Capire il Medioevo: Le fonti e i temi [Paperback ed.] 9788843083213

Quanto Medioevo c’è nella letteratura, nel teatro, nel cinema, nei fumetti, nella televisione, nel giornalismo dei nostr

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Capire il Medioevo: Le fonti e i temi [Paperback ed.]
 9788843083213

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Salvatore Tramontana CAPIRE IL MEDIOEVO Le fonti e i temi

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Indice

I.

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zyxwvuts I1 senso della storia

Sapienza dell’incertezza 1.2. Le cose accadute e quelle da ricordare Intreccio fra passato e presente 1.3. 1.4. Gli equivoci delle due culture 1.5. La forza massiccia e brutale dell’imprevisto 1.6. Narratività della storia e del suo quotidiano 1.7. Linguaggio storico e linguaggio letterario 1.1.

2.

2.1.

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24 26 28 31

Il Medioevo è dappertutto

35

I1 Medioevo dell’acculturazione

37 39 41

2.3.

Sconcerto esistenziale e recupero del mito Poetica delle radici medievali

3-

Il concetto e l’immagine del Medioevo nei secoli

2.2.

16

XII-XVII

43

3.1.

I1 mutare dei tempi secondo Ottone di Frisinga

3.2.

L‘epoca barbarica nella cultura cittadina Nell’Umanesimo il profilarsi di un’età di mezzo Sentimento religioso, dottrina della politica e Medioevo al tempo della Riforma Cultura erudita del secolo XVII come strumento di riflessione sul passato Cellarius e la fortuna didattica del termine Medioevo

44 45 47

3.3. 3.4.

3.5. 3.6.

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50 52

55

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CAPIRE IL MEDIOEVO

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4.

I1 Medioevo dopo il Medioevo

4.1.

4.11. 4.12.

L‘inquietante Medioevo di Voltaire, Condorcet, Robertson e Gibbon Muratori e lo studio critico del Medioevo Romanticismo in Germania e concezione di un Medioevo che turbava le coscienze Romanticismo in Francia e richiamo al Medioevo come stile di vita e di potere Romanticismo in Italia e Medioevo come recupero del sentimento nazionale Lettura filologica del Medioevo: da Leopold Ranke al positivism0 Nuovo sistema di valori nel Medioevo dei positivisti e della scuola economico-giuridica I1 Medioevo nel concetto e nel metodo dello storicismo crociano Analisi e conoscenza del Medioevo nella storiografia tedesca del secolo xx Lo spessore cristiano del Medioevo negli studi italiani del primo Novecento I1 Medioevo di Bloch, di Febvre, delle “Annales” I1 Medioevo oggi e le nuove direttrici di ricerca

5.

Letteratura storica

87 88

5.5.

Raccolta di testimonianze e ricostruzione storica Le biblioteche Enciclopedie come strumenti primari di informazione Bibliografie storiche e riviste Manuali e grandi opere di storia generale

6.

Le fonti

6.1. 6.2. 6.3. 6.4. 6.5.

Come definire le fonti Valenze e ambiguità delle fonti Varietà di linguaggi e interpretazioni delle fonti Affidabili solo perché fonti? Classificazione delle fonti

4.2. 4.3. 4.4. 4.5. 4.6. 4.7. 4.8.

57

58

60 62 63 64 65 68

72

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4.9.

4.10.

S.I.

5.2.

5.3.

5.4.

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116

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zyxwvu INDICE

7.

Fonti mute e fonti orali

7.1. 7.2. 7.3.

Natura, diversificazione dei suoli, paesaggi Archeologia e fonti archeologiche Tombe, toponimi, strutture architettoniche ed edilizie Pesi, misure, monete Simboli e insegne del potere e delle collocazioni sociali Reliquie Testimonianze iconografiche Carte geografiche e topografiche, mappe Forme espressive dell’oralità Comunicazione orale di testi scritti Tradizioni orali Cultura dell’oralità nelle verifiche sperimentali e nelle scienze

7.4. 7.5. 7.6. 7.7. 7.8. 7.9. 7.10. 7.11. 7.12.

8.

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135

zyxwvu zyxwvu Fonti scritte

137

Tavolette cerate Papiro e pergamena Carta 8.3. 8.4. Scriptoria e produzione di libri manoscritti Burocrazia, notai e produzione di testi scritti 8.5. 8.6. Tipologia dei testi scritti e stratificazioni sociali 8.7. Annali e cronache Biografie e autobiografie 8.8. Testi agiografici 8.9. 8.10. Omelie, scritture liturgiche, prediche 8.11. Favole 8.12. Scritture di viaggio 8.13. Testi dello specifico letterario 8.14. Fonti legislative e normative 8.15. Statuti e consuetudini 8.16. Diplomi, bolle, privilegi 8.17. Fonti giudiziarie laiche ed ecclesiastiche 8.18. Fonti finanziarie e fiscali 8.19. Magna charta e atti dei parlamenti 8.20. Penitenziali 8.1. 8.2.

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9

zyxwvuts zyxwvu zyxwvutsrq zyxwvu CAPIRE I L M E D I O E V O

8.22.

Atti notarili Epistulae ed epistolari

9.

Sistemi di datazione e documenti falsi

8.21.

192

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I1 sistema cristiano di computare gli anni I mesi, i giorni, le indizioni

206

210

9.5.

Procedimenti materiali e mentali delle falsificazioni Un falso che è anche verità: il Constitutum Constuntini Verità diplomatica e verità storica

IO.

Archivi, repertori, lessici, glossari

9.1. 9.2. 9.3. 9.4.

La pratica conservativa Come orientarsi negli Archivi di Stato 10.3. Archivi privati, archivi ecclesiastici, archivi di enti locali 10.4. Archivio segreto vaticano Repertori generali 10.5. 10.6. Repertori locali 10.7. Repertori di documenti del Sacro romano impero 10.8. Repertori di documenti delle monarchie d’Europa 10.9. Repertori di documenti del potere pontificio 10.10. Repertori dei documenti di istituzioni ed enti ecclesiastici e di storia del culto 10.11. Repertori dei documenti legislativi e di pratica giuridica 10.12. Leggere e interpretare il latino delle fonti 10.13. Lessici e glossari 10.14.Lessici specialistici

208

212

214

10.1.

217

10.2.

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228 230

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11.

Collezioni di fonti edite

231

232

233

234

243

Edizioni diplomatiche ed edizioni critiche “Rerum Italicarum Scriptores” “Monumenta Germaniae Historica” e “Fonti per la 11.3. Storia d’Italia” 11.4. Collane di vari paesi d’Europa

11.1.

11.2.

IO

243 246

247 249

INDICE

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Collane di fonti ecclesiastiche 11.6. Collane di fonti locali e settoriali 11.7. Collane di fonti con traduzione italiana 11.5.

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257

Fonti e testi citati

261

Indice dei nomi e delle cose notevoli

315

I1

 Il senso della storia

Nulla nel tempo rimane uguale a se stesso, e se c’è una disciplina che riflette in modo immediato l’inarrestabile cambiamento questa è la storia. La quale si interroga di continuo su ciò che muta ma anche su quel che è stabile. Chi invece si interroga in modo istintivo e passionale per avere risposte a domande preoccupate non di capire, ma di trovare un colpevole, non può rivolgersi alla storia. La storia non è infatti un tribunale: essa non ha il compito di incriminare o discolpare qualcuno, ma di offrire paradigmi interpretativi per conoscere e appunto capire non solo e non tanto i singoli eventi, ma le loro sempre fluide e molteplici connessioni. Certo, non si affrontano mutamenti senza emozioni, ed emozione, il cui termine deriva dal latino motio, significa muovere, mettere in movimento, ricorrere appunto a quel che scuote e fa procedere. E che nella storia è da ricondurre, da sempre, alla capacità fondante della ricerca che trova corpo nella riscrittura continua della storiografia. In quel persistente ripensamento del passato che conferma da una parte la mancanza di un punto di vista valido per tutti, dall’altra l’illusione di poter raccontare le vicende accadute così come sono accadute. La storia è dunque, per dirla con termine oggi polemicamente di moda, “revisionista”, cioè impegnata – nella sua essenza, appunto, nella sua stessa ragione d’essere – a meditare di continuo su quel che è accaduto in tempi remoti e meno remoti. E la frequenza con cui in questi ultimi anni si è insistito, specie da parte di una certa opinione pubblica, di taluni giornali, delle televisioni, sulla necessità di una rilettura del passato rivela senza dubbio superficialità, sconoscenza della metodologia di ricerca storica e una rivalsa revisionista sostenuta più da nostalgia e simpatie politiche che dal bisogno di scavi approfonditi e minuziosi, più dal desiderio di processare e condannare che dalla volontà di comprendere, conoscere, dubitare. Ma rivela soprattutto, ed è ciò che qui si vuole sottolineare, che anche nella cultura di massa persiste, sia pure inconscia, sia pure confusa, 

CAPIRE IL MEDIOEVO

la necessità di avere come punto non trascurabile di riferimento un’immagine più o meno definita, più o meno sfuggente, del passato. Di un passato non da condannare o da giustificare o da condividere nostalgicamente, ma col quale invece trovare un legame, perché il passato è in noi, è complementare al nostro esistere, e il suo recupero contribuisce a individuare le nostre ascendenze, a meditare sulle nostre origini, a definire la nostra identità. In tal senso si muoveva già Paolo Diacono, che riconduceva alle basse temperature del Nord l’energia psichica e la forza muscolare dei progenitori longobardi , così ragionava Gregorio di Tours per spiegare la capacità eroica di Clodoveo , a tale suggestione rispondeva Marcel Proust che, anche attraverso un episodio accidentale come la madeleine imbevuta di tè, si sforzava disperatamente di riacciuffare il passato con le sue atmosfere e le sue emozioni . . Sapienza dell’incertezza C’è dunque, in ognuno di noi, la spontanea curiosità di sapere come noi stessi e l’ambiente che ci circonda siamo diventati quello che siamo . E se sul piano individuale il senso del passato è naturale, spontaneo, su quello collettivo e della lunga durata deve essere ricostruito, deve cioè diventare storia. Le aggregazioni degli uomini hanno infatti un passato che va al di là della vita dei singoli, i cui ricordi sono però semplici elenchi di accadimenti, non storia, perché la storia si crea nell’atto stesso dell’interpretazione ed esposizione delle testimonianze dei fatti. Sono appunto le testimonianze che la storia recupera, interpreta e ricostruisce, non gli accadimenti che, come tali, sono irripetibili. E in questa ricostruzione di testimonianze si concretizza l’incontro fra passato e presente, fra ciò che lo storico vuol comprendere del contesto che lo circonda e ciò che sceglie del passato, al quale, in nome appunto delle curiosità, delle inquietudini, delle angosce, dei desideri del presente, pone vari interrogativi. Che sono politici, come già precisava Jean Chesneaux, ma

. Historia Langobardorum, I, , p. ; II, , p. , e IV, , pp. -. Da Paolo si viene infatti a sapere che i progenitori scandinavi dei longobardi erano nati da Gambara, figura femminile alla cui fierezza e saggezza riconducevano le radici di una stirpe consacrata dal dio germanico Wotan. È comunque significativo che Rotari riconducesse il suo impegno operativo al lignaggio del primo re, il cui legame gli dava più decoro di quanto avrebbero potuto le sue stesse imprese. . La storia dei Franchi, II, , pp. -: Clodoveo «fuit magnus et pugnator egregius». . Alla ricerca del tempo perduto, parte I, , pp. -. . E in tal senso Hannah Arendt soleva dire che una buona storia non può non avere un impatto diretto sul mondo.



.

IL SENSO DELLA STORIA

anche esistenziali, di vita quotidiana, culturali, scientifici, e che evidenziano uno strettissimo radicamento fra «sapere storico e consumo culturale di massa» . E ciò, in fondo, è appunto questo rapporto fra storia e politica, fra interpretazione del passato e modo di essere e di pensare del presente, che sta alla base, precisa Chesneaux, «della continua nuova riscrittura della storiografia», la quale, «ove si imponga di non falsificare nulla né di schematizzare, rende possibile sia una migliore conoscenza di quel che è accaduto, sia un migliore orientamento degli interessi, delle passioni, della cultura del mondo in cui si vive» . Fare storia, cioè storicizzare un accadimento, dipende dall’interpretazione soggettiva ma non arbitraria degli uomini, dei coevi prima, degli storici dopo. E siccome le cose non esistono finché non se ne parla, storicizzarle significa dare loro un senso, cioè tenere in conto che la storia ha senso in quanto è un testo, e che nel testo gli storici inseriscono e interpretano solo gli accadimenti che credono abbiano avuto importanza nel succedersi delle vicende. Gli uomini, infatti, non sono d’accordo sulla definizione della realtà. Lo testimonia oggi l’arte figurativa, col suo modo incomprensibile di esprimersi e di scomporre gli oggetti, e lo suggeriva Gustave Flaubert quando nell’Educazione sentimentale avanzava angosciosi dubbi sull’esistenza delle cose al di fuori dei rapporti con quegli schemi attraverso i quali l’uomo di volta in volta fissa e cristallizza le sue esperienze, cioè al di fuori del modo in cui ognuno percepisce gli oggetti . Se però la relatività delle cose e il mutare continuo delle prospettive e dei punti di vista sono assai chiari in Pirandello, è ad Aristotele e non a Hegel che riconduce il discorso sulla storia e quindi sul testo. Il significato della storia e la sua razionalità non stanno infatti nelle vicende accadute, che non siamo in grado di conoscere, ma nelle vicende quali vengono trasmesse dalle testimonianze e ricostruite, attraverso un processo di attenta ma soggettiva selezione e organizzazione e grazie alle tecniche discorsive di un autore, in un testo scritto. Con l’avvertenza che nessun testo è definitivo e che ogni testo, è stato di recente precisato, «può essere confutato non dalla storia in re, che per definizione resta muta fino a quando uno storico non gli presta la propria voce e la propria lingua,

. Che cosa è la storia.Cancelliamo il passato?, p. . . Ivi, pp.  e -. Anche chi ritiene che il pensiero moderno non può che affermarsi nella “lotta contro il passato” deve convenire che per fronteggiarlo e superarlo è necessario conoscerlo, e quindi studiarlo. . Per «l’autocritica» al «metodo compositivo» di questo testo e per le esigenze di «una concezione salda e universale della vita» delineate da Flaubert anche in una lettera a George Sand cfr. G. Lukács, Il marxismo e la critica letteraria, pp. -, , -.



CAPIRE IL MEDIOEVO

ma da un altro testo storico» . Dagli storici non ci si aspetta più perentorie affermazioni di “verità”. Tante “certezze” si sono spesso dimostrate assai fragili, e ipotesi non pienamente confermate e perplessità e dubbi possono talvolta essere più fecondi di conclusioni ritenute “definitive” . L’unica certezza della ricerca storica non può dunque che essere il dubbio , la «saggezza dell’incertezza» di cui parla Milan Kundera , e se tutti, nel fare storia, sono vincolati dal proprio modo di essere e di pensare, l’unica possibilità di allentare emotività, pregiudizi e condizionamenti è quella di tenerli ben presenti, di analizzarli di continuo, di non esorcizzarli. Perché, scriveva Bernhard Blumenkranz a proposito della storia degli ebrei  e Franco Venturi nel Populismo russo, l’unica oggettività possibile nella ricerca è quella di distinguere «fra i problemi del passato di cui lo storico scrive e quelli del tempo in cui lo storico scrive» . È, per dirla con Pascal, il giusto equilibrio dello storico fra l’esprit de finesse e l’esprit de géométrie. Gli storici accorti, del resto, più che creare teorie hanno cercato di ricostruire le cose sulle quali le teorie si fondano. Troppi «professionisti della storia», diceva Gabriele Pepe, «mascherano la loro mancanza di ingegno e di senso storico con l’arido tecnicismo specialistico e con l’interessata e poco obiettiva difesa di una mitica obiettività» . Se di ogni accadimento, di ogni vicenda grande o piccola, pubblica o privata che sia, è possibile esporre più interpretazioni, sia pure in mo-

. F. Lo Piparo, La storia, pp. -. . In A. De Ferrariis (detto il Galateo), Eremita, p.  si legge che «incerta sunt omnia; hoc solum certum est, nihil esse certi», e a p. , dopo la precisazione che non è facile riconoscere «quod verum est», si chiarisce che è probabile abbia ragione Democrito, «quod casus regit omnia». Il dubbio comunque, più che un valore, almeno in Cartesio, in Kant, nello stesso Bobbio, è «empiricamente un metodo epistemologico», la chiave «di controllo del possibile», lo strumento cioè che permette al possibile di divenire realtà in modo graduale. È d’altronde significativo (e da considerare quindi oggetto di attenta riflessione) che Giorgio Falco, In margine, pp. -, annoti «l’insoddisfazione di quella storia che tutto spiega e che, in fondo, giustifica tutto ciò che è accaduto», tanto più che essa è «una cosa un po’ misteriosa», in quanto rimane il mistero «di una razionalità che trascende l’intendimento dell’opera individuale e del momento storico». Concetto che ritorna del resto nella Santa romana repubblica, p. . . Lo rilevava già J. C. Gatterer, Versuch einer allgemeinen Weltgeschichte, pp. -, quando raccomandava di non essere «né creduli né increduli», ma «di dubitare ogni qualvolta la cosa lo richieda». . M. Rizzante, Milan Kundera, pp. -. . Juifs et chrétiens, passim. . Il populismo russo, introduzione all’edizione del , e Id., Settecento riformatore, passim. . G. Musca, Uno scritto poco noto di Gabriele Pepe, p. .



.

IL SENSO DELLA STORIA

do accurato, sia pure con raffinatezza, sia pure con avveduta meditazione ed equilibrato realismo, sia pure con puntuali riferimenti alle fonti, non si può non tenere in conto quel che Felix Gilbert scriveva della Storia d’Italia di Francesco Guicciardini: «prima grande opera della storiografia moderna» che dà però «l’impressione che la storia sia senza meta né scopo» . E posto allora, come annotava appunto Guicciardini, che «gli uomini sono al buio delle cose, e questa indagazione ha servito e serve più a esercitare gli ingegni che a trovare la verità», che cosa significa storia, che validità dare alla ricerca, e qual è la sua utilità? . Le cose accadute e quelle da ricordare Molte sono le accezioni del termine storia, e qualcuno, come il don Giuseppe Vella del Consiglio d’Egitto di Leonardo Sciascia, diceva addirittura «che la storia non esiste», che c’è «più merito ad inventarla che a trascriverla da vecchie carte, da antiche lapidi, da antichi sepolcri» e che manca di «orecchio talmente fino» per poter cogliere e registrare «il gorgoglio delle viscere vuote» degli uomini e «la voce della loro fame» . Erodoto identificava comunque il termine “storia” (i™storíh) – da lui usato per la prima volta per registrare il ricordo «delle cose accadute da parte degli uomini affinché col tempo non cadano in oblio» – con l’ordinata esposizione dei risultati di un progetto di ricerca, cioè col fare storia, vale a dire col lavoro di «chi sa e conosce per testimonianza diretta o indiretta i fatti raccontati» . Con l’esposizione appunto di un racconto che si concretizza in un testo. In un testo, annotava Aristotele, diverso da quello poetico. E non solo perché, al contrario della poesia «che racconta il generale, la storia racconta il particolare», ma perché la storia manca di quella logica oggettiva che è propria del testo poetico, il quale è invece «mimesi di un’azione che sia unica, e cioè tale da costituire un tutto compiuto; e le parti che la compongono devono essere coordinate per modo che, spostandone o sopprimendone una, ne resti come dislogato e rotto tutto l’insieme» . L’esatto «contrario della intrinseca razionalità del reale di Hegel», commenta Franco Lo Piparo: «gli eventi storici di per sé non posseggono [...] un’unica razionalità possibile. L’acquistano solo se vengono assunti all’interno di una strategia . F. Guicciardini, Storia d’Italia, introduzione di F. Gilbert, pp. LXXVI-LXXVIII; F. Gilbert, Machiavelli e Guicciardini, pp. -. . Il consiglio d’Egitto, pp. -. . Erodoto, Le storie, I,  e , pp. -. . Poetica, B, ma cfr. G. Della Volpe, La “Poetica” di Aristotele commentata, pp. -.



CAPIRE IL MEDIOEVO

discorsiva che, selezionandoli e riorganizzandoli, dia loro un senso globale e unitario» . Non è qui il luogo per insistere ancora sul significato e concetto di storia e sui connessi problemi teorici e metodologici. Innumerevoli gli autori che vi si sono soffermati e, fra i testi recenti e meno recenti, si può rinviare a Johan Huizinga  e alla voce Storia dell’Enciclopedia Einaudi . Va comunque registrato che già dai primi e più antichi studiosi sembra emergere – in modo appena accennato in Erodoto, in termini alquanto espliciti in Tucidide, pienamente palesi in Polibio – la separazione fra accadimenti e loro interpretazione, fra res gestae e historia rerum gestarum, fra storia appunto e storiografia. E non è privo di significato che, a inizio del Medioevo, Isidoro di Siviglia precisasse che «historia est narratio rei gestae per quam ea, quae in praeterito facta sunt, dinoscuntur» , cioè la storia è racconto di quel che è stato e grazie alle sue metodologie di ricerche vengono ricostruiti i fatti realmente accaduti. Definizioni a parte, quel che però si vuole qui sottolineare è la continuità, nella convivenza umana, del culto della memoria, cioè lo spiccato interesse per la storia intesa come nesso strettissimo fra le cose accadute e quelle da ricordare, fra testimonianze e loro interpreti, fra passato che non è più e presente che è «il futuro del passato» e in cui lo storico vive . Vive, opera e, attraverso lo scrupoloso vaglio delle fonti, ricostruisce tutto quel che della dinamica di un tempo resta ancora efficace. Attraverso la ricerca, diceva Droysen, «non sono le cose passate a diventare chiare perché esse non sono più, ma quello che di esse, nell’hic et nunc, non è ancora passato» . Si potrebbe continuare ancora sulle esemplificazioni e seguire a grandi tratti il percorso delle definizioni e del dibattito sul concetto e sul significato di storia. Quanto però succintamente esposto, che è poi il nucleo centrale dei modi e dei fini della ricerca, permette comunque di porre già in evidenza: a) che l’oggetto del sapere storico non è un dato a se stante perché si costruisce nel momento stesso del suo “farsi”, cioè attraverso il raccordo fra chi studia e ciò che viene studiato; b) che la storia, nata come recupero e conservazione della memoria, è un continuo

. La storia, p. . . La mia via alla storia, specie il capitolo Per una definizione del concetto di storia, pp. -. . Redatta da J. Le Goff, pp. -, la recensione di R. Romeo nel “Giornale nuovo” del  ottobre . . Etymologiarum, I, , -. . R. Koselleck, Futuro passato, p. . . Sommario di Istorica, p. .



.

IL SENSO DELLA STORIA

ripensamento del passato alla luce del presente. Si tratta certo di conclusioni aperte, di regole in via di definizione, di punti di riferimento forse ambigui e contraddittori, senza dubbio accettati da alcuni e contrastati da molti, tali però da indicare che la storia non si risolve in un’esortazione all’inerzia, ma in un richiamo all’operare dell’uomo . Tali appunto da suggerire che la storia, ogni storia, sia essa antica, medievale o moderna, è, per dirla con una efficace e suggestiva espressione usata da Croce, contemporanea . Lo sforzo di spiegare e comprendere il presente attraverso il passato, cioè di proiettare verso il passato gli interrogativi del presente, aiuta infatti a porre domande e quindi a pensare per problemi, vale a dire a impostare una ricerca storica partendo sempre da dinamiche ed esigenze attuali . E in storia, che è poi più una nozione libresca che una nozione esistenziale, i «problemi», scrive Paul Veyne, «importano più delle risposte» . E proprio ciò sarebbe per molti ricercatori la ragione di fondo della storia. Marc Bloch, per esempio, individua varie situazioni di fatti la cui dinamica attuale è possibile capire solo attraverso la ricostruzione, nel tempo, del gioco delle influenze sui percorsi di mutamento e delle tradizioni e nei quali sta appunto la chiave di lettura del presente. A parte le lezioni su La structure politique et sociale de la Grande Bretagne, nelle quali venivano chiarite, attraverso lo studio del passato, alcuni dei punti fondamentali della società rurale inglese del secolo XIX , è opportuno ricordare quel che il grande storico francese scriveva a proposito del singolare tracciato dei campi nella Francia del Nord: Nonostante le attenuazioni apportate al tracciato originario, nel corso degli anni, delle vicende delle proprietà, lo spettacolo di queste strisce, smisuratamente strette e allungate, frastaglianti il suolo coltivato in un numero straordinario di appezzamenti, conserva ancora oggi quanto basta a confondere l’agronomo. Lo

. La «storia – scriveva Gina Fasoli, Riflessioni, p.  – ci consente di avere coscienza di noi stessi come singoli e come collettività». . La storia come pensiero e come azione, pp. -. Va comunque sottolineato quel che annotava L. Ranke, Aufsatz zur eigenen Lebensgeschichte, p. : la storia è «il passato che [...] come un eterno presente ci sta innanzi agli occhi». . La storia non può esaurirsi nella meccanica e noiosa esposizione di vicende; non vi è storia senza una problematica di riferimento e senza giudizi di valore che la elevino a coscienza critica, e oggi – annotava D. Cantimori, Studi di storia, p. XIX – «molti giovani storici ostentano [...] una strana incapacità o riluttanza al giudizio storico, preferendo rifugiarsi in una accuratissima, tecnicissima e specializzatissima informazione». . La storia concettualizzante, pp. - e Id., Come si scrive la storia, passim. Su Veyne e sulle sue interpretazioni cfr. A. Tarpino, Raccontare storia. . Pubblicate postume. Cfr. anche G. Gouthier, Marc Bloch e la Gran Bretagna, pp. -.



CAPIRE IL MEDIOEVO

sciupio di sforzi e gli imbarazzi ragionati ai coltivatori da una siffatta suddivisione sono incontestabili. Come si spiega? Il codice civile e le sue inevitabili conseguenze, risposero pubblicisti troppo frettolosi. Modificate – aggiungevano – le nostre leggi successorie, e sopprimerete il male! Se avessero saputo meglio la storia, se avessero meglio interrogato una mentalità rurale foggiata da secoli di empirismo, avrebbero giudicato meno facile il rimedio. Quella struttura risale a origini tanto lontane che nessuno studioso è riuscito sinora a darne una spiegazione soddisfacente; probabilmente i dissodatori dell’età dei dolmen ne capiscono qualcosa di più dei giuristi del primo Impero. Poiché in questo caso l’errore sulla causa originaria si converte, come accade necessariamente, in un errore terapeutico, ne consegue che l’ignoranza del passato non solo nuoce alla conoscenza del presente, ma compromette, in questo, l’azione .

. Intreccio fra passato e presente Questo intreccio fra passato, presente e comportamenti degli uomini, portati per natura più a voler comprendere che a voler conoscere, spinge a chiedere e a chiedersi se la storia abbia una funzione e serva a qualcosa. E nel contesto di una ricerca tesa alla conoscenza “del passato in sé e per sé”, di un passato ricostruito solo sulla base delle idee e dei comportamenti del proprio tempo, la risposta non potrebbe che essere negativa . È però possibile ricostruire il passato iuxta propria principia, se quei principia non sono accadimenti, ma solo il riflesso delle testimonianze giunte a noi, cioè del modo in cui i coevi leggevano e interpretavano le vicende del loro tempo? Se la storia non può che essere un testo e, come tale, il risultato di una mediazione fra l’oggetto studiato e chi lo studia? Qualunque sia il percorso che si vuole seguire, punto di partenza e punto di arrivo della domanda sulla utilità e la funzione della storia sono dunque due poli estremi: quello di totale disponibilità all’accoglienza della «libertà della memoria», e quindi dello studio del passato in sé e per sé, e quello di un’altrettanto totale adesione al legame fra presente

. M. Bloch, Apologia della storia, pp. -. Un interessante e originale parallelo fra le strutture economiche che distinguono e separano l’economia rurale della Francia e quella della Germania lungo i secoli XIII-XVIII in E.Weis, Ergebnisse eines Vergleichs, pp.  ss. . È certo frequente, specie per l’esposizione delle vicende più recenti, il pericolo di un “uso politico della storia” che inquini le ricerche. Ma una domanda, inevitabile, deve fare riflettere: è possibile fare storia senza essere fortemente motivati? Senza dover «amputare – scrive Musca, Le crociate, p.  – dalla scienza la propria umanità, quasi questa fosse necessariamente sintomo di passionalità poco scientifica?». Senza cioè essere sorretti da ideali, che non siano ideologia, perché rispondono a una visione del mondo alla quale ci si propone di avvicinare la realtà esistente?



.

IL SENSO DELLA STORIA

e passato e quindi alla capacità del presente di interagire con le ricerche sul passato. In sintesi: da una parte stanno quelli che, intendendo impedire il sovrapporsi dell’orizzonte mentale dello storico e di ogni esigenza del presente alla realtà studiata, finiscono per negare alla storia qualsiasi funzionalità pratica; dall’altra invece quelli che, convinti, sia pure con non poche sfumature, della continuità dialettica fra presente e passato, fra riflessione sul passato e azione nel presente, ritengono necessario porre al passato domande utili alla comprensione della dinamica del mondo in cui vivono e operano. Si tratta di due posizioni forse estreme, sicuramente inconciliabili, senza dubbio inquietanti perché evidenziano fra l’altro una frattura fra la storia studiata e la storia insegnata. La quale ha anche il diritto di sapere perché viene inserita negli ordinamenti scolastici e universitari, che prevedono appunto l’insegnamento della storia come disciplina tesa alla ricostruzione dei processi di trasformazione che hanno portato al presente, vale a dire alla società in cui si concretizza la nostra identità culturale . Si tratta dunque di specifiche motivazioni sulle quali si può consentire o no, ma si tratta soprattutto – e lo si vede subito – di risposte insufficienti perché incapaci di chiarire il concetto stesso di storia in quanto disciplina da studiare e da insegnare. E infatti, se non sono da trascurare le implicazioni didattico-formative, vanno soprattutto tenute in conto le precisazioni di Bronislaw Geremek, che sottolinea l’importanza di una ricerca «compiuta con assoluto rigore» e senza che si faccia «del passato una lezione per il presente» , e quelle di Giosuè Musca, il quale ha fatto ripetutamente notare che «presente e passato sono due poli dialettici che devono conservare la propria autonomia, e lo storico non deve fare confusione» . In tal senso, se va certo respinta la tesi di quanti sostengono che la storia non ha mai insegnato niente a nessuno, è fuor di dubbio che siamo figli del nostro passato e che se la storia non è certo in grado di fornire norme e ricette per risolvere i problemi di oggi, aiuta senz’altro a identificare le componenti che hanno contribuito a rappresentare le varie situazioni del presente. Lo testimonia, fra l’altro, il nesso, costante nel tempo, fra problemi del presente e selezione degli argomenti da studiare. Se c’è quindi da trarre una conclusione, è che essa non può che evidenziare articolate e contraddittorie posizioni, le quali, allo stato delle

. Notevole è la distanza fra ricerca e insegnamento, determinata in parte «dalle difficoltà di scambio» fra due mondi che non riescono a comunicare: P. Denicolai, Ricerca e insegnamento, p. . . Citato da G. Sergi, I pericoli dell’esperienza, p. . . Lettera a Mario Sanfilippo, p. .

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cose, impediscono di indicare punti fermi. Non sembri comunque superfluo porre la questione da una prospettiva diversa e richiamarsi alle Sei lezioni sulla storia di Edward Hallet Carr  e all’Introduzione alla ricerca storica di John Tosh . Entrambi i testi aiutano a dare una soluzione al problema quando suggeriscono che la storia non è solo una disciplina umanistica, ma è anche una scienza sociale ed economica. Non è cioè soltanto custode della memoria che qualifica l’uomo come soggetto di valori, ma è pure disciplina che contribuisce ad «accrescere la conoscenza dell’ambiente e la possibilità di dominarlo». È appunto, si ricava dai due studi ricordati, disciplina ibrida, volta sia alla conoscenza «che arricchisce di per sé» , sia alla comprensione dei problemi del presente. E deve «il suo infinito fascino, la sua complessità proprio a questa sua duplice natura. Se si vuole che lo studio della storia si mantenga pienamente vitale, occorre continuare a riconoscere questa fondamentale ambivalenza, qualunque sia il costo in termini di coerenza logica». E solo così, precisa Tosh, «un’educazione storica raggiunge diversi obbiettivi in una sola volta: esercita l’intelligenza, estende la comprensione e fornisce un’indispensabile prospettiva storica di alcuni dei problemi più urgenti del nostro tempo» . . Gli equivoci delle due culture La storia sarebbe quindi scienza, oltre che disciplina umanistica. Per completare questa rapida esposizione, capire meglio e approfondire i problemi di fondo della conoscenza e metodologia della ricerca e dell’insegnamento è opportuno fare qualche accenno ai rapporti di questa disciplina con le scienze della natura. Accennare cioè ai nessi fra ragione storica, che incarna il potere critico dell’uomo come soggetto di valori, e ragione fisico-matematica come espressione del mondo della natura e della necessità, vale a dire ai nessi fra le esigenze della «qualità» e le esigenze della «quantità», fra i giudizi di valore espressi da Kant e i giudizi di fatto sostenuti da Hume. E il pensiero va subito alla Crisi delle scienze europee di Edmund Husserl , a un libro appunto che pone in luce – attraverso aspre critiche a Galilei, accusato di aver suggerito

. Sei lezioni sulla storia, p. . . Introduzione alla ricerca storica, specie pp. -. . R. Cobb, A Sense, p. . . J. Tosh, Introduzione, pp. -. . Ma cfr. pure, di Husserl, La fenomenologia e i fondamenti delle scienze, che è il terzo volume di Le idee per una fenomenologia pura.

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un mondo di soli valori quantitativi – la separatezza fra cultura umanistica e cultura scientifica, cioè fra «due culture», scriveva Charles Percy Snow nel  . Due posizioni estreme, queste del filosofo tedesco e dello scienziato e narratore inglese, che sembrerebbero inconciliabili se la storia non fosse disciplina tesa a ricostruire i percorsi dell’uomo attraverso processi di sviluppo che riconducono alla dialettica fra potere critico della ragione e mondo dei valori e delle necessità, cioè attraverso un legame stretto tra vita civile e suggestioni della scienza. È «infatti ingenuo – diceva Marc Bloch – pretendere di capire gli uomini ignorando quali fossero le loro condizioni fisiche e il loro modo di vivere» . È appunto impossibile fare storia, ricostruire cioè i rapporti fra uomo e mondo in cui egli vive, senza tenere conto delle costanti strutturali dell’uomo stesso, del linguaggio, della psiche, dei fondamenti biologici, e soprattutto senza prendere in considerazione le scoperte recenti e meno recenti della fisica. Le cui ricerche hanno fra l’altro scardinato il tradizionale concetto di “materia”, vale a dire il concetto di quel che, nella comune accezione, è definito “realtà” e costituisce tutto ciò che, oggetto di esperienze sensibili, esiste indipendentemente dalla coscienza individuale dell’uomo. Ed è, in fondo, quel che pensava Giambattista Vico quando annotava che gli uomini, pur gli stessi in quanto uomini, organizzano la percezione del mondo e dei propri bisogni in modo adeguato ai quadri ambientali e alle tradizioni culturali del territorio in cui vivono. I rapporti fra le “due culture” sono stati sempre caratterizzati da equivoci e incomprensioni, anche se, fin dall’Illuminismo – se si escludono gli anni dell’idealismo e in fondo del marxismo, che in Italia, nella linea Labriola, Croce, Gramsci, aveva fatto proprie le metodologie storicistiche  –, l’avanzamento della conoscenza scientifica è stato sempre considerato in nesso strettissimo col progresso civile, cioè con un concetto di progresso fatalisticamente inteso come mutamento continuo verso il meglio . E anche per questo va tenuto conto che la scienza non è un dogma e va interpretata, compresa, spiegata in chiave critica. Va cioè trattata e offerta non come verità assoluta, come sapere già costituito, ma nella dinamica che la produce, nel contesto di civiltà e cultura in cui ha trovato e continua a trovare la sua condizione storica

. Cfr. la recensione di R. Romeo, Le due culture. . La società feudale, p. . . Cfr., fra l’altro, “Critica marxista”, , , dedicato a Il marxismo le scienze, con saggi di Ludovico Geymonat, Enrico Bellone, Giulio Giorello, Silvano Tagliagambe. . G. Sasso, Il progresso, passim. Ma cfr. pure quel che, a tal proposito, annotava nel  G. Falco, Cose di questi e altri tempi, pp. -.

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di esistenza. Quel che potrebbe apparire come definitivo e immobile è oggi anche dalla scienza considerato instabile, in movimento. E col principio di relatività, venuti meno significati e valori assoluti e i riferimenti a leggi definite una volta per tutte, pure nelle scienze dette esatte la ricerca si è aperta a prospettive sempre nuove, a continui rinnovamenti metodologici, a dialoghi con discipline diverse e anche lontane. Basti pensare al concetto di “soglie temporali”, che in fisica indica il processo evolutivo di taluni fenomeni e che ora viene trasferito nella storiografia per designare il graduale passaggio da un’epoca all’altra e in letteratura per fissare, come nel volume di Gérard Genette, il passaggio dal paratesto al testo . Non è poi da trascurare che molti scienziati sono particolarmente sensibili alle suggestioni culturali e agli strumenti conoscitivi delle discipline umanistiche. Nel , per esempio, il chimico Glenn T. Seaborg, premio Nobel per aver scoperto il plutonio, invitava il Congresso degli Stati Uniti d’America ad accrescere i finanziamenti per gli studi umanistici perché, precisava, sono «i soli che possono dare risposte convincenti alla disperazione e alle negazioni del nostro tempo» e all’utilizzazione razionale delle scoperte. E a questi stessi valori sembra ispirarsi il fisico Carl Friedrich von Weizsäcker quando scrive che gli scienziati, da Copernico a Galilei a Newton e Einstein, e gli umanisti, da Platone e Aristotele a Kant e Goethe, hanno tutti operato col dichiarato intento di mostrare «l’unità del sapere che deriva dall’unità della natura» . . La forza massiccia e brutale dell’imprevisto Le modalità e le conquiste della scienza, che hanno contribuito in ogni tempo ai processi di assestamento e di sviluppo delle società e che hanno oggi rivoluzionato la posizione stessa dell’uomo nei confronti della natura, della vita, della morte, non possono quindi non avere un posto centrale nella ricerca e nell’insegnamento della storia. La quale deve ricostruire i percorsi dello sviluppo anche attraverso il ruolo delle scienze e delle tecniche non solo in termini teoretici, ma di applicazioni pratiche. E valgano gli intrecci tra arte, tecnica e scienze che emergono dall’uso dell’ottica e della geometria nella pittura del secolo XV, il nesso fra geometria, scienze della costruzione, urbanistica e impegno civile in architetti . Soglie, pp. - e passim. . Nel recente volume I grandi della fisica. Tullio Regge, però, nel volume Cronache dell’universo, p. , scrive che «difficilmente si potrebbe trovare una classe di persone peggio informate dei fisici su tutta la storia della scienza».

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come Leon Battista Alberti o Filarete, il vincolo strettissimo fra sviluppo della matematica ed evoluzione della retorica, il continuo affinarsi delle tecniche artigiane e il progressivo diversificarsi fra arti meccaniche e artisti, l’identificazione arte-scienza sostenuta da Leonardo, le teorie sul metodo delle scienze positive portate avanti da Galilei e quelle della conoscenza filosofica fondate da Cartesio sul modello di quella matematica. Significativi comunque – a parte le insistenze di Aristotele, Michele Scoto, Federico II, Ruggero Bacone sui problemi dello sviluppo scientifico  – gli studi di Marc Bloch sull’Avvento e conquiste del mulino ad acqua, di Lynn White su Tecnica e società nel Medioevo, di Marcello Cini su L’ape e l’architetto e di Giovanni Berlinguer, il quale, nel volume Le mie pulci, pone in evidenza il nesso strettissimo fra problemi della scienza e problemi dello sviluppo, fra ciclo biologico delle epidemie e vicende degli uomini. Per comprendere, per esempio, gli effetti funesti della peste del  e misurare la temperatura emotiva e culturale di un’epoca, non può certo essere trascurato il ruolo che le condizioni igieniche, le conoscenze mediche e i pregiudizi esercitavano sui comportamenti e sulla sensibilità della gente. La quale, ritenendo nel Medioevo che i gatti fossero animali diabolici da sterminare, è probabile abbia inconsapevolmente favorito la diffusione della peste. Quando infatti, trasportati nelle stive delle navi che giungevano dall’Oriente, i ratti, sui quali le pulci avevano trasferito il bacillo della peste, arrivarono in Europa, non c’erano gatti a dar loro la caccia e a impedire il rapido diffondersi della malattia. Tramite la peste, dunque, pulci e gatti contribuivano alla crisi del Medioevo e al concretizzarsi di alcune opere fondamentali della letteratura italiana. Ed è probabile che, senza quelle superstizioni e quei pregiudizi negativi sui gatti, il corso delle cose avrebbe potuto avere andamento diverso. Giulio Carlo Argan, in un articolo su Jacopo della Quercia, affermava, per esempio, che non è vero che la storia ignori i se, perché, scriveva, essi «rappresentano altrettante alternative che non ebbero corso ma furono possibili e probabili, e senza le quali il processo storico non sarebbe dialettico» . A parte però le varie alternative offerte dalle scelte spesso imponderabili della storia, è sul caso, cioè sugli avvenimenti fortuiti, accidentali e imprevisti e sulla «ironica e spesso atroce spropor-

. E per i quali cfr. S. Tramontana, Il regno di Sicilia, passim. . Se non ci fosse stato Jacopo, pp. -. G. Müller, Reisen der Päpste, pp. -, scriveva che se si fosse compiuta l’unificazione della penisola italiana ad opera dei longobardi, non sarebbero sorti né il potere temporale di Roma, né il Sacro romano impero, ma, aggiungeva: «se in Italia, che è abbastanza feconda per tutte le imprese [...] e per tutti i piaceri della vita» non si fosse formata la «potenza papale, l’Europa sarebbe rimasta barbarica».

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zione dei loro effetti» che storici, artisti e uomini dotti si sono soffermati. E valga, fra gli studiosi recenti, Henry Pirenne, che proprio al fortuito intreccio fra istanze religioso-politiche e il grumo di attese, rabbie e illusioni che spingevano i musulmani sul Mediterraneo, riconduce la frattura fra due civiltà e il capovolgimento del mondo . Significativo comunque quel che dice Dante a proposito di Democrito, «che il mondo a caso pone» , e soprattutto quanto scrive Lev Tolstoj in Guerra e pace, in cui è rappresentata la connessione fra i destini dei singoli uomini e il mondo che li circonda, fra l’imperfezione che rende umani gli uomini e l’imprevedibile che li fa unici. La tragica fine dell’armata napoleonica non fu, egli precisa, il risultato di un piano strategico, ma del caso, «del gioco appunto dei più complicati intrighi, delle ambizioni, dei desideri di quelli che partecipavano alle guerre e non sapevano quale dovesse essere la sola salvezza della Russia» . . Narratività della storia e del suo quotidiano Il richiamo a Dante e a Tolstoj suggerisce un’ultima considerazione, e non tanto sul rapporto fra storici e letterati – sulla storia appunto come genere letterario dotato di natura artistica, che vorrebbe dire fra storia e romanzo –, ma sui moduli e le tecniche espositive proprie di un libro di storia. Argomento, del resto, che è stato sempre, fin dall’antichità, al centro dell’attenzione degli autori e dei lettori di libri di storia e che, specie in questi ultimi anni, è stato motivo di dibattiti, talvolta aspri, fra quanti negano valenze narrative ai testi di storia e quanti invece, come Eric J. Hobsbawm, sostengono l’uso programmatico di tecniche narrative. Questo libro, scrive per esempio lo studioso inglese nell’introduzione al suo volume L’età degli imperi, «non è, se non incidentalmente, un’esposizione narrativa o sistematica, e meno ancora uno sfoggio di erudizione. Va letto come svolgimento di un certo discorso, o diciamo come approfondimento di un tema fondamentale attraverso vari capi-

. Maometto e Carlomagno, p. : l’attacco arabo sorprese l’Occidente, «in un certo senso [...] fu un caso fortuito, se si intende con questa parola la conseguenza imprevedibile di parecchie cause combinate». Nessun accenno a questo problema – sottolineato da C. D. Fonseca con una domanda a C. Violante, Le contraddizioni della storia, pp. - – in G. Petralia, A proposito dell’immortalità, pp. -. . Divina commedia, Inferno, IV, , p. . . II, parte X, , pp. -. Hume diceva che anche il caso ha una sua logica, ma L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, pp. - annota: «vogliono estrarre la logica dal caso, come dire il sangue dalle pietre».

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toli» . E l’assunto riporta subito a Lawrence Stone che, nell’importante saggio del , insiste sulla narratività della storia, vale a dire sulla validità, di fronte ai disinganni dell’arida erudizione quantitativa, del racconto storico come strumento espressivo della problematicità e della mentalità, dello sforzo cioè «di capire cosa passasse nella mente della gente del passato e cosa volesse dire vivere nel passato» . Sulla linea di questa interpretazione acquisivano particolare importanza le vicende di tutti i giorni, l’organizzazione del lavoro, l’esistenza familiare, le credenze, le superstizioni, il sentimento della morte. Cioè le scelte politiche dei governi e delle classi di potere, e quindi le specificità e le dinamiche economiche di una società, il modo di pensare degli abitanti, le loro insicurezze, le loro angosce, le loro paure, la funzione che su di essi potevano esercitare quelle pratiche religiose che educano a sopportare con pazienza la miseria e i soprusi e che contribuiscono a cementificare la continuità, a frenare le mutazioni, a garantire la stabilità dei potenti. La storia infatti nelle sue analisi talvolta è così intellettuale, così intenta nella raccolta di dati e nella ricostruzione di statistiche avulse dal reale, da scordare le vicende quotidiane spesso aderenti alle nozioni istintive di società primordiali, da dimenticare quanto è atroce aver fame e quanto sia rispettabile fuggirne, da non tenere in conto che dietro i numeri, le statistiche, i prezzi, le leggi, le istituzioni stanno sempre gli uomini e le donne coi loro bisogni, coi loro desideri, con le loro rabbie. Cosa c’era, per esempio, dietro le tante norme legislative le cui pene suggeriscono frequenti furti di oggetti di modesta portata come i campanacci di animali, i piccoli attrezzi da lavoro, i grappoli d’uva? Cosa dietro i castelli, le molte miniature che raffigurano gli impietosi e micidiali combattimenti fra crociati e musulmani e gli scontri fra cavalieri durante i tornei? E cosa c’era dietro i dipinti di Lucas Cranach, dietro le rappresentazioni assai suggestive delle danze macabre, dietro la Caduta dei ciechi, gli Storpi, la Gazza sulla forca di Pieter Bruegel e dietro molte iscrizioni che riproducono i metodi di utilizzazione degli indios nelle miniere d’oro e d’argento attivate e gestite dagli spagnoli nel Nuovo Mondo? E cosa infine suggeriva la «maschera di bellezza» dei bronzi di Riace alla quale accenna Andrea Carandini nel

. Nella p. VII. . The Revival of Narrative, p. . Alcune perplessità su questo saggio in E. J. Hobsbawm, The Revival. Per «i disinganni» della storia quantitativa cfr. F. Chabod, Storia della politica estera, nella cui introduzione si accenna, fra l’altro, alle «tavole statistiche, alle percentuali, alle medie, ai grafici» che, secondo «certa storiografia recentissima», racchiuderebbero «il segreto della storia».

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volume Storie dalla terra?  Non sarebbe infatti opportuno pensare «anche alla nave che li trasportava e che naufragando li depositò in fondo al mare? E dove questa nave li aveva imbarcati? E a quale villa di senatore o di patrizio romano li stava portando?». Certo, molte di queste domande toccano i temi della paura, degli stupori, delle angosce di una società e di un’epoca sulla cui dinamica di vita quotidiana le fonti hanno lasciato scarse tracce. Ma non per questo è meno viva la curiosità dei lettori di oggi. In tal senso va inteso il ricorso alle immagini e ai testi letterari, che aiutano non poco a capire, o almeno a trovare risposte che la storia stenta a formulare, tranne che non si faccia ricorso a processi di mediazione culturale. E valgano per tutti le analisi delle fonti in termini di nesso fra lingua e mentalità, fra parole e loro significato nel contesto che le produceva. Marc Bloch, per esempio, si è soffermato a lungo sull’espressione «uomo di altro uomo» presente nel vocabolario feudale. Espressione latina, ma comune ai volgari romanzi e germanici, che serviva a formulare un concetto generale di dipendenza personale, la cui valenza sociale e giuridica, egli scrive, veniva però precisata dal significato che di volta in volta il termine homo acquisiva nei diversi contesti. Caso evidente è quello del secolo XI relativo a «un’istanza di monache normanne le quali si dolevano che i loro uomini – vale a dire i loro contadini – fossero da un altro barone costretti a lavorare nei castelli dei suoi uomini: nel senso questa volta di cavalieri, di vassalli» . Analogo discorso è fatto da Georges Duby sul termine miles e sui diversi significati da esso acquisiti nel processo di costituzione dell’idea giuridica di nobiltà . Marcel Detienne e Jean Pierre Vernant, del resto, a proposito di quel passo dell’Agamennone di Eschilo in cui Menelao piangeva alla vista del kolossòs, che gli richiamava la bellezza di Elena, hanno chiarito che, per rendersi conto dello smarrimento e quindi degli strati misteriosi e insondabili della psicologia del sovrano di Sparta, bisogna recuperare il vero significato del termine kolossòs, che nel contesto dell’opera eschilea non è quello di statua, ma di bambola. Un significato da ricondurre appunto a quelle bambole di stoffa confezionate a somiglianza di una persona amata e con le quali, secondo una radicata tradizione del mito greco, si instaurava un affettuoso rapporto di convivenza .

. Volume che è stato considerato «vero e proprio manuale dello scavo archeologico», che non tende alla ricerca del “bello”, ma al recupero di una realtà che, nella sua interezza, si identifichi nel rapporto fra uomo e oggetti. . La società feudale, p. . . La société aux XIe et XIIe siècles, pp. -. Cfr. E. Artifoni, Georges Duby, pp. -. . I giardini di Adone, p. .

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. Linguaggio storico e linguaggio letterario Ci si trova davanti, come si vede, a questioni che rispecchiano tendenze di vita quotidiana e che rispondono, oltre che ai bisogni giuridici, economici e politici di una convivenza sociale, a emotività e stati d’animo per i quali le opere letterarie sembrerebbero lo strumento più adeguato di espressione. Si tratta invece di procedure di natura prevalentemente storica perché, attraverso un adeguato recupero delle parole e del linguaggio delle fonti, riescono a conferire valenze appropriate al nesso fra comportamenti e mentalità. In questo senso si spiega del resto che i tentativi di risposta ai grandi miti del passato, alla cosmogonia, alla soteriologia, ai problemi della sopravvivenza e della morte, offerti un tempo da studiosi di letteratura come Arturo Graf  o come Mario Praz , sono oggi forniti dalla storiografia. E basti ricordare il volume sul senso della morte di Alberto Tenenti , quello sulla paura e sul senso di colpa di Jean Delumeau , il testo di Jacques Le Goff sul Purgatorio , il libro sul santo levriero di Jean-Claude Schmitt , alcuni numeri monografici di “Quaderni storici” . Se la maggiore disponibilità del pubblico verso la storia narrativa derivi poi dalla scarsa presa della storia quantitativa assunta come sostitutiva del giudizio  o discenda, diceva Braudel, «dal fallimento della letteratura» , è certo da dimostrare. Anche perché la storia quantitativa – se non suggerita da senso di inferiorità nei confronti delle metodiche scientifiche e se non ridotta a tabelle, grafici e masse di dati numerici – fornisce un consistente e ineliminabile contributo al recupero di conoscenze altrimenti inattingibili dalla ricerca . Non è però la por-

. La leggenda del Paradiso terrestre; Id., Il diavolo; Id., Miti, leggende e superstizioni. . La carne, la morte e il diavolo; Id., Il patto col serpente. . Il senso della morte e l’amore della vita. . Il peccato e la paura. . La nascita del Purgatorio. . Il santo levriero. . Per esempio quello su I vivi e i morti, a cura di A. Prosperi. . D. Cantimori, Studi di storia, p. XIX e il richiamo alla «avalutatività» della quale parlava Abbagnano in una recensione a un volume curato da P. Rossi e dedicato a Max Weber. . Dietro le quinte della storia, in cui fra l’altro evidenzia diffidenza per le biografie e pone il problema dei destinatari dei libri di storia. . R. Romeo, nella recensione al volume di Davis, Società e imprenditori, annota che lo strumento quantitativo non può certo essere sostituito dal giudizio, ma il giudizio non può non essere ricondotto al parametro quantitativo, appunto «a indici di tipo quantitativo di cui la documentazione esistente dovrebbe fornire una base attendibile».

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tata della differenza fra storia e letteratura, ma il fatto di doverla registrare, il segnale dell’inquietudine e dell’insoddisfazione di molti studiosi e lettori di storia. Certo le insofferenze vengono da lontano, e le preoccupazioni anche dal mercato editoriale, decisamente a favore di quello letterario. Problema di fondo rimane comunque la specificità del discorso storico, il cui impianto narrativo si presenta spesso più come «pura convenzione che come strumento espressivo» . E potrebbe essere esempio significativo la Storia di un paese: Montaillou di Emmanuel Le Roy Ladurie, la quale, presentata «come avvincente romanzo», non «racconta una storia lineare [...] ma, dice Stone, vaga nella testa della gente» , perché sembrerebbe mancare di un suo specifico strumento espressivo, che non può certo essere quello preso in prestito dalle tecniche narrative delle opere letterarie. E infatti i tentativi di rielaborare in una narrazione carica di intensità drammatica e densa di dati, di dettagli, di numeri, le caratteristiche costitutive di un ambiente e di un’epoca non possono condurre al risultato sperato, anche se possono riuscire interessanti e contribuire – attraverso la rappresentazione di una quotidianità sostenuta da concezione elementare della vita, da moralità opaca e superstiziosa, da ossessione della salvezza, da ragioni religiose e magiche, da miti e fantasmi – a una più puntuale conoscenza di uno dei tanti episodi della indomita lotta della Chiesa romana contro i catari. In tal senso, nel senso cioè della diversa peculiarità del linguaggio storico e del linguaggio letterario, non è da trascurare quel che ha scritto Hans Magnus Enzensberger. Il quale, a proposito appunto della differenza fra il romanziere, che rende rappresentabile e comprensibile il senso e la realtà di una data epoca, e lo storico, che lo rende rappresentabile ma non comprensibile, precisa che «la storia viene esibita senza il suo oggetto» e che «le persone di cui essa è storia» compaiono solo come «figure accessorie, come sfondo», laddove, nel romanzo, «la collettività si dissolve in una molteplicità di soggetti che ti scivolano vicino, vengono captati singolarmente come da una cinepresa e poi restituiti al movimento dell’insieme» . Questione di fondo della minore disponibilità del pubblico verso i libri di storia rimane comunque quella del testo scritto, cioè di un testo

. M. Legnani, Riflessioni su storiografia e romanzo, p. . . Opera che sembrerebbe contrastare in parte con l’assunto che sta alla base delle Frontiere dello storico, il libro nel quale Le Roy Ladurie annota che «la storia non quantificabile non può pretendere di essere scientifica». . Letteratura come storiografia.

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costruito per soddisfare le esigenze dei lettori . E tanti libri di storia sono invece elaborati solo per gli storici, ossia per se stessi. Il loro modulo espositivo, come intreccio di dati e di parole funzionali per i concorsi universitari, non è certo tale da invitare alla lettura. Spesso, scriveva qualche anno fa Guido Ceronetti in uno dei suoi periodici articoli nella “Lanterna rossa” della “Stampa”, circolano libri di «storiografi il cui bacio è mortale». E ciò al di là della metodologia seguita: si può infatti essere fedeli alle fonti, attenti e accurati nella ricerca e nell’utilizzazione di documenti inediti, ma se non ci si fa capire, a che serve? L’importante non è sapere quale metodo lo storico persegue, quali strumenti utilizza e in che termini relativizza il passato, ma se lo ricostruisce col linguaggio adeguato al rigore stilistico e sorretto da chiara compiutezza espressiva . Non è d’altronde casuale che Albert Camus, in un libro come La peste, in cui riflette sulla difficoltà di stabilire un rapporto comunicativo col mondo circostante, scriva che «tutte le disgrazie degli uomini derivino dal non tenere un linguaggio chiaro» .

. Lo raccomandava G. Falco, Cose di questi e altri tempi, pp. -: per «lavorare di storia bisogna, oltre a tutta l’erudizione, fare esperienze di vita e leggere molti buoni libri, né storici soltanto, [...] per formarsi una cultura, cioè un patrimonio di idee». . Ogni testo, compresi quelli di storia, va letto per conoscere quel che dice e per gustare come lo dice. «Persino la realtà – scrive Gabriel García Márquez, Vivere per raccontarla, p.  – si sbaglia quando l’esposizione è brutta». . La peste, p. .

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 Il Medioevo è dappertutto

I diversi elementi che stanno alla base dei libri di storia si amalgamano in un prodotto editoriale che non sempre va incontro alla curiosità e alle esigenze di quanti, e non sono pochi, cercano nella storia un fattore di identificazione. Di quanti, scrive Philippe Ariès, chiedono alla storia anche ciò che hanno «domandato in ogni tempo alla metafisica, e non prima di ieri alle scienze umane»: vogliono cioè «una storia che riprenda i temi della riflessione filosofica, ma collocandoli nella durata e nell’ostinato rinascere delle imprese umane» . Ogni libro, certo, ha la sua identità e la sua più o meno spiccata capacità di dialogare coi lettori, e in tal senso un testo di storia è tanto più valido quanto più riesce a creare legami col mondo che lo circonda. Nel quale, in questi ultimi tempi, sembra via via accentuarsi la disponibilità verso i problemi del passato specie per quel che si riferisce alla vita di ogni giorno, e innanzitutto alle relazioni fra popolazioni e risorse, fra popolazioni e controllo delle forze e dei processi naturali. Ma anche alle questioni della sessualità, della criminalità, delle devozioni popolari, della mentalità religiosa, vale a dire ai problemi del quotidiano e dell’immaginario, cioè del «non cosciente collettivo» che, specie nella storia medievale, hanno ormai da tempo trovato ampio spazio . Oggi il Medioevo è dappertutto, afferma, con malcelata enfasi, Horst Fuhrmann nel volume pubblicato nel  a Monaco e che ha appunto

. Storia delle mentalità, p. . . C’è anche, e forse soprattutto, una curiosità per gli oggetti del Medioevo, per gli avori, per gli smalti bizantini, per gli arazzi, per i gioielli aragonesi. E del resto il Medioevo, specie per quel che riguarda le arti decorative, è da considerare l’epoca più “colorata” della storia. Basti pensare ai mosaici di Palermo e Monreale o al Vangelo di Enrico il Leone, che contiene  miniature a tutta pagina eseguite dal monaco Herimann nell’abbazia benedettina di Helmarhausen fra il  e il , Vangelo regalato poi da Enrico alla cattedrale di Brunswick.

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per titolo Überall ist Mittelalter . Lo si coglie di continuo – malgrado profondi mutamenti, nelle minuzie di vita quotidiana, in tanti propositi di intimità e di approfondimenti morali, nel recupero di tradizioni e abitudini – in certi giri di frasi, nell’emergere della società di fronte allo Stato, nella sempre più accentuata privatizzazione della guerra e anche della sicurezza e nel moltiplicarsi delle polizie private, identificate con gli interessi delle aziende per cui lavorano, nell’ossessione per l’ordine dei templari, nel richiamo, pure in termini politici, alla dimensione misterica e magica dei celti, nella presenza di bande di giovani che, come nel secolo XIII, spinti «dal rifiuto viscerale di una società arroccata nei suoi vizi e nei suoi privilegi», quasi terroristi ante litteram, cercano – scriveva Luigi Malerba in un articolo sul “Corriere della Sera” – una «conferma del proprio disadattamento nell’associazione con altri disadattati» . L’onnipresenza del Medioevo, scrive infatti Fuhrmann, comincia nella vita quotidiana dal “buongiorno”, dal saluto che nel Medioevo, con l’espressione «Dio ti dia un buon giorno», si era sostituito all’ave o al vale dei romani. Ma si riscontra nel sempre più frequente uso, nei caratteri a stampa di libri e manifesti, di forme grafiche gotiche, onciali, semionciali , nella persistenza del celibato del clero cattolico, nelle ideologie di movimenti politici che riconducono le proprie radici ai simboli rappresentati dallo scontro fra particolarismo della Lega lombarda e potere centrale di Federico I Barbarossa, in una diffusa e istintiva paura verso la Germania, che il subconscio di tanti europei considera ancora impegnata nel raggiungimento di una superiorità di diritto sugli altri popoli. Come appunto nel Medioevo, quando il re di Germania diveniva anche imperatore del Sacro romano impero, cioè dell’Occidente cristiano, secondo una prassi che non sembra trovasse riscontro nell’ordinamento del tempo. «Chi ha fatto i tedeschi giudici degli altri popoli», si chiedeva infatti nel  il cronista inglese Giovanni di Salisbury, e chi, aggiungeva, «ha dato a questi uomini maldestri e feroci una tale influenza che essi nominano a volontà il capo dell’umanità?».

. Per quel che si riferisce alla Lega lombarda contro Federico Barbarossa, Fuhrmann scrive che Alberto di Giussano, il protagonista del giuramento di Pontida al quale si richiama Bossi, «probabilmente non è mai esistito». Cfr. su ciò F. Cardini, Il Barbarossa, pp. -. . Il Medioevo è di nuovo oggi, è il titolo dell’articolo. Malerba è autore del Pataffio, romanzo di ambiente medievale. . Come, per esempio, i caratteri grafici usati per il titolo del Lexikon des Mittelalters, l’enciclopedia del Medioevo in nove volumi pubblicata a Stoccarda.

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.

IL MEDIOEVO È DAPPERTUTTO

. Il Medioevo dell’acculturazione Abitudini, richiami più o meno inconsci, paure, desideri, angosce, registrano certo la persistenza di un’eredità ancora viva, anche se disuguale e sfuggente  e per certi versi sterile e persino dannosa, ma testimoniano, a un tempo, un’immagine del Medioevo che, più di un problema di cultura, finisce per essere fenomeno di massa. Cioè un Medioevo della cultura comune, anzi dell’acculturazione, che si riscontra nella letteratura, nel teatro, nel cinema, nei fumetti, nella televisione, nel giornalismo. Un Medioevo appiattito su una dimensionalità «fantastica»  e fatto, scrive Franco Cardini, «di molti castelli, pochi monasteri e nessuna città: di molti baroni, cavalieri, malvagi guerrieri e splendide dame ma di pochi poveri contadini e di quasi nessun banchiere o mercante; di molta magia ma di poca scienza e di una tecnologia ora improbabilmente informatizzata, ora inesistente» . Insomma, un Medioevo le cui principali fonti (dirette o, più sovente, mediate) non sono neppure Chrétien de Troyes o Wolfram von Eschenbach bensì, semmai, Walter Scott, la pittura di William Morris e il romanzo gotico. Un Medioevo che anche la scuola ha talvolta contribuito a diffondere attraverso un insegnamento del quale Leonardo Sciascia offre incisiva testimonianza in un suo personale ricordo. Del Medioevo, egli dice, nelle menti dei bambini che con lui frequentarono le elementari, «restavano per sempre un concetto e un nome. Il concetto era quello dell’invasione, fatto terribile e quasi contronatura, violenza e repressione, perdita d’identità, terra bruciata, carestia. Il nome era, grazie a Giulio Cesare Croce e al suo Bertoldo, quello di Alboino, re dei longobardi» . Certo, l’insegnamento della storia nel primo ciclo non è più quello della scuola elementare frequentata negli anni - dallo scrittore siciliano, ma l’immagine che del Medioevo ha la società d’oggi continua a essere

. Avrà pure un significato il nesso fra Medioevo e letteratura anche per il Novecento. Per esempio, La terra desolata di Thomas Stearns Eliot, scritta nel  e considerata una delle opere poetiche più rappresentative del secolo XX, incomincia con una citazione dei Racconti di Canterbury di Chaucer. . «Il medioevo gotico – osserva J. Baltru&aitis, Il Medioevo fantastico, p.  – evoca, in generale, la scoperta della natura e della vita; con l’esaurirsi dell’iconografia romanica» si ha invece «l’esplosione di una flora viva e la genesi di belle figure umane che si evolvono verso la realtà e verso un ordine organico». Cfr. anche, dello stesso autore, Anamorfosi, o magia artificiale, in cui è affrontato il problema della produzione di «immagini fantastiche». . Medievisti, p. . Cfr. pure R. Barbolini, La chimera e il terrore. . Immagini del Medioevo, pp. -.

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quella di un modello da esecrare o da rimpiangere. Un modello visto da alcuni come luce, come civiltà, come rigenerazione, da altri come tenebre, oscurità, intolleranza, brutale violenza, barbarie, al cui contesto, secondo il noto volume di Roberto Vacca, saremmo condannati a ritornare a causa del sempre più diffuso inquinamento e del collasso tecnologico . A tal proposito non è superfluo citare Umberto Eco che, in un dibattito con Paolo Flores d’Arcais pubblicato su “Civiltà delle macchine”, sottolineava la responsabilità di taluni ambienti progressisti e dei sostenitori della “metafisica ecologica” per aver contribuito, con una certa immagine delle società capitalistiche e dei loro modi di vita, al progressivo radicarsi, nell’animo di molti, di un irreversibile precipitare verso il Medioevo prossimo venturo . Un Medioevo, allora, «come ricerca di ecologia materiale e spirituale? Come impegno – scrive Vittore Branca – a ritrovare istinti, sentimenti, valori ben schietti e motivi da persona umana e non da società massificata?» . Nella rivista “Quaderni medievali”, che fin dal primo numero riserva una sezione a L’altro Medioevo, si possono cogliere non solo testimonianze ragionate dell’immagine di un Medioevo «offerto, decodificato, volgarizzato, spesso deformato», ma anche risposte persuasive «dell’immagine speculare e dei meccanismi di informazione che lo producono». E basti scorrere, nella successione dell’ormai quasi trentennale impegno, le pagine della rivista per rendersi conto, al di là dell’angolazione di lettura del Medioevo, che questa epoca continua a essere al centro dell’attenzione anche da parte di quanti non hanno rapporti diretti con la medievistica oggetto di studio e di insegnamento nelle università e nelle sedi scientifiche. Ne dà fra l’altro immediata conferma l’abituale e spontaneo ricorso del giornalismo scritto e di quello televisivo al termine Medioevo e all’aggettivo medievale per esprimere gli aspetti più retrivi, più incivili, più nefasti della nostra società. Quasi un riflesso condizionato o addirittura un alibi per attribuire alle persistenze, ai residui, alle scorie di un presunto oscuro passato le disfunzioni del presente e dell’impianto economico-sociale che le produce . . Il medioevo prossimo venturo. . “Civiltà delle macchine”, -, settembre-dicembre , pp. -. . Così il Medioevo viene riabilitato, p. . . Anche il bravo e raffinato Bernardo Valli, inviato della “Repubblica” in Iraq, per raccontare le vicende drammatiche di quel paese tormentato da una guerra crudele che scivola sempre più sul piano inclinato dell’efferatezza usa l’aggettivo “medievale” riferendolo al codice mitizzante di un Medioevo che non è mai esistito: «il vuoto per le strade di Bagdad – scrive per esempio – ti può impaurire più di un bombardamento. La notte il buio è medievale».

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.

IL MEDIOEVO È DAPPERTUTTO

Un Medioevo dunque triplice nella sua immagine: visto da alcuni come l’espressione del “non-moderno”, dell’oscuro, dell’apocalittico, della fame, delle malattie, dell’insicurezza; da altri come l’anticipatore di quanto avrebbe avuto compimento nell’età moderna: le città, le università, i parlamenti, le cattedrali, le banche, le cambiali , la prospettiva in pittura, il mondo cortese di cui parla Clive Staples Lewis nell’Allegoria dell’amore ; da altri ancora come l’epoca in cui disfunzioni e ingiustizie venivano sanate dal cavaliere vitale e forte che usava le saette della santa violenza per risolvere i contrasti e riportare la pace nei cuori. E il cavaliere con la sua epopea è l’affascinante e rassicurante “simbolo archetipo” di quanti, richiamandosi appunto al Medioevo, considerano questo periodo l’età della cavalleria, della tavola rotonda, della lotta fra bene e male, fra Occidente cristiano come espressione di cultura e civiltà di un’epoca e Oriente islamico come sintesi di forze demoniache e magiche da distruggere e da disperdere o, al più, da rieducare e convertire. . Sconcerto esistenziale e recupero del mito Si tratta di linee interpretative corrette e condivisibili dal punto di vista del meraviglioso e del soprannaturale, contraddittorie e indecifrabili sul piano del rigore scientifico e metodologico della ricerca, incerte e, pur nello sforzo di una voluta semplificazione, non sempre sufficientemente chiare in termini di analisi e collocazione storica. E in questo senso, nel senso soprattutto di una storia modificata, contaminata e accomodata alle esigenze di tempi successivi, si spiega il successo di tanti romanzi, di tanti film, di tante opere teatrali e televisive, di un filone insomma di testi letterari e di spettacoli nei quali si intrecciano, con l’eroico e il fantastico, i misteri del giallo, i quesiti e i dubbi della filosofia, i richiami del pittoresco e del folklore, le sensibilità culturali e i travagli espressivi dei singoli autori. E basti ricordare, a parte Il bosco oltre il mondo di William Morris, tradotto in Italia nel  , Il nome della rosa di Umberto Eco, pubblicato nel

. Alla società medievale Gino Luzzatto riconduceva «il tema dello scontro di classe»: S. Bertelli, L’ingresso del linguaggio, pp. -. . Per Stendhal, e anche per Agatha Christie, quella medievale era l’epoca degli amori appassionati, tragici nella loro frenesia. Per A. Giuliani, in Castellane annoiate e diavoli caprini, il Medioevo può anche essere visto come «vecchio armadio stracolmo di abiti di scena» da indossare per una molteplicità di ruoli. . E per il quale cfr. – oltre all’introduzione, nell’edizione italiana, di G. De Turris e S. Fusco – il volume di A. Voglino, Le radici della fantasia eroica, p. . Il richiamo al Medioevo di questo artista inglese studioso di Pugin e di Ruskin, e l’invito a riflettere sull’organizzazione del lavoro e specie sulle corporazioni di quegli anni, sono strettamente

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CAPIRE IL MEDIOEVO

 , e soprattutto Il signore degli anelli del filologo oxoniense John Ronald Reuel Tolkien. Un’opera, quest’ultima, assai venduta dopo la ristampa statunitense in edizione tascabile del  e nella quale si coglie il recupero del mito come strumento per cancellare il disagio del reale e della mancanza di certezze e come tentativo di catturarlo in forma letteraria e artistica. Come tentativo appunto – secondo i ben noti principi della scolastica, per i quali «il mezzo era preminente condizione della possibilità concreta della cosa stessa che si esprime» – di costruire nell’immaginario il ritorno dei sentimenti elementari, delle «villosità incontaminate», delle istintive passioni wagneriane. Il signore degli anelli – scrive Michael, uno dei figli di Tolkien – risponde «all’invocazione di persone di ogni età e carattere, stanche e nauseate dalla bruttezza, dall’instabilità, dai valori d’accatto, dalle filosofie spicciole che sono state spacciate loro come tristi sostituti di bellezza, del senso del mistero, dell’esaltazione, dell’avventura, dell’eroismo e della gioia, cose senza le quali l’anima stessa dell’uomo inaridisce e muore senza di lui» . Ed è considerazione che esprime certo il disagio, l’inquietudine e lo sconcerto esistenziale della società contemporanea per la propria crisi strutturale ed espressiva, ma nella quale si coglie soprattutto la sensibilità del vinto, il ripiegamento cioè sul passato e la ricerca di un’evasione come recupero di forme sentimentali e di gusto proprie dei valori morali e dei principi religiosi che si sogliono considerare caratteristici del Medioevo. Lo conferma del resto – a parte i numerosi romanzi di ambiente medievale di questi ultimi anni  e a parte le connotazioni apocalittiche e disperate dell’opera filmica di Pasolini  – il ciclo dei film che, come I cavalieri della tavola rotonda di Richard Thorpe , come il Perceval di Eric Rohmer , come Lancillotto e Ginevra di Robert Bresson , si ispirano alle gesta di re Artù. Di un re il cui mito, annota John

connessi a quelle che egli indicava come sfasature del sistema produttivo capitalistico e dell’uso scorretto delle macchine. . In cui è particolarmente riuscita la sapiente fusione fra componenti narrative e componente storico-saggistica. Nel  il regista J.-J. Annaud col medesimo titolo lo portava sugli schermi. . D. Grotta, Vita di J. R. R. Tolkien, pp. -, e L. Lipperini, Tolkien. L’opera di Tolkien, significativo punto di riferimento dei giovani del Sessantotto, è stata portata sugli schermi fra il  e il , in un film diviso in tre parti, dal regista P. Jackson. . Come, per esempio, La chambre des dames di Bourin; L’ordalia di Chiusano; I dodici abati di Challant di Mancinelli; C’è un morto in più di Peters; Sveva di Piccioli; Uno specchio lontano di Tuchman. . Si ricordano il Vangelo secondo Matteo del , Edipo re del , Porcile del , il Decameron del , I racconti di Canterbury del . . Del . . Del . . Del .

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IL MEDIOEVO È DAPPERTUTTO

Boorman, regista di Excalibur, fa parte «delle aspirazioni dell’uomo occidentale. In esso quasi tutti i personaggi si cimentano (e falliscono) in imprese grandissime e si redimono alla fine quando scoprono il loro destino. Più dell’ordine sociale fa parte della natura umana lo strano impasto di magia e fantasia, passione ed erotismo, azione e avventura» . . Poetica delle radici medievali Queste dunque le polivalenti e suggestive immagini del Medioevo. Si incarnano tutte in un forte e diffuso sentire le cui radici sono da ricercare più in quel che è stato poeticamente ricreato che in ciò che viene storicamente ricostruito. Al di là però della faticosa e immaginifica elaborazione e al di là delle inesauribili e cangianti interpretazioni, quella medievale non appare, come pure è ripetuto da tanti, “civiltà vinta”. La questione dirimente è proprio qui: questa ingannevole e diffusa convinzione di civiltà vinta è appunto l’equivoco, scrive Franco Cardini, che ha permesso «il proliferare, alla sua ombra nefasta, di tutta una composita genia di medioevi immaginari accarezzati da cultori di squallide utopie a tinta millenaristica e da tragici cavalieri dell’inattuale» . E allora questo Medioevo, nel quale affondano le radici il nostro modo di essere e di organizzarci, la nostra vocazione alla politica, la nostra cultura scientifica, il nostro modo di guardare la natura, la nostra sensibilità per l’arte e la poesia, è un contenitore in cui racchiudere le nostre angosce, le nostre inquietudini, i nostri dubbi, le nostre istintive repulsioni o i nostri spontanei desideri? È il contenitore di ruderi inerti e quindi di una prospettiva morta? O non è piuttosto un periodo storico in cui rintracciare, come in qualsiasi altro, eventuali radici della nostra identità culturale? Un periodo storico da inquadrare in un tempo e in uno spazio ben definiti e da studiare e approfondire? Un’epoca appunto che ha avuto il suo inizio e la sua fine, perché «occorrerà essere molto espliciti nel dire a chiare lettere a cosa si allude» quando si condanna il Medioevo o quando si celebra il suo ritorno. Il Medioevo infatti, scrive Umberto Eco, «o è un’epoca storica che finisce nel , o è la storia del rabberciamento continuo che la nostra civiltà va facendo di quel che accadde tra la caduta dell’impero romano e la scoperta dell’America» . . V. Attolini, Excalibur: una spada medievale?, pp. -. Impianto e significato diverso hanno La presa del potere di Luigi XIV, gli Atti degli Apostoli e Agostino d’Ippona di Roberto Rossellini, tutti e tre programmati per la televisione nel , nel  e nel . . Medievisti, p. . . Dieci modi di sognare il Medioevo, p. .

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 Il concetto e l’immagine del Medioevo nei secoli XII-XVII

Per meglio capire il significato delle polivalenti immagini in cui è ancora oggi immerso il Medioevo, potrebbe forse essere opportuno riflettere sul concetto di “post-storia”, con cui Edgar Morin indica il progressivo concretizzarsi di nuovi sistemi di cultura e di potere adeguati alle mutazioni radicali di ogni società che non è più in grado di governare se stessa . O, come con più orgogliosa modestia suggerirebbe ogni libro di generale orientamento allo studio di un periodo storico, prendere semplicemente atto che il Medioevo, anzi la sua nozione storiografica, è stata sempre – come del resto qualsiasi altra epoca – oggetto di finalità pregiudiziali che si trasmettono come ulteriori opzioni alle ricerche successive. Così, se si può dire che la storiografia ha anche essa la sua doppia lama, si può anche precisare, scriveva Giorgio Falco, che «polemica e successivo mutare di prospettive non sono una serie di capricci, di illusioni, di aberrazioni», ma «rappresentano l’attività storica nella sua intima natura, nella sua perenne vitalità» . E in tal senso, anche se una precisa cronologia può costituire solo un punto di riferimento e non un filo conduttore, è opportuno ripercorrere, attraverso una sintetica rassegna, il significato che il concetto e l’immagine di Medioevo hanno avuto nelle diverse epoche. Che vuole poi essere lo sforzo di cogliere, nel cronologico susseguirsi delle forme mentali, il tentativo di ciascuna epoca di trasferire la propria cultura e le proprie esigenze nel

. L’industria culturale, p.  e passim. Ma cfr. anche dello stesso Morin Sociologia della sociologia e La conoscenza della conoscenza. . Falco, La polemica, p. . È comunque significativo, e da non trascurare, che negli stessi anni in cui Falco scriveva La polemica e subito dopo La santa romana repubblica, in entrambe le quali rifletteva sul concetto e sul profilo storico del Medioevo, Croce con la Storia d’Europa, Chabod con Storia dell’idea d’Europa e Carlo Morandi attraverso la rivista “Popoli” si soffermavano sulle vicende dell’Europa, ne ricercavano le origini e tendevano a coglierne la coscienza. Vicende problemi e concetti per i quali si segnalano: R. S. Lopez, La nascita dell’Europa; gli atti della XXVII Settimana di Spoleto su Nascita dell’Europa ed Europa carolingia; C. D. Fonseca, Le radici cristiane dell’Europa.

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Medioevo, derubarlo quindi della sua identità, definirlo attraverso espliciti giudizi di condanna o di riabilitazione. . Il mutare dei tempi secondo Ottone di Frisinga Certo, il Medioevo potrebbe anche esprimere, nei circa mille anni che dal secolo V si spingono fino al XV, la lenta ma decisa transizione dalla civiltà classica del Mediterraneo alla civiltà moderna dell’Europa. Il passaggio cioè da una dimensione geopolitica, che aveva come centro il Mediterraneo e come confini settentrionali il Reno e il Danubio, a uno spazio che si estendeva dal Portogallo alla Russia e dall’Artico al Mediterraneo e all’Atlantico. Non sembra però che le popolazioni del Medioevo si fossero rese conto di vivere in un’età e in uno spazio diversi da quelli dell’impero. Per esse l’impero, voluto da Dio per diffondere la dottrina di Cristo, durava ancora. Lo si ricava, con abbastanza certezza, dai Sermones di Leone Magno  e lo si coglie in tanti cronisti preoccupati di recuperare il mito dell’impero romano . E convinti dunque di vivere ancora nel contesto escatologico di un quadro politico che, in virtù delle varie teorie della translatio imperii ad Francos e ad Teutonicos e delle renovationes imperii, era stato trasferito dalla Roma pagana all’universalismo cristiano e destinato a durare fino all’avvento del regno dell’Anticristo e dunque fino alla fine del mondo terreno. Al di là però di questa solidarietà fra passato e presente che dissimulava i contrasti e soffocava il bisogno di scorgerli, al di là appunto di un passato e di un futuro che assomigliavano al presente e di una suggestione di attesa e di continuità largamente influenzata dalle opere di sant’Agostino  e di Paolo Orosio , non mancano nelle fonti percezioni sia pur vaghe, sia pur ambigue, sia pur contraddittorie, di un mutamento soprattutto esistenziale avvenuto nella geografia fisica e umana

. E in particolare il Sermo , PL, LIV, col. . Leone I, morto nel , è comunque l’ultimo pontefice che “appaia inserito” nel quadro dell’antico orbis romanus. . Dopo la deposizione di Romolo Augustolo, e la proclamazione di Odoacre nell’agosto , alcuni coevi avvertirono però che qualcosa di nuovo era accaduta. Lo lascia pensare il Chronicon di Marcellino, che registra (p. ): «l’impero romano d’Occidente, che Ottaviano Augusto, primo degli imperatori, aveva cominciato a reggere nell’anno  di Roma, finì con l’imperatoruccio Romolo». . Nell’elencare le sei età in cui, in corrispondenza dei sei giorni della creazione, ritiene divisa la storia degli uomini, Agostino, nel De cathechizandis rudibus, col. , scrive che la sesta età, che è quella della nascita di Cristo, sarà seguita dalla settima che, diversa dalle altre, sarà quella del regno di Dio. . E. R. Curtius, Letteratura europea, pp. -.

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IL CONCETTO E L’ IMMAGINE DEL MEDIOEVO NEI SECOLI XII - XVII

del mondo romano dopo la diffusione del cristianesimo e dopo le invasioni germaniche. Non va certo trascurato che Paolo Diacono ritenesse opportuno modificare il sistema di datazione e sostituire agli anni dalla fondazione di Roma quelli dell’incarnazione , o che il vescovo Freculfo di Lisieux insistesse, nel Chronicon, sui risvolti delle invasioni barbariche e della caduta dell’impero  e che Ugo di San Vittore, pur legato alla trama letterale e allegorica della Bibbia, valutasse positivamente l’agire umano nel contesto evolutivo di una concezione della storia ritenuta autonoma da tutte le altre discipline, compresa la teologia . L’idea però di una transizione concepita come «catena di eventi che riempiono la vita degli uomini e dei popoli» rimaneva incerta, indefinita, condizionata da un concetto di mutamento programmato da Dio e proteso verso il giudizio universale. Un mutamento segnato appunto dallo scontro sacramentale fra bene e male e destinato all’inevitabile fine e al ritorno all’eternità. Ottone di Frisinga d’altronde, che pur avvertiva il lento, ineluttabile processo di decadenza dell’impero romano, non riusciva ad andare al di là di generiche considerazioni sul mutare dei tempi , sul persistente declino di un impero universale che esisteva ancora e che si avvicinava alla fine già fissata . Lo stesso Dante, del resto, viveva nell’attesa del giudizio finale  e Giovanni Villani, che pure sottolineava per l’Italia, e specie per le sue città, l’inizio di un’epoca nuova dopo le invasioni barbariche e il crollo dell’impero, sentiva il bisogno non solo di giustificare quell’avvio coi tempi di un percorso già segnato dalle tappe della creazione, ma di collegare la storia di Firenze a quella di Roma e della sua valenza universale . . L’epoca barbarica nella cultura cittadina La novità evidenziata da Villani è dunque la città mercantile come soggetto di storia, come angolazione di scelta, di interpretazione e di qualificazione delle vicende. La città appunto nella sua capacità e nella sua cultura, in cui Villani coglieva la forza di un processo di crescita, di uno . Historia romana, p. . . Chronicon, coll.  e -. . Come appunto nel Didascalicon, col. . Cfr. M. D. Chenu, La théologie, p.  e passim e F. Simone, La «reductio artium», pp. -. . Chronica, I, , p. ; II, , p. ; IV, , p.  e , pp. -; V, prologus, pp. -; VI, , p. ; VII, prologus, p. . . W. K. Ferguson, The Renaissance, pp. -. . Paradiso, XXX, -, p. ; Convivio, II, , p. . . Nuova cronica, specie i cc. del II e III libro, pp. -.

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CAPIRE IL MEDIOEVO

stacco col passato e di una prospettiva di mutamento. Da questo punto di vista, il cronista fiorentino ha il merito grande di aver intuito che nelle forme organizzative della vita cittadina affondava le radici il coagularsi di una inclinatio imperii come principio di un’epoca nuova, come spinta cioè di una dinamica che andava oltre le categorie di istituzionalizzazioni politiche e religiose e che coinvolgeva il modo di produrre e il modo di regolamentare i conflitti economici e sociali, di avvicinarsi alla cultura, di raffinare il gusto artistico, di intendere la natura come conturbante scenario in cui l’uomo si trovava inserito, di cogliere il senso della dignità umana, di vagheggiare la grazia e il decoro di più “cortesi” stili di vita. La città, insomma, come espressione di un modo di essere e di pensare pervaso da un’inquietudine nuova, da quella sensibilità raffinata e acuta che si coglie già in tanti poeti i cui versi incarnavano una nuova concezione dell’amore e un diverso atteggiamento verso le donne, non ancora però così consistenti da rappresentare una forza trainante per la coscienza collettiva. E in tal senso le inquietudini, i dubbi di Francesco Petrarca verso il «vulgo» costituito dagli illetterati sono emblematici di un atteggiamento che si rifugiava nella cultura antica e che prendeva atto, si legge nei Rerum memorandarum libri, di trovarsi ai confini fra due età e di percepirne a un tempo le contraddizioni e la forza dirompente . Con Petrarca – che nel Privilegium lauree del  veniva riconosciuto poeta et historicus  – non ci si trova infatti di fronte alla chiara consapevolezza di un’epoca intermedia fra due civiltà, di un’epoca appunto di decadenza e di imbarbarimento che, successiva al crollo dell’impero romano, precedeva l’età in cui il poeta operava. Ci si trova invece di fronte alla convinzione di vivere ancora all’interno di una continuità ininterrotta «ormai invecchiata quanto suol esserlo una madre annosa» e nel cui ambito si colgono però netti i segni di degenerazione e di corruzione di quanti, trascurando la cultura, privilegiavano le quotidiane contingenze e il pratico operare . Carlo IV di Boemia, egli scriveva, esprimeva senza dubbio la continuità diretta da Augusto, ma operando per fini contingenti tradiva «i compiti del suo ufficio, connessi con le grandi idee universali e imprescrittibili delle quali i classici latini sono depositari» . . I, , , dove appunto scrive di sentirsi «velut in confinio duorum populorum constitutus»: di trovarsi cioè al confine fra due generazioni. . Prvilegium letto dal senatore Orso dell’Anguillara: E. H. Wilkins, Vita del Petrarca, p. . . F. Petrarca, Africa, IX, -. . In tal senso, suggerisce U. Bosco, Francesco Petrarca, pp. -, va precisato che la nozione «di un Medioevo barbaro incuneatosi tra due civiltà non è la conquista di Pe-

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.

IL CONCETTO E L’ IMMAGINE DEL MEDIOEVO NEI SECOLI XII - XVII

. Nell’Umanesimo il profilarsi di un’età di mezzo Solo più tardi, solo di fronte alla rinnovata cultura del secolo seguente si sarebbe cominciato a delineare l’idea di una stasi, di un ristagno, di una cesura fra mondo classico ed età successiva. Non era ancora la formulazione e la delimitazione di quel periodo intermedio che poi sarebbe stato chiamato Medioevo, ma si andava già coagulando la convinzione di una spaccatura fra due epoche, fra due civiltà lungo una faglia senza dubbio artistica e letteraria, ma anche politica, perché per l’Umanesimo italiano il processo storico non si esauriva nelle sole manifestazioni culturali. Le quali però erano punto fondamentale di riferimento perché fornivano i modelli su cui costruire i sentimenti, le cognizioni, i valori della convivenza civile. Ne offrono vari esempi gli scritti e gli impegni politici di tanti intellettuali, compreso Petrarca, nelle cui opere in volgare e in latino, e soprattutto nelle lettere, sono frequenti i richiami «alle genti derelitte», alle «donne lacrimose», al «vulgo inerme / de la tenera etate» e ai «vecchi stanchi», alle «lagrime del popolo doloroso», alle «guerre civili, alle scorrerie di bande armate, alle carestie, alle pestilenze», alle istituzioni civili e religiose incapaci di garantire un’ordinata convivenza e di dare corpo alla «sospirata pace» . A un ideale cioè che era e rimaneva anelito morale e culturale, e quindi al di fuori di ogni riscontro con la concretezza politica del tempo . Una caratterizzazione siffatta del recupero umanistico del patrimonio classico – nel quale si cercava un modello di comportamenti pubblici e privati – potrebbe sembrare illusoria e contraddittoria, ma rispondeva a esigenze che emergevano dalla dinamica cittadina. «La riscoperta dell’antichità non creò la civiltà umanistica, ma fu al contrario un prodotto di quella civiltà» . Certo, la situazione politica e culturale era diversa a Milano, a Venezia, a Firenze, a Roma e a Napoli. Ma dal momento in cui le oligarchie si andavano trasformando in regimi personali e gli intellettuali in cortigiani, si concretizzavano quasi ovunque

trarca, ma dei suoi successori del secolo seguente». In tal senso va del resto letta l’Invectiva contra eum qui maledixit Italie, dedicata a Uguccione da Thiene e ora pubblicata in edizione critica con traduzione italiana e con introduzione e commento di G. Crevatin. . R. Amaturo, Petrarca, pp. -. . «Tutte l’arti che si ordinano in una civiltà per cagione del bene comune degli uomini [...] sarebbono vani», scrive N. Machiavelli, Dell’arte della guerra, Proemio, p. , «se non fussero preparate le difese loro [...]. Per il contrario, i buoni ordini, sanza il militare aiuto [...] si disordinano». . F. Gaeta, Dal comune alla corte rinascimentale, p. .

