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Italian Pages 162 [107] Year 2022
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CARTA DE LOGU dell’Arborea
CARTA DE LOGU dell’Arborea
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GIOVANNI LUPINU insegna Glottologia all’Università di Sassari; è responsabile scientifico di ATLiSOr (Archivio Testuale della Lingua Sarda delle Origini), la prima banca dati online del sardo antico. Fra le sue pubblicazioni principali si ricordano: Latino epigrafico della Sardegna (Ilisso 2000); Il Vangelo di San Matteo voltato in logudorese e cagliaritano. Le traduzioni ottocentesche di Giovanni Spano e Federigo Abis, con Brigitta Petrovszki Lajszki (CFS/Cuec 2004); Carta de Logu dell’Arborea. Nuova edizione critica secondo il manoscritto di Cagliari (BUC 211) con traduzione italiana, con la collaborazione di Giovanni Strinna (Istar/CFS/S’Alvure 2010); Scritti di linguistica e filologia del sardo medievale (Universitas Studiorum 2016); Magyarul. Le traduzioni magiare di Padre padrone e Il giorno del giudizio (Universitas Studiorum 2017); Su alcune recenti proposte nella linguistica sarda: gli esiti delle labiovelari latine in logudorese e campidanese («Cultura Neolatina» 2020); Gli Statuti di Castelsardo (Castelgenovese): nuova edizione, con Sara Ravani («Cultura Neolatina» 2021).
In copertina: Eleonora d’Arborea firma la Carta de Logu Antonio Benini (fine XIX secolo) Oristano, Palazzo Campus Colonna Grafica: Nino Mele [email protected]
www.edizionimaestrale.it
€. 20.00
a cura di Giovanni Lupinu
CARTA DE LOGU dell’Arborea
a Carta de Logu del Giudicato di Arborea è il più celebre statuto medievale in lingua sarda. Emanata dal giudice Mariano IV, conobbe tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta del Trecento una nuova stesura corretta e aggiornata – quella a noi pervenuta – per opera della giudicessa Eleonora, sua figlia. Essa è conservata da un unico manoscritto e da una serie di stampe distribuite lungo quasi 350 anni, a partire dall’incunabolo databile intorno al 1480. L’edizione della Carta de Logu data da Giovanni Lupinu, basata sul testimone manoscritto dell’opera, che conserva uno strato del documento anteriore rispetto a quello delle stampe, offre un testo controllato filologicamente, accompagnato dalla traduzione italiana a fronte, per consentire al lettore di orientarsi meglio nella comprensione della lingua sarda medievale. L’opera è completata, oltreché da un Sommario del contenuto della Carta, da un’introduzione e da note di commento del curatore.
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Carta de Logu dell’Arborea a cura di Giovanni Lupinu
Cura editoriale Giancarlo Porcu Grafica e impaginazione Nino Mele [email protected]
© 2022, Edizioni Il Maestrale via Manzoni 28 - 08100 Nuoro Telefono 0784.440684 E-mail: [email protected] Internet: www.edizionimaestrale.it ISBN ----
INDICE
Carta de Logu dell’Arborea
p.
VII XXXIX
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Introduzione
Nota al testo Carta de Logu dell’Arborea
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Note
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Sommario
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Introduzione
0. Non di rado, quando si porta a termine una ricerca, accade che il risultato finale sia diverso dal progetto iniziale: questo perché, per accurata che sia la pianificazione del lavoro, il confronto con le cose impone sempre aggiustamenti, correttivi, ripensamenti. Non diversamente è stato per la prima edizione critica della Carta de Logu dell’Arborea (d’ora in avanti = CdLA), che pubblicammo nel 20101: originariamente, infatti, per incarico dell’Istituto Storico Arborense (ISTAR), diretto da Giampaolo Mele, contavamo di realizzare una traduzione italiana di quello che può essere considerato il monumento giuridico più celebre del medioevo sardo, cui sono stati dedicati fiumi di inchiostro. Sin da subito, tuttavia, fu necessario arrendersi a un’evidenza, tanto inattesa quanto sconfortante: a dispetto dell’importanza della CdLA, non ne esisteva un’edizione affidabile e moderna – come si avrà modo di mostrare più avanti – che consentisse di sviluppare un serio discorso esegetico. Da ciò è discesa nel tempo tutta una serie di inconvenienti facilmente intuibili, specie sul versante storiografico, ma anche su quello linguistico: in particolare, capitava – e talora capita ancora, per una sorta di compiaciuta e colpevole inerzia, che porta a ripetere ciò che non andrebbe ripetuto – di leggere studi infarciti di tesi preconcette, tenacemente incrostate, nelle quali i dati testuali sono violati e piegati a sostenere interpretazioni irragionevoli e fantasiose2. Davanti a un quadro di questo tipo, decidemmo di
1 Carta de Logu dell’Arborea. Nuova edizione critica secondo il manoscritto di Cagliari (BUC 211) con traduzione italiana, a cura di Giovanni Lupinu, con la collaborazione di Giovanni Strinna, ISTAR/Centro di Studi Filologici Sardi, Oristano 2010. 2 Su questo si veda, ad es., Paolo Maninchedda, Su una nuova traduzione della Carta de Logu di F.C. Casula, «Bollettino di Studi Sardi», 4, 2011, pp. 153-169.
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Carta de Logu
approntare finalmente un’edizione critica dello statuto arborense, condotta sull’unico manoscritto superstite, e di basare su questa la traduzione italiana: in tale occasione, oltre a restituire un testo affidabile, ci siamo sforzati soprattutto di chiarire le principali questioni relative alla tradizione testuale della CdLA. Per le ragioni che abbiamo rapidamente esposto, nelle pagine che seguono riproponiamo, con qualche minimo ritocco e aggiornamento che non alterano l’ossatura argomentativa originaria, la parte essenziale delle considerazioni sviluppate nell’Introduzione all’edizione critica ricordata. Al termine di essa, peraltro, esprimevamo l’auspicio che nei tempi a venire si predisponesse pure l’edizione critica della redazione della CdLA trasmessa dall’incunabolo quattrocentesco e si ripubblicasse la stampa madrilena del 1567, contenente il commento di Girolamo Olives (di cui pure riferiremo): nel frattempo, la prima opera – per molti aspetti complementare rispetto al nostro lavoro – è stata portata a termine da Giulia Murgia3 e ci pare che, nel quadro d’insieme oggi a disposizione degli studiosi, le tesi da noi difese nel 2010 risultino pienamente attuali e, anzi, escano corroborate dal dibattito filologico. 1. La CdLA è il codice legislativo emanato dal giudice Mariano IV, in una data non precisabile, che successivamente conobbe una nuova stesura corretta e aggiornata a opera della figlia di lui, la giudicessa Eleonora. Confermata nel 1421 da Alfonso V il Magnanimo per tutti i territori feudali del Regnum Sardiniae, rimase in vigore, sia pure con ampie deroghe e modifiche, sino al 1827, quando fu sostituita dal Codice feliciano. La versione della CdLA a noi pervenuta è quella di Eleonora4, promulgata, molto verosimilmente, in un arco di tempo che si rie3
Carta de Logu d’Arborea. Edizione critica secondo l’editio princeps (BUC, Inc. 230), a cura di Giulia Murgia, Franco Angeli, Milano 2016. 4 Con maggiore precisione, come avremo modo di mostrare meglio più avanti, quanto appena espresso vale, soprattutto, per la redazione della CdLA trasmessa dall’unico testimone
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Introduzione
sce a comprimere tra la fine degli anni Ottanta e i primissimi anni Novanta del Trecento. Il problema della datazione, all’anno e magari anche al giorno precisi, è da tempo ampiamente dibattuto, senza che peraltro si sia approdati a un’ipotesi che si imponga per la sua evidenza: a complicare la questione vi sono alcune divergenze testuali fra il manoscritto e l’incunabolo (con le restanti stampe), in particolare nel proemio del corpus normativo, laddove si legge che la Carta de Logu non è stata corretta per ispacio de annos VI passados, secondo il manoscritto, o, con lezione differente proprio nel punto cruciale del numerale, per ispaciu de XVI annos passados, secondo l’incunabolo5. Come anticipato, la CdLA è conservata da un unico testimone manoscritto, precisamente dalla sezione iniziale (cc. 1-48) di un codice cartaceo composito la cui scritturazione è datata, sulla base di elementi di ordine diverso, al terzo quarto del XV sec.6 Il codice fu donato dal capitolo della cattedrale di Iglesias al conte Carlo Baudi di Vesme, il quale a sua volta lo fece pervenire, nel 1866, alla Biblioteca Universitaria di Cagliari (fondo manoscritti, 211); al principio del secolo scorso fu quindi editato, limitatamente allo statuto di Eleonora, da Enrico Besta7. manoscritto, su cui è basata la nostra edizione critica già citata e il testo che qui offriamo; l’editio princeps e le altre stampe, infatti, consegnano uno strato più recente del testo legislativo. 5 Sull’argomento, in generale, si vedano le osservazioni di Barbara Fois, Sulla datazione della Carta de Logu, «Medioevo. Saggi e rassegne», 19, 1994, pp. 133-148. 6 Si veda Giovanni Strinna, Il manoscritto BUC 211, in Carta de Logu dell’Arborea. Nuova edizione critica secondo il manoscritto di Cagliari (BUC 211) cit., pp. 27-46, specie a p. 45, ove sono ricordate anche altre proposte di datazione che, in alcuni casi precocemente, hanno indicato il tardo Quattrocento. Nonostante si sia conservato un unico codice della CdLA, si ha motivo di ritenere che di essa dovettero circolare numerose copie manoscritte: come è stato più volte e da più parti rimarcato, infatti, il cap. CXXIX sanciva l’obbligo, per ogni curadore, di possederne un esemplare a proprie spese. A questo riguardo si può pensare che la prima stampa, che fornì una nuova redazione dello statuto di Eleonora (inglobando, come vedremo, il Codice rurale di Mariano IV), «fondò da subito una vulgata – ossia l’edizione corrente – del testo pubblicato, il che comportò l’automatico superamento dei codici manoscritti» (Eduardo Blasco Ferrer, Annotazioni ecdotiche e linguistiche sulla «Carta de Logu», «Rivista di Studi testuali», 1, 1999, pp. 29-52: 31). 7 Enrico Besta, Pier Enea Guarnerio, Carta de Logu de Arborea. Testo con Prefazioni illu-
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Carta de Logu
Seguirono quindi dieci stampe, distribuite in un periodo di quasi trecentocinquanta anni8, a partire dall’incunabolo quattrocentesco che, privo di frontespizio e di colophon, è datato all’ultimo ventennio del XV sec. o, con maggiore precisione, intorno al 1480: di esso possediamo due esemplari, custoditi presso la Biblioteca Universitaria di Cagliari e la Biblioteca Reale di Torino9. Più tardi si ebbero: – una stampa cagliaritana nel 1560 (= CdLA 1560)10; – una stampa madrilena nel 1567 (= CdLA 1567), cui il dotto commento del giureconsulto sardo Girolamo Olives, ove le norme dello statuto arborense sono interpretate alla luce del diritto romano, conferisce un’importanza speciale11. Avremo inoltre modo di precisare che questa edizione, per i numerosi interventi attuati dal curatore sul testo, occupa una posizione nodale e un ruolo caratterizzante nelle vicende successive della tradizione del codice legislativo arborense;
strative, Prem. Stab. Tip. Ditta G. Dessì, Sassari 1905 (estratto dagli «Studi Sassaresi», anno III): la prefazione di Enrico Besta, La Carta de Logu quale monumento storico-giuridico, si trova alle pp. 3-67; quella di Pier Enea Guarnerio, La lingua della «Carta de Logu» secondo il manoscritto di Cagliari, alle pp. 69-145; il testo, editato da Besta, sta alle pp. 3-72, che seguono con nuova paginazione. 8 Cfr. Tiziana Olivari, Le edizioni a stampa della «Carta de Logu» (XV-XIX secolo), in La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto medievale e moderno, a cura di Italo Birocchi e Antonello Mattone, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 165-192 (ove però non è segnalata l’edizione francese del 1826 di cui riferiremo). 9 Si veda ora: Carta de Logu d’Arborea. Edizione critica secondo l’editio princeps (BUC, Inc. 230) cit. 10 Principiat su libro dessas constitutiones et ordinationes sardiscas fattas et ordinadas per issa illustrissima sengora donna Alionore per issa gracia de Deus iuyguissa d’Arbaree […] intitulado Carta de Logu […] Callerii, apud Stephanum Moretium, MDLX. Su questa cinquecentina si veda Alessandro Ledda, Per l’attribuzione della Carta de logu del 1560, «La Bibliofilia», 114/1, 2012, pp. 133-152. 11 Hieronymi Olives Sardi […] Commentaria et glosa in Cartam de Logu legum et ordinationum Sardarum noviter recognitam et veridice impressam […] Madriti, in aedibus Alfonsi Gomezij et Petri Cosin typographorum, MDLXVII. Si veda anche Ennio Cortese, Le grandi linee della storia giuridica medievale, Il Cigno Galileo Galilei, Roma 2000, p. 469, nota 801: «la sua [scil. di Olives] interpretazione sanziona l’ingresso della Carta de Logu nel sistema del Diritto comune».
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Introduzione
– una stampa napoletana nel 1607 (= CdLA 1607)12; – una stampa sassarese nel 1617 (= CdLA 1617)13; – una seconda stampa cagliaritana nel 1628 (= CdLA 1628)14; – una terza stampa cagliaritana nel 1708 (= CdLA 1708)15; – una quarta stampa cagliaritana nel 1725 (= CdLA 1725)16. Occorre rimarcare lo speciale legame di quest’ultima edizione con quella sassarese del 1617 e la cagliaritana del 1708, «sia perché allegano tutte il commento dell’Olives, sia perché il testo sardo del codice legislativo arborense è stato sottoposto a un ‘ammodernamento’ e a una riscrittura in chiave logudorese», come ha osservato Giulio Paulis, sostanziando l’affermazione in utili riscontri che rendono bene l’idea di alcune vicende cui andò incontro il testo della CdLA e, in particolare, pongono in risalto il carattere ‘aperto’ pure dal punto di vista linguistico di questa fonte normativa, che è poi un segno della sua lunga vigenza: In altri termini, la lingua di tali edizioni non riflette l’originale varietà arborense quale risulta conservata soprattutto nel manoscritto cagliaritano e nell’incunabolo, bensì il logudorese del XVII secolo tanto nelle soluzioni fonetiche (p. es.: caddu al posto di cavallu, pius anziché plus, pottat in luogo di potsat, poçat, 12 Carta de Logu, fata et instituida dae sa donna Helionora, iuyghissa de Arbaree, novamente revista, et corretta de multos orrores […] Stampado novament en Napolis, pro Tarquino Longu, ad instançia de Martine Saba, stampador en Callaris, MDCVII. 13 Hieronymi Olives Sardi […] Commentaria, et glosa in Cartam de Logu. Legum, et ordinationum Sardarum noviter recognitam, et veridice impressam […] Sassari, ex typographia illustrissimi, et reverendiss. Domini, D. Ant. Canop. Archiepisc. Arboren., apud Bartholomaeum Gobettum, MDCXVII. 14 Carta de Logu, fata, et instituyda dae sa donna Alionora iuyghissa de Arbaree, novamenti revista, et corretta de multos errores […] En Callari, in sa estampa de su doctore Antoniu Galcerinu, per Bartholomeu Gobetti, MDCXXVIII. 15 Hieronymi Olives Sardi […] Commentaria, et glosa in Cartam de Logu. Legum, et ordinationum Sardarum noviter recognitam, et veridice impressam […] Calari, ex typographia Conventus Sancti Dominici, apud F. Ioannem Baptistam Canavera, MDCCVIII. 16 Hieronymi Olives Sardi […] Commentaria, et glosa in Cartam de Logu. Legum, et ordinationum Sardarum noviter recognitam, et veridice impressam […] Calari, ex typographia nobilis D.D. Petri Borro administr., per Gaspar Nicolaus Garimberti, MDCCXXV.
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Carta de Logu
ecc.) quanto nelle scelte lessicali (p. es.: cherimus in vece di bolemus, matessi anziché istessu, ecc.) e morfologiche (-n anziché -nt come desinenza di 3a pers. pl. dei verbi; lu/la, los/las, li/lis pronomi atoni di 3a persona, al posto di llu/lla, llos/llas, lli/llis; sou per suo; nois per nos; bey in vece di illoe, illoy, loy ‘colà’; gerundi in -nde al posto di -ndo: per es. ponende per ponendo; ecc.). Nell’intento di rendere il testo più facilmente accessibile ad ampi strati di fruitori, i cultismi e gli arcaismi sono sostituiti da espressioni popolari: mentre, p. es., tutta la tradizione della CdL 22 reca pro feminas qui siant publicas meretrices, le tre edizioni in questione parlano di bagassas semplicemente. Così incontriamo CdL 2 babbu per padri; CdL 52 intima per nunça; CdL 81 chiamadu per nunsado; CdL 84 iagaradore per canariu; CdL 82 logu comune determinadu per colletorju; CdL 91 servitudine de pagare per munza, ecc. I termini tecnici riferentisi a realtà storiche oramai superate nel Seicento sono sostituiti. Non esistendo più la servitù, e quindi la contrapposizione tra lieru e servu, al posto di sos lieros si trova sos bonos homines in CdL 92 e altrove; in luogo di s’armentargiu nostru de logu, un funzionario regio maggiore che aveva le supreme attribuzioni finanziarie e dirigeva l’esazione dei tributi e l’amministrazione del patrimonio fiscale […] si legge ovunque regidore; ljero de cavallo di CdL 81 diventa homine de caddu e così seguitando.17
Anche per ciò che scrive Paulis, è evidente la ‘leggerezza’ commessa da numerosi autori moderni che hanno dichiarato di avere seguito per i propri studi l’edizione della CdLA curata da Olives, avendo però sottomano non la stampa madrilena del 1567, bensì una più tarda che riproduce il commento dell’alto magistrato sardo18. Ottant’anni dopo la quarta stampa cagliaritana ricordata in precedenza, nel 1805 in Roma, si ebbe la fortunata edizione di 17 18
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Giulio Paulis, Studi sul sardo medioevale, Ilisso, Nuoro 1997, pp. 47-48. Si veda anche infra, nota 33.
Introduzione
Giovanni Maria Mameli de’ Mannelli (= CdLA 1805)19: la disinvoltura esibita nell’affrontare le spinose questioni testuali, le modificazioni linguistiche dei capitoli in senso campidanese e le non rare interpretazioni eruditamente fantasiose hanno convinto alcuni autori a concedere a questa edizione la palma di peggiore in assoluto20. Ciononostante, essa continua a trovare estimatori ancora ai giorni nostri21. Infine, un episodio poco investigato che va ad arricchire la vicenda delle stampe della CdLA è dato da quella che possiamo indicare come l’edizione francese. Già Besta, muovendo da un cenno trovato in uno scritto di Luigi Manzoni, segnalava in modo cursorio, senza averla vista, «un’edizione francese della Carta de logu stampata in anno non precisato dal Bouchon [sic] col titolo Constitution du judicat d’Arborée»22. Precisiamo ora che questa edizione, che può essere riguardata come la decima, è contenuta nella 19
Le costituzioni di Eleonora giudicessa d’Arborèa intitolate Carta de Logu. Colla traduzione letterale dalla sarda nell’italiana favella e con copiose note del consigliere di Stato, e riferendario cavaliere don Giovanni Maria Mameli de’ Mannelli […] In Roma, MDCCCV, presso Antonio Fulgoni. 20 Si vedano, ad es., E. Besta, La Carta de Logu quale monumento storico-giuridico cit., p. 9 e, quasi con le stesse parole, Antonio Sanna, Il dialetto di Sassari (e altri saggi), 3T, Cagliari 1975, p. 154. 21 Esistono due traduzioni moderne della CdLA nelle quali si legge che il testo seguito è quello della stampa madrilena del 1567: cfr. Francesco Cesare Casula, La “Carta de Logu” del regno di Arborèa. Traduzione libera e commento storico, Carlo Delfino, Sassari 1995 ed Eleonora d’Arborea, La Carta de Logu. Introduzione di Francesco Obinu, traduzione di Salvatore Tola, La Nuova Sardegna, Sassari 2003. Già a un rapido esame del testo sardo messo a fronte delle due versioni italiane, tuttavia, è facile dimostrare che l’edizione tenuta presente, in realtà, è quella di Mameli de’ Mannelli, il quale a sua volta si basò sull’edizione di Madrid commentata da Olives, dipartendosene però per diversi aspetti e in misura non lieve, come dichiarato nel Proemio (e, del resto, Casula stesso scrive, nel Dizionario storico sardo, Carlo Delfino, Sassari 2001, s.v. Carta de Logu del Regno di Arborèa, edizioni, a p. 351, che la propria edizione è «ricalcata su quella di Madrid del 1567 riportata dal Mameli nell’edizione del 1805»: insomma, è più esatto dire che si tratta di una traduzione basata sul testo di inizio Ottocento). Se si muove dall’intenzione di accostarsi allo strato del testo che più da presso rifletta la compilazione voluta e promulgata da Eleonora di Arborea, e non a una singola stampa che documenti una fase della sua vigenza, occorrerà allora accantonare l’edizione del 1805, salvo riconoscere il ruolo che le compete nella tradizione della fonte normativa. 22 La segnalazione di Besta è contenuta in un breve intervento, senza titolo, che chiude le
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Carta de Logu
Collection des chroniques nationales françaises, écrites en langue vulgaire du treizième au seizième siècle, avec notes et éclaircissements, par J.A. Buchon, tome XV (Suppléments de Froissart), Paris 1826, alle pp. 65-208. Pubblicando dei documenti relativi a quello che viene definito «un des plus curieux épisodes de l’histoire de Sardaigne, et même du 14ème siècle» (p. I), ossia l’ambasciata inviata da Luigi I di Angiò a Ugone III di Arborea nel 1378 con la proposta, non andata a buon fine, di suggellare la propria alleanza antiaragonese attraverso il matrimonio fra i rispettivi figli23, Buchon valutò di rendere servigio utile agli studiosi del Medioevo fornendo in appendice lo statuto di Eleonora, «tout-à-fait inconnu chez nous» (p. IX). Già a un rapido esame e a un riscontro su alcuni errori-guida, ma anche sulla base di ciò che Buchon scrive nella sua prefazione, si rileva facilmente che il testo allegato è quello approntato da Mameli de’ Mannelli, sicché l’interesse che questa edizione riveste è legato essenzialmente alla storia della cultura.
2. La tradizione della CdLA è dunque plurima: in essa è agevole scorgere una bipartizione che colloca da un lato l’unico testimone manoscritto, dall’altro le stampe, tutte basate, in ultima analisi, sull’editio princeps. Appare invece fragile l’ipotesi di Eduardo Blasco Ferrer secondo la quale il testo della CdLA si conserverebbe anche per tradizione indiretta, facendo con ciò riferimento ai sedici capitoli della Carta de Logu cagliaritana in traduzione pisana ritrovati da Marco Tangheroni24. Una simile tesi, sorprendente perché
Prefazioni illustrative alla Carta de Logu de Arborea (cfr. supra, nota 7), alle pp. 147-150, in particolare alle pp. 149-150. 23 Si veda Raimondo Carta Raspi, Ugone III d’Arborea e le due ambasciate di Luigi I d’Anjou, Fondazione Il Nuraghe, Cagliari 1936 (ristampa anastatica, S’Alvure, Oristano 1982). 24 Si vedano, rispettivamente, Eduardo Blasco Ferrer, Crestomazia sarda dei primi secoli, Ilisso, Nuoro 2003, vol. I, p. 144, e Marco Tangheroni, La «Carta de Logu» del Giudicato di Cagliari. Studio ed edizione di alcuni suoi capitoli, in La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto medievale e moderno cit., pp. 204-236.
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Introduzione
si ha a che fare con corpora legislativi di due entità statuali distinte, è fondata sul fatto che «in alcuni casi il ms. reca delle lezioni che trovano esatto riscontro in singole parti di d [= testimone unico della Carta de Logu cagliaritana], ciò che suggerisce che il compilatore di a [= manoscritto della CdLA] abbia avuto nel suo scriptorium la vecchia traduzione in pisano del corpus legislativo cagliaritano»25. Quali e quante siano le lezioni che fanno da puntello a un asserto tanto impegnativo è dato leggere in un articolo dello studioso catalano uscito qualche anno prima della Crestomazia, nel quale i riscontri individuati sono scarsissimi e tutt’altro che cogenti: per es., si porta l’attenzione sull’impiego nel manoscritto cagliaritano del verbo (i)statuiri in parallelo con la presenza di statuire nella Carta de Logu cagliaritana26. È appena il caso di rimarcare che la presenza di qualche generico riscontro testuale, quale è possibile cogliere, pur nella stesura in lingue diverse, non è sufficiente per parlare di tradizione indiretta della CdLA: a questo riguardo giova notare, come faceva Tangheroni in polemica con Francesco Artizzu, che il fatto che nella Carta de Logu del giudicato di Cagliari siano individuabili echi di fonti normative sarde quali gli Statuti sassaresi, il Breve di Villa di Chiesa o la CdLA non stupisce, ché anzi sarebbe strano il contrario. Inoltre, sempre seguendo Tangheroni, anche se «in alcuni casi è possibile cogliere l’emergere di un fondo consuetudinario unico, che può affondare le sue radici in un’epoca remota, anche precedente alla metà del X secolo», appare però evidente che la Carta de Logu cagliaritana e quella arborense sono due testi legislativi radicalmente differenti27. Prima di approfondire il tema della tradizione bipartita della CdLA, converrà rimarcare che esiste almeno un importante errore congiuntivo, comune ai due rami in cui si articola, che a nostro av25
E. Blasco Ferrer, Crestomazia sarda dei primi secoli cit., vol. I, p. 145. E. Blasco Ferrer, Annotazioni ecdotiche e linguistiche sulla «Carta de Logu» cit., alle pp. 38, 45-46. 27 Cfr. M. Tangheroni, La «Carta de Logu» del Giudicato di Cagliari cit., pp. 209 (da cui è ricavata la citazione) e 216. 26
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Carta de Logu
viso permette di ipotizzarne la dipendenza da un medesimo archetipo. Tale errore compare nel cap. XCII, che qui riproduciamo secondo la nostra edizione, salvo che per la negazione, presente nella proposizione relativa, di cui diremo fra breve28: Item hordinamus qui sos lieros qui non sunt apusti fidelles o terallis de fito ho homini de sa corte, qui non istint in sa villa afeada, non deppiant pagare nen dare tribuda a su fidelli c’at avir sa villa. Et icusu qui at deber pagare o dare pro regione de jurados o pro attera raxione pagit a sa corti et non at su fidelli.
Identico, nella sostanza, è il dettato dell’incunabolo (come delle restanti stampe), in particolare per ciò che riguarda il punto, per noi cruciale, in cui si legge qui non istint in sa villa afeada. Come rilevava lucidamente Olives nel suo commento, la presenza della negazione non (che nella nostra edizione abbiamo espunto) rende problematica l’intelligenza del dettato normativo, ché non si scorge una ragione sensata per la quale si dovesse prevedere che i lieros non sottoposti a un fedele, i terrales de fittu e gli omines de sa corte non residenti in un villaggio infeudato non dovessero versare tributi al fedele che aveva il villaggio in feudo (quasi che si potesse configurare un rapporto, meritevole di disciplina giuridica, col fedele di un qualche villaggio in cui essi non risiedevano). Viceversa, cassando la negazione, si intende che le categorie indicate non dovevano tributi al fedele che aveva in feudo il villaggio in cui essi risiedevano (ossia, per il solo fatto di risiedervi), bensì pagavano quanto dovuto domino directo et non fideli, come si esprime Olives. In questo modo è possibile scorgere nell’inserimento della negazione nel passo esaminato un guasto all’altezza dell’archetipo, poi conservato nei due rami della tradizione. 28
Per praticità, il testo sardo è dato uniformemente in corsivo, senza indicazione dello scioglimento delle abbreviature e degli altri interventi editoriali. Il medesimo criterio sarà seguito anche più avanti (pure in relazione a brani ricavati dall’incunabolo), salvo che esigenze particolari consiglino di discostarsene.
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Introduzione
Meritano di essere segnalati pure altri due errori che accomunano entrambi i rami della tradizione: nella seconda sezione del proemio della CdLA si legge veridadi (sa veridadi e mutacioni dessos tempos, nel ms.) in luogo di variedadi, ristabilito ope ingenii a partire dalla CdLA 1567, nella quale Olives, come si è già accennato e si avrà modo di circostanziare più avanti, emendò in diverse occasioni il testo della vetus impressio che aveva sotto mano; al cap. LXXVII, poi, si legge deffectu/defectu (pro deffectu dessa ditta divissione over discordia, nel ms.), in luogo di effectu, e tale lezione corrotta, palesemente priva di senso nel contesto in cui ricorre, è giunta sino alla CdLA 1805. Ritornando ora alla questione dei due rami della tradizione della CdLA, costituiti il primo dall’unico testimone manoscritto, il secondo dalle diverse stampe, tutte basate sull’editio princeps, precisiamo che su questo punto la nostra opinione diverge da quella di Besta, per il quale le edizioni cagliaritana del 1560, napoletana del 1607 e ancora cagliaritana del 1628 si fonderebbero sull’incunabolo29, mentre le restanti che accludono il commento di Olives sarebbero «più indipendenti dalla prima, poiché l’editore si valse oltre che della vetus impressio di un manoscritto, disgraziatamente infetto da una assai mendosa litera e spesso capricciosamente corretto e supplito»30. Più recentemente, altri autori hanno espresso il 29 Osserviamo qui che l’incunabolo e le stampe del 1560, 1607 e 1628, ma anche il manoscritto (con alcune divergenze), presentano analogia esteriore nel fatto che allegano, dopo il testo dello statuto di Eleonora, le cosiddette questioni giuridiche esplicative della Carta de Logu, per usare la denominazione – ingannevole – coniata da Vittorio Finzi, Questioni giuridiche esplicative della Carta de logu, «Studi Sassaresi», 1, sez. I, fasc. 2, 1901, pp. 125-153: nel manoscritto esse compaiono sotto il titolo di Exposicionis de sa llege (cfr. infra, nota 47), mentre nelle stampe sono introdotte dalla legenda Sequuntur infra sas leges pro sas cales si regint in Sardinga o sim. Si vedano anche Antonio Era, Le così dette Questioni giuridiche esplicative della Carta de Logu, in Studi di storia e diritto in onore di Enrico Besta per il XL anno del suo insegnamento, Giuffrè, Milano 1939, vol. II, pp. 379-414 e Giovanni Lupinu, Le Questioni giuridiche integrative della Carta de Logu. Preliminari a un’edizione critica, «Cultura Neolatina», 73/1-2, 2013, pp. 185-211. 30 E. Besta, La Carta de Logu quale monumento storico-giuridico cit., p. 7. Questa opinione ha goduto di una certa fortuna e la troviamo ripetuta in lavori anche recenti: si veda, ad es.,
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convincimento che le otto stampe della CdLA posteriori all’incunabolo dipendano interamente da questo, e come tali andrebbero scartate in sede di edizione critica31. In effetti, anche a noi pare che la questione non stia nei termini in cui la inquadrava l’illustre storico del diritto italiano. In primo luogo, va rilevato che l’unica stampa che segue in modo assai fedele il dettato dell’editio princeps, di cui ripropone generalmente persino gli errori più evidenti, è quella cagliaritana del 1560. A pochi anni di distanza, nel 1567, l’edizione madrilena commentata da Olives mostra all’evidenza di dipendere anch’essa dall’incunabolo; tuttavia, introduce nel testo una serie di interventi destinati a caratterizzare in profondità, nel tempo, la tradizione della CdLA, senza che per questo sia necessario ipotizzare la contaminazione con le lezioni di un testimone che ci è ignoto. A contraddire quanto opinava Besta, infatti, stanno innanzi tutto le parole dello stesso Olives che, rivolgendosi al sovrano e al lettore, rimarca a più riprese di avere avuto sotto gli occhi una vetus et corrupta impressio, e da qui l’opportunità di emendare corruptelas et mendosas dictiones al fine di offrire, anche attraverso le note interpretative, il senso esatto delle disposizioni contenute nello statuto a coloro che si trovavano nella condizione e nell’obbligo di applicarle. Sono parole che, da un lato, nulla lasciano trasparire circa la consultazione di un manoscritto a noi non pervenuto (del resto: per quale motivo il comAntonello Mattone, Eleonora d’Arborea, in Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1993, vol. 42, pp. 410-419: 416. 31 Si veda, ad es., E. Blasco Ferrer, Crestomazia sarda dei primi secoli cit., vol. I, p. 145. Ricordiamo qui anche la proposta di F.C. Casula, La “Carta de Logu” del regno di Arborèa cit., pp. 26 e 243, per la quale, in base alla differente strutturazione del cap. I, sarebbe forse possibile individuare tre rami della tradizione del testo della CdLA: uno rappresentato dal manoscritto cagliaritano, un secondo, riconducibile a un «archetipo “A”», in cui si inquadrerebbero l’incunabolo e le stampe del 1560, 1567, 1607, 1628 e 1805, infine un terzo, riconducibile a un «archetipo “B”», in cui troverebbero posto le stampe del 1617, 1708, 1725. Sorvolando sull’uso non esemplare della terminologia filologica, l’autore stesso sottolinea che si tratta di una proposta che «dev’essere confermata dalla collazione fra le diverse edizioni di tutti i 198 capitoli della Carta de Logu del regno di Arborea» (p. 243): i dati testuali, si vedrà, non consentono di aderire a questa ipotesi.
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mentatore avrebbe dovuto menzionare selettivamente le proprie fonti?), dall’altro aiutano a comprendere le ragioni della maggiore autonomia nei confronti dell’incunabolo ravvisata nell’edizione madrilena, autonomia che risalta specialmente a fronte dell’aderenza testuale mantenuta nella stampa cagliaritana del 1560. Considerata l’autorevolezza di Olives e l’importanza che il suo lavoro assunse in breve tempo, come strumento di conoscenza e di applicazione della CdLA, non sorprende che le successive stampe abbiano tenuto ben presente, per la sostanza, il testo fissato nell’edizione madrilena: ciò che, oltre a valere per le tre fra esse che ripropongono il commento del giureconsulto sardo (nel 1617, 1708 e 1725)32, va esteso anche alla stampa napoletana del 1607 e alla cagliaritana del 1628 (non senza significato, d’altronde, è che nel frontespizio di entrambe si legga: Carta de Logu […] revista, et corretta de multos orrores / errores), nonché alla fatica di Mameli de’ Mannelli a inizio Ottocento, nei termini indicati dall’autore nel Proemio33. A questo si aggiunga che, nel corso del tempo, nelle stampe si incrostarono modificazioni di varia natura introdotte al
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Si veda, però, anche quanto riportato precedentemente in corrispondenza della nota
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Stupisce che Blasco Ferrer si sia impegnato a dimostrare che il testo della CdLA offerto da Mameli de’ Mannelli abbia una «dipendenza prioritaria nella lingua» dall’incunabolo piuttosto che dalla stampa madrilena (E. Blasco Ferrer, Annotazioni ecdotiche e linguistiche sulla «Carta de Logu» cit., pp. 37 ss.), visto che su una simile questione è lo stesso curatore, nel Proemio, a fornire al lettore gli opportuni lumi (ossia di aver seguito l’edizione curata da Olives, dipartendosene «nella maniera di scrivere certe voci, che ho procurato di adattar più alla pronunzia Sarda d’oggidì sulla scorta della migliore ortografia tanto Italiana, che Latina»). D’altra parte, la collazione fra il dettato del manoscritto cagliaritano, dell’incunabolo e della stampa madrilena proposta dallo studioso catalano è inficiata da una ‘svista’ facilmente verificabile: il riscontro che abbiamo effettuato, infatti, ha mostrato che il testo indicato come quello dell’edizione madrilena del 1567 è tratto, in realtà, da un’edizione successiva che presenta, sì, il commento di Olives, ma anche la vistosa ‘coloritura’ logudorese della lingua che prende forma solo nella stampa sassarese della Carta de Logu apparsa nel 1617 e permane nelle due cagliaritane del 1708 e 1725 (cfr. supra, in corrispondenza della nota 17). Giusto per fare un paio di esempi, dalle pp. 38-39 dell’articolo di Blasco Ferrer: nella stampa del 1567, al cap. XX si legge maquicias de samben qui si loy hant faghere et qui si loy apertenent assa ragione nostra, e non, come scrive Blasco Ferrer, maquissias de samben qui si han à faghere chi si li appartenen assa raxione nostra; così pure, al cap. CX si
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fine di «rendere più intelligibile un testo che pel volger del tempo s’era già alquanto scostato da quella che diventava la favella volgare»34, circostanza sulla quale si è già avuto modo di richiamare l’attenzione. Per calare il discorso in una dimensione più concreta, sarà utile fornire ora qualche esempio, iniziando da due casi paradigmatici, che mostrano all’evidenza come l’editio princeps contenga alcune lezioni corrotte (non presenti nel manoscritto); più tardi tali lezioni, recepite nella stampa del 1560, sono state individuate e corrette congetturalmente da Olives (che lo dichiara), tuttavia in modo non soddisfacente o erroneo, e questi interventi sono stati trasmessi a tutte le edizioni successive: 1) nella chiusa del cap. LXXI si dispone che, se i liberi e i giurati presenti nelle coronas giudicheranno scientimenti contro il dettato della Carta de Logu, il loro verdetto non avrà valore e saranno condannati al pagamento di 5 lire ciascuno per ogni volta. L’avverbio scientimenti, testimoniato dal ms., fu letto male e nell’inc. compare deformato in secretamente, lezione poi puntualmente riproposta nella CdLA 1560; Olives, dal canto suo, avvertendo il lettore che nel punto specifico litera est mendosa et dicit secretamente, corresse ope ingenii in expressamente, poi tramandato sino alla CdLA 1805 (expressamenti). Vale la pena di rimarcare che quello appena mostrato può essere considerato un bell’esempio di errore significativo, congiuntivo relativamente alle stampe e separativo delle stampe contro il manoscritto, ché l’emendazione di Olives, peculiare e circoscrivibile nella sua genesi e nella sua ricezione, costituisce, in continuità con la lezione secretamente dell’inc., un filo rosso riguardo all’identificabilità e all’as-
legge constituimus et ordinamus qui nexuna persona non depiat comparare nen vender corgiu perunu de boe nen de vaca nen de cavallu nen de ebba nen de molente siat totu, si non in plassa publicamente daenante de totu, anziché, come riportato dall’autore, constituimus et ordinamus qui nexuna persona non depiada comporare nen vendere corgiu perunu de boe, nen de vacca, nen de caddu, nen de ainu, siada totu, si non in sa piatta publicamente daennantis de totu. 34 E. Besta, La Carta de Logu quale monumento storico-giuridico cit., p. 10.
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setto di un ramo della tradizione della CdLA, consentendo in più di individuare in esso uno snodo essenziale; 2) al cap. XCVI si prevede che, se un individuo si trasferisce da una curadoria a un’altra, l’ufficiale del luogo dovrà imporgli di pagare i tributi dovuti al suo omologo della curadoria di provenienza, ove questi ne faccia richiesta. Poi si precisa: et icussas raxiones qui at avir ad dimandari s’uno officiali a s’atero pro sus hominis qui ant eser partidos dae s’una corodoria a s’atera, siat tentu cascuno qui at aviri a reçeviri de dimandari sas ditas ragiones dues voltas s’anno. Ciò che nel passo appena citato del ms. è sas ditas ragiones, nell’inc., seguito dalla CdLA 1560, diventa sas raxiones secundas, evidentemente per il maldestro scioglimento di un’abbreviatura che stava per suprascriptas o sim. Olives, col consueto slancio interpretativo, giudicò che in luogo di secundas andasse inserito foras (dunque: sas raxiones foras), nel senso che si parlerebbe di diritti che sono richiesti dall’ufficiale interessato al di fuori del proprio distretto di competenza: l’intervento congetturale, sulla cui bontà già Mameli de’ Mannelli ebbe a esprimere qualche cautela, si è mantenuto, in ogni caso, in tutte la stampe successive (e, va sottolineato ancora, surroga secundas nella funzione di errore congiuntivo in relazione alle stampe e separativo delle stampe contro il ms.).
Alla luce del quadro generale che i casi appena discussi consentono di delineare, a noi pare possano trovare spiegazione pure i seguenti esempi, astrattamente meno cogenti per l’interpretazione, nei quali l’incunabolo e la CdLA 1560 propongono una lezione corrotta, rettificata in modo soddisfacente da Olives e testimoniata, per questa via (ci sentiamo ora di dire), anche dalle stampe posteriori al 1567: 3) al cap. LVIII si dispone che chiunque voglia richiedere un decreto di citazione potrà farlo emettere dalla corona de Logu o dalla corona de chida de berruda a condizione che paghi il messo notificatore; quindi, seguendo il ms., si aggiunge che ogni altra spesa sostenuta nelle liti dovrà essere rifusa dal soccombente alla parte vincitrice, attassando sos ditos ispendios su armentargiu nostru de Loghu c’at esser over
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attero officiali qui at tenne sa iusticia pro nos. In luogo di attassando, nell’inc. e nella CdLA 1560 si incontra la lezione acatando, chiaramente trivializzazione della prima, mentre nella CdLA 1567 ritroviamo ataxando che, in forma grafica più o meno simile (taxando, atachiande), si mantiene sino alla CdLA 1805 (attaxando). Per spiegare la presenza della lezione corretta nel testo curato da Olives, lungi dall’ipotizzare una tradizione contaminata, sarà sufficiente leggerne il commento, laddove si osserva che litera stat ibi corrupte in illo verbo acatando et vult stare ataxando, col che è pure assicurata la dipendenza dal testo dell’inc.; 4) al cap. LXXVII, nel ms. si legge che la sentenza assunta in relazione a un dato chertu dovrà essere letta e pubblicata in sa predita corona. In luogo di corona, nell’inc. si legge carta, che si incontra pure nella CdLA 1560; Olives, invece, mette a testo corona, ipotizzando, a ragione, che la vetus impressio di cui si serviva, nella quale trovava carta, contenesse in questo punto litera mendosa, e corona è trasmesso anche da tutte le edizioni successive; 5) al termine del medesimo cap. LXXVII, una serie di disposizioni è chiusa da una condizione molto precisa: non infirmando però sa Carta de Logu. La lezione infirmando, proposta dal ms., è banalizzata in informando nell’inc. e nella CdLA 1560, errore tuttavia individuato e corretto da Olives, il quale segnala il proprio intervento congetturale in sede di commento, col risultato di orientare tutte le stampe posteriori; 6) al cap. CXIII è disciplinata la condotta di quanti facciano rientro da un viaggio con dei buoi: mentre il ms., per due volte all’interno del capitolo, identifica correttamente i destinatari delle prescrizioni nei carradores, nell’inc. si legge curadores, che è lezione indubitabilmente corrotta. Laddove la CdLA 1560 non si discosta dal dettato dell’inc., Olives propone in entrambi i passi carradores, avvertendo però il lettore, nel commento, che il testo sul quale si basava erat mendosus in litera, proprio perché offriva, nei due casi in esame, curadores. Anche in questa circostanza la correzione del giureconsulto sardo è passata a tutta la tradizione successiva.
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Talora accade anche che le edizioni posteriori a quella madrilena presentino correzioni che Olives non mise a testo, ma in qualche modo suggerì nel proprio commento, come mostra in modo nitido il caso del cap. XLIII, in cui sono stabilite le sanzioni per coloro che tolgano i pali o la recinzione oppure danneggino il fossato di una vigna altrui, o di un orto, o di un recinto di buoi o di altro bestiame. In chiusura, nel ms. si prescrive che issos officialis siant tenudos de pregontare·nde sos jurados per donnja volta qui ’llos debent pregontare. L’inc., la CdLA 1560 e la CdLA 1567 offrono, in luogo del verbo pregontare (la seconda occorrenza), l’inesistente voce corbentare. Tuttavia, Olives, pur mantenendo a testo corbentare, nel commento glossa la voce nel senso di percontari, senza che sia del tutto chiaro se avesse individuato la presenza di una lezione corrotta nella stampa da lui consultata o, più semplicemente, avesse desunto il significato dell’ipotetico verbo corbentare dal contesto, non impegnandosi sul problema della sua plausibilità testuale35. In ogni caso, vediamo che nelle stampe successive – comprese la CdLA 1607 e la CdLA 1628, che a giudizio di Besta si ricollegherebbero in modo diretto all’incunabolo – è ristabilito pregontare (preguntare, pregontari), pur permanendo traccia di corbentare in quelle edizioni che ripropongono il commento di Olives. Merita conto di rimarcare che interventi come quelli che abbiamo esemplificato, come pure altri persino più vistosi di ‘aggiornamento’, ‘rimaneggiamento’ e ‘semplificazione’ del testo, essenzialmente in chiave di lingua, non sorprendono in un codice legislativo a lungo vigente (con le riforme e le deroghe del caso,
35 Si consideri, a ogni modo, che l’emendazione di corbentare in pregontare non avrebbe presentato particolari problemi, visto che la prescrizione qui in esame ritorna formulata nei suoi termini esatti, in entrambi i rami della tradizione, nella chiusa del cap. LXXXV, ove si tratta dell’avvelenamento delle acque prima di San Michele (nell’inc., ad es., si legge: issos officiales inde preghontent sos iurados per omni bolta qui los debent pregontare). Come rimarcava Mameli de’ Mannelli, una simile previsione – quella, cioè, che gli ufficiali interrogassero i giurati in relazione a un certo reato tutte le volte in cui era previsto che li sentissero – avviene a tenore del cap. XIX.
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s’intende)36 che veniva interpretato e applicato, e anzi di tale protratta vigenza sono segni concreti. In ogni modo, a mostrare ulteriormente il legame fra le diverse stampe – in aggiunta ai casi poc’anzi discussi che, evidenziando il ruolo nodale dell’edizione madrilena del 1567, danno pur sempre testimonianza di errori monogenetici e delle relative emendazioni, del pari monogenetiche e di identica funzione argomentativa – è agevole anche individuare alcuni errori congiuntivi che, sfuggiti agli interventi di Olives, permangono quasi sempre sino al lavoro di inizio Ottocento di Mameli de’ Mannelli e, in particolare, ancora una volta, pongono in allineamento l’incunabolo anche al testo madrileno del 1567, passando attraverso l’edizione cagliaritana del 1560, errori che, in alcune occasioni, sono pure separativi contro il manoscritto (in modo complementare, si vedrà, sono evidenziabili nel codice errori separativi contro le stampe, col che è assicurato che le ultime non discendono dal primo). Ciò, in definitiva, permette di rigettare l’ipotesi di Besta e consiglia di inquadrare le stampe in un unico ramo della tradizione della CdLA. Ci limitiamo a fornire alcuni esempi che ci paiono particolarmente probanti (quelli ai nn. 1, 2, 5, 6, 8, 9, 10 fanno riferimento a errori che, a nostro avviso, oltre che di tipo congiuntivo relativamente alle stampe, sono pure di tipo separativo contro il manoscritto, mentre quelli ai nn. 3, 4, 7 riguardano errori congiuntivi ma non separativi): 1) nella seconda sezione del proemio della CdLA, secondo il testo 36 Cfr., ad es., Antonello Mattone, La «Carta de Logu» di Arborea tra diritto comune e diritto patrio, in La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto medievale e moderno cit., pp. 406478, specie alle pp. 435 ss. L’autore osserva anche che «nel corso del tempo si assiste […] a una sorta di adattamento linguistico della Carta de Logu dovuto soprattutto all’uso: così le edizioni cagliaritane risentono dell’influenza del sardo campidanese parlato, come quella sassarese del 1617 appare più aderente alla variante logudorese. Naturalmente si tratta di divergenze linguistiche, non di contenuto: le modifiche testuali non sono infatti mai dettate dall’evoluzione degli istituti giuridici» (p. 418). È bene tuttavia precisare che non è dato osservare una corrispondenza fra il luogo di edizione e la coloritura linguistica logudorese o campidanese del testo: a questo proposito si veda supra, in corrispondenza della nota 17.
