Cervello, mente, anima 8837229518, 9788837229511

Una domanda attraversa queste pagine: è legittimo il disinteresse di molti scienziati verso la filosofìa, quando i conce

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Cervello, mente, anima
 8837229518, 9788837229511

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Una domanda attraversa queste pagi­ ne: è legittimo il disinteresse di molti scienziati verso la filosofia, quando i concetti fondamentali della scienza hanQO per lo più una genesi filosofi­ ca? E il caso delle categorie cervello, mente, anima, pensiero. Categorie che, nella loro stessa origine, sono at­ traversate da tensioni che si eviden­ ziano, ad esempio, nelle riflessioni delle neuroscienze. Tensioni che un approccio riduzionista a questi con­ cetti - oggi divenuto senso comu­ ne - sembra occultare.

EMANUELE SEVERINO, fra i maggiori fi­ losofi contemporanei, insegna Filosofia teoretica all'Università San Raffaele di Milano. Per Morcelliana ha pubblicato: Democrazia,

tecnica,

capitalismo (201 02);

Istituzioni di filosofia (201 O); Piazza della Loggia. Una strage politica (2015) e ha cura­

to, con Vincenzo Vitiello, Inquieto pensare. Scritti in onore di Massimo Cacciari (2015).

ISBN 978-88-372-2951-1



7,00

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9 788837 229511

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Piccoli Fuochi 3

a cura di Ilario Bertoletti

Emanuele Severino

CERVELLO, MENTE, ANIMA

MORCELLIANA

© 2016 Editrice Morcelliana Via Gabriele Rosa 71 - 25121 Brescia

Prima edizione: maggio 2016

www .morcelliana.com

l diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere ef­ fettuale nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIA E del compenso previsto dall'art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dell'accordo stipulato tra SIAE, AIE, SNS, SLSI e l"NA, l"ONFARTIGIANATO, CASARTIGIANI, CLAAI e LEGACOOP

il 17 novembre 2005. Le riproduzioni ad uso ditTerenle da quello personale

potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume, solo a seguito di specifica autori1zazione rilasciata da Al DRO, via delle Erbe n. 2, 20121 Milano, telefax 02.809506, e-mail aidro�iol.it

ISBN 978-88-3 72-2951-1 Litos s.r.l. - Via Pasture, 3 - 25040 Gianico (BS)

PREMESSA

Davanti alla filosofia molti scienziati al­ zano le spalle. Dato il modo in cui essa, per lo più, è a loro presente, hanno ragione. So­ prattutto se essa non sa essere altro che una riflessione sui risultati della scienza o ha la pretesa di insegnarle che cosa debba fare. Ma i concetti fondamentali della scienza hanno per lo più una genesi filosofica. È il caso dei concetti richiamati in queste pagine- cervel­ lo, mente, anima, pensiero - che tanta parte hanno nelle riflessioni delle neuroscienze. Pagine che ricostruiscono a grandi tratti l'o­ rigine di questi concetti e le tensioni e con­ traddizioni che li attraversano, mostrando insieme l'inadeguatezza del riduzionismo in cui viene occultato il loro peso filosofico.

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Cervello, mente, anima

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IL CERVELLO, LA MENTE

Sono esistiti ed esistono scienziati con interessi, competenze e attitudini filosofi­ che rilevanti. D'altra parte non pochi scien­ ziati dicono che in genere i filosofi non co­ noscono la scienza e che questa loro ignoranza rende inconsistente e superfluo il loro lavoro. E questi scienziati hanno spes­ so ragione. Ma, per quanto la domanda pos­ sa sembrare inutile, che significato ha l'e­ spressione "conoscere la scienza"? Vi sono soprattutto due modi di rispondere. Fermo restando che ormai nemmeno gli scienziati possono riconoscere l'intero contenuto del­ le proprie discipline, conoscere la scienza questo, il primo modo di rispondere - signi­ fica conoscere per lo meno i metodi secondo i quali essa procede, i principali risultati ai quali è pervenuta, la sua genesi, i suoi rap9