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rapporti di potere del quale gli uomini di cultura non erano partecipi, ma ornamento. Non è infatti un caso che, pur saldamente inseriti nei gangli della vita pubblica, «letterati e poeti superassero le barriere sociali senza abolirle»  e, nel marcare le scansioni cronologiche fra epoche diverse, percepissero più i connotati culturali che quelli politici. Si riallacciassero cioè ai classici con metodi di lettura  atti a suggerire più l’idea di un lungo periodo di crisi delle lettere e delle arti che l’idea di un’età di mezzo, di uno spazio cronologico preciso e chiaramente delimitato e concluso. Il termine media tempestas usato da Giovanni Andrea Bussi  soleva probabilmente indicare l’epoca successiva a quella classica e più vicina ai suoi tempi che un’età intermedia racchiusa fra limiti cronologici definiti. E in tal senso vanno letti anche i testi di più stretta attinenza con la riscoperta della Politica di Aristotele e col recupero del Cicerone politico. Leonardo Bruni, per esempio, che pur riteneva il periodo successivo al crollo dell’impero romano età di decadenza, lo considerava essenziale alla formazione delle città e della coscienza cittadina . Come Biondo Flavio, che – al di là della polemica sulla translatio da Roma a Firenze – considerava i tempi successivi all’invasione gota non età di continua e irreversibile decadenza, ma percorso necessario e quindi preparatorio al risveglio cittadino italiano . Lo stesso Machiavelli d’altronde, pur assai sensibile al fascino di Roma, spiegava la decadenza, seguita al crollo dell’impero e agli insediamenti barbarici, con il concetto ciclico dell’ascesa e del declino . Con un concetto appunto che teneva conto di quel che è effimero e di quel che è durevole nello scorrere del tempo e da ricondurre alla convinzione, radicata nello storico fiorentino, dell’immutabilità della natura umana, e quindi della necessità di acquisirne esperienza e farne, con l’aiuto degli storici antichi, oggetto di scienza: «non ho trovato intra la mia suppelletile cosa, quale io abbia più cara o tanto esistimi quanto – è chiaramente precisato nella dedica . Ivi, p. . . Cioè, scrive Machiavelli nel Proemio ai Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, I, p. , «quello che io, secondo le antiche e moderne cose, giudicherò necessarie per maggiore intelligenzia d’essi, acciocché coloro che questi miei Discorsi leggeranno, possino trarne quella utilità per la quale si debbe ricercare la cognizione della istoria». . G. Falco, La polemica, p. . . V. De Caprio, Roma, pp. -. . Decades, p. . . Istorie fiorentine, V, , p. : «Perché la virtù partorisce quiete, la quiete l’ozio, l’ozio disordine, il disordine rovina; e similmente dalla rovina nasce l’ordine, dall’ordine la virtù, da questa, gloria e buona fortuna. Onde si è dai prudenti osservato come le lettere vengono drieto alle armi, e che nelle provincie e nelle città prima i capitani che i filosofi nascono».

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del Principe – la cognizione delle azioni delli uomini grandi, imparata con una lunga esperienza delle cose moderne et una continua lezione delle antique» . Quel che dunque emerge dagli umanisti italiani non è un concetto di frattura fra diverse età, il concetto cioè di un periodo chiuso all’avvenire e intermedio fra mondo antico ed epoca in cui essi vivevano, ma la consapevolezza di un processo di decadenza artistica e culturale. Ed è significativo che Boccaccio, nella Vita di Dante, parli dell’autore della Comedia come del restauratore, dopo lungo silenzio, della poesia in Italia , e presenti Giotto, nel Decameron, come «una delle luci della fiorentina gloria», come «uno ingegno di tanta eccellenza» che aveva ridato prestigio all’arte pittorica «che molti secoli, sotto gli errori d’alcuni, che più a dilettar gli occhi degl’ignoranti che a compiacere all’intelletto de’ savi dipigneano» . Giorgio Vasari d’altronde, proprio sul terreno dell’arte, e della pittura in particolare, svalutava i secoli seguiti al crollo dell’impero romano. Nelle Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori egli spiega che il declino dell’arte, incominciato da Costantino, che segna il limite con l’antico, proseguiva ininterrottamente fino a toccare, col gotico, il più basso livello di sensibilità estetica. Solo verso la metà del secolo XIII cominciava a manifestarsi il risveglio, che da Cimabue e da Adolfo di Lapo doveva raggiungere, con Michelangelo, le più alte forme espressive accessibili all’uomo . Lungo questa direttrice tematica della decadenza artistica e culturale, cioè di una riflessione sui nessi o meno fra strutture economico-sociopolitiche e strutture intellettuali, si rincorrono giudizi, interpretazioni, angolazioni di lettura che compaiono, si illanguidiscono, si dissolvono e riaffiorano senza un preciso ordine temporale. Giudizi costruiti spesso sulla base di un equivoco che affonda le radici nel cattivo uso del termine Rinascimento. Da Vasari in avanti tale termine, spiega Franco Gaeta, «stette a significare la rinascita dell’arte, fu in sostanza un concetto kulturgeschichtlich». Usarlo in ambito diverso da quello artistico-letterario genera fraintendimenti e falsi problemi. La ricerca e l’individuazione di una specifica economia rinascimentale è destinata a procurare grosse delusioni, così come avverrebbe se si andasse alla ricerca di un’economia barocca o romantica. Altro e diverso è il discorso ri-

. «Nicolaus Maclavellus ad Magnificum Laurentium Medicem», Il principe, p. . . F. Mazzoni, Guido da Pisa interprete di Dante e la sua fortuna presso il Boccaccio, pp. -; A. Vallone, Boccaccio lettore di Dante, pp. -. . G. Boccaccio, Il Decameron, VI, , pp. -. . Le vite (Proemio e Vita di Giotto).

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volto a individuare le strutture economiche, sociali e politiche entro le quali si verificò il Rinascimento e si sviluppò il movimento umanistico: ed è il discorso che la migliore storiografia ha sempre cercato di fare [...] da Burckhardt ai giorni nostri .

Discorso che sostanzialmente coincide con quello di Chabod, per il quale la percezione di un’epoca nuova colta dal Rinascimento è da ricondurre alla consapevolezza che i coevi avevano delle strutture economiche, sociali e politiche del tempo e che si manifestava nelle forme letterarie e artistiche: appunto nell’Umanesimo come espressione culturale del Rinascimento. E infatti il concetto di Rinascimento, che «nasce a un parto con il correlativo concetto di Medioevo», poneva sì una contrapposizione fra due epoche ma una contrapposizione, egli precisa, che «diveniva palese soprattutto quando si prendeva in considerazione l’arte e le sue manifestazioni» . . Sentimento religioso, dottrina della politica e Medioevo al tempo della Riforma Più complesso, e per tanti aspetti diverso, il problema del rapporto fra Rinascimento ed epoca precedente in Francia, in Inghilterra e specie in Germania, dove posizione centrale acquisiva nel dibattito la questione religiosa o, sarebbe meglio dire, della Riforma protestante. Intorno ad essa – intorno cioè alla consapevolezza della mondanizzazione e degenerazione della Chiesa romana iniziata con Costantino – si confrontavano quanti, in uno sforzo di ripensamento e di rinnovamento, riflettevano sui problemi politici e istituzionali suggeriti e sostenuti dal progressivo concretizzarsi dei sentimenti patriottici e nazionali. In Germania l’Umanesimo, da Konrad Celtis a Ulrich von Hutten, era pervaso da un possente sentimento patriottico alimentato dal ricordo del Sacro romano impero e dalla tradizionale fierezza germanica. Influenzato dalle antiche leggende – che trovavano espressione poetica nei canti dei Niebelungen – e da testi come l’Antiquitatum variarum XVII,

. Dal comune alla corte rinascimentale, pp. -. Fondamentali comunque, sul concetto di Rinascimento e sulle origini del nome, le riflessioni di L. Febvre, Problemi di metodo storico, pp. -. . F. Chabod, Scritti sul Rinascimento, specie pp. -. Secondo G. Are, Economia e politica, p. , le teorie economiche «non possono non figurare in una ricostruzione delle forze intellettuali operanti in un determinato contesto storico: non foss’altro che come ideologie, o convincimenti capaci, quale che fosse il loro contenuto reale, d’influenzare e dirigere il pratico operare degli uomini».

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cum commentariis di Annius de Viterbo, che facevano risalire le origini di quelle popolazioni ai tempi di Noè, il patriottismo degli umanisti tedeschi si identificava più con un diffuso senso di pangermanesimo che con sentimenti nazionali. L’Opus de historiis di Hartmann Schedel , e soprattutto la Chronica di Johann Verge detto Nauclerus, nel considerare l’incoronazione di Carlo Magno come una translatio in Germanos dell’impero romano riecheggiano una dottrina che si incarnava nel concetto di popolazione germanica da considerare la più antica e, per germanicam virtutem, la più pura d’Europa, e destinata quindi a dominare il mondo: «vos prae omnibus – scrive Nauclerus rivolgendosi ai principi tedeschi – elegit Deus ut dominaremini omni nationi, vobis data est monarchia mundi» . Anche la Riforma di Martin Lutero, tesa alla rivalutazione delle origini cristiane e dello scontro fra imperatori germanici e tirannia papale, contribuiva a consolidare il sentimento nazionale tedesco e a sottolineare la differenza con un’età caratterizzata dalla preminenza della dottrina e della pratica religiosa pontificia, dal venir meno, scriveva Filippo Melantone, della Chiesa romana che, sul piano dottrinale e su quello liturgico, si era allontanata dall’insegnamento di Cristo e aveva favorito l’ottenebrarsi della fede e la preminenza papale . Dagli autori della Riforma più o meno legati a Lutero, come Kaspar Peucer o come l’inglese Robert Barnes, sembra emergere la progressiva consapevolezza che, almeno sul piano religioso e delle sue istituzioni, un’epoca si era conclusa. Quasi tutti gli storici che, in un modo o nell’altro si riallacciavano alla Riforma, miravano a liberare il sentimento religioso dalla corruzione della Chiesa mondanizzata e dalle deviazioni teologiche dei tempi barbarici, e tendevano a un rinnovamento radicale della coscienza cristiana attraverso un ritorno alle fonti evangeliche: Dissento con forza – scriveva Erasmo da Rotterdam – da quanti non vogliono che le sacre scritture siano lette nella traduzione della lingua degli umili, quasi che Cristo abbia insegnato cose così oscure che a stento pochi teologi possano intenderle, o quasi che il presidio della religione cristiana consista nell’essere ignorata. È forse meglio celare il mistero dei re, ma Cristo vuole che i suoi misteri siano divulgati il più possibile .

. Cfr. specialmente i ff. -. . Prologus, pp. , , . Cfr., a proposito del patriottismo tedesco, anzi del pangermanesimo, F. Schnabel, Deutschlands geschichtliche, p. , e H. Reiss, Motive des patriotischen, passim. . G. Falco, La polemica, pp. -. . Paraclesis, p. .

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Da questo ritorno ai testi sacri, cioè da questa lettura filologica necessaria a comprendere il genuino significato della parola di Dio, Erasmo si attendeva la rinascita dell’uomo. Una rinascita tesa ad assumere contenuti e direzioni diversi, ma sostenuti tutti da un orientamento comune, che era poi il presupposto teoretico della Riforma protestante. Di un movimento che trasformava un dibattito intorno alla Chiesa in comportamenti che investivano l’intera società degli uomini e che considerava quindi il periodo, seguito ai primi secoli del cristianesimo e a Costantino, epoca di decadenza culturale e religiosa perché «immersa nell’ignoranza barbarica, nella superstizione e nella inerzia spirituale» . . Cultura erudita del secolo XVII come strumento di riflessione sul passato Gli storici della Riforma protestante – e ovviamente quelli della Controriforma o, come ora si usa dire, della Riforma cattolica – non erano i soli, nel secolo XVI, a cogliere, sia pure in modo ambiguo, sia pure con molte contraddizioni, la dinamica di un mutamento che non si esauriva nell’ambito della Chiesa ma coinvolgeva la società. A parte i rituali delle cerimonie e delle etichette suggerite da Giovanni della Casa  e da Baldassarre Castiglione , con i quali entrambi gli autori marcavano le scansioni cronologiche fra diverse epoche, basti ricordare il De civilitate morum puerorum di Erasmo da Rotterdam. Un’opera appunto dal cui messaggio di «urbanità» emerge chiaro il senso del distacco col passato e il presentimento, se non proprio la consapevolezza, di un’epoca nuova. Di un’epoca il cui progressivo affermarsi accentuava la riflessione sul significato di un periodo non ancora esplicitamente chiamato Medioevo, ma ormai nettamente percepito nella sua configurazione cronologica e nel suo processo di dissoluzione. Mancò certo al secolo XVII la forza propulsiva di un dibattito che avesse come punto di riferimento una concezione della storia come ruolo sociale e come elemento unificatore della dinamica politica e istituzionale di un paese. Del resto, la rigida intransigenza delle monarchie assolute contro ogni forma di dissenso all’interno non era tale da favorire il concretizzarsi di una storiografia come espressione di ceti e di istituzioni, come forma di ricerca compatibile appunto col frequente sorgere

. W. K. Ferguson, The Renaissance, pp. -. . Il galateo. . Il libro del cortegiano.

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di accademie, col fenomeno del mecenatismo, che si risolveva nell’incondizionata pratica della lode e dell’adulazione, con la censura e col controllo delle tipografie. Lo stesso connubio con la geografia  e il confronto con la scienza, più che imprimere un impulso alla valutazione critica del passato, più che mettere in discussione non le idee, ma la natura stessa delle istituzioni, finivano con l’accentuare la dimensione erudita della ricerca. Per storia, precisava Cartesio, che del metodo scientifico e dell’antidogmatismo fu precursore, si intendeva, in quegli anni, «illud quod iam inventum est, atque in libris continetur» . L’erudizione comunque non si risolveva nella sola fattura di opere compilatorie e prive di spessore critico, ma nella sapiente raccolta di fonti la cui lettura, trascrizione e classificazione fornivano strumenti utili per tradurre in concreto progetti e programmi e per sollecitare una più adeguata riflessione sul filo conduttore che portava alla storia come scansione cronologica. Conoscere era allora, ed è anche oggi, scandire, classificare, dare nome alle cose secondo gerarchie spazialmente e cronologicamente organizzate. Non è qui il caso di elencare tutti gli studiosi che in Francia, in Inghilterra, in Germania, in Italia, recuperavano da archivi e biblioteche fonti narrative e documentarie e le pubblicavano, con criteri filologici analoghi alle metodologie delle scienze fisiche e matematiche, in collane che ancora oggi rimangono punto di riferimento per ogni ricerca. Basti ricordare le “storie genealogiche” e la collana “Historiae Francorum scriptores coetanei” programmate nel  da André Duchesne ; gli “Scriptores rerum Germanicarum” curati nel  da Johann Heinrich Boecler; gli Annales ecclesiastici di Cesare Baronio, la cui pubblicazione, in  volumi, si concludeva nel ; gli Acta sanctorum programmati dai benedettini di St. Germain des Près di Parigi e avviati nel  da Jean Bolland; l’Italia sacra di Ferdinando Ughelli, il cui primo volume, stampato nel , utilizzava i criteri della Sicilia sacra di Rocco Pirri stampata a Palermo nel  .

Tutti i testi elencati – e le fonti in essi raccolte – sono in latino. Un latino che non era più la lingua letteraria di Roma, il cui stile e i cui canoni

. Suggerito da J. Bodin, Methodus ad facilem historiarum cognitionem, p. a, in cui, fra l’altro, si legge: «historici geographicis descriptionibus utuntur, et historici terrarum regiones semper describunt, ut si ars ulla historico necessaria sit, profecto geographia summe necessaria videatur». . In una lettera dell’ febbraio : B. Bongiovanni, prefazione a Tosh, Introduzione, p. XI. . Continuate dall’Accademia di scienze e lettere di Parigi. . Di queste e altre “collane” si parlerà infra, CAP. .

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espressivi si erano conclusi, nella prima metà del secolo VI, con le opere di Severino Boezio. E proprio nell’uso di questo «nuovo» latino, di questa «lingua barbarica» che aveva progressivamente perduto «il colorito antico-romano» di cui parla Erich Auerbach , molti letterati e poeti avevano individuato uno degli elementi più significativi della diversificazione fra mondo antico ed età successiva. Un’età che si faceva appunto concludere con quanti, a cominciare da Petrarca, si erano riallacciati al mondo classico attraverso il faticoso recupero della sua lingua e della sua arte. In tal senso è da sottolineare che la cultura erudita del secolo XVII considerava le trasformazioni lessicali e stilistiche del latino avvenute dopo il crollo dell’impero romano con criteri diversi da quelli degli umanisti, con criteri cioè che non valutavano le trasformazioni linguistiche in rapporto al gusto e alle norme grammaticali e sintattiche del mondo classico, ma come forme espressive che rispondevano a esigenze diverse. Diverse e nuove perché, come pure testimoniato dalle lingue romanze registrate fin dal giuramento di Strasburgo dell’, rispecchiavano comportamenti e stili di vita che non erano più quelli del mondo romano e non erano ancora quelli dell’età moderna. Stili di vita ed espressioni linguistiche propri di un’epoca che Charles Du Fresne Du Cange definiva, almeno sul piano concettuale se non su quello rigidamente cronologico, della tarda antichità e dell’età di mezzo. Egli pubblicava infatti a Parigi, nel , un vocabolario in tre volumi intitolato appunto Glossarium ad scriptores mediae et infimae latinitatis, e la cui stessa presenza era allora, ed è oggi, un segnale di svolta per scandire il cambiamento. Una raccolta ragionata di fonti e disquisizioni che testimonia, attraverso l’elencazione di lemmi recuperati da cronache e carte d’archivio, l’autonomia e l’originalità della lingua ufficiale – letteraria, burocratica e cancelleresca – usata nell’Europa occidentale dopo il crollo dell’impero romano. Un vocabolario complesso, ricco di voci e impostato quasi come un repertorio enciclopedico, tale comunque da offrire, almeno sul piano lessicale, la rappresentazione di un’epoca e di uno strumento di comunicazione che non attingeva più al patrimonio della lingua parlata e si alimentava invece delle testimonianze scritte e burocraticamente compilate. Di quelle testimonianze studiate appunto da Jean Mabillon, la cui metodologia serviva allo studioso francese per impostare una scienza detta fin d’allora diplomatica. Nel  Mabillon pubblicava infatti il De re diplomatica , un testo col quale l’autore, nel fissare le norme della corretta stesura materiale e formale dei documenti, offriva gli strumenti per verificarne l’autenticità. . Lingua letteraria e pubblico, p. . . Seguito, nel , dal Supplementum. La paleografia, come emerge dal capitolo , era considerata, da Mabillon, parte della diplomatica.

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. Cellarius e la fortuna didattica del termine Medioevo Le fonti e il loro recupero diventano dunque, nel secolo XVII, fondamentale strumento di conoscenza e di valutazione del passato. Il loro studio – e in particolare la dettagliata analisi dell’uso delle parole, dell’impianto delle frasi, del processo di fattura del documento in tutte le sue fasi e in ogni aspetto giuridico, amministrativo, culturale, linguistico  e paleografico – si poneva come il frutto più maturo di un ripiegamento riflessivo che veniva a coincidere col momento in cui si prendeva via via più chiara consapevolezza di vivere in un’epoca decisamente diversa dal passato recente e da quello più lontano del mondo classico. E proprio in questo contesto – caratterizzato dalla consapevolezza che la caduta di Costantinopoli, le esplorazioni geografiche, l’introduzione delle armi da fuoco, l’invenzione della stampa, la diffusione e il consolidamento in Europa di un sistema politico di grandi Stati avevano provocato uno stacco col passato – si indicava quel passato, rappresentato dalla res publica christiana, col termine Medioevo. Un termine che richiamava certo quello di media tempestas introdotto da Giovanni Andrea Bussi nella prefazione all’edizione di Apuleio del  e l’uso più tardo di media aetas, media antiquitas, media tempora , ma diverso, nella sostanza, oltre che nella specifica espressione dell’unità lessicale e degli intrecci semantici e storici di riferimento. I termini media aetas, media tempestas ecc., che costituivano ciò che è stato definito «fenomeno linguistico di collisione lessicale» , si riferivano infatti a spazi letterari coi quali, è stato già notato da Paul Lehmann  e dai più recenti Peter Wapnewski  e Uwe Neddermeyer , si indicavano approssimative e culturali periodizzazioni. Col lemma Medioevo si esprimeva invece, almeno secondo gli autori del secolo XVII, uno stadio di civiltà distinto, autonomo e considerato nella sua interezza, cioè nelle sue riflessioni sul rapporto con Dio e nelle sue norme giuridiche, nelle sue liturgie e nei suoi assetti istituzionali e ammini. Per quel che si riferisce all’attenzione da prestare alle forme linguistiche cfr. N. Machiavelli, Dialogo intorno alla nostra lingua, pp. -: «quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sì potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro: perché quello ch’ella reca da altri lo tira a sé in modo che par suo». . L. Sorrento, Medioevo: il termine e il concetto, pp. -. . Ivi, p. . . Vom Mittelalter, p. . . Mittelalter-Rezeption, passim. . Das Mittelalter, specie pp. - e -; segue un’appendice con i riferimenti, cronologici e per autore, del lemma Medioevo.

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strativi, nelle sue ansie e nelle sue ricerche per trovare risposte alla scienza, all’etica, alla letteratura, all’arte, all’economia e ai sistemi di governo. Nell’Arca Noae, pubblicata nel  dall’olandese George Horn, si ricorreva per la prima volta al termine Medioevo per indicare uno dei tre periodi in cui didatticamente si soleva dividere la storia. Un periodo, spiegava lo stesso Horn, collocato fra l’aevum vetus, che si concludeva nel  con la caduta dell’impero romano d’Occidente, e l’aevum recentior, che iniziava dopo la caduta di Costantinopoli occupata nel  dai turchi . La fortuna di consacrare l’uso del termine Medioevo fra gli studenti, fra le persone colte, fra il pubblico non specialista, doveva però toccare a Christopher Keller, più noto col nome latinizzato di Cellarius, professore di storia presso l’Università di Halle. Nel  egli pubblicava infatti un manuale di storia antica a uso delle scuole e col quale preannunciava l’introduzione, nel sistema di insegnamento accademico tedesco, della storia divisa in tre periodi: antichità, Medioevo, tempi moderni. Nel  ristampava in edizione accresciuta l’Historia antiqua fino a Costantino, nel  l’Historia medii aevi a temporibus Constantini magni ad Constantinopolim a Turcis captam deducta  e nel  la Historia nova. Il Medioevo, che così acquisiva una dimensione sua propria cronologicamente definita, veniva racchiuso fra Costantino che cristianizzava l’impero () e il crollo dell’impero cristiano ad opera degli infedeli (), cioè nell’ambito di una periodizzazione certo arbitraria e sbrigativa come tutte le delimitazioni cronologiche, ma efficace nella sua valenza didattica perché faceva subito capire, senza andare troppo per il sottile, il processo di svolgimento della storia e la collocazione concettuale e temporale delle sue vicende. Che per il Medioevo, e per la sua identificazione in rapporto all’età successiva, erano le vicende caratterizzate dal mutare del cristianesimo e dalle sue implicazioni, anche drammatiche e laceranti, fino alla Riforma, dal progressivo illanguidirsi di una civiltà via via soffocata dal nuovo assetto dell’Europa, dai contraccolpi nel Mediterraneo della scoperta dell’America e della ricomparsa degli “infedeli”, dall’emergere e concretizzarsi della scienza della politica e della dimensione del “particolare”, dalla diffusione della stampa e dal venir meno di una “unità” culturale, dall’introduzione delle armi da fuoco che tanto offendevano Ludovico Ariosto, dal rogo di Girolamo Savonarola che anticipava quello di Giordano Bruno.

. Nella Dedicatio, pp. -, e nelle pp. , , . . Tutti e tre i volumi furono stampati a Jena. Cfr. G. Falco, La polemica, cit., pp. -.

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 Il Medioevo dopo il Medioevo

Doveva toccare alla cultura del secolo XVIII, del secolo dei lumi, il compito di una più attenta riflessione sulla storia, sulla sua periodizzazione e sul legame fra studio del passato e azione del presente. In tal senso, nel senso cioè di un nesso fra pensiero storiografico e suggestioni della vita civile, anche l’erudizione manifestava notevoli e diversificate aperture ai fermenti culturali coevi. Basti ricordare Ludovico Antonio Muratori e i suoi saggi sul cristianesimo, sulla morale, sulla filosofia, sui costumi, sui riti, sul gusto. Dal secolo XVIII emergono comunque, nei riguardi della periodizzazione della storia e dell’identificazione, definizione e valutazione del Medioevo, due aspetti diversi ma, al di là di ogni apparenza, intrecciati in modo inestricabile perché entrambi radicati sia nelle fonti che nel modo di leggerle e interpretarle. Lo dichiarava esplicitamente Muratori, specie nel saggio sul Buon gusto , quando annotava che nella ricostruzione e valutazione del passato debbano aver preminenza «l’erudizione e la filosofia», perché «nella lega loro si trova sempre l’ottimo» . Concetto del resto già evidenziato alcuni anni prima da Georg Wilhelm Leibniz nelle Accessiones historicae, nelle quali sta appunto scritto che le fonti sono lo strumento fondamentale per la conoscenza del passato, ma che la retta interpretazione degli accadimenti «non può venire dal documento in sé, ma da un saper giudicare proprio non già dell’erudito, bensì del filosofo» .

. Diviso in due parti, pubblicate rispettivamente nel  e nel . . Riflessioni sopra il buon gusto, II, p. : «e senza la loro lega o sempre, o spesso, l’ottimo ne viene a mancare». . S. Bertelli, Erudizione e storia in Ludovico Antonio Muratori, p. .

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. L’inquietante Medioevo di Voltaire, Condorcet, Robertson e Gibbon Nel secolo XVIII c’erano dunque Voltaire, Condorcet e i nomi “favolosi” degli enciclopedisti e dei pensatori d’oltralpe, c’era il “razionalismo delle interdipendenze” di Robertson e di Gibbon, ma c’era anche il continuo richiamo all’intreccio tra fonti e “filosofia” di Leibniz, di Girolamo Tiraboschi, di Antonino Mongitore e soprattutto di Muratori. Certo, nel Medioevo – definito dalla Encyclopédie storia di barbari fattisi cristiani ma non per questo divenuti migliori – gli illuministi vedevano la negazione della ragione, la longue nuit, il baratro, la «follia» in cui era precipitata l’umanità dopo il tramonto della civiltà antica. Ed è probabile, ha affermato un filologo del secolo XX, che se il Medioevo «fosse stato una persona, gli illuministi lo avrebbero trascinato alla ghigliottina» . Al di là però di epidermiche apparenze e dell’emotività di una continua polemica fra aspirazioni del presente e forme tradizionali e ritardatrici del passato, l’Illuminismo – e lo notava già Kant nella prefazione alla Critica della ragion pura del  – rappresentava l’istanza «della ragione alla quale tutto deve sottomettersi» , rappresentava cioè l’esigenza di una ricerca critica tesa all’eliminazione di dogmi e pregiudizi. In tal senso la lettura dell’Essai sur les moeurs et l’esprit des nations di Voltaire non evidenzia solo un testo rivoluzionario e di impegno di vita civile, un testo in cui per la prima volta si concretizzava un consapevole movimento degli intellettuali, ma un’opera nella quale venivano precisati i contenuti materiali, psicologici e culturali della ricerca e tracciate le linee metodologiche della moderna storiografia . Un’opera il cui spirito, ha scritto Eco, sta «nel rispondere ad ogni affermazione con l’espressione dubitativa “non è detto”». Nell’Essai c’è certo una recisa condanna del Medioevo, visto come trionfo della barbarie e della superstizione, ma una condanna consegui-

. Sorrento, Medioevo, p. . . Nella p. , nota : «Il nostro secolo è particolarmente il secolo della ragione, alla quale tutto deve sottomettersi. La religione, con l’allegare la sua santità, e la legislazione, con l’allegare la sua maestà, vogliono di solito sfuggirvi; ma allora esse suscitano contro di sé dei giusti sospetti e non possono pretendere quella giusta stima che la ragione accorda solo a ciò che ha potuto sostenere il suo libero e pubblico esame». . Su Voltaire storico vanno ancora lette le riflessioni di B. Croce, Teoria e storia della storiografia, pp. - e le considerazioni di F. Meinecke, Le origini dello storicismo, passim. Cfr. pure, specie in relazione alla coeva cultura tedesca, N. Merker, L’Illuminismo tedesco, pp. - e -. Sulla diffusione delle opere di Voltaire in Francia, fra il  e il , cfr. F. Valjavec, Geschichte, p. .

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ta attraverso un’accurata analisi che, nel porre in evidenza i caratteri negativi di un’epoca, suggerisce una metodologia sensibile alla conoscenza «dello spirito, dei costumi, degli usi» delle genti, tale cioè da offrire, nell’inevitabile diversificazione dei comportamenti, appunto dei costumi, l’immagine di continuità del processo storico. Vale a dire la saldatura fra due epoche come risultato di una ricerca in cui il Medioevo veniva acquisito, in quanto momento negativo ma necessario, al processo di sviluppo verso un’età destinata a segnare il trionfo della legge, appunto della ragione. Ed era proprio la ragione a far sì che Voltaire «penetrasse tutto il nuovo aspetto del Medioevo, che egli additasse i germi di vita nuova per cui dalla cristiana repubblica sarebbero usciti gli Stati moderni e le istituzioni rappresentative» . Sostanzialmente analoga – anzi più netta e più documentata – la lettura del Medioevo fatta dal marchese di Condorcet nell’Esquisse d’un tableau des progrès de l’esprit pubblicato postumo nel . Un libro nel quale il Medioevo, visto come espressione di una crisi politico-religiosa di un ampio arco di tempo, non chiudeva un’età, ma «segnava un trapasso, spalancava le porte verso l’avvenire» , esprimeva cioè non la staticità di un’epoca caratterizzata soltanto da elementi compositivi e strutturali che favorivano il controllo della religione sulle coscienze e le esplosioni di fede fanatiche e violente, ma lo «svolgimento dello spirito» nel cui processo vanno colti, assieme alle manifestazioni di dissoluzione e di disfacimento, i germi di rinascita. Una dialettica, in fondo, un nodo di comunicazione fra presente e passato che si trova anche in Robertson e in Gibbon e che in entrambi assume il ruolo di metafora della conoscenza: aiuta cioè, attraverso una convergenza continua fra senso politico e fonti, a vedere meglio quel che è accaduto. Nei Progressi della società europea e soprattutto nella Storia del regno di Carlo V è esplicito il richiamo di Robertson «all’imperfezione e al disordine del Medioevo» come momento in cui, al di là di ogni segno di imbarbarimento e di decadenza, negli Stati europei era incominciato a coagularsi, ad allargarsi e a consolidarsi quell’ordinamento delle leggi del quale già parlava Montesquieu . Nell’opera di Robertson è infatti vivo il richiamo a un’epoca recuperata nella progressiva dinamica dei suoi ordinamenti per la comprensione della continuità della storia, ma un richiamo che è anche indicazione metodologica perché, al contrario di Voltaire, che non citava mai le sue fonti, Robertson corredava . G. Falco, La polemica, p. . . Ivi, p. . . De l’esprit des lois, XVIII, . Ma cfr. G. Falco, La polemica, pp. -, e S. Rotta, Montesquieu nel Settecento italiano, pp. -.

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i suoi lavori con puntuali riferimenti documentari e bibliografici. Non è del resto un caso che Robertson, e specie Edward Gibbon, nel ricostruire le vicende di un periodo che prendeva le mosse dal crollo dell’impero romano facciano frequenti riferimenti alle Antiquitates e agli Annali d’Italia di Muratori. Se per Gibbon infatti scopo precipuo della ricerca era conciliare ragione e rivelazione perché, sottolineava, i problemi non erano solo politici e neanche religiosi, ma di convivenza umana e da definire quindi nel rapporto con gli altri, per Muratori – che aveva già tentato di concretizzare, attraverso il recupero e la selezione delle fonti, una metodologia di ricerca comune per cattolici e protestanti – il problema era quello di superare i «ferrei cancelli» fra storia sacra e storia profana, conciliarle entrambe nell’esercizio del giudizio critico, stimolare un più vigoroso impegno civile e saldarlo con l’elaborazione dei temi etici e filosofici del tempo . . Muratori e lo studio critico del Medioevo In tal senso, e non solo in tal senso, Muratori è da considerare il primo e più illustre rappresentante dello studio critico del Medioevo, nella cui dinamica, egli scriveva, si colgono le radici del mondo moderno. Nel suo programma di organizzazione della cultura  e in tutte le sue numerose opere – e specialmente nei cinque volumi delle Antiquitates medii aevi (-), nei “Rerum Italicarum Scriptores”, il cui primo tomo usciva nel , negli Annali d’Italia (-) – egli rivaluta il Medioevo, ma in termini polemici col seicentesco romanesimo classicheggiante, con la storiografia della Controriforma di Baronio e di Bellarmino, con quanti rimanevano estranei alle venature giurisdizionalistiche e “ghibelline” . La storia d’Italia, egli diceva, affonda le sue radici «non solo e non tanto» nell’antichità, ma nell’«età di mezzo», cioè nel Medioevo, epoca certo barbarica, iniziata colla «declinazione del romano impero», ma colta da Muratori nel continuo processo di civilizzazione, nella cultura e nei comportamenti «di rinascita», specie dopo il Mille .

. S. Bertelli, Erudizione e storia, pp. -. . Per il progetto culturale di Muratori è da leggere la lettera, senza data ma probabilmente del , che Scipione Maffei gli spediva: Epistolario, pp. -. . Cfr. – a parte i tre volumi degli atti del convegno su L. A. Muratori e la cultura contemporanea – C. Donati, Dalla «regolata devozione» al «giuseppismo», pp. -; F. Venturi, Settecento riformatore, vol. I, pp. -; G. Compagnino, Ludovico Antonio Muratori e la cultura del «buon gusto», pp. -. . RIS, vol. I, p. LXXXII; Bertelli, Erudizione e storia, pp. -.

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Le ricerche di Muratori – e in fondo anche quelle di Robertson e di Gibbon – offrono al lettore di oggi, più che l’esposizione e l’interpretazione dei fatti accaduti, lo spessore di un metodo che non si limitava a usare le fonti a sostegno delle teorie, ma teneva soprattutto in conto il «quadro di vita e di costume di una società», cioè i comportamenti degli uomini e le loro mutazioni. E a tal proposito vanno almeno ricordati i concetti ai quali, nel Buon gusto, Muratori incardinava i metodi e i campi della ricerca storica e anticipava quelle direttrici e quelle scansioni di sapere che sono oggetto di riflessione della recente storiografia: consisterebbero questi [...] nel riferire i costumi, i riti, le maniere del vestire, del conversare, del governare, del fabbricare, del navigare e simili cose; lo stato dell’arti differenti, che servono per comodo della vita, per ornamento delle città, per ricreazione onesta de’ cittadini, per offendere e difendere, e simili cose; lo stato delle scienze e delle lettere, le invenzioni, i miglioramenti, le riforme, gli abusi e i difetti delle medesime, ed altre somiglianti notizie [...]. I nostri successori [...] avrebbono somma dilettazione in vedersi davanti dipinto il mondo passato, perciocché tal dipintura appunto servirebbe loro non solamente a pascere l’onesta curiosità, ma eziandio per regola del vivere loro, e per profitto delle loro città, e per intendere molti poeti e libri de’ nostri tempi, e per moltissimi altri fini .

I “costumi”, vale a dire i modi di essere e di pensare dei singoli e delle collettività, apparivano condizionati più dall’istinto, dal sentimento, dalla metafisica che dagli ordinamenti irrigiditi della legge, più dalle abitudini e convinzioni da ognuno assemblate nel corso degli anni che dall’impetuosità meccanica e non sempre riflessiva dei tempi e dei modi che cambiano. Del resto, le vicende della rivoluzione prima, e quelle poi dell’armata napoleonica, se ben dimostrano l’incapacità della “ragione” di garantire agli uomini pace e felicità, mettono in evidenza non tanto il fallimento di un’età di speranze e di lotta, quanto l’invasività di uno stato d’animo. Uno stato d’animo aperto certo a sensibilità, prospettive e soluzioni le più varie, ma sostenuto, sia pure in un contesto di esigenze diverse, da atteggiamenti di sfiducia nella ragione, da un processo cioè di “restaurazione” inteso non come ritorno al passato e alle sue incontrollate manifestazioni di fede religiosa e politica, ma come l’avvio di un misurato e lento assestamento di quel che con l’Illuminismo e con la rivoluzione si era concretizzato senza avere però la forza, la volontà, il tempo di farsi accettare. . Riflessioni sopra il buon gusto, II, pp. -.

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. Romanticismo in Germania e concezione di un Medioevo che turbava le coscienze La coscienza riflessa di questo contesto storico e di questo atteggiamento, anche nei riguardi del Medioevo, è da ricondurre a una dinamica socio-politica ed etico-culturale espressa col termine «Romanticismo» e concretizzatasi in Europa tra la fine del secolo XVIII e la prima metà del successivo. Con un movimento appunto particolarmente ricco, complesso e vasto nelle sue manifestazioni e che, al di là di comprensibili esaltazioni e di inevitabili polemiche, prendeva le mosse dall’Illuminismo e finiva, in fondo, con l’accettarne l’eredità. Basti ricordare – tanto per indicare il paese dove, almeno sul piano storiografico, erano stati avviati progetti editoriali di ricerca come quelli dei “Monumenta Germaniae Historica” – le opere di Johann Gottfried Herder, di Justus Möser, di Heinrich Luden, di Friedrich von Raumer e di tanti altri vissuti tra la fine del secolo XVIII e il principio del XIX. Opere tutte dalle quali – a parte il diverso rigore di analisi e le specifiche considerazioni personali – emerge un comune richiamo alla valutazione dei comportamenti e delle peculiari identità dei popoli e quindi al Medioevo come epoca fondante della nazione germanica , di una nazione nel cui concetto, accanto alle spinte nazionalistiche, sembra prevalessero allora vocazioni per forme di convivenza europee capaci di esprimere valori e solidarietà cristiane. E basti pensare alla rivista “Athenäum”, fondata a Berlino nel  da un gruppo di filologi, letterati e filosofi particolarmente sensibili a talune forme poetiche manifestatesi nel Medioevo e portatrici di rievocazioni cristiane e cavalleresche; al volumetto Die Christenheit oder Europa di Friedrich Leopold von Hardenberg, noto come Novalis, pubblicato nel , in cui l’Europa è colta nella sua specificità cristiana ; al testo giuridico di Friedrich Karl von Savigny intitolato Geschichte des römischen Rechts im Mittelalter , in cui è sottolineato il processo di assimilazione fra diritto romano e consuetudini germaniche e il Medioevo è visto come una materializzata astrazione giuridica; alla Philosophie der Geschichte nella quale Friedrich Schlegel, nel ricondurre il processo storico al principio divino innato nell’uomo, considerava il Medioevo come punto di convergenza fra mondo classico e mondo cristiano, come ritrovamento di sentimenti religiosi e come elaborazione di ordine e ar-

. È da segnalare il dibattito sul significato del termine Reich in rapporto a Nation nella Germania del secolo XIX, specie dopo le guerre napoleoniche: O. Dann, Regno e nazione in Germania, pp. -. . E per il quale cfr. E. Artifoni, Il Medioevo nel romanticismo, pp. -. . Tradotto in Italia nel .

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monia in progressivo scivolamento verso l’età moderna . Un ordine e un’armonia la cui valenza veniva chiarita da Adam Heinrich Müller quando spiegava che la società medievale «non doveva essere considerata come una anarchia feudale, ma come una comunità (Gemeinschaft) organica, un corpo sostenuto dai legami del servizio, e in cui ciascuna classe aveva una funzione fissata da Dio e necessaria al bene di tutti» . . Romanticismo in Francia e richiamo al Medioevo come stile di vita e di potere Sostanzialmente analogo, tra la fine del secolo XVIII e l’inizio del XIX, il recupero culturale del Medioevo negli altri paesi, anche se da tutte le parti non giungono interpretazioni univoche. In Francia, per esempio, dove più radicale era stato lo scardinamento dell’ancien régime e più violento lo scontro fra rivoluzione e passato e poi fra Restaurazione e rivoluzione, il richiamo al Medioevo acquisiva un’accentuata valenza socio-economica, ma anche – e forse soprattutto – di impegno e di attaccamento alla continuità e all’ammonimento delle tradizioni, come emerge in specie dalle opere di Augustin Thierry  e di François Guizot , tese tutte alla ricerca delle radici di un processo di civiltà europea e cristiana che nella Francia aveva un ineliminabile punto di riferimento. Nella Francia appunto dove nel  François René de Chateaubriand pubblicava Génie du christianisme e subito dopo Les Martyrs ou le Triomphe de la religion chrétienne e dove, nel , Jules Michelet, specie nel Tableau de la France con cui apriva il secondo volume della sua grande Histoire, anticipava le linee fondamentali della geografia storica, cioè il nesso strettissimo fra comportamenti di un popolo, il cui spirito pervade ogni manifestazione privata e pubblica della vita sociale, e suolo inteso come territorio, come spazio storico e geografico, appunto come nazione nella sua unità politica, che per la Francia poteva essere già rintracciata nel regno di Ugo Capeto . Non erano comunque le opere di storiografia a offrire l’immagine, i fermenti, gli umori della nuova civiltà europea e della sua tenace ten. Falco, La polemica, cit., pp. -. . Die Elemente der Staatskunst, pp. -. . E sul quale cfr. R. N. Smithson, Augustin Thierry, specie pp. -. . E sostanzialmente pure le opere dello svizzero Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi, autore, fra l’altro, di una Histoire des Français, in  volumi. . Su questi autori e sul significato delle loro opere in rapporto al Medioevo e alle sue istanze cristiane cfr. almeno D. Doolittle, The Relations between Literature; R. Manselli, Il Medioevo come «Christianitas»; R. Barthes, Michelet; H. Martin, Michelet et l’appréhension «totale» du passé; Artifoni, Il Medioevo nel romanticismo.

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denza a riallacciarsi al modo di essere e di pensare del Medioevo. Di assimilarsi addirittura, come scriveva Novalis, alla grande epoca «in cui l’Europa era una terra cristiana, in cui un’unica cristianità abitava questa parte del mondo umanamente plasmata; un unico grande interesse comune legava insieme le più remote province di questo vasto regno spirituale» . Ad aiutare in tal senso, a fare cioè comprendere la dinamica di un’epoca nella sua interezza e le forme invasive di una mentalità che esprimeva le esigenze di un nuovo blocco socio-economico, politico e culturale che si richiamava al Medioevo, sono le opere poetiche, artistiche, letterarie, e soprattutto romanzi come quelli di Walter Scott, la cui fortuna era appunto legata a motivi fantasiosi e torbidi e a modelli di generosa e spontanea umanità. In essi – ha di recente ribadito Mark Girouard nel suo The Return to Camelot – prendeva consistenza e si dilatava il mito del Medioevo, di una civiltà appunto recuperata come espressione di sentimenti e operatività radicati nella natura dell’uomo e come fondamento del sistema socio-politico in cui la società di fine Settecento e di gran parte dell’Ottocento viveva. Vale a dire come stile di potere, e quando si parla di stile a essere importanti sono le sfumature, i dettagli, gli aspetti marginali: appunto i modi di essere e quelli di comportarsi, le fogge del vestire e il taglio di barba e capelli, le scelte degli arredi e degli oggetti d’uso, delle scenografie e degli allestimenti, le preferenze per gli impianti architettonici delle case private e degli edifici pubblici, le adesioni al gusto, al linguaggio, alle languide atmosfere dei rapporti d’amore e delle sensibilità erotiche. . Romanticismo in Italia e Medioevo come recupero del sentimento nazionale In Italia, dove non si era ancora costituito uno Stato unitario, la riflessione sul Medioevo acquisiva una valenza soprattutto politica e di recupero del sentimento nazionale. Si trattava, si legge nella Storia universale di Cesare Cantù, di cogliere, nelle vicende del Medioevo, la radice delle prospettive storiche della nazione italiana. In tal senso, da parte di letterati e filosofi, più che di storici, ci si riallacciava al controverso problema longobardo, a quello della Chiesa di Roma, alle vicende comunali. Argomenti tutti particolarmente scottanti nel clima patriottico del Risorgimento e nello scontro fra neoguelfismo e neoghibellinismo, anche se in qualcuno, come Cesare Balbo, che si definiva «monarchico cristiano», il Medioevo in-

. La cristianità, p. .

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centrato sulla nascita di Cristo come momento discriminante della continuità storica perdeva il ruolo fondante del concetto di nazionalità. Sul problema longobardo , visto nel quadro del controllo e dell’oppressione straniera in Italia – e già affrontato con giudizi generosamente positivi da Giannone e da Muratori – si soffermava Alessandro Manzoni. In varie opere, e in modo specifico nell’Adelchi e soprattutto nel Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia del  – il grande romanziere giustificava il connubio franco-papale non solo in termini di difesa delle popolazioni italiche, ma sul più ampio piano dei rapporti fra oppressori e oppressi, appunto fra chi esercitava indiscriminato potere e la «moltitudine di uomini [...] che passa sulla terra [...] inavvertita, senza lasciare traccia» . Sul nesso longobardi-Chiesa di Roma-popolazioni italiche riflettevano in molti in Italia e anche in Germania, e in modo particolare Heinrich Leo, che nella Entwicklung der Verfassung der lombardischen Städte sottolineava le dure condizioni imposte dai longobardi alle popolazioni italiche , e Carlo Troya. Il quale, nella Storia d’Italia nel Medioevo, poneva in evidenza il nesso fra conversione dei longobardi al cattolicesimo e loro lento processo di assimilazione alle popolazioni indigene della penisola e, cinquecento anni dopo, fra comuni e papato in funzione anti-imperiale. Che era poi l’interpretazione neoguelfa dell’ordinamento comunale attorno al quale si costruiva il simbolo di una civiltà anticipatrice del Risorgimento italiano e nel cui contesto va collocata da una parte la polemica contro Federico I Barbarossa e il mito della Lega lombarda e della battaglia di Legnano, dall’altra il federalismo cattolico di Vincenzo Gioberti e quello repubblicano di Carlo Cattaneo. Di Cattaneo va comunque ricordato “Il Politecnico”, la rivista scientifica di notevole livello culturale che coniugava il rigore della ricerca con la chiarezza e l’eleganza dello stile. . Lettura filologica del Medioevo: da Leopold Ranke al positivismo Il dibattito culturale in età romantica, che evidenzia senz’altro una rilettura del Medioevo nel suo spessore cristiano, portava avanti e sviluppava le riflessioni sui fermenti dell’Illuminismo e della rivoluzione, ma anche le direttrici erudite della ricerca. Le più recenti analisi mostrano in. G. Falco, La questione longobarda, pp. -; E. Sestan, Stato e nazione, pp. -. . G. Tabacco, Manzoni e la questione longobarda, pp. -; E. Artifoni, Il Medioevo nel romanticismo, cit., pp. -. . Tradotta nel  da Cesare Balbo. Su Leo cfr. G. Below, Zur Beurteilung Heinrich Leos, pp. -.

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fatti – al di là di una rottura più di linguaggio e di tono che di disintegrazione delle comuni ragioni umane e morali – una tacita e naturale convergenza su una metodologia che prestasse preminente attenzione al recupero e alla critica delle fonti. E valgano i richiami di Chateaubriand alla necessità di utilizzare, nella ricerca storica, un ampio ventaglio di testimonianze, comprese quelle letterarie e artistiche ; gli studi di Justus Möser sul nesso fra possessi fondiari e organizzazione della società e dello Stato come fondamento della nazione germanica ; la dimensione erudita e filologica di Manzoni nella polemica verso i longobardi. E ciò accadeva in un contesto in cui, negli anni appunto del Romanticismo, prendevano corpo e si diffondevano, pure fuori d’Italia, le istanze e i progetti muratoriani di recupero e pubblicazione di testi e fonti. Nel , per esempio, veniva definito, in Germania, il progetto dei “Monumenta” elaborato da Georg Heinrich Pertz e nel  si pubblicava a Parigi il primo dei molti volumi del Patrologiae cursus completus concepito e curato da Jacques Paul Migne. Leopold Ranke testimonia del resto – al di là delle insinuazioni di Burckhardt sulle sue «manie di partecipare all’alta politica» , e al di là delle dure e polemiche prese di posizione di Croce  – un impegno storiografico attento ai documenti e alla loro lettura filologica, a un metodo cioè che, se non era proprio quello posistivista attribuitogli dallo storico napoletano , esprime, senza dubbio, la teorizzazione di un modo di fare storia che stava agli antipodi di quello dettato da Hegel. È lo stesso Ranke a suggerirlo quando, a proposito dell’educazione del vescovo Gaspare Contarini, precisa per esempio che «la sua formazione procedeva come quella che è opera della natura, la quale, secondo una successione regolare, fa seguire un anello all’altro» . Ranke non era certo positivista – o, per dirla in modo più puntuale, aveva una concezione del mondo che non si risolveva per intero nel sistema proprio del positivismo –, ma nella sua storiografia, come in quella di molti suoi coevi, c’erano tutte le istanze della ricerca positivista, del positivismo appunto come metodo e non come sistema, un metodo in piena consonanza con quello delle scienze umane e sostenuto quindi dall’intreccio fra storia e natura. Sorretto cioè da progetti di ricerca sensibili ai problemi biologici, psicologici e sociologici dei comportamenti

. J. Ehrard, G. Palmade, L’histoire, p. . . Specie nel volume Osnabrückische Geschichte, per il quale cfr. E. W. Böckenförde, La storiografia costituzionale tedesca, pp. -. . D. Cantimori, Studi di storia, p. . . La storia come pensiero e come azione, pp. - e passim. . V. Del Vasto, Ranke rivisitato, pp.  e , nota . . Storia dei papi, p. .

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umani e del ritmo evolutivo delle scienze e delle tecniche e imperniato sull’utilizzazione fredda e spietata di una molteplicità e varietà di fonti, sull’immanente razionalità dei fatti colti nel loro svolgimento, dei fatti come dati naturali, necessari e inevitabili, di fronte ai quali lo storico non deve fare altro che prendere nota e spalmarli sulla carta . E a tal proposito non si può non ricordare Charles Robert Darwin, la cui metodologia di ricerca – al di là dell’accettabilità o meno del concetto di selezione naturale come conseguenza della lotta per la sopravvivenza – testimonia una forma mentis, un modo appunto di pensare che evidenzia il desiderio dell’uomo di interrogarsi su se stesso e su quel che lo circonda, e di capire quindi, attraverso osservazione attenta e rigorosi confronti, i suoi nessi con gli animali, con la natura, con i delicati e precari equilibri che ne sono alla base. Particolare impulso, nella seconda metà del secolo XIX, avevano del resto, specie in Germania e in Italia, ma pure in Francia, le ricerche erudite, le trascrizioni di fonti, le critiche attente e filologiche dei testi, le ricostruzioni minute delle vicende locali, l’insistenza sui risvolti sociali connessi alle pratiche agrarie, alle ripartizioni dei prodotti, all’andamento dei prezzi, connessi cioè non più alle sole scelte dei singoli, ma anche alle azioni delle masse. E basti ricordare – a parte talune riflessioni di Michelet sul concetto storiografico del Rinascimento come «origine dell’età moderna»  e, per altro verso, a parte gli Jahrbücher der deutschen Geschichte in cui sono meticolosamente ricostruite le vicende dell’impero germanico durante il Medioevo – in Germania i lavori di Georg Waitz, di Rudolf Sohm, di Heinrich Brunner, di Friedrich List, di Gustav von Schoenberg, di Bruno Hildebrand; in Francia, dove nel  veniva fondata la “Revue historique” diretta da Gabriel Monod, gli studi di Numa Denis Fustel de Coulanges, di Emile Durkheim, di Henri Berr, di Paul Vidal de La Blache. Studi spesso monumentali, che confermano le istanze positivistiche ma che, redatti in stile rapido, minuzioso, quasi ago che cuce e tiene assieme l’intreccio fra diverse discipline, sono anche la prova che non sempre c’è perfetta consonanza fra principi teorici

. Era in fondo la direttrice già suggerita da Hume, per il quale la conoscenza era appunto legata alla distinzione fra giudizi di fatto e giudizi di valore. Allo sforzo di tenere insieme entrambi i giudizi senza disperdere la nuda oggettività delle cose – sostanzialmente trascurata dall’idealismo – sono invece da ricondurre i lavori di Amartya Sen, nei quali si coglie l’insistenza sulla necessità di tenere presente, per la comprensione delle fasi di sviluppo di una società, sia i fatti economici che quelli etici. Come Hilary Putnam, d’altronde, che nel recente volume Fatto/Valore afferma che, per una corretta metodologia di indagine scientifica sulle dinamiche sociali e politiche, si deve tenere conto dell’inseparabile intreccio tra «fatti, verità, valori». . D. Cantimori, Studi di storia, cit., p. .

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che stanno – o starebbero – alla base di un progetto storiografico e risultati concreti di una ricerca che invece scaturisce di volta in volta dalla collocazione in un particolare contesto dei dati forniti dalle fonti. Per il positivismo, del resto, quel che contava era la dinamica dei fatti come concreto punto di riferimento di ogni teoria, che deve essere abbandonata se priva di conferma nella verifica empirica, vale a dire nelle fonti. In tal senso, nel senso cioè di un’inevitabile sfasatura fra principi generali e stesura di un testo, è opportuno leggere, proprio per gli studi di epoca positivista, il volume di Johann Gustav Droysen, Grundriss der Historik, nel quale il grande studioso, nel manifestare sostanziale diffidenza per «le idee generali», suggeriva che la storia deve «intendere indagando» e «comprendere mediante la ricerca, il confronto, l’analisi» . Diffidenza che non era però rifiuto di «una filosofia», bensì consapevolezza dei limiti di ogni ricerca, espressione di quella cautela critica di cui, in quegli stessi anni, si trova ampia traccia nella Introduction aux études historiques di Charles Victor Langlois e Charles Seignobos e, del solo Seignobos, nella Méthode historique appliquée aux sciences sociales, che testimoniano, spiegano e precisano le istanze teoriche e i risultati operativi fatti propri dall’Ecole des chartes e dall’Ecole pratique des hautes études. . Nuovo sistema di valori nel Medioevo dei positivisti e della scuola economico-giuridica In questo contesto, in cui si prestava particolare attenzione al nesso storia-natura e in cui si rifletteva sui risvolti giuridici e socio-economici dei “fatti”, il Medioevo veniva esaminato e ricostruito soprattutto nel suo impianto agrario-feudale, nel suo assetto collettivo e nel suo ordinamento istituzionale. Gli studi giuridici in particolare, al di là delle polemiche spesso furiose e aggressive fra germanisti e romanisti, insistevano sugli ordinamenti istituzionali presso gli antichi germani; sulla valenza delle persone in termini di libertà, semilibertà e schiavitù; sulle gerarchie sociali e in specie sulla nobiltà come “classe di fatto”, come “classe giuridicamente preminente” e come “classe di governo”; sui nessi fra “comunità” e monarchia; sui rapporti, nelle città, fra corporazioni artigianali e forme istituzionali dei poteri e fra città e sovrani; sulla dinamica economica nelle campagne e all’interno dei centri urbani soprattutto per quel che si riferiva, anche da un’angolazione statistica, alla produttività fondiaria e commerciale. . Pubblicato nel , poi ampliato e nel  tradotto in Italia da Cantimori.

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Proprio alla dinamica economica e all’organizzazione del lavoro, della produzione e del consumo, e al progressivo mutamento dello spessore agrario-feudale del Medioevo verso forme capitalistico-borghesi, vanno collegati, in quegli anni, gli studi di Theodor von Inama Sternegg sull’ordinamento economico e produttivo della Germania carolingia e quelli di Karl Bücher sul passaggio dall’economia cittadina romana all’economia rurale e non sempre curtense dell’età medievale, la fondazione nel , ad opera di Ludo Hartmann, della rivista “Historische Zeitschrift”, nella quale fu sempre stretto il nesso fra politica, società, economia, e soprattutto gli studi di Karl Heinrich Marx e di Friedrich Engels. In essi – specie nel Capitale e nella Ideologia tedesca – al centro dell’indagine c’è l’attenta analisi di un modo di produzione che «dalla città romana e dalla sua piccola cerchia» passava alle dimensioni e alle asprezze del Medioevo, la cui aggregazione sociale ed economica «muoveva dalle campagne» , ma nei quali, e soprattutto nel Capitale, c’è anche l’inquietante e tagliente riflessione sulla convivenza umana, sui rapporti di lavoro, sugli scontri di classe. A queste correnti metodologiche, indicate come espressione del materialismo storico, si richiamava in Germania Karl Lamprecht, uno studioso che, nelle opere di «volgarizzazione eccellente» e non specialistiche, tendeva a costruire schematismi generali su intrecci epidermici tra forme della vita intellettuale e situazioni economiche, ma che nelle monografie interpretava con rigore critico i nessi e le dinamiche fra uomini e territorio nella valle della Mosa durante il Medioevo . In Italia invece, e lo notava già Pietro Egidi nella Storia medievale , nella seconda metà del secolo XIX, accanto a un notevole accentuarsi della ricerca erudita – basti pensare alla fondazione, nel , dell’Istituto storico italiano e al proliferare, in tutta la penisola, di deputazioni e società di storia patria –, prendevano impulso le ricerche di storia economica e di istituzioni giuridiche, in nesso strettissimo con l’articolarsi della società, intesa appunto nello spessore evolutivo di cui parlava il positivismo e nei risvolti etico-politici propri del riformismo e del solidarismo. Preminente comunque rimaneva, in quegli anni, l’aspetto erudito della ricerca, portato avanti da studiosi che, formatisi soprattutto in Germania e in Austria, potevano operare in Italia anche grazie alle accresciute occasioni di incontro offerte dall’introduzione, nelle università, dell’insegnamento della storia. La prima cattedra, istituita a Torino nel . L’ideologia tedesca, cit., p. . . Studioso, d’altronde, che, in epoca di spiccate tendenze nazionalistiche, era aperto a rapporti con l’esterno e specie con storici francesi: B. Lyon, The Letters, pp. -. . A p. .

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, era stata affidata a Ettore Ricotti; per le successive in tante altre città venivano chiamati studiosi di notevole livello come Cesare De Leva, Carlo Cipolla e, specie sul piano paleografico, Bartolomeo Capasso, Cesare Paoli, Ernesto Schiaparelli, i quali tutti contribuivano, in quegli anni a cavallo fra Otto e Novecento, all’impostazione e allo sviluppo di una medievistica che esauriva le sue energie nella ossessiva caccia all’inedito e nella pubblicazione di raffinati ed esemplari edizioni di fonti, cioè in un modo asettico di fare storia, privo, in fondo, di qualsiasi problematica, della necessità appunto di integrazione nel coevo dibattito filosofico e scientifico di cui il positivismo rimaneva l’espressione più significativa dei possibili futuri sviluppi, e non solo nel campo della ricerca. Marco Tabarrini, accademico della Crusca e fondatore e direttore dell’“Archivio storico italiano”, scriveva per esempio che rinchiudere le ricerche in una rigida esegesi di fonti significava isolare la storia da tutto quel che si riferiva alla «vita civile, alle istituzioni, alle classi sociali, al commercio, all’industria» , cioè a tutti quegli aspetti che costituivano la grande forza del positivismo e che in Italia, specie per gli studi sul Medioevo, si riallacciavano da una parte allo studio del diritto e delle istituzioni, dall’altra alle ricerche sulle dinamiche sociali ed economiche. Una storia dunque preoccupata di approfondire e porre in luce, nel contesto soprattutto del feudalesimo e dell’età dei comuni, non solo il ruolo delle tradizioni germaniche e di quelle romane, e quindi delle strutture e dello sviluppo istituzionale e politico delle forme di potere, ma anche le valenze economiche e sociali connesse ai rapporti di lavoro e agli scontri di classe. Basti ricordare, fra gli studiosi di diritto, Francesco Brandileone, Carlo Calisse, Antonio Pertile, Nino Tamassia, e fra gli storici Giacinto Romano, autore, fra l’altro, di un saggio su Messina nel Vespro siciliano, e Amedeo Crivellucci, noto, oltre che per l’edizione della Historia romana di Paolo Diacono, per il fondamentale studio intitolato Del governo popolare in Firenze dal  al  e del suo ordinamento secondo il Guicciardini. Queste opere rappresentavano un salto di qualità nella ricerca erudita della storiografia italiana di quegli anni. E si capisce perché: le due direttrici di ricerca, unite dal positivismo e maturate nelle università – quella prevalentemente erudita e quella impegnata nello studio delle istituzioni e dei loro nessi con la società e con l’economia –, comportavano entrambe un’evoluzione degli strumenti di analisi tesa soprattutto a ricondurre al centro dell’indagine storiografica il rapporto fra sviluppo delle scienze e mutazione, nel susseguirsi del tempo, della società e dei

. Degli studi storici, pp. -.

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suoi ordinamenti. Il positivismo del resto, e lo si è già detto, esprimeva soprattutto un’esigenza metodologica, e anzi, per dirla con Ludovico Limentani, il metodo per eccellenza della ricerca . Un «nuovo metodo» appunto, «non già un sistema», precisava Pasquale Villari , un laboratorio in fondo, una scuola, come per esempio la scuola economico-giuridica coagulatasi in Italia fra l’ultimo decennio del secolo XIX e l’inizio del successivo. L’influsso di Antonio Labriola, sottolineato da Croce – al quale si deve in fondo l’uso e la diffusione del nesso «scuola economico-giuridica»  –, è evidente proprio nel richiamo «ai bisogni» come elementi fondanti del materialismo storico. A spiegare però la dinamica degli interessi specifici e dei metodi di ricerca aiuta soprattutto il positivismo, con le sue esigenze empirico-erudite e con le sue sensibilità economico-sociali. Con gli studiosi che ne esprimevano lo spessore si faceva infatti strada un’analisi non solo più ampia delle vicende del Medioevo, e di quelle comunali in particolare, ma più rigorosa e sistematica degli ordinamenti territoriali, dei ricambi e delle tensioni interne, degli scontri aperti fra i diversi ceti e del progressivo dipanarsi di articolazioni corporative. Certo, non sono mancate e non mancano perplessità e riserve in un impianto scientifico di ricerca che, adottando i metodi delle scienze naturali, correva il rischio di impantanarsi in forme e soluzioni meccanicistiche . Ma la scuola economico-giuridica, nella quale vanno inserite le menti più lucide del tempo, rimane un crogiuolo di esperienze e di suggestioni che, ancora oggi, continua ad alimentare la ricerca, specie per quel che si riferisce alla funzione delle masse e alle loro valenze economiche, sociali, culturali e di mentalità nel processo di sviluppo di una civiltà. La sua dinamica, dotata di un’identità indipendente da quella delle singole persone che di volta in volta ne rappresentavano la forza propulsiva, rimanda alle riflessioni di Max Weber sul «passaggio dal carisma all’istruzione, dall’eccezionalità alla routine». Basti del resto pensare alle recenti e proficue attenzioni per le opere di Gino Arias, di Romolo Caggese, di Pietro Fedele, di Gaetano Salvemini, di Giuseppe Salvioli e soprattutto di Gioacchino Volpe, la cui concezione di storia totalizzante offre un’immagine del Medioevo nel quale

. Il positivismo italiano, pp. -. . La filosofia positiva e il metodo storico, p. . . Storia della storiografia italiana, II, p. . . G. Trezza, La critica moderna, pp. - e nota. Va segnalato che nel  A. Graf, F. Novati e R. Reiner fondavano il “Giornale storico della letteratura italiana”, rivista che può essere indicata come portavoce della metodologia positivistica nella storia della letteratura.

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si concretizzava l’inizio dell’età moderna. In tal senso, nel senso appunto di un’identificazione pure cronologica e di radicamento nel territorio delle vicende del Medioevo, agli studi di Volpe va ricollegato il vivace e ampio dibattito – specie fra Henri Pirenne e Alfons Dopsch – sul passaggio dal mondo romano al medievale, sulla funzione del Mediterraneo, sulle conseguenze nell’Europa occidentale dell’invasione islamica. Il primo periodo dell’attività storiografica di Volpe – quello, per intenderci, dedicato allo studio del Medioevo e che si concludeva nel  con la pubblicazione del libro intitolato appunto Il Medioevo – incarnava una metodologia che era, in fondo, quella positivista mediata in Italia dalla scuola economico-giuridica. Una metodologia particolarmente sensibile ai nessi fra evoluzione dell’impianto istituzionale dello Stato e forze sociali che determinavano i mutamenti economici e le cui istanze di fondo sono presenti in studiosi che, come Pirenne, erano influenzati più dal positivismo che dal materialismo storico. Non è casuale che da varie parti siano stati posti su un identico piano metodologico, di vastità di argomentazioni e di finezza di giudizi, l’Histoire de l’Europe di Pirenne e Il Medioevo di Volpe. . Il Medioevo nel concetto e nel metodo dello storicismo crociano Ciò non vuole certo dire che non si siano marcate e non si continuino a marcare le differenze fra lo storico belga e lo storico italiano. Su un punto però, sul ruolo cioè fondamentale, se non proprio preminente, assegnato da entrambi alla dinamica economica e sociale dei processi storici, le riserve furono presto abbastanza consistenti ed estese. Riserve di fondo che si concretizzavano nello storicismo, vale a dire in una metodologia che riconduceva ogni conoscenza all’autonomia e al valore delle scienze dello spirito in netta contrapposizione con le scienze naturali, alle quali era assegnata solo una funzione pratica e negata qualsiasi capacità di ricostruire i comportamenti degli uomini. A questo orientamento e alla sua metodologia, rappresentato in Germania soprattutto da Wilhelm Dilthey (-) e da Wilhelm Windelband (-), si riallacciava, in Italia, dopo una prima adesione al materialismo storico di ispirazione herbartiana e labriolana, Benedetto Croce e, in fondo, anche Antonio Gramsci, che Eugenio Garin indica come «fratello siamese» del pensatore napoletano. Le linee fondamentali del concetto e del metodo storiografico di Croce – già abbastanza esplicite nel programma della “Critica”, fondata nel  col significativo sottotitolo di “Rivista di letteratura, storia e 

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filosofia” – si concretizzano in una dialettica che non nasce dalla descrizione dei fatti e dalla verifica empirica, cioè da un dato, ma dalla sintesi «fra le potenze originarie dello spirito» e i vincoli razionali e morali, cioè da un sistema di concetti extratemporali e non empirici elaborati dallo spirito, perché lo storico «nulla può apprendere del passato, nemmeno il fatto più elementare, più semplice, senza qualificarlo, senza in qualche modo precisare che cosa sia stato» . Scarsi furono comunque gli interessi di Croce per il Medioevo, visto sostanzialmente come mondo dell’ecclesia, sia pure in un’accezione non strettamente ecclesiastica. Notevoli però i riflessi sulla medievistica, nel senso che la metodologia crociana ha pesato sulla conoscenza e sulla ricerca del Medioevo col concetto di contemporaneità della storia e col fastidio e la condanna di ogni forma di erudizione come fine a se stessa . Certo, Croce, dopo il primo decennio del secolo XX, si staccava da quel che egli definiva «socialismo marxistico», ma non si può non rilevare il peso che nell’elaborazione del suo pensiero ha sempre avuto il materialismo storico, la cui dottrina, ha evidenziato Mario Tronti, introduceva Hegel in Italia . Lo suggeriva Croce stesso nella sua prefazione alla terza edizione () del Materialismo storico ed economia marxistica, quando precisava che il distacco da quel movimento di pensiero «non deve impedire di ammirare per sempre il vecchio pensatore rivoluzionario». Lo esplicitava però meglio nel , in pieno fascismo, nel saggio Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia, in cui diceva chiaramente di aver ricavato da quell’esperienza «suggestioni storiografiche» basilari e tracce metodologiche incancellabili: «e così io chiusi i miei studi sul marxismo, dai quali riportai in ogni parte definito il concetto del momento economico, ossia dell’autonomia da riconoscere alla categoria dell’utile, il che mi riuscì di grande uso nella mia Filosofia dello spirito» . Queste posizioni di Croce, al di là delle occasioni e dei processi di maturazione dai quali erano state provocate, sono parecchio importanti. Esse rivelano che il suo pensiero risente di mediazioni culturali tali da diversificarlo dall’idealismo, che è una metafisica, e da inserirlo nello sto. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, pp. -. Cfr. H. I. Marrou, La conoscenza storica, p. . . B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, pp. -, relative appunto agli aspetti negativi, o quantomeno riduttivi, dell’erudizione. . Tra materialismo dialettico e filosofia della prassi, p. . . Questo lavoro di Croce, del quale si è sempre parlato a lungo, viene qualificato da E. Garin nell’introduzione ad A. Labriola, La concezione materialistica, p. LVII, «saggio singolarissimo», e da V. Gerratana, Sulla «fortuna» di Labriola, p. , «sorprendente iniziativa editoriale».

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ricismo, che è invece una riflessione sulla struttura della società. Ma rivelano in special modo, nel processo di analisi e conoscenza storica elaborato dal filosofo napoletano, la persistenza positivista del metodo come elemento per eccellenza della ricerca, della filosofia appunto come «metodologia della storiografia» perché, precisava, «la metodologia sarebbe astratta se non coincidesse con l’interpretazione dei fatti», in quanto, aggiungeva, «qualsiasi problema filosofico si risolve unicamente quando sia posto e trattato in riferimento ai fatti che lo hanno fatto sorgere e che bisogna intendere per intenderlo» . Non si può del resto non rilevare che nella Storia d’Europa nel secolo decimonono, pubblicata nel , in cui veniva ribadito il vigore del materialismo storico , Croce utilizzava quei concetti empirici la cui validità aveva escluso dai suoi processi di conoscenza storica. In tal senso, lungo questa direttrice, sono da leggere le Storie e leggende napoletane, Vita e avventure di fede, La leggenda di Niccolò Pesce, pubblicate rispettivamente nel , nel  e nel : libri concepiti e redatti sulla base di un’articolata mediazione fra letteratura, erudizione e leggende e in ognuno dei quali, al di là dell’esplicita e polemica condanna, non si fa fatica a cogliere le istanze dell’immaginario medievale rappresentate dalle ricerche di Arturo Graf . . Analisi e conoscenza del Medioevo nella storiografia tedesca del secolo XX Non è certo possibile offrire, in questa sede, un quadro, sia pure sintetico, della storiografia medievale nel primo quarantacinquennio del secolo XX, nel periodo cioè che coincise con la crisi del positivismo e col progressivo assestarsi e articolarsi dello storicismo, ma che rimarcò, esasperandola, un’identità sempre più fragile della cultura liberale e, specie in Italia e in Germania, il definitivo affermarsi di istanze di regime. Ci si limita quindi alla segnalazione di talune delle opere più significative, sulle quali si accentrava un dibattito teso soprattutto all’individuazione dei processi di mutazione negli ordinamenti sociali, politici, religiosi, negli intrecci fra intellettuali e politica, nei rapporti e negli scontri fra diverse civiltà. In tal senso è da considerare l’opera di Pirenne, sia per quel che si riferiva alla ben nota tesi sulla disarticolazione del Mediterraneo come centro di raccordo politico, economico e cul-

. La storia come pensiero e come azione, pp. -. . Cfr. pp. -. . N. Brigati, Arturo Graf e l’immaginario medievale, pp. -.

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turale in seguito all’espansione islamica e alla conseguente cesura fra età merovingia ed età carolingia, sia per quanto concerneva le istanze culturali, etiche e politiche dell’Histoire de l’Europe come espressione, a un tempo, del processo di formazione delle «nazioni» e delle remote radici della «missione spirituale del germanesimo, chiamato a far trionfare il suo ideale di vita più elevato su quello dell’Occidente» . Diffuso era del resto in Germania, fin dagli anni di Burckhardt, il ricorso alla storia «come rifugio dell’impegno teologico prima, poi di quello politico», cioè, per dirla con Luc de Clapiers, marchese di Vauvenargues, «dello storico come politico mancato» . Lo sfaldamento del positivismo tendeva a lasciare in ombra, nella ricostruzione storica, il contesto socio-economico, sostituito, nei testi di interpretazione più radicale, col ricorso, per spiegare per esempio le origini del capitalismo, a concezioni mistico-ascetiche calviniste (Weber, Troeltsch). Al dibattito su Kulturgeschichte (storia della cultura) e Geistesgeschichte (storia dello spirito), che larga influenza avrebbe avuto sulle ricerche degli anni successivi, vanno ricondotte le potenzialità culturali e gli stimoli più significativi della storiografia tedesca di quegli anni. Fra i suoi autori si ricordano soprattutto Friedrich Meinecke, che in Weltbürgentum und Nationalstaat () coglieva il processo di formazione e di consolidamento del Reich attraverso il progressivo trasformarsi dell’universalismo medievale in Stato nazionale; Heinrich Von Srbik, che ricostruiva l’unità tedesca sulla base di una convergenza fra sviluppo delle istanze universalistiche e istanze nazionali; Percy Ernst Schramm, che nel volume Kaiser, Rom und Renovatio sottolineava gli elementi di fondo che caratterizzavano e diversificavano i concetti di impero medievale e di Stato nazionale; Konrad Burdach, che negli studi sul Rinascimento, e specie sulla Riforma, poneva in evidenza, con venature nazionalistiche, il significato culturale, oltre che politico, dei movimenti spirituali nel momento di passaggio dal Medioevo all’età moderna; Franz Arens, che prestava attenzione agli “stati d’animo” delle popolazioni e avviava ricerche sulla storia dello spirito popolare (Volksgeistesgeschichte). In questo contesto vanno collocate da una parte le ricerche sulle valenze simboliche ed emotive delle liturgie del potere di Schramm, dall’altra L’autunno del Medioevo dell’olandese Johan Huizinga: di due autori cioè i cui studi hanno avviato un rinnovamento radicale nella ricerca scientifica nel suo complesso e in quella storica in particolare. Schramm con saggi, relazioni congressuali, interventi vari e specie con l’opera

. C. Violante, La fine della «grande illusione», pp. -. . D. Cantimori, Studi di storia, pp. -.

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Herrschaftszeichen und Staatssymbolik, Huizinga con un testo tradotto in tante lingue e anche in Italia, col quale poneva in evidenza come i secoli XIV-XV rappresentassero il «tramonto del Medioevo» e non «gli albori del Rinascimento» ma col quale, nel riflettere sul concetto stesso di Rinascimento o di rinascenza, suggeriva una metodologia preoccupata di «cercare il significato di una società nel suo sistema di rappresentazione e nel posto che quel sistema occupa nelle strutture sociali e nella realtà» . . Lo spessore cristiano del Medioevo negli studi italiani del primo Novecento In Italia prevaleva invece una generale tendenza a guardare il Medioevo soprattutto nel suo spessore cristiano. E ciò, senza dubbio, nel contesto della notevole sollecitazione imposta dal modernismo, vale a dire dal movimento che rappresentava a un tempo «il tentativo di rinnovamento della Chiesa» e «la risposta della spiritualità cattolica alla nuova offensiva del pensiero laico» . E in questo senso, nel senso appunto di una duplice esigenza culturale e politica nei riguardi delle forme più retrive del cattolicesimo e nei riguardi «delle manifestazioni crescenti dell’iniziativa socialista», debbono essere lette le opere medievistiche sul cristianesimo, sui rapporti fra momenti spirituali dell’ecclesia e politica pontificia, su san Benedetto, su san Francesco, su Gioacchino da Fiore, e i cui maggiori studiosi furono Ernesto Buonaiuti, Luigi Salvatorelli e, per certi versi, Raffaello Morghen e Arturo Carlo Jemolo. Al di fuori di queste direttrici di ricerca non sembra che in quegli anni, per la storia del Medioevo, siano da indicare opere significative. Lo sottolineava del resto lo stesso Morghen, che nel , in un saggio dall’eloquente titolo La crisi degli studi medievali e l’opera dello Stato, faceva il punto sulla medievistica di quegli anni  in cui le ricerche erano marcate da metodologie crociane. È vero, è senz’altro eccessivo, dice Garin, parlare di netta egemonia del filosofo napoletano, il cui pensiero, la cui metodologia e il cui stesso modo di scrivere erano parecchio lontani dalla mentalità e dal linguaggio del mondo universitario di

. Specie pp. -, ma sempre per quel che si riferiva all’area francese, borgognona, fiamminga. Il libro del resto, dichiara l’autore a p. XXXIV, «avrebbe dovuto avere come titolo Il secolo della Borgogna». . A. Asor Rosa, La cultura, p. . . Cfr. pure W. Maturi, La crisi della storiografia, pp. -, che insisteva sulla necessità di un nesso sempre più stretto tra filosofia e filologia.

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quel periodo . E nelle sue opere, se si vuole interpretare e comprendere invece di polemizzare, non si può trascurare l’ampio riflesso del dibattito culturale europeo almeno per quel che si riferiva alla storiografia tedesca di Max Weber, Ernst Troeltsch, Georg Simmel. Nella Storia della storiografia italiana, nella quale per giunta è riservato un intero capitolo alla Nuova filologia, Croce insiste parecchio sul nesso filosofiaerudizione e sull’intreccio Vico-Muratori . E di questo sono fra l’altro rivelatori i frequenti richiami, in tante opere, all’amore per le cose particolari, concrete, e l’invito, «se lo si voleva confutare, di farlo su quelle» . I medievisti italiani non sembra però abbiano tenuto in conto quei suggerimenti e – a esclusione di alcuni storici dell’economia come Gino Luzzatto, Armando Sapori e Roberto Sabatino Lopez, degli studi sul Rinascimento di Chabod e sulla Riforma e sugli eretici di Cantimori, e di quelli di Gabriele Pepe su Federico II e su Il Medioevo barbarico d’Italia – si attardavano nella stesura di opere il cui spessore critico e la cui dimensione metodologica sono stati evidenziati con singolare acume e con piglio ironico da Ernesto Sestan. Il quale, nel , scriveva: «che ci sia una mutua collaborazione di attività, quella erudita e quella storica, nel senso che l’una solleciti l’altra e ne sia a sua volta sollecitata, non pare si possa affermare: ognuno va per conto suo» . Considerazione fondamentale, questa di Sestan, che dà il tono a un’analisi storiografica da svolgere su un piano di rigore metodologico e di stile elegante e raffinato, e sulla quale è opportuno indugiare. Indugiare e riflettere anche per quel che si riferisce alla sostanziale assenza della medievistica italiana dal grande dibattito, nella storiografia europea e specie in quella tedesca, sull’intreccio fra Regnum Siciliae e impero germanico . E in tale contesto, sul significato appunto del regno normanno e di quello svevo e della politica italiana dell’impero medievale germanico, vanno

. Considerazione che si coglie appunto in E. Garin, Cronache di filosofia italiana, specie pp. - e -, e soprattutto nel saggio Agonia e morte dell’idealismo italiano, preparato dallo stesso Garin come introduzione al volume di più autori pubblicato nel  presso Laterza col titolo La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi. . I, pp. -. . Riferito da Garin in un “colloquio” con Nello Aiello: “L’Espresso”,  marzo , pp. -. . L’erudizione storica, II, p. . Anche R. Moscati, Attualità degli archivi, p. , sottolineava uno sbandamento nella storiografia di quegli anni che faceva «segnare il passo» pure alla «produzione degli archivi». . B. Croce, Storia del regno di Napoli, pp. -: nel poco spazio riservato all’argomento precisava l’estraneità delle vicende del Regnum da quelle dell’impero germanico, mentre E. Pontieri, I normanni e la fondazione del Regno di Sicilia, p. , accennava brevemente alla «circolarità partecipativa» di quegli avvenimenti. Cfr. comunque S. Tramontana, La monarchia normanna e il mito dello «Stato forte», pp. -.

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soprattutto collocate le opere di Erich Caspar e di Ernst H. Kantorowicz pubblicate rispettivamente nel  e nel . Cioè negli anni in cui Volpe scriveva che «sarebbe da salutare con grande gioia questo rinnovato gusto per la biografia, che è storia animata per eccellenza, tendenze e sentimenti collettivi fatti persona e consapevolezza [...]. Si può ritenere una bella ricostruzione biografica come il più delicato e complesso prodotto di storiografia. Noi italiani ne siamo poverissimi» . Le opere di Caspar e di Kantorowicz sono infatti biografie, l’una, quella di Caspar, di Ruggero II, l’altra di Federico II, entrambe in equilibrio fra simpatia e distacco; tutte e due, scritte con prosa sfuggita alle contaminazioni del linguaggio accademico, si prestano a critiche, riserve e, in fondo, non piacciono, eppure invitano ancora alla lettura, stimolano la curiosità, tengono viva l’attenzione, ampliano il patrimonio di conoscenze, raffinano le metodologie di ricerca, affrontano il tema, anzi il problema dell’impero germanico in Italia, a Roma, nel Mezzogiorno e quello dell’identità dell’impero medievale e del Regnum Siciliae. . Il Medioevo di Bloch, di Febvre, delle “Annales” L’impulso più significativo allo studio del Medioevo veniva però dalla Francia. Dalla Francia che in fondo riscopriva, recuperava e rileggeva – senza però farne mai esplicito cenno – i suggerimenti delle Antiquitates, degli Annali e delle Riflessioni sopra il buon gusto di Muratori sull’opportunità di tener conto, nella ricerca storica, dei quadri ambientali e geofisici, delle organizzazioni socio-economiche, dei costumi e delle abitudini delle popolazioni, cioè di quel che, nelle società, permane e condiziona. Se ci si sofferma comunque sulla impostazione e sul ruolo della “Revue de Synthèse Historique” fondata nel  da Henri Berr , si colgono gli elementi di un dibattito che invitava alla riflessione di quel che avveniva in Francia, Germania, in vari altri paesi e anche in Italia, e non solo sul modo di fare storia aperto alle metodologie delle scienze umane. E in tal senso, nel senso di un rinnovamento alle radici della storiografia europea del nostro tempo, è da tenere presente quel che annotava Lucien Febvre nel discorso per gli ottant’anni di Berr , ma anche i

. La storiografia del dopoguerra, p. . . Sulle vicende di questa rivista e dei rapporti tra Bloch e Febvre cfr. C. Fink, Marc Bloch, pp. -,  e passim. . Hommage à H. Berr, p. . Ma cfr. pure, sempre di Febvre, H. Berr, un deuil des “Annales”, pp. -.

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legami, evidenziati di recente da più parti, con la tradizione tedesca della fine dell’Ottocento, e in specie con Karl Lamprecht, e con quella italiana della scuola filologico-positivista e della scuola economico-giuridica. Pure in Norvegia, d’altronde, le metodologie utilizzate dalla storiografia francese di quegli anni erano abbastanza note e diffuse: Giorgio Tesman, marito di Edda Gabler nell’omonimo dramma di Ibsen, è rappresentato come professore impegnato negli studi «sull’industria domestica del Brabante nel Medioevo», su un argomento la cui pubblicazione, è precisato, avrebbe «fatto rumore» . La metodologia di Bloch e di Febvre prendeva corpo in un contesto in cui l’idealismo aveva avuto scarsa risonanza e nel quale rimanevano vive le tradizioni del positivismo, i richiami alle fonti, le sensibilità per i problemi delle strutture agrarie e delle tecniche e per quelli delle stratificazioni sociali come componenti della dinamica economica, non come referenti principali dei rapporti di classe. Attenta allo studio del quotidiano, delle mentalità, delle credenze e degli usi popolari, dei costumi sessuali, dei rapporti di lavoro e dell’organizzazione della famiglia, questa metodologia, sensibile pure ai nessi con la geografia storica di Paul Vidal de La Blache, si incarnava e prendeva forma espressiva nelle “Annales d’histoire économique et sociale”, in una rivista fondata appunto da Febvre e Bloch nel , in funzione alternativa alla “Revue Historique”, con un titolo che forse inconsciamente richiamava l’opera di Muratori e con un programma che, inserito nell’editoriale del primo numero, delineava le ragioni e le istanze di un progetto culturale e di ricerca che anticipava il futuro e che sarebbe stato preminente nell’impostazione dei problemi storiografici di almeno un trentennio. Per quanto preciso e articolato, il progetto delle “Annales” si chiarisce però nei dettagli, anzi in quel nodo di problemi che erano alla base del dibattito sul senso da dare al processo culturale e alle prospettive politico-strutturali in un momento particolarmente delicato delle vicende europee in cui il disagio e le incertezze degli intellettuali erano grandi. Grandi e assai diffusi, in Francia come altrove. Febvre e Bloch tendevano a una «storia globale», cioè a «une histoire à part entière», a una storia appunto che, con approccio interdisciplinare, ricostruisse ogni aspetto privato e pubblico della convivenza umana, che fosse attenta al contesto ambientale (naturale e fisico) e a quello sociale, che tenesse conto della «cultura materiale» e di quanto poteva trovare riscontro nella circolarità delle fonti e della loro interpretazione. Ma i due fondatori e animatori delle “Annales” puntavano soprattutto a una storia rappre-

. Edda Gabler, p. .

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sentativa del nesso fra idee e fatti, fra tensioni e rassegnazioni, e lontana quindi dall’«histoire événementiel», cioè dalla storia cronachistica fatta di aride ricostruzioni di eventi e non delle dinamiche spinte di fondo che prendevano corpo attraverso mutamenti spesso impercettibili. Del resto, il problema della ricostruzione del passato non era e non è tanto quello di valutare le differenze, ma di cogliere le sfumature, le tendenze, persino i dettagli marginali, i piccoli gesti inconsapevoli ai quali faceva per esempio ricorso lo storico d’arte Giovanni Morelli per decifrare e leggere i dipinti e attribuirli ai rispettivi autori . Alla base delle “Annales” c’era senz’altro, e preminente, la caratterizzazione di un modello di ricerca che rigettava la diversificazione storicistica fra scienze dello spirito e scienze della natura alle quali veniva assegnata solo una funzione pratica, e c’era, sia pure in modo cifrato e ambiguo, lo svuotamento, e in certo senso la riconversione e l’aggiornamento, dei presupposti e delle modalità della dialettica marxista e della sua analisi strutturale in termini esclusivamente economici. Alla base delle “Annales” c’era però soprattutto un modo di fare storia sensibile anche agli strumenti di ricerca dell’antropologia, della sociologia, dell’etnologia, dell’economia, della psicologia, dell’arte e della letteratura. E c’era specialmente, e va sottolineato con forza, una capacità aggregativa della ricerca che era sì individuale, ma collocata «nel quadro di un’area collettiva» e sorretta da laboratori, istituti, collegi . . Il Medioevo oggi e le nuove direttrici di ricerca Lungo queste direttrici si sono sostanzialmente sviluppati il dibattito e l’impegno operativo di ricerca della medievistica dopo il . Un impegno operativo diffuso in estensione e in profondità e un dibattito tormentato, talvolta sommessamente polemico, sempre ancorato alla ricerca di un modello di storiografia che, al di là di specifici argomenti, finiva col rivelare quel malessere di fondo che, ormai da tempo, sembra marcare la cultura in tutte le sue varie e complesse manifestazioni e che ha fatto persino scrivere a un intellettuale come Francis Fukuyama – che è stato pure consigliere del Dipartimento di Stato americano – un saggio sulla “fine della storia”, vale a dire sulla conclusione di ogni idea di antagonismo e di differenza, cioè dell’azione, appunto: della storia. Un sag-

. C. Ginzburg, Miti, emblemi, spie, pp. -; N. Brigati, Arturo Graf, p. ; G. Previtali, A propos de Morelli, pp. -. . M. Sanfilippo, Il Medioevo, p. .