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tràdito nel ms. si legge: sa Carta de Logu, sa quali cun grandu sinnu e providimentu erat fata per issa bona memoria de juigui Mariani etc.37 Altrove, il sintagma grandu sinnu appare corrotto, ché nell’inc. e nella CdLA 1560 abbiamo cum grandissimo et providimento, palesemente irricevibile a testo, mentre nella CdLA 1567 l’espressione è ricondotta a una sintassi regolare tramite l’eliminazione della congiunzione: cum grandissimo providimentu (lezione che giunge sino alla CdLA 1805: cun grandissimo provvidimentu); 2) al cap. LXI, nell’inc. si incontra il vocabolo botigantis, voce inesistente sorta per cattiva lettura di litigantes, che è la lezione tramandata dal ms.; botigantis (bottigiantes, bottiganntes, bottigiantis) è poi passato a tutte le edizioni a stampa, nonostante già Olives nel suo commento chiosasse botigantes, idest litigantes38; 3) al cap. LXXI, a un certo punto si prevede che, una volta che lo scrivano abbia letto le dichiarazioni rese dai testimoni, il curadore, ovvero l’ufficiale che presiede la corona, dovrà sentire la parte contro la quale essi sono stati convocati, per vedere se vuole opporre qualche fatto contro le loro persone o le loro deposizioni: et si bollet oppone o narre alcuna caussa qui pargiat racionabili et justa (così nel ms.), sarà
37 Abbiamo emendato signu, che è la lezione proposta dal manoscritto, in sinnu, vocabolo presente già nel Condaghe di San Pietro di Silki. Si tratta di un antico italianismo, penetrato in sardo con l’adeguamento proporzionale della vocale tonica: cfr. Max Leopold Wagner, Dizionario etimologico sardo, Carl Winter, Heidelberg 1960-64, s.v. sínnu. 38 Ciononostante, sempre nel commento relativo al cap. LXI, qualche riga più in basso, Olives dà a intendere di non considerare botigantis lezione corrotta: afferma, infatti, che il suo uso per litigantes si spiega col riferimento ai mercatores e ai botigantes di cui tratta il cap. XVII. Gli editori successivi, anziché dare importanza alla sinonimia proposta in base al contesto di occorrenza (botigantes, idest litigantes), si soffermarono sull’analisi della voce offerta dal giureconsulto sardo, sino ad arrivare a distorsioni come quella effettuata da Mameli de’ Mannelli: «Il Commentatore suppone, che dica bottigantis, come si trova in alcune edizioni, e crede, che significhi que’ Mercatanti, o Bottegaj, de’ quali tratta il cap. 17. io però ho stimato conveniente di scostarmi per questa volta dall’edizione di Madrid, e seguire quella del 1617. la quale ha bottigiantes, perché credo, che voglia dire combattenti, duellanti, rissanti in senso di litiganti dalla somiglianza, che ha la lite col duello, modo anzi un tempo di terminar le liti, chiamandosi botte i colpi, che l’un duellante vibra all’altro, onde abbia origine la voce Sarda bottigiantis, non potendomi persuadere, che questa legge sia emanata pe’ soli Bottegaj; quindi è, che l’ho tradotto collitiganti». Sulla questione si veda G. Paulis, Studi sul sardo medioevale cit., pp. 153-154.
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ascoltata, concedendole 8 giorni di tempo per controargomentare. Nell’inc. e nelle restanti stampe, anziché pargiat si legge bagiat, che complica l’intelligenza del passo: questo, almeno, finché Olives (che pure mantenne a testo alcuna causa qui bagiat raxonivili et iusta) chiosò nel commento alcuna cosa qui valgiat et raxonivili et iusta siat, ciò che suggerì che bagiat andasse inteso in senso assoluto (“qualche cosa che abbia rilevanza, e sia ragionevole e giusta”); 4) al cap. LXXVII, come premessa al disposto normativo vero e proprio, il legislatore ricorda che sovente nelle coronas sono presenti contrasti e divergenze circa il giudizio da pronunziare, dopodiché esprime il desiderio che ciascaduna dessas terras nostras siat mantesida et conservada in justicia et in ragione (così nel ms.). In luogo di conservada, nell’inc. e nelle altre stampe si legge observadas o sim., che è lezione palesemente corrotta; 5) restando sempre al cap. LXXVII, a un certo punto si prevede il caso che in corona pervenga alcuno chertu ch’esseret grosu et dubiossu, dessu quali sos lieros dessa ditta corona esserent partidos et divissos in su juigare issoru. In luogo di partidos, lezione offerta dal ms., le stampe presentano perdidos, cattiva lettura giunta sino alla CdLA 1805; 6) al cap. CVIII, si ordina che nessun conciatore dovrà trattare alcuna pelle di bue o vacca, di cavallo o cavalla, né di asino, se essa non è stata contrassegnata in Oristano col marchio stabilito. Quindi, nel ms. si legge: et a qui at sere provadu, paguit secundo qui narat sa Carta de Loghu pro sa fura. Nell’inc. e nella CdLA 1560 l’attacco della frase figura come et acaptat esser provadu (= et a c’appat esser provadu), generando in tal modo una confusione col verbo acaptare, acattare “trovare” che permane nelle stampe successive, in cui tuttavia si è cercato di normalizzare la sintassi del passo: così, ad es., Olives mette a testo et si acaptat esser provadu (così anche nelle CdLA 1607 e 1628), nella CdLA 1617 si ha et si si acattat, et essere proadu (così pure nelle CdLA 1708 e 1725), mentre nella CdLA 1805 si approda a e si si acattat, ed est provadu; 7) al cap. CXII, vi è una sezione in cui si indica la condotta da seguire nel caso in cui il bestiame di un certo villaggio procuri danni alle vigne, agli orti o ai semineri di un altro villaggio. Tale sezione risulta così
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introdotta nel ms.: quando bestiamen de una villa faguirit de cusus dannus in attera villa etc. In luogo di faguirit, nelle stampe, a partire dall’inc. e sino al Settecento, compare pagharit (pagarit, pagaret), ma è evidente che le bestie non possono rifondere i danni, bensì produrli: ebbe pertanto compito agevole Mameli de’ Mannelli nel ristabilire fagherit; 8) al cap. CXX si prevede che, si alcuna persone at maxellari a tortu causa de su regnu (con la locuzione avverbiale a tortu che vale “senza diritto” o sim.), dovrà rifondere, se viene riconosciuta colpevole, 5 volte il valore della bestia. Nelle edizioni a stampa, ove pure il capitolo è intitolato qui maxellaret a tortu (così nell’inc.), in luogo di a tortu si legge ateras, salvo che nella CdLA 1805, ove Mameli de’ Mannelli prese spunto dal commento di Olives e introdusse extra (extra dittas causas de Rennu), che è ancora più improbabile di ateras; 9) al cap. CXXII si prescrive che le curadorias e i villaggi che hanno obbligo di recarsi a Oristano per reggere la chida de berruda dovranno adempiere secondo l’ordine ricevuto e la consuetudine. In base al testo del ms., poi, si precisa: salvu si cusa curadoria over villa ad qui at gitare bene in sas ditas dies feriadas o festas, qui non siat tenta de bene in sas ditas ferias, ma siat tenuda de torrare cusas dies qui l’ant gitare qui non siant feriades. In luogo delle stringhe di testo in sas ditas dies feriadas o festas e in sas ditas ferias, nell’inc. e, in termini identici nella sostanza, nelle altre stampe si legge rispettivamente: in sas secundas dies feriadas o festas e in sas secundas ferias, con secundas che è errore monogenetico attribuibile all’inesatto scioglimento di un’abbreviatura per suprascriptas o sim., con le conseguenze immaginabili dal punto di vista della comprensibilità del passo39;
39 Per es., Olives, nel suo commento, interpreta acrobaticamente che per secundas ferias debbano intendersi quelle indicate al cap. CXXV, di contro alle altre menzionate al cap. CXXI, da considerarsi primas ferias in ragione dell’ordine di stesura scritta (ratione ordinis scripturae). Sul cap. CXXII della CdLA, così come trasmesso nei due diversi rami della tradizione, si veda G. Paulis, Studi sul sardo medioevale cit., pp. 27-29 (si osservi soltanto che l’espressione icusas sentencias… non bagiat, nen bengiat, in chiusura di capitolo, è una cattiva lettura di Besta in luogo di icusas sentencias… non bagiant nen tengiant). Infine, sul maldestro scioglimento delle abbreviature scu e scta nelle stampe, si veda E. Besta, La Carta de Logu quale monumento storico-giuridico cit., p. 10.
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10) al cap. CLX dell’inc. si dispone che, ove sia dimostrato che il soccidario abbia commesso fraudu de bestia qui averit bendida o donadu o mandigadu, senza dirlo al soccidante quando fanno il conteggio dei capi al termine dell’anno, il primo perderà il contratto di soccida e pagherà alla corte 25 lire di multa. La lezione mandigadu è attestata da tutte le stampe fino alla CdLA 1805: nessun motivo di dubbio si sarebbe avuto al suo riguardo se non fosse che, nel passo corrispondente del ms. (cap. CXXXI), si legge amagadu (“nascosto”), un catalanismo evidentemente non inteso dagli editori dell’incunabolo e banalizzato in mandigadu40.
Per completare il quadro e perfezionare la lista degli argomenti che, fra gli altri indici, consentono di delineare una tradizione bipartita della CdLA (anzi, vedremo fra breve, inducono a parlare di due redazioni ben distinte dello statuto di Eleonora o, meglio, di due distinti strati del testo), resta da fornire qualche esempio di errore separativo del manoscritto contro le stampe, la cui presenza – già lo si accennava – impedisce di aderire all’ipotesi che queste ultime discendano dal primo. A tal fine, si possono prendere in considerazione alcune lacune per saut du même au même presenti nel manoscritto che riusciamo a colmare grazie al testo dell’incunabolo (in grassetto, nei passi appresso citati, sono evidenziate le parole uguali che hanno causato la svista del copista): 1) al cap. II della CdLA è previsto che coloro che si adoperino in qualche modo contra prosperitatem domini (come si esprime Olives) 40 Una simile banalizzazione non sorprende, se si tiene presente che lo stesso Guarnerio cadde in un errore analogo quando propose di emendare il testo introducendo amaçadu “ammazzato” in luogo di amagadu (P.E. Guarnerio, La lingua della «Carta de Logu» secondo il manoscritto di Cagliari cit., p. 125): con buona ragione fu perciò criticato da M.L. Wagner, Dizionario etimologico sardo cit., s.v. am(m)agare(sì). Un’interpretazione diversa dalla nostra è fornita da Giulia Murgia, che considera mandigadu «un’innovazione voluta» oppure persino la «lezione originaria» e non, come proponiamo qui, la trivializzazione di amagadu: cfr. Carta de Logu d’Arborea. Edizione critica secondo l’editio princeps (BUC, Inc. 230) cit., pp. 68-72. Si veda anche Giovanni Lupinu, (S)banditi e cornuti nella Carta de Logu dell’Arborea. Sulla sovrainterpretazione, «Bollettino di Studi Sardi», 10, 2017, pp. 51-66, specie a p. 63, nota 38.
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dovranno essere trascinati a coda di cavallo per tutto il territorio di Oristano e quindi appesi sulla forca. Il ms. prosegue quindi in questo modo: et issos benis suos tottu depiant esser confuschados assa corti nostra, et si veramente qui in caxu qui su ditu tractadori avirit mujere appat sa parti sua sença mancamentu alcunu. Ciò che induce a ipotizzare che qui sia stata omessa una stringa di testo non è tanto la congruenza sintattico-semantica del passo, che pare anzi conservare comunque una sua intelligibilità (e nell’edizione Besta, in effetti, non è emendato), quanto l’esame comparativo col dettato dell’inc.: et issos benes suos tottu appropriadus assu renno, si veramente qui in casu su dictu traditore avirit mugere et esseret coiada assu modu sardischu que sa dicta mugere appat sa parti sua senza mancamentu alcuno; 2) al cap. VIII, dedicato ai suicidi, nel ms. si legge: ordinamus qui si alcuna persona si oquieret issu istesu apensadamenti in alicunu modu, qui si depiat istrasinari et infurchari in alicuna furcha qui si deppiat faguer iscrivir tottu sos benis suos infini ad ateru comandamentu nostru. Che anche in questo caso il brano ponga qualche problema è mostrato dal fatto che Besta integrò una congiunzione copulativa dopo furcha; tuttavia, solo il confronto con l’inc. permette di individuare la presenza di una lacuna per saut du même au même: ordinamus qui si alcuna persona si hochieret isu istesu apensadamenti in alcuno modo si deppiat istrasinare et infurchare in alcuna furcha que si deppiat faghere a prope dessa villa hui s’at ochier. Et issu officiali de cussa villa deppiat fagheri iscriviri totus sus benes suos infini ad atero comandamentu nostru; 3) al cap. XXII, in principio, è previsto il caso dell’uomo che si introduca con la forza in casa di una donna sposata, senza possederla carnalmente: se catturato e riconosciuto colpevole di tale reato nei modi di legge, sarà condannato a pagare 100 lire e, se non paga entro 15 giorni dalla data del giudizio, gli sarà tagliato un orecchio. Successivamente, seguendo il dettato del ms., si prosegue in questo modo: et qui alcunu homini esseret tentu cun alcuna femina coiada in domo dessa dita femina, cussa tali femina siat afrustada et isposedida de tottu sos benis suos et dessas rexonis suas gasi de dodas comenti et de ateru beni. A dispetto del fatto che nell’ed. Besta il passo sia proposto senza alcun intervento del curatore, si nota sùbito che non è chiara
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Carta de Logu
la differenza rispetto alla fattispecie delineata in precedenza, avendosi ancora a che fare con un uomo colto nella casa di una donna sposata, senza nulla specificare circa il modo in cui vi abbia avuto accesso: questa volta, però, la pena è rivolta alla donna, non all’uomo, circostanza che produce l’impressione che il passo sia lacunoso, poiché è logicamente necessario che a carico della nupta sia previsto ed esplicitato un qualche elemento di colpevolezza. Il confronto con l’incunabolo conferma tale impressione, mostrando che in concreto è avvenuto un salto da uguale a uguale: et si alcuno homini esseret tentu cum alcuna femina coiada in domo dessa femina et esseret voluntadi de sa femina cussa codali femina siat afrustada et fostigada et ispossedida dessos benes suos totu et de sas raxones suas gasi de dodas comenti de ateros benis. In questo modo è espresso, con la precisione attesa in un testo giuridico, l’elemento fondamentale, ravvisato nel consenso della nupta alla relazione extraconiugale (et esseret voluntadi de sa femina), che configura il reato in oggetto nei termini di adulterio e distingue questa fattispecie dalla precedente, nella quale l’uomo si introduce per força in casa della donna; 4) al cap. LIII, seguendo il ms., si dispone che se qualcuno, ricevendo una citazione dalla corona de Logu o da altra corona, non si presenta in tribunale entro il termine fissato nell’avviso, non dovrà perdere la lite per contumacia, qualora si tratti della prima o della seconda notifica, ma satisfaçat su spendio c’at avir mandadu sa ditta nunça et siat condepnadu etc. Besta, comprendendo che il brano presenta qualche guasto, mise a testo a c’at aujr mandadu sa ditta nunça, col che si recupera il senso esatto della prescrizione (chi non si presenta in ottemperanza al decreto di citazione dovrà rifondere le spese sostenute da colui che ha richiesto il decreto in questione), ma non la lettera, per restituire la quale giova la comparazione con l’inc.: ma satisfazat su ispendiu c’at avire factu cussa persona c’at avire mandadu sa nunza et siat condempnadu etc.; 5) al cap. LV, si stabilisce che le citazioni emesse dalla corona de Logu, dalla corona de chida de berruda o dalla corona di altro ufficiale si deppiant faguir scriviri in su cartolaiu et leere ad sos lieros c’ant essere in sa corona ad icussa persone qui ’ll’at bolle portare o debere (così nel
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ms.): il senso della norma appare problematico, giacché non è perspicua la ragione per la quale si prescriverebbe che dette citazioni, oltre che essere registrate nel cartolario e lette ai liberi presenti in corona, dovessero essere lette pure ai messi notificatori (e, rileviamo a margine, per intendere in questo modo sarebbe necessario integrare una congiunzione copulativa prima di ad icussa persone qui ’ll’at bolle portare o debere). Della cosa si avvide anche Besta, che questa volta propose la corretta integrazione del passo attraverso la collazione col testo dell’inc., ove si legge: si deppiat fagheri iscrivire in su cartolaio et leer assos lieros c’ant esser in sa corona et factu ciò exemplare sas dictas nunzas dae su cartolaiu et dare·llu in sa corona ad icussa persona qui l’at deber portare; 6) al cap. XCVI, come si è già avuto modo di ricordare, si prescrive che, se un individuo va a stare da una curadoria a un’altra, cusu oficialli de sa corodoria at hui at eser andado at istari siat tenudo de faguir pagari at su attero oficialli pari suo quando illi demandarit cusas rexones qui at avir ad dimandari s’uno officiali a s’atero pro sus hominis qui ant eser partidos dae s’una corodoria a s’atera, siat tentu cascuno qui at aviri a reçeviri de dimandari sas ditas ragiones dues voltas s’anno. Il senso e la sintassi del passo corrono senza intoppi fino al sintagma cusas rexones, dopo di che l’esegesi diventa incerta. Besta provò a trovare una soluzione inserendo la punteggiatura in modo tale da ottenere la quadratura semantica del dettato normativo: cusu oficiallj de sa corodorja, at huy at eser andado at istarj siat tenudu de fagujr pagarj at su attero oficiallj parj suo quando illj demandarjt cusas rexones quj at aujr ad djmandari s’uno oficiallj a s’aterro; pro sus homjnis quj ant eser partidos dae s’una corodoria a s’aterra siat tentu cascuno quj at aujrj a reçeujrj de dimandarj sas ditas ragiones dues voltes s’anno. Per evitare di prodursi in contorsionismi interpretativi, sarà sufficiente rivolgersi all’inc., che consente di comprendere senza difficoltà come si sia determinata la situazione documentata dal ms.: cussu officiale de cussa curadoria ad hui at esser andadu ad istare siat tenudo de fagheri paghare ass’atero officiali pari suo quando illu adimandarit cussas raxiones qui debent pagare a nnos prossu officiu suo et icussas raxiones c’at aver a dimandare s’unu officiali ass’atero prossos hominis
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c’ant esser partidos daess’una curadoria ass’atera siat tenudo ciascuno c’at aviri a rreciviri de dimandare sas raxiones secundas duas boltas s’annu41; 7) al cap. CXXXVIII si ordina che sas ebbas qui ant esere acatadas in pardo illas deppiant maxellari over qui ’llis fatsant tentura, con successiva precisazione che per la tentura i pardarjus dovranno avere 10 soldi dal padrone delle cavalle in questione e che la macellazione potrà avere luogo se si tratta di una mandria di oltre 10 capi, mentre dai 10 capi in giù il proprietario pagherà 1 soldo per capo. Nel brano, tuttavia, è stata omessa una stringa di testo contenente, fra l’altro, l’indicazione dei soggetti che potranno effettuare la tentura, ciò che è possibile appurare attraverso la collazione col cap. CLXVII dell’inc.: item ordinamus qui sas ebbas qui s’ant acatari intro dessu pardu de siidu qui su maiori de pardu et issos iurados de pardu siant tenudos de maxellari de sas dictas ebbas over qui ’llis fassant tentura.
3. Focalizzando meglio la questione del rapporto fra il testo conservato nel codice e quello offerto dall’incunabolo, converrà ora rimarcare che si tratta di due redazioni o strati ben distinti della CdLA: la principale e più vistosa differenza sta nel numero dei capitoli, 162 nel primo (163 nell’edizione Besta)42 e 198 nel secondo (come nelle restanti stampe). Ciò è dovuto soprattutto, ma non soltanto, al fatto che manca pressoché integralmente nel manoscritto il cosiddetto Codice rurale promulgato da Mariano IV di Arborea, in data non precisabile con certezza, per rispondere all’esigenza di un controllo efficace della vita nei campi, in modo particolare prevedendo norme per proteggere dal bestiame le vi-
41 Nel passo qui proposto si può osservare una volta in più, nel sintagma sas raxiones secundas, lo scioglimento erroneo di un’abbreviatura che stava per suprascriptas o sim. 42 Quelli che nell’edizione Besta sono dati separatamente come capp. CXXIV e CXXV nella nostra edizione critica sono stati lasciati riuniti sotto il cap. CXXIV, come nell’incunabolo. Appare in qualche modo curioso che Besta, pur producendo un’edizione del testo organizzata su 163 capitoli, rimarchi, nella sua Prefazione illustrativa (a p. 13), la presenza nel manoscritto di 162 capitoli, senza approfondire l’argomento.
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gne, gli orti e i semineri43. Prima di procedere oltre, qui di séguito indichiamo nel dettaglio le corrispondenze e le divergenze esistenti nella strutturazione per capitoli fra il manoscritto e l’incunabolo, privilegiando a tal fine i riscontri testuali a fronte delle analogie di contenuto, più o meno tenui, quali talora si colgono: – il proemio e i primi 130 capp. del ms. corrispondono al proemio e ai primi 130 capp. dell’inc.; – i capp. CXXXI-CXXXIX del ms. corrispondono ai capp. CLXCLXVIII dell’inc.; – il cap. CXL del ms. offre, in ragione della materia disciplinata, qualche riscontro testuale col cap. CLXIX dell’inc., più articolato (e si veda anche il cap. CLXX, dedicato allo stesso tema normativo); – i capp. CXLI-CXLII del ms. corrispondono ai capp. CLXXICLXXII dell’inc.; – il cap. CXLIII del ms. può essere posto in parallelo col cap. CXXXIX e con l’attacco del cap. CXL dell’inc.; – il cap. CXLIV del ms. corrisponde al cap. CLXXIII dell’inc.; – i capp. CXLV-CLV del ms. corrispondono ai capp. CLXXXIIICXCIII dell’inc.; – i capp. CLVI-CLVII del ms. presentano, in ragione della materia disciplinata, esili riscontri testuali coi capp. CXLIX e CXLVII dell’inc., assai più estesi; – il cap. CLVIII del ms. manca nell’inc.; – il cap. CLIX del ms. presenta qualche punto di contatto, più nelle tematiche che nei riscontri testuali, col cap. CLI dell’inc., che tratta la materia in modo più diffuso; – i capp. CLX-CLXII del ms. mancano nell’inc.; – i capp. CXXXI-CLIX44, CLXIX-CLXX, CLXXIV-CLXXXII, CXCIV-CXCVIII dell’inc. mancano nel ms., facendo salvo ciò 43 44
Si veda, nell’incunabolo, il proemio del Codice rurale, fra i capp. CXXXII e CXXXIII. Rammentiamo che il Codice rurale occupa i capp. CXXXIII-CLIX.
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che si è detto riguardo a qualche limitato riscontro testuale fra singoli capitoli.
Da ciò che schematicamente abbiamo esposto si evince che i confini fra i dettati delle due redazioni della CdLA a noi pervenute sono discontinui e sfrangiati: in altri termini, la differenza non è data soltanto dall’assenza/presenza, in un dato punto, del Codice rurale, mentre debbono essere valutati adeguatamente, dal punto di vista storico come da quello filologico, quei capitoli del manoscritto che, oltre a offrire riscontri più o meno evidenti nella lettera, affrontano tematiche sviluppate in modo più articolato e disteso in alcune sezioni dell’incunabolo, così come quei capitoli che uno dei due testimoni presenta in modo esclusivo (circostanza che, per quanto riguarda l’incunabolo, si verifica non solo con riferimento al Codice rurale). Giusto per dare uno specimen di questa situazione, si può considerare il caso del cap. CXLIII del manoscritto: Item ordinamus qui si alcuna persone teneret vinga o terra buida in castigu ingiriada de vingas, siat tenudu de contribuiri de pagari su qui ’lli at benni in parti de sa dita cungadura.
Come si è già avuto modo di rilevare, nell’incunabolo sono due i capitoli, il CXXXIX e il CXL (limitatamente all’attacco), che, compresi all’interno del Codice rurale, presentano dei riscontri testuali col passo appena citato del manoscritto: cap. CXXXIX: Constituimus et ordinamus qui ogna persona de qualuncha gradu, istadu over conditione siat qui at aviri vigna o terra boida in ciaschuna de sas vingnas siat tenudo de contrubuhire et paghare pro rata et secundu qui de ’lli at tochare sa parti dessa cungiadura qui ant fagheri.45 45
Il testo sembra corrotto: in ciaschuna de sas vingnas andrà infatti emendato in in castigu de vingnas o similmente, come suggerisce anche il confronto col capitolo successivo.
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cap. CXL: Item ordinamus qui caluncha persona c’at aviri vigna o terra boida in castigu sia tenudo de contrubuhire et paghare pro rata secundu qui de ’lli at tochari sa parti dessa cungiadura qui ant fagheri.
Dopo questa prescrizione iniziale, che riprende il contenuto del capitolo precedente (e si pone in parallelo col cap. CXLIII del manoscritto), il cap. CXL dell’incunabolo procede a disciplinare la materia trattata in modo assai minuzioso, prevedendo, ad es., il caso di coloro che, avendo una vigna o una terra incolta in un castigu (comprensorio vigilato da custodi retribuiti dai proprietari dei fondi), non vogliano o non siano in grado di pagare la quota loro spettante per la recinzione, o ancora le conseguenze del comportamento di chi, non avendo provveduto a recintare quanto di propria competenza, abbia con ciò reso possibile l’accesso di bestiame vagante procurando danno ai vicini. Casi come quello appena presentato, oltre a dare un’idea più precisa di ciò che in precedenza si diceva sulla natura dei confini testuali fra il manoscritto e l’incunabolo, spingono necessariamente a qualche riflessione di ordine generale. Di fronte a due redazioni della CdLA che, allato di numerose sezioni in comune, presentano una serie non lieve di divergenze, occorrerà infatti interrogarsi, una volta ancora, su quale fra esse rifletta più da vicino il codice voluto e promulgato da Eleonora di Arborea. A questo riguardo, in generale, occorrerebbe essere cauti nell’asserire che la CdLA si compone di 198 capitoli – sovente, infatti, capita di leggerlo – o, più esplicitamente ancora, che il manoscritto cagliaritano è lacunoso, facendo riferimento alla mancanza in esso del Codice rurale46, ché la situazione è di fatto più complessa, come si è cercato di mostrare. In raSi tratta di un ulteriore errore congiuntivo rispetto alle stampe che si va a sommare agli esempi dati in precedenza. 46 È invece noto che il codice cagliaritano è oggettivamente lacunoso per il cattivo stato
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gione di ciò, a noi pare necessario accogliere, anche operativamente, l’ipotesi che il codice conservi, dello statuto di Eleonora di Arborea, una redazione anteriore rispetto a quella data nelle stampe, che prese forma solo in séguito, integrando, senza peraltro armonizzarle pienamente, delle sezioni normative, preesistenti, connesse specialmente alla vita dei campi, laddove altrimenti si dovrebbe ammettere che il codice tramandi una redazione posteriore e scorciata della CdLA. Supposizione, quest’ultima, particolarmente dispendiosa e problematica, non potendosi pensare, per un verso, che l’assenza del Codice rurale nel manoscritto sia imputabile a un’omissione accidentale, di cui non è traccia né indizio, e risultando ancora più azzardato, per altro verso, prendere in considerazione un’omissione volontaria, con però la ripresa in ordine sparso, e quasi per frammenti (oltretutto, neppure sempre e del tutto congruenti con la supposta fonte), di alcuni capitoli47, perché si ha a che fare con un di conservazione delle prime carte, per le quali già Besta lamentava lo sfaldamento della parte inferiore: cfr. G. Strinna, Il manoscritto BUC 211 cit., p. 35. 47 Quest’ultima parrebbe essere la posizione di E. Blasco Ferrer, Crestomazia sarda dei primi secoli cit., vol. I, p. 145: «Nel complesso a [= manoscritto cagliaritano della CdLA] sembra copiare da un antigrafo già guasto, operando in aggiunta delle potature sui capitoli del Codice rurale, di cui restano però frammenti inseriti in più parti del testo. Inoltre, in alcuni casi il ms. reca delle lezioni che trovano esatto riscontro in singole parti di d [= testimone unico della Carta de Logu cagliaritana], ciò che suggerisce che il compilatore di a abbia avuto nel suo scriptorium la vecchia traduzione in pisano del corpus legislativo cagliaritano. Tutti questi fattori suffragano l’ipotesi che a sia stato esemplato a Iglesias prima del varo definitivo della CL, tra il 1376, data di conclusione del Codice civile e penale, e il 1392, data ultima della promulgazione del testo da parte di Eleonora». A prescindere dai singoli elementi non condivisibili di questa ricostruzione (ad es., il fatto che a sia stato esemplato a Iglesias: cfr. G. Strinna, Il manoscritto BUC 211 cit., pp. 29-30), non sfugga che nel brano riportato, e anche in riferimento ad alcune asserzioni precedenti, si rilevano vistosi elementi di contraddizione, giacché l’autore ipotizza: 1) che Eleonora di Arborea abbia riunito, fra il 1388 e il 1392, il Codice civile e penale con quello rurale «in una sola Carta de Logu» (p. 142); 2) che nel manoscritto della CdLA siano avvenute delle ‘potature’ in relazione ai capitoli del Codice rurale; 3) che il manoscritto in questione sia stato copiato prima della promulgazione del testo della CdLA – in cui sarebbe avvenuta l’unificazione dei corpora legislativi paterni – da parte di Eleonora. Inoltre, si consideri che la seconda mano che, dalla c. 25v, finisce di copiare i capitoli della CdLA, è la stessa che verga, sino a c. 61v, le Exposicionis de sa llege, che nel codice seguono immediatamente (cc. 49r-63r) e che non si possono collocare nel tardo Trecento (si veda G. Lupinu, Le Questioni giuridiche integrative della Carta de Logu. Preliminari… cit.).
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testo normativo vigente, che veniva detenuto in vista di una conoscenza non meramente speculativa, bensì applicativa. La tesi che qui abbracciamo, del resto, non è nuova. Già Antonio Era aveva modo di parlare, in riferimento alla redazione della CdLA consegnataci dalle stampe, della presenza in essa di una doppia fonte del diritto agrario costituita dal codice di Mariano e dalle sporadiche disposizioni di Eleonora, e poiché sia le une che le altre regole «rimasero in vigore senza interferire, salvo poche inevitabili antinomie, facilmente superate dall’ermeneutica giuridica, il commento dell’Olives le investì entrambe, considerandole un sistema organico e le accompagnò sin dal sec. XVI nella applicazione pratica»48. E in relazione al punto per noi cruciale, lo studioso aggiungeva: È certo, più che probabile, che Eleonora non volle inserirlo [scil.: il Codice agrario] nella sua Carta de logu, poiché altrimenti avrebbe coordinato con esso le disposizioni date per l’agricoltura, evitando ripetizioni e, tanto per non scendere a particolari, avrebbe, ad esempio, pretermesso di dettare il suo cap. CXII.49
Degne di attenzione, poi, sono le ulteriori riflessioni che lo storico del diritto traeva, in chiave problematica, dal confronto delle due redazioni della CdLA, specie laddove giungeva a ipotizzare che, così come dall’assenza del Codice rurale nel manoscritto cagliaritano è dato concludere che Eleonora non volle inserirlo «di peso» nel proprio statuto, del pari è lecito ricavare che taluni capi48 Antonio Era, Il Codice agrario di Mariano IV d’Arborea, Tipografia B. Coppini & C., Firenze 1938 (estratto dall’«Archivio “Vittorio Scialoja” per le consuetudini giuridiche agrarie», 5, fasc. 1-2), p. 4. 49 Ivi, p. 5. Così prosegue Era: «Ci si spingerebbe però un po’ troppo avanti ritenendo che Eleonora considerasse il Codice rurale di Mariano superato dalla sua Carta, ché forse lo destinava a rimanere una legge indipendente e speciale in vigore per dove la nuova e generale non lo avesse assimilato o innovato. Se anche le intenzioni di Eleonora fossero state diverse, nella pratica l’effetto fu quello».
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toli presenti nelle stampe ma assenti nel manoscritto non siano attribuibili alla volontà della giudicessa di Arborea, bensì rappresentino aggiunte successive50. Di recente, gli elementi che a noi più interessano di una simile posizione sono stati efficacemente sintetizzati da Jesús Lalinde Abadía, quando scrive: A proposito della struttura della Carta de Logu occorre mettere in risalto che si tratta attualmente di un testo composto da centonovantotto capitoli, che comprendono anche il Codice rurale emanato da Mariano IV: questa inserzione risale però al periodo dell’edizione dell’incunabolo e non a quella del manoscritto che consta di centosessantatré capitoli […] Ciò pone il problema dell’assetto dello Statuto prima dell’edizione a stampa: è evidente che Eleonora non volle inserire nel testo il Codice rurale paterno che fu aggiunto in seguito dagli editori quattrocenteschi.51
Pertanto, muovendo dall’evidenza di due redazioni distinte della CdLA e dalla verosimiglianza robusta che, fra esse, quella copiata nel codice cagliaritano sia cronologicamente anteriore, alcuni anni fa, rinnovando a distanza di oltre un secolo il lavoro pionieristico di Enrico Besta, ci orientammo verso l’edizione critica dello strato ben individuato dello statuto arborense tràdito appunto dal testimone manoscritto. Su quell’edizione e sulle persuasioni che la sorreggono si basa il testo che oggi offriamo al lettore, accompagnato dalla traduzione in italiano.
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Ivi, pp. 5-6. Jesús Lalinde Abadía, La «Carta de Logu» nella civiltà giuridica della Sardegna medievale, in La Carta de Logu nella storia del diritto medioevale e moderno cit., pp. 13-49: 18 (rimarchiamo che quando l’autore parla di 163 capitoli presenti nel manoscritto fa riferimento all’edizione Besta). 51
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Nota al testo
Il testo della presente edizione riproduce sostanzialmente quello dell’edizione critica, già ricordata nell’Introduzione, che approntammo a suo tempo1. I pochi scostamenti sono dovuti, oltre che alla correzione di alcuni refusi, a qualche ripensamento di cui, in parte, si è dato conto in articoli pubblicati nel corso degli anni e che riepiloghiamo qui di séguito, limitandoci a segnalare soltanto i fatti più significativi: – nel cap. XX, ultimo capoverso, abbiamo lasciato a testo «appartenent», che in precedenza avevamo emendato in «pertenent» («apertenent» nell’inc.); – nel cap. XXI, primo capoverso, abbiamo restituito «ispu‹n›çellarit» («isponxelarit» nell’inc.) anziché «ispu‹l›çellarit»; – nella rubrica del cap. XLII, ricavata dall’inc., abbiamo lasciato a testo «lavarit», che in precedenza avevamo emendato in «levarit». Similmente, nel cap. CXXIV, terzo capoverso, abbiamo conservato la lezione «lavari»; – nel cap. LXIV, ultimo capoverso, abbiamo integrato «est de bona fama et si» sulla base dell’inc.; – nel cap. LXXIX, in luogo di «si potsat apellari per iscriptu infra dies X», si trova ora «si potsat apellari, ‹si bolet, incontinente› vive vose ‹o› per iscriptu infra dies X»2; 1 Carta de Logu dell’Arborea. Nuova edizione critica secondo il manoscritto di Cagliari (BUC 211) con traduzione italiana, a cura di Giovanni Lupinu, con la collaborazione di Giovanni Strinna, ISTAR/Centro di Studi Filologici Sardi, Oristano 2010. 2 Nel ms., rammentiamo, vive vose è depennato, mentre nell’inc. si legge si pozat appellari, si bolet, incontinente viva voce o per iscriptu infra dies X. Di appelli portati verbalmente o per
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– nel cap. CV, primo capoverso, in luogo di «mesura et beredalli», si trova ora «mesura ‹et mesa mesura› et derredali»3; – nel cap. CXXIV, dodicesimo capoverso, in luogo di «tenoris et apellaçiones», si trova ora «teneris ‹et istasinas› et apellaçiones» (nell’inc. «teneris et istasinas et appellationes»); – sempre nel cap. CXXIV, sedicesimo capoverso, abbiamo emendato «ixedas et sentencias interlocutories» in «ixedas de sentencias interlocutories»; – ancora nel cap. CXXIV, ventunesimo capoverso, in luogo di «dinaris VI per anno», si trova ora «dinaris VI per anno, ‹et si non si acaptat dinaris tres per annu›» (nell’inc. «dinaris ses per anno, et si non si acaptat dinaris tres per annu»); – nel medesimo capitolo, al capoverso seguente, in luogo di «ixedas de cartas firmadas» si trova ora «ixedas et cartas firmadas»; – infine, nel cap. CXXXVI in luogo di «lo faguirit raxoni» si ha ora «li faguirit raxoni».
Nota al testo
ca. Infine, qualche nota accompagna la versione italiana per fornire al lettore spiegazioni su vocaboli sardi non tradotti o sui quali sia parso utile approfondire il discorso.
Rispetto all’edizione critica abbiamo eliminato la paragrafatura e l’apparato critico: resta però l’uso del corsivo per indicare lo scioglimento delle abbreviature, delle parentesi quadre [ ] per le integrazioni rese necessarie da lacuna meccanica, delle parentesi uncinate ‹ › per le integrazioni dell’editore quando il testo non presenti lacuna meccanica. Abbiamo invece rinunciato all’uso del sottolineato per segnalare il testo di lettura problemati-
iscritto si fa cenno pure nel cap. CXXIV, diciottesimo capoverso. Cfr. anche Carta de Logu d’Arborea. Edizione critica secondo l’editio princeps (BUC, Inc. 230), a cura di Giulia Murgia, Franco Angeli, Milano 2016, p. 48. 3 Cfr. Giovanni Lupinu, Ancora sull’ant. sardo beredalli/derredali, «Bollettino di Studi Sardi», 4, 2011, pp. 5-14.
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Carta de Logu
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/1r/ ‹C›on siò siat causa qui su acreximentu ‹et exaltamentu› dessas provincias et regnos et terras dexendant e bengant dae sa rex[o]ni e pro servari sa iusticia, e per issu‹s› bonus capidulus sa superbia dessos reos et malvados hominis si infrenet et constringat, ad ciò qui sos bonos et puros et innocentes poçant viviri et istari inter issos reos ad seguridadi pro paura dessas penas et issos bonos, prossa virtudi d[essu] amori, siant tottu hobedientis assos capidulus et ordi[namentos] de custa Carta de Logu, inperò Nos Elianora per issa gratia de Deus juiguisa de A[rbaree], contissa de Gociano e biscontissa de Basso, desiderando qui sos fideles et subditus nostros dessu regnu nostru de Arbarea siant informados de capidulos et ordiname‹n›tos per issos calis poçant viviri et si poçant conservari in sa [via des]sa veridadi et dess[a iustic]ia ad bonu, pacificu et tranquil[lu] istad[u ad honore de Deus] omnipotente et dessa gloriosa [Virgini Madon]na santa [Maria mama sua, et pro conservare sa iusticia et pacifichu, tranquillu et bonu istadu dessu pobulu dessu rennu nostru predicto et dessas ecclesias, regiones echesiastighas et dessos lieros et bonos hominis et pobulu tottu dessa dicta terra nostra et dessu rennu de Arbaree, fachimus sas ordinationes et capidulos infrascriptos, sos qualis bolemus et comandamus expresamenti qui si deppiant attenne et oservare pro legie per ciaschaduno dessu Iuighadu nostru de Arbaree predittu in iudiciu et exstra].
Poiché l’accrescimento e l’innalzamento delle province, dei regni e delle terre discendono e procedono dal diritto1 e allo scopo di mantenere la giustizia, e poiché per mezzo delle buone norme si raffrena e contiene la prepotenza degli uomini iniqui e malvagi, acciocché i buoni, puri e innocenti possano vivere e stare sicuri fra gli iniqui, grazie alla dissuasione delle pene, ed essi stessi, per opera dell’amore, siano obbedienti alle disposizioni e agli ordinamenti di questa Carta de Logu2, per tutto ciò Noi Eleonora, per grazia di Dio giudicessa di Arborea, contessa del Goceano e viscontessa di Bas, pel desiderio che i nostri fedeli e sudditi del nostro Regno di Arborea siano disciplinati da norme e ordinamenti in forza dei quali possano vivere e mantenersi sulla via della verità e della giustizia in buono, tranquillo e pacifico stato, a onore di Dio onnipotente e della gloriosa Vergine Madonna santa Maria madre di Lui, e per mantenere la giustizia e il pacifico, tranquillo e buono stato del popolo del nostro Regno suddetto, delle chiese e dei beni ecclesiastici, dei liberi e dei probi uomini e di tutto il popolo della menzionata nostra terra e del Regno di Arborea, promulghiamo le ordinazioni e i capitoli infrascritti, ai quali vogliamo e comandiamo espressamente si dovrà attenere, osservandoli come legge, ciascun membro del nostro predetto Giudicato di Arborea, in giudizio e fuori.
/1v/ ‹S›a Carta de Logu, sa quali cun grandu sinnu e providimentu erat fata per issa bona memoria de juigui Mariani padri nostru in cha diretu juigui d’Arbarê, non sendo correpta per
La Carta de Logu con grande senno e previdenza era stata promulgata da nostro padre, il giudice Mariano di buona memoria, in quanto legittimo giudice di Arborea. Poiché non è stata corretta
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ispacio de annos VI passados, como, per multas variedadis de tempus bisognando sa veridadi de necessidadi corregire·lla et emendari, considerando sa variedadi e mutacioni dessos tempos qui sunt istados siguidos poscha et issa condicioni dessos hominis qui est istada dae tandu innogui multu permutada e plus pro qui ciaschadunu ‹est plus› inquenivili assu malu faguir qui non assu bonu operari dessa republicha sardischa, cun deliberadu consigio illa corregemus e ffaghemus e mudamus dae bene in megius [et comand]amus qui si deppiat observare integramenti dae sa subrascripta die [innan]ti per issu modu ‹infra›scriptu, çiò est:
nei 6 anni passati3, oggi, rendendosi davvero necessario correggerla ed emendarla per il mutare dei tempi, considerato tale variare e mutare di tempi che sono seguiti e la condizione degli uomini da allora a oggi profondamente cambiata, soprattutto perché ognuno è più inclinato al malfare piuttosto che al bene operare della repubblica sarda, con matura deliberazione la correggiamo, promulghiamo e cambiamo di bene in meglio. Comandiamo che si debba osservare integralmente dal giorno sopra indicato in poi nel modo che di séguito si mostra, e cioè:
‹I. De qui offenderet sa Sengoria› ‹I›tem ordinamus qui si alicuna persone tractarit over causa alicuna consentiret [qu]i nos over [a]licunu figiu nostru over donna nostra over figios de figos [nostros] o donna issoru esser[emus of ]fessidos, over faguirit offende[r et c]hon[sen]tiret qui esseremus offessidos, deppiat [esser postu supra uno carro attan]aiando·llu [per totu sa] terra nostra de Ari[stanis et poscha si deppiat dughiri attanagando·lu infini assa furcha et innie si furchit qui ’ndi morgiat. Et issos benes suos totu deppiant esser appropiadus assa corte nostra dummodo qui ’ssa donna sua coiada assa sardischa over a dodas non perdat sa parti sua in casu qui non si achaptarit culpabili in alcunu attu. Et si alcuna persone qui esseret in su dictu trattadu lu fagerent ad intender a nnos inantes qui nos illu ischiremus, siat·illi perdonadu sa dicta pena et no ’ndi siat ponidu et] /2r/ deppiat avir misericordia e gratia dessu ispalisamentu qui ad avir fatu dessu ditu tractadu.
I. Del recare offesa alla Signoria Ordiniamo che se qualcuno cospirerà o acconsentirà in qualche modo a recare offesa a noi, o a un nostro figlio, o alla nostra signora, o ai figli dei nostri figli o alle loro signore, ovvero spingerà a offendere e darà il consenso a che siamo offesi, dovrà esser condotto su un carro, tanagliato, per tutto il nostro territorio di Oristano; poi lo si dovrà portare, tanagliato, alla forca e là sarà appeso sino alla sua morte. Tutti i suoi beni dovranno essere incamerati dalla nostra corte, purché la moglie sposata alla sardesca ovvero con regime dotale4 non perda la sua parte (questo nel caso che non la si trovi colpevole sotto alcun aspetto). Se qualcuno implicato nella trama suddetta ce ne darà informazione prima che lo sappiamo altrimenti, gli sarà condonata la detta pena e non sarà punito: otterrà misericordia e grazia per aver portato alla luce quella trama.
