Cacciatori di libri sepolti

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CACCIATORI DI LIBRI SEPOLTI

LEO DEUEL

CACCIATORI DI LIBRI SEPOLTI CO N 26 IL L U ST R A Z IO N I FU O RI T E ST O E 114 N E L T E ST O

/

VALENTINO BOMPIANI

Titolo originale:

T E ST A M E N T S O F T IM E The Search for Lost Manuscripts and Records © 1965, Leo Deuel Alfred A. Knopf, Inc. - New York Traduzione di ELEN A SPAGNOL

© 1968 Casa Ed. Valentino Bompiani & C. S.p.A. Via Pisacane, 26 - Milano

Alla memoria di mio fratello H ans D eu el

"A che mi serve,” mi chiesi, "sapere che questo prezioso libro esiste, se non potrò mai possederlo, se non potrò mai neppure vederlo? Andrei a cercarlo nel cocente cuore del­ l'Africa o nelle gelide regioni del Polo, se sapessi che è là. Ma non so dov’è. Non so se è chiuso dietro le tre serra­ ture della cassaforte d’un bibliomane geloso; non so se Sta ammuffendo nella soffitta d'un ignorante. Tremo al pensiero che i suoi fogli strappati possano essere serviti a chiudere i vasetti di sottaceti d’una qualche massaia." A natole F rance, Il delitto di Sylvestre Bonnard

PREFAZIONE La storia dei manoscritti grazie ai quali sappiamo quel poco che ci è dato sapere sul mondo antico è uno fra i capitoli piu interessanti nella cronaca delle impre­ se umane. D ouglas C McM urtrie 1

Da quando la scrittura entrò nell’uso, nel Vicino Oriente, cinque o sei millenni or sono, la sopravvivenza delle testimonianze scritte della storia umana fu sempre minacciata. La distruzione venne talora dagli ele­ menti naturali, talaltra dalla negligenza o bigotteria dell’uomo; i libri furono adibiti a usi vili, bruciati o lasciati marcire. Intere civiltà scom­ parvero dalla faccia della terra, e la parola scritta, che sola avrebbe po­ tuto tramandare nomi, conservare il ricordo di tradizioni, svanì con esse. Sparirono cosi libri e documenti non solo di popoli lontani nel tempo e dimenticati, ma di tutte le età e di tutte le culture, anche di epoche po­ steriori all’invenzione della stampa. Gli antichi Ebrei registravano la perdita del Libro di Jashar o Libro del Giusto; della letteratura degli Anglosassoni non ci resta quasi nulla; vi sono lacune nel dramma elisa­ bettiano; possediamo oggi solo una parte della produzione degli autori greci e latini. Per molto tempo gli uomini non attribuirono valore ai testi antichi; ma nel primo Rinascimento alcuni studiosi si posero alla ricerca dei docu­ menti del passato, e ai tempi nostri il diffuso interesse per le origini delPuomo e gli inizi della sua storia ha fatto del recupero di testimonianze perdute una fra le massime ambizioni delParcheologia. Com’è naturale, a questo spirito di ricerca si è accompagnata fin dall’inizio la preoccupa­ zione di conservare l’oggetto di quella ricerca. 1 Douglas C. McMurtrie, The Book: The Story of Printing and Bookmaking, 3a ed. riveduta, New York, Oxford University Press, 1943, pag. 80.

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Fossero mossi dal desiderio di recuperare classici perduti o dall’in­ teresse per la storia delle origini cristiane o per i problemi biblici, i dotti furono in ogni caso spinti alla ricerca di libri sepolti, e ogni sforzo coro­ nato da successo diede l’avvio a nuove ricerche. Alla riscoperta dei resti delle civiltà egizia, mesopotamica e delle culture dei paesi circonvicini si accompagnò quella di documenti scritti completamente dimenticati. La decifrazione di misteriose scritture permise di ricostruire letterature fin allora ignote e la storia di interi millenni, di rievocare con straordinaria ricchezza di particolari la vita di popoli di cui i nostri bisnonni avevano ignorato addirittura l’esistenza. Dopo gli egizi e gli assiri, cominciaro­ no a parlarci i sumeri, gli ittiti, gli urriti, i mitanni, i cananei e molti altri ancora; di li a non molto le ricerche si estesero con successo fin nel cuore dell’Asia e, come vedremo, nel Nuovo Mondo. La storia di tale rinascita, attraverso la letteratura e i documenti, dal buio dell’oblio, è il tema di quest’opera; che è, per dirla in breve, un li­ bro sui libri e sugli uomini che cercarono e trovarono manoscritti per­ duti, che li interpretarono e decifrarono. Ho dato gran posto agli sforzi compiuti dal Rinascimento in poi; la caccia ai manoscritti riflette la no­ stra crescente curiosità per il passato, e va vista come il parallelo di altre ricerche volte a recuperare i frutti della genialità e abilità umane. La storia del ritrovamento delle testimonianze scritte è una storia di scoperte per molti versi paragonabile a quella degli scavi che riportarono in luce tombe colme di tesori; spesso implicò anzi scavi veri e propri, con i pericoli e le ansie che vi vanno uniti, oltre al tedio di una lunga e incerta ricerca. Più di una volta, rischiose spedizioni in paesi stranieri diventarono imprese veramente epiche di studiosi-avventurieri. Il recupero di opere perdute ha contribuito a rivoluzionare la nostra civiltà, a cambiare molti dei nostri schemi di pensiero, ad aprire agli stu­ di strade interamente nuove. Manoscritti riportati alla luce dai ricerca­ tori ci hanno permesso di comunicare con età remote, di ricostruirne la storia, di conoscere il pensiero, la mentalità, di misurare la genialità dei nostri lontani predecessori. Il retaggio culturale del passato si è arricchi­ to di opere che rappresentano la suprema espressione degli antichi nella letteratura, nella religione, nella scienza, opere che ci hanno rivelato le radici delle nostre tradizioni e istituzioni e hanno posto nuovi, stimo­ lanti problemi. Strano a dirsi, la storia della ricerca di questi manoscritti non è mai stata narrata se non in modo frammentario. La scoperta dei cosiddetti rotoli del Mar Morto, dopo la seconda guerra mondiale, mise a rumore il mondo; ma il ritrovamento di questi antichi documenti ebraici, per quan­ to importante sotto ogni rispetto, è ben lontano dall’essere un fatto iso­ lato. Quest’opera è stata scritta appunto nella speranza di richiamare la attenzione sul campo stranamente trascurato di quella che potremmo chiamare l’“archeologia dei libri” .

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Non vi possono essere dubbi sull’interesse che merita tale aspetto della ricerca archeologica. Una civiltà perduta, per quanto splendidi pos­ sano essere i monumenti messi in luce dallo scavatore, rivela i suoi più segreti contenuti solo attraverso i documenti scritti. Dai sumeri della Mesopotamia ai miztechi del centro America, la decifrazione dei testi se­ gnò la svolta decisiva nella ricostruzione e rievocazione di quelle cultu­ re remote. Tutti sappiamo quanto superficiale e frammentaria sarebbe rimasta la nostra conoscenza dell’antico Egitto se Champollion non avesse trovato la chiave per interpretarne la scrittura e senza la ricca messe di papiri raccolta nelle distese di sabbia lungo il Nilo. Le tavolette d’argilla sca­ vate in quella che fu la capitale di Ekhnaton a Teli el-Amarna illumina­ rono un’intera epoca. La più ricca scoperta compiuta in Egitto, quella della tomba di Tutankhamen, non sarebbe mai avvenuta se iscrizioni e testi non avessero reso avvertiti gli studiosi dell’esistenza del re fanciul­ lo e non li avessero avviati alla ricerca del luogo della sua sepoltura. Le iscrizioni su sigilli condussero Arthur Evans alla scoperta dei resti della civiltà minoica, sepolti fra le macerie di Creta. L ’incidente più memorabile nella carriera di Leonard Woolley, scava­ tore di Ur in Mesopotamia, fu la scoperta di una tavoletta grigia incisa di arcaici simboli cuneiformi. Era un documento assai breve, ma nomi­ nava, come scrisse lo stesso Woolley, “il primo re di quella prima dina­ stia di Ur di cui gli studiosi negavano l’esistenza, considerandola un’in­ venzione mitologica; ed ecco invece il suo nome e il nome di suo figlio, registrati da un documento contemporaneo, prova che il supposto mito era storia autentica../*2 A un’opera con un tema vasto come l’“archeologia della scrittura** bisogna per forza fissare un raggio obbligato e limiti di tempo. Prendere­ mo dunque in considerazione principalmente libri, cioè composizioni com­ patte di contenuto abbastanza ben definito e di considerevole lunghezza, con un significato culturale, storico o letterario. Con poche eccezioni, ho trascurato con rincrescimento un vasto complesso di importantissimi dati epigrafici: iscrizioni su tombe, pietre, edifici, placche metalliche, fram­ menti di vasi. Inoltre, parlerò solo di libri risalenti a prima dell’introdu­ zione della stampa in Occidente; scoperte affascinanti come quella dei Boswell papers, d ’un romanzo giovanile di Proust, delle memorie di Caulaincourt, del diario di Anna Frank rimangono fuori dell’ambito di que­ st’opera. Il nostro interesse si concentrerà su antichi manoscritti della Grecia e di Roma classiche, sulla letteratura antica del Vicino Oriente, su opere rientranti nell’orbita giudaico-cristiana. Una sezione finale sui testi recuperati nell’Asia centrale e sulle testimonianze scritte di culture 2 Leonard Woolley, Spadework in Archaeology, New York, Philosophical Library; Londra, Butterworth Press, 1953, pag. 92.

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dell’America precolombiana concluderà il panorama sul piano geografico. Quasi tutte le scoperte di cui si parla in questo libro hanno avuto luo­ go negli ultimi centocinquanta o duecento anni. Il Rinascimento, che vi­ de la prima campagna sistematica per il ritrovamento di testi letterari, è preludio ai problemi e alle curiosità dei moderni cacciatori di manoscritti. In tutto il libro ho cercato di illuminare almeno in parte il significato dei testi restituiti alla nostra conoscenza e lo sfondo storico su cui s’iscrivono. Nella mia scelta, ho incluso esempi dei diversi materiali di scrittura, dei molteplici modi di trasmissione e dei modi altrettanto svariati in cui si giunse al ritrovamento. In qualche caso, ho aperto digressioni per trat­ tare gli aspetti meno noti dei contatti culturali, decifrazione di scritture, caratteristiche materiali della preparazione dei libri, fabbricazione di ma­ teriali da scrittura, critica testuale, erudizione classica e argomenti con­ nessi con questi. Persino la frode e il falso hanno giocato una parte di primo piano nello studio dei manoscritti, e di tanto in tanto reclame­ ranno la nostra attenzione. Per il suo tema, questo libro ha attinenza con molte discipline e non può essere fatto rientrare nettamente nell’ambito né della paleografia né dell’archeologia. La prima, che riguarda la decifrazione e studia l’evolu­ zione e le varianti delle scritture antiche, ha rapporti solo occasionali con il tema di cui ci occupiamo; non se ne cerchi dunque in questo libro una trattazione sistematica. Nella seconda — almeno nel senso generalmente accettato della parola — si possono far rientrare solo parzialmente i ma­ teriali e i metodi qui considerati. Per non ripetere cose già note, ho lasciato fuori da questa trattazione aree che hanno dato una ricca messe di scoperte archeologiche e sulle quali si è già scritto a sufficienza — in particolare quelle mesopotamiche — a favore dei siti meno conosciuti di Dura-Europo, di Ras Shamra-Ugarit e del Turkestan cinese. Inoltre, gli inevitabili limiti di spazio mi hanno costretto a trascurare materiali di prim’ordine rinvenuti in Egitto e altrove. È superfluo sottolineare che il recupero di testi letterari perduti esor­ bita dall’ambito dell’archeologia pura. Gli “scavi” possono avere per tea­ tro i piu riposti recessi della biblioteca d ’un villaggio sperduto o il mu­ seo nazionale di un’indaffarata metropoli; l’agnizione può avvenire gra­ zie all’esposizione a raggi di luce infrarossa di una pergamena sbiadita, scritta due volte; l’identificazione dell’autore, la lettura, la penetrazione del significato sono fasi importanti, quando non decisive, della maggior parte delle scoperte in questo campo. Il cacciatore di libri, come l’archeo­ logo da tavolino, può dunque lavorare senza muoversi dal suo studio, la­ sciando le spedizioni in terre lontane ai colleghi di temperamento piu vagabondo. Siti diversi dal Catai e da Troia hanno avuto i loro Marco Polo e i loro Schliemann; e questi uomini hanno molto posto nella nostra storia.

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Il metodo d ’esposizione che ho scelto, semi-biografico, ha forse il difetto di lasciar fuori parte della verità storica, ma in un panorama cosi selet­ tivo presenta il vantaggio di dare ai fatti un’inquadratura vivace e plausibile. C’è un altro punto da chiarire. Sono perfettamente al corrente delle polemiche su concetti come quello di “Rinascimento” , per menzionare solo una delle categorie intorno alle quali ho raggruppato il materiale. L ’uso di parole come, appunto, “Rinascimento” , riflette solo la volontà, o il tentativo, di dare ordine alla storia. Discutere il problema se il Rina­ scimento fu “l’ultima fioritura del Medioevo” o segnò la nascita dell’uomo moderno, oppure cercar di stabilire il posto che ebbe in esso il Petrarca, non rientra nei propositi di questo libro. So che alcuni studiosi, come Lynn Thorndike, hanno dichiarato tabù la parola stessa, mentre altri, più di recente, sono tornati a adottare la classica tesi del Burckhardt. Gli sto­ rici sono, notoriamente, revisionisti; ciò che ieri era trito, risaputo, supe­ rato può diventare domani l’ultima parola della scienza. In ogni caso, questa è un’opera divulgativa; ne sono quindi escluse le diatribe acca­ demiche, le lunghe note a piè di pagina e ogni tipo di “distinguo” . Infine, devo sottolineare che sono stato guidato da un tema che sot­ tende e unifica tutta l’opera: l’interdipendenza delle culture umane nel­ la maggior parte del globo, dall’età neolitica in poi. Perciò ho insistito su aspetti come la comunanza delle origini remote, gli imprestiti reciproci, l’interpenetrazione, la continuità nel tempo e nello spazio, più che sull’“unicità” di culture come l’egizia, la greca o la giudaica, o su schemati­ che distinzioni fra civiltà in ascesa o in decadenza. Con questo, non si vo­ gliono certo far risalire tutte le manifestazioni della civiltà a un’unica ma­ trice, ma esiste tuttavia, come ha scritto William H. Prescott molto tem­ po fa, “una grande fratellanza delle nazioni... unite da simpatie grazie al­ le quali la più debole scintilla di sapere, scoccata in un punto, cresce e si allarga fino a diffondere una luce consolante sin nelle plaghe più remote” .3 Quest’idea è implicita nella maggior parte degli argomenti trattati qui: dai sistemi di scrittura e dalle forme di libri, con il loro contenuto lette­ rario o religioso, a quei punti di contatto delle civiltà antiche dove sono venute in luce tante testimonianze documentarie. Quindi, sia pure su un piano molto modesto, questo libro sui libri è anche un libro sulla storia del mondo. Nello scrivere un’opera che abbraccia parecchie civiltà, continenti e secoli e che non si limita a narrare le spesso romanzesche vicende della caccia al manoscritto antico, il mio compito è stato tanto più rischioso e difficile in quanto ho avuto, a guidarmi, ben poche opere d ’insieme. Per raccogliere i dati necessari, mi sono spesso dovuto addentrare nella selva 3 William H. Prescott, History of the Conquest of Mexico e History of the Conquest of Peru, New York, Random House - The Modern Library, s. d., pag. 54.

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di riviste specialistiche, atti accademici, simposi, Festschriften, bollettini e rapporti, in una mezza dozzina e piu di lingue diverse. Non v'è esperto in grado di padroneggiare perfettamente una materia cosi vasta; e so be­ nissimo che se ho avuto l'audacia di avventurarmi nel campo riservato di tanti specialisti, l'ho fatto a rischio di incorrere in errori di giudizio e di fatto. Avevo solo uno scopo: informare la mia curiosità. Ho una spe­ ranza: riuscire a infondere nei lettori almeno parte del mio entusiasmo per il mondo dei libri: dei libri vivi, perduti, rinati e ancora da nascere. Un libro come questo, la cui stesura è durata parecchi anni, e che è cre­ sciuto grazie alla continua assimilazione di rapporti, saggi, resoconti di molti studiosi, deve ad altri la sua stessa sostanza. Per quanto impossibile sia indi­ care, isolandola dall’insieme, anche una piccola parte di ciò di cui son loro debitore, considero quest’opera un omaggio, modesto quanto si vuole, ai ri­ cercatori, storici, archeologi, paleografi, filologi e bibliofili le cui ricerche mi sono state d’ispirazione. Di molti ho potuto parlare a lungo; molti di più sono elencati nella bibliografia o, con mio rincrescimento, non sono neppure no­ minati. I miei più caldi ringraziamenti vanno a Harold Strauss, direttore editoriale della Alfred A. Knopf, per l’interesse dimostrato a questo libro fin da quando gliene presentai un breve e ancora incerto abbozzo, e per gli acuti giudizi con cui mi ha assistito. La sua vice, signora Sophie Wilkins, e la redattrice, signo­ rina Carmen Gomezplata, mi hanno aiutato con preziosi suggerimenti “tecnici”. È per me un grande piacere esprimere la mia gratitudine agli amici che mi hanno offerto consigli e critiche, in particolare la dottoressa Geraldine Pelles Ross, la signora Barbara Wheatley Murray, la signora Shirley Zimmermann e Charles Blackwell. La compianta dottoressa Maria Loewe non solo mi fu prodiga di incoraggiamenti di cui avevo allora gran bisogno, ma anche mi aiutò a raccogliere materiali di ricerca. Ringrazio infine i dottori Herbert e Heidi Deuel-Zogg di San Gallo, il si­ gnore e la signora G. Phillipp di Johannesburg, e la signora Gertrud Deuel di Zurigo per l’efficace contributo nella raccolta di libri e illustrazioni. Per quanto riguarda queste ultime, ho molto apprezzato le cortesie usatemi dalla signorina Valerie Vondermuhl di Life e dal signor Leverett Norman della biblioteca del New York’s City College.

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PARTE PRIMA

PRELUDIO RINASCIMENTALE

Capitolo I ALLA RICERCA DI CICERONE: IL PETRARCA Certo non respingerò le lodi che mi fai per avere sti­ molato, non solo in Italia ma forse anche oltre i suoi confini, il perseguimento di studi come i nostri, ne­ gletti da tanti secoli. Sono davvero uno dei più vecchi tra coloro che vi si dedicano. P etrarca al B occaccio 1

Un padre preoccupato parti un giorno da Avignone per fare una visi­ ta al figlio giovinetto, studente di legge presso l’università di Montpel­ lier nella Francia meridionale. Come molti bravi genitori borghesi, ser Pietro di ser Parenzo, notaio, aveva l’ambizione di vedere il figlio riu­ scire bene nella professione che con paterna prepotenza, benché con le migliori intenzioni di questo mondo, aveva scelta per lui. Ma chissà se il suo Francesco non stava sprecando tempo e denaro in passatempi gio­ vanili, come buona parte degli studenti universitari del XIV e di molti altri secoli? Certo, Francesco era stato studioso fin da bambino; l’allievo più brillante che il suo maestro, Convenevole da Prato, avesse mai avuto. Ma adesso, faceva progressi in giurisprudenza? Ser Pietro non ignorava che il figlio nutriva poco entusiasmo per gli studi di legge, e non era di­ sposto a tollerare sciocchezze. Quanto a Francesco, sapeva fin troppo bene che quel suo dedicarsi alle letterature classiche a spese dei tediosi studi di legge non poteva tro­ vare l’approvazione del padre, e in previsione di un’improvvisata aveva nascosto le sue poche, preziose copie di opere latine. 1 James Harvey Robinson e Henry Winchester Rolfe (a cura di), Petrarch. The First Modem Scholar and Man of Letters, 2a ed. riveduta, New York, G. P. Putnam’s Sons, 1914, pagg. 12-13.

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Ma quando il padre entrò nella sua stanza modesta, con grande orro­ re di Francesco, mise subito le mani su quella merce di contrabbando; af­ ferrò i libri e li gettò tra le fiamme che ardevano nel caminetto. France­ sco scoppiò in singhiozzi. Impietosito, ser Pietro corse allora presso il fuoco e ne strappò due volumi già un po’ bruciacchiati, YEneide di Vir­ gilio e la Rettorica di Cicerone, che porse a Francesco dicendo: “Usa il primo come uno svago per la tua mente, il secondo come un sussidio ai tuoi studi di legge/’ E il ragazzo riconoscente riprese “quei compagni che gli venivano restituiti; cosi pochi, ma cosi preziosi”2. L ’avversione dell’anziano Pietro per la lettura dei classici era un fe­ nomeno abbastanza comune in un tempo che nutriva scarso rispetto per i libri; e tale atteggiamento datava da secoli. La letteratura antica era caduta nell’oblio con l’eclissi dell’ordine ro­ mano in Occidente. Le tribù barbare che si erano riversate nei territori del crollante impero avevano distrutto biblioteche e centri di sapere; per parte sua, la Chiesa professava ben poco interesse per i libri della Gre­ cia e di Roma pagane. Uno storico dei franchi, Gregorio di Tours, del VI secolo, osservava concisamente: “Lo studio delle lettere è morto3.” Ma, come i suoi contemporanei, non aveva rimpianti; ammoniva anzi i fedeli: “Non porgiamo orecchio alle favole menzognere dei poeti... non corriamo il rischio d’una condanna divina alla morte eterna4.” Anche i piu dotti luminari cristiani dell’“età oscura” , se qualche vol­ ta indulgevano alla lettura dei classici, ne avevano rimorso come di un peccato. Sant’Agostino, uno scrittore per il quale il Petrarca nutriva una profonda reverenza, diceva di odiare la lingua greca e di maledire il tem­ po che aveva perduto a meditare su Virgilio. Gregorio Magno, pontefice contemporaneo del suo omonimo di Tours, benché nato in un’antica fa­ miglia romana, disprezzava la letteratura classica e si vantava della sua ignoranza. In Spagna il dotto più rispettato, l’arcivescovo Isidoro di Si­ viglia — uno di quegli instancabili compilatori che il Medioevo produsse in abbondanza — proibì ai suoi chierici e monaci di leggere autori anti­ chi all’infuori dei grammatici e condannò come “troppo prolisse”5 le ope­ re retoriche di Cicerone e di Quintiliano (proprio il caso di dire: “da che pulpito...” ). C’è da stupirsi che i classici fossero dimenticati e che tanti manoscritti andassero perduti? 2 Pierre de Nolhac, Petrarch and the Ancient 'World, Boston, Humanists' Library, 1907, pag. 44. 3 Richard C. Jebb, “The Classical Renaissance” , Cambridge Medieval History, Cam­ bridge, Cambridge University Press, 1902, voi. I, pag. 534. 4 John Addington Symonds, Renaissance in Italy, voi. II di The Revival of Learningy New York, G. P. Putnam’s Sons - Capricorn Books, 1960, pag. 43. 5 Henry Hallam, Introduction to the Literature of Europe, Londra, John Murray, 1873, voi. I, pag. 27.

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Ma il Medioevo non fu in tutto un'età “oscura” . In alcuni monaste­ ri, le opere letterarie antiche continuarono a essere tenute nel conto che meritavano; scribi dell’età carolingia, neH’V III e nel IX secolo, copiaro­ no vari classici e così contribuirono a tramandarli ai secoli futuri. NelPXI secolo, con lo sviluppo del commercio e delle città, il sapere aveva cessato di essere tenuto in spregio. Le scuole episcopali e le univer­ sità erano diventate centri intellettuali; i contatti con la più progredita

Un amanuense medievale. Da Calendrier des Bergers (Parigi, 1500).

civiltà islamica in Sicilia e in Spagna avevano fatto conoscere all’Occi­ dente, attraverso traduzioni dall’arabo, parecchi trattati di Aristotele e altre opere, per lo più scientifiche e filosofiche. I dotti però continuavano a dedicare la loro attenzione soprattutto alla teologia, e a causa del pre­ valere di questo interesse il movimento scolastico, lungi dal favorire, ri­ tardò la conoscenza della letteratura classica. I monasteri — un tempo i più gelosi custodi di manoscritti — cominciarono a cedere ad altre isti­ tuzioni quel tanto di zelo intellettuale di cui avevano dato prova. Alcuni, tuttavia, leggevano gli antichi: fra loro Giovanni di Salisbu­ ry, per esempio, e Gerberto, divenuto poi papa Silvestro II, e Abelardo,

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che fini con almeno un piede nell'eresia. Ma avevano a disposizione solo un numero limitato di opere. Molto raramente un autore potè essere let­ to in toto. I testi classici apparivano e sparivano come stelle cadenti; alcuni, come la cometa di Halley, ricomparvero improvvisamente, magari nella remota Scandinavia o in Ungheria; altri, di cui conosciamo l’esisten­ za solo perché sono menzionati in documenti medievali, in seguito scom­ parvero per sempre. Un autore letto o apprezzato in una parte dell’Euro­ pa occidentale — o in un unico monastero — poteva essere del tutto ignoto altrove. In breve, al Medioevo mancò quella che noi chiamiamo una tradizio­ ne classica: un canone di opere letterarie piu o meno saldamente stabilito e consapevolmente tramandato. Nessuno dei classici era entrato a far par­ te della cultura corrente6 e gli uomini del tempo avevano idee incredibil­ mente confuse sugli scrittori e i poeti dell’antichità. Un’autorità attribui­ va FIliade a Pindaro; Omero e Virgilio venivano spesso presentati come contemporanei e amici; un eminente professore dell’Università di Bolo­ gna, corrispondente del Petrarca, parlava di Cicerone come di uno fra i poeti dell’antichità.7 In alcune parti dell’Italia medievale, la leggenda aveva trasformato Cicerone in un grande generale che aveva assediato ed espugnato una città-fortezza difesa dal capo ribelle “Catellina”8. Questa la situazione quando comparve sulla scena il Petrarca. A noi qui interessa il Petrarca maturo, l’uomo di lettere, piu che il Petrarca giovane, l’altissimo lirico del Canzoniere. Il “nostro” Petrarca è soprattutto lo scrittore in latino, il consigliere di re e cardinali, l’autore dell’Africa, il nemico giurato della scolastica, dell’astrologia, della ciar­ lataneria medica, l’uomo che diede inizio a un movimento, l’umanesimo, destinato a rivoluzionare la cultura europea. L ’umanesimo petrarchesco rivalutò la funzione dell’uomo nel mondo e guardò alle libertà, da tanto tempo dimenticate, del passato. Nell’anti­ chità classica il Petrarca e i suoi seguaci trovarono ideali di verità e di bellezza che proposero al mondo occidentale. Il passato era per loro la chiave del progresso. Chi credeva nel valore e nella perfettibilità del­ l’uomo non poteva essere indifferente al problema della rinascita della cultura classica; chi voleva sviluppare la propria personalità, diventare un essere razionale, acquistare un certo stile nella condotta pubblica e pri­ vata, coltivare l’eleganza del parlare e dello scrivere, doveva leggere gli antichi. Ma come procurarsi i testi degli autori classici? Poche erano le gran­ 6 Frederick B. Artz, The Mind of the Middle Ages, 3a ed., New York, Alfred A. Knopf, 1959, pag. 435. 7 Robinson e Rolf e, op. cit., pag. 35. 8 L. Patrick Wilkinson (a cura di), Letters of Cicero, Londra, Arrow Books, 1949, pagg. 18-19.

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di opere su cui fosse facile mettere le mani, e di alcune erano stati tra­ mandati solo miseri frammenti. Molte volte il Petrarca dovette essere preso da un senso di frustrazione, nel trovare menzionati antichi capola­ vori secondo tutte le apparenze scomparsi dalla faccia della terra. Si sca­ gliava allora contro i “barbari” successori di Roma. “Per ogni nome illu­ stre che invoco,” scrisse una volta, “richiamo alla mente un delitto delle oscure età che seguirono. Come se la loro sterilità non fosse stata bastan­ te vergogna, lasciarono perire i libri nati dalle veglie dei nostri padri e i frutti del loro genio. Quell’epoca che nulla produsse non temette di dila­ pidare l’eredità paterna13.” Era una fortuna eccezionale riuscire a otte­ nere anche una copia dell’opera di un illustre scrittore antico; e più spes­ so che no il manoscritto era stato copiato con tanta insipienza che lo stesso Cicerone o Livio non avrebbero riconosciuto l ’opera propria9101. Bisognava dunque disperare? Quali possibilità c’erano di rintraccia­ re le opere smarrite? Dove si poteva sperar di trovare manoscritti ben conservati? Queste domande giravano già nella mente del giovane erudi­ to. Fu cosi che il Petrarca, che aveva raccolto e amato i libri fin da quan­ do aveva imparato a leggere, e aveva assaggiato il frutto proibito a Mont­ pellier, con gli anni diventò il primo sistematico cacciatore di manoscritti d’Occidente. Quando mori suo padre, nel 1326, Francesco Petrarca fu finalmente libero di dedicarsi agli studi letterari. Tornò ad Avignone e vi coltivò la amicizia di venerabili bibliofili legati alla corte papale trasferita allora nel­ la città francese; ma le aspirazioni di quei suoi amici erano volte a testi di legge. Ah, se fosse vissuto nell’antichità! Ma siccome la sorte lo aveva fatto nascere in un altro tempo, egli fece la cosa migliore che gli fosse concessa: tentò di recuperare il passato. Un modo di arrivare a conoscere l’antichità consisteva nel frequenta­ re i luoghi ch’erano stati sede della cultura antica. Perciò il Petrarca fu sempre in movimento, studioso vagante continuamente in viaggio attra­ verso l’Europa occidentale, dall’una all’altra città (che tutte, prima o poi, dichiarò di odiare): si fermava per qualche anno in una — e fu cosi a Milano, Padova, Mantova, Ferrara, Parma, Venezia — poi se ne andava altrove. Ma il passato si poteva recuperare anche attraverso i libri, e la ri­ cerca di libri perduti motivò molti viaggi. Dappertutto dove andava, il Petrarca cercava libri: seguiva voci e indicazioni, faceva indagini, com­ prava, trascriveva, faceva eseguire copie; e una volta ogni tanto riusciva a mettere le mani su ciò che per lui era merce più preziosa di qualsiasi cosa offrissero arabi o cinesi11. 9 Nolhac, op. cit.y pag. 18. 10 Robinson e Rolfe, op. cit.y pag. 25. 11 Will Durant, The Renaissance, New York, Simon and Schuster, 1953, pag. 8.

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In tutto questo cercare, Cicerone era il suo pensiero dominante; fu Cicerone a guidarlo nella sua scoperta del mondo antico, e quasi ogni fa­ se del movimento umanistico fini cosi per portare l’impronta di Cicerone. Il Petrarca non si sarebbe fermato finché non lo avesse conosciuto in ogni suo aspetto: lo stilista, l’oratore, il filosofo, il testimone della grande cri­ si politica di Roma antica. Le affinità fra i due uomini, pur separati da un intervallo di tredici secoli, sono facili a cogliersi. Entrambi furono in primo luogo letterati sensibili, civili, umani; capaci di sintesi vivaci, più che profondi pensato­ ri; ammiratori dell’eleganza di stile e di eloquenza, più che divulgatori di idee originali. L ’amore del Petrarca per l’oratore romano lo portò a “con­ versare” spesse volte con lui e a inventare un nuovo genere letterario: la lettera a un uomo morto da gran tempo. La caccia agli scritti di Cicerone cominciò prima che il Petrarca avesse mai posato gli occhi su Laura e continuò molto tempo dopo che l’infatuazione per lei si era raffreddata; la volontà di recuperare tutte le opere del maestro diventò un’autentica os­ sessione, che corre attraverso tutta la vita del Petrarca. Spigolando nei classici che leggeva, egli mise insieme una lunga lista di opere di Cicerone intorno alle quali i suoi contemporanei sapevano poco o nulla. Spese senza risparmio tempo, energia e denaro nel tentativo di raccogliere i re­ sti della letteratura classica; ma Cicerone venne sempre primo. Il Petrarca conosceva persone influenti in tutti i paesi occidentali, e le utilizzò per i suoi fini. Mantenne buoni rapporti con uomini amanti dei libri sparsi un po’ dappertutto. Se qualcuno entrava in possesso di un esemplare raro e a lui ne giungeva notizia, non esitava a scrivergli, chiunque fosse; e diventava particolarmente persuasivo se si trattava di un’opera di Cicerone. “Corre voce,” scriveva una volta, “che Cicerone al­ loggia sotto il tuo tetto e che tu possiedi molte e rare opere del suo genio. Oh, felicità mille volte più grande di quella di Evandro quando ricevette Alcide! Se me ne consideri degno, permettimi di scaldarmi alla presenza di un simile ospite12.” E a un amico: “Se mi vuoi bene, incarica qualche persona colta e de­ gna di fiducia di girare la Toscana e di frugare negli scaffali dei monaci e di altri amici dello studio, e di fare il possibile per trovare qualcosa che plachi — anche se è vero che servirà solo a irritarla — la mia sete. Ben­ ché tu sappia già bene in quali acque sono solito pescare e in quali bo­ schi ami cacciare, tuttavia, per evitare che tu incorra in errore, includo nella mia lettera la lista di ciò che particolarmente desidero...13” Quando aveva in prestito un manoscritto prezioso, gli riusciva quasi impossibile separarsene. Tenne un’orazione di Cicerone per quattro anni, con il pretesto che non trovava una persona competente per farsela co­ 12 Nolhac, op. cit.y p. 69. 13 Ibid., pagg. 72-73.

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piare; e alla fine, come faceva spesso, la trascrisse di mano sua. Spinse ben lontano le sue ricerche: “Ah, le preghiere, il denaro che ho mandato non solo in Italia, ma in Francia, in Germania, persino in Spagna e in In­ ghilterra, e addirittura, lo crederai?, in Grecia14!” La Grecia, se non gli diede opere di Cicerone, gli forni un manoscrit­ to greco di Omero e più tardi sedici dialoghi di Platone. Con suo grande rincrescimento, il Petrarca non conosceva il greco: la maggior parte de­

immagine rinascimentale di rovine classiche. Da Francesco Colonna, Hypneriomachia Polyphili (1499).

gli autori greci sarebbero rimasti puri nomi per lui. Ma questa lacuna era comune a quasi tutti gli studiosi occidentali; solo quando il Petrarca fu in età più avanzata una rozza traduzione delPIliade, eseguita dal Boccac14 Ibid., pag. 72.

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ciò con Paiuto di un calabrese che conosceva il greco, rese Omero acces­ sibile alPOccidente. Ma, se gli fu negato Paccesso a quella terra santa, il Petrarca seppe ispirare gli altri a entrarvi; in ultima analisi, il recupero dei classici greci dall’oblio fu anch’esso dovuto alla sua influenza. Le scoperte più importanti, il Petrarca le fece di persona. Non ap­ pena vedeva alPorizzonte le mura di un monastero, il cuore gli batteva più forte: “cambiando immediatamente strada, mi dirigevo a quella vol­ ta, sempre con la speranza di trovare qualcuna delle opere che avida­ mente cercavo”15. Andava a battere alla porta del chiostro, e con i suoi modi gentili, la sua capacità di persuasione convinceva i religiosi ad aiutarlo. Ebbe una grande soddisfazione ancor prima di compiere i trentanni. Nel 1333 fece un lungo viaggio a Parigi e si spinse più a nord, in quelle che sono oggi POlanda e la Germania occidentale; passando di monaste­ ro in monastero, a Liegi ebbe finalmente la fortuna di scoprire due ora­ zioni ciceroniane, una delle quali era la Pro Archia. Ottenuto il permesso necessario, ne copiò una e fece trascrivere Paltra da un compagno. Si la­ mentò poi di una cosa sola: “In quella barbara città facemmo un’incre­ dibile fatica a trovare inchiostro, e quando riuscimmo a procurarcelo era come zafferano16.” Ma potè proclamare, con legittima soddisfazione: “L ’Italia le ha avute entrambe [le due orazioni perdute] grazie a me17.” Quattro anni più tardi visitò Roma per la prima volta e con sgomento vi trovò mura, palazzi, templi in rovina. Nessuno pareva preoccuparsene. Roma antica, scrisse tristemente a un amico, in nessun luogo era cosi mal conosciuta come in Roma stessa; e i romani erano caduti cosi in bas­ so che vendevano colonne marmoree e monumenti alla decadente Napoli, nel sud. Con un simile andazzo, di tutte quelle stupende rovine fra poco non sarebbe rimasto nulla18. Imperterrito, continuò tuttavia anche qui a cercare manoscritti. Di li a pochi giorni aveva acquistato un testo di grande valore, e nei dieci suc­ cessivi ne trovò altri. In un successivo viaggio di ritorno da Roma sostò nella sua città natale, Arezzo, e vi scovò un Quintiliano irrimediabilmen­ te guasto; poco tempo dopo acquistò a Mantova la Storia naturale di Pli­ nio il Vecchio. La scoperta più importante della sua vita ebbe luogo a Verona, nella primavera del 1345: una raccolta delle epistole Ad Attico di Cicerone, e la corrispondenza dell’oratore con il fratello Quinto e con Bruto. Gli studiosi ne ignoravano da generazioni l’esistenza, benché for­ 15 Maud F. Jerrold, Francesco Petrarca. Poet and Humanist, Londra, J. M. Dent, 1909, pagg. 34-5. 10 Nolhac, op. cit.y pag. 49. 17 Jerrold, op. cit.y pag. 35. 18 Georg Voigt, Die Wiederbelebung des classiscben Alterthums...y 4 a ed., Berlino, W. de Gruyter, 1960, voi. I, pag. 49.

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se qualche veronese di tanto in tanto avesse veduto il manoscritto. È la raccolta più ricca che si conosca, ma senza la trascrizione del Petrarca avrebbe potuto rimanere ignorata per sempre. Il codice originale verone­ se è oggi scomparso da gran tempo; era già in stato di grave decadimen­ to quando il Petrarca lo trovò, sepolto in quello che egli definì un luogo imprevisto: probabilmente la biblioteca annessa alla cattedrale. È significativo il fatto che questa vicenda avesse luogo in Verona, la città padana più ricca di resti romani: tale, quindi, da esercitare la più forte attrazione sul Petrarca. Qui era nato Catullo; essa vantava un nu­ mero notevole di antiche opere architettoniche e, più splendida fra tutte,

Verona nel tardo Medioevo.

un vastissimo e ben conservato anfiteatro del I secolo d. C., con una ca­ pacità di 25.000 spettatori. La biblioteca della cattedrale, dove proba­ bilmente furono rinvenute le epistole ciceroniane, è una fra le più anti­ che del mondo. Da gran tempo il Petrarca desiderava trovare queste lettere, testimo­ nianze preziose illuminanti sia la personalità di Cicerone, sia la vita po­ litica della repubblica romana in declino, preda di avventurieri politici. Benché sofferente, il poeta copiò di sua mano tutto il codice veronese; e non si sarebbe poi stancato di dire agli amici quanto sforzo gli fosse co­ stata quelPimpresa, e quanta gioia però gli avesse dato.19 Quando ebbe fi­ nito di copiare, si trovò fra le mani un volume enorme, troppo grosso per stare accanto agli altri manoscritti della sua biblioteca. Non sapendo che 19 Nolhac, op. cit., pag. 119.

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altro farne, lo posò per terra, dove tuttavia si rivelò ben presto un peri­ colo: un giorno, quando il Petrarca entrò nella stanza, la sua gonna on­ deggiante si impigliò nel librone e glielo fece cadere contro la gamba. La cosa si ripete l ’indomani e per molti altri giorni, e quando il Petrarca si decise a mettere il libro in un posto dove dava meno ingombro, la sua povera gamba era gonfia e dolorante. S’era sviluppata un’infezione, e i medici pronosticavano un danno permanente; ma per fortuna di li a qual­ che mese il Petrarca era avviato a una completa guarigione20. Le lettere di Cicerone erano un tesoro cosi prezioso da mettere in ombra qualsiasi al­ tra cosa in suo possesso, e le custodi cosi gelosamente che non volle mai prestarle a nessuno né permettere a nessuno di copiarle. Da Verona gli vennero anche altri tesori, e soprattutto un Catullo e un Properzio. È anzi probabile che tutte le successive trascrizioni dei te­ sti di Properzio derivino dalla copia personale del Petrarca; r “archetipo” piu tardi andò perduto. La scoperta della corrispondenza di Cicerone fu uno dei più grandi eventi nella storia culturale del Rinascimento. Quelle lettere rivelarono al mondo la personalità sin allora poco conosciuta del grande oratore ro­ mano, con tutte le sue debolezze e virtù; forse nulla di altrettanto rive­ latore doveva comparire sulla scena letteraria europea fino alla pubblica­ zione delle Confessioni di Rousseau.21 Esse diventarono una fra le letture favorite degli uomini del Rinascimento, e non soltanto per il contenuto: il loro stile elegante e nello stesso tempo familiare rivoluzionò il latino degli umanisti. Grazie alPesempio di Cicerone, l’epistolografia diventò forse il genere letterario più in voga tra loro; fu la corrispondenza di Cicerone a ispirare al Petrarca la sua prima lettera a un autore classico; e a quella prima ne seguirono altre, dirette a Varrone, Livio, Quintiliano, Orazio e Omero. La prima “Lettera a Cicerone” del Petrarca fu evidentemente compo­ sta a Verona dopo una rapida scorsa alla raccolta: rivela infatti eccitazio­ ne per la scoperta e una sorpresa un po’ scandalizzata per certe rivelazio­ ni che ne erano venute. “Ho cercato a lungo e con somma diligenza le tue lettere,” scriveva a Marco Tullio; “e finalmente, là dove meno me l’aspet­ tavo, le ho trovate. Subito le ho lette, e rilette, e rilette ancora; e nel leg­ gerle mi pareva di udire la tua viva voce, o Marco Tullio, di udirla dire molte cose, e pronunciare molti lamenti, e spaziare attraverso molte zone del pensiero e del sentimento. Da molto tempo sapevo quale guida eccel­ lente sei stato per altri; finalmente avrei appreso quale guida sei stato per te stesso. “Ora è la volta tua di ascoltare. Presta orecchio, ovunque tu sia, alle parole di consiglio, o meglio di dolore e di rimpianto, che cadono — e 20 Ibid., pagg. 62-63. 21 Wilkinson, op. cit., pag. 18.

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le accompagnano lacrime — dalle labbra d’uno dei tuoi successori, che ti ama e ha caro il tuo nome,..22” Seguono i rimproveri a Cicerone per le sue molte manchevolezze (“mi hanno fatto arrossire per te” ). L ’eccessiva vanità di Marco Tullio, la sua indecisione nell’affrontare i grandi problemi del tempo rattristavano il Petrarca, che era egli stesso un fascio di contraddizione ma non poteva tollerare debolezze umane nel suo grande modello. Sulla mirabile filoso­ fìa di Cicerone veniva a cadere un’ombra, poiché egli non aveva sempre praticato ciò che predicava con tanta eloquenza. L ’epistola del Petrarca, con il suo moralismo, pecca d’una certa goffaggine e non può certo reg­ gere il paragone con la grazia disinvolta e la facile eleganza dello scrittore latino. Una seconda lettera a quest’ultimo è però stilisticamente piu feli­ ce, e riannoda l ’amicizia; in essa il Petrarca include un’interessante di­ gressione sulla fama del grande repubblicano ai suoi giorni, dando la col­ pa della decadenza della cultura e della perdita di libri a quello stesso fattore a cui Petronio attribuiva la decadenza di Roma: all’“amore del de­ naro [che] spinge i nostri pensieri in altre direzioni... Dobbiamo distrug­ gere e perdere, per crudele e intollerabile negligenza, i frutti delle tue fa­ tiche e di quelle dei tuoi compagni, giacché il destino ch’io lamento nel caso dei tuoi libri è toccato anche alle opere di molti altri uomini il­ lustri”23. Il Petrarca parla poi dei libri ciceroniani dei quali soprattutto rim­ piange la perdita; fra gli altri, il De republica, il piu importante trattato politico del grande romano; VHortensius, in lode della filosofia; il De consolatione e il De gloria. Quanto ai volumi sopravvissuti, il Petrarca ne la­ menta le lacune e mutilazioni; lo fanno pensare a una grande battaglia, in cui “dobbiamo piangere nobili capi uccisi, e altri dispersi o mutilati”24. Tutti i tentativi di ritrovare il De republica furono vani, e alla fine il Petrarca rinunciò alla ricerca25; in gioventù aveva invece posseduto il De gloria, che aveva prestato al suo maestro Convenevole e che in un perio­ do di grande bisogno Convenevole aveva impegnato. Tutte le offerte del Petrarca di ricomprarlo erano state respinte; Convenevole, spiacentissimo per l’accaduto, aveva promesso di recuperare il manoscritto, ma alla fine questo era scomparso da Avignone. Il Petrarca non perse mai la speranza di rientrare in possesso del prezioso codice, ma il De gloria non è stato più visto fino a oggi. Alcuni studiosi moderni hanno messo in dubbio le affermazioni del Petrarca di aver posseduto quest’opera di Cicerone, ma non v’è nessun valido motivo di dubitare della sua parola, anche se il De gloria non è 22 23 24 25

Robinson e Rolfe, op. cit.f pagg. 239-40. I b i d pagg. 250-51. I b i d pag. 251. Voigt, op. cit.y pag. 38.

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mai stato trovato. Parecchie importanti opere antiche furono infatti tra­ mandate in un’unica copia, quindi con scarsissime probabilità di soprav­ vivenza almeno finché il movimento rinascimentale non fu bene avviato; e anche allora, solo l’immediata copiatura poteva assicurarne la conser­ vazione. Parecchi libri ancora esistenti nel Medioevo scomparvero più tardi: ne finirono distrutti molti più di quanti ne sono giunti fino a noi, e queste perdite continuarono anche dopo la morte del Petrarca. La seconda lettera a Cicerone dipinge un ben triste quadro della sorte dei libri al suo tempo, ma illumina anche la sua fervida lotta per inver­ tire la corrente. Egli fu veramente il primo fra coloro che “amarono la letteratura antica, 'morta’, come una cosa viva, e nella cenere del passato ritrovarono la scintilla dell’eterna bellezza”26. Non solo riportò alla luce opere perdute e dimenticate, ma stabili nuovi canoni per lo studio della letteratura, per l’amore delle lettere, e converti altri al suo entusiasmo. In tutto questo, ottenne un cosi splendido successo che sulle sue orme tutta una nuova generazione di umanisti cacciatori di libri mosse a salva­ re quanto rimaneva di salvabile in terra europea.

26 Nolhac, op. cit.y pag. 16.

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Capitolo II UMANISTI IN AZIONE: BOCCACCIO E SALUTATI Come i franchi si consideravano tre volte beati se tor­ navano da Gerusalemme con qualche reliquia, cosi questi nuovi cavalieri dello Spirito Santo, mossi non alla conquista del sepolcro di un Dio risorto ma alla ricerca delle tombe dove il genio del mondo antico aspettava la resurrezione, provavano trasporti di san­ to entusiasmo quando una copia annerita e malamente leggibile di un’opera greca o latina compensava la lo­ ro paziente ricerca. Vi spendevano sopra giorni e not­ ti... finché il tesoro da loro trovato poteva diventare proprietà comune di tutti coloro ch’erano in grado di apprezzarlo. J ohn A ddington S ym o n ds 1

Non v’è nulla di tanto contagioso quanto un grande esempio. Ancora vivo il Petrarca, gli italiani furono presi da un desiderio febbrile di esplo­ rare il mondo sconosciuto ch’egli aveva schiuso; dopo la sua morte la ricerca dei classici smarriti, nascosti, dimenticati diventò autentica pas­ sione. Fra tutti i suoi contemporanei, il Petrarca non ebbe seguace più fer­ vido del Boccaccio, di circa dieci anni più giovane di lui, e che con lui condivide la gloria di essere stato uno fra gli iniziatori dell’umanesimo. Come aveva fatto il cantore di Laura, anche l’autore del Decameron abbandonò lo scrivere in volgare per l’erudizione, esprimendo solo di­ sprezzo per quelle sue opere precedenti sulle quali soprattutto — come spesso accade — riposa la sua fama. Il Petrarca lo converti alla caccia 1 Symonds, op. cit., pag. 96.

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di manoscritti; alla fine, i successi delPallievo avrebbero messo in ombra quelli del maestro. Giovanni Boccaccio era nato a Parigi nel 1313, figlio naturale di una francese il cui nome è rimasto ignoto e di un mercante fiorentino, Boc­ caccio di Chelino; in tenerissima età fu portato a Firenze dal padre, uomo allora ricco e rispettato. Grazie alle relazioni del padre con la grande casa dei Bardi, banchieri famosi, intorno al 1328 Giovanni aveva un buon posto a Napoli, allora la piu gaia città d’Italia, dove si trovò a suo agio come un pesce nell’acqua e si abbandonò con gioia alla lieta vita che vi si menava. Là conobbe Fiammetta (forse una figlia illegittima di Roberto d ’Angiò, re di Napoli), là trovò temi per i suoi racconti e versi. Questa esistenza spensierata ebbe bruscamente fine con il fallimento del padre: il Boccaccio dovette tornare a Firenze e affrontare la povertà. Ma la cattiva fortuna si rivelò un’ottima maestra per il giovane poeta e futuro erudito; da allora egli si mise di lena allo scrivere e nel giro di po­ chi anni diede alla luce parecchie delle sue opere più famose. Avrebbe presumibilmente continuato in quella vena, se non avesse conosciuto il Petrarca. Probabilmente il primo incontro fra i due uomini ebbe luogo nel 1350, anno del Giubileo. Il Petrarca andava in pellegrinaggio a Roma per ottenere l’indulgenza2 e il Boccaccio lo accolse, per dargli il benve­ nuto, alle porte di Firenze, la città che aveva posto al bando ser Pietro suo padre. Nacque allora fra i due una fervida amicizia, destinata a du­ rare sino alla morte del Petrarca. Nel suo testamento, quest’ultimo avreb­ be lasciato all’amico cinquanta fiorini d’oro, perché ci si comprasse “una vestaglia pesante, per i suoi studi e meditazioni notturne” , dicendosi im­ barazzato di poter lasciare cosi poco a un cosi grand’uomo3. Il Boccaccio, benché molto povero, fu sempre generosissimo; prodi­ go del suo tempo, del suo sapere, dei suoi libri, fece di Firenze un centro di studi umanistici. Si guadagnava da vivere lavorando da amanuense, e trascrisse per il Petrarca lunghi testi di Cicerone e Varrone. Poco tem­ po dopo il loro primo incontro, donò all’amico una splendida copia delle Enarrationes in Psalmos di Sant’Agostino e un codice in cui aveva tra­ scritto di sua mano la Divina Commedia di Dante. La seconda parte del dono ricevette un’accoglienza un po’ burbera da parte del cantore di Laura, che trovava più facile venerare gli antichi che rendere omaggio a un moderno rivale della sua fama. Una volta il Petrarca aveva espresso il desiderio di leggere un’oscura opera religiosa, che non era riuscito a trovare: la Vita di San Pier Da- Edward Hutton, Giovanni 'Boccaccio: A Biographical Study, Londra, J. Lane, 1910, pag. 150. 3 Jerrold, op. cit., pag. 243.

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miani. Questo santo lo interessava per il suo amore alla solitudine, tema che egli si accingeva a trattare nel De vita solitaria. Chissà se non sareb­ be stato possibile trovare quel libro a Ravenna, città natale del santo? Il Boccaccio si fece un dovere di recarsi laggiù e di svolgervi ricerche; ma né i monaci né alcun laico avevano mai visto una copia delPopera desi­ derata. Infine il Boccaccio trovò un vecchio che aveva in casa una pila di libri polverosi e ammuffiti e gli permise di frugarvi; quasi in fondo al mucchio, quando ormai aveva perso le speranze, egli scovò un librettino in pessime condizioni: proprio la Vita di San Pier Damiani. Trionfante se la portò via e subito si mise a copiarla, benché non capisse cosa po­ tesse trovarci il suo grande amico. Ma d'altra parte chi era lui, per giudi­ care gli interessi del Petrarca4? Nei suoi studi umanistici, il Boccaccio dovette superare l'ostacolo di un'istruzione approssimativa, ma negli anni della maturità poteva van­ tare una cultura molto superiore a quella della maggior parte dei contem­ poranei. Quando il latino gli fu perfettamente familiare, con l'incoraggia­ mento del Petrarca si dedicò allo studio del greco, e fini con il conoscere quella lingua antica assai meglio dell'amico, che, lodando i suoi progres­ si, lo esortò a tradurre Omero in latino. Doveva essere la prima tradu­ zione moderna d'una delle grandi epopee greche. La via per arrivarci non fu delle più facili; non c'erano manuali a cui chiedere assistenza nello studio, i testi originali erano poco meno che introvabili, gli insegnanti competenti quasi altrettanto scarsi. Il Boccac­ cio non aveva concluso nulla con il suo maestro Barlaam, un monaco gre­ co dell'Italia meridionale, che non aveva nessuna simpatia per la cultu­ ra classica. Ma si assicurò i servigi di Leonzio Pilato, un calabrese che amava posare a greco e con il quale ebbe rapporti piuttosto bizzarri. Leon­ zio era un avventuriero tutto sommato poco simpatico, la cui conoscenza del greco non era certo tanto perfetta da compensare il pessimo carat­ tere e una fondamentale mancanza di serietà. L ’aspetto, poi, era repel­ lente: una “faccia sparsa di ciuffi di pelo nero e completata da una bar­ ba incolta; il mantello sbrindellato copriva solo a metà la sua sporca per­ sona”5. Il Petrarca, che lo spronava alla ricerca di manoscritti, chiamava Leonzio “un bestione” (magna belua), ma il Boccaccio si portò Leon­ zio in casa e gli ottenne una cattedra di greco allo Studio di Firenze. Per la causa dell'umanesimo, portò pazienza con il calabrese e più tardi ne avrebbe dimostrata altrettanta con molti detestabili monaci in possesso di preziose pergamene. La traduzione latina di Omero, che il Boccaccio esegui su un mano­ scritto greco di proprietà del Petrarca, fu completata dopo anni di lavo­ 4 Nolhac, op. cit.y pag. 67. 5 Hutton, op. cit.y pag. 194.

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ro; si narra che il Petrarca fosse trovato morto con la testa appoggiata su una copia di essa, che era andato annotando nelle sue ultime ore. Ma la carriera del Boccaccio come umanista subì un grave arresto a causa d ’una di quelle crisi religiose che travagliarono tanti uomini in quel tempo di transizione dal Medioevo all’età nuova. Profondamente scosso dalle esortazioni di un certosino morente, nel 1362 fu sul punto di pren­ dere gli ordini, di abbandonare gli studi, bruciare le proprie opere e sba­ razzarsi della propria biblioteca. Il Petrarca, che nonostante la sincera pietà religiosa era un uomo estremamente pratico quando si trattava di organizzare la propria vita nel modo piu rispondente ai suoi gusti, fu tur­ bato dalla notizia di quella conversione. Fu necessaria tutta la sua elo­ quenza per riconciliare Lamico con gli studi umanistici e convincerlo che essi non erano affatto incompatibili con la religione: “Né l’amore della virtù né il pensiero dell’approssimarsi della morte dovrebbero distoglier­ ci dallo studio delle lettere che, se è informato da buone intenzioni, desta l’amore per la virtù, attenua e cancella il timore della morte... Citami il più gran santo che fosse ignorante di lettere, e io gli opporrò un uomo colto ancor più santo di lu i\” Cercasse conforto nella devozione ai testi antichi, continuava il Petrarca; e il consiglio non fu senza effetto: da al­ lora in poi il Boccaccio si dedicò con maggior zelo ai classici, ma rinunciò allo scrivere versi e storie spinte in lingua volgare. Nel 1363 si ritirò a Certaldo, la cittadina toscana che aveva dato i natali a suo padre e che, insieme a Firenze, egli considerava la sua patria. Benché appena cinquantenne, pare che si rassegnasse a una vecchiaia pre­ matura, rinunciasse a tutti i piaceri della carne e si consacrasse a una vita di grandissima austerità, fatta soltanto di studio; solo, di tanto in tanto rompeva la monotonia accettando ambascerie per conto dei fiorentini in luoghi distanti come Avignone e Roma. Nel 1370, accettando l ’invito di un amico, fu a Napoli, dove rimase anche parte dell’anno successivo. Appunto durante questo viaggio fece le sue scoperte più importanti: a Montecassino, l’antico monastero bene­ dettino su un alto colle sovrastante la strada strategica da Roma a Napoli. Fin dal sesto secolo Montecassino era uno dei principali centri di cultu­ ra dell’Occidente. L ’abbazia, ricostruita più volte dopo le devastazioni operate da barbari invasori e da catastrofi naturali, era stata danneggia­ ta da un terremoto circa dodici anni prima della venuta del Boccaccio. (Come è noto, la sua ora più tragica doveva giungere nel corso dell’ultima guerra, quando gli Alleati, credendo che gli edifici fossero stati fortifi­ cati dai tedeschi, la distrussero.) Fatto abbastanza curioso, conosciamo l’avventura del Boccaccio fra i manoscritti di Montecassino grazie a una nota nel commento del suo di­ scepolo Benvenuto da Imola al Paradiso di Dante. Durante il viaggio alla 6 Jerrold, op. c i t pag. 232.

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volta di Napoli, il Boccaccio decise di far sosta al monastero. Era inver­ no, tempo di piogge, quando sali alla volta dell’imponente benché mal ridotto edificio7. La prima cosa di cui s’interessò fu la biblioteca. “Desideroso di vedere la biblioteca/’ scrive Benvenuto, “che gli ave­ vano descritto come molto ricca, chiese gentilmente a un monaco — i suoi modi erano infatti sempre cortesi — che per favore gliela aprisse. Il monaco rispose con aria arcigna, additando una ripida scala, che salis­ se da sé: era aperta. Il Boccaccio fu ben lieto di obbedire; ma trovò che il luogo in cui era ospitato un cosi grande tesoro non aveva porta, né tanto meno chiave. Entrò, e vide erba sulle finestre, e tutti i libri e gli scaffali coperti d’uno spesso strato di polvere. Stupefatto cominciò a aprire prima un libro, poi un altro, a girarne le pagine, e trovò molti e diversi volumi di opere antiche e straniere. Alcuni avevano perso molti fogli, altri erano tagliuzzati, con i margini tagliati tutt’intorno al testo, e in vari modi mutilati.” Infine lasciò tristemente la biblioteca. “Sceso nel chiostro, chiese a un monaco che incontrò come mai quei libri pre­ ziosi fossero stati sciupati in quel modo. Si senti rispondere che i mona­ ci per guadagnare qualche soldo, tagliavano fogli e ne facevano salteri da vendere ai ragazzi, e usavano i margini per farne 'brevi’, che vende­ vano alle donne.” E Benvenuto conclude, amaramente ironico: “Ecco dunque, uomo di studio, logorati il cervello: scrivi libri, questa è la sorte che li aspetta8!” Il racconto di Benvenuto da Imola ci dà un vivido quadro della situa­ zione in cui si trovarono a operare quei primi esploratori. Le condizioni erano poco meno che scandalose nella stessa culla del movimento mona­ stico benedettino, in un centro che aveva goduto di cosi alta fama per le sue attività intellettuali. Pur conoscendo la visita del Boccaccio a Montecassino, non abbiamo notizie dirette sulle transazioni che vi concluse. I cacciatori di libri del periodo rinascimentale avevano l’esasperante abitudine di tener nascosti i luoghi in cui avevano scovato manoscritti, e in molti casi anche quella di serbare per sé ciò che avevano trovato. Evidentemente avevano le loro buone ragioni di fare tanti misteri: in primo luogo, si garantivano cosi dal pericolo di vedere i rivali precipitarsi sulla scena delle loro scoperte; inoltre, la saggezza consigliava di non far sapere all’ex proprietario l’ef­ fettivo valore di ciò che gli era stato tolto di mano con poche cerimonie. Per dirla schietta, quei buoni umanisti non indietreggiavano davanti al furto; si giustificavano affermando che l’ignoranza del legittimo proprie­ tario lo rendeva indegno di possedere una cosa tanto preziosa, e per da­ re una parvenza di sanzione legale alla cosa sapevano improvvisare ele­ ganti formule latine, come Si jus violandum est, librorum gratia violati7 Francis MacManus, Boccaccio, Londra, Sheed & Ward, 1947, pag. 235. 8 Symonds, op. cit.> pagg. 97-8.

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dum est (“Se la legge dev’essere violata, la sia per amore dei libri” )9. Sul­ la base di ragionamenti dello stesso genere musei nazionali e collezionisti privati di età più tarde avrebbero arricchito le loro raccolte; e come, in tempi più prossimi a noi, tanti sedicenti salvatori di opere d’arte antica della Grecia e del Vicino Oriente, cosi gli umanisti italiani del XIV e XV secolo si facevano un merito della sottrazione di antichi manoscritti agli individui o istituti che li possedevano. Recenti ricerche bibliografiche lasciano pochi dubbi sul fatto che il Boccaccio “acquistò” dai monaci di Montecassino uno dei più importanti manoscritti recuperati nel Rinascimento: un codice contenente buona parte degli Annali (libri XI-XVI) e delle Storie (libri I-V) di Tacito. Pri­ ma del Boccaccio, nessun moderno aveva saputo nulla di questo grande

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Manoscritto di Tacito (Mediceo II: Annali, libri XI-XVI, Storie, libri I-V) che il Boccaccio probabilmente prese a Montecassino. Rilegato in­ sieme a una copia dell ’Asino d'oro di Apuleio, è oggi alla Laurenziana di Firenze. Il codice è scritto in minuscola beneventana o cassinese; si ritiene che il lavoro di copiatura sia stato eseguito nelPXI secolo a Montecassino.

maestro degli storici di Roma e della sua opera, che rappresenta una tra le fonti essenziali per la conoscenza del periodo imperiale da Tiberio a Nerone; dopo il 1370 invece il Boccaccio cita Tacito spesso e volentieri. Tuttavia non disse nulla del suo acquisto, neppure al Petrarca; e il mi­ stero continuò dopo la sua morte, quando il manoscritto passò nelle ma­ ni di due umanisti fiorentini della seconda generazione, Leonardo Bruni e Niccolò Niccoli. Nessuno sa come ne entrassero in possesso; e siccome anch’essi mantennero scrupolosamente il segreto, è stata suggerita l’ipotesi che lo avessero rubato agli eredi del Boccaccio. Se le cose andarono 9 Da una lettera del Bruni al Niccoli, citata in Albert C. Clark, Sabbadini’s 'Finds of Latin and Greek Manuscripts’, “The Classical Review” , voi. XX, 1906, pag. 225.

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veramente così, la loro fu un’idea felice, poiché la maggior parte dei li­ bri del Boccaccio fu distrutta da un incendio nel XV secolo. Una cinquan­ tina d’anni dopo la morte del grande scrittore, nel 1427, Poggio Brac­ ciolini, che aveva avuto il codice in prestito dal Niccoli, assicurava a que­ st’ultimo di aver tenuto fede all’impegno di non farne parola con nessu­ no101: fatto molto insolito per Poggio, che fu sempre contrario alla segre­ tezza in questo campo e che sempre prestò senza farsi pregare i suoi ma­ noscritti più preziosi, benché spesso dovesse pentirsene. Evidentemente, nel caso del Tacito del Niccoli, non potè far altro che accettare le condi­ zioni poste dal “proprietario” . Gli studiosi continuarono per molto tempo a avanzare congetture cir­ ca il recupero del codice di Tacito. Siccome pareva che fosse rimasto igno­ rato fino a quando lo aveva letto Poggio Bracciolini (lettura di cui restava la testimonianza documentaria), uno studioso inglese dell’Ottocento avan­ zò la brillante ipotesi che gli Annali fossero un falso dovuto alla penna del Bracciolini stesso: ipotesi chiaramente assurda, dato che il Boccaccio aveva citato gli Annali quando Poggio non era ancor nato e che altre parti dell’opera (libri I-VI) furono rinvenute in un monastero tedesco mezzo secolo dopo la sua morte. Tuttavia, come tante altre teorie non meno chiaramente false, anche questa ha avuto parecchi ritorni di fortuna. Negli ultimi anni del Boccaccio, il repertorio di opere letterarie clas­ siche riportate alla luce si era arricchito di opere d’autori quasi comple­ tamente ignoti agli uomini piu colti del Medioevo e persino a Dante e al Petrarca. Il Tacito di Montecassino fu solo la prima “voce” in una lista di opere di primaria importanza; altri classici scoperti dal Boccaccio so­ no Marziale, Ovidio (l'Ibis), il letterato gallo-romano Ausonio, del IV secolo d.C., e i Priapeia, poesie erotiche — per non dire oscene — di cui la più antica copia giunta fino a noi è di mano del Boccaccio e si conser­ va alla Laurenziana di Firenze. Ironia della sorte, Ovidio e i Priapeia ri­ proposero alla sua attenzione temi che aveva prediletto negli anni della sua licenziosa gioventù, quando la capricciosa Fiammetta gli aveva ispi­ rato il Decameron, antenato del romanzo europeo. Ma da allora lui era molto cambiato. Quando gli giunse la notizia che il Petrarca era morto, il Boccaccio redasse il proprio testamento; un anno dopo, nel dicembre 1375, anche lui raggiungeva il porto dell’estremo riposo. Entrambi i lumi della nuova eloquenza si sono spenti, dichiarava tristemente il cancelliere di Firenze11. L ’uomo che pronunciò questo elogio funebre era Coluccio Salutati, lo studioso e uomo pubblico che fu, dopo il Petrarca e il Boccaccio, il terzo 10 Clark, op. cit., pag. 225. 11 John Edwin Sandys, History of Classical Scholarship, Cambridge, Cambridge Uni­ versity Press, 1908, voi. II, pag. 15.

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e più giovane membro della grande “triade fiorentina” di umanisti della prima ora. Fu anche il primo fra questi molti civilissimi uomini pubblici e protettori del sapere che, grazie alla loro passione di bibliofili e ai mez­ zi che vi poterono profondere, stimolarono il ritrovamento di libri per­ duti, pur non impegnandosi personalmente nelle attività di ricerca. Coluccio Salutati era un uomo austero, dello stampo di un antico ro­ mano d’età repubblicana. Tradusse Dante in latino, scrisse biografie di Dante, del Petrarca, del Boccaccio, e fu uno stilista d’alta classe. È fa­ mosa l’osservazione attribuita al milanese Gian Galeazzo Visconti, che gli scritti del cancelliere fiorentino gli avevano recato più danno di un esercito12. Egli fece del latino ciceroniano uno strumento diplomatico. Dopo la morte del Petrarca il Salutati, da poco promosso alla sua alta carica, si mise in contatto con il genero del poeta per ottenere da lui il permesso di vederne la raccolta di manoscritti. Il Petrarca non si era mai mostrato molto comunicativo a proposito dei manoscritti in suo posses­ so; i codici di Catullo e Properzio non erano stati messi a disposizione degli altri cultori di lettere classiche, e non era neppur certo che si tro­ vassero nella sua biblioteca. I negoziati andarono per le lunghe, ma alla fine il Salutati riuscì a ottenere una trascrizione di circa sessanta lettere ciceroniane. Il risultato — l’appetito vien mangiando — fu che desiderò di avere tutte quelle che il Petrarca, come sapeva, aveva copiato da un codice veronese. Proprio in quel frattempo, a Gian Galeazzo Visconti fu­ rono portati alcuni manoscritti antichi, provenienti da città dell’Italia settentrionale che aveva di recente ridotte in proprio dominio; v ’erano fra essi i codici veronesi, e il Salutati, benché Firenze e Milano fossero in guerra, riuscì a procurarsi una copia delle lettere di Cicerone. In quei se­ coli felici, l’idea della guerra totale non si era ancora affacciata alla men­ te degli uomini, e il fatto che fossero in corso azioni militari non implica­ va la rottura dei rapporti culturali; i principi e condottieri del Rinasci­ mento avrebbero potuto sottoscrivere la frase attribuita, in circostanze analoghe, a Luigi XIV: “Siamo in guerra con la Gran Bretagna, non con l’umanità.” Quando il Salutati cominciò a sfogliare il manoscritto, dapprincipio non potè credere ai suoi occhi: nessuna lettera somigliava a quelle che aveva già visto, nessuna era diretta a Quinto, Attico o Bruto. Che si trat­ tasse di una burla? Le successive indagini chiarirono l’enigma: Gian Ga­ leazzo gli aveva inviato copia non del codice veronese ma di un altro, pro­ veniente da Vercelli, fin allora totalmente ignorato e contenente un’altra raccolta di epistole di cui nessuno aveva mai avuto notizia: le Ad familiares. Il Salutati ne fu felice quanto il Petrarca lo era stato per la sua scoperta anni innanzi; definì il manoscritto un dono del Cielo e dichiarò 12 Symonds, op. cit., pag. 76.

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che quella lettura era per lui fonte di gioie quali mai aveva pensato di poter provare. Le lettere or ora scoperte18 gettavano nuova e più viva luce sulla perso­ nalità del grande romano. Rimaneva al Salutati il fervidissimo deside­ rio di possedere anche le altre epistole veronesi; dovette attendere anni, ma alla fine potè vantarsi in possesso di entrambe le raccolte1314. Il cancelliere fiorentino fu anche il promotore di parecchi altri ritro­ vamenti; fra l ’altro, dell’Agricoltura di Catone il Censore. Secondo la mi­ glior tradizione umanistica, il Salutati non fu solo un collezionista ma an­ che un critico e un filologo. Dimostrò a esempio che un saggio (De diffe­ rentia) attribuito un tempo a Cicerone era in realtà apocrifo. E a lui so­ prattutto si dovette la venuta a Firenze del Crisolora, il dotto bizantino la cui attività d’insegnamento in Italia è considerata un fattore di primo piano nella rinascita delle lettere classiche. Egli coronò cosi i propri suc­ cessi con questa disinteressata protezione degli studi greci. Ancora gra­ zie al suo personale intervento, giovani umanisti fiorentini (la maggior parte dei quali, come lui, non erano però fiorentini di nascita) ricevette­ ro incoraggiamenti e compensi. Principali fra loro furono Leonardo Bru­ ni e Poggio Bracciolini, che seguirono le lezioni del Crisolora e avrebbero entrambi occupato più tardi la carica di cancellieri. Dopo il Salutati, la caccia ai manoscritti toccò momenti di straordi­ nario fervore, acceso da quel rinnovato contatto con un’umanità libera e razionale che — cosi si disse — la bigotteria medievale e il dogmati­ smo scolastico si erano preclusi. La nostra storia sarebbe incompleta se non cercassimo di evocare l’atmosfera di esuberante fervore in cui si svol­ se la ricerca dei codici perduti. Non manca la nota drammatica né un piz­ zico di teatralità. La gioia della scoperta assunse un significato partico­ lare, come riflesso e espressione dello spirito rinascimentale teso a allar­ gare, in ogni campo, i confini del mondo conosciuto — una gioia, un en­ tusiasmo, un orgoglio paragonabili a quelli dei navigatori che spinsero le loro prore in mari inesplorati. I cacciatori di manoscritti che, alla ricer­ ca di mondi intellettuali e spirituali sommersi o perduti, si spinsero fino in Spagna, in Scandinavia, nel Vicino Oriente, potrebbero essere consi­ derati i veri predecessori di Vasco da Gama, Colombo, Vespucci, Cabo­ to; e nello stesso tempo gli studi umanistici contribuirono a preparare in­ tellettualmente i navigatori. Non dimentichiamo che Colombo e Coper­ nico, per lo studio posto nei testi classici, furono entrambi umanisti. In tutta la penisola italiana non solo uomini di lettere ma anche ec­ clesiastici, principi, borghesi si entusiasmarono ai successi dei cercatori di libri. “L ’acquisto di una provincia non avrebbe dato tanta soddisfazione 13 Georg Voigt, op. c i t pag. 208. 14 Ibid.

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quanta ne dava la scoperta di un autore poco noto o ignoto affatto15/ ’ Il recupero di un trattato di Cicerone o Quintiliano era un'impresa me­ morabile, seconda solo alPaverlo scritto. Il fiorentino Leonardo Dati, ri­ cevendo da Poggio Bracciolini la notizia di una scoperta recente, si con­ gratulava con lui in questi termini: “La repubblica delle lettere ha moti­ vo di rallegrarsi non solo per le opere che hai scoperte, ma anche per quelle che devi ancora trovare. Quale gloria per te avere riportato alla luce, con le tue fatiche, gli scritti degli autori più illustri! La posterità

Profilo d’uno studioso. D a Paolo Attavanti, Breviarium totius juris canonici (Mi­ lano, 1497).

non potrà dimenticare che manoscritti pianti come irrimediabilmente perduti, grazie a te sono stati invece recuperati. Come Camillo fu chia­ mato secondo fondatore di Roma, cosi possa tu essere chiamato secondo autore delle opere che hai restituite al mondo. Grazie a te, ora possedia­ mo tutto Quintiliano; prima ne avevamo soltanto metà, e in un testo di­ fettoso e corrotto. O prezioso acquisto! O gioia inaspettata! Potrò dun­ que davvero leggere tutto Quintiliano, quel Quintiliano che, mutilato e deformato come Pabbiamo conosciuto fino a oggi, già cosi era il mio con­ forto? Ti scongiuro di mandarmelo subito, affinché possa posarvi gli oc­ chi prima di morire16.” 15 Isaac D ’Israeli, Curiosities of Literature, New York, Widdleton, 1865, voi. I, pag. 69. Symonds, op. citn pag. 100.

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Un autentico spirito pionieristico accendeva questa passione, e gli uomini erano pronti a grandi sacrifici per allargare il sapere umano, per salvare tutto il salvabile, a qualsiasi prezzo. Giovanni Aurispa, siciliano, ricordava di aver ceduto i suoi vestiti ai greci di Costantinopoli per aver­ ne codici, e dichiarava di non provarne vergogna né rimpianto17. E Nic­ colò Niccoli, fiorentino, che diventò una specie di direttore e agente ge­ nerale per i cacciatori di manoscritti operanti nelParea, vendette le sue terre per arricchire la propria collezione; più tardi finì anzi con l'indebitarsi, e Cosimo de’ Medici in cambio delPassistenza finanziaria che gli concesse, si riservò il diritto di prendere per sé, dopo la morte del Nicco­ li, la maggior parte dei suoi libri. Appena balenava la più vaga possibilità di un ritrovamento, il cerca­ tore umanista si metteva in movimento, anche se, più spesso che no, le sue fatiche si rivelavano inutili. Cosi il Petrarca, ormai avanti negli anni, saputo che Leonzio Pilato era stato ucciso nel viaggio di ritorno da Co­ stantinopoli, si precipitò al porto per frugare tra i bagagli del defunto; ma le sue speranze di trovare un Euripide o un Sofocle andarono deluse18. Agli studiosi diedero qualche volta man forte capitani di ventura, principi, cardinali, mercanti-capitalisti, che proteggevano e finanziavano le ricerche, benché fossero, con grande irritazione del Bracciolini e come quasi tutti i filantropi, piuttosto volubili nella loro protezione e assisten­ za. L'Europa fu setacciata; i papi Niccolò V e Leone X mandarono i loro agenti di là dal Mediterraneo, in Siria e in Asia Minore, e a nord fino in Svezia e in Danimarca. Poggio Bracciolini sfidò gli elementi, traversò va­ lichi coperti di neve, ascese montagne per frugare nella decrepita biblio­ teca di un lontano monastero alpino. Di lui scrisse un contemporaneo, Francesco Barbaro: “Né la rigidezza del freddo invernale, né la neve, né la lunghezza del viaggio, né l'asperità delle strade gli impedirono di ripor­ tare alla luce i monumenti della letteratura antica19.”

17 Alfred Hessel, A History of Libraries, New Brunswick, N. J., The Scarecrow Press, 1955, pag. 41. 18 Edward Gibbon, The History of the Decline and Fall of the Roman Empire, a cura di J. B. Bury, 9a ed., Londra, Methuen & Co., 1932, voi. V II, pag. 120. 19 Symonds, op. cit.y pag. 100.

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Capitolo III L ’APPASSIONATO CACCIATORE DI LIBRI: PO GGIO BRACCIOLINI A questi pionieri, quando saccheggiavano biblioteche, sembrava di liberare dalla prigione i grandi spiriti del­ l'antichità. S ir R ichard C. J e b b 1

In uno dei suoi racconti ambientati in epoca rinascimentale, “Plauto in convento” , lo scrittore svizzero ottocentesco Conrad Ferdinand Meyer ci rappresenta Poggio Bracciolini coinvolto in situazioni scabrose nel cor­ so dei suoi tentativi di recuperare dodici commedie plautine conservate in un monastero nel cantone svizzero di Appenzell. L ’episodio piccante non ha basi storiche alPinfuori del fatto che il Bracciolini ebbe parte al­ meno indiretta nel recupero di opere perdute del commediografo latino; ma la versione data da Meyer è interessante in quanto riflette la fama leg­ gendaria di Poggio come segugio e cavaliere errante della caccia al libro. Uscito da una povera famiglia di Terranuova, cittadina nei pressi di Arezzo, Poggio Bracciolini (1380-1459) riassume in sé le essenziali carat­ teristiche dell’umanista cacciatore di codici. Amanuense malpagato a Fi­ renze, attrasse l’attenzione del Salutati; di li a non molto era profonda­ mente immerso negli studi umanistici. Poco più che ventenne assurse a una posizione di primo piano nella curia pontificia dove eccelse nella com­ posizione di lettere apostoliche; il che non gl’impedi di criticare aspra­ mente gli abusi della Chiesa. Nel 1414 fu nominato segretario papale, e servi poi Roma per quasi mezzo secolo; infine, più che settantenne, e co­ me il Salutati prima di lui, fu chiamato alla carica di cancelliere di Firen­ ze. La sua fama andò crescendo negli anni, via via che egli diventava uno 1 Richard C. Jebb, op. cit., pag. 553.

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dei più prolifici e combattivi uomini di lettere del secolo. Scrisse un lati­ no più polito di quello del Petrarca e del Salutati, e solo il Niccoli potè competere con lui nel decifrare difficili reliquie latine. I suoi scritti ori­ ginali e il suo stesso sistema di vita hanno un che di moderno, addirit­ tura di “libertino” ; benché egli non fosse, affatto, l'epicureo impunito che ci viene tanto spesso descritto. Lo troviamo, una volta, intento a copiare un'antica iscrizione su pie­ tra, all'estrema periferia di Roma, nello stesso tempo chiacchierando con alcune passanti. Siccome il Niccoli lo accusava sempre di interessarsi troppo al gentil sesso, Poggio si affrettò ad assicurargli che almeno in questo caso l'iniziativa non era stata sua: le belle romane avevano riso nel vederlo, in piena calura estiva, ripulire una pietra dell'edera che la copriva; e il suo senso di cavalleria lo aveva obbligato a illuminarle su ciò che stava facendo2. L'episodio, fra parentesi, ci mostra il Bracciolini nelle vesti di archeologo ed epigrafista. Gli si deve infatti l'iniziativa di catalogare i resti di Roma antica — il Gibbon riconobbe il proprio de­ bito verso il lavoro da lui compiuto — e a tale scopo fece molte spedi­ zioni di ricerca “in campo” nella campagna romana. Raccolse inoltre an­ tiche monete e statue. Nel 1429, quando portò via da Montecassino l'opera di Frontino sugli acquedotti romani, si prese — il che è tipi­ co — anche un frammento di statua, un torso femminile, che scavi ave­ vano di recente riportato alla luce nei pressi del monastero3. Come altri umanisti, Poggio aveva i suoi momenti di malinconia e talvolta si abbandonava a un “medievale” disgusto della vita. Ma erano crisi di breve durata, e non gli impedirono di prendere in moglie, già vec­ chio, una fiorentina diciottenne di ottima nascita e di mettere al mondo otto figli. Come nota il Symonds, non era un topo di biblioteca, bensì un uomo “con gli occhi e la mente aperti al mondo che lo circondava”4. Poggio Bracciolini si guadagnò gli speroni come cacciatore di codici durante una visita compiuta nel 1407, in compagnia di Leonardo Bruni, a Montecassino, dove ex vetustissima scrip tura (cioè in un antichissimo scritto) scovò un frammento di Livio5. Livio e Montecassino segnarono insieme l ’inizio e la fine della sua carriera di ricercatore; nel senso che la sua ultima campagna di ricerca doveva riportare il Bracciolini al famoso monastero. Ritrovare i libri perduti di Livio fu sempre la sua idea fissa. Viaggiò per tutta l'Italia, traversò in tutti i versi Francia, Germania e Svizzera, risiedette per quasi cinque anni in Inghilterra; sotto la sua gui­ da, la sistematica ricerca di codici si estese di là dalle Alpi, e diede risul­ 2 1914, 3 4 5

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Ernst Walser, Poggius Florentinus, Leben und Werke, Lipsia, B. G. Teubner, pag. 142. Ibid., pag. 143. Symonds, op. cit., pag. 167. Clark, op. cit., pag. 225.

tati prodigiosi. Ma il Bracciolini colse il più alto frutto delle sue fatiche al tempo del Concilio di Costanza. Costanza, antica città imperiale germanica sulle rive del lago omoni­ mo, presso l’attuale confine svizzero, era stata scelta come sede d’un Con­ cilio che si proponeva di comporre il grande scisma, eleggere un nuovo pontefice, introdurre riforme e condannare ufficialmente l’eresia ussita. La pittoresca città fu presto gremita di persone accorse da tutte le parti del mondo cristiano: papi, antipapi, cardinali, un imperatore, principi, un esercito di aiutanti, e ancora eretici, arruffoni, cortigiani. Com’era da

Un amanuense del Rinascimento. Da Francesco Colonna, Hypnertomachia Polyphili.

prevedersi, raggiungere un accordo si rivelò difficile, e quella specie di congresso internazionale andò molto per le lunghe. Poggio fu mandato a Costanza nel 1414 in qualità di scrittore apo­ stolico di quel Giovanni XXIII che il Concilio non avrebbe tardato a deporre. Ma nonostante la sua posizione ufficiale, i problemi in discus­ sione non lo preoccupavano piu che tanto; invece lo divertiva lo spetta­ colo, che poteva godersi a suo agio, in una situazione privilegiata che non comportava certo gravi fatiche. Quel trovarsi insieme a tante e diverse persone allargò i suoi orizzonti. Inoltre, trovò a Costanza anche molti stu­ diosi, e soprattutto il Crisolora, suo maestro, che però purtroppo morì improvvisamente e dovette essere sepolto in una chiesa del posto. V ’erano molti studiosi italiani e non pochi cardinali, per lo più appartenenti a delegazioni, e in minor numero recatisi a Costanza per loro piacere; pa­ recchi di loro erano stati compagni di studi del Bracciolini a Firenze.

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Gli italiani furono non poco stupiti di trovare fra gli stranieri uomi­ ni di grande sapere. I contatti e gli scambi di idee fra uomini di cultura di paesi diversi dovevano anzi rivelarsi di incalcolabile importanza6: uno fra i piu significativi risultati del Concilio fu infatti la diffusione dei se­ mi deirumanesimo in tutta la cristianità occidentale. Prima di valicare le Alpi, Poggio e gli altri umanisti italiani avevano creduto che nei paesi “barbari” di là da quelle la letteratura antica dovesse essere piu o meno sconosciuta. Ma la vicinanza della città del Concilio a parecchi rinomati monasteri benedettini e le conversazioni con uomini di Chiesa non italia­ ni non tardarono a far loro cambiare idea. Poteva forse darsi, invece, che i monasteri d’oltralpe ospitassero codici antichi introvabili in Italia? Poggio Bracciolini decise di accertarsene di persona. Durante il Con­ cilio fece quattro viaggi fuori Costanza. Non era certo Punico esplorato­ re in campo, ma era forse, per la sua vasta conoscenza della letteratura classica, il meglio preparato; in grado, grazie ai suoi studi, di scoprire più codici e di decifrarli. Sapeva molto bene che cosa cercare; copiò ra­ pidamente e da esperto i codici che non potè portar via, e in qualche ca­ so mise al lavoro anche il suo copista personale a Costanza7. Inoltre, man­ tenne contatti con gli amici di Firenze e di altre città italiane, che lo aiu­ tarono in vari modi e gli fornirono quello stimolo di cui soprattutto ave­ va bisogno un umanista degno di questo nome: incoraggiamenti e adu­ lazioni. Per parte sua, il Bracciolini era un viaggiatore modello, capace di percorrere grandi distanze nonostante le enormi difficoltà di trasporto del tempo e, quando lo scopo del viaggio lo meritava, di tollerare qual­ siasi disagio e di adattarsi gaiamente agli usi e costumi di paesi stranieri. Con attenzione sempre desta, raccoglieva informazioni e registrava im­ pressioni di ogni genere, scrivendo poi agli amici in patria lettere incan­ tevoli sulle sue esperienze nei paesi d’oltralpe. Il Rinascimento non ci ha lasciato documenti più vivaci delle lettere di Poggio da Costanza. Giusta­ mente famosa è quella sul processo e l’eroica morte di Gerolamo da Pra­ ga, ussita, la cui socratica autodifesa e forza d’animo Poggio — nono­ stante la sua posizione di emissario pontificio — sinceramente ammirò. Più frivola la lunga epistola in cui descrive la visita alle sorgenti di Ba­ den, la stazione termale svizzera presso Zurigo, dove vide ospiti dei due sessi fare il bagno e folleggiare in compagnia. Per buona fortuna di Poggio, il Concilio andò per le lunghe; inoltre, dal maggio 1415 al novembre 1417 il seggio pontificio rimase vacante, di modo che nessuno ebbe bisogno dei suoi servigi come segretario del pa­ pa, e fu libero di fare quel che più gli piaceva. La prima spedizione alla ricerca di codici, forse intrapresa col proposito originario di difendere la 6 Voigt, op. cit., pag. 234. 7 Ibid., pag. 235.

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causa ormai perduta di Giovanni XXIII, portò il Bracciolini alla già glo­ riosa abbazia di Cluny in Borgogna, a parecchi giorni di viaggio da Co­ stanza; è possibile che egli vi si recasse su consiglio di colleghi francesi al Concilio. Là, nel 1415, trovò un codice antico contenente cinque ora­ zioni ciceroniane, due delle quali — la Difesa di Lucio Murena e la Di­ fesa di Publio Sest io — fin allora totalmente ignote in Italia. Il mano­ scritto era in condizioni pietose, ma Poggio fu felice del permesso di por­ tarselo via e senza por tempo in mezzo lo inviò al Niccoli, che, con i suoi amici umanisti, lo accolse con eguale giubilo, ma trovò poi notevoli dif­ ficoltà nel leggerlo e trascriverlo. Tali difficoltà derivavano non solo dal­ la grafia e dai caratteri — oltre che dalle condizioni in cui il libro era ri­ dotto — ma anche dal fatto che nei manoscritti antichi sono raramente indicate le divisioni fra parole e frasi. Tuttavia il lavoro procedette spe­ dito: entro quello stesso anno la copiatura era terminata e le due ora­ zioni cominciavano a circolare in Italia8. L ’estate seguente, in compagnia di numerosi amici italiani, Poggio si spinse a San Gallo, l’abbazia fondata da monaci irlandesi nel V II seco­ lo e non lontana da Costanza. Al tempo del Bracciolini San Gallo godeva di notevole prestigio e i suoi abati erano principi del Sacro Romano Impe­ ro. Ma il loro potere era soprattutto politico. Un abate del X III secolo, dall’imponente nome di Rumo von Ramstein, non sapeva neppure leg­ gere e scrivere9: le cose erano molto cambiate dal primo Medioevo, quan­ do l’abbazia era uno dei centri intellettuali più vivi del mondo tedesco e contava tra i suoi monaci parecchi scrittori rinomati. Una situazione dunque paragonabile a quella di Montecassino; di diverso, ci fu che Pog­ gio e i suoi compagni, a differenza del Boccaccio, diedero notizia al mon­ do di ciò che vi trovarono, e lo fecero senza usare mezzi termini. Uno di loro, Agapito Cenci, dichiarò che avevano tutti pianto di fronte al mise­ rando spettacolo, e per buona misura aggiunse una maledizione all’indi­ rizzo dei barbari tedeschi10. La lettera di Poggio è un misto di obiettività e di pathos. ‘‘Il monastero di San G allo/’ scrisse all’amico Guarino, altro grande umanista, “sorge a una distanza di circa venti miglia da questa città [Co­ stanza]. Qui dirigemmo dunque i nostri passi, un po’ per divertirci, un po’ con la speranza di trovare libri, avendo sentito dire che il monastero ne possiede una buona raccolta. Nel mezzo di una ben fornita biblioteca, troppo ricca perché te ne possa catalogare qui il contenuto, trovammo un Quintiliano, salvo e sano benché coperto di polvere e insudiciato dal 8 Curt S. Gutkind, “Poggio Bracciolinis geistige Entwicklung” , Die Vierteljahrsschrift fiir Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte, voi. X, 1932, pag. 568. V. anche Walser, op. cit.y pag. 49. 9 James Westfall Thompson et al., The Medieval Libraries, Chicago, Chicago Uni­ versity Press, 1939, pag. 196. 10 Voigt, op. cit., pag. 237.

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tempo e dalla negligenza degli uomini. I libri, devi già saperlo, non han­ no la sistemazione che il loro valore meriterebbe: li abbiamo trovati ac­ catastati in un immondo e oscuro carcere al fondo di una torre, in un luogo dove non si getterebbero i condannati; e sono fermamente convin­ to che se qualcuno si desse la pena di esplorare gli ergastula in cui i bar­

bari incarcerano tali uomini, avremmo la stessa buona fortuna nel caso di molti per i quali sono state da gran tempo pronunciate le orazioni fu­ nebri...11” Gli umanisti italiani, come vediamo, tacciavano molto spesso di “bar­ bari” gli uomini d ’oltralpe, benché nulla lasci pensare che nella penisola italiana i manoscritti antichi fossero trattati meglio; ma era tipico dello 11 Symonds, op. c i t pag. 99.

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sciovinismo rinascimentale italiano il sottolineare la mancanza di rispetto dei barbari per la cultura antica: presentando gli uomini del settentrione come incapaci di apprezzare il retaggio dell’antichità, anzi come profana­ tori di quello, gli italiani rivendicavano il diritto di riportare nel loro paese ciò che non era mai appartenuto ai rozzi stranieri. Benché usasse termini meno crudi di quelli di Agapito Cenci, Poggio Bracciolini non rappresenta un’eccezione sotto questo rispetto. Con gli umanisti è sempre difficile dire dove finisca la retorica e cominci la since­ rità; ma la parte di lettera in cui si parla del Quintiliano ritrovato deve probabilmente più alla prima che alla seconda. Cosi infatti, nella vena an­ tropomorfica cara al Petrarca, il Bracciolini parla del codice “martirizza­ to” che gli deve la salvezza: “Sono persuaso che, se non fossimo giunti al soccorso, egli [il Quintiliano] sarebbe assai presto perito; è impensabile infatti che un uomo magnanimo, raffinato, elegante, urbano, pieno di spi­ rito avrebbe potuto sopportare ancora a lungo lo squallore del carcere in cui lo trovai, la crudeltà dei carcerieri, la miseranda sporcizia di quel luo­ go. Era veramente triste a guardarsi; pietosamente malmesso, come un condannato in attesa dell’esecuzione, con la barba ispida e i capelli arruf­ fati, tuttavia protestava con la naturale eleganza dell’aspetto e del porta­ mento contro l’iniquità della sentenza. Sembrava tendere le mani, chia­ mando i romani [cioè gli italiani], implorando di essere salvato da un cosi immeritato destino...12” Nel seguito della lettera il Bracciolini aggiunge di aver trovato anche i primi tre libri e mezzo delle Argonautiche, poema epico di Valerio Fiac­ co, e l’importante Commento di Asconio Pediano a varie orazioni di Ci­ cerone. La copia di questo Commento eseguita dal Bracciolini è l’unico “archetipo” esistente, poiché il manoscritto di San Gallo non esiste più. A quel tempo, però, il codice di Quintiliano fu quello che suscitò mag­ gior interesse in Italia e il fervido entusiasmo degli umanisti. Il Salutati e altri l’avevano cercato invano, e Gasparino da Barzizza aveva addirittu­ ra tentato l’impresa di ricostruire le parti mancanti nella copia frammen­ taria del Petrarca13. Il Petrarca aveva trovato il primo codice noto, strappato e malconcio e contenente appena metà del trattato. Nella postuma epistola a Quinti­ liano egli descriveva le “lettere smembrate di uno splendido corpo” e l’“ammirazione mista di dolore” provata nel riportarlo alla luce. Profeti­ camente aggiungeva: “In questo stesso momento la tua opera riposa for­ se intatta nella biblioteca di qualcuno; e, quel che è peggio, di qualcuno che forse non sospetta neppure quale ospite abbia sotto il proprio tetto. Chiunque, più fortunato di me, ti scopra un giorno, sia certo di avere 12 Ibid., pagg. 98-9. 13 Voigt, op. cit., pag. 236.

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ottenuto in possesso un’opera di immenso valore; un’opera che, se sarà saggio, dovrà considerare uno fra i suoi tesori più preziosi14/' Le prevenzioni contro i “barbari” non impedirono al Bracciolini di rimanere in buoni rapporti con San Gallo. Una fra le caratteristiche più amabili di Poggio fu la sua avversione per le sottigliezze diplomatiche e i sotterfugi. Non fece nessun tentativo di tenere nascosto il valore del ma­ noscritto; lo chiese invece e lo ottenne in prestito dall’abate, insieme ad altri testi, per farlo copiare a Costanza, e pare che li restituisse tutti sol­ lecitamente. Non avrebbe, altrimenti, potuto fare altre visite alla biblio­ teca dell’abbazia. Nello stesso tempo, il Bracciolini cercava altre fonti di tesori letterari, e dirigeva la sua attenzione verso altri monasteri, svevi e svizzeri (Reichenau e Weingarten?) non eccessivamente distanti da Costanza. Dopo il Capodanno del 1417, nonostante le nevicate, era di nuovo in cammino, per visitare, oltre San Gallo, altri monasteri di cui non conosciamo il no­ me. Come al Petrarca, gli era di stimolo la semplice vista di un monaste­ ro, che evocava agli occhi della sua mente la visione di codici in attesa. Uno dei monasteri che incontrò sul suo cammino fu un eremitarium in visceribus Alpium, un romitaggio nelle viscere delle Alpi: forse Einsiedeln. Altri lungo il suo itinerario poterono essere raggiunti — scrisse — solo “dopo avere scavalcato rocce e valicato crepacci, traversato torrenti di montagna e foreste”15. Il viaggio diede risultati non meno soddisfacenti di quello che l’ave­ va preceduto, e di gran lunga più inattesi; ma è impossibile dire che cosa venne da San Gallo, che cosa da altri monasteri. Una fra le opere ritro­ vate fu il De rerum natura di Lucrezio, talmente caduto nell’oblio da aver cessato di essere oggetto di ricerca, nonostante l’altissima fama go­ duta nell’antichità (e possiamo aggiungere che alcuni moderni, condivi­ dendo il giudizio di Cicerone, lo considerano superiore aWEneide). Fu­ rono ritrovate anche le opere di Ammiano Marcellino, l’ultimo fra i gran­ di storici romani, privo, per dirla con Gibbon, dei “pregiudizi e delle pas­ sioni che solitamente offuscano lo spirito di un contemporaneo16” ; e, an­ cora, il più lungo fra i poemi latini, le Puniche di Silio Italico, prezioso documento della lotta per la vita e per la morte che Roma impegnò con Cartagine. Il Bracciolini era appena tornato a Costanza, nell’estate del 1417, quando si imbarcò nella sua quarta avventura transalpina. Leonardo Bru­ ni, nella lettera di congratulazione per il ritrovamento del Quintiliano, lo aveva scongiurato di tenere gli occhi aperti soprattutto per Cicerone; e 14 M. E. Cosenza, Petrarch's Letters to Classical Authors (trad.), Chicago, Chicago University Press, 1910, pag. 84. 53 Walser, op. cit., pag. 55. 16 “Ammianus Marcellinus” , The Oxford Classical Dictionary, Oxford, Clarendon Press, 1949, pag. 43.

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questa volta Poggio riuscì a mettere le mani su opere perdute del grande oratore. Il quarto viaggio lo portò lontano dalla sede del Concilio, verso nord, lungo il Reno, addentro nella Germania e nella Francia. Impossi­ bile dire fino a qual punto seguisse indicazioni altrui o si fidasse del­ l'istinto. In un monastero cluniacense sulla Marna, a Langres, trovò sot­ to un enorme mucchio di libri un codice con sei orazioni di Cicerone17,

Copia di mano di Niccolò Niccoli (oggi alla Biblioteca Nazionale di Firenze), di un’opera di Ammiano Marcellino, storico latino, trovata da Poggio in un monastero d’oltralpe. La sveltezza della scrittura ri­ flette lo zelo e la velocità con cui i testi recuperati furono copiati da­ gli umanisti fiorentini: fattori che forse contribuirono a formare la nuova scrittura “corsiva” .

una delle quali era Pancora ignota Pro Caecina. Poco dopo, a Colonia, fe­ ce la scoperta di cui andò poi sempre maggiormente orgoglioso18: sette orazioni ciceroniane fin allora completamente ignorate. Sulle prime, Colonia minacciò di essere un'amara delusione: a Pog­ gio fu infatti negato l'accesso all'antica biblioteca episcopale fondata sot­ to Carlomagno. Riuscì tuttavia a entrare nell'affiliata libreria nova> dove trovò largo compenso nella scoperta del codice ciceroniano. Vi fu una unica nota dolente: pare che esso fosse stato copiato da monache, alle quali Poggio e i suoi colleghi fiorentini diedero la colpa della confusione e illeggibilità di certe parti del testo. Come in tanti altri casi di scoperte d'epoca rinascimentale, il codice rinvenuto e trascritto dal Bracciolini andò poi distrutto: tre orazioni sono giunte a noi nella sua copia, e una di esse, VOratio in L. Pisonem (contro il suocero di Cesare, Lucio Calpurnio Pisone), doveva fornire la chiave di scoperte compiute circa tre secoli dopo la visita deH'umanista a Colonia. 17 Voigt, op. cit.y pag. 243. 18 Walser, op. cit.y pag. 58.

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Lungo la strada, non sappiamo dove, Poggio trovò anche una curio­ sa raccolta di iscrizioni latine provenienti da Roma — alcune, come egli capi subito, erano copie di iscrizioni da gran tempo distrutte — , più una mappa della città eterna risalente alPottavo secolo. Tanto solleticò il suo appetito di antiquario che non esitò a infilarla in una delle larghe maniche dell’abito ecclesiastico che amava portare sebbene non avesse neppure gli ordini minori. Quando il Concilio, finalmente, pose termine allo scisma con l’elezio­ ne di Martino V, Costanza ridiventò una città priva d ’interesse. Il Brac­ ciolini aveva sperato che il nuovo papa gli dimostrasse qualche preferen­ za, ma ciò non avvenne ed egli ebbe la cattiva idea di accettare un invito a recarsi in Inghilterra come ospite del potente duca di Beaufort, l’ambi­ zioso figlio di Giovanni di Gaunt, che aveva conosciuto al Concilio. Il pe­ riodo trascorso in Inghilterra fu il più infelice della sua vita: il suo pro­ tettore lo trattava con alterigia e non gli dimostrava alcuna sollecitudine, il clima e la gente gli riuscivano detestabili. Gli parve che gl’inglesi non nutrissero alcun interesse per la cultura umanistica, mentre ne nutrivano anche troppo per la buona tavola. Il buon umore lo abbandonò, ed egli cercò rifugio nella lettura dei Padri della Chiesa. Ma seppe anche nota­ re, acutamente, la mobilità sociale del paese, la cui aristocrazia era conti­ nuamente rinnovata dall’afflusso di elementi delle classi inferiori; fece qualche spedizione alla ricerca di manoscritti, e probabilmente nel corso d’una di esse mise le mani su un frammento di Petronio. Una volta lasciata l’Inghilterra, la sua curiosità naturale, la sua viva­ cità di spirito rinacquero. É vero che adesso parlava della ricerca di codi­ ci come di un’attività troppo costosa, in termini sia di denaro sia di tem­ po, e fuori delle possibilità di un letterato senza impiego. Ma senza im­ piego non rimase a lungo: ben presto era di nuovo a Roma, e in cresta all’onda. Durante il viaggio di ritorno in Italia fece alcuni nuovi acquisti a Pa­ rigi e a Colonia. Probabilmente a Colonia si procurò il più importante frammento del romanzo satirico di Petronio, che prestò a un amico il quale se lo tenne per anni. Quanto al frammento contenente la descrizio­ ne del famoso banchetto di Trimalcione, presumibilmente trovato in In­ ghilterra, pare che gli fosse rubato, e non se ne ebbe notizia fino alla me­ tà del Seicento, quando ne fu scoperta una trascrizione in un monastero croato19. A un filo tanto sottile era appesa la sopravvivenza di preziose opere classiche, anche in un’età che sapeva apprezzarle. A questo punto, sarà opportuno accennare brevemente ai tentativi di alcuni storici di minimizzare l’importanza dei contributi di Poggio Brac­ 19 Albert C. Clark, “The Trau Manuscript of Petronius” , The Classical Review, voi. XXII, agosto 1908, pagg. 178-79.

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ciolini e di altri umanisti al recupero di codici antichi, sminuendo il va­ lore delle opere recuperate e sostenendo, di solito, che i codici, copiati nel Medioevo, erano già parzialmente noti e non erano mai stati veramen­ te “perduti” : assurdo dunque dire che furono “scoperti” . In parte, que­ ste osservazioni sono giuste: vi fu effettivamente la tendenza a definire una “scoperta” qualsiasi codice che non fosse familiare alla Firenze rina­ scimentale20. E non si può negare che vi fosse una nota di esagerazione nei vanti di quei pretesi latini del Rinascimento, uomini in molti casi vanagloriosi, arroganti, privi di senso della misura: l’abitudine di portare alle stelle la propria bravura, i reciproci scambi di lodi sperticate, i me-

Colonia. Silografia dal Fasciculus Temporum (Colonia, 1474).

schini intrighi e le rivalità hanno assai poco di quella dignità “classica” di cui si professavano ammiratori. Con tutto questo, i critici dimenticano che molte opere furono tramandate in un’unica copia, che molti di quei codici già rari stavano cadendo a pezzi, e che la loro sopravvivenza fu do­ vuta esclusivamente al tempestivo recupero. I codici antichi erano in via di sparizione; molti di quegli stessi che gli umanisti riuscirono a rintrac­ ciare e copiare sparirono più tardi, alcuni libri di cui i documenti ci atte­ stano resistenza nel Medioevo e persino nel Rinascimento non sono giun­ ti fino a noi. Ammettiamo dunque che l’idea di “scoperta” comporta al­ cune ambiguità semantiche; ma è innegabile che nel caso di Tacito, Lu­ crezio, Petronio e di parecchi trattati e orazioni ciceroniani — tutte ope­ re ignote al Petrarca — nessun termine più modesto di “scoperta” è adat­ to a definire il contributo degli umanisti nel restituire quei testi alla co­ noscenza degli uomini. Le attività del Bracciolini nei riguardi dei codici antichi, attività che egli dirigeva dal suo quartier generale presso la curia pontificia, assunsero dopo il ritorno dall’Inghilterra un carattere più sedentario. Da Roma, 20 Voigt, op. cit., pag. 242.

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Poggio allungò tentacoli fino a Treviri, Utrecht e nel remoto Portogallo, in cerca di altri testi ciceroniani21. I contatti con ecclesiastici di passaggio gli conferivano un vantaggio strategico, in quanto aveva innumerevoli occasioni di usare la propria influenza a favore di un canonico o priore straniero se in cambio questi era disposto a dimostrare la sua gratitudine dandogli notizia dei codici antichi in possesso della sua diocesi, abbazia o convento. I piu fruttuosi fra tutti furono i rapporti con un ecclesiastico tedesco, Nicola di Treviri (oggi si pensa che fosse Niccolò da Cusa, l’illustre filosofo e futuro cardinale), il quale nel 1429 gli inviò una lista di codici cosi imponente che il Bracciolini si affrettò ad assicurarsi l’appoggio di un cardinale romano, del nobile casato degli Orsini, per garantire il successo dell’impresa. Le transazioni richiesero un certo tempo e non tutti i codici indicati dall’ecclesiastico tedesco poterono essere rintrac­ ciati; ma la storia ebbe un lieto fine, con la comparsa di un testo di com­ medie di Plauto, dodici delle quali (C. F. Meyer aveva ragione su questo punto) interamente nuove. L ’unica difficoltà fu creata dal cardinale, che vantando diritto di possesso sul codice si rifiutò di lasciarlo anche soltan­ to vedere ad altri. “Non sono riuscito ad entrare in possesso del Plauto,” scriveva Pog­ gio amareggiato al Niccoli. “Prima della partenza del cardinale l’ho pre­ gato di mandarti il libro, ma non ha voluto acconsentire alla mia richie­ sta. Non capisco cosa abbia in mente. Ha l’aria di pensare di aver fatto qualcosa di grande, benché in realtà non abbia avuto la minima parte nella scoperta del libro: è stato trovato da un altro, ma lui lo tiene na­ scosto. Ho detto a lui e ai suoi che mai tornerò a chiedergli quel libro, e manterrò la parola. Preferirei dimenticare ciò che so, che acquistare qual­ siasi nozione nuova grazie al suo libro.22” Le delicate pressioni dei Medici persuasero infine il cardinale a cede­ re temporaneamente il manoscritto al Niccoli perché fosse copiato. Il Bracciolini fu privato di quel che sarebbe stato il giusto compenso alle sue fatiche, ma accettò la malasorte con rassegnazione. Ancor piu deludenti le trattative di Poggio con il cosiddetto “monaco di Hersfeld” , un monastero tedesco nei pressi di Fulda che godeva fama di possedere parecchie opere brevi di Tacito: la Vita di Agricola, la Ger­ mania, il Dialogo degli oratori. I negoziati ebbero inizio nel 1425, con lo scopo di convincere il monaco a trafugare i codici e a portarli a Roma; ma ogni volta egli arrivava a Roma con le mani vuote, promettendo di fare meglio nella prossima occasione. Infine non si seppe più nulla di lui. Una trentina d’anni dopo un papa umanista, Niccolò V — anche lui, co­ me Poggio, era stato un oscuro amanuense, Tommaso Parentucelli — 21 Sandys, op. cit., pag. 31. 22 Rev. William Shepherd, The Life of Poggio Bracciolini, Liverpool, J. Cadell, 1802, pag. 104.