porti con le altre forme di sapere e con la società, i problemi che sorgono dai rapporti tra le singole discipline scientifiche e all'in­ temo della stessa disciplina. Se è in questo modo che i filosofi non conoscono la scien­ za, allora è come se essi non conoscessero l'esistenza del cielo, delle stelle, degli ani­ mali, delle piante. Non solo non sono filo­ sofi, ma nemmeno uomini. Ma si può ri­ spondere anche (ed è la risposta che molto spesso gli scienziati si danno) dicendo che oramai la filosofia deve porre alla propria base il sapere scientifico. Questa volta sono gli scienziati a mostrarsi ingenui. Perché questa loro risposta non esprime una pro­ spettiva scientifica, ma filosofica, e inge­ nuamente filosofica. Quale disciplina scien­ tifica, infatti, contiene la strumentazione concettuale che le consenta di affermare che la filosofia deve porre alla propria base la scienza? Nessuna. Anzi, accade qui che sia proprio la scienza a porre alla propria base una cattiva filosofia (oggi peraltro adottata lO

da molti filosofi). Sin dal suo inizio, invece, la filosofia intende essere la forma assoluta­ mente radicale del sapere. E per mostrare in che cosa consista il sapere radicalmente in­ controvertibile si porta alle spalle di ogni altro sapere (mitico, artistico, economico, politico, tecnico, scientifico) e quindi esclu­ de di porlo alla propria base. Inconsistente e superflua, dunque, è la filosofia che si fonda sulla scienza - giacché se, così fondandosi, è inconsistente e superflua, allora non è filo­ sofia, ma scienza. Uno degli aspetti più im­ portanti di quel «portarsi alle spalle» di ogni altro sapere riguarda l'esperienza umana del mondo. Non esisterebbe infatti alcun sape­ re, quindi nemmeno quello scientifico, se il mondo non fosse manifesto, cioè non si mo­ strasse, non apparisse: non se ne facesse, appunto, esperienza. Certo, la scienza è una continua critica dell'esperienza. Afferma ad esempio che il sole non si muove, come sembra. Ma è necessario che questo sem­ brare appaia, perché la scienza possa afferll

mare che è illusorio. La scienza però non si interessa di quel fondo che è appunto l'e­ sperienza da cui la scienza pur parte. Su di esso la scienza fa luce con le proprie lampa­ de, tendendo però a dimenticare che sono sempre costruite con materiali che da quel fondo sono tratti. A quel fondo la filosofia si è invece sempre rivolta: per stabilire se, al di là delle apparenze che esso contiene, esso non custodisca in sè anche un nucleo inne­ gabile, incontrovertibile, che stia al fonda­ mento di ogni sapere e di ogni agire. (E qui non dirò nulla sull'esito di questo tentativo, che sin dali 'inizio concepisce la manifesta­ zione del mondo come manifestazione della sua caducità.) La filosofia «si porta alle spalle» di ogni sapere e agire dell'uomo an­ che in uno dei campi oggi più frequentati nel campo della neurofisiologia e dell'intel­ ligenza artificiale: quello del rapporto tra mente e cervello. Carl Sagan, uno dei mag­ giori astrofisici e astrobiologi del xx secolo (e tra i più importanti consulenti e collabo12

ratori della Nasa), scriveva nel suo libro I draghi dell'Eden: «La mia premessa fonda­ mentale riguardo al cervello è che le sue at­ tività - ciò che talora chiamiamo "mente" - sono una conseguenza della sua anatomia e della sua fisiologia e nulla più». Tesi sot­ toscritta da una nutrita schiera di scienziati à la Francis Crick o à la Richard Dawkins, ma antichissima (risale alla filosofia greca). Si ricorda che neli 'Ottocento era già soste­ nuta da Emil Du Bois-Reymond, ma si ignora che Giacomo Leopardi aveva scritto: «Che la materia pensi è un fatto», chiarendo il significato di questo asserto in modo da far invidia a scienziati e filosofi. Ma la «pre­ messa fondamentale riguardo al cervello» di Sagan può essere avanzata dopo aver fat­ to molta strada. Infatti, come si fa a sapere che esistono cervelli e quelle «attività» «che talora chiamiamo "mente"»? E che quindi esistono corpi in cui i cervelli si trovano e lo spazio dove tali corpi vivono e stanno in rapporto con altre cose? Non si può rispon13