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IL MEDIOEVO DOPO IL MEDIOEVO

gio nel quale è recuperato quel concetto «del definitivo compimento delle vicende umane appiattite su comportamenti comuni che non lasciano spazi a discordanze» e che, con riferimento a Hegel, era stato formulato da Alexandr Kojève . In tale contesto di disagio culturale e di una storia che tende alla ricerca di continua relazione e tensione fra idee e fatti, va subito evidenziata l’influenza che sulla storiografia – ma non solo sulla storiografia – ha esercitato pure in Italia la scuola delle “Annales”. Richiamandosi a questa metodologia , alle suggestioni della scuola economico-giuridica e alle istanze del marxismo , si è insistito, specie negli anni CinquantaSessanta, sulle dinamiche cittadine e soprattutto rurali. Guardate, tali dinamiche, non tanto e non solo in termini di nesso città-campagna, ma nel riferimento continuo, per le città, all’aspetto topografico-urbanistico e a quello demico-politico; per le campagne, al modo di essere e di pensare di quanti, all’agricoltura e alle sue tecniche, legavano la propria esistenza. In tal senso ha preso via via corpo e si è sviluppata un’attenta e documentata riflessione sui fatti della vita quotidiana, sulla mentalità delle popolazioni di ogni stratificazione sociale, sulle credenze, sulle superstizioni, sulle usanze alimentari, sull’organizzazione del lavoro, sulle strutture familiari, sui costumi sessuali, sul privato, sull’individuale, sulla condizione femminile e sul ruolo da essa avuto anche nel Medioevo. Questo appare come un’epoca che la storiografia incomincia a guardare da angolazioni diverse da quelle precedenti, anche per quel che si riferisce ai limiti cronologici, da taluni spinti fino all’inizio dell’età industriale, e del cui contesto cerca di cogliere la dimensione dell’ambiente fisico e l’interezza del vivere e dell’operare dei singoli e delle collettività. Un Medioevo appunto non più guardato attraverso la distinzione, tanto cara allo storicismo tedesco, fra scienze della natura e scienze dello spirito, ma colto nella dinamica di un nesso strettissimo fra uomo e natura, e da studiare quindi nella “lunga durata” e col ricorso a una metodologia alla cui base non può che esserci l’unità del sapere, quella che sul piano didattico è chiamata interdisciplinarità. Il nucleo centrale della recente . Cfr. su ciò D. Auffret, Alexandre Kojève. La philosophie, l’état, la fin de l’histoire. Per il  come terminus a quo per una riflessione anche sulla storiografia, cioè come valore epocale di un anno che, specie in Italia e in Germania, marcava il crollo di illusioni che lasciavano tracce non indifferenti «sulle abitudini di vita e nei processi intellettuali», cfr. F. Tessitore, Note su teorie e metodi della cultura storica, pp. -. . Che in Italia però aveva lontane radici chiaramente articolate da Muratori e mai in fondo venute meno, e dove quindi si era sensibili, specie nella medievistica, a prospettive di ricerca sostenute da quel che Tabacco indicava come «processo di metabolizzazione della lezione di Bloch». . D. Coli, Idealismo e marxismo, pp. -.

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storiografia sul Medioevo – e sul modo di intenderlo – riflette dunque l’esigenza di conoscere l’uomo nelle sue caratteristiche somatiche, nei suoi rapporti con la natura che lo circonda e col proprio corpo, nei suoi comportamenti con gli altri, nei suoi sistemi di aggregazione e convivenza sociali, economici, istituzionali, politici. Ci sono, evidentemente, nelle istanze e nei fini della ricerca, posizioni parecchio articolare e differenziate, ma sulle direttrici di fondo tracciate la medievistica recente sembra sostanzialmente concorde. Consapevole in gran parte del nesso strettissimo tra fonti e loro interpretazioni, della mancanza cioè di oggettività dei fatti, più che dare risposte, che non possono del resto essere univoche, ha posto domande. E anzitutto sulle ragioni delle domande, cioè sulle istanze che stringono in un solo nodo l’ambiente e il modo di pensare di chi pone le domande e i contenuti, i criteri, i contesti delle domande stesse. Che è poi il problema dei nessi fra processi culturali e angolazione di lettura delle fonti . Il problema delle crociate, per esempio, e del rapporto coi musulmani ha avuto, nella storiografia delle varie epoche, diverse letture e interpretazioni, legate tutte all’idea che di volta in volta gli storici si facevano del modo con cui quel che si pensa e si dice influisca sull’operare. Nel recente volume intitolato L’invenzione delle crociate, Christopher Tyerman scrive che le principali narrazioni della prima crociata furono redatte da storici che imposero la propria visione degli eventi, illustrarono le loro interpretazioni didattiche con la testimonianza primaria dei testimoni oculari mescolata alla loro immaginazione. Anche i presunti racconti di questi testimoni oculari furono attentamente costruiti. Questo costituisce un modello di quasi un millennio di osservazioni e studi sulle crociate che ha influenzato non solo l’interpretazione dell’evidenza, ma anche la sua stessa natura .

Al punto che l’attento lettore di oggi potrebbe anche avere l’impressione che le crociate, più che una realtà di cui il Medioevo ha avuto «coscienza chiara e unitaria», siano «l’autorappresentazione delle diverse società che

. Al di là di tutte le possibili e giustificate interpretazioni, non può essere dimenticato che la percezione della realtà è frutto non del nostro essere passivi, ma della nostra dinamica e multiforme operatività (immaginario, fantasia, bisogno di concretezza ecc.). In tal senso, l’oggettività non può che essere un pio desiderio. E ha senz’altro ragione il fisico Werner Heisenberg quando scrive che «le condizioni in cui si attua un’osservazione modificano l’osservato». Ed è in fondo questo il motivo delle molteplici interpretazioni delle vicende accadute. . L’invenzione delle crociate, p. .

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IL MEDIOEVO DOPO IL MEDIOEVO

ne hanno rivisitato il ricordo»; cioè, ha rilevato Jonathan Riley Smith, «delle contingenze dettate dal mutevole contesto occidentale» . Ogni ricerca ha necessità di idee generali per essere portata a termine, e non solo di conoscenze tecniche, ovviamente fondamentali, per affrontare correttamente ciascuna questione. Su questa base, sulla base cioè di distinzioni fra azioni che Weber indicava razionali secondo il valore e razionali secondo lo scopo, la storiografia più recente ha riletto le testimonianze sulle crociate, e non ultime le cronache di Anna Comnena, di Jean de Joinville, di Rutebeuf. E nei dettagli e nelle sfumature di un’analisi documentaria in cui posizione centrale assumeva la questione dei valori e dei fini, si sono colti segni, o se si vuole indizi, che invitano a riflettere su quel che Le Goff ha indicato come «bilancio delle crociate» . A riflettere cioè sui principi in base ai quali le crociate venivano giustificate e quindi legittimate e accettate, e poi sui metodi, sui costi, sui vantaggi o sui guasti e fallimenti religiosi, politici, economici, culturali, vale a dire su problemi che pongano in evidenza il significato delle crociate , la cui dinamica è da ricondurre sia alla fine dell’unità religiosa, culturale e politica del Mediterraneo e al complesso e tormentato rapporto fra mondo cristiano, via via sempre più svuotato nelle sue peculiarità aggreganti, e mondo musulmano, in cui etnie berbere e turche andavano prevalendo sul predominio arabo, sia alla natura dell’impresa, alle sue ragioni religiose ed economiche, ai costi umani, politici, culturali . Confermano ciò, a parte le violenze e i massacri, legittimati di fatto dal clima e dal metodo di conduzione della guerra, l’accentuarsi del furore e dell’intolleranza fra cristiani e musulmani, la frattura insanabile fra Chiesa di Roma e ortodossia greca, l’inasprimento, in Europa, dei contrasti fra le nazioni nascenti, il diffondersi perverso delle pratiche delle indulgenze, la precarietà e brevità del possesso di Gerusalemme, perduta nel , la coralità invasiva dello spirito di crociata come costante di lunga durata. La quale, lungi dal nascere da calcoli strategici modificabili in base a interessi contingenti, prendeva corpo da istanze e

. The State of Mind of Crusaders, pp. -. M. Oldoni, Culture del Medioevo, p. , annota: «la funzione della storiografia sulla crociata è quella di avviare, nella mentalità dell’Europa medievale, un registro di sensibilità all’altrove». . Il Basso Medioevo, pp. -. . Rimangono ancora testi fondamentali sia L’idea di crociata, negli atti del X Congresso internazionale di scienze storiche, sia P. Alphandéry, A. Dupront, La cristianità e l’idea di crociata, con l’ampia bibliografia utilizzata e indicata. È comunque da leggere F. Cardini, Il territorio del sacro, per i nessi fra Dupront, crociate, pellegrinaggio. . J. Flori, Pierre l’Ermite, pp. -, fa un calcolo delle enormi perdite e sofferenze umane dovute alla crociata.

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investimenti ideologici di sacralizzazione dell’uomo in armi che, in qualsiasi occasione, «combatteva per la causa della Chiesa» . In questo senso Joshua Prawer, storico israeliano di formazione francese, considera la crociata «prima autentica espressione di uno spirito di colonizzazione dell’Occidente» . Franco Cardini, del resto, che già nel volume dedicato Alle radici della cavalleria medievale aveva sottolineato il nesso strettissimo fra cavaliere e «soldato di Cristo» , dilata, anche in termini spazio-temporali, la valenza storica delle crociate. Le crociate, scrive, non furono una serie «di singoli episodi militari risoltisi, tra XI e XIII secolo, in una potenziale sconfitta dell’Occidente», ma un movimento la cui onda d’urto si allungava fino al secolo XVIII, quando i turchi «cessarono di costituire un pericolo per l’Europa» . E anche da questo punto di vista l’immagine delle crociate – che ha segnato profondamente le vicende europee e la loro storiografia – si intreccia col dibattito sul concetto di Medioevo e sulle sue diverse interpretazioni. Al centro del dibattito storiografico sul Medioevo nella seconda metà del secolo XX stanno però i problemi socio-economici, letti soprattutto nel contesto della cultura materiale e dei nessi con l’ambiente fisico di riferimento, le questioni sull’organizzazione del lavoro, sulla vita quotidiana, sull’immaginario, sulle mentalità. Argomenti che, pur se in apparente fase di esaurimento, rimangono lo zoccolo duro di ogni tipo di indagine, anche per le ricerche più specificamente rivolte allo studio dei meccanismi istituzionali, dell’organizzazione del territorio e delle forme di potere, cioè degli argomenti che con maggiore frequenza sembrano oggi richiamare l’attenzione di quanti sono interessati a definire – in termini dinamici e non statici – gli apparati attraverso i quali si concretizzava l’esercizio di autorità. Elencare qui gli approcci, le tecniche, le letture, le interpretazioni di questa produzione storiografica assai consistente per numero di volumi e di saggi pubblicati, per raffinatezza critica e per prestigio scientifico degli autori allungherebbe il capitolo del libro. Prima di chiudere l’argomento è forse più rilevante sottolineare che non sempre da tali ricerche sembrerebbe emergere, in modo chiaro ed esplicito, la consapevo-

. Id., Cavalieri e cavalleria, p. . Cavalieri però che combattevano pure «per la conquista» e «per il bottino» (G. Miccoli, Dal pellegrinaggio alla conquista, pp. -). . Colonialismo medievale, p. . . Passim. Cfr. comunque quel che scriveva Bernardo di Chiaravalle, De laude novae militiae, , col. B: «il soldato di Cristo quando uccide i malfattori non è omicida, ma uccisore dei malvagi», in quanto, si precisava in tante altre fonti – H. Maissonneuve, Etudes, p.  –, i cattivi vanno uccisi «correctionis et iustitiae causa». . F. Cardini, La prosecuzione delle crociate, p. .

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IL MEDIOEVO DOPO IL MEDIOEVO

lezza del rischio di teorizzazione e quindi della necessità, per sottrarsi senza equivoci alla costituzione di modelli teorici e dare un carattere dottrinario e astratto al proprio lavoro, di evitare l’isolamento dell’oggetto di indagine. Della necessità cioè di ricondurre le ricerche sui rapporti di potere e sulle sue forme istituzionali al nesso strettissimo con la dinamica quotidiana di un territorio colta in tutte le sue articolazioni sociali, comprese le stratificazioni “residuali”, quelle che Bronislaw Geremek indica come «marginali» . E infatti «questa fluidità della ricerca fra la ricostruzione dei disegni e degli eventi politici e il piano delle istituzioni e fra il piano istituzionale e quello sociale ed economico, risponde – avvertiva già Tabacco nel  – a un’esigenza di concretezza che, valida per ogni periodo storico, è viva soprattutto nello studio di età come il Medioevo in cui fluida è la vicenda stessa delle istituzioni» .

. Les marginaux parisiens, pp. - e passim, chiamati «stratificazioni residuali» da M. de Certeau, L’absent de l’histoire. . Lo studio delle istituzioni, p. . Esigenze di concretezza sulle quali insisteva del resto Cantimori che, specie in Conversando di storia, metteva in guardia dalle «tentazioni», anzi dalle «seduzioni» della filosofia della storia.

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 Letteratura storica

Al di là dei vari modi di intendere il Medioevo, e al di là delle diverse metodologie di approccio, quanto fin qui esposto pone in evidenza il bisogno, insito nell’uomo, di conoscere il passato, e sottolinea, soprattutto nel vivere quotidiano, la consapevolezza presente del passato, l’esigenza cioè di una ricostruzione del passato che muova dagli interessi pratici, culturali e psicologici di ogni giorno, vale a dire dall’insopprimibile bisogno di penetrare nel profondo del contesto in cui si vive. Su tale angolazione di lettura e di ricostruzione del passato si possono certo avere perplessità e dubbi, e sulla base di talune sofisticate considerazioni si può anche arrivare a conclusioni opposte, un fatto è però certo: non si può non prendere atto di una domanda sempre ricorrente e di un problema che, da qualunque parte lo si guardi, rimane attuale, ineludibile: perché ci si occupa di talune cose e non di altre? Perché, nella storiografia di ogni epoca, sono stati costanti i nessi strettissimi fra argomenti di ricerca e problemi presenti del vivere quotidiano? Fra desiderio di conoscenza ed emozione profonda che dà non tanto l’esistere di per sé, quanto l’intelligenza dell’esistere che è generatrice di speranze, di dubbi, di ansie? Recuperare la memoria è un esercizio di ricostruzione selettiva. Si raccolgono le testimonianze, si scelgono in base a una data sensibilità, in base a una certa visione del mondo, in base alle riflessioni che di volta in volta esse suscitano, e le si utilizza per ricostruire l’oggetto indagato, dargli un senso unitario e compiuto nella consapevolezza che il passato, quel risvolto particolare del passato, ha qualcosa in comune col presente e col futuro. Lo storico infatti, scriveva Henri Pirenne, non è un raccoglitore di cimeli, un antiquario: «se fossi un antiquario non avrei occhi che per le cose vecchie, ma sono uno storico. Ecco perché amo la vita e vivo intensamente il presente».

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CAPIRE IL MEDIOEVO

. Raccolta di testimonianze e ricostruzione storica La storia non può quindi esaurirsi in una semplice raccolta di testimonianze, perché in tal caso sarebbe pura erudizione. L’erudizione è però momento insopprimibile dell’indagine storica, il primo passo appunto di ogni ricerca. Fra i due momenti – raccolta delle testimonianze e ricostruzione storica – non vi è però differenza cronologica, ma stretta relazione, che rende entrambe le funzioni complementari come due facce di una identica moneta. Nessuno storico nel proprio lavoro procede in siffatto modo, prima cioè raccoglie le testimonianze e poi le analizza, le studia e, interpretandole, le utilizza. Come potrebbe infatti raccogliere e scegliere se non sapesse cosa scegliere, se non avesse chiaro quel che vuole? Nel momento stesso in cui cerca e raccoglie, egli interpreta e continua a cercare perché ha già interpretato, e interpreta ancora perché il progredire della ricerca e l’avanzare della raccolta delle testimonianze a loro volta modificano e controllano l’itinerario. Questo apparentemente complesso, ma in definitiva semplice problema, veniva messo in luce da Droysen quando precisava che la ricerca storica è un «forschend zu verstehen», cioè un comprendere indagando . Questo comunque è l’aspetto teorico dell’indagine, dell’elaborazione di un fatto e della sua costruzione. Quel che qui si vuole invece esporre è il momento erudito della ricerca e le speciali norme tecniche che lo regolano. Considerato infatti che la storia si fa con quanto nel tempo è stato scritto sui vari argomenti e con le testimonianze, è necessario che si indichi come e dove recuperare tutto quel che si deve utilizzare. E che si elenchino e descrivano, anche nella forma e consistenza materiale, questi indispensabili strumenti di informazione e di trasmissione. Erodoto, del resto, si era già reso conto che per narrare e comprendere le vicende dell’uomo bisognava raccogliere grande quantità di materiale e che per fare ciò era necessario andare in giro, interrogare le persone, recuperare, leggere, interpretare tutto quel che poteva avere attinenza con ciò che si intendeva raccontare . La narrazione dei fatti, l’attenzione per i dettagli, erano il risultato di quanto si era raccolto, analizzato, interpretato, di quanto appunto si era vagliato in tutte le possibili valenze e in serrato confronto con chi di quel problema si era occupato. Cioè con

. Historik, p. , nota  e passim. . Le storie, I, , p. , e , p.  e passim. Nel capitolo , p. , il grande storico annota: «io per parte mia non vengo a dire a proposito di questi fatti che si siano svolti così o in altra maniera, ma dopo aver segnalato colui che, a quanto io so personalmente fu [...], procederò seguitando il mio racconto».

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LETTERATURA STORICA

la bibliografia sull’argomento o, come la chiamavano i tedeschi nel secolo XIX, con la letteratura storica. Lorenzo Valla d’altronde, in polemica col notaio bolognese Benedetto Morandi, già nel secolo XV aveva insistito sulla necessità di disporre di molteplici informazioni e di porsi sempre, anche nei confronti di testimonianze e interpretazioni consolidate dalla tradizione, in posizione critica . . Le biblioteche Descrivere «quel che si vede passi, ma vedere quel che si deve descrivere, ecco il difficile» . E in tal senso, scelto un argomento di studio, è necessario incominciare subito la raccolta di quanto, su quell’argomento, è stato scritto, anche se è diffusa, specie fra gli storici francesi, la convinzione che è meglio cancellare, azzerare gli studi esistenti e andare direttamente alle testimonianze, senza tenere conto di quanti quei problemi hanno già affrontato e di quanti quelle stesse testimonianze hanno magari consultato, analizzato, studiato. C’è a tal proposito un bell’articolo di Ovidio Capitani pubblicato tanti anni fa in un fascicolo degli spoletini “Studi medievali” in cui, in garbata polemica con Marcel Pacaut e con la “Revue historique”, si evidenzia l’abitudine degli storici francesi di non leggere – o piuttosto di far finta di non leggere – quanto in Italia veniva scritto . La ricerca e puntualizzazione della letteratura storica è invece indispensabile perché permette di avere subito un quadro dello status quaestionum degli studi sull’argomento, consente cioè di prendere coscienza critica di quanto acquisito dalla storiografia recente e meno recente, impedisce di incorrere in inutili ripetizioni, suggerisce quali ulteriori possibilità di sviluppo offre quella ricerca. È opportuno quindi – si direbbe necessario – che ogni progetto di studio cominci dalla letteratura storica, cioè dalla ricerca sistematica delle pubblicazioni relative all’argomento che si intende prendere in esame. La letteratura storica è l’insieme degli scritti recenti, antichi, più antichi sui quali direttamente o indirettamente vengono studiati i problemi attinenti a un dato argomento. Per conoscere quanto su un dato argomento si è scritto si ricorre alla bibliografia che, appunto dal greco biblíon (libro) e gráfw (scrivo), è la scienza che indica, raccoglie e a vol-

. G. Ferraù, La concezione storiografica del Valla, pp. - e nota . . Febvre, Problemi di metodo storico, p. . . «Italicum est, non legitur», pp. -.

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te descrive, più o meno succintamente, libri, opuscoli, articoli di riviste. Esiste a tal proposito – la prima opera del genere è forse la Bibliotheca universalis redatta nel  da Conrad Gesner  – tutta una serie di repertori bibliografici generali o limitati nel tempo e nello spazio, compilati con sistemi vari e con intenti diversi, ma tutti con lo scopo di fornire le indicazioni indispensabili al lavoro scientifico. Questi repertori – e le opere in essi indicate – sono collocati, in genere, nelle biblioteche, la cui consistenza e il cui aggiornamento in ogni direzione è il primario ed essenziale punto di riferimento per un reale sviluppo degli studi e della civiltà intera. Jorge Luis Borges immaginava il paradiso come una biblioteca, come un labirinto di scaffali straripanti di volumi. In un recente convegno – tenuto a San Gimignano il  e  maggio  e organizzato dal locale Centro di studi sul classicismo e dall’Istituto italiano per gli studi filosofici di Napoli – è stata messa in evidenza la duplice natura delle biblioteche: quella istituzionale e quella di raccolta del materiale bibliografico, ma sono stati soprattutto sottolineati le funzioni formative delle biblioteche e l’avanzamento della cultura nel territorio in cui sono collocate. Non esiste infatti lavoro intellettuale senza biblioteche che rappresentano, fra l’altro, una costante verifica delle cose che spesso si dicono con tanta leggerezza. Tutti ricordiamo del resto, nella Tempesta di Shakespeare, le parole rivolte da Calibano al proprio servo Stefano durante il colpo di Stato contro Prospero: «prima di tutto ricorda di levargli i libri: senza libri è uno sciocco come me» . Biblioteca, il cui nome deriva dal greco biblíon (libro) e qh´kh (deposito), è la sede dove si raccoglie il materiale a stampa, e spesso anche manoscritto, ordinato secondo criteri che non è qui il caso di indicare ma che rispondono, almeno nelle linee fondamentali, a quelli suggeriti, nel secolo XVII, dal cardinale Federico Borromeo al bibliotecario dell’Ambrosiana, aperta nel  . Criteri, quelli del cardinale di Milano, ispirati ai principi basilari di tenere «rapporti con gli uomini più dotti del tempo», di indicare «agli studiosi i libri che potessero essere loro utili», di ordinare che a tutti, «fossero cittadini o forestieri, si desse comodità e tempo di servirsene secondo il bisogno», di esporre «i libri alla vista del pubblico e darli in lettura a chiunque li chiedesse». Principi tut-

. Naturalista ed erudito svizzero ( marzo - dicembre ) è soprattutto noto per una delle prime classificazioni delle piante fondate sui caratteri degli organi di riproduzione. . In Tutte le opere, p. . . L’Ambrosiana veniva aperta pochi anni dopo la Bodleiana, inaugurata a Oxford nel .

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.

LETTERATURA STORICA

ti, come si vede, di grande attualità e non sempre oggi applicati in ogni biblioteca . Principi che si possono leggere anche nel capitolo XXII dei Promessi sposi, uno dei capitoli che lo stesso Manzoni «autorizzava a saltare» e nel quale, nel raccontare la vita del cardinale, il grande romanziere riporta appunto le regole fissate dal fondatore dell’Ambrosiana «per l’uso e per il governo della biblioteca». Regole nelle quali, è precisato, «si vede un intento d’utilità perpetua non solamente bella in sé, ma in molte parti sapiente e gentile molto al di là delle idee e delle abitudini comuni di quel tempo» . Numerose sono oggi le biblioteche presenti nel mondo, e talune antichissime perché antico è il bisogno di dotare la società di raccolte di libri. Fra le tante ricordiamo per prima quella famosa di Alessandria, fondata nel  a.C., incendiata nel  d.C. dall’imperatore Aureliano e ora, con una dotazione di . volumi di storia del Mediterraneo, ricostruita a pallida immagine di quella tolemaica e, dopo parecchi rinvii, aperta al pubblico nell’estate  . Ricordiamo pure, per limitarci all’Italia, la “libreria di San Marco” fondata a Firenze nel  da Cosimo de’ Medici, quella del Tempio Malatestiano inaugurata a Rimini nello stesso anno, la Malatestiana di Cesena, costruita nel  e ancora aperta al pubblico, la biblioteca di Pesaro, voluta da Alessandro Sforza nella seconda metà del secolo XV, la biblioteca urbinate, edificata da Federico I da Montefeltro, quella aragonese di Napoli, programmata e realizzata da Alfonso il Magnanimo, la biblioteca di Santa Scolastica a Subiaco, nella quale già nel  era stata collocata, dai tedeschi Pannartz e Sweynheim, la prima tipografia a caratteri mobili. Leon Battista Alberti, del resto, si soffermava, nel De re aedificatoria, non solo su criteri di costruzione degli ambienti in cui sistemare, in ogni casa, la “libreria”, ma su quelli da seguire per l’impianto architettonico delle biblioteche pubbliche, nelle quali, oltre ai libri, dovevano essere fruibili astrolabi, mappamondi e dipinti di uomini dotti. Non esiste un criterio per una graduatoria fra le più importanti biblioteche del mondo, e non avrebbe del resto alcun significato culturale di rilievo, tranne quello di appagare una semplice curiosità. È però opportuno, dopo aver accennato alla ricostruzione e riapertura al pubblico della biblioteca di Alessandria, ricordare almeno la Biblioteca di Stato di Mosca, già Biblioteca Lenin, con  milioni di opere a stampa, la Biblioteca del Congresso di Washington, con  milioni di libri e un programma annuale di aggiornamento di . acquisti, la

. Meraviglia non poco – e fa riflettere sul coagularsi di pericolosi modi di pensare – la recentissima legge europea / approvata a Bruxelles e con la quale si prevede il «pagamento dei prestiti di libri in tutte le pubbliche biblioteche». . Capitolo XXII, pp. -. . È recente l’individuazione, da parte di un’équipe di archeologi polacchi, del sito dell’antica biblioteca, costituito di  sale di lettura attrezzate per . lettori e di un auditorium a ferro di cavallo utilizzato per seminari e conferenze.

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CAPIRE IL MEDIOEVO

British Library di Londra, con  milioni di volumi, la biblioteca dell’Università di Harvard, con  milioni di testi, la Bibliothèque nationale di Parigi, con  milioni di opere, da qualche anno trasferita in una nuova sede il cui impianto architettonico e funzionale, oggetto di dure critiche, è stato voluto, nel contesto di una politica della grandeur, da François Mitterrand.

E in Italia? In Italia, che pure è stata luogo di notevole impegno umanistico, manca una vera grande biblioteca nazionale. Le biblioteche italiane, sottolineava Franco Venturi nella prefazione al suo Settecento riformatore, «anche quando si chiamano nazionali, riflettono tuttora la secolare divisione degli stati e staterelli della penisola». E non a caso il concetto di biblioteca nazionale, che alle origini, negli anni della Rivoluzione francese, indicava una struttura che avesse il compito di raccogliere e conservare un ampio patrimonio librario e di svolgere servizi bibliografici efficienti, in Italia divenne, dopo l’Unità, sinonimo di “statale”, “governativa”, e fu quindi esteso a varie biblioteche. Da molti comunque, anche grazie all’impegno di Desiderio Chilovi che, fra la fine del secolo XIX e l’inizio del successivo ne fu stimato direttore, di fatto è attribuito a quella di Firenze il ruolo preminente di vera biblioteca nazionale. La quale, malgrado le non poche traversie e la notevole ristrettezza dei locali, dispone di quasi  milioni di volumi e di . fra quotidiani e periodici. Nessuna di quelle elencate è biblioteca specialistica per il Medioevo, anche se in ognuna non sono pochi i testi, le riviste, i manoscritti che si riferiscono all’età medievale. Particolarmente fornita di opere relative al Medioevo è la Biblioteca apostolica vaticana, avviata nel  per volontà di Niccolò V e i cui primi fondi librari erano costituiti di classici greci e latini. L’edificio che oggi la ospita è quello fatto costruire, nel secolo XVI, da Sisto V. Dispone di più di  milioni di opere a stampa (. sono incunaboli) e di . manoscritti in varie lingue e con preziose miniature, a iniziare dal II secolo d.C. Ha un catalogo a stampa e uno computerizzato e collegato con i cataloghi di altre biblioteche straniere con sede a Roma. Gran parte delle opere a stampa – comprese le riviste – è a scaffale aperto e i volumi possono essere consultati senza compilare richiesta scritta. . Enciclopedie come strumenti primari di informazione In queste biblioteche elencate – e in tante altre – si può consultare la letteratura storica che riguarda il Medioevo. E anzitutto gli strumenti di informazione più importanti ai quali di consueto si fa immediato ricorso per un primo contatto con la civiltà medievale. Se ne elencano alcuni dei più significativi, e fra questi soprattutto le Enciclopedie, il cui nome 

.

LETTERATURA STORICA

deriva dal latino umanistico encyclius, costituito dai termini ellenistici e¬gkúkliov paideía nel significato di cultura circolare, cioè di cultura globale fondata, annotava Vitruvio, su discipline che costituiscono un unico sapere di base. Le enciclopedie sono strumento primario insostituibile di informazione per ogni ricerca. Cultura non è infatti “sapere tutto”, ma sapere dove cercare le informazioni giuste. E, ovviamente, le nozioni fondamentali di un dato argomento. La cultura non si esaurisce certo nelle nozioni, ma senza nozioni non c’è cultura. Se non si conoscono le vicende politiche e militari di Carlo Magno e non si è in grado di collocarle nello spazio e nel tempo non si riuscirà mai a capire il significato della fondazione del Sacro romano impero, cioè quel che accadeva in Europa nei secoli VIII e IX. Nell’uomo c’è sempre stato, del resto, il bisogno – probabilmente innato – di disporre di uno strumento enciclopedico di conoscenza, cioè di uno strumento ordinato del sapere a cui attingere per soddisfare esigenze e desideri del conoscere. E in tal senso si può dire che l’enciclopedia, come esposizione di un sapere razionalizzato e ordinato, non è da ricondurre all’esperimento illuministico dell’Encyclopédie, ma a periodi più lontani. Forse a Plinio il Vecchio che, nella Storia naturale, in  libri, raccoglieva tutto quel che al suo tempo si conosceva sul mondo vegetale, sugli animali, sui fulmini, sui vulcani, sulle stelle; probabilmente all’Iliade e all’Odissea, nelle quali si colgono fondamentali espressioni del sapere tra il IX e l’VIII secolo a.C. sulle religioni, sulla geografia, sulla politica, sulle armi, sui comportamenti singoli e collettivi nella vita pubblica e in quella privata; senza dubbio all’età medievale, il cui parametro di informazione è rappresentato dalle opere di Fozio, da quelle di Gerberto di Aurillac e soprattutto dalle Etymologiae di Isidoro di Siviglia, dallo Speculum di Vincent de Beauvais, dal Trésor di Brunetto Latini. Quel che però diversifica questi strumenti di informazione dalle enciclopedie vere e proprie è il modello di sapere: un modello che, espressione di un sistema “immutabile di gerarchie prefissate”, incrociava una quantità di problematiche la cui soluzione, in un senso o nell’altro, aveva come fine la salvezza dell’anima. Dopo il Medioevo mutava la prospettiva di approccio alla cultura e il desiderio di sapere ordinato, sopravvissuto nei contenuti ma non nella forma, nel metodo e nei fini, si concretizzava nel , l’anno in cui S. H. Alsted pubblicava il Cursus philosophici encyclopaedia, un’opera in sette volumi nel cui titolo appunto compariva per la prima volta il termine “enciclopedia”. Tale esigenza di sapere ordinato trovava però più compiuta e consapevole articolazione nel Dictionnaire historique et critique di Pierre Bayle, pubblicato nel  e in edizione rivista e amplia

CAPIRE IL MEDIOEVO

ta nel , qualche anno dopo nella Cyclopaedia: Universal Dictionary of Arts and Sciences, stampata a Londra nel  e infine nella grande Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers di Diderot e D’Alembert, che provocava un radicale ribaltamento delle basi culturali, etiche e civili sulle quali si reggeva l’ordinamento economico, sociale e politico dei popoli e delle nazioni. La novità era legata alla scoperta di una dimensione collettiva dell’esistenza e alla consapevolezza di un destino non prefabbricato ma costruito dall’operare dell’uomo. Quanti infatti, annotava Diderot, «si sono sforzati di farci credere che eravamo felici, sono stati molto più lodati di quanti invece si sono sforzati di renderci davvero più felici». È del resto non privo di significato che la fama dell’Encyclopédie sia soprattutto da ricondurre alle voci sulla tecnologia delle arti e dei mestieri, un argomento la cui impostazione concettuale aveva sempre avuto implicazioni sociali, economiche e di potere nell’organizzazione del lavoro e nella diversificazione delle classi. L’impostazione geniale di Diderot, per il quale il sapere consiste nel «raccogliere ciò che via via è stato scoperto, e ordinarlo perché la maggior parte degli uomini sia illuminata e ciascuno partecipi, secondo le proprie qualità, alla luce del suo tempo», è ancora vitale e operativa e la si ritrova in fondo come metodo, come espressione della concatenazione del sapere, persino come titolo, in tutte le enciclopedie oggi in uso. Fra queste vanno ricordate: – Enciclopedia italiana di scienze, lettere e arti, diretta da Giovanni Gentile e pubblicata tra il  e il  dall’Istituto Giovanni Treccani, diventato poi Istituto dell’Enciclopedia Italiana. Completano l’opera, di  volumi, un Indice e quattro Appendici di aggiornamenti; – Enciclopedia cattolica, a cura dell’Ente per l’Enciclopedia cattolica e per il libro cattolico, pubblicata in  volumi nella Città del Vaticano, dal  al ; – Enciclopedia europea, in  volumi, pubblicata a Milano fra il  e il  e nota come Enciclopedia Garzanti; – Enciclopedia UTET, in  volumi, aggiornata sino al  nella ristampa curata da Enrico Cravetto e distribuita da “la Repubblica”; – Enciclopedia Einaudi, in  volumi, pubblicata a Torino dal  al . Curata da Ruggero Romano, è costituita di monografie abbastanza ampie, e più che una vera e propria enciclopedia è una miscellanea che raccoglie, in ordine alfabetico, interessanti saggi su argomenti fondamentali della dinamica culturale. Attinenza col Medioevo hanno le voci Alchimia, Atlante, Calendario, Città, Civiltà, Classi, Contadini, Credenze, Documento/monumento, Millennio, Orale/scritto, Passato/presente, Peccato, Significato/simbolo, Storia. Alle stesse esigenze delle enciclopedie rispondono le biografie di quanti, a diverso livello, sono stati protagonisti della storia politica e culturale. Si ricordano: – Dizionario Biografico degli Italiani, a cura dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana. Il primo volume è uscito nel  ed è ancora in corso di stampa;

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LETTERATURA STORICA

– Dictionnaire de Biographie Française, pubblicato dalla casa editrice Letouzey et Ané di Parigi a partire dal  e ancora in corso di pubblicazione; – Neue Deutsche Biographie, pubblicata, a partire dal , dalla casa editrice Duncker und Humblot di Berlino e programmata in  volumi a cura della Historische Kommission bei der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, ancora in corso di pubblicazione. Fra le enciclopedie straniere vanno almeno ricordate: – Encyclopaedia Britannica, il cui aggiornamento è garantito da ristampe periodiche (alcune voci sono state redatte da Benedetto Croce, Albert Einstein, Sigmund Freud); – Meyers Enzyclopädisches Lexikon, pubblicato in  volumi dal Bibliographisches Institut fra il  e il . In ognuna delle enciclopedie indicate – che sono tutte di cultura generale – ampio spazio è riservato all’età medievale, e specie ai protagonisti della politica e della cultura. Esistono però enciclopedie esclusivamente riservate al Medioevo. Certo, manca per questa età uno strumento fondamentale come la RealEncyclopädie der classischen Altertumswissenschaft curata nel  da August Pauly e rivista e ampliata nel  da Georg Wissowa, ma si dispone di un gruppo di enciclopedie e dizionari in grado di fornire notizie e suggerire problemi su i vari aspetti della civiltà medievale. E prima di tutti: – Lexikon des Mittelalters, pubblicato in nove volumi fra il  e il  dalla casa editrice Artemis di Monaco, che offre, in ordine alfabetico, parecchie notizie su uomini e cose del Medioevo ed è assai ricco di aggiornati e puntuali riferimenti bibliografici; – Reallexikon der germanischen Altertumskunde, che è un lessico delle antichità germaniche curato da vari autori e pubblicato a Berlino dall’editore De Gruyter a partire dal : è ancora in corso di stampa; – Dictionary of the Middles Ages, progettato dall’American Council of Learned Societies, diretto da J. R. Strayer e stampato dalla casa editrice Scribner’s Sons di New York; il primo volume è uscito nel  ed è ancora in corso di stampa; – Dizionario enciclopedico del Medioevo, stampato in tre volumi a Roma da Città Nuova nel  e diretto da A. Vauchez (edizione italiana a cura di C. Leonardi). La maggior parte delle enciclopedie e dei dizionari dedicati a vicende e problemi del Medioevo è però riservata a questioni che riguardano, in modo specifico, la storia religiosa nei suoi rapporti col divino e nella sua articolazione e organizzazione di pratica devozionale e di impianto istituzionale. E in tal senso si elencano, in ordine cronologico indicato dall’uscita del primo volume, le seguenti opere: – Dictionnaire de Théologie Catholique, pubblicato a Parigi da Letouzey et Ané fra il  e il ; è costituito di  volumi curati da E. Amann, E. Mangenot, A. Vacant; – Dictionnaire d’histoire et de géographie ecclésiastiques, pubblicato a Parigi da Letouzey et Ané e curato da A. Baudrillart, U. Rouziès, A. Vogt; il primo volume è uscito nel  ed è ancora in corso di stampa;

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CAPIRE IL MEDIOEVO

– Dictionnaire d’archéologie chrétienne et de liturgie, pubblicato a Parigi da Letouzey et Ané fra il  e il ; curato da F. Cabrol e H. Leclercq, è costituito di  volumi; – Dictionnaire de spiritualité, ascétique et mistique. Doctrine et Histoire, pubblicato a Parigi da Beauchesne; curato e diretto da vari autori, il primo volume è uscito nel  ed è ancora in corso di stampa; – Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament, fondato e diretto da G. Kittel e poi da G. Friedrich; pubblicato fra il  e il , è stato tradotto in Italia dall’editrice Paideia col titolo Grande Lessico del Nuovo Testamento, in  volumi, curati da F. Montagnini, G. Scarpat e O. Soffritti; – Reallexikon für Antike und Christentum. Sachwörterbuch zur Auseinandersetzung des Christentums mit der antiken Welt, cioè Lessico per l’antichità e il cristianesimo. Glossario sui rapporti del cristianesimo col mondo antico; pubblicato a Stoccarda dall’editrice Hiersemann, è curato da Th. Klauser; il primo volume è uscito nel  ed è ancora in corso di stampa; – Lexikon für Theologie und Kirke, cioè Lessico per la teologia e la Chiesa, pubblicato a Friburgo da Herder fra il  e il  in dieci volumi, è stato progettato e diretto da M. Buchberger; – Diccionario de historia eclesiástica de España, pubblicato a Madrid a cura del Consejo superior de investigaciones científicas, Instituto Enrique Florez e diretto da Q. Aldea Vaquero, T. Marín Martínez e J. Vives Gatell; è in quattro volumi che sono usciti fra il  e il ; – Dizionario degli Istituti di perfezione, pubblicato a Roma dalle Edizioni Paoline e diretto da G. Pelliccia e G. C. Rocca; il primo volume è uscito nel  ed è ancora in corso di stampa; – Enciclopedia dei papi, pubblicata a Roma dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana e diretta da G. Arnaldi, M. Caravale, G. Martina, M. Simonetti, uscita in tre volumi nel , in coincidenza con l’anno giubilare. Altre enciclopedie specialistiche che possono essere utilizzate come strumenti di informazione per lo studio del Medioevo sono: – The Oxford Dictionary of Byzantium prepared at Dumbarton Oaks, pubblictato nel , in tre volumi, dalla Oxford University Press e diretto da A. P. Kazhdan; – Encyclopaedia Judaica, pubblicata in  volumi fra il  e il  dall’editrice Keber di Gerusalemme; – Encyclopédie de l’Islam, pubblicata a Leiden da Brill, curata e diretta da vari autori e ancora in corso di stampa; il primo volume è uscito nel . Particolare rilievo, come strumento di informazione, hanno le seguenti enciclopedie relative alle norme giuridiche che regolavano i rapporti religiosi, familiari, economici e politici su cui si reggeva la società medievale: – Enciclopedia del diritto, curata da vari autori e diretta da F. Calasso, pubblicata da Giuffrè a Milano fra il  e il , in  volumi; – Novissimo Digesto Italiano, pubblicato a Torino dalla UTET e uscito, in  volumi, fra il  e il ; è diretto da A. Azara ed E. Eula; – Dictionnaire de Droit Canonique, pubblicato a Parigi da Letouzey et Ané fra il  e il , in sette volumi, e diretto da R. Naz.

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LETTERATURA STORICA

Considerata l’importanza che nello studio della società medievale hanno acquisito, in questi ultimi anni, la storia dell’arte, e in ispecie le ricerche sull’architettura e l’urbanistica e le indagini iconografiche, si segnalano: – Reallexikon zur byzantinischen Kunst, relativo appunto all’arte bizantina, pubblicato a Stoccarda da Hiersemann e diretto da K. Wessel e M. Restle; il primo volume è uscito nel  ed è ancora in corso di stampa; – Enciclopedia dell’arte medievale, pubblicata a Roma dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana e diretta da A. M. Romanini; il primo volume è uscito nel  ed è ancora in corso di stampa; – Lexikon der christlichen Ikonographie, pubblicato fra il  e il  a Roma-Freiburg-Basel da Herder, è in otto volumi ed è diretto da E. Kirschbaum e W. Braunfels.

. Bibliografie storiche e riviste Nel consultare le enciclopedie, i lessici e i dizionari elencati, bisogna tenere presente che queste opere, come del resto qualsiasi altro libro, offrono informazioni sulla base dello stato di conoscenze acquisite dalla ricerca fino all’anno della loro pubblicazione. È necessario quindi, per gli opportuni aggiornamenti, fare ricorso ad altri strumenti di informazione, fra i quali i più pratici sono, a parte le recensioni e gli elenchi dei libri ricevuti pubblicati dalle varie riviste, i repertori italiani e stranieri di bibliografia storica. Elenchi dettagliati di queste opere, ripartite per nazioni, si possono leggere nell’antico e sempre utile Avviamento agli studi storici di Giovanni Soranzo. Ci si limita qui a elencarne alcune delle più recenti: –

Medioevo latino. Bollettino bibliografico della cultura europea dal secolo VI al in volumi annuali dal . Curato da vari autori e diretto da Claudio Leonardi e Lucia Pinelli, è pubblicato – sotto gli auspici della Società internazionale per lo studio del Medioevo latino, della Fondazione E. Franceschini e del Dipartimento di studi sul Medioevo e il Rinascimento dell’Università degli studi di Firenze – dal Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo di Spoleto. Le singole indicazioni bibliografiche – quasi sempre accompagnate da sintetici riassunti del contenuto – sono elencate per argomento: Autori e testi; Fortleben; Argomenti, generi letterari e istituzioni; Opere di consultazione; Congressi e miscellanee; Manoscritti da cataloghi. A questi si affiancano quattro indici: dei manoscritti e delle stampe, lessicale, geografico e degli studiosi; – Bibliografia storica nazionale, pubblicata a Bari da Laterza dal , a cura della Giunta centrale per gli studi storici. Riservata a pubblicazioni stampate in Italia o inserite in riviste italiane, è ripartita in sette sezioni e all’interno di ognuna in sottosezioni per argomento: Metodologie e sussidi; Opere generali; Preistoria e protostoria; Storia antica; Storia medievale; Storia della prima età moderna; XVI,

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CAPIRE IL MEDIOEVO

Storia moderna e contemporanea. Le annate pubblicate sono , e l’ultima, distribuita nel , si riferisce alle pubblicazioni del ; – International Medieval Bibliography, curata e pubblicata dalla School of History dell’Università di Leeds. Il primo volume è uscito nel . I riferimenti bibliografici sono elencati e ripartiti per argomento; – Bibliographie annuelle de l’histoire de France du cinquième siècle à , pubblicata e curata, a partire dal , dal Centre National de la Recherche Scientifique. Comité Français de Sciences Historiques. – Índice histórico español. Bibliografía histórica de España o hispanoamericana, pubblicato dal  a Barcellona a cura del Centro de estudios históricos internacionales dell’Università di Barcellona; – Annual Bulletin of Historical Literature, pubblicato a cura della Historical Association; la prima annata è uscita nel ; – Historische Bibliographie, a cura della Arbeitsgemeinschaft Außer-universitärer Historischer Forschungseinrichtungen in Deutschland; la prima annata è del .

Le riviste storiche contribuiscono invece a un più immediato aggiornamento della bibliografia, oltre, naturalmente, ad allargare i rapporti fra gli studiosi di Medioevo, intensificare i dibattiti e raggiungere un pubblico colto più ampio, a evitare cioè che gli studi medievistici nascano, crescano e muoiano fra gli specialisti. In tal senso le riviste, coi loro saggi e coi loro dibattiti sugli strumenti e sulle metodologie da seguire e soprattutto sulla politica del territorio e dei beni culturali (parecchio consistenti per il Medioevo), possono essere – e alcune lo sono – le sedi più opportune per concretizzare agganci con la società, cioè per portare avanti un lavoro culturale e di ricerca sulle tracce di rapporti con un passato la cui comprensione e ricostruzione dia nuovo significato al presente. Che sarebbe certo un lavoro marginale rispetto ai circuiti tradizionali degli specialisti, ma centrale rispetto a vitali rapporti con la società. Ad accrescere, per esempio, le possibilità di dialogo fra medievisti e società colta va ricordata la rivista “Quaderni medievali” diretta da Giosuè Musca, che tende appunto a cogliere la dinamica dell’età medievale anche attraverso i mass media e ogni forma di cultura contemporanea: cinema, televisione ecc. Come la rivista “Prometeo” della Mondadori, diretta da Valerio Castronovo, che si propone appunto di incoraggiare ogni possibile incontro fra studiosi di storia e studiosi di scienze matematiche e fisico-naturali e di ridurre quindi la distanza fra le “due culture”, quella umanistica e quella scientifica. E se nell’ambito del nesso tra storia, politica e cultura è ancora particolarmente viva la rivista “Belfagor”, rassegna di varia umanità fondata da Luigi Russo nel , è assai significativo il successo dei “Quaderni storici”, fonda

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LETTERATURA STORICA

ti e diretti da Alberto Caracciolo e Pasquale Villani, con i numeri monografici dedicati alla ricostruzione, nei tempi, di temi come il parto, la maternità, la morte, la formazione dell’opinione pubblica borghese, gli ebrei in Italia e così via. Fra le numerose riviste storiche – è del  la fondazione da parte della Società italiana delle storiche di “Genesis”, edita da Viella e inserita nel solco della storia delle donne – vanno ricordate le pubblicazioni periodiche cittadine e regionali curate da vari centri di cultura e specie dalle accademie e dalle società di storia patria. Venuta meno l’antica unità scientifico-accademica, si è via via concretizzato un processo di regionalizzazione della cultura e della ricerca. Al proliferare delle università e dei centri di cultura  ha infatti corrisposto il moltiplicarsi degli strumenti di informazione e di ricerca. E in tal senso, per avere un quadro generale degli studi storici anche sul Medioevo e per un regolare aggiornamento bibliografico, è opportuna, anzi necessaria, la sistematica consultazione delle più importanti riviste in circolazione, comprese quelle straniere, nelle quali, come di solito nelle italiane, accanto ai saggi specialistici di vari autori vengono pubblicate rassegne, recensioni e talvolta – valga per tutte l’“American Historical Review”, che si stampa negli Stati Uniti dal  – dettagliate ed estese informazioni bibliografiche. Un nutrito elenco di riviste storiche e di atti accademici pubblicati in Italia e all’estero si può leggere in Soranzo, Avviamento, pp. -, e nel più recente Catalogo collettivo nazionale delle pubblicazioni periodiche. Ci si limita dunque a fornire un elenco delle riviste storiche più recenti – e comunque ancora aperte – dedicate al Medioevo o che al Medioevo riservano ampio spazio, cioè delle riviste italiane e straniere che, sia pure senza un rigoroso rispetto dei tempi programmati, si pubblicano regolarmente. Fra queste non è più possibile inserire la rivista mensile “Storia”, che col numero  (dicembre -gennaio ) ha sospeso le pubblicazioni. Rivista di notevole livello divulgativo e importante soprattutto per i preziosi dossier che accompagnavano ogni numero .

. Fra i quali vanno almeno ricordati: il Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, con sede a Spoleto; il Centro di studi normanno-svevi, con sede a Bari; il Centro di studi sulla civiltà del Tardo Medioevo, con sede a San Miniato; il Centro europeo di studi normanni, con sede ad Ariano Irpino; l’Istituto internazionale di studi federiciani del CNR, con sede nel castello di Lagopesole (Potenza). . Per il Medioevo vanno ricordati quelli dedicati all’Anno Mille, a I cavalieri teutonici, all’Islam, alle Città medievali, all’Autunno del mondo antico.

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CAPIRE IL MEDIOEVO

Fra le riviste storiche italiane e straniere dedicate al solo Medioevo si ricordano: “Anuario de Estudios Medievales”, dal , Barcellona, a cura dell’Istituto de Historia Medieval de España; “Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Age”, dal , Parigi; “Archivum Latinitatis Medii Aevi. Bulletin Ducange”, dal , Parigi, a cura della Union Académique Internationale; “Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo”, dal , Roma, a cura dell’Istituto storico italiano per il Medioevo ; “Cahiers de Civilisation Médiévale. XI-XII siècles”, dal , Poitiers, a cura del Centre Supérieur de Civilisation Médiévale de l’Université; “Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters”, dal , Colonia-Vienna, a cura della Gesellschaft für ältere deutsche Geschichtskunde; “Early Medieval Europe”, dal , Harlow (Essex); “En la España medieval”, dal , Madrid; “Estudios de historia y arqueología medievales”, dal , Cadice; “Europe in the Middle Ages”, dal , Amsterdam; “Frühmittelalterliche Studien. Jahrbuch des Instituts für Frühmittelalterforschung der Universität Münster”, dal , Berlino; “Italia medioevale e umanistica”, dal , Padova; “Journal of Medieval and Renaissance Studies”, dal , Durham; “Journal of Medieval History”, dal , Amsterdam; “Mediaevalia”, dal , Bighampton; “Mediaevalia”, dal , Barcellona, a cura dell’Universidad Autónoma; “Mediaevalia et Humanistica. An American Journal of the Middle Ages and Renaissance”, dal , Boudler (CO), dal  Cambridge ( MA ); “Medieval History”, dal , Bangor; “Medieval Prosopography”, dal , Kalamazoo (MI); “Medieval Studies”, dal , Toronto, a cura del Pontifical Institute of Mediaeval Studies; “Médiévales. Langue. Textes. Histoire”, dal , Parigi; “Medioevo. Saggi e Rassegne”, dal , Cagliari; “Mélanges de l’Ecole Française de Rome. Moyen Age”, dal , Roma ; “Moyen Age. Revue d’Histoire et de Philologie”, dal , Parigi e ora Bruxelles; “Quaderni medievali”, dal , Bari; “Revue d’Histoire des Textes”, dal , Paris, a cura dell’Institut de Recherche et d’Histoire des Textes; “Revue du Moyen Age Latin. Etudes. Textes. Chroniques. Bibliographie”, dal , Strasburgo; “Ricerche medievali”, dal , Pavia; “Schede medievali. Rassegna dell’Officina di Studi Medievali”, dal , Palermo; “Speculum. A Journal of Medieval Studies”, dal , Cambridge (MA), a cura della Medieval Academy of America; “Studi medievali”, dal , Spoleto, a cura del Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo; “Studies in Medieval Culture”, dal , Kalamazoo (MI); “Traditio. Studies in Ancient and Medieval History, Thought and

. Dal  al  è stato pubblicato col titolo “Bullettino dell’Istituto italiano”, dal  al  è stato accompagnato dall’“Archivio muratoriano”, dal  al  è stato stampato col titolo unificato “Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo e Archivio muratoriano”, dal n.  del  ha adottato il titolo “Bullettino dell’Istituto Storico italiano per il Medioevo”. . Pubblicata per la prima volta col titolo “Mélanges d’archéologie et d’histoire de l’Ecole Française de Rome”, nel  veniva divisa in due sezioni: “Antiquité” e “Moyen Age-Temps modernes”; nel  anche la seconda sezione veniva scissa in “Moyen Age” e “Temps modernes”.



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LETTERATURA STORICA

Religion”, dal , New York; “Viator. Medieval and Renaissance Studies”, dal , Berkeley, a cura del Center for Medieval and Renaissance Studies della University of California. Fra le riviste di storia italiane e straniere nelle quali sono anche inclusi studi e ricerche su argomenti di età medievale si ricordano: “American Historical Review”, dal , Washington; “Annales. Economies. Sociétés. Civilisation”, dal , Parigi ; “Archiv für Kulturgeschichte”, dal , Marburg-Münster; “Archivio della Società romana di storia patria”, dal , Roma; “Archivio storico italiano”, dal , Firenze; “Archivio storico lombardo”, dal , Milano; “Archivio storico per la Calabria e la Lucania”, dal , Roma; “Archivio storico per la Sicilia orientale”, dal , Catania; “Archivio storico per le province napoletane”, dal , Napoli; “Archivio storico per le provincie parmensi”, dal , Parma; “Archivio storico pugliese”, dal , Bari; “Archivio storico sardo”, dal , Cagliari; “Archivio storico siciliano”, dal , Palermo; “Atti della Società ligure di storia patria”, dal , Genova; “Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le antiche provincie modenesi”, dal , Modena; “Atti e memorie della Deputazione di storia patria per l’Emilia e la Romagna”, dal , Bologna; “Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le Marche”, dal , Ancona; “Atti e memorie della Deputazione provinciale ferrarese di storia patria”, dal , Ferrara; “Atti e memorie della Società istriana di archeologia e storia patria”, dal , Trieste; “Bibliothèque de l’Ecole des Chartes. Revue d’érudition publiée par la Société de l’Ecole des Chartes”, dal , Parigi; “Blätter für deutsche Landesgeschichte”, dal , Wiesbaden; “Bollettino della Società pavese di storia patria”, dal , Pavia; “Bollettino della Società umbra di storia patria”, dal , Perugia; “Bollettino storico-bibliografico subalpino”, dal , Torino; “Bollettino storico pistoiese”, dal , Pistoia; “Clio. Trimestrale di studi storici”, dal , Roma; “Cuadernos de historia de España”, dal , Buenos Aires; “Economic History Review”, dal , New York-Londra; “English Historical Review”, dal , Londra-Oxford-Harlow; “Francia. Forschungen zur Westeuropäischen Geschichte”, dal , Monaco; “Hispania”, dal , Madrid; “Historical Research”, dal , Londra-Oxford; “Historisches Jahrbuch”, dal , Monaco; “Historische Zeitschrift”, dal , Berlino-Monaco; “Journal of European Economic History”, dal , Roma; “Memorie storiche forogiuliesi”, dal , Udine; “Miscellanea di storia veneta”, dal , Venezia; “Mitteilungen des Instituts für österreichischen Geschichtsforschung”, dal , Innsbruck-ViennaGraz; “Nuova Rivista storica”, dal , Milano-Napoli-Città di Castello; “Nuovo archivio veneto” (già “Archivio veneto”), dal , Venezia; “Papers of the British School at Rome”, dal , Roma; “Past and Present. A Journal of Historical Studies”, dal , Oxford; “Pensiero politico. Rivista di storia delle idee politiche e sociali”, dal , Firenze; “Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken”, dal , Berlino; “Rassegna storica sa. Fondata da M. Bloch e L. Febvre nel  col titolo “Annales d’histoire économique et sociale”, dal  al  è stata intitolata “Annales d’histoire sociale”.



CAPIRE IL MEDIOEVO

lernitana”, dal , Salerno; “Revue historique”, dal , Parigi; “Rivista di storia dell’agricoltura”, dal , Firenze-Roma; “Rivista di storia del diritto italiano”, dal , Milano-Roma-Verona; “Rivista storica calabrese”, dal , Reggio Calabria; “Rivista storica italiana”, dal , Roma-Torino-Firenze; “Saeculum. Jahrbuch für Sozial- und Wirtschaftsgeschichte», dal , Lipsia; “Storica”, dal , Roma; “Studia histórica”, dal , Salamanca; “Welt als Geschichte”, dal , Stoccarda.

Ai fini di una più articolata rassegna degli strumenti utili allo studio del Medioevo è opportuno ricordare ancora alcune riviste che, pur essendo preminentemente rivolte a un pubblico specializzato e sostanzialmente diverso per metodologia di approccio e per sensibilità culturale, evidenziano problemi che aiutano a offrire più articolate risposte alle tante istanze che provengono dalla società medievale, e prime di tutte a quelle suggerite dalla storia religiosa nei suoi rapporti col divino e nella sua articolazione e organizzazione di pratica devozionale e di impianto istituzionale. Del resto, senza i testi e le fonti scritte e non scritte tramandate dalla Chiesa gran parte del Medioevo sarebbe appena più intelligibile della preistoria. Fra le riviste di storia religiosa si ricordano: “Analecta Bollandiana”, dal , Parigi-Bruxelles; “Analecta Gregoriana”, dal , Roma; “Archivum franciscanum historicum”, dal , Firenze-Grottaferrata; “Archivum fratrum praedicatorum”, dal , Roma; “Archivum Historiae Pontificiae”, dal , Roma; “Benedictina”, dal , Roma; “Bollettino Storico Bibliografico Francescano”, dal , Parma; “Civiltà cattolica”, dal , Napoli-Firenze-Roma; “Church History”, dal , Chicago; “Collectanea Francescana”, dal , Roma; “Harvard Theological Review”, dal , Cambridge (MA); “Hispania sacra”, dal -, Madrid; “Miscellanea cassinese”, dal , abbazia di Montecassino; “Miscellanea francescana”, dal , Roma; “Orientalia Christiana Periodica”, dal , Roma; “Recherches de théologie ancienne et médiévale”, dal , Lovanio; “Revue bénédictine de critique, d’histoire et de littérature religieuse”, dal , Maredsous; “Revue d’histoire de l’église en France”, dal , Parigi; “Revue d’histoire ecclésiastique”, dal , Lovanio; “Revue d’histoire franciscaine”, dal , Parigi; “Rivista di storia della Chiesa in Italia”, dal , Città del Vaticano; “Studia monastica. Commentarium ad rem monasticam historiae investigandam”, dal , abbazia di Monserrat; “Studia sacra”, dal , Padova; “Studi francescani”, dal , Firenze; “Zeitschrift für Kirchengeschichte”, dal , Stoccarda-Lipsia.

Utili possono essere ancora, se non altro perché offrono una diversa angolazione di lettura della società medievale, alcune riviste di scienze lin

.

LETTERATURA STORICA

guistiche e filologiche, di filologia e letteratura italiana, di geografia storica, di urbanistica e storia delle città, di storia del Rinascimento, di problemi islamici, di questioni ebraiche, di storia dell’arte, di paleografia, diplomatica e storia della scrittura, di cultura materiale e numismatica, di storia e civiltà del gioco. Fra queste si ricordano: “Aevum. Rassegna di scienze storiche, linguistiche e filologiche”, dal , Milano; “Annali dell’Istituto orientale di Napoli”, n. s. dal , Napoli; “Archeologia medievale”, dal , Firenze; “Archéologie médiévale”, dal , Caen; “Archiv für Diplomatik, Schriftgeschichte, Siegel- und Wappenkunde”, dal , Münster-Colonia-Vienna; “Arte medievale. Periodico internazionale di critica dell’arte medievale”, dal , Roma; “Boletín de arqueología medieval”, dal , Madrid; “Bollettino del Centro di studi filologici e linguistici siciliani”, dal , Palermo; “Bollettino di numismatica”, dal , Roma; “Bulletin of the School of Oriental and African Studies”, dal , Londra; “Byzantion”, dal , Bruxelles; “Byzantinische Forschungen”, dal , Amsterdam; “Byzantinische Zeitschift”, dal , Lipsia-Berlino-Monaco; “Cahiers archéologiques. Fin de l’antiquité et Moyen Age”, dal , Parigi; “Cahiers de Tunisie”, dal , Tunisi; “Dumbarton Oaks Papers”, dal , Cambridge (MA); “Geographia antiqua. Rivista di geografia storica del mondo antico e storia della geografia”, dal , Bologna; “Hebrew Union College Annual”, dal , New York; “Jewish Journal of Sociology”, dal , Londra; “Jewish Quarterly Review”, dal , New York; “Jewish Social Studies”, dal , Londra; “Journal of Medieval History”, dal , Philadelphia; “Journal of the Warburg and Courtauld Institute”, dal , Londra; “Kirjath Sepher”, dal -, New York; “Ludica. Annali di Storia e civiltà del gioco”, dal , Treviso; “Medieval Archeology. Journal of the Society for Medieval Archeology”, dal , Londra; “Medioevo greco. Rivista di storia e filologia bizantina”, dal , Alessandria; “Medioevo e Rinascimento. Annuario del Dipartimento di Studi sul Medioevo e il Rinascimento dell’Università di Firenze”, dal , Firenze; “Medioevo romanzo”, dal , Napoli; “Miniatura. Studi di storia dell’illustrazione e della decorazione del libro”, dal , Firenze; “Physis. Rivista internazionale di Storia della Scienza”, dal , Firenze; “Rassegna degli Archivi di Stato”, dal , Roma; “Rassegna mensile di Israele”, dal , Roma; “Rinascimento. Rivista dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento”, dal , Firenze; “Revue des Etudes Juives”, dal , Parigi; “Rivista italiana di musicologia”, dal , Roma; “Rivista di Studi orientali”, dal , Roma; “Rivista italiana di numismatica e scienze affini”, dal , Milano; “Scriptorium. Revue internationale des études relatives aux manuscrits. International Review of Manuscripts Studies”, dal , Bruxelles; “Scrittura e civiltà”, dal , Roma; “Sepher Yuhasin”, dal , New York; “Storia della città. Rivista internazionale di storia urbana e territoriale”, dal , Milano; “Studi islamici”, dal , Roma; “Tatti Studies. Essays in the Renaissance”, dal , Cambridge (MA); “Venezia Arti”, dal , Venezia.



CAPIRE IL MEDIOEVO

. Manuali e grandi opere di storia generale Compito principale delle opere fin qui esaminate e delle riviste – come del resto di ogni libro – è quello di dare corpo a un dialogo fra chi raccoglie e ordina la bibliografia e chi la usa, di offrire cioè al lettore anche non esperto la possibilità di orientarsi rapidamente e individuare, senza perdere parecchio tempo, quel che gli serve, offrendogli anzitutto le opere in grado di fornire un’informazione di base. Quella informazione offerta di solito dai manuali, nei quali però si coglie di frequente un notevole scarto fra modello proprio della ricerca e modello della didattica. Si ha infatti impressione – e si ricava anche da alcune considerazioni esposte a tal proposito da Scipione Guarracino su “Riforma della scuola” del maggio  – che i manuali manchino soprattutto della capacità «di insegnare allo studente a fare da sé» e quindi di essere in grado di leggere, «finito lo studio del manuale», opere storiche più specifiche e più articolate. Al di là comunque di qualsiasi giudizio si voglia dare sui manuali e sul loro uso , va subito detto che in Italia mancano, per il Medioevo, buoni trattati a livello universitario, sul tipo, tanto per intenderci, di quelli di Giulio Giannelli e Santo Mazzarino, dedicati rispettivamente alla storia greca e alla storia romana. Trattati cioè non solo in grado di ricostruire il tessuto in cui si svolgevano gli avvenimenti narrati, di collegare fra loro le singole vicende, di cogliere i nessi fra passato e presente, ma di offrire al lettore un ampio ventaglio di direttrici di ricerca come risposte alle possibili e molteplici domande tra dinamica del presente e studio del passato. In questo senso, nel senso cioè di fornire, per il Medioevo, orientamenti interpretativi sui problemi di fondo delle vicende e delle strutture delle popolazioni e sulle questioni di metodo per approfondirli, possono essere parecchio utili alcuni testi, e prima di tutti il Medioevo V-XV secolo, di Giovanni Tabacco e Grado Giovanni Merlo, che è il primo volume della collana “La civiltà europea nella storia mondiale”, pubblicato a Bologna nel  e periodicamente aggiornato dalla società editrice Il Mulino, e ora il recente volume di Giovanni Vi-

. Sull’importanza dei manuali e sulla necessità di apprendere, «mediante uno studio disciplinato», i fatti della storia si sofferma Cantimori, Studi di storia, pp. -, il quale sottolinea che senza le nozioni «una ricerca scientifica di vasto orizzonte, pur nella specializzazione più rigorosa, non è possibile». Costoro, egli precisa, «si arrogano [...] di rifiutare ogni disciplina di studio e di preparazione generale credendo di avere un tal diritto perché promettono di eccellere nei loro studi particolari. Prepareranno ottimi titoli accademici [...] ma non sapranno insegnare».

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.

LETTERATURA STORICA

tolo, Medioevo. I caratteri originali di un’età di transizione (Sansoni, Milano ), col quale è offerta una risposta adeguata alle esigenze di quanti vogliono acquisire una conoscenza d’insieme e aggiornata della storia medievale . Utili, specie nel farsi didattica, rimangono ancora sia le Questioni di storia medievale, a cura di Ettore Rota, Marzorati, Milano , e le Nuove questioni di storia medievale, pubblicate dallo stesso editore nel , sia La civiltà medievale, curata da Armando Saitta e più volte ristampata, costituita da una scelta di saggi critici tratti da opere fondamentali di storici come Marc Bloch, Henri Pirenne, Alfons Dopsch, Corrado Barbagallo, Gioacchino Volpe, Gino Luzzatto, Paolo Brezzi, Eugenio Dupré Theseider e così via. A impostazione sostanzialmente analoga, cioè per «lezioni» corredate da elenchi «dei testi citati e delle opere di riferimento» risponde la Storia medievale inserita nei “Manuali di storia” pubblicati a Roma nel  dall’editore Donzelli . Su un piano diverso, ma sempre nel contesto di opere che hanno lo scopo di fornire un quadro generale delle vicende del Medioevo, sono i volumi che costituiscono la “Nouvelle Clio. L’histoire et ses problèmes”, PUF, Paris, diretta da Robert Boutruche e Paul Lemerle. Si tratta di una collana indirizzata «agli studenti, ai ricercatori e ai loro maestri» e impostata in modo «da offrire ai lettori tutti il sentimento della storia e della sua dinamica, un’idea delle sue conquiste, della sua complessità, delle sue doti». È divisa in quattro grandi sezioni: antichità, Medioevo, età moderna, età contemporanea, e ogni sezione è costituita da singole monografie affidate a noti autori, fra i quali si ricordano Léopold Genicot, Bernard Guenée, Jacques Heers, Lucien Musset e altri. Alcuni volumi sono tradotti in lingua italiana. Ogni monografia – quelle riservate al Medioevo sono  – è divisa in tre parti: a) strumenti della ricerca, fonti principali, bibliografia ragionata, tavole cronologiche; b) stato delle questioni, caratteri generali delle vicende trattate, problemi; c) direttrici di ricerca, ipotesi, dibattiti. Sono da ricordare ancora, pure per le discussioni talvolta duramente polemiche suscitate, almeno tre delle grandi storie collettive pubblicate in vari volumi a partire dagli anni Settanta del secolo scorso:

. Va ancora ricordato, per la chiara e articolata impostazione, per la capacità di integrare i risultati della ricerca e le esigenze didattiche, per la ricca e utile bibliografia, il manuale di Gabriella Piccinni, I mille anni del Medioevo. . Sui complessi problemi della storia generale sono ancora importanti le considerazioni di D. Cantimori, Studi di storia, pp. -, con puntuali riferimenti a Burckhardt e a Maurice Crouzet.

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CAPIRE IL MEDIOEVO

. Storia della società italiana, in  volumi, pubblicata a Milano da Teti, diretta da vari autori e redatta da  studiosi italiani e stranieri. Attenta in modo particolare «all’ambiente e alle sue trasformazioni a opera dell’uomo», questa storia è costruita su piani sincronici e pone in evidenza le necessità quotidiane, il lavoro, i bisogni materiali, le credenze, i costumi, le mentalità delle popolazioni. Al Medioevo, coordinato da Giovanni Cherubini, sono riservati i voll. V-VIII, cioè i quattro volumi rispettivamente dedicati a L’Italia dell’Alto Medioevo, La società comunale e il policentrismo, La crisi del sistema comunale, I secoli del primato italiano. . Storia d’Italia, in  volumi, pubblicata a Torino dalla UTET e diretta da Giuseppe Galasso, una storia il cui andamento offre al lettore una rappresentazione organica delle vicende accadute nelle singole regioni della penisola italiana, ma lette sempre nel quadro di una interdipendenza fra situazione preunitaria e processo di sviluppo economico, sociale, istituzionale e culturale dello Stato nato dall’Unità. L’opera, che va dal Medioevo al , è costruita su un impianto cronologico che si sviluppa secondo l’articolazione spaziale e statale precedente l’Unità e riserva al Medioevo vari volumi. Ogni trattazione si sviluppa senza dare per scontato che il lettore conosca o debba conoscere i fatti e le istituzioni di cui si parla. Notevole e spesso ragionato è l’apporto bibliografico, con particolare e sistematico riferimento alle fonti. . Storia d’Italia, in sei volumi, pubblicata a Torino da Einaudi a partire dal  e diretta da Ruggero Romano e Corrado Vivanti. Molto spazio è riservato al Medioevo, col quale si fa iniziare la storia d’Italia, le cui radici, più che nel mondo romano, affonderebbero così nell’età romanobarbarica. L’impianto, sostanzialmente antologico, non incide sulla sua omogeneità di fondo, che è invece sostenuta dal nesso strettissimo col territorio e con le popolazioni che lo hanno abitato, cioè da un criterio unificatore intrinseco teso a cogliere i molteplici intrecci e le complesse sovrapposizioni sui quali sono sorti e si sono sviluppati i rapporti di potere nel nostro paese. Ne è prova, fra l’altro, il primo volume, dedicato ai Caratteri originali, nel quale, attraverso un’attenta lettura delle fonti e una metodologia in cui si colgono non pochi richiami alle “Annales”, vengono individuati «i fenomeni che costituiscono, come struttura orizzontale, la trama della nostra storia». In questo quadro e con questi nessi ampio spazio è riservato, in tutti i volumi, alle forme del potere, alla storia delle campagne e del mondo agricolo alla base, per molti secoli, delle vicende del paese, alla storia delle città e dei loro impianti urbani, alla religione, all’economia, all’arte, alla lingua, al diritto, al costume, alla cucina, cioè ai connotati fondamentali che regolano le convivenze e nei quali «si ricompongono diacronicamente gli aspetti tipici del modo 

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LETTERATURA STORICA

di essere italiani». Un’opera appunto, questa Storia Einaudi, che segna la dissoluzione di un modello di ricerca considerato concluso e avvia, sia pure in modo non sempre lineare e omogeneo, direttrici di indagini che non prescindano dal richiamo ai comportamenti dell’uomo, ai suoi nessi col territorio e alle leggi che li regolano. Fanno parte integrante della Storia d’Italia i  volumi usciti fino al  e intitolati Annali della Storia d’Italia. Sono attinenti anche al Medioevo perché affrontano i vari temi ai quali sono dedicati sul lungo periodo. Si segnalano comunque i volumi Intellettuali e potere, Il paesaggio, Insediamenti e territorio e il primo, intitolato Dal feudalesimo al capitalismo . Nel ritorno di attenzione per i testi letterari sono anche da leggere – come testimonianza di un modo di essere e di pensare del passato, come notevole aiuto per lo studio della civiltà medievale e come offerta di ampia e articolata bibliografia – almeno due grandi opere pubblicate negli anni settanta e ottanta del secolo scorso: . Letteratura italiana. Storia e testi, diretta da Carlo Muscetta, pubblicata in nove volumi a Bari da Laterza, a partire dal . Nei volumi riservati al Medioevo storia, opere e personalità degli autori studiati si integrano a vicenda e offrono un quadro «delle forme letterarie nell’ambito più vasto dei centri e movimenti culturali, della società in cui sono nate e del pubblico cui erano dirette». . Letteratura italiana, diretta da Alberto Asor Rosa e pubblicata a Torino da Einaudi a partire dal . Anche in quest’opera – il cui titolo, nel sottolineare il distacco dallo storicismo desanctisiano, evidenzia «la necessità di trovare all’esterno della letteratura una serie di potenzialità che aiutino a leggere i testi» – ampio spazio è riservato ai problemi della civiltà medievale, ai modi appunto in cui, «da epoca a epoca e da regione a regione», si è impostato «il rapporto ineludibile tra attività intellettuale e strutture del potere». Completano l’opera i due volumi del Dizionario bio-bibliografico e degli indici e i quattro volumi delle opere letterarie dalle origini al Novecento. Al di là di queste grandi opere si possono poi consultare numerose monografie sulla civiltà italiana del Medioevo. Si segnalano, fra le più recenti, O. Capitani, Storia dell’Italia medievale; C. Wickham, Early Medieval Italy; R. Romano, Paese Italia. Sulla storia del Medioevo in generale, e di alcune nazioni in particolare, a parte il sempre affascinante R. S. Lopez, Naissance de l’Europe, si indicano: per . Va ancora ricordata, sempre per i tipi dell’Einaudi, la Storia dell’economia italiana, a cura di R. Romano, in tre volumi.

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CAPIRE IL MEDIOEVO

la Francia, l’Histoire de la France, a cura di J. Favier; per la Spagna, Historia de España, diretta da A. Domínguez Ortiz; per la Germania, il sempre utile B. Gebhardt, Handbuch der deutschen Geschichte, nell’edizione del  curata da H. Grundmann; per la Gran Bretagna, The History of England, diretta da G. R. Elton. Questi testi di storia generale elencati sono importanti non solo perché offrono un’immagine assai articolata dei vari momenti del Medioevo e delle diverse metodologie di lettura, ma perché sui temi in esame suggeriscono problematiche ed elencano la bibliografia essenziale dei testi pubblicati da case editrici o inseriti nelle collane dei dipartimenti universitari, degli istituti di cultura e dei centri di studio e di ricerca, delle accademie e delle società di storia patria. Più aggiornate indicazioni bibliografiche, accompagnate quasi sempre da un breve riassunto dell’opera, si possono comunque ricavare dal Catalogo della libreria editrice Viella, forse il più informato in Italia nel campo della medievistica.

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 Le fonti

La letteratura storica or ora esaminata è il risultato di un’attenta riflessione sulle fonti perché la storia, come di continuo viene ripetuto, e come di fatto registrano tanti testi a iniziare da Erodoto, si fa appunto con le fonti. Taluni suggeriscono addirittura che, per lo studio di ogni argomento, bisogna sempre partire dalle fonti, se non altro per evitare sovrapposizioni di modelli storiografici sui fatti, o più semplicemente per impedire condizionamenti di lettura e forzature sui documenti. Senza tenere però in conto che spesso sono le stesse fonti, «condizionate dalla loro epoca e dal loro ambiente» , a forzare la realtà, cioè a interpretarla e a preoccuparsi di costruire il futuro sulle spalle del passato. Le fonti non sono infatti solo la registrazione di quel che è accaduto, ma anche uno schermo fra noi e il passato, fra noi e i fatti. Le fonti del resto non sono “fatti”, ma interpretazioni dei “fatti”, in quanto «esiste una sfera di rielaborazione del reale nella quale la realtà viene plasmata e manipolata dall’osservatore» . Lo storico non ricostruisce i fatti, ma le testimonianze sui fatti. Senza d’altronde volerci spingere fino ad affermare che «nel mondo della pluralità esplicita delle interpretazioni la sola vera logica è la banalità dell’evidenza», è certo che le fonti, quando si sforzano correttamente di rappresentare la “verità”, non fanno che offrire una delle interpretazioni possibili e coerenti con quello che Johann Gustav Droysen indicava già come il punto di vista conseguito nell’ambiente in cui si è vissuti e ci si è formati.

. J. Le Goff, Documento/monumento, in Enciclopedia Einaudi. . R. Chartier, La rappresentazione, pp. -. I fatti sono sempre intrisi di teorie e non esistono in sé: sono interpretazioni da ricondurre al soggetto e all’ambiente in cui il soggetto vive e opera. Certo, la storia si fa con le fonti, ma se le fonti diventano tali solo quando vengono scelte significa che nella ricostruzione delle vicende prima viene la metodologia, quella che Croce nella Logica indica come «le ragioni» della ricerca e Paul Veyne, nel volume Come si scrive la storia, chiama «il modo di interrogare i documenti».



CAPIRE IL MEDIOEVO

. Come definire le fonti «Tutte le conoscenze umane sono finzioni – scriveva Hans Vaihinger – ma se risultano capaci di promuovere e arricchire la vita, l’uomo deve comportarsi come se fossero vere» . In tal senso non si può non prendere atto che le fonti non sono asettiche, neutrali, e che per leggerle, cioè per interpretarle e valutarle, è necessario disporre di strumenti che ne permettano la destrutturazione, disporre cioè di una preparazione che, al di là delle acquisizioni tecniche di lettura materiale, si recupera, in gran parte, dalla letteratura storica. La quale suggerisce fra l’altro di tenere sempre presente che le notizie, fornite dalle fonti scelte per una ricerca, sono lungi dall’offrire una rappresentazione fedele e completa del passato che di volta in volta è oggetto di studio, perché ogni testimonianza contiene informazioni solo su un aspetto della realtà, solo sul punto di vista di chi, interessato a quell’aspetto, lo ha registrato . Non sempre, d’altronde, tutto quello che si fa, si pensa, si decide viene ordinatamente trascritto su documenti, i quali, per abbondanti che siano, rispecchiano solo una minima parte di quel che si è fatto, pensato e deciso in un dato momento. Non basta andare in archivio, raccogliere, leggere e trascrivere documenti per impadronirsi della dinamica del passato, per recuperare i valori che si riflettevano nelle coscienze del tempo, per ricostruire cioè una storia che abbia un senso, che non sia notarile, che non sia catastale, che non si risolva in un’asettica e meccanica registrazione di dati staccati dalle elaborazioni culturali e simboliche che di volta in volta coinvolgono la sfera dei comportamenti umani. Le rappresentazioni della storia nei loro vari aspetti non sono che funzioni dell’attività sociale «inerente alla vita degli uomini», e cioè l’immagine «del mondo da loro elaborato» . Chi volesse infatti ricondurre le vicende storiche a una successione meccanica di eventi registrati dalle fonti si comporterebbe alla stregua di chi giudicasse un sorriso come semplice contrazione di muscoli. Le fonti, ogni tipo di fonte orale, scritta o figurativa, sono infatti indissolubili dalla mentalità e quindi dalle categorie di tempo e di spazio con cui in un dato periodo si guarda qualsiasi forma di esperienza umana. E se l’unica certezza del-

. Die Philosophie des Als Ob, passim. . E probabilmente in tal senso A. Portelli, Biografia di una città, rivendica il diritto di «contravvenire alla fedeltà letterale alle fonti», cioè al «soggetto produttore di fonti», e Simone Weil, con grande senso di equilibrio, raccomandava che «dopo che ci si è convinti di un’opinione è necessario verificare in che misura sia vero il contrario». . A. Ja. Gurevic, Le categorie della cultura medievale, p. .

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LE FONTI

la ricerca storica non può che essere il dubbio, le fonti, esprimendo uno dei tanti modi di registrazione dei fatti, forniscono non la versione, ma “una” versione dei fatti, cioè una concezione del mondo come successione ininterrotta di stati d’animo. E allora, come utilizzare le fonti e, anzitutto, cosa sono le fonti? Anche per le fonti, come per la storia, non esiste una definizione che fissi rigidamente un concetto in grado di esprimere a un tempo la registrazione di un evento e i sistemi e le interpretazioni nelle varie epoche del suo messaggio. Croce precisava che le fonti «sono, per un verso, segni superstiti di opere del passato ma, per l’altro, testimonianze intorno ai fatti, e vanno considerate tra le notizie attestate». Le narrazioni stesse, d’altronde, «hanno doppia faccia e», aggiungeva, «sfatate che siano come narrazioni, nell’atto stesso acquistano valore di documenti». E spiegava: «l’ufficio meramente stimolante delle fonti, intese in senso estrinseco, è comprovato dal fatto, ben noto ai ricercatori, che a un certo punto nuovi documenti [...] non servono più a niente nell’indagine in corso, perché già la rievocazione è accaduta, e quelli non danno forza ma recano ingombro» . Qualche anno prima François Simiand aveva scritto che le fonti sono le testimonianze coeve di un’età, i suoi “vestigi”, atti a svegliare in noi il ricordo . I segni appunto non tanto in se stessi, ma come tracce di un passaggio che rimane a documento e memoria: «Sanza la qual chi sua vita consuma, / Cotal vestigio in terra di sé lascia, / Qual fummo in aere od in acqua la schiuma» . . Valenze e ambiguità delle fonti Il concetto di fonte, strettamente intrecciato al concetto stesso di ricostruzione e conoscenza del passato che si trasforma e perfeziona continuamente, è il risultato di un processo continuo di mutazione delle tecniche e delle metodologie di indagine. Muratori d’altronde, nelle Antiquitates, che sono una «compiuta Kulturgeschichte del nostro Medioevo» , si era soffermato a lungo sul nesso fra testimonianze e storia e, per quel che si riferiva al mondo antico, nelle Riflessioni sul buon gusto aveva trascritto un lungo elenco di fonti e precisato le varie tipologie . Oggi non solo si fa ricorso a quella molteplicità di fonti in parte indicate da

. La storia come pensiero e come azione, p. . . Méthode historique, pp. -. . Dante, Inferno, XXIV, -, p. . . Così precisava B. Croce, Conversazioni critiche, p. . . II, pp. -.

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Muratori, ma quelle stesse fonti vengono interrogate da angolazioni le più svariate, cercando – anche grazie agli strumenti offerti dalla filologia, dall’antropologia, dall’archeologia, dall’urbanistica, dalle manifestazioni artistiche ecc. – non solo quel che esse esplicitamente dicono, ma pure ciò che lasciano intendere . E che lasciano intendere anche per le tensioni che i loro contenuti riescono a provocare e la cui risonanza è spesso preziosa come testimonianza dell’immaginario e del modo di essere e di pensare di un ambiente. Preziosa appunto per la ricostruzione delle sensibilità acute e squisite di un’epoca, del gusto del mistero e dell’indefinito, dei bisogni di sottrarsi alla schiavitù delle cose mondane, dei tormenti religiosi e morali che invano si cercava di conciliare con gli impegni economici. Da taluni atti di vendita si rileva, per esempio, il frequente uso di mascherare, nei negozi giuridici, i prestiti a interesse vietati dalla legislazione; dall’elenco dei peccati riportati dai “penitenziali”, cioè dai manuali distribuiti al clero per regolamentare le domande da porre ai penitenti, si possono persino ricavare notizie sui salari e su altre prestazioni economiche ; dalla legislazione suntuaria, al di là della rigidità burocratica dei formulari, si recuperano preziosi dettagli sulle valenze socio-economiche e sui riferimenti etico-religiosi dei vestiti da indossare. Lo stesso procedimento vale per le cronache. Quella di Ramón Muntaner, per esempio, offre un quadro assai articolato delle vicende del regno catalano-aragonese tra la fine del secolo XIII e il principio del XIV, e suggerisce soprattutto, pure attraverso la luce fittizia di un esasperato legame con la corona e con la dinamica della politica mediterranea, la sensibilità del cronista e il suo modo di pensare, e di conseguenza lo spaccato di un’epoca, del suo ambiente e di quanti Muntaner era espressione. Come l’Alessiade di Anna Comnena, che è testimonianza genuina e ineguagliata delle vicende relative al regno del padre suo e degli avvenimenti della prima crociata, ma che è particolarmente preziosa per le numerose considerazioni che, scaturite dagli strati più profondi e segreti della psicologia dell’autrice, offrono l’immagine che i bizantini avevano della Chiesa latina e degli “uomini della croce”. Una controprova assai efficace di quanto le fonti possano testimoniare anche ciò che non dicono si ricava

. I documenti – si legge per esempio nel Parere sopra l’ordinare le scritture della cancelleria senatoria redatto nel  e citato da I. Zanni Rosiello, Archivi, p. , nota  – «sono assai oscuri, e ristretti, vedendosi chiaramente che [...] regnava la massima che fossero più tosto ricordi solamente intelligibili a chi haveva la chiave del gergo», e la loro interpretazione impedita «a chi non ben versato nel metodo». . R. Romano, Una tipologia economica, pp. -.

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d’altronde dall’Opus de historiis di Hartmann Schedel, storia universale pubblicata a Norimberga nel , che iniziava a raccontare le vicende del mondo da Adamo ed Eva e si concludeva con considerazioni sulla brevità della vita, con una incisione che rappresenta la danza della morte e il giudizio finale, ma senza alcun accenno all’avvenimento del giorno: la scoperta dell’America. Si è osservato che, con ogni probabilità, nel  la notizia non era ancora giunta a Norimberga, ma il silenzio del cronista sulla scoperta di Capo di Buona Speranza, avvenuta nel , è indice quanto mai esplicito di una mentalità che non dava importanza alcuna all’agire concreto degli uomini e all’esplorazione di nuove terre e che era invece sensibile ai problemi dell’anima e della salvezza eterna. . Varietà di linguaggi e interpretazioni delle fonti La registrazione delle vicende accadute è pure questione di linguaggio, di formule espressive, di tecniche di scrittura, e la ricerca non può trascurare il nesso fra parole e cose, tra fatti narrati e modo in cui vengono narrati. Lo testimoniano tanti testi e i loro codici espressivi, che svolgevano precise funzioni di tramite nei processi di alfabetizzazione, di acculturazione, di circolazione di idee e di patrimoni tecnici pure fra interlocutori che parlavano lingue diverse. La storia «non dispone, come le matematiche o la chimica, di un sistema di simboli staccato da ciascuna lingua nazionale» , e quanto fosse difficile trovare, in gramatica latinorum, cioè nella lingua latina, le parole adatte a indicare i termini tecnici corrispondenti lo scriveva Federico II nel De arte venandi cum avibus . Emblematico, in tal senso, il Domesday Book, cioè il registro catastale dei possessi terrieri inglesi compilato, a partire dal , per ordine di Guglielmo il Conquistatore. Redatto in latino da funzionari normanni che parlavano francese, presenta zone d’ombra che, per esempio, rendono difficile capire a quale tipo di possesso si riferisca manierium, il termine appunto che in Inghilterra indicava la casa dell’uomo potente, e probabilmente il feudo . È noto, del resto, che molti autori, e fra essi i notai, usavano le stesse parole con significati diversi sia per motivi stilistici sia, dicevano sant’Agostino e Gregorio Magno, per farsi meglio capire dal pubblico a cui si rivolgevano. Le fonti sono infatti le parole stesse della lingua usata per la loro stesura, ed è l’evoluzione del linguaggio

. M. Bloch, Apologia, p. . . I, p. . . J. J. Bagley, Historical Interpretation, pp. , -.

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ad assorbire le suggestioni insistite della vita nelle quali si colgono le mutazioni dei sentimenti e delle mentalità. Strumenti basilari di comunicazione sono il linguaggio, che è la più evanescente di tutte le tecnologie perché per molti secoli, compreso il Medioevo, non ha lasciato documentazione di suoni, e poi la scrittura, e chi vuol capire una fonte deve tener presente sia il lontano tempo della sua stesura che quello attuale della lettura. Non deve cioè dimenticare che il linguaggio potrebbe costituire un diaframma fra ricercatore e ricostruzione del passato. In tal senso, è sempre opportuno tener conto della storia delle parole, la cui evoluzione e il cui mutare di significato permettono di cogliere, diceva Lucien Febvre, «le trasformazioni di un gruppo di idee-chiave che l’uomo si compiace di credere immobili perché la loro immobilità sembra garantirgli la sua sicurezza» . Il termine “laico”, per esempio, che oggi indica chi è libero da ogni forma di dogmatismo, nel mondo greco denotava chi apparteneva al popolo, nel linguaggio dei Vangeli chi faceva parte del “popolo di Dio”, in quello dei Padri della Chiesa chi era profanus, cioè chi, secondo la dottrina sacramentale, era «persona battezzata, estranea però alla gerarchia ecclesiastica», non appartenente cioè al clero, col cui termine si intendeva sia chi aveva ricevuto gli ordini minori, sia i sacerdoti, sia i “letterati”, vale a dire i dotti che sapevano il latino. Dante, per esempio, scrive nel Convivio che «secondo la fama che di lui grida», Federico II «fosse loico e clerico grande» , fosse cioè indicato con un’espressione che oggi potrebbe apparire ambigua e sfuggente, tale comunque – se non ricondotta al linguaggio del tempo, che prima del Concilio di Trento non sanciva una differenza netta fra “chierici” e “laici” – da provocare fraintendimenti. Come per Petrarca, del resto, che abbracciata la carriera ecclesiastica, presi gli ordini minori, occupato come cappellano di famiglia presso il cardinale Giovanni Colonna e come canonico in più sedi, si impegnava al celibato, ma non è chiaro fino a qual punto facesse parte del clero o del mondo laico. L’ambiguità e l’imprecisione di linguaggio delle fonti corrispondevano del resto all’ambiguità e contraddittorietà di taluni stati emotivi. I quali, nel rappresentare gli aspetti più superficiali di secoli di transizione e non la sostanza profonda di un’epoca in cui si trovavano a convivere residui del passato e anticipazioni dell’avvenire, esprimevano, nel quotidiano e nella pratica comune, mescolanze ingenue e in buona fede di comportamenti che potrebbero oggi essere intesi come manifestazio-

. Problemi di metodo, p. . . Convivio, IV, , p. .

