Centenario 1906-2006 della Società filosofica italiana. La filosofia italiana oggi
 9788860816054

Table of contents :
Discorso d'apertura - Di Giandomenico, Mauro
Messaggio - Napolitano, Giorgio
Saluti delle autorità - Borgna, Gianni ; Coscia, Maria ; Touadi, Jean Léonard ; Davoli, Elisabetta ; Kemp, Peter ... [et al.]
Prolusione : i cento anni della Società Filosofica Italiana - Berti, Enrico
La filosofia italiana nel ventesimo secolo : introduzioni - Abrusci, Vito Michele ; Matassi, Elio
Cento anni di presenza della filosofia italiana nel contesto internazionale - Agazzi, Evandro
La filosofia italiana e la società multiculturale - Marramao, Giacomo
La filosofia italiana in Europa - Wolters, Gereon
La filosofia italiana al di là dell'Europa - Ales Bello, Angela
La filosofia italiana nel ventesimo secolo : dibattito -
Il ruolo della filosofia tra scuola e società : introduzioni - Di Giandomenico, Mauro ; Sgherri, Anna
Il ruolo della filosofia tra scuola e società : interventi - Gnoli, Antonio ; Massarenti, Armando ; Poma, Andrea ; Rossetti, Livio ; De Pasquale, Mario
Il ruolo della filosofia tra scuola e società : dibattito -
L'insegnamento della filosofia nell'università dopo le riforme : introduzione - Cappelletti, Vincenzo
L'insegnamento della filosofia nell'università dopo le riforme : interventi - D'Onofrio, Giulio ; Gigliotti, Gianna ; Tega, Walter ; Ruggiu, Luigi ; Rugarli, Claudio ... [et al.]
L'insegnamento della filosofia nell'università dopo le riforme : conclusioni - Cappelletti, Vincenzo ; Di Giandomenico, Mauro
Appendice : il rapporto tra testo e musica nella liederistica tra Sette e Ottocento - Matassi, Elio

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SCAFFALE APERTO – FILOSOFIA

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CENTENARIO 1906-2006 Documento acquistato da () il 2023/09/20.

DELLA

SOCIETÀ FILOSOFICA ITALIANA La filosofia italiana oggi a cura di Mauro Di Giandomenico e Carla Guetti

ARMANDO EDITORE

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SOCIETÀ FILOSOFICA ITALIANA Centenario 1906-2006 della Società Filosofica Italiana. La filosofia italiana oggi ; a cura di Mauro Di Giandomenico e Carla Guetti Roma : Armando, © 2011 160 p. ; 24 cm. (Scaffale aperto - Filosofia) ISBN: 978-88-6081-605-4 I Mauro Di Giandomenico II Giorgio Napolitano III Gianni Borgna et al. 1. La filosofia italiana e la Società Filosofica Italiana 2. Il ruolo della filosofia tra scuola e società 3. L’insegnamento della filosofia

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CDD 106

© 2011 Armando Armando s.r.l. Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Direzione - Ufficio Stampa 06/5894525 Direzione editoriale e Redazione 06/5817245 Amministrazione - Ufficio Abbonamenti 06/5806420 Fax 06/5818564 Internet: http://www.armando.it E-Mail: [email protected] ; [email protected] 21-07-102 I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume/fascicolo, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Via delle Erbe, n. 2, 20121 Milano, telefax 02 809506, e-mail [email protected]

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Indice

SEZIONE I: SALUTI INAUGURALI

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Discorso d’apertura di Mauro Di Giandomenico Messaggio di Giorgio Napolitano Saluti delle Autorità Gianni Borgna Maria Coscia Jean Léonard Touadi Elisabetta Davoli Peter Kemp – The right to philosophy Giovanni Puglisi

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Prolusione Enrico Berti – I cento anni della Società Filosofica Italiana

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SEZIONE II: LA FILOSOFIA ITALIANA NEL VENTESIMO SECOLO

41

Introduzioni V. Michele Abrusci Elio Matassi

43

Relazioni Evandro Agazzi – Cento anni di presenza della filosofia italiana nel contesto internazionale Giacomo Marramao – La filosofia italiana e la società multiculturale Gereon Wolters – La filosofia italiana in Europa Angela Ales Bello – La filosofia italiana al di là dell’Europa

47

Dibattito

81

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SEZIONE III: IL RUOLO DELLA FILOSOFIA TRA SCUOLA E SOCIETÀ

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Introduzioni Mauro Di Giandomenico Anna Sgherri

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Interventi Antonio Gnoli Armando Massarenti Andrea Poma Livio Rossetti Mario De Pasquale

101

Dibattito

115

SEZIONE IV: L’INSEGNAMENTO DELLA FILOSOFIA NELL’UNIVERSITÀ DOPO LE RIFORME

121

Introduzione Vincenzo Cappelletti

123

Interventi Giulio D’Onofrio Gianna Gigliotti Walter Tega Luigi Ruggiu Claudio Rugarli Giulio Giorello

125

Conclusioni Vincenzo Cappelletti Mauro Di Giandomenico

145

Appendice Elio Matassi – Il rapporto tra testo e musica nella liederistica tra Sette e Ottocento

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Sezione I

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SALUTI INAUGURALI

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Discorso d’apertura Mauro Di Giandomenico*

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Autorità, Cari Soci, Signore e Signori, l’incontro odierno intende ricordare i cento anni del primo Congresso della Società Filosofica Italiana, tenutosi a Milano nel 1906. La S.F.I. è perciò la più antica delle associazioni italiane a carattere filosofico e come tale è riconosciuta dalla Federazione Internazionale delle Società di Filosofia. Essa, inoltre, ha ottenuto nel 1992 l’attribuzione della personalità giuridica ed è stata inserita nell’elenco degli Enti di ricerca ammessi a godere dei benefici del 5 per mille dell’IRPEF. L’Associazione, cui aderiscono professori e ricercatori universitari, docenti di scuola media superiore, cultori della materia, laureati in discipline filosofiche, fin dall’inizio si è assunta il compito d’incrementare gli studi filosofici (con convegni, pubblicazioni, costituzione di centri locali di studio), nonché di mantenere questa disciplina nel curriculum degli studi secondari ed universitari. Infatti, il 20 settembre 1906 la S.F.I. si riuniva per la prima volta a Milano per difendere la presenza della filosofia nella scuola italiana, presenza che era minacciata da un disegno di legge che si stava discutendo in Parlamento. Da allora la S.F.I. ha tenuto ben trentacinque Congressi (in media uno ogni tre anni circa), oltre che una nutrita serie di seminari, conferenze, convegni su argomenti filosofici, organizzati dai circoli prima e dalle sezioni poi. Pertanto, si può affermare con sicurezza che la S.F.I. ha contribuito in maniera incisiva al mantenimento della filosofia nelle nostre istituzioni scolastiche e culturali, tanto che la larga presenza di queste discipline connota, in senso positivo, la nostra cultura e la nostra scuola nel confronto con gli altri Paesi europei. Senza entrare nel dettaglio della vita centenaria della Società (ce ne parlerà Enrico Berti, testimone diretto di mezzo secolo della sua storia), vorrei richiamare la vostra attenzione su alcune caratteristiche peculiari della nostra Associazione, la prima delle quali è senza dubbio il pluralismo che vige al suo * Presidente

della Società Filosofica Italiana.

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interno e che vede convivere l’una accanto all’altra opzioni diverse sul piano culturale, con una contemporanea e proficua convivenza delle varie “correnti” filosofiche che caratterizzano il panorama nazionale. Ciò ha reso possibile la realizzazione di numerose iniziative, sia di carattere scientifico che di carattere didattico, e forme di collaborazione con i Ministeri della Pubblica Istruzione, dell’Università e della Ricerca e dei Beni e delle Attività Culturali, con reciproca soddisfazione. Una seconda caratteristica consiste nel suo radicamento nel territorio per un totale di 1.248 soci (il 40% docenti universitari). Attualmente sono attive le seguenti sezioni locali: Ancona, Arezzo, Avellino, Bari, Bergamo, Cagliari, Catania, Emilia Romagna, Firenze, Foggia, Francavilla al Mare, Friuli Venezia Giulia, La Spezia, Ligure, Lombarda, Lucana, Lucchese, Messina, Napoletana, Novara, Perugia, Romana, Salentina-Lecce, Salerno, Teramo, Trevigiana, Universitaria Calabrese, Urbino, Veneta, Veneziana, Verona, Viterbo. A queste bisogna aggiungere le neonate sezioni di Palermo “Santino Caramella”, di Torino-Vercelli e l’Universitaria Bolognese, in via di formazione definitiva. Una terza caratteristica della nostra Società la connota, fin dalla sua nascita, come la via regia di collegamento tra mondo della scuola e mondo dell’università. La S.F.I. ha sempre lavorato per un più stretto rapporto tra le due istituzioni, il che se da un lato favorisce ed ottimizza il percorso formativo dello studente (si vedano le tematiche della continuità, dell’accoglienza, dei requisiti minimi, ecc.), dall’altro stimola progetti formativi e di ricerca che vedano coinvolti a pari titolo liceo ed accademia per lo sviluppo di una professionalità docente scientificamente fondata e didatticamente impegnata. A cento anni dal suo primo Congresso ci ritroviamo qui non solo e non tanto per ricordare il nostro passato, ma soprattutto per interrogarci sul nostro futuro, per delineare più efficaci strategie d’intervento nei confronti della scuola, dell’università, dei giovani e della società tutta quanta. Si tratta di rafforzare l’insegnamento della filosofia al passo con le trasformazioni che hanno interessato a tutti i livelli la nostra società. Questa attività va svolta innanzi tutto valorizzando il collegamento esistente con analoghe iniziative promosse dagli altri Paesi dell’Unione Europea, perché la filosofia è un elemento fondamentale della storia culturale europea e la sua promozione permette di far riscoprire i fondamenti di una cittadinanza comune, favorendone la sua estensione a tutti gli Stati dell’Unione. In secondo luogo bisogna riconoscere che non basta attivare forme di sperimentazione didattica più consapevoli delle tecniche e degli strumenti forniti dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Si tratta di renderci conto che, soprattutto nei giovani, forme sia pur serie di autoreferenzialità hanno perduto valore ed interesse. È un fatto che la fiammella filosofica 10

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si accende quando si affrontano tematiche collegate alle esperienze concrete di vita vissuta (la malattia incurabile, la povertà mortifera, la sessualità trasformativa, la realtà allucinogena, la diversità trasversale, ecc.), ma queste devono passare attraverso la mediazione dei grandi pensatori del passato, fino alla chiarificazione razionale. In terzo luogo, occorre prendere atto che le forme tradizionali di comunicazione filosofica (conferenze, convegni, seminari, riviste, pubblicazioni) sono oggi affiancate – ed anche messe in crisi – da modalità nuove, mediaticamente più interessanti e partecipate: vi è un proliferare di festival, caffè filosofici, manifestazioni svolte al chiuso ed all’aperto con entrées teatrali, hors d’oeuvre musicali, dessert cinofili, libagioni e Gasterea, che trasformano il noto saggio di Brillat-Savarin in “Philosophie du goût”. Né sono da meno i percorsi telematici in chiave filosofica che rammentano la “via all’in su” e la “via all’in giù” di antica memoria (si vedano, ad esempio, i siti “Diotima” e “Viridiana”). Infine, non ultimo elemento da prendere in considerazione, bisogna constatare che, a differenza di quanto comunemente si crede, solo il 30% circa dei giovani laureati in filosofia lavora come docente nelle scuole. Molti sono impegnati nelle agenzie di servizi che si occupano di studi e ricerche, direzione del personale, pubbliche relazioni, marketing, comunicazione aziendale, promozione culturale, attività no-profit, educazione degli adulti e dei bambini. Diventa allora urgente una seria riflessione da parte dell’università, nell’attuale confusa e creativa situazione di rinnovamento dei piani di studio, su queste nuove realtà occupazionali, onde calibrare la sua offerta formativa. La S.F.I. non mancherà di portare il suo contributo al dibattito, come testimonia la sua attenzione, tra l’altro, alle esperienze nuove della philosophy for children ed al counseling filosofico. Mi avvio alla conclusione. Di fronte alla situazione fin qui rapidamente delineata la Società Filosofica Italiana ha il dovere di interrogarsi sulla sua collocazione, oggi, sulla validità delle sue strutture organizzative, sui suoi rapporti con la società civile e, soprattutto, con i giovani. Questo Congresso straordinario rappresenta, appunto, l’apertura di un dibattito all’interno dell’Associazione (e non solo) con l’obiettivo di adeguare – sulla scorta della centenaria esperienza maturata – strutture, metodi e finalità alle esigenze del terzo millennio. A questo punto non mi resta che passare ai ringraziamenti: 1) al Presidente della Repubblica, che ha voluto onorarci con il suo alto patronato e con il suo personale messaggio; 11

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2) ai Ministri della Pubblica Istruzione, dell’Università e Ricerca e dei Beni e delle Attività Culturali; 3) all’Università Roma Tre e alla Commissione Nazionale Italiana per l’U.N.E.S.C.O., che firmano con noi questa manifestazione; 4) alla Regione Lazio, al Comune ed alla Provincia di Roma per il loro patrocinio; 5) al Banco di Brescia, che generosamente ha sponsorizzato l’iniziativa; 6) all’Ufficio Scolastico Regionale del Lazio, al Liceo scientifico statale “Ettore Majorana” di Latina e all’Istituto professionale per i Servizi alberghieri “Amerigo Vespucci” di Roma; 7) alla Direzione Generale del Personale docente e della formazione, alla Direzione Generale degli Ordinamenti scolastici del Ministero della Pubblica Istruzione. Senza il loro apporto questo evento non si sarebbe potuto realizzare.

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Messaggio del Capo dello Stato

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Caro Presidente, illustri partecipanti, al Congresso straordinario indetto per il Centenario della Fondazione della Società Filosofica Italiana, nell’impossibilità di essere oggi con voi a causa di precedenti irrinunciabili impegni, desidero esprimervi il più sentito augurio di buon lavoro in queste due giornate di studio, nel corso delle quali si confronteranno opinioni diverse sul piano culturale, ma egualmente impegnate nella ricerca di risposte ai grandi quesiti che oggi come in passato l’umanità si pone quando si interroga sulla natura profonda dell’uomo e sui destini del genere umano. Lungi dall’essere una riflessione astratta, riservata a pochi specialisti, lontana dall’interesse dell’uomo comune, gli studi filosofici trovano oggi, grazie alla crescita culturale della società contemporanea, una cerchia di ascolti sempre più vasta, evidente nel successo, un tempo inimmaginabile, di manifestazioni culturali dedicate alla filosofia. L’uomo riflette sugli impulsi, sugli ideali, sui valori etici che sente vivi e presenti nel proprio intimo; l’umanità argomenta su principi cui devono ispirarsi la società civile e il governo della società globale, per far sì che il progresso porti pace e benessere, non conflitti e distruzioni. Il pensiero filosofico e religioso, la scienza e la tecnologia affrontano interrogativi che appaiono di importanza vitale per la sopravvivenza della specie. Lo studio del cammino percorso dall’umanità e dell’evoluzione del pensiero filosofico nel corso dei millenni, proietta fasci di luce sul nostro presente e sul nostro avvenire, di nutrimento che propone stimoli vitali all’elaborazione della filosofia del nostro tempo e allo sviluppo della vostra riflessione. Con piena fiducia nei frutti del vostro impegno, rinnovo a voi tutti il mio augurio di buon lavoro. Giorgio Napolitano

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Saluti delle Autorità

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Gianni Borgna* Buonasera a tutti e benvenuti in una delle più belle sale della nostra Pinacoteca Capitolina, che in questi anni è stata al centro di grandi ammodernamenti e ristrutturazioni. Oggi i Musei Capitolini si propongono con un volto molto diverso rispetto a quello di un recente passato in cui i Beni culturali non erano particolarmente valorizzati e, a volte, neppure particolarmente tutelati. Per noi è, quindi, un onore accogliervi qui in questa sala, all’interno del Campidoglio, dove, peraltro, convegni anche filosofici, storici, letterari si svolgono ormai piuttosto abitualmente. È una giornata molto particolare: i miei colleghi Maria Coscia e Jean Léonard Touadi sono qui con me ma, contestualmente, si sta svolgendo un consiglio comunale particolarmente delicato sulle ultime vicende che hanno riguardato la metropolitana di Roma, più tanti altri impegni istituzionali che, purtroppo, gli amministratori sono costretti a dover inseguire talvolta, e a dover gestire, governare abitualmente. Questo lo dico perché non sarà scortesia se, abbastanza rapidamente, dovremo riguadagnare la sala del Giulio Cesare e lasciare questo convegno che avremmo voluto seguire se avessimo avuto il tempo per farlo. Tuttavia, siamo qui e siamo in tre non a caso, perché questa amministrazione ormai da anni lavora con molto interesse attorno ai temi che voi stessi seguite, affrontate, studiate, proponete e proporrete anche in questo incontro, che, però – anche io tengo a sottolinearlo – è legato a questa importante circostanza del primo Centenario della Società Filosofica Italiana che anche noi, come Amministrazione Comunale, vogliamo sottolineare e proporre come un avvenimento importante per il nostro Paese e per la nostra città. Ricordo che proprio su una grande questione di filosofia e su un grande filosofo, per essere ancora più preciso, cominciò il mio lavoro di assessore, molti anni fa. Ho visto che qui in sala c’è Vincenzo Cappelletti, che allora era il Presidente dell’Enciclopedia Italiana, che inoltre mi fu sodale e mi aiutò ad * Assessore

alla Cultura del Comune di Roma.

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organizzare quel convegno. Credo che fu la prima iniziativa di rilievo che organizzai come assessore – ormai sono passati più di dodici anni – e fu il grande convegno internazionale, organizzato proprio qui in Campidoglio, per approfondire la figura, ancorché controversa (come controverse sono tutte le grandi figure storiche e filosofiche) di Giovanni Gentile. Fu un grande convegno, che, peraltro stupì, credo scioccamente, una certa opinione pubblica, e che, invece, riservò anche importanti nuove acquisizioni nella interpretazione della figura filosofica, ma anche storica e politica di Gentile. E da allora di iniziative ne abbiamo tenute tante. Enrico Berti, che è qui e che saluto e ringrazio, ricorderà che proprio in questa sala ed in altre del Campidoglio tenemmo, un paio di anni fa, un importante convegno sul “Materialismo italiano”, in specie sulle figure di Galvano della Volpe e di Lucio Colletti. L’intervento di Enrico Berti sottolineava, in particolare, il debito che queste figure avevano, a cominciare da Della Volpe, nei confronti di Aristotele e della tradizione aristotelica e ricordo la sua bellissima relazione che fui proprio io a chiedergli, importunandolo per tutto un lungo periodo dell’estate; ma, credo, ne sia valsa la pena perché quel contributo è stato veramente molto interessante. E così, ancora, per tante iniziative fino, lo sapete, anche alla prima edizione del Festival di Filosofia, che si è tenuto quest’anno all’interno dell’Auditorium di Roma. Questo ci dice, in sostanza, una cosa, ossia che la filosofia è, certamente, un sapere specialistico, non credo che sia alla portata di tutti; però, certamente, i temi che la filosofia sollecita, le domande ultime che la filosofia propone, sono, sia pure in un altro grado di discorso e semplificati e ridotti alla vita quotidiana, quelli che si propongono tutti gli uomini. Non a caso qualcuno disse che, in un certo senso, tutti gli uomini sono filosofi. Ma credo che ci sia di più. Quando io decisi, alla fine del liceo classico, di iscrivermi alla “Sapienza”, allora l’unica Università di Roma, al corso di Filosofia, ero guardato come una mosca bianca, i miei amici e colleghi mi scoraggiavano e mi chiedevano quali sbocchi potessi avere nella vita con la filosofia, perché la filosofia era considerata un sapere molto specialistico e, allo stesso tempo, anche molto disinteressato e che non apriva molte porte, diciamo così. Oggi la situazione è diversa: credo che la società contemporanea viva una tale situazione di incertezza rispetto al domani, sensazione vissuta in particolare dai giovani ma non solo, tale che le domande che la filosofia ed i filosofi propongono, e magari anche le risposte, i tentativi di risposte, i tentativi di interpretazione, se non proprio le soluzioni, che sono anch’esse controverse e controvertibili, interessano la larghissima parte della cittadinanza. 16

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Noi rimaniamo stupiti nel vedere in occasione del Festival di Filosofia, dove si parlano linguaggi complessi e si affrontano questioni complesse, la partecipazione di una massa di giovani, di cittadini, spesso per nulla “addetti ai lavori”, comunque interessati, comunque incuriositi, e quindi questo ci fa capire come la filosofia non sia affatto un sapere separato e tantomeno morto, cioè una disciplina relegata al passato. No, credo che ancora oggi, anzi, forse oggi più di prima, la filosofia può dare risposte, può essere di utilità del singolo, per una società così complessa, variegata, frammentata e spesso ansiosa di avere delle risposte che non le vengono più, probabilmente, dalla politica e forse neanche più dalla religione e che quindi cerca anche nella filosofia la possibilità di avere un’interlocuzione, un dialogo. Noi abbiamo costruito tante case in questi anni a Roma, io vorrei concludere, anche a nome del Sindaco di Roma, con una suggestione: forse, tra tante case della letteratura, del teatro, del cinema e tante altre ancora, una casa della filosofia potrebbe avere un senso, perché la filosofia, appunto, non dobbiamo pensarla chiusa nelle accademie e nelle università, ma anche diffusa tra la gente, come in fondo, poi, era alle origini. Quindi, uno strumento di questo tipo potrebbe essere utile e potrebbe costituire un’esperienza piuttosto singolare, ma non credo bizzarra, che nella nostra città potrebbe avere davvero un peso, un seguito e suscitare un certo interesse. Rinnovo il mio ringraziamento e ribadisco che per noi è un onore avervi qui in queste nostre sale e auguro al convegno tutto il bene possibile e soprattutto auguro alla Società Filosofica Italiana di poter continuare la sua tradizione e poter anche festeggiare in futuro altri centenari.

Commento di Mauro Di Giandomenico Ringraziamo l’Assessore per questo suo intervento filosoficamente pregnante e, nella sua parte finale, provocatorio per la Società Filosofica Italiana, la quale, tramite la mia povera e modesta persona, rimane folgorata dal fatto che l’Holzwege di Heidegger conduce, invece, questa volta, ad una casa della filosofia. La Società Filosofica Italiana, ben felice di collaborare con Lei anche per dare suggerimenti per la modificazione del Piano Regolatore Comunale affinché si realizzi questa casa della filosofia, si mette a sua completa, totale e davvero convinta disposizione. Noi pensiamo che questo suo discorso sia particolarmente significativo, lo ricordavo anche alla fine del mio intervento, perché abbiamo bisogno di strutture, oltre che di uomini di volontà e ragione. 17

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Maria Coscia* La collaborazione che noi abbiamo con la Società Filosofica Italiana dura da anni, con le iniziative che illustrava l’Assessore Borgna. C’è, tuttavia, un progetto in modo particolare che si realizza insieme alla Società Filosofica Italiana sostenuta dalla scuola, dal nome significativo di Roma per vivere, Roma per pensare. Un progetto che s’incentra sull’idea che la città può e deve essere una grande opportunità educativa e formativa per i nostri giovani e per i nostri ragazzi. Quindi, una città come Roma, vero cuore pulsante, con il suo grande patrimonio artistico, archeologico, museale, può offrire, offre ed ha offerto un grande stimolo per i ragazzi delle nostre scuole nello studio della filosofia. I ragazzi, infatti, hanno la possibilità di scoprire la loro città e di viverla come luogo d’identità, come un percorso in cui è possibile acquisire saperi e coltivare la propria capacità di pensiero, appunto Roma per vivere, Roma per pensare. A questo progetto, ormai, aderiscono decine di scuole: sono quaranta le scuole superiori della nostra città, non solo Licei classici ma anche scientifici ed Istituti tecnici ed Istituti d’arte. Lo scopo, quindi, è fare in modo che la filosofia assuma il naturale valore di disciplina che deve far parte del patrimonio di saperi di tutti gli esseri umani, di tutte le persone, dei giovani. A questo nostro sforzo partecipano migliaia di giovani, che costituiscono, davvero, una risorsa straordinaria nel momento in cui vengono offerte loro delle opportunità, e questo è tanto più vero in una società complessa e parcellizzata come quella in cui viviamo. I giovani, poi, danno anche conto del loro percorso formativo con lavori realizzati attraverso gli strumenti della comunicazione contemporanea: prodotti multimediali, prodotti artistici, musicali, culturali che confluiranno presto in una pubblicazione. Intendiamo, dunque, questa iniziativa come una “buona pratica” rivolta, come sottolineava anche il Presidente, a suscitare, stimolare un’attenzione ed una partecipazione dei giovani basata innanzitutto sulla loro esperienza di vita, che si incroci, dunque, con il pensiero filosofico.

Jean Léonard Touadi** Buonasera, rinnovo il benvenuto del collega Borgna e della collega Coscia nella nostra città. * Assessore ** Assessore

alle Politiche Scolastiche del Comune di Roma. all’Università e alle Politiche giovanili del Comune di Roma.

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La Società Filosofica Italiana, è stato detto anche dal Capo dello Stato, ha accompagnato con l’impegnativo lavoro scientifico e la qualificata sensibilità la storia civile italiana degli ultimi anni, rappresentando, in questo, un punto di riferimento coerente e solido, un laboratorio di idee, di orizzonti culturali, insomma, un patrimonio culturale prezioso per questo Paese. Facendo, quindi, a tutti voi i migliori auguri per questo importante appuntamento del Centenario, rinnovo a tutti il benvenuto cordiale nella nostra città. Una città che ha scommesso sulla cultura non solo come conservazione di un immenso patrimonio archeologico, artistico e civile, ma come punto di incontro della creatività contemporanea, nazionale e internazionale. La Società Filosofica Italiana continuerà, lo spero vivamente, ad illuminare il cammino pieno di sfide di questa città, di questo Paese, all’incontro con la globalizzazione e con l’apertura interculturale che da sempre ha caratterizzato la storia di questa città ma che, come sapete, ha conosciuto in questi anni un’ulteriore accelerazione. Non potendo, quindi, i governanti dedicarsi alla filosofia, e, per alcuni di loro, non sapendo come dedicarsi alla filosofia, saremo attenti ad ascoltare il logos, che non mancherà di interrogarsi ed interrogarci sul senso profondo del vivere metropolitano tra crescita economica, sviluppo urbano, coesione sociale e integrazione interculturale. Saremo quindi obbedienti al verbo della Società Filosofica, obbedienti proprio nel senso di ob audiens, “in ascolto”, di questo logos che illuminerà il nostro cammino di amministratori e cittadini. Mi associo alla proposta del collega Borgna, in qualità di Assessore all’Università e alle Politiche giovanili, di riempire questa casa di una gioventù vociante e pensante.

Elisabetta Davoli* Stimatissimo Presidente, desidero esprimere il mio più vivo compiacimento per il prestigioso evento culturale che nelle giornate del 19 e del 20 ottobre celebra il primo Centenario della nascita della Società Filosofica Italiana, la più antica delle associazioni culturali italiane di carattere filosofico, da sempre impegnata a promuovere e favorire la diffusione della filosofia.

* Dirigente del Dipartimento per l’Istruzione, Direzione Generale per gli Ordinamenti scolastici, Ministero della Pubblica Istruzione.

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Il Congresso straordinario vede riunite prestigiose personalità del mondo accademico italiano ed europeo per discutere su un tema di altissimo rilievo culturale quale è la riflessione sul ruolo della filosofia italiana nel contesto internazionale e nella società multiculturale, ma anche per offrire un prezioso contributo al dibattito sul ruolo della filosofia nel mondo della scuola e dell’università. Impegno della Società Filosofica Italiana nei confronti della scuola è testimoniato sia dalle molteplici attività di studio e di confronto realizzate sulle tematiche delle metodologie e degli approcci di ricerca nell’insegnamento della filosofia, sia dal lavoro congiunto con il Ministero della Pubblica Istruzione in attuazione del Protocollo d’Intesa stipulato nel 2002 e finalizzato alla realizzazione di programmi comuni, nella ricerca e sperimentazione di nuovi modelli d’insegnamento della filosofia, nella formazione e aggiornamento del personale docente, nella produzione di materiali didattici in una dimensione europea. Il Ministero, d’altra parte, nell’ambito dell’attuazione del Regolamento dell’Autonomia scolastica e della questione ancora aperta della Riforma del sistema scolastico, non può certo trascurare il fatto che la filosofia svolge un ruolo importantissimo nella formazione ed educazione dei giovani. Come disciplina curricolare, assolve ad una funzione irrinunciabile di tipo formativo ed orientante, e partecipa al processo di critica e crescita dell’esperienza umana. In questo senso, il contributo di studio e di ricerca proposto e sostenuto dalla Società Filosofica Italiana costituisce un apporto prezioso sia in relazione alla definizione del significato dell’insegnamento-apprendimento della filosofia e, conseguentemente, dell’identità professionale dei docenti di filosofia, sia nell’individuazione dei nuclei fondamentali dell’insegnamento filosofico e nella riflessione sugli obiettivi generali del processo formativo e specifici disciplinari in ambito filosofico, sia nel rinnovamento delle metodologie didattiche. Tutto ciò costituisce, oggi più che mai, una fase di forte recupero e ascolto della voce delle componenti culturali, professionali e pedagogiche, e un sicuro riferimento per la struttura amministrativa cui è affidato il compito dell’innovazione del sistema educativo. L’augurio che porto a tutti i partecipanti è, dunque, quello di costruire una rinnovata sinergia per l’innalzamento della qualità complessiva della formazione culturale dei nostri giovani italiani.

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Peter Kemp – The right to philosophy* It is with great pleasure that I have been given the opportunity to congratulate the Società Filosofica Italiana on its Centenary. I do so, not only as President of the International Federation of Philosophical Societies, but also in my own name. As a philosopher I consider it very important that we maintain spaces for philosophical discussions, i.e. that we have philosophical societies where new ideas can be developed in order to handle the crucial questions of our time. And our time is the age of globalisation. Let me therefore say some words regarding the role of philosophy in the global world. Today many problems demand considerations that transgress all frontiers because no single state, no national institution, no single people can offer the solutions. Financial globalisation, relationships between cultures and maintaining good life conditions for future generations are all issues that demand dialogue and collaboration on an international scale between states and peoples. In this context we can claim that there is a duty in philosophizing. But if there is such a duty there must also be a right to philosophy. If you ought to do something you must have the right to do it. The French philosopher Jacques Derrida, who died two years ago, has over the years reflected on this right to philosophy in connection with his struggle in France for high school and university education in philosophy. In 1991 when he was asked to give a paper at U.N.E.S.C.O. in Paris concerning U.N.E.S.C.O. as a cultural organisation supporting education throughout the world, he chose as his subject The right to philosophy from a cosmopolitan point of view, a title that alludes to a famous writing of Kant from 1784 about an Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht, which I translate as Idea for a universal history with cosmopolitan purpose. This writing appears in the same year as Kant’s article: What is the Enlightenment? where he uses the famous claim of Horace: Sapere aude!, which he translates as “Have the courage to use your own reason”. This is of course the courage to use the right to philosophy, which for Kant and for us is the right to know how the world really is (behind all illusions), to know what it could be and, accordingly, what we could do in order to do the best for the world. However, what Derrida in particular focuses upon in his U.N.E.S.C.O. talk in 1991 is that Kant, in his writing about universal history, «predicts, performs and prescribes a certain number of international institutions that * Danish

University of Education – President of Federation of Philosophical Societies.

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have only appeared in this century (i.e., the 20th century)»1. Furthermore, it is true that Kant speaks about a universal civil society with a “perfect, just civic constitution”2 and even imagines a league of nations, therein focusing on a concrete realization of an international order. It is also true that Kant refuses to consider such a historical development as pure literature; it is not a novel (German: Roman), but what he thinks will actually happen in the future. It is moreover noteworthy that Derrida, who has often been accused of turning philosophy into literature, here claims that it is the greatness of Kant to not reduce his philosophical idea of history to a novel. However, Derrida is well aware of the euro-centrism of Kant, who speaks about a history of the enlightened nations in which «one will discover a regular progress in the constitution of states on our continent (which will probably give law, eventually, to all the others)»3. Derrida recognizes that philosophy is no more determined by an original program or language that we have only to remember in order to find its meaning. We discover more and more «modes of appropriation and transformation of philosophical ideas into nonEuropean languages and cultures that cannot be transferred to either classical modes of appropriation, which consist in making one’s own what is the other’s (here by interiorizing the Western memory of philosophy and integrating it in one’s own language) – or by the invention of new ways of thinking that, being strange to every appropriation, would have no relationship to what one believes to be philosophy»4. Derrida further adds that what appears today «are philosophical formations that cannot be included in this basically cultural, colonial or neo-colonial dialectics of appropriation and alienation»5. However, he says: «not only are there other ways for philosophy, but philosophy, if it is, is the other way»6. Indeed, it is the philosophical task to reinvent the meaning of fundamental ideas – the concepts of justice, the good life, freedom, etc. – as well as the concept of cosmopolitanism, and to reconstruct institutions according to this reshaping of fundamental concepts. This connection between the transformation of concepts and the transformation of institutions is what Derrida suggests in his U.N.E.S.C.O. conference when he claims that it is «impossible to dissociate the motif of the right 1

J. Derrida, Le droit à la philosophie du point de vue cosmopolitique, Paris, Editions U.N.E.S.C.O., 1997, pp. 12-13. 2 I. Kant, On History, Ed. by Lewis White Beck, NY, Macmillan, 1963, p. 16. 3 Ivi, p. 24. 4 J. Derrida, op. cit., pp. 31-32. 5 Ivi, p. 32. 6 Ivi, p. 33.

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to philosophy from a cosmopolitan point of view from the motif of a coming democracy»7. Indeed, the right to philosophy belongs to democratic rights and even in a fundamental way because true philosophy fights for democracy. Having followed Derrida up to this point, I want to add that today we must recognize that the State cannot, and should not, be the only educator for democracy on a global scale. There are today more and more non-state actors that have this educational task and the right to fulfil it. A living philosophical society is among these non-state actors that has an important educational role with a cosmopolitan purpose. It is therefore a delight to celebrate the Centenary of the Italian Society of Philosophy. Together with many other philosophical societies, the Italian Society has a global responsibility for the world order, for inventing and maintaining justice not only in its own society but across all societies. Therefore, we shall not only speak about education in philosophy, but also about education by philosophy to good life and just institutions. To claim these goals is what Kant called to consider the world history with a cosmopolitan purpose. But as he also claimed, this history is not a spectacle we can enjoy from outside, as pure audience. It is a history in which we are ourselves involved as co-responsible for its course. Therefore, this new concept of cosmopolitanism that is today much more developed than it was in Kant is not pure literature, not pure dream, not “a novel”. It is our own life in the world. Therefore, the role of philosophy, which is the role of the living philosophical society, is to take care of this life.

Giovanni Puglisi* Signori Presidenti, Di Giandomenico e Kemp, chiarissime colleghe e chiarissimi colleghi, voglio innanzitutto rivolgere il mio più sentito e personale ringraziamento, insieme a quello della Commissione Nazionale Italiana per l’U.N.E.S.C.O. per l’attenzione che le è stata dedicata in occasione di questo primo Centenario della Società Filosofica Italiana e di questo Congresso straordinario. Mauro Di Giandomenico, del resto, ricordava che abbiamo ormai una consuetudine di collaborazione fra la Società Filosofica Italiana e la Commissione 7

Ibidem.

* Presidente

della Commissione Nazionale Italiana per l’U.N.E.S.C.O.

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Nazionale, realizzata negli ultimi anni attraverso diverse occasioni e diverse opportunità sia in sede nazionale che anche in sede locale. Permettetemi, infine, di esprimere anche un particolare sentimento di ringraziamento strettamente personale perché, in qualche modo, in questa sede mi sento a casa mia, ritornando a tempi lontani nei quali ero, oltre che titolare d’insegnamento filosofico, anche socio della Società Filosofica Italiana, quindi, mi è particolarmente gradita questa occasione. Un Congresso questo, dicevo, che rappresenta un momento importante di incontro e di confronto nel contesto dell’attuale dibattito culturale italiano e, anche, accademico in particolare sui temi che collegano ciò che la filosofia ha rappresentato in Italia in questi cento anni e ciò che essa rappresenta e, certamente, continuerà a rappresentare, all’interno della nostra società contemporanea proprio italiana, ancorché attraversiamo un momento che sembra mettere al bando qualunque reale approfondimento tematico, che non sfiori le mode del tempo. L’importanza che per l’U.N.E.S.C.O. riveste la filosofia, del resto, è tale da dedicarle un avvenimento speciale: la Giornata mondiale della filosofia, che quest’anno verrà celebrata il prossimo 16 novembre con attività, eventi ed iniziative in tutto il mondo. Si tratta di una manifestazione istituita nel 2002 e giunta, quindi, alla sua quinta edizione, che ha l’obiettivo di promuovere e sviluppare a livello internazionale l’analisi e la discussione su temi sempre al centro del confronto tra esperti e studiosi, come quello del rapporto tra filosofia e società, con l’obiettivo anche di aprire la riflessione quotidiana alle nuove idee, ai nuovi contributi, in modo da suscitare un dibattito pubblico tra intellettuali e società civile. Credo sia particolarmente importante che l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Cultura e la Scienza, fra le sue giornate mondiali, che sono quella della poesia, quella della libertà di stampa, quella della lingua madre, abbia anche la giornata della filosofia che, in qualche maniera, apre a livello internazionale, in un contesto internazionale come quello delle agenzie per le Nazioni Unite, una riflessione sistemica sul rapporto dell’uomo con se stesso, con il mondo, con Dio, prescindendo dalle positività del momento religioso: e questo, in un contesto internazionale sempre più tormentato dai temi dell’intolleranza, dello scontro, dei conflitti, credo che sia un elemento di grande conforto, di grande suggestione. L’edizione 2006 della Giornata mondiale della filosofia, promossa dall’U.N.E.S.C.O., avrà il suo culmine a Rabat, in Marocco, attraverso quattro giorni di convegni, tavole rotonde e dibattiti, che daranno ai filosofi ed al pubblico l’opportunità di confrontarsi su svariate problematiche, che cito perché importanti anche per questo Congresso straordinario della Società Filosofica Ita24

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liana: la filosofia e la condizione del mondo moderno, cui sarà dedicata una delle principali conferenze; filosofia, diversità e comunicazione culturale; modernità e condizione della donna; filosofia e ostacoli all’alleanza tra differenti culture. Altri momenti di dibattito saranno dedicati al contributo che la filosofia può fornire all’interno dei rapporti tra mondo arabo e mediterraneo o nel dialogo tra Nord e Sud del mondo, tra Occidente e Oriente, con quali difficoltà e quali scenari. Ho voluto citare questi temi perché essi mostrano come il dibattito filosofico, la riflessione, l’apertura alla discussione filosofica non è qualcosa che si “libra”, come spesso i non addetti ai lavori e i giornalisti d’occasione sono portati a ritenere, fuori dalla realtà quotidiana; la filosofia è qualcosa che sta nel mondo, che va per il mondo, che aiuta la comprensione e il dialogo fra le genti di buona volontà. Anche per l’U.N.E.S.C.O., quindi, è fondamentale mantenere vivo e aperto il confronto sui temi e gli approfondimenti di carattere filosofico all’interno della società contemporanea, come, del resto, la Società Filosofica Italiana ha fatto, con il merito e l’importante contributo che le vanno ovviamente riconosciuti nel corso di quest’ultimo secolo. La Società Filosofica Italiana ha, del resto, rappresentato e continua a costituire un autorevole e prezioso punto di riferimento per la dialettica interna al mondo accademico, e non solo accademico, ma anche culturale e intellettuale del nostro Paese. Personalità, componenti della Società Filosofica Italiana che hanno attraversato le sale di questa società nel corso di quest’ultimo secolo e che hanno anche attraversato i luoghi importanti della riflessione culturale e politica del Parlamento di questo Paese sono la testimonianza di come la filosofia in Italia abbia mantenuto una centralità fondamentale anche in momenti molto delicati nella vita del nostro Paese. E vorrei ricordare e rendere omaggio in questo momento ad uno dei più grandi filosofi italiani che ha rappresentato un punto alto di questa apertura alla tolleranza, al dialogo, alla civiltà, al confronto delle idee in tempi in cui questo era molto difficile: parlo di Giovanni Gentile, parlo del fondatore dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, che, in momenti particolarmente bui della nostra vita politica e intellettuale, fece di quell’Istituto la culla dell’apertura alla libertà del pensiero, dell’espressione del pensiero, dell’espressione della civiltà accademica e culturale. Questa realtà, giunta alla preziosa boa del primo centenario dalla fondazione, ha sempre rappresentato anche un’opportunità e una risorsa per discutere e analizzare temi e problematiche che hanno poi trovato spazio e approfondimento nella realtà formativa universitaria. 25

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Io credo che questo sia un punto importante del dibattito che oggi continua a restare affidato alla Società Filosofica Italiana, dibattito interno al momento della formazione nella filosofia, nelle università. Siamo in un momento molto delicato, consentitemi questa divagazione, che non sembra toccare temi della centralità culturale, se non consideriamo tale la formazione, oppure tocca un tema importante per molti di noi: come oggi si possa continuare a parlare di filosofia nelle università, senza restare nello stesso tempo nel ghetto delle diversità e pensando alla centralità dei temi dell’impresa e dell’economia e mantenendosi al centro di un dibattito che non si chiuda nelle aule delle università come turris eburnea di una riflessione senza legami con la realtà. La filosofia permea ancora oggi la vita dell’uomo per la sua capacità di porsi come filtro di interpretazione e di lettura del sociale, ma anche per il fatto di riuscire a penetrare e insinuarsi attraverso le categorie della conoscenza anche oltre il quotidiano che ci circonda e con il quale ci dobbiamo confrontare. La ricerca dell’identità attraverso le diversità della complessità: è un percorso di riflessione e di conoscenza o, se vogliamo, di consapevolezza, che si sviluppa e che deve continuare non solo nelle aule universitarie o nei dibattiti tra studiosi ed esperti, ma anche nelle imprese, nella politica e nel mondo della cultura militante contemporanea. Grazie e buon lavoro.

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Prolusione I cento anni della Società Filosofica Italiana Enrico Berti*

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Premessa Sono grato al Presidente e al Consiglio direttivo della S.F.I. per l’onore che mi hanno fatto affidandomi il compito di tenere questa prolusione al Congresso straordinario per il primo Centenario della Società. Credo che questa decisione sia dovuta al fatto che sono sicuramente tra coloro che possono vantare una maggiore anzianità di iscrizione alla S.F.I., essendomi iscritto appena laureato, cioè nel 1957, quasi cinquant’anni fa. Dal 1962 ho assistito a tutti i congressi nazionali, ma avrei cominciato a farlo già dal 1955, quando Luigi Stefanini, che era il mio professore di Storia della Filosofia, invitò alcuni dei suoi studenti ad assistere al congresso di Napoli, nel quale egli era relatore ufficiale. Stefanini ci procurò anche l’ospitalità nel monastero di Santa Chiara, grazie ai buoni uffici del padre Manno, ma il giorno prima di partire per Napoli io mi ammalai di influenza e con grandissimo dispiacere dovetti rinunciare. Posso dunque affermare che, dei cento anni della Società Filosofica Italiana, ne ho vissuti cinquanta in prima persona, per ricostruire i quali mi è sufficiente affidarmi alla memoria. Per i cinquanta precedenti mi baserò invece, più che sugli Atti dei congressi e sui numeri del «Bollettino», che richiederebbero un tempo eccessivo e sono comunque di difficile reperimento, sull’ormai ricca bibliografia esistente, cioè anzitutto le Cronache di filosofia italiana di Eugenio Garin e poi i saggi di Mario Quaranta, Luciano Malusa e Piero Di Giovanni, ai quali va aggiunto il libro non ancora pubblicato, ma in via di completamento, dello stesso Quaranta, Mezzo secolo di filosofia. I congressi della S.F.I. dal 1906 al 1955, che l’autore mi ha gentilmente messo a disposizione. Naturalmente nello spazio di una prolusione dovrò condensare in modo alquanto sintetico le molte notizie disponibili, anche se ne aggiungerò qualcuna nuova, e soprattutto dovrò astenermi dal commentare diffusamente gli aspetti rilevanti per la storia della filosofia italiana che il percorso in oggetto presenta. Mi scuso in anticipo per il tono quasi autobiografico che l’ultima parte dell’esposizione inevitabilmente comporterà. * Università

di Padova e Past-President della Società Filosofica Italiana.

