque rinunci ad una giustificazione di parte per giudicare la cosa politica nei limiti di una ragione sobria e semplicemente lucida, è portato ad attribuire alla giurisdizione della forza un valore positivo, a patto che riconosca che quando vi sono delle forze contrapposte o un conflitto occorre ricercare una soluzione nel quadro della questione posta dalle forze rivali. La forza è anche il mezzo usuale dell'attività politica ordinaria, qualunque sia la natura degli obiettivi di uno Stato, per garantire la sicurezza esterna e mantenere la concordia interna. Non c'è Stato senza polizia, senza esercito e senza tutti gli altri mezzi materiali che la difesa del territorio implica, a meno che non possa contare sulla protezione di vicini potenti. A nulla è servito al piccolo Lussemburgo, lasciato a se stesso e senza forze armate, manifestare la più pacifica delle volontà: Hitler non si è lasciato intenerire dalla sua debolezza. Da questo punto di vista, l'antimilitarismo è politicamente un nonsenso che le migliori ragioni morali non riescono a giustificare. Per antimilitarismo intendiamo, in questa sede, l'ostilità ideologica alle armi in sé che si esprime o nel pacifismo di principio, che nega astrattamente l'inimicizia e aspira altrettanto astrattamente alla pace, indipendentemente dalla situazione internazionale presente, oppure nella demagogia riguardo gli stan-

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ziamenti militari, con il pretesto di favorire i dipartimenti ministeriali che devono gestire attività con pretese umanitarie e morali. 12 Non ritorneremo sul1' aspetto utopico di quella concezione della pace che rifiuta di vedere in essa un atto politico. Vale invece la pena di esaminare _più da vicino la concezione umanitaria della morale che funge da base alla demagogia antimilitarista e all'obiezione di coscienza. Senza nulla togliere alla sincerità delle convinzioni e alla nobiltà individuale delle intenzioni degli obiettori di coscienza, ci si deve comunque chiedere se sia possibile condannare d'autorità certe attività normali e necessarie della vita collettiva considerandole malvagie per natura. A questa stregua, esisterebbero anche una bellezza e una bruttezza o anche una verità e un errore per natura, a prescindere dall'opera, dal ragionamento o dalla ricerca. L'affermazione secondo cui ci sarebbero attività buone o cattive per natura caratterizza per l'appunto il settarismo, il dogmatismo e il fanatismo. Se il mestiere di soldato fosse cattivo in assoluto, si potrebbe, con argomenti analoghi, dimostrare che lo sono anche quello di giudice, di istruttore o di economista. Di fatto, un'attività diventa buona o cattiva in virtù della nostra azione, del nostro comportamento che v'introduce la malvagità, la malevolenza o l'ingiustizia. L'obiezione di coscienza è, per certi aspetti, un rifiuto della solidarietà e l'affermazione di un individualismo che vuole essere eticamente esemplare, secondo la morale della convinzione che, come ha messo in evidenza Max Weber, fugge la responsa-

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bilità per incapacità di «sopportare l'irrazionalità etica del mondo». 13 L'umanità non si divide nell'uomo: il dovere verso Cesare è un aspetto del dovere umano generale. È falso dire che l'uomo è unicamente intelletto o unicamente amore o unicamente bisogno o unicamente forza quanto è specioso considerare l'amore come un bene assoluto e la forza come un male assoluto. Le relazioni internazionali hanno essenzialmente il loro fondamento nel rapporto di forze. Se Cuba, ad esempio, è causa di così tante preoccupazioni per la politica degli Stati Uniti, non è tanto in ragione dell'ideologia che regna in quel paese quanto a causa della potenza sovietica che si profila dietro le rivendicazioni di Fidel Castro e che rischia di spezzare un equilibrio già precario. La disuguaglianza di statuto dei membri del Consiglio di sicurezza dell'Onu è l'espressione della disparità di forza tra i Paesi che occupano un seggio permanente al Consiglio di sicurezza e quelli che vi partecipano solo temporaneamente. Il diritto internazionale è esso stesso incapace di escludere l'uso della forza, senza contare che un numero grandissimo delle sue disposizioni hanno per oggetto la risoluzione dei problemi di preponderanza e di dominio o la determinazione delle convenzioni che limitano e regolano solamente l'impiego legittimo della forza. Quanto alla guerra, essa ha lo scopo di modificare i rapporti di forza esistenti. Non è necessario soffermarsi a lungo su questi punti, in quanto la spiegazione non aggiungerebbe nulla all'evidenza.

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Altrettanto importante è il ruolo della forza nella politica interna. Tralasciamo certi impieghi che saltano all'occhio e dei quali nessuno Stato può fare a meno: la polizia, l'apparato giudiziario, gli organi di controllo amministrativo. Vi sono altri fenomeni che sono generalmente presentati come necessità dell' ordine o dell'interesse pubblico, che sono tuttavia soprattutto degli atti di forza: l'espropriazione, le nazionalizzazioni, le statalizzazioni, ecc. Quante riforme occorre ogni volta imporre d'autorità perché i diretti interessati le ostacolano e si rifiutano di acconsentire liberamente per spirito di conservatorismo e per abitudine, o per impossibilità di superare interessi divergenti che si scontrano e quindi intralciano qualsiasi innovazione! Il principio su cui poggia la democrazia parlamentare e liberale, quello della maggioranza e della minoranza, è l'affermazione della forza del numero. I sindacati, le diverse associazioni di difesa includono in genere, tra i loro mezzi d'azione, l'appello alla forza. Nella nostra vita quotidiana ci scontriamo continuamente con norme, divieti, proibizioni e formalità, che dobbiamo rispettare, pena l'ammenda: il codice della strada, le imposte, il servizio militare, ecc. 5. La coercizione

In linea di massima, la vita politica si colloca sotto il segno della coercizione, essendo quest'ultima la manifestazione specifica della forza pubblica senza la quale non solo non ci sarebbe alcun ordine ma nem-

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meno lo Stato. Dato che ogni Stato è coercizione, poiché poggia sul presupposto del comando e del1' obbedienza, la forza è inevitabilmente il mezzo essenziale del politico e appartiene alla sua essenza. Tuttavia, ciò non significa che essa costituisca tutta l'unità politica né che sia l'unico mezzo della sua autorità, poiché lo Stato è anche una organizzazione giuridica, soprattutto oggi che, sotto l'influenza della crescente razionalizzazione della vita in generale, la legalità tende a moderarne gli interventi diretti. Nondimeno, per capitale che sia la razionalizzazione in senso legalista nelle società moderne, nel momento in cui sorge un conflitto all'interno di un sistema di legalità e gli avversari rifiutano qualsiasi compromesso, non resta che la forza per risolvere in ultima istanza la questione. Non che essa sia un fine in sé né che lo Stato esista solo per applicare la forza in quanto tale; essa è al servizio dell'ordine e del rispetto delle usanze, dei costumi, delle istituzioni, delle norme e delle altre strutture giuridiche. Senza dubbio, non c'è concordia senza regole, convenzioni o leggi comuni e valevoli per tutti i membri, dunque non c'è ordine senza diritto (qualunque sia la sua natura: consuetudinario o scritto). Così lo Stato risulta anche come strumento di manifestazione del diritto, sia che consacri costumi già esistenti, sia che promulghi leggi nuove. Tuttavia, senza la coercizione e la possibilità di applicare sanzioni a quanti contravvengono alle prescrizioni e alle leggi, l'ordine non potrebbe essere mantenuto a lungo. Inoltre, poiché essa è monopolio di un determinato Stato, la coercizione è la

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ragione del particolarismo di ogni diritto positivo. In altre parole, non esiste un Codice civile o un diritto amministrativo come idea intelligibile, ma esistono il Codice civile francese, tedesco o greco, il diritto amministrativo inglese, italiano, americano o russo che corrispondono alla tradizione e allo spirito proprio di ciascuna collettività, anche se, per quanto concerne certe disposizioni, una legislazione può rivolgersi ad un'altra. Il diritto naturale può ambire all'universalità perché non è sottoposto ad alcuna coercizione, contrariamente al diritto positivo che è necessariamente particolare, per il fatto d'essere valido solo all'interno di una determinata comunità, la quale dispone della coercizione per far rispettare le sue leggi e le sue norme. Che cos'è la coercizione? Essa è la pressione che un'autorità o un determinato gruppo esercitano sui loro membri per richiamarli all'ordine, far rispettare leggi e convenzioni in vigore e eventualmente punire i recalcitranti. La coercizione implica dunque la subordinazione dell'attività e dell'arbitrio individuale a un ordine comune, cioè forza l'individuo a comportarsi in una determinata maniera nell'interesse di ognuno e di tutti in quanto vivono insieme. Senza coercizione nessuna vita collettiva o comunitaria è possibile né in termini politici né in termini di coesistenza economica, religiosa, sindacale, ecc. Nella misura in cui la fede religiosa non è puramente soggettiva e interamente personale, vale a dire che non esprime il sentimento di elezione di chi è privilegiato da una speciale grazia divina, ma è anche un fenome-

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no religioso nel senso etimologico di un legame, di un rapporto con gli altri e di una partecipazione comune a riti e cerimonie, essa richiede necessariamente l'adesione a una comunità, a una parrocchia, insomma a una chiesa che riunisca organicamente tutti i fedeli della stessa fede e imponga loro una determinata condotta, sia tramite l'affermazione di una ortodossia sia tramite la sottomissione a delle regole. In questo senso, ogni chiesa è un'organizzazione temporale al servizio della fede e, in quanto tale, si costituisce necessariamente come potenza ierocratica con le sue istituzioni, le sue strutture, il suo diritto ed esercita una coercizione. Ciò che vale per ogni comunità religiosa vale anche per qualsiasi altra specie di associazione strutturata, anche se fondata su un consenso reciproco, e in fin dei conti vale per qualsiasi impegno con gli altri, ad esempio il contratto: ne derivano degli obblighi e dunque una coercizione. Questa può assumere le forme più disparate, come ha sottolineato Max Weber, 14 dalla semplice esortazione fraterna, tipica delle comunità religiose, fino alle sanzioni fisiche, di cui la pena di morte costituisce la forma suprema. Essa può anche assumere le forme abusive dell'oppressione e dell' assoggettamento. Come il comando, essa comporta un aspetto discrezionale da parte dell'arbitrio dell'autorità o da parte dell'interessato che può ribellarsi o tentare di sfuggire alla coercizione. Si può mettere in discussione lo spirito della sociologia di Durkheim, ma la sua analisi della coercizione resta nondimeno un'acquisizione positiva, in

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particolare laddove ha evidenziato con molta chiarezza ed acume che essa è una forza che si esercita sugli uomini dall'esterno, in modo diffuso grazie ali' opinione che si fonda sulla tradizione, le usanze o la moda, o in modo diretto e organizzato tramite le istituzioni dello Stato sulla base di norme, leggi e sentenze giuridiche. Egli ha avuto ragione anche nel mettere in evidenza il fatto che la pressione esercitata dalla coercizione si fonda sulla minaccia o sull'applicazione di sanzioni. Ciò non significa che l'obbedienza politica, ad esempio, sia unicamente una sottomissione a una forza coercitiva poiché, come abbiamo visto, possono intervenire i motivi più disparati: lo spirito civico così come le convinzioni religiose o morali oppure l'adesione ideologica. Comunque sia, la provenienza esterna della coercizione è indiscutibile e in questo essa si distingue dalla disciplina personale che l'essere si impone volontariamente, intesa come padronanza di sé. In nessun caso si potrebbe equiparare unilateralmente la coercizione, che è una manifestazione della forza, all'oppressione, che presuppone la trasformazione della forza in violenza. L'uomo può liberarsi della seconda, non della prima. Man mano che il proletariato è riuscito a svincolarsi dal pesante giogo dell'asservimento economico, la stessa razionalizzazione del lavoro industriale (che storicamente è stata all'origine della nascita del proletariato) e lo sviluppo tecnico davano luogo ad altre inevitabili coercizioni che sostituivano le precedenti. Che il regime sia sociale, liberale, socialista o comunista, il proletariato è costretto a rispettare l'orario di

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lavoro in fabbrica, ad accettare le condizioni della moderna divisione del lavoro e l'organizzazione del tempo libero e delle ferie, a piegarsi alle incessanti riconversioni e alle trasformazioni, per il fatto che, ad esempio, nuove forme d'energia (elettricità, petrolio) soppiantano le vecchie (carbone, ecc.). La coercizione politica è una delle forme caratteristiche della pressione sociale e uno degli aspetti tipici della coercizione diretta, in quanto è sostenuta da istituzioni e norme definite e gode dell'autorità della legalità. Ma soprattutto occorre insistere sul suo carattere ineluttabile, dato che non potrebbe esistere politica senza forza, appartenendo quest'ultima alla definizione dell'essenza del politico in generale e non a quella del diritto. Dire che il diritto è coercitivo non significa altro che questo: esso è l'insieme delle norme positive di una determinata unità politica, che un governo è in grado di far rispettare grazie all'apparato coercitivo (polizia, tribunali) di cui dispone. In altre parole, solo la coercizione politica attribuisce validità empirica al diritto che, in sua assenza, sarebbe solo un mero sistema di norme. È certamente possibile intentare processi contro lo Stato perché una delle sue decisioni non è conforme alla legge; si può anche contestare l'opportunità, l'efficacia e la legalità dei suoi atti. Al contrario, mettere sotto accusa la legittimità del suo potere di coercizione, significa scalzare le sue fondamenta e in fin dei conti distruggerlo. Le rivoluzioni potevano insorgere contro l'arbitrio e l'oppressione dell'antico regime, diventati insopportabili, e dare pure l'illu-

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sione che esse avrebbero soppresso ogni coercizione; tuttavia, dopo la loro vittoria, non seppero fare altro che ristabilirla con i suoi corollari, cioè il controllo e la sanzione, pena la liquidazione delle conquiste rivoluzionarie e, al tempo stesso, la morte dello Stato. Nella nostra epoca di crescente razionalizzazione ogni unità politica e soprattutto ogni regime rivoluzionario sono immancabilmente spinti a concentrare sempre più i mezzi coercitivi in un immenso apparato di coercizione. Non c'è Stato senza forza, ma lo Stato veramente forte è quello che riesce a dissimulare la forza nelle forme, nelle usanze e nelle istituzioni senza doverla brandire continuamente per minacciare o intimidire i membri che ne fanno parte. La coercizione diviene, per così dire, impercettibile poiché la legalità coincide con la legittimità, la potenza diviene garanzia di sicurezza. Non che un simile Stato non si imbatta in difficoltà, conflitti e crisi - incidenti normali in qualunque società politica ma esso li domina e impedisce loro di degenerare in dissensi e discordie civili mettendo in pericolo il regime o la costituzione. In questo senso la forza è una assicurazione contro la violenza. Forza, debolezza e violenza appartengono allo stesso genere, con la differenza che la debolezza è una carenza e la violenza un abuso della potenza fondata sulla forza. Quest'ultima è, per usare una felice formula di Aristotele, il giusto mezzo tra l'eccesso e il difetto 15 poiché, come abbiamo visto, la forza che resta in armonia con la propria funzione è condizione di equilibrio, di pace, di ordine e anche di grazia.