dere che così: si sa che tutto questo esiste, perché appartiene al mondo che si mostra, si manifesta, appare, al mondo che sperimen­ tiamo: all'esperienza. A questo punto va detto che, per un insieme di motivi che qui non possono esser richiamati, si è prodotto, non solo negli scienziati, una sorta di obnu­ bilamento, per il quale non ci si rende conto che l'esperienza è la forma originaria della mente ed è soltanto sulla base di questa for­ ma che ci si può mettere in cammino per conoscere e agire e dunque per cercare e trovare l'origine della «mente». Chi pensa come Sagan è come se, in pieno giorno, alla luce del sole, tenesse in mano una lampada accesa e, convinto che l'unica luce sia il chiarore diffuso dalla lampada, sostenesse che esso è «conseguenza» dell'«anatomia» e della «fisiologia» della mano che regge la lampada, «e nulla più». La «mente» di cui si occupa la scienza non è cioè l'esperienza, che include tutto ciò a cui il sapere e l'agire umano possono rivolgersi, ma è soltanto 14

una parte dell'esperienza, ossia della mente originaria che sta alle spalle di ogni ricerca scientifica. E parlando della «scienza» mi riferisco sia agli scienziati «riduzionisti», per i quali la mente non è altro che l'attività del cervello (così come la digestione non è altro che l'attività dello stomaco), sia agli scienziati che invece intendono difendere l'autonomia (o addirittura la «spiritualità») della mente rispetto al cervello e alla mate­ ria. Non solo: mi riferisco, oltre che a molte posizioni filosofiche del passato, anche a quella filosofia che ormai si è lasciata con­ vincere della necessità di avere alla propria base il sapere scientifico. Certo, la parola «esperienza» può essere intesa in modi del tutto inadeguati rispetto a quanto stiamo di­ cendo. Qui importa ribadire che al fondo della conoscenza e dell'agire non sta sem­ plicemente il mondo, ma la manifestazione del mondo, il suo esser noto; ed è innanzi­ tutto a questa manifestazione e notizia che spetta di esser qualificata come «mente». La 15

quale, peraltro, in qualche modo contiene tutti gli spazi e tutti i tempi, altrimenti come potrebbe la scienza parlare deli 'infinita­ mente piccolo e deli 'infinitamente grande e degli infiniti universi e del big bang e degli stati che avrebbero potuto precederlo? Que­ sta mente è la luce che illumina uno spetta­ colo immenso, ma alla quale gli uomini non volgono quasi mai lo sguardo, e quando si rivolgono alla propria mente considerano soltanto la dimensione «psichica», che è soltanto una parte dello spettacolo che in quella luce si mostra. Considerando tale li­ mitata dimensione, lo scienziato «riduzioni­ sta» si serve del «principio di causalità»: il cervello è la «causa» e la «mente» è l'«ef­ fetto». Il neodarwinismo, che intende la «mente» come effetto di una evoluzione estremamente complessa, ha ridato vigore ali 'uso di quel principio. Ma la meccanica quantistica - si pensi al «principio di inde­ terminazione» di Heisenberg, in qualche modo anticipato dalla critica di Hume al 16

preteso valore assoluto del «princtpto di causalità» - mostra che nessuna legge scien­ tifica, quindi nemmeno il «principio di cau­ salità», può avere un valore assoluto: ha un carattere statistico-probabilistico, ossia è una regolarità empirica che si ha avuto modo di constatare, ma che è sempre smen­ tibile. Che a certe funzioni cerebrali corri­ spondano certi eventi psichici è pertanto una regolarità empirica che non autorizza ad affermare che il cervello sia la causa del­ la mente. Per di più, in questo suo conferire valore assoluto al «principio di causalità», lo scienziato riduzionista smentisce la pro­ pria vocazione (o filosofia) di fondo, che consiste nella volontà di eliminare ogni illu­ sione di sopravvivenza dell'uomo: il corpo umano e il cervello- sostiene - sono desti­ nati alla corruzione e alla morte, e quindi anche alla mente, che non è altro che l'atti­ vità del cervello. Tuttavia per lo scienziato riduzionista il «principio di causalità» pre­ senta un valore assoluto, è cioè una verità 17