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ne di un processo di disgregazione e di una società in via di dissolvimento. E che registrano invece un semplice mutamento di mentalità e la prefigurazione di nuovi ordini intellettuali e morali. Non c’è quindi da stupirsi che la religiosità di Petrarca e il suo impegno di celibato convivessero con l’amore per Laura e con la concretezza di un figlio avuto da una donna della quale si sconosce il nome. Né bisogna meravigliarsi dei comportamenti dei mercanti che, in buona fede, praticavano l’ira, la cupidigia, l’usura, si beffavano di preti e monaci e partecipavano, a piedi nudi, ai pellegrinaggi di penitenza; delle vendette di sangue considerate non solo doveri sacri ma, annotava Paolo da Certaldo, grande «allegrezza» ; della disinvoltura e della «foga innocente» con cui Francesco I «entrava in chiesa come nel letto della sua amante»  e sua sorella Margherita scriveva, senza scrupolo alcuno, raccolte di racconti licenziosi e raccolte di poesie religiose . . Affidabili solo perché fonti? Le fonti coincidono con tutto quel che, direttamente o no, è entrato in contatto con l’uomo e sono dunque la testimonianza dell’operare umano nello spazio e nel tempo. Esse, che evidenziano il nesso strettissimo fra vita quotidiana, impianto delle strutture politiche, dinamica socioeconomica e produzione appunto delle testimonianze, sono fatte però più per essere indagate che per essere credute . Se, al di là della loro stessa materialità, suscitano infatti uno straordinario ventaglio di richiami e suggestioni (rispetto, diffidenza, timori, entusiasmi), offrono spesso solo quello che si vuole cercare e trovare. Assai significativo, nelle Città invisibili di Italo Calvino, è, per esempio, il colloquio di Marco Polo con Kubilay Khan. Al mongolo divenuto imperatore cinese che gli chiedeva se, una volta tornato in patria, egli avrebbe ripetuto alla sua gente il racconto di quel che aveva visto, Marco Polo osservava che sarebbe servito a poco parlare, perché tanto chi ascolta recepisce solo le parole che si aspetta in quanto chi comanda è l’orecchio e non la voce. E in tal senso – nel senso cioè di un’accurata valutazione di testimonianze che vanno lette e interpretate nella loro interezza, nel loro contesto e al di là di quello che potrebbero sembrare e talvolta non sono – è

. Libro di buoni costumi, p. : «la prima allegrezza si è fare sua vendetta: il dolore si è essere offeso da uno suo nimico». . Ph. Ariès, Storia delle mentalità, pp. -. . Ivi, p. . . E. P. Thompson, The Poverty of Theory, pp. -.

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CAPIRE IL MEDIOEVO

necessario tenere presente che le fonti non sono da considerare affidabili solo perché fonti. Per farle parlare e comprenderle bisogna ingaggiare con esse quella che Bloch chiamava «la lotta col documento» . Le fonti infatti non sono, come nel secolo XVI riteneva William Camden, «testimonianze infallibili»  e sempre esplicite: sono invece volutamente oscure, ambigue, reticenti e spesso viziate da pregiudizi e interessi personali o di gruppo, da deformazione di quanto registrato, da omissioni di dettagli, da notizie allusive che vanno al di là della loro stessa intenzione e che le fanno di frequente «testimoni loro malgrado» . Nessuna fonte, annotava del resto Léopold Genicot, «può essere usata correttamente se non se ne conosce la reale e intrinseca natura» , cioè i motivi del suo essere fonte, vale a dire la sua tipologia. È la tipologia, appunto la precisa individualità del “genere” al quale ciascuna fonte appartiene, che aiuta a porre a fuoco la sua origine, la sua provenienza, la sua genuinità, la sua parzialità, «la sua contaminazione e degradazione, il suo impatto coi tempi in cui è stata prodotta e attraverso i quali è stata tramandata» . È sempre la tipologia delle fonti, appunto il come e il quando esse sono state prodotte, che permette di trarre da ognuna «tutto ciò che contiene» esplicitamente e implicitamente e che suggerisce la loro classificazione, cioè la loro divisione e distribuzione in classi, in categorie, per dare appunto un ordine al molteplice ventaglio di fonti e a ogni fonte una collocazione e un nome che consenta di individuarla e conoscerne la natura, la funzione, il significato. . Classificazione delle fonti Numerosi sono i problemi sollevati dall’applicazione e utilizzazione, in campo storiografico, di una “classificazione” delle fonti. Al di là però di una discussione sulla validità o meno di un criterio di ripartizione, considerato da alcuni più adatto alle scienze naturali che a quelle storiche, non si può non prendere atto che, sul piano pratico della ricerca e su quello didattico, da tutti, anche inconsapevolmente, si finisce per fare ricorso alle distinzioni e articolazioni di fonti. Certo, ogni tipologia e ogni sua classificazione potrebbe comportare rischi di determinismo e costringere il ricercatore a formulare «domande specifiche consone alla natura delle

. Apologia, cit., p. . . Cfr. J. R. Hale, The Evolution, p. . . M. Bloch, Apologia, cit., p. . . Genèse, état et perspectives de la typologie des sources, pp. -. . Ibid.

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LE FONTI

fonti», ma nell’operatività concreta della ricerca e della didattica l’esperienza quotidiana dimostra che il criterio della classificazione finisce in fondo per coincidere con l’interdisciplinarità che le fonti stesse suggeriscono , vale a dire con la loro storicizzazione, e quindi con la complessità dei fatti umani e, in definitiva, con l’opportunità, anzi con la necessità di tenere presente che tutti i tipi di fonti possiedono ben precisi punti di forza e di debolezza. Se li si considera insieme – annota Tosh – «e li si confronta gli uni con gli altri, c’è almeno una possibilità che essi rivelino l’oggettivo svolgersi degli avvenimenti» . Registrare – anzi aggregare – tutti i tipi di fonti non è facile: la loro diversità, se non proprio infinita, è sterminata. Ci si limita quindi, nel capitolo successivo, a fornire un elenco di fonti ripartite, per praticità espositiva e non per classificazione gerarchica, secondo la loro specifica natura, secondo cioè una diversità che è di funzione, non oggettiva, in quanto ogni fonte è utilizzabile in rapporto ai quesiti che, di volta in volta, la ricerca suggerisce. In tal senso, una ripartizione tra fonti mute, orali, scritte potrebbe sembrare la più opportuna, la più vicina comunque alle esigenze di una storiografia ormai convinta che tutte le fonti, integrandosi a vicenda, concorrono a rispondere agli interrogativi della ricerca.

. Che è, in fondo – osserva G. Galasso, La storia e la scuola, p.  –, «la molteplicità di approcci metodologici e concettuali a uno stesso oggetto di studio». . Introduzione alla ricerca, p. .

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 Fonti mute e fonti orali

Mute sono le fonti che non hanno – o almeno non hanno come valenza fondamentale – segni di scrittura o di parola, le fonti cioè costituite anzitutto dalla natura e dalle condizioni concrete delle sue manifestazioni (clima, struttura geologica del suolo, paesaggio agrario ecc.) e poi dagli oggetti, dagli strumenti, dalle attrezzature, insomma dai manufatti che caratterizzano, in quanto indizi della presenza dell’uomo, gli aspetti materiali della civiltà, cioè la presa di coscienza di una storia della cultura materiale come contributo alla comprensione della dinamica del passato. Vi aveva accennato Karl Lamprecht, che forse è stato il primo a usare l’espressione “cultura materiale”, vi si era soffermato Karl Marx quando, nel Capitale, auspicava «una storia delle condizioni materiali delle società» , se ne trova applicazione in Les caractères originaux de l’histoire rurale française e negli Essais sur la formation du paysage rural français di Marc Bloch. Lucien Febvre, del resto, aveva precisato che la storia «deve farsi [anche] con tegole e con paesaggi, con i cumuli di paglia e di erbaccia, con le eclissi lunari e con gli “attacchi” delle bestie da lavoro e da traino, con perizie geologiche di pietre e analisi chimiche del metallo con cui sono forgiate le spade» , secondo le esigenze cioè di una storia della cultura materiale che tenga conto dei bisogni e dei comportamenti concreti dell’uomo, in quanto, ha spiegato Witold Kula, «tale storia – che non è la storia economica impegnata nella ricostruzione dei fattori sociali che condizionano la produzione e il consumo – è la storia dei mezzi e dei metodi impiegati praticamente nella produzione e nel consumo» .

. J. M. Pesez, Storia della cultura materiale, p. . . Combats pour l’histoire, p. . . Rozwazania o historii (Considerazioni sulla storia), pp. -.

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. Natura, diversificazione dei suoli, paesaggi Il suolo, per esempio, le sue componenti termica e idrica, i suoi nessi col rilievo, col clima, con la natura geologica delle matrici minerali che lo caratterizzano, con la vegetazione, è una fonte muta rivelatrice dei rapporti con l’uomo e fondamentale per la conoscenza delle varietà, nel tempo e nello spazio, degli ambienti agrari, delle trasformazioni fondiarie, e quindi dell’habitat e dello sviluppo delle società. Non sempre purtroppo la storiografia medievale – pur particolarmente sensibile ai problemi del paesaggio, dell’agricoltura e del mondo rurale – ha prestato sufficiente attenzione alla natura, alla diversificazione dei suoli e alle loro valenze agronomiche nello sviluppo della colonizzazione e della produzione agro-pastorale, nella determinazione degli insediamenti, nel superamento dell’autoconsumo e nel potenziamento o meno di un’economia di scambio fra campagna e città. Aiutano comunque in tal senso, a parte talune fonti scritte e taluni reperti archeologici, gli studi di paleoclimatologia, che si propongono di ricostruire le condizioni climatiche avvicendatesi sui suoli nelle diverse epoche e che quindi danno basi naturali alla storia «dell’agricoltura, che è poi storia dell’alimentazione umana, cioè del motore di tutta l’economia» . Analogamente la dendrocronologia, attraverso lo studio dei resti florali e dello spessore degli anelli di accrescimento di alberi plurisecolari, riesce a datare le piante, a ricostruirne la vita, a fissare, per le varie epoche , i suoli lavorati e quelli incolti, cioè l’evoluzione del paesaggio e quindi degli insediamenti. Gli studi sui pollini effettuati a Roten-Moor (altopiano di Rhön) attestano, per esempio, che la proporzione di quelli «di faggio nei suoli delle torbiere è diminuita regolarmente dopo il IX secolo. E ciò dimostra – precisa Georges Duby – che nel paese nuovo che era allora la Germania, la foresta aveva cominciato a ritirarsi fin dai tempi di Carlomagno», a causa dell’espandersi delle coltivazioni cerealicole attestato dall’aumento dei reperti di polline di grano . In tal senso, non si può non ricordare anche la paleontologia, . C. Trasselli, Appunti, p. . . La datazione delle piante ha permesso, per esempio, di rispondere a un quesito sulla Pala di Monteluce attribuita a Raffaello. Al quesito se si trattasse di un’opera unitaria o della giustapposizione di due quadri diversi, la dendrologia ha appunto permesso di rispondere che si trattava di due quadri diversi: infatti le «serie anulari e le caratteristiche del supporto di pioppo» hanno evidenziato le diversità. Tale procedimento aveva del resto permesso di ricondurre al secolo IX la cattedra lignea di san Pietro che la tradizione faceva risalire al I secolo d.C. . L’economia rurale, p. .

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FONTI MUTE E FONTI ORALI

cioè lo studio delle spoglie (fossili) degli animali vissuti sulla terra in epoche passate, che permetterebbe, per esempio, di conoscere il quando e il come siano scomparsi gli elefanti e i bufali dalla Sicilia ancora registrati in documenti del secolo XI, fino a quando sia stata largamente diffusa la presenza dei lupi e delle aquile e fino a quando siano vissuti «il daino e la capra selvatica la cui carne era regolarmente calmierata nel mercato di Palermo fino al secolo XV» . I problemi sottolineati – e in parte già noti a Leonardo, che nel Trattato di pittura annotava il significato «de li circuli delli rami degli alberi segati» – conducono all’archeologia. . Archeologia e fonti archeologiche L’archeologia, è noto, è la scienza che si occupa della ricerca e del recupero delle tracce di civiltà passate rimaste sepolte sotto la terra o in fondo al mare. Già Federico II e soprattutto alcuni umanisti avevano dimostrato una qualche sensibilità per lo studio di monumenti e iscrizioni e per il recupero di ymagines lapideas . Solo con l’Illuminismo però l’attenzione per le “rovine” cominciava ad acquisire valenza scientifica e a entrare nella sfera di interesse di quanti, anche col ricorso a quel tipo di fonte, intendevano ricostruire il passato. E basti pensare all’avvio, proprio in quegli anni, degli scavi di Pompei. Recente è invece la pratica dell’archeologia medievale, anche se nel secolo XIX non erano mancate particolari attenzioni per reperti e arredi e soprattutto per le sopravvivenze più o meno integre degli edifici. Il Dictionnaire raisonné de l’architecture française du XIIe au XVIe siècle, pubblicato in dieci volumi a Parigi fra il  e il , offre significativa testimonianza, confermata e ripresa, sia pure da angolazione diversa, dall’Istituto storico prussiano in Roma diretto da Paul Kehr, che nel  istituiva una sezione storico-artistica per lo studio dei castelli svevi alla quale collaborarono Arthur Haseloff (-) e Eduard Sthamer (). Michele Amari comunque, con la Carte comparée de la Sicile, può essere incluso tra i fondatori dell’archeologia medievale per la Sicilia. Il problema non è però quello di fissare le origini di questa disciplina, ma dell’utilizzazione delle fonti archeologiche, che non sono solo le artistiche e le monumentali, per ricostruire le vicende, le funzioni e i significati delle strutture materiali nella società medievale. E in tal

. C. Trasselli, Appunti, p. . . S. Tramontana, Il regno di Sicilia, p. .

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CAPIRE IL MEDIOEVO

senso – al di là dei metodi e strumenti di scavo, delle analisi stratigrafiche del terreno, delle classificazioni dei reperti ecc., che sono tutte pertinenze dell’archeologo – le fonti archeologiche diventano preziose per lo storico. Esse infatti forniscono notizie che i documenti scritti spesso non registrano e i cui dettagli, che magari non destavano curiosità e interessi fra i coevi, sollecitano le attese dei medievisti specie per quel che si riferisce: a) all’ubicazione dei centri abitati, tante volte diversa dall’attuale, alla loro fisionomia topografico-urbanistica, all’idrologia e alla dinamica delle acque (sorgenti, fiumi più o meno navigabili, paludi, erosione delle coste ecc.), alle foreste, alle risorse minerarie; b) ai rapporti popolazione-territorio: insediamenti e loro strutture familiari e di gruppo, mobilità, migrazioni e immigrazioni, villaggi abbandonati, impianti materiali delle case, organizzazione sociale e del lavoro nei centri rurali e in quelli cittadini; c) alle necessità e abitudini della vita quotidiana testimoniate sia dai resti funerari (collane, cinture, spade, ornamenti vari), che forniscono anche indicazioni sulla mentalità in rapporto alla morte, sia dagli attrezzi di lavoro, dagli utensili, dai rifiuti alimentari, costituiti da resti faunistici e soprattutto dalla ceramica, i cui reperti provano fra l’altro l’uso di prodotti fabbricati in serie e il loro commercio. Le fonti archeologiche offrono quindi notevole contributo per la ricostruzione di taluni aspetti particolari della storia medievale, specie per quel che si riferisce ai problemi del popolamento, delle infrastrutture territoriali e della vita quotidiana, ma vanno utilizzate con molta cautela, perché i rinvenimenti sono spesso casuali, di frequente ambigui, sempre settoriali in quanto, considerato che dei numerosi oggetti putrescibili di cui l’uomo fa uso non rimane traccia , si conservano solo oggetti costituiti da materiali resistenti alla corrosione e al disfacimento del tempo: terracotta, vetro, metallo, ossa. E proprio lo studio dei reperti osteologici animali contribuisce all’identificazione dei tipi di carne presenti nei regimi alimentari di determinati luoghi e di determinate epoche . L’analisi degli scheletri umani offre invece la possibilità di ricostruire, sia pure per limitate parti anatomiche, le caratteristiche somatiche, le patologie, il modo di vivere degli uomini e delle donne del Medioevo. Le diffuse artrosi vertebrali e i malanni reumatici che lasciano indelebili segni sulle ossa testimoniano, per esempio, l’alta percentuale di persone dedite ad attività lavorative particolarmente gravose.

. Non è privo di significato che il termine “sarcofago”, dal greco, significhi appunto che mangia, che consuma la carne. . P. Villari, Resti faunistici, pp. -.

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FONTI MUTE E FONTI ORALI

Da quanto succintamente esposto emerge con chiarezza che poche discipline, come l’archeologia, hanno conseguito, negli ultimi anni, trasformazioni così radicali sia nei metodi di ricerca che nelle prospettive di studio. E ciò grazie soprattutto al nesso strettissimo fra tradizione umanistica e tecnologia, che ha favorito il ricorso sempre più frequente a strumenti di ricerca particolari quali la cartografia satellitare, il magnetometro a protoni per verificare se dietro le rocce si nascondono reperti, i telerilevamenti non invasivi, il georadar, che ha permesso per esempio di fissare le mappe delle fondamenta originali della Torre di Pisa, le pratiche di simulazione al computer, che consentono di ricostruire fedelmente città sepolte. E valga, accanto alla recente ricostruzione tridimensionale del centro di Roma antica, la termografia utilizzata dagli studiosi dei templari per esplorare la cappella di Rosslyn, in Scozia, nei cui cunicoli, utilizzati, secondo la leggenda, come rifugio dei monaci-cavalieri, si dovrebbero trovare anche manoscritti dei Vangeli, del Santo Graal, dell’Arca dell’alleanza. L’archeologia dunque non più come studio di sole opere monumentali e artistiche, ma come strumento fondamentale di ricerca per ricostruire il tessuto sociale e la dinamica quotidiana del Medioevo. Ed è anche questo il motivo del suo fascino pure fra i non specialisti, confermato fra l’altro dalla diffusione di talune riviste patinate, dal cinema, dai giornali, che ai risultati delle ricerche archeologiche riservano ampio spazio. Se si pensa, del resto, che ancora nel  Cagiano de Azevedo scriveva che «in Italia non si sapesse cosa fosse l’archeologia medievale» , e che nel  Ottorino Bertolini formulava l’auspicio «di un voto per incitare le Università a creare» scuole e cattedre di quella disciplina , colpisce oggi la diffusione, pure nel nostro paese, di tale insegnamento e l’ampiezza delle pubblicazioni. Fra le quali vanno almeno ricordate – accanto alla Storia e archeologia del Medioevo italiano, a cura di Riccardo Francovich, la rivista “Archeologia medievale”, pubblicata a Firenze dal  e fondata e diretta dallo stesso Francovich e Tiziano Mannoni, e Il mondo dell’archeologia, programmato da Sabatino Moscati e curato da Antonio Giuliano, pubblicato dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana in due volumi di  pagine ciascuno, con . illustrazioni in bianco e nero e a colori, integrato da un CD-ROM, esteso all’archeologia islamica, articolato in quattro sezioni: L’archeologia nel tempo: la storia, le fonti, i metodi, la conservazione; L’indagine archeologica; I siti; I protagonisti.

. Discussione sulla lezione Schmiedt, pp. -. . Discussione sulla lezione D’Haenens, pp. -.

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. Tombe, toponimi, strutture architettoniche ed edilizie Fonti mute, oltre quelle elencate, sono ancora le tombe, la loro collocazione e composizione, gli arredi funerari, che molto possono dire sulle credenze e mentalità di un territorio. I toponimi testimoniano – sia pure talvolta in ritardo rispetto alla realtà che documentano – i modi con cui «nella costruzione dello spazio vissuto si proiettano elementi e motivi culturali» connaturati ai caratteri geomorfologici del territorio, alle vegetazioni, agli insediamenti, alle tradizioni religiose, a quelle etniche ecc. La loro utilizzazione è assai delicata, perché non sempre essi attestano la concreta realtà indicata dai nomi. In Sicilia, per esempio, non tutte le località designate da toponimi arabi risalgono al tempo della dominazione islamica. Le strutture architettoniche ed edilizie (abitazioni, castelli, palazzi, chiese), l’insieme cioè del costruito che, attraverso il materiale utilizzato e l’ampiezza e funzionalità degli ambienti – lasciati quasi sempre in ombra dalle fonti scritte – permette di conoscere i livelli tecnici del fabbricare, le condizioni economiche delle varie stratificazioni sociali, le loro esigenze, le loro abitudini di vita, i loro gusti. Purtroppo le testimonianze superstiti delle micro-strutture edilizie medievali sono poche: aiutano comunque taluni scavi, che hanno consentito di approfondire lo studio di queste unità abitative largamente diffuse sul territorio. Più numerose sono invece le testimonianze degli impianti architettonici di rilievo, il cui studio permette di fissare i modi d’uso dello spazio urbano per la ricostruzione della dinamica socio-economica, politica, religiosa e culturale degli anni del Medioevo. Basti pensare ai palazzi e alle cattedrali, la cui collocazione nello spazio urbano aiuta a dare concrete risposte alle domande che la storiografia si pone sul funzionamento della vita cittadina, dal cui ritmo derivavano gli atteggiamenti generali del gusto, i dubbi, le paure, le attese e, in sostanza, gli interessi mentali e religiosi riflessi in parte sulle facciate delle cattedrali. Queste sono un libro di pietra che oggi si stenta a decifrare, ma la cui interpretazione aiuterebbe molto a ricostruire la cultura popolare interclassista che unificava il mondo medievale, anche se bisogna tenere in considerazione i complessi problemi, che non sono solo tecnici, del passaggio dal lessico architettonico a quello delle immagini, nelle quali, più che la realtà, si raffiguravano i simboli. In tal senso, sulla facciata della cattedrale di Ferrara, acquistano particolare significato le scene del giudizio universale e specie quella in cui si vede un diavolo nel ruolo di accusatore che si aggrappa a uno dei piatti della bilancia con la quale l’angelo Michele pesa l’anima di un defunto. Scena appunto che rappresenta uno degli incubi più invasivi del tempo e 

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FONTI MUTE E FONTI ORALI

che era un esplicito invito ai fedeli a evitare con le buone opere il pericolo di trovarsi, per frode del maligno, fra i dannati. L’urbanistica come testimonianza dell’impianto e degli ambienti cittadini sia per quel che si riferiva alla «scena fisica», sia per quanto «concerneva il complesso di norme che spiegavano e regolavano i modi e le forme con i quali i peculiari contesti sociali si insediavano nel territorio» . Non sono pochi i centri storici il cui impianto urbanistico rimane ancora quello medievale, e fra tutti basti ricordare Gubbio, che, forse più di ogni altra città, conserva l’impianto medievale. . Pesi, misure, monete Nel Medioevo – e lo si ricava da molti documenti e specie dalle “pratiche di mercatura” – pesi e misure mutavano di paese in paese anche nell’ambito della stessa istituzione politica. Essi esprimevano allora – e del resto anche oggi – la misurazione delle grandezze fisiche in relazione alla lunghezza, alla larghezza, alla superficie e al volume e in relazione al peso di un oggetto verificabile con la bilancia o con altro strumento. Il loro studio è particolarmente importante perché senza la conoscenza della loro funzione sfuggirebbe il valore di ogni operazione economica e delle relative ricadute sul piano sociale e politico. Basti ricordare, per esempio, che gli “appaltatori” dei beni della Chiesa ai tempi di Gregorio Magno «misuravano i canoni in grano imponendo ai coloni un moggio che conteneva fino a  sestari in luogo dei  prescritti»  e che in Sicilia, nei secoli XIV e XV, «il tomolo col quale i baroni misuravano il frumento che ricevevano dai contadini era sensibilmente più grande di quello che serviva per rivenderlo» . Non è certo possibile elencare qui i pesi e le misure utilizzate nel Medioevo; si ricorda però che Francesco di Balduccio Pegolotti offre quadri comparativi dei pesi, delle misure e delle monete adoperate in varie località occidentali e orientali . Utili rimangono ancora i volumi di G. F. Cristiani, Delle misure d’ogni genere, e di A. Rossetti De Scander, Ragguaglio universale dei pesi. Numerosa è comunque, sull’argomento, la produzione locale. Va ricordato poi che è frequente l’uso di indicare con lo stesso termine – salma, tomolo ecc. – sia le misure di superficie del terreno che quelle di capacità liquida e degli aridi; che la misura

. V. Franchetti Pardo, Storia dell’urbanistica, p. . . U. Tucci, Pesi e misure, p. . . Ivi, pp. -. . La pratica della mercatura.

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CAPIRE IL MEDIOEVO

del lavoro contadino era abbastanza vaga e quindi arbitraria; che l’estensione dei feudi era in genere – si ricava, per esempio, anche dal Catalogus baronum – valutata in base al numero dei cavalieri che ogni feudo era in grado di fornire .

Anche le monete, come i pesi e le misure, sono fonti mute di particolare importanza per la ricostruzione della dinamica storica delle varie epoche. La moneta infatti è, prima di ogni altra cosa, un tassello metallico di peso predeterminato, ma anche un oggetto metallico che era misura di valore e mezzo di scambio perché veniva usato sia per quantificare il valore della merce, cioè il suo prezzo, sia per acquisire la merce valutata. Non sempre, certo, è stato così: in alcuni periodi del Medioevo, quando il baratto era a base della dinamica economica, la moneta era considerata come qualsiasi altra merce perché ogni merce era potenziale mezzo di scambio. Ai fini però di un discorso sulle fonti imperniato prevalentemente sulle caratteristiche materiali delle specie monetarie è qui sufficiente precisare che ogni moneta si qualifica per la natura e il peso del metallo di cui è costituita, per il valore intrinseco e per quello nominale di cui è portatrice, per la sua iconografia legata alle immagini e alle parole presenti sulle due facce. Da alcune lettere si ricava che già Teodorico imponeva per l’interesse del pubblico e per la deferenza all’effigie del re il rispetto di queste tre caratteristiche fondamentali per la validità legale delle monete , cioè per il corretto uso delle componenti che stavano a base della loro coniazione. E in tal senso è opportuno richiamare l’attenzione sulle Zecche e sull’organizzazione e funzionalità del lavoro in un opificio sostanzialmente strutturato in termini quasi industriali: impiego di capitale, direzione tecnica e controllo di qualità, divisione del lavoro (funzione, coniazione, affilatura, cementificazione ecc.), specializzazione. Anche per quel che riguarda la qualità e quantità dei procedimenti di produzione delle specie metalliche, le vicende delle monete sono dunque un riflesso della storia economica. Numerosi sono gli studi sulle monete e su ciascuna delle sue caratteristiche, e per tutti si ricordano: M. Bloch, Il problema dell’oro nel Medioevo; C. M. Cipolla, Moneta e civiltà mediterranea; Ph. Grierson, Introduzione alla numismatica; C. Morrison, La numismatique; L. Travaini, La terza faccia della moneta; S. Tramontana, Fonti iconografiche e liturgia del potere nel Mezzogiorno medievale.

. Va infine ricordato che in Sicilia, per indicare le unità di misura degli aridi e delle superfici, si ricorreva a simboli lugubri che avevano nessi strettissimi col linguaggio della morte: tomolo, che indica appunto sia un’unità di misura che una tomba; salma, con cui si intendeva un’unità di misura e un cadavere; croza, che significava sia una misura che il teschio. . Cassiodoro, Variae, I, ep. ; VII, ep. ; XI, ep. .

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FONTI MUTE E FONTI ORALI

. Simboli e insegne del potere e delle collocazioni sociali Oltre che sulle monete, le valenze simboliche del potere attraverso immagini e parole sono presenti in altre fonti mute. Fra queste vanno elencati anzitutto i sigilli, di solito in cera o ceralacca, che recavano i segni distintivi di un’autorità (sovrani, signori, pontefici, vescovi, capitoli, città ecc.) costituiti da una figura, uno stemma, una o più iniziali, una legenda. Venivano utilizzati per autenticare e chiudere documenti o lettere ufficiali e impedirne la manomissione. La difesa del diritto al sigillo coincideva infatti con la difesa del diritto di giurisdizione. Nell’Apocalisse di Gesù Cristo a san Giovanni – capitoli  e  – è indicato come «libro suggellato con sette suggelli» il testo che contiene l’avvenire e che solo l’Agnello, cioè Gesù, immolato per la salvezza del genere umano, può aprire. I sigilli in metallo (piombo, argento, oro) erano detti bolle e potevano essere aderenti o pendenti e legati al documento mediante un filo di seta o di canapa. Col termine “bolla d’oro” si suole intendere, per antonomasia, la “costituzione” con la quale, nel , Carlo IV regolamentava l’elezione imperiale. I sigilli sono oggetto di studio della sfragistica – da sfragív, sigillo – che li esamina dal punto di vista tecnico, storico, artistico e ne evidenzia la natura diplomatica e giuridica. Vi sono poi armi e stemmi, che sono simboli di gruppi, di associazioni, di eserciti, di città e soprattutto di famiglie nobili. L’araldica ne studia le origini, le specie, le varie composizioni, cioè le forme, gli smalti, le partizioni, le figure ecc. Infine, abbigliamento e copricapi sono stati sempre strumento di trasmissione di messaggi sul piano socio-politico, magico-religioso, sessuale. Sono stati nel Medioevo, e lo sono ancora oggi, “segni” particolarmente significativi di appartenenza sociale ed etnica in quanto rivelatori dei gusti dei ceti dominanti, della rigidità delle stratificazioni di classe, del rifiuto dei diversi. Gli abiti, i loro tagli, le loro confezioni, i loro colori sono testimonianze importanti sia delle usanze della vita consueta che delle cerimonie e dei riti della cultura ufficiale. Fra questi ultimi vanno ricordati le corone, le tiare pontificie, gli abiti di rappresentanza dei sovrani. Valga per tutti il manto di Ruggero II, in seta rosso-porpora, di oltre  metri di apertura e particolarmente ricco di ricami in oro, che si conserva nel museo Weltliche Schatzkammer di Vienna. Gli abiti rimangono comunque preziosa testimonianza delle diversificazioni etniche e sociali: basti ricordare l’abbigliamento e i segni distintivi imposti agli ebrei, alle meretrici e, in fondo, a tutti i diversi. 

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Fondamentale per lo studio dell’abbigliamento rimane ancora il volume, corredato di numerose illustrazioni, di Cesare Vecellio, Degli habiti antichi et moderni. Fra gli studi più recenti si ricordano A. Cirillo Mastrocinque, Moda e costume nella vita napoletana del Rinascimento; R. Levi Pisetzky, Moda e costume; S. Tramontana, Vestirsi e travestirsi in Sicilia.

. Reliquie Sono costituite da tutto quel che rimane da qualsiasi cosa. Il termine è inteso però quasi sempre in senso religioso, nel significato cioè di resti corporali e di oggetti d’uso di personaggi venerati dalla liturgia e dal culto, conservati, con arredi i più vari, in luoghi sacri. La loro efficacia era legata alla capacità di produrre miracoli, e soprattutto per questo le reliquie, fondamentali per l’architettura degli spazi liturgici, avevano e hanno valenza religiosa, sociale, economica e politica. Basti pensare, per esempio, ai numerosi edifici di culto costruiti per onorare reliquie; alle legittimazioni di potere come quella dell’impero su Gerusalemme grazie alle reliquie della croce e dei chiodi di Cristo; alle giustificazioni di tante autonomie ecclesiastiche locali nei riguardi del centralismo romano – si pensi a Santiago de Compostela – grazie alla presenza di reliquie di santi. Per non parlare poi della funzione delle reliquie sul piano terapeutico, del loro commercio, delle loro falsificazioni, dei numerosi furti o, come si diceva con pietoso eufemismo, delle loro “traslazioni”. Furti che già turbavano sant’Agostino, ma la cui frequenza, difficile da estirpare, diveniva particolarmente intensa con la ripresa economica e commerciale dell’Occidente fra IX e XII secolo. La traslazione da Alessandria d’Egitto a Venezia del corpo di san Marco nascosto in una cassa di carne di maiale in salamoia, e quella di san Nicola da Mira in Asia Minore a Bari, testimoniano il tramonto del primato marittimo di musulmani e bizantini e il progressivo affermarsi delle marinerie italiane. Abbondante è la letteratura sulle reliquie e sulle loro valenze non solo come fonti. Un nutrito elenco degli studi più significativi si può leggere in R. Brooke, C. Brooke, La religione popolare nell’Europa medievale . Si leggano comunque gli atti del seminario Le reliquie gerosolimitane e i loro riflessi in Occidente, e soprattutto le considerazioni di A. Ja. Gurevic, Contadini e santi.

. Nelle pp. -.

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. Testimonianze iconografiche Sono le forme visive e figurali di espressione, cioè le rappresentazioni per immagini, vale a dire le arti figurative incarnate dalla pittura, dai mosaici, dalle miniature, dalla scultura. Le immagini infatti, al di là della loro valenza artistica, sono assai importanti per la ricostruzione del passato, e del Medioevo in particolare, perché aiutano a rimediare e completare le lacune delle fonti scritte. Di nessuna verità i comportamenti mentali del Medioevo erano tanto impregnati quanto dell’abitudine di esprimersi per segni, della necessità appunto di cristallizzare tutto in concetti figurati. La gente del Medioevo infatti era solita pensare per immagini e portata dunque a credere, a immedesimarsi nella concretezza di quel che veniva raffigurato ed entrare così, spiega Huizinga, «nel sistema delle figure morali e religiose per partecipare spontaneamente della loro colta autorità» . In tal senso, nel senso cioè di un’analisi che ricostruisca i motivi delle committenze e soprattutto gli atteggiamenti mentali con cui le rappresentazioni figurative venivano percepite dal pubblico, le immagini costituiscono documento e non solo illustrazione . Esse diventano fonti indispensabili per la ricostruzione della vita pubblica e di quella privata nella società medievale, come, per esempio, il celebre Vangelo di Enrico il Leone, le cui miniature a tutta pagina eseguite fra il  e il  da Herimann nell’abbazia benedettina di Helmarhausen, nel raffigurare le immagini del duca di Sassonia e di Matilde sua moglie e di Enrico II d’Inghilterra e di Thomas Becket, rivelano le scene di vita quotidiana e di vita pubblica di due delle corti medievali più importanti dell’epoca. Le immagini infatti non offrono solo notizie ma, attraverso la convergenza fra lo sguardo dello storico e quello dell’autore del dipinto, permettono di cogliere, di un ambiente, taluni modi di comportamento sul piano individuale e su quello collettivo, di fissare gesti, di delineare identità somatiche, di suggerire tensioni emozionali, di ricostruire paesaggi e di penetrare all’interno degli impianti urbani, delle strade, dei vicoli, delle case, di svelare momenti di vita intima, stimoli e contrasti economici, turbamenti e necessità oscure del vivere quotidiano. Parecchi sono gli esempi che potrebbero essere elencati. Ci si limita a ricordare l’arazzo di Bayeux, cioè il ricamo ad ago tracciato fra il 

. L’autunno del Medioevo, p. . . E ciò perché, avendo le immagini un impatto più immediato con le persone, hanno sempre costituito un punto d’incontro efficace fra cultura dotta e cultura popolare. In tal senso è da leggere A. Mignemi, Lo sguardo e l’immagine.

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e il  con fili di lana di otto colori diversi su una fascia di tela di lino greggio lunga  metri e larga  centimetri . Il quale, al di là delle motivazioni religiose che ne stavano alla base e delle vicende della conquista normanna d’Inghilterra, costituisce una fonte preziosa per la ricostruzione di un ambiente attraverso la rappresentazione degli abiti, delle armi, dell’equipaggiamento, delle navi, dei sistemi di navigazione e dei modi di combattere, dei pranzi, dei ricevimenti principeschi, delle incoronazioni, delle sepolture, della caccia al falcone, dell’uso del cavallo anche per lavorare nei campi al posto del bue. In questi ultimi anni si è via via andato accentuando l’interesse della storiografia per lo studio delle immagini come fonti. Fra i testi più recenti – oltre gli atti di un seminario tenuto a Palermo e pubblicato a cura di L. Russo col titolo Vedere l’invisibile – cfr. i volumi della collana “Bibliothèque illustrée de l’histoire” diretta da Pierre Nora; S. Tramontana, L’iconografia; P. Burke, Testimoni oculari, in cui, nel sottolineare l’importanza dell’uso di queste fonti per la ricostruzione del passato, si mettono in guardia «gli incauti riguardo alle possibili insidie»; il recentissimo volume di Reinhard Brandt, Filosofia della pittura, col quale si cerca di individuare quel che si prova di fronte a un’immagine. Una considerazione particolare va riservata al volume di Giovanni Pozzi, La parola dipinta, in cui è offerto alla riflessione il problema delle numerose rappresentazioni figurative nelle quali pittura e scrittura si sovrappongono e talvolta si confondono. Argomento particolarmente importante e ripreso nella quarantunesima settimana di studi del Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo di Spoleto, svoltasi dal  al  aprile  e i cui atti, preceduti dal discorso inaugurale di Guglielmo Cavallo , hanno per titolo Testo e immagine nell’Alto Medioevo. Le immagini accompagnate da cartiglio o da tituli scritti coi quali si tenta di spiegare il significato del dipinto sono molte. Esse costituiscono un tipo di fonte che, muta e scritta a un tempo, rimanda a un duplice livello di lettura e permette di cogliere le due diverse qualità di pubblico a cui si rivolge. «La pittura – scriveva nel  al vescovo di Marsiglia Gregorio Magno – adempie per gli ignoranti la stessa funzione che ha la scrittura per chi sa leggere; nella pittura gli ignoranti vedono gli esempi da seguire, in essa leggono coloro che non sanno leggere». Ed è riflessione che, al di là del significato didascalico e di esigenza morale ispirata a sentimenti religiosi, pone il problema della specificità dei diversi linguaggi e della difficoltà di trasformare l’osservazione visiva in espressioni scritte o parlate, per i cui complessi problemi possono essere utili: Lina Bolzoni, La rete delle immagini; Cesare Segre, La pelle di San Bartolomeo; Antonia Byatt, Natura morta, che è un romanzo dal quale emergono varie considerazio-

. L. Musset, L’“arazzo” di Bayeux, pp. -. . Il discorso di apertura di Cavallo ha per titolo Testo e immagine: una frontiera ambigua.



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FONTI MUTE E FONTI ORALI

ni sul diverso modo di leggere testi scritti e dipinti e sul fatto che «ognuno, anche di fronte a una descrizione precisa, immagina le cose in modo diverso, mentre davanti a un dipinto tutti vediamo la stessa cosa».

. Carte geografiche e topografiche, mappe Con queste carte – la più antica è forse quella di Anassimandro di Mileto del secolo VI a.C. – l’uomo ha sempre sentito il bisogno di rappresentare su supporti stabili la configurazione del territorio e di indicarne i luoghi, gli itinerari, le superfici, i confini, gli impianti urbani delle città ecc. E proprio per quel che avveniva nelle città, specie in rapporto alle forme di insediamento umano, la cartografia del Medioevo era particolarmente sensibile. Nel mappamondo cottoniano del secolo X, conservato al British Museum di Londra, sono proprio le città (Pavia, Verona, Roma, Salerno), per esempio, ad avere particolare rilievo nella rappresentazione della penisola italiana. E non solo per motivi militari, senza dubbio di fondamentale importanza, ma anche per sottolineare il coagularsi delle forme insediative sul territorio. Certo, la cartografia medievale, posta talvolta a corredo di cronache universali come quella di Orosio o di Isidoro di Siviglia, era parecchio schematica, e solo nel secolo XII si incominciava a dare avvio a un qualche tecnicismo. Le mappae mundi disegnate in Occidente – al contrario di quelle musulmane, corredate di riferimenti concreti che servivano da guida per i viaggi – avevano di solito un carattere monumentale da utilizzare prevalentemente come strumento didattico nelle scuole. Solo con le “carte-portulano” – che per molto tempo furono ritenute culturalmente povere perché estranee alla tradizione libresca e aristocratica della geografia – si cominciavano a concretizzare attendibili rappresentazioni dello spazio, limitate però al solo contorno delle coste, tracciato a colori e con vari dettagli. Le carte-portulano erano infatti carte nautiche che servivano, o dovevano servire, di aiuto alle navi per identificare le rotte, per individuare i porti, per conoscere la propria posizione e calcolare le distanze. Fra le carte più note giunte a noi vanno ricordati la carta Angelino Dalorto del , il cui originale è stato scoperto a Parigi nel ; l’atlante catalano del , che si conserva presso la Biblioteca nazionale di Parigi; il planisfero Mauro del , custodito nella Biblioteca Marciana di Venezia. Le mappe del Medioevo esprimono un sistema simbolico da leggere e interpretare nel loro contesto. Esse contribuiscono alla ricostruzione del lento processo di conoscenza e di controllo dello spazio che avrebbe portato la marineria eu-

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ropea verso l’Atlantico e l’America, ma rivelano anche le caratteristiche di una geografia attardata nella ricerca di significati escatologici, religiosi, filosofici dei luoghi e delle carte che li rappresentavano. Non è comunque il caso di scendere in dettagli. Si ritiene opportuno segnalare il saggio di Ugo Tucci, Credenze geografiche e cartografia; il volume Atlante; gli atti pubblicati col titolo Spazi, tempi, misure e percorsi nell’Europa del Basso Medioevo; il volume di Scott D. Westrem, The Hereford Map, in cui l’autore, che insegna nella City University di New York, riproduce e studia questa importante mappa conservata nella cattedrale di Hereford e costituita da un’intera pelle di vitello sulla quale, fra il  e il , veniva rappresentato il mondo allora conosciuto. La mappa, corredata da . legenda che si riferiscono a notizie etnografiche, zoologiche, storiche, teologiche, è significativo esempio di una fonte in cui immagini e testi scritti sono complementari.

. Forme espressive dell’oralità Fanno parte di questo tipo di fonti sia le testimonianze orali che registrano a viva voce una data realtà, sia le tradizioni orali, diverse dalle testimonianze perché trasmesse da una generazione all’altra e soggette nel tempo a possibili mutamenti, a interpolazioni e contaminazioni varie. Le testimonianze orali sono fonti trasmesse attraverso la parola e la voce dell’uomo, ma la loro presenza non sta necessariamente a indicare una società organizzata nei suoi tratti fondamentali dall’oralità e non anche dalla scrittura. Le due manifestazioni espressive possono infatti coesistere. Sono del resto parecchi gli esempi che testimoniano il contemporaneo intreccio fra oralità e scrittura. Socrate – nel contesto di una cultura illuminata e spregiudicata come quella dell’età di Pericle, in cui l’uso della scrittura non era, ovviamente, l’eccezione, ma la regola – non sembra abbia mai messo per iscritto le sue “conversazioni” sull’anima, sulla ragione, sull’amore, con amici e discepoli. E Platone, sul crinale fra oralità e scrittura, diffidava della pagina scritta sulla quale, quasi di malavoglia, fissava il suo argomentare con una forma espositiva assai prossima, per stile e genere letterario, al discorso parlato. Le sole parole scritte da Gesù Cristo sono quelle tracciate col dito sulla sabbia e subito cancellate e alle quali, a proposito dell’incontro con la donna adultera, fa riferimento il Vangelo di Giovanni (,  e ). Nella storia dell’umanità le riunioni, specie quelle conviviali, hanno sempre rappresentato una forma di comunicazione fondamentale per rinsaldare i rapporti, per fissare le tradizioni culturali di un territorio, per proiettare e trasmettere un messaggio. Ed è senza dubbio un topos – sottolinea Rosamond Mckitterick in The Carolingians and the Written Word – la 

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tradizione che vorrebbe la società europea degli inizi dell’età medievale caratterizzata solo dall’oralità. Che era senza dubbio presente e diffusa, ma non tale da rappresentare forme di isolamento e di chiusura e sistemi compiuti di cultura. Se ci si sofferma a prestare attenzione solo ai grandi avvenimenti della dinamica sociale e politica e non anche alla vita di ogni giorno e alle abitudini e alle forme di comportamento che in essa si manifestano, si stenta a cogliere l’intreccio tra le forme espressive dell’oralità e della scrittura. Sono del resto gli stessi testi scritti a evidenziare i due tipi di linguaggio: quello orale del quotidiano e del folklorico e magico e quello dotto della scrittura, ma impregnato delle necessità della vita di ogni giorno e delle pratiche mentali e credenze collettive ereditate dal passato. L’oralità infatti, intimamente connaturata alle abitudini di larghe fasce popolari, non era solo dovuta alla sconoscenza tecnica e culturale della scrittura, ma alla garanzia e alla forza di tradizioni capaci «di contrapporsi col sapere dotto in quell’incessante dialogo che dava vitalità a tutta la cultura medievale» . Anche in tal senso – al di là della diffidenza con cui spesso si è guardato a questa forma di comunicazione – l’oralità è da considerare un pilastro delle fonti medievali perché rivela una sorprendente presenza nella vita sociale dei ceti alti e delle corti regie e signorili e persino nelle testimonianze scritte. Presenza come strumento di informazione e di comunicazione e come processo di transizione dalla parola detta alla parola scritta. . Comunicazione orale di testi scritti La pagina scritta era certo momento fondamentale della comunicazione e della trasmissione del sapere. Ma nel Medioevo, periodo in cui non sempre saper scrivere era associato a saper leggere, l’oralità, vale a dire la comunicazione parlata, era parecchio diffusa anche per l’approccio ai testi scritti. Dalle cronache emerge chiaramente che si trattava di testi strutturati per essere letti pubblicamente nelle sedi opportune e affidati all’intonazione delle parole, in grado di offrire, a chi ascoltava, suggestioni diverse. Ne è significativo esempio la Cronica in factis et circa facta Marchie Trevisane di Rolandino da Padova, ufficialmente presentata con una lettura pubblica fatta il  aprile  nel chiostro di Sant’Ubal. A. Ja. Gurevic, Contadini e santi, p. . È comunque opportuno ricordare che la sura LXVIII,  del Corano inizia con l’invocazione alla penna e a ciò che essa scrive e che la sura XCVI, - attesta che Allah è «colui che ha insegnato a servirsi della penna» e che ha «insegnato all’uomo ciò che non sapeva».

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do alla presenza dei dotti della città . La lettura, come è scritto in talune cronache, rispecchiava una pratica parecchio diffusa nel Medioevo e serviva, fra l’altro, sia ad assicurare all’autore la “proprietà letteraria” dell’opera anche contro le eventuali alterazioni dei copisti, sia a fare conoscere il contenuto e la qualità della cronaca, ad autenticarne il valore storico e a conferirle il carattere di testimonianza ufficiale . La lettura pubblica delle cronache elevava in fondo le parole scritte al rango di recitazione, di spettacolo, addirittura di liturgia. Si affidava cioè alle sfumature della voce recitante e alla simbologia dei gesti quel che mancava alla scrittura. Lo si desume dalla cronaca di Malaterra, destinata appunto a un recitator, vale a dire a un dicitore che declamasse in pubblico l’epos della conquista . L’uomo del Medioevo, d’altronde, era abituato dalla pratica delle rappresentazioni sacre e da quella degli atti giuridici a cogliere i significati dell’intreccio fra gesti e parole. E compito di chi leggeva, di chi cioè trasformava, ad uso di chi ascoltava, il linguaggio scritto in linguaggio parlato e gestuale, era quello di riprodurre con la voce e coi gesti le opere dei cronisti, degli scrittori, dei poeti. Del resto, si legge all’inizio del Vangelo di Giovanni, in principio era il «verbo», cioè la parola detta e non scritta, come è pure testimoniato dalla Genesi: «E Dio disse: sia luce. E la luce fu». . Tradizioni orali Testimonia infine questo nesso strettissimo fra comunicazione scritta e comunicazione parlata il frequente uso di fonti orali per la stesura di cronache, ma anche di altri testi, compresi gli atti notarili, che in fondo fissavano per iscritto comunicazioni orali e corredavano di componenti visive (segni di croce posti accanto alle sottoscrizioni) e di gesti (l’abitudine di far toccare la penna ai minori e agli analfabeti) la stesura dello strumento giuridico. I testi però in cui è più frequente il nesso fra scrittura e oralità sono le cronache. Parecchi cronisti lo dichiarano apertamente e spiegano di aver utilizzato sia fonti parlate, recuperate dalla viva voce di chi aveva di persona partecipato o assistito alle vicende riferite, sia tradizioni orali tramandate da generazione a generazione. Le quali tradizioni, al di là di un più o meno concreto riscontro in fatti realmente accaduti, erano divenute patrimonio comune di un ambiente, di un’epoca, di una mentalità.

. G. Arnaldi, Studi sui cronisti della Marca Trevigiana, pp. -. . Ivi, pp. , , . . O. Capitani, Motivazioni peculiari e linee costanti della cronachistica, pp. -.

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Così, per esempio, accadeva in tante forme di culto tramandate dall’agiografia e dalle pratiche liturgiche, così nelle rappresentazioni epiche e folkloriche diffuse da menestrelli, giullari e rimatori che giravano di corte in corte, così in episodi che rivelano la continuità di comportamenti quali l’astuzia unita all’abilità delle armi. E valga, fra i tanti, quello riferito da Guglielmo di Puglia per Roberto il Guiscardo , lo stratagemma cioè dell’eroe che si fingeva morto, si faceva chiudere in una bara dai commilitoni, otteneva dalla pietà degli assediati di avere esequie religiose nella chiesa del luogo accerchiato, emergeva improvviso dal catafalco con la spada sguainata e coi compagni si impossessava della fortezza che, senza quell’inganno, non sarebbe mai riuscito a espugnare. Che è vicenda senza dubbio di matrice classica, come è testimoniato dall’episodio virgiliano del cavallo di Troia e da uno analogo attribuito ad Alessandro il Grande e a Filippo il Macedone, ma sulla quale aveva però fortemente inciso l’atmosfera culturale delle saghe, quella folklorica ed epica delle corti di Francia e, secondo Dozon, persino la letteratura epico-popolare serbo-croata del ciclo degli Haïdouks, in cui si narrava dell’eroe Radoïtz che liberava i suoi compagni ricorrendo a un simile stratagemma. . Cultura dell’oralità nelle verifiche sperimentali e nelle scienze Ampio spazio all’informazione orale riservano poi taluni testi scientifici, nei quali la cultura dell’oralità come espressione dell’esperienza è in gran parte alla base della loro stesura scritta. Valga, fra i tanti esempi, il De medicina equorum di Giordano Ruffo, dal quale emerge ampia conoscenza «di tutte quelle cose che riguardano il cavallo e la sua natura» esposte, precisa l’autore nell’introduzione, sulla base appunto di informazioni orali e di pratica esperienza . Una considerazione a parte va comunque riservata al trattato geografico di al-Idrisi, nella cui introduzione l’autore dichiara esplicitamente di aver potuto compilare la sua opera grazie all’utilizzazione di ogni tipo di fonte, comprese appunto le informazioni verbali trasmesse a viva voce o che era riuscito a raccogliere da quanti, marinai, mercanti, viaggiatori, pellegrini, avevano esperienza diretta di vari luoghi: «fece venir costoro a sé – si legge appunto nell’opera di al-Idrisi – e per mezzo

. Gesta Roberti Guiscardi, II, -, p. . . S. Tramontana, Il regno di Sicilia, cit., pp. , -.

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di un suo collaboratore interrogolli tutti insieme e ad uno ad uno, su quanto ei voleva ritrarre intorno ai paesi stessi. Egli accettava e faceva mettere in scritto i capitoli nei quali le loro risposte concordassero e le loro relazioni stessero bene al tutto; escludeva e rigettava gli altri capitoli nei quali si dissentisse» . Ed è una metodologia caratterizzata da un approccio sperimentale allo spazio geografico, un modo appunto di utilizzare, anche sul piano scientifico, le fonti orali e che testimonia, fra l’altro, l’oralità come cultura e come strumento di informazione che proveniva non tanto e non solo dal documento espresso a viva voce, ma dal suo significato e dalla sua qualità, valutati entrambi, il significato e la qualità, con rigorose collazioni, con attente elaborazioni, con scrupolose selezioni.

. Al-Idrisi, Sollazzo, I, pp. -.

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 Fonti scritte

Le fonti scritte hanno come elemento fondante la scrittura, ma anche la consistenza materiale sulla quale l’elaborazione grafica prendeva corpo. Gli strumenti utilizzati per realizzare un testo scritto e le stesse modalità di esecuzione non sono infatti solo componente estrinseca, ma parte integrante della fonte e della sua capacità di trasmettere informazioni. E già Léopold Victor Delisle, direttore della Biblioteca nazionale di Parigi dal  al , in alcuni suoi saggi su codici merovingi, insisteva sulla necessità di studiare ogni manoscritto nella sua concreta e storica individualità . Insisteva cioè sulla correttezza metodologica di non fermarsi alla qualifica del tipo di scrittura, ma di andare oltre e cercare di individuare anche il luogo, gli strumenti e le modalità di esecuzione di ogni testo. La scrittura, diceva del resto Ludwig Traube, non è «un fatto in sé», un oggetto inerte da analizzare, ma il risultato di un’elaborazione grafica composita e strettamente connessa a una cultura, a una civiltà, alle loro valenze tecnologiche . Non è qui il luogo di soffermarsi sull’analisi dei segni grafici coi quali la rappresentazione visiva della scrittura prendeva corpo nei vari periodi: è oggetto di studio di una specifica disciplina detta paleografia. Ci si limita solo a precisare le modalità di esecuzione della scrittura, cioè la materia e gli strumenti coi quali, di volta in volta, si costruiva un testo scritto. Testo che, per ogni studioso di età passate, assume il valore di fonte in quanto esprime, nel contenuto e nell’elaborazione grafica, la dinamica socio-politica, economica e culturale di una data epoca e di un dato spazio geografico. Non c’è dunque, nell’approccio a un testo scritto, solo il confronto con le complessità, ambiguità e pluralità di significati del suo contenuto e delle sue valenze linguistiche, culturali, semantiche, politico-ideologiche ecc., ma pure con la molteplicità di informa. G. Cencetti, Lineamenti di storia della scrittura latina, p. . . Lo si ricava, oltre che dai numerosi suoi studi, fondati sull’analisi attenta delle caratteristiche della scrittura dei codici esaminati, dalle lezioni pubblicate dagli allievi: Vorlesungen und Abhandlungen.

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zioni e suggestioni che provengono, anche involontariamente, dalla sua fattura e consistenza materiale. In tal senso, la prima e fondamentale iniziativa di fronte alla lettura e interpretazione di un testo scritto è quella di tenere in gran conto la materia e gli strumenti adoperati per realizzarlo. Materia e strumenti che costituiscono quelli che comunemente vengono detti i “caratteri estrinseci” del testo scritto, ne qualificano la consistenza e la fisionomia, sono saldamente ancorati alle diversità e mutazioni culturali e tecniche del tempo e dei luoghi. Fra i tanti che si riscontrano nel Medioevo se ne ricordano alcuni. . Tavolette cerate Le tavolette cerate erano tavole di legno spalmate con cera sulle quali si scriveva con uno stilo che terminava da una parte a punta, dall’altra a paletta per cancellare. Diffuse in età romana, continuarono a essere usate in età medievale per scritture di interesse immediato e come minuta da cancellare subito. Wilhelm Wattenbach ne ricorda alcune del secolo XV in cui sono registrati dei conti del monastero di Pilling . Ernesto Monaci nei Facsimili riproduce una tavoletta cerata del secolo XIV , e dai romanzi cavallereschi si ricava il loro uso a scuola. In Florio e Biancifiore si legge per esempio: «et quand à l’escole venoient / les tables d’avoire prenoient / adonc lor véissez escrire / lettres et vers d’amors en cire» . In un inventario di beni, redatto l’ settembre  dal notaio Bartolomeo di Bononia i cui atti si conservano nell’Archivio di Stato di Palermo, sono registrate tabolettas pro scribendo . Segno evidente di un uso prolungato, sia pure sporadico, e non solo nel Medioevo. A Halle, in Germania, se ne vietava l’uso, per ordine regio, addirittura nel . . Papiro e pergamena Il papiro è una pianta palustre originaria dell’Africa centrale e della valle del Nilo. È presente in Sicilia, nei pressi di Siracusa. Con speciali procedimenti, descritti in parte da Plinio il Vecchio nella Naturalis historia, le sue fibre venivano trasformate in materiale scrittorio costituito in ge. Anleitung, p. . . Nelle tavole  e . . Ma cfr. pure G. Boccaccio, Filocolo, I, , in cui, parlando appunto dell’infanzia e dell’innamoramento di Florio e Biancifiore, accenna al «savio giovane nominato Richeio» che insegnava a entrambi «a sapere leggere e scrivere». . G. Cosentino, Uso delle tavolette cerate, pp. -.

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.

FONTI SCRITTE

nere da un lungo nastro che veniva arrotolato. Su di esso si scriveva (ma da un solo lato, cioè sul recto, che era la faccia interna del rotolo) a mezzo di un giunco appuntito col quale si adoperavano due colori: il nero per il testo, il rosso per i titoli. L’utilizzazione del papiro, assai diffusa nel mondo greco e in quello romano, continuò anche nel Medioevo, specie per documenti imperiali e pontifici. L’ultimo documento privato su papiro di cui si ha notizia è una lettera scritta nel  da un feudatario a Carlo Magno. Il suo uso si contrasse notevolmente dopo l’invasione araba, che rese difficili i rapporti commerciali fra Oriente e Occidente, ma anche perché il papiro, assai costoso, rimaneva materiale scrittorio parecchio fragile. Ed è questo, in fondo, il motivo principale delle poche testimonianze papiracee giunte a noi. Un elenco di quelle medievali è stato redatto da Traube e pubblicato nel  . Nel Medioevo era la pergamena la materia scrittoria più diffusa per il minor costo, la maggior durata, la possibilità di scrivervi su entrambe le facce e soprattutto perché la si poteva usare più volte. Bastava infatti raschiarla, immergerla in un bagno di calce, spalmarvi sopra polvere cretacea per offuscare la scrittura precedente e scrivervi ancora. Il nuovo testo ottenuto è detto palinsesto – dal greco pálin, di nuovo, e fáw, raschiare – ed è una pergamena la cui scrittura è stesa su altra precedentemente raschiata. Procedimento questo che permetteva di risolvere in termini economici la scarsa disponibilità di pergamena, ma che è stato causa della perdita di varie opere. Particolari tecniche e l’uso di raggi ultravioletti hanno comunque reso possibile la lettura dei testi offuscati. La pergamena – il cui nome è probabilmente da ricondurre ai sistemi di preparazione già adottati a Pergamo, al tempo degli Attalidi – era costituita da pelli di agnello, di capra o di vitello trattate con i particolari accorgimenti descritti in un documento del secolo VIII  e trasformate in materiale scrittorio sul quale si scriveva col calamo, che era una cannuccia flessibile con punta divisa in due da un taglio obliquo. Alla sottilità più o meno accentuata della punta è anche da ricondurre la tipologia grafica concretizzata. In prosieguo di tempo accanto al calamo si andò usando anche la penna, indicata però anch’essa, di frequente, col termine calamo. L’inchiostro utilizzato, nel quale si intingeva la penna, era per lo più nero o rosso e preparato, il nero con nerofumo e gomma

. In “Bibliothèque de l’Ecole des Chartres”, LXIV, , pp. -. . Trascritti da Muratori, Antiquitates, II, col. : «Pergamena quomodo fieri debeat. Mitte illam in calcem et iaceat ibi per tres dies. Et tende illam in cantiro. Et rade illam cum nobacula de ambas partes et laxas desiccare. Deinde quodquot volueris scapilatura facere, fac, et postea tingue cum coloribus».

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e in seguito con vetriolo e acido gallico per fare maggiore presa sulla pergamena, il rosso con cinabro e/o porpora. A differenza del cuoio, ottenuto da pelle conciata, la pergamena, che presenta la rigidità e consistenza datale dal processo di essiccatura, costituì per lungo tempo il materiale scrittorio più ricercato. Nel , per esempio, Carlo Magno donava al monastero di San Dionigi una foresta coi suoi animali come riserva per ricavarne pergamena. Fra i numerosi vantaggi la pergamena aveva anche quello di permettere il passaggio dalla forma a rotolo dei libri in papiro a quella tipica del testo manoscritto e in seguito di quello stampato. Anche un testo in pergamena rimaneva comunque abbastanza costoso: un volume di appena  fogli in quarto richiedeva le pelli di almeno  pecore. Nel secolo VIII un antifonario costava  soldi d’oro, cioè quanto due mucche. Nei secoli XIV e XV il costo medio dei libri si aggirava sui  fiorini a volume, con punte di  fiorini per i libri di giurisprudenza, che erano i più cari. I libri di medicina costavano di meno, ma quelli che avevano il prezzo più contenuto – un prezzo politico, si direbbe oggi – erano i libri di preghiere. E questo in un arco di tempo in cui lo stipendio di un professore dell’Università di Pavia era di  fiorini l’anno e il costo della vita di un cittadino di condizione agiata si aggirava sui  fiorini l’anno . Segno evidente di una società caratterizzata da notevoli difficoltà di accesso alla cultura, limitata quindi a pochi privilegiati. Parecchi sono i libri in pergamena – detti comunemente codici – giunti a noi, ma assai più numerosi i documenti membranacei conservati. Il più antico documento tramandato in Italia è del  ed è custodito presso l’Archivio di Stato di Milano. Fra quelli conservati in Francia il più antico è del  ed è l’atto di fondazione del monastero di Bruyère le Château. La più antica pergamena di una cancelleria risale invece al  ed è una bolla di Giovanni XIII che si conserva nell’Archivio capitolare di Bologna. E ciò perché – ha dimostrato Alfons Dopsch nella sua polemica con Pirenne – la corte pontificia, malgrado le difficoltà commerciali fra Occidente e mondo musulmano, continuò a usare con frequenza, e fino al secolo XI, il papiro. . Carta Fabbricata per la prima volta in Cina (II secolo d.C.), la carta veniva introdotta in Occidente dagli arabi che nel , a Samarcanda, avevano appreso i sistemi di produzione da alcuni prigionieri di guerra. La carta prodotta dagli arabi e costituita di stracci di canapa e di lino era però di. Questi riferimenti sui prezzi sono in C. M. Cipolla, Moneta e civiltà, pp. -.

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FONTI SCRITTE

versa da quella cinese, composta invece, oltre che di stracci, anche di filamenti di corteccia di varie piante, fra le quali il gelso. In Europa però, per tutto il Medioevo, furono più seguite le tecniche di fabbricazione araba, come si ricava da vari indizi. L’espressione charta bombycina, per esempio, non deriva dal latino bombyx, che significa bambagia e anche cotone, come credevano i paleografi prima degli studi di Charles Moïse Briquet, di Julius Wiesner e di Josef Karabacek, ma da Bambice, città musulmana di Siria, e il riferimento etimologico attesta appunto l’uso di carta fabbricata dagli arabi con stracci di canapa e lino. Nelle biblioteche europee si conservano parecchi documenti provenienti da paesi orientali. Il più antico documento cartaceo redatto in Occidente di cui si dispone è su carta di fabbricazione musulmana. Si tratta di una lettera (mandatum) in greco e arabo del  della contessa Adelasia, vedova di Ruggero I, pubblicata da Cusa e conservata presso l’Archivio di Stato di Palermo . Neanche per la Sicilia si hanno notizie di documenti cartacei successivi. È probabile che si sia verificata una inspiegabile e lunga interruzione. È comunque significativo, in quell’epoca, l’uso della carta da parte della cancelleria di Federico II , una carta “collata” ancora col sistema arabo, a base appunto di amido e colla vegetale e quindi di breve durata perché facilmente soggetta all’azione demolitrice di microrganismi. Ed è principalmente per questo motivo che nel  il sovrano svevo imponeva, nella redazione di tutti gli instrumenta publica, l’uso della pergamena, materiale scrittorio in grado di garantire maggior consistenza e durata della carta . Le più antiche cartiere sorte in Europa sono registrate in Spagna, in Liguria, a Venezia, a Bologna. La più importante sembra sia stata quella di Fabriano, già attiva nel , quando venivano elaborati taluni procedimenti che, grazie a un accorto uso di gelatina animale per la “collatura”, garantivano quelle doti di lunga conservabilità particolarmente carenti nei sistemi di fabbricazione araba. A Fabriano, per il , è attestata la presenza di una corporazione di cartai e sempre di Fabriano è la più antica testimonianza () di carta filigrana, caratterizzata cioè da un proprio contrassegno costituito da un disegno, un emblema, una scritta inserita nel foglio e visibile in trasparenza. Un contrassegno il cui studio può contribuire alla determinazione cronologica e del luogo della fabbricazione della carta utilizzata per la stesura dei documenti.

. I diplomi greci e arabi, vol. I, pp. -. . W. Hagemann, La nuova edizione del registro di Federico II, p. . . Constitutiones regni Siciliae, tit. LXX, De instrumentis conficiendis, pp. -: «volumus etiam et sancimus ut predicta instrumenta publica et alie similes cautiones non nisi in pergamenis in posterum conscribantur».

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. Scriptoria e produzione di libri manoscritti Come e dove veniva prodotto un testo scritto, fosse esso libro o documento? Miniature e dipinti rappresentano l’atto dello scrivere da parte di un autore o di un copista. Si ricorda, per l’Alto Medioevo, la celebre miniatura della Bibbia del principio del secolo VIII – che si conserva presso la Medicea Laurenziana di Firenze – nella quale è rappresentato Cassiodoro che, seduto e circondato da inchiostri di vario colore, copia, nella biblioteca del suo monastero, le Sacre scritture . Per un periodo più tardo si segnala il San Gerolamo nello studio del Maestro di Segovia in cui il santo, circondato da copisti e lettori, è colto nella sua veste di amanuense che riesce a un tempo a scrivere e miniare un testo. È un dipinto però, questo quadro del  custodito nel Museo Lazaro di Madrid, che ripropone ancora il tradizionale ambiente monastico dello scriptorium, anche se, con la voluta esibizione di codici sparsi, sembra già preannunciare il diverso rapporto col libro e la coesistenza fra quotidianità e cultura che si coglie nello Studio di San Gerolamo di Antonello , nel Sant’Agostino nello studio di Vittore Carpaccio  e soprattutto nell’Erasmo da Rotterdam di Quentin Metsys. In un dipinto su tavola trasferito su tela il grande umanista olandese è colto appunto nell’atteggiamento pensoso, disincantato e arguto dell’intellettuale che, nello studio, si appresta a scrivere una sua opera . L’attività scrittoria, per quel che si riferiva alla produzione di libri, per un lungo periodo rimase patrimonio di monasteri e cattedrali, fra i quali, abbastanza noti, il monastero di San Colombano a Bobbio e la sede vescovile a Verona, con la grande biblioteca capitolare. Questi centri ecclesiastici disponevano appunto di uomini e strumenti per la preparazione dei testi, disponevano cioè degli scriptoria, locali di solito annessi alle biblioteche dove gli scribi, vale a dire gli amanuensi, eseguivano le trascrizioni dei testi e portavano a termine – con la preparazione degli inchiostri, la squadratura della pergamena, la confezione dei fascicoli, la legatura – la manifattura del codice, cioè del libro. Libro appunto detto prima volumen (rotolo), perché il papiro o la pergamena che lo costituivano venivano avvolte a cilindro attorno a un bastoncino, e chiamato poi codex (codice), termine con cui si indicava un testo non arrotolato, ma costituito da fascicoli di più fogli legati da un . Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, ms. Laur. Amiatino, , f. . . Londra, National Gallery. . Venezia, San Giorgio degli Schiavoni. . Roma, Galleria nazionale dell’arte antica, Palazzo Barberini.

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FONTI SCRITTE

lato. Un testo che diversamente dal rotolo, che tendeva sempre a richiudersi, poteva essere tenuto aperto e utilizzato in modo più pratico. Il formato dei codici era vario e i singoli fogli o carte che lo costituivano non sempre erano numerati, e quando lo erano adottavano, in genere dal secolo XI, la “cartulazione”, che era la numerazione delle carte a fogli e non a pagine. Sistema che impone oggi di distinguere, in ogni foglio o carta, la faccia anteriore, detta recto, e la posteriore, chiamata verso, e i cui dettagli rimandano alla codicologia, che è la scienza che studia e analizza le tecniche di fattura dei codici messe in opera dall’artigiano. Quello dei copisti era lavoro assai delicato – specie quando si dovevano trascrivere parole in greco – richiedeva attenzione per evitare errori e omissioni, comportava fatica. Non erano rari i casi di copisti costretti a sospendere il lavoro perché le dita si rattrappivano per la stanchezza e per il freddo. Molti si lamentavano dei dolori di schiena provocati dalla posizione curva assunta per tante ore. La trascrizione di un testo richiedeva infatti parecchio tempo: nel  un copista, per riprodurre la Geometria di Boezio, impiegò  giorni e «nel  è citato come fatto straordinario quello di una Bibbia copiata in  mesi e miniata il settimo mese» . In alcuni codici si riscontrano lamentele per il faticoso lavoro registrate dagli stessi copisti. Si ricorda per tutte quella che più esplicitamente mette in evidenza l’orgoglio e a un tempo la fatica di quel mestiere: «Scribere qui nescit nullum putat esse laborem: tres digiti scribunt totum corpusque laborat» . Col secolo XII e specie in età umanistica – e lo si è visto in parte attraverso i dipinti già ricordati – l’attività degli scriptoria si rivelava inadeguata alle esigenze dell’accresciuto numero di scuole e università e del propagarsi di forme di mecenatismo che contribuivano al rinnovamento grafico, all’aumento quantitativo dei testi prodotti, alla fattura di libri di piccolo formato più maneggevoli e più pratici da leggere e in grado quindi di intensificare l’osmosi fra cultura e società, di fare cioè della cultura un fatto sociale, politico, economico, uno strumento ap-

. C. H. Haskins, La rinascita, p.  e R. Iorio, Burocrazia federiciana, pp. -. . In una lettera a Pier della Vigna – J. L. A. Huillard Bréholles, Vie et correspondance de Pierre de la Vigne, pp. - – lo “scriba” Nicola de Rocca si lamentava delle lunghe ore di lavoro che, «quasi una specie di schiavitù», lo avevano trasformato «in un’unica carne con la penna» rendendola «una cosa stessa col registro». Si lamentava ancora dell’insopportabile caldo d’estate e del «gelo» d’inverno, che accentuavano «la fatica infinita» dello scrivere, la quale inesorabilmente lo schiacciava. Sconsolato e depresso concludeva: «al di là delle angosce della mia persona afflitta e tormentata, il sollievo della retribuzione – che spesso suole essere sollievo per le ossa dolenti – risulta incomparabile alla fatica».

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punto di raccordo fra potere, collettività e incremento della produzione e circolarità dei libri. Basti pensare, a parte le biblioteche di intellettuali come Petrarca, Lorenzo Valla, Machiavelli, ai libri posseduti da professori, notai, medici, giuristi, mercanti e dei quali è rimasta testimonianza in tanti atti notarili. Ma basti soprattutto pensare alla Biblioteca reale di Napoli, voluta da Carlo I d’Angiò e incrementata da Roberto. Una biblioteca che era punto di riferimento della cultura non solo europea di quegli anni e depositaria di un notevole patrimonio librario, come si ricava dai conti della tesoreria in cui si trovano richiami espliciti a libri acquistati e a pagamenti per copisti che trascrivevano codici, per miniaturisti che li decoravano, per legatori che li rilegavano, per traduttori che volgevano in latino testi redatti in varie lingue e soprattutto in arabo. Segno evidente dell’aumento delle committenze, del diffondersi di amanuensi e di miniaturisti di professione, del progressivo costituirsi, quasi sempre in ambito urbano, di nuovi centri di produzione libraria. Centri gestiti da librai-imprenditori e impiantati sulla base di un’organizzazione del lavoro che teneva conto dei progressi tecnici, delle specializzazioni delle maestranze (scribi, rubricatori, miniaturisti, pergamenari, rilegatori), delle qualità e quantità del prodotto, cioè di un libro che diveniva, oltre che strumento di cultura, anche merce, caratterizzata da una ben precisa gerarchia di valori tipologici che ponevano in risalto non solo e non tanto il nesso autore-libro, come sarebbe piaciuto a Petrarca, quanto le valenze fra testo offerto e pubblico . Problemi tutti di intricante impatto, e dibattuti e approfonditi nel secolo XV, nel cui ultimo trentennio la comparsa della stampa a caratteri mobili avviava la progressiva estinzione del libro manoscritto. Su queste complesse vicende si possono leggere vari saggi, fra i quali vanno almeno ricordati Ch. Bec, Les marchands écrivains; P. Bozzacchi, Il codice come prodotto e come oggetto di restauro; G. Cavallo (a cura di), Libri e lettori nel Medioevo; G. Orlandelli, Il libro a Bologna dal  al ; A. Petrucci, Alle origini del libro moderno; Id., Il libro manoscritto; E. Ornato, La face cachée du livre médiéval.

. Seniles, XV, , pp. - (lettera a Luigi Marsili del  gennaio ), in cui il poeta parla di un libellum «comodissimo al trasporto per il suo piccolo spessore» e assai pratico «per essere portato in giro», tale cioè da diventare «una cosa sola con la mia mano». Nella lettera al fratello Gherardo del  aprile  (Familiares, XVIII, , pp. -) il poeta critica invece il sistema diversificato e articolato del lavoro, cioè una produzione che, affidata a più lavoratori e quindi priva del necessario coordinamento, finiva con l’offrire, egli precisa, un prodotto caratterizzato da «scorrettezze» testuali.

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FONTI SCRITTE

. Burocrazia, notai e produzione di testi scritti Per quel che si riferisce invece alla produzione di testi scritti diversi dai libri, di testi cioè che documentino sia i rapporti privati che i rapporti pubblici come manifestazione ufficiale di volontà operative da parte delle varie forme di potere, il discorso è più articolato e più complesso, perché riguarda la notevole quantità di testi che, per tradizione e per esigenze, costituiscono le fonti alle quali più di frequente gli storici si rivolgono. Ma più articolato e più complesso anche perché si tratta di testi prodotti ed elaborati per esigenze immediate della convivenza pubblica e privata e che, nella loro struttura materiale e formale e nella loro valenza operativa, dovevano anzitutto rispondere alle necessità della vita quotidiana delle popolazioni; alle procedure e agli adempimenti della burocrazia, alla sua funzionalità ma anche alle sue inerzie e alle sue trincee; alle istanze di garanzia e di autenticità; alle solennità e specifiche caratterizzazioni dei sovrani e delle autorità laiche ed ecclesiastiche che li emanavano. Sono testi di solito scarsamente sensibili a problemi culturali ed estetici, riservati e destinati quasi sempre alla lettura di pochi, come, per esempio, gran parte delle scritture di autorità pubbliche e quelle notarili. Oltre che all’attività dei notai nell’esercizio della loro professione, la produzione di testi scritti è infatti da ricondurre agli uffici delle amministrazioni centrali laiche ed ecclesiastiche e di quelle periferiche, uffici nei quali operavano spesso, come funzionari dell’impianto amministrativo, vari notai sospinti a quelle attività dalla convergenza fra necessità operative delle strutture burocratiche e ricerca di prestigio dei notai, la cui meta ultima era il servizio a corte e quello di cancelliere (su questo problema è almeno da leggere O. Banti, Il notaio e l’amministrazione del comune di Pisa). La produzione di testi scritti da parte degli uffici dei poteri centrali e periferici – oltre che offrire un quadro degli organi, delle funzioni e delle procedure degli apparati burocratici del tempo – permette di prendere atto della continuità della scrittura come punto fondamentale di riferimento del persistere di un ordinamento pubblico la cui attività ed efficacia erano sorrette dagli estensori dei documenti giuridici. E proprio questi documenti, come testimonianza di disposizioni emanate dal potere pubblico laico ed ecclesiastico in ogni suo livello giuridico, costituiscono gran parte delle fonti alle quali di solito ci si rivolge per recuperare il passato. Fonti certo assai varie nei fini, nei contenuti e nell’intrinseca costituzione, ma unificate dalle modalità di esecuzione, cioè dall’essere tutte redatte – e da funzionari addetti a quei compiti 

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specifici  – sulla base di norme giuridiche e di elementi formali ben precisi e dall’essere inoltre affidate tutte a una forma espressiva come la scrittura, destinata a eternare il ricordo. Lo diceva fra gli altri, a proposito della pace di Venezia del  luglio , Romualdo Salernitano, il quale, nel sottolineare l’importanza delle fonti scritte, ne ribadiva la forza, che spazia nel corso dei secoli e tramanda ai posteri le voci della storia: da uomini saggi e prudenti, temendo che il tempo avrebbe potuto fare svanire la memoria della pace conclusa, fecero in modo che il trattato fra l’imperatore [Federico I Barbarossa] e il re [Guglielmo II] fosse messo per iscritto col consenso dell’imperatore stesso in modo che il tempo a lungo andare non potesse distruggere quel che la scrittura dell’imperiale Privilegium era in grado di conservare. A loro istanza fu dunque steso per iscritto un Privilegium della pace fra l’imperatore e il re e munito di sigillo d’oro. E perché – conclude il cronista – del detto Privilegium possano i posteri avere sempre conoscenza, riteniamo degno di questa nostra opera inserirne una trascrizione .

. Tipologia dei testi scritti e stratificazioni sociali Il passo di Romualdo Salernitano contribuisce a ribadire l’importanza delle fonti scritte e a sostenere la convinzione, largamente diffusa fra gli storici, della necessità e priorità di fare anzitutto ricorso, per la ricostruzione del passato, alla documentazione giuridica, specie di ordine politico e istituzionale, cioè alle fonti che, in un modo o nell’altro, testimoniano, sia pure di frequente con finissima ambiguità e nascosta furbizia, la dinamica e il fondamento delle forme del potere anzitutto, e poi dei “diritti” di enti, di singole persone, di famiglie, di gruppi ecc. . Ciò in un certo senso è vero, anche se la presenza di falsi – o di semplici ma ben precise alterazioni di singoli passi – da attribuire non solo agli interessati, ma pure agli stessi uffici ai quali era demandato il compito ufficiale della stesura dell’atto, pone non poche perplessità. Si parlerà comunque di ciò, e in modo più dettagliato, più avanti, nelle pagine riservate appunto ai documenti falsi.

. Cfr. la miniatura inserita in Pietro da Eboli, De rebus siculis carmen, tav. VII, p. , che raffigura la cancelleria normanna costituita da tre notai (bizantini, saraceni, latini) i quali, ognuno nella propria lingua, redigevano i documenti regi. . Chronicon, p. . . Senza dubbio anche per questo le Constitutiones, tit. LXXX, p. , stabilivano che «instrumenta publica et quaslibet cautiones per litterarum communem et legibilem per statutos a nobis notarios scribi debere».

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FONTI SCRITTE

La domanda che invece qui si pone tocca due problemi: la rappresentatività o meno, nella documentazione giuridica di ordine pratico e istituzionale, dell’intera popolazione sia sul piano quantitativo che di collocazione sociale; l’intrinseca natura di tale documentazione, che di rado – al di là delle formule e di specifiche questioni sull’esercizio dei diritti, sulle proprietà di beni e sui loro passaggi, su esenzioni e privilegi, su prerogative fiscali ecc. – lascia qualche possibilità di cogliere la vita quotidiana di donne e uomini che costituivano, in carne e ossa, la dimensione umana della convivenza, più o meno efficientemente regolamentata, di un’epoca. A proposito del primo problema già Adeline Daumard si era posta la domanda su quale contributo potesse provenire, per l’effettiva conoscenza di una società nella sua interezza, da documenti in maggioranza limitati a una parte sola della popolazione , tanto più che i dati forniti da questo tipo di documentazione si riferiscono di solito ai possessi e agli averi e quindi solo ai benestanti, vale a dire a una percentuale numericamente inferiore a quella dell’intera popolazione. Per l’altro problema invece, cioè per il contributo che tali fonti possono offrire alla ricostruzione del modo di essere e di vivere e operare delle popolazioni, è subito da dire che rispondere agli interrogativi suggeriti dall’anonimato della gente e dal suo senso delle cose nell’ambito del quotidiano col “prodotto” dell’attività burocratica è quasi sempre assai difficile. Certo, le cancellerie dei poteri centrali e gli apparati burocratici a qualsiasi livello non possono essere guardati solo come “centri produttori” di documenti, ma debbono essere valutati – e lo annotava già Bernhard Schmeidler nel lontano  in quel che egli qualificava Stilkritische Methode  – come organi politici in cui operavano uomini in carne e ossa e in cui si scontravano atteggiamenti e mentalità spesso diversi. La storia però non è mai il risultato di regole, e arriva spesso addosso agli uomini come i cataclismi naturali. E non è privo di significato che, dall’analisi stilistica della documentazione prodotta dai centri di potere nell’ambito di precise regole e formalità burocratiche, possano emergere figure di singoli funzionari nella loro staticità e specificità e non mentre si muovono nella folla, non mentre vengono dalla folla, non mentre rientrano e scompaiono nella folla. È questo anonimato, leggermente angoscioso, nelle strade, nelle chiese, nelle case, che tali fonti impediscono di cogliere. Dalla loro analisi possono emergere, ed emergono appunto, come dalle fonti della cancelleria di Enrico IV studiate da Schmeidler, com. Structures sociales et classement socio-professionnel, pp. -. . B. Schmeidler, Kaiser Heinrich IV, passim.

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portamenti e modi di pensare dei compilatori di atti ufficiali che permettono di delineare la loro personalità, la loro funzione di consiglieri, la loro più o meno accentuata partecipazione alle ragioni dei documenti o delle eventuali loro falsificazioni, la loro spontanea o forzata adesione alle scelte dell’imperatore nei contrasti che aveva col papa, coi vescovi, coi vassalli. Possono cioè emergere spiragli sui diversi modi di essere legati alla vita quotidiana, a drammi e contrasti personali, a passioni nelle quali si avverte più o meno diretta, più o meno carica di tensioni, l’efficacia di modelli educativi, morali e religiosi che riflettono gli aspetti più immediati e più vistosi dei gruppi sociali, etnici e professionali del tempo. Si tratta però di gruppi sempre e comunque radicati, per rango, per condizione economica, per mentalità, nella classe di potere, e non invece di gruppi legati ai meccanismi elementari della vita associata. Infatti questi documenti di impianto giuridico dai quali emergono fondamenti, verifiche e conferme di diritti, basati magari su precedenti e non facilmente controllabili concessioni, non sempre permettono, coi loro dati ufficiali di ordine politico, istituzionale, fiscale ed economico, di sapere, in concreto, quale fosse il tenore di vita della gran parte della popolazione soggetta: se fosse cioè nella miseria, morisse di fame o godesse invece di un qualche benessere. Per avere convincenti e concrete risposte non sono sufficienti fonti scritte di carattere giuridico-istituzionale di tal genere – che bisogna certo considerare componente fondamentale di studio per la ricostruzione della complessa dinamica di vita associata – ma sono necessarie altre testimonianze e alle loro tipologie documentarie, in parte già elencate, occorre fare ricorso. . Annali e cronache L’esposizione sulle fonti scritte fin qui svolta non può che concludersi, anche per rendere più immediato l’approccio alla loro lettura e utilizzazione, con una partizione che, lungi dall’esprimere una classificazione, vuole, a soli fini pratici, essere una semplice divisione di un insieme in forme più omogenee di aggregazione. E in tal senso, al di là di una inadeguatezza che mal risponde al più ampio e articolato concetto odierno di fonte, si è creduto opportuno richiamarsi alla tradizionale distinzione adottata – e ancora sostanzialmente seguita – dai “Monumenta Germaniae Historica”: “Scriptores”, “Leges”, “Chartae”, “Epistolae”, “Antiquitates”. Nei “Monumenta” gli “Scriptores” sono gli autori di fonti e, per estensione, le fonti stesse, caratterizzate da esposizione narrativa di accadimenti vari nella specifica forma di un testo scritto che di solito ha una sua unità e omogeneità. In tali fonti prevale certo la soggettività del 

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FONTI SCRITTE

narratore, ma sono tutte redatte in modo da soddisfare le esigenze dei committenti e quelle del pubblico al quale si rivolgono. Si tratta di fonti diverse per l’impostazione e l’articolazione dei contenuti, per le specificità dei committenti, per il tipo di pubblico a cui sono rivolte, per l’aspetto esteriore e lo schema in cui si configurano, per le prospettive prescelte, ma di fonti che coincidono tutte nella funzione essenzialmente informativa e ampiamente soggettiva dell’esposizione e soprattutto nell’intenzione esplicita di conservare e tramandare la memoria sia collettiva che individuale, cioè il ricordo di vicende essenzialmente accadute in un determinato luogo e in una data epoca, ma anche il ricordo che una persona lascia o vorrebbe lasciare di sé. In tal senso, è assai significativa la celebre autobiografia epistolare Posteritati di Petrarca e pure quel che Pier della Vigna dice a Dante a proposito della sua «memoria» lasciata sulla terra e del modo in cui l’avrebbe voluta tramandata: «E se di voi alcun nel mondo riede / conforti la memoria mia che giace / ancor del colpo che ’nvidia le diede» . Le forme espositive più diffuse e più note di queste fonti sono “annali” e “cronache”. Gli annali sono le raccolte cronologiche di avvenimenti degni di rilievo, quasi sempre divise per anni. Fra i più noti si ricordano gli Annales regni Francorum, gli Annali genovesi di Caffaro, gli Annali di Milano, gli Annali estensi di Giovanni Delayato e gli Annali di Lorenzo Bonincontri. Col termine annali erano indicate le opere dei primi storici romani, e anche l’opera di Tacito, che ha per titolo Annales ab excessu divi Augusti, nella quale il grande storico, seguendo il criterio dell’ordo temporum, narra anno per anno le vicende dell’impero dagli ultimi tempi di Augusto alla morte di Nerone. Le cronache derivano il loro termine da chronica, che in latino era neutro plurale divenuto femminile singolare nel latino medievale. E dal latino antico, oltre che da quello medievale, le cronache traggono in gran parte il loro lessico e, talvolta, persino i loro modelli. Eginardo, per esempio, che nella Vita Karoli più che registrare i fatti intende esaltare un personaggio, per delineare la figura di Carlo Magno si appropria, sia pure in modo critico e originale, del Cesare Augusto presentato da Svetonio. Nelle cronache, che in fondo non differiscono molto dagli annali, ogni autore esponeva cronologicamente e con scarsi tentativi di analisi fatti a lui coevi dei quali talvolta era stato protagonista o spettatore. Di. Dante, Inferno, XIII, -, pp. -.

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CAPIRE IL MEDIOEVO

no Compagni, per esempio, dice espressamente, nella Cronaca, di voler «scrivere il vero delle cose certe che io vidi e udii», di narrare «secondo udienza» quel «che chiaramente» non vide di persona, e di raccontare solo vicende «che furon cose notevoli» . Questo modo di raccontare, sostenuto prevalentemente dal vissuto quotidiano del cronista, ha suggerito ad alcuni storici di chiedere e di chiedersi fino a qual punto bisogna ritenere attendibili le esposizioni e soprattutto le considerazioni di chi «ha partecipato agli eventi della sua epoca come attore o come osservatore». La diffidenza, dice Delio Cantimori, deve essere il primo fondamento della storiografia – oltre che della democrazia  – e, precisa Giosuè Musca, chi «racconta raramente comprende ciò che ha visto o che sta testimoniando, e deforma, in buona o cattiva fede» . Un invito dunque a non rovesciare la tesi di Ranke sulla maggiore affidabilità delle testimonianze documentarie rispetto ai testi narrativi? O piuttosto, come sembrerebbe anche nel contesto delle opere di Cantimori e di Musca, un richiamo alla lettura critica di tutte le fonti, e specie di quelle cronachistiche? Marc Bloch ha comunque ampiamente chiarito che le cronache – che sono pure importanti «per quel che lasciano intendere, senza aver voluto dire in maniera esplicita» – accompagnano quasi sempre l’esposizione dei fatti ai sentimenti e alle passioni che ne stanno alla base e li suscitano , e quindi più dei documenti aiutano a comprendere le discordie e i conflitti fra gli uomini, le opinioni, le dottrine, le fedi, i pregiudizi, le idee che li separavano, le diversificazioni di interessi per i quali lottavano ed erano pure disposti a morire. Non è comunque qui il luogo per soffermarsi ancora su questo problema e sulle caratteristiche fondamentali delle cronache nei diversi luoghi e nelle diverse epoche del Medioevo, sulle loro valenze letterarie e sul loro spessore storico e soprattutto sul ruolo che hanno avuto nella mentalità di quei secoli, sulle tipologie e tecniche narrative adottate da autori lontani fra loro. In tal senso, sarebbero fondamentali studi comparati fra cronache occidentali e orientali, fra cronache di ambiente religioso e ambiente laico, fra cronache musulmane e cronache cristiane cattoliche o ortodosse, fra cronache in latino, in greco, in ebraico e cronache in volgare. Due punti vanno comunque sottolineati: la disinvoltura di tanti cronisti a fare uso di espressioni presenti nella Bibbia, nei Padri della Chiesa, nei classici, e il quasi generale interesse di tutti per i documenti, che . Dino Compagni, Cronica, I, , p. . . Conversando di storia, pp. -. . Postfazione, p. . . Apologia, p. .