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Aggiungiamo, sempre nello spirito della filosofia aristotelica, che essendo un mezzo, essa non può essere considerata un bene in sé, ma è disposizione ad agire in modo ragionevole che l'eccesso e il difetto rischiano di compromettere. Il ragionamento che trae pretesto dagli abusi della violenza per tentare di screditare la forza è erroneo come quello che vorrebbe trovare «negli errori giudiziari, nella venalità dei magistrati, nell'oscurità della legge, nell'astuzia delle parti avverse» delle ragioni per «disconoscere la giustizia che ha presieduto all'organizzazione dei tribunali». 16 Non appena la forza è contestata, nasce la violenza. Così la dittatura diviene ineluttabilmente un regime di violenza non appena contrasta con mezzi artificiali il gioco naturale delle forze e delle resistenze che esistono normalmente in ogni società ed impedisce che si stabilisca il necessario rapporto di forze senza il quale un'unità politica diviene preda della paura e del terrore. Al contrario della democrazia classica, che accetta la pluralità delle forze nel rispetto della coercizione statale (il principio della maggioranza e della minoranza e la legittimità dell'opposizione ne sono le manifestazioni), la dittatura non riconosce che una forza esclusiva e perciò dà luogo a situazioni aberranti, poiché, fenomenologicamente, non c'è azione senza reazione, non c'è forza senza resistenza o controforza. La debolezza provoca a sua volta la violenza poiché è incapace di cogliere il vero rapporto tra le forze e di adattarvisi. Padrona del potere e dell'apparato coercitivo, si lascia tirare in tutti i sensi dalle forze

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contrarie senza dominarle e senza poter imboccare una precisa direzione. Incapace di prendere decisioni opportune e di operare le trasformazioni necessarie, spreca tutta la sua energia a prendere misure errate e cerca di rompere l'opposizione con disposizioni artificiali fino al giorno in cui, malgrado la polizia e l' esercito che ufficialmente controlla, si fa schiacciare dalla forza contraria dominante. Da questo punto di vista, si potrebbe definire la violenza come il disordine che nasce dalla debolezza. In fondo, la violenza e la debolezza sono distruttive e solo la forza può realmente costruire un ordine. Solo laddove regnano la forza e l'ordine il dominio dell'uomo sull'uomo non è diretto e brutale, poiché tra il comando e l' obbedienza si interpongono la legge e tutto l'apparato giudiziario e legale. La violenza e la debolezza al contrario, dato che la serenità della forza e la fiducia che essa ispira vengono meno, sono condannate a ricorrere a espedienti e a misure di circostanza; sono schiave dell'emergenza che esse stesse generano: la violenza in quanto impazienza e collera, la debolezza in quanto cerca di compensare la propria impotenza con l'arbitrio. Per comprendere bene il ruolo della coercizione, è necessario non confondere appartenenza politica e appartenenza ideologica o religiosa. L'adesione a una Chiesa o a una setta qualsiasi, ad esempio, esige un minimo di fede e una convinzione. Per essere membro di una unità politica, al contrario, non è indispensabile essere convinti della giustezza e della validità delle idee e delle opinioni degli uomini o del

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partito al potere, e nemmeno dei partiti o gruppi che sollecitano i nostri voti. Non è neanche necessario aver fiducia nelle capacità della politica in quanto tale. Proprio perché l'adesione e la convinzione non sono indispensabili è necessaria la coercizione che, agendo sui rapporti esterni tra gli individui, è l'unica in grado di stabilire un accordo e eventualmente una conciliazione tra gli interessi, le opinioni e le convinzioni divergenti, talvolta contraddittorie. La coercizione agisce unicamente sulla volontà, sull'intelletto lo può fare solo in modo marginale. Il suo ruolo non è quello di convincere, ma di obbligare i membri della collettività a rispettare esteriormente un numero di regole per rendere possibile la vita in comune nell'interesse di tutti. È in questo senso molto semplice che la forza è realmente un giudizio ragionevole. Se dunque si prendono la forza e la coercizione per quello che sono, tutte le opposizioni consuete che si stabiliscono tra la forza e l'intelletto, tra la forza e la ragione, non hanno più alcun senso. Ma soprattutto è possibile analizzare in modo positivo e critico le relazioni tra la forza e il diritto, senza cadere nelle confusioni polemiche e nelle controversie puramente dottrinali che possono solamente falsare il dibattito. 6. Forza e diritto

Inutile sottoporre a discussione la posizione apparentemente morale che immediatamente, e senza riflessione critica né analisi, mette la forza sotto ac-

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cusa per decantare i vantaggi e la felicità di una società governata unicamente dal diritto. Esiste un secondo modo di porre il problema, che considera la questione dal punto di vista dell'anteriorità temporale: viene prima la forza o il diritto? Come nota ironicamente Cari Schmitt, una simile domanda somiglia molto al circolo eristico che riguarda l'anteriorità cronologica dell'uovo o della gallina, 17 essa è cioè speciosa ed insolubile come tutte le questioni concernenti l'origine. Più frequentemente, tuttavia, il problema viene considerato non dal punto di vista dell'origine storica, ma da quello del fondamento logico: il diritto deriva dalla forza o, al contrario, ha il proprio fondamento in se stesso? In quest'ultimo caso, qual è il suo rapporto con la forza? È di per sé coercitivo oppure mutua il suo potere di coercizione dalla forza politica che gli è esterna? In genere a queste domande si dà una risposta astratta facendo notare che se la forza precedesse il diritto o se questo ne derivasse, occorrerebbe supporre che il diritto doveva già essere virtualmente contenuto nella forza, cioè che la forza doveva già essere del diritto, altrimenti non si comprenderebbe come l'una possa generare l'altro. Supponiamo che la forza costituisca il fondamento del diritto oppure che questo sia il risultato di una distribuzione delle forze sociali. In questo caso si affermerebbe il diritto nel momento stesso in cui si afferma la sua forza, il diritto cioè sarebbe legittimo perché legittima è la forza. Ora, si osserva, l'affermazione della legittimità della forza presuppone un'idea di diritto. D'altronde

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l'uomo vede nel diritto e nella giustizia qualcosa di differente da un insieme di decisioni di fatto: un sistema di norme poggiante su ciò che dovrebbe essere. Se dunque la forza è il fondamento del diritto, tutto ciò che la forza vuole sarebbe giusto; la nostra idea consueta, ma anche morale e filosofica della giustizia cadrebbe nell'arbitrio. Non è possibile, infatti, separare concettualmente la nozione di giustizia dalle credenze in un dover essere e in un sistema di valori. Se consideriamo l'omicidio un crimine, dunque un atto infame e ingiusto, è perché abbiamo in precedenza affermato sul piano normativo e morale il valore della vita, di qualsiasi vita. Stando così le cose, come è possibile sostenere che la forza fa il diritto o che essa è il suo fondamento, senza perdersi in una serie di contraddizioni? Se si riconosce la validità di questo ragionamento, occorre anche accettarne le conseguenze: dal momento che la forza di uno solo non fa il diritto, non lo farà nemmeno quella di cinquanta uomini né quella di una maggioranza, di una massa, di una classe né il numero più alto, poiché il diritto e la giustizia in quanto fondati su norme sono ben altro che una questione di quantità. Questo non sequitur è, ad esempio, alla base della filosofia del diritto di Marx, nella misura in cui egli confonde essere e dover essere. Da un lato, egli fa del proletariato la classe destinata a emancipare l'uomo in quanto epicentro della sofferenza universale e della giustizia, non avendo egli mai commesso un qualche torto particolare, 18 dall'altro la salvezza degli oppressi non è mai posta in termini di diritto, bensì di forza e di

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potenza sotto forma di lotta di classe e di dittatura del proletariato. Cosa dobbiamo pensare della tesi opposta secondo la quale il diritto sarebbe, come afferma ad esempio Kelsen, «un ordinamento coercitivo», 19 nel senso che il diritto, in quanto tale, comporterebbe la forza? Laddove la prima tesi diceva: la forza fa il diritto, questa afferma: il diritto fa la forza. Si tratta, a nostro giudizio, di una concezione da respingere, specie dopo che sono state esaminate le conseguenze della teoria kelseniana; se il diritto fosse un insieme di norme che comprende in sé la coercizione, lo Stato e il comando diverrebbero solamente delle manifestazioni derivate dal diritto, il politico sarebbe cioè subordinato al giuridico. Non sarebbe più un'essenza. Si comprende in questo caso come Kelsen abbia cercato anche di bandire la nozione di Stato allo stesso modo con cui la fisica ha rigettato quella di causa e la psicologia quella di anima, con il pretesto che si tratterebbe di entità metafisiche. 20 Non tratteremo questa conseguenza, sia perché per essa valgono le stesse critiche che valgono per le dottrine che subordinano la politica all'economia o alla morale, sia perché il tema stesso di questo lavoro ha per oggetto la confutazione di questo tipo di tesi. Il positivismo di Kelsen va anche più lontano: è anche una negazione della morale. Infatti, nella misura in cui nega il diritto naturale, nega anche la possibilità di una qualsiasi giustizia diversa da quella stabilita dalla legge: dato che la coercizione esercitata dal comando è una mera manifestazione giuridica, tutto ciò che

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decide un governo, comprese le misure più disumane, deve essere considerato giusto. Kelsen resta, dunque, fedele al proprio pensiero quando dichiara: «Dal punto di vista della scienza giuridica il diritto stabilito dal regime nazista è diritto. Possiamo rammaricarcene, ma non possiamo negare che si tratta di diritto. Il diritto dell'Unione sovietica è un diritto! Possiamo esecrarlo così come proviamo orrore per un serpente velenoso, ma non possiamo negare che esista, il che significa che ha validità». 21 È evidente che Kelsen ha ragione quando dice che le leggi promulgate da Hitler fanno parte del diritto. Ma si tratta di un diritto giusto? Nella misura in cui egli usa, nel testo appena citato, i termini «rammaricare» e «orrore», lascia intendere che questo diritto non è in effetti tale. È qui che Kelsen diventa incoerente, poiché, utilizzando questi vocaboli, ammette implicitamente che esiste una giustizia diversa da quella del solo diritto positivo. In effetti, queste nozioni non hanno nulla di positivo. Di qui la contraddizione che è al cuore del sistema kelseniano. Se non esiste altro diritto al di fuori di quello positivo e dunque altra giustizia al di fuori di quella positiva e se la coercizione è inerente al diritto, tutto ciò che è stabilito dalla politica è giusto in quanto si tratta di una derivazione del diritto. Pertanto, non vi è altro bene al di fuori di quello consentito dal diritto e altro male al di fuori di quello che il diritto proibisce. Assieme al diritto naturale, è la morale ad essere esclusa; al contrario, solo nella misura in cui la legge è una decisione politica, cioè l'espressione di una volontà

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discrezionale capace di imporre le proprie direttive con la forza di cui dispone, diventa possibile in nome della morale condannarla o rammaricarsi delle sue direttive. Biasimare una conseguenza logica e necessaria sarebbe infatti irragionevole quanto biasimare una qualsiasi altra necessità. Se il comando deriva dalla coercizione giuridica, non è nient'altro che una conseguenza. Il carattere imperativo del comando non ha niente del dover essere morale; esso è, per usare i termini di Carl Schmitt, Befehl e non Gebot. 22 Quest'ultimo a differenza del primo esige senza costringere. Tutto sommato, dicendo che il diritto è comprensivo della coercizione lo si fa diventare una semplice forza, e una forza tanto più pericolosa quanto più è al contempo giusta nel quadro del rigoroso positivismo giuridico. Occorre dedurre da questa discussione che la forza e il diritto sono due nozioni concettualmente autonome, ciascuna con il proprio significato? Questa sembrerebbe la conclusione più logica. Non ci sarebbe in questo caso nessuna subordinazione del diritto alla forza e viceversa; entrambi sarebbero ugualmente originari, vale a dire che il sentimento di giustizia sarebbe primitivo nell'uomo come l'uso della forza. Sarebbe esclusa ogni teoria che fa del diritto una sovrastruttura delle forze sociali. La relazione tra i due consisterebbe in scambi dialettici che possono essere amichevoli o ostili, a seconda delle circostanze; tra di loro si potrebbe stabilire una collaborazione e potrebbero sorgere conflitti. La forza non potrebbe essere interpretata come una sospensione del diritto e

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quest'ultimo non potrebbe soppiantare la forza nel corso dello sviluppo delle civiltà, vale a dire che il perfezionamento delle tecniche giuridiche così come la moltiplicazione e il rafforzamento delle istituzioni e delle relazioni giuridiche non diminuirebbero affatto il dominio della forza. Al contrario, diritto e forza costituirebbero due elementi ugualmente fondamentali e necessari, permanenti e ineluttabili della vita collettiva. Il diritto sarebbe la norma dell'equità e della concordia indispensabili in una città, e la forza o coercizione, privilegio del potere politico, sarebbe il mezzo per stabilire empiricamente un ordine che sia il più conforme possibile e talvolta contrario alle norme del diritto. Dire che il diritto è coercitivo significherebbe dunque solamente che esiste un potere politico che riconosce la validità e la giustezza delle norme giuridiche e fa uso, all'occorrenza, della coercizione per obbligare i membri della collettività a riconoscerle ugualmente valevoli. Ad ogni modo, la coercizione non concernerebbe le norme stesse ma unicamente l'esecuzione delle attività che si orientano secondo le loro prescrizioni. In effetti, l'applicazione non aggiunge nulla alla norma, vale a dire che una disposizione del diritto non diviene più giusta perché è rispettata. Benché quest'interpretazione sembri corrispondere più all' esperienza generale, non è del tutto soddisfacente, in quanto non considera la confusione pericolosissima che falsa la maggior parte delle concezioni del rapporto tra forza e diritto. Il concetto di diritto non è univoco, per quanto

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comunemente si distingua tra diritto naturale e diritto positivo. Quando dunque si studia il rapporto tra il diritto e la forza o quando li si contrappone, si tratta di sapere se nel raffronto si consider-a il diritto naturale o il diritto positivo. Callicle non manca di rimproverare a Socrate di giocare su questa confusione: «In molti casi, natura e legge sono in pieno contrasto tra loro. Chi, dunque, abbia pudore e non osi dire quello che pensa, è costretto a contraddirsi. Ebbene, tu, scoperto questo trucco, disonestamente lo usi nel corso della discussione: se uno intende dire "secondo legge", tu incalzi con una domanda insinuando "secondo natura", e se, invece, l'altro intende dire "secondo natura", tu intendi "secondo legge"». 23 Nel celebre terzo capitolo del primo libro del Contratto sociale, in cui Rousseau critica la nozione del diritto del più forte, egli parla del diritto come di un problema di «moralità» e di «dovere», la qual cosa lascia supporre, in tutta verosimiglianza, che egli avesse in mente solamente il diritto naturale, nel senso che il XVIII secolo attribuiva a questa espressione. La questione è dunque di sapere se il senso dei rapporti tra forza e diritto naturale sia o meno differente dal senso dei rapporti tra forza e diritto positivo. A complicare ulteriormente le cose, il concetto di diritto naturale, a differenza del diritto positivo, è a sua volta equivoco. Non ha lo stesso significato per i filosofi greci, per gli stoici e i giureconsulti romani, per Graziano o San Tommaso d'Aquino e per Hobbes, per Grozio e per Rousseau. Queste differenze derivano dalle molteplici accezioni del concetto di

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natura. Se pensiamo, con i sofisti, che per la natura il più forte debba fare la legge, non sussistono più problemi: il diritto naturale è il diritto della forza che deve sempre cedere ad una forza maggiore. Se intendiamo che l'uomo è per natura ragionevole, il diritto naturale avrà il significato che gli hanno attribuito Aristotele e gli stoici; questa è l'accezione più comune. Tuttavia, il concetto di questo diritto naturale e razionale può formularsi in maniera diversa. A volte designa la giustizia e l'insieme delle norme della coscienza morale, nel senso del oi x:a10v di Aristotele o dello ius di San Tommaso d'Aquino, che devono ispirare la volontà del legislatore, a volte i princìpi comuni a tutti gli uomini desiderosi di costruire o di ricostruire la società secondo le regole della giustizia sociale (questa concezione moderna è stata sviluppata in direzioni diverse da Hobbes, Grozio, Locke, Rousseau, ecc.). Il concetto di diritto naturale si lascia dunque interpretare come un concetto morale obiettivo o come l'insieme delle regole concernenti l'ordinamento più giusto del mondo esterno. A tutto ciò si aggiunge un'ulteriore difficoltà: numerosi giuristi moderni negano completamente il diritto naturale; taluni, come Bergbohm, vi vedono perfino un pericolo per la costituzione di una legislazione adeguata. A dire il vero, questa negazione è essenzialmente teorica. In effetti, tutti coloro che, ad esempio, in nome della giustizia, rivendicano la fine del colonialismo, oppure una riorganizzazione della società per dare al proletariato il posto che ad esso spetta, negano il più delle volte in modo esplicito il diritto

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naturale, mentre queste stesse rivendicazioni esprimono, almeno a livello implicito, una credenza persistente nel diritto naturale, cioè in una giustizia superiore a quella stabilita dal diritto ordinario. L'idea stessa di giustizia sociale non è che un altro modo di esprimere la permanenza del diritto naturale. Dire che le disposizioni del diritto positivo sono ingiuste equivale così a rifarsi ad una concezione della giustizia che non ha nulla di positivo, ma che è morale, dato che la concezione classica del diritto naturale assimila la giustizia alla morale. Il problema dei rapporti tra diritto e forza si pone allora in termini più precisi e più rigorosi. Così come non bisogna confondere forza e violenza, occorre allo stesso modo distinguere diritto naturale e diritto positivo. Il concetto di diritto, in genere, implica analiticamente la nozione di limitazione: il diritto cioè proibisce alcune cose e ne consente altre, riconosciute come legittime, in maniera tale che ogni uomo può esigerle in nome della giustizia. Tuttavia, il diritto positivo esprime questa limitazione in modo differente dal diritto naturale. Quest'ultimo, proprio perché invoca la giustizia della coscienza morale, considerata comune a tutti gli uomini, si presenta innanzitutto sotto la forma di un imperativo categorico, afferma cioè la validità di norme immutabili e universali, indipendenti dal tempo e dallo spazio. Il diritto positivo, che è l'insieme delle regole generali effettivamente in vigore in una società politica data e imposto dal potere (legislativo o esecutivo), ha il carattere di un imperativo ipotetico: vale, a seconda