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inviò un suo speciale messo a Hersfeld e ottenne quei grandi testi. Sono, una volta di più, le uniche copie a noi note di quelle opere. I tentativi del Bracciolini di rintracciare opere di Livio ebbero esito peggiore dei suoi sforzi di assicurarsi testi di Plauto e di Tacito. La ricer­ ca dei libri perduti del grande storico romano fu uno fra i temi ricorrenti dell'umanesimo italiano, quasi alla pari con la caccia alle opere perdute di Cicerone. Poggio, incoraggiato dagli altri successi, sperava di coglierne di

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NAOriNAKJHOS 1 6 N d » r Tre righe da un famoso manoscritto di Livio ora a Vien­ na, scritto nel V secolo in caratteri unciali (maiuscole arrotondate).

eguali nei riguardi di Livio, che era stato abbastanza popolare nel Me­ dioevo, benché non sappiamo quanti dei suoi 142 libri fossero noti agli uomini di quel tempo; in ogni caso, all’epoca di Poggio ne erano acces­ sibili solo trentacinque circa. Il Petrarca e il Salutati si erano dati molto da fare per trovarne altri, ma senza successo. Il Bracciolini tuttavia aveva maggiori risorse e assai più costanza; e molte voci continuavano a giun­ gere alle sue orecchie. Per primo, comparve un uomo di Chartres. Poi fu la volta di un danese che, giunto a Roma nel 1424, dichiarò solennemen­ te di aver visto tre giganteschi volumi di storie di Livio nel monastero ci­ stercense di Soroe presso Roskilde; ne forni anzi una descrizione parti­ colareggiata. Poggio si mise subito in movimento, e tramite il Niccoli convinse Cosimo de' Medici a inviare al monastero danese il proprio agente a Lubecca; ma dalla Danimarca giunse solo la notizia che non era stato trovato nessun libro del genere. Dopo questa delusione il Bracciolini diventò più guardingo, ma il fan­ tasma di Livio non gli dava pace. Ogni momento arrivavano notizie nuo­ ve; come uno speculatore di borsa, a un certo punto Poggio giurò che non ci sarebbe mai più cascato, ma quando un altro viaggiatore provemente dal nord riferì di aver visto tutte le deche di Livio in un mona­ stero danese, lo scettico tornò a lasciarsi prendere dall’entusiasmo — so­ lo per essere deluso un’altra volta. Imprecando contro quei “truffatori” , il Bracciolini tornò a giurare di non volere mai più sentir parlare di Li­ vio; un altro visitatore settentrionale confermò la notizia data dal suo compatriota, ma fu trattato, senza mezzi termini, da imbroglione. Tutta­ via la notizia continuava a circolare, forse alimentata dal desiderio degli umanisti che fosse vera; e alla fine papa Niccolò V mandò al nord un al­ tro suo agente. 51

A quel tempo, il Bracciolini era tornato a Firenze. Ormai prossimo alla morte, scrisse in latino una storia della sua città adottiva, e la farci di discorsi immaginari di ciceroniana eloquenza. Quando mori, i fiorenti­ ni commissionarono a Donatello una sua statua, da porre fuori di Santa Maria del Fiore; un centinaio d'anni piu tardi, in occasione di rifacimen­ ti, la statua fu rimossa dal sito originario e sistemata nelTinterno della chiesa, fra i dodici apostoli. I visitatori possono ancora contemplare la fi­ gura smilza e agile, i lineamenti delicatamente cesellati — che certo fan­ no pensare a un antico scrittore o giurista romano più che a un devoto discepolo del Cristo — di Gian Francesco Poggio Bracciolini, imbattibi­ le cacciatore di codici manoscritti23. Poggio non fu un caso isolato, ma può essere assunto a tipo rappre­ sentativo degli altri umanisti le cui scoperte seguirono le sue. Dopo di lui, le scoperte furono meno numerose e mancarono di quella continuità che fece degli sforzi del Petrarca, del Boccaccio, del Salutati e del Brac­ ciolini una specie di corsa a staffetta24. Tuttavia, nel secolo successivo vi fu una serie di contributi di prim'ordine. Nel 1500 Fra Giocondo di Verona scopri a Parigi la corrispondenza di Plinio il Giovane con Traia­ no, contenente una delle prime testimonianze non evangeliche sull'av­ vento del cristianesimo. Nel 1508, mezzo secolo dopo la morte del Brac­ ciolini, e forse come risultato d’una delle trattative a lungo raggio da lui avviate in Germania, i primi sei libri degli Annali di Tacito furono por­ tati in Italia sotto gli auspici di Giovanni de' Medici, che presto sarebbe diventato papa col nome di Leone X. Fatto più sorprendente di tutti, nel 1527, quando il sacco della città eterna a opera delle truppe imperiali in­ flisse un colpo mortale all'umanesimo italiano, l'abbazia tedesca di Lorsch mise finalmente in circolazione alcuni libri perduti di Livio: i primi cin­ que (XLI-XLV) della quinta deca. Con relativamente poche eccezioni degne di nota, i classici conosciuti nel secondo quarto del secolo XVI — specialmente nel campo della let­ teratura latina — sono gli stessi che possediamo oggi. È evidente che il numero delle opere andate perdute superò di molto quello delle opere giunte fino a noi. Dopo il 1527, solo di tanto in tanto gli umanisti si ap­ passionarono alla ricerca di codici perduti. In termini quantitativi, non vi fu nulla di paragonabile alla scoperta, nel 1713, dei resti della biblio­ teca veronese, dove secoli innanzi era stato ritrovato un Catullo, ancor prima che il Petrarca comparisse sulla scena a salvare dalla rovina un te­ sto di Cicerone. Nel XVIII secolo il marchese Scipione Maffei, che con­ vinto dalle esortazioni di amici si preparava a compilare una guida di Ve­ rona, non s'era ancor spinto molto in là con le ricerche preliminari quan­ 23 Ibid., pag. 458 (Walser, op. cit.y pag. 314, pone in dubbio Tidentità della statua). 24 Sandys, op. cit., pag. 35.

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do cominciò a chiedersi che fine potesse aver fatto quella biblioteca epi­ scopale, un tempo famosa, in cui presumibilmente il Petrarca aveva fatto le sue storiche scoperte e della quale si era ora persa ogni traccia. Jean Mabillon, lo studioso benedettino francese, una cinquantina d'anni in-

A

Tipi di scrittura latina (A): a) da un manoscritto di Virgilio del V secolo (Codex Palatinus), in maiuscola rustica (legger­ mente arrotondata), in cui è evidente l ’influenza dei caratteri usati nelle iscrizioni su pietra; b) principio del V I secolo: scrittura “semi-unciale” , con incipienti caratteri minuscoli do­ vuti forse all’influenza dei graffiti e di papiri di natura non let­ teraria; c) Bibbia di Alcuino, in aggraziate minuscole carolin­ ge, del IX secolo; d) testo del XII secolo in elegante scrittura lombarda.

nanzi aveva inutilmente fatto indagini per stabilire il sito dell'antica bi­ blioteca. Scipione Maffei non giudicò sufficientemente plausibili le spiega­ zioni della sua scomparsa. Testimonianze più tarde facevano apparire po­ co probabile che Gian Galeazzo Visconti o qualche altro condottiero si fossero portati via tutti i libri nel primo Rinascimento, e nulla indicava che la biblioteca fosse stata distrutta dalla guerra o da qualche altra cata­

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strofe. Il Maffei capi che non avrebbe avuto pace finché non avesse fru­ gato sin negli angoli piu riposti degli edifici annessi alla cattedrale; ed ebbe in queste ricerche Paiuto del vecchio canonico Cannelli. In un giorno delPottobre 1713, il canonico mandò a chiamare il Maf­ fei e appunto in uno degli edifici annessi, in una parte adibita a uffici am-

B

C Esempi di scrittura latina (B), con caratteri sempre piu veloci e illeggibili, usati in privilegi, bolle, ecc.: a) documento diplo­ matico merovingio, V II secolo; b) bolla di papa Giovanni V i li , 876, con forti tratti arrotondati, derivanti dalla scrittura uffi­ ciale romana; c) papiro in minuscolo proveniente da Raven­ na, 572.

ministrativi, gli indicò un armadio a muro pieno di carte: Cannelli vi ave­ va notato un compartimento in alto, subito sotto il soffitto. Il Maffei vi si arrampicò, e come fu lassù si presentò ai suoi occhi una vista entusia­ smante: un gran mucchio di antichi codici. Come fossero finiti là, chi po­ teva dirlo? Forse vi erano stati messi per porli al sicuro da qualche inon­ dazione, e le pestilenze, le morti che ne erano seguite, e il passare del tempo, avevano cancellato il ricordo di quei tesori.25 Un esame della “biblioteca” rivelò che non conteneva nessun capola­ voro perduto; essa forni però numerosi tipi di scrittura latina, in una qua2r’ Thompson, op. cit., pagg. 152-4. Vedi anche Ludwig Traube, Vorlesungen und Abhandlungen, Monaco, C. H. Beck, 1909, voi. I, pag. 44.

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si ininterrotta sequenza temporale risalente a Teodorico (474-526) — il re “barbaro'’ che ebbe la sua capitale in Verona — cioè parecchi anni prima della fondazione di Montecassino. Al Maffei, questi manoscritti suggerirono quello che doveva diventare l’avvio di una scienza praticamente nuova, la paleografia. L'evidenza dimostrava chiaramente che non c’erano tipi distinti di scrittura latina, elaborati e adottati separatamen­ te, bensì un’unica linea di sviluppo, con transizioni impercettibili da un tipo all’altro. Era una tesi nuova, e nella storia delle idee merita di esse-

N u m jN r r t é S A jP O fO S S C S S i*

fwxHòus C lljis o llfe fe Dal De republìca di Cicerone (Cod. Vat. 5757). La copia, del IV o V secolo, fu scoperta al principio dell’Ottocento dal bi­ bliografo e bibliotecario vaticano cardinale Angelo Mai in un palinsesto, sotto i commenti di sant’Agostino ai Salmi, trascrit­ ti nel V II secolo.

re considerata una tra le prime manifestazioni d’un atteggiamento evolu­ zionistico nei confronti della scienza; nessuna serie di dati presentata da storici, sociologi, naturalisti o archeologi d’età successive superò per or­ dine e completezza questa serie continua. I titoli dei manoscritti trovati dal Cannelli e dal Maffei non ci sono noti in quanto disgraziatamente gli scopritori non pensarono a catalogarli e piu tardi quei libri furono riuniti a quelli della biblioteca parrocchiale. Impossibile dire, quindi, se un importante codice recuperato più tardi facesse parte del tesoro scoperto dal Maffei, benché le probabilità siano a favore di una risposta affermativa. Nel 1816 B. G. Niebuhr, il famoso storico danese-tedesco, scopri il quarto libro delle Istituzioni del giurista latino Gaio. Il manoscritto era un palinsesto: scritto cioè al di sopra di

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un testo piu antico e cancellato, e reso leggibile attraverso vari procedi­ menti, non sempre degni di plauso che gli hanno valso Pepiteto di “illu­ stre martire della paleografia” . Il recupero delPopera di Gaio destò tanto più interesse in quanto non si pensava che fosse sopravvissuta; la tradi­ zione voleva infatti che Giustiniano avesse fatto distruggere tutte le fon­ ti del suo Digesto, Popera di Gaio compresa. Gibbon però lo aveva ne­ gato, e ora la scoperta del Niebuhr veniva a dargli ragione.26 Per qualche tempo i palinsesti costituirono la maggior fonte di in­ cremento al repertorio di classici conosciuti, poiché il più antico fra i due testi sulle pagine dei codici “scritti due volte” era spesso un'opera clas­ sica che si poteva arrivare a leggere. Specialmente al principio del XIX secolo furono fatte in questo modo parecchie scoperte; il cardinale An­ gelo Mai e i suoi discepoli, a esempio, riportarono alla luce buona parte del lungo trattato politico ciceroniano De republica , che il Petrarca e il Salutati avevano tanto cercato. Tuttavia, fatta eccezione per poche al­ tre scoperte di secondaria importanza (fra l’altro di alcuni frammenti di Livio), le troppo rosee speranze riposte nei palinsesti andarono deluse; tutto sommato, le biblioteche ecclesiastiche europee non portarono ag­ giunte significative al repertorio di testi classici venuti in luce nel Rinasci­ mento. Era possibile che vi fossero ancora “sentieri non battuti” dagli in­ stancabili cacciatori di manoscritti della primavera umanistica? Fin qui, parlando di questo preludio rinascimentale alle moderne sco­ perte di libri perduti, abbiamo preso in considerazione principalmente i classici latini; prima di procedere oltre, sarà necessaria una breve nota supplementare a proposito degli autori greci. Il “recupero” di questi ebbe inizio all’incirca nella stessa epoca e fu ispirato dallo stesso movimento umanistico. Nel suo interesse per i testi greci, il Rinascimento si distinse chiaramente da tutti i movimenti classi­ cisti medievali che l’avevano preceduto; ma ciò non toglie che i primi umanisti avessero solo una vaga idea della letteratura greca e della sua grandezza, per non parlare della lingua. Il Petrarca era convinto che i greci fossero inferiori ai più grandi autori latini; egli e il Boccaccio nega­ rono categoricamente che Platone avesse mai potuto bandire Omero dal suo stato ideale. La loro quasi totale ignoranza di Platone faceva il paio con l’incapacità di consultare i testi nella lingua originale. Per i classici greci, gli umanisti dovettero partire quasi da zero. Pres­ soché nulla era stato copiato, studiato e conservato in Occidente nel Me­ dioevo, eccezion fatta per Aristotele (introdotto in Europa soprattutto dagli arabi, nel XII secolo, e solo in frammenti), il Timeo platonico, gra­ vemente mutilato, le favole esopiche, qualcosa di Tolomeo, alcuni tratta­ 26 Thompson, op. cit.y pag. 148. V. anche “Gaius”, The Oxford Classical Dictionary, pagg. 375-76.

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ti medici e i Padri della Chiesa orientali. È vero che alcuni uomini del Medioevo studiarono il greco, ma questo non bastò a creare una tradi­ zione; di regola anche i più colti, quando si trovavano sotto gli occhi una citazione greca, dovevano rinunciare a interpretarla, e gli amanuensi vi sostituivano semplicemente la formula “Graeca suni, ergo non legenda * (“è greco, e dunque inutile provarsi a leggerlo” ). In queste condizioni, la lingua e letteratura greca dovettero essere introdotte nelPEuropa occidentale come una sorta di prodotto d’importa­ zione. Avendo approfondito lo studio e la conoscenza dei classici latini, gli uomini di lettere, a cominciare dal Petrarca e dal Boccaccio, furono presi da un fervido desiderio di conoscere i modelli greci, di riscoprire nella letteratura greca le radici di quella di Roma antica. L ’arrivo del Crisolora segnò una svolta fondamentale. Scriveva allora Leonardo Bruni, con caratteristico entusiasmo: “La conoscenza del greco fu resuscitata dopo un intervallo di sette secoli. Crisolora di Bisanzio... ci portò il sa­ pere greco... Mi diedi al suo insegnamento con tale ardore che i miei so­ gni, la notte, erano pieni di quanto avevo imparato da lui durante il gior­ no27.” Gli umanisti occidentali furono presi da un’autentica passione per quella lingua a proposito della quale Gibbon doveva osservare una volta che “da un’anima agli oggetti dei sensi e un corpo alle astrazioni della filosofia”28. Ne nacque un intenso traffico in testi greci, e il Crisolora fu tra i primi a importare opere di rilievo. Fu facile procurarsi molti libri greci a Costantinopoli, nella Grecia e nell’Asia Minore continentali, e nelle isole, giacché vi si parlava un greco volgare, si, ma vicino alla lingua antica più di quanto lo fosse il toscano al latino. Inoltre, anche a Bisanzio era avvenuta una rinascita del­ la cultura antica. Anche qui però era sopravvissuta solo una piccola par­ te dei testi classici, e di alcuni libri esisteva un’unica copia. Comunque, oggi è quasi impossibile dire in quale misura le aggiunte portate dagli umanisti al repertorio di opere greche antiche a conoscenza dell’Occiden­ te furono autentiche scoperte o non piuttosto semplici e relativamente facili acquisti; di qui la difficoltà di valutare il contributo di uomini come Guarino Veronese o Francesco Filelfo, contemporanei di Poggio Braccio­ lini, che si recarono a Costantinopoli per studiarvi il greco e ne tornarono carichi di libri fin allora ignoti, almeno in Italia. Si dice che il Guarino incanutisse di colpo quando una parte del suo carico di libri greci fu in­ ghiottito dal mare29. A Giovanni Aurispa, siciliano, non nuovo alla ricerca di codici latini, viene attribuito il merito di aver fatto per i classici greci ciò che Poggio Bracciolini fece per quelli di Roma antica. Da Costantinopoli egli inviò 27 Jebb, op. cit.y pag. 542. 2S Gibbon, op. cit«, voi. V I, pag. 116. 29 Symonds, op. cit.y pag. 102.

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al Niccoli il famoso Codice mediceo — ora alla Laurenziana di Firen­ ze contenente sei tragedie di Eschilo, sette di Sofocle, le Argonautiche di Apollonio Rodio. Il codice, scritto in una bellissima mano, è diventato lunico archetipo esistente per due drammi di Eschilo30 e uno dei testi più autorevoli per tutte le opere che contiene. Si dice che Manuele II impe­ ratore di Bisanzio donasse ad Aurispa diversi codici rari, ma questi fu anche accusato dai bizantini di aver rubato loro libri sacri.31 Tornando da Costantinopoli nel 1423, portava con sé casse contenenti 238 libri: il che equivalse, per citare Voigt, al “trapianto di un’intera letteratura in un nuovo e fertile terreno32” . Come il Bracciolini, Giovanni Aurispa fu però un mercante di libri più che un collezionista, e pare si dedicasse alle sue

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Da un codice greco di Demostene ora a Firenze. Inizio del secolo XI.

attività di ricercatore per fini principalmente di lucro. In effetti, non ten­ ne per sé neppure un codice; le sue operazioni commerciali furono a dir poco oscure, e un ambasciatore greco a Firenze lo definì senza mezzi ter­ mini un imbroglione. In ogni caso, Poggio ha certamente assai più dirit­ to di lui a essere considerato il salvatore di opere che senza il suo inter­ vento sarebbero andate forse distrutte: pochi dei libri portati in Europa da Giovanni Aurispa erano cosi rari. Il fatto che PItalia seppe assimilare una parte essenziale del patrimo­ nio greco prima della caduta di Costantinopoli e di tutta la Grecia a ope­ ra dei turchi fu una grande fortuna per la civiltà. “Quel che non era stato salvato prima,” scriveva il Voigt, “peri quasi senza eccezione davanti alle bandiere della Mezzaluna33.” Costantinopoli ottomana, nel XV secolo, fu tuttavia senza alcun dubbio più civile e più colta della maggior parte del­ 30 Édouard Tièche, “Die Wiederentdeckung der antiken Biicher im Zeitalter der Renaissance” , Bibliothek der schweizerischen Bibliophilen, Ser. II, Heft 7, Berna, 1936, pag. 13. 31 Voigt, op. cit., pag. 264. 32 Ibid. 33 Ibid., pag. 266.

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l ’Europa occidentale, e il suo tesoro di opere greche probabilmente rima­ se per qualche tempo piu ricco di quello che possedeva l’Italia34. Per tut­ to il periodo del dominio turco e fino ai tempi nostri i monasteri greci hanno preservato dalla distruzione innumerevoli manoscritti. Ma, benché gli Aurispa e i Filelfo del tempo non possano forse defi­ nirsi né scopritori né salvatori dei classici greci, il loro contributo fu im­ portantissimo in quanto essi misero queste opere a disposizione dell’Occidente in un periodo di sua particolare ricettività, e cosi allargarono in misura incalcolabile la base classica delPumanesimo. Col tempo la lette­ ratura greca si acclimò perfettamente nell'Europa occidentale, e quando Niccolò V varò un programma di traduzione di tutti i classici greci in la­ tino, il Filelfo potè proclamare: ‘'La Grecia non è morta: è migrata in Italia, il paese che fin da antichi tempi portò il nome di Magna Grecia35.” Cosi, proprio mentre perdeva terreno in Oriente, la letteratura greca di­ ventava oggetto di studi e ricerche in Occidente; e fu il trasferimento su larga scala di manoscritti a rendere possibile la nuova fioritura. Da allora, la speranza di rinsanguare l’impoverito retaggio greco non sarebbe mai morta.

34 R. R. Bolgar, The Classical Heritage and Its Beneficiaries, Cambridge, Cambridge University Press, 1954, pag. 459. 35 Tièche, op. cit.y pag. 16.

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PARTE SECONDA

IL PAPIRO E L’ARGILLA NEL MONDO CLASSICO

Capitolo IV I PAPIRI DI ERCOLANO O tu, che paziente frughi Tra i relitti di Ercolano, Quale rapimento, se potessi avere fra le mani Qualche frammento tehano, o svolgere Un prezioso rotolo, dal molle cuore, Del puro Simonide! W il l ia m W ordsw orth

Nel dicembre 1754 la Royal Society di Londra pubblicava nelle sue Transactions la lettera di un pittore italiano, Camillo Paderni, partecipan­ te agli scavi allora in corso sui margini di una città sepolta, Ercolano. “Per ora siamo entrati solo in una stanza...” scriveva il corrispondente. “Ha Paria di essere stata una biblioteca, con scaffalature, decorate con incrostazioni di legni diversi, disposte in fila, e in alto un cornicione, co­ me usa oggi. Sono rimasto sepolto in questo locale per più di dodici gior­ ni, per portar fuori i volumi rinvenuti, molti dei quali così deperiti che fu impossibile spostarli. Quelli che ho recuperati ammontano a 337; e nessuno di essi, per il momento, si può aprire. Sono tutti scritti in ca­ ratteri greci...1” Il mondo della cultura ebbe cosi una fra le prime notizie di una sco­ perta che apriva prospettive nuove per il recupero di capolavori perdu­ ti: una notizia che fece battere più forte il cuore di quanti amavano i classici. Pindaro avrebbe forse parlato loro, in un’ode ancora sconosciu­ ta, dei suoi adorati atleti? O avrebbero avuto la fortuna di poter leg­ gere un’altra di quelle tragedie di Sofocle in cui l’uomo affronta il suo 1 pag. 63.

Edward Edwards, Memoirs of Libraries, Londra, Triibner & Co., 1859, voi. I,

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fato con cosi ferma dignità? O forse Ercolano nascondeva i libri perduti di Livio, o versi ignorati di Saffo? Johann Joachim Winckelmann, lo storico dell’arte tedesco, apparso sulla scena quattro anni piu tardi, esprimeva speranze del genere quando fantasticava sul recupero di “storici antichi come Diodoro, Teopompo ed Eforo; il panorama delle arti drammatiche tracciato da Aristotele; i drammi perduti di Sofocle, Euripide, Menandro e Alessi; le regole di simmetria composte da Panfilo a uso dei pittori”2. Pochi ritrovamenti di manoscritti crearono un tale suspense; e se Ercolano deluse in parte l’at­ tesa, offerse però ampi compensi. La conservazione dei papiri a Ercolano si spiega soltanto con una singolare combinazione di circostanze materiali. Nei due secoli trascorsi dalla scoperta dei tesori che Ercolano racchiudeva, nessun altro sito ita­ liano ha infatti restituito papiri; Pompei, una città assai piu grande, vit­ tima della stessa catastrofe e frugata molto più a fondo dagli archeologi, ha dato solo qualche tavoletta a cera e iscrizioni su piombo, ma nessun manoscritto, neppure un frammento. La ragione va cercata nella diversa natura del materiale che seppellì luna e l’altra città; mentre infatti Er­ colano fu sepolta da una valanga di fango e melma che si solidificarono rapidamente, Pompei fu coperta da uno strato assai più sottile e poroso di ceneri vulcaniche e di lapilli. La riscoperta di Ercolano era cominciata quarantanni prima della pubblicazione della lettera di Camillo Paderni, e precisamente il giorno in cui un contadino di Resina, una cittadina sul golfo di Napoli, mentre lavorava ad approfondire un pozzo prosciugato in un suo campo s’era trovato sotto la zappa strutture di marmo. I blocchi di marmo erano al­ lora molto richiesti da architetti e scultori, e la notizia che era stato tro­ vato questo materiale di prima qualità giunse all’orecchio di un ufficiale austriaco, il principe d’Elboeuf, che si stava costruendo una villa nei pres­ si della vicina Portici. Ma quando vide i pezzi, d’Elboeuf abbandonò im­ mediatamente l’idea di usarli per farcisi una villa; si affrettò invece a comprare i terreni di quel contadino e si mise a scavare3. Evidentemente assistito dalla fortuna, mise subito in luce un vasto edificio sepolto, il teatro di Ercolano, riccamente adorno di colonne, sta­ tue e vasi, di cui trasportò la maggior parte nella sua nuova casa. Ma di lì a pochi anni d ’Elboeuf fu richiamato e gli scavi subirono una sosta fin verso la fine del decennio 1730-40, quando il re di Napoli Carlo III, che aveva acquistato la villa di Portici, diede inizio a una campagna sistema­ tica. Questa cominciò col mettere in luce un’iscrizione del teatro grazie 2 Johann Joachim Winckelmann, Criticai Account of the Situation and Destruction by the First Eruptions of Mount Vesuvius, of Herculaneum, Pompeii, and Stabiae [ “Sendschreiben” ], Londra, 1771, pag. 116. 3 Marcel Brion, Pompeii and Herculaneum, New York, Crown Publishers, 1960, pagg. 41-2.

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alla quale fu dato conoscere il nome della città sepolta. Non andò molto, e poco lontano fu scoperta un’altra e più vasta città: Pompei. I due nomi, Ercolano e Pompei, riportarono alla memoria del mondo il ricordo di quei giorni fatali dell’agosto del 79 d.c. — vividamente de­ scritti da Plinio il Giovane nelle sue lettere a Tacito — in cui l’eruzione del Vesuvio aveva posto bruscamente fine alla vita delle due città. Sepolte dal materiale eruttato dal vulcano, da un manto di vegetazione, dall’humus che questa aveva formato, esse erano state lasciate indietro dalla sto­ ria e dimenticate per secoli. Ma la stessa violenza di quella fine cosi im­ provvisa le aveva immortalate, conservando la loro estinta civiltà ai se­ coli futuri. Quelle due città, anzi, erano state relativamente poco impor­ tanti nel loro tempo: il loro massimo titolo a un posto nella storia sta — come nel caso del giovanissimo faraone della XVIII dinastia egizia — nella straordinaria imbalsamazione che, alla distanza di oltre sedici se­ coli, doveva restituire agli uomini dell’età moderna un’immagine della vita come fu vissuta ai tempi di Roma antica. Le nuove scoperte ebbero un profondo effetto sul mondo del XVIII secolo. Come si può dire che la scienza dell’archeologia nascesse allora, cosi l’interesse del pubblico per le scoperte archeologiche fu destato per la prima volta dalla resurrezione di Ercolano e Pompei. Riportare alla luce città sepolte, dove il tempo era fermo da millenni, rappresentava per gli uomini del Settecento un’esperienza nuova, offriva emozioni della cui intensità ci dà un’idea questa frase della lettera d’uno scrittore belga che il Mercure de France pubblicò nel gennaio 1751: “Negli ultimi dieci an­ ni, tutta l’Europa ha sofferto le angosce dell’agonia, nell’inutile attesa di particolari sulle scoperte di Ercolano4.” Verso la metà del secolo, i siti ar­ cheologici presso il Vesuvio erano assediati da visitatori; quelli ammessi si profondevano in commenti entusiasti sugli affreschi (“più belli di Raf­ faello” ), i tripodi, gli stucchi, le statue, gli oggetti d’arredamento (“tanto simili a quelli del nostro tempo” ), templi, teatri, case, terme, botteghe, bordelli, graffiti. L ’interesse era reso tanto più intenso da quel velo di segretezza di cui i Borboni, sovrani di Napoli, volevano circondati gli scavi. Le autorità napoletane tenevano sospettosamente d’occhio tutti gli oggetti e le opere d’arte delle due città, ne misero sotto chiave alcuni dichiarandoli immo­ rali, e reclamavano per sé sole il diritto di portare a conoscenza del pub­ blico i risultati degli scavi; il che facevano con tanta lentezza da sugge­ rire alla malizia dei fiorentini l’idea che tutte quelle notizie di scoperte fossero fandonie. Già nel 1739 un visitatore francese trovava “poco cor­ diali, e diffidenti al massimo” gli uomini che guidavano i turisti nella visi­ 4 Charles Waldstein (Walston) e Leonard Shoobridge, Herculaneum: Past, Present and Future, Londra, Macmillan & Co., 1908, pag. 1.

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ta alle “antichità”5. Lo straniero colto, l’artista in visita diventavano im­ mediatamente individui sospetti, quando non veniva loro decisamente vietato (come accadde a Lady Mary Wortley Montagu nel 1740) di scen­ dere a lume di torcia nei cunicoli sotterranei o di vedere le opere d’arte raccolte nel Palazzo Reale di Portici. Fare disegni, come Goethe e il suo amico Tischbein dovevano scoprire ancora nel 1787, era fuori questione. Per farsi ammettere a visitare gli scavi o le raccolte bisognava essere in buoni rapporti con la corte o riuscire a ingraziarsi gli eruditi napoletani; e questi ultimi, che ebbero tanta parte nella riscoperta di Ercolano, non erano la gente piu trattabile del mondo. Non c’è da stupirsi che fosse difficile procurarsi notizie precise sulle scoperte di manoscritti annunciate dal Paderni. Ci si poteva credere? E se la scoperta era avvenuta davvero, perché ci voleva tanto tempo per far conoscere al mondo il contenuto delle opere recuperate? La scoperta del Paderni ebbe inizi simili a quelli della scoperta di Er­ colano. Nel 1750 si scavava un pozzo nel giardino dei padri agostiniani, in un posto stupendo, su un lieve pendio affacciato sul golfo e rinfresca­ to dai venti occidentali, poche centinaia di metri a nord-ovest del teatro di Ercolano e a qualche distanza dall’antica strada che collegava Napoli e Pompei. Di nuovo, al di sotto d’un alto strato di lava risalente alla gran­ de eruzione del 1631 e d’un sottostante strato di tufo, le vanghe misero a nudo strutture di marmo. I contadini corsero ad avvertire gli uomini del re, e di li a poco la manodopera impegnata a Ercolano e Pompei ve­ niva trasferita al nuovo sito, dove cominciavano scavi in grande stile. Usando come entrata il pozzo già esistente, gli scavatori del re di Na­ poli si spinsero in tutte le direzioni, aprendosi un labirinto di cunicoli fi­ no a una trentina di metri di profondità. Presto fu chiaro che avevano trovato una villa romana di enormi dimensioni; e una volta che si riuscì a rintracciarne l’atrio, il peristilio, i colonnati terminanti in una specie di belvedere sul golfo di Napoli, la lunghezza totale del complesso architet­ tonico fu stimata in oltre duecento metri. Ma le dimensioni non erano la caratteristica più degna di nota, benché fossero già da sole un indizio di eccezionale sontuosità. Come nel caso del teatro di Ercolano, il pozzo esistente in origine si era trovato proprio nel punto giusto: gli scavatori non si erano spinti molto lontano quando cominciarono a portare in luce una serie stupefa­ cente di statue di bronzo e marmo. Ne trovarono novanta in tutto, un autentico “museo di scultura antica”6, una raccolta destinata a diventare l’orgoglio del Museo Nazionale di Napoli. Facile immaginare la gioia dei ricercatori via via che le statue venivano portate una dopo l ’altra alla su­ 5 Mario Praz, Herculaneum and European Taste, “American Magazine of Art” , voi. XXXII, dicembre 1939, pag. 684. 6 Ethel Ross Barker, Buried Herculaneum, Londra, A. and C. Black, 1908, pag. 71.

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perfide: fauni danzanti, satiri dormienti, cupidi, un Mercurio in riposo, un gruppo di cinque danzatrici, e altro ancora. Basti dire che molte fra queste statue sono fra le piu note opere d ’arte antiche, benché parecchie di esse siano forse non originali greci ma soltanto belle copie romane. La collezione comprende tutta una gamma di stili, da quello attico arcaico (con opere degne di Fidia o Lisippo) ai melanconici ritratti a mezzo bu­ sto dei Diadochi, a immagini di bimbi e animali di stile ellenistico, ai ri­ tratti di uomini politici romani resi con vigoroso realismo. Una tale profusione di reperti giustifica le parole di Amedeo Maiuri, che definì quella villa la più ricca e preziosa del mondo antico'. Fu tutta­ via un’altra scoperta quella che diede alla villa una fama immensa e, fra l’altro, anche un nome: “Villa dei papiri’'. Ma in questo caso, non fu subito evidente quale miniera di tesori essa racchiudesse. A due anni dall’inizio degli scavi, gli operai entrarono in una serie di piccoli locali. Uno conteneva busti di Epicuro, Demostene, Zenone di Si­ done, con una preponderanza dunque di ritratti di filosofi epicurei che fu interpretata come un indice delle inclinazioni dell’antico proprietario. Probabilmente tra le macerie del tablinum (sala da pranzo) si notarono per la prima volta certi oggetti dalla forma strana, certi curiosi cilindri, che gli operai scambiarono, com’era abbastanza naturale, per pezzi di le­ gno semicarbonizzato e gettarono da parte senza più badarvi. Un visitato­ re celebre, J. J. Winckelmann, testimoniò più tardi della loro straordina­ ria rassomiglianza con “mattonelle” di carbone. “Solo pochi erano roton­ di; molti sono stati appiattiti dalla pressione. Per la maggior parte sono rinsecchiti e anneriti, e pieni di rughe come un corno d’ariete8.” Ma col venire in luce di un numero sempre più alto di quelle “matto­ nelle” , tutte approssimativamente della stessa lunghezza e forma, era ine­ vitabile che qualcuno s’incuriosisse e ne prendesse in mano una per esa­ minarla con maggiore attenzione. Era evidente che gli strani oggetti era­ no costituiti da parecchi strati di materiale; sotto il tocco della mano si disintegravano, e si pensò che fossero rotoli di tessuto, benché alcuni li credessero uno strumento per la caccia o per la pesca. Difficile dire quali elementi suggerissero un’ipotesi tanto fantasiosa; ma è certo che, comun­ que fosse interpretata la loro natura, i misteriosi cilindri furono giudicati inutili e gettati in un canto. La stanza in cui se ne trovò un gran mucchio fu battezzata Bottega del carbonaio. Poi, d’improvviso, fu la luce. Forse un rotolo si spaccò in due per pu­ ro caso9; forse l ’illuminazione artificiale usata nei sotterranei cadde su di essi con un angolo favorevole, e qualcuno si rese conto che quegli strati T Amedeo Maiuri, Ercolano, Roma, Libreria dello Stato, 1956, pag. 74. s Winckelmann, op. cit.y pag. 85. 9 Edwards, op. cit.y pag. 64. David Diringer, The Hand-produced Book, Londra, Hutchinson & Co., 1953, pag. 253.

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fragili e scuri di un materiale sconosciuto erano coperti di scrittura. In ogni modo, e comunque siano andate le cose, Camillo Paderni si prese tut­ to il merito. Fu lui ad annunciare, nel novembre 1753, la scoperta di ‘‘molti volumi di papiri” che, disse, somigliavano davvero a carbone e an­ nerivano le dita. Nessuno, aggiunse, era stato srotolato fino a quel mo­ mento10. Camillo Paderni era un mediocre pittore d’origine romana entrato nel 1750 al servizio del governo di Napoli come conservatore della collezio­ ne di oggetti e opere d’arte antichi nel palazzo di Portici già appartenuto a d ’Elboeuf; cordialmente detestato dai colleghi, ci è descritto come un vanitosissimo ignorante, ma questo ritratto cosi poco lusinghiero deve probabilmente qualcosa all’invidia dei suoi rivali presso la corte. Winckelmann e il suo mentore a Portici, padre Antonio Piaggio (Piaggi), furono tra i suoi piu accaniti detrattori; arrivarono sulla scena quando i rotoli di papiro erano già stati trovati e riconosciuti per ciò che erano, e la loro versione della scoperta è solo leggermente diversa da quella data da Paderni. Quest’ultimo proclamò sempre che solo per merito suo i preziosissi­ mi manoscritti erano stati salvati dalla totale distruzione, e narrava a conferma un episodio che potrebbe essersi realmente verificato. Non ap­ pena ebbe notizia degli strani oggetti ritrovati in un locale della villa, af­ fermava il Paderni, diede ordine che gliene portassero alcuni al museo. Quasi immediatamente si accorse che erano scritti; nell’eccitazione della scoperta si precipitò a Palazzo Reale e, benché non fosse l’ora adatta per chiedere udienza, trascurò per quella volta l’etichetta e domandò di esse­ re annunciato al sovrano; il quale era, fra l’altro, un appassionato protet­ tore dell’archeologia. Ammesso alla sua presenza, Paderni gli mostrò il prezioso trofeo, poi prese un coltello bene affilato (il solo pensiero fa rab­ brividire gli esperti del ramo) e tagliò alla brava il rotolo annerito. Fu il suo modo, teatrale e a dir poco facilone, di dimostrare al re che nell’in­ terno v’erano, chiaramente visibili, passaggi scritti; e gli servi anche a drammatizzare la scoperta e l’importanza di essa. Poi avendo ottenuto l ’impressione desiderata, con la sua parlantina convinse il sovrano a con­ cedergli il diritto esclusivo di manipolare tutti i rotoli. A quanto raccontò egli stesso, il Paderni trascorse parecchi giorni, dal primo spuntare dell’alba, nelle oscure cavità sotterranee, lavorando continuamente e senza aiuto a estrarre papiri. Fece poi anche un gran di­ scorrere dei pericoli a cui si esponeva svolgendo quel compito faticoso al fioco lume di candele che avrebbero potuto spegnersi in qualsiasi mo­ mento. Affermò che correva il rischio di perdersi nel labirinto dei cuni­ coli e di non trovare più la strada per uscirne; peggio ancora, che poteva 10 Karl Lebrecht Preisendanz, Papyrusfunde und Papyrusforschung, Lipsia, Hiersemann, 1933, pag. 43.

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morire sepolto sotto un soffitto crollato o addirittura annegare nel pro­ prio sudore. Ma il suo coraggio fu premiato: miracolosamente (questo il succo del suo racconto) portò a termine Poperazione di salvataggio e, tut­ to da solo, trasportò al museo i preziosi manoscritti11. L ’anno successivo rientrò in azione e vuotò quella che si crede fosse la biblioteca vera e propria; appunto un resoconto di questa fase delle ricerche fu stampato nelle Transactions della Royal Society londinese del dicembre 1754. Almeno quattro importanti scoperte di manoscritti furono fatte sot­ to gli auspici del Paderni dal 1752 al 1754; tennero dietro alcune altre scoperte di minor conto fino al 1759. Il principale gruppo di manoscritti fu probabilmente quello trovato nella biblioteca; ed è anche plausibile che di questo gruppo facessero parte le opere preferite dall’antico pro­ prietario della villa. L ’originaria destinazione della stanza, con quegli scaffali di legno lungo le pareti, non poteva lasciar dubbi; alcuni mano­ scritti erano ancora posati sugli scaffali, altri sparsi per il locale. Gli sca­ vi hanno messo in luce, a varie riprese, altre biblioteche dell’antichità classica; ma non se n’è mai trovata nessuna con gli scritti ancora al lo­ ro posto. La villa romana restituì un totale stimato di 1.800 manoscritti, com­ prendendo in questo numero frammenti equivalenti, tutti insieme, a cir­ ca 800 rotoli interi. Molti di più finirono senza dubbio distrutti prima che se ne fosse compresa la natura; altri non sopravvissero alla primiti­ vità dei metodi usati per estrarli dalla massa di pietra vulcanica in cui erano imprigionati. E ora, parliamo dei metodi usati per svolgere i rotoli. Le condizioni preoccupanti in cui erano stati rinvenuti lasciava adito alla speranza? Gli uomini di cultura di tutto il mondo ardevano dal desiderio di cono­ scerne il contenuto, ma i manoscritti dovevano essere faticosamente svol­ ti prima che qualcuno potesse arrivare a decifrarli, interpretarli, stabilir­ ne la paternità. Purtroppo, il problema non fu mai risolto in modo soddi­ sfacente. Perché le spente voci di Ercolano tornassero a parlare da quegli oggetti carbonizzati, scuri, pronti a disintegrarsi appena toccati occorre­ vano mani delicate e menti ingegnose. Ma era la prima volta che scavi portavano alla luce rotoli di papiro e nessuno sapeva come procedere. Molti ciarlatani offersero i loro servigi; accettarli, significò distruggere o danneggiare irreparabilmente opere di cui non esisteva nessun altro esem­ plare al mondo. Gli antichi rotoli erano stati appena riscoperti, che la loro esistenza era di nuovo minacciata: padre Piaggio, che doveva gioca­ re una parte nelle operazioni per svolgerli, paragonava quei “poveri pa­ piri” a un malato la cui vita preziosa potrebbe ancora essere salvata, non 11 Christian Jensen, “Die Bibliothek von Herculaneum” , Bonner Jahrbùcber, Heft 135, 1930, pag. 51.

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fosse per i medici che lo curano. Chi gli dava, dice padre Piaggio, una do­ se di papavero, chi somministrava mercurio. Posti sotto una lente d'in­ grandimento, erano esposti ai raggi del sole che li bruciavano. Un tale li fece bollire nell'acqua fino a ridurli in poltiglia e li mise in forno cuo­ cendoli come biscotti12. Il monopolio concesso dal re a Paderni ebbe, grazie al cielo, breve vi­ ta. Il bravo Camillo aveva escogitato per aprirle un metodo molto simile a quello che il grande Alessandro applicò a suo tempo al nodo gordiano. Nella maggior parte dei casi, come nella sua prima esibizione alla presen-

Armarìam con rotoli di papiro. È questa una fra le immagini piu precise a noi note del modo in cui gli antichi tenevano i papiri negli scaffali. I roto­ li della biblioteca di Ercolano erano forse disposti in modo analogo. L ’in­ cisione fu eseguita nel Seicento e riproduce un rilievo romano nei pressi di Treviri, oggi non piu esistente.

za del re di Napoli, semplicemente li tagliava per metà nel senso della lunghezza, poi staccava uno strato dopo l'altro partendo dall’interno e copiando come meglio sapeva (cioè malissimo) quel che vi trovava scrit­ to finché arrivava agli strati più esterni, le cosiddette “scorze” : le uniche sopravvissute alla prova e giunte fino a noi. In men che non si dica il pittore-conservatore — che usò metodi egualmente drastici nello scalpel­ lare affreschi dai muri — sistemò 142 rotoli dei quali un egual numero di gusci vuoti è l'unico patetico avanzo. Siccome poi il Paderni era con­ vinto che dai papiri non si potessero cavare piu di poche righe sconnesse, è facile immaginare quanto frettoloso e privo di valore fosse il suo lavoro 12 Cari Justi, Wtnckelmann und seine Zeitgenossen, 5a ed., Constance, Phaidon, 1956, voi. II, pag. 219.

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di copiatura. Per fortuna, il buon re Carlo di Napoli pose fine allo scempio. È un fatto ammesso da tutti che questo sovrano era un uomo di in­ telligenza limitata e di altrettanto limitata cultura; ma prendeva sul se­ rio i suoi compiti, e gli scavi erano la sua passione, seconda solo a quella della caccia e della pesca. Anche nei confronti delle ricerche archeologiche questa specie di incolto Nimrod ebbe sempre un atteggiamento di grande serietà. Si racconta che quando lasciò Napoli per andare a occupa­ re il trono di Spagna si togliesse dal dito un anello che egli stesso aveva trovato in un blocco di lava a Pompei e, dichiarando che non poteva con­ siderarlo sua proprietà personale, lo lasciasse al museo di Portici. Nel 1755 re Carlo fondò l’Accademia Ercolanese, con lo scopo principale di curare edizioni dei papiri e di tenere il pubblico al corrente dei risultati delle ricerche. Ma già prima aveva rivolto la sua attenzione al problema

Frammenti di papiri di Ercolano e la macchina di padre Piaggio usata per svolgerli: da un’incisione contemporanea (1825) di de Jorio, eseguita presso l ’“officina dei pa­ piri” a Napoli.

di svolgere i rotoli. Fu il direttore delle collezioni vaticane a consigliargli di chiamare presso di sé padre Antonio Piaggio, un monaco genovese al servizio del Vaticano come copista di manoscritti latini e conservatore delle miniature: l’unico uomo al mondo, secondo il direttore delle colle­ zioni vaticane, in grado di affrontare quel compito cosi difficile.13 Piaggio era già famoso come una specie di genio della meccanica, e addirittura leggendaria era la sua abilità nel copiare scritture d’ogni genere a lui sco­ nosciute. Padre Piaggio fu prima “prestato” per due anni dal Vaticano; poi, quando i suoi servigi parvero indispensabili, prese dimora permanente al­ l’ombra del Vesuvio. Arrivato a Portici, in men che non si dica inventò e costruì una macchina le cui operazioni sono descritte in innumerevoli let­ tere e resoconti del tempo e che fu paragonata a un telaio, all’apparato di un fabbricante di parrucche, a una macchina per la rilegatura di libri; è ancor oggi visibile al Museo Nazionale di Napoli. Winckelmann ci dice che era molto semplice; ma impiega circa cinque pagine per descriverne 13 Edwards, op. cit., pag. 64.

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le operazioni, finendo per farla apparire piuttosto complicata. Più limpi­ damente, un 'colto gentiluomo napoletano'7 scriveva nel 1755 alla Royal Society londinese che padre Piaggio aveva costruito una macchina con cui, mediante certi fili incollati al retro dei papiri, cominciava gradualmente a tirare mentre, con una sorta di strumento da incisore, staccava un foglio dall’altro; poi faceva una specie di fodera sul retro del papiro, e bagnan­ do quest’ultimo con un liquore spiritoso, a poco a poco lo svolgeva e stendeva14. La macchinetta di Piaggio cacciò dal nido la ghigliottina di Paderni. Non era però la soluzione ideale che vorrebbero farci credere il Winckelmann e gli scrittori popolari di un’epoca più tarda; altrimenti, non si ca­ pirebbe perché di tanto in tanto si sperimentassero, con l’appoggio delle autorità napoletane, metodi meno ortodossi. Tanto per cominciare, l’ap­ parato funzionava con una lentezza esasperante: "quattro o cinque ore," riferiva il Winckelmann, "bastano si e no per distaccare un pezzetto lar­ go un dito; non occorre meno di un mese per staccare un tratto della lar­ ghezza d ’un palmo di mano"15. Piaggio impiegò cinque anni per svolgere e copiare solo trentanove colonne di un unico rotolo. Poi la produzione aumentò leggermente, ma il procedimento rimaneva egualmente lentissi­ mo, e benché gli fossero assegnati vari aiutanti, nei suoi quasi quaran­ tanni di attività Piaggio non riuscì a stendere più di diciotto papiri di varia lunghezza. In questa prima fase del lavoro scelse, naturalmente, i pezzi meglio conservati, quelli che davano maggiori speranze di cedere a un assalto combinato manuale e "chimico". Ma anche così, e nonostante tutte le cautele, la macchina qualche volta finiva per rovinare sezioni già danneggiate facendo presa, attraverso i fori di uno strato, anche sullo strato al di sotto del primo. Nessuno dei rotoli attaccati da Piaggio fu aperto completamente, e nessuno rimase completamente intatto. Nel 1802 il principe di Galles mandò a Napoli uno dei suoi cappel­ lani di corte, il reverendo John Hayter; anche il principe era stato conta­ giato dalla mania dei papiri da viaggiatori inglesi che avevano visitato Ercolano, e anche lui sognava di ritrovare classici perduti. Aveva già comin­ ciato da alcuni anni — seguendo l’esempio di Sir William Hamilton, am­ basciatore inglese e marito della famosa Lady Hamilton — a pagare sala­ ri a Piaggio e agli altri italiani che lavoravano intorno ai papiri. Ora, a spese del principe e con il permesso del governo napoletano, al reveren­ do Hayter fu affidata la supervisione delle attività in corso alP"officina dei papiri". Hayter non era esattamente un uomo di profonda cultura, e gran parte delle sue tentate ricostruzioni di passaggi mancanti sono prive di valore; ma portò nel lavoro un nuovo slancio, e nel giro di quattro anni riuscì a svolgere un paio di centinaia di papiri sveltendo le opera­ 14 Ibid. 15 Winckelmann, op. cit.y pag. 114.

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zioni di Piaggio. Di circa metà dei rotoli svolti, Hayter e i suoi aiutanti eseguirono facsimili a matita e su lastre di rame. Nel 1806, durante le guerre napoleoniche, Hayter fuggì a Palermo con la famiglia reale; là continuò i suoi lavori, curò Pedizione dei fram­ menti di un testo latino e compose un tedioso poema latino su Ercolano, che dedicò al principe di Galles. Al suo ritorno in Inghilterra, portava con sé novantasei copie a matita di testi conservati dai papiri, copie che più tardi, quando i papiri ebbero subito ulteriori danni, si rivelarono uti-

Facsimile ottocentesco di un frammento del trattato di Filo­ demo Sulla morte, trovato fra i papiri di Ercolano. La trascri­ zione in matita di piombo fu incisa su lastra di rame sotto la direzione del reverendo John Hayter a Palermo fra il 1806 e il 1810, e depositata all’università di Oxford nel 1811.

lissime per gli studi. Alcune finirono alla Bodleian Library, e furono per­ se di vista; le ritrovò, fra il 1860 e il 7 0 , il grande studioso austriaco Theodor Gomperz36. LTnghilterra tornò a dimostrare il suo attivo interesse per i papiri quando Humphrey Davy, il chimico, intraprese una missione a Napoli, dove si recò due volte per studiare le alterazioni fisico-chimiche dei ma­ noscritti e, se possibile, suggerire rimedi. Nel corso di queste ricerche, giunse alla conclusione che la carbonizzazione dei rotoli era dovuta non tanto alPazione del fuoco o del calore eccessivo, come generalmente si credeva, quanto piuttosto all’umidità del suolo in cui erano rimasti se­ polti e alla mancanza d ’aria. Pare che Davy avesse un certo successo nei16 16 Heinrich Gomperz, a cura di, Theodor Gomperz: Briefe und Aufzeichnungen, Vienna, Gerold, 1936, voi. I, pag. 354.

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suoi tentativi di separare gli strati di papiro applicando una soluzione al­ colica con un pennello di pelo di cammello: nei due mesi che durarono i suoi esperimenti a Napoli riuscì, a quanto riferisce, a svolgere ventitré manoscritti, per la maggior parte dichiarati, pare, casi “disperati” . Ma i testi erano pressoché illeggibili. A ulteriori sforzi i funzionari napoletani opposero tanta cattiva volontà, creando tanti cavilli, che Davy abbando­ nò l'impresa; non farlo avrebbe significato “sprecare il denaro del pub­ blico” e “compromettere la propria dignità”17. Davy aveva riposto grandi speranze nelle tecniche chimiche. Se i ro­ toli erano stati carbonizzati, Parte del chimico non avrebbe potuto inver­ tire il processo determinato da agenti naturali? L'elenco degli scienziati di fama che vi si provarono — purtroppo con risultati negativi — è lun­ go; comprende, fra l'altro, il nome di Thomas Young, fisico e medico, no­ to per il suo parziale successo nel decifrare i geroglifici egizi. Neppure un genio come il tedesco Justus von Liebig, al quale nel 1857 l'“officina” consegnò sei frammenti (dei quali non si seppe più nulla) riuscì nell'im­ presa. Esperimenti furono compiuti nel nostro secolo con paraffina, al­ bume, alcool, glicerina e vapore acqueo, ma invano: il magico elisir non si trovava. Nel 1903 un certo Carlo Marrè, dipendente delle biblioteche vatica­ ne, credette di essere sulla strada buona; ma per la perversità del fato il rotolo 266, sopravvissuto all'eruzione del Vesuvio, fu distrutto da un modestissimo incendio. Vent'anni dopo un esperto di nome Miraglia escogitò un altro di quei metodi ingegnosi capaci di distruggere un rotolo nello spazio di pochi minuti; e la lista dei metodici distruttori è ben lon­ tana dall'esaurirsi in questi nomi18. Dopo Paderni, con i suoi sistemi da macellaio, l'uomo che operò il peggior massacro fu un tedesco, il dottor Sickler di Hildburghausen: vit­ time, i rotoli venuti in possesso della corona inglese. Sickler era proprio il tipo di ciarlatano che invariabilmente compare sulla scena in casi come questo. Per dimostrare l’efficacia dei suoi misteriosi metodi, Sickler pre­ sentò un frammento aperto dichiarando che proveniva dalla collezione privata d'un amico di cui non fece il nome; probabilmente era stato in­ vece rubato all'“officina” napoletana, o (più probabilmente ancora) era un falso. Ma permise a Sickler di ottenere ciò che voleva: una commis­ sione parlamentare gli affidò l'incarico di applicare il suo metodo ai pove­ ri rotoli. Nel 1818, quando una commissione della Camera dei Comuni svolse un'indagine sulle sue attività, il dottore tedesco era riuscito a rovi­ nare completamente sette rotoli e ad accumulare spese per 1.200 sterli­ 17 Edwards, op. cit., pag. 70. 18 Preisendanz, op. cit., pagg. 44-5. Vedi anche Werner Liebich, “Aus der Arbeit an den Papyri von Herculaneum” , Deutsche Akademie der Wissenschaften, Wissenschaftliche Annalen, Jahrg. II, Berlino, 1953, pag. 309.

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ne. Finalmente si capi che il suo era stato un bluff, e i pochi rotoli super­ stiti di proprietà inglese furono salvati dalla distruzione sicura. Per completare la storia delle perdite, diremo che un buon numero di papiri fu dato via. Diciotto furono regalati a Giorgio IV, allora principe di Galles, abbiamo appena visto con quali effetti disastrosi. Dei rotoli sopravvissuti, uno scomparve non si sa come, gli altri sono ora divisi tra la Bodleian Library e il British Museum. Nel 1806, il governo napole­ tano diede sei rotoli a Napoleone; uno, del quale non si seppe piu nul­ la, fu donato negli stessi anni a un rappresentante del governo olandese a Napoli, un altro al comandante di stanza a Portici. Parte del materiale sembra infine che sia andata persa quando i Borboni fuggirono per la pri­ ma volta a Palermo nel 1799, portando con sé i tribolati papiri. Decifrare, copiare, collazionare, pubblicare i testi leggibili — relati­ vamente pochi — furono imprese non meno difficoltose dello srotolarli; occorse anche più tempo, e alla storia già fin troppo avventurosa dei ro­ toli di Ercolano venne ad aggiungersi un altro deludente capitolo. Quando il Winckelmann arrivò a Napoli nel 1758, ai vari centri di cultura europei erano giunte poco più che voci e notizie vaghe; il Win­ ckelmann era venuto appunto per avere informazioni più precise sulla natura dei manoscritti ritrovati, ed era deciso a rompere il muro di si­ lenzio eretto intorno ai papiri dalla mania di segretezza dei napoletani. Col tempo si lasciò coinvolgere nelle beghe politiche locali, e più tar­ di scrisse un libro famoso, i Sendschreiben\ una chronique scandaleuse del “caso Ercolano” e una delle prime opere divulgative sull’archeologia. Il suo principale informatore fu Pamareggiato Piaggio, che il Win­ ckelmann definiva “il più gran galantuomo del mondo” e presso il quale stette a pensione nelle quattro settimane del suo soggiorno a Portici. I molti aneddoti narrati dal Winckelmann sulla tragicommedia di er­ rori connessa con la decifrazione dei rotoli cominciano con Paderni, che fece a pezzi i papiri nella convinzione che in ogni caso non avrebbero re­ stituito più di pochi passaggi sconnessi. Poi ci fu il famoso erudito na­ poletano il quale dichiarò che tutti i rotoli erano scritti in lingua osca, al­ lora sconosciuta; il che sollevava gli interessati dalTobbligo di cercare di svolgerli. Un’occhiata ai pochi frammenti aperti avrebbe dimostrato fa­ cilmente la nessuna validità di questa teoria, come di quella d’un altro erudito il quale sosteneva a spada tratta che gli antichi avevano scritto le loro opere letterarie su libri quadrati o rettangolari, del tipo dei nostri, usando i rotoli solo per le registrazioni commerciali o amministrative; assurdo, diceva, che gli antichi, con tutta la loro saggezza, scegliessero per le opere letterarie una forma scomoda come il rotolo. Questi dotti si comportavano come quegli antagonisti di Galileo a Padova che si rifiutarono di guardare al telescopio i monti di Giove, si­ curi com’erano — qualunque cosa potessero vedere i loro occhi — che

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Galileo doveva per forza aver torto quando affermava il contrario di ciò che aveva detto Aristotele, il “maestro di color che sanno” . Giustamente è stato notato che non v’è idea assurda che non abbia trovato il proprio sostenitore in un intellettuale o in un erudito. Il sostenitore della teoria che gli antichi avevano avuto libri e non rotoli era un certo signor Martorelli, che l'espose in un tomo di ottocento pagine impostato sul tema di un antico calamaio. Winckelmann si diverti un mondo a renderlo ridico­ lo. Quando fra i papiri fu identificato un trattato di musica, Martorelli non si sgomentò: il rotolo, disse, si riferiva a una contesa legale. Forse, commentava sarcastico il Winckelmann, “una disputa fra la giunta e la

Antichi strumenti per scrivere, vari libri, un contenitore per rotoli, secondo dipinti di Pompei e di Ercolano. Da Pompeiana di Sir William Geli (1832).

banda municipale a proposito della musica da suonare in chiesa e ai ma­ trimoni”19. Dato il prevalere di una simile mentalità fra gli accademici na­ poletani, non c'è da stupirsi che dopo la scoperta dei papiri il mondo do­ vesse aspettare cinquantanni prima che se ne cominciasse a pubblicare il contenuto. Questa cosiddetta Collectio Prior fu completata nel 1850. L'edizione riguardava diciannove manoscritti: una frazione del ma­ teriale svolto o copiato. L'opera è enormemente voluminosa, ma di scar­ so contenuto, ed è oggi considerata priva d ’ogni valore a causa delle in­ numerevoli inesattezze. Come se non bastasse, il testo antico è sommer­ so da una valanga di note ampollose e inutili e di osservazioni “erudite” dovute alla penna di eminenti membri napoletani dell’Accademia Ercolanese. È comprensibile che i critici parlassero di un secondo seppellimen­ to dei rotoli, travolti sotto colate non di lava ma di parole. Uno studioso inglese di letterature classiche commentava nell'Ottocento: “È difficile parlare con indulgenza della perversità degli accademici napoletani, di quel loro trattare il contenuto dei papiri come qualcosa da tenere nasco­ sto il più a lungo possibile al resto del mondo, delle occasioni irrepara­ bilmente mancate a causa della negligenza con cui furono copiati origi19 Winckelmann, op. cit., pag. 54.

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nali in seguito perduti; e alcune edizioni napoletane sono veramente esempi senza paralleli di imbecillità pedantesca20/' Mentre Piaggio si dava da fare con la sua macchinetta, gli appassio­ nati di letteratura antica vivevano col fiato sospeso, in attesa di ciò che sarebbe uscito dai papiri. Come Winckelmann, ciascuno di loro aveva i suoi prediletti, di cui desiderava di vedere restituita al mondo qualche opera. Benché i risultati fossero di gran lunga inferiori all’attesa, la spe­ ranza che un capolavoro perduto risorgesse dai rotoli carbonizzati (un terzo dei quali è ancora chiuso oggi) rimase viva sin molto avanti nel di­ ciannovesimo secolo. L ’esametro di Schiller: Im ernsten Museum liegt noch ein kòstlicher Schatz seltener Rollen gehàuft* trovò per anni e anni un’eco nel mondo. Madame de Stàel scriveva — un po’ isterica — che tremava, in presenza dei rotoli, per il timore che "il più lieve fiato potesse sollevare e portar via la polvere in cui dormono forse ancora nobili pensieri”21. Il risveglio da tanti sogni fu piuttosto duro; l’estasi lasciò il posto a una delusione romanticamente esagerata. Quando i manoscritti furono de­ finiti "di terzo e quart’ordine” , "di seconda mano” , "tediosi” , "di poco o nessun valore dal punto di vista filosofico o letterario” , "inferiori” , "in­ significanti”22 (giudizi prevalsi, da allora, nella maggior parte dei libri di testo e delle opere di consultazione) l’interesse del pubblico per la biblio­ teca un tempo leggendaria d’Ercolano, cominciò a venir meno. Un autore moderno afferma addirittura: "Mai il paziente cercatore della verità eb­ be a patire delusione più grande23.” I risultati erano proporzionati alla fatica e alla spesa? Persino il Winckelmann giudicava sprecate le sue fati­ che intorno a Filodemo, al quale si attribuisce la maggior parte dei pa­ piri più lunghi. Questi giudizi negativi sono, nel migliore dei casi, anacronistici e male informati; ma la scoperta di molti frammenti d’eccezionale interes­ se non li ha modificati. Gli studiosi di letterature classiche spesso non hanno tenuto alcun conto del nuovo materiale venuto in luce; lo studio dei testi di Ercolano è diventato un’oscura specializzazione, e non è nep­ pure considerato una branca della papirologia24. Si è al punto che in pa­ recchi saggi su Epicuro non si trova il minimo accenno al recupero di no­ 20 Walter Scott, Fragmenta * Nell’oscuro museo rimane 21 Jensen, op. cit.y pag. 49. 22 Barker, op. cit.y pag. 117. 23 Cecil Headlam, The Story pag. 178. 24 Preisendanz, op. cit., pag.

Herculensia..., Oxford, Clarendon Press, 1885, pag. 8. ancora un prezioso tesoro di rari rotoli. of Naples, Londra, J. M. Dent-Everyman Library, 1927, 40.

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tevoli porzioni del suo magnum opus, Della natura, l ’opera da cui Lucre­ zio attinse le idee che informano il De rerum natura. Ercolano, è vero, non ha restituito i capolavori greci e latini che gli studiosi agognavano di ritrovare; in compenso però ci ha ridato altre ope­ re importanti, come (per riprendere un esempio già citato), il Della na­ tura di Epicuro, che esercitò indirettamente una vasta influenza sullo svi­ luppo del pensiero europeo; e può darsi che i papiri non ancora letti re­ stituiscano altre parti dei 37 libri, scritti in uno stile volutamente asciut­ to e disadorno, che componevano Toper a, della quale pare che la biblio­ teca di Ercolano contenesse tre copie. Come si è già accennato, la preva­ lenza di testi epicurei getta una luce significativa sulla natura della rac­ colta, composta quasi esclusivamente di testi filosofici di quella scuola e di alcune opere di scuole rivali; fra i papiri finora scoperti e letti, solo cinque frammenti di testi di geometria non rientrano nelle categorie in­ dicate. I rotoli latini, ventiquattro in tutto, hanno Taria di essere un’ag­ giunta fatta da un successivo erede o proprietario della villa. Si trattava dunque d’una biblioteca specializzata; si può rimpiangere che il proprie­ tario non avesse interessi piu vasti, comprendenti la storia, la poesia, il teatro; ma la raccolta ha pur sempre un valore inestimabile come fonte di conoscenza del pensiero filosofico epicureo. La varietà dei temi trattati ha dimostrato che questo non fu cosi chiuso nei confini delPetica come si pensava un tempo; abbracciò invece, come Taristotelismo e lo stoicismo, tutte le principali discipline filosofiche. Di straordinario interesse, e di tal natura che dovrebbero modificare molte idee preconcette, sono i frammenti di lettere di Epicuro. Queste, che ebbero ampia diffusione nelTantichità precristiana, come le lettere di san Paolo furono raccolte e fatte circolare fra le comunità epicuree spar­ se nelle regioni del Mediterraneo orientale; fra quelle ritrovate a Ercola­ no ve n’è una, commovente, del filosofo a un bambino. Esse ci rivelano che gli epicurei (lungi dal vivere, come si immaginava un tempo, in pla­ cido ritiro e indulgendo ai piaceri delPesistenza) costituivano una fratel­ lanza quasi religiosa e prendevano parte attiva alle lotte politiche del lo­ ro tempo; insieme con altri frammenti, dimostrano anche che godevano di un prestigio notevole. Una delle lettere riscoperte riferisce l’intervento di Epicuro presso Antipatro per la liberazione di un suo discepolo cadu­ to prigioniero. Pare che nelle comunità agnostiche epicuree il maestro fosse visto come una specie di Salvatore, e gli scritti dei seguaci erano in gran parte dedicati a un’esegesi delle sue opere. In un certo senso, i pa­ piri di Ercolano hanno arricchito la nostra conoscenza del pensiero epi­ cureo nella stessa misura in cui i rotoli del Mar Morto hanno illuminato le dottrine dei “monaci” di Qumran. Oltre alle opere di Epicuro e di Filodemo, nella biblioteca di Ercola­ no furono trovati trattati perduti di parecchi altri epicurei. Crisippo è l’unico stoico di gran nome che vi fosse rappresentato; v’era inoltre una

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opera riguardante la scuola stoica di cui, come per la maggior parte dei testi epicurei a eccezione di Filodemo, solo negli ultimi decenni è stata fatta un’edizione valida. Il grosso della raccolta di papiri (circa due terzi) è costituito da ope­ re di Filodemo. Il primo rotolo aperto da padre Piaggio conteneva una diatriba in cui la musica era accusata di esercitare sullo spirito dell’uomo e sulla società un’influenza negativa (un tema familiare agli antichi, e in un certo senso ripreso ai giorni nostri da Thomas Mann). Di Filodemo, Ercolano restituì inoltre voluminosi trattati, di retorica, logica, estetica, psicologia, teologia, un saggio sul governo e — forse la più preziosa fra le opere ritrovate — un compendio delle dottrine dei pensatori greci. In uno dei trattati John Stuart Mill riconobbe, con sorpresa, anticipazio­ ni della moderna logica empirica215. Queste opere sono per lo più compilazioni, interpretazioni, volgariz­ zazioni, non il frutto di una mente originale. Forse nacquero come una sorta di dispense, o di appunti per lezioni o conferenze tenute in un cir­ colo o una scuola di epicurei. Questo è anzi probabile: abbiamo infatti chiare prove che Filodemo godette di un grande prestigio intellettuale nella Roma degli ultimi tempi della repubblica. Nei suoi trattati, grazie alle ampie citazioni, egli ci ha anche conservato frammenti di altri testi perduti: scritti ellenistici del III e II secolo a. C., e, qua e là, autentiche gemme, come un brano sconosciuto di Euripide. Oltre dunque a essere una fonte di prim’ordine per la conoscenza della filosofia epicurea e di quello che fu l’arsenale intellettuale di Lucrezio, i papiri di Ercolano ci hanno fornito materiale prezioso su altre scuole contemporanee; inoltre, ci illuminano in qualche misura l’humus letterario da cui nacquero le opere di scrittori più tardi, da Cicerone a Quintiliano, a Seneca e soprat­ tutto a Orazio2526. Fino alla scoperta di queste trenta e più opere in prosa, di Filodemo si conoscevano soltanto una citazione in Diogene Laerzio e una ventina di poesie incluse in un’antica antologia. In netto contrasto con la sua di­ scorsiva e un po’ prolissa prosa didattica, si tratta di versi briosi, tipico prodotto dell’elegante erotismo ellenistico (nonostante qualche caduta, qua e là, nello scurrile) la cui eco si può riconoscere nella poesia erotica di Ovidio e di Catullo27. Non era dunque uno scrittore del tutto ignoto quello il cui nome è stato associato all’unica biblioteca romana giunta fi­ no a noi. Filodemo, un “greco” siriaco di Gadara, cittadina presso la co­ sta palestinese, fu compatriota d ’uno fra i massimi poeti ellenistici, Me­ leagro. Si sa che si stabilì in Italia dopo le guerre mitridatiche, intorno al 25 Lettera a Theodor Gomperz, 30 aprile 1865, in Heinrich Gomperz, op. cit., pag. 353. 26 J. U. Powell e E. A. Barker (a cura di), New Chapters in the History of Greek Literature, Oxford, Clarendon Press, 1921, voi. I, pag. 26. Jensen, op. cit.y pagg. 51-9. 27 “Philodemus” , Oxford Classical Dictionary, pag. 681. Jensen, op. cit.y pag. 56.

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75 a.C. Cicerone parla di lui parecchie volte e sempre con grande rispet­ to, tranne quando lo nomina insieme al suo protettore, l’ex console Lucio Calpurnio Pisone, suocero di Cesare e uno dei più disprezzati nemici di Cicerone stesso; allora, la riverenza del grande oratore romano diventa assai meno profonda. I tentativi di stabilire l’identità del proprietario della villa e della bi­ blioteca potrebbero offrire il tema a un romanzo giallo. Non rimaneva nessun segno esterno, nessuna iscrizione che potessero costituire un indi­ zio. Forse la biblioteca ne avrebbe offerto qualcuno? C ’era, prima di tut­ to, la netta prevalenza di testi epicurei: una volta stabilito il contenuto di parecchi rotoli, il piu probabile candidato al titolo di proprietario parve Filodemo in persona. Ma l’ipotesi che fosse lui il padrone della villa, benché avanzata più volte, anche dal Winckelmann, non è molto plau­ sibile. È vero che parecchi trattati di Filodemo contengono note aggiun­ te che potrebbero essere dovute alla sua penna; ed è giusto anche chie­ dersi chi, tranne l’autore, poteva aver interesse a possedere tante copie delle sue opere. Tuttavia, questi elementi possono al massimo indicare in Filodemo il proprietario della biblioteca o colui che la mise insieme; non necessariamente il padrone di quella che è forse la più sontuosa vil­ la romana finora nota. Nessuno tranne un romano ricchissimo, probabil­ mente un patrizio, potè costruire e mantenere una casa simile; è impen­ sabile che essa appartenesse a un intellettuale straniero con incerti mez­ zi di sussistenza. Grazie a un discorso di Cicerone scoperto a Colonia da Poggio Brac­ ciolini nel XV secolo, sappiamo che Calpurnio Pisone fu il protettore di Filodemo. Cicerone — come si è detto — parla di questo magistrato ari­ stocratico nei termini meno lusinghieri; sappiamo anzi che cercò di farlo condannare per malversazione. Come Verre, un altro fra i più odiati ne­ mici di Cicerone, e come il nobile Bruto, Pisone curò molto bene i pro­ pri interessi nelle provincie di cui fu proconsole, dopo il consolato nel 58 a.C. Il mago del foro, l'homo novus erettosi a campione delle solide virtù romane, accusa Pisone di ogni sorta di vizi e traccia un quadro cru­ dele dell’aspetto sciatto di quel magistrato “nato” cosi bene. La tirata di Cicerone non sembra adattarsi a un uomo dell’innegabile buon gusto di colui che possedette o costruì la villa di Ercolano; ma le statue greche avrebbero potuto essere frutto di saccheggi sul continente greco e a Bisanzio. In ogni caso, è abbastanza sicuro che Pisone fu amico e protettore di Filodemo, che fu ricco, che gli piacque vivere bene, che aveva legami con gli epicurei. Se nella biblioteca si può riconoscere la mano di Filo­ demo, il suo protettore entra logicamente nel quadro. I due vissero in­ sieme per molti anni. Dall’evidenza interna offerta dalla biblioteca e da quanto ci dice Cicerone, possiamo supporre senza troppo timore di anda­

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re errati che Filodemo abitasse nella villa di Pisone in Campania e là mettesse insieme una biblioteca per uno di quei circoli di epicurei che esistevano allora nelle cittadine della campagna napoletana. Può anche darsi che nella villa Pisone avesse una sua biblioteca personale. Tutte quelle che possediamo sono prove indiziarie, ma, specialmente dopo la pubblicazione di un importantissimo saggio di D. Comparetti e G. de Petra, la villa viene chiamata “di Pisone” ; solo i piu cauti ne parlano co­ me della Villa Suburbana, o Villa dei Papiri. Nel 1765 Pompei diventò il centro dell’attenzione; per questo, e a causa dei gas velenosi che si diceva invadessero i passaggi sotterranei, gli scavi alla villa furono interrotti. Non se ne dispiacquero certo gli esperti alle prese con i papiri, che avevano lavoro per anni. Solo molto tempo do­ po, quando andarono definitivamente deluse le speranze che il materiale già rinvenuto avesse in serbo qualche sensazionale sorpresa, solo allora si cominciò a chiedere una ripresa delle ricerche; ma lo zelo archeologico continuò a favorire Pompei a spese di Ercolano, e se vennero intrapresi di tanto in tanto nuovi scavi, nessuno ebbe per oggetto la villa. Nel 1902 un archeologo anglo-americano, Charles Waldstein (Wals­ ton), organizzò una campagna su base internazionale per scavi sistematici

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Fra i pochi papiri latini recuperati a Ercolano, uno conteneva un poema perduto celebrante il trionfo di Augusto su Anto­ nio: il De bello Actiaco, scritto all’inizio del I secolo d.C., e quindi notevolmente più tardo dei testi greci rinvenuti nella bi­ blioteca della villa. I caratteri sono gracili maiuscole rustiche.

a Ercolano; nutriva grandi speranze, e il suo progetto fu accolto con plau­ so in due continenti. La biblioteca epicurea, osservava giustamente Wald­ stein, non si poteva certo considerare “rappresentativa del pensiero o della vita del tempo nella varietà dei loro aspetti. Ma non tutti i ricchi inquilini delle ville di Ercolano furono specialisti come il proprietario delPunica biblioteca trovata finora: se riuscissimo a mettere le mani su quella di una normale signora o di un normale signore del tempo, po­ tremmo sicuramente aspettarci di trovare i classici rappresentanti del pen­ siero e dell’arte letteraria antichi...”28. 28 Waldstein, op. cit.y pag. 8.

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Purtroppo, il progetto di Waldstein non potè mai essere realizzato: Theodore Roosevelt ne assunse il patronato, e lo fece cosi clamorosamen­ te da ferire l'orgoglio nazionale italiano. Nel 1927 Mussolini approvò una campagna di scavi, l’inaugurò con un sonante discorso, ma i lavori non fecero mai molti progressi. Nonostante tutti questi insuccessi, è accertato che la natura del ma­ teriale vulcanico che seppellì Ercolano e i suoi dintorni contribuì a pre­ servare i papiri dalla distruzione. Ercolano, in gran parte non scavata (al di sopra di essa sorge il moderno abitato di Resina) potrebbe dunque ce­ lare ancora tesori; e in effetti nel 1870 è stato trovato un papiro, benché di nessun valore.29 Anche le zone circonvicine, fitte un tempo di ricche vil­ le romane oggi ancora sepolte e intatte, potrebbero rivelarsi un terreno fertile per gli scavatori. Un altro paese, lontano dall’Italia, ha esaudito le speranze nate nel XVIII secolo; ma la preghiera di Wordsworth citata come epigrafe di questo capitolo potrebbe ancora trovare risposta nella Campania felix intorno a Napoli.

29 Preisendanz, op. cit., pag. 49.

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Capitolo V I PAPIRI EG IZI Finché ad attoniti regni i Papiri insegnarono A dipingere in mistici colori il suono e il pensiero, Con la voce della Saggezza a incidere la pagina sublime, A stampare nel diamante i passi del Tempo. E r a s m u s D arw in 1

Johann Joachim Winckelmann era morto da dieci anni, e i primi ro­ toli di Ercolano aspettavano ancora la pubblicazione, quando un fatto ac­ caduto in Egitto fece rinascere i sogni degli appassionati di letterature antiche. La scena si spostò allora sull’altra sponda del Mediterraneo, in un paese che in virtu del suo clima e della sua storia culturale e politica ha contribuito forse piu di ogni altro al recupero di documenti perduti. Nel 1778 alcuni fellahin avevano trovato una cinquantina di rotoli di papiro nascosti in un vaso sepolto. La scoperta era avvenuta, dissero, in un sito non lontano da Giza; ma le affermazioni degli scavatori indigeni erano anche allora inattendibili, quando non volutamente menzognere. In ogni caso, vi sono indizi che i documenti contenuti nel vaso provenissero dal Fayyum, la vasta depressione lacustre nella valle inferiore del Nilo, che nell’età ellenistica fu un centro di colonie rurali greche. Pare che i ro­ toli fossero offerti a un mercante il quale li giudicò oggetti privi di valo­ re ma, per pura curiosità, accettò di comprarne uno. Non avendo trovato altri compratori, gli indigeni diedero il resto alle fiamme per godersi al­ meno il gradevole profumo che, si dice, i papiri emanino bruciando12. 1 Da The Loves of the Plants, canto II, citato da C. H. Roberts, “The Greek Papyri”, in The Legacy of Egypt, a cura di S. R. K. Glanville, Oxford, Clarendon Press, 1942, pag. 249. 2 James Baikie, Egyptian Papyri and Papyrus - hunting, Londra, Religious Tract Society, 1925, pag. 36.

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Questo aroma, cui accennò Robert Browning in versi famosi, non è mai stato verificato; sappiamo però che gli antichi talvolta impregnavano i papiri d'olio di cedro, e che la radice della pianta fu usata dagli antichi egizi per estrarne profumo. Forse le narici dei fellahin hanno una sensi­ bilità che manca a quelle degli europei? Per fortuna, gli europei sono sen­ sibili ad altre qualità, che si possono apprezzare senza distruggere i pre­ ziosi rotoli. L'unico superstite dello sfortunato gruppo di cinquanta fini, chissà come, nelle mani del cardinale Stefano Borgia, che lo mise al sicuro nel suo museo di Velletri. Fu il primo documento di questo genere di cui si sa per certo che entrò a far parte di una collezione europea in epoca mo­ derna, benché forse già due secoli prima un professore di Basilea fosse entrato in possesso di frammenti a lungo dimenticati. Un filologo dane­ se, Niels Iversen Schow, ne curò subito un'edizione apparsa nel 1788 con il titolo di Charta papyracea Graeca scripta Musei forgiarti Veletris. Purtroppo il testo greco, risalente al regno dell'imperatore Commodo, verso la fine del II secolo d.C., consisteva quasi interamente in una lista di nomi di contadini soggetti all'obbligo di prestazioni per il controllo delle piene e la manutenzione dei canali nella valle del Nilo. La speranza di ritrovare opere letterarie perdute stava dunque per essere delusa un'al­ tra volta? Oggi sappiamo che il rotolo Borgia preannunciava invece un futuro più lieto. Ma già allora erano chiari alcuni fatti, d'importanza vitale per scoperte avvenire. In primo luogo, si era potuto stabilire che l'Egitto of­ friva condizioni ideali per la sopravvivenza di testi antichi, e che questi probabilmente erano in uno stato di conservazione assai migliore di quel­ lo dei testi seppelliti dalle eruzioni del Vesuvio; il fatto che fra i tanti si trovassero testi legali o in genere non letterari non aveva nulla di sor­ prendente e non giustificava il pessimismo. Era chiaro però anche che gli studiosi occidentali dovevano dipendere in larga misura dalle scoperte casuali degli indigeni, la cui ignoranza, accompagnandosi al comportamen­ to di mercanti non certo illuminati, fu più spesso che no un ostacolo al re­ cupero di testi antichi. Per quanto riguardava le caratteristiche materiali delle opere sepolte nel suolo egiziano, si poteva dare per probabile che fossero scritte su fo­ gli, frammenti, rotoli, tutti di papiro. Conviene dunque dedicare qualche pagina al materiale cui dobbiamo la sopravvivenza di tante opere della antichità. Nel decennio 1880-90 Guy de Maupassant, risalendo a remi un cor­ so d'acqua, si trovò in un luogo di cui descrisse con la consueta efficacia la strana bellezza. “Finalmente apparve un'isola, coperta di bizzarra ve­ getazione. Erano steli fragili, triangolari, alti da due a tre metri, che por­ tavano in cima ciuffi rotondi di fili verdi, sottili, flessibili, simili a capel­

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li umani. Sembravano teste che fossero diventate piante, gettate forse in quel sacro fiume da una delle divinità pagane che vi avevano vissuto nei tempi remoti. Questo era dunque l’antico papiro. I contadini però lo chiamano 'parrucca’. Più in su c’era un’intera foresta di papiri che ondeg­ giavano frusciando, piegando le teste chiomate, mescolando i capelli, co­ me se parlassero di cose ignote e misteriose. Non è strano che questa pian­ ta meravigliosa, grazie alla quale conosciamo i pensieri degli antichi, que­ sta custode del genio umano, porti al sommo del suo antico corpo una immensa chioma folta e fluente, come quella di cui amano fare sfoggio i poeti3? ” È una precisa e acuta descrizione del papiro, d’una grazia con la qua­ le possono reggere il paragone soltanto i deliziosi dipinti, rilievi e schiz­ zi degli artisti egizi di tremila e più anni or sono. Una scena come quella descritta da Maupassant era certamente comunissima nell’antico Egitto, ma il romanziere francese dovette andare altrove per cercarne il modello: i ciuffi di canne che per secoli furono parte cosi viva del paesaggio e del­ l’esistenza egiziani sono quasi scomparsi nell’età moderna. L ’immagine dell’Egitto rimane tuttavia strettamente associata con quella del papiro. Nei geroglifici il basso Egitto, cioè la regione del delta, è designato con una canna di papiro, e il profilo di quest’ultimo è tanto evocativo dell’an­ tico paese del Nilo quanto lo sono le piramidi. La parte avuta da questa pianta nel plasmare la civiltà egizia è incalcolabile. Inoltre, il papiro arri­ vò agli altri paesi del Vicino Oriente, alla Grecia e a Roma dell’età clas­ sica, attraverso l’Egitto, e vi fu adottato come principale materiale di scrittura quando nella valle del Nilo era in uso già da millenni; non fu sconosciuto neppure alle popolazioni della Mesopotamia, il cui mezzo di scrittura favorito erano le tavolette d’argilla. Non solo l’Egitto fu il primo a usare il papiro, ma probabilmente fu anche, per tutta l’antichità, il principale fornitore di “carta” di papiro. La pergamena e la carta di cellulosa, la nostra carta moderna, sono in uso da un tempo che possiamo definire breve se lo paragoniamo alla lunghez­ za di quello in cui fu usato il papiro, benché per un certo periodo si ado­ perassero simultaneamente i tre materiali. Era quindi inevitabile che l’Egitto dovesse rivelarsi il principale deposito di documenti su papiro, che in quel paese si dimostrarono poco meno durevoli di monumenti in pietra. I rotoli, benché robusti, si disintegrano rapidamente quando sono esposti all’umidità, mentre un’atmosfera troppo asciutta li fa diventare fragilissimi: per usare le parole di Eusebio, un Padre della Chiesa, “li di­ vorano le tignole e il tempo” . Ma grazie al clima e alla sabbia egiziana hanno dimostrato di possedere un’imprevedibile capacità di durata. Queste circostanze sono però venute in luce solo negli ultimi secoli, 3 Guy de Maupassant, The Collected Works, New York e Londra, M. Walter Dunne, 1903, voi. X II, pagg. 86-7.

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quando il suolo egiziano ha restituito un numero prodigioso di testi clas­ sici dell’Egitto ellenistico, romano e bizantino: documentazione ininter­ rotta di circa un millennio di storia, dalla venuta di Alessandro, verso la fine del IV secolo a.C., sino alla conquista araba (nel V II secolo d.C.) e oltre. La scoperta di questi documenti ha fatto sorgere una nuova scien­ za, la papirologia, il cui oggetto quasi esclusivo è oggi lo studio dei papi­ ri greci e latini rinvenuti in Egitto. I rotoli troppo danneggiati di Ercolano hanno ricevuto poche attenzioni e la loro sopravvivenza è conside­ rata un caso isolato: la grande benefattrice e conservatrice doveva esse­ re la sabbia egiziana, non la lava rappresa del Vesuvio.

L ’unione dell’Alto e del Basso Egitto è simboleggiata dall’atto di legare insieme le piante di giglio e di pa­ piro, sacre rispettivamente alla regione meridionale e alla settentrionale.

Il papiro fu in uso per tutto il corso della lunga storia egiziana e fu forse adattato alla scrittura in epoca predinastica. Pare che il più antico papiro noto risalga alla I dinastia, alla fine del IV millennio a.C.; però su quel papiro non c’è scritto nulla4. Nel 1893 un egittologo svizzero, Édouard Naville, comprò un papiro scritto, che proveniva probabilmen­ te da un tempio di Abu Sir e risaliva forse al 2700 a.C. A pochi altri pez­ zi conservati al Museo di Berlino e altrove si attribuisce approssimativa­ mente la stessa età. Il papiro è un’erba acquatica perenne della famiglia Ciperacee, indi­ gena dell’Africa. Ancor oggi prospera sulle rive e nel letto dei fiumi tro­ picali africani, in cosi lussureggiante abbondanza da ostruirli. Anticamen­ te, si trovavano boschetti di papiro lungo tutto il Nilo e nel Delta; e quei papiri appartenevano a un genere diverso da quello che cresce oggi in varie parti della Siria, in Mesopotamia, sulle rive del Giordano e in Si4 Walter Byran Emery, Archaic Egypt, Harmondsworth, Middlesex, Penguin Books, 1961, pag. 335.

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cilia, benché la varietà moderna somigli molto all’erba egiziana da cui anticamente si traeva la “carta” . Per gli antichi egizi il papiro era una pianta per tutti gli usi: come il bambù nell’Asia sud-orientale o l’agave nel Messico, forniva cibo, ma­ teriale da costruzione, materiale per abiti, calzature e stuoie, farmaci e al­ tro ancora. La colonna, elemento prediletto dell’architettura egizia, può essere considerata una trasfigurazione e stilizzazione dello stelo e del ger­ moglio di papiro, che raggiunsero proporzioni gigantesche nelle sale ipo­ stile di Karnak e forse ispirarono le colonne dei templi greci. Quando Serse gettò un ponte sul Bosforo per invadere la Grecia, usò cavi fatti con fibra di papiro. Le rapide e robuste barche di canna che solcavano il Nilo, e che somigliano curiosamente alle imbarcazioni di canna del lago Titikaka, erano fatte di fasci di papiri, lo stesso materiale delle barche che solcano oggi le acque dei grandi laghi centro-africani; e di papiri era il canestro in cui la figlia del faraone trovò Mosè infante. Infine, il papi­ ro potè essere ridotto in fogli e arrotolato, “in attesa,” come scrive Emil Ludwig, “di accogliere le testimonianze dell’antica sapienza e di portar­ le, lungo il fiume del tempo, sino a noi”5. I fogli di papiro non erano carta nel senso moderno della parola; questa fu un’invenzione cinese introdotta in Egitto nelPVIII secolo d.C., prima di raggiungere l’Europa. Grazie a Teofrasto, successore di Aristo­ tele nella direzione del Peripato, e a Plinio il Vecchio, il naturalista lati­ no morto nell’eruzione del Vesuvio, siamo abbastanza bene informati sul modo in cui gli egizi trattavano il papiro per ricavarne quell’antico surrogato della carta. Fatto abbastanza tipico, il processo non subì, in tre­ mila anni, cambiamenti degni di nota; seguendo la descrizione di Plinio, è stato possibile riprodurre “carta” di papiro, e in Sicilia si è sviluppato un piccolo commercio basato sulla vendita ai turisti di cartoline e rotoli fatti con piante locali. La materia prima, ricavata delle piante più alte — alcune potevano superare i dieci metri — consisteva in strisce tagliate nel senso della lun­ ghezza nel midollo degli steli triangolari. Strisce di eguale lunghezza e qualità venivano poi disposte su una superficie piana a mo’ di graticcio, in due strati, uno composto di strisce disposte orizzontalmente e l’altro di strisce disposte verticalmente: il primo costituiva il recto, l’altro il verso del foglio. Mediante pressione e bagni in acqua del Nilo — e forse qual­ che volta con l’aggiunta di colla — gli strati venivano fusi in una massa abbastanza omogenea, che si esponeva poi al sole. Una volta asciutti, i fogli si lisciavano strofinandoli con conchiglie o avorio, o forse si imbian­ cavano con gesso. L ’umidità residua era eliminata mediante battitura. A questo punto il foglio di papiro era pronto per essere scritto, il che si fa­ ceva con una penna di canna; di regola si scriveva solo sul recto. 5 Emil Ludwig, The Nile, New York, Pyramid Books, 1963, pag. 302.

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Era d’uso incollare insieme una ventina di fogli singoli (ciascuno lar­ go solitamente da dodici a quindici centimetri e lungo da ventiquattro a ventisette) cosi da farne un rotolo continuo su cui si poteva copiare, su parecchie colonne, un testo o documento discretamente lungo. In questa forma, il papiro diventò un articolo commerciale standardizzato. La lun­ ghezza media di un rotolo di papiro ai tempi della Grecia e di Roma an­ dava dai sette ai nove metri: alPincirca la lunghezza d’uno dei più brevi dialoghi di Platone o d’uno dei Vangeli. Ma alcuni rotoli antichi egizi, a esempio un magnifico Libro dei Morti, erano molto più lunghi. Il Papiro Harris I, conservato al British Museum e proveniente da una tomba di Tebe, è il più lungo che esista: quasi quaranta metri; ed è largo circa 40 centimetri. Si crede che in epoca bizantina Costantinopoli possedesse ro­ toli di quarantacinque metri, contenenti Ylliade e YOdissea per intero. Non si sa quando i greci adottassero la tecnica della scrittura su papi­ ro. È probabile che il materiale da scrittura egiziano fosse introdotto in Grecia contemporaneamente all’alfabeto fenicio; anzi, a giudicare dal ter­ mine “byblos” (la parola greca corrispondente a “papiro” ) pare lecita la supposizione che quel prodotto giungesse ai greci dal porto fenicio-siria­ co di Biblio (odierna Giubail), il cui nome diventò per loro sinonimo di “carta” . Il termine greco corrispondente a “libro” , diphthéra, che alla let­ tera significa “pelli”, sembra però indicare che all’inizio si scrisse su pel­ li d ’animali. Tuttavia al tempo di Erodoto (V secolo a.C.), il papiro era d’uso cosi comune che lo storico racconta un episodio del passato ioni­ co, quando, a causa duna grave scarsità di papiri, si dovette ricorrere al­ l ’uso delle pelli, come facevano i barbari ancora al tempo dello storico. In tutto il periodo classico e nell’età ellenistica il papiro rimase il veico­ lo consueto per le opere letterarie greche e i “libri” assunsero la forma di rotoli di fogli riuniti (kollémata). Solo gradualmente, agl’inizi dell’era cri­ stiana (le fasi di questo processo sono rimaste oscure fino a poco tempo fa) il papiro fece posto alla pergamena e i rotoli furono sostituiti da codi­ ci di fogli ripiegati, forse un adattamento degli antichi taccuini (pugillares) fatti di parecchie tavolette spalmate di cera e tenute insieme con cor­ de o cardini. I romani, naturalmente, imitarono i greci. Il loro termine per “papi­ ro” era charta, ed è entrato nelle lingue moderne europee con significati diversi e in italiano per indicare la moderna carta di cellulosa. Sia detto per inciso che il termine latino liber (libro) è tanto rivelatore quanto il suo corrispondente greco, in quanto deriva etimologicamente dal termi­ ne latino indicante la corteccia d’albero. Quest’ultima fu un materiale da scrittura usato in tutto il mondo; libri di corteccia ebbero l’Asia centrale e l’Estremo Oriente fino a tempi relativamente recenti, e pare che anche gli indiani d’America usassero corteccia di betulla per documenti di va­ rio genere. Fino nei tempi storici Roma ebbe anche libri di tela {libri lintei), come attesta Livio. Insomma, forma e materiale dei libri sono cam­

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biati innumerevoli volte nel tempo e sono suscettibili di cambiare ancora; solo per comodità oggi non chiamiamo libro una registrazione su nastro o un disco o un microfilm, benché tutte queste cose possano diventare i “libri” del futuro. Al tempo dei Cesari, quando PEgitto diventò una sorta di proprietà privata dell’imperatore romano come era stato del Tolomei, il commer­ cio e la manifattura del papiro divennero un monopolio di stato e una importante fonte di reddito. La materia prima era prodotta ancora esclu­ sivamente dall’Egitto; anzi, secondo il papirologo inglese C. H. Roberts, “l’Egitto riforniva tutto l’impero romano dal Vallo di Adriano all’Eufrate, dal Danubio alla prima Cataratta, e il papiro era usato tanto naturalmen­ te da Ireneo in Gallia quanto da Origene a Alessandria”6. Come i tele­ grammi, la radio, la stampa e i vari altri mezzi di comunicazione dell’età dell’elettronica, esso contribuì a creare legami fra le varie parti del mon­ do civile. Con il crescere della raffinatezza, a Roma si cominciarono a introdur­ re delicate e non sempre tangibili distinzioni tra le varie qualità di papi­ ro, alcune delle quali presero il nome dagli imperatori e dalle loro consor­ ti che ne usarono. Gli antichi egizi avevano tenuto in particolare pregio una qualità di papiro ottenuta dalle fibre centrali dello stelo e riservata ai testi ieratici. A Roma gli esperti distinguevano un numero di tipi di papiro di poco inferiore a quello dei tipi di vino, ciascuno con suoi parti­ colari meriti, una speciale sfumatura di colore, ciascuno adatto a un par­ ticolare impiego; e dall’uno all’altro variavano i prezzi, e anche la lar­ ghezza e la lunghezza del foglio. Alcuni fra i papiri migliori venivano da Sebennytus, nel Delta, da Tanis e Sais; e la Charta Thebaica, fornita da Tebe nell’Alto Egitto, godeva di solida fama7. Altre qualità prendevano il nome dai fabbricanti. Il tipo più grossolano, Xemporetica (“carta” per mercanti), era usato solo per far pacchi.8 Nel complesso, i testi latini su papiro ebbero assai peggior sorte di quelli greci, poiché il latino non penetrò mai profondamente in Egitto tranne che per fini amministrativi, e solo nel periodo dell’occupazione ro­ mana; pochissimi quindi i papiri latini rinvenuti nella valle del Nilo. Co­ me nella maggior parte del Mediterraneo orientale, nei secoli dell’Impero romano il greco rimase anche in Egitto la lingua ufficiale; con tutta la lo­ ro arroganza di dominatori, con tutta la loro avidità predatoria, i romani ebbero infatti se non altro il merito di non credersi investiti d’una mis­ sione civilizzatrice; probabilmente persino le ultime parole di Cesare furo­ no greche. La preferenza dei romani per il papiro durò a lungo. Ancor dopo la 6 Roberts, “The Greek Papyri” , in Glanville, op. cit.y pag. 251. 7 Georg Ebers, “The Papyrus Plant” , Cosmopolitan, voi. XV, 1893, pagg. 679-80. 8 David Diringer, op. cit.y pag. 135.

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cosiddetta caduta dell’impero romano d ’occidente, Cassiodoro, il patri­ zio romano cristiano, cantava le lodi della nobile pianta, “foresta senza rami, arbusti senza foglie, messe che cresce nell’acqua, ornamento delle paludi’ ^1; la Chiesa, erede dell’Impero, continuò a usare il papiro per i suoi documenti e bolle fin nell’XI secolo (l’unico documento datato di questa natura fu emesso dalla cancelleria di papa Vittore II nel 1057910). I documenti pontifici in latino e i documenti tardo imperiali e gotici provenienti da Ravenna furono quasi gli unici papiri noti fino al 1752, quando venne trovata la biblioteca di Ercolano: Winckelmann e altri in­ variabilmente si rifanno a essi come punto di riferimento, tanto piu che allora s’ignorava totalmente l’esistenza dei tesori tenuti in serbo dal suolo egiziano. Ma con la scoperta dei rotoli di Ercolano l’accento si spostò dal latino al greco, e a partire dal 1778 l’Egitto diventò la fonte princi­ pale di papiri greci. Nelle esposizioni generali di storia dell’archeologia è diventato quasi un dogma che le ricerche egittologiche ebbero inizio con la campagna na­ poleonica all’ombra delle Piramidi. È vero che Napoleone fondò l’Istituto Nazionale del Cairo, e che ne nacquero i magnifici volumi della Descrip­ tion de l’Égypte. È vero anche che uno tra i felici risultati della campagna fu la scoperta della stele di Rosetta. Ma i viaggiatori del Settecento come il Conte di Sandwich, Richard Pococke, James Bruce e il Conte di Volney furono osservatori attenti e acuti non meno dei francesi che decenni dopo invasero militarmente l’Egitto; già erano in corso tentativi di decifrare i geroglifici, e la ricerca di papiri era bene avviata. Lo sforzo napoleonico, diverso da quelli che lo avevano preceduto per organizzazione e potenza del finanziamento, fu esso stesso un sintomo dell’interesse, nato di recen­ te, per l’antico Egitto. È innegabile tuttavia che la campagna napoleonica ravvivò quell’in­ teresse, stimolando il mercato europeo, sollecitando la richiesta di curio­ sità egiziane dagli obelischi agli scarabei, dalle mummie ai papiri. Indige­ ni ed europei si misero alacremente a scavare e cominciarono giorni d’oro per mercanti e falsari: professioni che già da qualche tempo fiorivano e prosperavano nel vicino Oriente. Questi uomini provvidero con la tradi­ zionale mancanza di scrupoli a soddisfare i gusti di musei nazionali euro­ pei e di ricchi collezionisti, che disgraziatamente relegavano i papiri agli ultimi posti dei loro desiderata; di conseguenza ai papiri non furono riser­ vate grandi attenzioni. Senza dubbio, molti rotoli finirono nelle vetrine di ignoranti collezionisti privati, i cui annoiati discendenti li gettarono via o li relegarono in soffitta insieme con denti di pescecane, coccodrilli impa­ gliati e altri oggetti fuori moda. II saccheggio — archeologia nella sua versione più grossolana — 9 Ebers, op. cit., pag. 680. 10 Roberts, op. cit., pag. 251.

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ebbe per oggetto soprattutto le antiche mummie; e siccome P“orgia di spoliazione”11 si accani specialmente contro le mummie dell’Egitto pre-tolemaico, i papiri su cui gli spogliatori misero le mani nei primi decenni del XIX secolo erano scritti quasi tutti in geroglifici e in caratteri ieratici, che la maggioranza degli “esperti” considerava indecifrabili per allora e per sempre; tale era la ferma opinione, a esempio, del capo della missione francese, Francois Jomard, che si rifiutò di acquistare altri papiri destan­ do le ire del giovane Champollion. A causa di questi pregiudizi, i rotoli di papiro furono considerati privi di valore come fonti di notizie; alimen­ tarono solo una curiosità passeggera e in genere finirono irrimediabilmen­ te dispersi in tutto il mondo. Gli esperti che facevano parte della missione napoleonica rivendica­ rono per sé il merito di essere stati i primi a rendersi conto che gli egizi delPetà faraonica avevano posseduto libri; a trovarne le prove fu il ver­ satile Dominique Vivant Denon, dotato disegnatore, autore di versi ero­ tici, protetto di Josephine. “Non potevo fare a meno di lusingarmi,” scri­ veva compunto Denon nel suo Voyage dans la Basse et la Haute Égypte, “di essere stato il primo a fare una cosi importante scoperta; ma ben più grande fu la mia gioia quando, poche ore dopo, ebbi la certa prova che ciò che pensavo era vero; quando, cioè, potei entrare in possesso di un manoscritto, che trovai in mano a una mummia. Quanto grande fosse la mia felicità potranno capirlo solo coloro in cui la curiosità è passione, so­ lo il viaggiatore e il collezionista.” La vista di quel preziosissimo oggetto provocò in Denon quasi una crisi di coscienza: “Mi sentii impallidire per Pansia. Stavo per rimprove­ rare aspramente gli uomini che, nonostante le mie raccomandazioni, ave­ vano violato Pintegrità della mummia, quando nella mano destra e sotto il braccio sinistro di quest’ultima scorsi un rotolo di papiro, che senza quella violazione forse non avrei visto affatto. Mi mancò la voce; bene­ dissi Pavidità degli arabi, e soprattutto il caso che mi aveva riservato una tale fortuna. Ma non sapevo che fare del mio tesoro, tanta era la paura di distruggerlo: non osavo toccare quel libro, il piu antico sin allora noto; non osavo affidarlo a nessuno né posarlo in nessun posto; tutto il cotone della mia trapunta mi pareva troppo poco per fargli un involucro abba­ stanza morbido. Chissà cosa conteneva? Forse la storia della persona che quella mummia era stata? Forse descriveva il periodo in cui si era svolta la sua esistenza? Forse parlava del regno del sovrano sotto il quale quelPuomo era vissuto, o conteneva dogmi, preghiere, o la dedica di qualche scoperta? Senza riflettere che i caratteri tracciati su quel papiro erano tanto ignoti quanto la lingua in cui esso era scritto, per un momento fan­ 11 Baikie, A Century of Excavation in the Land of the Pharaohs, Londra, Religious Tract Society, 1924, pag. 8.

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tasticai di avere in mano un compendio delPantica letteratura egizia.,.12” Inutile dire che l’archeologo — inevitabilmente un predone, dati i tempi — ebbe la meglio sul moralista. Denon non dice, nella sua relazio­ ne di viaggio, dove portò il prezioso oggetto; ma può darsi che questo raggiungesse il Louvre. Però, superati i primi scrupoli, passato il pri­ mo entusiasmo, e dopo aver saputo che di rotoli sepolti insieme con mum­ mie ne esistevano parecchi, può darsi anche che Denon — come ha sug­ gerito l’egittologo James Baikie — lo cedesse a un collezionista privato. In ogni caso, non sappiamo che fine abbia fatto e quindi non ne cono­ sciamo con certezza il contenuto, ma possiamo supporre senza troppa

Scribi egizi — da una tomba del Regno Antico — raffigurati in una posizione carat­ teristica: “ Siedono per terra tenendosi accanto la cassetta dei rotoli di papiro; reg­ gono con la mano sinistra la striscia di papiro su cui stanno scrivendo, hanno la penna di canna nella mano destra e una penna di riserva infilata dietro Torecchio” (D. Diringer, The Hand-Produced Book, pag. 114).

paura di sbagliare che fosse una versione dei Libro dei Morti, del quale possediamo oggi un considerevole numero di varianti. Quando furono in molti a sapere che gli antichi egizi avevano l’abitudine di seppellire rotoli di papiri insieme ai loro morti, cominciò una campagna su grande scala di spoliazione delle mummie; si rinnovavano cosi le imprese dei fellahin che avevano violato le tombe dei loro remoti predecessori per impadronirsi della sostanza resinosa che le mummie se­ cernono, e che nella medicina occidentale era stata a lungo considerata una panacea universale. Le imprese di Denon stabilirono un precedente, perché in Europa la domanda di “curiosità” egiziane andava crescendo. Una ventina d’anni do­ po avventurieri italiani come Passalacqua, Drovetti e l’inimitabile Belzoni, per nulla turbati dal rispetto per quei morti di tremila e più anni innanzi, si contendevano il campo con sistemi degni del Far West ameri­ cano. Le loro imprese inclusero il saccheggio sistematico e senza riguardi della necropoli di Tebe. Giovanni Belzoni, in fondo il più simpatico dei tre, ammise franca­ 12 Dominique Vivant Denon, Travels in Upper and Lower Egypt, During the Cam­ paign of General Bonaparte in that Country..., traduz. di Arthur Aiken, New York, Heard and Forman, 1803, voi. II, pagg. 247-8. Baikie, Egyptian Papyri and Papyrus-hunting, pagg. 48-30.

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mente di aver voluto soprattutto impadronirsi dei rotoli funerari: “Il pro­ posito delle mie ricerche era di derubare gli egizi dei loro papiri; ne tro­ vai alcuni nascosti nel loro seno, sotto le braccia, nello spazio sopra le ginocchia o sulle gambe, e coperti dai numerosi giri di bende in cui sono avvolte le mummie.” Ed ecco con quale assoluta mancanza di sentimenta­ lismo Pesuberante padovano descrive una delle sue spedizioni: “Quasi so­ praffatto, cercai un luogo dove riposare, ne trovai uno e riuscii a seder­ mi; ma quando il mio peso premette la salma di un antico egizio, la schiacciò come una cappelliera. Naturalmente dovetti ricorrere alle mani per sostenermi, ma le mani non trovarono un appoggio migliore e così sprofondai tra le mummie fracassate, spaccando ossa e sarcofaghi di legno, lacerando stracci e sollevando una tal polvere che dovetti restare immobile un quarto d ’ora, in attesa che si posasse.” Poi si spinse più oltre, lungo un corridoio: “Era stipato di mummie, tanto che non potevo passare sen­ za mettere la mia faccia in contatto con quella di qualche egizio in putre­ fazione; ma quando il corridoio cominciò a scendere, il mio stesso peso mi aiutò [era alto un paio di metri, e un tempo aveva fatto il sollevatore di pesi in un circo]; ma non potei evitare di trovarmi coperto di ossa, gambe, braccia e teste rotolanti dall’alto. Così procedetti da un locale al­ l’altro, tutti pieni di mummie ammucchiate in vari modi, quali in piedi, quali distese, quali ritte sulla testa. A ogni passo sbattevo contro una mummia, urtandola in una o nell’altra sua parte...13” La fantasia di uno sceneggiatore hollywoodiano di film dell’orrore non saprebbe aggiungere nulla a questa descrizione. Eppure qualcuno ha det­ to che “Belzoni fu un angelo di luce al confronto con certi suoi rivali, indigeni e stranieri”14. Quando si pensi che i rotoli funerari dovevano adempiere alla fun­ zione magica di facilitare ai defunti il passaggio nel mondo dell’aldilà, non si può non trovare una macabra ironia nel fatto che, come le piramidi, furono invece un invito alla spoliazione dei loro resti mortali. Quando la polvere di queste allucinanti incursioni nelle necropoli egi­ zie si fu posata, la gente aveva quasi dimenticato che il primo papiro egizio noto all’Occidente era scritto in greco. Per alcuni anni gli studiosi dimostrarono il più vivo interesse per i rotoli in scrittura geroglifica, an­ cora illeggibile, rinvenuti accanto alle mummie della Tebaide, ma al prin­ cipio del XIX secolo i pochi e sparsi reperti greci godettero di scarse at­ tenzioni; spesso, anzi, non furono neppure riconosciuti per ciò che erano. A esempio un grande studioso dell’età ellenistica, lo storico tedesco 13 Giovanni Belzoni, Narrative of the Operations and Recent Discoveries within the Pyramids, Temples, Tombs, and Excavations in Egypt and Nubia..., Londra, John Murray, 1820, pagg. 157-8. 14 Baikie, A Century of Excavation in the Land of Pharaohs, pag. 13.

