Caro Herr Mozart. Cari compositori
 9788898694044, 9788898694723

Table of contents :
Sommario
Prima parte
Seconda parte
Indice dei nomi e delle opere

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Andrea Panzavolta

Caro Herr Mozart Cari compositori

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Passages

Collana diretta da: Umberto Curi ed Elio Matassi

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Passages | 3

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Andrea Panzavolta Caro Herr Mozart, cari compositori con una introduzione di Elio Matassi e Lucrezia Ercoli e una postfazione di Umberto Curi

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© 2014, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via A. Fusco, 21 - 00136 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Passages ISSN: 2282-5282 n. 3 - giugno 2014 ISBN – Edizione cartacea: 9788898694044 ISBN – E-book: 9788898694723 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: © auimeesri - Fotolia.com

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Il testo che si riporta sotto costituisce uno degli ultimi interventi del prof. Elio Matassi, prima della sua scomparsa avvenuta il 17 ottobre 2013. Riassume, in poche e semplici battute, il senso di un atteggiamento nei confronti del fenomeno musicale che ha contraddistinto il suo approccio filosofico. Una vocazione etica-estetica che non si distanzia dalla poetica delineata dai saggi di Andrea Panzavolta che compongono questo volume. Quando, come direttrice artistica di Popsophia – Filosofia del Contemporaneo, ho proposto al professor Matassi – docente di estetica musicale all’Università Roma Tre e autore di importanti pubblicazioni di filosofia della musica – di introdurre un concerto sulla “Storia della canzone italiana”, ho ricevuto un’adesione entusiasta. Elio Matassi ha colto l’occasione per ribaltare la contrapposizione pregiudiziale tra musica ‘leggera’ e musica ‘colta’ e per ribadire la sua contrarietà a una concezione verticale e verticistica del rapporto tra pensiero filosofico e altre dimensioni. La musica – perfino nella leggerezza pop della canzonetta – non è pienamente riducibile e riconducibile alla filosofia; la musica non può essere semplicemente ‘oggetto’ di indagine critica e musicologica. Elio Matassi non ha avuto il tempo di scrivere l’introduzione al volume di Andrea Panzavolta, ma ne aveva apprezzato l’impostazione e l’intenzione. Le sue appassionate e appassionanti lettere ai compositori – irriducibili a un approccio meramente

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accademico, asettico e apatico – si fanno carico, infatti, dell’apertura di senso rappresentata dalla musica, del rischio meraviglioso e perturbante a cui ci costringe un ascolto autentico che mette in discussione i paradigmi stessi del pensare. Il libro di Andrea Panzavolta, cioè, dimostra empiricamente l’approccio teorico proposto da Elio Matassi. L’insostenibile leggerezza della libertà musicale coinvolge e stravolge il mondo delle passioni – individuali e collettive – da cui il pensiero non può e non deve rimanere immune. Lucrezia Ercoli

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Per la musica, l’arte della leggerezza di Elio Matassi

Se dovessi scegliere un titolo per queste parole, direi: per la musica. In Italia si è istituita una vera e propria linea di pensiero antimusicale, una militanza intellettuale contro la musica, contro la sua presunta gratuità. La musica, secondo questo paradigma, sarebbe un’arte di forme vuote, un’arte futile e inutile. Contro questa posizione, va combattuta una battaglia culturale anche a partire dal lessico utilizzato nell’ambito musicale. Voglio contribuire mettendo in discussione gli aggettivi utilizzati per definire diversi “tipi” di musica: da un lato, la musica leggera, popolare; dall’altro la musica classica, colta. Mi chiedo, infatti, se non sia tutta la musica, al di là delle sue contrapposizioni interne, a essere attraversata da una particolare forma di “leggerezza”, tutt’altro che banale e superficiale. In una delle opere capitali del pensiero novecentesco, La musica e l’ineffabile, Vladimir Jankélévitch parla dello charme, la particolarissima autoreferenzialità propria della musica che è funzionale alla sua leggerezza e innocenza. La sostanza più nobile della musica, in altri termini, sarebbe proprio la sua leggerezza che produce la particolare suggestione di quel gioco di forme che attraversa la musica in tutte le sue espressioni. Un punto di riferimento per incarnare la leggerezza musicale di cui parla Jankélévitch è il compositore Erik Satie: un musicista tormentato che ha scelto tutte le linee musicali per lasciarle, un uomo che ha abbracciato molte fedi religiose per poi abbandonarle. 

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Nato da padre ateo e madre protestante, viene battezzato alla nascita con rito anglicano; dopo la morte della madre, all’età di sei anni, riceve il battesimo cattolico. Per un periodo, include tra i suoi interessi anche l’esoterismo e sul letto di morte confiderà a Jaques Maritain, guardando il crocifisso, di sperare solo in Dio e di voler cambiar vita dopo la guarigione. Prima della morte che avverrà il I luglio 1925, Satie chiederà altre due volte di fare la Comunione. Un atteggiamento poliedrico che sfugge alle categorizzazioni nette e che caratterizza anche la personalità artistica del compositore francese. Non è affatto casuale che l’oratorio, capolavoro di Satie, sia dedicato alla figura di Socrate, l’ironista per eccellenza, colui che problematizza le più diverse possibilità di scelta senza assumere posizioni viziate dal pregiudizio. Il Socrate di Satie, composto in forma di oratorio, può essere eseguito al pianoforte o da una piccola orchestra, mentre l’organico vocale presume l’uso di voci femminili per personaggi maschili al fine di creare un effetto di distanziamento ulteriore tra il pubblico e la narrazione. Insomma, tutte le scelte espressive di questa composizione sono orientate alla leggerezza, ossia al culto autoreferenziale dell’apparenza contro la pomposità del sinfonismo germanico. Non ha senso, più in generale, parlare di leggerezza solo in rapporto a una musica di certa tipologia popolare: la leggerezza connota l’autenticità della musica in quanto tale, nel suo farsi e dispiegarsi. Una fascinazione che risiede nella gratuità e nell’inutilità di una leggerezza ineffabile e fine a se stessa che custodisce l’anima della musica. Votata a una leggerezza priva di fondamento, la musica è l’unica arte veramente libera. Per questo dobbiamo apprezzarla e difenderla.

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Al Lettore

«L’importante è suonare insieme». Le parole che Carlo Maria Giulini rivolgeva ai suoi orchestrali possono essere fatte proprie anche dall’ascoltatore. Se la musica è un colloquio, chiunque, non solo il musicologo di professione, può interpretare una partitura musicale, perché l’interpretazione è nel dialogo che l’ascoltatore intrattiene con il testo musicale. Sono persuaso, infatti, che una partitura sia un testo plurimo e complesso che per essere adeguatamente compreso (se mai ciò può accadere) necessiti, certo, di competenze specialistiche, ma anche di un più ampio sguardo culturale e artistico: una lettura meramente tecnica del «Settimino di Vinteuil» e del Lohengrin non resituirebbe mai le profonde suggestioni, ai limiti dell’esperienza mistica, descritte rispettivamente da Marcel Proust e da Thomas Mann attraverso la scrittura. Il vero ascolto, pertanto, è un confronto con la partitura e con la tradizione culturale che la trama attraverso un dialogo plurale e perciò stesso antiautoritario: da qui la forte valenza etica e spirituale che ogni ascolto autentico possiede. Gli scritti del presente volume sono un tentativo di indagare alcune opere musicali, che gergalmente si definirebbero ‘classiche’, attraverso la sistematica contaminazione con idiomi diversi e insieme un invito al lettore a riguardare il terreno originario della musica, il quale non coincide con la dimensione del pensiero tecnicizzato, né ancor meno con il piano delle controversie dottrinali, ma si identifica, e si risolve, in una insonne interro-

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gazione.Quest’opera non sarebbe nata senza la sollecitazione e le premure del professor Elio Matassi. Anche se ci siamo conosciuti e frequentati solo negli ultimi due anni della sua vita, la sua scomparsa conserva per me qualcosa di irreparabile. Mi mancheranno la sua acribia scientifica, la sua generosità nell’amicizia, la sua raffinata ironia e soprattutto la sua anima musicale. Dedico, infine, questo libro a mio figlio Gabriele, nella speranza che dalla musica anch’egli possa trarre consolazione – una delle più belle parole al mondo – nel percorso oscuro e travagliato della vita. A. P.

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Prima parte Caro Herr Mozart

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Lettera a Wolfgang Amadeus Mozart

Caro Herr Mozart, ignoro quante persone, dopo la Sua dipartita per i Campi Elisi, Le abbiano scritto una lettera. Da quel che so, soltanto Karl Barth lo ha fatto, nel 1956, esattamente duecento anni dopo la Sua nascita. Facendo opera meritoria, una piccola casa editrice italiana ha ripubblicato quello scritto da tempo introvabile nelle librerie e persino nelle biblioteche, e debbo dire che esso mi trova in tutto e per tutto concorde. Pure io, come l’illustre teologo di Basilea, non sono né un musicista né un musicologo, non suono alcuno strumento musicale e l’unico approccio che ho mai avuto con uno spartito è stato ai tempi della scuola media (l’«educazione musicale» – espressione tanto pomposa quanto vuota nella sostanza – era, infatti, una delle materie di studio); e pure io, qualora un giorno dovessi giungere in Paradiso, vorrei incontrare per primo Lei e solo dopo gli altri amici (al posto di Agostino, Tommaso, Lutero, Calvino e Schleiermacher metterei, però, Dostoevskji, Čechov, Camus, Beethoven e Bergman: ma queste sono soltanto sottigliezze). Le scrivo, caro Herr Mozart, per dirLe una cosa semplicissima: la mia ammirazione, nei Suoi confronti, è sconfinata. Lei mi ha fatto conoscere mondi di cui ignoravo l’esistenza. Sono persuaso che, nel posto in cui ora si trova, Lei non debba vedere o udire molto più di quanto abbia udito o visto quando, nella nativa Salisburgo o a Vienna o a Linz o a Praga, componeva la Sua musica. Così, se quel luogo che comunemente

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chiamiamo Paradiso possedesse anche solo una piccola parte della grazia, della tenerezza, della consolazione, della pace, della insostenibile bellezza – renderò poi ragione di questo aggettivo – di tante Sue arie e concerti e sinfonie, ecco che fin da ora, nella beata speranza che quella sia la meta a noi comune, io fin da ora mi proclamo il più felice fra gli uomini. Le confesso che Lei è responsabile di tante mie lacrime. E in questo non seguo il parere del suo ottimo collega Ludwig van Beethoven, il quale sostiene che la musica non deve muovere al pianto, perché altrimenti vuol dire che è brutta musica. No, le lacrime sono parole liquide, sono il linguaggio dell’anima e dei sentimenti. Come altrimenti potrei rispondere a quel misterioso rimpianto, a quella ineffabile promessa, a quel qualcosa di mancato, di remotissimo eppure presentissimo che si leva dalla Sua musica? Deve sapere, caro, troppo caro Herr Mozart, che io sono affetto da quella malattia dell’anima che ancora ai Suoi tempi era chiamata melancholia. Vi sono giorni in cui codesta indole saturnina sferra attacchi a tal segno violenti che è impossibile resisterle: essa, allora, dilaga trionfante dentro di me, avvelenandomi con il suo pungiglione. A poco a poco tutto ciò che mi circonda mi giunge a noia, tanto che quasi mi par di vedere la nausea strisciare sul pavimento e lungo le pareti. Nel vano tentativo di opporle resistenza prendo un libro, lo apro, ma ecco che le lettere stampate sulle pagine si sciolgono in un rivolo nero. In questo stato di prostrazione, in cui anche le parole si rivelano impotenti, soltanto la musica, e in particolare la Sua musica, riesce a consolarmi: ho la temerarietà di affermare che il mio male non potrà mai farmi precipitare tanto in basso da non farmi incontrare, più in basso ancora, la Sua musica pronta a ripararmi dalla caduta. Consolazione: non saprei con quale altra parola potrei riassumere la Sua arte. Anzi, no, un’altra parola, forse, ci sarebbe: espiazione. La bellezza dolorosa della Sua musica riesce

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a depurare il cuore da tutte le sue scorie. Ed ecco, allora, le lacrime di cui Le parlavo sopra: la grazia e la verità delle Sue note mi commuovono fino a farmi piangere, e il pianto scioglie quel grumo di tortuosità e di affanni che mi impediva di vivere e di amare. È come essere graziati in punto di morte. La prego di credermi: è come se qualcuno, entrando di corsa, fermasse la mano del boia già levata a mezz’aria e gridasse: “Fermo, il prigioniero è stato graziato!” Quante volte la Sua musica mi ha fatto uscire da quel sepolcro di volgarità, di cinismo e di indifferenza verso i miei simili in cui l’infelicità mi aveva rinchiuso! Mi sarebbe difficile rispondere se Lei mi domandasse la ragione della mia commozione. Parlerei di un richiamo irresistibile capace di destare la parte più nobile che è in me; o meglio ancora di un’idea – o di una speranza, se preferisce – che è presente in me da sempre, quella, cioè, che un giorno questa povera umanità, alla fine della sua folle giornata – come Lei ha miracolosamente intuito nello sfolgorante finale delle Nozze di Figaro – riceverà solo pietà e perdono. Sì, perché la Sua musica e il Suo canto, stimatissimo Herr Mozart, sono soprattutto per coloro che la vita ha travolto, abbrutito e corrotto. Mi accorgo che, a poco a poco, mi approssimo sempre più a quella che ritengo essere l’essenza della Sua musica, vale a dire la capacità di farsi tutto a tutti. In questo senso, inevitabile era la Sua sepoltura in una fossa comune – perdoni questo dettaglio macabro –: comune, appunto, cioè di tutti, per tutti e con tutti: è in quella fossa che la Sua musica è stata glorificata. V’è un’ultima cosa – e con questa concludo – per la quale Le sarò per sempre grato: Lei mi ha insegnato a parlare a Dio con naturalezza. Mi pare, infatti, che la Sua musica sia un colloquio ininterrotto con Dio. Anzi, il Suo è un colloquio che raggiunge una tale forma di amicizia e di intimità che non è più necessario pronunciarlo, il nome di Dio. Un esempio per tutti è offerto dalle tre opere che ha composto sui libretti dell’illu-

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stre Lorenzo da Ponte (a proposito, La prego di salutarmelo con ogni cordialità, se si trova, come penso, in sua compagnia: all’abate di Ceneda va l’indiscutibile merito di aver impreziosito la mia lingua nativa con la sovrabbondanza della Sua arte). Lì dentro ci sono tutti: gli stupidi e gli invidiosi, gli assassini e i prepotenti, i prosseneti e i dissoluti, gli iracondi e gli imbroglioni, i pusillanimi e i vanitosi: tutti, tutti! E di tutti Lei ha investigato le cupidigie e i demonî e in tutti ha cercato, trovandolo, un pezzetto di Dio. Così, più di un Dio che si teme e si onora, Lei mi ha mostrato il volto di un padre che ora gioca e sorride con noi, ora ci consola quando, cadendo, ci facciamo del male. Tuttavia, poiché mi ero ripromesso, mentre mi accingevo a vergare questa lettera, che avrei parlato al cuore con il cuore senza infingimenti e senza nulla tralasciare, bisogna che io sia sincero fino alla fine: la Sua musica, caro Herr Mozart, è troppo bella, tanto bella che non si può ascoltare senza esserne turbati. Questo mondo assurdo, senza la Sua musica, sarebbe per me molto più comprensibile. Ma ecco, ad un tratto, irrompere una bellezza che con questo mondo non ha nulla a che vedere. Sgomenti, ci si domanda: che succede? dove siamo? dove ci ha trasportato la musica? Come Tamino e Pamina, così le Sue note, con passo sereno e con sorridente danza, superano le fiamme e le cateratte di questo mondo. Avrà dunque capito che, le mie, sono anche lacrime di dolore, amico carissimo, lacrime di un uomo che non comprende nulla di questa vita e che non può andare oltre la sua immagine riflessa nello specchio. Ma forse ciò che dicono la Contessa e Susanna nel meraviglioso Duettino delle Nozze varrà, un giorno, anche per me: «Certo, certo il capirà». Prima di salutarLa, avrei una richiesta da inoltrarLe: nella speranza, lo ripeto, che un giorno possa giungere in Paradiso, La pregherei di suggerire agli angeli (so che sono valenti mu-

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sicisti, o almeno così li hanno ritratti per secoli i pittori e gli scultori più famosi) di accogliermi, se possibile, proprio con la Canzonetta sull’aria o con il duetto di Papageno e Papagena: solo allora avrò la certezza di essere stato perdonato. Mi creda Suo devoto, Andrea Panzavolta

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Un giorno perfetto Mozart in Viaggio verso Praga di E. Mörike

Forse nessun mito greco possiede una perfezione pari a quello di Cleobi e Bitone. Nel primo libro delle Storie (I, 31) Erodoto narra come, durante la festa in onore di Era ad Argo, la madre di due giovani provvisti di grande vigoria fisica dovesse in ogni modo essere condotta al tempio della dea su di un carro, pur in assenza di una coppia di buoi da aggiogare. Cleobi e Bitone, questi i nomi dei figli, si offrirono allora di buon grado a prendere il posto dei buoi, e così trascinarono il carro per una distanza di ben quarantacinque stadi fino a condurre la madre in Argo. Con il cuore colmo di gioia e di gratitudine, e orgogliosa per le parole con cui gli Argivi esaltavano la resistenza dei giovani, la madre «stando innanzi alla statua divina, pregò che […] a Cleobi e a Bitone, che grandemente avevano onorato la dea, concedesse costei ciò che per l’uomo è la sorte migliore. Dopo questa preghiera, il sacrificio e il banchetto, i giovani si addormentarono lì nel santuario, e non si levarono mai più. Questa fu la fine che li colse». Il mito di Cleobi e Bitone compendia mirabilmente la sapienza greca, la sapienza di chi ha visto la magnificenza dell’istante e il suo misero avvizzire, l’impossibilità di pagare l’altezza dei sentimenti provati se non con la morte, l’innocenza aurorale della natura e la condanna a subire ogni cosa come transitoria; la sapienza, insomma, di chi ha compreso la grazia e la bruciante disperazione della condizione umana. Il soffio perturbante del mito erodoteo spira sul romanzo

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breve di Eduard Mörike Mozart in viaggio verso Praga. L’impossibilità di sopravvivere a un giorno di perfetta gioia: questo potrebbe essere il sottotitolo della novella, che secondo il grande germanista Ladislao Mittner è «la più bella di tutto l’800 tedesco». Nell’autunno del 1787 Mozart, accompagnato dalla moglie Konstanze Weber, parte alla volta di Praga per farvi rappresentare il Don Giovanni. Il terzo giorno di viaggio, intorno all’ora di pranzo, i coniugi Mozart si fermano in una locanda per ristorarsi un poco. E mentre Konstanze chiede un letto su cui buttarsi per riposare un’oretta, Amadé, in attesa di sedersi a tavola, decide di fare una passeggiata nel parco che si estende lì appresso. Seguendo il vivace murmure di un getto d’acqua, in breve giunge in uno spazio di forma ovale costeggiato da un aranceto. Il placido gorgogliare della fontana, la piacevolezza del posto e un’arancia dorata che sembra offrirsi a lui spontaneamente, gli fanno tornare alla memoria i viaggi in Italia, e in particolare una favolosa serata musicale sull’acqua cui assistette a Napoli. Immerso nel ricordo, quasi senza avvedersene allunga il braccio e stacca l’arancia dal ramo. Il tempo di incidere con un coltellino la polpa del frutto, ed è apostrofato ruvidamente dal giardiniere che, scambiandolo per un ladruncolo, gli intima di seguirlo dal signor Conte per rispondere dinanzi a lui del furto. Segue una spassosa commedia degli equivoci degna de Le nozze di Figaro: il Conte, informato dell’accaduto, sta già montando su tutte le furie quando la Contessa, leggendo la firma vergata in calce a un biglietto che Mozart aveva pregato di recapitare ai padroni di casa, si avvede dell’equivoco, placa l’iracondo consorte e trasforma, con intelligenza tutta femminile, l’imprevisto in una occasione per rendere indimenticabile la festa di fidanzamento di sua nipote Eugenie, grande ammiratrice di Mozart e ispirata interprete di tante sue Arie.

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Quello che viene dopo – il banchetto, il ricordo del soggiorno napoletano (vera e propria novella nella novella), il terzetto improvvisato da Mozart insieme al Conte e al fidanzato di Eugenie, le chiacchiere delle dame sotto il pergolato e quelle degli uomini attorno al tavolo da bigliardo – è il racconto, come si diceva, di un giorno perfetto, al quale gli dèi non consentono di sopravvivere. Su questo clima di sorridente pace e di festoso abbandono ai piaceri della vita incombono, infatti, presagi di morte. Verso la fine della serata, cedendo alle insistenti richieste dei suoi ospiti, al pianoforte Mozart esegue in anteprima la scena finale del Don Giovanni, quella in cui il cavaliere rapace di alcove irride l’invito del Commendatore a ravvedersi e sprofonda nell’avello tra le grida giubilanti di diavoli e di lemuri. Quando Mozart finisce, l’emozione suscitata è così profonda che per qualche minuto nessuno osa rompere il silenzio generale. Infine, con il fiato ancora rattenuto, la Contessa gli chiede di dare al pubblico almeno un’idea dello stato d’animo con cui aveva composto quella sublime e insieme terrificante pagina musicale. «Quasi ridesto da una lunga fantasticheria», Mozart risponde: «Veramente, alla fine mi girava un poco la testa. Quel dibattimento disperato, fino al coro degli spiriti, l’avevo buttato giù di getto […]; dopo un attimo di riposo mi recai nel salottino […] Ma un’idea mi attraversò la mente e mi inchiodò in mezzo alla stanza. […] Mi dissi: “Se tu morissi stanotte e fossi costretto a sospendere qui la tua partitura? Potresti trovar riposo nel sepolcro?” Fissavo lo sguardo sul lume della candela che reggevo nella mano e sui rigagnoli di cera liquefatta. Mi sentii invadere da un male a quel pensiero […]».

Per Eugenie – dopo Amadeus il personaggio più riuscito della novella, sospeso com’è tra l’incanto della giovinezza e la paura di non saper trovare il modo di procedere sicura nel torbido

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dell’età adulta – le parole di Mozart sono la conferma che «quell’uomo fulmineo e instancabile andava inesorabilmente consumandosi nel proprio ardore; che egli sarebbe stato soltanto una fugace meteora su questa terra, impari alla lotta col suo strabocchevole genio».

Nell’ultima pagina la novella di Mörike raggiunge accenti di autentica poesia. Il giorno dopo, passando per la grande sala superiore che era appena stata rimessa in ordine dai famuli del Conte, Eugenie si arresta accanto al pianoforte: «Colui il quale solo poche ore avanti vi si era seduto, le apparve come in un sogno! A lungo considerò pensosamente la tastiera ch’egli aveva toccato per ultimo, poi chiuse l’istrumento e ne tolse gelosa la chiave, affinché una mano estranea non potesse riaprilo troppo presto».

Il gesto di Eugenie è di una poesia struggente perché si pone al di là di ogni principio di contraddizione: rivela che la vita ha senso e insieme che è assurda; parla di istanti di beatitudine e insieme del loro trascolorare nel nulla; dice che vi è vera arte e gioia autentica solo se si passa attraverso la consapevolezza della tragedia. Lo scatto della serratura che chiude il pianoforte ricorda il tentativo faustiano di fermare gli attimi belli. Anche la grande musica mozartiana sa che i «bei momenti» sono transeunti, ma a differenza di Faust è felice di incarnare, sia pure per pochi istanti, il ritmo di questo eterno fluire. Essa conosce bene l’angoscia, la mutilazione, la lacerazione, ma non ha bisogno di spezzare la melodia del suono per ridirla. «Dove sono i bei momenti / di dolcezza e di piacer, / dove andaro i giuramenti di quel labbro menzonier?» Vi è un’Aria più mozartiana, più compiutamente conchiusa e nel contempo più sfuggente nella sua insondabilità, di quella cantata dalla Contessa nell’atto terzo delle Nozze di Figaro (non a caso l’altra opera che, insieme al Don Giovanni, è delibata nel corso della festa)? L’ignobile viltà dell’uomo che morde la mela e

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poi fugge e l’amore della donna che resta saldo nonostante quella fuga; il ricordo lacerante della felicità perduta e la promiscua confusione della quotidianità che soverchia inesorabilmente le promesse dei giovani amanti, sono qui scolpite per sempre. La grande sala pulita dai domestici non conserva più alcuna memoria dei «bei momenti» di appena poche ore prima, eppure vivere significa anche superare l’immane violenza di quelle pulizie, pur necessarie. O forse la miglior sorte che sarebbe potuta accadere agli ospiti del Conte e della Contessa sarebbe stata quella di non svegliarsi più, come avvenne per Cleobi e Bitone. Ma forse è altresì vero che mai si può apprezzare la festa come l’indomani, quando le luminarie sono ormai spente e i coriandoli sono stati spazzati via dal pavimento. Tutto si affretta alla sua fine. Con lucidità implacabile e con tristezza pudicamente taciuta, la musica di Mozart non dimentica lo scacco che incombe su ogni esistenza, ma nello stesso tempo aderisce al proprio destino, guizza nell’inestricabile assurdo, alza un sublime canto d’amore all’armonia di ogni giorno, a quella capacità – tutt’altro naturale – di sentirsi appagati per ciò che rende incantevole e irripetibile lo scorrere del tempo, quale può essere un’arancia colta furtivamente da un giardino, o un buon bicchiere di vino rosso, o una partita al bigliardo, o dei pettegolezzi scambiati sotto una pergola in una tiepida sera di inizio autunno. Per questo nessuno è più grande di Mozart: egli è il sommo veggente dell’anima e il sommo veggente del corpo. Per questo si può affermare che la sua musica è essenzialmente tragica, intendendo con questo aggettivo una visione integra della vita, l’intuizione di un significato ultimo capace di ricapitolare in sé anche la più brutale delle dissonanze. Il Mozart di Eduard Mörike è figlio del migliore Illuminismo. Lo stesso castello dove si svolge il racconto è avvolto da una soave allure settecentesca, fatta di conversazioni brillanti e di

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ritrosa festevolezza, di arguta bonomia e di serena coscienza delle cose del mondo, di galanti minuetti e di aggraziati rondò. Ma questa cornice, senz’altro aristocratica, anziché disfarsi in melassa edificante, esalta come meglio non si potrebbe l’amabilità e la fralezza della vita. Del resto, facile è ritrarre la disarmonia del mondo attraverso l’urlo scomposto. Pertanto, la perfetta proporzione geometrica della musica mozartiana – di una bellezza assoluta, ma aliena da ogni lenocinio estetizzante – deve essere considerata come una delle più radicali forme di resistenza che siano mai state praticate dall’uomo contro la selvaggia demonicità della morte

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Genio e splendore precoce Bastien und Bastienne

Il novelliere e drammaturgo austriaco Stefan Zweig in Die Welt von Gestern (Il mondo di ieri) – l’incantato e insieme struggente racconto della finis Austriae che fu pubblicato postumo nel 1944, due anni dopo il suicidio del suo autore – narra un sapido aneddoto che ha come protagonista Hermann Bahr, una delle eminenze grigie – insieme a Hugo von Hofmannsthal, Arthur Schnitzler, Richard Beer-Hofmann e Peter Altenberg – della Jug Wien, il gruppo di intellettuali che amava ritrovarsi nel più blasonato dei caffè viennesi, il Griensteild, e che diede alla cultura austriaca un respiro autenticamente europeo. Zweig racconta lo stupore provato da Bahr quando ricevette, con cortese richiesta di pubblicazione sulla rivista letteraria di cui era direttore, il saggio di un non meglio identificato ‘Loris’, giacché non aveva mai trovato, prima di allora, uno scritto in cui alla perfezione della prosa si unisse una così profonda ricchezza di pensiero. L’autore del saggio era il diciottenne Hofmannsthal, costretto al nom de plume di ‘Loris’ perché studente liceale (agli alunni del liceo era infatti interdetto ogni genere di pubblicazione). Bahr scrisse allo sconosciuto autore che sarebbe stato lieto di incontrarlo e gli fissò un appuntamento al Grinsteild. Quando, nel giorno fissato, vide accostarsi al suo tavolino uno studentello esile e coi calzoni corti e lo sentì presentarsi, con la voce ancora in formazione dell’adolescente, «Hofmannsthal. Sono io Loris», Bahr in un primo momento non ci volle credere. Scrive

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Zweig, riportando il commento di Bahr: «Un liceale capace di un’arte simile, di tanta ampiezza e profondità di vedute, di così sovrana conoscenza della vita prima di viverla?». Un simile giudizio fu espresso anche da Schnitzler appena sentì ‘Loris’ declamare alcuni versi da lui composti. «Dopo alcuni minuti», questa è la confidenza di Schnitzler riportata da Zweig, «ci facemmo attenti e cominciammo a scambiarci sguardi stupiti, quasi atterriti. Non avevamo mai udito da un vivente versi di tale perfezione […]. Ma ancor più mirabile di questa maestria della forma […] era la conoscenza del mondo, la quale in un ragazzo che passava la giornata sui banchi di scuola non poteva venire che da una magica intuizione. […] Io avevo la sensazione di avere incontrato per la prima volta un genio nato e mai in tutta la mia vita l’ho sentito così fortemente». Non dissimili da quelle usate da Bahr e da Schnitzler potrebbero essere le parole per descrivere la verve ritmica, l’originalità melodica, l’acribia nella scrittura orchestrale, la sorvegliata medietà tra il genere buffo e quello serio e soprattutto l’impressionante conoscenza dell’animo umano di Bastien und Bastienne, l’incantevole Singspiel scritto da Mozart all’età di dodici anni. Sì, è soprattutto la straordinaria chiaroveggenza del cuore e della mente a lasciare trasecolati. Per riprendere le espressioni usate dai due grandi intellettuali viennesi, come è possibile, in un fanciullo, una così profonda conoscenza degli anfratti più segreti dell’anima? Come ha potuto un dodicenne raccontare così bene attraverso la musica la fenomenologia d’amore (la gioia aurorale dell’innamoramento e il ricordo struggente dei «bei momenti», il dubbio e l’abbandono dell’amato, il lamento d’amore e il cordoglio, l’affanno e la ritrovata felicità) prima di averla vissuta? Davvero si rimane «stupiti, quasi atterriti» dinanzi a questo eccesso di perfezione: forse solo davanti a simili capolavori si può intendere cosa volesse dire Dostoevskij quando scriveva che la «bellezza è un enigma».

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Il libretto del capolavoro mozartiano è tratto da Les amours de Bastien et Bastienne di Guerville e Madame Favart, parodia del più famoso Le divin du village, l’intermezzo in un atto con cui Jean-Jacques Rousseau intervenne nel dibattito (la cosiddetta querelle des bouffons), allora arroventato, che contrapponeva la francese tragédie lyrique al nuovo teatro comico di origine napoletana, schierandosi risolutamente a favore di quest’ultimo. Anche se Le divin du village è uno strumento di bassa propaganda (tutti gli ideali cari a Rousseau vi sono, infatti, ricapitolati: le aspirazioni egalitarie della borghesia, rappresentate dall’opera buffa italiana, contro l’autorità e il privilegio, di cui la tragédie lyrique era l’estremo palladio; l’incontaminata innocenza della vita agreste contrapposta al mondo esterno, fonte di imbarbarimento e di infelicità), la sua musica, tuttavia, merita una considerazione particolare, giacché è forgiata sull’assunto filosofico secondo cui la melodia è la via regia per esprimere compiutamente gli affetti e l’intima natura dei personaggi. Pure Bastien und Bastienne prende come modello lo stile dell’opera italiana, anche se la ricchezza dell’invenzione melodica e la sapidità della scrittura orchestrale mostrano già l’impronta del leone. Se lo si osserva a ritroso, avendo come viatico i sommi lavori teatrali della maturità, ci si accorge che questo Singspiel giovanile è un distillato delle tranches de vie che saranno scandagliate poi con rabdomantica sensibilità e con raffinatissima arte. Così, a seconda del punto di osservazione che si predilige, quest’aurea operetta può essere considerata come la versione tascabile ora delle Nozze di Figaro (le due Arie «Wenn mein Bastien einst im Scherze» e «Er war mir sonst treu und ergeben», modulate sul rimpianto dei primi giorni d’amore, che sempre promettono la più radiosa delle stagioni, anticipano in modo impressionante quella crepuscolare malinconia, tinta d’azzurro e sfumante nel carminio, che trova nel personaggio della Contessa la sua insuperata incarnazio-

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ne), ora di Così fan tutte (l’innocente coquetterie di Bastienne richiama i languidi vezzi di Fiordiligi e Dorabella), ora della Zauberflöte (il tentato suicidio di Bastien preconizza quello di Papageno come il buon divin Colas il saggio Sarastro). Insomma, nell’operetta del dodicenne Mozart è già adombrato il primum movens di tutta la sua futura produzione teatrale: le alchimie d’amore nel significato goethiano dell’espressione. La trilogia dapontiana e il Flauto magico altro non sono, a ben vedere, che storie di uomini e di donne che si cercano e si lasciano, che si desiderano e si respingono, che con fatica e affanno si sforzano di non perdersi nel gran guazzabuglio del cuore. In questo senso, se si lascia da parte la bellezza senza nome della sua musica, forse non è azzardato considerare Mozart come un lucidissimo anatomopatologo della coppia: pochi, infatti, sono riusciti a raccontarne con pari chiaroveggenza – a volte addirittura con pari crudeltà – le contraddizioni, le ambiguità, gli inferni della vita di coppia. Se non si considera la musica, certo. Ma si tratta di un’operazione impossibile. La musica, infatti, segna l’irruzione tra le macerie della quotidianità del puro Altrove, del puro Oltreluogo – e quindi della pura Follia. La bellezza della musica di Mozart è davvero il paradigma di un mistero che, per quanto ignorato o addirittura respinto, alla fine è più forte dello stesso accanimento con cui lo si respinge. Tutto questo è possibile solo attraverso la sovrana arte del gioco, la quale è piena comprensione della tragedia del vivere e suo superamento attraverso la bellezza. Se così stanno le cose, Bastien und Bastienne sono una sorta di cartoni preparatori di quella eroica resistenza contro le più crudeli smentite che, di lì a poco, Mozart dispiegherà pienamente nella sua produzione successiva.

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«Il semplice e solenne mistero della morte» Musica funebre massonica K 477

Mai come nella Musica funebre massonica e nel racconto del trapasso del principe Andrej in Guerra e pace l’uomo ha affondato con tanto coraggio e tanta lucidità lo sguardo nella ferita della morte, lo scandalo intollerabile che obbedisce solo a se stesso e che tutto assoggetta, calpesta e costringe sotto il proprio dettato. Ascoltando la Maurerische Trauermusik K 477 viene spontaneo, infatti, andare con la mente alle pagine di Guerra e pace dove Tolstoj prende d’assalto, come un titano ribelle, le supreme vette dell’arte per narrare l’ingresso del principe Andrej Bolkonskij nel regno dell’aldilà e per trasformare in parole – quasi ciò contribuisse a conferirgli un senso – lo stupore insostenibile che tracima dagli occhi del suo personaggio. Sono pagine di una potenza divorante, di una bellezza capace di accecare e di incenerire; bisogna accostarsi ad esse in piena umiltà, come Parsifal nella stanza del Graal, perché ogni parola è come se provenisse da un altro mondo, è come se fosse dettata da uno di quei misteriosi spiriti che, come diceva Shakespeare, abitano le regioni tra cielo e terra. Dopo essere stato ferito a Borodinò, il principe Andrej è trasportato a Jeroslawl, nella dimora dei Rostov, dove è accudito dalla principessina Marja e da Nataša. La sua discesa nella Valle dell’ombra avviene attraverso un sogno. Gli pare di essere coricato nella stessa stanza, dove effettivamente si trova, solo che non è ferito. Lo circondano tante persone con le quali

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scambia battute di poco conto e che, dopo un po’, l’una dopo l’altra, cominciano a sparire uscendo dalla porta. Rimasto solo, il suo essere si concentra unicamente su di un solo pensiero: raggiungere il prima possibile la porta per farvi scorrere il chiavistello e chiudere fuori «quella cosa». Ma dopo aver raggiunto l’uscio con grande fatica, egli s’avvede che questa cosa tremenda e raccapricciante è già dall’altra parte e che preme per entrare. Non potendo ormai più chiuderla, il principe Andrej s’aggrappa alla porta in un ultimo, disperato sforzo, ma alla fine le forze gli vengono meno e i due battenti si aprono senza rumore: «Quella cosa entra, ed è la morte. E il principe Andrej morì. Ma nel momento in cui moriva, il principe Andrei si ricordava di morire e in quello stesso momento fece uno sforzo su di sé e si svegliò. “Sì, era la morte. Sono morto: mi sono svegliato. Sì, la morte è un risveglio”. A un tratto l’anima sua si illuminò, e il velo che sino a quel momento nascondeva l’ignoto si sollevò dinanzi al suo sguardo spirituale. Egli sentì come la liberazione della forza che prima era prigioniera in lui e quella strana felicità che da quel momento non lo lasciò più». Dopo il sogno il principe Andrej si sofferma ancora per qualche giorno alla estrema periferia dell’oltretomba, e da lì compie le ultime azioni non perché mosso da pietà o da pena, ma più semplicemente perché è questo che gli altri si aspettano da lui. Marja e Nataša gli sono accanto e vegliano, sottolinea Tolstoj, non più su di lui – esse hanno intuito che egli ormai si trova in un posto che non è di questo mondo –, ma sul suo corpo. Infine sopraggiungono gli ultimi sussulti; Nataša si avvicina, chiude gli occhi del morto e pone le labbra «su quello che era il più vicino ricordo di lui». E quasi in un soffio sussurra: «Dove è andato? Dov’è ora?». Queste due domande suggellano l’avanzata di Tolstoj nel mondo ultraterreno ed insieme il suo fallimento: il principe Andrej è strappato dalle mani del suo creatore e scompare velocissimo come una figurina di car-

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ta trascinata dal vento. Anche la grande arte deve arrestarsi dinanzi al mistero ultimo: delle sue visioni, della sua capacità di farci comprendere intellettualmente e persino fisicamente il rocchetto ingarbugliato del nostro cuore, spiegandoci cosa sono la gioia e il dolore, l’amore e l’odio, la generosità e l’infamia, la fedeltà e il tradimento, di tutto questo resta solo un’interrogazione angosciosa: «Dove è andato? Dov’è ora?». Anche il genio, come il diavolo, si nasconde nei dettagli: la corsiva annotazione, buttata quasi lì per caso, del bacio dato da Natasa «al più vicino ricordo di lui» nasconde in realtà un’epifania di luce: in una manciata appena di parole è racchiusa la totale irrapresentabilità della morte e la sua oscena mutilazione, ma anche un appassionato ‘sì’ alla vita, la quale acquista senso e forma anche perché, tra le altre cose, è stata condivisa con coloro che ci hanno lasciato. Tolstoj conclude la parte dedicata alla morte del principe Andrej Bolkonskij in un pianissimo nel quale, tuttavia, non v’è traccia alcuna di sgomento o peggio di disperazione: è un pianissimo simile a una carezza sospirosa, a un sorriso che non può essere detto a parole e che si dilata e si espande lasciandoci un insondabile struggimento nell’anima: «Nataša e la principessina Marja ora piangevano anch’esse, ma non piangevano per il loro personale dolore, piangevano per la reverente commozione che aveva preso l’anima loro mentre si rendevano consapevoli del semplice e solenne mistero della morte compiutosi davanti a loro». Tolstoj era ossessionato dall’idea di poter entrare nel paese della morte, perché riteneva che lì fosse custodito il segreto di tutte le cose. Dopo Guerra e pace tornerà a bussare a quella porta in Anna Karenjna e, con rinnovato slancio visionario, nel racconto La morte di Ivan Il’ic, le cui ultime pagine, incandescenti e quasi insostenibili, formano un ideale dittico con quelle dedicate alla morte del principe Andrej. Ci piace immaginare che, come già avvenne con un altro capolavoro indiscusso del classicismo viennese, la Sonata a Kreutzer di

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Beethoven (alla quale dedicò una novella dove la straordinaria fattura letteraria si unisce alla magistrale indagine dei recessi più tortuosi della psiche), Tolstoj abbia trovato ispirazione proprio dalla Musica funebre massonica per le sue vertiginosi incursioni. La stupefatta angoscia dell’oboe solista con cui si apre Maurerische Trauermusik sembra essere la stessa del principe Andrej e di Ivan Il’ic: «Che è questo? Ma è davvero la morte? E la voce interna rispondeva: sì, la morte. Perché questi patimenti? E la voce rispondeva: così, senza un perché». Il lamento dell’oboe con la sua escruciante domanda è subito raccolta e ripetuta per tre volte dagli altri legni che sembrano dilatarlo all’infinito, quasi che quel grido si perdesse all’interno di un’immane caverna, oscena eco che dice il non senso della domanda che reca con sé. Quei triplici rimbombi soverchiano la lacrimosa preghiera del clarinetto, ne raccontano lo sgomento e la paura, il pianto e l’invocazione, la perdita e l’assenza. Di più: ripetendolo, quel lamento, è come se lo irridessero, come se gli facessero il verso. Il successivo ingresso degli archi proietta ombre inquiete sulla volta di questa spelonca infera. Sono ombre che si agitano, si dibattono, si contorcono; esse sono i sensi di colpa che ci portiamo dentro e che ci intossicano, sono le occasioni perdute, le parole d’amore non pronunciate, i gesti d’affetto negati, le spaventose menzogne dietro le quali nascondiamo la nostra vita: in una parola, il sonoro fiasco che sta dietro l’esistenza di tutti. La nostra vita, però, contiene anche, come i cerchi dentro un tronco d’albero, le vite degli altri, non solo di quelli che ci camminano affianco nella polverosa strada di tutti i giorni, ma anche di quelli che ci hanno preceduto. Facendo proprio questo assunto, la musica si dilata ora come un fiume che riceva acqua dagli affluenti che incontra lungo il suo corso. Le volute degli archi si fanno ampie e solenni e paiono trascinare nel loro moto ondoso le speranze e le vanità, i sogni e i deliri, la ricerca di Dio e il suo rifiuto di tutta quanta l’umanità. Ma a

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questo punto siamo già oltre la musica. La musica, che è già di per sé un altro linguaggio, qui si fa altro linguaggio ancora. Cosa ha visto Mozart da trasformare ciò che comunemente chiamiamo ‘musica’ in qualcosa d’altro per cui non esiste ancora un nome? È profezia o estasi? È rivelazione o segno? È testimonianza o follia? Inutile interrogarsi: la potenza visionaria della partitura lascia semplicemente trasecolati; inutile e pericoloso: essa è un abisso di luce e di tenebra dal quale bisogna subito distogliere lo sguardo se non si vuole finire annientati. Dopo questa somma apocalisse il dramma acquista di nuovo la forma del diario personale. Ancora affiora la lotta per capire, esprimere, classificare, rappresentare la morte, spuntare il suo aculeo, farla rientrare negli argini di un pentagramma (è la stessa lotta che due anni dopo si ripeterà nei fendenti menati da don Giovanni nella sconvolgente scena al cimitero, estremo approdo dell’arte mozartiana nel regno dell’aldilà), ma è una lotta che a poco a poco si spegne, come se fosse soffocata da un malefizio contro il quale è vano opporsi. La cupa melodia disegnata dall’orchestra svanisce; gli ultimi singulti sembrano preludere a un pianissimo fatto solo di silenzio e di tenebra. Ma proprio quando la mente sta per scivolare nella voragine del nulla, Mozart inserisce un inaspettato accordo in maggiore che è come una luce nella notte, un accordo che si dilata sempre più vibrando nello spazio per istanti che paiono eterni. Ancora una volta è inutile domandarsi da dove provengano questi suoni: troppo vasti sono gli orizzonti che schiudono e davvero sovraumani sono i silenzi nei quali sprofondano. Il pensiero corre di nuovo a Tolstoj: in quell’accordo in maggiore palpitano il bacio di Nataša e il pianto della principessina Marja dinanzi al «semplice e solenne mistero della morte». Ma lì risuonano pure le ultime parole di Ivan Il’ic: «“E la morte dov’è?” Cercò la sua solita paura della morte e non la trovò. Ma che morte? Non c’era più paura perché non c’era più

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morte. […] –È finita! – disse qualcuno. Egli udì queste parole e se le ripeté nell’anima. “Finita la morte – si disse – Non c’è più la morte”». Nell’aureo volumetto pubblicato da Karl Barth in occasione del secondo centenario della nascita di Mozart, è riportata la testimonianza di un gentiluomo inglese amico del grande musicista che, a chi gli domandava se Mozart fosse mai stato felice, rispondeva risolutamente che non lo era mai stato. Ecco: si può parlare di letizia mozartiana solo partendo da questo originario grumo di dolore, che nasce dalla disincantata consapevolezza circa la reale natura dell’uomo e il totale fallimento della propria vita, travagliata dai difficili rapporti con il cardinale Colloredo e con il padre Leopold, dalle perenni ristrettezze economiche e soprattutto dal mancato riconoscimento del suo genio (a riguardo Haydn in una lettera al direttore dell’opera di Praga scrisse: «Rimpiango con rabbia che Mozart, questo essere unico, non sia ancora stato assunto in una corte imperiale o reale!»). Un grumo di dolore, si diceva, che si è andato calcificando lungo gli anni. Ma in questa distretta avviene il prodigio: la sua musica decide di mettersi dalla parte dell’uomo nonostante tutto. Viene alla mente il Salmo 10: dopo un lungo catalogo di iniquità perpetrate dai grandi di questo mondo ai danni dei piccoli, dalla valle di lacrime si leva una voce di speranza: «Eppure tu [Signore] vedi l’affanno e il dolore, tutto tu guardi e prendi nelle mani». Lo stesso si può dire per la musica di Wolfgang Amadé: essa giustifica l’uomo sebbene tutto concorra ad accusarlo. La forza di questo «eppure» irrompe anche nella Maurerische Trauermusik, scelta non a caso da Pier Paolo Pasolini per il suo Vangelo secondo Matteo. La morte, che da sempre aveva esercitato su Mozart una sorta di oscuro fascino, diventa nell’ultimo scorcio della sua vita una vera e propria ossessio-

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ne: oltre alla Musica funebre massonica si possono ricordare il Don Giovanni, il Quintetto K 516, la Sonata per violino K 526, il Concerto per clarinetto K 622, il Flauto magico (le due grandi arie della Regina della Notte raggiungo gli accenti della trenodia) e, ovviamente, il Requiem. In tutti questi lavori la morte è descritta senza dissimulare alcunché, ma ancora una volta siamo costretti a dire: «eppure». La forza di questa congiunzione avversativa è a tal segno irresistibile, che anche coloro che sono convinti che la morte non abbia senso alcuno, non possono fare a meno di sedersi sulla soglia, di ascoltare il vangelo secondo Mozart e di attendere, semplicemente attendere, che esso risplenda anche per loro.

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Il flauto magico o della nobiltà dello spirito

Nell’Ermellino a Cernopol di Gregor von Rezzori il professor Ljubanarov – un ubriacone dostoevskijano e quindi uno di quei piccoli a cui è rivelato il Regno dei cieli –, mettendo a confronto la civiltà classica, di cui era profondissimo conoscitore prima che le pene di un amore perduto lo facessero sprofondare nell’abiezione, con il tempo che stava vivendo, dice: «Gli stessi astri che stavano sopra quell’umanità stanno ora sopra di noi, gli stessi enigmi del mondo, le stesse eterne domande, gli stessi tormenti, aumentati solo di uno: che alla nostra bocca non è stato dato il miele del linguaggio per chiamarli con i nomi che noi stessi abbiamo inventato». L’assunto di Ljubanarov è spiazzante, perché sconfessa una tradizione che proprio il mondo classico ha contribuito a consolidare, vale a dire quello del progressivo svilimento dell’umanità, che dalla primeva età dell’oro è precipitata fatalmente in quella del ferro. In realtà, sostiene questo «santo bevitore», l’epoca in cui scorrevano il latte e il miele non è mai esistita; al contrario, un’insondabile maledizione grava da sempre sugli uomini. Con questa differenza fondamentale, tuttavia: un nuovo tormento si è aggiunto agli altri, vale a dire l’incapacità di mytho-logein, di narrare, di raccontare il pathein, di mostrarne attraverso la parola il volto ripugnante e quindi, in ultima istanza, di trascenderlo. Un tormento non da poco si è, dunque, sommato a quelli che già rendevano miserabile la condizione umana, perché il

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progressivo restringimento della sfera del legein ha fatto venire meno ogni drân tragico. E se è vero, come argomenta Jaspers, che il fine del tragico è il superamento del tragico stesso, questo può avvenire solo attraverso il richiamo all’ordine, alla comunione tra gli uomini, all’attenzione (parola assai cara Simone Weil e a Cristina Campo) verso l’infinita fragilità e ricchezza di ogni persona, all’ascolto partecipe delle tonalità dell’anima, alla ricerca per la ricerca senza la pretesa di una risposta; attraverso il richiamo, insomma, a ciò che Thomas Mann chiama, con una felice espressione, «nobiltà dello spirito». Richiamo, non rivelazione: il tragico, infatti, si può superare solo con una dura disciplina, solo in virtù di un severo amore e di una irriducibile lotta. Ljubanarov tra i fumi del vino scorge, dunque, una profonda verità: davvero triste è il mondo dove non ci sono più aedi, come «il divino cantore» Demodoco, capaci di raccontare lo scandalo intollerabile della morte e insieme lo stupore da mozzare il fiato dinanzi allo spettacolo possente della vita; dove non si odono più sentinelle che, come quelle di Isaia, domandano non solo a che punto è la notte, ma anche come ci si è entrati, che cosa essa sia e come sia possibile uscirne. Forse non era lontano dal vero Borges quando dice che, in fondo, noi non facciamo altro che riscrivere lo stesso libro. I massimi capolavori prodotti dal genio umano – intendendo con questa espressione le opere d’arte che, per usare una icastica immagine di Dostoevskij, potrebbero essere deposte nel giorno del Giudizio dinanzi ai piedi dell’Onnipotente a discarico del male commesso dall’umanità – sono in verità pochi. Tutto il resto, per quanto grandioso, è in fondo parodia, somiglianza, prossimità, vicinanza (para) al canto (odé) aurorale, e dunque è nostalgia per qualcosa che è andato perduto per sempre, è rimpianto per una grandezza tramontata e ormai lontana che tutt’al più può essere evocata solo per cenni. Ma

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forse è proprio grazie a questa componente parodistica che un’opera d’arte diversa da quelle che hanno segnato il meriggio del pensiero umano diviene tale, e può porsi nei confronti delle seconde come contrappunti in un gioco di scambi, di reciproche conferme e di mutuo arricchimento. Certo, anche i massimi capolavori, a ben vedere, sono a loro volta parodie della vita (che pure la illuminano così bene fin nei suoi più riposti angiporti), perché la vita è sempre più fantasiosa dell’arte. Tuttavia vi sono opere la cui potenza demonica lascia sgomenti, classici dove il «miele del linguaggio» di cui parla Ljubanarov è stato concesso in misura sovrabbondante. Uno di questi è Die Zauberflöte, un’opera dove, semplicemente, risuona la voce del cosmo. Pretendere di capire fino in fondo questo opus maximum dell’umanità è impossibile: la perfetta unione di trascendenza e grossolanità popolare, di misticismo e di abbandono alla elementarità del corpo stordisce anche l’ascoltatore meno avveduto. Vi è qualcosa di religioso nella profusione di bellezza donata da Mozart: un libretto dal ruvido ordito narrativo è rivestito di porpora; i cattivi (o presunti tali) cantano con una grazia che lascia abbacinati; i lazzi da teatro popolare sono ricreati da mano sovrana; il centone di registri riceve un’unità stilistica quasi unica nella storia del teatro musicale. Eterogenesi dei fini: ciò che nelle intenzioni di Schikaneder doveva essere poco più di un avanspettacolo, infarcito di motivetti orecchiabili, di buffonerie e di esoterismo d’accatto per assecondare il pubblico un po’ grossier del Teather auf der Wieden, divenne invece non solo una fiammeggiante ri-creazione (mìmesis) degli enormi giacimenti mitopoietici del pensiero occidentale, ma anche, e soprattutto, una delle più alte meditazioni di sempre sulla condizione umana condotta con levità infantile. Le parole di Hugo von Hofmannsthall – «Sentirsi bambini, comportarsi come bambini è l’arte commovente

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degli uomini maturi» – sembrano pensate proprio per il Flauto magico, dove l’insondabile numinoso si fa infantile stupore e il Logos si fa udire tra le risate cristalline dei Papagenini. Nella Zauberflöte la nobiltà dello spirito trova il suo simbolo compiuto nel flauto. Se la visione dell’abisso può paralizzare, anzi addirittura risucchiare verso profondità stigie, la musica del flauto è il sì nonostante l’abisso, è l’eternità nel tempo, è la vita nella morte. «Chi percorrerà questa strada / piena di insidie, / fuoco, acqua, aria e terra purificheranno; / se saprà vincere il terrore della morte / si innalzerà dalla terra al cielo» cantano i due armigeri. Sarebbe il colmo dell’insipienza parlare di ottimismo nel Flauto magico, perché l’ottimismo, dice bene Bernanos, è «l’alibi sornione degli egoisti» che si sciacquano la bocca con questa scipita parola solo per «dispensarsi dall’avere compassione degli uomini e della loro infelicità». Al contrario, duro e severo è l’umanesimo di Mozart: esso non indora la pillola e conserva sempre la consapevolezza che quello dell’uomo è un viaggio in mezzo a insidie che possono annichilirlo in qualsiasi momento e contro le quali persino l’arte è impotente. Ma nobiltà dello spirito – come apprenderà quasi un secolo e mezzo dopo Hans Castorp sullo Zauberberg – significa obbligo di non concedere all’abisso il dominio sui propri pensieri e di sostenere sempre la consapevolezza del bene. «Consolate, consolate il mio popolo!» L’antico grido di Isaia risuona in tutta la sua potenza nell’estremo capolavoro di Mozart. Ma la vera consolazione non è risarcimento del male patito o rimedio oppiaceo contro il vuoto immedicabile della perdita; al contrario essa è esperienza del deserto, è parola bruciante che si leva tra cielo e terra, tra il Tutto e il Nulla, che si innalza dal giaciglio di Giobbe fatto di polvere e cenere; è ascolto, custodia e accoglienza di un reciproco vuoto. È, soprattutto, incontro e comunione profonda tra povertà, da cui nasce la gioia strana che aiuta a vivere e a morire.

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Una lettura del Flauto magico

Atto I Introduzione - Un ritmo turbinoso investe lo spettatore appena si alza il sipario. I tre balzi in salita dei violini seguiti da una loro rapinosa discesa sembrano tratteggiare il profilo delle montagne che fanno da cornice all’azione. Anzi, meglio: evocano la fuga di un animale braccato che cerca di mettersi in salvo tentando di risalire con tre spinte successive e viepiù furiose una parete rocciosa, salvo poi ripiombare al punto di partenza. Tale infatti è Tamino, inseguito da un serpente mostruoso contro il quale è vano utilizzare l’arco perché la faretra è rimasta priva di frecce. Fin da subito sono introdotti simboli che hanno una stretta attinenza con la sfera sessuale dell’individuo e con l’angoscia che ogni fase dello sviluppo (qui il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, ma anche da una religiosità asfittica e regressiva a una dinamica e colma di speranza) porta con sé. E tale è, in fin dei conti, il Flauto magico: il viaggio pericoloso di un ragazzo e di una ragazza che dall’incapacità di vivere e di amare giungono al reciproco dono di sé e alla vittoria sulla paura. Sulla scorta di questa chiave di lettura, la storia presenta analogie singolari con il Libro di Tobia che saranno di volta in volta richiamate. I simboli, si diceva. Prima di tutto il serpente, archetipo del caos primevo, della vischiosa notte delle origini, della duplici-

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tà e della natura anfibia (è maschio e femmina ad un tempo: si rammenti l’indovino Tiresia trasformato in serpente). Come il pesce che vuole divorare Tobia seduto in riva al Tigri, così il serpente è metafora delle pulsioni sessuali che si scatenano improvvise nell’adolescenza, pulsioni che, se non governate, possono inghiottire l’individuo. Che Tamino sia un ragazzo disorientato, incapace di trovare una direzione verso la quale, nel bene o nel male, dirigere i propri passi e dominato da un’angoscia paralizzante, è rimarcato anche dal fatto che il suo arco è privo di frecce. La freccia, quando è scoccata, si dirige in una direzione ben precisa, non conosce deviazioni, pause, rallentamenti. In questo senso essa rappresenta la sintesi, il superamento dell’ambivalenza, la meta, il punto d’arrivo. Tutto torna: il termine saetta (sagitta) deriva dal verbo latino sagire, che significa ‘avere buon fiuto’, ‘capire con perspicacia’: chi dunque non ha frecce, nemmeno può sagire, ma si muoverà a tentoni come un cieco dentro il suo labirinto interiore nel vano tentativo di sfuggire ai mostri che vi albergano. Tamino, come si legge nelle note di scena, indossa un ricco abito da caccia giapponese; più avanti veniamo a sapere che egli è addirittura un principe («Sono di sangue nobile. / Mio padre è un sovrano / che governa su molti paesi e uomini; / perciò mi si chiama principe»). Eppure Tamino non sembra avere consapevolezza del proprio lignaggio: l’arco, simbolo della forza e del potere, resta inerte nelle sue mani. In questo è affatto diverso da Odisseo, il quale, proprio grazie ad un arco, si riappropria della regalità usurpatagli dai Proci (Odissea, XXI). Il viaggio che Tamino intraprenderà è, allora, anche un recupero della responsabilità che egli non sa – o ha dimenticato – di possedere e un’iniziazione al retto esercizio del comando. Scena seconda e terza - Sono le scene dove emerge quel sano spirito popolaresco intessuto di arguzie e di sottintesi, di battibecchi e di smargiassate, che soffia su tutta l’opera, vivificandola.

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Un gustosissimo siparietto, pieno di gagliarda freschezza e di innocua malizia, sono le battute che le tre Dame si scambiano su Tamino, svenuto poco prima di essere da loro salvato. Ciascuna si è invaghita del «grazioso giovane, delicato e bello» tanto che, pur di stargli vicino e di vegliarne il sonno, invita le altre a correre senza indugio dalla regina Astrifiammante per metterla al corrente della novità. Ne nasce un alterco spassosissimo che Bergman, nella riduzione cinematografica che fece dell’opera mozartiana, ha enfatizzato con sapienza, mostrando tre giovani donne che si contendono, lascive, la compagnia del giovinetto lanciandosi velenosi sguardi e prendendosi persino a calci nel fondoschiena. Nella scena seconda, annunciato da una melodia che ha la semplicità di una filastrocca e punteggiata dalle capriole sonore del suo Faunenflötchen, entra Papageno, la figura più bella, più simpatica, più cordiale del Flauto magico. In tre strofe questi si presenta al pubblico: dice di essere un maestro nell’arte di suonare lo zufolo e un valente uccellatore, tanto che la sua fama si estende in lungo e in largo per tutto il paese. A queste rodomontate segue però una confessione tenerissima che fungerà da perno attorno alla quale ruoteranno le avventure che da a lì a poco gli capiteranno: «Vorrei una rete per le fanciulle, / per catturarne a dozzine […]. Quella che mi piacesse di più / […] mi bacerebbe teneramente, /sarebbe la mia donna e io il suo uomo [è impossibile non cogliere un’eco del Cantico dei cantici: «Io sono del mio amato e il mio amato è mio»] / dormirebbe al mio fianco / e io la cullerei come un bambino». Papageno soffre di solitudine, in particolare di quella solitudine che nasce dalla mancanza dell’altra metà della nostra anima, di una compagna con la quale condividere il viaggio della vita. È troppo azzardato intendere l’ultima strofa come una bonaria parodia (bonaria come sono tutte le parodie, perché atti d’amore nei confronti del modello parodiato) della condizione di Adamo prima della creazione di

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Eva? Come il biblico padre di tutti i viventi anche Papageno si sente solo. Egli addirittura ignora, come dice nel dialogo che imbastisce con Tamino subito dopo la sua Aria, che al di là delle montagne vi siano altri luoghi e altri paesi. Ci potrebbe essere in questo passaggio un’allusione al mito del buon selvaggio di roussoniana memoria e gloria. Sarebbe senz’altro un argomento seducente e per di più affatto settecentesco, ma non renderebbe piena giustizia a quel senso di tenerezza e di intimità sospirosa che tremola e palpita nelle pieghe più riposte del suo canto. L’antica voce «non è bene che l’uomo sia solo» risuona, anche se a livello inconscio, sia in Tamino sia in Papgeno; non a caso i due diventeranno compagni di viaggio. Scena quarta - Nell’incantevole morbidezza dell’Aria di Tamino sembrano risuonare le parole di Agostino «non amavo ancora, ma amavo di amare. E amando d’amare, cercavo un oggetto d’amare» («quarebam quid amarem, amans amare»). L’amore di Tamino finora non ha portato frutto. Non che esso sia assente in lui, anzi: pare addirittura tracimare dal suo cuore. Solo, è sterile, è talmente vago e indistinto che si disperde. Come Agostino, egli ama d’amare e finché non troverà un oggetto sul quale riversare il suo eccesso d’amore, finché i suoi sentimenti non si condenseranno in un volto con un nome, egli sarà condannato a rimanere nella terribile prigione dell’amore vissuto solo in potenza. Il ritratto di Pamina che le tre Dame gli mostrano segna un punto di non ritorno nella sua vita. Il pensiero va al primo capitolo del libro della Genesi: come il caos indistinto e informe diventa a poco a poco un kosmos formicolante di vita; così le disarmonie e i disordini interiori del principe si agglutinano in una direzione verso la quale orientare la propria vita. Certo, ancora non ha acquistato la piena capacità di amare (egli si muoverà alla ricerca di Pamina solo dopo i lai della regina Astriffiamante, metafora di quanto il ‘materno’ eserciti ancora influenza su di lui), ma ormai la sua via è segnata.

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La misteriosa nascita dell’amore che ha un volto e un nome è resa dal punto di vista musicale con estrema acribia. La prima parte dell’Aria è una via di mezzo tra il canto tutto spiegato e il recitativo, è una melodia dai contorni tremolanti che bene rappresenta l’inquieta germinazione che sta avvenendo nell’anima del ragazzo: «Sento che questa divina immagine / colma il mio cuore di una nuova emozione. / È qualcosa che non so come chiamare, / ma lo sento bruciare qui come un fuoco. / Il sentimento sarà amore?». La domanda segna l’ingresso di una seconda sezione musicale: si ha come la sensazione di vele gonfiate da refoli che si fanno sempre più esuberanti. Ed ecco che finalmente affiora la consapevolezza del sentimento nuovo che tutto lo pervade: l’amore («Ja, ja, die liebe ist’s allein!»), per ben sei volte ripetuto, anzi quasi sussurrato, come se egli, da una parte, non resistesse alla stupefazione di quella scoperta e, dall’altra, avesse timore di ripeterla, quella parola, «die liebe! », per non offuscarne la purezza. La scoperta dell’oggetto d’amore si accompagna inevitabilmente al desiderio del suo possesso: «Oh, se solo potessi trovarla! / Oh, se fosse già dinanzi a me!» V’è tutto l’incanto dell’adolescenza in queste parole, lo struggimento per l’assenza della persona che ci fa battere il cuore e nello stesso tempo la paura di non sapere poi cosa fare, dove guardare, quali parole pronunciare qualora quella ci dovesse comparire davanti come per incanto: «Vorrei, vorrei, ardente e puro… [«warm und rein»] cosa vorrei?» La risposta arriva accompagnata dalle voci dei violini, ai quali si aggiungono poi i clarinetti, i fagotti e i corni, tutti fusi insieme in una delicatissima pasta sonora: «Vorrei estasiato / stringerla al mio petto infuocato, / e così sarebbe mia in eterno!». Papageno e Tamino fanno lo stesso uso del condizionale: entrambi infatti cercano il medesimo oggetto d’amore (una ragazza rispettivamente da cullare come un bambino e da

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stringere al petto). Le loro strade si uniscono, i loro destini s’incrociano: non può che attenderli il medesimo viaggio. Scena sesta. Il tono luttuoso del suo recitativo di sortita non potrebbe tratteggiare meglio il simbolo incarnato dalla Regina della Notte. Ella è una mater dolorosa, come Demetra che percorre la terra con il volto velato alla ricerca della figlia, è una divinità ctonia, una genitrix che si trasforma in un mostro pronto a divorare quegli adolescenti che, come Tamino, hanno paura di entrare nella vita; è icona perfetta della madre protettiva, che ama il figlio di un amore esclusivo e vorace. Anche i consigli che gli dà sottendono un secondo fine. Le parole del recitativo sono chiarissime: «Non temere, mio caro figliolo, / Tu sei senza macchia, saggio e pio. / Un giovane come te potrà al meglio consolare / questo cuore di madre profondamente afflitto». Pur non essendolo, ella astutamente chiama Tamino «figliolo», affondando così le mani in un mondo di sentimenti che può dominare a piacere. Pur avendo preso coscienza del sentimento d’amore che è sbocciato nel suo cuore, il principe tuttavia non ha ancora raggiunto una sufficiente maturità per gestirlo al meglio, per trasformarlo in un reagente per la sua crescita spirituale. Il rischio è che ne sia travolto. Il fatto è che in lui e nella Regina alligna ancora il complesso d’Edipo: Tamino per il momento non è capace di avere una relazione con nessuna altra donna perché l’unica donna che ama è la Regina della Notte o, fuor di metafora, sua madre, nei cui confronti gli stimoli sessuali sono inibiti dal divieto dell’incesto (dinamiche simili intercorrono nel Libro di Tobia tra Sara e suo padre). Il viaggio sarà per Tamino anche una progressiva liberazione da questo giogo. Scena nona. Il primo dei tre quintetti dell’opera possiede una levità che incanta. Ghiotta occasione per mettere alla prova le capacità istrioniche di Papageno e per enfatizzare il suo ‘credo’ improntato a un genuino, autentico, candido materialismo

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che fa a pugni con le fumose promesse delle tre Dame (siano altri, dice il simpatico uccellatore, a fare la parte dell’eroe. Grazie, ma non ci penso proprio ad accompagnare Tamino da Sarastro, che voi stesse avete descritto come una tigre assetata di sangue. Andate tutti al diavolo: io ci tengo alla mia pelle!), questo quintetto è anche, e soprattutto, una grandiosa parabola della condizione umana, di come la notte, e quindi il male, possa nascondere in se stesso i germi della propria distruzione. La Regina Astrifiammante utilizza Tamino e Papageno come una sorta di cavallo di legno per portare un attacco formidabile al cuore stesso del regno di Sarasto, ma nello stesso tempo dona loro il flauto magico e i campanellini d’argento (il Glockenspiel) che li aiuteranno a superare i pericoli e le prove; ella è pronta a sacrificare tutto e tutti pur di conquistare il potere eppure mette i due compagni di viaggio sotto la protezione di tre genietti, la cui assistenza sarà fondamentale per il buon esito dell’avventura. La necessità di attraversare i terrori della notte, di scendere tutti i gradini della kenosis per poter salire a una superiore conoscenza di sé e del mondo, il dolore e la sofferenza quale inizio del bene, l’autodistruzione del male: ancora una volta il miracolo si compie. Lo spettatore/ascoltatore rimane esterrefatto dinanzi al genio mozartiano che estende le sue ali su spazi così vertiginosi, che avanza per luoghi stigi con l’augusta fermezza del dantesco messo celeste, che scosta con la mano l’aere nero e grommoso e che attraversa la «selva selvaggia e aspra e forte» della nostra esistenza con l’incantato passo dei fanciulli. Scena quattordicesima. Il fresco dialogo tra Papageno e Pamina è di capitale importanza per almeno un paio di motivi. Intanto si viene a sapere che la fanciulla sta vivendo lo stesso dramma di Tamino. Anch’ella ama d’amare («Amore? […] Ascolto così volentieri la parola amore!»), ma non ha un

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oggetto d’amore, un volto capace di contenere e di dare un senso alla piena dei sentimenti che sente salire dentro di sé. Anch’ella poi è legata alla madre da un rapporto malsano che le impedisce di spogliarsi dei panni della bambina per rivestire quelli della donna adulta. «La morte non mi fa paura, / mi fa pietà solo mia madre; / certamente morirà di dolore» confessa, manifestando chiaramente il desiderio traslato di uccidere la madre, guardiano inflessibile che le sbarra l’accesso alla vita. Per Tamino e Pamina è suonata l’ora, solenne e terribile, della grande scelta dalla quale dipenderà la loro futura esistenza («Presto i tuoi occhi troveranno la luce – dice la Voce a Tamino un poco più avanti – o mai più»), l’ora che può perderli o salvarli, trasformarli in adulti o lasciarli eterni prigionieri della loro angoscia. Ancora una volta il pensiero va al Libro di Tobia, in particolare a quell’abbacinante versetto che l’autore pone a suggello delle preghiere del vecchio Tobi e di Sara: «In quel medesimo momento la preghiera di tutti e due fu accolta davanti alla gloria di Dio e fu mandato l’angelo Raffaele a guarire i due». L’angelo che salverà Tamino e Pamino sarà Sarastro, anche se il suo ruolo salvifico sarà pienamente compreso dai giovani soltanto alla fine, solo dopo aver riposto in lui tutta loro fiducia. Ma questa fiducia dispiegherà i suoi effetti anche su Papageno, perché la salvezza non è mai una questione privata. Emerge una visione pienamente cristiana dell’esistenza, per la quale, se ci si salva, ci si salva solo insieme. Scena quindicesima. I misteri più grandi sono rivelati dai più piccoli. Sono infatti i tre genietti, «tre fanciulli, giovani, amabili e saggi» a indicare per la prima volta quale sia il nocciolo della questione vale a dire la scelta tra il bene e il male, tra la vita e la morte. La solennità del momento è enfatizzata dalla lentezza ieratica del Larghetto che evoca una processione. Per Tamino è un ulteriore passo in avanti: dopo aver trovato un og-

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getto da amare, subentra la consapevolezza della scelta morale che quell’oggetto potrà conquistare o perdere. «Sii costante, paziente e discreto – lo ammoniscono i tre fanciulli – In breve, sii un uomo, / e allora, o giovane, vincerai da uomo». Il momento delle grandi decisioni è bene rappresentato dalle tre porte che si aprono rispettivamente sul tempio della Saggezza, della Ragione e della Natura. La porta infatti è il luogo di passaggio tra due mondi, tra un prima e un dopo; essa, aprendosi su un mistero (nessuno conosce cosa ci sia al di là di essa), è anche un invito al viaggio, ad una condotta di vita dinamica che consiste nel mettersi in gioco, nel rischiare, nel domandare ripetuto e diuturno. La porta è l’inizio di un’avventura che bisogna prendere terribilmente sul serio e non con cialtrona faciloneria, come fa invece Tamino allorché tenta di varcare le prime due soglie con la protervia di un bullo al quale tutto è dovuto. Il duplice scorno gli servirà da lezione: avvicinatosi alla terza porta, questa volta bussa. Gli apre un sacerdote al quale il giovinetto chiede notizie di Pamina: anche se egli ancora non lo sa, il momento della prova è iniziato. Alle insistenti richieste di Tamino il sacerdote oppone una ferma reticenza. Le battute che si scambiano prima di separarsi hanno una forte densità metaforica: TAMINO: «Quando allora cadrà il velo?» - ORATORE: «Non appena la mano dell’amicizia / ti condurrà nel sacro luogo a eterno vincolo» (parte) - TAMINO (da solo): «O notte eterna! Quando svanirai? / Quando i miei occhi troveranno luce?» - VOCE: «Presto, giovane, o mai più». Tamino ripete l’antica domanda «sentinella, a che punto è la notte?»; e pure la risposta che segue è simile a quella che viene offerta dalla scolta nel testo biblico: «Viene il mattino, poi anche la notte. / Se volete domandare, domandate» (Is 21, 1112). La crescita della sfera affettiva del giovane procede di pari passo a quella della sfera religiosa. Tamino è un ragazzo

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che domanda e il domandare è da sempre la cifra del vero credente. Non importa avere una risposta: l’importante è che non venga mai meno il desiderio di sapere se il velo sarà squarciato, se la notte prima o poi svanirà se e i nostri occhi vedranno il terso chiarore dell’alba. Nel domandare è la nostra speranza e la nostra salvezza. Scena diciottesima. Pamina e Papageno fanno appena in tempo a rallegrarsi per aver trasformato in burattini, grazie al suono cristallino del Glockenspiel, Monostato e i suoi sgherri, che subito sprofondano nella paura per l’ingresso di Sarastro e della sua corte, annunciato da un maestoso rataplan di timpani e di trombe. Pamina implora indulgenza e chiede al potente mago che le sia concessa di nuovo la libertà di ritornare da sua madre: «Mi chiama il dovere di figlia, / perché mia madre…». Pamina è ancora fossilizzata in una rigidità psichica che la soffoca; il suo Io non ha la forza sufficiente per sgretolare gli idoli inferi che la soggiogano. Per lei la libertà è ritornare dalla propria madre e consolarla per le afflizioni che il suo rapimento le ha procurato; il nuovo sentimento che è sgorgato nel suo petto facendola sussultare di gioia si è dissolto nel nulla: se non sarà una forza esterna a spezzarli, da sola Pamina non riuscirà mai a infrangere i ceppi che la tengono legata alla Regina della Notte. Ma la «mano dell’amicizia» è pronta a soccorrere anche lei; e sarà una mano forte che la condurrà ad un altro e ben più maturo vincolo, quello con Tamino («E i due formeranno una carne sola…»). Sarastro si oppone con fermezza alla morale, bigotta e assassina, che illude Pamina di stare operando il bene, ma che in realtà è una ragnatela che la avviluppa fino a strangolarla. «Perderesti la tua felicità – tuona Sarastro – se ti lasciassi nelle sue mani. […] È una donna superba. / Un uomo deve guidare i vostri cuori». Questa frase segna l’irruzione del ‘paterno’ nella vita di Pamina, della trascendenza sapiente e giusta, della

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coscienza che accompagna l’Io nelle plaghe più profonde della psiche. Sarastro non porterà cose nuove nella sua vita, ma farà nuove tutte le cose; non genererà sentimenti nuovi, ma ri-genererà quelli che già ci solo («Ecco, io faccio nuove tutte le cose» Ap 21, 5). Scena diciannovesima. Solo un accenno all’incontro tra Pamina e Tamino. Non appena la fanciulla vede il giovinetto esclama: «È lui!». «È lei!» fa questi di rimando. La scena ha una dolcezza che commuove. Sia pure all’insaputa l’uno dell’altra, i due giovani si sono cercati da sempre: era lei che Tamino vagheggiava nei giorni del suo sconforto; era a lui che Pamina pensava negli anni trascorsi nell’angusto palazzo-prigione di sua madre. Solo perché si sono cercati da sempre ora possono riconoscersi: «È lui!», «È lei!». Ancora una volta obbligato è il richiamo a Tobia, a quella impressionante, stupefacente frase pronunciata dall’angelo Raffaele: «Non temere: essa ti è stata data fin dall’eternità. Sarai tu a salvarla». Travolti dalla gioia i due giovani si abbracciano, incuranti del luogo in cui si trovano e della loro condizione di prigionieri. La poesia I ragazzi che si amano di Prévert non potrebbe commentare meglio questa scena: «I ragazzi che si amano si baciano in piedi / contro le porte della notte. / I passanti li segnano a dito, / ma i ragazzi che si amano / non ci sono per nessuno […] Essi sono altrove, molto più lontano della notte, / molto più in alto del giorno, / nell’abbagliante splendore del loro primo amore». Atto II Scene prima, seconda e terza. Che il viaggio di Tamino e Papageno possa trasformarsi in un’avventura senza ritorno è detto a chiare lettere nella severa Aria con coro che suggella il prologo sacrale all’inizio del secondo atto.

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Dopo aver pregato Iside e Osiride di vegliare sui due viandanti e di infondere loro pazienza nei pericoli, Sarastro chiede anche che, qualora dovessero morire (e qui la melodia del suo canto, finora di una rarefatta ieraticità, si increspa per una intensificazione del tono), siano accolti nelle luminose dimore degli dèi. La partita dunque è aperta e tutto può ancora accadere. Dal tempo quantificato, dal krònos, Tamino, Pamina e Papageno entrano nel tempo qualificato, nel kairòs, nel tempo opportuno, nell’istante favorevole che può capovolgere in bene la loro vita («Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza» 2 Cor 6, 2). Può, perché il kairòs deve essere accolto e l’accoglienza della grazia esige una scelta, un atto di responsabilità liberamente assunto. «Sei pronto a conquistarti [amicizia e amore] a costo della vita?» domanda l’oratore. «Sì» è la pronta risposta di Tamino. E con quel «Sì» egli varca non solo la soglia del tempio della Natura, ma anche la linea d’ombra, quella, scriveva Conrad, «che segna il passaggio dalla giovinezza, noncurante e fervida, al periodo più consapevole e tormentoso dell’età adulta». Ma forse questa lettura ancora non coglie pienamente nel segno: quel «Sì» è qualcosa di più di una prova di coraggio o di una conquistata maturità psichica: è una prova di fede, affrontata nel momento in cui la tenebra è più fitta: «Che notte tremenda!» sussurra Tamino pieno di angoscia. Ma il kairòs, il tempo della grazia e della fede, è anche il tempo del distacco da sé, del ripudio (in senso evangelico) della propria vita e dell’apertura all’Altro. Infatti subito dopo Tamino aggiunge: «Papageno, sei ancora accanto a me?»; «Sì, naturale» è la risposta, a riprova del fatto che il simpatico uccellatore non funge solo da spalla comica a Tamino, ma da fondamentale mezzo della sua salvezza (e lo stesso si dica di Tamino per Papageno, come abbiamo già visto).

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Il Flauto magico è, sì, un labirinto di interpretazioni dentro il quale è piacevolissimo perdersi, ma è prima di tutto una fiaba. E forse più ancora per i suoi significati, esso deve essere gustato per quella confusione di elementi sublimi e grossolani, nobili e popolareschi, che costituisce la cifra stessa dell’opera. Così, la fermezza, forse un poco seriosa, con la quale Tamino accetta di affrontare le prove è subito ridimensionata dalla pusillanimità di Papageno, che ancora una volta regala un autentico numero da theatre varieté. Alla domanda se anche lui sia disposto a conquistare la saggezza, Papageno dà una risposta dissacrante: «Lottare non è faccenda per me. / Non aspiro in fondo ad alcuna saggezza. / Sono un semplice, che s’accontenta di dormire, / mangiare e bere. E se una volta mi riuscisse / di acchiappare una graziosa mogliettina…», salvo poi preferire subito dopo il celibato, quando viene a sapere le prove che bisogna affrontare per conquistarsene una. Chissà: forse Ingmar Bergman, cultore del Flauto magico, ebbe in mente proprio questa scena nella battuta che fa pronunciare allo scudiere Jöns nel Settimo sigillo: «La mia pancia è tutto il mio mondo, la mia testa la mia eternità, e le mie mani due magnifici soli. Le gambe sono i pendoli del tempo e i miei piedi sporchi i due eccellenti fondamenti della mia filosofia. Il tutto vale esattamente quanto un rutto, con l’unica differenza che il rutto dà più soddisfazione». Scena sedicesima. Per la seconda volta fanno il loro ingresso i tre fanciulli, i quali offrono ai due viandanti cibo e bevanda. Senza forzare la mano vedendo nei doni riferimenti eucaristici, resta tuttavia intatta la potenza simbolica di questa scena. I genietti sono le guide che si affiancano a noi durante il viaggio della vita; sono presenze discrete, quasi invisibili, che ci sostengono quando il sentiero si fa acclive, che ci confortano quando cala la sera e sopraggiungono i terrori della notte. Verrebbe da dire che sono i nostri angeli custodi, se questa espressione non fosse troppo sospetta perché in odo-

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re di trascendenza. Eppure di trascendenza si tratta, perché queste guide quando ci guardano, quando ci parlano, quando ci abbracciano, ci fanno provare una gioia che non è di questo mondo. Le loro parole sono una sorta di anticipo di eternità, una finestra sul cielo, una caparra di quella consolazione che, sebbene ogni minuto concorra a negarla, le profondità del nostro cuore sentono come ineluttabile. Questi angeli custodi, chiamiamoli allora così, ci guidano a libertà (At 12, 1-19); grazie al loro terzo occhio riusciamo a guardare noi stessi con serietà, senza infingimenti e senza sensi di colpa. È un occhio trasparente, il loro, nel quale possiamo rispecchiarci senza paura di essere condannati. «Se non disdegnate i cibi, / mangiate e bevete pure in allegria» cantano i fanciulli con una freschezza e una leggerezza che evocano un volo di farfalle sopra un prato punteggiato di fiori. Cibo e bevanda che rinfrancano il corpo e soprattutto lo spirito: il pensiero corre al lembas, il «pan di via» che gli Elfi donano a Frodo e a Sam nel Signore degli anelli, capace di nutrire la volontà e di dare forze «per sopportare e controllare membra e nervi in misura superiore a quella posseduta normalmente da una natura mortale». Scene diciottesima e ventiseiesima. Anche se distanti, le due scene sono intimamente connesse tra loro. Tamino, suonando il flauto che i tre fanciulli gli hanno restituito, attira Pamina, ma, fedele alle promesse fatte ai sacerdoti, con il suo silenzio fa precipitare la fanciulla nella disperazione: «Non rivolgi/ sillaba alla tua Pamina? […] Devo evitarti? Devo fuggirti senza sapere perché? / Tamino, non mi ami più?/ […] Guarda queste lacrime, / scorrono solo per te, mio amato! / Non provi nostalgia dell’amore? / Allora avrò pace nella morte!» È impossibile non andare con la memoria alla scena del carcere che chiude la prima parte del Faust, dove la folle Margherita alza uno dei canti più struggenti di sempre sulla fiducia tradita, sui sogni

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infranti, sull’immenso vuoto che si apre nel cuore quando un amore finisce («Un tempo dalle tue parole, dai tuoi sguardi/ tutto un cielo scendeva sopra di me / e mi baciavi come volessi soffocarmi! […] Dove è andato / il tuo amore? / Chi me l’ha rubato?»). Il dolore è così acuto che Tamina decide di suicidarsi. La sua mente vacilla: si rivolge al pugnale, che le diede la Regina della Notte per assassinare Sarastro, e intesse un monologo che dal punto di vista musicale è scandito da una tonalità smozzicata, affannosa, sincopata. Ancora una volta fondamentale sarà l’intervento dei tre fanciulli che le fermeranno il braccio nel momento in cui sta per vibrare il colpo. È evidente il parallelismo con la scena sedicesima: dopo Tamino, ora è Pamina ad essere aiutata quando più forte ruggisce la bufera dell’angoscia. Questo ‘dittico dell’abbandono’, potremmo chiamarlo così, rinvia anche ai due notturni del Cantico dei cantici, quelli dove la Sulammita si aggira di notte per le strade gerosolimitane alla ricerca del suo amato («L’ho cercato ma non l’ho travato, / l’ho chiamato, ma non mi ha risposto!»). Del resto, simile è il contenuto sapienziale che corre in esergo ai due testi: la consapevolezza, cioè, che nulla si conquista una volta per tutte, tanto meno l’amore che, più di qualunque altra cosa, richiede di essere continuamente vivificato e purificato dalla paura, perché «chi teme non è perfetto nell’amore» (1 Gv 4,18). Il demone Asmodeo in Tobia – eccolo di nuovo, questo prezioso libretto che corre in filigrana a tutta l’azione del Flauto magico – incarna proprio il lato oscuro dell’amore, il suo rovescio, quella paura l’uno dell’altra che, fin dai tempi di Adamo ed Eva, s’imbietta tra l’uomo e la donna, tentando di separarli. Non solo. Asmodeo è un demone a tal segno potente che può essere vinto solo attraverso l’intervento dell’angelo Raffaele (della ‘medicina di Dio’ come indica l’etimologia del nome), che nel Flauto magico compare sotto le sembianze dei

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tre genietti. Ma in entrambe le storie la presenza dell’angelo nulla potrebbe se Tobia e Sara, Tamino e Pamino, non riponessero fiducia in lui. Scena ventitreesima. Il nuovo, irresistibile one man show di Papagneo è una sorta di interludio giocoso tra le due parti dedicate al dramma di Pamina. Questa nuova pochade, pur non aggiungendo nulla quanto a lepidezza, a verve e a comicità, merita tuttavia di essere segnalata per una battuta che, che più di tutte, coglie l’essenza del personaggio che la pronuncia. L’Oratore sta rampognando Papageno per non aver rispettato la consegna del silenzio: per punizione resterà escluso dalla beata sorte che attende gli iniziati. La replica è di quelle che non si dimenticano, tento è arguta e nello stesso tempo presaga di verità altissime: «E allora? Che me ne importa. Sapete quanta gente c’è come me c’è là fuori?» È difficile spiegare la profondità di questa battuta. Verrebbe da dire la sua ‘poesia’, se non fosse che essa è un inno proprio al suo esatto opposto, cioè alla prosa della vita, a quella prosa che, pur avendo tanto spesso il soggetto in caso accusativo, sa di cose buone, di incontri, di comunione, di semplicità. Sì, Papageno siamo noi: piagnucoloni, neghittosi, ottusi dinanzi alle novità che ci riguardano, perennemente in ritardo con i tempi, più interessati al nostro ventre che alle sorti dell’umanità, fruitori dell’immediato, poveri saltimbanchi che vivono di gherminelle, funamboli che cercano di non rompersi l’osso del collo precipitando dalle complicazioni del vivere quotidiano; eppure anche capaci, in modo del tutto inaspettato, di un guizzo di dignità proprio nel momento in cui è fondamentale averlo. Scena ventottesima. È la scena culminante del dramma, quella che celebra la vittoria dell’amore sulle avversità della vita. Tamino e Pamina superano la prova di fede e tutto il resto è dato loro in aggiunta: ritrovano la via che conduce a se stessi, disseppelliscono i tesori che si nascondevano nelle pieghe più

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riposte della loro anima e, ciò che più importa, acquistano la consapevolezza che l’amore è dono. Ma è soprattutto su Pamina che ruota l’azione, su Pamina ovvero sulla donna, che la partitura celebra come il capolavoro del creato, come l’essere capace di vincere gli inferni dell’esistenza perché consumata da un fuoco ancora più divorante, un fuoco che «nemmeno le grandi acque possono spegnere, né i fiumi sommergere»: all’inizio e alla fine della vita di ciascun uomo ci sarà sempre una donna al suo fianco capace di aprirgli una porta anche in una parete senza porta. Una Pamina, mille Pamine: la sua voce è anche quella di Antigone, di Alcesti, di Beatrice, di Ofelia, di Desdemona, di Cordelia, di Leonora nel Fidelio di Beethoven («Amando sono riuscita / a liberarti dalle catene!»), di Greta nel Faust, di Sonja in Delitto e castigo, di Molly in Viaggio al termine della notte. Tutte sono malate d’amore, tutte combattono senza mai arrendersi dinanzi alla possibilità del fallimento, tutte portano in dono un abbraccio, la sola cosa capace di colmare l’immenso vuoto dell’uomo: «Sarò ovunque / al tuo fianco, / io stessa ti condurrò, / l’amore della tua vita». E dopo averlo preso sottobraccio, Pamina s’incammina con Tamino verso le prove del fuoco e dell’acqua. Non vi è nulla di più bello, di più religioso, di più vero di questo procedere insieme nel difficile viaggio della vita. Fedele ai principi della poetica aristotelica, Mozart e il librettista Schikaneder non mostrano in che cosa consistano le prove e quali siano gli orrori che esse nascondono. Le note di scena si limitano a riferire che le porte si chiudono al loro passaggio e che si odono il crepitio del fuoco, l’ululato del vento, il rombo del tuono e il fragore delle acque. Ma queste indicazioni, che avrebbero fatto la felicità di qualsiasi compositore romantico, sono del tutto disattese dalla musica. Ciò che si ode è solo il suono del flauto, che zufola una marcetta dal vago sapore

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militare, su un impalpabile sfondo sonoro intessuto da accordi isolati di corni, timpani, trombe e tromboni. E grazie a quella piccola canna, intagliata dal padre di Pamina «in un’ora d’incanto / dalla fonda radice / di una quercia millenaria», i due giovani riescono a superare le prove. Il flauto, dunque, quale simbolo della loro fede; simbolo, anche, della guida inviata da Dio (a riguardo è interessante osservare come presso i Sufi il flauto e l’uomo di Dio sono una cosa sola); simbolo, infine, della musica stessa, della sua capacità di divertire e di commuovere, di consolare e di parlare al cuore di tutti gli uomini. Scena ventinovesima. Ancora il nostro Papageno in un nuovo siparietto dove il comico e il tragico si confondono in modo magistrale. Il pensiero va a La febbre dell’oro, alla scena dove Charlot nella notte di Capodanno si appresta a mangiare uno scarpone bollito: mai più il cinema è riuscito a rappresentare così bene la grazia e la maledizione del vivere. Papageno, disperato perché ha perduto la sua Papagena, decide di impiccarsi ad un albero. Ma lo fa à la Papageno, cercando, attraverso gherminelle e sotterfugi, di traccheggiare il più possibile. Quando, dopo un lungo tira e molla, si decide e fa per mettersi il cappio intorno al collo, ecco scendere dall’alto i tre fanciulli che lo invitano a suonare il Glockenspiel. Alle note del magico strumento entra Papagena e i due si lanciano nel famoso duetto che potremmo chiamare ‘della sillaba –pa’. Nulla di più semplice ed insieme nulla di più profondo: questo è uno dei casi dove si rimane ammutoliti dinanzi alle intuizioni che Mozart riesce ad avere circa le verità che governano gli esseri umani. In quella sillaba ripetuta, che sembra procede quasi incespicando, vi è tutta la fatica della relazione d’amore, della sua lenta e sofferta maturazione. E quei due nomi – Papagena! Papageno! – ridicono tutto lo stupore di chi finalmente ha ritrovato il proprio luogo d’origine, la propria patria nel volto dell’altro. Il miglior commento ancora una volta è il

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Genesi: «Tu sei veramente la mia carne, / tu sei veramente il mio osso». Papageno viveva cacciando uccelli per la Regina della Notte ed era ricompensato con buon vino e cibi prelibati, aveva tutto quello che gli occorreva per vivere, ma, come Adamo, non aveva un aiuto che gli fosse simile. Un aiuto per che cosa, poi? Per vincere la malattia più crudele: la solitudine. Solo quando pronuncia il nome della donna (e anche qui non sfuggano i parallelismi con il testo biblico: Papagena è il femminile di Papageno, come ‘isshah è il femminile di ‘ish, uomo, e traducibile pertanto con «uoma», per sottolineare come i due formino davvero un’unità ormai inscindibile), solo quando dialoga con lei l’uomo mette fine alla sua tragedia.