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dei casi, per una collettività e non per un'altra. Le sue regole possono cadere in disuso, possono essere abrogate a seconda delle necessità e dell'evoluzione della società. Esse dunque sono valide solamente in determinate condizioni storiche, politiche, economiche e sociali. Se gli imperativi del diritto naturale sono universali e definiscono le norme della giustizia morale, quelli del diritto positivo sono generali (nel .senso che valgono ogni volta per tutti i membri di una particolare unità) e definiscono le norme della giustizia legale. 24 I malintesi della scienza e della filosofia del diritto nascono in buona parte dalla confusione di questi due ordini. Ad esempio, un modo di comprendere l' anticolonialismo come necessità puramente storica della decolonizzazione implica che, date determinate condizioni dell'evoluzione dei popoli, un dato sistema coloniale perda la propria ragione di essere, benché sia possibile riconoscere i vantaggi che esso comportava, sotto certi aspetti, per lo sviluppo delle nazioni precedentemente colonizzate. Questa posizione non esclude che in futuro il colonialismo possa rinascere in altre forme, secondo le nuove modalità dello spirito di conquista. Esiste un secondo modo di comprendere l' anticolonialismo che condanna per principio qualsiasi colonialismo in nome di una concezione formale e universalista del diritto naturale. Il primo atteggiamento è politico, il secondo è morale. L'ideologia anticolonialista attualmente in auge confonde in genere questi due ordini, molto spesso a discapito della chiarezza politica e della rettitudine

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morale; essa cade perciò, a sua volta, in un colonialismo di segno contrario, quando in contrasto con il principio d'uguaglianza, che sta alla base dell'anticolonialismo di principio, essa giustifica unilateralmente le malefatte degli ex colonizzati. Tutto sommato, si tratta di un'altra versione della confusione che regna nei rapporti tra forza e diritto. Per comprenderli a fondo, occorre distinguere due livelli: quello della forza e del diritto positivo e quello della violenza e del diritto naturale. 7. I due livelli

L'opposizione classica tra forza e diritto si giustifica realmente solo se si considera le forza come violenza e il diritto come diritto naturale (ad esclusione evidentemente del diritto della natura dei sofisti greci). A questo livello, i due concetti sono realmente incommensurabili, senza alcuna correlazione, e antinomici. Tuttavia, quest'opposizione rimane puramente teorica, poiché la soluzione del conflitto, nel senso di una vittoria definitiva del diritto naturale e dell'eliminazione di ogni violenza (come farebbe il diritto sprovvisto di forza a trionfare sulla forza?), significherebbe il naufragio dell'autonomia del politico. Augurarsi l'avvento definitivo del diritto grazie alla sottomissione dell'attività collettiva degli uomini alle norme del diritto naturale che non sono definite, significherebbe inoltre che il male radicale sarebbe rappresentato dalla politica. È così? Esiste un'attività umana che godrebbe in esclusiva del privilegio di

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rappresentare il male? Il diritto sarebbe così puro? L'adagio che Cicerone cita nel suo De Officiis (1,10,33): summum ius, summa injuria non è semplicemente una bella formula, ma corrisponde all'esperienza che noi abbiamo del diritto. È possibile che, dato che essa è l'ambito di elezione della violenza, la politica dia appiglio all'esercizio del male più di qualunque altra attività umana, ma occorre anche aggiungere con Ricoeur: «La chiarezza riguardo al male del potere non può essere separata da una riflessione generale sul politico; la riflessione per l'appunto che la politica può essere l'ambito del più grande dei mali solo in ragione della posizione eminente che essa riveste nell'esistenza umana. La grandezza del male politico è commensurata all'esistenza politica dell'uomo; più di qualunque altra, una meditazione sul male politico che lo paragoni al male radicale, che ne faccia l'approssimazione più vicina al male radicale, deve coesistere con una riflessione sul significato, esso pure radicale, della politica. Ogni condanna della politica come cattiva è essa stessa menzognera, malevola, cattiva nel momento in cui omette di collocare questa descrizione nella dimensione dell'animale politico». 25 All'altro livello, nel quale la forza è considerata per quello che è e il diritto è considerato nel senso specifico di diritto positivo, diritto e forza non possono essere separati. Essi sono inevitabilmente in correlazione. L'obbligazione giuridica è eteronoma: essa presuppone una volontà diversa da quella del giurista. D'altronde una norma non si definisce con-

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cettualmente con la volontà, in quanto essa è regola e non fine. 26 La coercizione è, dunque, necessariamente esterna al diritto e può solo venirgli dal potere politico, che dispone della forza e della decisione. In altre parole, il diritto positivo non è generatore di se stesso, esso presuppone un legislatore che non è il giurista, ma il politico. Il ruolo del giurista è di spiegare la legge, quello del giudice di sussumere i casi particolari sotto una regola generale, eventualmente interpretandola (giurisprudenza), non di fare la legge. Il diritto pretorio non costituisce un'eccezione e non può rappresentare un'obiezione. A Roma, il pretore aveva certamente una iniziativa giuridica, ma in virtù del suo imperium che gli conferiva un potere di comando facendone un personaggio politico. Che lo si voglia o no, le formule che hanno così tanto esasperato le coscienze dei rivoluzionari - per l' esattezza, tel est mon bon plaisir o si veut le roi si veut la loi27 - esprimono l'essenza stessa del diritto positivo, con questa sola differenza, che al re è stato sostituito il legislatore parlamentare o popolare o proletario. In tutti i casi, la legge è l'espressione della volontà legislatrice sovrana, diretta o per procura, che fa la legge che vuole su un qualsivoglia oggetto di sua scelta. E questa legge avrà validità empirica a patto che il potere abbia la forza sufficiente per farla rispettare. Da un lato il politico fa la legge perché esso solo ne ha il potere e dall'altro, disponendo della forza, esso è il solo a poter agire contro gli inadempienti. Da questo punto di vista, non c'è diritto senza forza e sarebbe vano contrapporre i due concetti nel senso che, se-

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condo l'espressione di Kant, la forza sarebbe il principio di una concezione terroristica e il diritto quello di una concezione eudemonistica della storia dell'umanità. 28 All'occorrenza, il terrore si nasconderà dietro un'affermazione o una convinzione eudemonistica, nella forma, ad esempio, della legislazione robespierriana del 22 pratile, una delle cui disposizioni dichiara: «La prova necessaria per condannare il nemico del popolo è qualsiasi tipo di documento, sia esso materiale, morale, verbale, scritto, che possa naturalmente ottenere il consenso di ogni mente giusta e ragionevole. L'unità di misura dei giudizi è la coscienza dei giurati, illuminati dall'amore per la patria; il loro fine è il trionfo della Repubblica e la sconfitta del nemico». Ciò che vale sul piano interno vale anche sul piano esterno. Per quanto il diritto internazionale sia un diritto positivo o piuttosto un insieme di usi, e non lo ius gentium inteso come diritto morale, esso non ha come fondamento il diritto naturale, ma trae la sua validità dalla forza dei garanti dell'ordine internazionale. Su questo punto, Proudhon fa eco a Vitoria. A dispetto del suo umanesimo quasi erasmiano,29 quest'ultimo pensa che non vi sia una sovranità universale e che solamente la forza temperata dal diritto regoli le relazioni internazionali. A dispetto del suo socialismo anarchico e umanitario, Proudhon riconosce che se le sovranità sono giuridicamente assolute, esse non sono tuttavia inviolabili, in quanto la forza può distruggerle. 30 Dobbiamo ripetere quanto abbiamo detto precedentemente: che lo si voglia o

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no, la pace si fonda su una forza egemonica o imperiale o sull'equilibrio tra le potenze e un trattato di pace non fa che riconoscere un rapporto di forze. Non appena una nuova forza compare ed entra in concorrenza con quelle esistenti, le relazioni internazionali prendono un altro corso. Se oggi l'Inghilterra non gioca più sul piano internazionale il ruolo di un tempo, non è perché vi abbia rinunciato di buon grado oppure perché voglia sottomettersi al diritto morale, ma perché non dispone più della potenza necessaria per mantenere il suo status precedente. L'espansione e l'influenza crescenti della Russia sovietica non sono la manifestazione di un miracolo o del diritto, ma la conseguenza del suo accrescimento in termini di forza. I privilegi di cui le grandi potenze godono al Consiglio di sicurezza dell'Onu si basano sul rapporto di forze stabilito dopo l'ultima guerra. Alcuni traggono pretesto da questo gioco mutevole di forze, che indebolisce taluni Stati e ne potenzia altri, per negare al diritto internazionale la qualità di un vero diritto, a causa dell'assenza di coercizione. Quest'interpretazione non ha alcun fondamento. In effetti, il diritto internazionale è un diritto che, come tutti gli altri, comporta norme, regole, usi e istituzioni, con la differenza che esso non poggia su un organo politico in possesso del monopolio della forza, ma su forze concorrenti e ugualmente sovrane, alcune delle quali pensano che sia nel proprio interesse non rispettarlo. L'errore di coloro che negano il diritto internazionale deriva dal fatto che essi hanno un'idea inesatta del diritto, in quanto credono che la

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coercizione gli appartenga concettualmente. Le difficoltà ad applicare efficacemente le disposizioni del diritto internazionale provano, al contrario, che la coercizione è esterna al diritto, cioè che la forza resta il mezzo del politico. Se così è, si comprende meglio la dialettica tra diritto e forza. Il diritto è l'insieme delle regole che la politica si dà per utilizzare con più efficacia la forza al servizio dello scopo del politico. A seconda delle circostanze, cioè a seconda degli imperativi dello scopo del politico, il diritto sarà il mezzo per limitare gli interventi della forza, al fine di dare precedenza al gioco della legalità, oppure si farà ricorso alla forza quando l'unica via d'uscita da un conflitto è lo scontro tra le potenze. Senza il diritto, la forza diverrebbe fine a se stessa e contraddirebbe la finalità del politico; senza la forza, il diritto sarebbe un insieme di norme astratte capaci tutt'al più di giustificare lo status quo. In altre parole, le discussioni sulla contrapposizione teorica tra forza e diritto sono solamente un gioco intellettuale, se non si tiene conto del fine del politico. In effetti, la forza e il diritto sono sempre e solo mezzi e non hanno dunque significato in sé, ma unicamente in rapporto al fine o allo scopo che l'uomo si propone di perseguire tramite l'organizzazione politica. Il fatto è che, per vocazione, l'uomo è un essere politico così come è un essere che ha bisogni, sentimenti, capace di giudicare, vale a dire che, per compiere ragionevolmente il suo destino, deve assumersi le proprie responsabilità nella società politica in cui la forza è il mezzo che dà validità em-

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pirica alle strutture giuridiche. Sarebbe irragionevole perseguire il fine del politico, la concordia, l'equità e la sicurezza, rifiutando i mezzi propri del politico, e in particolare la forza. Questo si chiama rifugiarsi nell'astrazione e nell'idealismo impotente dei fini, il che equivale a un impegno intellettuale che abbandona il campo davanti ai mezzi. Da questo punto di vista, nemmeno la libertà politica è realizzabile senza la forza che anima la razionalità delle norme e delle strutture giuridiche. Dal momento che la libertà è una questione di volontà, è vano credere che possa imporsi concretamente da sé, solo perché noi ce ne facciamo un'idea di somma perfezione e gloria: essa è opera del politico e una volta stabilita, consacrata giuridicamente nelle istituzioni, non resta che difenderla con i mezzi del politico, facendo appello, se necessario, alla violenza. Se questo confronto ci permette di precisare il ruolo della forza, esso ci fornisce al tempo stesso indicazioni utili sul significato dei rapporti tra la politica e il diritto in generale. Per quanto il legislatore possa stabilire la legge che vuole, egli prende la sua decisione in funzione del fine del politico, a meno che non sia un folle oppure uno stolto. La forza e il diritto sono mezzi che hanno senso solamente in ragione di questo fine. Tuttavia, se la concordia, l'equità e la sicurezza costituiscono il fine specifico del politico, la politica non è un fine in sé, poiché l'uomo non è unicamente né esclusivamente un animale politico. Più esattamente, la politica è una delle attività, senza dubbio la principale, che si occupa del-

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l'organizzazione della società globale e, tramite questo canale, essa è al servizio dell'uomo, il quale non è un essere puramente sociale. Ne deriva che non si può sacrificare l'uomo alla società e subordinare quest'ultima alla politica. Al contrario, la politica è un'attività il cui scopo specifico costituisce uno dei beni della società, attraverso il quale essa contribuisce alla realizzazione del destino dell'umanità. È con il seguente enunciato che Aristotele comincia la sua Politica: «Poiché vediamo che ogni città è una comunità e ogni comunità si costituisce in vista di un bene (perché proprio in grazia di quel che pare bene tutti compiono tutto) è evidente che tutte le comunità tendano a un bene, e particolarmente e al bene più importante tra tutti quella che di tutte è la più importante e tutte le altre comprende: questa è la cosiddetta città e cioè la comunità politica». 31 Questo testo afferma in modo estremamente chiaro da un lato che non si può mettere la società politica sullo stesso piano di qualunque altra associazione e dal1' altro che tramite la politica l'uomo aspira ad «un certo» bene, e non al bene. In quanto tale la politica non si può identificare con la morale, come vorrebbe il diritto naturale. Stando così le cose, la forza è il mezzo specifico del politico, e rimane al servizio del suo fine specifico: essa non avrebbe altri fini. Il diritto, al contrario, ha anche un'altra meta. Quando il legislatore fa una legge, certamente ha in mente il fine del politico, ma dato che questo deve apportare vantaggi alla società nel suo insieme, prende in considerazione anche la

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giustizia, il benessere e le altre aspirazioni umane, senza le quali il politico sarebbe un fine in sé. In altri termini, se la decisione del legislatore è un atto puramente politico, il significato e la portata della legge superano la forza politica poiché la legge non aspira semplicemente all'ordine, ma all'ordine più giusto possibile. La concordia non è solamente un effetto della coercizione, ma esige anche l'equità, la giustizia e una certa uguaglianza. Grazie al diritto viene a stabilirsi così un'interazione costante tra il politico, la morale, l'economia e la religione. Il che significa, da un lato, che il diritto non è di per sé un'essenza, ma è uno dei nodi delle correlazioni e degli scambi dialettici tra le essenze, e, dall'altro, che esso non è un mezzo veramente specifico del politico. Il suo significato è, dunque, ben diverso da quello della forza. Esso indica che, anche se la vita politica non è possibile senza istituzioni, costumi, leggi e strutture giuridiche, lo Stato, in quanto strumento di potenza, non ricerca la potenza in quanto tale, ma per metterla al servizio delle diverse aspirazioni dell'uomo, qualsiasi esse siano. Non esiste una società politica in cui la forza statale non sia superiore alle altre forze interne; non esiste nemmeno una società organizzata senza diritto. Dal che discende un equivoco fondamentale relativo ad ogni collettività politica, messo bene in luce da Cournot: «In un senso, la politica deve essere subordinata all'economia generale della società, poiché è per il bene generale degli uomini che i governi vengono istituiti; e tuttavia, da un altro punto di vista, il patriottismo richiede che l'ordine economico e

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il piano della società siano concepiti allo scopo di dare la maggiore forza possibile alle istituzioni politiche nelle quali una nazione s'identifica, manifestando la propria grandezza e la propria potenza». 32 Non è il caso di sollevare qui il problema, in quanto occorrerebbe prima risolverne un altro: quale delle due nozioni, di forza e di diritto, è superiore al1'altra? Non si può rispondere a questa domanda se non si è in precedenza scelta una scala di valori che stabilisca la gerarchia tra politica, morale, economia, religione ecc. Una simile discussione esce dai limiti dell'analisi fenomenologica e rientra nell'ambito delle opinioni personali, di cui non si contesterà la fondatezza. Nondimeno, non è in questa sede che possiamo sollevare problemi di significato, per sapere quale sia tra la religione, la morale e la politica il valore supremo e per determinare la posizione degli altri valori. Lungi dal ritenere vane simili considerazioni, per quanto esse siano di stretta competenza filosofica, occorre constatare con una certa ironia che le diverse scelte che esse ispirano ad ogni uomo hanno, almeno direttamente, una ripercussione sull'attività politica, nella misura in cui alimentano la polemica. 8. La fecondità dell'astuzia Si cercherebbe invano nei numerosi trattati di scienza e di metodologia politica o nelle opere di sociologia e di politica - fatta eccezione per Pareto una vera analisi dell'astuzia. Talune opere non ne fanno nemmeno menzione e altre ne parlano solo