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La questione delle origini Secondo Garin la Società Filosofica Italiana avrebbe tenuto “un primo incontro a Parma nel 1903” e “un secondo congresso a Bologna nel 1907”1. Del primo incontro non esistono documenti, ma Di Giovanni riferisce che esso ebbe come animatore Federigo Enriques, professore di geometria nell’Università di Bologna2: dunque si trattò presumibilmente di un incontro tra docenti universitari. Nel 1905 invece si costituì a Milano l’Associazione Nazionale fra i Docenti di Filosofia, separatasi dalla Federazione Nazionale fra gli Insegnanti delle Scuola Medie, con lo scopo di ottenere dal Governo il mantenimento dell’insegnamento della filosofia nei licei come cattedra distinta e indipendente. Tale associazione ebbe un comitato direttivo composto da Giovanni Marabelli (Presidente), Rodolfo Mondolfo, Cesare Ranzoli, Guido Villa e Giorgio Rossi (Segretario). Ad essa aderirono 69 docenti di liceo e 15 docenti universitari, il cui elenco venne pubblicato in un «Bollettino» dell’associazione. Tale associazione non è ancora la Società Filosofica Italiana, ma, se si considera l’incontro di Parma come il padre, questa si può considerare come la madre, perciò si può dire che la S.F.I. fu concepita nel 1905 da un connubio tra docenti di filosofia dell’università e docenti di filosofia della scuola secondaria. Infatti nel 1906 l’Associazione Nazionale fra i Docenti di Filosofia assunse il nome di Associazione Nazionale per la Cultura Filosofica e decise di aprirsi, oltre che ai docenti di filosofia della scuola e dell’università, anche ai cultori di discipline filosofiche. Questa associazione si riunì a convegno a Milano nei giorni 20 e 21 settembre 1906 e gli Atti di tale convegno furono pubblicati nel 1907 come Atti del Primo Convegno della Società Filosofica Italiana. Dunque si può dire che la S.F.I. nacque nel 1906 e questa è la ragione per cui ne celebriamo il Centenario quest’anno3. Il convegno fu presieduto da Giovanni Vidari, coadiuvato da Giovanni Vailati e Andrea Torre, Vicepresidenti, e Rodolfo Mondolfo e Ludovico Limentani, Segretari. Mondolfo, nella prefazione agli Atti del Convegno, scrisse che lo scopo dell’associazione era di creare e diffondere in Italia la cultura o lo spirito filosofico. Presidente di essa fu eletto Federigo Enriques. Nel convegno tennero relazioni lo stesso Enriques, De 1

E. Garin, Cronache di filosofia italiana 1900-1943, Bari, Laterza, 1966, vol. II, p. 442. P. Di Giovanni, La Società Filosofica Italiana dalle origini ad oggi, in G. Galeazzi e B. M. Ventura (a cura di), Filosofia e scienza nella società tecnologica, Milano, FrancoAngeli, 2004, pp. 50-69. 3 La relativa voce dell’Enciclopedia Filosofica, redatta inizialmente (nelle edizioni del 1958 e 1968) da G. Santinello, riferiva che la S.F.I. sorse a Bologna nel 1905 in occasione del primo congresso nazionale di filosofia. Nella nuova edizione dell’Enciclopedia Filosofica (Milano, Bompiani, 2006) tale affermazione è stata corretta da E. Spinelli, il quale parla delle riunioni del 1905, ma colloca la fondazione della Società nel congresso di Milano del 1906. 2

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Sarlo, Marabelli, Ferrari e Rossi. Il tono dominante fu la difesa della filosofia e della laicità della scuola, l’ispirazione filosofica delle relazioni fu di un tipo che si potrebbe chiamare di “positivismo critico” e tra i partecipanti fu notevole la presenza massonica: la scelta della data del congresso, che ricordava la presa di Roma, non fu casuale4. Come osserva giustamente Malusa, si può dire che la S.F.I. nacque, almeno nelle intenzioni della sua componente universitaria – ben simboleggiata da Enriques, matematico e filosofo della scienza – con l’intenzione di contrastare l’egemonia del neo-idealismo, che all’inizio del secolo si profilava minacciosa sull’intera cultura filosofica italiana. Nel 1903 Benedetto Croce aveva fondato la «Critica» e nello stesso anno Giovanni Gentile aveva esordito nel suo corso a Napoli con la prolusione dal titolo La rinascita dell’idealismo5. La S.F.I. nacque insomma da un lato per difendere la presenza della filosofia nella scuola e nell’università, e dall’altro per arginare la diffusione del neo-idealismo, e per questa seconda ragione, come vedremo, non fu mai ben vista negli ambienti neo-idealistici. Questo secondo intento emerge chiaramente nel II congresso, tenutosi a Parma nel 1907, in coincidenza con la prima riunione della Società Italiana per il Progresso della Scienza (S.I.P.S.), coincidenza voluta da Enriques, Vailati e Troilo al fine di stabilire fecondi rapporti tra i filosofi e gli scienziati. In effetti al congresso parteciparono parecchi scienziati e nelle relazioni affiorò più volte la necessità di una collaborazione tra la filosofia e le scienze. Nello stesso congresso fu approvato il primo statuto della S.F.I., in cui si definirono gli scopi dell’associazione come promozione degli studi filosofici nella vita nazionale e incremento dell’educazione filosofica nelle scuole e nell’università. I soci furono distribuiti in tre categorie, docenti universitari, docenti della scuola secondaria e cultori degli studi filosofici, ciascuna con una sua rappresentanza nel Consiglio direttivo, eletto da tutti i soci. Furono introdotte le sezioni, al fine di riunire i soci di una medesima città, e fu istituito ufficialmente il «Bollettino» sociale.

Il primo ventennio: 1906-1926 Il primo periodo di vita della S.F.I., che va praticamente dalla fondazione alla prima guerra mondiale, è caratterizzato dalla personalità di Enriques, la cui 4 M. Quaranta, La presenza della S.F.I. nella cultura italiana del Novecento, «Bollettino della Società Filosofica Italiana», n. s., 130, gennaio-aprile 1987, pp. 5-35. 5 L. Malusa, Il Centenario della Società Filosofica Italiana, in G. Galeazzi e B. M. Ventura (a cura di), op. cit., pp. 35-49.

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presidenza dura sino al 1913. Nel III congresso, svoltosi a Roma nel 1909, egli tiene una relazione su La metafisica di Hegel considerata dal punto di vista scientifico, nella quale sottolinea il valore conoscitivo attribuito da Hegel alle scienze ed auspica che la metafisica hegeliana sia perciò maggiormente considerata dall’epistemologia contemporanea. Come giustamente osserva Quaranta, questa interpretazione di Hegel è l’esatto contrario di quella che negli stessi anni veniva proposta da Croce e da Gentile. Soprattutto il primo negava il valore conoscitivo delle scienze, interpretandole come costituite di pseudo-concetti, e valorizzava Hegel essenzialmente per il suo storicismo. Infatti Croce attaccò Enriques nella «Critica» con una “stroncatura di tipo papiniano”6. Nello stesso 1909 la S.F.I. assunse come suo organo ufficiale la «Rivista di Filosofia», nata dalla fusione della «Rivista Filosofica» del neokantiano C. Cantoni e della «Rivista di Filosofia e Scienze Affini» del positivista G. Marchesini, allievo di Ardigò. In tal modo la tradizione neokantiana e quella positivistica si alleavano nella comune resistenza al neoidealismo. Nel 1911 la S.F.I. di Enriques organizzò a Bologna il IV Congresso Internazionale di Filosofia, con ampia partecipazione di filosofi e scienziati italiani e stranieri, che costituì un riconoscimento del valore della Società da parte degli ambienti filosofici internazionali. La sede italiana era stata proposta da W. Windelband, Presidente della Commissione permanente dei Congressi Filosofici Internazionali, il quale aveva fatto cooptare nella Commissione stessa Croce, Enriques e Giovanni Vidari. Nel 1913 fu eletto Presidente della S.F.I. lo stesso Vidari, che tuttavia non organizzò nessun congresso, anche per lo scoppio della guerra mondiale. Continuò invece ad uscire la «Rivista di Filosofia», che costituiva la voce filosofica alternativa a quella del neo-idealismo, rappresentata dalla «Critica» di Croce. Nel Consiglio direttivo figuravano scienziati e filosofi come Erminio Juvalta, Annibale Pastore, Giuseppe Peano, per cui si può dire che la Società conservasse l’ispirazione filo-scientifica che le aveva impresso sin dalle origini Enriques. Il primo congresso del dopoguerra, cioè il IV nella vita della S.F.I., si svolse a Roma nel 1920 e fu aperto da Benedetto Croce in veste di Ministro della Pubblica Istruzione. Questi affidò agli studiosi di filosofia il compito di «venir formando la nuova e unitaria coscienza umana, la coscienza della nuova età nella quale viviamo e per la quale tutti lavoriamo». Benché formulato in termini molto generici, era tuttavia un riconoscimento, espresso dal maggiore rappresentante della cultura liberale, fino a quel momento ostile alla S.F.I., del ruolo di questa. Nel congresso intervennero anche Mondolfo e Gentile, che sottolinearono l’importanza del marxismo come “filosofia della prassi”, e, 6

M. Quaranta, art. cit., pp. 11-12.

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contro Gentile, vari altri oratori, quali Varisco, passato dal positivismo allo spiritualismo, Aliotta, Calò, Buonaiuti, ex prete cattolico, e ancora Enriques. Alla fine del congresso fu eletto Presidente della S.F.I. Bernardino Varisco. Il congresso successivo, cioè il V, si svolse a Firenze nel 1923, quando era ormai Ministro Giovanni Gentile, che non vi intervenne, ma tuttavia inviò una comunicazione su Arte e religione. Ci furono relazioni e comunicazioni di De Sarlo, Calò, Tarozzi, Ferretti, Levi, Varisco, Chiappelli, Buonaiuti, Banfi, Masnovo, Musatti, ma la più interessante fu quella di Mondolfo, che si impegnava nella valutazione di un avvenimento di bruciante attualità, la rivoluzione russa, riaffermando da un lato la validità del marxismo come concezione secondo la quale il proletariato deve creare una società caratterizzata dal libero sviluppo di tutti, ma denunciando dall’altro il pericolo che la dittatura del proletariato imponga con la violenza un nuovo dominio di classe. Come si vede, la S.F.I. attirava i maggiori filosofi italiani, di tutte le ispirazioni, assumendo quindi un carattere autenticamente pluralistico, anche se il tono dominante restava quello anti-idealistico. Questo periodo si concluse con il congresso di Milano del 1926, il VI della serie, il quale fu interrotto per ordine del prefetto prima della sua conclusione, secondo alcuni perché vi si era manifestata una chiara presa di posizione contro il fascismo, divenuto ormai regime, e secondo altri per impedire che vi parlasse Ernesto Buonaiuti, sospeso a divinis, il cui intervento era previsto nell’ultimo giorno. Il discorso di apertura fu tenuto da Piero Martinetti, poi vi tennero relazioni Varisco, il senatore Croce, De Sarlo, Chiocchetti, Baratono, Caramella. Al discorso in difesa della libertà, tenuto da De Sarlo, replicò, prendendo le difese del governo, Armando Carlini, al quale tuttavia fu impedito dagli ascoltatori di concludere il suo intervento. È interessante vedere come questo congresso fu giudicato da Giovanni Gentile in un articolo uscito nel giornale di Mussolini, “Il popolo d’Italia”, il 14 aprile 1926, al quale nessuno degli storici della S.F.I. sopra citati ha prestato attenzione7. Gentile anzitutto deplora l’eccessivo rumore fatto dai giornali sul congresso, dichiarando che non ne valeva la pena per la sua importanza filosofica piuttosto scarsa. Indi apprezza il discorso del “venerando Varisco” in difesa dello Stato, mentre giudica pieno di “spropositi” quello di De Sarlo in difesa della libertà. Apprezza il discorso di Martinetti, anche se ironizza sull’agitazione del suo sistema nervoso e ne stigmatizza l’“eccessivo misoneismo”, alludendo con queste parole alla sua ostilità al regime fascista. Nel complesso Gentile giudica il congresso come una dimostrazione di carattere politico con7

Confesso tuttavia di non avere visto gli articoli di B. Riva, La stampa e il congresso del 1926, «Rivista di storia della filosofia», 51, 1996, pp. 357-381, e di E. Rambaldi, Eventi della Facoltà di Lettere di Milano negli anni del trapasso dall’Accademia all’Università, ivi, 52, 1997, pp. 529-545.

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tro il governo, qualifica come “scimunitaggini” i diritti dell’individuo, la libertà del pensiero, la scienza e altri valori invocati da De Sarlo, giudicandoli valori difesi da pensatori “scacciati dalle logge”, “professori inetti”, “sbandati”, “imbecilli della filosofia, della politica, del giornalismo, della scuola”, e infine approva l’intervento del Rettore dell’università, che troncò il congresso negandogli più oltre l’uso dei locali, e deplora come umiliazione dell’Italia la denuncia della sospensione del congresso al Comitato internazionale dei congressi di filosofia8. Per la S.F.I. si annunciavano dunque tempi difficili.

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Il periodo fascista Il VII congresso fu tenuto a Roma nel 1929, anno del concordato tra lo Stato fascista e la Chiesa cattolica. Esso fu organizzato da Giovanni Gentile, che vi tenne una relazione, mentre le altre furono tenute da Varisco e da Augusto Guzzo. Al congresso intervenne lo stesso capo del governo, Benito Mussolini, affermando l’interesse del regime per la filosofia e rivendicando il merito della riforma scolastica gentiliana. Il congresso fu caratterizzato dall’assenza di Martinetti, attorno al quale si strinsero i filosofi ostili al regime, e dalla partecipazione dei filosofi cattolici, che non avevano partecipato al congresso di Milano per la presenza di Buonaiuti e che ora, in seguito al concordato, voluto da Mussolini, si accingevano a dar vita ad una nuova forma di opposizione all’idealismo in nome del “realismo”. Vi parteciparono infatti i professori dell’Università cattolica di Milano, cioè il padre Gemelli, Masnovo, Olgiati, Bontadini, e vi fu eletto Presidente di nuovo Varisco. Il padre Gemelli ebbe il coraggio di criticare il discorso di Mussolini, il quale aveva bollato il neotomismo dell’Università cattolica come un tentativo di mettere d’accordo Kant con san Tommaso. A ciò Gemelli replicò: «le parole del capo del governo sono un insulto alla fede religiosa dell’Università cattolica»9. Questo congresso, da un lato dà inizio alla totale subordinazione della S.F.I. all’autorità governativa, e dall’altro segna la sconfitta del disegno politico di Giovanni Gentile, il quale aveva tentato invano di impedire il concordato e la cui filosofia non era perciò più organica al regime fascista. Nel 1931 la S.F.I. viene eretta ad ente morale con un regio decreto, il quale stabilisce che il Presidente non sia più eletto dal Consiglio direttivo, emanazione dei soci, ma sia nominato dal Ministro dell’Educazione Nazionale, il quale può anche revocare i soci resisi indegni. La «Rivista di filosofia», diretta 8

G. Gentile, Il Congresso filosofico di Milano, in Id., Fascismo e cultura, Milano, Treves, 1928, pp. 103-109. 9 E. Garin, op. cit., p. 450.

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da Martinetti, il quale aveva perduto anche la cattedra universitaria per essersi rifiutato di prestare il giuramento di fedeltà al regime fascista, cessa di essere l’organo ufficiale della Società, mentre viene fondato a questo scopo l’«Archivio di filosofia». Nel 1932 viene nominato Presidente della S.F.I. Francesco Orestano. Da questo momento i congressi della S.F.I. sono organizzati regolarmente con cadenza annuale. Nel 1933 si tiene, ancora a Roma, l’VIII congresso, il quale segna per l’ultima volta la presenza di scienziati illustri, quali Q. Maiorana, Persico, Fantappiè, poiché i filosofi partecipanti alla discussione, cioè Troilo, Pastore, Boyer, Capone Braga, Ottaviano, A. Faggiotto, si rivelano del tutto all’oscuro delle rivoluzioni epistemologiche del Novecento10. Il IX congresso si tiene a Padova nel 1934 con la partecipazione di filosofi padovani (Troilo, Bodrero, Ravà e Musatti) e di altri (Gemelli, Olgiati, Orestano Del Vecchio), equamente divisi tra “laici” e “cattolici”. Il X congresso si tiene a Salsomaggiore nel 1935 all’insegna del “realismo”, sostenuta sia da filosofi “laici” come Tarozzi sia da filosofi “cattolici” come Bontadini e Marino Gentile, che proprio in quell’anno coniò l’espressione “metafisica classica” per caratterizzare la posizione sua, di Bontadini e di altri (Padovani, La Via, Mazzantini), distinta dal neo-tomismo ed ugualmente avversa al neo-idealismo11. Marino Gentile, secondo Quaranta, era stato protagonista di un tentativo di radicare in Italia una cultura cattolica di ispirazione francese ( J. Maritain) perseguito attraverso la F.U.C.I. (Federazione Universitari Cattolici Italiani) da mons. Giovan Battista Montini, allora assistente ecclesiastico di questa associazione, tentativo che sarebbe fallito a causa dell’opposizione di padre Gemelli. L’XI congresso si tiene a Genova nel 1936 con la partecipazione di Nicola Pende, che propone l’identificazione tra pensiero medico biologico moderno, pensiero filosofico italiano e pensiero mussoliniano, A. Masnovo, E. Castelli, G. Tarozzi, C. Boyer, F. Olgiati, V. La Via, M. Gentile, G. Flores d’Arcais. Il XII si tiene a Napoli nel 1937 sui rapporti tra filosofia e scienza, con la partecipazione di Carlini e Guzzo, ma senza la partecipazione degli scienziati. Il XIII congresso si tiene a Bologna nel 1938 sui rapporti tra filosofia ed economia con la partecipazione di N. Abbagnano, che si dichiara per il corporativismo, e del cattolico F. Vito, che si dichiara per il solidarismo interclassista, mentre per merito di L. Stefanini si sente parlare per la prima volta di esistenzialismo. Nel 1939 un altro regio decreto istituisce il Regio Istituto di Studi Filosofici, istituzione governativa, con un Presidente, un Direttore e una dotazione statale, e con il compito di curare l’edizione nazionale dei filosofi classici italia10

M. Quaranta, Mezzo secolo di filosofia (in corso di pubblicazione). Cfr. E. Berti, Il richiamo alla “metafisica classica”, in P. Ciaravolo (a cura di), Filosofie “minoritarie” in Italia tra le due guerre, Roma, Editoriale B. M. Italiana, 1986, pp. 25-34. 11

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ni. Lo stesso decreto stabilisce l’assorbimento della Società Filosofica Italiana nel nuovo Istituto. Presidente di questo viene nominato Balbino Giuliano e Direttore Enrico Castelli. L’«Archivio di Filosofia», diretto dallo stesso Castelli, ne diviene l’organo ufficiale e l’Istituto promuove le edizioni nazionali delle opere di Rosmini e Gioberti. L’Istituto di Studi Filosofici organizza a Firenze nel 1940 quello che sarebbe stato il XIV congresso della S.F.I., con la partecipazione del Ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai e dei filosofi P. Filiasi Carcano, C. Mazzantini, P. Carabellese, A. Banfi, L. Pareyson, A. Carlini, G. Bontadini, C. Giacon, e una relazione di Giovanni Gentile, che tenta di rispondere alle critiche rivoltegli praticamente da tutti gli altri partecipanti. Lo scoppio della guerra chiude così un periodo che ha visto la sostanziale estinzione della S.F.I., anche se in Italia il dibattito filosofico non è venuto meno, nel senso che al precedente dualismo tra “positivismo critico” e neo-idealismo è succeduto quello tra neo-idealismo e nuove filosofie, specialmente di ispirazione cattolica. Semmai si può dire che il dibattito filosofico nel periodo fascista è rimasto circoscritto all’interno del nostro Paese, pur con qualche importante incursione dall’esterno, quale l’esistenzialismo ad opera di Stefanini. Va ricordato, tuttavia, che in questo stesso periodo sono maturati nuovi filosofi italiani, che non abbiamo avuto occasione di ricordare parlando della S.F.I., alcuni alla scuola di Gentile, come Calogero, Spirito, Lombardi, altri in contatto con la filosofia europea, come Geymonat, Bobbio, Luporini, altri con rapporti di maggiore o minore indipendenza dal regime, come Paci, Dal Pra, Preti. Nel corso degli anni Trenta si assiste anche ad un notevole sviluppo delle sezioni della S.F.I., che sorgono in gran numero in varie regioni: nasce a Milano la Sezione Lombarda, a Padova la Sezione Veneta, a Torino una sezione che in seguito scomparirà sostituita da altre istituzioni (la Biblioteca Filosofica di A. Guzzo), a Palermo la Sezione Siciliana, ed altre sezioni a Bologna, Catania, Messina. A Genova nasce nel 1942 l’Associazione Filosofica Ligure, presieduta prima da A. Baratono e poi da M.F. Sciacca, la quale in seguito assumerà anche il nome di Sezione Ligure della S.F.I. Si può dire che, tra le finalità con cui la S.F.I. è sorta nel 1906, vi è quella di promuovere l’insegnamento della filosofia nella scuola secondaria e nell’università è stata praticamente lasciata cadere, sia perché già nel momento della fondazione il primo obiettivo è stato sostanzialmente conseguito, in quanto il parlamento italiano ha deciso di mantenere le cattedre di filosofia nei licei, sia perché nel periodo fascista è intervenuta la riforma della scuola promossa dal Ministro Giovanni Gentile (1923), la quale ha assicurato alla filosofia una posizione di primo piano nei licei, facendone il coronamento della formazione della classe dirigente, abbinandone l’insegnamento a quello della storia e im34

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ponendo la lettura dei classici della filosofia (uno nei primi due anni, due nel terzo). In tempi successivi, specialmente con la riforma De Vecchi (1936), tale insegnamento è degenerato, come è noto, in una prassi manualistica. Ma in tutta questa vicenda né la S.F.I. né l’Istituto di Studi Filosofici hanno potuto intervenire.

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L'ultimo cinquantennio Dopo la liberazione, alla fine del 1945 il nuovo Ministro della Pubblica Istruzione, il filosofo Vladimiro Arangio Ruiz, nominò Presidente dell’Istituto di Studi Filosofici (del quale continuò ad essere Direttore Enrico Castelli) Giovanni Calò, durante la cui presidenza l’Istituto organizzò, nel 1946, un Congresso Internazionale di Filosofia, nel quale si affermarono posizioni sino ad allora appena annunciate, quali l’esistenzialismo, il marxismo e il neopositivismo, e si prese atto della sostanziale scomparsa del neo-idealismo. Nel medesimo congresso si auspicò una ripresa delle attività delle sezioni della S.F.I. Ancora sotto la sigla dell’Istituto di Studi Filosofici fu organizzato a Messina nel 1948, per inizitiva di Vincenzo La Via, quello che può essere conteggiato come il XV congresso nazionale della S.F.I. Vi parteciparono Stefanini, Sciacca, Castelli, Caramella, Della Volpe, Fazio Allmayer, Chiavacci, Padovani, Carbonara, Battaglia. La vera e propria rifondazione della S.F.I. avvenne a Bologna, nel corso del XVI congresso nazionale (1953), dopo che in un convegno della Sezione Lombarda tenutosi a Milano nel 1952, un comitato, presieduto da Mario Dal Pra, era stato incaricato di predisporre un nuovo statuto. Questo, approvato nel 1953, è praticamente quello ancora in vigore attualmente. Esso ripristina l’elezione del Presidente da parte del Consiglio direttivo, cioè la struttura democratica dell’associazione, ne ribadisce le finalità di promozione dello studio della filosofia e di intervento nell’ordinamento delle strutture didattiche, l’articolazione in sezioni e la collaborazione con le organizzazioni internazionali. Si decide di conseguenza l’adesione della S.F.I. alla neocostituita F.I.S.P. (Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie), che nel frattempo ha organizzato il Congresso Internazionale di Filosofia di Amsterdam nel 1948 e di Bruxelles nel 1953. Già dal 1952, a cura di Mario Dal Pra, si è iniziata la pubblicazione del nuovo «Bollettino della Società Filosofica Italiana». Nel congresso di Bologna viene eletto Presidente della S.F.I. Felice Battaglia. Ha inizio così il periodo caratterizzato dal dualismo, all’interno della S.F.I., tra “cattolici” e “laici”. Esso è la conseguenza del peso assunto nella vita politica nazionale dai cattolici con la conquista della maggioranza parlamentare da par35

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te della Democrazia Cristiana, ma anche del peso culturale assunto dagli stessi nella vita filosofica italiana con la fondazione, nel 1945, del Centro di Studi Filosofici Cristiani di Gallarate (in seguito sopravvissuto senza la qualifica di “cristiani”) ad opera di U. A. Padovani, L. Stefanini e C. Giacon. Tale dualismo si concretizzava praticamente nella presentazione di due liste di candidati al Consiglio direttivo, una “cattolica” e l’altra “laica” e con l’alternanza alla presidenza di un “cattolico” e di un “laico”, concordata peraltro tacitamente. Le due liste sono durate praticamente sino al congresso di Verona del 1983, dove sono prevalse altre forme di organizzazione, determinate da provenienze territoriali o regionali più che da schieramenti politico-ideologici, mentre l’alternanza tra presidenti è durata più a lungo, sia pure con un’eccezione, e continua tuttora, rivelandosi un utile espediente per garantire alla S.F.I. un carattere pluralistico e una partecipazione universale. Dal 1953 ad oggi si sono tenuti una ventina di congressi, con frequenza a volte biennale ed a volte triennale: il XVII a Napoli nel 1955, il XVIII a Palermo nel 1960, il XIX a Bari e Lecce nel 1962, il XX a Perugia nel 1965, il XXI a Pisa nel 1967, il XXII a Padova nel 1969, il XXIII a Roma nel 1971, il XXIV all’Aquila nel 1973, il XXV a Pavia nel 1975, il XXVI a Urbino nel 1978, il XXVII a Lecce nel 1980, il XXVIII a Verona nel 1983, il XXIX a Perugia nel 1986, il XXX a Messina nel 1989, il XXXI a Roma nel 1992, il XXXII a Caserta nel 1995, il XXXIII a Genova nel 1998, il XXXIV di nuovo a Urbino nel 2001, il XXV a Bari nel 2004 e il XXXVI di nuovo a Verona nel 200712. Nel 1958 la S.F.I. ha organizzato a Venezia e Padova, in collaborazione con la F.I.S.P. ma per opera soprattutto del padre Carlo Giacon, il Congresso Internazionale di Filosofia, al quale hanno partecipato come relatori alcuni tra i più noti filosofi del momento, da Ph. Frank a J.B. Lotz, da A. Dempf a R. McKeon, da A. Ayer a Ch. Perelman, da A. Forest a G. Ryle. Ricordo che il congresso ricevette la visita, nell’isola di san Giorgio, dell’allora patriarca di Venezia cardinale Angelo Roncalli, che dopo qualche mese sarebbe divenuto papa col nome di Giovanni XXIII. In questo periodo sono stati eletti Presidenti nazionali Mario Dal Pra (due volte), Franco Lombardi, Augusto Guzzo, Guido Calogero, Marino Gentile, Pietro Prini, Franco Alessio, Evandro Agazzi, Paolo Rossi, Enrico Berti (due volte), Girolamo Cotroneo, Armando Rigobello, Gabriele Giannantoni, Giovanni Casertano, Luciano Malusa, Mauro Di Giandomenico e Stefano Poggi13. Ciò che ha maggiormente caratterizzato il nuovo periodo di attività della S.F.I. è stato l’impegno ad intervenire nella politica universitaria e scolastica 12

La notizia dell’ultimo congresso è evidentemente aggiunta nella redazione del testo scritto di questa relazione. 13 Come sopra.

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italiana, in difesa dell’insegnamento della filosofia. Sin dagli anni Cinquanta, per iniziativa del Presidente Dal Pra, la S.F.I. ha iniziato a discutere dell’ordinamento degli studi universitari di filosofia, senza tuttavia riuscire a incidere su questi ultimi, organizzati come Corso di Laurea in Filosofia nelle Facoltà di Lettere e Filosofia e come Corso di Laurea in Pedagogia nelle Facoltà di Magistero. Dall’inizio degli anni Settanta è sorta la Consulta Filosofica Universitaria, associazione di tutti i docenti universitari di filosofia, che ha continuato nello stesso tentativo, anch’essa senza molto successo. Più incisiva è risultata invece l’azione della S.F.I. nella politica della scuola secondaria. Il XXIII congresso nazionale (Roma 1971), organizzato dal Presidente M. Gentile, ha avuto per tema l’insegnamento della filosofia nella scuola. Alcuni anni più tardi, per iniziativa di E. Agazzi, si è costituita in seno al Consiglio direttivo della S.F.I. la Commissione didattica, con il compito di studiare nuovi metodi per l’insegnamento della filosofia, la quale ha organizzato vari convegni su questo tema, anche in collaborazione con associazioni di professori di filosofia di altri Paesi europei, e dal 1975 ad ogni congresso nazionale della S.F.I. è stato fatto posto ad una sezione sulla didattica della filosofia (nel congresso di Pavia ho tenuto io una delle relazioni ufficiali sull’insegnamento della filosofia nell’università e nella scuola). Sempre nel corso degli anni Settanta la S.F.I., grazie all’intervento di alcuni uomini politici che allora era consuetudine cooptare nel Consiglio direttivo (ad esempio il Ministro della Pubblica Istruzione Luigi Gui), è riuscita a impedire che la classe di abilitazione all’insegnamento intitolata alla Filosofia venisse sostituita da una nuova classe intitolata alle Scienze sociali. Durante la presidenza di A. Rigobello (1989-1992) la S.F.I. ha ottenuto il riconoscimento giuridico dal Ministero della Pubblica Istruzione quale associazione rappresentativa degli insegnanti di filosofia italiani, e durante la mia seconda presidenza (1995-1998), ha ottenuto dallo stesso Ministero la stipulazione di un Protocollo di Intesa, con il quale la S.F.I. si impegna a organizzare corsi di aggiornamento per gli insegnanti di filosofia e il Ministero si impegna a consultare la S.F.I. in materia di programmi di insegnamento di filosofia nelle scuole. Questi riconoscimenti erano la conseguenza di una consultazione massiccia della S.F.I. da parte del Ministero, che era in corso già da alcuni anni ed il cui momento più alto fu la costituzione di un gruppo di lavoro, in seno alla Commissione ministeriale per la riforma della scuola secondaria superiore presieduta dal Sottosegretario Beniamino Brocca (1989-1990), per la sperimentazione di nuovi programmi di filosofia. Il gruppo di lavoro, che ebbi l’onore di presiedere, era formato quasi interamente da membri della S.F.I., docenti universitari, ispettori centrali del Ministero e docenti di scuola secondaria superiore, e produsse un documento che fu alla base della sperimentazio37

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ne in numerose scuole italiane nel corso di tutti gli anni Novanta, con risultati quasi sempre positivi. La principale innovazione introdotta da tale documento era l’estensione dell’insegnamento della filosofia a tutte le scuole secondarie superiori, mentre per i contenuti si prevedevano pochi autori fondamentali obbligatori (Platone, Aristotele, Kant e Hegel) e molti nuclei tematici a scelta, variabili di anno in anno. Le consultazioni della S.F.I. da parte del Ministero della Pubblica Istruzione sono continuate durante il mandato del Ministro Luigi Berlinguer (1996-2001), il quale ha costituito anch’egli un gruppo di lavoro, composto da rappresentanti della S.F.I. e presieduto dall’Ispettrice Anna Sgherri, per l’introduzione dell’insegnamento della filosofia nel primo biennio della scuola secondaria superiore. Tale gruppo ha affermato il diritto di tutti i giovani italiani a fare esperienza, almeno una volta nella vita, di come affrontare un problema di verità o di senso mediante argomentazioni razionali e quindi in linea di principio condivisibili da tutti. Il Ministro Berlinguer ha anche partecipato a un convegno della S.F.I. organizzato nel 1999 a Firenze. Le consultazioni sono durate anche durante il mandato del Ministro Letizia Moratti, quando la S.F.I. è stata in contatto con la Commissione incaricata di predisporre i nuovi programmi per i licei. Anche in questo caso si è ottenuto che l’insegnamento della filosofia fosse presente in tutti i licei previsti dalla riforma approvata nel 2003, ma i decreti applicativi di tale riforma, come è noto, non sono mai stati varati. Mi auguro che anche in futuro le consultazioni continuino e la S.F.I. riesca finalmente a incidere su provvedimenti legislativi ed applicativi che entrino in vigore. All’accresciuto peso politico della S.F.I., specialmente riguardo alla scuola secondaria superiore, non è tuttavia corrisposto un uguale accrescimento del peso culturale dell’Associazione, anche a causa di un certo disinteresse per la vita di essa sopraggiunto nei docenti universitari. Ciò è sicuramente dovuto al sorgere di numerose altre associazioni di ricerca, che hanno coinvolto la maggior parte di tali docenti: la Società Italiana di Filosofia del Linguaggio, la Società Italiana di Logica e Filosofia della scienza, la Società Italiana di studi di Estetica, la Società Italiana di Storia della Filosofia, l’Istituto Italiano di Studi filosofici di Napoli. Queste associazioni organizzano ogni anno innumerevoli convegni, ai quali è impossibile partecipare anche solo in parte, per non parlare delle iniziative internazionali che la nuova facilità delle comunicazioni ha messo alla portata di tutti. Forse anche il venir meno del dualismo cattolicilaici ha contribuito ugualmente a disincentivare le iscrizioni alla S.F.I, nel cui seno non vi sono più vere e proprie competizioni elettorali. Tuttavia la S.F.I, rimane la più antica, la più rappresentativa dei docenti di filosofia, sia del mondo universitario che del mondo della scuola seconda38

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ria, l’unica che consenta il dialogo e la collaborazione tra questi due mondi, l’unica diffusa su tutto il territorio nazionale attraverso la sua articolazione in una trentina di sezioni, e l’unica ufficialmente riconosciuta dal Ministero della Pubblica Istruzione e ufficialmente finanziata, oltre che dai propri soci, da due Ministeri, quello dell’Istruzione e quello dei Beni Culturali. Perciò, se essa sarà adeguatamente sostenuta dai propri soci, specialmente con l’attività delle sezioni locali, la S.F.I. resterà l’associazione filosofica che più di ogni altra potrà influire sulla politica culturale e scolastica del Paese, promuovendo in modo sempre più efficace la diffusione e l’organizzazione degli studi filosofici in Italia.

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Sezione II

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LA FILOSOFIA ITALIANA NEL VENTESIMO SECOLO

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Introduzioni

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V. Michele Abrusci* Buongiorno a tutti, cominciamo la seduta mattutina del secondo giorno del Congresso straordinario nel primo Centenario della Società Filosofica Italiana. Cominciamo con gli indirizzi di saluto. Il primo indirizzo di saluto è quello del Rettore dell’Università Roma Tre che, se non fosse stato colto da un’influenza ieri pomeriggio, sarebbe venuto qui con grande piacere suo e nostro, a porgere il saluto dell’Università Roma Tre, l’università alla quale appartiene questa Facoltà di Lettere e Filosofia. Il Rettore si scusa della sua assenza e mi prega di rivolgere a suo nome il più cordiale saluto a tutti i partecipanti a questo congresso e al Presidente della Società Filosofica Italiana. Il secondo saluto è quello che faccio io come Preside di questa Facoltà. Caro Presidente della Società Filosofica Italiana, illustri Relatori, Signore e Signori, vi porgo i più cordiali e calorosi saluti della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Roma Tre all’inizio di questa seconda giornata del Congresso straordinario della Società Filosofica Italiana in occasione del suo primo Centenario. Per la Facoltà che presiedo è un onore ospitare questo congresso nella sua Aula Magna: certo, quest’aula si presta bene a queste manifestazioni, ma voglio credere che la scelta di far svolgere qui la giornata centrale di questo congresso, di celebrare qui il Centenario della prestigiosa Società Filosofica Italiana sia anche un riconoscimento del lavoro che nel campo della filosofia è stato compiuto nell’Università Roma Tre sia dal punto di vista scientifico sia dal punto di vista organizzativo. Per me, socio della Società Filosofica Italiana e amico e collega del suo attuale Presidente sin dagli anni che ho trascorso nell’Università di Bari, è un onore avere il compito di porgere il saluto a nome dell’intera Facoltà. I saluti, se non vogliono essere rituali, devono esprimere qualche augurio * Preside

della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Roma Tre.

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e offrire qualcosa. L’augurio che voglio esprimere è che la Società Filosofica Italiana, nel suo secondo secolo di vita, sappia svolgere il suo ruolo in modo consono al nuovo contesto istituzionale e culturale in cui operiamo, profondamente diverso da quello dell’inizio del secolo scorso (come ci ricordava ieri l’ottima relazione di Enrico Berti) e di quasi tutto il secolo scorso. Ad esempio, all’inizio del secolo scorso e quasi sino alla sua fine, l’unico referente istituzionale, nel nostro Paese, per una società scientifica nazionale era l’Amministrazione Centrale, il Governo del Paese. Oggi non lo è più, a causa del grande sviluppo che ha avuto l’autonomia delle università e degli stessi istituti scolastici e per il ruolo che stanno avendo le istituzioni locali e regionali e per la grande realtà che è oggi l’Unione Europea, anche nel campo della promozione della ricerca, della diffusione della cultura e della organizzazione della formazione. Inoltre, la scienza e la società con le quali all’inizio del secolo scorso e per buona parte del secolo faceva i conti, giustamente, la riflessione filosofica, sono ora profondamente cambiate. Per parlare della scienza, grandi cambiamenti sono avvenuti grazie soprattutto all’emergere dell’informatica e della telematica, alla caduta delle esigenze fondazionali, al risorgere del pensiero geometrico, alla caduta del rigido dualismo soggetto-oggetto nella fisica e nella stessa informatica, all’affermarsi della biologia che ci impone una revisione di molti paradigmi. E credo che la nostra Società Filosofica Italiana saprà assolvere bene il suo compito anche in questo secolo, in questo nuovo contesto. Cosa possiamo offrire noi come Facoltà di Lettere e Filosofia di una giovane università nell’area romana? In questo mutato contesto istituzionale, nel quale le università e le facoltà sono largamente autonome, la nostra facoltà vuole offrire alla Società Filosofica Italiana la sperimentazione di un nuovo rapporto di collaborazione, che possa sviluppare i già ottimi rapporti, ma non istituzionali, che legano la Società Filosofica Italiana a docenti di questa facoltà, o a gruppi di docenti. Il rapporto, per esempio, potrebbe prevedere la consultazione a livello istituzionale della Società Filosofica nel momento in cui, come facoltà, ci apprestiamo alla riforma degli ordinamenti didattici; quel che prima, come ha ricordato, ancora, ieri Enrico Berti, era fatto solo a livello nazionale, ora potrebbe, e può e deve essere fatto anche a livello delle singole facoltà, della loro autonomia. La S.F.I., in particolare, potrebbe essere invitata nelle consultazioni che le normative richiedono con le rappresentanze del mondo del lavoro e della cultura, insieme, e giustamente, ad altre società ampie e non settoriali: questo è un vantaggio della Società Filosofica. Inoltre, con la S.F.I. potrebbero essere definiti anche accordi istituzionali per cooperare nella diffusione della cultura filosofica, in collaborazione con le 44

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amministrazioni locali, e con il Dipartimento di Filosofia di questa Università, in modo da sviluppare tante iniziative che sono già in essere e accrescere la presenza filosofica nella nostra società. Sono convinto che una maggiore presenza della Società Filosofica, delle facoltà, dei dipartimenti possa contribuire a rafforzare queste lodevoli iniziative, a elevarne il livello scientifico ed a evitare un pericolo: che ci siano due mondi che si occupano di filosofia, uno che opera nelle facoltà, nei dipartimenti per la didattica e per la ricerca, e un’altra che tendenzialmente opera fuori dalle istituzioni accademiche. Possa questo Congresso straordinario costituire, grazie a tutti gli autorevoli interventi, la premessa per un rinnovato sviluppo della cultura e della ricerca filosofica nel nostro Paese.

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Grazie.

Elio Matassi* Sono molto lieto di salutare l’amico Mauro Di Giandomenico, Presidente della Società Filosofica Italiana, con cui il Dipartimento che ho l’onore di dirigere ha avviato da molti anni una collaborazione strettissima e feconda. In particolare il progetto Roma per vivere, Roma per pensare rappresenta una prospettiva che coniuga in maniera felice la nostra Università ed in particolare il nostro Dipartimento a una rete fittissima di Istituti secondari di Roma e provincia. Un altro aspetto che perimetra in maniera compiuta l’attuale fase della Società Filosofica Italiana sta nella ripresa molto forte di un rapporto tra filosofia e scienze positive; ieri Enrico Berti, nell’illustrare la storia della Società Filosofica Italiana, scandita in vari periodi, ha cominciato approfondendone il primo, molto illuminato e contrassegnato dall’egida del positivismo e dal confrontodialogo tra filosofia e scienze positive. Ritengo che uno dei maggiori meriti culturali della Presidenza di Mauro Di Giandomenico, affermato storico della scienza, stia proprio nella ripresa a tutto campo di questo confronto dialogico tra filosofia e scienza senza complessi di superiorità da parte della filosofia. Una concezione aperta del filosofare che sta penetrando nel tessuto civile ed istituzionale della nostra città e di tutta l’Italia. * Direttore del Dipartimento di Filosofia della Facoltà di Lettere e Filosofia, Università Roma Tre.

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Ringrazio per questo l’attuale Presidente e la Società Filosofica Italiana, riaffermando il pieno sostegno del Dipartimento di Filosofia di Roma Tre alle iniziative già avviate e a quelle future; ritengo infatti che l’attuale impegno della S.F.I. esalti la filosofia contro tutte quelle interpretazioni che ne ridimensionino il ruolo nelle moderne società industriali.

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Relazioni Cento anni di presenza della filosofia italiana nel contesto internazionale Evandro Agazzi*

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Alcune precisazioni Dirò, prima di tutto, come non deve essere inteso il titolo di questo contributo: non intendo parlare di cento anni di presenza del “pensiero filosofico” italiano sulla scena internazionale, bensì della presenza della filosofia italiana in quella che, provvisoriamente, chiamerò “la vita filosofica” o “l’attività filosofica” internazionale. Mi spiego: si potrebbe definire come “pensiero filosofico italiano” la successione delle dottrine di pensatori nati in Italia e, magari senza risalire ai Presocratici, si potrebbero considerare grandi figure nate sul suolo italico, da Cicerone a Tommaso d’Aquino, Machiavelli, Galileo, Bruno, Vico, Rosmini, e altri pensatori di rilievo un po’ minore, infittendo e concentrando l’analisi sugli ultimi cento anni. Ma non è questa la strada che voglio seguire, non perché sia senza interesse, ma perché non si vede che cosa avrebbe a che fare con un centenario della S.F.I. Analogamente, potrebbe essere di per sé interessante uno studio teso a mostrare come hanno influito certi pensatori italiani nel contesto internazionale, dopo che l’italiano, con la crisi del Settecento, ha cessato di essere una lingua che, dal più al meno, le persone colte leggevano; e allora bisognerebbe vedere quali autori sono stati tradotti e quali studiati, o quale è stato l’effetto dell’insegnamento di italiani all’estero (non trascurabile neppure nel corso degli ultimi cento anni). Ma anche questo non avrebbe nulla a che vedere con la Società Filosofica Italiana, così come nulla avrebbe a che vedere, ad esempio, il fatto che sia stata data la laurea honoris causa a Croce ad Oxford, o che i lavori di Martinetti, fin dagli inizi del Novecento, venissero regolarmente recensiti sui «Kant Studien». La mia presentazione assumerà quindi un taglio che potrei definire più “sociologico”, e il cui interesse consiste nel fatto di mettere in risalto come, a partire dagli inizi del Novecento, sia venuto imponendosi nel modo di fare filosofia uno stile che definirei “collettivo” e che rompe l’immagine tradizionale * Università

di Genova e Past President della Società Filosofica Italiana.

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del filosofo come “pensatore solitario”. Quell’immagine stereotipa, sottilmente ironica e spregiativa, secondo cui il filosofo è un tipo che si costruisce il suo mondo delle idee, che vive nella torre d’avorio, che comunica poco con l’altro, intendendo per “altro” non solo il solito “uomo della strada” (che poi è ciascuno di noi quando esce dal piccolo cerchio delle cose che sa fare), ma anche gli altri filosofi, con i quali non va d’accordo.