‹II. De qui tractarit traicioni o desonore› ‹I›tem ordinamus qui si alicuna persone tractarit over consentirit causa alicuna prossa cali perderemus honore, terra over castellu de custas qui hamus hoe o de cussas qui aquistaremus dae como
II. Del tramare per tradire o per arrecare disonore Parimenti ordiniamo che se qualcuno tramerà o acconsentirà in qualche modo a che perdiamo onore, terre o castelli – in nostro possesso oggi o acquisiti d’ora in poi – dovrà essere trascinato a co-
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innantis, deppiat esser istrasinadu a choa de choallu per tottu sa terra nostra de Aristanis e poscha infini assa furcha, et inie si infurchet per modu qui ’ndi morgiat. Et issos benis suos tottu depiant esser confuschados assa corti nostra, et si ve[ramente] qui in caxu qui su ditu tractadori avirit mujere ‹et esseret coiada assu modu sardischu, que sa dicta mugere› appat sa parti sua sença mancamentu alcunu, secundu qui in su supra‹scriptu› capidulu si contenet. Et si avirit appidu mujere per inantis assa sardischa dessa cali avirit alicunu figiu over figios, cussu figiu over figios comenti et heredes de cussa [mama] issoru appant et avir deppiant sa parti issoru dessos benis preditus secundu sa usança sardischa sença manchamentu alchunu, secundu qui est narado de supra prossos ateros. Et si esseret coiada a dodas ad modu pisanischu appat su simili sas dodas suas sença alc[uno] ma[nc]hamentu, pro qui non est rexone qui issos perdant per culpa e deffectu dessu padri over dessu maridu. Et semper si intendat qui [ciaschuno c]red[itore] qui avirit a r[iciver inantes que su dictu maleficiu esseret perpetradu et factu qui siat paghadu de tottu que iustamente at mostrare qui appat a reciver].
da di cavallo per tutto il nostro territorio di Oristano e quindi sino alla forca; lì lo si appenderà che ne muoia. Tutti i suoi beni dovranno essere incamerati dalla nostra corte, salvo nel caso che il cospiratore abbia moglie sposata alla sardesca, la quale dovrà avere la sua parte interamente, secondo quanto si prescrive nel capitolo precedente. E se ha avuto per l’innanzi moglie sposata alla sardesca, dalla quale ha avuto uno o più figli, tale figlio o tali figli, in quanto eredi per parte materna, avranno e saranno in diritto di avere integralmente la loro quota dei predetti beni in base all’uso sardesco, secondo quanto si è detto sopra per gli altri. E se è sposata con regime dotale al modo pisano, riavrà ugualmente la sua dote integralmente, perché non c’è ragione che essi [moglie e figli] ci scapitino per colpa o mancanza del padre o del marito. Si intende sempre che ogni creditore, che avanzava pretese già prima che il crimine fosse commesso, dovrà essere pagato in relazione a tutto ciò che legittimamente dimostrerà essere di sua spettanza.
‹III. Qui ochirit homini› [Volemus et ordinamus que si alcuna persona ochirit homini et est·indi confesso in su iudiciu over convinto secundu que ’ssu ordini dessa ragoni comandat, siat·illi segada sa testa in su loghu dessa] /2v/ justicia per modu qui ’ndi morgiat et pro dinari neunu non canpit, salvu qui ‹su dictu homini hochirit deffendendo a sí, sa quali deffensa› provarit over mostrarit legitimamenti per bonos hominis infra dies XV dae sa die qui ’lli ad esser comandadu per issu armenta‹r›giu nostru de Logu over de atteru officiali nostru ad qui ’ssa dita causa ad esser acomandada over comissida, et qui si in cassu qui provarit ‹aver› mortu su dittu homini deffendendo a sí comenti est naradu de supra no ’ndi siat mortu et pena alicuna no ’ndi apat e non paguit.
III. Dell’uccidere un uomo Vogliamo e ordiniamo che se qualcuno uccide un uomo e lo confessa in giudizio oppure ne è dimostrato colpevole, secondo quanto prescrivono i principi del diritto, gli sarà tagliata la testa sul patibolo in modo che ne muoia, e non scamperà con alcuna somma: a meno che l’imputato non provi e dimostri legittimamente, con la testimonianza di probi uomini entro 15 giorni dalla data stabilita dal nostro armentargiu de Logu5 o da altro nostro ufficiale al quale la causa in oggetto sia stata data in assegnazione, di aver ucciso per legittima difesa. In questo caso, dimostrando di aver ucciso per legittima difesa come si dice sopra, non sarà messo a morte e non patirà o pagherà pena alcuna.
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Et si per aventura advenner‹et› qui plus hominis esserent de pari conpagnia et unu de cussus oquieret alcunu ateru et issos ateros qui non esserent in culpa assa dita morti non benerent assa corte e non si ischusarint legitimamenti qui issos non furunt culpabilis e non consentibilis assa morti de cussu tali homini infra tres dies, qui issos siant punidos et comdenados a morte comente e icussu c’at avir mortu su homini, pro qui narat sa lege: “facientes e consencientes pari pena paciuntur”. Et si in cassu qui alcunu homini oquieret ad alcunu ateru homini ‹in›provisadamenti et non cun animo delliberado et non pe[n]sadamenti, anti pro casu fortuitu secundu qui solent advenne multus desastro[s], volemus qui in tali cassu si istet et depiat istari [a]d albi[triu et correc]tio[ne] nostra.
Se per avventura accade che più uomini si trovino insieme e uno di loro uccida una persona, e che poi quelli fra essi non colpevoli dell’omicidio non vengano alla corte a discolparsi legittimamente, entro tre giorni, dall’accusa di essersi resi colpevoli e complici nell’uccisione della vittima, saranno puniti e condannati a morte proprio come l’assassino, perché la legge6 prevede: “facientes et consencientes pari pena paciuntur”. Nel caso qualcuno uccida un uomo in modo inaspettato, non con deliberata intenzione e premeditazione, bensì per caso fortuito, come sogliono capitare molti incidenti, vogliamo che in tal caso si dovrà rimettere alla nostra valutazione e punizione.
‹IV. Idem› [Constituimus et ordinamus qui si alcuno homini hochirit at alcuno atteru homini minando over correndo cavallo in plaza o in bia o in campu o in silva o in attero modu, qui cussu homini qui avirit mortu su dittu homini siat mortu si parit ver et simili assus bonus hominis et iuhigantis de sa corona qui sientimente et cum animo deliberado illu appat mortu. Et si cussu homini qui adi aviri mortu su dictu homini gasi minandu ca-] /3r/ vallu comenti narat de supra non l’avirit mortu ad voluntadi sua e siat istadu disastru, siat tentu e missidu in prexoni et siat ad albritriu nostru de ’llu condennari assa dita morte.
IV. Idem Disponiamo e ordiniamo che se qualcuno uccide un uomo conducendo un cavallo o correndo a cavallo in piazza, nella via, nei campi, nel bosco o in altro modo, sarà messo a morte se parrà verosimile ai probi uomini e a chi giudica in corona7 che abbia ucciso scientemente e con deliberata intenzione. Ma se, conducendo un cavallo come si dice sopra, non abbia ucciso volontariamente, bensì si sia trattato di incidente, sarà catturato e incarcerato, e sarà nostra la valutazione se condannarlo o meno a morte.
‹V. De venenu› ‹I›tem ordinamus qui si alcuna persone mascho o ffemina daret a mandigare toschu over venenu malu qui si ’llu daret a bier prossu cale indi morret su homini over sa femina ad qui ad esser dadu, si ’ndi est confessu over qui ’lli esseret provadu legitimamenti e morret·inde su homini over sa femina ad qui ad esser dadu, qui est homini su qui ad avir fattu su mali siat infurchadu qui ’ndi morgiat e pro dinari perunu non canpit, et si est femina siat assida.
V. Del veleno Parimenti ordiniamo che se un uomo o una donna fanno mangiare o bere una sostanza tossica o un potente veleno che uccidano l’uomo o la donna che li abbiano assunti, se ne rendono confessione oppure ne sono dimostrati colpevoli secondo i modi di legge, nel caso l’avvelenato o l’avvelenata muoiano il malfattore, se uomo, sarà appeso sulla forca sino alla sua morte, e non potrà scampare con alcuna somma, se invece è donna sarà arsa.
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E qui cussu homini qui si·lli darit su dittu toschu over venenu no ’ndi morret et no ’ndi avirit mancamentu dessa persone sua, siat·illi tagiada sa manu destra e pro dinari niunu non canpit qui non si·lli siat tagiada, et issu simili siat condennadu cussu qui si acatarit in culpa et in consentimentu de tali causa. [Et qui] cus[su qui] avirit comissidu su ditu maleffic[iu] paguit e pagar[e deppiat sas] spesas et manchamentus et [dampnos et] inter[esses qui at aviri appidu i]n cussu casu [a quini esseret dadu su ditu venenu, gasi de mehigos comenti et de meighinas et ateras causas necessarias a provigione de duos o tres bonus hominis electos per issa corti].
Se colui cui è stata somministrata la sostanza tossica o veleno sopravvive e non ha nocumento alla sua persona, al colpevole sarà tagliata la mano destra e non eviterà con alcuna somma che ciò avvenga. In eguale misura sarà condannato pure chi sia dimostrato complice in tale crimine. Si intende che l’autore del crimine sarà tenuto al pagamento delle spese, danneggiamenti, interessi cagionati all’avvelenato in questa circostanza, tanto per i medici quanto per le medicine e altre cose necessarie, secondo quanto disporranno due o tre probi uomini indicati dalla corte.
‹VI. De tenne su male factore› [Volemus et ordinamus qui si alcuna persona esseret morta in alcuna villa de foras o in confines et habitationes de sa villa, siant tenudus sus iuradus dessa dita villa de provare et de tenne su malu factore] /3v/ e de ’llu bature tentu ad sa corti nostra infra unu mesi pro faguiri·ndi sa justicia. Et in cassu qui su mali factori non si tenneret et non lu baturint assa corti nostra infra su ditu tempus, paguint sos jurados tottu et issos hominis dessa villa prossa maquicia et prossa nigligencia issoru et pro cha non tennirunt su homini liras CC, si est sa villa manna, et issa villa picinna liras C. Et qui cussu homini qui avirit mortu su homini fuirit et non si podirit avir infra su dittu tempus de unu mesi, siat isbandidu dae sas terras nostras et issos benis suos tottu siant conflischados assa corti nostra, reservando inperò sas regonis dessas mugeres e dessos figios qui avirit dae atera mugere qui non aviri‹n›t appidu sa parti apartinenti a issos pro parti dessa prima mugere. E similimenti si intendat salvas sas rexonis dessos creditores qui avirint ad recivir supra sos benis de cussos. E ‹si› per alcunu tempus
VI. Del catturare i malfattori Vogliamo e ordiniamo che se qualcuno è ucciso in un villaggio di campagna o entro i suoi confini e terreni, i giurati del villaggio saranno tenuti a individuare con prove il malfattore, a catturarlo e condurlo prigioniero alla nostra corte, entro un mese, per processarlo. Nel caso il malfattore non sia catturato e condotto alla nostra corte entro il termine prescritto, tutti i giurati e gli uomini del villaggio pagheranno, per il reato e per la loro negligenza per non aver fermato il colpevole, 200 lire se il villaggio è grande, 100 lire se il villaggio è piccolo. Se l’assassino fugge e non è possibile prenderlo entro il periodo prescritto di un mese, sarà bandito dalle nostre terre8 e tutti i suoi beni saranno incamerati dalla nostra corte, fatti salvi, però, i diritti della moglie e dei figli avuti da altra moglie i quali non abbiano ricevuto la quota loro spettante dalla parte della prima moglie. Similmente si facciano salvi i diritti avanzati dai creditori sui beni di quelli. E se mai l’assassino giunga in nostro potere privo di salvacondotto, gli sarà tagliata la testa in modo che ne muoia. Nondi-
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cussu homini qui avirit mortu su homini benit in força nostra non sendo fidadu, siat·illi tagada sa testa per modu qui indi morgiat et nienti de minus dogna persona illu poçat offendere in persona e dari·lli morte sença incurrer pena nen maquicia duranti su dittu tempus dessu isbandimentu suo.
meno, durante il periodo del suo bando ogni persona potrà offenderlo nella persona e ucciderlo senza incorrere in pena o in multa.
‹VII. Qui esseret isbandidu› ‹I›tem [ordinamus qui si alcuno esseret isbandidu] dae s[as terras n]ostras pro homicidiu [over per alcuna atera occasione pro sa quale deberet morre et beneret ad alcuna dessas villas nostras senza essere fidadu et basadu per nos, siant tenudos sos iurados et hominis de cussa villa de tennere·llu et batiri·lu a sa corte nostra. Et si non lu tennerent et batirint secundu que est naradu de supra, paghint sa villa manna assa corte nostra pro sa negligensia issoro libras XXV, et ipsa villa pizina libras XV, et iso maiore de cussa villa de per sé libras X, et ciascuno iurado libras V. Et ciò s’intendat si sus hominis de cussa tali villa illu ischirint]. /4r/ Et ‹si› alchunu homini de cussa villa illu recivirit et receptarit cussu tali homini isbandidu, palisimenti over a ffura, e darit·illi aiudu over consigiu o favore, et illi est provadu, paguit assu regnu nostru liras C, et si non pagat isse over ateru homini pro sé istit in prexone ad voluntadi nostra, salvu qui cussu homini isbandidu benet in domo dessa mugere over dessu padri over dessa mama over dessu aviu over dessa ava over de figiu o de figia o dessu fradi o sorri carrali: qui cussas personas non siant ‹tenudas› a maquicia dessas preditas liras C in tottu ne in parti.
VII. Dell’essere bandito Parimenti ordiniamo che se qualcuno, bandito dalle nostre terre per omicidio o per altro fatto per il quale debba essere messo a morte, viene in un nostro villaggio senza che gli abbiamo concesso un salvacondotto e la grazia, i giurati e gli uomini del villaggio saranno tenuti a catturarlo e condurlo alla nostra corte. Qualora non lo catturino e lo consegnino come è prescritto sopra, per la loro negligenza pagheranno alla nostra corte, i villaggi grandi, 25 lire, quelli piccoli 15; il maiore9 del villaggio, poi, 10 lire di suo e ciascun giurato 5 lire. Ciò, beninteso, nel caso che gli uomini del villaggio fossero al corrente della cosa. Se qualcuno del villaggio accoglie o dà ricetto, apertamente o di nascosto, a colui che è bandito, e gli fornisce aiuto, consiglio o favore, se provato pagherà al nostro erario regio 100 lire: se non paga, lui o un altro per lui, starà in prigione per quanto vorremo. A meno che colui che è bandito non si sia recato a casa della moglie, o del padre, della madre, del nonno, della nonna, del figlio, della figlia, del fratello o della sorella carnali, persone che non saranno tenute a pagare interamente o in parte le prescritte 100 lire di multa.
‹VIII. Qui si ochiret› ‹I›tem ordinamus qui si alcuna persona si oquieret issu istesu apensadamenti in alicunu modu, qui si depiat istrasinari et infurchari in alicuna furcha qui si deppiat faguer ‹a prope dessa villa hui s’at ochier. Et issu officiali de cussa villa deppiat fagheri› iscrivir tottu sos benis suos infini ad ateru comandamentu nostru; et simigiantimenti deppiat investigari et pregontari sos jurados e
VIII. Del suicidarsi Parimenti ordiniamo che se qualcuno si toglie la vita in qualche modo, deliberatamente, [il suo cadavere] si dovrà trascinare e appendere su una forca da rizzare vicino al villaggio in cui si è ucciso. L’ufficiale del villaggio, poi, dovrà far prendere nota di tutti i suoi beni, sino a che daremo ulteriori disposizioni, e similmente si investigherà e si domanderà ai giurati e probi uomini del villaggio circa
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bonus hominis dessa villa pro guiteu a caxoni cussa personi si ad esser morta, et igussu pregontu ad faguir iscriver, su cali pregontu deppiat b[at]ure ad nos de presente ad çiò qui nos [i]llu poçamus [mostrare assos] savi[os] nostros pro consigiari·[nos·inde cussu qui ’d’amus aviri a ffagheri dessos dittos] benes.
le ragioni del suicidio di quella persona. Questo interrogatorio, messo per iscritto, ci verrà consegnato senza indugio affinché lo possiamo mostrare ai nostri savi, per ricevere consiglio su ciò che dovremo fare di detti beni.
‹IX. De feridas› [Volemus et ordinamus qui si alcuno homini at ferre s’unu at s’ateru de fferro o de fusti o de pedra o de manu over de atera causa dundi essirit sambini et no ’ndi perderet membru, si ’nd’est binchidu paghit assu rennu prossa ferida de ferro infra dies XV de c’at esser iuighadu] /4v/ liras XXV, et si non pagat siat iscoviadu per issa terra. Et prossa ferida de fusti over de pedra o de atera causa dundi esirit sanbini paguit infra dies XV de cha ad esser juigadu liras XV, et si non paghat siat ischoviadu secundu qui narat de supra, salvu qui sa ferida si faguirit in fachi et romanit illoe alcunu sinnu notabili et de credere: qui paguit in cussu cassu liras L infra dies XV de qui ad esser juigadu, et si non pagat façant·illi su simili signu qui ad avir fatu in su simili logu. Et si sanbini no ’ndi esirit in sas fertas de ferru o de fusti ‹o de pedra over de atera causa›, paguit dae liras V infini in liras X, considerandu sa calidadi dessa personi qui est offesida et qui offendit et issu modu dessu accessu comissu, et si non pagat infra dies XV de cha ad esser juigadu affrustent·illu per issa terra. Et qui alcunu delictu avenit per disastru per non esser fattu appensadamenti, bolemus qui siat in albritiu nostru et de bonos hominis per nos depputados comenti est naradu de supra. Et qui ‹pro› alcuna dessas ditas feridas indi perdirit menbru o qui ’ndi esseret semu, cussu simigianti membru perdat, et pro dinari perunu non canpit. E si esirit membru principali debilitadu, paguit liras C sença misericordia peruna, et pro su menbru particulari qui esseret debilitadu paguit dae liras C in jossu [at arbitriu n]ostru over de bonus hominis per nos deput[ados.
IX. Dei ferimenti Vogliamo e ordiniamo che se qualcuno, in una zuffa, ferisce un altro con un’arma da taglio o un bastone, una pietra, le mani o in altro modo, provocandogli una perdita di sangue ma non quella di un membro, se soccombe in giudizio pagherà all’erario regio, per una ferita d’arma da taglio, 25 lire entro 15 giorni dacché è stato condannato; se non paga, sarà sottoposto alla pena della scopa [trascinato a colpi di sferza] in giro per il paese. Per una ferita prodotta con un bastone, una pietra o in altro modo, dalla quale sia uscito sangue, pagherà, entro 15 giorni dacché è stato condannato, 15 lire; se non paga, sarà scopato come si dice sopra. A meno che la ferita non sia stata fatta in viso e vi abbia lasciato una cicatrice vistosa e credibile: in questo caso pagherà 50 lire entro 15 giorni dacché è stato condannato, e se non paga gli sarà fatta la medesima cicatrice nello stesso punto in cui l’ha fatta lui. Se invece dalle ferite d’arma da taglio o bastone o pietra o comunque prodotte non sia uscito sangue, pagherà da 5 a 10 lire a seconda della condizione della persona ferita e del feritore e del modo in cui è stato commesso il delitto; se non paga entro 15 giorni dacché è stato condannato, sarà frustato in giro per il paese. Se un delitto avviene per disgrazia, senza premeditazione, vogliamo che sia rimesso alla discrezione nostra e dei probi uomini da noi deputati, come è detto sopra. Se poi, a causa di una delle ferite descritte, perde un membro o ne resta menomato, anche il feritore dovrà perdere lo stesso membro e non scamperà con alcuna somma. Se viene gravemente ferito un membro principale10, pagherà 100 lire senza misericordia alcuna; per il ferimento grave di un membro particolare pagherà da
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Et semper intendat]·si si ’llu [faghit] deffendendo [a ssí et provarit·illu legittimamente, qui no ’ndi siat tenudo a ppena alcuna. Et si alcuna persona ferret dessa manu in sa faghi over tirarit at alcuno sos pilos over qui ponnet at attiri sas manus in su pectus over qui ’lli istrazarit sos pannos over qui ’llu getarit a tterra over qui fagherit a chalchis et non lu fagherit defendendo a ssí, et sanbani de ciò non essirit, paghit assu rennu libras tres infini in libras ses], /5r/ considerando sa calidadi dessas personis offessidas et qui offendit, et si non pagat istet in prexoni ad voluntadi nostra, salvu si sa personi ferida esseret mugheri, figiu o ffigia o nebodi de figia o de fradi carrali o de sorri over famigari suo qui starit a pani et a vino suo over discipulu qui starit ad inparari: qui cussu qui l’at ferri esendo in su fattu et modu qui e‹s›t naradu de supra illu poçat batiri et castigari et in cussu attu no ’ndi paguit pena alcuna si ’ndi bogarit sanbini dae bucha over dae nasu over qui ’llu iscarrafiarit in sa fachi over in atera parti dessa personi sua qui dannu no ’ndi avirit. Et igussu simili si intendat dessos tudoris e curadoris de alcunus minoris qui castigarint e batirint a ssos qui stanti suta cura e tudoria issoru: qui no ’ndi paguint pena alcuna castigando·los per issu ditu modu. Et ‹si› alcuna persone faguirit dessas ditas maquicias qui sunt naradas de supra et paghi indi faguirint cun cussa personi ad qui avirit offesida, deppat benni daenanti nostru over dessu officiali o de majori de cussa terra over contrada in‹fra› dies XV de cha ad esser fata sa dita ‹maquicia› et in presencia dessu dittu officiali si façat sa paghi, et nos pro amore de Deus perdonamus prossa dita [paghi fata] su [q]uartu dessa maquicia.
100 lire in giù, a discrezione nostra ovvero dei probi uomini da noi deputati. Si intenda sempre che se lo ha fatto per difendersi, e lo prova secondo i modi di legge, non sarà assoggettato ad alcuna pena. Se qualcuno, non per legittima difesa, ferisce in viso un altro con le mani, o gli tira i capelli, o gli porta le mani al petto, o gli straccia le vesti, o lo butta a terra, o lo prende a calci, senza farlo sanguinare, pagherà all’erario regio da 3 a 6 lire, a seconda della condizione della persona aggredita e dell’aggressore. Se non paga, resterà in prigione a nostra discrezione. Nel caso che la persona ferita sia la moglie, il figlio o la figlia, o nipote di figlia o di fratello carnale o di sorella, o un suo famiglio che stia a pane e vino da lui, o un discepolo in apprendistato, colui che la ferisce, svolgendosi i fatti nel modo descritto sopra, è legittimato a batterla e castigarla: attuando tale condotta, non pagherà alcuna multa se fa uscire sangue dalla sua bocca o dal naso, se la graffia in viso o in altra parte del corpo senza altro danno. La stessa cosa vale per i tutori e curatori dei minori che castigano e battono coloro che stanno sotto la loro curatela e tutela: non pagheranno alcuna multa nel caso li castighino nel modo sopra indicato. Se chi ha compiuto i reati descritti si riappacifica con la parte offesa, dovrà comparire dinanzi a noi o all’ufficiale o al maiore di quel territorio o contrada entro 15 giorni dacché è stato compiuto il reato, e in presenza dell’ufficiale si farà la pace: allora noi, per amore di Dio, rimetteremo un quarto della multa per l’avvenuta pacificazione.
‹X. De feridas› [Constituimus et ordinamus subra sos maleficios et feridas incertas qui si alcuna persona esseret ferida de nocte tempus over ancu ad de die et non ’loi averit testimongios, qui su officiali
X. Dei ferimenti Stabiliamo e ordiniamo sopra i delitti e i ferimenti dubbi che, se qualcuno è ferito nottetempo, oppure anche di giorno, in assenza di testimoni, l’ufficiale procederà in relazione al misfatto a
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proce-] /5v/ dat supra su malefficio secundu qui ad esser su accessu, et poçat·illu admiter ad tromentu ad icussu qui ad esser acussadu pro ferida mortali over de membru principali seghadu over debilitadu et pro membru particulari seghadu over debilitadu. E chaschaduna personi qui siat de bona fama qui siat ferida siat cretida in su sagramentu suo hue non avirit testimongios, ecceptuadas sas preditas causas et a provisioni dessu officiali et dessu consigio suo. Et si sa personi acusanti o pacienti non esseret de bona fama et acusarit personi qui esseret de bona fama, istet a provvisione dessu officiali et consigio suo predittu. Et ‹si› avenneret una briga inter duos vel plus ‹personas› qui feridas over percuciones illoi aviri‹n›t fatu vel incurrirint et non si podirint provari distintamenti calis de cussos aviri‹n›t fatu sa briga, sa condennacioni qui si avenit assa corti paguint tottu a comoni cussas personis qui esserent istados a ffaguiri sa dita briga participantes e quantas feridas si a‹n›t acatari. Et icussas caussas si intendant in ferida qui non bie siat mortu et non perdimentu de membru. Et a ciò ‹qui› secundu sos colpos sas lassas, cussus ad sus calis ad esser comissidu per nos la‹s› poçant acatari secundu su colpu over colpos qui anti esser fatos, su officiali qui [a]d dimandari sas maquicias las deppiat ordina‹da›menti m[a]n[dari sc]riptas ‹declarando› su [colpu qui a]d [esser ma]nnu et issu qui [at esser pizinu].
seconda della gravità del delitto e potrà mettere sotto tortura chi viene accusato di aver procurato una ferita mortale o di aver tagliato o ferito gravemente un membro principale o un membro particolare. Se la persona ferita gode di buona reputazione sarà creduta, se giura, anche in assenza di testimoni, eccettuati i casi suddetti [i ferimenti più gravi] e secondo quanto delibereranno l’ufficiale e il suo consiglio. Ma se chi accusa o riceve offesa non gode di buona reputazione e denuncia qualcuno che ha buona reputazione, ci si rimetterà a quanto delibereranno l’ufficiale e il suo consiglio predetti. Se si ha una lite fra due o più persone che in essa producano o subiscano ferite o percosse e non si può appurare in modo distinto chi la abbia provocata, la corte condannerà tutte le persone che vi hanno partecipato a pagare insieme per ogni ferita riscontrata: ciò, beninteso, per ferimenti che non provochino morte o perdita di un membro. Affinché i nostri incaricati possano trovare le ammende commisurate all’entità delle percosse inferte, l’ufficiale che disporrà le multe le comunicherà elencandole per iscritto, annotando le lesioni gravi e quelle lievi.
‹XI. Asaltegu› [Item ordinamus qui si alcuna persona asaghirit ad alcuna persona atera cum arma assa domo hui istarit o in terra o in vigna sua hui esseret pro faguiri factos suos, paghit plus de cussu qui est ordinadu de supra dessas maquicias: ciò est si lu offendet in persona] /6r/ paguit sollos C, et si ’llu assallirit et non offendet paguit sollos L.
XI. Aggressioni Parimenti ordiniamo che se qualcuno, armato, aggredisce una persona nella casa ove risiede, o nella terra, o nella vigna di lui, mentre questi si occupa delle proprie faccende, pagherà, oltre a quanto è stabilito sopra sulle multe, nella seguente misura: se lo ferisce 100 soldi, se lo aggredisce ma non lo ferisce 50 soldi.
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Et si ’llu assaltiçarit sença arma ad alcunu dessos suprascriptos logos et offendet, paguit liras III, et si non offendet paguit pro su asaltigamentu sollos XXX. Et si in ateru logu de cussos qui sunt narados de supra illu assallirit et offenderet·illu paguit soldos XL, et si no ’llu offendit paguit sollos XX. Et ço si intendat ‹si› de ‹sas› suprascriptas causas indi esseret binquidu.
Se lo aggredisce senza armi in uno dei luoghi indicati e lo ferisce pagherà 3 lire, se non lo ferisce 30 soldi per l’aggressione. Se lo aggredisce e ferisce in un luogo diverso da quelli specificati sopra pagherà 40 soldi, se non lo ferisce 20 soldi. Ciò vale se è riconosciuto colpevole dei reati sopra elencati.
‹XII. Feridas› ‹I›tem ordinamus qui si alcuna persona esseret ferida et issa ferida esseret perigulossa et si dubitarit de morti, cussu homini qui avirit fata sa dita causa over ferida deppiat istari in prexoni infini ad tantu qui su meighu over meighus anti narri per sacramentu issoru qui cussu homini feridu siat foras de periculu de morti pro cussa ferida tantu cun deliberacione de bonus hominis. Et si dubitarint de cussa ferida istit in prexoni infini a dies LX, et passadu su dittu tempus de LX dies, et infra su dittu tempus su feridu non esseret mortu, siat deliberadu su delinquenti dessa morti et paguit prossa maquicia dessa ferida assa corti. Et in [casu] qui su fferid[o] morit infra su ditu [tempus de LX dies per mala cura et guardia] et per culpa [sua et avendo lassado su meichu foras de dubitu, qui cussu delinquente no ’ndi morgiat ma paghit sa maquicia de sa ferida secundu qui est naradu de supra].
XII. Ferimenti Parimenti ordiniamo che se qualcuno viene ferito così gravemente da mettere in dubbio la sua sopravvivenza, l’autore del ferimento dovrà rimanere in prigione fintantoché il medico o i medici dichiareranno sotto giuramento che il ferito non rischia di morire per la lesione ricevuta, con deliberazione dei probi uomini. Se invece l’esito del ferimento permane incerto, resterà in prigione non oltre 60 giorni, trascorsi i quali, senza che il ferito sia morto, il malfattore non sarà mandato a morte ma pagherà alla corte la multa per il ferimento. Nel caso che il ferito muoia entro il periodo indicato di 60 giorni per le cattive cure o la cattiva assistenza, o per colpa sua, o dopo che il medico lo abbia dichiarato fuori pericolo, il malfattore non sarà mandato a morte ma pagherà la multa per il ferimento secondo quanto è detto sopra.
‹XIII. Strada› [Constituimus et ordinamus qui si alcuna persona esseret tentu per robaria] /6v/ de strada publicha et ‹est›·indi binquidu, siat inpichadu qui ’ndi morgiat in cussu logu hue ad avir fattu sa ditta robaria et non canpit pro dinari perunu. In caxu qui faguirit sa dita causa o robaria foras de strada publicha, ço est in villa o in campo over in saltu, sos hominis dessa dita villa hui ad avir fatu sa dita robaria siant tenudus de tenni cusu tali homini et bature·llu assa corti nostra, e qui ’ndi est
XIII. Strada Stabiliamo e ordiniamo che se qualcuno è arrestato per una grassazione commessa nella pubblica strada e ne è riconosciuto colpevole, sarà impiccato sino a morirne nel medesimo luogo in cui ha compiuto il reato e non scamperà con alcuna somma. Qualora la grassazione sia stata effettuata non nella pubblica strada, bensì in un villaggio, nei campi o in un salto, gli uomini del villaggio in cui essa è avvenuta saranno tenuti a catturare il responsabile e condurlo alla nostra corte: in caso di condanna, pagherà alla
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binquidu paguit assa corti nostra liras CC dae cussa die de ch’at esser juigadu a dies XV, et qui non pagat isse over ateru homini pro sé infurguint·illu qui ’ndi morgiat. Et qui no ’llu tenint sos hominis de cussa villa, paguint sa villa manna liras L et issa villa piçinna liras XXV et issu dannu ad cui ad esser fattu, et nienti de minus depiant·illu ‹denunciare› assa corti infra dies XV e siat isbandidu dae sas terras nostras. Et qui per alicunu tempus benneret in força nostra paguit sa dita pena qui ’ssa dita robaria avirit fatu foras de strada publicha, et qui non pagat siat iusticiadu in persona secundu qui est hordinadu in su presenti capidulu, et issos benis suos si conflisquint assa corti nostra, reservandu sas rexones dessas mugeres, secundu qui per inantis est naradu, in casu qui est iusticiadu in persona.
nostra corte 200 lire entro 15 giorni dalla data del giudizio, e se non paga, lui o un altro per lui, sarà alzato sulla forca sino alla morte. Se gli uomini del villaggio non lo catturano, pagheranno 50 lire, i villaggi grandi, 25 quelli piccoli, più il danno alla parte offesa; nondimeno, lo dovranno denunciare alla corte entro 15 giorni e quello sarà bandito dalle nostre terre. Ove mai cadesse nelle nostri mani, pagherà la pena prevista, se ha commesso la grassazione al di fuori della pubblica strada: se non paga, sarà giustiziato secondo ciò che è stabilito nel presente capitolo, e i suoi beni saranno incamerati dalla nostra corte, fatti salvi i diritti delle mogli, secondo quanto si è detto in precedenza, nel caso sia giustiziato.
‹XIV. De inquisitione› [Item ordinamus qui si non illoe avirit testimongios qui su officiali procedat supra sa dicta causa per via de inquisitione secundu que in su secundo capidulu de qui ferit si contennet].
XIV. Dell’indagine giudiziaria Parimenti ordiniamo che, in assenza di testimoni, l’ufficiale dovrà procedere in relazione a detto reato per via di inquisizione, nei modi indicati nel secondo capitolo sui ferimenti [cap. X].
‹XV. De delinquentes› [Volemus et ordinamus qui si su dilinquente esseret tentu per issu officiali] /7r/ over per hominis dessa dita contrada hue esseret fattu su dellitu in alicunu logu qui non esseret franchu infra unu mesi, qui sa dita contrada over villa esseret delliberada dessa maquicia, et si su ditu officiali hue esseret sa personi qui avirit fattu su malefficiu non daret su braçu suo e favore ad icussu officiali over personis qui ’llu requederent siat comdenadu assa ditta maquicia.
XV. Dei malfattori Vogliamo e ordiniamo che se il malfattore è catturato entro un mese in un luogo non franco11 dall’ufficiale o dagli uomini della contrada in cui è avvenuto il crimine, detta contrada o villaggio non dovranno pagare la multa. Se l’ufficiale della località in cui si trova l’autore del reato non collabora con l’ufficiale o le persone che lo richiedono, sarà condannato al pagamento di detta multa.
‹XVI. Jurados de Loghu› ‹I›tem ordinamus qui in caschaduna villa si deppiant ponni a iurari pro iuradus de Logu in sa villa manna hominis X et in sa villa picinna hominis V, sos megus qui ’loi anti esser ad voluntadi dessu officiali, et issu scriptu dessos jurados villa a villa, homini
XVI. Giurati de Logu Parimenti ordiniamo che in ogni villaggio saranno chiamati a prestare giuramento in qualità di giurati de Logu 10 uomini, se il villaggio è grande, oppure 5, se è piccolo, i migliori che vi si trovino a giudizio dell’ufficiale. A partire da quel giorno ed entro la data
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ad homini torrent assa camara sos curadores dae cussa die ad corona de santu Perdu de lampadas, a pena de pagari liras VIII assa corti. Sos calis juradus deppiant provari sas largas et furas qui si faguint in sa villa o in sa aidaçoni dessa villa et de tenni sos malos fattoris et de bature·llus assa corti: et si non los tenent paguint sos juradus sollos XX per caschadu[no] e[t paghint comona]menti sos hominis dessa ‹villa› et issos juradus [su dannu ad cui at essere et issa maquicia assu rennu. Et siant cretidos sus iuradus assu narre issoro; si totu o sa maiore parte non esserent in concordia no siant credidos et paghint sa maquicia secundu qui de supra narat. Et si cussa persona ch’eseret dada de iurados] /7v/ boleret provari legitimamenti qui atera personi et non issu avirit fatu sa dita fura over eccessu, qui in cusu caxu issu s‹i›at liberu et cussa personi ad qui ad esser provadu contra siat scripta a pagari sa maquicia. Et icussu majori et juradus inperò ‹non› condennamus pro ‹qui› avirint dadu sa maquicia ad icussu qui esseret deffessu, ma paguit sa maquicia cussu contra ‹qui› ad esser legitimamenti provadu, supra sa cali proha cussu qui esseret dadu de juradus deppiat mostrari infra unu mesi. Et similimenti siant tenudus sos dittos jurados de ffaguir scrivir et colliri sas rexonis dessa corti candu si deent colliri et pagari in sa villa, candu siant requestos per issu officiali ipsoru o majori. Et icussa personi qui non boller‹e›t jurari pro juradu de credença o pro andari a quirchari sas domos et logos prossas furas paguit ad su regnu nostru per dogna bolta qui ’di ad esser requestu dae su officiali dessa contrada liras VIII assa corti et assu curadori boi unu; et issu officiali o curadori qui ad esser siant tenudus per sagramentu ‹de› provare·llu et denunciare·llu ad sa corti candu si at beni pro faguir rexoni assa camara. Et issu capidullu non si intendat pro morti de homini, ma de cussu si observet secundu in su capidullu d[e] qui hoquiet [homini si contenit]. 24
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della corona di san Pietro in giugno, sotto pena di 8 lire da pagare alla corte, i curadores12 dovranno dare alla camera indicazione scritta dei giurati, villaggio per villaggio, uomo per uomo. I giurati dovranno accertare le sottrazioni e i furti che si commettono nel villaggio o nei suoi terreni, catturare i malfattori e condurli alla corte: se non li catturano, i giurati dovranno pagare 20 soldi per ciascuno e, insieme agli uomini del villaggio, rimborsare il danneggiato e pagare la multa all’erario regio. I giurati dovranno essere creduti quando fanno il loro resoconto; se, però, le loro versioni discordano totalmente o in gran parte non saranno creduti e dovranno pagare la multa, come è detto sopra. Se chi è stato consegnato dai giurati vorrà provare nei modi di legge che un altro, e non lui, ha commesso il furto o il delitto, in tal caso sarà liberato e verrà iscritto a pagare la multa l’individuo dimostrato colpevole. Il maiore e i giurati, però, non saranno condannati per avere irrogato la multa alla persona scagionata, bensì pagherà la multa colui contro il quale saranno prodotte nei modi di legge le prove, da esibirsi entro un mese da parte dell’individuo consegnato dai giurati. Similmente i giurati, quando ne saranno richiesti dal loro ufficiale o maiore, saranno tenuti ad annotare e riscuotere i tributi della corte nelle occasioni in cui si devono esigere e pagare nel villaggio. Chi non vorrà prestare giuramento in qualità di giurato di credenza o per andare a perquisire le case e i luoghi in occasione dei furti, pagherà al nostro erario regio, per ogni volta che sarà stato convocato dall’ufficiale della contrada, 8 lire alla corte e un bue al curadore; l’ufficiale o curadore che vi sarà, sotto giuramento, dovrà denunciarlo portando le prove alla corte quando verrà per fare relazione alla camera. Quanto previsto nel presente capitolo non vale per gli omicidi, riguardo ai quali si osserverà il contenuto del capitolo relativo.
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‹XVII. De maleficios qui sus iurados de Logu hant a chircare› [Item ordinamus qui sos curadores cum sus ateros iurados de Loghu siant tenudos de chircare sos dannos dessos hominis de sa villa et issos loghos hui ant avire suspectu dogna] /8r/ mesi una bolta, e siant tenudos de quirchari sas domos dessos merchantes et negoçantes qui ant esser in cussa villa duas boltas su mesi. Et icussu deppiant faguir caschunu mesi sos jurados et curadores qui ’lloi anti esser in sa villa, salvu qui alcunu curadore over juradu non esseret in villa et esseret andadu in alcunu logu legitimamenti et sença fraudi pro faguir alcunu fattu suo over nostru no ’ndi siat tenudu; ma cussos jurados qui ’lloi anti esser in sa villa illu deppiant fagher non lasando et non romanendo pro cuso over pro cussos qui ’ndi anti manchari. Et intendat·si qui assa domo intri‹n›t tres jurados o plus e quirquint·illa beni sença fraudi, qui siat tantu ‹quantu› et qui si ’lloi intrarint tottu sos jurados. Et in caxu qui in ço su curadori esser‹et› negligenti paguit assa corti nostra sollos C et issu maiori dessa villa sollos XL e caschunu juradu paguit sollos XX.
XVII. Dei crimini sui quali indagheranno i giurati de Logu Parimenti ordiniamo che i curadores con gli altri giurati de Logu saranno tenuti, una volta al mese, a indagare sui danneggiamenti causati dagli abitanti del villaggio e sui luoghi sospetti e, due volte al mese, a ispezionare le case dei mercanti e negozianti presenti nel villaggio. A ciò dovranno adempiere ogni mese i giurati e i curadores presenti nel villaggio, ma se qualcuno di essi sarà assente per essersi recato in qualche località, in modo legittimo e non fraudolento, per compiere degli affari per suo o nostro conto, non ne sarà obbligato; i giurati che si troveranno nel villaggio dovranno però adempiere, senza omettere o fermarsi per motivo di quello o quelli che risulteranno assenti. E si intenda che se nella casa entrano tre o più giurati e la ispezionano per bene, senza inganno, sarà come siano entrati tutti i giurati. Nel caso che il curadore abbia adottato in questa attività una condotta negligente, pagherà alla nostra corte 100 soldi, il maiore del villaggio 40 soldi e ciascun giurato 20 soldi.
‹XVIII. Furas› ‹I›tem ordinamus qui quando su curadori et issos jurados de L[oghu ant an]dari quirchando sas d[omos] et loghos prossas furas [et achatarint illoe algunu corgio de boe, de vacha o de cavallu o d’]eba, [mostret su qui lu adi aviri a qui lo at achatari comenti siat suo pegogiari o de domo sua o de ateri qui si·l’edi avire acomandado. Et si cussu non mostrat, siat tentu su homini et batidu assa corte] /8v/ ut de supra et paguit secundu qui narat ‹sa› Carta de Logu pro su furoni, qui est covallu pro covallu, si est eba pro eba, si est boe pro boe, si est vacha pro vacha, et simili si intendat pro ateras bestias masedas. Et qui in ço esserent negligentis, paguint secundu ‹in› su capidulu si contenet de supra.
XVIII. Furti Parimenti ordiniamo che, quando il curadore e i giurati de Logu si recano a perquisire le case e i luoghi per i furti e vi trovano pelli di bue, vacca, cavallo o cavalla, colui che le detiene dovrà dimostrare a chi gliele ha trovate che sono di sua proprietà, o di casa sua, o di altri che gliele ha affidate. Se non lo fa, sarà catturato e condotto alla corte, come si dice sopra, e pagherà nella misura in cui la Carta de Logu prevede per i ladri, se si tratta di pelle di cavallo per un cavallo, di cavalla per una cavalla, di bue per un bue, di vacca per una vacca, e la stessa cosa valga per gli altri animali domestici. Se [il curadore e i giurati] saranno negligenti nell’applicazione di questa misura, pagheranno secondo quanto è indicato nel capitolo qui sopra.
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‹XIX. De pregontari› ‹I›tem ordinamus et constituimus qui ’ssos officiales dessu regnu nostru over curadores qui anti essiri in sas contradas siant tenudos de pregontari sos iurados de caschaduna villa tres boltas de s’annu et non plus prossas furas et largas qui si anti faguir in villa over in aidaçoni dessa dita villa et prossos corgios qui anti esser accatados in sas domos. Qui ’ssos officiales dessu regnu over curadores qui anti esser in sas contradas poçant bature per iscriptu su pregontu et issu qui anti avir naradu sos iurados et issu qui anti avir fatu secundu rexoni dessas furas et dessas largas et prossas maquicias. Qui sos dittos officiales o curado‹re›s qui anti esser in sas contradas ‹indi pozant› faguir rexoni assa camara nostra tres boltas in s’annu, ço est pro corona de Logu de santu Marchu et pro corona de santu Nicola et pro corona de Palma.
XIX. Dell’interrogare Parimenti ordiniamo e stabiliamo che gli ufficiali del nostro Regno ovvero curadores che vi saranno nelle contrade dovranno interrogare, non più di tre volte l’anno, i giurati di ciascun villaggio in relazione ai furti e alle sottrazioni commessi nel villaggio e nei suoi terreni e alle pelli rinvenute nelle case. Gli ufficiali regi ovvero curadores che vi saranno nelle contrade potranno portare verbale dell’interrogatorio, con le dichiarazioni dei giurati e quanto da essi fatto secondo diritto in relazione ai furti, alle sottrazioni e alle multe. Gli ufficiali o curadores che vi saranno nelle contrade potranno fare relazione di ciò presso la nostra camera tre volte l’anno, precisamente in occasione della corona de Logu di san Marco, di san Nicola e delle Palme.
‹XX. De sus pregontus› [Item ordinamus qui sus officialis nostros tottu de Arbaree siant ten]udos [ciaschaduno in sa coradoria sua de provare et de investigare] sas [furas et largas et issas maquicias qui si·loi ant faghere in sas dictas contradas et batiri iscritu tres voltas s’annu in sa camera nostra, zo est pro corona de Loghu de sanctu Marcho et pro corona de sanctu Nichola et pro corona de Plama, pro cie bolemus creder et dari fidi] /9r/ assu officiali de cussu qui ad a provari et narri comenti et assos iurados de Logu tottu. Et simigantimenti bolemus qui ’ssu officiali nostru pregontet sos jurados dessa‹s› villa‹s› affeadas et infeudadas prossas maq[uic]ias qui ’lloi anti faghiri et batiant·indi scriptu assa camara nostra, ço est de cussas maquicias de sanbini qui si·lloi ant acatari et qui appartenent assa rexoni nostra.
XX. Degli interrogatori Parimenti ordiniamo che tutti i nostri ufficiali dell’Arborea, ciascuno nella propria curadoria13, dovranno acquisire prove e condurre indagini sui furti, le sottrazioni e i reati commessi nelle contrade e portarne verbale tre volte l’anno alla nostra camera, precisamente in occasione della corona de Logu di san Marco, di san Nicola e delle Palme: infatti, vogliamo credere e prestar fede a ciò che proverà e asserirà il nostro ufficiale, così come tutti i giurati de Logu. Similmente, vogliamo che il nostro ufficiale interroghi i giurati dei villaggi infeudati sulle multe ivi comminate e ne porti verbale alla nostra camera, relativamente alle multe per fatti di sangue che accerteranno e che ricadono nella nostra giurisdizione.
‹XXI. Qui levarit mulieri› ‹I›tem bolemus et ordinamus et istatuimus qui si alcunu homini levarit per força femina coiada over alichuna atera [fem]ina qui
XXI. Del prendere una donna sposata Parimenti vogliamo, ordiniamo e deliberiamo che se qualcuno prende con la forza una donna sposata o promessa in sposa, o con
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esseret iurada o ispu‹n›çellarit alicuna virgini per força et [dessa]s ditas causas legitimamenti esseret binquidu, siat iuig[ado] qui paguit dessa coiada liras D, et qui non pagat infra dies X[V] de qui ad esser juigadu siat·illi segadu unu pee per modu qui ’llu perdat. Et prossa bagadia siat iuigadu qui paguit liras CC [et] siat anchu tenudu de ’lla levari pro mugere si est sença maridu e plaquiat assa femina. Et ‹si› n[on l]a lev[at] pro mugere s‹i›at anchu [tentu pro coiare·la secundu sa qualidadi dessu homini] et dessa condici[oni de sa femina. Et si cussas causas issu non podet faghire a dies XV de c’at essere iuigadu, siat·illi segado s’uno pee per modu que lu perdat. Et pro sa virgini paguit sa simili pena, et si non adi dae hui pagare seguint·illi uno pee ut supra].
la costrizione spulcella una vergine ed è riconosciuto colpevole di tali fatti nei modi di legge, sarà condannato a pagare, per la donna sposata, 500 lire; se non paga entro 15 giorni dalla data del giudizio, gli sarà tagliato un piede in modo che lo perda. Se si tratta di donna nubile, sarà condannato a pagare 200 lire; inoltre, dovrà prenderla in moglie nel caso che quella non sia già sposata e lo voglia; se non la prende in moglie, dovrà provvedere al suo matrimonio secondo le proprie possibilità e in relazione alla condizione della donna. Se non provvede in questi modi entro 15 giorni dalla data del giudizio, gli sarà tagliato un piede in modo che lo perda. Se si tratta di una vergine, pagherà la stessa pena; se non ha di che pagare, gli sarà tagliato un piede come si dice sopra.