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occasionalmente allorché ad un certo punto finiscono col discutere la dottrina politica di Machiavelli. Tuttavia, fin dall'antichità gli storici rendono gloria ai politici e ai generali che hanno ottenuto i loro successi con l'astuzia, sia che considerino questo mezzo più umano, meno crudele di quello della forza, sia che ammirino l'ingegno e la sagacia dell'intelligenza. Di tutti gli eroi dell'Iliade, noti per la loro forza o per il loro valore, nessuno è divenuto oggetto di una epopea particolare, salvo Ulisse, l'uomo dell'astuzia e dell'intelligenza. Non era il capo più forte dell'esercito greco, ma colui che sapeva utilizzare nel modo migliore la prof ria forza, unendo la tecnica alle sue qualità fisiche. 3 Il prestigio dell'astuzia è riconosciuto dalla quasi totalità dei trattati dedicati all'arte militare o politica, talvolta a discapito della forza. L'esempio limite è senza dubbio quello che ci ha fatto conoscere il padre Amiot: 34 tre trattati composti nel corso del V e del IV secolo a.C. da generali cinesi. Condividendo l'idea che la guerra ha per fine di ristabilire la pace, la concordia e la prosperità, gli autori raccomandano l'uso dell'astuzia poiché sarebbe più adatta della forza a realizzare questi fini queste raccomandazioni valgono unicamente per gli atti di belligeranza tra principi cinesi e non nelle guerre del popolo cinese contro i barbari stranieri, in cui è necessario solo il combattimento a morte, senza pietà e senza moderazione. L'astuzia permetterebbe di umanizzare la guerra: «Ci si risparmiava perfino il combattimento, qualunque fossero i preparativi fatti e per quanto favorevole fosse l'occasione, se, con

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l'artificio o in altro modo, si poteva costringere il nemico o i ribelli a ritirarsi; e questa vittoria era considerata la più gloriosa, poiché era la vittoria della giustizia e il trionfo dell'umanità». 35 Il grande generale non era colui che riportava la vittoria con le armi, ma colui che raggiungeva i suoi fini senza sferrare battaglia, grazie a stratagemmi e sotterfugi che mettevano il nemico in difficoltà, comprando i suoi ufficiali o riducendo la sua popolazione alla fame o, al contrario, ricoprendola di regali, talvolta rammollendola con musica voluttuosa e belle cortigiane. Benché, nel celebre capitolo XVIII del Principe, Machiavelli abbia insistito sull'azione congiunta della forza e del1' astuzia, il capo dovendo essere al contempo leone e volpe, la sua opera, tuttavia, fa prima di tutto l'elogio dell'astuzia. La mancanza di un'analisi approfondita dell'astuzia non si deve certamente a negligenza, ma alla vaghezza del concetto. Che fa Machiavelli? Consiglia l'astuzia, elenca tutti i tipi di precetti, procedimenti e situazioni per far comprendere bene la sua azione e la sua importanza, ma non cerca mai di definirla o di sondarne la nozione. La grande difficoltà ad analizzare l'astuzia sta nel carattere proteiforme di quest'ultima: essa si nasconde sotto tutte le azioni e tutti gli aspetti dell'intelligenza e dell'attività umana. La nozione sembra essere più un termine generico, che raccoglie i procedimenti più vari e disparati di quest'arte sottile, che un concetto reale corrispondente ad un fenomeno specifico. Il mondo dell'astuzia è vasto, illimitato, indeterminabile e ambiguo, a tal punto che ci si può do-

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mandare: che cosa non è astuzia? La si scopre in tutte le azioni, dalla manovra che consiste nel costruire una rotaia o nell'abbattere un albero fino alla sperimentazione scientifica e alla speculazione intellettuale. Essa sembra non essere l'oggetto di nessuna attività particolare, ma costituisce una modalità di qualsivoglia azione, di modo che l'analisi sembra non avere altra risorsa che procedere per eliminazione, al fine di isolare i pochi atti eccezionali che sfuggono al suo regno. Non si vede, in effetti, come l'esame potrebbe mettere in luce determinazioni precise, distinte ed esplicite. Già il vocabolario testimonia della mole di significati e della versatilità di questa abilità. Consideriamo gli aggettivi: scaltro, accorto, malizioso, furbo, artificioso, astuto, truffaldino, sagace, cavilloso, maligno, circospetto, sornione, mellifluo, ecc. Quante sfumature! Lo stesso vale per i sostantivi: fariseo, gesuita, ipocrita, baro, commediante, cortigiano, furfante, truffatore, ecc. o per i v~rbi: simulare, fingere, barcamenarsi, dissimulare, infinocchiare, circuire, raggirare, abbindolare e così via! Ci si può domandare se, in fin dei conti, il principio cardine e concettuale dell'astuzia non consista nel confondere le sfumature e nel giocare con esse. Il modo forse più conveniente di gestire questa diversità consiste nel classificare le astuzie sotto diverse categorie. La prima comprende tutte le forme d'azione che sono mere manovre dell'astuzia, in cui questa è il mezzo diretto per ottenere il successo, non importa in quale maniera: gli stratagemmi, i tranelli, i sotterfugi, gli agguati, le imboscate, le truffe, i

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tradimenti, ecc. La seconda raggruppa le attività e i comportamenti che utilizzano l'astuzia, per così dire, legittimamente, nel rispetto di certe regole e formalità, come la diplomazia, la strategia e la tattica, la propaganda, la pedagogia, la pubblicità e la cortesia. Infine, la terza categoria è quella delle attività e dei comportamenti che sono implicitamente astuzie, nel senso che l'intelligenza, anche quando aspira all'obiettività, impiega tutte le risorse dell'ingegno, della sottigliezza, del ragionamento, della dialettica e del1' eloquenza per persuadere gli altri, influenzarli, catturarli o sedurli. Tutti gli «ismi», tutte le dottrine che si propongono un intento pratico, il cattolicesimo, il protestantesimo, l'islamismo, il giudaismo, il buddismo e l'ateismo, così come lo scientismo, il positivismo, l'individualismo, il socialismo, l'utilitarismo e le filosofie della storia, appartengono a questa categoria. Tutte gareggiano nel campo della verità e dell'astuzia, ciascuna utilizzando i mezzi che le sembrano più scaltri, senza che sia sempre possibile distinguere quelli che dipendono dalla sagacia e quelli che dipendono dalla duplicità. Certamente, vi sono delle astuzie che sono in genere intese in senso peggiorativo, come la furbizia, la soperchieria, l'adulazione, la frode, la corruzione, la pedidia, e altre che sono intese in senso elogiativo come la prudenza, l'oculatezza, l'operosità, lo spirito accorto, ma in pratica la linea di demarcazione è sottile e incerta. Tutte queste elencazioni e classificazioni non sono inutili. Esse dimostrano la straordinaria fecondità dell'astuzia e tutte le risorse dello spirito di inventi-

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va. Non è forse in grado di fare di tutta l'erba un fascio? Non occorre insistere a lungo sull'astuzia dello spirito critico del XVIII secolo quando certi scrittori facevano pubblicare all'estero le loro opere, seppure inoffensive, per mettere in ridicolo la censura. Per ottenere i suoi fini, essa ora si serve della religione, ora della pace o anche della morale. Nel corso di una guerra, un governo ateo che fino ad allora perseguitava le religioni e chiudeva le chiese e i templi, li apre per richiuderli dopo la vittoria: un altro firma addirittura un trattato di pace o un patto di non aggressione per preparare meglio un'altra guerra, mentre l'astuzia suprema consiste nell'ingannare il proprio avversario dandogli l'impressione che sia lui a prendersi gioco di voi. In genere, si ammette abbastanza facilmente che la forza è più generosa e leale, ma si trova nell'astuzia un profumo di saggezza e soprattutto un modo più scusabile di pervenire al dominio, poiché essa vince con minor spesa. Malgrado i suoi aspetti diabolici, l'astuzia lusinga l'opinione comune, che crede ad una superiorità della mente sul corpo, dell'intelligenza sulla forza. Tucidide notava con la sua spietata perspicacia: «In genere l'uomo preferisce essere definito abile, comportandosi da canaglia, piuttosto che inetto, comportandosi da onesto». 36 L'astuzia gode d'un pregiudizio favorevole. Nella preferenza che l'intellettualismo moderno le accorda rispetto alla forza, alcuni vedono una delle manifestazioni del progresso dell'umanità. Non si dice, di solito, che è meglio negoziare piuttosto che fare la guerra e che un cattivo atto diplomatico vale più d'u-

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na buona impresa militare? Altri vedono nella democratizzazione, ad esempio, una vittoria dell'astuzia sulla forza e la speranza di un miglioramento nei rapporti tra i gruppi e le unità politiche. 9. Tentativo d'analisi del concetto d'astuzia Queste credenze sono giustificate? L'astuzia costituisce realmente un progresso? Essa permette veramente di evitare gli spargimenti di sangue o di porvi termine? Non si può rispondere a queste domande senza aver prima almeno tentato, per quanto è possibile, di analizzare questa nozione così incerta. La prima idea che s'impone è la seguente: l'astuzia è il termine che serve a designare l'insieme dei procedimenti indiretti che l'intelligenza utilizza. Essa non è una realtà materiale, un oggetto, una natura, ma una modalità di giudizio che, con la sua mediazione, giunge a fare un uso determinato d'ogni cosa, si tratti della scienza, della morale, dell'arte, della ricchezza o della forza. In quanto tale, l'astuzia è dissimulazione, o nella forma grossolana dell'inganno, dell'intrigo, del travestimento e di espedienti, o in quella più raffinata dell'insinuazione, della deviazione e del segreto: essa agisce nell'ombra. Ciò che sembra importante è che l'astuzia è uno dei modi caratteristici di applicare l'intelligenza, essa non è il mezzo specifico di una determinata attività. La dissimulazione è la ragione della sua varietà. Essa contribuisce al conseguimento di qualsiasi compito, dal più modesto a quello dell'artista o del capo politico.

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In quanto dissimulazione, l'astuzia non ha nulla di spettacolare, se non, a volte, i suoi effetti e la sorpresa che crea. La legge del segreto, che sta alla base della sua efficacia, glielo impedisce. Anche per questo motivo essa può essere solo l'azione di un piccolo numero. Ad eccezione del beneficiario dell'operazione e del suo entourage, gli altri esecutori restano nell'ignoranza o colgono solamente questo o quel filo della trama, sono essi stessi cioè pedine manovrate - sebbene la maggior parte delle volte l'esecutore fedele trovi in questa dipendenza una ragione sufficiente per soddisfare il suo orgoglio e, in caso di successo, il suo bisogno di gloria. Quanto al resto dei mortali, essi conoscono solo il risultato e spesso stentano ad immaginare il capolavoro d'ingegno e il concorso d'intrighi, di silenzi e di complicità occorsi per raggiungere il fine. Le manovre dell'astuzia non hanno in genere nulla di edificante, anche quando la causa è nobile. Esse sono talvolta nauseanti, ma consacrate dal successo. Tuttavia, in questa sede non dobbiamo esprimere un giudizio di valore. Nondimeno, occorre riconoscere quanto sia difficile scrivere la storia, poiché, malgrado i documenti ufficiali o confidenziali, le memorie e i ricordi dei protagonisti e le verifiche che l'uomo di scienza può fare, vi saranno sempre delle lacune, dei «buchi» e anche delle circostanze e delle relazioni che resteranno senza spiegazione. Quando la manovra si svolge nell'ombra e la discrezione e il segreto sono di rigore, come possiamo sapere con esattezza ciò che è realmente accaduto? Come valutare la parte

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di fanfaronata, di affabulazione, di sincerità e di veridicità nei racconti dei testimoni, quando è già così difficile descrivere fedelmente le percezioni di avvenimenti che si svolgono allo scoperto? Non ci si può nemmeno fidare dei resoconti delle vittime dell'astuzia, poiché la loro informazione è in genere successiva all'avvenimento e, più di chiunque altro, hanno interesse a mascherare la realtà. Non sappiamo ancora quanti equivoci, sotterfugi, artifici e machiavellismo sono occorsi nelle giornate o nei mesi che hanno preparato l'avvento al potere di Stalin, di Hitler, di Kruscev e di tutti coloro che si sono fatti strada con complotti, intrighi e maneggi tortuosi. Possiamo farcene un'idea leggendo la storia dei preparativi del 18 brumaio poiché, sebbene i documenti non siano probabilmente completi (e mai lo saranno), sono nondimeno sufficienti per permetterci di comprendere i giochi dell'astuzia. Lasciare intendere che la conquista del potere per via regolare sarebbe esente da astuzie significa abbracciare a occhi chiusi il partito della cattiva fede. L'astuzia è presente e attiva al momento delle convenzioni americane preposte alla scelta del candidato alla presidenza degli Stati Uniti, opera tra le quinte quando si tratta di designare un nuovo presidente del Consiglio in un regime parlamentare. Le campagne elettorali si animano sotto l'azione di manovre equivoche, di macchinazioni, di ricatti e di frodi. Il voto di una semplice legge, quando interessi divergenti sono in conflitto, dà luogo ad una successione di giochi di prestigio, di collusioni inattese e di procedure

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artificiose. Secondo Machiavelli, la legge stessa è un mezzo per governare con l'astuzia. 37 Perché scagliare la pietra contro un regime piuttosto che un altro, contro un partito piuttosto che un altro? Tutti si abbandonano senza eccezioni, con maggiore o minore fortuna, a queste pratiche, tanto a sinistra quanto a destra, al centro e agli estremi e tutti le denunciano con lo stesso virtuoso vigore. Esse fanno parte del normale gioco della politica - e della vita in genere. La concorrenza tra i giornali, il commercio, la tecnica non lo ignorano affatto. Quanta astuzia nella conquista amorosa! Credere nella possibilità di liberare la società, una particolare collettività o anche le relazioni tra gli uomini dalle imprese dell'abilità e dell'astuzia significa illudersi di grosso: sarebbe come cercare di togliere l'intelligenza all'uomo. Pertanto, non vi sono possibilità di smorzare la sfiducia tra gli umani e i conflitti che essa può provocare. Dato che l'astuzia è dissimulazione e non si presenta mai per quello che è, ma cerca, al contrario, di conquistarsi la fiducia per conseguire i suoi fini, la vittima sa solo a cose fatte di essere stata gabbata. Ogni astuzia è sospettosa, è costituita dalla diffidenza. Non che sia invidiosa, ma è vigile. Occorre insistere sulla connivenza, nell'astuzia, tra intelligenza e segreto. Non che l'intelligenza sia necessariamente dissimulatrice, ma quella del letterato e dell'intellettuale con pretese politiche lo è quasi sempre. Le loro informazioni, le loro rivelazioni contengono sempre secondi fini. Kosellek ha mostrato mol-

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to bene come l'Illuminismo nel XVIII secolo si accompagnasse con il segreto. 38 I promotori del1'Aufklarung venivano reclutati nei circoli, nelle logge e nelle altre società di pensiero, vale a dire nelle piccole associazioni più o meno chiuse che, con il pretesto di coltivare il ragionamento e l'intelletto, propagavano idee critiche e riformatrici in politica. In gran parte, l'opinione pubblica è fatta ancora oggi di potenze più o meno occulte (gruppi di pressione, organizzazioni politiche, consorterie e parrocchie) che hanno a loro disposizione giornali, settimanali, riviste e altri organi di propaganda o sono in grado di influenzarli. Il potere intellettuale o spirituale è in genere potestas indirecta e per questo motivo utilizza volentieri l'astuzia, che è la maniera indiretta di agire. Con tutt'altro tipo di intenzione, de Gaulle ha mostrato, alla luce di esempi storici, che il vero capo deve circondarsi di mistero e suscitare attorno alla propria persona la fiducia, ma anche l'illusione. 39 «Non è affatto una questione di virtù e la perfezione evangelica non conduce al comando. L'uomo d'azione non è affatto concepibile senza una buona dose di egoismo, di durezza, d'astuzia». 40 Il massimo dell'astuzia consiste nel far credere che non vi sia astuzia. Di qui il paradosso dell'intellettualità. Il mistero dell'intelligenza è, per così dire, insondabile poiché essendo critica, esplicativa e interrogativa, sembra, per l'appunto, non essere misteriosa. Possiede un vantaggio immenso sulla semplice forza che, tuttavia, è molto più netta, franca, poiché è quantitativa e può essere misurata. Dato che l'intelligenza è ragionatrice