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Johann Gustav Droysen, non seppe riconoscere la scrittura greca corsiva di parecchi documenti inviati a Berlino: li credette scritti in arabo. Si ag­ giunga che il carattere prevalentemente legale e amministrativo dei papiri greci noti impediva agli amanti e agli studiosi delle letterature classiche di concepire grandi speranze. Nel 1809 un ecclesiastico francese, Pabbé De­ lille, scriveva questi versi: “D ’Homère et de Platon, durant les premiers ages, / Le papyrus du Nil conservait les ouvrages”™\ ma si trattava solo d ’una licenza poetica. Nessuno, per quanto ne sappiamo, aveva ancora po­ sato gli occhi su un papiro greco; ma Delille, inferiore come poeta a Wordsworth, lo batté come profeta. Nel giugno 1821 l’inglese William John Bankes visitò Pisola di Ele­ fantina sul Nilo vicino ad Assuan. Elefantina era già allora un centro im­ portante del commercio di antichità, e là, in compagnia di un amico ita­ liano, Bankes acquistò da un mercante il rotolo oggi famoso contenente, in bellissimi caratteri del II secolo a.C., settecento versi del XXIV (e ul­ timo) libro delPIliade. Nel 1879 la famiglia Bankes avrebbe venduto il prezioso manoscritto al British Museum. Era di quasi un millennio più antico della più antica copia nota a quel tempo; ma si rivelò soltanto il primo d’un gran numero di testi omerici che, con esasperazione degli studiosi, rappresentano un'alta percentuale dei papiri greci (le copie delVIliade sono molto più numerose di quelle dell'Odissea, evidentemente meno popolare). Tuttavia, al tempo in cui Bankes l’acquistò quel rotolo valeva un tesoro, e rimase una rarità fino a quando, un secolo più tardi, spuntò l’alba d ’una nuova epoca di ricerche nel campo della papirologia. Quasi tutti i rotoli venuti in luce nella prima metà del XIX secolo era­ no documenti non letterari concernenti la vita di tutti i giorni; fra i più interessanti ricordiamo i documenti del Serapeo, il tempio di Serapide presso Menfi (risalenti al II secolo a.C. e portati alla luce da fellahin egi­ ziani nel 1820), alcuni dei quali riguardavano due sorelle sacerdotesse. Essi ispirarono vari romanzi; uno, tra gli altri, al francese Brasseur de Bourbourg. Nel complesso gli archeologi, che comparvero a questo punto sulla scena, miravano a prede più vistose: piramidi, sculture, tombe, oggetti d’arte. Dei luoghi e delle circostanze dei ritrovamenti di manoscritti nes­ suno o quasi si curava di dare notizia. Inoltre invalse la pratica di taglia­ re i rotoli per far aumentare i guadagni; potè cosi accadere che parti di uno stesso rotolo finissero sparsi per il mondo, come il povero Osiride, a evidente detrimento degli studi. Poi, verso la metà del secolo scorso, co­ minciarono a venire in luce sempre più papiri, sia pure a intervalli. Le speranze rinacquero con l’apparizione d’un’orazione perduta di Iperide, contemporaneo di Demostene, d’un frammento del lirico spartano Alcmane (acquistato nel 1855 da Auguste Mariette per il Louvre), e di quel-15 15 Preisendanz, op. cit., pag. 96.

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lo che più tardi fu chiamato il “papiro profetico” , approdato infine a Ber­ lino e contenente un catalogo di opere d’Aristotele fra cui la perduta Co­ stituzione degli Ateniesi (ritrovata cinquantanni dopo). Papirologi di gran nome come A. S. Hunt e Frederic Kenyon hanno datato Pinizio della nuova èra della papirologia al 1877: esattamente un secolo dopo la scoperta della Charta Borgiana. Allora, come scrisse Hunt nel 1912, “le grandi possibilità delPEgitto in questa direzione comincia­ rono a realizzarsi... il fiume di cui scaturirono allora le prime acque non ha poi mai cessato di scorrere”16. Il fatto nuovo che ha stabilito al 1877 la linea divisoria fra due epoche fu la scoperta, avvenuta in quelPanno, che il Fayyum celava autentiche, e inesplorate, miniere di papiri. Il mer­ cato antiquario del Cairo ne fu inondato. I rappresentanti di istituti euro­ pei cercarono di farne incetta, ma il grosso fini, tramite un mercante australiano, nella collezione privata delParciduca Ranieri d’Asburgo, che nel 1884 lo mise al sicuro nel suo museo viennese. In seguito l’arciduca andò continuamente aggiungendo pezzi nuovi; nel 1899, quando fu la­ sciata in eredità alla Biblioteca Imperiale di Vienna, la collezione contava circa 100.000 papiri di varia lunghezza, da frammenti minuscoli a roto­ li di dimensioni rispettabili; tutti, però, in cattivo stato di conservazio­ ne. Quasi tutti i papiri — anche quelli acquistati da altri — erano docu­ menti, cioè testi non letterari: conti, ricevute, contratti, decreti ufficiali d ’ogni genere, testamenti, “quaderni” di scolari, oroscopi, lettere, appun­ ti e via dicendo; interi scatoloni contenevano soltanto minuzie domesti­ che. La maggior parte dei documenti risaliva alla fine del periodo bizan­ tino, e parecchi erano stati scritti dopo la vittoria delPIslam; quasi un ter­ zo dei papiri di Vienna, forse i più preziosi, erano in arabo, parecchi al­ tri in copto. Come si vede, non si sarebbe potuta chiedere maggior va­ rietà; ma gli studiosi del tempo non nutrivano molto interesse per la sto­ ria sociale ed economica del mondo antico. I papiri erano valutati in base al contenuto letterario, e questi furono quindi considerati piuttosto me­ diocri. Inoltre, la grande quantità e il cattivo stato di conservazione fece­ ro dello studio e del lavoro di scelta un processo lungo e irto di difficoltà. Poi fra gli studiosi nacquero discussioni circa la provenienza dei papi­ ri. Si sapeva che venivano dal Fayyum, ma non si conoscevano con esat­ tezza né il sito né la natura del deposito. Il conservatore della collezione dell’arciduca Ranieri dava per certo che venivano tutti da un antico ar­ chivio scoperto di recente nella capitale distrettuale di Medinet el Fay­ yum, l’antica Arsinoe o Crocodilopoli; ma lo conduceva fuori strada la re* lativa uniformità dei papiri del primo blocco acquistato, che — come si stabili più tardi — provenivano veramente tutti da una stessa fonte. In ogni modo, lo stato in cui si trovavano i materiali — in disordine, umidi, 10 Arthur Surridge Hunt, “Papyri and Papyrology”, Journal of Egyptian Archeology, voi. I, 1914, pagg. 81-2.

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strappati, divisi in frammenti — , la loro natura privata, il fatto che si di­ stribuivano su un cosi lungo periodo (alcuni risalivano al X secolo d.C.) avrebbero dovuto far nascere qualche dubbio sulla validità delle supposi­ zioni relative alla loro provenienza. L'articolo del conservatore della rac­ colta, apparso su una pubblicazione viennese, fu infatti prontamente con­ futato da un giovane e brillante egittologo tedesco, Adolf Erman17. Erman affermava con sicurezza che tutti quei documenti provenivano dagli enormi mucchi d'immondizie (koms) che si succedono per chilome­ tri nel Fayyum e in quasi tutto l'Egitto: quei papiri tanto preziosi per gli uomini dell'età moderna erano stati gettati via senza cerimonie dagli antichi egizi insieme ad altri rifiuti d ’ogni genere, con i quali s'erano ac-

Papiro arabo.

cumulati in strati successivi. Per buona fortuna dei posteri, infatti, gli antichi egizi non ebbero l'abitudine di bruciare i rifiuti e, con essi, i do­ cumenti inutili: lasciarono invece che si ammonticchiassero in collinette simili ai cumuli di rifiuti di cucina dei siti preistorici. I fellahin vi ave­ vano sempre attinto come a una fonte di fertilizzante (il sebakh, ricco di nitrati), distruggendo in questo modo chissà quanti inestimabili tesori. Alcuni paleografi continuarono tuttavia a sostenere che i papiri pro­ venivano da un archivio; e può darsi che non avessero del tutto torto e che i documenti venissero effettivamente da un qualche archivio gettato tra i rifiuti. Fino a quel momento, l'entità dei recuperi d'ordine letterario era stata deludente; unico ritrovamento degno di nota, alcune parti di un epillio perduto di Callimaco, YEcale, pubblicato da Theodor Gomperz. Se non altro, i fellahin avevano imparato quale fame insaziabile avessero gli euro­ pei di quelle “immondizie” , e si poteva quindi sperare che le avrebbero adoperate diversamente che come concime. Tuttavia, i metodi di quei cercatori e la loro ignoranza provocarono la distruzione d'un numero di documenti probabilmente superiore a quello dei papiri salvati; e, più spesso che no, non v’era modo di sapere dove i documenti recuperati fos1T Adolf Erman, “Die Herkunft der Fayyum Papyri” , voi. XXVI, 1886, pagg. 585-9.

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sero finiti né dove se ne potessero cercare i vari pezzi per rimetterli in­ sieme. Solo gradualmente gli esperti, archeologi compresi, si resero conto che il lavoro di ricerca non poteva essere lasciato più a lungo a uomini ignoranti, assetati solo di guadagno. Tutto cambiò quando, sulla fine del decennio 1880-90, W. M. Flindes Petrie andò a piantare la sua tenda nel Fayyum; Petrie fu il primo a concludere scientificamente gli scavi alla ricerca di papiri, e con il tempo scopri un’altra fonte di antichi manoscritti. Con lui comincia Tetà eroica dei ritrovamenti.

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Capitolo VI L ’ETÀ EROICA: FLINDERS PETRIE NEL FAYYUM La capacità di immagazzinare materiale nella mente... di osservare tutto l’osservabile, di notare particolari che possono sembrare insignificanti ma che potrebbero implicare ben altro, di costruirsi un quadro mentale, di cogliere i rapporti fra le cose, di non lasciarsi sfuggire né perdere di vista alcun indizio: tutto questo è Vanima del lavoro dello scavatore, e, senza di questo, scava­ re significa lavorare solo di zappa e di vanga, ottusa­ mente, monotonamente, senza guardare più in là del proprio naso. W. M. F lin d er s P e t r ie 1

Il Fayyum, che Flinders Petrie esplorò dal 1887 al 1890, era allora una regione molto trascurata. Dal punto di vista archeologico, rimase una terra di nessuno fino a quando il giovane scavatore inglese ne rivelò al mondo il passato e ne mise in luce le ricchezze. Benché non faccia parte del bacino del Nilo, il Fayyum è sempre ap­ partenuto all’Egitto ed è stato intensamente coltivato per quasi tutto il corso della storia di questo paese. È in effetti una vasta oasi, in una pro­ fonda depressione del deserto libico, situata circa ottanta chilometri a sud-ovest del Cairo. Uno stretto passaggio nel suo contorno di colline lo mette in comunicazione con il Nilo, al quale, come tutto il resto dell’Egit­ to, deve la propria fertilità. In tempi remoti il Fayyum era probabilmente riempito da una grande massa d’acqua, il lago Moeris o Meride, la cui superficie si è poi andata costantemente riducendo. Molto prima che ini1 William Matthew Flinders Petrie, Methods and Aims in Archeology, Londra, Mac­ millan & Co., 1904, pag. 5.

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ziasse la storia delPEgitto dinastico, le rive di quel lago erano abitate da cacciatori, pescatori e agricoltori le cui culture presentavano molte affi­ nità con quelle mesolitiche e neolitiche del Sahara nord-africano. Queste popolazioni, di razza mediterranea dolicocefala, contribuirono forse in misura decisiva allo sviluppo della civiltà egizia. Il lavoro di scavo di Flinders Petrie doveva dimostrare che il Fayyum fu oggetto di particolari attenzioni da parte dei faraoni della XII di­ nastia del Medio Regno (ca. 2000-1780 a.C.). Furono questi “monarchi ingegneri”, e in particolare il più grande fra loro, Amenemhet III, a co­ struire immense dighe per contenere le acque del lago, a guadagnare nuo­ ve terre alle colture e a deviare in canali d ’irrigazione l’acqua delle inon­ dazioni del Nilo. Alcuni faraoni ebbero qui la loro capitale e edificarono piramidi in siti vicini: Hawara, Kahum e Illahun (E1 Lahun). Quando Erodoto visitò il Fayyum, più d’un millennio dopo, le statue colossali erette da Amenemhet III torreggiavano ancora sul lago, e il viaggiatore greco rimase senza fiato davanti all’enormità del tempio, il “Labirinto” , molto più grande di quello di Luxor e oggi sparito. Egual motivo di affa­ scinato stupore fu per Erodoto il culto locale dei sacri coccodrilli del la­ go Moeris, incarnazioni di Sobk (Sebek o Suchos), il principale dio-retti­ le del Fayyum. Dopo Erodoto giunsero, nella scia di Alessandro, i conquistatori ma­ cedoni, e sotto il loro dominio straniero il Fayyum conobbe un altro pe­ riodo di prosperità. I lavori per conquistare nuove terre alle colture fu­ rono ripresi su scala assai più vasta, e le terre nuove furono colonizzate da veterani macedoni e da altri nuovi venuti ellenizzati, che costruirono un centinaio di città con nomi di suono greco come Philadelphia, Theadelphia, Euhemeria, Dionysias, Bacchias. Senza dubbio i coloni trovarono il Fayyum di loro gusto: qui la monotonia del paesaggio desertico e delle pianure lungo il fiume era rotta da colline con gole e valli piene di verde e, di tanto in tanto, bianche cascate; gli olivi e le viti vi attecchivano e prosperavano come in Attica o in Tessaglia. Ma secoli dopo, con il crollo dell’impero romano, il Fayyum cadde in abbandono; nessuno più si oc­ cupò della manutenzione dei canali, il deserto si riprese buona parte del­ la terra, i centri abitati greci, un tempo prosperosi, si tramutarono in cit­ tà fantasma. Quando Flinders Petrie affondò per la prima volta la vanga nel suo­ lo del Fayyum, le comunicazioni col Cairo erano scarse e difficili e bande di predoni beduini minacciavano la vita e le proprietà dei pochi abitanti. Prevalevano sempre le pratiche deplorevoli del Service des Antiquités egiziano, diretto dai francesi, in forza delle quali i siti archeologici più promettenti venivano affittati a mercanti di antika e di sebakhy il tipo d ’uomini che da tempo immemorabile, con o senza autorizzazione legale, scavava nei cumuli di rifiuti delle città per cavarne concime; lo stesso ti­ 100

po d ’uomini che aveva portato in luce la maggior parte dei papiri spedi­ ti in Europa dopo la comparsa, un secolo innanzi, della Charta Borgiana. Petrie, destinato a imporsi come il maggior egittologo del XIX seco­ lo, era arrivato in Egitto nel 1881 senza la minima intenzione di dedi­ carsi agli scavi. Ma mentre studiava la costruzione delle piramidi e fati­ cosamente le misurava, aveva assistito ai lavori di scavo francesi presso le piramidi di Giza. In vicinanza della Sfinge, vide un gruppo di soldati eseguire l’ordine di far saltare con la dinamite un antico tempio di gra­ nito caduto in rovina: finir di distruggere era piu facile che cercar di ri­ costruire. I monumenti antichi erano lasciati in tale abbandono, così pie­ toso era il loro stato da far temere che nel giro di poche generazioni non ne sarebbe rimasta pietra su pietra. “Dopo un anno di lavoro,” scrisse Petrie più tardi, “l’Egitto mi sembrava una casa in fiamme, tanto rapida era la distruzione in corso2” . E cosi, di punto in bianco, decise di mettersi al lavoro per salvare il salvabile. Ciò che soprattutto voleva veder salvati dalla distruzione erano que­ gli oggetti, piccoli e apparentemente insignificanti, senza i quali tuttavia sarebbe stato quasi impossibile ricostruire un’immagine della vita e del­ la civiltà del Nilo nei tre o quattro millenni prima della nascita di Cri­ sto. “Forse,” ammoniva gli scavatori neofiti, desiderosi di rapidi risultati, “in certi siti non si troverà nulla che possa valere sei pence sul mercato antiquario; eppure le osservazioni compiute su muri e piante di edifici e oggetti di ceramica, le pazienti misurazioni potrebbero rivelarci ciò che da anni gli storici desiderano sapere3” . V ’era un bisogno disperato di pro­ cedimenti regolari, di tecniche meticolose. Petrie era convinto che il la­ voro di setaccio contasse più del lavoro di vanga; e per l’appunto l’aver capito questo fa di lui il Copernico dell’archeologia moderna. Flinders Petrie era un uomo eccezionale, anche misurato sul metro delle più interessanti personalità dell’epoca vittoriana. Benché non avesse mai frequentato istituti d’alta cultura, uomini investiti di gradi accade­ mici sembravano, al suo confronto, dilettanti pasticcioni; del resto col tempo decine di accademie gli conferirono titoli onorifici ed egli fu chia­ mato alla prima cattedra inglese di egittologia, presso l’Università di Lon­ dra. Uomo di spirito indipendente se mai ve ne furono, era incapace di trattare con i pubblici funzionari e spesso pronunciava giudizi aspri che non mancavano d ’arrivare all’orecchio dei colleghi. Purtroppo, avrebbe avuto bisogno dell’assistenza ufficiale, e questa era, nel migliore dei casi, precaria. Se riuscì nei suoi intenti, lo dovette alla sua incredibile, feroce parsimonia. L ’esecuzione del suo primo progetto, lo studio delle pirami­ di, avrebbe dovuto comportare secondo le stime una spesa minima di 1.300 2 Petrie, Seventy Years in Archaeology, Londra, Sampson Low, Marston, 1931, pag. 19. 3 Ibid., pag. 36.

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sterline: Petrie condusse in porto l’impresa con meno di 300. Per sé non spendeva quasi nulla, e mangiava e dormiva in un modo che sarebbe sta­ to considerato indecoroso dagli eremiti cristiani dei primi secoli vissuti in ritiro nel deserto egiziano. Charles Breasted, figlio dell’egittologo americano, che accompagnò il padre in una visita al sito d’una delle campagne di scavi in corso in Egit­ to, ricordava di avervi conosciuto Petrie, allora un uomo di quarantun an­ ni “con una faccia simpaticissima, occhi pieni di bontà e l’agilità di un ra­ gazzo. I suoi vestiti confermavano la fama di cui godeva, non solo di trascuratezza nell’abbigliamento, ma addirittura di voluta sciatteria e sporcizia; portava infatti un paio di pantaloni e una camicia cenciosi e luridi, sandali consumati, e non aveva calze. Era una delle sue numerose indiosincrasie il preferire che i suoi aiutanti vestissero male come lui; e amava vantare la capacità propria e dei propri uomini di sopportare ogni privazione. Quanto al vitto, era cosi cattivo e cosi frugale che solo per­ sone con una fibra di ferro vi potevano sopravvivere; e anche di quelle si sapeva che di tanto in tanto lasciavano di nascosto il campo per placa­ re la fame dividendo i fagioli e il pane non lievitato (un lusso, in confron­ to a ciò che mangiavano di solito) dei fellahin dei dintorni”4. Benché solo di rado ottenesse il permesso di scavare in siti di primo ordine, si può dire che Petrie fece dell’egittologia una scienza. Portò alla luce relativamente pochi pezzi del tipo che i direttori di museo giudicano interessante, ma aggiunse interi capitoli nuovi alla storia del passato del­ l’uomo nella valle del Nilo, illuminandone tutti i periodi dall’età neoli­ tica e dalle prime due dinastie — che prima di lui si credevano mitologi­ che — sino all’era romana e alla bizantina. Petrie iniziò la prima fra le campagne più importanti dei suoi “set­ tantanni di archeologia” nell’inverno 1883-84 a Tanis, nella parte orien­ tale del Delta; e fu quella anche l’occasione in cui mise le mani sui primi papiri della sua carriera. Ancor oggi non si capisce come siano potuti so­ pravvivere dei papiri in quella parte relativamente umida del paese; ma Petrie era sempre pronto ad accogliere l’inatteso, e quando tra le rovine di un edificio trovò un mucchio di rifiuti, si chinò per vedere meglio di che cosa si trattasse. Sotto i suoi occhi stupefatti c’era una lettera in “bel­ lissimi caratteri greci” , che però andò in polvere non appena sfiorata. La casa che lo scavatore stava frugando mostrava le tracce di un incendio. Ma una volta di più, la distruzione aveva aperto la strada alla preserva­ zione; nei sotterranei Petrie trovò infatti preziosi resti. “In un recesso sotto le scale della cantina c’erano cinque cesti di antichi papiri, e ben­ ché molti fossero completamente irrecuperabili, ridotti dal fuoco in bian­ che ceneri, i papiri d ’uno di quei cesti erano soltanto carbonizzati: solle­ 4 Charles Breasted, Pioneer to the Past. The Story of James Henry Breasted, New York, Charles Scribner’s Sons, 1943, pag. 15.

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vai delicatamente la preziosa massa nera e la portai nel mio alloggio, con animo pieno di timore e di gioia reverente. Mi ci vollero dieci ore di la­ voro per separare senza guastarli i documenti, contorti, spiegazzati, pre­ muti Puno contro Paltro, fragili come possono esserlo soltanto papiri bru­ ciati; sarebbero bastati un movimento brusco, una mossa sbagliata per fi­ nire di rovinarli. Quando ebbi finito, avevo separato oltre centocinquanta documenti che, ciascuno impacchettato da solo e chiuso in una scatoletta di latta, potevano adesso affrontare senza pericoli il viaggio... Un poco piu d'aria nel rogo che li aveva carbonizzati, un po' meno delicatezza nel portarli all'aperto, nello sceglierli, impacchettarli o aprirli, e sarebbero scomparsi per sempre. Non c'è da stupirsi che, col sistema solito di affi­ dare gli scavi a sorveglianti arabi, dei papiri che può capitar di scoprire non rimangano neanche le briciole5.” È tipico di Petrie l'avere agito con estrema cautela, facendo il lavoro da solo, e l'avere improvvisato un metodo di conservazione. I testi si di­ mostrarono poi di grande valore, benché pochi documenti importanti fos­ sero in greco, e risalissero a un'epoca tarda. Fra i papiri egiziani v'era un elenco di simboli geroglifici con i segni corrispondenti ieratici o corsivi allineati in colonne parallele, probabilmente un manuale per l'insegna­ mento dei vari tipi di scrittura: fu il primo documento di questo genere venuto in luce e fornì ai filologi dati di valore inestimabile. Un altro pa­ piro carbonizzato illuminò agli studiosi le concezioni geografiche degli an­ tichi egizi e la divisione amministrativa del paese in “nomi” . Petrie non si scoraggiò affatto quando, al principio del 1887, le auto­ rità competenti gli offersero come zona da esplorare il Fayyum. Forse altri archeologi avrebbero pensato che la regione non valeva le spese del viaggio; e in effetti erano venticinque anni che nessun archeologo vi si avventurava. Ma per Petrie, benché anche lui avesse momenti di ama­ rezza, ogni sito nuovo era una sfida, uno stimolo alla curiosità, un teso­ ro di possibilità latenti; lo stesso abbandono in cui la zona era stata la­ sciata doveva anzi contribuire al suo successo. Un'unica ombra turbava la sua soddisfazione mentre si preparava all’avventura: “il sapere che uno dei piu astuti mercanti arabi era stato lasciato in libertà nel Fayyum con il permesso di lavorare...”6. Il principale obiettivo di Petrie nel Fayyum erano le piramidi. Ben diversamente dalle piramidi di Giza, meglio conservate, di quelle del Fayyum non si sapeva nulla, e ancora non era stato fatto alcun tentativo di determinare quando fossero state costruite e da chi. Chissà se quei mo­ numenti — i prediletti da Petrie — lo avrebbero aiutato a sollevare il velo che avvolgeva la storia del Fayyum? 5 Petrie, Ten Years' Digging in Egypt, 1881-1891, 2a ed., Londra, Religious Tract Society, 1893, pagg. 33-5. 6 Petrie, Seventy Years in Archaeology, pag. 81.

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Non gli ci volle molto a catalogare le piramidi come architetture del­ la XII dinastia; i suoi scavi in quelle di Amenemhet III e l’identifica­ zione della camera sepolcrale costituiscono uno dei capitoli piu brillanti nella storia dell’egittologia. La prima tappa fu Medinet el Fayyum (l’an­ tica Crocodilopoli), dove fece ricerche nel sito del tempio; la seconda fu I lawara. Anche qui l’attenzione dello scavatore si concentrò sul tempio, ma egli trovò anche un’altra “più inattesa miniera d ’interesse” : gli oggi famosi ritratti di defunti, eseguiti a encausto sulle casse contenenti le mummie. La riserva di queste tavolette nel locale cimitero pareva inesau­ ribile: a volte si trovarono fino a cinque ritratti in ventiquattr’ore. Un giorno un ragazzo indigeno aveva appena dato notizia a Petrie del ritrovamento di un ennesimo ritratto, quando arrivò una comitiva di visitatori. Le notizie dei lavori di Petrie si stavano diffondendo grazie ai suoi comunicati ai giornali di Londra, e già nel primo decennio della sua

COKI PACOCCXlTOAyCTTGP OCAK1 HJCHJUtAlhJeTCOO G lC e CD K O C U .H C A U .G N O Da un'Iliade del II secolo d.C., in una scrittura unciale simile a quella del Papiro Petrie di Hawara, che chiaramente prean­ nuncia lo stile dei codici biblici pergamenacei del IV secolo, specialmente del Vaticano e del Sinaitico.

lunga carriera egli godeva di una fama quasi leggendaria fra gli altri ar­ cheologi, che studiavano i suoi metodi non meno che le sue scoperte e lo esortavano a far conoscere le sue teorie sulPevoluzione e sui rapporti re­ ciproci fra i paesi del Vicino Oriente. La comitiva giunta quel giorno al­ l’accampamento nel deserto era composta di tre famosi tedeschi: “Schliemann, piccolo, con la testa tonda, la faccia tonda, il cappello tondo, gran­ di occhi tondi sporgenti, occhialuto, il più allegro degli esseri, dogmati­ co, ma sempre pronto a prestare orecchio ai fatti. Virchow, un uomo cal­ mo, dalla faccia mite, con bellissima barba grigia, che tuttavia tentò, al Cairo, di mettermi i bastoni fra le ruote. Schweinfurth [ l’etnologo]...”7 Tutti e tre dimostrarono il più vivo interesse per il lavoro dell’archeolo­ go inglese; ma a Schliemann Petrie aveva da offrire, per puro caso, pro­ prio la cosa più adatta per i suoi gusti. L ’aveva trovata, in circostanze inconsuete, a Hawara, mentre scavava il cimitero greco-romano. Era la mummia di una ragazza, che giaceva con la testa posata su un papiro scritto in caratteri greci, in belle unciali del II secolo d.C. Il papiro conteneva buona parte del secondo libro del1*Iliade ; ma ben più interessante del testo — che in effetti non aggiunse : Ibid., pagg. 83-4.

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molto alla conoscenza del poema — era il luogo del suo ritrovamento. Archibald Henry Sayce, Porientalista oxoniense e primo studioso degli Ittiti, incaricato da Petrie di pubblicare tutti i testi rinvenuti, era convin­ to che il rotolo riflettesse i gusti letterari della ragazza con cui era stato sepolto; in un'appendice al resoconto di Petrie intitolato Hawara, Biahmu and Arsinoe (1889) scriveva infatti, lasciando briglia sciolta alla fan­ tasia: “Il rotolo appartenne a una dama con la quale, alla morte di lei, fu sepolto. Il teschio della mummia dimostra che quella dama era sta­ ta giovane e attraente, con lineamenti minuti, intelligenti, finemente ce­ sellati, di tipo chiaramente greco... Teschio e papiro sono oggi entrambi alla Bodleian Library di Oxford, insieme a una treccia dell'ignota Hypa­ tia8” (ma piu tardi il teschio fu trasferito al museo di South Kensington). Checché ne pensasse Sayce, è molto probabile che la bella fanciulla greca non leggesse mai quanto era scritto nel rotolo: il seppellimento di scritti greci con le mummie doveva servire a un uso meno razionale. È probabile infatti che i coloni greci avessero semplicemente adottato (com­ prendendo il rito solo a metà) l'uso di fornire i defunti d'una copia del Libro dei Morti, e che al tempo della ragazza dissepolta da Petrie non si badasse più al contenuto del testo: come ha osservato un moderno papirologo, “sarebbe un po’ troppo domandarci di credere che qualcuno ab­ bia potuto scegliersi, come compagnia per l’aldilà, una copia dell'orazio­ ne di Isocrate Contro Nicocrate; eppure se n'è trovata una fra le gambe di una mummia”9. Gli studiosi si sono spesso domandati come mai in sarcofagi che apparivano intatti si trovassero rotoli incompleti; solo molti anni dopo gli scavi di Petrie nel Fayyum si sono resi conto che, data la nessuna importanza del contenuto, un frammento poteva adempiere la stessa funzione di un rotolo intero. Qualunque potesse essere il significato di quel costume, era stata sco­ perta una fonte di ritrovamenti a cui nessuno aveva ancora attinto, e col tempo altre tombe dovevano restituire esempi di prim’ordine. Il rotolo delVIliade fu il più sensazionale dei reperti letterari di Hawara. Sayce par­ la di una messe di circa 450 frammenti: per lo più di documenti legali di vario genere. Petrie e i suoi collaboratori pensarono che avessero fatto parte di un pubblico archivio che nel corso dei secoli era stato disperso dal vento e sepolto dalle sabbie del deserto, ma è molto più probabile che fossero scivolati giù dai vicini mucchi di rifiuti. Neppure Petrie aveva ancora capito quale ricchissima riserva di papiri fossero i cumuli di spazzature. Hawara restituì almeno due frammenti letterari di interesse eccezio­ nale, parte di un'ignota opera storica sulla Sicilia. Più interessante per il 8 Archibald Henry Sayce, in Petrie, Hawara, Biahrnu, and Arsirne, Londra, Field & Tuer, 1889, pag. 24. 9 Roberts, op. cit., pag. 253.

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modo della sepoltura che per il contenuto si rivelò invece una serie di papiri bizantini del 512-513, riferentisi alla vendita di due monasteri: erano stati arrotolati con cura, legati insieme e messi in un recipiente, esattamente come i rotoli del Mar Morto e molti altri documenti dell'antichità. I papiri di Hawara dimostrarono ampiamente la ricchezza del Fayyum come fonte di documenti antichi. Inoltre fornirono dati nuovi sui vari modi nei quali quei documenti si erano conservati: per lo più in case abbandonate, sepolti insieme con le mummie, in recipienti di ter­ racotta o direttamente nella sabbia. Ma questi, come vedremo, dovevano rivelarsi solo alcuni fra i molti modi di sepoltura e di conservazione. Nella stagione successiva, fra il 1889 e il 1890, Petrie lavorò a Gurob, vicino all'accesso orientale del Fayyum. E qui fece le sue scoperte più importanti, che aprirono una nuova fase della caccia ai papiri e inau­ gurarono una scienza nuova: la papirologia. L'interesse di Petrie per Gurob era nato mentre lavorava ancora a Hawara, e precisamente quando certi indigeni gli avevano portato perli­ ne e ornamenti raccolti in quel sito; subito aveva capito che la città in rovina si sarebbe rivelata interessante per via dei suoi contatti con po­ poli stranieri del Mediterraneo orientale al tempo della XVIII dinastia (ca. 1480-1200 a.C.). La sua attesa non fu delusa: trovò una “Venere” fenicia e una figura in legno di arpista ittita; ma soprattutto lo colpi una ricca serie di vasi che, con un'ardita ipotesi, dichiarò “egei” . Le scoperte di Evans a Cnosso, un decennio circa più tardi, dovevano dargli ragione. Quei vasi rappresentavano una testimonianza dei contatti fra la Grecia, Creta e l'Egitto, mille anni più antica di quelle possedute fin allora; e il ritrovamento di essi permise di assegnare la civiltà cretese ai tempi sto­ rici, sulla base della datazione di manufatti egei (o “minoici” ) del Medio e Nuovo Regno egiziani. Questa scoperta è una delle pietre miliari nella storia dell'archeologia medio-orientale; grazie a essa, sono stati chiariti alcuni fra i tanti punti oscuri nella cronologia delle civiltà antiche. Nei suoi resoconti sugli scavi Petrie aveva introdotto per primo il termine, oggi universalmente accettato “egeo” ; ma più tardi, nell'auto­ biografia, doveva scrivere con caratteristico sarcasmo: “Reinach e Evans si accapigliarono, anni dopo, sulla questione di chi dei due avesse per primo usato il termine 'egeo'...10” Petrie lasciò infine, quasi con rimpianto, la città sepolta egizia per il vicino sito d'un centro abitato d'epoca tolemaica, con un vasto cimitero, a nord di Gurob: pareva del tutto privo d'interesse, ma in un'indagine co­ me quella non poteva essere trascurato. Le prime ricerche confermarono le previsioni pessimistiche dell'archeologo: i resti materiali erano mol­ to inferiori a quelli del tempo dei faraoni. Il declino era evidente anche 10 Petrie, Seventy Years in Archaeology, pag. 101.

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nel mondo del seppellimento dei defunti, deposti in tombe sull’orlo stesso del deserto. “Le mummie,” scriveva Petrie nei suoi appunti, “sono prive di amu­ leti e ornamenti; tutte si sono ridotte in polvere nera; i loro involucri sono senza nome, del tipo più convenzionale e ordinario, e i sarcofagi so­ no incredibilmente grossolani: alcuni, per dire la verità, abbastanza raf­ finati da riuscire grotteschi; ma di altri si vergognerebbe anche un indi­ geno delle isole del Pacifico. I nasi sono lunghe prominenze triangolari, gli occhi sono rappresentati da due graffi nel legno, e la bocca da una terza riga. In alcuni il naso è appiccicato; in altri si è tentato, con effetti sinistri, di introdurre un perfezionamento dipingendovi occhi in bianco e nero. Dentro a questi sarcofagi cosi rozzi vi sono involucri relativa­ mente fini.” A queste osservazioni un po’ scoraggiate l’archeologo ag­ giungeva tuttavia: “Ma ciò che era privo di valore al tempo dei Filadelfi oggi per noi è un tesoro11” .

Questi quattro schizzi illustrano l ’evoluzione nella decorazione delle mummie nell’Egitto ellenistico e romano. Il modello schiettamente egizio dell’epoca tolemaica fa posto a uno stile più ibrido; col tempo la decorazione include un ritratto del defunto.

Esaminando gli involucri delle mummie, si accorse, con il vero istinto dello scopritore, che consistevano non in tele, come al tempo dei farao­ ni, ma in fogli di papiro su alcuni dei quali si riconoscevano chiaramente le tracce di caratteri scritti. Fu il principio d’una nuova storia di ceneren­ tola: quei morti senza nome, sepolti cosi poveramente, restituirono testi greci più preziosi e di gran lunga più antichi di tutti quelli fin allora co­ nosciuti: “di un’epoca” , osservava il professor Sayce, anche questa volta chiamato a curarne un’edizione, “quale il più ottimista fra gli studiosi non avrebbe mai osato sperare”112. 11 Petrie, Ten Years’ Digging, pag. 135. 12 Sayce, in Petrie, lllahun, Kahun and Gurobt Londra, David Nutt, 1891, pag. 34.

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Era da molto tempo in uso avvolgere le mummie in un primo involu­ cro; i coloni greci avevano imitato la popolazione indigena anche in que­ sta pratica funeraria, ma, per nostra fortuna, semplificandola e sostituen­ do alla tela papiri che inumidivano e modellavano intorno alla testa, alle gambe, al petto, alle spalle e ai piedi delle mummie. Sopra al papiro umi­ do spalmavano poi uno spesso strato di stucco, che infine dipingevano a colori più o meno sgargianti. Dapprincipio i papiri erano tenuti insieme con colla, ma più tardi questa parte del processo fu eliminata: fortunata­ mente, perché agli insetti la colla piaceva tanto che intorno alle mummie avvolte in papiri incollati lasciarono solo lo stucco. Petrie riuscì a spogliare dei loro involucri una trentina di mummie. Per buona sorte, la maggior parte dei papiri di Gurob non erano stati in­ collati; ma erano lo stesso in condizioni paurose. Il fatto che alcuni siano sopravvissuti al trattamento cui furono sottoposti, dopo essere rimasti sotterra più di duemila anni, è in sé stupefacente. Dove la scrittura era rimasta in contatto con lo stucco, l’azione chimica della calce l’aveva cancellata. Di dove venivano quei papiri? Le loro condizioni fisiche suggerivano la risposta. Per cominciare, buona parte del materiale era frammentaria già all’origine, e probabilmente era stata acquistata come rifiuti dall’anti­ co impresario di pompe funebri, che poteva essersi fatto rifornire rego­ larmente da un mercante, una specie di straccivendolo di quel tempo, con materiale raccolto in vari luoghi. Spesso, incorporati nell’involucro di una mummia, o anche negli involucri di parecchie mummie, si trovarono frammenti di uno stesso papiro, alcuni dei quali poterono essere rimes­ si insieme13. Un gruppo, per esempio, si rivelò come l’insieme dei docu­ menti privati e ufficiali di un colono, dai quali fu possibile ricostruire la vita di quest’ultimo. Talvolta un documento lungo era stato usato inte­ ro, specialmente quando si adattava a una parte piatta del corpo; e allo­ ra, aiutando la fortuna, 4era anche possibile recuperarlo, per nulla gua­ sto dall’essere rimasto sepolto duemila anni e più”14. Quando ebbe riunito tutti i frammenti di papiro, Petrie si dedicò al compito di staccarli l’uno dall’altro: operazione non facile, e non sempre coronata dal successo. Come nel caso dei rotoli di Ercolano, furono neces­ sari molti esperimenti. Petrie usò soprattutto il metodo di tenere i pa­ piri immersi nell’acqua; più tardi fu elaborato un sistema abbastanza sod­ disfacente, a base di vapore acqueo e di agenti chimici. Petrie riuscì a distaccare un buon numero di frammenti leggibili e alla fine della sta­ gione li portò con sé in Inghilterra, dove li consegnò a Sayce che passava l’estate presso il suo vecchio College di Oxford. Sayce invitò il professor John Pentland Mahaffy di Dublino, studioso di storia tolemaica, a divi18 Ibid. u Petrie, Illabun, Kahun and Gurob, pag. 28.

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dere con lui le fatiche e le gioie di quel lavoro durante le vacanze estive del 1890. Parecchi frammenti non erano ancora stati aperti, ma la mag­ gior parte era pronta per il lavoro di scelta preliminare, dopodiché si sa­ rebbe potuto passare alla fase più importante: decifrarli. La scrittura era d ’un tipo non familiare agli studiosi e risalente a un periodo di cui non erano venuti in luce altri saggi paleografici. Bisognava chiarire il signifi­ cato, e in un secondo momento tentare un’attribuzione; quest’ultima fase del lavoro era la più stimolante (e teneva in serbo la più grossa sorpresa) per gli studiosi di lettere classiche. Se il frammento apparteneva a una opera perduta o sconosciuta, stabilirne la paternità diventava un proble­ ma10 di difficile soluzione, quando non addirittura irresolubile. Sia Mahaffy sia Sayce hanno descritto efficacemente le settimane feli­ ci di quella loro estate a Oxford. “Raramente,” scrive il primo, “è acca­ duto agli studiosi dei tempi nostri di vivere giorni come quelli che pas­ sammo insieme, a Oxford, nelle vacanze estive del 1890; tutto il gior­ no, mentre splendeva il sole, stavamo chini su quei fragili e frammentari documenti del passato; la sera parlavamo di quelle poche cose che era­ vamo riusciti a chiarire e ne discutevamo il possibile significato. Gradual­ mente emersero frammenti di un dialogo platonico, che di li a non molto identificammo come il Fedone; poi il frammento d’un poema tragico... e insieme a questi molti documenti legali o ufficiali, con date, che fermaro­ no la nostra attenzione e ci sorpresero...1516” Un frammento di trecento versi duna tragedia attica pose uno tra i più formidabili enigmi. La scrittura era difficile a decifrarsi e la trascri­ zione procedette a rilento. Da principio, l’intreccio appariva oscuro; lo stile ricordava quello di Euripide, ma era un indizio troppo lieve per po­ terne fare gran conto: se solo fossero riusciti a capire la trama! D ’improv­ viso Mahaffy disse a Sayce: “Mi viene un’idea. Andiamo in biblioteca.” Cosi fecero. “Pochi minuti dopo,” scrisse poi Sayce, “mi mostrava un frammento d’una tragedia perduta di Euripide, l'Antiope, che collimava esattamente con uno dei versi da noi trascritti. La paternità del frammen­ to era dunque ormai fuor di dubbio, ed eravamo entrati in possesso d’una altra piccola parte dell’opera del grande poeta ateniese17.” L ’episodio, fra l’altro, è indicativo del modo in cui di solito avviene l’identificazione di un’opera di paternità ignota. La perduta Antiope era stata citata da Platone nel dialogo Gorgia; gli antichi la consideravano una fra le più belle opere di Euripide, e lo pseudo-Longino, il maestro dei critici letterari antichi, ne ricordava un brano come esempio di “concisione maestosa” . Di tema mitologico, la tra15 John Pentland Mahaffy, The Petrie Papyri, “New Review” , voi. V II, 1892, pagg. 551-2. 16 Mahaffy “On the Flinders Petrie Papyri” , Cunningham Memoirs N. V i l i , Dublino, Royal Irish Academy, 1891, pag. 11. 17 Sayce, Reminiscences, Londra, Macmillan & Co., 1923, pag. 279.

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gedia ha per tema la liberazione di Antiope prigioniera a opera dei due figli, che a loro volta puniscono la sua tormentatrice, Dirce, legandola alle coma di un toro selvaggio, come nel famoso Toro Farnese. Avendo identificato il frammento e quindi individuato la trama, Mahaffy e Sayce poterono stabilire che il papiro rinvenuto da Petrie conteneva parti del­ l'ultimo atto, in cui i giovani eroi Anfione e Zeto vengono a patti con il marito di Dirce e reclamano il trono di Tebe.

Frammento duna tragedia perduta di Euripide, Melanippe.

Il Fedone, benché l ’opera fosse nota, rappresentò dal punto di vista paleografico un ritrovamento di prim’ordine. Era scritto in eleganti ca­ ratteri lapidari, molto simili a quelli delle iscrizioni greche su pietra del IV secolo. Mahaffy e Sayce erano dell’opinione che potesse essere stato

Copia del II I secolo a.C. del Fedone platonico, rinvenuta da Petrie a Gurob. Per la sua antichità, probabilmente è affine ai manoscritti dell’epoca in cui vissero i grandi autori classici greci.

scritto da mano attica, forse addirittura vivo Platone, e portato con sé da un colono greco trasferitosi in Egitto. I frammenti del Fedone e dell 'Antiope furono i più importanti papi­ ri di contenuto letterario riportati alla luce da Flinders Petrie, ma note­ vole interesse presenta anche un altro frammento, che parla del ‘'certa­ me” fra Omero e Esiodo. Un collega di Mahaffy lo identificò poi come appartenente al Museion di Alcidamante, sofista del IV secolo a.C. Una redazione del poema era nota fin dai tempi dell’imperatore Adriano (che vi è nominato), nel II secolo d.C., e fu generalmente considerata origi­ nale fino a quando un giovane studioso tedesco, in due brillantissimi e acutissimi articoli, negò la validità dell’opinione tradizionale: questo, una 110

ventina d ’anni prima dei ritrovamenti di Petrie. Sulla base di pochi indi­ zi, egli espresse l ’idea che il poema fosse noto già molto prima del tem­ po di Adriano; poi audacemente propose — benché gli mancassero pro­ ve conclusive — di identificarne l’autore nell’Alcidamante Eolio, vissu­ to circa quattro secoli prima di Adriano. Il papiro del III secolo a.C. tro­ vato da Petrie nel Fayyum confermò questa tesi. “A uno studioso ope­ rante in questo campo,” scrisse un critico nel 1892, “capita ben di rado di veder provata in modo cosi inatteso l’esattezza di una teoria, e di ve­ der dimostrato che quella teoria si basava su un cosi profondo sapere e su tanta sagacia18.” Il giovane studioso tedesco si chiamava Friedrich Nietzsche. Mahaffy, nella sua edizione del papiro di Alcidamante, lo nomina, ma non mostra di conoscere le opere che rappresentano il maggior titolo di Nietzsche alla fama; l’autore di Zarathustra, già minato dalla follia, era infatti an­ cora poco noto persino in Germania. Fra gli altri testi letterari riportati alla luce da Petrie v’era anche l’im­ mancabile frammento dell 'Iliade: un frammento in condizioni “misere­ voli... che ci dava solo la fine delle linee di una colonna e l’inizio delle linee di quella successiva: in tutto trentacinque versi monchi, sufficienti a identificarlo come parte dell’XI libro dell 'Iliade; ma cinque o sei di es­ si non compaiono in nessun altro testo in nostro possesso” . Siccome pro­ babilmente questa era la più antica copia d’un passaggio deWIliade che fosse venuta in luce sin allora, ne presero avvio innumerevoli discussioni sull’attendibilità del testo tradizionale, giunto fino a noi tramite i critici alessandrini d’età successiva. “Il problema,” scrisse Mahaffy, “tiene ades­ so occupatissimi i tedeschi, che ogni mese mi mandano un opuscolo sul­ l’argomento19.” Dopo la memorabile estate del 1890, Sayce, i cui interessi si volgeva­ no alle lingue antiche del Vicino Oriente più che alla letteratura e alla paleografia greche, con il permesso di Petrie affidò interamente a Mahaf­ fy il compito di curare la pubblicazione dei papiri. Anni dopo avrebbe però rievocato con nostalgia i giorni in cui, con l’amico, aveva rivissuto gli entusiasmi e le gioie intellettuali degli umanisti del Rinascimento: “Come allora, di continuo tornavano in luce frammenti di opere perdute e insieme copie di opere già note; ma copie parecchi secoli più antiche di qualsiasi altra fin allora conosciuta.” Che piacere era stato immergersi nello studio di quei testi fino all’ora di cena, quando potevano parlare delle loro “scoperte e speranze con altri studiosi, mentre si gustavano il dessert e il vino nella sala comune. Fu un tempo felice; ma, come sem­ pre i tempi felici, fini troppo presto”20. 18 giugno 19 20

Edward G. Mason, Greek Papyri in Egyptian Tombs, “The Dial’’, voi. X III, 1892, pag. 49. Mahaffy, “The Petrie Papyri” , pag. 552. Sayce, Reminiscences, pag. 279.

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Per Flinders Petrie, Sayce e Mahaffy l’aver avuto parte nella prima im­ portante campagna di recupero di antichi papiri greci fu un durevole mo­ tivo di gioia. Quei papiri avevano restituito agli uomini testi letterari del III o del IV secolo a.C., trascritti forse al tempo in cui erano ancor vivi

Tavoletta di legno sul tipo di quelle che gli antichi egizi seppellivano con le mummie per consentirne Tidentificazione. Questa però è inscritta in caratteri greci.

Demostene o Euripide. Ora finalmente si potevano studiare le peculiari­ tà della piu antica scrittura ellenistica. Fra i testi recuperati, ve n’erano di già noti, ma in copie che precedevano di un millennio le più antiche disponibili fino a quel momento; e vi si aggiungevano frammenti di ope­ re per il resto totalmente perdute, alcune dovute ai più bei nomi della letteratura classica. Per pubblicare il grosso dei papiri portati in luce fu­ rono necessari quattro grossi volumi; e non vi trovarono posto neppure tutti i papiri greci, per non parlare di quelli in altre lingue. Le scoperte fatte da Petrie nel povero cimitero di Gurob segnavano l’inizio d ’una rinascita nel campo dei recuperi d’opere antiche.

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Capitolo V II IL TRAFFICO D I PAPIRI: W ALLIS BUDGE L'interesse nutrito per i cocci di vaso si è spostato sui papiri. Abbiamo importanti testi poetici da opporre all'Ermes di Olimpia e all'Auriga di Delfi, abbiamo nuove storie che possono competere con quelle rivela­ te dagli scavi di Troia, Micene e Creta. F red eric G. K enyon 1

Frederic G. Kenyon lavorava da qualche mese al British Museum quando nel gennaio 1890 venne convocato nella sala dei manoscritti. Da­ vanti a lui c’era una tavola coperta di rotoli di papiro, appena aperti da un tecnico. Che cosa ne sapeva dire? Kenyon se li studiò attentamente e con qualche difficoltà, poiché la scrittura corsiva, benché chiaramente greca, era d’un tipo insolito e quasi illeggibile; ma gli parve che alcuni rotoli contenessero testi di carattere storico, altri testi letterari. I suoi su­ periori ne furono abbastanza colpiti da consegnargli tutto, rotoli e fogli; e quando Kenyon li pubblicò l ’anno successivo — simultaneamente ai “Papiri Flinders Petrie” di Sayce e Mahaffy — i testi ricostruiti fecero del 1891 Vannus mirabilis della papirologia. Mentre le mummie di Pe­ trie avevano restituito frammenti troppo brevi per consentire il recupero di un’intera tragedia antica, i papiri del British Museum diedero al mon­ do opere quasi intatte. Fra il 1891 e il 1897 il British pubblicava infatti La costituzione degli Ateniesi di Aristotele, i Mimiambi di Eroda (o Eronda), le Odi di Bacchilide e orazioni nuove di Iperide. La pubblicazione del trattato di Aristotele suscitò fra gli studiosi la piu viva curiosità di conoscerne la provenienza. Qualcuno aveva forse 1 Frederic G. Kenyon, Greek Papyri and Their Contribution to Classical Literature, “Journal of Hellenic Studies’', voi. XXXIX, 1919, pag. 13.

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avuto la fortuna di riportare in luce un’antica biblioteca? Il miracolo di Ercolano si era forse ripetuto, con risultati ben più clamorosi, in Egitto? Ma a quel tempo circolavano in proposito soltanto voci vaghe, e i fun­ zionari del British si rifiutarono di rivelare le loro fonti; dichiararono in­ vece che non si doveva “né aspettare né chiedere una risposta... È possi­ bile che là dove abbiamo trovato questo ci sia altro, e da parte della dire­ zione del British Museum sarebbe un’imperdonabile imprudenza rivelare questa possibile fonte di altri futuri tesori”2. Naturalmente, questa segre­ tezza era un tormento per molti, non ultimo il Servizio egiziano delle an­ tichità al Cairo, e destò anche molti sospetti, ma senza dubbio i funzio­ nari del museo avevano tutte le ragioni di mantenere un cosi ostinato si­ lenzio. I fatti si conobbero soltanto anni dopo, quando li rivelò Ernest Alfred Thompson Wallis Budge, noto orientalista che da molto tempo lavorava presso il museo come direttore del reparto antichità egizie e assire. In certo modo i nuovi ritrovamenti, nei quali Budge ebbe tanta par­ te, rappresentarono un deplorevole regresso, un ritorno ai tempi dei pri­ mi cacciatori di papiri, dei profanatori di tombe, dei mercanti troppo astuti, degli archeologi-pirati tipo Belzoni. Ma questo è inevitabilmente uno fra gli aspetti dell’attività archeologica: le scoperte in questo campo non seguono sempre la strada del progresso, i metodi non segnano un mi­ glioramento costante. È vero al contrario che i successi degli scavi con­ dotti con sistemi scientifici incoraggiano i clandestini. Sarebbe stato stupido, da parte degli istituti europei, respingere le offerte di scavatori e mercanti indigeni; persino Flinders Petrie e altri uomini come lui, mentre scavavano alla ricerca di papiri, nello stesso tem­ po acquistavano documenti e rotoli dai fellahin. In questo modo, anzi, Petrie entrò in possesso del famoso Papiro delle Entrate, che affidò, per­ ché lo decifrasse, al giovane studioso inglese Bernard Pyne Grenfell; più tardi anche Grenfell e il suo collega Arthur Surridge Hunt acquistarono papiri, e anche quando gli scavi alla ricerca di questi ultimi erano ormai una branca dell’archeologia più progredita, parecchi documenti di primo ordine arrivarono al mondo attraverso canali irregolari, o commerciali. Nel decennio 1880-90 l’Egitto era gremito di turisti, scavatori dilet­ tanti e altri uomini che avevano una fame insaziabile di tesori sepolti. Questa la scena in cui fece la sua comparsa Wallis Budge. Wallis Budge, che il British Museum mandò sedici volte nel Vicino Oriente a fare acquisti per le sue collezioni, era un uomo che sapeva cos’è un buon affare e come lo si combina e aveva la tendenza a interpre­ tare assai poco rigorosamente le norme che regolavano l’esportazione 2 Kenyon, “Aristotle’s Treatise on the Constitution of Athens” , Review of Reviews, voi. I l l , febbraio 1891, pag. 176.

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delle antichità. Cosi, si mise parecchie volte nei guai, e non soltanto con il Servizio delle antichità diretto dai francesi in Egitto: pare che i suoi traffici non andassero a genio né alle autorità turche della Mesopotamia né ai dipendenti del governo britannico in Egitto. Ma “tutti lo facevano” ; Budge con più successo e più intelligenza degli altri. Sapeva come trattare con gli indigeni, e quando era necessario eludere la vigilanza dei funzio­ nari poteva valersi delPassistenza di un “Ahmed” in Egitto e di un non meno astuto figlio del Tigri (“Hassan” ) in Mesopotamia. E poteva sem­ pre contare su alcune persone altolocate per farsi tirar fuori da un gine­ praio o essere aiutato ad aggirare un ostacolo. Aveva molti nemici, soprattutto fra gli altri agenti e rappresentanti di istituti europei rivali (fra loro c’erano anche alcuni compatrioti), che in­ vidiosi dei suoi successi più volte lo denunciarono alle autorità, accusan­ dolo anche di essere segretamente d’accordo con il Servizio delle antichi­ tà, di guadagnare cifre enormi, di approfittare vergognosamente degli indigeni. All’ultima insinuazione Budge ribattè una volta: “Questo è estremamente poco gentile nei confronti degli indigeni, che, come ben sa chiunque abbia trattato affari con loro, sono bravissimi nel difendere i propri interessi. La verità è che gli indigeni cercarono di trattarmi come trattavano tutti gli altri, e quando videro che con me non attaccava cam­ biarono sistema e cominciarono a fidarsi di me3.” Budge, come giustamente è stato detto, ebbe in tutta la vita un’unica passione: il British Museum. Per amore del British sarebbe stato pronto, e lo dimostrò, a spogliare il Vicino Oriente di tutti i suoi tesori. Benché si possano non approvare i metodi a cui ricorse qualche volta, bisogna riconoscere che lavorò con lo zelo più altruistico per la maggior gloria del Museo. Era anche convinto di proteggere gli interessi della cultura, ed è certo che la sua passione non danneggiò nessuno; anzi, molte cose che senza di lui sarebbero andate perdute per sempre furono invece pre­ servate e messe a disposizione degli studiosi d’ogni parte del mondo. Inol­ tre, Wallis Budge non fu semplicemente un saccheggiatore né un abile compratore, bensì prese anche parte attiva alle ricerche. È un fatto abbastanza strano che non sia mai stato visto come un eroe dai “volgarizzatori” dell’archeologia; eppure il recupero e l’acquisto dei testi perduti di Aristotele e di Bacchilide furono imprese da mettere sullo stesso piano di quelle del Boccaccio o del Bracciolini. Budge era ani­ mato dallo stesso zelo, aveva la stessa audacia, la stessa amabile astuzia, lo stesso amore per le lettere degli uomini del Rinascimento. Come i più grandi fra gli umanisti, era contemporaneamente filologo, viaggiatore e diplomatico. Somigliava un poco agli elisabettiani nella vitalità e versati­ lità; schietto, estroso, straordinario conversatore, pieno d’energia, intol­ 3 Ernest Alfred Wallis Budge, By Nile and Tigris, Londra, John Murray, 1920, voi. II, pag. 327.

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lerante dell’impostura e dell’indolenza, con un fisico formidabile, era una personalità che faceva spicco tra gli uomini di cultura. In fatto di com­ pagnie, preferiva i militari e gli uomini di affari ai suoi colleghi, e pur acquistando gran fama nel campo della linguistica orientale era destinato a diventare uno studioso-avventuriero nel vero senso della parola4. Budge era nato in Cornovaglia nel 1857. I suoi antenati erano stati al servizio della East India Company, e furono ricordi dell’Oriente più che l’amore per i classici a dare un sapore agli anni della sua infanzia. Ancora adolescente intraprese di sua iniziativa lo studio dell’ebraico per poter studiare nell’originale i Libri dei Re. Quando George Smith, il primo

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Papiro di Bacchilide scritto intorno alla metà del I secolo a.C., quindi contemporaneo ai papiri di Filodemo rinvenuti a Ercolano.

studioso di testi mesopotamici, pronunciò la sua famosa conferenza sul racconto assiro del Diluvio (basato su tavolette cuneiformi recuperate a Ninive) che doveva influenzare profondamente gli studi anticotestamen­ tari, il giovane Budge ne fu rapito. Una presentazione a Samuel Birch, al­ lora il più eminente orientalista del British Museum, lo avviò sulla strada che doveva essere la sua. Birch gli permise di copiare testi assiri presso il museo, interessò Gladstone alla sorte del giovanissimo assiriologo e gli ottenne una borsa di studio a Cambridge come studente non-collegiate. Seguirono più tardi una borsa di studio al Christ’s College e parecchi pre­ mi accademici. A ventun anni, ancora studente, Budge pubblicò il suo pri­ mo libro, Assyrian Incantations, riguardante testi magici assiri, al quale pochi mesi dopo ne tenne dietro un altro. Sulle prime i professori di Budge accolsero con sufficienza le pubblicazioni di un cosi giovane stu­ dioso; ma non tardarono a riconoscere la sua abilità nell’interpretazione del cuneiforme. Quei due libri furono solo i primi di una lunga serie: alla fine della sua carriera i libri da lui pubblicati sarebbero stati circa centotrenta, una lista di titoli che porta alla lunghezza di un’intera pagi­ na la biografica di Budge nel Who's Who e ne fa la voce più lunga di tut­ to il volume. 4 R. Campbell Thompson, Ernest Alfred Wallis Budge} “Journal of Egyptian Ar­ chaeology” , voi. XXI, settembre 1935, pag. 69.

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Nonostante Pentita di questa produzione letteraria, che avrebbe oc­ cupato le esistenze di parecchi uomini insieme, Budge trovò il tempo di condurre scavi in Mesopotamia, in Egitto e nel Sudan. Affrontò queste imprese con la consueta energia e senza tenere quasi alcun conto delle nuove tecniche scientifiche. Nel 1883, per interessamento di Gladstone, fu chiamato alPOriental Department del British Museum, dove fece una ra­ pida carriera benché la gelosia d’un collega lo costringesse a rinunciare momentaneamente alPassiriologia; ben presto si trovò altrettanto a suo agio nel campo delPegittologia, e lo studio dei testi ieratici diventò la sua specialità. Nel 1893 era a capo del reparto, che diresse fino al suo ri­ tiro nel 1924. Budge portò un contributo di prim’ordine alParcheologia egiziana quando nel 1887 raccolse vaghe notizie sul ritrovamento di tavolette cu­ neiformi che una contadina avrebbe riportato alla luce nelPalto Egitto: grazie alla sua competenza nel campo delPassiriologia, e contro Popinione della maggioranza, stabili che si trattava di documenti autentici, rappre­ sentanti una corrispondenza fra sovrani egizi e potenze o vassalli stranie­ ri nel secondo millennio a.C., e agendo con la consueta rapidità acquistò immediatamente per il British Museum ottantadue dei preziosi documen­ ti d ’argilla di Teli el-Amarna. Un anno dopo, nel dicembre 1888, Budge risali il Nilo fino ad Asyut, facendo sosta in vari villaggi lungo la strada fra cui Mallawi, circa 300 chilometri a sud del Cairo, antico centro cristiano dove Panno prima aveva acquistato alcuni papiri magici in copto e in greco. Questa volta interrogò gli indigeni sulla fonte di quei testi, e fu condotto sull’altra riva del fiume, a un basso sperone di colline dov’erano molte tombe ru­ pestri di tarda età faraonica (XXVI dinastia). Su un fianco della collina gli furono mostrate due file di tombe d’età romano-bizantina, probabil­ mente del IV o V secolo d.C.: di qui era stato portato via, oltre ai papi­ ri “magici” , un certo numero di mummie. Budge non mancò di notare una fila più bassa di tombe che erano rimaste intatte probabilmente a causa degli “enormi cumuli di pietre e sabbia che ne sbarravano l’accesso” . Gli parve giustificata la speranza che le tombe della serie inferiore contenessero resti importanti; ma quella era soltanto una sosta, ed egli aveva troppo poco tempo per intraprendere scavi. Inoltre gli mancava l ’equipaggiamento necessario, non aveva il permesso di scavare e in ogni caso riconosceva i diritti di priorità dei copti che lo avevano guidato sul posto. Suggerì loro di chiedere il permesso di aprire le tombe al Servizio delle antichità, ma — come scrisse poi nell’autobiografia — “essi si rifiu­ tarono assolutamente di farlo, dichiarando che non avevano nessuna fi­ ducia in quel dipartimento” . Probabilmente, benché Budge non lo dica, temevano che se avessero avvertito il Servizio, altri, magari archeologi di professione o anche mercanti rivali, avrebbero saputo dell’esistenza delle

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tombe e si sarebbero precipitati sul posto. Inoltre, il Servizio delle anti­ chità aveva il diritto di trattenere pezzi di valore dichiarandoli proprietà dello stato. Senza preoccuparsi più che tanto dei legittimi diritti delle autorità egiziane, Budge propose una soluzione conveniente cosi per lui come per i copti: questi sgombrassero il sito dei cumuli di pietre e sabbia e pene­ trassero nelle cripte, e lui si impegnava ad acquistare la metà di quello che avrebbero trovato, o a rimborsare metà delle spese sostenute per il lavoro di sgombero se non fosse venuto in luce nulla di valore. Raggiunto questo accordo fra gentiluomini, Budge se ne andò5; ma anche da lontano gli scavi che aveva promossi occuparono assiduamente i suoi pensieri. Chissà se Tistinto lo aveva ben consigliato? Per molto tempo i suoi collaboratori indigeni non ebbero nulla da ri­ ferirgli: avevano deciso di rimandare le operazioni alla prossima estate. I mesi estivi segnano di solito una sosta per le attività archeologiche in quelle regioni, ma essi li giudicavano i più adatti per loro poiché ‘‘il gran caldo paralizza le energie degli ispettori del Servizo delle antichità, e nes­ suno si dà pensiero di vegliare sulle tombe e sul loro contenuto”6. In settembre, Budge fu informato che i copti erano entrati nelle tom­ be, ma i loro rapporti riecheggiavano il disperante ritornello che ha sem­ pre accompagnato gli scavi nel Vicino Oriente: altri v’erano già stati, ma non in epoca moderna. Profanatori di sepolcri avevano depredato il sito, senza misericordia, nell'antichità, lasciando segni più che visibili delle lo­ ro incursioni sulle mummie, che avevano fatte a pezzi e sparse dapper­ tutto. I copti scrivevano che per il momento non si erano trovati papiri, ma le ricerche continuavano. Nel novembre 1888 Budge, che in quell'epo­ ca stava scavando lungo il Tigri, ebbe notizia che in una cassetta dipinta erano stati rinvenuti parecchi rotoli di notevole lunghezza. Prese accordi con i copti perché si trovassero ad attenderlo quando la sua nave, che seguiva la rotta dell’Oceano Indiano e del Mar Rosso, avrebbe fatto scalo a Porto Said nell'aprile 1889. Là infatti, alla data stabilita, Budge e soci s'incontrarono. “Trattammo,” scrisse più tardi Bud­ ge, “l’acquisto di tutti quei papiri, e i copti mi dissero che prezzo ne vo­ levano. I papiri furono spediti in Inghilterra e quando vi giunsero i Tru­ stees [del British Museum] decisero di acquistarli. Immediatamente al­ cuni impiccioni cominciarono ad accusarmi di sprecare i soldi del Museo pagando un prezzo folle' per i papiri, mentre altri dicevano che mi ero approfittato dei ‘poveri indigeni' e li avevo derubati pagando i papiri meno di quello che valevano. In realtà gli indigeni ricevettero più di quanto chiedevano, ne furono perfettamente soddisfatti e continuarono a 5 Budge, op. cit., pag. 149. 6 Ibid., pag. 150.

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combinare affari con me per almeno altri ventanni, anzi finché ebbero qualcosa da vendere../*7* Però i copti di Mallawi combinavano affari anche con altri: manca­ vano alcune parti della Costituzione degli Ateniesi, il testo piu importan­ te fra quelli restituiti dai papiri, come Kenyon non mancò di notare quan­ do si mise al lavoro di decifrazione e trascrizione. Ma anche se i copti aves­ sero trattato onestamente con Budge, nessuno avrebbe mai potuto sapere che testi avevano trovato nelle tombe scavate nella roccia; gli indigeni non erano certamente in grado di leggerli. E nessuno avrebbe mai potuto sta­ bilire con certezza quali testi provenissero da quelle tombe né in qual mo­ do esattamente fossero stati scoperti. In ogni caso, il British Museum aveva motivo d ’essere soddisfatto per i risultati della terza “missione di acquisto” di Budge (1888-1889). Un resoconto particolareggiato ai Tru­ stees elencava fra gli altri acquisti: 210 tavolette e frammenti di tavolet­ te cuneiformi provenienti da Kuyunjik (Ninive); 1500 tavolette e 49 si­ gilli cilindrici provenienti da Abu Habba e Der in Mesopotamia; 3 roto­ li di papiro scritti in greco su entrambe le facce (sul verso era la copia dell’opera di Aristotele); vari rotoli contenenti parti délYIliade, testi ma­ gici, ecc.; 3 papiri scritti in geroglifici, e 52 manoscritti arabi e siriaci di Mosul e delle vicinanze. Quando Budge, su istruzioni del British Museum, tornò in Egitto l’anno successivo a cercare le parti mancanti del trattato aristotelico, tut­ to il paese era in fermento per la notizia della straordinaria scoperta. Il Servizio delle antichità era furibondo d’essersi lasciato sfuggire di mano un altro tesoro, e benché il British si fosse ben guardato di rendere di pubblica ragione il modo in cui ne era venuto in possesso, i funzionari di servizio in Egitto erano certi che c’era sotto la zampino di Wallis Budge; non mancarono quindi di dimostrargli la propria irritazione e di tener d’occhio le sue attività. Parecchi colleghi di Budge, meno informati, esprimevano opinioni di­ verse, e con suo grande divertimento Budge incontrò certuni che affer­ mavano di avere identificato il testo greco dell’opera perduta. “Altri assi­ curavano di avere scoperto loro il papiro e di averlo venduto a indigeni che lo avevano poi venduto a me, e piu di un archeologo mi dichiarò per­ sonalmente di essere stato lui a venderlo ai Trustees*.” Nei libri d ’archeo­ logia vengono tuttora presentate variazioni di queste storie, ma da quan­ do Budge ruppe il silenzio e Kenyon e il British confermarono la parte da lui avuta nell’acquisto è facile giudicare quanto siano attendibili. Per rintracciare le parti mancanti dell’opera di Aristotele, Budge svol­ se lunghe ricerche nei villaggi su entrambe le rive del Nilo; finalmente, qualcuno lo portò da un uomo, a Asyut, con il quale non ebbe difficoltà 7 Ibid. a Ibid., pag. 148.

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a mettersi d’accordo. Rimaneva il problema di portare fuori del paese i frammenti: che il Servizio delle antichità ne autorizzasse l’esportazione era escluso in partenza, e Budge era anzi strettamente sorvegliato. Tutta­ via non ci mise molto a trovare la scappatoia. “Acquistai una serie delle bellissime fotografie egiziane del signor Beato, di cui il British Museum poteva servirsi per esporle nelle sue gallerie, e dopo aver tagliato il pa­ piro in varie sezioni infilai queste ultime, a intervalli, tra le fotografie, avvolsi il tutto nella carta gaiamente colorata della signora Beato e lo spedii a Londra, come pacco raccomandato9.” Seguirono alcune settimane di ansiosa attesa, ma mentre si preparava a partir per la Mesopotamia Budge ricevette un telegramma che lo avvisava dell’arrivo del pacco e di­ chiarava innocentemente che “il contenuto era proprio quale si sperava”10. A questo punto, Budge era riuscito ad assicurare al British Museum alcuni fra i piu preziosi documenti che avessero mai superato le frontie­ re dell’Egitto: i papiri di Aristotele e di Eronda; il libro sapienziale di Ani, una versione illustrata del Libro dei Morti, in buono stato di con­ servazione; parte delle tavolette di Teli el-Amarna. Non c’è dunque da stupirsi che il Museo gli affidasse altre missioni dello stesso genere, con istruzioni esplicite di acquistare antichi manoscritti di qualsiasi tipo. Al suo arrivo in Egitto nel 1892 fu accolto calorosamente da scavatori e mercanti indigeni, che trovavano insieme utili e dilettevoli i propri rap­ porti con il Museo. Dal Cairo, si spinse nelle cittadine e villaggi dell’alto Egitto, visitando mercanti, raccogliendo informazioni, ispezionando vari scavi su piccola scala che gruppi di indigeni stavano svolgendo su inizia­ tiva sua. Nel 1892, nell’antico cimitero presso la moderna Meir, di dove presumibilmente proveniva PAristotele, prese parte attiva agli scavi in compagnia dei suoi amici di Mallawi e riuscì a portarsi via molti fram­ menti di papiri greci, parecchi datati ma nessuno molto importante. Poi, per alcuni anni, il flusso diminuì e parve che la fortuna di Budge fosse venuta meno e che le riserve dei suoi amici indigeni si andassero esaurendo. Nel novembre 1896, al Cairo, dove si doveva incontrare con i suoi colleghi indigeni per trattare l’acquisto di alcuni manoscritti greci, Budge fu avvicinato da un uomo di Meir, che non aveva partecipato alle sue pre­ cedenti imprese ma lo conosceva bene di fama, e che gli annunciò di vo­ ler vendere un rotolo di papiro. “Aperse la scatola,” scrisse più tardi Bud­ ge, “e mi mostrò un rotolo di papiro di colore chiaro, con molti fram­ menti che se ne erano staccati. Quando un’estremità del rotolo fu diste­ sa, vidi che conteneva parecchie colonne di unciali greche. Non conoscevo la letteratura greca abbastanza bene da poter identificare il testo, ma arri­ vai a capire che si trattava d’un testo letterario e che era stato scritto pri­ 9 Ibid.y pag. 154. 10 Ibid.

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ma della fine del II secolo [d.C .]. Non ebbi dubbi: dovevo fare il possi­ bile per assicurarlo al British. Ma non mostrai nessun interesse per il do­ cumento, e tutti bevemmo caffè e fumammo sinché Puomo non cominciò a legare la sua scatola preparandosi a andarsene. Solo allora — come se solo allora mi fosse tornato in mente — cominciai a parlare del papiro e chiesi alPuomo quanto voleva. Quando cominciai a mercanteggiare con lui, lo trovai ‘fermo' e ‘asciutto', come dicono gli indigeni; e, in confron­ to a quello che avevo pagato per i papiri greci negli anni precedenti, il prezzo che chiedeva mi parve assurdo11.” Nella conversazione che segui, Budge dovette ricorrere a tutti i truc­ chi e le astuzie dell'uomo abituato ai mercanteggiamenti dei bazar orien­ tali. Aveva deciso che non se ne sarebbe andato senza cercare di assicu­ rarsi il papiro, ma doveva fare in modo che il proprietario non si accor­ gesse del suo interesse; non aveva neppure la somma che quello doman­ dava, e doveva assicurarsi che il papiro valesse tanto, prima di fare la sua “ultima offerta” . Cosi, ottenne dall'indigeno il permesso di copiare alcu­ ne righe per mandarle a Londra e ottenere l'autorizzazione all’acquisto. Budge mirava però ad assicurarsi un’opzione irrevocabile sul papiro men­ tre aspettava la risposta del museo. Continuò quindi i suoi tentativi di in­ graziarsi Puomo bevendo con lui innumerevoli tazze di caffè, il lubrifi­ cante per eccellenza nel Vicino Oriente. Nel corso della conversazione seppe che il rotolo era stato trovato in un sarcofago proveniente da una grande tomba, una delle molte sepolture in una collina vicino a Meir. Il papiro si trovava, disse Puomo, fra i piedi di una mummia e il fondo del sarcofago. Poi l'indigeno si mise a parlare degli altri oggetti che aveva trovato nella tomba, parte dei quali aveva con sé per venderli sul merca­ to antiquario. Budge sapeva che “nulla facilita una transazione difficile come il trasferimento di denaro in connessione con un'altra” , e parecchi oggetti cambiarono rapidamente di mano. “La vista di quel denaro pronta cassa ebbe un ottimo effetto sul mio uomo”112, e i negoziati poterono tor­ nare al ben piu importante papiro. Si accordarono sul prezzo, ma Budge dovette confessare che non poteva pagarlo finché il museo non gli avesse concesso l'autorizzazione. Fu ora la volta dell'indigeno di recitare la commedia: con aria irrita­ ta, impacchettò le sue mercanzie facendo Patto di andarsene. Budge si spaventò. “Capii,” scrisse poi, “che sarebbe stato un errore colossale la­ sciare che se ne andasse cosi; gli dissi che gli avrei dato una grossa som­ ma di tasca mia come caparra, purché depositasse il papiro presso un mio amico indigeno al Cairo, fino al mio ritorno dall'alto Egitto. Accettò... Poi 11 Ibid., pag. 346. 12 Ibid., pag. 347.

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spedii al Principal Librarian di Londra la copia fatta da me di poche ri­ ghe del testo greco, chiedendo istruzioni.,.13” Mentre aspettava una risposta, Budge fece la solita gita su per il Nilo per vedere a che punto fossero le sue altre iniziative. Di ritorno al Cairo, trovò una lettera del British Museum in cui gli si chiedeva di assicurarsi il possesso del papiro che — a quanto si poteva capire dalla comunica­ zione — era piuttosto importante. Ma insorsero nuove complicazioni. Luomo di Meir aveva mostrato i frammenti ad altri esperti, uno dei quali vi aveva riconosciuto il poema perduto di un autore classico. Uno studioso inglese che godeva allora di grande prestigio al Cairo confermò la cosa e andò in giro vantandosi della sua straordinaria scoperta. La pub­ blicità fece naturalmente aumentare il valore del papiro e la sua deside­ rabilità; l'indigeno si rese conto che anche il prezzo “assurdo” chiesto a Budge era troppo modesto, e andò a riprendersi il suo bene. A questo punto rientrò sulla scena Budge, pronto a pagare ciò che doveva e convinto che presto il papiro sarebbe stato in sue mani. Lo aspettava una ben diversa realtà: l'uomo di Meir voleva a tutti i costi restituire l'anticipo, dichiarava che non poteva più concludere l'affare con Budge e insinuò persino che il Servizio delle antichità sapeva della esistenza del papiro e lo aveva minacciato. Budge non si arrese: non po­ teva permettere che il British Museum fosse privato di ciò che lui aveva promesso. Discusse, pregò, ricorse a tutte le lusinghe e a tutti gli argo­ menti. Come poteva l’uomo rifiutarsi di vendere ciò che in effetti aveva già venduto? La sua tenacia fu tale che alla fine l'indigeno capitolò: “Ri­ masi in casa sua due giorni e due notti; la sera del terzo giorno arrivam­ mo a un accordo e tornai al Cairo con il papiro14.” Non sappiamo se il prezzo pagato fosse superiore a quello stabilito in precedenza. La pericolosa operazione del trasferimento del papiro oltre frontiera, sotto gli occhi del Servizio delle antichità, della polizia portuale, degli uf­ ficiali di dogana fu un'autentica, romanzesca avventura. Per Budge, or­ mai, manovre di questo genere erano diventate quasi routine: un'occu­ pazione fra le tante sue, dallo scrivere libri sulla Chiesa copta o sul vo­ cabolario ieratico o sulla religione dell'antico Egitto al progettare una nuova mostra nella Babylonian Room del “suo” museo. V'è tuttavia una nota d’orgoglio nel succinto resoconto dell'esito ultimo della sua missio­ ne: “Due settimane più tardi consegnavo il papiro nelle mani del diretto­ re della Biblioteca... Esso conteneva quaranta colonne del testo delle Odi di Bacchilide, grande poeta lirico fiorito nella prima metà del V secolo a.C.; gli esperti lo giudicarono scritto intorno alla metà del I secolo a.C. Sir Richard Jebb [il grande studioso di letterature classiche] mi disse che lo considerava più prezioso di tutte le altre cose da me acquistate per 13 Ibid., pag. 348. 14 Ibid., pag. 351.

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il museo messe insieme. Le opere di Bacchilide erano rimaste fino a quel momento ignote, tranne per pochi frammenti sconnessi15/' I quattro piu importanti acquisti di papiri greci provenienti dall’Egit­ to, compiuti dal British Museum fra il 1890 e la fine del secolo, merita­ no qualche riga di commento. Quei papiri riguardano quattro diversi campi: storia, poesia, oratoria, e un genere fin allora praticamente scono­ sciuto, il mimo. Il trattato di Aristotele fu quello che destò maggiore at­ tenzione: finalmente l’Egitto aveva restituito un’opera quasi intatta, per di più dovuta a uno dei giganti del pensiero classico. Per almeno dodici secoli nessuno aveva posato gli occhi su quel trattato, e adesso il Bri­ tish Museum poteva mettere in mostra in una bacheca tre lunghe stri­ sce di papiro ingiallito, con l’orgogliosa scritta: “Testo unico della Costi­ tuzione degli Ateniesi di Aristotele.” L ’inchiostro sembrava fresco. Meno chiara invece la scrittura corsiva greca del I secolo d.C., che non era del tipo unciale usato normalmente per le opere letterarie ma denunciava chia­ ramente la mano di un non professionista. Il trattato era stato copiato sul verso di un resoconto contabile d ’un colono greco, l’amministratore Didino: già in sé un documento di considerevole interesse per la storia economica dell’antico Egitto romano. Non sappiamo per certo come mai quell’importante testo sull’“ascesa e caduta” della costituzione politica ateniese fosse stato trascritto sul retro di un documento amministrativo, ma appare probabile che la trascrizione fosse opera dello stesso ammini­ stratore o di un membro della sua famiglia o della sua cerchia di amici, e destinata all’uso privato; il che spiegherebbe anche l’insolito ricorso alla parte ancor bianca di un papiro già scritto. L ’attribuzione ad Aristotele è oggi generalmente accettata. Ma come avvenne tale attribuzione? Nel manoscritto danneggiato non v ’erano no­ me d ’autore o titolo, e né lo scrittore né la natura del testo apparvero immediatamente accertabili quando il British Museum entrò in possesso del papiro. La mano del copista non era delle più chiare, la scrittura era d ’un tipo di cui i paleografi avevano scarsa esperienza, mancavano vari passaggi, altri erano indecifrabili per le cattive condizioni del papiro. Pri­ ma di tutto, i fragilissimi rotoli dovettero essere aperti: un lavoro che richiese grande delicatezza e abilità. Solo allora uno studioso potè intra­ prendere il lento e cauto lavoro di decifrazione. Toccò a Frederic G. Kenyon leggere e tentare l’attribuzione della “più importante opera letteraria riscoperta in molti secoli”16 (oltre che eseguire lo stesso lavoro per gli altri testi inclusi nell’invio al Museo); e il successo conseguito doveva conquistargli una fama immediata. Più tardi, Kenyon rievocò com’erano andate le cose: uno dei testi, “dopo che con qualche difficoltà ne ebbi decifrato la scrittura minuta e molto rapi­ 15 Ibid., pag. 355. 16 Kenyon, op. cit., pag. 176.

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da ’, gli apparve come un’opera sconosciuta di storia greca. “A Oxford, avevo sentito parlare dei due piccoli frammenti della perduta Costituzio­ ne degli Ateniesi, pubblicati da Blass e identificati da Bergk a Berlino nel 1885. Questo suggerì una direzione alle mie ricerche, e dopo qualche giorno di lavoro il sospetto si trasformò praticamente in certezza grazie all'identificazione di una delle citazioni note dell’opera; al principio di febbraio ero convinto che il manoscritto sotto i miei occhi conteneva il trattato di cui s’era tanto rimpianta la perdita; era mutilo, questo sì, ma il papiro ne conteneva pur sempre una parte sostanziale17. Su cinquan­ totto citazioni dell’opera fatte da Plutarco, cinquantaquattro furono ri­ conosciute nel testo recuperato.18 L ’opera rivestiva un interesse eccezionale, e non soltanto perché rive­ lava in Aristotele uno storico lucido, pacato, cauto, ben diverso dalla ca­ ricatura che Francesco Bacone e altri fecero del “Filosofo” nel loro zelo antiscolastico. La Costituzione degli Ateniesi è l’unico trattato superstite fra i 158 dello stesso genere che Aristotele — forse con l’aiuto dei di­ scepoli — compilò su varie costituzioni nel quadro di quello che potrem­ mo chiamare un vasto studio comparato delle forme di governo. D ’impo­ stazione rigorosamente storica, e non improntato a un atteggiamento co­ si decisamente antidemocratico come ci si sarebbe potuto aspettare, in un breve e magistrale scorcio esso esamina l ’evoluzione del governo ateniese dal tempo di Dracone in poi, contribuendo a illuminare la natura di isti­ tuzioni fino a quel momento poco note, e soprattutto stimolando gli stu­ diosi di storia greca a un riesame della tradizione, là dove la testimonian­ za di Aristotele è in contrasto con quella di Tucidide o di Erodoto. Inol­ tre, come si è già detto, il trattato aristotelico si distingue dalle altre ope­ re greche recuperate in Egitto per il fatto che è uno dei pochi testi giunti a noi quasi completi19. La Costituzione degli Ateniesi è un’opera di valore intrinseco, chiun­ que ne sia l’autore; il fatto che sia quasi sicuramente di Aristotele ne ac­ cresce l’interesse, ma essa non aggiunge nulla alla grandezza dell’autore, pur rivelando un aspetto nuovo della sua personalità. Molto diverso il ca­ so di Eroda o Eronda, che prima della scoperta dei Mimiambi era soltan­ to un nome: un nome, anzi, di cui tuttora rimane incerta persino la gra­ fia. I papiri egiziani ci hanno restituito otto dei suoi componimenti in versi giambici (scazonti), rivelando un genere letterario greco praticamen­ te sconosciuto e conquistando a Eronda una celebrità postuma; alcuni studiosi considerano anzi i Mimiambi l’opera letteraria più importante fra quelle restituite dalle sabbie del Nilo. Kenyon, per nominarne uno, di­ chiarò che “fra tutte le opere restituiteci dai papiri, nessuna ha così in!T Kenyon, Ancient Books and Modern Discoveries, Chicago, The Caxton Club, 1927, pag. 45. Powell and Barber, op. cit., voi. I, pag. 134. 19 Ibid., pag. 133.

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negabilmente arricchito la nostra conoscenza della letteratura greca...”20 Il papiro contenente i versi di Eronda era, ed è, eccezionalmente ben conservato; sei componimenti sono pressoché completi. I loro temi sono molto diversi da quelli elevati e sublimi dei grandi tragici e di Omero: dipingono vividamente scene della vita quotidiana in un’antica città me­ diterranea, e sono godibili anche per il lettore che non abbia grande fa­ miliarità con la letteratura classica. Come il romanzo di Petronio, sono spesso salaci — come si può vedere chiaramente già dai titoli — La mez­ zana, II lenone, Uadoratore delle donne, La padrona gelosa — benché non scadano mai nell’osceno. Donne volubili ne sono quasi sempre i per­ sonaggi centrali. In La mezzana, una giovane il cui marito è via di casa per un lungo viaggio in Egitto riceve la visita di una donna anziana sua amica. Dopo uno scambio di cortesie, la visitatrice “conforta” la giovane accennando alle varie attrattive dell’Egitto, paese le cui donne potrebbero reggere al paragone con le tre dee di Paride. Ma perché preoccuparsi? Ci sono anche a casa, a portata di mano, tanti uomini desiderabili. C’è per esempio un giovane e bellissimo atleta, cinque volte vincitore ai giochi pitici, che desidera appassionatamente di far conoscenza con la giovane signora. Sarebbe tanto facile combinare un incontro. Ma alla fine la ca­ stità ha la meglio, e la giovane resiste validamente a tutti gli argomenti dell’insidiosa amica. Forse il più divertente fra i Mimiambi è II maestro di scuola, in cui una madre si lamenta del figlio intrattabile. Quel figlio la manderà alla tomba prima del tempo; non vuole imparare nulla, si mescola alla peggior feccia della città, gioca d ’azzardo, terrorizza tutto il vicinato, scom­ pare per giorni interi. Anche suo padre è al termine della pazienza. Il maestro, indignato di tanta nequizia, subito impugna la sferza e si mette all’opera. Urlando il ragazzo promette di diventare buono, la madre esor­ ta il maestro a continuare, e questi infatti continua punteggiando i col­ pi con ammonimenti. Le odi di Bacchilide, l ’“usignolo di Ceo” , sono poesie dell’età più fe­ lice per la lirica classica. Bacchilide non era il Pindaro o il Simonide di cui Wordsworth aveva auspicato il recupero, ma più d’uno studioso l’ha posto quasi sullo stesso piano di quei due grandi. Fu rivale dichiarato di Pindaro, e Simonide fu suo zio e suo mentore; l’imperatore Giuliano, fra gli altri, preferiva la sua limpida grazia alla grandiosità e oscurità pinda­ riche. I papiri acquistati dal British restituirono decine di poesie comple­ te di Bacchilide, 1.200 versi in tutto, e studiosi e lettori dei classici ne poterono ammirare la maestria, l’eleganza, la raffinata semplicità. È vero che Bacchilide fu un poeta minore: del tipo, come osservava lo PseudoLongino, che mai si innalza a olimpiche altezze come Pindaro o Sofocle, ma in compenso da quelle altezze non può neanche precipitare rovino20 Kenyon, “Greek Papyri and Their Contribution to Classical Literature” , pag. 7.

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samen te. È un poeta che può essere letto dai molti, anziché venerato dai pochi; Kenyon lo considerava anzi il piu facile dei poeti greci, e riteneva la lettura dei suoi componimenti un'ottima introduzione allo studio dei lirici dell’Ellade classica. Le stesse qualità stilistiche, facilità e precisione, caratterizzano Iperide, Foratore attico; fra lui e il suo contemporaneo e occasionale avver­ sario Demostene si può istituire lo stesso rapporto che intercorre fra Bacchilide e Pindaro. In quanta stima fu tenuto Iperide lo dimostra am­ piamente la frequenza con cui è citato da altri autori antichi. Come per Cicerone, si può dire che diede il meglio di sé come avvocato difensore o accusatore più che nello stile grandiloquente dell'oratore-uomo politico. Il recupero delle sue opere è uno dei capitoli più interessanti e più biz­ zarri nella storia della ricerca papirologica. Iperide andò perduto, strana perversità della sorte, proprio nel periodo rinascimentale, che vide il re­ cupero di tanti testi classici. Una copia delle sue orazioni sopravvisse fi­ no al XVI secolo nella biblioteca di Mattia Corvino, re d’Ungheria, che però andò dispersa quando i turchi assediarono Budapest nel 1526. Fram­ menti forse della stessa copia sono registrati nell'inventario di un vescovo di Transilvania nel 1545; poi si perde ogni traccia di Iperide. Ma era de­ stino che non scomparisse per sempre: sue orazioni furono i primi testi letterari che tornarono in luce in Egitto; e il recupero fu il più fortuito che si possa immaginare. Nel 1847 due inglesi, A. C. Harris e Joseph Arden, visitarono l’Egit­ to e, a quanto pare l’uno all'insaputa dell’altro, acquistarono frammenti di papiro. Arden, che acquistò direttamente dagli arabi, fece l'affare mi­ gliore: circa quarantanove colonne continue in ottimo stato. Harris com­ prò parte dello stesso papiro, e i frammenti in possesso di entrambi fu­ rono pubblicati di li a qualche anno. Vennero cosi recuperati tre testi: le orazioni contro Licofrone e contro Eussenippo e l'orazione contro De­ mostene, questa purtroppo gravemente danneggiata. Nove anni dopo un'altra fonte restituì una copia quasi completa dell’orazione funebre di Iperide per i caduti nella guerra di Lamia, considerata dallo PseudoLongino una tra le migliori dell'oratore. Questo testo, acquistato da un altro inglese, il reverendo H. Stobart, era trascritto in goffa calligrafia sul retro di un oroscopo. Altre parti del rotolo originario, del quale Harris e Arden si erano presi la parte del leone, continuarono a venire in luce in circostanze sin­ golari. Evidentemente i mercanti ne avevano trattenuti alcuni segmenti per confezionare rotoli “falsi” che erano stati poi venduti a turisti ine­ sperti; il trucco consisteva nel prendere strisce di papiro prive di valore, arrotolarle e incollarle, e attaccare in fondo una striscia d’un autentico pa­ piro antico, naturalmente scritto, così da dare l’impressione che il tutto fosse un rotolo antico parzialmente aperto. Parecchi di questi falsi arri­ varono a Londra e a Parigi; uno portava, sulla striscia di testo autentico,

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il nome di Iperide, altri aiutarono a colmare qualche lacuna, benché cer­ to molti di più andassero dispersi o fossero smarriti dai loro comprato­ ri. Il recupero dei testi di Iperide costituisce un capitolo fra i più inte­ ressanti nella storia dei ritrovamenti di opere antiche perdute; esso il­ lustra anche la vitalità di questo autore, del quale l’Egitto — ancor pri­ ma che cominciasse l’epoca delle grandi scoperte dei papiri — aveva restituito più opere che per qualsiasi altro autore antico. Pareva assurdo sperare che si trovassero ancora opere di Iperide; ep­ pure, del più importante gruppo di acquisti del British Museum (che ne informò il pubblico nel 1891) faceva parte un’altra orazione sua, quella contro Filippide, che ci mostra Iperide come un patriota di tempra assai più salda dell’ultranazionalista Demostene. Questa orazione politica è particolarmente importante per la luce che getta sul periodo — poco noto — successivo ai trionfi macedoni. Nello stesso tempo in cui il British si assicurava l ’orazione contro Fi­ lippide, il Louvre acquistava l’ultima opera importante recuperata finora, una tra le più vivaci orazioni di Iperide: l’arringa contro Atenogene. Il caso giudiziario era particolarmente interessante, e offerse al grande av­ vocato un’occasione di far mostra della sua abilità nello strappare un ver­ detto con argomentazioni brillanti e capziose, quando sarebbe stato fatale invocare la lettera della legge. Come tutti i grandi avvocati, Iperide era un attore e regista di prim’ordine. Lo Pseudo-Longino riferisce un episodio, relativo all’orazione oggi perduta in difesa di Frine, che fa pensare a una commedia napoleta­ na ambientata in un’aula di tribunale: temendo la possibile ostilità dei giudici per la sua bella cliente, Iperide le fece esibire le sue grazie, inde­ bolendo cosi la resistenza della corte e vincendo la causa. Le sei orazioni in nostro possesso, il cui testo è stato ormai in buo­ na parte ricostruito, ci danno una chiara idea dell’arte di Iperide, con la sua mirabile capacità di persuasione, la sua limpidezza e urbanità, il suo spirito quasi gallico. Nella vita privata Iperide ebbe fama di libertino; il che fa di lui l’opposto esatto dell’austero Demostene. Forse inferiore all’avversario, fu uno stilista meno vigile, un oratore meno appassiona­ to e grandioso. Tuttavia le sue orazioni hanno pregi incomparabili, co­ me quelle che ci rivelano insieme l’uomo e l’età in cui visse, e illumi­ nano infiniti aspetti sociali e politici dell’Atene del IV secolo. Sono sto­ ria non meno di quanto siano letteratura, e sono fra le opere più pre­ ziose che il suolo egiziano abbia restituito alla vita.

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Capitolo V ili PERLE TRA I RIFIU TI: GRENFELL E HUNT Non darebbe maggior soddisfazione, e forse a lungo andare non sarebbe più economico, risalire alla fonte e scavare da sé in cerca di papiri, invece di comprarli di seconda o di terza mano, incoraggiando cosi un traffico illegale? A r t h u r S. H u n t 1

Le campagne di Flinders Petrie a Tanis e Gurob ci hanno dato una prima idea di quel che dovevano essere scavi scientificamente condotti alla ricerca di papiri; ma, per quanto importanti fossero i testi ritrovati, quegli scavi furono frutto del caso piu che il risultato di un piano ben congegnato di ricerche. Per quel maestro tra gli scavatori, i papiri erano poco più che sottoprodotti, sia pure benvenuti, delle operazioni di ricer­ ca archeologica. E a meno di voler nobilitare col nome di archeologia le tanto proficue attività di Wallis Budge, nessun archeologo qualificato aveva ancora intrapreso una missione con lo scopo esplicito di estrarre papiri dalle sabbie egiziane. Tutto ciò doveva cambiare con la comparsa in Egitto di due giovani studiosi di Oxford, Bernard Pyne Grenfell e Arthur Surridge Hunt, che dominarono per un quarto di secolo il campo della papirologia scientifi­ ca. Il lavoro da loro svolto nel Fayyum, a Ossirinco, e in patria a Oxford, segnò l’inizio di una nuova fase nel recupero dei testi classici, grazie alla loro elaborazione di un metodo specializzato di “caccia al papiro” . I due amici eccelsero egualmente come scavatori e come decifratori. Non ave­ vano ancora trent’anni quando diedero al mondo, nel 1897, i cosiddetti 1 Arthur S. Hunt, “B. P. Grenfell, 1869-1926” , British Academy. Proceedings, voi. XII, 1926, pag. 359.

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logia, allora di gran lunga la più antica testimonianza della vita di Cristo. Ciò che doveva dare a Grenfell e Hunt fama internazionale ebbe ini­ zi relativamente modesti. La prima iniziativa fu presa dal Fondo (poi So­ cietà) per l’Esplorazione dell’Egitto, un’organizzazione che fino a quel momento s’era consacrata soprattutto ad appoggiare finanziariamente ri­ cerche di resti archeologici dell’Egitto faraonico. I membri dirigenti del­ l’organizzazione s’erano convinti che non bisognava lasciare soltanto al caso la scoperta di testi perduti; del che li avevano persuasi specialmen­ te le pubblicazioni del 1891 del British Museum e le imprese di Flinders Petrie. Un altro stimolo fu rappresentato da una campagna su larga sca­ la condotta da indigeni nel 1890, che ebbe il suo centro in Socnopaei Nesus, sul margine occidentale del Fayyum, e che rovesciò sul mercato del Cairo una valanga di papiri non letterari di vario genere. Non vi fu nulla di particolarmente geniale né di rivoluzionario nel­ l’azione del Fondo per l’Esplorazione dell’Egitto. Se c’è qualcosa di cui sorprendersi, è il fatto che gli istituti e gli studiosi europei ci avessero messo tanto a capire l’utilità di un’iniziativa di questo tipo. Il numero dei siti esplorabili andava diminuendo a ritmo rapido: l’agricoltura egiziana era in fase d ’espansione, e scavatori non qualificati stavano facendo spa­ rire con preoccupante rapidità documenti e materiali preziosi. Anche quando i fellahin si rendevano conto di quali profitti potessero ricavare dai papiri, i loro metodi erano cosi grossolani da portare alla distruzione d’una buona metà dei fragilissimi documenti da loro scoperti; e a questa distruzione contribuivano mercanti senza scrupoli e cacciatori di sou­ venirs. Furono considerazioni di questo genere a suggerire ai dirigenti del Fondo l’idea di finanziare una campagna di scavi alla ricerca di papiri. Per quanto riguarda il sito, la scelta cadde naturalmente sul Fayyum, dove Flinders Petrie aveva fatto storia: l’area aveva restituito, per quanto si sapeva, la maggior quantità di testi, e inoltre era la più immediatamente minacciata dall’espansione dell’agricoltura. Il Fondo ottenne il permesso di esplorare la zona nord-orientale, e alla fine del 1895 un gruppo era pronto a iniziare le operazioni. Gli uomini scelti a dirigere gli scavi pre­ liminari furono David George Hogarth e il venticinquenne Bernard Pyne Grenfell. La specialità di Hogarth erano l’Asia sud-occidentale e in par­ ticolare le iscrizioni ittite: avrebbe infatti abbandonato presto la papiro­ logia. (Più tardi doveva dirigere i famosi scavi a Carchemish, dove ebbe per assistenti T. E. Lawrence e Leonard Woolley.) Nonostante la giovane età, Grenfell era ben preparato per quel com­ pito. Era stato uno dei più brillanti studenti di Oxford, e progettava di perfezionarsi in scienze economiche quando la pubblicazione della Costi­ tuzione degli Ateniesi di Aristotele lo converti allo studio dei papiri gre­ ci. Un saggio sull’argomento gli fruttò una traveling fellowship biennale; nel 1893-94 fece il suo apprendistato con Flinders Petrie che scavava a

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Coptos nelPalto Egitto. Si dedicò anche allo studio dell'arabo, e si dimo­ strò la persona adatta quando Petrie acquistò un importante papiro gre­ co non letterario. Più tardi, acquistò per conto suo una sezione mancante e altri testi. Sin da quando si era prospettata la spedizione nel Fayyum, Grenfell aveva espresso il desiderio di avere per compagno Arthur Surridge Hunt, di due anni più giovane di lui e suo intimo amico sin da quando erano insieme studenti a Oxford. Hunt era succeduto a Grenfell nella fellow­ ship di Oxford, e stava studiando codici latini nelle biblioteche spagnole, ma a Grenfell riuscì egualmente di convincere Tamia) a raggiungerlo in Egitto. Così, “quel che perse la paleografia latina, lo guadagnò la papi­ rologia”2. Nel gennaio 1896 Hunt seguì dunque Grenfell nel Fayyum, dando inizio a una collaborazione che un collega tedesco ha definito una schópferische Einheit (“unità creativa” ). In un necrologio del 1926 per l'amico, lo stesso Hunt avrebbe così descritto i loro rapporti: “Mai forse vi fu collaborazione scientifica più intima, più armoniosa di quella che fu la nostra negli anni fra il 1896 e il 1908. Durante Pinverno, che trascorre­ vamo nel nostro accampamento egiziano, raramente vedevamo un altro europeo; nei mesi estivi lavoravamo quasi sempre nella stessa stanza, sui testi di cui curavamo la pubblicazione. Discutevamo insieme i problemi che ci si presentavano, le difficoltà di decifrazione e d'interpretazione; ci scambiavamo copie di papiri per collazionarle, e tutto ciò che l’uno scri­ veva era riletto e rivisto dall'altro3.” La fratellanza accademica li battezzò “i Dioscuri di Oxford” e “gli astri gemelli della papirologia” , ed effetti­ vamente a un certo punto diventò impossibile distinguere ciò che aveva fatto l'uno da ciò che aveva fatto l'altro. Mentre Hunt era lontano, a compiere il suo dovere di soldato nella prima guerra mondiale, e durante le lunghe malattie di Grenfell, non si potè notare nessuna differenza ap­ prezzabile e certamente nessun calo di qualità; i risultati dei loro sforzi uniti — specialmente nel decifrare i testi scoperti, identificarne quando possibile l'autore, curarne la pubblicazione, tradurli — furono sempre eccezionalmente brillanti. Quei due uomini erano molto diversi per qualità intellettuali e per temperamento, e appunto grazie a questa diversità si completavano a vi­ cenda e le qualità dell’uno davano risalto a quelle dell'altro. Grenfell era espansivo, impetuoso, intuitivo. Era nel suo elemento quando si trovava in compagnia numerosa: all'università, sul podio del conferenziere, in una riunione. Trovava difficile opporre un rifiuto quando veniva invita­ to a tenere un discorso, ed era uno di quegli uomini che s'impongono 2 H. Idris Bell, “Arthur Surridge Hunt, 1871-1934” , British Academy. Proceedings, voi. XX, 1934, pag. 327. 3 Hunt, op. cit., pag. 362.

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immediatamente all’attenzione. “Alla straordinaria intuizione, al dono di organizzare ed esporre lucidamente un insieme complesso di dati, univa energia, entusiasmo e una mente insieme creativa e critica45/’ Ma quando si trattava di pesare argomenti e testimonianze, di decifrare meticolosa­ mente un testo, di controllare paralleli e rapporti, di analizzare i dati più minuti, Hunt era probabilmente superiore all’amico. In tutto ciò di cui ebbe a occuparsi portò la lucidità di giudizio, la ponderatezza e la pa­ zienza del grande studioso. Riservato e un po’ timido, d’animo delicato e generoso, discendente duna vecchia famiglia dell’Essex, era il tipo del­ l’anglosassone di educazione perfetta, leale nei confronti della sua classe e della sua Chiesa, coscienzioso, animato da alti ideali, modesto, estremamente discreto. Quanti lo conobbero bene lo trovarono affettuoso e spi­ ritoso, autore anzi di versi molto brillanti. Un amico lo rievocava come “il perfetto studioso, bello di lineamenti, impeccabile nel comporta­ mento”*. La campagna del 1895-96 nel Fayyum fu organizzata su piccola scala: aveva soltanto lo scopo di saggiare le possibilità di scavi sistematici, ma servi da eccellente “terreno di prova” per i giovani studiosi. Nel sito del­ l’antica Karanis, dove più tardi dovevano aver luovo gli scavi patrocinati dall’Università del Michigan, e a Bacchiade, essi ebbero modo di valutare l’importanza dei siti di piccole città per la loro particolare branca dell’ar­ cheologia. Gli egittologi, con il loro interesse per i templi e le tombe, ne avevano in genere dimostrato assai poco per i siti di tipo “domestico” , giudicandoli poveri di promesse. Effettivamente, in un paese densamente popolato come l’Egitto quasi tutti i centri erano stati abitati senza inter­ ruzioni per lo meno fino al tempo dell’invasione araba, ed era poco pro­ babile che vi fossero sopravvissuti monumenti od oggetti molto belli o importanti risalenti al più antico periodo faraonico. La situazione era però completamente diversa nel caso di papiri del­ l ’età tolemaica, romana e bizantina: i siti dei centri abitati — specialmente quelli sul margine del deserto — dovevano essere il terreno più fertile per ritrovamenti del genere; solo, nessuno sapeva quali fossero le condizioni migliori per la scoperta di papiri in quei siti. In ogni caso, il Fayyum offriva ogni sorta di possibili depositi. Fino agli anni di cui stiamo parlando, uno fra gli obiettivi favoriti dei “caccia­ tori” di papiri erano state le case abbandonate d’improvviso ma rimaste più o meno intatte, dove si potevano trovare documenti riposti in un va­ so o conservati in qualche altro modo. Purtroppo, di case simili ce n’erano poche, e le possibilità di trovare un ricco bottino in un sotterraneo, co­ me era accaduto a Flinders Petrie, apparivano remote. 4 Bell, “Hunt, A. S.” , Dictionary of National Biography. 5 Bell, “Arthur Surridge Hunt, 1871-1934” , pag. 335.

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Dapprincipio Grenfell e Hunt andarono in cerca di rotoli completi, e quindi frugarono soprattutto nelle case; eguale attenzione ricevettero le tombe, poiché ciascuna di esse poteva essere il luogo delPestremo riposo di un colono greco sepolto con un capolavoro perduto. Poi c’erano anche gli involucri di mummie, fatti di papiro, degli antichi cimiteri tolemaici: data l’epoca a cui risalivano, era probabile che celassero frammenti di testi appartenenti al miglior periodo della letteratura greca. Forse a cau­ sa di questo orientamento verso resti del periodo tolemaico, la prima cam­ pagna nel Fayyum non ebbe tutto quel successo che avrebbe potuto. Fu­ rono portati in luce alcuni documenti, ma, come si espresse Hunt, “i ri­ sultati, benché incoraggianti, non furono affatto spettacolosi... In ogni modo, avevamo acquistato un’utile esperienza che doveva esserci di gran­ de aiuto più tardi, e i frutti erano sufficienti a giustificare un ulteriore tentativo”6. L ’attesa, dunque, non era grande quando Grenfell e Hunt intrapre­ sero una seconda campagna nel successivo inverno 1896-97; ci si chie­ deva anzi se gli indigeni non avessero già fatto piazza pulita di tutto e se gli studiosi non fossero arrivati troppo tardi. Gli scavi furono anche questa volta patrocinati dal Fondo per l’Esplo­ razione dell’Egitto. Siccome il Fayyum aveva un po’ deluso, fu deciso di chiedere il permesso per scavare altrove, e la scelta cadde sul margine de­ sertico della valle occidentale del Nilo, in cui le condizioni fisiche e clima­ tiche apparivano non meno favorevoli che nel Fayyum alla conservazione dei papiri; e anche qui vari siti erano stati abitati da greci. Il Servizio del­ le antichità diede il permesso di scavare in qualsiasi punto duna fascia di circa centoquaranta chilometri che andava dal margine meridionale del Fayyum fino a Minya. La decisione di concentrare gli sforzi sull’estremo sud del territorio concesso fu di Grenfell: non avrebbe potuto essere più saggia, e dimostra l’acutezza del suo istinto di archeologo. Là infatti Gren­ fell scelse il sito dell’antica Ossirinco, allora parzialmente occupato da un gruppo di tuguri che andava sotto il nome di Behnesa (Futuh elBahnasà). La capitale di questo antico distretto, o nomo, circa 200 chilometri a sud del Cairo e lungo il Bahr Yusuf (un braccio occidentale del Nilo, che alimenta d’acqua anche il Fayyum) non aveva mai attratto i viaggia­ tori. Non vi si trovano edifici grandiosi, non manifestazioni della monu­ mentomania dei grandi faraoni; non vi sono mausolei scavati nella roc­ cia né palazzi in rovina di sovrani apostati. Ben nascosta alla vista di chi va dal Cairo a Tebe su battello o su treno, Ossirinco non è una delle tap­ pe d’obbligo per il turista moderno. Gli scavi intrapresi al tempo di Gren6 Hunt, Twenty-five Years of Papyrology, “Journal of Egyptian Archaeology” , voi. V i li , 1922, pag. 121.