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La dimensione collettiva dell’attività filosofica Ebbene, questa è un’immagine recente, che non trova corrispondenza nella storia della filosofia. Già nell’antica Grecia i filosofi erano spesso divisi in scuole, che non costituivano l’adesione alla “dottrina” di un pensatore bensì il fatto di “vivere assieme”. L’Accademia platonica, il Liceo, la Stoa, erano luoghi dove la gente si trovava a filosofare assieme. Certo, c’era di solito un personaggio di riferimento, ma non era questo il motivo essenziale, pur essendo un motivo forte, per l’esistenza di una scuola. Tant’è vero che questa poteva proseguire anche in presenza di non insignificanti divergenze rispetto alla “dottrina” del fondatore: basti pensare che le propaggini dell’Accademia platonica finirono con l’essere il centro dello scetticismo antico. Chi avrebbe pensato che da un Platone, che difendeva l’assolutezza della verità, si potesse arrivare, dopo qualche centinaio d’anni, ad una fase in cui l’Accademia platonica era l’antesignana dello scetticismo? Parlando di “scuola” viene spontanea alla mente la “Scolastica”: non di rado questa viene banalizzata, quasi fosse un complesso di dottrine in cui si ripetevano e commentavano le solite cose. In realtà, questa parola vuol dire che era una filosofia fatta “nelle scuole”, che poi erano in gran parte università e le università medievali erano comunità di docenti e studenti.

L’individualismo filosofico Pertanto questo stile “collettivo” ha lungamente caratterizzato la storia del pensiero e in realtà si è interrotto solo con l’età moderna: il pensatore moderno è prima di tutto un “libero pensatore”: ma libero da cosa? Non lo mettevano certo in catene. Libero dalla tradizione, libero da osservanze, libero da adesioni: pensiamo a Cartesio, pensiamo a Bacone, opposti per mille aspetti ma concordi su questo. Tra l’altro, questi filosofi moderni non insegnavano neppure e vivevano di altre cose: chi faceva il pulitore di lenti, chi il soldato, chi l’ambasciatore, Montaigne aveva la fortuna di essere abbastanza ricco da ritirarsi nel suo castello con i suoi libri. Quindi, era gente che non viveva della filosofia. 48

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La situazione comincia a cambiare nell’Ottocento, quando il filosofo viene poco a poco a coincidere con il professore di filosofia nell’università. Non che la filosofia fosse stata cacciata dalle università, c’è sempre stata più o meno, a seconda delle strutture dell’università stessa, ma non era mai stato così evidente che il filosofo importante fosse anche un professore universitario (le eccezioni si contano sulle dita di una mano). Parrebbe, a prima vista, che un fatto simile abbia determinato un riavvio, una ripresa del lavoro comunitario in filosofia, ma le cose stanno ben diversamente. Il professore universitario, il cattedratico ottocentesco, è tipicamente qualcuno che deve essere originale, che deve essere il creatore di un sistema, e questo si raggiunge tanto più efficacemente quanto più ci si contrappone agli altri. Una volta trovata la propria angolatura, il proprio punto di vista, il filosofo originale lo gonfia, lo esalta, ne fa un “sistema”, si accapiglia con un collega, polemizza con l’altro. Proprio questo status del professore universitario contribuisce ad alimentare l’immagine del filosofo romantico, originale e creativo nella misura in cui è isolato: si tratta del pensatore solitario al quale, eventualmente, degli allievi si aggregano come seguaci di una dottrina. Ecco come cambia l’idea di scuola: non più la sede di un lavoro collettivo, ma l’insegna sotto cui si riconoscono (o vengono catalogati) coloro che aderiscono all’insegnamento di un determinato pensatore.

La professionalizzazione e la specializzazione della filosofia In questa situazione che possiamo qualificare come “istituzionalizzata”, la vita filosofica si trovava in certa misura ingessata e qui è possibile rintracciare una delle ragioni di quella ripresa, sotto altre vesti, dello stile collettivo del filosofare che caratterizza il Novecento. Si tratta comunque di una ripresa “sotto altre vesti”, perché deve passare attaraverso alcuni cambiamenti strutturali che si intravedono ormai chiaramente sotto questo identificarsi dei filosofi con i professori universitari di filosofia. Il primo di questi è la “professionalizzazione” della filosofia. Precedentemente il filosofo non era mai stato tale “per professione” ma, come già detto, addirittura campava d’altro. Quando però diventa professore universitario diventa anche qualcuno che dal far filosofia ricava ciò di cui vivere, come accade per qualunque professione. Comincia allora a profilarsi tutta una serie di meccanismi di cooptazione dei quali siamo tuttora eredi: viene cioè a costituirsi una “comunità filosofica” un po’ analoga alle comunità scientifiche che stavano prendendo corpo alla fine dell’Ottocento e, in particolare, vengono studiati dei canoni oggettivi per essere ammessi alla comunità (è l’origine dei concorsi universitari). Baroni o non baroni che fossero quei professori, vigeva però il rispetto di certe regole in base a cui valutare se il lavoro 49

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fatto avesse una “dignità scientifica”. Incomincia, attraverso queste forme, ad emergere, come conseguenza della “professionalizzazione”, anche l’idea di una “specializzazione” della filosofia. Certo, il grande filosofo veniva pur sempre considerato colui che dice la sua in logica, in etica, in metafisica ed ontologia, però si comincia a pensare che ci sono certi problemi più tecnici, che si trattano più rigorosamente utilizzando certe metodologie specifiche, all’interno di una determinata specializzazione filosofica.

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Società e congressi A questo punto assistiamo, nel campo delle scienze prima e poi rapidamente anche nel campo della filosofia, al nascere di due forme di attività: le Società e i Congressi, che hanno avuto anche, in un certo senso, una funzione di rottura rispetto al monopolio accademico. Farò, per brevità, un solo esempio. L’Unione Matematica Tedesca, tra i cui ispiratori figurava anche Cantor, nacque come una specie di contrappeso al prepotere dei matematici accademici ufficiali: il grandissimo Cantor, fondatore della teoria degli insiemi, era fortemente osteggiato dai matematici più influenti della Germania (soprattutto da Kronecker che dominava la matematica tedesca dalla sua cattedra in Berlino) anche se altri, come Weirstrass, ne avevano stima, ma non erano altrettanto efficaci nel sostenerlo. Grazie all’esistenza dell’Unione Matematica Tedesca, e al di fuori della ristretta cerchia accademica dominata da questi poteri, potevano cominciare a circolare le nuove idee sul transfinito che finirono col trovare poi accesso anche alle riviste più autorevoli. Le società scientifiche sono in effetti un fenomeno nuovo. Infatti non sono equiparabili alle accademie, in cui era necessario essere cooptati, e i cui membri erano in numero ristretto. A una società scientifica si accede dietro domanda e si è ammessi sulla base di certi criteri oggettivi. Le società hanno una struttura più democratica, hanno cariche elettive, e via discorrendo. L’attività delle società, poi, consiste nella promozione della ricerca, degli incontri, degli scambi tra i cultori di una certa disciplina, tipicamente attraverso lo strumento dei Congressi. Eccoci dunque pervenuti, gradatamente, a veder emergere lo spirito che ha caratterizzato e caratterizza, in particolare, anche la Società Filosofica Italiana; ma, prima di parlare della S.F.I., forse può essere interessante soffermarci sui Congressi Internazionali di Filosofia e sul loro significato.

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I Congressi Internazionali di Filosofia Il primo Congresso Internazionale di Filosofia ebbe luogo a Parigi nell’anno 1900, in occasione della famosa Esposizione Universale, e si tenne pochi giorni dopo il primo Congresso Internazionale di Matematica. Entrambi i congressi sono rimasti giustamente famosi per il prestigio di molti partecipanti e per alcuni eventi: basti pensare che, in quello dei matematici, Hilbert enunciò nella relazione introduttiva quel famoso elenco di ventitré problemi aperti che, in un certo senso, tracciò il programma di ricerca delle matematiche per molti decenni del secolo che si apriva. Ma veniamo al congresso di filosofia. Qui, più che “contributi” di spicco, merita menzione, a titolo di esempio, un “evento”, che viene spesso ricordato anche nei manuali per sottolineare l’importanza di questo congresso: è che qui Bertrand Russell incontrò Giuseppe Peano e la sua scuola. Proprio Russell racconta che questo fu per lui un incontro fondamentale perché, conoscendo Peano, si convertì all’uso degli strumenti logicomatematici negli studi fondazionali sulla matematica. Da un episodio come questo risulta chiara l’importanza che può avere un congresso in quanto incontro di persone e possibilità di comunicazione “fuori dall’ordinario”: questa gente pubblicava, veniva letta, magari si scambiava corrispondenza, ma altro poteva essere l’effetto di incontrarsi, discutere, parlare. Il congresso di Parigi è importante anche perché consente (e con ciò vengo finalmente al titolo di questo contributo) di fare il punto anche sul peso della filosofia italiana nella vita filosofica del tempo. C’è una sezione del congresso dal titolo “Logica delle scienze”; negli Atti sono riuniti venti contributi ad essa afferenti, dei quali cinque sono della scuola peaniana: si tratta di testi di Peano, Burali Forti, Pieri, Padoa e Vailati e, leggendoli, si rivelano tutti di grande qualità, così come del resto anche gli altri quindici. Al congresso di Parigi parteciparono con comunicazioni anche altri due italiani che risultano dagli Atti: uno era Calderoni, che presentò una comunicazione su etica e metafisica, e l’altro era un certo Parodi. I contributi menzionati sono sufficienti per ricavarne che, all’inizio del Novecento, la filosofia della scienza italiana era tra le punte avanzate della filosofia della scienza in Europa, se non nel mondo. Forse non si può dire altrettanto della filosofia italiana tout court. Qualcuno potrebbe obiettare che i congressi costituiscono in fin dei conti eventi occasionali, e come tali non idonei per valutare il significato e l’importanza di certe correnti o scuole filosofiche. Per convincerci del contrario basta pensare a ciò che era, all’inizio, il neopositivismo: un programma filosofico incarnato da un manipolo di studiosi, da un “circolo” a Berlino e da un “circolo” un po’ più numeroso a Vienna; eppure nel giro di dieci anni è diventato un movimento di dimensioni mondiali, grazie all’organizzazione, con cadenza quasi biennale, di 51

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ben otto congressi! Questi congressi hanno raccolto moltissimi di coloro che si interessavano a quei problemi di filosofia della scienza di cui si occupavano i positivisti logici, usando le tecniche di tipo matematico-formale da questi privilegiate, ed hanno internazionalizzato il loro movimento, trasformandolo in una delle correnti più importanti della filosofia contemporanea. Quindi, ci sono determinati fatti nella storia recente della cultura (non solo filosofica), che mostrano come i congressi possano avere una significativa importanza, anche se, indubbiamente, esistono alcune contingenze che possono limitare la portata di certi congressi: per esempio, la lingua. A Parigi, tutte le relazioni si svolgevano in francese, e dunque non c’è da meravigliarsi che chi non padroneggiava a sufficienza tale lingua non abbia partecipato attivamente al congresso, o abbia addirittura rinunciato a presenziarvi. Nel 1904 il secondo Congresso Internazionale di Filosofia si svolse a Ginevra e lingue ufficiali delle relazioni furono il francese e il tedesco: questo fatto determinò di per sé un accrescimento del numero dei partecipanti. L’importanza del fattore linguistico diventa ancor più evidente quando si considera il successivo Congresso Internazionale, svoltosi ad Heidelberg nel 1908: qui le lingue ammesse furono francese, inglese, tedesco e italiano. Croce pronunciò in italiano una delle quattro relazioni fondamentali (“L’intuizione pura e il carattere lirico dell’arte”) e fu onorato di un indirizzo speciale di ringraziamento del Presidente del congresso, E. Boutroux. Ci furono pertanto una relazione di Boutroux in francese, una di W. Royce in inglese, una di Croce in italiano e due in tedesco, di W. Windelband e H. Meyer. Sorvolando sui nomi delle numerose personalità illustri presenti, ci limitiamo a notare che, fra gli italiani, parlarono G. Ambrosini, G.A. Borgese, F. Enriques, A. Levi (in francese), G. Peano (soltanto come partecipante a due discussioni), R. Savelli, G. Vailati, L. Valli, G. del Vecchio, L. Visconti. Non possiamo certamente affermare che la presenza italiana fosse particolarmente significativa, ma non è su questo che vogliamo soffermarci, quanto piuttosto approfittare della menzione di questi congressi internazionali per mostrare come essi permettano talvolta di saggiare certe tesi storiografiche e, in particolare, proprio una che riguarda la cultura italiana. Quando ci si chiede come mai gli studi di logica matematica e filosofia della scienza, che in Italia agli inizi del Novecento erano tanto all’avanguardia, poi affondino, è molto frequente che se ne dia la colpa a Croce e Gentile, i quali squalificarono tali studi. In forza del predominio acquisito dal neoidealismo in Italia grazie al fascismo, logica e filosofia della scienza finirono così atrofizzate. La realtà, invece, è che la scuola peaniana si è gradatamente svuotata dal suo interno tanto che, mentre a Parigi le comunicazioni dei peaniani nel loro settore disciplinare erano cinque su venti, ad Heidelberg Peano semplicemente intervenne nelle discussioni. La scuola peaniana aveva esaurito il suo compito: si 52

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era proposta certe cose (in sostanza, una “rigorizzazione logica” delle discipline matematiche) e le aveva fatte bene, ma non era entrata nello spirito “formalistico” di tipo hilbertiano, secondo cui si indirizzava a livello europeo la ricerca sui fondamenti della matematica. Si tratta dunque di ragioni di esaurimento interno, non certo “killer locali” che hanno “fatto fuori” Peano e i suoi allievi. Un momento particolarmente alto della presenza della filosofia italiana nel contesto internazionale fu il Congresso Internazionale di Filosofia del 1911 svoltosi a Bologna, e al quale è lecito riconoscere un valore davvero epocale. In primo luogo per la qualità dei partecipanti, tra i quali figuravano molte delle personalità straniere più in vista del tempo (O. Külpe, E. Boutroux, G.F. Stout, E. Durkheim, H. Poincaré, S. Arrhenius, H. Bergson, P. Langevin, W. Ostwald, H. Vaihinger, H. Driesch, M. De Wulf, X. Léon, H. Dingler, A. Lalande, L. Couturat, A. Meinong, R. Steiner, E. Dupréel, H. Bergmann). A questi si aggiungeva una nutritissima schiera di italiani (F. Enriques, F. Tocco, A. Gemelli, B. Varisco, M. Losacco, A. Aliotta, A. Baratono, P. Carabellese, G. De Ruggiero, G. Peano, A. Padoa, G. Tarozzi, G. Vidari, L. Limentani, M. Maresca, G. Del Vecchio, A. Levi, E. Juvalta, B. Croce, A. Romagnoli, F. Torrefranca, E. Rignano, distribuiti nelle relazioni generali e nei contributi delle sezioni specializzate). Significativa la presenza, accanto a filosofi puri, anche di rappresentanti del mondo delle scienze, delle arti e delle lettere, interessati al dibattito filosofico sulle questioni di frontiera delle rispettive discipline. I congressi, dunque, avevano raggiunto già all’inizio del secolo grandi dimensioni e vi partecipava il fior fiore della filosofia, ma anche, in particolare, esponenti del mondo della scienza, fisici, matematici. È per l’appunto una delle ragioni che danno particolare spicco a questo congresso di Bologna, in cui si realizzó una certa simbiosi tra la riflessione filosofica e la conoscenza scientifica (perché vi intervennero scienziati forniti di cultura e sensibilità filosofica, non meno che filosofi dotati di una certa cultura scientifica), pregio questo che si deve anche al diretto influsso di Enriques, professore all’Università di Bologna, e non è un caso che egli sia stato Presidente non solo dell’Unione Matematica Italiana, ma anche della Società Filosofica Italiana, per un certo periodo. Enriques e Croce non figurano invece tra i partecipanti del Congresso Internazionale di Filosofia svoltosi a Napoli nel 1924. Erano passati tredici anni dal congresso di Bologna, e c’era stata di mezzo la prima guerra mondiale, ma per spiegare tali (ed altre) assenze si deve tener presente che in Italia si era da poco installato il fascismo, il cui clima si rifletteva anche sul congresso (Luigi Credaro, senatore del Regno e professore all’Università di Roma, tenne una relazione dal titolo significativo “L’italianità della stirpe di Enrico Pestalozzi”). Due anni dopo, il congresso della Società Filosofica Italiana sarebbe stato interrotto al fine di non permettere a E. Bonaiuti di parlarvi. Anche questo tipo 53

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di notizie contribuisce a farci intendere l’importanza dei congressi di filosofia, siano essi internazionali o nazionali. Essi riflettono la situazione culturale e anche politico-culturale del tempo. Non solo, ma essi ci permettono anche di farci un’idea di quella che potremmo chiamare la “situazione media” o anche il “livello medio” della ricerca (non solo filosofica) in un dato periodo. Nei congressi non dobbiamo infatti aspettarci di trovare il grande contributo originale, né il paper che rappresenta la svolta nel suo settore: gli scienziati ed i filosofi, se hanno qualcosa di particolarmente importante da dire, di solito lo pubblicano nelle riviste specializzate, non negli Atti di un congresso, che sono quasi sempre una documentazione difficile da reperire. Ma i congressi, attraverso i loro Atti, ci danno informazioni sullo stato medio della ricerca in un certo periodo, di quali fossero gli interessi più diffusi, le scuole più influenti, notizie che più difficilmente si ricavano da altre fonti. Il congresso di Napoli figura ufficilamente promosso dalla Società Filosofica Italiana e inaugura, in tal modo, una tradizione pressoché costantemente seguita successivamente: i congressi internazionali di filosofia vengono organizzati su invito di una società filosofica nazionale. Non rivestirebbe un particolare interesse proseguire menzionando altri congressi internazionali di filosofia. Basti dire che la loro serie, dopo l’interruzione dovuta alla seconda guerra mondiale, si riannodò nel 1948 con il Congresso Internazionale di Filosofia di Amsterdam, al quale seguirono poi con regolarità congressi a cadenza quinquennale (nel 1958 ebbe luogo in Italia un altro di tali congressi, a Venezia). Proprio nel 1948 venne fondata la Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie (F.I.S.P.) che assunse come suo compito specifico, anche se non esclusivo, quello di organizzare periodicamente i congressi in collaborazione con le società nazionali. Da quanto detto sin qui emerge pertanto che i congressi da una parte e le società dall’altra costituiscono le nuove forme secondo cui si articola la vita filosofica contemporanea, nelle sue tipiche manifestazioni “collettive”. Sinora abbiamo visto come i congressi siano l’espressione più diretta dell’esistenza delle società, e ora intendiamo passare brevemente in rassegna altre motivazioni che hanno prodotto il fiorire e l’autentico proliferare di società filosofiche.

La tipologia delle società filosofiche Esiste una tipologia assai varia di società filosofiche, nazionali e internazionali: le più antiche di esse hanno di solito una intitolazione geografica, ma nel Novecento si è venuto infittendo il numero di quelle che, ad esempio, sono dedicate ad un certo periodo della storia della filosofia, ad un pensatore, ad una 54

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delle grandi discipline filosofiche o ad una qualche branca più specializzata di esse, e via dicendo. Ciò rispecchia in larga misura quel carattere “professionale” della filosofia che già abbiamo avuto occasione di richiamare. Di fatto, esiste oggi qualcosa di simile ad un albo professionale dei filosofi, rappresentato da pubblicazioni come il Directory of American Philosophers e l’International Directory of Philosophy and Philosophers (pubblicati dal Philosophy Documentation Center, Bowling Green State University, Bowling Green OH e regolarmente aggiornati). Essi registrano in pratica i nomi dei filosofi che occupano una posizione accademica e sono poi in genere costoro che si iscrivono a qualche società filosofica corrispondente alla propria specializzazione. Parlando di specializzazione, tuttavia, alludiamo ancora a qualcosa di abbastanza ben delineato e istituzionalizzato, mentre una caratteristica che emerge con sempre maggiore chiarezza ai nostri giorni è che il lavoro filosofico si ripartisce secondo interessi piuttosto che secondo aree tematiche, e questo è confermato dalle denominazioni delle società filosofiche e delle riviste: «Filosofia dello Sport», per esempio, «Filosofia del Sesso e dell’Amore», «Filosofia e Macchine», ecc. Prevalgono le diciture «Filosofia e…», «Filosofia di…» che equivalgono ad un nuovo stile del fare filosofia. Non ci si iscrive più in una sottodisciplina della filosofia, quali possono essere Etica, Filosofia politica, Estetica, Filosofia della scienza, ma ormai ci si ritrova in un gruppo di persone che lavora su un tema che non è stato “messo all’ordine del giorno” da nessun filosofo, da nessuna scuola, bensì emerge in quanto problema di cui “si sta discutendo”; attorno a quel problema si costituisce inizialmente un gruppo di persone che poi viene pian piano arricchendosi, fonda la propria rivista e fonda la propria società. Di qui una proliferazione delle società filosofiche che potremmo chiamare “atipiche”. Questo stato di cose non contribuisce affatto, come si potrebbe inizialmente pensare, alla maggiore comunicabilità e trasparenza del discorso filosofico. Si crede spesso che il filosofo del passato si costruisse il proprio gergo, il proprio linguaggio tecnico, che si può penetrare con un faticoso sforzo ermeneutico. Oggi avviene lo stesso, ma in modo peggiore, perché questi vari gruppi scrivono sul proprio “temino” inventandosi un proprio vocabolario tecnico e magari utilizzando delle raffinate tecniche di logica matematica o di linguistica per tirar fuori dei “risultati” la cui rilevanza filosofica è quasi impercettibile. Ne consegue che oggi non esiste nessun filosofo, per colto che sia, che riesca a dominare tutti questi orticelli e nemmeno un buon Dipartimento di Filosofia di una buona università americana (dove i fondi non scarseggiano) è tale da riuscire a contenere tutto questo volume di “indagini” filosofiche.

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Questa situazione è dannosa per certi versi, e non lo è per altri. Infatti, questo fenomeno corrisponde anche al fatto che la filosofia è ritornata ad affacciarsi ai problemi concreti del proprio tempo: il filosofo non solo non è più colui che costruisce il proprio “sistema”, e neppure il professionista esperto di un determinato periodo storico o di un determinato settore disciplinare, ma qualcuno che interloquisce su una serie di problemi, in gran parte di tipo etico “applicato” (bioetica, etica delle professioni, ambiente, giustizia distributiva, ecc.). In questo modo, forse, la filosofia sta ritrovando una propria vitalità, poiché questa parcellizzazione rappresenta anche la sua trasformazione in una disciplina più “popolare”, nel senso della “popolarizzazione”, “volgarizzazione”, “maggiore accessibilità”. In questo mutato contesto la presenza della filosofia italiana si esprime, a livello internazionale, attraverso partecipazioni di tipo personale alla “vita” di questa frastagliata comunità filosofica, sia che si tratti di collaborazione a riviste, o di presenza in qualcuna delle tante associazioni del tipo suaccennato, magari in posizioni di responsabilità, ma è anche chiaro che in questa galassia filosofica ogni connotazione nazionale perde di senso.

Le istituzioni che promuovono lo sviluppo internazionale della filosofia Pertanto, se proprio desideriamo rintracciare un contributo della filosofia italiana alla vita filosofica internazionale, dobbiamo piuttosto prendere in considerazione alcune istituzioni la cui finalità è quella di promuovere la filosofia a livello internazionale. Le due più importanti sono la già menzionata Federazione Internazionale delle Società Filosofiche (F.I.S.P.) e l’Istituto Internazionale di Filosofia. Filosofi italiani sono stati presenti in entrambe. La F.I.S.P. annovera come mebri non già individui, bensì società ed associazioni filosofiche, e organizza i congressi internazionali di filosofia e molte altre manifestazioni. Nata in occasione del Congresso Internazionale di Filosofia di Amsterdam del 1948 su iniziativa dell’U.N.E.S.C.O., alla sua fondazione hanno contribuito tre società italiane (tra le quali non compare la S.F.I. perché stava attraversando un periodo di latenza): l’Associazione Filosofica Ligure, la Società Filosofica Calabrese ed il Centro di Studi Filosofici di Roma; la S.F.I. è entrata in seguito. Nel corso degli anni, parecchi italiani hanno fatto parte del Comitato direttivo della F.I.S.P.; tra questi anch’io, svolgendo successivamente le funzioni di Tesoriere, Segretario Generale e Presidente. L’Institut International de Philosophie (I.I.P.), fondato a Parigi nel 1937 in occasione del “Congresso Descartes”, è invece un’altra cosa: ha la struttura di un’accademia, creata con lo scopo di raccogliere le personalità più in vista della 56

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filosofia mondiale e con l’intento di mantenere fra di loro la comunicazione, di pubblicare aggiornamenti bibliografici e strumenti di lavoro filosofico, al di sopra di tutte le differenze di scuola e ideologia. Dando un’occhiata alla membership, si può dire che buona parte della migliore filosofia è passata dall’I.I.P., e può esser interessante vedere come e quando ci siano entrati degli italiani. Alla data di fondazione nel 1937 i due membri italiani sono F. Enriques e G. Gentile che, pur essendo ideologicamente agli antipodi, a livello internazionale erano i due filosofi italiani più noti, anche se per ragioni diversissime. Alla ripresa post-bellica si aggiungono nel 1947 G. Calogero, E. Castelli, M.F. Sciacca, nel 1953 N. Abbagnano, C. Antoni, F. Battaglia, A. Guzzo, U. Spirito, nel 1957 E. Garin, nel 1970 F. Lombardi, nel 1971 L. Pareyson, nel 1973 E. Agazzi e V. Mathieu, nel 1976 R. Cantoni, nel 1985 V. Verra, nel 1988 M. Olivetti, nel 1995 C. Sini, e nel 1996 Berti. Due di questi, ossia Calogero e Agazzi, hanno anche ricevuto il mandato di Presidente. Dunque, gli italiani sono stati presenti, anche a livello organizzativo, nelle istituzioni che hanno promosso la vita filosofica internazionale.

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La filosofia italiana e la società multiculturale

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Giacomo Marramao*

Mi preme subito, a mo’ di avvertenza preliminare, segnalare il carattere ancipite della mia relazione: sarà per un verso “di servizio”, per l’altro di proposta. Ma vorrei prima di tutto confessare, senza iperboli retoriche o diplomazie di circostanza, di sentirmi profondamente onorato del compito che mi è stato assegnato: per la semplice circostanza che non posso vantare una consuetudine interna e continuativa con la Società Filosofica Italiana. Non sono mancate certo, in questi anni, varie occasioni di contatti e di incontri. Si è trattato, tuttavia, di qualcosa di ben lontano dall’esperienza partecipe e responsabile, da autentico e autorevole insider, di cui ha fatto esemplarmente mostra il collega Evandro Agazzi. Sono onorato perché la S.F.I. rappresenta, come ieri si diceva, un punto di sinergia straordinaria tra due momenti: la formazione degli insegnanti di filosofia delle scuole secondarie superiori e l’evoluzione, proprio nel senso indicato da Agazzi nella relazione precedente, del magistero accademico. Ma la S.F.I. svolge altresì un ruolo importante in quanto costituisce, proprio in virtù dei rapporti che si instaurano nei vari congressi tra insegnanti delle superiori e docenti universitari, una rottura delle cristallizzazioni corporative dell’accademia. Sono da tempo convinto – e ne ho ricevuto conferma ieri, ascoltando i discorsi dei colleghi Berti, Di Giandomenico e Kemp – che oggi ci troviamo in un momento strategicamente cruciale per ripensare e ridefinire il ruolo che la filosofia è chiamata a svolgere in un mondo sempre più segnato dalla tensione tra specializzazione tecnico-disciplinare delle forme di conoscenza e bisogno crescente (talora velleitario o ipertrofico, non solo in talune tendenze filosofiche ma nell’ambito delle stesse scienze naturali) di “teorie del tutto” (mutuo non casualmente l’espressione da John Barrow). È inevitabile che, dentro tale Spannungsfeld o campo di tensione epistemologico, lo stesso sapere filosofico sia chiamato a misurarsi da un lato con i nuovi linguaggi e le nuove logiche disciplinari, dall’altro con le grandi sfide globali. Nasce da qui l’esigenza di get* Università

Roma Tre.

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tare un ponte tra i due differenti stili filosofici dell’analitica e dell’ermeneutica: tra una filosofia come tecnica rigorosa dell’argomentazione e delle proposizioni vere/false e una filosofia che ritorna a pensare il proprio tempo, “portando al concetto” i problemi del presente. Diceva ieri Peter Kemp che la filosofia si pone oggi il problema di una totale ridefinizione di alcuni suoi strumenti rispetto ai dilemmi teorico-pratici della cosiddetta globalizzazione. Considero tale ordine di riflessione importante, per un motivo tanto semplice quanto dirimente: proprio nel mondo anglosassone e nel Paese che rappresenta l’avanguardia del processo di specializzazione, gli Stati Uniti, la filosofia viene oggi rivalutata, direi paradossalmente più che in Europa, come un sapere duttile, il solo in grado di assicurare transiti agevoli di know-how da una competenza tecnico-professionale all’altra, dentro una dinamica di innovazione incessante ed accelerata degli strumenti di conoscenza. Al punto tale che i filosofi – a differenza che in Europa (e, soprattutto, a differenza che in Italia) – vengono sempre più richiesti per la formazione del management. Oggi si apre dinanzi a noi un campo problematico per molti versi nuovo, i cui caratteri e indicatori fondamentali restano ancora tutti da precisare. Vengo così al tema della mia relazione, intitolato ai rapporti tra la “filosofia italiana” e – adottando un sintagma alquanto convenzionale, che adombra i problemi dell’interculturalità – la cosiddetta “società multiculturale”. Come dicevo, si apre qui tutto un nuovo campo problematico indotto dai processi di globalizzazione, cui ieri accennava Kemp. Sono problemi che potremmo sinteticamente identificare come coabitazione conflittuale nel mondo contemporaneo di due trend, o meglio di due vettori dinamici: quello dell’uniformazione, della “compressione spazio-temporale” che caratterizza l’attuale fase di mondializzazione con il mix di mercato globale e tecnologie postelettroniche del “tempo reale”, e quello della differenziazione culturale (o, più precisamente, della diaspora identitaria indotta dalla differenziazione delle dinamiche di identificazione simbolica). Sembrerebbe plausibile, sulla scorta di una delle tesi più accreditate del theatrum philosophicum internazionale, ricondurre questa duplice e contrastiva tendenza a una “incompiutezza” del Progetto moderno, che nel suo corso avrebbe incentivato la sola razionalità tecnica e strategico-strumentale a discapito di quella emancipativo-comunicativa. L’inconveniente di una tesi siffatta – che ha, com’è noto, in Jürgen Habermas il suo principale esponente – consiste nell’ascrivere la “patogenesi” della modernità non alla sua logica intrinseca e al suo principio costruttivo, ma alla presunta unilateralità del suo svolgimento. Ragion per cui non vi sarebbe altra terapia di “guarigione” se non il ritorno alla sua ispirazione originaria. Il Moderno, in altri termini, sarebbe in se stesso autosufficiente, e il “fuori” con il quale dovrebbe completarsi non sarebbe in realtà che l’altro lato costitutivo del suo progetto. Sono viceversa convinto che quello 59

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che per Habermas non è che l’altro lato, una delle due gambe del Progetto moderno, ne rappresenti in realtà – adottando una celebre espressione della psicoanalisi postfreudiana – l’altra scena: la scena che quel progetto – per logica, e non storica, incompiutezza – sistematicamente rimuove. Il “rimosso” di quel progetto – universalistico e universalizzante – è rappresentato, per l’appunto, dal tema dell’identità e delle differenze che la costituiscono. Proiettato sugli scenari della globalizzazione, questo vertice ottico dovrebbe rendere visibile – ho cercato di spiegarlo nei miei lavori degli ultimi anni, da Dopo il Leviatano a Passaggio a Occidente e a La passione del presente – come l’universalizzarsi di tendenze “diasporiche” nel mondo globalizzato sia un effetto indotto della compressione uniformante di (perdonate il bisticcio verbale) un universalismo che, rimuovendo le differenze, ne propizia il “ritorno” nella forma dell’ossessione identitaria: di qui il meccanismo generatore dei vari fondamentalismi (non solo religiosi ma anche etnici e culturali). Ma come è possibile evitare il cortocircuito tra rimozione e reificazione dell’identità? Come è possibile conciliare universalità e differenza? Come dar spazio ai diritti della diversità senza che si trasformino in casematte strategiche di una nuova intolleranza? Dalla “sfida” dell’interculturalità, che viene così a profilarsi, si prospetta per la filosofia un compito in larga parte inedito rispetto all’originario progetto della modernità: un compito di traduzione tra culture e forme di vita differenti. Com’è noto, l’espressione “forma di vita” (Lebensform) – espressione che, a differenza di Habermas, ritengo meno equivoca di quella di “mondo della vita” (Lebenswelt) introdotta dall’ultimo Husserl – è di ascendenza wittgensteiniana (anche se adoperata da diversi autori mitteleuropei fra le due guerre mondiali). Ma il problema della traduzione presenta oggi latitudini più vaste e implicazioni ancora più drammatiche rispetto al modo in cui se lo poneva Wittgenstein quando parlava dell’incontro e del confronto tra i diversi “giochi linguistici”. La ragione di ciò ha radici assai più profonde di quanto non si sia in genere soliti immaginare. Il nostro presente, rispetto alla concettualità che ha dominato la riflessione filosofica nel corso dell’età moderna, è segnato da una sorta di transito dal campo semantico della Weltgeschichte, della storia universale – categoria che, nel suo conio kantiano e nel successivo svolgimento hegeliano, si presenta sostanzialmente eurocentrica (mentre nell’affresco morfologico delle civiltà di Spengler e nel pensiero della crisi fra le due guerre riceve il suo contrassegno dalla coppia Kultur-Zivilisation) – al campo semantico di quella che io chiamo “modernità-mondo”. Si tratta, è bene avvertire subito, di un campo ancora vago e incerto, che – malgrado alcuni encomiabili sforzi (da Blumenberg, a Koselleck, allo stesso Habermas) – attende di tradursi in una vera e propria costellazione concettuale. Per questo, nell’adottare la categoria di World-Modernity, intendo tracciare una netta linea di demarca60

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zione rispetto alle letture in chiave postmoderna del complesso di fenomeni che siamo soliti raccogliere sotto il lemma ubiquitario di “globalizzazione”. La cosiddetta globalizzazione, infatti, non è a mio avviso un evento postmoderno, ma una nuova fase della modernità che è ormai fuoriuscita dall’alveo originario dell’Europa e dell’Occidente e investe altre aree geoculturali. Prima di affrontare alcuni dei principali nodi problematici implicati dalla nuova fase, vorrei adesso operare una sorta di flashback, individuando alcune traiettorie della ricerca filosofica italiana (parlo di traiettorie perché non si tratta tanto di imprese filosofiche individuali o di scuola, ma piuttosto di tendenze filosofiche internamente assai variegate e riconoscibili soltanto per certe analogie o “somiglianze di famiglia”) che nell’ultimo mezzo secolo hanno fornito, in modo diretto o indiretto, un’utile “cassetta degli attrezzi” (insisto, come vedete, nel ricorso a metafore wittgensteiniane…) per venire a capo degli odierni problemi della società multiculturale. Si tratterà – tengo ad avvertire – di un’elencazione non solo rapida e sintetica ma oltremodo sommaria e deliberatamente circoscritta al tema della mia relazione. Non toccherò dunque, se non tangenzialmente, il pur rilevantissimo settore delle ricerche logiche ed epistemologiche, per limitarmi ai contributi che investono – in modi e gradi differenti – la complessa gamma dei rapporti tra filosofia e scienze umane. Nel distinguere alcuni assi o vettori (pur consapevole che essi si trovano spesso reciprocamente implicati, dando luogo a convergenze o a divergenze sfocianti in alcuni casi in aperta polemica come Agazzi ricordava, all’interno dei congressi), eviterò di riprodurre la mappa delle “città filosofiche” consegnataci da alcune recenti ricognizioni, privilegiando i nuclei concettuali e gli indirizzi tematici in grado di gettar luce sul nostro presente. Diversi sono gli aspetti sui quali la filosofia italiana ha prodotto contributi vitali e originali. Dal tema della normatività giuridico-politica, con Norberto Bobbio e la sua scuola (a partire da Michelangelo Bovero e Pier Paolo Portinaro) a quelli della razionalità e dell’empirismo laico, con allievi di Nicola Abbagnano come Pietro Rossi (attraverso una ripresa dello storicismo tedesco incentrata su una reinterpretazione e ricontestualizzazione critica complessiva dell’opera di Max Weber) e Carlo Augusto Viano (attraverso una rilettura radicale dell’opera di John Locke e del lascito empiristico della modernità). Dalla ripresa dei motivi più squisitamente etico-politici dello storicismo italiano ed europeo operata, a partire da Pietro Piovani, dalla scuola napoletana di Biagio de Giovanni e Fulvio Tessitore (e portata avanti, fra gli altri, da studiosi come Giuseppe Cacciatore, Giuseppe Cantillo e Roberto Racinaro) al rilancio della “filosofia pratica” da parte della scuola padovana di Enrico Berti e Franco Volpi. Dalla riflessione critica sul “mito del progresso” svolta, sulla scorta della “filosofia del dialogo” di Guido Calogero, da Gennaro Sasso alla filosofia della 61

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democrazia elaborata, attraverso un serrato confronto con il neocontrattualismo di John Rawls, da Salvatore Veca. Dalla ricostruzione critico-genealogica della tradizione umanistica e scientifica operata dalla scuola fiorentina di Eugenio Garin e Paolo Rossi (e da allievi come Michele Ciliberto e Stefano Poggi) alla ricognizione del “lessico intellettuale europeo” condotta da Tullio Gregory e dal gruppo dei suoi più stretti collaboratori (a partire da Marta Fattori). Dai temi dell’esperienza e della soggettività, sviluppati originalmente, sulla scia della scuola fenomenologica milanese di Enzo Paci, da Carlo Sini e Pier Aldo Rovatti, e, nella prospettiva di un ampliamento del campo dell’estetica, da Emilio Garroni (e dai suoi allievi e prosecutori Paolo D’Angelo, Giuseppe Di Giacomo e Pietro Montani) ai temi della tolleranza, del dissenso e dello statuto multiplo della razionalità messi a fuoco – lungo la linea d’ombra tra scienza, metafisica e politica – da due studiosi provenienti dalla scuola di Ludovico Geymonat come Giulio Giorello e Silvano Tagliagambe. Dagli originali sviluppi della semiotica, prodotti dall’opera di Umberto Eco (e proseguiti da Paolo Fabbri), ai motivi della “società dei simulacri” e della critica della comunicazione, al centro della riflessione di Mario Perniola. Dal tema del “pensiero debole”, portato avanti da Gianni Vattimo nella direzione di un’“ontologia dell’attualità” e da Maurizio Ferraris nella prospettiva di un’ontologia degli oggetti e della “documentalità”, ai temi del “tragico” e del “mistico”, rappresentati con particolare intensità dalle elaborazioni di Gianni Carchia e Sergio Givone (sulla scorta di Luigi Pareyson) e di Massimo Cacciari. Dalle tematiche dell’ermeneutica e del nichilismo, rivisitate con rigore critico, oltre che da Franco Volpi, da Valerio Verra, Franco Bianco ed Elio Matassi, al nesso di modernità e secolarizzazione, al centro dei contributi di pensatori cattolici come Augusto del Noce e Pietro Prini, al rapporto di filosofia e teologia, messo a fuoco negli ultimi anni dai lavori di Vincenzo Vitiello e dello stesso Cacciari. Dalla rilettura filosofica di Marx operata, in termini spesso antagonistici, da Cesare Luporini e, sulla scia di Galvano Della Volpe, da Nicolao Merker e (prima della svolta del 1974) da Lucio Colletti alle versioni operaiste di Mario Tronti e Antonio Negri. Dalla filosofia della differenza, inaugurata in Italia da Carla Lonzi e poi proseguita con accentuazioni diverse da Luisa Muraro (sulla scorta di Luce Irigaray), Adriana Cavarero (a partire da una critica del “logocentrismo” platonico), Francesca Brezzi (in dialogo con l’opera di Paul Ricoeur), Angela Ales Bello (in chiave fenomenologica) e Elena Pulcini (tramite la ripresa delle tematiche anitiutilitaristiche del “dono” e della “comunità”) ai temi della sovranità e del biopotere, elaborati da Giorgio Agamben e Roberto Esposito. Dai temi (classici e moderni) dell’identità e del rapporto ragionepassioni, al centro dei lavori di Remo Bodei, Aldo G. Gargani e Umberto Curi, al rilancio della questione della verità, in chiave antinichilistica, nel pensiero 62

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di Emanuele Severino e, in chiave antirelativistica, negli sviluppi recenti di un filosofo analitico del linguaggio come Diego Marconi. Si tratta – è bene ripeterlo – di una mappa tutt’altro che esaustiva. Ma, malgrado la sua sommarietà, sufficiente a segnalare una ricchezza di linee di pensiero che, oltre ad aver ben poco da invidiare alla situazione in cui la filosofia si presenta nei principali Paesi dell’Occidente, possiede una straordinaria (anche se per molti versi inespressa) capacità d’incidere sulla scena internazionale. Vengo, dunque, rapidamente alla parte propositiva. Il nostro tempo, come dicevo, appare contrassegnato dal passaggio dal campo semantico della Weltgeschichte alla World-Modernity: dalla storia universale alla modernità-mondo. Due aspetti emergono da questo passaggio: in primo luogo la filosofia, nel contesto della Babele globale, si pone come la vera e propria carta d’identità dell’Occidente. Il problema è quello del rapporto tra l’Occidente e le altre grandi civiltà del pianeta, che non hanno come forma privilegiata di autocomprensione uno stile di pensiero diverso da quello del dialegesthai filosofico. Di qui il significato che è venuta ad assumere negli ultimi anni l’esigenza di una riflessione critica radicale sul retaggio etnocentrico del logos occidentale, con la conseguente proiezione dei concetti e degli strumenti mutuati dalla nostra tradizione sui nuovi scenari del mondo globalizzato. È venuta così sempre più affermandosi la consapevolezza delle difficoltà di comprendere un presente non più afferrabile non solo entro gli schemi della filosofia della storia, ma all’interno degli stessi paradigmi “comparatistici” approntati dalle scienze sociali. Lo spazio globale si presenta, infatti, allo sguardo odierno come un “campo di dissonanze”, non riconducibile né alle unilaterali chiavi di lettura di Fukuyama, della globalizzazione come omologazione mercantile o (secondo quanto sostiene, con un segno valutativo diametralmente rovesciato, Latouche) come “occidentalizzazione del mondo”, né tantomeno alla diagnosi del clash of civilizations, dello “scontro di civiltà”, di Huntington. Mi riallaccio così a quanto accennavo all’inizio del mio discorso: vano sarebbe tentare di “portare al concetto” il nostro presente globale sotto il presupposto “mono-logico” di una reductio ad Unum. La sua struttura appare piuttosto improntata a una bi-logica: in virtù della quale all’uniformazione tecnologico-mercantile fa riscontro una differenziazione e diaspora crescente delle identità, o – per essere più precisi – dei processi di identificazione simbolica. Qualcosa di analogo è stato osservato, sotto il profilo più strettamente sociologico, da Manuel Castells, il noto teorico della globalizzazione come avvento della “società in rete”. Nel secondo volume della sua ambiziosa opera The Information Age – significativamente intitolato The Power of Identity – Castells ha affermato: “Il nostro mondo e le nostre vite sono soggetti all’azione plasmante di due forze in contrasto tra loro: 63