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e si circonda di un apparato logico più o meno solido, essa appare come l'opposto dell'arbitrio. Non è forse vero che in genere è l'immagine della forza, e non quella dell'intelligenza, che viene in mente quando si parla dell'arbitrio? L'astuzia, al contrario, beneficia delle virtù attribuite all'intelligenza: essa calcola, prevede e riflette. Eppure, tutte queste operazioni comportano sempre una parte di dissimulazione, e forse più arbitrio che nel caso della forza. Perché questa dissimulazione? Per sorprendere, tirandosi indietro, o con un attacco improvviso, al fine di ridurre l'avversario alla propria mercé e dominarlo. Prendere l'altro alla sprovvista, significa assicurarsi il vantaggio dell'iniziativa, che la maggior parte delle volte è determinante per il prosieguo dell'impresa. Di qui una differenza tra la forza e l'astuzia: al contrario della prima, che è manifesta e crede che le basti essere presente per dominare, la via indiretta e traversa dell'astuzia significa che essa cerca di vincere disorientando l'altro. Essa tenta di soggiogarlo sconcertandolo con un ostacolo imprevisto, con uno spavento improvviso o con qualsiasi altra difficoltà. La forza impressiona, ma in genere essa è molto meno malvagia di quanto le apparenze lascino credere: il più delle volte, si accontenta di dare spettacolo. L'astuzia, al contrario, se non è sempre maligna, è almeno maliziosa. È sempre azione premeditata, altrimenti non utilizzerebbe l'espediente. Non è senza motivo che la si è definita un mezzo ipocrita che rifiuta di correre il rischio di un confronto diretto con la forza. Tutta la sua tattica consiste nell'in-

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durre in errore l'avversario e approfittare dell'attimo di scompiglio che ne consegue per atterrarlo. Mentre la forza è resistenza e tenacia nel tempo, l'astuzia, che gioca di sorpresa, è potenza nell'attimo. In quanto tale, essa richiede audacia e ardimento nell'abilità. Nel caso in cui l'astuzia non riesca a disarcionare l'avversario nell'istante della sorpresa, il suo effetto è generalmente nullo, poiché allora la forza riprende il sopravvento. Da questo punto di vista, l'astuzia è simile alla violenza, che è anch'essa concentrazione di brutalità al fine di ottenere un effetto immediato di soggiogamento, grazie alla rudezza dei mezzi impiegati e al terrore suscitato. Astuzia e violenza sono fenomeni di cattura, l'una causando sbalordimento e smarrimento, l'altra con le sevizie e l'impeto. Se la forza è conquistatrice, l'astuzia e la violenza sono piuttosto distruttrici. La premeditazione è dunque il corollario della dissimulazione, - il che significa diverse cose. In primo luogo, l'astuzia è un'impresa deliberata che richiede grande attenzione ai dettagli, flessibilità e perspicacia. In genere, è essa che trasforma la forza in potenza. L'uomo astuto è un essere pieno di risorse che calcola, soppesa le possibilità, ordisce, trama e cerca la tecnica più economica e la tattica più appropriata per dare pieno effetto alla sorpresa. Prende le distanze dai fenomeni per meglio coglierli sotto tutti i loro aspetti, le loro sfumature e nel loro insieme, allo scopo di dominare l'evento per meglio dominare l'avversario. Si tratta, soprattutto, di trovare il punto debole di quest'ultimo, cioè di conoscere la quantità

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e la natura delle sue forze, di prevedere i suoi metodi d'azione per poterlo manovrare e, all'occorrenza, porlo nella situazione più sfavorevole. L'astuzia appare così come un'intelligenza che gioca d'anticipo, condizione essenziale di ogni sorpresa, ma un anticipo ogni volta singolare, poiché occorre tener conto delle circostanze particolari e variare il gioco della tattica in funzione dei movimenti imprevisti dell'avversario, al fine di utilizzare la propria forza al momento giusto. In questo senso, essa è una questione di opportunità e di intuizione, che necessita, tuttavia, una lunga preparazione e una riflessione preliminare. In secondo luogo, per quanto l'astuzia costruisca piani ben architettati, non potrebbe comunque rientrare in un metodo rigido. Essa è prudente, ma non sistematica, poiché l'opportunismo nelle circostanze del caso è la condizione della sorpresa. Dato che si tratta di sviare l'avversario, va da sé che occorre per l'appunto evitare di procedere secondo regole fisse e nel rispetto delle formalità. Lo scompiglio si provoca solo con l'irregolarità. Il metodo spesso non è che una astuzia scoperta, il che significa che esso razionalizza procedimenti riconosciuti, accertati e vagliati nella loro efficacia. Certamente, un metodo flessibile utilizza all'occorrenza anche l'astuzia, ma in tal caso esso nega la propria razionalità e la disciplina che ne deriva. In effetti, agire seguendo un metodo significa costringersi a seguire un ordine, proprio per garantirsi contro la sorpresa e contro quanto vi è di fallace e di indeterminato nell'astuzia, creatrice di disordine. Pertanto, proprio come la violenza, l'astuzia è nemi-

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ca delle forme, al contrario della forza propriamente detta. La necessità della dissimulazione fa sì che essa operi di preferenza per vie clandestine, dove per l'appunto incontra la violenza. Così, uno dei tipi dell'azione caratterizzati dall'astuzia è la guerriglia, che crea imboscate ed insicurezza disgregando qualsiasi organizzazione e l'ordine in generale. In sostanza, nessuno Stato fondato unicamente sull'astuzia potrebbe durare, poiché mancherebbe di stabilità, sicurezza e continuità, che solo la forza può garantire. Lo stesso dicasi per qualsiasi altro tipo di associazione non politica. Insomma, per astuzia noi intendiamo il modo indiretto e traverso di utilizzare qualsiasi mezzo d'ordine politico, economico, religioso o di altro tipo. Ciò significa che non esiste uno strumento proprio dell'astuzia e che essa stessa non è specifica di nessuna attività in particolare. 1O. L'astuzia in politica È compito difficile, addirittura irrealizzabile, studiare in maniera esaustiva il ruolo dell'astuzia in politica, poiché non esiste, per così dire, un'azione da cui essa sia assente e poiché essa si presenta, ogni volta, sotto diverse sembianze, in ragione dell' obiettivo perseguito. Da qui nascono tutte le difficoltà per interpretare le decisioni e i documenti politici, per determinare la parte d'astuzia e di dissimulazione che essi contengono o per sapere se essi siano unicamente destinati a nascondere un gioco o a tendere un tranello, senza alcun altro intento positivo. Prendia-

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mo gli esempi di un comunicato ufficiale o di un discorso di un responsabile politico di un Paese. Non solo questi atti si iscrivono in un contesto tattico generale, ma le proposizioni richiedono ogni volta di essere esaminate con la più grande attenzione, per stabilire la parte di sincerità e di elementi positivi e quella di manovra, che tende a sviare l'avversario, a sventare i suoi piani o a dissimulare le proprie difficoltà interne. Potremmo fare osservazioni analoghe a proposito delle decisioni amministrative e, in genere, a proposito della maggior parte dell'attività politica. Ad ogni modo, non si tratta di entrare nei dettagli della casistica, ma di tentare di cogliere alcuni punti di portata generale. Certi organismi e certe istituzioni si basano direttamente sull'utilizzo dell'astuzia, come la diplomazia, lo spionaggio, i servizi di informazione e di sorveglianza della polizia e dell'esercì to, i servizi di informazione e di propaganda dei governi e dei partiti politici. Così come c'è una ragion di Stato ci sono anche segreti di Stato. D'altronde, la vita politica, come qualsiasi vita collettiva, dà luogo a intrighi, cabale, consorterie, corruzione, allo sfruttamento degli scandali e degli errori. In ogni epoca esistono società più o meno segrete di cui è difficile stabilire esattamente il ruolo e l'influenza. Spesso anche l'astuzia segue la via sotterranea delle organizzazioni clandestine, sottoforma di complotti, cospirazioni e congiure o sotto quella, più frequente ai nostri giorni, della sovversione rivoluzionaria e reazionaria. Sono le forme più tipiche d'astuzia, la cui azione si esercita

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in un modo più surrettizio, furtivo e insidioso. Se il potere usa la forza per reprimere, fa però appello all'astuzia per convincere. Sebbene la convinzione non costituisca in politica un elemento così indispensabile come nelle religioni, ogni potere cerca di ottenere l'adesione del maggior numero possibile di membri alla sua linea politica, al suo programma e alla sua dottrina, se ne ha una, o all'ideologia generale cui si richiama. Per mezzo della forza e della coercizione agisce sulla volontà, per mezzo dell'astuzia sulla mente e soprattutto sui sentimenti, 41 al fine di ottenere il consenso dei cittadini. Modalità dell'intelligenza, va da sé che l'astuzia è il mezzo essenziale per agire sulle menti. Ma, in quanto dissimulazione, essa spesso ottiene solo una simulazione di convinzione, cioè la credenza finisce col giocare d'astuzia con l'astuzia. Di qui gli equivoci dell'opinione in politica: si tratta molto meno di credere che di «far credere», come non si stanca di ripetere Machiavelli, tanto da parte dei governanti quanto da parte dei governati. Il che non vuol dire che in politica non si incontrino uomini che credono e si dedicano sinceramente ad una causa, ma l'astuzia pretende che ci si spacci rispettivamente per più competente, più liberale, più socialista di quello che effettivamente si è. Passando in rassegna diverse qualità, Machiavelli riassume così il suo pensiero: «A uno principe adunque non è necessario avere in fatto tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere di averle; anzi ardirò di dire questo: che, avendole e osservandole sempre, sono dannose, e, parendo di averle, so-

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no utili; come parere piatoso, fedele, umano, intero, religioso, ed essere: ma stare in modo edificato con lo animo che, bisognando non essere, tu possa e sappia diventare il contrario». 42 Occorre saper trarre in inganno e, come si dice volgarmente, «farsi valere». La reputazione è condizione del credito in politica. L'astuzia appare, così, il grande capitolo della psicologia politica pratica. In effetti, molto spesso, se non il più delle volte, l'apparire conta più dell'essere. Nemmeno quest'aspetto è sfuggito alla perspicacia di Machiavelli. Egli osserva, sempre a proposito del principe o dell'uomo politico: «e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nel male, necessitato. Debbe adunque uno principe avere gran cura che non gli esca mai di bocca cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità; e paia, a udirlo e vederlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto umanità, tutto religione: e non è cosa più necessaria a parere di avere, che questa ultima qualità. E li uomini in universali iudicano più alli occhi che alle mani; perché tocca a vedere a ognuno, a sentire a pochi: ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se'; e quelli pochi non ardiscono opporsi alla opinione di molti che abbino la maestà dello stato che gli difenda; e nelle azioni di tutti li uomini, e massime de' principi, dove non è iudizio a chi reclamare, si guarda al fine. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e' mezzi sempre fieno iudicati onorevoli e da ciascuno saranno laudati; perché el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa: e nel mondo non

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è se non vulgo, e' pochi non ci hanno luogo quando gli assai hanno dove appoggiarsi». 43 Questo ragionamento riassume, senza dubbio, quanto di più machiavellico vi è in Machiavelli. Egli presenta l'astuzia in tutta la sua ampiezza e in tutta la sua profondità demoniaca. Le dottrine hanno incessantemente tentato di confutare queste osservazioni in nome dell'onestà, ma la storia ha continuamente smentito queste confutazioni, a prescindere dal regime, dalla dottrina e dal partito al potere. A dire il vero, quanti denunciano con maggiore veemenza le macchinazioni dell'astuzia vi soccombono, talvolta, più spesso degli altri. Se lo fanno consciamente, sono in genere dei «fini» politici, poiché essi giocano d'astuzia con la stessa astuzia. Se lo fanno inconsciamente, non sono che degli ingenui. Si può deplorare il fatto che le cose stiano così, e dal punto di vista etico si ha ragione a deplorarlo, si può anche sperare che ad un certo punto il «credere» finirà per sostituirsi al «far credere». Questa speranza è un'illusione e un autoinganno: essa può solo indurre a far credere che il politico non sia ciò che è.

11. La forza è il mezzo specifico del politico, non l'astuzia Quali sono i rapporti tra forza e astuzia nell'economia generale del politico? Sono entrambe mezzi allo stesso titolo? Machiavelli, pur riconoscendo l'importanza della forza - erdendola, dice, si perde in genere anche la libertà4 - sembra, tuttavia, attri-

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buire priorità all'astuzia. Nel capitolo XVIII de Il Principe, dichiara che quanti la disdegnano non capiscono il loro lavoro e che il principe che sa meglio essere volpe è il più fortunato e ha miglior successo, dato che in politica l'importante è recitare bene simulando il proprio ruolo. Nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, egli precisa così il suo pensiero: non è possibile che uomini di condizione mediocre pervengano al potere senza impiegare la forza e l'astuzia, ma aggiunge, «Né credo che si truovi mai che la forza sola basti, ma si troverà bene che la fraude sola basterà».45 E un po' più avanti: «Né credo che si truovi mai alcuno, costituito in bassa fortuna, pervenuto a grande imperio solo con la forza aperta e ingenuamente, ma sì bene solo con la fraude». 46 Alla questione dell'astuzia egli dedica anche il libro IV dell'Arte della guerra. Sappiamo anche che egli ammirava Cesare Borgia, che era per l'appunto riuscito ad emergere con l'uso dell'astuzia, malgrado l'inferiorità numerica delle sue forze, ed era in particolare affascinato dall'imboscata di Senigallia. Tra i filosofi della politica, Proudhon è senza dubbio colui che ha sostenuto con maggior vigore la tesi inversa e, talvolta, con un tale accanimento da dimostrarsi cieco davanti all'efficacia dell' astuzia. 47 Egli si scaglia contro le furberie, s'irrita contro la slealtà degli stratagemmi che soppiantano il coraggio a vantaggio dell'artificio, ritiene che sia contro la natura delle cose agire di sorpresa. L'abilità non deve giungere che in seconda battuta, dopo la forza. Ma soprattutto egli si sforza di dimostrare che se «la vitto-

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ria è stata ottenuta con la frode o l'artificio, intendo dire contrariamente alle ragioni della forza, essa resta inefficace; presto o tardi una vittoria in senso contrario l'annullerà». 48 Vi è, infine, una terza posizione che vede invece nell'astuzia l'elemento in grado di soggiogare la forza e di mettere fine agli orrori della violenza, grazie alla diplomazia, alle negoziazioni e alle intese. Così l'astuzia diviene un elemento di perfezionamento e di umanizzazione delle relazioni tra gli uomini e tra gli stati. Queste sono le tre posizioni principali. L'una attribuisce il primato alla forza, l'altra all'astuzia e l'ultima le considera entrambe mezzi necessari al politico, che se ne può servire in successione o contemporaneamente a seconda delle circostanze, sebbene gli uni propendano per l'impiego della forza e gli altri per quello dell'astuzia. Il problema si complica per il fatto che si fa intervenire nella discussione comparativa di queste tre posizioni ogni tipo di argomenti di carattere etico o, meglio, paraetico. Prendiamo l' esempio dei giudizi· sull'opera di Machiavelli, che alcuni trovano ammirevole e altri detestabile. Anche quando si riconosce che egli è stato il primo a studiare il fenomeno politico in modo positivo seguendo il metodo dell'osservazione, della descrizione e del libero esame critico, non si manca di rimproverargli di non aver fatto appello alla coscienza del dover essere. «L'astuzia e la violenza, scrive ad esempio P. Janet, si fanno posto negli affari umani sufficientemente da sole, senza che sia necessario che la scienza arrivi a giustificarle con la sua somma autorità». 49 Questa