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FONTI SCRITTE

venivano utilizzati e spesso trascritti per intero, e per i discorsi di taluni protagonisti, inseriti nelle cronache come registrazione letterale di quanto da essi detto. È noto come anche oggi, pur disponendo di strumenti tecnici assai sofisticati, sia particolarmente difficile sapere che cosa ha veramente detto in un suo discorso, in una sua intervista, un uomo politico. Per quel che invece si riferisce alla trascrizione di fonti, è subito da precisare che la presenza di documenti nelle cronache ne aumentava la credibilità e soprattutto l’efficacia come strumenti di propaganda utilizzati dalle grandi monarchie europee per raccogliere consensi e risorse per la loro politica accentratrice. Basti pensare al ruolo di Matteo di Parigi nella politica della corona d’Inghilterra. Un ruolo però già operativo nei cronisti del Regno di Sicilia, come testimonia il già ricordato trattato di pace del  tra Federico Barbarossa e Guglielmo II trascritto da Romualdo Salernitano, e come attesta soprattutto la ricca e varia raccolta di documenti recuperati nella cancelleria vaticana da Riccardo di San Germano e integralmente inseriti nella sua Cronaca. Per tutte le altre complesse e numerose problematiche sollevate dalla lettura di queste importanti tipologie di fonti si rinvia alla ricchissima bibliografia sulle cronache e sui cronisti. Si crede comunque opportuno segnalare innanzitutto la voce Chronik redatta per il Lexikon des Mittelalters, e poi alcuni dei più recenti e significativi studi che vengono indicati per ordine alfabetico degli autori: G. Arnaldi, I cronisti della Marca Trevigiana; Id., Annali, cronache, storie; O. Capitani, La storiografia medievale; P. Delogu, La scrittura della storia nel Medioevo; E. Kooper (ed.), The Medieval Chronicle; La storiografia altomedievale; G. Martini, Lo spirito cittadino; G. Ortalli, Cronache e documentazione; P. F. Palumbo, Medioevo meridionale; E. Pispisa, Nicolò di Jamsilla; D. Poirion (éd.), La chronique et l’histoire; B. Schmeidler, Italienische Geschichtsschreibung; B. Smalley, Storici del medioevo; S. Tramontana, Il senso della storia e del quotidiano; G. Vitolo, Città e coscienza cittadina.

. Biografie e autobiografie Sono biografie le narrazioni della vita e delle opere di persone più o meno illustri, e nelle quali i fatti vengono spesso intrecciati con la fantasia o piuttosto con modelli che rispecchiavano la volontà di offrire un insegnamento e di essere quindi una guida. Un exemplum, appunto, oltre che simbolo di una realtà superiore e nascosta alla quale bisognava tendere. Jean de Joinville, autore della Histoire de Saint Louis, nel presentare la biografia del sovrano di Francia precisa che il re condusse la sua vita «secondo Dio e secondo la Chiesa» e che con «le sue grandi impre

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se d’armi e di cavalleria» operò a beneficio del regno. Questa di Joinville non è però una vera e propria biografia, ma la raccolta di riferimenti sulla vita del sovrano di Francia funzionale a un disegno storico più ampio. La biografia infatti deve anzitutto essere rivelatrice di un carattere, di un lessico, e anche di una fede e di un’epoca, deve cioè esporre la vita di una persona, cercare di identificarne l’identità, capire che cosa quella vita insegna sui comportamenti di uomini e donne in un certo contesto. Come è, per esempio, la Sura di Maometto, nella quale appunto è presentata la figura del profeta come simbolo di Allah e come esempio da seguire per potersi guadagnare la «dimora dei giardini deliziosi» della vita ultraterrena . Le biografie laiche furono invece, nel Medioevo, scarsamente rappresentate. Le più significative, oltre la Vita di Carlo Magno scritta da Eginardo e già ricordata, sono il Panegyricus dictus Theodorico di Ennodio che, con compiaciuta retorica e aperta adulazione, ricostruisce la vita del re goto, e soprattutto, sempre di Ennodio, la Vita Epiphanii, il cui cattivo gusto e virtuosismo può essere rappresentato dalla descrizione dell’aspetto fisico del vescovo-funzionario del sovrano: «le narici così acconciamente fatte che non avrebbe potuto farle più belle un pittore che pure rifà i corpi con la fantasia» . Bisognava arrivare all’Umanesimo per registrare una ripresa delle biografie laiche, fra le quali vanno almeno ricordate il De viris illustribus di Petrarca; i nove libri del De casibus virorum illustrium, il trattato De mulieribus claris e il Trattatello in laude di Dante di Boccaccio; il De viris illustribus di Giovanni Colonna; la Vita di Castruccio Castracani di Machiavelli; le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori di Giorgio Vasari, con più di  biografie, da Cimabue allo stesso Vasari, i cui dettagli tecnici e contesti culturali ne fanno un libro di grande valore documentario. Nel Medioevo continuarono però a rimanere predominanti le biografie religiose e di edificazione sacra, più note come opere agiografiche, e per le quali si vedano le pagine successive. Le autobiografie sono le esposizioni delle vicende esterne e dei travagli intimi della propria vita. Proprio per questo, in quanto rivelatrici del modo di essere e di pensare di una data epoca e di un dato contesto politico e geografico più che per la registrazione dei fatti, esse sono fonti da tenere in particolare considerazione. Le autobiografie, del resto, non valgono tanto per se stesse, quanto per il significato che, nel contesto di un’epoca e di una cultura, assumevano le vicende personali di

. Corano, sura XLVII, -. . Vita Epiphanii, p. .

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chi le registrava. In tal senso esse diventano oggi testimonianza dei sentimenti dell’autore, di chi cioè vedeva nel proprio stato d’animo e nei tormenti delle proprie scelte il riflesso di un’epoca, di una società, di una fede, e il suo progressivo mutare. Significative le Confessiones di sant’Agostino, che sono l’esposizione dell’intreccio fra vita interiore del biografo e difesa della fede cristiana dalle eresie che ne minacciavano le fondamenta. Nel Medioevo le autobiografie non erano genere espositivo particolarmente frequente, anche se vari studiosi – e si pensi a Roffredo da Benevento – nei loro scritti erano talvolta generosi di notizie autobiografiche. Le autobiografie acquistavano però rilievo, specie per gli intrecci fra esperienze umane, intellettuali e politico-religiose, nel Rinascimento, soprattutto negli anni delle tensioni religiose e istituzionali nella Chiesa, dell’impegno per l’unità cristiana ed ecclesiastica e per la salvezza dell’Europa dai turchi. In questo senso vanno specialmente ricordati i Commentarii rerum memorabilium di Enea Silvio Piccolomini, che fu papa dal  al  col nome di Pio II: un testo che, grazie anche al linguaggio secco e contundente dell’autore, è da considerare esemplare e straordinario esempio di fonte autobiografica. Assai diversa quella di Benvenuto Cellini, in cui, al di là di una istintiva alterazione dei fatti, si coglie la forzatura di un’inquietante convergenza fra genialità dell’autore e baldanzosa e perversa volontà di specchiare un mondo moralmente ambiguo. . Testi agiografici I testi agiografici sono le scritture relative alla vita e al culto dei santi. Agiografo, il cui termine deriva dal greco tardo açgiov (santo) e gráfw (scrivo), era quindi colui che narrava per iscritto la vita dei santi. Questi testi – che costituiscono oggi fonti di notevole importanza per la ricostruzione di tanti aspetti, e non solo religiosi, della società medievale – ebbero larga diffusione in tutto il Medioevo. E anche dopo: Manzoni, per esempio, nei Promessi sposi, le cui vicende si svolgevano nel secolo XVII, riferisce, nel capitolo XXIV, che il sarto del paese vicino al castello dell’Innominato era «un uomo che sapeva leggere, che aveva letto infatti più di una volta il Leggendario dei Santi, il Guerrin meschino e i Reali di Francia, e passava, in quelle parti, per uomo di talento e di scienza» . Il clero attribuiva a tali testi un basilare ruolo educativo spe. Capitolo XXIV, p. . Significativo che secondo l’inchiesta di Giancarlo Dotto – “L’Espresso”,  dicembre , p.  – nelle carceri di Spoleto, fornite di biblioteca, i libri più richiesti dai detenuti siano «le vite dei santi».

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cie fra le persone poco istruite, che stentavano a rendersi conto dei principi fondanti della dottrina cristiana, i cui testi erano riservati esclusivamente agli “iniziati”. È noto che la Chiesa proibiva allora, e vietò per tanto tempo anche dopo, di leggere l’Antico, il Nuovo Testamento e le opere teologiche . Walter Map precisava, per esempio, che «dare la parola di Dio ai semplici che, si sa, non sono in grado di capirla, è come gettare perle ai porci, e dunque non è da farsi» . I testi agiografici rispondevano invece al doppio scopo di riservare alla sola gerarchia l’accesso alle Sacre scritture e di offrire alle popolazioni le verità di fede attraverso forme espositive dal linguaggio semplice, efficace, imperniato sui sermoni, sui miracoli, sul legame fra vita dei santi e forze soprannaturali. Caratteristica preminente dei testi agiografici era infatti quella di valorizzare l’immagine dei santi, sottolinearne la vita ascetica, additarne la perfezione morale e l’imitazione di Cristo: farne insomma una vita esemplare. Specialità di tali testi sembrerebbe dunque quella di rappresentare una società composta di uomini e santi: di uomini bisognosi di consigli, di aiuti, di protezione taumaturgica soprattutto, e di santi disponibili, in cambio di un culto continuo che si manifestava in vari modi, a risolvere, coi miracoli, le avversità naturali e sociali. A risolverle, si intende, in questa terra, non nell’aldilà. Santi dunque come eroi popolari, come incarnazione di modelli di comportamento analoghi a quelli dell’epopea e che riflettono un modo di vivere e una mentalità. E in tal senso i testi agiografici, che registrano il nesso strettissimo tra fenomeno religioso e contesto sociale, sono fonti di notevole rilievo per la ricostruzione di una determinata epoca e soprattutto per offrire un’idea dell’uomo medievale, della sua morale, della sua concezione della convivenza e della giustizia che ne garantiva le regole. Certo, i testi agiografici, come già scriveva il vecchio Tamassia, erano aridi nella loro forma espressiva, impostati secondo moduli stereotipi, secondo ricette rigidamente fisse e noiosamente ripetute. Scelto un santo di cui si intendeva tracciare la biografia, si seguiva uno schema costruito quasi sempre sulle vite dei martiri e più tardi su quella di sant’Antonio abate scritta da Atanasio, sulla Vita Hilarionis di San Gerolamo, la cui santità non era più legata al martirio, sui cataloghi di virtù. Si iniziava con la famiglia del santo, sempre nobile, si mettevano in evidenza le valenze simboliche del luogo in cui il santo era nato, si continuava con la descrizione dei miracoli che ne avevano preannunciato la nascita, con i particolari sulla prima giovinezza e sulla sua educazione,

. A. Ja. Gurevic, Contadini e santi, p. . . Svaghi di corte, , , p. .

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sulla sua opera di apostolo di Cristo e di pellegrino, sulla sua povertà, sulle predicazioni, sulle lotte contro il maligno e contro le eresie, sui miracoli, sulla morte gloriosa, sui prodigi dell’altro mondo, sulle reliquie, sulla felice canonizzazione. A questo schema – che, nelle linee di fondo, si riscontra anche nell’agiografia islamica e nella tradizione rabbinica – rispondono tutte le vite dei santi del Medioevo, dalle poeticamente eccelse, come quelle di san Francesco e di san Domenico nell’XI e XII canto del Paradiso dantesco, ai vari passionari, leggendari, lezionari, fra i quali abbastanza noti i Libri miraculorum di Gregorio di Tours e la Legenda Aurea di Jacopo da Varazze. Vite tutte, ed emerge dall’analisi di centinaia di testi studiati da Reginald Grégoire , che sono lungi dall’offrire l’identità personale del santo o della santa di cui si narra la storia, in quanto esibiscono un cliché che ha come punto di riferimento «virtù angeliche che vanno da un minimo di tre, le tre teologali, a un massimo di sessanta». Ma vite che acquistano un valore inestimabile se lette e interrogate su quel che l’autore non espone e non aveva intenzione di esporre. Pirenne ha da tempo insegnato a cercare le verità nascoste anche fra le righe delle leggende. Fra queste è opportuno segnalare le “verità” che si riferiscono alla collocazione dei luoghi di culto, taluni frequenti mete di pellegrinaggi; alla compresenza di tombe cristiane e tombe pagane; alle tendenze autonomistiche di sedi episcopali che volevano affrancarsi da Roma; ai problemi di acculturazione; ai nessi fra religione, medicina, magia; alle vicende delle donne e alla loro condizione. Proprio dai testi agiografici emerge infatti – ed è a tal proposito esemplare il recente volume di Benedetta Ward, Donne del deserto – che le sante non tendevano alla soppressione del desiderio, ma al suo superamento, e che la castità era una forma di elevazione dell’impulso dei sensi, la ricerca di una forza chiesta a Dio per fare fronte alla disperazione del vissuto quotidiano. L’attenzione per le fonti agiografiche non è recente. Guardate con particolare diffidenza dagli umanisti, incominciarono a essere prese in considerazione dalla Controriforma, che le utilizzava per contrastare, su base documentaria, le critiche dei protestanti al culto dei santi. A tali esigenze è sostanzialmente da ricondurre il recupero dei testi agiografici avviato dal gesuita Jean Bolland () che, in collaborazione con Godefroid Henschen (-) e con Daniel Paperbroch (-), costituiva la Società dei bollandisti, dedicata alla pubblicazione degli Acta santorum, cioè di un’opera in cui sono inserite le vite dei santi ordinate secondo il calendario liturgico. Solo da qualche decennio, però, l’approccio alle fonti agiografiche ha subito quella mutazione radicale suggeri. Il matrimonio mistico, pp. -.

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CAPIRE IL MEDIOEVO

ta da Pirenne e relativa a una metodologia preoccupata di leggere i documenti non solo per quel che esplicitamente e concretamente dicono, ma per quel che, del contesto della società di cui sono espressione, lasciano intendere. In tal senso, notevoli possono considerarsi i risultati raggiunti sul piano scientifico e su quello istituzionale dei percorsi didattici, grazie anche alla fattiva operosità dell’Associazione italiana per lo studio della santità, dei culti e dell’agiografia. Significativi sono, per esempio, gli studi raccolti in Agiografia altomedievale, a cura di S. Boesch Gajano; il saggio di F. Alkin, L’hagiographie byzantine; il seminario su Le fonti agiografiche tardomedievali organizzato dal Centro di studi sulla civiltà del Tardo Medioevo di San Miniato . Anche per il Mezzogiorno tali indirizzi di ricerca hanno avuto vari impulsi: si ricordano, a parte i fondamentali studi di Agostino Pertusi, quelli di Antonio Vuolo, I «libelli miraculorum» fra religiosità e politica, e di Giovanni Vitolo, Città e coscienza cittadina, il quale fra l’altro mette a fuoco, attraverso la produzione agiografica, il nesso strettissimo fra santo patrono e appunto coscienza cittadina.

. Omelie, scritture liturgiche, prediche Con “omelia”, termine derivato dal greco o™miléw e dal latino tardo homilia, nella liturgia cattolica si indicava l’esposizione e il commento delle Sacre scritture offerti, soprattutto di domenica e nelle feste comandate, dal sacerdote durante la messa. L’omelia più antica di cui si conserva notizia è la cosiddetta Lettera ai Corinti di Clemente Romano, che sembra sia stato collaboratore di san Paolo nell’evangelizzazione della Macedonia e papa dal  al . La Lettera esprime infatti nella forma, nella semplicità stilistica e nel contenuto le caratteristiche di un’omelia, cioè di uno strumento semplice di comunicazione teso a risolvere i gravi problemi della Chiesa di Corinto dove, da alcuni gruppi, erano stati deposti i presbiteri scelti e consacrati dagli apostoli. Una fonte importante dunque, che testimonia il difficile ma progressivo affermarsi, nelle istituzioni della Chiesa, del primato romano. Numerose sono le omelie rimaste e pronunciate quasi sempre «in occasioni pubbliche perché» divenissero «coscienza collettiva» . Fra le tante ci si limita a ricordare quella del secolo XII di Teofane Cerameo recitata alla presenza di Ruggero II, nella chiesa di Palermo, la domenica delle palme, e quelle tenute in varie cattedrali di Calabria e di Sicilia e rivolte agli strati sociali più modesti sul piano economico-giuridico e sul piano culturale.

. Resoconto di M. Montesano, Le fonti agiografiche, pp. -. . G. Cavallo, La cultura italo-greca, p. .

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FONTI SCRITTE

Sono dette “scritture liturgiche” i testi nei quali erano riportate le preghiere da leggere, da recitare o da cantare durante le cerimonie sacre. Cerimonie che, con le norme che regolavano lo scorrere profondo della vita dei cristiani, costituivano il canone che registrava le gerarchie fra i poteri. Fra i testi liturgici più diffusi vanno ricordati: a) i lezionari, vale a dire i testi che contenevano le lectiones, cioè le letture che costituivano il “libro d’ambone” che contiene appunto brani della Bibbia, ma non dei Vangeli, da recitare durante la messa; avevano segnato, in margine e talvolta in appendice, gli incipit dei singoli pezzi trascritti e gli explicit; b) i sacramentari, cioè i testi utilizzati fin dal secolo X e nei quali sono contenuti orazioni e prefazi recitati dal sacerdote durante la messa e le formule da pronunciare mentre si amministravano i sacramenti; dal secolo XI i sacramentari venivano divisi nel messale, nel rituale e nel pontificale; c) i pontificali erano i testi per le messe solenni celebrate dai vescovi che godevano del privilegio delle insegne del pontefice; la prima edizione di questi testi è il Pontificale Romano-Germanico del secolo X; d) gli ordines, cioè i testi cerimoniali nei quali era registrata la normativa che regolava le liturgie solenni; il testo più antico, che risale al secolo VI, è stato modificato più volte e per ultimo nel secolo XIV da Pietro Amelio, vescovo di Senigallia; nel  i vari testi cerimoniali venivano unificati nel Caeremoniale romanum, compilato da Agostino Patrizi Piccolomini e stampato nel . Fra le fonti liturgiche vanno anche inseriti gli inni (o canti) che costituivano l’innografia, vale a dire la produzione lirica in latino d’argomento religioso destinata ai fedeli. Produzione codificata nei canti gregoriani, detti così dal pontefice che, fra il VI e il VII secolo, ne aveva disposto la raccolta. In prosieguo di tempo, il canto liturgico si andò strutturando in modelli più articolati: il responsoriale, quando il popolo faceva eco al solista; l’antifonico, alterno fra due cori; il corale, cantato da tutti i fedeli. Diviso originariamente in quattro liturgie – romana o gregoriana, ambrosiana, gallicana, visigotica –, con la rinascita carolingia la tradizione romana finiva con l’assumere valore preminente. Col secolo XII il progressivo concretizzarsi dell’esperienza romanza, e dell’introduzione in Europa del liuto, strumento cordofono a pizzico di origine araba, finiva col condizionare la tradizione latina. Entrambe infatti, nutrendosi reciprocamente, davano luogo a quell’esperienza lirica che trovava espressione anche nella letteratura amorosa e trobadorica, con una fioritura di inni che, in quasi tutta Europa, coinvolgeva folle di fedeli i cui comportamenti facevano tutt’uno coi riti della Chiesa. Essi oggi costituiscono una fonte preziosa per ricostruire, coi gusti e gli umori di un’epoca, le radici della vita, dei sentimenti, delle illusioni, delle attese dei cristiani. 

CAPIRE IL MEDIOEVO

Le prediche sono i discorsi che il clero, nei suoi vari ordini e gerarchie, tiene in chiesa, o anche in altri luoghi, sulla dottrina e sulle verità di fede, sulla liturgia e sui comportamenti religiosi e sociali che hanno specifica attinenza con le Sacre scritture e con i canoni dell’ordinamento ecclesiastico. Significative in tal senso le indicazioni di Gregorio Magno che, nella Regula pastoralis, fornisce un elenco delle varie categorie di ascoltatori divisi fra maschi e femmine, giovani e vecchi, sani e malati, poveri e ricchi, servi e padroni, semplici, dotti, saggi ecc. Categorie definite meglio, specie sul piano psicologico, negli anni successivi da Giacomo di Vitry e da san Bonaventura . Le prediche costituivano infatti – e costituiscono ancora – uno strumento fondamentale di comunicazione attraverso il quale la Chiesa ha sempre cercato di coinvolgere i fedeli specie sugli aspetti salvifici e su quelli operativi della sua funzione, con particolare riguardo, nei primi secoli, alla diffusione del cristianesimo sia in Occidente che in Oriente e, nel periodo delle crociate, alla lotta contro gli infedeli e contro gli eretici . Con la scolastica, e col recupero della logica aristotelica e dei meccanismi dialettici che venivano posti alla base di ogni forma di comunicazione, l’impostazione delle prediche subiva sostanziali modifiche. Era però con gli ordini mendicanti che i predicatori, abbandonata la chiesa e invase le piazze, inventavano un linguaggio nuovo che imprimeva alle prediche un impulso emotivo straordinario, un proposito di penitenze inflessibile, una carica esuberante, passionale, probabilmente fanatica, che coinvolgeva i comportamenti pratici e sentimentali del numeroso pubblico accorso. Le prediche insomma, da Cavalca a Passavanti, nel momento stesso in cui con gli exempla, coi proverbi, col richiamo continuo alla concretezza quotidiana commuovevano e convincevano perché si facevano partecipi delle ansie, delle tribolazioni, delle aspettative di un generalizzato contesto umano, divenivano testimonianza rappresentativa della mentalità, dei comportamenti e delle dinamiche sociali ed economiche di un’epoca . Da questa stessa angolazione vanno lette le prediche di Bernardino da Siena, vissuto dal  al  e seguace dell’Osservanza, prediche che attiravano sia i «dotti e saggi» che le «turbe e le moltitudini» e dalla cui struttura aneddotica e per exempla emerge un mondo assai vario di uomini e

. Per i quali cfr. H. Caplan, Of Eloquence, pp. , , -; C. Delcorno, Giordano da Pisa, pp. -; E. Gilson, Michel Menot et la technique du sermon médiéval, pp. -. . Per uno sguardo d’insieme e utili indicazioni bibliografiche R. Rusconi, Predicazione e vita religiosa, passim. . F. Di Capua, Sentenze e proverbi nella tecnica oratoria, pp. -; H. R. Jauss, Alterität und Modernität, pp. - e alle pp. - la tavola sinottica dei vari generi.

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FONTI SCRITTE

donne dall’immaginario e dai comportamenti profondamente radicati nelle paure e nelle credenze sostenute dalla vita stessa, dura e lacerata dalle contraddizioni di un’epoca logorata da una lunga crisi di sistemi politici e di valori culturali e morali e in angosciosa ricerca del nuovo . Del tutto diverse le prediche di Girolamo Savonarola, drammatizzate sul pulpito di San Marco da una lettura profetica del testo biblico e rappresentative di una coscienza antitirannica e repubblicana sostenuta anzitutto da esigenze di rinnovamento religioso e morale, cioè da un ritorno a forme di religiosità esuberanti e incontenibili, che si manifestavano in una prospettiva teocratica al di fuori delle istituzioni ecclesiastiche e coinvolgevano a un tempo interessi e aspirazioni degli strati più modesti della città e degli intellettuali anche aristocratici sensibili all’Umanesimo platonico . Al di là comunque delle diversificazioni di linguaggio, di mentalità, di programmi, le prediche tutte offrono oggi, in forma ancora viva e suggestiva, uno strumento documentario di analisi e di riflessione sulla dinamica sociale, politica, religiosa e sull’ordinamento ecclesiastico che ne stava alla base. In tal senso, esse sono fonti di straordinaria rappresentazione delle vicende umane e in particolare delle donne e della condizione femminile nel Medioevo. Sulle prediche la bibliografia è consistente: ci si limita a quattro titoli: L. J. Bataillon, La prédication, che si sofferma sulle metodologie di approccio alle molteplici questioni anche filologiche di questo tipo di fonti; H. Caplan, Mediaeval «Artes Praedicandi»; Th. M. Charland, «Artes Praedicandi»; J. J. Murphy, La retorica nel Medioevo.

. Favole Le favole, dal latino fari, narrare, sono racconti brevi i cui protagonisti, per lo più piante e animali, ma talvolta anche uomini e donne, rappresentano modelli tipologici di vizi e virtù. Esprimono quasi sempre intenti moralizzatori e di pratica saggezza, e sono di solito in versi. In prosa so. L’elenco e le edizioni delle prediche in latino e di quelle in volgare in I. Origo, Bernardino da Siena, pp. -. Per gli aspetti letterari e comunicativi della predicazione C. Delcorno, L’«exemplum» nella predicazione di Bernardino da Siena, pp. -; Id., L’«ars predicandi» di Bernardino da Siena, pp. -; G. Fioravanti Melli, Lingua e ideologia nella predica di Bernardino, pp. -. . D. Weinstein, Savonarola and Florence e G. Cattin, Il primo Savonarola, specie pp. -.

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CAPIRE IL MEDIOEVO

no invece le fiabe, nella cui dinamica espositiva gli esseri umani si muovono in una vischiosità immaginaria rappresentata da spiriti maligni, demoni, streghe e fate, in un contesto cioè in cui la convergenza tra fantastico, leggenda e mito è da ricondurre al folklore e a una produzione collettiva affidata più all’oralità che alla scrittura. In tal senso bisogna leggere, per esempio, le Mille e una notte, compilazione anonima del secolo XIV che risale però a una perduta versione araba di un testo persiano del secolo X. Secondo i fratelli Grimm, dalla fiaba, del tutto immersa nel meraviglioso e nel fantastico, andrebbe distinta la leggenda, radicata invece in luoghi e fatti concreti e storicamente verificabili. Nel Medioevo – periodo nel quale fantasie e sogni, cielo e terra si mescolavano e acquisivano la stessa valenza dell’implacabilità dei fatti – le favole rappresentavano quel denso intreccio fra stati d’animo e sistemi di valori del vissuto quotidiano che consente di cogliere il senso profondo di una civiltà. Le favole, infatti, che continuavano la tradizione fedriana e avianea, ebbero nel Medioevo larga diffusione perché utilizzate nelle scuole come libro di testo (si pensi al Minor fabularius anonimo o al Novus Aesopus di Alessandro Neckam), nelle prediche come strumento di comunicazione (e valgano gli Exempla di Giacomo di Vitry), nella tradizione enciclopedica, nella quale spiccano il Directorium humanae vitae di Giovanni di Capua, lo Speculum maius di Vincent de Beauvais, i Gesta romanorum . Gli studi più recenti – quelli interessati specialmente alla loro interpretazione anche col ricorso a strumenti di altre discipline – hanno messo in evidenza che, al di là dei diversi contenuti, quasi tutte le favole del Medioevo hanno identico impianto narrativo, tale cioè, nelle pur inevitabili contaminazioni di trasmissioni testuali e di specificità di scrittura, da testimoniare una continuità culturale in cui si specchiava l’interazione fra tradizione dotta e favole e da offrire quindi un tipo di fonte come strumento di conoscenza della dinamica dei fatti anche attraverso l’esperienza emotiva che nasce dal fantastico e dall’immaginario. In tal senso, sono significative le favole raggruppate sotto l’indicazione Roman de Renard, nelle quali il mondo animale appare didascalicamente organizzato come quello degli uomini: plebe, nobili, sovrani e soprattutto coraggiosi e codardi, furbi e ingenui, fraudolenti e giusti. Ma sono pure assai eloquenti, in termini soprattutto di repertori, di similitudini o di metafore e intrecci fra descrizioni naturalistiche ed esigenze spirituali, i be-

. Per questi testi, per le loro edizioni e per gli studi relativi cfr. l’Enzyklopädie des Märchens e specie il repertorio curato da G. Dicke, K. Grubmüller, Die Fabeln des Mittelalters und der frühen Neuzeit.

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FONTI SCRITTE

stiari d’amore, nei quali – come nel testo di Richard de Fournival – «i rituali e i paradossi dell’amore cortese» venivano rappresentati «dalle fantastiche descrizioni del mondo animale» . Alle favole sono anche da ricondurre, sia pure su un piano diverso, le fate, che il Medioevo recepiva dalla tradizione antica non tanto nella loro tipologia di divinità pagane più o meno camuffate, quanto nei due tratti fondamentali della demonizzazione e dell’erotizzazione. Al contrario delle Parche – il cui compito era quello di presiedere al destino dell’uomo –, le fate medievali offrivano un’armonica simbiosi fra attitudine profetica e disponibilità erotica. Avevano appunto il potere di intervenire sul destino degli uomini e modificarne il corso secondo la propria volontà, ma possedevano soprattutto una valenza erotica che le sollecitava ad amorosi incontri e rifletteva a un tempo l’esigenza di integrarsi al fascino e allo sgomento che il meraviglioso esercitava sulle donne e sugli uomini del Medioevo. E non sono pochi i testi che, come il De nugis curialium di Walter Map, gli Otia imperialia di Gervasio di Tilbury, lo Speculum naturale di Vincent de Beauvais, il capitolo XIX del Decretum di Burcardo, offrono testimonianze preziose sul modo in cui la popolazione del Medioevo guardava alle fate. La loro duplice natura, di simbolo del destino e di rappresentazione immaginaria del desiderio, traeva origine dall’opposizione al paganesimo ufficiale, non dal rifiuto dei contenuti delle sue superstizioni, affondava cioè le radici nella lenta e risoluta volontà degli autori cristiani di integrare le divinità del passato in un sistema di pensiero ortodosso, che avrebbe avviato la progressiva trasformazione delle fate in streghe. Un processo, del resto, già presente nel Portonopeu de Blois, il ben noto romanzo in versi composto alla fine del secolo XIII. E anche questa angolazione di lettura trasforma in fonti, cioè in preziosi strumenti di conoscenza del nesso fra vita attiva e immaginario, un consolidato modello di letteratura del fantastico e del magico. Su queste narrazioni che, nel loro evolversi, si trasformano in testimonianze della coscienza emotiva della società medievale, la bibliografia non è particolarmente nutrita. A parte qualche testo pubblicato, con traduzione italiana, nella “Biblioteca italiana”, la bella collana diretta, per l’editrice Pratiche di Parma, da Marco Mancini, Luigi Milone e Francesco Zambon, si segnala la raffinata e den-

. Richard de Fournival, Il bestiario d’amore, p. . Alle descrizioni naturalistiche e alle esigenze spirituali riconduce il dibattito sui rapporti fra uomini e animali e sulle caratteristiche delle società antropocentriche. Kant, per esempio, diceva che «tutto può essere usato come mezzo, tranne l’uomo». Ma cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato, in cui si sottolinea che al concetto di Kant si potrebbero ricondurre «gli sterminatori di cetacei e di foche».

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sa ricerca di Laurence Harf-Lancner, Morgana e Melusina. La nascita delle fate nel Medioevo. Vari sono poi gli studi recenti sui complessi problemi di critica testuale e di ricostruzione della tradizione manoscritta di talune favole: di quelle di Fedro anzitutto, e del suo rifacimento in prosa detto Romulus o Aesopus latinus. A tal proposito, a parte gli studi di storia della favolistica mediolatina di Ferruccio Bertini, e a parte le ricerche di Armando Bisanti sul Pamphilus, sui fabliaux, su Gualtiero Anglico, a parte gli atti della XXXI settimana di studi di Spoleto del  su L’uomo di fronte al mondo animale, si segnala l’accurata rassegna di Maria Rosaria Matrella pubblicata col titolo Studi recenti sulla favolistica mediolatina. Si ricorda infine il volume di S. Tramontana, Il regno di Sicilia, specie il secondo capitolo, dedicato appunto a Uomini e animali.

. Scritture di viaggio A tale gruppo di fonti va ricondotto l’ampio ventaglio di testi diversi nella loro tipologia, ma identici nel significato teso a testimoniare i tempi, i modi, gli strumenti e i percorsi del viaggiare nel Medioevo, cioè lo spostarsi a piedi, a cavallo, con carri lungo itinerari terresti scarsamente tracciati, spesso mal conosciuti, polverosi d’estate, fangosi d’autunno, coperti di neve e spesso gelati d’inverno. Il muoversi con barche e con navi di varia forma, grandezza e potenzialità lungo le vie d’acqua fluviali, lacuali, marittime per andare da un luogo all’altro, compiere viaggi commerciali, di esplorazione, di colonizzazione, di studio, trasportare “genti d’arme”, sovrani, pontefici, diplomatici, ambasciatori, pellegrini, fuggiaschi, avventurieri, esercitare la guerra di corsa e la pirateria. Le fonti relative a questo complesso problema – connaturato all’essenza stessa dell’uomo fin dal tempo di Adamo che, dopo essere stato cacciato dal Paradiso terrestre, per cercare cibo e sfamarsi «si era messo in cammino per tutta la terra» – sono molte e in gran parte costituite da diari, memorie, annotazioni, resoconti, guide. Tale, per esempio, quel Tractatus de regimine iter agentium vel peregrinantium dedicato a Federico II nel quale Adamo da Cremona poneva in luce il nesso strettissimo fra i luoghi dove ci si doveva recare e i fattori ambientali anche sul piano degli alimenti da consumare e delle malattie da curare . In molti di questi testi, accanto ai riferimenti di carattere pratico, si colgono anche suggestioni mistiche e influenze di saghe e leggende. I punti cardinali, lungi dall’indicare semplici direttrici geografiche, esprimevano spesso, . F. Hönger, Ärztliche Verhaltungsmassregeln, passim. Luigi IX, per esempio, grande viaggiatore, era solito informarsi, prima di ogni partenza, della “buona aria” del luogo dove era diretto: S. Tramontana, Il regno di Sicilia, p. .

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FONTI SCRITTE

come si legge nella Summa totius imago mundi di Onorio di Autun, anche itinerari spirituali o piuttosto magici, rappresentativi cioè di una mentalità che considerava la vita sulla terra come pellegrinaggio spirituale e tali da evidenziare un intreccio fra osservazione dei luoghi e turbamenti emotivi del meraviglioso e dell’immaginario. Lo attestano i numerosi resoconti di viaggi fantastici, fra i quali – a partire dal Corano, la cui sura , intitolata Viaggio notturno, riferisce l’ascensione di Maometto dal “tempio sacro” della Mecca al cielo col cavallo Buraq – sono almeno da ricordare la Navigazione di san Brandano, del secolo X, alla ricerca di luoghi vicini al soprannaturale; la Visio Tungdali, scritta nel secolo XII da un monaco irlandese per spiegare il cammino ultramondano di Tungdal; il viaggio in Inferno, Purgatorio e Paradiso compiuto da Dante e riferito nella Commedia; la Lettera del prete Gianni, con le sue immaginifiche e conturbanti proiezioni sugli itinerari asiatici e africani; il Viaggio di Carlo Magno in Oriente, che in versi narra i dettagli di un immaginario tragitto dell’imperatore e dei suoi paladini alla corte di Bisanzio risoltosi in «una divertita parodia della chanson de geste». Certo, si tratta di testimonianze particolari che non riflettono esperienze concrete di viaggi, ma le cui istanze del fantastico, dell’immaginario e della mistica elevazione persistono qua e là radicate, sia pure inconsapevolmente, in molti testi che sono, o dicono di essere, resoconti di percorsi realmente seguiti, di cose viste, di esperienze vissute in località diverse e lontane da quelle di residenza. Di testi che, per dirla col sottotitolo di un bel libro di Paul Zumthor, offrono la «rappresentazione dello spazio nel Medioevo» , cioè di come i luoghi, nella loro dimensione e nella loro dinamica, apparivano ed erano percepiti dagli uomini di quei secoli, e soprattutto dai componenti di una classe mercantile le cui istanze economiche si saldavano con «esperienze mentali prima che fisiche» e con la ricerca di un «confronto tra il noto e l’ignoto» . Fare un elenco, sia pure approssimativo, di questi testi sarebbe impossibile. Esiste comunque un’ampia letteratura cui rimandare e nella quale si possono cogliere sia dettagli e valenze che fissano la tipologia dei racconti di viaggio, sia il filo che lega ogni testo ai molti dati materiali e concreti, cioè di utilità pratica, che essi forniscono. E valgano anzitutto le opere di Anastase Van Den Wyngaert, in cui sono trascritti i testi redatti dai tanti francescani che, a iniziare da Giovanni da Pian del Carpine, si spinsero fino ai luoghi del Lontano Oriente . E naturalmente le . P. Zumthor, La misura del mondo. . G. R. Cardona, I viaggi e le scoperte, p. . . Ampia Introductio, pp. XLIII-CXVIII, e vasta bibliografia, pp. XXV-XLVII (in Sinica franciscana).

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edizioni del Milione di Marco Polo, della cronaca di Martin da Canal scritta a Venezia fra il  o il  e dei numerosi diari e resoconti di viaggiatori italiani ed europei dei secoli XV e XVI, ricchi anche di notazioni antropologiche ed economico-sociali dei luoghi visitati. Particolarmente significativo quel che, a proposito delle donne d’America e dei loro costumi sessuali, scriveva Amerigo Vespucci in Il mondo nuovo, sintetizzato qualche anno dopo da Girolamo Giglio: «le [...] femine si forano l’orecchie solamente: nelle quali portano anella, e sono oltremodo libidinose. Questi popoli non hanno tra loro cosa propria, ma ogni cosa è a tutti comune; prendono tante femine quante loro piaceno, non havendo rispetto né a madre né a sorelle, anzi con quella che prima nella strada ritrovano piacendoli, si mescolano. Et il matrimonio tanto dura, quanto lor piace» . Considerazioni analoghe, in fondo, a quanto annotato molto tempo prima da Marco Polo sui costumi di Gaindu: «Et sì vi dico che in questa terra à un bello costume, che nol si tengono a vergogna se uno forestiere o altra persona giace co la moglie o co la figliuola od alcuna femmina ch’egli abbiano in sua casa; anzi lo tengono a bene, e dicono che lli loro idoli gline danno molti beni temporali» . Si tratta certo di fonti che vanno sempre lette con quel senso di diffidenza, se non di fastidio, con cui bisogna rivolgersi a descrizioni troppo compiaciute, e tenere ben presente non solo le informazioni fornite sui paesi nuovi scoperti e visitati, ma anche e soprattutto i quadri mentali di chi quelle considerazioni annotava. In questo senso, rimane guida metodologica fondamentale e preziosa, vigorosa, accorta e aderente al travaglio di un’età in fase di assestamento il volume di Rosario Romeo, Le scoperte americane nella coscienza italiana del Cinquecento. Su un piano diverso si collocano le fonti dei pellegrini e del pellegrinaggio. Molte di esse – costituite da relazioni, itinerari e guide come appunto la guida del secolo XII per i pellegrini di Compostela  – forniscono concrete e spesso verificabili notizie sulle strade e i loro rischi, sui cambi di cavalli, sulle ubicazioni dei porti, sui tempi e sui costi, abbastanza rilevanti, del viaggio, su alberghi e fondaci, sugli ospedali, gli abbigliamenti, gli incontri con viandanti che provenivano dai luoghi più diversi . Ma testimoniano soprattutto gli itinerari della fede cristiana e i motivi psicologici, religiosi, devozionali, liturgici, geografici, economici e politici per i quali talune sedi erano diventate luoghi di culto dispensatori di grazie, di indulgenze, di miracoli specie terapeutici. . G. Giglio, Gli costumi, le leggi e l’usanze, pp. -. . Milione, c. . . A cura di J. Vielliard, e tradotta in italiano a cura di P. Caucci von Saucken. . G. Cherubini, I pellegrini, pp. -.

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FONTI SCRITTE

Ci sarebbero altre considerazioni da fare e altre tipologie di fonti da elencare, come le cronache dei santuari e i tanti diari che si riferiscono pure al “modo femminile” di fare pellegrinaggi, cioè a un tipo di pellegrinaggio testimoniato soprattutto dall’iconografia e sul quale, al di là delle ancora frammentarie e imprecise ricostruzioni, anche le fonti scritte hanno permesso alla storiografia di questi ultimi decenni di accumulare dettagli e di porre problemi che forse nessuno si aspettava potessero essere sollevati su concreta base documentaria. Si andrebbe però oltre le esigenze di questo libro. Si reputa invece opportuno richiamare qualche riferimento bibliografico che possa aiutare nell’approccio al complesso e variegato argomento delle scritture di viaggio guardate soprattutto come fonti, come testimonianze, appunto, da utilizzare per la ricostruzione dei desideri, delle contraddizioni, degli orizzonti mentali e delle realizzazioni pratiche di un’epoca in cui, malgrado le non poche difficoltà, gli spostamenti umani erano continui, anche se più frequenti quelli a lungo percorso che non «il ripetuto andirivieni a corto raggio che», in tempi successivi, avrebbe costituito «la fitta trama della vita quotidiana» . In tal senso vanno letti i fondamentali volumi di Norbert Ohler, I viaggi nel Medioevo, e di Hans Conrad Peyer, Viaggiare nel Medioevo; il discorso di apertura di Cosimo Damiano Fonseca a Viaggiare nel Medioevo; il seminario di studi su Scritture di viaggi tardomedievali, per il quale cfr. il resoconto di Sandra Pietrini. Sulle fonti di viaggio cfr. ancora F. Cardini, I viaggi di religione, d’ambasceria e di mercatura; G. R. Cardona, I viaggi e le scoperte; G. Cherubini, Santiago di Compostella; G. Vitolo (a cura di), Pellegrinaggi e itinerari di santi nel Mezzogiorno.

. Testi dello specifico letterario Le opere letterarie sono, o dovrebbero essere, tutti i testi della storia della letteratura intesa come l’insieme della produzione scritta che, sulla base di valenze segnico-formali e tematiche, costituiscono lo specifico letterario, cioè le opere riconosciute appunto come letterarie in quanto diverse non solo dalle altre arti (musica, pittura ecc.), ma anche da tutte le varie forme espressive collocate entro l’organica struttura di testi didattici, scientifici, tecnici, filosofici ecc. Valutare comunque un’opera e riconoscerne o meno la specificità letteraria non è certo facile, né è compito di questo libro andare alla ricerca del perché e del come un testo possa dirsi letterario , tan-

. M. Bloch, La società feudale, p. . . Lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun, in L’hammam, che è il bagno turco, scrive che «la letteratura serve per esorcizzare brutte storie vere. Serve a fare diventare la vita reale una magia. Serve nei momenti duri, quando non si riesce a venire fuori da una situazione difficile. È questo che dà alla letteratura e allo scrittore un ruolo importante».

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to più che non tutti sono d’accordo sulla possibilità che lo studio dei testi letterari possa basarsi su giudizi di valore . Qui si vuole invece sottolineare, e lo rileva John Boswell, che pure lo «specifico letterario» affonda le radici nei fatti e nella mentalità e che ogni testo storico «è narrativo in ciò che sceglie di registrare e spiegare, proprio come ogni opera narrativa è storica nella misura in cui registra e spiega pensieri e sentimenti umani» . Edoardo D’Angelo, del resto, a proposito delle lettere di Gregorio IX, dice che bisogna evitare approcci «che tendano a utilizzare simili testi quali meri depositi di “notizie” e di “fatti”, prescindendo [...] da una valutazione [...] che riconosca e consideri la loro natura genetica di espressione letteraria». Infatti, aggiunge, «tale documentazione è, e giova ripeterlo, “letteratura”, prima ancora che fonte documentaria» . Con questa angolazione di lettura – nella quale comunque è necessario procedere con cautela critica – trova un felice punto di raccordo la circolarità di valutazione di un testo che, nel dare e nell’avere, acquista diversa specificità. Un testo letterario che come fonte di dettagli concreti potrebbe magari essere opinabile, ma la cui attendibilità come testimonianza di atteggiamenti mentali è innegabile. Non è privo di significato, per esempio, che nella Germania cristiana gli eroi di riferimento della poesia epica fossero Ermanrico, Attila e Teodorico, cioè tre condottieri del periodo migratorio, mentre nell’Italia romana e cristiana la tradizione epica guardava a Carlo Magno, un eroe visto come Cesare, oltre che come imperatore cristiano e capo dei paladini animati da profondo spirito religioso ed epico nella lotta contro i musulmani. Non è d’altronde casuale che il testo più letto – come testimoniano fra l’altro i numerosi manoscritti tramandati – fosse la Chanson de Roland, un’opera «di schietta e potente poesia» nella quale un modesto episodio è trasfigurato «epicamente nella lotta di tutte le genti cristiane raccolte attorno» a Carlo Magno. Certo, i fatti dello specifico letterario non sempre sono i fatti del mondo, ma le azioni e le passioni del mondo stanno alla base delle necessità e verità poetiche della letteratura. E probabilmente nello spirito di un tale contesto Giovanni Cherubini pone il problema della legittimità o meno dell’uso delle opere letterarie come fonti storiche, precisando che la loro utilizzazione diviene legittima se affrontata «con l’impiego coerente di altre documentazioni, al fine di collocarne le testimonianze entro un corretto sistema di riferimenti euristici» . Le novelle, . N. Frye, Anatomia della critica, p. . . L’abbandono dei bambini, p. , nota . . La «Ad ostendendam viam», p. . . Seminario tenuto, dal  all’ settembre , presso il Centro di studi sulla civiltà del Tardo Medioevo di San Miniato: cfr. il resoconto di Stefania Tamburini, pp. -.

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FONTI SCRITTE

per esempio, non solo offrono allo storico uno spaccato della dinamica sociale e culturale alla quale si riferiscono, ma permettono di cogliere l’angolazione soggettiva dell’autore, che era testimone di quel che accadeva in quella società. In tal senso si può utilizzare come fonte qualsiasi altro tipo di opera letteraria. E valgano due soli esempi: le opere di Francesco Petrarca e quelle di Ludovico Ariosto. Nelle opere di Petrarca, scritte in latino e in volgare e rappresentative della mutazione «dei fondamenti stessi del gusto e del sapere medievale» , si possono cogliere, per esempio, preziose testimonianze sulla contrapposizione fra guerra e pace durante la crisi politica italiana ; sulla convergenza tra floridezza economica, classi mercantili e vivacità culturale ; sulla sensibilità per il paesaggio e soprattutto per gli impianti e la manutenzione dei giardini. Testimonianze, queste ultime – scrive Massimo Miglio in un’accorta, raffinata e puntuale ricerca dedicata appunto a Il giardino di Petrarca –, costruite su lunga esperienza diretta e tesa a rendere più consapevoli i rapporti fra uomo e applicazioni pratiche di tecniche del lavoro agricolo nell’orto . Nelle opere di Ariosto, e specie nell’Orlando Furioso e nelle Satire, si coglie invece e si definisce uno spaccato quanto mai significativo del nesso fra strutture economico-politiche della società e delle corti e strutture intellettuali del Rinascimento. Dall’Orlando in particolare, secondo un’accurata analisi di Christian Bec, emerge la cronaca «della vita mondana di Ferrara», la celebrazione «dell’istituzione monarchica», della società feudale, della classe cortigiana nobile, del divertimento e dello spettacolo, la critica aspra della «ricchezza borghese» e «il disprezzo per la plebe» , in un contesto di fondo mal sopportato dallo stesso Ariosto, il quale, da intellettuale costretto, per vivere, a farsi mantenere dalla corte, protesta, nelle Satire, «contro la sottomissione assoluta che il principe esige da lui, contro una certa adulazione ipocrita ed esagerata, contro la servitù imposta ai cortigiani» . Notevole dunque il contributo dei testi letterari alla ricostruzione di un ambiente la cui dinamica politica e socio-culturale trova, in questo tipo di fonti, un riferimento esemplare. Basti pensare alle numerose novelle sulla satira del villano o ai versi del poeta Terrisio di Atina, i cui accenni sentimentali prendevano la forma di angosciose frustrazioni provocate dalla venalità diffusa in tutte le istituzioni e persino nella . R. Amaturo, Petrarca, p. . . R. Mercuri, Genesi della tradizione letteraria, pp. -. . Ivi, p. . . Il giardino di Petrarca, pp. -. . Lo statuto socio-professionale degli scrittori, pp. -. . Satire, I, vv. - e -; III, vv. -.

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giustizia . E basti ricordare l’Ecerinis di Albertino Mussato, una tragedia in versi nella quale, con persuasiva e drammatica convinzione, è rappresentato il demoniaco amplesso che aveva reso Adeleita madre di Ezzelino da Romano , nella quale cioè è l’immaginario collettivo che, nel concretizzare l’unione fra demoni ed esseri umani, offriva la mappa delle credenze e delle sensibilità di un ambiente e ai guelfi la possibilità di insinuare dubbi e sospetti anche sulla nascita di Federico II. Il confronto tra la povertà di fonti sulle condizioni materiali e psicologiche della natura umana e l’ampio ventaglio di informazioni fornito dai testi letterari suggerisce un nuovo modo di guardare alla realtà storica del passato e aiuta a capire l’interesse degli storici per i testi letterari e i convegni e i dibattiti degli ultimi tempi, registrati del resto dalla bibliografia. La quale sulla produzione letteraria è sterminata, ma costituita, in grandissima parte, di studi di ambito filologico-letterario. Non sono infatti molti i lavori che affrontano il rapporto fra rappresentazione narrativa e visione storica della realtà, pochissime addirittura le ricerche sugli autori e su come essi «campassero, di che e perché, oltre che per scrivere, donde venissero e dove andassero [...] e a che prezzo e per chi, e come quei loro scritti ci siano stati tramandati» . Proprio su questo argomento si segnala il recentissimo volume di Jacques Boncompain La révolution des auteurs, che, pure incentrato su epoche successive al secolo XV, offre vari riferimenti al “destino” socio-professionale degli scrittori e al diritto d’autore in epoca medievale. Si segnalano anche gli studi di Lauro Martines, Lawyers and Statecraft, e di Amedeo Quondam, «Mercanzia d’onore / Mercanzia d’utile». Prima di chiudere su questo argomento si ritiene comunque opportuno indicare i seguenti lavori: C. M. Bowna, La poesia epica; E. R. Curtius, Letteratura europea e Medioevo latino; A. Limentani, M. Infurna (a cura di), L’epica; M. Mancini, In forma di parole; S. C. Payen, F. N. M. Dietskra, Le roman; J. E. Ruiz Doménec, La novela y el espíritu de la caballería.

. Fonti legislative e normative Le Leges costituiscono le fonti legislative e normative, cioè tutti i documenti che testimoniano i quadri dell’ordinamento giuridico-istituzionale, nel quale rientrano appunto le disposizioni emanate dalle autorità pubbliche – imperatori, re, pontefici, signori feudali, comuni, città ecc. – in forma pubblica, vale a dire nell’esercizio delle proprie prerogative.

. S. Tramontana, Il regno di Sicilia, cit., pp. -. . Tragedia Ecerinis, nella traduzione di M. T. Dazzi, p. . . C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura, pp. -.

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FONTI SCRITTE

Lo studio di queste fonti riguarda in modo specifico la storia del diritto, che è la disciplina che delinea lo svolgimento formativo del diritto, e ad essa si rimanda. Qui ci si limita a qualche accenno perché tali fonti, che testimoniano il processo di formazione del diritto – processo di solito assai lento, talvolta però rapido, persino traumatico –, aiutano a capire il nesso strettissimo fra continuità e/o mutazioni delle dinamiche sociali e loro ricadute giuridiche e istituzionali sulle forme di potere e sui loro ordinamenti. A queste fonti si fa anche ricorso per ricostruire gli impianti politici, amministrativi e talvolta sociali ed economici delle istituzioni che le hanno promulgate e che possono essere le più varie, anche perché diverse nel tempo. Basti pensare a quel che avvenne, sul piano istituzionale, e quindi dei poteri che promulgavano le leggi, dopo il crollo dell’impero romano, quando lo sfaldamento politico, economico, sociale e culturale portò a un irradiamento dei particolarismi locali. Sulla scorta di alcuni testi di storia del diritto – e specie di due opere classiche e ancora fondamentali: E. Besta, Fonti: legislazione e scienza giuridica; P. S. Leicht, Storia del diritto italiano – si indicano alcune leggi promulgate da poteri centrali, e fra queste, per prima, l’Editto di Rotari. Emanato nel  dal sovrano longobardo dal cui nome ricava appunto la denominazione, è una disposizione legislativa in  capitoli relativa all’ordinamento militare, politico, sociale, finanziario e giudiziario del regno, con particolare attenzione per il diritto familiare, patrimoniale, penale. Si tratta di una legge che tendeva alla centralizzazione del potere e a fare dei longobardi un popolo educato alla vita sociale. E infatti si coglie subito, in tante norme, e soprattutto nella legge nel suo complesso, una visione esplicitamente barbarica della società, ma articolata secondo un’approfondita acquisizione della legislazione romana. Vanno poi ricordati i capitolari franchi e quelli emanati da Carlo Magno, che raccoglievano le norme per regolare la vita del regno e poi del Sacro romano impero. Si trattava di ordinanze disposte per “capitoli”, la cui autorità risiedeva principalmente nel diritto di banno del sovrano e nell’approvazione, sostanzialmente formale, dell’assemblea dei grandi del regno. I capitolari non costituivano comunque una raccolta organica di norme giuridiche, come il Corpus iuris di Giustiniano, ma erano disposizioni autonome che regolamentavano caso per caso alcune delle questioni prese in considerazione. Si sogliono dividere in capitularia ecclesiastica, cioè in capitolari che riguardavano problemi ecclesiastici, in quanto l’imperatore aveva ingerenza anche su questioni che si riferivano alla Chiesa e alle sue istituzioni, e in capitularia mundana, i quali contenevano disposizioni varie. Fra i primi è, per esempio, importante quello emanato nel  per ristrutturare la vita religiosa del clero e dei laici e noto come Admonitio generalis. Fra i mundana è da ricordare il Capitu

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lare de villis, che riguardava l’organizzazione e il funzionamento di una grande azienda curtense e costituisce una fonte particolarmente importante perché consente di cogliere l’attività economica e sociale delle villae o curtes, cioè dei grandi domini regi dell’età carolingia, il cui ordinamento, più che un fine fiscale destinato ad alimentare le entrate del sovrano, tendeva a potenziare l’efficienza dei patrimoni fondiari. L’Edictum de beneficiis regni Italici, più noto come Constitutio de feudis, è stato invece emanato dall’imperatore Corrado II il  maggio  durante lo scontro, a Milano, con l’arcivescovo Ariberto da Intimiano. Con questo editto si concludeva, in sostanza, il processo di trasformazione dei rapporti vassallatico-beneficiari avviato dal capitolare di Quierzy emanato da Carlo il Calvo il - giugno . Un capitolare che non sanciva esplicitamente l’ereditarietà dei feudi, ma che era ispirato al desiderio dell’imperatore di offrire garanzie, ai signori che partecipavano alla campagna militare in Italia, sul futuro dei loro beni e sui diritti dei loro figli. Garanzie che, sul piano giuridico, riservavano all’imperatore il diritto di decidere o meno, al suo ritorno, ma che di fatto, in un contesto in cui l’ereditarietà dei feudi era da tempo nelle cose, finiva col creare un precedente e dare quindi corpo a un principio che snaturava lo spirito originario delle situazioni vassallatico-beneficiarie. In un contesto in cui, col continuo coagularsi e rafforzarsi di poteri locali, i rapporti politici erano parecchio intricati, Corrado II, nel tentativo di indebolire Ariberto, si schierava coi valvassori e concedeva loro, con la Constitutio de feudis, l’ereditarietà dei benefici (feudi minori) che essi avevano ottenuto dall’arcivescovo di Milano e dagli altri grandi signori territoriali. La Constitutio è quindi una fonte particolarmente importante perché oltrepassa i motivi contingenti per cui era stata concessa. Essa riflette infatti un intricato processo di trasformazione della società di quegli anni, sancisce il principio dell’ereditarietà sul piano giuridico, avvia il progressivo coagularsi del diritto feudale, le cui norme sarebbero state poi raccolte nei Libri feudorum, dà vita, in ambiti territoriali abbastanza estesi, a un ordinamento in cui il beneficio (feudo), che faceva parte del patrimonio del vassallo, diviene, sia pure con modalità diverse, punto fondamentale di riferimento, soprattutto politico, per l’esercizio e il consolidamento di ogni potere. Fra le leges emanate dal potere centrale nel Regnum Siciliae vanno ricordate le Assise di Ariano e il Liber Constitutionum. Le Assise, promulgate nel  da Ruggero II, sono una codificazione costituita, più che da singole leggi emanate in occasioni diverse, da un corpus organico, anche se, osservava già Erich Caspar, «a causa della difformità degli estratti e delle costituzioni originali, le Assise acquistano un’impronta decisamente variopinta» e la composizione non costituisce quindi un 

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FONTI SCRITTE

insieme compatto . Esse rappresentano senza dubbio il primo esempio di «legislazione territoriale basata sul diritto romano», ma nel rispetto delle consuetudini. Le quali, si legge nell’Assise I De legum interpretatione, avrebbero continuato a conservare validità se non in «evidentissimo contrasto con queste nostre disposizioni» emanate con quei riferimenti di garanzia «a causa delle molteplicità dei popoli soggetti al nostro regno» . Le Assise sono fonte di notevole rilievo per lo studio dell’apparato fondante della monarchia normanna e della dinamica socio-politica del regno. Basti leggere il contenuto normativo dei singoli capitoli per cogliere, ad esempio, varie disposizioni relative all’inalienabilità di beni e diritti demaniali, alle punizioni di ufficiali e giudici incompetenti, alla difesa del carattere di casta della nobiltà feudale. Nobiltà del resto garantita, nella sua identità economica, sociale e giuridica e nella sua funzione, dal Proemium e dallo spirito di tutta la legislazione normanna, dal cui corpus appare abbastanza esplicita, nel monarca, la consapevolezza di rivolgersi ai vassalli «in quanto rappresentanti di potenti forze politiche e detentori di potestà giuridiche su regioni dello Stato» . Il Liber constitutionum regni Siciliae, detto anche Liber Augustalis, è invece il corpus organico di leggi emanate da Federico II di Svevia a Melfi nel  e valide per tutto il regno. Ed era proprio questa identità e funzione unitaria che dava ragione d’essere alla monarchia di un ampio territorio e soprattutto al monarca. Diviso in tre libri, quanti ne avrebbe poi inseriti Dante nel De monarchia, il Liber esprime una visione dello Stato che, se affondava le radici nella tradizione augustea e giustinianea e, per tanti versi, nelle scelte operative della legislazione normanna e dell’assolutismo islamico, trovava concreto sostegno nelle consuetudini locali e, per quel che si riferiva ai rapporti con le istituzioni ecclesiastiche e con gli eretici, nei principi del diritto canonico che, in forma sempre più organica, andavano emergendo da sinodi e concili. Il Liber constitutionum è fonte assai importante perché permette di cogliere l’ordinamento del regnum nella sua dinamica socio-economica, nella sua funzionalità giudiziaria, tesa alla tutela delle persone e dei beni, nel suo impianto istituzionale, specie per quel che si riferiva al significato effettivo della potestà monarchica. In tal senso, la legislazione federiciana è rivelatrice dei rapporti fra monarchia e ordinamenti feudali, cittadini, ecclesiastici, regolati, rispettivamente, dalle Constitutiones III, , , , che si riferivano, per esempio, alle prestazioni dei vassalli ai si. H. Houben, Ruggero II, p. . . Le assise, p. . . M. Caravale, Il regno normanno, pp. -.

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gnori, alla vendita dei feudi e alla loro ereditarietà; dalla Constitutio I, , che aboliva ogni forma di governo cittadino e stabiliva, per ogni centro, la sola presenza di magistrati nominati dal sovrano; dalle Constitutiones I,  e , III,  e , che trasferivano dalle curie ecclesiastiche alla giurisdizione della monarchia e delle sue corti di giustizia le competenze sugli eretici, sull’usura e su qualsiasi altra trasgressione con valenza religiosa. Sono infatti questi rapporti, nella loro globalità e nei singoli dettagli spesso ambigui ed elusivi, che permettono di capire quel che accadeva nelle stratificazioni sociali del regno e non solo al vertice del potere. È qui, su questo articolato e capillare livello di convergenze di interessi e di scontri, che la legislazione di Federico II, al di là di ogni immediata apparenza, ha provocato i conflitti più aspri e ha determinato la crisi di fiducia fra sovrano e aspirazioni delle famiglie feudali, fra sovrano, Chiesa di Roma e istituzioni ecclesiastiche locali e soprattutto fra sovrano e città. Conflitti tutti destinati ad aprire nel regnum una frattura profonda nel processo di riordinamento e di consolidamento dei nuovi nuclei di potere e della loro operatività sul territorio. . Statuti e consuetudini Oltre che ai poteri centrali, la produzione legislativa è da ricondurre alle magistrature cittadine, le quali, nelle loro specifiche funzioni, emanavano norme tese a regolamentare e fissare per iscritto provvedimenti di giustizia penale e di polizia urbana e a codificare statuti e consuetudini. Il termine “statuto”, dal latino statutum, indicava quel che era stato deliberato, e che poteva quindi tradursi in legge. Nel Medioevo infatti si chiamavano statuti le raccolte organiche dei testi legislativi deliberati da un’autorità investita di potere normativo, autorità di solito espressione di ordinamenti autonomi che potevano essere pubblici, come le comunità urbane e rurali, o privati con interessi pubblici, come le corporazioni delle arti e le confraternite, le quali tutte raccoglievano negli statuti le norme relative ai loro assetti istituzionali e al loro funzionamento. Gli statuti medievali hanno avuto diffusione quasi ovunque, ma in particolare, a partire dal secolo XII, nell’Italia comunale, e soprattutto per quell’area gli storici del diritto li hanno diversificati in tre categorie: gli statuti cittadini come espressione di autonomia, o addirittura di sovranità, di fronte al potere centrale (impero, monarchia, Chiesa, principi); gli statuti rurali, cioè fondamentalmente amministrativi, come espressione di tendenze autonomistiche dalle giurisdizioni soprattutto feudali dalle quali dipendevano; gli statuti delle arti professionali e di mestiere e delle confraternite religiose e assistenziali come espressione 

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FONTI SCRITTE

di solidarietà sociali e di impegno lavorativo e ai quali Boncompagno da Signa, nel trattato di artes dictandi, riconosceva le stesse competenze degli ordinamenti di matrice pubblica . Gli statuti costituiscono una fonte di primaria importanza, spesso sottovalutata, per la storia delle città e della vita urbana. La loro stesura registra infatti l’esito di scontri e processi lunghi e rappresenta, all’interno della dinamica cittadina, il risultato di sovrapposizioni di funzioni e interessi di gruppo, all’esterno il punto di arrivo del processo autonomistico dei centri urbani. Non è del resto privo di significato il contrasto duramente polemico fra estensori dei primi statuti, che più che alla forma e all’eleganza della scrittura guardavano agli interessi della comunità cittadina, e giuristi portatori non solo di esperienza e dottrina, ma di principi universalistici, imperiali o pontifici, che si opponevano agli interessi dei singoli. Interessi che si sarebbero continuati a cogliere, negli statuti, anche dal secolo XIV, quando, nel contesto di un progressivo processo di espansione e allargamento del potere delle città sul contado e della formazione degli Stati regionali, la legislazione dei principi tendeva a svuotarne le funzioni fondamentali e a restringerne i compiti a questioni strettamente locali, senza riuscire, d’altra parte, a dare corpo a quel processo di centralizzazione che in altri paesi europei, e specie in Germania, contribuiva a far prevalere ovunque, e in termini abbastanza efficaci, la legislazione del principe. Quanto precisato, sia pure in modo sintetico, è quel che sembra emergere dai recenti studi che caratterizzano la ripresa di interesse per queste fonti che, dopo un lungo e sostanziale letargo seguito al fervore post-unitario, trova oggi riscontro in varie pubblicazioni, seminari e congressi, cioè nel dibattito che ha come principale punto di riferimento l’importanza documentaria degli statuti, la cui utilizzazione deve essere condotta con particolare cautela. Quella cautela che deve anzitutto suggerire la necessità di tenere presente, nell’uso di questa testimonianza documentaria, il rapporto tra norme e loro concreta applicazione. Anche perché gli statuti, lungi dal riflettere una concreta e ben determinata realtà, potevano essere talvolta la registrazione di abitudini e comportamenti stratificati nel tempo che mal corrispondevano alle esigenze della dinamica sociale, economica e politica del momento in cui venivano redatti. Al di là di queste cautele e del principio metodologico generale secondo cui ogni fonte è solo uno degli elementi per la ricostruzione del passato, è subito da dire che gli statuti non solo sono testimonianze dell’assetto istituzio. Boncompagnus o Rhetorica antiqua, dalla quale emerge fra l’altro uno strettissimo nesso fra regole sociali e manifestazioni della vita pubblica e privata. Cfr. pure Boncompagno, Cedrus, in L. Rockinger, Briefsteller, pp. -.

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nale e della dinamica politica di un dato territorio, ma ne rappresentano lo spessore economico e sociale nel suo insieme e nelle sue trasformazioni. Colto, lo spessore economico e sociale, in ogni manifestazione della convivenza quotidiana, attraverso le norme che esprimevano sia la volontà comunitaria di autonomia che le esigenze di spazi di indipendenza civile e amministrativa, ma anche attraverso i riferimenti alle regolamentazioni urbanistiche che testimoniano le vicende insediative, l’uso del territorio, la disciplina e collocazione degli edifici pubblici e privati; attraverso le direttive sulle vendite al minuto, che permettono di conoscere gli orari di funzionamento delle botteghe, i prezzi delle merci, i sistemi alimentari; attraverso le disposizioni sulle macellazioni e vendita delle carni e sulle sofisticazioni alimentari, che suggeriscono il nesso fra nutrimento, patologie degli animali, epidemie; attraverso la disciplina delle precedenze durante le processioni, nelle quali, per esempio, la collocazione dei fornai fra i primi posti evidenzia il prestigio di quel mestiere e della sua corporazione e l’importanza del pane nelle abitudini alimentari di quegli anni. Gli statuti delle corporazioni, del resto, che venivano redatti quando l’associazione aveva già raggiunto un’importanza tale da reputare necessario difendere per iscritto i propri interessi e la propria identità, offrono non solo notizie attinenti all’attività lavorativa svolta, ma anche ai riflessi che quell’attività e il suo regolamento avevano nelle abitudini del vivere cittadino. Possono a tal proposito essere indicativi tre soli esempi. Lo statuto dell’arte della lana a Firenze, nel fissare i giorni in cui era vietato lavorare, elenca le feste in cui non si potevano tenere aperte le botteghe per vendere ; lo statuto dei medici e degli speziali di Venezia del  stabiliva che il medico era tenuto a giurare sui Vangeli che non si sarebbe occupato «della cura di nessun malato senza prima averlo ammonito che egli deve confessare i suoi peccati a un sacerdote» ; gli statuti dei pittori di Siena del  hanno il seguente incipit: «per grazia di Dio siamo chiamati a mostrare agli incolti che non sanno leggere le cose meravigliose che si sono compiute in forza e per mezzo della santa fede» . Nell’ultimo trentennio assai consistente è la bibliografia degli studi storico-critici e delle edizioni degli statuti. Impossibile tracciare una panoramica. Si preferisce rinviare alla Bibliografia delle edizioni giuridiche antiche in lingua italiana; al Catalogo della raccolta di Statuti; alla Guida bibliografica statutaria italia-

. G. Camerani Marri (a cura di), Statuti delle arti dei corazzai, passim; F. Morandini (a cura di), Statuti delle arti dei fornai, passim. . G. Monticolo (a cura di), I capitolari delle arti veneziane, vol. I, p. . . F. Antal, La pittura fiorentina, pp.  e , nota .

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FONTI SCRITTE

na; a L. Fontana, Bibliografia degli statuti; a L. Manzoni, Bibliografia statutaria; a L. Raveggi, L. Tanzini, Bibliografia delle edizioni di statuti toscani.

In certo qual modo diversa era invece, per quel che si riferiva agli statuti, la situazione dell’Italia meridionale e della Sicilia, dove abbastanza presto si era concretizzata una unità politica e territoriale sul piano geografico, non certo su quello antropologico e culturale e su quello della mentalità e dei comportamenti. Una realtà caratterizzata da una concretezza di fondo in cui i centri urbani, detti Universitates, non rappresentavano l’omogeneità di un fenomeno sviluppatosi ovunque allo stesso modo, ma una diversificazione che va verificata luogo per luogo sia nella collocazione geografica e nella dinamica interna delle singole città, sia nello svariato ventaglio dei ceti e delle professioni investite dalle politiche di ciascun potere, sia nei rapporti con l’esterno e soprattutto con la monarchia. Il cui atteggiamento, da Ruggero II ad Alfonso il Magnanimo, nella pur costante diffidenza di fondo, variava in modo da assumere scelte diverse «nei confronti delle singole città» fino al punto da potere «contemporaneamente favorire le libertà di un municipio e ridurre quelle di altri e modificare con gli anni queste posizioni» . Al di là comunque di un concetto di città che va valutato nella sua unità spaziale con la terra circostante in mano di possessori che risiedevano all’interno dei centri urbani, e al di là delle diverse interpretazioni e di una ancora incompleta analisi dei contesti economici, politici e istituzionali nei quali la monarchia prendeva corpo, un dato è da evidenziare: la modesta trasmissione di documentazione locale in rapporto a quella di produzione degli organi centrali e la scarsa documentazione statutaria nei confronti della più ampia presenza di consuetudines. Il cui termine generico ed equivoco, espressione senza dubbio dell’ipocrisia navigata del potere, intendeva evitare «quello concettualmente e politicamente più pregnante e significativo di statutum» . D’altronde, considerati per tanto tempo diversi, consuetudini e statuti furono da Francesco Calasso posti sullo stesso piano «in quanto entrambi costituivano il diritto proprio cittadino». Distinti però da Matteo Gaudioso, che riconduceva entrambi al privilegio sovrano e non al potere normativo autonomo delle città, sono oggi oggetto di attenta analisi all’interno della dinamica politica in cui di volta in volta i singoli centri urbani si trovavano a operare.

. M. Caravale, La monarchia, p. . . A. Romano, Vito La Mantia e le fonti, p. XXV.

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. Diplomi, bolle, privilegi Col generico termine chartae – assimilabile, in certo qual modo, a “documenti” – si intendono di solito tutti i testi di natura giuridica redatti secondo ben precise norme e formulari per registrare e testimoniare un fatto accaduto, un fatto appunto la cui registrazione in termini giuridici sanciva e rendeva validi diritti e obbligazioni di soggetti pubblici e di soggetti privati, in quanto, precisava già Marculfo nel suo Formulario, «negotia hominum» possono essere «tam in palatio quam in pago» . In tal senso le chartae, al di là di una classificazione che non intende essere rigida perché è solo pratica e didattica, si possono dividere in pubbliche e private. Pubbliche in quanto emanate da una autorità pubblica in forma pubblica, private se registrano le disposizioni di un privato che esprime la sua volontà e un negozio giuridico fra due o più privati che esercitano loro diritti. Tutte le chartae sono studiate da una disciplina specialistica detta, dal titolo del trattato di Mabillon, diplomatica in quanto esamina i diplomi, vale a dire i documenti medievali e umanistici nei loro caratteri intrinseci ed estrinseci per accertarne anzitutto l’autenticità e per metterne in evidenza l’azione giuridica, cioè il contenuto del documento e le norme e le formule che stavano alla base della sua stesura, per ricostruirne appunto la fisionomia attraverso le varie fasi di compilazione e attraverso una puntuale scomposizione critica degli aspetti giuridico-amministrativi e di quelli linguistici e paleografici strettamente connessi alla cultura del tempo e del luogo in cui venivano redatti. Tanto più che nel Medioevo, e in modo più accentuato nell’Alto Medioevo, le formule giuridiche e i modelli di scrittura dei documenti, più che a una rigida esigenza di carattere tecnico, erano legate a una cultura. Basti pensare al Breviarium de dictamine col quale Alberico di Montecassino si soffermava sulle formule contrattuali, ma suggeriva soprattutto, per la stesura di documenti ed epistole, usi più adeguati di espressioni retoriche e di regole grammaticali . Fra i documenti pubblici i più importanti sono quelli emanati in forma pubblica dagli imperatori, dai re, dal papa, e fra essi vanno almeno ricordati i diplomi, le bolle, i privilegi. Documenti cioè diversi, nei contenuti e nella formulazione e confezione giuridica, dalle leges, perché esprimono, in deroga a una norma generale, concessioni di diritto, da parte del potere, a favore di singoli o di comunità. La loro validità era

. Citato da C. Paoli, Diplomatica, p. , nota . . Alberico da Montecassino, Breviarium de dictamine, p. .

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FONTI SCRITTE

sancita dalla potestas dell’autorità che li emanava, dalle norme e dai formulari che ne qualificavano la fattura e la sostanza giuridica, dalla materia scrittoria che li costituiva, dai funzionari che, nelle apposite sedi, provvedevano alla loro stesura e ne garantivano l’autenticità. Le sedi dove venivano elaborati, redatti, coordinati, autenticati e registrati i documenti pubblici erano di solito le cancellerie degli imperatori, dei re, del papa, luoghi indicati appunto con un termine che riconduce alla sede del cancellarius, vale a dire dell’ufficiale il cui titolo, alle origini, si riferiva al custode dei cancelli del tribunale e che finì poi col designare uno scrivano e in seguito un funzionario al quale spettava il compito di coordinare le varie fasi di elaborazione, autenticazione, registrazione e conservazione nell’archivio degli atti pubblici. La progressiva trasformazione istituzionale e la sempre maggiore complessità delle esigenze burocratiche contribuirono a innovazioni di fondo delle cancellerie, specie per quel che riguardava il numero e la funzione del personale, costituito nell’età carolingia di soli ecclesiastici e in seguito anche di laici. Già a Pavia, dove cominciavano a operare anche funzionari laici, la cancelleria, a partire dal secolo XI, presentava un ordinamento burocratico con sviluppo interno delle carriere che offriva al semplice notaio la possibilità di diventare cancelliere. Nel Regnum Siciliae bisogna invece arrivare al secolo XII, e cioè ai tempi di Guglielmo I, per avere, con Maione di Bari, un cancelliere laico. La laicizzazione delle burocrazie si sarebbe comunque sviluppata con Federico II di Svevia, alla cui corte la cultura «si incarnava di preferenza in funzionari con precise competenze e responsabilità» e tali, come Roffredo da Benevento, docente all’Università di Bologna, da indicare nel diritto lo strumento indispensabile per la costruzione dello Stato e del suo impianto amministrativo. Una direttrice analoga, in fondo, a quella delle monarchie europee, dove il processo di sviluppo e di perfezionamento dell’organizzazione burocratica e delle cancellerie aveva come principale punto di riferimento il consolidarsi degli apparati centrali e il reclutamento di esperti di diritto e di finanza con preparazione universitaria. Anche se chi è abituato a leggere le vicende della storia come processo espansivo per il controllo più ampio del potere non può non cogliere che gli accresciuti meccanismi burocratici e il contrarsi degli spazi di libertà insiti nelle oligarchie avviavano le monarchie in Europa e i principati in Italia a quelle forme di rapporto fra potere e cultura destinate a trasformare gli intellettuali titolari delle carriere a corte e nelle cancellerie in semplici esecutori, anche se funzionari di notevole importanza. Più complessa, nella sua analogia di fondo con quella imperiale, la cancelleria pontificia, nel cui ordinamento burocratico già nel secolo VIII era registrata la presenza di scrinarii, di notai cioè addetti allo scrinium, 

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termine con cui è probabile si intendesse un luogo munito di archivio. Da documenti del secolo XI emerge la figura del cancellarius non solo come coordinatore dell’ufficio, ma anche come bibliotecario, cioè come capo di un supporto culturale in grado di facilitare le relazioni con numerose province cristiane e del quale Giovanni Immonide, autore della famosa Coena Cypriani, decantava lo spessore . Con il pontificato di Innocenzo III (-) la cancelleria pontificia acquisiva però un ordinamento burocratico parecchio sofisticato, nel quale erano impegnati vari funzionari esperti di diritto e di ars dictandi, come è fra l’altro attestato dai funzionari che, formatisi negli uffici pontifici, erano stati assunti da Federico II nella propria cancelleria . Ulteriori riforme negli apparati cancellereschi pontifici sono registrate nell’età avignonese, e proprio agli anni di Giovanni XXII risale la compilazione di quelle Regulae cancellariae che aggiornavano il Liber cancellariae apostolicae del tempo di Innocenzo IV e che dovevano servire da guida per la stesura degli atti, per l’apposizione della bolla, per la trascrizione in appositi registri e per la conservazione nell’archivio. Naturalmente, non tutte le norme registrate nei manuali e nei trattati di ars dictandi venivano sempre e integralmente tenute presenti durante la stesura di documenti imperiali, regi o pontifici. E neanche i diplomatisti sono stati e sono d’accordo sul come e sul quando sia possibile individuare un’effettiva corrispondenza fra i documenti quali si presentano nella loro concretezza e le norme teoriche che stavano a base della loro preparazione e della loro fattura. Per quel che si riferisce ai caratteri intrinseci del documento, cioè alle forme giuridiche e letterarie dell’esposizione dei fatti da attestare, la diplomatica ha in certo qual modo tenuto presente la partizione fatta da Theodor Sickel, che ha seguito la tipologia del diploma imperiale. Gabriele Pepe annotava però che non tutti i diplomi giunti a noi e disponibili nella loro concretezza all’analisi della critica concordano nei criteri di applicazione delle norme di stesura, e aggiungeva anzi che «è molto raro che in un atto solo, sia pure importantissimo e stilato dalla più pedante cancelleria papale o imperiale, si trovino tutte insieme»  le singole parti in cui si suole scomporre un diploma. Ogni diploma è composto dal protocollo e dal testo. Il protocollo è costituito dalle formule che, nel sancire la solennità della potestas che emanava il diploma, lo rendevano pubblico; il testo è invece costituito dal contenuto giuridico, cioè

. Sancti Gregorii Magni vita, col. . . H. M. Schaller, Kanzlei, pp. -. . Introduzione allo studio, p. .

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FONTI SCRITTE

dall’esposizione dei fatti per i quali il diploma veniva emanato. Sia il protocollo che il testo sono a loro volta divisi in varie parti. Al di là di ulteriori dettagli e semplificando, l’impostazione tipica del diploma imperiale può essere la seguente: invocatio, intitulatio, promulgatio, narratio, dispositio, sanctio, corroboratio, subscriptiones, datatio, apprecatio. L’invocatio, che è la formula con la quale si soleva dare avvio alla stesura del diploma, poteva essere simbolica o verbale. Simbolica se espressa col segno della croce o col monogramma di Costantino, il chrismon costituito dall’intreccio delle lettere greche X e P che erano le iniziali di Iesus Christus; verbale se espressa con parole: in nomine seguito da un genitivo. La più frequente era: in nomine sanctae et individuae trinitatis. L’invocatio era formula giuridicamente non necessaria, ma cristianamente doverosa, quasi d’augurio per il buon fine di quanto stabilito nel diploma. L’intitulatio si compone di tre parti. L’intitulatio propriamente detta registra il nome e i titoli dell’autore che fa o nel cui nome è redatto il diploma, nomi e titolo spesso accompagnati dalle frasi dei gratia, divina favente clementia ecc., le quali esplicitavano la natura, l’essenza di chi emanava il diploma e l’origine divina del suo potere. Un potere che non sopportava limite di sorta perché rappresentava il nesso diretto con Dio che lo rendeva autonomo da qualsiasi legame terreno. Per esempio, nella pace di Costanza, dopo l’invocatio si legge: «Fridericus divina favente clementia Romanorum imperator augustus et Henricus sextus filius eius Romanorum rex augustus». In un diploma del  col quale Guglielmo II concedeva benefici alla chiesa di Monreale, l’intitulatio indica il sovrano normanno «esaltato da Dio, forte nella divina potenza, trionfante per virtù divina». Ed è una formula più politica che di devozione religiosa, o addirittura, come avrebbe poi scritto Tommaso d’Aquino nella Summa, di particolare arroganza. Seguiva poi l’inscriptio, che reca il nome (o i nomi) e i titoli del destinatario (o dei destinatari), e l’arenga (o exordium, o prologus, o proemium, o captatio benevolentiae), che è un preambolo destinato ad accattivarsi la simpatia e la disponibilità dei destinatari. Ereditata dalla tradizione romana – ne parla Cicerone nel De inventione (I, XV, ) – l’arenga non è necessaria per la validità giuridica del diploma, ma è un ornamento letterario e morale destinato a dare maggiore solennità. Nei diplomi di Federico I è, per esempio, costituita da una generica affermazione dei diritti dell’imperatore e della sua abitudine a premiare sudditi fedeli: «Imperialis clementiae mansueta serenitas eam semper in subditis dispensationem favoris et gratiae habere consuevit ut, quamvis districta severitate excessuum delicta debeat et possit corrigere, tamen magis studeat propitia tranquillitate pacis et piis affectibus misericordiae Romanum imperium regere et rebellium insolentiam ad debitam fidem et debitae devotionis obsequium revocare». La promulgatio, che segue l’arenga – e dalla quale è quasi sempre separata da avverbi di causa: itaque, etenim, eapropter, quapropter, igitur ecc. – è caratterizzata dalle formule notum sit omnibus, cognoscat praesens aetas et futura, pateat omnibus, noverint universi, constat, cognoscat ecc., che introducono il testo del diploma, cioè la narratio. La narratio, che assieme alla dispositio è la parte fondamentale del diploma, contiene la narrazione dei motivi generali o particolari che hanno dato origine a

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ciò che è esposto nel diploma, mentre la dispositio esprime la volontà, appunto le disposizioni dell’autore. La sanctio contiene le sanzioni previste per i trasgressori di quel che è sancito nel diploma, sanzioni che possono essere temporali, cioè penali, e spirituali. Queste ultime sono di solito espresse in forma di imprecazioni e maledizioni, si trovano nei diplomi fino al secolo XIII e sono talvolta mitigate da un eufemistico e ipocrita quod absit. La corroboratio serve infine ad annunciare la parte conclusiva del diploma, cioè gli elementi atti a garantirne l’autenticità: segnature degli autori, dei cancellieri e notai, dei testimoni, apposizione dei sigilli ecc. Le subscriptiones sono le segnature degli autori, dei rogatori, dei testimoni ecc. Nei diplomi di Federico I si legge per esempio: «signum domini Friderici Romanorum imperatoris invictissimi. Ego Gotefridus Maguntinae sedis archiepiscopi et Germaniae archicancellarii recognovi». L’apprecatio è la formula con cui si solevano chiudere i diplomi, così come l’invocatio ne era l’apertura. Era una formula che cambiava nei luoghi e nel tempo. Le più frequenti erano: feliciter in Domino, in Dei nomine feliciter, e più tardi sempre più spesso amen. L’apprecatio, nel diploma, è preceduta dalla datatio, con la quale sono indicati il luogo, il giorno, il mese, l’anno, l’indizione e talvolta persino l’ora in cui il diploma veniva redatto. I modi e gli usi della datatio verranno esposti nelle pagine successive.

I diplomi pontifici, che sostanzialmente hanno lo stesso impianto di quelli imperiali e regi, differiscono in alcuni dettagli. Nell’intitulatio per il pontefice veniva di frequente assunta la formula episcopus servus servorum Dei, resa definitiva nel secolo IX. Oltre ai diplomi, la cancelleria pontificia emanava però anche bolle, brevi e motupropri. Le bolle – dette così perché munite di un sigillo di piombo che, per estensione, dava nome all’intero documento – erano lettere del papa su problemi del temporale e dello spirituale. Esse comprendevano vari tipi di documenti il cui elenco, sia pure incompleto, è dato da una Summa sassone del secolo XIII . La più nota è la bolla Unam sanctam, con la quale Bonifacio VIII, nel , ribadiva la subordinazione del potere temporale a quello spirituale della Chiesa. I brevi erano documenti meno solenni delle bolle sia nei caratteri estrinseci (qualità del materiale scrittorio, tipo di scrittura, uso del sigillo di cera rossa sul quale c’era l’impronta dell’anello del pescatore, cioè l’immagine di san Pietro mentre pesca) che in quelli intrinseci. Essi riguardano affari personali del pontefice e problemi di esclusiva pertinenza temporale. Lo dice esplicitamente Clemente IV in una lettera del : «non scribimus sub bulla sed sub pi. L. Rockinger, Briefsteller, p. .

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FONTI SCRITTE

scatorio sigillo quo Romani pontifices in secretis utuntur» . Va notato che l’anello piscatorio era personale di ciascun pontefice e veniva rotto dopo la morte del papa che lo aveva posseduto. I motupropri erano documenti emanati spontaneamente dal papa senza che ci fosse richiesta alcuna. Erano privi di sigillo, ma con sottoscrizione autografa del pontefice. L’incipit veniva espresso così: Placet, et ita motu proprio mandamus. Altro documento pubblico emanato da una potestas era il privilegio, il cui termine – originato dal latino privilegium, composto da privus, nel significato di singolo, particolare, e da lex, legge – indicava un atto col quale l’imperatore, il re, il pontefice o un principe elargivano a una persona, a una categoria o a un’intera comunità diritti eccezionali e permanenti in deroga alle norme generali vigenti e quindi vantaggiosi per chi li riceveva. Ed è significativo che i trattati dell’ars dictandi definissero il privilegio privata lex o, meglio, privatio legum, la cui espressione, nell’indicare una forma di liberazione dai vincoli della legge, sanciva la presenza di un ordinamento pubblico basato sul principio della disuguaglianza, ma anche sulla disponibilità delle parti a forme di compromesso che sanzionavano promissioni reciproche fra sovrano e altri contraenti e che è probabile stiano alla radice di quelle pactiones, di quei concordati, di quegli ordinamenti pattizi che potrebbero essere considerati la prima manifestazione di un processo di costruzione politicoistituzionale che tendeva a forme più equilibrate di potere. È evidente – scriveva Carmelo Trasselli nel  – «che il privilegio non era frutto di un benevolo capriccio di un sovrano né di una capricciosa richiesta: esso rispecchiava una situazione» e, sul piano economico, «l’opportunità di stimolare e favorire lo sviluppo» . . Fonti giudiziarie laiche ed ecclesiastiche Fra le chartae vanno pure inseriti tutti quei documenti che – emanati dagli organi burocratici dell’impero, delle monarchie, delle istituzioni ecclesiastiche nei vari livelli gerarchici – testimoniano l’operatività dei funzionari sul piano giudiziario e su quello fiscale. Sul piano giudiziario, si rimane colpiti dalla scarsa disponibilità di documenti relativi alla giustizia civile: questo tipo di documentazione rimane marginale. Ci sono qua e là, nei documenti i più vari, riferimenti a controversie civili che però rimarcano maggiormente, piuttosto che at. Citato da C. Paoli, Diplomatica, cit., p. . . I privilegi di Messina, p. .

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tenuarla, la scarsa disponibilità di tale tipo di fonti. Di gran lunga maggiore è la presenza di documenti relativi alla giustizia penale, raggruppati quasi sempre in registri che riguardano la procedura accusatoria e in registri attinenti alla procedura inquisitoria, registri cioè compilati in base alla diversificazione delle formalità che si dovevano osservare nello svolgimento del processo: l’accusatorio quando, distinguendosi la persona dell’accusatore da quella del giudice, l’accusa poteva essere esplicata da chiunque e la prova non subiva limitazioni; l’inquisitorio quando accusatore e giudice coincidevano nella stessa persona e le prove, circoscritte, non dovevano essere verbali, cioè a voce, ma regolate dal principio della scrittura e della non pubblicità. Di notevole importanza le fonti in cui sono registrate le decisioni delle magistrature ordinarie, quelle relative alle competenze giurisdizionali delle “arti”, quelle che riguardano le controversie sul lavoro, alla cui base stava la norma che impediva al lavoratore di abbandonare il suo datore d’opera, e tutte le fonti che si riferiscono ai nessi fra ordine pubblico e politica criminale. Numerose sono quelle attinenti alle false testimonianze, alle vendette private, alle violenze fisiche, agli stupri pure alle monache, alle violenze verbali, fra le quali assai frequenti gli insulti rivolti all’aspetto somatico delle persone e a eventuali difetti funzionali e le ingiurie tese soprattutto a porre in dubbio l’onore delle persone con espressioni particolarmente infamanti sul piano civile, su quello religioso, su quello morale. Specchio veridico di tormenti religiosi e morali e di esigenze e angustie quotidiane è la realtà che emerge dai documenti dei tribunali ecclesiastici, specie per quel che riguarda la vita del clero e soprattutto la diffusione del concubinato. Di natura diversa i registri del tribunale dell’Inquisizione, cioè del tribunale ecclesiastico straordinario ma permanente al quale era soprattutto demandato il compito di reprimere ovunque l’eresia in genere e quella catara e valdese in particolare. Dalla documentazione di questi registri – nei quali sono raccolte le varie sentenze che comminavano pene che andavano dall’obbligo di portare un segno distintivo del proprio status alla eliminazione fisica per impiccagione, per decapitazione, per rogo – emerge il quadro di una strategia della repressione che assumeva connotati politici, oltre che religiosi. La strategia appunto del papato che, attraverso lo strumento coercitivo giustificato dalla fede, tendeva all’affermazione e prevalenza del proprio potere. Da uno di questi registri, relativi a un centro dell’Occitania, Emmanuel Le Roy Ladurie ricava gran parte delle testimonianze per il volume su Montaillou durante l’Inquisizione degli anni - .