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globalizzazione e identità”. Affermazione largamente condivisibile. Ma a patto di andare oltre i confini di una considerazione sociologica: ravvisabile nella giustapposizione di uno schema idealtipico alla multiforme raccolta dei dati empirici presi in esame. Non si giunge al cuore del problema rappresentato dalle nuove dinamiche dell’età globale, se ci si limita ad inquadrare i (pur ricchissimi) contenuti analitici in definizioni generali-astratte dell’identità come «processo di costruzione di significato fondato su un attributo culturale, o su una serie di attributi culturali in relazione fra loro, che assume un’importanza prioritaria rispetto ad altre fonti di senso». L’elemento che sfugge a un tale procedimento metodologico è proprio la specificità in cui si presenta la questione dell’identità – lo “strano affare” dell’identità, per riprendere la battuta di un grande cineasta filosofico come David Lynch – nell’odierno pluriverso globalizzato. Solo una concettualità filosofica è in grado di afferrare il nucleo politico incapsulato nella simbolica identitaria. L’identità è divenuta posta in gioco politica e spazio di conflitto nell’era di una tecno-scienza che permea di sé molecolarmente le forme di vita. Globalizzazione e identità non rappresentano una semplice opposizione, come presume Castells, ma piuttosto due lati di una stessa medaglia. La loro relazione è a un tempo contrastiva e interfacciale. Per questo, la proliferazione di “potenti espressioni di identità collettiva” (Castells) di molteplice natura non è una forma di resistenza esercitata dal passato e dalle forze inerziali della tradizione, quanto piuttosto un effetto indotto dagli stessi processi tecnoeconomici di mondializzazione. La reificazione dell’identità, fino agli estremi del feticismo identitario e dell’invenzione della tradizione (con un ritorno dei correlati miti dell’Origine e dell’Autenticità), dipende per via diretta dalla rimozione dell’identità operata dalla globalizzazione. Il mercato globale non universalizza le forme di vita: non produce identificazione simbolica unitaria ma solo proliferazione di immaginari identitari idiosincratici violenti e diasporici (nella doppia versione dei localismi etno-politici e dei fondamentalismi religiosi). La domanda essenziale è allora a questo punto: quale futuro può avere ancora l’universalismo? Nel porre la questione, lascio impregiudicato se si tratti di universalismo di matrice aristotelica (secondo una linea rappresentata da Martha Nussbaum e, per taluni aspetti, dallo stesso Amartya Sen) o di ispirazione kantiana (secondo le prospettive pragmatico-trascendentali delineate da Apel e Habermas). Qualunque idea di cosmopolitismo si adotti, occorre comunque prendere atto della crisi irreversibile dell’universalismo identitario della modernità, che fornisce seri argomenti al pensiero della differenza. Ma, al tempo stesso, dobbiamo essere consapevoli dei rischi che comporta con sé il suo contraltare: quell’antiuniversalismo delle differenze, di cui è epifenomeno l’abuso del concetto di cultura e la proliferazione del lessico “culturalista”. L’u64

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niversale, ad onta del suo etimo, può essere salvato e rilanciato solo se sganciato dalla logica identitaria e riportato al principio costruttivo della differenza: intesa non come topos o spazio plurale (secondo un refrain caro alle derive ideologiche del multiculturalismo), ma come cono prospettico che attraversa a un tempo conflittualmente e costitutivamente ogni condensazione identitaria. L’aporeticità delle due alternative teoriche ha il suo fedele corrispettivo nell’impraticabilità delle due strade politiche che ad esse si ispirano. Discende di qui l’enorme carico di responsabilità che grava sulla filosofia in questa fase di interregno tra il non-più del vecchio ordine inter(stato)nazionale e il nonancora di un nuovo ordine “post-leviatanico” e cosmopolitico che ancora stenta a delinearsi. Assistiamo oggi al fallimento dei due modelli dominanti di inclusione democratica: il modello assimilazionista repubblicano di tipo francese (il modello-République) e il modello multiculturalista “forte” o “a mosaico” (il modello-Londonistan). Il primo modello è in crisi perché rischia di assumere il popolo come un soggetto omogeneo, laddove esso è oggi sempre più eterogeneo: nel suo universalismo neutro della cittadinanza, non ammette che nella sfera pubblica si rappresentino differenze diverse da quelle individuali. La rivolta delle banlieues francesi è stata, da questo punto di vista, non una battaglia per il lavoro o per il salario ma una ribellione contro la dequalificazione e banalizzazione dei luoghi e, al tempo stesso, contro la maschera di neutralità indossata dallo Stato laico, con i suoi rituali di omologazione dello spazio pubblico. Il secondo modello incorre invece in un rischio opposto e speculare: quello di fare della sfera pubblica un’istanza di “autorappresentazione” di differenze assunte come identità omogenee, che stanno le une accanto alle altre come monadi senza porte né finestre. Un modello del genere, a dispetto del termine, non è affatto multi-culturalista, ma è piuttosto un “monoculturalismo plurale” (secondo la felice definizione di Amartya Sen) o, come io preferisco dire, un mosaico di monoculture. L’esito disastroso cui può condurci è quello di scambiare il diritto alla differenza per una differenza nel diritto: con una effrazione di quella conquista della modernità che è rappresentata dall’universalità e dalla certezza del diritto. Affondano qui le radici le proposte di diversificazione dell’amministrazione della giustizia a seconda delle diverse tradizioni etico-culturali e di articolazione (in realtà frammentazione) del sistema scolastico secondo le diverse confessioni religiose. Su questo punto l’impegno pubblico della filosofia deve essere inflessibile e decisamente schierato a favore di una scuola pubblica in cui le diverse confessioni religiose e tradizioni culturali si incontrino, opponendosi alla frammentazione in scuola ebraica, cattolica, islamica, e magari, domani, buddista. Dobbiamo essere consapevoli che una tale frammentazione costituisce il terreno di coltura più propizio per l’insorgere dei fondamentalismi. 65

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Quale via d’uscita, allora, al dilemma tra assimilazionismo repubblicano e multiculturalismo a mosaico? Oggi è necessario ripensare l’universalismo in rapporto a Roma piuttosto che ad Atene. Nel senso della civitas, anziché della polis e dello Stato moderno. Nel senso di uno spazio giuridico-politico suscettibile di accogliere in sé una pluralità di nationes, di gentes, anziché di un’identità sostanziale poggiante sul presupposto della syn-geneia, della omogeneità etnoculturale e linguistica del demos o della nazione. Quello stesso spazio universale-plurale che permise a Paolo di Tarso di affermare civis romanus sum. Quello stesso spazio che, nei miei lavori degli ultimi anni, ho compendiato nella formula “universalismo della differenza”. Una formula deliberatamente ossimorica che intende rispondere ai rischi globali e alla pandemia del conflitto identitario proiettandosi al di là dei dilemmi tra repubblicanesimo e multiculturalismo e tra individualismo competitivo “occidentale” e comunitarismo gerarchico “orientale”. In questo difficile e appassionante tempo di passaggi alla filosofia spetta, dunque, un compito per molti versi congeniale ai diversi percorsi della tradizione italiana. Un compito di traduzione interculturale che parta dall’idea che non si danno identità sostanziali, ma sempre identità relazionali e contingenti: che ogni identità è in partenza, e non alla fine, ibridata, e che di conseguenza dobbiamo reimpostare il modello del dialegein filosofico – del dialogo non come armonico accordo ma come partizione e polarizzazione conflittuale del logos – perché si faccia carico di un mondo che, proprio in quanto sempre più ibridato ed interdipendente, proprio in quanto segnato da un processo di universale sradicamento, è attraversato da terribili conflitti riconducibili all’ossessione dell’identità. Filosofia come politica della traduzione. Traduzione come progetto politico. Con questa doppia formula programmatica devo terminare il mio discorso nel momento in cui si apre a un problema nuovo. Ma, come sapete, in filosofia non si danno mai conclusioni ma solo e sempre soglie.

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La filosofia italiana in Europa1

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Gereon Wolters*

“Warum ausgerechnet ich?” – “Why me?” – “Pourquoi moi?” – “Perché io?” – questo si chiedono le persone quando vengono toccate da qualcosa di completamente inaspettato, si tratti del primo premio nel Superenalotto oppure di un incidente, in cui magari ci si rompe il naso. “Perché io?” – questo mi sono chiesto anch’io, quando, inattesa ma estremamente gradita, mi è arrivata la proposta di parlare qui, in occasione del Centenario della venerabile Società Filosofica Italiana. Essere invitato a intervenire qui da una parte è senz’altro un grande onore e certamente non meritato da parte mia; insomma, essere invitato qui è qualcosa che rientra senz’altro nella categoria di una vincita al Superenalotto. Ma dall’altra parte l’argomento “La filosofia italiana in Europa” porta con sé dei rischi incalcolabili, che potrebbero farmi rompere il naso2. A dire il vero, l’argomento “La filosofia italiana in Europa” è il tema più difficile per non dire delicato che ho mai dovuto trattare. Non sono un conoscitore intimo della filosofia italiana e non so nemmeno bene come intendere la parte “in Europa” contenuta nel titolo. Devo parlare su dove e come suona la filosofia italiana nel concerto filosofico europeo? Oppure vi aspettate che io vi racconti com’è vista e valutata la filosofia italiana in altri Paesi europei? Devo ammettere fin dall’inizio che rispetto a entrambe le domande “europee”, sia quella analitica, sia quella valutativa, sono ancora più incompetente che rispetto alla stessa filosofia italiana. “Perché io?” quindi. Finalmente ho trovato una risposta, rintracciandola, per fortuna, negli anni stessi in cui cominciò a prendere forma la S.F.I. Giuseppe Prezzolini, autore di reputazione non indiscussa e personaggio importante * Università

di Costanza.

1 Ringrazio di cuore Emidio Spinelli (“Sapienza” Università di Roma) per aver trasformato il mio stentato italiano in un testo leggibile. Ulteriori modifiche del testo presentato al Centenario sono state apportate durante un soggiorno presso lo Helsinki Collegium for Advanced Studies nell’autunno 2009. 2 E in effetti mi è stato proprio rotto il naso, in Liguria nel 2005, ma non da parte di un filosofo ma di uno squilibrato.

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dell’ambiente culturale in cui nacque la S.F.I.3, scrive nel suo Diario 19001941: «28 gennaio 1915, Roma Leggo con soddisfazione in “Frankfurter Zeitung” del 26 corrente un giudizio sui provvedimenti per il terremoto d’Avezzano, che coincide perfettamente con il mio. Questi Tedeschi conoscono gl’Italiani meglio che gli Italiani conoscan i Tedeschi e se stessi». Con questa risposta molto lusinghiera alla domanda “perché io?” voglio adesso mettermi al lavoro. Ma in che cosa Prezzolini si vedeva così d’accordo con coloro che chiama “i tedeschi”? Sentiamolo, o meglio sentiamo che cosa ci dice il “Frankfurter” sul terremoto d’Avezzano: La mobilitazione dell’amministrazione civile è fallita, indubbiamente, e della mobilitazione totale dell’esercito si è fatto poco costrutto. Ognuno, singolarmente, ha fatto meraviglie, mettendo in piena luce lo slancio, la capacità di sacrificio e l’amore per il prossimo di cui il popolo italiano è capace. Peccato che fra il lavoro di molte persone non corresse quel filo, quell’unione che dà al lavoro umano la forza di una leva, e che si chiama organizzazione4.

Si riconosce qui subito il solito modo teutonico un po’ accondiscendente, con cui si occupano molti tedeschi delle vicende italiche ed io non voglio seguire le orme di “Frankfurter” e di Prezzolini e lamentarmi in un tal modo della filosofia e dei filosofi italiani. Nessuna parola quindi sul finanziamento assolutamente insufficiente del sistema universitario e scolastico in generale e della filosofia in particolare – questo vale del resto anche in altri Paesi europei, la Germania purtroppo per forza inclusa; nessuna critica inoltre del premoderno sistema clientelare del reclutamento delle nuove leve accademiche, né sul “meticciato” tra politica e filosofia (e magari anche con la Chiesa Cattolica) in tempi recenti, che ha di nuovo confutato l’idea di Platone dei re filosofi (i 3 Cfr. l’articolo pregevole di Mario Quaranta, La presenza della S.F.I. nella cultura italiana del Novecento, «Bollettino della Società Filosofica Italiana», n.s. 130, gennaio-aprile, 1987, pp. 5-35, p. 7. 4 Il testo tedesco citato da Prezzolini è il seguente: «Die Mobilisation der Zivilverwaltung hat versagt, darüber ist kein Zweifel, und die fertige Mobilisation des Heeres wurde nur unvollkommen in Anspruch genommen. Leistungen von einzelnen waren bewundernswert und zeigten den Schwung, die Opferfreudigkeit und die Nächstensliebe [!], denen das italienische Wolk [!] fähig, in schönstem Lichte; fehlten aber, dass man zwischen der Arbeit mehrerer // Personen jenen verbindenden Faden säh [!], welcher der menschlichen Arbeit Hebelgewalt gibt, und welchen man Organisation nennt, bis wir genötigt sein werden, dafür einen deutschen Ausdruck zu setzen» (“Frankfurter Zeitung”, 26 gennaio). La versione italiana è contenuta in Diario 1900-1941, Milano, Rusconi, 1978, p. 151 e ss.

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lacchè filosofi inclusi) e ha di nuovo dimostrato che l’impegno politico del filosofo rovina la filosofia e non migliora la politica. Secondo me i filosofi al massimo sono adatti a ricoprire il ruolo di re-fantocci. Nessuna critica anche rispetto al fatto che secondo stime ragionate intorno al 20% dei 1190 ordinari, associati e ricercatori degli otto settori disciplinari filosofici che si contano negli atenei italiani, vale a dire più di 200 filosofi universitari italiani, negli ultimi cinque anni non ha scritto nulla o meno di venti pagine, pubblicate inoltre in luoghi senza alcun prestigio accademico, senza potersi giustificare al riguardo con impegni amministrativi e organizzativi che non lasciano più spazio alla ricerca. Alcuni di loro non si sono nemmeno dedicati alla didattica, vale a dire che non hanno fatto nulla, senza rinunciare però allo stipendio. Invece di continuare così e seguire le orme di Prezzolini, vorrei piuttosto far notare alcuni lati unici ed effettivamente degni di ammirazione della filosofia italiana. In prima istanza vorrei dirigere la vostra attenzione sullo stesso argomento del mio intervento: “La filosofia italiana in Europa”. Mi sono chiesto in quale Paese europeo ci si sarebbe posti una tale domanda. In Francia? Mi sembra di no. Ai nostri amici francesi non è mai importato niente di quello che il resto del mondo possa pensare di loro. Sembrano decisamente bastare a se stessi. Lo stesso vale per gli inglesi. Immaginatevi in un giubileo ad esempio della Aristotelian Society l’argomento “British Philosophy in a European Context” – unthinkable! Quanto ai tedeschi, non lo so. Per spiegarmi meglio devo cominciare da lontano. Un centenario di una società filosofica tedesca non si è ancora potuto celebrare. Certo, nel settembre del 1847 si teneva a Gotha la prima Philosophenversammlung tedesca. E il suo iniziatore, Immanuel Hermann Fichte, figlio di Johann Gottlieb, aveva già lanciato l’idea di una società filosofica tedesca; ma poi non se ne fece nulla. Solo nel 1917 fu fondata la Deutsche Philosophische Gesellschaft. I principali fautori furono Bruno Bauch e Max Wundt, che troviamo una quindicina di anni dopo tra i filosofi più nazisti del Paese. Il comportamento della Gesellschaft durante il nazismo fu tale che dopo il suo crollo non si poteva certo pensare di tenerla in piedi. Così venne fondata nel 1950 la nuova Allgemeine Gesellschaft für Philosophie. È forse significativo dell’atteggiamento storico dei filosofi tedeschi che quattro anni fa ci si è dimenticati del tutto del suo cinquantesimo compleanno. Questa significativa dimenticanza ci impedisce di sapere se e fino a che punto essi si sarebbero occupati della “filosofia tedesca in Europa”. Credo però che anche in occasione di un centenario della Allgemeine Gesellschaft quest’argomento non sarebbe spuntato fuori. Perché? Parlando della risposta a questa domanda sono arrivato al primo punto vero di questo intervento. Sono convinto che la filosofia italiana giochi un ruolo speciale nel concerto delle filosofie europee. Per mancanza di conoscenze non 69

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posso giudicare se questo ruolo è veramente unico, ma esso differenzia certamente la filosofia italiana dalle filosofie nei Paesi nordici e soprattutto dalla filosofia anglofona, ma anche da quella tedesca. Per spiegarmi meglio devo partire di nuovo un po’ da lontano. Prendendo spunto dal campo della logica e dell’epistemologia è cominciato nell’ultimo quarto dell’Ottocento ciò che si può chiamare la “professionalizzazione” della filosofia. Per l’Italia si possono fare qui ad esempio i nomi di Peano ed Enriques, quest’ultimo coinvolto nella fondazione della S.F.I. “Professionalizzazione” significa soprattutto specializzazione. Nel mondo filosofico professionalizzato non si pensa più a costruire sistemi complessivi del sapere filosofico, sistemi che sono intesi al tempo stesso come contributi importanti alla cultura in generale. La filosofia nella prospettiva professionalizzata viene guardata e trattata come una disciplina scientifica qualsiasi. La svolta professionale della filosofia certamente ha il vantaggio di condurre a un trattamento più approfondito delle sue materie. A questo vantaggio però corrisponde lo svantaggio di una perdita d’importanza della filosofia nel contesto delle rispettive culture nazionali. Questa perdita culturale proporzionale alla professionalizzazione mi sembra più netta negli USA e nei Paesi anglofoni e in quelli scandinavi, in un certo senso anglofoni anche loro. La filosofia tedesca si trova, a mio modo di vedere, nel mezzo di una scala con alla base gli USA e che finisce con i Paesi mediterranei europei, tra loro in primis l’Italia. In Italia la filosofia e i filosofi fanno parte della vita culturale nazionale in modo molto visibile, però – ahimé! – anche della politica. Negli USA non vedo quasi nessun filosofo in posizioni politiche rilevanti e sui giornali statunitensi l’opinione dei filosofi conta poco o niente. Nemmeno il “New York Times” dà grande spazio alla filosofia: secondo la mia stima personale si arriva al massimo intorno a un decimo dello spazio concesso da quotidiani come il “Corriere della Sera” o “la Repubblica”. Non è del resto un caso che la filosofia italiana abbia un tale peso culturale. L’Italia è uno dei pochi Paesi europei dove c’è un insegnamento obbligatorio della filosofia almeno in tre tipi di liceo o forse anche e addirittura in quasi tutti i futuri nuovi licei così come ridisegnati dalla recente proposta di riforma. Vorrei notare che a questo punto un vero conoscitore della vita filosofica italiana dovrebbe parlare a lungo del ruolo importantissimo della filosofia nelle scuole italiane e del lavoro ammirevole svolto dai docenti di liceo. Una vera e propria armata di circa 11.500 cattedre di filosofia combatte giorno per giorno in prima linea, affinché la singolare demenza dei media italiani non prenda completamente possesso delle teste dei giovani. È proprio grazie all’insegnamento della filosofia nei licei che il popolo italiano mi sembra, per così dire, il popolo più filosofico d’Europa. Ne ho trovato conferme dappertutto: una 70

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particolarmente sorprendente merita di essere menzionata. Nello scorso agosto, durante le vacanze estive, ho avuto il piacere di leggere le Memorie di un assaggiatore di vini di Daniele Cernilli5, re incoronato degli assaggiatori italiani, laureato in filosofia pure lui. Di un produttore abruzzese famoso di nome Edoardo Valentini scrive:

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Lui è un vero maître à penser della vitienologia. Una volta, a un produttore che gli chiedeva quali fossero i suoi segreti, consigliò di leggere i Presocratici. Dopo due giorni quello lo richiamò furibondo, dicendogli che aveva letto tutta l’edizione tradotta dei frammenti di quei filosofi ma che di vino non c’era traccia. Ovviamente Edoardo intendeva alludere al fatto che si trattava di pensatori che avevano scritto dei trattati “sulla natura”, e che quindi avevano posto questa al centro della loro ricerca, come, secondo lui, avrebbe dovuto fare chiunque si volesse mettere a coltivare la vite e a produrre del vino6.

Non posso immaginarmi un produttore di vino americano o tedesco che sa chi sono i presocratici e ancora meno che raccomanda di leggerli per sapere come si fa un vino buono. Basandosi su questo e su tanti altri riscontri, si può ribadire ciò che ho già accennato: che gli italiani sono i più preparati per sentire e capire messaggi filosofici. A ciò si lega anche – questa è almeno la mia impressione – il fatto che i filosofi italiani statisticamente siano i più assuefatti alla pubblicità mediatica in Europa. Da osservatore estraneo ho anche l’impressione che la forza dello stimolo d’esibirsi nei media in alcuni casi sia inversamente proporzionale alla vera forza filosofica. Non mancano neanche i soliti atteggiamenti divistici, su alcuni dei quali posso testimoniare in prima persona. Intendiamoci bene, però: non voglio criticare tout court il legame stretto col gran pubblico. Anzi, mi sembra necessario per rafforzare il ruolo della filosofia come importante forza culturale nella società. Un’altra espressione ammirevole dell’inserimento profondo della filosofia nella vita culturale italiana mi sembrano i diversi festival più o meno filosofici, che di solito attraggono un grande pubblico. Nell’edizione de “la Repubblica” del 9 settembre 2006 ho trovato il programma di tre festival di questo genere: nella prima parte della scorsa estate, a Roma, ho potuto sperimentare in prima persona la partecipazione a uno di questi eventi e so bene che ce ne sono altri ancora. Con tali festival la filosofia italiana si è creata un mezzo splendido per parlare a un grande pubblico non filosofico, che però ha un grande interesse per le domande filosofiche. Certo, a volte si ha l’impressione che il tema cen5 6

D. Cernilli, Memorie di un assaggiatore di vini, Torino, Einaudi, 2006. Ivi, p. 92.

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trale della filosofia sia soprattutto come si mangia e beve bene. E non mi ha stupito, quando nella preparazione di questo intervento, consultando da Google la voce “italian philosophy”, è spuntato fuori il sito www.italianphilosophy. it dove si legge: “Benvenuti in Italian Philosophy, il primo circuito italiano di enogastronomia regionale”, seguito subito dalla domanda indubbiamente essenziale “Dove andiamo a mangiare?”. Ma nonostante questa enfasi a mio avviso un po’ paradossale su che cosa sia la filosofia, non sembra possibile sminuire il grande valore di tali manifestazioni. La presenza e la forza culturale nazionale della filosofia italiana ha, però, un prezzo caro – e con ciò sono arrivato al secondo punto del mio intervento, che non fa riferimento a una grande virtù della filosofia italiana nel concerto delle filosofie europee, ma che concerne un problema che hanno in un modo o nell’altro anche le altre filosofie europee non anglofone. Il grande impegno culturale della filosofia italiana diminuisce la sua visibilità internazionale, perché va spesso a scapito della professionalità, di cui ho parlato prima. In questo contesto si apre un dilemma, da cui, purtroppo, non vedo una via d’uscita: la forza culturale di una tradizione nazionale è legata al mezzo della lingua nazionale, mentre la professionalità filosofica richiede una tribuna internazionale con una lingua franca, che senza dubbio è oggi l’inglese. Sono abbastanza pochi i filosofi italiani ed altri filosofi non anglofoni che sanno muoversi in entrambi gli ambienti. La visibilità internazionale delle filosofie non anglofone è bassa, se non addirittura inesistente. Secondo le mie stime meno del 5% dei filosofi tedeschi sono in grado di leggere un testo scritto nella lingua di Dante, e ancora molti meno lo fanno, di fatto, con i testi dei colleghi italiani. Ciò che vale per i filosofi tedeschi vale naturalmente anche per gli altri filosofi non italiani e ancora di più per i filosofi anglofoni. Scrivere in italiano, cioè, equivale a seppellire se stessi e le proprie idee a livello internazionale. Più o meno lo stesso vale per le altre lingue diverse dall’inglese, perfino per il francese, anche se i nostri amici francesi faticano ad ammetterlo. Si può senz’altro dire, dunque, che il contatto intellettuale tra le diverse filosofie europee oggi si svolge non direttamente, ma grazie alla mediazione dell’inglese, anche se ci sono delle traduzioni tedesche o francesi o in altre lingue dall’italiano e viceversa. Per i contatti fra le filosofie europee l’inglese fa per così dire da terzo… “comodo”! Un contatto diretto, nel senso che un numero degno di nota di filosofi stranieri si sforzi e si preoccupi di leggere testi italiani, è quasi inesistente; insomma: Italianus est, non legitur! Lo stesso vale a ruoli invertiti. L’unica eccezione mi sembra la filosofia antica, dove c’è – e non solo in Italia – un’ammirevole conoscenza delle lingue, anche quelle moderne, legato ad un interesse vero e profondo d’informarsi anche in lingue diverse dall’inglese. Ma devo aggiungere che in nessun altro Paese esistono così tante 72

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traduzioni di filosofi tedeschi quanto in Italia. Questo senz’altro è un segno distintivo dell’apertura mentale della filosofia italiana. Se mettiamo da parte gli happy few che sono in grado di scrivere direttamente e perfettamente in inglese (troviamo questi casi ad esempio nella logica e in altre discipline filosofiche più formali) e che non solo sono pronti a sottoporsi alla critica di referees internazionali, ma riescono anche a superarla positivamente, ciò significa che la presenza di un filosofo italiano a livello internazionale di regola dipende dalla traduzione delle sue opere in inglese. Questa situazione chiaramente non è soddisfacente. Sappiamo bene che non in ogni caso i libri tradotti in inglese lo meritano e che viceversa tanti libri che meriterebbero una traduzione di fatto non vengono tradotti. Così l’immagine internazionale della filosofia italiana e delle altre filosofie non anglofone è per una certa parte e in un certo senso lasciata al caso. Anche se questa situazione non può essere considerata soddisfacente, non voglio lamentarmi del ruolo dell’inglese. Anzi, una lingua franca della filosofia è necessaria, e l’inglese per vari motivi è la lingua più adatta a questo scopo. Ma nonostante questo il ruolo dell’inglese conduce ad asimmetrie enormi. Una prima asimmetria è che noi europei non anglofoni dobbiamo scrivere in una lingua straniera, vale a dire in inglese, per farci capire e per essere presenti sul piano internazionale della nostra professione. Ma, come sappiamo bene, solo pochissimi di noi in discipline diverse dalla logica sono in grado di scrivere in inglese senza aver bisogno di correzioni da parte di un native speaker. Inoltre quasi nessuno è in grado di dare al suo inglese lo splendore stilistico che ha magari nella sua madrelingua, per non parlare delle fatiche e dei costi legati al reperimento di un editore anglofono e alla realizzazione di una buona traduzione. La conseguenza più immediata e negativa è che tanti italiani (e anche tedeschi ed altri) non pubblicano in inglese e così non sono presenti a livello internazionale, anche se hanno cose interessanti e persino importanti da dire. Inoltre ho potuto costatare in più occasioni che, anche se è presente con testi inglesi, un non anglofono molto difficilmente riesce a essere preso in considerazione da quei veri e propri “cartelli” di citazione esistenti nel mondo filosofico anglofono, soprattutto quello americano. Una seconda asimmetria è che in Italia e anche in altri Paesi europei non anglofoni c’è una ricezione ampia e secondo me un po’ sproporzionata della filosofia anglofona, soprattutto di quella americana. Questo si può dedurre dal numero enorme di traduzioni di opere filosofiche dall’inglese in italiano; e forse anche da una visita al sito dello S.W.I.F. – un’istituzione molto meritevole che nel frattempo purtroppo fu seguita da “Notizie Filosofiche” – dove vengono annunciate le visite estive nelle sedi universitarie italiane di filosofi soprattutto americani, non di rado anche di serie B. Dall’altra parte dell’At73

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lantico però non mi sembra che esista qualcosa di paragonabile per i filosofi italiani di serie A, anche se sanno esprimersi bene in inglese. Una terza asimmetria è forse ancora più importante. I temi attuali della filosofia europea vengono determinati dalla filosofia anglofona, in primis quella americana. Così troviamo in ogni angolo del nostro continente gli stessi argomenti, trattati nello stesso modo – una monocultura intellettuale di dimensioni enormi. Sul perché di tali asimmetrie fondamentali non ho una risposta, ma solo speculazioni che voglio risparmiarvi. Torniamo all’inizio. Perché dovevo parlare io della filosofia italiana in Europa? La mia risposta è: non lo so ancora. Spero però, anche se questo breve intervento non potrà vincere un premio, di non essere caduto nella trappola di Prezzolini e dunque di non dare l’impressione che io conosca i filosofi italiani meglio di quanto essi stessi si conoscano e che nessuno di voi si sia così annoiato da sentire il desiderio di rompermi il naso. In ogni caso: buon compleanno alla venerabile Società Filosofica Italiana e ad multos annos!

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La filosofia italiana al di là dell’Europa

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Angela Ales Bello*

Il compito che mi è stato assegnato è abbastanza arduo, ma è stato facilitato dalle relazioni precedenti, in particolare quella di Giacomo Marramao, che ha proposto una “terapia” di ciò che accade nel mondo. Io vorrei tornare alla “diagnosi” e fare una breve panoramica del ruolo svolto dalla filosofia italiana al di là dell’Europa, limitatamente alle mie conoscenze, perché ricostruire una mappa dettagliata della situazione internazionale è davvero complicato “per la limitatezza della vita umana e per la difficoltà del discorso”, usando un antico adagio. È difficile, infatti, avere a disposizione un materiale che è estremamente ampio, quindi ne posso parlare attraverso alcune esperienze personali. La difficoltà del tema risiede, inoltre, in una questione di fondo che è stata posta in questo convegno e che si potrebbe ulteriormente approfondire; essa riguarda che cosa sia la filosofia italiana. Per rispondere a questa domanda è necessario inserire la filosofia italiana nel contesto occidentale, europeo. Ne derivano, allora, altre questioni, come quella relativa al rapporto tra cultura occidentale e resto del mondo; infatti, quanto più ci si avvicina ad un fenomeno, in questo caso la filosofia italiana, tanto più esso risulta variegato. Quanto più ce ne allontaniamo, tanto più notiamo il suo inserimento in un contesto culturale occidentale, molto ampio ed apparentemente più unitario, che implica, però, la necessità di procedere alla definizione della nozione di “occidentale” e, pertanto, ad approfondire il rapporto con le altre culture1. Movendo da quest’ultima questione, vorrei iniziare riflettendo su quali siano gli elementi di distinzione della cultura occidentale dalle altre culture e civiltà. Dal punto di vista filosofico, il termine filosofia nelle altre culture assume una connotazione di tipo prevalentemente sapienziale, caratterizzata da categorie intellettuali e capacità conoscitive diverse da quelle strutturate nella nostra speculazione occidentale. A questo proposito è necessario, però, fare un’ulteriore distinzione, tra i vari continenti. * Pontificia

Università Lateranense.

1

Mi sono interessata di questo argomento nel mio libro Culture e religioni – Una lettura fenomenologica, Roma, Città Nuova, 1997 e lo ho riproposto nella seconda parte di The Divine in Husserl and Other Explorations, «Analecta Husserliana», vol. XCVIII, Dordrecht, Springer, 2008.

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Ad esempio, il continente australiano o quello americano sono da noi considerati continenti di cultura occidentale, mentre Asia ed Africa sono ritenuti più lontani, pur possedendo un’alta e peculiare capacità di elaborazione intellettuale. Sarebbe necessario, allora, muovere dall’analisi di ciò che accade in culture occidentali che, però, provengono da stratificazioni diverse e che hanno anche subito la presenza del mondo occidentale. Si dovrebbe passare attraverso l’analisi dell’arrivo della cultura occidentale nel continente americano ed australiano, che avevano basi culturali radicalmente diverse e che, invece, noi ora assimiliamo alla nostra cultura. L’opportunità di tali analisi può essere qui solo indicata ed essa implica che, movendo da ciò che è particolare, siamo sospinti verso questioni sempre più ampie. Si tratta di procedere dal basso verso l’alto e viceversa per poter comprendere tali fenomeni. Ma, per tornare alla questione di fondo, ci si può domandare: è possibile indicare una caratteristica peculiare della filosofia italiana? Me lo sono chiesto e le relazioni di ieri e oggi mi hanno ulteriormente sollecitato a riflettere su questo tema, sia in rapporto alla cultura occidentale europea sia ad altre culture, sulla base della mia esperienza. Dicevo che, vista da lontano, l’Europa è un territorio unitario, ma, se ci avviciniamo, notiamo le differenze fra le varie nazioni. Per quanto riguarda l’Italia, non si possono trascurare i legami con la tradizione francese, tedesca, anglosassone e un’originalità, nel senso di una non contaminazione, non è rintracciabile. Tuttavia, mi chiedo se esista un genius loci, una peculiarità della sensibilità italiana. Rispondo affermativamente e la rintraccerei nella grande esplosione culturale del Rinascimento, nella ripresa della tradizione antica e medievale, individuando due momenti fondamentali. Si può notare che è stato sempre presente nella cultura italiana un grande interesse per la dimensione storica, che si può poi articolare, come di fatto è stato, ed in modo originale (si pensi all’importanza internazionale del nome di Croce), in una visione filosofica storicista. In altre culture non si trova la stessa permanente attenzione nei confronti della prospettiva storica, mentre per noi è un fatto quasi scontato. Credo che, allora, questo elemento costituisca una sorta di “stile di indagine” che ci caratterizza. In secondo luogo, l’influenza della tradizione umanistica, proprio a partire dal Rinascimento, è tale che può concretizzarsi dal punto di vista filosofico certamente in forme di spiritualismo e di metafisica, ma, in ogni caso è sotteso a tutte le prospettive, anche in quelle apparentemente più rigorosamente scientifiche. E ciò determina la scarsa influenza del pensiero scientifico nella 76

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nostra cultura, nonostante la presenza di Galileo Galilei, ma forse proprio a causa della particolarità della sua posizione, strettamente connessa ad una prospettiva umanistica. Per avvalorare ciò, mi riferisco al tema della sofferenza, citato nell’ultima parte della relazione di Giacomo Marramao, che rivela un’attenzione per la dimensione umana, giustificabile sulla base di una tradizione umanistica che colora tutti gli atteggiamenti della nostra sensibilità. Ci si può chiedere a questo punto se questi atteggiamenti e le correnti di pensiero che ne derivano, presenti nella nostra filosofia si sono diffuse fuori dell’Europa. Ciò, certamente, non è accaduto in modo massiccio, ma solo occasionale rispetto alle elaborazioni teoriche degli altri Paesi europei. Notiamo, infatti, che le possibilità d’incontro sono legate a contingenze storiche: ad esempio importantissimo è stato il fenomeno del colonialismo. Questo perché, distinguendo i vari Paesi di cultura occidentale e il ruolo da loro svolto nell’espansione dell’Europa negli altri continenti, si osserva che tale espansione ha privilegiato la cultura di alcuni di essi. In questa direzione l’Italia ha sempre avuto una funzione marginale e la lingua italiana non si è diffusa. Certo, ci sono molti italiani all’estero, ma l’Italia e la sua filosofia sono poco presenti sia a livello europeo sia a livello internazionale. Nei Paesi di cultura occidentale, e qui mi riferisco soprattutto alle Americhe, di cui ho una maggiore esperienza, notiamo, sì, la conoscenza di alcuni pensatori o correnti filosofiche italiane, ma l’humus non è quello italiano: negli Stati Uniti è prevalso l’humus anglosassone e nell’America del Sud c’è stato un contatto maggiore con la cultura francese. Ad esempio, in Brasile si nota la presenza del positivismo francese, dell’ermeneutica e della fenomenologia francese e una scarsa conoscenza della filosofia italiana. Ho fatto una piccola indagine sui libri che sono tradotti o stampati direttamente nella lingua portoghese, attraverso le lezioni che professori italiani tengono nelle diverse università brasiliane. Ci sono nomi significativi di alcuni nostri filosofi: Abbagnano – nell’ambito della storia della filosofia – Bobbio, Gramsci, Sciacca, Croce, Vattimo, Carlini, Vanni Rovighi, Morra, De Santis, Molinaro, Reale, Antiseri, Bogliolo, Mondin, Fabro, Baldini, Bodei, Paolo Rossi, Eco, Momigliano. Alcuni di questi nomi appartengono alla cosiddetta filosofia o cultura laica, ed altri sono legati alla cosiddetta filosofia cattolica. Questo permette di costatare che la diffusione della filosofia nei Paesi extraeuropei di cultura occidentale avviene attraverso due canali. Il primo è costituito dai legami con le università statali ed anche gli interessi sono rivolti ad alcuni temi attuali come quelli di carattere politico (Bobbio), storico (Abbagnano), semiotico (Eco), 77

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al pensiero “debole” (Vattimo). Tuttavia, c’è un altro filone interessante e che riguarda anche l’ambiente italiano, rappresentato dalle università cattoliche o pontificie. Le istituzioni cattoliche sono molto diffuse nei Paesi extraeuropei ed i legami e le relazioni con l’Italia sono molto forti, anche più forti di quelli con le università statali. Esiste, pertanto, un settore della filosofia che è coltivato, o perlomeno, ascoltato. Si tratta di un ascolto di qualcosa che viene dall’Europa, e dall’Italia in particolare, che si vuole conoscere ed assimilare. La mia funzione in due istituzioni, una nella Pontificia Università Lateranense, l’altra nell’Istituto Mondiale di Fenomenologia, quindi, in due istituzioni molto diverse tra loro (la prima è un’istituzione confessionale, cattolica, la seconda è assolutamente laica) mi ha permesso di capire cosa succede a livello internazionale oltre l’Europa. Ho constatato che esiste l’influsso di un filone di filosofia cattolica che proviene proprio dall’Italia e, d’altra parte, esiste anche il filone della cosiddetta filosofia laica. Io stessa periodicamente tengo lezioni e conferenze sia nelle università statali sia in quelle cattoliche in Brasile. Il mio lavoro nell’ambito della fenomenologia a livello internazionale mi ha consentito di notare che un ruolo interessante è svolto, come evidenziava precedentemente Evandro Agazzi, dai congressi, che permettono un incontro al di là dei confini nazionali e che si organizzano nelle parti più disparate del mondo, dalla Turchia al Kenya, permettendo di cogliere ciò che accade nelle varie culture non occidentali e di stabilire incontri proficui. Attraverso entrambe le istituzioni cui appartengo, ho avuto l’occasione di contatti con alcuni Paesi extraeuropei abbastanza lontani, ad esempio, con l’India ed il Pakistan, realtà estremamente interessanti e complesse. Ho notato che ciò che le caratterizza fortemente sono le filosofie “sapienziali”, come ho già osservato, ma sussiste anche un notevole sforzo di assimilazione del pensiero occidentale, per il fatto che molti studiosi si sono formati nelle università europee. Noti sono i legami del Pakistan con le università inglesi: la vicinanza di questi Paesi all’Europa, come l’India e il Pakistan, passa, dunque, attraverso la filosofia anglosassone, ma anche attraverso l’esistenzialismo ed altre correnti di pensiero che noi non immagineremmo presenti in Asia. Nelle università giapponesi, ad esempio, gli studiosi conoscono Heidegger e la lingua tedesca, e ciò, appunto, per ragioni storiche risalenti alla seconda guerra mondiale. Si può costatare che chi, in questi Paesi, conosce la filosofia occidentale, dimostra grande interesse e disponibilità. E nei confronti della filosofia italiana? Singoli pensatori possono stabilire contatti e anche verso di essi si mostra grande apertura: ad esempio, ho tenuto una conferenza presso l’Università Islamica di Lahore, il cui testo è stato pubblicato sulla rivista dell’Università Statale di Lahore, legata alla cultura islamica. Questo dimostra un interesse verso la filosofia occidentale. 78

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Ho contatti, anche, con il mondo africano, che è molto variegato e ciò dipende dalla storia delle colonizzazioni e dalla diffusione delle lingue europee, come ho già osservato: ad esempio, attraverso i miei studenti dell’Università Lateranense – i quali, peraltro, provengono da tutto il mondo – ho notato una conoscenza delle filosofie delle nazioni europee che hanno esercitato la colonizzazione nei loro Paesi di provenienza, ad esempio, un’attenzione alla filosofia francese in Senegal (qui è presente uno straordinario interesse per Cartesio e per l’Illuminismo), mentre l’Empirismo inglese è conosciuto in Nigeria (Locke). Per le ragioni indicate si può osservare che la pluralità di prospettive e l’articolazione della filosofia italiana non è conosciuta nel resto del mondo come lo sono le correnti di pensiero di altri Paesi europei; tuttavia, si nota una grande disponibilità a stabilire relazioni culturali, cosa che potrebbe costituire un importante presupposto per far valere e per rendere sempre più forte, specie attraverso la promozione di incontri internazionali, la duplice impostazione che io vedo presente nella filosofia italiana, rivolta verso la tradizione storica e quella umanistica. Questo potrebbe essere l’apporto della filosofia italiana, utilissimo per elaborare insieme con altre culture, da noi lontane, le linee di fondo di un terreno comune, antropologico, per un verso, e storico, per un altro, che potrebbe costituire un momento importante di confronto e di coesione.

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Dibattito

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Domanda n. 1 Santo Arcoleo. Al primo relatore vorrei porgere un ringraziamento per il contributo dato alla ricostruzione della filosofia e vorrei ricordare come la filosofia francese da un certo punto di vista, cioè all’inizio del Novecento, sia la portatrice di un rinnovamento radicale e nella storia del pensiero e nella storia del processo matematico, cioè la filosofia francese che comincia con Brunswick, con la filosofia della matematica del 1898, è una filosofia che si apre a delle prospettive che poi verranno rinnovate da Cavalies, per esempio, o dallo stesso fratello di Simone Weil, che era un grande matematico. Vorrei ricordare anche la partecipazione francese al convegno di Napoli, della quale Jankélévic ci lascia sicure ed oggettive informazioni nel suo epistolario e soprattutto nel volume che raccoglie i rapporti tra lui ed il suo maestro, cioè Brunswick. Per quanto concerne la professionalizzazione della filosofia, vorrei solo dire che Nietzsche – tranne la parentesi dell’attività filologica – non era impegnato in università, Marx tanto meno. Abbiamo ora a disposizione la lettura dei manoscritti matematici di Marx che servono, se non altro, per approfondire per una via inedita un pensiero che rimane sempre di grande attualità. A Wolters vorrei solo dire che mi sembra un po’ pessimistica la sua previsione. Io vivo in Francia e posso dire che la Francia sta perseguendo una politica un po’ particolare: a parte l’organizzazione di un’associazione europea che si chiama Eurosophia, che si occupa di tutta la questione umanistico-filosofica, c’è nelle attività francesi un’associazione che si occupa delle filosofie di lingua francese che si rivolge non solo alle ex-colonie francesi, ma all’Europa orientale. Il terzo convegno che abbiamo tenuto a Parigi l’anno scorso riuniva giovani studenti e studiosi dalla Romania, dalla Bulgaria, dalla Russia. Il che significa che quando c’è un’attività che tende a rimarginare questo conflitto fra l’inglese e le altre lingue, si può anche sperare che nel futuro l’inglese non sia la lingua dominante. Vorrei, infine, ricordare che l’Istituto Italiano di Cultura di Parigi organizza, a partire da quest’anno, una serie di incontri anche in collegamento con il “Corriere della Sera” e l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano 81

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che hanno come oggetto le scienze cognitive, il che significa che finalmente un piccolo spazio per la cultura italiana l’abbiamo anche noi. Grazie. Risposta di Evandro Agazzi. D’accordo sulla professionalizzazione e sull’importanza della filosofia francese in quel momento. Vorrei semplicemente dire che la faccenda delle lingue è veramente decisiva. Condivido in pieno quello che è stato detto in questa occasione. Perché di fatto una lingua franca ci vuole. D’altra parte quelli che scrivono in inglese non sono molti. La metà della mia produzione è in inglese, per ragioni concrete, ma mi rendo conto che questo è un vero vassallaggio. Bisognerebbe esigere, come avveniva un tempo, che chi si laurea in filosofia conosca almeno una lingua straniera che non sia l’inglese. Io non assegnavo a nessuno una tesi di laurea se oltre all’inglese non conosceva almeno il tedesco o il francese. Invece ora la situazione è cambiata: sono reduce da un convegno organizzato a Genova sulla teoria della conoscenza in cui i giovanotti cattedratici non sono capaci di fare di più che citare americani su americani e basta, e parla uno come me che ha introdotto in Italia la filosofia analitica. Basta: bisogna obbligare a leggere. Questo è importante. Solo così si può ridare un po’ di circolazione anche alle altre lingue. C’è anche un modo per spezzare questo monopolio: in tutta l’America Latina, ad esempio, io mi rifiuto di non parlare spagnolo, cioè la seconda lingua del mondo dopo il cinese! Se non cominciano loro a parlare la propria lingua, se non smettono di scimmiottare un pessimo americano ed a tradurre dall’americano non se ne verrà mai fuori! Risposta di Gereon Wolters. Io sono d’accordo con Agazzi, ma direi che i tentativi in Francia di salvare il francese sono fallimentari e controproducenti. A livello internazionale ci vuole una sola lingua franca: la gente non ha il tempo di imparare molte lingue. Per questo, direi, concentriamoci sull’inglese. Certo, è una bella cosa che io qui parli l’italiano, ma è un’eccezione. La cosa normale dovrebbe essere saper parlare e scrivere bene in inglese e basta.