‹XXII. Qui intrarit in domo› /9v/ ‹I›tem ordinamus qui si alcunu homini intrarit per força ad domo de alcuna femina coiada et tenent·bie·llu, et non la appat appida carnalimenti, et indi est binquidu legitimamenti, siat juigadu a pagari liras C, et qui non pagat infra dies XV de c’at esser iuigadu seghent·illi una origa tota. Et qui alcunu homini esseret tentu cun alcuna femina coiada in domo dessa dita femina ‹et esseret voluntadi de sa femina›, cussa tali femina siat afrustada et isposedida de tottu sos benis suos et dessas rexonis suas gasi de dodas comenti et de ateru beni, et romangant tottu assu maridu et non a ffigios qui avirint cun su dittu maridu over cun ateru maridu ‹qui› avirit appid[u] per innantis et non ad ateru parenti suo, etceptu a plaquimentu de cussu maridu ‹ad› su cali avirit fatu sa ditta fallença. Et icussu homini cun ‹su› cali esseret acatada non siat afrustadu ma depiat pagari infra dies XV de c’at esser juigadu liras C, e qui non pagat infra su dittu tempus siat·illi tagada una origa per modu qui ’lla perdat.
XXII. Dell’entrare in casa Parimenti ordiniamo che se qualcuno, entrato con la forza nella casa di una donna sposata ma senza possederla carnalmente, è catturato ed è riconosciuto colpevole di ciò nei modi di legge, sarà condannato a pagare 100 lire; se non paga entro 15 giorni dalla data del giudizio, gli sarà tagliato un orecchio per intero. Se qualcuno è colto con una donna sposata in casa di questa e la donna è consenziente, sarà frustata e privata di tutti i suoi beni e dei suoi diritti sulla dote e gli altri beni, che resteranno interamente al marito e non ai figli avuti da lui o da un altro marito precedente e nemmeno ad altri parenti di lei, eccezion fatta per ciò che dovesse piacere di disporre al marito che ha subito il torto. L’uomo col quale sarà trovata non sarà frustato, ma dovrà pagare 100 lire entro 15 giorni dalla data del giudizio; se non paga entro tale termine, gli sarà tagliato un orecchio in modo che lo perda.
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Et ço non si intendat pro feminas qui siant public[as] meretrices nen anchu qui ’ssa femina andarit a domo dessu [homi]ni over ‹de› atera personi qui non esseret habitaci[one dessa dita femina: qui in cussu casu su homini paguit libras XXV ma sa femina siat afrustada ut supra].
Tutto ciò non ha valore per le donne che siano pubbliche meretrici e neppure nel caso in cui sia la donna a recarsi a casa dell’uomo o di altra persona, comunque in una dimora diversa dalla sua: in questo caso, l’uomo pagherà 25 lire mentre la donna sarà frustata come si dice sopra.
‹XXIII. De femina coiada› [Volemus et ordinamus qui si alcuno homini reeret over teneret femina alcuna coiada palesamenti cum sa cali averet ad faghere carnalimente contra assa voluntadi dessu marido, et dimandando·si·la cussu marido si·la denegarit, siat con-] /10r/ denadu in liras C, sas calis deppiat pagari infra dies XV de cha ad esser iuigadu, et si non pagat siat·illi tagada una origa totta et issa femina siat condennada secundu qui in su capidulu de supra si contenit.
XXIII. Delle donne sposate Vogliamo e ordiniamo che se qualcuno accoglie o trattiene, in modo palese, una donna sposata con la quale si unisce carnalmente contro la volontà del marito di lei e, avendo questi chiesto di riaverla, non gliela consegna, sarà condannato a 100 lire di multa, da pagare entro 15 giorni dacché è stato condannato; se non paga, gli sarà tagliato un orecchio per intero. La donna sarà punita nei modi indicati nel capitolo qui sopra.
‹XXIV. Qui andarit a festa› ‹I›tem ordinamus ‹qui si alcuno› homini andarit a ffesta over a sagra de ecclesia non bie deppiat portare arma peruna a pena de pagari liras XXV et de perdere sa arma. Et siant tenudos sos jurados vel curadores et issos hominis dessa villa per caschuna curadoria hue si at fagher sagra over festa de tenner cussu homini c’at benne armadu et bature·llu tentu assa corti cun s’arma qui ’ll’ant acatari, a pena de pagari, sos curadoris cun sos hominis dessas curadorias, liras X.
XXIV. Del recarsi alle feste Parimenti ordiniamo che se qualcuno si reca a una festa o a una sagra di una chiesa non dovrà portare con sé armi, sotto pena di una multa di 25 lire e della confisca delle armi. I giurati o curadores e gli uomini del villaggio, in ciascuna curadoria ove si tiene la sagra o festa, dovranno catturare l’uomo che si è presentato armato e condurlo prigioniero alla corte con le armi trovategli, sotto pena di pagare, i curadores e gli uomini della curadoria, 10 lire di multa.
‹XXV. De carthas bulladas› ‹I›tem ordinamus qui ‹a› caschaduna personi siat liquidu de bature et inpresentari in sa corti ad omnia bisogno suo carta bullada, condagui over ateras scripturas ‹autenticas, registradas o non registradas qui siant in sa corte. Et si alcuna persona› baturet carta de nottaiu a corona qui
XXV. Delle carte bollate Parimenti ordiniamo che chiunque potrà portare e presentare alla corte, per ogni sua esigenza, carte bollate, condaghes14 o altre scritture autentiche, siano esse registrate o meno presso la corte. Se però qualcuno presenta in tribunale una carta notarile falsa e la usa con dolo, se cioè chi l’ha portata è a conoscenza del fatto che
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esseret falça et u[sa]rit·illa maliciosamenti, [co]gnoscendo cusu [qui l’edi batiri ch’edi essere falza, siat tentu et missidu in pregioni et condennado in arbitrio nostro. Et isso nodaiu over scrivanu qui sa ditta carta avirit iscrita siat condempnadu et paghit libras chentu, et si non pagat infra unu mese tagit·si·la sa manu destra. Et icussas causas over posessiones pro qui chertarit over qui defenderet per issu vigore de custa carta falza] /10v/ siant lasadas pacifficamenti ad icussa personi de qui debent esser rexonivilimenti, et issu dittu nottaiu plus no ’ndi usit de cussu officiu dessa nottaria faguiri.
essa sia falsa, sarà catturato e imprigionato e condannato secondo la nostra valutazione. Il notaio o lo scrivano che ha redatto la carta sarà condannato a pagare 100 lire e, se non paga entro un mese, gli sarà mozzata la mano destra. I beni o i possedimenti per i quali ha intentato lite o che ha difeso in forza della carta falsa saranno attribuiti, senza contestazioni, a colui al quale spettano di diritto. Il notaio non potrà più esercitare il proprio ufficio.
‹ORDINAMENTOS DE FURAS›
ORDINAMENTI DEI FURTI
‹XXVI.› ‹I›tem ordinamus qui si alcuna [p]ersone furarit alcuna causa dae alcuna ecclesia over dae domo de eccles[ia], ço est paramentos, libros, caliguis over alcuna attera causa sacrada, et ‹est›·indi binquidu per testimongios, over qui ’llu confessarit, paguit prossa ‹fura primarga assa ecclesia pross’unu V et assu rennu prossa maquicia libras L. Et si non paghat prossa› maquicia liras L et pro s’unu ‹V›, secundu qui est naradu de supra, boghent·illi ‹unu› hogu. Et daessa fura primarga ‹inantes› siat inpichadu per modu qui ’ndi morgiat et qui non canpit pro dinari perunu.
XXVI. Parimenti ordiniamo che se qualcuno ruba qualcosa da una chiesa o da una sacrestia – come paramenti, libri, calici o altre cose consacrate – ed è riconosciuto colpevole di ciò attraverso testimoni, oppure è reo confesso, pagherà, se è la prima volta, cinque volte il valore della refurtiva alla chiesa e 50 lire all’erario regio per questo reato. Se non paga 50 lire per il reato e cinque volte il valore della refurtiva, come si prescrive sopra, gli sarà cavato un occhio. Dal primo furto in avanti, sarà impiccato sino alla morte e non potrà scampare con alcuna somma.
‹XXVII. De cavallu e boi› ‹I›tem ordinamus qui si alcuna persone [fur]arit cov[allu d]omadu, eba domada, boe do[m]adu et est sa fura primargia et si est dessu regnu paguit pro s’unu X et de maquicia liras XV, et si est de ecclesia over de atera personi paguit pro s’u[nu] V et de maquicia liras XV. Et si non pagat ipse over ate[ro] h[omini pro see] seguent·illi [una origla prossa fura primargia, et dae cussa fura primargia inanti affurchent·illu qui ’ndi morgiat].
XXVII. Dei cavalli e dei buoi Parimenti ordiniamo che se qualcuno ruba, per la prima volta, un cavallo domato, o una cavalla domata, o un bue domato, se l’animale è del patrimonio regio pagherà dieci volte il valore della refurtiva e una multa di 15 lire; se appartiene alla Chiesa o ad altri pagherà cinque volte il valore della refurtiva e 15 lire di multa. Se non paga, lui o un altro per lui, gli sarà tagliato un orecchio se è il primo furto; dal primo furto in avanti, sarà appeso sulla forca che ne muoia.
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‹XXVIII. De cavallu rude› [Item ordinamus que si alcuna persona furarit covallu rude, ebba, vaca, boe over molente dessu rennu paghit pross’unu deghe, et si est d’eclesia o de atera persona paghit pross’unu quimbi et de maqui-] /11r/ cia liras XV prossa fura primargia, secundu qui est naradu de supra. Et qui non pagat ad dies XV de cha ad esser juigadu, siat·illi tagada una origa. Et prossa secunda fura paguit liras ‹X›XV a dies XV de ca ad esser juigadu, et si non pagat ise over ateru homini pro sé tagent·illi s’atera origa. Et dae sas duas furas in susu infurchent·illu qui ’ndi morgiat.
XXVIII. Dei cavalli bradi Parimenti ordiniamo che se qualcuno ruba un cavallo, o una cavalla, una vacca, un bue o un asino bradi, se l’animale è del patrimonio regio pagherà dieci volte il valore della refurtiva, mentre se appartiene alla Chiesa o ad altri pagherà cinque volte il valore della refurtiva, più 15 lire di multa: questo, nel caso si tratti del primo furto, come si dice sopra. Se non paga entro 15 giorni dalla data del giudizio, gli sarà tagliato un orecchio. Se si tratta del secondo furto, pagherà 25 lire entro 15 giorni dalla data del giudizio; se non paga, lui o un altro per lui, gli sarà mozzato l’altro orecchio. Dopo il secondo furto, sarà appeso sulla forca che ne muoia.
‹XXIX. De berbegues› ‹I›tem ordinamus qui si alcunu furarit berbeis o porchu o craba et ‹est›·inde binquidu et esseret dessu regnu paguit pro s’unu X, et qui esseret dessa ecclesia over de atera personi paguit pro unu V, et paguit prossa fura primargia de maquicia liras XV a dies XV de ca ad esser juigadu, ‹et si non paghat› isse over ateru homini pro sé seghent·illi una horiga. Et prossa secunda fura paguit de maquicia liras XXV, et qui non pagat isse over ateru homini pro sé seghent·illi sa atera origa. Et dae sas duas furas in susu infurchent·illu qui ’nde morgiat. Et bolemus qui si plus persones esserent a ffaguir dessas suprascriptas furas et esserent·illis legitimamenti provadas, qui caschadunu incurrat in [sas suprascriptas p]enas comenti et [participes et consentientes et comenti et issu] principali [se esseret solu. Et intendat·si de impicari dae V pegus in susu, et dae V pegus in giosso paghit secundo de supra].
XXIX. Delle pecore Parimenti ordiniamo che se qualcuno ruba una pecora, o un maiale, o una capra ed è riconosciuto colpevole di ciò, se l’animale è del patrimonio regio pagherà dieci volte il valore della refurtiva, mentre se appartiene alla Chiesa o ad altri pagherà cinque volte il valore della refurtiva e, se si tratta del primo furto, 15 lire di multa entro 15 giorni dalla data del giudizio; se non paga, lui o un altro per lui, gli sarà tagliato un orecchio. Se si tratta del secondo furto, pagherà 25 lire di multa; se non paga, lui o un altro per lui, gli sarà tagliato l’altro orecchio. Dopo il secondo furto, sarà appeso sulla forca che ne muoia. Vogliamo inoltre che se più persone partecipano ai furti di cui sopra e di ciò viene fornita prova nei modi di legge, ciascuna di esse incorrerà nelle pene sopra previste in qualità di complice, alla stessa guisa dell’autore principale del reato che agisca da solo. E si intenda che i ladri saranno impiccati dai 5 capi di bestiame in su, mentre dai 5 capi di bestiame in giù pagheranno nella misura prevista sopra.
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‹XXX. De cani› [Constituimus et ordinamus qui si alcuna persona furarit alcuno cani de loru o giagaru et esseret dessu rennu et ind’est binchidu], /11v/ paguit infra dies XV de c’at essere iuigadu pro s’uno X, et si est dessa ecclesia o de atera persone paguit pro s’uno V et de maquicia liras V.
XXX. Dei cani Stabiliamo e ordiniamo che se qualcuno ruba un cane da guardia o da caccia del patrimonio regio ed è riconosciuto colpevole di ciò, pagherà dieci volte il valore della refurtiva entro 15 giorni dalla data del giudizio, mentre se l’animale appartiene alla Chiesa o ad altri pagherà cinque volte il valore della refurtiva, più 5 lire di multa.
‹XXXI. De ortu d’abis› ‹I›tem ordinamus qui si alcuna persone furarit ortu d’abis et esseret dessu regnu paguit infra dies XV de c’at essere iuigadu pro s’uno X, et si esseret de ecclesia o de atera persone paguit pro s’uno V, et nienti de minus paguit de maquicia assa corte V liras issu o ateru homini pro sé, et si non pagat infra dies XV tagent·illi una origa.
XXXI. Degli alveari Parimenti ordiniamo che se qualcuno ruba degli alveari del patrimonio regio, pagherà dieci volte il valore della refurtiva entro 15 giorni dalla data del giudizio, mentre se sono di proprietà della Chiesa o di altri, pagherà cinque volte il valore della refurtiva e, nondimeno, verserà, lui o un altro per lui, 5 lire di multa alla corte. Se non paga entro 15 giorni gli sarà tagliato un orecchio.
‹XXXII. Fura de lavore› ‹I›tem ordinamus qui si alcuna persone furarit laori mesadu over a messari dessu regnu paguit pro s’uno X, et si esseret de ecclesia o de attera persone paguit pro s’uno V si ’ndi est binquidu et issa maquicia a sa corte, et si non pagat issu o ateru homini pro sé tagent·illi una origa.
XXXII. Furti di grano Parimenti ordiniamo che se qualcuno ruba del grano mietuto o ancora da mietere del patrimonio regio, se è riconosciuto colpevole di ciò pagherà dieci volte il valore della refurtiva, mentre se appartiene alla Chiesa o ad altri pagherà cinque volte il valore della refurtiva e la multa alla corte. Se non paga, lui o un altro per lui, gli sarà tagliato un orecchio.
‹XXXIII. Fura de domo› [Constituimus et ordinamus qui si alcuna persona furarit domu agiena et illa pertungherit a ffura in muro o in gienna o in fenestra o in cobertura, si ’lli est provado et indi est binchidu siat inpicado per issa ghula qui ’ndi morgiat et dae sos benes suos si paghit su dampnu at qui at esser fattu. Et niente de minus sus] /12r/ jurados dessa villa siant tenudos de ’llu provare et de ’llu batire ad claru et tenne su homini in presone qui ad avir fattu su mali, et si no ’llu tenent et provant paguint sos iurados comunamenti cun sos hominis dessa villa su
XXXIII. Svaligiamenti di case Stabiliamo e ordiniamo che se qualcuno svaligia la casa di un altro sfondando furtivamente un muro, o la porta, o una finestra, o il tetto, se viene fornita prova di ciò ed è riconosciuto colpevole sarà impiccato per la gola in modo che ne muoia. Dai suoi beni, poi, si risarcirà il danno a chi lo ha subito. In ogni caso, i giurati del villaggio dovranno raccogliere le prove e renderle note, e incarcerare il malfattore; se non lo catturano e non raccolgono le prove, i giurati pagheranno insieme agli uomini del villaggio il danno a colui che lo ha subito, e verseranno all’era-
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dannu ad de qui ad essere et ad su regnu paguit sa villa manna liras C et issa villa picinna liras L. Et issos benis de cussu homini qui ad avir fattu su mali siant in su pagamentu dessos suprascriptos dinaris.
rio regio 100 lire, i villaggi grandi, 50 lire i villaggi piccoli. I beni del malfattore serviranno a pagare le soprascritte somme.
‹XXXIV. Lamentu de fura in domo› ‹I›tem ordinamus qui si alcuna persone si lamentarit pro fura de domo qui ’lli ad essere fatta, si non est fatta in muro segadu o in genna segada o in fenestra segada o in crobetura segada deppiat andari assu curadore a lamentari·si, et issu curadore siat tenudo de andare cun sos jurados dessa villa chircando et investigando cussa fura. Et si acatarit su cabudu de sa fura, cussu in domo de qui l’ant acatari sa causa furada mostret comente siat sua propria o de alcuna attera persone qui si·lla avirit acomandada o dae qui l’at avir comporada, et si icussa [pro]va non mostrat [paghit cussa fura ad icussu at qui esseret facta a sagr]amentu [suo qui ’ndi ad fagheri in manu dessu officiali. Et paghit de maquicia assa corte libras L infra dies XV de c’at essere iuigadu, et si non paghat isso over atero homini pro ssee seguent·illi una origla prossa fura primargia. Et daessa primargia infur-] /12v/ quent·illu qui ’ndi morgiat. Et si non si acatarit su cabudu dessa fura, xertet·inde cussu qui at avir recivido ‹su dampno› cun homines V dessa villa a qui ’ndi at avir suspetu in custu modu, çiò est qui cussu qui dimandat sa causa et narrit qui ’lli siat furada et qui siat sua mostret et provet qui cussa caussa siat sua pegugiare; et si non mostrat, deppiat iurare cussu a qui s’at acaptare qui non si·ll’at furada ni levada issu ne attera ‹persone› pro sé, et juradu qui at avir siat liberu et non siat tenudo a pena ne condempnacione alcuna.
XXXIV. Denunce di furti nelle abitazioni Parimenti ordiniamo che se qualcuno lamenta di aver subito un furto in casa, senza che però vi sia stata effrazione di un muro, o della porta, o di una finestra, o del tetto, dovrà andare dal curadore a denunciarlo; il curadore si dovrà recare coi giurati del villaggio a effettuare ricerche e indagini riguardo al furto. Se si trova il maltolto, colui nella cui casa sarà rinvenuta la refurtiva avrà l’onere di dimostrare che è di sua proprietà, o di altri che gliela ha affidata, o da chi la ha acquistata; se non riesce a fornire siffatta prova, risarcirà per il furto colui che con giuramento dichiara all’ufficiale di essere stato derubato. Inoltre, pagherà alla corte 50 lire di multa entro 15 giorni dalla data del giudizio; se non paga, lui o un altro per lui, gli sarà tagliato un orecchio, se si tratta del primo furto. Dopo il primo furto, sarà appeso sulla forca che ne muoia. Se non si trova il maltolto, il derubato, dopo aver richiesto l’assistenza di 5 uomini del villaggio, agirà contro la persona di cui sospetta in questo modo: colui che reclama dei beni e asserisce che gli sono stati rubati e perciò gli appartengono, dovrà dimostrare con prove la proprietà di quei beni; se non può dimostrarlo, colui che ne è in possesso dovrà giurare che non li ha rubati o sottratti lui o un altro per lui. Con tale giuramento, sarà libero e non subirà alcuna pena né condanna.
‹XXXV. De tenne su furone› ‹I›tem ordinamus qui ‹si› sa fura qui s’at faguer si jugeret et levaret dae s’una curadoria ass’atera, siat tenudo su curadore de
XXXV. Del catturare i ladri Parimenti ordiniamo che se la refurtiva è presa in una curadoria e portata in un’altra, il curadore del villaggio in cui è stata trafugata,
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cussa villa ad hue s’at iuguire de reere sa fura et de tenne su furone, si ’ll’at isquire, infini a qui l’at benni su popillu dessa causa furada. Et si no ’llu tenit et reet sa fura, cussu curadore paguit ad su regnu, si ’nd’est binquidu, liras XXV prossa negligencia sua et issu dannu ad de qui at essere.
se lo viene a sapere, dovrà trattenere la refurtiva e catturare il ladro sino all’arrivo del proprietario dei beni rubati. Se non lo cattura e non trattiene la refurtiva, il curadore che sia riconosciuto colpevole di ciò pagherà all’erario regio 25 lire per la sua negligenza e al derubato il danno.
‹XXXVI. De denunciare sas largas› [Constituimus et ordinamus qui siant tenudos sus curadores, ciascuno in sa curadoria sua, de denunciare sas largas et issas furas qui si·lloi ant fagueri a su armentargiu nostru de Loghu over officiali maiore daessa die qui at esser facta sa maquicia a dies XV. Et issu curadore qui non las at denunciare assu termen paghit de maquicia assu rennu libras XXV].
XXXVI. Del denunciare le sottrazioni Stabiliamo e ordiniamo che i curadores, ciascuno nella propria curadoria, dovranno denunciare le sottrazioni e i furti in essa commessi al nostro armentargiu de Logu ovvero ufficiale maggiore entro 15 giorni dalla data del reato. Il curadore che non effettuerà la denuncia entro tale termine pagherà all’erario regio 25 lire di multa.
‹XXXVII. De tenne sus furones› /13r/ ‹I›tem ordinamus qui ’ssos curadores siant tenudos, cascuno in sa curadoria sua, de tenne e ffaguere tenne sos furones et malos factores et mandare·llos ad sa corte nostra cussos qui ant avir fatta sa maquicia dae sollos C in sussu; et icussos qui ant avir fatta maquicia dae sollos C in josso, dae cussos si façat pagare su curadore et no ’llos mandit ad sa corte.
XXXVII. Del catturare i ladri Parimenti ordiniamo che i curadores, ciascuno nella propria curadoria, dovranno catturare, o far catturare, e tradurre alla nostra corte i ladri o malfattori che abbiano compiuto reati che prevedono una multa da 100 soldi in su. Per i reati che prevedono una multa da 100 soldi in giù, invece, sarà il curadore a farsi pagare e non tradurrà a corte i responsabili.
‹XXXVIII. De proare sos cavallos› ‹I›tem ordinamus qui sos jurados siant tenudos de provare sos covallos domados et ebbas domadas et issos boes domados et molentis qui ss’ant ochiere a ffura o qui ss’ant a ffurare in sa villa o in habitacione dessa villa, et si no ’llu provant paguint sas furas ad sos pobillos comunalimenti sos jurados cun sos hominis tottu dessa villa. Et icusso bestiamen c’ant acaptare sos majores de pardu ispaciadu a de noti, çiò est covallu domadu, ebba domada, boe domadu et molenti, qui siant tenudos de ’llu tenne et batire·llu ad sa corte, et issos iurados ind’appant de cussos qui ant batire ad
XXXVIII. Del raccogliere prove riguardo ai cavalli Parimenti ordiniamo che i giurati dovranno raccogliere prove riguardo alle uccisioni avvenute di nascosto di cavalli domati, cavalle domate, buoi domati e asini, o al loro furto nel villaggio o nei suoi terreni. Se non le raccolgono, i giurati e tutti gli uomini del villaggio risarciranno i padroni per il furto. I maiores de pardu15 dovranno sequestrare e portare alla corte il bestiame che trovano a vagare di notte, in particolare cavalli domati, cavalle domate, buoi domati e asini; i giurati avranno la terza parte dei diritti di tentura16 relativamente agli animali che portano alla corte. Ciò vale nel caso di buoi domati sequestrati allorché pa-
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sa corte sa terça parte dessas tenturas. Et çiò si intendat pro boes domados qui in cussu tempus qui si pasquint a muda si tenerent, pro qui debent dormire in sa corte, et appant·inde su terçu ut supra. Et si alcuno majore de padru [ove]r [atera persona miteret alcuno bestiam]en dessu qui est naradu d[e supra dae foras at intro paghit soldos binti per ciaschuna bolta et per ciaschuna bestia si ’ndi est convinto].
scolano a muda17, giacché devono passare la notte nel recinto: anche in questo caso avranno la terza parte come si dice sopra. E se un maiore de pardu o altri manda da fuori a dentro il recinto qualche capo di bestiame nelle condizioni sopra specificate, pagherà 20 soldi per ogni volta e per ogni bestia, se dimostrato colpevole.
‹XXXIX. Qui non tennint su furone› [Item ordinamus qui sos iuradus qui at comandare su curadore] /13v/ pro tenne su furone et no ’llu ant tenne paguint ad su regnu sollos XX per iuradu, et issu dannu c’at avir fattu et issa maquicia paguint sos jurados comunalimenti cun sa villa. Et si cussu homini c’at aviri fatta cussa fura at essere fuidu et at avir alcuna causa de su suo, levent·si·lla et convertiscat·si in cussu qui ant pagari sos jurados cun sa villa pro pagamentu de cussu dannu et dessa maquicia.
XXXIX. Del non catturare i ladri Parimenti ordiniamo che se il curadore comanda ai giurati di catturare un ladro ma questi non lo catturano, pagheranno all’erario regio 20 soldi ciascuno: inoltre, sia il danno che quello ha procurato, sia la multa, li pagheranno i giurati insieme al villaggio. Se l’autore del furto è fuggito ma ha lasciato beni di sua proprietà, gli saranno confiscati e saranno impiegati per costituire la somma che i giurati e il villaggio debbono versare per il danno e la multa.
XXXX. ‹Qui compararit cavallu› ‹I›tem ordinamus qui ‹si› alcuno homini at comporari covallu, ebba, boe, vacha, porchu, cabra, berbee dessu regnum dae alcuno officiali o maiore o pastore dessu regnu sença paraula dessu segnori juigui, o de ecclesia o de attera persone sença paraula dessu donnu suo, paguit su conporadore secundu qui su furone dessu regnu pro s’uno X et de attera persone pro uno V. Et icussu qui ad faguere de cussas comporas et non pagarit, istit in pregione infini ad qui at avir pagadu ad icussu a qui ad esser fatta sa fura, et paguit prossa maquicia liras XV.
XXXX. Del comprare cavalli Parimenti ordiniamo che se qualcuno compra da un ufficiale, o maiore o pastore del Regno un cavallo, una cavalla, un bue, una vacca, un maiale, una capra o una pecora facente parte del patrimonio regio, senza il consenso del signor giudice, oppure appartenenti alla Chiesa o ad altri, senza il consenso del proprietario, detto acquirente pagherà dieci o cinque volte il valore della bestia nella stessa misura di chi ruba al patrimonio regio o ad altri. Se chi ha effettuato simili acquisti non paga, resterà in carcere fintantoché non avrà risarcito il derubato, e pagherà anche 15 lire di multa.
‹XLI. Qui isfundarit vigna agiena› [Item ordinamus qui si alcuna persona isfundarit vign]a agena o pu[mura a ffura et issa vigna o pumura est dessu rennu paghit de
XLI. Dello spiantare vigne altrui Parimenti ordiniamo che se qualcuno spianta di nascosto una vigna o un frutteto altrui pagherà, se è del patrimonio regio, 50 lire
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maquicia libras L et issu damno c’at aviri factu; et si est sa vigna o pumura d’eclesia over de attera persona paghit de maquicia libras XXV et issu damnu. Et si non paghat infra dies XV de c’at esser iuigadu, seghit·si·lli sa manu] /14r/ dextra et paguit su dannu inantis qui essat dae presoni. Et de custos siant tenudos sos jurados de tenne su homini c’at avir fattu su mali et de representare·llu ad sa corte nostra infra dies XV, et si no ’llu representarint infra su dittu termen paguint sos jurados su dannu a c’at esser fattu et assa camara nostra sollos X per juradu.
di multa, oltre a rifondere il danno procurato; se invece la vigna o il frutteto appartiene alla Chiesa o ad altri, pagherà 25 lire di multa, oltre a rifondere il danno. Se non paga entro 15 giorni dalla data del giudizio, gli sarà tagliata la mano destra e non potrà uscire di prigione senza prima aver risarcito il danno. In relazione a questi fatti, i giurati dovranno catturare il malfattore e presentarlo alla nostra corte entro 15 giorni; se non lo conducono entro detto termine, saranno i giurati a risarcire il danno a chi lo ha subito e pagheranno 10 soldi ciascuno alla nostra camera.
‹XLII. De qui lavarit prestanza› ‹I›tem ordinamus qui ‹si› alcuna persone, de chaluncha gradu [ove]r istadu siat, at levari de alcuna persone prestança, acomandicia over depido alcuno in credença over in atteru modu, cum carta o sença carta, et non at pagare ad icussu qui ad avir prestadu, acomandadu over fatta credença infra su tempus qui inter issos at essere postu, et ‹de› çiò at essere legitimamenti convinctu, su officiali de cusu logu ad requesta dessu creditore qui at avir a rrecivir deppiat faguere tene et mitere in pregione ad su dittu debitore dae liras III in susu, exceptu si su dittu debitore darit pagadoris assu dittu creditore de ’llu pagare [in]fra [dies VIII: qui in] custu casu no ’llu deppiat mite[r in pregione. Et si non dat] sos dittos pagadores, qui istit in pregione [infini qui at aviri satisfactu su dictu depidu, supta pena ad icussu officiali qui contra faghirit de libras X et de paghari su dictu deppidu dae ssé over daessos benes suos].
XLII. Del prendere in prestito Parimenti ordiniamo che se qualcuno, indipendentemente dal suo rango o stato, prende da altra persona beni in prestito o in accomandigia, o prende a credenza o in altro modo, con o senza un documento scritto, e poi non ripaga chi gli ha fatto il prestito o l’accomandigia o concesso credenza entro il periodo che hanno pattuito, se è dimostrato colpevole di ciò nei modi di legge, l’ufficiale del luogo, dietro richiesta del creditore che avanza pretese, dovrà far catturare e mandare in prigione il detto debitore per cifre dalle 3 lire in su, a meno che questi non offra al creditore mallevadori che garantiscano il pagamento entro 8 giorni: in questo caso non lo dovrà mandare in prigione. Ma se non offre i mallevadori, resterà in carcere finché non abbia soddisfatto il debito. La pena per l’ufficiale che non si attiene a ciò è una multa di 10 lire e il pagamento del debito di suo, ovvero coi suoi beni.
‹XLIII. Qui levarit raigua› [Constituimus et ordinamus qui si alcuna persona si provarit qui avirit levadu] /14v/ raiga o clesura over qui iscungiarit fossadu de alcuna vingna agena over ortu o corte de boes o de atteru bestiamen, a ffura o a palesi, paguit sollos XX et ismendit su dannu
XLIII. Del togliere i pali Stabiliamo e ordiniamo che se qualcuno toglie i pali o la recinzione oppure disfà il fossato di una vigna altrui, o di un orto, o di un recinto di buoi o di altro bestiame, di nascosto o palesemente, se ciò è provato pagherà 20 soldi e riparerà ogni volta il danno. La
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per donnja bolta; dessos qualis dinaris appat su regnum su mesu et issu atteru m[e]su su curadore cun sos jurados. Et issos officialis siant tenudos de pregontare·nde sos jurados per donnja volta ‹qui ’llos debent› pregontare.
metà di quella somma andrà all’erario regio e l’altra metà al curadore e ai giurati. Gli ufficiali saranno tenuti a interrogare riguardo a ciò i giurati ogni volta che li devono sentire.
‹XLIV. De qui accusarit› ‹I›t[em ordinam]us qui si alcuna persone at acussari over denunciare ad alcuna attera persone de alcuno crimini, delictu over maleficiu et si·ll’at provare, no ’ndi siat condempnadu. Et si alcuna persone narrit ad alcuna ‹atera› pe[rsona] “traditore”, siat condempnadu in liras XXV si non ’llu provarit legittimamenti qui esseret traditore.
XLIV. Dell’accusare Parimenti ordiniamo che se qualcuno accusa o denuncia un altro per qualche crimine, delitto o misfatto, portando prove al riguardo, non sarà condannato. Ma se dà del traditore a un altro e non prova l’accusa secondo i modi di legge, sarà condannato a pagare 25 lire.
‹ORDINAMENTOS DE FOGHU›
ORDINAMENTI DEGLI INCENDI
‹XLV.› ‹I›tem ordinamus qui nexuna persone non deppiat nen poçat pone fogu [infini ad passadu sa] festa de santa Maria, qui est a dies octo [de capudanni; et q]ui contra fagui[rit paghit] de maquicia liras [XXV, et ultra so paghit su dampnu q]ui ad [fagher a cui ad esser. Et dae cussa die i]nnantes cascuna [persona pozat ponne foghu a voluntadi sua, guardando·si però non fazat damnu ad atere; et si fagheret damno, paghit pro maquicia libras X et issu dampnu ad cui l’at aver factu]. /15r/ Et ‹si› icussu qui at essere condempnadu in liras X ‹non ad dae chiteu pagare› istit in pregione a volumtadi nostra. Et issos iurados dessa villa hue s’at ponne su foghu siant tenudos de provare et de tenne sos malos factores et de presentare·llos ad sa corte nostra infra dies XV; et si no ’llos tenent et presentant in su suprascriptu tempus, sos suprascriptos jurados cun sos hominis dessa villa tottu paguint pro maquicia, çiò est sa villa manna liras XXX et issa villa picinna liras XV, et issu curadore de cascuna de cussas villas paguit sollos C.
XLV. Parimenti ordiniamo che nessuno dovrà o potrà debbiare sino a che sarà passata la festa di santa Maria, l’8 di settembre; chi contravviene pagherà 25 lire di multa e, oltre a ciò, risarcirà il danno di cui è autore a chi lo ha subito. Da quel giorno in avanti, chiunque ha facoltà di debbiare come ritiene, badando però di non procurare danno ad altri; se lo procura, pagherà 10 lire di multa e risarcirà il danno a chi lo ha subito. Se chi è stato condannato a 10 lire di multa non ha di che pagare, resterà in prigione quanto vorremo noi. I giurati del villaggio in cui è stato fatto l’abbruciamento dovranno raccogliere prove, catturare i malfattori e presentarli alla nostra corte entro 15 giorni; se non li catturano e presentano entro il termine indicato, detti giurati, insieme a tutti gli uomini del villaggio, pagheranno 30 lire di multa, nei villaggi grandi, oppure 15 lire, nei villaggi piccoli, mentre il curadore di qualsivoglia villaggio interessato pagherà 100 soldi.
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Et dessos benes c’ant lassare cussos c’ant essere fuidos si deppiat pagare su dannu ad cui at essere, et issu remanente de cussos benes si deppiat comptare in su pagamentu qui ant faguere sos hominis dessa villa.
Dai beni lasciati da chi è fuggito si dovrà risarcire il danno a colui che lo ha subito, mentre ciò che avanza di detti beni si dovrà computare nella multa che debbono pagare gli uomini del villaggio.
‹XLVI. De ponne fogu in domo› ‹I›tem ordinamus qui si alcuna persone ponneret fogu a domo de ali[cu]no [istu]diossamenti et faguirit danno o non, et est·indi binquidu, siant tenudos sos jurados et hominis dessa villa [de provare et de tenn]e su homi[ni] qui at avir p[ostu su dictu fo]ghu [et de ’llu battiri tentu assa corte nostra; et siat iuighadu] de ’llu [ligare ad unu] palu [et faghere·llu arder. Et si issos iurados et hominis de sa villa non tennerent su homini qui ad aver factu su male, paghint comonalimenti sa villa manna libras C et issa villa pizina libras L. Et de sos benes de cussu homini qui ad aviri] /15v/ postu su foghu si deppiat pagari su dannu c’at avir fattu.
XLVI. Dell’incendiare una casa Parimenti ordiniamo che se qualcuno dà fuoco intenzionalmente alla casa di un altro, procurando o meno danno, e di ciò è riconosciuto colpevole, i giurati e gli uomini del villaggio, raccolte le prove, dovranno catturare il responsabile dell’incendio e condurlo prigioniero alla nostra corte: sarà condannato ad ardere legato a un palo. Se i giurati e gli uomini del villaggio non catturano il malfattore, pagheranno collettivamente 100 lire, nei villaggi grandi, oppure 50 lire, nei villaggi piccoli. Dai beni dell’incendiario si dovrà risarcire il danno procurato.
‹XLVII. De foghu in lavore› ‹I›tem ordinamus qui si alcuna persone poneret foghu istudiosamenti ad lavore mesadu over a messari o ad vingna o ad ortu et est·indi binquidu, paguit pro maquicia liras L et issu dannu at qui ’ll’at avir fattu; et si non pagat issu over attera persone pro sé, seguent·illi sa manu dextra. Et issos jurados siant tenudos de provare et de tenne sos malos fattores ad icussa pena qui narat su suprascriptu capidulu.
XLVII. Degli incendi appiccati ai semineri Parimenti ordiniamo che se qualcuno dà fuoco intenzionalmente a un seminerio mietuto o ancora da mietere, a una vigna o a un orto, ed è riconosciuto colpevole di ciò, pagherà 50 lire di multa e risarcirà il danneggiato. Se non paga, lui o un altro per lui, gli sarà tagliata la mano destra. I giurati dovranno raccogliere prove e catturare i malfattori, altrimenti incorreranno nella pena prevista nel capitolo precedente.
‹XLVIII. De foghu› ‹I›tem ordinamus qui dessu foghu qui s’at ponne in sa villa over in habitacione de cussa qui façat perdimentu siant tenudos sos curadores, cascuno in sa curadoria issoro, et issos officiales qui ant sas ditas villas a ffeu, o ssos armenta‹r›gios o ssos officiales dessas villas issoro d’andare ad aperçare su dannu c’at avir fattu su foghu cun sos megius hominis dessa villa, et benne ad sa corte da inde a
XLVIII. Degli incendi Parimenti ordiniamo, nel caso di un incendio appiccato in un villaggio o nei suoi terreni che abbia provocato rovina, che i curadores, ciascuno nell’ambito della propria curadoria, e gli ufficiali che hanno il villaggio interessato in feudo, o gli armentargios o gli ufficiali dei rispettivi villaggi dovranno recarsi, con gli uomini migliori del luogo, a fare una stima del danno provocato dall’incen-
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dies XV a denunciare·llu ad sa corte nostra, ad pena de pag[ar]e su curadore liras XXV ad sa [corte].
dio; dopodiché, entro 15 giorni, dovranno venire alla corte a darcene denuncia, sotto pena di una sanzione, per il curadore, di 25 lire da versare alla corte.
‹XLIX. De foghu› [Constituimus et ordinamus qui sas villas qui sunt usadas de faghere sa doha pro guardia dessu foghu deppiant·illa fagher sa doha secundu qui fudi usadu per temporale ciaschaduna villa in sa habitationi sua. Et qui] /16r/ no ’ll’at avir fata sa doa pro santu Perdu de lampadas paguit sollos X per homini. Et issa villa qui ’ll’at faguir, façat·illa qui foghu no ’lla bariguit, et si fogu illa barigat et faguit perdimentu paguit sa villa sollos X per homini secundu qui est usadu et issu curadore liras X assa corte. Et si su curadore comandarit a su maiore over jurados et atteros hominis dessa villa de faguir sa dita doa et no ’lla faguint, paguint comunamenti sa pena qui deppiat pagari su officiali et issu officiali siat liberu.
XLIX. Degli incendi Stabiliamo e ordiniamo che i villaggi che hanno uso di fare la doa18 come protezione dagli incendi dovranno provvedere a ciò, ciascuno per i propri terreni, nel periodo loro consueto: quelli, però, che non praticano tale accorgimento entro san Pietro in giugno, pagheranno 10 soldi per ogni uomo. I villaggi che invece adempiono, faranno la doa in modo che il fuoco non la possa oltrepassare; se però la oltrepassa e provoca rovina, i villaggi pagheranno 10 soldi per uomo, come è uso, e il curadore 10 lire alla corte. Se però il curadore comanda al maiore o ai giurati e agli altri uomini del villaggio di fare la doa, ma essi non adempiono, pagheranno collettivamente la sanzione che altrimenti sarebbe a carico dell’ufficiale, e questi ne sarà liberato.
‹ORDINAMENTOS DE CHERTOS E DE NUNZAS›
ORDINAMENTI DELLE LITI E DELLE CITAZIONI
‹L.› ‹I›tem ordinamus qui nixuna femina qui siat over at essere fanti agena de l‹ect›o o qui non siat mugere legittima non ussit nen deppiat levare dae sa domo dessa habitacione qui faguirint impari cun su amigu causa alcuna dessu homini suo contra sa voluntadi de cussu, suta pena de essere condempnada et punida pro fura secundu qui in su capidulu dessas furas si contenit; et siat tenuda ‹de› restituiri sas caussas furadas et levadas. Et simili pena si intendat a su amigu qui levarit contra voluntadi dessa amiga causas suas proprias.
L. Parimenti ordiniamo che nessuna donna che si trovi o si verrà a trovare nella condizione di concubina estranea alla famiglia, o comunque non di moglie legittima, oserà né dovrà portar via dalla casa in cui convive con l’amante cosa alcuna del suo uomo contro la volontà di questi, sotto minaccia di essere condannata e punita per furto nei modi indicati nel capitolo sui furti; dovrà inoltre restituire le cose rubate e sottratte. Una simile pena si applica anche all’uomo che sottrae cose di proprietà della sua amante contro la volontà di questa.
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‹LI. Testamentos› [Volemus et ordinamus, considerando su grandu defectu et manchamentu qu’est de notare in sa isula de Sardigna, non sola-] /16v/ menti in sas citadis, terras et logos ‹murados› mas ancora plus in sas villas de foras, et qui pro cussu deffettu enti podere mancare multas bonas et pias caussas qui si lassant et faguint per issos testadores in sa fini issoru, bolemus et ordinamus, ad çiò qui totas bonas et pia‹s› caussas ‹non romangiant senza mandare·si ad› execucione, qui ’ssos testamentos qui s’ant faguer per algunas persones in sa fini issoru bagiant, tengant et appant valore et effectu, comente e qui esserent fatos per manus de nodaiu, dumodo qui ’ssos testamentos siant fattos in forma debita e per manus dessu capellanu dessa villa over scrivanu publicu dessu officiale dessa contrada, si avir si podet. Et in casu qui su dittu capellano over scrivano non se poderent avir assu bisongiu, bolemus qui si poçat faguir per manus de alcuno scrivano dessu logu in presencia de VII o de V testimongios prossu minus.
LI. Testamenti Considerata la grande penuria e l’insufficienza di notai nell’isola di Sardegna, non soltanto nelle città, terre e luoghi cinti da mura, ma ancor più nei villaggi periferici, e considerato come, in ragione di detta penuria, possono venire a mancare molte buone e pie disposizioni che i testatori lasciano e danno in punto di morte, vogliamo e ordiniamo, affinché ogni disposizione buona e pia non resti priva di compimento, che i testamenti redatti da qualcuno in punto di morte varranno, conseguiranno e avranno valore ed effetto, come se fatti da mano di notaio, purché siano stati redatti in forma debita e per mano del cappellano del villaggio, oppure dello scrivano pubblico dell’ufficiale della contrada, se disponibili. Nel caso che detti cappellano o scrivano non siano disponibili al bisogno, vogliamo che si possano redigere per mano di uno scrivano del luogo in presenza di 7 o, come minimo, 5 testimoni.
‹LII. De corona› ‹I›tem ordinamus qui cussa persone c’at essere mandada cun nunça dae corona de Logu o dae corona de quida de berruda pro domo o pro ffundamentu o pro alcuna possessione, siat postu a jurare per issu curadore c’at reere sa corona qui det sa nunça be‹ne› e lealimenti. Et poscha baat et det sa nunça in [presentia] de tres bonos hominis dessa villa ad icussu homini [at que si manda]t, si ’llu acatat in per[sona: et si sa dicta nunza si·li dat in persona, deppiat bennere assa corona ad icussu termen qui si·loi ad contenni. Et si per adventura non lu acatat in persona, det sa nunza in sa domo hui at torrari, si ’loi acatat] /17r/ alcuno homini habitanti, in presencia de tres bonus hominis dessa villa over de duos: et deppiat benne ad corona dae sas VIII dies a XV pro respondere ad icussa persone qui ’ll’at avir mandadu sa nunça. Et issu homini c’at portare sa suprascripta nunça deppiat torrare
LII. Della corona Parimenti ordiniamo che il messo inviato dalla corona de Logu o dalla corona de chida de berruda a notificare una citazione per una casa, un fondo o una proprietà, sia fatto giurare, dal curadore che presiede la corona, che comunicherà la citazione correttamente e senza inganni. Indi, alla presenza di tre probi uomini del villaggio, andrà a notificare la citazione al convenuto, se lo trova di persona: se la citazione è comunicata personalmente all’interessato, questi dovrà recarsi alla corona entro il termine ivi fissato. Ma se per caso non lo trova di persona, consegnerà la citazione nella casa dove farà ritorno, ammesso che vi trovi qualcuno che vi abita, alla presenza di tre probi uomini del villaggio, o almeno di due: il convenuto dovrà recarsi alla corona, entro un periodo di tempo compreso fra gli 8 e i 15 giorni, per rispondere alla persona che lo ha citato. Il messo notificatore dovrà tornare alla corona per far registrare
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ad corona a ffaguir scriviri in quiteu modu at avir dada sa nunça suprascripta, et si non torrat siat condempnadu de pagari sollos XX ad sa corte et non siat preiudicio dessas partis. Et torrit et mandit·illi nunça dae nou sas tres boltas in su modu qui est naradu de supra. Et si cussu homini a c’at essere mandada sa nunça tres boltas non benneret ad corona ad issos terminos qui sunt narados de supra, deppiat·si mintiri in possessione de cussa caussa over possessione qui ’ll’at avir mandadu nunça, et reat et guardet·si·lla finna ad uno annu cussu qui at avir mandadu sa nunça. Et si in custu anno non beneret ad respondere et deffender·si dessa nunça qui ’ll’at essere mandada, appat binta cussa causa over possessione cussu qui at avir mandadu sa nunça et siat sua propria. Et ‹si› cussu homini a c’at essere mandada sa nunça benneret dintru cussu anno et bollet·illi pagare tottu sa spessa c’at avir fattu in su suprascriptu xertu, siat tenudo su curadore de ffaguire·lli [torrare sa possession]e qui ’lli fudi levada et i[nte]nd[ere] rexone [at ambas partis, et dae ca ad esser deffinidu su chertu cussa possessioni deppiat dari ad icussa persona qui l’adi avire binchidu de raxioni. Et issas ispendias qui ant esser factas per issas partis, cussu c’at perdere] /17v/ depiat satisfaguiri ad igussu qui at binquidu secundu qui at parri ad su armentargiu nostru de Logu over officiali qui ’ndi reeret ragione, cun sagramentu de cussu qui at avir fattos sos spendios. Et dessu fructu c’at avir fattu daessu die c’at avir appida sa possessione infini ad icussu die qui ’ll’at avir torrada non siat tenudo de ’ndi ffaguir restitucione alcuna.
la modalità con cui ha compiuto la citazione in questione: se non torna, sarà condannato a pagare 20 soldi alla corte e non vi sarà pregiudizio per le parti. Dovrà quindi tornare a notificare di nuovo la citazione all’interessato tre volte nel modo sopra indicato. Se la persona citata già per tre volte non si reca alla corona entro i termini previsti sopra, si dovrà attribuire il possesso del bene o della proprietà in questione a colui che ha richiesto il decreto di citazione, che dovrà amministrarlo e custodirlo sino a un periodo di un anno. Se entro tale periodo il convenuto non si reca a rispondere e a difendersi in relazione a ciò per cui è stato citato, colui che ha richiesto il decreto di citazione vincerà in giudizio e acquisirà il bene o la proprietà. Se invece la persona citata si presenta entro l’anno e accetta di rifondere all’altra parte le spese sostenute per la lite, il curadore dovrà fargli restituire la proprietà postagli sotto sequestro; indi dovrà ascoltare in giudizio entrambe le parti e, una volta definita la lite, attribuire la proprietà a chi la ha vinta in giudizio secondo diritto. Riguardo alle spese sostenute dalle parti, chi soccombe in giudizio dovrà rifondere chi vince, nella misura che parrà al nostro armentargiu de Logu o ufficiale che amministra giustizia in base al giuramento di chi ha sostenuto le spese. I frutti ricavati dal momento in cui la proprietà è stata ricevuta in custodia a quello in cui è stata resa non dovranno essere restituiti.