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Un vangelo dell’infanzia Il duetto di Papageno e Papagena

Die Zauberflöte, ovvero del germanesimo gentile. Tutto ciò che ci incanta della Germania – le dimensioni illimitate della Foresta Nera; gli orizzonti di acque, solitudini e boschi che fanno da sfondo a tante favole dei fratelli Grimm; le lontananze silenziose rese ancora più insondabili dal verde cupo degli abeti e del fogliame; le piccole città dove gli abitanti sono dediti al lavoro quotidiano, fatto di ordine, di attenzione e di responsabilità; i valori perenni della ragione e del sentimento – è ricapitolato nell’estremo capolavoro di Mozart. Ricapitolato e, aggiungeremmo, trasfigurato: le foreste non fanno paura perché in esse vivono animali che, anziché insidiare il viandante, lo accolgono festanti, invitandolo a unirsi con loro in aeree carole accompagnate dal suono lieve del flauto; la fedeltà conservatrice del Bürger si stempera in anarchia vagabonda, in un sentimento umanistico che è apertura al mondo e alle sue diversità; la morale non si snatura mai in predicozzo edificante, ma conserva sempre una magnanimità profonda; la grande arte si spoglia di ciò che in essa vi è di «disperatamente tedesco», come diceva Thomas Mann, e diviene comprensione totale dell’umano. Questo germanesimo gentile non suggerisce alcunché di grandioso, ma piuttosto una assorta ritrosia: le sue foreste, le sue fragorose cascate, le sue forre e i suoi templi sereni, quasi di lucreziana memoria, sono, sì, un infinito, ma raccolto, simile al riso cristallino di un bimbo. È per questo che Il flauto magico dovrebbe essere allestito solo in teatri di modeste dimensioni,

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dignitosi ma non sfarzosi, come era il Theater auf der Wieden di Vienna dove fu rappresentato per la prima volta il 30 settembre 1791 (Ingmar Bergman, nella mirabile versione cinematografica che ne ha tratto, mostra di aver compreso pienamente la cifra del capolavoro mozartiano usando come set il piccolo teatro del castello di Drottningholm, vicino a Stoccolma, e mostrando nell’intervallo tra il primo e il secondo atto gustosi ‘dietro le quinte’ che ne esaltano l’incanto sommesso). Il flauto magico è l’epitome del teatro inteso come luogo di sogni e di meraviglie, di seduzioni e di malie; come spazio limitato che però è possibile riempire con una sovrabbondanza di colori, di suoni, di luci, di personaggi, di azioni; come ultimo rifugio dello spirito dell’infanzia (questa dimensione aurorale della vita che il teatro, e quindi Il flauto magico, possiede in sommo grado è stata colta, ancora una volta, da Bergman grazie ai primi, talora primissimi piani, del volto sorridente di una bambina riproposti con insistenza nel corso del film). Insomma, più che mai vale per quest’opera ciò che sul teatro dice il Coro nell’Enrico V di Shakespeare: con la forza dell’immaginazione, entro la stretta cinta delle sue pareti è possibile scorgere spazi che si estendono a perdita d’occhio. Tra i sublimi numeri della Zauberflöte un affetto particolare si prova per il duetto tra Papageno e Papagena nel finale del Secondo atto. Che il Vogelfänger della Regina della Notte sia tra le dramatis personae più riuscite del teatro mozartiano è cosa arcinota: la sua rustica simpatia, la sua candida pusillanimità, la sua ingenua astuzia, la sua devozione ai santi piaceri della carne, la sua tartufesca bonomia ne fanno un amico sincero, un ideale compagno con cui condividere il viaggio della vita. Trattato alla stregua di un buontempone un po’ grossier per buona parte dell’opera, Papageno raggiunge di colpo la statura dell’eroe nel celeberrimo (e spesso trivializzato per l’uso criminale che ne è stato fatto in alcune reclame) duetto che intreccia con Papagena.

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Siamo, come si accennava, alla fine del secondo atto. Papageno, disperato perché ha perduto la sua compagna, decide di impiccarsi. Intervengono i tre geni-bambini che lo invitano a suonare il Glockenspiel: alle prime note del magico strumento ecco riapparire Papagena. Ciò che segue è nell’orecchio di tutti: Pa-pa-pa-pa-pa-Papagena!, e di rimando, come una coppa che a poco a poco tracima, Pa-pa-pa-pa-pa-Papageno! Lo stupore incontenibile dell’uccellatore è però attraversato da un improvviso brivido: «Bist du mir nun ganz gegeben?», «Sei tutta mia adesso?» Dimmi se è vero o se sto ancora sognando? L’amore che provo può finalmente specchiarsi in un volto, nel tuo volto? «Nun, bin ich ganz gegeben!», «Sono tutta tua, adesso!» Il miracolo si è compiuto e i due diventano un essere solo. Sul loro capo si srotola un nuovo cielo dove brilla la costellazione formata da Freude, Liebe, Kinder, gioia, amore, bambini. Non vi altra partitura al mondo che, come questa, riesca a dire l’inesprimibile gioia di essere genitori: vi è addirittura un punto (quello che sullo spartito reca l’indicazione Beide, Entrambi) in cui i gorgheggi dei due innamorati raggiungono l’ebbrezza della felicità e tutto si confonde in un mare di oro fuso. Con questo non si vuole certo affermare che il duetto sia un inno alla famiglia, perché Mozart non si è mai servito della musica per professare le proprie convinzioni, né per impancarsi a infallibile legislatore, né tantomeno per imporre una morale. Più sommessamente si vuole dire che l’acutezza con cui questi ha colto l’intima bontà del creato raggiunge qui la sua acme: i veri protagonisti del duetto, infatti, sono i «kleine Kinderlein», i «piccoli bambinelli» che come pulcini presto zampetteranno pigolando attorno ai genitori. Consummatum est: nel duetto tra Papageno e Papagena trovano compimento tutte quelle passioni che erano state investigate, con esiti artistici già di per sé superbi, nelle precedenti

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opere, perché in nessun’altra partitura mozartiana si avvertono accenti di tale commossa gioia. Qui è il punto d’arrivo, oltre non era possibile andare. Oltre c’era soltanto la morte, che avvenne pochi mesi dopo. Ozioso e del tutto inutile è chiedersi quali altre meraviglie Mozart avrebbe potuto donare all’umanità se fosse vissuto più a lungo. Il Flauto magico è il traguardo. Ma è un traguardo che può lasciare interdetti: al culmine del teatro mozartiano, dopo un cammino che parte dalla Finta semplice e passa attraverso i capolavori della maturità, troviamo ad attenderci dei bambini. Tutto tendeva a questo. L’itinerarium mentis di Mozart approda alla visione dei Papagenini che ruzzano festanti. È vero, dopo il duetto seguono l’assalto della Regina della Notte e dei suoi accoliti al castello di Sarastro, la loro sconfitta ad opera del mago e l’ingresso di Tamino e Pamina nell’augusto serraglio degli iniziati. Il Coro che suggella la loro unione, raffinata nel crogiolo delle due prove supreme del Fuoco e dell’Acqua, ha qualcosa di austero e di venerabile (ci si soffermi sugli aerei sospiri degli archi, simili a un potente soffio che gonfia all’improvviso le vele di una nave, che si levano dopo il «Dank sei dir» a Osiride e a Iside, e si consideri se essi non siano messaggeri che giungono da misteriose lontananze); eppure negli ultimi istanti la musica perde quest’aura misticheggiante e acquista un retrogusto più terragno, per così dire, un sapore più deciso, di raffinatissimo, sublime vaudeville. È lo spirito popolare nella sua accezione più alta che soffia di nuovo sulla scena, come se Mozart volesse suggerirci che la vera chiave per comprendere il Flauto magico sia quella di considerarlo semplicemente (ma quale profondità si nasconde in questo avverbio!) una favola per bambini. Per questo dobbiamo immaginare che siano Papageno e Papagena, circondati da uno stuolo di sorridenti Papagenini, a chiudere il sipario.

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Considerazioni sull’epistolario mozartiano

Ne Gli imperdonabili – mirabile saggio dedicato a coloro che, come Dante e Čechov, Proust e Hofmannsthal, si sono consacrati al «trappismo della perfezione», che è «divorante passione di verità» e attenzione insonne per il mistero dell’esistenza, per le sue cose visibili e invisibili – Cristina Campo ricorda anche Wolfgang Amadeus Mozart, di cui cita un frammento tratto dalla sua ultima lettera italiana indirizzata, si suppone, all’abate Lorenzo Da Ponte (il manoscritto originale è andato perduto, sicché non è certa la sua autenticità) e datata 7 settembre 1791. Il contenuto della missiva è celeberrimo e ha dato origine alle più fantasiose illazioni. Un «incognito» ha commissionato a Mozart una Messa per i defunti e ora la sua immagine, simile a quella di un lemure, perseguita il musicista notte e dì. L’anonimato del committente e soprattutto la sua richiesta, avvolta com’è da un’aura indiscutibilmente stigia, sono interpretati come sinistri presagi: «[…] sento […] che l’ora suona; sono in procinto di spirare; ho finito prima di aver goduto del mio talento». A questo punto ad Amadé sfugge una frase che, pur nella sua stringatezza, dice come meglio non si potrebbe quel non so che di immedicabile e di spaventosamente disperato che da sempre avvelena le opere e i giorni degli uomini: «La vita era pur sì bella». Scrive Cristina Campo: «Si provi, di queste sei piccole parole, a rimuoverne una. Ecco la formula feriale: la vita era bella; o la nostalgica: la era pur bella; o la candida: la vita era sì bella. Ma ‘la vita era

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pur sì bella’. Questo solo è il pugnale che trafigge: uscito dal fodero in virtù di due monosillabi, disposti secondo un ordine semplice e imperscrutabile». Anche se la lettera del 7 settembre 1791 fosse riconosciuta spuria con assoluta certezza, le «sei piccole parole» non cesserebbero, per questo, di essere implacabilmente vere e continuerebbero a incarnare lo spirito mozartiano proprio grazie – scrive bene la Campo – a quei monosillabi, combinati tra loro in modo tale che, spostando l’uno, l’intera frase scivolerebbe nella più trita banalità. Per spiegare, poi, in che cosa consista lo ‘spirito mozartiano’, si possono citare altri due passi tratti, rispettivamente, dalla lettera indirizzata alla baronessa von Waldstätten del 28 settembre 1782 e da una delle tante richieste di danaro inoltrate all’amico e membro della medesima confraternita massonica Michael Puchberg, datata 17 agosto 1789: «Vorrei possedere tutto ciò che esiste di buono, di autentico e di bello!»; «Sono davvero infelicissimo! Sempre sospeso tra paura e speranza». Lo spirito di Mozart, dunque, ha per confini un’infelicità senza nome e una speranza che si nutre di bontà e di bellezza; in mezzo c’è la musica di un uomo che con il proprio genio ha fatto toccare all’umanità il suo punto meridiano. La lettura dell’epistolario mozartiano è una glossa – inevitabilmente incompleta come tutte le glosse e, proprio per questo, alla fine superflua – a quanto già un ascoltatore attento intuisce dall’ascolto di una qualsiasi delle sue partiture, e cioè che Mozart in alcun modo può essere riconducibile a un vagheggino tutto frivolezze rococò o a un luminoso figlio della natura che si aggira beato per i giardini di qualche principe elettore, tra edicole classicheggianti e festosi zampilli di fontane. Fin dalle prime missive scritte all’età di quattordici anni alla sorella Nannerl e alla madre un saporoso sorriso e una cordiale bonomia, frizzi soavemente sboccati e sapidi tiri burloni

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(memorabile quello giocato tra l’ilarità del pubblico ai danni di Schikaneder mentre questi al Auf der Wieden interpretava Papageno) si accompagnano a una straordinaria percettività delle contraddizioni dell’esistenza. A riguardo giova citare ancora una volta il noto incipit della lettera spedita da Mannheim al padre Leopold l’8 novembre 1777: «Carissimo papà, non so scrivere in modo poetico: non sono un poeta. Non so distribuire le frasi con tanta arte da far loro gettare ombre e luci: non sono un pittore. Non so neppure esprimere i miei sentimenti con i gesti e con la pantomima: non sono un ballerino. Ma posso farlo con i suoni: sono un musicista». Posso esprimere i miei sentimenti con la musica: un’affermazione che è anche un enigma capace di far perdere il sonno. Quale altezza e profondità raggiunsero mai i sentimenti dell’uomo Mozart? Non c’è stata passione che egli non abbia tradotto in musica: donde tale conoscenza? Si potrà mai cogliere nella sua interezza ciò che si muove e si agita nella sua musica? Cosa udiva veramente il suo orecchio? Forse si può azzardare quale risposta il titolo di una grandiosa partitura mahleriana: Das Lied von der Erde, il canto della Terra o meglio, per usare una parola assai cara a Teilhard de Chardin, il canto della Materia. Mozart ha udito la musica che muove l’universo e di questa è stato mediatore; ha intuito il Centro e il Dettaglio di ogni cosa e soprattutto è riuscito a scorgere per pochi, fatali istanti un Volto: «Dentro di sé, del suo colore stesso, / mi parve pinta de la nostra effige». Con questo non si vuole tratteggiare una oleografia uguale e contraria a quella del Mozart apollineo, né fare del Salisburghese un mistico o un teologo (invano ci si affaticherebbe a rintracciare nei suoi spartiti l’anagramma S(oli) D(eo) G(loria) che Bach apponeva a suggello delle sue partiture): Mozart non prega, non predica, non vuole dimostrare alcunché. Più semplicemente si vuole affermare che la musica di Mozart è il sì incondizionato all’uomo, alle sue armonie e disarmonie, alle sue proporzioni e sproporzioni. Ma dire sì all’uomo significa

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accettare di patire l’umano fino in fondo, assumere su se stessi gli oscuri terrori che sempre lo minacciano e che, a ben vedere – e questo, Mozart, lo vide – sono anche la condizione della sua gioia. Da qui quel diffuso sentimento di consolazione che si prova – che è impossibile non provare – quando si ascolta la sua musica, quella beatificante sensazione di avere accanto un amico tranquillo e gentile che ci tende la mano. «Con lievi mani, con lieve cuore, / la vita prendere, la vita lasciare», recitano alcuni stupendi versi Hugo von Hofmannsthal dall’indiscutibile allure mozartiana. L’epistolario, dunque, è solo la sinopia di ciò che Mozart ha espresso attraverso i suoni; eppure senza l’umile sinopia – che nelle lettere ha il profilo di imperatori e arcivescovi, di famuli e servette, di aristocratici e contadini, di Papageni e Sarastri – l’affresco non potrebbe risplendere.

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Le nozze di Figaro dirette da Erich Kleiber

Le nozze di Figaro dirette da Erich Kleiber sono l’ipostasi della ‘viennesità’, vale a dire di un mondo poetico che è la sintesi brillante del miglior dècor settecentesco. Troppo spesso le creazioni artistiche di questo mondo sono state considerate alla stregua di prodotti di raffinatissima pasticceria, di golosi bon bon ricoperti di glassa che, certo, deliziano il palato ai primi assaggi, ma che, alla lunga, vengono in uggia. Il primo dei capolavori mozartiani su libretto di Lorenzo da Ponte può prestarsi, è vero, a una esecuzione sciropposa, guarnita, come certe torte, da inutili e stucchevoli decorazioni di zucchero, ma la possibilità di commettere corbellerie non significa altresì ineluttabilità delle stesse. Prima di scoprire la registrazione di Erich Kleiber alla guida dei Wiener Philarmoniker (1955) pensavamo che nulla potesse raggiungere l’altezza delle incisioni lasciateci da Feren Fricsay con l’Orchestra della Radio di Berlino (1960) e da Carlo Maria Giulini con la Philarmonia di Londra (1961). La prima si impone per una trasparenza cameristica (l’organico è ridotto a circa quaranta componenti) capace di illuminare ogni più intimo recesso della cifra emotiva mozartiana; la seconda, invece, colpisce per una certa sensibilità strumisch – si ascoltino l’aria di Cherubino nel secondo atto («Voi che sapete») e quella della Contessa nel terzo («E Susanna non vien»), dove l’ispirazione melodica e la qualità timbrica raggiungono orizzonti che non temiamo di definire metafisici – che Giulini

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ha mutuato dallo studio di Beethoven e soprattutto dell’amatissimo Brahms. Erich Kleiber è il terzo astro di questa sfavillante costellazione. La sua lettura delle Nozze di Figaro è, come si diceva, la summa del classicismo viennese: tutto ciò che si ama di questa fatale epoca della storia della musica è qui ricapitolato in una sintesi vertiginosa. L’orchestrazione, la qualità sonora, la tensione dei tempi di base e dei ritmi, la sapienza e insieme la fermezza con cui sono eseguiti i pezzi d’insieme parlano di un vero e proprio abito mentale, di uno sforzo eroico di mantenere l’integrità della propria anima, di una serena accettazione delle vicende della vita e di una garbata sprezzatura, di decoro e di disciplina, di conversazioni brillanti e di sorridente armonia quotidiana, di un’intima bonomia verso le opere e i giorni degli uomini appena appena marezzata da una nota di scetticismo. Le due arie di Cherubino sono le perle di questa registrazione. Come è noto nella prima («Non so più cosa son, cosa faccio»), dopo aver esposto gli effetti dell’innamoramento, il buon Abate di Céneda inserisce una scenetta pastorale dove il paggio, vinto senza remissione alcuna da Eros, si aggira per i campi parlando d’amore «all’acqua, all’ombre, ai monti, / ai fiori, all’erbe, ai fonti, / all’eco, all’aria, ai venti». Orbene, Kleiber riesce a rendere smaglianti le tinte bucoliche di questo quadretto: i legni e i fiati imprimono alla melodia una tersa chiarità da cui rampolla una irresistibile aura di festevolezza e di intima comunione tra la natura e gli uomini. Insomma: sembra un idillio di Teocrito trasposto in musica. La seconda aria, invece, che nell’esecuzione di Giulini tanto abbiamo amato per la sua trasfigurata inquietudine e per la sua luminosità serotina così simile a quella che si ritrova nei quadri del Perugino, è da Kleiber restituita a una dimensione tutta terrena: Cherubino è un adolescente che avverte

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imperioso l’appetito dei sensi. Certuni suoi sentimentalismi («Quello ch’io provo […] / è per me nuovo, capir non so») non debbono trarre in inganno: la Canzona, in realtà, è una mirabile opera di seduzione messa in atto nei confronti di due donne contemporaneamente e, come se non bastasse, nel luogo in cui la seduzione stessa raggiunge la propria consacrazione: la camera da letto. A riprova basti il recitativo che subito segue: alla Contessa, favorevolmente impressionata dalle doti canore del giovane paggio, Susanna replica con una frase tendenziosa, che può dar adito alle più svariate supposizioni, comprese le più piccati: «Oh, in verità egli fa tutto ben quello ch’ei fa». Jean Starobinski nel suo mirabile saggio Le incantatrici scrive che l’aria di Cherubino è «l’opera stessa in concentrato, la mise en abyme dell’opera che noi vediamo e ascoltiamo». Questa intuizione sembra attraversare in filigrana l’esecuzione di Kleiber: le sue Nozze di Figaro non esistono per ciò che raccontano o rappresentano, ma per ciò a cui alludono. La sovrana eleganza con cui questi legge il capolavoro mozartiano è dunque, prima di tutto, un omaggio reso al teatro – e al teatro musicale in particolare – visto come eterno impulso a celebrare i riti, i giochi e le feste del genere umano attraverso l’incanto, la trovata spettacolare, l’emozione, la commozione, il sorriso. Kleiber, insomma, non fa altro che considerare la folle journée per quello che è: un rutilante ballo in maschera. Ma la maschera significa travestimento e simulazione e quindi teatro e quindi – eccoci di nuovo al punto di partenza – Vienna, l’unica città che ha assunto il teatro come proprio connotato peculiare (ne Il mondo di ieri Stefan Zweig scrive che «il primo sguardo del medio viennese al giornale non era rivolto alla discussione della Camera o agli eventi politici, bensì al teatro, il quale assumeva nella vita pubblica un’importanza appena comprensibile in altre città»). Quasi un secolo e mezzo dopo altri illustri viennesi, per tutti Schnitzler e Hofmannsthal, portarono alle estreme conse-

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guenze questo ballo in maschera, mostrando come la finzione sia l’unica forma in cui la vita si offre. Mozart aveva ben chiara questa verità (del resto, le Nozze di Figaro non principiano forse con la simulata generosità del Conte di approntare l’alcova dei futuri sposi accanto alla sua solo per meglio concupire Susanna, e con la decisione di Figaro di fingere a sua volta per rovesciare «tutte le macchine» del lascivo padrone?), ma la respinse: dal re maggiore si parte e al re maggiore si arriva, con un gioco si sono aperte le danze e con un gioco esse terminano. Dopo il sacramento del perdono non vi sono né buoni né cattivi, né vinti né vincitori, ma solo un gioioso sciame di uomini e donne trascinato in una folle festa che l’esecuzione di Kleiber celebra in tutto il suo splendore.

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Il Mozart umbratile di Carlo Maria Giulini

«Era una vita di lavoro e d’offerta, […] ricca di musica. E si sviluppava come se lui diventando musicista e Magister Musicae avesse scelto quest’arte come una delle vie che conducono alla meta suprema dell’uomo, alla libertà interiore, alla purezza, alla perfezione, e come se da allora non avesse fatto latro che lasciarsi compenetrare sempre più dalla musica, trasformandosi, purificandosi, […] e ora nient’altro fosse che un simbolo, o meglio una forma concreta, una personificazione della musica. A me almeno tutto parve tutto musica ciò che emanava da lui […]: una musica esoterica fattasi perfettamente immateriale che accogliesse ognuno entro il suo cerchio magico, come un canto polifonico accoglie l’entrata di una voce nuova». Così Joseph Knecht, il protagonista dello splendido Das Glasperlenspiel (Il giuoco delle perle di vetro) di Hermann Hesse, descrive la trasfigurazione in musica del Magister Musicae della provincia pedagogica della Castalia, giunto ormai al termine della sua vita. Spirito superiore divenuto tale grazie ad una capacità fuori del comune di ascoltare la musica – e ‘ascolta’ veramente la musica solo chi riesce a trasformala in movimento dell’anima, in intelletto d’amore, in linguaggio dello spirito –, il Magister Musicae fu il primo ad accorgersi delle rare capacità intellettuali del giovane Knecht, nel quale scorse altresì un’attitudine all’ascolto simile alla sua. I due, nonostante l’età, diventano amici, anzi fratelli (l’unico legame, forse, autenti-

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camente egualitario), il più vecchio aiutando il più giovane a penetrare sempre più addentro nel segreto della musica; il più giovane, invece, allietando il più vecchio con la sua passione e il suo zelo. L’ultimo incontro tra Knecht e il Magister tocca il fastigio della loro reciproca capacità di ascolto, il punto oltre il quale a nessun uomo è concesso andare: il loro dialogo, che era stato sempre musicale – nei loro incontri le parole erano sovente sostituite dall’esecuzione di partiture al clavicembalo del maestro – in quell’ultima ora e mezza diviene puro silenzio, il quale è l’approdo ultimo del suono e dell’amore. Infatti, a tal segno musicali erano divenute le loro anime che non v’era più bisogno non solo delle parole, ma neppure della musica perché essi stessi, i loro corpi, i loro organi e il loro respiro, in quei minuti, erano divenuti musica: quel silente canto d’amore sembrava ospitare dentro di sé le innumerevoli voci della Materia «come un canto polifonico accoglie l’entrata di una voce nuova». Una delle ultime fotografie che ritrae l’ormai nonagenario Carlo Maria Giulini richiama alla mente questo mirabile passo del Glasperlenspiel. In essa il volto del grande direttore d’orchestra, inondato da una spera di luce, ha la levigatezza di una statua; gli occhi, in particolare quello sinistro, sembrano mandare bagliori di fuoco. Insieme allo sguardo, la cosa che colpisce di più è la bocca. Essa è socchiusa, ma più che aprirsi per pronunciare parole sembra sigillarsi fino a scomparire del tutto, in modo da far risaltare pienamente la forza venerabile che dardeggia dagli occhi. Ci immaginiamo così il volto del Magister Musicae di Hesse. Giunto al termine della sua vita, anche Giulini si era trasfigurato in musica, a riprova dell’assunto di Marco Aurelio secondo cui il nostro volto è modellato dagli dèi in cui abbiamo riposto la nostra fede. L’immensa acribia del direttore d’orchestra, le abili e intelligenti mani che sono riuscite a disseppellire nelle pagine di Mozart e di Brahms, di Bruckner e di Verdi persino i tesori più inaccessibili, tutto,

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nel silenzio di quel volto, diventa trascendenza, unio mystica, immortale serenità, compimento dell’umano. Ci si chiede che cosa resti dell’eroismo e della tragicità delle sue esecuzioni di Beethoven e di Brahms; e soprattutto cosa delle intermittenze notturne che egli è riuscito a far affiorare dalle partiture di Mozart. Perché il Mozart di Giulini in alcuni istanti sembra tremare dinanzi all’abisso e guardare sgomento la tragicità della condizione umana; e anche se il male di vivere è poi trasceso dal ‘ciò nonostante’ della sua arte, da un sereno coraggio dinanzi all’informe (un coraggio che si fa atto morale), quegli istanti in cui Mozart è raggelato dal soffio del nulla impressionano. Il pensiero corre a quella che forse è una delle più suggestive esecuzioni mozartiane di Giulini, Le nozze di Figaro da lui dirette nel 1961 con la Philarmonia Orchestra con Elisabeth Schwarzkopf nel ruolo della Contessa, Anna Moffo in quello di Susanna e Giuseppe Taddei in quello del Conte. Si ascoltino in particolare le due arie di Cherubino, l’aria «Dove sono i bei momenti», il duetto «Canzonetta sull’aria» e soprattutto il finale: l’orizzonte pacificato e sereno raggiunto comunque da Giulini reca, tuttavia, in sé le tracce di uno scontro, di una profonda inquietudine, di una ferita, di una scepsi. Forse è temerario l’accostamento, ma si potrebbero paragonare queste Nozze alla Resurrezione dell’altare di Issenheim: il Cristo risorto dipinto da Grünewald, pur essendo avvolto in una gloriosa placenta di porpora ed oro, mostra tuttavia le mani con i segni dei chiodi e il costato trafitto dal colpo di lancia. Così, al termine dell’opera, nell’implorazione «Contessa, perdono» vertice e abisso coincidono: quanto di dolorosamente sottaciuto, anche se di lì a breve sarà trasfigurato nella gioia abbagliante del ‘Tutti’, ritorna per un’ultima volta quale sigillo della vera arte, la quale prima di tutto è indomita fedeltà a coloro che conoscono sventura, persecuzione e sofferenza.

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Nel ritratto del vecchio Magister Musicae Giulini tutto questo sembra confluire, dice bene Hesse, in un canto polifonico: quanto delle tortuosità e degli affanni di questo mondo ancora ribolliva nelle partiture da lui dirette si immette, pur senza annullarsi, in un canto che è silenzio dove, per dirla con Goethe, «l’inattingibile diviene evidenza e l’indicibile si adempie».

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Le due cene nel Don Giovanni

«Indarno gridi! Chi son io tu non saprai». Il Don Giovanni di Mozart-Da Ponte è distillato in questa battuta. Come il mago Proteo, così il Libertino di Siviglia: non appena si è certi di averlo acciuffato e imbrigliato all’interno di una definizione, ecco che questi cambia forma, si divincola e sfugge tra le dita. Invano ci sforzeremmo di carpirne il nome e, quindi, l’essenza: questo mito letterario sempre ci precederà di un passo, sempre conserverà una parte ‘nascosta’ (questa del resto è l’etimologia di mythos) che eluderà qualsiasi tentativo di interpretazione. Le suggestioni che seguono, pertanto, sono da considerare solo come sguardi gettati da una finestra su vastissimi territori che è impossibile esplorare compiutamente. 1. Un «dramma giocoso» Una delle tante porte di accesso al Don Giovanni di MozartDa Ponte è la didascalia posta in calce al titolo: «dramma giocoso». Una didascalia che è anche un enigma: infatti, se la parola dramma nel linguaggio settecentesco indica semplicemente un testo teatrale, è l’aggettivo «giocoso» a costituire un autentico rompicapo. Cosa vi è di giocoso in una storia che principia con un tentativo di stupro, prosegue con un omicidio, si sviluppa attraverso una carambola di finzioni e di menzogne e termina con una punizione esemplare? Anche se la vicenda si conclude con un lieto fine (ma è proprio un lieto fine?), si stenta a considerare il Don Giovanni un «dramma giocoso». Comunque stiano le cose, l’enigma racchiuso in que-

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sta didascalia stuzzica l’intelligenza in modo irresistibile: è una vera e propria sfida alla quale non ci si può sottrarre. Un aiuto insperato ci viene dallo stesso Lorenzo Da Ponte, l’autore del libretto. In un passo delle sue vivaci e impertinenti Memorie, l’Abate di Cèneda ricorda che nel 1787 Martini, Mozart e Salieri, quasi simultaneamente, gli chiesero ciascuno un libretto: «Pensai se non fosse possibile di contentarli tutti e tre e di far tre opere a un tratto. Salieri non mi domandava un dramma originale. Aveva scritto a Parigi la musica all’opera del Tarar, voleva ridurla al carattere di dramma e musica italiana, e me ne domandava quindi una libera traduzione. Mozzart e Martini lasciavano a me interamente la scelta. Scelsi per lui il Don Giovanni, soggetto che infinitamente gli piacque, e L’arbore di Diana pel Martini. […] Trovati questi tre soggetti, andai dall’imperadore, gli esposi il mio pensiero e l’informai che mia intenzione era di far queste tre opere contemporaneamente. “Non ci riuscirete!” mi rispose egli. “Forse che no,” replicai; “ma mi proverò. Scriverò la notte per Mozzart e farò conto di leggere l’Inferno di Dante. Scriverò la mattina per Martini e mi parrà di studiar il Petrarca. La sera per Salieri e sarà il mio Tasso.” Trovò assai bello il mio parallelo».

Oltre a essere bello, questo parallelo è altresì assai interessante. Da Ponte era un fine letterato e conosceva a menadito le opere di Dante, del Petrarca e del Tasso: pertanto è lecito supporre che i tre nomi non siano stati buttati là a caso. Il riferimento all’Inferno può essere letto quale una dichiarazione di intenti. Come quella dantesca, anche il Don Giovanni sarà una comedìa, nel duplice significato che a questa parola l’Alighieri dà nella celebre lettera a Cangrande della Scala del 1316: una comedìa quanto a contenuto, perché inizia con materia «aspra e terribile» (lo stupro e l’omicidio) e termina felicemente (il dissoluto sarà punito); quanto a stile, perché si pone in una media via tra quello alto e solenne (tragico) e quello basso e mediocre (elegiaco).

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Ma attenzione: Da Ponte accosta il libretto che sta scrivendo per Mozart non genericamente alla Commedia, bensì all’Inferno. Perché? Che ha in comune la prima cantica con la storia del libertino di Siviglia? Qual è l’ordito concettuale dell’Inferno, ravvisabile, secondo Da Ponte, anche in esergo al Don Giovanni? Esiste una parola capace di ridirlo, se non compiutamente, almeno con una approssimazione vicino alla compiutezza? Riteniamo che, sì, questa parola esista e che sia eccesso. Tutto è eccessivo nell’Inferno di Dante: le passioni che ancora agitano i reprobi, i supplizi che li tormentano, lo stesso paesaggio. Tutto appare dilatato, e-norme. Ecco: eccesso come e-normitas, come fuoriuscita dalla norma, come rifiuto dello strumento che consente all’artista di creare figure geometriche perfette (questo è il significato della parola latina norma), immutabili nelle loro dimensioni e in teoria riproducibili all’infinito. Ma ciò non deve stupire più di tanto: l’enormitas della pena è il giusto guiderdone per l’enormitas di cui le «anime prave» si sono macchiate nella loro vita terrena. Ritorniamo ora rapidamente alla nostra didascalia. Forse non è una forzatura intendere l’espressione «dramma giocoso» come sinonimo di comedìa. Il gioco, infatti, pur avendo in sé una indubbia componente di leggerezza, è però qualcosa che richiede una grande abilità. «Il bel gioco – scriveva Karl Barth in un aureo libretto dedicato a Wolfgang Amadeus Mozart – presuppone che si abbia una conoscenza infantile del centro (poiché si ha del principio e della fine) di tutte le cose». Il gioco è divertimento e spensieratezza e al contempo arte alta e severa. Il gioco si svolge, non può non svolgersi, sotto il segno dell’eccesso, dell’enormitas: in esso le categorie spaziali e temporali saltano. Il gioco, ancora, accentua sia l’elemento passionale sia quello comico: ciò che lo caratterizza è d’ordine quantitativo e non qualitativo.

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Nel Don Giovanni questo assunto risulta evidentissimo nell’aria «Fin che han del vino calda la testa» che, insieme alla celeberrima aria «Madamina il catalogo è questo», può essere letta come il manifesto della filosofia seguita dal Dissoluto. Il piano che questi sta tramando con l’aiuto di Leporello per lui non è altro che un gioco: la sua passione è a tal segno e-norme, è a tal segno de-formata da risultare irresistibilmente comica. La sua ossessione è la lista dove annota per filo e per segno le sue donnesche imprese: «Ah la mia lista doman mattina d’una decina devi aumentar». Aumentare: ecco un verbo dongiovannesco par exellence. Esso deriva dal latino augere, che significa ‘rendere maggiore’ nelle dimensioni o nel numero. Questa tensione all’eccesso incombe continuamente nelle parole e nella musica. Gli esempi si sprecano: il Commendatore si trans-forma una statua gigantesca; i bocconi trangugiati dal Dissoluto sono «da gigante» e il suo appetito è definito da Leporello «barbaro»; somme ingenti di denaro sono spese unicamente per il divertimento («Già che spendo i miei danari io mi voglio divertir»); ben tre orchestre suonano contemporaneamente alla fine del primo atto e altrettante suonano motivetti alla moda all’inizio della fatale cena. 2. Una critica alla raison dei Lumi? Che l’eccesso sia il daimon che muove don Giovanni è, del resto, dichiarato apertis verbis da Leporello subito dopo l’assassinio del Commendatore: «Qual misfatto! Qual eccesso!»È necessario, pertanto, analizzare più da vicino questa parola. Eccesso deriva dal termine latino excessus, il quale possiede almeno tre significati principali, tutti peraltro legati all’idea di un superamento, di un’uscita. Il primo significato è estasi (uscita da se stessi); il secondo è morte (excessus e vita: uscita dalla vita); il terzo è trasgressione (uscita dai confini, dall’ordine costituito, da ciò che è normale).

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L’eccesso di don Giovanni rientra soprattutto in questa terza accezione. A sua volta, esso dispiega la propria virulenza contro un triplice ordine di valori: contro la morale (la bulimia sessuale); contro la legge (l’assassinio del Commendatore) e infine contro la religione (la sfida lanciata al Convitato di pietra e l’ingresso/profanazione del cimitero. Don Giovanni, infatti, scavalca il muretto che delimita il camposanto, dunque supera un limite ben preciso, quello che separa il mondo dei vivi da quello dei morti). Ad una prima lettura, tuttavia, questo triplice eccesso non sorprende più di tanto, perché è ciò che ci si aspetta da un libertino di tal fatta. Per tutto il Seicento, libertino è sinonimo di ‘libero pensatore’; e anche quando, all’inizio del Settecento, il termine perde la sua coloritura filosofica per significare semplicemente colui che è dedito ai piaceri della Venere vaga, non per questo acquista una connotazione necessariamente negativa. Sul libertino, infatti, soffia pur sempre il vivificante spirito dell’Illuminismo, giacché la sua condotta – ponendosi come sfida alla morale della Chiesa, come provocazione ai divieti dello Stato Assoluto e come critica ai vuoti formalismi di una ideologia dell’amore ormai tramontata – rientra sempre nella lotta contro l’autoritarismo, qualsiasi forma questo possa assumere. Ad una prima lettura, dunque, don Giovanni appare come il nipotino – se si vuole, irrequieto – del sapere aude kantiano. Tuttavia, ad una analisi più attenta, non potrà sfuggire il fatto che questi si dimostri un libertino dispotico e, quindi, l’esatto contrario di un libertino. Don Giovanni trasforma il libertinaggio da filosofia volta ad esaltare la libertà dell’individuo (pur sempre all’interno di un ossequioso rispetto per le forme) in un idolo, dispotico e tirannico come tutti gli idoli. Ciò che a lui interessa non è, o non è tanto, il godimento sessuale, bensì il piacere del dominio, la perversa voluttà che si prova quan-

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do ci si accorge di avere in pugno il destino dei propri simili. L’aria «Madamina il catalogo è questo» è folgorante: le donne sono solo pezzi da collezione, numeri da porre in sequenza, nomi privi di un volto e di una storia. «Pel piacer di porle in lista»: ecco l’unico movente. Se questa lettura è attendibile, vuol dire che l’opera di MozartDa Ponte cela in sé insospettabili coni d’ombra. Azzardiamo allora un successivo passaggio: non potrebbe, il Don Giovanni, costituire, insieme alle Lettere persiane di Montesquieu, alla Novella Eloisa di Rosseau e alle Relazioni pericolose di De Laclos, una ideale tetralogia sui limiti dell’Illuminismo? Pur conservando una irriducibile allure giocosa, l’opera di Mozart-Da Ponte sembra che ammicchi, in particolare, proprio al capolavoro di De Laclos, che la precede di appena cinque anni. La marchesa de Merteuil che altro è se non una versione al femminile del Libertino di Siviglia? Entrambi appartengono alla nobiltà e della nobiltà possiedono i codici di comportamento, che utilizzano per agire impunemente sotto gli occhi di una società fatua sulla quale sta per abbattersi la ghigliottina; entrambi, poi, eccellono nell’arte della simulazione e della dissimulazione; entrambi, anora, ignorano il significato più profondo della parola amore, chiusi come sono nel loro narcisistico solipsismo; entrambi, infine, finiranno per essere travolti dai loro eccessi e per autodistruggersi. La raison settecentesca non avrebbe potuto trovare campioni migliori di don Giovanni e della marchesa di Merteuil; eppure nella sua ora meridiana essa non produce che lutti e sofferenze. Certo, si potrebbe obiettare che la critica all’Illuminismo è il modo migliore per restargli fedele e per mettere in pratica il suo alto magistero; tuttavia, se si segue il percorso interpretativo appena abbozzato, si fa fatica a non scrollarsi di dosso un senso di diffusa inquietudine.

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3. Rivolta metafisica o fedeltà ai morti dèi? Abbandoniamo ora le suggestioni di una possibile critica all’Illuminismo posta dagli Autori in esergo alla loro opera (sulla quale bisognerebbe indagare più a lungo), e ritorniamo all’aria «Fin che han del vino calda la testa». Anche se di brevissima durata (poco più di un minuto), essa è la testata d’angolo su cui si leva l’intero edificio del Don Giovanni. La frenesia – avvertibile anche solo restando su un livello di mera lettura testuale – si fa parossismo grazie alla musica di Mozart. È un perpetuum mobile, quest’aria: potrebbe essere cantata all’infinito tanto l’attacco iniziale coincide con la sua chiusa. Questa sua predisposizione alla ripetizione ha l’effetto di dilatarla a dismisura, di amplificarla all’eccesso, se si vuole. Qui il tempo, la dimensione puramente krono-logica tende a sfumare; qui l’excessus si fa vera e propria estasi: l’insistenza febbrile con cui si ripete l’imperativo «devi aumentar» non potrebbe ridire meglio la tensione di don Giovanni a trascendere se stesso, a uscire fuori dei propri sensi per contemplare il suo unico bene: la lista. Ma estasi e lista non sono due parole che sfregano fastidiosamente l’una contro l’altra? No, se non dimentichiamo che siamo all’interno di un gioco. Ma il gioco, abbiamo detto citando Barth, presuppone che si abbia una conoscenza del centro di tutte le cose. Se questo è vero, è quanto meno difendibile l’affermazione secondo cui dietro all’ansia di aumentare, di almeno una decina, la propria lista si nasconda una struggente attesa di Dio. E il vortice musicale di quest’aria che è altro se non il tentativo di misurare l’incommensurabile, di descrivere, se non addirittura di imitare, l’Eccesso per antonomasia, Colui che supera ogni confine e di cui non si può pensare nulla di più grande. Di dare un nome a Colui che sfugge a qualsiasi definizione, perché è al di sopra di ogni nome? Ma attenzione: si tratta di un’estasi diabolica. La lista resta pur

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sempre sinonimo di prevaricazione, di dominio, di possesso. In un certo qual modo don Giovanni è la versione al nero di Giobbe. Ambedue, infatti, aprono un contenzioso con Dio e ambedue – il primo con l’incessante domanda, il secondo con la diuturna prevaricazione – lo costringono a manifestarsi. E come avviene nel Libro di Giobbe, così anche nel Don Giovanni Dio irrompe sulla scena sotto le spoglie del Convitato di Pietra. Tuttavia, a differenza di Giobbe, il Libertino continua ad opporgli il suo ostinato no. E glielo oppone sino alla fine, sino alla morte. Ma con la morte, con il terribile noviziato della morte, ecco la svolta. La dissolutezza di don Giovanni appare preordinata solo a questo supremo momento: la morte quale ultimo tentativo di ritrovare Dio attraverso ciò che lo nega. Don Giovanni, insomma, distruggerebbe gli altri solo per potersi autodistruggersi: ma solo chi perde la propria anima per Dio è capace della sua grazia. Pur dalla sommaria argomentazione offerta a suffragio dell’assunto per cui la morte è il luogo in cui don Giovanni e Dio finalmente si incontrano, non si farà fatica a scorgere in questa lettura certe influenze dostoevskijane che attribuiscono alla Bellezza e all’arte il compito di far coesistere l’eccesso della colpa con l’eccesso della grazia. A questa lettura dostoevskijana vogliamo ora affiancarne una kafkiana, che prende l’aire da uno dei racconti più enigmatici del grande scrittore praghese: Il silenzio delle sirene. In questo racconto del 1917 Kafka propone una duplice variazione sul mito delle sirene. Immagina che le terribile incantatrici possiedano un’arma ancora più esiziale del canto, vale a dire il silenzio. Ulisse, però, convinto che esse cantino ancora, si fa incatenare all’albero maestro della nave e si riempie le orecchie di cera. Passando dinanzi agli scogli, egli scorge le sirene girare il volto e respirare profondamente. Ma il suo è solo uno sguardo lanciato di sfuggita, giacché i suoi occhi sono fissi solo alla lontananza del ritorno.

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La seconda versione del mito offerta dal grande Praghese è spiazzante: Ulisse si accorge che le sirene tacciono, eppure continua a vivere nel ricordo (o nell’illusione) del loro canto. In questo senso, il gesto di turarsi le orecchie con la cera racconta come meglio non si potrebbe la fondamentale assurdità e nel contempo l’implacabile grandezza della condizione umana. Gli spunti concettuali offerti da questa seconda, geniale versione del racconto omerico, potrebbero trovare applicazione anche per don Giovanni. Come l’Ulisse di Kafka, anch’egli sa benissimo che la lista è solo un feticcio inerte, eppure fa di tutto per aumentarla; anzi: la sua azione diviene tanto più frenetica quanto più numerosi sono gli insuccessi che si susseguono (sappiamo, infatti, che alla fine la lista non sarà allungata neppure di un rigo). Questa seconda lettura in chiave metafisica del Don Giovanni potrebbe trovare conferma nella fatale scena XII del secondo atto, che segna il punto di non ritorno dell’intera actio drammatica. Don Giovanni e Leporello sono in un cimitero. A un tratto le spacconate del Libertino sono interrotte dalle parole del Commendatore: «Di rider finirai pria dell’aurora!» Leporello inizia a tremare e, piagnucolando, dice che forse si tratta di un fantasma giunto dall’aldilà per punire il padrone. «Taci, sciocco! Chi va là?» ribatte don Giovanni; e poi, ponendo mano alla spada, inizia a menare fendenti alle statue e alle stele. Questa scenetta, sotto la sua friabile pellicola di giocosità, cela voragini terrificanti. Qui la Morte è stata descritta in tutto il suo orrore: ogni arma è destinata a spuntarsi contro la dura pietra del sepolcro. Ma ecco che a riequilibrare i piatti della bilancia interviene ancora una volta lo spirito giocoso che non cessa mai di alitare sull’opera. «Sarà qualcun di fuori che si burla di noi» dice infine il Burlador, riponendo la spada nel fodero. Ciò che parrebbe una resa è in realtà una vittoria, la

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vittoria della grandezza umana contro l’assurdità del mondo. Forse per la prima volta nella sua vita don Giovanni ha capito che la Morte è davvero il disperato epilogo che suggella il cammino di tutti, ha compreso con crudele lucidità che gli dèi non esistono o che, se se mai sono esistiti, ora sono morti. Tuttavia, come Ulisse, fa finta che questi parlino ancora e che ancora si odano le loro parole. E le parole degli dèi non possono non annunciare la vittoria della vita sulla morte. E se sono gli dèi ad annunciare questa buona novella, chiunque dica il contrario è un mentitore, uno che si diverte a raccontare burle. 4. L’altra cena Comunque lo si interpreti, don Giovanni affascina e incanta, sgomenta e seduce, ma di certo non rasserena. Su di lui incombe la maledizione del conoscere e il tormento creativo lo consuma. Egli, insomma, è un artista; anzi, è una delle più poderose figure di artista che siano mai state create. Don Giovanni vive nella perenne antitesi – diagnosticata per la prima volta da Schiller nel suo saggio Sulla poesia ingenua e sentimentale – tra arte come vita e arte come nostalgia immedicabile della vita. E per vincere la nostalgia, che può portare alla disperazione, il Libertino rifiuta i sentimenti, allontanandosi così ancora di più dalla vita. L’impossibilità o l’incapacità di vivere, estenuata in una dimensione estetica devastante, raggiunge il suo fastigio nella fatale cena che conclude l’opera. La bulimia di don Giovanni, la voracità con cui trangugia il fagiano e il Marzimino, l’ordine impartito ai musici di suonare senza remissione alcuna, non sono altro che una dolorosa tensione alla vita, il tentativo impotente di raggiungere una normalità che sempre continua a sfuggirgli. Da questi eccessi rampolla un tale rimpianto della vita che senz’altro distruggerebbe don Giovanni se questi lo lasciasse fluire liberamente all’interno del proprio cuore. L’unica via di scampo è inaridire l’anima: ecco perché, ancora una

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volta, rifiuta l’amore di donna Elvira.È questo il no decisivo, il no che decreta la sua condanna, non quello ripetuto con ostinata sicumera al Convitato di Pietra. Ma a questa cena ne segue un’altra, appena accennata a dire il vero, ma altrettanto importante.È la cena alla quale si avviano Zerlina e Masetto. Se non fosse per questa coppia di villanelli, il Don Giovanni sarebbe una terrificante messa da morto. Tutti i protagonisti del dramma giocoso, infatti, scelgono in un modo o nell’altro la compagnia del sepolcro. Donna Anna, chiedendo a don Ottavio di rinviare il matrimonio, abdica di fatto alla vita: ella non si sposerà mai, semplicemente perché è già sposata con il padre, vale a dire con un morto. E don Ottavio, da parte sua, ratificando questa scelta, è risucchiato nel medesimo vortice. Donna Elvira, invece, entra in un monastero, ossia si tumula viva dentro una tomba dalla quale non uscirà mai più: anche qui il ricordo di un morto ha la meglio sulla vita. Leporello, infine, se ne va all’osteria alla ricerca di un padrone migliore. Come dire: servo ero e servo resterò; e a pensare che era entrato in scena inneggiando alla libertà («Voglio fare il gentiluomo e non voglio più servir»). Zerlina e Masetto, invece, sono un lumicino nella notte: «Noi a casa andiamo a cenare in compagnia». E sarà, è lecito supporlo, una cena affatto diversa da quella allestita da don Giovanni: sarà, per dirla in una parola, una cena normale. Il lieto fine del Don Giovanni è da ricercare in questa cena, non nella punizione, alquanto didascalica, del Dissoluto. Dall’excessus, dalla e-normitas con cui era iniziato il dramma giocoso, alla normalità, alla ripetizione sempre uguale di un’unica forma archetipica, quale può essere, per l’appunto, una cena in famiglia. E la cena di Zerlina e Masetto altro non è che la vita «nella sua banalità seducente», come dice Tonio Kroeger, il protagonista

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dell’omonima novella di Thomas Mann, che non è peregrino citare a conclusione di questa lettura del Don Giovanni. Anche Tonio, come il Libertino, avverte fin nei precordi il dissidio insolubile tra arte e vita. Nel racconto, certo, Mann si guarda bene dal risolvere il dilemma (e il Mann profondamente turbato dinanzi alla demonica enigmaticità della vita è senz’altro il più grande); tuttavia, nelle ultime pagine egli mette in bocca aTonio delle parole che spiegano molto bene il lieto fine del capolavoro di Mozart–Da Ponte: «[…] la “vita”, intesa quale eterno contrapposto allo spirito e all’arte, non si presenta […] come anomalia, come una visione di sanguinosa grandezza o di bellezza selvaggia; no, il regno delle nostre aspirazioni è proprio la normalità, la decenza, l’amabilità, insomma la vita nella sua banalità seducente! Credetelo, […] chi in fondo e sopra tutto sogna il raffinato, l’eccentrico, il satanico, chi non conosce la nostalgia per le cose innocenti, semplici e vive, per un poco di amicizia, di abbandono, di confidenza e di umana felicità – la furtiva, struggente nostalgia per le gioie mediocri […]! – colui è ben lungi dall’essere artista…»

Tutto bene, dunque, almeno a prima vista. Non dimentichiamo, però, che la cena di Zerlina e di Masetto deve essere ancora preparata. Li vediamo, infatti, allontanarsi verso casa, mano nella mano, magari come Charlie Chaplin e Paulette Goddard negli ultimi, immortali fotogrammi di Tempi moderni. Zerlina e Masetto, dunque, intraprendono un viaggio, ma il viaggio, per quanto breve possa essere, si svolge sempre sotto il segno dell’arrischio e dell’imprevedibilità. Ora, domandiamoci: cosa accadrà a Zerlina e al suo compagno nel tratto di strada che li separa dalla loro casa? Incapperanno in un altro seduttore? Siamo sinceri: la solidità di questa coppia è tutt’altro che granitica. Masetto è un povero sempliciotto, pavido e pusillanime; Zerlina invece è leggera e civettuola: se non fosse per la cattiva stella che perseguita il povero don Giovanni, ella sicuramente sarebbe finita ad arricchire la sua lista.

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Non è, allora, del tutto scontato che essi giungano sani e salvi a casa. A questo punto ci permettiamo di avanzare una supposizione, priva di qualsiasi supporto documentale, certo, ma comunque assai stuzzicante: nella coppia Zerlina-Masetto non potrebbe essere adombrata la coppia Tamino-Pamina? Non potrebbe la Zauberflöte essere una sorta di seguito del Don Giovanni? Il cammino iniziatico di Tamino e Pamina, i dubbi che li assalgono e le prove che affrontano non sono già racchiuse in nuce nella battuta «noi a casa andiam a cenar in compagnia»? La grandezza della musica di Mozart, o meglio il suo miracolo, consiste nella insuperata e insuperabile capacità di dare voce alle più impalpabili intermittenze del cuore. Questa mostruosa chiaroveggenza è stata colta dallo stesso Lorenzo Da Ponte, che nella nota introduttiva al libretto delle Nozze di Figaro riconosce come la musica del Salisburghese sia capace di «esprimere a tratto a tratto con diversi colori le diverse passioni che vi campeggiano». In particolare la cosiddetta ‘trilogia italiana’ – Le nozze di Figaro, Don Giovanni e Così fan tutte – è una delle rappresentazioni più alte di sempre dell’amore. Ma ad essa affiancheremmo pure il Flauto magico. In questa sublime fiaba vi è un passaggio in cui Mozart, attraverso la musica, raggiunge non una mediazione dialettica tra arte e vita – giacché questa verrebbe ad annullare la tesi e l’antitesi – bensì una medietà umanistica, per così dire, che conserva entrambe. Siamo nel primo atto. Guidato dai Genietti, Tamino giunge ai tre templi. Dopo essere stato respinto da quello della Ragione e della Natura, misteriosamente gli si aprono le porte del tempio della Sapienza. Uno dei sacerdoti lo informa che Sarastro non è malvagio e che Pamina è stata sottratta alla madre Astrifiammante per nobili motivi. Rimasto solo, Tamino pensa alla sua amata: «O notte eterna! Quando svanirai? Quando i miei occhi troveranno la luce? […] Ditemi: Pamina vive ancora?» E una voce dall’oscurità gli risponde: «Pamina,

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Pamina vive ancora!» La migliore esegesi di questo passo del Flauto magico la si deve a Ingmar Bergman, che lo ha inserito in uno dei suoi film più inquietanti e onirici L’ora del lupo, dove i demoni che perseguitano la coppia Johan-Alma sono ridotti all’impotenza proprio dalla musica mozartiana. «In questo mondo […] il quadro non è tondo», dice Leporello. E dice una profonda verità. V’è sempre una nota stonata, v’è sempre una incrinatura che percorre la superficie delle cose. Forse il mondo non ha alcuna finalità superiore, ma sappiamo anche che in esso qualcosa ha un senso, ed è l’uomo, perché, come diceva Camus, è il solo essere vivente che esige di averlo. Dunque non vi è altra ragione che l’uomo e, di conserva, non vi è altra ragione all’infuori dell’amore. Ammiriamo don Giovanni, su di lui ci piace discutere e ragionare, ma per il rispetto che dobbiamo all’uomo non possiamo non incamminarci a cena insieme a Zerlina e a Masetto.

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«L’atra face del ver» Così fan tutte

Il libretto di Così fan tutte potrebbe godere di una autonoma vita drammaturgica indipendentemente dalla musica (che pure lo trasfigura), tanto è colmo di verve, di arguzia, di sapidi doppi sensi quasi al limite della pornografia, di morbido e avvolgente erotismo: è una delizia e un balsamo per lo spirito e anche per la mente, la quale è trascinata in un rapinoso gioco di sottili sofismi, di acuminate logomachie, di pericolose finzioni, di squisite schermaglie verbali, di raffinate citazioni; è un rutilante ballo in maschera, un enigmatico gioco di specchi, un perfetto meccanismo ad orologeria, una tavola periodica che permette di comprendere meglio la chimica d’amore, un labirinto in cui è delizioso perdersi. Dall’intreccio alla caratterizzazione dei personaggi (in particolare quelli di don Alfonso, tipico philosoph del secolo dei Lumi e smaliziato conoscitore delle cose di questo mondo, e di Despina, figura costruita sulla falsariga delle tante servette che punteggiano l’opera buffa italiana, ma con un surplus di ironia, di istrionismo e di maliosa coquetterie che la sbalzano ad una distanza siderale rispetto al typos fissato dalla tradizione), dal ritmo alla guizzante vivacità delle battute, tutto fila che è una meraviglia. Ma Così fan tutte è solo un prezioso divertissement erotico da rubricare, di diritto, nel canone dei grandi testi libertini del ‘700? Proprio i personaggi di don Alfonso e di Despina, secondo molti, avallerebbero questa tesi, tanto che, non di rado, si parla, con riferimento alle loro astuzie e malizie, di

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‘cinismo’, il primo essendo una sorta di serpente edenico che tenta gli incauti Ferrando e Guglielmo a un gioco d’azzardo («Giochiam!» suona il suo invito all’inizio dell’opera) da cui usciranno malconci; la seconda, invece, la duttile esecutrice delle sue male arti. Una lettura meno superficiale del libretto, però, mette in risalto un ordito spiccatamente filosofico e mostra come non di cinismo si debba parlare, bensì di ‘disinganno’, e come siano proprio don Alfonso e Despina (i due costituiscono un’endiadi inscindibile nella quale eros e logos, vita activa e askesis sembrano trovare, finalmente, una pacifica, accattivante integrazione) i sapienti burattinai che, attraverso un percorso iniziatico, condurranno le due coppie di amanti fuori dalla caverna dell’errore. Il richiamo al celebre mito platonico non sembri peregrino. Don Alfonso, da autentico filosofo, dimostra di aver compreso in pieno la morale soggiacente al mythos narrato dall’Ateniese nel libro settimo della Repubblica, la quale consiste nello sforzo non solo di liberare se stessi dalla catene dell’inganno, ma anche di essere, a propria volta, liberatori. Attraverso un gioco di maschere, egli riesce a strappare dal volto di Ferrando e Guglielmo, di Dorabella e Fiordiligi la maschera che impediva loro di vedere l’illusione in cui erano placidamente accomodati: «V’ingannai, ma fu un inganno / disinganno ai vostri amanti» (II, 18). E qual era mai l’illusione che li teneva prigionieri? L’amore disincarnato. Tutto il primo atto è una ridda di languidi sospiri, di palpiti amorosi, di svenevoli galanterie, di sciroppose civetterie; ciascun amante scorge nel rispettivo dimidium non un essere umano, ma un dio o una dea. Da qui un passaggio pressoché obbligato: se sono dèi e non esseri nati da donna, gli amanti sono immuni dall’errore e dal tradimento, dal mendacio e dal sospetto, insomma da tutte quelle perniciose affezioni dello spirito che, invece, corrompono e intristiscono coloro che non sanno «che cosa è amor». A questo inganno don Alfonso oppone la nuda veritas: «[…]

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saper vorrei / che razza d’animali / son queste vostre belle, / se han come tutti noi carne, ossa, pelle, / se mangian come noi, se veston gonne, / alfin, se Dee o se donne son» (I, 1). Ecco, dunque, l’oggetto della sua scommessa: dimostrare che siamo sulla terra e non nel terso cielo dell’Iperuranio, che le dee non esistono e che tutte le donne «mille volte al dì cangiano amore» perché spinte da un’implacabile «necessità del core» (II, 13). La conclusione, a questo punto, non può che essere una sola: occorre pigliarle «come esse son», giacché «Natura non potea fare l’eccezione». A Fiordiligi e a Dorabella il medesimo assunto è ribadito, sia pure in forma più grossolana, da Despina. Alle languide svenevolezze delle due fanciulle, che si dicono pronte a togliersi la vita pur di non separarsi dai rispettivi promessi sposi chiamati al «marzial campo» da un «ordin regio», l’impertinente servetta risponde con un reciso «passaro i tempi / da spacciar queste favole ai bambini». E poi, nella brillante Aria che subito segue, ella espone la sua visione del mondo, la quale a ben vedere possiede l’inconcussa verità di un dogma: «In uomini, in soldati, / sperare fedeltà? / Non vi fate sentire, per carità! / Di pasta simile / son tutti quanti: / le frode mobili / l’aure incostanti / han più degli uomini / stabilità» (I, 9). Gli occhi delle due fanciulle sono ancora schermati dall’ingannevole velo delle apparenze, ancora non sanno distinguere tra il poetico mondo delle idee e il prosaico mondo reale, un mondo, questo, che a differenza del primo contempla fratture, aporie, contrasti, conflitti spesso insanabili. «Ah, Ferrando perdendo / mi par che viva seppellirmi andrei» piagnucola, inconsolabile, Dorabella; la replica di Despina possiede un indiscutibile, per quanto sicuramente involontario, retrogusto filosofico: «“Vi par”, ma non è ver» (I, 9). Dunque, non solo «così fan tutte», ma anche «così fan tutti»: ecco il «ver» dinanzi al quale le coppie amanti debbono aprire

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gli occhi. Il presunto statuto sessista dell’opera non ha proprio ragion d’essere: non solo le donne, ma anche gli uomini seguono la «necessità del cor». Il sedicente ‘cinismo’ di don Alfonso è in realtà partecipe comprensione delle umane debolezze; è uno sguardo compassionevole sugli errori che i miseri esseri fatti di «carne, ossa, pelle» inevitabilmente compiono; è un sorriso benevolo rivolto alle maschere con cui ciascuno di noi nasconde il proprio volto per proteggersi da una realtà che non di rado sgomenta. Come l’Abate nel Wilhelm Meister di Goethe, così don Alfonso è il regista che educa i quattro giovani amanti alla vita, della quale mostra loro il volto demonico e insieme l’arte di difendersene. Non solo: egli insegna che l’amore è il massimo arrischio e che ad esso bisogna cedere senza pretendere dimostrazioni o prove. Emblematico a riguardo è lo scambio di battute che, a fine d’opera, si scambiano i quattro innamorati: a Fiordiligi e Dorabella che promettono di «compensare» i cuori di Ferrando e Guglielmo «colla fede e coll’amore», questi ultimi rispondono: «Te lo credo, gioia bella, / ma la prova io far non vo’» (II, 18). In questa lettura dell’opera di Mozart-Da Ponte scorgiamo il precipitato del migliore Illuminismo. Don Alfonso non si vuole burlare dei quattro giovinetti (Fiordiligi e Dorabella hanno appena quindici anni e verosimilmente un’età di poco superiore hanno i rispettivi amorosi), né prova un sadico compiacimento nel dimostrare loro la legge universale che muove le azioni degli esseri umani; al contrario, egli è guidato da una passione autenticamente filosofica, la quale poi, come si accennava, non è altro che la diuturna tensione a liberare se stessi e gli altri dai lacci dell’inganno. E se di legge universale si tratta, le donne e gli uomini meritano soltanto pietà e perdono tutte le volte in cui, sotto l’imperio di tale «necessità», deviano dal retto cammino. Eppure alla fine, quando nel vorticoso sestetto che suggella l’opera tutti brindano alla (rinnovata?) concordia dei cuori,

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un’ombra di mestizia incrina il nostro sorriso. Le coppie si saranno pure ritrovate, la lezione sarà pure stata appresa, tuttavia nulla potrà farci dimenticare che la mela è stata staccata dall’albero e che l’innocenza è stata perduta. Lo stesso don Alfonso sa che questa mestizia senza nome è l’ineliminabile esergo della conquistata libertà. «O pazzo desire! / Cercar di scoprire / quel mal che, trovato, / meschini ci fa» (I, 1): sono parole nelle quali risuona l’antico adagio di Qohélet «qui auget scientiam, auget et dolorem». Ha certo ragione Despina quando afferma che «passaro i tempi / da spacciar queste favole ai bambini», e ha ragione pure don Alfonso quando sostiene che le eroiche immolazioni sull’altare dell’amore assoluto devono cedere il passo alla feriale monotonia di un’ordinaria vita matrimoniale, giacché «hic Rhodus, hic saltat»; eppure si fa fatica a scrollarsi di dosso la dolente sensazione di essere stati derubati di qualcosa di bello. Nessuno come Giacomo Leopradi, nella poesia Alla primavera o delle favole antiche, è riuscito a dire meglio questa rapina: «[…] forse alle stanche e nel dolor sepolte / umane menti riede / la bella età, a cui la sciagura e l’atra / face del ver consunse / innazi tempo?» «Atra» è la luce del «ver», perché essa offusca, fino a farla scomparire, la «bella età», il tempo delle illusioni, della spensieratezza, delle favole: indipendentemente dal felice scioglimento della storia, dobbiamo immaginare che, come in Giobbe, così anche nelle due coppie di amanti rimarrà per sempre una ferita che nessun cauterio potrà mai demolcere. Questo strappo è colto da Mozart in un punto ben preciso dell’opera: nel sublime Terzetto («Soave sia il vento, / tranquilla sia l’onda») in cui Dorabella, Fiordiligi e don Alfonso salutano Ferrando e Guglielmo che, a bordo di una nave, hanno appena lasciato il porto di Napoli. Non importa sapere che si tratta di una falsa partenza: quell’addio è pronunciato con

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accenti così accorati, così struggenti pur nella dolcezza indicibile della melodia, da risultare definitivo. Dopo questo addio nulla potrà essere più come prima. La stessa scenografia, se si leggono bene le note di scena del libretto, sembra risentirne: da luoghi all’aperto – siamo in una Napoli che mai sarà più radiosa, bagnata com’è dall’oro fuso che spiove da un cielo senza nubi – si passa all’interno della dimora delle due fanciulle; dal mondo mitico (i riferimenti mitologici abbondano nel primo atto, ispirati, probabilmente, anche dal luogo in cui è ambientata la storia, vale a dire la città partenopea, a sua volta immane giacimento mitopoietico) si passa al mondo della civiltà e del disincanto, un mondo che «tra i casi e le vicende / da ragion guidar si fa». Una Götterdämmerung in sedicesimi, dunque, Così fan tutte. Gli dèi se ne vanno in esilio a bordo della nave che lentamente prende il largo e non sappiamo se ritorneranno; ma almeno la loro memoria sopravvivrà grazie alla musica di Mozart, una musica che è tenerezza, consolazione, pietà creaturale, forse annuncio di Qualcuno che già sta arrivando.

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À Paris Le Sonate K 304 e K 310

Il 14 marzo 1778 Mozart e la madre lasciano la ridente cittadina di Mannheim – quasi un emblema della Bürgerlichkeith tedesca, ricca com’è di musica, di fermento culturale e di una poesia fatta di valori semplici, quotidiani e per questo misteriosi – e parte per Parigi. La capitale francese – rumorosa, sporca e, quanto a gusti musicali, alquanto provinciale – accoglie con indifferenza l’ex fanciullo prodigio che nell’ormai lontano 1763, sotto gli auspici dell’influente barone Melchiorre Grimm, si era imposto nei salotti intellettuali e mondani e perfino alla corte di Versailles. «Quello che qui mi irrita di più» scrive nella lettera del 31 luglio, «è che questi stupidi francesi pensano che io abbia ancora sette anni, perché mi hanno conosciuto a quell’età». Il soggiorno a Parigi trascorre tra attese di commissioni teatrali che mai arriveranno, la composizione di qualche pagina di musica strumentale (la Sinfonia concertante, che peraltro non viene eseguita, e la Sinfonia K 297, detta la Parigina) e noiose lezioni («Dare lezioni qui non è per nulla divertente […], e se non se ne prendono molte non si guadagna molto»). In terra di Francia, tuttavia, il ventiduenne Wolfgang affina ancora di più quello spirito di indipendenza che, sia pure con irrisolto travaglio, lo allontanerà dal padre e dal suo modo di intendere la musica. Infatti, anche se Leopold, inflessibile economo del genio del figlio, lo tempesta di pedanti consigli (che oscillano spregiudicatamente dal più basso lenocinio, alla velata minac-

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cia, al sottile ricatto psicologico) su come adattarsi al décor parigino per trarre il maggior profitto possibile, Amadé rivendica con caparbia ostinazione la propria libertà di artista («Dell’opera le ho già fatto cenno nella mia ultima lettera. Non posso fare diversamente: o scriverò una grande opera o non ne scriverò nessuna»). Parigi, però, è destinata a restare una spina conficcata nel cuore di Mozart non solo per la sufficienza mostratagli da coloro che un tempo lo avevano esaltato come un fenomeno di stupefacente ricettività assimilatrice: dopo venti giorni di malattia, il 3 luglio 1778, nell’alloggio di Rue du gros chent, muore la madre. Due sono le lettere spedite da Mozart in quella fatidica data. La prima è indirizzata a «Monsieur mon trés cher Pére». Frau Mozart è morta già da un paio d’ore ma il figlio, quasi presagendo i sensi di colpi che il padre di lì a poco gli avrebbe riversato addosso, temporeggia e verga una missiva che è un capolavoro di sprezzatura (o forse di autoinganno). Il contenuto della lettera, infatti, è del tutto fuori asse: se paragonate alle verbose pagine in cui lo scrivente si dilunga sulle ultime partiture consegnate e su due possibili lavori teatrali, quelle dedicate alla morte della madre sono ben poca cosa. La seconda, invece, è indirizzata all’abate Joseph Bullinger. La tristezza, contenuta nel primo scritto entro gli argini di uno stoico, a tratti quasi affettato, contegno, ora esonda e dilaga senza alcun contenimento: «Pianga con me, amico mio! Questo è stato il giorno più triste della mia vita. Scrivo alle due di notte. Ed è necessario che glielo comunichi: mia madre, la mia cara madre, non è più». Su questa luttuosa circostanza Mozart tornerà in altre due lettere indirizzate al padre e alla sorella (una del 9 e l’altra del 31 luglio), ma il registro è sempre il medesimo: sorvegliato e affatto alieno da lacrimevoli sentimentalismi. Si avverte una certa goffaggine che a tratti trascolora nella posa: abbondano

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gli inviti ad affidarsi alla infallibile volontà dell’Onnipotente, passaggi gnomici («Tutto ha il suo tempo») e moraleggianti. Sarebbe, dunque, vano cercare nelle parole i sentimenti che fremono e spumeggiano nel cuore del giovane Mozart. Del resto lo aveva riconosciuto egli stesso in una sua celebre lettera: «Io non so scrivere in modo poetico: non sono un poeta. […] Non so neppure esprimere i miei sentimenti e i miei pensieri con i gesti e con la pantomima: non sono un ballerino. Ma posso farlo con i suoni: sono un musicista» (Mannheim, 8 novembre 1777). Ancora una volta, dunque, è la musica l’unica via per approssimarsi al grande cuore di Mozart. Diciamo ‘approssimarsi’ perché la sua musica resta un enigma, non essendoci alcun sapere che possa spiegare, una volta per tutte, l’insondabile lontananza da cui essa proviene, che possa porre un rimedio a quel doloroso senso di indigenza dell’intelletto che è impossibile non avvertire quando la si ascolta. Così il grumo di dolore per i fatti parigini, destinato a dissolversi sulla carta in una totale afasia, musicalmente produce due perle di lucentezza opalina: la Sonata in la minore per pianoforte K 310 e la Sonata in mi minore per pianoforte e violino K 304. In queste due prodigiose partiture l’enigma a cui si accennava più che mai rimanda all’ascoltatore il suo stesso interrogare: qualsiasi tentativo di «logon didonai», di capire la Stimmung della musica che si sta ascoltando, di tradurne in logos, appunto, in ‘parola’ la sua più intima Stimme, è destinato al fallimento, perché non vi è alcuna risposta capace di sopprimere per sempre le domande. E le domande, nella nostra mente, hanno il fragore di grandi acque: questa musica, che resta bellissima anche nello sconforto più profondo, che supera in una visione di suprema armonia persino la morte, è soltanto illusione, come è illusione l’arte tutta? Mozart ha voluto sterilizzare la morte, spuntarne

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l’aculeo, oppure ha riferito semplicemente la verità su di essa? Le due sonate sono senz’altro il diario di un dolore, esse registrano cocenti frustrazioni, sogni irredenti, amare incomprensioni e da ultimo l’urto della morte; raccontano con precisione e onestà il travaglio di chi le ha scritte; eppure sarebbe corretta anche l’affermazione per cui nulla di autobiografico compare in esse. Il classicismo viennese, vale a dire una delle vette del pensiero umano (che raggiunge proprio con Mozart il suo trionfante apogeo), anziché deprimere il pathos, lo racconta come meglio non si potrebbe, trasformando l’esperienza di un uomo in un movimento dell’animo che appartiene al segreto di tutti noi. Pertanto, sarebbe sbagliato dire che il dolore è ingabbiato, contenuto, rattenuto entro una forma impeccabile: al contrario, proprio la forma impeccabile dice, su quel dolore, molto più di qualsivoglia brutale dissonanza. Similmente, nessuno oserebbe affermare che Dante non sia riuscito a raccontare compiutamente il dolore del conte Ugolino solo perché costretto a servirsi della ‘gabbia’ della terzina. La ferula delle domande, però, non cessa. Le due sonate sono un supremo monumento all’arte e quindi, di conserva, massima illusione di controllo, di conservazione di ciò che è transeunte, di contenimento, se non addirittura di annullamento, dell’angoscia; oppure sono il fedele resoconto di qualcosa che solo Mozart ha udito? Quando verrà, la morte parlerà la musica di Mozart? È ancora viva nella nostra memoria – si perdoni una nota autobiografica – l’esecuzione di queste due sonate offerta dal pianista Filippo Pantieri e dal violinista Gabriele Raspanti. Pantieri ha trasformato la Sonata K 310 in un incantesimo sonoro. Con grande generosità ha messo a nudo frammenti di una personale autobiografia: servendosi di questo magnifico testo che scintilla di gioia e di dolore ha fatto al pubblico una confessione. Abbiamo assistito, così, al mutuo donarsi di due solitudini, all’incontro di due cuori che patiscono il deficit dell’esistenza nell’attimo stesso in cui si sentono da essa vivifi-

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cati. Il prodigio si è ripetuto anche con la Sonata K 304: come un Ermes psicagogo, l’esecuzione di Pantieri e dell’eccellente Gabriele Raspanti ha portato alla luce i languori e gli smarrimenti, gli affanni e l’irriducibile sorriso nascosti tra le pieghe della partitura, con un lindore del fraseggio, con una sapienza della dinamica e con una trasparenza di suono che da sempre sono la prova, diceva Massimo Mila, della presenza reale e vigile della cultura e del gusto.

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Una inconsolabile bontà La Danza K. 567 n. 1

La parabola evangelica del mercante che, trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e l’acquista potrebbe offrire la giusta immagine o, per usare un’espressione di Massimo Cacciari, la «giusta traccia o indizio di significato» per la stupenda Danza in si bemolle maggiore K. 567 n. 1 di Mozart. Il riferimento alla parabola non è casuale: pure essa, come una partitura, è «ascolto interpretante», per dirla sempre con il filosofo veneziano. Forse questo può valere per qualsiasi composizione musicale – ognuna, infatti, reca un messaggio che, per quanto oscuro e enigmatico, rivela un fine ultimo, anche se di tale fine essa è solo una delle tante variazione possibili –, ma per la musica di Mozart si fa cogente. La medesima ideografia dei suoni, per così dire, di questa brevissima danza (non dura neppure due minuti) rende visibile la figura del mercante evangelico che, curioso, si avvicina allo scrigno, lo apre, resta folgorato dal suo contenuto, lo richiude e se ne va senza indugio a vendere i suoi beni pur di acquistare l’oggetto prezioso che lo ha stregato. Si perdonerà questo descrittivismo, nemico mortale della musica come espressione e in generale dell’arte tout court, ma se è vero che la Danza K. 567 n. 1 è una parabola, allora l’immagine proposta – montata quasi come una sequenza cinematografica – è soltanto una delle innumeri variazioni cui la parabola si offre.

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Del resto la sua stessa struttura invita in questa direzione. Costruita a guisa di terzina (A-B-A), questa partitura davvero evoca l’idea di una conchiglia che rinserra tra le valve una perla quale mai se ne è veduta prima per grossezza e splendore. Ascoltando gli iniziali accordi del fortepiano mai e poi mai ci si aspetterebbe quell’improvviso fulgore: la partitura, infatti, principia con una danza di contadini che, con passi rustici di Ländler, si muovono sulla tastiera in modo un poco grossolano (con la testa magari già avvolta dai fumi della birra). A essa segue un subitaneo ruscello di note, simile a risa di bimbi che ruzzano felici sull’aia, che si conclude con una leggerissima, impalpabile, aerea capriola sonora. È a questo punto che accade l’inaspettato. La musica che ora si offre come un dono è quanto di più soavemente infantile e insieme di inspiegabilmente malinconico che si sia mai ascoltato. Dove siamo? Dove sono le figure di prima? E il tempo, il tempo misurato spazialmente, fatto di istanti legati gli uni agli altri, che ne è di questo tempo? Dissolto nell’azzurro cesio di un cielo che è origine, grembo e destino del mondo. Poi, all’improvviso, ecco di nuovo i contadini e i villici fanciulli, ecco di nuovo la musica che va a tempo (appunto!) di Ländler. Ma altre parabole si affacciano, altri «ascolti interpretanti» urgono. La Danza K. 567 n.1 anche quale cifra dei personaggi teatrali di Mozart. Il teatro di Amadeus è un intero mondo sul cui palcoscenico sfilano nobili e servi, sovrani illuminati e despoti feroci, eroi e pusillanimi, ladri e assassini: tutti corrono nel labirinto d’amore, ciascuno amando a modo suo, e in ogni modo d’amare – reso attraverso un cromatismo erotico che va dalle cerulee tinte dell’innamoramento alle vermiglie vampe della passione – viene attribuita una musica che lo rappresenta. «Senza alcun ordine / la danza sia: / chi il minuetto, / chi la follia, / chi l’alemanna / farai ballar»: ciascun personaggio ha la propria danza con cui circuire, ingannare, sedurre e incantare gli altri. Le chiamiamo danze, ma in realtà sono manovre

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militari, anzi sono già scontri all’arma bianca della cui terribilità, per quanto trasfigurata dalla bellezza della musica, bisogna essere sempre consapevoli. Eppure (è sempre la musica a rivelarlo) tutti i personaggi del gran teatro mozartiano sono intimamente buoni; su tutti spiove una chiarità che giunge da un insondabile Oltre. La «inconsolabile bontà» che per Giannotto Bastianelli scorre sul fondo della musica di Beethoven può valere (e forse a maggior ragione) anche per la musica di Mozart. Davvero inconsolabile (geniale, questo aggettivo) è la bontà della musica mozartiana, perché essa sa bene che l’infrangibile Ananke ha decretato per gli uomini una eterna guerra, come dice Achille a Priamo, e che tutti da questa guerra prima o poi saranno infettati. La musica di Mozart, dunque, patisce un duplice assalto: da una parte professa un’ardente fiducia nella bontà umana e dall’altra ha piena coscienza di quanto essa sia fragile; sa che nessuna conquista è definitiva e che sempre bisogna vegliare affinché il fuoco, che arde in mezzo al bivacco notturno, non si spenga. Per questo la bontà della sua musica non potrà mai trovare consolazione. Più di qualsiasi altra opera, forse è in Così fan tutte che la bontà inconsolabile di Mozart raggiunge il suo culmine poetico. La scuola degli amanti, recita il sottotitolo, ovvero la guerra fra i sessi. Come nei due precedenti melodrammi di Da Ponte, anche qui la storia si conclude con un lieto fine. Don Alfonso, il motore immobile dell’intera vicenda, cala la maschera del cinico uomo di mondo e mostra il suo vero volto, quello di un umanissimo philosoph illuminista, chiara prefigurazione di Sarastro: «V’ingannai, ma fu l’inganno / disinganno ai vostri amanti, / che più saggi ormai saranno, / che faran quel ch’io vorrò. / Qua le destre: siate sposi». L’inganno ordito da questo navigato gentiluomo napoletano, che ama frequentare il caffè e smontare, con una ironia davvero socratica, le certezze

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altrui, apre gli occhi a Ferrando e a Guglielmo, un tempo persuasi di essere fidanzati non a donne mortali, bensì a dee, tanto era incrollabile la fiducia che riponevano in Fiordiligi e Dorabella («La mia Dorabella / capace non è: / fedel quanto bella / il cielo la fe’» dice l’uno; «la mia Fiordiligi / tradirmi non sa: / ugual in lei credo / costanza e beltà» gli fa eco l’altro). La grande lezione impartita da don Alfonso – e sotto i suoi «crini grigi» è impossibile non scorgere il volto sogghignante di Mozart – consiste nell’aver insegnato ai due innamorati che gli esseri umani devono essere presi per quello che sono, esseri umani per l’appunto, e non per divinità olimpiche. Questo alto magistero, per nulla scontato (il Novecento lo obliò del tutto, tentando di realizzare il paradiso in terra), potrebbe essere raffigurato con la parte centrale della nostra Danza: esso è la perla di grande valore che per pochi istanti si mostra in tutto il suo incanto. Poi le valve della conchiglia di nuovo si richiudono. Ecco tornare il motivo d’apertura; ecco tornare, nel finale di Così fan tutte (insistiamo su questo paralleo) una singolare gravità, che non è ironia, ma suprema conoscenza dell’umano. È vero, gli amanti sono stati disingannati, ma questo disinganno permane come un’ombra nella memoria, è per così dire il negativo fotografico della riconciliazione che suggella l’opera. Come dire: tutto, certo, si è risolto nel migliore dei modi, ma non si può fare finta che nulla sia accaduto. «Te lo credo, gioia bella, / ma la prova io far non vo’»: crediamo che da ora in poi ci sarete fedeli, dicono Ferrando e Guglielmo, tuttavia ci guarderemo bene dal mettere alla prova la fiducia che ora vi accordiamo. La lezione è stata appresa: pretendere ciò che non è dell’uomo sarebbe, appunto, disumano. Le parole dei due giovani sono percorse da un brivido: se l’amore è fragile, tutto può accadere. Anche un nuovo tradimento. La conchiglia ora si è chiusa del tutto. La poesia è scomparsa; al suo posto il sermo cotidianus, infarcito di anacoluti e

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di solecismi. Ma la grande arte di Mozart, come la perla incistata dentro la conchiglia, sta in questa contraddizione, la sopporta, si pone con essa in un perpetuo, defatigante dialogo per capirla e per farsi capire. È un amare-contro, la musica di Mozart (altra espressione per dire «inconsolabile bontà». Ma non amano-contro anche Ferrando e Guglielmo? Bastiano e Bastiana e la Contessa e Susanna e Masetto e donna Elvira e la Regina della Notte?), ma forse non si dà altra forma più perfetta di amore.

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Grecità musicale L’Andante del Quartetto K 478

Il sorriso di Mozart. Se si dovesse riassumere in un’immagine la musica del Salisburghese, essa sarebbe quella di un sorriso. Ma occorre intendersi. Il suo è il sorriso di chi bene conosce quale sia il prezzo della vita e di chi, questo prezzo, lo ha pagato fino in fondo, senza sconti e senza diserzioni. È il sorriso di chi ha combattuto la buona battaglia e l’ha vinta, forse senza nemmeno rendersene conto, di sicuro senza attribuirsi per questo un merito particolare. È il sorriso di una difficile serenità, che deriva da una comprensione totale dell’uomo, della sua gloria e della sua miseria; che nasce dalla necessità di essere più nobili della vita e migliori nel peggiore dei mondi possibili. È, ancora, il sorriso di chi tutto vede, tutto comprende, tutto accoglie; di chi è certo che non vi sia dolore che non possa essere medicato dalla dura fratellanza con i vinti; di chi ha scelto la parte migliore sapendo che non gli sarà mai sottratta; di chi ha deciso di servire i propri simili semplicemente facendosi carico dei propri doveri, che erano poi quelli di comporre musica e di obbedire al gravoso imperio del proprio genio; di chi, insomma, sa che, nonostante tutto, la malattia di cui è affetta la condizione umana non è per la morte. Così Mozart ha conosciuto gli uomini e così ha imparato ad amarli. L’Andante del Quartetto per pianoforte K 478 è uno dei tanti luoghi della musica di Mozart dove questo sorriso risplende con particolare intensità. Ciò che è valido per tutti i quartetti mozartiani, qui s’impone addirittura con abbagliante eviden-

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za: ogni nota è essenziale, nel senso che comprende nell’intimo la sostanza del grande cuore di Mozart. L’Andante è il nucleo del Quartetto K 478, il suo centro di gravità, la sua testata angolare, il momento in cui maggiormente il cuore parla al cuore in un soffuso lirismo punteggiato da tratti di spirito ora pensosi, ora gravi, ora ammiccanti, senza tuttavia dimenticare il controllo della forma. Spirito e forma, grecità musicale: ciò a cui diamo il nome di classico – visione integrale dell’umano, delle sue altezze e dei suoi abissi, rattenuta entro i solidi argini della geometria, della misura, della proporzione tra le parti, del lindore e della politezza stilistica, in una parola lo sforzo dello spirito di essere più forte e più giusto della stessa condizione umana – in questo Larghetto si espande in tutta la sua latitudine. Ogni cosa sorride, dunque, in questa partitura. Eppure vi è un punto in cui l’essenzialità di cui si parlava sopra raggiunge il proprio meriggio: è un tema introdotto in prima battuta dagli archi e riproposto poi più volte nel corso del movimento. Appena un pugno di note, nient’altro, ma combinate tra loro in modo da formare qualcosa che non è più – o non è più solamente – musica, ma visione, promessa, profezia. Un tema piccolo piccolo, ma di una effusione melodica e cantabile che sgomenta. Qualunque cosa possa significare la parola bontà, qui essa trova compiuta spiegazione. Le immagini che si squadernano nella mente sotto il soffio potente della verità che spira da questo piccolo tema, trovano il loro fulcro in una che tutte le compendia: quella di un volto che, appunto, sorride. Ma cosa dice questo sorriso? Di quale scandalosa promessa si fa garante? Esso annuncia qualcosa che sarà messo in conto per grazia. Esso vede la speranza nel fondo della disperazione; la grandezza dell’uomo alla luce della sua miseria; il miracolo che si cela sotto la sua maschera da povero commediante. Davvero paradossale, questo sorriso, perché contro ogni fondata doxa accoglie laddove si dovrebbe respingere, ama

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ciò che meriterebbe di essere disprezzato, giustifica ciò che, secondo il dovuto, esigerebbe di essere condannato. Paradossale, dunque, ma anche scandaloso. Tutto è rumore e furore selvaggio, eppure esiste questa musica. E questo eppure è cosa scandalosa, perché suscita, rendendola insostenibile, la nostalgia di un altrove; perché parla della vita nella morte, di una eternità nel tempo, di un perdono nella condanna. Bisogna una buona volta confessarlo apertamente: questo mondo sarebbe molto più comprensibile senza la musica di Mozart. Tutto apparirebbe chiaro nella sua brutalità; persino sopportabile nel suo orrore. Ma ecco che una mano leggera rimette in equilibrio i piatti della bilancia. Non risana gli sfregi, non restituisce ciò che è stato sottratto, né ritrova ciò che è stato perduto, però rimette ogni cosa in discussione e accende di nuovo la vampa della dialettica. La tunica di fuoco di questa musica è un insolubile, doloroso enigma.

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Seconda parte Cari compositori

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La ricerca tremante del sole Il matrimonio segreto di D. Cimarosa

«Cercavano tremanti il sole». In questi termini Thomas Mann, nell’allocuzione scritta per celebrare il sessantesimo compleanno del fratello Heinrich, parla dei due massimi artisti tedeschi nel campo rispettivamente della pittura e della letteratura, vale a dire Albrecht Dürer e Johan Wolfgang Goethe. In aperta polemica contro «l’odierna pressione nazionalista» che additava nel plumbeo culto della terra l’autentico spirito teutonico, il grande scrittore di Lubecca, invece, riconosceva quali caratteristiche precipue della maestria tedesca «l’insoddisfazione di sé, il bisogno di completamento e di redenzione attraverso l’altro da sé, il Sud, la luce, la chiarezza, la leggerezza, il dono della bellezza». La conclusione non poteva essere più tranciante e provocatoria (giova ricordare che il discorso fu pronunciato nel 1931): chi ne disprezzava l’anima mediterranea, chi storceva il naso alla fragranza dei limoni e dei mirti che spirava su quanto di meglio essa aveva prodotto in ambito artistico, sviliva la Germania a una laida caricatura di se stessa. Nel solco di una secolare tradizione che ebbe il suo massimo rappresentate in Goethe, anche Heinrich Mann non appena poteva, ricorda Thomas citando una piccola autobiografia giovanile del fratello, tornava «a casa, in Italia». Questa espressione – «tornare a casa» – nasconde, pur nella sua semplicità, una calda intimità e insieme una struggente nostalgia: essa presuppone il riconoscimento di un’appartenenza ma anche di una irriducibile distanza, e quindi il riconoscimento di un’identità

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plurale che è la cifra autentica della vera cultura. All’aggressiva Vaterland dei nazionalsocialisti, i quali nel volgere di pochi anni avrebbero fatto precipitare l’Europa e il mondo in un «Medioevo isterico», i fratelli Mann opponevano la Heimat, la ‘casa natale’, quell’imponderabile quid che fa sentire come patria tanto le città anseatiche del Baltico quanto quelle bagnate di luce del Tirreno. Questa idea di patria, così lontana dai visceralismi etnici che hanno infiammato e infiammano tuttora le masse innescando violenze, tornerà, se possibile con accenti ancora più marcati, in altri due straordinari artisti, i quali possono essere considerati gli ultimi eredi della grande letteratura e della grande musica di area tedesca del Ventesimo secolo: la scrittrice Ingeborg Bachmann e il compositore Hans Werner Henze. Legati da profonde e tormentate affinità elettive e da una comune fede esistenziale, poetica e civile, di cui resta testimonianza uno dei carteggi artistici – scritto in un misto di italiano, francese e inglese, a riprova del loro cosmopolitismo – che nel ‘900 trova eguali solo nell’epistolario tra Strauss e Hofmannsthal, la Bachmann e Henze scelsero proprio l’Italia tirrenica – Ischia, Napoli e Roma – quale loro patria d’elezione, trovandovi una nuova luce e una nuova musica. Viene in mente il germanesimo gentile di Goethe e dei fratelli Mann, della Bachmann e di Henze quando si ascolta Il matrimonio segreto di Domenico Cimarosa, ipostasi della tersa luminosità del «Land wo die Zitronen blühen». L’opera, rappresentata per la prima volta il 7 febbraio del 1792 al Burgtheater di Vienna, fu commissionata dall’imperatore Leopoldo II: non è temerario affermare, allora, che anche questo capolavoro sia nato sotto il segno di una ‘ricerca tremante del sole’ e che esso, pertanto, non sia soltanto italiano così come non è soltanto tedesco. Scrive ancora Thomas Mann: «Essere soltanto tedesco significa essere tedesco della piccola Germania e non del mondo: un germanesimo di specie meschina e stentata. […] il maestro tedesco, privo nel suo sangue, del mondo

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e dell’Europa oggi non può esistere: […] un magistero della grettezza, dell’ostinata chiusura e del provincialismo sarebbe un’apparizione patetica». Se così stanno le cose, si potrebbe allora riconoscere a Cimarosa lo status di cittadino viennese, compiendo così una operazione uguale e contraria a quella di Goethe, che si gloriava di dichiararsi «cittadino italiano», e di Marie-Henri Beyle, in arte Stendhal, uno dei massimi estimatori di Cimarosa (tanto da ricordarlo, insieme a Mozart e a Shakespeare, nel suo epitaffio), che si professava, non senza un pizzico di coquetterie, «milanese». Ecco, la componente poetica del Matrimonio segreto consiste proprio nella sua medietà, nella sua capacità di sciogliere e di ricomporre mondi diversi, di porsi quale medium tra l’uomo e l’altro uomo. In questa musica la luce mielata del Sud, il sorriso del suo mare – a cui Mozart, in Così fan tutte, dedica una delle melodie più religiose di sempre – e l’azzurro fuso del suo cielo – un azzurro così intenso che si fa ebbrezza di vivere a tratti persino dolorosa, perché mostra allo spirito quali tesori cela in sé la vita e nel contempo le rivela la sua incapacità a contenerli tutti – si combina con il daimon del migliore Settecento, che consiste in discussioni garbate, in sapide arguzie, in uno spiccato senso della misura, della chiarezza e della sprezzatura, in una maliziosa bonomia, in buone maniere che mai scadono nell’affettazione; nella capacità di abbandonarsi, insomma, a quanto di bello e di buono e di nobile vi è in questo mondo. Il matrimonio segreto, però, al di là di tutte le osservazioni di carattere estetico che si possono formulare, resta un enigma. È l’enigma della musica e dello spirito sconosciuto che la abita: «Io tenni li piedi in quella parte de la vita di là da la quale non si puote ire più per intendimento di ritornare…».