eterna e non qualcosa di corruttibile e di mortale. Ma allora come può accadere che il corruttibile e mortale cervello dell'uomo sia legato alla mente da un vincolo incorruttibi­ le e immortale? Le considerazioni qui sopra svolte non intendono sostenere che la ragio­ ne stia dalla parte degli antiriduzionisti. Qui non si tratta di stabilire chi abbia «ragione», ma chi ha maggiore capacità di trasformare la mente e il comportamento dell'uomo conformemente a certi progetti.

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"ANIMA" E RIDUZIONISMO

«L'anima è in certo modo gli enti»: He psyché ta onta pos estin. Questo afferma Aristotele nel De anima, VIII, 23 1 b, 2 1. «Gli enti» (ta onta) non significa «una certa parte degli enti, ma non le altre parti». Significa: «tutti gli enti»: panta ta onta. L'anima è «in certo modm> (pos) la totalità degli enti. L'e­ spressione «In certo modo» dalla tradizio­ ne aristotelico-scolastica a Brentano e alla fenomenologia è intesa come già Aristotele sostanzialmente la intende: l'anima «è» gli enti, ma non nel senso che essa sia simplici­ ter («fisicamente» dicono gli scolastici) gli animali, le piante, le case, la terra, il cielo e la totalità degli enti, bensì nel senso che essa è la loro rappresentazione, ossia il loro presentarsi, manifestarsi, apparire. Si inter­ preta: l'anima è «intenzionalmente» tutti gli 19

enti; è il riferirsi a essi. Ma riferimento e intenzionalità sono innanzitutto l'apparire, il manifestarsi degli enti. E il pensiero greco chiama phainesthai tale apparire. D'altra parte, la totalità de­ gli enti non appare tutta insieme, compiu­ tamente, e quindi Aristotele non intende affermare che l'anima sia onnisciente, ma che essa è tutti gli enti che vanno via via manifestandosi, cioè di cui essa è la mani­ festazione; e insieme: che essa è sì la mani­ festazione della totalità degli enti, ma che la totalità si manifesta come processo, svi­ luppo, «generazione» degli enti del mondo. E tuttavia, in quanto apparire della totalità degli enti (via via manifestantisi) l'anima non è un ente particolare appartenente a tale totalità. Ciò non significa che l'anima non possa apparire. In Aristotele questo aspetto del discorso sull'anima rimane implicito; ma la stessa affermazione che l'anima è in certo modo gli enti è proprio l'apparire di questa forma di identità dell'anima e della 20

totalità degli enti, sì che tale affermazione è insieme l'apparire in cui l'anima ha come contenuto se stessa. Ma, si sta dicendo, ha come contenuto se stessa non come uno tra gli enti particolari che appaiono, ma come l'apparire della loro totalità. L'apparire de­ gli enti è il fondamento di ogni ricerca, pro­ blema, conoscenza, scienza, opinione, fede, e di ogni progetto, deliberazione, decisione, azione: è il fondamento di ogni aspetto della vita dell'uomo: anche di quelle convinzio­ ni e indagini che si rivolgono all'«anima» («coscienza», «mente», «spirito»), intesa questa volta come parte della totalità degli enti. Filosofia (e lo stesso pensiero aristote­ lico), religione, scienza, arte hanno imboc­ cato questa strada, dove l'anima è uno degli enti particolari che appaiono. Per esempio, per millenni - e, dopo la parentesi idealisti­ ca, tuttora - quelle forme culturali (guidate da un sapere filosofico, che a sua volta si fa guidare dal senso comune) credono che, al di là del loro apparire, gli enti esistano 21