Domanda n. 2 Studente del Liceo scientifico statale “A. Righi”. Mi rivolgo a Evandro Agazzi. Da quel che ho capito, Lei crede che sia indice di crisi che ci siano ormai degli specialisti che non giungono alla soluzione, che Lei ha proposto, si sente la necessità di figure che siano in grado di rappresentare le conoscenze filosofiche in maniera generale o globale. Per cui, quanto que82

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ste figure generali possono o devono essere preparate? Credo che la specializzazione sia un approfondimento e che, dunque, aumenti con il tempo. Più si va avanti, più estese saranno le nostre conoscenze. Credo che, ormai, queste figure di conoscenza generale siano estremamente difficili da raggiungere. Per esempio, Lei si immagina un ospedale in cui vi sia, diciamo, una figura generale, che sappia riassumere nella propria conoscenza tutte le specializzazioni del campo medico: la chirurgia, la podologia, la ginecologia, ecc.? Concludo dicendo che, secondo me, maggiore specializzazione implica una maggiore conoscenza, ma allora, esiste veramente la crisi di cui Lei ha parlato nel suo intervento? Risposta di Evandro Agazzi. Io non ho parlato di crisi in questo senso. Ho preso nota dell’esistenza della specializzazione e del venir meno di queste “figure generali”. Lo stile del lavoro in filosofia, nelle scienze, in letteratura, nelle arti, e così via, viene assomigliando sempre più al lavoro industriale, in cui c’è la specializzazione e la complementarità. Quindi c’è un buon lavoro di serie, ed è una bella cosa: quindi c’è un “controllo di qualità”. Quando arrivano ad una rivista degli articoli che sono stesi male dal punto di vista del metodo, ecc., li si restituisce agli autori dicendo dove correggerli o perché non vanno bene. Mediamente, allora, la qualità cresce ma il peso filosofico è tutto un altro discorso. La produzione in serie non esclude che ci sia la produzione fuori serie. Che le personalità filosofiche di spicco possano, nonostante questo, esprimersi è importante ed è possibile. La questione non è quella del medico che deve sapere tutto. Non si tratta del filosofo presuntuoso che, senza avere alcuna competenza specifica crede di sapere tutto in tutti i campi, ma del filosofo che riesce a dare una visione generale, che è un’altra cosa. Allora qui ci vuole il medico generalista. La crisi della medicina contemporanea risiede in questa carenza di medici generalisti: tu hai un disturbo, vai dal cardiologo e quello ti dice che stai benissimo, vai dal gastroenterologo e ti dice che stai benissimo. Guarda caso, poi, muori dopo una settimana: avevi un cancro al polmone e nessuno l’aveva visto. Come nella medicina, ed in tutte le scienze, esiste la necessità di complementare la specializzazione con la visione generale, questo è tanto più vero in filosofia.

Domanda n. 3 Leonardo Dini. A Evandro Agazzi chiedo: Lei vede un ruolo teoretico originale nell’epistemologia contemporanea, rispetto alla filosofia italiana nel suo complesso? 83

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A Giacomo Marramao chiedo: si potrebbe allargare il concetto di civitas cui Lei accennava fino a parlare di polis, nel senso di polis greca? Vale a dire si può identificare nelle Nazioni Unite attuali e nelle future un’idea di polis universale che vada oltre questo concetto di civitas?

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Risposta di Evandro Agazzi. Non spetta a me dire se c’è un contributo della filosofia e della scienza italiana nell’orizzonte nazionale ed internazionale, a me che ho lavorato nella Filosofia della Scienza italiana ricevendo riconoscimenti internazionali. Solo questo elemento personale è già una testimonianza. Ci sono studi che prendono in considerazione la Filosofia della Scienza italiana. Per quanto riguarda la Logica, dopo un inizio post-bellico in cui ci si è messi un po’ al passo, sono cominciati anche in Italia i contributi significativi nel campo della Logica e della Filosofia della Scienza. Risposta di Giacomo Marramao. Io ho puntato a distinguere il modello della civitas dal modello della polis. Nel senso che la polis è comunque un modello fondato, come ho detto, sulla syn-geneia, sulla comunanza di genere, mentre la civitas include la possibilità di tenere insieme una pluralità di nationes e di gentes. La cosmopolis dell’era globale a mio parere è una prospettiva nobilissima ma lontana. L’idea della repubblica cosmopolitica di Kant è un’idea nobile ma, in qualche modo, asintotica. Io credo che sia molto più utile cominciare a pensare alla costruzione di sfere pubbliche a carattere macroregionale. L’Europa, ad esempio, è una di esse. Mi sembra una prospettiva molto più realistica che non quella dell’andare alla riproposta di un cosmopolitismo velleitario. Certamente c’è il problema di una riforma radicale dell’O.N.U., il problema di una reimpostazione della questione dei diritti umani in una chiave non etnocentrica, ma il cosmopolitismo in senso kantiano, a mio parere, deve passare per una serie di mediazioni, che coincidono con le pratiche di costruzione di forme di integrazione di forme pubbliche macroregionali; questa, almeno, è la direzione nella quale sta operando la migliore filosofia politica.

Domanda n. 4 Emidio Spinelli. Mi rivolgo a Giacomo Marramao, ringraziandolo, innanzitutto, perché ha esortato la filosofia all’inflessibilità di un obiettivo che, a mio parere, è davvero fondamentale per conseguire una forma reale di “universalismo delle 84

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differenze”, e cioè la necessità di una scuola pubblica ed unica, e non di ghetti separati e paralleli, che non si incontreranno mai, nemmeno all’infinito. La domanda è la seguente: questa terza e nuova via, tra il demos, la polis da una parte e lo spazio-nazione dall’altra, ha come modello la civitas molto più dell’impero che non della repubblica, credo, cioè il modello romano. Ma quel modello funzionava ed ha funzionato perché esisteva una fortissima autorità che imponeva una serie di cose. Dunque, nella sua proposta, che è quella dell’universalismo delle differenze, come si arriva poi a mediare fra queste differenze senza avere la necessità di una qualche base comune normativa che deve essere accettata? Ad Angela Ales Bello rivolgo la seguente domanda: innanzitutto, sono stato felicissimo di ascoltare che forse la specificità italica è quella della sensibilità storica. Da antichista, sono stato altrettanto contento di ascoltare che, secondo lei, questo deve essere legato all’Umanesimo ed al Rinascimento. Ma le chiedo: non crede che Umanesimo e Rinascimento abbiano molto di più puntato ad un interesse per il testo piuttosto che ad una storicizzazione del testo? Molte delle letture degli umanisti erano, per così dire, “distorte”, per usare un eufemismo, ossia servivano molto di più al dibattito attuale che ad una reale prospettiva storica. Se questo è vero, allora non sarebbe utile inserire nella sua interessantissima relazione anche il peso che da noi riveste l’insegnamento della filosofia nella scuola secondaria superiore, che vede una tradizione secolare di insegnamento su impianto storico? Questo segna senza dubbio la sensibilità di chi poi decide di fare “da grande” il filosofo. Infine una domanda per Gereon Wolters. Sono d’accordo che l’inglese è comodo ed è assolutamente necessario come lingua franca, ma ho qualche dubbio che sia tout court il mezzo più adatto. Molto spesso alcune strettoie argomentative nell’inglese stanno strettissime, così come non possono essere rappresentate in inglese tutte le dimensioni dell’analisi filosofica. Il mio timore, di conseguenza, è che alcune tradizioni possano essere impoverite dal tramite del medium linguistico inglese e questo mi dispiace. È vero che italianus est non legitur, ma questo non vuol dire che non si pensa nemmeno. Italianus est, si pensa ed anche bene, poi il problema è che bisogna inserire il pensiero in una lingua che spesso è recalcitrante. Risposta di Giacomo Marramao. Ringrazio Emidio Spinelli per la sottolineatura della necessità della scuola unica per evitare le diaspore delle diverse confessioni religiose. Per quanto riguarda la domanda, Lei ha ragione: la civitas è il modello romano e certamente esso si è dispiegato soprattutto in epoca imperiale. Ma è 85

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stato definito nel senso più serio e rigoroso nel VI libro delle Storie di Polibio, in cui si stabilisce il profilo della costituzione mista. Credo che dobbiamo muoverci, dopo lo stato-nazione, in quella che Habermas chiama la “costellazione post-nazionale” in cui viviamo, nel senso, e qui mi differenzio da Habermas, non tanto nella chiave dello stato di diritto, che comunque è uno stato-nazione per come è stato elaborato nel corso della modernità, ma piuttosto nella direzione di un costituzionalismo post-nazionale, in cui, sicuramente, lo spazio di accoglienza di una pluralità di differenze e di narrative può avvenire solo a condizione, Lei ha assolutamente ragione, che siano fissati dei principi fondamentali, anche affermati in modo intransigente. Credo che i due poli vadano mantenuti. I principi fondamentali non sono l’espressione di una statica natura umana, bensì il prodotto di una dinamica storica effettiva, in cui la dinamica del ius, del diritto, è rispondente ad una clausola ben precisa che ha a che fare con l’esperienza storica, ossia la clausola del “mai più”: dopo i totalitarismi, essa afferma “mai più deve darsi questo”. Anche se sappiamo che “si darà”, tuttavia la clausola è fondativa dei principi fondamentali. Risposta di Angela Ales Bello. Ricordo un testo di Garin che sottolineava l’interesse per il contenuto del testo dei classici durante l’età umanistica, ma che metteva d’altra parte anche in evidenza che si recuperava una sorta di distanza storica che nell’età di mezzo non era così esplicita. Direi che allora comincia un interesse per la sensibilità storica: attraverso la ricostruzione filologica si recupera anche la dimensione storica. La questione dell’insegnamento storico-filosofico è fondamentale e si nota a livello europeo e internazionale-comparativo: il livello della preparazione e della conoscenza della storia di tutti i Paesi del mondo, anche se a livello generale, in una preparazione di scuola superiore, consentiva e consente anche la conoscenza dei popoli e dei problemi. Permette di collocarli, se non altro, geograficamente e questo è già molto importante. Quando mi confronto con gli studenti dei Paesi esteri mi rendo conto che essi sono assolutamente carenti nella conoscenza degli avvenimenti degli altri continenti e questa chiusura non favorisce l’incontro. Risposta di Gereon Wolters. Dicevo nella mia relazione che su alcuni aspetti l’inglese è la lingua più adatta. Dobbiamo impararlo ad ogni modo, indipendentemente dal fatto che esso sia la lingua franca della scienza, della filosofia e del mondo globalizzato. Già questo basta, perché imparare due lingue per tantissimi non è possibile. Lei ha detto che l’inglese è “recalcitrante” all’argomento filosofico. Ma questo vale per qualsiasi lingua. Anche traducendo dall’italiano in tedesco si perdono 86

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alcune sfumature: persino in tedesco, secondo Heidegger la lingua più adatta alla filosofia dopo il greco.

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Evandro Agazzi aggiunge un aneddoto. Quando la divisione di filosofia dell’U.N.E.S.C.O. alcuni anni fa ha organizzato a Parigi, presso la Maison de l’U.N.E.S.C.O., un incontro su etica ed altri argomenti, ha invitato Ricoeur, Habermas e me. Ricoeur ha parlato francese, Habermas inglese ed io francese. Non si può moltiplicare all’infinito perché bisogna tener presente l’uditorio. Non si può chiedere ad una persona di imparare quattro o cinque lingue che l’uditorio non conosce, e teniamo presente che eravamo nella sede dell’U.N.E.S.C.O a Parigi. Habermas ha parlato inglese ed era chiaro che la sua relazione è stata colta forse dalla metà dell’uditorio. Una lingua franca, anche se non si riesce a dire tutto come andrebbe detto, oggi diventa indispensabile.

Giacomo Marramao aggiunge una considerazione conclusiva sull’inglese come lingua franca. Le considerazioni che i filosofi d.o.c. rivolgono all’inglese, cioè che questa lingua non avrebbe la capacità di rendere la complessità del pensiero filosofico, furono rivolte secoli fa al latino, ritenuto incapace di accogliere la complessità del lessico filosofico greco, al punto tale che Lucrezio nel De rerum natura sente il bisogno di chiedere scusa del fatto di affrontare tematiche complesse, anche di filosofia della scienza, in latino. Cicerone affermerà il contrario, cioè che è una solenne “balla” che il latino, proprio perché semplifica in modo icastico alcuni passaggi, è molto più efficace dello stesso greco. Io sono dello stesso parere, e contro l’idea di Heidegger che le lingue più appropriate alla filosofia siano il tedesco ed il greco, benché la mia seconda lingua sia il tedesco e non l’inglese.

Domanda n. 5 Pasquale Picone. Desidero ringraziare il Rettore, Abrusci, Marramao e Matassi per l’ospitalità che è stata offerta dall’Università Roma Tre perché in questa università la SSIS dispone di un indirizzo di Scienze Umane nel cui consiglio d’indirizzo ci sono ben due Presidenti delle Sezioni della SFI del Lazio, Rosa Calcaterra e il sottoscritto. In quanto supervisore presso la SSIS, sono grato a tutti, anche a Spinelli che ha dato un grande contributo alla fondazione 87

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della Sezione di Viterbo, per questi dati forniti sull’insegnamento della filosofia italiana nella scuola e sulla questione della formazione filosofica degli adolescenti. Nel compito di supervisione notiamo che è difficile far passare tra i docenti di filosofia l’elemento della visione generale, riconducibile ad un assetto mentale del docente, al di là della disciplina di insegnamento. C’è un problema di assetto mentale, di funzione docente, di conoscenza della mente adolescenziale, ma questo è un argomento che riprenderemo nella sessione pomeridiana. Desidero soffermarmi brevemente sulla categoria che Angela Ales Bello ha utilizzato per caratterizzare le civiltà altre, cioè l’elemento della sapienza. A Viterbo c’è stato il Cardinale Egidio da Viterbo, insigne ermetista cristiano, che gli storici dell’arte hanno dimostrato essere il vero ispiratore della Scuola di Atene di Raffaello nonché dell’intera Cappella Sistina. La riflessione sul contributo di Egidio da Viterbo, famoso neoplatonico e membro dell’Accademia Pontaniana, Generale degli Agostiniani (ospitò Lutero e tentò con lui una conciliazione), bonaventuriano, mostra una continuità con il pensiero di Musonio Rufo, maestro di Epitteto, nato a Bolsena, che nessuno conosce. C’è una rimozione della filosofia ermetica e della dialettica tra ermetismo cristiano (Egidio da Viterbo) e laico (Giordano Bruno). Questo in riferimento al tema della sapienza: noi abbiamo intitolato le nostre iniziative “Viterbo, cittadella della sapienza”. Il tema della sapienza, attribuito a civiltà altre, viene rimosso in relazione a nuclei importantissimi della nostra civiltà. Risposta di Angela Ales Bello. Il termine sapienza è abbastanza elastico. Certamente c’è tutta una tradizione sapienziale anche nella nostra cultura italiana. Anzi, è forse proprio in età rinascimentale che si giocano due grandi possibilità: quando nasce il pensiero scientifico, un pensiero che condiziona rispetto a quello sapienziale più ampio. Ma quando parlavo di pensiero – più che filosofia – sapienziale, in relazione alle altre culture, presupponevo alcuni punti che non ho citato: ad esempio, il forte legame tra dimensione religiosa e dimensione di riflessione teorica. Ed anche la stessa riflessione teorica e razionale (questo può essere indagato sotto un profilo fenomenologico in maniera interessante) usa categorie e forme mentali che sono di tipo diverso. Questo non significa che noi non possiamo accedere a questo tipo di sapere, anzi direi che sono potenzialità umane presenti in tutti e che sono state di volta in volta accentuate nelle diversità. Allora direi che per trovare un terreno comune di accordo sarebbe necessario tornare alle fonti conoscitive, alle fonti mentali ultime per capire anche le differenziazioni successive. Io credo che questo compito possa essere efficacemente assolto dall’analisi fenomenologica perché essa rientra nella dimensione degli atti 88

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vissuti ed analizzandone la struttura permette di capire come la stratificazione di questi atti assuma connotazioni diverse a seconda delle diverse espressioni culturali. Mi sembra una via interessante che risolverebbe anche tutto il problema del rapporto sapienza-filosofia.

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Domanda n. 6 Giancarlo Nonnoi. I limiti della diffusione della filosofia italiana sono stati illustrati da diverse prospettive. Mi domando se non vi sia un problema politico più generale. Di politica culturale che riguarda nello specifico la filosofia ma più in generale diversi aspetti della cultura nazionale. Mi riallaccio alla interessante relazione di Angela Ales Bello, per ricordare due fatti relativi all’Argentina, luogo in cui esiste un forte interesse per la cultura e, in particolare, per la filosofia italiana. Rodolfo Mondolfo ha promosso in Argentina una scuola di Storia della Filosofia antica piuttosto importante ed esistono nuclei importantissimi in varie città argentine. Eppure Mondolfo è non sufficientemente valorizzato proprio dagli italiani d’Italia, non da quelli d’Argentina. L’Università di Buenos Aires diversi anni fa ha istituito una cattedra ed un seminario dedicati a Rodolfo Mondolfo per tenere un ciclo di lezioni per la promozione della cultura filosofica italiana. L’Università di Buenos Aires lamenta che questa cattedra non viene costantemente alimentata da contributi che potrebbero essere importanti. Attivissima è la Società Dante Alighieri, attivissimo è l’Istituto Italiano di Cultura. La filosofia italiana è piuttosto assente pur avendo potenzialmente degli strumenti poderosi, come quelli appena citati. E qui mi collego ad un pezzo della storia raccontata da Evandro Agazzi, che mi sembra importante. In Argentina ha trascorso gli ultimi anni di vita Aldo Mieli, che lì ha lasciato la sua biblioteca. Questa biblioteca è stata relativamente ordinata ma non è consultabile. Io credo che in quella biblioteca vi sia un pezzo importante della storia della filosofia italiana di cui stamattina abbiamo sentito alcuni elementi della sua ricostruzione. E questa è la domanda che rivolgo a tutti voi: io credo che la S.F.I. debba sentire anche il compito importante di ricomperare queste tracce di memoria per valorizzarle anche fuori dall’Italia dove esse spesso giacciono dimenticate. Risposta di Angela Ales Bello. L’esempio che Lei riporta è importante e non unico, anche se non è possibile fare una panoramica completa. Ci sono tracce nei Paesi dell’America meridionale di presenza della cultura italiana, però vengono coltivate da pochi. 89

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C’è anche una sensibilità dell’epoca, direi, che si è orientata in prevalenza verso la cultura francese e questo ha messo in secondo piano la cultura italiana: ho osservato questo in particolare in Brasile, dove pur la presenza degli italiani è notevole e mi dicono che anche in Argentina la situazione sia proprio questa. Ora, forse si può agire proprio attraverso gli Istituti Italiani di Cultura, specie per promuovere la diffusione della lingua italiana, che in quei contesti molti desiderano imparare, non sempre, tuttavia, riuscendo ad accedere ad un insegnamento capillare. Risposta di Evandro Agazzi. Angela Ales Bello ha presentato la questione dal punto di vista della sua esperienza. Per quanto riguarda la mia esperienza, che forse è un po’ più vasta perché ho lavorato nella F.I.S.M. per venticinque anni ed ho girato il mondo, posso parlare dell’America latina. Il Brasile, sì, ha questa caratteristica: pensiamo che “Brasile” si pronuncia alla francese nella fonetica portoghese, e questo non è un particolare da poco. Ma per il resto dell’America latina non c’è la stessa situazione. In Argentina anche io ho ricordato la figura di Rodolfo Mondolfo. Io ho due dottorati honoris causa di università argentine, questo vuol dire che leggono testi di italiani. Quando giro nei luoghi ispanofoni, gli studenti mi dicono di aver studiato la logica sulla mia La logica simbolica, tradotta in spagnolo da tempo immemorabile. Il dizionario di Abbagnano è tradotto in Argentina e Brasile e qui diffusissimo. Pareyson è stato a Tucumán, ecc. Una presenza più francese c’è magari in Cile, ma anche lì c’è stato Ernesto Grassi. Negli altri Paesi il discorso può essere più articolato. Sono perfettamente d’accordo che c’è la conseguenza delle vecchie colonizzazioni, però c’è anche la conseguenza delle politiche culturali. La ragione per cui il tedesco tutto sommato si trova in buona posizione è che il Goethe Institut e l’Humboldt Institut fanno moltissimo di più di ciò che fanno gli italiani, addirittura molto di più di quello che fa la Alliance Française. Poi, con le borse di studio la gente va a studiare in Germania e lì si forma filosoficamente, portandosi dietro quella cultura. Noi non facciamo niente di questo. Io ho avuto l’esperienza di insegnare per diciannove anni a Friburgo ed ho formato una dozzina di dottori, fra cui gente proveniente dall’Argentina, dallo Zaire, dal Rwanda, dall’Asia. E quando mi chiedevano di fare un dottorato con me in Italia, in Italia i dottorati non esistevano ancora. Noi non abbiamo mai sviluppato la politica di formare gente in Italia. Ora ci sono argentini che studiano in Italia, ma bisogna riprendere questo discorso con più efficacia.

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Domanda n. 7 V. Michele Abrusci. Vorrei sottolineare e riprendere un invito che proveniva soprattutto dagli ultimi interventi. Un impegno forte da parte della S.F.I., in collaborazione con le università più che con il Governo, a diffondere la cultura italiana filosofica e le interazioni con gli altri Paesi e le altre università per promuovere quello che noi facciamo in Italia. Volevo, poi, fare alcune domande ai tre relatori: mi permetto di farle anche se si tratta di domande un po’ cattive. La prima riguarda la presenza degli scienziati entro la Società Filosofica Italiana. Abbiamo sentito ieri che questa società è nata con alcuni scienziati che erano anche filosofi. Oggi non so se ci sono qui ma non mi pare, e non credo sia un difetto dell’organizzazione del convegno ma, piuttosto, un fatto di politica culturale. Oggi gli scienziati non interagiscono bene con la filosofia e nemmeno con la filosofia della scienza. Perché? Forse perché l’attuale filosofia della scienza è molto ripetitiva, benché abbia avuto grandi vantaggi precedentemente? La domanda è per Evandro Agazzi. La seconda domanda riguarda la questione della storia. Si è detto che la storia del pensiero filosofico è un patrimonio dell’Italia e che va conservato e diffuso. Io, pur non essendo uno storico della filosofia, credo molto in questo approccio storico. Come poterlo diffondere perché diventi consapevolezza diffusa a livello della comunità filosofica internazionale, in cui trovo spesso lacune enormi nella formazione storico-filosofica? Ultima domanda, divisa in due. Spesso si parla nel panorama filosofico internazionale di “anomalie” italiane, positive anomalie: una nel rapporto dei filosofi con la politica e la vita pubblica, e qui mi rivolgo a Giacomo Marramao, e l’altra nel fatto, come sottolineava Gereon Wolters, che abbiamo, unico Paese credo in Europa, uno stuolo importante e valido di insegnanti di filosofia nelle scuole. Queste, che per ora sono anomalie, vanno diffuse in Europa, visto che dell’Europa facciamo parte, o si procede verso un riassorbimento di queste anomalie italiane? Risposta di Evandro Agazzi. Quando ho presieduto la S.F.I. anche io ho cercato di far venire degli scienziati ma non è stato facile perché gli argomenti che trattavamo nei congressi non erano tali. Ma anche quando ho presieduto la Società Italiana di Logica e Filosofia della Scienza (ho avuto due mandati) un po’ ne ho fatti entrare ma poi alcuni sono rimasti, altri sono andati via. La ragione è che la filosofia della scienza che si fa oggi nel mondo agli scienziati non interessa ed hanno 91

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ragione. Perché se per filosofia della scienza intendiamo quelle “giullarate” che vengono fuori dopo la cosiddetta filosofia post-empirista che sostiene che non esista conoscenza scientifica e che le teorie non si possano confrontare ecc., e che dichiarano queste cose sui giornali (non faccio nomi ma avrete capito a chi mi riferisco), che cosa se ne fanno gli scienziati di questa filosofia della scienza? Hanno perfettamente ragione di ignorarla. Perché perlomeno i vecchi neopositivisti, con tutti i loro limiti, si interessavano sul serio ed approfondivano le scienze, si creavano una competenza. Erano limitati nelle soluzioni ma almeno affrontavano seriamente i problemi scientifici. Oggi invece si possono tranciare giudizi anche senza la più pallida conoscenza scientifica ed è davvero un segno di serietà da parte degli scienziati non occuparsene. Quella di scrivere sui quotidiani è davvero ormai una moda dei filosofi nostrani, cose che se prese sul serio non servono ad altro se non a rovinare la reputazione. Io sono stato un collaboratore del “Corriere della Sera” in gioventù, ma quando poi ho capito cosa comportava l’esserlo ho smesso e sono anni ormai che non scrivo, se non in caso di collaborazioni occasionali. Per parlare della questione dell’insegnamento, il nostro vantaggio è proprio dato dal fatto che continuiamo a tenere la filosofia nei licei. Questo promuove quel senso storico che non si improvvisa e che ci caratterizza. Il tipicum della filosofia italiana è che ogni volta che noi impostiamo un problema, istintivamente gli diamo la cornice storica. Questo sfondo umanistico l’abbiamo imparato fin dal liceo. E questo è un elemento al quale ricondurre anche tradizioni, come quella tedesca, che un tempo l’avevano. Si tratta di una battaglia che perderemo, perché stiamo scimmiottando i modelli americani, che non hanno cultura storica. Io ho insegnato a Stanford, a Pittsburg ed è davvero sconvolgente osservare l’ignoranza dei colleghi, non dico degli studenti. Si trattava di studiosi specialisti bravissimi, ma assolutamente privi di cultura storica. Risposta di Angela Ales Bello. Per la diffusione della cultura storica non partirei dagli studenti ma dai professori. Sarebbe interessante organizzare dei seminari non rivolti agli studenti, bensì ai docenti. Perché ho notato che a livello di docenti universitari c’è l’esigenza di conoscere la storia. Spesso alle lezioni che si tengono all’università partecipano anche i colleghi e questi restano davvero disorientati rispetto ad una collocazione storica del problema. Lavorerei davvero al livello di contatto con i colleghi, magari i più giovani. Risposta di Gereon Wolters. Mi è piaciuto ciò che ha detto Evandro Agazzi a proposito della filosofia 92

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della scienza. In occasione di una conferenza tenuta con Tullio Regge, che ha definito gli epistemologi “cronisti sportivi della scienza”, quindi non praticanti. Risposta di Giacomo Marramao. Credo che ci sia un problema, a mio parere molto serio, di supplemento di indagine di quello che è accaduto all’interno della filosofia della scienza italiana e non solo italiana. Per rispondere al collega Abrusci ed alla sua sollecitazione sull’anomalia italiana della presenza pubblica della filosofia, in parte l’anomalia è anche francese. In Francia alcuni personaggi mitici della filosofia hanno centinaia e centinaia di persone che accorrono e questo vale anche in buona parte per la Spagna. A me è accaduto tante volte di vedere in Spagna folle sterminate in presenta dei miti filosofici, più che in Italia. Credo che in una serie di Paesi (ma forse è un fenomeno che finirà per colpire anche Paesi che per adesso ne sono esenti, come la Germania e lo stesso Regno Unito) vi sia una richiesta alla filosofia di orientamento non politico ma sulle grandi questioni che incidono sulla vita quotidiana di ognuno di noi. E questa è, a mio parere, una domanda abbastanza difficilmente eludibile e sbaglieremmo ad arroccarci. Naturalmente bisogna stare molto attenti a distinguere i diversi ambiti in cui il discorso filosofico si esercita, a non prendere mai il test che uno può avere da un meeting filosofico o da un festival della filosofia come un test scientifico, ma solo di comunicazione: è importante che si stabilisca una relazione sempre più stretta tra questa sfera pubblica allargata della filosofia e i livelli alti della ricerca filosofica e credo che la S.F.I. sia uno strumento essenziale di questa relazione. Risposta di Gereon Wolters. La filosofia della scienza come tale non c’è. Ci sono forme della filosofia della scienza che interagiscono benissimo con gli stessi scienziati. Io ad esempio mi occupo di filosofia della biologia ed insegno da vent’anni all’Istituto di Zoologia di Zurigo e c’erano ogni anno decine di studenti che erano venuti anche se non potevano guadagnarsi crediti, solo per interesse. Naturalmente, non si può fare questa filosofia della scienza un po’ autistica, concentrata solo su problemi filosofici, si deve conoscere anche la scienza. Secondo punto è quello della scuola: secondo me sarebbe auspicabile anche per altri Paesi europei seguire l’esempio dell’Italia, ma c’è un ostacolo abbastanza grande: se sono ben informato, l’impostazione didattica nelle scuole italiane è storica e si svolge il corso dei secoli. Secondo me si dovrebbe fare di più un’impostazione tematica, orientata ai problemi e con questo l’Italia potrebbe vincere.

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Sezione III

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IL RUOLO DELLA FILOSOFIA TRA SCUOLA E SOCIETÀ

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Introduzioni

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Mauro Di Giandomenico Prima di iniziare la seduta, due piccoli fuori programma che dureranno un minuto ciascuno. Il primo è quello che sia il Preside Abrusci sia io stesso pensiamo sia doveroso, un ringraziamento e quindi un applauso caloroso agli alunni dell’Istituto Alberghiero “Amerigo Vespucci” che hanno approntato il buffet – degno di Bocuse, di Gualtiero Marchesi –, e che ho pregato di venire qui. Abbiamo davvero gustato una preparazione ottima del cibo ed ammirato la professionalità di questi giovani che hanno fatto tesoro degli insegnamenti dei loro docenti, naturalmente, e che lasciano ben sperare nel futuro della ristorazione italiana. Grazie agli studenti ed ai docenti. Ora, invece, un secondo piccolo fuori programma per ricordare un evento purtroppo triste. Nei mesi scorsi ci ha lasciato il Presidente della Sezione di Avellino, Luigi Iandoli. Prego l’attuale Presidente, Giovanni Sasso, di venire qui e dirci due parole in ricordo di Luigi Iandoli, pregando tutti quanti in questa circostanza di mettersi in piedi. Giovanni Sasso ricorda Luigi Iandoli. Sono onorato di questo minuto di raccoglimento e di ricordo per l’amico Gigi, come noi lo chiamavamo e come qualcuno di voi ricorderà. Frequentatore assiduo dei convegni della S.F.I., ha rappresentato la Sezione di Avellino per dieci anni, dal 1995 all’8 aprile scorso. Io ero Vicepresidente ed ora purtroppo, a causa di questo evento, sono il Presidente. Gigi per noi è stato il maestro della filosofia “verso l’altro”, cioè ci ha insegnato la dedizione ed il riconoscimento della persona. I centri di interesse della Sezione di Avellino della S.F.I. hanno riguardato prima di tutto la ricerca e l’esperienza didattica, come Mario De Pasquale e Antonio Cosentino ricorderanno, per vivacizzare l’ambiente intorno alla filosofia con i bambini e per i bambini. Gigi si dedicava a questa attività dopo essere andato in pensione e lo faceva sia con la scuola pubblica che nella privata. Negli ultimi due anni ha scoperto un altro filone, quello del carcere. 97

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Frequentava i carcerati per discutere con loro, nella sofferenza, i grandi problemi della vita, riscoprendo l’autenticità della filosofia. Non abbiamo dimenticato in questi dieci anni un impegno quotidiano e professionale: l’incitamento alla ricerca e all’approfondimento dei temi filosofici con i ragazzi dei licei. In questo siamo stati aiutati sia dall’Associazione Italiana della Filosofia che dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli. Cosa farà ora la Sezione di Avellino? Vogliamo continuare lungo questa strada, prima di tutto coltivando il rapporto con i giovani, poi continuando l’attività nel carcere, dove andremo a turno per imparare la strada della riscoperta dell’uomo e del riconoscimento dell’altro, come valore che ci porta verso un’umanità migliore. Quello dei bambini è un testimone che Gigi ha lasciato alla moglie, Mirella Napotano, che ha scritto il libro dal titolo Creature variopinte (esiste anche un sito così intitolato). Ringraziamo tutti per l’attenzione e per questo composto ed attento silenzio. Segue un minuto di silenzio in raccoglimento. Riprendiamo ora i lavori con una delle due tavole rotonde, coordinata da Anna Sgherri, Ispettrice del Ministero della Pubblica Istruzione, a nome di Giuseppe Cosentino, Direttore Generale per il Personale della Scuola del Ministero della Pubblica Istruzione, ma attualmente nominato Capo Dipartimento, impegnato con il Ministro Fioroni nel cercare di tamponare la Finanziaria contraria alla scuola.

Anna Sgherri* Buongiorno a tutti. Desidero portarvi il saluto e le scuse personali del Direttore Giuseppe Cosentino, che avrebbe voluto volentieri essere qui e poter presentare personalmente il proprio contributo alla tematica dell’insegnamento della filosofia. Molti dei presenti, in qualità di docenti, conoscono, per le testimonianze passate, la sensibilità sempre dimostrata da Giuseppe Cosentino, sia all’epoca dell’incarico come Direttore degli Ordinamenti che come Direttore della Formazione, nei confronti della formazione degli insegnanti di filosofia. Purtroppo non può essere qui a causa di impegni legislativi legati alla Finanziaria. Devo, quindi, sostituirlo io ed è un compito impegnativo, considerando che Giuseppe Cosentino è ora Capo Dipartimento, quindi al vertice dell’Amministrazione. Il punto da cui partirei è non tanto quello dei rapporti tra filosofia e società, sui quali abbiamo sentito parlare stamane in modo preciso e differenziato, ric* Ispettrice

del Ministero della Pubblica Istruzione.

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co di spunti e suggestioni. Io, personalmente, ho imparato cose nuove stamane, ascoltando punti di vista suggestivi. Tuttavia, questa dei rapporti tra filosofia e società non appare una questione nuova dal punto di vista della scuola, perché da sempre la filosofia ha dovuto “vedersela” con la società, fin dall’antichità. Ci sono sempre state due polarità nel mondo della filosofia: una filosofia chiusa in sé ed un’altra a contatto con la gente, pronta a discutere dei problemi del mondo. Questo rapporto tra filosofia e società, dunque, non è mai stato sereno, tranquillo, risolto una volta per tutte, ma sempre dinamico, anche molto e positivamente tempestoso: da un lato la società ha interrogato la filosofia, dall’altro la filosofia ha reso inquieta la società con i propri interrogativi. Questo è un tema che potremmo sviluppare anche dal punto di vista dell’insegnamento e della didattica e ci sarebbe ampio materiale di discussione. Ma il problema che ora interessa mettere a fuoco in questa sessione, avendo, oltretutto, la possibilità di confrontarci con “testimoni” che non operano nella scuola ma nella società, essendone “antenne sensibili”, è quello dell’insegnamento della filosofia. In Italia noi abbiamo quella che tanti anni fa è stata definita, secondo un lessico familiare della società filosofica, questa positiva specificità: una filosofia presente strutturalmente nel triennio dei licei e attraverso la sperimentazione, in tutti i trienni sperimentali, anche tecnici, ed in modo sperimentale, anche in molti bienni. C’è dunque una presenza forte della filosofia nella scuola italiana. Ciononostante, non sembra che il rapporto tra filosofia e società ne abbia guadagnato e non sembra che la presenza della filosofia della filosofia scuola alimenti l’interesse verso una filosofia studiata. A volte sembra che l’immagine che si ricava dalla filosofia insegnata a scuola non sia positiva. Molto spesso ci sentiamo dire: sì la filosofia, ma non quella insegnata a scuola. Questo è un problema con cui ci confrontiamo da molto tempo: abbiamo imparato a conoscerlo alla fine degli anni Sessanta, quando per la prima volta la presenza strutturale della filosofia nella scuola è stata messa in discussione e quando è stata proposta la sua eliminazione dalle discipline scolastiche o, perlomeno, la sua trasformazione in materia facoltativa. Questo problema ha avuto alterne vicende, è ben conosciuto e non voglio qui farne la storia. Piuttosto, bisogna porsi oggi il problema di comprendere quale sia la situazione attuale. Io sono abituata ad affrontare i problemi in modo diretto, impietoso, senza enfasi o alibi romantici: questo insegnamento che facciamo nella scuola è proprio quello che risponde agli interrogativi che il nostro vivere di oggi, che la società globale, multiculturale dell’attualità ci pone? L’insegnamento della filosofia nella scuola risponde a queste nuove esigenze che percepiamo quando usciamo dalla scuola? La società cosa vuole dalla filosofia e dagli insegnanti di filosofia nella scuola? L’insegnamento, infatti, non è strumento asettico, ma passa attraverso l’azione fondata, calibrata, meditata di docenti e di persone che devono condi99

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videre un progetto di rinnovamento. Oggi, in questa situazione così dinamica di mutamento, tanto che ogni generazione di studenti ci costringe a vedere problemi nuovi, la scuola quotidiana, il lavoro assiduo di costruzione e formazione della persona, in che modo risponde, è adeguata o i due processi, di mutamento dinamico degli interrogativi e di risposta da parte dell’insegnamento sono processi paralleli che non si incontreranno se non all’infinito, forse? Ci sono momenti in cui i due processi si toccano e la scuola ha la percezione della necessità di rimettere a fuoco lo scenario complessivo: l’insegnamento della filosofia non può essere alternativo alla filosofia, ma deve essere in linea con le esigenze della sua diffusione. Alcune iniziative di questo tipo, che tengo a citare: le Olimpiadi Internazionali di Filosofia, cui da qualche anno l’Italia partecipa, sono un’iniziativa cui prendono parte Paesi che non hanno la nostra stessa tradizione filosofica né una simile presenza strutturale della filosofia nella scuola superiore, tipo la Corea, il Giappone, la Finlandia, la Turchia. In queste occasioni notiamo il dispiegarsi delle sollecitazioni che provengono dalla multiculturalità ormai non più dato di fondo ma sostanza della nostra realtà, come si diceva stamane e come ben illustrava Giacomo Marramao. In queste occasioni notiamo che il dialogo è possibile e che c’è comunicazione, specie su problemi specifici della società, attraverso l’uso di linguaggi nuovi. Altre esperienze simili sono state ricordate dal Presidente della Sezione di Avellino e se ne parlerà nel corso di questa sessione. Sono esperienze creative e rigorose nel metodo, fuori dal contesto istituzionale organico: con i bambini, con i ragazzi, con gli adulti, in modo atipico perché non previsto in curricoli ufficiali, ma con forti finalità ed un’alta autodeterminazione metodologica. Ma questo è alternativo all’insegnamento organico della filosofia? O sono segnali che devono far riflettere? Qual è il ruolo della scuola? Cosa la società chiede alla filosofia a scuola? Presento in breve gli ospiti e poi passo loro la parola. Antonio Gnoli scrive su “la Repubblica”, Andrea Poma insegna Filosofia Morale presso l’Università di Torino, Mario De Pasquale, Coordinatore della Commissione didattica della S.F.I. e supervisore alla SSIS di Bari, si occupa da sempre di didattica della filosofia, scrivendo anche molto sull’argomento. Armando Massarenti, che molti di voi conoscono per i suoi articoli su “Il Sole 24 Ore” e per il suo ultimo libro, Il lancio del nano, una bella provocazione perché rompe certi miti intorno alla filosofia cristallizzata e dogmatizzata, aiutandoci a vedere dentro le cose; Livio Rossetti, Ordinario all’Università di Perugia e cultore di modi paralleli di diffusione della filosofia, con i bambini, con i ragazzi e con gli adulti. 100

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Interventi

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Antonio Gnoli* Le cose dette nell’introduzione fanno pensare che c’è, ci dovrebbe essere oppure è auspicabile che ci sia un interscambio, un confronto proficuo tra scuola e società, e che dentro questo rapporto, spesso anche contraddittorio, la filosofia dovrebbe riservarsi il ruolo se non chiarificatore, almeno di passaggio da un mondo all’altro. Su questo io francamente ho poco da dire perché, probabilmente, non ho la competenza per ragionare intorno ai problemi che la scuola può porre circa la costruzione di un sapere così complesso e duttile come la filosofia (faccio un mestiere diverso da quello dell’insegnante). D’altro canto, l’aspetto più interessante dal punto di vista sociale, come questa recente esplosione della filosofia, diventata quasi moda, per cui non c’è festival, non c’è evento, non c’è esperienza né pensiero formulato che non abbia in qualche misura un confronto con una moltitudine variegata di gente presente e pronta a fare domande. Segno certo di vitalità, ma forse al tempo stesso segnale che dovrebbe farci interrogare su cosa significa oggi fare filosofia. Dicevo, faccio un altro mestiere. Avendo, però, un figlio di vent’anni che ha frequentato il liceo, e ricordando io stesso le mie esperienze, posso dire che c’è un elemento diciamo “deprimente”, per quel poco di esperienza che posso testimoniare. Questo elemento deprimente è nello smarrimento o nella noia che i ragazzi provano nei confronti di una materia che pur inizialmente suscita curiosità ed interesse: ma questo interesse progressivamente viene smorzato, depresso, appunto. Che questo dipenda dal tipo di insegnamento, dalla frustrazione, dai complessi problemi della scuola, credo sia facile dirlo. Io non ho risposte in questo senso. Penso, piuttosto, che la scuola, se si è fortunati di incontrare l’insegnante giusto, quello che ti apre la testa, realizzi quel cortocircuito straordinario, magico, per cui lo studente vede la realtà, ragiona con l’esterno, improvvisamente in modo diverso, come se la curiosità rinascesse. Ma questo è un fenomeno abbastanza raro, quello che ci fa incontrare certe persone e non altre e poi dipende dal fatto che alcune scuole, alcuni licei hanno * Giornalista

de “la Repubblica”.

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una tradizione abbastanza interessante. Sulla didattica, sul modo in cui si può migliorare l’insegnamento non mi sento di dire più di tanto. Vorrei riportare un’esperienza personale. Io mi sono laureato in Filosofia nel 1976. La motivazione per cui avevo scelto questa facoltà era legata a sensazioni di tipo vagamente culturale e con un bisogno di trovare un aggancio che fornisse un senso ed un orientamento meno precario, meno incerto con le cose che avvenivano fuori e che avevo la sensazione di vivere. Trovarmi in una università come “La Sapienza” di Roma, vedere arretrare certe figure fino ad allora dominanti, come Benedetto Croce ed Ugo Spirito, vedere imporsi Marx ed il marxismo (una delle esperienze più coinvolgenti all’epoca e con una forte relazione con la società), vedere affacciarsi la fenomenologia di Husserl ed alcuni testi in particolare di Heidegger, l’enclave Wittgenstein, il dibattito sull’epistemologia di Kuhn, Feyerabend, Lakatos, persone che studiavano e che avevano un oggettivo interesse, mi ha fatto confrontare con queste tematiche. Tematiche spesso molteplici e contraddittorie, e questo è il bello della filosofia, trovarsi contemporaneamente di fronte ad un estremo rigore ma anche ad un’estrema elasticità, vaghezza – si potrebbe dire senza inorridire – di fronte ad un sostantivo del genere. Ma è proprio questo l’elemento che determina oggi un consenso enorme intorno alla filosofia. Immaginate una società inerte, come è stata la società italiana negli anni Ottanta-Novanta del Novecento, “passivizzata”, e in cui si è manifestata una crisi di alcuni universi simbolici – la politica, la religione, una televisione pervasiva che è penetrata in qualsiasi elemento della realtà. Improvvisamente tutto questo si è come smontato ed ha lasciato un varco, una breccia ad una riflessione che poteva prendere le distanze da ciò e costruire qualcosa di interessante e dotato di senso. Su questa costruzione in questi anni la filosofia ha lavorato, e lo ha fatto, secondo me, con formule che hanno poco a che vedere con la scuola in senso stretto e con l’università. Si è scoperto, ad esempio, che la piazza ed il teatro diventavano luoghi di discussione. Se tutto questo appartiene solo alla casualità o se invece è il presupposto di una riconsiderazione in chiave culturale allargata ai grandi temi della vita non so. Ma è incoraggiante vedere che uno strumento, qual è la filosofia nella sua articolazione molto variegata, si è adattato in modo duttile ad una serie di considerazioni, di più stretto interesse pragmatico, come il rapporto fede-ragione o scienza-religione (con tutti i dibattiti che i giornali quasi quotidianamente seguono e testimoniano in modo articolato), che rappresentano un aspetto su cui la filosofia ha messo i propri piedi in modo determinato. Mi stupisce, con piacere, vedere quanto per esempio temi rarefatti o autori oggettivamente difficili e complicati siano oggetto di interesse e di richiesta culturale molto pertinenti. Per fare due esempi, qualche mese fa ero a Crema e Cacciari faceva un’introduzione al Momus, ope102

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ra teatrale dell’Alberti, grande metafora del potere, e c’erano ottocento, mille persone estremamente interessate. A Roma qualche mese fa il Festival della Filosofia ha avuto un successo strepitoso, replicando la precedente esperienza di Modena: lì millecinquecento persone seguivano un dibattito su Heidegger. Si potrebbe obiettare che si è sempre comunque nei piccoli numeri però sono numeri che ci consentono oggi di vedere in modo incoraggiante un panorama culturale del quale si percepiva qualche anno fa soltanto la desolazione.