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Note di stile Le Sinfonie londinesi di J. Haydn

Ascoltando le dodici Sinfonie londinesi ci si fa del suo autore l’idea di un compassato signore di mezza età dai gusti raffinati, amante di abiti di buona fattura e delle conversazioni brillanti e dotato di uno spiccato sense of humor. Tale, del resto, è anche la musica di queste sinfonie: colma di una grazia mai levigata, anzi qua e là increspata da arguzie e da contenute risate; di una politezza che non è mai esausto esercizio di stile ma un modo di vivere e una attitudine del pensiero; di una bonomia che non scade mai nel paternalismo; di una serenità che non si corrompe mai in parola edificante, ma che è anzi capacità di cogliere quanto di buono e di piacevole e di bello v’è in questa vita. Le Sinfonie londinesi colgono la cifra del secolo dei Lumi. In esse la nequizia del mondo sopravvive solo come ipotesi del tutto inattuale. Certo, il male ha striato con i suoi artigli la creazione, ma si tratta ormai di un evento remotissimo. Di quella luttuosa preistoria, di quella melma primordiale che l’immane cascata degli evi ha sepolto nel deposito dell’oblio restano solo pochi frammenti, simili a quelli custoditi dentro le polverose teche dei musei. La ragione ha dissipato le tenebre, Zarastro ha cacciato nell’abisso la regina Astriffiammante. Ogni cosa è rischiarata da una luce non meridiana – che è accecante, stentorea, pletorica, sempre sul punto di distorcersi in patetica autocaricatura e in pacchiana prosopopea – ma da una luce che si ritrova, specie d’estate, nei pomeriggi avanzati, una luce

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tersa che accarezza anziché rivestire la superficie delle cose e che le disvela anziché avvolgerle. Nelle Sinfonie londinesi questo bagliore tenace diventa quasi l’emblema della vita vera, che consiste (o dovrebbe consistere) in una cristallina mitezza, in una perfetta alleanza tra gli uomini, in una misurata complicità tra gli animi, in una sospirosa fraternità d’intenti, tanto che non ci riesce ascoltare questa musica senza pensare a una sorta di aurorale armonia, la stessa che vibra nelle prime pagine del Genesi. “Amate il mondo, perché il mondo è cosa molto buona” sembra di udire: è su questo basso-ostinato che Haydn ha intessuto i suoi Allegri e i suoi Andanti, i suoi Adagi e i suoi Minuetti. È l’epica delle piccole cose, nella quale la vita rivela la sua essenza molto più che nei reboanti rivolgimenti epocali o nelle mirabilia degli uomini cosmici, di cui il Weltgeist, lo Spirito-del-mondo si serve per operare ciò che è necessario. “Dove c’è Haydn non può succedere nulla di male”, diceva il musicista per rassicurare i suoi concittadini durante l’assedio di Vienna da parte di Napoleone. Tutta la prolissità retorica dell’Empereur, uomo cosmico per eccellenza, pare dissolversi dinanzi a questa frase, che non deve essere intesa come indecente egolatria, bensì quale espressione di una sovrana libertà interiore in cui risuona la eco di quella gioia evangelica che, una volta posseduta, nessuno può più portare via. Le buone letture e il buon cibo, i tricorni e gli abiti di mussola e di taffettà, gli jabot di trina dai preziosi ricami che saturano le partiture sono un omaggio alla vita e ai suoi appetiti, ed insieme una vittoriosa resistenza contro un mondo il cui senso tante volte sfugge. La galanteria dei modi e l’eleganza nel vestire diventano così una forma di coraggio contro il tumulto dell’esistenza; come un ufficiale che scende in battaglia indossando l’alta uniforme, così Haydn porta nel caotico pulviscolo del mondo la raffinatezza della sua musica. I suoi occhi

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possiedono una formidabile lente attraverso la quale leggono se stesso e gli altri come dall’esterno. Solo chi ha visto tanto e soprattutto solo chi ha visto in quel modo può comporre una musica simile. Le Sinfonie londinesi – ma il discorso vale a maggior ragione per i meravigliosi Quartetti – sono la summa di tutta la luminosa urbanità del Settecento: ritorna di nuovo il bagliore del pomeriggio avanzato che spiove su Kaffeehaus immersi nel verde dove uomini e donne conferiscono tra di loro in un misterioso legame di cuori e di intelligenze. Hic manebimus optime, potrebbe suonare l’epigrafe delle Sinfonie londinesi. Se non fosse per Voltaire che lo ha massacrato senza possibilità di appello con la sua acuminata ironia, forse anche Haydn sottoscriverebbe il credo leibnitziano secondo cui questo è il migliore dei mondi possibili; e lo farebbe non certo per garrulo ottimismo, ma per quella rara capacità di vedere attraverso un terzo occhio. Questo magistrale uso della sintassi che ordina, cataloga e gerarchizza il turbinio dell’esistenza, facendo sì che il soggetto e i complementi siano posti nei casi che sono loro propri, è ripreso pienamente da Mozart, che fu legato a Haydn da affettuosa amicizia e che dedicò a questi una serie di quartetti per archi. Tuttavia Wolfgang Amadé si spinge oltre, si leva verso altezze che ci piace pensare Haydn guardi con un sorriso colmo di carezzevole ammirazione. Qual è questo ‘oltre’? In che cosa consiste la irresistibile forza di fascinazione della sua musica? Il fatto è che quando si ascolta Mozart si rimane sopraffatti; eppure, come Haydn, anch’egli canta la fedeltà alla terra (e in questo senso il loro canto si fa religioso, se s’intende con questa parola l’attitudine propria dell’arte di rendere gloria alle cose di questo mondo), e anch’egli, come Haydn, ama i singoli attimi della vita nella loro bellezza tenera e fugace. Eppure Mozart si spinge, appunto, oltre. Non certo nella forma

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romantica e faustiana dello Streben, che gli è del tutto sconosciuta, ma semmai in quella pudica del viaggiatore, che proprio dall’amore per la sua patria trae la forza di abbandonarla per visitare altri luoghi e altri popoli, salvo poi ritrovarla, la sua patria, nella solidale unione della molteplicità delle cose. Amadé infatti vive nel mondo come se non fosse del mondo; rispetta le sue leggi (comprese quelle della musica), ma nello stesso tempo è al di là della legge; possiede, ma è come se non possedesse; rinuncia, ma è come se non rinunciasse. Non potrebbe essere, allora, che l’essenza della sua musica consista proprio in questa insonne erranza, in questo continuo esilio dalla maestà dell’istante al suo rapido avvizzire, dalle immani visioni che si spalancano nella sua anima alla prigionia della vita quotidiana con la sua necessità affatto prosaica di far quadrare i conti, da un sentimento di panica e demoniaca pienezza al terribile affacciarsi sull’abisso? Forse l’esilio potrebbe essere lo statuto ontologico della musica mozartiana. L’esilio quale capacità di stare in tutti i luoghi come se fossero la propria patria; quale indomita serenità con cui si attraversa il limo dell’esistenza; quale imperioso ed insieme sventato sì alla vita capace di distendere la mutria anche dei mostri più pericolosi. L’esilio mozartiano, in una parola, come l’atto di fede più alto che sia mai stato pronunciato attraverso la musica sull’intima bontà della creazione.

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Una musica democratica Il Triplo concerto di L. van Beethoven

Nel secondo libro delle Leggi Platone istituisce uno stretto legame tra la musica e il Politico, tra l’educazione e le virtù fondanti il vivere civile. Solo chi possiede la nozione del Bello (e quindi del Bene) è in grado, argomenta Platone, di distinguere «con precisione l’uomo educato da quello non educato» e «riconoscere chi è custode dell’educazione e dove egli sia». Segue poi una bella similitudine venatoria: come se fossero cagne da caccia che seguono le orme, così i cittadini, ai quali stanno a cuore le sorti della polis, devono «rintracciare la bella forma e la bella armonia in relazione al canto e alla danza». E queste due epifanie del Bello sono a tal segno importanti che, in loro assenza, vana e priva di senso sarebbe ogni discussione sulla retta educazione. La tesi platonica secondo cui il genere musicale debba valutarsi in una prospettiva morale può essere più o meno condivisibile; resta, tuttavia, assai interessante e meritevole di essere investigato l’accostamento del binomio forma e armonia nella musica alle virtù pubbliche. Come la musica è «bella» se in essa vi è accordo tra i sentimenti e la ragione, parimenti ben ordinata sarà quella città dove l’arbitrio creativo dei cittadini trova il suo contrappeso nella forza cogente delle legge. Qualora, invece, si privilegiasse solo uno dei due termini dialettici a detrimento dell’altro si cadrebbe inevitabilmente nella licenzia, che è simia libertatis.

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Giudicata secondo questi parametri, massimamente «bella» è la musica di Mozart, che segna il fastigio del cosiddetto ‘classicismo viennese’, dove la straordinaria libertà dello spirito si unisce al rispetto assoluto della forma. Una prima, vigorosa spallata a questo equilibrio la darà, però, Beethoven il quale, pur assecondando nella prima parte della sua produzione artistica l’allure settecentesca di cui era ancora intrisa la musica viennese sul declinare del XVIII secolo, la supererà totalmente nel grande periodo della maturità artistica, che inizia intorno al 1800 insieme alle prime avvisaglie della sordità. La lotta prometeica (Le creature di Prometeo s’intitola, non a caso, una sua celebre partitura per un balletto) dell’uomo contro il Destino che, come il brontolio soffocato di un temporale, si era già fatta sentire soprattutto nelle Sonate per pianoforte, ora diviene lo stigma della sua arte. La platonica «bella armonia» sovrasta la «bella forma», la componente materiale-sensibile quella formale-etica. Ciò è vero soprattutto per le Sonate per pianoforte, che saranno sempre più sottoposte a un radicale processo di sperimentazione che finirà addirittura per snaturarle. Sconvolgente approdo di questa inesausta tensione sarà la Sonata n° 32 in do maggiore op. 111, che celebra, come dice Thomas Mann che ad essa dedicherà pagine memorabili nel suo Doctor Faustus, l’addio struggente e insieme terribile alla forma-sonata: «Qui termina la Sonata, qui essa aveva compiuto la sua missione, toccato la meta oltre la quale non era possibile andare, qui annullava se stessa e prendeva commiato. Quel cenno d’addio del motivo re-sol sol, confortato melodicamente dal do diesis, era un addio anche in questo senso, un addio grande come l’intera composizione, il commiato della Sonata». In mezzo a questo mare in tempesta, però, ecco affiorare, sollevato dai flutti, il Triplo concerto per violino, violoncello, pianoforte e orchestra, un’opera che sembra provenire da un tempo

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ormai remotissimo e che brilla di una luce calda, avvolgente e rassicurante. Di colpo ritornano l’equilibrio tra la forma e la materia e la perfetta concordia dei sentimenti con la ragione. Tuttavia, anche se pensato quale omaggio nostalgico al Gran Concerto Concertante (titolo originario della partitura), uno dei grandi monumenti del classicismo, il Triplo fin dall’Allegro introduttivo si smarca subito da una rêverie che sarebbe potuta sdrucciolare facilmente in una fiacca parodia di se stessa, e s’impone all’orecchio dell’ascoltatore per il modo stupefacente con cui Beethoven si serve dei tre strumenti solisti e dell’orchestra. Già Haydn con i Quartetti e Mozart con i Quintetti erano riusciti a creare una musica intimamente dialogica; ma Beethoven nel Triplo raggiunge l’epitome del dialogo. L’irresistibile fascinazione di questa partitura, che seduce e travolge a ogni nuovo ascolto, risiede proprio nel perfetto colloquio che si crea tra il violino, il violoncello, il pianoforte e l’orchestra. Del resto, nomen, omen. Il Concerto in do maggiore op. 56 esprime come meglio non si potrebbe l’irriducibile doppiezza che reca nel suo stesso nome. Concerto, infatti, deriva sia dalla parola certamen, ‘lotta’, ‘scontro’, sia dal verbo consero, ‘intreccio’, ‘allaccio’, ‘congiungo’. Ma il conflitto e l’incontro non costituiscono forse l’anima di ogni dialogo che si rispetti? Il dialogo non ha, non deve avere una dimensione agonica se non vuole restare inerte e quindi divenire inutile? «Se ne fossi capace vorrei scrivere un inno […] alla discordia, alla lotta, alla disunione degli spiriti. Perché dovrebbe essere un ideale pensare ed agire nello stesso modo? […] Perché una sola religione e non molte, perché una sola opinione politica o sociale o spirituale e non infinite opinioni? Il bello, il perfetto non è l’uniformità, non è l’unità, ma la varietà e il contrasto. […] L’idea nasce dal contrasto», scriveva con una chiaroveggenza che si faceva profezia Luigi Einaudi in Verso la città divina, un articolo apparso sulla Rivista di Milano nel 1920 e poi raccolto nel volume Il buon governo.

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L’idea nasce dal contrasto: è difficile trovare una massima più rappresentativa dell’ethos democratico. Senza contra-sto, senza cioè stare dinanzi all’altro (contra, in latino, a differenza di versus esprime una relazione) vi è l’immobilità, vi è la palude stagnante e nella palude il pensiero si corrompe con facilità. Invece solo contra-stando l’altro, parlandogli contra ma da una posizione ben precisa, da una identità ben definita, si può veramente ascoltarlo e colloquiare con lui, perché la democrazia, ammoniva Guido Calogero, è prima di tutto colloquio. Una musica intimamente democratica, allora, è quella del Triplo concerto: il violino, il violoncello, il pianoforte e l’orchestra conservano ciascuno la propria identità, ciascuno suona contra-dicendo gli altri e non sovrapponendosi a essi, e così intrecciano (consero) un dialogo spumeggiante di idee. Non solo. Tutti gli strumenti – i tre solisti e l’orchestra – dialogano tra loro in modo paritetico. Ecco perché il titolo Gran Concerto Concertante dato da Beethoven è sconfessato di fatto dalla assoluta originalità del modo con cui gli strumenti si rapportano tra loro; questo titolo che, anacronisticamente, si richiama al passato, cela in sé, come le statuette dei sileni di platonica memoria, una micidiale sorpresa. Se infatti lo ‘stile concertante’ consisteva in una composizione dove emergevano passi solistici per uno o più strumenti senza che questi risultassero protagonisti, nel Triplo invece proprio questo accade, che tutti e quattro gli attori diventino i protagonisti, legati tra loro da una infrangibile isonomia, da una eguaglianza che trova la sua definitiva consacrazione negli ultimi istanti che suggellano lo spiritato e travolgente Finale, quando orchestra, violino, violoncello e pianoforte concludono l’esecuzione esattamente nello stesso momento. Si deve dunque intendere il Triplo come musica etica? Pur senza condividere in tutto la tesi che Platone espone nelle Leggi (perché altrimenti dovremmo escludere, il che sarebbe

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semplicemente folle, la grande musica romantica dove l’autobiografia e il drammatico rapporto tra lo spirito individuale e la natura, tra l’Io e il Tutto diventeranno la cifra stilistica, e l’altrettanto grande musica del Novecento, che sottoporrà a una implacabile interrogazione il Musikgeist occidentale alla ricerca di un senso possibile), di certo, però, la grammatica democratica che sorregge il Triplo può essere davvero utile quale punto di partenza non solo per ripensare lo spirito della democrazia, ma anche per abbozzare un galateo da seguire nell’arengo politico. Oggi la discussione politica è sconciata da una insopportabile cacofonia: ogni voce cerca di prendere il sopravvento sull’altra, la prevarica, l’aggredisce in un crescendo di chiasso, di berci, di volgarità. Per usare un’acuta distinzione proposta tempo fa da Barbara Spinelli, qui la parola da libera diviene liberata: non si parla più, cioè, contra ma versus l’altro: da un rapporto di relazione si passa all’inimicizia, che è la grottesca caricatura del conflitto propriamente inteso. Ecco, allora, l’attualità del Triplo (che, s’intende, è anche, anzi soprattutto una sublime creazione dello spirito umano, capace – in particolare il delicatissimo Adagio ma non troppo – di arricchire l’intelligenza del cuore). Ci chiediamo, alla fine di questo discorso, se esso non possa essere definito come una sorta di Costituzione repubblicana messa in musica, come un esempio di dialogo tra elementi tra loro eterogenei, basato però sul riconoscimento reciproco e sulla ricerca di denominatori comuni.

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«Come argentea sabbia di mare» Il Trio Arciduca di L. van Beethoven

In Effi Briest – il capolavoro di Theodor Fontane, il grande scrittore prussiano che della Prussia ha cantato gli splendori e soprattutto le miserie con la fortezza d’animo di un capitano di lungo corso che è preoccupato, ma non terrorizzato dinanzi al tifone che sta sopraggiungere – vi è una delle pagine più belle che siano mai state scritte sul passaggio dall’adolescenza all’età adulta, dall’imperiosa e proterva assolutezza di quella alla disillusione rassegnata di questa. Nel grande giardino di Hohen-Cremmen, l’avita dimora dei von Briest, Effi sta conversando con tre amiche: le gemelle Berta e Helda, figlie del maestro Jahnke, e Ulda, figlia del pastore Niemeyer. È una tarda mattinata di inizio autunno: l’uva spina incornicia le finestre dell’antico palazzo, le piante di rabarbaro ostentano come fulgidi trofei le loro foglie, più grandi addirittura di quelle di fico, e le cime dei noccioli sono appena appena spruzzate di vermiglio e di oro. L’aria è calmissima e di una chiarità quasi bronzea. Effi indossa un vestito di tela a righe bianche e azzurre con un ampio colletto da marinaio. Scherza e ride con le compagne: la sua esile figura pare staccarsi dallo spessore profondo del cielo. Ci piace immaginare che sul suo volto risplendano lo stesso dialogo amoroso e lo stesso empito di vita – che cela in sé, proprio perché è tale, anche la nostalgica consapevolezza del divenire e del trascolorare delle cose – che sfavillano nei ritratti di tante jeunes filles di Renoir, come in quelli di Alphonsine Fournaise, per

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esempio, o in quelli – sognanti, ridenti, dorati – dell’attrice Jeanne Samary. Come è inevitabile attendersi da ragazze di diciassette anni, la conversazione cade presto sull’amore, che tutte vagheggiano con attesa trepidante e sul quale si sporgono con un misto di oscura attrazione e di dolcissima vertigine come dal bordo di un pozzo. Cogliendo l’occasione dell’imminente visita del barone Instetten, Effi rivela alle amiche come questi, quando non aveva ancora vent’anni, avesse corteggiato sua madre venendone ricambiato e come, per ragioni di opportunità, quest’ultima avesse alla fine sposato il cavaliere di Hohenn-Cremmen, che vantava un blasone assai più illustre, diventando così la signora von Briest. La campana della chiesa suona mezzogiorno. Arriva Wilke, il vecchio factotum dei Briest, che ricorda a Effi di prepararsi in tempo perché la visita di Instetten è prevista subito dopo l’una. Ma il dolce respiro della giovinezza, che ancora non ha abbandonato del tutto i giochi della fanciullezza, torna ad alitare sul quartetto. Così, dopo aver fatto il funerale al cartoccio contenente le bucce di uva spina che Helga nel frattempo aveva divorato con grande avidità, le ragazze si mettono a giocare a nascondino. Sul più bello Effi ode chiamare il suo nome dalla casa; si volta e vede sua madre che le fa cenno col fazzoletto. «Continuate a giocare, fra un minuto sarò di ritorno» dice alle amiche. Ma il minuto passerà e con esso scivolerà via per sempre il tempo dell’adolescenza. La madre annuncia a Effi che l’ospite è già arrivato; poi, mentre l’accompagna nel salone dei ricevimenti, le rivela che Instetten l’ha chiesta in moglie. Effi non fa in tempo a trovare una risposta che si ritrova davanti al barone. A questo punto conviene cedere la parola a Fontane: «Al vederlo, Effi ebbe un tremito nervoso; ma non durò a lungo, perché, quasi nel medesimo momento in cui Instetten le si avvicinava con un inchino, alla finestra centrale, seminascosta dall’edera, apparvero le teste delle gemelle, e Herta, la più ardita, chiamò nella sala: “Effi, vieni!” Poi si chinò, entrambe

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le sorelle saltarono giù dalla finestra su cui erano montate, e non si udirono più che le loro risate soffocate». Quell’invito – «Effi, vieni!» – è di una poesia abbacinante e struggente. Esso annuncia che un periodo dell’esistenza è ormai tramontato, ne dice tutta la sua radicale mutilazione e ne mostra, senza fare sconti, il violento sovvertimento. Effi intuisce che per lei qualcosa si sta spegnendo definitivamente insieme alle risate delle tre amiche che si fanno viepiù soffocate. Ma quell’invito – richiamo di una stagione della vita che si fa tanto più imperioso e prepotente quanto più è prossimo al declino – turba lo stesso barone Instetten, per quanto il suo aspetto esteriore appaia marmorizzato in un rigido e inappuntabile contegno militare: «Instetten non credeva nei sogni premonitori, anzi si opponeva ad ogni forma di premonizione. Tuttavia non riusciva a dimenticare quelle due parole e […] non poté fare a meno di pensare che l’episodio fosse stato qualcosa di più di un caso». E infatti quel vocativo e quell’imperativo saranno come un sigillo sulla fronte di Effi e diverranno il suo fato: alla fine del romanzo, quando su di lei è ormai calato un implacabile giudizio di condanna dopo il suo adulterio con il maggiore Crampas, quelle due parole risuoneranno ancora, questa volta per bocca del padre che si pentirà di averla pure lui abbandonata in ossequio alle convenzioni. Ma questo verrà dopo, molto dopo. Ora è un’altra Effi quella che stiamo osservando: ella ci sta dinanzi «come un’immagine di vita impetuosa», con le gote ancora imporporate dall’animazione del gioco. «Effi, vieni!» dicono le amiche, scoppiando a ridere. Quel riso è una grande poesia sugli incanti che la vita può riservare, sui suoi attimi di pura e incontaminata felicità; ma è anche una poesia sulla morte, sulla dismisura di dolore che ci tocca pagare per ogni istante di gioia, sul tempo che tutto spazza via con il gelido battito delle sue ali. E la poesia, quando è vera e grande poesia, riesce a cogliere la continuità

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oltre la lacerazione e viceversa, perché essa è al di là del principio di identità e di non contraddizione. Non ci è venuto in mente nulla come i primi capitoli dell’Effi Briest di Theodor Fontane che fosse capace almeno di delibare la segreta Stimmung che percorre lo stupendo Trio «Arciduca» di Ludwig van Beethoven e in particolare il suo primo movimento, l’Allegro moderato. Il tema di apertura, esposto dal pianoforte con una pastosità di suono che immediatamente avvince l’ascoltatore, sembra trasportarci di colpo nel giardino di Hohen-Cremmen, in mezzo ai noccioli e ai due venerandi platani, all’uva spina e ai cespi di rabarbaro, con il laghetto dove Effi e le compagne sprofondano il cartoccio con le bucce dopo averlo appesantito con un sasso e con l’altalena. Questo giardino, però, più che un luogo reale è un luogo della memoria. È un bergmaniano posto delle fragole dove, insieme al professor Borg, ci pare di udire voci antiche e conosciute; è il posto segreto che ciascuno custodisce nel cuore come una perla di immenso valore perché lì sopravvive quel poco che ancora resta degli attimi belli di cui gli dèi ci hanno fatto dono. Ma a differenza di quello dei FinziContini, dove il «dolce, pio, santo passato», come lo chiama Micol, pare essersi del tutto dissolto, lasciando al suo posto lo sgomento indicibile dinanzi a un mondo che continua come prima, crudele e indifferente come ogni cosa che sopravvive, nel giardino di Hohen-Cremmen, nell’Allegro moderato del Trio «Arciduca», vi è, sì, un duello drammatico con la morte, ma è un duello che non si lascia mai sopraffare dalla’angoscia, perché si ha la certezza che quelle ore beate, nonostante la loro fugacità, sono state – sono state vissute, assaporate, godute, da soli o insieme alle persone che più abbiamo amato o che il caso ci ha posto al fianco solo per pochissimi minuti, non importa – e che, quindi, in parte, ancora sono. Vengono alla mente le parole di Paolo: «Noi abbiamo questo tesoro in vasi

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di creta. […] Siamo tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; […] colpiti ma non uccisi». Questa capacità di guardare la finitezza delle cose senza cambiare il conto all’oste, questa intimità con la morte, questa attitudine, cioè, di fissare lo sguardo nella abnorme incomprensibilità delle sue vuote occhiaie, è un modo di essere, di sentire e di pensare che soltanto i grandi possiedono. Dedicato all’Arciduca Rodolfo (da qui il titolo), unico allievo di pianoforte di Beethoven, il Trio op. 97 e in particolare, si ripete, il suo sognante e misterioso Allegro moderato, è qualcosa di sommo e di assoluto: in esso la malinconia e lo struggimento, il rapido fiorire e disseccarsi della felicità, le categorie agostiniane della memoria, della visione e dell’attesa sono combinate tra loro in modo da formare un cristallo purissimo. Quando il pianoforte espone di nuovo il tema di apertura accompagnato questa volta dal violino e dal violoncello, l’effusione lirica si fa indicibile. Questi ultimi due strumenti spuntano come le testoline biondo-ramate delle gemelle Jahnke e sembrano davvero dire: «O tu che ascolti, vieni!» Vieni dove il passato è ancora, vieni dove la memoria si fa visione presente e attesa palpitante. Questa musica scende negli abissi del tempo, del nostro tempo interiore e come un benevolo e sorridente Ermes psicopompo conduce fuori i ricordi che erano sepolti nei fiumi ghiacciati della nostra interiorità. Essi ci guardano con una tenerezza sospesa e ferita. Di nuovo la mente corre a Effi Briest, alle ultime, dolorose e sfolgoranti pagine del romanzo: «[Instetten] aprì anche la seconda lettera, e dopo averla letta sentì dolorosamente che c’era una felicità, e che egli l’aveva avuta, ma che ora non l’aveva più, né l’avrebbe mai potuta riavere». Tutto si consuma nel giro di poche note (pianoforte; poi pianoforte, violino e violoncello): brevi attimi, e poi la visione scompare. Ma sarà sempre e solo questioni di attimi:

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«Per la maggior parte di noi non c’è che il momento a cui non si bada, il momento dentro e fuori del tempo l’attimo di distrazione perso in un raggio di sole il timo selvatico non visto o il lampo d’inverno o la cascata, o una musica sentita così intimamente da non sentirla affatto, ma finché essa dura voi stessi siete la musica». T.S. Eliot, Quattro quartetti, Dry Salvages, IV

E così è pure con il ricordo: finché esso dura, noi stessi siamo il ricordo. Ma tutto, dice il poeta, è poco più di un accenno, poco più di un’intuizione che pure fa capire che c’era una felicità. Poi di nuovo il silenzio e la solitudine. Ma siamo soli o rimaniamo soli? La musica di Beethoven trasfigura la solitudine: non ci toglie il dolore per le care visioni che non sono più, ma ci riconsegna a noi stessi, ci dona la memoria di noi stessi affinché sentiamo, sia pure dolorosamente, che c’era una felicità e affinché questa diventi non sterile rimpianto, ma attesa operante carica di speranza (di esperance, per usare un termine francese che dice tanto di più). Solo così si giungerà alla patria di cui ogni nostalgia è alla ricerca. Scrive Nabokov ne Il dono: «Non sarà il caso di rinunciare una volta per tutte a qualsiasi nostalgia, a qualsiasi patria tranne quella che è con me, che si attacca come argentea sabbia di mare alla suola delle scarpe, che vive negli occhi, nel sangue, che dà spessore e profondità allo sfondo di ogni speranza?» Di nuovo il miracolo dell’arte si compie; di nuovo ci sembra di scorgere qualcosa, oltre la ricurva superficie dello specchio: forse il perché dei nostri poveri giorni, forse il perché della nostra vita.

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Ascoltando l’Adagio cantabile del Trio Arciduca di L. van Beethoven

L’esimia bellezza e la squisita grazia dell’Adagio cantabile del Trio Arciduca di Beethoven, frutto di un’ispirazione e di una sapienza tecnica ancora tutte umane, negli ultimi minuti si trasfigurano in qualcosa che rende affatto vano il ricorso agli stessi concetti di bellezza e di grazia, per quanto non si possa fare a meno di ricorrere ad essi per offrire almeno una vaga idea circa gli esiti artistici raggiungi dal Compositore in questo movimento. Cosa accade negli istanti che suggellano l’Adagio cantabile? Dire ‘istanti’, però, significa dire ‘tempo’: ha senso, qui, parlare ancora di tempo? Riformuliamo, allora, la domanda: dove si è incamminato Beethoven? Ma anche qui: il ‘dove’ presuppone un ‘luogo’, per quanto remoto esso sia; è possibile, qui, parlare di un luogo, anche solo immaginato? Dunque che accade in questo scorcio di tempo che non è più tempo? In quale luogo che non è più un luogo è condotto l’ascoltatore? La parola incespica e la lingua balbetta. Eppure non possiamo fare a meno di aggrapparci alle parole, anche se queste ci appaiono come i resti di un disastroso naufragio. Certo, alla fine sarà solo il Silenzio, l’immenso Oceano in cui si buttano, trovando pace, tutti i fiumi: ma per giungere al grande mare prima occorre salire su quelle fragili imbarcazioni che sono le parole. E tentare, tentare. Orbene, cosa racconta, questa musica? Essa narra una favola, la favola delle cose ultime. Narra ciò che deve accadere, ma

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anche ciò che è già accaduto. In questa musica vi è la morte, ma ancora più reale della morte è la resurrezione; vi è il dolore, ma ancora più imperiosa del dolore è la speranza; vi sono le lacrime, ma ancora più certa del pianto è una Grazia che tutto custodisce nel palmo delle sue mani. Ascoltiamo. Il primo a parlare è il pianoforte. No, non parla, il pianoforte; piuttosto ardisce di parlare. Ma è un ardimento mite, il suo, pudico e insieme tenace. Esso non alza mai la voce, e proprio per questo si ammanta di regalità. E cosa dice, il pianoforte? È, la sua voce, una implorazione, una preghiera? È una dichiarazione d’amore? – questo saremmo portati a pensare considerando come essa acquisti a poco a poco una segreta ansia, una riposta inquietudine, un desiderio ardente e tormentoso pur sempre rattenuto in un canto che non cessa di stupire per la sua tenerezza. Appena si leva la voce del pianoforte, subito si ode quella del violino e del violoncello, e quest’ultima si fa tanto più intensa, tanto più articolata, tanto più, ci verrebbe quasi da dire se la cosa non fosse un evidente controsenso, intellegibile quanto più il pianoforte, nella sua ardimentosa mitezza, continua a tessere la sua dichiarazione d’amore, dove risuonano, con una intensità sempre maggiore, gioia e struggimento, paura e abbandono, solitudine e pienezza, aspro cimento e beatificante pace. Ma è proprio vero, poi, che il violino e il violoncello rispondono alla voce del pianoforte? E se questa, invece, fosse il frutto del loro dialogo, sommamente amoroso? Se fosse ciò che il loro reciproco donarsi genera? Non importa. Non importa perché alla fine l’amante e gli amati si uniscono, ma senza confondersi, in uno spasmo d’amore, in una mutua oblazione, in una vicendevole accoglienza la quale, a sua volta, accoglie tutto e tutti. Consummatum est. Tutto è compiuto. Di quella pienezza restano, ora, solo scie di luce – come i cirri di porpora e d’oro di certi tramonti nel cielo d’estate – che a poco a poco si spengono in un pianissimo. Eppure ciò che sembra una fine potrebbe essere un inizio.

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Beethoven ci ha riferito ciò che egli ha visto e che a noi pare ancora una burla, se non addirittura un’empietà: la morte, persino quella dei bambini, come un dolce passaggio nell’aldilà; le grida degli oppressi come il murmure cristallino di una fonte; il male che cancerosamente divora questo mondo come un leoncello che gioca insieme a un capretto; le spade dei tiranni come vomeri che solcano pingui campi.

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L’Odissea in una stanza I Quartetti Razumovskij di L. van Beethoven

1. L’Odissea è essenzialmente il viaggio nella vita, tra le sue insidie e i suoi incanti, la sua ferocia e la sua tenerezza. A volte si tratta di un viaggio vero e proprio che si svolge ora per le immense distese del mare, come quello di Odisseo, per l’appunto, o quello di Achab o di tanti eroi conradiani; ora per i solitari spazi dell’altopiano brasiliano, attraversato da santoni e da ladri, da cavalieri e da banditi, come in Grande sertao di Guimaraes Rosa; ora per gli sconfinati campi di sorgo, teatro di indicibili storie di efferatezza, di acceso erotismo e di poetica solidarietà, come in Sorgo rosso di Mo Yan. Altre volte, invece, il viaggio si consuma in pochi metri quadrati, tra stanze polverose e ingombre di pesanti mobilia, dove il sole filtra a fatica tra spessi tendaggi e il tempo, se non fosse per il ticchettio degli orologi (o forse proprio per questo), assomiglia a un lungo sonno privo di eventi e di mutamenti. Per restare nella letteratura, tali sono le stanze dove Madame Bovary e Effi Briest, la protagonista dell’omonimo capolavoro di Theodore Fontane, consumano, più per noia che per passione, i loro adulteri o quelle dove innumerevoli personaggi di François Mauriac e di Julien Green – da Fernand Cazenave a Thérese Desqueyroux, da Brigida Pian a Adrienne Mesourat – si autodistruggono nel tentativo di perseguire un impossibile sogno di felicità. Anche la cinematografia ci ha lasciato rappresentazioni superbe di queste odissee in sedicesimo che tuttavia non sono per

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nulla inferiori, quanto a capacità di raccontare la selvaggia, cruenta, struggente scena di questo mondo, a quelle scritte su grandi in folio. È sufficiente ricordare un’opera come Fanny e Alexander di Ingmar Bergman dove, sia pure confinati entro il perimetro di casa Ekdhal, l’incanto e la miseria del vivere rifulgono in tutte le loro possibili rifrazioni. «Sarà sempre Odissea» diceva Italo Calvino, e non a torto. Non importa che si faccia ritorno a Itaca confermati nella propria identità o che ci si disperda, mutando definitivamente il proprio nome in Nessuno; che la rappresentazione sia integra e densa di significati o al contrario frantumata in una miriade di atomi schizofrenici: vi è Odissea tutte le volte in cui si dà voce alla pluralità, sempre irriducibile, dell’esistente. Forse non è del tutto temerario affermare che questo discorso valga anche per la musica. La sinfonia – il genere che più di tutti può essere definito odisseico – a partire da Beethoven diviene una summa di vita vissuta, una grandiosa autobiografia, una monumentale ricapitolazione degli opposti inconciliabili (e anzi questa impossibilità di conciliare la tempesta e la luce, le quali con moto incessante si sovrappongono e trascolorano l’una nell’altra, è la ragione stesa del suo essere), una sorta, insomma, di mythos (nel significato etimologico della parola, cioè di racconto che deve essere interpretato, in questo caso attraverso l’ascolto) che troverà la sua consacrazione nel celeberrimo imperativo mahleriano «una sinfonia deve essere un mondo». Così la Terza e la Nona di Beethoven, la Quarta di Schumann, di Brahms e di Bruckner, la Terza di Mahler, solo per citare le più note, sono pervase, pur nelle profonde differenze che le contraddistinguono, dal soffio dell’epos, dalla capacità di raccontare gli aspetti demonici della natura e l’umano fin nei più riposti interstizi della sua identità. La musica, però, è un mistero tale che acquista tanto più in profondità quanto più si agisce su di essa per sottrazione. In

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questo senso la musica da camera, e segnatamente il quartetto, è il lessico che più di tutti si avvicina all’essenza stessa della musica. I mirabili quartetti di Haydn e di Mozart possiedono una energia fascinosa, mercuriale, cangiante capace di cogliere i più impalpabili sospiri del cuore. Essi incarnano un mondo poetico che non è solo una sintesi riuscitissima della luminosa urbanità del Settecento, ma è anche rappresentazione di un tempo altro, quello delle emozioni e dei desideri, della nostalgia e della tenerezza. Ma è con Beethoven che il quartetto tocca la meta oltre la quale, forse, non è possibile spingersi. I tre Razumovskij Op. 59 (1806), dal nome dell’omonimo ambasciatore russo a Vienna cui sono dedicati, anche se non concludono la produzione beethoveniana in questo genere né ne segnano il fastigio (a essi seguiranno i cinque quartetti composti tra il 1822 e il 1826 che, quanto a tensione verso il Sublime, possono essere collocati al pari della Nona), raggiungono tuttavia il paradosso dell’assoluto individuale, di qualche cosa che, pur essendo messo in luce solo da Beethoven, lo trascende per comunicarsi (ecco il perché del paradosso) agli altri. Volendo fare una grossolana semplificazione, poiché si pongono cronologicamente a metà strada tra i sei dell’Op. 18 (1798-1800) e gli estremi cinque di cui si è detto, i Razumovskij potrebbero essere paragonati al Purgatorio di Dante. Infatti, come nella seconda cantica dantesca, così anche nell’Op. 59 si respira quella che possiamo chiamare la ‘poetica del nondum’, del non-ancora. La loro portata spirituale si volge, sì, al trascendente, ma è ancora immersa nel tempo della Storia; guarda al cielo, ma è ancora fedele alla terra; non è ancora del tutto smateriata perché è ancora, qua e là, incrostata di materia. I Razumovskij – tanto per insistere nella grossolanità del paragone – sono come l’estremo sorriso di Beatrice al Poeta: «[…] e quella, sì lontana / come parea, sorrise e riguardommi; / poi si tornò a l’etterna fontana» (Pd XXXI, 91-93). Beatrice sta ormai contemplando

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«l’etterna fontana» e all’improvviso distoglie da essa gli occhi per guardare (e quindi, etimologicamente, ‘porsi a guardia di qualcuno’, ‘prendersi cura’) ancora una volta Dante. «Sorrise e riguardommi»: i due verbi più alti, più consolatori della Comedia. È come se la visione dell’Assoluto fosse incompleta, mancante in qualche cosa senza gli affetti che ci hanno accompagnato e nutrito nel tempo vissuto spazialmente. Verrebbe da dire che Beatrice abbia commesso un sacrilegio (la visione di ciò che è perfetto e compiuto non può destare sentimenti di nostalgia per ciò che è imperfetto e incompiuto); ma in realtà sarebbe stato sacrilego se non avesse donato un ultimo sorriso a Dante, perché Dio si trova solo attraverso la piena umanità del mondo. Nondum, non-ancora. I Razumovskij puntano a «l’etterna fontana», ad essa sono diretti con rabdomantica sensibilità, tuttavia ancora guardano e sorridono alla terra. E nello spazio angusto del suo studio, tra spartiti gettati qua e là alla rinfusa e zimarre consumate dal troppo uso, sotto lo sguardo comprensivo dei ritratti di Haydn e di Mozart che ammiccano dalle pareti, Beethoven compie, e ci fa compiere, un’odissea indimenticabile. 2. «Convinto che la musica può essere solo intuita, penso che quest’arte, per dialogare con il centro dell’uomo e creare un ponte tra l’inaccessibile e l’umano dev’essere spiegata attraverso l’uomo e il suo tempo. Liszt, Cortot, Paderewski hanno insegnato che prima di suonare le opere, bisogna studiare la vita dei compositori. Perché l’arte, dono del destino, nasce dalla vita e parla alla vita», scrive Graziano Bianchi nella premessa a Tempesta e luce, intensa biografia dedicata al titano di Bonn. Il 1806, anno di composizione dei tre Razumovskij, è vissuto da Beethoven sotto il segno di un amore imprendibile (quello

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per la contessa Josephine Brunsnik), di affanni economici che lo incalzano e della consapevolezza di una sordità divenuta ormai inguaribile. È dunque un periodo di forte travaglio, che Beethoven affronta unicamente con l’energia straordinaria del suo genio: «Dedalo rinchiuso nel labirinto, ha ben inventato le ali che lo faranno uscire sollevandolo in alto, nell’aria. Anch’io le troverò queste ali» scriverà a Nikolaus Zmeskall, l’amico immortale che sarà per Ludwig il rifugio fidato in ogni disgrazia. È una frase che compendia idealmente la fase del cosiddetto ‘agonismo eroico’ (un anno prima aveva composto l’Eroica e due anni dopo comporrà la Quinta, che della Eroica riprenderà la poetica amplificandola in un dinamismo dalla misura e dalla essenzialità insuperabili) che, anche se eccessivamente autobiografica (l’approdo finale, però, sarà del tutto diverso), resta un esempio di caparbia speranza e di tenace fede umanistica. L’Adagio molto e mesto del primo quartetto sembra compendiare in modo mirabile la Stimmung beethoveniana dell’anno 1806. Sembra, perché ad un ascolto più attento ci si accorge che la partitura ad un certo punto abbandona l’esperienza puramente personale e si inoltra nel mistero, nel territorio del puro spirito dal quale partono brividi colmi di terrore, il cui significato è possibile intuire solo per istanti e per eccezione. I primi accordi degli strumenti evocano come l’aprirsi di una porta dalla quale si affaccia l’Io di Beethoven che invita l’ascoltatore a seguirlo. Varcata la soglia, questi è avvolto dal primo tema dell’Esposizione in un’atmosfera malinconica squisitamente beethoveniana. In essa è contenuto lo stato d’animo dei pomeriggi di inizio inverno, per così dire, quando gli alberi sono già spogli e le loro ombre sempre più lunghe, inquietanti e enigmatiche, perché il sole comincia a essere basso. La solitudine del musicista qui è invincibile e incompresa («O voi, uomini che pensate che io sia astioso, testardo o misantropo,

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come mi giudicate male. Voi non conoscete la causa segreta che mi fa apparire così ai vostri occhi» aveva scritto qualche anno nel Testamento di Heiligenstadt); eppure nonostante tutto egli crea, rallegrandosi dinanzi alla luce che è dentro di lui: «Io non ho amici, debbo vivere solo con me; ma so con certezza che Dio nella mia arte è più vicino a me che non agli altri uomini». Ed ecco, infatti, che la spessa lastra di malinconia è perforata all’improvviso da una melodia dolcissima introdotta dal violoncello (è il secondo tema) e resa poi perfetta dal primo violino. Solo che, per quanto abbacinante, qui la musica è ancora confinata entro il regno, se vogliamo un poco tirannico, del Soggettivo. A un tratto, però, accade qualcosa di strano. Spunta come una macchia cancerosa che aggredisce a poco a poco il racconto autobiografico fino a frantumarlo del tutto lasciando al suo posto un abisso indicibile. Siamo allo Sviluppo dell’Adagio molto e mesto. Sull’elaborazione del primo tema si innesta un fitto ricamo di arpeggi pizzicati che lo insegue, quel primo tema, lo bracca, lo ghermisce, lo stritola fino a soffocarlo: è impressionante come l’estrema elementarità dei mezzi adoperati riesca a rappresentare con tanta forza poetica l’immane battaglia della Vita contro la Morte. Per pochi istanti – ma sono istanti paurosi – si sente solo il pizzicato del violoncello; poi tutto termina in un brivido ai confini del silenzio. Che è successo? Da dove questa massa di male (non si saprebbe come altrimenti chiamarla)? Gli arpeggi del violoncello sono folate di nera tenebra che, campata dopo campata, costruiscono una notte altra: è una dimensione dello spirito ancora insondata e forse insondabile, è un’altra logica che dovrebbe essere spigata con un’altra lingua. È come se Beethoven avesse visto gli abissi di Dio e vi avesse scorto il Nulla: il violoncello e il violino, del tutto inaspettatamente, spalancano sulla tessitura di un movimento che finora non si era allontanato dal racconto autobiografico un terrificante momento ateo, che con l’auto-

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biografia (che pure può prevedere la notte oscura dell’anima) non ha nulla a che fare perché, si ripete, è qualcosa di totalmente altro. 3. Il movimento finale del terzo quartetto Razumovskij è un Allegro molto tirato allo spasimo che rapisce l’ascoltatore in un turbine sonoro. Qui è raggiunta l’ipostasi della celebre definizione che Goethe diede del quartetto: «Un dialogo tra quattro persone intelligenti». È l’intelletto, infatti, a riempire ogni nota di questa partitura. È però un intelletto di gioco, se così si può dire, che si serve della geometria e dei numeri per erigere un edificio musicale che ha la perfezione dell’opera di ingegneria e la sovrana leggerezza, appunto, del gioco. Qui tutto è numero e calcolo; ma il numero e il calcolo raggiungono una tale lindura di forma e una politezza così insostenibile che si fanno somma espressione artistica, anzi di più: si fanno mistica. Qui non si raccontano episodi di vita vissuta; i sentimenti sono taciuti, i moti dell’animo trascurati. V’è solo matematica, ma è una matematica che, per quanto possa sembrare paradossale, commuove. Nel corso della esecuzione le frasi degli strumenti si fanno viepiù frenetiche fino a raggiungere una massa sonora che nella Coda diviene addirittura convulsa; tuttavia sarebbe errato definire questa frenesia dionisiaca. Al contrario, essa si mantiene sempre amorevolmente logica. Ecco: è il Logos il daimon segreto di questo Allegro molto, è la Parola/Azione che crea e ordina, che separa e divide, che misura e calcola, ma lo fa giocando, con i passi di leggera danza che la Sapienza personificata nell’omonimo libro della Scrittura intreccia davanti al sommo Architetto. E così l’intelletto di gioco si fa intelletto d’amore. Questa musica – lo si sente fin nei precordi – è ontologicamente buona.

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In essa tutti i colori della vita sono raggruppati in un largo e luminoso sorriso. Tutti, giacché il Logos, come vuole la sua stessa etimologia, è unione, coralità, amicizia. E apoteosi dell’amicizia è la Coda, dove i quattro strumenti paiono ebbri di gioia e si lanciano in un turbine di suono tale da serrare il fiato all’ascoltatore nella concatenazione strettissima delle loro voci.

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Gli attimi belli Lo Scherzo della Sinfonia n° 9 di F. Schubert

Della Sinfonia n° 9, detta «La Grande», che Franz Schubert iniziò a comporre con ogni probabilità nel 1825 al termine di un felice periodo di vacanza trascorso nell’Alta Austria insieme al carissimo amico (e insuperabile interprete di tanti suoi Lieder) Johan Michael Vogl, il terzo movimento – Scherzo: allegro vivace – è forse quello più enigmatico. Strutturato in forma ternaria, con una terza sezione, cioè, che è l’esatta ripresa della prima, il terzo movimento può essere paragonato a uno di quei trittici medioevali che, quando le portelle sono chiuse, non lasciano nemmeno immaginare la danza di colori, gli spazi fluidi e luminosi, la trionfale armonia dei corpi (un’armonia che non è algido tributo pagato all’eleganza, ma idea innata e anamnesi), in una parola la festa dell’essere, che celano all’interno. La prima sezione dello Scherzo parte subito con un piglio saturo di verve. Se v’è irruenza, essa è però affabile, gioviale, addirittura galante: vengono alla mente giovani coppie che ballano, dove l’esuberanza dei corpi che si cercano sotto la guida di Eros è ben temperata da movimenti di passi e di membra che possono essere, sì, audaci, ma sempre rispettosi delle regole e del ritmo musicale propri del ballo che stanno eseguendo. Vi è un clima di gioco e di serenità, vi è un sapido senso dell’umorismo unito a un gusto sincero della compagnia, con le sue chiacchiere e i suoi innocui pettegolezzi, e a una bonomia pervasiva, liquida, fluviatile, come se vi passasse sopra il senso numinoso dell’esistenza.

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Poi ad un tratto questa scena di lepida festosità s’interrompe: le portelle si aprono – quei corni che soffiano quando il resto dell’orchestra tace di colpo possono esserne il cigolio, nient’affatto fastidioso, anzi piacevole quant’altri mai perché gravido di attesa – e fa il suo ingresso una melodia di abbacinante bellezza. Ma che cosa è che abbacina di più: la squisita fattura del motivo che avvolge subito l’ascoltatore come un abbraccio o la sua Stimmung, lo stato d’animo che la possiede, inebriante, struggente, pieno di lancinante poesia e, non sembri un’osservazione peregrina, del tutto irrelato con la prima sezione dello Scherzo? Infatti, che rapporto v’è tra questa musica e quella che abbiamo ascoltato finora? Dove siamo? Donde questa profusione di tenerezza e di rimpianto, di desiderio e di mestizia? Visioni sfavillanti nascono e muoiono nel rapido volgere delle note: giochi d’infanzia, suono di passi familiari, corrispondenze misteriose tra volti e luoghi, ore d’incanto trascorse durante una passeggiata, amori perduti, brevi incontri che pure possiedono la forza imperiosa della vita, giornate perfette trascorse in compagnia di amici. Visioni che soltanto gli dèi potrebbero sostenere, perché esse rimandano all’eternità e l’eternità è un peso troppo greve per le povere spalle degli uomini. Infatti, come un vaso prezioso che ha ricevuto un urto, quelle visioni sono attraversate dall’incrinatura dolorosa dell’addio, della perdita, della separazione; sono sfregiate dall’impossibilità non solo di trattenere la felicità, ma anche di guardarla negli occhi, la felicità, e persino di riconoscerla. Ma poi, se si osserva bene, si noterà in controluce pure la certezza che nulla andrà perduto, che tutte quelle visioni saranno restituite e che anzi molto altro ancora sarà dato in aggiunta. L’indicibile malinconia del motivo che sarà più volte ripetuto nel corso della seconda sezione dello Scherzo è intriso, infatti, anche di una gioia segreta e pudica: il mondo fa sentire ancora la sua frusta da domatore, ma ormai, come canta Hölderlin nell’Iperione, ci si è incamminati nel luogo «dove il meriggio

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perde la sua afa, il tuono la sua voce e il mare che freme e spumeggia assomiglia alle onde di un campo di grano».È l’ora delle ombre lunghe, dei raggi occidui, della luce tersa che crea sognanti lontananze e che avvolge tutto – persino la morte – nel bagliore della verità. Poi il sogno scompare: densi volumi di nebbia, sorti all’improvviso, sottraggono alla nostra vista le luminose contrade della memoria che per alcuni istanti ci avevano rallegrato e di nuovo facciamo ritorno alle danze e alla festa. Che è successo? Lo ripetiamo ancora una volta: davvero non c’è proprio alcun legame tra il sogno fatto poc’anzi e la frenesia di vita che di nuovo ci circonda? Qual è, insomma, il segreto di questa partitura? Una pista da seguire forse esiste: accostarsi allo Scherzo della Sinfonia n° 9 come se fosse anche una pagina di letteratura, più precisamente come se fosse la pagina di un grande romanzo dell’800 dove il romanziere-demiurgo vede e conosce tutto ciò che si agita fuori e dentro la mente dei suoi personaggi. Lo Schubert-romanziere, lo chiameremo allora così, inizia il suo racconto con la descrizione di una festa (un topos del romanzo ottocentesco), simile a quei ritrovi, divenuti famosi con il nome di Schubertiadi, dove Franz eseguiva al pianoforte le sue ultime composizioni davanti a una cerchia di amici. Siamo in un’opulenta sala borghese nella Vienna del XIX secolo affollata da giovanotti in redingote e da ‘fanciulle in fiore’ che sembrano scomparire dentro vaporosi abiti di cotonina. Buona musica e un urbano chiacchiericcio riempiono le volte del soffitto, decorate con motivi neoclassici. Le candele di un lampadario in cristallo illuminano i profili degli ospiti, già imporporati per il vino e la birra. In mezzo alla folla scorgiamo finalmente il nostro Schubert – che per distinguerlo dall’altro chiameremo lo Schubert-musicista – impegnato in una conversazione brillante con un gruppo di amici. Dall’aria che ha,

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si direbbe che si stia divertendo un mondo. Ad un tratto, però, il suo sorriso è attraversato da un’ombra fuggitiva. Come se obbedisse ad un oscuro richiamo, chiede licenza agli amici di assentarsi per qualche istante. Senza essere visto si mette dietro a una tenda e da lì si mette ad osservare ciò che accade nella sala. Il realtà il suo sguardo si sta perdendo in spazi infiniti, dove le immagini che gli passano dinanzi agli occhi, di per sé poco più di un soffio che svanisce, sono proiettate in un’altra dimensione. A questo punto lo Schubert-romanziere entra nella mente dello Schubert-musicista e ne svela i più riposti segreti. Quali? La gloria e la maledizione dell’essere. In questo momento Franz non potrebbe essere più felice; come Faust, gli verrebbe da gridare: «Fermati, attimo, sei bello!» Eppure non sta succedendo nulla di straordinario: solo chiacchiere e risate con gli amici, giochi e abbandono. Ma qui appunto sta l’essenza del vivere, e quando queste cose svaniscono – e inevitabilmente svaniscono – è come se si patisse una piccola morte. Quante morti moriamo nel corso della vita, mormora tra sé Franz. La consapevolezza che tra un paio di ore tacerà il pianoforte che ora spande note deliziose, che sarà spento il lampadario dal quale spiove una luce che è quasi l’alone della vita vera, che non si udranno più le voci e le risate degli amici, sta attraversando come una lama il suo cuore. Pieno di sgomento egli si domanda: “Tra poco dove sarà tutto questo? Certo, sopravviverà nella mia memoria, ma fino a quando? Ma poi, quando io non sarò più, chi avrà memoria di questa memoria?” Ha come la sensazione che una mano, una mano fredda e ossuta, gli stia sfiorando la fronte; si sente invadere dalla paura e con un gesto meccanico stringe forte la tenda come quando da bambino si stringeva al cuscino per proteggersi dai fantasmi della notte. La testa gli si fa pesante e si sente risucchiare all’indietro, ma ecco che a ripararlo dalla caduta irrompe la musica, la sua musica. Le parole si trasformano in note – egli si accorge sempre

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quando questo sortilegio si compie, perché le sue orecchie si riempiono di un suono simile al murmure cristallino di una fonte (e che altro è, a ben vedere, la musica se non una fonte da cui scaturiscono visioni e significati, simboli e allegorie?) – ed esse riescono a dire ciò che nessuna altra parola è in grado di nominare: una consolazione, soffocata, sì, dalla distanza, ma certa, tenace, che nessuno potrà più sottrargli. «Pensavo all’amore e subito la sofferenza mi si parava davanti; avevo la sofferenza in petto, ed ecco che l’amore la faceva sparire» scriverà poi nel suo diario. Franz ha capito che non ci può essere la gloria senza la maledizione, che la gioia per una giornata perfetta si accompagna sempre alla sua fine e che è possibile vivere la prima solo se si ha il coraggio di guardare in faccia alla seconda. Ma chi ha questa certezza non vive forse come un dio? Dio forse non ama questa vita in se stessa, pur nella sua incantevole e struggente fugacità? Versi dimenticati gli ritornano alla mente, i versi che Goethe fa cantare a Suleika nel Divano occidentaleorientale: «Lo specchio mi dice: io son bella! / Voi: che invecchiare è pure il mio destino. / Tutto davanti a Dio deve restare eterno: / amate lui in me, per questo istante». “Sì, amare l’eternità in questo istante!” esclama Franz con le lacrime agli occhi, uscendo fuori dalla tenda e muovendosi incontro agli amici di prima che gli fanno cenno di raggiungerli. Essi si accorgono che i suoi occhi sono lucidi, ma egli si schermisce dando la colpa a quel delizioso vino della Mosella verso cui è stato troppo indulgente. Il suo volto, infatti, è illuminato da uno strano sorriso e gli amici, credendo che sia proprio un po’ alticcio, non si danno più pensiero per quella piccola lacrima che ancora pencola sotto le sue narici. Una pacca sulle spalle e la discussione riprende dove era stata interrotta. Ritorna la rutilante scena dell’inizio – danze, risate, calici che tintinnano – e in questo trambusto lo perdiamo di vista.

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Faust si ingannava quando pretendeva di cristallizzare in eterno gli istanti felici, perché la felicità non si possiede, ma semplicemente si vive. Si vive, come ha capito Schubert, nella sua dolorosa fralezza e soprattutto nella fraternità che lega ciascuno ai propri simili. Franz Schubert è salito sulla cima del monte, lì ha veduto cose che agli altri non è dato vedere, ma poi ha ripreso il sentiero che conduce al fondovalle ed è tornato tra i suoi per riferirle solo in parte, quelle visoni (e non potrebbe essere diversamente), perché in questo sta la sola giustificazione dell’arte. Questa storia – il lettore si sarà accorto di come il commento allo Scherzo si sia trasformato a poco a poco in un racconto – potrebbe avere una sorta di appendice, che non aggiungerebbe nulla a quanto è stato immaginato, ma ci farebbe riflettere ancora una volta sulla dolorosa felicità che abbiamo visto sul volto di Franz. Schubert non conobbe la gioia di vedere eseguita la sua sinfonia. Morì il 19 novembre 1828, all’età di trentadue anni, lasciando pochi capi di vestiario, un letto e qualche libro: il tutto valutabile in 63 fiorini, contro i 269 fiorini e 19 centesimi di debiti. Ma lasciò un tesoro incalcolabile in musica. Nell’angusto appartamento che aveva in subaffitto dal fratello Ferdinand fu trovata una montagna di partiture che, come quelle delle fiabe, celava al suo interno preziosi gioielli, tra i quali, appunto, la Sinfonia n° 9 in Do maggiore che sarà disseppellita esattamente dieci anni dopo da un altro grandissimo musicista romantico: Robert Schumann. Se chiudiamo gli occhi e non ci lasciamo distrarre dall’implacabile fruscio delle ali del tempo, potremmo sforzarci di immaginare il giorno in cui Schumann si accostò per la prima volta a quelle carte, a quei lacerti di anima che attendevano solo di parlare ad altre anime.

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Schumann sta scorrendo con gli occhi alcune partiture sulle quali riconosce subito l’inconfondibile mano di Schubert: le note infatti, vergate con tratti precisi e un poco infantili, si susseguono, come se fossero dettate da un essere soprannaturale, in un flusso ordinato che non conosce correzioni né ripensamenti.È da oltre due ore che è immerso nella lettura di trii e quartetti, sonate e danze, composizioni sacre e corali. Si sente come un bambino in mezzo ai giocattoli (ma ci si poteva attendere un altro sentimento dal compositore delle stupende Kinderszenen, quei quadri-per-fanciulli che il pianoforte tratteggia con insuperata abilità, cogliendo l’incanto ma anche l’inquietudine della fanciullezza? E del resto Clara, l’amatissima Clara, non gli diceva spesso, accarezzandolo: “A volte mi sembri un bambino?”). E del bambino Schumann sente ora la felicità, una felicità che basta a se stessa, una felicità che è forse l’unica degna di essere chiamata tale perché affatto incurante di prove da esibire e di risultati da raggiungere. Ora sta sfogliando la partitura di una sinfonia di cui intuisce immediatamente la grandezza. Divora con avidità i primi due movimenti – l’Andante e l’Andante con moto – di cui aspira a gran sorsi l’alito della vera arte, come si aspira l’aura ambrata dei tardi pomeriggi d’estate. Eccolo giunto finalmente allo Scherzo. Con il medio e l’indice uniti ne scorre la prima sezione. Ora è al punto in cui l’orchestra ammutisce. Non fa in tempo a domandarsi quale segreto stiano mai per dischiudere i corni solisti che si sente trascinato fuori da se stesso.È come se gli si fosse rivelato l’infinito, non quello che solitamente gli opprimeva il petto e gli inoculava nel cuore uno sgomento che lo induceva a sentirsi come un fanciullo smarrito nel bosco; ma un infinito colmo di significato, ancora striato, certo, dal dolore, ma che pure lo trasporta verso plaghe dello spirito sempre più luminose. Schumann ha terminato la lettura dello Scherzo; non se la sente di proseguire oltre. Se lo si guarda da vicino fa proprio una

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strana impressione: piange e nello stesso tempo un sorriso – lo strano sorriso di Schubert? – gli rischiara il volto. Schumann accosta le labbra alla partitura, la bacia e poi la richiude. In punta di piedi, senza essere visti, ci allontaniamo da lui. L’ultimo ricordo che desideriamo conservare di Schumann è questo; non vogliamo pensare alla follia che, forse anche in questo momento, a gran dispetto delle briciole di felicità che gli dèi concedono agli uomini, sta tessendo dentro la sua mente una oscena ragnatela e che lo spingerà a tentare il suicidio, né ai suoi ultimi anni trascorsi nella casa psichiatrica di Endenich. No, no: tutto questo verrà, ma dopo. Ora, lasciamolo solo… Confessiamo di essere profondamente turbati. Una domanda quasi ci ossessiona: cosa ha visto Schumann in quello Scherzo? Ci verrebbe da offrire una sola risposta: la patria. Ma la patria esiste davvero? E se sì, perché può – deve – essere presagita solo attraverso il dolore? Solo nella gelida, terribile solitudine di ogni creatura?

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Il battito del cuore di Dio L’Adagio del Quintetto in do maggiore D 956 di Franz Schubert

Quando Franz Schubert, nel settembre del 1828, andava ultimando il suo Quintetto per archi, la Morte gli aveva già dato scacco matto. Egli ne aveva piena contezza, eppure impiegò il brevissimo tempo che ancora gli era concesso (tanto quanto occorre per spostare un pezzo sulla scacchiera di un paio di caselle) per gettare un ultimo sguardo alla sua Avversaria – o forse era il suo primo sguardo, quello che, senza servirsi di alcuno schermo, è ferito come dinanzi a una prima, dolorosa esposizione alla luce e perciò diventa quasi come un grido, come il pianto di un in-fante che nulla, appunto, può dire a parole ma tutto con il pianto. Molte volte Schubert aveva tentato di studiare il volto dell’implacabile Avversaria nel tentativo di scorgere guizzi o lampi improvvisi che tradissero una perplessità o il rammarico per una mossa avventata, eppure per quanto si sforzasse di chiarire a se stesso quanto di celato vi era in quel volto, esso restava sempre velato di tenebre, ignoto, impenetrabile all’intelligenza, ma non perciò meno perfettamente chiaro alla stessa. Nel Quintetto in do maggiore, invece, ormai l’impotenza dinanzi al Nemico è così evidente, la sconfitta così devastante, che le Tenebre a poco a poco si stemperano fino a sorridere, fino a prenderci nelle loro braccia sovrumane. L’Adagio, in particolare, è una delle meditazioni più profonde che lo spirito occidentale abbia fatto su se stesso. La Cosa enorme e cupa che avvelena le nostre esistenze qui appare ciò che realmente è, ossia la parte di un medesimo Sacramento:

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la Morte perde quanto di sconcio, di umiliante e di inglorioso possiede fino a farsi luce. Sì, nell’Adagio le Tenebre si rivelano Luce. Tutto, qui, si trasforma nel suo contrario: quanto più l’arrischio si fa angoscioso, tanto più s’approssima ciò che salva; quanto più si affonda nel gorgo oscuro della materia, tanto più si avvertono i battiti di un cuore che ha il movimento lento e solenne dell’oceano – l’oceano della Carità. Il pizzicato del violoncello secondo che contrappunta la prima parte dell’Adagio è proprio questo: il battito del cuore di Dio. Esso è il centro di tutte le cose, è il cantus firmus da cui tutto si squaderna e a cui tutto fa ritorno. Come se fossero condotti per mano da questo pizzicato, come se si lasciassero conquistare da esso, dalla sua assoluta alterità che, proprio per questo, diventa assoluta intimità, gli altri strumenti finiscono per accordare ad esso il loro canto e così acquistano una coscienza vasta quanto il deserto e profonda quanto il tempo. Rifugio sul nostro cammino, rupe, scudo, salda rocca, fortezza inviolabile, solido baluardo è il pizzicato del violoncello; nulla può alterarne il battito. Ma ancora non basta, ancora stiamo balbettando: che cosa è mai il suono di questo violoncello? Perché esso ci ossessiona così? Nasconde un pensiero o un ricordo?È un’ombra del passato, un amico scomparso che, tornato all’improvviso, reclama i nostri comuni ricordi? Come può una simile profondità raccogliersi, distillarsi – ekenosen! – nel tremolo di una corda? Allora, che cos’è questo suono? Non lo capiremmo, o di certo lo fraintenderemmo, se non lo considerassimo insieme al canto degli altri strumenti, perché finiremmo per ridurlo ad un’idea pura e come tale, alla fine dei conti, inutile. È solo attraverso il reciproco contatto di tutti gli strumenti che possiamo capire la santità di questo battito. Santità, perché esso è carità che vede, tocca, vive, che diventa la medesima cosa in tutti e in tutto.

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L’armonia di questo colloquio s’incrina nella seconda parte dell’Adagio. Un vento nemico, che spira da oscure profondità, si abbatte sugli strumenti e ne strazia il canto. Lo sgomento è tale che quasi non si ode più il violoncello secondo. Possiamo solo immaginare i minuti solenni e terribili in cui Schubert scriveva questa pagina che toglie il respiro, la sua micidiale lotta con l’Angelo. Scriveva padre Teilhard de Chardin: «Fa’ che io sappia riconoscerTi, venuta la mia ora, sotto le apparenze di ogni potenza estranea o nemica che sembrerà volermi distruggere […]; quando su di me piomberà dall’esterno, o nascerà in me dall’interno, il male che fa diminuire o che rapisce; […] e soprattutto in quel momento ultimo in cui mi sentirò sfuggire a me stesso, assolutamente passivo tra le mani di quelle grandi forze ignote che mi hanno fatto nascere: in tutte quelle ore cupe concedimi, o Signore, di capire che sei Tu […] Colui che apre un varco doloroso nelle mie fibre per penetrare sino nel cuore della mia sostanza e rapirmi in Sé». In questa seconda parte dell’Adagio il chicco di grano muore nel «varco doloroso» della terra. Eppure questa terrificante oscurità è anche il grembo in cui il chicco darà frutto. L’antica Mietitrice quando verrà e porrà mano alla falce troverà messe abbondante e con gioia affastellerà i covoni. Dopo una rapida transizione, ecco che si ode di nuovo il pizzicato del violoncello secondo; come i Magi al vedere la stella, anche noi proviamo «una grandissima gioia». L’ora è giunta. Si naufraga, ma tra le onde sonore di questo battito; si precipita, ma in una pienezza di senso; si sprofonda, ma per uscire nuove creature. Il suono alla fine si spegne in un Pianissimo che è suprema agonia e insieme smisurato trionfo. L’immensità di questo silenzio assume a poco a poco i lineamenti di un Volto ineffabile.

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Primavera in inverno La Winterreise di F. Schubert

1. Forse solo l’arte può raccontare se stessa. Questa affermazione risulta tanto più suggestiva se si pensa ai tentativi che sono stati fatti – per quanto eccelsi inevitabilmente anche goffi, sgraziati, incapaci di cogliere, per usare un allusivo verso di Eliot, «il riso nascosto dei bimbi in mezzo alle foglie» – di spiegare a parole la musica. Ha ragione Rilke quando nella lirica An die Musik dice – e il suo dire è anche contraddire, è conquista che sconfessa se stessa, è supremo approdo che spalanca però spazi illimitati – che la musica è «respiro di statue. Forse silenzio delle immagini. […] lingua ove le lingue cessano. Tempo a picco sul corso dei cuori che passano».

Se è vero che solo l’arte può raccontare se stessa, non sarà allora temerario iniziare il nostro cammino lungo i sentieri impervi e acclivi della Winterreise di Franz Schubert da un quadro. 1945. La Germania è spremuta nel tino dell’ira. Come il dannato michelangiolesco, si copre un occhio con la mano, mentre con l’altra fissa l’orrore senza nome, avvinghiata dai demonî che essa stessa ha evocato e che ora la precipitano nell’avello. Dove siamo? Intorno a noi immani lingue di fuoco che lambiscono il cielo; crepitii e boati che riempiono l’aria;

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occhi che lampeggiano; voci che berciano ordini; furiosi latrati di cani. Le truppe tedesche in rotta, per rallentare l’avanzata irresistibile del Vincitore, hanno dato alle fiamme il castello di Immendorf, nella Bassa Austria. Qui il mecenate e collezionista August Lederer aveva raccolto, per salvarle dallo sconcio della guerra, le opere in suo possesso, tra cui un olio su tela di Gustav Klimt del 1899, intitolato Schubert al piano, che decorava originariamente la Sala della Musica del Palazzo Nikolaus Dumba a Vienna. Di esso conserviamo solo una mediocre riproduzione fotografica, che tuttavia ci restituisce la sua insondabile enigmaticità. Klimt ritrae Schubert seduto al pianoforte, le mani sulla tastiera e lo sguardo fisso sullo spartito. Il volto, colto di profilo, è incorniciato da ampi favoriti che esaltano la forma atticciata del corpo rinchiuso dentro un sobrio rendegote, come una tartaruga dentro il suo carapace. Sul naso, di una grazia quasi femminea, un paio di occhiali dalla montatura leggerissima (i suoi celebri occhialini rotondi che, stando alle testimonianze, non si toglieva neppure di notte). Alle sue spalle, in piedi, stanno tre figure: un uomo – ritratto con una pennellata sfilacciata di sapore impressionista – sul cui volto pare di scorgere un paio di baffi professorali e occhiali a pince-nez; e due giovani donne. La prima, con indosso un abito color rame, sta leggendo con grande attenzione un foglio di carta (forse è la partitura che sta eseguendo Schubert); la seconda, invece, sembra trarre profondo diletto dall’ascolto della musica: la sua mente è immersa in plaghe luminose dalle quali proviene come una carezza che le molce il viso, come un’onda di beatitudine che pare trasmettersi al braccio per morire infine sulla mano, la cui grazia aerea – è raffigurato infatti a mezz’aria come se stesse segnando il tempo – è enfatizzata da un anello d’oro – niente più di una minuscola stilla di luce – che incastona una perla scaramazza. Se si limitasse a questi particolari, il quadro di Klimt sarebbe

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derubricato nella lista (anche se in cima a essa per l’originalità della composizione, per il delicato equilibrio cromatico e per la sapienza con cui il suo Autore è riuscito ad afferrare quella Heimlichtkeith, quello spirito di affettuosa intimità domestica e insieme di pervasia inquietudine che costituisce la caratteristica fondamentale della musica schubertiana), nella lista, si diceva, dei tanti ritratti che hanno come soggetto le celebri Schubertiadi, le serate in cui il grande compositore viennese suonava i Lieder da lui composti quasi sempre interpretati dall’acclamato baritono, nonché inseparabile amico, Michael Vogl. Klimt, però, è un grande artista e lasciandosi guidare dal suo demone, raggiunge risultati impressionanti: il suo dipinto, infatti, non ritrae semplicemente Schubert al piano; fa molto di più, ritrae la musica di Schubert. Klimt inserisce nel dipinto un quinto personaggio (l’unico ritratto frontalmente, come se l’artista volesse in questo modo richiamare su di esso l’attenzione dello spettatore) che incrina la morbida scena d’interni, scoperchiando insospettabili abissi di inquietudine. Si tratta di una figura che indossa un abito bianco punteggiato di grandi fiori vermigli e trapunto da un arabesco di foglie di un bel verde brillante (può ricordare vagamente quello della Primavera di Botticelli). Le candele appoggiate sul pianoforte rischiarano un volto di fanciulla incorniciato da una massa ramata di capelli, la quale sembra quasi suscitare una sensazione tattile. Ella se ne sta in piedi vicino al pianoforte, le braccia lungo i fianchi, la testa impercettibilmente inclinata verso il pianista. Ma che cosa stia facendo davvero questa figura è difficile dire con certezza. Sta anche lei ascoltando la musica? No, perché il suo volto è in realtà una maschera e invano cercheremmo su di esso la compassata attenzione del gentiluomo o il lirico trasporto delle due giovani donne ritratte a destra del dipinto. Sta allora guardando Schubert al piano, ammaliata dal suo virtuosismo? Ancora una volta dobbiamo rispondere di no, perché i suoi non sono occhi, ma

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due grumi neri che graffiano la superficie e che conferiscono alla maschera qualcosa di sfingeo. Sembra una bambola, questa fanciulla: della bambola, infatti, ha il sorriso enigmatico e insieme vagamente canzonatorio, l’attonita imperturbabilità, l’algido distacco nei confronti di tutto ciò che le sta intorno e soprattutto la fissità perturbante dello sguardo. Das Unheimliche è il titolo del celeberrimo saggio che Freud pubblicò nel 1919 e nel quale fornì per la prima volta una nozione convincente di questo concetto prendendo le mosse dall’inquietante racconto Der Sandmann (Il mago Sabbiolino) di E.T.A. Hoffmann, dove si narra la progressiva discesa nella follia di Nathaniel, il protagonista, innamorato di una bambola meccanica di nome Olimpia costruita dal sulfureo scienziato italiano Lazzaro Spallanzani (nel racconto, tra l’altro, vi è proprio una scena in cui Nathaniel vede per terra gli occhi insanguinati della bambola e questa che lo fissa con le sue orribili cavità orbitarie). Il perturbante, scrive Freud, «è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare». Nella parola Unheimliche confluiscono e convivono due significati contraddittori, perché perturbante è ciò che, essendoci familiare, proprio per questo ci appare anche come non-familiare, e quindi sconosciuto. Si tratta di una parola, aggiunge Freud, che «sviluppa il suo significato in senso ambivalente, fino a coincidere col suo contrario». La Heimlichtkeith di Schubert cela dunque in sé anche das Unheimliche: proprio perché è per eccellenza la musica della Heim, della casa, del focolare domestico, dell’intimità familiare, essa è anche la musica del suo contrario, di ciò che non si conosce, ma di cui si avverte la presenza, oscura, maligna, incombente. Klimt non avrebbe potuto ridire meglio questa Heimlichtkeithunheimlich. La scena raffigurata nel quadro si svolge in una casa di amici, in un ambiente che evoca spensieratezza, bi-

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sboccia, tempo trascorso fuori della tirannia dell’orologio; eppure la presenza silente di Olimpia – possiamo chiamarla proprio così la nostra misteriosa fanciulla, sulla scorta del racconto hoffmanniano – introduce in quella casa una possente disarmonia. Ma perché? Chi è in realtà Olimpia? Osserviamola più attentamente. Dove è collocata all’interno del quadro? Vicino al pianoforte? No, Olimpia non è vicino al pianoforte, Olimpia esce dal pianoforte. Possiamo offrire, allora, questa risposta: Olimpia è l’allegoria della musica schubertiana, la quale proprio nella Heim trovò il suo démone e insieme il suo tragico fato. Fu infatti nella Heim che Franz succhiò quei nutrimenti terrestri che diedero forma alla sua arte; fu nella Heim, nel suo volto ora sereno e rassicurante ora livido e spaventoso che germinò il suo genio. E su questa familiarità che è anche estraneità, su questa intimità che è anche deserto e solitudine, il suo genio si butterà come una falena sul fuoco fino a consumarsi. Giacché ciò che chiamiamo genio ha senz’altro, sia pur trascendente l’ordinario, un aspetto nobile, armonico, luminoso come la casa della nostra infanzia (poco importa che non lo fosse: così la ritrae, non può non ritrarla, la nostra immaginazione); ma accanto a questo, il genio, ha pure una nota cupa, una parte sommersa, un regno infero dal quale misteriose creature ogni tanto si affacciano con i loro volti ghignanti. Ma la Heim è soprattutto il regno del Vater, è il luogo dove si impara a pronunciare la parola ‘padre’. E il padre è colui che ci guida a noi stessi. Forse non si dà altro amore che quello del padre: esso non pretende, non ricatta, non implora; diviene semplicemente certezza dentro di noi. Tuttavia, quale consolazione potremmo mai trovare, qualora il padre si mostrasse indifferente verso di noi? Quale ragionamento potrebbe preservarci dall’angoscia, qualora ci accorgessimo di essere niente agli occhi di colui che invece è tutto per noi? Il padre di Franz Schubert non seppe mai quale

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maestoso albero sarebbe nato da quello che stimava essere un morto germoglio; e per il figlio il padre rimase sempre un maestoso, venerabile dominatore, il cui volto di divinità corrucciata gli incuteva vergogna. Ma se il senso di tutto sta nel pronunciare con naturalezza il nome del padre, quale via avrebbe mai potuto percorrere Franz per arrivare al cuore irto di difese di suo padre? Quando si illudeva di averla trovata e rivolgeva al padre parole lungamente meditate, gli sembrava che fosse un altro a parlare, tanto la sua voce gli arrivava innaturale. Ma anche il padre come avrebbe potuto parlare al figlio, egli che con indomita ordinarietà, giorno dopo giorno, aveva edificato intorno a sé un muro, dietro al quale soffocava come un sepolto vivo? Direttore tra i più stimati di Vienna, il ‘Signor Padre’, come si faceva chiamare dai figli, guardava con sospetto la precoce inclinazione alla musica di cui il giovane Franz dava prova. Egli non aveva dubbi: come lui, anche Franz avrebbe seguito la carriera scolastica. Nel 1814 Schubert divenne maestro assistente nella scuola del padre, ma vi rimase solo due anni: come un uccello puro e selvaggio, la musica lo sconvolgeva di adorazione e di smarrimento, lo faceva tremare di fronte alle altezze e alle profondità della sua lingua, accendeva in lui un desiderio di possesso più infuocato di quello che avvince e consuma due giovani corpi. Nell’autunno del 1816 Schubert lascia il posto di insegnante e abbandona la casa paterna per andare a vivere con un amico. Appena esce dal numero 10 della Saulengasse la verità gli esplode davanti agli occhi: egli acquista la dolorosa coscienza che per tutta la vita avrebbe amato senza un attimo di speranza. No, non doveva ricercare la ragione della solitudine in cui sarebbe dovuto morire; egli sulla fronte recava impresso un sigillo abbacinante e terribile: il sigillo di coloro che debbono obbedire al proprio destino solitario. Il viaggio in inverno, il

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viaggio verso il regno dove suo padre fosse davvero suo padre, inizia nello stesso istante in cui varca il numero 10 della Saulengasse. Testimonianza disperata di questa svolta è Der Erlkonig, Il re degli Elfi, uno dei più perfetti Lieder da lui composti. Qui la sua arte appare già compiutamente spiegata: la musica spalanca plaghe di inquietudine ignote alla stessa poesia di Goethe, che pure è difficile leggere senza provare una stretta al cuore.È notte fonda. La tempesta squassa le alte cime degli alberi; nel cielo masse di nuvole hanno la forma di esseri mostruosi. Un uomo, avvolto in un ampio mantello, cavalca per la foresta: sembra quasi che egli stia montando uno dei cavalli alati del vento, tanto corre veloce.È un padre che tiene stretto al petto il suo figlioletto. Dove vanno? Da chi fuggono? Qualcuno sta minacciando il fanciullo: è il Re degli Elfi che si è invaghito di lui e che lo vuole portare nel suo regno. Il bambino grida, geme, piange, indica con il dito un punto tra i cespugli, si copre gli occhi per la paura, ma il padre non vede nulla e tenta inutilmente di calmarlo, dicendo che le sue visioni non sono altro che foglie secche smosse dal vento. E intanto cavalca, veloce, sempre più veloce: stringe a tal punto le gambe attorno ai fianchi del cavallo che gli pare di essere divenuto egli stesso un cavallo. «Padre mio, padre mio, ecco, mi afferra! Il Re degli Elfi mi ha fatto male!» dice a un tratto il bambino con un filo di voce. Il padre sente il corpo del figlioletto rilassarsi tra le sue braccia, come un mazzo di fiori che si apre quando lo si slega. Un oscuro terrore lo assale. Ma ora non vi è tempo per pensare: bisogna correre, correre veloci. Ecco finalmente il palazzo. Sono ormai al sicuro nel vasto cortile. Il padre scosta la falda del mantello sotto la quale il piccolo si era accucciato, lo accarezza, lo scuote, lo chiama, finché si accorge con orrore che il bambino è morto.

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2. La ballata di Goethe – impervia e oscura fino ai limiti dell’insondabilità – bene si confaceva allo stato d’animo di Franz in quell’autunno del 1816. Ma se viene spontaneo identificare nei due fuggitivi a cavallo rispettivamente Schubert e suo padre, più sfuggente è il terzo personaggio, il Re degli Elfi. Chi si nasconde dietro a questa figura? Di chi o di che cosa è allegoria? «Caro bambino, vedrai i bei giochi che farò con te. Le mie figlie avranno cura di te e ti canteranno la ninna-nna. Io ti amo, mi attrae la tua bella persona, ma se tu mi respingi ricorrerò alla forza». Figura dal doppio volto è il Re degli Elfi: ora blandisce e promette i più splendenti doni, ora minaccia e ferisce a morte. In lui i colori dei fiori si confondono con il nero della notte: luce e tenebra, benevolenza e ostilità, delicatezza e forza formano un garbuglio inestricabile. Chi si cela, dunque, dietro al Re degli Elfi? Azzardiamo questa risposta: la musica. Come il bambino della ballata, anch’egli si sentiva irresistibilmente attratto dalla musica, tanto la sua fascinazione era ammaliante e imperiosa. Franz scelse la musica, ma questo significò per lui morire, anzi un doppio morire: la prima morte avviene tra le braccia del padre, che con l’ossessione di avviarlo alla sua stessa carriera, lo tiene stretto a sé fino a soffocarlo; la seconda, invece, si consuma proprio tra le braccia della musica. Ma questa seconda morte, se possibile, fu per lui ancora più crudele della prima, perché, come il supplizio di Prometeo, essa si rinnovellava ogniqualvolta si sedeva davanti a uno spartito o a un pianoforte. La musica, infatti, fu per Schubert il ricordo insonne della irriducibile inconciliabilità tra quel mondo di sorridente pace di cui avvertiva il richiamo e la mancanza del padre che si portava appresso. «Padre mio, padre mio, mi afferra in questo istante! Il Re degli Elfi mi ha fatto male!» Questi due versi – nella loro semplicità di una violenza insostenibile – non sono solo l’estrema invocazione del figlio al padre. Se solo li ascoltassimo con attenzione ci accorgeremmo che essi parlano anche di un supremo sacrifico,

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di un ultimo tentativo che raggiunge gli accenti dello strazio: pur di riaverlo, quel padre, Franz sarebbe stato disposto ad abbandonare perfino la musica. A partire da quel remoto autunno del 1816 la morte proietterà la sua sinistra ombra sull’arte di Schubert. Der Vater, Der Tod. Il padre, la morte. In tedesco le due parole sono maschili. In Schubert queste due parole coincidevano. Si faccia attenzione: la morte di cui ora stiamo parlando non ha nulla a che vedere con la sensibilità romantica, che aveva così cari sepolcri e tombe, rovine e cimiteri rischiarati dal lattiginoso lucore della luna e alla quale lo stesso Schubert ammiccò in tanti suoi Lieder. No: qui per morte intendiamo un’assenza, anzi la assenza, quella appunto del padre. «Mein Vater, mein Vater!» Ascoltiamola ancora una volta, questa implorazione. Essa vibra nel silenzio, risuona in una voragine spalancata a ingoiare senza speranza, si perde in una notte senza confini. Essa è una implorazione, abbiamo detto bene, ma è a tal segno senza conforto e senza conciliazione che si trasforma in un lamento, quasi in un doloroso «il padre non c’è, il padre non c’è!». Occorre tuttavia chiarire meglio questo punto. Dire che il «padre non c’è» non significa affatto negarne l’esistenza. La morte per Schubert era assenza, non inesistenza del padre. Questa assenza era come un ritratto rimasto incompiuto, come una melodia incompleta restituita dalla memoria, come un volto intravisto dietro le cortine del sogno. Era la certezza dell’esistenza, al di là della sue triste vita, di un regno di amore dove il padre gli si muoveva incontro per abbracciarlo, volgendo verso di lui un volto disteso, un sorriso di felicità; e nel contempo la escruciante chiaroveggenza dell’impossibilità di raggiungerlo, questo regno. L’unico rifugio era la musica: a lei si aggrappava con inconscia avidità, come al suo porto più sicuro, per mettersi al riparo da ciò che la solitudine gli mostrava di spaventoso. E la musica dapprima lo accoglieva, gli si dava completamente come una sposa fa con lo sposo, tanto

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che egli sentiva non solo l’anima, ma anche il corpo, la stessa carne farsi grido di gioia. Ma quel regno, che pure sentiva essergli stato promesso da sempre, lo ospitava solo per gli istanti fuggitivi in cui suonava la musica, la sua musica: come il più miserabile dei servi, Schubert sapeva infatti che non avrebbe mai potuto sedersi a tavola insieme al padrone e che avrebbe sempre dovuto accontentarsi delle briciole di eternità che sarebbero cadute dalla sua tavola. Il risultato di questa immedicabile dissonanza non poteva essere che l’esilio, l’infinito viaggiare, la perenne ricerca di una Heim abitata finalmente da un Vater. La Winterreise, raccolta di ventiquattro Lieder composti da Franz Schubert nel 1827 su liriche di Wilhelm Müller, è l’imponderabile diario di questo viaggio. Gute Nacht, il primo Lied del ciclo, inizia con due versi che colgono subito l’immagine di una storia innaturalmente bloccata: «Da straniero sono giunto, / da straniero me ne vado». In quale dimensione temporale ci troviamo? Non vi è un prima e non vi è un dopo. Tutto ciò di cui parlerà l’Io narrante – e cioè una storia d’amore non corrisposta – è compreso tra un arrivo e una partenza. Tuttavia anche questo segmento di tempo sospeso tra gli abissi del prima e del dopo non è più, perché vive (ma può ancora chiamarsi vita?) solo nel ricordo.È come se il tempo, che solitamente scorre irrevocabile, si fosse fermato, come se gli eventi dolorosi che il protagonista si è lasciato alle spalle fossero ancora nel futuro, di là da accadere. Una supposizione, questa, da cui deriva la sconfortante idea di una perpetuità della sofferenza e che trova conferma nei versi che vengono subito dopo: «Per questo viaggio non mi è dato di scegliere il tempo, / da me devo trovare la via in questa oscurità». Come è possibile, infatti, scegliere il tempo se è sufficiente un minimo margine di infelicità per essere tagliati fuori da ogni passato e da ogni futuro? Che altro resta se non l’immutabile Ora della mestizia, insieme alla necessità del viaggio per

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trovare nella dilagante oscurità almeno l’accenno di qualcosa d’altro? Che altro resta, insomma, se non una Winterreise, un incessante viaggio in inverno? In tutta la musica di Schubert risuona un’assenza.È una affermazione temeraria, certo, ma ci verrebbe da dire che la sua è la poetica del ‘ciò che poteva essere’. In questo senso che altro sarebbero le sue note se non gli innumerevoli passi compiuti lungo il corridoio della memoria davanti a porte che mai si aprirono? Il più delle volte, infatti, il viaggio si compie nel perimetro di pochi metri: è quello il viaggio più rischioso e seducente, perché è lì che si gioca la partita decisiva. La casa in realtà è un mondo: nelle sue stanze si apprendono la sintassi e le inevitabili sgrammaticature, la pietà e la sopraffazione, il reciproco donarsi e la solitudine dei corpi: in una parola la capacità o l’incapacità di amare. Nella Winterresise non dobbiamo pensare a vasti spazi innevati, a terre battute dal vento che si confondono con il cielo color ardesia: il viaggio d’inverno si compie dentro la Heim, tra ritratti dai volti sbiaditi e tra orologi privi di lancette, perché ‘ciò che poteva essere’ è solo un’astrazione che può avere un senso unicamente nel mondo delle ipotesi. Ci siamo mai chiesti quale sia la dimensione temporale di ‘ciò che poteva essere’? L’amore che avemmo potuto dare e ricevere è custodito da qualche parte? V’è qualcuno che conosce cosa sarebbe potuto essere, questo amore, come avrebbe potuto farsi? Sono domande che sembrano avere la stessa consistenza dei sogni, eppure vi è qualcosa che ci dice che esse non sono solamente sogni, vale a dire le nostre lacrime. Non solo ciò che fu, che è e che sarà, ma anche ‘ciò che poteva essere’ si esprime attraverso le lacrime. Bisognerebbe conoscere la grammatica di queste parole liquide, di queste lettere in fuga, perché solo esse possono parlarci del mondo che si apre al di là del loro velo iridescente.