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fell e Hunt e continuati poi assiduamente hanno reso ancor più alluci­ nante l’aspetto della città morta, devastata da quelle che sembrano trin­ cee d un fronte di guerra o squarci di mine. Qui però la spedizione del 1896-97 trovò miniere di preziosissimi papiri. Ma a Grenfell, come venne l’idea di scavare proprio qui? L ’antica Ossirinco fu cosi battezzata dai Greci, i quali le diedero lo stesso nome del pesce che la popolazione locale considerava sacro, cosi

Mosaico di Palestrina con una vivace raffigurazione della vi­ ta in campagna nelPEgitto ellenistico: giardino, fattoria, co­ lombaia, barche, una processione religiosa, un tempio. Le esotiche scene egiziane furono uno dei soggetti favoriti da­ gli artisti romani.

come la popolazione del Fayyum considerava sacri i rettili. Appunto dal nome, Grenfell dedusse che il luogo doveva essere stato abitato dai Greci. Di Ossirinco si sapeva ben poco oltre a questo: non aveva giocato nessu­ na parte nella storia del paese, ma l’estensione delle rovine e il fatto che era stata capoluogo di un distretto dimostravano che aveva avuto una po­ polazione abbastanza numerosa e d’un certo livello culturale. Poteva ben darsi che le classi superiori, ellenizzate, di una città che doveva essere sta­ ta prosperosa avessero posseduto testi letterari greci, se non addirittura intere biblioteche. C ’era anche un altro argomento a favore della scelta di quel sito: nes-

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sun papiro apparso sul mercato proveniva, per quanto si sapeva, da Ossi­ rinco. Questo poteva significare due cose: o che non c'erano papiri, op­ pure che il sito non aveva ancora subito le incursioni dei fellahin. La se­ conda ipotesi era perfettamente plausibile, giacché i pochi indigeni rimasti vivevano sotto la continua minaccia dei predoni beduini e non pensavano ad altro che ad abbandonare il luogo. I poveri resti di quattro bellissime moschee stavano a testimoniare delPesodo relativamente recente della maggior parte degli abitanti. Un'altra attrattiva di Ossirinco risiedeva nel fatto che la città era sta­ ta in antico una roccaforte cristiana e aveva posseduto un gran numero di monasteri (con circa 10.000 monaci e 12.000 monache) e di chiese: era questa una delle poche cose che si sapevano della sua storia. Non po­ teva dunque celare frammenti di testi cristiani in lingua greca, di epoca ancora piu alta dei più antichi testi del Nuovo Testamento fin allora co­ nosciuti? “La rapida diffusione del cristianesimo nella regione intorno a Ossirinco/’ scriveva Grenfell, “subito dopo il riconoscimento ufficiale del­ la nuova religione [nel IV secolo] dimostra che quest'ultima vi aveva già preso saldamente piede nei precedenti secoli di persecuzioni7.” Grenfell avrebbe trovato davvero ciò che s'aspettava di trovare; e più presto e in maggior copia di quanto non sperasse. Secondo i progetti del Fondo per l'Esplorazione dell'Egitto, Grenfell e Hunt dovevano raggiun­ gere a Ossirinco Flinders Petrie, che avrebbe esplorato l'antico cimitero egiziano mentre gli altri due si sarebbero dedicati alla ricerca di papiri. Ma dopo qualche scavo di prova Petrie si convinse che il posto non pro­ metteva nulla per lui e passò a Desbasheh, una sessantina di chilometri a nord. Grenfell e Hunt erano adesso soli e per la prima volta erano loro a dare ordini. Cominciarono con il cimitero greco-romano, ma non trova­ rono nessun involucro di mummie né alcun rotolo funerario. Risultò an­ che troppo evidente che le tombe erano state saccheggiate una dopo l'al­ tra moltissimo tempo addietro, e le poche non aperte si trovavano in un terreno umido che non avrebbe lasciato sopravvivere nessun papiro, sup­ posto che ce ne fossero stati. Nel frattempo, la loro esistenza fu movimentata da un incidente di carattere non archeologico. I beduini avevano l'abitudine di fare visite notturne a Ossirinco; seguendo inclinazioni naturali sanzionate, a loro dire, dal Creatore stesso, venivano ad attingere dai beni dei fratelli un tantino più ricchi qualcosa di cui confortare la propria miserabile esisten­ za. Gli abitanti di solito si sottomettevano senza ribellarsi; ma una notte i predoni cercarono di introdursi nella capanna degli scavatori, che sorge­ va fuori del villaggio, e questa volta si videro fatti segno al fuoco delle 7 Bernard P. Grenfell, “The Oldest Record of Christ’s Life”, McClure’s , voi. IX, 1897, pag. 1025.

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sentinelle indigene: sorpresi e indignati, si diedero a fuga precipitosa. “Non è certo detto/5 scrisse Grenfell, “che fossero spaventati dagli anti­ quati fucili ad avancarica dei nostri bravi guardiani; solo che, conoscen­ do bene il temperamento dei fellahin, il beduino non si aspetta di trovare resistenza89/5 Dopo tre settimane di scavi senza frutto nel cimitero, Grenfell e Hunt decisero di passare all’attacco della “città55. Come tutti, erano convinti che i papiri messi sul mercato dai fellahin provenissero per la maggior parte da abitazioni e non da cimiteri; logico quindi frugare le antiche case di Ossirinco. Le prime impressioni non furono però incoraggianti. Grenfell esaminò il sito per lungo e per largo: una superficie di circa due chilome­ tri quadrati e mezzo. Erano visibili solo i nudi contorni di alcuni edifici, o meglio di quelli che erano stati edifici un tempo; intorno, tutto era “in quello stato di rovina totale in cui il sito si era ridotto essendo stato usato per un migliaio d’anni come una cava di materiale da costruzione559. Gli edifici erano in macerie e non pareva che la sabbia potesse coprire qualcosa d’importante: improbabile che una ricerca anche accuratissima — per la quale potevano essere necessari anni — mettesse in luce dei papiri. Rimanevano i cumuli di rifiuti e sabbia, alti in qualche caso oltre venti metri, che in serie ininterrotte intersecavano, come muri, il sito del­ la città e i dintorni. Contenevano i detriti non di secoli ma di millenni. Scavare fra quelle immondizie in cerca di papiri pareva quasi un’am­ missione di sconfitta: nonostante il gran numero di papiri messi sul mer­ cato dai fellahin dopo il 1877, gli europei non avevano ancora pensato alle possibilità che i cumuli di rifiuti forse offrivano: sarebbe toccato a Grenfell e a Hunt, di lì a poco, dimostrare quale fonte di testi antichi es­ si fossero. Rarissimi erano i documenti rimasti intatti; e solo circostanze speciali avevano salvato i papiri dalla totale distruzione. Buona parte erano strap­ pati o, in qualche caso, bruciati; nei livelli raggiunti dall’acqua, che fil­ trava nei mucchi di rifiuti durante le piene annue, erano semplicemente marciti. La particolare natura del cumulo e del materiale che lo costituiva era essenziale per la sopravvivenza di fogli o rotoli. In molti casi, a esem­ pio, il temporaneo abbandono di un centro vicino ebbe per effetto la co­ stituzione di uno strato protettivo al sommo. Col tempo, Grenfell e Hunt impararono a distinguere potenziali depositi di papiri in base alla stratigrafia dei cumuli. Uno fra i tipi di strati più promettenti era quello che gli indigeni chiamavano afsh, costituito di terriccio mescolato con paglia o rametti, che quasi invariabilmente conservava i papiri per secoli. A Grenfell e Hunt suggerì un paragone con i cercatori d’oro: “I cercatori 8 Ibid. 9 Ibid., pag. 1026.

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d'oro seguono una vena di quarzo, mentre i cercatori di papiri devono cercare uno strato o una vena di afsh...10” Di regola i papiri si trovavano disposti in uno strato più o meno oriz­ zontale, piuttosto che sparsi qua e là nel cumulo. Papiri di strati diversi risalivano in genere a diverse epoche, e strati consecutivi appartenevano il più delle volte a epoche molto vicine. I cumuli di Ossirinco si suddivi­ devano in tre gruppi principali (romano, bizantino, arabo) e si potevano distinguere in base alla loro posizione rispetto al sito della città. Della più antica età tolemaica non venne in luce quasi nulla.

Ostrakon greco rinvenuto in Egitto e coperto di scrittura cor­ siva. Cocci di vasi, legno e altri materiali, oltre al papiro, erano largamente usati per annotazioni di carattere non letterario.

Per consentire operazioni su scala abbastanza vasta fu necessario sca­ vare trincee, e questo comportò un impiego di tempo e di manodopera che i ricercatori di Oxford dovettero contenere entro limiti ragionevoli. Inoltre, bisognava tenere attentamente d'occhio gli scavatori per evitare il pericolo che i fragili documenti fossero danneggiati o sparissero sotto una tunica. Era anche essenziale scegliere i pezzi a seconda dell'originario luogo di deposito, al fine di facilitare le operazioni successive di rimette­ re insieme un papiro strappato, di stabilire età e contenuto dei documen­ ti. A Ossirinco come in tanti altri siti, la sopravvivenza dei papiri rappre­ sentava l'eccezione e non la regola: la maggior parte dei cumuli di rifiuti non restituì assolutamente nulla. Scavare in cerca di resti archeologici è qualcosa di molto diverso dall'aprire la camera di sicurezza di una banca; 10 Grenfell, Hunt e D. G. Hogarth, Fayum Towns and Their Papyri, Londra, Egypt Exploration Fund, 1900, pag. 24.

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“gli insuccessi sono più frequenti dei trionfi”11, cosi nella ricerca di papiri come in qualsiasi altro tipo di ricerca archeologica. I due giovani scavatori trovavano che la vita nel deserto aveva un suo fascino particolare, ma i lati negativi non rappresentavano per loro nulla di romantico. Erano inglesi della classe superiore e amavano il com­ fort e la pulizia, benché la passione per la letteratura antica li avesse por­ tati fra le opprimenti distese di sabbia delPOriente e ora li costringesse a “stare in piedi tutto il giorno, mezzo soffocati e accecati dalla polvere pungente dei mucchi di antichi rifiuti, il più delle volte mescolata alla sabbia non meno irritante, del deserto” , a “bere acqua che i servizi idrau­ lici dell’East End londinese non oserebbero fornire ai loro consumatori, e a tenere incessantemente d ’occhio uomini che — inutile lusingarsi del contrario — certamente ruberebbero se ne avessero l’occasione, e lo fa­ rebbero convinti di far bene”1112. II primo assalto a un cumulo di rifiuti cominciò I’l l gennaio 1897. Nella frescura dell’alba Grenfell e Hunt mossero dalla loro tenda con una settantina fra uomini e ragazzi, che misero immediatamente a scavare trincee. Avevano scelto un cumulo basso, vicino a un antico tempio; e quasi subito cominciarono a venire in luce frammenti di papiro in gran numero, alcuni straordinariamente lunghi, quasi documenti completi. I primi non erano letterari; fra essi si trovavano lettere private, contratti, altri documenti legali o ufficiali. Poi furono rinvenuti parecchi frammenti scritti in lettere unciali, indicanti la loro natura religiosa o letteraria. Pochi giorni dopo Hunt cominciò il lavoro di scelta. Fu non poco sor­ preso nel distinguere, in uno dei frammenti raccolti il secondo giorno, la parola greca corrispondente a “pagliuzza” (Karphos) scritta in unciali su un papiro mutilo coperto d’una ventina di righe di caratteri. Questo frammento spiegazzato misurava meno di quindici centimetri per dieci e sembrava venire da un taccuino (il foglio era infatti numerato) fatto co­ me un libro moderno, non da un rotolo. Un libro di papiro era di per sé una novità; pareva dovesse trattarsi di un umile documento di natura non letteraria. Ma quasi immediatamente la parola greca Karphos ri­ chiamò alla mente di Hunt il famoso passo dei Vangeli in cui si parla della pagliuzza e della trave (Matteo, 7, 3-5; Luca, 6, 41). Un’attenta let­ tura dimostrò che la supposizione di Hunt era giusta: si trattava vera­ mente del versetto evangelico. Ma le sorprese non finirono qui: un esa­ me successivo mostrò che sul foglietto erano scritte otto massime, ciascu­ na preceduta dalla formula “dice Gesù” . Solo tre corrispondevano sostan­ zialmente a frasi del Nuovo Testamento. Tre erano detti del tutto scono­ sciuti attribuiti in quel documento a Gesù, e nel caso di altri due il papi­ 11 Grenfell, “The Oldest Record of Christ’s Life” , pag. 1030. 12 Ibid.

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ro era cosi danneggiato che risultavano illeggibili. Uno dei detti, (5, 2-9), senza paralleli nel Nuovo Testamento, doveva diventare e rimanere per tutta la vita un motivo ispiratore per Hunt, e ricompare infatti in una delle sue poesie: “Dice Gesù, dovunque vi sono due persone, non sono senza Dio, e dovunque ve n’è una sola, in verità vi dico che mi ha con sé. Alza la pietra e là mi troverai, fendi il legno e io sarò là13.” Il frammento doveva diventare famoso col nome di logia, e rappre­ senta forse il piu sensazionale reperto di piccole dimensioni che il mon­ do possieda. Provocò discussioni teologiche a non finire e determinò la comparsa, negli anni successivi, di innumerevoli articoli e saggi monogra­ fici. Basti dire che i logia, o Delti di Gesù Cristo, trascritti intorno all’anno 200 dell’era volgare, portarono indietro di circa centocinquant’anni la data del primo documento cristiano: prima della scoperta di quel fo­ glietto, i famosi codici Vaticano e Sinaitico erano le più antiche testimo­ nianze scritte della vita di Cristo. Con la scoperta di Hunt, i trecento an­ ni che separavano la vita di Cristo sulla terra dal primo documento su­ perstite furono di colpo dimezzati. Ma quel che soprattutto apparve straordinario fu il contenuto del pa­ piro. I tre detti sconosciuti attribuiti a Gesù sembravano proprio suoi, autentici come le parole riferite nei Vangeli: rappresentavano forse una raccolta popolare perduta, che un tempo aveva circolato insieme ai Van­ geli, forse prima che questi diventassero l’unico testo canonico? Oppure i logia erano il frammento superstite di un’opera più antica dei cosiddetti Vangeli sinottici? Forse era servita, in aggiunta a Marco, come fonte “Q” (dal tedesco Quelle, fonte, sorgente) di Matteo e Luca? Questa l’opinione di parecchi studiosi tedeschi. Altri studiosi pensavano di riconoscervi af­ finità con i Vangeli apocrifi secondo gli Ebrei e secondo Pietro, o con il Vangelo dei Dodici. Alcuni teologi, particolarmente colpiti dal versetto 5, sopra citato, affermarono che i logia testimoniavano di una tradizione me­ no viva, meno fresca di quella dei Vangeli canonici: vi avvertivano il se­ gno di una tendenza a caricare di significati filosofici l’insegnamento di Cristo, il preannuncio di una dottrina dell’immanenza di Dio. Quest’opi­ nione trovò nuovo seguito quando, nel 1903, Grenfell e Hunt rinvennero a Ossirinco un altro frammento dei logia. Questi erano dunque informa­ ti a uno spirito settario? Erano eretici? Il dibattito continuò a lungo, e il problema rimase senza soluzione fino a mezzo secolo dopo, quando nella valle del Nilo, e sempre nell’alto Egitto, vennero in luce altri testi: testi gnostici, praticamente una biblio­ teca, riposti in vasi e rinvenuti a Chenoboskion (Nag-Hamàdi). Questa volta la scoperta fu fatta da indigeni, di modo che si conoscono con sicu­ rezza soltanto pochi particolari; avvenne poco dopo la fine della seconda 13 Grenfell e Hunt, The Oxyrhynchus Papyri, Part I, Londra, Egypt Exploration Fund, 1898, pag. 2.

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guerra mondiale, negli stessi anni che videro la scoperta dei rotoli del Mar Morto, e fu messa indebitamente in ombra da quest’ultima. Quando finalmente i testi copti poterono essere studiati e ne venne data un’edizio­ ne scientifica, fu un biblista francese, H. C. Puech ad accorgersi che i detti extracanonici di Cristo a lui attribuiti dai logia ricomparivano paro­ la per parola in questi testi eretici e anzi erano stati probabilmente attin­ ti di qui. La scoperta di cosi stretti rapporti fra i logia e la letteratura ere­ tica fece crollare molte ipotesi; tuttavia Paffermazione di alcuni studiosi, che non tutte le parole di Cristo sono registrate nel Nuovo Testamento e che in parte almeno esse sono state conservate in altri scritti religiosi, non è stata ancora confutata. La scoperta dei logia segnò un trionfo per la ricerca sistematica di pa­ piri greci, e conferì prestigio a tutta l’attività successiva dei “Dioscuri di Oxford”. L ’opinione pubblica vi scorse la nascita della papirologia; i due uomini diventarono celebrità nel mondo accademico, che li coperse di onori. Pochi mesi dopo il ritorno a Oxford, pubblicarono una dotta edi­ zione dei Detti di Nostro Signore, con un facsimile del papiro. Il libretto fu distribuito dal Fondo per l’Esplorazione dell’Egitto, per annunciare la sua decisione di istituire una branca speciale dedita esclusivamente alla ricerca e allo studio dei papiri greci rinvenuti e da rinvenire in Egitto. Seguì una serie di monografie, pubblicate a intervalli regolari da Gren­ fell e Hunt; nel 1908 Oxford aveva istituito la prima cattedra di papiro­ logia, della quale Grenfell fu eletto titolare. Hunt sarebbe stato poi chia­ mato a succedergli. I logia furono dunque solo un principio. Crearono un’atmosfera favo­ revole, ricettiva, e stimolarono i due giovani studiosi ad altri sforzi. I fat­ ti dimostrarono ampiamente quanto fosse stata giusta la congettura di Grenfell che Ossirinco dovesse restituire numerosi testi cristiani: l’indomani stesso della scoperta del frammento dei logia, Hunt trovò un foglio del Vangelo di Matteo risalente ai primi decenni del III secolo, a una data cioè in cui il cristianesimo non aveva ancora ricevuto riconoscimen­ to ufficiale nell’impero romano. Grenfell pensò che quei frammenti fos­ sero i resti di una biblioteca cristiana il cui proprietario era forse stato una fra le vittime delle persecuzioni di Diocleziano e che quindi era stata gettata tra i rifiuti14. Di tempo in tempo tornarono in luce altri testi cristiani, ma non essi costituirono il grosso dei ritrovamenti. Il principale contributo di Gren­ fell e Hunt, il lavoro che occupò la maggior parte della loro esistenza fu la ricostruzione di opere classiche; e di questo torneremo a occuparci ora, lasciando il recupero di testi cristiani a una parte successiva di que­ sto libro. Per il resto della prima campagna di Ossirinco, Grenfell e Hunt de­ 14 Grenfell, “The Oldest Record of Christ’s Life”, pag. 1028.

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risero di intensificare Fattività. Portarono perciò a 110 il numero delle persone impiegate negli scavi. Si erano convinti che Punita lavorativa piu efficiente era quella composta di un uomo e di un ragazzo; i materiali rac­ colti da ciascuna di queste unità furono imballati e riposti separatamente. Con Peccezione di quattro uomini già esperti portati dal Fayyum, tutti gli operai furono reclutati sul posto, e i due studiosi giudicarono una for­ tuna Pavere alle loro dipendenze uomini ignari del mondo, e soprattutto dei prezzi in corso sul mercato antiquario. Senza dubbio, per parte loro gli indigeni si chiedevano stupefatti come mai agli stranieri interessasse­ ro tanto quei pezzetti di carta sporca. La giornata lavorativa durava circa undici ore, e col tempo i ragazzi furono più numerosi degli uomini, perché erano piu facili a trattarsi e più onesti. Tutti i giovanissimi dei dintorni, pare, chiedevano a gran voce di lavorare per i due inglesi: ‘'Alcuni di quei piccoli aspiranti sembrava­ no appena usciti dalla culla, se mai avessero conosciuto un tal lusso.” Grenfell ricordava affettuosamente uno di quei monelli, un piccolino che aveva si e no otto anni ma era il più sveglio di tutti, “con un occhio straordinario per il tipo giusto di terreno, e bravissimo a trovare papiri”15. Rinvigorite le forze per un nuovo assalto al cumulo che aveva resti­ tuito i logià, la falange di operai fu spostata verso la sezione nord; e quello che all’inizio era stato un ruscello si trasformò in un vero e pro­ prio torrente. Date le cure necessarie per scegliere, imballare e traspor­ tare il prezioso materiale, i due studiosi vennero a trovarsi in una situa­ zione insieme difficile e felice: non riuscivano a tenere il passo con la produzione. Nel giro di poco tempo furono a corto di recipienti, e dovet­ tero mettere due uomini a preparare, dalla mattina alla sera, scatole di latta per i papiri. Tuttavia dopo dieci giorni si era daccapo: non ce la fa­ cevano a tenere il passo con il flusso continuo di materiale. Fu cosi per quasi tutto il tempo che durò la campagna. Eppure il materiale raccolto era solo una piccola parte di ciò che sarebbe potuto essere, tanti erano i papiri irrecuperabilmente strappati o bruciati o spiegazzati. Di regola gli strati inferiori si rivelarono improduttivi: là, i due studiosi se ne convin­ sero, i papiri avevano fatto la stessa fine che in quasi tutto il resto del­ l ’Egitto. A giudicare dal lavoro compiuto a Ossirinco, in quella prima campa­ gna ci si limitò a un’operazione, se cosi si può dire, di scrematura. In que­ sto si riconosce l’influenza di Grenfell: gli scavi non furono condotti con la massima precisione e cura. Era anzi inevitabile che una campagna con­ dotta con l’unico obiettivo di raccogliere quanti più papiri possibile nel minor tempo possibile violasse i canoni dell’archeologia scientifica. Sotto questo rispetto, gli scavi condotti molti anni più tardi dall’Università del Michigan a Karanis rappresentarono un grandissimo miglioramento. Ma 15 Ibid., pag. 1030.

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si può fare una colpa a questi pionieri di avere usato tecniche imperfette o di avere sfruttato al massimo la loro fortuna? V ’era, per esempio, una parte d un cumulo di rifiuti dove “bastava rivoltare lo strato superiore con la punta d’uno stivale per trovare un rotolo”16. Come pretendere che scavassero pozzi e trincee per mettere allo scoperto strati forse improdut­ tivi, quando in quello si poteva passare da una vena d’oro puro all’altra? Come si spiega il fatto che nei tre tipi di cumuli (romani, bizantini e arabi) si trovava una tale profusione di rotoli in uno stesso strato? Una supposizione plausibile era che quelle masse di papiri fossero i resti di archivi locali. Ecco la spiegazione di Grenfell. “Nell’Egitto romano era costume conservare con cura negli archivi di ogni centro abitato di qual­ che importanza i documenti ufficiali relativi all’amministrazione e alla fi­ scalità del paese; a questi archivi anche i privati usavano mandare le let­ tere, i contratti, i documenti di vario genere che volevano conservare, esattamente come noi li mandiamo a un legale o li depositiamo presso una banca. Naturalmente dopo qualche tempo, quando quei documenti non servivano più, diventava necessario fare pulizia; e pare che i vecchi rotoli di papiro fossero messi in cesti o in vassoi di vimini e gettati tra i rifiuti17.” Una tale pratica, che ricorda stranamente la genizà ebraica (una specie di ripostiglio per libri fuori uso), doveva fare la fortuna degli ar­ cheologi. Ne risulta confermata, una volta di più, quella che per gli ar­ cheologi è una verità lapalissiana: la distruzione e l’eliminazione di ciò che è considerato un rifiuto possono conferire permanenza, mentre i ten­ tativi di conservare sono condannati al fallimento. I recuperi di documenti provenienti da “archivi” raggiunsero misure più che notevoli. Molti risalivano agli inizi del periodo romano (I secolo e principio del II d.C.), e in qualche caso erano ancora nei loro cesti di vimini; i papiri di epoca romana più tarda e di epoca bizantina si distin­ guevano per l’insolita lunghezza e per l’interesse documentario. A metà marzo fu fatto il ritrovamento più grosso, in termini quantitativi, nei de­ positi bizantini. Grenfell e Hunt avevano aperto un cumulo in cui fu ri­ conosciuta la presenza di “uno spesso strato di papiri, cosi fitti da forma­ re quasi una massa solida” . Sei coppie di operai furono immediatamente trasferite in questo punto, e il problema diventò quello di trovare nel vil­ laggio arabo cesti sufficienti per trasportare il materiale. A sera c’erano trentasei cesti pieni fino all’orlo. Si può immaginare la gioia dei due stu­ diosi quando, vuotandoli, trovarono parecchi rotoli in eccellente stato di conservazione, alcuni lunghi fino a tre metri. I cesti erano necessari per l’indomani, e i due giovani dovettero passare buona parte della notte a riporre i papiri. Il mattino dopo sul presto erano di nuovo al lavoro con gli uomini, e la fortuna del giorno innanzi si ripetè: “prima che il 16 Ibid., pag. 1028. 17 Ibid.

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deposito fosse esaurito, c'erano altri venticinque cesti di materiale”18. Grenfell e Hunt si fermarono ancora un mese, ma erano convinti di avere preso tutto quello che c'era da prendere nei siti più promettenti. Quando fu finito il lavoro di imballaggio per l’invio in Inghilterra, i pa­ piri avevano riempito venticinque grosse casse, per un peso totale di qua­ si due tonnellate. Il lavoro necessario per svolgerli e selezionarli sarebbe stato fatto a Oxford, e lo studio e la pubblicazione del materiale avrebbe­ ro richiesto anni. Il primo volume dei Papiri di Ossir inco usci undici me­ si dopo il ritorno di Grenfell e Hunt in Inghilterra (l'ultimo sarebbe ap­ parso nel 1959, sotto il patrocinio dell’UNESCO), ma un quarto di se­ colo più tardi parecchie casse non erano state ancora aperte. Il primo vo­ lume conteneva tuttavia abbastanza sorprese, benché nessuno dei testi fosse cosi completo come quello della Costituzione degli Ateniesi. Grenfell e Hunt scelsero 158 testi fra i 1.200 circa in condizioni ab­ bastanza buone che erano riusciti a esaminare dopo il ritorno dalla prima campagna di Ossirinco. Il più prezioso fra tutti era il frammento di una poesia perduta, che quasi certamente si può attribuire a Saffo: venti versi mutili, sedici dei quali sono abbastanza chiari e consentono una ragione­ vole ricostruzione. L ’ode parla molto probabilmente del fratello lontano di Saffo, che tornava a Lesbo per mare. Fu solo il primo dei numerosi frammenti della grande poetessa recuperati dai papiri di Ossirinco, e pro­ babilmente non è il migliore. Però, “Saffo è sempre Saffo,” commentava Hunt. I versi rivelavano in modo inequivocabile “la sua semplicità e im­ mediatezza, la sua grazia apparentemente priva di sforzo”19: Cipride e Nereidi, senza danno fate che qui ritorni mio fratello e quello che desidera nell'anima tutto si compia, espii tutti gli errori di un tempo, sia una gioia per i suoi amici e per i nemici un cruccio quale mai non ci tocchi e la sorella sua voglia compagna all’onore e [ ] degli affanni cosi amari che soffrendo un tempo20...

A questo possiamo aggiungere un frammento in esametri attribuito ad Alcmane, il poeta spartano del V II secolo a.C. che meritò di essere messo accanto a Saffo. Questi versi hanno fatto pensare alla processione di fanciulle nel fregio del Partenone. 18 Ibid. 19 Hunt, “Papyri and Papyrology” , pag. 83. 20 Grenfell e Hunt, The Oxyrhynchus Papyri, I, pag. 12. Trad, di R. Fertonani in Da Saffo e Alceo, Il Saggiatore, Milano, 1939.

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Siamo venute al grande tempio di Demetra, nove, tutte vergini, tutte leggiadramente vestite: leggiadramente vestite, con collane brillanti di avorio intagliato, splendente come [neve]21. Di parecchi altri frammenti poetici non fu possibile stabilire la pater­ nità. Un notevole brano di prosa era parte di un trattato, forse di Aristosseno, discepolo di Aristotele, sulla metrica, con esempi attinti da ope­ re sconosciute. Un altro frammento, da un’opera storica, tratta in ordine cronologico di eventi della storia greco-romana dal 355 al 315 a.C. Due colonne d’una commedia perduta fanno decisamente pensare a Menandro, il maestro ateniese della commedia "nuova’'. Inoltre, il primo gruppo di testi scelti per la pubblicazione comprendeva parti di opere già note di grandi autori antichi: contributo allo studio e all’autenticazione dei testi tradizionali. Buona parte dell’Oxyrhynchus I — questo il titolo del pri­ mo volume — consiste di documenti non letterari, che vanno da una di­ chiarazione di una corporazione di operai, al conto mensile della carne fatto da un cuoco, allo scioglimento d’una promessa di matrimonio. Vo­ lumi successivi della serie misero a disposizione del pubblico molti testi fin allora perduti: una lista degli autori rinvenuti sembrerebbe l’indice dei nomi d’una storia della letteratura greca. Nella prima raccolta, Grenfell e Hunt dichiaravano: "Non è molto probabile che troviamo un’altra poesia di Saffo, ancor meno che ci capiti di mettere le mani su un altro frammento dei logia.” I fatti dovevano smentire questa predizione; i due studiosi erano piu vicini al vero quan­ do aggiungevano: "Ma non abbiamo ragione di pensare che le sorprese future debbano essere molto meno entusiasmanti di quelle passate22.” È probabile che Grenfell e Hunt fossero tentati di rimanersene a casa, dedicandosi solo al compito di curare un’edizione dei testi: il mate­ riale raccolto in una sola campagna sarebbe bastato ad assorbire per anni le loro energie. Ma per il decennio successivo, fino al 1907, quando la salute di Grenfell subì un tracollo, i due scavarono insieme in Egitto ogni inverno, dividendo il loro tempo fra lavoro attivo e studio, e in en­ trambe le cose portando un talento eccezionale.

21 Ibid., pag. 13. 22 Ibid., pag. V I.

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Capitolo IX RITORNO A OSSIRINCO ...la bellezza di Elena in un ciglio egiziano. S h a k e sp e a r e

Dal 1898 al 1902 Grenfell e Hunt tornarono a lavorare nel Fayyum. Ossirinco aveva restituito un’enorme quantità di documenti d’epoca ro­ mana e bizantina, ma i due studiosi volevano trovare documenti più an­ tichi, di età tolemaica, e il Fayyum, che si supponeva ricco di involucri di mummie, appariva come il posto migliore in cui scavare. Inoltre, Os­ sirinco era stata così sfruttata che forse i risultati non avrebbero giustifi­ cato un’altra stagione di lavoro. Nessuno degli scavi compiuti nel Fayyum diede però frutti ricchi co­ me quelli raccolti a Ossirinco fino a quando non fu scelto come luogo di operazioni il sito di Tebtunis (Urum el-Baragàt), all’estremità sud della grande depressione. Gli scavi erano finanziati dall’Università di Califor­ nia, con un lascito della signora Phoebe A. Hurst. Il sito di Tebtunis fu scelto perché, come Ossirinco, era un po’ fuori delle strade battute, in un distretto quasi inaccessibile, sfuggito quindi alle attenzioni degli sca­ vatori indigeni. Offriva anche una maggior varietà di elementi: oltre ai cumuli di rifiuti v’erano infatti case, templi, una chiesa copta, cimiteri, che tutti invitavano a una ricerca. Fra gli oggetti messi in luce dalla vanga furono scarabei, perline, amuleti deposti in tombe del Medio e Nuovo Regno. Dappertutto rimanevano testimonianze del culto locale del coccodrillo, e ne fu anzi scoperto anche un santuario. Le case in ro­ vina di Tebtunis restituirono parecchi rotoli greci in eccellente stato di conservazione, ma pochi testi letterari di qualche importanza. Anche que­ sta volta, Grenfell e Hunt rivolsero la loro attenzione al cimitero d ’epoca tolemaica, molto ampio, dove speravano di trovare un buon numero d ’in­ volucri di mummie del III secolo. Fu presto evidente che anche qui era­

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no stati al lavoro dei saccheggiatori, e inoltre umidità e salmastro aveva­ no operato molti danni; furono tuttavia recuperati circa cinquanta invo­ lucri di mummie. Anche con questi, la campagna di Tebtunis era, per il momento, un insuccesso quasi completo. Il quadro cambiò grazie a quella che doveva essere la più eccentrica fra tutte le scoperte nel campo della papirologia: una grande sorpresa aspettava gli scavatori... e poco mancò che se la la­ sciassero sfuggire. Avevano scavato a lungo nel cimitero tolemaico, che sembrava interminabile, ed erano giunti finalmente alParea riservata alle sepolture di coccodrilli, adiacente a quella delle sepolture umane. In Egit­ to, trovare coccodrilli sepolti con tutti i riguardi non ha nulla di strano, ma i ricercatori ne furono irritati: quelle strane mummie non erano al­ tro che un ingombro, un ben povero sostituto delle mummie umane, che avrebbero potuto restituire papiri in rotoli o incorporati negli involucri funerari. L ’impazienza dei due inglesi contagiò gli indigeni, uno dei qua­ li ebbe uno scatto — descritto da Grenfell e Hunt — che fece storia: “Le tombe della vasta necropoli d’età tolemaica... in molti casi con­ tenevano solo coccodrilli, e il 16 gennaio 1900 — giorno peraltro reso memorabile dal recupero di ventitré mummie della più antica età tolemai­ ca avvolte in papiro — uno dei nostri operai, furibondo di aver trovato una fila di coccodrilli là dove si aspettava che ci fossero dei sarcofagi, ne fece a pezzi uno, rivelando cosi il fatto sorprendente che l’animale era anch’esso avvolto in fogli di papiro1.” Con rinnovato entusiasmo furono quindi portati alla superficie mi­ gliaia di resti di coccodrillo di tutte le misure, “da animali adulti lunghi quattro metri a coccodrillini appena usciti dall’uovo, oltre a molte false mummie di coccodrillo che, aperte, rivelarono di contenere solo un pez-

Petizione d ’età tolemaica, 163 o 162 a.C. Dal punto di vista paleografico il corsivo greco è degno di nota per le molte le­ gature.

zetto di osso o poche uova”12. Dei molti resti scavati, solo il due per cen­ to circa era associato con papiri; però, dove i papiri c’erano, erano tanti, perché gli imbalsamatori li avevano usati non soltanto per avvolgere le 1 Grenfell, Hunt e J. Gilbart Smyly (a cura di), The Tebtunis Papyri I , Londra, H. Frowde, 1902, pag. VI. 2 Grenfell e Hunt, “A Large Find of Papyri” , Athenaeum, N. 3785, 12 maggio 1900, pagg. 600-1.

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carcasse degli animali, ma anche per imbottirle internamente. Quasi tutti i papiri erano in greco. Purtroppo si rivelarono danneggiati piuttosto gra­ vemente, tranne alcuni, lunghi e importanti benché per lo più di caratte­ re non letterario, per la maggior parte risalenti a circa un secolo e mezzo prima della nascita di Cristo. Grazie ai coccodrilli di Tebtunis le cono­ scenze paleografiche si estesero dunque a buona parte del II secolo a.C. Il valore dei papiri venne a essere molto apprezzato in anni successivi, per i dati che essi fornirono sulla storia economica, sociale e politica del­ l’età tolemaica e per il loro contributo allo studio delle leggi nell’età el­ lenistica. Al quartier generale di Grenfell e Hunt l’antico culto del coccodrillo ebbe una sorta di rinascita; l’animale divenne una specie di simbolo, e E. J. Goodspeed, un visitatore americano, riferì di averne trovato sacre spoglie in tutto il campo: persino l’interno della sua tenda era allietato dalla presenza di alcune mummie di coccodrillini. Durante il suo soggior­ no, si stava costruendo un’intera “crocodile house” .3 Nel 1902, Grenfell e Hunt intrapresero ancora un’altra campagna nel Fayyum: la loro meta era el-Hibeh, lungo il Nilo, dove dei fellahin ave­ vano trovato di recente sarcofagi di mummie di età tolemaica. Due sta­ gioni furono dedicate agli scavi in quel sito, di nuovo sotto gli auspici del Fondo per l’Esplorazione dell’Egitto. I risultati furono notevoli per l’epoca a cui risalivano i reperti (III secolo d.C.) e per il contenuto di al­ cuni di essi: v’erano, in particolare, un frammento che fu attribuito a Euripide e parte di una commedia e di un poema epico sconosciuti. Dopo el-Hibeh, i due studiosi tornarono a Ossirinco, a cui dedicaro­ no le cinque ultime stagioni di lavoro in Egitto. Gli scavi in altri siti do­ vevano avere dimostrato che nessun luogo era tanto ricco come quello; tuttavia, probabilmente in vista delle enormi quantità di papiri che Gren­ fell e Hunt vi avevano raccolto nella prima campagna, né indigeni né europei avevano pensato a condurvi altre ricerche. Solo un grosso cumu­ lo, rapidamente frugato dai due scavatori nel 1897, aveva attratto l’atten­ zione degli uomini del posto poco prima del loro ritorno. Gli scavi a Ossirinco non diedero mai più risultati cosi sensazionali dal punto di vista quantitativo come quelli della prima stagione, ma i nuovi recuperi furono della massima importanza. Quando se ne andarono per sempre, Grenfell e Hunt sapevano che il sito non aveva restituito an­ cora tutti i suoi tesori. Il loro posto fu preso da studiosi non inglesi, spe­ cialmente tedeschi e italiani; Ossirinco sembrava inesauribile. Ancora nel 1922 Flinders Petrie, divenuto una specie di patriarca della papirologia, 3 Edgar Johnson Goodspeed, “Papyrus Digging with Grenfell and Hunt” , Indepen• dent, voi. L V II, 1904, pag. 1069.

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vi trovò parecchie centinaia di frammenti, fra cui parti di inni ebraici del II o III secolo a.C.4 I “Dioscuri di Oxford” non ebbero mai motivo di rimpiangere il loro ritorno: ogni stagione fu proficua e piena di sorprese. Nel 1903-04 furo­ no trovati altri frammenti dei logia e nel 1904-05 tornarono in luce gran­ di quantità di documenti, come nei “giorni più gloriosi degli scavi del 1897”5. Tra le sorprese di quelPanno furono testi ebraici e siriaci, tavo­ lette da scrittura in legno spalmato di cera, del tipo già noto da Ercolano, e parti di una tragedia perduta di Euripide, VOineus. Anche il nostro ra­ pido resoconto non può tralasciare una scoperta vitale come quella dei Cercatori di tracce di Sofocle, uno di quei drammi satireschi che, come genere, precorsero la tragedia greca (il testo potè essere ricostruito in mi­ sura sufficiente a consentirne la messa in scena in Germania); né i pochi preziosi frammenti di Alceo e Ibico o quello più lungo di Callimaco, che era sempre stato considerato un pedante e querulo accademico alessan­ drino, e che quei versi rivelavano ora poeta di notevole originalità. La pubblicazione nel 1959 (nel venticinquesimo volume della serie di Ossirinco) di alcuni frammenti lirici forse dovuti a Simonide, il “più rimpian­ to” di tutti i poeti greci, dimostra che le sorprese non sono ancora finite. Altra opera notevole recuperata a Ossirinco fu una biografia di Euri­ pide dovuta a Satiro. Ci furono anche reperti di tale natura da rappre­ sentare una specie di supplizio di Tantalo: a esempio i cosiddetti silly boi, specie di etichette un tempo attaccate ai papiri, recanti didascalie come: “Mimi femminili di Sofrone” (Popera non si è mai trovata) o “Opere complete di Pindaro” . Tali delusioni furono compensate da frammenti più o meno lunghi, in sé di non grande valore letterario ma tuttavia pre­ ziosi, come un’epitome in latino dei libri perduti di Livio, scritta sul ver­ so di un testo cristiano, o una lista dei vincitori delle Olimpiadi, che per­ mise agli studiosi di storia dell’arte di dirimere annose controversie circa la data di alcune statue classiche raffiguranti atleti del V secolo a.C. Il nuovo documento dimostrò erronee le date attribuite a quei monumenti da taluni esperti, fra gli altri dal tedesco Adolf Furtwàngler, e rivelò che il grande periodo creativo di Policleto andava situato più addietro nel tempo di quanto si fosse pensato fin allora, il che permise di stabilire da­ te approssimative anche per l’attività di Mirone, l’autore del Discobolo, contemporaneo di Policleto. Inoltre, la lista contribuì a datare certe odi di Pindaro e di Bacchilide celebranti trionfi atletici a Olimpia, e rivelò che Bacchilide era vissuto almeno sedici anni più a lungo di quanto si credesse6. Fra gli atleti compare un pugilatore con uno strano nome: 4 Preisendanz, op. cit.y pag. 138. 5 Grenfell e Hunt, “Excavations at Oxyrhynchus” , Archaeological Reports délYEgypt Exploration Fund., Graeco-Roman Branch, 1904-5, pag. 13. 6 Hunt, “Twenty-five Years of Papyrology” , pagg. 126, 286 (“Notes and News” ).

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Anthropos. È nominato anche in Aristotele, ma siccome in greco anthro­ pos significa semplicemente “uomo” , era stato creduto una figura simbo­ lica. Grazie alla scoperta della lista si potè stabilire, due millenni e mezzo dopo la sua morte, che Anthropos era veramente esistito. Le ultime due stagioni a Ossirinco furono le piu proficue di reperti letterari. Nel 1905 Grenfell e Hunt avevano creduto che non rimanesse quasi piu nulla da trovare: i siti di età romana e del più antico periodo bizantino erano ormai pochi, e si sapeva che Pinteresse per la letteratura greca in Egitto aveva subito un brusco declino dopo il IV secolo d.C. Ma il rapporto al Fondo per PEsplorazione delPEgitto, compilato dopo la ripresa delle operazioni nel dicembre 1905, dichiarava: “La fortuna... ha riservato il suo dono più prezioso alla quinta stagione [1905-06], i cui risultati sorpassano persino quelli della prima campagna di scavi a Ossirinco nel 1897”7. Sapendo che forse non avrebbero potuto intrapren­ dere un’altra spedizione, i due studiosi avevano raddoppiato la manodo­ pera e progettato di esplorare quanto più terreno possibile, con la spe­ ranza di avere il tempo di setacciare anche strati di rifiuti tardo-bizantini che supponevano meno ricchi. Uno dei primi reperti fu un altro frammento di testo cristiano in gre­ co, un foglio di pergamena (non di papiro) da un Vangelo perduto, con la descrizione di un episodio apocrifo: una visita di Gesù al tempio di Gerusalemme. In un dialogo di tipo socratico, Gesù impegna un fariseo in una disamina dell’idea di purezza, distinguendo la purezza interiore dall’esteriorità priva di senso dei cerimoniali di purificazione. Grenfell e Hunt furono colpiti dal “raffinato stile letterario, dal colore e dal vigore della fraseologia (nel frammento ricorrono tra l’altro parole che non si trovano nel Nuovo Testamento) e dalla curiosa familiarità — non si capi­ sce bene se genuina o ostentata — con la topografia del Tempio e i riti giudaici di purificazione”8. Dopo questo primo frammento cristiano, le ri­ cerche misero in luce soprattutto testi poetici; fra gli altri, alcuni inni di ringraziamento del grande Pindaro. Parecchie volte erano stati rinvenuti a Ossirinco gruppi di documenti indubbiamente appartenuti a un solo individuo o a un solo archivio e gettati via in blocco; ma in nessuno di quei gruppi v ’erano frammenti letterari di qualche valore. Non poteva darsi che fossero state gettate via nello stesso modo un’intera biblioteca o un’intera raccolta di opere lette­ rarie? I due amici non avevano mai abbandonato la segreta speranza che si fosse verificato un evento del genere, “e il 13 gennaio,” scrissero qual­ che mese più tardi nel loro rapporto, “ci toccò finalmente la buona sorte di fare una scoperta di quella natura. Poco prima del tramonto raggiun­ 7 Grenfell e Hunt, “Excavations at Oxyrhynchus” , Archaeological Reports, 1905-6, pag. 8. 8 Ibid., pag. 9.

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gemmo, a quasi due metri dalla superficie, un punto in cui, nel III secolo d.C., era stato gettato via un cesto di rotoli di papiro di natura letteraria, fatti a pezzi. La luce andava ormai calando, e per quella sera fu impos­ sibile raccogliere tutto ciò che avevamo trovato; ma lasciammo sul posto un buon numero di sentinelle a far la guardia tutta la notte, e quanto re­ stava fu raccolto senza incidenti il mattino successivo. Come il solito, pri­ ma di essere gettati fra le spazzature i papiri erano stati strappati, ma fra centinaia di piccoli frammenti trovammo due gruppi di rotoli conte­ nenti dieci o dodici colonne di scrittura, altri rotoli che ne contenevano cinque o sei, e molti di piu con una o due colonne. Combinare i vari pez­ zi è un lavoro necessariamente lento, e non abbiamo ancora avuto il tem­ po di riunire e decifrare più di metà dei papiri trovati...9”

Sillybos (o sittybos), specie di piccola eti­ chetta, che era applicata a una raccolta perduta di tutte le opere di Pindaro.

Era già abbastanza sorprendente trovare opere letterarie gettate via intere; e qui c'erano, per di più, due lunghi frammenti poetici, da opere perdute di grandi autori antichi. Di particolare interesse circa 300 versi dei Peani di Pindaro, dei quali fino a quel momento non si conosceva quasi nulla di molto significativo: era la più lunga opera poetica ritro­ vata in Egitto dopo la raccolta di versi di Bacchilide, e non inferiore a quella come valore. Caratterizzati forse da minor magniloquenza delle altre opere di Pindaro, i Peani sono di meno difficile lettura e ci rivelano un poeta “più ricco di interessi umani, meno oscuro nelPespressione; e il mito ha meno parte in questi suoi versi che negli altri”10. L'ode a Delfi era destinata a diventar familiare a chiunque abbia un'infarinatura di let­ tere classiche. Secondo in ordine d'importanza fra i recuperi fu quello d'una parte considerevole délYlpsipile di Euripide: una parte sufficiente a consentire agli studiosi di ricostruire la trama della tragedia. Si trovarono inoltre 9 Ibid., pag. 10. 10 Grenfell e Hunt, Oxyrhynchus Papyri, Part V , pag. 12.

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frammenti di Saffo e dei poco noti Meliambi (poesie satiriche) di Cercida. Non mancarono testi in prosa, in particolare il frammento di un’ope­ ra storica fin allora sconosciuta che, come l’aristotelica Costituzione degli Ateniesi, era destinata a mettere a rumore il mondo degli studiosi di let­ terature classiche e degli storici. Si tratta di un frammento di circa 600 righe, relativo agli anni dal 396 al 394 a.C. in Grecia. Come racconto, può prendere posto accanto a Tucidide (della cui opera rappresenta chia­ ramente la continuazione) e a Senofonte, con il quale non sempre concor­ da. È generalmente noto come gli Hellenica Oxyrhynchia, e il problema della sua paternità è tuttora oggetto di vivaci polemiche, benché Eforo paia, in questo momento, il nome favorito. Queste scoperte rappresentano soltanto i risultati piu vistosi della piu fortunata stagione di Grenfell e Hunt, che Kenyon paragonò al 1891, annus mirabilis, per l’importanza delle scoperte fatte. Il paragone è tanto piu calzante in quanto, come nel 1891, anche nel 1905 furono trovati al­ trove papiri di eccezionale interesse. Il più famoso è il codice di Menandro, trovato in una tomba vicino ad Afroditopoli da Gustave Lefèbvre (studioso francese che lavorava presso il Museo del Cairo) e contenente parti sostanziali di cinque delle commedie perdute di Menandro, il model­ lo di Plauto e di Terenzio e il padre della commedia di tutti i tempi. Quando, nel 1906, Grenfell e Hunt misero la parola fine alla loro carriera di scavatori, la caccia al papiro era uscita di minorità, lo studio sistematico dei papiri greci era diventato una scienza, Ossirinco era con­ siderata la più favolosa fonte di papiri fin allora scoperta. Grazie a pionieri come Petrie, Budge, Grenfell e Hunt, l’Egitto, l’an­ tica terra dei miracoli, dei faraoni, delle piramidi e delle “piaghe” , era di­ ventato anche la terra dei papiri. Sull’importanza dei frammenti d’anti­ chi testi e documenti che giungevano in quantità crescenti agli istituti di cultura europei non potevano esserci dubbi; e l’identificazione, in quei rotoli o in quei brandelli maltrattati dal tempo e dalle infinite traversie, di frasi e versi dovuti a nomi gloriosi nella storia della letteratura e di una messe di dati sulle antiche civiltà, conferivano agli studi classici una vivacità tutta nuova. “I papiri hanno infuso nuova vita nelle vene del sa­ pere,” dichiarava il tedesco Adolf Deissmann. J. U. Powell, un collega in­ glese, sottolineava che il 1891 non solo aveva portato in luce grandi quantità di materiale nuovo, arricchendo la nostra conoscenza dell’anti­ chità classica, ma era stato l’inizio di “un’era nuova per gli studi sul mon­ do greco”11. Si aprivano nuovi campi di ricerca. A esempio, il graduale accumular­ si di papiri le cui date d’origine si scaglionavano con continuità lungo un millennio permetteva di riconoscere uno sviluppo evolutivo nella lingua 11 Powell e Barber (a cura di), op. cit., voi. I l l , pag. V.

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e nella scrittura greche. Questa documentazione paleografica — ben più vasta di quella offerta al marchese Maffei dai manoscritti latini di Vero­ na — mostrava chiaramente il formarsi di lettere unciali e minuscole dalle capitali e dalle corsive greche. L ’analisi linguistica mise anche in lu­ ce l’evoluzione del greco bizantino e individuò persino affinità con il gre­ co moderno. Naturalmente, nel primo momento d’entusiasmo l’attenzio­ ne degli studiosi si concentrò sui frammenti letterari, la cui presenza di­ mostrava che in Egitto erano circolate molte opere perdute, alcune delle quali si sarebbero potute forse ritrovare12. Quei frammenti illuminavano anche in modo nuovo la penetrazione, la diffusione e la durata dell’in­ fluenza greca nel Vicino Oriente.

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Editto tolemaico in lingua greca del III secolo a.C.

A giudicare dalle testimonianze oggi a nostra disposizione, non vi fu antico scrittore greco che, prima o poi, non fosse letto in Egitto. Ma al­ cuni autori e alcuni campi del sapere furono più favoriti di altri: non pare, a esempio, che la filosofia godesse di grande attenzione in Egitto, per lo meno nelle provincie. Platone fu, a dir vero, uno degli autori più copiati, ma i suoi dialoghi furono probabilmente apprezzati come lette­ ratura più che come opere di metafisica o di epistemologia. Di Aristotele vi sono poche tracce, eccezion fatta per la Costituzione degli Ateniesi che è un’opera storica e non filosofica. Raramente si sono trovate, fra i papiri egiziani, le opere di altri grandi scrittori greci, come Eschilo e Aristofane. È probabile che Eschilo fosse poco popolare a causa della difficoltà e su­ blimità del suo stile, e Aristofane faceva dei personaggi e dei problemi ateniesi un troppo esclusivo bersaglio del suo spirito satirico per riuscire di facile comprensione in Egitto. 12 pag. 254.

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Roberts, “The Greek Papyri”, in Glanville (a cura di), The Legacy of Egypt,

Il recupero più degno di nota nel campo della drammaturgia fu quel­ lo d’una parte notevole delle opere di Menandro nel famoso codice del Cairo già ricordato, a cui vanno aggiunti papiri rinvenuti a Ossirinco e altrove. Delle opere di Menandro, fino a quel momento si conoscevano solo pochi brani conservati in citazioni (una delle quali, si noti, è nel

“Biglietto” teatrale di osso, con la scritta “di Eschilo” . Il possessore aveva diritto a un posto nel teatro intitolato al nome del grande tragico greco.

Nuovo Testamento); le scoperte compiute in Egitto permisero agli stu­ diosi di farsi un'idea dell’arte di questo maestro della commedia nuova, che gli antichi stimavano non inferiore a Platone o Euripide. Era logico, del resto, che l’Egitto avesse avuto caro un autore cosi facile e dotato di tanto brio. Nel 1894, parecchi anni prima che se ne riscoprissero i testi, Kenyon aveva dichiarato profeticamente: “V ’erano due autori che la mag­ gior parte degli studiosi avrebbe nominato come quelli la cui perdita era M A

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T f H F A /^ js/f*r * N * r NTAACAApH M M rt* FAAA4AH W r N T ìT M C N T r T fA * Dai Persiani di Timoteo. Scrittura lapidaria irregolare, seconda metà del IV secolo a.C.

piu sorprendente, e il cui recupero appariva più probabile. Il primo era Menandro, il secondo Iperide. Per Menandro aspettiamo ancora, ma Iperide è stato il primo frutto del nuovo raccolto13.” Sempre nel campo della letteratura teatrale, forse il secondo recupero in ordine d’interesse dopo Menandro fu quello di un’opera di Timoteo 13 Kenyon, “Hyperides”, Quarterly Review, voi. 178, 1894, pagg. 532-3.

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di Mileto: una specie di libretto musicale intitolato I persiani, che non solo fece conoscere un nuovo “genere” delParte antica ma è forse il testo letterario greco più antico (IV secolo a.C.) fra i tanti rinvenuti in Egit­ to. Fu trovato nel 1902 dall’egittologo tedesco Ludwig Borchardt nella tomba di un soldato a Abu Sir, a nord dell’accesso al Fayyum. Timoteo è un esempio dell’elemento di sorpresa presente nella caccia ai papiri, che ha portato in luce, accanto a testi degli autori più famosi, quelli di autori sconosciuti o quasi. Altri esempi sono Eronda e la poetessa beota Corin­ na, contemporanea più anziana di Pindaro, che scrisse in un metro pecu­ liare a lei sola. I testi restituiti dalle sabbie egiziane arricchirono in misura sostan­ ziale la nostra conoscenza della poesia lirica greca. Fin allora, dei lirici greci si conosceva pochissimo, il che spiega l’entusiasmo per il recupero di una parte importante delle opere di Bacchilide e di Pindaro e dei fram­ menti di Saffo e d’altri. Le scoperte fatte a Ossirinco permisero anche di apprezzare Ibico, del quale furono ritrovati quaranta versi: quattro volte di più di quelli che si conoscevano fino a quel momento. Delle opere già note di cui l’Egitto restituì le copie più antiche, nes­ suna s’avvicina alla popolarità dei poemi omerici, in particolare dell ’Ilia­ de. Evidentemente questa fu e continuò a essere una specie di Bibbia greca per tutta l’età ellenistica, la romana e l’inizio di quella bizantina; ne tornarono in luce copie in tale profusione da ispirare al mite Hunt l’empia osservazione: “La popolarità del bardo è una di quelle cose che mettono a più dura prova la pazienza dello scavatore. L ’infelice vede emergere dal terreno un frammento di proporzioni inusitate, e per un momento si chiede quale nuovo tesoro abbia trovato, ma dieci volte con­ tro una è ancora e soltanto il vecchio Omero14.” In una delle prime fasi delle ricerche, Kenyon osservò che per numero di testi rinvenuti, Demo­ stene veniva subito dopo Omero; Platone era al terzo posto; Eschilo e Sofocle seguivano Euripide, con Menandro alle calcagna. Accanto a De­ mostene, tra gli oratori favoriti erano Isocrate, Lisia, Iperide; rarissimi invece i testi di Eschine. Fra gli storici, venivano ai primi posti Tucidide e Senofonte, mentre Erodoto pareva, stranamente, quasi ignorato (ma studi successivi non confermarono la scarsità di sue opere). Quanto alla poesia lirica, non doveva avere avuto molti lettori, benché pare circolas­ sero tutte le opere di Pindaro, Bacchilide e Saffo. Secondo una stima approssimativa fatta da Kenyon nel 1919, l’Egitto aveva restituito fino a quel momento circa 920 papiri di natura lettera­ ria, fra i quali circa 570 riproducevano testi già noti. Se da quest’ultima cifra togliamo un centinaio di testi biblici e patristici e circa 270 fram­ menti di Omero, rimangono solo 200 papiri contenenti frammenti di 14 Hunt, “Papyri and Papyrology", pag. 85.

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opere già note, contro i 350 papiri di opere totalmente sconosciute.15 Il fatto che il maggior numero di papiri (a parte quelli contenenti versi omerici o frammenti di testi cristiani) rappresenta opere perdute è stato ampiamente confermato dagli studi più approfonditi condotti da un ame­ ricano, Charles Henry Oldfather, nel 1922, e, in anni più recenti (1945, 1952), dall’italiana Laura Giabbani e da Roger A. Pack del Michigan. In base ai risultati delle indagini di Oldfather pare che l ’Egitto possedes­ se circa il triplo delle opere letterarie greche oggi superstiti. Siccome la stragrande maggioranza dei papiri ritrovati, come quelli di Ossirinco, ri-

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Frammento dell 'Odissea, I secolo d.C., oggi al British Museum. In contrasto con l’angolosità e la forza delle scritture d ’età to­ lemaica, questa riflette lo stile romano, arrotondato e di tratto piu leggero.

sale ai primi secoli dell’era cristiana, si può dare per certo che tutti i te­ sti esistenti allora fossero in circolazione in quel periodo; è probabile an­ zi che praticamente tutte le opere letterarie greche circolassero in Egitto per tutta l’era romana. La distruzione della grande biblioteca di Ales­ sandria nel corso della campagna di Cesare probabilmente — e contra­ riamente all’opinione popolare — non ebbe nessun effetto sulla perdita definitiva di tanta parte della letteratura classica. Un tempo si credeva che nei primi secoli dell’era volgare praticamen­ te tutte le opere non arrivate fino a noi fossero già perdute, e che quan­ do un grammatico del tempo citava, a esempio, un’opera di Euripide, at­ tingesse i versi da un’antologia e non dall’originale. Si trattava di idee errate, e le scoperte di papiri lo dimostrarono. Inoltre, se nelle provincie egiziane circolavano tante opere letterarie greche a una data relativamen­ te tarda, quante di più dovevano essere in circolazione nei grandi centri 15 Kenyon, “Greek Papyri and Their Contribution to Classical Literature” , pag. 3.

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urbani deirimpero dove si parlava la lingua greca: a Alessandria, Efeso, Antiochia, Atene o anche Roma? I papiri di contenuto letterario offrono anche qualche indizio del de­ clino della letteratura greca, cosi come testimoniano della sua popolarità e longevità. Oggi è certo che almeno in Egitto il numero delle copie disponibili di opere letterarie greche e la loro circolazione cominciarono a diminuire relativamente tardi. Senza cercar di individuare le cause prime, possiamo dire che il declino nel numero e nella circolazione dei testi letterari greci diventò netto nel periodo del riconoscimento ufficiale del cristianesimo (IV secolo d.C.), che per il medio e alto Egitto coincise con un grave re­ gresso economico e con una drastica riduzione delle aree coltivate. Non è detto per questo che dobbiamo trovarci d'accordo con Gibbon quando parla di “trionfo della barbarie e del cristianesimo” . Civiltà e amore per le lettere non stavano semplicemente morendo; piuttosto, come osser­ vava giustamente A. S. Hunt, ‘Tuomo di buoni sentimenti tendeva a so­ stituire Saffo con i Salmi e a soddisfare il suo gusto per la storia e per il romanzo con le vite dei santi e dei martiri”16. L'ultimo capitolo nella sto­ ria dell'Egitto greco-romano non conobbe interruzioni brusche; il codice di Menandro, a esempio, e papiri contenenti poesie di Saffo e di Pindaro — nessuna delle quali fu nota al Medioevo — furono rinvenuti in depo­ siti bizantini del VI e V II secolo, e il greco continuò a essere parlato nel periodo del predominio arabo. Poterono esserci anche altri fattori di continuità tra vecchio e nuovo, per esempio opere di fisica scritte in gre­ co dopo la conquista araba, basate su Aristotele e preannuncianti le dot­ trine dei filosofi arabi e dei loro successori, gli scolastici europei17. In fatto di recuperi la sorte migliore toccò al teatro; ma se pensiamo che sulle 113 tragedie che la tradizione attribuisce a Sofocle ne sono so­ pravvissute 7, e 18 sulle 92 di Euripide (per non parlare dei molti autori drammatici che gli antichi giudicavano quasi eguali a questi due, come Agatone, noto soltanto perché compare nel Simposio di Platone) ci ren­ diamo conto che le lacune sono ancora enormi. Eupolis, atque Cratinus, Aristophanesque poetae, Atque alii... Questi versi latini sui maestri della commedia “antica” ci ricordano che di loro possediamo ben poco; l'unico abbastanza ben rappresentato è Aristofane, con tredici commedie che però non sono probabilmente le sue migliori. Dei suoi eguali, Eupoli e Cratino, rimangono solo pochi 16 Hunt, “Papyri and Papyrology” , pag. 84. 17 Roberts, “The Greek Papyri” , in Glanville (a cura di), The Legacy of Egypt, pag. 261.

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frammenti. E gli altri? Si crede che fossero circa 170, e della maggior parte di loro non conosciamo assolutamente nulla. Un discorso piu o me­ no dello stesso genere si potrebbe fare per la commedia “nuova” , la filo­ sofia presocratica, le opere di Democrito e quelle di grandi storici come Ecateo (cui Erodoto deve molto) e Teopompo, del quale possediamo sol­ tanto un paragrafo (a meno che vadano assegnati a lui i frammenti di contenuto storico rinvenuti a Ossirinco). Da un punto di vista numerico le perdite nel campo della letteratura latina sono altrettanto disastrose, benché siano forse meno da deplorare sul piano qualitativo. Eppure i libri perduti di Livio sono stati oggetto delle più ansiose ricerche; e chi non darebbe una fortuna per le memorie di Adriano? Quali sono oggi le prospettive per Pavvenire? Ritrovamenti d’entità favolosa come quelli compiuti da Grenfell e Hunt nei dieci anni a Ossi­ rinco non se ne sono verificati più, e sin dallo scoppio della prima guerra mondiale la caccia al papiro ha perso molto del suo impeto; si sono avu­ te soltanto brevi campagne, con risultati modesti. Anche negli ultimi de­ cenni, le scoperte più sensazionali, come quelle di Chenoboskion, sono avvenute per puro caso. (Pare che nessuno conosca la provenienza del Dyskolos di Menandro, Punica opera compiuta recuperata in Egitto, ac­ quistata da Martin Bodmer, il collezionista svizzero, presso un mercante, e pubblicata per la prima volta nel 195818.) Tuttavia il numero di papiri recuperati e le raccolte di testi presso le università d’Europa e di tutto l’emisfero occidentale continuano a crescere. Vi fu un tempo in cui le possibilità di scoperte letterarie in Egitto parvero illimitate. Ossirinco aveva mostrato che cosa si poteva fare: Me­ nandro, Aristotele, Iperide, Bacchilide erano veramente recuperi di prim’ordine. I cumuli di rifiuti sembravano inesauribili; mummie di cocco­ drilli, involucri di mummie umane, vasi pieni di rotoli continuavano a re­ stituire preziosi frammenti. Ma intervenne la guerra, due guerre anzi, i salari degli indigeni aumentarono, le fondazioni esitarono, le leggi egi­ ziane misero il blocco all’esportazione di papiri, uomini come Grenfell e Hunt non allevarono successori, i papirologi, un pugno d’uomini, ave­ vano di che occupare tutto il loro tempo senza muoversi da tavolino, se volevano studiare i papiri già raccolti. In Egitto tornò in primo piano quel tipo di archeologia a cui interessa la pietra più che la carta; e colse anzi un grande trionfo quando Carter aperse la tomba di Tutankhamen, nel 1922. Nessuna scoperta di papiri negli anni venti potè reggere al pa­ ragone con il ritrovamento del mausoleo colmo di tesori del faraone ado­ 18 Victor Martin (a cura di), Papyrus Bodmer IV. Ménandre: Le Dyscolos} ColognyGinevra, Biblioteca Bodmeriana, 1958, pag. 7. V. anche Gilbert Highet, “ ‘The Dyskolos’ o£ Menander” , Horizon> voi. I, N. 6, luglio 1959, pagg. 78-89.

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lescente. La papirologia ha conservato tuttavia la sua vitalità, e una rina­ scita dell'interesse per i papiri potrebbe essere imminente. Proprio quando si era giunti a credere che PEgitto fosse Punico pae­ se in cui potessero esistere depositi di papiri e codici pergamenacei con­ tenenti opere classiche perdute, cominciò a emergere la possibilità di ri­ trovamenti in altre aree per le quali tale possibilità era stata esclusa o che non erano mai state prese in considerazione sotto quel punto di vista, co­ me la Palestina, la Mesopotamia settentrionale, l'Asia Minore. Nessuno può dire che cosa abbia in serbo il futuro e dove possano tornare in luce una tragedia perduta o lo studio enciclopedico dell’imperatore Claudio sugli Etruschi, benché le probabilità rimangano sempre favorevoli al­ l'Egitto. Mentre questo libro era in preparazione, anche il suo autore da­ va per certo che, con l'eccezione di Ercolano, il suolo d'Europa, intriso di pioggia, non poteva aver conservato manoscritti antichi; invece nel gennaio 1962 una tomba a nord-ovest di Salonicco, aperta nel corso di lavori per la costruzione di una strada, restituì papiri parzialmente bru­ ciati (nel che sta appunto la ragione della loro sopravvivenza) ma leggi­ bili: gli unici papiri leggibili che siano mai stati rinvenuti in Grecia. Appaiono più antichi dei documenti greci ritrovati in Egitto: è molto pro­ babile che risalgano a una data anteriore alla nascita di Alessandro e, a quanto dicono le prime notizie, riguardano miti religiosi orfici.19 Sta per aprirsi una nuova stagione di scoperte di manoscritti nella stessa Grecia?

19 Haràlambos Makarónas, “The Dherveni Crater” , Greek Heritage, voi. I, N. 1, inverno 1963, pag. 5.

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Capitolo X LIBRI SENZA COPERTINA Certe lettere familiari, scritte da testimoni dei fatti, che senza alcun disegno deliberato ci rivelano circo­ stanze grazie alle quali acquistiamo una più intima co­ noscenza di eventi importanti, sono storia vera e pro­ pria, e, nei loro limiti, più illuminanti di un racconto formale e premeditato. H orace W a l p o l e 1

“Per quanto paradossale questo debba apparire a molti, mi sia con­ cesso di dire che i papiri non letterari sono più preziosi per lo storico di quelli letterari. Siamo felici... quando il suolo egiziano restituisce anti­ chi testi, o frammenti di essi, specialmente quando si tratta di capolavori letterari perduti. Ma da un punto di vista scientifico il vero tesoro nasco­ sto nella terra egiziana non sono tanto Parte e la letteratura antiche... quanto la vita antica, presente e tangibile, che aspetta di essere restituita al mondo12.” L ’uomo che scriveva queste parole, allora eretiche, era un teologo tedesco, Adolf Deissmann. Fu Deissmann che più d’ogni altro richiamò l’attenzione sui papiri non letterari che venivano riportati in luce in tanta profusione e per i quali gli studiosi avevano fin allora dimo­ strato cosi poco interesse. Un nuovo verso di Saffo, una scena delle com­ medie perdute di Menandro: questo cercavano. La lettera del tutto priva d’eleganze stilistiche in cui un contadino greco-egiziano si lamentava del­ 1 Da una lettera a Sir John Fenn, 29 giugno 1784, citata in Betty Radice (a cura di), The Letters of the Younger Pliny, Harmondsworth, Middlesex, Penguin Books, 1963, pag. 9. 2 Adolf Deissmann, Light from the Ancient Last. The New Testament Illustrated by Recently Discovered Texts of the Graeco-Roman World, ed. riv., Londra, Hodder & Stoughton, 1937, pag. 39.

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l’agente delle tasse, o il contratto per Paddestramento d’uno schiavo era­ no trattati con condiscendenza sprezzante. I frammenti letterari furono, nel complesso, pubblicati piuttosto rapidamente; gli altri umili documen­ ti della vita quotidiana, che costituivano piu del novantacinque per cen­ to di tutti i papiri, potevano aspettare. Adolf Deissmann era un giovane insegnante incaricato presso una pic­ cola università protestante quando, poco dopo il 1890, si trovò per caso a esaminare, nella biblioteca di Heidelberg, un volume in facsimile della raccolta di papiri esistente a Berlino. Come è avvenuto nel caso di tante scoperte semplici ma rivoluzionarie, la sua fu una specie di illuminazione improvvisa: bastò una rapida scorsa a quei documenti per metterlo sulla

Lettere su papiro rinvenute in Egitto.

via d’una valutazione nuova dei papiri non letterari. A questo giudizio nuovo, Deissmann approdò attraverso la soluzione di un annoso pro­ blema neotestamentario. Teologi e filologi si chiedevano da molto tempo quale strano tipo di greco fosse quello usato nel Nuovo Testamento: sin­ tassi, stile, significato delle parole e molti vocaboli differivano talmente dal dialetto attico usato dagli scrittori antichi e dai loro imitatori di epo­ che successive da sembrare quasi un’altra lingua. Lo strano idioma era stato battezzato “greco biblico” o “greco neotestamentario” ; alcuni lo chiamavano “greco ebraico” perché — abbastanza plausibilmente — le sue singolarità venivano messe in rapporto con le origini semitiche della religione cristiana e con il fatto che Cristo e gli Apostoli avevano parlato un dialetto aramaico. Si pensava, in altre parole, che il greco del Nuovo Testamento riflettesse l’adattamento di un altro idioma ai pensieri e alle abitudini linguistiche di stranieri, mai diventati perfettamente padroni della lingua greca. Friedrich Nietzsche, con il disdegno tipico degli stu­ diosi di letterature classiche per questo idioma che si credeva ibrido, esclamava: “Strano che Dio abbia trovato necessario imparare il greco per comunicare con l’uomo, e che lo abbia imparato cosi male3.” Meno * James Underhill Powell e Eric Arthur Barber (a cura di), op. cit., voi. II , pag. 138.

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empiamente, un altro studioso tedesco vedeva nel greco della Bibbia la ‘lingua dello Spirito Santo”4. A questo punto era il problema quando il giovane Deissmann audace­ mente negò sia il supposto ibridismo sia l’ipotesi di un’ispirazione divina, dichiarando che un greco “biblico” non era mai esistito e che la lingua usata da Paolo e dagli evangelisti era praticamente la stessa usata dalle popolazioni di lingua greca nel Mediterraneo orientale, la stessa dei do­ cumenti papiracei non letterari: il greco vivo, il greco parlato del tempo, inevitabilmente diverso, per sintassi e vocabolario, dal linguaggio formale della tradizione letteraria. Il vernacolo, respinto come mezzo letterario dagli autori ellenistici, era stato invece oculatamente adottato dagli scrit­ tori cristiani: solo scegliendo la lingua quotidiana del mondo civile il cri­ stianesimo poteva diventare una religione mondiale. La presa di posizione di Deissmann ebbe un’eco poco meno clamorosa di quella che doveva avere, cinquantanni dopo, l’identificazione a opera di Michael Ventris del Lineare B con il greco pre-omerico. La lingua quotidiana dei papiri non letterari e del Nuovo Testamento (nonché, in misura considerevole, della versione dei Settanta) era la koiné; idioma dotato d ’una freschezza, d ’una limpidezza, d’un calore mirabilmente adatti alla natura del messaggio cristiano e all’umile gente in mezzo alla quale la nuova religione fece i suoi primi proseliti. Di quasi tutte le parole “esotiche” (che costituiscono un dieci per cento circa dei circa 5.000 vocaboli greci usati nel Nuovo Testamento) si trovò un ri­ scontro in vocaboli usati nei documenti papiracei. Identici paralleli si poterono istituire per le peculiarità sintattiche e grammaticali. Questa sco­ perta determinò un nuovo modo d’intendere il testo originale, con ine­ vitabili e profondi effetti su tutte le future traduzioni della Bibbia. Naturalmente, agli studiosi di letterature classiche il greco del Nuovo Testamento poteva apparire soltanto come una forma deteriorata del greco di Platone o di Demostene. Ci voleva un teologo, che era nello stesso tempo un cultore di filologia greca animato da un profondo inte­ resse per l’ambiente storico in cui si era svolta la vita del mondo antico — greco-romano-bizantino-cristiano — , per dare un orientamento nuovo insieme allo studio del greco e a quello del Nuovo Testamento. Il giovane teologo aveva avuto precursori. Già i decifratori della Carta Borgiana, alla fine del XVIII secolo, avevano avvertito una certa corrispondenza verbale con il Nuovo Testamento; e si attribuisce a un ecclesiastico inglese, il vescovo Lightfoot, questa osservazione (del 1863): “Se soltanto potessimo recuperare lettere che persone comuni si scrivevano senza darsi alcun pensiero dello stile, ne avremmo il piu 4 Richard Rothe, Zur Dogmatik, Gotha, F. A. Perthes, 1863, pag. 238, citato in John Finegan, Light on the Ancient Past, Princeton, Princeton University Press, 1946, pag. 330.

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grande aiuto possibile per la comprensione della lingua del Nuovo Te­ stamento in generale5/' Ma si trattò soltanto di intuizioni isolate, che non trovarono fra gli studiosi del tempo un seguito sufficiente perché si potesse lavorare in modo sistematico su quella traccia. Nessuno misedn causa le teorie tradizionali sul “ greco del Nuovo Testamento ” , e anche dopo la presa di posizione di Deissmann ogni tentativo di “ secolarizza­ re” la Bibbia continuò a essere visto come sacrilego da molti ecclesiastici. Deissmann, diversamente dai suoi precursori, ebbe la possibilità di far conoscere le sue brillanti intuizioni. Presto chiamato a occupare una cat­ tedra dell’Università di Berlino, riconosciuto come il massimo teologo tedesco dopo Harnack, ripetutamente invitato da università americane e inglesi a tenere cicli di conferenze, rimase il più fervido sostenitore del­ l’importanza dei papiri non letterari. Su questo tema scrisse parecchi li­ bri, fra i quali va ricordato in particolare Luce dalVOriente. Il Nuovo Testamento e i testi recentementi scoperti del mondo ellenistico-romano [Licht von Osten. Das Neue Testament und die neuentdeckten Texten der Hellenistisch-romischen Welt, 1908]. Benché entusiasta come tutti per il recupero dei logia, le parole perdute di Gesù, benché uomo di cul­ tura, per il quale il ritrovamento di testi classici significava molto, Deiss­ mann continuò a difendere la propria convinzione che i dati forniti dai papiri non letterari fossero più preziosi. I suoi giudizi sono oggi univer­ salmente accettati, nonostante si riconosca la presenza di alcuni “semitismi” nel Nuovo Testamento greco (lo stesso Deissmann ammise la pos­ sibile esistenza di un originale aramaico del Vangelo di Matteo). Per Deissmann, la prova che i primi cristiani avevano vissuto l’esi­ stenza della gente comune nel mondo greco-romano e ne avevano par­ lato la lingua fu poco meno che una rivelazione. Il quadro in cui si svolse l’apostolato di Cristo fu dunque il mondo quotidiano dell’uomo comune in Oriente al tempo dell’impero romano. Ricostruire tale quadro era possibile grazie ai papiri non letterari; e questi, proprio per la loro umiltà, acquistarono un significato che superava di gran lunga il loro interesse ai fini di una storia del cristianesimo. Quei documenti sono veramente “ i brevi e semplici annali dei poveri ” dell’antichità. Buona parte del loro valore e del loro fascino derivano dal fatto che non furono scritti avendo in mente un pubblico e quindi non hanno nulla di quell’affetta­ zione e artificiosità che contraddistinguono molti sforzi letterari più consapevoli. Le lettere, in particolare, non possono certo vantare l’ele­ ganza degli epistolari di Plinio il Giovane o di Lord Chesterfield o di Rilke; in compenso hanno un tono autentico, una consolante spontaneità. Come documentazione della storia anonima di un’epoca, i papiri non let­ terari sono quel che di meglio si possa desiderare; presentano “la varietà 5 Powell e Barber, op. cit., pag. 137.

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della vita stessa”6, e benché sia diventata pratica comune distinguerli in documenti ufficiali e privati, la distinzione non può essere mantenuta troppo rigidamente. Si classificano come ufficiali vari documenti legali, quali ricevute di tasse, catasti, atti di vendita, concessioni, documenti re­ lativi a prestiti, petizioni, ipoteche, contratti di matrimonio, certificati di morte, registrazioni di divorzi, inventari, denunce, decreti governativi. Testi magici e oroscopi costituiscono un nutritissimo gruppo a sé. Vi so­ no anche molti documenti privati e personali, esercizi di scolari (alcuni sono copie di testi letterari perduti), diari, appunti e, più godibili di tutti, moltissime lettere.

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C # “ ‘ =r* Lettera su papiro dell’Egitto ellenistico. Contiene una richiesta di sostanze medicinali, che dovevano essere spedite da Alessan­ dria. I secolo d.C.

Quasi ogni frammento getta nuova luce sul paese, sull’età, sulla gente; ve ne sono che illuminano le passioni, le debolezze, le difficoltà, i litigi, le virtù di uomini e donne dell’antichità. Un uomo scrive di aver fatto un brutto sogno, in cui si è visto assalito da uno schiavo fuggiasco; un altro racconta d’un imbroglione che è riuscito a derubare sua madre di uno stipendio. Un giudice condanna un criminale rimproverandolo: “ Mi sembra che hai l’anima non di un uomo ma di una belva; anzi, nemmeno quella7. ” Oppure, in uno dei documenti di Ossirinco, un uomo riferisce di avere trovato, al suo ritorno da Alessandria, che la sua casa e quella di un amico sono state perquisite e che vi sono stati arresti in massa di personaggi altolocati; evidentemente, i colpi alla porta nelle prime ore del mattino non sono un’invenzione del moderno stato poliziesco. Una 6 Deissmann, op. cit., pag. 36. 7 W. G. Wadell, The Lighter Side of the Greek Papyri, Newcastle, Cutter, 1932, pag. 19.

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altra nota perenne risuona nelPammonimento pedagogico trascritto da uno scolaro: “ Datti da fare, figliolo, altrimenti ti peleranno vivo8 un’altra ancora, nella richiesta di trasferimento d’un soldato, che vorrebbe lasciare lo sperduto avamposto sul Mar Rosso dove l’hanno cacciato. Ai documenti privati si mescolano spesso comunicazioni ufficiali. Un papiro di el-Hibeh potrebbe fornire dati sull’organizzatissimo servi­ zio di posta locale, e una lista dei poveri di una cittadina rivela che gli abbienti avevano l’obbligo di contribuire al sostentamento dei loro fra­ telli meno fortunati. In uno dei molti documenti di Ossirinco riguardanti piu o meno direttamente la religione, un uomo mette in chiaro i suoi rapporti con la divinità: “ Si sappia che non presterò la minima atten­ zione al dio se prima non mi sarà restituito mio figlio9. ” Un altro esprime in termini anche piu energici le sue concezioni religiose: " Gli dei non hanno avuto riguardi con me, e io non avrò riguardi per gli dei101. ” Fa contrasto la pia asserzione di un credente: “ È Zeus colui che ci dà il pane quotidiano11. ” Come quest’ultima frase, molti papiri ci rammentano il Vangelo. Ben­ ché riflettano concezioni religiose diverse, rivelano la stessa forza morale, e vi ritroviamo personaggi che abbiamo già incontrati altrove: il prefetto romano, l’esattore delle tasse, l’usuraio, il ladro, il prodigo, e ancora una folla di soldati, contadini, scribi, artigiani, schiavi. Ma queste concor­ danze ci dicono ancor poco sull’importanza dei documenti egizi per lo studio del cristianesimo primitivo. Abbondano i frammenti di testi cri­ stiani canonici e non canonici (inni, omelie, scritti apocrifi, Vangeli “ per­ duti ” ), e alcuni documenti non letterari ci illuminano la tradizione cri­ stiana. Un dato risultante da uno fra i papiri più noti riguarda però solo indi­ rettamente la storia del cristianesimo. Si tratta di un documento legale dell’88 d. C., in cui un prefetto romano dice a un colpevole: “ ...merite­ resti di essere flagellato... ma ti regalo alla folla, dimostrandomi più mi­ sericordioso di te12.” Torna subito alla mente l’episodio evangelico di Barabba, liberato nello stesso modo da Pilato; e ne risulta che “ donare ” un condannato al popolo era una diffusa pratica romana. Un’altra testimonianza indiretta è fornita da un papiro che riguarda il censimento romano del 104 d. C. e contiene l’ordine delle autorità che tutti tornino alle città d’origine. Anche questo ci ricorda come, prima della nascita di Gesù, Maria e Giuseppe si recarono a Betlemme per il 8 Ibid., pag. 4. 9 Bell, “The Historical Value of Greek Papyri” , Journal of Egyptian Archaeology, voi. V I, 1920, pag. 243. 10 Ibid. 11 Wadell, op. cit., pag. 18. 12 Roberts, “The Greek Papyri” , in Glanville (a cura di). The Legacy of Egypt, pag. 265.

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censimento ordinato dalle autorità romane; una volta di piu risulta dimostrata la verità storica di un particolare del Nuovo Testamento. Inoltre, papiri datati hanno dimostrato che i censimenti si succedevano a intervalli di quattordici anni, il che ha permesso di fissare la data pro­ babile della nascita di Cristo. Parecchi documenti rinvenuti in diverse parti d'Egitto rivelano l'e­ spansione del cristianesimo; una certa reticenza in alcuni indubbiamente cristiani è forse l'indizio di persecuzioni. La più chiara prova della re­ pressione romana nei confronti della nuova fede, in particolare sotto l'imperatore Decio, è fornita dai cosiddetti libelli, certificati che le auto­ rità imperiali rilasciavano agli individui sospetti dopo che questi avevano partecipato a sacrifici pagani. Una dichiarazione di questo genere, com­ pilata nel 250 d.C. da un certo Aurelio Gaione a Ossirinco, è cosi con­ cepita: “ Non ho mai mancato di celebrare sacrifici e fare libagioni e rendere omaggio agli dei in accordo con i decreti divini; ora in tua pre­ senza ho sacrificato e fatto libagioni e assaggiato le offerte insieme con Taos mia moglie e con Ammonio e Ammoniano miei figli e con Tecla mia figlia, rappresentati da me, e ti chiedo di autenticare la mia dichiarazione... 13 . Altri documenti riguardano l’organizzazione e l’espansione della Chie­ sa (a esempio un veterano dell'esercito romano, nel IV secolo, lascia per testamento metà dei suoi beni alla “ santa Chiesa ” ), il sorgere del mona­ cheSimo, la vita privata degli adepti della nuova fede in Egitto. Tutti contribuiscono a arricchire il quadro delle origini cristiane. A un'altra categoria appartengono i molti documenti che attestano il fascino esercitato sugli egizi non solo dai numerosi culti misterici ma anche da eresie cristiane come lo gnosticismo, del quale negli ultimi de­ cenni si sono recuperati molti testi. Parecchi papiri riflettono il nascente spirito di crociata e l'intolleranza dei cristiani di fronte a un rivale popo­ lare come il manicheismo. Su aspetti della storia dell'epoca, come la vita religiosa dell'Egitto greco-romano, i papiri forniscono dati a non finire; lo stesso si dica per l'educazione, la posizione della donna, la situazione degli ebrei o la colonizzazione greca, per nominare solo alcuni degli ar­ gomenti che sono stati trattati in monografie. Ma, nonostante questa ricchezza di documenti, la storia politica d'un millennio nell'Egitto ellenizzato riceve relativamente poca luce dai pa­ piri, in quanto questi tendono a presentare gli eventi dal punto di vista della gente comune nella sua esistenza quotidiana più che da quello del politicante o del cronista politico. Tuttavia, alcuni dati contenuti nei papiri hanno “ statura ” storica. Per citare sempre a caso: un papiro ha permesso di stabilire che nel 170 a. C. l’Egitto fu invaso dai Seleucidi13 *

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13 Hunt e C. C. Edgar (a cura di), Select Papyri, Cambridge, Mass. Harvard University Press - Loeb Library, 1932, voi. II, pag. 318.

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di Siria, che deposero il re tolemaico. Le carte private di un amministra­ tore locale del II secolo d. C. hanno fornito dati importanti su quella rivolta ebraica, alla fine del regno di Traiano, che si diffuse in Egitto e rese necessarie misure militari contro gli “ebrei senza Dio ”14. Sono abbastanza numerose le allusioni politiche risalenti al periodo romano. Di particolare interesse editti rivolti agli alessandrini dal Ger­ manico, nel 19 d. C., che esprimono preoccupazioni per gli onori divini resigli durante il suo soggiorno, onori che spettavano solo all’imperatore regnante Tiberio. Germanico temeva a ragione di suscitare la gelosia delPimperatore e di mettere in pericolo la propria successione al trono; di fatto, mori di li a non molto in circostanze misteriose. Il famoso editto delPimperatore Caracalla del 242 d. C., la Constitutio Antoniana> che con­ feriva la cittadinanza praticamente a tutti gli abitanti (peregrini) dei domini romani, si può ora leggere in una versione quasi completa. Per il tempo dell’imperatore Diocleziano, i papiri forniscono dati sul suo disperato tentativo di riformare la struttura finanziaria e amministrativa dell’impero ormai avviato al crollo. Un funzionario in Egitto ebbe notizia di una prossima svalutazione del denaro prima che fosse attuata e accor­ tamente si cautelò contro l’inflazione ordinando a un mediatore di “ spen­ dere tutto l’argento italiano che possiedi in acquisti, in mio nome, di mercanzie di qualsiasi genere, a qualsiasi prezzo le trovi15” . Quando si tratta di eventi meno importanti, o di tendenze a lunga scadenza, i papiri sono molto più espliciti; il loro succedersi senza inter­ ruzione conferisce al passato un movimento pieno di vitalità. Per usare le parole di F. G. Kenyon, il valore dei papiri non letterari sta “ non tanto nella rivelazione di fatti di primo piano, quanto nell’accumulo di piccoli particolari che in sé non hanno nulla di sensazionale, ma colletti­ vamente formano la base su cui lo storico può fondare le sue induzioni ”16. Sulla base di questa ampia documentazione cumulativa gli storici moderni non hanno avuto difficoltà a ricostruire l’organizzazione ammini­ strativa delle provincie egiziane durante tutte le fasi del dominio tole­ maico e romano. Quasi tutti i dati derivano dai papiri. Da questi sappia­ mo che il potere assoluto tolemaico, per lo meno quando fu esercitato dai primi, capaci sovrani, restituì all’Egitto una notevole prosperità e potenza. Fu creato un sistema monetario e bancario, si costruirono granai di stato, si concessero monopoli (di quello dell’olio tratta ampiamente il Papiro delle Entrate di Grenfell, pubblicato nel 1896). Lo stato fissava i prezzi e controllava la coltivazione e la vendita dei prodotti. I romani trasformarono il sistema tolemaico in uno di puro sfruttamento. Intorno 14 15 16 British

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Roberts, op. cit.y pag. 277. Ibid., pag. 273. Kenyon (a cura di), Classical Texts from Papyri in the British Museum..., Londra, Museum, 1891, voi. I, pag. vn.

al 60 d. C. un esattore di tasse locale riferiva che la popolazione di sei villaggi del Fayyum, “ un tempo numerosa, si è oggi ridotta a poche per­ sone, perché alcuni sono fuggiti per mancanza di mezzi, e altri sono mor­ ti senza lasciare parenti ”17. Intorno alla metà del III secolo d. C. la decadenza dell'Egitto diventò anche troppo evidente. Vari centri abitati vennero abbandonati dall'in­ tera popolazione (il che, tra l’altro, rese possibile la conservazione dei cumuli di rifiuti e di avanzi d'ogni genere), i canali d'irrigazione rima­ sero senz'acqua per mancanza di manutenzione, il latifondo prevalse a spese del coltivatore indipendente, ridotto alla condizione di servo, i contribuenti fuggirono, il denaro si svalutò. Il brutale intervento dello stato non servi solo ad accelerare il declino: i rimedi prescritti erano peggiori del male.

Il nome “Tolomeo” , scritto in caratteri demotici e geroglifici.

Fra tutti i documenti sopravvissuti dell'Egitto ellenizzato, quelli che meglio ci illuminano la caleidoscopica scena sono i contratti, innumerevoli. La lunga serie comincia con il piu antico fra tutti i papiri egizi, un contratto di matrimonio stipulato nell'anno 312/11 a. C. (“ Nel settimo anno del regno di Alessandro, figlio di Alessandro, quattordicesimo anno della satrapia di Tolomeo [Tolomeo Sotere, che mori nel 305 a. C .], nel mese di Dios. Contratto di matrimonio fra Eraclide e Demetria... ” )18, e continua fin oltre l'avvento degli arabi; ma a quel tempo il greco in Egitto era già una lingua avviata a scomparire. La ricchezza numerica e la varietà di contenuto di questi papiri hanno determinato lo sviluppo di un'intera branca di studi, nota come “ pa­ pirologia giuridica ” . I greco-egizi avevano l'abitudine di suggellare con un contratto quasi ogni accordo o transazione; ciò spiega la quantità di documenti riguardanti matrimoni, divorzi, adozioni, testamenti, atti di vario genere, assunzione di musicanti, istruzione dei bambini da parte di insegnanti di professione, e via di seguito. V'è persino un documento legale riguardante l'abbandono di un bambino indesiderato, da parte del­ la futura suocera di una vedova. Un altro documento riguarda l'assun­ zione di un musicante che un viticoltore prende al suo servizio perché suoni durante la vendemmia: evidentemente non per divertire i vendem­ 17 Bell, Egypt from Alexander to the Arab Conquest, Oxford, Clarendon Press, 1948, pag. 77. 18 Hunt e Edgar, op. c i t voi. I, pagg. 3-5.

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miatori ma per far lavorare a ritmo, senza rallentare, gli uomini che pigiano l’uva.19 Un contratto di apprendistato comprende una clausola speciale con cui il padrone si cautela contro la naturale tendenza del ra­ gazzo a “ bigiare “ Se il ragazzo non si presenterà al lavoro durante il periodo di apprendistato, il padre lavorerà in luogo suo un numero di giorni pari a quello dei giorni persi dal ragazzo, o pagherà una multa d ’una dramma al giorno per ogni giorno perduto20. ” Documenti come questi, per quanto umili, anzi proprio perché umili, ci restituiscono il sapore e il colore di quell’antica vita. Si potrebbe parlare a lungo delP“ umanità comune ” che unisce l’uomo moderno ai coloni greci e agli egizi indigeni di duemila e più anni or sono. Ma i papiri non letterari rischiarano anche in particolari precisi e concreti la verità, Pevoluzione, il carattere singolarissimo, il quadro storico dell’Egitto ellenistico. Quei frammenti ingialliti ci dicono, a esempio, che ancora nel 359 d. C. si tentò di ristabilire rapporti commer­ ciali con l’India;21 che in una zona i campi di cereali dovettero essere circondati con reti per proteggerli dalle gazzelle; che dopo una genera­ zione o due, nelle colonie greche, i nuovi venuti adoravano come gli in­ digeni i coccodrilli del Nilo e combinavano matrimoni tra fratello e so­ rella. Usavano anche bottiglie piene di acqua calda, come oggi le nostre nonne artritiche. Gli studiosi si sono impegnati in minuziose interpretazioni dei papiri, ma parecchi di questi sono chiari anche per l’uomo comune dei nostri giorni. Le più vivaci sono le lettere, che offrono al lettore una visione ravvicinata del dramma dell’esistenza umana duemila anni or sono. In queste lettere tornano a vivere uomini forse dimenticati dai parenti pochi anni dopo la morte; e ci par di vedere l’ammiccare dei loro occhi, il loro sgomento o il loro dolore o il loro orgoglio. Li vediamo camminare a gran passi nei campi, controllando il lavoro degli schiavi; li vediamo carezzare un figlioletto o rimproverarlo. Il magico potere della parola, affidato a poche decine di simboli, è forse ciò che più si approssima al­ l’immortalità. Le lettere non sono tutte di anonimi. Vi sono, per esempio, i celebri papiri di Zenone, che gli indigeni rinvennero nel 1915 tra le rovine di una città del Fayyum, dopo che cercatori tedeschi se ne erano andati a mani vuote. Disgraziatamente questi papiri, divisi fra gli scavatori, finiro­ no dispersi fra vari istituti in Egitto, in Europa e in America; la maggior parte raggiunse tuttavia l’Italia, dove nel 1917 ne fu iniziata a Firenze la pubblicazione, subito riconosciuta come un evento di primaria im­ 19 Wadell, op. cit.y pag. 14. 20 Ibid., pag. 4. 21 Roberts, op. cit.y pag. 270.

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portanza nel mondo degli studi. I papiri sono particolarmente preziosi per la loro antichità: risalgono alla seconda parte del III secolo a. C. Inoltre, rappresentando l'archivio privato di un'unica persona, posseg­ gono una rara compattezza e completezza. Sparsi fra le lettere vi sono documenti privati, e altri di natura politica che ci portano addentro nei circoli di corte e assai vicino al trono; parecchi hanno aiutato gli studiosi a ricostruire la cronologia del primo periodo tolemaico.22 Probabilmente nessun'altra raccolta di documenti egizi non letterari è stata studiata cosi a fondo; probabilmente su nessuna si è scritto tanto. I corrispondenti di Zenone vanno da Apollonio, ministro del faraone, ad agricoltori, arti­ giani, sottufficiali e porcari. Troviamo, per esempio, la protesta di un co­ lono contro un burocrate prepotente: “ Quanto a me, oltraggiami e arre­ stami, se puoi. Io cercherò di difendermi; ma permettimi di dirti che sei un mostro. E quanto più uno ti dimostra considerazione, tanto più aggres­ sivo diventi. Non sono il solo a dire questo: tutti lo dicono, in città. Ecco come sei popolare23! ” Il proprietario di questo archivio privato, Zenone, era un greco di Caria, nell'Asia Minore sud-occidentale, che emigrato in Egitto vi aveva conquistato ricchezza e prestigio sociale svolgendo funzioni che potremmo definire all'incirca di maggiordomo presso Apollonio, uno fra i più po­ tenti ministri di Tolomeo II (Filadelfo). Il primo documento, del 260 a.C., ci mostra Zenone in viaggio verso la Siria in nome del ministro e forse del re stesso. Dopo il 256 a. C. le sue attività si concentrano in Filadelfia, una nuova colonia greca nel Fayyum, dove gli è affidata l’am­ ministrazione delle grandi proprietà donate a Apollonio dal sovrano. Attraverso le sue molteplici attività come amministratore di queste terre — attività che vanno dal sorvegliare le semine al dirigere i numerosi dipendenti, al trattare con ogni tipo d'uomini, all'affrontare ogni sorta di problemi — ci formiamo un quadro vivace di questa fiorente “ fron­ tiera ” dell'ellenismo nel Fayyum. Lo zelo con cui terre incolte sono trasformate in pochi anni in campi e frutteti è indicativa dello spirito pionieristico dei coloni greci. Apollonio e Zenone mettono ogni impegno nell'introdurre prodotti nuovi, da viti e alberi da frutto a rose e aglio, e nel migliorare le razze degli animali d'allevamento. Sorge una nuova città, arrivano numerosi coloni e vi si insediano, mettono su famiglia; si costruiscono scuole, palestre, templi. Tutto è attività, espansione, vita. L'acqua scorre veloce nei nuovi canali, si riversa nei campi. Apollonio, benché occupato dai suoi doveri di ministro ad Alessandria, si interessa attivamente dell'andamento delle sue proprietà. Scrive a Zenone: “ Pianta abeti, più di trecento se possibile, e in ogni caso non meno, in tutto il 22 Recensione di Bell a “Papiri greci e latini” , Journal of Egyptian Archaeology, voi. V I, 1920, pag. 129. 23 Powell e Barber, op. cit., pag. 133.

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parco e intorno al vigneto e ai boschetti di olivi, perché sono begli alberi, e il piantarli tornerà a vantaggio del faraone24.” Come miniera di dati sul commercio e simili, i papiri sono “ pieni fino a traboccare ”25. Zenone fu anche in corrispondenza costante con funzionari, giudici, mercanti, artigiani locali, di cui nell'archivio sono conservate varie lettere, anche non dirette a Zenone. Passano rapide attraverso questi documenti le immagini di uomini di varie razze, venuti dall’Asia Minore, dalla Siria e dalla Palestina, dal Nord-Africa, dall'Etio­ pia. Sono menzionati vari culti religiosi; vi sono dati su questioni com-

Paesaggio egiziano. Da un affresco romano.

merciali, con implicazioni oltre i confini dell'Egitto, dati sull'organizza­ zione fiscale, e così via. “ Pescate a caso fra queste lettere ” , ha scritto un commentatore moderno, “ e potete essere certi di trovarci un perso­ naggio o un nome o un episodio pittoreschi26. ” Troviamo infatti descrizioni del guardaroba da viaggio di Zenone e della tavola opulenta di Apollonio; una lettera riferisce che i contadini si rifiutano di vendere le loro merci, tranne che contro pagamento in moneta sonante; un'altra tratta della vendita di schiave. Il papiro 440 della raccolta italiana ci dice che quanti si offrivano volontariamente di far da mangiare ai gatti sacri erano esentati dagli altri servizi per lo stato. Un buon numero di lettere ha carattere personale, benché nessuna ci dica se Zenone avesse moglie e figli; altre ci parlano però del padre, rimasto in Caria, e dei fratelli, anche loro in Egitto. E sappiamo anche d'un fatto di carattere abbastanza intimo: la morte del cane preferito di Zenone, ucciso, mentre era a caccia con lui, da un orso. Zenone ordinò a un poeta un'epigrafe per la pietra tombale del suo povero amico.27 Con la morte di Tolomeo II scompare anche Apollonio, probabilmen­ te rimosso dalla sua alta carica dal nuovo faraone e privato anche dei benefici conferitigli dal sovrano scomparso. Zenone invece continuò a 24 Bell, Egypt, from Alexander to the Arab Conquest, pag. 47. 25 Powell e Barber, op. cit., pag. 128. 26 Ibid., pag. 130. 27 Michail Ivanovic Rostovtzeff, Out of the Past of Greece and Rome, New Haven, Yale University Press, 1932, pag. 107.

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Filadelfia la sua vita di agiato proprietario terriero e primo cittadino del­ la prosperosa colonia. Poi, per oltre duemila anni, i suoi documenti giacquero sepolti tra le rovine del sito abbandonato, sinché i fellahin li riportarono alla luce nel corso delle loro ricerche di sebakh\ che doveva servire, forse, per concimare quegli stessi campi divenuti un tempo fer­ tili grazie all’abilità e all’energia di Zenone. Una raccolta come questa è eccezionale; nessuna collezione di papiri neppure le si avvicina per ampiezza, antichità, ricchezza di dati. Proba­ bilmente bisogna frugare negli archivi di certi mercanti italiani del Rinascimento per trovare documenti d’un eguale interesse. Proporzioni assai minori hanno alcune collezioni di documenti rin­ venuti nelle mummie di coccodrilli di Tebtunis e risalenti a circa un secolo più tardi. Ne fanno parte parecchi documenti riguardanti un certo Menches, che nel II secolo a. C. occupò una carica cui si accompagnava un titolo altisonante: komogrammateus, cioè scriba, nella città di Kerkeosiris nel Fayyum, e a quanto pare fu anche un agente delle autorità centrali. Alcuni documenti che lo riguardano furono trovati da Grenfell e Hunt e da loro pubblicati per conto dell’Università di California. Men­ ches fu un personaggio di minor spicco che Zenone, e alcune sue carte (non certamente destinate ai posteri) gettano un’ombra sulla sua onestà. Per essere richiamato alla sua carica, che doveva aver trovato redditizia, Menches distribuì oculatamente alcune bustarelle. Poi, nel corso del nuo­ vo periodo di servizio, si trovò alle prese con un fuorilegge (e con il figlio di questi), accusato di omicidio ma rimasto in libertà. Infine Men­ ches, probabilmente legato da vincoli di parentela col criminale, ricorse per consiglio a un funzionario di grado più alto del suo, in un’altra città. Da una lettera successiva pare però che fosse venuto a patti con il bric­ cone, il quale gli dimostrò la sua gratitudine avvertendolo della visita imminente di un ispettore del tesoro e consigliandolo di “ mettere a posto i bilanci ” . Altri documenti della raccolta completano il quadro di una città dove il rispetto per la legge lasciava piuttosto a desiderare. Pare fra l ’altro che le visite degli ispettori del governo fossero per i funzionari dei villaggi e dei templi una specie di spada di Damocle sem­ pre sospesa sopra la testa. Dai papiri risulta perfettamente chiaro quali fossero i sistemi usati per difendersi da quegli scocciatori; l’antico Egitto dovette essere il teatro di molte vicende analoghe a quella dell’Ispettore generale di Gogol’. Ciò che occorreva, erano amici negli altri distretti, per essere avvertiti tempestivamente dell’arrivo degli agenti del governo e avere il tempo di mettere in ordine conti e registri. Una lettera trovata a Tebtunis svolse appunto questa funzione e fece anche più offrendo servigi che addirittura esulano dall’ambito dell’amicizia. Dice fra l’altro: “ Devi sapere che è arrivato un ispettore delle finanze nei templi e intende visitare anche la tua divisione. Non ti preoccupare, perché penserò io a levarti d ’impiccio. Se hai tempo, sistema i registri e vieni da me; perché

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è un duro. Se qualcosa ti trattiene, mandami i registri e penserò io a tutto, perché è diventato mio amico. Se sei in difficoltà per via della spesa e al momento non hai fondi, scrivimi e ti aiuterò come ho fatto la prima volta. Ti scrivo in gran fretta per risparmiarti di doverti presentare di persona; perché farò in modo di sistemare ogni cosa prima che arrivi li da te. Ha Pordine di mandare i recalcitranti, sotto buona guardia, al supremo sacerdote28.” Una visita di tutt’altro genere, della quale ancora i papiri di Tebtunis ci conservano testimonianza, è diventata famosa. Si tratta dei progetti di un senatore romano in viaggio di fare sosta nel Fayyum, tappa d ’obbligo per ogni grand tour dell’Egitto a causa dei suoi divini coccodrilli e del Labirinto di Hawara. La lettera conferma le pittoresche descrizioni di Erodoto e di Strabone, ma parte del suo interesse sta nella testimonianza dei riguardi con cui era trattato un uomo politico romano nell’Egitto tolemaico: evidentemente già allora l’Egitto avvertiva la pressione ro­ mana, benché dovessero passare ancora cent’anni prima del trasferimento di poteri seguito alla battaglia di Azio. La lettera in sé è un esempio classico di servilità nei confronti di un VIP in visita. Partita da Alessan­ dria, fu fatta arrivare tramite parecchi intermediari a un certo Horus, segretario d ’un funzionario distrettuale d’alto grado. Dice fra l’altro: “ ...Lucio Memmio, un senatore romano che occupa una posizione di grande prestigio, è in viaggio da Alessandria alla volta di Arsinoe per vedere i monumenti e i panorami. Fa’ in modo che sia ricevuto con par­ ticolare magnificenza, e provvedi a che nei luoghi in cui dovrà fermarsi siano preparati camere e posti di sbarco; allo sbarco, gli siano consegnati i doni d ’ospitalità sotto elencati; provveda al mobilio per le camere, al cibo che vorrà dare a Petesuchus e ai coccodrilli, al necessario per la visita al Labirinto, per le offerte e i sacrifici; insomma in ogni cosa fai il possibile perché il visitatore sia soddisfatto, e mostra il massimo zelo...”29 Se il nobile romano sia stato contento dell’accoglienza e se gli sia piaciuto il paese, non sappiamo. Ma probabilmente, come la maggior parte dei turisti superficiali, si annoiò, ed è anche probabile che arricciasse il naso davanti alle strane divinità dei decadenti egizi e alla pronta ado­ zione di quegli incredibili culti da parte dei coloni greci. Forse borbottò fra sé che sarebbe stata necessaria un po’ di austerità romana; forse, tornato in patria, fece un incisivo resoconto di ciò che aveva visto nel corso di quel viaggio in paesi alleati a Roma, e il suo prestigio politico ne fu accresciuto. E Horus, l’uomo incaricato di organizzare l’accoglien­ za, che cosa pensava del suo turista? Chissà se dentro di sé trovava ridi­ 28 Grenfell, Hunt e Smyly, op. cit., voi. II, pag. 315. 29 Ibid., voi. I, pag. 128.

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coli quella pompa e quei riguardi, e se giudicò il visitatore un barbaro noioso e sprovvisto di senso delPumorismo. Il turismo era in Egitto un'industria fiorente molto prima dell'arrivo di Thomas Cook and Sons (e anche di Alessandro il Macedone e dei suoi generali). Intorno al 100 d. C , un turista di buona volontà prese il suo dovere cosi sul serio che traversò tutto il paese, risalendo il Nilo fino all'estremo avamposto meridionale: Siene, l'odierna Assuan. Per­ corse anche la pista del deserto per una visita all'oasi di Siva, sito del­ l'oracolo di Giove Ammone, e giunto al santuario graffi nella pietra i nomi dei suoi amici, affinché il dio li ricordasse. Gli antichi, a esempio Erodoto, definivano gli egizi il più religioso fra tutti i popoli; col che intendevano, probabilmente, il più idolatra. I coloni immigrati nel paese si uniformarono rapidamente, e i papiri del­ l'Egitto greco-romano offrono innumerevoli esempi delle svariate espe­ rienze e pratiche religiose egizie. Sortilegi, incantesimi, oracoli, formule magiche non si contano; le divinità locali sono consultate su tutti i pro­ blemi importanti, più o meno come nell'antica Cina. Per esempio, un papiro di Ossirinco prega Serapide Helios, il dio benefico, di rispondere a “quattro domande: Mi conviene comprare uno schiavo? Posso sposarmi? È consigliabile fare un contratto con il Tale dei Tali? È destinato a la­ sciare la città?,,3° Di questo tipo erano le domande più comunemente rivolte alle divinità. Più interessanti sono forse gli accenni a grandi feste religiose, in particolare la descrizione, nei papiri di Zenone, della festa della dea Iside. I papiri hanno anche illuminato un aspetto più umile, più quotidiano, ma raramente documentato, della civiltà: i giochi. Quando si trattava di divertirsi, gli egizi sapevano bene come dimenticare le preoccupazioni quotidiane e la tirannia di sovrani, funzionari di governo di tutti i gradi e avide divinità. A giudicare dai papiri di Ossirinco, le corse di cavalli e di carri erano quasi un’ossessione. Fiorivano e si moltiplicavano “cir­ coli” d'ogni genere: Tebtunis ha restituito il conto di uno di questi, con una lista di nomi di membri accompagnati da un numero d’ordine; il conto specifica spese extra per pane, vino e decorazioni.3 031 Un circolo atletico portava il fantasioso nome di “Onorevole circolo atletico di no­ madi sotto il patronato imperiale” , benché i suoi membri dovessero es­ sere tanto “nomadi” quanto sono “pellirosse” o “dervisci indiani” i membri di fratellanze americane dai nomi altrettanto bizzarri; si guada­ gnò il favore imperiale offrendo una corona d'oro all'imperatore Claudio in occasione d'una sua vittoria nelle isole britanniche. Tutto questo ci è rivelato da un documento con cui nel 194 d. C. un pugilatore di nome 30 Wadell, op. cit., pag. 13. pag. 14.