‹LIII. De nunza de corona› ‹I›tem ordinamus qui si alcuna persone ‹a› c’at essere mandada nunça dae corona de Loghu o dae corona de quida de berruda o dae corona de potestadi o dae alcuna attera corona de cussas qui sunt naradas de supra pro alcuna causa, et non at benne ad corona ad su termen qui s’at contenne in sa nunça, non deppiat perdere su chertu ‹a minimanza› ni prossa prima ni prossa secunda, ma
LIII. Delle citazioni dalle coronas Parimenti ordiniamo che se qualcuno, cui per qualche motivo è stata notificata una citazione dalla corona de Logu, dalla corona de chida de berruda, dalla corona de potestadi o da qualche corona diversa da quelle menzionate sopra, non si presenta in tribunale entro il termine fissato nella citazione, non dovrà perdere la lite per contumacia qualora si tratti della prima o della seconda notifica.
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satisfaçat su spendio c’at avir ‹factu cussa persona c’at avire› mandadu sa ditta nunça et siat condepnadu et paguit ad sa camara nostra per ciaschaduna volta qui ’ll’at essere mandada sa ditta nunça dinaris VI per lira, prossa primargia; et torre‹n›t·illi a man[dari nunza, et pro sa secunda nunza qui l’at esser mandada et non at benne paghit dinaris XX per lira et satisfazat su spendiu simigiantimenti. Et anchu si·li mandint nunza, et si] /18r/ a sa terça bolta non benit perdat cussu chertu a minimança, secundu sa usança antiga. Et simigia‹nti›menti si intendat prossu terramangessu a qui at mandare nunça sardu et guasi prossu sardu ‹a› c’at mandare nunça su terramangessu. Et qui cussa persone qui non at benner assas suprascriptas nunças bolleret faguir deffença sua pro qui non potçit bene ‹assu tempus›, siat intessidu ad regione, ‹et› si mostrat legittima scussa pro sa quali non potçit benne non li siat prejudiciu si non satisfaguir su spendiu ad icussa persone qui ’ll’at avir mandada sa nunça.
Dovrà però rifondere le spese sostenute da chi ha richiesto il decreto di citazione e sarà condannato a pagare una multa alla nostra camera per tutte le volte in cui gli è stata notificata detta citazione: 6 denari per lira la prima volta; comunicatagli poi una nuova citazione, in caso di mancata comparizione in seconda notifica, pagherà 20 denari per lira e rifonderà similmente le spese. Gli sarà inviata ancora una citazione e, se per la terza volta non si presenta, perderà la lite per contumacia, secondo l’antica consuetudine. La stessa cosa vale per i continentali citati da sardi e per i sardi citati da continentali. Se la persona che non compare in ottemperanza ai decreti di citazione vuole difendersi, illustrando le ragioni per le quali non ha potuto presentarsi entro i termini, sarà ascoltata in giudizio e, se esibisce impedimenti legittimi a causa dei quali non ha potuto comparire, non avrà pregiudizio e dovrà soltanto rifondere le spese a chi ha richiesto il decreto di citazione.
‹LIV. Corona› ‹I›tem ordinamus qui si alcuna persone mandarit nunça dae corona de curadore pro larga o pro alcunu atteru mali c’at avir fattu, si ’lli acatat nunça et non benit a sa nunça primargia et partit·si pro paura ch’edi aviri, torret et mandit·illi nunça. Et si no ’llu acatat a dare·lli sa nunça, det sa nunça a sa domo in presencia de tres homines dessa villa, si ’lloi acaptat alcuno habitanti. Et si non benit a su XV siat binxidu.
LIV. Corona Parimenti ordiniamo che, nel caso qualcuno richieda di notificare una citazione dalla corona del curadore per un furto o qualche altro misfatto che è stato commesso, se si fa pervenire all’interessato la citazione, ma questi non compare in prima notifica e anzi fugge per timore di essa, il messo tornerà a notificare una nuova citazione. Se non trova l’interessato per consegnargliela, alla presenza di tre uomini del villaggio lascerà la notifica nella casa di lui, sempre che vi trovi qualcuno che vi risiede. Se il citato non compare entro 15 giorni, sarà riconosciuto colpevole.
‹LV. Nunzas› [Constituimus et ordinamus qui sas dictas nunzas qui s’ant] /18v/ mandare dae corona de Logu o da‹e› corona de quida de berruda o dae atera corona de alcuno atteru officiali si deppiant
LV. Citazioni Stabiliamo e ordiniamo che le citazioni emesse dalla corona de Logu, dalla corona de chida de berruda o dalla corona di altro ufficiale dovranno essere registrate nel cartolario e lette agli uomini liberi
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faguir scriviri in su cartolaiu et leere ad sos lieros c’ant essere in sa corona, ‹et factu ciò exemplare sas dictas nunzas dae su cartolaiu et dare·llu in sa corona› ad icussa persone qui ’ll’at bolle portare o debere, et faguendo·ndi faguir cussa solempnidadi qui si contenet in su primu capitulu dessas nunças.
che si troveranno nella corona. Ciò fatto, si trarrà copia della citazione dal cartolario e la si consegnerà, nella corona, a colui che vorrà o dovrà notificarla, facendogli compiere quegli atti formali descritti nel primo capitolo sulle citazioni.
‹LVI. De iscrianos› ‹I›tem ordinamus qui ’ssos scrivanos c’ant essere in sas coronas deputados ad iscrivir sos quertos qui s’ant faguer deppiant essere costrictos qui scrivant ordinadamenti su narri dessas partis, et posca c’ant avir fattas sas scripturas illu deppiant leere sentendo sas partis et issos lieros c’ant essere in sas coronas pro juigari. Et fattu çiò, su armentargiu nostru de Logu over alcuno atteru officiali nostru qui reeret corona deppiat pesare sos lieros dessa corona a juigare secundu qui est usadu, et faguir ind’at cussu qui ’nd’at acaptari de regione qui faguir si·ndi deppiat.
LVI. Degli scrivani Parimenti ordiniamo che gli scrivani presenti nelle coronas col compito di verbalizzare le liti che vi si svolgono dovranno essere obbligati a registrare ordinatamente le dichiarazioni delle parti e, una volta eseguita la verbalizzazione, dovranno darne lettura sentendo le parti e gli uomini liberi presenti nelle coronas come giurati. Ciò fatto, il nostro armentargiu de Logu, ovvero altro nostro ufficiale che presieda la corona, dovrà chiamare gli uomini liberi della corona a giudicare, secondo l’uso, e dovrà disporre ciò che troverà secondo diritto doversi disporre.
‹LVII. De possessione› [Volemus et ordinamus qui si alcuna persona avirit et p]ossed[erit] d[omo o fundamentu alcuno pacificamenti et alcuna persona si·lu] /19r/ levarit sença sa justicia, et icussu homini ad qui esseret levada indi faguirit lamentu assu officiali, cussu officiali ad qui su dittu lamentu s’at faguir siat tenudu de ’lli faguir restituiri et torrari a dari cussa caussa de qui s’at essere lamentadu qui ’lli at essere levada sença sa justicia, si acaptat qui siat gassi, et condenare·llu de pagare ad sa camara nostra liras X. Et posca intendat regione ad ambas partis.
LVII. Delle proprietà Vogliamo e ordiniamo che se qualcuno ha e possiede in modo pacifico una casa o un fondo e questo gli viene sottratto da un altro senza aver fatto ricorso alla giustizia, se il proprietario spossessato presenta querela di ciò all’ufficiale, l’ufficiale che riceve la querela, ove accerti che le cose sono andate in questo modo, dovrà far restituire indietro il bene del quale si denuncia la sottrazione senza il ricorso alla giustizia. Dovrà inoltre condannare il sottrattore al pagamento di 10 lire alla nostra camera. Indi ascolterà in giudizio entrambe le parti.
‹LVIII. De mandare nunza› ‹I›tem ordinamus qui siat liçitu a cascuna persone ad bollere mandari nunça qui la mandet dae corona de Logu over dae corona de chida de berruda in alcuna parti, pagando su missu qui l’at
LVIII. Dell’inviare citazioni Parimenti ordiniamo che sia lecito, a chiunque voglia richiedere un decreto di citazione, farlo emettere dalla corona de Logu o dalla corona de chida de berruda e farlo pervenire in una data località,
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portari ad arbitriu dessu armentargiu nostru de Logu et dessos atteros officialis in sos officios issoro. Et donnja atteru inpendiu qui s’ant faguir in sos chertos si deppiant satisfaguir dae cussa parti c’at perdere ad sa parti qui at binchiri, attassando sos ditos ispendios su [armentargiu] nostru [de Loghu c’at esser over attero officiali qui at tenne sa iusticia pro nos et faghendo iurare sa parti c’at deber recivere] /19v/ su satisfaimentu dessu spendiu.
purché paghi il messo notificatore nella misura stabilita dal nostro armentargiu de Logu e dagli altri ufficiali nell’àmbito delle proprie mansioni. Ogni altra spesa sostenuta nelle liti dovrà essere rifusa dalla parte che soccombe alla parte vincitrice; fisserà l’ammontare di dette spese il nostro armentargiu de Logu che vi sarà, ovvero altro ufficiale che amministrerà giustizia per conto nostro, che dovrà anche far giurare per l’avvenuto risarcimento delle spese la parte che lo percepisce.
‹LIX. De inprestanza› ‹I›tem ordinamus qui dessu deppidu over prestança o acumandicia qui faguint s’unu homini ad s’ateru et compelet·indi a chertu et binquit·inde·llu, paguit·‹illu ad e›cussu qui l’at avir binquidu, et anchu paguit ad sa corte nostra dessu c’at muntari su chertu, çiò est dessa acumandicia de IIII una et dessu prestidu de V una.
LIX. Dei prestiti Parimenti ordiniamo, in relazione a un debito, un prestito o un’accomandigia che si pone in essere fra due individui e per cui uno trascina l’altro in lite e lo sconfigge in giudizio, che il soccombente dovrà rimborsare il vincitore e dovrà pure pagare alla nostra corte in relazione all’ammontare del valore per cui si contende, e precisamente: nella misura di un quarto dell’ammontare dell’accomandigia e di un quinto dell’ammontare del prestito.
‹LX. De qui esseret binchidu› ‹I›tem ordinamus qui su chertu c’at essere binquidu in corona dessu curadore et issu homini c’at essere binquidu si·ndi andarit ad attera curadoria, bengat su homini c’at avir binquidu su chertu daenanti dessu curadore hui at avir chertadu et fassat·illi faguir, su dittu curadore, litera dae corona; et andit cun sa litera daenanti dessu curadore hue at istari cussu binquidu, et façat·illu pagare [de su suo, si ’llu] acaptat. Et si su curado[re] no ’llu faguirit [paghare achaptando·li dessu suo, fazat·illu paghare] su [armentargiu nostru de Loghu de cussus benes de cussu curadore] /20r/ c’at essere stadu negligente, et eciam illi façat pagare liras XV pro maquicia.
LX. Del soccombere in giudizio Parimenti ordiniamo che, nel caso qualcuno abbia vinto una lite presso la corona del curadore ma il soccombente si sia rifugiato in un’altra curadoria, colui che ha vinto in giudizio si recherà dal curadore presso il quale si è svolta la lite, e questi gli farà preparare una lettera dalla corona; con la lettera si presenterà al cospetto del curadore del luogo in cui si trova il soccombente e tale curadore lo farà pagare del suo, trovandolo. Nel caso il curadore non lo faccia pagare trovandogli del suo, allora il nostro armentargiu de Logu farà soddisfare le pretese del vincitore dai beni del curadore che si è mostrato negligente, facendogli inoltre versare 15 lire di multa.
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‹LXI. De iurari› ‹I›tem ordinamus qui si alcuno homini at chertare e ponne ill’ant a jurare in cruxi de credença, bengat a jurare in manus dessu officiali qui at reere corona et ‹non› deppiat iurare in cruxi de credença: et icussos litigantes non appant a canpaniari·si impari sença sa justicia, si non daenanti dessu officiali. Et si si campaniant, paguit su chertadore ad sa corte nostra liras X et boe uno ad su curadore; et si dessu chertu portat a pagare·ndi maquicia assu regnu, paguit·illa cullu qui debet jurare quali et qui esseret binquidu. Et çiò si intendat in caussas criminalis.
LXI. Del giurare Parimenti ordiniamo che se qualcuno promuove una lite e [all’accusato] viene richiesto il giuramento sulla croce di credenza19, verrà piuttosto a giurare nelle mani dell’ufficiale che presiede la corona e non dovrà giurare sulla croce di credenza: i contendenti non potranno accordarsi fra loro in via extragiudiziale, ma soltanto al cospetto dell’ufficiale. Se però si accordano, l’attore verserà 10 lire alla nostra corte e un bue al curadore; e se la lite comporta il pagamento di una multa all’erario regio, la verserà colui che deve giurare come se fosse stato sconfitto in giudizio. Questo vale per le cause criminali.
‹LXII. De chertadore› ‹I›tem ordinamus qui su homini c’at dimandari chertadore non siat tenuda sa corona de ’nde·lli dare, salvu si [su homini boleret esser chertadore a voluntade et plaguere suo. Et niente de minus bolemus qui si depiat dare chertadore] /20v/ ad clesias ‹et› logos religiossos qui non ant avir armentargius issoro.
LXII. Degli avvocati Parimenti ordiniamo che se qualcuno fa richiesta di un avvocato, la corona non sarà tenuta ad assegnarglielo, a meno che l’avvocato voglia accettare liberamente l’incarico. Tuttavia, vogliamo che si assegni un avvocato a chiese e luoghi religiosi che non avranno un proprio armentargiu.
‹LXIII. De chertu› ‹I›tem ordinamus qui a su homini c’at chertare o qui a‹n›t bollere chertare in corona non li dent pro consigiu plus de unu homini, et icussu qui l’ant consignare et dare non siat nen deppiat essere juiganti in cussu chertu.
LXIII. Delle liti Parimenti ordiniamo che, alla persona che muove una lite o alla quale si vuole intentare una lite in corona, non sarà assegnato, per assistenza, più di un avvocato; colui cui sarà affidato non sarà né dovrà essere giudice in quel processo.
‹LXIV. De turmentu› ‹I›tem ordinamus qui alcuno homini dessu regnu nostru de Arbarê qui siat de bona fama non deppiat essere postu a tormentu pro alcuno chertu qui ’lli esseret fattu de fura. Ma bolemus et comitimus ad su armentargiu nostru de Logu et assos officialis qui de çiò et supra çiò reerent corona, cun sos lieros c’ant essere in sa corona, qui si cussu homini a qui ant faguir
LXIV. Del torturare Parimenti ordiniamo che nessun uomo del nostro Regno di Arborea che goda di buona reputazione potrà essere messo sotto tortura per una lite che è stata mossa contro di lui con un’accusa di furto. Al contrario, vogliamo e comandiamo al nostro armentargiu de Logu e agli ufficiali che presiederanno la corona a ciò deputata, con
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su chertu de ffura est homini de mala fama qui si poçat mintiri a tormentu, et non in atteru modu. Ma bollemus, si ‹est de bona fama et si› non est binquidu ‹a testimongios›, antis siat postu a jurare in podere [dessu] officiali et siat liberadu dessa ditta causa o chertu.
i liberi che si troveranno nella corona, che, se l’uomo contro cui è stata mossa la lite per furto ha cattiva reputazione, potrà essere messo sotto tortura, e non altrimenti. Ma vogliamo che, se gode di buona reputazione e non è riconosciuto colpevole attraverso testimoni, prima sarà chiamato a giurare presso l’ufficiale e quindi sarà mandato libero dalla causa o lite.
‹LXV. Quida de berruda› /21r/ ‹I›tem ordinamus qui ’ssos curadoris et officialis dessas contradas siant tenudus de ffaguir sa quida de berruda in persone issoro et de reere sa corona ad su minus cun hominis V dessu officiu suo. Et si bennere‹n›t a minus paguit su curadore prossa negligencia sua ad sa corti nostra sollos C et cascuno homini de cussos qui ’loi ant essere et c’ant mancari sollos XX per homini.
LXV. Chida de berruda Parimenti ordiniamo che i curadores e gli ufficiali delle contrade dovranno tenere personalmente la chida de berruda, presiedendo detta corona con 5 uomini del loro ufficio, come minimo. Se vi si recano in meno, il curadore verserà alla nostra corte 100 soldi per la sua negligenza, gli altri componenti che risulteranno assenti 20 soldi per ciascuno.
‹LXVI. De qui s’at a clamari pro fradis ultramare› ‹I›tem ordinamus qui su homini a c’ant chertari et clamari s’at pro fradis de ultramari, pongiant ad noe messes, et si mostrat veridadi infra dies VIII, si sunt in Arbarê ‹over› in corona, qui ’loi at avir in ultramari fradi o fradis suos c’apant parti in cussu pro qui ’llu chertant, si sos testimongios sunt intro de Arbaree, et si sunt in atteru logu dessa issula de Sardigna infra dies XV. Et si non mostrat et non respondet siat binquidu. Et icussu istissu siat pro su homini a c’ant chertare et pretendere s’at pro fradis qui ant [esser in ter]rafirma: et siat postu ad bator [meses a batiri·nde su fradi o fradis de terrafirma].
LXVI. Dell’eccepire a motivo di fratelli che si trovino oltremare Parimenti ordiniamo che se a qualcuno viene mossa una lite ma egli eccepisce a motivo di fratelli che si trovino oltremare, gli sarà dato un termine di 9 mesi, nel caso dimostri entro 8 giorni la fondatezza della richiesta – ossia che oltremare c’è un suo fratello o suoi fratelli che abbiano interesse nei fatti per cui è chiamato a rispondere –, se i testimoni addotti a conferma si trovano all’interno dell’Arborea ovvero in corona; nel caso però siano in un’altra regione della Sardegna, entro 15 giorni. Se ciò non dimostra e non risponde, sarà sconfitto in giudizio. La stessa cosa vale per colui cui viene mossa una lite ma reclama a motivi di fratelli che si trovino sulla terraferma20: gli sarà concesso un termine di 4 mesi entro il quale far arrivare il fratello o i fratelli dalla terraferma.
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Ajun[ghendo qui cussu a qui ad esser chertadu deppiat respon-] /21v/ dere pro sa parti sua; et pross’attera parti, qui at allegare qui ’lloi appat parti alcuno fradi suo qui siat in sos suprascriptos logos o in alcuno de cussos, cussa parti istet pendenti infini ad ispeirare su tempus supra ordinadu.
Aggiungendo a ciò che la persona cui viene mossa la lite dovrà rispondere per la sua parte; circa la restante parte, riguardo alla quale allega che debba rispondere un suo fratello che si trova nei luoghi predetti o in alcuno di essi, su di essa il giudizio rimarrà pendente sino allo scadere del termine sopra previsto.
‹ORDINAMENTOS DE PRESCRIPTIONES E DE POSSESSIONES›
ORDINAMENTI DELLE USUCAPIONI E DELLE PROPRIETÀ
‹LXVII.› ‹I›tem ordinamus qui si alcuna persone o personis avirint tenuda et possedida cun iustu titulu alcuna possessione dessu regnu per ispaciu de annos L et possessione de ecclesia per ispaciu de annos XL et possessione ‹de› alcuna attera persone per ispaciu de annos XXX, et non ’lli esserent dimandadas infra sos dittos tempos, siant pegugiare issoro. Et icussos qui si·ndi faguiant et credent essere popillos de cussas talis possessiones qui no ’llas ant aviri dimandadas infra sos dittos tempos, inde siant in tottu privados et romangiant ‹liberas et ispeditas ad cussos qui ’llas ant aver possedidas› pacificamenti per tottu sos dittos tempos. Et icussa prescripcione de tempus non si intendat et non prejudiquit a sos orfanos et minores qui non ant avir tempus de dimandari sas ragiones issoro.
LXVII. Parimenti ordiniamo che se una o più persone hanno avuto in possesso con giusto titolo qualche bene immobile del patrimonio regio per un periodo di 50 anni, o della Chiesa per un periodo di 40 anni, o di qualche altro soggetto per un periodo di 30 anni, ed esso non è stato reclamato loro in quell’arco di tempo, detto bene passerà in loro proprietà. Coloro che si facevano e si credono proprietari del bene immobile, ma non lo hanno reclamato entro i termini indicati, ne saranno spossessati completamente ed esso resterà nella libera disponibilità di chi lo ha posseduto pacificamente in quel lasso di tempo. L’usucapione, tuttavia, non si avvererà e non pregiudicherà le aspettative degli orfani e dei minori, che così non avranno scadenze per reclamare i propri diritti.
‹LXVIII. De qui possiderit› [Item ordinamus qui si alcuna persona cum iustu titulu possederit] /22r/ alcuna causa mobili per ispaciu de annos IIII sença inde·lli essere facta questione, qui passadu su dittu tempus no ’nde·lli poçat essere fata plus quistione. Et icustu capitulu non prejudiquit ad su capitulo de supra.
LXVIII. Del detenere un possesso Parimenti ordiniamo che se qualcuno ha posseduto con giusto titolo un bene mobile per un periodo di 4 anni senza che gli sia stato conteso, trascorso detto termine esso non gli potrà più essere conteso. Questo capitolo fa salvo il contenuto del precedente.
‹LXIX. De testimongius› ‹I›tem ordinamus qui si alcuna persone chertarit ad attera pro alcuna causa et provat per carta over per testimongios cussa causa
LXIX. Dei testimoni Parimenti ordiniamo che se qualcuno entra in lite con un altro per qualcosa e dimostra con documento o testimoni ciò per cui
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pro qui chertarit, over qui ’ndi esseret confessu, deppiat essere pagadu integramenti de cussu pro qui at avir chertadu et binquidu per carta over per testimongios o per confessione, et non deppiat issu jurare affattu dessos testimongios. Et si cussos testimongios qui avirit clamados non binquirint cussu chertu, ad icussu homini ‹a› c’at avir chertadu non siat dadu sagramentu. Et satisfaçat su spendio sa parti qui at perdere a sa qui at binquiri, secundu qui est ordinadu exceptu sagramentu de calumpnia, qui si poçat dari a cascuna dessas partis quando siat requestu in su pri‹n›cipiu dessa questione et contestada sa lide.
contende, ovvero l’altro rende confessione, dovrà essere risarcito integralmente di ciò per cui è entrato in lite e ha vinto grazie al documento o ai testimoni o alla confessione, ed egli non dovrà giurare dopo i testimoni. Se i testimoni che ha fatto convocare non sono sufficienti per vincere la lite, alla parte convenuta non sarà imposto il giuramento. La parte soccombente pagherà le spese alla parte vincente, seguendo quanto è prescritto salvo che per il giuramento di calunnia, che si potrà imporre a entrambe le parti quando giunga richiesta al principio del procedimento, dopo la contestazione della lite.
‹LXX. De chertus› [Constituimus et ordinamus qui si alcunu homini c’at chertari s’unu cum s’atero] /22v/ et pone illu ant a sagramentu, si si pesat alcuno homini a chertari pro parti de cussu qui at essere postu a sagramentu, non siat tenudu de ’lli respondere infini qui at essere spigiadu cussu chertu qui at avir, excepto per ‹via› de reconvencione, sa quali reconvencione si ffaçat innanti qui sa lidi siat contestada.
LXX. Delle liti Stabiliamo e ordiniamo che se un uomo cita in giudizio un altro e questi viene messo a giurare, se qualcuno si leva per promuovere un’azione per conto della parte cui è stato richiesto di giurare, [l’altro] non sarà tenuto a rispondergli sintantoché non sarà disbrigata la lite che ha in corso, se non in via di riconvenzione, a condizione che la domanda di riconvenzione giunga prima della contestazione della lite.
‹LXXI. Forma de corona› ‹I›tem ordinamus qui sos officiales nostros et curadores et majores, cascuno in sa curadoria, majoria et officio issoro, non deppiant reere corona cun minus de hominis V. Et icussa persone c’at chertari et clamari testimongios, clamid·indi a volumptadi sua infini a X et non plus, et façat·illos iscrivir a su scrivano de corona innanti qui sa corona hue at chertare si lasit, salvu si non si recordarit dessus nominis dessus testimongios et dimandarit tempus ad recordari·si·ndi: qui tando
LXXI. Forma della corona Parimenti ordiniamo che i nostri ufficiali, curadores e maiores, ciascuno nell’àmbito delle proprie mansioni, dovranno presiedere la corona con non meno di 5 uomini. Colui che, muovendo una lite, chiede la convocazione di testimoni, ne potrà far comparire, a sua discrezione, sino a 10, non di più; li dovrà far registrare dallo scrivano di corona prima che si sciolga la corona presso la quale si terrà il dibattimento. A meno che non rammenti i nomi dei testimoni e domandi tempo per fare me-
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su officiali illi det tempus de clamare·llos et denomenare·llos, et ateramenti non si·nde·lli recivirit alcuno. Et bollemus qui non clamit nen poçat clamari homini peruno pro testimongio qui non appat annus XVIII complidos, et si ’llu clamat non li siat dadu nen siat cretidu pro testimon[gio. Et si a]lcuna persone cl[a]ma[rit pro testimonio qualicuna sorasta qui non esseret in Sardigna per via de cavillatione et fugimentu de tempus, et i ssu tempus qui] /23r/ ’lli at essere asignadu daessu officiali qui teneret ragione non provarit per icussos, paguit de pena liras XXV, et issas ispesas, dannos et interesses paguit assa parti cun qui avirit sa quistione. Et issos testimongios qui at clamari pongiant a jurare su curadore over atteru officiali c’at reere corona bene et diligentimenti in presencia de ambas partis, si ’lloi podent e bollent essere; et poscha su curadore over atteru officiali et issu scrivano de corona cun atteros tres hominis illos deppiant examinare et pregontare secretamenti uno ad uno, qui non ixiat s’uno dess’atteru et qui non los intendat alcuna dessas partis, et faguir scrivir su narre issoro. Et pregontados qui ant essere, su scrivano ‹de› corona leat et publiquit su c’ant avir naradu sos testimongios in presencia dessu curadore et dessos hominis qui ant essere in sa corona essendo illoi ambas partis, si essere illoi podent et bolent. Et lesidu c’at avir su scrivanu su narri dessos testimongios, su curadore ‹over› officiali qui at reere sa corona deppiat pregontari cussa parti incontra qui ant essere clamados sos ditos testimongios, si bollet oppone o narre alcuna caussa contra sas persones issoro et contra su qui ant avir naradu et testificadu. Et si bollet oppone o narre alcuna caussa qui pargiat racionabili et justa, siat intesidu dandu·illi termen de dies VIII at [oppone et provar]i cussu [qui at boler narre et] opponere. [Et si custas causas qui at averi oppostu] provat, cuss[u] testimongio contra qui at aviri /23v/ opostu over su dittu suo non siat cretidu, et issu curadore qui at reere sa ditta corona peset ad juigare sos lieros dessa corona pro 72
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moria: in questo caso, l’ufficiale gli concederà il tempo di farli convocare dichiarandone i nomi, altrimenti non gliene sarà accordato alcuno. Vogliamo altresì che non faccia convocare né possa far convocare per testimone alcuna persona che non abbia 18 anni compiuti; se tuttavia la chiama, non gli sarà accordata né sarà creduta nella sua testimonianza. Se qualcuno chiede la convocazione in qualità di testimone di una cugina, poniamo, che non si trova in Sardegna, al solo scopo di cavillare e tirarla alle lunghe, e grazie a essa, entro il periodo concessogli dall’ufficiale che amministra giustizia, non prova le sue asserzioni, pagherà 25 lire di multa insieme alle spese, i danni e gli interessi alla parte con cui ha litigato. Il curadore, ovvero altro ufficiale che presiede la corona, farà giurare i testimoni convocati bene e diligentemente, in presenza di entrambe le parti, se potranno e vorranno assistere; indi, il curadore, ovvero altro ufficiale, e lo scrivano di corona con altri tre uomini li dovranno esaminare e interrogare in segreto uno per uno, in modo che l’uno non sappia dell’altro e che le parti non li ascoltino, e dovranno far verbalizzare le loro dichiarazioni. Interrogatili, lo scrivano di corona leggerà e darà pubblicità alle dichiarazioni dei testimoni in presenza del curadore, degli uomini che si troveranno nella corona e, se possono e vogliono assistere, di entrambe le parti. Una volta che lo scrivano avrà letto le dichiarazioni rese dai testimoni, il curadore, ovvero l’ufficiale che presiede la corona, dovrà sentire la parte contro la quale sono stati convocati i testimoni, per vedere se vuole opporre o dichiarare qualche fatto contro le loro persone o contro ciò che hanno deposto e testimoniato. Se vorrà opporre o dichiarare qualche fatto che paia ragionevole e giusto, sarà ascoltata, concedendole un termine di 8 giorni per addurre e provare ciò che intende controargomentare. Se prova ciò che ha controargomentato, il testimone contro il quale ha fatto opposizione ovvero le sue dichiarazioni non saranno creduti; il curadore 73
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su dittu et testificacione dessos atteros testimongios, et icussu qui ant juigari sa majori parti dessos lieros façat scrivir ad su scrivano dessa corona et mandet·illu ad execucione. Et issos lieros et juigantis qui ant essere in sas coronas siant tenudos de juigare et de narre bene et lealimenti in consiencia dessas animas issoro sa megius ragione et justicia qui ’nde·llis a pparri, non juigando però contra a sa Carta de Logu. Et si iuigarint contra su capitulu de Carta de Logu scientimenti, non bagiat nen tengat su juigamentu issoro et siant condempnados cussos qui contra iuigarint in liras V per homini per ciascaduna bolta.
che presiede la corona chiamerà i liberi della corona a giudicare in relazione alle affermazioni e alla deposizione degli altri testi, e farà verbalizzare allo scrivano di corona, mandandolo a esecuzione, ciò che delibererà la maggior parte dei liberi. I liberi e i giurati che si troveranno nelle coronas dovranno giudicare bene e lealmente, in coscienza delle loro anime, amministrando giustizia per il meglio che parrà loro, senza però operare mai contro la Carta de Logu. Se, tuttavia, giudicheranno deliberatamente contro il dettato della Carta de Logu, il loro verdetto non avrà valore e coloro che avranno giudicato contravvenendo a essa saranno condannati al pagamento di 5 lire ciascuno per ogni volta.
‹LXXII. De sos iuighantes› ‹I›tem ordinamus qui nexuno procuradore ne advocadu qui usit publicamenti dessu officiu dessa procuracione over advocacione non usit nen deppiat, in nixuna dessas cortes qui ant tenne sos officiales nostros, juigare ne iuiganti essere, a pena de liras XXV per cascaduna bolta qui iuigarit. Et issu officiali q[ui] ’llu clamarit o lassarit iuigare ixiendo·llu qui esseret [procuradore et a]d[v]ocad[u paghit et siat] condempnadu et icussu in sa simili pe[na de libras XXV per ciaschuna bolta]. /24r/ Et issu juigamentu o narri qui alcuno dessus suprascriptos faguirint over avirint fattu siat nullo et de neguna efficacia e valore. Et çiò non si intendat in compromissos ne in questiones qui si comiterent per via de co‹mpro›missione de voluntadi dessas partis.
LXXII. Di chi giudica Parimenti ordiniamo che i procuratori e gli avvocati che esercitano pubblicamente la loro professione non oseranno né dovranno giudicare né esser giurati in alcuna delle corti tenute dai nostri ufficiali, sotto pena di 25 lire per ciascuna volta che giudicheranno. L’ufficiale che li avrà chiamati o li avrà lasciati giudicare, pur sapendo che essi sono procuratori o avvocati, sarà condannato pure lui a pagare 25 lire di multa per ogni volta. Il verdetto o pronunciamento che alcuna delle soprascritte persone faccia o abbia fatto sarà nullo, privo di efficacia e valore. Ciò non vale per gli arbitrati e le controversie che si deferiscono in via compromissoria a volontà delle parti.
‹LXXIII. De qui ant advocare› ‹I›tem ordinamus et bollemus qui nixuno auditore dessa Audiencia nostra ne nixuno atteru officiali nostru majore ne minore, mentre qui ant ‹istare in su officiu›, et simili nixuno nodaio dessa corti nostra nen dessu potestade, durante in su officiu issoro, in sa corte issoro, usint nen deppiant essere procuradores de alcuno ne advocados.
LXXIII. Di chi esercita l’avvocatura Parimenti ordiniamo e vogliamo che nessun uditore della nostra Udienza, nessun altro ufficiale nostro maggiore o minore ancora in carica e, similmente, nessun notaio della corte nostra o del podestà, per il periodo in cui svolgerà le proprie mansioni, nella sua corte, non oserà né dovrà essere procuratore né avvocato di alcuno.
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‹LXXIV. De qui ant esser clamados pro testimongios› ‹I›tem ordinamus qui tottu cussas persones, sardos et terramangessos, c’ant essere clamados pro testimongios siant tenudos [de iurare in manus de su officiale c’a]t reere sa corona et [de render testimonianza de cussu qui a]‹n›t essere clamados, non obstanti /24v/ alcuno capitulu de breve over usança ch’esseret fatta et observada per tempus passadu.
LXXIV. Di chi è chiamato a testimoniare Parimenti ordiniamo che tutti coloro, sardi o continentali, che saranno convocati come testimoni dovranno giurare nelle mani dell’ufficiale che presiede la corona e dovranno rendere testimonianza di ciò per cui sono stati fatti comparire, senza che possa ostare alcun capitolo di breve o alcuna consuetudine fissati e osservati in passato.
‹LXXV. De faguere procuradore› ‹I›tem ordinamus qui si alcuno homini esseret chertadu o qui ’llu chertarint pro larga o pro ffura over pro atteru malifficiu qui avirit fattu, deppiat respondere in persona sua propria et non per procuradore ne attera persona pro sé, excepto qui poçat ponni procuradori suo istando issu qui est principali in persone sua in corona; et deppiat dare pagadores de istare assa regione ad conoximentu dessu officiali et juigantes suos.
LXXV. Dell’eleggere procuratore Parimenti ordiniamo che se qualcuno si trova o si troverà a essere chiamato in giudizio per una sottrazione o un furto o un altro misfatto da lui commesso, dovrà essere sentito di persona e non tramite un procuratore né altro rappresentante: si fa eccezione, e potrà dunque indicare un suo procuratore, qualora lui, l’interessato, si trovi fisicamente in corona. Dovrà però dare a conoscere all’ufficiale e ai suoi giurati dei mallevadori per garantire che si rimetterà al giudicato.
‹LXXVI. Qui iurat pro testimonio› ‹I›tem ordinamus qui si alcuno homini at jurare pro testimongio falsu, si ’nd’est binquidu paguit liras L infra dies XV de c’at essere juigadu. Et si non pagat, siat·illi misidu unu amo in sa limba et portit·si afrustando per tota sa terra infini assu muntonargiu: et i[nie si·lli tagit sa limba et lassint·illu] andari, et plus non si·ll[i siat dadu fidi pro testimongiu].
LXXVI. Del giurare come testimone Parimenti ordiniamo che se qualcuno, sotto giuramento, testimonia il falso ed è riconosciuto colpevole di ciò, pagherà 50 lire entro 15 giorni dalla data del giudizio. Se non paga, gli sarà conficcato un uncino nella lingua e, frustato, sarà condotto per tutta la regione sino al letamaio: là gli sarà tagliata la lingua e sarà lasciato andare, ma non gli verrà più prestata fede come testimone.
‹LXXVII. De chertos dubitosos› /25r/ ‹I›tem ordinamus: cun çiò siat causa qui in sas coronas nostras de Logu et atteras qui si tenent per nos, per issu armentargiu nostru de Logu o per ateru officiali nostru multas boltas avenit qui inter issos lieros qui sunt in sas dittas coronas est divissione, discordia o differencia in su juigari qui faguint supra alcuno chertu, et nos desiderando qui ciascaduna dessas terras
LXXVII. Delle liti controverse Parimenti ordiniamo: considerato che nelle nostre coronas de Logu e nelle altre coronas tenute da noi, dal nostro armentargiu de Logu o da altro nostro ufficiale accade molte volte che fra i liberi che siedono in esse insorgano divisioni, contrasti o differenze di vedute sul giudizio da pronunciare in una lite, e poiché desideriamo che ogni nostra terra sia mantenuta e conservata nella giustizia
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nostras siat mantesida et conservada in justicia et in ragione et qui, pro effectu dessa ditta divissione over discordia, non perdat nen manquit alcuna regione sua, ordinamus et bolemus qui, si ‹in› alcuna dessas dittas coronas pervengat alcuno chertu ch’esseret grosu et dubiossu, dessu quali sos lieros dessa ditta corona esserent partidos et divissos in su juigare issoru, qui in cussu cassu su armentargiu nostru de Logu over atteru officiali nostru, qui est assu presente o qui at essere per innantis, siat tenudo dessu chertu et dessu juigamentu c’ant faguiri [sos ditos lieros supra] s[u] dittu [chertu] de avire·ndi consigio cun [sos savios dessa corte nostra et cum alc]uno dessos lieros dessa corona /25v/ que pargiant suficientes at eleçione de su armentarjo over officiali c’at rêr corona. Et icusu qui per isus o per isa maiore ‹parti› de issos s’at deliberari de regione s’at faguir de su ditu certu; su armentargio over officiali nostru fasat lêrre et publicare in sa predita corona in presençia de ambas partis pro santençia difinitiva et mandet a xequçione, si apelado non est infra tempus legittimu de dies X, comente comandat sa lege, non infirmando però sa Carta de Logu.
e nel diritto e che, come conseguenza di dette divisioni o contrasti, non perda vigore alcuna sua legge, per tutto ciò ordiniamo e vogliamo che, se a una corona giunge una lite complessa e controversa, riguardo alla quale il giudizio dei liberi della corona è incerto e diviso, in questo caso il nostro armentargiu de Logu, ovvero altro nostro ufficiale in carica attualmente o in avvenire, dovrà consultarsi, riguardo alla lite e al giudizio che pronunceranno in relazione a essa i detti liberi, con i savi della nostra corte e con alcuni liberi della corona, quelli che parranno idonei secondo la valutazione dell’armentargiu o dell’ufficiale che presiede la corona. Ciò che da essi o dalla maggior parte di essi si delibererà secondo diritto, dovrà essere assunto in relazione alla lite; dovrà poi esser fatto leggere e pubblicare dall’armentargiu, ovvero nostro ufficiale, nella predetta corona in presenza di entrambe le parti come sentenza definitiva da mandare a esecuzione, nel caso non si presenti appello entro il termine prescritto di 10 giorni, come prevede la legge, facendo però sempre salvo quanto stabilisce la Carta de Logu.
‹LXXVIII. De appellationibus› ‹I›tem ordinamus et bolemus qui cascuna persona qui si sentirit agravado de alcuna sentencia qui li eseret dada incontra supra alcuno quertu de alcuna quistione qui avirit denante de alcuno oficialli si posat, si bolet, apellari infra su tenpus ordinado de sa regione dues boltes, secundu qui est narado de supra: çiò est de una quistione non usit et non si depiat apellare plus, et in casu qui plus boltes si apellarit ultra sas ditas dues voltes qui non si·lli deppiat admitiri.
LXXVIII. Degli appelli Parimenti ordiniamo e vogliamo che ogni persona, che si senta lesa da una sentenza pronunziata contro di lei in una lite discussa davanti a un ufficiale su una certa questione, se ritiene, potrà appellarsi, entro il termine previsto dalla legge, due volte, secondo ciò che si dice sopra: vale a dire che su una medesima questione non oserà né dovrà appellarsi oltre e, nel caso lo faccia più delle due volte previste, l’appello non dovrà essere ammesso.
‹LXXIX. De appellationibus› [Item ordinamus qui ciascuna persona qui s’at sentiri] /26r/ agravada de alcuna sentencia qui li esseret dada incontra si potsat apellari, ‹si bolet, incontinente› vive vose ‹o› per iscriptu infra dies X de c’at esere dada sa santencia, et qui cusa apellacione et icusu
LXXIX. Degli appelli Parimenti ordiniamo che ogni persona, che si senta lesa da una sentenza pronunziata contro di lei, potrà appellarsi, se ritiene, verbalmente subito, o per iscritto entro 10 giorni dal pronunciamento della sentenza. Dovrà prendere e depositare presso la corte la ri-
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proseçu de sa quistione deppiat levare et presentare a sa corte infra atterros dies XV, si ja non romaneret per culpa e negrigencia de su notaiu o scrivano qui non lo daret su prosesu infra su dittu tempus.
chiesta di appello e il verbale del processo entro ulteriori 15 giorni, salvo non vi sia ritardo per colpa o negligenza del notaio o dello scrivano che non consegna il verbale entro detto periodo.
‹LXXX. De appellare·si› ‹I›t‹e›m hordinamus et bolemus, pro sesare ispesas ad sus subditus et littigantis nostros, ‹qui› de alcuna sentencia et juigamento qui ad eser fatu per isu armentargio nostru de Loghu o per alcuno atteru ofiçialli nostru supra alcuna quistione o querto qui eseret da esseri de sollos C in josu non usit nen depiat apellare·si at nos nen at atero oficialli nostru nen a sus auditores nostros. Et in casu qui si apellarit, bollemus qui sa dita apellacione non ballat nin tengat, pro qui bollemus qui sa santencia qui sos oficiallis nostros in tali causa an dare et deliberare ballat et tengat, et mandit·illa a xecusione secundu qui per isos juigantis ade eseri determenadu.
LXXX. Dell’appellarsi Parimenti ordiniamo e vogliamo, per evitare spese ai nostri sudditi che vanno in causa, che non si osi né si debba promuovere appello presso di noi, i nostri ufficiali o i nostri uditori riguardo a sentenze e giudizi pronunziati dal nostro armentargiu de Logu e da altro nostro ufficiale su questioni o liti con pene dai 100 soldi in giù. Nel caso vi sia istanza di appello, stabiliamo che non abbia valore, poiché vogliamo che valga la sentenza data con delibera dai nostri ufficiali in tale causa: essa dovrà essere mandata a esecuzione nei modi previsti dai giudici.
‹ORDINAMENTOS DE SILVAS›
ORDINAMENTI DELLE CACCE OBBLIGATORIE
/26v/ ‹LXXXI.› ‹I›tem hordinamus qui cusas villas et curodories qui sunt usadas de faguir silva de curadore, siant tenudos sos hominis totu de ecusas villas et curodories de ’lloe andare una volta s’anno. Et isu liero de covallo qui at eser nunsado et non ’loi at andare pagit at su regnu sollos X, et isu homini qui at eser nunsado ‹et› no ’lo‹i› ad andare pagit a su curadore sollos II, si duncas non avirit legitima escusa.
LXXXI. Parimenti ordiniamo che nei villaggi e nelle curadorias ove è consuetudine fare battute di caccia per il curadore, tutti gli uomini di tali villaggi e curadorias dovranno parteciparvi una volta all’anno. I lieros de cavallu21 che, pur convocati, non vi prenderanno parte, pagheranno all’erario regio 10 soldi, mentre gli altri uomini che, pur convocati, non vi andranno, pagheranno al curadore 2 soldi, a meno che non abbiano una ragione legittima.
‹LXXXII. Silva› ‹I›tem hordinamus qui si alcuno homini c’at benne a silva nostra ho de curadore et non at benne ad colletorju cun su pegus c’at avir morto, levent·si·lli pro su regnu boe uno e pagit at su coradore sollos X.
LXXXII. Cacce obbligatorie Parimenti ordiniamo che se qualcuno, che partecipa a una battuta di caccia per noi o per il curadore, non si reca al punto di riunione con la selvaggina uccisa, gli sarà sequestrato un bue in favore dell’erario regio e al curadore pagherà 10 soldi.
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‹LXXXIII. Armadu a silva› ‹I›tem hordinamus qui su homini c’at bene armado at sa silva nostra ‹o de curadore, levent·illi prossa silva nostra› berbeges X et pro sa silva de coradore boe u[nu et per]dat s’arma. Et ciò non si intendat pro [virgas, ghortellu et ispada].
LXXXIII. Presentarsi armati alle cacce obbligatorie Parimenti ordiniamo che se qualcuno partecipa armato a una battuta di caccia per noi o per il curadore, gli saranno sequestrate 10 pecore, se si tratta di una battuta di caccia per noi, o un bue, se è per il curadore; inoltre perderà le armi. Ciò non vale, però, per la virga22, il coltello e la spada.
‹LXXXIV. Qui levarit su servu› /27r/ ‹I›tem hordinamus qui su homini qui at levare su xerbu da‹e› su jagaru et conplit·indi iloe su canarju et non toret su pegus, pagit boe uno, a su canarju de‹t› sollos XX et apat·indi su curadore de tres uno, si ’nde·llo binquit.
LXXXIV. Del portare via un cervo Parimenti ordiniamo che se qualcuno porta via un cervo a un cane da caccia e, sopraggiunto il custode dei cani, non rende la preda, pagherà [come multa all’erario regio] un bue e verserà 20 soldi al custode dei cani, e di ciò il curadore riceverà la terza parte, se lo dimostra colpevole.
‹LXXXV. Qui alluarit abba› ‹I›tem hordinamus qui su homini c’at cundiri innantis de santo Mialli pagit a su regnu sollos XX et ad su curadore sollos X. Et isus officiallis indi pregontint sus jurados per donnja bolta qui ’llus anti pregontari.
LXXXV. Dell’avvelenare le acque con l’euforbia Parimenti ordiniamo che se qualcuno, prima di san Michele, avvelena le acque, pagherà 20 soldi all’erario regio e 10 soldi al curadore. Gli ufficiali interrogheranno riguardo a ciò i giurati ogni volta che li sentiranno.