. Storia di un paese: Montaillou.

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FONTI SCRITTE

Con metodologie di questo tipo l’utilizzazione delle fonti giudiziarie acquista uno spessore particolare soprattutto per la ricostruzione dei rapporti fra giustizia e potere. Lo rilevava già Dino Compagni quando, nel capitolo V del primo libro della Cronica, a proposito delle vicende di Firenze nel  e della costituzione dell’ufficio dei priori delle arti, scriveva che, invece di rispettare le norme che garantissero «l’avere del comune» e una giustizia uguale per tutti, e «che i piccoli e impotenti non fussero oppressi», i «cittadini che entravano in quello uficio non attendevano a observare le leggi, ma ad corromperle» . E lo si ricava da tante altre testimonianze giudiziarie, dalle quali emerge in termini assai precisi lo stretto nesso fra giustizia e gruppi di potere che di volta in volta riuscivano ad avere il sopravvento. Da documenti della corte pretoriana che si trovano presso l’Archivio di Stato di Palermo emergono per esempio, per il secolo XIV, indicazioni inequivocabili «sull’alterazione dell’imparzialità della giustizia da parte di varie forze che si contendevano il controllo della città» . Sui problemi della giustizia criminale, sul suo funzionamento e sui suoi riflessi sugli ordinamenti politici e sull’ordine pubblico la bibliografia non è molta, e quasi del tutto assenti sono le edizioni di fonti giudiziarie. Si ricordano comunque: il volume curato da J. Kohler e G. Degli Azzi, Das Florentiner Strafrecht des XIV Jahrhunderts, con parecchie trascrizioni di fonti; lo studio in due volumi di H. U. Kantorowicz, Albertus Gandinus; il libro di A. Zorzi, L’amministrazione della giustizia penale, e dello stesso autore i saggi Giustizia criminale e criminalità, Giusdicenti e operatori di giustizia, La justice pénale. Sono poi da ricordare il seminario su Le fonti giudiziarie tardomedievali, per il quale cfr. il resoconto di Fiorella Trucco, e per la Sicilia P. Corrao, Fonti e studi; F. Figlia, Giustizia e società; A. Giuffrida, La giustizia nel Medioevo; C. Trasselli, Criminalité et moralité.

. Fonti finanziarie e fiscali Per quel che si riferisce alle testimonianze scritte dell’attività finanziaria dei centri di potere e quindi dell’imposizione e della riscossione dei tributi, bisogna subito precisare che nel Medioevo l’imposta reale diretta non era la più diffusa. Ciò per vari motivi, non ultimo per la diffidenza dei popoli germanici, ancorati a una tradizione che riteneva siffatta imposizione limitatrice del libero possesso dei beni fondiari e quindi della

. Cronica, p. . . A. Giuffrida, La giustizia nel Medioevo, pp. -.

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libertà stessa della persona a cui quel possesso era strettamente legato. Il carattere preminentemente patrimoniale della spesa pubblica, i numerosi balzelli (dazi), le regalie , l’obbligo delle prestazioni personali, le tassazioni che gravavano su ogni manifestazione della vita quotidiana (feste, matrimoni, servizi di guardia, costruzioni delle mura ecc.) evidenziano una dinamica fiscale la cui imposizione lasciava traccia in un ampio ventaglio di fonti, comprese le cronache, ma soprattutto negli atti notarili. E l’utilizzo di queste fonti è indispensabile per una corretta ricostruzione dell’ordinamento finanziario e fiscale, per il quale però punto fondamentale di riferimento rimangono i ruoli di imposta, i catasti, i registri delle gabelle, i libri di entrate e uscite relativi alle somme globali e per singole voci incassate e spese dalle pubbliche tesorerie. Documentazione certo diversa da luogo a luogo e soprattutto da tempo a tempo, ma la cui più diffusa presenza permette di cogliere il processo di trasformazione degli ordinamenti e delle forme di potere, di strutture cioè come l’impero, le monarchie, le stesse città fino al secolo XII, caratterizzate da un ventaglio limitato di bisogni, poiché il servizio militare gravava su chi era obbligato a prestarlo e sulle risorse dei centri abitati sui quali gli eserciti soggiornavano, le funzioni amministrative erano in parte onorarie o finanziate dal loro stesso esercizio, le opere pubbliche e gli impianti difensivi erano realizzati con prestazioni personali e con contributi delle popolazioni interessate. Dal secolo XII – col progressivo consolidarsi di forme di potere assai più articolate e via via sempre più sorrette da assetti gerarchici in senso verticale e tali da costituire «una serie di ordini e gradi che, nei livelli più evoluti, costituiranno le carriere»  – andavano crescendo i bisogni del funzionamento dell’apparato statale. Il quale, fra l’altro, doveva fare fronte al mantenimento di una milizia civica, di opere pubbliche, di ambascerie e soprattutto di una burocrazia fra i cui componenti erano anche i funzionari del fisco. E già dal secolo XI, accanto ai redditi patrimoniali e ai molteplici tributi indiretti costituiti prevalentemente dalle taxae datiorum, andavano prendendo corpo più estese forme di imposizioni dirette, da ricondurre principalmente ai primi tentativi di estimi a fini fiscali dei patrimoni soprattutto fondiari. Anche a tale fine, per esempio, era stato compilato in Inghilterra, già nel , il Domesday Book, che può considerarsi il più antico esempio di catasto,

. Nella dieta tenuta a Roncaglia nel  Federico I elencava le regalie, cioè i diritti di pertinenza del sovrano: MGH, Leges, IV/, pp. -. L’elenco testimonia fra l’altro di quali e quanti proventi il sovrano potesse disporre per le proprie finanze e della tendenza dei comuni ad appropriarsene. . G. Astuti, La formazione dello Stato, p. .

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sul quale erano appunto elencate tutte le terre del regno, i relativi feudatari e le imposte da loro dovute. Un libro contabile, in fondo, che permetteva allora alla monarchia di disporre di uno strumento in grado di recuperare un’imposizione diretta sui patrimoni fondiari e permette oggi di conoscere i nomi dei singoli feudatari-contribuenti e di ricostruire la storia del popolamento e dell’agricoltura nell’Inghilterra della prima età normanna. Anche nel regno normanno di Sicilia un posto di rilievo era attribuito alle strutture finanziarie e fiscali, i cui uffici erano preposti alle concessioni feudali e alla conservazione dei defetari, che erano i registri che contenevano sia gli elenchi delle terre demaniali che i servizi di natura feudale, vale a dire gli elenchi delle terre infeudate nei loro concreti confini, dei villani concessi, delle rendite fondiarie che dovevano confluire alla corona. Una struttura complessa e ancora non del tutto chiarita nei dettagli, ma che sembra fosse solo della Sicilia e di parte della Calabria, e non anche del Mezzogiorno peninsulare, dove la compilazione catastale, a causa di non poche resistenze interne, doveva essere alquanto approssimativa. Ciò spiegherebbe la stesura, iniziata nel , del Catalogus baronum, i cui elenchi delle terre infeudate, dei loro detentori e dei relativi servizi escludevano appunto parte della Calabria e la Sicilia. Si trattava comunque di strumenti preoccupati più a garantire un fattivo equilibrio fra corona e vassalli e un efficiente reclutamento militare che a soddisfare esigenze fiscali. Costruiti per giunta, tali strumenti, su conoscenze approssimative dell’effettiva estensione dei patrimoni fondiari e delle loro rendite. Il problema, del resto, non era solo economico, politico e di mentalità, ma anche tecnico: la scarsa conoscenza dell’agrimensura rendeva difficile l’esatta misurazione, rilevazione e ripartizione degli spazi e la precisazione, il ripristino o le rettifiche dei confini. Significativa comunque, nel processo di assestamento per un’imposizione diretta su base di oggettiva valutazione dei beni immobili e delle relative rendite, la Tavola delle possessioni promossa a Siena dal governo dei Nove (-), cioè uno strumento di rilevazione fiscale col quale si valutava, sia pure con sommarie indicazioni descrittive, la consistenza e distribuzione della proprietà fondiaria e le forme di conduzione, la consistenza degli stabili rurali, dei mulini, dell’edilizia urbana, dei castelli e fortilizi privati, compresi i diritti giurisdizionali dei relativi possessori . Uno strumento appunto di notevole valore fiscale, che permette fra l’altro di ricostruire le forme di conduzione, il paesaggio agrario e il peso che la terra aveva sulla distribuzione della ricchezza fra i diversi ceti e sul . G. Cherubini, La «Tavola delle possessioni», pp. -.

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piano politico, ma uno strumento che creava diffidenza e scontento non solo come ogni dispositivo fiscale, ma perché l’inattendibilità delle stime, e soprattutto la limitazione di esse ai soli possessori di beni immobili, davano luogo a profonde sperequazioni nella ripartizione dei tributi fiscali che finivano col favorire i detentori di beni finanziari come banchieri e mercanti e con l’alzare il fuoco sotto l’acqua delle proteste, delle resistenze, dei rifiuti, come avveniva anche nel Regno di Sicilia, dove, nel , Carlo I d’Angiò aveva introdotto l’appretium, cioè la valutazione, nei centri abitati, dei beni immobili di ognuno . Più che semplici strumenti fiscali, tesi all’accrescimento del gettito delle imposte, tali criteri di reperimento e ripartizione dei tributi finivano, di fatto, al di là probabilmente di ogni intenzione, con lo scardinare l’ordine socio-economico esistente. Lo lascia capire Machiavelli quando annota, nelle Istorie fiorentine, che il nuovo criterio di valutazione dei beni «venne ad aggravare assai i cittadini potenti» e pose «regole» alla loro «tirannide» perché «non potevano battere i minori e fargli con le minacce ne’ Consigli tacere, come potevano prima. Era adunque questa gravezza dall’universale accettata e da’ potenti con dispiacere grandissimo ricevuta» . E anche in tal senso – nel senso cioè di una valutazione della ricchezza che non si basi solo sul possesso dei patrimoni fondiari ed edilizi, ma anche sui redditi delle attività mercantili, bancarie e imprenditoriali – vanno lette queste fonti fiscali basate sugli estimi. Tale il catasto fiorentino del , senza dubbio una fonte pubblica fiscale di straordinaria importanza, anche per la dettagliata ricostruzione dei possessi fondiari ed edilizi a Firenze e dei rapporti che i diversi ceti avevano con quei possessi e con la loro valenza economica, sociale e di potere all’interno della città. Ma per la sua lettura va tenuto presente il suggerimento di Renato Zangheri, il quale, sia pure per un’età più tarda, precisa che il catasto è uno strumento che «pone in gioco l’indipendenza e l’esistenza dei ceti feudali» e «consacra la proprietà borghese». Infatti, egli aggiunge, «l’imposta colpisce il reddito ordinario [...]. Se il reddito effettivo è superiore all’ordinario» se ne «conseguirà un vantaggio», perché non si pagherà «l’imposta per questa eccedenza», e non la si pagherà «per ogni ulteriore incremento di reddito che si ottenga rispetto alla stima catastale che è fissa. A questo modo il catasto stimola l’industria mediante l’incentivo dell’esenzione dei redditi superiori all’ordinario, attuali o futuri, affrancando gli investimenti addizionali di capitale e lavoro. Ma allo stesso tempo colpisce l’inerzia, che non è uno

. J. M. Martin, Fiscalité et économie, pp. -. . IV, , pp. -.

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FONTI SCRITTE

stato psicologico, ma uno stato sociale», e stimola a entrare «nell’ambito dell’impresa di profitto o a cedere la terra a un affittuario». Il catasto, insomma, schianta i puntelli «dell’economia signorile non solo in quanto la costringe a subire l’imposta cui prima sfuggiva grazie all’immunità e al privilegio», ma perché favorisce «la diversa capacità [...] dei processi produttivi e, di conseguenza la disuguaglianza dei pesi tributari. Chi cammina più forte e guadagna di più pagherà proporzionalmente una minore imposta» . L’importanza di questo tipo di fonti per la dettagliata ricostruzione dei patrimoni fondiari, per la determinazione della loro collocazione topografica e del loro uso, per la loro valutazione anche a fini fiscali è evidente. La loro diffusione non è omogenea e molte sono le aree geopolitiche in cui, per i motivi più vari, non sono disponibili testimonianze del genere. Neanche la bibliografia è consistente e poche e frammentarie sono le trascrizioni ed edizioni di documenti finanziari e fiscali. Si ricordano comunque quelli trascritti e pubblicati a Venezia, a partire dal , nella collana “Documenti finanziari della repubblica veneta”. Vanno però consultate, a parte le guide, sede per sede, degli Archivi di Stato, le voci Estimo e Monte in G. Rezasco, Dizionario del linguaggio; B. Barbadoro, Le finanze della Repubblica fiorentina; A. Doren, Storia economica, pp. -; G. Luzzatto, Storia economica d’Italia, pp. -; A. Solmi, L’amministrazione finanziaria. Fra gli studi di ambito locale, a parte C. Santoro, La politica finanziaria dei Visconti, si elencano: F. Bocchi, Le imposte dirette a Bologna; M. W. Bowsky, Un comune italiano nel Medioevo; P. Cammarosano, Il sistema fiscale; S. Carocci, Tivoli; E. Carpentier, Orvieto à la fin du XIIIe siècle; B. Casini, Aspetti della vita economica; G. Catoni, G. Piccinni, Famiglie e redditi; M. Chiaudano, La finanza sabauda; E. Conti, L’imposta diretta; Ch. M. De la Roncière, Indirect Taxes; A. Grohmann, L’imposizione diretta; D. Herlihy, Ch. Klapisch Zuber, Les Toscans et leurs familles; J. M. Martin, Fiscalité et économie; A. Molho, Florentine Public Finances; S. Moscadelli, Apparato burocratico e finanze; A. I. Pini, Gli estimi di Bologna; S. Morelli, Giustizieri e distretti fiscali.

. Magna charta e atti dei parlamenti Al problema fiscale erano strettamente connessi i parlamenti, cioè le assemblee rappresentative che, almeno dal secolo XIII, incominciavano a essere operative in molti paesi d’Europa. Non è qui il caso di ripercorrere le controverse tesi sull’origine e sul significato di tali assemblee, il cui compito generico era quello di trattare affari pubblici, politici e am. I catasti, pp. -.

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ministrativi. Ci si limita a ricordare che la loro presenza, sia pure con nomi e funzioni diverse, si riscontra soprattutto in Inghilterra, in Francia, in Spagna, in Germania, nel Regno di Sicilia. Si trattava di assemblee che, costituite dai rappresentanti della nobiltà, del clero e del popolo, venivano convocate con periodicità alquanto varia e, in sostanza, avevano il compito di acconsentire o meno alle richieste del monarca. Il quale le interpellava soprattutto quando aveva bisogno di denaro, cioè di donativi che erano appunto, in base al carattere privatistico-patrimoniale del rapporto, il “dono” del regno alla corona, vale a dire il corrispettivo da dare in cambio della difesa, dei diritti e dei privilegi che il re aveva concesso e avrebbe potuto continuare a concedere. Il re dunque non poteva imporre tributi senza il consenso del parlamento, che rappresentava gli interessi collettivi o almeno dei gruppi che nel parlamento riuscivano a prevalere. Da molti documenti emerge poi che non sempre la funzione del parlamento fosse ristretta al solo compito fiscale. Ma anche se circoscritto alle competenze fiscali, il ruolo del parlamento finiva col condizionare, e talvolta controllare, le scelte del re pure sul piano politico e specie militare. Per fare una guerra occorrevano finanziamenti, per ottenerli era indispensabile il consenso del parlamento, e per avere il consenso era necessario non solo spiegare i motivi che spingevano il sovrano a quella scelta, ma raggiungere un compromesso, siglare in fondo dei rapporti “pattizi” fra la corona e i tre “stati” – o alcuni di essi – che costituivano il parlamento. In Francia, per esempio, dove veniva convocato per la prima volta nel , il parlamento era chiamato “Stati generali” perché costituito dalla nobiltà, dal clero e dal popolo, detti appunto “stati”, dal latino status nel significato di condizione sociale. Classe si direbbe oggi, che, a differenza di ceto, il cui termine è parecchio restrittivo in quanto rappresentativo di funzioni prevalentemente produttive, esprime la collocazione dei gruppi nei confronti della ricchezza, del potere, del prestigio. Il parlamento più noto, e comunque più aperto a sviluppi futuri, era quello inglese, ricordato soprattutto per la Magna charta libertatum, strappata il  giugno  alla corona dai baroni anzitutto, dal clero, dalle città, che approfittavano della debolezza di Giovanni Senzaterra sconfitto a Bouvines ( luglio ) e scomunicato da Innocenzo III. Si tratta di un documento steso nell’usuale forma dei privilegi sovrani per garantire feudalità, Chiesa, città dagli arbitri del potere monarchico, costretto a prendere solenne e preciso impegno che «nullum scutagium vel auxilium ponantur in regno nostro» senza il consenso del commune consilium. Era, in fondo, un documento che, imposto soprattutto dai baroni, riaffermava i privilegi e garantiva da eventuali violazioni degli impegni presi pubblicamente in un «comune consiglio». Certo, il significato della Ma

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FONTI SCRITTE

gna charta è stato ingigantito nel tempo ed è stato spesso causa di non pochi equivoci, ma essa rimane punto di riferimento preciso perché riconduce alla operatività di strutture come il «comune consiglio», nel quale, attraverso forme “pattizie”, si tentava di risolvere i contrasti fra sovrano e sudditi e di fissare garanzie a difesa dell’uso arbitrario del potere. Per un quadro generale dei parlamenti e di alcune loro edizioni si può consultare H. G. Koenigsberger, Parlamento e istituzioni rappresentative. Cfr. pure M. Ascheri, Istituzioni medievali, pp. -, e J. S. Roskell, Parliament and Politics. Per la Magna charta, J. C. Holt, Magna Charta, e G. Musca, La «Magna charta».

. Penitenziali Fra le chartae vanno pure inserite, in quanto testi di natura giuridica redatti dall’autorità ecclesiastica per regolamentare, registrare e rendere validi i diritti dei penitenti durante la confessione, i Libri poenitentiales o Poenitentialia, detti in italiano penitenziali e da alcuni confessionali. Si tratta di documenti pubblici perché redatti dall’autorità ecclesiastica per regolamentare un fatto pubblico, sia pure riservato, come la confessione che, nella religione cattolica, obbliga i fedeli ad accusarsi dei peccati di fronte alla Chiesa rappresentata da un sacerdote. Al quale appunto venivano forniti i penitenziali, vale a dire le norme con le rispettive pene canoniche per sciogliere dubbi ed evitare disuguaglianze nel trattamento dei fedeli. Presupposto della vita religiosa degli uomini del Medioevo – scrive Sumption – era l’idea, tacitamente accettata, che il peccato di un parrocchiano fosse una faccenda che riguardava tutti. Sotto i loro occhi trascorreva tutta la vita di ciascun abitante del luogo; essi si sorvegliavano a vicenda. Pur essendo segreta, anche la confessione aveva luogo sotto gli occhi dei parrocchiani. Molti abbandonavano i loro domicili tentando di sfuggire alla vigile sorveglianza del pastore e del gregge .

I più antichi penitenziali furono compilati in Irlanda ed elencavano, come quello detto Sinodo prima di San Patrizio , le colpe con le relative penitenze. Per la donna adultera, per esempio, era prevista la scomunica e a ogni scomunicato era vietato entrare in chiesa persino il giorno di Pasqua. L’importanza dei penitenziali come fonti è però nei riflessi che essi aveva-

. Pilgrimage, p. . . L. Bieler, The Irish Penitentials, p. .

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no non solo sui comportamenti religiosi e morali, ma anche sull’ordinamento della società. Il penitenziale di Finnian , ripreso da san Colombano, nel registrare il tariffario col quale punire i peccati di chi si confessava, offre uno spaccato del modo di vivere e dei principi religiosi, morali e giuridici che ne stavano alla base durante il processo di cristianizzazione delle isole britanniche nei secoli VI e VII. Basti ricordare i richiami all’indissolubilità del matrimonio e quindi al divieto del divorzio, ai giorni di continenza cui erano tenute le coppie sposate, all’obbligo di battezzare i neonati, all’adulterio, al concubinato specie con donne al proprio servizio. Caso, quest’ultimo, per il quale era prevista un’alimentazione di pane e acqua per un anno intero e il divieto di ulteriori rapporti: «et non intret amplius ad concubinam suam, sed iungatur proprie uxori». La diffusione dei penitenziali in Europa fu abbastanza rapida, anche se non mancavano resistenze e condanne, come quelle dell’ al Concilio di Chalon-sur-Saône. Le diversità che si riscontrano nei loro testi evidenziano però un processo di rielaborazione e di rimaneggiamento imposto dalla necessità di adattarli a popolazioni giunte al cristianesimo da molteplici tradizioni, costumi e fedi religiose presenti non solo nelle dissonanze di fondo fra romani e germani, ma pure nella varietà di stirpi che costituivano il mondo germanico. In tal senso, i penitenziali diventano fonti preziose per cogliere la diversificazione di modi, di forme e di profondità del processo di cristianizzazione non tanto sul piano religioso e culturale della dottrina della Chiesa, ma su quello del vissuto quotidiano. I contenuti dei penitenziali – nei quali i riferimenti di fondo avevano un prevalente timbro femminile – penetravano infatti nelle chiese, nelle strade, addirittura in cucina e financo nel talamo coniugale. Essi mettono in evidenza il rapporto dell’uomo e della donna col proprio corpo, con gli alimenti, con le medicine, ma anche le fantasie segrete di ognuno. E dall’incapacità della coppia di costruire un linguaggio comune, una reciproca e completa adesione, un impegno profondo di partecipazione totale, emerge la vocazione di chi, rinunciando a vivere l’esistenza, si accontentava di osservarla nelle sue inquietudini, nei suoi palpiti, nei suoi desideri. O, talvolta, di reinventarla coi sogni, con l’immaginario, col ricorso ai ritmi di repertorio di esperienze soggettive vissute e sofferte. Da questa angolazione di lettura i penitenziali offrono la dimensione altrimenti inconoscibile della vita affettiva e fisica nel Medioevo: una quantità di dati forniti dagli stessi protagonisti sull’alimentazione, sui digiuni, . Ivi, pp. - e -. Il Poenitentiale Laurentianum del secolo XIII prevedeva una penitenza di  anni per l’incesto con la madre: F. Ohly, Il dannato, p. . Utile la lettura di M. G. Muzzarelli, Una componente della mentalità, p. , nota .

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FONTI SCRITTE

sulla vita intima, sull’uso di afrodisiaci, sulla sessualità solitaria, a due con persone dello stesso o di diverso sesso, con animali, e sull’atteggiamento delle Chiesa, ma anche dei poteri laici, nei riguardi di quelle pratiche. I penitenziali cominciarono a perdere efficacia man mano che, nella confessione, all’espiazione sociale si andava sostituendo la riparazione sacramentale, valorizzata dalle Summae de poenitentia. Ma fino al secolo XI rimasero lo strumento fondamentale per regolare il rapporto fra il sacerdote e chi esponeva i propri peccati. Redatti in forma dialogata hanno una valenza documentaria che è stata posta sullo stesso piano del rapporto Kinsey. Mostrano infatti meticolosità volutamente sottile e raffinata nella rappresentazione dei comportamenti umani e sui rapporti di coppia specie della gente semplice. E ciò perché i peccati e le relative penitenze non sono elencate secondo principi astratti, ma sulla base di precise situazioni giuridiche e sociali dei luoghi ai quali si riferivano. I riferimenti alla sessualità sono ossessivi, con richiami agli stupri, ai contraccettivi, agli aborti, alle pratiche magiche e all’uso di pozioni, di infusi, di tamponi. L’attenzione è però rivolta soprattutto – e lo si legge esplicitamente nel penitenziale di Finnian – ai peccati di pensiero, e quindi alla mentalità delle persone e al modo di essere e di comportarsi dei singoli e dei gruppi nella dinamica di una comune convivenza. Molti sono infatti i riferimenti ai furti, agli omicidi, alle frodi e alle false testimonianze, alle delazioni, vale a dire a pratiche e comportamenti che, osservava già Oakley nel , tendevano a un’integrazione di fondo fra normativa ecclesiastica e normativa civile . Lo studio dei penitenziali solo nell’ultimo trentennio ha incominciato a suscitare interesse fra gli storici anche per quel che si riferisce alla ricostruzione della mentalità nel Medioevo e ai risvolti quindi fra società civile, religiosità popolare e vita vissuta. La bibliografia meno recente era infatti più sensibile ai problemi giuridici sollevati dai penitenziali. Un orientamento generale sulle loro edizioni in M. G. Muzzarelli (a cura di), Una componente della mentalità, pp. -. Per un primo approccio al problemi L. Bieler, The Irish Penitentials, e C. Paganini, Presenza dei penitenziali irlandesi. Su aspetti particolari B. Honings, L’aborto nei libri penitenziali; A. Ja. Gurevic, Contadini e santi ; J. Le Goff, Mestiere e professione ; R. Manselli, Il matrimonio nei penitenziali; L. R. Ménager, Sesso e repressione; M. G. Muzzarelli, Norme di comportamento; S. Tramontana, Il regno di Sicilia .

. T. P. Oakley, The Cooperation, pp. -. . Specie il capitolo , intitolato La cultura popolare riflessa nei libri penitenziali, pp. -. . In Tempo della chiesa, pp. -. . Specialmente nelle pp. - del capitolo , relative alle pratiche sessuali, ai sistemi contraccettivi, alle gravidanze, al parto, all’aborto.



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. Atti notarili Chartae private sono, e lo si è già detto, quelle che registrano le disposizioni di un privato che esprime la sua volontà o un negozio giuridico fra due o più privati che esercitano i loro diritti. Si tratta di documenti di varia natura, ma riconducibili tutti a quel che comunemente viene indicato come scrittura privata, cioè come atto che doveva avere forza di prova ed evidenziare quindi la certezza della paternità e delle dichiarazioni nell’atto contenute. Certezza e paternità non sul piano di assoluto adeguamento alla concretezza dei fatti, ma sul piano giuridico, cioè di rispetto delle norme dell’ordinamento vigente. In tal senso, il documento che esprime, più di ogni altro, i contenuti di un negozio giuridico di privati o fra privati è l’atto notarile, cioè la testimonianza scritta e quindi definitiva destinata a offrire garanzie e a durare nel tempo, vale a dire a perpetuare la memoria. Così, del resto, si legge in un documento del principio del secolo XII: «a prudentia antiquorum patrum usque ad nos dirivatum defluxit ut, si quid perpetuo in memoriam retinere vellent, litteram monumentis destinarent comendare» . Al di là però di ogni apparenza, gli atti notarili erano di fatto punto fondamentale di riferimento per gli analfabeti. Era in fondo il diffuso analfabetismo che rendeva diffidenti e spingeva a fare ricorso al notaio, cioè a un redattore pubblico degli atti fra privati, anche per transazioni a breve e brevissimo tempo e persino per affari di modestissima portata come la vendita di una caldaia di rame, di una cesta di carbone o addirittura per fare solenne promessa di non giocare più a dadi. Ciò spiega del resto l’elevato numero di notai presenti nei centri abitati. A Firenze, per esempio, di fronte a  preti e a  medici, nei primi decenni del secolo XIV erano presenti in città – si legge nella cronaca di Giovanni Villani – ben  notai. Ed era appunto il loro gran numero e l’ampia quantità di persone che, specie dal secolo XII, ad essi facevano ricorso a indicare i notai e la loro attività fra i più importanti centri di produzione di testi scritti e autenticati dal marchio di un professionista che, in un ambito territoriale ben definito, era anche pubblico ufficiale. Un pubblico ufficiale che costituiva, nella mentalità del tempo, quel che è stata definita la «sintesi ideale e pratica di una funzione sociale e politica radicata negli ordinamenti statali e locali» . In tal sen-

. Citato in C. Paoli, Diplomatica, cit., p. , nota . . C. Calcaterra, Alma mater, nel capitolo , intitolato «Universitas artistarum»: la grande scuola di «ars notaria», pp. -.

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FONTI SCRITTE

so, gli atti notarili sono da considerare fonti di notevole e insostituibile importanza per la ricostruzione del passato. Fonti nelle quali l’uso della lingua e della tecnica espressiva era spesso assai dimesso e non di rado marcato da infrazioni delle regole elementari dell’ortografia, della grammatica, della sintassi, a causa della modesta cultura di gran parte dei notai, preparati da scuole che avevano solo fini professionali , ma anche per l’ossequio alla tradizione che imponeva di usare nella scrittura il latino, ormai lontano dalla lingua quotidiana della grande maggioranza delle popolazioni. Certo, non mancavano le eccezioni, e non si può non sottolineare che nel secolo XIII e in parte del successivo da taluni notai – e da Giacomo da Lentini in particolare – muoveva la tradizione letteraria illustre. La quale, con Pier della Vigna anzitutto, testimonia che l’attività burocratica del notaio poteva anche raggiungere le forme espressive della prosa modellata sullo stile delle artes dictandi. In tal senso sono significative le disposizioni di Ruggero II e poi di Federico II sui requisiti e sulle funzioni dei notai nel regnum e sulle norme di stesura degli strumenti pubblici . Si tratta però di un discorso che l’impianto del libro non permette di fare in questa sede, nella quale è forse più opportuno accennare all’aspetto tecnico delle scritture notarili. Le quali erano transazioni le più varie (compravendite, mutui, pratiche mercantili, forme di conduzione agraria, vertenze, affidamenti, contratti enfiteutici e di affitto, nomine di tutori, committenze, testamenti ecc.), ma tutte riconducibili alla charta, cioè a un testo dispositivo. Charta che poteva essere compiuta o incompiuta. La charta era compiuta «nella sua redazione ampia, chiusa dalla sottoscrizione del notaio e quindi valevole a tutti gli effetti giuridici» . Incompiuta era la charta ancora allo stadio di imbreviatura, cioè di minuta che il notaio, prima di stendere l’atto solenne, annotava nel suo protocollo, vale a dire nei vari registri nei quali venivano scritti, per esteso o per transunto, i diversi atti . Registri appunto che, custoditi presso lo stesso notaio rogatario e trasmessi,

. È assai significativo che Enea Silvio Piccolomini, per rimproverare un suo funzionario che gli aveva scritto con grafia incomprensibile, gli ricordasse che aveva imparato «latinas litteras, non uncinos mercatorios»: S. Rizzo, Il lessico, p. . . M. Caravale, La legislazione del regno, pp. -. . Cfr. A. Castellani, Nuovi testi, il glossario alla fine del volume. . Il transunto, dal latino transumere (prendere da altri o da altrove), era una forma riassuntiva dell’atto che si stendeva di solito qualche tempo dopo, specie se si temeva che l’originale potesse andare smarrito o potesse deteriorarsi. “Giuliana” era invece – ma solo in Sicilia, e fino al secolo XIX – l’insieme degli indici alfabetici delle scritture e dei singoli registri.



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dopo la sua morte, ad altro pubblico notaio, sono oggi conservati negli Archivi di Stato . Non è qui il caso di ripercorrere, sia pure a grandi linee, le vicende, nel tempo, dell’atto privato, il suo evolversi da semplice testimonianza scritta di un negozio accaduto a documento giuridico e quindi con valore legale di prova di fronte alle autorità pubbliche centrali o periferiche. Evoluzione da porre in stretto rapporto col progressivo trasformarsi degli estensori degli atti, sottoposti via via al controllo dell’autorità pubblica che fissava modi e tempi per l’esercizio dell’attività notarile. Fra questi, imprescindibile la nomina pubblica e l’ambito territoriale della sua validità. Nelle Constitutiones di Federico II si fissava anche, e sulla base di una prassi largamente diffusa, che l’ufficio di notaio poteva essere esercitato solo dopo aver sostenuto un esame e dopo aver ricevuto il “privilegio” di nomina, che spettava ai poteri costituiti . Un quadro abbastanza completo e parecchio articolato per cogliere gli elementi fondamentali delle progressive trasformazioni della documentazione si trova in A. Pratesi, Genesi e forme del documento medievale. Per quel che invece si riferisce alla stesura dell’atto privato si rinvia all’opera di A. de Boüard, il cui secondo volume è appunto dedicato a L’acte privé, e al saggio di C. Violante, Lo studio dei documenti privati. Da questi studi emerge anzitutto che, almeno dal secolo XIII, esistevano formulari per la stesura dell’atto notarile e che una Summa dictaminis, purtroppo andata perduta, sembra sia stata scritta, proprio per i notai, da Irnerio. Il formulario più completo e più diffuso per tutto il Medioevo – sia pure con aggiunte, correzioni e adattamenti successivi specie ad opera di Pietro da Unzola e di Pietro Boaterio – era comunque la Summa artis notariae di Rolandino de’ Passeggeri, redatta intorno al  , dalla quale si ricava che il testo notarile, al di là delle inevitabili differenze di tempo e di luogo, rispondeva, nell’impostazione generale, all’articolazione dell’atto pubblico, anche se spesso ordinata in modo diverso. L’ispirazione religiosa, cioè l’invocatio, marcava di consueto l’avvio dell’atto: in quello del  febbraio  del notaio Tommaso Andriolo, per esempio, l’invocazione è espressa con la formula In nomine seguita dal genitivo domini nostri Iesu Christi e dell’interiezione amen ,

. Per questo aspetto della trasmissione, della custodia e della collocazione dei registri notarili negli Archivi di Stato cfr. le considerazioni di P. Cammarosano, Italia medievale, pp. -. . Constitutiones, II, tit. LXXIX, pp. -. . C. Paoli, Diplomatica, cit., p. ; P. Cammarosano, Italia medievale, pp.  e . . Archivio di Stato di Messina, Notaio Tommaso Andriolo, F. N. , f. v ( febbraio , VI ind.).

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FONTI SCRITTE

che significa «così è», «in verità», cioè «così sia», come nella chiusura delle preghiere cristiane in lingua latina, ma pure nelle lingue volgari. Uno studio delle invocazioni notarili nelle varie epoche e nelle diverse aree geografiche potrebbe contribuire anche a più approfondite conoscenze di usi e costumi e dei loro nessi con particolari forme di sensibilità religiosa. Seguiva poi, come nel documento già preso in esame, una formula di notificazione – sit omnibus manifestum – per introdurre la stesura dei motivi per i quali si rogava l’atto, che potevano essere i più vari, come l’acquisto di  salme di frumento convenuto nel documento preso in esame, o una donazione, la manomissione di una schiava, un’enfiteusi, la nomina a patronus di una nave, un testamento ecc. Seguivano poi i nomi dei contraenti e i termini del negozio che, nel documento preso in esame, erano l’unità di misura del frumento, il prezzo, le modalità di pagamento. Seguivano ancora le varie clausole, gli impegni reciproci avvalorati da richiami alle leggi vigenti e da giuramenti ad sancta dei evangelia, le sanzioni per i trasgressori, che potevano essere materiali o spirituali. Seguiva ancora la precisazione che il «publicum instrumentum ad futuram memoriam et ipsarum parcium cautelam» veniva rogato dal notaio, del quale era trascritto il nome e la circoscrizione politico-amministrativa in cui era autorizzato a esercitare la professione, e seguivano ancora i nomi dei singoli testimoni, accompagnati talvolta dall’indicazione della collocazione sociale o professionale, la data, il luogo, la sottoscrizione del notaio, che nel documento preso in esame era così articolata: «Ego qui supra Thomasius de Andriolo de Messana sacra imperiali auctoritate ubique locorum notarius publicus et iudex ordinarius ac regius publicus totius regni Siciliae notarius praemissis omnibus ut publica persona rogatus interfui eaque testor meisque signo et subscriptione signavi». Una formula che iniziava col pronome personale Ego seguito dal nome del notaio (che si diceva – in base ai principi del diritto romano sul quale fondavano la loro giurisdizione anche i notai la cui nomina non era da ricondurre all’autorità suprema – istituito dall’autorità imperiale), dai titoli di sua pertinenza e dalle sue attribuzioni nell’organizzazione istituzionale e nella circoscrizione amministrativa in cui operava come notaio pubblico, col compito appunto di stendere e autenticare i documenti, ma in cui operava pure come giudice ordinario in quanto aveva l’autorità di esercitare compiti di giurisdizione volontaria. Seguiva infine il participio passato rogatus, che riconduceva alla dichiarazione di essere stato invitato dalle parti a rogare, cioè a stendere l’atto. Mancano le sottoscrizioni dei contraenti e dei testimoni perché, dal secolo XIII, la volontà delle parti e le attestazioni dei testimoni erano garantite dalla sottoscrizione del notaio, il quale elencava i nomi dei testi

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moni al principio dell’atto o, più di frequente, alla fine, come nel documento preso in esame, in cui appunto si legge: «in presencia horum testium bone opinionis et fame similiter vocatorum et rogatorum videlicet», seguito dai nomi. Sarebbero state poi le legislazioni dell’età moderna a reintrodurre l’obbligatorietà delle sottoscrizioni sia dei contraenti, sia dei testimoni. Testimoni che avevano funzione importante anche in termini simbolici, perché nel linguaggio dei Vangeli rappresentavano coloro che riferivano quel che avevano visto coi loro occhi, e anzitutto la resurrezione di Cristo, i cui primi testimoni, in un contesto come quello ebraico, nel quale le donne non erano ritenute degne di attestare «le cose di Dio», furono «Maria Maddalena, Giovanna e Maria madre di Giacomo, e le altre ch’erano con loro» . La presenza delle sottoscrizioni avrebbe offerto una fonte più completa. Più completa certo ai fini della ricerca, che non erano poi quelli per cui veniva rogato un atto notarile. Le sottoscrizioni infatti avrebbero fra l’altro permesso di cogliere dettagli preziosi per la ricostruzione dei livelli di alfabetizzazione degli abitanti di un dato luogo. Il signum manus, che era in genere il segno di croce presente in ogni documento come espressione di fede e attestato di giuramento, evidenzia comunque mentalità, comportamenti, abitudini delle popolazioni, confermate o meno da espressioni che, presenti talvolta accanto ai nomi dei contraenti o dei testimoni, suggeriscono particolari condizioni momentanee o permanenti che avevano potuto impedire di sottoscrivere l’atto. Fra le più frequenti si ricordano: l’impossibilità di sottoscrivere per aegritudinem obsistentem; propter caliginem oculorum; pro pestifera et innumerabili infirmitate; e soprattutto per ignorantiam litterarum , che indica appunto lo scarso livello di alfabetizzazione nella società medievale. È infine opportuno un accenno a quelli che, fra gli atti privati, sembrano i documenti più significativi della coscienza riflessa di un’epoca: i testamenti, cioè gli atti giuridici coi quali una persona disponeva, per il tempo successivo alla propria morte, dei suoi beni, ma anche del suo patrimonio sentimentale, del valore del proprio corpo, delle proprie emozioni e delle istanze etiche e religiose per la salvezza dell’anima. E valgano in tal senso le volontà espresse dai testatori sul come trattare e vestire la salma, sui servizi religiosi, sulle sequenze devozionali e sul luogo scelto per la sepoltura. Volontà tutte elencate di frequente nei testamenti e i cui dettagli offrono lo spaccato di una società, il suo senso della morte, il catalogo delle usanze che manteneva vivo il rapporto fra i vivi e i

. Luca, XXIV, . . Tutte le formule espressive in C. Paoli, Diplomatica, p. .

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FONTI SCRITTE

morti . Una fonte quindi, quella costituita dai testamenti, di particolare importanza soprattutto per lo studio della mentalità e dei costumi di un’epoca, per l’individuazione delle strutture familiari e dei percorsi socio-normativi nel cui contesto la famiglia prendeva corpo e si sviluppava, per le regole successorie, per la composizione e scomposizione dei patrimoni fondiari ed edilizi, per il nesso strettissimo fra possessi, importanza dei possidenti ed esercizio del potere, per la ricostruzione del quotidiano, del privato, dell’individuale e soprattutto della vita e funzione delle donne nel Medioevo. Vita e funzione che si colgono in quasi tutti i testamenti e in modo precipuo in quelli in cui le donne, come beneficiarie e spesso anche come testatrici, erano protagoniste. Per ulteriori dettagli sui notai e sulle scritture notarili si consigliano comunque, a parte il sempre utile Paoli, Diplomatica, pp. -, - e -, e il glossario curato da Arrigo Castellani, Nuovi testi fiorentini del Dugento, i seguenti lavori: M. Amelotti, G. Costamagna, Alle origini del notariato italiano; F. Antoni, Documentazione notarile; O. Banti, Il notaio; M. Berengo, Lo studio degli atti notarili; P. Brezzi, E. Lee (a cura di), Gli atti privati; G. Costamagna, Il notariato nell’Italia settentrionale; G. G. Fissore, Alle origini del documento comunale; Id., Autonomia notarile; A. Petrucci, Notarii; G. Tamba (a cura di), La società dei notai di Bologna; P. Torelli, Studi e ricerche di diplomatica; S. Tramontana, Il notariato a Messina. Sono poche e discontinue le edizioni di documenti notarili: registri di imbreviature e protocolli. I registri più antichi conservati sono quelli dei notai genovesi e si riferiscono alla fine del secolo XII e al principio del successivo, fra i quali si ricordano M. Chiaudano, M. Moresco, Il cartolare di Giovanni Scriba. Si segnala poi la collana “Fonti e studi del Corpus membranarum italicarum”, nella quale, fra gli altri, sono inclusi tre volumi di imbreviature di notai palermitani: P. Burgarella (a cura di), Le imbreviature del notaio Adamo de Citella; M. S. Guccione (a cura di), Le imbreviature del notaio Bartolomeo de Alamanna; P. Gulotta (a cura di), Le imbreviature del notaio Adamo de Citella (° registro).

. Epistulae ed epistolari Le epistulae, cioè le lettere, sono costituite da un testo scritto col quale una persona pubblica o privata indirizzava una comunicazione a un’altra che poteva essere sia pubblica che privata. Nella diplomatica medievale il termine epistulae o lettere ha significato parecchio ampio ed è ri. Cfr., fra gli altri, A. Tenenti, Il senso della morte, pp. -; S. Tramontana, Vestirsi e travestirsi, pp. -; Id., Il regno di Sicilia, cit., pp.  e ; Ph. Ariès, Storia della morte, passim; Id., L’uomo e la morte, passim; M. A. Visceglia, Corpo e sepoltura, passim.

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ferito a documenti emanati o ricevuti da autorità pubbliche in forma pubblica, da autorità pubbliche in forma privata, da privati in forma pubblica e da privati in forma privata. Erano lettere pubbliche in forma pubblica quelle pontificie, che, specie nell’Alto Medioevo, oltre ad avere funzione propedeutica per il clero, rappresentavano una delle forme di comunicazione più immediata sul piano dottrinario e su quello dell’organizzazione interna della Chiesa e dei rapporti con i poteri laici. L’epistolario di Gelasio I, per esempio, composto di  lettere o frammenti di lettere, è una fonte importante per la ricostruzione dell’impegno della Chiesa di Roma nei confronti del paganesimo, delle tendenze eterodosse del cristianesimo, delle ragioni del pontefice nei riguardi dell’imperatore e del patriarca di Costantinopoli. In una lettera all’imperatore Anastasio, papa Gelasio precisava, in termini complimentosi ma decisi e quasi insolenti, la distinzione fra potere pontificio e potere imperiale, mentre nella lettera del , inviata a tutti i vescovi dell’Italia meridionale, contestava l’ordinazione di “donne preti” ed enunciava regulae e canones ai quali tutte le autorità ecclesiastiche dovevano attenersi . Diverso l’epistolario di Gregorio Magno, che è «una conversazione morale, una continua opera di discussione e di persuasione che il pontefice sosteneva coi corrispondenti. È il documento di un’amministrazione oculata ma umana; del primo e più serio esperimento del trasferimento delle norme cristiane dal fantastico regno di Dio alla realtà grossa e dura del regno terreno» . Anche i Variarum libri – dai quali emergono preziosi dettagli sulla dinamica politica, economica e sociale del regno goto e suggerimenti sulla meditazione religiosa e sull’impegno culturale – sono lettere pubbliche che Cassiodoro scriveva, con stile ampolloso e ricercato, nell’esercizio delle sue funzioni di cancelliere di Teodorico. Alla stregua, del resto, dei “mandati” normanni, detti appunto sacrae litterae, redatti dalla cancelleria regia, letti pubblicamente e ascoltati con particolare deferenza , e alla stregua delle lettere federiciane scritte da Pier della Vigna, cioè dal protonotaro e arcicancelliere del regno, che è da considerare uno dei grandi epistolografi medievali . A lui risalgono alcuni criteri su come impostare e scrivere una lettera, che era-

. Citato da G. Pepe, Il Medioevo barbarico, p. . Ma cfr. G. Otranto, Due epistole, pp. -. . G. Pepe, Il Medioevo barbarico, cit., p. . . K. A. Kehr, Die Urkunden, pp. - e nota . Nel Liber ad honorem Augusti di Pietro da Eboli sono inserite due miniature che raffigurano uno scrivano della cancelleria regia che stende una lettera ufficiale sotto dettatura: tavv. , p.  e , p. . . H. M. Schaller, L’epistolario, pp. -.

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FONTI SCRITTE

no poi le norme del processo tecnico dell’epistula suggerite dall’ars dictandi. Dictare significava del resto scrivere una epistula secondo retorica, cioè secondo le regole che il singolo caso di volta in volta richiedeva. Regole che non erano sempre quelle dello stile sublime, ma anche quelle rigorose dello stile mediocre e umile. Le regole appunto impartite dalle scuole di grammatica e di retorica, le quali avevano scopi e finalità essenzialmente professionali. Pure da questa angolazione di lettura – da un’analisi attenta cioè alla loro stesura formale, alla struttura grammaticale e sintattica della loro esposizione, all’elaborazione e complessità del loro linguaggio sostenuto dalla solennità e dall’accurata selezione dei vocaboli – le epistulae sono fonti di notevole importanza. Fonti dirette che permettono di ricostruire a un tempo la storia degli studi retorici nel Medioevo e quella dell’organizzazione e funzione delle cancellerie: la storia appunto delle forme e degli stili retorici e la storia culturale e politica, la storia della tecnica epistolografica e quella dell’impianto amministrativo e degli uomini che nelle cancellerie operavano. Fra le tante, è significativa testimonianza l’epistula redatta dal cancelliere Rolandino de’ Passeggeri per il Comune di Bologna, con la quale si respingevano le proposte cariche di minacce di Federico II tese a ottenere la liberazione del figlio Enzo fatto prigioniero a Fossalta. Una lettera che pone certo in evidenza la politica del Comune di Bologna nei confronti del potere imperiale del sovrano svevo, ma che riflette il nesso strettissimo tra funzionalità delle cancellerie, senso dello stile e delle forme decorative e ornamentali della comunicazione linguistica, preparazione letteraria e capacità di bello scrivere dei singoli operatori, la cui gran parte era costituita da notai: Non ci vogliate spaventare con ventose parole, perocché non siamo canne di palude, né brina che si dissolve ai raggi del sole. E però vi avvisiamo che il re Enzo è nostro prigioniero e nell’avvenire anche lo terremo carcerato come cosa che di ragione è nostra. E se voi vorrete vendicare l’ingiuria, vi saranno di bisogno le forze; e allora sia lecito rispondere con la forza alla forza e vincerla. Noi a quel punto ci cingeremo la spada ai fianchi, e per espugnare animosamente e con valore l’esercito nemico a guisa di leoni ci dimostreremo; e allora alla grandezza vostra la gran moltitudine della gente non darà soccorso, poiché dove è moltitudine, ivi è confusione, e per antico proverbio si suol dire che spesse volte il feroce e spumoso cinghiale è fermato da un piccolo cane .

Bisogna tener presenti questi contesti se si vuole capire nei dettagli, ma soprattutto nelle sue peculiarità, il processo di sviluppo dell’epistolo. Traduzione di C. Calcaterra, Alma mater studiorum, cit., p. .

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CAPIRE IL MEDIOEVO

grafia, che, attraverso le lettere di singoli e privati, offre un ventaglio di minuti risvolti della vita quotidiana, di rapporti affettivi, di emozioni, di ansie e di aspettative. Offre cioè, sia pure attraverso il velo di schemi letterari e artistici, la rappresentazione di quel fitto intreccio di esperienze che permette di ricostruire comportamenti di vita e modi di pensare, sfere di influenze culturali e circolarità del sapere, dimensioni dei rapporti umani. In tal senso aiutano, per esempio, le  lettere dell’abate Lupo di Ferrières e soprattutto la lettera di condoglianza a Eginardo per la morte della moglie, nella quale si coglie un afflato spontaneo di partecipazione e un sentimento di dolore che raggiunge accenti di commossa e trepida pietà, oltre che di profonda tristezza . Ma aiutano anche le lettere di Ivo di Chartres, lettere i cui sentimenti sono una denuncia dei vizi, veri o supposti, dell’aristocrazia francese tra la fine del secolo XI e il primo ventennio del successivo e che evidenziano i tratti salienti di una società caratterizzata da incesti, rapporti prematrimoniali, concubinati, adulteri, cioè da comportamenti e modi trasgressivi di vita sul piano religioso, morale e sociale. Modi che, scriveva Ivo di Chartres, solo il matrimonio indissolubile avrebbe potuto tenere a freno, perché, spiegava, la società è costituita da «coniugi, continenti, ecclesiastici», e quindi al di fuori della continenza e della castità c’è una sola cosa che fa la differenza fra uomo e bestia: il matrimonio e la sua indissolubilità . Entrambi gli epistolari di Lupo de Ferrières e di Ivo di Chartres, sia pur distanti nel tempo e nello stile, pongono l’accento sul nesso strettissimo fra comportamenti anche emozionali dei singoli e presunti vantaggi delle collettività . Ed entrambi, da un osservatorio allora privilegiato come poteva essere un monastero, suggeriscono orientamenti che incidevano senz’altro su impulsi e sentimenti individuali, sulla procreazione dei figli, sugli ordinamenti familiari, sul bene comune. La peculiarità di entrambi sembra comunque essere nel temperamento degli autori, nell’atteggiamento da predicatori con cui si ponevano di fronte al vissuto quotidiano, nella tendenza, non è chiaro fino a qual punto consapevole, a trasformare le apprensioni affettive in sentimenti caritativi e a mitigare anzitutto la propria severità verso i peccatori. A questa progressiva riduzione di severità, a questo quasi spontaneo compromesso fra intransigente spirito ascetico e interessi e affetti terreni vanno ricondotti soprattutto gli epistolari nei quali vivo appare il legame personale fra singole lettere e autori. Epistolari appunto nei quali . Correspondance, , I, pp. -. . G. Duby, Ivo di Chartres, pp. -. . P. Zumthor, Leggere il medioevo, p. , scrive che «il testo medievale, molto più del testo moderno, è gesto, azione, carica di elementi sensoriali».



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FONTI SCRITTE

si coglie, in rapidi squarci espositivi, lo scorrere di vicende strettamente legate alla sensibilità, alla cultura e al personale vissuto quotidiano di chi scriveva la lettera. In tal senso – a parte, ovviamente, le lettere di Abelardo ed Eloisa o quelle confidenziali ed espansive, ma cerimoniose e solenni di Petrarca – esemplare potrebbe essere la corrispondenza privata di Pier della Vigna, nella quale si colgono preziosi riferimenti all’ambiente federiciano e alla funzionalità della cancelleria, ma le cui più significative testimonianze, attestate soprattutto dalle lettere alla «piissima madre» per la morte del padre e da quelle all’imperatore , provengono dalla loro impostazione e confezione stilistico-formale. Dal loro modo espositivo, dal modo cioè di raccontare, selezionare e valutare i fatti, scaturisce l’originalità delle lettere di Pier della Vigna, la singolare disposizione delle parole, l’uso delle figure etimologiche, il modello riassuntivo di quell’inconfondibile periodare che Dante poneva in bocca al grande protonotaro per testimoniare l’eleganza espressiva di un parlatore raffinato vissuto alla corte di Federico II. Su questo aspetto raffinato dello scrivere si sarebbe a lungo soffermato l’Umanesimo, e non è privo di significato che le epistole, assieme ai dialoghi e alle orazioni, vengano inserite fra le forme espressive più alte della letteratura del secolo XV. Poliziano, per esempio, nelle lezioni sulle Selve di Stazio, dissertando sulle tipologie letterarie, si soffermava parecchio sulle epistole, le quali, precisava, sono «il colloquio con gli assenti» lontani da noi in termini geografici o addirittura temporali. Lettere che, aggiungeva, siano esse «scherzose», o «gravi e dottrinali», debbono sempre essere brevi e concise, semplici, portatrici di brio, di affettuosità, di motti e proverbi, e debbono evitare i toni sentenziosi e ammonitori che le trasformerebbero in orazioni: «iam non epistolam, sed artificium oratorium» . Non è il caso, né il luogo, di insistere ancora su questo tipo di fonte, per sua natura espressione meditata e scritta del modo di essere dell’autore. Gli esempi riferiti non solo aprono squarci insperati nella fitta e multiforme realtà quotidiana, nell’operare dei singoli e nei loro intrecci con le piccole e grandi cose della vita, ma testimoniano l’efficacia di un modello espressivo per comprendere sia l’evoluzione della lingua e dello stile nelle forme di comunicazione diretta, sia i problemi moralistici ed educativi che riflettevano gli aspetti più immediati del vivere comune. Le concrete esigenze di umanità e di affetti, ma anche di sapienza psicologica e di bonaria e generosa disponibilità, si colgono nel-

. J. L. A. Huillard Bréholles, Vie et correspondance, cap. , pp. , -. . E. Garin, Medioevo e Rinascimento, pp. - e note.

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CAPIRE IL MEDIOEVO

le purtroppo assai rare testimonianze di epistolari domestici, fra i quali va per esempio ricordata un’anonima lettera d’amore del secolo XV che si conserva nell’Archivio di Stato di Roma e con la quale il giovane corteggiatore chiedeva alla fanciulla i versi della canzone Amor mercè, firmandosi «El vostro servitor, dama che avete comprato in libertà, servo tenete» . Ma soprattutto vanno ricordate le lettere tra Francesco di Marco Datini e la moglie Margherita , che sono fonti assai preziose di conoscenza perché, annota Iris Origo nel bel volume Il mercante di Prato, «posseggono un doppio interesse: come ricordi di fatti e come studio di caratteri» . Le lettere di Datini alla moglie contengono anche non poche notizie sugli affari e riconducono da una parte al tanto dibattuto problema della cultura del mercante, dall’altra a quelle lettere mercantili di cui sono ricchi gli archivi e che erano, col loro formulario ben determinato e con la loro rigida stesura tecnica, ordini di pagamento a distanza, cioè lettere di cambio. Quelle lettere di cambio chiamate in Francia lettres de foire e create sostanzialmente dalla prassi commerciale, e il cui uso cozzò al principio col diritto comune, per il quale unica attestazione di un’obbligazione o di un pagamento avvenuto era, e non poteva che essere, una quietanza rilasciata attraverso un atto notarile, cioè un’attestazione mercantile prodotta non dal mercante, ma dal notaio per il mercante. Col passare del tempo i documenti mercantili, e in particolare le lettere di cambio, riuscivano comunque a emanciparsi dal notaio, a sostituire il latino col volgare e a dare al mercante un codice di comportamento «che trovava espressione nelle memorie private e nella precettistica». Per un quadro generale delle fonti epistolografiche è assai utile G. Constable, Letters and Letter-Collections, con ampia bibliografia. Per l’epistola come forma precipua dell’Umanesimo è ancora opportuno riflettere, specie dopo le considerazioni di Croce, Varietà di storia letteraria e civile , su quel che scrive Walter Rüegg, Cicero und der Humanismus, pp. -. Ma cfr., per la stesura di ogni scritto epistolare, L. Rockinger, Briefsteller, e, specie per i modi, le tecniche, i materiali scrittori, le forme grafiche della stesura delle lettere dal tardo antico al secolo XIII, A. Petrucci, Funzioni, pratiche e forme della comunicazione scritta. Per il rapporto fra retorica epistolare e realtà sociale vanno consultati J. J. Murphy, Rhetoric in the Middle Ages, e W. D. Pratt, The Early “Ars dictaminis”.

. F. Gemini (a cura di), Agenda , fig. b. . Lapo Mazzei, Lettere. . P. XVIII. . II, pp. -.

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FONTI SCRITTE

Le novità dell’epistolografia in età comunale e il progressivo concretizzarsi di modelli di lettere secondo le esigenze operative e quotidiane dei cittadini per chiedere mutui, per fare acquisti ecc. emergono, fra l’altro, da una lettera di Francesco di Marco Datini con la quale il mercante di Prato, scrivendo il  dicembre  a Ser Bastiano di Ser Schiatta, chiedeva di poter avere «un libro [...] dove erano scritte molte soscrizioni di lettere» in modo che, precisava, «quando io avessi a soscrivere una lettera a uno o a uno altro, non avessi ogni volta pensare» . Sul problema cfr. comunque Ch. B. Faulhaber, The “Summa dictaminis” of Guido Faba. Guido Faba – che fu magister artis dictandi a Bologna, notaio della curia vescovile e docente nello Studium di Siena – scrisse infatti la Gemma purpurea, in cui sono modelli di lettere da adattare a seconda delle persone alle quali si dovevano scrivere , e anche i Dictamina retorica epistole. È da segnalare, nei Dictamina, un modello di lettere De viro ad mulierem post factum, in cui sono suggeriti i criteri coi quali dare dignità di stile e decoro di forma alle descrizioni della bellezza femminile . Per quel che invece si riferisce alle scritture mercantili in genere e alle lettere di cambio in particolare, cfr. gli studi di R. S. Lopez e J. W. Raymond, Medieval Trade in the Mediterranean World; F. Melis, Documenti per la storia economica; U. Tucci, Il documento del mercante; Id., Manuali di mercatura. Per la lettera di cambio è da leggere la relativa voce in F. Edler, Glossary of Mediaeval Terms, che è un glossario assai utile anche per interpretare i termini in volgare con cui venivano indicate le merci e le operazioni sulle merci. Si desidera ricordare infine la licterula, cioè la “letterina” introdotta da Alfonso il Magnanimo per superare le riserve e i rifiuti dei maestri razionali e del conservatore. Essa infatti sfuggiva «alla registrazione e all’esecutoria e rimaneva, come una specie di lettera segreta, fra il re, la tesoreria e il prestatore del denaro» .

. I. Origo, Il mercante, p. . . In L. Rockinger, Briefsteller, pp. -. . Lettera LXXVI, pp. -. . C. Trasselli, La «questione sociale», p. , nota .



 Sistemi di datazione e documenti falsi

La data, cioè l’indicazione del luogo, del giorno, del mese e dell’anno in cui è stato redatto un documento, è di fondamentale importanza per collocarne la stesura nel tempo. Nel tempo che l’uomo conosce come sua cadenza mortale, e nel quale ogni evento è posto prima, dopo o durante altri eventi, cioè secondo l’ordine di successione dei fatti. Il tempo – scrive Leopardi – «non è una cosa. Esso è uno accidente delle cose, e indipendentemente dalla esistenza delle cose è nulla». Il tempo quindi ha bisogno di noi per potere esistere, perché tempo e spazio «non sono in sostanza altro che idee, anzi nomi [...] e il nostro intelletto è il solo luogo dove il tempo e lo spazio» esistono «indipendentemente e per se medesimi» . Esporre in modo sintetico i diversi modi di contare gli anni non è sempre facile, interpretare poi le varie datazioni dei documenti medievali, nei quali si faceva ricorso a parecchi sistemi di calcoli cronografaci, è complicato, oltre che noioso. Nel secolo XIX neanche il genio matematico di Karl Friedrich Gauss era riuscito a ricondurre i vari sistemi a un unico algoritmo, cioè a un unico procedimento di calcolo numerico fondato sopra l’uso delle cifre arabe. Esiste del resto una disciplina detta appunto cronologia – dal greco cronología: discorso sul tempo – che studia i sistemi con i quali, nelle diverse epoche, i fatti sono stati ordinati in successione temporale. I greci, per esempio, calcolavano il tempo secondo il succedersi delle Olimpiadi a iniziare dalla prima, disputata nel  a.C., gli ebrei ne riconducevano la scansione alla durata del mondo, creato, secondo la Bibbia, nel  a.C., i romani contavano gli anni dalla fondazione di Roma, avvenuta nel  a.C., e i musulmani dall’égira, termine col quale è indicato l’abbandono della Mecca da parte di Maometto e il suo trasferimento a Medina nell’anno  dell’era cristiana.

. Zibaldone, II, pp. -.



CAPIRE IL MEDIOEVO

. Il sistema cristiano di computare gli anni I cristiani calcolano il tempo dalla nascita di Cristo. E anche questo è problema di non semplice soluzione, perché nulla dicono i Vangeli sull’anno, sul mese, sul giorno della nascita di Cristo. Il riferimento al  della fondazione di Roma come inizio, cioè come anno primo dell’era cristiana, è del secolo VI, vale a dire del tempo dell’impero di Giustiniano. A introdurre il sistema cristiano di computare gli anni fu il monaco Dionigi il Piccolo, amico di Cassiodoro e già noto per le prime raccolte canonistiche delle epistole decretali dei papi, che sono appunto parte fondamentale del Corpus iuris canonici col quale era regolamentato l’assetto interno della Chiesa. Dionigi compilava una “tavola” di cicli pasquali che iniziavano dal , che cioè continuavano i cicli di Cirillo d’Alessandria, avviati nel  e fermatisi al . Le tavole di Dionigi il Piccolo – a differenza di quelle di Cirillo, nelle quali gli anni erano indicati secondo l’era di Diocleziano, cioè dal  agosto , che era appunto l’inizio del regno di questo imperatore – indicavano i cicli iniziando a contare dalla nascita di Cristo, che secondo Dionigi corrispondeva al - dell’era di Roma, in base però a calcoli immaginari tratti dal Vangelo di Luca (I,  e III, ), che sono poi in contrasto col racconto di Matteo (II, ), il quale colloca la nascita di Cristo «al tempo del re Erode», che era però morto quattro anni prima di quella data, dunque nell’anno  a.C. Va comunque notato che nei primi tempi del cristianesimo varie fonti mettevano in evidenza il nesso fra nascita dell’impero romano sotto Augusto e inizio del regno di Cristo, appunto dell’era cristiana. Gregorio Nazianzeno scriveva, nel secolo IV, che «lo sviluppo di Roma coincideva con quello del cristianesimo: l’impero aveva avuto inizio con la nascita di Cristo, infatti mai, prima di allora, il potere era stato tenuto da uno solo» . Sottolineava cioè una stretta relazione fra era cristiana e impero romano, ancora viva, del resto, in tanti autori del secolo IX, come si ricava, per esempio, da un inno liturgico della monaca Cassiana, nel quale è fra l’altro scritto che se con Augusto cessava «tra gli uomini la poliarchia», con la nascita di Cristo scompariva «il politeismo» e tutti «hanno creduto in una sola verità divina» . Per quel che si riferisce al mese e al giorno della nascita di Cristo erano state proposte, a partire dal IV secolo, varie date: marzo, aprile e ad. Discours, -, pp. -. . E per il quale cfr. M. Gallina, L’impero d’Oriente, p. .

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.

SISTEMI DI DATAZIONE E DOCUMENTI FALSI

dirittura, da parte di Clemente Alessandrino, il  maggio. Quel che infatti scrive Luca (II, ), il quale precisa che i pastori passarono «la notte all’aperto per fare la guardia al gregge», farebbe pensare più alla primavera che all’inverno. La data del  dicembre, che risale all’età di Costantino, è probabile che risultasse dall’intreccio fra solstizio d’inverno, in cui la religione di Mitra celebrava la ricorrenza della “rinascita” del sole, e tradizione degli apologisti, che avevano presentato Gesù «come il vero e unico sole della salvezza», come l’incipit appunto della salvezza. E fra tutte le cose umane, aveva già detto Platone, fissare l’inizio, cioè l’origine, è la cosa più eccelsa. Al di là comunque di questi particolari, e di molti altri aggiuntisi nel tempo, per lo studio dei sistemi di datazione praticata nella documentazione medievale è sufficiente qui precisare che, «quando si dice era cristiana o volgare, si intende quella stabilita secondo il computo dionigiano e che il principio di questa, secondo la più accreditata opinione, è in ritardo di tre o quattro anni rispetto alla nascita di Cristo» . I più antichi documenti nei quali è stata adottata l’era cristiana risalgono al secolo VII e sono stati redatti nelle isole britanniche, cioè in un territorio dove il modo cristiano di computare gli anni, già introdotto dal monaco Agostino, era usato da Beda nella Historia ecclesiastica. In Italia il primo a utilizzare il sistema di datazione dell’era cristiana è stato Cassiodoro. In Francia i documenti più antichi datati col computo dell’era cristiana risalgono al secolo VIII, in Germania al IX, come in Italia, dove il più antico testo in cui è registrato quel sistema di datazione è un documento toscano dell’. La cancelleria pontificia introduceva alquanto tardi il sistema cristiano di contare gli anni, sicuramente dopo papa Giovanni XIII (-). Con Niccolò II (-) l’uso dell’era cristiana diveniva frequente, ma gli stili adottati rimanevano diversi fino ad Alessandro II, durante il cui pontificato si incominciò a usare la formula incarnationis dominicae anno. Dopo il Mille il ricorso alla datazione secondo l’era cristiana era quasi ovunque il computo cronologico più usato. Un computo che esprimeva un profondo mutamento socio-culturale e una visione del mondo non certo preoccupata, annota Gertrude Himmelfarb, di comprendere che «l’idea di giustizia, diritto, ragione e amore per l’umanità non sono unicamente rintracciabili nei valori del cristianesimo occidentale» .

. C. Paoli, Diplomatica, pp. -. . On Looking into the Abyss, pp. , -; ma cfr. pure Id., On Liberty and Liberalism, passim.



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. I mesi, i giorni, le indizioni L’anno nel Medioevo lo si faceva iniziare o il ° gennaio (stile della circoncisione) o il ° marzo (stile veneto) o il  marzo (stile dell’incarnazione) o il ° settembre (stile bizantino) o il  dicembre (stile della natività) o il giorno di Pasqua (stile francese). Gli stili più di frequente usati in Italia erano quelli dell’incarnazione e della natività. La Chiesa, d’altronde, era contraria all’anno solare perché condannava il rito pagano del ° gennaio. Lo stile dell’incarnazione – in base a un principio che riconduce l’inizio della vita al concepimento e non al parto – faceva incominciare l’anno in ritardo di due mesi e  giorni, cioè il  marzo, che era il giorno dell’annunciazione di Maria. Un anno che coincideva dunque con l’anno solare dal  marzo al  dicembre, perché il periodo compreso fra il ° gennaio e il  marzo faceva parte dell’anno precedente. Lo stile della natività faceva invece cominciare l’anno con un anticipo di sette giorni rispetto all’anno solare, cioè il  dicembre, giorno di Natale, che cadeva appunto nove mesi dopo il  marzo, giorno dell’incarnazione. Il periodo compreso fra il  e il  dicembre era quindi parte integrante dell’anno nuovo. Carlo Magno, per esempio, è stato incoronato nel Natale dell’ perché nelle grandi cronache di Francia, che usano il sistema di datazione a nativitate, si legge che quell’avvenimento accadde nella notte di Natale dell’. Il «detto Carlo Magno – scrive infatti Villani (II, ) – fu consacrato e coronato in Roma gli anni di Cristo ». Nei documenti medievali accanto all’anno si trova sempre l’indizione, che rappresentava un periodo cronologico di  anni numerati progressivamente, all’interno di ciascun ciclo, da  a . Non si conosce l’origine dell’uso di questo criterio di datazione: sembra che sia stato adoperato per la prima volta in Egitto, che fosse collegato a un sistema di esazione fiscale e che sia divenuto computo cronologico ai tempi di Diocleziano. Il numero dell’indizione registrato nei documenti non rappresenta però la serie progressiva dei cicli indizionali, bensì il numero progressivo degli anni dentro un ciclo qualsiasi. Quando si dice che un dato anno ha l’indizione prima, seconda, ecc., si deve intendere che a codesto anno corrisponde il primo, il secondo ecc. anno di un ciclo indizionale in corso, non importa qual sia; e giunti alla quindicesima indizione si ricomincia daccapo dalla prima. Così, ad esempio, se l’anno  ha l’indizione prima, séguita questa a crescere di un’unità per anno sino alla quindicesima, e l’anno  avrà nuovamente l’indizione prima . . C. Paoli, Diplomatica, cit., p. .

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.

SISTEMI DI DATAZIONE E DOCUMENTI FALSI

L’anno di inizio delle indizioni era tradizionalmente fissato al , e ne conseguiva che, risalendo indietro, l’anno  d.C. aveva l’indizione prima, e il principio dei cicli indizionali si trovava in ritardo rispetto al punto di partenza dell’era cristiana dionisiaca. Per cercare quindi il numero dell’indizione corrispondente a ciascun anno bisogna a questo aggiungere , e dividere tutto per : il quoziente dà il numero dei periodi d’indizione trascorsi, l’avanzo il numero dell’indizione cercata: non essendovi avanzo, corre l’indizione quindicesima . Il giorno indicato nei documenti non è quello naturale, la cui durata in rapporto alla notte varia in base alle stagioni, ma il dies civilis, cioè il giorno fissato in  ore:  diurne e  notturne. Il giorno andava dalle sette di mattina (hora prima) alle sei pomeridiane (hora duodecima). Data l’ora medievale, per avere la corrispondente ora moderna è sufficiente aggiungere ad essa il numero sei. Per esempio hora sexta +  = ora moderna , cioè mezzogiorno. La notte era divisa in quattro vigiliae di tre ore ciascuna: la prima dalle  alle ; la seconda dalle  alle ; la terza dalle  alle ; la quarta dalle  alle . La numerazione dei mesi e dei giorni era, in genere, come in età romana. Il giorno del mese era di solito indicato per Kalendae. Ecco, per esempio, la datatio della pace di Costanza, al cui diploma si è più volte fatto riferimento: «Acta sunt haec anno dominicae incarnationis MCLXXXIII, indictione prima, regnante domino Friderico Romanorum imperatore, gloriosissimo anno regni eius XXXII, imperii vero XXVIIII. Dat. apud Constantiam in sollemni curia VII Kal. Iulii». Per verificare se nell’anno  cadeva la prima indizione basta fare questa semplice operazione: . +  = . :  =  cicli indizionali trascorsi, con avanzo di , che è, appunto, la prima indizione dell’anno . Punto di riferimento era comunque il calendario, il cui nome derivava da calende, che nel mondo romano indicava il primo giorno del mese sacro a Giunone e fissava le scadenze per la restituzione di somme date in prestito e segnate in un registro detto appunto calendario. Il calendario cristiano era, in sostanza, quello stesso di Roma secondo la riforma di Giulio Cesare, che fissava l’anno solare in  giorni e  ore, riforma corretta via via da aggiustamenti fino al . In quell’anno, grazie agli studi di una commissione scientifica presieduta dal cardinale calabrese Guglielmo Sirleto, papa Gregorio XIII fissava la durata dell’anno solare in  giorni,  ore,  minuti,  secondi e stabiliva che ogni quattro anni fosse bisestile, cioè di  giorni e con febbraio di  giorni. Cfr. comunque, per rapide individuazioni dello scorrere degli anni, G. C. Carrasi, Cronografia generale, e il ben noto manuale Hoepli di A. Cappelli, Cronologia, corografia e calendario perpetuo. Sulle misure del tempo nel Medioevo si possono leggere: S. Stelling Michaud, Quelques aspects du problème du temps, e Ph. Wolff, Le temps et sa mesure. Sugli orologi e la loro comparsa A. P. Usher, A History of Mechanical Inventions. Sui calendari P. Mane, Calendriers et techniques agricoles.

. Ivi, p. .



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. Procedimenti materiali e mentali delle falsificazioni Lo studio delle datazioni è fra l’altro importante perché, nel permettere di collocare nel tempo e nello spazio la redazione dei documenti, contribuisce alla non sempre facile identificazione dei falsi sia pubblici che privati. Compito talvolta parecchio complesso, anche perché bisogna armonizzare maniere diverse di calcolare il principio dell’anno e l’uso delle indizioni e bisogna tenere presente la possibilità di errori materiali durante la stesura dei documenti. Pietro Bembo, per esempio, a proposito di un breve di Leone X ritenuto falso a causa della contraddizione fra anno cristiano e anno del pontificato del papa, annotava «non doversi per niente allegar falsità in questo caso, ma errore di inadvertenza del scrittor, sì come alle volte, massimamente quando le spedition si fanno in troppa fretta, suole accader» . Pur così circoscritto, il campo dei falsi rimane comunque assai vasto e, anche quando «le falsificazioni vengono smascherate», fanno pensare «alle tante altre simili che non si riesce a smascherare» e che «gettano ombra su tutta l’intera massa dei documenti e delle testimonianze» . Certo, si è anche affermato che «il documento è una menzogna» e che «la sua verità è quasi tutta nelle sue intenzioni», che cioè «lo si fa per mentire» in quanto ogni documento «è il prodotto orientato di una situazione» e la «situazione della storia è sempre una forma del potere, appunto: una forma di potere» . Ciò non modifica però l’esigenza di individuare i falsi, accentua anzi la necessità metodologica di caratterizzarli in quanto tali, di ricostruire i procedimenti materiali e mentali delle falsificazioni e delle interpolazioni e soprattutto di decodificarli, di smontarli, di chiarire i motivi delle falsificazioni, perché un falso è anche una verità, una verità storica. In tal senso, per esempio, «un testo che si fa risalire al IX secolo, ma che è stato scritto nel XII, è un falso del IX ma un autentico del XII» . Risponde cioè a esigenze particolari di un determinato luogo in un determinato tempo rispetto alle quali, precisava Croce, i documenti non sono «né falsi né veri, ma mezzi, come qualsiasi altro a conseguire i propri fini» . Si consideri, per esempio, la manipolazione delle date per vantare primati, per acquisire vantaggi, per

. In una lettera ricordata e in parte trascritta da L. de Mas Latrie, in “Bibliothèque de l’Ecole des Chartres”, XXXVI, , pp. -. . B. Croce, La storia come pensiero e come azione, p. . . J. Le Goff, Intervista sulla storia, pp. -. . Ivi, p. . . La storia come pensiero e come azione, p. .

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guadagnare prestigio da parte di talune università europee. La rivalità tra Oxford e Cambridge, fra Parigi e Bologna, spingeva questi prestigiosi centri di studi a falsificare e a interpolare documenti per retrodatare le loro origini a tempi assai lontani. Nei Libri cancelarii et procuratoris redatti nel  si scriveva addirittura che Oxford doveva la sua fondazione ad alcuni filosofi giunti in città dopo la distruzione di Troia, ma in un testo del  intitolato De antiquitate Cantabrigensis Academiae si legge che Oxford era stata fondata solo nel , cioè molto tempo dopo Cambridge, le cui origini si facevano invece risalire al  a.C. Due documenti falsi del XIII secolo riconducono le origini dell’Università di Bologna a Teodosio II (), quando è noto che solo nel , con l’Authentica habita, Federico I Barbarossa concedeva la licentia docendi, riconosciuta da Onorio III solo nel  . Non è comunque privo di significato che con l’aggettivo authenticus si esprimesse, nel Medioevo, non il concetto di vero, ma il concetto di originale, si indicasse cioè l’autorità e la credibilità della potestas che aveva emanato il documento e non la concordanza del documento con la tradizione che, nel caso dell’Università di Bologna poteva magari suggerire la continuità di un insegnamento avviato molto tempo prima. Nessuna università, del resto, poteva nascere all’improvviso, al di fuori di procedure strettamente concatenate alle tradizioni di cultura e di insegnamento, che non emergevano certo dal nulla. Se un falso è anche una verità storica, primo compito del ricercatore non può che essere lo studio dell’ambiente in cui si è proceduto alla falsificazione, come suggerisce, per esempio, la lettera attribuita a papa Clemente I e con la quale – proprio per esprimere le esigenze dei tanti che, nel secolo XI, ritenevano abuso l’abitudine di «aspergere con acqua battesimale i già battezzati» – si proibiva appunto quella pratica. La lettera è stata poi ritenuta falsa, e proprio in quanto falsa non solo evidenzia una spaccatura fra società dei fedeli e Chiesa ufficiale, ma insegna che la verità si trova spesso al di là del documento e suggerisce quindi che il documento, vero o falso che sia, va analizzato sia sul piano filologico che su quello simbolico. «Lo scetticismo programmatico – dice Marc Bloch – non è atteggiamento intellettuale più apprezzabile né più fecondo della credulità [...]. Il vero progresso – aggiunge – si compì quando il dubbio divenne esaminatore», quando appunto si cominciò a leggere anche in controluce la fattura del documento e a vagliarla nel suo contesto. È dunque necessario sottoporre i documenti a . H. Grundmann, La genesi dell’Università nel Medioevo, p. ; J. E. Ruiz Doménec, Dubbi sull’università medievale, pp. -.

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CAPIRE IL MEDIOEVO

rigorosa analisi filologica e diplomatica, senza però trascurare i criteri suggeriti dall’interpretazione simbolica dell’antropologia. Non «v’è peggior scempio dell’erudizione quando essa gira a vuoto, né superbia peggio giustificata dell’orgoglio dello strumento che si consideri fine a se stesso» . . Un falso che è anche verità: il Constitutum Constantini È sempre stata la diffidenza, sostenuta dall’istinto di curiosità inesauribile, a provocare del resto i dubbi la cui verifica contribuiva, in età umanistica, a creare il metodo scientifico che sta oggi alla base degli studi di filologia . In questo senso, il De falso credita et ementita Constantini donatione di Lorenzo Valla può essere considerata l’analisi più significativa di un documento falso. Un’analisi che non si limitava alla lettura attenta del nesso fra parole e cose, alla dettagliata individuazione di modelli stilistici e di una scrittura la cui grammatica e la cui eleganza riconducevano ad ambienti della curia romana del secolo VIII e non alla cancelleria di Costantino. Un’analisi appunto che non si limitava a mettere in evidenza l’imbroglio, ma che andava oltre perché, nel dimostrare la falsità del Constitutum Constantini, lo recuperava come testimonianza, cioè come fonte della quale poneva in luce non solo il luogo, il tempo e il contesto in cui era stata progettata e concretamente realizzata, ma i fini. Redatto infatti nella curia papale nella seconda metà del secolo VIII, e riproposto in copia con lettera d’oro del  in occasione dell’incoronazione di Ottone I , il Constitutum, a partire dal secolo XI, veniva considerato come costante e fondamentale punto di riferimento per documentare e convalidare i grandi sogni pontifici destinati ad aprire una nuova visione del mondo su ampie e totalizzanti prospettive storiche. E valga la sua influenza sulle crociate e la sua utilizzazione, in traduzione greca, nelle polemiche tra Michele Cerulario e il cardinale Umberto di Silvacandida. Della funzione del Constitutum come puntello della politica occidentale nel Levante e contro Bisanzio sono del resto testimonianza

. M. Bloch, Apologia, pp. - e . . Sul ruolo della filologia in età umanistica – anche in termini di verifica sperimentale dell’uso delle parole, delle loro omissioni e del nesso con la filosofia – cfr., fra i tanti studi, E. Garin, L’umanesimo italiano, e S. Rizzo, Il lessico. . G. M. Vian, La donazione di Costantino, in cui fra l’altro si dice che la falsità era già nota perché denunciata nel  da Arnaldo da Brescia e che l’analisi di Valla non incontrò particolare ostilità in Vaticano.

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esemplare le vicende dei secoli XI e XII, in sintonia con i principi della supremazia pontificia, e in specie con la politica di Innocenzo III, che fu papa dal  al  e che documentava le sue scelte, volte tutte a far prevalere il potere spirituale e temporale della sede romana, con citazioni letterali di ben precisi passi del Constitutum. L’analisi di Lorenzo Valla non si limitava quindi a mettere in evidenza la falsità di una fonte, ma indicava un documento che aveva condizionato la vita politica e religiosa del Medioevo e la cui ideologia si era diffusa e aveva acquisito radici in quanto si accordava con le convinzioni preconcette della mentalità comune, con la disponibilità di tutti a inginocchiarsi di fronte al papa. Un falso in fondo dissimulatore e rivelatore insieme di un’ortodossia concettuale e comportamentale, e che diveniva specchio in cui una società guardava se stessa, testimonianza che rifletteva non ciò che realmente sarebbe dovuto essere, ma ciò che allora si credeva naturale che fosse. Quel modo appunto di essere e di pensare che agli umanisti incominciava ad apparire intollerabile e a Valla, in particolare, non più conciliabile con una civiltà e una cultura in cui la crisi di ogni universalismo e i principi dottrinali dibattuti al Concilio di Costanza trovavano le loro condizioni storiche di esistenza. E in ciò, in queste tensioni verso un nuovo progetto di civiltà, verso nuove forme del vivere, in questo spregiudicato razionalismo tanto apprezzato da Erasmo da Rotterdam e volto a ribadire le istanze di un’umanità liberata e di un rapporto personale dell’uomo con l’uomo, sta la novità della filologia di Valla. Una filologia intesa, dice Garin, «come vasta e chiara e critica consapevolezza dell’attività umana nella sua progressiva conquista» . Anche Petrarca aveva dimostrato la falsificazione di due documenti che si facevano risalire a Giulio Cesare e a Nerone e coi quali si concedeva l’indipendenza dell’Austria dall’impero , ma attraverso una metodologia che si esauriva nella rigorosa analisi della lingua, dello stile, dell’uso della datazione e non valutava in profondità le ragioni che avevano spinto a fabbricare quei falsi, cioè le connessioni coi tempi e con gli ambienti in cui i falsi erano stati prodotti. Quei nessi appunto che nel secolo XV e al principio del successivo permettevano a Valla, a Poliziano, a Leonardo di «affrontare i Sacri Testi», di «spazzare via tutte le auctoritates», di incarnare «la spregiudicatissima filologia», nella quale si condensava «tutta la forza di una grande rivoluzione spirituale» .

. E. Garin, Medioevo e Rinascimento, pp. , , . . M. Feo, Tradizione latina, pp. -. . E. Garin, Medioevo e Rinascimento, pp. -; Id., Scienza e vita civile, pp. -.



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. Verità diplomatica e verità storica Bisognava comunque giungere al secolo XVII perché il problema dei falsi incominciasse ad acquisire metodologia scientifica. Erano infatti quelli gli anni in cui era vivo il dibattito sulla necessità di disporre di regole, cioè di avere a disposizione un metodo logico-matematico di indagine in grado di leggere l’ordine naturale e divino. Un metodo scientifico che facesse tabula rasa delle “credenze comuni” e giungesse a certezze di tipo matematico “debitamente provate”. Certezze sul piano teologico, su quello filosofico e, ovviamente, su quello storico e filologico. Si pensi agli Essais di Montaigne, al Discours de la méthode di Cartesio, al Discours sur l’histoire universelle di Bossuet, al Tractatus teologico-politico di Spinoza, al Propylaeum antiquarium del gesuita Daniel Papenbrock, al Glossarium di Du Cange e soprattutto al De re diplomatica di Mabillon. Opera, quest’ultima, con la quale veniva fondata la metodologia di lettura critica dei documenti e i sistemi per valutarli sulla base di una riconosciuta autenticità. Il termine “critica”, col quale fino ad allora si erano manifestati giudizi di gusto, incominciava a esprimere esigenze di verifica e di prove scientifiche di veridicità. Compito specifico della diplomatica – diversamente da oggi, che ha esteso i suoi interessi alla storia delle cancellerie, alle ricerche sui regesti, all’analisi comparata delle forme dei documenti – era infatti quello di individuare e ordinare i falsi, cioè, avrebbe poi precisato Ficker nel , col metodo di indagine proprio della diplomatica si intendeva salvaguardare i documenti dal sospetto di falso. Quel sospetto era largamente diffuso e si riferiva non solo ai documenti scritti, ma anche alle reliquie, ai miracoli, alle liste di indulgenze, alle profezie. D’altronde, diceva sir Arthur Conan Doyle, inventore del celebre investigatore Sherlock Holmes, «il vero è ciò che resta una volta escluso tutto ciò che è falso». E il falso, nel Medioevo, era assai diffuso perché in nessun’altra epoca la verità morale era stata più importante del dato scientifico, e quel che interessava era la “sincerità del cuore”. Il problema però non è tanto quello di definire cosa sia esattamente falso e cosa appunto fosse falso nel Medioevo. Argomento d’altronde non solo complesso, ma assai controverso. Il problema è quello di stabilire il nesso tra verità manifesta e verità effettuale, tra forma e contenuto, tra verità diplomatica e verità storica. Infatti la correttezza diplomatica, vale a dire la fattura, le forme, il rigore giuridico di un documento, non ne sanciscono sempre la verità storica, cioè l’attendibilità di quel che nel documento è attestato. E proprio per questa fluidità, per questa incertezza che si coglie nella difficoltà di pervenire a una visione identita

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ria comune su documenti ritenuti falsi sul piano diplomatico e veri su quello storico, si presenta assai ambiguo il discrimen veri ac falsi e ci si può, per esempio, trovare di fronte a Karl Andreas Kehr che considerava autentici quei diplomi di Ruggero II che Léon Robert Ménager riteneva falsi. Certo, le diversificazioni fissate da Mabillon, e specie da Muratori, tra documenti falsi costruiti ad vera iura tuenda (redatti cioè per sostituire originali ridotti in cattivo stato o andati perduti, e coi quali garantire effettivi diritti) e documenti fabbricati ex dolo malo (vale a dire per disporre consapevolmente di testimonianze inesistenti con le quali rivendicare diritti non pertinenti) affondano le radici in un’epoca in cui l’immagine talvolta era più importante del dato giuridico. Ma entrambe le diversificazioni sono lontane dal risolvere i termini del problema. Lo riconosce Harry Bresslau quando scrive che il documento diplomaticamente falso «vuole sembrare ciò che non è» ed «è falso anche se dice la verità», se vuole cioè, senza dolo intenzionale, ma «con l’apparenza di una testimonianza legale», convalidare «un fatto giuridico realmente accaduto» . Al di là comunque di ogni altra considerazione, e constatato che molti dati delle fonti sono veri, pur non essendo certi, è opportuno tenere sempre presente che la verità può trovarsi spesso al di là del documento e che alla base di qualsiasi ricostruzione critica non può che esserci un lavoro di comparazione, senza però scordarsi che la diversità fra documenti è spesso nelle cose. E se «per riconoscere come autentica una testimonianza» è necessario che essa presenti «una certa somiglianza con le fonti vicine», che diverrebbe, si chiedeva Bloch, «la scoperta? Poiché chi dice scoperta dice sorpresa e dissomiglianza» . Saremmo però ad altro discorso, da incardinare sulle probabilità dei diversi possibili e sui quali, nel secolo XVIII, si era già soffermato François Constantin de Chasseboeuf, conte di Volney, quando asseriva che la «maggior parte dei problemi della critica storica sono problemi di probabilità, tali però da costringere il più sottile calcolo a confessarsi incapace di risolverlo» . Valutazioni così complesse mescolano all’uso del concetto di probabilità, e quindi alla storia problematica ed esplicativa, ideologie e interessi, accendono passioni, valicano barriere fra discipline e scatenano reazioni che alimentano dubbi che solo in parte vengono canalizzati nei consueti rivoli della ricerca. Sull’ar-

. Handbuch, I, p. . . Apologia, p. . . Ivi, p. .



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te però di «dirigere utilmente il dubbio» e trasformarlo in «strumento di conoscenza» si rinvia al Saggio di una logica del metodo critico inserito nell’Apologia della storia di Marc Bloch . Sui complessi e specifici problemi dei falsi si segnala invece il convegno internazionale su Fälschungen im Mittelalter svoltosi a Monaco dal  al  settembre  e organizzato dai “Monumenta Germaniae Historica”. Nelle varie relazioni, e negli atti nel loro complesso, si trovano indicazioni, suggestioni, problemi di notevole interesse e si coglie il processo di un’analisi che trasforma la fabbricazione dei falsi in logica di comportamento di un’epoca, in traiettoria di un operare che esprime un intreccio fra situazione sociale e situazione politica, fra immaginario e credenze che rinviano all’approccio con un mondo di “giustizia soggettiva” che Popper avrebbe definito «oracolare», ma nel quale c’era spazio per una severa legislazione nei riguardi di falsari abbastanza consapevoli del loro crimine.