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Due Lieder della Winterresise – Gefrorne Tranne e Wasserflut – parlano proprio di lacrime. Le contempliamo come se fossero pietre purissime, anche se nulla sappiamo delle spaventosi e crudeli metamorfosi degli elementi che le hanno prodotte. Si rimane stupefatti dinanzi a queste lacrime, tanto riescono a intrecciare la tragedia e la grazia. Chissà: forse l’arte consiste nel dominare questo stupore e nel dargli la dura forma del diamante. 3. «Da straniero sono giunto, / da straniero me ne vado». Ciò che sta in mezzo all’arrivo e alla partenza è solo un puntino, una zattera che per un istante i flutti innalzano e i fulmini rischiarano e poi di nuovo è precipitata nell’abisso. Pochi musicisti come Schubert sono riusciti a cantare in modo così compiuto il flusso inarrestabile del tempo, l’angosciosa e fascinosa dissoluzione degli istanti. Gran parte della sua musica si sostanzia nel tentativo, effimero e insieme eroico, di catturare gli avari attimi di felicità che gli dèi concedono, di dire come Faust «Fermati, attimo, sei bello!» «Non ti turberò nel sonno, / […] / camminerò in punta di piedi, / pian piano chiuderò la porta! / Passando ti scriverò / sull’uscio: Buona notte. / Così avrai la prova / che io ti ho pensato». L’ultima strofa di Gute Nacht non potrebbe compendiare meglio questo percorso a ritroso lungo il fiume del tempo per recuperare almeno qualche relitto rimasto incagliato tra i suoi argini. Nelle ore notturne, a volte, capita di essere visitati da una superiore chiaroveggenza: sono minuti – parola a dire il vero del tutto fuori luogo, giacché qui gli orologi, i quadranti e le lancette si liquefanno – solenni e venerabili (sembra che solo un velo di seta, e nulla più, ci separi dalla verità tutta intera), ma non privi di una sensazione affatto angosciosa. Ogni cosa appare illuminata da una luce così intensa da trasformarsi in tenebra: è difficile da spiegare, ma la massima comprensio-

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ne segna anche il momento della massima oscurità. Orbene, in quelle ore lo specchio oscuro restituisce a volte visioni dimenticate, frammenti di suoni e di colori dotati di corporeità. Ma lo stupore, non di rado persino la gioia, per questi ricordi risorti nella memoria trascolora in una sorta di tormentosa oppressione non appena si fa strada la consapevolezza di essere gli unici esseri sulla terra a conservare ancora memoria di quel mondo impallidito. L’idea che in tutto l’universo noi siamo gli unici a ricordare certe cose – gli unici, poiché chi con noi le condivise ormai non è più – è semplicemente terrificante. Quando pure noi non saremo più, chi avrà memoria di questa memoria? Quel Gute Nacht scritto dal poeta sull’uscio della ragazza amata è l’estremo, disperato tentativo di incidere la liquida superficie del tempo, di far sì che, di quella storia d’amore, sopravvivano almeno due parole: «Passando ti scriverò / sull’uscio: Buona notte. / Così avrai la prova / che io ti ho pensato». Tutta la Winterreise è trapunta dallo sforzo, incessante ma sempre irredento, di opporre un argine al corso rapinoso del tempo, uno sforzo che raggiunge la pienezza artistica in Der Lindenbaum, Il tiglio, e in Frühlingstraum, Sogno di primavera. Dopo aver scritto sul portone di casa, ora è alla corteccia di un Lindenbaum, di un tiglio, che Schubert affida i propri ricordi. Se vi è una cosa che possa dare almeno la parvenza di una vittoria sul tempo, questa è proprio la corteccia di un albero: nelle sue crepe, nelle sue escrescenze, nelle sue nervature sono fedelmente annotate le vittorie e le sconfitte, i dolori e le malattie, gli attacchi subiti e le tempeste respinte. Sulla corteccia è come se il flusso del tempo si coagulasse. Da ciò la sensazione di poterlo toccare, il tempo, e quindi, in un qualche modo, anche di dominarlo. Incidere parole in una corteccia significa affidarle all’unico supporto capace se

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non di eternarle, almeno di garantire loro un lunghissimo ricordo. Eppure questa operazione è un’arma a doppio taglio. Dobbiamo, infatti, immaginare come sospesa nell’eternità la mano che sta incidendo queste parole e come eterni i sentimenti che l’hanno mossa. Il tempo si lascia, sì, incidere, ma per restituirci con la medesima intensità la gioia o la tristezza con cui gli abbiamo fatto violenza. Tutto questo è raccontato magistralmente dal pianoforte. I primi accordi ci introducono in un’aura di soffusa intimità. Essi accompagnano un canto ricolmo di dolcezza: dalle note, come da una lastra impressionata, vediamo emergere a poco a poco il tiglio, la sua placida ombra e la fonte che scorre dappresso. Poi l’errare estatico del pianoforte sembra essere di colpo risucchiato in un gorgo: che è accaduto ai ricordi che fino a qualche istante fa riscaldavano il cuore? Una oscura minaccia li ha artigliati. Ma da dove proviene questa minaccia? Dall’esterno? Non è piuttosto che stiamo assistendo a una metamorfosi delle rimembranze di prima, come se queste, dopo il volto luminoso, mostrassero adesso il loro sguardo gorgoneo? Quei ricordi felici non possono essere, proprio perché tali, anche strazianti, strazianti perché non solo non sono più, ma anche perché il loro non essere più è ancora, perché è ancora la sofferenza che si è provata per la loro scomparsa? 4. La rêverie del preterito e lo sgomento dinanzi alla infelicità del presente dominano, ma solo in apparenza, anche Frühlingstraum, Sogno di primavera. «Sognavo fiori variopinti […] / sognavo verdi prati […]. / Ma al cantare del gallo mi svegliai». La prima strofa del Lied sembrerebbe una riproposta dei temi cari alla Winterreise – l’eterna, irrisolta contraddizione tra la legge del cuore e la legge oggettiva che governa con scettro di ferro le cose di questo mondo –, ma i versi che immediatamente seguono introdu-

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cono una novità assoluta: «Ridete, vero, del sognatore / che ha visto fiori in inverno?» Il pianoforte, con la sua melodia palpitante anche se vagamente sinistra, ci disegna il dolente ritratto di un pagliaccio che, dopo lo spettacolo, seduto davanti allo specchio nella solitudine del suo camerino, si deterge dal volto la biacca. Qui la musica si fa davvero carne e sangue: Schubert mostra la totale nudità del suo volto, la più terribile delle nudità, perché mostra l’anima senza la difesa della maschera. Un Traumer si definisce, un ‘sognatore’ che scorge fiori in inverno. Tuttavia la grandezza di Schubert, più ancora che nell’ostinazione di credere, contro ogni evidenza, che i campi innevati siano prati coperti di fiori, sta nella consapevolezza di essere un sognatore e che quella beltà luminosa è solo Tauschung, ‘illusione’, come recita il titolo di una altro Lied della raccolta che deve essere considerato in stretta relazione con Sogno di primavera. Solo così è possibile comprendere fino il fondo la confessione di Schubert: sognare la primavera in inverno significa che il mondo è per davvero una landa desolata spazzata da gelidi venti, che gli dèi se ne sono andati, che non vi è più una casa dove andare; ma significa anche che questa casa deve pure esistere, da qualche parte, e che non bisogna mai smettere di cercarla, perché lì dentro «un volto amico» sta attendendo. Il Traum e la Tauschung, il ‘sogno’ e la ‘illusione’, anziché contrapporsi, si sostengono a vicenda. Solo dall’amaro disincanto, solo da un viaggio in inverno può nascere il sogno, perché il sogno è l’insostenibile urgenza di riscattarlo, quell’inverno, di scioglierne le nevi e di dissiparne la gelida bruma. Così, nella notte in cui sembra spegnersi l’ultimo verso – «Nur Tauschung ist fur mich Gewin!», «Solo l’illusione ancora mi sostiene!» – pare quasi di udire una parola che si ha pudore di pronunciare: speranza. «Da straniero sono giunto, / da straniero me ne vado». Come un’antifona, ecco che ritornano questi versi. Essi annunciano

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una dura, ma salvifica verità: che per arrivare dove vorrebbero essere, gli uomini debbono percorrere le vie dell’esilio e che per possedere ciò che non possiedono debbono fare la strada della privazione. Sarà sempre un eterno viaggio. E il viaggio insegna che nella vita entriamo da stranieri e da stranieri usciamo. Questa considerazione, di per sé affatto sconfortante, muta tuttavia di significato se si considera che l’essere stranieri tra stranieri è forse l’unico modo per sentirsi prossimi agli altri. Per questo la meta del viaggio non sono luoghi, ma volti. E proprio con un volto si conclude il viaggio in inverno di Franz Schubert. Giunto al limitare di un paese, il poeta incontra un Leiermann, un suonatore di organetto.È un «vecchio misterioso» che cammina a piedi nudi sul ghiaccio, vacillando qua e là. Offre la sua musica ai passanti, ma il piattino delle elemosine resta sempre vuoto: tutti gli camminano davanti senza neppure accorgersi di lui. Ma quel vecchio caparbio continua a suonare il suo strumento, vincitore nella buona battaglia, più forte lui dell’indifferenza del mondo. Il motivetto sempre uguale che Der Leiermann ripropone senza mai fermarsi è in realtà un salmo di gloria innalzato all’uomo, alla sua fralezza e alla sua dignità. Il gesto di girare e rigirare la manovella è un gesto da gran re perché, sebbene tutto lo sconfessi, esso è pervaso da un tenace amore per la vita e da una ritrosa attesa di felicità. Schubert è sedotto da questo vecchio curvo e tremante, da questo piccolo profeta che sulle note del suo organetto va annunciando ciò che i più non odono. «Vecchio misterioso» gli domanda infine Schubert (e sono i versi che suggellano la Winterreise), «e se venissi con te? Accompagneresti i miei canti con il tuo organetto?»

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5. «E se venissi con te?» Questa richiesta è come una piccola luce nella notte. Il viaggio, certo, continua; il mondo è ancora caos, stupidità, provvisorietà, miseria, eppure qualcosa è cambiato: il viaggiatore ha trovato un compagno. «E se venissi con te?» Facciamo bene attenzione a come la musica traduce questa domanda: in quelle note non pare forse di riconoscere il lamento di un bambino che, svegliatosi nel cuore della notte, chiama perché qualcuno lo prenda per mano e lo consoli? Con quali parole si può spigare l’amore, l’attesa di un abbraccio che ci liberi dalla solitudine e dalla paura? Avremmo bisogno di un linguaggio essenziale, come quello usato dai bambini o come quello della musica. «E se venissi con te? / Accompagneresti il mio canto con il tuo organetto?» Sembra che il vecchio non aspettasse altro. Posa l’organetto, si muove verso Franz Schubert e questi sente sulle guance quella mano consunta, quelle dita indurite dal gelo. Subito un lampo di stupore gli illumina gli occhi: egli infatti avverte che quella carezza non è solo un oscuro gesto di affetto, ma anche una richiesta di aiuto.È come se il vecchio avesse risposto alla sua implorazione con un’altra implorazione, anche se infinitamente più dolorosa. La musica è appena svanita; solo una nota tremola ancora nel silenzio. E in questo silenzio, culmine della Winterreise, tutto ciò che era stato menzogna e fatica, bassezza e dolore, sembra scomparire dentro a un fumo che avanza. In quel vecchio lacero e mendicante, Schubert riconosce il padre. Mai aveva sospettato che anche il padre elemosinasse amore, che anche lui si aggirasse, da straniero, nel medesimo deserto, il deserto dell’amore. L’ultima cosa che vediamo prima che il velame ci sottragga ogni cosa dalla vista e il silenzio si faccia definitivo, sono Schubert e suo padre l’uno di fronte all’altro. Nei loro occhi, insieme alle lacrime, brilla un sorriso.

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Ascoltando la Romanza op. 28 n° 2 di R. Schumann

Scrive Elias Canetti in La provincia dell’uomo: «La musica è la migliore consolazione già per il fatto che non crea nuove parole. Anche quando accompagna delle parole, la sua magia prevale ed elimina il pericolo delle parole. Ma il suo stato più puro è quando risuona da sola. Le si crede senza riserve, poiché ciò che afferma riguarda i sentimenti. Il suo fluire è più libero di qualsiasi altra cosa che sembri umanamente possibile, e questa libertà redime». Da sempre sospettoso verso le parole, da lui sottoposte a un continuo processo di raffinazione per eliminare le impurità causate dal loro uso eccessivo («Parole come cimici, esauste da quanto hanno succhiato», recita un suo lampeggiante aforisma) e per farne emergere la «coscienza» (La coscienza delle parole s’intitola, non a caso, una sua splendida raccolta di saggi), Canetti con ogni probabilità giudicherebbe stucchevole vaniloquio qualsiasi commento a una partitura condotto non secondo i propria principia della musica, bensì ispirato unicamente dai sentimenti suscitati da quella partitura. Eppure, anche questo ha di inspiegabile la musica, che essa, cioè, pur essendo cosa affatto diversa dalle parole e pur prevalendo su di esse anche quando le accompagna, in ciò Canetti ha ragione, crea in realtà nuove parole perché i sentimenti che la musica ridesta sono naturalmente tradotte dall’ascoltatore in immagini e queste a loro volta in parole. Ma ‘ascoltatore’ significa tutto e niente: così potrebbe suonare un’insidiosa obie-

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zione. Infatti, di quale ascoltatore stiamo parlando? Thomas Mann ha dedicato al problematico rapporto tra letteratura e musica pagine stupende. Nei Buddenbrooks apologeta della ‘musica assoluta’, tristanica, è Hanno, il quale, abbandonandosi alla potenza fascinatrice della musica, si illude di cogliere i misteri dell’anima (in ossequio all’assunto di Otto Spengler secondo cui la musica è «l’unica arte che non trae i suoi mezzi dal mondo della luce – mondo già da tempo […] identificatosi col mondo in generale – per cui essa sola può quasi portarci in un aldilà, infrangere il ferreo incantesimo di quella tirannia della luce»); nello Zauberberg, invece, strenuo nemico di un «quietismo» che offre gli universalia ante rem è Settembrini, il quale è, sì, persuaso che la musica possieda «un principio e una fine» capace di «svegliare il tempo», ma solo a condizione che la parola le si offra quale viatico e sussidio: «La musica da sola è inestimabile in quanto ultimo strumento di entusiasmo, potenza propulsante ed elevatrice, quando trova lo spirito predisposto ai suoi effetti. Ma deve essere preceduta dalla letteratura. Da sola la musica non spinge avanti il mondo. La musica sola è pericolosa». L’incanto, la struggente poesia e l’irresistibile seduzione lirica della Romanza op. 28 n. 2 di Robert Schumann fanno venire in mente le grandi pagine di Mann, in particolare quelle della Montagna incantata, anche perché la partitura schumanniana è così «particolarmente ed esemplarmente tedesca» che potrebbe non solo rientrare nel canone delle opere predilette che Hans Castorp ascolta nottetempo su un grammofono, ma anche essere accostata, in una sorta di dittico ideale, a Der Lindenbaum, il Lied della raccolta Winterreise di Schubert che tanta importanza assume all’interno del romanzo. Ora, come ci si deve accostare a questa autentica meraviglia che, sorta dal grande cuore di Schumann, parla al cuore dell’ascoltatore? Forse lasciandosi avvolgere dalla sua «beata quiete», dalla sua «innocenza fuori del tempo»? Ci si deve abbando-

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nare ad essa con una «trascuratezza in piena coscienza», in una «ideale apoteosi di ogni negazione della comandata attività occidentale» (utilizziamo le sensazioni provate da Castorp all’ascolto del Prélude à l’après-midi d’un faune di Debussy)? Ma così facendo questa musica non finirebbe per essere «nulla dicente», direbbe Settembrini, «pericolosa perché invoglia ad acquietarsi in lei»? Insomma, di questa, come di ogni altra partitura, si deve ricercare la «vera chiarità» o ci si deve appagare della sua percezione immediata? Se ne deve investigare il «senso […] intelligente della sua bellezza», il mondo spirituale che essa dischiude impiegando una scrupolosa mediazione culturale, oppure lasciarsi trasportare da essa, senza difese? Le riflessioni fatte da Castorp durante l’ascolto della Canzone del tiglio potrebbero essere valide anche per la Romanza di Schumann: in entrambe le partiture si ha la percezione immediata di una soffusa nostalgia e di una amoroso abbraccio alla vita; ma se solo si abbandona il piano meramente estetico, del puro appagamento prodotto dai suoni, ci si accorge che esse sono «frutti di vita, generati dalla morte e di morte pregni». Di più: se si pensa alla triste fine di Schubert, consumato da una malattia luetica, e soprattutto di Schumann, si potrebbe addirittura affermare che la musica di questi due sommi compositori finisce per identificarsi con la morte. Ascoltiamola, dunque, questa Romanza. Vi è qualcosa di più perfetto del tema spiegato in apertura dal pianoforte, di più struggente, di più amabile, di più sognante? E che cosa ci dice, questo tema? Immagini si affollano alla coscienza di colui che ascolta: foglie trasportate dal vento (ma «come le foglie così le generazioni degli uomini…»), fotografie (vi è qualcosa di più crudele di una fotografia?), volti, un vecchio che entra dopo innumerevoli anni nella camera dove giocava da bambino. È soprattutto quest’ultima immagine a imporsi all’attenzione dell’ascoltatore. In quella stanza l’inizio e la fine si chiudono

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come un cerchio. Il vecchio si ricorda delle cose dell’infanzia – in quel luogo della memoria i giocattoli e i libri di fiabe dalla costa variopinta lo accolgono come se si fosse assentato solo da pochi minuti – e poiché soltanto attraverso l’infanzia si può accedere al regno dei cieli, la fanciullezza compiuta coincide con la vecchiaia e quindi con la morte. Ed eccola bussare alla porta, la morte: i tre battiti – tre rintocchi fatali – che suggellano la Romanza in realtà inaugurano un tempo – anche un tempo musicale – affatto nuovo. La porta si apre ed entra Lei. Poi è il silenzio – o ciò che comunemente chiamiamo silenzio. L’impossibilità di dire la musica non è altro che l’impossibilità di dire la morte. Dove ci ha condotti l’immaginazione e quante parole essa ci ha strappato! Ci sentiamo di dare ragione a Settembrini – ogni partitura deve essere ascoltata con somma attenzione, deve essere ricondotta alla coscienza e addomesticata con le parole – ma non del tutto: vi è un punto oltre il quale le parole non possono spingersi e lì inizia la quiddità della musica, che è poi l’impossibilità di rendersi conto del perché del doloroso amore per la vita che, come la tunica di Nesso, ci consuma fin nelle più intime fibre.

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«Andromaque, je pens à vous!» Il Larghetto del Concerto per pianoforte e orchestra n. 2 di F. Chopin

«Siamo come vecchi cembali su cui il tempo e le circostanze hanno suonato i loro trilli infelici […]. Tutto questo non offende la bellezza né il decoro: la tavola d’armonia è perfetta, solo le corde si sono strappate, alcuni cavicchi sono saltati. L’unica sventura è che siano opera di un celebre liutaio, uno Stradivario sui generis, che ormai non è più qui ad aggiustarci».

Queste parole, scritte al fedele amico Julian Fontana, conferiscono forma e contenuto al daimon di Chopin, perennemente conteso dall’orrore per un mondo abbandonato a se stesso dove non è più possibile scorgere un divino liutaio capace di aggiustare quello strumento scordato che è il cuore dell’uomo, e insieme da uno stupore incantato, capace di cogliere il respiro profondo dell’esistenza nella sua intensità e indissolubile unità. I cembali potranno anche essere vecchi e i cavicchi saltati, ma la «tavola d’armonia», nella sua musica, è rimasta illesa e la bellezza e il decoro sono ancora lì a dire il senso inflessibile e struggente della forma. Chopin credeva moltissimo nel decoro borghese, basato sulla garbata dissimulazione delle passioni, sulla compostezza degli atteggiamenti, su un classico ‘nulla di troppo’ nei gesti e nella parola, sul prestigio sociale e soprattutto su un senso di grande disciplina e di strenua dedizione al lavoro. A riguardo interessante è la testimonianza che Gorge Sand, pseudonimo della scrittrice Aurore Dupin con la quale il Nostro ebbe una

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tempestosa relazione, offre nella Historie du ma vie, la sua autobiografia: «L’ispirazione arrivava sul suo pianoforte improvvisa, completa, sublime […]. Ma allora cominciava il lavoro più penoso al quale io abbia mai assistito […]. Si rinchiudeva in casa per giorni interi, piangendo, passeggiando su e giù, spezzando penne, ripetendo e modificando cento volte una misura, scrivendola e cancellandola altrettante volte, ricominciando il giorno dopo con un’ostinazione scrupolosa, disperata. Passava sei settimane su una pagina, per poi tornare a scriverla tale quale l’aveva tracciata di getto». Decoro, dunque, inteso come disciplina interiore, ma anche come eleganza esteriore quasi ai limiti della ricercatezza, che di quell’habitus mentale doveva essere il riflesso. Chopin indossava sempre un paio di guanti bianchi i quali, più che ripugnanza per l’impuro contatto del mondo, erano ironica presa di distanza, lucido disincanto, ma anche strenua resistenza e impagabile sberleffo alle inevitabili sporcizie della vita. Quei guanti immacolati, insieme alla redingote alla moda e alla carrozza (che, come egli stesso confessava a un amico, gli costavano molto di più di quanto non guadagnasse) sono una testimonianza di indomito coraggio e di grande amore per la vita, sulla quale in ogni momento incombe il caos e la dissoluzione. In questo ethos sono ravvisabili le ultime braci del ‘grande stile’, che si sforzava di contenere entro una sintassi sinuosa e levigata i labirinti più oscuri e che non distoglieva affatto gli occhi dallo sguardo pietrificante della Medusa. Il decoro borghese in cui Chopin credeva più che un principio legato a un ordine sociale era un sentimento, se non addirittura una grammatica spirituale che solo la lingua tedesca è capace di cogliere in tutte le sue polimorfe sfumature: Bürgerlichkeit è un vocabolo tutto chopiniano, con quel suo soffice impasto di quiete elusiva, di mistero, di intimità domestica, di tenerezza affettuosa, di rimpianto struggente.

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Di questo daimon e del suo sforzo di conciliare contraddizioni inconciliabili Chopin nutrì la sua arte, capace di creare la vita dalla morte. Paradigmatico a riguardo è il ritratto, rimasto incompiuto, che gli fece l’amico Delacroix e che lo raffigura al pianoforte. La tela è giocata su un delicato equilibrio di chiarità e di ombra che crea un’armonia mutevole e proprio per questo squisitamente chopiniana. Al nero denso e compatto dell’abito si oppone la luce fulva soffusa di rosa del volto. Ma ciò che soprattutto inquieta in questo ritratto sono gli occhi. Il destro, di cui riusciamo a scorgere la pupilla, sta contemplando misteriose lontananze (ma cosa ci confida, questa contemplazione?È una illuminazione extratemporale, è una scheggia di eternità quella che Delacroix è riuscito a imprigionare sulla tela? O non vi è piuttosto sgomento, in questo occhio, persino paura? Insomma, cosa sta vedendo: il Grande Tutto o il Grande Nulla?); il sinistro, invece, non è che un grumo informe, una piccola fessura oblunga colma di un denso color ruggine. Se si copre, con un taglio in diagonale, la parte sinistra del volto in modo da lasciare scoperti il naso e la bocca, risulta il profilo di un morto, una rigida maschera funeraria. Delacroix è abilissimo nel rappresentare l’antitesi tra la vita, oscura, brutale, stupida come il racconto di un idiota, e lo spirito che, nonostante tutto, la comprende e la canta con una tale perfezione di forma («La tavola d’armonia è perfetta…») che rinvia oltre i limiti di quella stupidità, in un naufragio nell’infinito, in un abbandono in fin dei conti fiducioso (fiducioso sempre grazie alla perfetta armonia, compagna inseparabile e insieme estremo palladio contro la disastrosa imperfezione del mondo) nell’immenso vuoto che si spalanca – qui senza ombra di ambiguità – nell’occhio sinistro, che pure resta indispensabile perché se non ci fosse, la musica (e con essa l’arte) che egli è intento a suonare (non si dimentichi infatti che nel ritratto Chopin è seduto al pianoforte e sta quindi, presumibilmente, eseguendo un brano) nemmeno esisterebbe.

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Nel dipinto di Delocroix tremola un incessante dissidio tra coppie antitetiche che non ammette alcuna riduzione dialettica: splendenti costruzioni armoniche che sempre pencolano sull’abisso; creature che si slanciano verso il regno dello spirito, ma dal quale sono fatalmente scacciate; abiti da gran re macchiati di sudiciume, come il cigno di Baudelaire che, nella poesia omonima, «sfregava con i piedi palmati le scabre selci, / e tutto il candido piumaggio al suolo trascinava; / il becco protendendo a un rigagnolo asciutto, / bagnava nella polvere inquietamente le ali», dopo essere scappato dalla gabbia nei giorni in cui i quartieri popolari del centro di Parigi erano demoliti per far posto al nuovo sistema dei boulevard. E a Chopin, al parigino Chopin (appena ventenne abbandonò la natia Polonia per Parigi, dove rimase fino alla morte), la capitale francese davvero doveva apparire come un cumulo di macerie, come una terra desolata. Anche se era conteso dai salotti più esclusivi della città, anche se dava lezioni di musica ai figli di principi e di ambasciatori, il suo sguardo (di nuovo lo sguardo rubato da Delacroix!) era sempre al di là, in un altro luogo: un luogo, certo, irraggiungibile, forse a lui stesso sconosciuto, dal quale tuttavia si levava un richiamo dolcissimo e pure doloroso. Scriveva Listz, che a Chopin ha dedicato un mirabile saggio: «I suoi più intimi amici non penetravano fino a quella cuna segreta ove dimorava l’intimo movente della sua anima, assente del resto dalla sua vita: recesso così ben dissimulato che appena se ne poteva sospettare l’esistenza». Ecco: forse l’enigma-Chopin può consistere proprio in questo essere-altrove, come Le cygne di Baudelaire appunto, che avrebbe dovuto nuotare in corsi d’acqua degni della maestà del suo piumaggio e non sguazzare negli sporchi rigagnoli che scorrevano tra le rovine degli edifici demoliti. Dunque Chopin ovvero dello straniero, come straniera, esiliata e ridotta a bottino di guerra era Andromaca che, non a caso, la visione dell’infelice cigno fa affiorare dalla mete dell’autore

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de Les fleurs du mal («Andromaque, je pens à vous!» suona l’incipit della poesia). Infatti, il pensiero che si fa memoria costituisce l’ordito di tutta la stupenda lirica di Baudelaire: il cigno fa ricordare al poeta Andromaca, la quale gli ricorda una donna di colore lontana dalla sua patria che cammina smarrita per le strade della grande metropoli («Penso alla negra scarna che la tisi consuma, /e che con occhio torvo, andando nella mota, / ricerca dietro il muro immenso della bruma / i superbi palmizi dell’Africa remota»), la quale, a sua volta, gli ricorda «chiunque ha perduto ciò che non si ritrova / mai più […]! gli esseri, di lacrime nutriti, / che, generosa lupa, l’Angoscia allatta e cova». Tutti e quattro i personaggi della lirica – il poeta, Andromaca, la donna di colore e l’umanità intera – sono accomunati da un medesimo esilio, vittime di un perfido sortilegio che li ha strappati lontano dalla loro patria per gettarli in un mondo insidioso e privo di senso. Eppure questa memoria, per quanto fragile e offuscata, è come un fuoco nella notte, è come un’attesa che si fa promessa di riconciliazione, capace di trasformare il dualismo arte e vita, natura e spirito, caos e forma, in dualità. Proprio questa tensione verso la dualità (che a differenza del dualismo ignora il rapporto agonico, di contesa e di scontro che esiste tra le coppie dei contrari e contempla, invece, una loro inscindibilità) anima una delle partiture più enigmatiche di Chopin: il Larghetto del Concerto per pianoforte e orchestra n. 2 in fa minore. Tutto il movimento ha la forma di un colloquio: è Chopin che dialoga con se stesso sospeso tra presente e memoria. Dopo una brevissima introduzione orchestrale, il pianoforte solista ci introduce subito in una «aura senza tempo tinta», come quei minuti, che paiono interminabili, in cui non è più giorno e non è ancora notte, minuti in cui il cielo, dominato da una chiarità tenace rinvia indefinitamente la sera; minuti nei quali

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il mondo sembra camminare sulle punte dei piedi e che colmano il cuore di una attesa amorosa e struggente. Il presente impallidisce; le cose che ci circondano scolorano, si sgretolano, si fanno alito di vento e lasciano il posto al passato. Ma ha senso parlare di passato? Esiste davvero questa dimensione del tempo? Il cammino intimissimo intrapreso dal pianoforte sembra negarlo: le sue note ci parlano di un tempo-altro, affatto irriducibile a qualsivoglia, e proprio per questo arbitraria, suddivisione. Esistono soltanto, sussurra il pianoforte, spazi differenti incastrati in modo che si possa uscire e entrare gli uni dagli altri nello stesso istante in cui sono pensati. L’orologio, questo dio permaloso e iracondo che pretende la nostra sottomissione, diviene un oggetto ridicolo e inutile, perché ciò che artificiosamente chiamiamo futuro già esiste e ciò che, altrettanto artificiosamente, chiamiamo passato non è affatto passato ma sta accadendo qui e ora. Tutto questo, però, è un’arma a doppio taglio: se è vero che tutto accade nel momento in cui lo stiamo pensando, allora non solo i ricordi felici, ma anche quelli dolorosi rivivono con la medesima intensità. Ed ecco infatti che l’errare del pianoforte, che finora si era mantenuto entro un’aura di soffusa intimità, transita in un gorgo che si fa viepiù rapinoso (siamo all’episodio centrale del Laghetto). Che sta succedendo ai ricordi che fino a un istante fa rallegravano il cuore? Qualcosa di oscuro li sta attaccando: il Tremolo degli archi, accompagnato dal Pizzicato dei contrabbassi, parla di una minaccia incombente. Ma proviene dal di fuori, questa minaccia? Non stiamo, piuttosto, assistendo a una metamorfosi delle dolci rimembranze di prima? Come se queste, dopo aver mostrato la loro gloria, mostrassero ora la loro maledizione? Quei ricordi felici non possono essere, proprio perché tali, anche maledetti, maledetti perché non solo non sono più, ma anche perché il loro non essere più è ancora, perché è ancora la sofferenza che si è provata per la loro scomparsa?

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Questo dualismo che contrappone i ricordi dispari ai ricordi pari (i quali, a loro volta, si trasformano nel loro opposto proprio perché non sono più, rinnovandone così, nel senso letterale della parola, il dolore) potrebbe schiudere la drammatica prospettiva di una sofferenza senza fine: finché ci sarà contrapposizione e contesa; finché ci sarà lo scontro (che postula la vittoria di una sola delle due coppie configgenti); finché, insomma, ci sarà dualismo, ci sarà sofferenza sterile che non potrà mai giungere ad uno stadio di superiore conoscenza. Tuttavia, proprio quando la furia del gorgo sembra risucchiare tutto, ecco che un sommesso soffio di corni annuncia che qualcosa di nuovo sta per accadere. Il fragore delle acque, più che placarsi, è come se irrompesse in un oceano di note delicatissime (di cui l’orchestra, lontana e discreta, potrebbe essere la risacca) e lì si disperde, perché l’accoglie, quel fragore, e non gli si oppone, l’abbraccia, e non gli fa da argine. Il Laghetto, non a caso, si conchiude con un Pianissimo che è come una nuvola di suono, impalpabile come un sogno: la memoria del dolore non è annullata, bensì riconciliata. Dal dualismo alla dualità. Un sogno, dunque, il finale del Laghetto. Ma se è così, di quale sogno stiamo parlando? È il sogno di Calderon de la Barca, metafora dell’armonia del «gran teatro del mondo», della certezza, cioè, di una teologia e di una teleologia degli avvenimenti storici? O è il sogno di Shakespeare ne La tempesta, di Hofmannsthal ne La torre, di Strindberg ne Il sogno, tutti simboli di un irreparabile disordine cosmico, del frantumarsi di una armonia intimamente lacerata? Il vapore onirico che davvero, come dice Prospero nell’estremo capolavoro shakesperiano, «è fatto della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni», che suggella il secondo movimento del Concerto per pianoforte e orchestra n. 2 non cela, in realtà, terrificanti coni d’ombra? Che cosa dischiude quel Pianissimo o meglio: in che cosa

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si dischiude? In un nuovo inizio o in una attonita contemplazione del Nulla? Più che silenzio, che è il linguaggio dell’Essere, sembra afasia, mortale paralisi della parola: non dico nulla semplicemente perché v’è solo il Nulla da dire. Che cosa resta, allora? Che cosa si salva? Ancora una volta la «tavola d’armonia», cioè l’arte. Ma la ricerca insonne della Bellezza, la ricerca contro ogni speranza, verrebbe da dire, della Bellezza, non è, in fondo, segreta speranza dell’avvento di un nuovo Regno che prima o poi dovrà pur essere donato a questi esseri «brevi di giorni e sazi di inquietudine» che sono gli uomini? Non è, in fondo, nostalgia di questa Gioia?

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Il primo uomo Concerto per pianoforte e orchestra n.1 in re minore di J. Brahms

La mattina del 4 gennaio 1960, nei pressi di Laourmarin, Albert Camus morì in un incidente automobilistico insieme a Michel Gallimard, patron dell’omonima, raffinata casa editrice francese. Tra le lamiere contorte dell’automobile fu estratta una borsa contenente le pagine manoscritte, con correzioni e varianti, del nuovo romanzo cui stava attendendo. L’opera, dal titolo Il primo uomo, uscirà soltanto nel 1994 per volontà di Catherine, l’unica figlia di Camus. Vero e proprio romanzo autobiografico, Le premier homme racconta il ritorno di Jacques Coormery nella natia Algeria. Dopo aver visitato la tomba del padre morto nella Grande guerra quando egli era molto piccolo, il protagonista ripercorre i suoni, i sapori, gli odori, i sogni, i volti che segnarono la sua infanzia. In pagine dove l’elegia e l’epos (stupende sono quelle che descrivono il cimitero di guerra di Saint-Brieuc) si fondono in un tessuto narrativo che ha la forza di una sinfonia, Coormery-Camus si abbandona alla mareggiata dei ricordi, ognuno dei quali è come un tassello che forma il volto del ‘primo uomo’, appunto, cioè quello del padre, il quale diverrà, nel bene o nel male, il punto di riferimento di tutta la vita. Tra i tanti personaggi che arrancano, soffrono e, nonostante tutto, resistono sotto l’implacabile sole di Algeri, oltre alla madre analfabeta, a cui il libro è dedicato, è al maestro Bernard che Camus dedica le pagine più struggenti del romanzo. Formidabile conoscitore dell’animo umano (una qualità che aveva

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acquistato nei quattro anni trascorsi in trincea) e spirito autenticamente laico («Esponeva i propri punti di vista, ma non le proprie idee, perché, […] pur essendo anticlericale come molti colleghi, in aula non diceva mai nulla contro la religione, né contro qualcosa che potesse essere oggetto di una scelta o di una convinzione»), il maestro Bernard, colpito dalla vivace intelligenza del ragazzo, prende subito in simpatia Jacques, tanto che dopo la licenza elementare lo aiuterà, impartendogli lezioni private, a superare l’esame di ammissione al liceo di Algeri. Il distacco dal maestro segna per Jacques il passaggio della linea d’ombra, quella che separa il mondo dell’infanzia da quello dell’età adulta, un passaggio reso possibile dallo stesso Bernard, che come ogni vero maestro si preoccupava solo di creare coscienze libere e non sbiadite controfigure di se stesso. Scrive Camus in un passo di rara bellezza: «“Adesso non avrai più bisogno di me”, gli disse [Bernard], “avrai maestri più sapienti. Ma, se ti servisse aiuto, vieni a trovarmi, sai dove sto”. Se ne andò. E Jacques rimase solo […]; poi si precipitò alla finestra, per guardare il suo maestro che lo salutava ancora una volta e lo lasciava ormai solo, e anziché la gioia del successo, sentì un immenso dolore infantile che gli stringeva il cuore, come se sapesse in anticipo che quel successo lo sradicava dal mondo caldo e innocente dei poveri, […] e gli era impossibile credere che i maestri fossero più sapienti di quello che conosceva il suo cuore, e d’ora in avanti avrebbe dovuto imparare, capire senza aiuto, diventare uomo, insomma, senza l’appoggio dell’unico uomo che mai gli avesse dato una mano, crescere insomma e allevarsi da solo, a carissimo prezzo».

Le pagine che Camus dedica al maestro Bernard potrebbero essere assunte quale utile viatico per capire quali passioni si agitassero nell’animo di Brahms allorché questi si accinse, tra il 1853 e il 1854, a comporre il monumentale Concerto per pianoforte e orchestra in re minore.

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È quello un biennio fatale per il grande compositore di Amburgo. Poco più che ventenne, dotato di una prodigiosa attitudine alla musica, incerto se consacrarsi all’attività di interprete o a quella di compositore, Brahms subisce ancora la fascinazione dello Sturm und Drang. Come un Wanderer romantico o come un novello Wilhelm Meister, egli percorre a piedi le città della Germania sospinto solo dalla forza incoercibile del suo daimon.È nel corso di questo pellegrinaggio, autentica metafora della ricerca della propria identità e dell’educazione all’umano, che Johannes incontra i due maestri che lo avrebbero guidato durante la dolorosa germinazione che segna il trapasso dall’entusiasmo dirompente, ma ancora sgrammaticato, del ragazzo alla solida sintassi dell’uomo adulto: Joseph Joachim, uno dei più acclamati violinisti del tempo (a lui sarà dedicato il rutilante Concerto per violino), e soprattutto Robert Schumann (a Weimar incontra anche Liszt ma, fatta salva l’ammirazione che Johannes da sempre nutriva per la sua musica, tra i due non si svilupperà alcuna reazione alchemica degna di nota). Ciò che accadde dopo il fatidico 1° ottobre 1853, giorno in cui Brahms varcò per la prima volta la soglia di casa Schumann a Dusseldorf, ha le tinte luminose del sogno: l’esecuzione impeccabile della Sonata in do minore tra lo sconcerto dei coniugi Robert e Clara; il telegrafico, ma assai eloquente appunto vergato dal padrone di casa sul suo diario («Visita di Brahms: un genio»); l’articolo Neue Bahnen, in cui Schumann additava nel timido ragazzo di Amburgo il nuovo astro nascente della musica («Appena seduto al pianoforte ha iniziato a svelarci paesi meravigliosi […]. Aggiungete a questo un modo di suonare quanto mai geniale che fa del pianoforte un’orchestra dalle voci ora lamentose ora esultanti. Erano sonate o, piuttosto sinfonie velate […]»), le pubblicazioni delle prime opere pianistiche e le esibizioni in prestigiose sale da concerto che seguirono alla vasta eco suscitata da quello scritto, fanno ormai parte della storia della musica.

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Il sogno tuttavia non tardò a sfilacciarsi. Pochi mesi dopo iniziarono a manifestarsi in Schumann le prime turbe psichiche: è l’inizio di un lungo calvario. Dopo un tentativo di suicidio, in preda a sempre più violenti accessi del male, Robert è internato nella casa di cura di Endenich, vicino a Bonn. Ci vorrebbe un grande scrittore per raccontare gli ultimi anni di Schumann, trascorsi in un isolamento pressoché totale. Sarebbero pagine strazianti, perché direbbero lo scacco dell’arte, in particolare di quella suprema espressione dell’arte che è la musica, dinanzi al mistero dell’iniquità, e perché mostrerebbero come le poderose costruzioni dell’intelletto umano, le ore trascorse a comporre partiture immortali, le visioni e i sogni che resero possibile la composizione di quelle partiture, non sono altro che argini fragilissimi quando il male decide di mostrare gli artigli. Solo per un istante la mente di Robert si riaffaccia alla luce: è quando Brahms gli invia il manoscritto delle sue Sedici variazioni sopra un tema di Schumann, ottenendo come risposta un commovente biglietto. Ma si tratta, appunto, di un istante: come un relitto sollevato dai flutti, la mente di Schumann affonda di nuovo tra i gorghi. La morte avverrà il 29 luglio 1856 e lascerà Brahms in uno stato di prostrazione. Questi gli eventi autobiografici che fanno da sfondo alla composizione del Concerto in re minore che, concepito nell’aprile del 1854 inizialmente come una sonata per due pianoforti, sarà ultimato solo nel 1857 dopo un progressivo processo di accrescimento, per così dire, che ne dilaterà oltremodo la struttura, fino a conferirgli un respiro autenticamente sinfonico. La sublimità di questo Concerto sta forse nel suo eccesso: i tre movimenti – Maestoso, Adagio, Rondo – sono, sì, ridondanti, pletorici, lussureggianti, di una magniloquenza sontuosa e ipertrofica, eppure esprimono come meglio non si potrebbe l’animo del ragazzo che era in procinto di morire e dell’uomo che era in procinto di nascere. È eccessivo, questo concerto,

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ma non solo: ascoltandolo, si avverte pure, qua e là, una certa quale incompiutezza, come se Brahms, posseduto da una foia incontrollabile, avesse affastellato formidabili idee musicali senza, però, rifinirle di bulino. Ma ancora una volta ciò che poteva tradursi in un limite diviene cifra dell’opera d’arte. Potremmo paragonare il Concerto in re minore ai Prigioni di Michelangelo i cui i corpi, colti in una dolorosa metamorfosi, possiedono, anche se ancora imprigionati dentro la rude materia, una paradossale compiutezza di significato. Si potrebbero citare i versi che Reiner Maria Rilke dedicò al torso arcaico di Apollo nell’omonimo sonetto: «Non conoscemmo il suo corpo inaudito, e le iridi che vi maturarono. Ma il torso tuttavia arde come un candelabro dove il suo sguardo, solo indietro volto, resta e sfavilla».

Come un Prigione, dunque, la musica del Concerto n. 1 (paradigmatico a riguardo è soprattutto il primo movimento) si sforza con sommo travaglio di liberarsi della poetica sturmisch che ancora la incrosta per slanciarsi, disse bene Schumann, verso Neue Bahnen, nuove vie. È tutta così, questa stupenda partitura: slanci, cadute, nuove rincorse seguite da nuove cadute. Finché non si giunge alla trionfale, abbacinante Coda che suggella il Rondo e lo stesso concerto. Immane epinicio levato sulla materia finalmente sottomessa, questo Finale è in realtà un commovente tributo a Robert Schumann, senza il quale nulla di Brahms sarebbe stato. Un tributo, ma anche un addio non solo al caro, troppo caro amico, e venerato maestro, bensì anche a un modo di intendere e fare musica. “Io so chi sono” sembra gridare Brahms. E in questo grido anche la sorridente consapevolez-

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za di una misteriosa comunione di anime: la certezza, vale a dire, che ogni grande artista deve la propria grandezza a un tesoro che altri, prima di lui, gli hanno preparato e che egli è riuscito a bene amministrare, facendolo rendere, per usare una espressione evangelica, ove il trenta, ove il quaranta, ove il sessanta. Una nuova via era stata intrapresa: per riprendere le parole di Camus, d’ora in avanti Brahms «avrebbe dovuto imparare, capire senza aiuto, diventare uomo, insomma, senza l’appoggio dell’unico uomo che mai gli avesse dato una mano, crescere insomma e allevarsi da solo, a carissimo prezzo». Altre lotte, infatti, avrebbe dovuto affrontare il taciturno ragazzo di Amburgo. Ma ora lasciamolo così, oltre la notte, più in alto del sole, ben più lontano delle più lontane stelle, nell’abbagliante splendore della vittoria, nella certezza incrollabile che la musica possa trionfare su tutto, sulla miseria degli uomini, sulle loro cupidigie, sui loro affanni, sulle loro malattie. Persino sulla morte.

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Il parricidio mite Die Meistersinger von Nürnberg di R. Wagner

«Attraverso Sonne capii per la prima volta che cosa fa l’integrità di una persona: è la capacità di non farsi toccare da nulla, neanche dalle domande, e di disporre di sé senza venir meno ai propri motivi e alla propria storia». Così Elias Canetti ne Il gioco degli occhi coglie, con la sua rabdomantica capacità di svelare in pochi tratti fisiognomici la segreta natura degli uomini, la cifra umana del dottor Sonne, il ‘Sole’, come dice la parola medesima, la stella fissa attorno a cui ruotavano gli altri astri viennesi, ognuno dei quali «straripava di compassione per se stesso ed era gonfio della propria importanza». Forse il ritratto di Sonne, per intensità e forza poetica, è pari soltanto a quello del maestro elementare Louis Germain ne Il primo uomo di Albert Camus: entrambi consideravano chiunque si accostasse a loro qualcosa di particolare, non solo un individuo in sé, ma un continente unico e meraviglioso alla cui scoperta si muovevano con somma pudicizia e con altrettanta passione. Sonne e Germain erano fratelli maggiori, maestri e insieme padri (Canetti rimase orfano di padre a otto anni; Camus, invece, il suo neppure lo conobbe), buoni e miti Sarastri che non volevano creare copie sbiadite di se stessi o, peggio ancora, seguaci fanatici e ossequiosi, reputando che il fine ultimo di ogni paideia consistesse nella formazione di libere intelligenze capaci di muoversi sulle proprie gambe pur sempre nel rispetto di un Nomos, giacché ogni trasgressione alla Legge dei padri ha un senso solo se serve a trovare la propria via verso una nuova Legge.

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Nei Meistersinger von Nürnberg, indiscusso capolavoro del teatro d’opera e insieme grandioso monumento eretto ai valori della Bürgerlichkeit tedesca, trasgressore a tutti gli effetti del vecchio ordine costituito è il cavaliere Walther von Stolzing il quale, pur di sposare Eva, promessa in moglie al vincitore della tradizionale gara di canto che si sarebbe tenuta l’indomani in occasione della festa di San Giovanni, decide di misurarsi nella contesa, anche se mostra subito insofferente nei confronti della Tabulatura, il rigoroso codice poetico che fissa le parti di un «bar» e il modo con cui questo si debba accompagnare prima alla «strofa» e poi all’«epodo»; che stabilisce quali siano i toni «forti» e «deboli» e quali, invece, quelli «brevi», «lunghi» ed «extralunghi»; che prescrive le regole metriche e melodiche per comporre l’«aria del rosmarino e della violetta gialla», quella «dell’arcobaleno e dell’usignolo», «dello stagno inglese e del bastoncino di cammella». Il suo inno alla primavera e all’amore («So rief der Lenz in den Wald»), affidato a una improvvisazione piena di licenze metriche, suscita lo sdegno dello scrivano comunale Beckmesser, pretendente di Eva, il quale prova un sadico diletto a elencare su una lavagna, con inappuntabile zelo, gli errori compiuti dall’aspirante Maestro cantore. L’esito dell’esame di «emancipazione» è scontato: Walther è giudicato dai Meistersinger «Versungen und Verthan!», «bocciato e fallito!». Il solo a rimanere colpito da quel canto è il ciabattino Hans Sachs, il cantore che più chiunque altro ha raggiunto un così elevata raffinatezza melodica da meritarsi l’appellativo di «usignolo di Norimberga». Sachs, come i suoi sodali, è certo sorpreso, se non addirittura inquietato, dalle novità stilistiche introdotte da Walther, tuttavia reputa che esse non siano affatto confuse e che, anzi, siano disciplinate da regole ben precise, per quanto ancora sfuggano a lui e agli altri Meistersinger: «Se volete misurare secondo le regole ciò che non procede secondo il dettato delle vostre regole, dimentichi della vostra tradizione, cercatene prima le

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regole!» (I, «Halt! Meister! Nicht so geeilt!»). L’uso da parte di Sachs dell’aggettivo possessivo ‘vostro’ («euer») è significativo: esso implica già una presa di distanza, ancora timida a dire il vero, da quel monolite inconcusso che è la «Spur», la ‘Tradizione’, o almeno una cauta apertura a ciò che nel canto del giovane cavaliere «suonava sì antico ed era così nuovo, come canto d’uccello nel dolce maggio». Hans Sachs è uno dei personaggi più belli nella storia del melodramma. Di lui incantano la bonomia, la cordialità, quell’acutezza dello spirito che spinge a prendere parte alla cose del mondo e a sentirsi verso di esse responsabili, quel sorriso che, nonostante tutto, sempre riesce a rischiarare anche la tenebra più fitta (si ascolti il monologo sulla follia nell’atto terzo); incanta, soprattutto, la sua capacità di andare a ritmo non solo con i tempi della musica, ma anche con quelli della vita. Sachs è consapevole che l’epoca gloriosa dei Meistersinger è prossima al tramonto e che nulla può ostacolare la giovinezza, anche rude e brutale, di Walther; e sa, ciò che più conta, che la vita è molto più fantasiosa dell’arte e che mai potrà essere imbrigliata entro regole poetiche, per quanto esimie esse siano. Sachs, insomma, è l’unico a comprendere il dramma che la Tabulatura reca in sé: lo sforzo di codificare ogni singolo elemento dell’esistenza e di esprimerlo in maniera acconcia attraverso la musica s’infrange contro la demonicità dell’esistenza stessa, contro il suo pulviscolo informe e caotico. Ma Sachs, parimenti, sa che mai si dovrà dare a questo pulviscolo l’ultima parola e che nuove vie, certo, devono essere intraprese, ma sempre nel solco della nobiltà dello spirito, la quale si nutre di dialoghi sui massimi sistemi, di appassionata ricerca della verità, di apertura all’altro e anche di accese contrapposizioni filosofiche e ideologiche. L’«usignolo di Norimberga» scorge in Walther la possibilità di un errore eguale e contrario a quello in cui incorrono i Meistersinger: il disprezzo che l’intemperante cavaliere ostenta nei confronti dell’ortodossia codificata

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rischia di scivolare nella posa affettata, e non è più originale del voluttuoso piacere che prova Beckmesser quando il gesso stride sulla lavagna. Alcuni fanno derivare l’etimologia della parola padre da potestas: il pater sarebbe colui che esercita il potere – la potestas patria, appunto – sui figli. Non l’auctoritas, bensì la potestas: se la prima, infatti, fa crescere e sviluppare (augere) qualcosa di nuovo; la seconda, invece, contiene lo status quo e schiaccia tutto ciò che gli si oppone o lo minaccia. Secondo altri, però, pater deriverebbe da pane: il padre è colui che dà l’alimento per antonomasia, dunque è colui che nutre e tiene in vita. Ma il pane non sarebbe senza il lievito: è solo con questo fermento che la farina diventa pane. Ma il lievito è una sostanza che ha in sé qualcosa di fascinosum e di tremendum perché è estranea alla pasta; eppure, mescolandosi ad essa, la altera fino a trasformarla del tutto. Forse non è temerario scorgere dietro a Beckmesser e a Sachs due distinte figure paterne. L’arcigno scrivano si sforza di trattenere il suo giovane rivale in una condizione di perenne minorità: sui tentativi da parte di Walther di uscire dal solco della tradizione si abbatte, inesorabile, il pugno di ferro della potestas patria. Senza la mediazione di Sachs, Walther verosimilmente avrebbe iniziato una lotta cruenta che si sarebbe conclusa con il simbolico parricidio di Beckmesser e con la fine dell’augusta tradizione dei Maestri cantori. Ma la sua sarebbe stata una vittoria amara, perché avrebbe trasformato il parricida in un nuovo padre, perpetuando così la potestas patria e le sue funeste conseguenze. Il buon ciabattino Sachs, invece, offre all’aspirante Maestro il pane delle antiche regole fermentato con la novitas da questi introdotta. Nella memorabile scena seconda dell’ultimo atto Sachs tesse un alto elogio delle «Meisterregeln», le ‘regole dei Maestri’, la cui funzione è quella di conservare, in mezzo alle fatiche e agli affanni del-

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la vita, «un ricordo, limpido e costante, dell’amore giovanile, dove si possa ritrovare la primavera». «Der Regel» – ma a questo punto si potrebbe dire l’arte tutta – si sforza di sottrarre lo splendore degli «Jugend Jahren» (gli «ebes anthea» così cari a Mimnermo) al flusso edace del tempo, e così diviene un’arma, forse l’unica che sia concessa agli uomini, per combattere la Morte. «Poni da te stesso la regola, e poi seguila»: in questo ammonimento si compendia l’alto magistero di Sachs e si consuma, sotto il segno dell’auctoritas, il parricidio mite dei Meistersinger von Nürnberg. La tradizione dei padri ha nutrito, e non avvelenato, i figli: Walther vince l’agone poetico ed è acclamato dal popolo; l’inquietante novum è stato accolto all’interno della pasta e l’ha tutta fermentata. Gli ultimi minuti dell’opera, con quelle potenti, giubilanti masse sonore che le corporazioni dei calzolai, dei sarti e dei fornai innalzano lungo le rive della Pegnitz, sono l’apoteosi non solo dei Meistersinger, ma anche della stessa città di Norimberga. La transizione verso un nuovo ordine è avvenuta senza fratture; la civitas è stata preservata dalle lotte intestine, che si sarebbero senza dubbio consumate se si fosse affermata la linea paranoica di Beckmesser, e ora, grazie alla nuova (e insieme antica, come si è visto) arte introdotta da Walther von Stolzing, essa vede accrescere (augere) ancora di più la sua fama di città liberale e patrona delle arti.

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Il Trovatore o la scoperta della ferita

1. Stadio d’assedio «C’è una fatalità, un sentimento così irresistibile ed inevitabile da assumere la forza di una condanna, che quasi sempre costringe gli esseri umani ad aggirarsi ed indugiare, come spettri, intorno al luogo dove qualche grande ed importante avvenimento ha dato il colore a tutta la storia». Così Nathaniel Hawthorne nel romanzo La lettera scarlatta definisce l’ossessione. Con parole e aggettivi che stupiscono per la loro esattezza, lo scrittore americano coglie lo stigma di questo sentimento che tutti li sublima: l’ossessione. Questa, per usare le categorie del pensiero greco, è la parte toccata in sorte a ciascun uomo (ma ‘parte’ in greco si traduce moira da cui, per estensione, il termine Fato), a tal segno potente da divenire simile a una condanna. Ogni grande eroe tragico è dominato da una ossessione che egli vorrebbe risolvere e oltrepassare; e la tragedia nasce proprio dal tentativo di opporsi alla propria moira. Con esclusione di Leonora, gli altri personaggi principali del Trovatore sono tutti dominati da un’ossessione che li consuma come un fuoco fin nelle più intime fibre: Azucena è ossessionata dalla vendetta come il Conte di Luna, il quale, in aggiunta, non si dà pace per l’amore non corrisposto per Leonora; Manrico, invece, lo è dai sospetti che egli nutre sulle sue vere origini. Ma tutti e tre hanno in comune un medesimo luogo su cui indugiano, per riprendere l’icastica immagine di Haw-

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thorne, come dolenti fantasmi: il palazzo dell’Aliaferia dove, trent’anni prima, la storia ebbe inizio. Chi è posseduto da un’ossessione si consuma in una solitudine disperata, incapace com’è di ascoltare voci diverse che non siano quelle degli spettri che lo abitano. Come rivela l’etimologia della parola – dal verbo latino obsidère – chi è ossessionato da qualcosa è come se fosse cinto da un assedio e quindi è ‘isolato’, ‘separato’, ‘tagliato fuori’ dal resto del consorzio umano. Non solo. Ossesso, nella Bibbia è colui che è ‘assediato da uno spirito impuro’, da un «akàtharton pneuma», il quale, essendo la controfigura oscena del Pneuma, dello «Spirito di verità», dice «to pseudos», il ‘falso’, è menzognero (pseustes) e omicida (anthropoktenos; Gv 8, 44). Akàtharton è lo spirito che ha preso dimora presso Azucena e il Conte perché, ricordando senza intermissione alcuna i lutti patiti, impedisce loro di guardare la sofferenza degli altri e giustifica il loro agire presente in nome delle sofferenze passate: l’assoluta contemporaneità dei torti subiti è il tempo ideale della vendetta. I Greci chiamavano Alàstor questo spirito malefico che le Erinni scatenavano quando volevano aggiungere male ad altro male. Nel mondo romano il suo corrispondente sono le tre Furie (Aletto, Tisifone e Megera), così chiamate dal loro colore scuro (furvus) in quanto generate dalla Notte: nell’Eneide (VII, 486-828), in versi di straordinaria potenza, Virgilio racconta come Aletto appicchi il fuoco della guerra prima nell’animo di Amata, la regina dei Latini, poi in quello di Turno («[…] scagliò sul giovane una face / e dentro il cuore gli cacciò una fiamma / che fumigava di funerea luce»), e come esso, infine, si propaghi per tutto il Lazio, devastandolo. Il giuramento prestato dal Conte al capezzale del padre di «non cessar le indagini» (I, 1) finché non avesse fatto giustizia della zingara che gli aveva rapito e ucciso il figlio, e il comandamento «Mi vendica!» dato dalla madre ad Azucena quando,

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sulla pira, «già l’arso crine al ciel / manda[va] faville» (IV, 2) sono dominati da una memoria regressiva che incatena al passato e che eterna – «Quel detto un eco eterno / in questo cor lasciò» (II, 1) – i torti subiti e la conseguente sete di vendetta. Ma il Conte, come si accennava, è tormentato anche da un’altra ossessione, quella di conquistare l’amore di Eleonora e di uccidere il rivale Manrico: «In braccio al mio rival! / Questo pensiero come un persecutor demone / ovunque m’insegue» (III, 1): sono parole che ascolteremo di nuovo, ma amplificate a dismisura, sulla bocca di un altro gigantesco personaggio verdiano, Otello, il Moro di Venezia. Ma anche in Manrico il diritto del sangue fa sentire le sue ragioni; e le fa sentire in modo così cogente da costringerlo ad abbandonare la donna amata addirittura pochi istanti prima di sposarla pur di salvare la madre (e mai come per Manrico sarebbe stato salutare l’invito biblico rivolto all’uomo ad abbandonare suo padre e sua madre e a formare con la sua donna una carne sola: il passaggio da Azucena a Eleonora avrebbe infranto il tempo immobile in cui i tre personaggi sono prigionieri e portato a una purificazione della memoria, permettendo così la nascita di un processo di riconciliazione con il passato). 2. Torri Nel Trovatore lo stato d’assedio permanente è enfatizzato dalle indicazioni sceniche presenti nel libretto. Tutti i quadri di cui si compongo i quattro atti hanno come sfondo luoghi chiusi e angusti. Persino le scene che si svolgono in esterni, vale a dire la seconda dell’Atto primo, le due dell’Atto secondo e la prima dell’Atto terzo, destano un senso di oppressione dominate come sono, rispettivamente, dalle mura del palazzo dell’Aliaferia, dalle forre della Biscaglia, dal chiostro di un monastero e dalle tende di un accampamento.

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Vi è un luogo, però, che tutti li ricapitola in una ideale summa dell’orrore: la torre «ove di Stato gemono i prigionieri» in cui si svolge la scena che suggella il dramma (IV, 2). Non è temerario affermare che questa poderosa costruzione, descritta nel libretto come «orrido carcere», sia il baricentro concettuale del Trovatore e il simbolo capace di illuminarne le articolazioni più segrete e delicate. Non solo. Forse non è neppure temerario accostare questa torre a quelle in cui si svolgono i drammi narrati da Calderón de la Barca in La vida es sueño e da Hugo von Hofmannsthal in Der Turm (La torre), che dell’opera di Calderón è una geniale variazione. Come è noto, nel capolavoro del drammaturgo spagnolo il principe Sigismondo è rinchiuso appena nato in una torre dal padre Basilio, al quale gli astri, da lui interrogati, avevano predetto che il figlio sarebbe divenuto un tiranno feroce e sanguinario. Per lunghi anni Sigismondo vive segregato in una torre in compagnia del nobiluomo Clotaldo, che ha il compito di proteggerlo e di insegnargli i rudimenti delle scienze. Un giorno Basilio decide di verificare se davvero immutabile è il destino che gli astri fissano agli uomini: somministra un narcotico al figlio e ordina che questi venga trasportato nella reggia. Al suo risveglio Sigismondo resta sbalordito dinanzi all’opulenza del palazzo reale, ma quando viene a conoscenza della sua storia l’indole selvaggia ha subito il sopravvento. Basilio decide allora di ricondurlo nella torre, dicendo al figlio che il breve tempo trascorso con lui non è stato altro che un sogno. Dopo essere stato di nuovo addormentato, Sigismondo si risveglia nel suo antico luogo di prigionia e si convince così di aver davvero sognato. Il fido Clotaldo gli spiega che ciò che gli uomini chiamano vita non è altro che un sogno, e che nel breve tempo che intercorre tra le identiche oscurità della nascita e della morte occorre vivere senza fare male ad alcuno, secondo giustizia e bontà. Nel frattempo Basilio abdica a favore del nipote Astolfo, ma ciò provoca una sommossa del popolo, il quale

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reclama quale legittimo sovrano Sigismondo. Dalla guerra intestina che ne segue esce vincitore Sigismondo. Una volta divenuto re, questi decide di non vendicarsi dei torti subiti, di perdonare il padre e di essere un sovrano illuminato. Per quanto sia stata richiamata solo nei suoi snodi principali, è possibile tuttavia scorgere in La vida es sueño alcune singolari analogie con il Trovatore, anche se del tutto opposta, come si vedrà meglio in seguito, è la conclusione a cui giunge Verdi. Intanto entrambi i racconti iniziano avvolti in un’aura di sortilegio. Sia Basilio sia il «prence» di Luna si dimostrano sensibili quant’altri mai al soprannaturale, al magico, a ciò che trascende la conoscenza razionale. Prestando fede, rispettivamente, all’oroscopo e alle dicerie che circolano sulle presunte arti oscure praticate dalla madre di Azucena – dicerie che di per se stesse sono sufficienti a qualificarla come «abbietta», «fosca vegliarda», «fattucchiera» dal «viso arcigno» e dall’occhio «torvo, sanguigno» (I, 1) –, essi giungono a condannare due innocenti, scatenando una serie di eventi che sfuggiranno presto al loro controllo. Ma la colpa di cui si macchiano Basilio e il «prence» è tanto più grave se si considera che essi sono nobili. L’etymon della parola nobilitas deriva dal verbo latino nòscere, ‘conoscere’, ‘apprendere’ attraverso, si badi, un retto uso della ragione, e quindi attraverso una grammatica mentale fatta di lungimiranza, di capacità di porre la giusta distanza tra le cose e gli uomini, di chiarezza, di equilibrio nelle scelte e di studio appassionato. È nobile, dunque, colui che molto conosce servendosi della sua intelligenza e che proprio in virtù di questo surplus di conoscenza è chiamato al comando, a reggere la polis. Da qui un secondo elemento in comune: tanto Basilio quanto il «prence» vivono un ‘dramma del potere’. Il primo, concedendo al figlio l’opportunità di dare contezza della sua vera indole – una opportunità, a dire il vero, destinata fin da su-

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bito a un sicuro insuccesso: come altrimenti si sarebbe dovuto comportare Sigismondo dopo essere vissuto per tanti anni «misero, triste e prigioniero» in una torre «che la luce giunge a stento a illuminare» (I, 4)? –, dimostra di non saper resistere nella propria decisione e di non sopportare il peso della colpa, giacché decidersi per una cosa significa nel contempo peccare nei confronti dell’altra. Basilio vuole avere la coscienza a posto, ma così commette uno dei peccati capitali della politica, vale a dire la ricerca della felicità, la quale consiste in una perfetta pacificazione degli elementi in lotta tra loro. Il «prence», a sua volta, dimostra di non essere mosso da nessun’altra causa che non sia la philautia, un egoistico amore per se stesso. Sul letto di morte il passaggio del potere al figlio avviene proprio sotto il segno di questo peccato originale, che il nuovo «prence» perpetua con un giuramento. A dire il vero vi è solo un istante in cui il Conte di Luna si rende conto della costitutiva difettività del suo potere, ed è quando, dopo aver impartito ai soldati l’ordine di decapitare Manrico e di ardere sul rogo Azucena al sorgere del sole, dice come rivolto a se stesso: «Abuso forse quel potere / che pieno in me trasmise il prence! / A tal mi traggi, / donna per me funesta!» (IV, 1). La consapevolezza per cui soltanto un abuso di potere, e quindi soltanto la tirannide, possa mascherare il vacuum di potere che ormai si è aperto è però subito soffocata dal violento apoftegma «A tal mi traggi, / donna per me funesta!», che segna, in modo definitivo, il trionfo di Alàstor. Ma questo trionfo coincide con la negazione del tragico: se la tragedia, infatti, è l’istante del massimo arrischio, quello in cui l’uomo, sospeso tra due mondi tra loro irriducibili, deve scegliere e, scegliendo, patire molti mali, tutto fuorché tragico è l’agire politico del Conte, perché questi si limita a confermare, dandogli una nuova e inaspettata linfa, il vecchio logos, quello del padre. Queste considerazioni sono portate alle loro estreme conse-

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guenze in Der Turm, che Hofmannsthal iniziò a scrivere nel 1925 e che pubblicò nella sua versione definitiva due anni dopo. Il dramma, pur seguendo nelle sue linee principali La vida es sueño, da questa tuttavia si discosta per una disincantata concezione del Politico, il quale, avendo perduto ogni legittimità, può essere ricomposto solo coercitivamente per mezzo di una dittatura. Nel testo di Hofmannsthal il re Basilius ordina che sia condotto a corte il figlio Sigismund, imprigionato dal giorno della nascita in una torre, perché, incapace di sedare una sommossa popolare nella quale scorge il compimento di una visione che aveva avuto tempo addietro interrogando gli astri, vuole capire una volta per tutte se Sigismud sia davvero colui che lo spodesterà o se sia invece l’uomo giusto capace, a dispetto delle stelle, di trarlo dalla distretta. Se il sovrano è, per definizione, chi decide nello stato d’eccezione, l’oscitanza di Basilius è quanto di più devastante ci possa essere, perché mostra come non esista ormai più alcun Potere capace di conservare l’Ordine. È lo stesso re a confessarlo: «Corriamo di qua e di là per rafforzare il nostro potere, ma è come se il terreno diventasse molle e le nostre gambe affondassero nel vuoto. Le mura vacillano dalle fondamenta, e la nostra strada è finita nell’Intransitabile» (I, 1). 3. Strade intransitabili Hofmannsthaliana, dunque, è Der Turm in cui sono rinchiusi Manrico e Azucena – ma anche il Conte, il cui destino si compirà in quella stessa torre insieme a quello degli altri due prigionieri. Ed è tale, questa torre, perché tra le sue inespugnabili mura si consuma una metamorfosi del tragico. A differenza di ciò che avviene nel dramma di Calderón, dove Sigismondo attraverso ta pathemata giunge a ta mathemata (ispirate a una superiore conoscenza acquistata attraverso la sofferenza sono le parole che suggellano il dramma: «[…] la

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fortuna non si vince con l’ingiustizia e la vendetta; così la si irrita di più. Se si vuol vincere la propria sorte, si devono usare saggezza e moderazione. […] Ho compreso che tutte le felicità umane si dissolvono come un sogno. Oggi voglio goderne per il tempo che dureranno, mentre chiedo perdono dei nostri errori: ed è proprio dei nobili cuori concedere il perdono»; III, 14), nel testo di Hofmannsthal e nel Trovatore non si compie alcuna catarsi, alcuna purificazione, perché gli eroi sono incapaci di suscitare pietà. Non si dà catarsi, infatti, né liberazione nel e dal tragico senza la pietà. Solo attraverso la pietà si attua una compensazione che è, scrive Karl Jaspers nel suo aureo saggio dedicato al tragico (Del tragico), «comunione tra gli uomini, raggiunta in virtù di una profonda lotta amorosa». E grazie a questa buona battaglia l’uomo «non sprofonda nel buio o nel caos, ma, per così dire, trova il solido terreno di una certezza metafisica che lo appaga». Nelle torri in cui si aggirano tremebondi Hofmannsthal e Verdi, invece, il pathos non è più preziosa occasione di ammaestramento; e se non insegna più, il pathos è irredimibile, è sofferenza bruta e fine a se stessa. Si avverte in questa nuova e sconvolgente concezione dell’esistenza umana l’alto magistero di Shakespeare, che consegna al lettore/spettatore l’immagine di un mondo alla deriva, dove il male è l’esistenza stessa e non c’è forza nella natura che agisca per il bene. Non è un caso che Giuseppe Verdi sia ricorso al Bardo per tre volte (per tacere il progetto, purtroppo mai realizzato, di mettere in musica Re Lear): Macbeth, Otello e Falstaff sono la spia di un totale idem sentire. A partire dal Trovatore il teatro verdiano si fa indagine viepiù acuminata e sconsolata di un mondo in cui non c’è catarsi e dove la sofferenza e la morte non dicono più nulla, un’indagine che troverà la sua compiuta formulazione nello scandaloso Confiteor pronunciato da Jago nell’Otello (II,1) e che può essere posto quale epigrafe a tutta l’opera di Verdi:

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«Credo in un Dio crudel che m’ha creato / Simile a sé e che nell’ira io nomo. / Dalla viltà d’un germe o / d’un atòmo / Vile son nato. / Son scellerato / Perché son uomo; / E sento il fango originario in me. / Sì! questa è la mia fe’! / Credo con fermo cuor, siccome crede / La vedovella al tempio, / Che il mal ch’io penso e che da me procede, / Per il mio destino adempio. / Credo che il giusto è un istrion beffardo, / E nel viso e nel cuor, / Che tutto è in lui bugiardo: / Lagrima, bacio, sguardo, / Sacrificio ed onor. / E credo l’uom gioco d’iniqua sorte / Dal germe della culla / Al verme dell’avel. / Vien dopo tanta irrision la Morte. / E poi? E poi? La Morte è il Nulla / E vecchia fola il Ciel».

4. «La via fra quelle mura» Il Trovatore procede, dunque, di naufragio in naufragio: il male finisce solo quando sono tutti morti. Eppure da questa desolata risacca su cui galleggiano i corpi martoriati dei naufraghi ecco affiorare qualcosa di inaudito che, anche se non risolve la partita, ne rimescola tuttavia le carte. Leonora nel Trovatore è la Novitas che lascia senza parole, perché è del tutto sciolta, è del tutto straniera rispetto alla logica che governa questo mondo. Ella è xenos come il Dio del vangelo, e in quanto xenos parla uno skleros logos, un durus sermo che il mondo non può comprendere e che per questo rifiuta. Duro, aspro, difficile da intendere il logos annunciato (euangellein) da Leonora, perché esso rivela un amore totalmente gratuito che si compie solo nel momento in cui è disprezzato e messo a morte. Ignoriamo se questo durus sermo offra una via tra le mura, altrimenti inviolabili, dell’«orrido carcere» in cui l’uomo è stato gettato. Di sicuro esso è una possibilità, come è una possibilità il comico che sovrabbonda nella partitura del Falstaff, l’estremo capolavoro di Verdi e summa della sua poetica. Il comico, scrive Massimo Cacciari (Hamletica), «è ciò che resta dopo

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che tragedia, commedia e il ridicolo delle innumerevoli forme del loro sopravvivere hanno raggiunto il fondo della propria potenza rappresentativa». Il comico è dichiarazione di assoluta impotenza, di totale resa dinanzi agli «orrendi fochi» di questi mondo, di assoluta sospensione di giudizio. Il comico ride di ogni tentativo di razionalizzare e di rappresentare e di narrare e di spiegare il male. L’uomo vorrebbe ricomporre l’infranto, dare giusta sepoltura ai morti, restituire il nome e il volto a coloro che dalla Storia sono stati travolti, ma non gli è concesso. E allora ride, e dalla bocca che si apre al riso forse può giungere una parola straniera capace ancora di far sussultare il cuore.

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Tra Busseto e Stratford-upon-Avon Verdi esegeta di Shakespeare

Anche il melodramma deve essere considerato come un textum, un prodotto che nasce dall’intreccio (tèxere) di più materiali. Così, per limitare il discorso alla cosiddetta ‘trilogia scespiriana’ di Giuseppe Verdi, è possibile considerare Macbeth, Otello e Falstaff come logoi, come ‘narrazioni’, ‘storie’, ‘racconti’ – questi sono alcuni dei significati della parola greca logos, dalla cangiante polisemia – da cui far emergere la filigrana concettuale e filosofica. Lo ‘specifico’ del melodramma non consiste solo nella peculiarità del linguaggio melodrammatico, ma anche nella contaminazione di linguaggi diversi. Tanto si è scritto sull’incontro tra il genio di Roncole di Busseto e quello di Stratford-upon-Avon, un incontro, forse, predestinato se solo si considera che entrambi sono tra i massimi drammaturghi di sempre che, come pochi altri, sono riusciti a calarsi nei precipizi dell’anima. Due frammenti tratti da altrettante missive scritte rispettivamente ad Antonio Somma, l’autore del libretto di Un ballo in maschera, e a Marie Escudier, l’editore francese, rendono bene l’idea di quale fosse la passione di Verdi per il Bardo: «Preferisco Shaspeare a tutti i drammatici, senza eccettuarne i Greci»; «C’è chi trova il soggetto di Macbeth sublime e chi non musicabile. E c’è chi trova che io conoscevo Shaspeare quando composi l’opera. Può darsi che io non abbia reso bene il Macbeth, ma che io non conosca, che io non capisca, che non senta Shaspeare, no, per Dio, no! È un poeta di mia predilezione, che ho avuto fra le

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mani dalla mia prima gioventù e che leggo e rileggo continuamente». Era dunque pressoché inevitabile per un uomo che «conosceva, sentiva, capiva» a tal punto Shakespeare farsene anche interprete. Verdi, però, legge Shakespeare non da filologo, ma da esegeta, e in questa veste non solo – con Macbeth e Otello – ne chiarifica il magistero, ma porta altresì a compimento – con Falstaff – ciò che nel teatro del Bardo era solamente abbozzato (ma l’influenza del «gran maestro del cuore umano», come Verdi chiamava il drammaturgo di Stratford, travalica Macbeth, Otello e Falstaff: non vi sono forse chiare suggestioni shakespeariane anche nella cosiddetta ‘trilogia popolare’, nell’Aida e nella Forza del destino?). Dunque, Verdi esegeta, non filologo, di Shakespeare. La parola esegeta deriva dal verbo greco exêgèomai che significa ‘essere guida di qualcuno’, ‘condurre qualcuno attraverso un luogo’, un luogo che può essere anche letterario, il quale presenta non di rado pericoli e insidie non certo inferiori a quelli che si trovano in natura. Si badi: ‘condurre attraverso un luogo’, non già ‘portare a destinazione’. In questo senso l’esegesi è un viaggio diuturno, è una infinita inquisitio, è un dialogo aperto, serrato, a volte persino un cruento corpo a corpo con il testo. L’esegeta non dirà mai ‘la cosa è’, ma sempre ‘la cosa potrebbe essere’. Grazie anche alla fondamentale mediazione dello scapigliato Boito – il quale «aggiustò le gambe» del Simon Boccanegra e consegnò alla storia del melodramma due dei libretti più raffinati di sempre, al netto di alcuni preziosismi lessicali –, Verdi si rivela un grande esegeta scespiriano perché la sua musica coglie e restituisce all’ascoltatore il thauma del teatro del grande Bardo, l’incanto, lo stupore, la meraviglia, ma anche il brivido, l’inquietudine e l’orrore che lo tramano. Macbeth e Otello sono due dei più potenti drammi dell’intero canone scespiriano. A questi, però, potremmo aggiungere anche Re Lear, pur sapendo che la versione in melodramma di questo capolavoro purtroppo non si è spinta oltre a una mera

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dichiarazione di intenti. Tre drammi che mettono in scena altrettante passioni: Macbeth, ossia la passione del potere, la quale rivela impudicamente il deficit ontologico del Politico, come, cioè, la civitas hominis non possa non trasformarsi in civitas diaboli; Otello, ossia la passione della lussuria; e infine Re Lear, ossia la passione dell’ira, che è libido dominandi. Impetuose, sfrenate, implacabili sono queste passioni; e lo sono al punto da sottoporre il tragico a una radicale metamorfosi. Nel teatro verdiano-scespiriano, infatti, saltano tutti i cardini della tragedia classica – drân, pathos, mathos, katharsis. Se Antigone poteva affermare «Kai femì drasai», «Dichiaro di aver fatto la mia scelta» (quella di dare sepoltura al cadavere del fratello Polinice), non così, invece, i personaggi di Shakespeare e di Verdi. Al drân, verbo massimamente tragico che sempre si sostanzia in un’azione e di conserva in un risultato, poco importa se dall’esito fausto o infausto, si sostituisce il to act, la mera recitazione che non conclude. Il drân diventa question, interrogazione inane, autistica sulla sua natura e sulla sua necessità. Ne deriva che questo teatro non è più capace di porsi quale exemplum allo spettatore, e di conseguenza nega qualsiasi certezza metafisica capace di preservarlo dalla caduta nell’assurdo. Codesta metamorfosi del tragico, iniziata a dire il vero con Il Trovatore, raggiunge in Verdi la sua compiuta formulazione nel Credo di Jago, che ha singolari analogie con il celeberrimo monologo di Macbeth (V, v): «Spegniti, spegniti breve candela! La vita non è che un’ombra che cammina, un povero attore che per un’ora sola vanità e affanni mostra sulla scena, e poi più nulla. È una storia narrata da un idiota, piena di rumori e furia che non significa niente». Eppure sono proprio gli idioti a dare un significato alla storia della vita: dalla spaventosa eclissi di Dio messa in scena dal teatro verdiano-scespiriano sopravvivono solo due figure, la donna straniera e l’uomo che ride.

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Straniere sono quelle donne che ancora custodiscono la memoria del Deus patibilis, del Dio che patisce la turpissima mors della croce. Ofelia nell’Amleto, Desdemona nell’Otello, Cordelia nel Re Lear, Leonora nel Trovatore annunciano (euangellein) un Novum che suona come uno sgradevole e barbaro idioma agli orecchi dei più, al punto che i più non solo lo disprezzano, ma anche lo respingono. Anzi: il loro rifiuto è così radicale che mettono addirittura a morte questi nuovi evangelisti. Esse sono figure dell’idiozia modellate sull’Idiota per antonomasia, il Santo di Nazareth, colui che parla un sermo straniero, durus, incomprensibile e intraducibile. Insieme alle donne straniere il solo personaggio che riesce a scampare dall’immane naufragio messo in scena dal teatro di Verdi e di Shakespeare è Sir John Falstaff, l’uomo che ride. Fino ad Otello la poetica di Verdi mostra una solida coerenza concettuale. Ma con Falstaff ecco accadere qualcosa di assolutamente imprevisto che sembra sconfessare un magistero rimasto inconcusso fino dai tempi del Trovatore. ‘Sembra’ sconfessare, perché ad un esame più attento Falstaff è la prova schiacciante, se mai ce ne fosse ancora bisogno, del genio drammaturgico di Verdi, il quale raccoglie l’intuizione scespiriana sul comico quale estrema metamorfosi del tragico, sottoponendola a un’ulteriore torsione che avrà il suo compimento nel teatro di Samuel Beckett. Si badi, però: il comico del Falstaff non ha nulla a che vedere con quello della commedia greca, il quale, esattamente come il planctus della tragedia, ammaestrava gli uomini, recando loro il mathos. Ancora una volta Verdi si dimostra un acuto esegeta scespiriano perché radicalizza ciò che il grande Bardo aveva anticipato nella figura del fool, il quale ride, sì, da folle della follia degli uomini, ma sa bene che il suo riso non ha più nulla da insegnare a nessuno. Per Massimo Cacciari il comico rivela l’incapacità del threnos ad esprimere l’infelicità: questa, ormai, può essere detta solo

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«nella sua similitudine più lontana: anzi, in ciò che nessuno modo potrebbe essere confuso con essa, in ciò che sembra addirittura negarlo». Il comico, insomma, ride di ogni tentativo esperito per rappresentare il mysterium iniquitatis. Se nel Re Lear accanto al buffone compare ancora l’eroe tragico che molto ha vissuto e patito, che leva il suo grido escruciante quasi gareggiando in violenza con la tempesta che squassa la brughiera, nel Falstaff resta solo il buffone, testimone attonito di come il grido non riesca più a rappresentare quella sconcia «burla» che è il mondo. Ma se il mondo è una burla, allora deve cambiare anche il linguaggio: il riso e il comico – che nella partitura verdiana assumo la forma ora dell’ironica autocitazione ora della gustosa parodia della tradizione melodrammatica – sono i soli mezzi per dire l’indicibile. Così al Confiteor disperato di Otello si sostituisce ora quello comico di Falstaff (e siamo al celebre fugato dell’atto terzo che suggella l’opera); si tratta, tuttavia, di una comicità che ha quale suo occulto suggeritore Qohélet, il grande poeta del disincanto, l’uomo che più di ogni altro ha compreso come tutto in questo mondo sia «hevel hevelim», sia, più che «vanitas vanitatum» come erroneamente traduce la Vulgata, ‘fumo di fumi’, ‘vapore di vapori’, ‘cenere di ceneri’: «Tutto nel mondo è burla. L’uom è nato burlone, la fede in cor gli ciurla, gli ciurla la ragione. Tutti gabbati!»

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Il mondo salvato dai giullari Till Eulenspiegel di R. Strauss

Accade a volte nel mondo dell’arte che alcuni capolavori nascano come rimedio al tedium vitae. Sui grandi tavoli della redazione del Corriere della Sera, nelle interminabili notti in cui era di turno, Dino Buzzati pensò Il deserto dei tartari; sulla scrivania di una banca dove era impiegato Giuseppe Pontiggia meditò il suo primo, folgorante romanzo, La morte in banca; Goffredo Parise, per «cacciare il freddo e la solitudine» scrisse Il prete bello. Tra i monumenti barocchi di Weimar, dove ricopriva l’incarico di Kapellmeister al Teatro Granducale tra incomprensioni, ostilità e umiliazioni, Richard Strauss concepì nel 1894 Till Eulenspiegel lustige Streiche (I tiri burloni di Till Eulenspiegel), un poema sinfonico, come si legge nel sottotitolo, «in forma di rondò» («in Rondeauform») sulla falsariga di un «alte Schelmenweise», di un ‘antico racconto’ che ha quale protagonista uno Schelm, termine polisemico che significa ‘canaglia’, ‘briccone’, ‘monello’, ‘buffone’, ma anche ‘boia’ e ‘carnefice’ (come si vedrà, quest’ultima accezione sarà profetica). Nei paesi di lingua tedesca le avventure di Till godono della stessa popolarità di quelle di Pinocchio o di Giamburrasca in Italia. A differenza di questi ultimi, però, Till è un personaggio storico (vissuto a Lubecca intorno alla prima metà del XIV secolo), che si impose all’attenzione per l’eccentricità dei costumi fino a diventare col tempo un vero e proprio archetipo popolare della scaltrezza e della furberia. Sulle mattane di questo spiritello impertinente fiorì una vulgata che conobbe

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una serie di redazioni pressoché ininterrotta fino a Richard Strauss: la moderna versione tedesca di Carl Simrock pubblicata nel 1878 fu la fonte da cui il Nostro trasse ispirazione per il suo poema sinfonico. Insieme alla mercuriale parola Schelm, il sottotitolo contiene un’altra traccia assai preziosa per cogliere il baricentro concettuale di questa sfavillante partitura, vale a dire l’indicazione «in Rondeauform». L’etimologia della parola rondò deriva dal verbo latino rotare, che significa ‘roteare’, ‘girare intorno’, ‘tracciare dei cerchi’. E circolare è la forma del rondò, caratterizzata dal periodico ritorno di un’idea principale lungo l’intero svolgimento della composizione. Il Till Eulenspiegel straussiano, infatti, ha una struttura perfettamente circolare: fedele alla rondeauform, troviamo un episodio fisso che apre, attraversa e chiude la partitura, vale a dire il riso, da sempre l’arma migliore per ridurre a nulla l’accigliata burbanza dei potenti (che sono, spesso, anche pre-potenti) di questa terra. «Ira facit versus»: l’antico e sempre nuovo adagio di Giovenale è il prius logico dei lustige Streiche di Till. Ma l’ira – purché non tramonti il sole su di essa – è un sentimento che soltanto i magnanimi possiedono: essa rampolla dallo sdegno dinanzi alle ferite inferte alla logica (e quindi alla morale) e dall’impossibilità di sopportare oltre l’arroganza e la stupidità, la tronfia sicumera di chi sa quale sia la legge che regola la natura delle cose e l’insopportabile spocchia dei parvenu (anche se – è «Orazio satiro» a parlare questa volta – «fortuna non mutat genus»). L’ira può assumere anche la forma della risata. E proprio con una saporosa, ironica, sorniona risata, affidata a un sereno passaggio degli archi, principia il racconto delle monellerie di Till, di cui lo stesso Strauss, anni dopo, offrì una dettagliata descrizione. «C’era una volta un burlone… di nome Till Eulenspiegel. Era un folletto dispettoso. Via, verso nuove avventure! Badate, gatte morte, ipocriti!» Dopo questo impareggia-

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bile identikit, cesellato dal corno e dal clarinetto, l’ascoltatore è subito rapito nel vortice delle bischerate di Till: una corsa a cavallo in mezzo alle donne che affollano il mercato, a cui segue una fuga precipitosa con gli stivali delle sette leghe per non buscarle di santa ragione; il ritorno nelle vesti prima da ecclesiastico (di cui imita l’affettazione e l’untuoso sussiego) e poi da cavaliere; la derisione dei filistei che Till ricambia con smorfie e boccacce. La storia, però, insegna che chi sfida il Potere, al quale i più si sottomettono perché convinti che sia impossibile contrastarlo, spesso ci rimette la pelle. È la fine riservata al nostro dispettoso coboldo: Till è catturato, tratto in giudizio, condannato a morte (la sentenza è affidata – poteva essere diversamente? – ai tromboni) e impiccato. A mano a mano che avanza con passo spavaldo verso il capestro, i suoni si fanno sempre più esili; poi è il silenzio. Sulla forca un grido strozzato e uno spasimo pongono fine alla carriera di questo irresistibile burlone, ricco di inganni e di furba innocenza. Ma Till è un personaggio delle fiabe: il suo mondo è quello dei libri illustrati per bambini e dei teatrini di marionette, e per questo egli torna in vita ogniqualvolta si rileggono le sue avventure (e ogniqualvolta qualcuno ha il coraggio di dire che il re è nudo). L’epilogo ripropone il placido cantabile dell’Introduzione. Come Petrouska, che dai tetti di Pietroburgo si fa beffe del Moro e del Ciarlatano, così Till Eulenspiegel: l’arte li ha trasfigurati rendendoli immortali. Vittima dello Schelm, del ‘boia’, il buon Till, ma Schelm egli stesso dei benpensanti, degli oratori pontificali che tengono rotonde allocuzioni mentre si preparano disastri, di coloro, insomma, che dicono (e si attestano a vicenda, in un perverso gioco di specchi e di echi) di saperla più lunga degli altri. Contro la pinguedine spirituale di questi filistei si staglia la magrezza di Till, in cui si incontrano la sovrana sprezzatura di Ariele, la bonomia di Papageno e la simpatia birichina di Puck.

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Verso la metà della partitura fiorisce un tema elegiaco di grande intensità: è il folletto dispettoso che, sazio di bricconate e di tiri mancini, riflette sulla propria fralezza e su quella massa di canaglie che è l’umanità. È anche questa capacità di guardare nella vita fino in fondo a rendere indimenticabile la figura di Till: questi è il compagno fedele che ci guida per mano quando i giorni sono funesti, quando impazzano i carnevali criminosi che svendono a prezzi stracciati i valori dell’onestà e della vita civile, quando i potenti non si danno più nessuna briga di dissimulare la loro proterva arroganza e che, nonostante tutto, continua a sperare. A differenza di tanti sedicenti giullari la cui risata è in tutto e per tutto identica a quella, tronfia e sicura di sé, dei potenti che pretendono di irridere, Till, se potesse, nemmeno riderebbe, perché se è ben triste l’epoca che ha bisogno di eroi, parimenti triste è quella che ha bisogno di buffoni. Il bisogno del fool, come quello dell’eroe, è triste perché presuppone situazioni in cui il cervello è andato all’ammasso e in cui le guardie si sono trasformate in ladri. Il buffone autentico indossa malvolentieri la maschera del pagliaccio, e anche quando vi è costretto dobbiamo immaginare il suo volto sempre percorso da un fremito di mestizia. Come gli eroi, anche i buffoni sono tra i pochi che prendono sul serio i valori della rettitudine, lanciando i loro lazzi prima di tutto contro i piedistalli di marmo su cui si vorrebbe collocarli per neutralizzare la ferula della loro risata. La trasfigurazione riservata da Strauss al suo beniamino annuncia, tuttavia, una beata speranza: con la misura con cui giudicate, o potenti di questo mondo, sarete giudicati

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Nel buio mistico dell’officina poetica L’epistolario di R. Strauss e H. von Hofmannsthal

«C’è […] gentaglia che anche volendo riesce appena a scalfire la prima pelle di un’opera, figuriamoci se può vedere nel buio mistico dell’officina poetica!» Così Richard Strauss, il massimo compositore tedesco vivente, scriveva a Hugo von Hofmannsthal, grande poeta ufficialmente consacrato, il 1° giugno del 1925. L’abnorme numero di lettere che i due artisti si scambiarono per oltre vent’anni (la prima è del 7 marzo 1906, l’ultima del 14 luglio 1929) non è altro che questo: un viaggio all’interno del «buio mistico dell’officina poetica» sostenuto dalla consapevolezza di trovarsi dinanzi a un passaggio capitale per le sorti artistiche dell’Europa, e di conserva il tentativo di capire quali nuove vie avrebbe intrapreso la storia delle forme e del linguaggio (l’Elektra per la musica e la Lettera di Lord Chandos per la letteratura a riguardo sono esemplari). Pur diversissimi quanto a carattere e a temperamento – Strauss, dominato da una implacabile bulimia creativa (ha appena ricevuto i versi promessi che già incalza lo scrittore a mandargliene di nuovi), ostenta una infallibilità di giudizio e una sicurezza di sé ai limiti della brutalità (basti la chiusa della lettera del 4 agosto 1917 a ridire tutto ciò: «Cordiali saluti dal Suo, invulnerabile nelle cose dell’arte, testardo, ma sempre devoto»); Hofmannstahl, invece, ha un indole ritrosa, una sensibilità acutissima (e non di rado ferita dall’esuberanza del suo deuteragonista), un rigore professionale assoluto e un inesau-

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sto bisogno di approvazione – il musicista e il poeta formano una vera e propria endiadi e finiscono per essere il paradigma delle due forme mentali che forse più di tutte hanno formato la cultura occidentale: l’ermetica e l’apollinea. Tutta l’opera di Strauss – e le sue lettere ne sono la riprova – si svolge sotto il segno di Ermes, il dio poikilométis (aggettivo stupendo e massimamente ambiguo, che significa – ammesso che se ne possa offrire una traduzione – ‘dalla mente variopinta’, ‘screziata’, ma anche ‘furbo’, ‘scaltro’, ‘oscuro’), il «melaínes nuktós etairos», l’amico della nera notte, come si legge nello pseudo-omerico Inno a Ermes. Sfuggente, cangiante, mercuriale appunto, è il ritratto che il compositore di Garmisch offre di se stesso. A differenza del suo sodale, che parla col cuore al cuore, Strauss è inafferrabile: sorride, ride, deride, ammicca; le sue simpatie vanno al genere leggero, alla commedia e all’operetta («Io ho un gran talento per l’operetta […]», scrive il 5 giugno 1916, «Sentimento e parodia sono i moti interiori ai quali il mio talento reagisce nel modo più vigoroso e produttivo»); ha uno spiccato gusto per la trasformazione e la metamorfosi («Un’impetuosa retorica basta a inebriarmi […]», appunta in calce alla lettera del 27 maggio 1911, «Movimento di forme: il giardino architettonico trova qui il suo proprio terreno»); manifesta una totale adesione alle cose della vita, persino nei loro aspetti scurrili e volgari. Ermes, però, è anche il dio della leggerezza, della versatilità, della grazia aerea, il dio che trasforma in lievi passi di danza anche i movimenti più goffi; è il dio che predilige le ombre calanti, i raggi occidui e soprattutto il piacere insinuante della melodia capace di thégein, di ‘incantare’, ‘allettare’, ‘affascinare’, ma anche – e ancora una volta per quel gusto tutto greco per l’ambiguità polisemica – di ‘sedurre’, di ‘ingannare’, di ‘accecare’.