in se stessi, cioè indipendentemente dal loro apparire e dunque dali 'anima in quanto sia intesa come il loro apparire. Solo sul fondamento di questa creden­ za possono farsi innanzi teorie come quel­ la evoluzionistica, che concepisce i fatti mentali come risultato di un lunghissimo sviluppo delle specie viventi; o come quel­ la in cui consiste la «psichiatria», dove la psiche, intesa come oggetto di una iatréia, è circondata dalla «cura» come ogni altro ente particolare curabile, e dove la cura è a sua volta inscritta in un contesto sociale rinviante al mondo intero. In questo modo, si perde però di vista che queste e ogni altra teoria che considerano l'anima come parte - e innanzitutto quella credenza deli' indipendenza degli enti dal loro apparire, sulla quale esse si fondano - debbono peraltro da ultimo fondare ogni loro pretesa di verità proprio suli 'apparire degli enti, cioè su quell'«anima» che lun­ go la storia del pensiero occidentale è so22

pravvissuta ed è stata pensata come phaine­ stai, cogito, «lo penso», «Spirito come atto puro», «esperienza» (in quanto esperienza della totalità degli enti che vanno via via mostrandosi). Per quanto riguarda il concetto di espe­ rienza, si osservi che il «metodo sperimen­ tale» è, per la scienza stessa, l'indagine che pone a proprio fondamento l'esperienza; sennonché dell'esperienza in quanto tale la scienza non si interessa: volta le spalle al senso fondamentale dell'«anima» per dedi­ care ogni sua attenzione all'«anima» come ente particolare. E se oggi si rivendica il ca­ rattere linguistico dell'esperienza, va detto che anche con questo carattere l'esperien­ za è il fondamento di ogni attività teorica e pratica dell'uomo. Ma anche Aristotele, oltre a intendere l'anima come apparire della totalità degli enti, la intende come parte della totalità. Tale apparire è infatti per Aristotele l'iden­ tità del conoscente in atto e del conosciuto 23

in atto, ma questa identità è un risultato. Il cominciamento del processo che conduce a questo risultato è, da un lato, la «capacità» dell'anima di conoscere (ossia il suo esser conoscente «in potenza»), dali'altro lato è la «capacità» degli enti di essere conosciuti (ossia il loro esser conosciuti «in potenza»). Queste due capacità non sono lo stesso, non sono identiche. L'identità di conoscente e conosciuto si produce quando i due sono in atto ed essa è appunto il risultato del pro­ cesso che conduce dalla potenza ali'atto. Ma quando l'anima è conoscente in potenza (Aristotele parla in proposito di «intelletto passivo») e differisce dal conosciuto in po­ tenza - ossia dagli enti che hanno la capa­ cità di apparire-, l'anima è una parte della totalità degli enti. L'anima diventa parte anche quando l'apparire della totalità degli enti è inteso come atto di un «io» («persona», «sog­ getto»), e si afferma, appunto, che «io penso» - dove il «pensare» è innanzitut24

to quell'apparire. Anche qui, e nonostante tutti i dubbi che si nutrono in proposito, è la filosofia greca, e dunque lo stesso Ari­ stotele, ad aprire questa prospettiva. Si ri­ tiene che esista un produttore del pensare e che tale produttore sia un «io», una «per­ sona», un «soggetto». (Variante di questa convinzione è la tesi, oggi centrale soprat­ tutto in campo biologico, che a pensare sia il corpo, il cervello, la materia.) «E manifesto che è quest'uomo singolo a pensare»- manifestum est quod hic homo singularis intelligit, si afferma nel De uni­ fate intellectus contra averroistas di san Tommaso. Quest'uomo singolo è l'io. Che quest'uomo singolo sia il pensante (Tomma­ so) e che il cogitare sia il cogitare di un ego (Cartesio) appartengono alla stessa prospet­ tiva. Alla quale appartiene gran parte della cultura non solo filosofica - peraltro con notevoli eccezioni (ad esempio Nietzsche, Lichtenberg, Russell, Wittgenstein, Mach, Avenarius). In tale prospettiva, l'io, la per'