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frase è tipica del modo in cui molto spesso vengono concepite la scienza e la filosofia politica. Sarebbe come dire: non vi sono dubbi che la politica utilizzi spesso metodi moralmente reprensibili e degradanti, nondimeno, è meglio ignorare tutto ciò e proporre all'umanità dei fini nobili, poiché applicare la scienza a degli aspetti tanto avvilenti e dubbi equivale a comprometterla. Tutto sommato, si vuole sviare la scienza dalla realtà per farne una fucina di consolazioni. La questione è di sapere se esiste una scienza del dover essere. Impegnare la ricerca su questa via non significa forse snaturarla e alla fin fine screditarla? Non si tratta di fare l'elogio di Machiavelli, ma di esaminare, con la maggiore onestà intellettuale possibile, se le sue analisi siano giuste o no. In questo caso si può parlare, senza il rischio di apparire patetici, di una morale della scienza, nello stesso senso in cui Machiavelli riteneva che ci fosse una morale o una virtù della politica, quando l'uomo al potere sa prendersi le sue responsabilità al servizio della collettività per assumere un compito pieno di rischi, perché continuamente alle prese con corruzione, perversione e violenza. Forse si dimentica troppo spesso che Machiavelli era un umanista, per cui il machiavellismo che gli viene imputato è più malevolo che critico. Ad ogni modo, l'analisi dei rapporti tra forza e astuzia non deve preoccuparsi di dare la priorità assiologica all'una piuttosto che all'altra; essa non deve nemmeno denigrare l'una a vantaggio dell'altra. Moralmente, né l'astuzia né la forza sono buone o cattive in sé, cioè nel loro concetto. Dipende tutto dalle

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intenzioni e dal modo di procedere degli agenti. Analogamente, non si può nemmeno dire che in politica l'una sia più efficace dell'altra. Anche in questo caso dipende tutto dall'arte con cui vengono applicate al caso specifico. Il problema non è, dunque, di privilegiare l'una rispetto all'altra, ma di determinare, in funzione dell'analisi delle due nozioni che abbiamo fatto, quale costituisca il mezzo specifico del politico. Nessuno contesterà che «l'uomo più forte è ben debole, se non è che forza». 50 Una forza senza idea è cieca e corre rapidamente verso la propria rovina, poiché dilapida i suoi mezzi per il fatto di non saperli applicare con intelligenza e distribuirli con economia. Dal momento che non esiste forza senza resistenza, il suo valore risiede inevitabilmente in un rapporto, essa deve cioè fare necessariamente intervenire il calcolo e l'ingegno. In altre parole, la forza si rafforza grazie all'intelligenza dell'astuzia. Contro avversari fisicamente a lui superiori, Ulisse vinceva sempre poiché utilizzava meglio i suoi mezzi, grazie a una tecnica che i suoi avversari non possedevano. Era un capo accorto, sapeva misurare la propria audacia. D'altro canto, l'intelligenza che è solamente intelligenza e l'astuzia che è solamente astuzia cadono alla lunga nell'impotenza. Non è sufficiente aggirare l'ostacolo e la difficoltà, occorre anche vincerli e risolverli. Proudhon nota, molto opportunamente, a proposito del destino di Napoleone: «La vera trappola nella quale fu preso Napoleone, fu questa tattica in cui egli si dimostrava tanto brillante, tanto fortunato; in cui il suo genio ingannava, per così dire, le

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forze del nemico, molto più di quanto il suo braccio trionfasse su di esso; in cui i suoi rivali non avevano il tempo di vedersi battuti, e non potevano credere alla loro sconfitta». 51 Non vi è dunque nulla di sorprendente se il giorno in cui i suoi nemici furono comandati meglio, perché meglio istruiti sulla sua tattica, e quando disposero di forze superiori, lo vinsero. Del resto, per il solo fatto che l'astuzia è una forma specifica d'intelligenza, non bisogna concludere che il potere che è riuscito a instaurarsi con l'astuzia sia, necessariamente, politicamente più intelligente di un altro. Nessun governo ha idee speciali che derivino dal suo essere al potere e spesso è più facile giungere al potere che restarvi. Quasi tutti si imbattono in problemi analoghi e nessun capo è in assoluto un superuomo. Tenuto conto di tutte queste osservazioni, non possiamo che ripetere in questa sede l'idea estremamente banale secondo cui l'azione politica consiste in un uso intelligente della forza. In altre parole, il modo di utilizzare la forza sembra decisivo, ma occorre pur sempre disporre di una forza, altrimenti l'intelligenza politica non viene utilizzata. Ecco l'idea di base da cui occorre partire per risolvere la questione dell'equivalenza politica tra astuzia e forza. Nel corso dell'analisi abbiamo visto che l'astuzia è una delle modalità specifiche dell'intelligenza e, in quanto tale, non è specifica del politico, poiché è presente in qualsiasi altra attività. Essa è più uno strumento psicologico generale che la proprietà di una determinata essenza. La forza, al contrario, ci è apparsa come il mezzo specifico del politico, in

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quanto la coercizione è indispensabile all'organizzazione di una società politica, nel senso che questa non può sussistere se non a condizione di disporre di una forza superiore alle altre forze interne, anzi a condizione di possederne il monopolio e di essere in grado di opporsi con efficacia alle ambizioni dei rivali esterni che minacciano la sua indipendenza. Cos'è una rivoluzione, in senso propriamente politico, se non una conservazione della forza, la sostituzione di una forza nuova, più dinamica, stabile, capace di restituire autorità allo Stato, alla forza declinante di una classe o di un regime? Accordare l'indipendenza a un paese significa rendere omaggio alla forza. Per quanto essenziali siano le osservazioni di Machiavelli sull'astuzia dal punto di vista della psicologia dell'uomo politico e anche della tecnica politica, esse non sono caratteristiche dell'essenza del politico. L'ascesa di Cesare Borgia è certamente significativa dal punto di vista dei successi ottenuti con l'astuzia indifferente ai mezzi, ma il destino del giovane conquistatore è ancora più istruttivo per quel che concerne il rapporto tra l'astuzia e la forza. All'indomani della morte del padre, il papa Alessandro VI, egli perse i suoi appoggi e la sua forza, di modo che, malgrado la sue astuzie, il suo ducato crollò più rapidamente di quanto fosse stato edificato. I successi dell'astuzia non sostenuti dalla forza sono precari; in altri termini, l'astuzia non dà che una superiorità temporanea, che si sgretola se non può essere sfruttata dalla forza. Tra i numerosi esempi che ci fornisce la storia ricordiamo i due analizzati detta-

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gliatamente da Proudhon. Le astuzie di Annibale erano proverbiali in tutta l'antichità e malgrado ciò non gli sono valse la vittoria definitiva. Le battaglie del lago Trasimeno e di Canne sono capolavori di tattica e di intelligenza: nel corso della prima egli riuscì ad accerchiare i Romani in una gola; a Canne fece in modo che il vento caldo che portava una polvere accecante divenisse un ulteriore nemico delle legioni del console Varrone. Pur non avendo mai ottenuto la superiorità numerica, la forza restò, tuttavia, dalla parte dei Romani. Durante il suo lungo soggiorno in Italia, il suo esercito continuò ad indebolir_si: una ad una le città conquistate ricaddero in mano al nemico. Ed alla fine fu sufficiente una battaglia a Zama per consegnare Cartagine ai Romani. Tutto il genio tattico restava impotente davanti alla forza rappresentata dalle legioni romane e dalla potenza marittima di Roma. Forse mai come nella campagna di Francia del 1814 Napoleone dimostrò tanto genio; le battaglie che ingaggiava contro gli eserciti invasori erano altrettante vittorie. E malgrado ciò, malgrado le loro ripetute sconfitte, gli Alleati occuparono presto Parigi, poiché a Napoleone mancava la forza in grado di sfruttare il successo ottenuto con la sua audacia e con il suo ingegno. Si potrebbero fare osservazioni analoghe a proposito delle vittorie dell'esercito tedesco durante l'ultima guerra. L'arte non giunge a supplire la forza, può ottenere vantaggi immediati, talvolta sbalorditivi, ma solo i successi della forza sono duraturi e decisivi. Quanto vale per la politica militare vale anche per

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la politica in generale. La polizia segreta zarista ebbe un bel daffare a impiegare tutte le astuzie, ad infiltrare sobillatori nelle organizzazioni rivoluzionarie, di cui l'episodio di Roman Malinovskj fu senza dubbio il più curioso; l'impero zarista era condannato a crollare, poiché tutte le forze vive del paese gli erano diventate sordamente ostili. Senza risalire ad un passato troppo remoto, l'epoca moderna non è priva di esempi che confermano l'inutilità dell'astuzia lasciata al proprio ingegno, senza l'appoggio della forza: il crollo della monarchia orléanista nel 1848, la formazione dell'unità italiana e dell'unità tedesca, la decrepitezza dell'impero austro-ungarico, la caduta della IV Repubblica nel 1958, ecc. Questi mutamenti politici si spiegano concettualmente. Quando una forza è declinante, esausta, tutto l'artificio dell'astuzia rimane sterile; essa può tutt'al più ritardare il momento della caduta, ottenere successi effimeri, ma non può sostituirsi alla forza o ingannarla. Al contrario, non appena una nazione ritrova la forza, tutte le sottigliezze della diplomazia dei suoi avversari sono votate al fallimento, per poco che essa sappia perseverare nel suo intento, anche in solitudine. Una collettività politica costituisce da sola una forza destinata ad assicurare la conservazione degli individui che in essa si trovano e rimangono associati in ragione di tale conservazione. In questo senso, con tutte le sue strutture istituzionali e giuridiche, lo Stato costituisce un'inerzia necessaria che gli permette di resistere agli sconvolgimenti rappresentati dagli avvenimenti contingenti della storia, dai cambiamen-

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ti costanti che scuotono gli individui e da tutte le altre variazioni causate dalla successione e dalla coabitazione delle generazioni, dalle incessanti trasformazioni tecniche, dalle crisi economiche e dai disordini sociali. Organizzare questa forza, accrescere la sua potenza e equilibrarla, questa è la preoccupazione principale del potere, ed è questo che si aspettano da esso anche i membri della collettività. Quando un regime non è più all'altezza del suo compito, è normale che la collettività politica si preoccupi di questa debolezza e cerchi un altro potere che sia in grado di ricostituirla nella sua forza. Da questo punto di vista, la forza statale trascende gli individui poiché essi possono realizzare il loro destino personale e collettivo solamente se essa garantisce loro la sicurezza e la concordia. Essa rappresenta, dunque, la stabilità, l'energia e il vigore di cui ogni vita ha bisogno per propagarsi. Il ruolo della forza, almeno secondo il suo concetto, non è tanto di soggiogare quanto di conservare. Quando la coercizione si trasforma in oppressione diventa abuso, non risponde più alla sua vocazione, diviene forza fine a se stessa, non già un mezzo al servizio della collettività e del fine politico e indirettamente dei valori cui gli individui aspirano nell'ambito di un'unità politica. Per suo stesso concetto, che implica dissimulazione e sorpresa, l'astuzia è invenzione di espedienti il cui ruolo è quello di aiutare occasionalmente e saltuariamente la forza. Mentre quest'ultima è capacità d'azione, la prima non è che un ausiliare dell'azione. Attribuire priorità all'astuzia in politica, significa

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sottomettere costantemente la società alle irruzioni dello stupore e del fascino, che sviano e turbano l' ordine con la loro discontinuità. Al contrario della forza, che è durata, vale a dire presenza costante e controllabile, essendo essa una massa quantitativa, l' astuzia, in virtù della sua istantaneità, è intercorrente, agisce solo a scatti. Per il fatto di essere una sorpresa, tende normalmente a soggiogare e, per il fatto di essere dissimulazione, rischia di provocare un clima di sfiducia e d'incertezza e perfino di causare un disequilibrio che ostacola il gioco normale delle forze. Diviene spesso un fattore di paura e di insicurezza mentre la forza, che è aperta e manifesta, ispira fiducia, base della sicurezza e della concordia. Tutto ciò che ci si aspetta dall'astuzia è di dare prontezza, audacia e perspicacia alla forza, ma essa non può rimpiazzarla. Per tutte queste ragioni, essa non è un mezzo specifico del politico, ma solamente l'ancella della forza, così come lo è dell'economia e di qualsiasi altra attività umana, ciascuna delle quali possiede il suo mezzo specifico. Si tratta, dunque, di non scambiare l'ombra per la realtà, di non trascurare o rifiutare la forza, come se in politica l'idea fosse in grado di imporsi da sola, grazie esclusivamente alle sue virtù intellettuali. In questo gioco si rischia solamente di farsi spaventare delle ombre. 12. Rapporto di forze e civiltà Che lo si voglia o no, tutto in politica ruota attorno al rapporto di forze, che della politica costituisce

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la pietra angolare. Noi abbiamo fin qui evitato di usare l'espressione «realismo politico». Il suo unico senso valido implica che un Paese sappia riconoscere e sfruttare il rapporto tra le forze reali, al di là dell'astuzia, della propaganda, delle ideologie e delle pretese. Tuttavia, non si tratta solamente di valutare bene le forze degli avversari, ma anche di non illudersi circa le proprie. In ogni collettività politica questo rapporto indica, dunque, un limite da non oltrepassare eccessivamente, pena il mettere in pericolo la propria esistenza. Entro questi limiti, essa può agire d'astuzia, condurre pure una politica audace, usare l'inganno, a condizione tuttavia di non lasciarsi prendere la mano dal suo stesso gioco e di non illudersi. I risvegli più desolanti sono quelli che fanno seguito ai bei sogni. È normale che una potenza cerchi di essere sempre più potente, ma essa lavora contro se stessa quando sfida le forze che dispone o quando non riesce ad accrescerle. Certamente, nulla è più penoso per un Paese che constatare che il rapporto di forze, che fino ad allora gli era favorevole, si configura improvvisamente a suo sfavore, talvolta all'indomani di una vittoria gloriosa ma onerosa. Tuttavia, lo smarrimento peggiore è quello dei nostalgici che si ostinano a negare i cambiamenti intercorsi e lo spostamento della potenza. Essi dimenticano che la loro potenza si fondava su forze che avevano senso solamente in rapporto ad altre. Se molte guerre nascono dal disprezzo o dal non riconoscimento del rapporto di forze, molte paci sono state instabili per le stesse ragioni.

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Questa specificità della forza ci aiuta a cogliere meglio il suo significato più generale. Per quanto importanti siano le idee e gli ideali, non sono mai, dal punto di vista politico, che pura speculazione finché non incontrano la forza. Senza di essa restano mere utopie che hanno il loro posto nella storia delle idee politiche, ma non nella storia come tale. Più volte, Platone tentò di rendere concreta l'utopia della Repubblica, ma continuamente la forza lo fuggiva, senza dubbio perché egli la disdegnava, mentre essa era la sola in grado di far discendere le idee dall'iperuranio. Non è nemmeno riuscito ad essere un riformatore. Essere un uomo politico significa inevitabilmente compromettersi con la forza, utilizzarla come mezzo, al fine di compiere un'opera per la collettività e un destino per se stessi. La politica è un'arte, una disciplina pratica caratterizzata dal maneggio di uomini e cose, essa non è una ricerca di idee né una filosofia. E quando un uomo politico è anche un filosofo, non lo è che in sovrappiù. In genere l'uomo di Stato, a meno di non essere un parvenu o un essere fondamentalmente malvagio e crudele, non è privo di scrupoli, di dubbi e di inquietudini (la riflessione ha questo prezzo), ma li serba per sé e non li mostra sulla pubblica piazza. Al contrario, deve mostrare sicurezza senza vanità, se crede per l'appunto in una causa, e deve saper utilizzare la forza senza crollare intimamente di fronte alle conseguenze, agli incidenti, alle vicissitudini e ai colpi di fortuna. Colui che è turbato dall'uso della forza farebbe meglio a non pensare mai di giocare un ruolo politico e nemmeno,

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secondo l'espressione di Max Weber, «di infilare le dita negli ingranaggi della storia». 52 È sul piano della forza e dei rapporti di forze e non su quello dei fini o delle idee che si gioca il destino politico. La civiltà e la cultura non sono unicamente prodotti dell'intellettualità. In buona parte, esse si fondano sulla forza e si trasformano con il variare dei rapporti di forze. Una civiltà puramente intellettuale non è mai esistita né, senza dubbio, esisterà mai. È bello ammirare la cultura greco-latina, ma occorre anche riconoscere, senza imbrogliare per amor di ideale o umanitarismo, l'immensa parte della forza e perfino della violenza nella sua storia. Una civiltà e una cultura formano un tutt'uno; sarebbe intellettualmente disonesto non considerare l'evoluzione dell'umanità nel suo insieme e nella sua pienezza, facendo arbitrariamente una cernita con il pretesto di separare il grano buono (pensiero, arte, scienza, filosofia) dal loglio (politica, schiavitù, ecc.). Simili procedimenti non fanno che avvilire l'uomo invece di innalzarlo; nella migliore delle ipotesi, ne danno un'immagine completamente falsa. L'uomo è un essere avido di sapere, che ha bisogno di credere e che cerca Dio finanche nell'ateismo, capace di ridere e di piangere, pieno di passione e di speranza, animato da ambizioni e portato al sacrificio, battagliero e violento, così come rassegnato e pacifico, sleale e fedele, c?e god~ dell~ arte. e dei piaceri, .che si turba di fronte a1 propn eqmvoc1 e aspira contmuamente a superare le proprie contraddizioni, in una causa politica, nella morale o nella religione. Solamente un umanesimo di

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second'ordine, simile a quello che plagia e falsifica il Rinascimento, o svirilizza e adultera l'antichità, può mettere l'uomo contro la sua umanità, e contro tutto ciò che di divino e di demoniaco c'è in lui.