‹LXXXVI. De mesura falsa› ‹I›tem hordinamus qui sas persones ‹a› qui s’ant [a]catari per isus officialis nostros mesura falsa [o stadea] falsa, qui siat condepnado [de paghare a sa camera nostra] liras XXV da‹e› cusa die /27v/ qui ’lli at eser acatada a dies XV. Et si non pagat infra su ditu tenpus, siat afrustado per totu su logu hui avirit comisu su delicto.
LXXXVI. Delle misure false Parimenti ordiniamo che tutti coloro che sono trovati dai nostri ufficiali in possesso di misure false o stadere false, saranno condannati a pagare alla nostra camera 25 lire entro 15 giorni dal rinvenimento. Se non pagano entro il detto termine, saranno frustati in giro per il luogo ove hanno commesso il reato.
‹LXXXVII. De astores› ‹I›tem hordinamus qui alcuno homini non depiat bogare store de niu nen falcone. Et qui l’at bogare, siat tenudo su curadore de tene·llu e de batire·llo a sa corte nostra ho a nos, a pena de pagare su curadore liras V.
LXXXVII. Degli astori Parimenti ordiniamo che nessuno potrà portar via dal nido astori o falconi. Il curadore, sotto minaccia di essere multato di 5 lire, dovrà catturare e condurre alla nostra corte o da noi chi li avrà portati via.
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‹LXXXVIII. De vendere cavallos› ‹I›tem hordinamus qui sus hominis totu de sa terra nostra de Arborê qui anti avir covallus isoro, illos posant bendiri at vulintadi isoru intro de Arborê at sardos et non a teremengesus sensa paraulla nostra, a pena de pagari a sa corte liras L. Et in sus teremengesus non si intendat prelladu over abadu ‹o› atero clerigo de sa terra nostra de Arborê o bargesi de sa terra nostra.
LXXXVIII. Del vendere cavalli Parimenti ordiniamo che tutti gli uomini della nostra terra di Arborea proprietari di cavalli li potranno vendere a propria discrezione a sardi, all’interno di tale regione, non però a continentali senza il nostro assenso, sotto pena di pagare 50 lire alla corte. Fra i continentali non si comprendono i prelati, gli abati o altri chierici e i terrazzani della nostra terra di Arborea.
‹LXXXIX. De sus lieros› /28r/ ‹I›tem hordinamus qui sus lieros totu de sa terra nostra de Arborê sos quallis sunt tenudos de serviri sa corte cun covallos et cun armas non posant nin depiant bendere, donare nen canbiare su covallu qui ’lli at eser scriptu in su codernu de sa mostra sensa vulintadi nostra. Et qui contra faguirit, et est·illi provadu, pagit de maquicia liras XXV et remitat in iscanbio de cusu covallo qui at avir beretadu uno bono et suficienti cavallu.
LXXXIX. Dei liberi Parimenti ordiniamo che tutti i liberi della nostra terra di Arborea che sono tenuti a servire la corte con cavalli e armi non potranno né dovranno vendere, donare o cambiare il cavallo registrato nel quaderno della mostra23 senza il nostro assenso. Coloro che contravverranno, e di ciò saranno dimostrati colpevoli, pagheranno una multa di 25 lire e rimpiazzeranno il cavallo scambiato con un altro buono e idoneo.
‹XC. De sus lieros› ‹I›tem hordinamus qui nexuno liero non ‹si› depiat representare a mostra et nen compare cun cavallo de atera personi at sa mostra suta pena de liras X.
XC. Dei liberi Parimenti ordiniamo che nessun libero potrà presentarsi e partecipare alla mostra con un cavallo altrui, sotto pena di una multa di 10 lire.
‹XCI. Lieros› ‹I›tem hordinamus qui sos lieros et hominis de sa terra nostra de Arborê sos quallis sunt tenudos de serviri sa corti cun covallus et cun armes deppiant avir cavallos maschus, qui bagant dae liras X in suso, et tota arma qui bisongiat ad homini de cavallo /28v/ at sa sardisca; et siant senpiri aparixados cun sus ditus covallus et armas pro faguir sa mostra et pro cavallicare cando nos illus faremus requedere. Et qui ciò non ant faguir torint a sa munga.
XCI. Liberi Parimenti ordiniamo che i liberi e gli uomini della nostra terra di Arborea tenuti a servire la corte con cavalli e armi dovranno avere cavalli maschi, del valore di almeno 10 lire, e ogni arma che fa bisogno a un cavaliere alla sardesca; dovranno inoltre tenersi sempre pronti coi cavalli e le armi, quando li faremo convocare, per fare la mostra e per cavalcare. Se non faranno ciò, torneranno ai gravami ordinari.
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‹XCII. Lieros› ‹I›tem hordinamus qui sos lieros qui non sunt apusti fidelles o terallis de fito ho homini de sa corte, qui istint in sa villa afeada, non deppiant pagare nen dare tribuda a su fidelli c’at avir sa ‹villa›. Et icusu qui at deber pagare o dare pro regione de jurados o pro attera ‹raxione› pagit a sa corti et non at su fidelli.
XCII. Liberi Parimenti ordiniamo che i liberi non sottoposti a un fedele, o coloni affittuari o uomini di corte, che dimorino in un villaggio infeudato, non dovranno pagare né versare tributi al fedele che avrà il villaggio. Ciò che dovranno pagare o dare per i tributi riscossi dai giurati o per altri tributi, lo verseranno alla corte e non al fedele.
‹XCIII. De sus iurados› ‹I›tem hordinamus qui sos fideles qui ant villas in feu siant tenudos cadiscuno de ponni a jurare su majore de sa villa ‹et› pro jurados de Loghu sus megus hominis de sa villa; sus quallis jurados deppiat su fidelli qui ’nqui ad eseri in persona portare·llus per iscriptu a sa camara dae ’nogi a corona de san[t]u Perdu de lanpis. Et pro su fidelle qui no ’nqui at seri in sa villa in persona /29r/ siat tenudo su officiali o majori suo qui at eser in sa villa pro sé de batire·llos a sa camara per iscriptu sus jurados in su dito tenpus o termini. Et qui non los at batire ad icusu termini, pagit su fideli o maiori suo liras X.
XCIII. Dei giurati Parimenti ordiniamo che tutti i fedeli che hanno villaggi in feudo dovranno far giurare il maiore del villaggio e, come giurati de Logu, i suoi uomini migliori. Il fedele che vi si troverà in persona dovrà portare alla camera l’elenco scritto dei giurati, a partire da quel giorno ed entro la corona di san Pietro in giugno. In luogo del fedele che non sarà in persona nel villaggio, dovrà portare alla camera l’elenco scritto dei giurati entro detto termine di tempo il suo ufficiale o maiore che vi si troverà per suo conto. Se esso non sarà consegnato entro il termine, il fedele o il suo maiore pagherà 10 lire.
‹XCIV. De sotzus› ‹I›tem hordinamus qui alcuno terramangeso qui at dari juo suo a sardo pro juarju o pro sotso non apat a chere a peruno homini salvu a qui l’at avir dado; et isu juarju istit a sa usansa de sa terra.
XCIV. Dei socci Parimenti ordiniamo che se un continentale affida il suo giogo a un sardo, in qualità di mandriano o soccio, non dovrà interpellare [per quell’incarico] alcun altro uomo all’infuori di colui al quale lo avrà affidato. Il mandriano, per parte sua, dovrà rispettare le consuetudini locali.
‹XCV. De cavallus› ‹I›tem hordinamus qui si alcuno cavallo nostro moret in silva qui non siat sensido con paraulla nostra, su maiore de cavallo pagit pro su dito cavallo at nos pro su uno X, ‹secundu› qui narat sa Carta de Logu pro causa de su regnu furada; et icusu homini qui l’at seiri siat condepnadu a paguare a sa corti sollos C.
XCV. Dei cavalli Parimenti ordiniamo che se un nostro cavallo, montato senza nostra autorizzazione, muore in una battuta di caccia, il maiore addetto ai cavalli ci pagherà per esso dieci volte il suo valore, secondo ciò che prescrive la Carta de Logu per i beni del patrimonio regio rubati. Colui che lo avrà montato sarà condannato a pagare alla corte 100 soldi.
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‹XCVI. De qui si·ndi andarit› /29v/ ‹I›tem hordinamus qui si alcuno homini de sa terra nostra de Arborê si partirit pro andari at istari dae s’una corodoria a s’atera, cusu oficialli de sa corodoria at hui at eser andado at istari siat tenudo de faguir pagari at su attero oficialli pari suo quando illi demandarit cusas rexones ‹qui debent pagare a nnos prossu officiu suo. Et icussas raxiones› qui at avir ad dimandari s’uno officiali a s’atero pro sus hominis qui ant eser partidos dae s’una corodoria a s’atera, siat tentu cascuno qui at aviri a reçeviri de dimandari sas ditas ragiones dues voltas s’anno, çiò est pro corona de Loghu de santu Nicolla et pro corona de Loghu de santo Pedro de lanpades. Et de çiò su officiali non deppiat istringiri nen agravari su maiori nen alcuno jurado pro mandari·ellos a colliri alcuna de cusas ragiones foras de sa corodoria. Et icussu curadore over oficialli qui non at faguir secundu qui narat de supra siat condempnadu de pagari ad sa camara nostra sollos C. Et siat cretido su oficialli over curadore qui at avir dimandadu sas rexiones c’at avir a resiviri dae s’attero officiali pari suo at sagramento suo.
XCVI. Del trasferirsi Parimenti ordiniamo che se qualcuno della nostra terra di Arborea parte da una curadoria e va a stare in un’altra, l’ufficiale della curadoria presso la quale è andato a stare dovrà imporgli di pagare all’altro ufficiale suo pari, ove questi li reclami, i tributi da versare a noi in ragione dell’ufficio di lui. I tributi che un ufficiale reclama a un altro per gli individui che si sono trasferiti di curadoria dovranno essere pretesi, da coloro cui spettano, due volte l’anno, precisamente in occasione della corona de Logu di san Nicola e di quella di san Pietro in giugno. A tal proposito, l’ufficiale non dovrà forzare né gravare il maiore o qualche giurato mandandoli a riscuotere i tributi oltre i confini della curadoria. Il curadore o ufficiale che non agirà nei modi sopra prescritti sarà condannato a pagare alla nostra camera 100 soldi. L’ufficiale o curadore che abbia reclamato tributi a lui spettanti all’altro ufficiale suo pari dovrà essere creduto sulla base del suo giuramento.
‹XCVII. De deseredari› ‹I›t‹e›m hordinamus qui nexuna personi de su regnu nostru d’Arborê non usit nen deppiat deseredari /30r/ sos figios ni nebodis de sas raxiones qui ’llis a‹n›t pertenne pro sa eretadi de su padri over de sa mama isoro, salvu si su padri over sa mama a sa morte isoro bolerent nare et opponne contra sos figios over nebodes justa occagione pro sa qualli illos deberent deseredari. Et isa dita occagione si depiat provari legitimamente per icusos a qui ant aviri lasadus sos benes isoro infra uno mesi dae sa die de sa morte de su testadore.
XCVII. Del diseredare Parimenti ordiniamo che nessuno del nostro Regno di Arborea oserà né dovrà diseredare i figli o i nipoti riguardo ai diritti di cui sono titolari sull’eredità paterna o materna, salvo che il padre o la madre in punto di morte volessero affermare e opporre contro i figli o nipoti giusta causa per la quale dovessero essere diseredati. Detta causa dovrà essere provata nei termini di legge, entro un mese dalla morte del testatore, da coloro cui hanno lasciato i propri beni24.
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‹XCVIII. De coiamentos› ‹I›tem hordinamus qui si alcuna persona coiuarit figa sua a dodas, qui non siat tenudo de dare·lle nen de lesare·lli in vida ne in morte sua si non cusu qui l’at avir dadu in dodas, si non a vulintadi sua; salvu si isu non avirit atteru figio, qui ’lli deppiat lasare sa parte sua secundu ragione, contando iloe in cusa parte qui ‹at deber avire su c’at› avir apido de sas dodas deenante. Et isu simiganti si intendat pro totu sus desendentes suos. Et de totu s’atero ‹qui ’ll’at› romane potsat faguir su qui ’lli at plaguir. Et in casu qui moret ab intestadu, succedat sa figia femina cojada a dodas cun sus atteros fradis et sores suos, iscontando dae sa parte sua cusa doda qui at aviri appida.
XCVIII. Dei matrimoni Parimenti ordiniamo che se qualcuno ha dato in sposa una figlia con regime dotale, non sarà tenuto a darle in vita né a lasciarle in morte alcunché in più di ciò che le ha assegnato come dote, a meno che non desideri farlo. Questo, fatto salvo il caso che non abbia altri figli: le dovrà allora lasciare la propria parte secondo quanto stabilisce la legge, includendo in tale quota di sua spettanza ciò che ha ricevuto come dote in precedenza. La medesima cosa varrà per tutti i suoi discendenti. Di tutto ciò che residua, potrà fare quel che vorrà. Nel caso muoia senza testamento, erediterà insieme con gli altri fratelli e sorelle anche la figlia femmina sposata con dote, sottraendo però dalla sua quota la dote ricevuta.
‹XCIX. De coianza et heretamentu› /30v/ ‹I›tem hordinamus qui si alcuna femina si cojarit a modo sardisco over a dodas et moret e lasarit alcuno figio pixinno, si cuso figio pixinno moret sensa eser de edadi legitima de annos XVIII qui su padri de su dito pixinno sucçedat et apat sa eredadi de su ditu figio suo. Et simillimenti sucçedat sa mama a su figio pixinno in sos benes qui ’lli furunt romasidos de su padri; etsepto si su padri over sa mama avirint fato testamento: qui in cusu casu si deppiat observari su hordini de cusu testamento ed isa vulintadi de su testadori.
XCIX. Del matrimonio e della successione ereditaria Parimenti ordiniamo che se una donna si sposa al modo sardesco ovvero con regime dotale e muore lasciando un figlio piccolo, se anche questi muore senza aver raggiunto l’età prevista dalla legge di 18 anni, sarà il padre del bambino a succedere e ad avere l’eredità di suo figlio. Similmente, la madre succederà al figlio piccolo per i beni che questi avrà ereditato dal padre. A meno che il padre o la madre abbiano redatto testamento: in questo caso si dovranno osservare le disposizioni testamentarie e la volontà del testatore.
‹C. De donatione› ‹I›tem hordinamus qui alcuna femina non usit nen deppiat dare in alcuno modo a su marido, in vida ne in morte, plus de liras X, et isu marido a sa mugeri atteru tanti, de su isoro pegugare. Et icusu det cusu qui at aviri valsenti dae liras XX in susu, et icusu qui at avir val‹s›enti de liras XX in josu det sollos XX. Et icusu det s’uno a s’atteru si ’lli plaguit, et si non li plaguit no ’ndi siat tenudo ne a su marido ne a sa mugere. Et custu capitullu apat legitimo loghu in casu qui su marido
C. Delle donazioni Parimenti ordiniamo che nessuna donna oserà né dovrà donare in alcun modo al marito, né in vita né in morte, più di 10 lire del proprio patrimonio, e altrettanto il marito alla moglie. Potrà donare tale somma solo chi disporrà di un capitale da 20 lire in su, mentre chi avrà un capitale da 20 lire in giù avrà facoltà di donare 20 soldi. Potranno effettuare una simile donazione l’uno all’altro se vorranno, ma se non vorranno non sarà obbligo né al marito né alla moglie.
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over mugere avirint disendentes over asendentes, et si no ’ndi aviri‹n›t siat·illis lesitu de lasare s’uno a s’ateru in testamentu /31r/ hover per donacione causa mortis totu ciò qui ant bollere de sos benes isoro.
Questo capitolo ha valore di legge nel caso in cui il marito o la moglie abbiano discendenti o ascendenti: se però non ne hanno, sarà loro facoltà lasciare l’uno all’altro tutto ciò che vorranno dei propri beni, con testamento o donazione mortis causa.
‹CI. De inventario› ‹I›tem hordinamus qui sus curadores et oficiallis nostros totu de Arbarê, cascuno in sa curodoria et oficio isoro c’ant avir in manu, deppiant eser tenudos, quando alcuno homini moret sensa faguir testamento e lasarit figio o figios pixinos et non los acomandarit per testamento, qui sos benes suos totu qui romaniri‹n›t dint‹r›o de domo et fores qui si depiant faguir scriviri ordinadamenti, avendo su officiali in conpangia sua de sos bonus hominis de sa villa. Et uno scritu de cusus benis indi deppiant batiri a sa corti nostra et uno atteru scriptu indi deppia‹n›t dari ad icusas persones a qui ant avir acomandado sos figios. Et si acomandados non los avirit, su oficialli over curadore ilos deppiant acomandare per vigore de su oficio isoru ad alcuno parenti destrinto de sos pixinnos qui megius illis at pare qui potsat bene faguir su fattu de sos saraços et qui siat suficienti. Et si parente que seret suficiente non avirit, deppiat·illus acomandare ad alcuna attera persone qui siat suficiente et qui at parre a su oficialli qui siat bonu homini et qui fasat bene sos fattos de sos pixinos infini a tanti qui ant esere de edadi de annos XVIII, qui ’llis ant dare /31v/ su isoro cusu o cusus a qui ant acomandari su officialli sos benes isoro. Et deppiant·illus pone a jurare qui bene e leialmente ant faguir sos benes de cusus pixinos. Et si cusos godalles parentes over atteros homines a qui su officiali acomandarit sos ditus benes non los bolerent reciviri, deppiat·illus costringiri su oficialle e pone pena. Simillimente hordinamus qui cusas persones qui at clamari cusu homini qui faguirit testamento pro tudore‹s› de cusus pixinos de sus benes isoro, o siant presentes o absentes at su faguir su testamento, deppiant·indi esere costrintos de ’llus reseviri e de eser
CI. Dell’inventario Parimenti ordiniamo che tutti i curadores e i nostri ufficiali di Arborea, ciascuno nella curadoria e nel distretto di esercizio del proprio potere, quando muore qualcuno che non ha fatto testamento e lascia figli piccoli senza disposizioni circa il loro affidamento, dovranno far redigere inventario di tutti i suoi beni rimanenti dentro e fuori di casa; allo scopo, l’ufficiale avrà con sé probi uomini del villaggio. Dovranno quindi portare una copia dell’inventario dei beni alla nostra corte e un’altra copia a coloro cui avranno affidato i figli [del defunto]. In assenza di disposizioni [del genitore defunto] circa il loro affidamento, l’ufficiale o curadore li dovrà affidare, in forza dei propri poteri, a un parente stretto che gli parrà possa fare al meglio l’interesse dei giovani e sia idoneo. Qualora non abbiano un parente idoneo, li dovrà affidare a qualcun altro che lo sia e che, a giudizio dell’ufficiale, sia uomo probo e possa curare bene gli interessi dei bambini fino al compimento del diciottesimo anno di età: allora, colui o coloro cui l’ufficiale aveva affidato i loro beni li renderanno a essi. Dovrà inoltre farli giurare che cureranno bene e onestamente gli interessi dei bambini. Se i parenti o le altre persone cui l’ufficiale ha affidato i beni non li volessero ricevere, dovrà costringerli irrogando una sanzione. Similmente, ordiniamo che le persone indicate dal testatore in qualità di tutori dei bambini e dei loro beni, fossero esse presenti o meno quando è stato redatto il testamento, dovranno essere obbligate ad accettarli e a essere loro tutori, a meno che non esibiscano legittimo motivo per il quale non possano esercitare la tutela.
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tudores isoro, salvu si mostrarint legitima escusa pro sa qualli non poderent eser in sa dita tutella. Et icuso oficialli over curadore qui custas causas non ant faguir, per donnj bolta qui ’llis ad eser provado pagit at sa corti nostra liras X, et posca su armentargiu nostru de Loghu illu fatzat faguir. Et nienti de minus paguit totu su danno qui ant avir recividu sus pixinos per culpa e nigligencia de sus ditus curadores ‹et› siant tenudos de ismendare et satisfaguir a sos ditus pixinus.
L’ufficiale o curadore che non eseguirà queste disposizioni, per ogni volta che ne sarà dimostrato colpevole pagherà alla nostra corte 10 lire, dopodiché il nostro armentargiu de Logu lo costringerà ad adempiere. Inoltre, pagherà tutti i danni subiti dai bambini per colpa e negligenza di detti curadores e [questi] dovranno porre rimedio e riparazione nei loro confronti.
‹CII. De tutores e curadores› ‹I›tem hordinamus qui si alcuna persone appus morte sua lasarit figios pixinos et in su testamento /32r/ suo illis lasarit tudore over curadore, ‹over› qui illis eseret dadu per isus oficiallis nostros, qui sus tudores over curadores non siant tenudos de respondere a quertu alcuno qui ’llis eseret fatu pro cusus pixinos pro alcuna causa, si non in sa corte nostra over in corona de Loghu; et siant tenudos de responder in sa corte et in corona ad ciascaduna persone qui lis at quertare pro cusus pixinos. E si sos dittus tudores over curadores non parent ad su armentarju nostru de Logu c’at rêr corona over ad icusus qui ’llus intenderent in sa corte nostra qu’esere‹n›t suficientes at poder dimandare over defender cusus quertos qui lis eserent fattus over qui faguirint pro sus ditus pixinos, siat tenudo su dittu armentarju nostro de Loghu c’at rêre corona over cusu at qui eseret comisidu per nos de dare e costringere unu de sos bonos ‹hominis› de sa corona over alcuno ‹atero› pro isu, qui ’llu posat dimandare over defender cusu certu c’at esere fatu ad sos tudores et curadores pro sus ditos pixinos.
CII. Dei tutori e curatori Parimenti ordiniamo che se qualcuno, dopo la propria morte, lascia figli piccoli, prevedendo per essi nel testamento un tutore o curatore, oppure questi è assegnato loro dai nostri ufficiali, detto tutore o curatore non sarà tenuto a rispondere ad alcuna lite che gli venga mossa per i bambini, per qualsivoglia ragione, se non nella nostra corte ovvero in corona de Logu: in queste sedi dovrà rispondere a tutti quelli che gli muoveranno lite per i bambini. Se il tutore o curatore non parrà, al nostro armentargiu de Logu che presiede la corona o a coloro che l’ascolteranno nella nostra corte, idoneo a portare avanti le richieste o sostenere la difesa nelle liti che gli sono mosse o che promuove per i bambini, il nostro armentargiu de Logu che presiede la corona ovvero colui che sarà incaricato da noi dovrà assegnare coattivamente uno dei probi uomini della corona o altri al posto suo, tale che possa portare avanti le richieste o sostenere la difesa nella lite mossa al tutore o curatore per i bambini.
‹CIII. De prea› ‹I›tem hordinamus qui nexuno curodore over oficialli non poçat reere prea pro sé alcuna c’at faguir pro regione de su regnu, et a qui at ser provadu paguit per donnja bolta liras XXV.
CIII. Dei beni pignorati Parimenti ordiniamo che nessun curadore ovvero ufficiale possa amministrare per proprio vantaggio un bene pignorato per diritti dell’erario regio. Chi sarà dimostrato colpevole di ciò pagherà, per ogni volta, 25 lire.
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‹CIV. De mantenni iusticia› /32v/ ‹I›tem ordinamus qui si alcu‹n›u homini de sa terra nostra de Arberê offenderet o avirit a faguir pro alcuna causa cu‹n› alcuno atteru homini de Sardingna qui non eseret de sas terres nostras, qui cusa personi siat resida ad ragione per icuso modo qui in sa terra dundi eseret si faguit ragione ad sos hominis de sas terras nostras.
CIV. Del mantenere giustizia Parimenti ordiniamo che se qualcuno della nostra terra di Arborea offende o ha a che fare per qualche ragione con un altro sardo che però non è delle nostre terre, questi dovrà essere ammesso a ricevere giustizia nello stesso modo in cui nel suo paese di provenienza si amministra giustizia agli uomini delle nostre terre.
‹CV. De tavernaios› ‹I›tem ordinamus qui sos curadores nostros qui ant ser in cascuna curadoria deppiant dare comandamento ‹assos› tavernarjos, cascuno in sas villas c’ant avir in manos, qui non deppiant bendere vino ad attera mesura si non ad sa d’Aristanis et sigillada de su sagellu nostro, et qui fasant bonas mesures dintro et de foras, dando·llis tremen de benne in Aristanis at su majore de porto pro levare cascuno tavernarju mesura ‹et mesa mesura› et derredali; et icustas mesuras siat tenudo cascuno de ‹sos› qui bendant vino de avir ad corona de santu Marco proxime veniente. Et de cusa corona innanti cusu tavernarju a c’at eser provado qui ad bendere cun attera mesura si no de cusas qui naradas sunt paguit per donja volta sollos VI, de sus callis dinaris appat cusa persone qui ’llus ad acusare sa mesidadi ed isa attera mesidadi apat su officiali pro su rennu. Et siat cretidu cusa persone qui ’llos at acusare a sagramento suo.
CV. Dei tavernieri Parimenti ordiniamo che i nostri curadores che si troveranno nelle varie curadorias dovranno ordinare ai tavernieri, ciascuno nei villaggi sui quali eserciterà potere, di vendere vino soltanto con la misura di Oristano, bollata col nostro sigillo, e di fare misurazioni precise all’interno e all’esterno [del loro locale]. Daranno loro un termine per recarsi a Oristano dal maiore de portu25 per prendere ciascun taverniere la misura, la mezza misura e il derratale26; tutti i venditori di vino dovranno possedere queste misure entro la corona di san Marco prossima ventura. Da tale corona in poi, il taverniere che sarà provato vendere con misure diverse da quelle indicate pagherà, per ogni volta, 6 soldi, metà dei quali andranno alla persona che lo ha accusato e l’altra metà all’ufficiale per l’erario regio. La persona che lo accusa sarà creduta sulla base del suo giuramento.
/33r/ ORDINAMENTOS DE CORGIOS
ORDINAMENTI DELLE PELLI
‹CVI.› ‹I›tem hordinamus qui sus corgios totu de boes, de vacas, de cavallos et de ebas qui ant more in sa terra nostra de Arbarê
CVI. Parimenti ordiniamo che tutte le pelli di bue e vacca, di cavallo e cavalla morti nella nostra terra di Arborea dovranno es-
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deppiant batire ad sa terra nostra de Aristanis sos popillus, sos quallis corgios si deppiant batire denanti de cusos hominis qui sunt ordinadus in Aristanis at signari·ellos, sos qualis hominis cusus corgios deppiant scriviri cui ‹ant› esere per nomen et qui ’llos at batire per nomen et de qualle villa, conoxendo cusu homini c’at batire su corju. Si est homini qui non siat conoxenti o parixenti, cusos hominis qui debent signare sos corjos indi dimandint a hominis qui los conoxant, qui no ’ndi siant inganadus. Et deppiant signare sos corjus a feru caldu de cusu signu qui est ordinado, et ‹si› posca qui sos corjus ant ser signadus su popillo cu‹i› a‹n›t eser ho miso suo qui l’at batire illu bolet bender, deppiat·illo bender in presencia de cusus hominis qui ’llo ant avir signadu ad su mercanti, scrivendo sus hominis c’ant signare sos corgios su mercante qui l’at conplare per nomen e per nomen su benditore. Et ‹si› isu popillo cui at esere su corju o misu suo non lo boleret bendere et bolet·indi faguir alcuno fato suo o sueguiri o attero, dae c’at esere signadu posat·inxe·llu bogare sença inde ‹paghare› deretu alcuno et faguiri·ndi alcuno fatu isoro. Et de custo siant tenudos sos clerigos et totus hominis de cascuna villa de Arbarê, qui sos corgios totu segundu qui est naradu de supra depiant batire at Aristanis at signare- /33v/ ·si de cuso signo qu’est ordinado; et qui nexuno homini alcuno corjo de boe, de vaca, de cavallu ho de eba non deppiat bogare foras de sa terra de Arbarê ne bendere at alcuna persone ne comporare in Arbarê si non in Aristanis dae c’at eser signado ne in peruno fattu suo si non est signadu in Aristanis. E a qui at eser provadu paguit secundu qui narat su capitullu de Carta de Loghu pro su furoni: qu’est boe ‹pro boe›, qu’est vaca pro vaca, qu’est cavallu pro cavallu, qu’est eba pro eba. Et in cascuna villa si tengat per isu majori et juradus uno feru cun su qualle si marqui‹n›t sos corjus et illus deppiant faguir scrivir, et dae mesi in mesi mandint su scriptu a su officiali maiori et infra su ditu tenpus cuso oficialli majore illu mandit per iscriptu 98
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sere portate dai padroni a Oristano, al cospetto degli uomini ivi incaricati di marchiarle. Questi dovranno registrare il nome del loro proprietario, di chi le ha portate e il villaggio di provenienza, qualora conoscano l’uomo che ha presentato le pelli. Se è persona con cui non si ha a che fare o non sia nota, i marchiatori domanderanno di essa a chi la conosca, in modo da non farsi ingannare. Dovranno contrassegnare le pelli a ferro caldo col marchio stabilito e, fatto ciò, se il proprietario di esse, o il suo incaricato che le ha portate, vuole venderle a un mercante, dovrà farlo in presenza dei marchiatori; questi dovranno annotare il nome del mercante che le acquista e del venditore. Se il proprietario delle pelli, o un suo incaricato, non vuole venderle ma disporne a propria discrezione, o conciarle, o altro, dal momento in cui sono marchiate potrà portarsele via senza pagare alcun tributo e farne ciò che crede. A queste prescrizioni saranno sottoposti i chierici e tutti gli abitanti dei villaggi dell’Arborea: come è detto sopra, dovranno portare tutte le pelli a Oristano e farle contrassegnare col marchio stabilito; nessuno potrà portare fuori dalla terra di Arborea pelli di bue e vacca, di cavallo e cavalla, e neppure venderle ad alcuno né comprarle altrove in Arborea se non a Oristano, dacché sono state marchiate, né disporne a discrezione se non sono state marchiate a Oristano. Chi è dimostrato colpevole, pagherà nella misura stabilita dal capitolo della Carta de Logu sui ladri: se è pelle di bue per il furto di un bue, se di vacca per il furto di una vacca, se di cavallo per il furto di un cavallo, se di cavalla per il furto di una cavalla. In ogni villaggio il maiore e i giurati avranno un ferro per marchiare le pelli, delle quali terranno registro; di mese in mese invieranno l’elenco all’ufficiale maggiore che, sempre con la stessa cadenza, manderà l’elenco alla nostra camera. Nondimeno, ogni settimana, almeno una volta, si dovranno perquisire le case per i furti, sotto pena, per l’ufficiale maggiore in ciò negligente, di 100 99
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a sa camara nostra. Et nienti de minus donja simana si deppiant quircare sas domos pro sas furas, at su minus una volta per simana, suta pena a su oficialli maiori, si in ciò eseret negligenti, de sollos C et a so majori de sollos XL et sollos XX per jurado sensa misericordia alcuna.
soldi, di 40 soldi per il maiore e di 20 soldi per giurato, senza alcuna misericordia.
‹CVII. De negociantes› ‹I›tem hordinamus qui si ad sos negociantes c’ant faguir mercantia in sas villas acattant causa furada, o batiant qui si·lla dedi ho pagui‹n›t sa fura secundu qui ‹si› contenit in sa Carta de Logu pro causa furada. Ed isus negociantes c’ant faguir mercantia in sas /34r/ villas posant conporare coamini minadu deenanti de sus hominis de sa villa pro testimongios, salvu si non conporari‹n›t corjo de boe ni de vaca ne de covallu ni de eba ni de asinu; et si ’ndi conporari‹n›t, pagi‹n›t secundu qui narat sa Carta de Loghu pro covallu, pro eba, pro boe, pro vaca. Bolemus però qui cascuno negociante potsat conporare corju de boe e de vaca e de cavallu et de eba et de molenti puru qui siant marcadus de su marchu de sa corte et qui ’llu conporarit daenante de su oficialli over majori de sa villa, et qui contra faguirit pagit secundu qui narat su suprascripto capitullu. Bolemus qui cascuno hoficialli ‹over› majore de sa villa deppiant signare o faguir signare totu sos ditus corjus et cascuno de cusos con su marco qui ’lli at eseri mandadu dae sa corte. Et si alcuna attera persone teneret marcu, siat condepnadu in liras X.
CVII. Dei commercianti Parimenti ordiniamo che se ai commercianti che fanno mercanzia nei villaggi sono trovate merci rubate, o consegneranno chi gliele ha fornite o pagheranno la sanzione per il furto secondo quanto prevede la Carta de Logu a proposito di beni rubati. I commercianti che fanno mercanzia nei villaggi potranno comprare coiame lavorato davanti a testimoni del luogo, purché non comprino pelli di bue e vacca, di cavallo e cavalla, o di asino: se ne comprano, pagheranno nella misura in cui la Carta de Logu prevede per [il furto di] un cavallo, o cavalla, o bue, o vacca. Autorizziamo però che ciascun commerciante possa acquistare pelli di bue e vacca, di cavallo e cavalla, e di asino, purché siano contrassegnate col marchio della corte e le compri in presenza dell’ufficiale ovvero maiore del villaggio: chi contravviene, pagherà nella misura prevista nel soprascritto capitolo. Vogliamo che ciascun ufficiale o maiore del villaggio contrassegni o faccia contrassegnare tutte le pelli col marchio inviatogli dalla corte. Se qualcun altro detiene il marchio, sarà condannato a una multa di 10 lire.
‹CVIII. De is suetoris› ‹I›tem hordinamus qui alcuno suetori ho conxadore de coamini non deppiat suiguiri alcuno corjo de boe ne de vaca ne ‹de covallu nen› de ebba ne de asinu si non est signadu in Aristanis de su signu qui est hordinadu. Et ‹a› qui at sere provadu, paguit secundo qui narat sa Carta de Loghu pro sa fura: qu’est boe pro boe, qu’est vaca pro vaca,
CVIII. Dei conciatori Parimenti ordiniamo che nessun conciatore di coiame dovrà conciare alcuna pelle di bue o vacca, di cavallo o cavalla, né di asino, se essa non è stata contrassegnata in Oristano col marchio stabilito. Chi è dimostrato colpevole, pagherà nella misura prevista dalla Carta de Logu per il furto: se è pelle di bue per il furto di un bue, se
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qu’est ebba pro ebba, qu’est covallu pro cavallu, qu’est asinu pro asinu, secundu qui in su dittu capitullu si contenit.
di vacca per il furto di una vacca, se di cavalla per il furto di una cavalla, se di cavallo per il furto di una cavallo, se di asino per il furto di un asino, secondo quanto si prescrive nel detto capitolo.
‹CIX. De sus mercantis› /34v/ ‹I›tem hordinamus qui alcuno mercanti de Aristanis ne alcuna atera persone non depiat conporare alcuno corju de boe o de vaca o de cavallu o de ebba o de molenti si non est signadu con su signu qui est ordinadu. Et cusu at qui at sere provadu qui l’at conporare qui non eseret sinnadu secundu qu’est ordinadu et est·illi acatadu su corju, si ’nd’est binquidu pagit su dampnu ad cui at esere et sollos C a sa corti nostra per cascuno corju secundu qui in sus ditus capitullus si contenit.
CIX. Dei mercanti Parimenti ordiniamo che nessun mercante di Oristano né alcuna altra persona dovrà comprare pelli di bue o vacca, di cavallo o cavalla, né di asino, se non sono contrassegnate col marchio stabilito. Colui che è dimostrato colpevole di avere acquistato una pelle non marchiata secondo le disposizioni, che gli viene trovata, se è sconfitto in giudizio pagherà il danno a chi lo ha subito e 100 soldi alla nostra corte per ogni pelle, secondo quanto si prescrive nei detti capitoli.
‹CX. De corgius› ‹I›tem hordinamus qui nixuna persone non deppiat comporare nen bendere corju perunu de boe nen de vaca ne de covallu ni de ebba ne de molenti qui non siat cotu, si non in platsa publicamente daenante de totu, suta pena de liras X. Et çiò si intendat pro cusus qui ant conporare in Aristanis.
CX. Dei pellami Parimenti ordiniamo che nessuno dovrà comprare né vendere pelli di bue o vacca, di cavallo o cavalla, né di asino che non sia cuoio bollito se non in piazza pubblicamente davanti a tutti, sotto pena di pagare 10 lire. Ciò vale per coloro che acquisteranno a Oristano.
‹CXI. Idem de ligadores› ‹I›tem ordinamus qui sus ligadores totu qui ligant corjus in Aristanis siant tenudus de non ligare corju perunu in faxi si non est signadu de cusu sinnu qu’est ordinadu. Et ‹qui› contra faguirit siat postu in su bangullieri cun uno corju a guturu, e posca istit in prexoni infin’ a qui ad avir pagadu sollos XX.
CXI. Idem dei legatori Parimenti ordiniamo che tutti i legatori che legano pelli a Oristano non potranno legare alcuna pelle in fascio se questa non è contrassegnata col marchio stabilito. Chi contravviene sarà messo alla berlina con una pelle alla gola, poi starà in prigione sinché non avrà pagato 20 soldi.
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‹ORDINAMENTOS DE SA GUARDIA DE SUS LAORES, VINGNAS ET ORTOS›
ORDINAMENTI DELLA CUSTODIA DEI SEMINERI,
/35r/ ‹CXII.› ‹I›tem ordinamus qui siant tenudus sus hominis qu’ant vinjas issoro et hortos de cungare·llus beni, et conjadus qui ’llus ant avir beni dugant illoe su officiali et isu majori et jurados V dae sa villa pixinna, et dae sa villa manna X, pro biere et pro isquiri c’ant esere bene cungados. Et ‹si ad issos at parri qui siant bene cungados et› intrat iloe bestiamen, cusu popillo istesu de sas vingas e de sos hortos o armentarju o homini suo ho familliare suo qui l’at avir acomand‹ad›u, cun acterus hominis de sa villa de credere o ponendo boxi, illu posat maxellari et tenne ‹et› dare·llo in manu de su oficialli qui at a ser pro nos in sa contrada: so est covallu domadu, boe domadu, vaca domada et molenti. Ed isu hoficialli per cascuno de cusus pegus qui sunt scriptus de supra deppiat levari ad icusu homini c’at pasquiri cussu bestiamini sollos VI per cascunu de cussus pegus per donja bolta qui ’loi ant eseri tentu‹s›. Et si cusu bestiamen non at pastore, deppiat·si pagari dae su popillo de su bestiamen, de sus callis dinaris appat su rennu sollos IIII ed isu qui l’at tenni sollos II. Et de su armentu de sas vacas e de sas turmas de sas ebbes bie·nde ‹possant› oquiri una, et de sa gama de sas berbeges e de sa gama de sas cabras e de sa gama de sus porcus bie·nde potsa‹n›t hoquire e levari bias dues et pagare su dannu at cui at essere; su porcu mannalli oquiant·bie·llo. Et isu dannu qui at faguir qusu bestiamen, sus jurados siant tenudos de apersare·llu bene e leallimenti et de faguir pagare su dannu ad sus popillos qui ’llos ant avir retcevidos. Et gasi ‹si› intendat pro sus lavores comente narat de supra pro sas vingas et pro sus hortos. Et si per isu maiori de padru o per isos padra‹r›gios conpangios /35v/ suos non si faguirit pagari su dannu ed isu armentargio nostro de Loghu over oficialli de sa curodoria indi avirit lamentu,
CXII. Parimenti ordiniamo che coloro che possiedono vigne e orti dovranno chiuderli bene e, fatto ciò, vi condurranno l’ufficiale, il maiore e 5 giurati, dai villaggi piccoli, oppure 10, da quelli grandi, perché vedano e sappiano che sono recintati bene. Se a essi parrà che sono recintati bene, ma ciononostante vi entrano delle bestie, il padrone stesso della vigna o dell’orto, o l’armentargiu, o un uomo di lui, o un servitore da lui incaricato, insieme ad altri uomini fededegni del villaggio, oppure dandone avviso, potrà macellare e tenturare27 di tali bestie e metterle a disposizione dell’ufficiale che ci rappresenterà nella contrada, se si tratta di cavallo, bue, vacca domati o di asino. L’ufficiale dovrà elevare a chi ha pascolato il bestiame una contravvenzione di 6 soldi per ciascun capo di bestiame sopra indicato e per ogni volta che avverrà la tentura. Se il bestiame non è custodito da un pastore, dovrà pagare il suo padrone: l’erario regio avrà 4 soldi da tale cifra, mentre colui che l’ha catturato 2 soldi. Degli armenti di vacche e dei branchi di cavalle ne potranno uccidere una; delle greggi di pecore, capre e maiali ne potranno uccidere o catturare vivi due capi, a rimborso del danno patito; il maiale domestico lo uccideranno. I giurati dovranno stimare bene e coscienziosamente il danno procurato dal bestiame e farlo rifondere al proprietario che lo ha subito. Ciò che sopra si prevede per le vigne e gli orti varrà anche per i semineri. Se il maiore de pardu e i pardarios28 suoi collaboratori non provvedono a far rifondere il danno e il nostro armentargiu de Logu ovvero ufficiale della curadoria riceve lagnanza di ciò, per ogni volta che ne saranno dimostrati colpevoli saranno condannati a pagare alla nostra camera 20 soldi per ciascun giurato.
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DELLE VIGNE E DEGLI ORTI
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per dognia bolta qui ’llis at esere provadu indi siant condepnadus at pagari a sa camara nostra sollos XX per juradu. Et quando bestiamen de una villa faguirit de cusus dannus in attera villa, cusus dannos qu’ant eser fatus et apersados siat tenudu su officiali de cusa villa dundi at esere su bestiamen qu’at avir fatu su danno de ’llu faguir pagare in manu de su majori de padru over de sus juradus qui ’loi ant bene. Et quando çiò non faguirit cusu oficialli over curadore, per donja bolta qui ’lli eserit provadu siat condenpnadu at pagare at sa camara nostra sollos C. Et si ‹a›veneret qui alcuna personi over persones averet boe over boes over cavallos domados qui esserent deleadus et isus de sa villa illos aviri‹n›t dados pro deleados, ilus depiant ochiere in sos lavores et in sas vinjas et ortos a clasura qualli at avir sensa clamu nixunu. Et si aveneret qui alcuna persone over persones iscungiarit alcuna cu‹n›jadura agena et illi at esere provadu, deppiat pagare per donja volta liras V. Su porchu mannalli qui non at portare furxilla ‹de› plamus VIIII si deppiat ochire in sas vingas et hortos et lavores qui sunt usados de rêrre cunjadura. Et si ’lla portat secundu de supra, non bie·llu potsant ochiere. Et in sus atteros logus qui non si rêret cunjadura bie·llo potsa‹n›t ochiere cun furca et sensa furcha.
Quando il bestiame di un villaggio procura danni del tipo descritto in un altro villaggio, l’ufficiale del villaggio da cui proviene il bestiame che ha causato il danno, una volta che questo sia stato stimato, dovrà farlo rifondere nelle mani del maiore de pardu ovvero dei giurati che si presenteranno. Qualora non adempia, tale ufficiale o curadore, per ogni volta che sarà dimostrato colpevole, sarà condannato a pagare 100 soldi alla nostra camera. Nel caso qualcuno abbia buoi o cavalli domati che sono irrequieti e tali sono considerati dagli abitanti del villaggio, trovandoli nei semineri, nelle vigne e negli orti recintati li dovranno uccidere senza bisogno di avvisare. Nel caso qualcuno atterri le recinzioni altrui e ne sia dimostrato colpevole, dovrà pagare 5 lire per ogni volta. Si dovrà uccidere, trovandolo nelle vigne, negli orti e nei semineri che si è soliti recintare, il maiale domestico che non porta la furchidda29 di 9 palmi; se però la porta quale è prescritta sopra, non potrà essere ucciso. Negli altri luoghi in cui non è presente recinzione potrà essere ucciso, sia che porti la furchidda sia che non la porti.
‹CXIII. De qui portarit boes in viagiu› /36r/ ‹I›tem ordinamus qui sus carradores et donnja attera persone qui at andare et adugere boes in biage siant tenudus de ’llos torare a sas juhas et dare·llos in manus de sus boinarios qui ant bardari et paschiri cusa jua donnja bolta qui ant torare de biagio, o de die o de nocte. Et si cusus carradores qu’ant torare de biatgio ispaciant cusos boes qui ant portare, sensa illos dugiri ad sa jua secundu qui est naradu, et acatarint·si·nde alcuno‹s› de cusos boes ispasi‹a›dus in vinjas over in ortos qu’eserent bene cunjadus secundu qui ‹est› ordinadu, sus popillos de cusas vinjas et ortos et armentarjos o familljares issoro illos deppiant tenne et dare·llos in manus de su
CXIII. Di chi porta buoi in viaggio Parimenti ordiniamo che i carrettieri e tutti coloro che vanno in viaggio con dei buoi, ogni volta che tornano dal viaggio, di giorno o di notte, dovranno ricondurre i buoi nella mandria e consegnarli nelle mani dei bovari che custodiscono e pascolano la mandria. Se però i carrettieri, di ritorno da un viaggio, lasciano vagare i buoi che avevano con sé, invece di portarli alla mandria come si è detto, e qualcuno di quei buoi lasciati senza custodia è trovato in una vigna o in un orto ben recintati secondo le disposizioni, i proprietari delle vigne o degli orti, oppure gli armentargios o i servitori di loro, li dovranno tenturare e consegnare a disposizione dell’ufficiale o curadore del villaggio. Il curadore dovrà prenderli in conse-
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officiali ‹over› curadore de sa villa. Et isu curadore siat tenudo de ’llos retsevir pro isu rennu et mandare·llos incontinenti ad Aristanis, a sa corti nostra: et si çiò incontinenti non faguirit su curadore, et isu oficialli maiore indi avirit clamu et provariti·si·llo, ‹siat›·inde condenpnadu su curadore et paguit per donnja volta qui l’at esere provadu sollos C. Et si per ventura cusus boes qui sunt naradus de supra no ’llos poderent tenne in sas vinjas et ortos, sus popillos de cusas vinjas et ortos si·nde deppiant lamentare a sos popillos de sus boes daenante de cusus hominis de sa villa dues boltes, dando·llis at intendere ad sos popillos de sus boes in presençia de cusus homines de sa villa /36v/ de gite pillu et gite boes ant avir acaptados in sa‹s› vinjas et ortos isoro. Et dae c’a‹n›t avir fatu cusus duos clamus, si bie·nde acaptant plus de cusus boes qui si a‹n›t esere lame‹n›tados, ochiant·bie·llos. Et simillimenti si intendat et deppiat·‹si› faguere quando de cusus boes qui sunt narados de supra s’ant acaptari in sus lavores dae sa prima die de martu innante. Et de atteru apretçu de dannu qui faguint cusos suprascriptos boes in vinjas et in hortos et in lavores non si deppiat faguere ne intendere·llo a chertu qui ’ndi bolleret mover.
gna per l’erario regio e mandarli senza indugio a Oristano, alla nostra corte: se non adempirà subito, e l’ufficiale maggiore ne riceve denuncia e viene provato, il curadore sarà condannato a pagare 100 soldi per ogni volta che è dimostrato colpevole. Se per caso i proprietari delle vigne e degli orti non riescono a tenturare nei loro terreni i buoi sorpresi nelle circostanze di cui sopra, dovranno lagnarsene coi padroni degli animali davanti agli uomini del villaggio, e questo per due volte: porteranno a conoscenza dei proprietari dei buoi, alla presenza degli uomini del villaggio, il manto e la razza delle bestie sorprese nelle proprie vigne e orti. Fatti i due reclami, se di nuovo trovano i buoi per i quali si sono lamentati, li uccideranno. Similmente si dovrà fare quando i buoi, nelle circostanze sopra descritte, sono trovati nei semineri dal primo giorno di marzo in poi. Qualora si volesse muovere una lite per ottenere un’altra stima del danno procurato dai buoi nelle vigne, negli orti e nei semineri, tale lite non dovrà essere ammessa né dibattuta.