. Ivi, pp. -.



 Archivi, repertori, lessici, glossari

Dove rintracciare i documenti relativi al Medioevo, veri o falsi che siano? Cosa bisogna fare per consultarli, leggerli, studiarli? Le testimonianze medievali ancora manoscritte – per rintracciare quelle già pubblicate esistono repertori e collezioni che verranno indicate nel capitolo successivo – si possono trovare ovunque: presso famiglie nobili e gentilizie che conservano ancora il loro patrimonio documentario, presso chiese e monasteri, presso antiquari, addirittura al mercato presso rivenditori ambulanti e di oggetti usati. Loro sedi naturali sono però gli Archivi di Stato, quelli comunali e di istituzioni ecclesiastiche e talvolta anche le biblioteche. Archivio, termine che deriva dal greco a¬rcei^on, ma anche dal tardo latino archivum, sta appunto a indicare la sede in cui sono raccolte e ordinate le “carte” di vario tipo. L’idea di disporre di locali adatti dove conservare la documentazione è antica e rispondeva in fondo alle esigenze giuridiche, pratiche e operative di un’amministrazione, fosse essa statale, ecclesiastica, comunale o familiare. Esistono del resto testimonianze, a partire almeno dal secolo XII, su norme e regolamenti che si riferivano alla raccolta e conservazione delle carte. . La pratica conservativa In Inghilterra, per esempio, la conservazione dei registri dello scacchiere (Pipe Rolls) risale al , e al  quella dei registri dei tribunali reali (King’s Bench e Common Pleas). Certo, la pratica amministrativa è cambiata nel tempo e si è via via adattata alle accresciute esigenze dei sempre più complessi impianti istituzionali e delle più articolate organizzazioni burocratiche e forme di potere. Ma in tutti gli archivi, e in ogni tempo, la pratica conservativa è da ricondurre al nesso strettissimo fra ordinamento giuridico-amministrativo e svolgimento della politica, cioè alle esigenze del potere. In tal senso veniva considerata l’importanza delle carte da conservare. 

CAPIRE IL MEDIOEVO

Carte tutte soggette nel tempo a un’infinità di peripezie (naturali, accidentali, dolose) e delle quali sarebbe interessante seguire i percorsi della loro trasmissione e della loro scomparsa. Fra i casi di trasmissione val la pena di ricordare che le carte trovate in tanti monasteri erano finite in quegli archivi in base all’uso di far seguire ogni trasferimento di bene dalla relativa documentazione. Fra i motivi della scomparsa, a parte le non poche vicissitudini durante il Medioevo, si segnalano le testimonianze su periodici “spurghi” operati negli stessi archivi, a partire dal secolo XVIII, per ricavare spazi e concretizzare riordini più funzionali del materiale conservato. Anche se bisogna ricordare le non poche testimonianze di quanti si opponevano al macero di qualsiasi carta perché, spiegavano, tutti «li scritti» vanno «gelosamente» custoditi «benché abbiano l’apparenza d’inutilità, non potendosi» da nessuno, sia pure dotto, «prevedere di qual uso e vantaggio possano essere in futuro» . È comunque significativa, ai fini di una sempre più sentita organizzazione degli archivi come luoghi di studio, l’istituzione a Firenze, il  dicembre , di un «pubblico Archivio diplomatico» in cui venivano raccolte antiche carte manoscritte affinché da esse, era detto esplicitamente, si possano ricavare «lumi» sia per i «pubblici e privati diritti», sia per «l’erudizione» e l’«istoria» . Vari progetti di conservazione di carte anche a fini di studio sono registrati nel secolo XIX, e uno di questi si riferisce a Napoli, dove il  dicembre  Giacchino Murat istituiva un pubblico archivio anche per andare incontro alle esigenze della ricerca «storica» e «diplomatica del Regno» . Al di là comunque delle particolari vicende del processo di assestamento degli archivi dopo l’Unità, quel che qui va subito sottolineato è anzitutto la loro indispensabilità, già sottolineata da Voltaire nelle Nouvelles considérations sur l’histoire, per qualsiasi tipo di ricerca e, ovviamente, la loro distribuzione e situazione in Italia, nel cui territorio sembra presente il patrimonio documentario più consistente del mondo. Un patrimonio che è la nostra “memoria storica” e che è distribuito in archivi di vario tipo e denominazione, fra i quali vanno ricordati subito gli Archivi di Stato, cioè gli istituti pubblici dipendenti oggi dal ministero dei Beni culturali. Ad essi, si legge nell’art.  D.P.R.  settembre , n. , «è affidata la conservazione degli Archivi degli stati italiani preunitari, i documenti degli organi giudiziari e amministrativi dello stato

. P. Benigni, C. Vivoli, Progetti, pp. -. . Bandi, e ordini. . L’attuazione si concretizzava però nel , e le prime a confluirvi furono le carte conservate nel Castel Capuano.

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ARCHIVI , REPERTORI , LESSICI , GLOSSARI

non più occorrenti alle necessità ordinarie del sevizio, tutti gli altri archivi e singoli documenti che lo stato abbia in proprietà o in deposito per disposizioni di legge o per altro titolo». . Come orientarsi negli Archivi di Stato Il patrimonio documentario conservato dagli Archivi di Stato italiani, del quale fanno parte anche le carte delle corporazioni religiose soppresse, si estende «per un milione e mezzo di metri lineari» ed è suddiviso in  sedi:  in città capoluogo di provincia e  in città minori. La situazione degli archivi in Italia, come di tante altre strutture culturali, è drammatica. Si ricava ciò dall’esperienza di tanti studiosi che quotidianamente frequentano questi «granai di fatti», come con felice espressione gli archivi sono stati definiti da Lucien Febvre . Nel volume Italia S.p.A., pubblicato da Einaudi, Salvatore Settis fa il quadro desolante di una situazione in cui si va via via concretizzando una sempre più subdola e invasiva aggressione al patrimonio culturale pubblico da parte di quelli che la “Frankfurter Allgemeine Zeitung” ha indicato come i «distruttori della propria memoria storica». Situazione desolante e incomprensibile specie in un paese come l’Italia dove, già nel secolo XVI, papa Leone IX, della famiglia de’ Medici, nel nominare Raffaello soprintendente alle belle arti di Roma, dava avvio alla legislazione tutelare dei patrimoni culturali. Questa distorsiva sintesi programmatica dei beni culturali rende più complicata la già non facile traslazione operativa della “domanda storiografica” in “domanda archivistica”. Manca infatti, negli archivi, e forse a ben ragione, un criterio omogeneo di classificazione di una documentazione quanto mai diversa nella sua intrinseca composizione pergamenacea e cartacea, nella sua formulazione, nei riferimenti alle istituzioni e ai loro modi di produzione. E non sono pochi i casi in cui, in taluni archivi, si trova ancora conservato materiale documentario prodotto in circoscrizioni territoriali diverse e collocato quindi «fuori della sua sede naturale» . Dalla Guida generale degli Archivi di Stato emerge una certa tendenza verso l’uniformità dei criteri, ma anche la difficoltà di una

. Vivere la storia, p. . . Introduzione, in Guida generale degli Archivi di Stato, p. . Delle circa . pergamene conservate nei “tabulari” dell’Archivio di Stato di Palermo, molte provengono dai monasteri della diocesi di Messina (ivi, vol. III, p. ). Sui motivi di queste presenze delle pergamene messinesi nell’Archivio di Palermo cfr. R. Starrabba, Contributo allo studio, pp. -.

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loro generalizzazione sul piano pratico-operativo, retaggio, probabilmente, di una reazione alle angustie del positivismo che non era però riuscita, come in Francia, a rielaborare prospettive metodologiche sensibili persino «alle scienze dell’universo fisico»  ed era invece rimasta ancorata più all’erudizione e alla tradizione «umanistico-letteraria che a quella archivisticodocumentaria». Le non poche diversificazioni di criteri, osserva del resto Isabella Zanni Rosiello, e soprattutto la persistenza di tradizioni particolaristiche sui sistemi di conservazione-trasmissione di talune realtà locali, non possono esser cancellate nelle carte da operazioni compiute sulla carta. La sedimentazione-organizzazione propria a specifici complessi documentari, formatisi nel corso di interventi conservativi succedutisi nel tempo, in armonia o in dissonanza con le prescrizioni riguardanti la conservazione legale, sembra, per molti aspetti, sfuggire a schemi classificatori generali [...]. L’intreccio di interventi di vario tipo succedutisi nel tempo [...] rimane quasi sempre nascosto all’interno dei vari istituti archivistici. Esso emerge, ma solo in parte, all’esterno, a chi, nell’avvicinarsi a questo o quel tipo di documentazione, si sforza di inserire una pista di ricerca .

In questo sistema di ripartizione classificatorio-organizzativa l’ordinamento del materiale più antico, e dunque di quello medievale, è probabilmente di più facile assimilazione, sia perché sembra recepire più frequentemente la pratica conservativa del secolo XIX, sia perché riflette una prassi di potere e un ordinamento burocratico meno complesso. Comunque chi oggi va in archivio per avviare, documentare, completare un progetto di studio deve «ricercare – annotava in una relazione del  marzo  al ministero della Pubblica istruzione Francesco Bonaini – non la materia ma le istituzioni» , deve cioè tenere presente che il materiale archivistico rimane in gran parte sistemato in base alle istituzioni, alle magistrature, agli uffici, alle famiglie che lo hanno prodotto. Giorgio Cencetti, per esempio, che pure può essere incluso fra i sostenitori della necessità di «introdurre negli Archivi una dimensione storica loro propria», insiste parecchio sul «vincolo archivistico» , cioè sull’utilità, per chi fa ricerca, di un ordinamento che rispecchi l’iter di produzione di una documentazione che, diceva Droysen, risponda in termini giuridici, amministrativi e politici a finalità pratico-operative dell’istituzione che l’aveva prodotta .

. L. Febvre, Vivere la storia, p. ; Association des archivistes français, Manuel d’archivistique, IV, capitolo . . Archivi, pp. -. . A. Panella, L’ordinamento storico, pp. -. . Scritti archivistici, passim. . Sommario di Istorica, p. .

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Un metodo comunque, quello storico, non sempre di facile applicazione a causa delle modifiche nei centri di potere che producevano i documenti, ma complicato da attuare anche per la sistemazione dei fondi recuperati dopo l’Unità. Basti pensare al patrimonio documentario delle corporazioni religiose soppresse e alla separazione nel “diplomatico” delle pergamene sciolte. Nell’Archivio di Stato di Firenze, per esempio, si è evitato, per motivi funzionali, di applicare rigidamente il “metodo storico” e si è ripartito il materiale documentario in quattro sezioni. La Guida però non ne segue lo schema. Se fosse stato invece applicato il metodo storico si sarebbe potuto cogliere, nella disposizione e collocazione stessa del materiale documentario, il processo evolutivo delle strutture dello Stato fiorentino e poi toscano «dalla istituzione del principato mediceo alla fine di quello lorenese, e in alcuni casi del tempo della repubblica». Ragioni di opportunità «hanno invece imposto di adottare il criterio della periodizzazione che ha comportato la necessità di dividere sulla carta gli archivi dei vari periodi» . Nell’Archivio di Stato di Palermo, pur essendo il materiale ordinato «nel rispetto del metodo storico», non sempre la collocazione dei documenti «è riferibile con certezza a una data magistratura o a un dato ufficio, o a una determinata categoria di scritture, dato che i cambiamenti di regime portarono a volte al cambiamento di denominazione dell’ufficio, che tuttavia manteneva le sue competenze e le ampliava, conservando anche quelle del periodo precedente, e ovviamente ereditandone le carte» . La collocazione del materiale documentario dell’Archivio di Stato di Palermo riflette in sostanza la struttura della monarchia, e il nucleo fondamentale è rappresentato dai fondi della reale cancelleria, del protonotaro, dei maggiori uffici finanziari che facevano capo al tribunale del real patrimonio. Prima di entrare in un archivio è opportuno quindi che si abbiano informazioni di massima su quella data sede: informazioni che, per ogni archivio, si possono ricavare dalla Guida generale più volte ricordata, ma anche dalle piccole e sintetiche Guide pubblicate, in elegante veste tipografica, nella collana “Itinerari archivistici italiani”. È comunque utile – considerate le inevitabili differenze fra quanto scritto dalla Guida, ordinamento pratico di ciascun archivio e contenuto delle carte, non sempre rispondente alle voci grazie alle quali sono inserite in una sezione piuttosto che in un’altra – tenere presente quel che Franco Venturi scriveva in un passo del Settecento riformatore: gli archivi «sono affidati alle mani di persone di gran buona volontà, le quali sanno, quasi sempre, spingere la cortesia e la competenza loro fino al punto di creare attorno agli studio. Guida generale, vol. II, pp. -. . Ivi, vol. III, pp. -.

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si un’atmosfera di eccezione che permette di superare gli ostacoli e di lavorare fruttuosamente» . A parte la Guida generale in cui sono elencati, in ordine alfabetico delle sedi provinciali e con ampio quadro analitico del materiale contenuto, tutti gli Archivi di Stato italiani, cfr., su questo argomento: A. Bartoli Langeli, La documentazione degli stati italiani nei secoli XIII-XV; P. Carucci, Versamenti e ordinamenti degli archivi; Id., Le fonti archivistiche; L. Cassese, Del metodo storico; P. D’Angiolini, La consultabilità dei documenti; G. Giannelli, L’interesse storico degli archivi; L. Sandri, Gli Archivi di Stato; V. Sella, La storiografia e l’archivistica; V. Tirelli, Tendenze storiografiche medievistiche.

. Archivi privati, archivi ecclesiastici, archivi di enti locali Accanto a quelli di Stato sono presenti, sul territorio nazionale, vari altri archivi, fra i quali, per lo studio del Medioevo, vanno almeno ricordati i privati e gli ecclesiastici. Il fondo documentario più consistente degli archivi privati è costituito dagli atti notarili e dai “tabulari” familiari, fondi documentari, però, che da tempo sono stati ormai trasferiti negli Archivi di Stato . Sui registri notarili e sui notai si veda comunque quanto già detto nelle pagine precedenti. Per quel che invece si riferisce agli archivi familiari di epoca medievale, va subito detto che pochissimi sono riusciti, e non solo attraverso una ininterrotta continuità genealogica, a sopravvivere fino ai nostri giorni. Considerato infatti il nesso strettissimo fra documenti e vicende dei beni ai quali essi erano funzionali, gran parte di questo patrimonio documentario, fin dai secoli XIV-XV, cominciò a confluire negli archivi di chiese e di monasteri, destinatari spesso, e per i motivi più vari, di quei beni. E valga per tutti l’esempio dei documenti relativi alla famiglia Zusto di Venezia, pervenuti grazie ai nessi strettissimi tra questa famiglia e una chiesa . Archivi di famiglie aristocratiche e gentilizie di età medievale sono comunque presenti in ogni parte d’Italia, e taluni in possesso di casate diverse alle quali sono pervenute attraverso alleanze matrimoniali. Si tratta di archivi particolarmente importanti perché costituiti, in genere, di materiale documentario, in pergamena e in carta, relativo soprattutto alla gestione dei patrimonio fondiario ed edilizio. Gli archivi di alcune famiglie nobili romane hanno permesso, per esem-

. Specie nelle pp. XVII-XVIII. . Pochi registri di notai si trovano ormai in biblioteche di famiglie nobili, di enti ecclesiastici e di comuni. . L. Lanfranchi, Famiglia Zusto, p. VII.

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pio, di integrare le «notizie ricavabili dai ricostruiti registri angioini» . Molti altri consentono quelle ricostruzioni genealogiche i cui dettagli – anche attraverso le linee femminili – permettono di identificare l’identità dei gruppi e le costanti o meno delle composizioni dei ceti dirigenti. Sugli archivi privati – per alcuni di essi sono disponibili dettagliati inventari  – sono utili i seguenti lavori: M. Cantucci, Sulla tutela giuridica degli archivi privati; R. Filangieri, Gli archivi privati; A. Papa, Archivi privati; G. Pesini et al., Archivi di famiglie; R. Ridolfi, Gli archivi delle famiglie fiorentine; A. Saladino, Gli archivi privati. Fra gli archivi di enti locali e associazioni culturali  che possono essere utili agli studi di storia medievale sono soprattutto da ricordare quelli comunali, molti dei quali però hanno già versato la documentazione più antica agli Archivi di Stato. Manca comunque un repertorio generale di questi archivi; esistono però taluni censimenti regionali, fra i quali – a parte A. Petrucci, Medioevo da leggere, in cui, specie nelle pp. -, si trovano varie indicazioni pure sugli archivi comunali – si segnalano: A. Casetti, Guida storico-archivistica del Trentino; V. Cavalcoli Andreoni, Gli archivi storici dei comuni delle Marche; R. Comba et al., Archivi storici comunali. Un’indagine nel comprensorio di Cuneo; E. Insabato, S. Pieri, Gli archivi comunali della provincia di Pistoia; E. Lodolini, Gli archivi storici dei comuni delle Marche; G. Prunai, Gli archivi storici dei comuni della Toscana. Si desidera infine ricordare gli Acta curie felicis urbis Panormi, cioè la “Collana di atti medievali della città di Palermo”, i cui volumi contengono l’integrale trascrizione dei registri che si conservano nel locale Archivio storico del Comune: i volumi finora pubblicati sono .

Un altro punto di riferimento fondamentale per la ricerca di materiale documentario per il Medioevo è costituito dagli archivi ecclesiastici, nei cui fondi – siano essi già versati negli Archivi di Stato o ancora in possesso dei vari enti religiosi – si trova la maggior parte dei documenti medievali almeno fino al secolo XII. Tanto per fare un solo esempio, le carte del Comune rurale di Origgio provengono dal monastero di Sant’Ambrogio di Milano e si trovano nel Fondo di Religione dell’Archivio di Stato di Milano , con carte che sono in gran parte anche del secolo XIII. Infatti, pure per i secoli del tardo Medioevo è necessario fare ricorso agli archivi ecclesiastici, nei quali è contenuta la documentazione prodotta dai singoli organi della Chiesa secolare e di quella monastica, cioè dalle sedi metropolitane, arcivescovili e vescovili che erano a capo delle singole diocesi; dai capitoli delle cattedrali; dalle parrocchie e, per quel che

. S. Carocci, Baroni di Roma, p. . . Come quello, per esempio, di J. Mazzoleni, Archivio Caracciolo di Santo Bono. . Fra gli archivi di associazioni culturali si segnalano soprattutto quelli delle società e deputazioni di storia patria. . Per le quali cfr. R. Romeo, Il comune rurale di Origgio.

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si riferisce alla Chiesa monastica, dai vari monasteri e case religiose e dalle confraternite e opere pie. Manca purtroppo una guida che offra un panorama completo della localizzazione, dei contenuti e della funzionalità degli archivi ecclesiastici. Un orientamento di massima si può ricavare dalla Guida degli archivi diocesani d’Italia pubblicata a cura di V. Monachino e altri per conto del ministero dei Beni culturali, nella quale però sono registrate notizie relative a sole  diocesi. Cfr. pure G. Badini, Archivi e chiesa; F. Lanzoni, Le diocesi d’Italia; E. Schwartz, Die Besetzung, e, per quel che si riferisce alla Calabria, R. Bevacqua, Un grido di allarme e di speranza. Negli archivi diocesani – arcivescovili e vescovili – alle cui sedi facevano capo le province ecclesiastiche si trovano in genere documenti che riguardano il governo delle singole sedi per quel che si riferiva al temporale e allo spirituale. Sono quindi assai utili non solo per conoscere la consistenza dei beni delle diocesi – nei registri venivano elencati persino gli arredi degli attigui giardini –, ma soprattutto per ricostruire la vita quotidiana dei fedeli, le controversie matrimoniali, le scomuniche somministrate, le condanne per eresie, le indulgenze concesse, i miracoli accaduti e così via. In attesa di una guida delle diocesi, alla cui redazione da tempo lavora l’Associazione archivistica ecclesiastica di Roma, che pubblica periodicamente un “Notiziario”, si indicano i seguenti lavori: C. C. Calzolari, L’archivio arcivescovile fiorentino; G. Cantoni, S. Fineschi, L’archivio arcivescovile di Siena; L. Carratori, Saggio d’inventario della Mensa arcivescovile di Pisa; G. Galasso, C. Russo, L’archivio storico diocesano di Napoli; M. Luzzati, Per l’inventario dell’archivio arcivescovile di Pisa; G. Raspini, L’archivio vescovile di Fiesole; D. Taranto, La diocesi di Mazara. Il saggio di Carratori si riferisce all’archivio che riguardava la “mensa”, vale a dire il patrimonio dell’arcivescovo, che era diverso dal patrimonio del capitolo. Con “mensa” si intendeva infatti l’insieme delle rendite destinate al mantenimento degli ordinari diocesani, cioè della curia della diocesi. Luzzati, nell’articolo or ora citato sull’archivio arcivescovile di Pisa, scrive, a p. , che non è sempre facile distinguere fra archivio della curia e archivio della mensa. Negli Archivi capitolari, cioè negli archivi dei collegi canonici delle cattedrali, si trovano invece documenti che si riferivano sia all’amministrazione dei beni del capitolo, sia alle sue funzioni, fra le quali, specie tra la fine del secolo XI e l’inizio del successivo, va pure inclusa quella di eleggere il vescovo. Cfr. comunque i due volumi miscellanei su La vita comune del clero e C. D. Fonseca, Monaci e canonici. Per quel che si riferisce agli archivi di pievi e parrocchie, va subito precisato che la pieve, da plebs (popolo), costituiva, nell’Alto Medioevo e nell’ordinamento dell’Italia settentrionale, la più piccola circoscrizione ecclesiastica a cui facevano capo i fedeli. Si trattava comunque di un numero assai ristretto di sedi, dotate ognuna di ampio territorio e di varie cappelle alla propria dipendenza. La crescita demografica evidenziava però la loro insufficienza numerica e l’impossibilità di rispondere adeguatamente alle esigenze del culto e specie del battesimo. Dopo il Mille diveniva necessario estendere la facoltà di battezzare

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alle piccole chiese sparse nel territorio. Le quali, affidate a un sacerdote, incominciarono a dar vita a quella fitta rete di parrocchie che costituiscono ancora oggi la più piccola circoscrizione territoriale di una diocesi. Le fonti più frequenti che si trovano negli archivi delle parrocchie sono i registri di matrimoni e di battesimo, che non riguardano però il Medioevo, perché i più antichi risalgono al secolo XVI. Non mancano comunque documenti relativi al Medioevo, per i quali si rimanda ai due volumi Pievi e parrocchie, nei quali, dopo un ampio discorso generale, le singole sedi vengono elencate per regioni. Per gli utili suggerimenti sull’importanza e l’articolazione delle parrocchie è da leggere J. Coste, L’institution paroissiale, e C. Violante, Le contraddizioni della storia (pp. - e nota ). Per alcune sedi particolari cfr. F. De Vitt, Pievi e parrocchie della Carnia, e L. Nanni, La parrocchia studiata nei documenti lucchesi. Parecchi sono gli archivi degli ordini monastici, per i quali esiste un’ampia bibliografia. Numerose sono le edizioni di documenti conservati nei vari monasteri, per la cui individuazione esistono repertori e strumenti bibliografici, di alcuni dei quali si daranno indicazioni nel capitolo successivo. Ci si limita qui a segnalare P. Danella (a cura di), I codici greci conservati nell’Archivio di Montecassino; M. L. Gangemi (a cura di), Tabulario del monastero di San Benedetto di Catania; G. Mongelli (a cura di), Regesto delle pergamene dell’abbazia di Montevergine. Non è il caso, né il luogo, per elencare anche gli archivi stranieri, ricchi, come gli italiani, di consistenti patrimoni documentari. Se ne indicano comunque due, i cui fondi rispondono in gran parte alle esigenze di quanti studiano la storia che ha come centro di interessi il Mediterraneo e come oggetto principale di indagine i rapporti fra mondo occidentale, aree bizantine e spazi musulmani: l’Archivio della corona d’Aragona, con sede a Barcellona, nel quale fra l’altro si trovano gli oltre . registri della cancelleria, i cui  milioni di documenti riguardano appunto le vicende politiche, economiche e sociali di tutti i paesi dell’area mediterranea ; l’Archivio della Geniza, che era un ripostiglio della vecchia sinagoga di al-Fustat (antico Cairo) e nel quale si conservano, fra l’altro, numerose lettere di mercanti che testimoniano, fra il secolo X e il  circa, regolari rapporti tra Africa del Nord e diversi empori mediterranei .

. Archivio segreto vaticano Più significativo, sia per la collocazione geografica, sia per la massa documentaria, sia per i nessi strettissimi con le vicende della penisola italiana, l’Archivio segreto vaticano. Le notizie più antiche risalgono al IV secolo. A causa delle molte vicissitudini e dei vari trasferimenti della se. M. C. Rugolo, S. Tramontana, Conversazione a Barcellona. . Per la presenza di molti di questi documenti in biblioteche e archivi d’Europa e degli Stati Uniti cfr. S. Stern, Un circolo di poeti, pp. - e U. Rizzitano, Ruggero il Gran Conte, p. .

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de pontificia, si deve registrare la quasi totale perdita dei documenti anteriori al secolo XI. Durante il pontificato di Innocenzo III cominciava a prendere corpo, con la ristrutturazione della cancelleria, una regolare registrazione e conservazione della documentazione pontificia, ma solo nella seconda metà del secolo XV si progettava il recupero della documentazione precedente, in gran parte dispersa. Con Paolo V l’archivio centrale della sede apostolica acquisiva specificità e funzionalità proprie in seguito alla diversificazione operativa fra compiti della biblioteca e compiti appunto dell’archivio. Anche in epoca moderna l’Archivio segreto continuò a essere caratterizzato da vicissitudini varie e da perdita di documenti. Basti ricordare l’imposizione di Napoleone di trasferire a Parigi, in tremila casse, vari fondi, e il successivo rientro nella sede romana durante la Restaurazione. Rientro avventuroso, nelle cui fasi di trasporto e collocazione andarono perduti non pochi documenti e distrutti i fondi dell’Inquisizione perché ritenuti «ormai inutili». Nel  Leone XIII decideva di aprire l’Archivio segreto agli studiosi e nel  riservava una sala apposita alla consultazione. Prima di quella data la “segretezza” dell’Archivio era rigorosa, e non sono pochi i casi di dure condanne inferte ai trasgressori. Fra i tanti, l’archivista Michele Lunigo d’Este, incarcerato perché aveva permesso ad alcuni studiosi di leggere documenti nell’Archivio conservati. Divieti e condanne che non erano però solo dell’Archivio vaticano: tutti gli archivi, fino al secolo XVIII, rimasero “segreti”, perché conservavano e gestivano carte funzionali non solo alle esigenze della politica estera e di quella interna, ma soprattutto alla rappresentazione dell’immagine del potere. Ne è fra l’altro testimonianza un ordine col quale, da Teruel, il  maggio , Alfonso IV, sovrano d’Aragona, intimava al governatore di Sardegna di impedire, a chiunque, l’accesso all’archivio del castello di Cagliari . Alcuni fondi del resto, anche dopo l’abolizione della segretezza, conservano ancora la denominazione di secreta: basti ricordare i secreta della cancelleria ducale veneta e l’Archivio segreto estense della sezione Casa e Stato dell’Archivio di Stato di Modena. L’odierna legislazione prevede del resto che i documenti degli Archivi di Stato siano «liberamente consultabili, con eccezione di quelli riservati per motivi di politica interna ed estera, e che diventano consultabili  anni dopo la loro data». La documentazione conservata nell’Archivio vaticano, che solo in minima parte riguarda l’età medievale , è costituita da testimonianze che,

. F. Gemini (a cura di), Agenda , fig. a. . Si tratta comunque sempre di una massa imponente di centinaia di migliaia di documenti.

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a partire dall’inizio del secolo XIII, si riferiscono sia all’attività amministrativa della sede pontifica, sia alle questioni giurisdizionali e finanziarie della Chiesa romana in quanto soggetto operativo sul piano politico-amministrativo e su quello liturgico e religioso. A parte il Liber censuum Romanae Ecclesiae – cartulario sulle entrate e sulla finanza programmato e impostato dal camerario Cencio Savelli  –, la documentazione dell’Archivio vaticano va ripartita fra registri della cancelleria, costituiti da documenti emessi dalla curia, e registri della camera apostolica, relativi all’amministrazione finanziaria. Ai fini di una consultazione pratica è anche opportuno tenere presente una ripartizione connessa alle vicende della Chiesa romana e alle diverse sedi in cui, trasferitosi il pontefice, operavano gli organi burocratici. In tal senso vanno segnalati i Registra vaticana, cioè i . volumi costituiti dai documenti redatti dal  alla seconda metà del secolo XVI; i Registra avenionensia, vale a dire i  volumi dei documenti compilati dal  al ; i Registra lateranensia, cioè i . volumi dei documenti stesi dal  al  e conservati nel Palazzo Laterano. Ad essi sono da aggiungere le Collectoriae, cioè i  registri relativi, per il -, alla contabilità della camera apostolica; le Obligationes et solutiones, costituite da  registri che contengono, per il -, documenti che riguardano impegni finanziari vari assunti con la sede romana dalle chiese e dagli ordinamenti ecclesiastici periferici; i Registra supplicationum, che sono i . volumi costituiti da suppliche e domande di grazia presentate ai pontefici fra il  e il ; i registri di introitus et exitus, nei cui  volumi sono elencate, per il -, le entrate e le spese per il funzionamento della cancelleria. Vanno infine ricordati i registri della Penitenzieria, nei quali sono trascritte le penitenze concesse per i peccati di laici e di ecclesiastici. Non è certo facile orientarsi in questa sterminata massa documentaria . Una prima chiara e sintetica informazione si può ricavare dal paragrafo Le scritture della Chiesa: la sede apostolica (pp. -) del volume di P. Cammarosano Italia medievale. Importanti, per il -, la Bibliografia dell’Archivio vaticano e i Sussidi per la consultazione dell’Archivio vaticano a cura di G. Gesualdo. Fondamentale rimane però K. A. Fink, Das Vatikanische Archiv, che è un’introduzione ai fondi dell’archivio e alla loro esplorazione. Vanno comunque consultati ancora: L. E. Boyle, A Survey of the Vatican Archives; G. Brom, Guide aux Archives du Va-

. Divenuto poi papa col nome di Onorio III. Il Liber si legge nell’edizione di L. Duchesne. Cfr. pure Th. Montecchi Palazzi, Cencius camerarius, pp. -. . Parecchi documenti sono pubblicati in varie edizioni: per la loro individuazione si dispone di repertori, di alcuni dei quali verranno date indicazioni nel capitolo seguente.

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tican; H. Diener, Die grossen Registerserien im Vatikanischen Archiv; Th. Frenz, Papsturkunden des Mittelalters; E. Göller, Die Einnahmen der Apostolischen Kammer; W. E. Lunt, Papal Revenues in the Middle Ages. Alle fonti dell’Archivio segreto vaticano veniva dedicato, dal  al  settembre , un seminario organizzato a San Miniato dal Centro di studi sulla civiltà del Tardo Medioevo .

. Repertori generali Negli archivi e nelle biblioteche è dunque conservato un patrimonio documentario manoscritto la cui importanza per gli studi di storia medievale era già stata messa in evidenza nell’Iter e Museum italicum da Mabillon , nel Diarium Italicum da Montfaucon  e, naturalmente, da Muratori. Il quale sollecitava la pubblicazione per uso pubblico di cronache, annali, storie, diari, necrologi, diplomi, bolle, atti, strumenti «ed altre somiglianti memorie originali de’ secoli inferiori, che in molta abbondanza [...] si trovano negli Archivi pubblici e privati d’Italia». Testimonianze la cui pubblicazione, egli precisava, «recherebbe un incredibile lume e giovamento alla storia» . E infatti, grazie a un impegno mai venuto meno e che affonda appunto le radici nell’erudizione dei secoli XVII e XVIII, gran parte delle fonti medievali è pubblicata e inclusa in “collezioni” che offrono allo studioso la possibilità di accedere ai loro testi senza essere costretti a consultare gli originali sparsi nei diversi archivi e nelle varie biblioteche. Si tratta di centinaia, anzi di migliaia di volumi per la cui utilizzazione esistono preziosi strumenti che facilitano la loro individuazione, forniscono essenziali informazioni sui loro contenuti, offrono la possibilità di conoscere le fonti già pubblicate, il luogo e il tipo di edizione. Strumenti detti comunemente “repertori” dal verbo latino reperire che significa appunto trovare, individuare, recuperare. Repertori che sono in fondo testi la cui impostazione, al di là di specifici dettagli suggeriti dalle esigenze peculiari di ciascuna disciplina, risponde alla necessità di fornire notizie e indicazioni sistemate in modo tale da permettere una rapida individuazione di quel che si cerca. Abbastanza noto, per il periodo greco e romano, è, per esempio, il repertorio di A. Schaefer, Abriss der Quellenkunde, quello curato, in va-

. Cfr. il resoconto di Stefania Tamburini. . Nelle pp. -. . Opera comunque non ben accetta negli ambienti romani a causa di non poche polemiche: F. Ficoroni, Osservazioni, pp. -. . In “Giornale de’ Letterati”, , XI, art. , pp. -.

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ri volumi, da I. Müller, Handbuch der Klassischen Altertumswissenschaft, e il repertorio a cura di W. Buchwald, A. Hohlweg, O. Prinz, Tuskulum, che è un lessico sia di autori greci e latini che di autori medievali. A tal proposito è opportuno un accenno alla realizzazione del grande repertorio di Birger Munk Olsen sui classici latini nel Medioevo: L’étude des auteurs classiques latins. Per il periodo medievale, per il quale i repertori sono attenti più alle edizioni di testi narrativi che a quelle di fonti documentarie, va subito annotato che alcuni hanno valenza generale, si riferiscono cioè a fonti relative a gran parte dei paesi occidentali, altri sono invece parziali, limitati, in prevalenza, a spazi geopolitici più ristretti. Fra i primi si ricordano: J. M. Bak, Mittelalterliche Geschichtsquellen in chronologischer Übersicht, che è appunto un elenco cronologico di fonti ripartite per spazi geografici e di ognuna delle quali sono indicate le varie edizioni; G. Dicke, K. Grubmüller, Die Fabeln des Mittelalters und der frühen Neuzeit, che è un prezioso corpus in cui sono elencate (in  schede in ordine alfabetico) le raccolte di fonti favolistiche mediolatine. Di ognuna è precisata la tradizione manoscritta, steso un breve riassunto, elencate le versioni latine e tedesche posteriori al  e le eventuali stesure in altre lingue volgari; Enzyklopädie des Märchens (ancora in corso di stampa), che è un dizionario della narrativa mondiale; A. Potthast, Bibliotheca historica Medii Aevii. Il Potthast, come comunemente viene indicato, è senz’altro da considerare il più completo e più prezioso strumento di lavoro per lo studio del Medioevo. Sulla sua genesi e sulle sue peculiarità ha scritto, fra gli altri, Claudio Leonardi, Il «repertorio delle fonti storiche del Medioevo». L’opera, in due volumi, è divisa in tre parti. Nella prima si trovano due elenchi delle più importanti collezioni di fonti che si riferiscono alla storia generale d’Europa; nella seconda vi è l’elenco alfabetico delle fonti edite in tutto o in parte secondo il cognome dell’autore, o, mancando questo, secondo il nome proprio, o, in assenza del nome e del cognome, secondo il titolo dell’opera. Accanto a ogni voce si trova un’essenziale notizia sulla vita dell’autore, sui limiti cronologici dell’opera, sui codici di essa e sulle rispettive segnature delle biblioteche e archivi in cui ciascuna si trova, sulle varie edizioni. Segue una breve bibliografia e a volte un giudizio sull’importanza o meno della fonte e sul rigore dell’edizione. Nella terza parte si trova l’elenco dei testi agiografici disposti secondo l’ordine alfabetico dei nomi dei santi. L’opera, ancora assai utile, è purtroppo inadeguata a tutte le esigenze della ricerca perché registra, ovviamente, edizioni e studi anteriori al , cioè all’anno della seconda edizione. Per fare fronte a questi limiti nel  l’Istituto storico italiano per il Medioevo avviava – in collabora

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zione con altri enti culturali, fra i quali gli Istituti di archeologia, storia e storia dell’arte di Roma – una rielaborazione del Potthast che non si limitasse al solo aggiornamento, ma che incidesse radicalmente sulla sua impostazione. Nasceva così il Repertorium fontium historiae Medii Aevi. Il primo volume  – pubblicato nel  col titolo Series collectionum, pp. XVIII- – contiene l’elenco alfabetico delle collane in cui sono edite le fonti storiche medievali europee e un’informazione analitica del contenuto dei singoli volumi. Raccoglie in un quadro d’insieme la documentazione dell’erudizione dal  al secolo XX nel campo delle fonti narrative della storia medievale. Negli altri sette volumi finora pubblicati  sono elencati in ordine alfabetico le singole fonti, selezionate però con criteri più ampi di quelli del Potthast e in consonanza col mutato concetto di testimonianza narrativa: vi sono infatti inclusi anche testi che, pur non essendo specificamente cronachistici, con essi hanno non poche convergenze: trattati dottrinari, raccolte poetiche, epistolae, atti di concili e così via. . Repertori locali Per quel che invece si riferisce a repertori limitati ad ambiti geopolitici più ristretti, si segnalano i seguenti. Per la Spagna: R. Ballester y Castell, Las fuentes narrativas de la historia de España e M. C. Díaz y Díaz, Index scriptorum latinorum medii aevi hispanorum. Per la Francia: a parte gli studi pubblicati sotto la direzione di Leopold Génicot (Typologie des sources de Moyen Age), che permettono di individuare le diverse categorie di documenti, cfr. il sempre valido A. Molinier, Les sources de l’histoire de France e il Dictionnaire des lettres françaises, curato da H. Hasenhor e M. Zink. Per la Germania: assai utili e particolarmente pratici i tre volumi, dedicati appunto alle fonti della storia germanica nel Medioevo, da K. Jacob, H. Hohenleutner, F. Weden, Quellenkunde der deutschen Geschichte. Vanno poi ricordati i due volumi di H. Oesterley, Wegweiser durch die Literatur der Urkundensammlungen, pubblicati nel -, e quello, sempre del secolo XIX, sulle fonti tedesche del tardo Medioevo di O. Lorenz, Deutschlands Geschichtsquellen, e i tre volumi, dedicati ai testi di letteratura latina medievale, di M. Manitius, Geschichte der lateinischen Literatur des Mittelalters. Ancora ai testi di letteratura . Completa questo volume il fascicolo Additamenta, pubblicato nel  per aggiornare la bibliografia in continua espansione. . II, A-B, , pp. XIV-; III, C, , pp. XIX-; IV, D-E-F-Gez, , pp. XIX; V, Gh-H, , pp. XIX-; VI, I-J-K, , pp. XIX-; VII, L-M, , pp. XIX-. Dal vol. VIII l’opera è uscita in fascicoli, e l’ultimo di ciascun volume è corredato della copertina da utilizzare per la rilegatura.

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latina medievale in Germania è dedicato il repertorio curato, in cinque volumi, da K. Langosch, Die deutsche Literatur des Mittelalters, del quale esiste una nuova edizione a cura di K. Ruh, ancora però non ultimata. Vanno infine ricordati i due volumi di W. Wattenbach, Deutschlands Geschichtsquellen im Mittelalter, pubblicati nel -, ma dei quali va consultata l’edizione curata e rielaborata da V. Levison nel  e aggiornata nel - da Heinz Löwe in quattro fascicoli dedicati all’epoca precedente il trattato di Verdun () che sanzionava la spartizione dell’impero carolingio. Il quinto e sesto fascicolo, curati entrambi da Löwe e pubblicati rispettivamente nel  e nel , si riferiscono alle fonti relative al periodo compreso fra il trattato di Verdun e l’inizio del regno di casa Sassonia (). Va poi notato che, a causa dei continui e stretti intrecci, in quegli anni, fra Germania e Italia, nelle pp. - del sesto fascicolo si trovano numerosi riferimenti alle fonti relative appunto alle vicende della penisola italiana: valga per tutti il riferimento, nella nota  di p. , all’Ordo casinensis I dictus ordo regularis, collegato al soggiorno, in Cassino, di Sturmi, monaco di Fulda. Per l’Inghilterra vanno ricordati J. H. Baxter, C. Johnson, J. F. Willard, An Index of British and Irish Latin Writers; J. J. Bayley, Historical Interpretation Sources; M. T. Clanchy, From Memory to Written Record; A. Gransden, Historical Writing in England. Per l’Italia mancano repertori di fonti per l’età medievale. Ne esistono invece per spazi geopolitici più ristretti. A parte le note d’orientamento sulle Cronache medievali di Sicilia pubblicate da Gina Fasoli nel  e il terzo capitolo – pp. - – di F. Natale, Avviamento, è da ricordare il Repertorio della cronachistica emiliano-romagnola, a cura di B. Andreolli e altri, un testo il cui contenuto è sistemato con criterio topografico-cronologico e non alfabetico. Le  schede che compongono il volume sono intitolate col nome del cronista, e quando il nome non è conosciuto col titolo della cronaca. In ciascuna scheda sono pure indicati, accanto alla fortuna della cronaca, il profilo sintetico dell’opera, le varie edizioni, la bibliografia. I repertori elencati registrano in gran parte fonti comunemente dette narrative. Si dispone però anche di repertori relativi a fonti documentarie edite, e fra questi, sulla base della ormai classica ripartizione dei “Monumenta” in fonti narrative, diplomatiche e legislative, se ne elencano alcuni.

. Repertori di documenti del Sacro romano impero Nel contesto di sistematiche ricerche condotte negli archivi e nelle biblioteche d’Europa, Johann Friedrich Böhmer – convinto della maggiore utilità di inventari e “regesti” più che di integrali trascrizioni  – avviava la pubblicazione dei Regesta imperii, un’opera in cui sono raccolti

. J. F. Böhmer, Un coup d’œil, p. .

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i documenti dei re e degli imperatori franchi e germanici, di ognuno dei quali viene dato, in lingua tedesca, un regesto corredato di brevi notizie storiche e di indicazioni bibliografiche che permettono di rintracciare senza difficoltà il testo integrale. I regesti, contrassegnati da numero progressivo, sono disposti cronologicamente all’interno del regno di ciascun sovrano. L’opera, pubblicata a Francoforte nel  come Regesta cronologico-diplomatica, veniva ristampata col titolo Regesta imperii in varie edizioni. La più completa è quella in due volumi, curata da più autori e pubblicata a Innsbruck nel -. Le accresciute conoscenze e le più raffinate metodologie che, nel secolo XX, hanno in parte reso inadeguata anche l’edizione del - hanno suggerito radicali revisioni e integrazioni dell’opera di Böhmer, disponibile oggi in vari volumi via via pubblicati e il cui stato di avanzamento, fino al , è illustrato da R. Ch. van Caenegem e F. L. Ganshof, Kurze Quellenkunde des Westeuropäischen Mittelalters. Per gli anni successivi si indicano i volumi sui sovrani di casa Sassonia curati da H. Kaminsky (), da H. Zimmermann () e da Th. Graff (); su Enrico VI da H. M. Schaller (); ancora sui sovrani carolingi, con particolare riguardo ai documenti relativi all’Italia, da H. Zielinski ( e ). Vanno ancora ricordati, oltre ai Regesta curati da M. Menzel (), quelli relativi a Massimiliano I a cura di H. Wiesflecker (). Ancora utili i volumi di K. F. Stumpf Brentano, Acta imperii, e di E. Winkelmann, Acta imperii inedita.

. Repertori di documenti delle monarchie d’Europa Per la Francia vanno ricordati Les sources di A. Molinier, in cui sono elencate, in ordine alfabetico, le più importanti fonti edite, e soprattutto i due repertori di U. Chevalier dedicati alle fonti e alla bibliografia che riguardano rispettivamente personaggi e luoghi di Francia; due repertori senz’altro invecchiati ma ancora utili. Come utili rimangono, per i documenti redatti dalle cancellerie di Roberto II, di Enrico I e di Filippo II Augusto, i Catalogues di M. Newman, di F. Soehnée e di L. Delisle. Per l’Italia manca un vero e proprio repertorio di fonti documentarie. Gli “atti” dei re longobardi, integralmente trascritti da Luigi Schiaparelli, costituiscono i due volumi del Codice diplomatico longobardo, ai quali, nel , nel , nel  e nel  si sono aggiunti quelli curati da C. Brühl, Th. Kölzer, H. Zielinski. Per l’Inghilterra vanno ricordati i Regesta regum anglo-normannorum in tre volumi curati da H. W. C. Davis, H. A. Cronne, C. Johnson, e la bibliografia di P. H. Sawyer, Anglo-Saxon Charters. Per orientarsi 

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sui censimenti di fonti documentarie edite d’Inghilterra cfr. comunque E. L. C. Mullins, Texts and Calendars. Vanno infine ricordati i Regesta dei documenti del regno di Gerusalemme a cura di R. Röhricht pubblicati nel  e corredati, nel , da un supplemento; i Regesta dei documenti dell’impero d’Oriente a cura di F. Dölger, in cinque volumi. . Repertori di documenti del potere pontificio Fondamentali per il reperimento immediato dei documenti papali dalle origini al  sono le regestazioni di Philipp Jaffé, Regesta pontificum romanorum, dalle origini al , e quello di August Potthast, Regesta pontificum romanorum, dal  al . Si tratta di due opere, ciascuna in due volumi, in cui gli atti e le lettere papali, riportati in regesti numerati progressivamente con cifre arabe, sono disposti in ordine cronologico del pontificato a cui si riferiscono. Ogni regesto è corredato di brevi notizie biografiche del pontefice di riferimento e di indicazioni bibliografiche le cui abbreviazioni si possono completare con l’Indice dei libri consultati che si trova al principio di ciascuna opera. Vengono differenziati con segni particolari i regesti dei documenti spuri e quelli dello pseudo-Isidoro. Il secondo volume di ciascuna delle due opere è completato da «Addenda et corrigenda» e da un supplemento e si conclude con un Index initiorum parecchio utile specie per individuare i regesti dei documenti di cui si ignora la data e il papa di riferimento, ma si conosce l’incipit. L’opera di Jaffé, pubblicata per la prima volta nel , va ora citata nell’edizione del - curata da S. Loewenfeld, F. Kaltenbrunner, P. Ewald; di quella di Potthast esiste una ristampa pubblicata a Graz nel . Al principio del secolo XX l’Accademia delle scienze di Gottinga progettava un censimento sul piano europeo di tutti i documenti pontifici a stampa e manoscritti conservati nei vari archivi e biblioteche. I recuperi più consistenti si sono avuti in Italia e in Germania. I risultati relativi all’Italia si possono leggere nei Regesta pontificum romanorum. Italia pontificia, la cui pubblicazione, avviata da Paul Fridolin Kehr e proseguita sotto la direzione di W. Holtzmann, è costituita di  volumi in  tomi ripartiti per province ecclesiastiche. I regesti dei documenti si riferiscono alle vicende dei pontefici fino al , sono ordinati topograficamente e seguono, all’interno di ogni provincia ecclesiastica, l’impostazione dei singoli archivi di monasteri, canoniche, chiese in cui sono stati trovati. Di ogni regesto si danno succinte notizie, brevi indicazioni bibliografiche e si precisa se trattasi di documento inedito o già pubblicato. 

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Va segnalato il lavoro di R. Hiestand sugli incipit e i destinatari dei regesti elencati nell’Italia pontificia, Initien und Empfängerverzeichnis zu Italia pontificia, e ricordati i quattro volumi di A. Brackmann, i tre di Th. Schieffer sulla Germania pontificia e i due dello stesso Kehr sull’Hispania pontificia. Per la Francia cfr. W. Wierderhold, Papsturkunden in Frankreich, che offre i risultati delle ricerche «per la Gallia pontificia»; per l’Inghilterra si segnala invece W. Holtzmann, Papsturkunden in England, in tre volumi. Un quadro orientativo su tali studi e sugli stadi di avanzamento delle singole ricerche si può avere dagli indici degli incipit e dalle notizie archivistiche dei lavori preparatori per i Regesta pontificum romanorum di R. Hiestand, Initienverzeichnis und chronologischen Verzeichnis. Per i pontefici successivi al , anno col quale si chiudono i Regesta di Potthast, mancano repertori complessivi. Franco Bartoloni aveva proposto, nel , un Censimento dei documenti pontifici da Innocenzo II a Martino V escluso, lavoro che però non venne concretizzato anche a causa dell’improvvisa morte del promotore. Si possono comunque ricordare il repertorio di documenti di Innocenzo III curato da F. Kempf, quello dei documenti di Onorio III pubblicato da P. Pressutti, i regesti della documentazione dei pontefici di Avignone a cura di G. Mollat.

. Repertori dei documenti di istituzioni ed enti ecclesiastici e di storia del culto Per i vescovi e le sedi episcopali va consultata l’opera di P. B. Gams, Series episcoporum, ma anche C. Eubel, Hierarchia cattolica, e D. Hay, The Church in Italy. Un elenco dei documenti di vari monasteri si trova nel Répertoire topobibliographique des abbayes di L.-H. Cottineau, pubblicato in due volumi nel - e corredato di un supplemento uscito nel  a cura di G. Poras. Più affidabile, ma limitato ai monasteri italiani, è il repertorio pubblicato dal Centro storico benedettino italiano in Roma col titolo Monasticon Italiae e del quale sono ancora stampati il volume relativo a Roma e al Lazio a cura di F. Caraffa e quello su Puglia e Basilicata curato da G. Lunardi, H. Houben, G. Spinelli. In quest’opera i monasteri, elencati secondo l’ordine alfabetico delle rispettive sedi, sono corredati di indicazioni di fonti, di un’essenziale bibliografia e di qualche notizia storica. Vera von Falkenhausen ha messo in evidenza varie dissonanze fra i tre autori . . In una nota in “Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken”, LXVII, , p. .

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Per le sedi ecclesiastiche in Germania va ricordata la Germania sacra, pubblicata in  volumi dal  a cura del Max Planck Institut für Geschichte: degli enti ecclesiastici elencati vengono fornite notizie storiche sulle origini, sulle più importanti attività, sulle fonti. Si segnalano, per i monasteri con sede in Inghilterra, il volume di L. Butler e C. Given-Wilson, Medieval Monasteries; per quelli con sede in Francia la collana “Gallia monastica”, diretta da J. F. Lemarignier. Per quel che invece si riferisce alla storia del culto – a parte l’elenco delle opere agiografiche ricavate in gran parte dagli Acta sanctorum inseriti nella Bibliotheca di Potthast – vanno ricordati i seguenti repertori curati dai bollandisti: A. Poncelet, Bibliotheca hagiografica latina antiquae et mediae aetatis; F. Alkin, Bibliotheca hagiographica graeca; A. Peeters, Bibliotheca hagiographica orientalis; il repertorio Vies de saints a cura dei padri benedettini di Parigi. Repertori tutti nei quali i santi sono elencati in ordine alfabetico e corredati ognuno della data di celebrazione, di qualche notizia biografica, dei testi agiografici di riferimento, cioè con un’impostazione che ricalca in parte quella degli Acta sanctorum curati da Jean Bolland, nei quali i santi sono catalogati in base alla data in cui la Chiesa celebra la rispettiva festa e distribuiti dunque nell’ordine dei mesi dell’anno. Per trovare, per esempio, le notizie relative a sant’Antonio da Padova, ricorrendo la festa del santo il  giugno, bisogna cercarle nel volume di quel mese. Vanno ricordati, infine, a parte l’integrazione della Bibliotheca hagiographica latina pubblicata da H. Fros nel , il Dictionnaire des auteurs cisterciens di E. Brouette e altri; gli Scriptores ordinis Praedicatorum di T. Kaeppeli; Agiografia altomedievale, curata da S. Boesch Gajano; la Bibliotheca sanctorum, curata da F. Caraffa e G. Morelli; la Clavis patrum latinorum, a cura di E. Dekkers ed E. Gaar, che è un repertorio che aiuta a rintracciare i testi inseriti nel “Corpus Christianorum”.

. Repertori dei documenti legislativi e di pratica giuridica Riferimenti specifici alle fonti giuridiche francesi si trovano in G. Gavet, Sources des institutions et du droit français, e in F. Olivier Martin, Histoire du droit français. Per quel che invece si riferisce alla Germania possono essere utili sia il manuale di storia del diritto germanico di H. Mitteis, Deutsche Rechtsgeschichte, sia il volume di storia del diritto di H. Conrad, Deutsche Rechtsgeschichte. Per l’Inghilterra vanno invece consultati W. S. Holdsworth, Sources and Literature of English Law, e P. H. Winfield, The Chief Sources of English Legal History. 

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Per l’Italia – a parte i numerosi riferimenti che si trovano negli studi dedicati alle fonti legislative e di pratica giuridica da Besta, da Leicht, da Calasso – sono importanti, e lo si è già detto, le ricerche sugli statuti, per le quali cfr. M. Ascheri, La pubblicazione degli statuti; C. Chelazzi (a cura di), Catalogo della raccolta di statuti, pubblicato dal Senato della Repubblica; il resoconto del seminario su Repertori territoriali e fonti statutarie tenuto a San Miniato il  e l’ settembre  a cura del Centro di studi sulla civiltà del Tardo Medioevo . Si ricordano infine i seguenti repertori: per gli atti privati relativi alla Toscana M. L. Ceccarelli, Repertorio delle fonti documentarie; per le fonti relative alla storia urbana C. van de Kieft, J. F. Niermeijer, Elenchus fontium historiae urbanae; per le testimonianze sulla tecnica e le scienze conservate nelle biblioteche di Lombardia l’Inventario di J. Agrimi. . Leggere e interpretare il latino delle fonti Gran parte delle fonti di età medievale è redatta in latino, in un latino le cui caratteristiche grammaticali e sintattiche si erano via via allontanate dalla lingua classica e persino da quella del tardo antico, allontanate e armonizzate in una sintesi espressiva indicata da alcuni come latino-barbarica, da molti altri come medio-latino. Una lingua che, specie dal secolo VIII, aveva via via acquisito una sua fisionomia sul piano grammaticale e sintattico e su quello di uno stile creato in parte da diversi bisogni e quindi da nuovi codici culturali e di mentalità, fisionomia che, pur nella persistenza di sostanziale universalità , presentava intrinseca diversificazione non solo col mondo classico, ma con le aree geopolitiche i cui territori erano già stati dell’impero, vale a dire con un modo di parlare e di scrivere che aveva smarrito il nesso strettissimo col conservatorismo letterario e acquisito invece le coloriture delle tradizioni locali. Anche per questo diventa talora difficile interpretare il significato delle parole di tanti testi scritti in aree geografiche d’Europa disomogenee per tradizioni, per cultura, per modelli di vita. A parte le diversità tra Francia, Germania, Spagna, Italia, basti pensare all’Inghilterra e all’Irlanda, prive entrambe di una tradizione linguistica romana e dove il latino era quello giunto coi primi insediamenti cristiani.

. Cfr. il resoconto di Carolina Resta. . Nella scelta di Petrarca per il latino da qualcuno è stato invece visto un «progetto egemonico» e aristocratico di universalità: C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura, p. .

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Non è compito di questo libro insistere sull’argomento ed entrare nei particolari. Sono parecchi gli studiosi incagliati nelle minuzie di tale complesso problema anche in relazione al processo di formazione dello stile letterario che, ancora oggi, costituisce il sostrato delle letterature europee. Ci si limita a ricordare il volume di Erich Auerbach, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, e soprattutto gli atti di un convegno del  su La lexicographie du latin médiéval e dei suoi rapporti con le attuali ricerche sulla civiltà medievale . Anche perché scopo fondamentale del convegno era quello di far dialogare «les lexicographes et les utilisateurs de lexiques» e porre quindi in evidenza il “come leggere” e interpretare il latino medievale e di quali strumenti servirsi. Che è poi il problema, se si vuole usare il titolo di un recente libro, di «capire le parole» , il problema appunto, suggeriva già Wittgenstein, di interpretare ogni segno linguistico sulla base «di chi lo usava e della prassi». Per Ernst R. Curtius e per Einar Löfstedt la mutazione di significato di una parola dal mondo romano al Medioevo era, per esempio, nella natura delle cose; per Dag Norberg ogni cambiamento di significato del lessico è dovuto a «contaminazione di radici diverse». Morosus, per esempio, se deriva da mos ha significato, egli dice, di “capriccioso”, “difficile”, se deriva da mora indica “lento”, “lungo”, come appunto, precisa, nel seguente verso di Serlone di Wilton: «Mos me morosum, mora me facit esse morosum» . Le parole dunque non sempre, nei diversi tempi e nei diversi luoghi, hanno avuto lo stesso significato e lo stesso senso, e oltre agli esempi riferiti potrebbero essere elencati vari altri casi in cui venivano utilizzate identiche parole per esprimere, di volta in volta, realtà e concetti differenti. Se ne era accorto Rabelais, che nella sua ben nota opera immagina che in un lontano territorio le parole, dopo essersi ghiacciate, ai primi tepori del sole, si scioglievano in acqua, ma diventavano incomprensibili. Ancora oggi, del resto, il “linguaggio di piazza” del Gargantua e Pantagruele pone di continuo in difficoltà non solo i lettori sprovveduti.

. Notizie utili per cogliere gli elementi fondamentali, grammaticali e sintattici, del latino medievale si possono trovare nel volume di K. Strecker sull’Introduzione al medioevo scritto in tedesco e tradotto sia in francese che in inglese; nella Guida di G. Cremaschi; nel Manuale scritto in francese da D. Norberg e tradotto in italiano a cura di Massimo Oldoni. . T. De Mauro, Capire le parole. . Tutte le indicazioni in E. Colonna, Lessicografia, pp. -.

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. Lessici e glossari Per far fronte all’intrinseca difficoltà del latino medievale esistono, e non da ora, speciali dizionari detti comunemente vocabolari, glossari e anche lessici, specie se si riferiscono a lingue antiche, cioè opere che raccolgono, in ordine alfabetico, le parole di una lingua e ne danno definizioni, ne spiegano significati. Il dizionario più antico è forse la lastra di pietra incisa in greco arcaico dell’VIII secolo a.C. rinvenuta in Sicilia e conservata nella sezione archeologica della Soprintendenza ai beni culturali di Ragusa. Per quel che invece si riferisce al latino medievale, a parte le Etymologiae di Isidoro di Siviglia , è da registrare, nei secoli XI-XIII, la compilazione di grandi repertori lessicografici, fra i quali sono da ricordare: l’Elementarium doctrinae rudimentum di Papia, il Liber derivationum di Osberno di Gloucester, le Derivationes di Uguccione da Pisa, il Catholicon di Giovanni Balbi, che può considerarsi – specie per le pagine riservate al De littera – una delle più importanti analisi lessicografiche del Medioevo. Nei riguardi di queste opere, e di tante altre che non è il caso di elencare, c’è da alcuni anni un particolare interesse, testimoniato da vari lavori e da edizioni critiche già pubblicate o in corso di pubblicazione. È comunque da segnalare il Glossario di Ainardo nell’edizione critica di Paolo Gatti. Esiste del resto in questo settore di ricerca un’illustre e impegnativa tradizione di studi che affonda le radici lontano nel tempo. Radici tenute vive anche da punti di riferimento ben precisi, come la rivista “Archivum Latinitatis Medii Aevi”, fondata nel  da studiosi di Belgio, Francia, Inghilterra, Italia, Olanda, Polonia; come il Centro di trattamento elettronico dei documenti di Lovanio; come il Comitato nazionale del Dizionario medievale belga col suo Index scriptorum operumque latino-belgicorum medii aevi. Nouveau répertoire des œuvres médiolatines belge in microfiches a cura di L. Génicot e P. Tombeur; come i vari dizionari lessicografici pubblicati nel secolo XX. Fra questi ultimi si segnalano il Lexicon curato da F. Arnaldi, che, pur se parziale, può considerarsi il primo esempio di dizionario nazionale; il Lexicon a cura di A. Blaise, ricco di vocaboli ricavati dal linguaggio religioso; il Novum glossarium di F. Blatt e Y. Lefèvre; il Lexicon a cura di J. F. Niermeijer, particolarmente attento alle parole usate dai testi giuridici e dai documenti delle cancellerie; i glossari relativi ad alcune regioni curati da P. Sella. . Etymologiarum, I, , : «etymologia est origo vocabulorum».

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Notevole importanza, anche sul piano pratico di una rapida consultazione, continuano comunque a conservare il Lexicon di Egidio Forcellini e soprattutto il Glossarium di Charles Du Fresne Du Cange, filologo ed erudito nato ad Amiens nel  e morto a Parigi nel  . Un glossario nel quale, di ogni parola, è data, in latino, ampia spiegazione corredata di esempi e frasi tratti dai più noti autori del Medioevo e da carthae di vari archivi. . Lessici specialistici Vanno infine ricordati alcuni lessici relativi ai termini di tipologie linguistiche mediolatine le cui parole mutavano di significato col mutare del tempo e dello spazio in cui venivano usate. Sul piano giuridico-istituzionale, per esempio, nella Francia del Nord il termine fidelitas assumeva significato diverso da quello che aveva nella Francia meridionale e specie in Provenza, come il termine vassus, che in Normandia indicava i valvassori e in Italia i vassalli del re . A tal proposito, può essere utile il Lexicon mediae et infimae latinitatis Polonorum, nel quale sono elencati e ampiamente spiegati vari termini del linguaggio giuridico e istituzionale. L’esigenza di disporre di lessici specialistici è accresciuta dal fatto che i glossari di impianto generale, come il Du Cange e i tanti altri elencati, non registrano di solito termini propri di talune discipline. Sono d’altronde note le difficoltà di interpretare, in un contesto come il medievale in cui il nesso terra-cielo era strettissimo, parole, espressioni, concetti che riconducevano ai divina officia, alla liturgia, all’anima, al sacerdos, al “pane quotidiano” che nel Pater noster i fedeli chiedono a Dio. Aiuta, in tal senso, il Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament curato da Gerhard Kittel e tradotto in Italia a cura di Felice Montagnini, Giuseppe Scarpat, Omero Soffritti col titolo Grande lessico del Nuovo Testamento. Un’opera lessicografica che offre, attraverso la rigorosa interpretazione linguistica delle parole, l’immagine e la storia del cristianesimo nei suoi legami col mondo classico, con quello ellenistico e con quello ebraico dell’Antico Testamento .

A tutti è noto l’intreccio fra le chansons de geste, Carlo Magno, cavalieri, crociate e soprattutto il serrato dibattito sulle leggende bretoni e . A lui si deve anche un Glossarium mediae et infimae graecitatis. . J. P. Poly, Vocabulaire «féodo-vassalique», p. . . Si segnala R. Busa, L’automation appliquée, pp. -.

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sulle imprese di re Artù, le quali, secondo alcuni, condurrebbero al processo di trasformazione e trasfigurazione della mitologia celtica entrata in contatto col cristianesimo. In tal senso, nel senso anche delle contaminazioni linguistiche fra testi originali e molteplici rifacimenti più o meno liberi diffusi specialmente fra le classi popolari, assai utile può essere il Dizionario del ciclo di re Artù curato da Carlos Alvar e tradotto in Italia da Giuseppe Di Stefano. Un Dizionario ricco di oltre novecento voci le cui interpretazioni offrono agli studiosi uno strumento di accesso importante a un mondo nel quale l’immaginario si mescolava con la realtà. Considerata la sempre più diffusa utilizzazione, da parte degli storici, di fonti visive, è opportuno segnalare anche il Dictionary of Art curato da Jane Turner, in  volumi e . voci, ma è soprattutto necessario segnalare i dizionari relativi al linguaggio della scienza e della tecnica, di settori di studio cioè i cui termini, presenti in testi medio-latini che erano il risultato della reinterpretazione araba di cognizioni classiche, non è facile decodificare. Anche perché nei glossari generali mediae latinitatis sono assai rari i riferimenti ai termini propri dell’astrologia, della magia, dell’algebra e specie della medicina, una disciplina che ha sempre avuto risvolti pratici notevoli e per il cui esercizio «è possibile parlare di una vera e propria lingua di gruppo, con differenziazioni non solo sul piano lessicale ma anche strutturale [...] che prima di essere linguistiche sono sociali» . Considerato poi il nesso strettissimo fra medicina, farmacopea e mondo vegetale, si segnala il Lexique des termes de botanique en latin curato da Jacques André. Prima di chiudere questo paragrafo si desidera segnalare ancora – a parte il Vocabolario degli Accademici della Crusca, che, pubblicato nel , può essere considerato il primo grande esempio di dizionario europeo della lingua comune – il Grande dizionario della lingua italiana fondato nel  da Salvatore Battaglia. Si tratta di un’opera monumentale in  volumi  nella quale, accanto all’analisi lessicografica dei singoli termini, c’è «un’attenzione letteraria o addirittura poetica delle parole». C’è però soprattutto la storia delle parole, colte nel loro contesto attraverso moltissime citazioni di testi e documenti antichi, medievali, moderni. Del resto, soleva dire Voltaire, «un dizionario senza citazioni è uno scheletro». La prima parola dell’ultimo volume è, per esempio, il medievale sostantivo “toiano”, non registrato da al. I. Mazzini, Il latino medico, vol. I, pp. -. . Per complessive pp.  su tre colonne. L’Oxford English Dictionary è in  volumi per complessive pp. .

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ARCHIVI , REPERTORI , LESSICI , GLOSSARI

tri vocabolari, che significa, come è opportunamente documentato dalle Lettere di un notaro a un mercante del secolo XIV di Lapo Mazzei, «l’ora di mezzogiorno, cioè le dodici». La forma espressiva più antica cui risalire percorrendo a ritroso la storia della parola deriva dal nome della rocca pisana di Toiano, la cui campana, presa dai fiorentini nel , era stata collocata sul ballatoio dei priori per segnalare l’ora del pranzo.

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 Collezioni di fonti edite

Gran parte delle fonti medievali, ed emerge dai repertori passati in rassegna, è edita, cioè pubblicata in volumi che offrono al lettore le edizioni integrali dei testi narrati presi in considerazione e degli atti pubblici e privati. Volumi però particolari, almeno per la loro collocazione editoriale, perché quasi sempre inseriti in collane specifiche programmate e realizzate da centri di studio e di ricerca e dette comunemente “collane” o “collezioni di fonti”. L’esigenza di stampare e collocare il materiale documentario risale addirittura al secolo XVI. Sono però del secolo successivo le prime grandi collezioni di fonti: la prima raccolta di testi italiani veniva pubblicata a Francoforte nel  da A. Schott, Italiae illustratae. Le più note e le più complete sono comunque le raccolte di Johann Georg Graeve, continuate poi da Pieter Burmann e inserite nel Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiae. Solo nel secolo successivo l’erudizione medievale avviava però progetti di ricerca e di pubblicazioni di fonti che andassero al di là di un semplice salvataggio di testi inediti e si proponessero invece, come precisava Scipione Maffei e poi Muratori, di recuperarne le stesure originali e il significato, di superare cioè, come qualche anno prima aveva fatto Giovan Battista Caruso con la Bibliotheca historica regni Siciliae, «il ristretto orizzonte dell’antiquaria religiosa» e avviare una metodologia che tenesse in conto le esigenze filologiche e quelle storiche, letterarie e civili del paese cui si riferivano. . Edizioni diplomatiche ed edizioni critiche Ci si riallacciava così, per quel che si riferiva ai criteri metodologici di trascrizione e ricostruzione dei testi, alla tradizione umanistica e quindi agli studi di filologia classica; per quel che invece concerneva le vicende della penisola come momento spirituale, omogeneo e non sopprimibile, si tendeva al recupero di una unità cronologica che desse «al

CAPIRE IL MEDIOEVO

l’Italia la sua storia». Una storia che traesse origine non tanto dal mondo romano, ma da quel Medioevo che si soleva chiamare barbarico . Certo, le fonti raccolte da Muratori nei “Rerum Italicarum Scriptores” non sono edizioni che offrano, col loro impianto, gli strumenti e le garanzie per giudicare se stesse, per confermare i loro valori, per correggere i loro eventuali errori. Sono infatti frequenti le omissioni, gli arbitri, i tagli, e presentano quindi scarso rispetto per l’integrità dei testi, che è il primo fondamento del rigore filologico. Si tratta del resto di testi ricostruiti quasi sempre su un unico codice ed emendati con criteri empirici e talvolta contraddittori. Errori, mende e arbitri non sminuiscono però il significato filologico e soprattutto storico di uno strumento monumentale come i “Rerum”. Aiutano anzi, è stato a ben ragione evidenziato, «a fare meglio comprendere attraverso quali ostacoli venisse formandosi la metodologia erudita settecentesca tra i cultori italiani di scienze storiche» . Agli studi di Muratori vanno del resto ricondotte le nuove tecniche di ricerca e le nuove metodologie critiche che, a iniziare dal secolo XIX, avviarono e via via perfezionarono i criteri di ricostruzione e pubblicazione dei testi manoscritti, di molti dei quali era andato perduto l’originale, col risultato di offrire fonti in edizione diplomatica o in edizione critica. In edizione diplomatica quando si tratta di testi fedelmente trascritti e stampati con tutti gli elementi che ne caratterizzano l’uso della punteggiatura, delle maiuscole, delle minuscole e persino gli errori; in edizione critica quando si tratta di testi ricostruiti attraverso rigorose tecniche filologiche, liberati quindi dalle corruttele acquisite nel tempo e riprodotti nel modo più vicino possibile a quelli redatti dagli autori. Nei riguardi delle edizioni critiche si sono avuti, e purtroppo si hanno ancora, pure tra i dotti, parecchi pregiudizi, fra i quali è parecchio significativo e assai diffuso il preconcetto che spinge a chiedere: val poi la pena di faticare tanto per stabilire se le singole parole di un’opera, di un documento, siano quelle genuine usate nella stesura originale degli autori? Giorgio Pasquali soleva dire che uno studioso da lui ben conosciuto «concepiva stranamente le alterazioni insinuatesi man mano nel testo di Dante o di Petrarca, quali contributo dei secoli alla bellezza dell’opera d’arte». Ma questo stesso studioso, precisava Pasquali, «si adirava se un suo articolo veniva pubblicato con errori di stampa, mo. RIS, I, , p. LXXXII: «Eoque magis, quod ex iis ipsis gentibus quarum fatiscente Romano Imperio Italia dominationem sensit, et quas barbaras appellare consuevimus, ut verisimilis conjectura fert, plerique originem trahimus». . S. Bertelli, Erudizione e storia, p. .

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strando per la sua prosa quella sensibilità che rifiutava di considerare legittima quando si rivolgeva a opere di tempi passati» . L’opportunità di poter disporre di testi in edizione critica trova d’altronde conforto anche in quel senso di amarezza e delusione – mista talvolta a morbosa curiosità – che si prova quando si legge un libro censurato, quando si vede un film tagliuzzato, quando si è costretti a subire un’informazione scritta o radiotelevisiva deformata, incompleta e omologata al potere. L’edizione critica permette quindi non solo di disporre di un testo nella sua interezza, ma di ricostruirne la storia, di identificare cioè le diversificazioni involontarie o volute fra le copie tramandate dal susseguirsi delle trascrizioni. L’edizione critica è infatti corredata, a piè di pagina, da un apparato che registra tutte le varianti e i richiami coi quali offrire al lettore la possibilità di controllare il lavoro compiuto dall’editore e di rendersi conto del perché del testo ricostruito e presentato appunto come il più vicino all’originale. Primo compito dell’editore critico  è dunque quello di costruire la “tradizione” o recensio, di raccogliere cioè il complesso dei materiali necessari al ripristino del testo originario, di raccogliere appunto tutti i codici di una data opera giunti direttamente o indirettamente . Raccolti i diversi codici del testo di cui si intende preparare l’edizione critica, si procede alla collatio, cioè al confronto fra i codici . Si pone a fondamento il codice che si ritiene il migliore (esemplare di collazione) e si procede sistematicamente a un confronto diretto e completo con gli altri codici disponibili per stabilire in quali “lezioni”, cioè in quali luoghi, questi codici divergono dall’esemplare di collazione. Nei casi in cui i codici disponibili siano parecchi e diventa materialmente difficoltoso concretizzare un confronto completo, ci si può limitare a una comparazione fra i soli loci critici, vale a dire fra i luoghi, i punti ritenuti particolarmente significativi. Si procede quindi alla eliminatio codicum descripto. Storia della tradizione, p. XV. . Col termine “editore”, nel caso delle pubblicazioni di testi manoscritti in edizione critica, non si intende la casa editrice che li stampa, ma ci si riferisce agli studiosi che ricostruiscono e curano il testo sulla base di rigorosa metodologia filologica. . La tradizione è diretta quando è costituita di codici e di opere a stampa di una data opera giunti a noi; indiretta quando è invece costituita di versioni di una data opera in altre lingue, di citazioni di brani dell’opera fatte da altri, di commenti all’opera i cui commentatori si sono potuti servire di codici diversi da quelli giunti attraverso la tradizione diretta e ora perduti. . Cioè la “collazione”, dal latino conferre, confrontare. E ci si ferma qui, senza entrare nel merito – anzi nella polemica – sul significato della lachmanniana recensio, nel senso di comparazione di manoscritti, e per la quale si rinvia a P. F. Ganz, Lachmann as an Editor, specie p. , a D’A. S. Avalle, L’immagine, pp. -, a S. Timpanaro, La genesi, pp. -.

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rum, vale a dire alla eliminazione di codici equivalenti in quanto dipendenti da esemplari conservati. I codici rimasti, cioè i codici che non sono copia di altri e sono indipendenti, si mettono a confronto e si classificano. Questi codici infatti, pur essendo indipendenti fra di loro, derivano tutti, direttamente o indirettamente – cioè attraverso esemplari ora perduti – da un unico codice, l’originale, e hanno quindi relazioni reciproche. È appunto compito dell’editore critico porre in luce le relazioni tra i codici indipendenti, raggrupparli cioè secondo certe loro maggiori o minori affinità. I raggruppamenti vengono fatti in base a concordanze non fra lezioni “genuine”, ma fra errori, in quanto è più difficile che identici errori si siano prodotti indipendentemente in codici diversi, mentre è più probabile che la lezione genuina, che è poi quella dell’originale, si sia conservata identica in codici indipendenti. A questo punto si è in grado di costruire lo “stemma”, cioè l’albero genealogico dei codici, i quali vengono indicati ciascuno con una lettera maiuscola dell’alfabeto (A, B, C, D ecc.), mentre con lettera minuscola (a, b, c, d ecc.) si indicano i codici perduti – l’originale e l’archetipo  – da cui derivano quelli recuperati. . “Rerum Italicarum Scriptores” Non tutti i testi pubblicati sono però in edizione critica, e si è talvolta costretti a servirsi di fonti in edizioni poco sicure e ricostruite empiricamente. I secoli XIX e XX hanno notevolmente contribuito ad accrescere la disponibilità di testi critici e a disegnare il punto di non ritorno di una ricerca ormai modellata sull’esigenza di disporre di testimonianze affidabili ricostruite e pubblicate con criteri particolarmente rigorosi. Non è qui possibile dare notizia di tutte le collezioni in cui le fonti trascritte e pubblicate sono inserite. Ci si limita a ricordare le più note, e prima di tutte i “Rerum Italicarum Scriptores” progettati, curati, realizzati e stampati fra il  e il  da Muratori. Indicata di solito con la sigla RIS, l’opera, in  tomi, comprende fonti prevalentemente narrative che vanno dal  al  . Dopo la morte di Muratori () venivano ancora stampati: nel  il tomo XXV, nel quale, assieme a fonti del secolo XII, si tro-

. Con “archetipo” – usato per la prima volta da Lachmann nel commento a Lucrezio del  – si suole indicare il codice, perduto, col quale comincia la prima ramificazione, e quindi un testo immune dagli errori coagulatisi dopo la ramificazione: il testo, insomma, che più di ogni altro si avvicina all’originale. . L’opera contiene anche . diplomi.

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vano gli indici degli autori, dei diplomi, dei luoghi e delle persone ; nel  i tomi XXVI-XXVII, nei quali sono raccolti, a cura di Giuseppe Maria Tartini, gli Additamenta florentina; nel - il tomo XXVIII, in cui, a cura dell’abate Giovanni Benedetto Mittarelli, sono inserite le Accessiones historiae faventinae. Per adeguare i “Rerum” alle nuove esigenze metodologiche veniva progettata una ristampa dell’opera che «avrebbe dovuto seguire in ogni sua parte l’ordinamento dato dal Muratori», ma pubblicando i testi in edizione critica. Nel , diretti da Giosuè Carducci e da Vittorio Fiorini e per conto dell’editore Scipione Lapi di Città di Castello, uscivano i due primi fascicoli del primo tomo dei nuovi RIS. Apriva l’opera una dotta introduzione di Carducci, seguiva il piano di pubblicazione presentato dall’editore e il testo della Historia miscella di Landolfo Sagace a cura di Vittorio Fiorini e Giorgio Rossi. I fascicoli pubblicati sono parecchi, ma l’opera, che dovrebbe essere di  tomi, è ancora in corso. Ogni fonte pubblicata è preceduta da un’introduzione in cui, accanto al valore e significato della cronaca, sono precisati i criteri filologici dell’edizione. Non tutte le edizioni sono state però ricostruire con lo stesso rigore. Gabriele Pepe offre un indice delle fonti stampate nella prima edizione dei RIS e a fianco le riedizioni pubblicate nella seconda edizione o in altre collezioni . . “Monumenta Germaniae Historica” e “Fonti per la Storia d’Italia” Altra collezione di fonti basilare per il Medioevo, e non solo italiano, è quella curata dalla Società dei “Monumenta”, appunto i “Monumenta Germaniae Historica”, che sogliono essere indicati con la sigla MGH. L’opera, voluta e particolarmente favorita dal barone Karl von Stein, ministro di Federico III di Prussia, aveva un fine patriottico oltre che scientifico: infatti in essa il popolo germanico avrebbe dovuto trovare le tradizioni della passata grandezza. È del resto significativo che l’idea di questa monumentale opera sorgesse proprio negli anni immediatamente successivi al crollo napoleonico, negli anni cioè in cui la Germania si preparava, con rinnovata coscienza patriottica e nazionale, alla lotta per l’indipendenza.

. Più pratici sono però gli Indices del , a cura di G. Galligaris e altri. . Introduzione allo studio del Medioevo, pp. -. Tale “confronto” manca nell’edizione del .

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Nel  veniva fondata la Gesellschaft für ältere deutsche Geschichtskunde, cioè la Società per la pubblicazione delle fonti della storia tedesca, che avviava un sistematico lavoro di ricerca di materiale documentario nelle diverse parti d’Europa e specie in Italia e in Germania. Primo direttore della Società fu Georg Heinrich Pertz, che, dal  al , conduceva vaste ricerche in Germania, Austria e Italia e nel  stampava il primo volume dei “Monumenta”. Da quell’anno continuarono a essere stampati, a breve intervallo, i  volumi in folio – indicati come “Pertz” – che comprendono la prima serie dell’opera, marcata dal motto «Sanctus Amor patriae dat animum». I “Monumenta” – il cui formato è lo stesso dei RIS – venivano articolati in cinque sezioni, da ricondurre ciascuna a una particolare tipologia di fonti: “Scriptores”, riservata alle fonti narrative e indicata con la sigla SS; “Leges”, riservata alle legislazioni barbariche e indicata con la sigla LL; “Diplomata”, riservata ai diplomi di re e imperatori e indicata con la sigla DD; “Epistolae”, riservata alla corrispondenza pubblica e indicata con la sigla EE; “Antiquitates”, riservata a componimenti poetici e testimonianze di varia natura e indicata con la sigla AA. Nel , dopo la morte di Pertz, la direzione veniva affidata a Georg Waitz, che modificava in parte il piano editoriale, riduceva il formato, aumentava le sezioni , per le introduzioni e i commenti eliminava il latino e introduceva la lingua tedesca, avviava la ristampa di alcune fonti narrative in un formato più piccolo da destinare all’attività didattica e intitolato appunto Scriptores rerum germanicarum in usum scholarum ex Monumentis Germaniae historicis separatim editi. Nel  venivano compilati gli Indices di quanto contenuto nei MGH, a cura di O. Holder-Egger e K. Zeumer, Indices aggiornati nel  da Pepe . Nel Repertorium fontium historiae Medii Aevi si trovano comunque tutte le indicazioni utili per l’individuazione e la collocazione delle singole fonti. L’Istituto storico italiano, fondato nel  e diviso nel  in Istituto storico italiano per il Medioevo e Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, avviava nel  la pubblicazione delle “Fonti per la Storia d’Italia”, indicate con la sigla FISI o più propriamente FSI. Si tratta della più ampia e articolata collana di fonti relative all’Italia medievale e comprende cronache, diplomi, statuti, leggi, epistole, necrologi, testi poetici come, per esempio, le Poesie provenzali storiche relative

. Come, per esempio, quella degli Auctores Antiquissimi, degli Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum ecc. . Introduzione, pp. -.

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all’Italia dei secoli XII-XIII, curate da Vincenzo De Bartholomaeis. All’Istituto storico italiano per il Medioevo vanno pure ricondotti i Regesta chartarum Italiae, collana programmata nel  in collaborazione col Königlich Preussisch Institut di Roma per pubblicare, solo in “regesti”, fonti documentarie inedite e interrotta nel  a causa della prima guerra mondiale. Ripresa nel  e curata soltanto dall’Istituto storico italiano, continua a pubblicare fonti documentarie inedite relative, in gran parte, all’Italia centrale e in edizione integrale. Fino al  sono stati pubblicati  volumi. . Collane di vari paesi d’Europa Fra le collane più significative pubblicate nei paesi d’Europa si ricordano le seguenti. Per la Spagna: la “Colección de documentos inéditos del Archivo General de la Corona de Aragón”, a cura di P. de Bofarull, e l’indice cronologico dei documenti a cura di J. E. Martínez Ferrando, ma ancora incompleto; la “Colección de crónicas españolas” curata da J. de Mata Carriazo; la “Colección de documentos inéditos” della Spagna di M. Fernández de Navarrete e la “Colección de documentos inéditos” dell’Aragona a cura di E. Ibarra y Rodríguez. Per la Francia: J.-A. Buchon, Collection des chroniques nationales françaises; “Chartes et diplômes”, a cura dell’Académie des Inscriptions et Belles Lettres; “Collection des documents inédits”, a cura del Comité des travaux historiques et scientifiques; J. M. Pardessus, Diplomata, chartae, epistolae, leges. Per l’Inghilterra, fra le collane più importanti si ricordano: “Calendar of State Papers relating to English Affairs”, in cui si trovano, per i secoli XV-XVIII, documenti di varia natura, e soprattutto i Rerum Britannicarum Medii Aevi Scriptores, opera monumentale in  volumi e  tomi che contiene cartulari, epistolari e cronache. Il primo volume si apre con la Historia ecclesiastica de gente anglorum di Beda. Per la Germania, nella quale i vari Länder curano diverse collane, si ricorda, a parte i MGH, quella diretta da R. Burcher e F. J. Schmale, in  volumi, nei quali sono però inclusi testi già pubblicati nei MGH; il “Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae”, indicato con la sigla CSHB, in  volumi: nel primo, uscito nel , c’è l’edizione dell’opera storica di Agazia curata da Barthold Georg Niebuhr. Molti testi di questa collana sono però ristampa del precedente corpus del Louvre, avviato a metà del secolo XVIII. Nel , con l’edizione critica del De administrando imperio di Costantino Porfirogenito a cura di Gyula Moravcsik e Romilly J. H. Jenkins, veniva avviata la pubblicazione del “Corpus Fontium Historiae Byzantinae”, indicato con la sigla CFHB, destinato a sostituire il CSHB. Ogni volume è costituito dal testo critico, dalla traduzione in un lingua moderna (secondo la Series di appartenenza), dagli indici.

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. Collane di fonti ecclesiastiche Importanti e numerose sono le collane di fonti ecclesiastiche, i cui nessi con le istituzioni politiche e con le strutture sociali ed economiche sono strettissimi. Ci si limita a ricordare, a parte gli Acta sanctorum dei quali si è già detto , le Patrologiae di Jacques Paul Migne, divise in due grandi serie: la latina ( volumi), che contiene i testi dei Padri della Chiesa da Tertulliano al , anno della morte di Innocenzo III, ed è di solito indicata con la sigla PL ; la greca ( volumi), con traduzione latina a fronte, che contiene i testi dei primi scrittori cristiani fino al Concilio di Firenze del  ed è indicata con la sigla PG . Si tratta di un’opera monumentale, e anche se molti testi si possono ora leggere in edizioni più sicure, rimane di grande importanza e utilità pratica. Si dispone della ristampa fotostatica di tutti i volumi ed esiste un progetto di A. Hamman, Patrologiae cursus completus a J. P. Migne editus, per la sostituzione e il completamento di alcuni testi. Le Patrologiae sono una raccolta di fonti la cui ampiezza ha sempre suggerito quella domanda che ciascuno ha posto a se stesso ma forse mai estrinsecato agli altri: “come una sola persona, lavorando su manoscritti e antiche edizioni preottocentesche, trascrivendo a mano e poi consegnando quei fogli al tipografo e correggendo le bozze, abbia potuto portare a termine quell’impresa”. Che poi non era la sola, perché Migne ha curato altre centinaia di volumi i più vari, fra i quali un Dictionnaire des sciences occultes e l’Encyclopédie théologique in ben  volumi. Ora però abbiamo la risposta: da un recente libro di R. H. Bloch pubblicato anche in Italia col titolo Il plagiario di Dio e con prefazione di Eco, si apprende che il celebre abate francese, oltre che teologo ed erudito, era «genio dell’organizzazione editoriale e della finanza», «sfruttatore di manodopera intellettuale», uomo «di pochissimi scrupoli». Fra le collane di fonti ecclesiastiche vanno ancora ricordate: il “Corpus Christianorum. Series latina”, in  volumi, a cura dei benedettini del monastero di San Pietro di Steembrugge, in Belgio, nel quale sono inclusi, in edizione critica, testi dei Padri della Chiesa da Tertulliano a Beda in gran parte già pubblicati nella PL di Migne; il “Corpus Christia-

. Vanno ricordate le Vitae sanctorum siculorum di Ottavio Gaetani e va segnalato che, per le vite dei santi, esistono varie altre raccolte pubblicate in modo poco sistematico, per le quali cfr. S. Boesch Gajano (a cura di), Raccolte di vite. . Gli ultimi quattro volumi, dal  al , sono di indici generali e speciali. Gli indici possono essere completati con l’Elucidatio. . Gli ultimi due volumi sono di indici.

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norum. Continuatio mediaevalis”, in  volumi, nei quali sono stampati testi degli autori successivi a Beda ; il “Corpus scriptorum ecclesiasticorum”, a cura dell’Accademia delle scienze di Vienna – indicato con la sigla CSEL –, nei cui  volumi sono pubblicati in edizione critica testi dei Padri della Chiesa; le “Sources chrétiennes”, collana di libri di autori ecclesiastici di età patristica, medievale e moderna fondata da H. de Lubac e J. Daniélou in  volumi; i  volumi dei Sacrorum conciliorum, nei quali Giovanni Domenico Mansi raccoglieva gli atti dei concili fino a quello di Firenze del ; i  volumi della nuova edizione curata da J. B. Martin e L. Petit. All’individuazione dei singoli concili aiutano sia la Histoire des conciles, a cura di K. F. Hefele e H. Leclercq, sia il Dizionario dei concili, diretto da P. Palazzini. Esistono poi pubblicazioni degli atti di singoli concili, fra le quali si ricordano l’edizione curata da H. Finke per gli atti del Concilio di Costanza, da G. Haller e G. Beckmann per quelli del Concilio di Basilea, da G. Hofmann e altri per il Concilio di Firenze, da A. García y García per il IV Concilio Lateranense. Fra le raccolte di fonti ecclesiastiche vanno segnalate ancora il Liber pontificalis Ecclesiae Romanae, nel quale sono raccolte le biografie dei papi da san Pietro al  e con aggiunte successive fino alla fine del secolo XIV, cioè quelle “vite” di varia ampiezza e di diverso valore documentario che, in ambito pontificio, si incominciò a redigere a partire dal secolo VI. Louis Duchesne – che fra il  e il  pubblicava il Liber pontificalis in edizione critica –, nell’ampia introduzione, accanto ai criteri di edizione, ne spiegava «la complessa composizione» . Il Liber si può oggi leggere anche nella seconda edizione curata da C. Vogel, edizione che è però opportuno integrare con quella del  curata da G. March. Sui pontefici, le loro biografie e i loro impegni operativi sul piano religioso e su quello politico vanno ricordate: le Vitae paparum avenionensium di E. Baluze; i registri relativi ad alcuni anni di Innocenzo III curati da O. Hageneder e altri e corredati di Indices; il Magnum bullarium, a cura di J. Mainard e C. Cocqueline; i documenti pontifici degli anni -, a cura di H. Zimmermann; i due volumi di J. B. M. Watterich relativi alla vita dei pontefici fra il secolo IX e la fine del XIII; il Thesaurus ecclesiarum Italiae, a cura di E. Massa; i sette volumi sull’amministrazione finanziaria e fiscale del papato dal  al , curati da E. Göller e altri.