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sona, il soggetto (ma anche il corpo, la ma­ teria, il cervello) sono parti della totalità che appare. L'intelligere di «quest'uomo singolo» è il campo di ciò che è manifestum e «quest'uomo singolo» è una parte di que­ sto campo- ossia dell'apparire della totalità degli enti. A questo punto, si tratterebbe di mettere in luce la contraddizione di questa prospettiva. Ci si limiterà qui a un'indicaz10ne sommana. Se in quella prospettiva «io penso» si­ gnifica «io sono produttore del pensiero», il pensiero non è d'altra parte inteso come qualcosa che sia ignoto all'io. L'io ha noti­ zia del pensiero da lui prodotto. Ma l'aver notizia è l'apparire. E a sua volta il «pensiero» è innanzitutto l'apparire degli enti. L'«io penso» viene infatti quasi sempre unito (in modo più o meno espli­ cito) a «gli enti appaiono a me»: io, che penso, sono appunto l'io a cui appaiono gli enti. L' «a cui» è la notizia che l'io ha di essi. Dire quindi che gli enti appaiono a .

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me significa dire che l'apparire degli enti appare a me appunto perché «a me» non può non significare, in questa prospettiva, «apparire a me»; sì che dire che l'appari­ re degli enti appare a me significa dire che l'apparire degli enti appare all'apparire a me et sic in indefinitum. In altri termini, che gli enti appaiano «a me» non significa, in quella prospettiva, che essi appaiono a un sasso o a un albero, ma che appaiono a una coscienza, cioè a un ap­ parire; e se si intende tener fermo che l'appanre e sempre un appanre «a un IO», «a una coscienza», allora l'apparire «a me» è l'apparire all'apparire a me, dove l' «a me» determina un progressus in indefinitum. Con la conseguenza che, se ciò a cui ap­ paiono gli enti viene indefinitamente spo­ stato e allontanato, gli enti non appaiono più a qualcuno, e chi crede che l'apparire possa essere solo un apparire a qualcuno è costretto a concludere che non appare alcun ente. E questa è la contraddizione della pro-

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spettiva per la quale «io penso» e «gli enti appaiono a me». Nella variante riduzionistica di tale pro­ spettiva, «il cervello pensa» (o «il corpo pensa»). Ma in questa variante non si inten­ de sostenere che il pensiero - cioè gli enti che appaiono- è il loro apparire «al cervel­ lo», e quindi in tale variante non è presente la contraddizione che invece compete alla prospettiva di cui il riduzionismo è, appun­ to, una variante. Al riduzionismo compete un'altra con­ traddizione, che ho considerato in altre oc­ casioni e che è cioè l' analogon del riduzio­ nismo teologico. La riduzione della mente al cervello è cioè l'analogon mondano della riduzione teologica del mondo a Dio. Infatti, se il mondo è totalmente riducibile a Dio, non c'è mondo; e se la mente è total­ mente riducibile al cervello, non c'è men­ te. In entrambi i casi, se la riduzione non è totale c'è un residuo irriducibile. Ma se la riduzione è totale, essa nega ciò che essa .

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stessa afferma: nega quella mente e quel mondo che essa riconosce esistenti proprio per la sua volontà di ridurli, rispettivamen­ te, al cervello e a Dio.

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III

PENSIERO, SCIENZA, VOLONT À DI POTENZA

In una lettera inviata a Max Born alla fine del 1926, Albert Einstein scrive: «Nessuna quantità di esperimenti potrà dimostrare che ho ragione; un unico esperimento potrà di­ mostrare che ho sbagliato». Da dieci anni aveva incominciato a render nota la teoria della relatività generale, in cui viene dedotta l'esistenza delle «onde gravitazionali», ora finalmente osservate da un laser di altissima tecnologia. L' «osservazione» è un «esperi­ mento». In esso viene constatato un «fat­ to», ossia una certo evento - ad esempio un punto luminoso (interpretato come «stella») che in un telescopio opportunamente predi­ sposto coincide con una lineetta nera del re­ ticolato. Ma, dice Einstein, «nessuna quan­ tità di esperimenti potrà dimostrare che ho 31