‹CXIV. De su molenti in lavores› ‹I›tem ordinamus qui su molenti qui s’at acatare in su levore seguint·illi una origa sa prima bolta qui ’loi at esere acaptadu; et sa secunda bolta illi seguint sa attera origha, et dae cusas dues boltas innanti, quando iloi ‹at› esere acaptadu, sus popillus de sos lavores o armentargios issoro bie·llo potsa‹n›t tenne e dare·llo in manu de su curadore de sa villa; et isu curadore illos mandit incontinenti in Aristanis at sa corte nostra. Et si incontra faguirit, su curadore paguit a sa corte sollos C secundu ‹qui› si contenit de supra. Ed isu dannu siat ismendadu a su popillo de su lavore per isu popillu de su molenti.
CXIV. Degli asini nei semineri Parimenti ordiniamo che all’asino trovato nei semineri sarà tagliato un orecchio, la prima volta; la seconda volta gli sarà mozzato pure l’altro orecchio e, da allora in poi, se vi sarà trovato di nuovo, i proprietari dei semineri o i loro armentargios lo potranno tenturare e consegnare a disposizione del curadore del villaggio; questi lo manderà senza indugio a Oristano, alla nostra corte. Se contravverrà, il curadore pagherà alla corte 100 soldi, secondo quanto è previsto sopra. Il padrone dell’asino dovrà risarcire il danno al proprietario del seminerio.
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Carta de Logu
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‹CXV. Bestiamen in bingnas› /37r/ ‹I›tem ordinamus qui su bestiamini domadu qui s’at acaptari in vinjas o in ortos o in lavores andando cun bestiamini rude, si sos popillos de sas vinjas e de sos hortos et de sos lavores, servidores ‹o› armentargios isoro bie·llo lansarint getando a su bestiamini rude et moret·inde de su bestiamini domadu, qui non appat carrighu ni dannu cusu qui bie·llu at ochire o lansare contra vuluntadi sua. Et caluncha persone qui at lavore in su monte in su calli non est usadu de lavorare et eseret traighu de bestiamen rude, illu deppiat rêrre bene cunjadu. Et si no si cungat bene, su danu qui ’lloe at faguir non si depiat apretçare et non si deppiat pagare tenturas; et si esseret bene cunjadu, si deppiat maxellare secundu qui si contenit in sus atteros capitulos de su bestiamen rude.
CXV. Bestiame nelle vigne Parimenti ordiniamo che, se nelle vigne, negli orti o nei semineri si trova del bestiame domato insieme con bestiame brado, e i proprietari delle vigne, degli orti o dei semineri, ovvero i servitori o armentargios di loro, scagliano qualcosa contro il bestiame brado ma feriscono e muore del bestiame domato, colui che lo ha involontariamente abbattuto o ferito non ne avrà responsabilità né danno. Chiunque ha un seminerio in montagna, ove non è consuetudine lavorare la terra, e vi è passaggio di bestiame brado, lo dovrà tenere ben recintato. Se non lo recinta bene, il danno procuratogli non dovrà essere stimato e non si dovrà pagare la tentura degli animali; se invece è ben recintato, si dovranno macellare gli animali, secondo quanto si dispone negli altri capitoli sul bestiame brado.
‹CXVI. De is pastores› ‹I›tem ordinamus qui sos maxellos et apretsos qui s’ant faguer deppiant pagare sus pastores. Et si non ant de gite pagare sus pastores, paguit su popillo de su bestiamen, e posca si fatsat pagari dae su sallario de sus ditus pastores.
CXVI. Dei pastori Parimenti ordiniamo che i pastori dovranno pagare le macellazioni e le stime dei danni che si faranno. Se essi non avranno di che pagare, al risarcimento provvederà il padrone del bestiame, per poi rivalersi sul salario dei pastori.
‹CXVII. De is pastores› /37v/ ‹I›tem ordinamus qui sas gamas qui s’ant perder pro sa abba fera paguint·illas sus pastores, reservado si non eseret culpa de sus ditus pastores.
CXVII. Dei pastori Parimenti ordiniamo che i pastori dovranno il risarcimento per le greggi morte per aver bevuto acqua avvelenata, a meno che siano senza colpa.
‹CXVIII. De pastores› ‹I›tem ordinamus qui siant tenudos sus pastores de pagare su perdimentu qui at faguir su bestiamen qui ant pasquiri, su de nocte qualli et isu de die, si non bogant a claru in cu‹i›a xida si at faguere su perdimentu.
CXVIII. Dei pastori Parimenti ordiniamo che i pastori dovranno risarcire collettivamente il danno causato dal bestiame da essi condotto al pascolo, così di giorno come di notte, a meno che non precisino nel turno di custodia di chi sia stato prodotto detto danno.
‹CXIX. De is paximentos› ‹I›tem ordinamus qui sus pastores qui ant pasquiri ad alcuna
CXIX. Del portare a pascere Parimenti ordiniamo che i pastori che portano al pascolo bestie
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persone pro sa raxone isoro siant tenudos de gordare bene su bestiamen qui ’llis at esere acomandadu. Et si su popillu de cusu bestiamen indi rexivirit alcuno dannu per culpa sua et eseret·indi binquidu, paguit cusu dannu at cusa persone qui l’at avir acomandadu cusu bestiamen; et si non at de giteu pagari, istit in pregione infini a tantu qui s’at acordari cun su popillu de cusu bestiamen.
di un altro, ricevendone un salario, dovranno custodire bene il bestiame affidato loro. Se il proprietario del bestiame subisce danno per colpa di un pastore, e questi ne è riconosciuto colpevole, rifonderà il danno a chi gli ha affidato il bestiame; se non ha di che pagare, resterà in prigione fintantoché non trovi un accordo col proprietario del bestiame.
‹CXX. Qui maxellaret a tortu› ‹I›tem ordinamus qui si alcuna persone at maxellari a tortu causa de su regnu, paguit pro s’uno V si ’nd’est binquidu; et si est de clesia o de attera persone paguit pro s’uno III pro calle at esere sa causa c’at avir matxellada /38r/ et sollos C de maquiçia et boe unu a su curadore.
CXX. Del macellare senza diritto Parimenti ordiniamo che se qualcuno macella senza diritto un capo di bestiame del patrimonio regio dovrà rifondere 5 volte il suo valore, se viene riconosciuto colpevole; se appartiene alla Chiesa o ad altri pagherà 3 volte il valore del capo macellato, quale che esso capo sia, più 100 soldi di multa e un bue al curadore.
‹CXXI. De feriis› ‹I›tem ordinamus qui si intendat esere feriada sa festa de santu Johani e de santu Agustinu e de santo Marcu de Sinnis de sas curadories qui sunt ordinadas de venne ad Aristanis pro faguir sa quida de baruda.
CXXI. Delle ferie Parimenti ordiniamo che dovranno essere considerati giorni feriati dalle curadorias che hanno obbligo di venire a Oristano per fare la chida de berruda la festa di san Giovanni, sant’Agostino e san Marco di Sinis.
‹CXXII. De sas curadorias obligadas andari a quida de berrude› ‹I›tem ordinamus qui sas curadories et vilas qui sunt ordinadas de benne ad Aristanis pro rêrre sa quida de baruda siant tenudas de benne secundu qui est ordinadu et usadu, salvu si cusa curadoria over villa ad qui at gitare bene in sas ditas dies feriadas o festas, qui non siat tenta de bene in sas ditas ferias, ma siat tenuda de torrare cusas dies qui l’ant gitare qui non siant feriades. Et si totu sa muda sua illi benneret et eserent dies feriadas, non siat tenuda de bene infini qui l’at bene sa attera muda sua.
CXXII. Delle curadorias obbligate ad andare a chida de berruda Parimenti ordiniamo che le curadorias e i villaggi che hanno obbligo di venire a Oristano per reggere la chida de berruda saranno tenuti a presentarsi secondo l’ordine ricevuto e la consuetudine. Si fa eccezione per le curadorias o i villaggi cui tocchi di venire nei giorni feriati o feste di cui sopra: in tali ferie non saranno tenuti a venire, ma dovranno tornare nei giorni non feriati di propria spettanza. Se il loro turno viene a sovrapporsi per intero con giorni feriati, non saranno tenuti a presentarsi fintantoché non giungerà per essi il turno successivo.
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Et icusas sentencias qui s’ant dare in alcuna de cusas dies feriades secundu qui sunt escriptas de supra in alcuna corona de Loghu o de quida de berruda o de attera non bagia‹n›t nen tengiant.
Le sentenze pronunziate in uno dei giorni feriati sopra elencati in una corona de Logu o di chida de berruda o altra non avranno valore.
‹CXXIII. De nodaios› /38v/ ‹I›tem ordinamus, pro bollere seçare multos dannos sus callis sos subditos nostros sustenent per culpa e nigligençia de sus nodaios, ordinamus e statuimus qui cascuno nodaio de su Juigadu nostru de Arbarrê siant tenudos et depiant faguir vollumen de sas cartas et iscriptures c’ant faguere, su qualle vullumen siat a su minus cascuno de fogios XV in suçu, et in çu calle deppiat faguir iscriviri et notari toto sos contractos, testamentos et inventarios et incantos et acteras causas et cartas qui ant faguir infra dies X posca qui ’llas ant avir levadas et factas daessos contraentes. Et in casu qui alcuno nodaio contra faguirit et eseret·illi provadu, paguit per cascuna bolta liras V et siat tenudu de pagare et satisfaguiri su dannu et interese a sa parti qui ’llos susteneret pro sa dita ocaxione. Et de custu siat tenudu de fagere·nde rexone su potestadi nostru de Aristanis in su oficio suo cun tres juigantis et isus aterros oficiallis in sos oficios isoro donja mese una volta supta dita pena.
CXXIII. Dei notai Parimenti ordiniamo e disponiamo, poiché vogliamo metter fine ai molti danni che i nostri sudditi patiscono per colpa e negligenza dei notai, che ciascun notaio del nostro Giudicato di Arborea dovrà obbligatoriamente raccogliere in volume le carte e le scritture da lui redatte. Tali volumi dovranno essere di almeno di 15 fogli ciascuno, e in essi dovranno trascrivere e annotare tutti i contratti, i testamenti, gli inventari, gli incanti e gli altri atti e documenti da loro stilati, entro 10 giorni dacché li hanno assunti dai contraenti e redatti. Nel caso che un notaio contravvenga, e sia dimostrato colpevole, pagherà 5 lire per ogni volta e dovrà rifondere il danno con gli interessi in soddisfazione della parte che per tale cagione il danno ha subito. In relazione a ciò, dovrà amministrare giustizia il nostro podestà di Oristano nel suo ufficio, con tre giurati, e gli altri ufficiali nel loro ufficio, una volta al mese, sotto minaccia della detta pena.
SALARIOS ‹O›RDINAMENTOS DE SOS SALARIOS ET PAGAS QUI DEBENT LEVARE SUS AUDITORES DE SA AUDIENÇIA ED ISUS NODAIOS
SALARI ORDINAMENTI DEI SALARI E DELLE PARCELLE CHE DEVONO PERCEPIRE GLI UDITORI DELL’UDIENZA E I NOTAI
PRO RAGIONE ISORO
COME LORO ONORARIO
/39r/ ‹CXXIV.› ‹D›e sos sallarios qui debent levare sus auditores, notarios et escrivanos ‹Or›dinamus qui sos auditores de sa Audiençia nostra, qui sunt a su presente et qui ant esere per innantis, non usint ne deppiant
CXXIV. Dei salari che devono percepire gli uditori, i notai e gli scrivani Ordiniamo che gli uditori della nostra Udienza, che sono al presente o saranno in futuro, non oseranno né dovranno ricevere
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levari pro salario isoro de sas quistiones qui ’llis ant benne a manu si no sollu I per lira. ‹Or›dinamus qui ‹sos nodaius› deppiant levari de sas ixedas qui ant faguir de bendicione o de cambiu, cun pagadore et sença pagadore, intro de sa botega sua de sa notaria sollu I, dinaris IIII. Et foras de sa botega, intro però de sa terra, sollos II; e si foras de sa terra bolent portare so nodaio, acordint·si·ndi inpari de su preçu. Et si alcuna de sas ditas cartas bollerent in forma publica, si ant esere de liras X in josu deppiat lavari su notaiu sollos VI, et si ant esere ‹dae› liras X in susu sollos XII. Et de sa firmadura de carta de franquidadi, cun testame‹n›tu et sensa testamentu, dae sollos XV infini a sollos XXV per testa, secundu sa calitadi de su homini; et de sas ixedas de franquidadi, sollos III. Et de sas ixedas de prestansas, acomandicies, de deposidu et de confeçione et de vendicione de causas mobillis, sensa pagadores et cun pagadores, in butega sua sollu I. Et foras de botiga, intro de sa terra, sollos II. /39v/ Et de sas ixedas de sas locaçiones et libellos de domos ‹et de vignas› et de fantis et de barbagaios et de juargios, in butega sua, cun paguadore et sença pagadore, sollu I, dinaris IIII. Et foras de sa butega, sollos II. Et de sa firmadura de cascuna de sas cartas supraditas, sollos VI. Et de sas ixedas de sos testamentos, dae sollos V infini sollos X, secundu su testamentu, intro de sa terra. Et de sa firmadura, sollos X per sentenaio de çiò qui ant balliri sus benis de su testadori infini sollos XX, secundu ‹su› testamentu et isa callidadi de su homini. Et de sa ixeda de su inventario et firmadura, dinaris IIII per lira de siò qui ant balliri sus benis. Et ciascuno membru de ‹te›stamentu firmadu, dae sollos V infini sollos X, secundu sa qualidadi de su fatu. Et de sas ixedas de sas coiuanças e de sa ispoçansa, dae sollos V infini sollos X. Et de sa firmadura, sollos XX per chentenaiu de ciò 116
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come compenso in relazione alle questioni da loro trattate se non 1 soldo per lira. Ordiniamo che i notai, in relazione alle minute che redigono per le vendite o le permute, con o senza mallevadore, dovranno percepire 1 soldo e 4 denari, all’interno della propria bottega notarile. Fuori dalla bottega, però, ma all’interno della regione, 2 soldi; se si vorrà condurre il notaio fuori dalla regione, si dovrà concordare insieme il prezzo. Se si vorrà uno dei documenti menzionati in forma di scrittura pubblica, il notaio dovrà percepire 6 soldi, se la carta riguarda beni il cui valore non superi le 10 lire, o 12 soldi, se riguarda beni dalle 10 lire in su. Per la stesura di un istrumento di franchigia, con testamento o senza, dovrà percepire da 15 a 25 soldi per ogni persona, secondo la condizione dell’uomo; per le minute di franchigia, 3 soldi. Per le minute relative a prestiti, accomandigie, depositi, dichiarazioni di soddisfacimento delle pretese e vendite di beni mobili, con o senza mallevadori, 1 soldo all’interno della propria bottega. Fuori dalla bottega, ma all’interno della regione, 2 soldi. Per le minute di locazioni e livelli di case, vigne, servi, pastori, mandriani, con o senza mallevadore, 1 soldo e 4 denari all’interno della sua bottega. Fuori dalla bottega, 2 soldi. Per la stesura mediante istrumento di ciascuna delle carte sopra menzionate, 6 soldi. Per le minute di testamenti da 5 a 10 soldi, a seconda del testamento, all’interno della regione. Per la stesura mediante istrumento da 10 a 20 soldi, a seconda del testamento e della condizione dell’uomo, ogni 100 di valore dei beni del testatore. Per la minuta di inventario e la stesura mediante istrumento, 4 denari per ogni lira del valore dei beni. Per ciascun estratto testamentario autenticato, da 5 a 10 soldi, a seconda del suo contenuto. Per le minute di accordi matrimoniali e di sponsali, da 5 a 10 soldi. Per la stesura mediante istrumento, 20 soldi ogni 100 del117
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qui at muntari sa doda, secundu sa callidadi de sas persones, gasi de sa firmadura de sa jura et de sa ispoçansa comente et de sas dodas. Et de sas ixedas de sus comandam‹en›tos, requestas, teneris ‹et istasinas› et apellaçiones, dinaris VI. /40r/ Et de sas firmaduras de cascuna de cusas cartas, sollos VI. Et de sas ixedas de sus inventarios et incantos, de cascuna dinaris IIII per lira. Et de sa firmadura, dae sollos XX infini a sollos XXXX, secundu sa qualidadi de su incantu et de sa‹s› personis. Et de sas ixedas qui faguint pro sus hominis qui bogant de prexone, de cascuno pagadore sollu I. Et de sas ixedas de sas procuras, intro de botega sollu I, et foras de sa butega, intro de sa terra, sollos II. Et de sa firmadura, dae sollos III infini sollos VI. Et de sas ixedas de sentencias interlocutories et de compromisus, sollos II per parte. Et de sas sentencias difinitivas qui ant esere dae liras X in joso, paguit sollos V; et dae liras X infini a liras L, sollos X, et dae liras L infini a liras C, sollos XX, et de liras C in susu sollos XXX. Et de sa apellaçione qui s’at faguere in paraullas, sollos II, et si si faguit in iscriptu, sollos III infini sollos V, secundu su vulumen de sa escriptura. Et de sos prosesos qui s’ant lavari dae sa corti per via de apellaçione, deppiat levari su notaiu over escrivano dinaris VIII per carta, escrivendo in cascuna carta rigas XXVIII. /40v/ Et pro sas procuras et advocaciones qui s’ant faguir in corte qui pacto non ’loi apat, si sa dimanda at esere dae liras X in josu apat su procuradori sollos X, et dae liras X in susu apat su procuradore dinaris VI per lira, exceptu si si·ndi acordarint inpari. Et çiò si intendat de sa cantidadi qui s’at dimandari. Et de sa firmadura de ciadiscuna de sas suprascriptas cartas, sollos XX. Et de sa xircadura de sos actos, si si acatat sa carta qui s’at faguir xircari dinaris VI per anno, ‹et si non si acaptat dinaris tres per annu›. 118
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l’ammontare della dote, a seconda della condizione delle persone: così per la stesura mediante istrumento dei contratti di matrimonio e degli sponsali, come dei contratti dotali. Per le minute relative a ingiunzioni, istanze, possessi giudiziari di beni, sequestri e ricorsi, 6 denari. Per la stesura mediante istrumento di ciascuna di tali carte, 6 soldi. Per le minute di inventari e incanti, 4 denari per lira per ciascuna minuta. Per la stesura mediante istrumento, da 20 a 40 soldi a seconda del tipo di incanto e delle persone. Per le minute che si redigono quando si liberano le persone di prigione, 1 soldo da ciascun mallevadore. Per le minute di procura che si stendono all’interno della bottega, 1 soldo; fuori dalla bottega, ma all’interno della regione, 2 soldi. Per la stesura mediante istrumento, da 3 a 6 soldi. Per le minute delle sentenze interlocutorie e degli arbitrati, 2 soldi per parte. Per le sentenze definitive con riferimento a somme da 10 lire in giù, si pagheranno 5 soldi; da 10 a 50 lire, 10 soldi, da 50 a 100 lire, 20 soldi e dalle 100 lire in su 30 soldi. Per gli appelli portati verbalmente 2 soldi, per quelli scritti da 3 a 5, a seconda delle dimensioni del documento. Per i verbali dei processi presi dalla corte per presentare appello, il notaio ovvero lo scrivano dovrà percepire 8 denari per una carta di 28 righe. Per le procure e le avvocature presso la corte, senza aver pattuito in precedenza, se la richiesta sarà da 10 lire in giù, il procuratore avrà 10 soldi, da 10 lire in su 6 denari per lira, a meno che non si siano accordati insieme. Quanto detto fa riferimento alle somme richieste. Per la stesura mediante istrumento di ciascuna delle dette carte, 20 soldi. Per la ricerca di atti, 6 denari per annata, se si trova la carta richiesta; se non la si trova, 3 denari per annata.
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Et de totas sas atteras ixedas et cartas firmadas de sa‹s› callis non si faguit mençione in custa Carta de Loghu, cusa personi qui las at faguir si·nde acordet cun so notaiu, e si non si·ndi acordat cu‹n› su notaiu, siat·inde daenanti de su oficialli de sa terra, et icusu qui su ditu oficialli indi at sentenciari et comandari si·ndi deppiat faguir. Et si alcuno notaiu at esere acatadu bene incontra sos presentes hordinamentos, qui doni bolta qui ’ndi at esere acusadu et binquidu deppiat pagare a sa corti su dopio de çiò qui ’ndi at avir levadu plus.
Per tutte le altre minute e istrumenti dei quali non si faccia menzione in questa Carta de Logu, la persona che le fa fare dovrà accordarsi col notaio; in caso contrario, si presenteranno dinanzi all’ufficiale della regione e si procederà al riguardo come questi decreterà con sentenza. Se qualche notaio è colto a contravvenire alle presenti disposizioni, per ogni volta che è accusato di ciò ed è sconfitto in giudizio dovrà pagare alla corte il doppio di ciò che ha percepito in più.
‹O›RDINAMENTOS DE SOS SALARIOS QUI DEBENT LEVARE
ORDINAMENTI DEI SALARI CHE DEVONO PERCEPIRE GLI SCRIVANI
SUS ISCRIVANOS DE CORONA PRO RAXIONE ISORO
DI CORONA COME LORO ONORARIO
‹O›rdinamus qui deppiant levari de cusas persones qui ant mandari sas nunças per cascuna testa dinaris IIII. Et fatsat·‹si› paguare dae cascuna persone qui faguit nunsare testimongios pro cascuno testimongio pro sa pulitça dinaris II. /41r/ Et pro su examinamentu, per çiascuno qui s’at examinari dinaris VI, et iscrivat et istendat su narri de cascuno testimongio. Et fatsat·si pagari dae cusas persones qui ant ‹a›comandari chertos isoro ad alcuna attera persone pro sa iscriptura qui ’nd’at faguir dinaris VI. Et fasat·si pagari de ecusas persones qui ant esere postas a corona de Loghu pro chertos qui ant esere fatos in sas contradas, cando alcuno indi mancharit at su la‹ssa›mentu de sa corona de Loghu, pro sa escriptura de cusa parti qui at esere benida dinaris VI. Et fatat·si pagari pro sas politças de sos xertos binquidos cando si mandat pro faguire·llos pagari: dae sollos X infini a sollos C dinaris XII, e dae sollos C infini in liras ‹X›XV sollos II;
Ordiniamo che dovranno percepire da coloro che hanno richiesto un decreto di citazione 4 denari per ciascuna persona. Si farà pagare, da ogni persona che fa comparire dei testimoni, 2 denari a testimone per l’atto di citazione. Per l’interrogatorio di ogni persona ascoltata 6 denari: dovrà registrare per iscritto la deposizione di ciascun testimone. Si farà pagare, dalle persone che conferiranno procura alla rappresentanza in giudizio, 6 denari per il relativo atto. Si farà pagare da coloro che sono stati convocati in corona de Logu per liti mosse nelle contrade, quando qualcuno di essi non si presenti allo scioglimento della corona de Logu, 6 denari per la registrazione della parte che si è presentata. Si farà dare per le ingiunzioni di pagamento delle liti vinte, quando si manda [il messo] per disporne il versamento: per le liti da 10 sino a 100 soldi, 12 denari, e da 100 soldi sino a 25 lire, 2 soldi;
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dae liras XXV infini liras L sollos III, dae liras L infini liras C sollos V; dae liras C infini in liras milli sollos X. Sos hominis qui benint pro reere xida de beruda, pro iscrivire·llos, cascuno dinaris II, so qui at esere pro curadori et at rêrre corona non paguit. Totu custus pagamentos qui s’ant faguir si paguint dae cusa parti qui at perdere su quertu.
da 25 a 50 lire, 3 soldi, da 50 sino a 100 lire, 5 soldi; da 100 sino a 1000 lire, 10 soldi. Gli uomini che vengono per tenere la chida de berruda, per essere registrati, verseranno 2 denari ciascuno. Colui che farà le veci del curadore e presiederà la corona, però, non pagherà. Tutti questi pagamenti dovuti saranno imputati alla parte che avrà perso la lite.
‹CXXV.› Dessas dies feriades qui non si debet rehere corona ni de Loghu e ni attera e ni de beruda in sas quallis comandamus qui non si·ndi deppiat rêrre /41v/ In primis sas dominiguas de totu s’anno et totas sas festas de santa Maria; item totas ‹sas› festas de sos Apostollos e totas sas festas de sos Evangellistes; item sas ferias de sas venenias, çiò est dae sa festa de santa Maria, qui est a dies VIII de capudanni, infini a su primu die de santo Gaini; item sa festa de donnja santo ed isa festa de sus mortos; item sa festa de santu Martini; item sa festa de santo Nicolla; sa die de sa festa de santa Luçia; sa die de sa festa de santu Anthoni; sa Pascua de sa Nativitadi et dies VIII depus Pascua et VIII innantis; sos lunis et martis inna‹n›tis de segari petça ed isu mercuris prima die de Quaressima; sa Pasca de Epifania qui si clamat Pasca nunçi; sa festa de Asençione; sa Pasca de Penticosta cun dues dies sequentis; sas festas de su Corpus de Christus; totu sa quida santa et VIII dies apusti Pasca;
CXXV. Dei giorni feriati nei quali proibiamo che si tenga corona de Logu o de berruda o altra Innanzitutto le domeniche di tutto l’anno e tutte le feste di santa Maria; del pari, tutte le feste degli Apostoli e degli Evangelisti; del pari, le ferie delle vendemmie, cioè dalla festa di santa Maria, l’8 di settembre, sino al primo giorno di ottobre; del pari la festa di Ognissanti e quella dei morti; del pari, la festa di san Martino; del pari, la festa di san Nicola; il giorno della festa di santa Lucia; il giorno della festa di sant’Antonio; la Pasqua della Natività, con gli 8 giorni successivi e gli 8 giorni precedenti; il lunedì e il martedì prima di carnevale e il mercoledì primo giorno di Quaresima; la Pasqua Epifania, detta anche Pasca nunçi [Pascha annuntiationis]; la festa dell’Ascensione; la Pasqua di Pentecoste coi due giorni che seguono; la festa del Corpus Domini; tutta la settimana santa e l’ottava di Pasqua;
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sas ferias de sas mesas, et sunt dae XV de lampadas infini de XV de triullas, /42r/ exceptada sa corona de L‹o›ghu de santu Perdu qui si reet ad volintadi nostra, et exceptadu qui si potsant minari sas quistionis a vulintadi de sas partis, ed isu similli qui senper si reat sa Audiençia.
le ferie delle messi, vale a dire dal 15 giugno sino al 15 luglio, eccezion fatta per la corona de Logu di san Pietro, che si tiene per nostro volere, per le questioni che si trattano con l’accordo delle parti, e similmente si terrà sempre l’Udienza.
‹CXXVI. Carradores› ‹I›tem ordinamus, pro cesari multas fraudes qui faguint et comitint sos carradoris qui portant vino dae uno loghu at uno atteru, ordinamus et estatuimus qui nexuno caradore qui portat cuba de vino over carada non deppiat ne presumat dae comu innantis de su vino qui portarit bogarre·nde, ne lesare·nde bogare, ni consentiri qui nixuna personi indi boguit nen biat, ne dare·nde ad alcuna persone, at minus de bolintadi et consentimentu de su popillo de su vino. Et ancu no ’loi depiat mitiri abba nen attera mescladura, suta pena de sollos C ad opus de sa corte, cascuna bolta qui contra faguirit et eseret·illi provadu, et de pagare su dannu ad su popillo de su vino. Et isa ‹si›milli pena si intendat ad icusu qui ’ndi at bogare o a biere de su ditu vino sensa paraulla de qui at esere su ditu vino, bene qui non eseret su carradore. Et icustu capitullu bolemus qui si intendat a donja attera marcantia et atteras causas qui si portarint cun carros over cun bestias de uno loghu ‹ad un’›attero: qui nixuno ilos usit isxollire ne travigare e ni faguir illoi mallitçia ni barataria alcuna. Et ‹de› çiò caschaduna persone potçant acusari cusas godallis persones qui in çiò eserent inculpadus et apat·inde sa tersa parti de sa pena cusu o cusos qui ’llos ant acusari.
CXXVI. Carrettieri Parimenti ordiniamo e stabiliamo, per porre fine alle frodi di cui si rendono autori i carrettieri che trasportano vino da una località a un’altra, che d’ora in avanti nessuno di essi, conducendo botti di vino o caratelli, dovrà od oserà spillare del vino trasportato, né lasciarne spillare, né consentire a che qualcuno ne spilli o beva, né darne ad alcuna persona, salvo che dietro indicazione e col consenso del proprietario del vino. E neppure dovrà tagliarlo con acqua né mischiarvi altra sostanza, sotto pena di 100 soldi a favore della corte, per ogni volta che contravviene e ne è dimostrato colpevole, e del risarcimento del danno al padrone del vino. La medesima pena si applicherà a chi spilla o beve del vino in questione senza autorizzazione del proprietario, anche se non si tratti del carrettiere. Quanto previsto in questo capitolo vogliamo si applichi a ogni altra mercanzia e cosa condotta con carri o bestie da una località a un’altra: nessuno oserà scioglierla, né trafficare, né porre in essere azioni illecite o fraudolente in relazione a essa. Chiunque potrà accusare le persone colpevoli di questi reati e avrà la terza parte della multa.
‹CXXVII. De logare cavallu› /42v/ ‹I›tem ordinamus, pro cesari donja litigi et quistione qui si faguirit in alogari et dari alcuno covallo a bitura, ordinamus e statuhimus qui donja persone posat allogare su cavallo suo sensa qui non siat tenudu de andari a sa corti a faguere·llos scriviri, cassando donja atteru capitullu supra çiò in contrario.
CXXVII. Del dare a nolo cavalli Parimenti ordiniamo e stabiliamo, per porre fine alle liti e alle questioni che sorgono quando si allogano o si danno a vettura i cavalli, che ognuno potrà dare a nolo il proprio cavallo senza essere tenuto a recarsi alla corte per registrarlo, annullando qualunque altro capitolo in materia che disponga contrariamente.
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Et in casu qui su cavallu moret per culpa de su conductore over ‹de› qui ’llu cavalcarit, siat tenudu de pagare·llo ad cui at esere fagendo·llo istimari a duos o tres bonos hominis de cusos qui l’ant avir conosquidu.
Nel caso che il cavallo muoia per colpa del conduttore o di colui che lo cavalca, questi dovrà rimborsare il proprietario facendo stimare l’animale da due o tre probi uomini che lo abbiano conosciuto.
‹CXXVIII. De non blastomari a Deus› ‹I›tem ordinamus, pro qui Deus omnipotenti si debet supra totu sas causas honorari, timiri, guardari et obediri, et apresu sa Virgini gloriosa santa Maria et isus Apostollos, Santos et Santas de Deu, ordinamus qui si alcuna persone, de caluncha condicione siat, qui at brestomari a Deus over a santa Maria et illi at esere provadu, siat comdenpnadu in lires L, sas callis deppiat pagari infra dies XV de qui at esere condenpnadu. Et si non pagat infra su ditu tenpus, mitat·si·lli uno amo in sa limba et siat·illi tagiada per modu qui la perdat. Et si brastomarit alcuno Santo, siat condepnadu in liras XXV, sas quallis deppiat pagare infra dies XV posca qui at esere condenpnadu. Et si non pagat infra su ditu tenpus, mitat·si·lli uno amo in sa limba et cu‹n› isu siat afrustadu per tota sa terra hui at avir dellenquidu et non apat attera pena.
CXXVIII. Del non bestemmiare Dio Parimenti, poiché è Dio onnipotente che sopra ogni cosa si deve onorare, temere, rispettare e a cui si deve obbedire, e poi la Vergine gloriosa santa Maria, gli Apostoli, i Santi e le Sante di Dio, ordiniamo che se una persona, qualunque sia la sua condizione, bestemmia Dio o santa Maria, e ne è dimostrata colpevole, sarà condannata a 50 lire di multa da pagare entro 15 giorni dalla condanna. Se non paga entro il termine fissato, le sarà conficcato un uncino nella lingua e questa le sarà tagliata in modo che la perda. Se bestemmia qualche Santo, sarà condannata a 25 lire di multa da pagare entro 15 giorni dalla condanna. Se non paga entro il termine fissato, le sarà conficcato un uncino nella lingua e con esso sarà frustata per tutta la regione ove ha compiuto il delitto, senza altra pena.
‹CXXIX. De sa Charta de Loghu› /43r/ ‹I›tem ordinamus qui cascuno curadore siat tenudo et deppiat avir ad ispesas suas sa Carta de Loghu, cun sa qualli isu et isus juradus et juigantis si potsant plenamenti informari quando eserent a sos bisonjus. Et deppiat·illa levari dae sa camara nostra et deppiat·illa observari cun totu sos capitullos qui si·lloe contenit et ordiname‹n›tos qui sunt iscriptos in sa predita Carta. Et icusu curadore a qui at essere provadu qui non avirit sa dita Carta de L‹o›ghu levada et non ‹at› faguir et observari totu cusu qui in cusa si contenit, paguit ad sa cort‹e› nostra per cascuna bolta qui l’at esere provadu sollos C.
CXXIX. Della Carta de Logu Parimenti ordiniamo che ogni curadore dovrà obbligatoriamente possedere a proprie spese copia della Carta de Logu dalla quale egli, i giurati e i giudici potranno ricavare piena informazione in caso di bisogno. Dovrà trarla dalla nostra camera e osservarla in tutti i capitoli e ordinamenti in essa contenuti per iscritto. Il curadore del quale si provi che non abbia tratto la propria copia della Carta de Logu e non faccia e osservi tutto quanto essa prescrive, pagherà alla nostra corte 100 soldi per ogni volta che ne sarà dimostrato colpevole.
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Et deppiat su ditu curadore avir sa dita Carta dae sa prima corona de Loghu de Palma a sa attera corona de Loghu de santu Perdu suta dita pena.
Il curadore, sotto la minaccia di detta pena, dovrà detenere la Carta dalla prima corona de Logu delle Palme sino a quella di san Pietro.
‹CXXX. Debitu pagadu› ‹I›tem ordinamus et estatuimus qui ‹si› qualecuna persone at dimandari deppidu pagadu over torrarit a dimandari chertu binxidu et difinidu, siat comdenpnadu in su dopio de cusa cantidadi de qui eseret pagadu over vinquidu. E ciò si intendat ad icusas persones at sas callis prinsipa‹li›menti esseret fatu du ditu pagamentu over qui eseret binquidu, exceptu si eserent eredes et succesores de su prinsipalli, qui de cusu pagamentu et binquidura ch’eseret fata eserent negligentes et no ’ndi eserent quertus: qui in cusu casu non siant tenudos a pagare pena alcuna, ma si·ndi depiat observare secundu qui de raxone si·ndi acaptarit.
CXXX. Debiti pagati Parimenti ordiniamo e stabiliamo che se qualcuno reclama un debito già estinto ovvero ripropone un’azione legale già vinta e definita, sarà condannato a pagare il doppio della somma ricevuta o vinta per via giudiziaria. Ciò si intende riferito a coloro che hanno beneficiato principalmente del pagamento ricevuto o vinto in via giudiziaria. Si fa eccezione per gli eredi e successori del principale beneficiario che siano stati negligenti in relazione al pagamento ricevuto o vinto in via giudiziaria, sempre che non ne nascano liti: in tal caso, non saranno tenuti al versamento di alcuna ammenda, ma si dovrà osservare quanto emerso sulla vicenda secondo diritto.
/43v/ ORDINAM‹EN›TOS DE COMONARJOS
ORDINAMENTI DEI SOCCI
‹CXXXI.› ‹I›tem hordinamus qui si alcunu homini levarit cumoni dae attera persona ‹de› alcuno bestiamen e ad cusu pastore si·lli at provari fraudi de bestia qui avirit vendidu o donadu o amagadu, e non lo at nare a su dono suo cando ant faguir ragioni intro de su anno qui fasiant raxione de su bestiamini, et provarit·si·llu legitimamenti, perdat su comoni et paguit de maquisia a sa corti nostra liras XXV.
CXXXI. Parimenti ordiniamo che se un allevatore prende in soccida da altri dei capi di bestiame e si dimostra che ha commesso frodi in relazione a essi vendendoli, o donandoli, o nascondendoli, senza dirlo al soccidante quando fanno il conteggio dei capi al termine dell’anno, se ciò si prova nei modi di legge perderà il contratto di soccida e pagherà alla nostra corte 25 lire di multa.
‹CXXXII. Cumonis› ‹I›tem ordinamus qui su cumonarju siat tenudu et deppiat dari sa parti de caso et lati e lana de honia tenpus qui intrada faguirit a su dono suo. Et si si·lli provat legitimamenti qui sa parti non li darit justa a su dono suo, perdat su comoni et paguit de maquiçia a sa corti nostra liras XXV.
CXXXII. Contratti di soccida Parimenti ordiniamo che il soccio dovrà dare obbligatoriamente al soccidante la quota delle entrate ricavate ogni volta da formaggio, latte e lana. Se si dimostra nei modi di legge che non ha consegnato la giusta quota al soccidante, perderà il contratto di soccida e pagherà alla nostra corte 25 lire di multa.
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‹CXXXIII. Cumonis› ‹I›tem hordinamus que nexuno comonarju no usit nen depiat levari cumoni supra comoni sensa voluntadi de su dono suo et sensa inde·llu co‹n›vidari; et si ’llo levarit a vulintadi sua, sensa indi isquiri su dono suo, perdat su comoni et paguit de maquisia a sa corti nostra liras XXV, sas quallis paguint a comoni con cusu qui l’at avir desviadu de ’lli dari comoni supra comoni.
CXXXIII. Contratti di soccida Parimenti ordiniamo che nessun soccio oserà né dovrà concludere un ulteriore contratto di soccida senza il consenso del soccidante e senza che questi sia stato invitato a partecipare; ma se lo conclude a suo arbitrio, all’insaputa del soccidante, perderà il contratto di soccida e pagherà alla nostra corte 25 lire di multa, insieme con colui che lo ha fuorviato proponendogli un secondo contratto di soccida.
‹CXXXIV. Comonis› /44r/ ‹I›tem ordinamus que nexuno comonarju non usit nen depiat rafudari su comoni sensa conpliri su comoni a su tempus qui inter isus at esere asignadu. E si non boleret plus istari in su ditu comoni, su dono suo non siat tenudo de ’lli dari parti alcuna, salvu si su comonarjo mostrarit ligitima causa qui non poderet istari ni compliri su dittu comoni. Et si gasi mostrarit ligitimamenti, qui su dono suo siat tenudo de ’lli dari parti segundu qui at avir servido.
CXXXIV. Contratti di soccida Parimenti ordiniamo che nessun soccio oserà né dovrà interrompere il contratto di soccida senza che esso sia giunto al termine concordato fra le parti. Se tuttavia non vuole osservare il contratto di soccida, il soccidante non dovrà corrispondergli alcuna quota, salvo che il soccio possa esibire una motivazione legittima per la quale non riesce a portare a compimento il contratto di soccida. In questo caso, esibendo una motivazione legittima, il soccidante gli dovrà corrispondere la sua parte in ragione del servizio prestato.
‹CXXXV. Cumonis› ‹I›tem ordinamus et bolemus qui nexuno comona‹r›ju de cali si siat bestiamini no potsat ni usit mudari su dittu bestiamini qui l’at eser dadu a comoni in aterro loghu pro pasquiri ni pro abitari sensa paraulla de su dono suo. Et si contra faguirit et danno indi retsevirit su dittu bestiamen, siat tenudo cusu talli comonarju de pagari su danno qui at avir retsevido cusu bestiamen a su dono suo; e si non at ‹de› giteu pagari, istit in prexone infini qui at eseri contentu su donno suo. ‹CXXXVI. Cumonis› ‹I›tem ordinamus qui cascuno comonarju siat tenudu de fagere raxone de su bestiamen qui l’at eser dadu a comoni a su dono suo una bolta in s’anno, so est a dies XV de santo Gaini. Et qui non li faguirit raxoni, siat tenudo de pagari su danno qui at avir retsevido su dittu bestiamen a su dono suo. 130
CXXXV. Contratti di soccida Parimenti ordiniamo e vogliamo che nessun soccio, in relazione a qualunque tipo di animali, potrà né oserà trasferire il bestiame accomandatogli in luogo diverso, per pascolare o stanziare, senza l’autorizzazione del soccidante. Se contravviene, e ne discende danno agli animali, il soccio dovrà rifondere al soccidante il danno sofferto dal bestiame; non avendo di che pagare, resterà in prigione fintantoché il soccidante sarà soddisfatto. CXXXVI. Contratti di soccida Parimenti ordiniamo che ciascun soccio dovrà rendere al soccidante il conto del bestiame accomandatogli una volta all’anno, precisamente il 15 di ottobre. Se non renderà ragione, dovrà risarcire il danno sopportato dal bestiame al soccidante.
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‹CXXXVII. De isviari sarachu› /44v/ ‹I›tem ordinamus qui ‹si› alcuna persone desviarit alcuno saracu over saraca femina qui istarit cun atteri per modu qui si·ndi andarit de su pardono suo, e li at esere provado, paguit de maquiçia a sa corti nostra liras X. Ancu paguit su danno qui ’ndi at avir retsevidu su pardono o pardona de su ditu saracu over saraca.
CXXXVII. Del traviare un servo Parimenti ordiniamo che se qualcuno travia un servo maschio o femmina che sta presso altri inducendolo a lasciare il proprio padrone, e ciò viene provato, dovrà pagare alla nostra corte 10 lire di multa. Inoltre, rifonderà il danno subito dal padrone o dalla padrona del servo o della serva in questione.
‹CXXXVIII. De su pardu› ‹I›tem ordinamus qui sas ebbas qui ant esere acatadas in pardo ‹de siillu qui su maiori de pardu et issos iurados de pardu› illas deppiant maxellari over qui ’llis fatsa‹n›t tentura, de sa calli tentura depia‹n›t aviri sus pardarjus sollos X de su popillu de sas ditas ebbas. Et su maxellari si intendat de X pegus in susu, e si eserent de X pegus in josu paguit sollu I per pegus.
CXXXVIII. Del prato comunale Parimenti ordiniamo che le cavalle trovate nel prato comunale dovranno essere macellate ovvero sottoposte a tentura dal maiore de pardu e dai jurados de pardu30: per la tentura i pardarios avranno 10 soldi dal padrone delle cavalle in questione. La macellazione, si intenda, potrà avvenire se si tratta di oltre 10 capi di bestiame; dai 10 capi in giù, [il proprietario] pagherà 1 soldo per capo.
‹CXXXIX. De sus asones› ‹I›tem ordinamus e bolemus qui sas ditas ebbas potsant istari in pardu in tenpus qui triullant infini qui su lavori at esere treulladu; sus asonis indi depiant de continenti bogari sas ditas ebbas foras, a pena de ’llas maxellari e faguir tentura.
CXXXIX. Dei custodi di cavalli Parimenti ordiniamo e vogliamo che le cavalle possano stare nel prato comunale nel periodo in cui trebbiano e sino a che il grano sarà trebbiato, dopo di che i loro custodi le dovranno immediatamente condurre fuori, sotto pena della macellazione o della tentura.
‹CXL. De sas ebbas› ‹I›tem ordinamus qui si alcuna persone ten‹e›ret ebba domada, illa depiat rêrre in loghu apartadu, a pena de pagari sollos C a sa corti et ancu pagari su danno qui at faguiri a sus cavallos domadus, cando indi siat istadu comandadu per isa corti.
CXL. Delle cavalle Parimenti ordiniamo che se qualcuno possiede una cavalla domata, la dovrà tenere in luogo appartato, sotto pena di pagare alla corte 100 soldi e di rifondere il danno causato ai cavalli domati, ove ciò sia stato deliberato dalla corte.
‹CXLI. De pradargos› /45r/ ‹I›tem ordinamus qui cando sus pardarjos ant andari a maxellari in su pardu de sas vacas, fendo boxi III indi potsa‹n›t maxellari una, sa plus minori qui ’loi at esere, a de die, et a de noti
CXLI. Dei pardarios Parimenti ordiniamo che quando i pardarios vanno nel prato comunale a macellare vacche, di giorno potranno macellarne, dopo aver lanciato tre avvisi, solo una, la più piccola presente; di not-
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su qui a‹n›t podere. E si non bastant a X pegus fatsant·illi tentura, e si matxellarint paguint de maquicia liras V. E de sas gamas de sas berbeges e de sus porchus in‹di› potsant maxellari de cascuna gama duas, et si sus pastoris bolirint pagari sa tentura non lo potsa‹n›t maxellari. Et de s’atero bestiamen paguint sollos V per gama. Et si contra faguirint, paguit su juradu a sa corti nostra sollos XX per juradu.
te, invece, quella che riusciranno. Se la mandria non arriva a 10 capi, li sottoporranno a tentura; se tuttavia ne macellano, pagheranno 5 lire di multa. Dalle greggi di pecore o porci potranno macellare due capi per gregge, ma se i pastori vogliono pagare la tentura non ne potranno macellare. Riguardo all’altro bestiame, pagheranno per la tentura 5 soldi per branco. I giurati, contravvenendo, pagheranno alla nostra corte 20 soldi per ciascuno.
‹CXLII. De pradargios› ‹I›tem ordinamus et bolemus qui unu pardarju sollo non potsat maxellari etceptu qui potsat faguir tentura. Et si contra faguirit, paguit de maquicia a sa corti nostra sollos XX e boe unno a su curadore.
CXLII. Dei pardarios Parimenti ordiniamo e vogliamo che un pardariu da solo non potrà macellare animali ma solo eseguire la tentura. Se contravverrà, pagherà alla nostra corte 20 soldi di multa e un bue al curadore.
‹CXLIII. De cungiare vingna› ‹I›tem ordinamus qui si alcuna persone teneret vinga o terra buida in castigu ingiriada de vingas, siat tenudu de contribuiri de pagari su qui ’lli at benni in parti de sa dita cungadura.
CXLIII. Del recintare le vigne Parimenti ordiniamo che se qualcuno ha una vigna o una terra incolta in un castigu31 circondata da vigne, dovrà contribuire e pagare la sua quota per la recinzione.
‹CXLIV. De ponni sinnu› ‹I›tem ordinamus qui nexuna persone non presumat faguir sinno supra sinno ni foghu supra foghu, a pena de pagari de maquisia a sa corti nostra, per dongia bolta qui ’ll’at esere provadu, liras XXV. E si no pagat intra dies XV de c’at eser juigadu, seguint·illi sa manu.