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È Ermes, infatti, l’inventore della musica. «Per primo [protista] l’industrioso [tektematos] Ermes il musico canto trasse [dal guscio della tartaruga]», si legge nel già ricordato Inno. Secondo il mito, appena nato il dio trovò una tartaruga, la uccise, ne estrasse la polpa dal carapace e, dopo avervi applicato due bracci su cui stese sette corde, lo trasformò in una cetra. Il suono che ne ricavò e il canto che lo accompagnava erano così incantevoli da sedurre lo stesso Apollo che pure, appena nato, aveva ascritto tra i suoi privilegi la cetra e l’arco. Se ne deve dedurre, allora, che la musica sia superiore alla poesia? La domanda, implicita nel mito greco, sarà destinata a grandissima fortuna: essa attraverserà la storia del pensiero occidentale per arrivare fino a Strauss, che le dedicherà addirittura il suo ultimo capolavoro teatrale, Capriccio, di cui le lettere a Hofmannsthal sono i cartoni preparatori. Stando sempre al mito, però, non ci può essere Ermes senza Apollo. A parte le riflessioni sul processo di dissoluzione del linguaggio contenute in Ein Brief, sempre apollinea resterà la scrittura di Hofmannsthal: «Il mio verso» scrive il poeta il 25 maggio 1911, «non è propriamente scattante o rigoglioso; le qualità che possiede, e che difficilmente gli si possono contestare, risiedono altrove: è concettoso, pregnante, ritmicamente flessibile; non è mai fiacco, sdolcinato, approssimativo». Stile armonioso, sintassi perfetta, prosa levigata, dedizione al lavoro, fedeltà agli uomini e all’arte: questi i principi che Hofmannstahl non si stancò mai di perseguire. Eppure, come quella di Apollo, anche la luce della sua scrittura cela in sé la profondità della tenebra. Se serotine sono le ore predilette da Ermes, notturne sono invece quelle amate dal Signore di Delfi: nei primi versi dell’Iliade Apollo scende «come la notte» nel campo acheo uccidendo uomini e animali con «l’arco d’argento», arma che ha inquietanti analogie con la cetra. La tragedia, infatti, si addice ad Apollo; e tutta la luce che sfolgo-

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ra dal suo corpo non è capace di vincere la verità terribile che reca impressa sulla fronte come un sigillo: la vita degli uomini è una triste danza di foglie mosse dal vento, è una transeunte increspatura sulla superficie dell’acqua, è solo «skias onar», il «sogno di un’ombra», come canta nell’ottava ode pitica Pindaro, uno dei poeti più apollinei di sempre. E di Pindaro, Hofmannsthal condivide la nobilissima funzione della poesia: se su tutto sovrasta la morte, esiste pur sempre la poesia, che è prima di ogni altra cosa forza pacificatrice: essa vince tutto e tutto avvolge nella sua ipnosi; colma il cuore di ebbrezza e lascia stupefatti persino gli dèi («Che arte è questa?» di domanda Apollo dopo aver udito la voce di Ermes. «Cos’è questo canto che calma passioni irresistibili?»). La tragica morte di Hofmannsthal pare quasi la tremenda epifania della notte che Apollo porta con sé; forse il poeta stesso l’attendeva come il compimento di un fato. Ma qualunque cosa fosse accaduta, Hofmannsthal fu sempre persuaso che la sua arte gli sarebbe sopravvissuta. Nella lettera del 4 giugno 1924 scrive: «Io credo che [i nostri lavori], non tutti, ma quasi tutti, nell’inseparabile fusione di elementi poetici e musicali, vivranno ancora per molto tempo, donando gioia agli uomini di alcune generazioni». Ecco il segreto dell’«officina mistica»: la «fusione di elementi poetici e musicali», inseparabile, sì, ma nel contempo assolutamente irriducibile, come riconosce Hugo in un altro passo dell’epistolario: «I due mondi spirituali alla fine si incontreranno ironicamente, nel solo modo in cui possono incontrarsi: non comprendendosi». Ironicamente, giacché l’eironeia, la ‘dissimulazione’, la ‘finzione’, il gioco di specchi e di rifrazioni è la cifra della grande arte del compositore e del suo librettista. E proprio davanti a uno specchio si conclude, non a caso, Capriccio, l’opera che ricapitola tutte le opere, non solo grandioso e definitivo monumento eretto alla secolare contesa tra Wort e Ton, ma anche estre-

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mo tributo di amicizia a Hugo von Hofmannstahl: «Ein wenig ironisch Blickst du zarück?» si domanda Madelaine, «Nel tuo sguardo non c’è forse ironia?» Ma Blick è parola centrale nella poetica di Hofmannstahl: «Poco un istante – tante cose uno sguardo», dice Zerbinetta nell’Arianna a Nasso. E poi continua: «Sul teatro io faccio la civetta, ma chi può dire che recita il mio cuore? Sembro allegra, eppure sono triste; mi credo socievole e sono solitaria». «Ei blot til lyst», «Non solo per la gioia» recita il cartiglio apposto sul teatro dei burattini che si vede nella prima, indimenticabile sequenza di Fanny e Alexander di Ingmar Bergman. Dunque anche il dolore, le misere vanità, gli affanni, le ingiustizie trovano accoglienza nel teatro. Almeno nel circoscritto perimetro del palcoscenico l’uomo è il demiurgo e tutto può compiere grazie alla forza dell’immaginazione; almeno sul palcoscenico l’artista può creare una realtà migliore e più nobile della vita. E lo fa in punta di piedi, con il passo leggero coi cui Ermes, nelle ultime pagine dell’Iliade, scende dall’Olimpo per accompagnare Priamo alla tenda di Achille; e come Priamo, sazio di lutti e di dolori, era anche il pubblico che andava ad assistere La donna senz’ombra, Arabella e Capriccio. L’epistolario Strauss-Hofmannsthal, dunque, oltre a essere un documento (pressoché unico nel suo genere) su uno dei più importanti sodalizi del ‘900, è altresì una testimonianza altissima sulla funzione dell’arte, che Hofmannsthal – e con lui Strauss – ravvisa nel Mitleid, nella pietà per i propri simili, come egli stesso scrive in una poesia che, sia pure di poco precedente l’inizio del carteggio con il compositore, potrebbe a buon diritto essere apposta quale epigrafe all’epistolario: «E questa forse è l’unica cosa che ci resta / quando il pensiero mente già prima di essere pensato: / che presso un cuore tremante ci sia un altro in ascolto / e con leggera stretta una mano si posi sulla mano».

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«Funere mersit acerbo» Metamorphosen di R. Strauss

Una possibile chiave di lettura per approssimarsi al mondo doloroso delle Metamorphosen di Richard Strauss è offerta dal sottotitolo: Studie für 23 Solostreicher (Studio per 23 archi solisti). Dunque, a ciascuno dei 23 strumenti (precisamente: dieci violini, cinque viole, cinque violoncelli e tre contrabbassi) il Compositore impone un trattamento solistico. È sufficiente gettare un’occhiata, anche solo distrattamente, alla biografia di Strauss per accorgersi della assoluta novità che questa partitura assume all’interno del suo catalogo. Nato nel 1864 a Monaco – città capitale della Baviera divenuta sotto il regno di Ludwig II uno scrigno di tesori d’arte e una fucina di intelletti – Strauss nell’arco della sua lunga vita fu Kapellmeister (proprio come Bach secoli addietro) al Teatro Granducale di Weimar, conobbe di persona Brahms, ebbe contatti con Liszt, fu legato da tumultuosa amicizia con von Bülow, celebre pianista e ispirato interprete di tante opere wagneriane. Le sue radici, pertanto, affondano tutte nella grande tradizione musicale tedesca di cui egli si sentì, se non proprio l’epigono (la ricerca di una precisa identità musicale fu una sua preoccupazione costante), almeno l’austero custode. E quando si parla di tradizione musicale tedesca, però, si parla di tradizione musicale tedesca si parla di composizioni tutte accomunate da una medesima ossessione, quella della compattezza.

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Questa ossessione, a cui Strauss fu sempre fedele, riceve, però, una paurosa spallata con le Metamorphosen. E non importa il fatto che le partiture successive (il Duett-Concertino per clarinetto e fagotto, Capriccio e i Vier letzte Lieder) siano tutte percorse da soffuse, cerulee e malinconiche luminosità mozartiane: di fatto una crepa si era prodotta sullo smalto brillante della musica straussiana. Le Metamorphosen ebbero una gestazione piuttosto lunga. Il loro nucleo originale risale all’ottobre del 1943, quando Monaco fu distrutta dai bombardamenti alleati. Sconvolto da quella catastrofe che lo toccava da vicino, Strauss abbozzò un tema, accompagnato dall’appunto «Trauer un München» («Lutto per Monaco»), che divenne poi uno dei temi principali. La partitura, però, fu ultimata solo nell’aprile del 1945, dopo il terribile bombardamento di Dresda, città straussiana d’elezione (all’Operhaus della ‘Firenze del nord’ Strauss consegnò tante sue primizie, da Feuersnot a Elektra, dalla Salome al Rosenkavalier, da Arabella a Die schweigsame Frau). Ma Monaco e Dresda non erano solo inclite città della Germania: erano la Germania, erano quanto di meglio questo grandissimo Paese avesse donato all’umanità nella musica, nell’arte, nella scienza. Le loro macerie, allora, erano quelle di un mondo o meglio di un principio spirituale che Strauss vide dapprima violentato dalla Grande guerra e poi colpito a morte dal secondo conflitto mondiale. Le Metamorphosen riproducono questo mondo in frantumi. Solostreicher: i ventitre archi sono atomi che, dissociandosi e allontanandosi l’uno dall’altro, distruggono l’antica morphé della tradizione musicale tedesca. È illuminante che Strauss abbia intitolato la sua partitura metamorfosi e non variazioni. La variazione, infatti, risponde pur sempre a uno schema, a una geometria, e anche se la ricompone in modo irriconoscibile, restituisce sempre alla musica una spietata, feroce, geome-

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trica, appunto, politezza di forma. Non così la metamorfosi, dove è spezzata qualsiasi dialettica tra l’alius e l’aliud: quale nesso logico, infatti, vi potrebbe mai essere tra le macerie di Monaco e Dresda e la nobiltà dello spirito di cui esse erano simbolo, che proprio quelle macerie avrebbe dovuto impedire? A questa prima, sommaria lettura se ne può affiancare, tuttavia, un’altra, che parte da un’analisi più approfondita del concetto stesso di metamorfosi. Lungi dal creare la coppia oppositiva identità-alterità, la metamorfosi è l’ultimo stadio della realizzazione della propria identità. Le grandi metamorfosi del mondo classico e, per venire a tempi più vicini a quelli di Strauss, la Verwandlung di Gregor Samsa (la più celebre trans-formazione di tutto il ‘900), poggiano proprio su questo assunto: non si diviene compiutamente ciò che si è se non attraverso la propria mutazione. Orbene: se è vero che alla base delle Metamorphosen vi è la Trauer per la distruzione di Monaco e Dresda, e se è vero che la metamorfosi produce, sì, un mutamento della physeis, ma lascia persistere, in ciò che si è metamorfosato, la sua essenza (anzi, semmai addirittura la esalta, portandola a perfetto compimento), allora si deve concludere che le macerie delle due auguste città siano soltanto la specie sensibile di un disastro morale consumatosi prima dei bombardamenti. In altri termini, esse sono divenute ciò che già erano da tempo: una landa desolata messa a ferro e a fuoco da bande di feroci assassini. A questa lettura se ne può affiancare, infine, una terza che la innerva. Metamorphosen è un lavoro denso di reminescenze: vi si trovano riferimenti a Goethe (pare che il titolo dell’opera fosse mutuato dalla parola che più ricorre nella produzione poetica del grande artista di Weimar, di cui Strauss rilesse l’opera omnia poetica durante la guerra), echi di Bach (precisamente il Corale 105 Durch Adams Fall ist ganz verderbt), pre-

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stiti da Wagner, atmosfere di Mahler, suggestioni da Bruckner e soprattutto la citazione, affidata ai contrabbassi, del tema beethoveniano della Marcia funebre dalla Eroica. Ne risulta un ‘canto antico’, a tratti austero, un threnos venerabile e solenne, che dice la totale irrecuperabilità del passato. Così la dicitura In memoriam posta in epigrafe alla partitura, non è solo un tributo ai morti della Germania, ma anche la lastra sepolcrale posta sopra un mondo, una civiltà, un modo di intendere e di affrontare il torbido dell’esistenza.

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Il tempo e le maschere. Der Rosenkavalier di R. Strauss

Capolavoro assoluto tanto per la squisita fattura letteraria del libretto (di Hugo von Hoffmansthal), quanto per la perfezione di una partitura che riesce a disegnare la fisicità di tutti i personaggi cogliendone, grazie a un vorticoso cromatismo sonoro, i sogni e i disincanti, i gretti appetiti e la tenerezza più sofferta, lo scatenarsi folgorante della passione e la malinconia più inconsolabile, Der Rosenkavalier è un autentico monumento della cultura del Novecento, un passaggio obbligato, un riferimento ineludibile, una cassa armonica tracimante di suggestioni intellettuali, sentimentali e filosofiche. Forse nessun’altra opera è riuscita a cogliere con tanta intensità la cifra di un intero continente (l’Europa) e in particolare di una parte di esso (la Kakania, come la chiama Musil), in quella incandescente temperie storica che fu il primo decennio del cosiddetto Secolo breve. Icona viennese per eccellenza, Il cavaliere della rosa narra l’incanto, la frivola levità, la grandezza, ma soprattutto l’incipiente disfacimento non solo di quella città, ma anche dell’immane corpo di cui essa era capitale e che l’aquila bicipite custodiva sotto le sue ali. Una battuta, pronunciata dalla Marescialla – il personaggio che senz’altro più di tutti s’imprime nella memoria e simbolo stesso della viennesità – metabolizza come meglio non si potrebbe questo amalgama di valori e di contraddizioni: «È una mascherata viennese e nient’altro». La farandola di maschere dai colori accesi e sfrenati che realizzano tra loro

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una misteriosa alleanza evoca benissimo il magma colloidale di culture, fedi, lingue, dialetti, gruppi, etnie che fu l’impero absburgico. Eppure i cortei carnascialeschi hanno in sé qualcosa di inquietante: coprendo il volto e celando lo sguardo – e quindi celando le aritmie del cuore e le paure senza nome che proprio nel volto e nello sguardo si riflettono – le maschere sono in realtà la secrezione calcificatasi sul viso, e quindi una sorta di suo osceno calco, dell’angoscia di morte. Il pensiero corre immediatamente all’allucinato quadro di James Ensor intitolato, appunto, Le maschere e la morte, dove tutte le maschere sembrano convergere e precipitare dentro le nere cavità orbitarie del teschio raffigurato al centro del quadro. Ma alle risonanze pittoriche subito si accavallano quelle letterarie. Nella Marcia di Radetzky di Joseph Roth, forse il più grande cantore della finis Austriae, v’è un brano che ci piace pensare sia stato scritto per il pubblico che la sera del 26 gennaio 1911 affollava i palchi del Konigliches Opernhaus di Dresda alla prima rappresentazione del Rosenkavalier: «La morte si librava su di loro, e loro non ci erano affatto avvezzi. Erano nati in epoca di pace […]. In quel tempo ancora non sapevano che ciascuno di loro, senza eccezione, di lì a un paio di anni avrebbe dovuto incontrarsi con la morte. In quel tempo nessuno di loro era di udito così fine da percepire il roteare dei grandi mulini nascosti che già cominciavano a macinare la grande guerra». La Grande guerra e anche quella sua sanguinosa e catastrofica appendice, come gli storici ormai concordano, che fu il secondo conflitto mondiale. E viene un brivido pensare che il sublime florilegio musicale che in quel giorno di gennaio del 1911 incantò i cittadini di Dresda sarebbe stato lacerato, poco più di trent’anni dopo, dalle sirene di allarme e dalla furia dei bombardamenti alleati che ridussero la città in macerie. Però, anche se volteggia incrociando sopra tutti i personaggi «le sue ossute braccia» (la citazione è ancora da Roth), la mor-

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te nel Cavaliere della rosa non solo è rintuzzata dalla irresistibile frenesia di corpi che si cercano, si desiderano, si scontrano, che accostano con gratitudine le labbra alla spumeggiante coppa della vita, godendo di tutto ciò che di buono può offrire, sia esso un motivo musicale fischiettato a fior di labbra, o una scappatella con una servetta, o una tazza di cioccolato o di Tokai, ma a volte è addirittura soverchiata da quello che è il midollo di tanta esuberanza fisica, da quel primum movens che è l’amore. L’amore irrompe nella emorragia cronologica degli istanti legati allo spazio, si avventa sul tempo pesante, quello degli orologi che certe notti la Marescialla arresta per non udirne il ticchettio, e lo trasforma nel tempo leggero dell’interiorità, nell’agostiniano attimo sempre nuovo dove, tra la memoria del passato e l’attesa del futuro, sfolgora, come una perla fra le valve di una conchiglia, l’eternità. Octavian, il cavaliere della rosa del titolo, e Sophie, promessa sposa del rozzo, faunesco e tracotante barone Ochs von Lerchenau, fanno esperienza di questo tempo lieve, di questo tempo che è tenerezza, desiderio, nostalgia, che è soprattutto separarsi per destinarsi all’altro da sé, all’amore più grande che solo può trionfare sulla fragilità del divenire e quindi sulla morte stessa, nel momento in cui si incontrano per la prima volta nel salone di palazzo Faninal. Il duetto che ne segue («Mir ist die Ehre widerfahren») è, dal punto di vista letterario e musicale, uno dei vertici dell’opera. L’orchestra accompagna l’ingresso di Octavian, vestito di bianco e di argento con la rosa in mano, riproponendo il Leitmotiv che gli è proprio, solo che questo ha perduto l’irruenza che possedeva nell’ouverture, dove il soffio dei corni evocava la sensualità avida, capricciosa, ma anche trapunta di nera malinconia e, in fondo in fondo, ancora acerba, dell’adolescente, per ammantarsi di un lirismo etereo, di una malinconia diafa-

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na e flessuosa che esprime il contatto dell’anima con la verità del cuore, al di là di ogni ragione. «Dove vissi già un tempo – sussurrano i due giovani – e fui tanto felice?». «Laggiù devo tornare – aggiunge Sophie – laggiù, dovessi morire per via. Invece no, non muoio. Questo è già tutto. Eternità e tempo in un attimo beato che fino alla morte non voglio scordare». Come i luoghi, anche i volti possono accendere anamnesi platoniche dell’anima, la quale ritrova in essi la propria patria, il proprio auto-ritratto. Cosa hanno veduto, Octavian e Sophie, uno nello sguardo dell’altra? La grazia aurorale della creazione, l’incanto dell’amore che «move il sole e le altre stelle», la medesima provenienza («Il presente di ciò che è passato» direbbe Agostino) e il medesimo avvenire («Il presente di ciò che è futuro»): in una parola, l’epifania, folle e quieta, dell’eternità. Ed ‘eternità’ («Ewigkeist») è parola che non solo ritorna nei successivi duetti di Octavian e Sophie, ma anche suggella il Rosenkavalier. Tuttavia, proprio quando questa parola, che ancora accarezza l’orecchio dell’ascoltatore regalandogli un ruscellamento di emozioni senza sosta, sembra avvolgere l’intera opera in un’aura meta-fisica, ecco che Strauss-Hoffmansthall virano, con piglio deciso, il timone e la riportano nella contrade della physis, nel quotidiano flusso delle cose. Prima di uscire abbracciata al suo Octavian, a Sophie cade, senza che ella se ne accorga, il fazzoletto. La scena resta vuota per qualche istante, poi da una porticina entra il paggetto della Marescialla che, a lume di candela, si mette a cercare l’oggetto perduto. Trovatolo, lo raccoglie ed esce saltellando. In quel fazzoletto, caduto sul polveroso pavimento della locanda dove si svolge l’intero terzo atto, è ricapitolato il significato spirituale e sentimentale del Cavaliere della rosa: la consapevolezza, cioè, che nel mondo la prosa e la poesia sono intrecciate tra loro in un garbuglio che sarebbe vano districare, che il tem-

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po, come la risacca del mare, non solo corrode e trascina via, ma porta anche cose nuove, che la vera felicità è custodita in eventi apparentemente piccoli come uno sguardo o un sorriso che ne dicono anche tutta l’insostenibile fugacità (tanto che quando vengono a mancare è sempre una morte); la consapevolezza, infine, che l’amore è, sì, l’essenza del vivere, un «sogno stupendo», come canta Octavian, che conduce fuori del tempo e dello spazio, ma pur sempre un sogno, destinato inevitabilmente a dissolversi. I due innamorati escono di scena di corsa, mano nella mano, immersi «nell’abbagliante splendore del loro primo amore», direbbe Prévert; tuttavia, chi ci assicura che il loro amore non sarà intaccato dalla ruggine del tempo, dalla noia, dall’abitudine, dalla polvere di giorni sempre uguali? È un rischio tutt’altro che remoto, se si tiene conto che questo amore, come si capisce nello stupefacente terzetto Octavian-Sophie-Marescialla («Marie Theres’! – Hab mirs gelobt») al termine del Terzo atto – una delle pagine più alte del Novecento e (forse) ideale summa di tutte le opere liriche – nasce già recando in sé una piccola ombra che, anche se latente e sopita, può risvegliarsi e dilatarsi fino a soffocare tutto. Il quadro è il seguente. Octavian, Sophie e la Marescialla sono uno di fronte agli altri, vicini eppure lontanissimi, perduti in un soliloquio che ne smaschera le più intime ambiguità. Octavian, ancora diviso tra l’amore per Sophie e il rispetto dovuto alla sua amante, capisce che a quest’ultima sta per fare una grave ingiustizia, proprio lui che le aveva promesso fedeltà eterna («Qualcosa è tra noi accaduto. A lei vorrei chiedere: può essere? Ed è questa domanda che mi è proibita, io lo sento. A lei vorrei chiedere: perché mi agita un brivido? […] E proprio a lei non mi è lecito fare la domanda»); Sophie è incerta se ringraziare o vendicarsi della Marescialla, perché ha ben capito che, se Octavian sceglierà lei, sarà soltanto perché la rivale glielo avrà permesso («Davanti a quella donna vorrei porgermi in ginoc-

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chio e vorrei anche vendicarmi di lei, perché sento che è lei che me lo dona ma di lui a me toglie qualcosa. No, non so che mi accade. Vorrei capire tutto e anche vorrei non capire. Una domanda vorrei fare e nessuna domanda, di fuoco sono e di ghiaccio»); infine la Marescialla, che pur dicendosi disposta a accettare qualsiasi sacrificio per amore di Octavian, ora non si capacita di averlo perduto così presto («Così avevo giurato, di amarlo nel modo giusto, sì che avrei amato anche l’amore suo per un’altra. Ma certo non potevo pensare che tanto presto sarei stata costretta»). Dunque ancora una volta è la donna a sbloccare la situazione e ancora una volta è l’uomo a fare la brutta figura (il morso dato da Adamo alla mela farà sentire sempre il suo sapore di fiele) e a mostrare quell’impasto di viltà, di finta innocenza, di timore e di melenso imbarazzo di cui è fatto. In questo rutilante gioco di spechi riflettenti e di misteriose corrispondenze, è la Marescialla a uscire vincitrice perché è la sola a comprendere l’intima natura del tempo, al cui gelido alito offre nonostante tutto il volto con malinconica e insieme imperiosa magnanimità. Anche se vede emergere dalla propria oscurità fantasmi paurosi, ella rimane fedele a se stessa e anziché fuggire rialza la testa e mostra gli artigli. Creatura intrisa di nostalgia, afflitta dal desiderio immedicabile di ritornare alle isole beate della giovinezza per sedersi di nuovo al tavolo della vita e lì tentare un altro, più fortunato giro di carte, la Marescialla capisce che l’unico modo di vincere il potere del tempo consiste semplicemente nell’andare a tempo con esso, come ella riconosce nello stupendo dialogo con Octavian nel primo atto, così carico di rimembranze bibliche (pare infatti una trascrizione della celebre ballata dei tempi di Qohélet): «Oggi, domani o l’altro ancora. Non voglio tormentarti, tesoro. Dico quello che è vero, lo dico a me come a te… […] Semplice deve essere ognuno con cuore semplice e semplice mano a tenere e prendere, a tenere e cedere… Chi non è tale, la vita lo punisce».

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È proprio grazie a questa superiore conoscenza che la Marescialla decide di farsi da parte e di ‘donare’ (la dice lunga l’uso da parte di Sophie di questo verbo) Octavian alla giovinetta. V’è un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci, ammonisce l’Ecclesiaste, e per la Marescialla è giunto proprio questo tempo, il tempo della separazione, della perdita, dell’addio. E subito muta la struttura di questo triangolo amoroso: dalla base, dove si trovava insieme a Sophie, suo doppio, la Marescialla passa al vertice, cedendo il posto a Octavian. Ma tutto il Rosenkavalier è punteggiato da un sofisticatissimo lusus geometrico: alla coppia Sophie-Marescialla fa da contrappunto la coppia Octavian-Ochs, dove l’intemperanza e l’ardore dell’adolescente e la smodata foia priapesca dello stagionato ganimede sono solo maschere che i due indossano alternativamente. Figura duplice per eccellenza è Octavian, che ora vediamo in abiti maschili ora nelle vesti della servetta Mariandel. E in queste vesti innesca a sua volta un altro triangolo insieme alla Marescialla e Ochs, a loro volta impegnati in funambolismi con Sophie e Octavian Insomma c’è di che perderci la testa. Eppure alla fine tutto torna, con esattezza millimetrica, grazie a quel formidabile agglutinante che è la musica di Richard Strauss, capace di cogliere ogni colore della vita. Terminato l’ascolto del Rosenkavalier si ha l’impressione che delle sue mirabili schermaglie intellettuali e sentimentali resti soltanto la musica, che raccoglie tutto, contiene tutto e ordina tutto. «Forse il più intimo desiderio della musica – scrive Thomas Mann nel Doctor Faustus – è di non essere udita e nemmeno veduta e neanche intuita, ma, se fosse possibile, intesa e contemplata in un al di là dei sensi e persino dell’anima, in una purità spirituale». Difficile trovare un commento più appropriato per Il cavaliere della rosa.

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Contro la tirannia del pensiero unitario Capriccio di R. Strauss

1. Docere, delectare, movere Secondo la retorica classica tre sono gli obiettivi che una oratio degna di questo nome deve conseguire. Prima di tutto essa deve docere, rendere edotto l’ascoltatore del tema assunto a oggetto della discussione; poi deve delectare il medesimo, procurandogli occasione di piacere e non di tedio, al fine di movere – ecco il terzo e ultimo obiettivo – il suo animo, di persuaderlo circa la bontà della tesi sostenuta. Questi «tria oratoris officia» si ritrovano, perfettamente assecondati, in Capriccio, l’estremo opus teatrale che Richard Strauss rappresentò al Nationaltheater di Berlino nell’ottobre del 1942. Non sorprenda l’accostamento della retorica, dell’arte di parlare (e dello scrivere) in modo ornato e efficace, a un’opera lirica, perché Capriccio è l’ipostasi dell’opera lirica, è l’opera che ricapitola tutte le altre. Prima la parola o prima la musica? Questa è la domanda che incombe e sempre incomberà sull’opera lirica. A essa non poteva certo sottrarsi Richard Strauss, autore di alcuni dei lavori teatrali più alti di sempre. Questi, infatti, si getta nella vexata quaestio con un ardore che non ci si attenderebbe in un uomo di quasi ottant’anni e la risolve, profondendo come non mai la sua indole ironica e mercuriale, fin dal sottotitolo che recita: Ein Konversationstük für Musik, ‘una conversazione per musica’, dicitura che in appena quattro parole compendia, come

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meglio si vedrà in seguito, lo stigma della civiltà europea, il suo essere grumo ‘arcimboldesco’ di phília e di xenía, apertura all’altro fino alla possibile catastrofe, cammino dell’hospes insieme all’hostis che mai si arresterà e mai si ridurrà allo stesso. 2. In un castello rococò nei pressi di Parigi La trama, in un cenno. In un castello rococò nei pressi di Parigi, «al tempo in cui Gluck iniziò la sua riforma dell’opera. 1775 circa», seduti sulle soffici bergères ora della biblioteca ora della sala da musica, avvolti dalle aromatiche fragranze che provengono dalla vicina Orangérie (che non poteva mancare, ovviamente, in un’opera che ha l’ambizione di ricapitolare la specie sensibile dell’occidente; tanto che, mescolati agli odorosi effluvi, par quasi di udire il suono di antichi versi: «Kennst du das Land wo die Zitronen blühn?»), alcuni personaggi discutono del primato delle parole sulla musica e viceversa. È il compleanno della padrona di casa, la contessa Madeleine, giovane e attraente vedova, di cui due artisti, il poeta Olivier e il musicista Flamand, si contendono i favori. All’apertura del sipario la nobildonna, un poco distante dal proscenio, sta assistendo all’esecuzione di un sestetto per archi composto da Flamand e a lei dedicato. Avvolto dalla morbidezza cerulea di quei suoni, La Roche – il sanguigno direttore teatrale su cui Strauss ha riversato una tale ricchezza di verve caricaturale da farne uno dei personaggi più riusciti del proprio teatro – si addormenta. Mentre la Contessa ascolta, rapita, il sestetto, Olivier e Flamand danno inizio alla querelle che continuerà, irrisolta, per tutta l’opera: Wort oder Ton? Alla discussione, una volta terminata la musica, si uniscono anche La Roche e il Conte, fratello di Madeleine e innamorato della fascinosa attrice Clairon (con la quale sta provando la pièce scritta da Olivier per il compleanno della sorella), il quale ritiene che la parola sia senza meno superiore alla musica. La

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Contessa entra proprio quando il Conte legge il sonetto che suggella il lavoro teatrale e che è una manifesta dichiarazione d’amore per lei da parte del suo autore. Dopo averlo ascoltato, Flamad si ritira per trasporlo in musica e poco dopo lo esegue, scatenando la viva irritazione del rivale, che però è trascinato via da La Roche per discutere con lui i dettagli di uno spettacolo. Approfittando del momento, anche Flamand si dichiara alla Contessa, che gli dà appuntamento per l’indomani, alle ore undici, nella biblioteca del castello: lì ella deciderà per la poesia o per la musica, ovvero per l’uno o per l’altro. Dopo la prova tutti si riunisco di bel nuovo e di bel nuovo riprende, ancora più accanita, la discussione. A questo punto al Contessa, per smorzare i toni, propone di collaborare tutti insieme per la realizzazione di un’opera, il cui argomento, scelto dal Conte, consisterà proprio negli eventi del giorno appena trascorso. Ormai è sera. La luna splende nel cielo e nel castello la servitù accende le candele. Gli ospiti sono partiti alla volta di Parigi. Il maggiordomo informa la Contessa che Olivier si presenterà l’indomani, alle ore undici, in biblioteca (dunque nello stesso giorno, ora e luogo di Olivier) per conoscere l’esito dell’opera progettata (ovvero, fuor di metafora, per sapere se la nobildonna sceglierà lui o il rivale). Rimasta sola, la Contessa medita sui due pretendenti, ma si rende conto che la scelta è impossibile: parola e musica sono per lei irradiazioni di un’unica, inscindibile bellezza. 3. Monumentum-memento Orbene, su questa esile trama (Capriccio deve essere rubricato al genere Kammertheater, dove più che l’azione rileva il conflitto dialogico tra i personaggi) Strauss realizza un sontuoso arazzo, un’opera-mondo, un autentico monumento a quan-

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to di bello e di vero – il platonico «il bello è lo splendore del vero» percorre in filigrana l’intera partitura – ha prodotto la civiltà occidentale. Ma il monumento, come rivela la sua radice etimologica, rimanda a qualcosa che non esiste più, ma di cui si deve conservare il ricordo (monumentum-memento). Ma il rammemorare il tempo felice, scrive Ernst Jünger nel folgorante incipit di Sulle scogliere di marmo, provoca una «selvaggia tristezza»: «Oh, fosse questa tristezza almeno d’insegnamento per ogni nuovo attimo di felicità!» L’opus magnum di Strauss è, pertanto, anche un planctus, sia pure trattenuto entro una raffinatissima tessitura musicale, su una civiltà ormai tramontata. Che Capriccio non fosse un’opera per tutti i palati era consapevole il suo stesso Autore. Nella lettera indirizzata il 23 marzo 1939 a Joseph Gregor (che in un primo tempo affiancò Strauss nella redazione del libretto e che fu poi sostituito da Clemens Krauss), egli scrive: «Capriccio non è un lavoro per il pubblico, o per lo meno per il pubblico di milleottocento persone per sera. È forse una ghiottoneria per buongustai della cultura». E infatti con le sue dottissime discussioni, con le sue ricercate citazioni (si passa da Gluck a Lully, da Rameau a Piccinni, da Corneille a Goldoni, da Pascal a Metastasio), con la sua carambola di stili (dalla teatralità buffa dei due cantanti italiani al lessico aulico), con la sua ridda di sentenze gnomiche e di precetti estetico-filosofici, con il suo enciclopedismo musicale, Capriccio è davvero un’opera per gourmet della cultura. Ma sia detto senza albagia, senza vezzo snobistico: Capriccio è per pochi semplicemente perché pochi sono coloro che di notte, per citare l’omonimo racconto di Kafka, si preoccupano di tenere acceso un legno in mezzo all’accampamento. A queste scolte notturne Strauss indirizza la sua ultima orazione per docere, delectare e movere in un tempo in cui la più cupa delle notti trionfava su tutta l’Europa.

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4. Specchi L’accusa che sovente si muove al compositore di Garmisch è quella di essere stato una sorta di Nerone che, mentre Roma bruciava, traeva diletto a comporre versi sulle corde dell’arpa (e proprio accompagnata dall’arpa la Contessa, nell’ultima scena di Capriccio – una delle pagine musicali più alte del ‘900 – canta il sonetto composto da Olivier e messo in musica da Flamand). Come è stato possibile – si è chiesta parte della critica – comporre un’opera dalle tinte così soavemente madreperlacee quando l’Europa era messa a ferro e fuoco dalla barbarie nazista? Mentre altri musicisti (Anton Webern, solo per fare un nome) scrivevano partiture in cui vibrava con accenti straziati il lutto della ragione che cresceva nella sensibilità europea e che toccava in particolare il cuore della musica, Strauss invece si ritirava nel tepore dell’Orangérie, in un cantuccio di sogno dove anche nel più gelido inverno era possibile gustare i frutti solari del Mediterraneo: più o meno così suonano i rimbrotti dei suoi censori. Queste critiche, pur non difettando di solidi argomenti a loro suffragio, potrebbero essere tuttavia ridimensionate se solo si considerasse che Strauss era un musicista e che inevitabilmente agiva juxta propria principia. Forse si poteva pretendere da lui un po’ più di coraggio o una presa di distanza meno ambigua dal regime hitleriano, ma è certo che Capriccio, se solo lo si osserva senza le lenti deformanti dell’ideologia, contiene una radicale critica del tempo che Strauss stava vivendo. Così, se si fa attenzione ci si ci accorge che, per contrappasso, la soave allure settecentesca, il fruscio sommesso di eleganti marsine, gli amabili conversari, il dotto florilegio musicale e, sopra tutto, quell’irresistibile non so che di sprezzatura e insieme di ironia (cifra inconfondibile dell’arte straussiana), sono quanto di più eversivo si possa immaginare. E la villa di Garmisch, anziché splendido rifugio di un settantottenne che

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volge le spalle alla storia, diviene un osservatorio privilegiato non solo per dare un nome ai mostri che impazzavano nel Vecchio continente, ma anche per capire come si erano fatti e come avrebbero potuto non farsi. Si deve pertanto respingere l’accusa di una fuga all’indietro. Non si dimentichi che l’amabile (e a suo modo folle) journée trascorsa nel castello della Contessa precede di poco la Rivoluzione francese: entro breve tempo sulla Orangérie, sulla sala da musica, sulla biblioteca e sull’arpa di Madaleine si abbatterà le déluge. Strauss realizza, dunque, un formidabile gioco di specchi: il milieu storico di Capriccio è molto più vicino di quanto si possa pensare agli eventi del 1942, e non solo per la tragicità che li accomuna. La corrispondenza tra le due epoche, pur distanti tra loro oltre un secolo e mezzo di storia, riguarda soprattutto il fallimento del tentativo, tutto illuminista, di rendere produttivo il conflitto attraverso il dialogo tra diversi: in ultima analisi, è a questo tentativo che Capriccio è dedicato. Il terrore giacobino che da lì a pochi anni irromperà sul castello della Contessa è già una prima forma di religione politica che, mutata specie, assumerà poi i nomi di fascismo, nazismo e comunismo. Totalitaria, infatti, e quindi sommamente perniciosa, è la devozione di Flamand e di Olivier alla Contessa: il loro duello non potrà che risolversi se non con la vittoria di uno solo. Reductio ad unum, appunto: ecco l’antica e sempre nuova tentazione europea, i cui esiti terrificanti, soprattutto nell’autunno di quel 1942, erano ormai di palmare evidenza. 5. Entzweiung Contro la minaccia di un deserto omologante si oppone invece la Contessa, la quale riconosce nella necessità sia della musica sia della poesia e nel loro reciproco integrarsi l’unica via per costruire la propria identità. Così, al posto della disperata,

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impossibile, omicida utopia di separare i diversi con muraglie cinesi, la Contessa sceglie di non scegliere, giacché «qui scegliere, / perdere sarebbe». Ma si badi: la non-scelta della nobildonna non è oscitanza o, peggio ancora, incapacità (kafkiana) di recitare una parte sul palcoscenico di questo mondo, sottraendosi così alla vita, ma indugio pensante nella dimensione della ricerca, chiara coscienza della Entzweiung, della divisione-in-due dell’essere. Non è un caso che la Contessa sia vedova: ella si è così sottratta all’eidolon, alla vana ombra, all’illusione dell’Uno, per abbracciare il duplice (Olivier e Flamand). E può abbracciarlo solo perché intrattiene con il Due un dialogo. Neppure una volta ella tradisce nostalgia verso il marito defunto: la sua dimensione, dunque, non è il rimpianto, ma il riconoscimento della Entzweiung. Nella Germania del 1942, all’apogeo di una banda di criminali che voleva trasformare il globo terraqueo in una sola nazione dominata da un solo popolo, la non-scelta di Madeleine era quanto di più provocatorio si potesse immaginare. Provocatorio perché democratico, perché quella nonscelta diceva che, se vi è una salvezza, questa poteva passare solo attraverso la convivenza con il diverso, con lo xenos, con l’altro-da-sé. Ma questa scoperta, con la conseguente accettazione, dell’alterità è la testata d’angolo della polis democratica fin dalle origini, la quale, come ricorda Barbara Spinelli, è «innanzitutto una lotta fra pretendenti (pretendenti a Penelope, pretendenti al comando, pretendenti alla realtà svelata): dunque è lotta fra diverse interpretazioni del vero, del bello, del giusto, non per ultimo del buon governo. È il primo esercizio di selezione democratica». Una lotta fra pretendenti, come è quella tra Olivier e Flamand. Solo che i due sono impazienti e l’impazienza è la mortale nemica della democrazia, la quale procede invece per tempi lunghi. Infatti, ciò che è insopportabile per

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il poeta e il musicista non è l’idea di poter essere respinti, ma il fatto che Madeleine non si decida a scegliere. Nessuno dei due nutre dubbi sulla superiorità della propria arte (oggi diremmo: sulla superiorità della propria cultura di appartenenza o della verità in cui crede), ma fin qui nulla quaestio, giacché il dialogo, se è tale, conserva sempre una insopprimibile vis polemologica. Il problema, piuttosto, sorge dal fatto che ciascuno dei due artisti vuole annichilire l’altro, toglierlo dalla mente della Contessa, affermare l’imperio dell’Uno (Wort oder Ton), visto come verità inalterabile e suprema che mai e poi mai si deve intrecciare con altri valori, mettendo da parte la discussione, la dialettica e la parresia. Alla medesima conclusione, in fondo, giunge anche La Roche. Il suo alluvionale monologo è un’appassionata difesa del teatro contro uomini come Olivier e Flamand che «irridono al vecchio, ma non creano il nuovo». Il vecchio, vale a dire l’Occidente quale luogo di una aeterna inquisitio, dell’insonne dibattere. Il teatro, dunque, metafora del più autentico spirito europeo, che vede i diversi quali (contraddittori) protagonisti del medesimo dramma (drân, essenza dell’idea tragica). E che fanno sulla scena le dramatis personae? Dia-logano tra di loro, quindi si ascoltano contra-dicendosi, mantenendo, sì, la propria identità, ma mantenendola anche sempre in dubbio. Essi, insomma, sono antagonisti di nessuno, ma com-petitivi (cum-petere, ‘andare insieme verso un fine’ ma ciascuno con le proprie gambe) con tutti. La corrusca immagine del teatro riceve in Capriccio la sua massima celebrazione con la proposta del Conte di tradurre in un’opera gli eventi di quella tumultuosa giornata: «È realtà» dice la Contessa, «ciò che le scene ci svelano. / Come in uno specchio magico mostrano noi a noi stessi. / Toccante emblema è il teatro di ciò che è la vita». Solito teatro nel teatro, si dirà. Senz’altro; ma anche raffinata capacità di leggere

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i tempi e di tradurla in autentico magistero (ancora una volta docere, delectare, movere) attraverso la forza trasfigurante (Verklärung, termine caro a Strauss) dell’arte. «Se scegli l’uno, tu perdi l’altro, / ché sempre si perde quando si acquista! / Non c’è nel tuo sguardo forse ironia?» si domanda Madeleine poco prima che cali, rapido, il sipario. Ma non c’è forse ironia – nel significato etimologico di ‘finzione’ – anche nello sguardo di Strauss? Otre due ore di actio melodrammatica per accorgersi alla fine che la decisione della Contessa era già svelata nel sottotitolo: Ein Konversationstük für Musik, che è poi un altro modo per dire Entzweiung. 6. Appuntamento alle undici in biblioteca Dunque, Madeleine ovvero Europa. E se l’Europa, come sostiene Karl Jaspers, è un «principio spirituale», esso consiste prima di tutto nella sua attitudine a sopportare le diversità e gli inevitabili conflitti che queste possono provocare, nel senso dialogico del termine: «Ozioso tentar di dividerli in due. In uno fusi / son musica e versi in una entità nuova» dice la Contessa. Certo, l’unione continua a essere una forza prodigiosa, ma per divenire tale deve raffinarsi nel crogiolo del plurimo: questa è stata da sempre la forza dell’Occidente. Madeleine compie una sola azione, la più importante: Verhaltenheit, parola che indica, come ricorda Cacciari in Geofilosofia dell’Europa, un «sostare che resiste alle forze che vorrebbero distrarlo, dunque un resistere, un resistere pensante». Ma poiché Verhalten significa anche ‘condotta’, ‘comportamento’, ‘ethos’, ecco allora che la Verhaltenheit non indica solo uno stare-contro, ma, conclude Cacciari, «il fondo stesso del sé». A questo punto la domanda è: riuscirà Madeleine a sopportare la conflittualità tra Octavian e Flamand che l’indomani, senza alcun dubbio, si riaccenderà di nuovo e forse addirittura con

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maggiore veemenza? Con un autentico colpo di genio Strauss conclude Capriccio con una inaspettata sospensione: cosa succederà l’indomani in biblioteca, alle ore undici, quando i due rivali, l’uno all’insaputa dell’altro, si ritroveranno faccia a faccia? Riuscirà la nobildonna a guardarsi dalle lusinghe dell’uno e dell’altro? Detto in altri termini: ce la farà l’Europa a stare all’erta, a vigilare su se stessa, a rimanere fedele – per dirla ancora con Barbara Spinelli – allo splendore delle verità? (Perché l’Europa è pure questo: è instancabile curiositas, ma anche consapevolezza di non poter conoscere tutto; è apertura all’hospes che sente tuttavia come irriducibile hostis; è volontà di potenza che ben conosce, però, l’eterogenesi dei fini.) Dunque l’interrogazione che mai si arresta («E io? Lo scioglimento… Doveri scioglierlo, / deciderlo, disporlo? / È la parola che commuove il cuore o la musica / che con più vigore parla?») è la vera dimora della Contessa, e quindi dell’Europa. L’aver intuito questo nel 1942, in un’epoca in cui si tentò di riedificare la Torre di Babele (ipostasi dell’idolatria), è tutto fuorché nostalgica rêverie: è coraggio di fare il proprio turno di veglia quando la notte è più profonda, è chiaroveggenza, è profezia.

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Le porte chiuse Elektra di R. Strauss

In una lettera scritta da Rodaun a Richard Strauss in data 25 giugno 1908 – esattamente sei mesi avanti la prima rappresentazione dell’Elektra al Konigliches Opernhaus di Dresda – Hugo von Hofamansthal più che tracciare una descrizione degli elementi scenici che faranno da sfondo al drân, enuclea il daimon dell’opera stessa. Jean Starobinski, nel saggio Le incantatrici, fa una magnifica esegesi di questa lettera: «Ecco quanto le parole lette e la musica ascoltata mi sembrano, imperativamente, mostrare. Quando si alza il sipario, su tre accordi violenti come il sollevarsi di una mannaia, la cosa che subito attira lo sguardo è la facciata di un edificio. Quel muro, con le sue aperture ostili, è già un primo personaggio, il cui massiccio silenzio si accorda perfettamente con il tumulto dell’azione tragica. È la facciata posteriore del palazzo, con la sua corte interna. Possiamo vedere un luogo segreto, non destinato agli sguardi dei sudditi del principe. Vi si trovano le parti comuni, i locali degli schiavi; è una via d’accesso alle scuderie. Quella facciata potrebbe anche essere una grande torre di guardia: si avvertono giungere da essa le occhiate di sorveglianti. E in quella corte, sorvegliando per conto dei padroni, delle donne con la frusta in mano controllano il lavoro delle schiave intente ad attingere l’acqua. Sotto terra, marcisce il cadavere di Agamennone. L’odore e il sangue non sono ancora scomparsi. È dunque l’entrata di servizio, dove stanno anche le bestie e i rifiuti. Elettra vi circola furtivamente».

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Dunque, ciò che lo spettatore vede appena si alza il velario è l’effigie di un immane volto di pietra. La «facciata posteriore» del palazzo degli Atridi è «già un primo personaggio», scrive Starobinski. Un personaggio nel pieno significato della parola: compiutamente persona, nel significato latino della parola, è il retro della reggia, perché le sue finestre, i suoi pertugi, le sue porte sono una ridda di volti (e quindi di partes) che trascolorano gli uni negli altri, sono occhi che hanno visto, ciascuno, singoli frammenti di quell’atroce fatto di sangue che è stato l’assassinio di Agamennone. In questo senso, allora, la prima aria di Elettra («Allein! Weh, ganz allein!») deve essere intesa come un possente coro che ricapitola, in una descrizione finalmente compiuta, il fatale omicidio del re di Micene. Quasi fosse un flash-back cinematografico vediamo – e il verbo vedere è in questo caso quanto mai appropriato, giacché la voce di Elettra scolpisce volumi di suono monumentali, rifiniti a bulino da una polifonia orchestrale lussureggiante e insieme ctonia – la scure che cala sul capo di Agamennone, la ferita che si apre sul suo capo, il bagno che fuma del suo sangue, Egisto che trascina il cadavere; e a suggello un raccapricciante zoom sull’occhio del morto, un occhio «immobile, aperto» che «guarda dentro la casa» (per rimanere nel cinema è impossibile non andare con la memoria a I diabolici di Clouzot, che proprio in un omicidio consumato in una vasca da bagno e nel primo piano di un occhio ha la sua sequenza da antologia). Implacabile è lo sguardo di quest’occhio incastonato nella morsa dell’orbita, «immobile» eppure mobilissimo, perché conserva come un negativo fotografico tutta l’azione delittuosa e la riflette come uno specchio, perpetuandola (felicissima immagine, questa di Hofmansthall, che pare quasi riprendere la scena in cui Amleto mostra alla Regina uno specchio quale memento del suo crimine, innervandola però di una sotterranea motilità che la fa assomigliare a un incubo: se ne ricorderà O’Neill nel suo poderoso Il lutto si addice a Elettra, ennesima, riuscitissima versione del mito atride).

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Tuttavia questo «primo personaggio» reca in sé il sigillo di una irriducibile duplicità. Infatti se da un lato è una sorta di panopticon, che tutto vede e tutto ricorda, dall’altro, delimitando la corte interna, esso la sottrae allo sguardo dei cittadini. Un «luogo segreto», lo chiama giustamente Starobinski, un posto che non ha alcun passaggio, alcuna comunicazione con la parte esterna dell’edificio, la quale verosimilmente si deve presentare, invece, armonica nelle sue proporzioni e ingentilita da raffinati elementi architettonici. È un luogo che preconizza Der Turm, ‘la torre’ dove sarà rinchiuso Sigismund, il protagonista dell’estremo e omonimo lavoro di Hofmannsthal (non a caso Clitemnestra minaccia di rinchiudere Elettra proprio dentro una torre). L’ordine, solo apparente, solo di facciata, che regna su Micene è in realtà privo di ogni legittimità perché frutto di un omicidio; e se è tale, esso potrà essere ricostituito unicamente attraverso un’azione uguale e contraria, che ha quasi l’acido retrogusto di un golpe (l’uccisione di Egisto è accompagnata da una sanguinosa resa dei conti dei seguaci di Oreste ai danni di coloro che erano rimasti fedeli all’usurpatore). Anche a vendetta consumata, il kosmos che ne risulta è puramente fittizio perché la reggia è ancora luogo di irriducibili e insanabili conflitti. Ma la corte interna della reggia è pure un luogo dell’anima, il posto dove mulinano i gorghi melmosi dell’inconscio, dove «l’odore e il sangue non sono ancora scomparsi» e «dove stanno le bestie e i rifiuti». E rifiuto è Elettra, corpo ormai disumanizzato che deve essere allontanato dalla vista, perché solo che lo si incroci, il suo sguardo «furchtbar», ‘spaventoso’, orribile oltre misura, ridesta il ricordo di ciò che è accaduto. Rifiuto e anche ab-orto, la figlia di Agamennone, essere non-nato, feto mostruoso tenuto ancora rinchiuso dentro l’utero materno, che tuttavia vuole imperiosamente uscire da esso. E l’uscita non potrà avvenire che attraverso la lacerazione del grembo con lo stesso strumento con cui la madre uccise il padre, la

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scure: «Das Beil!… Das Beil!», «La scure!… la scure!» è il Leitmotiv di tutta la tragedia e il cupo allegretto che scandisce l’agire di Elettra. Quello che Clitemnestra fa alla figlia, la figlia fa a se stessa: Elettra abortisce la propria femminilità. Paradigmatico è il colloquio che ella ha con Oreste subito dopo la sua agnizione: «Io sono soltanto il cadavere di tua sorella […] Io so che tu inorridisci davanti a me, eppure io ero bella […] Lo sentivo quando il sottile raggio della luna si bagnava nella bianca nudità del mio corpo, così come in uno stagno, e i miei capelli erano tali che gli uomini tremavano dinanzi a essi, questi capelli arruffati, sudici, umiliati. Lo capisci, fratello? Io ho dovuto scarificare tutto quello che ero. […] Gelosi sono i morti: [Agamennone] per sposo mi ha mandato l’odio, l’odio dagli occhi infossati. Così sono stata sempre una profetessa e non ho tratto da me altro se non vendetta e maledizione!»

Ciò in cui si sostanzia la femminilità, vale a dire il concepire e il generare un figlio, in Elettra è violentemente negato. Le uniche nozze possibili sono con il padre morto e l’unico concepimento che è dato sono solo l’odio e la vendetta («Io voglio avere figli prima che il mio corpo avvizzisca […]. Io sono una donna, e voglio un destino da donna!» grida invece Crisotemide, ponendosi in una posizione antitetica e insieme complementare rispetto alla sorella.) Si ha quasi il sospetto che la mente di Elettra sia attraversata da inconfessabili pulsioni incestuose. La terribilità di questa illazione, però, in parte è smorzata dallo statuto che Elettra rivendica per sé: «Io sono sempre stata una profetessa». Ma in quella grandiosa storia di delitto e castigo che è la saga degli Atridi, solo a Cassandra può essere ascritta questa qualifica. E non a caso Cassandra e Agamennone erano uniti da un legame d’amore (e pure da un legame di morte, giacché i due sono uccisi insieme). Allora, chi è colei che sta parlando con Oreste?È Elettra o è Cassandra? Se Elettra, come ella stessa

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riconosce, è morta («Io sono soltanto il cadavere di tua sorella»); se ciò che la caratterizzava – la bellezza che gli uomini contemplavano ammirati – non è più e se al suo posto vi è una profetessa (ma Elettra si spinge oltre dicendo: «Io sono stata sempre una profetessa»), allora con ogni probabilità è in atto un vero e proprio transfert tra Elettra e Cassandra. Del resto la metamorfosi nella delirante sacerdotessa di Apollo appare già compiuta nel momento stesso in cui Elettra compare sulla scena (appena fa il suo ingresso, infatti, Elettra richiama subito alla memoria la Cassandra dell’Agamennone di Eschilo, invasa e squassata dallo spirito profetico del Lossia). Come Cassandra, anch’ella lancia urla «tali da farne risuonare tutta la reggia» e si dibatte come un animale in gabbia; e come Cassandra ha più l’aspetto di un animale che non quello di una donna (è paragonata infatti a un gatto selvatico e a una cagna). Ma nell’Elettra di Hofmannsthal confluisce, a riprova di quanto la sua femminilità sia totalmente negata, anche la figura maschile di Oreste. Un deliro di molti, è Elettra, quasi a ribadire l’insondabile verità rivelata dalla sfinge a Edipo secondo cui «uno può essere molti»: ella infatti è, nello stesso tempo, sia figlia, sia amante del padre, sia fratello. Grandiosa tragedia della vista e dell’occhio, Elettra vede e nel contempo non vede. Appena scorge Oreste sulla porta del cortile ella non lo riconosce, e non lo riconosce semplicemente perché in quel momento Elettra è Oreste (anche questi, però, non riconosce la sorella, in quanto ella è divenuta, come la definisce Egisto, una «unheimliches Weib», una donna «perturbante», aggettivo assai caro a Freud che proprio a Das Unheimliche ha dedicato un saggio fondamentale). Privata del padre, sottrattole con morte violenta; guardata con sospetto e disprezzo da Clitemnestra e da Egisto; allontanata da Crisotemide, che si rifiuta di partecipare al matricidio; disperata per Oreste che crede morto; respinta persino dalle schiave, Elettra si dibatte in una invincibile solitudine («Allein! Weh, ganz allein!»,

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«Sola! Ahimé, completamente sola!» ripete più volte). L’unica possibilità per resistere – e resistere deve se vuole portare a termine la vendetta – è divenire tutti i personaggi che le sono venuti a mancare. Nella danza parossistica che conchiude l’opera tutte le personae sembrano riunirsi nel corpo di Elettra. È per questo che la sua felicità è incontenibile. Per celebrare la vendetta che si è appena abbattuta su Clitemnestra e su Egisto, ella inizia a danzare.È una danza sfrenata, parossistica, barbarica. Elettra danza come posseduta da una irresistibile mania, come travolta da un’ebbrezza che non conosce remissione alcuna, come posseduta da una forza che non riesce a controllare. «Io non sento la musica? Ma se è la musica che proviene da me!» dice, quasi a conferma dell’assunto avanzato da Nietzsche (al quale Strauss era per tanti aspetti debitore) ne La nascita della tragedia secondo cui «l’arte non figurativa della musica» è intrisa di spirito dionisiaco. Il culmine di questa danza indemoniata non può essere che la morte. «Taci e danza!» dice a Crisotemide, «Tutti devono venire qui! Qui riunitevi! Io porto il peso della felicità e danzo davanti a voi. Chi è felice come noi, a lui una sola cosa si addice: tacere e danzare!» Tutti riunitevi qui: ormai Elettra si è come dissolta in un pulviscolo di atomi; non è più un io, bensì un noi. Ella muove ancora alcuni passi di spasmodico trionfo e poi crolla esanime a terra. Crisotemide corre alla porte della reggia e le batte invocando il nome di Oreste. Dunque un cadavere e delle porte chiuse sono l’ultima cosa che vediamo quando cala il sipario: visione terribile posta quale sigillum veri a quello stato di infrangibile solitudine in cui dibatte la stirpe dei mortali.

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Una musica a-morale? Salome di R. Strauss

Le variazioni più originali sulla figura di Salóme – vero e proprio mito letterario che ha foraggiato una innumerevole paccottiglia cha va dalla più vieta pruderie clericale al «pornodecadentismo orientale da almanacco di parrucchiere», per usare una gustosissima espressione di Massimo Mila – sono state offerte da René Girard e da Richard Strauss. Nel capitolo intitolato La decollazione di Giovanni Battista del suo denso saggio Il capro espiatorio il grande antropologo francese ha condotto una magistrale lettura dei passi evangelici di Marco (Mc 6, 14-29) e di Matteo (Mt 14, 1-12) che costituiscono la matrice di questo fortunato mito, mostrando come anche il triangolo formato da Erode, Erodiade e Salóme (nome, quest’ultimo, che la tradizione ha mutuato da un passo delle Antichità giudaiche dello storico Giuseppe Flavio) ripete il modello dei sistemi culturali sacrificali fondati sulla ripetizione e ritualizzazione della violenza primitiva contro una vittima qualunque (in questo caso Giovanni il Battista), vista come l’origine sovrumana sia del disordine sia dell’ordine, ripristinato dalla vittima stessa attraverso il suo sacrificio. Anche Richard Strauss con la sua Sálome (il libretto, bellissimo, tratto dalla Salomé di Oscar Wilde è di Hedwig Lachmann) giunge, pur seguendo ovviamente strade diverse, a intuizioni non meno folgoranti. Anzi, tanto più folgoranti se si considera che esse riguardano proprio la materia prima della sua attività di artista: la musica.

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Forse nessuna opera come la Sálome ha saputo scandagliare con lucido sgomento quell’ambiguità della musica che Settembrini, l’umanista italiano che nella Montagna incantata di Thomas Mann contende al sulfureo gesuita Naptha l’anima del giovane Hans Castorp, teorizza in una pagina indimenticabile del romanzo. «La musica? Non mi ha chiesto, lei, se sono amante della musica? […] Bene, d’accordo. Sono, sì, un amante della musica, ma non vuol dire che io la stimi gran che come, poniamo, stimo e amo le parole, il sostrato dello spirito […]. La musica è… un che di semiarticolato, di problematico, di irresponsabile, di indifferente. Lei obietterà, suppongo, che può essere chiara. Sì, anche la natura può essere chiara, anche un ruscello, ma che giova? Non è la vera chiarità, è una chiarezza sognante, nulladicente, non impegnativa, una chiarezza senza conseguenza, pericolosa perché invoglia ad acquietarsi in lei […]. Io nutro un’avversione politica contro la musica. […] La musica è inestimabile in quanto ultimo strumento di entusiasmo, potenza propulsiva ed elevatrice, quando trova lo spirito predisposto ai suoi effetti. Ma deve essere preceduta dalla letteratura. Da sola la musica non spinge avanti il mondo. La musica sola è pericolosa. […] La musica sveglia il tempo, la musica sveglia noi al più raffinato godimento del tempo, e in quanto sveglia è morale. Morale è l’arte in quanto sveglia. Ma se invece fa il contrario? Se stordisce, se addormenta, se reagisce all’attività e al progresso? […] La musica, signori, mi lascia perplesso. Sono convinto che è di natura ambigua. Non vado troppo oltre se la dichiaro politicamente sospetta».

La musica, dunque, argomenta Settembrini, se non è governata dalla parola, che sempre deve precederla, è pericolosa perché può avere un effetto narcotico sullo spirito, può ottunderlo, stordirlo, immergerlo nella noia (che è la via regia, insegna Dostoevskij, all’azione demoniaca), impedirgli insomma di raggiungere quella superiore libertà (e di conseguenza

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verità) alla quale invece esso dovrebbe tendere in un diuturno sforzo. La musica senza il logos è, dunque, come una nave senza un nocchiero che ne governi la barra: prima o poi essa è destinata ad incagliarsi nelle secche o, peggio, a sfracellarsi contro gli scogli. È proprio questo processo di distruzione e insieme di autodistruzione che la Sálome di Strauss svela con impudica sincerità. La principessa Salome sa poco o nulla di Jochanaam, tenuto nascosto in una cisterna del palazzo di Erode. «Dice cose terribili su mia madre, non è vero?» domanda ai soldati posti a guardia del «profeta che viene dal deserto», ma ignora in che cosa esse consistano (un’ignoranza enfatizzata anche dal breve scambio di battute che intercorre tra una delle guardie e un commensale di Erode: «Di cosa parla?» domanda questi; «È impossibile capire quel che dice» è la risposta). Ciò che accende la curiosità di Salome non sono le parole di Jochanaam, intese come una sequenza di fonemi dotati di un significato autonomo fondamentale e capaci di comunicare un pensiero, ma il loro suono. Non a caso ella dice: «Parla ancora, Jochanaam, la tua voce è come musica nelle mie orecchie». La voce del Battista per Salome è solo musica, musica pura e le sue parole si sciolgono in un indistinto, magmatico flusso sonoro. Il canto di Jochanaam ha molto in comune con quello delle Sirene: anch’esso ammalia, infonde oblio di sé, conduce chi l’ascolta in una dimensione fuori del kronos, del flusso rettilineo del tempo, e soprattutto anch’esso si leva dalla porta degli inferi. Come sottolinea Jean Starobinski nel saggio Le incantatrici, le Sirene sono le compagne, rimaste sulla terra, di Persefone, la dea degli inferi. Non a caso il mondo ctonio è evocato nel libretto fin dall’inizio. L’azione drammatica si apre con un dialogo tra un paggio della corte di Erode, che paragona il diafano disco lunare a una donna che sale dalla tomba, con il capo delle guardie Narraboth, che contempla stregato il

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pallore di Salome di cui è segretamente innamorato: sono un paio di battute appena che riescono tuttavia, con rara efficacia, a creare immediatamente un’aura di sortilegio e una sensazione di incombente sciagura. Segue poi una serie di dettagli inquietanti che anticipano i fatti di sangue nei quali culminerà il dramma: la cisterna-prigione di cui Erode ha severamente ordinato di non sollevare il coperchio – come se fosse una sorta di vaso di Pandora da cui potrebbero uscire sciagure e mali a non finire – e che Salome paragona a una tomba; il sangue di Narraboth che si uccide sopraffatto dalla gelosia tra l’indifferenza della Principessa e sul quale scivola Erode; il fruscio delle ali della morte udito da Jochanaam e infine l’epifania di quest’ultimo, dagli occhi simili ad «oscure caverne dove abitano i draghi» e dal pallore terrificante che ricorda a Salome «una tomba intonacata piena di cose ripugnanti». Il primum mobile è, dunque, il canto di Jochanaam di cui la Principessa non intende le parole, ma dal quale è irresistibilmente attratta, come una falena lo è dal fuoco. Paradossale situazione, se si considera che ciò che massimamente caratterizza Giovanni il Battista è proprio la voce: «Vox clamantis in deserto», «Io sono la voce di uno che grida nel deserto» come dice di se stesso ai sacerdoti e ai leviti inviati dai Giudei per interrogarlo (Mc 1, 1-3; Gv 1, 22-23). Ma di questa voce giungono a Salome non le parole, che ordinano e classificano, distinguono e definiscono, ma solo il suono che, per riprendere il discorso di Settembrini, diviene, proprio perché non preceduto dal logos, «un che di semiarticolato, di problematico, di irresponsabile, di indifferente». La natura ancipite e contraddittoria della musica trova nell’opera di Strauss la sua compiuta formulazione alla fine della scena terza. Jochanaam, condotto fuori della cisterna, sta di fronte a Salome, il cui sguardo ricolmo di selvaggia bramosia ne provoca la reazione indignata. Come la Sulammita del

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Cantico dei cantici, Salome si lascia andare a un’appassionata descrizione dell’amato, ma le sue parole non fanno che riprodurre la deriva schizoide di attrazione-repulsione in cui la musica di Jochanaam l’ha precipitata. Le sue parole, infatti, affermano e poi subito dopo negano; dall’esaltazione del corpo del Battista si passa al suo spregio e viceversa: «Il tuo corpo è bianco come la neve sulle montagne di Giudea […]. Il tuo corpo è orribile.È come il corpo di un lebbroso […]. I tuoi capelli sono come grappoli di uva nera nella vigna di Edom […]. I tuoi capelli sono come un groviglio di serpenti attorcigliati attorno alla tua gola […]». Solo la bocca del profeta è sottratta a questo gioco descrizioni antinomiche. Anzi, essa diventa una vera e propria ossessione, tanto che il desiderio di baciarla si fa ben presto incontenibile. «Ich will deinen Mund kussen, Jochanaam. Ich will deidnen Mund kussen», «Io voglio baciare la tua bocca… io voglio baciare la tua bocca» ripete Salome con una furia che troverà requie solo quando stringerà tra le mani la testa del Battista e ne morderà, come se fosse un frutto maturo, la bocca sanguinante. Questo atto di necrofilia, che all’epoca suscitò uno scandalo enorme, è un’ulteriore conferma dell’ambiguità della musica: è come se Salome con quel morso volesse, da una parte, annientare ciò che l’ha condotta alla rovina, e cioè la bocca di Jochanaam, e dall’altra quasi metamorfosarsi in essa per possederla compiutamente, per annullarsi in essa. Perché il dire, che è anche contraddire di Salome, altro non è che afasia, la quale può essere superata solo possedendo la voce di colui che ne è la causa. Forse tutta la sofferenza di Salome consiste proprio in questa impossibilità di formulare a parole ciò che le sta ribollendo nel cuore. «Vorrei parlare con lui… Io desidero parlare con lui… Io voglio parlare con lui»: è un crescendo parossistico che si conclude, però, in una totale incapacità di ascoltare altre voci che non siano quelle del proprio deliquio. La musica, dice Settembrini, sveglia il tempo, dà ad esso gu-

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sto, senso e spessore, e così facendo diviene morale. Eppure la musica di Strauss è tutto fuorché morale. Si potrebbe quasi sostenere che l’intera partitura sia un immane flusso di coscienza di Salome, che sia stata scritta, cioè, avendo quale unico punto di osservazione quello della sua protagonista. Ed è una scrittura a tal punta lucida, chiaroveggente e sorvegliata da tradire, per antifrasi, un sostanziale distacco nei confronti delle passioni che sta raccontanddo. Una musica senza musicista, potrebbe essere definita quest’opera, composta da Strauss con la chiarezza di un entomologo, ma proprio per questo, per riprendere un aggettivo di Settembrini, «nulladicente». La sua mostruosa capacità di avere una nota per ogni intermittenza del cuore cela in sé una ancor più mostruosa indifferenza, la stessa che in una vertiginosa tela del Tiziano, la Punizione di Marsia, ostenta Apollo, il dio della luce che acceca (e quindi anche della tenebra), mentre scuoia il satiro frigio da lui sconfitto in un certame poetico. Intesa in questo senso la Salome di Strauss è in assoluto una delle più riuscite analisi che siano mai state tentate sulla ambiguità delle musica e sugli effetti che essa può avere su un animo che non sia stato prima dissodato dal vomere della parola. La teoria di Settembrini risente, certo, della contrapposizione, tutta manniana, tra Kultur e Zivilisation, tra l’abbandono al flusso anarcoide della vita, ai suoi allettamenti come alle sue intemperanze, e la litteralizzazione di tale flusso, il suo contenimento entro gli argini della civiltà e della democrazia; eppure essa, oltre ad aver dato prova di una singolare preveggenza, continua a parlare ancora con inesausta freschezza. La rovinosa follia di Salome, infatti, sembra preconizzare quella che trascinerà la Germania guglielmina, intrisa di un autoritarismo regressivo e reazionario, nella Grande guerra e che culminerà nel 1945 con le maggiori città tedesche rase al suolo (tra cui Dresda, dove il 9 dicembre del 1905 si tenne la prima rappresentazione della Salome): quando si arriva alla sfrenata

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‘danza dei sette veli’ è impossibile non andare con la memoria alla bufera di fuoco e di sangue con la quale si conclude un altro grande romanzo di Thomas Mann, il Doctor Faustus. Su questa «simpatia per la morte» che, come lo Stige, scorre sotto il suolo della Germania e dalla quale invano aveva messo in guardia il grande scrittore di Lubecca, ritornerà, quasi quattro decenni più tardi, un altro insigne autore tedesco, Günter Grass, che in una pagina memorabile del suo capolavoro, Il tamburo di latta (1959), descrivendo l’interno della casa del nano Oskar, il protagonista del romanzo, mostra un ritratto di Beethoven appeso proprio di fronte a uno di Hitler, in una sorta di contrapposizione che ne è anche la sublimazione. Ma la Salome di Richard Strauss è un’opera, si ripete, che conserva intatta la sua freschezza anche oggi, come perennemente intatta è la freschezza delle grandi parabole. Certo, sulla scena di questo mondo non vi sono più i Leviatani del ‘900; tuttavia i loro epigoni, anche se (per il momento) in sedicesimo, continuano a far udire una voce che per molti è canto di irresistibile fascinazione. Voci nuove che riaccendono vecchie passioni (xenofobia, razzismo, antisemitismo), come vecchi, e funesti, sono i rimedi che vanno predicando: le certezze monolitiche, la riduzione a uno del molteplice, l’intramontabile figura del capro espiatorio. Ancora una volta è la Zivilisation che può offrire un valido palladio contro questi o simili rigurgiti di tenebra, la cara Zivilisation che forse a volte è come una vecchia zitella brontolona e un poco istupidita, ma che alla prova dei fatti è la sola capace di ergersi vittoriosa, come l’indimenticabile Sesemi Weichbrodt dei Buddenbrook nella stupenda scena che conchiude il romanzo, contro la cupidigia di abisso.

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Dedicata al «genere umano perduto» Die Frau ohne Schatten di R. Strauss

Nella lettera datata 5 giugno 1916, Richard Strauss scrive a Hugo von Hofmannsthal: «Dopo questa guerra, il tragico rappresentato in teatro apparirà, almeno per qualche tempo, abbastanza sciocco e puerile». Gli eventi luttuosi della Grande guerra si frapposero come un cuneo nella stesura, iniziata nella primavera del 1914, de La donna senz’ombra (Die Frau ohne Schatten) e ne dilatarono a tal punto i tempi di consegna che la sua prima esecuzione avvenne soltanto nell’ottobre del 1919. Ma forse dietro la sofferta composizione di questo capolavoro – in cui Strauss e Hofmannsthal, nonostante tutto, riversano una strabiliante ricchezza inventiva – più che l’intuibile difficoltà materiale del tempo di guerra, vi era l’e-normità di quella guerra, il suo presentarsi come un evento che fuoriusciva, esondava da qualsiasi norma, da qualsivoglia jus in bello fino ad allora universalmente condiviso, di cui vi è traccia nel passo sopra riportato. Così, se in-dicibile è l’orrore delle tempeste d’acciaio, allora il teatro – il luogo per eccellenza del pensiero poetante, la terra di mezzo dove è possibile, attraverso il poeta quale medium, la comunicazione tra gli dèi e gli uomini – è solo una vuota conchiglia che rimanda all’orecchio un brusio indistinto. L’affermazione di Strauss, già di per sé inquietante, si fa tuttavia sconvolgente per almeno un duplice ordine di fattori: intanto perché essa è pronunciata da un (sommo) artista che elesse il teatro a proprio luogo dell’anima; e poi perché mette seria-

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mente in discussione la funzione stessa del teatro, che è quella non tanto di rappresentare (ché altrimenti si ridurrebbe a mero spettacolo), bensì di ricreare il tragico permettendo allo spettatore, come scrive Jaspers in Über das tragische, di partecipare in prima persona al drân e portare a compimento in se stesso la sapienza che irrompe dalla rappresentazione. La lettera del 5 giugno 1916, dunque, deve essere intesa come il documento di una vera e propria crisi artistica. Ma krisis è parola agonica che, anziché sbarrare, moltiplica le strade da percorrere; essa indica il tempo della decisione e, quindi, della scelta; essa è l’ora dell’urgenza, che consiste non nel quando, ma nel come ogni singolo individuo si rapporta a quell’ora. Chi si trova nella krisis non vive l’istante come se fosse l’ultimo, per la ragione fondamentale che l’istante, il quando, è già trapassato e ora bisogna solo risolversi in un senso o nell’altro. L’immane ecatombe della Prima guerra mondiale ha cambiato il mondo (Stefan Zweig intitola non a caso Die Welt von Gestern, Il mondo di ieri la propria autobiografia-testamento), la secolare monarchia absburgica è tramontata e con essa lo spirito di un’intera civiltà: ora a ciascuno si chiede di rispondere a questa katastrophé. La risposta di Strauss è già compiutamente delineata nell’inciso «almeno per qualche tempo». Il tempo di cui parla il compositore di Garmisch è quello delle emozioni, dell’anima, dell’uomo interiore; il tempo lieve, insomma, da cui rampolla quello pesante, che è poi il tempo della responsabilità, della fedeltà a se stessi e al proprio compito. E il tempo, si sa, in tutte le sue declinazioni e trasfigurazioni, è la vera dimensione dell’arte straussiana. La donna senz’ombra e tutta la produzione successiva fino ai Vier Letzte Lieder – le gemme della corona – sono la risposta alla krisis aperta dalla Grande guerra, che neppure il secondo conflitto mondiale, autentica ipostasi della fattura di magia nera che incombe sull’universo, riuscirà a offuscare.

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Qui, però, si apre l’ultimo e più importante interrogativo sull’opera di Strauss. Certo, Die Frau ohne Schatten è una strabiliante fabula che nelle intenzioni del letterato e del musicista doveva essere una variazione erudita della Zauberflöte, così come Der Rosenkavalier lo fu delle Nozze di Figaro e Die schweigsame Frau lo sarà di Così fan tutte (si ritornerà tra breve sull’importanza del modello mozartiano o meglio della Mozartphilie, come la chiamava Hofmannsthal, quale metafora dei loci memoriae); e le partiture posteriori, dall’Elena egiziaca alla Dafne, dalla Danae a Capriccio, dal Duett-Concertino al Secondo concerto per corno sono o miti o astrazioni simboliche o prepotenti riprese delle tinte mozartiane; tuttavia, è davvero giusto parlare di una fuga dalla realtà, di una «inerre Emigration», di una ‘emigrazione interiore’ simile a quella scelta nel medesimo scorcio di tempo, e soprattutto durante il regime hitleriano, da numerosi intellettuali tedeschi, che videro nell’elitarismo l’estremo palladio contro la barbarie? Nonostante una navigazione tra i cataclismi del’900 condotta sotto il segno di Mercurio, e quindi non esente da compromessi e reticenze, elusioni e ambiguità, Strauss fu fedele fino all’ultimo alla forma d’arte pubblica del teatro musicale, che mal si concilia con il rifugio nella soggettività. Il suo distacco dalla realtà storica e persino artistica è solo apparente: recuperando i miti della grande tradizione occidentale, Strauss dimostrò di aver colto fino in fondo l’essenza stessa del mythos, che è quella di un racconto contenete verità bisognose di essere sempre indagate. Dal Rosenkavalier in poi, Strauss sembra essere dominato da un’unica ossessione: recuperare in una sorta di sforzo enciclopedico (che toccherà i vertici nell’Arianna a Nasso, nella Donna senz’ombra e in Capriccio) quanto di bello e, quindi, di buono la cultura occidentale abbia prodotto, e ricrearlo sotto il fiammeggiante astro dell’arte (ché la vera mimesis artistica è opera di ri-creazione e dunque attività intrinsecamente filosofica).

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È all’interno di questo gigantesco sforzo di anamnesis che deve essere collocata la Mozartphilie. Agli occhi di Hofmannsthal e di Strauss il Salisburghese è il fastigio della cultura occidentale, il catalizzatore dell’autentico spirito europeo e insieme il reagente capace di risollevare l’Europa dopo i lavacri di sangue della Grande guerra. In questo senso il richiamo alla musica di Mozart è l’esatto opposto del ripiegamento interiore: è lotta, coraggio, profezia, azione di resistenza contro il male: per quanto grande potesse essere la tragedia – e la tragedia dell’Europa dal 1914 al 1945 fu enorme – non v’era alcun motivo per i dioscuri del teatro tedesco di non metterla al servizio di un’opera d’arte che desse allo spettatore bellezza, piacere, consolazione e tensione verso l’Assoluto. Loci memoriae. Non è un caso che Strauss e Hofmannsthal abbiano eletto proprio la città sulla Salzach quale sede del Salzburger Festpiele. Città natale di Amadé e crocevia tra il mondo germanico e quello latino, Salisburgo era la sede ideale per un festival capace di ricomporre l’identità morale e culturale non solo dell’Austria, ma anche dell’Europa attraverso un programma dove il canone nazionale (Mozart e Goethe in primis) si fondesse con quello europeo. Mozart, dunque, era il nume, sorridente e benigno, a cui bisognava rivolgere lo sguardo per la ricostruzione del Vecchio continente. E quale poteva mai essere, per Strauss e per il suo librettista iuxta naturam, l’opera mozartiana che tutte le ricapitolava, che più di qualsiasi altra si spingeva fino al centro del grande cuore di Mozart se non il Flauto magico? Die Zauberflöte, ovvero del germanesimo gentile e colmo di ogni cordialità. Assumere quale modello l’estremo lavoro teatrale di Mozart significava, di conserva, cogliere l’essenza dei valori culturali tedeschi. Tutto ne La donna senz’ombra è di chiara ascendenza mozartiana: il mondo maschile e solare di Keikobad contrapposto a

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quello femminile e notturno della Nutrice; le due coppie antitetiche quale fusione dell’elemento dotto con quello popolare; il viaggio magico-iniziatico come percorso obbligato per giungere a una matura sapienza del cuore; il passaggio dalla giovinezza all’età adulta; l’amore fra gli esseri quale unico cauterio possibile contro il veleno dell’esistenza; la celebrazione del matrimonio e della prole. Quest’ultima componente, però, senz’altro preponderante all’interno dell’opera, non deve essere enfatizzata al punto da trasformarla in una sorta di manifesto programmatico, ché altrimenti si correrebbe il rischio di svilire l’intera opera in uno (sia pur sontuoso e raffinatissimo) spot a favore del matrimonio. Non si deve dimenticare che durante l’annosa stesura della Frau ohne Schatten debuttava l’Arianna a Nasso, dove l’eponima protagonista, abbandonata da Teseo, decide di sottrarsi alla vanità e agli affanni del mondo rifugiandosi all’interno di una grotta (dunque in autistico isolamento), salvo poi essere visitata da Bacco, che le dischiuderà inaspettati orizzonti d’amore. Il tema del lutto, della perdita, di una ferita simile a quella mostrata da Oskar Kokoschka nel celebre Autoritratto con mano sul viso anch’esso del 1919, è ripreso nella Donna senz’ombra e risolto dagli autori attraverso una viepiù radicale adesione alla Mozartphilie, che raggiunge gli estremi accenti nel delicatissimo notturno posto a suggello del Primo atto. Come Arianna, il tintore Barak se ne sta rintanato nel suo abituro insieme alla moglie, ma un muro di incomprensione li divide. A un tratto il silenzio della notte è rotto dal canto dei guardiani: «Voi sposi che amandovi giacete abbracciati, / voi siete il ponte, steso sopra l’abisso, / su cui i morti tornano di nuovo alla vita». Se solo ci si sforza di andare con il pensiero alla sera del 10 ottobre 1919, giorno in cui La donna senz’ombra debuttò alla Staatsoper di Vienna, sarà facile immaginare la profonda emozione suscitata da quei versi: per coloro a cui la guerra aveva sottratto gli affetti più cari, essi erano un lume nella notte, un

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canto che lavava dalle guance il sale delle lacrime, una voce di speranza che, per quanto soffocata dalle macerie, doveva giungere tuttavia chiarissima ai loro cuori.

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Eros ingannatore Ariadne auf Naxos di R. Strauss

1. Das lustige und das traurige Nell’ultimo capitolo del suo fondamentale saggio Über das Tragische Karl Jaspers, passando in rassegna i limiti delle interpretazioni che tendono a ridurre il tragico a un unico denominatore concettuale, individua «il più sublime deviamento di una concezione tragica del mondo» nell’attitudine a considerare tragici unicamente quegli eventi che, non essendo tali di per se stessi perché appartenenti all’intrinseca caducità del mondo, lo diventano solo attraverso la coscienza e la sensibilità di coloro che soffrono e amano. «Sublime» è questo abbaglio, perché eleva nella sfera del grandioso, dell’eccezionale e dell’eloquente e innalza al di sopra della realtà; ma sempre di un abbaglio si tratta, perché facendo dipendere la tragicità del mondo solo dalla coscienza che di essa si ha, respinge come irrilevante quella parte – che è di gran lunga maggiore – di «sconsolata, straziante, inspiegabile, irrimediabile» miseria umana che invoca aiuto e che è priva di grandezza. Da una simile concezione derivano una «cecità priva di amore», la metamorfosi del tragico in estetismo edificante e il suo scadimento in vuoti stereotipi. Non solo. Sottesa al concetto di ‘coscienza tragica’ vi è pure l’idea perniciosa secondo cui il tragico è una caratteristica non già dell’uomo, ma solo di una ristretta aristocrazia di anime elette, capaci di vedere ciò che gli altri non vedono e di elevarsi là dove agli altri è interdetto. La conclusione di Jaspers è tranciante: «La coscienza tragica

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ha dunque i suoi limiti: essa non offre un’interpretazione totale del mondo. Non riesce a spiegarsi e a spiegarci appieno il dolore universale: non abbraccia tutta la misteriosa terribilità della condizione umana». Le acute osservazioni di Jaspers possono rivelarsi utili per decrittare la quaestio filosofica soggiacente alla Ariadne auf Naxos, l’opera in un prologo e un atto di Richard Strauss su libretto – autentico capolavoro di finezza letteraria, di sottigliezza intellettuale e di verità sull’arte e sulla vita – di Hugo von Hofmannsthal. Pensata all’origine come un «divertissement operistico» al Bourgeois Gentilhomme di Molière, l’Ariadne divenne poi un’opera autonoma, costruita sulla formula del ‘teatro nel teatro’ e sulla contrapposizione felicissima tra un prologo, dinamico e colmo di verve, che rappresenta la realtà, e un melodramma vero e proprio dai forti contenuti allegorici. L’antefatto è ambientato nella Vienna del XVIII secolo. Un aristocratico ha commissionato al Compositore un dramma musicale sul mito di Arianna abbandonata da Teseo nell’isola di Nasso. Tuttavia, pochi minuti prima dell’inizio della rappresentazione, quando già tutti gli artisti stanno per prendere il loro posto sul palcoscenico allestito nella sontuosa dimora del ricco mecenate, il Maggiordomo avverte che il programma della serata subirà una variazione: il burlesque, che secondo il palinsesto doveva seguire l’opera seria, sarà invece eseguito contemporaneamente a questa: «È volontà precisa del mio illustre signore di ricever serviti sulla scena i due lavori insieme, l’allegro e il tragico [«das lustige und das traurige»], con tutti i personaggi e con le note giuste». L’annuncio, in un primo momento, getta il Compositore nel più nero sconforto; ma poi, grazie al Maestro di Musica, che gli ricorda il lauto compenso di cinquanta ducati, al Maestro di Ballo, che gli suggerisce di adattarsi al mondo se ha voglia di campare e soprattutto mercé vezzi di

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Zerbinetta, egli si consola al punto da innalzare un vero e proprio inno alla sovrana libertà della musica, l’unica arte capace di «raccogliere ogni idea di ardimento». Ma il sonoro fischio lanciato da Zerbinetta per annunciare l’inizio della rappresentazione lo riporta brutalmente alla realtà: schiacciato dalla consapevolezza di essersi abbassato a vile compresso, abbandona di corsa il palazzo. Jaspers non avrebbe difficoltà alcuna a considerare il Compositore vittima di quel «sublime deviamento» dal tragico di cui parla nel suo saggio. Sottomettendo tutto sotto l’imperio del Das Tragische e facendo di questo l’unica chiave euristica del mondo, il giovane artista propone una Weltanschauung del tutto fanatica e uniforme. «Con questo mondo non ho niente in comune!» sbotta esasperato. In questo apoftegma è ricapitolata la sua concezione dell’arte e della vita. Quest’ultima è subordinata alla prima in un rapporto meramente ancillare: nulla può essere paragonato alla demonicità dell’arte, alla sua selvaggia grandezza, alla sua irriducibile sublimità; tutto, invece, le deve essere sottomesso e, se necessario, addirittura sacrificato. Così, poiché è sacrilego sia far precedere sia far seguire la tragedia di Arianna dall’arlecchinata, quest’ultima deve essere semplicemente espunta dal programma: «Si accosta loro l’enigma della vita e li prende per mano ed essi domandano una farsa che sciacqui via da quelle teste frivole il senso dell’eterno!» Fanatica, uniforme, ma anche tirannica è la visione del mondo del Compositore: il «senso dell’eterno» diviene strumento di umiliazione e non di elevazione degli uomini, miopia dell’intelletto e non chiaroveggenza, distacco e non partecipazione all’umano patire. Pertanto, tra il regno dello spirito e la vita è negata qualsiasi forma di comunicazione: «Questa gente oltremodo ordinaria vuole gettare un ponte dal mio mondo nel suo!» bercia ancora il Compositore. Ma se difetta la comunicazione, si paralizza anche l’attività esistenziale, la miseria del mondo non risveglia la coscienza e il tra-

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gico si degrada a mero spettacolo, ad algida contemplazione estetica. Dunque, pur ergendosi a implacabile vessillifero del tragico, il Compositore non si avvede di ostentare una burbanza intellettuale che con la coscienza tragica non ha nulla a che fare, giacché questa, è ancora Jaspers a insegnarlo, contiene sempre «il superamento del tragico, […] non già mediante l’insegnamento o la rivelazione, bensì in un supremo richiamo all’ordine, al diritto, all’amore degli uomini, attraverso la fiducia, l’apertura spirituale, la ricerca per se stessa, senza la pretesa di una risposta». Ma vi è di più. Il Compositore non solo non è philos del tragico, ma non lo è neppure della sophia. Scrive ancora Jaspers con la sua consueta incisività aforistica: «Nella concezione tragica originaria troviamo già, ove si conservi allo stato puro, ciò che corrisponde alla vera e propria filosofia: il movimento, l’interrogativo, l’apertura spirituale, la commozione, lo stupore, la veracità, la mancanza di illusioni». 2. «Poco un istante, molte cose uno sguardo» Vero e proprio ‘oppio’ del Compositore è Zerbinetta. Appena entra in scena, ella lascia intravedere, dietro alla sua avvenenza e a una capricciosa nota di coquetterie, una intelligenza acuta e mobile. Zerbinetta è la donna del popolo nella sua più nobile accezione: non si appella ai principi eterni, non si nasconde dietro ad artificiosi giochi di parole, disdegna la vuota retorica dei barbassori, ma parla sempre col cuore al cuore. La sua è la sapienza maturata per le strade del mondo, che ha percorso gustandone i sapori e i suoni, la polvere e il sudore. La piena adesione alla vita, in tutte le forme in cui questa si manifesta, l’ha resa piena di spirito, arguta, intuitiva, accorta, comprensiva delle umane debolezze. È un forziere inesauribile di vezzi, di contrasti cromatici e di sentimenti, questa Zerbinetta: si resta sbalorditi nell’assistere come passa dal dramma

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alla farsa, dalla mestizia all’euforia, dalla malinconia al bonmot, dal pathos più sublime alla civetteria più scollacciata: lo smisurato Rondò (mirabile arazzo dedicato alla memoria del teatro settecentesco, tramato di spunti handeliani-mozartianirossiniani) e il quartetto della Tanzmaskerade (raffinatissimo omaggio alle maschere della commedia dell’arte) sono il paradigma del suo stile fiorito e della sua virtuosistica abilità di trascolorare dall’opera seria all’opera buffa, dalle vampe accecanti e voluttuose agli abbandoni carichi di struggimento. Se il Compositore è tutto teso allo extra-ordinario, a ciò che travalica i confini di questo mondo, nel quale egli si sente come un espatriato, Zerbinetta, al contrario, incarna la noiosa, opaca, ordinaria, santa ferialità. Ella non spia la vita affacciandosi dai templa serena dell’arte, ma vi aderisce, entra nel tempo, partecipa personalmente all’azione, si fa coinvolgere, insomma, dalla vita vera, quella fatta di esseri in carne e ossa che amano e tradiscono, soffrono e ingannano. L’incolmabile distanza tra i due personaggi è raffigurata da Hofmannsthal in rapide, ma vigorose pennellate nel Preludio. Al Compositore, che spiega con saccenteria curialesca quali sentimenti si agitano nel cuore della sventurata Arianna, Zerbinetta replica con una sapidità tutta femminile, mostrando, per dirla con Svevo, come la vita sia di gran lunga più originale della fantasia degli scrittori. «Tu vuoi spiegare a me come siam fatte!»: con una semplice frase ella atterra d’un colpo le costruzioni del poeta, grandiose, certo, e magniloquenti, ma di fatto vuote. Si ode il battito potente della vita, nelle parole di Zerbinetta. Alla tensione verso l’universale e l’assoluto propria del Compositore, ella contrappone l’attenzione all’individuale; non annulla l’esistenza sensibile nell’essere immateriale del concetto, ma ne custodisce la particolarità; non vive in una dimensione meta-temporale, diafana e rarefatta, ma gusta l’irripetibile unicità di ogni istante: «Poco è un istante – molte

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cose uno sguardo. Immaginano molti di conoscermi, ma il loro occhio è opaco. Sul teatro io faccio la civetta, ma chi può dire che recita il mio cuore?» Per un momento il Compositore sembra comprendere che qualcosa di grande e di misterioso lo stia sfiorando, qualcosa di unico, come un improvviso respiro del mare o come una verità mezzo intuita che, se non si cattura subito con il cuore, si volatizza per sempre. Un amore potrebbe nascere tra lui e Zerbinetta? «Tu esprimi ciò che provo. Devo andare. E questo solo istante potrai perderlo?» dice «rapida e delicata» la fanciulla. «Si perde, un solo istante, nelle ere infinite?» le ribatte il Compositore. Entrambi hanno coscienza che l’istante che stanno vivendo, cui non riescono dare un nome tanto li trascende, è soltanto un battito d’ali tenero e fugace, una foglia che pencola in cima a un ramo o il contorno di una nuvola; eppure intuiscono altresì che proprio in quell’istante si cela l’eterno. Ma il fischio sfrontato di Zerbinetta – che è poi la voce stessa della vita, una voce molto spesso impertinente, garrula e sgradevole – riporta il Compositore alla realtà, o meglio alla sua realtà. «Chi ti ha chiesto di trascinare me, me!, in questo mondo?» – apostrofa con rabbia il Maestro di Musica – «Che io resti gelato, consunto e impietrito nel mio!» Il Compositore non avrebbe potuto trovare aggettivi più adatti per descrivere il suo mondo, l’anchilosi del suo spirito, la cecità del suo cuore. 3. Dramma satiresco Se gli elementi costitutivi del tragico sono – secondo il magistero di Jaspers – l’agire nella storia, la molteplicità del vero, il manifestarsi di tante verità quante sono le forze in lotta tra loro e, da ultimo, la catarsi, cioè il superamento del tragico stesso (che si sostanzia in una più alta «comunione tra gli uomini, raggiunta in virtù di una profonda lotta amorosa»), allora figura autentica del tragico non è il Compositore, bensì Zerbinetta.

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«Chi può dire che recita il mio cuore? Sembro allegra, eppure sono triste; mi credono sociale e sono solitaria». Già questa confessione, che tradisce un’oscillazione e una polarità che non annullano mai i diversi termini in una sintesi, fa di lei un personaggio tragico: Zerbinetta è vita calda e anche oscura, è eros uranio e anche pandemio, è luminosità mediterranea e tenebra geroglifica, è l’una e l’altra cosa insieme. È soprattutto lei a conferire all’Ariadne auf Naxos spessore di autentica tragedia. Con un’intuizione davvero geniale Hofmannsthal, mettendo in scena nel medesimo tempo «das lustige und das traurige», ripropone la forma più alta raggiunta dal teatro greco, un drân che prevede, accanto alla tragedia, il dramma satiresco. È noto, infatti, come alla trilogia tragica seguisse un quarto dramma – simile, quanto a struttura, alla tragedia, ma intessuto di gag giocose e spesso irriverenti affidate a dei satiri – che parodiava i grandi miti tragici. Ma la parodia, si sa, non è volgare irrisione, bensì dolente coscienza di una perdita – quella del testo parodiato, appunto – che per la sua grandezza non può più essere raggiunto. «Socrate li costringeva ad ammettere che è proprio dello stesso uomo il saper comporre commedie e tragedie, e che chi è poeta tragico per arte è anche poeta comico». Questo celeberrimo passo del Simposio platonico è il possente Leitmotiv dell’Ariadne. Certo, Hofmannsthal non ha scoperto nulla di nuovo: affatto originale, però, è il sottile gioco di specchi che egli crea con la forma archetipica, un gioco di specchi che a sua volta diviene parodia di una parodia. Il senso della perdita si fa così più acuto: perduti non sono solo i mythoi, ma anche quella grande tradizione che proprio su di essi ha costruito alcune tra le più alte opere dell’ingegno. Una tradizione, un mondo che Hofmannsthal nel 1916, anno della prima rappresentazione dell’Ariadne, vedeva fatalmente avviarsi alla dissoluzione sotto l’urto degli eventi bellici. Dietro a un apparentemente fatuo gioco intellettualistico (ma non si può dire

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lo stesso anche per il Simposio?), la civiltà europea realizzava una delle sue più alte meditazioni estetico-musicali e l’estremo omaggio alla tragedia. Non è un caso, infatti, che l’ultima opera di Hofmannsthal, rimasta peraltro incompiuta, sia Der Turm, che del Tragico esprime ormai l’afasia. 4. L’impossibilità dell’amore La bellezza dell’Ariadne è, forse, tutta riposta nella sua pudica, struggente reticenza. Le volute sontuose della musica straussiana e la sua sgargiante tessitura cromatica non debbono ingannare: un sottile brivido percorre l’intera partitura. Hofmannsthal – e di conserva Strauss, con la sua musica – ripropone lo stesso schema del Rosenkavalier: i tre personaggi principali sono affidati a voci femminili. Così, Octavian, Sophie e la Marschelin trovano i loro corrispettivi nel Compositore, in Arianna e in Zerbinetta. Anche, qui, pertanto, è lecito domandarsi: Zerbinetta è una proiezione del Compositore o viceversa («Tu esprimi ciò che provo» dice enigmaticamente la fanciulla)? Arianna lo è di Zerbinetta (nel grande Rondò si assiste quasi a una sorta di transfert tra le due)? Comunque stiano le cose, l’amore nell’Ariadne non va mai oltre al desiderio di amore (l’agostiniano «amabam amare»). Dell’amore vero, quello vissuto, fatto di carezze, di frasi bisbigliate nell’intimità, di languidi abbandoni, non v’è traccia nell’Ariadne. Persino Zerbinetta, il personaggio più erotico dell’opera se si vuole, non fa che passare da un amante all’altro. Ma i suoi amanti, non si dimentichi, sono solo maschere, fantocci che hanno vita solo per il breve tempo della rappresentazione scenica. A chi si rivolge, allora, il suo amore? Vi è un volto al quale lei possa dire in un sospiro ‘ti amo’? La Tanzmaskerade, con il suo ritmo indiavolato, esprime benissimo questa dispersione schizoide dell’amore, l’impossibilità della sua rappresentazione.