ragione» - e che quindi egli aveva ragione nel prevedere, ad esempio, l'esistenza delle «onde gravitazionali». Si può dire che in so­ stanza l'affermazione di Einstein si muova nell'ambito del concetto aristotelico di «in­ duzione» (epagoghé): si può osservare per un numero di volte alto quanto si vuole che le cose di una certa specie hanno una certa proprietà ma da queste osservazioni non si può concludere che tutte le cose di quella specie abbiano questa proprietà e che quindi mostreranno, nelle osservazioni successive, di avere tale proprietà. Non si può infatti escludere che, dopo un gran numero di con­ ferme, il laser che ha consentito di speri­ mentare le «onde gravitazionali» non abbia più a mostrame l'esistenza. E improbabile quanto si vuole ma non impossibile. Queste considerazioni non scalfiscono minimamente l'enorme importanza del­ la sperimentazione di quelle onde. Anche perché la seconda parte dell'affermazione di Einstein - «un unico esperimento potrà '

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dimostrare che ho sbagliato» - non è così fuori discussione come può sembrare (so­ prattutto dopo gli sviluppi che essa ha avuto nell'epistemologia di Karl Popper). Infatti, se è possibile che il laser di cui si sta par­ lando, abbia a mostrare l'opposto di quel che ha mostrato, è anche possibile che in seguito tomi a mostrare quel che in primo tempo ha mostrato. Se per «aver ragione» intorno a una tesi si intende che nessun esperimento potrà far osservare qualcosa di opposto a essa, allora, certamente, un unico esperimento può mostrare che questa tesi è sbagliata. Ma che dire di un laser che nel­ la maggior parte dei casi abbia a mostrare l'esistenza delle onde gravitazionali e solo in uno o in pochi altri casi non abbia a mo­ strarla? Che dire di un motore che una volta o poche volte non ha funzionato ma che per lo più funziona bene? Lo si butterà via? La scienza ha imparato a non buttar via le cono­ scenze che funzionano come questo motore. Anzi, quando riesce a guardare se stessa, si 33

rende conto che nessuno dei suoi principi «ha ragione» nel senso qui sopra indicato: nessuno è universalmente valido e defini­ tivamente vero. L'estrema potenza che la scienza e la tecnica sanno oggi produrre è proprio dovuta al rifiuto di conoscenze che abbiano la pretesa di essere universali e de­ finitive. La potenza si è tolta la maschera della verità ed è diventata il valore supremo. Il valere non è forse l'avere potenza? E i supremi principi della tradizione filo­ sofico-scientifica? Ad esempio il «principio di non contraddizione»? Per essa non può venire smentito dai «fatti». Tale principio afferma: è impossibile che, nel medesimo tempo, una cosa abbia e non abbia una cer­ ta proprietà. La tradizione ha creduto che come non può essere smentito dai «fatti», così non è affermato in base alla loro osser­ vazione. Che un segmento di retta- crede la tradizione - non possa essere nel medesimo tempo maggiore e minore di un altro seg­ mento non lo si afferma perché finora non 34

abbiamo osservato segmenti di retta che nello stesso tempo siano maggiori e minori di altri; ed è impossibile che lo si osservi in futuro. Certo, queste sono le intenzioni della tradizione. Negli ultimi due secoli è emer­ sa la tendenza a ritenere che quel principio non è una verità assoluta e definitiva ma ha un valore pratico (si pensi a Nietzsche o a Lukasiewicz). Se si vuol esser potenti, biso­ gna che, quando lo si è, non si sia contem­ poraneamente impotenti. E d'altra parte, se la contraddizione (per esempio il mentire) rende potenti, perché non contraddirsi? Ma la questione è estremamente complessa, e non può essere qui districata. Limitiamoci ad alcune osservazioni. I due contributi fondamentali della fisi­ ca contemporanea - teoria della relatività e fisica quantistica - mostrano, almeno si­ nora, di essere tra loro in contraddizione. Ma nessun fisico rinuncerebbe per questo a servirsi di entrambi. E se Kurt Godei ha dimostrato la possibilità che lo sviluppo del 35