Note 1. V. Pareto, Traité de sociologie générale, Paris-Lausanne, 1917, t. II,§

2183, p. 1395. 2. Pareto, op. cit., t. II,§§ 2176-2177, p. 1385. 3. Va da sé, credo, che insistere dal punto di vista fenomenologico sul ruolo della potenza non deve essere interpretato come un credito concesso alla politica cosiddetta di potenza nel senso ad esempio della Machtpolitik di H. von Treitschke (Politik, 2 voll., 3• edizione, Leipzig, 1922). Non si tratta qui di aderire a una dottrina, nemmeno a quella della power politics dei teorici americani R. Niebhur, R. E. Osgood e G. Kennan. Aggiungiamo solamente, a proposito di Treitschke, che la sua concezione della politica ha dato luogo a interpretazioni tendenziose in Inghilterra e in Francia, all'epoca della guerra del 1914-1918, sulla base dell'estrapolazione di talune sue frasi (cfr. F. Meinecke, Die Idee der Staatsrason, 2• edizione, Miinchen-Berlin, 1925, p. 494 e ss. ). 4. A. de Rivarol, «Notes, réflexions et maximes», in Les plus belles pages de Rivarol, a cura di J. Dutourd, Paris, 1963, p. 22. 5. G. Gusdorf, La vertu de f oree, Paris, 1957, pp. 39 e 58. 6. Alain, Politique, cit., p. 38. 7. Aron, Paix et guerre entre les nations, cit., p. 436. 8. Saint-Just, «lnstitutions républicaines», cit., p. 294. 9. J.-P. Proudhon, La guerre et la paix, Paris, 1927, p. 93. 10. Ibid., pp. 128-129. 11. Ibid., p. 94. 12. Esiste un altro aspetto, positivo e critico, dell'antimilitarismo che consiste nel non inchinarsi davanti all'uniforme, che rifiuta cioè di vedere nel militare un essere superiore, fuori dal comune. L'esercito non è uno Stato nello Stato, non gode di per sé di una priorità sulle altre funzioni. Questo antimilitarismo possiede qualcosa di salutare poiché corrisponde a esigenze dell'ordine politico in generale.

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13. Weber, Le savant et le politique, cit., p. 189. 14. M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, 3a edizione, Tiibingen, 1947, prima parte, cap. 1, § VI, 2, p. 18. 15. Aristotele, Etica Nicomachea, libro Il, cap. VI, 4. 16. Proudhon, op. cit., p. 144. 17. C. Schmitt, Der Wert des Staates und die Bedeutung des Einzelnen, Tiibingen, 1914, p. 38. 18. K. Marx, «Contribution à la critique de la philosophie du droit de Hegel», in CEuvres philosophiques, t. I, p. 105. 19. H. Kelsen, Théorie pure du droite, Neuchatel, 1953, p. 45. 20. H. Kelsen, «Das Verhaltnis von Staat und Recht um Lichte der Ekrenntniskirtik», in Zeitschrift fur offentliches Recht, 1921, p. 9. 21. Kelsen, in una comunicazione presentata al Congresso del Centro Internazionale delle Ricerche concernente i problemi fondamentali della scienza e pubblicata in Das Naturrecht in der politischen Theorie, Wien, 1963,p.148. 22. Schmitt, op. cit., p. 37. 23. Platone, Gorgia, 482e-483a. 24. Contrapponendo, dal punto di vista fenomenologico, l'universalità della norma del diritto naturale e la generalità di quella del diritto positivo noi non stabiliamo nessuna differenza assiologica tra i due tipi di diritto. In ogni caso non si tratta di sminuire il valore del diritto in rapporto alla morale, come ha fatto Kant, subordinando la legalità alla moralità. 25. P. Ricreur, «Le paradoxe politique», in Esprit, 1957, p. 735. 26. Schmitt, op. cit., pp. 32-34. 27. «Così piace al sovrano» o «così vuole il re, così vuole la legge». 28. I. Kant, Il conflitto delle facoltà, 2• sezione, § 3. 29. «Non enim homo homini lupus est, ut ait Ovidius, sed homo», Vitoria, fine della propositio II del primo titulus legitimus, citato da Schmitt, Der Nomos der Erde, cit., p. 73. 30. Proudhon, op. cit., p. 167. 31. Aristotele, Politica, libro 1, cap. 1, 1252a. 32. A. Cournot, Traité de l'enchainement des idèes fondamenta/es dans les sciences et dans l'histoire, Paris, 1922, p. 523. 33. Quella che potremmo chiamare la problematica di Ulisse è stata mirabilmente messa in luce da G. Audisio, Ulysse ou l'intelligence, Paris, Gallimard, t. XX. 34. Art militaire des chinois, ou recueil d'anciens traités sur la guerre composés avant l'ère chréètienne par différents généraux chinois, tradotto in francese dal padre Amiot, Paris, 1722. Cfr. R. Caillois, Bellone ou la pente de la guerre, Paris, 1963, pp. 35-57. 35. Trattato detto Se-Ma, art. 2 citato da Caillois, op. cit., p. 39. Nello

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stesso senso anche Vattel la raccomandava come un procedimento umanitario: «Come l'umanità ci obbliga a preferire i mezzi più dolci nel perseguimento dei nostri diritti, se, per un'astuzia di guerra, una finta priva di perfidia, ci si può impossessare di una posizione più forte, sorprendere il nemico e sconfiggerlo, tanto meglio, è veramente più lodevole riuscire in questo modo che con un assedio cruento o una battaglia sanguinosa», Droit des gens, libro III, cap. X,§ 178. Tucidide, La guerra del Peloponneso, libro III, cap. LXXXII. Nel capitolo XVIII del Principe Machiavelli spiega l'importanza comparata della forza e dell'astuzia e dichiara anche: «Dovete adunque sapere come e' sono dua generazioni di combattere: l'uno, con le leggi; l'altro, con la forza», lasciando così intendere che il diritto è uno strumento dell'astuzia. I processi lo confermano. R. Kosellek, Kritik und Krise. Eine Beitrag zur Pathogene der Burgerlichen Welt, Freiburg-Miinchen, 1959, p. 49 e ss. In particolare egli commenta a lungo il testo di Lessing, «Ernst und Falk, Gesprache fiir Freimaurer», t. XIII dei Siimtilche Schriften, p. 349 e ss. Parlando dei framassoni, Falk o l'iniziato dichiara: «I loro veri atti sono i loro segreti». Ch. de Gaulle, Au fil de l'épée, Paris, 1961, p. 74. Ibid., p. 75. Pareto, op. cit., t. II,§ 2275, p. 1489, il quale pensa inoltre che l'uomo d'astuzia è meno attaccato dell'uomo di forza alla famiglia, alla patria e alla Chiesa - osservazioni che necessitano di essere verificate sociologicamente. N. Machiavelli, Il Principe, cap. XVIII.

42. 43. Ibid. 44. N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, libro II, cap. Il. 45. Ibid., cap. XIII. 46. Ibid. 47. Proudhon, op. cit., libro III, cap. IV e VI. 48. Ibid., p. 232. 49. Conclusione dello studio su Machiavelli in Histoire de la science politique dans ses rapports avec la morale, Paris, 1887, t. I, p. 540. 50. Alain, op. cit., p.11. 51. Proudhon, op. cit., p. 237. 52. Weber, Le savant et le politique, cit., p. 101.

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CONCLUSIONI

1. Definizione della politica Come definire il più sinteticamente possibile la politica? Ci si può basare sui rapporti e le correlazioni tra i diversi presupposti del comando e dell' obbedienza, del privato e del pubblico, dell'amico e del nemico. Il modo migliore ci sembra, tuttavia, quello che la caratterizza con il concatenarsi delle dialettiche dettate da questi presupposti. Essa è, allora, l'attività sociale che si propone di assicurare con la forza, generalmente fondata sul diritto, la sicurezza esterna e la concordia interna di una data unità politica, garantendone l'ordine nel mezzo delle lotte che nascono dalla diversità e dalla divergenza delle opinioni e degli interessi.

2. Considerazioni sul significato del politico Attività al servizio della collettività, la politica è anche al servizio dell'uomo, vale a dire che, visto che la società non è Dio, la politica non è il fine ultimo delle aspirazioni umane. Da questo punto di vista, la politica non gode di alcun privilegio rispetto alle altre attività, economica, artistica, morale o scientifica. Al contrario, è in costante relazione e interazione

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con esse. Da ciò nasce la questione sul significato della politica, cioè del suo posto e del suo ruolo nel complesso della vita umana, e dei suoi rapporti con le altre attività. La risposta a questa domanda eccede i limiti dell'analisi fenomenologica, poiché, indipendentemente da un'analoga descrizione delle altre essenze, intervengono anche scelte personali, o almeno soggettive, sotto forma di adesione a questa o a quella dottrina o concezione del mondo e di una credenza in una gerarchia di valori. Non possiamo, in questa sede, entrare nei dettagli di un simile programma, ma solamente tracciare alcune grandi linee che si rapportano logicamente all'analisi dell'essenza del politico fatta nel nostro studio. La tradizione filosofica si è sempre rifiutata di separare l'indagine sul senso della politica da un confronto con la morale o la religione (anche Marx ha dato il suo contributo a questo proposito). È opportuno conformarsi a tale tradizione purché non si sommerga la realtà del politico con un'etica troppo netta e inconsapevole delle proprie contraddizioni. Non si può nemmeno separare la politica dalla scienza o dall'economia, sebbene questo sia un uso più antico di quanto generalmente si creda, dato che questo genere di speculazioni sono state inaugurate dalla Repubblica di Platone e dalla Politica di Aristotele. Rompere con queste consuetudini significherebbe dar prova di non comprendere la complessità delle relazioni umane, essere esclusivamente devoti a una visione unilaterale delle cose, dunque rischiare di cadere in pregiudizi pieni di incongruenze e di cecità e

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Conclusioni

di non essere nemmeno in grado di cogliere la vera dimensione della politica. Certamente, l'analisi concettuale e fenomenologica isola l'essenza del politico per ragioni di metodo, di chiarezza e di lucidità intellettuale, ma non può separarla dal complesso della vita. Sta lì l'errore del machiavellismo puramente dottrinale: concepire l'esistenza quasi esclusivamente dal punto di vista della politica, prescindendo dalle altre attività umane, o concependole unicamente come strumenti della tecnica politica. Esso attribuisce arbitrariamente il primato al politico e nello stesso tempo si mette in condizione di non cogliere il suo significato reale. Senza dubbio, la politica illumina numerosi aspetti della vita, ma quest'ultima non le è subordinata; al contrario, non è possibile cogliere il senso della politica se non nel contesto globale del1' esistenza umana. Il destino umano trascende inevitabilmente la particolarità delle divisioni e delle unità politiche. Se l'uomo non può comprendere se stesso al di fuori della politica, nemmeno quest'ultima si può comprendere indipendentemente dall'avventura umana, che va oltre. Se Machiavelli si è fatto una concezione pessimistica dell'umanità, secondo la quale bisogna «presupporre tutti gli uomini rei, e che li abbiano sempre a usare la malignità dello animo loro qualunque volta ne abbiano libera occasione», 1 è perché egli ha volutamente considerato solo la tecnica dell'azione, prescindendo dagli altri aspetti dell'attività e escludendo le altre essenze e le altre aspirazioni dell'umanità. Ora, né l'analisi dell'essenza del politico né, soprat-

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tutto, lo studio dialettico del rapporto tra la politica e le altre attività ci forniscono ragioni perentorie, in grado di giustificare una simile visione. Si tratta, se non di una ipotesi gratuita, almeno di una dottrina contestabile. L'ordine non ha solamente il significato negativo della necessità di frenare gli istinti aggressivi o di reprimere i comportamenti illeciti e riprovevoli degli uomini, ma anche un significato positivo: quello di condizione che permette all'uomo di rispondere alla sua vocazione di essere sociale e di svilupparsi come individuo in seno alla collettività, dedicandosi alle attività di suo gradimento, di tipo artistico, scientifico, ecc. Sicuramente, per il fatto stesso di essere un umanista, Machiavelli ha attribuito al principe il compito di condurre una politica che favorisse queste attività - il che non fa che aumentare il nostro stupore nel vederlo affermare la malignità della natura umana. È ugualmente vero che la lotta accesa dalle opinioni e dagli interessi causa continuamente conflitti e guerre, ma essa è anche il fermento dello sviluppo materiale e tecnico, spirituale e culturale dell'umanità. Tuttavia, se con la politica gli antagonismi sono portati agli estremi, le ragioni dei conflitti sono lungi dall'essere unicamente politiche. Anche i bisogni suscitano rivalità e l'intelletto è un grande seminatore di discordia. La civiltà si nutre di questi conflitti, li supera per causarne altri. Il sincretismo che crede di poter conciliare o risolvere tutto è un rifiuto del pensare: è il sonno della mente. Per gli stessi motivi, sarebbe irragionevole considerare la politica come un'attività decaduta o come

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eonclusioni

una forma di alienazione in senso marxista. Anche se la si considera di valore inferiore all'interno di una scala di valori, essa appartiene malgrado tutto all'ambito della ragione, vale a dire che la sua caduta precipiterebbe l'umanità nella follia. Sembra, dunque, che la questione non sia affatto, come si augurava Marx, di affrancare l'uomo dalla politica e nemmeno di schiacciare quest'ultimo sotto gli effetti di una eccessiva politicizzazione dell'esistenza, ma di trovare ogni volta, in qualsiasi epoca e in determinate condizioni storiche, il· giusto equilibrio tra la molteplicità delle attività umane, senza disconoscere che questo equilibrio sarà sempre precario, per il fatto stesso che la vita ha una natura conflittuale che nessuna dottrina potrà mai definitivamente pacificare. Da questo punto di vista, nulla sembra più arbitrario della definizione che Lukacs dà del pensiero borghese: la mentalità che considera la storia «come un compito insolubile».2 Quale ignoranza ci autorizza a pensare che il proletariato troverà la soluzione? Sembra più esatto dire con Ranke che ogni epoca e ogni generazione sono ugualmente vicine a Dio - e noi vorremmo aggiungere: ugualmente vicine all'uomo. In ogni luogo e in ogni tempo l'uomo è lo stesso: nessuna dottrina gode del priviliegio di avvicinarsi a lui più di un'altra. La ragione è nell'uomo da quando esiste, non è un dono del futuro. Lo stesso dicasi per il conflitto; esso non è un lascito del passato. La ragione non è pusillanime rassegnazione, in quanto partecipa alla vita, la quale, dal canto suo, consiste in perpetue oscillazioni, in incessanti

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cambiamenti e trasformazioni. Talvolta l'obbedienza è superstiziosa, raramente è sottomissione incondizionata. Non appena una unità politica sente che il potere è carente, incapace di canalizzare l'evoluzione e inadeguato rispetto al suo ruolo, essa non esita ad affidare le proprie speranze a una rivoluzione o a un nuovo regime. Le rivoluzioni sono volute o attese dall'obbedienza, non si fanno a piacere dei rivolu. zionari, i quali si logorano in congetture sterili fintanto che le masse serbano fiducia nel potere costiuito. Anche la rivoluzione è un concetto e non un'idea. Occorrono un suolo, un terreno, una materia. Non è rivoluzionario chi teme di prendere le pulci. L'obbedienza non vuole necessariamente la rivoluzione, ma un comando. Di qui il susseguirsi dei regimi, le deposizioni dei re, i cambiamenti di padrone: ai Merovingi sono succeduti i Carolingi, ai Carolingi i Capeti e così via. Come la scienza è animata dall'impulso di una conoscenza sempre più vasta e esatta, che l'uso disastroso che la tecnica fa delle scoperte non può frenare, così la politica obbedisce alla spinta della vita, all'accrescimento della potenza, per assicurare la sua conservazione malgrado le atrocità delle guerre e, senza dubbio, per mezzo di queste. Non appena una unità politica smette di lottare, smette di esistere. Nulla può esorcizzare questo impulso vitale, né un conto di tutti i morti di tutte le guerre, né le scene di orrore delle rivoluzioni. Gli uomini accordano spontaneamente alle collettività politiche il diritto di usare mezzi che essi proibiscono agli individui, senza dubbio perché, ai loro occhi,