31 Ibid.y

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Erminio veniva accettato come membro, dietro esborso della cifra di cento denari.32 Quanti cercano una sorta di archetipo junghiano nella vita sociale di queste popolazioni mediterranee di due millenni or sono non reste­ ranno delusi. Le affinità con certi usi moderni sono cosi evidenti che non occorre sottolinearle. Basti scorrere questo invito (Ossirinco, II o III secolo d. C.): “Cheremone ti prega di fargli compagnia a pranzo, domani 15, alle 3, alla tavola di Serapide nel Serapeo33.” Il Serapeo, il tempio locale del Dio greco-egizio, evidentemente era diventato un centro di vita sociale, come qualsiasi chiesa moderna dei sobborghi americani. Offrire agli ospiti musica e altri passatempi del genere era quasi di obbligo per ogni anfitrione che si rispettasse, e sono numerose le lettere in cui si richiedono i servigi di musicanti e altri “lavoratori dello spet­ tacolo” . Nel 237 d. C., per esempio, le autorità di Bacchiade, nel Fayyum, scrivevano a un agente chiedendo due danzatrici per una festa. Nel 182 d. C. accadde una tragedia; erano stati assunti suonatori di crotali per rallegrare un ricevimento, e uno schiavetto di otto anni, che sia per l’età sia per la condizione sociale non poteva assistere all’esibizione, osservava la scena dal piano superiore; ma nelParrampicarsi per vedere meglio, cadde e rimase ucciso. Il pietoso incidente è riferito in un rapporto al governatore (strategòs) del distretto di Ossirinco: prova evidente che anche la vita di uno schiavo era tenuta in qualche considerazione. I documenti che più commuovono per la loro spontaneità sono le lettere fra persone legate da intimi rapporti: matrimonio, amore, amici­ zia, parentela. V ’è per esempio la lettera di Ilarione alla moglie Alis, che all’egiziana egli chiama “sorella” ; e sorella sarebbe anche potuta es­ sere. A quel che capiamo, Ilarione si era recato a Alessandria a cercare impiego, mentre la moglie era incinta: “Ilarione a Alis, sua sorella, invia i più affettuosi saluti; e anche ai miei cari Berous e Apollonarione. Sappi che siamo ancora a Alessandria. Non ti preoccupare se rimarrò quando tutti gli altri torneranno. Ti prego e scongiuro di aver cura del piccolo, e non appena riceveremo lo stipendio te lo manderò. Se (buona fortuna!) partorirai in questo frattempo, se il bimbo è un maschio, la­ scialo vivere; se è una femmina, esponila. Hai detto a Afrodisiade: ‘Non dimenticarmi’. Come potrei dimenticarti? Ti prego dunque di non darti pensiero...34” È una lettera deliziosa, per quanto barbara ci appaia l’usanza mil­ lenaria di esporre i bambini non desiderati. Vi sono anche molte affettuo­ se lettere di mogli, come la lettera a un uomo che partecipava alle guerre di Cesare, al quale la moglie scrive di non conoscere più il sonno, posse­ 32 Ibid., pag. 15. 33 Ibid., pag. 15. 34 Hunt e Edgar, op. cit., voi. I, pag. 295.

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duta com’è, ‘'giorno e notte, da un unico pensiero” : quello della sua sal­ vezza; e lo implora di non sfidare inutilmente il pericolo. Potrà non es­ sere Pepi tome del patriottismo, ma questo consiglio esprime assai bene il realismo e le preoccupazioni femminili: “Come il nostro strategòs [go­ vernatore locale] lascia il grosso del lavoro ai magistrati, cosi fai anche tu35.” Ma vi sono, per contro, anche innumerevoli sentenze di divorzio e lettere come quella, di data posteriore, in cui una donna cristiana si lamenta per il comportamento del marito, uomo senza timor di Dio, che come un francese anticlericale delPOttocento non sopporta il suo con­ tinuo andare in chiesa. Una volta addirittura le ha chiuso la porta della casa del Signore e, piantato li davanti, si è messo a gridare: “Ma perché sei sempre in chiesa?” aggiungendo “molti termini offensivi e ingiuriosi.” Che cosa ci si può aspettare da un simile mostro? La travagliata signora conclude: “Ripete non so quante volte: ‘Prima che passi un mese mi piglio un’amante’. Sa il Cielo che lo ha fatto” .36 Fra le lettere più vivaci sono quelle scambiate tra padri e figli, che testimoniano delPintimità di un rapporto importantissimo per gli antichi. Una lettera famosa, tracciata con scrittura infantilmente goffa da un ragazzo, piena di errori d’ortografia, è un esempio delizioso di giovanile improntitudine. “Teone saluta Teone suo padre. Molto, molto gentile da parte tua non portarmi con te in città! Se non mi porterai con te a Ales­ sandria, non ti scriverò mai più, non parlerò più con te, non ti augurerò più buona salute. E se oserai andare a Alessandria, non ti darò la mano e non ti saluterò mai più: ecco quel che succederà se non mi porti. Mam­ ma dice con Archelao: ‘Mi fa impazzire! Tenetelo alla larga da me!’ Molto gentile da parte tua, molto gentile davvero, mandarmi un regalo; e che bel regalo! Ti sei proprio rovinato! Ci hanno ingannati quel gior­ no, il 12, quando sei partito. Su dunque, manda a prendermi, te ne sup­ plico. Se non lo farai, non mangerò più e neanche berrò. Su, dunque! Prego per la tua salute.”37 Gli scambi epistolari fra “diletti” padri e altrettanto “diletti” figli abbondano fra i testi di Ossirinco. I figli sono di solito rispettosi e obbe­ dienti, mentre i padri dispensano consigli di questo tenore: “Bada a non offendere le persone di casa; dedica la tua attenzione ai libri e sol­ tanto a quelli, consacrati allo studio, e ne trarrai ogni profitto38.” Una delle lettere più belle è dovuta a Apione, figlio modello, che si era ar­ ruolato negli eserciti imperiali ed era stato ribattezzato con un nome latino. Appena sbarcato in Italia, Apione si affrettava a informare la fa­ 35 36 37 38

Baikie, Egyptian Papyri and Papyrus-hunting, pag. 295. Ibid., pagg. 293-4. Grenfell e Hunt, The Oxyrhynchus Papyri, voi. I, pag. 119. Ibid., voi. I l l , pag. 531.

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miglia del suo arrivo in terraferma, dopo una traversata tempestosa, e di un’imminente promozione. La lettera fu spedita dal golfo di Napoli. Dice: “Apione invia a Epimaco, suo padre e suo signore, i più devoti saluti. In primo luogo, prego che tu sia in buona salute e goda di ogni prosperità e viva lietamente con mia sorella e sua figlia e mio fratello. Ringrazio Serapide di avermi salvato quand’ero in pericolo. Non appena entrati in Miseno ho ricevuto da Cesare il denaro che m’era dovuto per il viaggio: tre monete d ’oro. Sto bene; e ti prego, padre mio e mio signore, scrivimi qualche riga per informarmi prima di tutto della tua salute, poi della salute di mio fratello e di mia sorella; e in terzo luogo permettimi di baciarti la mano per avermi educato bene, grazie alla qual cosa spero di essere presto promosso, se gli dei lo vorranno. Molti saluti a Capitone, e a mio fratello e a mia sorella, e a Serenilla, e ai miei amici. Ti mando un mio piccolo ritratto, fatto da Euctemone. Il mio nuovo nome è Antonio Massimo. Prego per la tua salute...39” Le donne avevano una parte importante nella vita delle colonie; al­ cune, a quanto pare, ricevevano anche un’istruzione molto accurata: è stato ritrovato un numero notevole di lettere di madri (benché non siano così numerose come quelle di padri) e non tutte furono vergate da scribi. In una lettera del II secolo a. C. una donna esprime soddisfazione per il fatto che il figlio si dedica allo studio dell’egizio: spera che gliene ver­ ranno vantaggi finanziari. La lettera è interessante in quanto dimostra non solo che le donne si occupavano dell’educazione dei figli, ma anche che i coloni greci, lungi dal tenersi separati dalla popolazione indigena, cer­ cavano di assimilarsi. Non tutte le madri potevano però andare orgogliose della carriera dei figli. Una lettera vergata su papiro nel II secolo d. C., e rinvenuta nel villaggio di Karanis nel Fayyum, fu scritta da un figliol prodigo il quale confessava alla madre di aver vergogna di tornare a casa: “ ...vado in giro vestito di stracci. Ti scrivo per dirti che sono ridotto alla più completa miseria. Ti supplico, madre mia, fai pace con me. So quello che mi sono tirato addosso: ho avuto una lezione, e me la meritavo. So di avere peccato. Postumo mi ha detto di averti incontrata nel distretto di Arsinoe, e di averti raccontato tutto, senza riserve. Sai bene che avrei preferito ridurmi storpio, piuttosto di sapere che dovevo ancora a qual­ cuno due centesimi40.” Talvolta un figlio, temendo la severità del padre, ricorre al solito truc­ co di fare appello al cuor tenero della madre: “ ...quando riceverai questa lettera, ti prego, mandami duecento dramme... ho speso tutto... ti scrivo perché tu sappia. Mandami un mantello di lana pesante e una borsa, un paio di fasce per le gambe, due mantelli di cuoio, un po’ d’olio d’oliva, 39 Hunt e Edgar, op. cit., voi. I, pag. 305. 40 Ibid., voi. I, pagg. 317-19.

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il bacile di cui mi hai parlato, due cuscini. E anche, mamma, fammi avere al piu presto possibile il mio mensile. È venuto mio padre e non mi ha dato un soldo, non una borsa, niente. Tutti mi hanno preso in giro di­ cendo: ‘Suo padre è un soldato e non gli ha dato nulla di nulla’... Ti prego dunque, mamma, mandami quel che ti ho chiesto, non mi lasciare in queste condizioni...” In margine sono tracciati altri segni quasi illeg­ gibili: vi si distingue soltanto, ripetuta ancora più volte, la parola “man­ dami”41. Fa contrasto con questa missiva di supplica piagnucolosa la lettera di un uomo al quale qualcuno ha detto che il fratello non si comporta bene con la madre. A questo fratello egli scrive: “Mi è stato detto che metti sulle spalle di nostra madre un troppo greve fardello. Ti prego, mio carissimo, non affliggerla in nulla; e se qualcuno dei nostri fratelli la contraria, tu dovresti rimproverarlo. Tu stesso, ora, dovresti essere chiamato un padre... Ma non ti offendere per questa lettera e per i miei ammonimenti. Perché dobbiamo riverire nostra madre come una dea, specialmente una cosi buona madre. Questo ti ho scritto, fratello, perché so quanto sia dolce essere genitori rispettati...42” Lettere cosi personali, cosi immediate, sembrano riportare alla vita persone scomparse, di là dall’abisso di tempo che ci separa da loro. Quan­ do v ’è una morte in famiglia, partecipiamo al dramma dei superstiti, al loro dolore senza speranza... benché la morte di un parente stretto non colpisca tutti egualmente. Ecco infatti il rimprovero di un buon samari­ tano a due fratelli senza cuore: “ ...Sono molto sorpreso dell’indifferenza con cui avete trattato i resti di vostro fratello: vi siete presi tutto quello che possedeva e poi ve ne siete andati. Vedo dunque che siete venuti non per amore del defunto, ma solo per i suoi beni43.” Per simpatia e buon senso, però, la seguente lettera di condoglianze potrebbe diffìcilmente tro­ vare l’eguale: “Irene saluta Taonnofì e Filone. Mi sono addolorata e ho pianto per questa morte non meno che per Didymas, e ho fatto tutto ciò che era da fare e così ha fatto tutta la famiglia, Epafrodito e Termuthion e Filione e Apollonio e Planras. Ma tuttavia, non si può fare nulla contro queste cose. Dunque cercate di consolarvi, e buona fortuna44.” La seguente lettera esprime condoglianze di diversa natura: “ ...hai sofferto come Èva, la madre di tutti gli uomini, come Maria; e com’è vero Dio, mio signore, né donne virtuose né peccatori hanno sofferto quello che hai sofferto tu; eppure non hai peccato. Ma lodiamo Dio, perché Lui ha dato e Lui ha tolto; prega che il Signore dia loro eterno riposo e ti accolga in Paradiso quando le anime degli uomini saranno 41 42 43 44

Wandell, op. cit., pagg. 6-7. Ibid., pagg. 8-9. Powell e Barber, op. cit., pagg. 143-4. Grenfell e Hunt, The Oxyrhynchus Papyri, voi. I, pag. 115.

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giudicate; poiché i tuoi cari sono tornati nel seno di Abramo e di Isacco e di Giacobbe. Ti esorto dunque, mio signore, a non votare al dolore la tua anima, a non rovinare la tua fortuna: prega il Signore di conce­ derti la sua benedizione. Perché Dio ha in serbo tante cose buone, e può fare che i dolenti si consolino e rallegrino, se implorano la Sua bene­ dizione; e auguriamoci che attraverso questa afflizione il Signore mandi la gioia a te e al signore tuo fratello...45” Un confronto tra la lettera pagana e quella che riflette la nuova conce­ zione cristiana della vita è un chiaro indizio dei cambiamenti spirituali sopravvenuti nell’Egitto greco-romano. La fine era molto vicina. Questi pochi esempi bastano a dare un’idea della varietà dei papiri non letterari; benché certo questi documenti non si possano definire "storici” in un senso corrispondente alla concezione che della storia aveva, per fare un grande nome, Carlyle, o alla concezione della storia che in­ forma i libri di testo correnti. Semmai, questi documenti di vita quoti­ diana dimostrano che per la stragrande maggioranza degli uomini la "storia” si svolge su un piano del tutto diverso, raramente visitato dagli eroi; essi recano il segno di quella "realtà più grande” di cui parlò una volta Goethe, a proposito di una fattoria posta al confronto con i fan­ tasmi di imperi nascenti o cadenti. Non ci parlano di eserciti e dinastie, di guerre e colpi di stato, ma di masse anonime impegnate nella loro fatica quotidiana, del contadino, del fornaio, dell’artigiano, della giovane madre, del veterano di guerra, dell’amministratore di proprietà terriere, del corrotto politicante locale. Queste voci dimenticate evocano realtà d’ogni giorno, la realtà del guadagnarsi da vivere, del “tirare avanti” in un mondo pieno di difficoltà, ci rivelano aspetti svariati della vita del tempo, dalla burocrazia e dalle istituzioni legali ai modi di far rispettare la legge, dalle pratiche religiose ai metodi agricoli, e ancora difficoltà economiche, la schiavitù, la stratificazione sociale, l ’intervento dello stato, la condotta pubblica e il comportamento privato nel poliedrico mondo sociale ed economico egizio attraverso un millennio. Grazie ai papiri non letterari possiamo riscrivere la storia del paese; una storia in gran parte anonima, interna, che ci viene illuminata da questa documentazione quasi ininterrotta attraverso la quale generazioni successive parlano di sé, sal­ vandosi cosi dal silenzio cui le condannerebbero le facili astrazioni degli autori di storie politiche o militari e dei "filosofi” della storia. I papiri hanno permesso agli storici (per non parlare dei paleografi, dei filologi e dei teologi) di capire infinitamente più a fondo la vita del­ l’Egitto ellenistico e romano. L ’epoca ellenistica era stata per molto tempo un periodo trascurato, scomodamente inserito fra la folgorante carriera di Alessandro il Macedone e l’avvento dei Cesari. Dell’Egitto 45 Hunt e Edgar, op. cit., voi. I, pag. 168.

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dopo la caduta dei faraoni si sapeva pochissimo alPinfuori degli scarsi accenni in Erodoto (che visse prima di Alessandro), e in Strabone, Dio­ doro Siculo e Plutarco. Quasi tutto ciò che sappiamo ora è stato spigolato dai papiri. Fra coloro che hanno più validamente lavorato nel campo della storia economica e sociale è stato Michael Ivanovic Rostovtzeff, emigrato russo che più tardi insegnò a Yale e diventò uno fra gli storici di maggior rilie­ vo del nostro secolo. Il Rostovtzeff, è uno degli studiosi che più hanno contribuito a restituire alPepoca ellenistica il posto che le compete; poiché fu Pellenismo a propagare con la sua koiné, la concezione di una comu­ nità mondiale e a creare innovazioni di vasta portata in campo giuridico, politico, economico. Senza Pellenismo, non sarebbe stato possibile Pimpero romano. Un altro studioso moderno, Aurei Stein, del quale parlere­ mo più a lungo in seguito, ha dedicato i suoi primi studi alPamministra­ zione romana in Egitto, cosi come è documentata dai papiri. L ’Egitto rimase in disparte e indietro, ai tempi delPimpero, rispetto al resto del mondo romano; ma i suoi documenti ci hanno illuminato il più vasto mondo mediterraneo, sul quale possediamo pochi o nessun dato d ’altra fonte. I mille e mille frammenti compongono un quadro cosi completo e preciso che, per usare le parole di Rostovtzeff, ‘'prima o poi ci daranno un’idea quasi esatta di ciò che era la vita” nell’Egitto ellenistico e romano.46

46 Rostovtzefi, op. cit., pag. 100.

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PARTE TERZA

IL PAPIRO E L’ARGILLA NELL’ORIENTE ANTICO

Capitolo XI I PIU ANTICHI LIBRI DEL MONDO II mondo moderno ha ereditato dall'antico Egitto, co­ me dalla Grecia, in due modi diversi. In primo luogo c'è stata una diretta trasmissione storica... Ma in se­ condo luogo c'è stato un modo di acquisizione differito nel tempo, e nel quale Champollion e i suoi succes­ sori hanno avuto per l'Egitto la stessa funzione che gli umanisti del Rinascimento nei confronti dell'Ellade. A lan H. G ardiner 1

I papiri dell'Egitto greco-romano hanno talmente concentrato su di sé l'interesse, dall'ultimo quarto del XIX secolo in poi, che si è perso di vista un fatto importante: il fatto che quei documenti erano, dopo tutto, solo quelli lasciati da occupanti stranieri, per di piu giunti tardi nel paese. Quando si parla di papirologia — con le sue cattedre universi­ tarie, congressi internazionali, riviste specialistiche, trattati metodologici e collezioni speciali — si intende in generale una scienza che si occupa quasi esclusivamente di testi nelle lingue classiche. Tuttavia i papiri in greco e latino rappresentano solo una piccola parte della documentazione poliglotta di oltre cinque millenni di vita culturale egizia. Accanto ai pa­ piri greci e, in qualche caso, latini, ne sono stati trovati di scritti in aramaico, ebraico, pahlavi (persiano), siriaco, libico, in vari idiomi dell’Asia Minore, in copto, etiopico e arabo. Una curiosità sono frammenti scritti in gotico: probabilmente il piu antico scritto germanico che esista al mondo, testimonianza della tradizione romana di impiegare soldati nor­ dici, “barbari” , nella valle del Nilo. 1 Alan H. Gardiner, “Writing and Literature” , in S. R. K. Glanville (a cura di), The Legacy of Egypt, pag. 53.

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Tutti questi documenti risalgono però a un'epoca in cui la grande ci­ viltà egizia fioriva già da circa tre millenni; e fra le molte cose che PEgitto donò al mondo, il papiro stesso non fu la meno importante. L'uso del papiro per la scrittura fu infatti, come abbiamo visto, un'innovazione egi­ ziana. Non conosciamo con esattezza la data in cui entrò nell'uso, ma le

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Papiri rispettivamente aramaico (a destra), siriaco (a sinistra in alto) e ebraico (a sinistra in basso) rinvenuti in Egitto: testimonianze in diverse lingue della varietà di culture e delle vicende politiche della Valle del Nilo.

testimonianze in nostro possesso la fanno situare oggi prima dell'inizio dell'Egitto dinastico, intorno al 3100 a. C. La popolazione della valle del Nilo conosceva dunque la scrittura molto prima di tutti gli altri popoli della terra, con la possibile eccezione dei Sumeri della Mesopotamia. Ma a differenza da quella mesopotamica,

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la cultura letteraria egiziana sopravvisse praticamente senza soluzione di continuità sin oltre l'inizio dell'era cristiana, ed ebbe fine solo con l'av­ vento degli arabi e la graduale eclissi delle antiche scritture, i geroglifici e le loro varianti corsive: ieratico e demotico. Il copto, forma finale del­ l'antico egizio, sopravvisse fino al secolo XVII ed è tuttora usato nella liturgia della Chiesa copta.

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Una volta che i copti ebbero adottato un alfabeto greco modificato, non tardarono a dimenticare come si scrivevano e leggevano i caratteri antichi. Si tramandarono solo le più vaghe nozioni sul significato di quegli strani simboli, e disgraziatamente anche queste finirono per oscurarsi nei trattati classici, che dal tempo di Platone e Talete in poi riflettono il profondissimo rispetto dei greci per quella saggezza egizia che appariva loro quasi soprannaturale. Cosi andò perduta la chiave per interpretare le numerose iscrizioni su rovine di templi e obelischi, e tutte le opere del­ l’antica letteratura egizia furono dimenticate. Gli scettici arrivarono ad­ dirittura a dubitare che gli antichi egizi avessero mai usato la loro scrittura per scopi non utilitari. Che poi avessero posseduto una letteratura nel senso moderno della parola, e anzi una letteratura di straordinaria vivacità e varietà, nessuno lo sospettò fino a centocinquant’anni fa.

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guidare sud trovare vecchiaia Simboli geroglifici esprimenti vari concetti (ideogrammi).

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In Europa, i tentativi di penetrare il significato dei pittogrammi co­ minciarono fin dal tempo di Athanasius Kircher, gesuita tedesco del Sei­ cento; ma il problema appariva insolubile. Gli egiziani, completamente islamizzati, guardavano con disgusto a tutto ciò che i loro progenitori pagani sbrano lasciati dietro, e distruggevano sbrigativamente avanzi e testimonianze di quel passato di idolatria. Possiamo star certi che non facevano distinzioni fra i vari tipi di papiri né badavano se fossero scritti in greco o in caratteri egizi, geroglifici o demotici. Visitando l’Egitto e la Siria prima della Rivoluzione francese, il Conte di Volney senti parlare di un autodafé a spese di circa trecento rotoli “scritti in una lingua sco­ nosciuta” che scavatori indigeni avevano trovato nei pressi di Damietta e che lo sceicco locale aveva ordinato di distruggere immediatamente. È un racconto ancor più desolante di quello relativo al recupero della Carta Borgiana, e altrettanto rivelatore; questa volta il sacrificio dei papiri non servi neppure a carezzare l’olfatto dei fellahin.2 Che gli europei prestassero attenzione ai papiri egizi prima che ai greci è improbabile, benché forse di tanto in tanto qualche documento ritrovato per caso finisse in collezioni private, dove rimase, dimenticato, a raccattar polvere. In Italia si ebbe notizia del ritrovamento di un “pez­ zetto di papiro scritto con lettere egiziane” , ma anche questo andò per­ 2 pag. 70.

K. L. Preisendanz, Papyrusfunde und Papyrusforschungy Lipsia, Hiersemann, 1933,

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so.3 A giudicare dai loro resoconti, pochi visitatori delPEgitto ebbero coscienza che esistevano altre cose oltre ai massicci monumenti sopra la superficie del suolo: piramidi di Giza, templi di Karnak, tombe rupestri della Valle dei Re. In un certo senso, i ritrovamenti di Ercolano e la Carta Borgiana crearono altri ostacoli, portando a un'ingiustificata iden­ tificazione dei papiri con documenti greci: una tendenza che ha poi sem­ pre caratterizzato gli studi papirologici. Però, con la venuta di Napoleone, i caratteri egizi — vergati su pietra, ostraka (cocci e falde di calcare), legno e, non ultimi, pezzi di papiro — s'imposero all'attenzione dei dotti francesi al seguito del con­ quistatore. Abbiamo già accennato all'emozione con cui F. Jomard e V. Denon contemplarono i bellissimi segni e fregi sui rotoli funerari che riuscirono a svolgere. Fu l'inizio di un nutrito afflusso di papiri — in caratteri egizi e altre scritture — verso l'Europa, accelerato nei decenni successivi dalle poco scrupolose operazioni di Belzoni e dei consoli gene­ rali delle potenze occidentali a Alessandria, come Bernardo Drovetti, ve­ terano della campagna napoleonica, che agiva per conto della Francia, Henry Salt, agente dell'Inghilterra, Giovanni d'Anastasi, un armeno che rappresentava la Svezia, Jean-Frangois Mimaut, rappresentante del Regno di Sardegna. Loro tramite, furono stabilite basi per le collezioni esistenti a Parigi, Londra, Roma, Firenze, Torino, Berlino, Leida e altrove. Ma tutte le meraviglie dell’Egitto e i suoi testi, della cui interpreta­ zione s’era perduta la chiave, approfondirono piu di quanto non risol­ vessero il mistero di una civiltà ch'era già antica prima che i guerrieri achei saccheggiassero Troia. È noto come il velo fu finalmente sollevato grazie alla genialità e ri­ solutezza di un uomo, Jean-Frangois Champollion. Champollion conquistò l'Egitto in un modo che al confronto fa apparire vana e grottesca la campagna del generale corso. Al suo genio è dovuto uno tra i più sensa­ zionali trionfi dell’archeologia: la chiave alla storia, alla vita, alla reli­ gione, al pensiero dell'antico Egitto. La formidabile impresa di Cham­ pollion fu la decifrazione dei geroglifici, per la quale gli servi di prezioso aiuto la stele di Rosetta, uno dei trofei napoleonici. Ciò rese possibile il recupero di libri e testi fin allora ignoti. Tuttavia, finora è stata ritrovata solo una piccola parte di quella che fu certamente una nutrita letteratura.4 Dal decifrare gli antichi caratteri egizi al comprendere pienamente la lingua correva una lunga e tortuosa strada, che ancor oggi non è stata interamente percorsa. L ’egizio subì profondi cambiamenti in tre o quat­ tromila anni, e la lingua delle prime dinastie all’inizio del III millennio 3 Ibid., pag. 68. 4 Adolf Erman, The Literature of the Ancient Egyptians, Londra, Methuen & Co., 1927, pag. xxiv.

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a. C. non riusciva facilmente comprensibile agli uomini del Regno Medio, mille anni piu tardi, cosi come la scrittura del Regno Medio presentava difficoltà per gli uomini della XVIII dinastia, nella seconda metà del II millennio, e più ancora per i loro discendenti. Tuttavia, furono com­ piuti progressi spettacolosi; gli studiosi compilarono dizionari della lin­ gua egizia, i testi giunsero a essere letti e tradotti con crescente sicurezza. Champollion non solo decifrò per primo la scrittura egizia, ma anche fu il primo ad affrontare lo studio dei testi; compilò la prima grammatica

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Le tre principali scritture egizie: dall’alto al basso, geroglifica, ieratica, demotica. La scrittura demotica, la più semplificata e corsiva delle tre, probabilmente entrò in uso solo verso la fine dei tempi dinastici o all’inizio dei tolemaici. La geroglifica fu la prima a essere decifrata, e ancor oggi presenta agli studiosi minori difficoltà delle sue modificazioni corsive.

e difese la causa dei papiri egizi con zelo profetico, combattendo una cro­ ciata contro Patteggiamento di uomini come Francois Jomard, che si era dimostrato tanto pessimista circa la possibilità che si giungesse mai a leg­ gerli. (Jomard riteneva anche che praticamente tutti i papiri rappresen­ tassero copie delle stesse composizioni funerarie.) Champollion andò su tutte le furie quando Jomard consigliò al governo francese di astenersi da ulteriori acquisti. Per colpa sua le raccolte parigine di papiri furono superate da quelle di altre città, come Torino e Berlino (dove furono fatti grandi acquisti obbedendo alle esortazioni di Alexander von Hum­ boldt). Prima della sua prematura morte alPetà di quarantun anni, Cham­ pollion studiò i papiri disponibili in Francia e in Italia e fece scoperte non inferiori per importanza alla sua impresa più famosa. Grazie a lui, quelli che erano stati fin allora oggetti curiosi diventa­ rono preziosi documenti sui quali fu possibile ricostruire la storia di una fra le più antiche civiltà del mondo; grazie a lui, divenne possibile leg­ gere opere letterarie di cui non si era neppure rimpianta la perdita, perché non si sapeva che erano esistite. Champollion intraprese numerosi viaggi allo scopo di copiare papiri, via via che gli giungeva notizia di ritrovamenti. Dal 1824 al 1826 viaggiò attraverso ITtalia, dove organizzò la collezione egittologica al Vaticano su invito del cardinale Angelo Mai; visitò anche Firenze e altre città.

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Fu autofficina dei papiri” di Napoli, e lo rattristò molto il vedere in quali condizioni fossero i papiri di Ercolano; era convinto che gli uomini a cui i rotoli erano affidati li trattassero con insufficienti riguardi nella persuasione (che condividevano con Jomard) che nessuno sarebbe mai riuscito a leggerli. “Io sono certo invece,” scriveva, “che con un minimo di costanza si potrebbe recuperare, dai millesettecento manoscritti a disposizione, un numero considerevole di tesori letterari...5” Ma tenne in serbo le sue energie per i papiri egizi. I suoi studi più profìcui si svol­ sero a Torino, capitale del Regno di Sardegna, che aveva acquistato di recente una parte del bottino raccolto in Egitto da Drovetti, dopo che le autorità parigine non ne avevano voluto sapere.

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Contemplando simili tesori, Champollion confessò di essere andato “in trance” . La sua comprensione della lingua egizia andava crescendo rapidamente, e a ogni momento i papiri gli rivelavano aspetti ancora sconosciuti della vita e della cultura egizie. Una fra le sue scoperte più notevoli riguardò il cosiddetto “rituale funerario” , o “Libro dei Morti” 5 Hermine Hartleben, Champollion. Sein Leben und Sein Werk, Berlino, Weidmann, 1906, voi. I, pag. 559.

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(come doveva chiamarlo piu tardi Pegittologo tedesco Richard Lepsius), che, lungi dall’essere cosi standardizzato come generalmente s’era creduto, era esistito in versioni di diversa lunghezza e diverso contenuto. Champollion passò giornate a trascrivere quei preziosi e ben conser­ vati papiri; poi, con sua sorpresa, fu informato che le soffitte dell’Acca­ demia torinese ne ospitavano altri, peraltro “ormai inutilizzabili” a causa delle pessime condizioni in cui erano ridotti. Solo dopo molte insistenze gli concessero di vederli. “Entrando in quella stanza, che d’ora innanzi chiamerò un colombario della storia, rimasi senza fiato. Davanti a me c’era un tavolone lungo tre metri, coperto d’uno strato di frammenti di papiro alto almeno quindici centimetri... Impossibile descrivere ciò che provai nell’esaminare questi resti della storia del mondo. Anche il più flemmatico degli uomini sarebbe stato preso dall’eccitazione: come rima­ nere indifferenti quando si tocca la polvere di secoli? Caddi in una specie di trance. Nessun brano di Aristotele o di Platone è eloquente come questi cumuli di papiri... Gustai notizie di cui la storia aveva perduto anche il ricordo, e nomi di dei che in quindici secoli non hanno avuto altari...6” Su questo tono continua tutta la lettera, diretta al fratello Figeac. Ma non tutti quei frammenti polverosi riguardavano gravi questioni storiche. Gli insegnarono anche “che v’è un solo passo dal sublime al ridicolo... Accanto a un decreto di Ramses il Grande o di altri eminenti personaggi... ho visto frammenti di caricature egizie, un gatto che con un bastone da pastore nella zampa fa la guardia alle anatre, una scimmia che suona il flauto... Qui, un testo funebre sul retro del quale un ente laico redasse un certificato di vendita; là, resti di disegni la cui mostruosa immoralità mi ha dato un’idea davvero strana della serenità e saggezza degli antichi egizi7.” Champollion si riprese rapidamente dallo shock d’avere scoperto che gli egizi erano tanto portati alla pornografia, o perlomeno tanto privi di inibizioni, quanto gli abitanti di Pompei o di Ercolano. Per rassicurarsi, si disse che molto probabilmente lo scrupoloso governo egizio aveva se­ questrato quelle vignette “sporche” . Ritrovato l’entusiasmo iniziale, parlò al fratello di quella che è oggi considerata una tra le fonti più importanti per la storia egizia, la lista dei re conservata a Torino; a suo giudizio, essa risaliva almeno alla XIX dinastia (XII secolo a. C.): “Sono riuscito a strappare alla polvere venti frammenti di questo prezioso manoscritto, frammenti non più larghi di tre-cinque centimetri, che tuttavia contengono i nomi più o meno monchi di settantasette faraoni... Solo l’Egitto ci poteva fornire documenti di cosi stupefacente antichità. Capirai che l’età dei Lagidi [Tolomei] e 6 Ibid., pag. 526. 7 Ibid., pag. 527.

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persino quella dei Persiani comincia a farmi compassione: tutto ciò data solo da ieri in confronto a quello che ho avuto per le mani negli ultimi otto giorni8.” Con la confusa e frammentaria conoscenza che aveva dell’antica lingua egizia, è quasi un miracolo che Champollion ricavasse tanti dati dai pa­ piri nei pochi anni che gli rimasero dopo che ebbe per la prima volta decifrato i geroglifici. Per fortuna, ebbe a disposizione quelli che stavano affluendo numerosi in Occidente.

Dalla lista di re egizi, in caratteri ieratici, conservata a Torino. Completo, il papiro conteneva la cronologia e i nomi di tre­ cento faraoni, e indicazioni della durata dei rispettivi regni.

A Aix-en-Provence un collezionista francese privato, Sallier possedeva parecchi importanti papiri (più tardi acquistati dal British Museum) in mezzo ai quali Champollion identificò un poema rapsodico contenente la descrizione di una supposta vittoria di Ramses II, a Qadesh, su un popolo il cui nome lesse come Scheta, e che pensò fossero gli sciti. Molto più tardi si potè stabilire che si trattava invece degli ittiti, dei quali fin allora non s’era saputo quasi nulla, e che erano stati una fra le massime potenze del Vicino Oriente. Più tardi Champollion mise finalmente piede sul suolo egizio, e ri­ conobbe un duplicato dell’epopea di Ramses inciso su un muro del Ramesseo a Tebe. Diede allora mano alla vanga, e riportò alla luce quanto rimaneva di un’antica biblioteca annessa a un tempio, a Karnak. I ritrovamenti di papiri egizi non tornarono probabilmente mai a essere cosi abbondanti come nella prima metà del secolo XIX; diminui­ rono in misura considerevole dopo le spedizioni predatorie nella necropoli di Tebe e il saccheggio delle rovine di templi, e nella seconda metà del secolo erano ben povera cosa in confronto al sostenuto afflusso di papiri 8 Ibid., pag. 528.

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greco-romani. I depositi di documenti ieratici e geroglifici nei cumuli di rifiuti erano rarissimi, e quindi gli scavi cosi di dilettanti indigeni come di professionisti europei diedero relativamente poco frutto. Si trovarono in numero considerevole solo testi in demotico (la scrittura corsiva egizia che probabilmente non risale oltre l’epoca tolemaica), che però, pur ag­ giungendo dati nuovi a quelli dei documenti greci, non ebbero molta importanza per la conoscenza della civiltà egizia pre-ellenica. Inoltre, ec­ cezione fatta solo per le spedizioni di avventurieri come Belzoni e Drovetti, il ritrovamento di papiri egizi fu lasciato interamente al caso. Di­ versamente dai papiri classici, questi non furono cercati in modo siste­ matico: ancor oggi non esiste un catalogo dei molti papiri egizi sparsi nelle collezioni di tutto il mondo, e sono ancora numerosi quelli che, conservati presso istituti di grande fama, aspettano di essere decifrati e pubblicati.9 Data la natura di questi ritrovamenti accidentali, fatti per lo piu dagli indigeni, nella maggior parte dei casi non sappiamo quasi nulla del luogo e delle circostanze in cui avvenne la scoperta anche dei piu impor­ tanti testi egizi. Dei papiri di Sallier, si dice che fossero acquistati da un marinaio egiziano; non si sa nient’altro, e anche quelPunica notizia che si conosce potrebbe essere messa in dubbio. Mrs. D ’Orbiney, una signora inglese, acquistò l’unica copia esistente della famosa Storia dei due fra­ telli da una persona sconosciuta, in Italia, intorno al 1850. Solo in rari casi possediamo dati concreti; uno di questi casi è rap­ presentato dal grande papiro Harris, uno dei manoscritti acquistati a metà Ottocento da A. C. Harris, un viaggiatore inglese con residenza a Alessandria, la cui straordinaria collezione fu venduta da sua figlia al British Museum nel 1876. Il grande papiro, o Harris I, il piu lungo pa­ piro egizio conosciuto (40 metri), secondo testimonianze attendibili fu portato in luce da scavatori egiziani presso Tebe; merita l ’epiteto di “grande” non solo per l’eccezionale lunghezza ma anche per l ’ottimo stato di conservazione, la bellezza della scrittura ieratica e il contenuto: un catalogo elogiativo delle imprese di Ramses II che, nonostante la ten­ denziosità, ha fornito preziose notizie storiche. Gli arabi lo trovarono in una tomba rupestre, dietro al tempio di Medinet Habu; si dice che, quando fu aperta, la tomba fosse piena di mummie già profanate nell’an­ tichità. Il “catalogo” consisteva di circa venti rotoli, che purtroppo Harris non potè acquistare tutti; gli altri andarono dispersi, e il catalogo è quindi incompleto. Pare che nello stesso sito siano stati rinvenuti vari papiri riguardanti spoliazioni di tombe nell’XI secolo a. C.; fra gli altri, il papiro Abbott. Meno sicura l’origine dell’altrettanto celebre Harris 500 (anche que­ 9 Preisendanz, “Abriss der Papyruskunde” , in Fritz Milkau (a cura di), Handbuch der Bibliothekswissenschaft, Wiesbaden, O. Harrassowitz, 1952, voi. I, pag. 51.

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sto conservato al British Museum) che è una specie di antologia della letteratura egizia del Regno Nuovo. Si conoscono meglio le sue disav­ venture successive: era completo quando Harris lo acquistò, ma fu in parte distrutto da un’esplosione; si disse che prima della catastrofe Harris avesse copiato interamente il testo, ma la copia non è mai stata trovata, con il risultato che forse parecchie opere letterarie egizie sono andate perse per sempre101 La sorte fu piu benigna con una fra le opere più popolari della lette­ ratura profana egizia: la Storia di Wenamon (o Unamon), il cui prota­ gonista fece uno sfortunato viaggio per acquisti in Siria. Quest’opera ci è giunta nella sua interezza, ed ecco in che modo: nel 1891 alcuni fellahin campeggiavano fuori di el-Hibeh, dove Grenfell e Hunt avrebbero sca­ vato qualche anno dopo. La notte era fredda, gli uomini decisero di accendere un fuoco e si misero a cercare pezzetti sparsi di legno: l’unica specie di combustibile che si possa trovare nel deserto. Un bastoncello sottile e che a vederlo pareva facilmente infiammabile sporgeva dalla sab­ bia, li vicino; ma quando lo presero in mano e lo esaminarono, videro che era un rotolo di papiro scritto. A quella data, i fellahin conoscevano ormai benissimo il valore dei frammenti di testi antichi, e sapevano di poterli scambiare con una somma di denaro sufficiente a comprare com­ bustibile per molti fuochi. Così, il racconto del viaggio di Wenamon fini nelle mani di un mercante di antichità, dal quale lo acquistò, a un prezzo certo molte volte maggiorato, il professor Golenishev di Pietroburgo, che aveva già portato notevolissimi contributi all’opera di recupero del­ l’antica letteratura egizia. Fra gli scavatori di professione ai quali si debbono le scoperte di importanti papiri ieratici merita di essere ricordato un giovane scozzese, H. A. Rhind, benché il famoso papiro Rhind, di contenuto matematico, sia stato comprato presso un mercante. Ma anche in questo campo il primo posto spetta a Flinders Petrie, che a Kahun e Gurob, vicino alle piramidi del Fayyum, recuperò papiri risalenti al Medio e Nuovo Regno. Quelli della XII dinastia trovati a Kahun includevano lettere, conti, un trattato di ginecologia, uno stupendo inno a Sesostri III (XIX secolo a. C.) scritto vivente il faraone: il “primo esempio noto di componimento poetico con una rigida struttura strofica”11, caratterizzato da quel “paral­ lelismo” e da quell’efficacia di metafore proprie della poesia biblica. I componimenti poetici in onore di un sovrano erano tra le forme letterarie più comuni nell’antico Egitto; questo, il più antico sopravvissuto, è an­ che fra i più belli. Il lettore ne può avere un saggio da queste sei strofe: 10 James Baikie, Egyptian Papyri and Papyrus-hunting, Londra, Religious Tract Society, 1925, pag. 160. 11 James Henry Breasted, A History of Egypt, New York, Charles Scribner’s Sons, 1937, pag. 207.

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Grande è il re due volte la sua città; arma oltre un milione d'uomini: quanto agli altri sovrani, sono soltanto gente comune. Grande è il re due volte la sua città: è come una diga che sbarra il passo all'acqua del fiume. Grande è il re due volte la sua città: è come una fresca loggia, che permette a ciascuno di riposare fino in pieno giorno. Grande è il re due volte la sua città: è come un bastione, con mura fatte di dure pietre di Kesem. Grande è il re due volte la sua città: è come un luogo di rifugio, dove il predone non ha accesso. Grande è il re due volte la sua città: è come un asilo, dove l'impaurito trova riparo dal suo nemico. Grande è il re due volte la sua città: è come un'ombra, la fresca vegetazione del fiume nella stagione del raccolto. Grande è il re due volte la sua città: è come un angolo caldo e asciutto nella stagione invernale. Grande è il re due volte la sua città: è come uno scoglio che sbarra la strada al vento quando infuria la tempesta. Grande è il re due volte la sua città: è come Sekhmet Per i nemici che mettono piede oltre la sua frontiera12. Petrie trovò un panegirico abbastanza simile a questo nel 1896, nel tempio funerario di Merenptah (Merneptah), faraone della XIX dinastia, figlio e successore di Ramses II; questo panegirico non è però scritto su papiro ma inciso su una stele, ed è diventato famoso perché contiene il primo e unico accenno a Israele (“Israele è distrutto, il suo seme non c’è più"13) nei documenti dell’Egitto faraonico. I più antichi resti della letteratura egizia finora in nostro possesso sono per l’appunto le iscrizioni su pietra risalenti all’Antico Regno ben­ ché il papiro fosse in uso già allora. La lunghezza di queste iscrizioni non è affatto limitata dal mezzo usato: raccogliendole e pubblicandole, se ne sono ricavati due formidabili volumi di oltre mille pagine complessive. La raccolta va sotto il nome di Testi delle Piramidi, perché le iscrizioni furono copiate dalle pareti di camere funerarie di cinque o sei piramidi della V e VI dinastia (ca. 2450-2250 a. C.); ma, come molti altri testi in lingua egizia, e in particolare quelli di natura religiosa o letteraria, risalgono probabilmente alPinizio dell’Antico Regno (ca. 2800 a. C.), se non addirittura a epoca proto e predinastica. Alcune delle formule trovate incise sui muri interni delle piramidi riflettono un’età molto più barbarica di quella a cui le piramidi appartengono; è questo il caso, a esempio, dell’inno “cannibalistico” di Unas, in cui il re Unas prende al 12 Ibid.y pag. 207. 13 J. H. Breasted, Ancient Records of Egypt: The Historical Documents, Chicago, Chicago University Press, 1905, voi. I l l , pagg. 616-7.

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laccio e divora gli dei. Come i più tardi testi funerari egizi, le iscrizioni contengono innumerevoli inni, preghiere, formule magiche il cui scopo era facilitare il viaggio dei defunti nelPaldilà. Questo ne fa i precedenti diretti dei Testi dei sarcofagi (caratteristici del Medio Regno e del cosid­ detto Libro dei Morti, che al tempo del Medio Regno era solitamente scritto su un rotolo di papiro e sepolto insieme al defunto. La trascrizione e traduzione degli arcaici Testi delle Piramidi sono considerate uno fra i massimi trionfi dell’egittologia. Questi libri su pietra, nonostante le grandi dimensioni, rimasero sepolti e ignorati per quattromila anni, e la loro scoperta fu una grossa sorpresa. Gli archeologi avevano sempre giudicato indegne delle loro attenzioni le piramidi dell’area di Saqqara (vicino alla piramide a gradini di Zoser), in pessime condizioni, piccole, prive d’imponenza, in netto declino rispetto a quelle di Giza. Ma nell’ultimo anno della sua vita Auguste Mariette, allora a capo del Servizio Antichità del Cairo, diede ordine di aprirle. Le operazioni furono dirette da Maspero, che nel gen­ naio 1881 si precipitava a informare Mariette, ormai sul letto di morte, dello straordinario ritrovamento: pareti e pareti, e persino soffitti, coperti di geroglifici riempiti di pigmento verde. Personalmente, Mariette aveva sempre sostenuto che (qualunque cosa Erodoto avesse scritto della pira­ mide di Cheope) molto probabilmente le piramidi non recavano iscrizioni. Quelle che sono state invece trovate hanno un valore inestimabile per lo studio della religione egizia; pur essendo tanto antiche, riflettono indi­ scutibilmente un’epoca più antica ancora. Al tempo in cui furono incisi nelle piramidi, i testi avevano già subito profonde modifiche e, secondo gli studiosi dei giorni nostri, “i copisti stentavano ormai a capirli”14. Ben­ ché molti di tali testi siano, come il Libro dei Morti, per noi quasi incom­ prensibili (e probabilmente in gran parte davvero privi di senso), non mancano brani pieni di forza. Maspero, che li scoperse e pubblicò, scris­ se che “contengono molte prolissità, molti luoghi comuni, molte oscure allusioni agli affari del mondo, ma anche alcuni passi pieni di movimento e di una rude energia, in cui ispirazione poetica e sentimento religioso traspaiono ancora dietro il velo delle espressioni mitologiche”15. Non va dimenticato che queste iscrizioni costituiscono “il più antico complesso di scritti religiosi, la più antica bibbia del mondo”16. E come la Bibbia, non sono tutte di facile lettura, né tutte riflettono un’etica sublime. 14 Wallis Budge, The Book of the Dead. The Papyrus of Ani, Scribe and Treasurer of the Temples of Egypt..., New York, G. P. Putnam’s Sons, 1913, pag. 18. 15 Cit. da Francis Llewellyn e Kate B. Griffith, “Egyptian Literature” , in Charles Dudley Warner (a cura di), Library of the World's Best Literature, New York, The In­ ternational Society, 1896, voi. X III, pag. 5229. 16 Baikie, Egyptian Antiquities in the Nile Valley, Londra, Methuen & Co., 1932, pag. 161.

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Fra i papiri egizi, il Libro dei Morti ricorre piu o meno con la stessa frequenza che Ylliade fra i greci. Per gli egittologi questo può essere egualmente esasperante, ma in fatto di abilità calligrafica e illustrativa l’Egitto non ha restituito manoscritti più belli di questi, che fanno l’or­ goglio dei musei anche perché, paradossalmente, i papiri egizi, pur essen­ do tanto più antichi dei greci, sono nel complesso meglio conservati e assai meglio scritti e illustrati. Come s’è detto, il contenuto del Libro dei Morti ci riesce in gran parte incomprensibile; e non soltanto per la nostra difficoltà a immedesimarci con il sentimento religioso degli antichi. Innanzi tutto, bisogna ricordare che non esiste nulla che si possa de­ finire “il” Libro dei Morti: già Champollion se ne rese conto. Ne esisto­ no invece diverse stesure, di diversa composizione e lunghezza; vi ricor-

Da un'illustrazione a colori del Papiro Ani, un Libro dei Morti della X V III dinastia, ac­ quistato da Sir Wallis Budge per il British Museum. “Anubi, il dio dei morti, dalla testa di sciacallo, regola la bilancia su uno dei cui piatti vien pesato il cuore del defunto (che sta all’estrema sinistra); sull’altro piatto sono la Giustizia e la Verità, simboleggiate dalla piuma. Thot, dio del sapere, con testa d’ibis, si tien pronto con una paletta da scriba a scrivere il verdetto della bilancia.”

rono, è vero, certi passi più o meno eguali per tutti, ed è chiara la deri­ vazione da fonti comuni (alcuni studiosi ne fanno risalire le origini alla I dinastia), ma non si può parlare di un “canone” , come per le altre opere religiose orientali. Anche i più bei rotoli funerari appaiono compilati a caso; vi mancano capitoli importanti, altri brani sono assurdamente ri­ petuti; non vi sono continuità né uniformità, abbondano gli errori. È chiaro che per la maggior parte questi rotoli furono opera di scribacchini di mestiere, privi di scrupoli, che qualche volta ravvivarono l’insieme con una nota di agnosticismo, ma in ogni caso imbrogliavano i loro clienti, dei quali mettevano in pericolo la vita eterna. Inoltre la moda, nata in epoca più tarda, di illustrare sontuosamente i rotoli portò a un impove­ rimento del testo: come nei rotocalchi moderni, questo venne tagliato per far posto alle immagini. “Nel Libro dei Morti \ ha osservato un egit­

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tologo moderno, “quanto migliori sono le illustrazioni, tanto peggiore è il testo17/' Ciò che i clienti acquistavano era in ogni modo di dubbio valore, anche quando l’esecuzione era stata coscienziosa. I rotoli funerari avevano infatti lo scopo di ingannare gli dei con una calcolata prolissità e con formule assurde, in questo modo guadagnando ai defunti l’accesso alla vita eterna lungo le beate rive del Nilo celeste. Come è chiaro da quella che è stata incongruamente battezzata una “confessione negativa” (“Non ho fatto del male agli uomini. Non ho trattato male gli animali. Non ho peccato nel tempio... Non ho bestemmiato gli dei. Non ho fatto piangere nessuno. Non ho ucciso...18” ) l’egizio medio del 1500 a. C. voleva gio­ care sul sicuro. Siamo di fronte a un rituale meccanico, paragonabile alla vendita delle indulgenze o ai mulini di preghiera tibetani. Con tutto questo, bisogna ammettere che il Libro dei Morti riflette una profonda coscienza morale e l’idea di una giustizia eterna. Il catalogo di peccati dato nella “confessione negativa” è in sé un codice morale paragonabile al decalogo ebraico o all’“ottuplice sentiero” buddista, for­ mulati tanto più tardi. E come i Testi delle Tiramidi, dai quali in ultima analisi deriva, il Libro dei Morti contiene passi animati da genuino fer­ vore religioso e pieni di autentica e sublime poesia: parliamo soprattutto degli inni a Osiride e a altre divinità. V ’è motivo di credere che i Testi delle Piramidi e i loro diretti di­ scendenti, giù giù fino al Libro dei Morti, siano i più antichi testi esisten­ ti al mondo. Tuttavia gli egittologi rivendicano generalmente questo ono­ re al papiro Prisse, un manoscritto del Medio Regno acquistato in Egitto nel 1839 dall’archeologo francese Emile Prisse. Il luogo della scoperta è incerto, benché Prisse, avendolo comprato da un fellah che egli aveva impiegato negli scavi di sepolture tebane, pensasse che l’uomo lo avesse semplicemente rubato nella tomba d’un faraone dell’XI dinastia intorno alla quale si stava lavorando. Diversamente dai Testi delle Piramidi e dai Testi dei sarcofagi, il papiro Prisse è, come dice il nome, su papiro, e più vicino alla nostra idea convenzionale della natura fisica di un libro. Contiene due trattati, opera, secondo il testo stesso, di due uomini dell’Antico Regno e rispet­ tivamente della III e della V dinastia, due consiglieri reali di nome Kagemna (Kagemni) e Ptahhotep. Si tratta di due personaggi storici, e sic­ come non v’è motivo di respingere l’attribuzione, può darsi che i due trattati contenuti nel Papiro Prisse risalgano all’inizio del terzo millennio; 17 Jaroslav Òerny, Paper and Books in Ancient Egypt, Londra, University College, 1952, pag. 26. 18 James B. Pritchard (a cura di), Ancient Near Eastern Texts, 2a ed., Princeton University Press, 1955, pagg. 4-5.

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il che significherebbe che li separa da Aristotele un intervallo di tempo lungo quanto quello che separa Aristotele da noi. Entrambi i trattati (quello di Kagemma è molto piu corto dell’altro) sono esempi tipici delle opere didattiche in voga per tutto il corso della storia egizia e presentano molti paralleli con l’Antico Testamento, in particolare con i Proverbi e YEcclesiastico. Consistono sostanzialmente in consigli ragionevoli e un po’ prosaici, presentati come scritti da un vecchio padre (in qualche caso addirittura da un re) quali guida per il proprio figlio. Se tanti di questi testi ci sono stati tramandati, lo dobbiamo al fatto che gli scolari li copiavano: non certo per divertimento, ma per­ ché era uno degli esercizi più in uso nelle scuole. Al confronto con questi consigli paterni, Polonio sembra un modello di laconica incisività. Nei due trattati del papiro Prisse troviamo lodi al rispetto per il decoro, alla castità, all’umiltà, ammonimenti a non ripe­ tere parole frivole, a non confidare nella fortuna, a riverire i superiori, a dimostrarsi allegri alle feste. Sono enumerati i vantaggi del matrimonio, ma v ’è questo avvertimento improntato a severità verso le donne: “Se vuoi mantenere l’amicizia in una casa [in cui] sei ammesso, come capo o come fratello o come amico, in qualunque posto tu entri, guardati dall’accostarti alle donne. Il posto in cui sono le donne non è buono. Per questo motivo, mille vanno in perdizione...19” Una parte finale descri­ ve il roseo futuro del figlio che seguirà questi consigli: conquisterà la ricchezza, si farà strada nel mondo, e a tempo debito trasmetterà ai propri figli i consigli ricevuti dal padre. Alcuni degli aforismi attribuiti ai re, tuttavia, temperano l’utilitarismo di Ptahhotep con una buona dose di pessimismo nei confronti della natura umana e con un “senso tragico della vita” .

Dal Papiro Prisse, copia risalente al Regno Medio e abbreviata di due opere didattiche molto più antiche, della III e della V dinastia. Ora al Louvre.

Un’altra nota etica risuona in scritti più tardi, a esempio in quelli di Amenemope (Amenemopet) che Wallis Budge acquistò per il British Museum nel 188820 e che, pubblicati dopo circa trentacinque anni (192219 Erman, op. cit., pag. 59. 20 British Museum, A General Introductory Guide to the Egyptian Collections. .. Londra, British Museum, 1930, pag. 63.

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24) destarono la più viva attenzione. Budge aveva notato per primo la somiglianza con i Proverbi biblici di Salomone; Adolf Erman sottolineò certe corrispondenze cosi precise e frequenti da non poter essere acci­ dentali. “Quasi ogni versetto di Proverbi 22,17 - 23,14 trova il suo parallelo nelPopera didattica egizia21.” Alcune frasi sono sostanzialmente identiche. Nel versetto d'apertura della sezione corrispondente dei Pro­ verbi, il testo ebraico dice: “Porgi il tuo orecchio, ascolta le parole dei saggi, e poni mente ai miei insegnamenti.” E Amenemope: “Porgi il tuo orecchio, fai attenzione alle cose che ho dette, studiati di capirle22.” Uno studio approfondito dell'Insegnamento di Amenemope permise anzi a Erman di chiarire un punto oscuro della Bibbia: una parola in precedenza interpretata come il corrispondente ebraico di “cose eccel­ lenti” era sempre stata considerata incerta. Le letture alternative propo­ ste erano shilshóm { —avantieri, in precedenza) o, come i Masoreti ebrei avevano suggerito in margine, shalishtm ( = funzionari), ma né Luna né l'altra avevano senso. Ora sappiamo che la parola ebraica esatta è shelóshim ( = trenta), che si riferisce al numero di capitoli dell 'Insegnamento di Amenemope, cui fanno riscontro i trenta precetti dati nel corrispon­ dente testo ebraico.23 Pochi studiosi potrebbero negare la quasi identità dei precetti ebraici e di quelli egizi; ma quale dei due testi fu copiato dall'altro? Che il testo ebraico sia la fonte di quello egizio, parrebbe suggerito dalla forte penetrazione di parole semitiche nella lingua egizia intorno all'epoca in cui Amenemope scriveva, e dalle concezioni etiche e monoteistiche che in­ formano il suo pensiero, e che sarebbero penetrate attraverso le influenze linguistiche. Però il trattato di Amenemope ha alle spalle tutta una tradi­ zione di letteratura didattica che, come abbiamo visto, risaliva all'Antico Regno e aveva già trovato una forma letteraria ancor prima della com­ parsa degli ebrei alla ribalta della storia. Nessun egittologo è quindi di­ sposto a sottoscrivere l'ipotesi di una derivazione dell’Insegnamento di Amenemope dai Proverbi, ipotesi che, come ha sottolineato Alan H. Gardiner, “non tiene nel debito conto la crescente tendenza al monotei­ smo evidente in tutti gli scritti egizi di epoca posteriore al regno di Akhenaton”24. Ma il problema appare di soluzione assai meno difficile quando si tenga conto di certi aspetti fondamentali nella storia delle antiche civiltà del Vicino Oriente, e in particolare del fatto che l'Egitto non si evolse nell’isolamento, come un mondo a sé. La stessa civiltà elle­ nica fu il risultato ultimo di un'evoluzione durata millenni, e non una fase unica e isolata della cultura mediterranea. Dalla più remota antichità, 21 22 23 24

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Gardiner, op. cit., pag. 67. Ibid., pag. 68. Ibid., pag. 69. Ibid., pag. 70.

i paesi del Mediterraneo orientale presero liberamente a prestito Puno dall’altro arte, concezioni religiose, leggende, divinità, elementi lingui­ stici e razziali; senza contare che in ultima analisi tutte le popolazioni mediterranee risalgono a un unico ceppo d ’origine. Sempre al genere didattico appartengono altri scritti fra i quali si trovano lettere e discorsi in lode e difesa della professione di scriba: scritti “ di propaganda ” , che proliferarono sotto il Nuovo Regno, e che devono in buona parte la loro sopravvivenza al fatto che si prestavano in modo particolare a essere copiati da scolari e da aspiranti scribi. Un loro tema ricorrente è la cosiddetta “Satira dei mestieri” , che ha il suo parallelo nell 'Ecclesiastico. Negli Insegnamenti di Khety figlio di Duauf un padre che iscrive il giovane figlio alla scuola imperiale di scrittura (la “Scuola dei libri” ) gli raccomanda di approfittare il meglio possibile di questa grande occasione, che gli offrirà il modo di evitare le fatiche e la noia di tutti gli altri mestieri: Vedi, non c’è mestiere in cui non si abbia un padrone; solo lo scriba è padrone di sé stesso... Non ho mai visto ambasciatore lo scalpellino, né un'ambasceria affidata alPorefice, ma ho visto il fabbro al lavoro davanti alla bocca della sua fornace. Le sue dita erano come [pelle di] coccodrillo, e puzzava piu che uova di pesce2526... E cosi, di seguito, passando in rassegna una professione dopo l’altra: non bisogna fare il soldato né il contadino, il fattore né il beccaio, il for­ naio né il barbiere, perché tutti lavorano giorno e notte, e i loro compensi sono schiena rotta dalla fatica, raccolti rovinati dalle calamità naturali, debiti, confisca dei beni. “Ho visto colui che è battuto, colui che è bat­ tuto: dài tutto il tuo cuore ai libri. Ho visto colui che è affrancato dal lavoro: bada, nulla vale piu dei libri... Vorrei poterti fare amare i libri più che tua madre, vorrei saper fartene vedere tutta la bellezza. È più grande di qualsiasi professione...20.” Solo lo scriba ha un lavoro piace­ vole, pulito, che comporta rischi minimi per la salute e la comodità del­ l ’esistenza; e, per quanto umili possano essere le sue origini, il suo me­ stiere lo solleva al di sopra della classe a cui appartiene e può anche por­ tarlo a contatto con i grandi e i potenti. In breve, lo scolaro porta nella sua cartella di scuola il sigillo del primo ministro, il bastone del co­ mandante in capo dell’esercito, forse persino uno scettro. 25 Griffith, op. cit., pag. 5342. 26 Erniari, op. cit., pag. 67.

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Nell’antico Egitto si ebbero effettivamente di queste carriere folgo­ ranti: l’ascesa al potere era affidata non alla spada ma alla penna, alcuni scribi comandarono eserciti, e in ogni epoca emersero scribi che raggiun­ sero la fama o la gloria27. Farsi ritrarre nella posizione tipica dello scriba era un’abitudine cara agli alti funzionari. Il rispetto degli antichi egizi per l’uomo che sapeva scrivere (la stessa cosa che l’uomo di cultura) ci ricorda l’atteggiamento degli antichi cinesi; per entrambi i popoli questo rispetto raggiunse le dimensioni di un culto e potè favorire atteggiamenti meno simpatici, come alterigia e aridità intellettuale. Testi come gli Insegnamenti di Khety furono tra i libri più usati nelle scuole, ma spesso gli ammonimenti ed esempi edificanti che conte­ nevano avevano poco effetto: secondo Erman, le copie di mano degli studenti erano in molti casi pessime. Del papiro del grande poema sulla battaglia di Qadesh, ancora Erman ha detto che se non ne avessimo altre versioni, grazie alle quali è stato possibile correggere gli innumerevoli errori, buona parte sarebbe rimasta inintelligibile28. Una breve poesia della XIX dinastia dimostra che alcuni aspiranti scri­ bi (e non necessariamente i meno dotati) non riuscivano a terminare i cor­ si perché si abbandonavano alla pigrizia e si lasciavano sedurre dalle ten­ tazioni della grande città. Lo studente che s’è messo sulla cattiva strada viene cosi rimproverato: Mi dicono che hai abbandonato i libri e ti sei dato al piacere. Vai di strada in strada; ogni sera il puzzo di birra, il puzzo di birra che ti porti addosso fa scappare chi ti si accosta, conduce la tua anima alla rovina29... Questo rapido quadro di dissipazione ci illumina una caratteristica degli egizi: le antiche popolazioni del Nilo amavano la vita, e il loro co­ stante pensare alla morte non aveva assolutamente quel carattere mor­ boso o macabro che associamo con la civiltà mesopotamica, a esempio, o con quella dell’antico Messico. La morte, per gli egizi, significava l’attesa e sperata continuazione dell’esistenza terrena nell’eternità. Di tanto in tanto si affacciava loro il pensiero che le gioie della vita sono forse più sicure di quelle dell’aldilà; e in ogni caso l’uomo saggio cercava di vivere il più intensamente possibile la sua breve esistenza sulla terra. La filosofia del carpe diem — stai allegro oggi perché domani potresti morire — è un tema ricorrente nella letteratura dell’antico Egitto. 27 British Museum, op. c i t A General Introductory Guide to the Egyptian Collec­ tions..., pag. 61. 28 Erman, op. cit., pag. x l iii . 29 Griffith, op. cit., pag. 5344.

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Gli abitanti del paese delle bibliche “piaghe” dovevano sopportare molte avversità; e la grande maggioranza di loro (lo dimostra la Satira dei mestieri) non aveva la vita facile. Nei testi giunti fino a noi sentiamo risuonare note di protesta sociale, persino accenni a qualcosa di simile alla lotta di classe; in tempi di crisi nazionali, come quello dello sfacelo politico deir Antico Regno, udiamo voci d’angoscia e di disperazione: è questo il caso degli Ammonimenti di Ipuwer, il saggio che si presenta al faraone per descrivergli (affinché “assaggi il sapore dell’infelicità” ) la rovina che lo circonda. Buona parte di quest’opera sembra esprimere il disgusto di un decaduto gentiluomo ancien regime per i cambiamenti sociali che vede avvenire intorno a sé; oggetti del suo disprezzo sono soprattutto i parvenus e gli avventurieri della politica. Troviamo vivide descrizioni dell’anarchia che regna in Egitto (“il paese gira su sé stesso come la ruota del vasaio” ), almeno agli occhi del vecchio aristocratico fegatoso: “Non solo, ma grandi e piccoli dicono: ‘Vorrei essere morto’” . Si commettono furti e assassini, e dappertutto è la rivolta: “Un uomo guarda al proprio figlio come a un nemico” . I virtuosi vanno in giro in cenci, i nobili muoiono di fame, mentre i gioielli “cingono il collo delle schiave... I servi diventano padroni di servi” . È il solito ritornello, fami­ liare anche a noi. Peggio ancora, i posti migliori sono occupati da stranieri, “che non sono uomini” . Il quadro è tuttavia rallegrato dalla visione di un più luminoso fu­ turo, Geremia diventa Isaia, e il lettore si trova davanti a quella che è forse la prima espressione di un credo messianico: Ipuwer tocca il li­ vello di un’eloquenza profetica quando annuncia la venuta di un principe salvatore: “Raffrescherà la fiamma. Gli uomini diranno: ‘È il pastore di tutto il popolo! non v’è ombra di male nel suo cuore. Se i suoi greggi si smarriscono, egli spenderà il giorno a cercarli... Sgominerà il male, quan­ do alzerà il braccio contro di esso... Dov’è oggi? Dorme forse fra voi30? ” I frammenti di opere poetiche dimostrano la sorprendente varietà della letteratura egizia che, nonostante il forte orientamento religioso, sperimentò nuove forme profane, compresi canti conviviali e liriche d’amore. I canti di trionfo celebranti le imprese dei sovrani costituiscono una categoria a sé, e persino gli inni religiosi trascendono le formule con­ suete ed esprimono la gioia di contemplare l’universo e le sue manifesta­ zioni. Già al tempo della XII dinastia (intorno al 2000 a.C.) sentiamo uno scrittore lamentarsi della difficoltà di trovare nuovi argomenti: “Vorrei avere a mia disposizione parole sconosciute, frasi e detti in una lingua ignota e non ancora consunta; e nulla di ciò che è stato detto troppe 30 J . H. Breasted, A History of Egypt, pag. 205. 201

volte, non un'espressione logora, nulla di ciò che i nostri avi hanno già detto31.” Solo la poesia epica e il dramma sono male rappresentati, ma anche qui le lacune potrebbero essere dovute non tanto al fatto che la lettera­ tura egizia fosse povera di opere appartenenti a questi generi, quanto ai casi della trasmissione dei testi. Sono sopravvissute alcune parti di “passioni” , che venivano regolarmente rappresentate in onore di Osiride ad Abido e Edfu. E la descrizione della battaglia di Ramses a Qadesh raggiunge statura epica, benché non sia paragonabile al Gilgamesh o alYlliade. Intensità di sentire, sensibilità alla bellezza e alle forze profonde della natura trovano superba espressione nel grande inno al dio sole Aten (Aton), che viene attribuito al faraone apostata Amenhotep IV (Ekhnaton) in persona. Ma anche questo, che è forse il più alto testo poetico egizio giunto fino a noi, non è unico: parecchi degli inni più antichi ad Amen-Re raggiungono un'altezza quasi eguale. In confronto con questi inni solenni la poesia d'amore egizia appare come la quintessenza della levità e della finezza; non v’è nulla di para­ gonabile nelle letterature antiche prima del periodo ellenico, e il Canti­ co dei Cantici ha qualcosa della sua sensualità orientale ma non della sua agilità ed eleganza alessandrine. Benché una traduzione letterale non possa renderne il tono, gli studiosi moderni vi hanno riconosciuto qualcosa che ricorda loro la malinconia e insieme l'arguzia dei versi romantici di Hei­ ne32. Pare che la maggior parte di queste poesie d’amore risalga agli ultimi tempi dell'Impero, fra il 1300 e il 1100 a. C.; è probabile che in origine fossero destinate a un accompagnamento musicale33, forse eseguito col liuto. Si noti la grazia di questo componimento, contenuto nel papiro Harris 500: La voce della colomba parla e dice: “La terra si rischiara. Qual è la tua via? Ti prego, no! Tu mi rattristi. Ho trovato mio fratello nel suo letto e il mio cuore è immensamente felice. Ci siamo detti l’un Paltro: Non andrò lontano da te la mia mano starà nella tua mano”. Passeggero qui attorno insieme a te in ogni luogo più bello. Egli mi ha resa la prima delle sue donne e non mi tormenta il cuore34. 31 Erman, op. cit., pag. 109. 32 Gardiner, op. cit., pag. 77. 33 D. Winton Thomas (a cura di), documents of Old Testament Times, New York, Harper Torchbooks, 1961, pag. 187. 34 Ibid., pag. 189.

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Se gli antichi egizi potrebbero a buon diritto essere considerati i creatori della lirica d’amore, i loro meriti sono anche piu evidenti nelle forme narrative in cui eccelsero: la fiaba, il racconto, il romanzo d’avven­ tura. Molti dei loro racconti fantastici ricordano le Mille e una notte, ma nonostante la presenza di un elemento fiabesco o soprannaturale sono una fonte importantissima per la nostra conoscenza della vita, della so­ cietà, della storia egizie. L ’anno 1852 vide una delle grandi sorprese dell’egittologia, quando uno studioso francese, il visconte Emmanuel de Rougé, al quale la signora D ’Orbiney aveva affidato un suo papiro acquistato di recente, pubblicò un articolo dal titolo Notice sur un manuscrit égyptien en écriture hiératique, écrit sur le règne de Merienptah, che includeva la traduzione di un racconto popolare egizio. Era il primo testo di questo genere pubblicato, e rivelava una nuova dimensione della ricca e varia letteratura egizia. Inoltre, il racconto poteva reggere il paragone con le fiabe dei fratelli Grimm e con quelle di Hans Christian Andersen. Si trattava della Storia dei due fratelli: una storia di cosi profonda umanità, con personaggi così vivi che ha poi sempre fatto la delizia dei suoi lettori. Uno fra i suoi meriti più grandi è quello di fornire particolari, colti con vivacità e sensibilità, della vita quotidiana della gente comune nell’Egitto del Nuovo Regno; molti elementi ricordano racconti di altri paesi, che nelle trame e nei personaggi riecheggiano spesso l’originale egizio. Il papiro della signora D ’Orbiney ha anche il pregio di essere intatto e di provenire dal laboratorio di un esperto scriba del quale ci è noto il nome; è, senza dubbio, uno fra i più bei papiri scritti in caratteri ieratici giunti fino a noi33. È stato possibile identificarne persino il primo proprie­ tario: secondo il colophon sul verso, l’opera apparteneva a un principe ereditario che avrebbe più tardi regnato con il nome di Seti II. La prima parte del racconto ci tocca con la sua semplicità, ma nella seconda l’autore ricorre a tanti espedienti magici che l’effetto — per lo meno dal punto di vista estetico — ne è sminuito. La trama è la se­ guente: due fratelli, Anupu e Bata, vivono sotto lo stesso tetto e insieme lavorano i campi. Tutto procede bene fino a quando non si mette fra loro la moglie di Anupu, che, come la moglie di Putifarre, cerca di se­ durre Bata. Un giorno, mentre dai campi tornano verso casa per andare a prendere sementi, la donna fa delle avances a Bata: “Dormiamo un’ora insieme. A te non ne verrà altro che bene, perché ti farò belle vesti3536.” Respinta, la donna pensa solo a vendicarsi del cognato, e con femminile astuzia lo accusa presso il marito della colpa di cui lei si è macchiata. Anupu, furibondo, si mette alla ricerca di Bata, deciso a ucciderlo. Av­ vertito dalle mucche, che hanno il dono della parola, Bata fugge, con il 35 Ibid., pag. 168. 36 Pritchard, op. cit.y pag. 24.

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fratello alle calcagna, finché fortunatamente interviene il dio del sole che fa scorrere fra i due un fiume brulicante di coccodrilli, salvando cosi Anupu dal commettere un fratricidio. Infine, a distanza di sicurezza, Bata riesce a persuadere della sua innocenza Anupu, che torna a casa e uccide la moglie. Il resto del racconto è impostato su una successione di prodigi e di miracolose trasformazioni che cospirano a portare Bata vicino al trono, con il fedele fratello al suo fianco. Infine, Bata diventa padre d’un futuro faraone. Il ritrovamento della Storia dei due fratelli fu solo Pinizio delle sco­ perte nella narrativa egizia; il racconto è anzi una delle meno antiche fra queste opere di fantasia, la maggioranza delle quali risale al Medio Regno, il periodo forse piu produttivo per la letteratura egizia profana. Il papiro Harris 500 ha restituito due bellissimi racconti, in uno dei quali è descritto il modo in cui Tahuti (Gehuti), generale di Tutmosi III, prese Joppa (Pantica Giaffa) con uno stratagemma che ricorda insieme il cavallo di Troia e Ali Babà e i quaranta ladroni. Tahuti fu un personaggio stori­ co; di lui rimangono anzi la spada e un dono con cui il regale padrone gli espresse la sua gratitudine per i servigi ricevuti; la storia di questa sua impresa potrebbe dunque essere basata su un fatto realmente ac­ caduto. Del tutto fantastico è Paltro racconto del papiro Harris 500, la ma­ gnifica storia del Principe predestinato, che si svolge interamente nel regno del soprannaturale; la narrazione è condotta con arte superba e con uno straordinario senso del suspense. Flinders Petrie, che come Maspero, Erman e altri pubblicò una raccolta di racconti egizi, la definì “un dizionario storico degli elementi necessari in un romanzo”37. Infatti vi sono usati tutti i trucchi per noi tradizionali (v’è anche una figlia di re che il padre tiene prigioniera in un castello), ma con grande abilità e, almeno per quanto ne possiamo sapere, per la prima volta. Se poi la vita del principe si concluda catastroficamente, come è stato predetto ai ge­ nitori prima della sua nascita, e in che modo avvenga la catastrofe (se effettivamente avviene), non abbiamo modo di sapere, perché la parte finale del papiro è andata distrutta. Il primo papiro Sallier ha restituito un racconto anch’esso di straor­ dinario interesse storico e forse parzialmente vero, nonostante la gran parte che vi hanno elementi di fantasia. Ci riporta al tempo dei re Hyksos, sovrani stranieri, asiatici, che dominarono la regione del Delta. Scena del racconto è lo scoppio della guerra egiziana di liberazione. Pare che per Apepy, il sovrano Hyksos, il principe indigeno tebano fosse una spina nel fianco. Apepy cercò quindi il modo di provocare il principe alla guerra — voleva, naturalmente, poter dire che era costretto a difendersi — e 37 Baikie, Egyptian Papyri and Papyrus-hunting, pag. 158.

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lo trovò: protestò contro gli ippopotami sacri, tenuti negli stagni di Tebe, il cui sguazzare, disse, lo teneva sveglio la notte (si noti che erano a più di cinquecento chilometri di distanza). L ’insulto, calcolato al fine di offendere i sentimenti religiosi dei tebani, ottenne l’effetto desiderato: Apepy ebbe la guerra. Per quanto ne sappiamo, riportò anche un notevole successo: al museo del Cairo si conserva oggi il cranio orrendamente fratturato dell’avversario, il principe tebano. Le ostilità però ripresero più tardi, e alla fine i successori tebani cacciarono gli Hyksos dall’Egitto; questo trionfo segnò l’inizio della XVIII dinastia e dell’Impero.

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Uno degli ultimi testi geroglifici conosciuti, del IV secolo d.C.

Quanto alla Storia di Wenamon, restituita da un papiro di el-Hibeh, suona cosi autentica che gli egittologi non sono ancora riusciti a stabilire se i fatti in essa narrati siano avvenuti realmente o siano frutto di fan­ tasia. È possibile che si tratti d’un resoconto di viaggio, abbellito con qualche frangia e dovuto a Wenamon, funzionario addetto al tempio di Amen-Re a Tebe, che fu mandato in Siria ad acquistare legno di cedro per ricostruire una barca da cerimonie e in Siria ebbe disavventure d’ogni genere. Queste sue disavventure sono descritte con realismo e umorismo. Il linguaggio è semplice, immediato, e lo scrittore dà prova di una forza descrittiva di prim’ordine. V ’è, a esempio, il breve schizzo di un signore locale a cui Wenamon fa visita in una città di mare, in Siria; non ha paralleli nella letteratura dell’epoca: “Lo trovai seduto nella stanza supe­ riore, con la schiena contro una finestra, e le onde del grande mare di Siria gli schizzavano la loro schiuma sul collo38.” Anche in questo racconto l’interesse sta nei numerosi riferimenti alla vita del tempo, che tracciano un quadro abbastanza chiaro della deca­ denza nell’Egitto ramesside, con i principotti autonomi nel Nord e il potere crescente della classe sacerdotale tebana. Le difficoltà di Wenamon in Siria sono dovute senza dubbio al declino del prestigio e del potere egiziani in quelle aree. In Siria-Palestina, nei pressi della moderna Haifa, 38 British Museum, A General Introductory Guide to the Egyptian Collections..., pag. 70.

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incontriamo invasori appena arrivati (probabilmente dalla Sicilia), e la cui venuta si può forse mettere in rapporto con le migrazioni dei Popoli del Mare e dei Filistei, venuti a occupare il litorale palestinese. Troviamo anche un interessante accenno all’esportazione di papiro dall’Egitto, quando il sovrano di Siria ne domanda cinquecento fogli in pagamento per la merce che gli viene chiesta. Nella Storia di Sinuhe (Sanehat) abbiamo il prototipo del romanzo d ’avventura. La vicenda del racconto — considerato il miglior prodotto dell’antica letteratura egizia — si svolge al tempo del Medio Regno, su uno sfondo realisticamente descritto. Come la storia di Wenamon, anche questa ci porta, durante l’esilio che Sinuhe si è imposto, in Siria. La popolarità dell’opera nell’antico Egitto è attestata dal numero relativa­ mente alto di frammenti che se ne sono rinvenuti; alcune frasi entrarono addirittura nel linguaggio quotidiano. Sappiamo, per esempio, che ma­ rinai della regina Hatshepsut furono salutati in un porto straniero esat­ tamente con la stessa frase con cui i barbari accolsero Sinuhe. La sua storia fu persino incisa in alcune tombe per divertire i morti. Un altro racconto ci conduce per l’appunto in una tomba e mostra un principe di sangue reale intento a giocare a dama con gli spiriti dei de­ funti: episodio allucinante che non esaurisce le attrattive dell’opera. Così, nell’ultimo secolo e mezzo, la letteratura egizia è rinata dalla polvere dei secoli, rivelando un’antica civiltà con un immenso rispetto per le lettere. Parecchie opere di natura religiosa o profana godettero per secoli una popolarità di portata nazionale; come fra i cinesi, i classici furono tenuti in gran conto, e ci si sforzò di far risalire le tradizioni let­ terarie a età molto più antiche e di rivalutarle, nello spirito di una rina­ scita letteraria. Furono infatti riscoperte o rimesse in circolazione opere di più antica data; il Libro dei Morti afferma di contenere, incorporato, un testo esso stesso riscoperto sotto la I dinastia. Un’altra scoperta del genere si dice fosse fatta dal principe Hordedef, un figlio di Khufu (Cheope), nel regno di Menkaure39, circa millecinquecento anni prima della com­ pilazione del Libro dei Morti. Non per nulla l’eroe di un antico racconto egizio precorre di circa tre millenni gli egittologi dei nostri giorni nella sua ricerca di un mano­ scritto “perduto” ; questa storia d’avventura ci è stata conservata da una copia in caratteri demotici, di età tolemaica, oggi al Museo del Cairo. Narra la vicenda del principe Setna (o Setem, o Setne Khaemwese, o Setme Khamaus), figlio di Ramses II, sacerdote di Ptah a Menfi, studioso appassionato di antichi rotoli, famoso nelle leggende egizie per le sue esplorazioni nel mondo dell’occulto. Nel racconto, Setna va a caccia di un papiro, scritto dal dio Thot in persona, che tratta di magia. Dopo una lunga ricerca, riesce a trovare il 39 Ibid., pag. 80.

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rotolo in una tomba di Mentì, dove impegna una gara con gli spiriti dei defunti; perde, ma senza tener conto di un ammonimento si prende il tanto desiderato manoscritto e si mette avidamente a studiarlo. Ben presto è perseguitato dalle anime dei morti, e la persecuzione lo porta sulle soglie della follia, finché il padre Ramses gli consiglia di restituire il papiro; in espiazione per aver saccheggiato la tomba, Setna promette di trasferirvi dalle loro tombe a Coptos le mummie della moglie e del figlio d’un de-

Rilievo raffigurante Ramses II, il longevo faraone della XIX dinastia, in atteggiamento affettuoso con una figlia. Si noti la corona di papiri sul capo della fanciulla.

funto: la caccia ai papiri si rivela dunque un’attività poco redditizia e abbastanza pericolosa. Benché designato a succedere a suo padre, Setna mori prima di questi, che sopravvisse a tredici dei suoi figli. Quello che sali infine al trono fu Meneptah, quattordicesimo nell’ordine dei possibili eredi. 207

I moderni cacciatori di papiri e saccheggiatori di tombe hanno avuto miglior sorte di Setna, benché alcuni di loro siano parsi perseguitati dai demoni. In ogni caso, ciascuno di loro ha contribuito alFadempimento di un’antica profezia, contenuta in un papiro scoperto negli ultimi anni: “Quanto ai sapienti scribi vissuti dopo gli dei, ...i loro nomi vivranno eterni dopo la loro scomparsa... e anche dopo che tutti i loro parenti saranno morti e dimenticati... Non hanno costruito per sé piramidi di bronzo con pietre tombali legate in ferro... Hanno scelto come sacerdotelettore [dei suffragi? ] il rotolo di papiro, come figlio amoroso la tavoletta da scrittura; i libri di studio sono le loro piramidi, la penna di canna il loro figlio, le superfici delle lastre di pietra una moglie... Un libro vale più che una stele incisa o una solida parete di tomba... L ’uomo muore, il suo corpo imputridisce, diventa polvere, e tutti i suoi parenti sono morti; ma grazie agli scritti il suo nome vien ricordato nella bocca del­ l’oratore. Vale piu un libro che la casa dell’architetto o una cappella fu­ nebre nell’occidente...40.”

40 Cit. da Georg Steindorff e Keith C. Seek in When Egypt Ruled the East, 2a ed., Chicago University Press, 1957, pag. 123.

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Capitolo XII LA BIBBIA D EI CANANEI E tu, figlio dell’uomo, prendi un mattone, ponitelo davanti, e disegnaci la città di Gerusalemme. E z e c h ie l e , 4, 1

Lo sfortunato Wenamon, il funzionario egizio che abbiamo accompa­ gnato nella sua avventurosa spedizione in Siria, consegna a un principe locale una partita di cinquecento rotoli o fogli di papiro; questo particola­ re del racconto semistorico dimostra che i siri del secondo millennio a. C. sapevano scrivere, avevano bisogno di materiale da scrittura e consuma­ vano grandi quantità di papiro. In un'altra parte del racconto il principe di Biblo (Gufai), importante città siriaca sulla costa del Mediterraneo, manda a prendere documenti di corte, cioè ancora rotoli di papiro, per controllare certi dati relativi agli affari conclusi in precedenza dagli egizi con suo padre e suo nonno. Cosa mai è accaduto di questi archivi siriaci? La risposta è semplice e sconfortante: nessun rotolo di papiro di tanta antichità è mai stato ritrovato fuori delPEgitto. Questo significa che pro­ babilmente non sono sopravvissuti documenti siriaci importanti? No, non necessariamente. I siri e altri popoli civili del Mediterraneo orientale usavano evidentemente il papiro ma, come gli egizi stessi, scrivevano an­ che su altri materiali, metallo, pelli di animali, cocci, legno, pietra; ma, soprattutto, “scrivevano sull’argilla”1, un materiale di gran lunga piu durevole del papiro, della pergamena o della carta. In ogni caso, per lungo tempo né in Siria né in Palestina tornarono in luce testi di qualche lunghezza, su nessun materiale: mancanza partico­ larmente gravosa per gli orientalisti e i biblisti, in quanto quella lunga 1 Titolo di libro di Edward Chiera, Chicago, Chicago University Press-Phoenix Books, 1956.

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striscia di terra — patria dei cananei, dei fenici, degli ebrei, punto di congiunzione fra Egitto e Mesopotamia — giocò una parte di primo piano nella storia antica del Vicino Oriente, e la sua letteratura avrebbe gettato luce sull’ambiente culturale e religioso che gli israeliti trovarono al loro arrivo in Canaan. Per tutto il XIX secolo, mentre Egitto e Mesopotamia restituivano in cosi gran copia documenti e opere letterarie perdute su un papiro e su argilla, dalla Siria e dalla Palestina non venne praticamente nulla. In assenza di prove in contrario, alcuni studiosi conclusero che i popoli

Antica iscrizione sumerica su tavoletta d’argilla, ca. 3000 a.C. I caratteri cuneiformi riflettono l’origine pittografica.

abitanti in quei paesi avevano ignorato nell’età del bronzo qualsiasi forma di letteratura “scritta” ; e gli estremisti della scuola “liberale” tedesca di studi biblici come Julius Wellhausen arrivarono a sostenere che gli ebrei non avevano posseduto scrittura almeno fino alla loro età dei Re: tesi implicante che tutti i libri della Bibbia sarebbero di composizione più tarda. Gli argomenti di Wellhausen e degli studiosi della sua scuola persero parte della loro forza dopo l’apparizione, nel 1887, delle tavolette di Teli el-Amarna, nell’alto Egitto, contenenti fra l’altro la corrispondenza dei faraoni della XVIII dinastia (XVI secolo circa a. C.) con i loro vassalli di Siria. Scritti in accadico, lingua internazionale del tempo, questi docu­ menti cuneiformi dimostravano che i sovrani siriaci avevano scribi alle loro dipendenze. Il papiro di Wenamon, ritrovato alla fine del secolo scor­ so, fu un’altra prova nello stesso senso. Tuttavia nessun materiale degno di nota tornato in luce in Siria infirmò la tesi di Wellhausen fino al 1929: l ’anno in cui, grazie a una scoperta casuale avvenuta sulla costa della Siria settentrionale, archeologi francesi riportarono in luce la biblioteca d’un tempio cananeo contenente tavolette d’argilla del XIV o XV secolo a. C. Fu così dimostrato che la Siria-Palestina possedeva un’evoluta tra­ dizione letteraria molto tempo prima dell’arrivo degli ebrei. E quando si esaminò il contenuto delle tavolette, non si tardò a capire che rap­ presentavano un capitolo interamente nuovo nella storia della lettera­ tura; per usare le parole di Cyrus A. Gordon, il miglior specialista in materia, esse costituiscono “il più importante arricchimento delle nostre

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conoscenze in campo letterario... dopo la decifrazione dei geroglifici egi­ ziani e dei testi cuneiformi mesopotamici nello scorso secolo”2. Nel marzo 1928 un contadino arava il suo campo nelle vicinanze di Minet el-Beida (“Porto Bianco” ) nella Siria settentrionale quando l’aratro urtò contro una lastra di pietra. Sollevato il pesante ostacolo, l’uomo potè accedere a una solida struttura sotterranea. All’estremità di un cor­ ridoio trovò una camera sepolcrale con copertura a volta, e secondo un costume secolare la saccheggiò; dei preziosi oggetti che si affrettò a ven­ dere sul mercato antiquario non si è mai trovata traccia. Frattanto la notizia del ritrovamento (con le inevitabili frange) si diffondeva rapidamente, e nel giro di pochi giorni arrivava all’orecchio del governatore francese del territorio, il quale a sua volta ne informava subito il Servizio antichità della Siria e del Libano, allora sotto la dire­ zione di Charles Virolleaud, noto orientalista. Virolleaud visitò di per­ sona il sito e mandò un assistente a fare ricerche preliminari. Nella tomba saccheggiata non si trovò nulla di molto interessante, ma l’assistente rac­ colse alcuni cocci e disegnò uno schizzo dell’ipogeo, materiale che fu inviato a Parigi per essere esaminato da René Dussaud, conservatore delle antichità orientali al Louvre. Il caso volle che Dussaud conoscesse bene l’area di Minet el-Beida; pochi anni prima aveva compiuto uno studio storico-geografico della Siria ed era stato colpito dalla posizione del porto, in una stupenda insenatura naturale cinta da scogliere di calcare, proprio sulla direzione del “dito puntato” di Cipro. Chissà se non era questo il Leukòs Limèn descritto da antichi geografi greci, il cui nome era l’equi­ valente esatto di quello attuale arabo? Dussaud era quasi certo dell’im­ portanza del “Porto Bianco” nell’antichità per i viaggi oltremare e per la navigazione nel Mediterraneo orientale. La località doveva inoltre essere stata un crocevia, il punto di convergenza della strada storica che univa l’Asia Minore alla Siria-Palestina e all’Egitto e di un’altra strada che saliva dalla Mesopotamia e univa il Golfo Persico col Mediterraneo. La vicinanza delle miniere di rame cipriote avrebbe potuto inoltre assicurare al porto una specie di monopolio di quel prodotto. Com’era possibile che gli abili marinai di Creta minoica e della Fenicia avessero trascurato un sito cosi privilegiato? Riflessioni di questo genere dovettero affacciarsi alla mente di Dus­ saud quando vide il materiale appena arrivato da Minet el-Beida. Ricordò anche gli occasionali ritrovamenti di sigilli inscritti con caratteri cunei­ formi su una collina delle vicinanze, Ras Shamra (“capo del finocchio” ), cosi chiamata in epoca moderna per le erbe fortemente aromatiche che vi crescono; e correva anche voce che gli indigeni raccogliessero in quella 2 Cyrus H. Gordon, Adventures in the Nearest East, Fair Lawn, N. J., Essential Books, 1957, pag. 104. 211

zona oggetti d’oro. Virolleaud e il suo assistente avevano già notato la forte somiglianza della tomba con architetture non asiatiche, minoicocipriote e micenee. Un’occhiata allo schizzo rammentò a Dussaud le tombe portate in luce dagli scavi di Sir Arthur Evans a Cnosso nell’isola di Creta; i frammenti di ceramiche rivelavano anch’essi un’origine ci­ priota e micenea, da situarsi forse intorno al X III secolo a. C. La conclu­ sione era chiara: per un certo periodo nel II millennio a. C. Minet elBeida aveva subito una forte influenza micenea. Fino a quel momento non era stato scoperto nessun centro miceneo sul continente asiatico — eccezion fatta per la costa della Ionia — benché le ceramiche “egee” ri­ trovate da Flinders Petrie in Egitto, fra resti risalenti al Nuovo Regno, testimoniassero dell’ampia diffusione di elementi micenei. Dussaud, profondamente interessato da questi chiari indizi di una penetrazione micenea nelle regioni costiere della Siria, non si lasciò sco­ raggiare dagli scarsi risultati degli scavi di prova; convinse invece l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres a organizzare una campagna in grande stile per arrivare sul posto prima dei saccheggiatori di tombe e dei trafficanti in antichità. Era convinto che la tomba non fosse isolata bensì facesse parte di una vasta necropoli micenea o egea, connessa con una metropoli un tempo fiorente, di cui si augurava di ritrovare il sito; e già sperava che la collina di Ras Shamra racchiudesse nelle sue viscere il segreto che cercava. Le autorità parigine non persero tempo: a un anno esatto dal ritro­ vamento della tomba a opera del contadino, una spedizione francese per­ fettamente equipaggiata iniziava i lavori presso il Porto Bianco, circa tredici chilometri a nord-ovest della città siriana di Latakia. La direzione degli scavi in quel sito promettente fu affidata a un giovane archeologo alsaziano, Claude F.-A. Schaeffer, del Museo Preistorico di Strasburgo, che si scelse come assistente l’archeologo Georges Chenet, come Schaeffer specializzato in preistoria dell’Europa occidentale. Non appena giunta a Minet el-Beida, alla fine del marzo 1929, e campeggiata, la squadra iniziò ricerche a largo raggio. Schaeffer non aveva dubbi: lì doveva esserci una vasta necropoli, esattamente come Dussaud aveva immaginato. Ma, ina­ spettatamente, il suolo si rivelò pieno di ogni sorta di resti. Fu una grossa sorpresa: s’era creduto che la Siria fosse stata esplorata a fondo dagli archeologi; inoltre, tutta l’area aveva visto succedersi per millenni ondate di invasori e di conquistatori, condizione non certo favorevole alla so­ pravvivenza di resti archeologici. I moltissimi oggetti riportati alla luce dagli scavatori francesi indicavano che il centro di Minet el-Beida aveva avuto molteplici rapporti con le maggiori civiltà del Vicino Oriente nella seconda metà del II millennio a. C., attuando una confluenza di elementi culturali eterogenei a proposito della quale l’egittologo americano J. H. Breasted ha parlato giustamente di “primo internazionalismo” . Schaeffer e Chenet trovarono delicati vasi minoici o micenei accanto

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a enormi giare indigene “degne dei nascondigli di Ali Babà” ; in certi posti scoprirono falli di grandi proporzioni e “molto naturalistici”3. Verso il centro della necropoli — dove fino a quel momento avevano trovato sol­ tanto ossa di animali, e nessuno di uomini — gli scavatori francesi misero in luce un gran numero di statuette e altri oggetti preziosi di notevole valore artistico, comprendenti rappresentazioni di divinità fenicie, egiziane e minoiche. Quando, in mezzo a gioielli di squisita fattura, brillò una placca d’oro su cui era rappresentata Astarte, dea dell’amore, Schaeffer informò Parigi con un cablogramma in cui parafrasava Schliemann: “È stato trovato il tesoro di Minet el-Beida” . Tanti inattesi ritrovamenti riempirono di comprensibile soddisfazione gli archeologi francesi, ma li posero anche davanti a un grosso problema: quello dell’identità culturale della necropoli. Le tombe testimoniavano di un’influenza in misura predominante egea (cioè non asiatica); ma v’erano anche segni della presenza di forti elementi indigeni, e tratti di ori­ gine egizia e ittito-anatolica. Non sarebbe stato possibile trovar soluzione alPenigma finché gli scavi non avessero messo in luce la città a cui la necropoli doveva essere appartenuta. Si sarebbe rivelata semplicemente una colonia di mercanti e marinai micenei? L ’antico porto era ancora da trovare. Buona parte della calda estate siriana era ormai passata, quando Schaeffer decise di spostare il centro delle operazioni — per le ultime set­ timane di quella prima campagna — a Ras Shamra, a un chilometro circa dalla baia. Era la collina che già aveva attratto l’attenzione di Dussaud. Alta circa venti metri, formava in vetta un largo rettangolo di circa 900 metri per 600. Sorgeva alla confluenza di due piccoli corsi d’acqua, ma geologicamente sembrava un elemento estraneo nella struttura di quella piana costiera. Si poteva supporre che fosse un teli, un grosso cu­ mulo come quelli sparsi in Mesopotamia, che hanno raggiunto l’altezza attuale in conseguenza duna lunga occupazione umana, con intermittenze di distruzione e di abbandono. Il sospetto trovò conferma non solo nel­ l’immediata scoperta d’una città di notevoli proporzioni connessa con la necropoli di Minet el-Beida, ma anche nella successiva penetrazione di Schaeffer al livello più basso, dove si trovarono i resti di un centro neo­ litico contemporaneo a quello di Tell Hassuna (Mesopotamia), del V mil­ lennio a. C. (resti paleolitici nella pianura circostante testimoniavano del fatto che Yhomo sapiens vi abitò sempre, dall’apparizione in Siria dei primi uomini in poi). Nel teli si poterono riconoscere cinque strati principali che, nel corso di ripetuti scavi, permisero di ricostruire nelle grandi linee l’evoluzione 3 Claude F. A. Schaeffer, “A New Page Opens in Ancient History”, Illustrated London News, voi. 175, 2 novembre 1929, pag. 764.

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della città e di individuarne le affinità politiche e culturali. Come il pri­ mo, così anche il secondo livello partendo dal basso (il IV) risaliva al­ l’età neolitica (circa 4000-3500 a. C.); vi si trovarono ceramiche del tipo di el-Obeid (o al-Ubaid) caratteristiche dei siti mesopotamici di questo periodo. Nel III strato apparve un elemento interamente nuovo, proba­ bile testimonianza delLarrivo di amorriti semitici, che da allora in poi avrebbero costituito il gruppo etnico dominante in Siria e avrebbero poi avuto il nome di cananei o fenici. A un’epoca relativamente poco più tarda, da situarsi nel II millennio, risalgono le testimonianze della pre­ senza di elementi egizi. Vi sono a esempio statue votive offerte da faraoni (e forse dalle loro mogli siriache), alcune con iscrizioni in geroglifici. Il quadro diventa più complesso nel II millennio, che vide la massima fio­ ritura della città, quando, sotto i grandi sovrani-costruttori del Nuovo Regno, principale fra loro Tutmosi III, tutta la Siria fu conquistata dal­ l’Egitto. La lotta per il potere che si svolse nel Vicino Oriente con il declino del Nuovo Regno, di cui troviamo un così chiaro riflesso nella corrispondenza diplomatica di Teli el-Amarna, lasciò tracce sotto la forma di incursioni hurrite, mitanne, ittite e assire. Nel XIV secolo Ras Shamra fu forse, per breve tempo, sotto il dominio del sovrano ittita Shuppiluliumash, dopodiché tornò ad affermarsi il potere egizio. La fine venne con lo sbarco dei vichinghi dell’antichità, i misteriosi “Popoli del Mare” , che qualcuno ha pensato di poter identificare con i filistei, a quel tempo im­ pegnati nel tentativo di mettere solidamente piede sulla costa della Pale­ stina meridionale. V ’è anche una possibilità che il colpo definitivo fosse assestato da conquistatori assiri nel secolo XII. Quanto ai micenei o mi­ noici, la loro influenza fu verosimilmente di natura commerciale e cul­ turale. Questi mercanti europei costituivano probabilmente una pro­ sperosa colonia straniera a Ras Shamra, una sorta di Shanghai del II mil­ lennio prima di Cristo. Tale profilo storico di Ras Shamra doveva emergere nel corso degli anni. Per la prima campagna di esplorazioni nelle viscere della collina (nel maggio 1929) Schaeffer scelse il punto più alto del pendio affac­ ciato sulla baia, dove pensava che sorgesse un tempo il palazzo reale. Inoltre correva voce che si fossero trovati sigilli sul fianco della collina, parzialmente dilavato ed eroso, al disotto di quel punto. Gli operai di Schaeffer avevano rimosso soltanto un sottile strato di terriccio quando emersero le mura di un grande edificio (che si rivelò poi per un santuario). Ceneri e fuliggine avevano aderito alle pietre e ora annerivano le mani degli scavatori. Un pugnale di bronzo e dei chiodi, contorti per l’espo­ sizione a un forte calore, rivelarono che l’edificio era stato distrutto da una conflagrazione. Vari oggetti e statue egizie permisero di stabilirne l ’età approssimativa al XIII secolo; una statua di granito donata da un faraone recava un’iscrizione geroglifica che consentì di datarla sicura­ mente al periodo dell’espansione imperiale egizia sotto i faraoni del Nuovo

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Regno. La statua era dedicata al dio “Seth di Sapuna” , e rappresentava la chiara testimonianza del fatto che già da molti anni esistevano intensi rapporti con PEgitto. Più tardi gli archeologi francesi notarono che pa­ recchie effigie egizie avevano Paria di essere state mutilate per deliberato proposito: indizio, molto probabilmente del declino del potere egizio e di dissensi internazionali. In questa prima fase degli scavi, la storia del passato della città ap­ pariva, inevitabilmente, ancora vaga; ma si poteva già dare per certo che Ras Shamra aveva avuto una lunga storia ed era stata qualcosa più che una semplice colonia egea o micenea. Siccome a quel tempo non erano disponibili dati provenienti da altre fonti, la vanga doveva fornire quegli anelli della catena che ancora mancavano. A questo punto, gli scavatori ebbero un favoloso colpo di fortuna. Schaeffer e i suoi uomini stavano procedendo, in un ampio semicerchio, intorno al cosiddetto palazzo. Sul lato orientale di questo, venne in luce un altro edificio di proporzioni abbastanza imponenti: più tardi si vide che si trattava di due templi, dedicati a Baal e a Dagon, sui due lati del “palazzo” . All’interno si trova­ vano numerosi piccoli locali, tutti della stessa misura, raggruppati intorno a un cortile centrale. Sulle prime Schaeffer pensò che quelle celle ser­ vissero da depositi e magazzini; ma il 14 maggio 1929, nell’angolo di una, trovò in mezzo a ceneri e pietre una tavoletta d’argilla coperta di caratteri cuneiformi. Non potevano esserci dubbi: si trattava di una biblioteca. L ’importanza di tutti gli altri reperti — splendide camere mortuarie, squisiti gioielli, statue, rilievi, oggetti d’ogni genere — impallidì davanti a questo. Nella biblioteca gli archeologi francesi trovarono — finalmen­ te — decine di tavolette d’argilla. Alcune erano ammucchiate ordinatamente in pile; poche altre erano state incastrate nel muro, forse come materiale da costruzione. Per rimuoverle fu necessario usare ogni deli­ catezza, perché il fuoco e altri fattori le avevano rese estremamente fra­ gili. Compiuta con successo questa delicata operazione, Schaeffer e Chenet poterono considerarsi sicuri di avere recuperato il vero tesoro di Ras Shamra; prima della fine della stagione le tavolette messe al sicuro erano più di cinquanta, e parecchie altre furono riportate in luce nelle succes­ sive campagne di scavi condotte annualmente fino al 1939 e riprese nel 1948. Nel 1953, nel corso degli scavi al palazzo reale, Schaeffer trovò i principali archivi diplomatici. Né Schaeffer né il suo assistente Chenet erano orientalisti, e per es­ sere decifrate le tavolette dovettero aspettare di raggiungere Parigi. Per fortuna Charles Virolleaud, che stava per lasciare il suo posto a Beirut, potè farne un primo esame. A prima vista le tavolette apparivano mate­ rialmente identiche a quelle provenienti dall’Assiria e dalla Babilonia. Tuttavia, anche il breve esame di un esperto bastò per riconoscere i segni innegabili di una diversità etnica e culturale, il riflesso di conquiste e colonizzazioni e del cosmopolitismo caratteristico di un grande porto.

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L ’identità di quest’ultimo appariva ancora dubbia; si sperava che le tavolette d’argilla avrebbero contribuito a chiarirne la storia, arricchendo nello stesso tempo la nostra conoscenza di un’epoca cruciale, in cui grandi imperi vacillavano e crollavano, i Popoli del Mare compivano incursioni sulle coste e popoli “marginali” come gli ebrei, i fenici e gli aramei affer­ mavano per brevi periodi la propria indipendenza. Nel corso dell’esame iniziale Virolleaud riconobbe tavolette quasi identiche a quelle di Teli el-Amarna: risalivano all’incirca alla stessa epoca, e come quelle contenevano comunicazioni diplomatiche. V ’erano inoltre lettere di carattere ufficiale o personale, conti delle tasse, docu-

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Dal Codice di Hammurabi (II millennio a.C.): scrittura silla­ bica cuneiforme di Babilonia.

menti di templi, un trattato ippiatrico, una lista d’imbarco, registrazioni di transazioni economiche e altri documenti amministrativi d ’ogni genere. La maggior parte di questi testi non letterari era in accadico (“babilone­ se” ) e di facile lettura. L ’esistenza di stretti rapporti con la civiltà mesopotamica fu confermata dalla presenza di testi legali e religiosi sumerici, tenuti in tanto conto nella città siriaca come a Ninive o a Babilonia, e oggetto di altrettanto studio; questo, quando da piu d ’un millennio il sumerico aveva cessato di essere una lingua viva. Si trovarono inoltre parecchie liste di sinonimi, tavolette bilingui, dizionari, ecc. per aiutare gli scribi nel loro lavoro e i principianti nell’apprendimento dei vari idiomi in uso e delle regole di composizione. Esercizi scritti con mano inesperta

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indicavano che la biblioteca era stata sede di una scuola per scribi oltre che di un istituto di più alto livello per sacerdoti colti, sul tipo di quelli addetti ai templi egizi e mesopotamici. Il materiale portato in luce da scavi successivi confermò di là da ogni dubbio che la città era stata veramente poliglotta, benché le radici semitico-mesopotamiche della cultura indigena conservassero tutto il loro vi­ gore. Col tempo, la biblioteca restituì anche testi in lingua ittita, egizia /

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pagg. 212-13.

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piziazione rituale degli dei, benché qui siano in primo piano personaggi reali umani o piuttosto semidivini. Fortunatamente, i due avanzi di poe­ mi ci illuminano anche, in qualche misura, sulla vita dei cananei. In en­ trambi, è vivissimo negli eroi il desiderio di un figlio maschio; come nel caso di Abramo, Dio annuncia alFuomo il felice evento ancor prima che abbia avuto inizio il processo biologico che con quello si concluderà. Gli dei sono anche ospitati con magnificenza dagli uomini, come nella leg­ genda greca di Anfitrione. E, benché fino a questo momento non sia stata ritrovata la fine di nessuno dei due poemi, è quasi certo che si concludano entrambi con la resurrezione dell’eroe o il suo ritorno alla giovinezza. La leggenda di Keret (KRT) è in tre tavolette frammentarie recanti il colophon di un re di Ugarit vissuto nel XIV secolo a. C. Racconta la storia di un sovrano di Siria che come Giobbe ha perduto tutta la sua famiglia e ne ha il cuore spezzato. Lo vediamo ritirarsi nella sua stanza, piangendo con l’abbandono caratteristico degli eroi mediterranei. Le lacrime cadono a terra grosse come monete. H a la barba intrisa di pianto, e nel piangere si addormenta: il sonno lo vince, lo costringe a giacere, diventa fondo e pesante, gli fa chinare la testa. E nel suo sogno discende El, nella sua visione il Padre dell’uomo. E gli si avvicina dicendo a re Keret: “Che cosa affligge Keret e lo fa piangere, che cosa addolora l’amato, il figlio di E l, e lo fa gemere34? ”

El consiglia a Keret di prendersi una moglie: la bionda figlia di Pabel, il potente re di un luogo remoto, Udum (Edom?), dalla quale avrà molti figli. Seguendo il consiglio, Keret raccoglie un numeroso esercito per as­ sicurarsi il consenso del suocero potenziale. Lungo la strada, si ferma a rendere omaggio al sacrario di Asherah, dea suprema, alla quale promet­ te doni generosi se la spedizione avrà successo. Giunto a Udum con un esercito di parecchi milioni di uomini (per non correre il rischio di un ri­ fiuto), Keret chiede in moglie la principessa: Bionda e bianca come è bianca e bionda Anat, bella come è bella Ashtoret, con iridi che hanno il purissimo azzurro dei lapislazzuli, pupille che rilucono come giaietto35.