sapere matematico abbia a implicare del­ le contraddizioni, qualora ciò avvenisse i matematici non volterebbero le spalle alla matematica esistente. L'esperimento che ha fatto osservare l'esistenza delle onde gra­ vitazionali è stato salutato con legittima soddisfazione perché non smentisce la teo­ ria della relatività. Ma che cosa significa non smentirla? Significa che non l'ha con­ traddetta. Se l'avesse contraddetta, i fisici avrebbero incominciato a dubitare della sua validità ma non smetterebbero di praticarla. In questo modo la fisica mostra la volontà di non contraddirsi. La quale è insieme vo­ lontà che la realtà non sia contraddittoria: volontà, pertanto, che i «fatti» che smen­ tiscono il contenuto di una teoria e que­ sto contenuto non abbiano a coesistere. Si mette da parte, si pensa, il mito della verità assoluta e definitiva del «principio di non contraddizione»; ma è «meglio» - «oppor­ tuno», «conveniente», «utile», «fortifican­ te»- evitare la contraddizione. 36

Che nelle opere e nelle conoscenze sia «meglio», in molti casi, non contraddirsi è un precetto ampiamente seguito. D'altra parte i grandi principi della cultura occi­ dentale, come appunto il «principio di non contraddizione», si presentano come dog­ mi, miti che non riescono a mostrare la loro innegabilità. C'è oggi una certa propen­ sione ai «fatti», all'«esperienza», piuttosto che ai «princìpi»; perfino in campo mate­ matico. Tra la previsione teorica delle onde gravitazionali, operata dalla logica e dalla matematica della teoria della relatività, e l'esperimento che ha fatto osservare la loro esistenza, è questo secondo, tendenzialmen­ te, ad avere l'ultima parola. Una tendenza diffusa, ovunque si tratti di confrontare le teorie ai «fatti» - e, questo, anche se è a sua volta diffusa la convinzione che i «fatti» non siano puri fatti ma «carichi di teoria» (come si sostiene, sia pure in modi diversi, in un certo settore della filosofia del nostro tempo e nella fisica quantistica). 37

Presente, questa tendenza, anche negli ambiti apparentemente più distanti dalle questioni qui considerate. Ad esempio in ambito giuridico. In sede giudiziaria, la de­ duzione logica dell'esistenza di un «fatto» (la deduzione che propone una «teoria») non ha la stessa forza di convinzione di una te­ stimonianza affidabile. Il testimone è infatti colui che sperimenta un fatto. Se i giudici decidono che la sua testimonianza sia affi­ dabile, essa è da loro ritenuta più affidabile della teoria consistente nella deduzione lo­ gica che conduce all'affermazione o alla ne­ gazione dell'esistenza di quel fatto. Questo, anche se il decidere che una testimonianza sia affidabile è un enorme «carico» che vie­ ne messo sulle spalle del fatto testimoniato. Ho inteso mostrare alcuni aspetti del farsi largo, nel nostro tempo, della volontà di po­ tenza. Poi, la gran questione è il senso di tale volontà. Essa è presente sin dali'inizio della storia dell'uomo. E continua ad es­ serlo anche quando il popolo greco, dando 38

inizio alla storia deli 'Occidente, incomincia a pensare il senso della verità innegabile, cioè a credere nella differenza tra volontà e verità. Oggi la volontà di potenza si sta liberando della verità. Sta diventando estre­ mamente coerente. Ma siamo sicuri che non si tratti della coerenza della Follia?

39

SOMMARIO

Premessa .............................

5

I. Il cervello, la mente . . . . . . . . . . . . . . . . . .

9

II. "Anima" e riduzionismo . . . . . . . . . . . . .

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III. Pensiero, scienza, volontà di potenza.. 31

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