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Persino negli ultimi, davvero splendidi, minuti dell’opera, quelli che dovrebbero segnare il trionfo dell’amore tra Bacco e Arianna, Hofmannsthal e Strauss instillano il dubbio che forse si tratta di un abbaglio. Il baldacchino su cui sono distesi i due amanti si innalza verso il cielo, la musica gareggia con le parole quanto a bellezza, la scena per serenità e morbidezza di colori ricorda il Trionfo di Galatea di Raffaello, ma ecco che una nota stonata sfregia la superficie di questo delizioso bozzetto: Zerbinetta, come si legge nelle note di scena, «esce dalla quinta e ripetendo il Rondò con sarcastico accento di trionfo» canta: «Se il nuovo dio si è avvicinato, ci siamo arrese senza parlar!» L’estremo messaggio di Zerbinetta non potrebbe essere più disincantato: ogni nuovo amante giunge sempre come un dio. Un dio fallace, tuttavia, che non mantiene le promesse, che non salva e che presto abbandonerà l’oggetto del suo capriccioso e momentaneo amore. Tutto, dunque, declina, la breve candela si spegne e la scena di questo mondo passa con la frenesia di un balletto di maschere: resta solo la tensione all’amore, il desiderio nost-algico di far ritorno a una patria che si intuisce esistere da una qualche parte, ma che sempre sfugge e si dilegua.

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Nella fine è il mio inizio Vier letzte Lieder di R. Strauss

Se lo stesso Richard Strauss definì Capriccio (1945), la sua ultima creazione teatrale, un vero e proprio testamento, redatto il quale si deve solo tacere, è lecito considerare i Vier letzte Lieder (Quattro ultimi Lieder) come i codicilli apposti al testamento stesso. Già l’uso di questa terminologia – testamento e codicillo – mutuata dal diritto successorio è eloquente: l’estremo capolavoro straussiano ha a che fare con la morte. Ma attenzione: se Capriccio è collegato all’idea di una fine, solo i Letzte Lieder fanno i conti con la fine, con la propria fine. Infatti, mentre Capriccio è un monumento eretto, sia pure sotto il segno della leggerezza e dell’ironia, a una civiltà raffinata che le due guerre mondiali hanno cancellato per sempre (giusto nel 1944 del grande scrittore ebreo Stefan Zweig, che di Strauss fu librettista prima che la lebbra del nazismo infettasse persino le affinità tra artisti, uscì postumo Il mondo di ieri, vera e propria epopea sul mito della Felix Austria, sul suo splendore e sulle sue fatali contraddizioni); i Quattro ultimi Lieder, invece, fissano lo sguardo im Abendrot, ‘nel tramonto’ (titolo, non a caso, di uno dei Lieder della raccolta) che Strauss vedeva approssimarsi. Intorno alla genesi di questi stupefacenti Lieder si sa solo che loro composizione, su liriche di Hermann Hesse e di Joseph von Eichendorff, avvenne in Svizzera (dove Strauss si ritirò dal 1945 fino al 1948, quando fu assolto dalle accuse di colla-

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borazionismo con il regima nazista) in tempi diversi (il citato Im Abendrot era già abbozzato tra la fine del 1946 e l’inizio del 1947), e che non furono pensati dal loro autore come un ciclo a sè stante. Il fatto, poi, che Strauss sia morto prima di ascoltare il suo estremo capolavoro (che venne eseguito nel 1950 all’Albert Hall di Londra da Wilhelm Furtwängler) contribuisce ad avvolgere questa partitura in un’aura di mesto sortilegio. Scarse, dunque, sono le fonti. Tuttavia, una possibile chiave di accesso per comprendere la Stimmung – l’«acustica dell’anima», come Novalis interpretava questa bellissima parola tedesca che in Stimme (voce) ha la sua radice etimologica – di questa partitura miracolosa può essere offerta proprio dall’esilio coatto in Svizzera. In particolare, è il già richiamato Im Abendrot – il Lied composto per primo, ma collocato, secondo un ordine di successione puramente convenzionale non deciso dal compositore, a suggello della raccolta – a fornire indizi illuminanti. L’eidyllion, il ‘quadretto’ con cui si apre il Lied ricorda, per i suoi toni color pastello e per la sua trasfigurante tenerezza, quello della prima egloga virgiliana, dove Titiro invita l’amico Melibeo a trascorrere la notte presso di lui perché già da lontano fumano i tetti delle fattorie «majoresque cadunt altis de montibus umbrae». La trasparenza opalina e la limpida precisione dei versi di Eichendorff sono rese da Strauss con una modulazione perfetta. È davvero il regno delle umbrae quello che sta avanzando. E avanza sulle note di una melodia che possiede la lucentezza dorata dell’autunno e che pare dischiudere quelle stesse «benefiche immensità» che in Morte a Venezia Tadzio-Ermes addita al morente Aschenbach. Sono gentili, queste ombre, non turbano il cuore, non opprimono l’anima con muti terrori; al contrario, sono come una carezza, come una mano amica che trae a sé. Sono le ombre lunghe del

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pomeriggio avanzato, quando i minuti non passano mai, immobilizzati come sono in una chiarità tenace che rinvia indefinitamente l’oscurità. Sono i minuti in cui gli oggetti che stanno attorno svaniscono in un profilo indecifrabile e lo sguardo pare immerso nel bagliore di una struggente lontananza. In quest’aura di ambigua, serotina e luminosa pace avanzano tenendosi per mano, mentre due allodole intrecciano i loro gorgheggi, il poeta e il suo misterioso compagno di viaggio (forse un amico o la donna amata o la poesia o la musica o l’Altro dal nome indicibile). Sono entrambi stanchi per il lungo cammino: insieme hanno attraversato la vita, di cui hanno conosciuto le seduzioni e le storture, ma ora è giunto «il tempo di dormire». «O pace vasta, silenziosa, / così profonda nel tramonto. / Come siamo stanchi di peregrinare [«Wie sind wir wandermude»]: / è questa forse la morte?» Wandermude: ecco la parola nella quale è stata nascosta la Stimmung dell’intero ciclo liederistico. Parola preziosa ed evocativa quant’altra mai: infatti il Wanderer, il ‘viandante’, è figura romantica per eccellenza. Studiatissima, dunque, è stata la scelta di questo testo poetico: Strauss, che del romanticismo si considerò sempre l’ultimo erede, ha voluto alzare un canto a quella grande cultura, tributarle un estremo saluto, simile a un sorriso dolorosamente amoroso o a uno sguardo tenero e profondo. Un intero mondo sta tramontando; anzi, è già tramontato (e le terribili Metamorphosen, di poco precedenti, ne sono il cupo threnos): di questo il vegliardo di Garmisch ha piena contezza. Forse per i Vier letzte Lieder si potrebbero parafrasare le osservazioni che, nel Doctor Faustus, l’organista Kretzschmar compie sulla Sonata opus 111 di Beethoven: scrivere ancora Lieder dopo questo addio? Impossibile. Tutto è stato fatto: qui il Lied ha raggiunto la fine, la fine senza ritorno. Qui termina il Lied, qui esso ha compiuto la sua missione, toccato la meta oltre la quale non era possibile andare, qui annulla se stesso e prende commiato. Dunque proprio Letzte,

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‘ultimi’, ‘definitivi’ sono questi Lieder, non solo perché sono l’estrema partitura composta da Strauss, ma soprattutto perché concludono un genere musicale e con esso un mondo, una cultura, una sensibilità. Se ciò è vero, anche la scelta di un poeta come Joseph von Eichendroff risulta tutt’altro che casuale. Questi, infatti, fu uno dei massimi poeti del secondo romanticismo tedesco; le sue liriche, tese a cogliere le misteriose corrispondenze tra i sentimenti e la natura, furono messe in musica, tra gli altri, da Franz Schubert (che proprio ai Lieder affidò le sue note più sognanti, più nostalgiche, più strazianti) e da Robert Schumann (basti ricordare capolavori assoluti quali Die Stille, Mondnacht, Frühlingsnacht del ciclo Liederkreis). Lo stesso discorso, in parte, può essere fatto anche per Hermann Hesse (sue sono le altre tre liriche del ciclo: Primavera, Settembre e Andando a dormire). Pure l’eroe di Hesse (Knulp, sopra tutti, ma anche Boccadoro, Siddartha e Josef Knecht) è il Wanderer, il viandante, il randagio anarchico, l’uomo senza casa e senza patria che gira per il mondo. Solo che le sue liriche possiedono zone d’ombra ignote alla grande poesia romantica: esse, infatti, dicono l’occasus dell’Europa, la sua ineluttabile fine, il suo fatale tramonto, pari al declino dell’estate descritto, con accenti di squisita intensità, in Settembre: «Il giardino è in lutto, fresca la pioggia cade sui fiori. L’estate rabbrividisce andando incontro silenziosa alla sua fine. Gocce d’oro di foglia in foglia cadono giù dall’alta acacia, l’estate sorride stupita ed esausta nel sogno morente del giardino».

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Dunque, un senso di incombente dissoluzione sostanzia di sé le liriche di Hesse, anche se questi vi risponde con una impavida tranquillità d’animo. Di qui, forse, la fascinazione esercitata dalle sue liriche su Richard Strauss. Eppure siamo persuasi che la parola Wandermude nasconda qualcosa di più di una malinconica rêverie: in essa, se solo si ascolta con attenzione, risuona altresì una nota affatto autobiografica, quasi una segreta confessione. Forse non ci si discosta troppo lontano dal vero affermare che Strauss abbia voluto rappresentare se stesso quale Wanderer, spogliando però questa parola da tutte le sue suggestioni romantiche. Egli qui è davvero un esule, costretto a stare lontano dalla amatissima Garmisch, proprio negli anni in cui la Heim è il porto conosciuto dal quale è più facile staccarsi per intraprendere l’ultimo viaggio; e soprattutto è un artista che fa seriamente i conti con se stesso, con le sue paure e le sue vanità, per la prima volta nella vita. Proviamo a immaginarcelo, mentre il suo sguardo si perde nel profilo azzurro cesio delle montagne svizzere: è un uomo che ha superato gli ottant’anni e sul quale pende un’accusa infamante; due guerre hanno dissolto non solo un’area geografica, ma addirittura un principio spirituale di cui egli si sentiva l’estrema propaggine; Hugo von Hofmannsthal e Stefan Zweig, i compagni di un sodalizio artistico che nella storia della musica europea non ha precedenti, sono morti. Forse sta pensando proprio a Hofmannsthal, e del suo carissimo amico sta mandando a memoria i versi di Erlebnis (Esperienza), una delle sue poesie più preziose e struggenti: «Una nostalgia senza nome piangeva in silenzio nella mia anima, voleva la vita, piangeva come piange chi in una grande nave con vele gialle, enormi, verso sera su acque azzurro cupo alla città passa vicino, alla città natale. Allora vede

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i vicoli, ascolta il mormorio delle fontane, sente l’odore dei cespi di lillà, vede se stesso bambino, ritto sulla riva, con occhi da bambino che sono in ansia e vogliono piangere, vede, per la finestra aperta, luce, nella sua stanza ma la grande nave lo porta più lontano, scivolando in silenzio su acque azzurro cupe con gialle vele, enormi, di foggia straniera».

Egli, che pure era abituato a viaggiare per tutta l’Europa (oltre che osannato compositore era pure considerato uno dei massimi direttori d’orchestra viventi), solo ora comprende cosa significhi essere un espatriato, un esule. E solo ora la vita ha la meglio sull’arte. A questo punto, però, una gioia sconosciuta lo visita. È come se all’improvviso gli fosse restituito, ma nella misura di dieci volte tanto, tutto ciò che gli era stato sottratto; è come se avesse ricevuto la grazia in punto di morte. È questa grazia che alita – pudica e tremebonda, eppure potente e venerabile – nei Quattro ultimi Lieder. «Ist dies etwa der Tod?», «È questa forse la morte? » si domanda il poeta e con lui il musicista. Risponde il corno, il cui suono – ricolmo di ogni calore, di ogni bontà, di ogni sorriso – si dilata e si espande per divenire tutt’uno con i cieli dell’assoluto.

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Palinodia Das Lied von der Erde di G. Mahler

Vi è un verso in Der Abschild (L’addio) – l’ultimo Lied del Canto della terra (Das Lied von der Erde), la mirabile sinfonia per tenore, contralto e orchestra scritta da Gustav Mahler nel rifugio di Dobbiaco nel 1907 e orchestrata poi a New York nel 1909 – che non solo compendia la Seele di questa, a tutti gli effetti, estrema partitura mahleriana, ma anche ricapitola la fatale tappa raggiunta dal pensiero occidentale nell’ultimo scorcio dell’800 e che trova la sua compiuta formulazione nell’annuncio «Dio è morto» di Nietzsche. Der Abschild canta lo struggente commiato di due amici. Il sole sta tramontando dietro le montagne, le ombre si allungano, la luna «come una barca d’argento dondola sull’azzurro lago del cielo» e il sonno, a poco a poco, doma gli affanni degli uomini e degli animali. Immobile presso un boschetto di abeti, il poeta sta aspettando un amico per offrirgli «la coppa dell’addio». Quando questi finalmente giunge in groppa al suo cavallo, il poeta, quasi volesse spegnere un fuoco che lo sta consumando, gli chiede subito «quale fosse la sua meta e perché dovesse essere così». «Warum?» ripete per due volte il contralto, tradendo uno sgomento che toglie il respiro e segnando uno scarto terrificante tra la parola e la musica. Infatti, se la duplice domanda si colloca ancora entro la grande tradizione del pensiero filosofico dell’occidente – anzi, come si diceva, addirittura ne costituisce una sorta di summa – la musica, invece, ne dice il desolante scacco.

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Massimamente filosofica, infatti, è la inquisitio del poeta. Egli vuole sapere, vuole conoscere, ma conoscere nel senso greco del termine: vuole, cioè, raggiungere l’episteme, parola che funge da testata d’angolo di tutta la filosofia fino, appunto, al fatidico annuncio di Nietzsche. Ma se Dio è morto ecco che il dire, qualsiasi dire, è soltanto balbettio incomprensibile. L’amico non risponde alle domande del poeta: dice solo di voler tornare in una non meglio identificata «Heimat», ma non sa per quali vie. La sua è una erranza che, per dirla con alcuni versi di Machado, si fa con il suo stesso andare. Erranza, non cammino, perché non vi è più alcuna episteme che funga da carta topografica. Di questa fatale parola è Platone a offrire l’etimologia. Nel Cratilo (437a) Socrate dice che essa indica «qualcosa che ferma (istesin) la nostra anima su (epì) le cose», evitandole nello stesso tempo di «essere tratta in giro insieme a esse». Come evoca, dunque, la sua stessa radice etimologica, l’episteme è ciò che, sottratto al moto, si pone come sicuro, stabile, ben saldo, inconcusso. Nella filosofia occidentale, lo stesso rimedio per eccellenza contro l’angoscia esistenziale, vale a dire Dio, è trovato dall’episteme, che si propone di raggiungerlo, quasi di toccarlo, attraverso non un semplice sapere, ma un sapere incontrovertibile. Da qui le grandi costruzioni filosofiche, quegli «edita doctrina sapientium templa serena» di lucreziana memoria che resistono fino a Hegel e a Marx, per essere poi demoliti, come si accennava, dall’annuncio terribile della morte di Dio. Sui loro ruderi debolmente rischiarati dalla luna «una forma selvaggia e spettrale si rannicchia», come si legge in Das trinklied von Jammer der Erde (Il brindisi del dolore della terra), il primo Lied della sinfonia: «È una scimmia! Sentite come le sue urla / erompono stridule nel dolce profumo della vita!» Dinanzi a questi sconci e inarticolati suoni l’interrogazione perde di significato. Ma se si cessa di interrogare, viene meno il carattere ek-statico dell’esserci, giacché non si ek-siste se non interrogando.

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Cosa resta, allora? Solo una nostalgia lacerante, solo il ricordo struggente di una mitica età dell’oro, il vagheggiamento di una giovinezza dello spirito ormai inattingibile. Il terzo (Von der Jugend) e il quarto Lied (Von der Schönheit) della sinfonia cantano proprio questo orizzonte perduto per sempre. Nei due delicati bozzetti del padiglione «di verde e bianca porcellana», dove siede un gruppo di amici intenti a bere, a conversare e a scrivere versi, elegantissimi nei loro abiti di lucente seta, e delle vergini che raccolgono fiori di loto lungo le sponde di un torrente mentre passa un gruppo di giovani in groppa a «fieri cavalli», è ritratta un’intera tradizione, per non dire addirittura un principio spirituale. Il pensiero corre immediatamente alle serene rive dell’Ilisso, il fiume a est di Atene dove sotto un platano frondoso si svolge, accompagnato dal murmure salmodiante di un fonte, il dialogo tra Socrate e Fedro, uno dei vertici della filosofia (e della letteratura) di sempre. Di questo nobile consesso di anime, però, di questa sorridente umanità dedita allo studio e alla ricerca dell’episteme (che ritornerà in un celebratissima pagina della Montagna incantata di Thomas Mann) non resta altro che il ricordo, anzi, meno ancora: appena un’ombra che gli uomini possono recuperare solo quando dormono («Gli uomini, stanchi, camminano verso casa, / per ritrovare, nel sonno, felicità / e giovinezza dimenticate»). Sulle vestigia di quel mondo dove la sophia e la bellezza erano il principio e il fine ora bercia una scimmia ripugnante. L’ultimo, monumentale Lied ricorda da vicino la grande scena della cipolla del Peer Gynt di Ibsen, dove Peer sfoglia tutti gli strati del suo essere senza trovare il nucleo centrale. E proprio come Peer, inseguito senza remissione alcuna da un Passeggero ignoto, anche Mahler affonda nel grembo della Terra-Madre, in un congedo dal mondo e dalla vita nel segno della rinuncia e della rassegnazione. «Dovunque, eternamente / d’azzurro s’illuminano i lontani orizzonti! / Eternamente… eternamente…»: in quell’ewig, ripetuto dal contralto in

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dissolvenza mentre i legni esalano l’ultimo soffio di vita nel pianissimo che conchiude la partitura, si consuma il definitivo Abschied di una vita, di un mondo, di una civiltà. Dopo, solo il silenzio. Questo silenzio, tuttavia, oltre a preconizzare i luttuosi fati della Terra dell’Occasus, potrebbe essere anche il luogo dove una palin-odia, un ‘nuovo canto’ passa all’atto. Il silenzio, infatti, è solo il substratum della musica: ogni nota si iscrive nel silenzio, come ogni parola si iscrive nella pagina bianca. Qui sorge, allora, la capitale domanda: non sarà, il silenzio che suggella Das Lied von der Erde, l’immagine del pensare l’assenza? E, lungi dal considerare che il silenzio sia niente e che solo le note, invece, abbiano un senso, non potrebbe essere, questo silenzio – leopardianamente davvero sovra-umano – il luogo in cui ancora una volta si manifesterà il Logos?

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«O frate, l’ andar su che porta?» Lieder eines fahrenden Gesellen di G. Mahler

Scritto in tempi rapidissimi, tra il Natale del 1884 e il primo gennaio del 1885, su versi propri, il primo ciclo di Lieder orchestrali di Gustav Mahler è costruito sulle confessioni di un immaginario fahrenden Gesellen. Tra le molteplici traduzioni alle quali si presta questa densa locuzione, forse la più rispettosa dello spirito mahleriano è quella che propone ‘compagno di viaggio’, ‘amico girovago’, ‘uno che ci affianca nel cammino’. Apparentemente Mahler sembra recuperare uno dei temi classici della grande liederistica romantica, quello del Wanderer, il viandante, l’uomo senza casa e senza patria, l’anarchico vagabondo magistralmente cantato da Eichendorff, colui, insomma, che ha come solo fine il girovagare per prati e per boschi, pago della sua incoercibile libertà. Pur partendo da questa gloriosa tradizione – che si proponeva pure un alto magistero morale, quello di portare un elemento di disturbo all’interno della torpida vita borghese, convinta che ci si potesse difendere dal brulicare anarcoide del mondo attraverso solidi valori codificati –, Mahler conferisce alla figura del viandante una complessità e una polisemia fino ad allora sconosciute. Intanto, chi è l’occasionale compagno di viaggio che si unisce per un tratto di strada al poeta, e che cosa gli confida? A una prima lettura, viene da pensare a un adolescente che ha appena attraversato una cocente delusione d’amore. Il tema dell’innamorato abbandonato dall’amata per sposare un al-

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tro, pur essendo uno dei più abusati, per non dire addirittura frusti, della letteratura (e di conserva della musica), è però sontuosamente rinnovellato dalla partitura mahleriana, che lo arricchisce di un timbro indicibilmente nostalgico, di incandescenti metafore emozionali, persino di segrete dissonanze. È una conradiana «linea d’ombra» quella che il fahrenden Gesellen supera, e nel contempo è la scoperta di una vocazione che sarà anche il suo fato. «La stagione dei canti è finita» confida il giovane pellegrino: dei canti in cui indugiava ancora l’eco dell’infanzia, verrebbe da dire, in cui, come scrive Hölderlin nella stupenda Einladung, brillava «in volto una serena aurora / che prometteva il più radioso giorno». Lo sgomento dell’adolescente che sente germinare dentro sé emozioni mai provate prima; la sua incapacità di controllare e perfino di dare un nome al nuovo che lo penetra fin nel profondo della sua persona e che sembra rinviare all’infinito la comprensione e l’affermazione di se stesso; i suoi tentativi, ora amarissimi ora tragicomici, di essere in armonia con il fluire del tempo, sono narrati dalla musica di Mahler con una penetrazione poetica davvero straordinaria. Una nuova stagione di canti, tuttavia, si approssima e con essa, come si diceva, la consapevolezza di una vocazione. Il ciclo ‘del compagno giramondo’ – che forse non è del tutto temerario definire una sorta Wilhelm Meister in formato tascabile (pure il romanzo incommensurabile di Goethe inizia con una delusione d’amore, quella di Wilhelm per l’attrice Marianne) – è la storia dell’educazione di una persona alla vita, con tutte le delusioni, gli inciampi, le scoperte e le conquiste che essa comporta e di cui il vagabondaggio è corrusca metafora. Ma soprattutto è un’educazione artistica. Così, se il paesaggio nel quale si avventura questo moderno Wanderer è ancora la penombra amica del bosco, resa più grata dal murmure di torrenti cristallini, dai gorgheggi dei fringuelli e dai teneri colori delle campanule, è solo per dire quanto abissale sia ormai la

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distanza che separa questo dal resto del mondo. «No, no! [La felicità] che intendo mai più rifiorirà!» recita l’ultimo verso del secondo Lied. Uno scarto lacerante e irriducibile, dunque, si registra tra la Schöne Welt, tra il tempo delle cose, che continua a fluire nella sua indifferente e divorante bellezza, e il tempo interiore dell’artista (tema che sarà ripreso, pur con le dovute differenze, nei Kindertotenlieder). E non è un caso che la coscienza della propria vocazione di artista avvenga in primavera, la quale, come si legge nel Tonio Kröger, «è la più atroce delle stagioni», perché coincide con il momento di massima affermazione della vita, dinanzi alla quale il poeta non può che provare un senso di dolente inadeguatezza. La chiaroveggenza dell’artista, la sua capacità di vedere ciò che ai più è precluso, è doron e dolon a un tempo, è prezioso dono e insieme crudele inganno degli dèi, è prorompente forza creativa, ma anche fato sommamente doloroso perché illude di una salvezza che non può in alcun caso concedere: «Ho un coltello rovente / piantato nel mio petto, / […] / Affonda e taglia via / ogni gioia e ogni diletto» recitano infatti i primi versi del terzo Lied. La fanciulla amata, con i suoi capelli biondi e con occhi di un azzurro sognante – quel blaue che diverrà la cifra cromatica ed emozionale della grandissima poesia di Georg Trakl – anticipa già le creature manniane che trovano felice appagamento nella medietà quotidiana in contrapposizione all’artista che di quella medietà ha struggente rimpianto. Il confronto tra questi due mondi, quello della forma e quello del caos, non potrà mai conoscere alcuna sintesi dialettica. Pertanto, i versi che suggellano il quarto e ultimo Lied non devono trarre in inganno: ciò che la parola dice è sconfessato dalla musica. Dopo aver rievocato ancora una volta «il caro, il dolce, il pio passato», come direbbe Micol Finzi-Contini, il fahrenden Gesellen si mette in cammino nel silenzio della notte, avendo

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come unici compagni «amore e pena». Lungo la strada scorge un Lindenbaum, un tiglio, l’albero fatale della liederistica romantica, la cui bellezza scende come un balsamo sulla sua anima esulcerata: «Lungo la strada, un tiglio si leva: / là finalmente in sonno riposai. / Sotto il tiglio, che fiori come neve / su me versava, io dimenticai / come la vita fa male, e tutto fu di nuovo / bello! Tutto! L’amore e la pena / e il mondo e il sogno!» Il viaggio dell’amico giramondo sembra, dunque, concludersi sotto il segno di una superiore riconciliazione, ma la musica, come si accennava, sconfessa con implacabile violenza questa impressione. Il quarto Lied ha l’andamento di una marcia funebre, che è, sì, amara riflessione sulla miseria dell’esistenza, ma anche ironia e autoironia, parodia e autoparodia. Inserendo il Lindebaum, con tutta la serqua di risonanze che a esso si accompagna, Mahler, in un certo qual modo, gareggia con la grande tradizione liederistica (di cui è a pieno titolo, insieme a Richard Strauss, l’ultimo grande erede), quella che principia con Mozart, che si sviluppa con Beethoven e che raggiunge la sua acme con Schubert e Schumann, e ne sente tutta l’incolmabile distanza. Così, il ritmo di marcia funebre impresso all’ultimo Lied della raccolta non è tanto quello dei passi del giovane ramingo, ma piuttosto quello di una intera civiltà che si avviava al tramonto perché minata da un immedicabile cupio dissolvi. Ancora prima di Thomas Mann, che pure gli ha dedicato alcune tra le pagine più geniali e celebrate della Montagna incantata, è Gustav Mahler a capire che dietro il Lindenbaum si nasconde, in realtà, una pericolosa tensione all’abisso o, per dirla con lo stesso Mann, una «simpatia per la morte». Der Lindenbaum è l’unico Lied della Winterreise schubertiana composto in tono maggiore (ed è anche quello la cui melodia si imprime con maggiore facilità nell’orecchio dell’ascoltatore, grazie al suo accattivante sapore popolaresco); ma, come si accennava, questa chiarità non deve ingannare. Essendo un uni-

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cum, un’oasi di sorridente pace all’interno di un cammino che altrimenti si perde per contrade innevate e spazzate dal vento gelido del nord, esso esalta a dismisura la vera Stimmung della Winterreise, che è quella di un irredimibile naufragio esistenziale. Dunque, gli istanti di maggior luce sono soltanto un infingimento, un sogno, un Traum, parola che appunto conchiude la raccolta. A conferma di ciò, quasi a voler ribadire che non vi può essere altro traguardo che l’Abendland, il mortale occasus, ecco che all’atmosfera serena e trasfigurata con la quale sembra terminare il cammino del fahrenden Gesellen segue, dopo un pianissimo che si rivelerà colmo di amaro sarcasmo, una ripresa della marcia funebre – appena accennata, è vero, ma proprio per questo spiazzante quant’altra mai. Sono solo un paio di note, che però hanno il fragore delle «grandi acque» di biblica memoria.

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Sia a voi lieve la terra Kindertotenlieder di G. Mahler

Le pagine che narrano la morte di Nepomuk, il «piccolo messaggero del paese delle fate», e la conseguente pazzia del compositore Adrian Leverkühn sono le più sconvolgenti del Doctor Faustus di Thomas Mann. Come il dantesco messo celeste, che con la mano rimuove dal volto «l’aere grasso» della città di Dite, così Nepomuk – o Echo, come egli stesso si chiamava, con uno strano scambio di consonanti, da quando aveva iniziato a balbettare – riesce in un primo tempo a infondere nel cuore dello zio Adrian una pace mai provata prima di allora. La bellezza del bambino, i suoi vezzi affatto infantili, la sua dolcezza e soprattutto la sua grazia – a tal segno trasfigurante che per Serenus Zeitblom, il narratore, essa assurge a forma archetipica della fanciullezza – riempiono di bene le giornate di Adrian, recano sollievo alla ferite della sua anima e gli infondono perfino la speranza che anch’egli – il solitario, l’artista che ha scelto di vivere dolorosamente separato dal consesso umano – potrà un giorno conoscere il calore di un abbraccio. È amore, parola antica e sempre nuova, quello che egli prova per il nipotino; ma amando egli rompe il patto con il Demonio che gli assicurava ventiquattro anni di potenza creativa in cambio del raffreddamento totale della sua vita e dei suoi rapporti con gli uomini. La penale sarà pesantissima: Nepomuk, dopo giorni di terribile agonia, muore di meningite cerebrospinale. È lecito comporre musica dopo la morte di un bambino? A questa domanda Leverkühn dà una risposta sconvolgente: sì,

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ma dovrà essere una musica tale da annullare se stessa, da annichilire l’idea stessa della musica. Sulla scorta di questo assunto, il novello Faust si accinge a un’impresa terrificante e autenticamente diabolica: realizzare la contraffazione, la simia della partitura che più di tutte si pone come il sigillo di ciò che è buono e nobile, la Nona Sinfonia di Beethoven: «Non dev’essere. Ciò per cui gli uomini hanno combattuto, per cui hanno dato l’assalto alle rocche, ciò che i vincitori hanno annunciato trionfanti, ecco, non deve essere. Viene ritirato. Io lo voglio ritirare». E proprio il cupo «non deve essere» sarà la didascalia musicale sopra i tempi corali e strumentali del suo opus magnum, l’immane oratorio Lamentatio Doctoris Fausti, vero e proprio ‘Inno alla tristezza’. Per certi aspetti opposta – anche se, come si vedrà, non in contrapposizione – è la scelta, dinanzi a un evento egualmente abnorme, di Gustav Mahler, del quale la figura di Adrian è per tanti aspetti debitrice (per tacere di un altro indimenticabile personaggio manniano, Gustav von Aschenbach, che del sommo compositore boemo mutua, insieme al nome, anche molteplici aspetti della complessa sensibilità). È nota la genesi dei Kindertotenlieder (Canti dei bambini morti), composti da Mahler in un lasso di tempo (dall’estate del 1901 al 1904) che comprende altresì la stesura della Quinta e della Sesta sinfonia, nonché i primi abbozzi della Settima. Il titolo è tratto dall’omonima raccolta di quattrocentoquarantotto poesie che Friedrich Rückert (1788-1866) – poeta tra i più emblematici della seconda generazione romantica e tra i più frequentati da musicisti quali Franz Schubert, Robert Schumann e Hugo Wolf – dedicò ai figli Ernst e Luise, morti in tenera età (pare che non sia da escludere il fatto che su Mahler, quando lesse le poesie, abbia agito il ricordo legato al nome del bambino di Rückert, Ernst: così, infatti, si chiamava il suo fratello morto ancora fanciullo. Da segnalare, inoltre,

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che anche Mahler conobbe lo stesso strazio di Rückert: nel 1907, tre anni dopo la composizione dei Kindertotenlieder, egli perdette la figlia primogenita Maria, vittima di una malattia infettiva dell’infanzia). I cinque Lieder che Mahler trae dalla raccolta (da sei poesie, in realtà, anche se il terzo Lied include un’intera strofa di una poesia in un’altra), insieme alla Musica funebre massonica di Mozart e alla Canzona di ringraziamento del Quartetto per archi op. 132 di Beethoven, sono tra le più alte riflessioni che la musica abbia compiuto sul mistero dell’aldilà. La strumentazione raffinatissima (per quanto l’organico orchestrale sia assai ridotto rispetto a quello lussureggiante dell’orchestra sinfonica mahleriana) spalanca luoghi di indicibile mestizia, dai quali ruscella un mondo di ricordi: immagini, voci, colori, volti, abitudini di giorni lontani. Ma vivere, come dice con una folgorante intuizione il grande scrittore argentino Ernesto Sàbato, consiste nel costruire «ricordi futuri» che possono portare malinconia e persino disperazione. E la disperazione, infatti, è l’approdo estremo di Adrian Leverkühn. Tuttavia lo stesso Demonio, nel famoso capitolo XXV del grande libro (forse senza avvedersi che anche le sue male arti, alla fine dei tempi, potrebbero avere lo stesso esito), disquisendo sulla misteriosa contiguità tra la malattia e la creazione artistica, sostiene che «di ciò che è sorto lungo la via della morte e della malattia non poche volte la vita si è impossessata con gioia e se n’è fatta portare avanti e portare più in alto». È ciò che avviene nei Kindertotenlieder. Il rigore stilistico delle poesie di Rückert – è impossibile non avvertire lo sforzo tremendo che si cela dietro l’uso che questi fa della metrica e della rima, le uniche armi con le quali cerca di contrastare l’indicibile dolore che lo ha mutilato – e la musica di Mahler, la cui struggente intimità è esaltata dall’impiego sapiente di

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timbri smorzati e dall’impasto inarrivabile dei legni, sono quasi la prova ontologica di un Senso occulto dell’esistenza, di una speranza a cui è difficile dare un nome, ma che alla fine si dimostra più tenace, persino più vera del garrulo Nulla. Pertanto, il fatto stesso che Adrian abbia fatto qualcosa di così svisceratamente assurdo come scrivere una partitura quando ormai aveva l’assoluta certezza di aver perduto la partita contro il Nemico e che lo attendeva la dannazione eterna, diviene – se si prende per buono il discorso sulla eterogenesi dei fini fatto dal Demonio – la prova schiacciante di una speranza che, per quanto soffocata dalla disperazione, resiste fino allo stremo nella parte più nascosta del cuore umano. Non a caso Zeitblom nel Finale della Lamentatio Doctoris Fausti, con quei gruppi di strumenti che si ritirano uno dopo l’altro fino a spegnersi in un pianissimo, scorge una disperazione a tal punto immedicabile da trascolorare nel suo esatto opposto, intravede un lume nella notte, il miracolo che va oltre la fede. L’arte, dunque, quale cauterio per l’anima striata dal dolore, quale ultimo rifugio contro lo sguardo pietrificante della Gorgone. Il poeta ceco Jiri Orten, che sperimentò sulla propria pelle, in quanto ebreo, la ferocia nazista, riuscì a resistere a un isolamento altrimenti insopportabile solamente grazie alla scrittura. Su uno dei suoi mirabili taccuini, ritrovati solo dopo la sua morte, annota una considerazione che potrebbe fungere da epigrafe ai Kindertotenlieder: «Solo questo è il mio mondo, la mia speranza, la mia fede: scrivere, scrivere fino al limite estremo». Dove è il rischio, anche ciò che salva cresce, canta Hölderlin nella sua stupenda lirica Patmos. Quanto più si è assediati dal dolore, tanto più può aumentare la tensione a trasformarlo in atto creativo. I Kindertotenlieder e la Lamentatio Doctoris Fausti – che dai primi, per molti aspetti, rampolla – lungi dall’escludersi, si integrano a vicenda e dicono come la poesia – e in particolare la musica che della poesia e dell’arte tutta è il fastigio – sia al di là del principio di contraddizione.

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Certo, è possibile che siano davvero cari agli dèi coloro che muoiono senza conoscere il disfacimento del corpo e della mente, il veleno dei vizi e l’amarezza della colpa (paradigmatica, in questo senso, è la tenebrosa fiaba di Andersen Storia di una madre), tuttavia ciò non scalfisce minimamente quella terrificante pietra di inciampo che è la morte. Comunque stiano le cose, Rückert, Mahler, Leverkühn e noi tutti che, dopo la scomparsa di persone amate, vediamo la natura continuare indifferente come se nulla fosse («Ora il sole osa sorgere e splendere ancora, / come se una sciagura nella notte non fosse avvenuta. / La sciagura è avvenuta: certo, a me solo è toccata, / e il sole splende ovunque e per tutti gli altri, là fuori»), non possiamo fare a meno di domandarci: che ne è di loro? dove sono, ora?

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«In hora mortis» Concerto per violino e orchestra ‘Alla memoria di un angelo’ di A. Berg

Una delle fotografie più celebri del secondo conflitto mondiale, che ne dice l’abnorme terribilità, fu scattata a Dresda l’indomani dei terribili bombardamenti che la rasero al suolo tra il 13 e il 15 febbraio 1945. Essa mostra il profilo di una statua in pietra che si staglia sulle rovine della città, dominandole dall’alto. La leggera inclinazione del capo unita alla postura delle braccia – abbassate e un poco rivolte all’indietro rispetto all’asse del corpo – conferiscono alla scultura una intensa drammaticità: è come se si protendesse verso l’abisso sottostante per accertarsi con i propri occhi se quello che è accaduto sia vero. Tuttavia, la dinamicità della figura è raggelata entro una attonita stupefazione che, se da un lato, evoca lo sgomento afasico dinanzi alla distesa sterminata delle macerie, dall’altro suscita una insondabile pietas. Anche questa statua è coinvolta nella catastrofe senza nome e pure lei sembra unire il suo pianto a quello dei superstiti. Essa può essere vista come l’Angelo della Storia: un angelo impotente, che non riesce più a fare argine al dolore del mondo; un angelo che, a dispetto del proprio nome, non annuncia più nulla, giacché l’orrore gli ha legato la lingua. Lo stupore che lo abita è lo stupore stesso della divinità dinanzi a una creazione che le è sfuggita irreparabilmente di mano. Anche se l’angelo, alla cui memoria è dedicato il Concerto per violino e orchestra di Alban Berg, una delle partiture più alte del ‘900, non ha nulla a che vedere con il bombardamento del-

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la nobile città sassone (pur essendone in un certo qual modo la profezia, come vedremo), esso tuttavia sembra possedere la medesima, straziante incredulità dell’angelo di Dresda dinanzi a quella radicale amputazione che è la morte. Composto pochi mesi prima di morire ed eseguito postumo, il Concerto per violino e orchestra fu originariamente commissionato a Alban Berg da Louis Krasner, un famoso violinista americano. Le perplessità iniziali del compositore viennese, restio a scrivere una partitura che avrebbe dovuto esaltare l’abilità virtuosistica del committente, furono spazzate via da un evento luttuoso: la morte per poliomielite della diciottenne Manon Gropius, figlia dell’architetto Walter Gropius e di Alma Mahler. È infatti Manon l’angelo della dedica. «Cosa venuta da ciel in terra a miracol mostrare»: il celeberrimo (e senz’altro abusato) verso dantesco potrebbe trovare qui piena applicazione. Stando alle testimonianze, Manon era davvero una ragazza che ricapitolava in sé quanto vi era di gentile, onesto, bello e luminoso. In Poesia e verità, Goethe, parlando di Charlotte Buff – la Lotte del Werther – usa parole che ci piace immaginare siano state scritte anche per Manon: «Una figura snella, di forme graziose, una natura sana e pura che generava vita attiva, un che di schietto e disinvolto nel superare le necessità quotidiane». Una natura «che generava vita». Il «miracol» mostrato dalla fanciulla era questo. Ella era un inno alla vita, a quel generoso incanto e a quella sorridente benedizione di cui talvolta i giorni degli uomini sono ricolmi. Ma se Manon era generatrice di vita, ecco che la sua morte spegneva non solo una ragazza che era la delizia di chiunque, ma anche, verrebbe da dire, il concetto stesso di vita. Era la vittoria dell’aculeo della morte. La maledizione del vivere risultava essere più forte della più forte delle benedizioni: nessuna parola avrebbe potuto dare voce a questo scandalo. La morte di Manon era in-dicibile,

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faceva regredire all’in-fanzia, all’incapacità di dire, di parlare, di esprimersi compiutamente. Solo l’arte – solo la musica – poteva proseguire là dove la parola subiva rovinoso naufragio: «Prima della fine di quest’anno terribile esprimerò in musica per te, in una partitura che sarà dedicata alla memoria di un angelo, ciò che sento e che non posso esprimere a parole» scrive Berg all’amica Alma. Nonostante le intenzioni del compositore, l’afasia dinanzi alla morte intride però ogni singola nota del Concerto. Che altro sono i primi accordi del violino se non una balbuzie, un tentativo, goffo e insieme disperato, di rimettere ordine dove l’ordine è ormai scomparso per sempre, di iniziare un discorso – non importa se sotto forma di pianto o di grido o di elegiaca rimembranza – che non può avere inizio, perché si è appena consumata la fine di tutto? Eppure questa escruciante dissonanza, questo asserpolarsi delle note, questa anchilosi del suono divengono, paradossalmente, compiuta espressione dello sgomento dell’anima davanti al «duro calle» che suggella ogni esistenza. Come l’angelo di Dresda, così l’angelo di Berg sembra ancora non rendersi pienamente conto dell’abisso che lo sta risucchiando: lo guarda con occhi sbarrati, quasi increduli. E parla e domanda e interroga, ma non ottiene risposta alcuna: si ode solo la massa sonora dell’orchestra che trascina tutto in un turbine vorticoso. Vengono alla memoria alcuni raggelati versi di In hora mortis di Thomas Bernhard: «Più non so una strada che porti fuori / più non so una strada / vieni aiuta / non so più / cosa mi coglierà / in questa notte / […] / Signore / mio Dio / io alla mercé degli uccelli / del battito dell’orologio crepitante / che rende amara la mia anima / e brucia la mia carne». Assoluta è l’incomunicabilità tra il violino e l’orchestra: lo strumento solista tenta in tutti i modi – ora con impennate rabbiose, ora con affondi disperati, ora con effusioni colme

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di malinconia – di dare la scalata all’impervia parete sonora orchestrale, ma sempre è respinto. Di una solidità granitica, è questa parete: la stessa delle porte degli inferi o della pietra rotolata davanti al sepolcro, contro la quale inutilmente si accanisce persino l’arte. Dell’angelo resta solo l’invocazione: certo inappagata e irredenta, inascoltata e rifiutata, ma sempre di invocazione si tratta. Invoca l’angelo di Dresda e invoca l’angelo di Berg. Travolto insieme a noi dalle nostre catastrofi, più materia che spirito, partecipe della nostra fragilità, incapace di annunziare un eu angelion e di mostrare, come invece accadeva nei tempi antichi, la via che fa uscire dalla distretta, questi tuttavia non cessa di invocare. E a forza di invocare a poco a poco si ri-cor-da: ciò che era l’oscuro oggetto della sua invocazione ora si approssima lentamente al suo cuore. È ciò che avviene nel bellissimo movimento finale del Concerto, dove Berg cita il Corale funebre Es ist genug di J. S. Bach, la cui ultima strofa così recita: «È abbastanza. Signore, se lo vuoi, liberami dal giogo! Addio, mondo! Mi avvio alla casa celeste; sicuro e in pace, lasciando quaggiù il mio dolore. È abbastanza».

La necessità spasmodica di dire, imperante nei primi tre movimenti, ora si stempera fino a dissolversi del tutto. Emerge da profondissime plaghe della memoria, il Corale di Bach. È, certo, deformato dalla lontananza, ma pur sempre riconoscibile. Ma ora le parole non occorrono più: ciò che esse dicevano – il duro mestiere di vivere, l’invocazione di aiuto, l’attesa della misericordia divina – ora s’interna nell’invisibile, stigma

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della parola. A questo punto la parola diviene purissima: diviene la Parola. Illuminante è a riguardo un pensiero di Simone Weil: «Quanto più intima è la tragedia, tanto più vicina è la redenzione […]. Essere fino in fondo nella indissolubilità delle contraddizioni. Esserci fino al silenzio più vuoto. Solo allora, forse, sgorgherà la Parola». È ciò che accade negli istanti, davvero vertiginosi, che conchiudono il Concerto: il violino si spinge progressivamente in spazi sonori sempre più acuti, fino a raggiungere un Sol sovracuto che mantiene fino alla fine. Ma la fine è un inizio: quando il suono si spegne del tutto, quando il silenzio si fa «più vuoto», ecco l’epifania del Logos, ecco l’irruzione del Verbum. Ed è di nuovo stupore. Dopo aver ascoltato il Concerto per violino di Berg si riguardi l’angelo di Dresda: ora il suo è lo stupore di chi, dopo aver visto e patito fino in fondo «la indissolubilità delle contraddizioni», ora ode, per dirla con Rilke, «la lingua ove le lingue cessano». Berg fu duramente colpito dall’ascesa al potere di Hitler: la sua musica, bollata come «degenerata», fu presto messa al bando. I diritti d’autore, che gli permettevano una agiata vita borghese, gli vennero così a mancare, rendendo precarie le sue condizioni economiche. Forse non si erra lontano dal vero se si intende il Concerto per violino e orchestra come un Requiem non solo per la giovane Manon Gropius, ma anche per tutto un mondo, quello mitteleuropeo, che di lì a breve sarebbe scomparso, e che toccherà il suo fastigio di orrore nella distruzione di alcune tra le più belle città della Germania, prima fra tutte, appunto, Dresda. La morte di una fanciulla non è meno scandalosa di quella di milioni di altri esseri umani. Se lo si fissa veramente negli occhi, questo radicale deficit dell’universo scardina la nostra vita beneducata e benpensante. Davanti a ogni morte l’orribile è proprio che la vita continui, scriveva il grande Bernanos. Il

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Concerto di Berg, e l’angelo che segretamente lo abita, dopo aver attraverso i nostri lutti e i nostri inferni, invitano a entrare nel silenzio, il solo luogo rimasto per l’improbabile Incontro.

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Studio per una crocifissione Wozzeck di A. Berg

È forse azzardato annoverare, insieme al Don Giovanni, al Flauto magico e alla Passione secondo Matteo, anche il Wozzeck di Alban Berg tra le più sconvolgenti meditazioni che la musica occidentale abbia condotto sul cuore dell’uomo, sui suoi abissi e sulle sue altezze, sulle sue ributtanti latrine e sulla sua indomita tensione a immergersi nel soffio del Tutto? Ed è temerario intenderlo come una vertiginosa rivisitazione delle due diversissime, ma anche contigue, forme del pathein attraverso le quali l’Occidente ha sperimentato il dolore, vale a dire quella dell’eroe tragico e quella del Cristo? Diversissime, perché per tanti aspetti la metafisica del tragico si discosta da quella ebraico-cristiana; ma pure contigue, non fosse altro per quel basso ostinato che risuona, fascinoso e tremendo, nelle pagine sia dei tragici sia degli evangelisti: la Moira, la suprema, invincibile Necessità. Nella tragedia greca la Moira abbatte gli uomini e ne moltiplica i dolori; e i dolori a loro volta generano un immane maelström di colpe che li risucchia: «Non è concesso sfuggire a un male quando un dio lo manda» dice Eteocle ne I sette contro Tebe. E ciò che il dio manda non solo è inevitabile, ma è addirittura impossibile da decifrare, per cui al sapere della sofferenza – che è sia conoscenza immediata e lancinante del dolore (si pensi alla indicibile sequenza in cui il male assale Filottete: «Come mi strazi, piede mio! Ecco, il dolore serpeggia, sale, sale…Eccolo! Ah, non resisto!»), sia consapevolezza della sua ineluttabilità – si aggiunge la sofferenza di non sapere.

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Un residuo di questa inossidabile e infrangibile Necessità non sopravvive anche nei vangeli? Nei racconti dei sinottici vi sono pagine che, se meditate seriamente, sono capaci di togliere il sonno: «Da allora Gesù cominciò a dire apertamente che «doveva («dei») andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani […] e venire ucciso e risuscitare il terzo giorno» si legge in Matteo (16, 21); «Ma prima è necessario che egli soffra molto («dei auton polla pathein») e venga ripudiato da questa generazione» si legge in Luca (17, 25). Certo, Gesù rimprovera Pietro, che davanti a quelle parole si scandalizza, dicendogli che a essere scandalosa è in realtà solo la sua reazione («Tu mi sei di scandalo»), perché dimostra di pensare non secondo Dio, ma secondo gli uomini; eppure non riesce a smorzare la durezza del discorso che ha appena pronunciato. Perché Gesù deve soffrire? È vero, il verbo «dein» contempla alla fine anche la resurrezione, ma ciò non scalfisce lo sgomento sotteso alla domanda (forse la domanda per eccellenza): perché la redenzione deve passare attraverso la croce? Troppi e troppo sofisticati sono i nostri strumenti di difesa; su pagine così incandescenti ci si sofferma per appena un battito di ciglia e poi si passa oltre. E forse non a torto: non erano sempre i tragici a dire che «nel divino non bisogna mai andare troppo oltre»? Quelle del vangelo sono davvero pagine che possono incenerire e far precipitare nella follia, come infatti è successo ai quei pochi – e quindi gli unici che avrebbero il diritto di parlare – che hanno scrutato fino in fondo l’abisso: Nietzche e, tra i grandi personaggi della letteratura, il principe Myškin e Ivan Karamazov, che non a caso Dostoevskij, con quella chiaroveggenza che è solo dei grandi, fa naufragare in un deliquio senza ritorno. Ma con L’idiota e I fratelli Karamazov Dostoevskij ha scritto un quinto evangelo. La passio del mite Myškin e dell’impetuoso Ivan è il risultato della loro kenosis, del loro annichilimento

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per amore degli uomini. Paolo direbbe che essi si sono fatti tutto a tutti, perché hanno sentito a tal punto la sofferenza altrui da trasformarsi in sofferenza e, quindi, in perfetta icona Christi. Paradossalmente l’insania nella quale precipitano è segno di una compiuta imitazione di Cristo, il puro folle, il santo idiota di Nazaret. Questo amore, davvero folle sotto tutti i punti di vista, divampa dalla visione insostenibile del dolore altrui e spinge ad una sorta di metamorfosi nell’altro che soffre. «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me»: questa vertiginosa frase di Paolo coglie meglio di qualunque altra argomentazione la Gestalt, la ragione d’essere degli idioti dostoevskijani, i quali si addossano le tenebre altrui («Agnus Dei qui tollis peccata mundi») fino a trasformarsi essi stessi in tenebra («Cristo si è fatto peccato» dice ancora l’Apostolo). Un discorso simile può essere affrontato anche per Wozzeck, il protagonista dell’omonima opera in tre atti (e quindici scene) che Alban Berg trasse dal Woyzeck del drammaturgo e scrittore tedesco Georg Büchner, opera rimasta incompiuta per la prematura morte del suo autore avvenuta nel 1837 all’età di ventiquattro anni. Come un eroe tragico e come Cristo anche Wozzeck è inchiodato a un dein del quale conosce in anticipo (e senza possibilità di stornarlo) l’esito catastrofico, ma non le cause che l’hanno prodotto. Ne risulta una sofferenza (o meglio, come si è visto prima, una duplice sofferenza, quella che nasce dal dolore esperito con mano e quella di ignorarne le cause che l’anno prodotto) che il complesso ordito musicale intessuto da Berg coglie con una acribia drammaturgia e con una profondità di indagine impressionanti. Dunque il ‘deve’, la greca Moira, è l’elemento demonico del Wozzeck. Tuttavia, per meglio comprenderlo (e per comprendere le enormi implicazioni che da esso derivano), è opportuno richiamare due passi di un altro capolavoro che Büchner scrisse appena venti mesi prima del Woyzeck: La morte di

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Danton. Nel secondo atto Danton pronuncia queste parole definitive: «L’uomo sulla croce se l’è cavata bene: lo scandalo deve venire, ma guai a colui che lo provocherà! Deve, deve, ecco, era questo “deve”! Chi maledirà la mano sulla quale è caduta la maledizione del “deve”? Chi ha decretato questo “deve”? Cos’è ciò che in noi mente, puttaneggia, ruba e assassina? Siamo marionette tenute al filo da forze sconosciute; non siamo niente, per noi stessi, niente!» Poco oltre Büchner sviluppa questo assunto e giunge a conclusioni che, se da una parte ricalcano in modo pressoché fedele quelle cui era arrivata la tragedia greca, dall’altra si spingono verso contrade affatto sconosciute ai tragici (forse solo Euripide aveva intuito qualcosa del genere). Ecco cosa dice Payne, un altro personaggio del dramma buchneriano: «Perché soffro? Questa è la roccia dell’ateismo. Il più piccolo trasalimento del dolore, e sia pur solo in un atomo, provoca un laceramento nella creazione, da cima a fondo». La realtà in cui ogni giorno Wozzeck trascina la sua esistenza è proprio questa, un mondo lacerato, travolto da un delirio che non conosce alcuna requie, frantumato in una miriade di atomi infettati dalla sofferenza. Emblematica a riguardo è la stupefacente scena quarta del secondo atto dove un momento di baldoria dentro una locanda, affollata da garzoni, da soldati e da ragazze che ballano e brindano, diviene metafora viva della condizione umana. Stando alle indicazioni di scena, ci si aspetterebbe un momento di festa, di sanguigna allegria e di sano cedimento agli appetiti del corpo. Ciò tuttavia è sconfessato dalla musica, che crea un’atmosfera da incubo dove la rima tra infelicità e assurdo si fa strettissima. L’inclusione di materiali musicalmente volgari e il ricorso a rozze marcette e a dozzinali canti popolari che paiono disossati dall’interno, creano un impasto di suoni ora acidi, ora sarcastici, ora gelidi; un magma, insomma, dal quale emergono

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tastiere a percussione che colpiscono come fruste d’acciaio, irriverenti soffi di tromba, micidiali viluppi d’archi che si abbattono come sciabolate. Attraverso una musica disfatta, Berg mostra la sudicia realtà del mondo e, in una ideale continuità con Bückner e Mahler, sferra l’ennesimo attacco al Musikgeist occidentale, che aveva conosciuto il suo ultimo momento di gloria con la grande musica romantica. Il Wozzeck fu rappresentato per la prima volta a Berlino nel 1925: alle spalle, dunque, vi erano gli immani mattatoi della Grande guerra e la consapevolezza che il mondo ormai fosse un vortice di atomi e che non potesse più essere accettato e celebrato nella sua globalità, nelle sue possenti contraddizioni. Tuttavia, quasi ricalcando l’antica equazione de-formitas/ Dei-formitas (che raggiunge il suo fastigio nel Servo sofferente di Isaia), questa musica dalla forma liquefatta, con una modulazione che sfalda la consequenzialità dei legami armonici e con un fraseggio che lacera i contorni della melodia, diviene cifra dell’umano. Anche per questa musica si potrebbe parlare di kenosis cristica: essa scende nei gorghi lutulenti del cuore umano e si fa memoria dell’immenso dolore lì accumulato. Nella ricordata scena alla locanda, che raggiunge gli accenti di una cantata profana sulla Passione, Berg rappresenta un’umanità alla deriva, sfregiata da turpitudini e da ingiustizie, consapevole di essere stata cacciata per sempre dall’Eden, ma anche memore della felicità originaria: «L’anima mia, l’anima mia immortale – canta un garzone ubriaco prima di addormentarsi – puzza d’acquavite! Puzza e non so perché! Perché il mondo è così triste? Perfino il denaro va in putrefazione!»È la magna quaestio che nasce dall’attonita consapevolezza del mistero d’iniquità che aggredisce l’anima come una cancrena, rendendola insopportabile all’olfatto: «L’anima mia puzza e non so perché!»

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I personaggi di questa scena potrebbero avere lo stesso sguardo che si ritrova in tante figure di Otto Dix o di Egon Schiele, uno sguardo dal quale fluisce un torrente non solo di angoscia a tratti insostenibile, ma anche di odio e di inimicizia. Eppure in questa umanità in esilio continua a sopravvivere l’insonne richiamo del ritorno, come nelle plebi russe cantate da Dostoevskij. E infatti Wozzeck e sua moglie Marie ricordano da vicino Marmeladov e Sonja di Delitto e castigo, poveri cristi sfregiati dalla vita ai quali «la terra brucia in modo infernale, sì che l’inferno è freddo al confronto», ma proprio per questo gli unici capaci di parlare correttamente di e con Dio. A differenza del Capitano che con pacchiana retorica si permette di pontificare su ciò che è morale e su ciò che invece non lo è (e in questa seconda categoria colloca la nascita del figlio che Wozzeck ha avuto da Marie fuori del matrimonio), Wozzeck possiede una sensibilità, sia pure stremata e lacerata, che si ritrova solo in coloro che sono esperti del male e dell’ombra («Il buon Dio – è la sua replica al Capitano – non starà a guardare per quella povera creatura se sia stato detto l’Amen prima che fosse fatto. Il Signore ha detto: “Lasciate che i piccoli vengano a me”»). Anche Marie è una creatura disfatta dalla vita, cosciente della catastrofe che incombe su di lei (ella intuisce che la passeggiata notturna con Wozzeck lungo lo stagno non le lascerà alcuno scampo, eppure si abbandona ad essa, al fatale invito di Wozzeck – «Komm…, komm…», «Vieni… vieni…» – e al suo pugnale come ad un rito), e anche del male fatto al compagno dopo averlo tradito con il vacuo Tamburmaggiore («Sono proprio una donnaccia, vorrei trafiggermi!»). Ma la vera fede trova il suo terreno più fertile solo in prossimità del liquame: come la prostituta Sonja in Delitto e castigo, così anche Marie, a lume di candela, legge dal vangelo di Giovanni un racconto di resurrezione, quello dell’adultera perdonata: «Redentore! Vorrei ungere i tuoi piedi! Redentore, tu che hai avuto pietà di

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lei, abbi pietà anche di me!» supplica, trasformando le parole in un canto che per alcuni momenti abbandona le laceranti asprezze che dominano il resto della partitura e si fa tenerezza infinita. Eppure qui, anche se invocato, il Redentore non redime nulla. Questi sembra assistere impassibile alla caduta di Wozzeck e Marie: non libera il primo dal male, nonostante la fervida preghiera che gli rivolge (bellissima l’intensità di colore che Berg adopera quando fa recitare a Wozzeck l’ultima parte del Padre nostro), e non salva Marie dalla morte. Come nella Passione, essi sono destinati a recitare fino in fondo la parte che la Necessità ha loro stabilito; entrambi sono crocifissi ed entrambi, come Myškin e Ivan Karamazov, sprofondano nell’abisso: «L’essere umano è un abisso – balbetta Wozzeck – Vengono le vertigini a guardare giù… Mi vengono le vertigini…». L’opera si chiude avvolta in una misteriosa sospensione che è come un grido muto che divora tutti i personaggi. Eppure in questo non-suono (che secondo il mito greco è l’origine della musica) si avverte anche la remota possibilità che l’arte – e la musica in particolare – possa un giorno condurre l’uomo «a riveder le stelle». «Prossimo / è il Dio e difficile è afferrarlo. / Ma dove è il pericolo, cresce / anche ciò che dà salvezza» recitano i primi, abbaglianti versi della lirica Patmo di Hölderlin. Quanto più la musica di Berg si fa grido strozzato, dissonanza, disarticolazione sonora della parola, tanto più si approssima all’uomo e lo redime. Così, il Wozzeck di Berg può essere considerato anche come una grandiosa professione di fede nell’arte e nella sua capacità salvifica. Questa musica salva perché, come Cristo, si fa creatura che soffre, si fa singhiozzo inarticolato, pianto inconsolabile, cuore sfigurato. Prossimo è il Dio. Il senso d’attesa che suggella l’opera, con quella scena che resta completamente vuota dopo che anche

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il bimbo di Marie e di Wozzeck galoppa dietro ai compagni di giochi a cavalcioni di un manico di scopa, sembra preparare una venuta. Forse proprio quella di un Redentore.

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Ignoto milite L’Histoire du Soldat di Igor Stravinskij

Nello splendido Charlot soldato diretto da Charlie Chaplin almeno due sono gli episodi che si imprimono nella mente grazie alla loro forza espressiva. Il primo è Il plotone dei maldestri, che mostra l’addestramento di un gruppo di reclute tra le quali, per goffaggine e inettitudine, si distingue Charlot. A differenza degli altri soldati, che eseguono in modo impeccabile gli ordini, Charlot ha la gestualità legnosa del burattino: si mette sul fianco destro anziché su quello sinistro; mentre esegue il dietrofront le gambe gli si avviticchiano facendogli perdere l’equilibrio; con il calcio del fucile schiaccia il piede del commilitone che gli sta di lato e con la canna colpisce sul naso quello che gli sta alle spalle. Il secondo episodio, invece, ha come protagonista un ufficiale austro-ungarico che passa in rassegna la truppa. Questi è un nanerottolo irascibile e collerico, che porta stampata sul volto una mutria animalesca che ricorda quella del generale nell’omonimo acquarello di George Grosz, l’artista che forse più di qualunque altro denunciò i ceti dirigenti, militari e capitalistici responsabili della disfatta tedesca per la loro avidità di potere e per la loro frenesia ad accumulare denaro che olezzava di sangue (quello di milioni di poveri Charlot macinati dalla Grande guerra) e di sordide collusioni fra gli alti poteri dello Stato e della Chiesa. Come tutti i prepotenti di questo mondo, che tanto più ostentano autorità morale quanto più ne sono privi, l’ufficiale strapazza i suoi soldati che pure di gran lunga lo sovrastano in altezza e vigoria, li

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tiranneggia, li umilia e quando si copre di ridicolo nel tentativo di controllare il buon funzionamento di un fucile, reagisce con una indecenza nemmeno più dissimulata costringendo il povero soldato, che aveva l’unica colpa di essergli toccato in sorte proprio quel fucile, a buscarsi un calcio sul sedere. L’assolutezza, la sacralità, ma anche l’occulta violenza di questi fotogrammi; la capacità squisitamente chapliniana di essere al tempo stesso un mistico e un buffone; la sovrana mescolanza di gioco, di levità e di coraggiosa presa di coscienza dell’insostenibile orrore di esistere si ritrovano anche ne L’histoire du soldat, opera da camera «letta, suonata e danzata» di Igor Stravinskij su testo dello scrittore svizzero Charles-Ferdinand Ramuz, che fu rappresentata per la prima volta al CasinoThéatre di Losanna nel settembre del 1918, lo stesso mese e anno in cui uscì nelle sale cinematografiche Charlot soldato. Il film di Chaplin e la partitura di Stravinskij, oltre a essere una riflessione vertiginosa, condotta quasi in tempo reale, sulla Grande guerra, segnano altresì l’ingresso nel mondo dell’arte del ‘conflitto mondiale’, due parole destinate a metterlo seriamente in crisi, quel mondo, tanto da spingere taluni intellettuali a parlare di impossibilità di fare cultura dopo quegli immani mattatoi. La guerra mondiale, dunque, entra in Charlot soldato e nell’Historie du soldat senza infingimenti, senza consolazioni e senza riguardi per nessuno. Essa è trattata con una ironia e un sarcasmo affilati come rasoi. Ciò che più sgomenta in questi due capolavori è che gli autori non hanno tolto o aggiunto alcunché. La Prima guerra mondiale fu proprio così: le gags di Chaplin e lo spirito corrosivo che sorregge l’intera composizione stravinskijana non sono il risultato dello sguardo deformante dei loro Autori, bensì la spietata fotografia della realtà, che appariva pervasa da una incomprensibile e allucinata comicità. Alle medesime conclusioni giunse pure

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Karl Kraus, uno dei pochi scrittori della sua epoca che riuscì a rappresentare l’Irrapresentabile: «I frequentatori dei teatri di questo mondo – scrive nella premessa de Gli ultimi giorni dell’umanità, il dramma-monstre che iniziò a scrivere nel 1915 mettendo semplicemente insieme articoli di giornali, bollettini di guerra, pezzi di dialoghi raccolti nei caffé viennesi e che pubblicherà completo solo nel 1922 – non saprebbero reggervi. Perché è sangue del loro sangue e sostanza della sostanza di quegli anni irreali, inconcepibili, irraggiungibili da qualsiasi vigile intelletto, inaccessibili a qualsiasi ricordo e conservati soltanto in un sogno cruento, di quegli anni in cui personaggi da operetta recitarono la tragedia dell’umanità. La vicenda, che trascorre per cento scene e cento inferni, è impossibile, frastagliata, priva di eroi come quella. Il suo humor è soltanto l’autoaccusa di uno che non è impazzito all’idea di aver superato a mente sana la testimonianza di quegli avvenimenti». A bene vedere la tecnica usata da Kraus di assemblare un polverio di frammenti e di citazioni è la stessa impiegata da Stravinskij, nella quale il musicista raggiunse (almeno in un certo periodo della sua attività) un dominio e una sapienza tali come forse nessun’altro prima di lui seppe fare. Anche se immediatamente precedente al cosiddetto periodo neoclassico, che segna un ritorno ai moduli e agli stilemi del Settecento (pur sempre sottoposti a una spregiudicata contaminazione da parte del suo incontenibile demone sperimentatore), tuttavia nell’Histoire du soldat è già ravvisabile quel gusto alla raccolta di lacerti provenienti da altri mondi che costituirà poi la cifra della sua successiva produzione. È il caso del Piccolo e Grande corale, dove Stravinskij riprende quell’autentico inno di battaglia della Riforma che è il corale Ein feste Burg ist unser Gott di Bach, composto da Lutero sulla scorta del Salmo 46: «Una solida fortezza è il nostro Dio» inneggia il Coro tra gli squilli della prima tromba e il giubilo degli oboi, in canone con il pedale dell’organo. Qui il simbolismo musicale esprime

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il braccio infallibile di Dio che disperde con potenza e gloria grande rabide torme di diavoli. Stravinskij cita un corale bachiano (e quale corale!) e citandolo lo sfregia, lo mutila, lo distrugge e lo ricompone poi in un modo pressoché irriconoscibile. O meglio: il Corale BWV 80 è irriconoscibile e riconoscibile al tempo stesso, è lui e non è lui; è stato modificato eppure mantiene sempre una continuità con il modello originale: è l’antico e sempre nuovo sortilegio della variazione. Nella variazione, infatti, la musica si fa puro gioco matematico e geometrico, anzi di più: nella variazione la musica si fa sacramento matematico e mistica geometrica. Stravinskij, dunque, deforma Ein feste Burg per adattarlo entro l’ambito che lo ospita, per piegarlo alla morale della storia che sta raccontando, una morale sconfortante che dice l’inevitabile sconfitta dei deboli dinanzi ai grandi di questo mondo. Ed è una deformazione che giunge a invertire il segno algebrico del Corale di Bach. Del resto non potrebbe essere altrimenti. Dio è tutt’altro che un inespugnabile baluardo e un sicuro riparo contro le forze del male: i gas venefici di Ypres e le ciclopiche tempeste d’acciaio che si abbatterono sulle trincee della Marna e della Somme hanno sprofondato l’uomo nell’Insolubile, lasciandogli quale unica certezza l’indifferenza, se non addirittura l’assenza di Dio. «Se anche il mondo fosse pieno di diavoli / che volessero divorarci, / noi non avremmo paura, / perché di certo la spunteremmo» canta il coro in Bach con una sicurezza che non ammette dubbi; ma di tutta questa potenza di suono e di fede nell’Histoire du soldat non resta altro che una manciata di note che si dipanano incerte, smozzicate, zoppicanti, quasi strascicate: il soldato ha perduto la partita contro il Diavolo, che infatti di lì a poco se lo porterà via sulle note di una marcia trionfale. Riprendendo l’antico tema del patto con il Diavolo che da sempre ha esercitato una grande fascinazione sia sugli scrittori – Marlowe, Goethe (il suo Faust, insieme a Don Giovanni

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e a Don Chisciotte, diventerà addirittura uno dei tre miti fondamentali dell’era moderna), Müller, Lenz, Dostoevskij, Gotthelf, Bulgakov, Mann, solo per citarne alcuni – sia sui musicisti (si potrebbero ricordare, in un elenco puramente cursorio, il Der Freischütz di von Weber e tutte quelle composizioni che proprio al Faust goethiano più o meno direttamente sono ispirate, quali il Faust di Gounod, il Mefistofele di Boito, il Doktor Faust di Busoni, La damnation de Faust di Berlioz, la Faust-Symphonie di Litz, per non parlare del The Rake’s progress dello stesso Stravinskij, quasi il sequel dell’Histoire), Ramuz realizza un libretto di straordinaria complessità, che sotto la leggerezza della fiaba cela la veemenza di un pamphlet che fa strame di coloro che si illusero di giocare alla guerra e che dall’estate del 1914 – anno della mobilitazione generale – al 1918 avviarono alle valli d’Acheronte circa venticinque milioni di esseri umani. L’histoire du soldat inizia con un soldato di nome Giuseppe che, reduce dalla guerra, torna a casa in licenza. Il suo passo è scandito da una marcetta che circonfonde la scena di un’aura affatto antieroica: siamo sideralmente lontani dalla pompa (sia pure marezzata di cristallina ironia) spiegata da Mozart ne Le nozze di Figaro, allorché Figaro augura a Cherubino la vittoria e la «gloria militar», o in Così fan tutte, dove un coro di soldati esulta: «Bella vita militar! […] Il fragor di trombe e pifferi, / lo sparar di schioppi e bombe, / forza accresce al braccio e all’anima, / vaga sol di trionfar». Al contrario l’anima di Giuseppe «è impaziente di arrivar / perché è stanco di marciar»; è un’anima segnata da elmetti crivellati dalle mitragliatici, da corpi mutilati, dal frastuono degli obici; è offuscata come lo specchietto reso opaco dal tempo che il soldato conserva, insieme a pochi altri effetti personali, nella sua logora bisaccia (e se lo specchio, tra le altre cose, è simbolo della manifestazione che riflette l’Intelligenza creatrice, la sua opacità non può che tradursi in una eclissi di Dio dalla Storia).

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Il tema dell’anima ferita e umiliata, e per questo più esposta alla caduta, è ripreso nella scena immediatamente successiva dove presso un ruscello appare a Giuseppe il Diavolo sotto le spoglie di un vecchietto che stringe tra le mani un acchiappafarfalle: infatti, se la farfalla è una delle immagini più ricorrenti per rappresentare l’anima (se ne ricorderà Lewis Milestone nella splendida sequenza che suggella All’Ovest niente di nuovo), risulta chiaro a quale preda in realtà il Diavolo stia dando la caccia. Il soldato accetta di barattare il suo violino con un libro magico capace di procurargli facili ricchezze e accetta di seguire l’eccentrico ometto a casa sua per insegnargli a suonare lo strumento solo per tre giorni e dietro la promessa di essere trattato con tutti i riguardi. «Allora d’accordo: sono il vostro soldato!» è la formula che suggella il patto. Ma il Diavolo muta i tre giorni in tre anni, e quando Giuseppe torna a casa non è riconosciuto né dal suo migliore amico, né da sua madre, né dalla sua fidanzata, che nel frattempo si è sposata. «Mi hanno scambiato per un morto ritornato – si dispera il soldato – un fantasma tra i viventi! Me disgraziato! / Perché mai ti ho assecondato / quel mattino disgraziato!» Gli abissi di sofferenza che si spalancano dietro al filastrocca di Ramuz furono senz’altro capiti quando L’histoire du soldat fu rappresentata per la prima volta in quel remoto settembre del 1918: la guerra, che avrebbe dovuto esaurirsi nel volgere di pochi mesi, si era trasformata in un immane tritacarne che nessuno era più stato capace a fermare, e la promessa di una facile vittoria millantata dagli stati maggiori dell’esercito si era impantanata, insieme a milioni di poveri Giuseppe, nelle trincee. «Una bestia sono stato!» riconosce il soldato al colmo della disperazione. Ma ormai è troppo tardi: il Diavolo esercita su di lui un potere assoluto, come risulta nella scena successiva dove gli Autori, con impressionante chiaroveggenza, mostrarono di aver afferrato la nuova etica della guerra inaugurata dal primo conflitto mondiale, e cioè lo sfigurar-

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si del corpo, l’annientamento della persona, la metamorfosi dell’essere umano in carne generica (da Leib in Körper) senza volto e senza nome. Come un burattinaio il Diavolo piega ai suoi comandi il povero soldato con ordini secchi e imperiosi in cui è già preconizzata la prepotenza del Capitano su Wozzeck nell’omonima opera di Alban Berg e quella del sergente Hartman su Palla-di-lardo in Full metal jacket di Stanley Kubrick. I soldati sono solo macchine per uccidere ai quali si richiede una obbedienza «usque ad effusionem sanguinis». In coerenza a questa logica, il vero eroe non è più colui che riesce a raggiungere l’omerico kleos, la ‘fama’ imperitura del proprio nome in virtù di azioni sprezzanti del pericolo, ma il Milite Ignoto, colui che seppe fare l’esatto opposto, che seppe cioè disfarsi della propria personalità. Il grande sociologo francese Roger Coilois in Vertigine della guerra ha scritto a riguardo pagine definitive: «La venerazione pubblica è riservata d’ora in poi al miserabile il cui corpo ha perso più di ogni altro la sua forma ed è stato il più maciullato; e colui il cui volto è sfigurato sino a perdere qualsiasi sembianza umana non poteva evocare più alcun ricordo né conservare una fisionomia in alcuna memoria. L’anonimato divenne così […] un titolo di gloria». Dopo essere passato attraverso il grande lavacro della ideologia e trasformato in docile animale da soma, il nostro soldato può tranquillamente procedere senza farsi più alcuna domanda nel Paese delle Ombre: «Il militare […] dove è che va? Non lo sa nemmeno lui. […] Sulla strada di Pieve al Mar / marcia ancora il militar? / ma no: una patria più non ha… / Ora dove se ne va?» Infatti, poteva essere ancora chiamata ‘patria’ il vitello d’oro che il Leviatano aveva costruito con le ceneri della Heimat? La marcetta di Stravinskij sembra commentare passo a passo questa trasformazione: è ironica, sgangherata, urticante, volgare (di una volgarità, però, squisita), magistralmente dilettantesca, sarcastica. Soprattutto sarcastica. E forse è proprio il sarcasmo la cifra de L’histoire du soldat, un sarcasmo

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adoperato come corpo contundente, come micidiale legge di contrappasso. La parola sarcasmo deriva dal verbo greco sarkazo che significa ‘lacerare la carne’, ‘fare a brandelli’. Non potrebbe darsi, allora, che Stravinskij si sia servito proprio di questa musica per vendicare i Giuseppe fatti a pezzi sui campi di battaglia, riservando la medesima sorte ai Potenti che, con imperdonabile avventatezza, scoperchiarono gli inferi?

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Un mirabile compendio del pensiero occidentale The rake’s progress di I. Stravinskij

Uno dei tanti sentieri ermeneutici che si possono percorrere per approssimarsi al nucleo eidetico di The rake’s progress di Igor Stravinskij – solo approssimarsi, giacché per giungere alla piena comprensione di questa incantevole e tenebrosa fiaba bisognerebbe tornare bambini, gli unici esseri che della fiaba ancora vedono la luce dolce e sognante, calda e violenta, velenosa e rasserenante – potrebbe essere quello di considerarlo una ripresa, poi sviluppata con esiti imprevedibili grazie a una ebbrezza creativa travolgente, dell’Histoire du soldat. Infatti se l’Histoire è un’allucinata riflessione, anch’essa camuffata da fiaba, sulla guerra che stava ancora spremendo nel tino dell’ira milioni di uomini e insieme un impietoso ritratto dei «personaggi da operetta che recitarono la tragedia dell’umanità», come scriveva Kark Kraus nel suo monumentale Gli ultimi giorni dell’umanità; La carriera di un libertino, che debuttò nel settembre del 1951 alla Fenice di Venezia, è invece un compiuto trattato di demonologia, dove sono ricapitolate le idee infere che, dopo aver imbarcato nel 1914 l’Europa sulla nave del nocchiero stigio, la farà poi sprofondare tra le fiamme del secondo conflitto mondiale. Il suicidio dell’Occidente; una mostruosa guerra civile (l’ultima di una lunga teoria) durata oltre trent’anni; le radici cattive di un continente capaci di bel nuovo di far germogliare, se non si avrà spirito vigile, polloni ancora più velenosi: questo, in breve, l’argomento del Rake.

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Numerose sono gli elementi di continuità tra le due partiture stravinskijane. Intanto, anche nel Libertino i personaggi principali sono un giovane, Rakewell, insoddisfatto della propria vita, e il Diavolo (che qui ha l’eloquente nome di Nick Shadow). Identico, poi, è il miraggio di facili ricchezze e di potere di cui il Tentatore si serve per ghermire l’anima del giovane. Ritorna, ancora, la partita a carte con il Demonio e la maledizione che questi lancia dopo essere stato vinto. È riproposto, infine, il tema della forza salvifica e consolatoria della musica (che nell’Histoire strappa al sonno di morte la figlia del re e nel Libertino conforta Rakewell, la cui mente è precipitata nella follia, e i suoi compagni di manicomio). Tuttavia, se numerose sono le suggestioni che accomunano le due opere, affatto diverso, invece, ne è lo sviluppo artistico. L’Histoire du soldat, per l’occasione in cui fu composta e per l’originalità del linguaggio musicale impiegato (prodotto di una brillante contaminazione tra generi diversi che Stravinskij utilizzò per ridare alla musica, dopo la grande abbuffata del wagnerismo e dell’espressionismo francese, la sua funzione di commento sonoro dei sentimenti), rimanda, per così dire, al genere del reportage; La carriera di un libertino, invece, culmine del cosiddetto ‘neoclassicismo’ stravinskijano, dominato dallo sforzo davvero enciclopedico di cogliere in un unico abbraccio le grandi forme musicali del passato, richiama il genere del trattato. Del trattato, infatti, ha i tempi, il respiro, l’ampiezza, l’inesorabile solidità del ragionamento e il rigore dell’esposizione. Fin dalla prima scena è annunciata la coppia antinomica menzogna (che già fungeva da basso continuo dell’Histoire) / amore, la quale funge da pietra di posa su cui saranno elevate le rutilanti guglie del Libertino. Siamo in Inghilterra nel secolo dei Lumi. In un tiepido pomeriggio di primavera, nel giardino di Trulove, un compassato gentleman di campagna,

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Anne, sua figlia, e Tom Rakewell si scambiano dolci gesti d’affetto. «Amore non dice bugie e negli occhi d’Amore vediamo la nostra futura condizione» cantano totalmente sottomessi all’ardore della passione, alla luce meridiana della giovinezza e all’incanto del paesaggio che li circonda. L’idillio è interrotto dal padre di Anna che annuncia a Rakewell di avergli trovato, grazie alle sue influenti relazioni con alcuni pezzi grossi della City di Londra, un buon impiego presso un ufficio di contabilità. Rakewell si schermisce, dicendo di non poter accettare la generosa offerta perché altri e più ambiziosi sono i suoi progetti. Il vecchio Trulove si adonta, ma a smorzarne il cattivo umore giunge uno sconosciuto, Nick Shadow, che comunica a Rakewell di essere l’erede di una favolosa fortuna lasciatagli da un lontano zio, di cui fu fedele servitore fino alla morte. «Io vi porto un brillante futuro»: le prime parole pronunciate da Shadow sono già intrise di menzogna, tanto che ad udirle è impossibile non avvertire un brivido di gelo correre lungo la schiena. Ma la menzogna si fa a tal punto sfacciata che, non provando più vergogna per se stessa, finisce paradossalmente per rivelarsi tale e quindi per dire la verità. Parlando del ricchissimo zio di cui fu solerte famulo, Shadow racconta che «il profitto fu per lui, davvero, famiglia, amico, ora di divertimento, vita», ma che «tutta la sua splendida discendenza d’oro non poté confortarlo quando si trovò sul punto di morire». Questo dunque è il «bright future» che attende Rakewell: morire disperato circondato dall’oro. In un brevissimo dialogo è racchiusa la laida carnevalata che pochi anni prima aveva svenduto a prezzi stracciati i valori della democrazia e del liberalismo, della cultura e del vivere civile, in una licenza nemmeno più ipocritamente dissimulata che aveva condotto ad un solo risultato: la morte dell’Europa. «Well, he is dead» dice Shadow parlando del suo padrone: ma il pensiero corre anche agli innumerevoli mondi che furono semplicemente cancellati dal libro della Storia dall’immane la-

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vacro di sangue del Secolo breve. «Rimani come mio Destino e guida» implora Rakewell. L’essenza del demoniaco è proprio quella di sedurre promettendo abbondanza, felicità e un futuro radioso. «Chi è simile alla Bestia e chi può combattere con essa?» si legge nell’Apocalisse. Chi è simile alla nostra guida e chi mai opera i suoi prodigi?, hanno gridato migliaia di giovani nello stadio di Norimberga e sotto Palazzo Venezia. Ma con la vita non si scherza e nessuno può partecipare all’orgia e sgattaiolare via di nascosto un po’ prima della mezzanotte: «Tra un anno e un giorno faremo il rendiconto – risponde Shadow a Rakewell che gli aveva domandato l’entità del compenso per tenerlo con sé quale consigliere – e allora, vi assicuro, mi pagherete né più né meno di ciò che voi stesso riterrete opportuno». E con la scusa di condurlo a Londra per sbrigare gli atti burocratici relativi all’eredità, Nick Shadow avvia il Libertino lungo il sentiero che conduce ai regni acherontei. A questo punto, con una improvvisa sortita di teatro nel teatro, il diabolico servitore si rivolge al pubblico e trionfante esclama (immaginiamo che un ghigno stia deformando la sua bocca in una sconcia ferita) : «The progress of a rake begins!» La cena successiva, ambientata nel bordello di Mother Goose a Londra, è senz’altro la più significativa circa gli effetti devastanti di una paideia che perverte le idee e le trasforma in ideologie, in idoli barbarici che pretendono cieca obbedienza e grassi olocausti. Circondato da giovanotti e da prostitute che inneggiano alle raffinate arti di Cupido (il pensiero corre a tante pagine dei Carmina burana, pervase da una intensa carica sensuale e da una scanzonata atmosfera goliardica, o agli schiamazzi di studenti e soldati tra i tavolacci della cantina di Auerbach di goethiana memoria e gloria), sedotto dalle malie di un postribolo che se fossimo scenografi realizzeremmo sulla falsariga delle maisons closes di Toulouse-Lautrec, Rakewell è sottoposto da Shadow e dalla sugnosa maîtresse ad una interrogazione che è la irriverente caricatura dei dialoghi platonici.

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Richiestogli in che cosa consista il Bello, il Piacere e l’Amore, il Libertino propone definizioni che sono la scimmiottatura di quelle formulate lungo i secoli dal pensiero occidentale, partendo appunto da Platone. Per Rakewell il Bello «è fonte di piacere per gli occhi, giovinezza lo possiede, astuzia lo ghermisce, denaro lo compra, invidia cerca di spregialo ma mente; ha una sola pecca: è mortale». Sono parole che avrebbero spinto Socrate a bere d’anticipo la coppa di cicuta. Nel Simposio, infatti, il filosofo ateniese sostiene che il Bello è una forma del Bene e che è forza capace di far rinascere le ali a Eros. E Amore, a sua volta, non è che «desiderio di fruire pulchritudine», secondo la bella formula di Marsilio Ficino, e aspirazione all’immortalità. Il legame, già strettissimo, tra Eros e Bellezza si accentua ancora di più nel Fedro, dove Eros è presentato come un daimon, un essere intermedio tra gli dèi e gli uomini, capace di riaccendere il ricordo del Bello anche mediante l’occhio sensibile nella dimensione del fisico, per cui attraverso la bellezza dei corpi prima, e delle anime e delle attività umane e delle leggi poi, è possibile giungere al vertice della scala erotica che è il Bello-in-sé. Anche se le successive forme del Bello si allontaneranno da un ideale di bellezza oggettiva per finire addirittura a ripensare il brutto e a riconoscergli un valore estetico, il Simposio e il Fedro resteranno opere con le quali la filosofia dovrà sempre fare i conti. Quanto, poi, al Piacere, esso è definito da Rakewell come «l’idolo di ogni sogno, sempre lo stesso, qualsivoglia forma o nome prendere voglia». A questo tema sempre Platone ha dedicato uno specifico dialogo, il Filebo, il cui argomento filosofico è la vita felice, la quale consiste nell’unione tra piacere e conoscenza in una superiore sintesi dominata dall’intelligenza (ancora una volta, dunque, siamo sideralmente lontani dalla definizione proposta da Tom). Ora, senza voler insistere troppo sui (possibili) rimandi platonici presenti in esergo al dialogo tra Rakewell e Mother Goose,

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resta quanto meno la sensazione di una irriverente, sarcastica, abrasiva contraffazione della dialettica socratica, di quella filologia, di quell’arte del dialogo che per Socrate era il lievito e il sale di ogni vivere civile. Pertanto, facendo il verso al metodo socratico – che consisteva nel dubbio metodico, nella precisione definitoria, nel rigore critico, nella tolleranza e nell’ascolto delle opinioni altrui – Stravinskij e con lui Wystan Hugh Auden e Chaster Kalmann, i due geniali letterati ai quali si deve uno dei più bei libretti d’opera di sempre, hanno rappresentato l’imbarbarimento dell’Occidente che sfociò nelle due guerre mondiali. Mother Goose ricorda da vicino i ‘Ministri della verità’ in 1984 di Orwell, i quali grazie a un uso spregiudicato della propaganda portano i cervelli all’ammasso, spacciando la guerra per pace, la libertà per schiavitù e l’ignoranza per forza. Nelle risposte di Rakewell ora parla il fanatico indottrinato ora invece colui che, terrorizzato dalla brutta piega che potrebbero prendere gli eventi, tradisce i propri ideali e mente con consapevolezza, pronunciando le parole che Mother Goose si aspetta di avere come risposta. Tutta l’interrogazione (o forse a questo punto sarebbe meglio parlare di interrogatorio) si svolge in un clima di malcelata intimidazione. Ad esempio, quando alla domanda «Amore è…?» Rakewell, memore dell’affetto che ancora prova per la sua Anne, sembra sul punto di cedere, Shadow gli si avvicina e, con un sussiego che in realtà gronda violenza, gli dice: «Nessuna risposta? Vuole, il mio dotto allievo, farmi sfigurare?» (Si avverte in questa domanda retorica l’insopportabile tanfo della minaccia gabellata per cortesia di cui la polizia segreta di tanti totalitarismi ha fatto largo uso). Rakewell, come si accennava, ha come uno scatto d’orgoglio e al suono di un orologio a cucù tenta di fuggire dal bordello, ma con un incantesimo Shadow riporta le lancette dell’orologio indietro di un’ora. «Guardate! – ridacchia – Il tempo è vostro. Le ore obbediscono alla vostra volontà. Non temete, godete. Vi potete pentire con comodo». Sono pochi

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versi soltanto, ma aprono una importante questione di ordine teologico. Le parole di Shadow sono una ennesima prova dello spirito di menzogna che lo possiede. «Non c’è più tempo» annuncia l’Angelo dell’Apocalisse; «Vi potete pentire con comodo» ribatte invece quegli. Il ribaltamento non potrebbe essere più radicale. Il tempo apocalittico non conosce più l’attesa: «Omnia facta sunt», «Ecco, le cose di prima sono passate». Se di tempo ancora si tratta, esso è unicamente quello della De-cisione: o dalla parte di Colui che annuncia il vertiginoso Novum o contro. Il tempo di Shadow, invece, è quello della decisione sempre reiterata (simia, ancora una volta, di quella apocalittica, che è ultima e definitiva), la quale pretende di comprehendere la Fine e di innalzarsi sopra di essa. Ma coluiche-si-innalza è uno dei tanti nomi dell’Antico Nemico. La frase «il tempo è vostro» suona diabolicamente sarcastica sulle labbra di Shadow, perché è ben vero che secondo l’annunciopromessa dell’Apocalisse il tempo, ora, è totalmente e irrevocabilmente dell’uomo, ma è un tempo rigoroso, inflessibile, che non ammette dilazioni: ora o mai più. Il tempo di Shadow, al contrario, è il tempo del rinvio tartufesco, che promette la possibilità di ritornare sui propri passi come se nulla fosse accaduto. Questa sottile, ma esiziale tentazione, che inocula la sicumera di poter flirtare impunemente con le forze demoniache della Storia senza capirne le cause e prevederne le conseguenze, è la stessa in cui caddero tanti nei primi decenni del secolo breve: per loro il «vi potete pentire con comodo» si trasformò alla fine in una mesta e sbiadita iscrizione funeraria. Dopo averne compromesso le fondamenta, Shadow ha buon gioco per continuare la sua inflessibile opera di corruzione. Una volta appagata la bramosia di possesso del suo pupillo, il Tentatore si accinge ora a esaudirne il desiderio di felicità, la cui strada maestra, come egli stesso ammonisce, passa attraverso la libertà: «Suvvia, padrone, osservate l’umanità nel suo insieme. Com’è? Infelice. Perché? Perché non è libera. […]

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Vorreste essere felice? Allora imparate ad agire liberamente. Vorreste agire liberamente? Allora imparate ad ignorare quella coppia di tiranni che sono il desiderio e la coscienza. […] Realizza pienamente il proprio destino solo colui che è veramente libero». Ma la libertà così intesa ancora una volta è la mala copia di quella vera e non tarda a trasformarsi in trasgressione fine a se stessa. Quale atto di somma libertà Shadow suggerisce a Rakewell di sposare Baba la Turca, una sorta di fenomeno da baraccone a tal segno ripugnante che «soldati coraggiosi, che non sono mai arretrati di fronte al crepitio dei moschetti, sono svenuti dopo averle dato solo un’occhiata». Il Libertino si lascia persuadere: «Quale impresa è più grande – canta trionfante Shadow – che l’unirsi a una Gorgone? Tutto il mondo ammirerà Tom Rakewell, il signore!» È impossibile non andare con la mente a Nikolaj Stavrogin, l’eroe nero dei Demonî di Dostoevskij, che per il puro gusto di fare il male per il male sposa Maria Lebjadkina, una povera demente. A questo punto la discesa agli inferi si fa inarrestabile. Anzi, diventa tanto più veloce quanto più il bulimico Tom vede saziati i propri appetiti. Il Libertino è dominato da una irrequietezza che non conosce remissione alcuna (una eco dello Streben di Faust?) e da una noia che gli avvelena la vita: «Ho il cuore freddo, ma non posso piangere: mi è rimasto un sol rimedio: dormire». Mentre dorme, Shadow entra in scena spingendo una macchina capace di trasformare le pietre in pane, ma una dimostrazione ad uso del pubblico rivela che trattasi di un inganno. Al suo risveglio, grande è lo stupore di Rakewell di trovarsi davanti la stessa macchina che ha veduto in sogno. È raggiante: grazie al marchingegno, dice, potrà debellare la fame e la miseria del mondo e diventare così un benefattore dell’umanità. Nell’atto terzo si vedrà poi come l’uzzolo di costruire in serie la macchina lo farà precipitare in una umiliante bancarotta. Ma non è questo che importa. Ciò che preme rilevare è che, accendendo nell’animo di Tom il

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desiderio di essere buono, Shadow realizza il suo capolavoro. Ancora una volta conviene partire dal testo: «Grazie a questo straordinario congegno – esulta Rakewell – l’uomo rientrerà in Paradiso. […] Il mondo sarà, per la seconda volta, simile al cielo. […] Quando con suo gran sollievo fatica, fame, povertà e dolore saranno svaniti come un sogno, Adamo scatenerà intorno a questa macchina frenetiche urla di gioia e di profonda estasi. […] Lui, Onnipotente perchè forte della sua scoperta ed onusto di gloria imperitura, ascenderà al punto più alto del creato per conquistare il trono di natura e dare inizio al suo trono perpetuo». Con queste parole il nichilismo (e Shadow di conserva) raggiunge il suo trionfo. Per dirla con Kirillov, altro immenso personaggio dei Demonî, il Dio-uomo si è trasformato in Uomo-dio: «Chi vincerà il dolore e la paura – sentenzia Kirillov – sarà lui Dio. E quell’altro Dio non ci sarà più». È il «nichilismo della fine», come lo chiama il filosofo Sergio Givone, alludendo alla metamorfosi del nichilismo «puramente reattivo», che vedeva nella realtà qualcosa da distruggere, in uno «giocoso e conciliante» ma altrettanto tremendo. Giocoso e conciliante perché in modo subdolo, senza far rumore, concilia l’uomo con il suo destino di morte, passando sotto silenzio il dubbio che possa trattarsi di una colossale menzogna. In realtà, scrive Givone in Dostoevskij e la filosofia, «prospettando un orizzonte in cui senso e non senso possono tranquillamente sovrapporsi, esso apre lo spazio di una teoria e di una pratica finalmente autonoma, in cui a dettar legge non è l’essere, non è la pienezza della vita, ma il nulla. […] In ogni caso a farne le spese è la libertà: ridotta ad arbitrio sempre e comunque violento, concepita in funzione aggressiva, sfigurata a potenza negativa se non diabolica». Ancora una volta il Novecento può accampare a riguardo un ben triste primato: regimi che si proponevano di portare l’uomo in Paradiso, come stolidamente canta Rakewell, hanno realizzato invero solo una oscena contraffazione della libertà. «Non v’è bugia così incredibile che,

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se ci si provi, non riesci a rendere accettabile» è il commento dell’inseparabile Shadow, illuminante nella sua brutalità. «Chi è la?» domanda Rakewell quando si desta dal sonno. «La vostra ombra, padrone» risponde Shadow. La traduzione italiana, però, perde il sottile doppio gioco di parole della versione inglese: «Who’s there?» - «Your Shadow, Master». Come se fossimo nella scena clou di Persona di Bergman, vediamo il volto del Libertino trascolorare in quello del suo tentatore: l’uno è il Doppelgänger dell’altro. L’Europa ha conosciuto una tragica scissione interiore (a riguardo il riferimento al Sosia di Dostoevskij e al Ragno nero di Gotthelf è d’obbligo): non riconoscendo se stessa anche come shadow, come ombra e quindi, fuor di metafora, rimanendo cieca dinanzi ai demonî che albergano in lei, ha finito per scotomizzarli. Solo l’Europa della grande cultura, dei filosofi, dei musicisti, degli uomini di lettere è vera, mentre il suo sosia è fantastico: questo era l’infingimento, destinato, però, a crollare perché l’ombra non abbandona mai il corpo che la proietta e quando meno la si attende essa salta fuori e lo guata con il suo sguardo raggelante. Alla luce di queste considerazioni può essere letta la morale che tutti i personaggi del Rake proclamano dalla ribalta alla fine dell’opera: «In ogni tempo, in ogni terra, sotto la luna ed il sole, questo proverbio si è rivelato vero da quando Eva se ne andò con Adamo: per mani, cuori, menti oziose il Diavolo un’occupazione, un lavoro per voi, caro Signore, e per voi, gentile Signora». Se dunque rimarrà oziosa senza riflettere sul proprio sosia notturno e sul modo di convivere con esso, se chiuderà gli occhi dinanzi alla parte patologica della sua storia, a quella che tende a ripetersi e a divenire una costante, l’Europa sarà condannata a ripercorrere le medesime strade che conducono al precipizio. Un’ultima osservazione incombe farla sul libretto scritto, come ricordato, da Wystan Hugh Auden con la collaborazio-

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ne di Chester Kallman. L’aggettivo enciclopedico, già usato per la partitura stravinskijana, può essere impiegato anche per il libretto: come un esperto e indomito funambolo, Auden si muove tra secoli di letteratura con sbalorditiva agilità. Le sacre scritture, la lirica cortese, i madrigali, le canzoni sacre e profane su su fino ai sommi autori (Marlowe, Shakespeare, Goethe, Schopenauer, Kierkegaard, Dostoevskij, Mann, Eliot): non v’è genere che egli non abbia visitato. L’esito di questo vero e proprio viaggio ulisseico è una fiaba dalla squisita fattura, semplicissima eppure complessissima (dal punto di vista filosofico, teologico, letterario, linguistico, estetico e drammaturgico) come tutte le fiabe. La musica si muove a tempo con il libretto e ne è superbo esegeta. Il risultato, come scrisse in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera (raccolto poi nel volume Prime alla Scala) Eugenio Montale, uno dei fortunati che assistette alla prima in quel lontano undici settembre 1951, è «un delizioso lavoro di ebanista, di stipettaio; un’opera che tira come una pipa Dunhill di vecchia radica. Non ho mai inteso nulla di così squisitamente legnoso e raffinato». Altri e ben diversi undici settembre avrebbero poi messo in crisi la fede nella libertà, nel progresso e nella bellezza. Eppure, come scrive sempre Auden ne Lo scudo di Perseo, raccolta di acuti saggi sul leggere e sullo scrivere, «ogni do in registro acuto suonato come si deve demolisce la teoria secondo la quale noi saremmo le irresponsabili marionette del fato e del caso». In questo senso The rake’s progress resta un atto di fede senza riserve nell’umanesimo liberale.