Pabel non vorrebbe dare sua figlia, ma deve cedere alla pressione 34 Pritchard (a cura di), op. cit.y pag. 143. 35 Ibid., pag. 144.

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dell’indisciplinato esercito di Keret, che minaccia di ridurgli in rovine il paese. Tutto va come Keret ha desiderato; col tempo mette insieme una fa­ miglia numerosa, con bellissimi figli e figlie. Ma ha dimenticato di adem­ piere il voto fatto alla dea Asherah: verso la fine della storia Keret di­ venta debole mentre, in preordinato sincronismo, il paese e il popolo decadono e si impoveriscono. Il figlio del re, come un altro Assalonne, insorge contro di lui e gli ordina di cedere il potere, e la tavoletta termina con Keret che invoca la maledizione degli dei sul figlio ribelle. Seguiva probabilmente un’altra tavoletta in cui l’ira della dea veniva placata e Keret riaveva l ’antico vigore, il suo paese l’antica prosperità36. Nel racconto di Aqhat, dei e uomini si mescolano più liberamente. Quando il frammento fu scoperto, gli venne dato il titolo di “Epopea di Danel” (o Dan’el), il padre dell’eroe, ma un verso all’inizio, decifrato più tardi, fa apparire più probabile l’altro titolo. Danel si può forse identificare con quel Daniele (che non è l’omonimo profeta) di cui Eze­ chiele parla in parecchie occasioni come d’un saggio e d ’un santo, nomi­ nandolo addirittura in connessione con la città cananea di Tiro. Anche il Danel ugaritico è un giusto, un uomo timorato di Dio, come Keret in gioventù (“Giudica il caso della vedova, dirime la causa dell’orfano” ), ed egualmente rispettoso dei suoi doveri verso gli dei. E alla fine Baal interviene, con El, per sollevarlo dall’infelicità di non avere, diversamen­ te dai suoi fratelli, figli maschi. A Danel bisogna dare un figlio. Quando nunzi divini gli recano la buona novella, egli è fuori di sé dalla gioia. Il felice evento sarà celebrato con sette giorni di festa, generose distribuzioni di vino e di cibo, divertimenti per tutti. Il figlio di Danel, Aqhat, cresce circondato dall’amore del padre. Un giorno, mentre tien corte fuori le mura della città, Danel vede Kothar-wa-Khasis (il corrispondente esatto di Efesto-Vulcano), il dio delle arti manuali, il divino fabbro; invita il dio alla sua casa e dalla mo­ glie gli fa cucinare un piatto speciale, cosi ottenendo in dono per Aqhat un potentissimo arco. Mentre è a caccia con la sua nuova arma, Aqhat s’imbatte nella dea vergine Anat, che vede l’arco meraviglioso e lo vuole per sé; Aqhat si rifiuta di cederlo, e non si lascia conquistare neanche dalla promessa di ricchezze favolose. Suggerisce invece, un po’ insolente, che la dea vada da Kothar e si faccia fare un nuovo arco. Anat insiste, promettendo al giovane addirittura la vita eterna, offerta a cui Aqhat reagisce con sdegnoso scetticismo. Come può un semplice essere umano conseguire l’immortalità? Qui il poema riflette quell’atteggiamento pes­ simistico nei confronti del destino ultimo dell’uomo che ha già trovato espressione nel Gilgamesh. Aqhat non prende sul serio l ’assurda promes­ sa; non ha dubbi sul fatto che un giorno diventerà vecchio, che i suoi 36 Gordon, Adventures in the Nearest East, pag. 99.

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capelli diventeranno bianchi. Ostinatamente respinge con una spallucciata la vana proposta della dea e, aggiungendo l’insulto all’ingiuria, chiede che cosa mai voglia fare una donna con un’arma destinata a un uomo, un guerriero. È il definitivo, imperdonabile affronto. Anat esce in una risata a denti stretti, mentre già medita vendetta. Espone le sue lagnanze direttamente al padre El, deliziandolo con un altro dei suoi accessi di collera, e come il solito il padre cede ai suoi capricci. Anat assolda allora un sicario per attuare il proprio piano: dal testo mutilato si riesce a capire che progetta una specie di finto assassinio e riporterà Aqhat alla vita non appena sarà riuscita a mettere le mani sull’arco agognato. Ma il sicario esegue male gli ordini, e l’eroe ucciso è divorato da un avvoltoio prima che la dea abbia potuto risuscitarlo. La morte di Aqhat determina una disastrosa siccità. La sorella inter­ preta esattamente il triste presagio e avverte il padre, che si mette alla ricerca del cadavere dell’eroe per dargli sepoltura. Connette gli avvoltoi con l’assassinio, e chiede aiuto a Baal: gli uccelli sono abbattuti uno a uno, affinché Danel possa esaminarne le interiora, ma in nessuno si trova traccia di Aqhat, e il dio misericordiosamente li resuscita. Infine viene abbattuta la madre avvoltoio, ed ecco, è stata lei a divorare la carne e le ossa di Aqhat. Danel prende i resti di suo figlio e li seppellisce, dopodi­ ché torna al palazzo per sette anni di lutto e di pianto. Pughat, la figlia di Danel, ha nel frattempo scoperto l’assassino del fratello, che, sotto gli effetti del vino, mena vanto del suo delitto. A questo punto il testo è mutilo, ma possiamo dare per certo che l’uccisore riceve ciò che merita e gli dei restituiscono Aqhat al padre: almeno, come Proserpina è restituita alla madre Demetra, per una parte di tempo. Le tavolette cuneiformi contengono altri miti e leggende cananei. Un racconto cosmogonico della nascita degli dei è presentato sotto forma di “libretto” , completo di istruzioni per la messa in scena. Un altro testo, che parla del dio della luna Yarih innamorato della dea Nikkal, comin­ cia come PEneide e altri poemi epici occidentali: “Canto di Nikkal...”37. Il recupero della letteratura cananea attraverso le tavolette cuneifor­ mi del teli di Ras Shamra ha aggiunto nuove dimensioni alla nostra cono­ scenza dell’antico Vicino Oriente. Il fatto che le tavolette ci abbiano restituito gli antecedenti dell’Antico Testamento è solo uno fra i loro molti ed eccezionali meriti; come creazioni letterarie, i testi hanno un fascino che trascende il loro valore erudito. Alcuni studiosi si sono detti scandalizzati dalla violenza e immoralità degli dei cananei, e hanno visto nella religione ugaritica una forma grosso­ lana di politeismo. Questo giudizio non tiene conto del fatto che il giudai­ 37 Ibid., pag. 96.

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smo fu influenzato dalla più primitiva religione cananea sia quando ne mutuò certi elementi sia quando reagì contro di essa. Tenuto conto di tutto ciò, dobbiamo considerare quel popolo con cre­ scente rispetto, giacché, pur con la loro grossolanità e primitività, la mi­ tologia, le leggende, le credenze cananee sono un precedente legittimo della tradizione giudaico-cristiana. Il fatto che un antico popolo, l’inven­ tore dell’alfabeto, possa ora parlarci attraverso la sua letteratura rappre­ senta un’altra conquista per il sapere.

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PARTE QUARTA

AVVENTO DELLA PERGAMENA: IL NUOVO TESTAMENTO

Capitolo XIII TISCHENDORF ALLA RICERCA DEL NUOVO TESTAMENTO “M IG LIO RE”

...il roveto ardeva senza consumarsi... E sodo , 3, 2

Al principio degli anni trenta corse insistente la voce che il governo sovietico meditava di vendere preziosi oggetti antichi e opere d’arte: il regime comunista aveva bisogno di denaro per comprare macchinari stra­ nieri, e parecchi mercanti e collezionisti americani erano in trattative con PAmtorg, l’organizzazione commerciale sovietica. Il famoso Abraham S. Walf Rosenbach, principe dei mercanti di libri rari, si credeva pros­ simo a concludere il più grosso affare della sua vita: sperava di assicu­ rarsi un libro che anche lui, disincantato uomo di mondo, considerava “il più importante, il più entusiasmante, il più prezioso che esista sulla terra”1. Benché abituato alle grosse cifre, aveva detto ai bolscevichi che chiedevano assolutamente troppo; ma aveva lasciato aperte le trattative e sperava che si potesse arrivare a un compromesso. Frattanto anche un pittoresco senatore del Texas, Harry L. Darwin, contrattava con i russi, per assicurare l’antico codice alla Chiesa metodista episcopale cui apparteneva12. Ma ecco, d’improvviso, una notizia che fu per i due americani una folgore a ciel sereno: due giorni dopo il Natale del 1933 il British Museum annunciava di avere acquistato dai russi il Codice Sinaitico per 1 Edwin Wolf II, con John F. Fleming, Rosenbach, Cleveland, The World Publishing Co., 1960, pag. 367. 2 “The Greatest Book Purchase on Record” , Literary Digest, voi. CXVII, 6 gen­ naio 1934, pag. 39.

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la somma più alta che fino a quel tempo fosse mai stata pagata per un libro: 100.000 sterline, pari, al cambio d’allora, a qualcosa più di mezzo milione di dollari, era però meno di metà della cifra richiesta dai sovietici quando avevano offerto il codice a Rosenbach, come egli stesso disse a un cronista del New York Herald Tribune). Lunghe e segrete trattative ebbero cosi una conclusione che fu ap­ plaudita come il più importante acquisto d’ogni tempo in campo librario. Per coprire la spesa venne indetta una sottoscrizione pubblica, e la rispo­ sta fu cosi entusiastica che la cifra non tardò a essere superata. L ’interesse per l’antico codice fu molto stimolato da una profusione di articoli nei quotidiani, cui se ne aggiunsero altri, sensazionali e non sempre attendibili, nei supplementi domenicali. Non appena il mano­ scritto fu esposto al pubblico nel museo, processioni di visitatori comin­ ciarono a sfilare, interminabilmente, davanti alla bacheca che lo racchiu­ deva. Questo interesse, per usare le parole di Sir Frederic Kenyon, che aveva giocato una parte di primo piano nelle trattative, dimostrò “una volta di più l’attaccamento dei popoli di una lingua inglese per la Bibbia”\ Molto meno benevolo il giudizio di Aldous Huxley, che vide nel fenomeno una manifestazione di feticismo: “Se considerate l’idolatria una buona cosa, approverete incondizionatamente l’acquisto del Codice. Guarda caso, io considero l ’idolatria una cosa pessima34.” Il laburista Daily Herald arrivava a definire la compera “una volga­ rissima ostentazione da volgarissimi ricchi”56, mentre The Nation, setti­ manale americano indipendente, osservava scherzosamente che tutti avreb­ bero dovuto essere contenti: “Il Cremlino... per avere scambiato un relit­ to di ‘oppio dei popoli’ con 510.000 pezzi di ottima valuta cristiana, pingue sommetta che potrà essere utilmente impiegata nell’industrializza­ zione della Russia... Ramsay MacDonald [il capo del governo inglese, laburista] sarà contento di aver dimostrato ai suoi amici conservatori che un Primo Ministro laburista non è poi un barbaro; e i comunisti trove­ ranno efficaci argomenti polemici nello spettacolo di un primo ministro laburista che con una mano acquista una Bibbia del quarto secolo e con l’altra riduce i sussidi di disoccupazione ai lavoratori del secolo ven, 6 »» tesimo . Ma, mettendo da parte i risentimenti politici, non si poteva negare che il Codice rappresentasse uno dei più begli esemplari esistenti di arte calligrafica del IV secolo d. C. né che, nella situazione esistente allora, il British fosse un miglior soggiorno della biblioteca di Leningrado. Per 3 4 1934, 5 6

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F. G. Kenyon, The Story of the Bible, Londra, John Murray, 1936, pag. 1. Aldous Huxley, “Reflections on the Codex” , London Mercury, voi. XXIX, febbraio pag. 303. Literary Digest, voi. CXVII, 6 gennaio 1934, pag. 39. The Nation, voi. CXXXVIII, 3 gennaio 1934, pag. 3.

Papiro aram aico sigillato provenien­ te d all’isola di Elefantina sul N ilo, presso A ssuan nell’A lto E gitto. B r o o ­ klyn M u seu m .

M um m ia egizia proveniente da D eir el Bahri presso Tebe. Q uando gli ar­ cheologi l ’ebbero parzialm ente sfa­ sciata, si rinvenne un rotolo di papi­ ro, che la mummia sem bra stringere in una mano. N ew Y o r k , M e tro p o li­ tan M u seu m of A rt.

Sepolto sotterra per oltre due millenni, poi chiuso nei depositi d ’un m useo, un papiro aramaico proveniente da Elefantina viene finalmente svolto da un esperto con delicate tecniche di laboratorio. B ro ok ly n M u seu m .

Un papiro egizio di notevole lunghezza fotografato prim a di essere svolto e m ontato in vetro; sul lato esterno è inscritto in bellissim i caratteri ieratici. D u b lin o , C h e ste r B ea tty L ib rary .

Particolare d ’un papiro funerario della XXI dinastia (1 090-945 a.C .), portato in luce dalla m issione del M etropolitan M useum of A rt di N ew Y ork a Deir el Bahri, presso Tebe. Vi è raffigurata H enttow e con u n ’offerta davanti a O siride, dio dei morti.

Papirologi della Sorbona staccano brandelli di papiro scritto da quello che fu l ’involucro di una m umm ia del I I I secolo a.C .; è stato trattato p ri­ ma con acido cloridrico per lavar via il gesso, poi con un bagno a vapore.

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mmstm Antica attrezzatura per scrivere, risalente alla X II dinastia o M edio Regno (ca. 2000-1780 a.C.). M ateriali e strum enti da scrittura non subirono m uta­ menti sostanziali in tutti i tremila anni di storia d ell’antico E gitto. A destra e a sinistra si vedono due astucci di legno per penne di canna o pennelli da scrittura. La bassa ciotola di ossidiana al centro serviva per diluire l’inchio­ stro. L a scatola di legno a destra è un calam aio. Il mazzuolo di legno era usato per battere i fogli di papiro e unirli insieme. La lettera al centro, scritta da un sacerdote addetto ai riti per i defunti, è a colonne verticali in caratteri ieratici d ell’X I dinastia. N ew Y o r k , M e tro p o lita n M u seu m o f A rt.

D ocum enti d ’argilla, di varie form e, inscritti in caratteri cuneiformi. L ’og­ getto esagonale, a sinistra, è il fam oso “ prism a di Sennacherib” rinvenuto a Ninive e oggi all’O riental Institute d ell’U niversità di Chicago. I due oggetti piu piccoli, in form a di botti, risalgono ai regni di N abucodonosor (605-561 a .C .) e Sargon II (722-705 a.C.).

Com e si scrive su ll’argilla: ricostruzione m oderna. C h ica g o , O rie n ta l In stitu te deW U niversità.

Un foglio pergam enaceo del C o d e x S in a itic u s viene steso, al British M u­ seum , prim a delle operazioni di rilegatura.

Il M onastero di Santa Caterina ai piedi del M onte Sinai, nella penisola om onima. F o to B ritish M u seu m .

Agnes Smith Lew is e M argaret D unlop G ibson nel deserto del Sinai.

Fotografia a raggi infrarossi di una pagina del C o d e x E p h ra e m i ( S y r i ) R e sc r ip tu s , il palinsesto pergam enaceo della Biblioteca N a­ zionale di Parigi. Lo scritto po­ steriore è una traduzione greca, del X II secolo, di un’opera di san­ to Efrem , teologo siriaco.

Fram m ento su velino del D ia te ssa ro n , riportato in luce dagli scavi nell’avam ­ posto ellenistico-romano di D ura Europo, su ll’E ufrate. Il m inuscolo fram m en­ to è considerato il più antico docum en­ to neotestam entario su velino. U n iv e r­ sità d i Y ale. I

I m anoscritti gnostici di Chenoboskion, provenienti d all’E gitto, scoperti quasi contem poraneam ente ai rotoli del M ar M orto, sono una vera bibliote­ ca di libri antichi straordinariam ente ben conservati. © 1 9 5 8 L ib ra irie Plon.

G renfell e H unt in una cam pagna di scavi del periodo 1896-1907. O x fo rd , A sh m o lean M u seu m .

Fotografia aerea degli edifici m onastici, parzialm ente riportati in luce, di Khirbet Q um ràn, al som m o delle ripide pareti di roccia dello U adi Qum ràn fra i monti della G iudea. In prim o piano sono visibili parecchi ingressi di grotte. G e ru sa le m m e , M u seo A rch eologico P a lestin ese.

Un esperto d ell’U niversità Ebraica di G erusalem m e svolge un rotolo del Mar M orto. I

I due rotoli di bronzo cosi come furono trovati in s i t a , nella G ro tta I I I di Qum ràn. M olto ossidati, i due pezzi form avano forse in origine un foglio con­ tinuo; per svolgerli si dovettero superare difficili problem i tecnici. G e r u sa ­ le m m e . M u seo A rch eologico P a lestin ese.

Studiosi al lavoro su fram m enti dei rotoli del M ar M orto nel cosiddetto “Scrollerv" del M useo A rcheologico Palestinese di G erusalem m e.

Sir Aurei Stein (1 8 62-1943), in un disegno di Sir W illiam Rothenstein. L o n d ra , N a tio ­ nal P o rtra it G allery .

Veduta parziale delle G ro tte dei M ille Budda presso Tun H uang nell’estrem o ovest della Cina. L ’erosione, agendo su roccia tenera, ha distrutto la m ag­ gior parte dei portici anteriori, ma nelle gallerie interne si conservano grandi santuari spesso adorni di stupendi affreschi antichi e di imponenti statue del Budda in stucco. F o to B ritish M useum .

D ocum enti non cinesi provenienti d all’antica biblioteca delle G rotte dei M ille B udda: 1. testo religioso sanscrito su foglie di palm a; 2. rotolo di carta con una “ C onfessione di Peccati” manichea in paleoturco; 3. libro in turco runico; 4. e 6. testi uigurici in form a di libro; 3. p o th i (fogli oblunghi, a form a di foglie di palm a, perforati) in scrittura brahmi corsiva dell'A sia centrale; 7. rotolo, anche questo in brahmi corsiva, sul verso di un testo ci­ nese; 8. rotolo sogdiano; 9. foglio p o th i da un testo buddista tibetano. B r i­ tish M u seu m .

Un esemplare del S u tra d e l D ia m a n te , testo sacro buddista: è il più antico libro a stampa del mondo, delP868 d.C., mezzo millennio prima di Guten­ berg. B ritish M u seu m .

R itratto del vescovo D iego de Landa, nella chiesa parrocchiale di D am ai. Yucatan. N el corso d ’una spietata cam pagna per estirpare i culti idolatrie: indiani, Landa consegnò alle fiamme m anoscritti indigeni; eppure, ironia del­ la storia, dobbiam o a una sua opera m olto di ciò che oggi sappiam o della cul­ tura maya. P ea b o d y M u seu m , U n iv e rsità di H arv a rd .

Stele inscritta di Copan, H onduras: da un disegno di Frederick Catherw ood per il libro di J. L. Stephens In cid e n ts o f 'Travel in C en tra l A m erica, C h ia ­ p as, an d Y u catan (1 8 4 1 ). M onum enti come questi, con iscrizioni gerogli­ fiche, venivano eretti dai maya a intervalli regolari, per segnare il passar del tempo.

età e autenticità, solo il Codice Vaticano a Roma poteva reggere il con­ fronto con il Sinaitico come testo biblico; il secondo era anzi, e rimane, il piu completo Nuovo Testamento di epoca così alta. Le vicende singolarissime e poco note che ne accompagnarono la scoperta sono uno degli episodi più avvincenti nella storia dell'uomo alla ricerca di documenti del suo passato. In Constantin von Tischendorf, cercatore di antiche verità, quelle vicende ebbero un protagonista tanto ostinatamente dedito al perseguimento dei suoi fini quanto lo fu un suo compatriota e contemporaneo di poco più giovane: Heinrich Schliemann. La sua carriera, come quella di Schliemann, fu pittoresca e coronata da straordinari successi; anche lui, come Schliemann, fu condotto dalle sue ricerche in Oriente, e sperimentò di persona la decadenza culturale, la corruzione, l'abitudine alPintrigo e all'inganno caratteristiche dei paesi del Vicino Oriente sotto il dominio ottomano. Schliemann scavò avendo come bibbia Omero, mentre tutti gli sforzi di Tischendorf, un teologo, si incentrarono sulla Bibbia stessa, e in parti­ colare sul Nuovo Testamento. Diversamente da Schliemann, Tischendorf fu immune da qualsiasi tendenza alla mitomania e rimase innanzitutto e sempre uno studioso ben provvisto di senso critico, che cercava di chiarire i problemi dei più antichi testi biblici. Tuttavia, non fu mai scosso nella sua fede; la ricerca, l'analisi, la critica testuali furono anzi per lui un'arma formidabile contro i san Tommasi del suo tempo, che appunto allora co­ minciavano, con i loro dubbi, a trovare ascolto presso alcuni eminenti teologi tedeschi, ad assicurarsi cattedre universitarie, a conquistare stu­ denti impressionabili col canto di sirena dell'interpretazione razionalistica della Sacra Scrittura. Fin da quando lo studioso di letterature classiche Friedrich August Wolf aveva formulato la “questione omerica” e contribuito, verso la fine del XVIII secolo, a fondare la scienza moderna della filologia, i tedeschi avevano detenuto quasi un monopolio nello studio critico delle letterature antiche. Wolf aveva negato l'esistenza di Omero e attribuito la paternità dei due grandi poemi a diversi autori; le sue argomentazioni si erano fondate su un'analisi rigorosa, se non rivoluzionaria, dei testi tramandati, e il suo metodo era stato ulteriormente elaborato da altre generazioni di studiosi tedeschi. Nessuno può negare che le ricerche filologiche e storiche tedesche (le due cose furono per qualche tempo quasi intercambiabili) rappresen­ tino una delle massime conquiste del secolo scorso e abbiano contribuito a fare del nome Germania quasi un sinonimo di erudizione insieme scru­ polosa e brillante. Fu quello un tempo in cui un poeta tedesco poteva lamentare che il suo amato paese fosse tanto ricco di pensiero (gedankenreich) e cosi povero di azione (tatenarm): lamento che purtroppo non trovò orecchie sorde. 241

Ma i dotti tedeschi colsero forse i più brillanti successi quando gli strumenti forgiati e affilati nel campo della filologia classica furono appli­ cati alla teologia; emerse qui una disciplina di studi biblici chiamata “alta critica” e “bassa critica” , a seconda che si occupasse rispettivamen­ te del contenuto e del testo della Sacra Scrittura. Come ogni altra cosa al mondo, la critica biblica aveva avuto dei precedenti: le sue origini si possono far risalire a Abelardo e Spinoza, se non addirittura a Origene e san Gerolamo. La critica biblica è stata spesso posta sullo stesso piano dell'agnosticismo e dello scetticismo come un pericolo per le tradizioni cristiane. Ed è vero che molti “critici” del XIX secolo analizzarono il testo biblico al fine di metterne in dubbio la paternità attributiva, il luogo e la data di origine, il modo di trasmissione e canonizzazione. Il nome famoso di Julius Wellhausen è associato con una dissezione del Pentateuco in par­ ti diverse per composizione, e da inquadrare su un diverso sfondo stori­ co. Altri arrivarono al punto di dichiarare spuria Porigine evangelica dei documenti apostolici, definendo la dottrina cristiana poco più che una combinazione “sincretistica” di vari culti e filosofie ellenistici o, per usa­ re una frase molto irriverente di Norman Douglas, una “macedonia di frutta alessandrina” . Contro tali tendenze critiche il giovane Tischendorf protestò fin dalPinizio; ma, per controbattere razionalisti e positivisti, non scelse la strada dell'oscurantismo: citando Tertulliano, ricordò ai timidi che Cristo aveva chiamato sé stesso la Verità, non un'abitudine. Tischendorf era convinto che la religione cristiana sarebbe uscita vittoriosa da qualsiasi battaglia combattuta con le armi della critica, che a una critica negativa si poteva rispondere efficacemente solo con un'altra critica, che l'analisi e il dubbio sono l'indispensabile punto di partenza dello studioso e ri­ spondono a una necessità metodologica. In tale spirito adottò come suo motto queste parole: Am Zweifel erstarkt dìe Wissenschaft, Doch nur der Glaube kann sie beiligen.7 La natura del contributo di Tischendorf agli studi biblici si può com­ prendere solo alla luce della sua reazione alla critica precedente; siccome buona parte dei dibattiti universitari, al tempo in cui era studente, ver­ tevano sulle varianti testuali del Nuovo Testamento e sulle incongruità che allora si riteneva gettassero un’ombra sull'attendibilità del messaggio evangelico e sull'antichità della tradizione cristiana, fin da allora Tischen7 Con il dubbio si rafforza la scienza, / ma solo la fede la può santificare. Hildegard Behrend, Auf der Suche nach Schdtzen. Aus dem Leben Constantin von Tischendorf s> T ed., Berlino, Evangelischer Verlag, 1956, pag. 8.

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dorf volse la sua attenzione a quei problemi. Rinunciò a ogni pensiero di ministero pastorale e, benché occasionalmente predicasse, pensò che avrebbe potuto servire meglio Dio dedicando la sua vita a uno studio co­ struttivo dei testi sacri. Ancor prima di completare gli studi aveva il suo scopo già ben chiaro in mente: dimostrare l’autenticità dei Vangeli e stabilirne il testo originario. Per raggiungere questo fine, non adottò il sistema di vita ritirato, ordinato, scandito da orari precisi tipico del professore tedesco e reso proverbiale da Immanuel Kant. Intraprese invece numerosi viaggi, visi­ tando le grandi biblioteche europee e, ben piu in là, l’avventuroso Vici­ no Oriente. Il teologo di modesta estrazione borghese dovette trasfor­ marsi in un viaggiatore mondano, pieno di risorse, e farsi amico di prelati, sovrani di Sassonia, granduchi russi per aver successo nella sua ricerca; dovette imparare i trucchi e le astuzie della diplomazia. Appena trentenne, era già una celebrità internazionale. Quando, an­ cor giovane, fu presentato a un collega straniero, questi pensò che dove­ vano esserci due Tischendorf : l’uomo davanti a lui non poteva aver com­ piuto tanto lavoro, che avrebbe fatto la gloria di parecchi studiosi an­ ziani. Il re di Prussia, a un ricevimento, lo paragonò ad Alexander von Humboldt, dicendo che, come lui, Tischendorf non poteva non fare una scoperta dovunque andasse. Constantin Tischendorf era nato nel 1815, figlio di un medico, nella cittadina tedesca di Lengelfeld nel Vogtland sassone. Al liceo del vicino capoluogo distrettuale, Plauen, aveva gettato le basi della sua eccellente conoscenza del greco, del latino e degli autori antichi; più tardi, studente presso la facoltà teologica dell’università di Lipsia, aggiunse alla cono­ scenza delle lingue classiche quella dell’ebraico, dell’aramaico, del siriaco e del copto, e presto si distinse con brillantissimi saggi in latino su san Paolo e Cristo. Per un anno insegnò in una scuola privata presso Lipsia, sotto l’uomo che doveva diventare suo suocero; a quel tempo era già immerso nelle ricerche per l’edizione critica del Nuovo Testamento gre­ co, di cui nel corso della sua vita doveva pubblicare otto redazioni. La dotta introduzione gli fruttò, a venticinque anni, un incarico — la “ve­ nia legendi” — presso la facoltà teologica dell’università di Lipsia. Ma il giovane studioso, benché innamorato e fidanzato, non era ancor pronto a chiudersi nella gemutlich e rispettabile vita del cattedratico. Messo insieme un po’ di denaro, e con l’aiuto del fratello e dello scettico governo sassone, il 30 ottobre 1840 parti alla volta di Parigi. Doveva star via cinque anni. Lo scopo immediato dei suoi viaggi era tanto semplice quanto giudi­ zioso, benché lasciasse perplessi gli studiosi della vecchia generazione, che non ci avevano pensato per primi o non avevano l’energia e la fi­ ducia in sé di Tischendorf; né avevano la sua genialità di paleografo, 243

giacché Tischendorf possedeva un’abilità eccezionale non solo nello sco­ vare documenti preziosi, ma anche nel decifrarli e datarli. Quando cominciò a lavorare alla sua edizione del Nuovo Testamento greco, Tischendorf si rese conto che l’importanza dei documenti più antichi del IV, V e VI secolo, superava di gran lunga quella dei codici assai più numerosi risalenti al X secolo e ai successivi, che pure erano serviti di base per il famoso Nuovo Testamento greco di Erasmo da Rotterdam e per le traduzioni in lingue volgari, come la versione di Lu­ tero e quella di re Giacomo. Constatò inoltre che il Nuovo Testamento greco di Erasmo (edito per la prima volta nel 1516) peccava sotto molti rispetti di faciloneria e mancanza di rigore filologico. Il grande umanista aveva scelto le fonti a caso, non aveva svolto ricerche abbastanza appro­ fondite sulla loro origine, età, esattezza, non aveva cercato di stabilire in quale misura un confronto fra luna e l’altra avrebbe permesso di eli­ minare gli errori. Cosa ancor più imperdonabile, aveva ritradotto un passo — di cui non aveva a disposizione l’originale greco — dal latino in un greco zoppicante per riempire la lacuna e soddisfare le esigenze del suo stampatore-editore Johannes Froben di Basilea. Disgraziatamente, Erasmo inaugurò anche una nuova tradizione di sacrosanto rispetto per la sua edizione greca, e ancora più per le traduzioni volgari che ne furono fatte. Questa fissazione del textus receptus, del testo ricevuto, perdura ancor oggi, e torna inevitabilmente a galla ogni volta che si pubblica una versione riveduta o una nuova traduzione della Bibbia. Tuttavia, già nel Seicento alcuni studiosi avevano raccolto e coliazio­ nato varianti trovate in un numero crescente di codici del Nuovo Testa­ mento, alcuni dei quali in copto e in gotico. Simultaneamente era stato fatto un tentativo di catalogare e classificare tutti i codici esistenti in Europa e di stabilirne il grado di attendibilità. Quando, nel secolo XIX, i tedeschi si assicurarono quasi un monopolio degli studi biblici, venne revocata in dubbio l’idea corrente che attraverso un confronto fra il maggior numero possibile di manoscritti si sarebbe arrivati a ricostruire il testo originale. Tischendorf aderì senza riserve al nuovo indirizzo cri­ tico, anzi di proposito limitò il suo campo di ricerca ai testi dei primi cinque secoli: solo attraverso questi, sosteneva, era possibile risalire al di là del textus receptus, del Nuovo Testamento bizantino, che egli con­ siderava poco più di una versione derivata e adulterata. Ma quando si mise a lavorare alla sua edizione greca, rimase sorpreso nel constatare quanto poco lavoro filologico ed esegetico fosse stato compiuto (con rare eccezioni) sugli scarsi documenti biblici veramente antichi di cui si cono­ sceva l’esistenza. Tischendorf aveva ora un piano ben chiaro in mente. Gli straordinari risultati che avrebbe raggiunto dovevano dimostrare che le grandi sco­ perte sono raramente frutto del caso e che quasi sempre l’occasione si presenta solo a chi vi è intellettualmente preparato.

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Prima di lasciare Lipsia nel 1840, Tischendorf compilò una lista dei più antichi codici del Nuovo Testamento conservati in collezioni europee. La sua prima tappa fu Parigi, dove si trovavano parecchi di questi rari documenti, fra cui principalmente il Codex Ephraemi (Syri) e il Codex Claromontanus. Tischendorf si dedicò soprattutto al primo, un palinsesto su cui nel XII secolo era stato trascritto il trattato di un padre della Chiesa del IV secolo, sant’Efrem, cancellando, per farlo, un Nuovo Te­ stamento del V secolo; il lavoro era stato eseguito diligentemente, tenen­ do la pergamena immersa in acqua, lavandola e infine strofinandola con pietra pomice. Era questa una pratica corrente nei monasteri medioevali, dati Paltò prezzo e la relativa scarsità della pergamena; un codice di rispettabili dimensioni richiedeva il sacrificio d’una mandria o d’un greg­ ge, e quindi volumi poco usati o invecchiati venivano spesso adibiti a nuovi usi, come oggi libri giacenti in magazzino vengono mandati al macero per farne carta su cui stampare libri nuovi. Allora come oggi, la nuova opera spesso non era affatto migliore dell’altra. Come abbiamo visto, i palinsesti risalenti a secoli compresi fra la più remota antichità e il Medioevo — quando entrò nell’uso la carta, molto meno costosa della pergamena — sono abbastanza comuni. Per la loro stessa natura, spesso celano grandi misteri e sorprese. Naturalmente non tutti i palinsesti si riconoscono subito per ciò che sono, ed è pro­ babile che i depositi delle biblioteche ne celino parecchi ancora non scoperti. Quanto al Codex Ephraemi, alcuni dei caratteri più antichi, sbiaditi e semicancellati, trasparivano di sotto quelli del XII secolo, come si era osservato già nel Seicento. A quel tempo era stato possibile soltanto stabilire l ’antichità del primo testo, attraverso alcuni passi di cui i paleo­ grafi erano riusciti a intendere la natura. Un trattamento chimico della pergamena nel 1834 aveva dato scarsi risultati, e si riteneva concorde­ mente che il codice fosse assolutamente troppo guasto per poter essere decifrato. Di qui, il poco entusiasmo con cui il governo sassone aveva finanziato l’ambizioso progetto di Tischendorf, allora uno sconosciuto; entusiasmo tanto più fiacco in quanto un altro professore di Lipsia s’era già provato nell’impresa e aveva dovuto riconoscersi sconfitto. Quando, arrivato a Parigi, il giovane Tischendorf si presentò al conservatore della Bibliothèque Nationale per ottenere il permesso di esaminare il codice, fu accolto con sorridente scetticismo. Come poteva sperare di risolvere lui ‘‘uno dei più difficili e importanti enigmi scientifici”8, quando non v’erano riusciti esperti di gran nome? Ma Tischendorf passò giorni e giorni, dalla mattina alla notte, chino sul manoscritto, e la spuntò. Non aveva, ad aiutarlo, strumenti ottici come quelli disponibili oggi: non raggi ultravioletti né luce polarizzata né lampade di quarzite, che in molti casi 8 I b i d pagg. 110-11.

fanno della lettura di palinsesti un gioco da bambini (a patto naturalmen­ te di conoscere la scrittura e la lingua). In compenso Tischendorf posse­ deva una vista eccellente, conosceva alla perfezione le antiche unciali, aveva il supremo ottimismo dei giovani. Inoltre scopri che tenere la per­ gamena controluce facilitava di molto il compito. In due anni il lavoro era finito, e la fama del giovane studioso sal­ damente affermata. Nel gennaio 1843 egli ebbe la soddisfazione di poter tenere in mano un’edizione a stampa del testo decifrato. Lavorò anche sul Codex Claromontanus, manoscritto unciale delle epistole neotesta­ mentarie; saccheggiò biblioteche a Utrecht, Londra (dove si conservava il grande Codex Alexandrinus del V secolo), Oxford e Cambridge. Condotto a termine il lavoro a Parigi (dove soggiornò per un totale di ventisette mesi) passò a Strasburgo, Basilea, Lione, Marsiglia e nell’Italia setten­ trionale, dove si trovavano preziosi codici del Nuovo Testamento, e vi­ sitò le biblioteche di Venezia, Milano, Torino, Modena e Firenze. Ma la sua strada doveva terminare inevitabilmente a Roma, dove si conservava il piu antico e completo di tutti i codici biblici noti, il Vaticano, che non era stato ancora messo a completa disposizione degli studiosi. Tischendorf pensava che questo codice greco maiuscolo fosse con ogni probabilità mol­ to piu attendibile di tutti i cento e cento codici più tardi in caratteri minuscoli: se avesse potuto esaminarlo e copiarlo, gli sarebbe stato di preziosissimo aiuto nei suoi sforzi di resuscitare l’originale testo greco.

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La II Lettera di Giovanni, 4, dal Codice Alessandrino (British Museum). Il codice, del V secolo, è scritto su pergamena, in due colonne, in unciali greche molto belle e tracciate con ma­ no ferma e regolare. Qua e là, caratteri di tipo copto tradisco­ no Torigine egiziana. Il codice giunse in Inghilterra come dono del patriarca di Costantinopoli a Carlo I.

Tischendorf espose il suo piano, in un’udienza privata, a papa Gre­ gorio XVI (l’arcivescovo di Parigi e il governatore di Sassonia lo avevano fornito di lettere di presentazione), ed ebbe la piacevole sorpresa di trovare il pontefice favorevole ai suoi progetti. Il papa cortesemente para­ gonò le fatiche del giovane protestante a quelle di san Gerolamo e lo esortò a prendere le cose con filosofia, come l’illustre Padre della Chiesa, se i suoi confratelli cristiani gli avessero dimostrato incomprensione o addirittura opposto ostacoli. In quest’occasione, il pontefice lo nominò anche cavaliere: fu la prima delle innumerevoli onorificenze concesse in vita sua a Tischendorf, che doveva poi essere anzi accusato di compiacersi troppo sia di queste, sia della familiarità con i grandi della terra: uomini di stato, personaggi di sangue reale.

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Il progetto vaticano trovò però un ostacolo inatteso nella persona del cardinale Angelo Mai, lo scopritore del De Republica ciceroniano, che ave­ va studiato altri palinsesti ed era un cultore di studi biblici piuttosto am­ bizioso ma non eccezionalmente brillante. Proprio allora, stava prepa­ rando la sua edizione del Codice Vaticano; Tischendorf potè avere in mano il codice soltanto per sei ore, delle quali però fece buon uso copian­ do di nascosto alcuni passi salienti. Nel marzo 1844, esaurite per il momento le risorse dell’Europa in fatto di manoscritti, lo studioso tedesco salpò per altri lidi, di là dal Mediterraneo. Anche questa volta, il suo piano era insieme audace e semplice: “Il Codice di Efrem, come la grande maggioranza dei piu an­ tichi documenti greci che adornano le biblioteche europee, è venuto dal­ l’Oriente, cioè da quei paesi dell’Oriente in cui il cristianesimo ebbe la sua prima fioritura. Non era possibile che là, soprattutto nei monasteri, con le loro biblioteche e i recessi segreti, si celassero ancora tesori lette­ rari? Dato che i documenti antichi disponibili per un tentativo di rico­ struzione del testo apostolico erano cosi pochi, mi parve mio dovere ac­ certare se le nostre risorse si esaurivano nel materiale che le biblioteche europee potevano offrire9.” L ’audace idea di frugare i monasteri del Vicino Oriente in cerca di codici del Nuovo Testamento fu coronata da un sorprendente successo; ma il tentativo di Tischendorf non era il primo del genere, giacché molto orima di lui viaggiatori e studiosi erano stati attratti dalla ricchezza d’anti­ chi testi che si attribuiva a quei paesi. Stimolati dall’interesse rinascimen­ tale per i classici perduti, gli occidentali avevano cominciato fin dal XV secolo ad almanaccare sui tesori sepolti in Oriente, e le spedizioni di ricerca non erano dunque un fatto raro. Parigi, il Vaticano, persino Mosca avevano ricevuto di tanto in tanto invii di materiale, e le speranze di sco­ perte sensazionali erano sempre vive. Viaggiatori del Sei e Settecento in visita ai monasteri del Monte Athos (allora sotto il dominio ottomano) e di Santa Maria Deipara in Egitto avevano raccontato grandi cose delle raccolte da loro viste di testi cristiani, alcuni dei quali cosi vecchi che dovevano risalire “al tempo di Sant’Antonio”10. Ma questi racconti erano sempre accompagnati da notizie allarmanti sulle condizioni lamentevoli dei codici e sulla loro inaccessibilità; ancora a quel tempo i monaci cer­ cavano in genere di scoraggiare i visitatori, e a volte li mettevano di proposito fuori strada; disgraziatamente, il loro desiderio di tenere quei 9 Tischendorf, Die Sinaibibel. Ibre Entdeckung, Herausgabe und Erwerburg, Lipsia, Giesecke & Devrient, 1871, pagg. 2-3. j0 Edward Edwards, Memoirs of Libraries..., Londra, Triibner & Co., 1859, voi. I, pagg. 494-5.

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tesori tutti per sé era sempre in proporzione inversa alla cura che ne avevano. John Covel, uno dei primi studiosi inglesi che esplorarono i monasteri del Vicino Oriente, senti dire nel 1677 che in un convento greco erano stati bruciati tutti i libri di scienze profane11213; nelPAthos e altrove aveva visto “enormi mucchi di manoscritti... dei Padri o di altri dotti autori... tutti coperti di polvere e di sporcizia, e molti marci e ridotti in condizioni pietose”12. Notizie simili bastavano a spronare altri alla ricerca. Poco tempo dopo, Robert Huntington, più tardi vescovo di Raphoe, visitò la regione desertica del Wadi en-Natrun in Egitto e acquistò per la Bodleiana pochi testi siriaci di modesto valore. La Biblioteca Vaticana fu servita molto bene da due cugini siri, Joseph e Elias Assemani, che al principio del XVIII secolo setacciarono PEgitto, la Palestina e la Siria, ma pare che allarmassero i monaci con la loro prepotenza. Per circa un secolo, i ripetuti tentativi di emissari europei furono in gran parte coronati da insuccesso. Verso la fine del secolo un altro inglese, William George Browne (1768-1813), che girò tutta l’Asia Mi­ nore, PArmenia, PEgitto, la Siria e la Palestina — e fu ucciso sulla via di Teheran — visitò a sua volta i monasteri armeni leggendari di Wadi en-Natrun, a nord-ovest del Cairo. Nei suoi Travels (1799) narra: “ ...in un monastero vidi parecchi libri in copto, siriaco, arabo. Le opere di san Gregorio e PAntico e il Nuovo Testamento in arabo. Il superiore mi disse che possedevano quasi ottocento volumi, ma si rifiutò decisa­ mente di separarsi anche da uno solo; né mi fu permesso di vederne altri13.” Infine, nel 1801, una scoperta insperata — uno splendido codice di Platone, trovato nell’isola di Patmos da Edward Daniel Clarke — fece rifiorire le speranze. Con lo sviluppo degli studi copti e siriaci, era natura­ le che le ricerche si concentrassero sulle biblioteche dei monasteri egi­ ziani. In tali ricerche gli inglesi furono molto favoriti dalla loro influenza politica nell’area, e per parecchi decenni mantennero una sorta di primato. I loro sforzi si concentrarono soprattutto sui monasteri di Wadi en-Na­ trun, dove si erano stabiliti i primi monaci cristiani e dove sopravviveva un numero sia pure esiguo delle trecentosessanta istituzioni un tempo fiorenti. Un posto di primo piano fra gli inglesi che al principio del XIX se­ colo visitarono le biblioteche orientali spetta a Robert Curzon, più tardi barone di Zouche. Nato nel 1810, Curzon aveva soltanto ventitré anni 11 Hon. Robert Curzon, Baron of Zouche, Visit to the Monasteries in the Levant, con un’introduzione di D. G. Hogarth, Londra, Milford, 1916, pag. xn. 12 Edwards, op. cit., 494, da John Covel, Some Accounts of the Christian Church, 1675. 13 Curzon, op. cit., pag. X.

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quando per la prima volta mise piede in Egitto, con Pespresso scopo di frugare i monasteri alla ricerca di libri sepolti; oltre all’Egitto, il suo iti­ nerario comprendeva la Terrasanta, la Siria, la Grecia. Anni dopo scrisse uno tra i più incantevoli libri di viaggio del tempo, Visit to the Mona­ steries in the Levant, più volte ristampato (nel 1916 con un’introduzione di David G. Hogarth). Curzon radunò a Parham, nel Sussex, una bellis­ sima collezione intesa a illustrare la storia e l’evoluzione della scrittura; ma, cosa ancor più importante, il suo libro, che è anche un classico sul tema dell’abbandono e rovina dei libri, stimolò l’appetito di altri, e spianò la strada alla costituzione dell’impareggiabile raccolta di codici copti con­ servata al British Museum. Nel suo vivace e particolareggiato racconto, Curzon descrive condi­ zioni non diverse da quelle che il Boccaccio e il Bracciolini trovarono in Europa al tempo delle loro ricerche. A un certo punto lo vediamo, seguito da monaci mezzo morti di fame, entrare in una torre quadra, abbandonata. Là, “in un grande locale a volta, con le finestre aperte e senza vetri, v’erano da quaranta a cinquanta manoscritti copti... gettati sul pavimento, al quale alcuni di essi erano saldamente appiccicati: da anni nessuno li muoveva...”14. Al monastero di Caracalla nell’Athos, Curzon ebbe la buona idea di chiedere all’abate un unico foglio di velino, coperto di antichi caratteri unciali, trovato in un locale in rovina in cui erano entrati. “ ‘Ma certo!’ rispose Vigumenos [ l’abate]. ‘Che cosa ne vuol fare?’ Il mio servo suggerì che forse avrei potuto servirmene per coprire vasi di conserva o marmellate che avevo a casa. ‘Oh,’ disse Vigumenos, ‘ne prenda di più’; e senza pensarci due volte... afferrò uno spesso in-quarto degli Atti e delle Epistole, e tirando fuori un coltello, prima che potessi fermarlo ne tagliò via, alla fine, un mazzo di fogli dello spessore d ’un pollice. Come vidi, si trattava àe\VApocalisse, che concludeva il volume, e che solo raramente si trova in antichi codici greci degli Atti\ quello era dell’XI secolo. Forse avrei dovuto uccidere il tomicida per punirlo di quell’imperdonabile atto di profanazione, ma tanta generosità mi rese indulgente per la sua colpa. Intascai dunque VApocalisse e gli chiesi se fosse disposto a vendermi qualcuno degli altri libri, visto che non pareva annettervi un particolare valore. ‘Malista: certamente,’ rispose. ‘Quanti ne vuole? A me non servono, e siccome ho bisogno di denaro per termi­ nare dei lavori di costruzione, sarei contento di ricavarne qualcosa...’15/* Seguendo una traccia scoperta al Cairo, Curzon riuscì a introdursi, at­ traverso una botola, in una vecchia cantina già adibita alla conservazione dell’olio, in un monastero di Wadi en-Natrun di dove in seguito altri viaggiatori avrebbero portato via un bottino prezioso; neppure, del tutto ingiustamente, più tardi i monaci avrebbero accusato lui, Curzon, di 14 Ibid., pag. 126. 15 Ibid., pag. 366.

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averli derubati dei loro manoscritti. A quanto pare, la calunnia rappresen­ tava il loro metodo favorito di coprire le proprie pecche; la stessa storia si sarebbe ripetuta nel caso di Tischendorf. Sulle orme di Curzon, nel 1838 si recò a Wadi en-Natrun Henry Tattam, arcidiacono di Bedford, inviato del British Museum, al quale assicurò quella che fu chiamata “la parte del leone del bottino,,: oltre quattrocento volumi. Ormai non si cercavano piu soltanto opere perdute greche o latine, ma in generale testi evangelici e teologici. Tattam era lui stesso un brillante studioso di copto e di arabo, con interessi princi­ palmente lessicografici. In mezzo al gran numero di manoscritti che spedi in Inghilterra, il reverendo William Cureton scopri un’antica versione siriaca dei Vangeli: battezzato “Siriaco curetoniano” , questo manoscritto del British Museum ha un posto fra i più importanti testi biblici scoperti prima di Tischendorf. Senza dubbio, il successo dei pionieri inglesi incoraggiò Tischendorf nei suoi progetti; però, non avendo i mezzi di un aristocratico inglese né l’appoggio finanziario di un istituto di vaste risorse come il British, do­ vette cercare mecenati e finanziatori. Per fortuna il ministro sassone della pubblica istruzione, finalmente impressionato dai suoi risultati, contribuì generosamente a finanziare le sue spedizioni nel Vicino Oriente. Altri contributi vennero da banchieri di Francoforte e Ginevra e da un collega più anziano, di Breslavia. Tischendorf ricevette la notizia “con lacrime di gioia”16, come scrisse da Venezia nel novembre 1843 alla futura moglie. La traversata da Livorno sul rollante e beccheggiante postale francese Lycurg fu quanto mai deprimente per il mal di mare che non cessò di tormentarlo. Ma poco dopo l’arrivo ad Alessandria — luogo carico di memorie per lo studioso del cristianesimo primitivo — era di nuovo in viaggio, su per il Nilo, alla volta del Cairo. Dai successivi racconti delle imprese di Tischendorf, sul quale non esiste ancora uno studio biografico serio, si ha l’impressione che fin da principio egli avesse chiara in mente la sua meta principale: il monastero di Santa Caterina nella penisola del Sinai. Alcune opere destinate al grosso pubblico — e Tischendorf ne scrisse lui stesso parecchie — danno l’idea che non appena sbarcato ad Alessandria si lanciasse, a dorso di cammello, sulle orme di Mosè (solo con più impeto) verso le pendici della montagna sacra, come se fin da prin­ cipio egli presentisse, grazie a una specie di miracoloso sesto senso, quali tesori lo aspettavano sul Sinai. Ma nulla dimostra che le cose siano an­ date veramente così. L ’istituto delle suore del Sinai al Cairo, e soprat­ tutto i vari monasteri copti a Wadi en-Natrun, lo attiravano in misura perlomeno eguale e offrivano possibilità di importanti scoperte. SulPitinerario di Tischendorf erano anche Mar Saba sul Mar Morto, 1B Behrend, op. cit., pag. 12.

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Laodicea, Patmos e varie altre località della Siria e dell'Asia Minore, oltre l'Athos e soprattutto Costantinopoli, dove correva insistente la voce che nel palazzo del Serraglio si conservassero un testo ebraico del Vangelo di Matteo insieme con altri documenti tuttora ignoti ma prezio­ sissimi: i resti, forse, delle antiche biblioteche bizantine e della colle­ zione rinascimentale di Mattia Corvino a Budapest. Di fatto, Tischendorf raccolse una messe enorme di manoscritti proveniente da varie fonti, e anche ne acquistò, da mercanti, alcuni di provenienza ignota, fra cui papiri, ma tutti furono messi in ombra da ciò che ebbe la fortuna di tro­ vare al Sinai. Alla sede del Cairo, i monaci del Sinai cercarono di liberarsi di lui rispondendo che non possedevano codici antichi e che per trovarne avreb­ be dovuto recarsi al monastero di Santa Caterina sul Sinai17; nel contempo, avvertivano i loro confratelli di guardarsi dalla cupidigia di quello stranie­ ro avido di antiche pergamene. Naturalmente, in questo modo attira­ rono la sua attenzione sull'altro monastero senza peraltro riuscire a liberarsi di lui: Tischendorf era un uomo che non s'arrendeva presto né si lasciava facilmente distrarre dai suoi propositi, e avendo visto per caso un armadio chiuso, tanto insistette finché i monaci dovettero consentire ad aprirlo. Ci volle del bello e del buono per trovare la chiave, ma quando la scovarono si vide che l'armadio conteneva una quantità di antichi testi, benché, come accadeva tanto spesso, in condizioni pietose e coperti di muffa. I monaci non ne conoscevano il contenuto, non sapevano a che età risalissero e neppure in che lingua fossero scritti. Un'altra Biblioteca, questa nella cappella del monastero del Cairo, si rivelò ancor meglio fornita di pergamene; Tischendorf era ormai con­ vinto, nonostante gli ammonimenti sussurrati al suo orecchio da pessi­ misti di professione prima ancora che partisse, di essere sulla strada di entusiasmanti scoperte. Acquistò anche fiducia nella propria capacità di battere in astuzia monaci ed ecclesiastici in genere, che continuavano a dimostrare un'invincibile ripugnanza a lasciare anche soltanto vedere i loro manoscritti a estranei. Un momento quei monaci che sapevano a malapena leggere e scrivere non ricordavano neppure di possedere codici muffi e marciti; il momento dopo, quando il visitatore straniero dimo­ strava un minimo d ’interesse, li dichiaravano di incalcolabile valore. Tischendorf, benché spesso esasperato e disgustato, e talvolta imbrogliato, fini con l'acquistare un certo sereno equilibrio di giudizio, insieme a un'utilissima abilità diplomatica di stampo levantino che gli permise di portar via codici da luoghi scartati dai colleghi come inaccessibili o vuoti d'ogni promessa. Mentre si trovava al Cairo, senti più volte parlare d'una biblioteca 17 Tischendorf, Reise in den Orient, Lipsia, Bernhard Tauchnitz Jr., 1846, voi. I. pag. 78.

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di quella città, fantasticamente ricca e gelosamente custodita, si diceva, dal patriarca copto di Alessandria (da molti secoli, nonostante il titolo, residente al Cairo). A quel tempo il patriarca era un uomo ultranovanten­ ne ma lucidissimo, molto simpatico e molto vanitoso. Tischendorf riuscì a ottenere un’udienza dal vecchio prelato, la cui conversazione elegante e briosa gli ricordò quella d’una signora dell’alta società francese. Quando infine Tischendorf accennò al proprio desiderio di esaminare il tesoro ‘‘segreto” di antichi codici, l’arcivescovo gliene chiese la ragione. Lo stu­ dioso spiegò che si era fissato il compito di ricostruire il testo originario dei Vangeli e a questo scopo desiderava consultare antichi documenti “il piu vicino possibile alla lettera così com’era uscita dalle mani degli apo­ stoli”18. Il patriarca non parve convinto delle sue argomentazioni. “Abbia­ mo tutto ciò che ci occorre,” dichiarò in tono che non ammetteva replica. “Abbiamo gli evangelisti, abbiamo gli apostoli: cos’altro possiamo vole­ re19? ” Evidentemente, nei suoi novantanni e più di vita, l’idea di una critica testuale della Bibbia non si era mai affacciata alla sua mente. Anche prima di quest’episodio, la stima del prelato copto per il suo visitatore era molto diminuita quando gli aveva chiesto di leggergli qual­ cosa da un libro greco: la pronuncia di Tischendorf aveva fatto inorridire il vecchio. Tischendorf e i suoi apologisti spiegano quest’impressione, secondo loro ingiusta, con l’ignoranza del greco classico da parte dell’ar­ civescovo: per loro non esistono dubbi sul fatto che la pronuncia greca insegnata nei licei tedeschi corrisponda esattamente all’antica. Dal Cairo, Tischendorf partì nell’aprile 1844 alla volta di Wadi enNatrun, disseminato un tempo, prima dell’Islam e prima che declinasse il fervore cristiano dei copti, di parecchie centinaia di monasteri. Tischen­ dorf ne frugò parecchi, imparando ben presto che in quei complessi di edifici non v’erano locali “più al sicuro delle biblioteche dalle visite dei monaci”20. In alcuni, i libri erano relegati in soffitte al sommo delle torri, dove antichi codici giacevano ammonticchiati alla rinfusa, o gettati in disordine sul pavimento, o stipati in cesti di vimini, e frammenti di mate­ riale da scrittura coprivano fitti il suolo. Nei primi due monasteri visitati, Tischendorf non trovò testi greci, ma soltanto copti e arabi, di notevole antichità. Nel terzo vide documenti siriaci e riuscì a recuperare alcuni preziosi frammenti etiopici. I monaci del monastero di dove alcuni inglesi avevano di recente portato via pa­ recchi manoscritti dietro pagamento di una “modestissima somma” trat­ tarono lo studioso tedesco con sospetto, dicendosi ancora furenti per quella che definirono una truffa; la loro diffidenza si dimostrò più forte del desiderio di guadagno, e nonostante la generosità delle sue offerte3 3S Ibid., pag. 82. 19 Ibid., pag. 82. 20 Ibid., pag. 124.

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Tischendorf non potè indurli a vendere nulla. Però, in un inatteso accesso di generosità orientale, gli permisero di portarsi via alcuni rovinatissimi fogli di pergamena, scritti in caratteri copti del VI e V II secolo, che Tischendorf aveva estratti da un mucchio coperto di polvere; questo colpo di fortuna fu tuttavia pagato con “un’irritazione alla gola che durò parecchi giorni ed era stata provocata da tutta quella polvere, combinata con il caldo infernale”21. Nel maggio 1844, dopo dodici giorni di cammino attraverso il deserto, Tischendorf arrivò al monastero di Santa Caterina, che sorge su un pla­ teau sabbioso alto circa 1.500 metri sopra il Mar Rosso, sullo sfondo d ’un paesaggio veramente eroico di precipiti rupi granitiche culminanti nel Gebel Musa: la vetta su cui, secondo una tradizione alquanto discussa, Dio comunicò a Mosè i dieci comandamenti. Il monastero è una fortezza ciclopica, a quattro piani, fatta costruire al principio del VI secolo dal­ l ’imperatore Giustiniano come rifugio per i monaci della zona contro i predoni beduini. A quel tempo Santa Caterina (ma il nome è molto più tardo) fu costituito in un unico monastero che assorbì sparsi insediamenti di eremiti e un monastero più piccolo già esistente, che aveva il suo centro nella cappella del Roveto Ardente, costruita nel IV secolo da sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino. Benché perduto in mezzo a un desolato paesaggio lunare, il Sinai è spiritualmente il punto di contatto delle tre massime religioni monotei­ stiche del mondo. È terra santa per tutti, ma più in particolare per gli ebrei: qui infatti Mosè ricevette da Dio le tavole della legge, di qui pas­ sarono gli israeliti migranti alla ricerca della terra promessa. Ma anche per i musulmani il Sinai è un monte sacro. Il monastero attuale è il vivo documento di questo complesso retaggio religioso e culturale. Prende il nome da Caterina, santa alessandrina che secondo una leggenda avrebbe subito il martirio durante le persecuzioni ordinate dall’imperatore Massimino e che si dice sia sepolta qui. Si crede che una delle ventidue cap­ pelle occupi esattamente il sito in cui Dio apparve a Mosè nel roveto ardente: il visitatore è pregato di togliersi le scarpe nell’entrarvi. Solo negli ultimi anni, e cioè da quando una spedizione organizzata congiuntamente nel 1958 dalle università di Princeton, del Michigan e di Alessandria ebbe il permesso di compilare un inventario esauriente e di scattare fotografie a colori, l’Occidente ha potuto farsi un’idea dei favolosi tesori d’arte ospitati fra le mura di Santa Caterina. La sua rac­ colta di oltre duemila icone è la più ricca esistente nel mondo. Il mosaico del VI secolo, rappresentante la trasfigurazione di Cristo, nell’abside della basilica, è stato definito uno fra i massimi capolavori prodotti dal genio bizantino22. 21 Ibid., pag. 125. 22 Kurt Weitzmann, cit. nella rivista Time, voi. LX XIII, 3 aprile 1959, pag. 88.

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Per una delle innumerevoli ironie della storia, Santa Caterina deve la conservazione di tante opere pittoriche — benché Leone III impera­ tore di Costantinopoli avesse ordinato nel 728 la distruzione delle imma­ gini in tutto il suo regno — al fatto che l'area era stata conquistata in precedenza dai musulmani. Nonostante la tendenza degli storici a addos­ sare ai soldati maomettani la colpa della devastazione di siti cristiani, l'Islam spesso contribuì a difendere e salvare i cristiani l'uno dall'altro. Come Tischendorf notò subito, Santa Caterina riflette ancora uno spirito di tolleranza: ospita infatti nel suo seno una moschea, sulla cui origine corrono diverse storie. Secondo una versione, fu costruita dal Profeta stesso; secondo un'altra, riferita da Tischendorf, i monaci l'eres­ sero per placare le ire del sultano conquistatore, l'ottomano Selim I (1512-20), provocate dal fatto che non erano riusciti a guarire un giovane monaco greco per il quale nutriva tenerissimi sentimenti. Questa roman­ tica storia è però invalidata dal fatto che i documenti danno la moschea come esistente già due secoli prima. È legittimo un eguale scetticismo nei confronti dell’affermazione, ripetuta da piu parti, che la sopravvivenza del monastero fu dovuta soltanto al rispetto degli arabi per la piccola moschea: la sua presenza non avrebbe certo impedito loro di distruggere o convertire ad altri usi il resto degli edifici. In ogni caso, altri monasteri e chiese sopravvissero a secoli di dominio arabo o turco, anche senza la protettiva vicinanza di minareti: la verità è che la coesistenza di edifici di culto dimostra una tolleranza assai più comune nella civiltà araba me­ dioevale di quanto non fosse nell'Occidente cristiano. Dopo avere a lungo gridato, fuori delle mura proibite, per attirare l'attenzione, e dopo che le lettere di presentazione, tirate su per mezzo di un cestino attaccato a una corda, furono debitamente esaminate e appro­ vate, Tischendorf e i suoi uomini ebbero il permesso di entrare. I monaci chiesero anche la raccomandazione del priore del monastero fratello al Cairo, ma Tischendorf dichiarò saggiamente di averla dimenticata: te­ meva che la notizia anticipata della sua attrazione per i codici antichi po­ tesse mettere in pericolo le possibilità di trovarne. A questo punto il monaco lasciò pendere un altro cesto in cui il visitatore sedette come sul seggiolino di un moderno ski-lift per essere issato su per il muro fino a un piccolo orifizio. “Che piacevole sorpresa,” scrisse poi Tischendorf nel suo resoconto di viaggio Reise in den Orient, “trovarsi d'improvviso trasportato da un desolato deserto di rocce e sabbia dentro a quelle mura ospitali, fra pic­ coli edifici lindi, in compagnia di uomini seri e barbuti in lunghe vesti nere.”23 Il priore gli assegnò subito un alloggio confortevole, affidando a un giovane greco il compito di accudirlo. Il greco portava una corta tunica a righe e sorprese Tischendorf chiedendogli se i suoi viaggi lo aves­ 23 Tischendorf, Reise in den Orient, voi. I, pag. 218.

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sero già portato nel sole e nella luna. Evidentemente non del tutto sano di cervello, questo “signor Pietro” , come lo chiamavano i confratelli, era stato mandato via di casa dai parenti, che non sapevano che fare di lui e dei quali, pateticamente, egli aspettava ogni giorno la visita. Nonostante i ghiribizzi da folle aveva un’intelligenza fuori del comune e parlava, oltre al greco, sua lingua madre, anche l’italiano e il francese e un po’ d’in­ glese, di tedesco e di arabo. Tischendorf non tardò a rendersi conto che era il più brillante e geniale dei diciotto inquilini del monastero. Come vicino di stanza lo studioso tedesco aveva padre Gregorios, una specie di patriarca biblico pieno di dignità, dall’aria benevola, che quarantanni prima era stato un generale mammalucco tristemente famo­ so per la sua crudeltà. Tischendorf si affezionò soprattutto al bibliotecario, Kyrillos, appena inviato a Santa Caterina dal suo monastero dell’Athos a causa di un disaccordo con il patriarca. V ’era molto da vedere in quella specie di fortezza religiosa simile a un miraggio nel deserto. Dopo qualche giorno Tischendorf imparò a districarsi nel complicato labirinto di case, officine, celle, cappelle, scale, corridoi e corridoietti, balconi, balaustre: un agglomerato cresciuto per 1.400 anni su sé stesso, stupefacente come una città medioevale. Notò i dipinti, gli intagli nel legno, i mosaici, e si lasciò guidare dal signor Pietro, lungo un passaggio sotterraneo, nel delizioso e ben innaffiato orto­ giardino fuori le mura, dove si coltivavano verdure e splendidi alberi da frutto, e cipressi verde scuro stagliavano contro il cielo il loro snello profilo. Nel giardino era anche la cripta sepolcrale, un ossario in cui si conservavano le ossa dei morti, divise per specie: costole con costole, femori con femori, crani con crani. I cadaveri venivano prima lasciati sec­ care nell’aria asciuttissima del deserto; qualche mese dopo si facevano a pezzi e i pezzi venivano distribuiti fra i vari mucchi. Solo lo scheletro di santo Stefano, morto nel 580 d. C., era stato lasciato intatto e, vestito di tutto punto, faceva la guardia all’entrata, secondo l’espresso desiderio del santo. Ma al visitatore interessavano soprattutto i codici antichi. Kyrillos si dimostrò servizievole e per nulla diffidente; aveva cominciato a mettere un po’ d’ordine nel caos compilando un primo catalogo, ma non soffriva della fobia professionale da cui sono affetti certi bibliotecari anche ai nostri giorni: non gli seccava che i libri fossero usati, anche se questo disturbava temporaneamente l ’ordine da lui appena introdotto. Ne era contento, anzi, poiché nessun altro nel monastero dimostrava il minimo interesse per i suoi libri. Tischendorf potè quindi portarsi codici in ca­ mera, copiarli, compilarne liste. Di tanto in tanto Kyrillos gli metteva in mano una poesia in greco moderno, da lui composta in onore dell’ospite e scritta su una pagina deliziosamente miniata. Nel resoconto del viaggio in Oriente — scritto nel solito stile semi­ popolare e un po’ iperbolico dei viaggiatori della metà del XIX secolo —

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pubblicato poco dopo il ritorno a Lipsia, Tischendorf, per ragioni che presto vedremo, fu molto riservato a proposito dei suoi studi paleografici nel monastero del Sinai. Ma nelle lettere private e negli appunti personali diede libera espressione alla sua incantata sorpresa per la ricchezza delle

Profilo schematico del Monte Sinai, nello schizzo di un pellegrino del XV secolo. Da Giacomo da Verona, Liber Veregrinationis, 1420. Il monastero di Santa Caterina è in basso; una cappella sorge in cima alla montagna dove Dio diede a Mosè la Legge. La moschea è a sini­ stra della cappella.

raccolte e allo sgomento per lo stato di abbandono in cui si trovavano, nonostante gli sforzi di Kyrillos. Disprezzava i monaci, che placidamente ignoravano il tesoro di cui erano in possesso e pensavano soltanto a into­ nare stupidi cori e a celebrare meccanicamente riti che capivano soltanto a metà. Alla fidanzata scriveva: “Sono passati otto giorni da quando sono arrivato qui. Ma cerca un po' di figurarti questo branco di monaci! Se potessi e ne avessi la forza fisica, compirei un’opera di pietà religiosa buttandoli tutti giu dal muro...24.” Quando chiedeva informazioni su im­ 24 D. Ludwig Schneller, Tischendorf-Erinnerungen, Lahr-Dinglingen, Baden, Ger­ mania, St. Johannis Druckerei - C. Schweickhardt, 1957, pag. 39.

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portanti manoscritti, riceveva risposte evasive, spesso contraddittorie e tali da metterlo fuori strada. Persino Kyrillos era di poco aiuto, e addi­ rittura, quando altri monaci dicevano di aver visto questo o quel codice raro, si affrettava a negare di conoscerlo. Per fortuna, Tischendorf era lasciato quasi sempre solo a frugare tra libri e manoscritti. Il monastero possedeva tre distinte biblioteche, ospitate in tre locali diversi. La più piccola comprendeva principalmente . libri a stampa, allineati su scaffali. La biblioteca monastica vera e propria, al primo piano, recava l’insegna greca iatreion psyches (la stessa che, se­ condo Strabone, era inscritta su un'antica biblioteca egizia a Tebe), vale a dire “farmacia spirituale” o “luogo di cura deiranima” . Tischendorf com­ mentava sarcastico: “È ben difficile che gli altri abitanti del deserto, campioni di salute, abbiano bisogno delle farmacie della città; altrettanto difficile trovare tra i confratelli del monastero un'anima malata che abbia bisogno di questa farmacia spirituale25/ ’ La terza biblioteca serviva anche come ripostiglio per tonache e pa­ ramenti, arredi, vasellame e via dicendo. Anche questa conteneva Bibbie e testi patristici e liturgici, e aveva beneficiato dei lasciti di defunti arci­ vescovi del Sinai. Vi si conservava uno stupendo Vangelo unciale del V II o V ili secolo, magnificamente miniato, che persino i monaci tene­ vano in gran conto e che aveva attirato l’attenzione di precedenti visita­ tori. Benché non avesse nessuna importanza dal punto di vista della cri­ tica testuale, Tischendorf non mancò di apprezzarne i meriti estetici. Lo studioso calcolò che il monastero ospitasse complessivamente un mezzo migliaio di manoscritti, per la massima parte in greco, ma alcuni anche in arabo, siriaco, armeno, georgiano e paleoslavo. (Una spedizione congiunta americana ed egiziana, sotto gli auspici dell'American Founda­ tion for the Study of Man, doveva trovare circa 3.300 manoscritti in oltre dodici lingue, ma per oltre due terzi in greco26.) Il contenuto era, nella quasi totalità dei casi, teologico: v'erano bibbie, messali, letteratura patristica e liturgica: testimonianze di un tempo in cui le celle dei mona­ steri erano ancora il luogo di seri studi religiosi. Alcuni di quei testi erano probabilmente appartenuti a monasteri vicini, abbandonati o di­ strutti. Tischendorf si indignava al pensiero di tutti i tesori che dovevano essere andati perduti a causa di una “criminosa negligenza” ; ebbe nelle mani un codice “brulicante di grassi vermi bianchi” ; un altro “aderiva a un muro di pietra e formava talmente una cosa sola con questo da poter essere messo nel novero degli oggetti pietrificati”27. Fino a un certo momento Tischendorf non trovò, fra i tomi e fogli sparsi, nulla di grande interesse per le sue ricerche, nulla d’importante che 25 Tischendorf, Aus dem 20 Aziz Suryal Atiya, The for the Study of Man, voi. I, 27 Tischendorf, Aus dem

Heiligen Lande, Lipsia, F. A. Brockhaus, 1862, pag. 79. Arabie Manuscripts of Mount Sinai, American Foundation Baltimora, The John Hopkins Press, 1955, pag. xi. Heiligen Lande, pag. 80.

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potesse aiutarlo a ricostruire il testo originario del Nuovo Testamento. Ma ecco, come in un romanzo, accadere l’imprevisto. Tischendorf pas­ seggiava meditabondo nella biblioteca principale, quando lo sguardo cadde su un cesto nel mezzo della sala: era pieno di vecchie pergamene, e mentre lo studioso si chinava a esaminarle Kyrillos, che per caso era presente, lo informò che due mucchi di materiale dello stesso genere erano già stati gettati alle fiamme, e quello del cesto era destinato alla stessa sorte28. Per fortuna Tischendorf era arrivato in tempo: sotto i suoi occhi v’erano pagine di pergamena scritte in caratteri unciali su quattro colonne. Era una copia dell’Antico Testamento greco, versione dei Set­ tanta, che, a giudicare dallo stile della scrittura, gli parve più antica di tutte quelle vedute sin allora: “Avevo esaminato i più antichi codici greci conservati nelle biblioteche europee e li avevo studiati a fondo, con il proposito di gettare le basi di una nuova paleografia greca. Alcuni, fra cui parte della Bibbia Vaticana, li avevo copiati di mia mano. A nes­ suno gli antichi caratteri greci potevano essere più familiari che a me. E tuttavia non avevo mai veduto nulla che potesse essere giudicato più antico di quelle pagine29.” Non v’erano dubbi sul fatto che per antichità e per importanza il codice andava messo alla pari con tesori delle biblioteche europee come i codici unciali di Roma, Parigi, Londra e Cambridge. Contava 129 grandi pagine di pergamena, tutte contenenti parti dell’Antico Testamento (ben­ ché il codice nel suo complesso non lo contenesse tutto). Dato che a Tischendorf interessava soprattutto il Nuovo Testamento greco, non è escluso che provasse una breve delusione; ciò non diminuiva tuttavia l’importanza della sua scoperta, che avrebbe potuto guidare ad altre, forse persino a quella di altri frammenti dei Settanta. Nulla lasciava supporre che il codice comprendesse un Nuovo Testamento, benché vari indizi facessero pensare a un volume più grosso; e parti di esso erano già state consegnate alle fiamme. Data la fine cui il cesto era destinato, Tischendorf non ebbe difficoltà a ottenere il permesso di tenersi quarantatré fogli. Purtroppo non aveva ancora imparato l’arte di fingere distacco, e la sua faccia espresse chiara­ mente la gioia dell’insperata scoperta. Che compenso per la noia di aver passato mesi e mesi a decifrare sbiaditi palinsesti; per la fatica di aver compilato liste di tutti i frammenti di antichi manoscritti biblici in tutte le biblioteche d’Europa, e di averli inseguiti in faticosi viaggi attraverso il continente; per aver vissuto in camere d’albergo a buon mercato in­ vece di sposarsi e installarsi comodamente in una casa sua; per aver do­ vuto implorare aiuti finanziari e blandire scaltri funzionari, archivisti bisbetici, ecclesiastici evasivi e intermediari corrotti. Come poteva na­ 28 Tischendorf, Codex Sinaiticus, 8a ed., Londra, The Lutterworth Press, 1934, pag. 23. 29 Tischendorf, Die Sinaibibel, pag. 3.

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scondere le sue emozioni uno studioso di ventinove anni che aveva ap­ pena fatto quella che alcuni hanno chiamato la scoperta del secolo nel campo degli antichi manoscritti? Naturalmente, nel vedere le sue reazioni i monaci capirono il valore di quelle pergamene che avevano gettate alle fiamme e in parte, per una generosità dettata dall’ignoranza, regalate giusto allora a un estraneo. Da quel momento, nessun argomento di Tischendorf potè convincere il priore a dargli le rimanenti ottantasei pagine, benché, come Tischendorf notò, il vecchio non sapesse bene cos’era l’opera di cui si rifiutava di cedere il possesso. Lo studioso ebbe tuttavia il permesso di esaminare le pagine restanti; compilò una lista di ciò che contenevano e copiò una pagina con almeno tre colonne di Isaia e la prima colonna di Geremia. Raccomandò poi a Kyrillos di prendersi molta cura dei preziosi fogli che restavano al monastero e di stare attento, se mai gli fosse capitato sott’occhio altro materiale di quel genere, a non lasciarselo sfuggire; accennò anche alla possibilità di un suo ritorno al Sinai. Nella sua mente turbinavano già vari progetti. Come poteva entrare in possesso delle pagine che all’ultimo momento gli erano scappate di mano? Poteva forse assicurarsi qualche aiuto esterno? Quello, forse, dello zar di Russia, che come protettore della Chiesa ortodossa greca e benefattore degli istituti cristiani nel Vicino Oriente godeva tutto il rispetto dei monaci del Sinai? La necessità stava per fare del paleografo un abile diplomatico. Su un punto, la sua decisione era già presa: nessuno doveva conoscere l ’origine dei fogli del manoscritto dei Settanta che si preparava a portare in Europa. Avrebbe detto soltanto di averlo trovato “nel deserto egiziano o nei dintorni” ; e non era una bugia, benché più tardi qualcuno dovesse accusarlo di avere mentito. Era la verità, anzi; solo, in obbedienza a un antico precetto di­ plomatico, Tischendorf si proponeva di dire la verità, soltanto la verità, ma non tutta la verità.

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Capitolo XIV IL CODICE SINAITICO Ma più di tutte queste lusinghiere distinzioni, conta per me il fatto che la Provvidenza ha dato a questo nostro tempo, in cui tanti sono gli attacchi alla fede cristiana, la Bibbia Sinaitica, affinché ci illumini sul testo autentico della Parola scritta di Dio e ci aiuti, at­ traverso la sua ricostruzione esatta, nel compito di di­ fendere la verità. C onstantin V on T isc h en d o r f 1

Tischendorf arrivò a Lipsia nel gennaio 1845. Non era tornato diret­ tamente in Europa dal Sinai: aveva invece organizzato un altro viaggio in Egitto e raggiunto infine la Terrasanta dopo una serie di incidenti da far rizzare i capelli ed essere stato persino coinvolto in una guerra tribale. Non lo seguiremo nel suo pellegrinaggio per i monasteri di Pale­ stina e di Siria né nel lungo viaggio che lo condusse a Costantinopoli. In parecchi luoghi tornò a sperimentare la sospettosità dei monaci e a constatare le condizioni deplorevoli in cui erano tenute le biblioteche monastiche, accessibili solo dopo lunghe tribolazioni. Tuttavia la sua co­ stanza e la sicurezza del suo istinto di paleografo gli permisero di assi­ curarsi alcuni preziosi manoscritti; tutti, naturalmente, di gran lunga meno importanti delle quarantatré pagine portate via dal Sinai. Raggiunse Lipsia carico di documenti greci, siriaci, copti, arabi e georgiani, che regalò tutti alla biblioteca universitaria in segno di gratitudine per Passistenza ricevuta dal governo. Il materiale fu catalogato come Manuscripta Tischendorfìana, e comprendeva anche tre palinsesti greci; i frammenti del Sinai furono catalogati a parte, sotto il nome che lo scopritore aveva 1 Tischendorf, Codex Sinaiticus, pag. 32.

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dato loro in onore del sovrano sassone: Codex Friderico-Augustanus. Tischendorf si mise immediatamente al lavoro per preparare un'edizione litografica in facsimile del codice, con raggiunta di un suo commento. Al ritorno dalla sua assenza di oltre quattro anni lo studioso ora trentenne, la cui fama come paleografo e cultore di studi biblici era or­ mai saldamente affermata, ebbe un incarico presso l'università di Lipsia; potè sposarsi e dedicare il tempo non occupato dai doveri universitari alla pubblicazione dei testi da lui scoperti. Una nuova edizione del Nuovo Testamento greco incorporava buona parte di questo materiale e segnava un'altra tappa fondamentale nella storia della critica biblica. Assorbito dal lavoro e dalla famiglia, Tischendorf sembrava aver posto fine ai suoi vagabondaggi; ma le lunghe vacanze universitarie lo conducevano inva­ riabilmente in prossimità di antiche biblioteche, in particolare di quelle di Zurigo e San Gallo, luoghi in cui la bellezza del paesaggio si univa alle attrazioni d'ordine paleografico. Dovunque andasse, lo perseguitava il pensiero delle pagine che aveva dovuto lasciarsi dietro; ne aveva tenuto segreta l'esistenza perché non voleva che altri vi mettessero sopra le mani, e doveva trovare il modo di assicurarsele. Come poteva indurre i monaci di Santa Caterina a cambiare idea? Un giorno si ricordò del medico del viceré d'Egitto, Pruner-Bey, di cui aveva goduto l'amicizia al Cairo. Pruner-Bey era un uomo di notevole posizione sociale, in buoni rapporti con personalità altolocate, e Tischen­ dorf sapeva di potersi fidare della sua discrezione. Lo pregò quindi di avvicinare i monaci del Sinai e di offrir loro una grossa somma per il codice dei Settanta. Ma Pruner dovette riferirgli che il tentativo era fallito: i monaci si rendevano conto troppo bene del valore di ciò che avevano in mano, e “di quanto aumenta l'offerta, di tanto diminuisce la probabilità che vogliano separarsi dal manoscritto”2. Era chiaro che Ti­ schendorf doveva andarci di persona: anche se non fosse riuscito ad ac­ quistare i frammenti per lo meno li avrebbe copiati, il che avrebbe reso possibile pubblicarli e metterli a disposizione degli studiosi occidentali. Tischendorf mise quindi a parte del segreto il governo sassone e ne ot­ tenne un finanziamento. Lasciata l'Europa a metà di gennaio del 1852, arrivò al principio di febbraio al monastero di Santa Caterina, dove trovò un’accoglienza cor­ diale. Kyrillos, sempre investito dei compiti di bibliotecario, parve con­ tento di vederlo, ma tutti i tentativi di sapere da lui quale fosse stata la sorte delle pergamene caddero nel vuoto: Kyrillos dichiarava di igno­ rare completamente che fine avessero fatto i frammenti che Tischendorf aveva recuperati dal cesto e tanto caldamente raccomandati alle sue cure. Convinto della sincerità del bibliotecario, Tischendorf concluse che il manoscritto era stato dato via a sua insaputa e ritenne probabile che fosse 2 Tischendorf, Die Sinaibibel, pag. 5.

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finito in Inghilterra o in Russia. Per puro caso, scopri tuttavia un indizio mentre sfogliava in biblioteca una raccolta di Vite dei santi, dove trovò un frammento di pagina, “non più largo della metà di un palmo di mano \ che era stato usato come segnalibro; conteneva alcuni versetti (undici righe) dal ventitreesimo capitolo del Genesi. Provenendo dalla parte ini­ ziale della Bibbia costituiva un ulteriore prova del fatto che la copia era stata in origine completa; ma, ammetteva tristemente Tischendorf, “la maggior parte è andata da gran tempo distrutta”34. Il fallimento della spedizione al Sinai non impedì a Tischendorf di trovare preziosi manoscritti in altri luoghi visitati nel corso del breve viaggio nel Vicino Oriente. Questa volta portò in patria sedici palinsesti: antiche pergamene siriache e arabe, e un buon numero di testi caraiti, dovuti a una setta ebraica delimito Medioevo. Aveva acquistato inoltre papiri greci, copti, ieratici e demotici. In maggio era di ritorno a Lipsia. Di giorno in giorno attendeva la notizia che la parte più grossa del manoscritto da lui ritrovato era entrata a far parte di una biblioteca euro­ pea o di una collezione privata; ma passarono gli anni, e non arrivò nessu­ na notizia del genere. Tischendorf cercò di indurre il presunto acquirente delle ottantasei pagine a rivelarli pubblicando, nel 1854, quei passi di Isaia e di Geremia che aveva copiati nel monastero dalle pagine che i monaci avevano trattenute; i frammenti apparvero in una collana, i Mo­ numenta sacra inedita, che Tischendorf aveva fondato per pubblicare i testi da lui scoperti e in genere i documenti di cui non erano disponibili edizioni. Una nota di accompagnamento ai frammenti dichiarava che il manoscritto originale era stato scoperto esclusivamente da Tischendorf. Il tempo passò, e nessuno si fece avanti a proclamarsi in possesso delle ottantasei pagine. Tischendorf seppe anni dopo che il tanto desiderato manoscritto era stato mostrato a un ecclesiastico russo in visita al Sinai; ma l’ecclesiastico non s’era reso conto della sua importanza né si era preoccupato di approfondire che testi contenesse. Negli anni successivi Tischendorf fu tutto preso dagli studi per la settima edizione del Nuovo Testamento greco. Ma POriente era ormai nel suo sangue e “il pensiero di nuovi viaggi e ricerche” , com’egli stesso con­ fessò, non lo abbandonava mai; quanto ai primi due viaggi, si rifiutava di “considerare esaurita con quelli la sua missione”5. Coloro che sono stati in Oriente, aggiungeva, non riescono mai a dimenticarlo. Le sue speranze ripresero quota quando uno studioso inglese che il governo aveva inviato nel Vicino Oriente a fare acquisti antiquari di­ chiarò di avere di proposito omesso dal suo itinerario Santa Caterina, spiegando: “Al monte Sinai, dopo la visita di un paleografo e critico 3 Ibid., pag. 6. 4 Tischendorf, Codex Sinaiticus, pag. 25. 5 Tischendorf, Reise in den Orient, pag.

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eminente come il professor Tischendorf, per non parlare delle visite di altri uomini di lettere, non poteva esserci nulla che giustificasse la visita; come sperare che qualcosa degno di nota fosse sfuggito al loro occhio esperto6? ” Tischendorf voleva essere in una posizione di forza quando sarebbe tornato a intavolare negoziati con gli scaltri monaci del Sinai. Come Layard e Mariette, che in quegli anni stavano conducendo scavi rivoluzio­ nari in Mesopotamia e in Egitto, aveva imparato quanto potere e pre­ stigio venissero allo studioso straniero da un appoggio politico. Il re di Sassonia avrebbe imposto relativamente poco rispetto nel regno del Chedivè, ma la protezione del governo prussiano sarebbe stata invece molto utile. Nel vecchio Alexander von Humboldt, Tischendorf aveva un alleato che godeva di considerevole influenza alla corte di Berlino; ma il ministro prussiano della pubblica istruzione dimostrò poco entu­ siasmo. Tischendorf riprese allora in esame la possibilità di assicurarsi lo aiuto dello zar, il cui nome aveva nel Levante un peso di gran lunga maggiore: alla sua notevole autorità politica si aggiungeva infatti l’autorità religiosa che gli veniva dalPessere il capo della Chiesa russa e il di­ fensore di quella greca. Inoltre, i monaci del Sinai beneficiavano da secoli dei suoi sussidi, e Tischendorf sapeva come trarre il massimo profitto da tutti questi fattori. Nell’autunno del 1856 consegnò all’ambasciatore russo a Dresda un memorandum per il ministro russo della pubblica istruzione, Abraham von Noroff. Dopo avere esposto i suoi successi nel recupero di mano­ scritti perduti, Tischendorf dichiarava: “Questi legati di un tempo in cui il sapere fioriva nelle celle dei monasteri... sono, a mio parere, sacra proprietà di tutti gli uomini di cultura. Quale ricca vita spirituale l’Eu­ ropa ha mietuto nei bui e deserti recessi monastici dell’Oriente trapian­ tando importanti pergamene medioevali, in particolare pergamene gre­ che, nei centri della cultura e della scienza europee! Molti di questi do­ cumenti, più di quanti comunemente si supponga, sono ancora da scoprire nei luoghi in cui furono depositati in origine. Questo vale in particolare per la letteratura greca e la storia bizantina...7/' Von Noroff era un uomo di “incredibile erudizione", che aveva fatto parecchi viaggi in Oriente. Il progetto di Tischendorf lo entusiasmò tanto che si recò di persona a Lipsia a discutere con lui i piani, e addirittura espresse il desiderio di accompagnarlo per parte del viaggio; la proposta piacque anche all’Accademia Imperiale di Pietroburgo, alla quale era stato chiesto un parere. Invece il clero russo, profondamente conservato­ 6 Tischendorf, Aus dem Heiligen Lande, pag. 15, dove cita H. O. Coxe, Report to Her Majesty’s Government on the Greek Manuscripts yet Remaining in the Libraries of the Levant, Londra, 1858. 7 Tischendorf, Die Sinaibibel, pagg. 7-8.

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re, si dichiarò avverso all’idea di affidare a un protestante tedesco un’am­ basciata per i correligionari del Levante. Peggio ancora, Von Noroff lasciò il suo posto. L ’ex ministro continuò tuttavia a poter avvicinare la famiglia imperiale con la facilità di prima; Costantino, il fratello dello zar, fu conquistato al progetto, e infine anche la zarina Maria Alexandrovna e l’imperatrice madre aderirono alla piccola congiura. Frattanto il governo di Sassonia fece sapere a Tischendorf che era disposto a sostenere le spese se i russi avessero ritirato il loro appoggio. Non dovendo più dipendere esclusivamente dai russi, Tischendorf potè forzare i tempi, e inviò infatti a Pietroburgo quello che era sostanzial­ mente un ultimatum, chiedendo una decisione in un senso o nell’altro. Subito von Noroff e un altro intimo del granduca Costantino telegrafa­ rono che l’attesa era finita: il benestare imperiale sarebbe stato concesso nell’immediato futuro. Lo aveva assicurato la zarina, avvicinata proprio nel momento in cui saliva su un treno che doveva portarla a Mosca in­ sieme con lo zar. La notte successiva giunsero ordini di anticipare a Tischendorf i fondi necessari (comprendenti di che coprire le spese di viaggio, più un generoso assegno per eventuali acquisti). Questi fondi furono consegnati a Tischendorf, in oro russo, dall’ambasciatore dello zar a Dresda; non comportavano nessun impegno, non fu chiesta una ricevuta. “Il progetto ricevette così dalla munificenza imperiale il sug­ gello di una nobile fiducia89.” Condotta a termine la settima edizione del Nuovo Testamento greco, che aveva richiesto tre anni di lavoro incessante, Tischendorf tornò a prendere il mare alla volta dell’Egitto; sbarcato, non perse tempo nella valle del Nilo ma si mise immediatamente in cammino verso il monte Sinai. L ’accoglienza che ricevette al monastero fu molto diversa da quella delle altre volte. Ora veniva per conto di Sua Maestà Imperiale russa, e fu trattato con deferente rispetto: fu issata in suo onore la bandiera russa, e i monaci non lo tirarono su con un cesto ma lo fecero entrare da una piccola porta a livello del suolo che veniva aperta solo in rare occa­ sioni, per ospiti di insolito prestigio. Il priore, che aveva l’aria di sapere benissimo perché fosse lì, gli diede il benvenuto con un discorsetto in cui gli augurava ogni successo nelle sue ricerche della verità. “I fatti” , avreb­ be commentato Tischendorf, “dovevano verificare l’augurio in misura ben superiore a quanto si aspettasse51.” Non abbiamo modo di sapere se il discorso del priore fosse carico d’ironia, come pensarono Tischendorf e dopo di lui altri scrittori te­ deschi, o se riflettesse un sincero desiderio dei monaci di accontentare ogni desiderio del visitatore, forse nella speranza di appropriati compensi da parte russa. Qualunque cosa possa essere accaduta dietro le quinte, e 8 Ibid.y

pag. 10. 9 Tischendorf, Codex Sinaiticus> pag. 27.

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tenuto anche conto della possibilità che i monaci giocassero a nascondino con Tischendorf, il corso esterno degli eventi è chiaro. Lo studioso tornò a esaminare a fondo le raccolte di manoscritti conservate nel mo­ nastero, e dopo tre giorni era convinto di avere visto assolutamente tutto. Non gli rimaneva da far altro che copiare pochi passi. Aveva deciso in precedenza di non formulare domande dirette a proposito del famoso manoscritto — sapeva già fin troppo bene quale sarebbe stata la risposta — e non avendone trovato traccia in nessuna delle tre biblioteche era piu che mai convinto che non fosse più nel monastero. Il quarto giorno dall'arrivo, prese disposizioni per tornare al Cairo alla fine della setti­ mana. Il pomeriggio di quello stesso giorno Tischendorf sali su un'altura vicina e poi scese nella pianura dietro di quella, in compagnia dell'eco­ nomo del monastero, un giovane e simpatico ateniese, allievo di Kyrillos che lo chiamava il proprio “figlio spirituale” . Durante il ritorno il di­ scorso cadde sulle edizioni del testo greco dell’Antico e del Nuovo Testa­ mento pubblicate da Tischendorf, che ne aveva portato copie in regalo al monastero. Verso il tramonto, di ritorno a Santa Caterina, l'economo invitò il compagno nella sua cella a bere qualcosa; e di li a poco, mentre sorseggiavano il liquore di datteri prodotto al monastero, riprese la con­ versazione interrotta: “Anch'io ho letto una copia dei Settanta10.” Cosi dicendo si alzò, traversò la stanza, prese da uno scaffale un voluminoso oggetto avvolto in un pezzo di stoffa rossa e andò a posarlo davanti al­ l'ospite. Tischendorf aperse il pacco, e immediatamente riconobbe i ca­ ratteri unciali, le pagine scritte su quattro colonne: identici a quelli del codice Friderico-Augustanus. E fra le pergamene non c’erano soltanto i fogli che aveva tolto dal cesto una quindicina d’anni prima: ce n'erano molti di più. Alle ottantasei pagine dell'Antico Testamento che aveva vedute allora se n’erano aggiunte altre centododici, insieme con quello che per lui era il più prezioso di tutti i tesori, lo scopo di tutti i suoi sforzi: un Nuovo Testamento secondo tutte le apparenze completo. Né il Codice Alessan­ drino né il Vaticano contenevano un testo cosi completo. Contò le pa­ gine; erano 346. Diede un’occhiata al testo per vedere se ci fossero veramente tutti i Vangeli, tutte le Epistole e constatò di avere davanti agli occhi l’unico Nuovo Testamento tramandato nella sua interezza da un tempo cosi vicino a quello della sua composizione. Stentò a credere ai suoi occhi, quando, dopo il testo del Nuovo Testamento, riconobbe la Lettera di Barnaba, presunta opera di un discepolo degli Apostoli, che il canone definitivo dei libri sacri, dopo lunghe esitazioni, avrebbe escluso dal Nuovo Testamento; si credeva che la maggior parte di essa fosse 10 Ibid., pag. 27.

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andata perduta, e i pochi frammenti superstiti erano stati tramandati in cattive traduzioni latine. Tischendorf stentò a contenere la sua gioia; ma questa volta era de­ ciso a comportarsi con somma prudenza, cosi da non destare sospetti e da non vedersi alPultimo momento sfuggire la preda dalle mani. Frattanto nella cella dell’economo si erano riuniti altri monaci, fra cui Kyrillos, e tutti furono testimoni del “distacco” con cui il professore tedesco esami­ nava il voluminoso manoscritto; non conoscendone il contenuto, pensava Tischendorf, certo non potevano valutarne a pieno l’importanza. Chiese

Inizio della Lettera ai Romani, dal Codice Vatica­ no, uno fra i due più antichi e meglio conservati manoscritti unciali della Bibbia greca; fu scritto su pergamena verso la fine del IV secolo, nella stessa epoca del Codice Sinaitico scoperto da Tischendorf, e alcuni decenni prima dell’Alessan­ drino, calligraficamente di più difficile lettura.

con aria noncurante se poteva portarselo in camera per guardarlo meglio, e ottenne senza fatica il permesso. Più tardi tentò di descrivere ciò che provò quando fu finalmente solo: “Là, senza nessuno a vedermi, potei finalmente dar via libera alla gioia. Sapevo di avere in mano il più pre­ zioso testo biblico esistente, un documento la cui età e importanza supe­

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ravano quelle di tutti i manoscritti da me veduti in ventanni di studio sull’argomento...11.” Per prima cosa, compilò un elenco completo di ciò che le 346 pagine contenevano. Oltre ai ventidue libri protocanonici dell’Antico Testamen­ to, per la maggior parte completi e comprendenti soprattutto i libri pro­ fetici e poetici, v ’erano anche parti dei deuterocanonici; il Nuovo Testa­ mento non presentava la minima lacuna. Quando l’ebbe sfogliato ed ebbe letto Barnaba, gli balenò alla mente un pensiero: non poteva esserci una altra opera da gran tempo perduta, il Pastore di Erma? Quasi si vergo­ gnava di nutrire “simili speranze, come se non dovessi essere già grato al cielo della fortuna che mi era toccata”1112; ma voltando un foglio trovò una pagina assai sbiadita, e su quella pagina una didascalia: Il Pastore. A questo punto, pianse. “Persi ogni controllo. Nel piu profondo del cuo­ re avevo sempre saputo che cosa mi impediva di starmene tranquillo a casa...: la chiamata del Signore. Sempre mi ero detto: giro il mondo nel nome del Signore, per trovare tesori di cui beneficerà la sua Chiesa. Ora lo sapevo per certo, e la verità mi riempiva di religioso timore. Il mano­ scritto, intero, cosi com’è ora, rappresenta per gli studiosi e per la Chiesa cristiana un tesoro d ’incomparabile valore13.” Erano le otto di sera. Impossibile dormire in una notte simile. Ben­ ché la lampada desse solo una luce fioca, benché nella sua stanza non ci fosse riscaldamento, Tischendorf sedette a trascrivere la Lettera di Bar­ naba e la parte recuperata del Pastore. La mattina seguente, sul presto, fece chiamare l’economo, e accen­ nando alla grossa somma in suo possesso gli propose di acquistare le pergamene in cambio di due generose donazioni: una al monastero, una all’economo. Ma questi (giustamente, come ammise lo stesso Tischen­ dorf14) respinse l’offerta. Tischendorf gli spiegò allora che doveva asso­ lutamente copiare il manoscritto; a questo l’economo non sollevò obie­ zioni. Ma come si poteva fare? Il testo includeva circa 120.000 righe, in una difficile scrittura alessandrina antica; per copiarlo sarebbe occorso almeno un anno, e Tischendorf non poteva trattenersi cosi a lungo. Chie­ se quindi ai monaci il permesso di portare il codice al Cairo, dove avrebbe potuto farsi aiutare da qualcuno, e ottenne il consenso di tutti tranne uno: il vecchio Vitalius, lo skevophylax (custode degli arredi) dalla cui biblioteca-deposito si supponeva che provenisse il manoscritto. Saltò fuori anche un’altra complicazione: il priore Dionysios, al quale sarebbe spet­ tata l’ultima parola, era partito qualche giorno prima per il Cairo, dove insieme con i priori di altri monasteri sinaitici doveva eleggere il suc­ cessore del centenario arcivescovo Costantino, appena morto. 11 12 13 14

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Ibid., pagg. 27-8. Tischendorf, Aus dem Heiligen Lande, pag. 111. Behrend, op. cit., pagg. 28-9 (lettera del 15 febbraio 1839). Tischendorf, Die Sinaibibel, pag. 14.

Tischendorf decise di raggiungere il priore, portando con sé calde lettere di raccomandazione di Kyrillos e delPeconomo. Al Cairo, si af­ frettò al monastero dove si riuniva il sinodo dei priori; prima di sera aveva ottenuto il permesso di portare il manoscritto al Cairo e uno sceic­ co beduino partiva per andare a prenderlo. Il manoscritto arrivò di li a dieci giorni, dopo un viaggio a dorso di cammello reso più celere dal premio che Tischendorf aveva promesso. Fu stabilito che lo studioso avrebbe potuto prendere in prestito per copiarlo otto pagine alla volta. Gli stava davanti un enorme lavoro, che per di più il progresso degli studi avrebbe fatto invecchiare. Lavorò per due mesi nella sua stanza all’Hòtel des Piramides, esposto ai mille rumori, al clamore incessante duna strada del Cairo. Per alleggerire il proprio compito si assicurò i servigi di due tedeschi residenti nella città, un medico e un farmacista, che avevano una certa co­ noscenza delle letterature classiche e che si misero a copiare sotto la sua supervisione. Ma le difficoltà crescevano di giorno in giorno; in aggiunta ai molti passi sbiaditi v’erano innumerevoli varianti — un totale di circa 14.000 — introdotte da successivi “correttori” dopo la stesura del testo: certe pagine ne contenevano più di cento. Inoltre, il testo stesso era stato scritto da parecchie mani diverse, con grafie di diverso stile e con diverse peculiarità. Almeno sei correttori ci avevano lavorato, e la maggior parte di loro, a quel che pareva, più di mille anni innanzi. Quando era stata copiata circa metà del volume, Tischendorf apprese con sgomento che, a causa di una frase imprudente sfuggita proprio a lui nel parlare con un rappresentante diplomatico tedesco, il segreto era tra­ pelato: uno studioso inglese appena arrivato in città non solo conosceva resistenza del codice, ma era già stato portato al monastero dove questo si trovava e aveva cercato di comprarlo. Tischendorf si precipitò a sua volta al monastero e per una volta nella vita perse completamente le staf­ fe. Il priore tuttavia lo calmò assicurandogli che lui e i confratelli avreb­ bero preferito “donare il manoscritto allo zar Alessandro piuttosto che venderlo in cambio di oro inglese”15. Tischendorf non era certo uomo da lasciar cadere un’idea del genere; “felice” (sono parole sue) “per questa espressione di fede”10, non si lasciò sfuggire l’occasione di esortare i monaci a un gesto generoso nei confronti del venerato protettore della Chiesa ortodossa. Nello stesso tempo, l’irri­ tazione per il fatto che il segreto era trapelato e che la concorrenza inglese già cercava di approfittarne lo spinse a dare pubblica notizia delle sue recenti scoperte. Come un generale vittorioso compilò un trionfante “co­ municato” al ministro sassone della pubblica istruzione e lo fece pubbli-13* 13 Tischendorf, Aus dem Heiligen Lande, pag. 117. 16 Ibid., pag. 117.

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care, a metà delPaprile 1859, nel supplemento scientifico della Leipziger Zeitung. L ’idea di regalare il manoscritto allo zar cominciava a piacere ai con­ fratelli; ma intervennero complicazioni inaspettate. L ’arcivescovo appena eletto, del quale era necessario il permesso per la donazione di un oggetto importante come il codice biblico, non godeva il favore dell’arcivescovo greco ortodosso di Gerusalemme, che si rifiutava di consacrarlo. La sua nomina doveva inoltre essere confermata dal governo turco e dal viceré egiziano, e né l’uno né l’altro si davano premura di farlo. La nomina non poteva quindi considerarsi ratificata, e il prelato non volle assumersi quella responsabilità; tuttavia lasciò capire che era favorevole alla dona­ zione, e l’avrebbe approvata non appena legalizzata la sua posizione. Tischendorf intervenne con molta abilità nella crisi. Non era piu il postulante; lasciò invece capire ai monaci che, come inviato dello zar, avrebbe usato a loro favore della propria influenza su Sua Maestà Orto­ dossa. I monaci erano molto angosciati per quell’interregno episcopale, che portava confusione e apatia nella loro comunità. Quando seppe del­ l’arrivo del granduca Costantino a Gerusalemme, Tischendorf noleggiò una nave che portò a Giaffa lui e altri tre uomini, e fu sempre a fianco del fratello dello zar per tutta la durata del suo soggiorno in Terrasanta. Prosegui poi per Smirne e Patmos, acquistando lungo la strada parecchi importanti manoscritti che mandò in dono allo zar Alessandro. Di ritorno al Cairo, seppe che il problema dell’elezione del nuovo arcivescovo non si era risolto, a causa dell’irriducibile opposizione del me­ tropolita di Gerusalemme. Infine, lo stesso arcivescovo eletto si recò da Tischendorf, il cui prestigio era notevolmente aumentato dopo che tutti avevano potuto constatare la sua intimità col granduca, a chiedergli di rappresentare come meglio poteva gli interessi della sua comunità; Ti­ schendorf fu lieto di accettare la missione, in vista, come egli stesso si espresse senza circonlocuzione, “dello stretto rapporto fra gli interessi della comunità e i miei”17. A Costantinopoli, furono i secondi ad avere la precedenza. Nell’ambasciatore russo presso la Sublime Porta, il principe Lobanov, Tischendorf trovò un devoto alleato che gli offerse ospitalità nella sua casa di campagna sul Bosforo. Nello studioso tedesco cresceva l’impa­ zienza di sistemare i suoi affari. “Aspettare per mesi che la diatriba ec­ clesiastica avesse fine non era cosa per me18.” Cosi, trovò una soluzione: compilò un ingegnoso documento, che persuase l’ambasciatore russo a firmare e in cui il governo russo suggeriva che, essendo l’investitura tut­ tora in sospeso, il manoscritto avrebbe potuto essere inviato a Pietro­ 17 Tischendorf, Die Sinaibibel, pag. 21. 18 Ibid., pag. 22.

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burgo in prestito. Sarebbe rimasto proprietà del monastero fino a quando non fosse stato ufficialmente donato allo zar; se poi, per circostanze im­ previste, la donazione non fosse avvenuta, i russi lo avrebbero restituito al monastero. Con questo documento in mano Tischendorf tornò a im­ barcarsi per PEgitto; al suo arrivo i monaci si profusero in ringrazia­ menti perché s'era tanto prodigato in loro vantaggio e firmarono la carta che gli permise di portare il codice a Pietroburgo, “per farlo copiare il più accuratamente possibile”19. Finalmente lo studioso poteva tornare in Europa con il suo carico prezioso: una “ricca raccolta di antichi manoscritti greci, siriaci, copti, arabi e in altre lingue ancora, in mezzo ai quali la Bibbia Sinaitica splen­ deva come una corona”20. Lungo la strada si fermò a mostrare i suoi trofei alPimperatore Francesco Giuseppe a Vienna e, pochi giorni dopo, anche al proprio sovrano, re Giovanni di Sassonia. Poi continuò il viaggio alla volta di Tsarkoe Selo, il palazzo imperiale vicino a Pietroburgo, dove presentò i manoscritti alle Loro Maestà e colse Poccasione di proporre allo zar “un'edizione della Bibbia degna dell'opera e dell'imperatore, e tale da essere considerata una delle massime imprese che siano mai state compiute nel campo degli studi critici e biblici”21. Su chi avrebbe diretto l'impresa non potevano, naturalmente, esserci dubbi. Tischendorf fu invitato a stabilirsi per quello scopo a Pietroburgo, ma rifiutò per motivi personali e perché a Lipsia avrebbe potuto disporre di impianti tipogra­ fici più perfezionati. La cura dell'edizione in facsimile del codice, in quattro volumi, ri­ chiese tre anni, si rivelò uno dei lavori più ardui che Tischendorf avesse mai intrapreso, e probabilmente fini col minare la sua salute. Vi fu, per esempio, il problema di preparare caratteri greci per tutti i diversi stili unciali usati nel testo e per le correzioni, in caratteri più minuti, aggiunte da altre mani. Siccome la scrittura del codice era ineguale e in parte sbia­ dita, un'edizione fotostatica, con i metodi e le tecniche di allora, non era possibile. (Il codice fu poi fotografato, nei primi decenni del nostro se­ colo, dal professore Kirsopp Lake di Harvard e da sua moglie, e pubbli­ cato dalla Oxford University Press: Il Nuovo Testamento nel 1911, l'Antico nel 1922.) Poi bisognò decifrare e inserire le correzioni al testo. Infine ci furono da leggere le bozze. Quando il lavoro fu finito, un carico di pesanti volumi — trentun casse, con 1.232 in-folio per un peso totale di circa sessanta tonnellate — parti alla volta di Pietroburgo, dove i libri sarebbero stati distribuiti per celebrare il millenario della monarchia russa, che cadeva nell'autunno del 1862. L'opera recava il titolo:39 39 Tischendorf, Codex Sinaiticus, pag. 31. 20 Ibid., pag. 31. 21 Ibid., pag. 31.

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CODEX BIBLIORUM SINAITICUS PETROPOLITANUS, recuperato dall’oscurità dell’oblio sotto gli auspici di Sua Maestà Imperiale lo Zar Alessandro II, portato in Europa e edito per il progresso e la glorificazione della dottrina cristiana da C. T. a. XPXHTOVEYXrrGAI » _ — VT'V

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54 Schechter, Studies in Judaism, II serie, pag. 29.