CXLIV. Del fare incisioni Parimenti ordiniamo che nessuno oserà fare a un animale un’incisione sopra un’altra incisione né un marchio a fuoco sopra un altro marchio a fuoco, sotto pena di pagare alla nostra corte 25 lire di multa per ogni volta che ciò sarà provato. Se non paga entro 15 giorni dalla data del giudizio, gli sarà tagliata la mano.
‹CXLV. De sinari su bestiamen› /45v/ ‹I›tem ordinamus qui sus oficiallis nostros, cascuno in so ofiçio isoro, deppia‹n›t quircari donja anno una bolta su bestiamini si est signadu et si portat cadiscuno su signu suo de sos popillos. Et si ’ndi acatarint qui non eserent signadus, cusu oficialli over
CXLV. Del segnare il bestiame Parimenti ordiniamo che i nostri ufficiali, ciascuno nel proprio ufficio, dovranno controllare una volta all’anno il bestiame per vedere se è segnato e se ogni capo reca o meno il segno usato dal rispettivo padrone. Se ne trovano non segnato, l’ufficiale o gli uffi-
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ofiçiallis illu depiant levare cusu talli bestiamen qui no at sere signado pro sa corti nostra, pro qui bollemus qui cascuno pastore tengat su bestiamini suo signadu de su signu suo. Et su ofiçialli qui çiò non faguirit siat condepnadu a pagari a sa camara nostra liras X.
ciali dovranno sequestrare gli animali in questione per la nostra corte, giacché vogliamo che ogni pastore tenga soltanto bestiame proprio segnato col marchio proprio. L’ufficiale che non adempirà sarà condannato a pagare alla nostra camera 10 lire.
‹CXLVI. Bestia de intradura› ‹I›tem ordinamus et bolemus qui cando alguna bestia de intradura at beni in alguno armento de calli si çiat bestiamini, qui cusu pastore non lo conosquirit de qui adi esere cusa tali bestia over bestias, illa deppiat recolliri e nare a sa corti infra dies tres, pro talli qui si potsat isquiri de qui ade esere cusa talli bestia over bestias. Et si gasi non faguirit su ditu pastore, siat·illi misidu et levadu pro fura e paguit segundo qui in su capitullu si contenit de qui furarit.
CXLVI. Bestiame vagante che si aggrega Parimenti ordiniamo e vogliamo che quando una bestia vagante si unisce a un armento di animali di qualunque razza, se il pastore non è a conoscenza del proprietario della bestia o delle bestie in questione le dovrà ricoverare portandone denuncia entro tre giorni alla corte, in modo che si possa appurare a chi appartengono. Se il pastore non agisce in questo modo, gliele si manderà a prendere per furto e pagherà nella misura prevista nel capitolo sui furti.
‹CXLVII. Fura de abitacione› ‹I›tem hordinamus et bolemus qui candu alcuno dellito over mallifiçio de fura si faguirit in abitaçione, qui cusu talli malifiçio qui at esere fatu si deppiat dari a so cuilli qui adi esere plus aprebu hui at esere fatu su dittu malifiçio over delittu. Ed icusus depiant provari qui ’llu adi avir fatu, et si non provant infra dies XV paguint su danu a cui /46r/ ‹at› essere e de maquitçia a sa corti nostra liras XV. Et similli s’intendat pro sus lavoris quando no isquint qui avirit fatu su dannu: qui ’llo dent a su bestiamen qui at esere plus aprebu de su lavore ‹et cussu› paguit su dannu a qui at esere fatu et similli sa tentura.
CXLVII. Furto dai terreni coltivati attorno al villaggio Parimenti ordiniamo e vogliamo che quando si commette un delitto o un reato di furto nei terreni coltivati attorno al villaggio, esso dovrà essere addebitato all’ovile più vicino al luogo in cui detto reato ovvero delitto è stato compiuto. Il proprietario dell’ovile dovrà segnalare con prove il vero colpevole; se così non fa entro 15 giorni, rifonderà il danno a chi lo ha subito e pagherà alla nostra corte 15 lire di multa. La stessa cosa vale per i semineri quando si ignora chi ha arrecato il danno: lo addebiteranno al bestiame che si trova più vicino al seminerio, il cui proprietario pagherà il danno a chi lo ha subito e similmente la tentura.
‹CXLVIII. Qui tocarit bestiamen› ‹I›tem ordinamus qui nexuna persone de calunca gradu ‹o› istadu si çiat non depiat nen presumat tocare nen voltare dae ladus alguna bestia qui acatarit morta si pastore non est e qui illu mirarit pro su signu.
CXLVIII. Del toccare bestiame Parimenti ordiniamo che nessuno, indipendentemente dalla sua condizione o stato, dovrà od oserà toccare né voltare di lato una bestia trovata morta, a meno che non si tratti di un pastore che la esamina per vedere il segno.
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Et totu cusus qui l’anti mirari et pastores non siant, paguint cusus tallis su danu a cui at esere e de maquiçia a sa camara nostra segundu qui in su capitulu de qui furarit si contenit.
Tutti coloro che, pur non essendo pastori, la esaminano, pagheranno il danno a chi lo ha ricevuto e una multa alla nostra corte, nella misura prevista nel capitolo sui furti.
‹CXLIX. Qui su pastore sia cretitu› ‹I›tem hordinamus et bolemus qui su pastore siat cretidu a sagramento suo de sa fura e dannu qui ’lli at essere fatu in su bestiamini suo, si su pastore esti de bona fama, et si non eseret de bona fama non siat cretidu per modu nixunu.
CXLIX. Del prestar fede al pastore Parimenti ordiniamo e vogliamo che un pastore, se gode di buona reputazione, sarà creduto dietro giuramento quando denuncia un furto o un danneggiamento subito a riguardo del proprio bestiame. Se però non gode di buona reputazione, non sarà creduto in alcun modo.
‹CL. De su cane qui fagherit damnu› ‹I›tem hordinamus si in canto alguno cani de loru over jagaru andarit a posta sua et faguirit dannu in alguno bestiamen, su popillu de cuso tali cani siat tenudo de pagari su danu qui l’at avir fatu, qui cusu cani esti de mala fama. Et si su pastore non provat qui cusu cani avirit fatu /46v/ ateru dannu sensa cusu, si non provat cusu talli pastori, su popillu de su cani siat tenudu de dari su cani a su pastore cando su dannu non boleret pagari. Si cuso pastore at avir provadu qui su dittu cani at avir fatu atteru dannu, paguit segundu qui supra narat.
CL. Del cane che procura danno Parimenti ordiniamo che se un cane da guardia o da caccia, andando alla sua posta, arreca danno a del bestiame, il suo padrone sarà tenuto a rifondere il danno prodotto, se si tratta di un cane che ha cattiva fama. Ma se il pastore non prova che il cane in questione ha provocato altri danni oltre a quello, il proprietario, qualora non voglia rifondere il danno, sarà tenuto a consegnare il cane al pastore. Se però il pastore riesce a provare che il cane ha già provocato altri danni, il proprietario pagherà secondo quanto si prevede sopra.
‹CLI. Qui narrit paraula criminosa› ‹I›tem hordinamus qui si alicuna persone narit ‹a› alcuna attera persona paraula criminoça, qui cusu over cusa persone qui adi nari talli paraula criminosa lo depiat bogari in claru infra dies VIII. Et si in c‹l›aru non lu bogat, si ad icusa persona adi esere narada sa ditta paraula criminosa, si est provadu, paguit segundu sa dita paraulla. ‹Si est pro maias, siat bruiadu›, si est orofianu, et provat·si·llu, paguit a sa corti nostra liras XXV. Et si cusu qui l’at nari cusa paraulla injuriosa et non si·ll’at provari infra su dittu tenpus, paguit sa similli pena et siat condempnadu segundu qui in su capitulu si contenit: pro ’lli nari maiargu, liras L infra dies XV de
CLI. Del pronunciare parole accusatorie Parimenti ordiniamo che se qualcuno rivolge ad altri una parola accusatoria, dovrà renderla pubblica entro 8 giorni. Se non la rende pubblica, e tuttavia si prova che l’espressione di accusa all’indirizzo dell’altro è stata pronunciata, [l’autore di essa] pagherà in base alla sua gravità. Se l’accusa è di magia [e lo si prova, l’accusato] sarà bruciato, se è di ruffianeria, e lo si prova, pagherà alla nostra corte 25 lire. Se però la persona che ha rivolto l’espressione infamante non la prova entro il termine indicato, pagherà la stessa pena e sarà condannata secondo quanto si prevede in questo capitolo: per avere dato del mago, 50 lire entro 15 giorni dalla data del giudizio, e se non paga
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c’at eseri juigadu, et si non pagat seguint·illi sa linba per modu qui la perdat, et pro li nari orufiano paguit de maquisia liras XXV.
gli taglieranno la lingua in modo che la perda; per avere dato del ruffiano, 25 lire di multa.
‹CLII. Qui narrit “esterradu”› ‹I›tem hordinamus qui si alcuna persone narit ‹ad› attera persone “ester‹r›adu” over attera paraulla injurjosa over criminosa, siat condepnadu cusu qui adi nari cusa talli paraulla ad pagari a sa corti nostra liras XXV si non lu provat, et si ’llu provat liras XV.
CLII. Del dire “bandito” Parimenti ordiniamo che se qualcuno dice a un altro “bandito”32 o altra parola ingiuriosa o accusatoria, chi ha pronunziato tali espressioni sarà condannato a pagare alla corte 25 lire, se non le prova, oppure 15 lire, se le prova.
‹CLIII. Qui fagheret ficas› /47r/ ‹I›tem hordinamus qui si alcuna persone faguirit sas ficas over qui ’llu asignarit over qui ’lli narit atterra paraulla injurjosa daenanti de su oficialli, cusu qui l’at avir fatas siat condepnadu a pagari a sa corti nostra per dongia paraula liras V.
CLIII. Del fare le fiche Parimenti ordiniamo che se una persona fa le fiche, oppure fa segni o altrimenti rivolge un’espressione ingiuriosa a qualcuno dinanzi a un ufficiale, sarà condannata a pagare alla nostra corte 5 lire per ogni parola.
‹CLIV. Qui narrit iniuria ad officiali› ‹I›tem hordinamus et bolemus qui si alguna persone narit paraulla injurjosa at alguno ofiçialli nostru fagendo fatus nostrus over qui ’lli levarit prea de manus, cusa talli persone qui adi faguir segundu de supra paguit a sa corti nostra liras XXV. Et si non pagat infra dies XV de c’at esere juigadu, seguint·illi sa limba, et pro levari sa prea seguint·illi sa manu destra.
CLIV. Del rivolgere un’ingiuria a un ufficiale Parimenti ordiniamo e vogliamo che se qualcuno rivolge un’ingiuria a un nostro ufficiale che agisce per nostro conto, oppure gli strappa dalle mani un bene pignorato, l’autore della condotta descritta sopra pagherà alla nostra corte 25 lire. Se non paga entro 15 giorni dalla data del giudizio, gli sarà tagliata la lingua, mentre per aver preso il bene pignorato gli sarà tagliata la mano destra.
‹CLV. Qui offenderit maiori› ‹I›tem hordinamus et costituimus qui si alguna persone ofendirit majori over minori oficiali nostru, et illu ofendirit in persona, et sanbini indi esirit, et provadu illi at esere, siat inpicadu per isa gulla per modu qui ’ndi morgat sensa misericordia nixuna. Et si sanbini no ’lli bogarit et illi alsarit colpu, paguit de maquisia a sa corti nostra liras L; et si non pagat infra dies XV de c’at essere juigadu, seguint·illi sa manu destra per modu qui ’lla perdat.
CLV. Del recare offesa a un maiore Parimenti ordiniamo e stabiliamo che se qualcuno, recando offesa a un nostro ufficiale maggiore o minore lo ferisce in modo che perda del sangue, e ciò è provato, sarà impiccato per la gola in modo che ne muoia, senza misericordia alcuna. Ove gli abbia inferto un colpo ma non ci sia stata perdita di sangue, pagherà alla nostra corte 50 lire di multa; se non paga entro 15 giorni dalla data del giudizio, gli sarà tagliata la mano destra in modo che la perda.
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‹CLVI. De melloni› /47v/ ‹I›t‹e›m hordinamus e bolemus qui cando alicuna persone at intrari e furari de alguno horto de meloni e teninti·bie·llo, paguit et pagari deppiat per cadiscuna bolta a sa corti nostra sollos XX infra dies XV; e si non pagat, istit in prexoni infini a vuluntadi nostra.
CLVI. Dei meloni Parimenti ordiniamo e vogliamo che quando qualcuno entra e ruba da un orto di meloni, e in ciò lo prendono, dovrà pagare alla nostra corte, per ogni volta, 20 soldi entro 15 giorni; se non paga, resterà in prigione a nostra discrezione.
‹CLVII. Vigna› ‹I›tem hordinamus et costituimus qui si alcuna persone at esere acatada portando agresta hover axina mostrit qui si·lla at avir dada; e si non lo mostrat, paguit pro fura. Et custo si intenda‹t› pro persone over personis qui non ant vingas ipsoro.
CLVII. Vigne Parimenti ordiniamo e stabiliamo che se qualcuno è trovato a trasportare uva acerba o matura, dovrà indicare chi gliela ha data. Se non lo indica, pagherà la multa per il furto. Questo vale per coloro che non posseggono vigne.
‹CLVIII. De qui furarit agresta over axina› ‹I›tem hordinamus qui si alcuna persone at esere acatada furando agresta over axina, over qui ’lli eseret provado, deppiat pagari a sa corti nostra per cascuna bolta qui alcuno officiali nostro indi avirit lamento sollos XX e satisfatzat su danno a qui ’ll’at avir fatto. E si non pagat infra dies XV, istit in prexoni a vulintadi nostra over de armentargio.
CLVIII. Del rubare uva acerba o matura Parimenti ordiniamo che se qualcuno è sorpreso a rubare uva acerba o matura, ovvero è dimostrato colpevole di ciò, dovrà pagare alla nostra corte 20 soldi per ogni volta che un nostro ufficiale ne riceve denuncia; inoltre, rifonderà il danno a colui cui lo ha provocato. Se non paga entro 15 giorni, resterà in prigione a discrezione nostra o dell’armentargiu.
‹CLIX. Muda de boes› /48r/ ‹I›tem hordinamus e bollemus qui cullas personis qui tenint bois illos deppiant mittiri in muda secundu es‹t› custumado faguir. Ed isus pardargios illo‹s› deppiant cumandari e mitter pena. E si alcuno romaneret sensa illos mittiri in muda, fatsant·indi rexioni a su officiali pro corona de Palma, de santo Marcho et de santo Nicolla.
CLIX. Muda dei buoi Parimenti ordiniamo e vogliamo che i proprietari di buoi dovranno metterli in muda33, secondo quanto si usa fare. I pardarios dovranno comandare di adempiere e irrogare le relative sanzioni. Se però qualcuno insiste a non metterli in muda, di ciò renderà conto all’ufficiale in occasione della corona delle Palme, di san Marco e di san Nicola.
‹CLX. De faguir sa corti› ‹I›tem hordinamus qui cusas personis qui ant bois siant tenudos de faguir sa corti e cungari·illa beni a conoxime‹n›to de sos pardargios. Ed isus par‹dar›gios siant tenudos de ’llu cumandari e similli poni pena de sollos C.
CLX. Del fare il recinto Parimenti ordiniamo che i proprietari di buoi dovranno fare il recinto e chiuderlo bene, portando ciò a conoscenza dei pardarios. I pardarios dovranno comandare di adempiere e similmente irrogare la pena di 100 soldi.
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Carta de Logu
Carta de Logu
‹CLXI. De qui at seri acordadu› ‹I›tem hordinamus et costituimus qui cando alcuna persone at seri acordada pro levorari a castio de alcuna vingna over a masari o de alcuno servisio, e non at andari a su termini qui inter ipsus adi eser posto, e eserit claru qui indi retsivirit alcuno dampno per culpa e nigrigençia de cusu qui at eseri acorda‹du›, su hofiçialli de sa corodoria siat tenudo de ’lli faguir rexoni a conoximento de bonos hominis.
CLXI. Di chi prende accordi Parimenti ordiniamo e stabiliamo che quando qualcuno si accorda per andare a lavorare la terra in un castigu di vigne, o per mietere o per qualche prestazione, ma non si presenta entro il termine stabilito d’intesa, risultando chiaro che, per colpa e negligenza di lui che ha accettato l’incarico, l’altro ha ricevuto qualche danno, l’ufficiale della curadoria dovrà rendere giustizia a quest’ultimo dinanzi ai probi uomini.
‹CLXII. De mercantis over bitureris› /48v/ ‹I›tem hordinamus et costituimus qui si alcunos mercantis over bitureris qui vendint horoba illis essirit aca‹ta›du fraudi e mancamento de sa horoba predita qui vendirit, gasi in masura comenti in pesu de balensas over in estadea, qui cusu godalli perdat sa horoba qui at avir fraudada. Et nienti de minus paguit a sa corti nostra, per dongnia volta qui ’lloi at a seri acatado, liras XV da‹e› sa die qui ’lli at a seri juigada infini a sa‹s› dies XV, sensa misericordia nixuna.
CLXII. Dei mercanti o ambulanti Parimenti ordiniamo e stabiliamo che se qualche mercante o ambulante vende stoffe e si rilevano frode o difetti nella merce trattata, così nella misura, come nel peso della bilancia o nella stadera, perderà le stoffe oggetto della frode. Inoltre, pagherà alla nostra corte, per ogni volta che sarà colto nell’infrazione, 15 lire entro 15 giorni dalla data del giudizio, senza misericordia alcuna.
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NOTE
1 Nel testo sardo si ha rexoni “ragione”, vocabolo che ricorre in altri passi anche nelle forme ragione, rag(i)oni, rax(i)one, rax(i)oni, rexone, rexioni, regione, regoni e svolge un ruolo importante nel lessico giuridico della CdLA. Tralasciando i casi in cui presenta il significato di “ragione, motivo” (ad es. nel cap. II: non est rexone qui... “non c’è ragione che...”), o di “conto” (in senso proprio o figurato: cfr. cap. CXXXVI: fagere raxone de su bestiamen “rendere il conto del bestiame”, o cap. CLIX: fatsant·indi rexioni a su officiali “rendano conto/diano giustificazione di ciò all’ufficiale”), o ancora di “onorario, compenso” (cap. CXXIV, nella rubrica: pro ragione isoro “come loro onorario”), mostra infatti le seguenti accezioni specifiche: a. “diritto oggettivo, complesso di norme giuridiche”, come avviene proprio nell’attacco del proemio della CdLA da cui abbiamo preso le mosse. Possiamo segnalare qui le locuzioni secundu rexoni (cap. XIX), de raxioni o sim. (capp. LII, LVI, LXXVII, CXXX) che valgono “secondo diritto”. Nel passo che segue del cap. LXXVII incontriamo la prima volta ragione impiegato in unione con justicia, mentre la seconda volta sembra di poter cogliere un riferimento alla singola norma giuridica: nos desiderando qui ciascaduna dessas terras nostras siat mantesida et conservada in justicia et in ragione et qui... non perdat nen manquit alcuna regione sua “poiché desideriamo che ogni nostra terra sia mantenuta e conservata nella giustizia e nel diritto e che... non perda vigore alcuna sua legge”; b. in alcune occasioni è possibile cogliere un richiamo puntuale al diritto comune: così nel cap. III, laddove si legge che agli assassini dovrà essere tagliata la testa sul patibolo, secundu que ’ssu ordini dessa ragoni comandat “secondo quanto prescrivono i principi del diritto”; o ancora nel cap. LXXVIII, in cui si dispone che si possa presentare appello contro una sentenza non più di due volte, infra su tenpus ordinado de sa regione “entro il termine previsto dalla legge”; o ancora nel cap. XCVIII, ove si stabilisce che il padre non sarà tenuto a dare in vita né a lasciare in morte alla figlia andata in sposa con regime dotale nulla più di ciò che le ha assegnato come dote, a meno che non abbia altri figli, nel qual caso le dovrà lasciare la propria parte secundu ragione, ossia “secondo quanto stabilisce la legge”; c. altre volte ragione o sim. va a significare “giustizia resa dai tribunali”, “processo”, estendendosi sino a “giurisdizione, giudicato”: reere ragione (cap. LII), tenne ragione (cap. LXXI), fagere rexone (cap. CXXIII; cfr. anche capp. CIV e CLXI), narre ragione et justicia (cap. LXXI) “amministrare/rendere giustizia”; intendere rexone at ambas partis (cap. LII) “ascoltare in giudizio entrambe le parti”; intendere ad regione (cap. LIII) “ascoltare in giudizio, garantire i diritti”; resiri ad ragione (cap.
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Carta de Logu
CIV) “ammettere a ricevere giustizia”; istare assa regione (cap. LXXV) “rimettersi al giudicato”; maquicias de sanbini... qui appartenent assa rexoni nostra (cap. XX) “multe per fatti di sangue... che ricadono nella nostra giurisdizione”; d. nel significato di “diritto soggettivo”, “titolo vantato su un bene (e anche il bene stesso)”, “tributo” troviamo: reservando... sas regonis dessas mugeres e dessos figios (cap. VI; cfr. anche cap. XIII) “facendo salvi... i diritti delle mogli e dei figli”; si intendat salvas sas rexonis dessos creditores (cap. VI) “si facciano salvi i diritti avanzati dai creditori”; isposedida de tottu sos benis suos et dessas rexonis suas gasi de dodas comenti et de ateru beni (cap. XXII) “privata di tutti i suoi beni e dei suoi diritti sulla dote e gli altri beni”; dimandari sas ragiones issoro (cap. LXVII) “reclamare i propri diritti”; deseredari sos figios... de sas raxiones qui ’llis ant pertenne pro sa eretadi (cap. XCVII) “diseredare i figli... riguardo ai diritti di cui sono titolari sull’eredità”; regiones echesiastighas (proemio) “diritti della Chiesa”, “beni/territori sopra i quali la Chiesa ha diritti”; pagare o dare pro regione de jurados o pro attera raxione (cap. XCII) “pagare o dare per i tributi riscossi dai giurati o per altri tributi”; regione de su regnu (cap. CIII) “diritti dell’erario regio”; scrivir et colliri sas rexonis dessa corti (cap. XVI; cfr. anche cap. XCVI) “annotare e riscuotere i tributi della corte”; pagari rexones (cap. XCVI) “pagare tributi”; dimandari ragiones (cap. XCVI) “reclamare tributi”. Per un esame più ampio della questione dal punto di vista linguistico rimandiamo a Piero Fiorelli, ‘Ragione’ come ‘diritto’ tra latino e volgare, in Id., Intorno alle parole del diritto, Giuffrè, Milano 2008, pp. 129-184 e, con specifico riferimento al sardo, Giovanni Lupinu, Sull’uso del vocabolo ragione nel sardo medievale, «L’Italia dialettale», 73, 2012, pp. 41-65. 2
Rammentiamo che l’espressione Carta de Logu vale “statuto del Regno”.
3
Come si è già avuto modo di rilevare nell’Introduzione, nella redazione della Carta de Logu trasmessa dall’incunabolo si legge per ispaciu de XVI annos passados, ossia “nei sedici anni passati”. 4
Qui e nei capp. II e XCIX si accenna alla distinzione fra due regimi matrimoniali che prevedevano differenti condizioni patrimoniali: quello assu modu sardischu “al modo sardesco”, con la comunione dei beni, e quello a dodas ad modu pisanischu “con dote al modo pisano”, con separazione dei beni ed esclusione anche della sola comunione dei lucri. «Il punto che ha suscitato maggiore interesse e ha reso il dibattito più acceso, è se il matrimonio contratto a sa sardisca abbia comportato una comunione generale dei beni dei coniugi – così che al momento dello scioglimento il coniuge superstite potesse fruire della metà di tutti i beni, compresi quelli del compendio – o se invece la comunione si limitasse solo agli acquisti e ai frutti maturati durante la vita coniugale»: la seconda tesi, per la quale la comunione dei beni era ridotta soltanto ai lucri e agli acquisti, è quella che gode oggi di maggiore credito (cfr. Alessandra Argiolas, Il matrimonio «a sa sardisca» nei secoli XV-XIX, in La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto medievale e moderno, a cura di Italo Birocchi e Antonello Mattone, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 355-373: la citazione è tratta da p. 358).
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Note
5
L’armentargiu de Logu era un funzionario giudicale di rango elevato «che [aveva] le supreme attribuzioni finanziarie e dirige[va] l’esazione dei tributi e l’amministrazione del patrimonio fiscale» (Arrigo Solmi, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel medioevo, a cura di Maria Eugenia Cadeddu, Ilisso, Nuoro 2001, p. 109); su incarico del giudice, inoltre, amministrava giustizia presiedendo le assisi giudiziali (coronas). Quanto appena segnalato vale per l’armentargiu regio; talora, però, troviamo il riferimento ad altri armentargios, ossia la medesima qualifica, senza la specificazione de Logu, è rivolta a procuratori, amministratori di proprietà pubbliche, ecclesiastiche o private (cfr. i capp. XLVIII, LXII, CXII, CXIII, CXIV, CXV). 6 Come sinonimo di ragione, con riferimento al diritto comune (cfr. nota 1), si trova talora nella CdLA lege, ad es. nel cap. LXXVII: comente comandat sa lege “come prevede la legge”, ossia appunto il diritto romano comune. Qui incontriamo la formula narat sa lege “la legge prevede” per introdurre il broccardo latino facientes et consencientes pari pena paciuntur (nell’inc. agentes et consentientes pari pena puniuntur), per il quale devono ricevere la medesima pena l’autore del crimine e chi acconsenta a esso: tale broccardo, tuttavia, ha riscontro puntuale in fonti medievali del diritto canonico, sicché in lege si e scorto ora un riferimento al diritto comune canonico, più che al diritto romano comune. Si vedano Antonio Era, Le cosi dette Questioni giuridiche esplicative della Carta de Logu, in Studi di storia e diritto in onore di Enrico Besta per il XL anno del suo insegnamento, Giuffrè, Milano 1939, vol. II, pp. 379-414: 398-400; Antonio Marongiu, Sul probabile redattore della carta de logu d’Arborea, in Id., Saggi di storia giuridica e politica sarda, CEDAM, Padova 1975, pp. 61-73, specie alle pp. 61-63; Francesco Sini, Comente comandat sa lege. Diritto romano nella Carta de Logu d’Arborea, Giappichelli, Torino 1997, pp. 119 ss. 7
Il termine corona vale “tribunale, assise giudiziale”. Nella CdLA troviamo menzionati diversi tipi di coronas: a. la corona de Logu, ossia il tribunale del Regno, presieduto dal giudice. Dal testo si apprende che si riuniva in particolari occasioni calendariali: si avevano così le coronas de Logu di San Pietro, il 29 giugno, San Marco, il 25 aprile, San Nicola, il 6 dicembre, e della domenica delle Palme; b. la corona de curadore, il tribunale della curadoria presieduto dal curadore (cfr. nota 12); c. la corona de quida de berruda, così denominata perché formata da uomini atti alle armi che portavano il verruto, un tipo di giavellotto; d. la corona de potestadi, tribunale presieduto dal podestà. Quest’ultima corona è nominata soltanto nel cap. LIII della CdLA così come trasmesso dal testimone manoscritto che qui si utilizza: nel passo corrispondente dell’inc. si legge corona de portu, circostanza che consiglia qualche cautela nel valutare la storicità di questa assise giudiziaria. 8 Sul tema del bando quale forma di espulsione dalla comunità, che comportava la perdita del patrimonio e della sicurezza personale, nel senso che chiunque poteva offendere fisicamente e persino uccidere impunemente la persona fatta oggetto di
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Carta de Logu
bando, equiparata così a un nemico, si veda Giovanni Lupinu, (S)banditi e cornuti nella Carta de Logu dell’Arborea. Sulla sovrainterpretazione, «Bollettino di Studi Sardi», 10, 2017, pp. 51-66. 9
Quello di maiore era un titolo che si attribuiva a chi si trovava «per l’ufficio suo a capo di un gruppo», a indicare «la preminenza assunta da una carica sui suoi dipendenti»: cfr. Arrigo Solmi, La costituzione sociale e la proprietà fondiaria in Sardegna, «Archivio Storico Italiano», serie V, vol. 34, n. 236, 1904, pp. 265-349: 294-295. Troviamo così il maiore de villa, un ufficiale incaricato di amministrare un villaggio; il maiore de pardu, addetto al prato comunale, che stava a capo dei pardarios o iurados de pardu, che avevano il compito di catturare e talora macellare il bestiame trovato a pascolare abusivamente nei campi; il maiore de cavallo, addetto ai cavalli; il maiore de porto, addetto al porto e con compiti di controllo sui pesi e le misure in uso nei mercati. 10
Ossia un membro o parte del corpo nobile (ad es. un occhio, una mano, un piede), in contrapposizione a quelle che più avanti sono indicate come membra particolari, meno importanti (ad es. un dito, o un dente). 11
Nel senso di “non svincolato dalla giurisdizione ordinaria”.
12
Il curadore era un ufficiale giudicale a capo di una curadoria, circoscrizione comprendente più villaggi, al cui interno svolgeva compiti di carattere amministrativo e giudiziario. 13
Cfr. nota 12.
14 Qui il termine pare indicare, più che raccolte di «brevi regesti o schede [...] riguardanti negozi giuridici di carattere patrimoniale» (questo è il senso che comunemente gli viene associato, in relazione ai più tipici documenti del medioevo sardo, ad es. il Condaghe di San Pietro di Silki o il Condaghe di San Nicola di Trullas), carte riferite a un singolo negozio. Sulla questione si veda Raimondo Turtas, Evoluzione semantica del termine condake, «Bollettino di Studi Sardi», 1, 2008, pp. 9-38: la citazione è tratta da p. 9. 15
Cfr. nota 9.
16
Tentura è termine tecnico per indicare il sequestro del bestiame trovato a pascolare abusivamente nei campi e anche la sanzione inflitta al padrone o al custode del bestiame. 17
Il termine muda indica sia il turno in un servizio, sia un particolare regime di custodia dei bovini organizzato secondo turni di servizio.
Note
21
I lieros de cavallu sono indicati in altri documenti come liberi et terrales ab equo: «erano così chiamati perché nati liberi, possessori di terre e tenuti a prestare servizio militare a cavallo [...] Essi erano affrancati dalla maggior parte delle imposte gravanti sui loro compaesani, in modo particolare dal datium, dovuto da ciascuno in proporzione alla ricchezza goduta e al reddito dei fondi posseduti. A loro era richiesto il donamentum, un tributo fisso che veniva pagato in un’unica soluzione e la cui entità era di gran lunga superiore alla media dei versamenti per il datium. Essi inoltre dovevano essere provveduti di propria cavalcatura e di armi che erano tenuti a esibire in periodiche rassegne [...] Altra prestazione richiesta a questi miliziani [...] era la partecipazione alle coronas giudiziarie» (Giulio Paulis, Studi sul sardo medioevale, Ilisso, Nuoro 1997, p. 52). 22
Verga, arma da getto sarda.
23
La voce mostra va intesa nel senso di “rassegna di armati”, dunque il codernu de sa mostra “quaderno della mostra” doveva essere un registro in cui erano annotati i nomi dei cavalieri del Giudicato con le loro armi e cavalli. 24
Ossia, l’indegnità a succedere di figli e nipoti doveva essere dimostrata da chi aveva beneficiato dell’eredità al posto loro. 25
Cfr. nota 9.
26
Il derratale era un contenitore e una misura in uso per la vendita del vino a minuto. Cfr. Giovanni Lupinu, Ancora sull’ant. sardo beredalli/derredali, «Bollettino di Studi Sardi», 4, 2011, pp. 5-14. 27
Cfr. nota 16.
28
Cfr. nota 9.
29
Il termine indica un “triangolo di legno che si mette al collo dei maiali perché non possano passare le siepi” (cfr. Max Leopold Wagner, Dizionario etimologico sardo, Carl Winter, Heidelberg 1960-64, s.v. fúrka). 30
Cfr. nota 9.
31
Comprensorio terriero vigilato.
32
Cfr. nota 8.
33
Ossia “farli sorvegliare organizzando un sistema di custodia per turni” (cfr. nota 17).
18 Striscia di terreno scavata e ripulita intorno ai terreni da debbiare per evitare che il fuoco si propagasse. 19
Sembra trattarsi di un giuramento liberatorio fra privati, in via extragiudiziale.
20
Mentre con ultramari si fa riferimento al complesso dei territori posti al di là del mare, e in particolare alla sponda orientale del Mediterraneo (cfr. TLIO, http://tlio.ovi.cnr.it/TLIO, s.v. oltremare), terrafirma indica il continente, la penisola italica contrapposta all’isola.
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Sommario della Carta de Logu
p.
[Proemio] I. De qui offenderet sa Sengoria Del recare offesa alla Signoria II. De qui tractarit traicioni o desonore Del tramare per tradire o per arrecare disonore III. Qui ochirit homini Dell’uccidere un uomo IV. Idem Idem V. De venenu Del veleno VI. De tenne su male factore Del catturare i malfattori VII. Qui esseret isbandidu Dell’essere bandito VIII. Qui si ochiret Del suicidarsi IX. De feridas Dei ferimenti X. De feridas Dei ferimenti XI. Asaltegu Aggressioni XII. Feridas Ferimenti XIII. Strada Strada XIV. De inquisitione Dell’indagine giudiziaria XV. De delinquentes Dei malfattori
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Carta de Logu
Sommario
XVI. Jurados de Loghu Giurati de Logu XVII. De maleficios qui sus iurados de Logu hant a chircare Dei crimini sui quali indagheranno i giurati de Logu XVIII. Furas Furti XIX. De pregontari Dell’interrogare XX. De sus pregontus Degli interrogatori XXI. Qui levarit mulieri Del prendere una donna sposata XXII. Qui intrarit in domo Dell’entrare in casa XXIII. De femina coiada Delle donne sposate XXIV. Qui andarit a festa Del recarsi alle feste XXV. De carthas bulladas Delle carte bollate
ORDINAMENTOS DE FOGHU ORDINAMENTI DEGLI INCENDI
ORDINAMENTOS DE FURAS ORDINAMENTI DEI FURTI
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XXVI. XXVII. De cavallu e boi Dei cavalli e dei buoi XXVIII. De cavallu rude Dei cavalli bradi XXIX. De berbegues Delle pecore XXX. De cani Dei cani XXXI. De ortu d’abis Degli alveari XXXII. Fura de lavore Furti di grano XXXIII. Fura de domo Svaligiamenti di case XXXIV. Lamentu de fura in domo Denunce di furti nelle abitazioni
XXXV. De tenne su furone Del catturare i ladri XXXVI. De denunciare sas largas Del denunciare le sottrazioni XXXVII. De tenne sus furones Del catturare i ladri XXXVIII. De proare sos cavallos Del raccogliere prove riguardo ai cavalli XXXIX. Qui non tennint su furone Del non catturare i ladri XXXX. Qui compararit cavallu Del comprare cavalli XLI. Qui isfundarit vigna agiena Dello spiantare vigne altrui XLII. De qui lavarit prestanza Del prendere in prestito XLIII. Qui levarit raigua Del togliere i pali XLIV. De qui accusarit Dell’accusare
XLV. XLVI. De ponne fogu in domo Dell’incendiare una casa XLVII. De foghu in lavore Degli incendi appiccati ai semineri XLVIII. De foghu Degli incendi XLIX. De foghu Degli incendi
ORDINAMENTOS DE CHERTOS E DE NUNZAS ORDINAMENTI DELLE LITI E DELLE CITAZIONI
L. LI. Testamentos Testamenti LII. De corona Della corona LIII. De nunza de corona Delle citazioni dalle coronas
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Carta de Logu
Sommario
LIV. Corona Corona LV. Nunzas Citazioni LVI. De iscrianos Degli scrivani LVII. De possessione Delle proprietà LVIII. De mandare nunza Dell’inviare citazioni LIX. De inprestanza Dei prestiti LX. De qui esseret binchidu Del soccombere in giudizio LXI. De iurari Del giurare LXII. De chertadore Degli avvocati LXIII. De chertu Delle liti LXIV. De turmentu Del torturare LXV. Quida de berruda Chida de berruda LXVI. De qui s’at a clamari pro fradis ultramare Dell’eccepire a motivo di fratelli che si trovino oltremare
ORDINAMENTOS DE PRESCRIPTIONES E DE POSSESSIONES ORDINAMENTI DELLE USUCAPIONI E DELLE PROPRIETÀ
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LXVII. LXVIII. De qui possiderit Del detenere un possesso LXIX. De testimongius Dei testimoni LXX. De chertus Delle liti LXXI. Forma de corona Forma della corona LXXII. De sos iuighantes Di chi giudica
LXXIII. De qui ant advocare Di chi esercita l’avvocatura LXXIV. De qui ant esser clamados pro testimongios Di chi è chiamato a testimoniare LXXV. De faguere procuradore Dell’eleggere procuratore LXXVI. Qui iurat pro testimonio Del giurare come testimone LXXVII. De chertos dubitosos Delle liti controverse LXXVIII. De appellationibus Degli appelli LXXIX. De appellationibus Degli appelli LXXX. De appellare·si Dell’appellarsi
ORDINAMENTOS DE SILVAS ORDINAMENTI DELLE CACCE OBBLIGATORIE
LXXXI. LXXXII. Silva Cacce obbligatorie LXXXIII. Armadu a silva Presentarsi armati alle cacce obbligatorie LXXXIV. Qui levarit su servu Del portare via un cervo LXXXV. Qui alluarit abba Dell’avvelenare le acque con l’euforbia LXXXVI. De mesura falsa Delle misure false LXXXVII. De astores Degli astori LXXXVIII. De vendere cavallos Del vendere cavalli LXXXIX. De sus lieros Dei liberi XC. De sus lieros Dei liberi XCI. Lieros Liberi
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Sommario
XCII. Lieros Liberi XCIII. De sus iurados Dei giurati XCIV. De sotzus Dei socci XCV. De cavallus Dei cavalli XCVI. De qui si·ndi andarit Del trasferirsi XCVII. De deseredari Del diseredare XCVIII. De coiamentos Dei matrimoni XCIX. De coianza et heretamentu Del matrimonio e della successione ereditaria C. De donatione Delle donazioni CI. De inventario Dell’inventario CII. De tutores e curadores Dei tutori e curatori CIII. De prea Dei beni pignorati CIV. De mantenni iusticia Del mantenere giustizia CV. De tavernaios Dei tavernieri
ORDINAMENTOS DE CORGIOS ORDINAMENTI DELLE PELLI
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CVI. CVII. De negociantes Dei commercianti CVIII. De is suetoris Dei conciatori CIX. De sus mercantis Dei mercanti CX. De corgius Dei pellami
CXI. Idem de ligadores Idem dei legatori
ORDINAMENTOS DE SA GUARDIA DE SUS LAORES, VINGNAS ET ORTOS
ORDINAMENTI DELLA CUSTODIA DEI SEMINERI, DELLE VIGNE E DEGLI ORTI
CXII. CXIII. De qui portarit boes in viagiu Di chi porta buoi in viaggio CXIV. De su molenti in lavores Degli asini nei semineri CXV. Bestiamen in bingnas Bestiame nelle vigne CXVI. De is pastores Dei pastori CXVII. De is pastores Dei pastori CXVIII. De pastores Dei pastori CXIX. De is paximentos Del portare a pascere CXX. Qui maxellaret a tortu Del macellare senza diritto CXXI. De feriis Delle ferie CXXII. De sas curadorias obligadas andari a quida de berrude Delle curadorias obbligate ad andare a chida de berruda CXXIII. De nodaios Dei notai
SALARIOS ORDINAMENTOS DE SOS SALARIOS ET PAGAS QUI DEBENT LEVARE SUS AUDITORES DE SA AUDIENÇIA ED ISUS NODAIOS PRO RAGIONE ISORO
SALARI ORDINAMENTI DEI SALARI E DELLE PARCELLE CHE DEVONO PERCEPIRE GLI UDITORI DELL’UDIENZA E I NOTAI COME LORO ONORARIO
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Carta de Logu
Sommario
CXXIV. De sos sallarios qui debent levare sus auditores, notarios et escrivanos Dei salari che devono percepire gli uditori, i notai e gli scrivani
ORDINAMENTOS DE SOS SALARIOS QUI DEBENT LEVARE SUS ISCRIVANOS DE CORONA PRO RAXIONE ISORO
ORDINAMENTI
DEI SALARI CHE DEVONO PERCEPIRE GLI
CXXXIX. De sus asones
SCRIVANI DI CORONA COME LORO ONORARIO
CXXV. Dessas dies feriades qui non si debet rehere corona ni de Loghu e ni attera e ni de beruda in sas quallis comandamus qui non si·ndi deppiat rêrre Dei giorni feriati nei quali proibiamo che si tenga corona de Logu o de berruda o altra CXXVI. Carradores Carrettieri CXXVII. De logare cavallu Del dare a nolo cavalli CXXVIII. De non blastomari a Deus Del non bestemmiare Dio CXXIX. De sa Charta de Loghu Della Carta de Logu CXXX. Debitu pagadu Debiti pagati
ORDINAMENTOS DE COMONARJOS ORDINAMENTI DEI SOCCI
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CXXXI. CXXXII. Cumonis Contratti di soccida CXXXIII. Cumonis Contratti di soccida CXXXIV. Comonis Contratti di soccida CXXXV. Cumonis Contratti di soccida CXXXVI. Cumonis Contratti di soccida CXXXVII. De isviari sarachu Del traviare un servo CXXXVIII. De su pardu Del prato comunale
Dei custodi di cavalli CXL. De sas ebbas Delle cavalle CXLI. De pradargos Dei pardarios CXLII. De pradargios Dei pardarios CXLIII. De cungiare vingna Del recintare le vigne CXLIV. De ponni sinnu Del fare incisioni CXLV. De sinari su bestiamen Del segnare il bestiame CXLVI. Bestia de intradura Bestiame vagante che si aggrega CXLVII. Fura de abitacione Furto dai terreni coltivati attorno al villaggio CXLVIII. Qui tocarit bestiamen Del toccare bestiame CXLIX. Qui su pastore sia cretitu Del prestar fede al pastore CL. De su cane qui fagherit damnu Del cane che procura danno CLI. Qui narrit paraula criminosa Del pronunciare parole accusatorie CLII. Qui narrit “esterradu” Del dire “bandito” CLIII. Qui fagheret ficas Del fare le fiche CLIV. Qui narrit iniuria ad officiali Del rivolgere un’ingiuria a un ufficiale CLV. Qui offenderit maiori Del recare offesa a un maiore CLVI. De melloni Dei meloni CLVII. Vigna Vigne CLVIII. De qui furarit agresta over axina Del rubare uva acerba o matura
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CLIX. Muda de boes Muda dei buoi CLX. De faguir sa corti Del fare il recinto CLXI. De qui at seri acordadu Di chi prende accordi CLXII. De mercantis over bitureris Dei mercanti o ambulanti
Volumi pubblicati
I Menhir Salvatore Cambosu, Miele amaro Antonio Pigliaru, Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina Giovanni Lilliu, La civiltà dei sardi Giulio Angioni, Sa laurera. Il lavoro contadino in Sardegna Sergio Atzeni, Scritti giornalistici (1966-1995) Attilio Deffenu, Scritti giornalistici (1907-1916) Girolamo Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda (1720-1847) Antonio Pigliaru, Il banditismo in Sardegna.La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico Saggistica Bruno Rombi, Salvatore Cambosu, cantore solitario Giancarlo Porcu, La parola ritrovata. Poetica e linguaggio in Pascale Dessanai Demetrio Paolin, Una tragedia negata. Il racconto degli anni di piombo nella narrativa italiana Giancarlo Porcu, Régula castigliana. Poesia sarda e metrica spagnola dal ’500 al ’700 Giulio Angioni, Fare, dire, sentire. L’identico e il diverso nelle culture Fabrizio Frongia, Le torri di Atlantide. Identità e suggestioni preistoriche in Sardegna Sergio Sotgiu, L’armonia impossibile. Antioco Zucca filosofo e poeta dell’infinito Sebastiano Mannia, In tràmuta. Antropologia del pastoralismo in Sardegna Marinella Lőrinczi, Dal brusio delle voci al coagulo micronarrativo Francesco Bachis - Antonio M. Pusceddu, Cose da prendere sul serio. Le antropologie di Giulio Angioni Giancarlo Porcu, Le canzoni di Pisurzi. Edizione critica Silvano Tagliagambe, Placido Cherchi. La cultura dell’ologramma Margherita Marras - Giuliana Pias - Felice Tiragallo, Una vita due volte vissuta. Giulio Angioni scrittore e antropologo Rossana Dedola, Grazia Deledda. Lettere e cartoline in viaggio per l’Europa Gianfranco Bottazzi, E l’isola va… La Sardegna nella seconda modernizzazione FuoriCollana Salvatore Cambosu, I racconti Antonietta Ciusa Mascolo, Francesco Ciusa, mio padre Alberto Masala - Massimo Golfieri, Mediterranea Luigi Casalunga, Sequestri di persona in Italia. L’archivio dei crimini (1973-2006)
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Giuseppe M. Delogu, Dalla parte del fuoco Cipriano Mele - Pina Mele, Pasquale Fancello Crodazzu. Contadino, minatore, giornalista, sempre anarchico Fiorenzo Serra, L’ultimo pugno di terra Alessandro Catte, I miei canti. Storia e spartiti della coralità di scuola nuorese Marina Moncelsi, Diddinu Chironi. Un antifascista nuorese davanti al Tribunale Speciale Nico Motzo, Memorie di vita militare. Da soldato a partigiano (andartes) in Grecia (1938-1945) Franco Fresi, Le banditesse Marinella Lőrinczi, Sulla mistificazione. Il caso del romanzo Dracula di Bram Stoker (1897) Gaetano Mura, Le sirene hanno smesso di cantare Piero Mannironi, Anime maledette. Storie di vita e malavita in Sardegna Laura Secci, Bandito. Matteo Boe: la vita, il carcere, la libertà Rossana Copez - Giovanni Follesa, 100 anni fa arrivò Lawrence Luigi Casalunga, Anonima Sequestri Sarda. Casellario criminale. (1960 - 2006) Testimoni Carlos ‘Calica’ Ferrer, Da Ernesto al Che. Il secondo e decisivo viaggio sudamericano di Che Guevara Ann Kirschner, Il dono di Sala. Lettere dall’Olocausto Maria Giacobbe, Memorie della farfalla. Un prologo, 4 viaggi, un epilogo Giacomo Mameli, La chiave dello zucchero Giacomo Mameli, Hotel Nord America Libristante Giorgio Pisano, Lo strano caso del signor Mesina Silvia Sanna, 100 giorni sull’Isola dei Cassintegrati Bachisio Bandinu, Pro s’indipendèntzia Bachisio Bandinu, Noi non sapevamo Marcello Fois, Tuttinuoresi