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Delle favole antiche La piccola volpe astuta di L. Janáček

Una piccola volpe dal pelo fulvo e lucente di nome Bystrouska diviene per tre uomini – un guardacaccia, un parroco e un maestro di scuola – l’allegoria struggente della vita, della sua inafferrabilità, dei suoi appuntamenti mancati e delle sue occasioni non colte, delle piccole cicatrici che giorno dopo giorno incide sul cuore, ma anche della sua misteriosa, poetica, prepotente forza: questa, in sintesi, la trama de La piccola volpe astuta, l’opera in tre atti che Leóš Janáček ha tratto dal romanzo omonimo – in Cecoslovacchia un vero e proprio classico per l’infanzia – di Rudolf Těsnohlídek . La struttura del racconto è perfettamente circolare: l’opera si apre con un sogno e con un sogno termina, tanto che è difficile dire con certezza se la vicenda narrata sia essa stessa un sogno. È l’elemento onirico, infatti, prima ancora di quello fiabesco, a costituire l’ordito di questa stupenda favola dove il mondo degli uomini e quello degli animali si ritrovano uniti nell’abbraccio della Natura, il solo posto, sembra suggerire il grande compositore ceco, dove possono trovare finalmente pace gli affanni e i contrasti. Tutti i personaggi principali hanno a che fare con il sogno, o perché di fatto si addormentano, come il Guardacaccia, o perché di un sogno sono rimasti prigionieri, come il Curato e il Maestro. Persino Bystrouska sogna; anzi, è proprio il suo sogno a dis-velare gli inconfessati rimpianti e le nostalgiche memorie che si agitano nel cuore dei tre uomini. Siamo nel primo atto dell’o-

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pera. Dopo averla catturata, il Guardacaccia porta Bystrouska a casa, ma qui la volpe deve difendersi a morsi dagli appetiti sessuali del cane Lapak e dalle molestie dei bambini, che si divertono a percuoterla sul muso con un bastone. Legata a una corda, Bystrouska si accuccia in un angolo del cortile e, sopraffatta dalla tristezza, si addormenta. Sogna allora di essere una fanciulla e di danzare e di correre libera per la foresta, salutata dalla voce festante del tasso e della rana, dello scoiattolo e del riccio, della ghiandaia e del picchio, della libellula e del grillo. Dunque è una meta-morphosis quella che avviene nel sogno; ma come insegna la mitologia greca e latina la mutazione della morphe, anziché porsi in contraddizione con una identità, al contrario ne segna la compiuta realizzazione. Trans-formandosi in una ragazza che corre ebbra di luce e aria per boschi e prati, Bystrouska dà forma e nel contempo libera il fantasma che il Parroco e il Maestro avevano rinchiuso nelle cantine della memoria nel vano tentativo di esorcizzarlo. Perfetto simbolo oppositivo: la corda che stringe la volpe è anche il grimaldello che fa saltare la serratura della gabbia dove sono rinchiusi i ricordi più o-sceni, quelli che debbono stare lontano dalla vista, perché soltanto rimuovendoli si può trovare un rimedio, per quanto effimero possa essere, alla loro negatività. La metamorfosi di Bystrouska in volpe trova una sorprendete coincidenza con una fiaba cinese, nella quale si narra di un giovanotto che convive con una ragazza che in realtà è una volpe. I genitori, preoccupati per questa unione a dir poco singolare, si rivolgono a un monaco buddhista perché attraverso opportuni riti liberi il figlio da quel nefasto amore. Dopo aver compulsato i suoi libri, il monaco scopre che quell’unione era la conseguenza di una vita anteriore nella quale il ragazzo si era reso colpevole di un amore troppo intenso. Ora, a parte l’importanza che nella fiaba riveste la dottrina della metempsicosi, è quanto meno interessante notare come

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nella fiaba cinese appena richiamata la volpe sia un simbolo legato alla conoscenza, capace di mostrare agli esseri umani, come se fosse uno specchio, i loro pensieri più riposti. Così avviene anche nella fabula narrata con arte squisita da Janáček: Bystrouska è l’alter ego della zingara Terynka, la fanciulla di cui si erano innamorati in anni lontani il Curato e il Maestro (e forse pure dal Guardacaccia, come certe sottili allusioni sembrano far credere) e il cui ricordo non ha mai cessato di visitarli. Come la piccola volpe, anche Terynka è inafferrabile e randagia (non a caso è l’unico personaggio dell’opera a non apparire sulla scena, anche se la sua assenza non fa accrescerne lo spessore drammatico), si fa beffe di tutto e di tutti e ha in odio i legami che possono limitarne la libertà. Eppure anche Terynka come Bystrouska finirà per essere presa al laccio: Harasta, un venditore ambulante di polli, annuncia trionfante il suo imminente matrimonio con lei. Ma a questo annuncio segue la (inevitabile) morte di Bystrouska. Fingendosi zoppa, l’astuto animale attira Harusta nel bosco, dove inciampa e cade. Mentre questi si lamenta per le ferite, la volpe insieme ai suoi volpacchiotti fa strage di galline, finché Harusta, furioso, non la uccide con un colpo di fucile. Risulta evidente il gioco di corrispondenze tra la morte della volpe e il matrimonio (inteso come rinuncia a un’esistenza libera) di Terynka. Pur con le dovute differenze, Terynka (e Bystrouska, giacché insieme formano una vera e propria endiadi) richiama alla memoria altri due indimenticabili personaggi femminili del teatro lirico: Lulu e Carmen. Numerosi sono i punti tra loro in comune: tutte e tre sono donne libere e coraggiose, che si abbandonano al soffio panico e randagio di eros e a una vita fatta di istanti di breve felicità, di derive nostalgiche, di estasi vagabonde. È un’esistenza divorante, la loro, simile a una fiamma che, ingigantita da un repentino soffio di vento, tutto distrugge in una vampata per poi subito spengersi. Simile, poi, è la fine: la morte violenta mediante una pugnalata per Lulu

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e Carmen, e mediante un colpo d’arma da fuoco per TerynkaBystrouska. Come le protagoniste degli eponimi capolavori di Alban Berg e di George Bizet, così anche la piccola volpe astuta di Janáček sembra abbandonarsi alla morte come a un rito, necessario perché la vita possa riprendere, rinnovata, il suo corso. Ecco affacciarsi ancora una volta l’antico e sempre nuovo binomio eros-thanatos a indicare l’assoluta impossibilità di addivenire a una superiore pienezza: non è possibile amare senza che l’oggetto d’amore diventi anche il proprio carnefice, non è possibile la felicità senza il dolore, non è possibile la vita senza la morte (e le figure di don Josè, di Jack lo Squartatore e di Harusta sono in questo senso eloquenti). Non si deve, però, dimenticare che La piccola volpe astuta resta pur sempre (e prima di tutto) una favola e che della favola possiede l’incanto, la leggerezza e la stupefazione. Bystrouska è, sì, uccisa, ma la sua morte (voluta dallo stesso Janáček con una intuizione davvero geniale giacché altrimenti la fabula avrebbe perduto tanto del suo spessore filosofico) segna una autentica palingenesi. Come già si accennava, nel quadro che suggella l’opera («valle arida, cupa, la stessa dell’atto I. Raggi di sole dopo la pioggia», recitano le indicazioni di scena) troviamo di nuovo il Guardacaccia che si addormenta sotto un albero. Di nuovo sogna una piccola volpe, in tutto e per tutto identica a Bystrouska, solo che, quando tenta di acciuffarla, non ci riesce, perché stringere tra le mani Bystrouska equivarrebbe a possedere il segreto stesso della vita, cosa severamente proibita ai mortali. Ma giunto a questo punto, lo spettatore non sa più dove si trova: «È una fiaba o è tutto vero? Fiaba o verità?» si domanda lo stesso Guardacaccia. «Tempo e spazio non esistono» scrive Strindberg presentando Il sogno. Anche ne La piccola volpe astuta le lancette del tempo si sciolgono come gli orologi di Dalì e lo spazio acquista contorni sfumati e incerti: sono il

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tempo e lo spazio dell’uomo interiore, quelli delle emozioni che più contano, dell’amore e della nostalgia, della tenerezza e del gioco. Il Guardacaccia, sovrastato dalla bellezza della valle e ammaliato dalle voci sonore della foresta, ritorna con la mente al giorno successivo alle sue nozze, quando egli e sua moglie, poco più che ragazzi, si erano recati in quello stesso luogo e lì, quasi novelli Adamo ed Eva, se ne erano rimasti per lunghe ore a scambiarsi innumerevoli baci: «Quanti anni sono trascorsi da quando due giovani sono passati da qui? Lei era come un giovane abete, lui come una cupa foresta. E raccoglievano funghi, li calpestavano, li schiacciavano, perché l’amore ci aveva accecati. Ma molte volte coglievamo baci: quanti baci coglievamo!» Quell’angolo di bosco, insomma, è per il Guardacaccia il bergmaniano ‘posto delle fragole’, il luogo del tempo interiore dove restano intatte e sono restituite la semplicità e le speranze di quando la vita ci camminava innanzi. Il monologo finale del Guardacaccia è forse il vertice di tutta l’opera: il gelido battito delle ali del tempo, il sospetto che la propria vita sia solo un viaggio con naufragio, le dissonanze del cuore e le aritmie della storia, ma pure i giorni felici fatti di risate e di carezze, di passeggiate senza meta e di frivoli pettegolezzi, l’abbandono all’amore, all’amicizia e soprattutto alla familiarità del quotidiano, trovano in questa pagina una grandezza artistica pari a quella di un Re Lear («E così vivremo, e pregheremo, e canteremo, e ci racconteremo antiche storie, e sorridendo alle farfalle dorate, udremo le novelle di corte dalla bocca di poveri vagabondi») o di un Falstaff («Tutto declina. Va’ vecchio John; va’, va’ per la tua via, cammina finché tu muoia»). Eppure, anche se continuamente si affaccia con la sua maschera ghignante, la morte qui perde tanto del suo veleno: a chi vive i giorni feriali con il cuore della festa e fa di ciascun attimo una caparra di eternità, l’oscura Nemica non può fare

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paura. Questo clima di rasserenante abbandono al flusso della vita è enfatizzato dalla foresta. Infatti, grazie al mondo di colori e di suoni, di odori e di sapori che essa racchiude e alla confidenza che riesce a creare con questo mondo, la foresta è lo scenario più adatto per colui che vede approssimarsi il fatale incontro e si sente nel contempo inserito nel cerchio senza fine delle generazioni degli uomini di cui egli stesso, come recita uno stupendo verso omerico, non è altro che una delle innumerevoli foglie che il bosco fa germogliare in primavera. Il riferimento a Omero non è peregrino, perché nell’opera di Janáček si respira proprio una serenità classica, la quale è consapevolezza, cioè, accettata con pacata rassegnazione, che l’uomo ritornerà al niente semplicemente perché è niente. Pagana è la favola de La piccola volpe astuta, ma è un paganesimo che, attraverso la musica di Janáček (la quale, procedendo per giustapposizione di motivi sempre rinnovati, evoca il rinnovamento inesauribile della Natura), ricorda quello leopardiano dell’ode Alla primavera, in cui forse, al di là di tutto, pare risplendere la coscienza di un destino capace di vincere il dolore e la morte.

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«Maestra di violenza» Sinfonie n° 7 («Leningrado») e n° 8 di D. Šostakovič

Nella Guerra del Peloponneso Tucidide, parlando della strage dei supplici che si erano rifugiati nei templi di Corcira nella speranza di avere salva la vita, osserva che la guerra è «maestra di violenza». È con spirito tucidideo, fatto di lucido disincanto, di dolente scetticismo e di rigore asciutto fino alla secchezza, che Dmitrij Šostakovič ha composto la Settima e la Ottava sinfonia, che insieme formano un ideale dittico sui deliri e sulle perversioni della Seconda guerra mondiale e sui suoi Leviatani totalitari. Scritta nei primi mesi dell’assedio nazista di Leningrado che durò per novecento giorni, dal 1941 al 1943, la Settima fu eseguita per la prima volta nell’agosto del 1942. Verrebbe da dire che l’assedio di Leningrado sia stata una delle pagine più ‘gloriose’ della storia russa se non fosse che questo aggettivo potrebbe prestarsi a una sacrosanta accusa di lenocinio estetizzante: è difficile, infatti, trovare la luce in una città dove dei due milioni e mezzo di abitanti ne morirono più di settecentomila soprattutto per il freddo e per l’inedia. Come Varsavia, Dresda e Hiroschima, anche Leningrado rappresenta l’apogeo della negazione dell’umano. Abbandonata da Stalin e votata alla distruzione da Hitler, priva di acqua, di cibo, di gas, di corrente elettrica, con le strade ingombre di migliaia di morti insepolti, Leningrado è il volto oscuro della creazione e prova provata di un male metastorico che sfugge a ogni sguardo e che si avventa sull’uomo per trasformarlo, come scrive Do-

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stoevskij nei Demonî, in un «insetto immondo, vile, crudele, egoista». Eppure l’assedio di Leningrado mostra anche un’altra faccia che dice, se non l’aspetto luminoso, ché sarebbe troppo e perfino blasfemo, almeno la forza irriducibile della vita. Sotto i bombardamenti, tra le epidemie e la fame, in mezzo all’intimità oscena con la morte, Leningrado, la città di Pietro il Grande e di Caterina II, di Puškin e di Dostoevskij, resistette appellandosi ad un valore che formava un tutt’uno inestricabile con la sua storia: la cultura. Nonostante l’assedio si tennero regolarmente concerti; i corsi di pittura dell’Accademia non furono interrotti; i musei e le biblioteche rimasero aperti anche sotto temperature polari. Rispetto agli abitanti di Leningrado, la sanguinaria rapacità degli invasori nazisti si sgonfia all’improvviso e appare in tutta la sua immane imbecillità. La cultura non è capace di salvare il mondo, tuttavia senza di essa le nostre contraddizioni sarebbero ancora più tortuose e le ambiguità ancora più indecifrabili. La forza demonica della vita soverchia la cultura (ma questo la vera cultura lo ha sempre saputo), eppure grazie a questa riusciamo qualche volta a scandagliare l’abisso e a evitare di sfracellarci contro gli scogli. Nessuna parola, nessun suono, nessun quadro potrà mai valere le lacrime di un bambino o la sofferenza di un innocente, ma le più belle creazioni formali dello spirito umano, quali il sonetto o la forma-sonata, restano un’opera di fede nella disperazione e, sia pure per pochi istanti (ma sono istanti decisivi), sono davvero capaci di strapparci allo sconforto e di aprire i nostri occhi al sogno e i nostri cuori alla profezia. E se si considera l’immenso mattatoio che è la Storia, quegli istanti, certo fragili e fugaci, hanno del miracoloso e per questo debbono essere protetti come la pupilla del nostro occhio. A differenza di tanta cultura che ha il suono fesso di una moneta falsa e che si sdilinquisce in un dereistico autocompiaci-

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mento o, peggio ancora, in una vergognosa autoassoluzione, tanto da trasformarsi in una latrina dell’edificante, quella cui si appellarono i cittadini di Leningrado fu una cultura che si fece carne e storia, che scese nell’informe e nell’insensato, che ebbe l’ardire di guardare dritto negli occhi l’insondabile e l’indicibile. La lucidità tucididea di Šostakovič mantiene entro l’alveo della grande arte una musica che, se si pensa alla temperie storica in cui fu scritta, facilmente poteva svilirsi in un panegirico stentoreo dello spirito di resistenza russo (e nelle intenzioni del Despota di tutte le Russie senz’altro avrebbe dovuto toccare questo approdo). Invece, come Ulisse legato all’albero della nave, Šostakovič resiste alle sirene del potere e la sua Sinfonia «Leningrado» resta il documento, terribile e spietato, di una ferita immedicabile come quella di Filottete o come quella cantata dal profeta Geremia (Ger 8, 22): «Non c’è più un balsamo, non c’è più nessun medico? Perché non si cicatrizza la ferita del mio popolo?» L’incubo inizia fin dai primi accordi. Nel tema con cui si apre il primo movimento (Allegretto) sotto una friabile pellicola stanno germinando elementi inquietanti, simili a micidiali ordigni ad orologeria. Se fosse una sequenza cinematografica sarebbe una panoramica dall’alto della metropoli, colta in un momento di sinistra immobilità. Segue poi un breve e elusivo intermezzo affidato agli archi e ai fagotti che descrive la vita a Leningrado in tempo di pace. La parentesi lirica è però presto interrotta da un rullo di tamburi che, appena percepibile all’inizio, acquista viepiù in potenza e velocità fino a raggiungere gli estremi accenti del parossismo: è la ciclopica passacaglia con (dodici) variazioni del primo movimento, una marcetta solo in apparenza banale perché in realtà nasconde una fitta trama di significati. Oltre a rappresentare l’avanzata irrefrenabile dell’invasore, la marcetta, i cui colori brillanti trascolorano a poco a poco in un frastuono demoniaco, coglie lo spirito con cui gli uomini da sempre (e soprattutto nel Novecento) intendono la guerra:

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come festosa esaltazione, come necessario lavacro nel quale purificare la rozzezza dei tempi, come avventura rigenerativa che in breve tempo dovrebbe condurre a una palingenesi. Ma una volta innescata, la guerra sfugge a ogni controllo e la cosiddetta ‘guerra lampo’ diviene un pantano di anni e di cadaveri. La metamorfosi sonora della marcetta segna anche la fine dell’innocenza di tanti giovani soldati che furono strappati da un mondo dove si giocava solo a fare i soldati, un mondo fatto di riti domestici e di festività da celebrare in famiglia, di abiti puliti e di case confortevoli, con la falsa promessa che la guerra sarebbe durata appena una manciata di mesi e che si sarebbe conclusa con l’inevitabile vittoria (Heinrich Böll con il suo racconto capolavoro Il treno era in ritardo ha lasciato un affresco indelebile di questa generazione perduta). Solo la grande arte è capace di smascherare in modo così impudico la menzogna e nello stesso tempo di cantare la sacralità della vita. Il terzo movimento (Adagio) è un intenso Requiem per tutti coloro, russi e tedeschi, che sono passati attraverso la grande tribolazione: il pensiero corre al sublime pezzo per soprano della Cantata Aleksander Nevskij di Prokofiev e alle bellissime immagini dell’omonimo film di Ėjzenštejn, con la distesa di ghiaccio punteggiata di cadaveri di entrambe le parti in lotta, o alle ultime pagine della Ciociara di Moravia, quella in cui Rosetta, che ha conosciuto nel corpo e nell’anima gli insulti della guerra, intona piangendo una canzonetta, trovando in essa una misteriosa consolazione: «Quelle lacrime lei le piangeva […] per se stessa e per tutti coloro che la guerra aveva colpito, massacrato e stravolto». L’ultimo movimento (Allegro non troppo), pur essendo un grido liberatorio, uno sputo in faccia all’aguzzino (che resta una delle più grandi lezioni di dignità, superiore a tanti ça ira e a tante bandiere), contiene delle ombreggiature che saranno riprese e sviluppate in un pessimismo radicale nell’Ottava

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sinfonia. Questo movimento avrebbe dovuto segnare lo zenit del Do maggiore, la tonalità più solare di tutte, ma qualcosa non gira nel verso giusto. Ne risulta una luminosità opaca, sporca, ambigua, che cela spaventosi coni d’ombra. Anche la luce troppo intensa può uccidere: è l’eterno mito di Apollo che scuoia il satiro Marsia. I demonî che la Settima a stento era riuscita a ricacciare nell’abisso ritornano più numerosi che mai nell’Ottava sinfonia, come gli spiriti immondi della parabola lucana. Se nella «Leningrado», nonostante tutto, si avverte ancora lo struggente bisogno di cogliere un orizzonte di senso al di là dell’orrore, nella Ottava ogni consolazione è azzerata. La Storia, dice il principe Amleto, è un racconto di fantasmi, gli stessi che affollano la partitura fin dal primo, sconvolgente movimento (Adagio), il quale, attraverso un crescendo da vertigine, si spinge là dove la musica non aveva mai osato avventurarsi: rappresentare il male assoluto. Scritta nel 1943, l’Ottava è una grandiosa danse macabre: vengono alla mente i quadri di Bosh, con i loro lunghi cortei di dannati che scompaiono nelle fauci dell’Averno in mezzo a una ridda di creature mostruose. In questa partitura è scomparso non già l’uomo, ma l’idea stessa di umanità. L’assedio nazista è ormai preistoria: l’Ottava è già oltre, già contempla Hiroschima, la piccola vietnamita Kim Phuc che fugge nuda con il corpo abraso dal napalm, la Cambogia, Sarajewo, Srebrenika, il Ruanda, il Darfur, l’Iraq. Come nella sequenza finale del Settimo sigillo, qui le vittime avanzano a milioni tenendosi per mano guidate dalla Morte, solo che non c’è più la pioggia che «lava le loro guance dal sale delle lacrime». La certezza apodittica sull’inesistenza di una via di salvezza non ne offusca, però, il rimpianto. Ed ecco il quinto e ultimo movimento (Allegretto), pensato come una parodia della redenzione, della speranza, di Dio. Ma la parodia, come ha

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scritto Claudio Magris con la consueta acutezza, non è dissacrazione o irriverenza, bensì «nostalgia per qualcosa di perduto e inattingibile, che non può essere raggiunto e espresso direttamente». Questo Allegretto ricorda il finale posticcio del Giobbe, dove le parole «ora i miei occhi ti hanno veduto» suonano come irridente sberleffo e come terribile atto d’accusa pronunciato dalla creatura contro il Creatore, ma anche come cocente disillusione e insostenibile nostalgia per un Dio padre. Eppure si fa fatica a dire che l’Ottava sia pervasa da un irriducibile ateismo di fondo. Certo Dio è assente; anzi, totalmente assente. Però c’è l’uomo, umiliato e offeso, creatura fragilissima, un nulla che soffre, che la povera carta per musica dell’Ottava cerca in qualche modo di salvare. Quando fu eseguita, l’Ottava sinfonia fu stroncata dalla critica ufficiale, la cui unica ragione d’essere era assecondare i gusti del Tiranno. Troppo ardita, infatti, troppo profetica, troppo libera, questa sinfonia, perché potesse incontrare il favore di Stalin, al quale certo non dovette sfuggire il sarcasmo acido verso ogni genere di oppressione di cui essa era trapunta. Con l’Ottava Dmitrij Šostakovič ha offerto, così, anche una impareggiabile testimonianza di libertà intellettuale, ricordandoci come i suoni che terminano in -ismo portano con sé l’insopportabile tanfo della propaganda, e che il vero intellettuale non deve mai rifiutarsi di testimoniare la sua verità, anche se questa può costargli l’eresia e il rogo.

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«La vecchia bugia» War Requiem di B. Britten

«La negazione: ecco il mio Dio». Della celebre formula attribuita al critico letterario Belinskij, Fëdor Dostoevskij nei Demonî immagina quali potrebbero essere i frutti qualora essa fosse inculcata nelle giovani menti. Con lo sguardo implacabile dell’entomologo, Dostoevskij segue passo a passo la progressiva catabasi dei suoi personaggi che culmina nel loro sdoppiamento. Epitome di questa atomizzazione dell’Io è Nikolaj Stavrogin, da cui – è lui stesso a scriverlo nel biglietto che sarà trovato dopo il suo suicidio – «non è uscita altro che negazione». La negazione svuota dall’interno la vita, che diviene «ironica», come la chiama Pëtr Verkovienskij, perché il suo solo scopo è la sistematica irrisione del significato delle parole, le quali sono trasformate nel loro esatto contrario. Per cui il delitto, dice sempre Pëtr Verkovenskij, «non è più pazzia, ma un atto di buon senso, quasi un dovere; per lo meno una nobile protesta». La contraffazione della verità e l’irrisione programmatica delle parole e del loro significato si fanno conclusive con il nazionalsocialismo. Nulla sfuggì al suo parossismo caricaturale, neppure i capolavori della grande tradizione musicale tedesca. Tra il 14 e il 15 novembre del 1940 la città inglese di Coventry, nei pressi di Birmingham, fu rasa al suolo (da cui l’odioso verbo ‘coventrizzare’, coniato dalla propaganda fascista) da ondate ininterrotte di incursioni dell’aereonautica tedesca. Il raid, che avvenne quale rappresaglia per il bombardamento di Mo-

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naco, culla del nazismo, fu chiamato in codice dal comando tedesco Sonata al chiaro di luna, denominazione che richiama subito alla mente, anche a chi conosce poco o nulla di musica classica, l’omonima partitura di Ludwig van Beethoven. Il nomignolo, destinato ad avere grande fortuna, della Sonata in do diesis minore op. 27 n. 2 non fu coniato dal suo Autore (che preferì la dicitura «Quasi una Fantasia»), bensì dal poeta Ludwig Rellstab, che ritrovò nel capolavoro beethoveniano le suggestioni da lui provate durante un plenilunio sul lago di Lucerna. È nota l’enorme e duratura influenza che sul repertorio pianistico ebbero le sonate del sommo compositore di Bonn. In particolare, il trittico costituito dalla Patetica, dall’Appassionata e dal Chiaro di luna, scritto appena un decennio dopo l’ultima sonata di Mozart, mette in crisi il principio dialettico ternario proprio della forma-sonata e apre un’epoca del tutto nuova, se non di rottura con il mondo stilistico e spirituale del Settecento, almeno di ricerca. Nella Sonata al chiaro di luna il «grande cuore di Beethoven», come lo chiama Wittgenstein, e lo splendore della forma sono già compiutamente dispiegati. La Mondschein-Sonate, dunque, è un vero e proprio monumento della musica tedesca: non è azzardato affermare, pertanto, che il suo utilizzo per denominare in codice uno dei più devastanti bombardamenti di sempre celi in sé qualcosa di demoniaco. Come la Lamentatio Doctoris Fausti di Adrian Leverkün è la perversa caricatura dell’Inno alla gioia, così il raid ‘Sonata al chiaro di luna’ è la contraffazione diabolica di una delle più nobili conquiste dello spirito umano, è il suo spettrale negativo, il suo terrificante doppio. Se la nobiltà della musica era stata pervertita a tal punto, alla musica e solo alla musica toccava il compito di riabilitare se stessa. E non solo se stessa, ma anche il mondo e gli uomini. Questo si propone il War Requiem, la grandiosa opera sinfonico-corale che fu commissionata a Benjamin Britten per

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la cerimonia di riconsacrazione della cattedrale di Coventry, avvenuta il 30 maggio del 1962. Sul testo latino della Missa pro defunctis Britten innesta con grande abilità le liriche del poeta Wilfred Owen, ufficiale inglese morto all’età di venticinque anni appena una settimana prima dell’armistizio del 1918. Nel volume che le raccoglie, uscito postumo nel 1920, vi è un passo che racchiude il senso più intimo della poetica di Owen: «I miei versi non riguardano gli eroi […], ma solo la guerra. La poesia con la ‘P’ maiuscola non m’interessa: il mio tema è la guerra, la pietà per la guerra [My subject is War, and the pity of War]. Tuttavia queste mie elegie non recheranno consolazione alla mia generazione, forse la recheranno alle prossime. Tutto ciò che oggi un poeta può fare è ammonire [All a poet can do is to warn]. Questa è la ragione per cui i veri poeti devono dire la verità».

La missione del poeta, dunque, consiste nel provare pietà per ogni singolo essere che vive, ammonire le generazioni future perché non ricadano nelle colpe dei padri e smascherare le menzogne della Bestia. Tra queste, secondo Owen, vi è l’odioso allegretto «dulce et decorum est pro patria mori», che dà il titolo a una delle sue liriche più struggenti. Ai parolai della guerra, che si sciacquano la bocca con appelli inneggianti la purezza del suolo e l’amore di patria, il poeta augura, almeno in sogno, di marciare insieme alle reclute che, con criminale leggerezza, essi hanno avviato alla valle dell’ombra, di guardare negli occhi i soldati morenti ammassati nei vagoni e di udire il loro sangue che «arriva come un gargarismo dai polmoni rosi dal gas»: solo così, conclude Owen, smetteranno di ripetere «ai figli desiderosi di una qualche disperata gloria, / la vecchia Bugia: Dulce et decorum est pro patria mori». The old Lie: per secoli la vecchia Bugia ha messo l’uniforme a milioni di uomini, ha avvelenato la loro mente e inquinato il loro cuore, li ha messi in riga e li ha guidati dritti al mattatoio.

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Questi ignoti milites, trebbiati dalla spada dell’angelo Maschìt, lo Sterminatore, nel War Requiem escono dai sepolcri per raccontare ai vivi la verità. Le loro voci, affidate al baritono e al tenore sull’accompagnamento di un’orchestra da camera, irrompono nella forma codificata della messa funebre, spezzano lo schema tradizionale del Requiem e si fanno ricordo, testimonianza, accusa. Si ha l’impressione che per Britten la struttura canonica della Missa pro defunctis abbia un vago sentore di menzogna: è consolante, certo, ma anonima. A ben vedere essa è una variante del monumento al Milite ignoto, che paradossalmente pretende di rammemorare con la sua reboante enfasi retorica volti che non possiedono più un’identità; paradossalmente, perché, come rivela il suo stesso nome, non vi è nulla di più asettico, addirittura a-morfo (le spoglie del milite, come è noto, sono l’assemblaggio di parti provenienti dai corpi di diversi soldati) del monumento ignoto milite. I versi di Owen, invece, si ergono alti e severi contro questa forma di oblio trasfigurata nella solennità rassicurante della liturgia, gridano l’orrore senza nome della guerra e, chiamando in causa i vivi, li incalzano con domande implacabili: «Quali campane a morto per costoro che muoiono come bestie? […] Quali candele per l’ultimo saluto? / […] La vita rianimerà questi corpi? / Davvero Egli sconfiggerà la morte, asciugherà tutte le lacrime? / Di giovinezza ancora colmerà le vene vuote della vita / e laverà con acqua eterna la vecchiaia?». La struttura del War Requiem potrebbe essere accostata a quella del Libro di Giobbe: il dialogo serrato tra le parti canoniche della liturgia per i defunti e le liriche di Owen richiama quello tra i quattro amici e Giobbe: alle loro spiegazioni edificanti, riflesso di una teodicea ancora inconcussa, il sofferente di Uz oppone la propria storia, le piaghe e le ulcere del proprio corpo. Così nel War Requiem l’edificio consolante della messa in suffragio per le vittime di guerra è incrinato dalla testimo-

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nianza delle stesse. Se la politezza marmorea del latino, infatti, sublima l’orrore, dando l’impressione che le vittime siano, in qualche modo, sorrette e giustificate, i versi in inglese di Owen scandagliano l’abisso senza agghindarlo: essi non voglio solo ricordare (mnemé), ma anche capire (anàmnesis) come si è potuto arrivare a tanto. Ma nel Libera me, la parte conclusiva del War Requiem, i rintocchi della campana spengono ogni domanda, o meglio si pongono al di là di ogni domanda: «Let us sleep, now… », dice il soldato al nemico che lo ha ucciso; e insieme a lui esce dalla Storia per entrare in una dimensione ignota. Il War Requiem termina con questo abbraccio (evocato, altresì, dal fatto che i protagonisti della partitura – soli, coro misto, coro di voci bianche, orchestra e orchestra da camera – si uniscono per la prima volta in un ‘tutti’ generale), come se Britten volesse suggerire che alla fine dei tempi rimarrà solo la pietà, l’unica requies capace di consolare quegli esseri carichi di affanni e di mali che sono gli uomini.

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Elogio della fantasia A Midsummer Night’s Dream di B. Britten

La traduzione sotto specie musicale del Sogno scespiriano fatta da Benjamin Britten è non solo un capolavoro di fatata leggerezza, di amabile ironia e di placida sensualità, ma anche un penetrante saggio esegetico, capace di rischiarare le giunture più nascoste e di toccare le articolazioni più delicate del testo originale. La musica di Britten ha, tra gli altri, l’encomiabile merito di sciogliere i due principali nodi interpretativi su cui da sempre si affannano i critici, entrambi contenuti nel titolo: l’estate e il sogno. Con la medesima levità degli elfi e degli spiriti che giocano a rincorrersi nel bosco incanto, il compositore scavalca le togate dissertazioni che, con gran sfoggio di dottrina e di sapienza, pretendono di dimostrare senza alcun residuo di dubbio in quale periodo dell’anno si svolga la commedia, e ci svela come dietro alla parola «estate» non si nasconda altro che l’estate stessa, ossia il periodo della luce, della felicità, della spensieratezza, della totale mancanza di assilli, di mete da raggiungere, di risultati da conquistare. Certo l’estate, come l’inverno che ne è l’immagine ribaltata, reca in sé i germi della propria consunzione, perché mai come nella pienezza si avverte l’alito gelido del vuoto (e viceversa); tuttavia, Britten infonde alla sua musica una tale grazia da sottrarre il «wood near Athens» dove si svolge la vicenda agli oltraggi del tempo e di trasformarlo davvero in un fairyland che non ha nulla a che vedere, però, con i luoghi incantati della mitologia, come

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l’isola di Ogigia, ad esempio, dove la mancanza di tempo è una forma di morte: qui, invece, l’estate non conosce alcuna corruzione perché essa è semplicemente il simbolo di un mondo migliore, di una strenua resistenza contro l’informe condotta attraverso la bellezza, di un’attesa che non tarderà a compiersi, di una promessa che prima o poi maturerà come i frutti che rosseggiano sugli alberi di quel bosco nei pressi di Atene. Un brivido unheimlich, è vero, ancora attraversa il ‘tema del bosco incantato’, ripreso più volte nella partitura; ma anch’esso, alla fine, è accolto nella superiore pacificazione con cui si conclude l’ultimo atto. Ma chi è che sogna in questa sfavillante notte attica? Di chi è il dream? Forse la risposta è custodita in un passaggio dell’Atto terzo, nel punto in cui Bottom, svegliandosi dal greve sonno in cui lo ha fatto scivolare Puck, si guarda intorno senza raccapezzarsi, persuadendosi che il breve soggiorno nel regno delle fate in compagnia di Titania e dei quattro gentili elfi sia stato soltanto sogno: «Occhio umano non ha mai udito, orecchio umano mai veduto, mano d’uomo non può assaggiare, né la sua lingua concepire, né il suo cuore raccontare che razza di sogno era il mio. Che sogno! Dirò a Peter Quince di scrivere una ballata su questo sogno, e si intitolerà ‘Il sogno di Bottom’ (And it shall be called Bottom’s Dream)». Ecco svelato il nome del sognatore: Bottom, uno dei personaggi più grandi creati da Shakespeare. Non traggano in inganno la sua rustica semplicità, che però non è mai rozzezza; la sua tenera innocenza, che non è mai insipienza; il suo irresistibile buon umore, che non è mai grullaggine: Bottom non conosce le inquietudini metafisiche di Amleto, ignora la disperazione di Macbeth, è preservato dai fomiti della gelosia che non risparmiano invece Otello; tuttavia in lui si raccoglie quanto vi è di più autenticamente umano: forse soltanto Papageno, il caro, cordiale Papageno può reggerne il confronto.

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Se così stanno le cose, allora A Midsummer Night’s Dream non è altro che l’opera o meglio lo smisurato, debordante, eccessivo abbozzo d’opera immaginato da un prodigioso genio artistico, necessariamente incompiuto e irrisolto come incompiuta e irrisolta è la vita. Come il regista Guido Anselmi, il protagonista di 8½, così Bottom va assemblando nella sua mente una storia che, pur avendo l’ardire di fondere tra loro il mondo della mitologia classica (Teseo e Ippolita, Piramo e Tisbe), quello sovrannaturale (Titania e Oberon, Puck e gli altri fairies) e quello reale (Lisandro ed Ermia, Demetrio ed Elena) non potrà che essere un Dream, appunto, perché essa pretende non solo di misurarsi con la vita, ma anche di contenerla nella sua multiforme, schizoide, fuggitiva totalità. Eppure, pur essendo travolta dal compito sovrumano che si è prefissa, la mente di Bottom non ne rimane tuttavia schiacciata: parimenti strattonato dalla spocchia libresca dei «fair lovers» destinata a immalinconirsi in un asfittico narcisismo e in un compiaciuto scetticismo, e dalle aeree carole degli spirits che, pur nella loro irresistibile fascinazione, confinano pericolosamente con il Nulla, egli sceglie il riso, l’unico luogo dove i tre mondi possono convergere. E il riso di Bottom non è una resa, ma una superiore conoscenza; non è una dichiarazione di impotenza, ma un’adesione totale alla vita; non è nemmeno una diserzione, perché questa ha sempre in sé almeno una scoria di paura o di viltà. Bottom, invece, non è un pauroso né un vile: ce lo dice la sua indole, un miracoloso impasto di mitezza, bonomia e benevolenza, e ce lo dicono i suoi sogni; ce lo dice soprattutto il suo riso, con cui egli strofina persino i suoi suoi stessi sogni. Ed ecco, allora, la parte più alta del dramma, quella che tutto lo ricapitola: la masque su Piramo e Tisbe che Britten, in modo assolutamente geniale, porta alle sue estreme conseguenze. Narrata con grande delicatezza da Ovidio nelle Metamorfosi

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(IV, vv. 55-166), la tragica storia dei due amanti babilonesi, che poterono unirsi soltanto nella morte, ribadisce l’assunto principale soggiacente ai grandi miti d’amore, quello cioè secondo cui, per usare le parole di Lisandro, «sempre […] contraria fu la fortuna ai fedeli amanti». Questo assunto funge ancora da basso continuo nei primi due atti del dramma britteniano, ma poi è cambiato di segno nell’ultimo, che termina con la celebrazione di ben tre matrimoni. La rappresentazione del Pyramus and Thisby da parte di Bottom e dei suoi rustics è una sapida parodia del grande mito classico, di cui con una irriverente boccaccia si prende gioco, enfatizzandone a dismisura, e quindi trasformandoli nel loro esatto contrario, i passaggi tragici o meglio melo-drammatici (il programma, tutto costruito su ossimori, dello spettacolo letto da Ippolita all’inizio del play è in questo senso eloquente: «La breve tediosa scena del giovane Piramo / e della sua amata Tisbi; tragicissimo spasso»). Britten coglie in pieno lo spirito del vaudeville e grazie alla musica riesce a portare alla superficie quanto nelle parole resta sottinteso. L’operazione compiuta è tanto semplice quanto geniale: Britten trasforma il play in un melodramma in sedicesimi che è a metà strada tra l’opera seria e l’opera buffa all’italiana. Il risultato è una squisita e raffinatissima pagina di ‘opera nell’opera’, per così dire, dove la lingua melodrammatica dei giovani amanti, intrisa di passione e di sentimenti alti e solenni, è contaminata all’improvviso dalla ruvida quotidianità, da esilaranti cadute di stile che fanno strame della pomposa prosopopea del genere alto. Molto più, dunque, di una semplice parodia del teatro. Se il melodramma è la quintessenza del teatro, fare la caricatura del melodramma all’interno di un melodramma (ché a questo genere A Midsummer Nigth’s Drem di Britten indiscutibilmente appartiene) significa condurre alle estreme conseguenze le possibilità offerte dal teatro. In un mondo popolato da shadows, in un mondo che è shadow esso stesso, non vi è nulla

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di più reale della irrealtà teatrale. La sua capacità di recuperare i grandi miti del passato, di infondere loro nuovo vigore grazie alla potenza dell’imagination per poi subito mandarli a gambe all’aria tra schioppi di risa, è forse l’unico sestante di cui si dispone per non smarrire la rotta in quella navigazione che chiamiamo vita. «Il meglio in questo genere è solo un’ombra, / e il peggio non è peggio, se la fantasia lo corregge»: le parole di Teseo potrebbero essere poste in epigrafe non solo a quello scespiriano, ma al teatro tutto. Sono parole inquietanti, perché riconoscono con implacabile chiarezza quanto sfuggente, transeunte, inafferrabile, enigmatica, intrinsecamente doppia (« […] ev’ry thing seems double» dice Ermia) sia la vita; ma sono altresì parole di grande conforto perché dicono come da «the worst», dal «peggio» ci si possa curare attraverso quel sogno lieve e mielato che è l’immaginazione.

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«The ceremony of innocence is drowned» Appunti sul teatro di B. Britten

«Viveva con troppa grazia per far parte della nostra rozza umanità» («She lived with too much grace to be of our crude humanity»). Così cantano Bianca e Lucia, l’anziana nutrice e l’ancella, sul corpo di Lucrezia alla fine del Rape of Lucretia, mirabile opera in due atti di Benjamin Britten. È significativo come queste parole siano pronunciate subito dopo l’«orazion picciola» del generale romano Junius, il quale, con sovrana spregiudicatezza, non esita a servirsi del dramma che si è appena consumato per guidare la ribellione contro l’oppressore etrusco e per candidarsi a nuovo re di Roma. «I will rule!»: in questa apostrofe, più che un sentimento di comprensibile rivalsa contro il nemico il cui calcagno aveva schiacciato la libertà e l’onore, freme una libido dominandi uguale e contraria a quella che Junius vuole abbattere. Questi da una parte e Lucrezia dall’altra rappresentano due mondi destinati a non incontrarsi, tanto è irriducibile il loro linguaggio, o meglio il loro idioma. Il passo appena esaminato, pur nella sua concisione, è una guida preziosa per cogliere i fondamenti spirituali del teatro di Britten, i quali consistono, appunto, nello scontro tra due logoi, tra due sermones che mai potranno combinarsi tra loro: quello del mondo, della «crude humanity» e della «grazia». Forse solo nel teatro d’opera di Alban Berg si può ritrovare una riflessione parimenti sconsolata non solo sulla vittoria, ma soprattutto sul contagio del Male. Lucrezia, Peter Grimes, Billy Budd, Miles e Flora non sono solo travolti e soverchia-

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ti dalla «liscia contraddizione del mondo», come si legge nel bellissimo libretto che Myfanwy Piper ha tratto da The turn of the Screw di Hanry James, ma anche avvelenati da essa, macchiati, sconciati in quanto di bello e di nobile essi possedevano. Qui sta l’oscura fascinazione delle opere di Britten, che la raffinatezza della scrittura timbrica, la maestria nel combinare tra loro dissonanze e tonalità e l’inesausta ispirazione melodica rendono ancora più ambigua. Nel Peter Grimes, in Billy Budd e in The turn of the Screw i personaggi entrano in scena già infettati dal mìasma (Lucrezia lo sarà subito dopo il «rape», lo «stupro» da parte di Tarquinio, e il lezzo del vulnus patito diventerà per lei così ammorbante da spingerla al suicidio), ma a noi non è dato conoscerne la causa. Vi è qualcosa nel teatro di Britten che resta sempre o-sceno e che mai sarà svelato; qualcosa che rimane confinato dietro le quinte e che mai nessuna luce riuscirà a rischiarare; qualcosa che sta dietro una porta di cui però nessuno possiede la chiave. Vi è certamente un inizio, ma questo è taciuto, non perché ignoto, ma perché indicibile. Solo la musica riesce a catturarne alcuni frammenti, ma questi, insufficienti a ricostruire i fatti, finiscono per amplificare a dismisura il mistero che è all’origine di tutto. Perché gli apprendisti di Peter muoiono in circostanze non chiare? Si tratta solo di incidenti? Quali sono i «dreams» per cui egli è deriso e allontanato dagli abitanti del borgo? Chi o che cosa ha scavato nel suo cuore un abisso di tenebra tale che neppure l’amore di Ellen riesce a colmare? E poi: quali orribili visioni tramano la dolce ninnananna cantata da Flora alla sua bambola? E quali i «trionfanti» accordi suonati al pianoforte da Miles? I due fratelli sono l’epitome dell’innocenza o, nella vita parallela che essi conducono, sono del tutto consapevoli dell’abiezione in cui Miss Jassel e Peter Quint li hanno precipitati? E ancora: da dove proviene il gabbiere Billy Budd? Qual è il suo passato? Perché l’intero equipaggio dell’Indomitable è così irresistibilmente sedotto, nel bene o nel male, dalla sua figura?

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Il teatro di Britten si regge su una fitta trama di sospetti e di sottintesi, di parole solo sussurrate e di atmosfere stranianti. Nelle sue storie la caduta si è già consumata, ma non si sa come né perché. Quando entrano in scena, i personaggi recano già impresso nella loro carne il sigillo della colpa e della pena; nulla comprendono della sofferenza che li squama, e la vita stessa per loro è «incomprensibile come il sommovimento lampeggiante di un banco d’aringhe». Eppure tutti sentono fin nei precordi che le cose sarebbero potute andare in modo diverso, che tanto tempo fa doveva certamente esistere un mondo migliore e che forse è ancora possibile trovare «un porto dove per sempre la notte diventa giorno». Ma la malattia cancerosa che aggredisce la loro anima non concede scampo: troppo profonda è la ferita, troppo infetta è la piaga. I tentativi di «riportare indietro i cieli e di ricominciare daccapo» si sfaldano tra le mani, come quelle visioni notturne che invano si cerca di trattenere quando sorge l’alba: «Il sognare costruisce ciò che il sognare può sconfessare. Dita morte si allungano a distruggerlo» canta Peter Grimes in uno dei momenti musicalmente più alti dell’opera omonima. «La luce brilla nelle tenebre e le tenebre la comprendono e ne soffrono» dice il maestro d’armi Claggart, facendo il verso al Prologo giovanneo. È l’in-vidia, l’incapacità di sopportare la vista della bellezza e della bontà il primum movens del teatro di Britten: Tarquinio non tollera che Lucrezia gli resista e soffre per la virtù che ella gli oppone e che resta intatta anche quando egli riesce a violarla; John Claggart, una sorta di Grande Inquisitore, vuole distruggere Billy, icona chiaramente cristologica, perché troppo abbagliante è la sua innocenza («Oh bellezza dello spirito, o bellezza del corpo, o bontà! Come vorrei non avervi mai incontrate! Ora […] quale scelta mi rimane? Nessuna, nessuna! Il mio destino è di annientarvi, sono votato alla vostra distruzione»); allo sguardo degli infernali Miss Jassel e Quintin è insostenibile la purezza di Miles e Flora e così

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la insozzano, iniziandoli a pratiche su cui cade una reticenza che ne ingigantisce a dismisura l’orrore; i borghigiani, come i fratelli del Giuseppe biblico, odiano Peter Grimes perché è un sognatore. E il miasma intanto si propaga, aggredisce come una lebbra i cuori, consuma come una tabe le menti nell’indifferenza assoluta della natura: le «ridenti giunchiglie» e i gelsomini, i tralci di rosa e le aquilegie che invadono la casa di Lucrezia, l’aroma salmastro che spira dal mare, la placida immensità dell’oceano, la vegetazione lussureggiante che circonda la casa maledetta di The turn of the Screw osservano impassibili stupri, torture, ingiustizie e abiezioni senza nome. Ecco, allora, affiorare la verità ultima del teatro britteniano: etsi Deus non esset. Dio non esiste o se c’è non si cura degli uomini, come il fantomatico zio che, tutto preso dai suoi affari, affida i nipoti Miles e Flora alla Governante a condizione che nessuno e per nessun motivo lo disturbi. Ma l’inesistenza o l’incuria di Dio sono meditate dal compositore inglese non con gelido o, delitto ancora più imperdonabile, compiaciuto distacco, bensì con una adesione totale all’umano. Per questo forse non è errato definire religiosa la sua musica; religiosa nel significato etimologico della parola, in quanto essa è capace di unire tra loro gli uomini sotto il segno di un reciproco conforto, di una comune tenerezza e consolazione, di una medesima lotta amorosa. Davvero Britten si fa nostro fratello e fratello di tutti coloro che dalla vita sono stati mutilati. «Che cosa succede? Ditemi che cosa succede!» grida Swallow alla fine del Billy Budd. Ma nessuno può offrire una risposta, perché questa non esiste. Unde malum? L’antica e sempre nuova domanda affiora sulle labbra degli innocenti che affollano il teatro di Britten, al quale deve essere ascritto l’indiscutibile merito di aver mostrato, con abbacinante nitidezza e con ammirevole passione intellettuale, il processo vittimario che sta all’origine dei tempi, il quale, proprio perché indagato e denunciato fino ai limiti del dicibile, si ribalta in un possente gesto antisacrificale.

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Verso benefiche immensità Death in Venice di Benjamin Britten

Per una singolare coincidenza, agli inizi degli anni ‘70 del secolo scorso sia Luchino Visconti sia Benjamin Britten decisero di tradurre rispettivamente in cinema e in musica uno dei testi più suggestivi e sfuggenti del ‘900: Der Tod in Venedig di Thomas Mann. Come è noto, Visconti riuscì a battere sul tempo Britten, il quale, per non farsi influenzare e per cautelarsi da eventuali accuse di plagio, si astenne di vedere il film. La precauzione si rivelò indovinata quant’altra mai: anche se per alcuni non è del tutto congruo accostare due linguaggi tra loro così differenti come il cinema e il melodramma – ma lo è, invece, per coloro che considerano entrambi quali espressioni del Teatro –, a noi pare che l’opus di Britten superi quello di Visconti. Certo, siamo alla classica «lotta tra giganti», eppure Death in Venice, per la capacità, davvero rabdomantica, della musica di cogliere ciò che ancora di inespresso vi è nella novella manniana e per la raffinatezza di un libretto che, in sé, è anche un piccolo, prezioso saggio di estetica e di metafisica, rivela un maggiore acume interpretativo rispetto al film di Visconti, che qualche volta scivola nella prolissità, nell’autocompiacimento intellettualistico e nel manierismo. Se proprio si volesse trovare un contrappeso cinematografico alla partitura di Britten questo sarebbe Improvvisamente l’estate scorsa, il film che Joseph L. Mankiewicz trasse dall’omonimo dramma di Tennessee Williams: quella sorta di frammento superstite del mondo preistorico che è il giardino dei Venable, con la

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sua vegetazione che, sfuggita al controllo, avviluppa ogni cosa quasi volesse, scientemente, eliminare persino il più piccolo vestigio umano, richiama la descrizione della foresta tropicale fatta dal misterioso Traveller all’inizio dell’opera («[…] una natura selvaggia gonfia in spaventosa crescita, / mostruosa e densa, / ed eccitanti fiori / si ammassano nel bollente stagno. / Alberi deformi come un sogno / [su cui] enormi uccelli appollaiati restano immobili»); e il sogno di Aschenbach, dove Apollo si rivela impotente dinanzi alle lusinghe di Dioniso, il «dio straniero», il quale invita il protagonista a unirsi a un gruppo di bassàridi per celebrare un sacrificio di sangue, rimanda al sabba classico in cui, sulla sommità di un’acropoli, si consuma lo sparagmòs di Sebastian, il figlio omosessuale di Mrs. Violet Venable. Questi riferimenti al cinema non sono proposti a caso: la suddivisione delle scene, attraverso cui si sviluppano i due atti della partitura, è così sapientemente strutturata che non a torto si può parlare per Death in Venice di un ritmo cinematografico. Sulla novella di Thomas Mann si sono affaticati autorevoli studiosi nello sforzo di coglierne le molteplici suggestioni e di decifrarne il significato più riposto, celato dall’Autore nella profondità di uno stile armonioso e di una sintassi sinuosa e perfetta. Posto, dunque, che sarebbe atto di temerarietà proporre altri percorsi interpretativi, le considerazioni che seguono, più sommessamente, si soffermeranno sul modo con cui Myfanwy Piper, l’autrice dell’ottimo libretto (suo è anche quello di The Turn of the Screw, messo in musica sempre da Britten), rivisita Venezia, riuscendo a sviluppare con grande rigore un discorso che nel testo di Mann era rimasto, forse, volutamente implicito. Come è noto, Venezia quale città morente, dalla bellezza a tal segno accecante da suscitare pensieri di morte, città da esaltare tanto per la sua gloriosa storia quanto per il suo inar-

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restabile declino, è un topos che percorre l’Ottocento e il primo Novecento: ritorna nel Carteggio Aspern di Henry James, sfiora La recita di Bolzano di Sandor Marai, tocca Il ritorno di Casanova di Arthur Schnitzler, affiora ripetutamente nella Recherche di Marcel Proust, campeggia nell’Andrea o i ricongiunti di Hugo von Hofmannsthal e addirittura giganteggia ne La morte a Venezia di Thomas Mann e nei Fondamenta degli incurabili di Josif Brodskij. Myfanwy Piper, pur non restando immune dal fascino ora estetizzante ora decadente della città lagunare, considera prima di tutto Venezia per quello che è nella sua datità più elementare, vale a dire un’isola. Da questa constatazione, forse così ovvia da sfuggire all’attenzione, ella costruisce un textum che ha, come trama, va da sé, il racconto manniano, e come ordito un insieme di risonanze che giungono dagli sconfinati territori mitopoietici del mondo occidentale. Sulla scorta della natura insulare di Venezia, la Piper crea un racconto che è una variazione dell’Odissea. Von Aschenbach, novello Ulisse, avverte, a un certo punto della sua vita, l’insopprimibile esigenza di abbandonare il suo sorvegliatissimo sforzo di dominare la caotica materia attraverso il bello stile («Io, […] famoso per essere un maestro della scrittura, / uomo di successo, onorato, / l’autodisciplina è la mia forza, / routine è l’ordine dei miei giorni») e di mettersi «per l’alto mare aperto». Ma navigare significa esporsi all’arrischio: von Aschenbach decide di visitare Venezia o piuttosto naufraga in essa? E se di naufragio si tratta, che altro è Venezia se non l’isola della ninfa Calipso, dove – sono le parole del libretto – «l’acqua si è scambiata con la pietra, / dove la passione confonde i sensi […]. Un mondo differente ti circonda, / un mondo senza tempo, leggendario / di tenebre»? Ma forse non così dissimile era il mondo da cui lo scrittore onusto di gloria è salpato: l’autodisciplina, la dedizione al lavoro, il prestigio sociale perseguito con indomita costanza, il diuturno sforzo alla

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«litterarizzazione» dell’esistente non costituivano, a loro volta, un mondo a sé, del tutto separato dalla vita come un’isola lo è dal continente? In entrambi i casi vi è una sospensione del tempo, la quale è già una caparra di morte. A Venezia, però, von Aschembach riceve l’inaspettata visita di Ermes Psicopompo il quale, nelle vesti del bellissimo fanciullo Tadzio (Ermes, dio dalla mente variegata e cangiante, ama i travestimenti), lo conduce, sì, alla morte, ma ad un’altra morte, lo guida davvero in un al-di-là, in un luogo che è oltre, e insieme irriducibilmente opposto, a quelli in cui aveva fatto naufragio. Espungendo anche solo le più sottili allusioni all’omoerotismo e alla pederastia (sentieri, questi, che debbono essere abbandonati senza indugio alcuno se si vuole comprendere nelle sue più intime giunture il racconto di Mann), la Piper trasforma Tadzio nel dio del Tempo. Grazie a lui il flusso cronologico, con la sua gloria e con il suo sapore di cenere (Asche-bach, «ruscello-di-cenere»), irrompe nella vita dello scrittore e la altera con quel possente lievito che l’amore. Vengono alla mente le pagine dedicate da Proust ad Albertine ne La fuggitiva: «Adesso ne avevo una conoscenza interna, immediata, dolorosa, spasmodica. L’amore è lo spazio e il tempo resi sensibili al cuore. […] Se avessi condotto la vita di collezionista […] nessuna statua, nessun quadro […] mi avrebbero aperto […] l’accesso fuori di me, a quella via di comunicazione privata, ma che sbocca sulla strada maestra dove passa quel che cominciamo a conoscere solo il giorno in cui ne abbiamo sofferto: la vita degli altri». Tadzio, dunque, è l’Amore che guida, come si legge nelle ultime righe della novella, «verso benefiche immensità». Mentre il mondo si va disfacendo («La morte è al lavoro, il male è tra noi. Cresce, raddoppia i suoi poteri. […] Intanto la città si rilassa moralmente. Criminalità, ubriachezza, omicidi, prostituzione – forze malvagie prendono piede») e con esso l’«uomo

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esteriore» (2 Cor 4, 16), quello «interiore», al contrario, si rinnova. Ciò che doveva condurre a perdizione è invece motivo di salvezza: «Il segreto della città, disperato, disastroso, sterminatore, è la mia speranza». Grazie a Tadzio von Aschembach impara ad amare. Ma per poter uscire dalle isole incantate in cui aveva fatto naufragio è necessario che egli ami sino alla fine, sino alla totale oblazione di sé. Nella scena che suggella l’opera lo scrittore, seduto su una sedia a sdraio, osserva Tadzio e Jaschiu, un suo compagno, giocare insieme. La lotta tra i due, finora solo simulata, si fa viepiù violenta: Jaschiu getta a terra Tadzio e gli schiaccia la schiena con le ginocchia. I bambini che si trovano sulla spiaggia, spaventati, fuggono; solo Aschembach impedisce la profanazione del corpo del dio-bambino, emettendo «un alto grido». Lo sforzo, però è tale che questi si accascia e muore, invocando il nome dell’Amato, il quale è anche «Der Tod»: l’antica e austera severità della sua figura è mitigata dalla bellezza dei suoi occhi che, come quelli di Tadzio, hanno il color del mare, e dalla dolce intimità del suo gesto, il quale, più che indicare un luogo, sembra invitare ad una festa. Il timbro immateriale del Glockenspiel inaugura un nuovo tempo. Nel grido di Aschembach «omnia facta sunt»: l’ultima nota, che vibra sempre più lentamente fino a estinguersi, racchiude in sé l’immagine di due compagni che, procedendo insieme, si allontanano fino a scomparire nella magnificenza di un alba «che solo amore e luce ha per confine».

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Libera nos a malo The Turn of the Screw di Benjamin Britten

Trarre un libretto d’opera da una delle più celebrate ghost story di sempre, Il giro di vite di Henry James, era impresa votata a sicuro insuccesso, tanto è sofisticato il meccanismo narrativo, implacabile la tensione psicologica e allusiva la scrittura che «nulla nasconde, nulla rivela, ma a tutto accenna», di questo gioiello letterario. Eppure al cimento non si è sottratta Myfanway Piper, la quale ha tratto dalla novella di James un libretto d’opera che, se possibile, addirittura ne enfatizza, senza eccedere nella misura, i punti di forza, in virtù di un linguaggio tanto essenziale quanto raffinato. Un linguaggio a cui la musica di Britten aderisce totalmente grazie a una compagine orchestrale che, pur nella sua esiguità (solo tredici strumenti, con un’attenzione particolare riservata alle percussioni), passa da immateriali e delicati intagli solistici a momenti di orrorifica esplosione. Come si accennava, la forza del libretto – e di conserva della partitura – è data dalla sua allusività: ogni più piccolo dettaglio rimanda (semainei) ad altro, a qualcosa ora di nascosto, ora di proibito, ora di inconfessabile che è accaduto in un tempo remoto e le cui ricadute tuttora perdurano. L’ambiguità è addirittura esasperata dal luogo in cui si svolge la storia – la country-house nella contea di Bly è immersa in un ambiente pastorale che richiama un novello eden – e dai protagonisti della stessa, una coppia di bambini, Miles e Flora, i quali per la loro bellezza, gentilezza e bontà più volte sono paragonati

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ad angeli. Eppure in ogni luogo dell’avita dimora e dietro a ogni gesto dei fanciulli si celano «things unspoken», «cose innominabili» che fanno rabbrividire. Vera summa dell’Unheimliche è la lezione di latino (atto I, scena 6). Miles sta mandando a memoria un elenco di parole latine di genere maschile con il suffisso –is («Amnis, axis, caulis, collis, clunis, crinis, fascis, follis […]»); Flora ripete ‘a pappagallo’ ciò che dice il fratello maggiore, pronunciando, di alcuni lemmi, solo la parte finale. Questa noiosa litania di parole latine, una delle tante ripetute a fini mnemonici da qualunque studente ginnasiale, a un esame più attento svela un inquietante segreto: essa è tratta dallo Shorter Latin Primer, un testo di epoca vittoriana che impartiva i primi rudimenti di latino, il cui autore, Benjamin Hall Kennedy, pare abbia voluto nascondere dietro a quelle parole forti allusioni all’organo sessuale maschile. Il verso fatto da Flora alla cantilena di Miles esaspera questo sospetto: «-nalis, -talis», queste le parole tronche da lei canticchiate, nella mente dell’ascoltatore sono quasi automaticamente completate in (a)nalis e (geni)talis. Se solo si considera che tutta la storia ruota attorno alla presunta corruzione dei due minori ad opera di Quint e Miss Jessel, i precedenti servitori della casa entrambi morti in circostanze misteriose, bene si comprende come la filastrocca ripetuta da Miles e da Flora ammicchi in realtà ad innominabili abissi d’orrore. Che i fratelli abbiano fatto l’esperienza del male, qualunque cosa si debba intendere con questa parola, è ribadito altresì, forse con un eccessivo scrupolo didascalico, dalla nenia cantata da Miles – con accompagnamento davvero perturbante dell’arpa – tutta giocata sui diversi significati della parola latina «malo», densissima di risonanze, prima di tutto bibliche (per tutte, il classico gioco di parole tra «mālus», ‘albero di melo’ e «mălum», ‘male’, ‘malattia’). Non solo. L’oscuro rimando alla presunta profanazione dei corpi dei due bambini ritorna nell’inno che questi intonano sul sagrato della chiesa (atto II,

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scena 9). Anche qui ciò che appare rinvia a un altrove denso di oscurità. Impostato come una variazione del celebre cantico di Daniele («Benedite, opere tutte del Signore, il Signore»; Dn 3, 57-90), ben presto il salmo di Miles e Flora si trasforma in una sua oscena e blasfema parodia che raggiunge l’acme nell’invocazione: «O amnis, axis, caulis, collis, / clunis, crinis, fascis, follis: / benedite il Signore!» Per ben tre volte, dunque, la Piper inserisce nel libretto parti in latino, scritte in una lingua morta. Se si considera questo aspetto, si comprende bene come esse siano non inani preziosismi, bensì artifici del tutto funzionali ad enfatizzare l’atmosfera ‘di morte’, soprattutto spirituale, del racconto. Eppure la reticenza in The Turn of the Screw non è solo un abile espediente letterario per creare un’implacabile tensione. Essa, a poco a poco, si trasforma in una lingua, l’unica capace di ‘dire’ l’indicibile. Insomma, le parole e soprattutto la musica non rimandano ad altro, né vogliono a bella posta tacere: più semplicemente dichiarano la propria totale, assoluta impotenza dinanzi a quello che è il vero argomento della novella: il male. E se quello dell’iniquità è un mysterium, esso, come vuole l’etimologia greca della parola (myo), conserverà sempre una parte ‘nascosta’, irraggiungibile, segreta, che si sottrae a qualsivoglia investigazione o ragionamento. Se così stanno le cose, è possibile leggere The Turn of the Screw di Britten-Piper come una sorta di sacra rappresentazione o meglio come un dramma metafisico. Lo stesso antefatto con cui principia la storia rimanda, per alcune assonanze, al discusso «prologo in cielo» del Libro di Giobbe. Come nel testo biblico, anche qui tutto prende inizio da un patto, alquanto anomalo a dire il vero, tra due contraenti: il «guardian», il tutore, «un giovanotto sicuro, sbrigativo e allegro, unico parente dei bambini», affida i pupilli a una «governess», un’istitutrice, imponendo alla stessa un’unica, ma inderogabile condizione:

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di non scrivergli mai né di comunicare in altri modi con lui, di restare in silenzio e di fare del suo meglio. Un piccolo preludio che però solleva inquietanti interrogativi: perché il misterioso tutore si disinteressa di Miles e di Flora? Perché di dimostra nei loro confronti irresponsabile? Le condizioni da lui dettate sembrano sottintendere oscure verità dinanzi alle quali egli vuole ritrarsi, quasi presagisse terribili e nefaste conseguenze. Come Jahweh nel Giobbe, così il fantomatico «guardian» si limita a osservare da lontano la tenuta di Bly, lasciandola di fatto alla totale mercé di forze infere. Ma accanto a questa, si può avanzare una seconda lettura, ancora più disturbante: nella scena IV del primo atto l’istitutrice, mentre passeggia nel parco incantata dalla bellezza della natura, scorge sulla sommità di una torre una figura maschile che ella scambia a prima vista per il tutore. In realtà si tratta di Quint, ma poco importa: il parallelo tra i due personaggi ormai è stato fissato (la stessa torre, quale naturale punto di osservazione in virtù della sua altezza, rimanda all’attività del guardare e, dunque, all’innominato «guardian»). L’incarico offerto all’istitutrice diventa, così, un atroce inganno, un diabolico divertissement, un cinico esperimento per studiare come si sarebbero comportati gli abitanti di Bly alla prova del male. L’unico modo per contrastare questa entità crudele che non solo si disinteressa della sorte degli uomini, ma che sembra addirittura essere il «primum movens» della nequizia che li travaglia, è quella di fare le veci in mezzo ai propri simili del Dio che li ha abbandonati. «The governess» non fa altro che questo: stare vicino a chi più ne ha bisogno, guardare Miles e Flora nel significato più profondo (e autentico) della parola, porsi cioè quale loro sentinella, quale loro guardiano e difensore. E «the governess» lo fa fino alle estreme conseguenze, fino a lasciarsi corrompere dall’innocenza (come ella afferma nello straziante soliloquio che suggella la scena I del secondo atto: «Persa nel mio labirinto, non vedo alcuna verità; mi circondano soltanto le

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pareti nebbiose del male. […] Oh innocenza, mi hai corrotto! [Oh innocence! You have corrupted me!] Che strada prenderò adesso?»), perché difendere l’innocenza significa non solo riconoscere, ma anche immaginare il male che potrebbe offenderla («Non so nulla del male, eppure lo temo, lo sento, peggio, lo immagino»). Redime l’azione dell’istitutrice? Di certo ella riesce nell’impresa di chiamare il male con il proprio nome, tuttavia non di vittoria si può parlare: Miles, dopo aver rivelato con un grido spaventoso l’identità del suo persecutore («Peter Quint, you devil!»), si accascia esanime. Sul palcoscenico, prima che il sipario la sottragga alla vista, un’antica e sempre nuova Pietà ci interroga: l’istitutrice sorregge, gemendo, il corpo senza vita di Miles. Il suo, però, non è il planctus della tradizione cristiana, ma una dichiarazione di assoluta impotenza dinanzi al Male. E infatti la parola latina «malo», ripetuta dalla governante sul tema precedentemente esposto da Miles, suggella l’opera, quasi a significare la irredimibilità della condizione umana, schiacciata sotto un peso abnorme di lutti e di misera.

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L’età adulta dello spirito Pollicino di H.W. Henze

Se le prime sette scene dell’opera per bambini Pollicino, messa in musica da Hans Werner Henze su libretto di Giuseppe di Leva, riprendono fedelmente il testo dell’omonima fiaba dei fratelli Grimm fino alla seconda, fatale passeggiata nel bosco, a partire da quella successiva la felicità inventiva, musicale e letteraria, diviene a dir poco ariosa e finisce per acquistare una tale forza visionaria da dissotterrare quanto di in-audito questa fiaba ancora racchiude. Preceduta di un Interludio che riesce a evocare con grande sapienza quanto di sinistramente affascinante racchiude il bosco, la scena VIII inizia con un tremebondo «Zu Hilfe! Zu Hilfe!» levato dai bambini che riprende in modo pedissequo – dettaglio che di certo non sfuggirà ai melomani – l’invocazione d’aiuto di Tamino all’inizio della Zauberflöte. La chiamata in causa dell’estremo capo d’opera mozartiano è tutt’altro che peregrina: a partire da questa scena, infatti, gli Autori, anche attraverso una intelligente interpolazione del testo, insisteranno sempre più sulla componente iniziatica della fiaba originale che, pur presente in essa, non ne costituisce però il baricentro concettuale. Il passaggio doloroso, angosciante e insieme carico di una fascinazione irresistibile da un’età all’altra, in parte ridimensionato nella fiaba dei Grimm dal ritorno al focolare domestico di Pollicino e dei suoi fratelli, nella partitura di Henze, invece, non solo è enfatizzato, ma diventa addirittura la pietra angolare dell’intera struttura narrativa.

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L’intuizione geniale del librettista – geniale perché riesce a dare un respiro, anche polemico e sovversivo se si vuole, del tutto ignoto alla fiaba – consiste nel comprendere nel novero dei bambini che lottano per la loro sopravvivenza anche le figlie dell’orco. Anch’esse sono prigioniere di un mondo, fatto di violenza e di ferina ottusità, che sentono affatto estraneo. Alla domanda posta loro da Pollicino se siano le figlie dell’orco Terribile, una di esse, Clotilde, risponde di non saperlo con esattezza e che la questione, in fondo, non è poi troppo importante, giacché la cosa che a lei e alle sue sorelle sta davvero a cuore è la fuga: «Siamo stufe di questi orchi!» L’operazione consente di recuperare l’elemento femminile – del tutto messo ai margini, per usare un prezioso eufemismo, nel testo originale – e insieme ad esso il faticoso cammino dell’amore. Le figlie di Terribile agli occhi dei fratelli di Pollicino restano delle orchesse, orribili a vedersi e potenzialmente pericolose e infide come il loro padre: solo quando avranno superato insieme tutte le prove esse sveleranno la loro bellezza nascosta. Pollicino e Clotilde sono i paradigmi di questo cammino di iniziazione all’età adulta, o meglio all’età adulta dello spirito. Come Tamino e Pamina, anch’essi dovranno superare la prova dell’acqua, simbolo delle forze che si contrappongo a coloro che si amano («Le grandi acque non possono spegnere l’amore / né i fiumi travolgerlo», Ct 8,7), e capire che vi è un momento supremo nella vita in cui scegliere bisogna. Nella scena che suggella l’opera, ai bambini che si chiedono, terrorizzati, se debbano proprio attraversare il fiume, gonfio d’acqua e reso impetuoso da un violento fortunale, affidandosi ad una semplice fune, Clotilde replica: «Sì. Non c’è altra strada». Consapevole del proprio ruolo e obbediente fino in fondo al compito di cui si sente investito, Pollicino invita Clotilde ad attraversare per primi il fiume; sul loro esempio tutti gli altri si faranno coraggio e raggiungeranno incolumi l’altra sponda. La linea d’ombra è stata finalmente varcata, le cose vecchie sono

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passate, ecco sopraggiungere quelle nuove: la paura si trasforma in gioia, le grida di soccorso in manifestazioni di giubilo, la mostruosità in bellezza: come si legge nel libretto, «tutte le bambine sono diventate belle. Bambine e bambini si abbracciano e danzano». Una didascalia, però, invita a non abbassare la guardia, a non considerare la felicità presente un traguardo inconcusso: «Il tempo è migliorato, anche se forse sereno non sarà mai». Chi ha affrontato la morte e udito il fragore delle grandi acque conserverà per sempre una ferita nell’essere: Giobbe al termine della dura contesa con Yahweh ottiene dei nuovi figli, ma non è reintegrato di quelli perduti. Come si accennava, i bambini fuggono dalle rispettive famiglie: sia Pollicino con i suoi fratelli sia Clotilde con le sue sorelle si ribellano contro il cinismo e le menzogne degli adulti, contro la loro aridità del cuore gabellata per buona fede. Il ritorno a casa avrebbe significato un ritorno alla schiavitù e alla violenza, una violenza tanto più insopportabile perché ipocritamente dissimulata. Il passaggio del fiume segna, sì, per i bambini l’ingresso in una nuova epoca, ma in essa ci entrano, appunto, da bambini, con e insieme grazie all’audacia e all’ironia, alla leggerezza e alla semplicità che solo i bambini possiedono. È per questo che sopra si è parlato di ‘età adulta dello spirito’. In Pollicino i fanciulli diventano compiutamente adulti solo perché restano bambini, perché, resi ricchi dalle prove superate e dai genî benigni che li hanno accompagnati lungo il cammino, hanno appreso la cosa più importante di tutte, vale a dire il cercare e il trovare; perché, in una parola, essi hanno raggiunto la percezione della vita, e la percezione è assoluta contezza del mondo così com’è, un posto dove orchi divorano i bambini, ma nel contempo è capacità di leggerlo altrimenti, è l’ardimento di affrontarne il tenebroso geroglifico attraverso l’unica chiave di lettura che è data: quell’imponderabile quid fatto di speranza e di grazia, di bellezza e di tenerezza, di pietà e di consolazione, che continuamente lo trascende.

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È solo grazie alla percezione che i bambini possono parlare con gli animali del bosco – altra geniale prestito mutuato dagli Autori dal Flauto magico. Sono il Gufo, «la signora Civetta, madame Volpe, la signorina Lepre, mister Riccio, monsieur Cinghiale e il signor Lupo» i genî benevoli che li aiutano, perché, come dice quest’ultimo, gli animali mantengono sempre le promesse, «non come certi uomini che conosciamo noi». E che altro sono gli animali parlanti se non uno dei simboli più possenti dell’infanzia, della sua attitudine a provare stupefazione per le cose del mondo, a vedere ciò che gli altri non vedono e a udire ciò che gli altri non odono, a provare, insomma, percezione della Vita in sé? Non è un caso che l’intera storia si svolga in un bosco, perché il locus absconditus è quello che ritorna spesso nei sogni dei bambini e nel sogno, scrive Cristina Campo, l’Eterno concede una misura di sé: «Il bosco può essere / amico dell’uomo / se l’uomo gli è amico. / Nel bosco succede / quel che accade nei sogni». E l’incanto del sogno è restituito da Henze grazie a una scrittura che ha del prodigioso, la quale, pur nella semplicità dei mezzi utilizzati (non si dimentichi che si tratta di un’opera «per bambini»), riesce a creare un amalgama sonoro che mette insieme, con magistrale sapienza artigiana, citazioni dal classicismo viennese e serialismo, motivetti popolari e dissonanze. Il tutto pervaso da una felicità inventiva che è un inno alla narrazione. E la narrazione, si sa, è tutto.

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Montagne incantate Elegy for young lovers di H. W. Henze

I libretti di Elegy for young lovers e de The Rake’s progress, entrambi firmati dalla coppia Auden-Kallman, insieme a quelli di Hugo von Hofmannsthal – ai cui Mani l’Elegia per giovani amanti, non a caso, è dedicata – devono essere annoverati, per la bellezza letteraria, per la politezza dello stile, per le suggestioni filosofiche ad essi sottese e soprattutto per la loro capacità di farsi docili alle idee del compositore e insieme di conservare piena autonomia dal punto di vista drammaturgico, tra i più raffinati che siano mai stati scritti. Se a queste considerazioni si aggiunge che Elegy for young lovers è ambientata nel 1910 in un albergo sulle Alpi austriache – dunque in un’epoca storica e in un luogo fatali per l’Occidente – e che tratta del complesso e conflittuale rapporto tra Arte e Vita, di cui la musica di Henze rischiara con acuminata lucidità gli anfratti più segreti, si comprenderà agilmente come il suo potere di seduzione sia a dir poco irresistibile per un buongustaio della cultura. Come si accennava, il tema principale dell’opera, anche se rielaborato con un sorprendente estro inventivo, è tutt’altro che nuovo. Esso affonda le radici in una celebre e contestata pagina della Repubblica (Libro X, 595a – 608b), dove Platone auspica che i poeti vengano esclusi dallo Stato ideale perché la loro arte, flirtando pericolosamente con i sentimenti e le passioni, avrebbe effetti nefasti sulla paideia dei futuri cittadini. Anche se da respingere, l’assunto dell’Ateniese è tutta-

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via sorretto da un implacabile realismo, giacché ha il coraggio di riconoscere e di fare i conti con l’irriducibile ambiguità dell’arte, con la sua seduzione non di rado tirannica, con la sua connivenza con il male e l’ingiustizia. Eppure, da qui il paradosso, è il Platone artista a farci comprendere meglio il Platone teorico; sono le grandi pagine in cui questi racconta i mythoi a mostrare come anche i logoi, i ragionamenti ben ordinati, nascondano insuperabili aporie, non essendo capaci di spiegare come facciano le minime e scontate cose dell’esistenza – l’amare, l’invecchiare e il morire – a soverchiare, a volte, e a mandare a gambe all’aria persino le più inconcusse verità filosofiche o politiche. Mai l’arte è grande come quando si fa cronista dell’effimero, come quando si concentra sul dettaglio, sulla nota a piè di pagina che nessuno legge, sulla glossa sbiadita vergata a margine del libro: in Mozart in viaggio verso Praga di Mörike, ad esempio, il semplice gesto di Eugenie che chiude a chiave la tastiera del pianoforte su cui, poche ore prima, Mozart aveva suonato brani del Don Giovanni dice di più sulla vita, sui demonî e sugli dèi che la abitano, di tanti saggi scritti con sfoggio di erudizione. Eppure anche l’amore per il dettaglio può corrompersi e trasformarsi in posa, in affettazione, in narcisismo. Si può possedere la lingua degli angeli e descrivere con impressionante acribia gli abissi più inquietanti del cuore, ma se non si ha l’attenzione, che è comunione feconda con il dolore del mondo, serio è il rischio di inumanità. In Elegy for youg lovers un uomo spiritualmente mutilato è il poeta Gregor Mittenhofer, idolo dispotico e crudele che non esita a vampirizzare gli altri per nutrire la sua cosiddetta arte. Elizabeth Zimmer, la sua giovane amante; Carolina von Kirchstetten, la segretaria dal sangue blu che, come una vestale, ha consacrato l’esistenza al vate, garantendogli altresì un lauto vitalizio; il dottor Reichmann, il medico personale, e suo figlio Toni, tutti sono sacrificati affinché il sacro fuoco della sua ispirazione non si estin-

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gua. Anche se Mittenhofer si sforza di restituire la polifonia spesso dissonante della vita attraverso una scrittura sorvegliata e levigata, egli tuttavia la perde proprio perché la sua poesia è troppo ripiegata su stessa, perché è più interessata al bel verso che alla verità racchiusa in esso: «Tu cara» dice rivolto ad Elizabeth «non puoi sapere, / non puoi capire, / che vuol dire / essere un poeta! / Quello che significhi, / mai, mai / sentire, pensare, vedere, udire / senza domandarsi: ‘Ora, / posso usare questo in qualche modo? / Si adatterà / all’accento e alla rima?’ Finché alla fine / non si sa più / ciò che è vero o falso, / giusto o sbagliato. / Solo ciò che va / o non va in poesia» (II, v). Mittenhoefer ricorda da vicino Stepàn Trofìmovic Verchovenski, l’indimenticabile personaggio creato da Dostoevskij in cui questi ha ritratto una volta per tutte l’intellettuale fatuo e narciso, che sa commuoversi dinanzi alla Madonna Sistina di Raffaello o quando legge i drammi di Shakespeare, che professa con le lacrime agli occhi i valori immortali dell’umanesimo, ma che alla resa dei conti, quando giunge la mezzanotte kierkegaardiana in cui tutte le maschere sono strappate, l’ora solenne in cui non si può più scherzare con la vita, si dimostra un pavido. Persino sul letto di morte, dopo che ogni alibi è ormai crollato, la sua confessione conserva qualcosa di posticcio, di falso: «Io ho mentito tutta la mia vita. Perfino quando dicevo la verità. Non ho mai parlato per amore della verità, ma soltanto per me; questo lo sapevo anche prima, ma solo adesso lo vedo. […] Forse mentisco anche adesso; certo mentisco anche adesso». Sono parole che ritornano sulla bocca di Mittenhoefer: «Ora capisci / perché così spesso / deludo gli altri […]? / Ma ora / sto recitando di nuovo. / Quando imparerò a non farlo?» Anche se riconosciuto un impostore dalle sue vittime – splendidi, dal punto di vista sia musicale sia drammaturgico, sono il finale del secondo atto, in cui la folle Hilda Mack, che da quarant’anni attende il giovane sposo scomparso il giorno delle nozze tra i ghiacciai dell’Hammerhorn, scoppia

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in una risata senza ritegno alcuno quando vede per caso il poeta deporre per un istante la sua maschera e abbandonarsi ad un accesso d’ira (e il pensiero, per ritornare ai Demonî di Dostoevskij, va alla demente Marja Lebjadkina, la sola, insieme alla piccola Matresa, ad avere piena contezza della mostruosa abiezione di Nikolaj Stavrogin), e la scena quinta dell’ultimo atto in cui Carolina, resasi conto della sua complicità con la menzogna delittuosa del poeta e insieme dello squallore di una vita trascorsa a fare la «serva del servo della Musa», è travolta da un senso di colpa e di disgusto che non riesce più dominare (tradotto magistralmente dalla musica con un impasto sonoro dove si alternano il declamato, l’arioso e il canto fiorito) –, anche se riconosciuto universalmente un impostore, si diceva, è Mittenhoefer alla fine a vincere la partita: nella scena finale, questi, in frac e panciotto bianchi, sul palcoscenico di un teatro viennese decorato con un panneggio su cui è ricamato Apollo che incorona di lauro un poeta, legge la sua Elegia per giovani amanti dinanzi all’imperatore e ai suoi dignitari. Certo, del suo poema non si ode neppure un verso e ciò potrebbe avallare la tesi, peraltro assai convincente, secondo cui la sua missione di poeta, che consiste nel trasformare in parole i cenni degli dèi, si sia esaurita in una sfingea afasia e dunque in un sonoro fiasco; tuttavia, l’amalgama di suoni proveniente da dietro il sipario in cui confluiscono «le voci di tutti coloro che hanno contribuito alla composizione del poema», le luci che si attenuano finché non rimane che un riflettore puntato sul poeta e la didascalia che suggella il libretto («His poem has been written. The opera is over») conferiscono alla figura di Mittenhoeffer un’aura di cupa grandezza: forse un sommo regista come Ingmar Bergman (singolari coincidenze: il suo Come in uno specchio, una delle più profonde meditazioni compiute dal cinema sulla contiguità della grande arte con le zone più limacciose del cuore, uscì nelle sale cinematografiche nel 1961, lo stesso anno in cui debuttò l’opera di Henze) sarebbe stato

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capace di fare giustizia di questo collerico pupillo delle Muse, mostrandone impudicamente il vuoto attraverso uno dei suoi memorabili primissimi piani (come quelli di Ingrid Thulin e Liv Ullmann in Sussurri e grida, le cui labbra, in una celebre sequenza, si muovono senza dire alcunché). Come si diceva, il libretto di Auden e Kallman è così ricco di sotterranei rimandi letterari da costituire per l’interprete un delizioso rompicapo. Uno tra tutti crediamo che si imponga all’attenzione con la forza dell’evidenza: La montagna incantata di Thomas Mann. Come nel sanatorio di Davos, così anche nell’albergo dove si svolge la storia messa in musica da Henze vi è un maestro demoniaco che, pur parlando in continuazione della «vita», inneggia alla morte: la sua esortazione rivolta a Toni e a Elizabeth di fuggire, che ricalca quella di Settembrini ad Hans Castorp di abbandonare il sanatorio, è in realtà un’esortazione ad andare a morire (i primi si perderanno in una tormenta di neve, il secondo, invece, nelle tempeste d’acciaio della Grande guerra). Non solo. Anche Toni ed Elizabeth si sforzano di esorcizzare la natura attraverso il linguaggio come Hans, che si procura a tale scopo libri di botanica e di biologia. Nel corso dell’opera, infatti, la parola dei due «young lovers» da atrofica (si legga il dialogo smozzicato che Toni scambia con il padre e con Carolina nel primo atto) si fa viepiù articolata, fino a raggiungere gli accenti della poesia nel duetto finale (l’unica elegy, in fondo, è la loro), eppure essa nulla potrà contro la soverchiante forza della Natura, la quale nel suo intimo, scrive Mann, è «illetterata»: «La vita è morte» dice in un passo importante dello Zauberberg il consigliere Behrens, «non c’è niente da abbellire, une destruction organique, come un Francese ebbe a dire […]. Del resto la vita odora di morte. Se a noi la cosa sembra diversa vuol dire che il nostro giudizio è corrotto». Persino l’amore tanto nella Montagna incantata quanto in Elegy for young lovers è sperimentato in termini di morte: se Hans e Clawdia Chauchat si scambiano, quale

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pegno, le loro radiografie, dunque due ritratti di morte perché esse raffigurano la vita nella sua datità biologica e come tale destinata alla «destruction»; anche Toni ed Elizabeth, vagheggiando sul punto di cedere dinanzi alla furia degli elementi la loro futura vita coniugale, si scambiano un pegno che mai potrà essere onorato perché su di esso la morte ha già steso la mano. La Natura, dunque, domina sia sul tempo proustiano – «Un’ora, non è solo un’ora, è un vaso colmo di profumi, di suoni, di progetti, di climi» scrive l’autore della Recherche – sia sul tempo storico: Castorp e i due giovani amanti, quali sprovveduti e patetici Tannhäuser, restano prigionieri sul Venusberg. Solo la musica, che nell’opera di Henze fa le veci del manniano «spirito della narrazione», è capace di porsi in un atteggiamento dialettico verso le lusinghe di Frau Venus e di approssimarsi al suo ermetismo, essendo essa spirito, ma anche, come rivela il bellissimo finale con quel magma di suoni emessi da coloro che sono stati immolati sull’altare della poesia, voce della natura.