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Capitolo XIX GROTTE NEL DESERTO DI GIUDA Nella stigia spelonca abbandonato... Milton , L’Allegro

È una delle regioni più desolate del mondo, in gran parte priva di ve­ getazione, inospitale agli uomini. Alture calcaree, dai profili frastagliati, dai fianchi scoscesi, tagliate da enormi crepe e sforacchiate da grotte, compongono il paesaggio. È una terra desolata, rocciosa, biancastra, che conserva drammaticamente i segni di pressioni tettoniche, convulsioni do­ vute a terremoti, e del lento logorio delle erosioni. Non fosse per la sua posizione geografica, sarebbe stato uno dei luoghi più dimenticati del mon­ do; ma il deserto di Giuda, per quanto arido e privo di vita, si trova im­ mediatamente a est di Betlemme e di Gerusalemme. Gerico, la più antica città del mondo, sorge al suo margine. Questa antica terra della tribù ebraica di Giudea, che sovrasta la profonda fossa del Mar Morto, non po­ teva rimanere del tutto fuori della storia. Qui si svolsero battaglie, per lo meno dal giorno in cui Saul scese in armi contro il suo ex citaredo, Davi­ de. Ribelli, predoni, santi cercarono asilo in questa solitudine. Attraverso i secoli il deserto di Giuda fu però soprattutto il rifugio di tribù semino­ madi, che qui cacciavano o vagavano con le loro mandrie e greggi in cer­ ca di cibo, e di tanto in tanto arrivavano fino a distanti uadi o si inerpi­ cavano su per le ripide pareti di roccia. In anni più recenti le alture, non custodite da nessun rappresentante delle autorità, furono un paradiso di contrabbandieri, finché agli abitanti dei luoghi non si offersero attività anche più redditizie. Un giorno un cane lanciato all’inseguimento di un altro animale scom­ parve improvvisamente alla vista del padrone; doveva essere finito in una fra le tante cavità naturali delle rocce, ma probabilmente l’apertura

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era troppo alta sopra il livello del pavimento e il cane non ce la faceva più a uscire. L ’arabo gli venne in aiuto calandosi attraverso il foro; e quando i suoi occhi si furono abituati all’oscurità nelPinterno della grot­ ta, con sua sorpresa scorse strani oggetti: rotoli di pelle — come accer­ tò dopo averli esaminati — coperti di bizzarri segni. A quanto ci raccon­ tano, il cacciatore arabo si recò allora a Gerusalemme e avverti gli ebrei ivi residenti del fatto che c’erano libri nascosti fra le alture della Giudea. Ebrei di Gerusalemme si precipitarono a frotte nel deserto, e nel site indicato dall’arabo, presso Gerico, trovarono parecchi rotoli dell’Antico Testamento e di testi non biblici, tutti in ebraico.Il

Silografia raffigurante Gerusalemme, dai Reise ins Heilige Land di Breydenbach (Magonza, 1486).

Il racconto ci suona familiare. Tutti abbiamo sentito parlare di un beduino entrato per caso in una grotta mentre cercava un animale sper­ duto. Tutti abbiamo sentito parlare del posto: le accidentate alture a nord-ovest del Mar Morto; e dei risultati: la scoperta di antichi mano­ scritti ebraici e di frammenti letterari, sempre in ebraico, scritti su rotoli di cuoio. Solo la data può essere una sorpresa: il fatto avvenne intorno all’800 d.C. L ’episodio è riferito da una fonte autorevole — Timoteo I (726?819?), patriarca nestoriano di Seleucia-Ctesifonte, presso Bagdad — in una lettera non datata a Sergio, metropolita dell’Elam. Quando nel 1901 un orientalista tedesco, Oskar Braun, pubblicò il documento, insieme con

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altre lettere siriache di Timoteo1, nessuno vi fece caso. Ma mezzo secolo più tardi, nel 1949, l’articolo fu segnalato all’attenzione di un altro stu­ dioso tedesco, Otto Eissfeldt, che immediatamente lo ripubblicò12; il mon­ do seppe cosi di questa supefacente scoperta di rotoli del Mar Morto, in anticipo sull’altra di circa 1150 anni. Fu una semplice coincidenza, curiosa ma priva di conseguenze? Esi­ ste qualche rapporto fra la prima, antica scoperta e quella avvenuta ai no­ stri giorni? Sappiamo quali manoscritti furono trovati nell’800 d.C. e quale fu la loro sorte? Disgraziatamente l’unica testimonianza che posse­ diamo è quella di Timoteo; ma esistono alcuni indizi. Nella sua lettera Timoteo riferiva di aver saputo della scoperta da ebrei di Gerusalemme convertiti al cristianesimo. Secondo il racconto di questi ultimi, i rotoli erano stati asportati dalla loro “dimora rupestre” circa dieci anni innan­ zi; erano “in gran numero” , e includevano opere canoniche e non canoni­ che, tra l’altro più di duecento inni, definiti “Salmi di Davide” . A Timo­ teo interessava soprattutto sapere se i testi biblici contenevano passi del­ l’Antico Testamento citati nel Nuovo “ma che non si trovano in alcuna parte [dell’Antico Testamento], né presso gli ebrei né presso i cristiani. L ’informatore ebreo del patriarca, uno scriba “con vaste letture” nel cam­ po della letteratura ebraica (e dotato, pare, di una memoria formidabile e di un’intelligenza molto sveglia) gli assicurò che sì nei manoscritti delle caverne comparivano quei passi. Com’è comprensibile, Timoteo avrebbe voluto che qualcuno glielo confermasse, e — come racconta al suo ami­ co — scrisse in proposito “al nobile Gabriele, e anche a Shuvalemaran, metropolita di Damasco” , ma non ebbe risposta. La sua lettera si chiude su una nota di scoraggiamento: “Non ho nessuno da poter mandare. V ’è un fuoco nel mio cuore, e mi brucia e arde nelle ossa.” È interessante notare che Timoteo si chiedeva anche quali potessero essere le origini e la data del deposito nella grotta, e le ragioni per cui i rotoli erano finiti là. Chi conosce l’immensa letteratura sui rotoli del Mar Morto ricorderà che questi sono alcuni fra i problemi di più difficile solu­ zione sollevati dalle recenti scoperte. Timoteo credeva di sapere la rispo­ sta: i rotoli erano stati depositati nella grotta dal profeta Geremia o dal profeta Barukh, che, informati “per rivelazione divina” dell’imminente conquista da parte dello straniero e del prossimo esilio, nascosero i sacri testi “in grotte e caverne... affinché predoni e saccheggiatori non li po­ tessero portar via” . Quando gli ebrei tornarono dalla cattività babilone­ se, coloro che avevano seppellito i rotoli non erano più vivi e il luogo del 1 Oskar Braun, “Ein Brief des Katholikos Timotheos I iiber biblische Studien des 9. Jahrhunderts” , Oriens Christianus, voi. I, 1900, pagg. 299-313. 2 Otto Eissfeldt, “Der gegenwartige Stand der Erforschung der in Palàstina neugefundenen hebraischen Handschriften” , Tkeologische Literaturzeitung, voi. LXXIV, ottobre 1949, pagg. 395-600.

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deposito era stato dimenticato. Può darsi che Timoteo attribuisse il sep­ pellimento dei rotoli ai profeti a causa di un accenno, in Geremia, 32, 14, a un vaso '‘di terracotta” come ricettacolo di certi documenti, “affin­ ché possano conservarsi a lungo” . Se ne dovrebbe dedurre che i rotoli, quando furono ritrovati, erano chiusi in giare, come più tardi i rotoli del­ la Grotta I di Qumràn. Quando vennero a conoscenza degli studiosi del nostro secolo, le sco­ perte dell'800 d.C. trovarono immediata conferma in altre testimonianze (indirette). Alla luce di quei testi fu possibile dare una spiegazione a vari fatti che fino a quel momento erano apparsi sconcertanti. Come abbiamo già accennato, la setta ebraica dei Caraiti ebbe origi­ ne nella seconda metà dell'VI II secolo in Mesopotamia. Del suo rapido sviluppo nel XI e nel X secolo non era stata offerta ancora una spiegazio­ ne plausibile; e, fatto sorprendente, i documenti della Genizà del Cairo parevano dimostrare che in quello stesso periodo, nonostante la forte opposizione del rabbinismo talmudico, essa era diventata la setta domi­ nante in Gerusalemme stessa. Secondo tutte le apparenze, nel IX e X se­ colo la setta aveva attinto a un arsenale nuovo di idee e di argomenti che rivelavano, di là da ogni dubbio, notevoli affinità con i frammenti “sadociti” contenuti nel Documento di Damasco. Nei testi caraiti del tempo troviamo espresse idee decisamente settarie che hanno paralleli nel Do­ cumento di Damasco, mentre non hanno assolutamente nessun preceden­ te nella letteratura caraita o rabbinica più antica. D'improvviso, gli auto­ ri caraiti cominciarono a fare esplicito appello ai testi sadducei (o sadociti); e i rabbini loro avversari li attaccarono denunciandoli senz'altro co­ me sadociti. Il significato di certi fatti a nostra conoscenza è inequivocabile. In questo periodo venne rimesso in uso un antico calendario settario, con la sua peculiare datazione delle feste, identica a quella dell'apocrifo Libro dei Giubilei (uno dei testi meglio rappresentati nei rotoli di Qumràn), e del Documento di Damasco. Altre chiare affinità si riscontrano in certi riti di nozze, divorzio, purificazione, e in norme alimentari. Queste rifor­ me, come gli autori caraiti riferiscono soddisfatti, ebbero qualche effetto persino sui rabbini di Gerusalemme, che in parte le adottarono. L'influen­ za delle antiche concezioni settarie è forse rivelata, meglio che da qual­ siasi altra testimonianza, dalla menzione, in un testo caraita del IX seco­ lo, del “Maestro di Giustizia” , figura centrale nell'escatologia che i rotoli del Mar Morto e il Documento di Damasco riflettono e del quale, come oggi sappiamo, non si parlava da secoli3. A queste testimonianze se ne po­ trebbero facilmente aggiungere altre. In ogni caso, dimostrano in modo 3 John M. Allegro, The Dead Sea Scrolls, ed. riv. Harmondsworth, Penguin Books, 1958, pag. 167.

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persuasivo l’influenza immediata dei testi “sadociti” sulle dottrine caraite e fanno apparire probabile che nuove fonti rafforzassero grandemente la fiducia in sé dei Caraiti e la loro autorità religiosa. Ma i Caraiti come era­ no entrati in possesso di quegli antichi testi, secondo tutte le apparenze inaccessibili da secoli? Il merito della soluzione di questo problema va in gran parte a Paul E. Kahle, studioso anglo-tedesco dell’Antico Testamento che si era anche dedicato a lungo allo studio dei documenti della Genizà. Kahle scriveva: “Come i Caraiti fossero entrati in possesso di quei testi era veramente un grosso problema. I Sadducei erano stati dispersi quando era stato distrut­ to il Tempio; il movimento caraita cominciò solo nel corso dell’V III se­ colo. La trasmissione della dottrina sadducea poteva dunque essere avve­ nuta solo con mezzi letterari. Ma quali? Tutti i testi della letteratura sadducea erano stati distrutti dai rabbini... Mancava Panello di congiun­ zione4.” Per Kahle — e oggi molti studiosi sono d’accordo con lui — non v’erano dubbi sul fatto che i testi venuti nelle mani dei Caraiti di Geru­ salemme erano gli stessi di cui parlava Timoteo I, ritrovati nella grotta presso il Mar Morto. La data della scoperta, 800 circa, si accorda bene con quelle relative alla formazione della setta. Kahle e i suoi colleghi cercarono diligentemente e trovarono altre prove in parecchi scrittori contemporanei, Caraiti e no. Una fonte tra le piu importanti è un caraita del X secolo dall’armonioso nome di Kirkisani (Yaqub al-Qirqisànì), eminente scrittore che espose la Legge caraita e scrisse una storia delle sette ebraiche. In quest’opera Kirkisani allude ai cosiddetti Maghariyah, parola araba che significa “uomini delle caverne” , da lui situati cronologicamente dopo i Farisei e i Sadducei e prima dei cri­ stiani, spiegando che debbono il nome al fatto che i loro libri furono tro­ vati in una caverna. (Probabilmente quello non fu però il loro vero nome, bensì fu dato loro dagli uomini che riscoprirono quei libri.) Che i libri degli “uomini delle caverne” si possano identificare con i documenti ritro­ vati presso Gerico intorno all’800 d.C. è confermato ulteriormente dal­ l ’enumerazione fatta da Kirkisani di alcune loro opere, principali fra que­ ste un Libro di Sadoc e “molti strani commenti alla Scrittura” . Altre no­ tizie sulla stessa setta e sui ritrovamenti nelle caverne vengono dagli auto­ ri caraiti Mirwan e Nahawendi e si ricavano persino dalla corrispondenza fra uno statista ebreo della Spagna moresca e un re dei khazari (popola­ zione turca uigurica della Russia meridionale, che era stata convertita al giudaismo e si era creata un potente regno). Uno scrittore musulmano, Shahrastani (1071-1153) parla a sua volta della “setta delle caverne” e, in accordo con Kirkisani, ne data le origini “quattrocento anni prima di Ario” , cioè intorno al I secolo a.C.: una data, 4 Kahle, op. cit., pagg. 23-4.

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il lettore ricorderà, vicina a quella proposta da Schechter per la composi­ zione del Documento di Damasco. Ancora nel X III secolo Mosè Taku, un rabbino orientale, ricordava che Teretico Anan [il leader dei Caraiti] e i suoi amici usavano scrivere eresie e menzogne e nasconderle sotter­ ra. Poi le dissotterravano e dicevano: ‘Ecco ciò che abbiamo trovato in antichi libri’” . Il racconto del rabbino riflette, svisandola, una tradizio­ ne dei Caraiti, secondo la quale essi dovevano alcune loro dottrine a li­ bri perduti “tratti di sotterra”5. Conosciamo la caverna di quell’antico ritrovamento? Benché il tutto possa aver l’aria di un romanzo poliziesco, v’è motivo di credere che la caverna di Timoteo sia in effetti la Q I, dove il pastorello beduino Muh­ ammad adh-Dhib trovò i primi undici rotoli del Mar Morto. Quei rotoli erano probabilmente solo una piccola parte del giacimento originario, a giudicare dai quaranta e piu vasi rotti e dai molti frammenti d ’un totale di forse 150-200 rotoli. I frammenti sparsi provenivano indubbiamente da rotoli asportati a una data più antica; altri potevano essere stati por­ tati via intatti, senza quindi aver lasciato tracce. Parecchie circostanze confermano questa tesi. Per cominciare, la let­ tera di Timoteo fa pensare che quella prima e più antica rimozione sia stata un’operazione su vasta scala. In secondo luogo, l’esame dei cocci di vasi rotti e dei frammenti di cuoio dimostra che quel “saccheggio” eb­ be luogo molto tempo fa. Ancora, il contenuto (testi ebraici dell’Antico Testamento, commenti, inni e altre opere non canoniche), oltre al sup­ posto carattere settario di parecchi fra i manoscritti del IX secolo, impli­ cano una stretta affinità, se non una comunanza di origine, dei rotoli di Qumràn con i testi di cui parlava Timoteo. Infine, il modo stesso in cui l’animale si perse, cadendo attraverso un’apertura nel soffitto e non in­ trufolandosi attraverso un’apertura al livello del pavimento, corrisponde alle caratteristiche fisiche della Caverna I di Qumràn. Si presentano però alla mente anche alcune obiezioni. Come mai non fu trovata nessuna traccia materiale dei visitatori del IX secolo? Ad al­ cuni nostri contemporanei è sembrato strano che gli avidi cacciatori di manoscritti di 1.150 anni fa si lasciassero dietro rotoli cosi grossi, a meno che questi fossero nascosti in qualche angolo e che gli scopritori, nell’ec­ citazione, non li avessero visti. Queste obiezioni possono invalidare l’ipo­ tesi che la caverna scoperta nell’800 fosse effettivamente la Q I ma non compromettono in nessun modo la probabilità di un rapporto fra i ma­ noscritti dell’800 d.C. e i depositi delle caverne di Qumràn in generale. Ora che nello stesso uadi sono state scoperte molte altre caverne conte­ nenti manoscritti e frammenti di testi di tipo analogo, la Caverna IV o o la V o quasi ogni altra possono essere identificate con la caverna di Ti­ 5 Saul Liebermann, “Light on the Cave Scrolls from Rabbinic Sources” , American Academy of Jewish Research, Proceedings, voi. XX, 1951, pag. 403.

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moteo. E non è escluso che nelle vicinanze ci siano altre caverne non ancora esplorate e contenenti manoscritti, e che una di esse sia quella visitata e saccheggiata nelP800.

“Midrash [commento] di Abacuc”, dalle caverne di Qumràn.

Abbiamo modo di sapere quali manoscritti furono asportati dal loro nascondiglio al tempo di Timoteo? Anche qui, disponiamo solo di testi­ monianze indirette, eccezion fatta per gli accenni alquanto vaghi dello stesso Timoteo e di Kirkisani. Sappiamo per certo che — come nel caso dei moderni rotoli del Mar Morto — il giacimento conteneva opere ca­ noniche e non canoniche. Gli “oltre duecento Salmi di Davide” erano forse affini ai Salmi di ringraziamento di Qumràn, cosi come gli “strani commenti” cui accennava Kirkisani fanno pensare al Commentario di Abacuc della Caverna I, esegesi biblica piuttosto arbitraria. Senza dubbio, fra i testi di cui parla Timoteo dovevano esserci molti trattati sadociti. Kirkisani non solo menzionava il Libro di Sadoc come una delle opere rinvenute nelle caverne, ma nel suo Kitab al-Anwar, o Libro delle luci, esponeva alcune dottrine della setta, evidentemente attin­ te al Libro di Sadoc. Queste credenze e pratiche concordano quasi perfet­ tamente con quelle che il Documento di Damasco riflette. Abbiamo finalmente una spiegazione plausibile per la presenza miste­ riosa del Documento di Damasco nella Genizà del Cairo; i frammenti di Damasco, o sadociti, dovevano essere copie tarde di originali provenienti dalle caverne di Gerico, conforme l’ipotesi avanzata da Kahle. La scoper­ ta di testi scismatici intorno all’800 d.C. spiega come mai questa lettera­ tura settaria potesse d'improvviso esercitare una cosi forte influenza dopo non averne avuta nessuna ed essere stata anzi dimenticata per secoli. Al tempo di Timoteo quei testi tornarono in circolazione, furono copiati, diffusi e commentati, per essere poi di nuovo condannati e messi fuori circolazione. La maggior parte di essi scomparve totalmente, ma fram­ menti del Documento di Damasco sopravvissero nella Genizà del Cairo fino a quando Schechter li riscopri. La scoperta dei rotoli del Mar Morto, più di qualsiasi accenno o men­

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zione nella letteratura del IX o X secolo, dimostrò irrefutabilmente resi­ stenza di un rapporto tra i frammenti “sadociti” della Genizà e l’antica letteratura settaria ebraica, e inoltre eliminò i dubbi sull’autenticità e origine ultima del Documento di Damasco. Se occorrevano altre prove materiali, le fornirono vari frammenti manoscritti di antiche copie dello stesso documento, tutti rinvenuti nelle Caverne III e VI di Qumràn. Lo stretto rapporto tra i frammenti sadociti di Schechter e i testi settari con­ tenuti nei rotoli del Mar Morto fu riconosciuto sin dall’inizio, anche pri­ ma che si sospettasse la comune provenienza da una caverna; è anzi in­ valso l’uso di includere il Documento di Damasco in quasi tutte le edi­ zioni o traduzioni dei testi del Mar Morto. Nei numerosi libri intorno alla letteratura delle caverne di Qumràn, il Documento di Damasco viene di solito invocato a chiarimento di quel poco che si può congetturare circa le origini e lo sfondo storico dei rotoli del Mar Morto. Presumibilmente legati da una comunanza di origini e di contenuto, ma differenziati dalle condizioni della trasmissione e del recupero, Documento e rotoli hanno reciprocamente contribuito alla nostra comprensione dell’uno e degli al­ tri: riflettono un medesimo complesso di concezioni religiose, di dottrine e di norme, presentano le stesse peculiarità di linguaggio (certi passi anzi concordano parola per parola) e contengono molte allusioni a quella che può essere soltanto una medesima setta, benché forse in stadi diversi del­ la sua evoluzione. È oggi pressoché certo che questa setta va identificata con la comunità di Qumràn che ebbe il suo centro nel monastero di Khirbet Qumràn; meno sicuro il suo nome. L ’identificazione della setta con gli “Esseni” è probabilmente plausibile se il nome “Esseni” viene inteso come un termine collettivo indicante tutta una varietà di gruppi puritani che, come Zeloti e Farisei, derivano dai più antichi Asidei e a un certo momento ebbero più elementi in comune con gli apocalittici Farisei che non con i Sadducei a noi noti dall’Antico Testamento. La Palestina precristiana — non diversamente dall’Inghilterra del XVIII secolo, della quale Voltaire osservò che aveva più sette religiose di quante salse potesse vantare la Francia — era un vivaio di sette d’una incredibile varietà. Un rabbino del III secolo ha detto: “Israele non era dispersa prima che si frazionasse in ventiquattro sette di eretici6” . Il con­ formismo rabbinico e la deliberata distruzione delle testimonianze lette­ rarie hanno purtroppo confuso le linee del quadro. I testi della Genizà e di Qumràn rivelano aspetti di una ricca tradizione settaria nel caleidosco­ pico quadro religioso ebraico che fece da sfondo al nascere del cristiane­ simo. Sarebbe tuttavia presuntuoso, se non erroneo, sostenere che la co­ munità di Qumràn anticipò il cristianesimo nell’una o nell’altra delle sue fondamentali concezioni dottrinali o escatologiche. 6 Ibid., pag. 404.

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Il Documento di Damasco non fu Punico testo che gli ebrei di Geru­ salemme asportarono dalla caverna di Giudea nelP800 d.C. Che fu degli altri manoscritti? Si può solo tentare di indovinarlo. È molto probabile che buona parte di essi, se non tutti, fossero poi riconsegnati alla prigio­ nia in qualche genizà; quelli che non finirono nelle mani dei Caraiti, o quelli che i Caraiti stessi non avevano in simpatia, furono forse ben pre­ sto risepolti, e i pochi che sopravvissero scomparvero forse con il de­ clino dei Caraiti. Era improbabile che anche i manoscritti delPAntico Testamento tro­ vassero molto favore presso i rabbini, non disposti a tollerare che fosse minimamente messa in dubbio Pautorità del testo fissato dal Sinodo di Iamnia o Jabhne (presso Giaffa) nel 90 circa d.C. Il sospetto è autorizza­ to dalla pratica corrente presso gli ebrei, che in genere hanno tolto dalla circolazione i libri sciupati e consunti, perché naturalmente fosse assicu­ rata Pesatta trasmissione del testo. Persino in Schechter si manifestò que­ sta insensibilità al pregio degli scritti antichi; si racconta infatti che trat­ tasse i manoscritti della Genizà con un tale malgarbo da far rabbrividire il bibliotecario dell’Università di Cambridge. Se il Documento di Damasco è Punico del quale possiamo considerare certa la provenienza dalle caverne di Qumràn, la stessa provenienza si può attribuire con una certa plausibilità all’originale ebraico dell’Eccle­ siastico. Questo manoscritto, rinvenuto nella Genizà, contiene analoghe allusioni ai Sadociti, e anche il testo di quest’opera proveniente dalla Ge­ nizà può essere oggi completato con frammenti delle caverne di Qumràn. La fratellanza i cui testi sono stati rinvenuti nella caverna era attratta dalle opere non canoniche e apocrife, e può anche darsi che ne scrivesse alcune. Non è esclusa la possibilità di una trasmissione di tali opere dopo P800 d.C.; Hugh J. Schonfield, studioso anglo-ebreo, ha avanzato la sti­ molante ipotesi che alcuni libri siano stati asportati dalle caverne, “in co­ pie o traduzioni” , abbiano infine raggiunto la Russia e “possano essere parzialmente rappresentati da testi slavi come PApocalisse di Enoc, VApo­ calisse di Abramo, i Testamenti dei dodici patriarchi, la Visione di Isaia, la Vita di Adamo ed Evaye altri...”7 Non sembra strano che dopo la scoperta dell’800 d.C. il mondo abbia dovuto attendere più di mille anni prima che altri manoscritti fossero sco­ perti, per puro caso, nella stessa area? La risposta è che in realtà il mon­ do non attese per tutto quel tempo. Il suolo egiziano non si mise improv­ visamente a restituire papiri nel XIX secolo, quando egittologi e papirologi erano pronti ad accoglierli. Sarebbe contro tutte le leggi della pro­ 7 Hugh J. Schonfield, Secrets of the Dead Sea Scrolls, New York, A. S. BarnesPerpetua Books, 1960, pag. 56.

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babilità supporre che i fellahin, scavando per millenni in cerca di sebakh, non portassero in luce di tanto in tanto frammenti o rotoli di papiro; senonché, non interessavano a nessuno, e quindi non avevano mercato. Queste non erano dunque “scoperte” autentiche, e i preziosi resti antichi venivano gettati via come rifiuti senza valore. Una scoperta non è mai semplicemente un fortunato ritrovamento; richiede una consapevolezza del valore dell’oggetto trovato e una cultura capace di avvertire la possi­ bilità di un arricchimento del proprio bagaglio di sapere. La tribù Ta ‘amireh viveva nomade fra i monti della Giudea sin dal XVII secolo, e beduini ce n’erano anche prima; gli ebrei che migrarono in Canaan prima e durante l’Esodo, nel II millennio a.C., erano loro remoti parenti. Pastori e greggi trovarono asilo in alcune di quelle stesse caverne in cui si riconoscono le tracce di antichi giacimenti di manoscritti. In pa­ recchie delle caverne dove si sono rinvenuti frammenti di antichi rotoli ebraici sono stati trovati anche testi arabi di data assai più tarda (XIV e XV secolo). L ’arte rupestre di molti paesi (citiamo a esempio Altamira in Spagna) testimonia di animali caduti in cavità naturali e di un buon pa­ store o d’un padrone affettuoso che ve li seguono per portarli in salvo, cosi scoprendo per caso oggetti nascosti nella cavità stessa. Difatti dopo la scoperta della Caverna I un vecchio Ta ‘amireh richiamò l’attenzione dei suoi compagni su una caverna fuori mano nella quale era entrato an­ ni prima inseguendo una pernice ferita. Era quella che oggi si chiama Ca­ verna IV, che si rivelò forse la più ricca di tutte e, secondo alcuni esper­ ti, fu il principale deposito di testi della setta di Qumràn. Sappiamo che i beduini Ta ‘amireh, che per molto tempo considera­ rono quei monti un loro dominio privato, esplorarono e sfruttarono ca­ verne prima della scoperta dei rotoli del Mar Morto. Al principio degli anni venti, nello uadi Murabba‘at raccolsero il guano là depositato per secoli da uccelli e pipistrelli e lo vendettero ai coloni israeliani; parte di quel materiale veniva dalle caverne dove in seguito si trovarono mano­ scritti. Più tardi, quando fu chiesto loro se non avessero visto rotoli o fogli scritti, nessuno ricordava nulla: a quel tempo, a loro interessava soltanto raccogliere concime, e come potevano anche soltanto registrare l’immagine di frammenti di manoscritti, rosicchiati dai topi, di cui non sospettavano neppure il valore? È possibilissimo che, come ha suggerito Roland de Vaux, gli agrumeti piantati vicino a Betlemme siano stati con­ cimati con frammenti di manoscritti preziosi*. Gli svegli e intraprendenti Ta ‘amireh, sempre in cerca di qualche mo­ do facile di far quattrini, si erano resi conto del valore degli oggetti an­ tichi molto tempo prima che avessero sentore della possibilità di vendere a caro prezzo quei frammenti di manoscritti dall’aspetto cosi poco invo-8 8 Roland de Vaux, O. P., “Les Grottes de Murabba at et leurs documents” , Revue Btblique, voi. LX, 1953, pag. 247.

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gliante. Negli anni trenta e quaranta la tribù frugava lo uadi el-Tin, cir­ ca cinque chilometri a sud-est di Betlemme, cercando sistematicamente bronzi preistorici che offriva agli antiquari9. Solo rendendosi amici i Ta ‘amireh, archeologi francesi poterono risalire alle ricche fonti di questi oggetti d ’arte dell’età eneolitica. Ancor oggi i beduini esplorano monti e rocce in cerca di caverne, fru­ gano diligentemente le caverne in cerca di oggetti antichi, vendono ciò che trovano sul mercato di Betlemme. Il loro principale agente era ed è un ciabattino assiro cristiano di nome Kando. Gli scavatori ‘"scientifici” non fanno altro che muoversi nella scia dei beduini, e nel complesso han­ no al loro attivo solo scoperte di second’ordine; tutte le caverne a ecce­ zione di una erano già state aperte e vuotate dai nomadi. Il governo gior­ dano ha dato praticamente il benestare a questo sistema, e addirittura ha accordato ai Ta ‘amireh una specie di monopolio sul traffico di manoscritti tenendo fuori della zona gli altri beduini. Difficile dire in quale altro mo­ do si sarebbe potuto affrontare il problema, visto che gli istituti di cul­ tura non dispongono dei fondi necessari per svolgere ricerche continue e sistematiche; lo stesso vale per il governo giordano. Si aggiunga che gli studiosi occidentali non potrebbero certo competere in agilità e resisten­ za fisica con i Ta ‘amireh, i quali conoscono le montagne come il fondo delle loro tasche; per non parlare del fatto che a questo punto sarebbe impossibile costringerli a desistere da “operazioni” che hanno già frutta­ to loro discreti guadagni. Naturalmente vanno persi in questo modo dati importanti relativi alla stratificazione, identificazione in situ, caratteristiche del giacimento ecc. Inoltre alcuni manoscritti riportano danni a causa della poca cura con cui vengono trattati e devono essere comprati dai beduini, ad alto prezzo, tramite mediatori infidi. L ’équipe internazionale di studiosi collegata al Museo Archeologico Palestinese nella città vecchia di Gerusalemme e im­ pegnata nella pubblicazione dei manoscritti, vive nel costante timore che documenti siano venduti a estranei e vadano cosi dispersi. Può darsi che alcune vendite illecite abbiano già avuto luogo; nessuno sa con precisio­ ne che cosa abbiano ancora nelle mani gli scaltri beduini. Fra l’altro, cir­ cola la voce che siano stati trovati manoscritti più numerosi e più com­ pleti di quelli della Caverna I. Purtroppo, ben di rado il Museo Archeologico è in grado di pagare i beduini. Sono stati messi a disposizione contributi stranieri per l’acqui­ sto di manoscritti, ma sono di gran lunga insufficienti. Non potendo far altro, i giordani, con un gesto di abnegazione ammirevole ma forse non molto saggia, si sono rassegnati persino a vendere i manoscritti, alcuni dei quali sono stati acquistati dalle Università McGill, di Manchester e 9 L. H. Vincent, O. P., “Une grotte funéraire antique dans l’Ouady el-Tin", Revue Biblique, voi. LIV , 1947, pag. 269.

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di Heidelberg, con Pimpegno che i rotoli rimarranno presso il Museo Pa­ lestinese finché non ne sia stata approntata un’edizione completa. Dato l’interesse enorme suscitato dai rotoli del Mar Morto e la loro importan­ za, non si potrà mai abbastanza rimpiangere che manchino i fondi per ac­ quistare dai beduini tutti i manoscritti. La storia dei rotoli del Mar Morto è stata raccontata in parecchie me­ lodrammatiche versioni. Di per sé avvincente, è stata per lo piu inquadra­ ta sullo sfondo d’una furibonda guerra nella Città Santa, Gerusalemme: quasi una replica dell’apocalittica Guerra dei Figli delle Tenebre contro i Figli della Luce di cui parla uno dei rotoli. Solo è un po’ difficile dire qua­ li fra i contendenti siano figli della luce e quali delle tenebre. Molti particolari nella versione corrente, soprattutto della prima sco­ perta (per non parlare della vendita dei rotoli), appaiono di dubbia atten­ dibilità. Ad alcuni scettici fra i quali il professor Solomon Zeitlin del Dropsie College, Filadelfia, è quello che ha espresso più energicamente le sue idee — la storia è parsa troppo romanzesca. Vi sono notevoli varianti nelle versioni per esempio di G. Lankester Harding, John M. Allegro e Millar Burrows, che pure furono in stretto contatto con gli eventi in Pa­ lestina. Contraddizioni e inverosimiglianze furono messe in rilievo da va­ ri studiosi; bisogna però anche dire che alcuni di loro sostenevano che i rotoli erano falsi o risalivano al Medioevo, e quindi avevano interesse a dimostrare inattendibili quante più testimonianze potevano.

Alcune righe dal rotolo apocalittico di Qumràn “La guerra dei Figli delle Tenebre contro i Figli della Luce” .

Per qualche tempo, nessun europeo ebbe il bene di vedere con i pro­ pri occhi Muhammad adh-Dhib, il ragazzo che aveva scoperto i rotoli. Esisteva realmente? E che animale era andato a cercare, una capra o una pecora? Aveva gettato un sasso per stanare l’animale smarrito, o solo per gioco? Poteva davvero aver sentito il rumore dei vasi infranti? Era en­ trato nella caverna da solo e subito? Era tornato con uno dei suoi due compagni? Si erano divisi il bottino? E cosi di seguito. Il metropolita

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siriaco Mar Athanasius Yeshue Samuel aumentò la confusione dichiaran­ do a un certo momento che i manoscritti da lui sottoposti all’esame di esperti stranieri si trovavano da molto tempo nella biblioteca del suo monastero. Parecchi anni dopo la scoperta, nel 1956, qualcuno riuscì a ripescare Muhammad adh-Dhib a Betlemme e gli fece ripetere il racconto dell’avventura, che fu messo per iscritto da uno scrivano arabo; il documento, firmato da Dhib, fu pubblicato e tradotto in inglese dal noto orientalista americano William H. Brownlee, membro della prima équipe americana delPAmerican School of Orientai Research a Gerusalemme, che curava la pubblicazione dei rotoli del Mar Morto in possesso del metropolita siria­ co. Questa “versione autorizzata” ebbe Peffetto di confondere ulterior­ mente le acque. La cosa più sorprendente fu che Dhib dichiarò di aver fatto la sua famosa scoperta nel 1945 e non nel 1947, come fino a quel momento tutti avevano creduto. Disse che quando aveva aperto le giare riposte nella caverna sperava di trovarvi un tesoro, e vedendo che conte­ nevano solo rotoli di cuoio si era chiesto se fosse veramente il caso di prenderli; alla fine li aveva portati via solo perché sia i suoi compagni sia lui avevano bisogno di cinghie nuove per i sandali. Non è detto per­ ché o se il materiale fu giudicato disadatto allo scopo. Comunque, in que­ sto nuovo resoconto delPepisodio Dhib affermò che, al ritorno, aveva messo i rotoli “in un sacco di pelle” e li aveva “appesi in un angolo” , la­ sciando veli poi per più di due anni, finché un suo zio li aveva notati e aveva chiesto il permesso di mostrarli a un antiquario di Betlemme. Questo resoconto differisce in misura notevole dalle versioni prece­ denti e non si accorda con alcuni fatti abbastanza sicuramente accertati. Per esempio, Dhib affermò che c’erano solo dieci giare e — particolare degno di Sheherazade — lui le mandò tutte in cocci prima di trovare i rotoli, chiusi nelPultima. Altre due giare erano piene di semi rossi, disse; ma di queste non si è trovata traccia. Sappiamo inoltre che il professor Sukenik dell’Università Ebraica entrò in possesso di giare intatte prove­ nienti dalla stessa caverna. Il dottor Brownlee fu colpito dalla “quasi bi­ blica immediatezza e bellezza di questo conciso racconto” , ma ammette che la storia “ha raggiunto concisione e finezza a forza di essere narrata e rinarrata”10. E questo ci riporta alla questione se la storia sia nel complesso credi­ bile, e se gli undici rotoli del Mar Morto provengano veramente dalla Caverna I di Qumràn. Nonostante la contraddittorietà di alcuni partico­ lari, ogni serio dubbio si dissipò quando una spedizione congiunta, con a capo G. Lankester Harding, Direttore del Servizio Antichità della Giorda­ nia, e padre Roland de Vaux, direttore dell’École Biblique et Archéolo10 William H. Brownlee, “Muhammed ad-Dee’s Own Story of His Scroll Discovery”, Journal of Near Eastern Studies, voi. XVI, N. 4, ottobre 1957, pagg. 236-9.

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gique Frangaise di Gerusalemme, accompagnati da un osservatore belga rappresentante le Nazioni Unite e da un funzionario del Museo Archeo­ logico Palestinese, trovò la caverna. Si era ormai nel 1949; il che signifi­ cava che era stato perso tempo prezioso, del quale i beduini e il metropo­ lita siriaco avevano approfittato per compiere scavi illegali, condotti con i metodi piu deplorevoli. Il metropolita aveva persino aperto un nuovo accesso alla caverna, che ne possedeva già uno naturale attraverso il soffitto. Sul fatto che si trattasse della medesima caverna non potevano esiste­ re dubbi. I saccheggiatori recenti avevano lasciato le prove del loro pas­ saggio: per esempio un accendisigari” caduto al suolo e dimenticato, e del quale si conosceva il proprietario. Poi c'erano vasi rotti di recente e moltissimi frammenti di manoscritti — lavorando con somma diligenza se ne raccolsero circa seicento — parte dei quali si constatarono apparte­ nenti ai rotoli rimossi in precedenza. Gli studiosi trovarono anche fram­ menti della tela di lino in cui i rotoli erano stati avvolti, e che più tardi si dimostrarono preziosissimi per la determinazione, con il metodo del carbonio 14, dell'età approssimativa dei manoscritti. Fu il principio d'una lunga storia di studi e ricerche su Qumràn. Il sito e l'antichità della biblioteca ebraica ospitata nella caverna erano or­ mai stabiliti. La tappa successiva furono le operazioni di scavo, dirette anch'esse da Lankester Harding e da padre de Vaux, fra le rovine del vici­ no Khirbet Qumràn, identificato dopo parecchi scavi come il centro mo­ nastico al quale era più probabile che andassero fatti risalire la paternità dei rotoli e l'iniziativa di riporli nella caverna. Quanto all’età dei docu­ menti, paleografia e archeologia escludono un'origine medievale o più tarda; solo il professor Zeitlin e alcuni suoi allievi rimangono scettici in proposito. L ’eterogeneità del contenuto dei rotoli e la mancanza di uni­ formità testuale dimostrano che furono scritti prima della fine del I seco­ lo d.C., prima cioè che i rabbini stabilissero testi e canone e sopprimesse­ ro le varianti non approvate. Quanto al loro significato e importanza, i rotoli del Mar Morto sono ancora oggetto di una polemica che coinvolge problemi come la natura, il credo religioso, le norme della comunità di Qumràn; l'età dei rotoli; la data della loro composizione, e la data in cui furono depositati nella ca­ verna; l'identità del Sacerdote Empio e quella del Maestro di Giustizia; gli Esseni e le loro affinità con i settari di Qumràn; il supposto esilio della setta a Damasco; le possibili connessioni con san Giovanni Battista, con Gesù, con Giacomo; infine il più scottante fra tutti i problemi: se, e in che senso, la setta di Qumràn precorse il cristianesimo. Le sue concezioni messianiche, i suoi riti, i suoi dogmi, le sue concezioni teologiche somi-1 11 Secondo Millar Burrows si trattava invece di uno strumento per arrotolare sigaret­ te. (N .d.T.)

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gliano molto a quelle dei primi cristiani? È messa in questione l ’unicità di Gesù? Disgraziatamente, nel dibattito su tali questioni si è caduti in due opposti eccessi: ricerca del sensazionale da una parte (“La più accesa polemica nel mondo cristiano dal tempo di Darwin in poi” , “Qumràn, e non Betlemme, culla del cristianesimo” ), troppa timidezza dalPaltra. Una fra le cose più importanti da dire sui rotoli del Mar Morto è che si tratta di manoscritti ebraici d un millennio circa più antichi di tutti quelli finora noti. Alla loro antichità si deve quello che rimarrà forse il loro contributo più durevole; hanno già gettato molta luce sulla storia della lingua e della scrittura ebraiche, sull’evoluzione del canone biblico, sulle tradizioni testuali dell’Antico Testamento. Dopo un primo esame dei rotoli, si disse che erano in quasi completo accordo con il testo masoretico ufficialmente accettato della Bibbia. Oggi l’affermazione è diventata insostenibile: un esame più approfondito e i frammenti venuti ad aggiun­ gersi più tardi dimostrano chiaramente che il testo masoretico, benché autorevole, rappresenta solo una fra parecchie tradizioni e non è l’unico discendente di un unico “archetipo” . In alcuni passi dei rotoli si è data la preferenza, per esempio, alla lezione della versione greca dei Settanta. Anzi, quel che si era talvolta sospettato è oggi sicuro: la versione dei Set­ tanta è basata su un valido e autorevole testo variante ebraico che in mol­ ti casi va forse preferito al masoretico. Osservazioni dello stesso genere si possono fare per il Pentateuco samaritano. È evidente l’importanza che tutto questo può e deve avere per nuove edizioni e traduzioni dell’Antico Testamento ebraico. Ne potrebbe nascere tutta una nuova branca di ricer­ che di critica testuale, capaci di tenere occupate future generazioni di bi­ blisti; anzi, quando diventeranno disponibili altri testi antichi, sarà forse necessario prendere a prestito il concetto di “famiglie” applicato oggi ai manoscritti del Nuovo Testamento greco per chiarire in modo sistematico i rapporti fra i vari testi e arrivare a valide decisioni critiche. Come curatori del testo ebraico, si può forse dire che i Masoreti fece­ ro estremamente bene il loro lavoro; ma non riuscirono altrettanto bene a stabilire il monopolio del loro testo quando soppressero i testi rivali. Ancora nel 1939 sir Frederic Kenyon scriveva, nella terza edizione di Our Bible and the Ancient Manuscripts'. “Non esiste veramente nessuna pos­ sibilità di trovare manoscritti del testo ebraico risalenti a un periodo an­ teriore alla formazione del testo che chiamiamo masoretico [cioè ante­ riore al II secolo d.C .]” Ma non si può mai essere sicuri. È probabile che quanto di nuovo hanno rivelato fino a ora i rotoli del Mar Morto sia messo in ombra da molte altre scoperte. Anche il materiale recuperato in precedenza, come i documenti restituiti dalla Genizà del Cairo, non sarà pienamente disponibile prima di parecchi anni, e occorrerà un tempo mol­ to più lungo per assimilarlo. Prima d’allora l’interesse del grosso pubbli­ co sarà probabilmente svanito, e con quello verrà meno la tendenza a

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esagerare il significato dei documenti e a costruirvi intorno teorie dalle troppo fragili basi. Frattanto, dopo che è stata vuotata la Caverna I, sono state fatte al­ tre scoperte, che hanno ricevuto un’accoglienza meno clamorosa. Non ha piu molto senso parlare di rotoli del Mar Morto, se con questo termine si intendono i rotoli di cuoio rinvenuti nella Caverna I e acquistati quasi per

Facsimile dei caratteri ebraici “quadrati” im­ pressi sul rotolo di rame e decifrati dal pro­ fessor K. G. Kuhn delPuniversità di Gottin­ ga prima ancora che i fogli ossidati fossero aperti e decifrati completamente.

intero dall’Università Ebraica e dal governo israeliano. È stato proposto il termine alternativo “rotoli di Qumràn”, nel quale si possono compren­ dere i preziosi reperti di altre dieci o undici caverne dello uadi, in parti­ colare quelli della Caverna IV, con le sue decine di migliaia di frammenti, e il famoso rotolo di rame (in realtà due strisce) della Caverna III, con la la lista di favolosi tesori di metallo prezioso e i rispettivi nascondigli. Il nuovo termine proposto indica anche il rapporto fra i rotoli di tutte que­ ste caverne e il centro della setta, il vicino Khirbet Qumràn. Ma anche il riferimento a Qumràn non è più sufficiente. Scoperte qua­ si egualmente importanti sono state fatte in quattro caverne dello uadi Murabba’at, circa diciotto chilometri a sud della Caverna I di Qumràn. I documenti rinvenuti nello uadi Murabba‘at vanno da un palinsesto ebrai­ co su papiro del VI (o forse V ili) secolo a.C., nell’antica scrittura corsi­ va “fenicia ”, a un rotolo dei Profeti Minori e a lettere personali che sem­ brano di Simon ben Kossebah, o Bar Kokhbà (Kokhebah), il leader della seconda ribellione ebraica (ritenuto messia da alcuni suoi contemporanei) del II secolo. Le lettere sono scritte in ebraico, fatto sorprendente in

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quanto si credeva che nel II secolo Pebraico fosse una lingua morta. I do­ cumenti dello uadi Murabba'at includono inoltre frammenti in aramaico, greco, e anche in latino e in arabo. Scavi sistematici condotti in queste caverne, sempre sotto la direzione di Harding e de Vaux, hanno dimostra­ to che esse furono occupate sin dal 4000 a.C. Sono stati raccolti fra l’al­ tro oggetti ben conservati risalenti all’età eneolitica. Nessuno dei manoscritti rinvenuti nelle caverne dello uadi Murabba‘at rivela il benché minimo rapporto con la comunità di Qumràn né con una terza area a Khirbet Mird, sito di un monastero cristiano in rovina, che naturalmente gli instancabili Ta'amireh frugarono per primi. Qui sono stati portati in luce soprattutto documenti bizantino-cristiani; nel com­ plesso, questi risalgono a un’epoca alquanto più tarda di quella dei rotoli di Qumràn e del grosso dei manoscritti ritrovati nello uadi Murabba‘at, ma sono abbastanza importanti e comprendono codici unciali greci del­ l ’Antico e del Nuovo Testamento, oltre a papiri non letterari greci e ara­ bi e un frammento dell’Andromaca di Euripide. Negli ultimi anni il gene­ rale-archeologo israeliano Yigael Yadin ha inoltre scoperto una nuova e promettente miniera di manoscritti a Masada, presso la costa occidentale del Mar Morto. Pare che in aggiunta a questi siti i beduini ne abbiano sco­ perti altri, che tengono però segreti. I rotoli del Mar Morto hanno dunque segnato l’inizio di una fase inte­ ramente nuova nella storia dell’archeologia palestinese. Per contenuto, da­ ta e provenienza la messe di manoscritti finora raccolta ha largamente su­ perato i confini dell’area di Qumràn e della categoria degli scritti settari a cui i rotoli di Qumràn appartengono. Si sono registrati e si continuano a registrare ritrovamenti in tutto il roccioso deserto di Giuda; altri do­ cumenti sono stati trovati più a sud, nel Negev. II più grave ostacolo alle scoperte era la tacita convinzione che non ci si potesse aspettare di trovar manoscritti, di nessuna età e neppure di mi­ nima importanza, in tutta la Palestina, “dove clima e storia sono stati egualmente sfavorevoli alla sopravvivenza di documenti”12. Ora la leg­ genda è sfatata. Quella che William F. Albright ha definito “la più gran­ de scoperta di manoscritti dell’età moderna” — e quindi anche la più im­ portante nel campo dei testi della Bibbia ebraica — ha avuto luogo in Pa­ lestina. La Terrasanta si è rivelata una miniera di preziosi manoscritti e pergamene, sotto questo rispetto assurgendo improvvisamente a una po­ sizione pari a quella dell’Egitto. Difficile dire quale fra i documenti ritrovati nel deserto di Giuda sia il più importante: se il rotolo splendidamente conservato di Isaia o il Ma­ nuale di disciplina, il misterioso rotolo di rame o i manoscritti di Daniele 12 Frederic G. Kenyon, Our Bible and the Ancient Manuscripts, Londra, Eyre & Spottiswoode, 1958, pag. 31.

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(solo di pochi decenni piu tardi della composizione degli originali), le let­ tere dell’eroe ebreo Bar Kokhbà o, piu inatteso e più antico di tutti, il pa­ linsesto risalente a un periodo di cui non rimane nessun’altra testimonian­ za paleografica né documentaria, il periodo dei Re ebrei. E questo potreb­ be essere solo l’inizio.

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Capitolo XX IL MISTERO D I SHAPIRA Un capello divide forse il Falso e il Vero; Si; e forse in un Alef sta la spiegazione di tutto... Se solo tu potessi trovarlo... OMAR KHAYYÀM

“La polemica sul valore relativo dei rotoli del Mar Morto, fra i quali uno che è stato dichiarato un falso settantanni fa, ha turbato la calma propria in genere degli studiosi1” . Cosi scriveva il corrispondente del “New York Times” dando notizia del burrascoso novantaduesimo conve­ gno della Society of Biblical Literature and Exegesis. Circa trecento bibli­ sti s’erano riuniti il 27 dicembre 1956 presso lo Union Theological Semi­ nary di New York. Il presidente della Società, dottor J. Philip Hyatt della Vanderbilt University, aveva accennato nel suo discorso ai rotoli di cuoio offerti da M.W. Shapira al British Museum nel 1883, e aveva espresso la speranza che “scoperte recenti” potessero dimostrare Lamen­ tici tà di quei documenti ebraici da tempo screditati. Hyatt era stato pre­ ceduto come oratore dal professor Menahem Mansoor, preside della Fa­ coltà di Studi Ebraici e Semitici presso l’Università del Wisconsin e prin­ cipale campione della riabilitazione di Shapira. Scoppiò quasi un pande­ monio quando il dottor Zeitlin, entrato nella sala solo verso la fine del discorso di Mansoor in difesa dei manoscritti Shapira, si dichiarò in netto disaccordo con le tesi dell’oratore denunciando con violenza la genuinità di quei testi. Dovette intervenire il presidente, dichiarando che il tema era stato trattato abbastanza diffusamente e togliendo la seduta. La bat­ taglia continuò tuttavia nel corridoio, e non è poi mai cessata; caratteriz­ 1 The New York Times, 28 dicembre 1956, pag. 14.

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zata da un accanimento insolito, prosegue ancor oggi su varie pubblica­ zioni specialistiche. Il dibattito sui manoscritti Shapira getta vivida luce su un problema cruciale che si presenta in occasione di quasi tutte le sco­ perte di manoscritti. Invariabilmente, quando compaiono sulla scena antichi manoscritti, insorge la questione se siano o no autentici. Quasi tutte le grandi scoper­ te in campo archeologico sono state accolte con scetticismo da qualche dotto. I dubbi possono durare per decenni, oppure rinascere d’improvvi­ so, con scandalo e sorpresa d’un pubblico sempre portato alla credulità. Gli oggetti fatti segno di tanto entusiasmo sono davvero i testimoni di una muta antichità? O sono resti insignificanti di un’età molto più tarda? Non sono stati forse erroneamente datati e identificati da un “esperto” troppo fantasioso o troppo ottimista? O magari non fu un ricercatore imbroglione a metterli là dove sono stati poi trovati, per richiamare l’at­ tenzione o per dimostrare una qualche sua teoria? L ’oggetto tanto ammi­ rato non sarà un falso rifilato a un ricco museo o a un danaroso colle­ zionista da un antiquario privo di scrupoli? Oppure ancora un falso do­ vuto a un burlone di abilità insolita e di discutibile moralità che ha voluto prendere in giro i suoi pomposi colleghi del mondo accademico? Naturalmente, nessun esperto vuol fare la figura dell’ignorante e del­ lo sciocco facile da ingannare. Capita quindi abbastanza di frequente che 10 studioso di gran nome rifiuti come spuri tutti gli oggetti a cui non può subito assegnare un posto nel quadro di ciò che si sa per certo. Inoltre, le scoperte fatte da persone estranee al mondo accademico sono sempre sospette ai suoi membri; l’annuncio delle scoperte di Schliemann fu ac­ colto con dileggio dagli archeologi accademici tedeschi, compresi gli illu­ stri Curtius e Furtwàngler. D ’altra parte, l’esperto non vuole neanche la­ sciarsi sfuggir di mano una cosa buona; potrebbe essere la sua grande oc­ casione di assicurarsi l’immortalità. Capita cosi che, combattuto fra la paura di non stimare al giusto valore una scoperta importante e il terrore di farsi imbrogliare, l ’esperto subisca un momentaneo offuscamento delle facoltà critiche e cada nelle fauci di Scilla mentre cerca di evitare Cariddi. 11 dilettante rimane all’oscuro di tutte queste difficoltà del giudizio. Una volta che la verità è nota e chiara a tutti, una volta che si sono messi al­ l’opera i volgarizzatori — i quali per la natura stessa del loro mestiere devono essere semplificatori — , diventa facile mettere in ridicolo gli esperti che si sono lasciati ingannare. Curiosa ironia, coloro che fin dal­ l’inizio sospettano un falso possono essere gli scienziati meno brillanti; possono aver avuto ragione per ragioni sbagliate. Per contro può succedere che uno studioso faccia appello a tutte le risorse duna mente geniale e di una profonda erudizione per dimostrare falsa una cosa autentica. Per esempio, nell’ultimo decennio del secolo scorso due studiosi elaborarono argomentazioni impeccabili per dimostra­

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re che gli Annali di Tacito, dei quali si diceva che fosse sopravvissuto un unico manoscritto medievale, erano stati composti in realtà da Poggio Bracciolini, che quel manoscritto aveva riscoperto: tutto depone a favo­ re dell'ipotesi che i due studiosi andassero errati. Vi sono alcune opere la cui autenticità non è dimostrata in modo de­ finitivo: alcune lettere di Platone, alcune epistole paoline, o il grande classico cinese Tao Té Ching, per fare alcuni esempi di casi in cui è stato necessario sospendere il giudizio. Dobbiamo certo essere grati a coloro che dubitano di tutto (per quan­ to irritanti possano riuscire) e che non si lasciano mettere in soggezione dall'autorità e dalla fama. Ma non sempre lo studioso può sospendere il giudizio; quando viene annunciata una scoperta, deve prendere posizio­ ne, anche a costo di rammaricarsene per tutta la vita. E tante volte la ve­ rità par che si diverta a rimanere nascosta, a non farsi notare. '‘Oh che bell'aspetto ha la menzogna!” esclamava Shakespeare. Per fortuna, l'arte di falsificare manoscritti è talmente difficile, e oc­ corre una cosi rara combinazione di qualità perché le sue operazioni ab­ biano successo (cioè perché nessuno le scopra), che pochi vi si applicano. I prodotti piu rozzi non trovano mai credito per molto tempo, e i pro­ gressi della critica testuale, della paleografia, dei metodi di analisi chi­ mica e fisica presto finiranno di uccidere quest'arte già moribonda. Tut­ tavia, il problema rimane per molte scoperte di manoscritti del passato. I falsi d'ordine letterario sono legione. Se ne produssero in gran numero per fini nazionalistici religiosi. Si può dire che lo studio sistematico dei manoscritti abbia avuto origine, nel tardo Medioevo, dalla necessità di stabilire la falsità di documenti "legali” di vario genere; tale necessità fu uno stimolo d'importanza decisiva per lo sviluppo della paleografia, la scienza che determina età e origine di uno scritto. Anche in queste pagine abbiamo incontrato parecchi falsi, e la lunga ombra gettata dal sospetto compare quasi a ogni svolta della nostra storia. II XIX secolo vantò pittoreschi falsari come Costantino Simonides e il fanatico caraita Abraham Firkovic; ma infinito è il numero dei loro pre­ decessori e successori. Scandali recenti, come i falsi di Vermeer dovuti al pennello di Van Meegeren e le false statue di guerrieri etruschi al Metro­ politan Museum di New York, hanno destato nel pubblico un interesse abbastanza vivo per il problema del falso in arte e in archeologia. Benché i rotoli del Mar Morto siano accettati quasi universalmente come genuini, non si pensi che tutti li abbiano creduti tali fin da princi­ pio. I primi a cui il metropolita siriaco li mostrò giudicarono dubbie la loro età e autenticità; parecchi arrivarono a dichiararli del tutto privi di valore. Bisogna però dire che furono condotti fuori strada anche dal di­ storto resoconto che il vescovo diede delle origini dei documenti. Il me­ tropolita Athanasius — benché la sua conoscenza dell'ebraico, e in gene371

rale la sua esperienza di manoscritti, fossero piuttosto rudimentali — era convinto che i rotoli avessero duemila anni: convinzione ispirata for­ se dalla speranza che il loro valore fosse immenso piu che da un’intuizio­ ne appoggiata su un solido sapere. A queste speranze, cercò disperatamente conferma. Per il vescovo Athanasius la fortuna girò quando si mise in contatto con 1’American School of Orientai Research di Gerusalemme. Il caso vol­ le che trovasse in sede solo uno dei membri piu giovani, un americano; al quale furono d ’aiuto forse proprio la gioventù e la relativa inesperienza. In ogni caso, il dottor John C. Trever non si fermò a riflettere sul fatto che una simile scoperta era “impossibile” ; si ricordò invece del Papiro Nash e mandò fotografie dei manoscritti al professor William F. Albright della John Hopkins, che a sua volta non esitò a “impegnarsi” . Di li a po­ chi giorni scriveva a Trever, per posta aerea: “Infinite congratulazioni per la più importante scoperta di manoscritti dei nostri tempi. Non ho dubbi sul fatto che la scrittura è più arcaica di quella del Papiro Nash... Una scoperta assolutamente incredibile! E per buona fortuna non può sussistere il minimo dubbio sull’autenticità del manoscritto2” . Il giudizio era quanto di più autorevole si potesse desiderare; ma non è bastato a impedire gli attacchi. I più insistenti sono stati quelli del pro­ fessor Zeitlin, il quale ha insinuato che i manoscritti sono falsi o, nel mi­ gliore dei casi, documenti medievali scritti da “uomini ignorantissimi” , e dal 1948 continua a pubblicare articoli dello stesso tenore nella sua rivi­ sta, la “Jewish Quarterly Review” , dove ha ospitato anche gli scritti di pa­ recchi altri studiosi dissenzienti. Più e più volte Zeitlin ha attaccato gli avversari mettendo in dubbio, senza mezzi termini, la loro preparazione e il loro acume; più e più volte è tornato a affrontare il problema in arti­ coli recanti titoli come “La fantastica storia delle recenti scoperte presso il Mar Morto” , “La supposta antichità dei rotoli” , “La pubblicità dei ro­ toli ebraici e la falsificazione della storia” . Il metropolita Athanasius, giunto negli Stati Uniti per vendere i ro­ toli — si dice che abbia chiesto un milione di dollari per uno solo — , incontrò quindi un’inattesa diffidenza proprio da parte degli istituti che prima sembravano tanto ansiosi di acquistare. Forse per la disperazione di non trovare abbastanza presto un cliente, mentre le accuse di Zeitlin guadagnavano terreno, pubblicò un annuncio sul “Wall Street Journal” . Il professor Albright ritiene che, grazie all’effetto esercitato dagli attac­ chi di Zeitlin sui prezzi del mercato, il governo israeliano abbia acqui­ stato i preziosissimi rotoli per la somma in proporzione modesta di 250.000 o 300.000 dollari. Per parte sua Zeitlin pensa che agli israe­ 2 John C. Trever, “The Discovery of the Scrolls”, The Biblical Archaeologist, voi. XI, N. 3, settembre 1948, pag. 55.

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liani sia stato fatto pagare un prezzo vergognosamente alto: dieci o quin­ dicimila dollari sarebbero stati più che sufficienti. Tutto questo non intende mettere in ridicolo Zeitlin: sta agli studiosi giudicare la validità delle argomentazioni di questo famoso e preparatis­ simo ebraista. A noi basti dire che la maggioranza dei paleografi, archeo­ logi, critici testuali, orientalisti, cultori di studi neo e veterotestamentari accetta i rotoli come antichi e assicura che i testi del Mar Morto non si ri­ veleranno un nuovo “falso alla Shapira” . Il nome di Shapira, cosi spesso citato nelle polemiche sui rotoli del Mar Morto, continua dunque a go­ dere duna fama assai dubbia. Da molto tempo è stato associato con una delle più sfacciate frodi relative a manoscritti che il XIX secolo abbia co­ nosciute, e Zeitlin e i suoi discepoli sono convinti di trovarsi ora davanti a nulla più che una ripetizione di quel famoso episodio. Ma alcuni fra coloro che riconoscono l’autenticità dei rotoli del Mar Morto pensano invece che anche i manoscritti Shapira vadano riesaminati alla luce del recente ritrovamento, e si chiedono se Shapira, morto suicida nel 1884 in una camera d’albergo di Rotterdam, non sia stato vittima di un’ingiustizia. Vediamo un momento i fatti.

Parte superiore dell’iscrizione di Mesa re di Moab, una stele scoperta nel secolo scorso iscritta in caratteri corsivi affini a quelli usati dagli ebrei prima dell’introduzione della loro scrit­ tura “quadrata” , e, in qualche occasione, anche molto tem­ po dopo.

Nell’estate del 1883 Londra fu messa a rumore dalla notizia che era­ no stati trovati due antichi manoscritti ebraici del Deuteronomio, scritti negli antichi caratteri corsivi fenicio-ebraici (“paleo-ebraici” ) già noti dal­ l ’iscrizione del re Mesa di Moab e datati intorno al IX secolo a.C. Si trat­ tava di quindici o sedici lunghe strisce di cuoio, che avevano l’aria di es­ sere state in origine piegate (come in certi “libri” dell’Estremo Oriente e del Messico precolombiano) anziché arrotolate. I manoscritti erano stati portati dalla Palestina da Moses Wilhelm Shapira, che li offriva al British Museum “per un milione di sterline tondo tondo” . Un contemporaneo di Shapira annotava nel proprio diario: “Da settimane a tavola — a tutte le tavole — non si parla d’altro che della 'scoperta’ di questo prezioso ma­ noscritto3.” La stampa inglese dedicò all’argomento articoli quotidiani, 3 A. C. R. Carter, Let Me Tell You, Londra, Hutchinson & Co., 1940, pag. 216.

illustrando ogni fase della vicenda e ogni particolare della questione; folle di cronisti assediarono il British Museum, dove alcuni frammenti erano esposti sotto vetro e dove davanti alle teche sfilavano processioni di londinesi curiosi. Charles Clermont-Ganneau, il brillante archeologo biblico francese, accorse da Parigi e osservò al suo arrivo che ‘Témotion du publique avait atteint son paroxysme”4. I frammenti esposti al British ricevettero una sorta di crisma ufficiale quando il primo ministro Gladstone, uomo con notevoli interessi archeologici, fece la sua comparsa al Museo e conversò amichevolmente con lo “scopritore”, il signor Shapira, e con il dottor Christian Ginsburg, al quale il British aveva affidato Pincarico di esami­ nare i manoscritti. Frattanto il “Times” e “Athenaeum” pubblicavano a puntate traduzioni dei testi a opera di Ginsburg, che venivano poi riprese dai giornali di provincia. Inutile dire che il British non avrebbe esposto i manoscritti e impor­ tanti giornali non ne avrebbero pubblicato traduzioni se si fosse sospetta­ to un falso; Ginsburg non si impegnò con un giudizio definitivo, ma rive­ lò il proprio entusiasmo con il meticoloso scrupolo che mise nelle tradu­ zioni. Il 16 agosto 1883 il corrispondente da Londra del “Liverpool Daily Post” scriveva: “Il dottor Ginsburg è ancora occupatissimo, al British Museum, a decifrare l’ultimo reperto del signor Shapira, e la sua reticen­ za appare a molti una conferma dell’asserzione iniziale che i frammenti risalgono a secoli prima dell’era cristiana. Quanti credono in questa tesi osservano infatti che se si trattasse di un falso uno studioso acuto come il dottor Ginsburg si sarebbe già da molto tempo accorto dell’imbroglio5.” Frattanto, correva voce che l’acquisto era ritardato soltanto dalla difficol­ tà di raccogliere la somma enorme chiesta dallo scopritore. Si facevano i nomi di benefattori privati, e alcuni dicevano che il Tesoro si preparava a fare un grosso prestito al British attingendo al Civil Contingencies Fund. Moses Wilhelm Shapira, ebreo polacco convertito al cristianesimo e sposato con una diaconessa luterana tedesca, da molti anni commerciava a Gerusalemme in oggetti d ’antiquariato e manoscritti; aveva fornito alle biblioteche di Berlino e Londra testi ebraici di notevole valore, per lo più provenienti dallo Yemen; aveva scoperto un commento di Maimonide al Midrash, venduto poi in Germania, che continuò a essere considerato un documento di grande valore anche dopo gli avvenimenti che gettarono una cosi nera macchia sul nome di Shapira. La reputazione di quest’ulti­ mo fu alquanto compromessa in seguito alla vendita al Museo di Berlino di “idoli moabiti” incredibilmente grossolani di cui Charles Clermont4 Charles Clermont-Ganneau, Les Fraudes Archéologiques en Palestine, Parigi, Leroux, 1885, pag. 191. 5 Menahem Mansoor, “The Case of Shapira’s Dead Sea (Deuteronomy) Scrolls of 1883”, Transactions of the Wisconsin Academy of Sciences, Arts and Letters, voi. XLV II, 1958, pag. 195.

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Ganneau, allora console francese a Gerusalemme, aveva potuto stabilire la provenienza: il laboratorio locale d uno degli uomini che lavoravano con Shapira. In Shapira, alcuni hanno visto Pinnocente e quasi santa vittima di falsari palestinesi; altri, specialmente autori di memorie scritte dopo, quando si sapeva ormai tutto (per esempio Walter Besant o Bertha Staf­ ford Vester), lo hanno dipinto come una specie di diabolico spacciatore di falsi. In ogni caso, non pare che Pepisodio degli idoli moabiti lo dan­ neggiasse in modo permanente: Shapira continuò infatti a vendere oggetti antichi e documenti a collezionisti europei. Parecchi altri manoscritti gli furono comprati dal sindaco di San Francisco Alfred Sutro, e oggi si tro­ vano alla Public Library di quella città. Forse si dava per scontato che a ogni antiquario e mercante poteva accadere di offrire in vendita, una vol­ ta o Paltra, qualche falso da lui stesso non riconosciuto come tale. Inoltre, nel caso di Shapira lo spaccio di falsi era stato ampiamente compensato dalla vendita di oggetti e documenti indubbiamente autentici. Si aggiun­ ga che la Palestina, in un’epoca che aveva visto le grandi scoperte della stele del re Mesa e delPiscrizione sotterranea di Siloe, e in anni di genera­ le rinascita biblica, pullulava di falsi d ’ogni genere: impossibile ricono­ scerli tutti. Clermont-Ganneau, che possedeva un “occhio” straordinario, dedicò alPargomento un libro delizioso, Les fraudes archéologiques en ¥alestine (1885), nel quale bisogna però dire che Shapira è presentato co­ me uno dei cattivi della situazione. A detta di Shapira, i manoscritti del Deuteronomio erano già da pa­ recchi anni in suo possesso quando si decise a venderli; aggiunse di aver­ li portati in Europa solo dopo essersi assicurato della loro genuinità. Le circostanze della scoperta presentano curiose somiglianze con il ritrova­ mento dei rotoli del Mar Morto. In una lettera scritta a un amico tedesco, Shapira raccontava infatti di aver fatto visita a uno sceicco arabo, Mah­ mud el-Arakat, e di avere incontrato in casa sua alcuni beduini, parlando con i quali aveva saputo della strana scoperta di certi arabi: rifugiatisi in una grotta dello uadi el-Moujib, presso la riva orientale del Mar Morto, nell’antica terra della tribù israelitica di Ruben, quegli arabi vi avevano notato “parecchi involti di vecchissima stoffa” , e staccandone l’involucro esterno di tela vi avevano trovato dentro “incantesimi neri” . La grotta era descritta come molto asciutta, il che aveva suggerito a Shapira l’idea di un ambiente adatto, “come il suolo egiziano” , alla conservazione di antichi documenti. Shapira aggiungeva che, avendo intuito la natura de­ gli “incantesimi neri” , si era assicurato l’aiuto dello sceicco ed era cosi en­ trato in possesso dei frammenti di “cuoio imbalsamato” ; più tardi aveva decifrato i testi e aveva visto che si trattava d’una trascrizione dell’“ultimo discorso di Mosè nella pianura di Moab”0.6 6 Citato (dal dossier del British Museum) da Mansoor, op. cit., pag. 189.

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Durante il soggiorno a Londra, Shapira mandò al dottor Ginsburg un memorandum, pubblicato su “Athenaeum” I’l l agosto 1883, in cui non faceva mistero del fatto che erano stati espressi dubbi sulla genuinità dei manoscritti da lui offerti a cosi caro prezzo al British Museum. Confessa­ va che il professor Konstantin Schlottmann dell’Università di Halle, al quale aveva presentato nel 1878 copie del manoscritto del Deuteronomio, aveva dichiarato che si trattava di un falso e aveva aspramente rimprove­ rato Shapira che lo chiamava un testo sacro. Schlottmann aveva anche in­ formato della cosa il console tedesco a Gerusalemme, barone von Miinchhausen, perché prendesse provvedimenti per impedire a Shapira di annun­ ciare pubblicamente la scoperta. Fra parentesi, Schlottmann era l’uomo che aveva consigliato Pacquisto dei famosi “idoli” ; comprensibile quindi il suo timore di trovarsi implicato in un'altra faccenda dello stesso ge­ nere. Seguendo i consigli di Schlottmann, continuava il memorandum, Shapira aveva depositato i manoscritti in una banca di Gerusalemme; ave­ va inoltre messo a parte di quel giudizio sfavorevole un altro studioso al cui esame aveva in precedenza sottoposto un’altra trascrizione del testo. Piu tardi però ci aveva ripensato: “In seguito ho ripreso in esame le obiezioni di Schlottmann e ho constatato che erano in parte fondate su errori da me stesso commessi nel decifrare lo scritto. Sentendomi miglior giudice di un tempo grazie a una maggiore esperienza di manoscritti, pri­ ma della scorsa Pasqua sono tornato a esaminare i frammenti e li ho decifrati una seconda volta. Il professor Schroeder, Console a Beirut, li ha visti a metà di maggio, li ha giudicati genuini e avrebbe voluto com­ prarli. Alla fine di giugno ho portato i manoscritti, per farli fotografare, a Lipsia, dove i professori li hanno visti. Il professor Hermann Guthe, che intende scrivere su di essi, crede alla loro autenticità. In origine i ma­ noscritti sono stati spalmati d’asfalto, come una sorta d’imbalsamazione; in seguito, l’uso di olio e spirito li ha scuriti ancor di piu. L ’olio fu usato dagli arabi per ammorbidire i manoscritti affinché non si spaccassero e per difenderli dall’umidità7” . Il memorandum sembra informato a un’ammirevole franchezza, ben­ ché si possa interpretare anche come un abile stratagemma per ispirare fi­ ducia e per prevenire voci ostili e accuse. Purtroppo Shapira aveva omes­ so un particolare significativo: in occasione del suo precedente viaggio in Germania aveva offerto in visione i rotoli al Museo Reale di Berlino, dove una commissione presieduta dal professor Richard Lepsius, il 10 giu­ gno, dopo una seduta durata un’ora e mezza, li aveva dichiarati falsi. Sha­ pira non aveva voluto pregiudicare le sue possibilità di successo; era con­ vinto che i manoscritti fossero autentici, il giudizio positivo di Schroeder lo aveva confermato in questa convinzione, e voleva che gli esperti inglesi esaminassero i frammenti senza idee preconcette. 7 Ibid.y

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pagg. 191-2.

Più tardi, quando il “Times” rivelò ciò che era accaduto a Berlino, Shapira dichiarò a propria difesa che i berlinesi, pur avendo dichiarato falsi i manoscritti, avrebbero voluto acquistarli a un prezzo non più che simbolico. Non era legittimo il dubbio che stessero cercando di assicurar­ si quei testi per pochi soldi? Siccome era inconcepibile che un museo spre­ casse pubblico denaro nell’acquisto di falsi, Shapira aveva interpretato l’offerta come il segno indubitabile che i manoscritti in realtà erano giudi­ cati autentici, e di conseguenza aveva proceduto per Londra. Come nel ca­ so di tanti altri particolari della vicenda, fino a oggi non è stato spiegato perché le autorità tedesche mantenessero un silenzio totale quando gli inglesi diedero l’annuncio della sensazionale scoperta. “Se i professori [tedeschi],” chiedeva “Athenaeum” , “si accorsero che si trattava di un falso, perché si offrirono di comprare i frammenti? E quando lessero nei giornali tedeschi e inglesi le sensazionali notizie da Londra, perché non dissero nulla? perché non una parola al British Museum?”8. A Londra Shapira trovò un’accoglienza cordiale, benché l’episodio de­ gli idoli fosse risaputo. Sarebbe tuttavia un errore pensare che tutti, in Inghilterra, credessero nell’autenticità dei manoscritti del Deuteronomio. Scettici, ce ne furono sin da principio. Walter Besant, il popolare roman­ ziere vittoriano, che era a quel tempo segretario della Società per l’Esplo­ razione della Palestina, fu, sembra, il primo avvicinato da Shapira. De­ scrisse l’incontro nell’autobiografia, pubblicata postuma, ove non manca­ no frecciate velenose; ma assegnò allo scandalo Shapira una data anterio­ re di sei anni a quella esatta. Nel 1877 (scrisse) “un ebreo polacco con­ vertito alla fede cristiana, ma non alle opere buone” , gli fece una visita misteriosa. “Era un bell’uomo, alto e biondo, con occhi azzurri; molto di­ verso dai soliti ebrei polacchi, e con un’aria di modestia e d’onestà che ti conquistava il cuore.” Pareva che l’uomo avesse in suo possesso una “co­ pia contemporanea” del Deuteronomio. A Besant fu concesso di vederne una parte: “Era scritta in un bell’inchiostro nero, fresco, dopo tremila anni, come se avessero appena finito di adoperarlo.” Fatto ancor più in­ credibile, l’ebreo sosteneva che il manoscritto era rimasto per tutto quel tempo “in una grotta perfettamente asciutta di Moab”9. Queste due circostanze — inchiostro ben conservato e deposito in una caverna — erano due fattori d ’inverosimiglianza: quegli stessi che di li a una settantina d’anni avrebbero provocato le perplessità dei primi studiosi cui giunse notizia dei rotoli del Mar Morto. Alla luce di quanto sappiamo oggi, depongono in favore di Shapira e non meritano affatto i sarcasmi di Besant. Un falsario della competenza che ci si poteva aspetta­ re da Shapira non avrebbe presentato un documento scritto con inchio­ 8 Athenaeum, 8 settembre 1883, pagg. 304-5. 9 Walter Besant, The Autobiography of Sir Walter Besant, New York, Dodd, Mead & Co., 1902, pag. 161.

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stro dall’aria cosi fresca né avrebbe inventato un particolare improbabile, destinato per forza a suscitare sospetti: quando qualcuno afferma di ave­ re fatto una scoperta, i particolari improbabili meritano maggior fede di quelli all’apparenza più verosimili. Un altro particolare menzionato da Shapira, l’involucro di tela di lino dei manoscritti, suscitò dubbi anche più gravi. Il “Times” di Londra avrebbe dichiarato più tardi: “Il fatto che si sia parlato di un involucro di tela sembra quasi un errore in quanto pare strano che chi usava cuoio potesse attribuire eguali capacità di du­ rata al lino101” . Eppure un esperto di Lipsia dichiarò antichi i frammenti di tela appiccicati ai manoscritti del Deuteronomio, e i rotoli di Qumràn erano avvolti in tela. Walter Besant convocò per l’indomani un gruppo di studiosi, ai quali Shapira accettò di mostrare tutti i frammenti del Pentateuco. Scrive Be­ sant che Shapira “svolse i manoscritti in mezzo a un’eccitazione quale ra­ ramente gli studiosi dimostrano” . L ’esame durò tre ore. Un professore di ebraico fu udito esclamare: “È una delle poche cose che non possono es­ sere un falso e una frode!” Besant lascia però capire che non si fece in­ cantare neppure per un momento, e ricorda la cattiva opinione che ave­ vano del “degno Shapira, ebreo convertito” , William Simpson dell’“Illu­ strated London News” e il capitano Claude R. Conder, surveyor della Pa­ lestina occidentale. Dopo la riunione, Conder assicurò a Besant che tutte le caverne di Moab erano umide: “Non esiste una caverna asciutta in tut­ to il paese11” . Più tardi, Conder dichiarò impensabile che manoscritti di materiale deperibile come il cuoio fossero sopravvissuti dopo essere stati sepolti per oltre duemila anni nel suolo di un paese dove il livello delle precipitazioni si aggira sui cinquanta centimetri l’anno; per lui, questo rappresentava la prova indiscutibile che i documenti erano falsi. Tuttavia, quali che fossero le loro opinioni, gli scettici non espressero pubblicamen­ te i loro dubbi; lo stesso Conder si comportò con estrema cautela. Dopo la riunione a porte chiuse, si lasciò quindi che fossero esposti al British Museum, dove per tre settimane furono alla ribalta della celebrità; poi il bubbone scoppiò, e fu la fine delle speranze di Shapira. Uno dei primi in Inghilterra a rendere pubblica (il 18 agosto) la pro­ pria convinzione che i manoscritti fossero falsi fu Adolf Neubauer, stu­ dioso ebreo di Oxford, che era entrato in contatto a Berlino con un pro­ fessore di Lipsia. Il colpo definitivo venne dall’archeologo francese Clermont-Ganneau: per Shapira la personificazione della nemesi da quando era stato svelato l’imbroglio degli “idoli” moabiti. Shapira aveva rifiutato al francese il permesso di vedere i documenti, ma Ginsburg gli aveva con­ sentito di dare un’occhiata ad alcuni di essi; inoltre, Clermont-Ganneau si era unito alla folla dei visitatori intorno alle bacheche del British. Men­ 10 Times Weekly Edition> 22 agosto 1883, pag. 12. 11 Besant, op. cit.y pag. 163.

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tre altri avevano dedicato lunghi giorni all’esame della lingua, della scrit­ tura, dello stile, della forma e via dicendo, a lui bastò poco più di un’oc­ chiata. Un collega inglese rese ammirato omaggio allo smascheratore di falsi: nonostante gli ostacoli che gli avevano impedito di esaminare i ma­ noscritti da vicino (disse il collega), Clermont-Ganneau poteva orgogliosa­ mente proclamare: “Veni, non vidi, vici'2” Lo scetticismo iniziale dell’archeologo francese si era intensificato quando aveva sentito che Shapira offriva i manoscritti in vendita. Cler­ mont-Ganneau non fece mistero delle sue opinioni. In un comunicato del 21 agosto 1883 al “Times” esprimeva senza mezzi termini il suo parere, dopo avere illustrato i propri rapporti passati con Shapira e descritto le difficoltà e gli ostacoli frapposti al suo lavoro. Concludeva: “I frammenti sono l’opera di un falsario dei nostri giorni. Questa non è l’espressione di un’incredulità a priori, sentimento che molti studiosi, come me, hanno provato al semplice annuncio di questa favolosa scoperta. Posso dimostra­ re, con i documenti davanti, come ha lavorato il falsario. Ha preso un grosso rotolo di cuoio come ne hanno le sinagoghe, contenente il Penta­ teuco, scritto negli stessi caratteri quadrati e risalente forse a due o tre secoli or sono, rotoli che il signor Shapira deve avere molto familiari da­ to che ne fa commercio e ne ha venduti a varie biblioteche pubbliche in­ glesi molte copie provenienti da sinagoghe della Giudea e dello Yemen. Poi ha tagliato l’orlo inferiore del rotolo, quello che gli offriva una super­ ficie più ampia, e ne ha ottenuto alcune sottili strisce di cuoio con un aspetto di relativa antichità, aspetto che ha poi provveduto ad accrescere mediante l’uso di appropriati agenti chimici. Su queste strisce di cuoio ha scritto con inchiostro, usando i caratteri della stele di Mesa e introdu­ cendo alcune varianti come dettava la fantasia, i passi del Deuteronomio che il dottor Ginsburg ha decifrato e tradotto con una pazienza e un’eru­ dizione che avrebbero meritato un assai migliore impiego1213” . In queste osservazioni v’è senza dubbio una nota maligna, e si avver­ te facilmente l’insinuazione indiretta che fosse stato lo stesso Shapira a “fabbricare” i frammenti. Clermont-Ganneau aggiunse spavaldamente che per lui sarebbe stato un gioco da bambini fabbricarne uno analogo, adatto a “far da continuazione al Deuteronomio del signor Shapira” e con in più, rispetto a quello, “il piccolo vantaggio di non costare un milione di ster­ line” 14. Ma la spavalderia dell’archeologo francese non piacque a tutti, in Inghilterra: l’immediata reazione pubblica alla lettera uscita sul “Times” fu una guerra aperta a Clermont-Ganneau, non a Shapira, per i cui mano­ scritti gli inglesi evidentemente nutrivano già un affetto di padroni, che detestavano di vedere distrutto da un petulante straniero. Parecchi gior­ 12 Clermont-Ganneau, op. c i t pag. 229. 13 The Times, 21 agosto 1883. 14 Ibid.

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nali respinsero il verdetto di Clermont-Ganneau e affermarono che il cuoio dei frammenti offerti in vendita da Shapira era molto più spesso del tipo usato comunemente per i rotoli delle sinagoghe. All’archeologo fran­ cese si rimproverarono con eguale severità le sue prevenzioni iniziali e la cinica proposta di fabbricare di mano sua un rotolo; gli editoriali fusti­ garono quella che definivano 'presunzione gallica” , e il “Manchester Guar­ dian” , il 6 settembre, accusò Clermont-Ganneau di avere “impugnato la sferza del critico un po' troppo presto per quella che è la concezione in­ glese del fair play”1*. Gli esperti furono invece molto colpiti dalle affermazioni di Ganneau e dalla sua descrizione del modo in cui il falsario doveva aver lavorato. Ginsburg, da qualche tempo in preda ai dubbi, prese posizione, praticamente da un giorno alPaltro negando senza mezzi termini l’autenticità dei manoscritti e confermando le prove esterne addotte dall’acuto collega francese; vi aggiunse, come Neubauer e Albert Loewy, un imponente elenco di prove interne. Sulla base di questi elementi si giunse al defini­ tivo giudizio di condanna dei manoscritti. I sostenitori di Shapira, oggi come allora, concentrano il fuoco quasi esclusivamente su Clermont-Ganneau; affermano che gli altri critici si li­ mitarono a seguire la strada segnata da lui riprendendo i suoi argomenti, e cercano di smantellare i dubbi sull’autenticità del Deuteronomio di Sha­ pira semplicemente mettendo in discussione le motivazioni e la logica del francese. Ma per difendere Shapira con qualche speranza di successo biso­ gna prima fornire una giustificazione degli elementi interni — che hanno assai maggior peso di quelli esterni — invocati dai critici come prove della loro affermazione che i frammenti sono falsi. Qui però ci addentria­ mo nel campo di questioni altamente tecniche, dove il non specialista si trova sperso; accontentiamoci di dire che nel 1883 la maggior parte degli studiosi giudicò assolutamente conclusive le prove portate da Ginsburg e altri. Non occorre qui illustrare in modo particolareggiato i vari problemi grammaticali, linguistici, testuali e teologici. È tuttavia interessante no­ tare che il reverendo Albert Loewy, uno dei primi in Inghilterra a mette­ re in dubbio l’autenticità dei documenti di Shapira, invocò elementi in­ terni anche per screditare l’iscrizione del re Mesa, la cui autenticità è as­ solutamente fuori questione. Inoltre parecchie singolarità linguistiche e anomalie nell’uso dell’antico ebraico che provocarono le perplessità di Ginsburg potrebbero avere un parallelo nei testi rinvenuti negli ultimi anni in varie caverne della Giudea. In parecchi casi in cui Ginsburg, Neu­ bauer o critici tedeschi affermarono di avere individuato parole rabbini­ che tarde, Mansoor potè dimostrare che si sbagliavano a stabilire la pre­ senza di quelle stesse parole in un documento antico come l’iscrizione di15 15 Mansoor, op. cit.y pag. 197.

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Siloe. Inoltre una certa trasandatezza nello scrivere e errori di gramma­ tica — assai frequenti in alcuni frammenti del Mar Morto — non si pos­ sono più considerare prove sufficienti di non autenticità. Ginsburg aveva dichiarato che “il compilatore del testo ebraico” do­ veva essere “un ebreo polacco, russo o tedesco, o qualcuno che abbia im­ parato Pebraico nell’Europa settentrionale”16. Lo deduceva da certi pecu­ liari errori di grafia. Ma anche qui il professor Mansoor ha dimostrato che confusioni analoghe di valori fonetici sono comuni in testi di Qumràn e delPAntico Testamento, la cui origine orientale è assolutamente fuor di dubbio. Quanto al contenuto del testo ridotto del Deuteronomio, con la sua insolita versione del Decalogo e le sue interpolazioni, può es­ sere paragonato a un frammento di Qumràn come i Detti di Mosè, anch’esso consistente in una compilazione di varie parti del Pentateuco. A giudicare dai resti ritrovati nelle caverne della Giudea, il Deuteronomio fu probabilmente il libro biblico più popolare presso la comunità di Qum­ ràn; il fatto che anche i documenti di Shapira contengano una redazione del Deuteronomio sembra dunque deporre a favore della loro autenticità. È quindi possibile che i rotoli controversi appartengano alla categoria di quelle opere apocrife che proliferarono negli ultimi due secoli prima di Cristo; in questo caso, lu so di parole ebraiche rabbiniche non costitui­ rebbe più una difficoltà. In uno dei suoi precedenti comunicati alla rivista “Athenaeum” , Gin­ sburg aveva affermato: “È chiaro che, quale che sia l’età del cuoio, il te­ sto deve risalire o a una data non lontana dall’800 a.C. oppure al 1880 d.C. Non esistono vie di mezzo17.” L ’alternativa non fu accettata da tutti i suoi colleghi; introduceva infatti un limite assolutamente arbitrario, con­ dannando come falso tutto ciò che non avesse Paria di risalire al periodo intorno al IX secolo a.C. La scrittura corsiva arcaica fenicio-ebraica, co­ me sappiamo dai rotoli di Qumràn, fu in uso anche a data molto più tar­ da, forse fino in età cristiana. Più giustamente un quotidiano londinese, “The Standard” , riferiva il 14 agosto 1883, dieci giorni dopo la dogmatica dichiarazione di Ginsburg: “Fra quanti ritengono autentici i manoscritti... alcuni inclinano a datarli intorno all’ottavo secolo [a.C.] ...altri al perio­ do della cattività, mentre un terzo gruppo assegna ai documenti una data più tarda, attribuendoli all’età dei Maccabei18” . Ciò non significa tuttavia che vi siano esatti paralleli paleografici fra i rotoli di Qumràn e i documenti moabiti. Nessuno ha ancora eliminato tutti gli ostacoli che si oppongono al riconoscimento dei testi di Shapira come genuini. Ma essi meritano, come ha sottolineato il professor Man16 The Times, 27 agosto 1883. 17 Athenaeum, 4 agosto 1883. 18 Cit. da J. L. Teicher, “The Genuineness of the Shapira Manuscripts” , The Times Literary Supplement, 22 marzo 1957, pag. 184.

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soor, un riesame approfondito; per quanto riguarda Pevidenza interna, contro Pautenticità dei documenti Shapira giocano non tanto gli indizi un tempo considerati decisivi, quanto Paccumularsi di elementi insoliti o incongrui. Il professor Mansoor, che dice di aver trascorso molte notti insonni da quando ha saputo della tragedia di Shapira, si è saggiamente astenuto dal dichiararsi assolutamente convinto delPautenticità dei documenti; sot­ tolinea invece che ‘‘né le prove interne né quelle esterne finora rese note confermano la tesi che si tratta d un falso”19. Più esplicitamente favore­ vole a Shapira è lo studioso ebreo J. L. Teicher, il cui articolo “L'autenti­ cità dei manoscritti Shapira” apparve nel “Literary Supplement” del “Ti­ mes” il 22 marzo 1957. Scrive Teicher: “Riesaminando gli elementi sulla base dei quali i manoscritti furono giudicati falsi, ci si rende conto con stupore che il verdetto era privo di fondamento e che i manoscritti sono veramente antichi e autentici20.” Purtroppo Teicher confuta solo alcune fra le argomentazioni più deboli degli avversari di Shapira e ne respinge altre come illogiche senza discuterle. “Il testo dei manoscritti Shapira,” ammette, “è il vero e grosso ostacolo.” Ma una volta detto che si tratta di una compilazione del Deuteronomio “per fini liturgici e catechetici, nella Chiesa ebraico-cristiana” , gli sembra che siano eliminati, quasi per magia, tutti i punti oscuri e tutte le difficoltà. È probabilmente il caso di ricorda­ re che Teicher è Punico sostenitore di un'identificazione della setta di Qumràn con gli ebioniti giudeo-cristiani; e non si può certo dire che abbia favorito la causa dei documenti Shapira applicando anche a essi la sua teoria favorita. Per quanto ne so, nessuno studioso di fama condivide la sua tesi circa i rotoli del Mar Morto, e probabilmente non sbaglio dicen­ do che Teicher non troverà molti sostenitori nel suo cavalleresco tentati­ vo di rivalutare i manoscritti Shapira. Secondo Oskar K. Rabinowicz, con i documenti condannati non è connesso nessun “mistero” ; quel tanto di mistero che poteva esserci fu risolto già nell'agosto 1883. In un articolo pubblicato dalla “Jewish Quar­ terly Review” nel 1957, Rabinowicz dà un convincente compendio della storia dei frammenti e delle persuasive argomentazioni di Ganneau e Ginsburg, senza aggiungervi novità sostanziali. Solo alla fine egli arriva a una conclusione non meno strana di quella di Teicher: la scoperta nei rotoli del Mar Morto di un passo identico a un altro ricorrente nei manoscritti Shapira dimostrerebbe automaticamente che anche i manoscritti del Mar Morto sono falsi. Nella letteratura sul caso Shapira si trovano frequenti riferimenti al romanzo autobiografico La petite fille de ]érusalem, che la figlia di Sha­ pira pubblicò in francese nel 1914 sotto lo pseudonimo Myriam Harry. 19 Mansoor, op. cit.y pag. 225. 20 Teicher, loc. cit.

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È diventato oggi un assioma che la stessa figlia di Shapira fosse convinta della colpevolezza del padre. Cosi, un editoriale del “Palestine Explora­ tion Quarterly” in cui si parlava del rinnovato interesse per i manoscritti Shapira dichiarava: “Sull’altro piatto della bilancia va messo un fatto che ha un certo peso: il fatto cioè che la figlia di Shapira... sembra convinta che Ganneau avesse ragione nell’accusare suo padre di falso21.” Ma questa pubblicazione scientifica non fornisce alcuna prova d’una cosi assurda affermazione, che tuttavia viene presentata come un solidissi­ mo argomento contro le proposte di Mansoor di riesaminare a fondo il caso. Chiunque abbia letto il libro di Miss Harry ne avrà tratto invece la convinzione che l’autrice venerava suo padre, il Benedictus del romanzo, quelluomo cosi romantico, cosi disarmato di fronte al mondo; ed è certo che neppure una volta getta sulla sua memoria il più lieve sospetto di disonestà. Un altro critico, M. H. Goshen-Gottstein, dà grande rilievo al seguen­ te periodo del romanzo autobiografico di Miss Harry: "... stava a guarda­ re suo padre mentre copiava accuratamente ogni iscrizione su grandi fo­ gli bianchi, a volte ripetendo ogni parola venti o persino cento volte e cer­ cando di combinare i segni in modi diversi2223.” Ma qui sono descritti i ten­ tativi di Shapira di decifrare iscrizioni su antiche ceramiche; Shapira non tentò mai di tenere nascosto il fatto che aveva una certa familiarità con le antiche scritture fenicia e nabatea, e nutriva un interesse genuino per gli oggetti e i documenti antichi. Ma nulla, nel libro della figlia, giustifica il sospetto che la conoscenza delPantica scrittura fenicio-ebraica gli servisse per fabbricare documenti falsi. Lo stesso Shapira dichiarò d ’ave­ re dedicato molto tempo al tentativo di decifrare i frammenti del Deute­ ronomio; se la figlia ce lo conferma, ciò evidentemente non autorizza nessun sospetto . In ogni caso, e qualunque deduzione si voglia trarre dall’abilità di Shapira nel riprodurre antichi caratteri, è semplicemente assurdo attri­ buire alla figlia la convinzione dichiarata o sottintesa che il padre fosse un falsario. Goshen-Gottstein ha tentato di convalidare i propri sospetti con altre citazioni dal romanzo, e conclude: “È possibile che il desiderio di dimostrare la propria erudizione e di migliorare la propria situazione materiale, cosi da poter dare marito alla figlia, lo abbia spinto a tentare questo falso.”24 La figlia in età da marito, fra parentesi, non era Myriam Harry, allora molto giovane, ma la sorella maggiore. Tutti questi argo­ 21 Palestine Exploration Quarterly, voi. LXXIX, 1957, pag. 96. 22 M. H. Goshen-Gottstein, “The Shapira Forgery and the Qumran Scrolls” , Journal of Jewish Studies, voi. V II, 1956, pag. 189. 23 Myriam Harry (Mme Émile Perrault), La petite fille de Jerusalem, Parigi, A. Fayard, 1914, pag. 112. Edizione inglese con il titolo The Little Daughter of Jerusalem, New York, E. P. Dutton, 1914. 24 Goshen-Gottstein, op. cit., pag. 189.

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menti debolissimi e tirati per i capelli non costituiscono certo un valido capo d ’accusa. Lo stesso Goshen-Gottstein ha del resto dovuto ammette­ re che “il falso non potè essere opera di una sola persona”2526. Con tutte queste affermazioni e controaffermazioni, e dopo che ci si è tornati a interessare del caso Shapira nel quadro delle polemiche sui rotoli del Mar Morto, la soluzione sembra più lontana che mai. V ’è poi un altro mistero: nessuno sa dove sono i manoscritti. Mansoor ritiene che si trovino in qualche deposito del British Museum, ma le autorità del museo lo negano. In ogni caso, siccome i documenti furono riesaminati in quella sede nel 1884, dopo la morte di Shapira, è impossibile — anche se il personale del British e Rabinowicz continuano a sostenerlo — che siano stati restituiti a Shapira e spariti con lui in Olanda. Negli archivi del museo si conserva una lettera in cui la vedova di Shapira chiedeva notizia dei manoscritti; ma non si sa che cosa le sia stato risposto, se vi sia stata una risposta, se in seguito alla lettera sia stata presa qualche ini­ ziativa e quale. A. C. R. Carter, ex direttore di “The Year’s Art” , nelle sue memorie Let Me Tell You (1940) scrive che “dopo essere stato smascherato [Sha­ pira] scrisse una pietosa lettera di scuse per tutti i fastidi che aveva dato e fu ben contento di accettare le poche sterline che il British Museum gli offri per i suoi manoscritti un tempo 'preziosissimi’, da tenere come me­ mento per altri. Con questa piccola somma raggiunse Amsterdam [sic], dove si uccise in un’umile locanda”20. In base a questa testimonianza, il British sarebbe oggi il legittimo pro­ prietario dei manoscritti; ma possibile che il museo abbia tenuto una co­ sa giudicata cosi totalmente priva di valore? D ’altra parte, l’attendibili­ tà di Carter, che dedicò un intero capitolo a “Shapira, falsario di Bibbie” , è a dir poco discutibile. Se Shapira avesse veramente accettato l’offerta del British, cosi implicitamente confessando che i manoscritti erano falsi, non avrebbe poi inviato dall’Olanda un ultimo appello al direttore della Biblioteca, chiedendogli di sottoporre i rotoli a un nuovo esame da parte di un gruppo di esperti non prevenuti. Rivedremo mai quelle testimonianze materiali che potrebbero forse risolvere d ’un sol colpo il mistero? Al professor Monsoor è stato detto che alcuni frammenti Shapira sono stati venduti dal noto mercante lon­ dinese di libri Bernard Quaritch, ma Mansoor non è riuscito a rintrac­ ciarli. È possibile che si tratti di altri manoscritti, portati da Shapira a Londra nella sua ultima visita a quella città. Per quanto so, si è omesso di seguire una traccia: nella sua lettera la signora Shapira dice di avere trovato fra le carte del marito due frammenti del Deuteronomio e di aver­ li mandati al professor Konstantin Schlottmann a Halle. 25 Ibid. 26 Carter, op. cit.> pagg. 218-19.

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Non è da escludere che i frammenti siano stati trattenuti presso l'università di Halle, e metterebbe certamente conto di fare qualche ricerca in proposito. Esiste poi ancora un'altra possibilità: lo uadi el-Moujib in Transgiordania, sull'“altra riva” del Mar Morto. Queste grotte sono vera­ mente cosi umide come affermò il capitano Conder? Non vi sono per caso tracce di manoscritti? E se ce ne sono, alcuni di essi non presentano qual­ che somiglianza, nella scrittura, nel linguaggio, nel contenuto, nell'aspet­ to esterno, con i rotoli Shapira? È certo che le circostanze riferite da Shapira in connessione con il ri­ trovamento dei rotoli non poterono essere inventate di sana pianta. In ge­ nerale il seppellimento di manoscritti in caverne, e particolari come l'in­ volucro di tela e gli “incantesimi neri” , non immediatamente riconoscibi­ li, dentro l’involucro, presentano troppe analogie con i ritrovamenti di Qumràn per potere aver preceduto questi ultimi di sette decenni senza che esistesse nessuna base materiale. Anche se i documenti Shapira non sono autentici, appare giustificata la conclusione che chi li fabbricò dove­ va essere al corrente di precedenti scoperte in caverne moabite o in altre caverne “del Mar Morto”27.

27 L ’autore desidera segnalare il fatto che The Shapira Affair di John Marco Allegro (New York, Doubleday & Co., 1965) fu pubblicato dopo che era terminata la stesura di quest’opera.

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PARTE SESTA

SETA E CARTA

Capitolo XXI SULLE ORME DI MARCO POLO: AUREL STEIN Io vado dove sono rupi immense e nevi, Con una guida fidata, agile esploratore... rudyard kipling , Il tetto del mondo Fra il 1870 e il 1880 uno studente d’un liceo di Dresda fu conqui­ stato dalla romantica epopea di Alessandro il Macedone. Si immerse nel­ la lettura di libri in cui si parlava del suo idolo, delle campagne lampo che estesero il suo potere su metà del mondo allora conosciuto e gli as­ soggettarono gli orgogliosi imperi d’Oriente; soprattutto, s’interessò alla spedizione che portò Alessandro, attraverso l’Hindu Kush, in India. Quella grande avventura lo affascinava. Ma quando il ragazzo volle sa­ pere quali strade precisamente avesse seguito Alessandro, per quali va­ lichi fosse passato, in quali luoghi si fossero svolte alcune fra le più cruciali e brillanti battaglie della sua carriera, nessun libro seppe dargli le risposte che cercava. Concepì allora il progetto di ripercorrere la stra­ da del Macedone, di ricostruire il percorso da lui seguito attraverso l’an­ tica Battriana, e poi nella ritirata dal delta dell’Indo alla Persia. Per molti anni, e ancor dopo che il suo nome ebbe acquistato una risonanza internazionale, le autorità dell’Afghanistan - lo stato moder­ no che occupa i territori dell’antica Battriana - gli rifiutarono il permes­ so di svolgere ricerche. Tre viceré dellTndia intervennero in suo favore. Una volta inviò al sovrano dell’Afghanistan una copia in due volumi del­ le sue magistrali opere sull’esplorazione dell’Asia: il re gli rispose che non conosceva una parola d ’inglese, che avrebbe dovuto farsi tradurre i libri in afgano prima di essere in grado di esprimere il suo apprezza­ mento, e che il tutto avrebbe richiesto qualche anno. Ogni speranza sem­ brava perduta, quando finalmente nell’autunno del 1943 un amico dei tempi di Harvard, in quel tempo ministro americano a Kabul, ottenne

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alPultraottantenne Aurei Stein il tanto sospirato permesso. Nel giro di pochi giorni lo studioso, pieno d'energia e d'iniziativa come sempre, ab­ bandonò il suo diletto ritiro nel Kashmir e raggiunse Kabul, dove gli fu dato alloggio nella residenza del ministro. Due giorni dopo l'arrivo, nel corso di una visita al museo locale, prese un’infreddatura, cui tennero dietro in meno d ’una settimana un attacco cardiaco e la morte. Prima del­ la fine Stein disse al suo amico americano: “Ho avuto una vita meravi­ gliosa; e non poteva concludersi meglio che nell'Afghanistan, un paese che da sessant'anni desideravo visitare3.” Nei sessant'anni d'intervallo fra il suo sogno giovanile e quello che fu solo l'inizio dell'esaudimento, Sir Aurei Stein giunse a essere consi­ derato “il più grande esploratore dell’Asia dopo Marco Polo”12. Rimase per tutta la vita un ammiratore di Alessandro; ma la via seguita dal conquistatore era solo una delle grandi strade verso il cuore del miste­ rioso continente. Negli anni maturi Sir Aurei scelse come guide il suo precursore veneziano, Marco Polo, e soprattutto un monaco buddista cinese del V II secolo d.C. Hsiian Tsang, del quale amava parlare come del suo “santo protettore” . Stein non si stancava mai d'invocare il ricor­ do di questo pellegrino, acuto osservatore di siti indiani, del Gandhara, del Turkestan. Hsiian Tsang fu il primo a penetrare nell’Asia interna. Fu testimone e simbolo del legame esistente fra la Cina e l’India, che Stein ricostruì nelle sue esplorazioni. Hsiian Tsang si era spinto dalla Ci­ na fino in India per chiarire certi punti oscuri e certe incongruenze nei testi buddisti. Tornò anni dopo, carico di libri sacri. Procedendo nell’op­ posta direzione dopo un intervallo di dodici secoli, Stein avrebbe emu­ lato il suo “nobile maestro” . Marcus Aurelius (più tardi Aurei) Stein nacque a Budapest nel 1862. Usciva da una famiglia di ebrei ungheresi, una famiglia della media bor­ ghesia, di mercanti e di intellettuali, e parlò tedesco e ungherese sin dall’infanzia. Dopo avere studiato lingue orientali e archeologia presso varie università del continente, e dopo essersi laureato a ventun anni presso l'università di Tubinga con una tesi d'argomento indo-iranico, nel 1884 Stein si recò in Inghilterra per studi di specializzazione a Oxford e presso il British Museum. Vi fu poi l'intermezzo di un anno di adde­ stramento militare in Ungheria, nel corso del quale apprese nozioni di to­ pografia e misurazione del terreno, che più tardi gli sarebbero state pre­ ziose. Al ritorno in Inghilterra - che diventò la sua patria adottiva dopo la morte dei genitori e del fratello in Ungheria - il giovane attrasse l'at­ 1 Cit. da C. E. A. W. Oldham, “Sir Aurei Stein” , British Academy, Proceedings, voi. XXIX, 1943, pag. 341. 2 Geoffrey Grigson (a cura di), “Stein, Marc Aurei”, People, Places, Things, Ideas, voi. I, Londra, Grosvenor Press, 1954; New York, Hawthorn Books, 1957. Anche Percy Sykes, A History of Exploration, New York, Harper Torchbooks, 1961, pag. 254.

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tenzione di Sir Henry Yule, il coltissimo curatore dell’edizione di Marco Polo, e di Sir Henry Rawlinson, lo studioso-soldato che contribuì a deci­ frare il cuneiforme. A questi suoi protettori inglesi Stein dovette la no­ mina, nel 1888, a direttore dell’Oriental College a Lahore e cancelliere deirUniversità del Punjab. Così, a ventisei anni, Stein si trasferiva nel paese che da sempre era il centro dei suoi interessi. Abitando in India, Stein si trovava materialmente vicino alle strade storiche, grandi e piccole, che traversano l’interno del continente. Ma per molto tempo i doveri professionali lo tennero legato al suo posto, tanto che cominciò a dubitare di poter mai evadere dalla faticosa e monotona routine della carriera d’insegnante. Rari e brevi erano gli intervalli di su­ datissimo riposo che poteva dedicare alle ricerche; per di più doveva prov­ vedere a tutto da solo, senza poter contare su sussidi pubblici. L ’idea che l’amministrazione indiana finanziasse attività archeologiche sembrava as­ surda a quel tempo; nell’Asia interna e persino in India non v’era quasi nessuno che si occupasse di ricerche o di scavi. Per le burocrazie europee e per il pubblico in generale, archeologia era quasi sinonimo di scavi nel­ la Grecia omerica e nei siti del Vicino Oriente connessi con le Sacre Scrit­ ture; Troia e Cnosso avevano Schliemann e Evans, uomini di grandi mez­ zi in grado di finanziare da soli le proprie attività, e varie società per la promozione delle ricerche sulla storia del cristianesimo dispensavano ge­ nerosamente fondi per scavi nei paesi che di quella storia erano stati il teatro. L ’area scelta da Stein non interessava a nessuno di questi individui e organizzazioni. Stein aveva trentasette anni quando finalmente gli si presentò la sua grande occasione. Nel giro di alcuni anni, dopo l’arrivo di Stein in India, erano giunti nelle mani di collezionisti residenti in Occidente o in India parecchi fram­ menti di scritti su scorza di betulla. Alcuni erano stati acquistati dallo sfortunato viaggiatore francese Dutreuil de Rhins. Il più famoso e più am­ pio di tutti era il cosiddetto manoscritto Bower, così battezzato dal nome di L. H. Bower, il funzionario inglese che ne entrò in possesso nel 1890; si trattava in realtà d’un fascio piuttosto voluminoso, consistente in cin­ quantun foglie e contenente sette testi distinti, benché incompleti. Il ma­ noscritto, sulle prime dichiarato illeggibile, fu decifrato da un orientalista anglo-tedesco, A. F. Rudolf Hoernle, il quale constatò che conteneva trat­ tati fin allora ignoti di medicina e divinazione. La scrittura apparteneva alla varietà Gupta dell’India settentrionale, databile a un periodo fra il IV e il VI secolo d.C. Non v’erano dubbi sul fatto che i testi erano stati scritti da indigeni, forse monaci buddisti: lo indicavano la lingua, il tipo di scrittura, il formato pothi tipicamente indiano (imitante la forma di foglie di palma corifa). Nessun altro scritto così antico era sopravvissu­ to in India. 391

I fogli straordinariamente ben conservati del manoscritto Bower, e altri dello stesso tipo, erano stati acquistati nei remoti altipiani deserti del Turkestan cinese, presso cercatori di tesori abitanti in quei luoghi o tra­ mite i loro intermediari. Un territorio capace di assicurare la sopravviven­ za a documenti cosi preziosi per oltre milleduecento anni meritava certo di essere frugato piu a fondo, e Stein fu il primo a rendersi pienamente conto delle implicazioni di simili scoperte e ad agire in conseguenza. Viag­ giatori moderni si erano spinti nelle regioni delPinterno asiatico, ma nes­ suna parte di esse era stata oggetto di esplorazioni condotte scientificamente. Stein fu molto incoraggiato nel suo progetto di organizzare una spedizione su vasta scala, dalle notizie recate da viaggiatori, come Sven Hedin, i quali riferivano che nella regione varano siti di antichi centri abitati in rovina, che quei siti erano relativamente accessibili, che vi si potevano condurre scavi. Il progetto che Stein aveva abilmente e persua­ sivamente presentato al governo indiano nel 1898 fu infine approvato so­ prattutto grazie all’intervento del Viceré dell’India, Lord George Natha­ niel Curzon, lui stesso studioso appassionato di storia asiatica. Per fortuna Stein aveva almeno un altro obiettivo oltre all’archeolo­ gia: la geografia. Anche amministratori sommamente vigili erano disposti a concedere pubblico denaro per finanziare un progetto che comprende­ va l’esplorazione di montagne e altipiani pressoché sconosciuti sui confini indiani. Stein ottenne cosi un finanziamento dal Survey of India. Il lavo­ ro che svolse come topografo nel cuore dell’Asia fu opera d’amore e fece compiere un grande passo avanti alla conoscenza di quelle regioni. Per raccogliere quanti più dati possibile, Stein ebbe cura di non fare mai la stessa strada andando dall’India al Turkestan o dall’India in qualsiasi al­ tra regione. Traversò il Deserto di Taklamakan nel punto più largo e scalò i massicci coperti di neve delle più alte catene montuose asiatiche; passare per valichi oltre i 4.500 metri diventò per lui quasi routine. Sir Aurei era un uomo di corporatura minuta, tutto nervi, con una re­ sistenza incredibile e una fibra d ’acciaio. Una volta chiese al governo di assegnargli un robusto soldato indigeno come compagno nelle sue esplo­ razioni lungo la frontiera di nord-ovest. La richiesta fu trasmessa alle au­ torità militari della regione e queste, dopo una scelta accurata, gli desti­ narono un giovane Pathan delle montagne. Terminata la missione, l’uffi­ ciale del Pathan gli chiese come se la fosse passata. “Stein Sahib,” fu la risposta, “è un essere soprannaturale, non un uomo; sulle montagne mi ha fatto camminare tanto che mi pareva di non aver più le gambe; non ce la facevo a stargli dietro. Per favore, non mi mandate più con lui3.” A quel tempo Stein aveva passato di parecchio i sessant’anni. Anni prima, nel 1907, aveva perso tutte le dita del piede destro per congelamento mentre disegnava le carte geografiche di aree del Kuenlun, a 6.000 metri di alti­ 3 Oldham, op. cit., pag. 346.