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Commento di Anna Sgherri Accolgo con piacere la provocazione di Antonio Gnoli sull’insegnante di filosofia. Infatti, è sempre esistito nella scuola l’insegnante carismatico che ha gestito in proprio l’insegnamento senza canoni. Nella scuola del secondo millennio non ci preoccupiamo tanto del singolo insegnante, che ci sarà sempre e non avrà bisogno di alcuna strategia d’insegnamento e di alcuna esperienza preconfezionata, ma ci preoccupiamo dei grandi numeri, delle undicimilacinquecento cattedre, perché vorremmo che la filosofia arrivasse a tutti attraverso gli insegnanti giusti per tutti. Il problema, dunque, riguarda la formazione degli insegnanti. Passo la parola a Armando Massarenti.

Armando Massarenti* Anche io non ho una particolare competenza per quanto riguarda l’insegnamento della filosofia nella scuola, ma credo di essere stato invitato qui perché settimanalmente faccio degli esercizi minimi di filosofia che poi ho raccolto nel libro che veniva citato prima. Vorrei partire dalla motivazione che è quella che deriva dalla consapevolezza, evocata stamattina da Giacomo Marramao e poco fa da Anna Sgherri, che la filosofia è ormai una cosa “per tutti”. Basta aprire un quotidiano per constatare come la filosofia intervenga non più solo nelle pagine culturali, ma venga interrogata a proposito di diverse tematiche: il multiculturalismo – l’abbiamo evocato più volte –, i problemi della bioetica, che fino a pochi anni fa non apparivano sui giornali, o quella che in Inghilterra verrebbe chiamata la “percezione pubblica della scienza”, cioè come la scienza riesce o no a veicolare una serie di conoscenze e come i problemi etici possano essere compresi da tutti. Allora questo esercizio che io cerco di fare vuole però * Giornalista

de “Il Sole 24”.

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essere anche un po’ spiritoso ed usare l’ironia, la battuta, la brevità. Credo che questo sia importante anche dal punto di vista dell’insegnamento della filosofia e credo si leghi anche ad una questione di cui gli insegnanti hanno sentito parlare da tempo: la questione di come si insegna la filosofia, se attraverso la sua storia o attraverso una centralità dei problemi filosofici. Può sembrare un falso problema se posto così in astratto. Se si fa buona storia si affrontano, infatti, i problemi circostanziati che i filosofi trattavano nelle varie epoche. Il problema, allora, diventa il modo in cui si fa la storia e si concatenano le varie questioni. Ma credo che questa questione, davvero centrale per l’insegnamento, cioè porre al centro i problemi, abbia a che fare non solo con l’insegnamento della filosofia in senso tecnico, ma con il pensare ad una filosofia per tutti: i problemi li abbiamo in testa tutti, filosofi e no. Questa consapevolezza l’avevano già i filosofi antichi: non è che i filosofi parlino di cose estranee alla gente comune, nella maggior parte dei casi. Dunque, bisognerebbe partire da qui. Ad esempio, nel titolo del mio libro Il lancio del nano io parto da un episodio abbastanza inquietante e che apparentemente sembrerebbe non avere a che fare con la filosofia: cosa c’entra, infatti, il “lancio del nano”? Il “lancio del nano” è uno sport praticato in Australia e che consiste nel lanciare dei veri nani (senza porsi problemi di politically correctness nelle definizioni). Si tratta di un vero sport molto diffuso. Quando si è cercato di esportarlo in Europa, specie in Francia, il Consiglio di Stato è intervenuto dicendo che era una pratica “lesiva della dignità umana”. Si oscilla, infatti, tra il ridere un po’ ed il reagire raccapricciati, ed anche l’O.N.U. è intervenuta in modo simile. I nani, tuttavia, sono intervenuti insorgendo contro questo divieto, che non ritengono affatto giustificato e controbattendo che non si può imporre dall’esterno una definizione di “dignità umana”. Il divieto sarebbe, infatti, una violazione del loro diritto ad essere lanciati. Questo sembra un problema stupido, ma vi interviene una questione filosofica importantissima, cioè che dignità umana e diritti umani sembrano sempre andare a braccetto, specie quando si leggono le dichiarazioni dei diritti dell’uomo ed invece in questo caso si mostra che le due cose non vanno insieme. E poi questo esempio può servire da volano per una questione pedagogica: infatti questo episodio è molto vicino ad una questione come l’eutanasia, che compare quotidianamente sui giornali. La struttura del ragionamento è uguale: vietare una certa pratica, perché la si ritiene lesiva delle persone (che l’adotterebbero ben volentieri, in una situazione difficile, certo non raffrontabile con la nostra), entra in contrasto con il diritto della persona di scegliere come vorrebbe. Certo, l’analogia può sembrare azzardata ma è molto esplicativa. Spero che non venga a qualcuno l’idea di divulgare in Italia questo sport che, tuttavia, è una cosa seria: pensate che avevano già fatto domanda per in104

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serirlo nelle specialità olimpiche; noi ci ridiamo sopra ma è una cosa che gli australiani prendono molto sul serio. I problemi filosofici, la promozione di un certo modo di ragionare si possono annidare nei casi più strampalati, ma anche in quelli più vicini alla vita quotidiana. Pensiamo, ad esempio, a quale sia il modo migliore per organizzare una coda. Se uno si pone questo piccolo problema sviluppa una certa capacità di immaginazione morale che permette di risolvere non solo il problema delle code. Per arrivare al risultato delle code degli aeroporti, cioè le code a serpentina, ci sono dietro tutta una serie di azioni studiate e che mettono in campo questioni morali. Nelle code tradizionali, che possono sembrare più corte, si pongono in realtà una serie di problemi etici – ad esempio, c’è sempre qualcuno che vuole passare prima; si vede che la coda accanto è più veloce – e scatta un senso di ingiustizia quando qualcuno viola una norma elementare come quella per cui chi arriva prima deve essere servito per primo. L’altro tipo di coda, oppure quella con il numerino dal salumiere, permette di dissolvere un problema filosofico, morale. Uso il termine “dissolvere” citando Wittgenstein, che diceva che scopo della filosofia è dissolvere alcuni tipi di problemi. In questo caso si dissolve un problema pratico, che se mi metto in una coda fatta in un certo modo, una serie di questioni fastidiose che riguardano il nostro senso morale non si pongono affatto. E questo sviluppa una certa capacità di immaginazione morale e politica che riguardano in un certo senso il modo di riformare le istituzioni. Perché anche dalla questione delle code si può passare per analogia di nuovo all’eutanasia: c’è infatti il problema di inventarsi la procedura giusta che serve a sdrammatizzare una serie di problemi che in realtà sembrano assai drammatici. E qui giungo ad un problema più generale che riguarda i media: il fatto è che spesso i problemi filosofici attraverso i media si complicano ulteriormente invece che semplificarsi, e questo fa parte del meccanismo generale di produzione dei media. Ricordo che una volta Chomsky aveva proposto come problemi fondamentali della filosofia due domande: perché sappiamo così tanto pur avendo così pochi stimoli (ed è il problema della povertà dello stimolo, da cui deriva una posizione innatista poi sviluppata dallo stesso Chomsky nelle ricerche linguistiche; è la domanda del perché i bambini imparino così tante cose anche se nessuno le ha insegnate loro. Probabilmente hanno delle capacità che permettono loro di farlo) e poi come mai sappiamo così poco pur avendo tante informazioni (pur essendoci i media che ci martellano e fanno pagine e pagine, primi piani, approfondimenti)? Lo stesso ragionamento può essere fatto per la filosofia: spesso i dibattiti sono un po’ falsati da un certo modo di impostarli ed un certo modo di impostarli fa sì che essi si avvitino su se stessi. Allora una buona pratica filosofica che dovrebbe essere insegnata a tutti i cittadini è smascherare questi meccanismi. Torno, ad esempio, all’eutanasia. Su 105

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questo caso che è sui giornali ed è ora all’attenzione di tutti ho sentito dire da un Senatore della Repubblica che sono tutti d’accordo in Parlamento, che sono tutti contro l’eutanasia attiva. Leggendo le pagine dei filosofi che hanno affrontato questo problema, colpisce appunto la distinzione tra eutanasia attiva e passiva, che viene messa in discussione dal punto di vista morale, anche se non se ne comprende bene la differenza: è infatti sempre responsabilità morale di qualcuno che provoca la morte di qualcun altro, sia che ometta un tipo di cura sia che agisca direttamente. Che il dibattito, ora, debba essere impostato su questa che a mio parere è una falsa distinzione, mi fa pensare che sia necessaria una migliore filosofia, filosofia professionalizzata che permette di affrontare seriamente il problema, di spaccare il capello in quattro e di giungere a delle conclusioni. E come questa esistono tante altre questioni simili che andrebbero affrontate con la stessa buona filosofia, come il problema della conoscenza, del nostro rapporto con la scienza, ecc. Allora, partire dalle questioni minime ed arrivare ai grandi problemi è forse l’esercizio più utile che si può fare per avere finalmente una filosofia per tutti. Ho fatto un discorso molto serio ma dovrei farne uno parallelo molto più ridanciano: l’umorismo e l’ironia, infatti, sono a mio parere strumenti essenziali proprio per smontare certi meccanismi. Del resto, l’ironia, Socrate insegna, è uno dei mezzi filosofici più classici. I comici spesso sono filosofi naturali e non si rendono conto di quanta filosofia ci sia nelle loro battute. Credo che la strada debba essere questa: riuscire a fare una filosofia divertente ma nello stesso tempo molto seria dal punto di vista dei contenuti, delle analisi e dei ragionamenti, partire dai problemi che anche i filosofi del passato vengano riutilizzati in modo più produttivo. L’ultimo suggerimento, allora, aiuta a vanificare il problema se si debba partire dalla storia della filosofia o dai problemi filosofici. Se si parte dai problemi, alla fine si arriva anche alla storia. Se si affronta ad esempio il problema della giustizia, quale miglior testo di riferimento può esserci della Repubblica di Platone, che conserva tuttora una sua grande validità? Si tratta di fare quello sforzo di immaginazione che ci permette di tradurlo nei termini che ci interessano oggi.

Andrea Poma* Ringrazio chi mi ha invitato. In questi anni mi sono occupato, tra l’altro, dell’elaborazione e promozione di una figura professionale relativamente nuova, quella del consulente filosofico. Vorrei fornire qualche dato storico. Si fa * Università

di Torino, già Presidente di Phronesis.

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risalire, come data di inizio, la nascita di questa consulenza filosofica al 1981, quando in Germania Gerd Achenbach ha fondato un istituto per la philosophische Praxis, per la professione. Questa figura professionale e la riflessione su di essa si è rapidamente diffusa in tutta o quasi tutta Europa, negli Stati Uniti d’America, in Canada e in Israele ed è arrivata anche in Italia, dove, all’inizio, in pochi se ne sono occupati. Poi nel 1999 si è costituita la prima associazione, la prima proposta organizzata sul tema, l’Associazione Italiana per il Counseling Filosofico a Torino, di cui anche io sono stato fondatore, che ha dato vita al primo corso di formazione, cui ha partecipato un gruppo “storico”, per così dire. Nel 2001 per una serie di vicende e di differenze questa associazione si è sciolta. Nel 2003 si è costituita una nuova associazione, l’Associazione Italiana per la Consulenza Filosofica Phronesis, della quale faccio parte. Parallelamente si sono formate anche altre organizzazioni. Phronesis è nata esplicitamente come associazione professionale, anche se ha avuto fin dal suo sorgere programmaticamente anche un’attenzione allo sviluppo teorico, ma è importante sottolineare che è nata come associazione professionale. Ha formato delle sezioni, che ormai sono diverse in Italia con molto più di un centinaio di soci, ed ha dato vita ad un percorso formativo per creare dei professionisti. La consulenza filosofica ha avuto grande visibilità mediatica ed è probabile che molti già ne abbiano sentito parlare. Dalla sua nascita è caratterizzata, come è tipico di ogni processo infantile ed adolescenziale, per differenza, e talvolta anche per differenza polemica o trasgressiva. Ad esempio in Achenbach era forte la polemica verso la filosofia accademica, per fare una filosofia rivolta a tutti, e poi c’era una forte polemica verso la psicoterapia in base ad una constatazione abbastanza vera, che nella nostra società c’è un fenomeno di patologizzazione eccessiva dei disagi e che lo psicoterapeuta diventa figura di riferimento anche per situazioni che non gli competono, in quanto non patologiche. Queste due punte polemiche sono ormai superate ma sono servite a creare un’identità. La consulenza filosofica si configura come una professione e si sviluppa essenzialmente in tre direzioni: una come consulenza individuale. Essa è rivolta a singoli individui, chiamati, secondo una terminologia ormai codificata in Italia, consultanti, che si rivolgono ad un consulente, che svolge la consulenza individualmente. Così la consulenza filosofica è nata, così l’ha professata Achenbach e questa è la forma più praticata, ma secondo me non la più importante, in prospettiva. In seguito è nata in Francia, con Marc Sautet e si è diffusa rapidamente anche in Italia, ed anche qui a Roma, una direzione ludica della consulenza filosofica, che è limitata nella pratica ma non per questo meno importante e che si riassume nella consuetudine, ormai diffusa da molte parti, del caf è philo, modalità attuale, una rivisitazione molto antica di una pratica 107

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tradizionale, che è quella della buona conversazione. Se Kant nella Critica della ragion pratica usa la buona conversazione come esempio di desiderio superiore vuol dire che era importante ma raro e difficile fare una buona conversazione, cioè non una chiacchiera, e talvolta merita farlo solo per il piacere di essere fatto. Il caf è philo è una forma di conversazione organizzata, gestita da un consulente filosofico, tra persone che volontariamente, spontaneamente vi partecipano, in modo che si abbia l’esperienza di parlare di un argomento che si sceglie in un modo tipico di una “buona conversazione”, che, cioè, non sia una chiacchiera, ossia con delle argomentazioni che siano credibili e seguano delle regole. Una terza direzione che oggi è la meno sviluppata ma che credo sia la più ricca di prospettive future è la consulenza filosofica in rapporto agli enti ed alle organizzazioni, alle aziende. Credo che se avviene, come sta accadendo, che questa figura professionale si rende credibile, ci sia uno spazio di competenze nel mondo delle organizzazioni e delle aziende che la riguarda, sia di competenze già esistenti che da produrre ma di cui c’è una reale esistenza. Per parlare di quelle già esistenti, pensiamo come già di fatto è largamente diffusa nelle aziende, anzi ormai già una necessità, il codice etico, le regolamentazioni del rapporto con il pubblico, le certificazioni di qualità, le gestioni delle dinamiche di lavoro di gruppo, tutte cose che attualmente esistono e vengono espletate o da consulenti del lavoro, che però hanno competenza di tipo organizzativo e manageriale o, di nuovo, da psicologi e psicoterapeuti o da impiegati che hanno meno da fare, per fare dell’ironia. Il giorno in cui la figura professionale del consulente filosofico sia credibilmente offerta con consulenze precise può credibilmente essere presentata come la figura giusta per svolgere questo ruolo. Siccome sbocchi per i laureati in filosofia ce ne sono pochi e questi spazi nelle aziende e nelle organizzazioni ci sono, la figura del consulente filosofico, che stiamo cercando di promuovere e di elaborare, ha questo orientamento.

Livio Rossetti* Mi sono proposto di parlare della filosofia con i bambini. Qui è presente uno dei pionieri in Italia di questo settore, Antonio Cosentino, e parto da qui per dire che sempre più si stanno creando le condizioni perché anche i bambini coltivino lato sensu riflessioni filosofiche senza snaturare né i bambini né la filosofia. Modalità ragionevoli hanno preso forma ed assistiamo ad una rapida moltiplicazione delle esperienze, in particolare delle cosiddette “maestre di fi* Università

di Perugia, Presidente di Amica Sofia.

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losofia”. Nella primavera scorsa abbiamo fatto i conti e sono saltate fuori cento maestre di filosofia in Umbria, concentrate in una piccola zona – poco più del 10% del territorio umbro – ossia tra Foligno e Perugia. Cento perché nel conto abbiamo dimenticato una scuola, altrimenti sarebbero state centodieci. Numeri non più tanto piccoli. Vorrei condividere con voi una telefonata che ho ricevuto nei giorni scorsi: un dirigente scolastico di questi istituti comprensivi che mi dice che ci sono alcuni genitori che desiderano l’inserimento della filosofia a scuola. La domanda è quindi partita dai genitori, e questa è una bellissima cosa che mostra che sta accadendo qualcosa di nuovo. Si è toccato con mano che questa offerta di pensare e riflettere ad alta voce in una classe per ascoltarsi e confrontarsi permette ai bambini di liberare energie positive, di innescare dinamiche positive, di migliorare la qualità della vita di relazione, di accrescere l’autostima, per cui accanto ai professori di filosofia delle università e dei licei, ed ai cultori di pratiche di consulenza filosofica, sta prendendo forma una sorta di terzo stato, o terzo tipo, o terzo gruppo ben caratterizzato di docenti che fanno abitualmente filosofia nelle loro classi e stanno maturando i tempi per accogliere e riconoscere questa nuova tipologia anche all’interno della società filosofica. E sta maturando la domanda di incontro ed ascolto di questi nuovi operatori che per ora si affacciano un po’ titubanti per forza di cose alle assise dei filosofi, e non possono non soffrire di un certo isolamento per il fatto di essere radicati nel proprio territorio, nella propria classe del proprio sobborgo, nel proprio paesino o angolino di una città. Da qui scaturisce un messaggio che voglio sottoporvi con una certa forza: l’urgenza di accogliere con tutti gli onori e fare festa a questi nuovi nostri compagni di viaggio, che appunto sono un piccolo, significativo e caratterizzato corpo sociale che si sta espandendo. La filosofia che si fa con i bambini delle elementari non è insegnamento, a rigore non è nemmeno iniziazione, è valorizzazione del potenziale filosofico dei bambini e dei minori. Massarenti tenta di valorizzare il potenziale filosofico di storie strane e di adulti distratti, ad esempio, e ci riesce molto bene, devo dire. Ci sarebbe da discutere del lancio del nano anche da altri punti di vista. Questo tema del potenziale filosofico dei bambini ha difficoltà a venir fuori e spesso non trova cultori. Ecco che è nata una generazione pionieristica di cultori che ha bisogno di essere meglio e più pienamente riconosciuta, accolta e rappresentata dalla società filosofica, ma forse anche non sarebbe male che gli uffici scolastici regionali cominciassero ad essere un po’ meno distratti. Ad esempio, l’Ufficio Scolastico Regionale di Perugia ha ricevuto il libro in cui raccogliamo il censimento delle cento maestre di filosofia, cui accennavo sopra, ma non ha notato nulla di nuovo in questa iniziativa. Questo mi suscita qualche perplessità: mi rivolgo soprattutto all’Ispettrice Sgherri perché si spenda qualche parola in 109

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questa direzione. Ho detto che i docenti che fanno filosofia in questo “terzo modo” alimentano una forte domanda di interlocutori, non possono non cercare interlocutori, naturalmente tra gli altri filosofi, e questo avviene perché i problemi non mancano: le idee per capire, inquadrare, valutare, correggere il tiro sono un’urgenza impellente. Costruire il tessuto delle relazioni con le altre maniere di fare filosofia è urgente, è anche il singolo che deve costruire mentalmente la rappresentazione di cosa stiamo facendo noi e di quanto o quanto poco ha in comune con quanto stanno facendo gli altri nonostante vistosissime differenze. Una sessione di bambini che discutono cosa succede quando i genitori discutono o danno una scoppola è una sessione di filosofia? Eppure… Vorrei ringraziare dell’opportunità che mi è stata offerta di presentare questa esperienza proprio in occasione dei cento anni della nostra Associazione: alla svolta dei cento anni è tempo di mettersi d’impegno a partecipare ed alimentare una riflessione anche su questo. C’è un ritorno di riflessioni che fanno bene a tutti anche per chi fa filosofia non alle elementari: si liberano energie nuove per tutti, come più d’uno tra i presenti mi saprebbe insegnare. Finora c’è stata la diffusa consuetudine di parlare della filosofia ai bambini quale formula unica e codificata, con il corollario di lasciare che prendessero forma delle riserve mentali sul conto di chi possa ritenersi non perfettamente allineato su una formula unica, codificata e magari importata. Questo è l’effetto di un contesto di relativo isolamento in cui questa esperienza è nata. Ormai, invece, il campo è molto arato e si è diversificato, anche per la disseminazione in contesti diversi, in classi ogni anno diverse tra loro. Questa molteplicità di attori, gruppi, linee guida che si vengono definendo è qualcosa di assolutamente fisiologico, è l’irrompere dell’età adulta che permette a tanti di sentirsi se stessi senza bisogno di chiedere la benedizione a destra o a manca; ma c’è bisogno di confronto e di condivisione. Concludo con il ripetere l’invito a guardare a questa realtà con speciale attenzione, come credo che meriti. Commento di Anna Sgherri Ringrazio Livio Rossetti. Questo è tutto un mondo di esperienze molto variegate, che non fanno riferimento ad un modello unico ma ad una modalità variegata di avvicinare l’esperienza filosofica in età infantile alle maestre e questo mi sembra molto importante perché in questo settore sono fioriti modelli diversi ed interessanti proprio per la loro diversità. Rimane tuttavia il problema, che è simile a quello posto da Andrea Poma sulla consulenza filosofica, e cioè quante di queste esperienze, svolte dentro la scuola in forma atipica o fuori in modo più professionale e sistematico, entrino nella scuola ed influiscano sul modo di insegnare filosofia, laddove c’è già uno spazio ricono110

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sciuto istituzionalmente, non ancora esistente negli altri casi. Sia la consulenza filosofica che la filosofia rivolta ai bambini sono come monadi che vagano in questo universo e sarebbe importante vedere e porsi il problema di come la scuola si ponga rispetto a queste suggestioni e come reagisca. La scuola non è un’altra monade che vaga ma nella scuola c’è un insegnamento organizzato. Lo eliminiamo o lo rinnoviamo?

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Mario De Pasquale* Dove la filosofia ha una valenza formativa, civile, culturale nella società? O nelle sedi istituzionalizzate, l’università o la scuola, o nelle pratiche all’interno della società civile: qui ne abbiamo alcuni importanti esempi, caffè filosofici, consulenza filosofica, philosophy for children. Da queste pratiche abbiamo imparato molto. Ma ora andiamo nella scuola. Che succede qui? Qui, dove l’insegnamento della filosofia dovrebbe avere una valenza fortemente formativa, formare all’autonomia del pensiero critico, a porre, discutere e risolvere problemi con metodi razionali, ad imparare a valutare criticamente, a prendere posizioni ragionate di fronte alle cose, a costruire coesione sociale, capacità di dialogo con le diversità, ecc. Ma come può la filosofia assumere questa valenza formativa nelle scuole, con decine di migliaia di ragazzi? Non a tutti i costi, non in tutte le condizioni e non in tutti i modi. Qui c’è una discontinuità, oggi, rispetto alla tradizione e di questo dobbiamo parlare, altrimenti accade ciò che accade al figlio di Antonio Gnoli che dopo tre anni di esperienza di filosofia tutto è rimasto come era prima, rivelando che quella scolastica è stata un’esperienza fortemente perduta di crescita e di sviluppo delle potenzialità umane. Per noi che ci occupiamo di queste cose è un problema serio. Evidentemente oggi esistono nuove richieste formative ed anche modi nuovi di rispondere a queste richieste, con la peculiarità della nostra tradizione culturale, certo, senza perderla, ma cercando di realizzare una comunicazione con i giovani in forme diverse, trovando forse anche alcuni punti di contatto con le pratiche filosofiche esercitate altrove. Il problema è chiaramente a lunga scadenza perché tutti i docenti che insegnano filosofia hanno un modo tradizionale di insegnare: la scuola italiana è un arcipelago di situazioni e di realtà infinite, questo è il nostro pregio e la nostra dannazione. Il travaglio che mai è riuscito a partorire una riforma della scuola secondaria superiore, e quindi anche dei curricoli e degli insegnamenti * Coordinatore

della Commissione didattica della S.F.I.

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delle varie discipline, e quindi anche della filosofia, mantiene una cornice antichissima. Sulla carta si dovrebbe ancora insegnare come la Riforma Gentile suggerisce. Ma in realtà non è così. Sebbene la cornice rimanga tale, la pratica è trasformata anarchicamente, come noi italiani siamo soliti fare, attraverso una pluralità di situazioni individuali e di gruppo. Per cui nella scuola c’è di tutto: dai docenti tradizionalissimi che non riescono a comunicare niente della ricchezza della filosofia alle nuove generazioni, ai gruppi di docenti innovatori che leggono e si aggiornano, riflettono, ed oggi è molto sviluppata la figura del docente che è un professionista e pensa a come potrebbe migliorare la propria pratica di insegnamento e valorizzare le potenzialità formative della sua disciplina. Negli ultimi quindici-vent’anni da questo punto di vista molte cose sono cambiate e mi dispiace che non tutti lo sappiano. Ha ragione il figlio di Antonio Gnoli che dice che un professore fatto in un certo modo non serve a niente: questo è innegabile, è un dato di fatto. Ma in Italia, dicevo, negli ultimi quindici-vent’anni molto si è discusso e si è sperimentato, molto si è innovato e molti insegnano in modo diverso. Ma questo è anche un problema che riguarda la formazione iniziale ed in servizio dei docenti, che deve tener conto delle punte più avanzate della ricerca e della pratica innovativa dell’insegnamento. Non so quando questo avverrà ma può darsi che avvenga. Il nocciolo del problema è che l’esperienza a scuola prepara alla vita ed alla società, ma ancor prima è essa stessa vita e società. Voglio dire come si può comunicare la ricchezza dei contenuti e delle forme di ricerca della nostra disciplina e delle altre, la ricchezza del pensiero degli autori come nella tradizione si è data nella sua pluralità (modelli plurali di filosofia, di ricerca, di metodi, di modelli di razionalità, di modi di scrivere, di comunicare, di affrontare i problemi) attraverso un insegnamento nozionistico? Non è assolutamente più possibile. Quello che nella comunità dei ricercatori si va dicendo da tanto tempo, e che l’amica Anna Sgherri come Ispettrice conosce benissimo essendone stata tra i promotori, è questo: se noi abbiamo una qualche presunzione di promuovere apprendimenti (e un apprendimento è una trasformazione degli assetti cognitivi, affettivi, sociali e culturali di una persona, se no, non è apprendimento) non possiamo farlo attraverso la trasmissione di qualcosa di morto come una cantilena enciclopedica, storica, totalizzante, di cose già fatte che non vengono rivissute dagli studenti, dalle persone, come una ricerca personale, non dico originale, ma trasmettendo una modalità di farsi domande, di porsi i problemi e di valutarli, discuterli, ragionarci sopra ed insieme agli altri, cercando di convalidare e rendere rigorosi i discorsi che si fanno. Noi cerchiamo di insegnare una pratica di ricerca sui problemi di senso, di valore etico, politico, sui problemi che sono tradizionalmente filosofici. Cerchiamo di trasmettere questo metodo attraverso la centralità dei contenuti: se, infatti, non c’è un riferimento 112

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alla tradizione, cosa facciamo? Bisogna portare le persone a rivivere il livello sorgivo da cui nasce la domanda, da cui si procede per cercare le soluzioni ai problemi che nascono nella vita, non nella disciplina: la disciplina li ordina a livello epistemologico, di concetti, teorie, ma sono innanzitutto problemi che nascono nella vita. Allora non è possibile ottenere trasformazioni se non attraverso la creazione di situazioni che mettano i giovani in condizioni di rifare questi processi di ricerca per la loro vita, per lo studio, per il lavoro, per la normale vita di relazione, a partire dai problemi reali della loro vita e a partire dalla tradizione, che è quello che sta nei testi dei filosofi. I testi sono ricerche già svolte, ma se non diventano qualcosa di nuovo, che le persone possano esercitare a livello coinvolgente, restano solo nozioni da salotto. Il punto nevralgico della questione è questo: molti di noi sono convinti che la strada giusta sia questa, della promozione di esperienze di filosofia in classe, ossia una pratica, cioè un insieme di azioni mosse ad una certa intenzione, che utilizza una certa tradizione per risolvere alcuni problemi con alcuni obiettivi. Questa è la pratica formativa nella nostra esperienza di insegnanti, che prende dai testi della tradizione i contenuti e le forme per imparare in proprio. Questo si riesce a fare, anche se con una qualche difficoltà. Si è citato in precedenza il problema della dicotomia tra impostazione storica o problematica della filosofia. I docenti ne parlano da trent’anni ed ha ragione Massarenti quando dice che tra le due impostazioni non c’è contraddizione. Non è che noi non vogliamo insegnare la storia della filosofia, anzi, per noi è fondamentale: il problema è che non possiamo insegnare l’enciclopedia, la dossografia. Noi daremmo un taglio storico, tematico, problematico al nostro insegnamento ed è chiaro che i problemi nascono nella storia. Ciò che noi insegniamo deve essere rappresentativo di una tradizione, di una pluralità di modi di impostare i problemi e di risolverli, di opzioni possibili di risposta, con nodi forti da cui poi si è svolta la parte importante della filosofia, ma ciò non vuol dire che non si deve girare intorno a temi e problemi legati al senso comune. Questa è una sfida: legare questo al senso comune degli studenti, che non è una brutta parola, ma fare riferimento alla comunità del sapere condiviso, alla base della comunità dei giovani. Questo sapere è preso in maggior misura dai contesti esterni, non solo dalla scuola, attraverso strade non in prima battuta logico-argomentative e razionali, concettuali. Ma con questa realtà dobbiamo fare i conti e dobbiamo cercare di mediare con essa. La seconda sfida è che i ragazzi hanno una molteplicità di stili ed approcci cognitivi, sono davvero diversi l’uno dall’altro. Dobbiamo valorizzare la socialità come comunicazione in classe, prendendo ad esempio, tanto per dire, la comunità di ricerca che ci viene dalla pratica di ricerca della philosophy for children. Gli studenti in classe devono avere una situazione comunicativa e relazionale in cui poter esprimere 113

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con una pluralità di modi e di linguaggi e di stili la loro personale ricerca e imparare a mediare con la realtà complessa e ricca della filosofia. Ma se manca una tale atmosfera di comunicazione tutto questo non è possibile.

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Dibattito

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Domanda n. 1 Nadia Boccai. Noi ci siamo posti il problema di come portare questo insegnamento di cui ha parlato Livio Rossetti nella scuola elementare e lo abbiamo portato e praticato nelle scuole e nelle università. Stiamo scrivendo il secondo libro su questa esperienza. Il problema che oggi dobbiamo porci è questo: perché possono esserci cento maestre elementari che fanno filosofia, perché alle elementari? Perché alle elementari, contrariamente che alle superiori, ci si pone il problema della relazione studente-professore. Le maestre si sono poste il problema di creare delle teste ben fatte e non portare solo dei contenuti. Il metodo che abbiamo messo a punto riguarda la motivazione e la partecipazione attiva degli studenti, come diceva Mario De Pasquale, attraverso l’esperienza filosofica in classe. Domanda n. 2 Antonio Cosentino. Volevo ringraziare l’amico Rossetti per questo riconoscimento del pionierismo, però mi chiedevo se sia il caso di rallegrarsene o no. Perché chi si trova un po’ per caso a fare questa esperienza pionieristica si trova nella situazione paradossale descritta da Platone nel Menone: capisci che c’è qualcosa da cercare, non la conosci però devi averne in qualche modo una precomprensione. Io ricordo che nel 1990 pensavo di incontrare Lippmann, poi ho incontrato il mio “smarrimento” ed ho capito cosa fosse fare pratica filosofica, o almeno un modo di farlo. Di lì è partito un percorso personale che si è allargato ed ha prodotto questa esperienza della philosophy for children. In altre parole: spesso si sente dire in giro l’espressione “filosofia per bambini”. Ma devo confessare una cosa un po’ inquietante: una filosofia per bambini credo che non esista; e se pensiamo la filosofia come disciplina e pensiamo di portarla ai bambini la sviliamo e la perdiamo. Ciò che si può fare, forse, è pensare una pratica filosofica che io distinguo dalla disciplina, e quella sì può essere fatta dai bambini, come 115

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da chiunque. Il problema, dunque, è capire cosa sia una pratica filosofica. Nel curricolo scolastico di Lippmann ci sono punti di riferimento interessanti per comprendere cosa può essere una pratica filosofica.

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Domanda n. 3 Luciana Ianco. Prima ancora di chiedersi se sia necessario insegnare la filosofia o la storia della filosofia (domanda che i docenti si pongono da tanti anni ed intorno alla quale hanno lavorato molto, anche in collaborazione con il Ministero) bisogna interrogarsi sul valore delle domande che la filosofia si è sempre posta e continua a porsi nella società che cambia continuamente. Questa domanda è da me sempre stata sollecitata negli anni di insegnamento ed ha trovato negli allievi una condivisione sincera, perché andava a conoscere, quindi aveva una forte valenza cognitiva, ma andava, soprattutto, nella direzione della conoscenza di se stessi, toccando un tema già discusso qui oggi. Il carattere della scoperta di sé ricompone quella frattura tra conoscere e sentire che caratterizza sempre l’apprendere a scuola. Qual è la finalità della filosofia? Far agire il logos nelle aree di turbolenza, in modo da stabilire somiglianze e differenze; ma, soprattutto, nella pratica dell’insegnamento, la filosofia ha come finalità il riconoscimento del sé e dell’altro nell’ottica di valori sociali che costituiscono il vincolo civile della nostra esistenza. Risposte dei relatori Antonio Gnoli. Lo sforzo che ho colto in questi interventi è la necessità di connettere in modo sempre più forte e significativo questa pratica filosofica con l’esterno. Ho l’impressione che per quanto si possa gratificare questo rapporto, secondo me tutt’altro che definibile in concettualizzazioni molto precise, noto un’interessante casualità e forse anche necessità, al tempo stesso. Tutta la discussione intorno a questa “strana” nuova figura del consulente filosofico, devo ammettere, mi fa un po’ inorridire (ho avuto un paio di settimane fa un dibattito proprio sull’argomento: mi chiedo cosa faccia, buona conversazione? Terapia di gruppo? Terapia individuale?). Mi stupisce che quando ne ho parlato con persone di certa intelligenza e cultura precisa (erano persone che arrivavano in nove casi su dieci dall’ultimo stadio della psicanalisi), esse dicevano al consulente filosofico, soggetto professionalmente non meglio identificato, che la cosa importante era la guarigione, la cura, come se attraverso quelle parole definite da una professione sia possibile tirar fuori un rapporto positivo e co116

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struttivo. Questo mi lascia perplesso. Il fatto che i giornali ne abbiano parlato non fa testo, perché i giornali parlano di tutto e sono una specie di griglia che raccoglie tutto. L’eccesso d’informazione crea, ovviamente, una conoscenza minima, vecchio paradosso di Chomsky che Massarenti intelligentemente prima ricordava. Le intelligenze sono fatti individuali: il mio consulente filosofico può essere addirittura il mio barbiere; se le mie conversazioni con lui mi dotano di senso ulteriore rispetto alle questioni che stiamo affrontando; credo in quella circostanza di aver imparato qualcosa. Questo qualcosa ha la cornice e la dimensione filosofica? Non so: la vera filosofia è il rapporto con la povertà più che con la ricchezza del pensiero, secondo me, e nella povertà la filosofia trova, se non una soluzione, una dimensione. La grande ricchezza che il multiculturalismo ci offre è una dimensione in cui queste figure fascinose di gente che si occupa di filosofia aggiungono un elemento “pittoresco”, interessante, da cui può scaturire qualcosa che serve all’altro. Andrea Poma. Dagli interventi che sono stati fatti vorrei riprendere solo un punto toccato da Antonio Cosentino, punto che vorrei precisare e sul quale entrambi siamo d’accordo: nel farlo non mi sento portavoce del mondo della consulenza filosofica, all’interno del quale, infatti, esistono opinioni differenti, come anche al di fuori, come si è sentito oggi. Vorrei riprendere questo punto per chiarirlo, anche rispetto ad un certo scetticismo di chi studia filosofia, persone delle quali anche io faccio parte. Queste pratiche filosofiche (e ribadisco che questa è una mia opinione) non sono “fare filosofia”. E questo va detto anche a tutti gli onesti studiosi di filosofia che guardano a questa volgarizzazione con diffidenza, la stessa diffidenza che anche io provo. “Fare filosofia” è un’attività da specialisti che si fa tra specialisti e per specialisti. La consulenza filosofica è un’altra cosa: è usare delle competenze che derivano dalla conoscenza filosofica per delle pratiche professionali. Vorrei poi sciogliere un equivoco: la consulenza filosofica non è una pratica terapeutica e questa sua natura “non terapeutica” è dichiarata esplicitamente negli statuti di tutte le associazioni mondiali di consulenza filosofica. Armando Massarenti. Mi sembra che, tuttavia, la consulenza filosofica sia stata posta mediaticamente come pratica terapeutica sostitutiva di altre pratiche terapeutiche. Ritengo che la filosofia possa avere una funzione (anche se limitata rispetto ad altre vie come la psichiatria o la psicanalisi) che ha a che fare con la terapia, come quella che citavo nel mio intervento, alla Wittengenstein, di chia117

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rire i problemi e magari scoprire che sono dei falsi problemi. Continuamente facciamo girare la nostra mente su questioni che invece, se ben analizzate, si dissolvono in modo totale. Apro solo una parentesi su questi modi di porre la filosofia in maniera non tradizionale e non scolastica. Vorrei poi fare un’osservazione sulla questione della philosophy for children, sul fatto che la filosofia è per tutti e praticata da tutti in modo spontaneo, raccontando un episodio accaduto a me personalmente al Festival della Mente che si è tenuto a gennaio a Roma. Non è il Festival della Filosofia, ma scopriamo che, anche se denominati con altri nomi, tutti questi festival hanno a che vedere con la filosofia e con le scienze cognitive. In occasione di questo festival ho incontrato Marc Hauser, un grande psicologo cognitivo, che mi raccontava del suo sito molto interessante (reperibile su Internet alla voce di ricerca moral sense) ideato ad Harvard, sul quale è in corso un grande esperimento mondiale: si pongono dei dilemmi morali e si vede cosa la gente risponde. Siamo in un contesto anche qui “chomskiano”: si cerca di capire, però, non se esiste una competenza linguistica ma una “competenza morale”. Viene fuori che la gente ha risposte istintive ed immediate su cosa sarebbe giusto o sbagliato fare in certe situazioni, ma non sa motivare le proprie risposte, non sa dire perché farebbe una cosa piuttosto che l’altra. Ci sono anche maggioranze schiaccianti su alcune risposte. La cosa notevole è che Hauser mi raccontava tutto ciò mentre aveva accanto a sé sua figlia adottiva di quattro anni, proveniente dalla Russia. Mi stava raccontando una classica situazione di dilemma morale: quella del binario sul quale se uno lascia andare il treno ucciderà cinque persone situate in fondo a quel binario, se aziona la leva del cambio il treno devierà e ne ucciderà solo una. La bimba ascoltava con grande attenzione ed in una frazione di secondo ha saputo rendersi conto dei termini della questione e ha dato una sua risposta: questa rapidità e questa consapevolezza da parte di una bambina di quattro anni mi hanno davvero colpito. Quanto c’è di cognitivamente interessante o istintivamente filosofico nelle nostre risposte immediate o quanto queste vengono confuse da certi modi di porre le questioni? Evocavo nel mio intervento il paradosso di Chomsky, del perché sappiamo così poco pur avendo una tale quantità di informazioni: questo avviene proprio perché gli stimoli sono tanti e spesso fuorvianti. L’esercizio mentale sta proprio nel riuscire a catturare certe modalità comunicative che ci portano fuori strada e questo richiede un equilibrio costante tra le nostre capacità argomentative e gli istinti. Un’altra cosa che emerge da questi studi sul senso morale è quanto poco usiamo la razionalità: usiamo molto più i nostri istinti, il senso di disgusto che non l’analisi concreta, e questo è suffragato da studi scientifici. Sono basi empiriche che però tengono conto di come pensiamo nelle situazioni quotidiane.

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Livio Rossetti. Mi limito ad auspicare che ciò di cui noi abbiamo discusso qui in un’ora e mezzo possa diventare oggetto di almeno un giorno durante il prossimo congresso della S.F.I. Mario De Pasquale. Vorrei riprendere l’osservazione fatta dalla collega sul sentire e ragionare. Molti dimenticano che siamo di fronte non solo ad una rivoluzione della tecnica, ma anche ad un’estetizzazione della vita quotidiana, già presente nei nostri giovani. Sapere che nelle scuole lo strumento della musica e del cinema non deve essere usato per “arruffianarsi” i giovani in termini retorici, ma per ampliare i confini dell’esperienza filosofica in classe, vuol dire sapere che questi strumenti possono aiutare a far sorgere domande ed interrogativi sui quali ragionare avvalendosi della tradizione. A proposito della tradizione delle pratiche vorrei dire che, secondo me, l’interesse delle pratiche è per prima cosa il “campo filosofico”, direbbe Michelle…, cioè la scoperta che c’è una domanda di filosofia che nasce dal fatto che ormai l’individuo è lasciato a se stesso, non esiste più la rete protettiva della cultura tradizionale, ognuno deve trovare da solo il senso, ma c’è un modo diverso di rapportarsi al sapere filosofico, perché tutte queste pratiche hanno in comune l’oralità, la condivisione anche del pathos, il ragionare insieme, lo scambio, il contatto, la discussione in comune. Il secondo “campo” è quello democratico, il desiderio di partecipazione, di far sentire la propria voce, di poter farsi sentire nel cercare la soluzione ai problemi, di essere se stessi insieme agli altri senza autorità che ti opprimano, di fare esperienza di ricerca insieme. C’è infine il terzo “campo”, quello della socialità, della convivialità ma non banale, bensì intesa come un tempo ed uno spazio esonerati dalla funzionalità, dalla produzione, dalla frenesia della vita, uno spazio da dedicare a sé, alle cose importanti della propria vita. Abbiamo fatto un’esperienza nella Sezione di Bari della S.F.I.: la sera venivano duecento, trecento persone a cercare uno spazio importante per la propria vita in cui ci fosse autenticità, la coltivazione di conversazioni su cose importanti della vita che arricchissero anche noi. Il problema è il rapporto di queste pratiche con la tradizione filosofica: uno può fare un’esperienza di democrazia o di convivialità, ma questa può non avere niente a che vedere con la filosofia, e viceversa. Noi docenti nella didattica abbiamo preso da queste pratiche l’interesse per il rapporto con la realtà, per la comunicazione entro cui fare esperienza di filosofia, l’oralità fatta di scambi, di partecipazione in una comunità di ricerca; abbiamo cercato di creare in classe un clima qualitativamente diverso,

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non oppresso dal dover fare questo e questo ma uno spazio di ricerca libera sulle cose della propria vita.