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la specie ha la vocazione all'eternità. Per questo le masse non seguono affatto gli intellettuali che cercano, per convinzione personale, di identificare la violenza politica e gli assassini di privati commessi per ragioni venali. La collettività politica richiede all'uomo politico di comportarsi da uomo politico, cioè di basare la sua attività sugli imperativi del fine specifico del politico, ed essa lo condanna solamente nel caso in cui per debolezza faccia uso di mezzi moralmente illeciti e indebolisca al tempo stesso la collettività. Essa non chiede al capo di Stato di essere un santo, ma di dedicarsi con passione e successo alla causa dello Stato. Non bisogna farsi ingannare dalla leggenda del buon re San Luigi: egli fece guerra ai baroni e agli Inglesi, che vennero battuti a Taillebourg, intraprese crociate, fece reprimere duramente le due rivolte di Marsiglia, soppresse diversi privilegi del clero in nome della ragion di Stato, in poche parole si comportò da uomo politico. A un Socrate al potere non si chiede di socratizzare, ma di dedicarsi all'incarico politico. È vero che Socrate preferì farsi giudice del politico sottomettendosi alle sue leggi. Egli seppe rimanere il combattente di Potidea pur divenendo un filosofo. Per questa ragione la sua vita rimase politica, anche se il suo pensiero non lo era affatto, poiché egli sapeva che nell'uomo c'è anche qualcos'altro oltre la politica. Questo significa che la politica si riduce a un semplice lavoro di polizia e di gestione? No. Quando un uomo politico dichiara di voler lottare contro la corruzione e la debolezza, bisogna credergli, anche qua-

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lora non dovesse riuscire interamente e nemmeno parzialmente nella sua impresa. Nessuna istituzione è perfetta, nemmeno la via verso la perfezione, poiché le migliori istituzioni si consumano e si degradano. Nondimeno, bisogna credere all'uomo politico, a condizione che non sia un istrione, poiché intraprendere un'opera al servizio della collettività significa superare il presente per affrontare il futuro. Qualsiasi governo degno di questo nome si dà il compito di lavorare per il futuro, per la posterità, anche quando non lo dichiara espressamente. Rifuggire dalla politica significa dunque non credere più nel futuro dell'uomo; significa disprezzare l'umanità. Certo, qualsiasi azione politica gioca con la paura, manipola gli interessi, ma è anche un servizio d'onore e suscita la dedizione. La verità politica non sta dunque nel giusto mezzo: esige l'audacia, la previsione e il coraggio di sporcarsi le mani. La purezza appartiene al pensiero, cioè è sempre e solo un'esigenza e un orgoglio personali. Gli altri significano appello al compromesso. Si pensa da soli, si agisce e, soprattutto, si vive con gli altri e in mezzo agli altri. Di fronte al falso problema: bisogna riformare gli uomini o le istituzioni? - la maggior parte dei malintesi sulla politica trae origine dalla confusione tra essenza e significato, sotto la copertura della pedagogia. Si ritiene e si afferma che il fine della politica sarebbe quello di rendere l'uomo migliore (le teorie del progresso a partire dal XVIII secolo non hanno fatto altro che rafforzare questa opinione), mentre di fatto, per sua stessa essenza, la politica ha unicamente il

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compito di organizzare nel miglior modo possibile le condizioni di vita esterne e collettive, in grado di fornire all'unità politica e ai membri che la compongono le migliori possibilità per rispondere a quella che è, o a quella che individualmente considerano, la loro vocazione. Non si potrebbe negare che, così facendo, la politica eserciti un'azione pedagogica; nondimeno, l'educazione non è il suo fine specifico né primario. Affermarlo significa quantomeno ammettere indirettamente che l'opinione del potere potrebbe avere, dal punto di vista pedagogico, la prevalenza su tutte le altre opinioni, che, per questo fatto, esso ha eventualmente il diritto di educare l'uomo conformemente alla propria ideologia, di modo che alla fine occorre ammettere come normali i cosiddetti campi di rieducazione, il controllo dell'informazione e la soppressione della libertà di opinione. È vero, i sostenitori dell'educazione statale sottintendono che solamente un regime che si propone dei fini nobili ha il diritto di rivendicare la vocazione pedagogica, sottintendono cioè che solamente il regime conforme ai loro desideri e alle loro opinioni avrebbe questo diritto. Questa pretesa è fraudolenta, in quanto ogni uomo di parte ritiene, con la stessa buona fede, che la causa per la quale milita sia la più giusta, se non l'unica giusta. Certo, l'uomo è educato da altri uomini; nessuna dottrina politica, tuttavia, ha il privilegio di educare il genere umano. Crederlo significa sottoscrivere l'oppressione. Lasciare al potere la cura della pedagogia significa inevitabilmente fare dell'essere umano lo strumento delle mire di un po-

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tere determinato. Ora, come abbiamo visto, la politica ha, concettualmente, unicamente il ruolo di istituire una disciplina o una coercizione esterne, destinate a facilitare e armonizzare i diversi e innumerevoli scambi e relazioni possibili tra i membri di una città. È solo nella misura in cui questa coercizione è un aspetto dell'educazione che la politica ha un ruolo pedagogico. Ogni dottrina, qualunque essa sia, che attribuisca al potere una missione educatrice, tende dunque inevitabilmente verso il folle eccesso del dispostismo e della dittatura, come diceva Tommaso Moro: « Volendo guarire la pazzia altrui, diventerei pazzo io stesso». 3 Per sua natura, il politico ha per oggetto diretto di vegliare sul bene comune dell'unità politica e, unicamente per questo tramite, sul bene proprio di ciascun membro. Esso non deve, dunque, imporre ai singoli le opzioni relative al loro orientamento personale o al loro modo intimo di essere, sebbene le scelte inappellabili del politico abbiano influenza sul comportamento di ciascun membro, non foss' altro perché incidono sulle condizioni generali della vita degli individui e formano la storia e il passato che peseranno sulle generazioni successive. Comunque, la politica è dominio dell'uomo sull'uomo e, come tale, rischia di allontanare l'educazione dal suo vero significato. Sorgono continuamente nuove teorie che costruiscono la politica a misura dell'ideale e del dover essere (che varia sempre con le dottrine) e che pensano di poter sostituire l'educazione al dominio. Sono solo «belle negazioni» della realtà.

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3. Storia e metafisica

Una cosa è indiscutibile, la politica è stata, con la scienza, l'ariete che ha demolito la fortezza della metafisica. A partire dal Rinascimento e soprattutto da quando l'idea rivoluzionaria ha sollevato il mondo, la politica ha suscitato una quantità di aspirazioni generose e magnanime, paragonabili alla quantità di speranze e di attese suscitate dalle scoperte scientifiche, sempre più prodigiose. Sulla scorta delle promesse della politica e delle conquiste della scienza, la storia è divenuta profetica, l'economia visionaria, la sociologia divinatrice, la psicologia incantatrice e la tecnica demoniaca. Gli eterni problemi dell'uomo non sono stati tuttavia risolti. Possono essere risolti definitivamente? La visione ciclica non è che un modo per farci capire che essi rinascono perpetuamente, mentre la storia ci insegna che hanno solamente cambiato aspetto, forma e condizioni. Passata l'esaltazione iniziale, il progressismo si accontenta di rimettere la soluzione alla capacità delle nostre speranze e delle nostre illusioni. Dal punto di vista concettuale, infatti, il progresso è indefinito; potrà solo costituire esclusivamente una soluzione che ridiventa nuovamente un problema. E, tuttavia, a tutti i sistemi progressisti preme solo una cosa: anticipare teoricamente i termini dello sviluppo. Il progressismo diviene, così, la nuova forma della disperazione, una scuola di pessimismo e di assurdità. Un'utopia può essere riempita di speranze, ma non una serie di utopie rivali e contraddittorie. Do-

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po la notte viene il giorno, ma il progresso si colloca in una luce indistinta, di cui non si sa se sia alba o tramonto, e lì resta. Non potrebbe esistere un fine ultimo senza una rivelazione. In questo caso occorrerebbe che la politica rinnegasse la sua essenza per diventare una religione. Non sarebbe più se stessa. Al contrario, se ci fidiamo della storia politica, sembrerebbe più ragionevole sostenere con Proudhon: «Tutte le idee sono coeterne nella ragione generale: esse appaiono successive solo nella storia, dove vengono, a turno, ad assumere la direzione degli affari e ad occupare il primo posto». 4 Qualsiasi visione unicamente fondata sulla politica ci conduce all'idea dell'eterno ritorno. Tuttavia, la politica non è la sola essenza. Quella della scienza ci offre senza dubbio l'immagine del progresso, e così la tecnica fondata sulla scienza. Non si tratta, tuttavia, che di un progresso delle condizioni esteriori di vita. Così, anche senza fare intervenire le concezioni proprie dell'arte o della morale, e tenuto conto della dialettica tra tutte queste diverse attività, l'idea dell'eterno ritorno non potrebbe soddisfare la nostra filosofia globale del mondo e dell'uomo. La politica può perfino apparire come un intralcio alle nostre speranze e come la corruzione di una concezione unitaria. Eccoci di nuovo di fronte al problema del male in politica, che Donoso Cortés ha posto con molta arguzia: o questo male è insito nella stessa società, e allora le rivoluzione e gli sconvolgimenti sociali sono inutili, senza speranza di un possibile per-

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fezionamento della società, l'unica soluzione essendo quella di trovare ogni volta, nel caso specifico, le istituzioni più consone al momento, oppure questo male è accidentale e storico, e occorre, allora, spiegarne l'origine, la causa, trovare il rimedio che farà dell'uomo il redentore della società e di se stesso. 5 Le antropologie positive (marxiste o esistenzialiste) si oppongono, in relazione a questo dilemma, a tutte le teologie senza che né le une né le altre riescano a risolverlo, se non con l'appello ad una fede essa stessa contraddittoria, in quanto non è possibile fornire una risposta decisiva alla domanda capitale che regge tutta la discussione: l'uomo è o può essere il creatore di se stesso? Talvolta ci si accontenta anche di imitare la fede, di modo che l'argomentazione si perde nell'apologetica. È vero, ai nostri giorni un nuovo sincretismo spera di trovare un accomodamento pratico, in mancanza di altra soluzione, sotto la forma di un incontro o di un dialogo tra una teologia che si dà arie da progressismo e una antropologia che accetta la nozione di trascendenza. In effetti, si tratta soprattutto di un gioco intellettuale destinato a tranquillizzare gli animi timorosi, avidi di consolazione e spaventati dai problemi e non di un'indagine coraggiosa e perspicace che non teme di misurarsi con gli equivoci della realtà, con le ambiguità e le contraddizioni del pensiero e con gli inevitabili conflitti ed antagonismi tra i valori. Tutte queste concezioni e dottrine, dispute e polemiche, dialoghi e incontri, accomodamenti e conciliazioni sono dominati oggi da un terribile problema,

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che fa passare in secondo ordine tutti gli altri. Questo problema appartiene solamente alla decisione politica, sebbene sia opera della scienza e della tecnica: l'arma atomica è in grado di annientare la quasi totalità dell'umanità. Se il politico è veramente il male, come si è potuto mettere nelle sue mani questo strumento? Niente potrebbe farci percepire maggiormente il peso del politico sul destino del nostro pianeta, anche se gli astronauti dovessero conquistarne altri. Questa possibile catastrofe non pone tanto il problema della guerra e della pace quanto quello della necessità di cercare una soluzione nella stessa politica, poiché nulla ci dimostra in modo migliore che la pace è, ed è solamente, un mero problema politico. Per il resto, il rischio di una distruzione atomica ci rimanda ad un interrogativo che la storia ha dichiarato superato, mentre è chiaro che non lo è: quello della metafisica. Sotto l'influenza delle filosofie della storia e del progresso, si è creduto di assistere a una rivalità tra le diverse discipline e attività umane, le une destinate a scomparire, come la religione, la metafisica e la politica, e le altre destinate, invece, a svilupparsi e a perfezionarsi, in quanto esse beneficerebbero del progress_o della scienza, come la morale, il diritto, l'economia, ecc. Si è anche creduto che la ragione avrebbe progressivamente rimosso l'irrazionale, l'arbitrio e la fede. Ma ci si è dovuti arrendere molto rapidamente all' evidenza: lo sviluppo dei lumi non voleva affatto dire la capitolazione dell'irrazionale né l'indebolimento

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dell'impero delle passioni e nemmeno l'arretramento della fede. La crescente razionalità non faceva che aumentare in intensità la potenza dell'irrazionale. Il fatto è che lo stesso progresso ha senso solamente nell'ordine dei suoi postulati, vale a dire che i progressi del sapere hanno senso solo nell'ordine del sapere e della ricerca, non in quello del sentimento o della volontà. L'uomo è portato in maniera naturale a porsi il problema: in che modo lo sviluppo della scienza potrebbe pregiudicare la metafisica, dato che quest'ultima ha tutt'altro oggetto, altri presupposti e un altro fine? La filosofia delle essenze e il rifiuto della confusione dei generi è un tentativo di risposta a questa domanda, e l'analisi dell'essenza del politico ne è un aspetto particolare. Da cent'anni si annuncia il declino dello Stato e la fine della politica, poiché, si dice, questo declino è una esigenza della filosofia della storia. Ora, non solo constatiamo la permanenza dell'attività politica, ma, più che mai, il nostro destino temporale dipende da una possibile malaugurata decisione della volontà politica. Come non riprendere, in queste situazioni, una meditazione sull'essere, sul senso del conflitto e degli equivoci che il politico non cessa di introdurre nella nostra vita? Non vi è, tuttavia, modo di invertire il movimento cercando di sostituire la metafisica alla storia. Al contrario, bisogna mettere in rapporto la storia e la metafisica per comprendere meglio l'uomo. In effetti, nessuna riflessione sull'essere potrebbe evitare il problema del divenire individuale e col-

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lettivo; d'altro canto, anche se le filosofie della storia sembrano disdegnare la metafisica, si tratta solo di apparenza, poiché esse proiettano la riconciliazione dell'essere con se stesso in un futuro utopico, - cosa che, in fondo, è solo un altro modo di porre il problema dell'essere.

Note 1. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, libro I, cap.

III. 2. G. Lukacs, Histoire et conscience de classe, Paris, 1960, p. 69. La formula di Ranke richiamata nel testo si trova egualmente citata in quest'opera, nella pagina seguente. 3. T. Moro, Utopia. 4. J.-P. Proudhon, Idée générale de la révolution au XIX• siècle, Paris, 1924,p. 186. 5. J. Donoso Cortés, CEuvres, Lyon, 1877, t. III, p. 313.

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Julien Freund Che cos'è la politica? Il libro. Pensare la politica politicamente. È l'invito che scaturisce dalla lettura di questo libro, opera di uno degli esponenti di punta del "realismo politico" europeo contemporaneo , seguace di Cari Schmitt e Raymond Aron. In che misura la politica rappresenta una sfera d'azione dotata d'autonomia? Esiste un'essenza della politica? Quali sono le finalità specifiche della politica? E quali i mezzi e gli strumenti che la caratterizzano? Nel solco di Aristotele e Machiavelli - riferimenti polari della tradizione politica occidentale - Freund illustra, con efficacia e chiarezza, alcuni dei concetti chiave della politica (antica, moderna e contemporanea): forza, libertà, decisione, responsabilità, sicurezza, bene comune. Una difesa della politica contro i teorici della "fine della politica" ed i fautori. dell"'antipolitica", una requisitoria serrata contro l'utopia di un mondo senza conflit- · ti e senza tensioni , presentate dall'autore con uno stile originale e brillante. L'autore. Julien Freund (1921-1993) è stato uno dei più importanti filosofi della politica del Novecento. Ha insegnato nell 'Università di Strasburgo, dove nel 1970 ha creato l'lnstitut de polémologie. Tra le sue opere pubblicate in italiano ricordiamo: Sociologia di Max Weber (1968) , Pareto. La teoria de/l'equilibrio (1976) , Diritto e politica. Saggi di filosofia giuridica (1994) , Il Terzo, il Nemico, il Conflitto. Materiali per una teoria del Politico (1994) , Voci di teoria politica (2001 ).

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