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Terza parte Due variazioni Mozartiane

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La Visita*

1. Allegro moderato I fedeli della Regina e della sua epoca con lo sguardo fisso percorrono la mole pietra a pietra, alcuni cercando con accenni di solecchio la più alta bifora. Sì, le linee, i volumi, le cuspidi, lo splendore solare dell’ardua regola, questi i segni. Ma, dietro, una vita, una trama sfatta e ripresa di desideri e ricordi, svelata? – nessuno può saperlo – forse celata dai prodigi di luce e di potenza della sua opera. Svelata, celata, persa comunque, persa irrevocabilmente – […] Mario Luzi, Carovana per l’arte

*La visita. Una variazione in forma-sonata al Flauto magico di Mozart è un dramma commissionato dal festival L’occidente nel labirinto di Forlì e ivi rappresentato l’8 ottobre 2011 con gli attori Massimo Foschi nella parte di Mozart e Mariolina Coppola in quella di Papageno, e con musiche originali dei compositori Mino Marani e Alessandro Spazzoli. Il dramma prende spunto da una lettera scritta a Mozart dal coetaneo Thomas Linley, allievo prodigio del celebre violinista Pietro Nardini. I due musicisti si conobbero a Firenze nel marzo del 1770 e divennero subito amici. Alla partenza di Mozart per Roma i due promisero di incontrarsi di nuovo, ma il destino decise altrimenti. Linley morì annegato poco più che ventenne durante una gita in barca. Per approfondimenti si rimanda all’ottimo sito www.mozartways.com

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2. Minuetto Vienna, primi di dicembre del 1791. Notte fonda. Un orologio in lontananza batte le tre. Rauhensteingasse, appartamento dei Mozart. Accucciato su una poltrona della sua camera da letto Wolfgang Amadeus. La febbre e acuti dolori reumatici gli impediscono di riposare; sotto le coperte in cui è avvolto di tanto in tanto emette un gemito. A un certo punto dall’oscurità si fa avanti Papageno. MOZART – Chi sei? PAPAGENO – Come chi sono? [Canticchiando] Der Vogelfänger bin ich ja, / stets lusting, heisa hopsassa! MOZART – Papageno? PAPAGENO – [Tra sé] Come mi guarda strano… [A Mozart] Perché mi guardi così sospettoso? MOZART – Perché dubito che tu sia reale. Sei un sogno, non è vero? PAPAGENO – E che importanza può avere in una notte come questa? MOZART – Perché? PAPAGENO – [Canticchia l’incipit del Quintetto del I atto] Hm, hm, hm hm! MOZART – Fai lo spiritoso? PAPAGENO – Fare lo spiritoso non è faccenda per me. Mi conosci, sono un tipo semplice, io, che si accontenta di dormire, mangiare e bere. E di stare con gli amici, ovviamente. Sono due settimane che non ti si vede al Freihaustheater. MOZART – Ma non passa giorno che non chieda di voi. So che sta andando molto bene. PAPAGENO – Molto bene? Il Flauto magico è un trionfo! I

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Viennesi fanno la fila per vederlo. E ogni sera, a teatro, non ti dico: il pubblico ci costringe a ripetere certe arie quattro, cinque volte. Una faticaccia, ma che soddisfazione! MOZART – Teatro… È strano come una sola parola possa dire tanto. Te-a-tro: è quasi una formula magica. La pronunci e ti ritrovi all’improvviso in un’altra realtà. PAPAGENO – Fatta di tutto e di niente… MOZART – E questa da dove l’hai tirata fuori? Il buffo e semplice Papageno è diventato filosofo? PAPAGENO – Sono un filosofo proprio perché sono buffo e semplice. Se non mi mettessi le dita nel naso, se non inseguissi, voglioso, le belle figliole e se non facessi rumori sconvenienti quando sono a tavola non potrei certo filosofeggiare. Il teatro, come dici, è molto eccitante, non v’è dubbio. L’opera è rappresentata trenta, cinquanta, cento volte, ma poi? Poi finisce, non rimane nulla. E finito lo spettacolo ci si dimentica di tutto, della musica, delle luci, delle scene… e anche del buffo e semplice Papageno. MOZART – Perché parli così? Almeno tu queste cose non dovresti dirle. Tu sei Papageno, nulla ti può toccare. Tu appartieni al mondo dell’arte. Basta pronunciare il tuo nome perché la magia si ripeta, perché chiunque, granduca o pescivendolo, marchesa o domestica, inizi a zufolare una delle tue Arie. E sai perché? Perché le parti che ho scritto per te sono le più belle del Flauto magico. Non sono raffinate come le altre? Ma è proprio questo il punto! Grazie a te il principio e il fine della mia arte mi sono finalmente chiari. Ho capito che tutta quanta la mia musica non aspettava che te. Il duetto, il duetto che fai con Papagena, eccolo il mio capolavoro. Se tutti potessero sapere che cosa ci sta dietro, quali desideri, quali ricordi, quali visioni si nascondono in ogni singola nota… PAPAGENO – Ma è proprio questo il punto, o mio ottimo

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amico: che nessuno potrà mai conoscere questi desideri, questi ricordi, queste visioni. A Vienna non v’è nessuno, in questi giorni, che non canticchi i miei motivetti, pieni di ogni simpatia e cordialità, e che non ritorni così con la mente agli incantesimi dello spettacolo. Sì, l’orchestra, il palcoscenico, i fondali dipinti, gli attori, i cantanti e sopra ogni altra cosa la musica, la tua musica. Questi i segni. Ma dietro a tutto questo? Che ne è della tua vita, dei suoi desideri, dei suoi ricordi, delle sue visioni, come tu dici? Perduta, perduta irrevocabilmente. MOZART – Non perduta, ma passata in una forma durevole, trasformata in una gemma sul corpo del tempo. PAPAGENO – O dimenticata in essa, come la principessa della fiaba che dorme nel suo castello. Tu passi, vedi il castello, con sguardo ammirato ne ripercorri la mole pietra a pietra, per qualche istante indugi sulla sua torre più alta, ma ignori che proprio lì dentro, adagiata su un letto di cristallo, dorme la principessa. Un bacio solo potrebbe risvegliarla, e una volta desta ella potrebbe raccontarti storie meravigliose, storie di viaggi e di volti, di amicizie e di addii ancora più splendenti della costruzione che i tuoi occhi avidamente ammirano. Così tu rimani accecato dallo sfolgorio della gemma, ma non sai che essa ne racchiude un’altra, di gran lunga più preziosa. MOZART – La tua filosofia si sta facendo greve, Papageno. PAPAGENO – Insisti pure a chiamarla filosofia, se ti garba. Per mio conto, so soltanto che non lontano da qui c’è la mia capanna che mi ripara dalla pioggia e dal freddo. Il mio focolare è tutto il mio mondo; le trappole per gli uccelli e la gabbia sono i solidi fondamenti della mia filosofia. Mangio fino a farmi scoppiare la pancia e la libero facendo dei rutti: e questi sono i graditi doni della mia filosofia. MOZART – Perché sei venuto a quest’ora della notte? PAPAGENO – Perché, vedi, voglio chiederti un favore.

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MOZART – Quale sarebbe? PAPAGENO – Non è solo a nome mio che te lo chiedo, ma anche a nome di tutti gli altri. MOZART – Tutti gli altri? PAPAGENO – Sì: Tamino, Pamina, Sarastro, la Regina della Notte…, tutti gli altri personaggio del Flauto magico, insomma. Per una notte, per questa notte soltanto, concedici di non essere solo i personaggi di una storia. Raccontaci la nostra storia. Riannoda la trama di sogni e di ricordi, di miraggi e di assurdità, di cui siamo fatti. Io sono un uccellatore, passo il tempo suonando il flauto silvestre e muoio dal desiderio di trovare una mogliettina che stia con me per il resto dei miei giorni; Tamino e Pamina sono due giovani principi, si amano e affrontano pericoli per coronare il loro amore; Sarastro, lui sì, è un filosofo, che ha consacrato la propria vita alla ricerca della saggezza; la Regina Astrifiammante è una donna che si sente tradita e cova per questo sentimenti di vendetta. Ma dietro a queste vite, quale Vita si nasconde? Noi la intuiamo oscuramente: essa è come l’immagine di un sogno, come un volto immerso nella nebbia di cui scorgiamo a fatica il contorno. Se cerchiamo di aguzzare lo sguardo, tutto si confonde ancora di più: come il fanciullo che con mano inesperta cerca di togliere le marionette dalla cassetta dove sono riposte, ma non sa far altro che ingarbugliarne i fili sottili. Per il pubblico il nostro agire è solo un gioco, eppure a noi sembra così grande e profondo! Ma se anche gli spettatori fossero a loro volta i personaggi di un altro spettacolo? Nulla sappiamo degli altri, nulla sappiamo di noi. Solitudine, amore e tempo gli uni dentro gli altri scorrono in questa notte. Dicci, allora: di quale Vita noi maschere siamo uno specchio infranto? Le luci a poco si abbassano finché tutto è avvolto dall’oscurità. Solo Mozart rimane inquadrato nell’occhio di un proiettore.

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3. Adagio molto espressivo Thomas Linley a W. A. Mozart. Firenze, 6 aprile 1770 Per la partenza del Sgr. Amadeo Wolfgango Mozart da Firenze. Da poi che il Fato t’ha da me diviso, Io non fò che seguirti col pensiero Ed in pianto cangiai la gioia e il riso; Ma in mezzo al pianto rivederti io spero. Quella dolce armonia di Paradiso Che a un estasi d`amor mi apri il sentiero Mi risuona nel cuor, e d’improvviso Mi porta in cielo a contemplare il vero. Oh lieto giorno! o fortunato istante In cui ti vidi e attonito ascoltai, E della tue virtù divenni amante. Voglian gli Dei che dal tuo cuor giammai Non mi departa: Io ti amerò costante. Emul di tua virtude ognor mi avrai. In segno di sincera stima ed affetto, Tommaso Linley

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MOZART – … in mezzo al pianto rivederti io spero. Invece non lo rividi più. Tommaso Linley, si chiamava. Era inglese e aveva quattordici anni. Proprio come me. Lo conobbi a Firenze, in una remota primavera italiana. Era allievo del famoso M° Pietro Nardini. Vi era qualcosa di incantevole e insieme di indicibilmente doloroso nel modo in cui suonava il violino. Le sue note, anche quelle più brillanti, trovavano sempre il punto più vulnerabile del cuore e lo colpivano, risvegliando… cosa? Non erano ricordi, anche se era qualcosa che aveva a che fare con la memoria. Era… la trasparenza della vita. Sì ogni cosa era trasparente, era come avvolta nella chiarità di una dolorosa lontananza, nella nostalgia di tutto ciò che manca. Appena lo sentii suonare mi resi conto della sorprendente generosità di quel ragazzo: non avrei saputo come altrimenti chiamare i doni che in quel momento egli elargiva con profusione instancabile a tutti noi che lo ascoltavamo. D’improvviso sentii che qualcosa si spezzava dentro di me. Le visioni confuse che turbavano la mia mente acquistavano ora contorni precisi: una luce tersa splendeva su di me, tutte le ombre venivano calpestate e un coraggio sconosciuto mi trasse in una vertiginosa danza. Con gioia e con sgomento mi aprii a ricevere l’abbondanza che da sempre, sia pure in forma imperfetta, sentivo spumeggiare dentro di me. Ma nello stesso tempo ecco insinuarsi il terrore che questa messe dorata marcisse, ricadesse su se stessa, diventasse colpa… Ma mi bastò guardare quel ragazzo, la sua figura esile eppure tremante di certezza, un giovane profeta che conosceva – era la sua musica a rivelarlo – le ore nere in cui la solitudine è un grumo che intossica, ma nonostante tutto pieno di ardore nella buona battaglia, per capire che sempre sarebbe stato combattimento, sempre, ma anche che quella chiarità mi avrebbe da ora in poi accompagnato, come immagine, come memoria, come preghiera. Così appariva, allora, colui che appartiene ai miei ricordi più cari e che avrei perduto dopo appena sei giorni senza saperlo, prima

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ancora che la morte – e aveva solo ventidue anni – lo rapisse. Sì, fu un incantesimo durato solo sei giorni, ma in quel breve spazio di tempo ciascuno trovò nell’altro la propria patria. Ha senso chiedersi cosa sarebbe stato di noi due se la folle contraddanza delle cose e degli eventi non ci avesse divisi? La grammatica del ‘sarebbe potuto accadere’ non appartiene a questo mondo. È bene pertanto che la mente non si affacci su questo abisso, dove i desideri muoio gli uni dentro gli altri, soffocati dalla loro nullità e dalla loro insignificanza. O forse no. Forse la vita contiene anche questo, gli abbracci che si sarebbero potuti dare, i viaggi che si sarebbero potuti fare, le musiche che si sarebbe potute scrivere, frammenti persi tra spazio e tempo… Aprile splendeva in quei giorni a Firenze in tutto il suo fulgore: il cielo era un’immensa cupola di un azzurro fuso, identico a quello delle pitture antiche che vedevo nelle chiese della città; e la città intera – i suoi palazzi, i suoi giardini, le sue piazze – si rifletteva in quel cielo. Firenze e il suo cielo formarono un tutt’uno nella mia mente: mi ritrovai in una specie di estasi, sospeso tra il presente e l’intemporale. Avvertivo in maniera quasi dolorosa il richiamo di quella irripetibile stagione dell’anima i cui frutti si offrivano generosi da qualunque parte io guardassi, e capii per la prima volta che l’arte non è soltanto bellezza, ma anche durata, prolungamento della vita, desiderio di eternità. È difficile ridire quello che provai. I luoghi del passato, specie se legati a un tempo felice, hanno in sé qualcosa di sacrilego: non è consentito farvi ritorno, perché sono frammenti di Eden, concesso all’uomo una volta sola. Eppure è impossibile resistere all’onda che dall’infinito flusso di immagini mi riporta il caro, troppo caro volto di Tommaso Linley. Diventammo subito amici – se basta la parola ‘amicizia’ per spiegare che cosa sia un’anima innamorata di un’anima – e trascorremmo i giorni che seguirono a suonare insieme e a pensare alla vita che avremmo vissuto: lui a comporre sonate e concerti per violino, strumento nel

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quale eccelleva, io a scrivere opere per il teatro. Fare quei sogni era già una felicità. Una felicità fatta di niente, di tempo buttato spensieratamente come i sassi che gettavamo per gioco nell’Arno, senza mete da raggiungere, risultati da conseguire o talenti da dimostrare. Accoglievamo tutto ciò che capitava e tutto diventava occasione di riso e di abbandono. Di quei giorni – così brevi, così intensi, così accecanti nella loro luce meridiana – uno in particolare ci dischiuse quanto di più prezioso la vita può contenere. Da un po’ di tempo Tommaso aveva concepito, ricambiato, un sentimento di affettuosa amicizia – che si sarebbe potuto chiamare ‘amore’ se la vaghezza di quell’età non gli avesse ancora impedito di dare un nome al turbamento che aveva nel cuore – per una fanciulla, un’erbivendola, che egli era solito incontrare ogni giorno mentre si recava a lezione. Sapendo che l’indomani sarei partito da Firenze, Tommaso volle a tutti i costi farmi conoscere Maria – questo era il nome della fanciulla. Decidemmo, allora, di comune accordo, di prenderci un intero giorno di libertà, lui dalle lezioni di violino e io dalle visite ufficiali presso i maggiorenti della città che occupavano buona parte delle mie giornate. Così, dopo aver inviato un domestico all’abitazione del M° Nardini perché gli riferisse di non attenderlo a causa di una spiacevole indisposizione, e dopo aver detto a mio padre che non potevo accompagnarlo in quel giorno, adducendo la medesima scusa, Tommaso e io ci demmo appuntamento proprio nella piazzetta dove Maria, ogni mattina, sedeva accanto al suo carrettino. Tommaso mi disse di stare attento perché presto avrei assistito a una curiosa apparizione. Infatti, da lì a pochi istanti, come richiamata dal gaio saluto che il mio amico rivolse a Maria, apparve da un balcone sopra le nostre teste una donna nerovestita che, sporgendosi, apostrofò la fanciulla dicendo: “Maria, venduto niente?”. Era una voce da soprano, autorevole e imperiosa. “Due soldi di fave e quattro di asparagi, madre!”, si affrettò a rispondere la ragazza. “Sta bene. Ma

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bada a non perderti in chiacchiere!”, replicò stizzita la donna; e con la stessa rapidità con cui era apparsa la vedemmo scomparire dietro a una cortina. Tommaso mi disse che la madre di Maria si era accorta che ogni giorno lui si intratteneva con la figlia, che vedeva di malocchio quella frequentazione e che era solita affacciarsi innumerevoli volte nel corso della giornata dal balcone di casa, da dove usciva assai di rado per via delle sue instabili condizioni di salute, per dissuadere lui o altri giovanotti a ronzare attorno a Maria. Il mio amico inglese, però, aveva deciso che, quel giorno, la libertà doveva valere per tutti. Dopo aver scambiato con Maria uno sguardo d’intesa, Tommaso fece un fischio. Simili a folletti apparvero d’un tratto tre monelli: indossavano vestiti frusti con grandi toppe a cui qua e là mancavano dei bottoni; i lineamenti gentili dei volti, ombreggiati da morbidi ricci color castano, ricordavano in modo impressionante quelli di Maria. Erano infatti i suoi fratelli minori. A un cenno convenuto i tre fanciulli salirono sul carretto al posto della sorella, mentre questa a passi rapidi si allontanava, seguita da me e da Tommaso. Insospettita forse dal fischio, la donna nerovestita uscì di nuovo sul balcone con una mutria da strega stampata sul volto, e vedendo i suoi figli al posto di Maria, sgranò gli occhi e sopraffatta dalla collera gridò: MUSICA [Variazione sul tema Der Hölle Rache kocht in mainem Herzen] “Che fai, sciagurata? Torna subito indietro! Guai a te se non ubbidisci, sai! Ma guarda cosa deve vedere una povera madre! Con due addirittura se la fila, quella meschina! Ah, ma questa volta non la passa liscia, questa volta sicuro che gliela raddrizzo, la schiena! A suon di busse gliela raddrizzo! O non sono più sua madre!”

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Mentre quella berciava a più non posso, i tre monelli ridendo di gusto ci salutavano con le loro manine. “Non ti preoccupare, Maria” dicevano “pensiamo noi al carretto. Divertitevi, piuttosto! A presto e buona giornata!” Il tempo mite, l’aria cilestrina, la vigoria dei corpi e soprattutto la tacita fratellanza dei cuori che si crea quando si fa insieme qualcosa che forse da soli non si avrebbe il coraggio di fare, davvero promettevano la più radiosa delle giornate. Essendo io l’ospite d’onore, Tommaso mi chiese quale luogo della città avrei voluto vedere. Ora, poiché fin dal mio arrivo a Firenze mi stava quasi sempre dinanzi agli occhi, come una sentinella sulla cima di una torre, mi venne l’uzzolo di vistare San Miniato al Monte. La proposta fu accolta con entusiasmo dai miei due compagni, anche perché, mi assicurarono, la vista che si gode sulla città da quel punto era a dir poco magnifica. Con la migliore disposizione d’animo ci mettemmo dunque in cammino. Visiti luoghi e poi d’un tratto ti accorgi che non hai fatto altro che seguire i lineamenti del tuo volto perché questi, come dicevano gli antichi, sono fatti dagli dèi in cui credi. Quel giorno mi resi conto di percorrere vie e piazze che conoscevo da sempre. I palazzi e le chiese, con l’armonia delle loro architetture e la maestà dei loro volumi, mi parlavano di una grande visione dell’umano, la stessa che io sentivo di dover annunciare attraverso la musica. Era, il mio, un acerbo sogno di gloria, mentirei se non lo riconoscessi, ma non solo di questo si trattava: era anche il desiderio bruciante di restituire ai miei simili ciò che io a mia volta avevo ricevuto. Per qualche ora andammo a zonzo per le strade della città, ammaliati dalle voci cantanti dei fioristi, degli ortolani, dei pizzicagnoli e dei beccai che si mescolavano tra loro per formare un solo canto, il canto di una città fiera, nota in tutta Europa per la sua bellezza e che secoli addietro era stata la capitale di un mirabile sogno. Per un tratto di strada costeggiammo l’Arno, fermandoci di tanto in tanto a osservare la massa d’acqua che fluiva lenta e solen-

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ne e i mulinelli che sparivano e risorgevano in forme sempre diverse sulla sua superficie. Tutti e tre sentivamo un’arcana attrazione per il mistero chiuso in quell’acqua, come se ci trovassimo dinanzi al mistero stesso della vita, al suo incessante scorrere, scomparire, trasformarsi… Senza che ce ne accorgemmo si fece l’ora di pranzo; se ne accorse, però, il nostro stomaco che, rumoreggiando, ci costrinse a fare una sosta nella prima locanda che incontrammo. Qui, seduto a un rustico tavolaccio, trovammo un gruppo di giovani braccianti che si ristoravano in attesa di riprendere il lavoro. Il nostro ingresso non passò inosservato. I giovani interruppero di colpo la conversazione e dopo averci squadrato da testa a piedi ripresero a parlare, ma sottovoce questa volta, scambiandosi occhiate allusive e prorompendo in subitanei accessi di risa. Certo, noi tre non potevamo essere più male assortiti di così. Per tacere del fatto, forse agli occhi di alcuni già di per sé increscioso, che una sola fanciulla si trovasse in compagnia di due giovanotti, erano i nostri abiti a destare sconcerto: Tommaso e io in marsina, Maria, invece, in abiti alquanto dimessi. Quando poi si accorsero che il mio italiano e quello di Tommaso, per quanto buono fosse, aveva innegabili accenti stranieri, quei giovani si lasciarono andare a una ilarità neppure più dissimulata. Uno di essi – un ragazzotto atticciato, di carnagione scura e dalla crespa chioma nera – si rivolse a Maria con una tale insolenza da spingermi a prendere immediatamente le sue difese prima ancora che Tommaso si rendesse conto di quello che stava accadendo. Nacque tra me e quell’impertinente un alterco a tal segno vivace che senza meno si sarebbe concluso per me molto male – il mio avversario mi superava in età e in forza – se Tommaso non avesse avuto la prontezza di impugnare un violino male in arnese abbandonato in un angolo della stanza e di improvvisare, dopo averlo accordato alla buona, una giga così piena di brio da lasciare, se possibile, ancora più trasecolati quei ragazzi. In un primo momento questi si irrigidirono sulle

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loro panche; poi, catturati dal ritmo della musica, iniziarono dapprima a tamburellare i piedi per terra e quindi a muovere le gambe; infine si lanciarono in una allegra e non priva di grazia danza rustica. Il mio rivale diede mostra di insospettabili doti tersicoree; muovendosi perfettamente a tempo, non si stancava di ripetere: MUSICA [Variazione sul tema Das klinger so herrlich] “Che suono, che ritmo! Questa è musica! Larala, larala! Mai visto, mai udito nulla di simile! Larala, larala!”

Quando Tommaso finì di suonare, partì spontaneo un applauso. Tutti si complimentavano con lui, lodando la sua straordinaria valentia nell’uso del violino. Riconoscenti per quell’inaspettato fuori programma e a riparazione delle incomprensioni passate, ci invitarono a unirsi al loro tavolo. L’invito fu accettato di buon grado. Trascorremmo così un’ora felicissima, parlando di tutto e di nulla, dei viaggi che Tommaso e io avevamo compiuto e delle città che avevamo visto – un argomento questo di sommo interesse, giacché essi non si erano mai spinti oltre il contado fiorentino. Terminato il pranzo, ci accomiatammo da quella allegra brigata non senza la speranza di potersi rivedere e ci rimettemmo in cammino. Il sole aveva già superato la metà del suo corso. Nell’aria, tra effluvi randagi, un intenso odore di lauro, a tratti addirittura stordente: ci si sentiva sopraffatti da tanta beatitudine, da quell’intesa così amorosa tra la terra e gli uomini. Ci vollero altre due ore prima di raggiungere San Miniato. La chiesa fu per me una epifania di luce: i marmi bianchi e verdi che ne ricoprivano la

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facciata disegnavano severi motivi geometrici che mi ispirarono subito un’idea di bontà. I rettangoli e i triangoli, i cerchi e i semicerchi, apparvero ai miei occhi come il tentativo di racchiudere, imbrigliare e quindi trionfare sull’aspetto fluido e incerto dell’esistenza. L’ordine, la misura e le belle proporzioni di quell’edificio mi parlavano di un tenace e vittorioso cimento contro l’informe, contro quanto di scomposto si agita sotto la superficie di questo mondo. Le amarezze, le pene e le ingiustizie della vita non erano allontanate, bensì pacificate, pacificate perché accolte: solo così potevano diventare linee geometriche, diventare ciò che esse, agli occhi di Colui che solo sa perché esistono, erano da sempre. Con la scusa di voler dare un’occhiata all’interno della chiesa, ma volendo in realtà che Tommaso e Maria restassero un poco soli, mi separai dai miei compagni. Per qualche istante li osservai, senza essere visto. L’uno vicino all’altra, essi guardavano, indicando con il dito un punto in lontananza, il paesaggio che sorrideva davanti a loro in tutta la sua grandiosa e serena bellezza. Era, quella, una scena che avevo visto già tante volte raffigurata dai pittori: Adamo ed Eva nel giardino terrestre che passeggiano alla brezza del giorno e intenti a dare un nome alle cose del creato. Tutto in quel momento sembrava una cornice fatta apposta per loro. Mi tornò alla mente un sonetto che avevo scovato in un libro di poesie toscane nell’albergo dove alloggiavo; nella prima parte, in particolare, le parole erano disposte in modo da formare una musicalità lieve e insieme vibrante: MUSICA [Variazione sul tema Dies Bildnis ist bezaubernd schön.] Io voglio del ver la mia donna laudare ed assemblarli la rosa e lo giglio: più che stella diana splende e pare, e ciò ch’ è lassù bello a lei somiglio.

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Verde river’ a lei rasembro e l’âre tutti color di fior’, giano e vermiglio, oro ed azzurro e ricche gioi per dare: medesmo Amor per lei rafina meglio.

Guido Guinizzelli Quando uscii dalla chiesa l’azzurro compatto del cielo iniziava già a sfrangiarsi in tenere sfumature color rosa. Era giunta l’ora di fare ritorno. Ci eravamo appena incamminati quando alle nostre spalle udimmo una bella voce di basso che diceva: “Noto con piacere, Signor Linley, che siete di nuovo in salute. E Voi pure, Signor Mozart; il Vostro illustre padre mi aveva informato della Vostra fastidiosa indisposizione”. Era il M° Nardini. Ci guardava sornione, ancora indeciso se assumere un’espressione accigliata, come avrebbe richiesto il suo ruolo, o di aperta benevolenza per la vergogna che in quel momento ci imporporava il volto. Alla fine fu quest’ultima a prevalere. “Dunque, oggi abbiamo saltato la lezione” proseguì Nardini; e dopo aver lanciato uno sguardo furtivo a Maria, che ancora teneva la mano in quella di Tommaso, soggiunse: “Anche se oggi, di musica, ne avete avuta in abbondanza, Signor Linley. Anzi, sono persuaso che non ne abbiate mai ascoltata di più bella. Come vede, ragazzo mio, non v’è male a cui gli dèi non pongano rimedio”. Tommaso tentò di abbozzare una risposta, ma fu preceduto da un allegro buffetto sulla nuca. “Signori, posso chiedere l’onore della vostra compagnia per il viaggio di ritorno? S’intende che l’invito è esteso anche a Voi, gentile Signorina,” disse Nardini accennando un inchino “nella mia carrozza v’è posto per tutti”. Mentre percorrevamo la strada del ritorno, Nardini ci riferì che, saltata ormai la lezione con Tommaso e invogliato dallo splendido tempo, aveva deciso di

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prendersi una giornata di riposo e di salire lui pure a San Miniato, luogo che gli era caro in sommo grado. Arrivammo in città poco prima dell’imbrunire. La carrozza, salutata con festoso schiamazzo dai tre monelli che in quel momento stavano riponendo la merce sul carretto, si fermò proprio sotto casa di Maria. Come era prevedibile, la donna nerovestita non tardò ad affacciarsi dal balcone. Era una furia: schiumando di rabbia, gridava che sua figlia era impazzita, che andava in giro in carrozza come una dama d’onore invece di lavorare, che non aveva rispetto per sua madre e che una volta in casa le avrebbe prese di santa ragione. Tommaso stava per prendere le difese di Maria quando Nardini, facendogli cenno di tacere, con quell’aria sorniona che bene conoscevamo disse rivolto alla donna: “Gentile Signora, mi pregio di fare la sua conoscenza: Pietro Nardini, Maestro di cappella del Serenissimo Pietro Leopoldo Granduca di Toscana, per servirla. Perdoni l’intromissione, ma temo che si tratti di un deplorevole malinteso, di cui io sono l’unico responsabile. Ecco in breve come sono andate le cose. Attratto dalle primizie che ogni giorno, passando di qui, vedevo esposte, chiesi alla signorina di venire oggi a casa mia per concordare il prezzo di una fornitura quotidiana di frutta e ortaggi. Ella venne, accompagnata dai miei due esimi allievi, il Signor Mozart e il Signor Linley, a cui avevo chiesto la cortesia di indicarle la strada. Purtroppo a causa di un imprevisto fui costretto a uscire prima del suo arrivo. Dissi ai domestici che le riferissero di aspettarmi, perché mi sarei liberato in fretta. Gli eventi presero, invece, un’altra piega e rincasai solo a tarda ora. Sua figlia mi usò, tuttavia, l’immeritato favore di attendermi fino al mio arrivo. Se lo permettete, ora vorrei sdebitarmi”. Trasse dal taschino tre monete. “Per vostra madre, cari” disse, consegnandone una a ciascun fanciullo. “Quanto a lei, signorina” riprese Nardini “l’attendo domani, alla solita ora e al solito posto: questa volta, mi creda, non si verificherà alcun contrattempo. Signor Linley, l’aspetto come

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al solito a lezione. Signor Mozart, la sua compagnia è stata piacevolissima. Le auguro buon viaggio – so che domani lascerà Firenze. A Dio piacendo, speriamo di rivederci presto”. Salì in carrozza. Prima di partire, sporgendosi dal finestrino, aggiunse: “S’intende che noi due, oggi, non ci siamo mai visti. Ossequi, signor Mozart!” Seguii con lo sguardo la carrozza finché non la vidi scomparire dietro a un angolo. Senza il M° Nardini, senza la mano affettuosa che ci tese, quella giornata non sarebbe stata così perfetta; io capii che possono essere chiamati maestri solo coloro che conoscono il cuore dei propri simili… La compagnia si sciolse. Maria mi abbracciò tra le lacrime: “Mi auguro di rivederti presto, Amadé” disse “Vorrei tanto sentirvi suonare insieme la prossima volta. Addio!” Tommaso promise, invece, che sarebbe venuto l’indomani mattina a salutarmi prima della partenza. Il giorno dopo, alle nove in punto, era già al mio albergo. Ci accompagnò in carrozza fino alle porte della città. Qui, prima di separarci, mi consegnò un plico, con la preghiera di dissigillarlo solo una volta in viaggio. Prima di abbracciarci ci fissammo negli occhi: per un istante vidi balenare nel suo sguardo il selvaggio enigma della vita… Una volta in carrozza aprii il plico. Conteneva due fogli. Il primo riportava un affettuoso sonetto in mio onore firmato dallo stesso Tommaso. Sul secondo, invece, erano vergate queste parole: «Stimatissimo amico! Il sonetto, come avrai capito, non l’ho scritto io: non padroneggio l’italiano fino a questo punto. Esso è opera di una insigne poetessa fiorentina, mia amica, a cui l’ho commissionato. Le righe che seguono, invece, le abbiamo scritte Maria e io, di nostro pugno: [Variazione sul tema O Isis und Osiris.] O Dio, benigno rispondi ai desir di un gentile amico. E tu, gentile amico, non ti scordar di noi».

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4. Rondo. Allegro ma non troppo Le luci a poco a poco si alzano. La scena è quella iniziale. PAPAGENO – Non ti scordar noi… Dunque è questo ricordo troppo ricordato che ci ha dato la vita, vero? Questa implorazione lanciata nell’infinito, troppo grande per essere esaudita… MOZART – Sì, forse troppo grande, ma le sono sempre stato fedele. Attraverso la mia musica, le sono stato fedele. Tutto ciò che ho scritto è stato un tentativo di salvare quei cari volti e tutto ciò che essi significavano, di conservare almeno una minima traccia del loro passaggio su questa terra, di portarli al riparo su un’altura dove nulla li avrebbe più minacciati. PAPAGENO – Un tentativo soltanto? MOZART – Ho voluto la vita, ho voluto troppa vita. Pensavo di ottenerla attraverso l’arte, ma ogni volta quella mi precedeva. La mia musica, i personaggi del mio teatro erano solo un contrappunto a quei volti che imploravano di essere ricordati. Un contrappunto… il guscio vuoto di una cicala il cui canto non è durato che pochi giorni… Ma il tema, il tema centrale, quello che ritornava in continuazione e che io non potevo fare a meno di sentire nella mia mente e nella mia carne, quello non mi riusciva di metterlo in musica. Finché un giorno ho udito un grido, un grido di gioia: il Flauto magico! Tommaso e Maria, sua madre e Nardini sarebbero ritornati, e questa volta per sempre, sotto le maschere di Tamino e Pamina, di Astrifiammante e Sarastro, personaggi da fiaba perché una fiaba furono quei giorni e solo la fiaba è capace di dire ciò che esiste veramente in questo mondo. Tutto quello che avevo composto prima non era altro che attesa, attesa che quelle esperienze fossero inondate da torrenti di significati in grado di farli vive-

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re per sempre. Fu come svegliarsi una mattina e accorgersi di parlare una lingua nuova; e le immagini si fecero musica. PAPAGENO – Musica sublime, diciamolo pure senza complimenti. Il Flauto magico è il tuo capolavoro. Intendiamoci: non che le altre opere fossero cosucce, ma ti assicuro che i miei cugini Figaro e Don Giovanni – me lo hanno confessato più di una volta dietro le quinte – sarebbero disposti a tutto pur di prendere il mio posto. Tuttavia, non hai ancora risposto alla mia obiezione. La Vita ci sfugge e l’arte con passi maldestri e incerti la insegue. Vorrebbe raggiungerla, anzi addirittura superarla, ma la Vita si allontana, scivolando con passi leggeri; e l’arte resta sulla strada polverosa, tremante d’angoscia perché sa che deve raggiungere la meta prima che cali la sera, altrimenti sarà troppo tardi. MOZART – E ora è notte, vero Papageno? PAPAGENO – Sì, ora è notte, amico mio. MOZART – E non c’è più tempo… PAPAGENO – No, non c’è più tempo… MOZART – Dunque anche il Flauto magico… Lo sforzo di ridire attraverso la musica l’esattezza di un fiore, di un sorriso, di una lacrima, di un volto è solo… solo una foglia portata dal vento che non ha altro senso che quello di essere una foglia portata dal vento… PAPAGENO – Ma hai mai pensato quanto è bella una foglia portata dal vento? Caro, caro amico, e se la risposta a tutto fosse proprio questa? Se la meta che cerchiamo fosse già con noi, se fosse quello che semplicemente abbiamo fatto con il nostro cammino e che vive negli occhi, nella carne, nel sangue, che dà spessore e profondità a ogni esperienza? In fondo, tu questo lo hai sempre saputo. Altrimenti non avresti creato Papageno. Quello che dici è vero: le mie arie sono le più belle

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di tutte. Solo che – forse ti sorprenderò – io ignoro cosa sia la bellezza, mi limito a cantarla: sono maestro nel zufolare, catturo per la Regina Astrifiammante e le sue Dame colorati uccelli ricevendo in cambio vino, pandolce e fichi zuccherini, abito in una capanna insieme a Papagena e ai nostri piccoli Papagenini: ecco la mia definizione di bellezza. MOZART – Ma poi l’orchestra tace, le luci si spengono e il sipario si chiude. Lo dicevi prima, lo hai scordato? PAPAGENO – Certo che no. Ma permettimi di farti ora una confessione. Se questa notte ti ho chiesto di riannodare i fili della memoria non è stato per nostalgia – quella bisbetica portinaia che non cessa mai di ricordarci quello che abbiamo fatto e detto e vissuto –, ma per mostrarti una cosa che come un torrente sotterraneo attraversa tutta la tua musica fino a zampillare, cristallino e pacificante, proprio nel Flauto magico. È vero: lo spettacolo finisce, il teatro si svuota, il compositore e i cantanti, gli attori e le maestranze sono solo l’orlo di una nuvola che passa nel vasto cielo, ma quale felicità sentirsi parte anche per un solo istante di quel fluire! Gli uni per gli altri, caro amico, realizziamo la bellezza, fugace, ne convengo, ma sufficiente a portare via, sia pure per la durata di uno spettacolo, la febbre delle passioni e la tristezza dei cuori, e a ricordarci che il sipario è, sì, calato, ma che il pubblico si è divertito, che lo spettacolo è stato bello e bella la notte che resta. MOZART – Ho paura, Papageno… PAPAGENO – E perché mai, o mio gentile amico? Un tempo mi fermai alle porte della città, ma ora le varcheremo insieme. MOZART – Ho paura, Papageno, e ho freddo… freddo… PAPAGENO –

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MUSICA [Variazione sul tema Tamino mein! O welch ein Glück!] Gentile amico, sarò ovunque al tuo fianco: io stesso ti condurrò, prendendoti per mano. Ora vieni, suona il flauto magico: ci proteggerà sul nostro cammino. Lento il sipario

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K 413 Un racconto

1. ‘È come se stessi calpestando pezzi di vetro’ pensò Giovanni mentre camminava per i vialetti coperti di ghiaia del parco. Un improvviso respiro di vento lo fece rabbrividire. Si alzò il bavero della giacca e si diresse con passo più deciso verso l’uscita. Dopo la morte del figlio i suoi pensieri ritornavano con insistenza a immagini di vetri in frantumi. Ogni cosa gli sembrava fragilissima, sul punto di sbriciolarsi in innumerevoli pezzi. Anzi, aveva l’impressione di essere diventato egli stesso di vetro. Durante la giornata cercava di evitare i contatti fisici con le altre persone. Un urto o una pacca sulle spalle erano per lui motivo di sofferenza; solo se costretto dalle circostanze dava la mano in segno di saluto. Quando poteva stava a braccia conserte, come se quella cintura di membra potesse sorreggere l’imminente crollo del suo corpo. Ma del vetro egli credeva di aver acquistato anche la trasparenza. Gli sembrava infatti che chiunque, guardandolo, potesse vedere il dolore che gli squagliava il cuore. Persino lo sguardo di uno sconosciuto, incrociato per caso, gli procurava un acuto senso di vergogna. Uscito dal parco s’incamminò lungo via Cascina, il tragitto più breve per arrivare a casa. Detestava passare di là, ma si sentiva molto stanco e la cosa che desiderava di più in quel momento era di sprofondare nella poltrona dello studio.

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Via Cascina s’imbiettava nella parte vecchia della città e la solcava, l’apriva, la sfregiava come una cicatrice, come una piaga su un corpo consumato dai secoli, supporando sporcizia e acri afrori. I muri scrostati, l’ombra tetra delle case addossate le une alle altre, quel silenzio di attese mutilate, di desideri animaleschi, di fughe inutili che fermentava intorno, gli evocavano vizio e decrepitezza. Ma era soprattutto per le finestre di quella via che Giovanni evitava di passarci. Erano numerosissime, di grandi e di piccole, di forma quadrata e ovale, rettangolare e tonda; alcune erano incorniciate da patetiche tendine a quadretti o a fiorellini, altre avevano le imposte serrate, altre invece, sventrate al cielo, davano l’impressione di essere pozzi neri senza fondo. Tutte le volte, non sapeva nemmeno lui spiegare come, lo assaliva lo stesso pensiero unito allo stesso senso di impotenza: ‘Quante lacrime spiano dietro quelle finestre. Quanti muti singhiozzi che non udrà nessuno…’ Provenienti da chissà dove si udirono i rintocchi di una campana. Giovanni parve ridestarsi di colpo a quel suono fesso e monotono. Lanciò un ultimo sguardo alla via per commisurarne ancora una volta lo squallore, poi voltò a sinistra e dopo pochi passi si ritrovò sul viale dove abitava. 2. Appena entrato in casa, Giovanni si lasciò cadere sulla poltrona di pelle dello studio. Stese le gambe e rimase per qualche minuto ad occhi chiusi. Dalla strada gli giungeva l’eco sommessa della strada. Innumerevoli suoni erano aggrovigliati in una matassa dalla quale ora uscivano ora si ritraevano risate, colpi di clacson, ronzii di ciclomotori, frastuono di automobili. Una volta messosi a sedere il formicolio alle gambe, dovuto alla lunga passeggiata, gli procurò una sensazione di benessere. ‘Va meglio’ pensò. La superficie vellutata della pelle sotto le sue dita gli diede un senso di protezione, come se lì vicino

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a lui ci fosse una persona amica che gli stesse accarezzando la mano. Avvertendo che il torpore stava invadendo a poco a poco il suo corpo, decise di aprire gli occhi. Il suo sguardo dapprima vagò distrattamente per la stanza; poi si soffermò sulla parete che gli stava di fronte. Era l’ora in cui il sole, filtrando attraverso le chiome dei platani che erano all’altezza del suo appartamento, proiettava su quella parete curiosi arabeschi. Erano scintille di sole che si inseguivano, si scontravano, si fondevano e si separavano di nuovo, in una incessante danza che si faceva vieppiù movimentata a seconda di come il vento terminasse la sua corsa sulle fronde degli alberi. Guardando quelle inquiete scaglie di luce, di colpo gli tornò vivido in mente il gioco che faceva con Enrico appena un mese prima. Seduti su quella poltrona, con Enrico a cavalcioni sulle sue ginocchia, immaginavano grandiose battaglie fra eserciti e figure bizzarre di animali. ‘Il nostro piccolo cinema’ avevano chiamato quel grappolo di minuti in cui il sole regalava loro quel curioso spettacolo. Giovanni avvertì immediatamente la pericolosità di quei ricordi e subito si sforzò di non farsene travolgere. Prese dal tavolino il libro che stava leggendo e iniziò sfogliarne le pagine cercando il punto in cui era arrivato con la lettura. Lesse qualche pagina cercando di concentrarsi il più possibile, ma ormai era troppo tardi. Le parole sulla carta si liquefacevano in una densa macchia nera dentro la quale si sentiva risucchiare. A un certo punto ebbe l’impressione di sprofondare in un’improvvisa notte. ‘Non-ne-posso-più…’ sillabò, pensando all’umiliante rito al quale lei ancora una volta, come tutti i giorni a partire da quel giorno, lo costringeva. Lei, la morte. Chiuse il libro lentamente, ormai del tutto sottomesso. ‘Le mie mani non riusciranno mai a coprirmi gli occhi e a non vederti – le disse gemendo – perché tu sei l’assenza del mio Enrico. Tu sei il non-suono della sua voce, il non-suono dei suoi passi nel corridoio, il non-calore delle sue guance sulle mie’.

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E lei, silenziosa e tirannica, uscì dal suo recesso e gli si fece incontro per avvolgerlo di nuovo nel suo amaro incantesimo. Gli si accostò, lo prese per mano e lo accompagnò alla camera del figlio. 3. Sì, egli si sentiva umiliato. Umiliato e insieme inerme dinanzi a quel richiamo che ogni giorno lo dominava e lo costringeva a entrare nella stanza di Enrico. Lì rimaneva per circa un’ora, in piedi e immobile, a guardare i giocattoli, i pupazzi di peluche, il lettino e l’armadietto color lavanda. Ogni oggetto riversava su di lui ricordi che lo laceravano. Tutto in quella camera era rimasto come Enrico lo aveva lasciato l’ultima volta. Buffetta, la grande tartaruga di pezza che gli aveva regalato per il suo terzo compleanno, giaceva a pancia in su nel centro della camera. Le zampette sospese per aria sembravano conferire una dolente espressività al pupazzo, tanto che sarebbe venuto spontaneo a chiunque lo avesse visto di rigirarlo. Ma nulla poteva essere toccato in quel mausoleo terribile e venerabile: ogni variazione, sia pure minima, poteva sgretolare la cara immagine del bambino. Quelle erano le ultime cose che il suo bambino aveva toccato e delle sue mani il padre era convinto che conservassero ancora il calore. Giovanni entrò nella stanza richiudendo subito la porta dietro di sé, perché non voleva che se ne disperdesse nemmeno l’odore. Ma ormai alla fragranza di sole e di primavera che gli abiti del bambino avevano portato là dentro dopo le lunghe ore trascorse nel cortile di casa, si era sostituito un sentore dolciastro, come di medicine. Giovanni tastò la parete alla ricerca dell’interruttore. Di solito indugiava un poco prima di accendere la luce, ma questa volta la mano trovò subito il tasto e il lampadario sfolgorò d’un candore duro e crudo. La luce lo colpì in pieno viso. Ogni cosa dentro la camera parve strappata da un sonno antico. Tutto

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formava un solo occhio che lo guardava cattivo e impaurito. Diversamente dalle altre volte, ebbe l’impressione di aver commesso un atto sacrilego, di aver varcato un luogo sacro il cui accesso gli era proibito. Un madore vischioso gli imperlò la fronte. Fece per uscire ma lei glielo impedì. La stanza iniziò a girargli intorno. I giocattoli di Enrico gli divennero all’improvviso estranei, ostili persino. La nausea gli pulsava alle tempie. Soffocava. Per non perdere l’equilibrio si appoggiò al tavolo, ma con un mano urtò un paio di gessetti colorati che caddero sul pavimento emettendo un suono di ramoscelli che si schiantano di colpo. Lo stesso suono avvertì Giovanni dentro di sé. ‘Oh, no!’ gridò, ‘No!’ Subito si precipitò a raccogliere i gessetti. Li adagiò sul tavolo sforzandosi di rimetterli nella medesima posizione di prima, ma la memoria e le mani non lo soccorrevano: quei bastoncini farinosi gli sembrano cose vive, tanti pezzetti di sé che gli si rivoltavano contro e che gli si sottraevano in una fuga anarchica e disperata. Di nuovo lo aggredì la sensazione di vetri in frantumi, ma questa volta non le oppose resistenza: accolse con rapace avidità quel veleno dentro di sé e se ne lasciò possedere. Iniziò a piangere, dapprima sommessamente, senza scatti, poi con singhiozzi sempre più forti, finché un urlo non gli squarciò la gola. Sul suo volto trascorse un’espressione di scomposta meraviglia, come se non avesse riconosciuto quella voce come sua. Giovanni si artigliò i capelli, quasi volesse domare quel corpo gli non gli obbediva più. Con uno scatto rabbioso spense la luce, per spegnere assieme a quella anche la sua miseria. Ma la tenebra era più espressiva di un volto, palpitante di una misteriosa vita. La stanchezza alla fine lo sopraffece. Ormai esausto si sdraiò per terra, con la faccia contro il pavimento. Gli occhi gli si fecero pesanti. Gli parve di udire il nome di suo figlio; poi il silenzio si richiuse sopra di lui.

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4. Era già mattina inoltrata quando Giovanni si ridestò da un sonno greve, popolato da visioni che non avevano attinenza alcuna con quanto era accaduto ore prima. Dalla fessura della porta entrava una lama di luce che si conficcava proprio a pochi centimetri dalla sua faccia. Fu quella a svegliarlo. Aprì un poco gli occhi ma subito li richiuse. Sulla retina gli rimase impresso un barbaglio a forma di rettangolo. Attese che quello si dissolvesse nel lucore lattiginoso che filtrava attraverso le palpebre e poi di nuovo riaprì gli occhi. Tentò di rialzarsi ma le membra erano ancora intorpidite. Si fece forza, e con un gemito riuscì a sollevare il suo corpo. Una volta in piedi iniziò a trarre profondi respiri, ma gli parve che l’aria inspirata, un’aria calda e densa, non riuscisse a raggiungere i polmoni. Aprì la bocca per ingurgitarne con avidità volumi maggiori, ma fu come se la gola si riempisse di una sostanza oleosa dal sapore ripugnante. Aprì la porta e subito fu avvolto dalla diffusa luminosità di una splendida giornata di primavera e da un’aria fresca e profumata. Le finestre dello studio erano rimaste aperte per tutta la notte così nell’appartamento fluttuava una fragranza deliziosa, quasi zuccherina. Giovanni respirò profondamente, bevendo l’aria come gli ubriachi il vino. Sebbene avesse dormito per tante ore, la stanchezza gli opprimeva ancora le membra: gli sembrava di portare sulla schiena un peso che gli premesse sulle spalle e sulle reni. Andò a sciacquarsi la faccia. Allo specchio il suo volto gli parve ripugnante. Con la mano toccò la sua immagine riflessa, la barba non rasata, i capelli scarmigliati, la polpa delle labbra di un rosa sbiadito e le piccole grinze sulla guancia che la luce, spiovendo di lato, faceva risaltare crudelmente. Il suo sguardo si fissò sui suoi occhi. Dapprima seguì il disegno delle sopracciglia, poi indugiò un poco sulle palpebre ed infine si concentrò sull’iride. Da quei piccoli dischi color blu cobalto si riversava una

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mareggiata di dolore che gli fece provare compassione per se stesso. Un oceano d’ombra ribolliva nei suoi occhi e in quell’oceano egli si dibatteva come un povero naufrago. Giovanni lasciò la stanza da bagno e andò in cucina. Aprì il frigorifero, stappò una bottiglia di birra e ne trangugiò alcuni sorsi. Poi uscì sul balcone. Guardò il cortile come se lo vedesse per la prima volta. Quel posto che gli era così familiare (era lì che Enrico aveva imparato ad andare in bicicletta) ora gli appariva diversissimo. Tutto era sprofondato in una immobilità assoluta: non un suono, non un refolo di vento che muovesse la cima degli alberi e la biancheria stesa ad asciugare. Oltre la cortina di tetti, di camini e antenne, si stagliava la massiccia mole del duomo e del campanile; nello sfavillio d’oro in cui ogni cosa sembrava fondersi, solo quello restava di un compatto color arancio bruciato, gigantesco monolite che si stagliava su un cielo di un azzurro, vivo, saturo, quasi aggressivo. ‘…assurdo’ mormorò Giovanni come se stesse concludendo una frase. Appoggiò le mani sulla ringhiera in ghisa del balcone; pur avvertendo un doloroso bruciore, strinse ancora di più la presa. Si sporse e guardò giù. ‘Da quest’altezza… da quest’altezza…’, biascicarono le sue labbra. Giovanni soffocava di dolore: gli gorgogliava dal profondo della sua anima, rifluiva nel cortile e invadeva la città e il mondo. Cercò le manine di Enrico che suonavano il campanello della bicicletta, ma non le trovò. Allora, dominato da un oscuro richiamo, mise un piede sulla ringhiera e con uno sguardo carico d’odio salutò il baratro che si spalancava sotto di lui. Già sentiva tendersi i muscoli della gamba, quando il cortile si riempì all’improvviso della musica più bella, più dolce, più consolatrice ed insieme malinconica che si potesse dare. Era come un bacio, una carezza, l’eco di un perdono che scendeva sull’intera terra. Dall’abisso della sua memoria riemerse il ricordo di quella melodia. Gli sembrò impressionante come essa

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si ricomponesse, nota dopo nota, nella sua mente. Era studente ginnasiale quando l’udì per la prima volta. Alcuni suoi amici del Conservatorio lo avevano invitato ai saggi musicali che si tenevano a giugno al termine delle lezioni. Quell’anno in programma c’era anche il concerto per pianoforte e orchestra n. 11, K 413 di Mozart. Il Larghetto, in particolare, lo impressionò fin dai primi accordi. Il tema principale, esposto in apertura dall’orchestra, era di una bellezza che stordiva, era l’anima stessa della musica. Come il vento che, dopo aver percorso le distese del mare, porta a terra una fragranza salmastra, così quella musica trasportava il ricordo di visioni supreme. Quando poi fece il suo ingresso il pianoforte solista, Giovanni si turbò profondamente. Da dove, si domandava stupefatto, quella magnificenza sonora? Come era possibile che tanti doni fossero stati elargiti a un solo uomo? L’indomani andò subito ad acquistare il disco e per molto tempo non passò giorno senza che ascoltasse il Larghetto; poi gli anni depositarono su quella musica una coltre spessa e grigia. Ma ora essa ritornava, bellissima come la prima volta. ‘Il K 413…’ sussurrò Giovanni. Le note vibravano nella profondità del suo essere. L’ondata bruciante di dolore ancora rifluiva, ma in essa anche un oscuro conforto. Per un istante gli parve che qualcosa brillasse nella muraglia di tenebra che gli si ergeva dinanzi, per poi subito scomparire nella domanda insolubile. Giovanni si accorse che la musica proveniva da un appartamento al piano inferiore. Sapeva che da qualche giorno erano venuti ad abitarci i nuovi proprietari, ma ancora non aveva avuto occasione di incontrarli. Guardò in basso e su un balcone, a poca distanza in linea d’aria dal suo, Giovanni vide un uomo che teneva in braccio un bambino. L’uomo zufolava sommessamente il tema principale del Larghetto mentre il bimbo lo ascoltava, cingendo con le sue braccia il collo del

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padre e tenendo la testa reclinata sulla sua spalla. Ad un tratto il bambino si accorse di Giovanni. Senza alzare il capo gli sorrise e lo salutò con la manina; poi gli indicò con un dito un punto in lontananza. Anche le labbra di Giovanni si schiusero in un sorriso.

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Postfazione di Umberto Curi

1. Nel mondo greco classico, la mousiké, vale a dire non solo la “musica” nel senso moderno del termine, ma il complesso delle arti a cui presiedevano le Muse, costituiva uno dei due pilastri sui quali si sosteneva la paidéia dei giovani, mentre la ghymnastiké era finalizzata alla formazione del corpo. Per il cittadino di Atene sarebbe stata inconcepibile un’educazione che non fosse finalizzata allo sviluppo armonico di entrambe le componenti del modello pedagogico. Particolare importanza, nel contesto delle arti, era riconosciuta a quella che oggi chiamiamo musica, poiché essa era indispensabile non solo in se stessa, ma anche come mezzo di “accompagnamento” della poesia, la cui “rappresentazione” prevedeva il canto eseguito con il sostegno di uno strumento musicale. Come è stato più volte rilevato, non é dunque un caso se i due principali poemi, dai quali prende avvio la tradizione letteraria dell’Occidente, vale a dire l’Iliade di Omero e la Teogonia di Esiodo, abbiano inizio con l’invocazione alla musa del canto, alla quale l’aedo si rivolge per essere sostenuto nella sua impresa. La consuetudine di accompagnare sempre i versi con la musica si spiega, fra l’altro, anche col fatto che armonia e ritmo rendono più facile il ricordo, ovviando così ai limiti intrinseci in culture che, alle origini, sono ancora sprovviste della scrittura. Lo stesso Platone, al quale abitualmente (ed erroneamente) si è soliti attribuire una condanna senza appello delle arti, dedica in realtà ampio spazio alle discipline protette dalle Muse

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nell’opera – la Politeia – in cui descrive analiticamente quali debbano essere i principali ingredienti del processo formativo. La mousiké è, nelle parole di Socrate, uno strumento essenziale per l’educazione dei cittadini, perché, fin da bambini, li guida senza che se ne accorgano all’apprezzamento disinteressato (philia) e alla consonanza (symphonia) con la bella ragione (kalos logos) (401d). In questo modo, il bambino acquisirà una propensione ad apprezzare il (moralmente) bello e a disprezzare il (moralmente) brutto, prima di essere in grado di afferrarne il logos (402a). Mentre i bambini vengono indirizzati alla virtù senza che se ne rendano conto, chi li educa deve avere presenti gli eide (forme) della sophrosyne, del coraggio, della eleutheriotes (generosità), della magnanimità e delle altre virtù sorelle (402c). D’altra parte, la musica è per Platone anche il modello che consente di comprendere quale sia il funzionamento dell’arte politica e quali ne siano le possibili degenerazioni, sulla base di un parallelismo fra i criteri che governano l’organizzazione di una polis e i princìpi che disciplinano un testo musicale. Si può anzi osservare (riferendosi ad un passaggio, per lo più trascurato, delle Leggi) che secondo il filosofo la buona costituzione di uno Stato dipende dal rispetto di quegli stessi nomoi, senza i quali non è neppure possibile la realizzazione dell’armonia nel campo della musica. Più in particolare, l’incapacità di riconoscere i nomoi, e dunque l’impossibilità di distinguerli come sarebbe necessario da altri aspetti del canto, è considerata nel contesto delle Leggi l’origine del pervertimento che ha colpito la musica1. Di qui, infatti, dall’indebita mescolanza fra threnoi e peana, fra him-

1. PLAT. Leg. 700 a –b; tr. it. di A. Zadro in Platone, Opere, Bari 1966, vol. II, p. 692.,

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noi e dytiramboi, e più in generale dall’«uso di trascurare i nomoi riguardanti la mousiké»2, è scaturito un processo di corruzione, il cui esito è stato il sorgere di «una cattiva teatrocrazia al posto dell’aristocrazia»3. Ciò che accade, nel momento in cui si ignorino i nomoi «per quanto riguarda quest’arte», è la nascita di un regime nel quale il biasimo è espresso mediante fischi e urla scomposte, e la lode è sancita con i battimani, mentre si diffonde l’aberrante convinzione che la musica non abbia alcun rigore, e possa essere interamente giudicata da chicchessia, sulla base del piacere che suscita. Alla stessa radice – il misconoscimento dei nomoi e la dissoluzione del principio che attribuisce l’autorità di giudicare a chi sia provvisto delle necessarie competenze – è possibile ricondurre anche l’origine di quella condizione di profondo deterioramento che è prodotta dal sopravvento dell’opinione «che tutti sappiano tutto». Il modo con cui si è verificata la crisi dell’aristocrazia, vale a dire la pura e semplice decadenza di ogni legalità connessa ai nomoi, e il conseguente rifiuto a sottomettersi all’autorità dei magistrati, spiega dunque per quale ragione da tale crisi non sia affatto derivata «una democrazia di uomini liberi» (evento che, ove fosse accaduto, «non sarebbe stato per nulla grave»), bensì una situazione nella quale dominano l’«illegalità» e la «malvagia impudenza». Si tratti, insomma, della mousiké, ovvero della politeia, i criteri da cui dipendono sanità o corruzione sono essenzialmente due. Anzitutto, l’accettazione di nomoi, il rispetto delle regole stabilite contro ogni insubordinazione letteralmente an-archica, refrattaria ad ogni principio. In secondo luogo, e congiuntamente, la disposizione a «rispettare l’opinione di chi è migliore», assumendo che ciascun’arte – sia essa quella musicale, sia quella del governo – richieda una competenza specifica,

2. Ivi, 700 e; tr. it. cit., p. 693. 3. Ivi, 701 a; tr. it. cit., p. 693.

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e non possa essere di conseguenza affidata alle intemperanze di chi abbia l’impudenza di giudicare, pur essendo sprovvisto delle necessarie conoscenze. Si potrebbe insomma affermare, senza procedere indebitamente oltre il raggio del ragionamento platonico, che l’accezione degenerata di democrazia, come forma politica totalmente sprovvista di regole, e dunque come prodromo della teatrocrazia, può essere considerata una esecuzione stonata di una musica che non rispetta i nomoi. L’a-narchia politica è dunque del tutto simile alla mancanza di ogni saldo principio organizzatore nel campo della musica. Apparentemente fra loro diverse e lontane, musica e politica rivelano dunque una consanguineità insospettata, giustificando ulteriormente il ruolo “pedagogico” centrale attribuito dai Greci alla musica. 2. Di questa complessità, della irriducibilità della musica, nel suo statuto più proprio, a semplice espressione sonora, a mero insieme di note, del fatto che essa ecceda la sua stessa configurazione acustica, si dimostra pienamente consapevole Andrea Panzavolta nei saggi raccolti nelle pagine precedenti. Il fatto di non essere né un musicista né un musicologo – come egli stesso confessa candidamente nella godibilissima lettera a Mozart proposta quale Introduzione – non solo non sottrae nulla all’acume delle sue analisi, ma anzi al contrario gli consente di liberare pienamente un estro tanto incontestabile, quanto difficile da definire. Confermando la regola, secondo la quale, soprattutto nel contesto della cultura contemporanea, le opere più interessanti e originali sono quelle che debordano programmaticamente, rispetto a confini disciplinari, veri o presunti, l’A. descrive una pluralità di percorsi che attraversano la musica, intrecciando sistematicamente “testi” di diversa natura, contaminando deliberatamente linguaggi diversi, e con ciò anche restituendo tutta la ricchezza delle opere musicali considerate. Sembra già di intuire il disagio dei malcapitati che saranno incaricati, per doveri di “ufficio”, di indicare

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una catalogazione per questo libro. Dove potranno “sistemarlo”, in quale “palchetto” di una ideale libreria potrà essere collocato, senza correre il rischio di essere accusati di lesa maestà, per averlo idealmente o “materialmente” accostato a opere di critica musicale o a scritti “su” Mozart o altri autori? Ma, come certamente si sarà già compreso, è proprio questa la forza delle pagine che precedono, è in questa resistenza ad ogni assioma di chiusura contenutistico o disciplinare, che va individuata la peculiarità di questo libro, e la sua forte carica di provocazione intellettuale. Un testo destinato a far inorridire il critico musicale, il filosofo della cattedra, il saggista pret-à-porter, l’elzevirista in servizio permanente effettivo, ma che al tempo stesso dovrebbe costituire una compagnia imprescindibile per quei soggetti di cui parla Kant nel saggio del 1784, quando esorta a uscire dalla minorità, risolvendosi a «pensare con la propria testa». In un quadro di tanti libri dei quali si potrebbe tranquillamente fare a meno, alla luce di una sorta di una non meno auspicabile spending review culturale, un libro veramente necessario, capace di delineare un percorso di rigenerazione complessiva, destinato a segnalare nuove frontiere della ricerca, fino ad ora per lo più soltanto immaginate. Un’ultima annotazione. Pur non pretendendo di rientrare nel novero delle opere di narrativa, il testo si segnala anche per una cifra stilistica insolita negli scritti di taglio saggistico. Si potrebbe dire – senza profanare con l’iperbole alcun santuario saldamente presidiato da sacerdoti accreditati – che siamo in presenza di uno stile musicale, per il rigore e l’efficacia con i quali si persegue l’obbiettivo di una scrittura viva e pregnante, sapida e ricercata, talora perfino spumeggiante, e comunque mai appiattita nella forma burocratica del mero resoconto. Per rassicurare il lettore sull’inesistenza di alcun particolare “occhio di riguardo” nel giudizio fornito a proposito di questo libro, chiudo queste poche e frammentarie osservazioni con un rilievo esplicitamente polemico. Non condivido ciò che Panzavolta

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scrive a proposito di almeno due dei tre melodrammi composti da Mozart su libretto di Da Ponte. Come ho argomentato ampiamente in numerosi miei scritti – totalmente negletti da Panzavolta – il contributo del poeta di Ceneda al Don Giovanni è talmente scadente, da indurre il musicista a contraddirlo con la musica, che certamente egli non compone col testo. Più in generale, dissento dall’interpretazione del mito di Don Giovanni, così come non concordo con ciò che si scrive a proposito di Così fan tutte, dando talora l’impressione di eludere lo spessore filosofico dell’opera. Su ciò, insomma, istituisco con Panzavolta un inflessibile Auseinandersetzung, un severo e intransigente “dibattimento con l’altro”, senza cedimenti né compromessi. Ma avercene tanti altri testi, con i quali il “dibattimento” possa essere occasione di un arricchimento così stimolante e originale.

Umberto Curi Padova, aprile 2014

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Indice dei nomi e delle opere

1984 332 8½ 359 Abendrot, Im di R. Strauss 383384 Abschild, Der di G. Mahler 289 Agamennone 253-257 Agostino (santo) 17, 48, 238 Aida di G. Verdi 216 Al chiaro di luna di L. van Beethoven 352 Alighieri, Dante 69, 82-83, 104, 145-146 Altenberg, Peter 29 Andersen, Hans Christian 303 Andrea o i ricongiunti 369 Antichità giudaiche 259 Apocalisse 330, 333 Appassionata di L. van Beethoven 352 Arabella di R. Strauss 229, 232 Ariadne auf Naxos di R. Strauss 273-274, 279-280 Auden, Wystan Hugh 332, 226337, 383, 387

Bach, Johann Sebastian 71, 231, 233, 238, 321-322 Bachmann, Ingeborg 120 Bahr, Hermann 29-30 Ballo in maschera, Un di G. Verdi 215 Barth, Karl 17, 38, 83, 87 Bastianelli, Giannotto 109 Baudelaire, Charles 188-189 Beer-Hofmann, Richard 29 Beethoven, Ludvig van 17-18, 36, 61, 74, 79, 109, 127-130, 133, 136-148, 265, 185, 296, 300-301, 352 Bergman, Ingmar 17, 47, 57, 66, 94, 136, 144, 229, 336, 343, 386 Berlioz, Hector 323 Bernanos, George 44, 310 Bernhard, Thomas 307 Beyle, Marie-Henri, v. Stendhal Bianchi, Graziano 146 Billy Budd di B. Britten 363-366 Bizet, Georges 342 Boito, Arrigo 216, 323 Böll, Heinrich 348 Bonaparte, Napoleone 124 Borges, Jorge Luis 42

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Bosh, Hieronymus 349 Bourgeois Gentilhomme, Le di Molière 274 Britten, Benjamin 351-368, 373, 375 Brodskij, Iosif 369 Bruckner, Anton 78, 144, 234 Brunsnik, Josephine 147 Büchner, Georg 313-314 Buddenbrook, I 182, 265 Buff, Charlotte 306 Bulgakov, Michail Afanas’evič 323 Bullinger, Joseph 102 Bülow, Hans von 231 Buon governo, Il 129, 149 Busoni, Ferruccio 323 Buzzati, Dino 221 Cacciari, Massimo 107, 213, 218, 251 Calvino, Italo 17, 144 Campo, Cristina 42, 69-70, 382 Camus, Albert 17, 94, 193-194, 198-199 Camus, Catherine 193 Canetti, Elias 181, 199 Cangrande della Scala 82 Cantata Aleksander Nevskij di S. Prokofiev 348 Canti dei bambini morti: v. Kindertotenlieder Cantico dei cantici 47, 59, 263 Canzona di ringraziamento di L. van Beethoven 301 Capriccio di R. Strauss 227-229, 232, 243-252, 269, 283 Capro espiatorio, Il 259, 265

Carmina burana di C. Orff 330 Carriera di un libertino, La: v. The Rake’s progress Carteggio Aspern, Il 369 Caterina II 346 Cavaliere della rosa, Il di R. Strauss 235-238, 241 Čechov, Anton 17, 69 Chaplin,Charles Spencer 92, 319-320 Chardin, Pierre Teilhard de 71, 161 Charlot soldato 319-320 Chiaro di luna, al 352 Cimarosa, Domenico:119-121 Ciociara, La 348 Clouzot, Henri-Georges 254 Coilois, Roger 325 Colloredo, Hieronymus von 38 Come in uno specchio 386 Concerto K 622 di W.A. Mozart 39 Concerto op. 56 di L. van Beethoven, v. Triplo concerto di L. van Beethoven Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 di J. Brahms 193-194 Concerto per pianoforte e orchstra n. 2 di F. Chopin 185, 189, 191 Concerto per violino di J. Brahms 195 Concerto per violino e orchestra «Alla memoria di una angelo» di A. Berg 305-306, 309 Coppola, Mariolina 293 Corneille, Pierre 246 Coscienza delle parole, La 181

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Così fan tutte di W.A. Mozart 32, 93, 95, 97, 100, 109-110, 121, 269, 323, 428 Cratilo 290 Creature di Prometeo, Le di L. van Beethoven 128 Cygne, Le 188 Da Ponte, Lorenzo 20, 69, 73, 81-83, 86, 92-93, 98, 109, 428 Dafne di R. Strauss 269 Dalì, Salvador 342 Damnation de Faust, La di H. Berlioz 323 Danae di R. Strauss 269 Danza K. 567 n. 1 di W.A. Mozart 107-108 Death in Venice 3, 67-68 De la Barca, Calderon 191, 208 De Laclos, Choderlos 86 Debussy, Claude 183 Delacroix, Eugène de 187-188 Delitto e castigo 61, 256, 316 Demonî, I 334-335, 346, 351, 386 Di Leva, Giuseppe 379 Diabolici, I: 254 Die Stille di F. Schubert 286 Divano occidentale - orientale 155 Divin du village, Le 31 Dix, Otto 315 Doctor Faustus 128, 141, 165, 285, 299 Dolori del giovane Werther, I 306 Donna senz’ombra, La di R. Strauss 229, 267, 271

Dostoevskij e la filosofia 335 Dostoevskij, Fëdor 30, 42, 260, 312, 316, 323, 334, 336-337, 346, 351, 385-386 Duett-Concertino di R. Strauss 232, 269 Dupin, Aurore, v. Sand, George Durch Adams Fall ist ganz verderbt di J.S. Bach 233 Dürer, Albrecht 119 Effie Briest 133, 136-137, 143 Eichendorff, Joseph von 283284, 293 Ein feste Burg ist unser Gott di J.S. Bach 321-322 Einaudi, Luigi 129 Einladung 294 Ėjzenštejn, Sergej Michajlovič 348 Elegy for young lovers 283-284, 287 Elektra di R. Strauss 225, 232, 253 Elena egiziaca di R. Strauss 269 Eliot, Thomas Stearn 138, 163, 337 Eneide 206 Enrico V 66 Ensor, James 236, 247 Erlkonig, Der v. Re degli elfi, Il Ermellino a Cernopol, Un 41 Erodoto 23 Eroica 144, 147, 234 Es ist genug di J.S. Bach 308 Eschilo 257 Escudier, Marie 215 Euripide 314

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Falstaff 212-219 Fanny e Alexander 144, 229 Faust-Symphonie di F. Liszt 323 Favart, Marie-Justine-Benoîte 31 Febbre dell’oro, La 62 Fedro 331 Feuersnot di R. Strauss 232 Ficino, Marsilio 331 Filebo 331 Flauto magico, Il 32, 39, 41-47, 51, 57-59, 65-66, 68, 93-94 269-270, 311, 379, 382, 391395, 408-411 Fleurs du mal, Les 189 Fondamenta degli incurabili 369 Fontana, Julian 185 Fontane, Theodor 133-136, 143 Forza del destino, La 216 Foschi, Massimo 391 Fratelli Karamazov, I 312 Frau ohne Schatten, Die v. Donna senz’ombra, La Freischutz, Der di C.M. von Weber 323 Freud, Siegmund 166, 257 Fricsay, Ferenc 73 Frühlingsnacht di F. Schubert 286 Fuggitiva, La 370 Full metal jacket 325 Furtwängler, Wilhelm 284 Gallimard, Michel 193 Genesi 48, 63, 124 Geofilosofia dell’Europa 251 Geremia (profeta) 347 Gesù 312

Giobbe, Libro di 88, 99, 350, 354, 375-376 Gioco degli occhi, Il 199 Gioco delle perle di vetro, Il v. Glasperlenspiel Giovanni (apostolo) 200, 316 Giovanni (il Battista) 259 262 Giovenale 222 Girard, Réne 259 Giulini, Carlo Maria 13, 73-80 Giuseppe Flavio 259 Givone, Sergio 335 Glasperlenspiel, Das 77-78 Gluck, Christoph Willibald 244, 246 Goddard, Paulette 92 Goethe, Johann Wolfgang 80, 98, 119-121, 149, 155, 169-170, 233, 270, 294, 306, 322, 337 Goldoni, Carlo 246 Gotthelf, Jeremias 323, 336 Grass, Günter 265 Gregor, Joseph 246 Grimm, Jakob e Wilhelm 65, 379 Grimm, Melchiorre 101 Gropius, Manon 306, 309 Gropius, Walter 306 Grosz, George 319 Grünewald, Matthias 79 Guerra del Peloponneso, La 345 Guerra e pace 33, 35 Guerville, Harny de 31 Hamletica 213 Hawthorne, Nathaniel 205 Haydn, Franz Joseph 38, 123125, 129, 145-146

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Hegel, Georg Wilhelm Friedrich 290 Henry, James 369, 373 Henze, Hans Werner 120, 379, 382-388 Hesse, Hermann 77-80, 283, 286-287 Historie du ma vie 186 Historie du soldat di I. Stravinskij 320 Hitler, Adolf 265, 309, 345 Hoffmann, Ernst Theodor Amadeus 166 Hofmannsthal, Hugo von 29, 43, 69, 72, 75, 120, 191, 208, 211212, 225-229, 255, 257, 267274, 277-281, 287, 369, 383 Hölderlin, Friederich 152, 294, 302, 317 Hora Mortis, In 305, 307 Ibsen, Henrik 291 Iliade 227, 229, 423 Imperdonabili, Gli 69 Improvvisamente l’estate scorsa 367 Incantatrici, Le 75, 253, 271 Inferno 82, 83 Inno a Ermes 226 Iperione 152 Isaia (profeta) 42, 44, 315 Janáček, Leóš 339, 341-344 Jaspers, Karl 42, 215, 251, 268, 273-278 Joachim, Joseph 195 Jugend Von, der di G. Mahler 291

Jünger, Ernst 246 Kafka, Franz 88-89, 246 Kallman, Chester 337, 383, 387 Kindertotenlieder di G. Mahler 295, 299-302 Kleiber, Erich 73-76 Klimt, Gustav 164-166 Kokoschka, Oskar 271 Krasner, Louis 306 Krauss, Clemens 246 Kraus, Karl 321, 327 Kubrick, Stanley 325 Lachmann, Hedwig 259 Lederer, August 164 Leggi, Le 127, 130, 424 Lenz 323 Leopardi, Giacomo 292, 344 Leopoldo II 120 Lettera di Lord Chandos 225 Lettere persiane 86 Lieder eines fahrenden Gesellen di G. Mahler 293 Liederkreis di R. Schumann 286 Lindenbaum, Der di F. Schubert 175, 182, 296 Linley, Thomas 293, 391, 396398, 405-406 Liszt, Franz 146, 195, 231 Lohengrin di R. Wagner 13 Luca (evangelista) 312 Lucrezio 65, 290 Ludwig II 231 Lully, Jean-Baptiste 246 Lutero, Martino 17, 321 Lutto si addice a Elettra, Il 254

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Macbeth di G. Verdi 212-217 Machado, Antonio 290 Magris, Claudio 350 Mahler, Alma 306 Mahler, Gustav 144, 234, 289303, 315 Mann, Heinrich 119 Mann, Thomas 13, 42, 65, 92, 119-120, 182, 241, 260, 265, 291, 296, 299, 323, 337, 367370, 387 Marai, Sandor 369 Marani, Mino 391 Marcia di Radetzky, La 236 Marco (evangelista) 259 Marco Aurelio 78 Marlowe, Cristopher 322, 337 Marx, Karl Heinrich 290 Maschere e la morte, Le 236 Matrimonio segreto, Il di D. Cimarosa 119-121 Matteo (evangelista) 38, 259, 311-312 Maurerische Trauermusik K 477: v. Musica funebre massonica Mefistofele di A. Boito 323 Meistersinger von Nürnberg, Die di R. Wagner 199-203 Metamorfosi 359 Metamorphosen di R. Strauss 231-233, 285 Metastasio, Pietro 246 Michelangelo, Buonarroti 197 Mila, Massimo 105, 259 Milestone, Lewis 324 Mimnermo 203 Mittner, Ladislao 24

Moffo, Anna 79 Molière 274 Mondnacht di F. Schubert 286 Mondo di ieri, Il 29, 268 Mondschein-Sonate: v. Al chiaro di luna Montagna incantata, La 44, 182, 260, 291, 296, 387 Montale, Eugenio 337 Montesquieu, Charles-Louis de 86 Moravia, Alberto 348 Mörike, Eduard 23-27, 384 Morte a Venezia 284, 369 Morte di Danton, La 313 Morte di Ivan Il’ic, La 35 Morte in banca, La 221 Mozart in viaggio verso Praga 23-24, 384 Mozart, Anna Maria 70 Mozart, Leopold 38, 71, 101 Mozart, Wolfgang Amadeus 17115, 121, 125, 128, 129, 145, 146, 270, 296, 301, 323, 352, 384, 391-410, 420 Müller, Wilhelm 172, 323 Musica funebre massonica 33, 36, 38 Musil, Robert 235 Nabokov, Vladimir 138 Nannerl, v. Mozart, Maria Anna Nardini, Pietro 391, 397, 399, 405-408 Nascita della tragedia, La 258 Nietzsche, Friedrich Wilhelm 258, 289-290

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Nona sinfonia di L. van Beethoven 144-145, 300 Novella Eloisa, La 86 Nozze di Figaro, Le di W.A. Mozart 19, 24, 26, 31, 73-79, 93, 269, 323 O’Neill, Eugene 254 Odissea 46, 143-144, 369, Omero 344, 423 Ora del lupo, L’ 94 Orazio 222 Orten, Jiri 302 Orwell, George 332 Otello di G. Verdi 212-218 Ottava sinfonia di D. Šostakovič 345, 349-350 Ovest niente di nuovo, All’ 324 Ovidio 359 Owen, Wilfred 353-355 Pantieri, Filippo 104-105 Paolo di Tarso 136, 313 Parise, Goffredo 221 Pascal, Blaise 346 Pasolini, Pier Paolo 38 Patetica di L. van Beethoven 352 Patmos 302 Peer Gynt 292 Persona 336 Perugino (Pietro Vannucci detto) 74 Peter Grimes di B. Britten 363366 Phuc, Kim 349 Piccinni, Niccolò 246 Piccola volpe astuta, La di L.

Janáček 339, 342, 344 Pietro il Grande 346 Pindaro 228 Piper, Myfanway 364, 368-375 Platone 383-384, 423-424 Poesia e verità 306 Poesia ingenua e sentimentale, Sulla 90 Pollicino di H.W. Henze 379, 381 Pontiggia, Giuseppe 221 Prélude à l’après-midi d’un faune di C. Debussy 183 Premier homme, Le v. Primo uomo, Il Prete bello, Il 221 Prévert, Jacques 55, 239 Primavera, Alla 99, 344 Prime alla Scala 337 Primo uomo, Il 193, 199 Prokofiev, Sergej Sergeevič 348 Proust, Marcel 13, 69, 369-370 Provincia dell’uomo, La 181 Puchberg, Michael 70 Purgatorio 145 Puškin, Aleksandr Sergeevič 346 Quarta sinfonia di A. Bruckner 144 Quarta sinfonia di J. Brahms 144 Quarta sinfonia di R. Schumann 144 Quartetti Razumovskij di L. van Beethoven 143-146, 149 Quartetto K 478 di W.A. Mozart 113-114 Quartetto op. 132 di L. van Bee-

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thoven 301 Quattro quartetti 138 Quattro ultimi Lieder di R. Strauss 283, 288 Quintetto K 516 di W.A. Mozart 39 Ragazzi che si amano, I 55 Ragno nero, Il 336 Rake’s progress, The 327-328 Rameau, Jean-Philippe 246 Ramuz, Charles-Ferdinand 320, 323-324 Rape of Lucretia, The di B. Britten 363 Raspanti, Gabriele 104-105 Recita di Bolzano, La 369 Re degli elfi, Il di F. Schubert 169-170 Re Lear 212, 216-219, 343 Relazioni pericolose, Le 86 Repubblica 96, 131, 383 Requiem di W.A. Mozart 39 Rezzori, Gregor von 41 Rilke, Reiner Maria 163, 197, 309 Ritorno di Casanova, Il 369 Rodolfo (Arciduca) 137 Romanza op. 28 n. 2 di R. Schumann 181-184 Rosenkavalier, Der di R. Strauss 232, 235-238, 241, 269, 280 Rosseau, Jean-Jacques 86 Roth, Joseph 236 Rückert, Friedrich 300-303 Sàbato, Ernesto 301 Salome di R. Strauss 232, 259265

Sand, Gorge 185 Sandman, Der 166 Sanzio, Raffaello 281, 385 Satie, Erik 11-12 Schiele, Egon 315 Schikaneder, Emanuel 43, 61, 71 Schiller, Friedrich 90 Schleiermacher, Friedrich Daniel Ernst 17 Schnitzler, Arthur 29, 30, 75, 369 Schönheit, Von der di G. Mahler 291 Schubert, Franz 151-183, 286, 296, 300 Schumann, Robert 144, 156183, 195-197, 286, 296, 300 Schwarzkopf, Elisabeth 79 Schweigsame Frau, Die di R. Strauss 232, 269 Scogliere di marmo, Sulle 246 Scudo di Perseo, Lo 337 Secondo concerto per corno di R. Strauss 269 Sedici variazioni sopra un tema di Schumann di J. Brahms 196 Sette contro Tebe, I 311 Settimo sigillo, Il 57, 349 Shakespeare, William 33, 66, 121, 191, 212, 215-218, 337, 358, 385 Signore degli anelli, Il 58 Silenzio delle sirene, Il 88 Simon Boccanegra di G. Verdi 216 Simposio 279-280, 331 Simrock, Carl 222

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Sinfonia K 297 (Parigina) di W.A. Mozart 101 Sinfonia n° 9 di F. Schubert 151, 153, 156 Sinfonia n° 7 «Leningrado» di D. Šostakovič 345 Sinfonia n° 8 di D. Šostakovič 345 Sinfonie londinesi di F.J. Haydn 123-125 Socrate 12, 279, 290-291, 331332, 424 Socrate di E. Satie 12 Sogno, Il 191, 342, 357 Somma, Antonio 215 Sonata a Kreutzer di L. van Beethoven 35 Sonata K 304 di W.A. Mozart 101, 103, 105 Sonata K 310 di W.A. Mozart 101, 103, 104 Sonata K 526 di W.A. Mozart 39 Sonata op. 111 di L. van Beethoven 128 Sorgo rosso 143 Sosia, Il 336 Šostakovič, Dmitrij 345, 347, 350 Spazzoli, Alessandro 391 Spinelli, Barbara 131, 249, 252 Stalin, Joseph 345, 350 Starobinski, Jean 75, 253-255, 261 Stendhal 121 Storia di una madre, La 303 Storie, Le 23 Strauss, Richard 120, 221-274, 280, 288, 296

Strindberg, August 191, 342 Sussurri e grida 387 Svevo, Italo 277 Taddei, Giuseppe 79 Tamburo di latta, Il 265 Tannhäuser di R. Wagner 388 Tempesta e luce 146 Tempesta, La 191 Tempi moderni 92 Terza sinfonia di G. Mahler 144 Terza sinfonia di L. van Beethoven, v. Eroica Těsnohlídek , Rudolf 339 Thulin, Ingrid 387 Till Eulenspiegel di R. Strauss 221-223 Tiziano 264 Tobia, Libro di:45, 50, 52, 55, 59 Tod in Venedig, Der 367 Tolstoj, Lev 33-37 Tommaso (san) 17 Tonio Kröger 295 Torre, La 191, 208, 211, 255, 280 Toulouse-Lautrec 330 Tragico, Del 212, 268, 273 Trakl, Georg 295 Treno era in ritardo, Il 348 Trinklied von Jammer der Erde, Das di G. Mahler 290 Triplo concerto di L. van Beethoven 127-130 Trovatore, Il di G. Verdi 205213, 217-218 Tucidide 345 Turm, Der v. Torre, La Turn of the Screw, The 364, 366, 368, 373, 375

438

Über das tragische v. Tragico, Del Ulisse 88-90, 347, 369 Ullmann, Liv 387 Ultimi giorni dell’umanità, Gli 321, 327 Vangelo secondo Matteo, Il 38 Verdi, Giuseppe 78, 209, 212219 Verso la città divina 129 Vertigine della guerra, La 325 Verwandlung 233 Viaggio al termine della notte 61 Vida es sueño, La v. Vita è sogno, La Vier Letze Lieder v. Quattro ultimi Lieder Virgilio 206 Vita è sogno, La 208-211 Vogl, Johan Michael 151-165 Voltaire 125 War Requiem di B. Britten 351355 Weber, Carl Maria von 323 Weber, Konstanze 24 Webern, Anton 247 Weil, Simone 42, 309 Welt von Gestern, Die v. Mondo di ieri, Il Wilde, Oscar 259 Wilhelm Meister 98, 195, 294 Winterreise di F. Schubert 163, 172-179, 182, 296-297 Wolf, Hugo 300 Woyzeck di A. Berg 313

Zauberberg, Die v. Montagna incantata, La Zauberflöte, Die: v. Flauto magico, Il Zmeskall, Nikolaus 147 Zweig, Stefan 29-30, 75, 268, 283, 287

439

Sommario

Per la musica, l’arte della leggerezza di Elio Matassi Al Lettore

p. 9 p. 13

Prima Parte Caro Herr Mozart Lettera a Wolfgang Amadeus Mozart

p. 17

Un giorno perfetto. Mozart in viaggio verso Praga di E. Mörike

p. 23

Genio e splendore precoce. Bastien und Bastienne

p. 29

«Il semplice e solenne mistero della morte». Musica funebre massonica K 477

p. 33

Il Flauto magico o della nobiltà dello spirito

p. 41

Una lettura del Flauto magico

p. 45

Un vangelo dell’infanzia: il duetto di Papagena e Papageno

p. 65

Considerazioni sull’epistolario mozartiano

p. 68

Le nozze di Figaro dirette da Erich Kleiber

p. 73

Il Mozart umbratile di Carlo Maria Giulini

p. 77

440

Le due cene nel Don Giovanni

p. 81

«L’atra face del ver». Così fan tutte

p. 95

A Paris. Le Sonate K 304 e K 310

p. 101

Una inconsolabile bontà. Danza K 561 n. 1

p. 107

Grecità musicale. Andante del Quartetto K 478

p. 113

Seconda parte Cari Compositori La ricerca tremante del sole. Il matrimonio segreto di D. Cimarosa

p. 119

Note di stile. Le Sinfonie londinesi di F.J. Haydn

p. 123

Una musica democratica. Il Triplo concerto di L. van Beethoven

p. 127

Come argentea sabbia di mare. Trio Arciduca di L. van Beethoven

p. 133

Ascoltando l’Adagio cantabile del Trio Arciduca di L. van Beethoven

p. 139

L’Odissea in una stanza. I Quartetti Razumoskij di L. van Beethoven

p. 143

Gli attimi belli. Lo Scherzo della Sinfonia n. 9 di F. Schubert

p. 151

441

Il battito del cuore di Dio. L’Adagio del Quintetto in do maggiore D 956 di F. Schubert

p. 159

Primavera in inverno. La Winterreise di F. Schubert

p. 163

Ascoltando la Romanza op. 28 n. 2 di R. Schumann

p. 181

«Andromaque, je pens à vous!» Il Larghetto del Concerto per pianoforte e orchestra n. 2 di F. Chopin

p. 185

Il primo uomo. Concerto per pianoforte e orchestra in re minore n. 1 di J. Brahms

p. 193

Il parricidio mite. Die Meistersinger von Nürnberg

p. 199

Il Trovatore o la scoperta della ferita

p. 205

Tra Busseto e Stratford-upon-Avon: Verdi esegeta di Shakespeare

p. 215

Il mondo salvato dai giullari. Till Eulenspiegel di R. Strauss

p. 221

Nel buio mistico dell’officina poetica. L’epistolario di R. Strauss e H. von Hofmannsthal

p. 225

«Funere mersit acerbo». Metamorphosen di R. Strauss

p. 231

Il tempo e le maschere. Der Rosenkavalier di R. Strauss

p. 235

Contro la tirannia del pensiero unitario. Capriccio di R. Strauss

p. 243

442

Le porte chiuse. Elektra di R. Strauss

p. 253

Una musica a-morale? Salome di R. Strauss

p. 259

Dedicata al «genere umano perduto». Die Frau ohne Schatten di R. Strauss

p. 267

Eros ingannatore. Ariadne auf Naxos di R. Strauss

p. 273

Nella fine è il mio inizio. Vier Letze Lieder di R. Strauss

p. 283

Palinodia. Das Lied von der Erde di G. Mahler

p. 289

«O frate, l’andar su che porta?» Lieder eines fahrenden Gesellen di G. Mahler

p. 293

Sia a voi lieve la terra. Kindetotelieder di G. Mahler

p. 299

«In hora mortis». Concerto per violino e orchestra ‘Alla memoria di un angelo’ di A. Berg

p. 305

Studio per una crocifissione. Wozzek di A. Berg

p. 311

Ignoto milite. L’Histoire du soldat di I. Stravinskij

p. 319

Un mirabile compendio del pensiero occidentale. The Rake’s progress di I. Stravinskij

p. 327

Delle favole antiche. La piccola volpe astuta di L. Janáček

p. 339

«Maestra di violenza». Sinfonie n° 7 («Leningrado») e n° 8 di D. Šostakovič

p. 345

443

«La vecchia bugia». War requiem di B. Britten

p. 351

Elogio della fantasia. A Midsummer’s night dream di B. Britten

p. 357

«The ceremony of innocence is drowned». Considerazioni sul teatro di B. Britten

p. 363

Verso benefiche immensità. Death in Venice di B. Britten

p. 367

Libera nos a malo. The Turn of the Screw di B. Britten

p. 373

L’età adulta dello spirito. Pollicino di H.W. Henze

p. 379

Montagne incantate. Elegy for young lovers di H.W. Henze

p. 383

Terza parte Due variazioni mozartiane La visita

p. 391

K 413. Un racconto

p. 413

Postfazione di Umberto Curi

p. 423

Indice dei nomi e delle opere

p. 429

444

Passages | 3

Andrea Panzavolta è consapevole del fatto che la musica ecceda la sua stessa configurazione acustica. Confermando la regola secondo la quale, soprattutto nel contesto della cultura contemporanea, le opere più interessanti e originali sono quelle che debordano programmaticamente, rispetto a confini disciplinari, veri o presunti, l’A. descrive una pluralità di percorsi che attraversano la musica, intrecciando sistematicamente “testi” di diversa natura, contaminando deliberatamente linguaggi diversi e con ciò anche restituendo tutta la ricchezza delle opere musicali considerate. La peculiarità di questo libro (e la sua forte carica di provocazione intellettuale) va individuata nella sua resistenza ad ogni assioma di chiusura contenutistico o disciplinare. Un testo destinato a far inorridire il critico musicale, il filosofo della cattedra, il saggista pret-à-porter, l’elzevirista in servizio permanente effettivo, ma che al tempo stesso dovrebbe costituire una compagnia imprescindibile per quei soggetti di cui parla Kant nel saggio del 1784, quando esorta a uscire dalla minorità, risolvendosi a «pensare con la propria testa». Un libro veramente necessario, capace di delineare un percorso di rigenerazione complessiva, destinato a segnalare nuove frontiere della ricerca, fino ad ora per lo più soltanto immaginate. dalla Postfazione di Umberto Curi Andrea Panzavolta (Forlì, 1971) dopo gli studi classici si laurea in giurisprudenza all’Università di Bologna. Allievo di Umberto Curi, è giornalista pubblicista. I suoi principali interessi di studio sono la letteratura, la musica, il cinema e il teatro. Al rapporto tra cinema e filosofia ha dedicato due volumi, Lo spettacolo delle ombre (2012) e Passeggiate nomadi sul grande schermo (2013), entrambi pubblicati da Mimesis. È autore di saggi apparsi su riviste di filosofia e di critica letteraria, di testi teatrali e di libretti d’opera.

€ 13,00

ISBN E-book 9788898694723