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Conclusioni di Anna Sgherri Vorrei, in conclusione, richiamare l’attenzione su alcuni punti problematici che sono emersi e che potrebbero essere davvero l’oggetto di un’altra giornata di convegno. Il primo è il passaggio dalla pratica filosofica spontanea ad uno studio condotto con strumenti adeguati, su problemi di attualità certo, ma, ribadisco, con strumenti adeguati, il che significa passare dall’infanzia all’età adulta del pensiero. Questo è il problema della scuola, il problema che ci poniamo ed intorno al quale continuiamo a girare, ma che non abbiamo ancora affrontato. Perché sulla pratica filosofica e sulla questione della motivazione, attraverso anche modalità immediate di accostamento dei problemi, siamo tutti d’accordo ed a livello della scuola elementare questo è molto più facile perché si tratta di una valorizzazione del potenziale filosofico spontaneo. Ma il passaggio alla riflessione sugli strumenti è un passaggio duro, che riguarda la disciplina del pensiero, tuttavia esso coincide con il passaggio della persona dall’infanzia all’adolescenza, quando ci si scontra con gli ostacoli degli strumenti per dominare se stessi. Il problema scottante è questo: mantenere la freschezza della pratica filosofica, ma al tempo stesso avviare il giovane ad una ricerca e ad una riflessione fondata con strumenti adeguati, non solo con la spontaneità e con l’entusiasmo, ma anche con il bagaglio necessario per affrontare in modo adeguato i problemi. Il secondo punto posso solo accennarlo: amici miei, siamo tutti d’accordo sul fatto che l’ “insegnante giusto” va bene, ma abbiamo investito tutto in questi ultimi quindici anni sui docenti, perché il docente è l’animatore ed il regista di tutte queste situazioni. Questo richiede ricerca ed investimento di tempo, di risorse, di attenzione sugli insegnanti e sulla loro professione. Perché gli insegnanti non “nascono” buoni o cattivi, ma possono diventarlo. Io non credo all’insegnante artista, bensì all’insegnante professionista esperto, che ragiona sulle proprie risorse e che sa trovare le soluzioni appropriate ad ogni momento.

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Sezione IV

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L’INSEGNAMENTO DELLA FILOSOFIA NELL’UNIVERSITÀ DOPO LE RIFORME

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Introduzione

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Vincenzo Cappelletti* Ringrazio l’amico carissimo Mauro Di Giandomenico per avermi messo in questo programma affidandomi la moderazione di questa tavola rotonda. Di qui a pochi giorni il titolo di questa tavola rotonda sarebbe stato diverso: L’insegnamento della filosofia nell’università tra Riforma e Controriforma. Ha avuto inizio, infatti, la Controriforma dell’università. Non parte da noi, che siamo una periferia della storia, pur se nobile e bella, ma in Germania, la creatrice dalla terza critica di Kant all’intervento di Humboldt a Berlino, dell’università nella quale fino a ieri ci siamo riconosciuti. Ebbene, la Germania ha deciso di seguire un altro cammino, i grandi quotidiani tedeschi sono pieni della vicenda della ricostituzione di università di rango superiore, sono pieni dello scandalo della mancata inclusione in queste università della Humboldt Universität di Berlino, che sembra fatto apposta per fare uno sgarbo e mi pare che l’età della Controriforma sia iniziata. Io sono un controriformista rispetto all’università, giro con la guida alle lauree magistrali, anche se apro a caso piombo su una laurea magistrale a cinque anni a ciclo unico. Ce ne sono di abilmente ottenute, ad esempio, la Facoltà di Giurisprudenza tradizionale, sede del potere politico in Italia, non solo è rimasta nella parte sostanziale a ciclo unico, salvo alcuni diplomi di minore importanza, ma ha preteso di crescere di un anno, ed è quindi a ciclo unico di cinque anni. Anche gli architetti, amici di potenti variamente collocati, sono riusciti ad avere un ciclo unico. La medicina produce professioni mediche secondarie ma è rimasta a ciclo unico. Spero che uno dei prossimi congressi di filosofia vedrà ripristinato il ciclo unico per la filosofia, per la matematica e per le filologie. Sogno il momento in cui la gloriosa università italiana tornerà in questo nucleo forte di se stessa, ad ordinarsi secondo un ciclo unitario, rigoroso, che metta alla prova la resistenza allo studio di docenti e discenti, perché viviamo in un mondo che ha bisogno di conoscenze non occasionali, non ebdomada* Presidente

della Società Italiana di Storia della Scienza.

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rie, ma sostanziali. Lasciatemelo dire, perché questo nostro incontro è bello e così signorile, come Mauro Di Giandomenico ha saputo organizzarlo, ma affluiscono notizie e prese di posizione nuove da assimilare e da ripensare. Vedo la filosofia in futuro come una facoltà a numero chiuso, per non creare disoccupati, anche se si collocheranno tra i più bravi dirigenti d’azienda, direttori generali della cosa pubblica, riportata su un lungo ed organico ciclo di apprendimento, collegato con la scienza che oggi è la più vicina alla filosofia, ed in particolare alla matematica, e collegata alle grandi filologie, una moderna e due grandi filologie antiche. Permettete che esprima questo mio sogno. Questa tornata è di grande interesse perché raccoglie il problema dell’insegnamento della filosofia nell’università dopo le riforme. Siedono qui al tavolo colleghi che hanno primaria responsabilità negli organismi di settore che si occupano di questi problemi: il Coordinatore della Conferenza dei Presidenti dei Corsi di Laurea in Filosofia, Giulio D’Onofrio, l’amica Gianna Gigliotti, Presidente della Consulta Nazionale di Filosofia, Giulio Giorello, Presidente della Società Italiana di Logica e Filosofia della Scienza, Claudio Rugarli dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, grandiosa esperienza universitaria del tipo di quelle che dicevo, cioè una Facoltà di Filosofia in un’università medica, Walter Tega, Presidente della Società Italiana di Storia della Filosofia, e Luigi Ruggiu del Consiglio Universitario Nazionale. Sentiamo come stiano le cose della filosofia da questa salute un po’ malferma che talvolta manifesta, presidio di quel dreifaches Streben des Geist, “triplice sforzo dello spirito”, cui era legata l’università moderna al suo nascere a Berlino, vediamo come stia la filosofia e, amici, difendiamola fortemente. La filosofia non è un chiacchierare, ma un pensare, un avvertire che l’umano pensiero ha problemi di fondamenti e di rigore al proprio interno di estrema importanza e solo coltivando il problema dell’umano pensiero in quanto tale ne derivano benefici alle scienze ed alle altre discipline. La filosofia deve conservare un posto centrale nell’università. Siamo fieri di essere ospiti della Facoltà di Filosofia di Roma Tre, piena di competenze, vivacità, aperture ed anch’io per la mia parte ringrazio di questo. Ora, seguendo l’ordine indicato, prego Giulio D’Onofrio di prendere la parola.

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Interventi

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Giulio D’Onofrio* Ringrazio Vincenzo Cappelletti, anche se mi ha rubato la battuta iniziale in quanto volevo fare anche io questo riferimento alla Controriforma che è già cominciata e che ci impedisce di fatto di parlare dell’insegnamento delle filosofie in Italia dopo le riforme ma, semmai, durante le riforme, se avranno fine, o, se vogliamo e con un titolo un po’ alla Márquez, ai tempi delle riforme, visto che ci troviamo in una situazione in cui non sappiamo bene se ciò che abbiamo fatto ha funzionato, funziona e funzionerà. Io parlo a nome del Coordinamento dei Presidenti dei Corsi di Studio e Aree Didattiche in Filosofia e Discipline affini che proprio ieri, su mia richiesta, abbiamo riunito in quanto volevo qualche supporto o idea per parlare di cosa sta succedendo in relazione a questo status di riforme in corso. Devo quindi comunicare ciò che è emerso: un forte disagio provato prima dinanzi ad una riforma complessa da attuare e dopo cinque anni di lavoro intenso e faticoso quando ci è stato detto che bisognava ricominciare tutto daccapo. Abbiamo davvero avuto la sensazione che il lavoro compiuto fosse o inutile o comunque inutile in buona parte e la sensazione di trovarci di fronte ad una fatica di Sisifo e a dover ricominciare a tirar su il masso che era appena caduto a terra. Per di più abbiamo operato in questa riforma, attuando ciò che ci sembrava possibile e nel modo in cui ci sembrava possibile con grande impegno da parte di tutti i colleghi non solo ma anche dell’area filosofica, anche se in questa riforma non tutti credevamo. La generazione di docenti alla quale io appartengo si è trovata alla fine della carriera, nel momento in cui si era raggiunta una certa stabilità accademica, in un momento in cui l’università cambiava, ricevendone la sensazione che una bella donna, alla quale avevamo fatto la corte per tanti e tanti anni, appena ci concedeva le sue grazie si sottoponeva ad un intervento di plastica facciale che ne cambiava i connotati. La sensazione fu sgradevole: anche perché nella maggior parte dei casi i colleghi più anziani ci manifestavano uno sconcerto nel dover cambiare qualcosa che funzionava. * Coordinatore

della Conferenza dei Presidenti dei Corsi di Laurea in Filosofia.

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L’esperienza dei primi anni non fu priva di difficoltà e problemi. Proprio negli aspetti più importanti e sui quali più si insisteva, da parte delle autorità sembrava celarsi un lato oscuro che rendeva più difficile il nostro discorso: mi riferisco all’autonomia delle università. Esso è senza dubbio un aspetto da incoraggiare, che consente libertà nell’attuazione dei progetti. Tuttavia questa libertà è diventata incontrollabile. La stessa fissazione del valore del credito a un rapporto determinato delle ore di studio e di quelle di didattica è stata applicata con estrema libertà in modo variegato da diversi atenei, da diverse facoltà, da diversi corsi di studio nella stessa facoltà, al punto che non si capiva più nulla di cosa accadeva nel corso di studio accanto, con problemi gravissimi quando poi ci si è trovati di fronte a passaggi tra corsi di laurea, trasferimenti di studenti, per non parlare delle mutuazioni, la cui disciplina diventava praticamente impossibile perché se un Corso di Laurea in Filosofia voleva attivare un insegnamento di italiano per “x” crediti, chiedendolo al vicino Corso di Laurea in Lettere, per fare uno tra gli esempi più facili, il Corso di Laurea in Lettere attribuiva però a quel corso “x + 2” crediti e bisognava operare come su un letto di Procuste, stiracchiando i piani di studio degli studenti ed ottenendo un risultato spesso mostruoso. Altro problema: il “3 + 2”, ossia il passaggio dalla laurea triennale a quella specialistica, ci apparve come un grande sviluppo della specializzazione visto che era possibile la scelta tra ben tre lauree specialistiche dopo un’unica laurea triennale. Con il risultato, però, che i crediti di una sola triennale non potevano trovare riscontro in tutte e tre le lauree specialistiche, dando vita a rompicapo pazzeschi per cui io e i miei colleghi ci siamo trovati a dover impiegare più tempo a ricostruire le carriere degli studenti una per una che non a organizzare la programmazione didattica. Le carriere degli studenti andavano ricostruite anche perché (elemento importante di cui ci siamo accorti molto tardi) c’era l’esigenza dell’accesso alle classi di abilitazione per l’insegnamento, le famose classi che richiedevano esami di storia, di sociologia, esami che noi avevamo inserito senza sapere, perché non ci era stato comunicato che avremmo dovuto attribuire a questi esami un certo numero di crediti per renderli efficaci per l’accesso alle classi di abilitazione. Il Ministero della Pubblica Istruzione, infatti, interpretava questi crediti in relazione ai vecchi esami di 60 ore, in 12 crediti. Erano quindi necessari 24 + 24 + 24 + 24 crediti per accedere alla classe di abilitazione in Scienze Umane e Storia, con il sorgere, quindi, dell’obbligo per gli studenti di sostenere esami ulteriori, approfondimenti, acquistando crediti in più oltre a quelli già previsti, con la conseguenza di perdite di tempo e di studi fuori corso. C’è stata, poi, la frenesia dei moduli: ci è stato detto: “Moltiplicate gli insegnamenti, potete fare tante cose in più!” e ci siamo ritrovati a 40-50 insegna126

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menti, con un numero equivalente di esami che gli studenti dovevano superare, e quando gli studenti ci chiedevano quanti esami avrebbero dovuto sostenere nell’anno accademico e noi dovevamo rispondere loro che andavano dai 20 ai 34 esami annuali, ci sentivamo certo in difficoltà a citare questi numeri. Poi ci è stato detto di riaccorpare i moduli, di recuperare gli esami unitari, ecc. Non vorrei, però, esagerare con le note negative e vorrei dare, a questo punto, anche qualche nota positiva, anche perché io insegno Storia della Filosofia Medievale e nella filosofia medievale non esiste il pessimismo. Vorrei ricorrere ad una barzelletta che raccontò a lezione Enrico Castelli, un nome che qui è stato citato ieri tra i protagonisti della Società Filosofica Italiana. La barzelletta raccontava che un matto cercava di infilare un chiodo nella parete, ma dalla parte della testa invece che dalla punta. Passava un altro matto e gli diceva: “Ma non vedi che quello è un chiodo della parete di fronte?”. In questa barzelletta c’è qualcosa che può esserci utile: il chiodo basta girarlo. La riforma basta applicarla ripensandola, capovolgendola, dandole una maggiore efficacia e senza buttare via, come il bambino con l’acqua sporca, i risultati di questi cinque anni di lavoro. Ci sono molte cose importanti che abbiamo fatto e vorrei ricordarle. Ci è stato detto di insegnare l’informatica: non ci siamo limitati alla programmazione o all’uso di Word o di Excel, ma abbiamo, in moltissime università italiane, provato ad applicare l’informatica alla filosofia, ai database che servono alla bibliografia ed alla lettura dei testi filosofici, e perché no, anche sistemi di videoscrittura adeguati all’elaborazione di saggi filosofici. Abbiamo lavorato sulle lingue, elemento che consente l’internazionalizzazione dei nostri studenti in modo mai pensato prima, ed abbiamo potuto mettere gli studenti direttamente in contatto con i testi filosofici in lingua originale, sia nelle lingue classiche, latino e greco, che nelle lingue moderne, e consentire loro esperienze che noi da studenti o abbiamo fatto da soli perché obbligati da qualche docente oppure non abbiamo fatto. Sul piano strettamente disciplinare ci sono molti nuovi esperimenti didattici in corso, una didattica interattiva, dialogica, problematizzante, il recupero dell’idea del seminario nel quale lo studente non è passivo ascoltatore, ma produce relazioni sulle esperienze di studio svolte in biblioteca o durante periodi di studio all’estero (Erasmus, Socrates), contribuendo in modo reale al perfezionamento anche degli altri studenti. Davanti al pessimismo iniziale, dunque, mi sentirei di dire che dobbiamo cercare di fare qualcosa in più, portare gli studenti verso la specializzazione che questa riforma consente, valorizzare la laurea magistrale, il dottorato di ricerca. Lamentiamo spesso il fatto che nelle aree umanistiche il dottorato di ricerca riceve pochissime borse di studio, e questo è facilmente constatabile fa127

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cendo un confronto con l’area scientifica (Ingegneria, ecc.): le due borse che ci consentono di andare avanti sono davvero poca cosa. Eppure in area filosofica sono in corso esperimenti molto fortunati che riescono ad imporsi in modo operativo mediante consorzi ed internazionalizzazioni, oppure mediante efficace perfezionamento della specializzazione e che talvolta consentono di poter competere anche con i dottorati di altra area. I fondi di ricerca a disposizione delle aree umanistiche e della filosofia sono decisamente pochi, ma questo non significa che dobbiamo smettere di progettare, programmare e cercare di ottenere non solo quei fondi che ci consentano di fare convegni o nostre pubblicazioni, ma anche di stanziare borse di studio per dottorati e post-dottorati, assegni di ricerca, fondi per far pubblicare agli studiosi giovani più meritevoli i loro risultati. Arrivano voci che ci spaventano sul fatto che la nostra laurea magistrale potrebbe servire a poco dal punto di vista funzionale per entrare nel mondo dell’insegnamento. Sappiamo che sono in corso progetti per consentire l’accesso alle scuole di abilitazione all’insegnamento a chi ha solo il titolo di laurea triennale: forse questo può essere ragionevole in qualche area scientifica, ma nelle nostre aree, filosofica ed umanistiche, è follia. Bisogna avere il coraggio di far sentire la nostra voce perché questo non accada, altrimenti il rischio, Vincenzo Cappelletti, è che attueremo nuovamente il ciclo unico negli studi di filosofia, ma sarà triennale e non quinquennale. Per evitare questo, io credo che l’unico forte incoraggiamento che, a nome dei Presidenti che rappresento, devo qui dare è rimboccarci di nuovo le maniche e lavorare in modo serio ed impegnativo per realizzare qualcosa che metta a frutto i risultati ottenuti e ne produca di nuovi.

Gianna Gigliotti* Desidero innanzitutto portare ai colleghi che insegnano nelle scuole il saluto dei colleghi che insegnano nelle università, perché la Consulta Nazionale di Filosofia altro non è che l’unione di tutti i docenti di filosofia delle università italiane. Tutti noi insegniamo e credo sia importante che ci teniamo in contatto. Voglio farmi portavoce, inoltre, di una forte preoccupazione. Ieri Enrico Berti ricordava come la S.F.I. si sia vista affiancare nel corso del tempo altre associazioni: a questo tavolo siamo in tre a rappresentare altrettante associazioni, Giulio Giorello, Walter Tega ed io, e poi ce ne sono molte altre, la Società di * Presidente

della Consulta Nazionale di Filosofia.

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Estetica ed altre. Credo che sarebbe in questo momento opportuno chiamarci a raccolta tutti in relazione a ciò che D’Onofrio diceva in conclusione. Il “3 + 2” ha luci ed ombre. Probabilmente per la mia generazione è più facile vedere le ombre piuttosto che le luci. Ma qualche luce ci siamo sforzati di vederla: c’è più elasticità, una maggiore possibilità di interagire con le altre discipline rispetto al passato, anche se a volte queste luci sono più apparenti che reali. Se davvero dovesse essere sufficiente la laurea triennale del primo ciclo per accedere all’insegnamento nella scuola superiore io vedrei un’ombra grandissima: per come è costruita ora la laurea triennale, per come è frammentata in discipline piuttosto piccole che possono essere prospettate, rende molto difficile un elemento importante che è quello della vicinanza tra la ricerca, ciò che facciamo quando studiamo, e la didattica, ciò che facciamo entrando in classe e trasmettendo i nostri studi. Questo è difficile farlo al triennio, periodo in cui siamo costretti a ricostruire delle basi culturali e di contenuti anche elementari e a fornire conoscenze meno aperte dal punto di vista critico. Pensare di dire che non serve quel biennio in cui i ragazzi possono entrare in contatto più da vicino con le modalità della ricerca e con la trasmissione di una conoscenza più sottoposta a critica e revisione, pensare che il triennio sia sufficiente per dedicarsi, poi, ad un percorso più tecnicamente costruito su discipline fondamentali per l’insegnamento mi sembra che corrisponda ad un’idea un po’ povera dei docenti, e quindi anche voi insegnanti della scuola superiore dovete comprendere quanto sia critica questa situazione. Non c’è, cioè, la volontà di “infliggere” un percorso eccessivamente lungo, anche perché sappiamo quanto gli sbocchi siano difficili, ma non si può neanche pensare di sottrarre uno dei momenti più significativi della formazione universitaria. Non dico che sia riproponibile la situazione che alcuni di noi hanno vissuto, di avere al liceo docenti di filosofia che poi sono passati all’università, ma certo, se decidiamo che sia sufficiente il grado che si raggiunge nella laurea triennale, credo che sia una visione dei docenti e degli insegnanti estremamente impoverente e sarebbe davvero un danno per tutti.

Walter Tega* Sono convinto che ciò che ci è stato detto qui da D’Onofrio e da Gigliotti sia da meditare profondamente. Non ci saremmo aspettati che il nuovo Governo cominciasse a riflettere su ciò cui noi eravamo arrivati. Abbiamo fatto * Presidente

della Società Italiana di Storia della Filosofia.

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una lunga esperienza nelle università: io mi sono occupato della riforma come Preside prima e poi come Prorettore di una grande università italiana, l’Università di Bologna, e devo dire che lo sforzo è stato immane, perché abbiamo voluto rispettare, come le università fanno, le leggi della Repubblica. Direi che la riforma aveva aspetti molto positivi, accanto ad altri gravi da risolvere. I professori, probabilmente, hanno aggravato quelli negativi, volendo stare dappertutto, come spesso accade, anche perché il triennio ed il biennio sono stati lanciati in tempi diversi e non ci hanno dato mai l’occasione di riflettere sull’arco complessivo del quinquennio. Ora invece questo è possibile e credo che alcuni interventi, già deliberati o che si annunciano, siano per noi estremamente problematici e seri. Abbiamo discusso prima dell’insegnamento della filosofia nei licei: ma cosa pensate? Che un professore che compie un ciclo di tre anni di studio possa poi rispondere a tutte quelle esigenze che sono state poste? O che possa farlo usando le SSIS? Io non so bene cosa avvenga nelle altre città, ma a Bologna da noi la SSIS è un elemento residuale, poco più che un ectoplasma. Può darsi che in altre città sia fiorente, ma non mi sembra che abbia acquisito nessun elemento di vantaggio rispetto alle università, che hanno invece un’esperienza consolidata. Questo è quanto volevo dire sulla riforma. Gli elementi positivi ci sono: intanto c’è un anno in più, l’itinerario degli studi si è allungato perché, anche laddove i corsi universitari erano brevi, le possibilità di formazione post-laurea si sono allungate e non mi porrei il problema della lunghezza degli studi. Mi porrei invece il problema delle modalità attraverso le quali passa la formazione universitaria: questo è il problema che abbiamo cominciato a porci quando abbiamo pensato a cosa dovesse differenziare il triennio dal biennio. Abbiamo pensato che punto centrale del biennio fosse la tesi di laurea e che l’organizzazione non potesse somigliare a quella triennale, ma non avevamo gli strumenti. Ora abbiamo gli strumenti ma non avremo poi il terreno su cui sperimentarli. Questo è un problema molto serio. Nel frattempo, però, la filosofia all’università ha fatto molti passi, tant’è che ognuno di noi stenta a pronunciare la parola “filosofia” senza pensare a tutte le sue articolazioni: il corpo mistico non c’è più e, per prendere a prestito un’espressione usata stamattina da Marramao, sussiste ormai un universalismo della differenza. Le discipline che insegniamo hanno una forte caratterizzazione autonoma e tutte le panacee alle quali si alludeva nella giornata di oggi relativamente alla filosofia forse non ci sono, a meno che non consideriamo livelli diversi del discorso filosofico, che devono essere condotti avanti sempre da professionisti attrezzati, anche quando si parla nelle pubbliche piazze, anzi, a maggior ragione. Il problema per noi oggi è, semmai, di porre freno ad una frantumazione 130

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della filosofia, ma non possiamo pensare né che ci sia una filosofia alla quale fare indifferentemente riferimento né che ci sia una filosofia italiana; per fortuna, infatti, la riflessione che la filosofia fa è universale, non nazionale, pur essendovi caratteri nazionali distintivi che nessuno mette in discussione. Il problema dell’autonomia è abbastanza importante e voglio fare un esempio. Prima ho sentito parlare dell’insegnamento storico o problematico: di tale tematica parlava Windelband molto tempo fa, non è questo il problema. Piuttosto, il problema è che la storia della filosofia non è un’appendice della filosofia. Gli storici della filosofia fanno un mestiere (come altri) che, come essi sanno, non conduce né a storie definite a priori né a storie pacificanti o consolanti né a storie che siano cavalcate trionfali verso l’affermazione di questa o quella filosofia. Sono, invece, storie problematiche che utilizzano diversi canali, non solo: gli storici della filosofia hanno capito che ci sono elementi essenziali da acquisire e credo che la questione molto sviluppata riguardi quali strumenti deve acquisire un giovane che frequenta un corso di laurea. Rimango meravigliato che molti studenti scelgano direttamente un Corso di Laurea in Filosofia, pur essendo questo corso di laurea avaro di sbocchi professionali. Eppure, dal punto di vista della presenza, i nostri corsi di laurea sono fiorenti se li paragoniamo a quelli di Matematica, di Chimica Industriale e ad altri che hanno diciotto studenti all’anno e per questi diciotto studenti sono mantenute in piedi facoltà dai costi esorbitanti rispetto a quelli della nostra area, per esempio. Chiamo in causa un filosofo poco noto: Nicomaco di Geraso, neoplatonico, neopitagorico ed, insieme, neoaristotelico del II secolo d.C. che aveva la pretesa di mettere insieme le discipline che conducevano al sapere filosofico: lo schema era quello di Platone, ma l’aritmetica, la musica, la geometria e l’astronomia (così collocate, non diversamente) erano propedeutiche al poter parlare di filosofia. Poi Nicomaco ha avuto una fortuna molto forte perché Giamblico lo ha veicolato un po’ dappertutto e nell’Umanesimo italiano è un protagonista occulto, ma lui, come altri e come prima di tutti Platone, aveva posto la questione dell’apprendimento della filosofia attraverso le sue componenti. Credo, allora, che noi abbiamo questa esigenza all’università: tenerci strette le discipline autonome che sono nate e cresciute; rapportarle continuamente a specifici filosofici ma non solo filosofici; considerare che testi e contesti non sono eliminabili da uno studio della filosofia, qualunque cosa poi ne faccia chi amministra la filosofia. La riflessione filosofica, dai bambini agli adulti, da chi ha predisposizione filosofica a quelli che cercano la filosofia come consolazione (anche questo è un tema ricorrente, non l’abbiamo inventato noi, è stato proprio così nel corso del cammino dei secoli), credo che siano questi gli elementi 131

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essenziali di quella che è una professione. Noi ci stupiremmo molto se un dentista non conoscesse le tecniche d’avanguardia dell’anestesia per l’estrazione dei denti e da lui non ci faremmo curare così come non dovremmo rivolgerci al filosofo che non sia stato formato in questo modo. Il problema del “3 + 2” coincide con quello della costruzione di una professionalità filosofica: gli studenti vengono da noi forse anche perché hanno una positiva idea della filosofia e perché hanno avuto buoni docenti al liceo. Talora la filosofia è la prima scelta tra le facoltà universitarie, non è una scelta di ripiego come possono essere altre. Penso che la didattica della filosofia nella scuola superiore vada profondamente ripensata per far capire che il problema dei testi e dei contesti è fondamentale. Mi sembra che sia importante, e Vincenzo Cappelletti ce lo diceva: pensare è un’arte e i fondamenti sono indispensabili, così come lo è il rigore. Mi è sembrato che in questi anni difficili (sono d’accordo con il titolo alternativo proposto da D’Onofrio “L’insegnamento della filosofia ai tempi della riforma”, mi sembra calzante) l’attenzione nostra, superato l’ostacolo dei crediti e della dislocazione delle discipline, sia stata quella di comprendere i programmi di insegnamento, quale sia il sillabo sul quale deve formarsi uno studente di filosofia: questo mi sembra importante e mi sembra, quindi, paradossale che il nuovo Governo abbia ricominciato da dove aveva smesso prima. Ho un ricordo molto preciso nella testa: la discussione che conducemmo con il Sottosegretario Guerzoni sul rapporto tra SSIS e lauree per l’insegnamento: la lotta era strenua tra chi sosteneva questi argomenti e chi, attenendosi a quanto recita la legge, sosteneva che la formazione di un insegnante richiede una laurea quinquennale. Mi sorpende che siano oggi gli stessi specialisti di fronte ai quali ci trovammo allora: se la strada è questa io mi ritroverò davanti gli stessi specialisti che hanno affrontato con me questa questione cinque anni fa in termini di grande e grave polemica. Sembrava che avessimo vinto, invece non era così: quel Governo se ne andò, la storia del nostro Paese la conosciamo tutti. Ora, in una sorta di grande gioco dell’oca, sembra che torniamo all’inizio, anche con un limite forte all’autonoma organizzazione delle sedi. Si parla di venti prove e di dodici prove rispettivamente nella triennale e nella magistrale e si parla di “prove”, non di “corsi”. Ci chiedono l’organizzazione di modalità diverse di esame, ma dovremmo scontrarci con i regolamenti didattici delle sedi, i quali, su indicazione del Ministero, pretendono che a un “corso” corrisponda un “esame”. Altro che frantumazione, se da qui scindiamo i moduli. Il problema è capire che le discipline, anche le filologie, anche la matematica hanno bisogno di questa costruzione rigorosa e che le novità o le innovazioni possono essere introdotte se c’è sostanza e se le gabbie burocratiche si 132

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allentano. Credo che questo sia un elemento sul quale la società filosofica deve discutere: ho sentito oggi molte discussioni interessanti, ma che rimangono tutte in libertà, “di copertura”, di facciata se manca questo elemento primo, forte, di una robusta formazione filosofica, di una scuola di Sparta per i filosofi. Lo studio, la solitudine, il seminario, le forme dell’apprendimento classiche delle grandi linee di sviluppo del pensiero, in questo caso filosofico, non possono essere evitate: Natura non facit saltus, si diceva.

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Luigi Ruggiu* Per dovere istituzionale nei tempi delle riforme ci sono stato dall’inizio alla fine: facendo parte del C.U.N. abbiamo dovuto esprimere pareri fin dall’inizio molto critici, con tutti i Ministri che a mano a mano si sono succeduti. Però bisogna dire alcune cose, probabilmente non ancora chiare né al nuovo Ministro né ai Sottosegretari. Innanzitutto che si è cercato negli anni di assumere un asse strategico per qualificare la riforma e questo asse strategico è l’autonomia didattica. Autonomia, naturalmente, vuol dire esercizio di responsabilità, ed è un sistema dell’autonomia all’interno del sistema delle autonomie, in quanto ciascuno degli atenei è autonomo. I riferimenti di questo sistema sono sempre, naturalmente, nella Costituzione. Altro difetto essenziale è stato l’assenza in questi anni di protocolli per gestire, sperimentare e seguire la riforma. Gli interventi innovativi successivi sono stati fatti in assenza dei risultati e delle criticità effettive che la riforma aveva dato. Tuttavia devo dire che non ci sono stati stravolgimenti notevoli perché dopo l’esperienza Berlinguer-Zecchino l’intervento della Moratti non è stato di stravolgimento della riforma, anche grazie ad una discussione serrata. Ci sono state, infatti, correzioni ed alcuni interventi importanti (che, tra l’altro, abbiamo introdotto noi) già in discussione con Zecchino, come, ad esempio, la disarticolazione tra il triennio ed il biennio, una maggiore flessibilità pur in contemporanea ad una maggiore complessità. Poi la necessità di un governo delle autonomie, che è quasi un ossimoro perché significa prima di tutto un autogoverno delle facoltà, dei corsi di laurea e degli atenei, che non è cosa da poco, e poi l’autogoverno del sistema delle autonomie, la C.R.U.I. e il C.U.N., e il terzo è l’intervento di coordinamento. Per l’incapacità di mantenere il punto di riferimento strategico e qualificante * Consiglio

Universitario Nazionale.

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della riforma si è andati in modo per così dire pendolare tra forme di accentramento burocratico (e quindi di negazione dell’autonomia) e forme di un autonomismo assolutamente privo di riferimenti normativi e di gestione che hanno portato ad una serie di conseguenze. C’è quindi continuità, non stravolgimento. Il primo problema della gestione dell’autonomia è la responsabilità di coloro che hanno il compito di dare attuazione all’autonomia, il primo problema, quindi, non è l’applicazione della riforma, ma come si è inteso tradurre la riforma. La proliferazione sgangherata e smisurata degli insegnamenti, la polverizzazione delle prove, ecc. non sono un prodotto della riforma, ma il risultato della prevaricazione del corpo docente che tende, per ragioni connesse con la burocrazia, a proliferare e moltiplicarsi. Negli ultimi due anni devo dire che sono avvenute delle forme di autocorrezione ed autogoverno delle autonomie all’interno delle Conferenze dei Presidi, in cui sono emersi degli statuti di governo dell’autonomia per omogeneizzare il piede di riferimento dei crediti, per far sì che la valutazione dei crediti sia uguale e venga favorita la mobilità degli studenti, per cercare di asciugare le prove. Il discorso delle venti prove nel triennio, ora inserito come tabella, era un punto di assestamento che si stava raggiungendo. All’interno di una struttura che non tornasse al centralismo, alle tabelle, all’uniformità, contro, quindi, ciò che si stava tentando di mettere in piedi nell’università, bensì in una struttura che potesse anche valorizzare le differenze, come la concorrenza. Nell’intervento che è stato fatto, richiamando il cosiddetto “Lodo Modica”, e cioè di una ripresa di termini vecchi di discussione sulla formazione degli insegnanti nei tavoli di discussione sugli ordinamenti (ai quali io ho partecipato), sono state avanzate proposte poi accolte anche nell’articolo 53, in cui si dice che la formazione deve essere costruita con una prevalenza dei contenuti, che è un modo per dire che gli ulteriori aspetti di professionalizzazione metodologico-didattica completano una formazione, e non che la stravolgono. Mettere in discussione, per la formazione degli insegnanti, la necessità delle lauree specialistiche significa, sostanzialmente, stravolgere l’intera riforma, non solo la formazione degli insegnanti. Contro questa soluzione si sono scagliate tutte le società, l’Accademia dei Lincei, ma anche gli scienziati: infatti, è vero che c’è un gruppo di scienziati che ritiene che con tre anni si possa esaurire la formazione, ma sono avvenute prese di posizione legate al fatto che – non sarà certo un caso – sul terreno dell’insegnamento scientifico abbiamo una certa collocazione a livello europeo e mondiale e che, quindi, lungi dall’avere dei tagli nella formazione, occorre al contrario dare ulteriore spazio alla formazione dei docenti. Questa ipotesi è grave perché costituisce un siluro alla legge che i precedenti governi di centro-sinistra hanno fatto: non è che si sta stravolgendo una 134

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riforma di centro-destra, anzi, devo dire che complessivamente la Moratti ha mantenuto il filo della riforma. Il sistema delle autonomie ed il sistema delle università sta dentro l’ipotesi humboldtiana, cioè l’ipotesi della connessione stretta tra didattica e ricerca. Se si continua a procedere tentando di scindere la didattica dalla ricerca e di boicottare quanto già affermato dalla 382, ossia che l’università è la sede primaria della ricerca, cercando con forme di confluenza tra una certa destra ed una certa sinistra, abbastanza significative, di formare le scuole di eccellenza, sistemi parauniversitari paralleli ai sistemi universitari, e contemporaneamente di dequalificare la ricerca operando tagli, di prolungare l’assenza di investimenti strategici nell’università, allora si accetta che questa riforma realizzerà tutti gli aspetti peggiori di carattere ripetitivo, puramente trasmissivo del sapere. Se, ad esempio, si legge la tabella delle lauree magistrali di filosofia c’è una grande insistenza sulle competenze, sui rapporti con i nuovi saperi, sull’intreccio con le pratiche dei nuovi saperi, davvero straordinaria. Nella prima fase di applicazione della riforma, quando c’è stato il momento del “fervore”, tenendo conto che si prevedeva da parte degli studenti l’utilizzazione di crediti liberi, e nell’ultima legge si dice crediti liberi “ma da usare in modo coerente” (il che vuol dire che non sono più liberi), la filosofia era entrata in moltissime classi, cioè c’era il desiderio di vedere una componente di carattere filosofico che completasse la formazione. La malapplicazione e la disseminazione delle competenze ha determinato una tecnicizzazione dei saperi e quindi l’espulsione di tutto ciò che non era funzionale. Noi abbiamo una vera espulsione generalizzata della filosofia sul terreno delle scienze umane: questo non è semplicemente un impoverimento della nostra presenza, ma un impoverimento complessivo della riforma.

Claudio Rugarli* Io sono medico. Sono stato Presidente del Comitato Ordinatore per l’istituzione della Facoltà di Medicina dell’Università Vita-Salute San Raffaele, sono stato primo Preside della Facoltà e non ho da lamentarmi riguardo la riforma per l’attuazione di questo programma. Per cominciare, il Corso di Laurea in Medicina è sempre rimasto a ciclo unico di sei anni, e si aggiunga che avevamo una certa libertà nello sperimentare e questa è stata una grande cosa perché c’era stata in precedenza la rifor* Università

Vita-Salute San Raffaele di Milano.

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ma della tabella diciottesima del 1986 che considero pessima perché rigida e perché aveva mescolato cose che non c’entravano, la clinica medica e la clinica chirurgica. Il poter sperimentare ci ha consentito, invece, di rinnovare gli studi medici, in modo fruttuoso, evitando ripetizioni, coordinando meglio i diversi insegnamenti. Penso che i frutti siano buoni. Visto che mi trovo a parlare con dei colleghi filosofi in un congresso della Società Filosofica Italiana, c’è un punto che allora ci venne in mente ma che in pratica non abbiamo ancora risolto: ed è quello dell’interazione, che in medicina possiamo avere, con i filosofi. Si tratta di interazioni molto forti che però non furono sviluppate in modo adeguato a causa di difficoltà obiettive. Il nostro Corso di Laurea in Medicina ha alcuni insegnamenti che per lo meno sfiorano la Filosofia. Agli studenti del primo anno, fin dalla formazione, viene impartito un corso, tenuto da Giorgio Cosmacini e da me, inizialmente intitolato Introduzione alla Medicina ma da quest’anno accademico è stato fuso con la Storia della Medicina e si chiama Storia della Medicina e Filosofia della Scienza, con un titolo forse un po’ troppo ambizioso ma che mostra una certa attenzione a questi problemi. A me personalmente è stato chiesto per quest’anno accademico (ed io, imprudentemente, ho accettato) di tenere per gli studenti del biennio magistrale di Biotecnologie Mediche e Farmaceutiche un corso sulla “Logica della scoperta scientifica”, corso in cui sarebbe auspicabile e molto utile la cooperazione con un filosofo. Esistono una serie di problemi che possono essere affrontati, ma con delle difficoltà, per spiegare le quali farò ricorso ad un piccolo episodio personale. Quando fu introdotta nella nostra università la Facoltà di Filosofia, progettai con Cacciari delle iniziative trasversali che coinvolgessero medici e filosofi, conferenze non formalizzate ma aperte a tutti gli studenti ed al pubblico, organizzate in modo tale che in ciascuna di esse parlasse un medico ed un docente di filosofia. La prima conferenza fu tenuta da Cacciari e da me ed ebbe, devo dire, un certo successo. Man mano, tuttavia, l’affluenza di pubblico diminuì, specie da parte degli studenti di Medicina. Chiedendo perché questo avvenisse, mi fu risposto da parte degli studenti che non vedevano in queste conferenze alcuna acquisizione tecnica e professionale in più. Questo è l’ostacolo, molto grosso, che si connette con una crisi generale della medicina contemporanea. La medicina ha avuto e continua ad avere grandi successi: tutti possono leggere sui giornali i miracoli possibili con le cellule staminali e con i trapianti di geni, ecc., però allo stesso tempo la medicina si è allontanata dalla sua originale vocazione ed è entrata in crisi. Il problema è la contrapposizione tra l’approccio riduzionista (che è quello che noi pratichiamo, devo dire anche con successo) e l’approccio olistico nel 136

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rapporto con l’ammalato. Riduzionismo significa considerare separatamente l’organo, l’apparato, il sistema e pensare che una volta “rimesso a posto” (come si potrebbe fare con un’automobile) uno di questi organi o apparati, l’ammalato è guarito. Questo ha provocato, a mio parere, una proliferazione eccessiva delle specializzazioni mediche, sempre più numerose e frazionate in quanto nell’ambito di ogni specializzazione emergono i superspecialismi, ad esempio la cardiologia è divisa in almeno tre sotto-specializzazioni e lo stesso avviene per altre specialità. Ma, a fronte dell’aumentata capacità tecnologica di questi super-specialisti, c’è una sensazione di delusione e di sfiducia verso la medicina scientifica da parte di coloro che alla medicina si rivolgono. La medicina è considerata disumanizzata. Molti dicono che la questione è quella di essere “umani”, di essere “buoni” e perciò i medici devono essere gentili e comprensivi con gli ammalati, e senza dubbio questo è vero. Ma il problema non è questo. Il problema è ben più complicato e si connette con l’interrogativo: cos’è la salute? Questo è un problema lunghissimo e non posso affrontarlo in questa sede. Ricordo che un filosofo, Hans Georg Gadamer ha scritto un libro dal titolo Dove si nasconde la salute, in cui esprime un’idea di salute che mi trova in totale disaccordo. Penso che sia molto importante quello che il Premio Nobel per la Medicina Jacques Monod espresse nel suo libro di circa trent’anni fa Il caso e la necessità, libro molto acuto che pone, partendo dalla biologia, problemi filosofici che io credo molto importanti. Monod definisce un essere vivente “un oggetto con un progetto”, progetto che nasce dal suo interno e non è imposto dall’esterno: il progetto di un uomo non è solo biologico ma anche culturale, sociale e personale. Un approccio medico che sia ontologico deve prevedere un rimedio a quelle che sono la salute e l’idoneità a svolgere il proprio progetto. La malattia è un guasto a questa idoneità, è una inidoneità ed il medico deve ripristinare l’idoneità. Dunque, l’approccio riduzionista, cioè il trattare gli organi e gli apparati come fossero macchine è certamente utilissimo, ma è uno strumento, non è un fine ultimo dell’intervento del medico. Il fine ultimo è, viceversa, realizzare un rapporto olistico con l’ammalato. Credo, detto questo, che l’intervento di un filosofo nell’insegnamento della medicina sarebbe assai utile perché si realizzi tutto questo. Esistono, poi, altri problemi sui quali sorvolo, come i problemi di bioetica e di filosofia della mente, molto importanti, questi ultimi, per i neurofisiologi e gli psichiatri. Ma esistono anche problemi connessi con la pratica medica quotidiana. Per esempio, non è chiara alla maggior parte dei medici cosa sia la diagnosi. Si pensa che la diagnosi sia il riconoscimento di un’entità oggettiva che è cascata, che ha avuto una collisione con il povero ammalato, ma non è così. Quando ci si avvia alla clinica, la prima cosa che colpisce gli studenti di medicina è che mentre sui libri si sono studiate certe formule e certe regole, poi ci 137

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si imbatte invece in ammalati ciascuno diverso dall’altro, diversi sia per la personalità che per l’estrinsecazione delle manifestazioni organiche della malattia. Dunque, la malattia come classe nosologica, quella che compare nei capitoli dei libri di testo, è un’astrazione, è la descrizione di un insieme di ammalati unificati da alcuni criteri, e questo spiega anche perché la nosologia cambi nel tempo. Non solo perché emergono malattie nuove, come l’AIDS, la SARS, ma cambiano anche i criteri di classificazione: i clinici del passato non conoscevano certe malattie che conosciamo adesso ed anche noi non conosciamo tutte le malattie possibili o tutte le manifestazioni. Ecco perché a volte si possono avere grosse difficoltà a fare la diagnosi. La sistematizzazione di tutto questo è a mio parere un serio problema. Un altro serio problema riguarda la metodologia clinica, che proprio gli avanzamenti della medicina tecnologica hanno largamente mortificato, perché adesso l’impressione generale del medico è un individuo che si sottopone a una quantità di indagini di laboratorio iperspecialistiche e che da questo elenco fatto a caso poi per caso verrà fuori la diagnosi, mentre occorre ragionare. Ci sono, quindi, molti problemi afferenti la Logica: l’inferenza logica, la deduzione, l’abduzione, l’induzione, tutte cose che non si studiano ma vengono completamente trascurate. In conclusione, nell’istituzione del nostro Corso di Laurea in Medicina abbiamo realizzato alcune riforme interessanti. Non abbiamo potuto fare tutto perché questo va contro una mentalità con la quale dobbiamo combattere. Io credo che nell’insegnamento sia dei grandi problemi connessi con la medicina teorica sia con la medicina pratica, quella che facciamo per curare la gente, dovremmo applicare un insegnamento diverso, e che per realizzarlo sarebbe utile un intervento di studiosi di filosofia. Questo farebbe bene alla medicina e forse, posso aggiungere con un po’ di presunzione, anche ai filosofi, che si confronterebbero con problemi pratici che credo siano d’interesse.

Giulio Giorello* Io ho avuto in altra sede l’occasione di esprimere le mie perplessità non tanto per quanto riguarda le modalità della riforma quanto il contesto generale in cui la riforma si è trovata ad operare, contesto che va da questioni come il basso livello di retribuzione di chi entra come ricercatore nell’università italiana fino all’aspetto complesso e macchinoso della selezione del personale docente nei concorsi universitari, sia nella vecchia forma accentrata che nella forma decen* Presidente

della Società Italiana di Logica e Filosofia della Scienza.