. Nel volume XCII del “Corpus” è stata pubblicata, nel , l’edizione critica del Liber divinorum operum di Ildegarda di Bingen, testo ora ristampato, con traduzione italiana a fronte, nei “Meridiani”, a cura di Marta Cristiani e Michela Pereira. . Il Liber non è opera unitaria, ma un corpus di testi diversi redatti a partire dal secolo VI. Solo dal IX secolo acquista omogeneità con valenza anche letteraria: cfr. comunque, a parte le osservazioni di G. Billanovich, Gli umanisti, pp. -, M. Miglio, Storiografia pontificia, pp. -.

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A proposito di fonti di natura fiscale elaborate dalla curia romana tra la fine del secolo XIII e l’inizio del successivo vanno ricordate le Rationes decimarum Italiae, nei cui registri venivano elencati, per diocesi di appartenenza, quanti – fra chiese cittadine e rurali, pievi, canoniche, monasteri, ospedali – dovevano le decime alla sede romana. Fonti particolarmente preziose non solo per i problemi fiscali, ma anche per i dati topografici relativi alle varie istituzioni ecclesiastiche articolate in tutta la penisola e inserite negli elenchi pure quando godevano delle previste esenzioni. Pubblicate a cura di vari autori, a partire dal , le Rationes sono corredate di carte geografiche regionali e di indici che permettono di identificare i singoli luoghi e il loro riscontro con la toponomastica attuale. Per quel che si riferisce alle numerose raccolte di fonti relative agli ordini monastici si ricordano: per l’ordine camaldolese i nove volumi degli Annales curati da G. B. Mittarelli e A. Costadoni; per l’ordine cistercense gli Statuta, a cura di J. M. Canivez; per l’ordine cluniacense la Bibliotheca, a cura di A. Marrier e A. Duchesne, e gli Statuts, a cura di G. Charvin; per l’ordine francescano  gli Annales di L. Wadding; gli Analecta Franciscana, a cura del Collegio di San Bonaventura di Quaracchi; il Bullarium, curato da C. Eubel e il Bullarium, nova series, a cura di U. Huentemann; per l’ordine domenicano i “Monumenta” in  volumi, pubblicati a Lovanio-Roma-Parigi, e il Bullarium in otto volumi, a cura di Th. Ripoll e A. Bremond. Vanno infine elencate alcune importanti raccolte di fonti che hanno strettissime relazioni con le vicende della Chiesa, curate dall’Académie des Inscriptions et Belles Lettres di Parigi e dedicate sia ai “Documents relatifs à l’histoire des Croisades”, sia a un Recueil des Historiens des croisades diviso in  sezioni e  volumi pubblicati a Parigi fra il  e il .

. Collane di fonti locali e settoriali Esistono poi non poche collane di fonti di più spiccato carattere regionale e locale, oltre che di specifici e settoriali argomenti, pubblicate da vari enti culturali, da istituti e dipartimenti universitari e soprattutto da accademie e da deputazioni e società di storia patria. Collane progettate spesso con molta fatica, parecchia passione e scarsi finanziamenti e la cui interruzione, soppressione e poca regolarità testimoniano quanto sia arduo assicurarne l’esistenza e la continuità. Collane comunque che, malgrado tutto, rimandano a quel diffuso senso della storia locale che, nella penisola italiana, ha sempre avuto notevole valenza e che, specie dopo l’Unità, ha portato a riflettere sulla peculiarità di talune fonti che, proprio perché spazialmente circoscritte, permettono di co-

. Utili notizie, sulle fonti di questo ordine monastico, in L. Pellegrini, Studi recenti.

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gliere, diceva Croce, «la realizzazione dell’universale nel concreto del particolare». Più che un completo elenco – d’altronde impossibile – si segnalano, ripartite per grandi aree territoriali, alcune collane che, scelte fra le più significative, possano offrire al lettore un generale e immediato orientamento. Va comunque tenuto presente che tante testimonianze di singoli luoghi sono state già pubblicate, e continuano a essere pubblicate, nelle grandi collezioni italiane e non italiane come i RIS, i MGH, le FSI. Per quel che riguarda, per esempio, le collezioni dell’area piemontese, considerata anche nei suoi nessi politici ed economici con Liguria e Sardegna, è subito da ricordare l’impegno della Deputazione di storia patria, divenuta poi Deputazione subalpina di storia patria. Nel  Ferdinando Gabotto fondava infatti la “Biblioteca della Società Storica Subalpina”, col compito di pubblicare fondi archivistici delle varie località piemontesi. Non tutti i volumi stampati sono certo affidabili per metodo e rigore scientifico, ma la collezione offre, nella sua interezza, una quantità di fonti tali, nella varia tipologia (capitolari, statuti, catasti, cartolari cittadini, carte vescovili e monastiche), da aiutare parecchio l’avvio di ogni ricerca. In questo senso, già nel , per volontà di Carlo Alberto e a cura della Regia deputazione di storia patria, era stata avviata la pubblicazione dei volumi dell’“Historiae patriae monumenta”. Fra le altre numerose pubblicazioni di documenti degli archivi locali  si segnalano quella curata da M. F. Baroni, Novara e la sua diocesi nel Medioevo attraverso le pergamene; le Carte astigiane del secolo XIV, a cura di P. D’Aquino, e il Codex Astensis, a cura di Q. Sella e P. Vayra. Per Genova e l’area ligure una prospettiva d’insieme delle fonti inedite e di quelle pubblicate è offerta da G. Costamagna, Genova: secoli XI-. Si ricordano comunque i Documenti genovesi editi ed inediti riguardanti le due crociate di S. Ludovico IX, di L. T. Belgrano; i Contratti commerciali del secolo XIII, di M. Chiaudano; i Documenti e studi per la storia del commercio, a cura di F. Patetta e M. Chiaudano, in  volumi; i Documenti per la storia del diritto marittimo, di R. Zeno; il Cartolare di Giovanni Scriba, a cura di M. Chiaudano e M. Moresco. Fra le pubblicazioni più recenti, la “Collana storica di Fonti e Studi”, fondata e diretta da Geo Pistarino; il Codice diplomatico della repubblica di Genova, curato da C. Imperiale di Sant’Angelo; Breviario della storia di Genova, di V. Vitale. Per Milano e il territorio padano la pubblicazione di fonti è stata sempre particolarmente feconda, e si desidera ricordare subito la nuova edizione del De magnalibus Mediolani di Bonvesin da La Riva curata da Maria Corti, ma che riproduce sostanzialmente il testo edito da Novati, nel , e soprattutto

. Fra i repertori degli Archivi di Stato piemontesi si ricorda quello di G. G. Fissore sull’Archivio di Asti.

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l’edizione critica più recente, curata, con traduzione e note, da Paolo Chiesa. Ma si desidera ricordare anche l’edizione critica della Storia di Milano di Bernardino Corio curata da A. Morisi Guerra e la ristampa anastatica, nel , delle Memorie della città di Milano di Giorgio Giulini. Fra le raccolte di documenti – a parte il Codex diplomaticus Langobardiae, pubblicato in  volumi divisi in due serie e stampati fra il  e il  – si ricordano I registri dell’Ufficio di Provvisione e dell’Ufficio dei Sindaci sotto la dominazione Viscontea, a cura di Caterina Santoro; alcuni volumi degli Atti del comune di Milano nel secolo XIII, curati uno da C. Manaresi e gli altri da M. F. Baroni e R. Perelli Cippo; Le carte cremonesi nei secoli VIII-XII, di E. Falconi; Il codice A del comune di Cremona, studiato, nella tesi di dottorato, da V. Leoni; il Liber privilegiorum comunis Mantue, a cura di R. Navarrini; Documenti degli archivi di Pavia, di L. C. Bollea. Per Cremona si desidera ricordare ancora i tre volumi curati rispettivamente da A. Anninskij, C. Santoro, V. Rutenburg ed E. Skrzynskaia su documenti della città conservati nell’Archivio dell’Istituto di storia dell’Accademia delle scienze di Leningrado, oggi San Pietroburgo . Anche per Venezia e l’area veneta sono parecchie le fonti pubblicate in varie collane delle quali non sempre è stato possibile garantire la continuità o almeno una regolare periodicità nella preparazione e stampa dei volumi. Si segnalano per primi i due volumi di Documenti relativi alla storia di Venezia anteriore al Mille, curati da Roberto Cessi, nei quali, fra l’altro, vengono indicate, per ogni fonte, le migliori edizioni precedenti. Fondamentali rimangono comunque i “Monumenti storici” pubblicati dalla Deputazione veneta di storia patria a partire dal  e divisi in quattro sezioni: documenti; statuti; cronache e diari; miscellanee. Fra le collane più recenti è subito da ricordare “Fonti e testi”, dedicata alla «civiltà veneziana» e pubblicata dal , presso Olschki, per il Centro di cultura e civiltà della Fondazione Giorgio Cini, e poi il “Corpus statutario delle Venezie”, diretto da Gherardo Ortalli; le “Fonti per la Storia della Terraferma veneta”, dirette da Giorgio Cracco. Si segnalano infine il Codice diplomatico padovano, a cura di A. Gloria; il Codice diplomatico veronese dalla caduta dell’impero romano alla fine del periodo carolingio e il Codice diplomatico veronese nel periodo dei re d’Italia, curati entrambi da V. Fainelli.

. Notevole è stato l’interesse della storiografia sovietica per le vicende medievali italiane e occidentali. Si ricorda, a parte la traduzione in lingua russa del volume di Bloch sui caratteri originali della storia rurale francese, una Storia d’Italia a cura di S. D. Skazkin, il cui primo volume veniva pubblicato a Mosca nel ; la Storia della cultura nel Medioevo e nel Rinascimento di vari autori, pubblicata sempre a Mosca nel ; i Problemi dell’uomo nell’umanesimo italiano di N. V. Revjakina e soprattutto gli studi sul Mondo contadino e città in Italia di L. A. Kotel’nikova e le ricerche sulla storia agraria del Mezzogiorno di M. L. Abramson. Cfr. comunque A. D. Lioublinskaïa, Les travaux et les problèmes, pp. -; G. Tabacco, Uomini e terra, pp. -; N. Sidrova, E. Gutnova, Comment l’historiographie soviétique, pp. -; R. E. F. Smith, Le haut Moyen Age, pp. -.

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 .

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Alla tradizione di una cultura che si voleva antiretorica e tendenzialmente positiva e che aveva nell’“Antologia”, nell’“Archivio storico italiano” e nell’“Officina programmatrice” di Gian Pietro Vieusseux fondamentali punti di riferimento è da ricondurre, in Toscana, e a Firenze in particolare, l’attenzione per il passato, l’interesse per le tecniche e le scienze e quindi per la ricerca e il recupero delle fonti. Fra le varie collane di testimonianze, ancora utili sono le Deliciae eruditorum, curate dall’erudito bibliotecario incline al giansenismo Giovanni Lami; i “Documenti di storia italiana”, pubblicati a Firenze in  volumi a partire dal ; i Documenti per la storia di Arezzo, a cura di U. Pasqui, in quattro volumi; le “Memorie e Documenti per servire all’Istoria del Principato lucchese”, in vari volumi, pubblicati a Lucca dal ; Gli inventari del vescovato, della cattedrale e di altre chiese di Lucca, a cura di P. Guidi ed E. Pellegrinetti; “Fonti e Studi sulle Corporazioni artigiane del Medioevo”, a cura della Deputazione di storia patria per la Toscana. Nel - veniva pubblicata, a cura di Giuseppe Porta, l’edizione critica della Cronica di Giovanni Villani. Per l’area romagnolo-emiliana sono da segnalare: il Registrum magnum del comune di Piacenza, a cura di E. Falconi e R. Peveri; i Monumenti ravennati, a cura di M. Fantuzzi; il Codice diplomatico parmense, curato da U. Benassi; Le carte degli archivi parmensi, a cura di G. Drei; Le carte più antiche di Sant’Antonino di Piacenza, a cura di E. Falconi; Le carte degli archivi reggiani, a cura di P. Torelli e F. S. Gatta; il Liber grossus antiquus comunis Regii, a cura di F. S. Gatta; il Registrum privilegiorum comunis Mutinae, a cura di L. Simeoni ed E. P. Vicini. Va infine registrata la nuova edizione della Cronica di Salimbene da Parma curata da Giuseppe Scalia, edizione che è sostanzialmente la riproposta del testo che Scalia aveva già pubblicato – per gli “Scrittori d’Italia” della Laterza – nel , ma riveduta e corretta «grazie a una nuova collazione dell’autografo Vat. Lat. » e corredata di taluni riferimenti a luoghi biblici e alle citazioni letterarie presenti nella Cronica. L’edizione però – come lamenta lo stesso Scalia nell’Avvertenza posta in apertura al secondo volume, e come è testimoniato da corrigenda e addenda alla fine dell’opera – presenta vari errori e imperfezioni causati da «spiacevole disavventura editoriale». Per le raccolte di fonti relative al Mezzogiorno peninsulare e alla Sicilia è opportuno annotare subito che manca, malgrado non pochi progetti che risalgono alla fine del secolo XIX, una collana delle cronache medievali ricostruite e stampate con criteri moderni. Per molte di esse non incluse nei RIS, nei MGH o nelle FSI, bisogna continuare a servirsi delle collezioni del Settecento e Ottocento, collezioni che, come quella di Giovan Battista Caruso, anticipavano nei tempi e anche nei criteri l’opera di Muratori. Basti ricordare – oltre appunto alla Bibliotheca historica di Caruso, pubblicata in due volumi a Palermo nel  – il Thesaurus di J. G. Graeve e P. Burmann, pubblicato a Lione nel - e nel quale sono inserite parecchie cronache dell’età angioinoaragonese ; la Bibliotheca scriptorum di Rosario Gregorio, stampata in due vo. L’indice è in A. Narbone, Bibliografia sicola, vol. I, pp. -.

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lumi a Palermo nel - e ancora fondamentale, anche per la presenza di documenti d’archivio andati perduti, per lo studio dell’età aragonese; i Cronisti e scrittori sincroni napoletani di Giuseppe Del Re, pubblicati in due volumi a Napoli fra il  e il  e corredati di traduzioni assai approssimative; la Biblioteca arabo-sicula di Michele Amari, che contiene la traduzione italiana dei soli passi relativi alla Sicilia di cronisti e viaggiatori musulmani. Collane tutte, queste elencate, ancora utili, anche se alcuni testi, in questi ultimi anni, sono stati ristampati in edizione critica. E ci si riferisce soprattutto al Chronicon di Falcone Beneventano, che ora si può leggere nella rigorosa e raffinata edizione critica di Edoardo D’Angelo pubblicata nel . Ma vanno anche segnalate la nuova edizione del Liber ad honorem Augusti di Pietro da Eboli, curata da Th. Kölzer e M. Stähli e stampata nel  con traduzione in tedesco a fronte ; la pubblicazione nel , a cura di Angela Daneu Lattanzi, del Codice Angelico  del De balneis Puteolorum et Baiarum di Pietro da Eboli; l’edizione a cura di A. L. Trombetti Budriesi del De arte venandi cum avibus di Federico II nella collana “Fonti e studi del Centro europeo di studi normanni” di Ariano Irpino. Vanno poi ricordati: le Memorie storico-diplomatiche dell’antica città e ducato di Amalfi, di M. Camera; i “Monumenti storici”, a cura della Società napoletana di storia patria; Annali critico-diplomatici del regno di Napoli, curati da A. Di Meo; la grande collana dei “Documenti per servire alla storia di Sicilia”, fondata a Palermo nel  e divisa in quattro sezioni: diplomatica, fonti del diritto, epigrafia, cronache e scritti vari; il Codice diplomatico barese, a cura della Società di storia patria per la Puglia, avviato a Bari nel ; gli Acta Aragonensia, di Heinrich Finke, nei quali sono inseriti molti documenti che hanno attinenza stretta con la storia del Mezzogiorno specie per gli anni di Giacomo II d’Aragona (-); la Historia diplomatica di Federico II, curata da J. L. A. Huillard Bréholles, stampata a Parigi fra il  e il  e ancora di fondamentale aiuto per un’epoca per la quale manca un moderno codice diplomatico dei documenti dei sovrani svevi ; I registri della cancelleria angioina, ricostruiti da Riccardo Filangieri, pubblicati a Napoli dal  e nei quali sono stati appunto “ricostruiti” gli atti amministrativi dei sovrani angioini del Regno di Sicilia distrutti dall’incendio del  provocato dalle truppe naziste all’Archivio di Stato. Fra le collane più recenti sono da ricordare: il Codex diplomaticus regni Siciliae, diretto da C. Brühl, F. Giunta, A. Guillou e nel quale, dal , si vanno

. L’edizione è corredata della riproduzione a colori delle miniature presenti nel codice e di saggi di M. Stähli sui problemi relativi al codice, pp. -; di R. Fuchs, R. Mrusek e D. Oltrogge sui materiali e le tecniche usate nella produzione del codice, pp. ; di G. Becht-Jördens sulle questioni filologiche della cronaca, pp. -. A p.  si trova un elenco delle diversità di trascrizione col testo dell’edizione di Rota. . Il progetto di pubblicare la produzione documentaria di Federico II era stato approvato nel  dai “Monumenta”, ma poi autonomamente intrapreso e portato a termine da J. L. A. Huillard Bréholles.

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stampando, in rigorosa edizione, i documenti del regno normanno fino a Tancredi e Costanza ; La Platea di S. Stefano del Bosco, a cura di P. De Leo; le “Fonti per la storia del Mezzogiorno medievale”, programmati e diretti da Carmine Gallone e Francesco Mottola, con  volumi già stampati fra il  e il ; le “Sources et documents d’Histoire française de Rome”, avviate nel  col volume Le pergamene di Santa Cristina di Sepino, a cura di E. Cuozzo e J. M. Martin; l’Iter Campanum, diretto da Giovanni Vitolo, con nove volumi stampati fino al ; le “Fonti per la Storia di Napoli aragonese”, dirette da M. Del Treppo e divise in due serie: nella prima sono inclusi i Dispacci sforzeschi da Napoli, nella seconda la Corrispondenza degli ambasciatori fiorentini stabilmente residenti a Napoli negli anni di Ferrante d’Aragona; i “Testi e Monumenti” stampati a Palermo dall’Istituto siciliano di studi bizantini e neoellenici fondato da Bruno Lavagnini; la “Collezione di testi siciliani dei secoli XIV e XV”, fondata a Palermo nel  da Ettore Li Gotti; gli Acta curie felicis urbis Panormi, avviati nel  dall’Archivio storico comunale, con  volumi pubblicati fino al . Non è possibile ricordare tutte le altre numerose iniziative che testimoniano – nei risvolti positivi ma anche nei limiti di accentuate tendenze provincialesche – quella che è stata indicata come la «regionalizzazione della cultura». È però opportuno ricordare la nuova edizione delle Constitutiones di Federico II curata da H. Conrad, Th. von der Lieck Buyken, W. Wagner nel  e la pubblicazione, nel , a cura dell’Istituto storico italiano per il Medioevo e dell’Istituto storico germanico, delle fonti scritte sulle costruzioni edilizie e architettoniche degli svevi in Italia raccolte da Eduard Sthamer .

. Collane di fonti con traduzione italiana Le collane di fonti elencate contribuiscono a ridurre o addirittura ad annullare la presa diretta, fisica, col documento originale e concorrono, secondo alcuni, allo scollamento, addirittura al divorzio, fra lettori di fonti e archivio. E ciò, in certo senso, potrebbe essere vero. Le collane di fonti però – a parte la garanzia della ricostruzione e dell’offerta dei migliori testi possibili – danno agli studiosi, siano essi ricercatori, pubblico colto o studenti, la possibilità di utilizzare senza eccessive difficoltà

. Il Codex, ancora in corso di stampa, è articolato in due serie: nella prima, in sette volumi, vanno inclusi i diplomata regum et principum e gente Normannorum da Roberto il Guiscardo a Guglielmo III; nella seconda, in tre volumi, i diplomata regum e gente Suevorum. Il Codex è affiancato da quaderni (Beihefte) in cui vanno via via pubblicati i problemi filologici e diplomatici emersi durante la preparazione delle edizioni. . Ma anche L’amministrazione dei castelli nel regno di Sicilia e la ristampa dei saggi pubblicati tra il  e il  (Beiträge). Cfr. comunque su questo studioso, che fu membro dell’Istituto storico germanico di Roma, A. Esch, A. Kiesewetter, Süditalien unter den ersten Angiovinen.

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testi “autentici” e magari di averli a casa. Il punto comunque non è questo. Il punto è quello di capire se la ricostruzione critica di una fonte e la sua pubblicazione – momenti senz’altro fondativi di veridicità e autorevolezza – siano sufficienti a renderla fruibile a un pubblico più vasto di quello degli addetti ai lavori, ma desideroso di conoscere testi che la diffusa e sbiadita conoscenza del latino e di altre lingue impedisce di leggere. Il punto è cioè di più generale concezione della cultura intesa non solo e non tanto come produzione di opere specialistiche, ma come organizzazione, anche editoriale, in grado di offrire strumenti adatti a comprendere, impegnarsi, discutere. Anche per andare incontro a queste esigenze negli ultimi anni è diventata sempre più frequente l’abitudine di offrire edizioni di testi con traduzione a fronte. Va ovviamente registrata, e tenuta in considerazione, la resistenza di chi ritiene scientificamente scorretto leggere opere in traduzione in quanto, essi sostengono, ogni testo dovrebbe essere gustato nella stesura originale perché è difficile dire la stessa cosa in lingue diverse. Ma va pure registrata la concreta e operativa presenza di una invasiva editoria clandestina pronta a offrire quotidianamente, a studenti e cultori, inaffidabili traduzioni di testi latini e greci e persino di «classici italiani anteriori al secolo XIX». Quel che però, dal punto di vista di una più diffusa crescita culturale, va sottolineato è la riscoperta di molti autori di età patristica e medievale usciti dall’oblio grazie alle traduzioni e i cui testi rappresentano un successo editoriale durevole e, a detta degli interessati e dei resoconti di vendita, «superiore a ogni aspettativa». E ci si riferisce per primo alla collana più economica: la “Biblioteca medievale” dell’editrice Pratiche di Parma che, dal , offre in traduzione con testo a fronte una ricca serie di opere medievali, in versi e in prosa, di vario contenuto e varia ispirazione. Fra esse vanno almeno ricordati Il bestiario d’amore di Richard de Fournival, Gli ornamenti delle donne di Tertulliano, I versi della morte di Hélinant de Froidmond, gli Svaghi di corte di Walter Map. È comunque da segnalare ancora la collana “Letteratura cristiana antica” pubblicata dall’editrice Piemme di Casale Monferrato, nella quale, dal , vengono inserite opere in latino e in greco di autori cristiani dei primi sette secoli con testo originale, traduzione italiana a fronte, note introduttive e indicazioni bibliografiche. Va infine ricordata la collana di testi antichi, patristici e medievali greci e latini in edizione critica curati dalla Fondazione Lorenzo Valla e avviata, dal , dalla Mondadori. Una collana appunto con la quale si forniscono al «pubblico italiano, quello degli studiosi e quello, più vasto, dei semplici lettori colti» e non sorretti «da una preparazione scientifica», testi originali con traduzione a fronte. L’arco di tempo dei testi inseriti nella raccolta è abba

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stanza ampio e ogni volume, corredato di introduzione, bibliografia, apparato critico, note, commenti, indici, contiene il testo originale e la traduzione a fronte. Fra i testi che si riferiscono all’età patristica e al Medioevo si segnalano: Le confessioni di sant’Agostino, a cura di Patrice Cambronne e altri; le Cronache dell’anno Mille, curate da Guglielmo Cavallo e Giovanni Orlandi; la Storia dei Franchi di Gregorio di Tours, a cura di Massimo Oldoni; la Storia dei Longobardi di Paolo Diacono, a cura di Lidia Capo; Imperatori di Bisanzio di Michele Psello, a cura di Ugo Criscuolo, Dario Delcorno e altri.

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Fonti e testi citati *

.., Della storia della cultura del Medioevo e del Rinascimento, Mosca  (in lingua russa).

 , Lettere d’amore, traduzione, introduzioni e note a cura di F. Roncoroni, saggio introduttivo di G. Ceronetti, Milano .

 . ., Su alcune particolarità dello sviluppo dei rapporti feudali nell’Italia meridionale nei secoli XII-XIII, in “Srednie Veka”, V,  (in lingua russa). ., Sulle condizioni delle forze produttive nell’agricoltura dell’Italia meridionale: X-XIII secolo, in “Srednie Veka”, XVI,  (in lingua russa). Acta Curie felicis urbis Panormi, a cura del Municipio di Palermo, Palermo -.   , Le imbreviature del notaio Adamo de Citella a Palermo, “Fonti e Studi del Corpus membranarum Italicarum”,  voll., Roma -; vol. I, ° registro. -, a cura di P. Burgarella; vol. II, ° registro. , a cura di P. Gulotta.   , Favole, in Favolisti latini medievali, vol. III, a cura di F. Bertini, P. Gatti, Genova .  , De cathechizandis rudibus, in Catalogus verborum quae in operibus Sancti Augustini inveniuntur, vol. XI, “Corpus Christianorum. Series latina”, , Eindhoven  (anche in Migne, PL, XL). ., Confessioni, a cura di M. Simonetti, traduzione di G. Chiarini,  voll., Milano -.  ., Tecnica e scienza nella cultura medievale. Inventario dei manoscritti relativi alla scienza e alla tecnica medievale (secoli XI-XV). Biblioteche di Lombardia, Firenze .  ., Colloquio con Eugenio Garin a proposito de “la filosofia italiana dal dopoguerra a oggi”, in “L’Espresso”,  marzo . , Glossario, ed. critica a cura di P. Gatti, Firenze .  ., Jacopo da Varagine. Tra santi e mercanti, Milano .   , Breviarium de dictamine II, in L. Rockinger, Briefsteller und Formelbücher des XI. bis XIV. Jahrhunderts, New York .   , L’architettura (De re aedificatoria), a cura di G. Orlandi, Introduzione di P. Portoghesi,  voll., Milano . * Il nome è dato per esteso solo per gli autori dell’epoca.

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-, Opus geographicum, sive Liber ad eorum delectationem qui terras peragrare studeant, ediderunt A. Bombaci, U. Rizzitano, R. Rubinacci, L. Veccia Vaglieri,  voll., Neapoli - (ed. critica integrale del testo arabo programmata dall’Istituto italiano per il Medio Oriente e dall’Istituto universitario orientale di Napoli). ., Sollazzo per chi si diletta di girare il mondo, in M. Amari, Biblioteca arabo-sicula ossia Raccolta di testi arabici che toccano la geografia, la storia, le biografie e la bibliografia della Sicilia, Lipsia , pp. -.  ., Bibliotheca hagiographica graeca (),  voll., Bruxelles . ., L’hagiographie byzantine au service de l’histoire, in “Subsidia hagiographica”, LI, , pp. -.  .,  ., La cristianità e l’idea di crociata, Bologna  (ed. or. La chrétienté et l’idée de croisade,  voll., Paris -).  ., Dizionario del ciclo di re Artù, Milano  (ed. or. El rey Arturo y su mundo. Diccionario de mitología artúrica, Madrid ).  ., Biblioteca arabo-sicula ossia Raccolta di testi arabici che toccano la geografia, la storia, le biografie e la bibliografia della Sicilia, Lipsia  (in lingua araba; trad. it.,  voll., Torino -). ., Carte comparée de la Sicile moderne avec la Sicile au XIIe siècle, d’après Edrisi et d’autres géographes arabes. Notice, Paris ; nuova ed. in Id., Tardi studi di storia arabo-mediterranea, a cura di F. Giunta, Palermo , pp. -. ., Appendice alla “Biblioteca arabo-sicula”, Lipsia  (in lingua araba; trad. it. Torino ). ., Seconda Appendice alla “Biblioteca arabo-sicula”, Lipsia  (in lingua araba).  ., Petrarca, in La letteratura italiana. Storia e testi, diretta da C. Muscetta, vol. II, t. , Il Trecento, Bari , pp. -.  . (ed.), Quaternus de excadenciis et revocatis Capitanatae de mandato imperialis maiestatis Frederici secundi, Montis Casini .  .,  ., Alle origini del notariato italiano, “Studi storici sul Notariato italiano”, , Roma . Analecta Franciscana sive Chronica aliaque varia documenta ad historiam fratrum minorum spectantia, edita a Patribus Collegii S. Bonaventurae,  voll., Ad Claras Aquas -.  ., L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Torino  (ed. or. Die Antiquiertheit des Menschen, Beck, München ).  ., Lexique des termes de botanique en latin, Paris .  . et al. (a cura di), Repertorio della cronachistica emiliano-romagnola. Secoli IX-XV, Roma .  . (a cura di), Atti di Cremona dei secoli X-XIII nelle collezioni dell’Accademia di Scienze dell’URSS, Mosca-Leningrado .  ., La pittura fiorentina e il suo ambiente sociale nel Trecento e nel primo Quattrocento, Torino  (ed. or. Florentine Painting and Its Social Background: The Bourgeois Republic before Cosimo de’Medici’s Advent to Power, XIV and Early XV centuries, London ).



FONTI E TESTI CITATI

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

CAPIRE IL MEDIOEVO

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CAPIRE IL MEDIOEVO

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

CAPIRE IL MEDIOEVO

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

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

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CAPIRE IL MEDIOEVO

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

CAPIRE IL MEDIOEVO

 ., The Jews in the Byzantine Empire: -, Athens .  ., Contributo allo studio della diplomatica siciliana dei tempi normanni. Diplomi di fondazione delle chiese episcopali di Sicilia (-), in “Archivio storico siciliano”, XVIII, , pp. -.   ., Quelques aspects du problème du temps au Moyen Age, in “Etudes suisses d’Histoire générale”, XVII, .  ., Un circolo di poeti siciliani ebrei nel secolo XII, in “Bollettino del Centro di Studi filologici e linguistici siciliani”, IV, , pp. -.  ., Dokumente zur Geschichte der Kastellbauten Kaiser Friedrichs II. und Karls I. von Anjou, vol. I, Capitanata; vol. II, Apulien und Basilicata, Leipzig - (nuova ed. Tübingen ). ., Beiträge zur Verfassungs- und Verwaltungsgeschichte des Königreichs Sizilien im Mittelalter, Aalen . ., L’amministrazione dei castelli nel regno di Sicilia sotto Federico II e Carlo I d’Angiò, a cura di C. D. Fonseca, H. Houben, F. Panarelli, Bari .  ., Francesco Petrarca. Ein Intellektueller im Europa des . Jahrhunderts, München  (monumentale biografia che ricostruisce ogni aspetto della vita e dell’impegno del poeta, dei suoi continui viaggi per l’Europa, della sua concezione della realtà come spectaculum, del suo entusiasmo per Cola di Rienzo, del suo sogno di una unità dell’Italia settentrionale).  ., The Revival of Narrative: Reflections on a New Old History, in “Past and Present”, , , pp. - (trad. it. Il ritorno al racconto: riflessioni su una nuova vecchia storia, in Id., Viaggio nella storia, Bari , pp. -). La storiografia altomedievale. XVII Settimana di studio del Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo (- aprile ), Spoleto .  ., Einführung in das Mittelalter, Berlin .   . ., Acta imperii inde ab Henrico I usque ad Henricum II adhuc inedita, Innsbruck -.  . (hrsg.), Die Konstitutionen Friedrichs II. für das Königreich Sizilien, MGH, Constitutiones et acta publica imperatorum et regum II, Supplementum, Hannoverae  (edizione affidabile perché ricostruita sulla complessa tradizione manoscritta e a stampa delle Constitutiones; oltre il nucleo melfitano, sono stati presi in considerazione anche i successivi interventi legislativi e quelli recuperati dalle Assise normanne).  ., Pilgrimage: An Image of Mediaeval Religion, Totowa (NJ) .  ., Uomini e terra nell’Alto Medioevo, in Agricoltura e mondo rurale in Occidente nell’Alto Medioevo. XIII Settimana di studio del Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo (- aprile ), Spoleto , pp. -. ., Lo studio delle istituzioni medievali in Italia, in Convegno dell’Associazione dei medioevalisti italiani. Roma,  maggio- giugno , Bologna , pp. -. ., Egemonie sociali e strutture del potere nel Medioevo italiano, Torino . ., Manzoni e la questione longobarda, in AA.VV., Manzoni e l’idea di letteratura, Torino , pp. -. ., Dai re signori. Forme di trasmissione del potere nel Medioevo, Torino .



FONTI E TESTI CITATI

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

CAPIRE IL MEDIOEVO

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

FONTI E TESTI CITATI

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 ., Boccaccio lettore di Dante, in Giovanni Boccaccio editore e interprete di Dante, Firenze , pp. -.

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., Le vite de’più eccellenti pittori, scultori et architettori, in Id., Le opere, a cura di G. Milanesi, vol. II, Firenze .

., Le vite de’più eccellenti pittori, scultori e architettori nelle redazioni del  e del , a cura di R. Beltrami, commento di P. Barocchi,  voll., Firenze -.  ., Degli habiti antichi e moderni di diverse parti del mondo, Venezia  (in poche biblioteche si trova questa edizione: è più frequente quella curata da P. Didot, Parigi ).  ., Il populismo russo,  voll., Torino . ., Settecento riformatore, vol. I, Da Muratori a Beccaria (-), Torino .  ., Il mondo nuovo, a cura di M. Pozzi, Milano .  ., Tancredi di Lecce nella storiografia medievale, in B. Vetere, H. Houben (a cura di), Tancredi, conte di Lecce re di Sicilia. Atti del Convegno internazionale di studio (Lecce, - febbraio ), Galatina , pp. -.  ., Come si scrive la storia. Saggio di epistemologia, Roma-Bari . ., La storia concettualizzante, in J. Le Goff, P. Nora (a cura di), Fare storia. Temi e metodi della nuova storiografia, Milano , pp. -. Il viaggio di Carlo Magno in Oriente, a cura di M. Bonafin, Parma .  . ., La donazione di Costantino, Bologna . Vies des saints et des bienheureux selon l’ordre du calendrier avec l’historique des fêtes, par les RR.PP. benédictins de Paris,  voll., Paris -.  , Nuova cronica, a cura di G. Porta,  voll., Parma -.  , La filosofia positiva e il metodo storico, in Id., Saggi di storia, di critica e di politica, Firenze , pp. - (a ed. in “Il Politecnico”, gennaio ).  , Resti faunistici da uno scarico medievale del castello di Fiumedinisi (Messina), in “Archeologia medievale”, XV, , pp. -.   , Speculum naturale, Parisiis . ., De eruditione filiorum nobilium, ed. by A. Steiner, Cambridge (MA) .  ., Lo studio dei documenti privati per la storia medievale fino al secolo XII, in Fonti medioevali e problematica storiografica. Atti del Congresso internazionale tenuto in occasione del ° anniversario della fondazione dell’Istituto storico italiano (-): Roma, - ottobre , vol. I, Roma , pp. -. ., La fine della “grande illusione”. Uno storico europeo tra guerra e dopoguerra: Henri Pirenne (-). Per una rilettura della “Histoire de l’Europe”, Bologna .



CAPIRE IL MEDIOEVO

., Le contraddizioni della storia. Dialogo con Cosimo Damiano Fonseca, Palermo .

 . ., Corpo e sepoltura nei testamenti della nobiltà napoletana: XVIXVIII secolo, in “Quaderni storici”, , , pp. -. La vita comune del clero nei secoli XI e XII. Atti della prima Settimana internazionale di studio (Mendola, - settembre ),  voll., Milano .  ., Breviario della storia di Genova. Lineamenti storici e orientamenti bibliografici,  voll., Genova .  ., Città e coscienza cittadina nel Mezzogiorno medievale, Salerno . . (a cura di), Pellegrinaggi e itinerari di santi nel Mezzogiorno medievale, Napoli . ., Medioevo. I caratteri originali di un’età di transizione, Milano .  ., Le radici della fantasia eroica, in Heroic Fantasy, a cura di L. Carter, Roma .  ., La storiografia del dopoguerra, in “Corriere della Sera”,  novembre . ., Il Medio Evo (), a cura di S. Moretti, Introduzione di C. Violante, RomaBari . , Essai sur les moeurs et l’esprit des nations, in Id., Œuvres complètes, éd. par F. Beuchot, vol. XVI, Paris . ., Essai sur les moeurs et sur les principaux faits de l’histoire depuis Charlemagne jusqu’à Louis XIII, éd. par R. Pomeau, Paris .  ., I “Libelli miraculorum” fra religiosità e politica. Napoli, secoli IX-XII, Napoli .  ., Annales minorum seu trium ordinum a S. Francisco institutorum (),  voll., Ad Claras Aquas -.   ., Die Vasallen Christi: Kulturgeschichte des Johanniterordens im Mittelalter, Wien .  . (hrsg.), Mittelalter-Rezeption. Ein Symposion, Stuttgart .  ., Donne del deserto, Magnano .  ., Anleitung zur lateinische Paläographie, Leipzig .  ., Deutschlands Geschichtsquellen im Mittelalter bis zum Mitte des XIII . Jahrhunderts,  voll., Berlin -.  .,  ., Deutschlands Geschichtsquellen im Mittelalter. Vorzeit und Karolinger,  voll., Weimar -. ., Deutschlands Geschichtsquellen im Mittelalter. Vorzeit und Karolinger, vol. VI, Die Karolinger vom Vertrag von Verdun bis zum Herrschaftsantritt der Herrscher aus dem sächsischen Hause. Das ostfränkische Reich, hrsg. von H. Löwe, Weimar .  . . ., Pontificum romanorum qui fuerunt inde ab exeunte saeculo IX usque ad finem saeculi XIII vitae, Lipsiae  (repr. Aalen ).  ., Savonarola and Florence: Prophecy and Patriotism in the Renaissance, Princeton .  ., Ergebnisse eines Vergleichs der grundherrschaftlichen Strukturen Deutschlands und Frankreichs vom . bis zum Ausgang des . Jahrhunderts, in



FONTI E TESTI CITATI

Vierteljahrschrift für Sozial und Wirtschaftsgeschichte, Wiesbaden  (sulla base dei risultati della recente storiografia l’autore costruisce un confronto fra strutture economiche che caratterizzarono e diversificarono l’economia rurale della Francia e della Germania lungo i secoli XIII e XVIII; emergono un impianto rurale francese che «assecondava il movimento centripeto da cui la nazione di Francia uscì territorialmente unitaria», e una organizzazione terriera germanica «che accentuava le diversificazioni regionali di prodotti e di costume, fonte dell’esistenza di molte patrie tedesche»).  . . , I grandi della fisica, Roma .  . ., The Hereford Map: A Transcription and Translation of the Legends whit Commentary, Turnhout  (primo volume della collana “Terrarum Orbis” diretta da P. Gautier Dalché, dedicato alla storia delle rappresentazioni dello spazio in testi e immagini).  ., Tecnica e società nel Medioevo, Milano .  ., Early Medieval Italy, London .  ., Papsturkunden in Frankreich. Reiseberichte zur Gallia pontificia (-), Città del Vaticano .  . ., Vita del Petrarca e La formazione del “Canzoniere”, a cura di R. Ceserani, Milano .  . ., The Chief Sources of English Legal History, Cambridge (MA) .  ., Acta imperii inedita. -,  voll., Innsbruck -.  ., Le temps et sa mesure au Moyen Age, in “Annales ESC”, XVII, .  ., I catasti, in R. Romano, C. Vivanti (a cura di), Storia d’Italia, vol. V, t. , I documenti, Torino , pp. -.   ., Archivi e memoria storica, Bologna .  ., Documenti per la storia del diritto marittimo nei secoli XIII e XIV, Torino .   ., Il Corano e il male, Torino  (raffinata esposizione dell’esegesi sunnita).  ., Papsturkunden, -,  voll., Wien -.  ., Lexicon hebraicum Veteris Testamenti, Romae  (rist. anast. ).  ., L’amministrazione della giustizia penale nelle Repubbliche fiorentine. Aspetti e problemi, Firenze . ., Giustizia criminale e criminalità nell’Italia del Tardo Medioevo: studi e prospettive di ricerca, in “Società e Storia”, XLVI, , pp. -. ., Giusdicenti e operatori di giustizia nello stato territoriale fiorentino del XV secolo, in “Ricerche storiche”, XIX, , pp. -. ., La justice pénale dans les états italiennes (communes et principautés territoriales) du XIIIe au XVIe siècle, in X. Rousseau, R. Lévy (éds.), Le pénale dans tous ses états. Justice, états et sociétés en Europe, XIIe-XXe siècles, Bruxelles , pp. -.  ., Leggere il Medioevo, Bologna . ., La misura del mondo. La rappresentazione dello spazio nel Medioevo, Bologna .



Indice dei nomi e delle cose notevoli*

Abbagnano N., n abbigliamento (e copricapi),  Abelardo Pietro,  Abramson M. L., n accademie,  accadimenti, -,  Adamo, nome attribuito dalla Bibbia al primo uomo, ,  Adamo da Cremona,  Adelasia (Adelaide) del Vasto, moglie di Ruggero I, poi di Baldovino I,  Adeleita, madre di Ezzelino III da Romano,  Adolfo di Lapo,  Agazia (Agatia), poeta e storico bizantino,  agiografia,  testi di, - lettura e interpretazione dei testi di, - Agostino Aurelio, santo,  e n, , , ,  Agostino di Canterbury, santo,  Agrimi J.,  Aiello N., n Ainardo,  Alberico da Montecassino,  e n Alberti Leon Battista, ,  Alberto di Giussano, esponente della Lega lombarda contro il Barbarossa, n Alboino, re dei longobardi,  Aldea Vaquero Q., 

Alembert J. B. Le Rond, detto d’,  Alessandro II (Anselmo da Baggio), papa,  Alessandro III, re di Macedonia, detto Magno o il Grande,  Alfonso IV, re d’Aragona, detto il Buono,  Alfonso V, re d’Aragona, di Sicilia e di Sardegna, detto il Magnanimo (Alfonso I come re di Napoli), , ,  Al-Idrisi, , n Alkin F., ,  Alphandéry P., n Alsted S. H.,  Altenstein Karl, barone von Stein zum,  Alvar C.,  Amann E.,  amanuense, - Amari M., ,  Amaturo R., n Amelotti M.,  America, scoperta dell’,  analfabetismo,  Anassimandro di Mileto,  Anastasio I, imperatore,  Anders G., n André J.,  Andreolli B.,  Andriolo Tommaso, notaio di Messina,  e n,  anello piscatorio, -

* Il nome è dato per esteso solo per i personaggi e gli autori dell’epoca.



CAPIRE IL MEDIOEVO

“Annales”, -,  scuola delle,  annali,  Annaud J. J., n Anninskij A.,  Annio da Viterbo,  anno, inizio e durata dell’,  Antal F., n Antonello da Messina (Antonio de Antonio),  Antoni F.,  Antonio, abate, santo,  Antonio da Padova, santo,  appretium,  Apuleio,  araldica,  archeologia medievale, - archivi assestamento in Italia, dopo l’Unità, degli,  capitolari, ,  comunali,  diocesani (arcivescovili e vescovili),  di pievi e parrocchie, - di Stato come orientarsi negli, - pratica conservativa negli, - familiari, cfr. archivi privati ecclesiastici, - privati, - archivio, , - Archivio della corona d’Aragona,  Archivio della Geniza,  Archivio di Stato di Firenze, collocazione del materiale documentario nell’,  Archivio di Stato di Milano,  Fondo di Religione nell’,  Archivio di Stato di Palermo, , , , n collocazione del materiale documentario nell’,  Archivio di Stato di Roma,  Archivio segreto vaticano, - Are G., n Arendt H., n Arens F., 

Argan G. C.,  Arias G.,  Ariberto da Intimiano, arcivescovo di Milano,  Ariès Ph., , n, n Ariosto Ludovico, ,  Aristotele, , , -,  Arnaldo da Brescia, n Arnaldi F.,  Arnaldi G., ,  Artifoni E., n, n, n, n Artù (Arthur), cavaliere bretone vissuto nella prima metà secolo VI, ,  Ascheri M., ,  Asor Rosa A., n,  Assise di Ariano, - Associazione archivistica ecclesiastica di Roma,  Atanasio, vescovo di Alessandria, santo,  atti accademici,  atti notarili edizione degli,  formulari per la stesura degli,  stesura degli, - Attila, re degli unni,  Attolini V., n Auerbach E., ,  Auffret D., n Augusto Gaio Giulio Cesare Ottaviano, imperatore, ,  Aureliano Lucio Domizio, imperatore,  autobiografie, - Avalle D’A. S., n Azara A.,  Bacone Ruggero (Roger Bacon),  Badini G.,  Bagley J. J., n Bak J. M.,  Balbi Giovanni,  Balbo C., , n Ballester y Castell R.,  Baltru&aitis S., n Baluze E.,  Banti O.,  Barbadoro B.,  Barbagallo C., 



INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI

Barbolini R., n Barnes R.,  Baroni M. F., - Baronio C., ,  Barthes R., n Bartoli Langeli A.,  Bartolomeo di Bononia, notaio di Palermo,  Bartoloni F.,  Bastiano di Ser Schiatta, Ser,  Bataillon L. J.,  Battaglia S.,  Baudrillart A.,  Baxter J. H.,  Bayeux, arazzo di, - Bayle P.,  Bec Ch., ,  Becht-Jördens G., n Becket Thomas, santo,  Beckmann G.,  Beda il Venerabile, , - Belgrano L. T.,  Bellarmino Roberto, santo,  Bellone E., n Below G., n Bembo Pietro,  Benassi U.,  Ben Jelloun T., n Benedetto da Norcia, santo,  Benigni P., n Berengo M.,  Berlinguer G.,  Bernardino da Siena, santo,  Bernardo di Chiaravalle, n Berr H., ,  Bertelli S., n, n, n, n Bertini F.,  Bertolini O.,  Besta E., ,  Bevacqua R.,  Bibbia, , , , ,  bibliografia, - Biblioteca Ambrosiana,  Biblioteca apostolica vaticana,  Biblioteca di Alessandria,  Biblioteca nazionale di Firenze,  Biblioteca reale di Napoli, 

biblioteche, -,  elenco delle più antiche in Italia,  elenco delle più importanti nel mondo, - funzioni delle,  Bieler L.,  Billanovich G., n biografie, - Biondo Flavio,  Bisanti A.,  Blaise A.,  Blatt F.,  Bloch M., , n, , , , n, , n, n, , n,  e n, , , , n, , n, -,  Bloch R. H.,  Blumenkranz B.,  Bobbio N., n Boccaccio Giovanni,  e n, n,  Bocchi F.,  Böckenförde E. W., n Bodin Jean, n Boecler J. H.,  Boesch Gajano S., , , n Boezio Severino, ,  Bofarull P. de,  Böhmer J. F.,  e n,  Bolland J., , ,  bollandisti, Società dei,  bolle pontificie,  Bollea L. C.,  Bologna, Università degli studi di,  Bolzoni L.,  Bonaini Francesco,  Bonaventura da Bagnoregio, santo,  Boncompagno da Signa,  e n Boncompain J.,  Bongiovanni B., n Bonifacio VIII (Benedetto Caetani), papa,  Bonincontri Lorenzo,  Bonvesin da La Riva,  Boorman J.,  Borges J. L.,  Borromeo Federico, cardinale,  Bosco U., n Bossi U., n Bossuet G. B.,  Boswell J., 



CAPIRE IL MEDIOEVO

Boüard A. de,  Bourin J., n Boutruche R.,  Bowna C. M.,  Bowsky M. W.,  Boyle L. E.,  Bozzacchi P.,  Brackmann A.,  Branca V.,  Brandileone F.,  Brandt R.,  Braudel F.,  Braunfels W.,  Bremond A.,  Bresslau H.,  Bresson R.,  brevi pontifici, -,  Brezzi P., ,  Brigati N., n, n Briquet Ch. M.,  Brom G.,  Brooke C.,  Brooke R.,  Bruegel Pieter il Vecchio,  Brühl C., ,  Bruni Leonardo,  Brunner H.,  Bruno Giordano,  Buchberger M.,  Bücher K.,  Buchon J. A.,  Buchwald W.,  Buonaiuti E.,  Burcardo, canonista e vescovo di Worms,  Burcher R.,  Burckhardt J., , , , n Burdach K.,  Burgarella P.,  Burke P.,  Burmann P., ,  Busa R., n Bussi Giovanni Andrea, ,  Butler L.,  Byatt A.,  Cabrol F.,  Caenegem R. Ch. van, 

Caffaro di Rustico,  Caggese R.,  Cagiano de Azevedo M.,  Calasso F., , ,  Calcaterra C., n, n calendario, storia del,  Calisse C.,  Calvino I.,  Calzolari C. C.,  Cambridge, Università degli studi di,  Cambronne P.,  Camden William,  Camera M.,  Camerani Marri G., n Cammarosano P., , n,  Camus A.,  cancellarius (cancelliere), , - cancelleria pontificia (o vaticana), -, ,  cancellerie, struttura e funzionalità delle,  Canivez J. M.,  canti liturgici (responsoriale, antifonico, corale),  Cantimori D., n, n, n, n, n, n, , n, n, n,  Cantoni G.,  Cantù C.,  Cantucci M.,  Capasso B.,  Capitani O., , ,  capitolare di Quierzy,  capitolari,  Capitulare de villis, - capitularia ecclesiastica,  mundana,  Caplan H., n,  Capo L.,  Cappelli A.,  Caracciolo A.,  Caraffa F., - Carandini A.,  Caravale M., , n, n, n Cardini F., n, , , n,  e n,  Cardona G. R., n,  Carducci G.,  Carlo I d’Angiò, re di Sicilia, , 



INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI

Carlo II, imperatore, detto il Calvo,  Carlo IV di Lussemburgo, imperatore (Carlo I come re di Boemia),  Carlo Alberto di Savoia-Carignano, re di Sardegna,  Carlo Magno, re dei franchi e imperatore, , , , -, , , , ,  Carocci S., , n Carpaccio Vittore,  Carpentier E.,  Carr E. H.,  Carrasi G. C.,  Carratori L.,  carta filigrana,  preparazione della, - carte geografiche,  carte-portulano,  Cartesio R. (R. Descartes), n, , ,  cartiere, le più antiche in Europa,  cartografia medievale,  Carucci P.,  Caruso G. B., ,  Casetti A.,  Casini B.,  Caspar E., ,  Cassese L.,  Cassiana (Cassia), monaca e innografa bizantina,  Cassiodoro Flavio Magno Aurelio, n, , - epistolario di,  Castellani A., n,  Castiglione Baldassarre,  castità, ricorso alla,  Castronovo V.,  Catalogus baronum, ,  catasto fiorentino (), - Catoni G.,  Cattaneo C.,  Cattin G., n Caucci von Saucken P., n Cavalca Domenico,  Calvalcoli Andreoni V.,  cavaliere,  Cavallo G.,  e n, n,  Ceccarelli M. L., 

Cellarius, cfr. Keller Ch. Cellini Benvenuto,  Celtis Konrad (Konrad Bickel),  Cencetti G., n,  centri italiani di studi per il Medioevo, n Centro di cultura e civiltà della Fondazione Giorgio Cini,  Centro di studi normanno-svevi (Bari), n Centro di studi sulla civiltà del Tardo Medioevo (San Miniato), , n, ,  Centro europeo di studi normanni (Ariano Irpino),  Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo (Spoleto), ,  Ceronetti G.,  Certeau M. de, n Cesare Gaio Giulio, ,  Cessi R.,  Chabod F., n, n,  e n,  Charland Th. M.,  charta bombycina,  chartae (private e pubbliche), , , , - Chartier R., n Charvin G.,  Chateaubriand F. R. de, ,  Chaucer G., n Chelazzi C.,  Chenu M. D., n Cherubini G., , n, -, n Chesneaux J., - Chevalier U.,  Chiaudano M., , ,  Chiesa P.,  Chilovi D.,  Chiusano I. A., n Chrétien de Troyes,  Christie A., n Cicerone Marco Tullio, ,  Cimabue (Cenni di Pepo), ,  Cini M.,  Cipolla C.,  Cipolla C. M., n Cirillo di Alessandria,  Cirillo Mastrocinque A., 



CAPIRE IL MEDIOEVO

città (come espressione di un modo di essere e di pensare),  Clanchy M. T.,  Clemente I (Clemente Romano), papa, santo, ,  Clemente IV (Gui Le Gross Foulques), papa,  Clemente Alessandrino (Tito Flavio Clemente),  Clodoveo, re dei franchi,  e n Cobb R., n Cocqueline C.,  Coli D., n Collegio di San Bonaventura (Quaracchi),  Colombano, santo,  Colonna E., n Colonna Giovanni, cardinale, ,  Comba R.,  Comnena Anna, ,  Compagni Dino,  e n,  Compagnino G., n Concilio di Basilea-Ferrara-Firenze,  di Chalon-sur-Saône,  di Costanza, ,  di Firenze,  di Trento,  Lateranense IV,  Condorcet, M. J. A. N. Caritat de, - Conrad H., ,  Constable G.,  Constitutio de feudis,  Constitutum Constantini,  consuetudini, ,  Contarini Gaspare, cardinale,  Conti E.,  Controriforma, cfr. Riforma cattolica Copernico Nicola (Nikolaj Kopernik),  copista, cfr. amanuense Corano, n, n,  Corio Bernardino,  corporazioni religiose soppresse, fondi delle, ,  corporazioni, statuti delle,  “Corpus Christianorum. Continuatio mediaevalis”, -

“Corpus Christianorum. Series latina”,  “Corpus Scriptorum ecclesiasticorum latinorum” (CSEL),  “Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae” (CSHB),  Corrado II, re di Germania e imperatore, detto il Salico,  Corrao P.,  Corti M.,  Cosentino G., n Costadoni A.,  Costamagna G., ,  Costantino I, imperatore, detto il Grande, , , , ,  monogramma di,  Costantino VII, imperatore, detto Porfirogenito,  Costanza, cfr. Concilio di Costanza pace di, ,  Costanza d’Altavilla, regina di Sicilia e imperatrice,  Coste J.,  Costituzioni di Melfi, cfr. Liber Constitutionum Cottineau L. H.,  Cracco G.,  Cranach Lucas,  Cravetto E.,  Cremaschi G., n Crevatin G., n Criscuolo U.,  Cristiani G. F.,  Cristiani M., n critica storica, antologia di,  Crivellucci A.,  Croce B., , , n, n, , -,  e n, , n, , n,  e n, ,  e n,  Croce G. C.,  crociate, -,  cronache, - Cronne H. A.,  cronologia,  Crouzet M., n cultura materiale, storia della,  culture, le due, - Cuozzo E., 



INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI

Curtius E. R., n, ,  Cusa S.,  Danella P.,  Daneu Lattanzi A.,  D’Angelo E., ,  D’Angiolini P.,  Daniélou J.,  Dann O., n Dante Alighieri, , , n, ,  e n, , ,  D’Aquino P.,  Darwin Ch. R.,  datazione sistema cristiano di, - sistemi di, , , - stile dell’incarnazione,  stile della natività,  Datini Francesco di Marco da Prato, - Datini Margherita, moglie di Francesco,  Daumard A.,  Davis H. W. C.,  Davis J., n Dazzi M. T., n De Bartholomaeis V.,  De Caprio V., n De Ferrariis Antonio, detto il Galateo, n defetari,  Degli Azzi G.,  Dekkers E.,  Delayato Giovanni,  Delcorno C., n, n,  De Leo P.,  De Leva C.,  Delisle L. V., ,  Della Casa Giovanni,  Della Volpe G., n Delogu P.,  Del Re G.,  Del Treppo M.,  Delumeau J.,  Del Vasto V., n De Mauro T., n Democrito, n,  dendrocronologia, studi di,  Denicolai P., n

Detienne M.,  De Turris G., n De Vitt F.,  Díaz y Díaz M. C.,  Di Capua F., n Dicke G., n,  Diderot D.,  Diener H.,  Dietskra F. N. M.,  Dilthey W.,  Di Meo A.,  Diocleziano Gaio Aurelio Valerio, imperatore, ,  Dionigi il Piccolo,  Dionisotti C., n, n diplomatica, studi di, ,  diplomi,  imperiali, tipologia dei, - pontifici, tipologia dei,  diritto, storia del,  Di Stefano G.,  dizionari di vicende religiose, - italiani e stranieri, - Dizionario Biografico degli Italiani,  documenti, , , ,  falsi, procedimenti materiali e mentali dei, - mercantili, - metodologia e lettura critica dei,  perdita di, - verità diplomatica e verità storica dei, - Dölger, F.,  Domenico di Guzmán, santo,  Domesday Book, , - Domínguez Ortiz A.,  Donati C., n Doolittle D., n Dopsch A., , ,  Doren A.,  Dotto G., n Doyle A. C., sir,  Drei G.,  Droysen J. G., , , , ,  Duby G., , , n Du Cange Ch. Du Fresne, , ,  Duchesne A., ,  Duchesne L., n, 



CAPIRE IL MEDIOEVO

Dupré Theseider E.,  Dupront A., n Durkheim E.,  Eco U., -, , ,  Ecole des chartes,  Ecole pratique des hautes études,  Edictum de beneficiis regni Italici, cfr. Constitutio de feudis Edler F.,  Egidi P.,  Eginardo, , ,  Ehrard J., n Einstein A., ,  Elena, sposa di Menelao,  Eliot Th. S., n Eloisa, nipote di Fulberto e sposa segreta di Abelardo,  Elton G. R.,  enciclopedie, - del diritto,  del diritto canonico,  dell’arte e dell’iconografia,  dell’islam,  ebraiche,  italiane e straniere, elenco di, - medievali,  specialistiche, - Encyclopédie,  Engels F.,  Ennodio Magno Felice, santo,  Enrico, duca di Baviera e di Sassonia, detto il Leone, n,  Enrico I, re di Francia,  Enrico II Plantageneto, re d’Inghilterra,  Enrico IV, re di Germania e imperatore,  Enrico VI, re di Germania, dei romani, di Sicilia e imperatore, ,  Enzensberger H. M.,  Enzo, figlio naturale di Federico II, re di Sardegna,  epistola forma peculiare dell’Umanesimo,  come impostare e scrivere una, -,  epistolari, -

epistolografia, processo di sviluppo della, - epistulae, - Erasmo da Rotterdam (Desiderius), -,  Ermanrico (della stirpe degli Amali), re degli ostrogoti,  Erode I, re di Giudea, detto il Grande,  Erodoto,  e n, ,  erudizione,  Esch A., n Eschilo,  Eubel C., ,  Eula E.,  Eva, nome imposto da Adamo alla prima donna,  Ewald P.,  Ezzelino III da Romano, signore di Verona, Vicenza e Padova, detto il Feroce,  Faba Guido,  Fainelli V.,  Falco G., n, n, n,  e n, n, n, n, n, n, n Falcone Beneventano,  Falconi E., - Falkenhausen V. von,  Fantuzzi M.,  Fasoli G., n,  fate,  Faulhaber Ch. B.,  Favier J.,  favole, - rapporti fra uomini e animali nelle, n,  Febvre L., n,  e n, , n, n, , , , n Fedele P.,  Federico I da Montefeltro, duca di Urbino,  Federico I di Hohenstaufen, detto il Barbarossa, re di Germania, imperatore,  e n, , , , -, ,  Federico II di Hohenstaufen, re di Germania e di Sicilia, imperatore, , , -, , , , , -, -, , , ,  e n, 



INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI

Federico III, re di Prussia,  Fedro Gaio Giulio,  Feo M., n Ferguson W. K., n, n Fernández de Navarrete M.,  Ferraù G., n fiabe,  Ficker J.,  Ficoroni F., n Figlia F.,  Filangieri R., ,  Filarete, Antonio Averlino, detto il,  Filippo II, re di Macedonia, detto il Macedone,  Filippo II Augusto, re di Francia,  Fineschi S.,  Fink C., n Fink K. A.,  Finke H., ,  Fioravanti Melli G., n Fiorini V.,  Fissore G. G., , n Flaubert G.,  e n Flores d’Arcais P.,  Flori J., n Fonseca C. D., n, n, ,  Fontana L.,  fonti, - affidabilità delle, - ambiguità e reticenze delle, -,  archeologiche, - classificazione delle, - collane di francesi,  inglesi,  spagnole,  tedesche,  con traduzione italiana, - definizione di, - ecclesiastiche, collane di, - edizioni di,  edizione critica delle, - edizione diplomatica delle, ,  epistolografiche, cfr. epistolari; epistolografia finanziarie, ,  fiscali, -, 

giudiziarie ecclesiastiche, - giudiziarie laiche, ,  legislative e normative, - lettura e interpretazione delle, - linguaggio e codici espressivi delle, - liturgiche, cfr. scritture liturgiche mute, - orali, - osteologiche animali e umane,  per la giustizia civile, - per la giustizia penale,  pubblicazione delle,  raccolte di,  regionali e locali, collane di, - scritte lettura e utilizzazione delle, - produzione e uso delle, - storicizzazione delle,  testi letterari, - tipologie delle, - “Fonti per la Storia d’Italia” (FSI), - Fozio, erudito bizantino,  Francesco I, re di Francia,  Francesco d’Assisi, santo ,  Franchetti Pardo V., n Francovich R.,  Freculfo di Lisieux, vescovo,  Frenz Th.,  Friedrich G.,  Fros H.,  Frye N., n Fuchs R., n Fuhrmann H., ,  e n Fukuyama F.,  Fusco S., n Fustel de Coulanges N. D.,  Gaar E.,  Gabler E., n Gabotto F.,  Gaeta F., n,  Gaetani O., n Galasso G., , n,  Galilei Galileo, , - Galligaris G., n Gallina M., n Gallone C., 



CAPIRE IL MEDIOEVO

Gambara, figura femminile mitica della tradizione longobarda, n Gams P. B.,  Gangemi M. L.,  Ganshof F. L.,  Ganz P. F., n García Márquez G., n García y García A.,  Garin E., , n, , n, n, n, n Gatta F. S.,  Gatterer J. C., n Gatti P.,  Gaudioso M.,  Gauss K. F.,  Gavet G.,  Gelasio I, papa, santo,  Gemini F., n, n Genesi, primo libro della Bibbia,  Genette G.,  Génicot L., , , ,  Gentile G.,  Gerberto di Aurillac,  Gerbhardt B.,  Geremek B., ,  Gerolamo (Girolamo), santo,  Gerratana V., n Gervasio di Tilbury,  Gesner C.,  gesti e parole,  Gesualdo G.,  Gesù Cristo, , , - Geymonat L., n Giacomo da Lentini,  Giacomo II, re d’Aragona, detto il Giusto,  Giacomo di Vitry, ,  Giannelli G., ,  Giannone P.,  Gibbon E., - Giglio Girolamo,  e n Gilbert F.,  e n Gilson E., n Ginzburg C., n Gioacchino da Fiore,  Gioacchino Murat, re di Napoli,  Gioberti V.,  Giorello G., n

giorno, inizio e durata del,  Giotto di Bondone,  Giovanni, re d’Inghilterra, detto Senzaterra,  Giovanni, Vangelo di, ,  Giovanni XIII, papa, ,  Giovanni XXII (Jacques Duèze), papa,  Giovanni da Pian del Carpine,  Giovanni di Capua,  Giovanni di Salisbury,  Giovanni Immonide,  Girouard M.,  Giuffrida A.,  e n giuliana, registri notarili detti, n Giuliano A., n,  Giulini Giorgio,  giullari,  Giunta F.,  Giustiniano I, imperatore, ,  giustizia e potere,  Given-Wilson C.,  Gloria A.,  glossari, - Goethe J. W.,  Goffredo di Magonza, arcicancellario imperiale,  Göller E., ,  Gouthier G., n Graeve J. G., ,  Graf A., , n,  Graff Th.,  Gramsci A., ,  Gransden A.,  Grégoire R.,  Gregorio I (della famiglia degli Anicii), papa, santo, detto Magno, , , ,  epistolario di,  Gregorio IX (Ugo, o Ugolino, dei conti di Segni), papa,  Gregorio XIII (Ugo Boncompagni), papa,  Gregorio di Tours (Gregorio Turonense), , ,  Gregorio Nazianzeno,  Gregorio R.,  Grierson Ph., 



INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI

Grimm J.,  Grimm W.,  Grohmann A.,  Grotta D., n Grubmüller K., n,  Grundmann H., , n Guarracino S.,  Guccione M. S.,  Guenée B.,  Guglielmo I, re d’Inghilterra, detto il Conquistatore,  Guglielmo I, re di Sicilia, detto il Malo,  Guglielmo II, re di Sicilia, detto il Buono, , ,  Guglielmo III, re di Sicilia, n Guglielmo di Puglia,  Guicciardini Francesco,  e n Guidi P.,  Guillou A.,  Guizot F.,  Gulotta P.,  Gurevic A. Ja., n, , n, n,  Gutnova E., n Hagemann W., n Hageneder O.,  Haïdouks, ciclo degli,  Hale J. R., n Haller G.,  Hamman A.,  Harf Lancner L.,  Hartmann L.,  Haseloff A.,  Hasenhor H.,  Haskins C. H., n Hay D.,  Heers J.,  Hefele K. F.,  Hegel G. W. F., , , , ,  Heisenberg W., n Hélinant de Froidmont,  Henschen G.,  Herder J. G.,  Herimann, monaco dell’abbazia di Helmarhausen, n,  Herlihy D.,  Hiestand R., 

Hildebrand B.,  Himmelfarb G.,  Hobsbawm E. J., , n Hofmann G.,  Hohenleutner H.,  Hohlweg A.,  Holder Egger O.,  Holdsworth W. S.,  Holt J. C.,  Holtzmann W., - Hönger F., n Honings B.,  Horn George,  Houben H., n,  Huentemann U.,  Huillard Bréholles J. L. A., n, n,  e n Huizinga J., , -,  Hume D., , n, n Husserl E.,  e n Hutten U. von,  Ibarra y Rodríguez E.,  Ibsen E.,  iconografia, -,  Ildegarda di Bingen, santa, n Imperiale di Sant’Angelo C.,  Inama Sternegg Th. von,  indizione, , - Infurna M.,  Innocenzo III (Giovanni Lotario dei conti di Segni), papa, , , , , - Innocenzo IV (Sinibaldo Fieschi dei conti di Lavagna), papa,  innografia,  Inquisizione, registri del tribunale dell’,  Insabato E.,  Iorio R., n Isidoro di Siviglia, , , ,  Istituti di archeologia, storia e storia dell’arte di Roma, Unione internazionale degli,  Istituto dell’Enciclopedia italiana, ,  Istituto Giovanni Treccani, cfr. Istituto dell’Enciclopedia italiana



CAPIRE IL MEDIOEVO

Istituto internazionale di studi federiciani (Lagopesole), n Istituto storico germanico di Roma,  en Istituto storico italiano, , - Istituto storico italiano per il Medio Evo, , ,  Istituto storico prussiano in Roma,  Ivo di Chartres, epistolario di,  Jackson P., n Jacob K.,  Jacopo da Varazze,  Jacopo della Quercia,  Jaffé Ph.,  Jauss H. R., n Jean de Joinville, , - Jemolo A. C.,  Jenkins R. J. H.,  Johnson C., - Kaeppeli T.,  Kaltenbrunner F.,  Kaminsky H.,  Kant I., n, , , , n Kantorowicz E.,  Kantorowicz H. U.,  Karabacek J.,  Kazhdan A. P.,  Kehr K. A., n,  Kehr P. F., , - Keller Ch. (Cellarius),  Kempf F.,  Kieft C. van de,  Kiesewetter A., n Kinsey, rapporto,  Kirschbaum E.,  Kittel G., ,  Klapisch Zuber Ch.,  Klauser Th.,  Koenigsberger H. G.,  Kohler J.,  Kojève A.,  Kölzer Th., ,  Kooper E.,  Koselleck R., n Kotel’nikova L. A., n

Kubilay Khan, imperatore mongolo della Cina,  Kula W.,  Kundera M.,  Labriola A., , , n Lachmann K., n laico, vari significati nel tempo di,  Lami G.,  Lamprecht K., , ,  Lanfranchi L., n Langlois Ch. V.,  Langosch K.,  Lanzoni F.,  La Roncière Ch. M. de,  Latini Brunetto,  latino medievale, leggere e interpretare il, , - Laura (forse Laureta de Noves, sposata De Sade), donna amata da Petrarca,  Lavagnini B.,  Leclercq H., ,  Lee E.,  Lefèvre Y.,  Lega lombarda,  e n,  leges,  Legnani M., n Le Goff J., n, , , n, , n Lehmann P.,  Leibniz G. W., - Leicht P. S., ,  Lemarignier J. F.,  Lemerle P.,  Leo H.,  e n Leonardi C., ,  Leonardo da Vinci, , ,  Leone I (probabilmente di Volterra), papa, santo, detto Magno,  e n Leone IX (Brunone di Egisheim-Dagsberg), papa,  Leone X (Giovanni de’ Medici), papa,  Leone XIII (Gioacchino Pecci), papa,  Leoni V.,  Leopardi G.,  Le Roy Ladurie E.,  e n,  lessici, - Lettera del prete Gianni, 



INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI

letteratura storica, cfr. bibliografia lettere, cfr. epistulae di cambio, - Levi Pisetzky R.,  Levison V.,  Lewis C. S.,  lezionari,  Liber Augustalis, cfr. Liber constitutionum Liber censuum Romanae Ecclesiae,  Liber constitutionum, -, ,  Liber pontificalis Ecclesiae Romanae,  Libri feudorum,  libri manoscritti, - Libri poenitentiales, cfr. penitenziali licterula,  Lieck Buyken Th. von,  Li Gotti E.,  Limentani A.,  Limentani L.,  linguaggio storico e linguaggio letterario, - Lioublinskaïa A. D., n Lipperini L., n List F.,  Lodolini E.,  Loewenfeld S.,  Löfstedt E.,  Lopez R. S., n, , ,  Lo Piparo F., n,  Lorenz O.,  Löwe H.,  Lubac H. de,  Luca, Vangelo di, n, - Lucrezio Caro Tito, n Luden H.,  Lukács G., n Luigi IX, re di Francia, n Lunardi G.,  Lunigo d’Este Michele, archivista vaticano,  Lunt W. E.,  Lupo Servato de Ferrières, epistolario di,  Lutero Martino (Martin Luther),  Luzzati M.,  Luzzatto G., n, , ,  Lyon B., n

Mabillon J.,  e n, , -,  Machiavelli Niccolò, n,  e n, n, , ,  Maestro di Segovia,  Maffei S., n,  magistrature cittadine,  Magna charta libertatum, - Mainard J.,  Maione da Bari,  Maissonneuve H., n Malaterra Goffredo,  Malerba L.,  e n Manaresi C.,  Mancinelli L., n Mancini M., ,  Mane P.,  Mangenot E.,  Manitius M.,  Mannoni T.,  Manselli R., n,  Mansi G. D.,  manuali, - Manzoni A., -, ,  Manzoni L.,  Maometto, , ,  Map Walter, , ,  mappe, - Marcellino, papa, santo, n March G.,  Marco, santo,  Marculfo,  Margherita, sorella di Francesco I,  Marín Martínez T.,  Marrier A.,  Marrou H. I., n Marsili Luigi, monaco agostiniano amico di Petrarca, n Martin H., n Martin J. B.,  Martin J. M., n, ,  Martin da Canal,  Martina G.,  Martines L.,  Martínez Ferrando J. E.,  Martini G.,  Marx K. H., ,  Mas Latrie L. de, n Massa E., 



CAPIRE IL MEDIOEVO

Massimiliano I d’Asburgo, imperatore,  Mata Carriazo J. de,  materialismo storico, , , - Matilde, moglie di Enrico il Leone,  Matrella M. R.,  Matteo, Vangelo di,  Matteo di Parigi,  Maturi W., n Mazzarino S.,  Mazzei Lapo, n,  Mazzini I., n Mazzoleni J., n Mazzoni F., n McKitterick R.,  mecenatismo,  Medici, famiglia de’,  Medici Cosimo de’, detto il Vecchio,  Medioevo (termine e concetto),  e n, , -, - Meinecke F., n,  Melantone Filippo (Philipp Schwarzerd),  Melis F.,  memoria culto della,  recupero della,  Ménager L. R., ,  Menelao, mitico eroe greco,  menestrelli,  mensa capitolare,  episcopale,  Menzel M.,  Mercuri R., n Merker N., n Merlo G. G.,  mesi, numerazione dei,  Metsys Quentin,  Miccoli G., n Michelangelo Buonarroti,  Michele, arcangelo,  Michele Cerulario, patriarca di Costantinopoli,  Michele Scoto,  Michelet J., ,  Miglio M., , n Migne J. P., , 

Mignemi A., n miles,  Mille e una notte (Alf lailah wa lailah),  Milone L.,  miniature,  Mitra, culto di,  Mittarelli G. B., ,  Mitteis H.,  Mitterrand F.,  modernismo,  Molho A.,  Molinier A., ,  Mollat G.,  Monachino V.,  Monaci E.,  monarchie europee,  monete,  Mongelli G.,  Mongitore A.,  Monod G.,  Montagnini F., ,  Montaigne, Michel Eyquem de,  Montecchi Palazzi Th., n Montesano M., n Montesquieu, Ch. L. de Secondat, barone di La Brède e di,  Montfaucon B. de,  Monticolo G., n “Monumenta Germaniae Historica” (MGH), -, , - progetto dei,  Società dei, - Morandi Benedetto, notaio,  Morandi C., n Morandini F., n Moravcsik G.,  Morelli G., ,  Morelli S.,  Moresco M., ,  Morghen R.,  Morin E.,  Morisi Guerra A.,  Morris W., ,  Morrison C.,  mosaici, n Moscadelli S.,  Moscati R., n



INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI

Moscati S.,  Möser J., ,  Mottola F.,  motupropri, - Mrusek R., n Müller A. H.,  Müller G., n Müller I.,  Mullins E. L. C.,  Munk Olsen B.,  Muntaner Ramón,  Muratori L. A., -,  e n, , , -, n, -, n, , , -, -,  Murphy J. J., ,  Musca G., n, n, , , ,  Muscetta C.,  Mussato Albertino,  Musset L., , n Muzzarelli M. G., n,  Napoleone I Bonaparte, imperatore dei Francesi,  Narbone A., n Natale F.,  Navarrini R.,  Naz R.,  Neckam Alessandro,  Neddermeyer U.,  Nerone Claudio Cesare Druso Germanico, imperatore, ,  Newman M.,  Newton Isaac,  Niccolò II (Gherardo di Borgogna), papa,  Niccolò V (Tomaso Parentucelli), papa,  Nicola de Rocca, scriba, n Niebuhr B. G.,  Niermeijer J. F., ,  Noè, patriarca,  Nora P.,  Norberg D.,  e n notai, -,  esercizio della professione dei, - imbreviature dei,  linguaggio dei,  registri dei, - transunto dei,  e n

Novalis, pseud. di F. L. von Hardenberg, ,  Novati F., n,  Oakley T. P.,  e n Odoacre, barbaro del gruppo degli sciri, re degli eruli e poi patrizio, n Oesterley H.,  Ohler N.,  Ohly F., n Oldoni M., n, n,  Olivier Martin F.,  Oltrogge D., n omelie,  Onorio III (Cencio Savelli), papa, ,  e n,  Onorio di Autun,  orali, tradizioni, - oralità, cultura dell’, - Origo I., n, , n Orlandelli G.,  Orlandi G.,  Ornato E.,  orologi,  Orosio Paolo, ,  Orso dell’Anguillara, senatore romano che pose la corona d’alloro sul capo di Petrarca, n Ortalli G., ,  Osberno di Gloucester,  Otranto G., n Ottone I, re di Germania e imperatore,  Ottone di Frisinga, vescovo, - Oxford, Università degli studi di,  Pacaut M.,  Padri della Chiesa, testi dei, - Paganini C.,  Palazzini P.,  paleoclimatologia, studi di,  paleontologia, studi di, - Palmade G., n Palumbo P. F.,  Panella A., n Paoli C., , n, n, n, n, n, , n, n, 



CAPIRE IL MEDIOEVO

Paolo Diacono,  e n, , ,  Paolo da Certaldo,  Paolo di Tarso, santo,  Paolo V (Camillo Borghese), papa,  Pannartz Arnold, tipografo tedesco,  Paperbroch D., ,  Papia, lessicografo,  papiro, preparazione e uso del, - Parche,  Pardessus J. M.,  Parigi, Università degli studi di,  parlamenti, - Pascal B.,  Pasolini P. P.,  Pasquali G.,  Pasqui U.,  passato ripensare il,  senso del,  Passavanti Iacopo,  Patetta F.,  Patrologiae cursus completus,  Patrologia graeca,  Patrologia latina,  Pauly A. F.,  Payen S. C.,  Pegolotti Francesco di Balduccio, mercante e viaggiatore fiorentino,  Pellegrinetti E.,  Pellegrini L., n Pelliccia G.,  penitenziali, , - Penitenzieria, registri della,  Pepe G., , , , n, - Pereira M., n Perelli Cippo R.,  pergamena costo dei libri in,  preparazione e uso della, - Pericle,  Pertile A.,  Pertusi A.,  Pertz G. H., ,  Pesez J. M., n pesi e misure, - Pesini G.,  peste del ,  Peters E., n

Petit L.,  Petralia G., n Petrarca Francesco,  e n, , , -, , , , , , , n,  Petrarca Gherardo, fratello di Francesco, n Petrucci A., , , ,  Peveri R.,  Peucer K.,  Peyer H. C.,  Piccinni G., n,  Piccioli G., n Piccolomini Agostino Patrizi,  Piccolomini Enea Silvio, , n Pier della Vigna, n, , ,  epistolario di, ,  Pieri S.,  Pietrini S.,  Pietro, papa, santo, ,  cattedra lignea di, n Pietro Amelio, vescovo di Senigallia,  Pietro Boaterio,  Pietro da Eboli, n, n,  Pietro da Unzola,  Pinelli L.,  Pini A. I.,  Pirandello L., , n Pirenne H., , , , , , , - Pirri R.,  Pispisa E.,  Pistarino G.,  Platone, , ,  Plinio Gaio Secondo, detto il Vecchio, ,  Poirion D.,  Polibio,  Poliziano, Angelo Ambrogini, detto il, ,  pollini, studi sui,  Polo Marco, ,  Poly J. P., n Poncelet A.,  Pontida, giuramento di, n pontificali,  Pontieri E., n Popper K. R.,  Poras G.,  Porta G., 



INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI

Portelli A., n Potthast A., -, - Pozzi G.,  Pratesi A.,  Pratt W. D.,  Prawer J.,  Praz M.,  prediche, - Pressutti P.,  prestiti simulati,  Previtali G., n principati,  Prinz O.,  privilegio,  Prosperi A., n Proust M.,  Prunai G.,  Psello Michele,  Pugin A. W. N., n Putnam H., n Quondam A.,  Rabelais F.,  Radoïtz, eroe del ciclo degli Haïdouks,  Raffaello Sanzio, n,  Ranke L. von, n, ,  rappresentazioni sacre,  Raspini G.,  Rationes decimarum Italiae,  Raumer F. von,  Raveggi L.,  Raymond J. W.,  Regesta chartarum Italiae,  Regge T., n Reiner R., n Reiss H., n reliquie,  repertori bibliografici, , - di storia del culto,  generali, - locali, - repertori di documenti del potere pontificio, - del Sacro romano impero, -

delle monarchie d’Europa, - di istituzioni ed enti ecclesiastici, - legislativi e di pratica giuridica, - Repertorium fontium historiae Medii Aevi,  “Rerum Italicarum Scriptores” ( RIS ), , - Resta C., n Restle M.,  revisionismo,  Revjakina N. V.,  Rezasco G.,  Riace, bronzi di,  Riccardo di San Germano,  Richard de Fournival,  e n,  Ricotti E.,  Ridolfi R.,  Riforma cattolica, , ,  Riforma protestante, -, ,  Riley Smith J.,  Rinascimento,  e n, , , ,  Ripoll Th.,  riviste, , , , , , -, n, , , , ,  dedicate al solo Medioevo, - dedicate anche al Medioevo, - di centri culturali,  di storia religiosa,  di varia cultura, -,  Rizzante M., n Rizzitano U., n Rizzo S., n, n Roberto I, duca di Puglia, detto il Guiscardo, , n Roberto II, re di Francia, detto il Pio,  Roberto I d’Angiò, re di Napoli, detto il Saggio,  Robertson W., - Rocca G. C.,  Rockinger L., n, n, , n Roffredo da Benevento, ,  Rohmer E., pseud. di M. Schérer,  Röhricht R.,  Rolandino da Padova,  Rolandino de’ Passeggeri, ,  Romanini A. M.,  Romano A., n Romano G., 



CAPIRE IL MEDIOEVO

Romano R., , ,  e n, n Romeo R., n, n, n, , n Romolo Augustolo, imperatore, n Romualdo Salernitano, ,  Roskell J. S.,  Rossellini R., n Rossetti De Scander A.,  Rossi G.,  Rossi P., n Rota R.,  Rotari editto di,  re dei longobardi, n Rotta S., n Rouziès U.,  Rüegg W.,  Ruffo Giordano,  Ruggero II, re di Sicilia, , , , , ,  il manto di,  Rugolo C. M., n Ruh K.,  Ruiz Doménec J. E., , n Rusconi R., n Ruskin J., n Russo C.,  Russo L., ,  Rutebeuf,  Rutenburg V.,  sacramentari,  Sacro romano impero, , ,  Saitta A.,  Saladino A.,  Salimbene da Parma,  Salvatorelli L.,  Salvemini G.,  Salvioli G.,  Sand G., pseud. di A. L. A. Dupin, n Sandri L.,  Sanfilippo M., n santità, Associazione italiana per lo studio della,  Santoro C., ,  sapere, unità del,  Sapori A.,  Sasso G., n Sassonia, casa di, -

Savelli Cencio, cfr. Onorio III Savigny F. K. von,  Savonarola Girolamo, ,  Sawyer P. H.,  Scalia G.,  Scarpat G., ,  Schaefer A.,  Schaller H. M., n, n,  Schedel Hartmann, ,  Schiaparelli E.,  Schiaparelli L.,  Schieffer Th.,  Schlegel F.,  Schmale F. J.,  Schmeidler B.,  e n,  Schmitt J. C.,  Schnabel F., n Schoenberg G. von,  Schott A.,  Schramm P. F.,  Schwartz E.,  Sciascia L., ,  Scott W., ,  scriba, cfr. amanuense scrinarii,  scrinium, - scriptoria, produzione di libri negli, - scritture di viaggio, - liturgiche, - scuola economico-giuridica, , ,  Seaborg G. T.,  Segre C.,  Seignobos Ch.,  Sella P.,  Sella Q.,  Sella V.,  Sen A., n Sergi G., n Serlone di Wilton,  Sestan E., n,  Settis S.,  Sforza Alessandro, signore di Pesaro,  sfragistica,  Shakespeare W.,  Sickel Th.,  Sidrova N., n sigilli, , 



INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI

simboli del potere,  di appartenenza,  Simeoni L.,  Simiand F.,  Simmel G.,  Simone F., n Simonetti M.,  Sirleto Guglielmo, bibliotecario della Vaticana, cardinale,  Sismondi J. Ch. L. Simonde de, n Sisto V (Felice Peretti), papa,  Skazkin S. D., n Skrzynskaia E.,  Smalley B.,  Smith R. E. F., n Smithson R. N., n Snow Ch. P.,  Socrate,  Soehnée F.,  Soffritti O., ,  Sohm R.,  Solmi A.,  Soranzo G., ,  Sorrento L., n, n Spinelli G.,  Spinoza B.,  Srbik H.,  Stähli M.,  e n stampa, comparsa della,  Starrabba R., n Stati generali, assemblee degli,  statuti, - Stazio Publio Papinio,  Stelling Michaud S.,  stemmi,  Stendhal, pseud. di H. Beyle, n Stern S., n Sthamer E., ,  Stone L.,  storia il caso nella, - e letteratura, , -, n generale, opere di, - narratività della, , - scienze e tecniche nella, - i “se” nella, - significato e concetto della, -

utilità e funzione della, - vita quotidiana nella, - Strasburgo, giuramento di,  Strecker K., n strutture architettoniche ed edilizie,  Stumpf Brentano K. F.,  Sturmi, monaco del monastero di Fulda,  Sumption J.,  suntuaria, legislazione,  Svetonio Tranquillo Gaio,  Sweynheim Konrad, tipografo,  Tabacco G., n, n, , , n Tabarrini M.,  Tacito Publio Cornelio,  Tagliagambe S., n Tamassia N., ,  Tamba G.,  Tamburini S., n, n Tancredi conte di Lecce, re di Sicilia,  Tanzini L.,  Taranto D.,  Tarpino A., n Tartini G. M.,  Tavola delle possessioni, - tavolette cerate,  tempo, misure del, ,  Tenenti A., , n Teodorico, re degli ostrogoti, , ,  Teodosio II, imperatore,  Teofane Cerameo (Filigato da Cerami),  Terrisio di Atina,  Tertulliano Quinto Settimio Fiorente, ,  Tesman G.,  Tessitore F., n testamenti, - Testamento i libri dell’Antico, ,  i libri del Nuovo, ,  testimonianze, -, -, , , -,  Thierry A.,  Thompson E. P., n



CAPIRE IL MEDIOEVO

Thorpe R.,  Timpanaro S., n Tiraboschi G.,  Tirelli V.,  Tolkien J. R. R.,  e n Tolkien M.,  Tolstoj L.,  tombe e arredi funerari,  Tombeur P.,  Tommaso d’Aquino, santo,  toponimi,  Torelli P., ,  Tosh J., , n,  Tramontana S., n, n, n, , , , n, ,  e n, n, ,  e n, n Trasselli C., n, n, , , n Traube L., ,  Travaini L.,  Trezza G., n Troeltsch E., ,  Troia cavallo di,  distruzione di,  Trombetti Budriesi A. L.,  Tronti M.,  Troya C.,  Trucco F.,  Tucci U., n, ,  Tucidide,  Tuchman B. W., n Tungdal,  Turner J.,  Tyerman C.,  Ughelli F.,  Ugo Capeto, re di Francia,  Ugo di San Vittore,  Uguccione da Pisa,  Uguccione da Thiene, nunzio pontificio, n Umberto di Silvacandida,  Unam sanctam, bolla di Bonifacio VIII,  Universitates,  urbanistica,  Usher A. P., 

Vacant A.,  Vacca R.,  Vaihinger H.,  Valjavec F., n Valla Lorenzo, , ,  e n,  Valli B., n Vallone A., n Van Den Wyngaert A.,  Vangeli (i quattro canonici),  Vasari, Giorgio, ,  vassallo,  Vauvenargues, Luc de Clapiers, marchese di,  Vayra P.,  Vecellio C.,  Vella G.,  Venezia, pace di,  Venturi F., , ,  Verge J., detto Nauclerus,  Vernant J. P.,  Vespucci Amerigo,  Veyne P.,  e n, n Viaggio di Carlo Magno in Oriente,  Vian G. M., n Vicini E. P.,  Vico Giambattista, ,  Vidal de La Blache P., ,  Vielliard J., n Vieusseux G. P.,  Villani Giovanni, , , ,  Villani P.,  Villari Pasquale,  Villari Pietro, n Vincent de Beauvais, , - Violante C., n, n, ,  Visceglia M. A., n Vitale V.,  Vitolo G., -, , , ,  Vitruvio Pollione,  Vivanti C.,  Vives Gatell J.,  Vivoli C., n Vogel C.,  Voglino A., n Vogt A.,  Volney, F. C. de Chasseboeuf, conte di, 



INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI

Volpe G., -, ,  Voltaire, pseud. di F. M. Arouet,  e n, , ,  Vuolo A.,  Wadding L.,  Wagner W.,  Waitz G., ,  Wapnewski P.,  Ward B.,  Wattenbach W., ,  Watterich J. B. M.,  Weber M., n, , , ,  Weden F.,  Weil S., n Weinstein D., n Weis E., n Weizsäcker C. F. von,  Wessel K.,  Westrem S. D.,  White L.,  Wickham C.,  Wierderhold W.,  Wiesflecker H.,  Wiesner J., 

Wilkins E. H., n Willard J. F.,  Windelband W.,  Winfield P. H.,  Winkelmann E.,  Wissowa G.,  Wittgenstein L. J.,  Wolff Ph.,  Wolfram von Eschenbach,  Wotan, dio germanico armato di lancia, detto anche Odino, n Zambon R.,  Zangheri R.,  Zanni Rosiello I., n,  Zecche, organizzazione e funzionalità delle,  Zeno R.,  Zeumer K.,  Zielinski H.,  Zimmermann H., ,  Zink M.,  Zorzi A.,  Zumthor P.,  e n, n Zusto, famiglia veneziana, 