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trata degli ultimi anni, fino al problema, che sembra tabù anche oggi, se mantenere o meno il valore legale della laurea, che finisce per coprire tutta una serie di difetti e non permette una seria correzione delle politiche dei singoli atenei. Queste sono questioni sulle quali mi è capitato sporadicamente di intervenire in varie sedi, ed in particolare sul “Corriere della Sera” e devo dire che sento di più queste questioni soprattutto quando vedo un pericolo, che Gianna Gigliotti ha così drammaticamente e giustamente sottolineato e che Walter Tega ha ripreso, cioè che il ciclo di studi di filosofia da cinque anni si riduca a tre. Questa possibilità è piuttosto grave e minacciosa. Andrebbe, d’altra parte, aperto l’altro discorso: come si può chiedere ad una persona che vuole diventare insegnante nella media superiore, così come è adesso, di fare quello sforzo serio che l’amico Cappelletti descriveva così efficacemente per poi finire a ricoprire un ruolo che socialmente è in molti casi sentito come declassato e pagato, anche qui, con una retribuzione piuttosto bassa? Nella precedente sessione Armando Massarenti diceva che spesso un comico può dire delle verità filosoficamente pregnanti: aveva ragione. Recentemente, infatti, nel vario polverone sollevato dalla Finanziaria, è intervenuto su “la Repubblica” l’umorista Michele Serra che ricordava come uno Stato che non ha il coraggio di spendere veramente per la scuola (e di spendere bene, in modo mirato, non “a pioggia”), uno Stato che non viene incontro alle esigenze di dignità minimale degli insegnanti è uno Stato che non ha a cuore l’avvenire delle future generazioni e che non mira al benessere ed allo sviluppo del popolo che è portato a rappresentare. Il quadro è drammatico. Sono venute fuori, come dalla battuta di Vincenzo Cappelletti su Riforma e Controriforma, una serie di preoccupazioni legittime e che sarà compito nostro, come Presidenti delle varie società filosofiche, di mettere bene in luce, soprattutto coordinandoci tra noi e non facendo ognuno la strada nel proprio orticello. Devo aggiungere, inoltre, che io sento in modo particolarmente drammatico queste questioni alla luce delle discipline che qui rappresento, l’Epistemologia, la Filosofia della Scienza, la Filosofia delle Scienze Umane, e la Logica, soprattutto. Ogni volta che si sentono queste questioni circa la scuola, l’università ed il ruolo della filosofia, mi viene in mente la famosa battuta di John Mitchell, il ribelle irlandese che arriva negli Stati Uniti a metà dell’Ottocento, qui discute con un intellettuale americano, un giornalista che lo intervista ed il giornalista commenta dicendo: “Peccato, noi in America non abbiamo grandi filosofi teoretici” e Mitchell gli risponde: “Però, avete un grande filosofo pratico, l’ingegner Samuel Colt”. Appunto, quando emergono questi problemi della ridefinizione del ruolo dei filosofi io mi domando se la filosofia in Italia sappia scegliere tra lo stare 139

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con una cultura tecnico-scientifica che, con tutti i suoi limiti, è tuttavia una cultura viva, alta, internazionalmente ben riconosciuta, la cultura degli ingegneri, dei grandi scienziati, di quei ricercatori scientifici che hanno portato al nostro Paese grandi riconoscimenti sul piano della ricerca, oppure preferisce stare con una cultura umanistica che è un cattivo umanesimo, perché quello che va male nel nostro Paese non è la cultura tecnica e scientifica, bensì quella umanistica, che ha teso a relegare la filosofia nell’ambito delle Facoltà di Lettere, dove sussistono, certo, grandi vantaggi. Ad esempio, apprezzo molto ciò che diceva Cappelletti sull’importanza della filologia, ma vorrei tener presente anche l’altro tema che Vincenzo citava con grande eleganza ed efficacia, cioè le scienze, la matematica, il rapporto con le punte alte della ricerca avanzata che pongono problemi filosofici all’interno stesso delle loro discipline. Li pone la Cosmologia, l’Astrofisica, la Fisica di base, ovviamente, la Biologia più di altre e l’Economia, disciplina in cui certe vecchie distinzioni disciplinari stanno venendo meno; oggi parliamo, ad esempio, abbastanza frequentemente e compiutamente di Neureconomia, ma di più sui quotidiani e meno nelle cattedre universitarie. Questo vorrà pur dir qualcosa. Claudio Rugarli ha messo bene in luce un problema che mi sembra molto importante: una mancata ricomposizione culturale nella pratica medica provoca guai nella didattica, nella formazione degli specialisti, provoca disagio in corsia, indicando una strada rigorosa ed importante, quella della maggiore integrazione tra la riflessione filosofica, le procedure metodologiche, il rapporto con la medicina di altri settori – penso, ad esempio, al pensiero statistico – e la formazione di un medico che oggi, forse, dovrebbe andare al di là dell’opposizione riduzionismo/olismo. E lo diceva molto bene Claudio Rugarli quando sottolineava la necessità per i medici di un rapporto con i filosofi della mente. Ed è vero il contrario: è necessario che i filosofi della mente, formati nel Corso di Laurea di Filosofia, sappiano anche come funziona il cervello, altrimenti la loro filosofia è solo un verbiage, sono solo parole in libertà, se non ci si confronta con i grandi ed eccitanti risultati raggiunti oggi dalla Neurofisiologia, e questo è un problema urgente. Non mi sembra un caso che alcune delle più grandi lezioni fondamentalmente filosofiche al San Raffaele di Milano siano state tenute da Edoardo Boncinelli, che è un grandissimo studioso di Biologia Evoluzionistica, di problemi del cervello e, guarda caso, diciamolo con un po’ di orgoglio per noi che siamo formati con le lauree di scienze dure, viene dalla grande tradizione di ricerca della Fisica. Oggi viviamo una strana situazione in cui alcune delle discipline che restano il nerbo della ricerca, penso alla Matematica, alla Fisica e alla Biolo140

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gia, sono poco appetibili, mentre molti studenti scelgono Filosofia. Da noi a Milano quest’anno le iscrizioni a Filosofia sono raddoppiate: è un problema che riguarda la scansione “3 + 2”, il problema dei curricoli, di come aprire maggiormente (e parlo dalla parte non dei medici ma dei filosofi) la filosofia all’apporto delle scienze. Questo è un problema molto importante ed è un problema di curricoli che può scontrarsi contro le pastoie dei conti burocratici dei crediti, ecc. Recentemente la questione è stata posta con energia all’interno della nostra Società da Michele Abrusci e si è insistito sulla necessità che la filosofia riesca di nuovo ad avere quei contatti con le discipline scientifiche che la grande filosofia della fine dell’Ottocento e degli inizi del Novecento aveva e che era riconosciuta dalla Riforma Gentile, riforma che riconosceva una libertà di intersezione disciplinare maggiore rispetto a quella riconosciuta dalla riforma dell’Italia democratica. Le dimensioni della filosofia e i suoi agganci con la vita reale stanno cambiando: un collega una volta mi ha detto scandalizzato di aver visto un manuale di storia del pensiero edito negli Stati Uniti in cui gli ultimi due filosofi presi in considerazione erano Malcom X e Martin Luther King, mentre, secondo lui, la filosofia era altra cosa. Ma come? Malcom X e Martin Luther King hanno permesso la grande lotta di emancipazione del popolo nero ed hanno rappresentato, da questo punto di vista, l’ultimo anello di una profonda riflessione della filosofia dentro il sociale, che conta, nel bene e nel male, uomini che vanno da Locke fino a John Stuart Mill, tanto per citare i grandi del pensiero libertario e liberale. La filosofia per fortuna sta cambiando, come sempre è cambiata dai tempi di Platone e di Aristotele. Quando questi due pensatori greci scrivevano le loro importanti considerazioni, certe tecniche della biologia, le conoscenze dell’embriologia, l’intervento della tecnologia biologica non esistevano, ed i problemi che oggi queste novità pongono (per esempio nel contesto che Massarenti richiamava, pur nello scherzo del “lancio del nano”, ma in modo più che giusto) sono problemi enormi, che vanno da quello della fecondazione assistita, fino alle nuove forme di famiglia e alla questione dell’eutanasia. Un insegnamento che non tenga conto di questo è fallimentare. Che questo avvenga nel famoso “3 + 2” o nei cinque anni non importa, l’importante è che ci sia una buona sostanza e che si riesca a mantenere quella necessità di competenza che veniva sottolineata e che sia una competenza che non si frammenti in tanti piccoli orticelli che perdono qualunque prospettiva, come Walter Tega giustamente denunciava prima. Pensate a cosa è stato negli ultimi trent’anni ricostruire la Logica formale mentre la Logica stessa stava cambiando, mentre accanto al vecchio problema, peraltro affascinante, dei fondamenti della matematica nascevano logiche le141

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gate a pratiche umane diverse, dall’Informatica alla Meccanica Quantistica, o meglio al discorso post-Meccanica Quantistica degli anni d’oro. Sono qui presenti colleghi che hanno dato moltissimo in questo settore sia a livello di didattica che di ricerca. Il pericolo che denunciava Tega sarebbe addirittura esiziale per una Società di Logica e Filosofia della Scienza. Io sono per le scuole di eccellenza, ma perché queste si sviluppino non fuori o contro l’università, bensì dentro l’università e germogliandone dal di dentro. Mi sembra auspicabile, dunque, ciò che suggeriva D’Onofrio, ossia sfruttare le aperture che ci sono state. Dobbiamo però sfruttare, soprattutto, con uno spirito e con modalità diverse la situazione aperta dai dottorati. Penso, ad esempio, a quei dottorati in cui quello spirito di competenza disciplinare e di apertura ai grandi problemi, che è stata un po’ l’anima della Società Italiana di Logica e Filosofia della Scienza, si ritrovi in situazioni ben fatte, in autonomie ben regolate. Penso, per esempio, che si sta aprendo a Milano, per particolare sollecitazione dei colleghi di Medicina, un dottorato internazionale sui rapporti tra Medicina, o Biomedicina se preferite, ed Etica. E non dico Bioetica, perché la Bioetica è nata in un certo contesto e poi è stata usurpata dai giochetti ideologici di etica laica/etica cattolica ed altre insensatezze di questo genere. Aveva ragione Heidegger: non c’è una filosofia cattolica o una filosofia protestante o una comunista; c’è della buona filosofia e della filosofia meno buona e poi sotto c’è dell’ideologia, che è tutta un’altra cosa. Bene dunque è che non si chiami questo esperimento “Bioetica”, ma che si chiami “Etica” nel senso della pregnanza delle grandi questioni morali ma confrontate con i problemi di oggi, non con quelli dei tempi di Aristotele. Bisogna trattare i problemi sorti dalla pratica medica e dalle conquiste che la scienza ha raggiunto, e dal fatto che in molti Stati, con leggi che io chiamerei di tipo eugenetico, sequestrano ai cittadini il diritto di adire a quei servizi che invece il progresso tecnico-scientifico metterebbe a disposizione. Un altro caso milanese è quello di un dottorato in Comunicazione scientifica (che significa fare i conti con le grandi conquiste della scienza contemporanea e con i grandi problemi aperti della scienza contemporanea) come quello costruito dalla SSIS di Trieste insieme al Corso di Laurea di Filosofia dell’Università Statale di Milano e con la Facoltà di Scienze sempre dell’Università Statale di Milano. Proprio perché queste cose possano funzionare, non bisogna abbassare la guardia sulle questioni di base e bisogna tornare a pensare in modo dialettico, aperto, lo stesso rapporto dell’insegnamento nella media superiore con l’università. In questo ultimo frangente non sono molto ottimista: è stato detto in un precedente intervento che i professori di liceo erano, un tempo, anche ricercatori in prima persona. Ora questa cosa nei licei, almeno in quelli statali, 142

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è scomparsa, mentre, a quel che so, in alcuni licei privati è rimasta. Non vorrei che i docenti del triennio finissero anche loro col pensare che la didattica è tutto o che pensino solo ai bilancini dei tre crediti, nove crediti, ecc. Questi elementi della riforma saranno anche delle regole, ma noi dobbiamo avere il coraggio di pensarla come Stenn Willamsen, uno dei grandi protagonisti dell’esaltante avventura della riuscita della clonazione degli animali superiori, che diceva che le regole esistono per il gusto d’infrangerle, per il gusto di contrapporre agli aspetti negativi delle norme e delle disposizioni la consapevolezza dei problemi importanti e della dignità delle persone a cui noi ci rivolgiamo.

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Conclusioni

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Vincenzo Cappelletti Cari amici, io non vorrei dare avvio ad un secondo ciclo di interventi. Questo intervento densissimo, bellissimo di Giorello, lasciatemelo dire, ha creato quell’atmosfera sospesa dei dialoghi di Platone, in cui si è avuto tanto da portarsi a casa dopo l’incontro presso l’uno o presso l’altro, che non si parla più e si ricomincia a riflettere. Quello di Giulio è stato un intervento molto bello, a conclusione di una serie di analoghi interventi, che hanno lumeggiato questa problematica situazione degli studi di filosofia, positivamente problematica perché ci sono aperture, ci sono stati sviamenti, illustrati da Luigi Ruggiu, che non rappresentano neppure le intenzioni autentiche del Legislatore, ma sono state deviazioni. Non vorrei rompere questa atmosfera sospesa, densa. Questo è stato un incontro molto bello e credo indichi la necessità che la Società si incontri annualmente: capisco che ciò comporta una notevole fatica organizzativa. Vorrei ringraziare i colleghi per aver dato vita ad uno dei più bei dibattiti che da anni mi sia accaduto di sentire, così ricco, così prorompente e dialettico da ogni parte ma mai mosso da intenti aggressivi, lesivi della dignità degli altri. I problemi che abbiamo affrontato sono di straordinaria dimensione. Approfitto, come decano, per ringraziare il Presidente della Società Filosofica Italiana, Mauro Di Giandomenico, per lo sforzo che ha sostenuto e per averci fatto ritrovare in questi giorni qui a Roma, pur organizzando tutto da Bari, e non è facile organizzare da lontano un convegno così ben riuscito. Forse da ora in poi la Società dovrebbe riunirsi ogni anno, almeno per qualche anno.

Mauro Di Giandomenico Devo chiedere al pubblico ancora un po’ di pazienza perché mi corre l’obbligo di concludere questo Congresso straordinario a nome dell’intera Società Filosofica Italiana. 145

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In questi due giorni abbiamo avuto numerosi input, abbiamo fatto anche un po’ di autoanalisi su quella che è stata la vita della nostra Associazione in questo secolo, in particolare in questi ultimi anni. Dai vari interventi credo di poter individuare sinteticamente alcuni punti fondamentali che segnano il percorso per continuare il lavoro che la Società Filosofica Italiana ha portato avanti in questo secolo di storia. Rifacendomi un po’ a tutti gli interventi mi viene in mente l’invito che ieri da parte di amministratori pubblici, in particolare Assessori del Comune di Roma, ci è venuto perché i rapporti tra la S.F.I. e la Pubblica Amministrazione, locale in particolare, si rafforzino e trovino momenti di sinergia e realizzazione di piani e progetti concreti. Questo è il primo punto su cui la S.F.I. deve riflettere per cercare di rispondere a questa domanda. Così come negli interventi di questa mattina abbiamo sentito affermare la necessità non solo di avere collegamenti stretti e sempre più efficaci a livello di didattica e ricerca con le altre nazioni europee ma anche esprimere l’esigenza di coinvolgere la Società Filosofica Italiana affinché la conoscenza della filosofia italiana divenga sempre più approfondita ed ampliata in tutto il mondo ed in particolar modo in quei Paesi in cui i figli dell’Italia esistono ancora, attraverso nipoti e pronipoti. Questo implica un discorso, che dovremmo affrontare nell’immediato, di riflessione per il rinnovamento dello Statuto della Società Filosofica Italiana che, sostanzialmente, è nelle linee fondamentali fermo al primo Statuto nel 1906, sia pure attraverso la rifondazione degli anni Cinquanta. Attraverso questo strumento rinnovato potremo anche, io credo, rispondere all’altra esigenza mostrata questa mattina, di trovare una collaborazione istituzionale con le università e con le facoltà in cui esistono Corsi di Laurea in Filosofia, ma non solo con queste, e rafforzare così quella caratteristica che rende la S.F.I. peculiare tra altre analoghe, cioè la compresenza di docenti di liceo e di università. Ricordavo ieri nell’apertura dei lavori che la S.F.I. ha oramai 36 sezione locali ed ammonta a circa 1.200 soci tra cui una media del 40% di iscritti sono docenti universitari: la situazione è abbastanza ampia, compiuta oltre che complessa e questo consente anche di impegnare la S.F.I. (che ha l’altra caratteristica di poter esprimere ufficialmente una voce formalmente e legalmente riconosciuta, poiché dotata di personalità giuridica) ad essere il punto di riferimento e, soprattutto, in pari dignità e con spirito di fraterna e fattiva collaborazione con le altre associazioni filosofiche, affinché si possa trovare un tavolo di concertazione e rendere possibile l’espressione di una voce unitaria e dunque molto più forte per cercare una soluzione a quei problemi messi in luce oggi pomeriggio dai nostri colleghi rappresentanti di associazioni universitarie di tipo filosofico. 146

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Questo consente anche di fare una piccola riflessione: nel momento in cui si parla di formazione degli insegnanti dei licei, la nostra voce, di docenti universitari, ha una sua indiscussa autorevolezza. Come S.F.I. noi potremmo portare un ulteriore contributo alla discussione, ad esempio cercando di mettere in piedi un’indagine rivolta ai 14.500 docenti di filosofia dei licei perché ci dicano che cosa, sulla base della loro esperienza professionale maturata, a loro avviso debba essere migliorato, modificato, meglio calibrato nella formazione universitaria che essi avevano avuto durante la propria frequenza degli studi accademici. Si tratta di un riscontro oggettivo che viene fatto anche per molte altre professioni e che forse, anzi certamente dal mio punto di vista, può essere utile per rafforzare il collegamento tra scuola ed università. Collegamento che, come ricordava giustamente l’amico Giulio Giorello, deve concretizzarsi anche nella ricerca in proprio svolta dall’insegnante di scuola superiore. Su questo elemento non solo sono d’accordo ma vorrei spezzare una lancia a favore di una figura ormai morta e sepolta ma che fu a suo tempo un elemento di fortissima discussione e di idee contrapposte, ossia la figura dell’Assistente volontario. Non perché mi piaccia questo termine o questa funzione, ma perché era una delle figure che consentiva il collegamento scuola-università. L’Assistente volontario era quasi sempre, infatti, un docente di scuola, non solo di filosofia ma anche delle discipline scientifiche, che frequentando l’università si aggiornava e dava una mano sia all’università che alla scuola. Anche io faccio parte di una specie oramai in via di estinzione perché subito dopo la laurea ho conseguito l’abilitazione all’insegnamento poi ho vinto il concorso a cattedra nei licei ed ho insegnato alcuni anni. Poi ho preso la libera docenza in Storia della Filosofia e sono passato all’università. Il mio era un caso abbastanza frequente nei decenni precedenti, anche nelle facoltà scientifiche. Questa esigenza di un docente di filosofia di liceo che sia anche ricercatore deve trovare uno sbocco (certo non attraverso la riedizione della figura dell’Assistente volontario bensì attraverso forme nuove che dobbiamo inventare) e deve tornare ad essere il punto di collegamento tra scuola ed università. In questo modo credo che la S.F.I. potrà continuare a portare avanti il suo progetto culturale in queste situazioni di civiltà completamente trasformate e tornare alle origini, cioè a svolgere questa funzione: non a caso la prima discussione nel primo Congresso della S.F.I. riguardava il pericolo dell’eliminazione della filosofia dai licei. In conclusione, credo che negli incontri, nei congressi della S.F.I. (ed accolgo l’invito dell’amico e maestro Vincenzo Cappelletti, che, se mi consentite l’iperbole, non finirò mai di venerare) sia necessario trovare un modo per individuare quei percorsi relativi alla formazione della professionalità docente che 147

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vadano incontro alle esigenza della società, di questa grande cultura di cui tutti quanti noi abbiamo bisogno. Con queste parole dichiaro chiusa la nostra sessione ed il Congresso straordinario in occasione del primo Centenario della Società Filosofica Italiana. Grazie a tutti.

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Appendice

Il rapporto tra testo e musica nella liederistica tra Sette e Ottocento

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Elio Matassi

I – Il decennio tra il 1861 ed il 1871 risulta decisivo per la comprensione dell’atteggiamento nietzschiano nei confronti della liederistica; ho già insistito in altre occasioni1 sull’endiadi “il musicista e il musicologo” feconda per verificare la portata del contributo di Nietzsche sulla musica in generale, ma ancora più produttiva per individuare la congruenza tra rivendicazioni di principio e piano più strettamente compositivo rispetto alla costruzione del Lied. Tra il 1861 ed il 1865 viene concentrata la produzione liederistica (14 Lieder ed un melologo) e nel corso del 1871, in alcuni frammenti molto illuminanti, con osservazioni puntuali, si celebra una metariflessione retrospettiva sulla prassi compositiva esercitata solo alcuni anni prima. Scelgo il punto di partenza della prospettiva teorica per commisurarne, in un secondo momento, le risultanze alle partiture. II – In una prima presa di posizione Nietzsche definisce come un’impresa “impossibile e contro natura” comporre musica per una poesia e nutrire l’ambizione o la velleità di illustrare una poesia mediante la musica con l’esplicita intenzione di simboleggiare con la musica le rappresentazioni concettuali della poesia, procurando in questo modo un linguaggio concettuale alla musica. Una tale procedura è innaturale e la conclusione lapidaria ne fornisce la eclatante riprova: “... ein Unterfangen, welches mir ähnlich vorkommt wie wenn ein Sohn seiner Vater zeugen wollte”2. L’impresa, il tentativo di riportare la musica alla poesia possono essere considerati mostruosi, aberranti, del tutto simili a quella di un figlio che voglia proporsi di generare il proprio padre. Al limite la musica potrà proiettare fuori di sé delle immagini che resteranno sempre riproduzioni, esemplificazioni del suo autentico contenuto; queste 1 Mi si consenta di rinviare a due miei recenti contributi, Nietzsche e la musica, «Micromega», n. 5/2000 dicembre-gennaio e F. Nietzsche: il musicologo ed il musicista, di imminente pubblicazione sul numero 41 di «Civiltà musicale», settembre-dicembre, 2000. 2 F. Nietzsche, Nachgelassene Fragmente, Herbst 1869 bis Herbst 1872, in Nietzsche Werke, heraus. von Giorgio Colli und Mazzino Montinari, Dritte Abteilung, Dritter Band, Berlin-New York, Walter de Gruyter, 1978, p. 193.

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rappresentazioni non potranno mai generare da sé la musica, e tanto meno potranno avere questa capacità il concetto o l’idea poetica. Anche quando il musicista (è il caso di Beethoven) si riferisce ad una composizione mediante immagini – una sinfonia viene designata “pastorale” ed un movimento “scena in riva al ruscello” o “allegra riunione di contadini” – queste sono soltanto rappresentazioni simboliche, nate dalla musica, non contemplando alcun valore esclusivo rispetto alle altre immagini, possono istruire sul contenuto dionisiaco della musica. Tuttavia, porre la musica al servizio di una serie di immagini e di concetti, impiegarla come un mezzo per un fine, perché quelle immagini e quei concetti siano chiariti e rafforzati, è una pretesa paradossale che sta a monte della cultura dell’opera (il melodramma); una pretesa, secondo Nietzsche, del tutto simile a quell’uomo ridicolo che cerca di sollevarsi in aria servendosi delle proprie braccia: ciò che tenta questo folle e ciò che tenta l’opera in base a quel concetto è soltanto una pura impossibilità: «Quel concetto di opera non pretende già che la musica venga usata male, ma... pretende qualcosa di impossibile! La musica non può mai diventare mezzo, anche se la si percuote, la si tormenta, la si tortura: nei suoi stadi più semplici e più rozzi, quando è un semplice suono, un rullo di tamburo, essa già supera la poesia, degradandola a suo riflesso. L’opera, in quanto genere artistico fondato su quel concetto, non è tanto un’aberrazione della musica, quanto un’idea erronea dell’estetica»3. A rigore anche la peggiore musica, posta di fronte alla migliore poesia, potrà pur sempre aspirare ad alludere al sostrato dionisiaco del mondo e, viceversa, la peggiore poesia, quando la musica è ottima, potrà pur sempre essere uno specchio, un’immagine ed un riflesso di tale sostrato. Nella stessa misura il singolo suono, di fronte all’immagine, è già dionisiaco e la singola immagine, assieme al concetto ed alla parola, è di fronte alla musica già di per sé apollinea. Il “recitativo” tradizionale è l’espressione più trasparente dell’innaturalezza, del considerare cioé la musica, al servizio delle parole, come mezzo. Anche Schopenhauer non può in alcun modo essere giustificato per le sue “concessioni” alla cultura dell’opera; quando si riferisce alla Norma di Bellini, come realizzazione compiuta della tragedia, potrà essere autorizzato a ciò solo, presumendo la musica e la poesia nel loro valore più universale e, per così dire,, filosofico, cioè in quanto musica e poesia überhaupt, perché, invece rispetto alle comparazioni storiche, dimostra con quel giudizio un gusto ancora poco coltivato. A rimanere ferma rimane la pregiudiziale seguente: se la musica non potrà mai diventare uno strumento al ser vizio di un testo, dovendo in ogni caso superare il testo, allo stesso modo diventerà certamente cattiva musica, quan3 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1869-1874, Parte prima, trad. it. a cura di Giorgio Colli e Chiara Colli Staude, Milano, Adelphi, 1989, p. 190.

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do il compositore, infrangendo ogni forza dionisiaca emergente in lui, getta uno sguardo ansioso sulle parole e sui gesti delle marionette. Il rapporto tra il librettista e l’opera dovrà invece assumere una modalità alternativa: il testo letterario di riferimento offre semplicemente le consuete figure schematizzate; il valore dell’opera sarà tanto più elevato quanto più libero, incondizionato e dionisiaco sarà il dispiegarsi della musica e quanto più spregerà tutte le cosiddette esigenze drammatiche. Anche in questo caso la conclusione di Nietzsche è lapidariamente inequivoca: «…l’opera risulta allora senza dubbio, nel caso migliore, una buona musica e soltanto musica: mentre la commedia contemporaneamente inscenata è per così dire soltanto un fantastico travestimento dell’orchestra e soprattutto dei suoi più importanti strumenti, i cantanti, che l’uomo intelligente trascura ridendo»4. Allo stesso titolo la distinzione fra musica “drammatica”, funzionale al dramma, e musica pura, assoluta, è una distinzione artificiosa perché l’unica dimensione attingibile dalla musica, per così dire, “drammatica” è quella di esplicare un simbolismo puramente convenzionale, in cui la convenzione abbia assorbito ogni forza naturale, ossia come musica affievolita al servizio di una segnalazione ed attivazione di un ricordo così come un segnale di tromba incita il cavallo al trotto. Infine, si potrebbe ancora concedere, prima dell’inizio del dramma, negli intermezzi, o in punti noiosi, incerti riguardo all’azione drammatica, o persino nei momenti supremi del dramma, un’altra musica, non più la musica puramente convenzionale e suscitatrice di ricordi, ma una musica eccitante, come mezzo per stimolare nervi ottusi o sfiniti. Sono questi i due unici elementi riconosciuti da Nietzsche alla musica drammatica: una retoricità convenzionale (una musica suscitatrice di ricordi) ed una musica eccitante che agisce soprattutto fisicamente. È interessante valutare, all’interno di coordinate teoriche rigorosamente determinate, il ruolo svolto da Wagner. Anche in questo caso non mancano nei frammenti nietzschiani affermazioni assolutamente controcorrente; in primo luogo vi si esprime la convinzione che, nonostante tutto, il wagnerismo, per la maniera di concepire il rapporto tra testo e musica, rappresenti un effetto residuale della tendenza dell’opera. Nietzsche sottolinea ripetutamente le difficoltà connesse all’inserimento del cantante sulla scena: «Wagner ha avuto difficoltà incredibili con il cantante: per dargli una posizione naturale si è rifatto alla melodia del linguaggio e al verso primitivo. Qui ha cercato con uno sforzo titanico di deviare la tendenza dell’opera, ha quasi rovesciato la musica, partendo da questo terribile punto di vista. Il dramma che richiede la parola: l’orchestra come imitazione della voce umana»5. La proposta nietzschiana va 4 5

Ivi, p. 282. Ibidem.

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in tutt’altra direzione: bisogna eliminare il cantante perché una sua declinazione drammatica è una semplice assurdità. Il cantante, restaurando il coro, va riportato nell’orchestra; perché la musica non subisca alterazione alcuna è indispensabile che il cantante acquisisca la funzione del coro, cioè come piena sonorità della voce umana fusa con l’orchestra. Nel terzo frammento, sicuramente il più elaborato ed argomentato, il punto di partenza è rappresentato da un contesto desunto dal paragrafo 220 della seconda parte dei Parerga e paralipomena di Schopenhauer: «Potrebbe ancora andare, benché uno spirito puramente musicale non lo richieda, se al puro linguaggio delle note, nonostante sia autosufficiente e non abbia bisogno di alcun sussidio, siano associate parole o perfino un’azione, presentata in modo evidente affinché il nostro intelletto, intuitivo e riflettente, che non ama restare del tutto inattivo, riceva parimenti un’occupazione facile e analoga, grazie alla quale l’attenzione seguirebbe la musica con maggiore fermezza; e sotto ciò che le note esprimono nella loro universale lingua del cuore, che è priva di immagini, sarebbe messa un’immagine evidente, per così dire uno schema, oppure l’esempio di un concetto generale: una cosa del genere renderà più intensa l’impressione che ci dà la musica. Tuttavia, essa dovrà essere contenuta nei limiti della massima semplicità, altrimenti finirebbe addirittura con l’impedire il raggiugimento del fine principale della musica»6. La regola della semplicità, la legge essenziale di ogni arte autentica, del bello, di ogni rappresentazione spirituale, viene invece violata dall’opera; questa, alla luce di ciò, può essere considerata alla stregua di un’invenzione non musicale a favore di spiriti non musicali per i quali la musica deve essere contrabbandata attraverso un mezzo estraneo, per esempio a guisa di accompagnamento di una banale e prolissa storia d’amore. Tentare di trasformare completamente la musica in un’ancella della cattiva poesia è una scelta errata, intrapresa principalmente, secondo Schopenhauer, da Gluck la cui musica operistica, eccezion fatta per le ouvertures, non può affatto essere gustata senza parole. La conclusione è perentoria: l’opera lirica rappresenta la rovina della musica e non solo per l’essere coatta a piegarsi ed adattarsi allo svolgersi estrinseco della vicenda, ma per la funzione esplicata dai cantanti. In questo caso Schopenhauer anticipa alcune delle considerazioni svolte dallo stesso Nietzsche: la voce umana che, al limite, deve essere interpretata come un qualsiasi altro strumento, non riesce a coordinarsi insieme agli altri elementi. Se la voce umana è rappresentata da un soprano oppure da un contralto, la concordanza riesce ancora possibile, perché la linea melodica, in questo caso, spetta essenzialmente e naturalmente alla stessa voce umana. Invece nelle arie per basso e per tenore la melodia dominante compete di consueto agli strumenti 6 A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena, tomo II, trad. it. a cura di Mazzino Montinari e di Eva Amendola Kuhn, Milano, Adelphi, 1983, pp. 572-73.

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alti ed allora il canto ha inevitabilmente l’effetto di una voce troppo forte, in sé semplicemente armonica, che vuole coprire la melodia. Oppure avverrà che la natura dell’accompagnamento, contro il ruolo peculiare della musica, venga spostato contrappuntisticamente verso i toni alti al fine di assegnare la melodia alla voce del tenore o del basso; ma allora l’orecchio seguirà sempre i toni più alti, dunque l’accompagnamento. Per tale ragione – è il parere di Schopenhauer – le arie dei solisti, accompagnate dall’orchestra – sono adatte solo al contralto o al soprano; le voci maschili dovrebbero essere impiegate soltanto in duetto con quelle oppure in pezzi a più voci; tranne il caso in cui esse cantino senza alcun accompagnamento o col solo accompagnamento del basso. La melodia è la prerogativa naturale della voce più alta e tale deve rimanere. Perciò, quando, nell’opera, ad un’aria per baritono o basso, realizzata con mezzi artificiosi e forzati, segue un’aria per soprano, noi afferriamo con soddisfazione ciò che in essa vi è di naturale e di conforme all’arte. Anche grandi maestri, come Mozart o Rossini, pur mitigando, anzi, superando gli inconvenienti delle arie per basso, non riescono, tuttavia, ad eliminarli. Fin qui l’analisi critica di Schopenhauer. Ho già preso in considerazione le osservazioni critiche di Nietzsche sulla funzione molto controversa svolta dal cantante. Assumendo la prima parte del contesto schopenhaueriano si inizia a riflettere sul rapporto tra linguaggio e musica; se si sceglie la struttura categoriale del simbolismo corporeo, facendovi rientrare anche il linguaggio e si compara, in base al canone stabilito, il dramma alla musica, si potrà arrivare a desumere che il dramma, rispetto alla musica, è uno schema, una esemplificazione concettuale; ciò è una riprova della straordinaria universalità ed originarietà della musica vocale: «La musica di ogni popolo è all’inizio sempre alleata con la lirica, e molto tempo prima che si possa pensare ad una musica assoluta, essa attraversa i più importanti stadi di sviluppo»7. Per indagare in profondità tale problematica alleanza, Nietzsche si interroga sulla duplicità essenziale del linguaggio. Nella pluralità delle lingue diventa trasparente il fatto che parola e cosa, risultando la parola piuttosto un simbolo, non coincidano completamente e necessariamente. Qual è la dimensione specificamente simbolica della parola? A tale quesito si potrà rispondere andando al fondo della questione. La forma più universale dell’apparenza, l’unica partendo dalla quale e sotto la quale possiamo comprendere ogni divenire e volere e per la quale si può conservare il nome di “volontà”, ha la sua propria sfera simbolica nel linguaggio; questa è altrettanto fondamentale dell’apparenza. Se tutte le diverse sfumature di piacere e di avversione – manifestazioni di un unico fondamento primordiale, per noi imperscrutabile – ritrovano un simbolo nei suoni di chi parla, tutte le altre rappresentazioni verranno desi7

F. Nietzsche, Frammenti postumi... , cit., p. 372.

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gnate attraverso il simbolismo gestuale di chi parla. Dal momento che quel fondamento primigenio è il medesimo in tutti gli uomini, anche il sostrato sonoro, nonostante la plurale diversità delle lingue, sarà universale e comprensibile a tutti. Da tale sostrato si sviluppa il simbolismo gestuale, più arbitrario e non del tutto adeguato al suo fondamento. Con questo simbolismo prende avvio la molteplicità delle lingue, la cui pluralità può essere comparata ad un testo, composto di strofe, per quella melodia primordiale caratterizzante il linguaggio del piacere e dell’avversione. L’intero campo del consonatismo e del vocalismo è riconducibile al simbolismo gestuale; senza la pregiudiziale del suono fondamentale, consonanti e vocali si ridurranno a semplici posizioni degli organi vocali; non appena la parola sgorga dalla bocca dell’uomo, si produrrà per la prima volta la radice di ogni parola, il fondamento di quel simbolismo gestuale, ossia il sostrato sonoro. Vi è un parallelismo compiuto tra, da un lato, l’intera nostra corporeità e quella forma originaria dell’apparenza (la volontà) e, dall’altro, tra la parola costituita di consonanti e vocali ed il suo Grund sonoro. La forma radicalmente originaria dell’apparenza, la volontà, con la sua scala di sensazioni (piacere ed avversione) giunge, nello sviluppo della musica, ad un’espressione simbolica sempre più adeguata: questo processo storico viene accompagnato parallelamente dalla continua aspirazione della lirica a trasporre la musica in immagini. All’interno di tale duplicità conflittuale si esplica la funzione del linguaggio. Dopo un preambolo di largo respiro sul fondamento originariamente metafisico di ogni potenziale sviluppo del linguaggio è ovviamente impossibile, per Nietzsche, il tentativo di volere musicare una poesia, ossia voler illustrare una poesia attraverso la musica, per aiutare in tal modo la musica a procurarsi un linguaggio concettuale. Si tratta di un’impresa contro natura simile a quella di un figlio che aspirasse a generare suo padre, un verkehrte Welt e l’esempio addotto, il dipinto di Raffaello, Santa Cecilia, è di grande suggestione oltre che perfettamente calzante sul piano argomentativo: «Si potrà popolare l’aria con la fantasia di un Raffaello, si potrà contemplare, come egli ha fatto, la Santa Cecilia che ascolta estatica le armonie dei cori angelici – ma nessun suono verrà fuori da questo mondo, apparentemente perduto nella musica, anzi, se noi immaginassimo che davvero, per un miracolo, cominciasse a risuonare quell’armonia, mai sparirebbero d’un tratto Cecilia, Paolo e la Maddalena, dove scomparirebbe lo stesso coro degli angeli che cantano! Noi cesseremmo subito di essere dei Raffaelli! E come in quel quadro gli strumenti mondani giacciono a terra spezzati, così la nostra visione pittorica, vinta da qualcosa di superiore, impallidirebbe e si spegnerebbe come un’ombra»8. L’impresa è impossibile, 8

Ivi, p. 375.

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perché a suo fondamento presume un atto innaturale, non potendo suscitare il piacere per l’apparenza il suo contrario, il piacere per la non apparenza. Come potrebbe il mondo apollineo, completamente immerso nell’intuizione, il mondo dell’occhio, produrre da sé il suono, il quale simboleggia una dimensione vinta ed esclusa proprio dal perdersi in maniera apollinea nell’apparenza? Se è plausibile l’assunto di partenza privilegiato da Nietzsche, l’antitesi fra apollineo e dionisiaco, come potrà risultare verosimile la tesi che attribuisce in qualche modo all’immagine, al concetto, all’apparenza, la forza di produrre spontaneamente il suono? Non è neppure accettabile l’argomentazione, per la quale non è la poesia ma il sentimento prodotto dalla poesia a generare la composizione musicale, perché se la volontà nella sua massima universalità, in quanto forma originaria dell’apparenza, è oggetto della musica, non è comunque l’origine di essa. Rispetto a tale volontà, ciò che viene definito sentimento è già compenetrato al massimo di rappresentazioni consce ed inconsce e perciò non è più direttamente oggetto della musica, né tanto meno potrà produrla da sé. Alla luce di tale “spaccato” teorico si può riformulare ancora una volta il rapporto tra testo e musica: quando il musicista compone la linea musicale di una lirica (caso esemplare il Lied), egli, in quanto musicista, non è ispirato né dalle immagini né dal linguaggio sentimentale del testo di riferimento: viceversa, l’origine sta nella commozione musicale che “elegge” (wählt) quel testo poetico ad espressione simbolica di se medesima. Come in ogni atto elettivo, a mio avviso, tra il piano della scelta e quello dell’oggetto prescelto non vi è pariteticità alcuna, ma piuttosto un arbitrio del tutto soggettivo che impedisce a priori qualsiasi relazione necessitante tra testualità e musica. A questo proposito Nietzsche fornisce un esempio illuminante: il quarto movimento della Nona di Beethoven con una chiave di lettura decisamente alternativa a quella prospettata da Wagner nel celebre “programma di sala” per l’esecuzione della Nona nella Domenica delle Palme del 1846; nel Bericht viene introdotta per la prima volta l’espressione “musica assoluta” che sta a designare la pura musica strumentale: «Con quest’inizio dell’ultimo movimento la musica di Beethoven assume un carattere decisamente più parlante: abbandona il carattere – mantenuto nei primi tre movimenti – della pura musica strumentale, che si annuncia nell’espressione infinita ed indecisa… Ammiriamo la maniera con cui il maestro prepara l’entrata della parola e della voce umana, come una necessità da troppo tempo attesa, con questo sconvolgente recitativo dei violoncelli e contrabbassi, che già quasi abbandonando i limiti della musica assoluta si fa incontro, con un discorso forte e sentito, agli altri strumenti, per spingerli ad una decisione...»9. 9

R. Wagner, Bericht über die Aufführung der neunten Symphonie von Beethoven im Jahre 1846, nebst Programm dazu in Schriften und Dichtungen. Jubiläumausgabe in zehe Bänden, Dieter Borchmeyer, IX, Frankfurt, Insel, 1983, pp. 23-24.

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In questo caso Wagner concepisce il contributo della voce umana nel libero movimento sinfonico in maniera costruttiva, un intervento dall’esterno che prepara la fratellanza fra le varie arti, propugnata nel suo sistema estetico10. Per Nietzsche si tratta, invece, di una ungeheuerliche: aesthetische Aberglaube (di una nefanda superstizione estetica), per la quale «Beethoven stesso, con quel quarto tempo della Nona, avrebbe fatto una solenne ammissione sui limiti della musica assoluta, anzi avrebbe in tal modo dischiuso in un certo senso le porte ad una nuova arte in cui la musica sarebbe capace di rappresentare persino l’immagine ed il concetto e quindi si renderebbe accessibile allo “spirito cosciente”?»11. Nel porre un recitativo all’inizio del canto corale, Beethoven indicava la strada maestra per giungere ad una sonorità piena e totalmente espressiva della sua orchestra. Solo per questo progetto di estrema coerenza musicale aveva bisogno del “suono persuasivo” della voce umana, dell’innocenza del canto popolare. La direzione della sequenza andava pur sempre dal suono più gradevole: la voce umana rimaneva interna ad un processo sonoro che si esaltava nella sua globalità. Tornano pertanto le perplessità nietzschiane sulla funzione del cantante che deve essere rimpiazzato dal coro. Il quarto movimento della Nona di Beethoven diviene il punto di rottura tra Wagner e Nietzsche; al fondo vi sono due modelli differenziati di “musica assoluta”, il “dramma musical” wagneriano ed una musica che si emancipa da qualsiasi forma di soggezione nei riguardi delle parole. È importante affermare che il credo estetico argomentato in questi lucidissimi frammenti era stato di fatto abbracciato da Nietzsche stesso qualche anno prima per il suo approccio compositivo alla liederistica. III – I Lieder nietzschiani presentano quasi sempre una peculiarità che viene coerentemente incontro all’analisi retrospettiva proposta nei frammenti; essi vengono elaborati a partire dal pianoforte e si può notare, per esempio, in Mein Platz vor der Tür, che la parte pianistica raddoppia il canto12:

10 R. Wagner, Oper und Drama, in Gesammelte Schriften und Dichtungen, 10 voll., Lipsia, Fritzsch, 1887, vol. III, p. 67. 11 F. Nietzsche, Frammenti postumi…, cit., p. 380. 12 F. Nietzsche, Der musikalische Nachlass, a cura di Curt Paul Janz, Basel, Bärenreiter, 1976, p. 1.

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Lo stesso dicasi per uno dei Lieder più riusciti, Aus der Jugendzeit, su testo di Friedrich Rückert13:

Caso paradigmatico è quello del Lied, Da geht ein Bach, su testo di Klaus Groth, che contempla due versioni, la seconda delle quali raddoppia, lasciandola inalterata, la linea melodica del pianoforte. Si confronti il primo rigo musicale della versione pianistica14:

con il primo di quella liederistica15:

Anche per quanto concerne la composizione di un Melodram su testo di Joseph von Eichendorff, Das zerbrochene Ringlein, solo in apparenza si potrà parlare di un tradimento rispetto alle professioni di fede del 1871: il Melodram nell’accezione nietzschiana sta infatti a rappresentare un melologo giustappo13 Ivi, p. 10. 14 15

Ivi, p. 13. Ivi, p. 14.

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sto alla musica, prospettiva che avrebbe dovuto rappresentare un’alternativa al recitativo tradizionale. Ad esempio, nel primo rigo musicale di Das zerbrochene Ringlein si può constatare palesemente come non sussista notazione per la voce recitante la quale semplicemente si appoggia a sua discrezione all’accompagnamento pianistico16:

La prassi compositiva conferma ampiamente l’intenzione nietzschiana di privilegiare la dimensione musicale rispetto a quella più strettamente testuale, scelta che viene fatta valere anche per l’ascoltatore; sta piuttosto nell’essenza dell’arte dionisiaca non tenere in alcuna considerazione l’ascoltatore: «... se... immaginiamo un ascoltatore che assista a quegli sfoghi endemici dell’eccitazione dionisiaca, dovremmo predirgli un destino quale toccò a Penteo, scoperto a spiare: il destino cioè di essere sbranato dalle Menadi»17. L’ascoltare non può accampare pretesa alcuna, l’unico atteggiamento corretto è di porsi come di fronte “ad una musica assoluta”. Se pensiamo alle nostre esperienze nel campo della più elevata musica d’arte, avremo riscontri della stessa portata: che cosa possiamo comprendere del testo di una messa di Palestrina, di una cantata di Bach, di un oratorio di Händel se non partecipiamo noi stessi al canto? L’opera, con quanto di regressivo tale prospettiva comporti, inizia proprio a partire dalla pretesa dell’ascoltatore di comprendere le parole. Una tendenza per versa, che deve essere ricusata pregiudizialmente se si vuole venire incontro a quel tanto di vocale che permane in una lirica o in un Lied.

16 17

Ivi, p. 27. F. Nietzsche, Frammenti postumi…, cit., pp. 381-82.

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