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tudine. Un’altra volta aveva subito gravi lacerazioni quando il suo cavallo, nel guadare un fiume, lo aveva disarcionato e gli era caduto addosso. Si era rotto parecchie volte la clavicola ed era scampato per un pelo dall’annegare nel Golfo Persico. Stein non partiva mai per le sue spedizioni con un seguito numeroso né con un equipaggiamento ingombrante, e preferiva la compagnia di Sikh e Pathan a quella di europei. Immancabilmente portava con sé Dash, il suo vivace terrier scozzese, o meglio una serie successiva di membri di quella specie (numerati da I a V II), per temperamento perfettamente al­ l’unisono con l’agilità fisica e mentale del loro padrone. Il sabbioso e ventoso deserto nel cuore dell’Asia che fu l’oggetto del­ le più importanti ricerche archeologiche di Stein è costituito in buona parte da quello che è oggi il Turkestan cinese, o Sinkiang. L ’area si sten­ de per 2.400 chilometri da est a ovest, dalle sorgenti dell’Oxo, nell’Hindu Kush, alla Cina propriamente detta, e ha una larghezza massima di 800 chilometri. Il bacino del Tarim, privo di sbocco, e il deserto di Taklamakan occupano la parte centrale dell’area. A nord ne segnano il confine i Tien Shan, i “Monti Celesti” , e a sud le potenti catene del Kuenlun, di là delle quali si trova il Tibet. Nella parte occidentale torreggia il Pamir, “Tetto del Mondo” . A meno di essere attratto dal fascino metafisico di ondulazioni di sabbia che si estendono all’infinito e di dune che cambiano continuamente posto, è difficile trovare gradevole una serie di altipiani spazzati dal vento. A causa della secchezza dell’atmosfera e della mancan­ za quasi totale d’acqua dolce, né esseri umani né animali né piante vi pos­ sono vivere a lungo, tranne in una serie di oasi, concentrate in una stretta fascia ai piedi delle montagne, che ricevono l’acqua da fiumi alimentati da ghiacciai. Grazie all’irrigazione artificiale, in periodi di stabilità politica la vita è possibile in un’area più vasta; ma è evidente un inaridimento progres­ sivo, che ha determinato una riduzione della superficie e della popolazio­ ne di quasi tutti i centri abitati e persino al loro abbandono. Si incontra­ no spesso tronchi disseccati e biancastri e rami scheletrici di alberi morti, indicanti che il luogo fu un tempo abitato; e si indovina la vicina pre­ senza di edifici sepolti nella sabbia. Altri elementi caratteristici della fascia di oasi ora inaridite sono coni di sabbia accumulatasi in notevoli altezze intorno ad arbusti di tamarisco disseccati. Nonostante il visibile estendersi del deserto a spese di villaggi e città, non v’è motivo di supporre che il Turkestan cinese sia mai stato abbastanza fertile - tranne in una zona marginale - da consentire inse­ diamenti umani. La natura ha eretto qui uno dei suoi più formidabili bastioni. Ma come qualsiasi barriera naturale - oceani, fiumi, montagne anche questa è potenzialmente un ponte, e come tale ha giocato una parte di primo piano nella storia dell’Asia. Non fu mai veramente inaccessibile: 393

per quanto le condizioni di vita vi siano difficili, ha svolto le funzioni di corridoio naturale fra Asia orientale e occidentale, fra il Tibet a sud e la Mongolia e la Siberia a nord. A giudicare dai manufatti paleolitici e neolitici, la lunga pista attraverso il deserto potrebbe essere una fra le piu antiche strade del mondo, forse connessa con la nascita della stessa civiltà cinese. Molto prima che diventasse la via della seta era una via della giada; per suo tramite infatti nel II millennio a. C. la giada giunse forse a Troia, distante migliaia di miglia. Dal Turkestan cinese vennero anche i lapislazzuli che Sumeri e Babilonesi tanto apprezzavano. Per lungo tempo tuttavia Cina e Vicino Oriente non ebbero contatti diretti ed ebbero solo una vaghissima conoscenza 1 uno dell’altra. In un’area come nell’altra sorsero grandi imperi, ma la Cina, che creò una propria splendida civiltà e una grande potenza politica, ignorò l’Occi­ dente, la Persia, persino l’India fino al II secolo a. C. Quando però av­ venne, l’incontro fra Oriente e Occidente fu dovuto all’iniziativa cinese; nella loro avanzata verso ovest attraverso l’Asia interna i cinesi dovet­ tero affrontare e superare terribili ostacoli, ma fu in verità l’Oriente a scoprire l’Occidente. Il movimento fu iniziato nel II secolo a. C. dal grande imperatore Wu Ti della dinastia Han, che cercava aiuti contro le orde degli Hsiungnu, noti agli europei come Unni. Poi la pista attraverso i deserti del­ l’Asia centrale si allargò: divenne, e rimase per parecchi secoli, una strada maestra congiungente mondi remoti. La Cina entrò in contatto con tre grandi civiltà: l’indiana, la greco-romana, la persiana. Il traffico si svolgeva intenso in entrambe le direzioni sulle strade dell’Asia in­ terna; carovane che trasportavano le sete cinesi, mercanti di svariate razze, eserciti conquistatori e ambascerie passarono per le oasi del de­ serto. Fatto piu importante di tutti, la strada commerciale e militare divenne presto un’arteria per la diffusione di influenze * artistiche, lin­ guistiche e religiose. Correnti eterogenee si fusero nella cultura poli­ glotta delle città delle oasi, e questa, a sua volta subendo trasformazioni e adattamenti, filtrò in Cina. I missionari buddisti furono i principali portatori delle varie in­ fluenze culturali. Grazie a loro il buddismo mise stabilmente piede in Cina, e di qui passò in Corea e in Giappone. Fu questo uno fra gli eventi fondamentali della storia mondiale. L ’arte buddista, già in sé un’eloquente sintesi di elementi classici, indiani, iranici, fu perfetta­ mente assimilata dall’Estremo Oriente, dove il buddismo diventò una forza formativa non meno del cristianesimo in Europa. La principale strada seguita dai missionari buddisti fu quella attraverso l’Asia cen­ trale, aperta per la prima volta da sovrani cinesi avanzanti nella dire­ zione opposta. Non era la prima volta che un sovrano aggressore apriva la strada grazie alla quale influenze intellettuali e spirituali straniere avrebbero poi conquistato il suo impero. È questa una delle astuzie quasi

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hegeliane della storia; Graecia capta ferum captorem cepit, la Grecia conquistata conquistò il rozzo conquistatore. In modo analogo, l’eccellente rete di comunicazioni, la pace e Punita delPimpero romano facili­ tarono la diffusione della fede cristiana.

Croci cristiane incise in monumenti cinesi attestano la penetrazione del cristianesimo nestoriano, attraverso l’Asia centrale, in Ci­ na. Missionari gesuiti riscoprirono questa croce nel Seicento.

Il declino degli Han e quel venir meno della fede nei credo uffi­ ciali che Gilbert Murray ha definito un “cedimento dei nervi” crearono in Cina un’atmosfera spirituale - analoga a quella che si produsse a un certo momento nel mondo mediterraneo sotto il dominio di Roma adatta alPaffermarsi del buddismo e di altri culti. Ma nelPambiente in generale più tollerante e pluralistico del Regno Medio, il buddismo non diventò mai una religione esclusiva; coesistette con il confucianesimo e il taoismo e con altre religioni qui meno diffuse come il manicheismo, il cristianesimo nella varietà nestoriana, forse persino il giudaismo. Ma il buddismo fu completamente trasformato dai Cinesi, che si assunsero il compito di diffonderlo in altri paesi; e almeno una loro missione, se vogliamo credere agli annali ufficiali, raggiunse forse la costa dell’Ame­ rica in epoca precolombiana4. Per circa mille anni dopo il passaggio di Wu Ti e dopo l’arrivo dei primi missionari buddisti dal Gandhara attraverso il Pamir, il deserto del Turkestan orientale, con le sue fiorenti oasi e città, fu il luogo di contatto e interpenetrazione delle grandi civiltà europee e asiatiche. Ma solo dopo l’arrivo di Sir Aurei Stein nell’Asia centrale e delle spedizioni tedesche, francesi, russe e giapponesi che vi giunsero sulle sue orme, abbiamo cominciato a conoscere i vari aspetti culturali, religiosi, econo­ mici, etnici e politici della complessa civiltà di questa regione. 4 Vilhjalmur Stefansson (a cura di), Great Adventures and Explorations, New York, Dial Press, 1947, pagg. 109-15.

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Le spedizioni di Stein avevano un fine immediato: scoprire la fonte dei manoscritti da poco arrivati in Occidente e se possibile trovarne altri. Sperava anche che gli antichi documenti avrebbero consentito di sbroglia­ re la matassa della complicata storia della regione e lo avrebbero guidato al ritrovamento delle testimonianze materiali delle culture ivi un tempo fiorite. Ebbe inizio cosi quella che Leonard Woolley ha definito “la più audace e avventurosa incursione nel mondo antico che archeologo abbia mai tentato”5. Dal 1900 al 1916 Stein compì tre importanti spedizioni nelPAsia Centrale che lo tennero “in campo” per sette anni; la seconda, che fu forse la più importante e si svolse dal 1906 al 1908, durò due anni e mezzo. Percorse, in massima parte a piedi, 40.000 chilometri. Almeno in senso spaziale, Stein praticò l’archeologia estensivamente e non inten­ sivamente; non concentrò gli sforzi su un unico e ricco sito, ma cercò le tracce di un’intera civiltà su tutto il raggio della sua sfera d’espansione. Tipico di lui e del suo atteggiamento fu l’impegno nel ricostruire il percorso delle antiche strade — in particolare quelle di Hsùan Tsang e di Marco Polo — grazie alle quali era avvenuto l’incontro di varie civiltà. In tutti i tre viaggi fu esplorata più o meno la stessa regione. Ogni volta Stein partì dal Kashmir, esplorò le valli poco note dell’Hindu Kush e del Pamir, seguì la fascia di oasi partendo da Kashgar, a occi­ dente, e seguendo uno dei due orli del Deserto di Taklamakan. Dalle città moderne si avventurava nel deserto raggiungendovi i siti abban­ donati, dove scavava. Visitò parecchi di questi luoghi in rovina nel corso di spedizioni successive; fra una stagione e l’altra svolgeva i suoi rilievi cartografici sulle alte montagne. Nel primo viaggio, durato sette mesi fra il 1900 e il 1901, Stein si occupò soprattutto della grande città di Khotan, a lungo capitale del regno indigeno sul margine sud del Turkestan orientale. Era convinto che Khotan fosse stata un anello importante nello scambio di merci e di influenze culturali. Già conosceva passaggi sparsi negli Annali cinesi in cui si parlava di Khotan come di una tappa sulla strada verso l’Oxo. Secondo tutte le apparenze, al tempo degli Han posteriori dei Tang, la città era stata sotto il diretto controllo politico cinese. Cercatori di tesori indigeni avevano già trovato, nei siti in rovina dell’area di Khotan, manufatti, e tra l’altro manoscritti, che rivelavano affinità con antichi prodotti indiani; siccome quasi tutti quei siti erano stati ormai comple­ tamente saccheggiati, Stein decise di spingersi in aree più remote se­ guendo l ’antica strada che traversava il deserto in direzione della Cina. Ma prima doveva risolvere un difficile problema. 5 Leonard Woolley, History Unearthed, New York, Frederick A. Praeger, s. d., pag. 116.

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A partire dal 1895 il governo indiano aveva acquistato, tramite il proprio rappresentante nel Turkestan cinese, parecchi manoscritti car­ tacei e stampi in legno in strani e sconcertanti caratteri. Altri documenti dello stesso genere in quantità notevoli erano arrivati in Russia ed en­ trati a far parte di collezioni pubbliche in vari paesi europei. Si riteneva che tutti fossero stati portati in luce nelParea desertica vicina a Khotan, e tutti si potevano far risalire a un solo uomo, un cercatore di tesori di Khotan chiamato Islam Akhun. Pochi anni prima il rappresentante in­ diano lo aveva convinto a rivelare i siti delle rovine sepolte sotto la sabbia dove diceva di avere trovato i manoscritti. Stein aveva però qualche dubbio sull’autenticità degli strani documenti e, quand’era ancora in India, s’era proposto di svelare il mistero; decise quindi di visitare i luoghi indicati da Akhun. Sulla strada da Kashgar a Khotan fece tappa in una località chiamata Guma, una di quelle elencate dal cercatore di tesori: i dignitari locali gli assicurarono che là non erano mai venuti in luce ‘Vecchi libri” . Conoscevano solo due dei numerosi siti in rovina che secondo Akhun si sarebbero dovuti trovare nelle vicinanze, e vi portarono Stein, ma era evidente che i luoghi erano stati abbandonati in epoca relativamente recente e non avrebbero potuto restituire nulla di antico. A Khotan Stein attese invano una visita di Islam Akhun, che di solito andava in giro a offrire la sua dubbia merce soprattutto ai nuovi venuti; l’uomo, per qualche buona ragione, in quel momento preferiva girare al largo da possibili clienti provenienti dall’India. Nel frattempo Stein fece conoscenza con un armeno russo, che possedeva un manoscrit­ to su scorza di betulla nei caratteri già noti, e, avendolo acquistato a titolo d ’investimento, desiderava un giudizio positivo da parte dello studioso. Stein invece non potè essere molto rassicurante, e un esame del libro valse solo a rafforzare i suoi sospetti: non uno dei fogli di scorza di betulla aveva ricevuto il trattamento accurato noto a Stein grazie all’analisi da lui condotta di materiali analoghi nel Kashmir, e neppure l’inchiostro era del tipo tradizionalmente usato per scrivere su scorza d ’albero. Disgraziatamente, non si trovava traccia di Islam Akhun: ogni volta che Stein faceva tappa a Khotan tornando da escursioni sulle mon­ tagne o nel deserto vicini, Akhun era assente. Un confronto ebbe final­ mente luogo, ma soltanto nel corso dell’ultima visita di Stein a Khotan, al termine della prima spedizione. Benché le prove d ’una frode si potes­ sero considerare più o meno conclusive, Stein moriva dalla voglia di vedere con i suoi occhi “l’intraprendente individuo i cui prodotti si sono imposti all’attenzione di tanti studiosi europei”6. Il locale gover­ natore mandarino offri volontariamente la propria assistenza e Islam Akhun fu finalmente acchiappato. 6 Aurei Stein, Sand-buried Ruins of Khotan, Londra, Hurst & Blackett, 1904. pag. 4“ 2.

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Sulle prime il sospetto si presentò come il docile agente di vendita di altri mercanti di “vecchi libri” , che guarda caso erano o fuggiti o passati a miglior vita. Akhun sembrava convinto che non esistessero prove dirette contro di lui e ostentò un profondissimo rispetto per la legge. Ma esagerò. Ignorando che un rapporto pubblicato in India con­ teneva in indelebili caratteri a stampa il resoconto da lui fatto a resi­ denti inglesi delle sue “scoperte” , disse a Stein di non essere mai stato personalmente nei posti dove si supponeva che venissero i manoscritti. Stein non fece altro che mettergli davanti il rapporto. Come scrisse poi lo studioso in un divertente capitolo del libro in cui si parla di queste vicende, quella vista agi molto efficacemente sulPuomo: “Islam Akhun era totalmente impreparato al fatto che le bugie da lui dette anni prima, con tanta apparente esattezza per quanto riguardava particolari topogra­ fici e d'altro genere, avevano ricevuto l'onore di una registrazione perma­ nente in un rapporto scientifico al governo. Era abbastanza intelligente per capire di aver fornito lui stesso le prove inconfutabili della sua col­ pevolezza e per rendersi conto che continuando a protestare la sua inno­ cenza non ci avrebbe guadagnato niente7.” Cosi, gradualmente venne fuori tutta la verità. Un tempo Islam Akhun s’era effettivamente dedicato all'attività di raccogliere oggetti autentici fra le antiche rovine della zona, finché nel 1894 aveva saputo da un mercante afgano del nuovo e redditizio mer­ cato d'antichi manoscritti rappresentato dai “sahib” residenti in India. A quanto pare, “l'idea di continuare le spedizioni ai malinconici siti nel deserto, con la certezza di dover sopportare molti stenti e con limitate probabilità di trovare qualcosa, non era tale da attrarre un uomo dell'in­ traprendenza di Islam Akhun. Cosi concepì il progetto più allettante di fabbricare di mano sua l'articolo di cui gli consigliavano di rifornire i Sahib”8. Parecchi illeggibili prodotti della sua attività artigianale furono accolti al British Museum; Sven Hedin ne riprodusse uno nell’edizione tedesca del suo libro Attraverso l'Asia. Stein lo adulò un poco e il falsario diventò loquacissimo, giunse anzi al punto di vantarsi della sua bravura; mostrò addirittura all’in­ terlocutore uno degli strumenti di cui si era servito. “Quanto più grande sarebbe stato il suo orgoglio,” commentava Stein, “se avesse potuto ve­ dere, come vidi io di lì a pochi mesi, le bellissime rilegature in maroc­ chino di cui una grande biblioteca europea aveva fatto l'onore a un certo numero dei suoi falsi9.” Islam era così soddisfatto di sé che il suo talento gli pareva sprecato nell’entroterra del Turkestan, ed ebbe la sfacciatag­ gine di chiedere a Stein che lo portasse con sé in Europa. Per parte sua 7 Ibid.y 8 Ibid., 9 Ibid.,

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pag. 475. pag. 449. pag. 454.

Stein era molto contento di avere risolto il caso senza dover ricorrere “ai metodi orientali d'indagine giudiziaria” . Riteneva inoltre che le ricerche da lui condotte prima di quel colloquio bastassero da sole a dimostrare che i manoscritti messi in giro da Akhun erano falsi grosso­ lani: nessuno dei siti da lui esplorati lungo un percorso di parecchie centinaia di chilometri, da Khotan a Endere, aveva restituito scritti neppur lontanamente imparentati con gli specimen di Akhun. Lo smascheramento del falsario fu solo un frutto marginale di quel­ la prima spedizione, ma rivela l’acume critico di cui Stein diede sempre prova nelle sue ricerche. Lo studioso-esploratore aveva vinto una batta­ glia contro i troppo astuti cercatori di tesori; ma poi gli venne in mente che avrebbe potuto valersi utilmente della loro conoscenza di rovine sepolte. Prima che lasciasse l’India lo aveva perseguitato il timore di perdersi nel deserto in una vana ricerca di siti abbandonati. Non v’erano libri né carte che potessero dargli informazioni precise sugli antichi insediamenti. Conosceva i nomi di vari luoghi dagli Annali cinesi e dagli scritti di Hsiian Tsang e Marco Polo, le cui orme intendeva seguire per una parte della via in direzione della Cina, ma - eccezion fatta par alcune città delle oasi, tuttora abitate, e nelle quali appunto perché abitate non avrebbe probabilmente trovato nulla - l’identità di quei luoghi e la loro esatta posizione geografica erano sconosciute. Quanto distavano dalle strade moderne che traversavano l’arida distesa di sabbia? Erano visi­ bili? E quanti altri antichi centri abitati, non menzionati dal viaggiatore cinese né dal veneziano, dormivano nel deserto? Per risolvere il problema, Stein adottò un metodo abbastanza sem­ plice: ogni volta che, nel suo viaggio verso oriente, faceva sosta in una città del deserto, cercava di sapere che voci corressero sull’esistenza di vicini tesori; talvolta, erano i cercatori di tesori ad avvicinarlo per primi. I suoi uomini, turkestani, fungevano da servizio segreto d’informazioni e provvedevano a stringere utili conoscenze con uomini del posto, uno dei quali Stein sceglieva come guida. Alcuni divennero suoi fidati com­ pagni e parteciparono a tutte le sue spedizioni. Stein dovette la scoperta dei siti piu promettenti a fonti d ’informa­ zione locali; con l’eccezione delle Grotte dei Mille Budda presso Tun Huang (Tunhwang o Tunhuang), la piu importante delle sue scoperte archeologiche, egli non tanto andò in cerca di luoghi determinati quanto visitò tutti i posti dove informazioni raccolte gli davano motivo di so­ spettare l’esistenza di tesori di rispettabile antichità. In questo modo potè visitare e esplorare le cosiddette Dandan Uiliq, le “Case con avo­ ri”, come le chiamavano i cacciatori di tesori, il sito di Nyia, e Endere, principali scavi della prima spedizione. Nei due viaggi seguenti Stein mise a profitto notizie raccolte nel frattempo. Nel deserto del Lop Nor segui la descrizione di Sven Hedin, che aveva già visitato le rovine di Loulan. 399

Lo studioso aveva perfezionato il suo metodo di lavoro ancora mentre si trovava a Khotan. Rendendosi conto che probabilmente avreb­ be perso tempo e fatica seguendo le vaghe informazioni ottenute dai cercatori di tesori, tanto più che anche informatori in buona fede pote­ vano metterlo su una strada sbagliata semplicemente perché non capi­ vano bene che cosa stesse cercando, decise di mandare simultaneamente un buon numero di esploratori a raccogliere campioni nei vari luoghi.

Iscrizione brahmi; da un decreto del re Piyadasi inciso su roceia nell’India nord-occidentale.

Mentre era in corso questa operazione, lasciò Khotan per svolgere ricer­ che geografiche e topografiche sulla catena del Kuenlun. Al ritorno, accertò che l'antica località di Khotan era nel luogo in cui sorgeva il vicino villaggio di Yotkan. Proprio allora tornò uno dei suoi gruppi di esploratori con frammenti d'affresco inscritti con caratteri indiani brahmi e un antico documento su carta in brahmi corsiva d'una varietà centroasiatica. I campioni erano indubbiamente genuini; li aveva raccolti Turdi, ex cacciatore di tesori divenuto uno dei fedeli esploratori di Stein. Cosi il sito di Dandan Uiliq, un centinaio di chilometri a nord-est di Khotan, fu scelto come primo oggetto d’una campagna di scavo. Con trenta uo­ mini e vettovaglie per quattro settimane, Stein si avventurò nel cuore del deserto. L'inverno, l'unica stagione in cui sia possibile scavare nelle distese sabbiose dei deserti asiatici, era nel suo pieno. Di notte la tem­ peratura scendeva a 15-20° sotto zero, e nella sua tenda Stein doveva rinunciare a scrivere e infilarsi sotto le molto pesanti coperte della cuc­ cetta, dove Dash aveva già cercato rifugio10. Turdi aveva guidato bene la spedizione. Nell'ampia distesa di rovine si riconoscevano edifici di notevole antichità. I frammenti d'affresco da 10 Ibid, pag. 276.

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lui portati a Khotan condussero i cercatori a un santuario buddista che i maomettani al seguito di Stein battezzarono appropriatamente “Tempio degli Idoli” . Stein mise in luce grandi pitture murali, in cui composizione e figure ricordavano molto da vicino i dipinti delle grotte di Ajanta nelPlndia centrale. Pochi esempi di quest'arte erano sopravvissuti in altri luoghi indiani. Gli affreschi di Dandan Uiliq attestavano dunque inequi­ vocabilmente che la cultura e la religione indiane erano fiorite anche in un'area tanto distante dalla loro patria d'origine. Ma Stein aspirava soprattutto al ritrovamento di manoscritti. In­ terpretò come un fausto presagio il fatto che gli affreschi buddisti raffi­ guravano pothi indiani, manoscritti di forma caratteristica in cui parec­ chi fogli oblunghi sono uniti insieme a fascio, perforati con un buco rotondo e legati con una corda. Nei primi tre giorni non fu trovato nulla del genere, ma il quarto giorno uno degli uomini scopri una stretta stri­ scia di carta con i miseri resti di quello che sembrava un testo sanscrito. Stein diede un premio all'uomo; non passò un'ora, e udì un grido risuo­ nare nell'edificio vicino: qualcuno aveva trovato un foglio di carta oblun­ go, di circa 32 centimetri per 10, perforato come un pothi e scritto in caratteri brahmi; Stein identificò però una lingua non indiana. Da quel momento, la frequenza dei ritrovamenti aumentò. Dap­ prima furono frammenti, per la maggior parte scritti in brahmi su pothi di carta e contenenti parti di tre testi sanscriti del canone buddista. Pre­ sto vennero in luce interi fasci di manoscritti, alcuni così fragili che non si potè tentare di staccarli prima che arrivassero al British Museum; i più lunghi riguardavano il dharma buddista. A. F. R. Hoernle, il filologo che decifrò e pubblicò tutto il materiale in brahmi trovato da Stein, identificò in mezzo a quella profusione di pothi un Sutra quasi completo riferibile al buddismo Mahayana, copiato intorno al V II secolo d. C. Una tale ricchezza di letteratura religiosa faceva apparire probabile che i cercatori avessero trovato una biblioteca monastica buddista. Il giorno di Natale Stein lavorò a altri scavi in un edificio lontano dal campo poco meno d’un chilometro, dove trovò documenti d'un tipo diverso, analogo a quello dei testi prodotti da Islam Akhun. La scrittura era brahmi corsiva, ma la lingua ignota; tutti erano su carta arrotolata. Stein pensò che potessero essere scritti nella lingua indigena, da gran tempo estinta, della regione di Khotan. Mentre esaminava quei testi, i suoi uomini gli portarono, dallo stesso locale in cui li aveva trovati, alcuni altri regali di Natale: i primi testi cinesi. Uno era un lungo bastoncello di tamarisco sul quale erano inscritte, in file verticali, lettere cinesi ormai sbiadite. Il secondo docu­ mento era quasi intatto: su carta sottile filigranata, fu poi identificato come un documento ufficiale d'ordinaria amministrazione ai suoi tempi, ma ora abbastanza significativo. Si trattava della petizione presentata da qualcuno a proposito d’un asino prestato dieci mesi prima e non resti­ 401

tuito. Si indicavano una data esatta, il sesto giorno del secondo mese del sedicesimo anno del periodo Tali, corrispondente al nostro 781 d. C. e anche la località: un posto chiamato Li Sieh. Cosi, in un colpo solo, Stein aveva scoperto anche l’identità del sito, o quanto meno il suo nome cinese.11 Le date dei documenti cinesi erano tutte comprese fra il 781 e il 790 d. C. Dal modo in cui erano stati depositati in quartieri di abita­ zione si poteva dedurre che il luogo era stato abbandonato poco dopo. Tale conclusione era confermata dalla presenza di monete cinesi di rame emesse non più tardi del 760. Inoltre, un passo degli Annali cinesi in­ forma che il controllo cinese sul bacino del Tarim venne meno intorno al 791 d. C. Questi ritrovamenti aiutarono Stein a passare in allegria il Natale, dividendo la cena natalizia con il suo piccolo socievole terrier. “Chissà,” si domandava più tardi, “se quegli stessi amici che quella sera pensarono affettuosamente a me, nel lontano Sud e nel remoto Occidente, possono capire quanto sia gaio il ricordo di un Natale passato nella solitudine e nel gelo del deserto”1112. Al principio di gennaio si rimise in moto. Aveva raccolto un buon numero di documenti in varie lingue, parecchi begli esemplari di arte buddista e molti manufatti, compresi utensili da scrit­ tura. Non si era limitato a scavare: aveva anche studiato l’ambiente fisico e geografico e le condizioni di vita esistenti in quell’avamposto del deserto. I frutteti disseccati, morti da oltre un millennio, indicavano che la città era stata un tempo rifornita da canali d’irrigazione recanti l’acqua da fiumi lontani molti chilometri. La causa di quella desolazione andava forse cercata nei disordini interni cinesi? Da Dandan Uiliq, Turdi guidò Stein a altre rovine nelle vicinanze. A metà gennaio la carovana raggiunse Keriya, un’oasi attualmente abi­ tata, dove Stein potè riposare e stendere un rapporto per una pubblica­ zione scientifica. Non trascurò tuttavia di informarsi sulle possibilità di trovare cose antiche, e il giorno stesso dell’arrivo spigolò la notizia che c’erano rovine promettenti più a est, nella zona desertica intorno a Niya. Quando parecchie persone gli confermarono quelle voci, Stein decise di allungare il suo itinerario spingendosi più lontano da Khotan di quanto avesse progettato inizialmente e visitando Niya, per lui tanto più allet­ tante in quanto Hsiian Tsang vi era passato nel viaggio verso il Lop Nor e la Cina. Il viaggiatore cinese aveva allora definito Niya l’avamposto più orientale del Regno di Khotan13. A Niya, uno degli svegli giovanotti della spedizione provvide senza perder tempo a stringere amicizia con un abitante in possesso di due 11 Stein, On Ancient Central-Asian Tracks, Londra, Macmillan & Co., 1933, pag. 67. 12 Stein, Sand-buried Ruins of Khotan, pag. 314. 13 Ibid., pag. 342.

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tavolette di legno con caratteri inscritti, provenienti dalle rovine che Stein si proponeva di esplorare. Portate a Stein, le tavolette si rivelarono testimonianza di un’altra fase ancora nelPampia gamma epigrafica del­ l’antico Turkestan. Per fattura e per scrittura non somigliavano a nes­ suno dei testi trovati fin allora: lo studioso vide davanti a sé i caratteri di un’antica scrittura, la scrittura kharoshthi, usata nell’estrema regione nord-occidentale indiana pochi secoli prima e dopo l’inizio della nostra era. La si conosceva dal 1837, grazie a iscrizioni che ne dimostravano la stretta connessione con i sovrani Kushana dell’India antica. Alcune monete di Khotan risalenti al I e II secolo d. C. recavano caratteri kharo­ shthi, e un codice di scorza di betulla acquistato nel 1892 a Kho­ tan era scritto negli stessi caratteri. I documenti in kharoshthi in­ dicavano, inoltre, la grande antichità delle rovine che Stein si preparava a visitare. Ulteriori ricerche a Niya rivelarono che l’uomo al quale si doveva il ritrovamento delle tavolette era un altro abitante del villaggio, l’intra­ prendente Ibrahim, mugnaio e cacciatore di tesori nel tempo libero. L ’an­ no prima aveva trovato parecchie tavolette di quel tipo, ma giudicandole inutili e prive di valore ne aveva gettato via alcune lungo la strada, e ne aveva date altre ai suoi bambini perché ci giocassero; queste ultime natu­ ralmente non avevano tardato a essere distrutte. Il povero Ibrahim ades­ so non poteva darsi pace della propria imprevidenza; e tanto più amara­ mente si penti quando vide il signore europeo compensare l’uomo che aveva raccolto due degli strani oggetti da lui gettati via. Assicuratisi i servigi di Ibrahim come guida, una decina di giorni dopo Stein con la sua carovana, camminando sotto un cielo limpido lungo il corso di un fiume disseccato, raggiungeva le rovine. Un’ispezione preliminare mostrò che il sito era molto più imponente di Dandan Uiliq e notevolmente più antico. La prova venne da una delle prime case in cui Stein entrò e dove vide elaborati intagli del più arcaico tipo del Gandhara. Il mattino successivo Stein si affrettò a ispezionare l’edificio dove Ibrahim diceva di aver preso le tavolette in kharoshthi. Non era tran­ quillo: forse Ibrahim era solo un fanfarone, oppure ci aveva ripensato e aveva deciso di tenere la sua scoperta per sé, ora che sapeva quanto va­ lore attribuissero gli europei a quelle tavolette di legno. Ma, come scrisse poi, “i sentimenti misti di speranza e diffidenza con cui affrontai le ri­ cerche presto si cambiarono in gioiosa certezza. Un chilometro e mezzo circa a est del campo avvistai le rovine verso le quali Ibrahim ci stava guidando, su quello che appariva come un piccolo terrazzo alto sopra le depressioni del terreno provocate dall’azione erosiva del vento. Nel salire il pendio raccolsi in una sola volta tre tavolette che giacevano fra i rot­ tami di legname massiccio, unici resti di parti totalmente erose della struttura in rovina; giunto in cima, con gioia ne trovai molte altre sparse

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in una delle stanze di cui i resti delle pareti permettevano di riconoscere ancora chiaramente la pianta”14. Gli uomini di Stein ripulirono un locale delPedificio e prima di sera trovarono non meno di ottantacinque tavolette, per lo più in eccellente stato di conservazione. Erano tutte di legno e scritte da destra a sinistra in caratteri kharoshthi. Nella maggioranza erano fatte di due pezzi. Quasi tutte quelle trovate in quel primo giorno erano a forma di cuneo, legate in coppie da una corda che passava intorno all’estremità più larga e attraverso un foro alPestremità appuntita. Quelle in cui la corda era intatta recavano su un lato un sigillo di argilla, “applicato sopra la corda con un apposito strumento quadrato” . Le superfici interne delle tavolette unite in coppie erano coperte di scrittura, mentre alPesterno, come sulle moderne buste di lettere, si leggeva solo una breve scritta, che faceva immediatamente pensare al nome del destinatario o del mittente15. Ap­ pariva dunque probabile che le tavolette gemelle sigillate fossero docu­ menti ufficiali, contratti o lettere. Ulteriori scavi misero in luce testi dello stesso tipo e molti altri diversi per forma e misura. Molte tavolette di legno isolate, di forma oblunga, erano scritte su entrambi i lati ed erano fornite di un manico; altre tavolette oblunghe o rettangolari, ac­ coppiate, consistevano in un pezzo inferiore con orli rialzati in cui il pezzo superiore e più piccolo si poteva infilare come un cassetto. Anche queste erano tenute insieme con corde sopra le quali era applicato un sigillo d'argilla. I sigilli d’argilla erano già in sé straordinari; di purissimo disegno classico greco-romano, vi si riconoscevano impresse divinità come Pallade Atena e Eros. Fra quelle rovine del III secolo, a mezza strada fra il Mediterraneo e l’Oceano Pacifico, ecco dunque nuove testimonianze della diversità e della fusione di influenze culturali16. In tutto il sito di Niya non si trovò un solo frammento di carta: chiaro indizio del fatto che il luogo era stato abbandonato in data relativa­ mente antica. Benché la carta fosse già stata inventata in Cina, era oc­ corso un tempo assai lungo perché si diffondesse fino nel Turkestan orientale. Le case mostravano chiaramente di non essere state abbandonate e distrutte come il caso voleva. L ’esodo degli abitanti doveva essere avve­ nuto in buon ordine, come indicava il fatto che i partenti si erano lasciati dietro ben poche cose di valore. Ma le case non erano Punico luogo in cui Stein potesse cercare: come Grenfell e Hunt a Ossirinco, egli volse la sua attenzione ai mucchi di rifiuti. Questi restituirono altre novità epigrafiche, come un documento su legno questa volta scritto in cinese 14 Ibid., pag. 355. 15 Stein, On Ancient Central-Asian Tracks, pag. 77. 16 Stein, Sand-buried Ruins of Khotan, pag. xvn.

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e un documento ripiegato, in caratteri kharoshthi, su cuoio. Che uno scriba di lingua indiana e presumibilmente di religione affine alPindiana avesse usato pelle di bue o di mucca era a dir poco sorprendente. Lo scavo sistematico dei mucchi di rifiuti riportò tuttavia in luce per lo più tavolette di legno (alla fine erano più di duecento) sparse fra detriti di ogni genere. Il legno era senza dubbio il materiale da scrittura più usato, e le sue forme caratteristiche erano state introdotte nel Turkestan dai Cinesi. La compattezza del conglomerato di rifiuti aveva contribuito a ripa­ rarne il contenuto dalPazione erosiva del vento del deserto: giusto com­ penso per il poco rispetto con cui erano state trattate quelle scritture adesso tanto preziose. Questo pensiero consolò Stein mentre lavorava — per tre giorni interi, con le dita intirizzite dal freddo — a classificare, ripulire, catalogare con cura tutti i pezzi al fine di facilitare il compito di decifrazione dei documenti appaiati e di accertarne Lordine cronologico. Non era esattamente un lavoro piacevole. Un freddo vento di nord-ovest sollevava dal mucchio di rifiuti, e lo costringeva a inspirare, “odori ancora pungenti dopo tanti secoli e dosi generose di microbi per fortuna ormai >>17 morti . A Niya Stein aveva sentito parlare di un altro sito, le rovine di Endere poco più di seicento chilometri a est di Khotan. Un antico tempio buddista divenne la scena di nuovi ritrovamenti di manoscritti; e siccome non era cosi antico come Niya, qui predominava la carta. Stein riportò in luce manoscritti sanscriti e testi in scrittura brahmi corsiva nelPidioma non indiano (“di Khotan” ) già trovato in precedenza. Scopri ai piedi di una delle statue varie scritture buddiste, a quanto pareva ivi depositate come offerte religiose, mentre altri pezzi di quello che era stato un mano­ scritto unico erano curiosamente distribuiti davanti a parecchie imma­ gini: sembrava che il donatore avesse cercato di propiziarsi più di una divinità distribuendo equamente vari frammenti del suo dono. Quando più tardi i frammenti furono esaminati e rimessi insieme al British Mu­ seum, si vide che facevano parte della versione tibetana d’un trattato filosofico buddista del quale era andato perso Poriginale sanscrito. An­ cora una volta, gli scavi di Stein avevano arricchito la documentazione letteraria e linguistica relativa alPAsia centrale; al quadro già abbastan­ za complesso veniva ora ad aggiungersi il tibetano. Inoltre il manoscrit­ to non solo restituiva il testo di un’opera religiosa perduta ma era anche il più antico esemplare noto di scrittura tibetana. Mancava poco tempo all’inizio della stagione in cui le tempeste di sabbia avrebbero reso impossibile lavorare nelle località del deserto, troppo esposte. Endere segnò quindi il punto estremo orientale della prima campagna di Stein. Sembrava anche logico non spingersi più oltre:17 •

17 Ibid., pag. 388.

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Stein pensava di avere raggiunto la linea divisoria di là dalla quale le in­ fluenze indiane cedevano il posto a quelle cinesi18. Spedizioni successive lo indussero a rivedere questa sua opinione: l ’influenza delPIndia e persino dell’Occidente classico era penetrata molto più in là, fino nel deserto del Lop Nor e bene addentro nella Cina propriamente detta. Era appena finita la sua prima spedizione nell'Asia centrale, che già Stein ne meditava una seconda, il cui preciso scopo era trovare altre te­ stimonianze archeologiche e topografiche della diffusione del buddismo indiano nel Kansu, la provincia nord-occidentale cinese19. Non occorre dire che Stein si proponeva anche di seguire le tracce di Hsiian Tsang e di Marco Polo. Avrebbe anche fatto buon uso di quanto un amico un­ gherese gli aveva detto anni prima a proposito della “porta” occidentale della Cina, l’oasi di Tun Huang. In quest’impresa, finanziata in parte dal British Museum, Stein aveva a sua disposizione più tempo e più mezzi; aveva alle spalle un’esperienza già notevole, e inoltre si era assicurato l’aiuto di un segretario cinese che, “con l’autentico senso storico innato in ogni cinese colto..., si trovò a suo agio nel lavoro archeologico come un anatroccolo nell’acqua”20. Stein scavò in alcuni dei luoghi che aveva già esplorati e svolse anche parecchie nuove ricerche. Avvicinandosi al sito di Niya, provò una sensazione gioiosa nel ritrovarsi in mezzo agli ormai noti “tronchi disseccati di pioppi e alberi da frutto che fiorirono quando ancora esisteva una Roma imperiale”21. Raccolse ancora un ricco bottino di documenti in kharoshthi; in un edificio trovò quello che doveva essere stato un intero archivio. Come altrove, “i ritrovamenti di mano­ scritti diventarono così frequenti che... ben presto dovetti rinunciare al tentativo di numerarli tutti uno per uno”22. Dappertutto, in mobili, stuc­ chi, pannelli di legno, oggetti d’arte riconosceva lo stile greco-buddista del Gandhara. Tanti particolari - le case ben costruite, gli utensili, i frutteti, le strade, per non parlare della ricchezza di documenti - consen­ tivano di ricostruire le condizioni di vita. Stein non aveva dubbi sul fatto che là era fiorita un tempo una progredita civiltà, ispirata dalla religione buddista ma molto sensibile a influenze ellenistiche. Dopo aver rivisitato Niya, Stein prosegui verso est, oltre Endere e l ’antica oasi di Charkhliq (Charkhlik), spingendosi nel deserto per circa 1.600 chilometri oltre il termine dell’itinerario percorso le volte prece­ denti. Era ormai nel territorio del Lop Nor. Questo letto salato - avan­ zo d’un mare preistorico quasi tutto prosciugato che fu forse parte del­ l ’immenso Mesogeo ipotizzato dai geologi - che inghiotte il morente fiume Tarim era stato traversato da Marco Polo e dai Cinesi avventuratisi 18 19 20 21 22

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Ibid., Stein, Ibid., Stein, Ibid.,

pag. 422. On Ancient Central-Asian Tracks, pag. 193. pag. 48. Ruins of Desert Cathay, Londra, Macmillan & Co., 1912, voi. I, pag. 270. pag. 270.

nell’Asia centrale. Nessuno però aveva mai cercato di ricostruire la strada esatta e alcune parti settentrionali non erano mai state esplorate. Il primo obiettivo erano le rovine di Loulan descritte da Sven Hedin. Ma lungo la strada per il Lop Nor, circa ottanta chilometri a nord-est di Charkhliq, Stein fece tappa alle rovine di Miran: un posto troppo buono per oltrepassarlo senza fermarsi. Sotto la sferza di venti gelati, mentre il termometro scendeva a temperature subartiche, Stein e i suoi uomini cominciarono a scavare. Una delle prime cose a cui dedicarono le loro attenzioni fu un gigantesco mucchio di rifiuti, che si rivelò ricco di tesori archeologici ma eccezionale anche per la quantità e varietà di immondizie veramente degne di questo nome che ospitava. Era pieno di documenti tibetani, prova inequivocabile di un’occupazione tibetana dell’area in­ torno all’V III o IX secolo d.C.23 Dopo l’eclissi, nell’V III secolo, del potere cinese nel bacino del Tarim, Miran era diventata, secondo tutte le apparenze, un forte tibetano a guardia della strada che congiungeva Tun Huang nella Cina occidentale con le città delle oasi meridionali del­ l’Asia interna. Stein, che parla con umorismo della sua familiarità con i mucchi di rifiuti, assicura che quelli di Miran erano una cosa veramente da rivol­ tare lo stomaco. “Solo l’assoluta indifferenza” alla sporcizia poteva avere indotto gli occupanti tibetani a trasformare i loro stessi quartieri di abi­ tazione in immondezzai, certuni pieni fino al tetto. “Ho avuto occasione,” scrive scherzosamente, “di farmi un’esperienza piuttosto vasta in fatto di antichi cumuli di rifiuti, e ho imparato a diagnosticarne la natura. Ma per abbondanza di autentiche immondizie e per l’intensità di un fetore che ha resistito ai secoli metterò sempre al primo posto i ‘rifiuti’, chiamiamoli così, dei guerrieri tibetani. Più d’un anno dopo, quando la­ voravamo a portare in luce i resti di un piccolo forte in rovina sulla collina di Mazartagh a nord di Khotan, a oltre ottocento chilometri di distanza, diagnosticai (e la diagnosi si rivelò esatta) un’occupazione tibe­ tana solo dall’odore dei rifiuti, prima ancora di aver trovato testimo­ nianze archeologiche24.” Per quanto poco gradevole fosse il modo del deposito, i documenti tibetani furono i benvenuti. Stein ne raccolse complessivamente più di un migliaio, nella maggioranza senza dubbio non molto importanti; ma la lingua quotidiana in cui erano scritti, e della quale in precedenza si conosceva pochissimo poiché praticamente tutta la letteratura tibetana è di elevato carattere religioso, fu una rivelazione per gli studiosi. Gia­ cimenti dello stesso genere dovevano restituire qualcosa di ancor più raro e prezioso: un fascio di carte scritte in caratteri turchi cosiddetti “runici” e simili per scrittura e lingua alle famose iscrizioni di Orkhon, a sud 23 Stein, On Ancient Central-Asian Tracks, pag. 112. 24 Ibid., pag. 114.

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del lago Baikal: i più antichi scritti turchi noti fin allora, decifrati nel 1893 dallo studioso danese Vilhelm L. P. Thomsen. Al ritorno, Stein spedì a Thomsen anche i suoi documenti turco-runici. Miran però non aveva ancora restituito tutti i suoi tesori. Varano avanzi di edifici molto più antichi, alcuni dei quali probabilmente in rovina già quando erano arrivati gli invasori tibetani; e qui Stein fece alcune fra le più stupefacenti scoperte dei suoi quarantanni d ’esplora­ zioni. Subito, e contro ogni sua attesa, trovò torsi di grandi proporzioni nel puro stile greco-buddista del Gandhara. Al piede duna statua rac­ colse un manoscritto su foglia di palma, in lingua sanscrita e in caratteri brahmi. Non poteva essere stato scritto in altro luogo che in India, e quindi doveva essere stato portato da laggiù, attraverso i deserti dell’Asia centrale, fino ai margini della Cina. Risaliva, come dimostrava lo stile, per lo meno al IV secolo a. C. Poi Stein notò una piccola stupa buddista mal ridotta dall’erosione e quasi completamente sepolta sotto un tumulo di terra. Lo scavo mise allo scoperto resti di stucco dipinto, e quando fu raggiunta una maggiore profondità Stein rimase stupefatto nel vedere su una parete bellissimi angeli alati. “Come potevo aspettarmi di trovare presso le desolate sponde del Lop Nor, nel più profondo cuore dell’Asia, una tale rappresentazione classica dei Cherubini? Come si giustificava la presenza di quelle teste piene di grazia, rievocanti scene e immagini dell’iconografia cristiana, sui muri di quello che era stato senza alcun dubbio un santuario buddi­ sta25? ” Si riconoscevano echi delle fanciulle e degli adolescenti egiziani dei pannelli cerati del Fayyum, echi di arte bizantina; Pompei non sem­ brava lontana. Se poi Stein avesse conosciuto i dipinti di Dura Europo, avrebbe certamente colto la sorprendente analogia con il loro ibrido stile mediterraneo-asiatico. Via via che scopriva un numero sempre maggiore di pitture murali raffiguranti scene della vita di Budda, ma decisamente occidentali per il tipo fisico dei personaggi rappresentati, lo studioso colse anche qualche accenno di tratti semitici e avvertì la possibilità di influenze della pri­ mitiva iconografia cristiana. Per un momento gli parve quasi di essere stato trasportato per magia in qualche antica villa in Siria o in una pro­ vincia orientale dell’Impero romano. Poi, in un corridoio dello stesso santuario, fece un’altra scoperta che lo aiutò a datare gli affreschi: resti di stendardi votivi in seta con iscrizioni in kharoshthi esattamente dello stesso tipo dei documenti su legno rinvenuti nel sito di Niya, abbando­ nato nel III secolo d.C.26 La maggior parte dei manoscritti trovati nel Turkestan orientale attestava la penetrazione dell’influenza indiana attraverso l’Asia centrale 25 Stein, Ruins of Desert Cathay, voi. I, pag. 457. 26 Stein, On Ancient Central-Asian Tracks, pag. 119.

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in direzione della Cina. Quegli affreschi invece (anche più che lo stile del Gandhara nella scultura buddista) testimoniavano del trapianto di influenze classiche, evidentemente sotto auspici buddisti. La strada per Loulan, faticosissima, mise a dura prova uomini e ani­ mali. Raffiche di vento soffiavano senza interruzione dall’altopiano mon­ golo nel nord; la temperatura saliva raramente sopra i 15 gradi sotto zero. I cammelli portavano carichi di circa due quintali di ghiaccio che dovevano fornire acqua sufficiente per parecchie settimane nella distesa salata e completamente arida. La carovana dovette traversare terrazzi erosi dal vento e tagliati da profondi crepacci, e le zampe dei poveri ani­ mali diventarono una piaga; secondo un vecchio sistema, gli uomini prov­ videro a “risuolarle” cucendo pezzi di cuoio alla pelle viva. Le bestie reagivano con calci alla primitiva operazione chirurgica, ma il sistema si rivelò efficace. Poco dopo essere entrato nel Lop Nor seguendo la strada percorsa tanti secoli innanzi da Marco Polo, Stein trovò sull’antico letto del lago armi dell’età della pietra e rozze ceramiche; più in là, raccolse una serie

Documenti cinesi su carta e legno provenienti da Loulan; II I secolo d.C.

di monete cinesi di rame di epoca Han, secondo tutte le apparenze cadute da una borsa bucata appartenente a qualcuno che aveva viaggiato su quella strada un paio di millenni prima. Anche in quella regione, fra le più inospitali del mondo, l’uomo aveva dunque lasciato le sue tracce. La carovana sostò a Loulan per undici giorni. Stein aveva saggia­ mente piantato la sua tenda ai piedi di una stupa in rovina, ma anche così rischiò di essere trascinato via dal vento durante la notte. Gli scavi portarono in luce documenti cinesi su legno e carta e documenti kharoshthi, sempre su legno e carta: altra prova, questi ultimi, della diffusione di questa scrittura indiana nei primi secoli della nostra era, e testimonianza della notevole omogeneità linguistica prevalente in quel tempo da Khotan 409

a Loulan, sull’estremo margine orientale del bacino del Tarim. I docu­ menti imperiali cinesi trovati nell’area avrebbero fornito particolari am­ ministrativi e militari di notevole importanza. Un ordine imperiale di ridurre le razioni di cibo ai soldati di stanza in questo accampamento militare era indizio del rapido declino della potenza cinese sulla fine del periodo Han. Quasi tutti i documenti risalivano agli anni fra il 263 e il 270 d.C. Grazie a essi il sinologo francese Edouard Chavannes avreb­ be dimostrato in modo conclusivo che Loulan era stata un luogo di guar­ nigione fortificato di truppe cinesi che, come cinque secoli piu tardi i tibetani di Miran, erano state messe a sorvegliare l’importantissima strada dell’Asia interna. Oltre ai testi su legno e carta Loulan restituì anche documenti su seta, prova del fatto che prima dell’invenzione della carta la seta era stata uno dei principali materiali da scrittura usati in Cina. Un’altra curiosità che venne in luce nel primo edificio in rovina fu una piccola balla di seta giallina. Altri manufatti permisero a Stein di dimostrare che la balla era di misura standard e rappresentava “esattamente la forma in cui l’antico e famosissimo prodotto dell’industria cinese veniva abitual­ mente trasportato nell’Occidente dell’età classica”27. Nulla dello stesso genere era venuto in luce prima d ’allora. Dal punto di vista epigrafico il reperto più interessante fu una stri­ scia di carta coperta ancora da un’altra scrittura sconosciuta. Stein notò subito che era scritta al modo semitico, cioè da destra a sinistra, e colse una lieve somiglianza con l’aramaico del Vicino Oriente; più tardi la lingua sarebbe stata identificata come sogdiano, parlato un tempo nella regione di Samarcanda e Bokhara. Partendo da Loulan (il suo nome originario era stato Kroraina, evi­ dentemente impronunciabile per un cinese) Stein attraversò il deserto del Lop Nor, longitudinalmente, per 600 chilometri, in direzione di Tun Huang. Mentre Marco Polo aveva percorso la stessa distanza in ventotto tappe, Stein riuscì a farlo in diciassette. Per fortuna, le difficoltà furono minori di quelle che aveva dovuto affrontare sulla strada di Loulan. La carovana non incontrò, lungo il percorso, un essere umano. La desolazione non avrebbe potuto essere più completa. Non v’era dunque da meravigliarsi che Marco Polo e i suoi predecessori cinesi avessero immaginato tutta una folla di spiriti a popolare quel deserto e a condurre fuori strada i viaggiatori. Stein era dedito, naturalmente, a pensieri e riflessioni d’altro genere. Non pareva che quel deserto inabitabile potesse offrire alcunché di stimolante per un archeologo; ma v’era campo per osservazioni d’altro genere, e Stein potè studiare i cambiamenti nei letti di laghi e corsi di fiumi. Le rive di certe paludi salmastre si trovavano 27 Ibid., pag. 138.

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oltre un grado di latitudine piu a est dei limiti indicati dalle carte geogra­ fiche disponibili. Stein registrò le testimonianze di un passato geologico in cui il letto oggi asciutto del Sulo (Su-lo) era unito al grande Mare di Lop; in quei giorni l ’area di drenaggio del fiume Tarim si stendeva senza dubbio dal centro deir Asia, attraverso il Pamir, fino allo spartiacque del Pacifico2829. Immerso in queste riflessioni d’ordine geografico, Stein non sospet­ tava di stare per fare due importantissime scoperte archeologiche. Sapeva dagli antichi annali della dinastia Han che il traffico cinese alla volta di Loulan aveva un tempo preso le mosse dalla famosa '‘Porta di Giada” , una stazione fortificata di cui nessuno piu conosceva il sito. Prima di entrare nel Lop Nor, aveva sperato che altri posti di guardia o di ve­ detta potessero condurlo alla Porta di Giada. Un viaggiatore francese che lo aveva preceduto aveva parlato di alcune rovine sparse. Se esiste­ vano, potevano trovarsi nell’interminabile distesa del deserto? Erano forse sull’antica strada? Erano abbastanza antiche da avere qualche rap­ porto con la Porta di Giada, vecchia di due millenni? Stein si trovava nel deserto del Lop Nor da due settimane quando una sera, mentre lui e i suoi uomini stavano attraversando un altopiano ghiaioso, l’archeologo notò a circa un chilometro e mezzo di distanza dalla tradizionale pista per le carovane una specie di monticello, e si affrettò a raggiungerlo. Il tumulo si rivelò per una torre di guardia assai ben conservata, alta circa sette metri; la solidità della costruzione, fatta di mattoni seccati al sole e rami di tamerisco, ne dimostrava la grande antichità. La forma e la posizione facile a difendersi, sulla riva di un profondo letto di fiume oggi asciutto, indicavano che si trattava di un avamposto militare. Adiacenti erano le rovine dei quartieri dei soldati. Piu tardi si trovarono molte altre torri, molte delle quali però quasi completamente distrutte dall’erosione. Un giorno, mentre osservava i dintorni dall’alto d ’uno di quei posti di vedetta, gli occhi di Stein cad­ dero su quella che appariva come una fila regolare di fasci di canne sul terreno liscio; seguendo la fila per breve tratto fino all’orlo dell’altopiano lo studioso vide che “proseguiva perfettamente diritta verso un’altra torre visibile a circa cinque chilometri di distanza verso est, e assumeva la for­ ma inequivocabile di un muro quando attraversava una depressione”"'. Aveva scoperto un muro cinese, un antico baluardo di frontiera - o limes, come preferì chiamarlo con nome romano - che finiva oltre quella che più tardi lo stesso Stein identificò come la Porta di Giada, presso l’antica strada del deserto. Nella sua terza spedizione lo avrebbe seguito per quasi mille chi­ lometri fino a Etsin Gol nel Kansu. Naturalmente, buona parte della 28 Ibid., pag. 166. 29 Ibid., pag. 169.

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linea fortificata era stata distrutta dalPerosione. Gli studi di Stein non solo ne stabilirono la lunghezza, ma chiarirono anche perché era stata costruita e approssimativamente a quale data. Il limes era stato eviden­ temente eretto per proteggere sia il traffico commerciale, sia la strada militare che portava all'interno dell'Asia, contro le incursioni di predoni barbari provenienti dal Gobi, a nord. Risaliva alla stessa epoca della prima grande espansione cinese verso ovest nel II secolo a. C. Mentre la Grande Muraglia cinese era servita a scopi esclusivamente difensivi, il limes era stato uno strumento dell'espansione della Cina: come i romani dalla Scozia alla Siria, ma a una data più antica, i Cinesi della dinastia Han avevano provveduto a difendere le recenti conquiste con una catena di postazioni militari. Altra pratica analoga ai sistemi romani era quella di reclutare tra i “barbari” il grosso dei soldati di stanza nei posti di guardia: questo particolare fu fornito da documenti sepolti. Gli scavi condotti nelle torri di guardia e vicino a esse condussero a notevoli scoperte epigrafiche grazie alle quali si potè raccogliere una ricca messe di dati su imprese militari, movimenti di truppe, l’ammini­ strazione militare e civile cinese, l'abbigliamento e il vitto dei soldati, il traffico commerciale. Stein naturalmente era soprattutto ansioso di tro­ vare documenti che gli permettessero di stabilire l'età del muro. Ne scopri presto uno, una tavoletta cinese di legno con la modesta iscrizione: “Sacco per gli abiti di uno chiamato Lu tingh-shih” . Il legno era chiara­ mente molto antico, e cosi il tipo di scrittura. E questo fu solo il primo elemento. Come sempre, Stein constatò che i mucchi di rifiuti erano pieni di cose interessanti. Questi contenevano documenti cinesi scritti su strette assicelle di legno, di solito in una sola colonna verticale di carat­ teri; parecchi erano datati. Stein li decifrò con l'aiuto del suo segretario cinese; risalivano al I secolo della nostra era e la data di uno corrispon­ deva a quella della nascita di Cristo. Per Stein fu un'immensa soddisfazione tenere in mano quello ch'era il più antico manoscritto di un testo letterario cinese (il Chi-chiu-chang) ritrovato fino a quel momento30. Ancor più gradevole fu la sorpresa che gli riservarono certi piccoli rotoli contenenti lettere su carta accurata­ mente piegate. Le lettere erano interessanti da parecchi punti di vista: in primo luogo perché scritte negli stessi caratteri, apparentemente aramaici, che Stein aveva trovato a Loulan, e in secondo luogo perché ri­ salivano probabilmente a una data più tarda della metà del II secolo d. C., a giudicare dagli altri documenti databili insieme ai quali s'erano trovate sepolte nei cumuli di rifiuti. In tal caso avrebbero rappresentato i più antichi esemplari di carta noti, prodotti forse nel giro del primo paio di generazioni dopo l'invenzione di questo nuovo materiale da scrittura 30 Stein, Ruins of Desert Cathay, voi. II, pag. 155.

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(avvenuta, secondo la tradizione cinese, nel 102 o 105 d. C.). Negli ultimi anni però, parecchi esperti hanno rimesso in discussione l’età di quei fogli di carta, relegandoli al III secolo. La lingua in cui le lettere erano scritte fu identificata come sogdiano (un idioma iranico-scita estin­ to) da un amico inglese di Stein, Arthur Cowley. Anche se oggi si dubita che siano i piu antichi documenti su carta a noi noti, queste lettere van­ tano pur sempre certi titoli di distinzione, come quelle che furono scritte in un’antica lingua indo-europea, in caratteri semitici, su materiale ci­ nese, dai membri di una specie di legione straniera cinese. Coloro che le scrissero erano probabilmente buddisti. Sulla base di questi reperti e di altri testi e documenti, come per esempio i frammenti su seta in carat­ teri kharoshthi, Stein poteva a ragione dichiarare: “Pareva che tre civiltà, una orientale, una occidentale, una meridionale, si fossero ac­ cordate per lasciare le loro tracce sotto forma di documenti scritti in questa solitaria stazione di guardia nel deserto, e per mostrarci nello stesso tempo quale fu il più antico materiale da scrittura usato31.” L ’affermazione riassume i risultati delle prime fasi dell’“ardimentosa incursione” compiuta da Stein nel Turkestan cinese. I documenti da lui trovati sarebbero serviti a illuminare le influenze, i rapporti, le correnti sotterranee di un millennio in cui l ’Asia interna fu il terreno d’incontro di religioni, lingue, razze e culture diverse, a riportare in luce più d’un capitolo perduto della storia del passato asiatico, e demolire la concezione parrocchiale d’una storia incentrata sull’Europa. Da siti abbandonati da secoli al deserto, Stein aveva tratto le testimonianze scritte di una civiltà cosmopolita caratterizzata da una notevole ricchezza di lingue e scritture. I documenti kharoshthi da lui trovati erano i più antichi documenti su legno in una scrittura indiana. Essi arricchirono il numero degli esempi disponibili di quella scrittura e suggerirono la pos­ sibilità che il Turkestan orientale fosse stato colonizzato da gruppi pro­ venienti dall’India settentrionale prima dell’inizio dell’era nostra, forse in connessione con il dominio Kushana in India e la diffusione del bud­ dismo. Inoltre documenti ufficiali in kharoshthi permisero di ricostruire una cronologia della regione di Khotan fornendo nomi e date di sovrani consecutivi. La lingua più comunemente usata era l’antico pracrito in­ diano, ma alcuni testi kharoshthi erano completamente in sanscrito. I documenti trovati da Stein permisero anche di ricostruire la lingua da gran tempo perduta di Khotan, un idioma iranico. Tali documenti comprendevano testi buddisti e poemi religiosi, racconti popolari e scritti di medicina. Più tardi furono identificati manoscritti in altri dialetti “tocarici” affini, parlati un tempo nel bacino del Tarim. Un’altra lingua iranico-scita dimenticata, quella dei Sogdiani, resuscitò da documenti che fu possibile decifrare. Prima della seconda spedizione di Stein non se 31 Ibid., voi. II, pag. 115.

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ne sapeva nulla o quasi, eppure la sua onnipresenza faceva apparire pro­ babile che un tempo fosse stata una specie di lingua franca in buona parte dell'Asia centrale. Gli uiguri, originari della Siberia, avevano adattato l’alfabeto sogdiano alla loro lingua turca. Tanto diverse quanto le lingue erano le scritture; fossero usate da un turco o da un buddista indiano, da un monaco tibetano o da un guer­ riero iranico, in ultima analisi derivavano tutte - benché attraverso com­ plesse fasi intermedie - dall'alfabeto fenicio-aramaico, nato sulle rive del Mediterraneo, in Siria. Solo il cinese stava da sé. La varietà dei materiali da scrittura rappresentati era anch’essa no­ tevole e includeva materiali fin allora poco noti o ignoti del tutto; le popolazioni del Turkestan orientale avevano infatti scritto su scorza d ’albero, foglie di palma, cuoio, pezzi di bambù, legno di tamarisco, seta

Libri fatti con striscioline di legno. Le scoperte di Stein fornirono molti particolari sui ma­ teriali cinesi da scrittura e la fabbricazione di libri prima che fosse inventata la carta. Dopo la seta, il legno era il materiale da scrittura preferito in Cina. Strette strisce di legno (origi­ nariamente di bambù) erano usate per ogni tipo di documenti e messaggi. In base alle scoperte di Stein fu possibile farsi un’idea del modo in cui le varie strisce erano riunite cosi da formare una sequenza coerente. Negli schizzi qui sopra riprodotti vediamo un in­ sieme di strisce appartenenti a un calendario del 63 d.C. In alto a sinistra: il “libro” aperto. In alto a destra, piegatura a fisarmonica. Sotto, il “libro” chiuso.

e, molto prima che in qualsiasi regione occidentale, carta. Parecchi di questi materiali avevano finito per essere associati con una forma standard a seconda del tipo di comunicazione di cui erano strumento. Il recupero a opera di Stein di bastoncelli, di tavolette in legno rettangolari o a forma di cuneo e unite due a due, di fogli di seta e di carta lungo la frontiera della Cina, illuminava l ’evoluzione del libro e della scrittura cinese, evoluzione della quale si avevano prima cosi poche testimonianze. Alcuni dei documenti su legno conservavano probabilmente i più antichi manoscritti cinesi noti, tra cui estratti di dizionari e di opere di medicina

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e di magia32. Il Turkestan orientale aveva dunque svolto nei confronti delPIndia buddista e della Cina la stessa funzione svolta dall'Egitto nei confronti dell'antichità classica e del cristianesimo: aveva assicurato la sopravvivenza di alcuni loro testi altrove andati perduti. Le capacità di conservazione delle sabbie e del clima nell'Asia in­ terna sono forse superiori a quelle proprie del suolo e del clima egiziani; come notava Stein, “il piu sottile strato di ghiaia era bastato a conser­ vare perfettamente intatti gli oggetti più deperibili”33. Tornando in un sito remoto che aveva visitato sette anni innanzi, l'esploratore vi potè ancora distinguere le impronte lasciate da lui e dal suo cane, Dash II. Una pista, come abbiamo visto, era chiaramente segnata da monete di rame dell'epoca Han lucenti come se fossero appena uscite dalla zecca. In una tomba Stein rinvenne dolci di fattura accurata, vecchi di circa 1300 anni; i suoi animali mangiavano paglia non meno antica. Di regola, i deserti non sono certo i posti più favorevoli all'evolversi di una fiorente vita culturale, benché paradossalmente siano quelli che offrono le condizioni migliori per la conservazione dei resti di una civiltà. In archeologia, produttività culturale e presenza delle testimo­ nianze di essa non coincidono necessariamente. Le zone aride che po­ trebbero possedere le necessarie qualità fisiche devono però anche essere vicine ai luoghi in cui fiorirono società evolute e devono avere avuto rap­ porti con queste ultime per poter essere considerate fonti potenziali di documenti sepolti. L'Egitto e il Turkestan cinese, ciascuno a suo modo, soddisfano mirabilmente a entrambe queste condizioni. Nel desolato Turkestan cinese Stein aveva trovato una regione non soltanto molto diversa ma anche considerevolmente più vasta della valle del Nilo o della Mesopotamia. Il territorio era anzi cosi vasto che le ri­ cerche, se volevano avere un senso, dovevano abbracciarne una parte proporzionata. Essendo il primo esploratore scientifico giunto nell'area, Stein doveva concentrare nella sua persona e in pochi anni di attività gli sforzi compiuti in Egitto da parecchie generazioni di viaggiatori e di esploratori. Si dimostrò all'altezza del compito, e divenne una specie di Alessandro Magno dell'archeologia per la fulminea rapidità delle campa­ gne, la vastità del territorio esplorato, lo splendore delle vittorie ripor­ tate. Tuttavia, quando nel marzo 1907 uscì dal Lop Nor, con alle spalle i successi di Niya e di Miran e la scoperta del limes, Stein non prevedeva certo che i deserti dell'Asia interna gli riservavano ancora un'altra sco­ perta, più importante di tutte quelle passate.

32 David Diringer, The Hand-produced Book, Londra, Hutchinson & Co., 1955. pagg. 401-2. 33 Stein, Ruins of Desert Cathay, voi. II, pag. 105.

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Capitolo XXII I M ILLE BUDDA Ricchezze infinite in una piccola stanza. C h r ist o ph e r M arlow e

Fra tutte le città delle oasi, Tun Huang (“Faro Splendente” ) o Sha Chou (“La Città delle Sabbie” ) è probabilmente la più importante. Dal tempo degli Han, circa due millenni fa, è stata il centro dei traffici della Cina con POccidente e delPOccidente con la Cina. La traversa da nord a sud un'altra strada che congiunge l'India, via Lhasa nel Tibet, con la Mongolia e la Siberia meridionale. Tun Huang si trova nella provincia cinese del Kansu, benché affinità geografiche e climatiche l'apparentino chiaramente col Turkestan. Questa città e i suoi dintorni furono una delle mete della seconda spedizione intrapresa da Stein. Un geologo ungherese amico dell'archeologo, il professor L. de Lòczy, aveva visitato la zona nel corso di una spedizione geografica fin dal 1879, ed era rimasto affascinato dalle grotte buddiste, allora poco note, una ventina di chilometri a sud-est di Tun Huang, chiamate “Grotte dei Mille Budda o Ch'ien Fo Tung. Fu lui a parlare a Stein di quell'eccezionale santuario, nei cui grandi dipinti aveva colto certe affinità con Parte indiana. L'entusiastica descrizione dell’amico e la possibilità di trovare importanti esemplari di pittura murale e di scultura a stucco d'ispirazione indiana indussero Stein a tracciare un itinerario cinese com­ prendente quella lunga puntata attraverso il Turkestan. Prima di continuare le esplorazioni nel sito del limes recentemente scoperto e di eseguire scavi in vari punti lungo il tracciato del limes stesso, Stein si diresse dunque verso Tun Huang e di là fece una rapida visita al fantastico santuario. L'impressione che ne ricevette fu superiore a quella che si aspettava per averne sentito parlare. Lungo una valle

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ampia e brulla si stendeva una ripida parete di conglomerato, fittamente costellata, per una lunghezza di circa ottocento metri, di aperture buie simili a una moltitudine di bocche spalancate. Alcune cavità erano vicine al sommo della scarpata, e non si capiva come qualcuno vi fosse potuto entrare. Quelle che Stein notò per prime erano in complesso molto pic­ cole; lo fecero pensare a “rifugi rupestri di anacoreti ritirati dal mondo in una remota Tebaide”1. Nessuna sembrava però abitata. Che tutta la area fosse deserta? Presumibilmente, il fondatore di quell’enorme alveare era stato un antico pellegrino buddista al quale si erano poi uniti altri uomini pii o monaci. Più tardi, gli eremiti avevano fatto delle grotte le dimore di immagini divine e loro stessi avevano abitato fuori, come fecero forse alcuni dei confratelli connessi con le caverne della Giudea. Si sviluppò una comunità monastica (o più comunità) dedita soprattutto a costruire templi nella roccia e a decorarli con dipinti a affresco (più precisamente a tempera) e con sculture. Pur essendo un elemento caratteristico del buddismo nell’India nord-occidentale e nelle terre di confine afgane e iraniche, in nessuna regione i templi rupestri proliferarono cosi profusamente come sui confini occidentali della Cina. Più tardi, Stein avrebbe trovato analoghi santuari rupestri, con splendide pitture nella cosiddetta Valle dei Diecimila Budda e altrove; nessuno però paragonabile, per quantità e dimensioni, alle Grotte dei Mille Budda. Spingendosi più in là lungo la parete rocciosa Stein vide che le grotte scavate dall’uomo erano ancora più numerose, variavano note­ volmente di proporzioni e non erano disposte in un ordine regolare. Alcune erano tanto grandi da poter contenere gigantesche statue di Budda in stucco, di solito circondate da gruppi di Bodhisattva. Il numero delle grotte, in tutto circa cinquecento, era stupefacente; tutte mostravano tracce di pitture murali. Fuori dovevano esserci stati portici che nella maggior parte dei casi erano crollati, lasciando senza riparo gli affreschi alPinterno. Un esame più approfondito rivelò che la squisita arte delle caverne aveva conosciuto giorni difficili. Le intemperie e i cedimenti della roccia tenera erano solo alcune fra le cause di deperimento. Ben più gravi erano state - e i chiari segni erano ancora più penosi per Stein - le devastazioni dovute alla volontà di distruzione iconoclastica diffusa nell’Asia centrale dall’Islam. Cose peggiori dovevano però accadere dopo il passaggio di Stein, quando soldati russi bianchi in fuga davanti ai bolscevichi imbrat­ tarono oscenamente i dipinti e li annerirono con il fumo dei loro fuochi. Un numero sorprendente di pareti era in eccellenti condizioni gra­ zie, come osservò Stein, alla perfetta aridità delle grotte e alla “forza e tenacia con cui il gesso costituente la base degli affreschi aderisce alla 1 Stein, On Ancient Central-Asian Tracks, pag. 194.

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superficie del conglomerato”2. Come altri oggetti che Stein aveva ripor­ tato in luce nel Turkestan, i dipinti buddisti rivelavano Ispirazione indiana e del Gandhara nei soggetti, nei tratti dei personaggi, nelle loro pose. “Nessun gusto locale aveva tentato di trasformare la dignitosa serenità dei lineamenti, i gesti semplici eppure imponenti, la grazia e ricchezza dei panneggi di cui Parte classica, trapiantata sulle rive dellTndo, aveva dotato la presenza fisica di Tathagata nelle sue molte epi­ fanie3.” E tuttavia l’influenza cinese aveva operato un’altra completa e miracolosa trasformazione. Lo stile cinese è infatti evidente nell’intensità dei colori, nella delicatezza della testura, nella vivacità dei particolari. Paesaggi, disegni floreali, formazioni di nubi, il movimento e il realismo di alcune figure umane dovevano assai poco a influenze esterne. I piu belli tra gli affreschi erano stati probabilmente dipinti al tempo dei Wei, nel V secolo, e nella grande epoca Tang, che vide la fioritura del buddi­ smo. In quel tempo Tun Huang godette della protezione imperiale. Stein passava stupefatto da una grotta all’altra, seguito dal segre­ tario cinese. Poi apparve un giovane sacerdote locale, che rimase con i visitatori facendo loro da guida. Le grotte dunque non erano interamente deserte. A Tun Huang Stein aveva sentito parlare di un monaco taoista che, sebbene di fede diversa, aveva raggiunto Ch’ien Fo Tung parecchi anni prima e aveva deciso di dedicare la vita alla cura e restaurazione del venerabile monumento. Per Stein fu una sorpresa constatare che le grotte erano tuttora oggetto di venerazione, nonostante il visibile declino e la distruzione parziale. Come archeologo, non poteva non essere deluso del fatto che il sito non fosse abbandonato, e lasciato alla mercè del suo empio piccone. Sarebbe riuscito a placare le apprensioni del poco clero superstite? Chissà se i sacerdoti si sarebbero lasciati propiziare con offerte materiali tanto da permettergli di condurre le sue ricerche e da “chiudere un occhio sulla rimozione di qualche oggetto sacro”4? Un ostacolo anche piu grave poteva essere rappresentato dai laici dell’area, che nutrivano una superstiziosa venerazione per i templi come luoghi di pellegrinaggio. Bisognava stare a vedere, pazientemente aspettando. La valle sarebbe stata presto invasa, come ogni anno, da gente di Tun Huang; folle rumorose, di decine di migliaia di persone, si sarebbero infilate nelle cavità delle rocce inscenando una pittoresca festa religiosa: occasione, osservava l ’archeologo, propizia “allo studio dell’umanità mo­ derna più che alla ricerca di cose del passato”5. Stein limitò quindi la sua prima visita a un sol giorno. Ma prima di partire cercò di verificare l’attendibilità di una voce che gli era giunta all’orecchio a Tun Huang, 2 3 4 5

Ibid., Stein, Ibid., Ibid.,

pag. 195. Ruins of Desert Cathay, voi. II, pag. 25. pag. 30. pag. 159.

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tramite un mercante musulmano che fuggiva per sottrarsi ai suoi credi­ tori nel Turkestan e che, “persona molto versatile,... andava in giro con gli occhi bene aperti e le orecchie ben tese caso mai capitasse di trovare qualche tesoro”6. Si raccontava che un ricco giacimento di manoscritti era stato scoperto per caso in una delle grotte pochi anni prima, quando il monaco taoista aveva voluto sgombrare uno dei templi rupestri reso impraticabile da detriti di roccia e da sabbia che il vento aveva portata. Gli operai avevano notato allora una crepa in una delle pareti affrescate, e incuriositi avevano esaminato la parete, constatando che era di mattoni e non di roccia viva. Allargando la crepa, avevano scoperto una piccola camera scavata nella roccia e piena di manoscritti. Si diceva che tutti i rotoli fossero scritti in caratteri cinesi ma - cosa non molto verosimile data la natura ideogrammatica della scrittura cinese - in lingua non ci­ nese. Si diceva inoltre che il monaco taoista tenesse tutto quel tesoro sotto chiave per ordine del viceré della provincia, che, secondo il mer­ cante musulmano, era stato messo a parte del segreto. In primo luogo bisognava trovare conferma dell’esistenza dei mano­ scritti; poi, se esistevano davvero, bisognava tentare di vederli e - per quanto remote apparissero le possibilità - di ottenere il permesso di por­ tarne via almeno alcuni. Le prospettive erano quanto mai vaghe, il suc­ cesso improbabile. Come se non bastasse, il monaco taoista era assente per uno dei frequenti giri di questua con cui cercava di raccogliere i fondi necessari per il progettato restauro del santuario. Stein fece capire al segretario cinese di parlare con il giovane mo­ naco offertosi loro come guida mentre lui, Stein, andava a dare un’oc­ chiata alle iscrizioni nelle grotte. Il segretario non ci mise molto a appu­ rare i fatti più importanti e a stabilire la posizione esatta del deposito. Fortuna volle che Stein potesse avere anche un saggio tangibile della natura dei manoscritti dal consigliere spirituale del giovane monaco, un tibetano, al quale uno dei documenti era stato concesso in prestito come una sorta di reliquia ornamentale per la sua piccola cappella privata. Era un rotolo di carta scritto in splendidi caratteri, e a Stein e al suo segre­ tario fu permesso di svolgerlo; ma l’antichità del testo e della scrittura rendevano impossibile leggerlo in cosi breve tempo. In ogni modo sem­ brava un antichissimo documento buddista in cinese. L ’eccellente stato di conservazione del rotolo dimostrava che il recesso rupestre era ben riparato e perfettamente asciutto. Ogni altro tentativo di giudizio, con­ cluse Stein, doveva essere rimandato al grande benché ipotetico giorno in cui avrebbe avuto accesso all’intera biblioteca nascosta. Parecchie settimane più tardi tornò dai proficui scavi presso il limes alla cupa valle delle grotte, per un lungo soggiorno. Ora non ve lo atti­ ravano soltanto gli affreschi e le statue: non dubitava che le caverne r> Ibid., pag. 19.

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ospitassero una collezione di antichi manoscritti, e il pensiero, dopo averlo tenuto per mesi in uno stato di euforia, ora lo “trascinava indietro con la forza di un’invisibile calamita”7. Sapeva bene che tutto dipendeva dal suo tatto, dalla sua prudenza e pazienza. Il mattino dopo il suo arrivo si fece quindi premura di dichiarare che suo principale proposito era esaminare le dimensioni e la posizione delle grotte e fotografare i più belli tra gli affreschi e le statue. Quando il custode taoista andò a pre­ sentargli i suoi omaggi Stein di proposito ebbe con lui solo una breve conversazione; ma osservò attentamente l’uomo che si frapponeva fra lui e quella che sarebbe potuta essere una scoperta sensazionale nel cam­ po dell’archeologia asiatica. L ’impressione non fu favorevole, e confermò

# ft ? Simboli cinesi corrispondenti alla parola “scrivere” . I primi due sono pittogrammi incisi su antiche ossa oracolari e rap­ presentano strisce di legno unite insieme e una mano che reg­ ge un pennello. Il terzo e il quarto ideogramma danno gli equivalenti moderni.

informazioni raccolte indipendentemente dal segretario di Stein: “Era una persona molto strana, estremamente timida e nervosa, sulla cui faccia appariva di tanto in tanto un’espressione astuta niente affatto in­ coraggiante. Fu chiaro sin dal principio che non sarebbe stato facile da trattare8.” Più tardi, lo stesso giorno, mentre scattava fotografie nei pressi del santuario dove erano stati scoperti i manoscritti, Stein lanciò un’occhiata furtiva al passaggio che conduceva al recesso ed ebbe la spiacevolissima sorpresa di vederlo barricato non più da una porta di legno, come al tempo della sua prima visita, ma da un muro di mattoni. Si sentì cadere il cuore e si preparò mentalmente a “un lungo e duro assedio”9. Il mutamento della situazione imponeva nuovi metodi. Stein era però sempre deciso a fare il possibile per ottenere il permesso di vedere i manoscritti nel luogo stesso in cui erano stati depositati: solo così avrebbe potuto accertare la natura e la data approssimativa del giaci­ mento. La mattina seguente affidò a Chian, il segretario, una missione esplorativa. Essendo cinese, a Chiang sarebbe stato più facile stringere amicizia con il monaco taoista. La manovra ebbe un sia pur modesto 7 Ibid., pag. 164. 8 Ibid., pag. 165. 9 Ibid., pag. 165.

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successo; in ogni caso fu un sollievo sapere che l’accesso alla biblioteca era stato sbarrato con un muro a titolo di precauzione temporanea contro i pellegrini che come ogni anno avevano visitato a migliaia il santuario. Chiang chiese poi di vedere la collezione di manoscritti, ma il monaco non volle promettere nulla; quando però il cinese accennò alla possibilità di una “generosa donazione” al santuario, l’altro diventò piu manegge­ vole: avrebbe permesso a Stein di esaminare alcuni documenti, ma po­ chi, solo quelli che lui stesso, il monaco, avrebbe scelti. Incoraggiato dal parziale successo, il segretario, superando i limiti della sua missione e violando le regole della reticenza diplomatica, accennò al desiderio di Stein di acquistare alcuni manoscritti; alla velata proposta il taoista reagì con un visibile turbamento, “dovuto in eguale misura, a quanto pareva, a scrupoli di natura religiosa e al timore del risentimento popolare”101. Il segretario si affrettò a lasciar cadere l ’argomento. A parere di Stein, Chiang, un inguaribile ottimista, sopravvalutava i risultati della conversazione; il temperamento del monaco avrebbe senza dubbio continuato a presentare problemi d’ogni genere, e il denaro non sarebbe bastato da solo a vincere le sue paure e la sua ostinazione. A questo punto Stein decise di patrocinare da solo la propria causa e in compagnia del segretario, che gli avrebbe fatto da interprete, andò lui stesso a cercare il monaco. Con diplomatico savoir faire, chiese a Wang Tao-shih di mostrargli tutto il tempio restaurato, ben sapendo che il monaco ne aveva fatto addirittura una ragione di vita; come previsto, la richiesta fu accolta con slancio. Di quel tour con cicerone Stein avrebbe scritto piu tardi: “Mentre mi guidava attraverso Paltissimo atrio della cappella, con le sue ricche decorazioni in legno, il tutto generosamente dorato e dipinto, e attraverso Paltò corridoio e portico che dava accesso alla cella principale, non potei impedirmi di lanciare un’occhiata a de­ stra, dove un muro di mattoni non intonacato mascherava ancora la porta della cappella nascosta. Era però il momento non di chiedere alla pia guida che cosa custodisse il misterioso recesso, ma di fare mostra di tutto il mio interesse per i risultati del suo zelo...11.” Per Stein era chiaro che l’opera di restauro era stata spinta troppo a fondo; ma saggiamente tenne per sé le sue impressioni. Alcune delle im­ magini nuove erano orrende e dimostravano anche troppo chiaramente a quale desolante livello fosse scesa Parte in quella parte della Cina dopo l’epoca Tang. Tuttavia l’archeologo non poteva fare a meno di provare qualcosa di molto simile al rispetto per il piccolo uomo bizzarro al suo fianco, “la cui devozione a quel santuario e al compito assuntosi di re­ staurarlo era indubbiamente genuina. Povero mendicante vagabondo, era giunto dalla sua provincia natale, lo Shan-hsi, circa otto anni innanzi... 10 Ibid., pag. 166. 11 Ibid., pag. 167.

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si era stabilito presso i templi in rovina e s’era messo al lavoro per resti­ tuirne almeno uno a quello che, secondo lui, doveva essere stato il suo originario splendore... Era chiaro, dal modo in cui viveva insieme con i suoi due umili accoliti, e da tutto ciò che Chiang aveva sentito dire di lui a Tun-huang, che non spendeva quasi nulla per sé o per i suoi privati interessi”12. Fra l’archeologo e il monaco nacque un sentimento di rispetto reci­ proco. Ma come poteva Stein far capire a quell’uomo senza cultura la propria necessità di studiare gli antichi testi? Aveva ottenuto senza diffi­ coltà l’appoggio di funzionari cinesi il cui alto livello di cultura permet­ teva loro d’intendere l’importanza di ricerche archeologiche; ma come fare con quel monaco? Finalmente Stein ebbe un’ispirazione. Già più volte aveva ottenuto ascolto facendo il nome di Hsùan Tsang, il suo "santo protettore” , egualmente popolare fra i letterati e fra la gente co­ mune. Anche a Wang il grande monaco-viaggiatore cinese doveva essere familiare. Così Stein parlò al taoista della propria ammirazione per il santo cinese, le cui tracce aveva seguite attraverso la spina dorsale del continente e fino al paese che gli aveva dato i natali. Pronunciare il venerato nome di Hsùan Tsang fu quasi come evocare uno spirito: Stein notò subito "il lampo di vivace interesse... negli occhi di Wang Tao-shih, altrimenti così timidi e sfuggenti” . Il segretario, che provvedeva a riem­ pire le lacune nel cinese "parlato” di Stein, rispose ad alcune domande del monaco sui viaggi del santo. Stein non tardò a rendersi conto che Wang Tao-shih, "benché pochissimo versato nelle dottrine buddiste, e del resto indifferente a esse, era a suo modo un altrettanto fervido ammira­ tore... del grande monaco del periodo Tang”13. Il Hsùan Tsang del fol­ clore cinese e di Wang somigliava solo vagamente allo studioso venerato da Stein; le imprese che gli venivano attribuite avevano parecchie affi­ nità con le incredibili avventure del barone di Mùnchhausen; ma poco importava, ciò che contava era l’aver trovato un punto di contatto, un interesse comune. A Stein fu subito mostrata una prova tangibile del grande rispetto di Wang Tao-shih per Hsùan: una serie di dipinti raffiguranti scene del­ la vita dell’antico santo che il taoista aveva commissionato e che fece ora vedere al visitatore. Fu la volta di Stein di ascoltare: uno dei recenti affreschi raffigurava una scena particolarmente interessante per lui, in quanto presentava un curioso parallelo con le sue stesse aspirazioni. Vi erano illustrate le difficoltà del santo nel trasportare attraverso un fiume vorticoso il carico di venti some di libri sacri che si diceva avesse portato dall’India. "Ma il pio custode,” pensò Stein fra sé, "avrebbe in­ teso nel giusto senso una così chiara lezione, e avrebbe cercato di acqui­ 12 Ibid., pag. 168. 13 Ibid., pag. 169.

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starsi meriti spirituali permettendomi di riportare nell’antica patria del buddismo alcuni degli antichi manoscritti che il caso aveva messo nelle sue mani14? ” In ogni caso, l’archeologo pensò che per il momento fosse politica più saggia non porre direttamente la domanda, e lasciò Chiang a perorare la causa, se il magico potere del nome di Hsiian avesse conti­ nuato a operare. Secondo tutte le apparenze il monaco non era però ancora disposto a concedere in prestito i manoscritti. “Più tardi, più tardi” promise a Chiang. Ma quella stessa notte Stein senti un fruscio nella propria ten­ da: era Chiang, carico d’un fascio di rotoli che il taoista gli aveva appena portato in segreto, nascondendoli sotto la veste; Stein vide subito che contenevano antiche versioni di testi canonici buddisti. Chiang passò la notte a studiarli, e nelle prime ore del mattino dopo annunciò trion­ fante che quelle traduzioni cinesi di sutra buddisti recavano note in cui si diceva che erano stati portati in Cina e tradotti dallo stesso Hsiian Tsang. Stein poteva ora cercare di persuadere Wang del fatto che Hsùan Tsang avrebbe certamente desiderato di vedere portati a conoscenza del mondo i risultati delle sue fatiche, nascosti per tanti anni in una caverna dell’estremo occidente cinese. Hsùan non aveva forse rivelato il nascon­ diglio dei suoi manoscritti a Wang affinché potesse aiutare nel compito il moderno discepolo del maestro, venuto fin dalla remota India? Chiang corse a portare al monaco la strepitosa notizia. “L ’effetto,” scrisse poi Stein, “fu straordinario... Qualche ora dopo... [Chiang] trovò abbattuto il muro di mattoni che sbarrava l’accesso al nascondiglio, e dalla porta, che il monaco stava aprendo, colse l’imma­ gine di una stanza zeppa fino al soffitto di fasci di manoscritti. Di propo­ sito m’ero tenuto lontano dal tempio di Tao-shih per tutta la mattina, ma udendo la notizia non potei più trattenere l ’impazienza di vedere con i miei occhi quell’immenso tesoro... Trovai là il taoista, che evidentemen­ te stava ancora combattendo con i suoi scrupoli e le sue ansie. Ma sotto l’influenza d’un complesso di circostanze che ai suoi occhi avevano qual­ cosa di quasi soprannaturale trovò il coraggio di aprirmi la rozza porta posta a chiudere lo stretto passaggio che, dal lato dell’ampio corridoio sul davanti, conduceva al recesso scavato nella roccia, con il pavimento oltre un metro più alto di quello del corridoio. Alla vista della piccola stanza spalancai gli occhi. Ammucchiata in strati, ma senza alcun ordine, apparve alla fioca luce della lampada del monaco una massa solida di rotoli che raggiungeva un’altezza di quasi tre metri e occupava, come mostrarono misurazioni successive, quasi cinquecento piedi cubi. Lo spazio che rimaneva libero bastava appena a accogliere due persone in piedi... Tutti i manoscritti avevano l’aria di essersi conservati esatta­ mente nelle stesse condizioni in cui erano stati riposti in quel luogo. 14 Ibid.,

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pag. 170.

Alcuni fasci erano legati alla meglio solo con rozze corde, senza nessun involucro di tessuto; ma neanche in questo modo la carta era rimasta danneggiata. Non vidi la minima traccia di umidità né dei suoi effetti. Anzi, per conservare simili reliquie quale luogo si sarebbe potuto imma­ ginare migliore di una stanza scavata nella roccia viva di quei monti atro­ cemente brulli, ermeticamente chiusa e riparata anche da quel minimo d umidità che poteva esserci (ammesso che ci fosse) nell’atmosfera della valle desertica? Neanche nel suolo più asciutto i resti d ’un sito in rovina sarebbero sopravvissuti cosi perfettamente indenni come qui, in una cavità rupestre scelta con cura dove, nascoste dietro un muro di mattoni e protette da cumuli di sabbia portata dal vento, queste masse di mano­ scritti erano rimaste indisturbate per secoli15.” Era evidente che nel locale segreto non si poteva lavorare; ma Wang Tao-shih non voleva far sapere a nessuno che Stein aveva avuto accesso alla biblioteca: temeva di perdere l’appoggio dei suoi protettori per il santo lavoro di restauro e manutenzione. Stein dovette quindi accettare una soluzione di compromesso: Wang avrebbe portato fuori un rotolo o due per volta, mentre lui e il segretario avrebbero lavorato in un portico vicino, costruito di recente, dove nessun estraneo poteva vedere. Prima però Stein diede un’occhiata alla camera scavata nella roccia e ai resti di affresco che un tempo ne coprivano l’entrata. I dipinti indicavano che il deposito non poteva essere stato sigillato più tardi dell’XI secolo, il che di per sé era una garanzia dell’importanza dei manoscritti; ma solo i documenti potevano fornire informazioni più precise sulle date alle qua­ li erano stati scritti e poi depositati nel nascondiglio. Per Stein non era una sorpresa che il deserto li avesse conservati cosi bene; i documenti recavano però i segni di un lungo uso, e scrittura, materiali e altri elementi indicavano chiaramente una notevole antichità. I colophon di parecchi fornirono più tardi date esatte: alcuni testi cinesi risalivano all’inizio del V secolo d. C. Praticamente tutti erano scritti su carta e prevalevano rotoli piuttosto grossi, larghi circa trenta centimetri e di lunghezza considerevole. Molti erano arrotolati intorno a un baston­ cello, come certi papiri. Stein era ostacolato nel lavoro dalla sua limitata conoscenza del cinese e doveva affidarsi al segretario, che purtroppo non aveva molta familiarità con la letteratura buddista; ciò rendeva tanto più necessario, secondo Stein, portar via di là i manoscritti e metterli a disposizione degli esperti che avrebbero potuto studiarli in modo sistematico. Frat­ tanto Wang continuava a ammucchiargli davanti nuovo materiale. Stein si entusiasmò soprattutto per un antico rotolo cinese sul cui rovescio era scritto un testo buddista in scrittura brahmi; somigliava molto a docu­ menti che l’archeologo aveva già visti nella regione di Khotan e poteva 15 Ibid., pagg. 174-6.

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quindi essere prova del fatto che la comunità buddista di Ch’ien Fo Tung aveva avuto rapporti con l’India attraverso il bacino del Tarim. Dimo­ strava inoltre che la maggior parte dei manoscritti risaliva probabilmente a un periodo in cui “la scrittura indiana e una certa conoscenza del san­ scrito prevalevano ancora nel buddismo dell’Asia centrale”16.

Lastra tombale di uno scriba cinese. L ’uomo tiene fra le braccia un fascio di strisce: la forma tradi­ zionale degli antichi “libri” cinesi. Dinastia Han.

Insieme ai documenti cinesi vi erano parecchi manoscritti tibetani: lunghi rotoli scritti in righe orizzontali, i cui testi facevano parte del­ l’ampio canone buddista tibetano. Quei rotoli erano indubbiamente un residuo dell’occupazione tibetana dell’area nel IX secolo. Nelle sue esplorazioni precedenti Stein non aveva ritrovato nessun manoscritto ti­ betano di eguale lunghezza né in uno stato di conservazione altrettanto buono. Nel primo gruppo di documenti esaminato dall’archeologo e dal segretario vi erano anche testi in lingue diverse dal cinese e dal tibetano. Una fra le molte sorprese fu un grosso pacco che, aperto, rivelò delicati dipinti su tela e su garza di seta: stendardi e ex-voto illustranti scene della leggenda buddista. Questo materiale costituisce uno dei più bei tesori dell’antica arte sino-indiana. Fatto curioso, con preziosi oggetti del genere il monaco sperava di distogliere Stein dai testi canonici cinesi che a lui sembravano le uniche 16 Ibid., pag. 176.

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cose di valore. Per Stein andava benissimo: dal materiale che Wang Taoshih ammucchiava disordinatamente davanti a lui uscivano le cose più strane, e fra l’altro rotoli recanti testi in lingue ancora ignote e presumi­ bilmente indigene del Turkestan, scritti in caratteri indiani. L ’archeologo nascose il proprio entusiasmo e mise da parte i rotoli per esaminarli me­ glio più tardi. Tutto dipendeva dalPabilità sua e del segretario nel man­ tenere in buone disposizioni il monaco, che cominciava a dar segni di stanchezza: Chiang di tanto in tanto doveva ricorrere di nuovo alle sue capacità di persuasione, mentre Stein tornava a invocare il nome di Hsùan Tsang. Cadde la notte, e solo una piccola porzione dell’enorme massa di materiale era stata esaminata. Dopo avere lavorato tutto il giorno, Stein non aveva altra possibilità che lasciarsi dietro un buon numero di docu­ menti e dipinti su stoffa che aveva sequestrati nella speranza di ottenere più tardi il permesso di portarli via. Chissà se Wang avrebbe mai accon­ sentito a lasciar portare via i documenti? Stein era convinto che, se si fosse lasciato persuadere, non sarebbe stato certo da volgari offerte di denaro. Inoltre, a giudicare dai timori del monaco per la sua reputazione, le trattative dovevano svolgersi nel più assoluto segreto. Benché esausto per le fatiche e le emozioni di quel giorno, Stein riprese il discorso sul tema del '‘nostro comune eroe e santo protettore, il grande Hsùan Tsang” . Questa volta affrontò e trattò a lungo l’argomento del ritorno di Hsùan dall’India con animali carichi di libri: soggetto, come abbiamo visto, di uno degli affreschi. Il significato profetico dell’episodio, disse, era chiaro, e il dipinto parlava eloquentemente in favore dei suoi sforzi di salvare quei documenti. Certo “il monaco, anche nei suoi momenti di peggiore suscettibilità, non poteva fare a meno di riconoscere che il grande santo-studioso non gli aveva certo fatto scoprire quei resti pre­ ziosi perché li tenesse sempre chiusi in un buio recesso, né poteva negare che lui non aveva la competenza necessaria per rendere giustizia a quei documenti né con lo studio né in alcun altro modo”17. Chiang contribuì all’opera di persuasione “con tutta la forza del suo pacato argomentare” , osservando che sarebbe stato un atto di genuina pietà religiosa mettere a disposizione dei saggi dell’Occidente i frutti d’una scoperta alla quale Wang era stato certamente guidato dalla divinità. Accennò anche con tatto al ricco compenso che il monaco avrebbe ricevuto, a tutto vantaggio del santuario, se avesse ascoltato la voce del cielo. Stein dovette avere l’impressione di lottare con un angelo, tanto elusivo era in certi momenti il taoista; non si capiva mai bene se si fosse convinto o se paure e dubbi lo avessero di nuovo sopraffatto e se di nuovo fosse in preda all’incertezza. Infine, il monaco chiese a Stein di lasciargli Chiang per elaborare i particolari della cessione degli articoli 17 Ibid.y pag. 180.

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scelti, secondo la formula diplomatica “per un più approfondito esame” . La condizione posta dal monaco fu che nessuno sapesse della transazione finché tutto il materiale non fosse stato portato fuori dai confini della Cina. Bisognava dunque trasportarlo nelle ore di buio dal tempio alla tenda di Stein. Chiang si assunse cortesemente il compito e per sette notti, nell’ora delle streghe, raggiunse la tenda “ansimando sotto carichi che ogni volta diventavano più pesanti e alla fine dovettero essere tra­ sportati a rate”18. Ma non si pensi che dopo tutto andasse liscio; il taoista pati accessi ricorrenti di dubbi e di “timorosa contrarietà” . Più volte fu necessario propiziarlo con lingotti d’argento; di tanto in tanto si rimproverava di tradire la fiducia dei suoi protettori di Tun Huang, e una volta chiuse sotto chiave il materiale scelto da Stein e spari per parecchi giorni: do­ veva assicurarsi che il segreto non fosse trapelato. Per fortuna constatò che la sua reputazione rimaneva immacolata. Dopo il ritorno dimostrò maggior spirito di collaborazione e anzi permise che fossero presi altri dodici fasci di manoscritti. Alla fine, Stein dovette ricorrere all’aiuto di due servi fidati per trasportare nella tenda quanto rimaneva da imballare. Quattro mesi più tardi, quando tornò al santuario dopo aver com­ piuto altre esplorazioni in Cina, Wang lo ricevette molto bene e accon­ senti a dividersi da altri duecento fasci di manoscritti cinesi e tibetani. Il buon taoista era finalmente tranquillo, e quando Stein lasciò le Grotte dei Mille Budda la sua “faccia appuntita e gioviale aveva ripreso un’aria di timida ma pacata serenità”19. Stein tornò invece a conoscere la pace dello spirito solo quando ventiquattro casse di manoscritti e cinque altre piene di dipinti e di tesori d’arte furono arrivate alla loro destinazione il British Museum a Londra - sedici mesi più tardi. In seguito, studiosi che lavoravano pacifici ai loro tavolini o nei musei d’Europa criticarono la scelta di documenti fatta da Stein, soste­ nendo che aveva acquistato troppe copie degli stessi sutra buddisti cinesi e trascurato - secondo loro - certe opere canoniche e non canoniche. Questo giudizio non tiene alcun conto delle difficili condizioni in cui Stein dovette lavorare e che imposero decisioni rapide, inevitabilmente non abbastanza meditate. Più volte Stein parla della fretta con cui do­ vette esaminare una valanga di manoscritti, sempre con la paura che il taoista cambiasse idea; in molti casi non ebbe la possibilità di un esame più attento20. Inoltre, egli stesso confessa senza riserve e anzi con modestia eccessiva i limiti della propria preparazione come sinologo. Tuttavia, anche queste lacune nella sua cultura non poterono fare gran danno in quelle circostanze, e furono ampiamente compensate dalla sensibilità 18 Ibid., pag. 181. 19 Ibid., pag. 194. 20 Ibid., pag. 188.

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linguistica e epigrafica dello studioso, che gli permise di intuire l’impor­ tanza d’un materiale cosi eterogeneo dal punto di vista della lingua e della scrittura. Inoltre, forse nessuno conosceva meglio di lui il background indiano del buddismo e la storia della sua diffusione, dalle terre di con­ fine indiane e lungo canali irano-sciti, attraverso l’Asia interna. Grazie allo studio degli Annali cinesi e delle memorie di Hsiiang Tsang cono­ sceva anche gli inizi del buddismo cinese. Non ci si poteva aspettare che la scelta operata da Stein fosse siste­ matica e scientifica. Per tutto il tempo che era rimasto a Ch’ien Fo Tung egli aveva anche sperato di finir col persuadere il monaco a separarsi da tutta la collezione, di modo che potesse essere rimessa insieme e studiata presso un qualche tempio del sapere in Ta-Ying-kuo (cioè in Inghilterra). Il materiale che riuscì ad assicurarsi rappresenta pur sempre uno dei piu vasti recuperi che la storia ricordi. Leonard Woolley, che al British Museum collaborò alla catalogazione della raccolta Stein, l’ha giustamente definita “un 'colpo’ archeologico senza paragoni”21. La storia dei manoscritti rimasti è presto raccontata. Come gli scavi di Stein nel Turkestan, cosi il suo “colpo” a Ch’ien Fo Tung chiamò sulla scena altri studiosi che beneficiando del suo lavoro di pioniere po­ terono procedere con maggiore avvedutezza e minor fretta. Un anno dopo la partenza di Stein da Tun Huang, un suo amico, il sinologo francese Paul Pelliot, raggiunse a sua volta le grotte dei Mille Budda, e con occhio di specialista esaminò la massa di materiali cinesi che Stein aveva dovuto lasciarsi dietro. Wang, che non aveva motivo di rimpiangere la transazione con Stein, si lasciò facilmente persuadere a vendere altri 15.000 rotoli e frammenti; insieme con la raccolta Stein in Inghilterra, questi costi­ tuiscono il grosso dei resti conservati della biblioteca un tempo sepolta. Quando Pelliot se ne andò da Ch’ien fo Tung, la camera nella roccia era ben lontana dall’aver ceduto tutti i suoi tesori. Durante il soggiorno di Pelliot a Pechino nel 1909 pare che le autorità cinesi avessero sentore dell’esistenza di quell’importante fonte di manoscritti; fatto sta che ordi­ narono il trasferimento nella capitale di quanto rimaneva della biblioteca. E fu una mossa infelice, condotta in quello che Stein definì more sinico. Una grossa somma di denaro destinata a compensare il santuario non giunse mai a destinazione: probabilmente si arenò nelle tasche d’uno o più funzionari del governo. L ’ordine che la collezione fosse imballata a dovere e spedita a Pechino fu eseguito, ma solo una parte del materiale giunse alla meta. Anni dopo Stein avrebbe visto preziosi rotoli Tang, sulla cui provenienza dalle Grotte dei Mille Budda non potevano sussi­ stere dubbi, offerti in vendita a Tun Huang, nel Turkestan, e lungo tutta la strada fino a Kan Chow. Nel 1914, durante la sua terza spedizione nell’Asia Centrale, Sir 21 Woolley, History Unearthed, pag. 127.

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Aurei tornò a visitare Ch’ien Fo Tung, dove Wang lo ricevette come un vecchio amico fidato e un benefattore. Stein seppe da lui quale triste sorte avesse subito il resto della raccolta. Wang si rimproverava amara­ mente di non aver seguito il consiglio di Chiang, che gli suggeriva di acconsentire al trasferimento di tutta la biblioteca in Inghilterra; ma quando erano giunti gli ordini di Pechino, il monaco aveva avuto la furberia di mettere da parte circa seicento manoscritti buddisti, e in cambio di un proporzionato contributo ai fondi per il santuario Stein ebbe il permesso di portarseli via, imballati in cinque casse. Rappresen­ tarono una preziosa aggiunta alla sua collezione. Così, avrebbe scritto piu tardi l’archeologo riassumendo la scoria delle sue esplorazioni, ‘‘terminò per parte mia il ‘Racconto del Sacerdote' delle Grotte dei Mille Budda”22. Doveva esserci però per lo meno un epilogo: trentanni piu tardi, fra il 1940 e il '50, quando nel santuario rupestre fu scoperto un altro recesso segreto, probabilmente un altro dei nascondigli di Wang. L ’operazione di salvataggio di Stein, e le battaglie diplomatiche che l’archeologo e il suo segretario dovettero sostenere per poterla condurre a buon fine, lasciarono allo studioso poco tempo per un esame completo del bottino; una ricerca del genere, che richiedeva tempo e calma, doveva aspettare. Stein tuttavia possedeva l’istinto d ’un archeologo d’eccezione per l’unico e per il prezioso; in molti casi, anticipò i risultati cui sareb­ bero giunti gli esperti. Solo scegliendo e esaminando superficialmente i documenti, riconob­ be altre prove del fatto che il buddismo aveva unito le antiche civiltà dell’Est, dell’Ovest e del Sud attraverso il corridoio desertico dell’Asia centrale23. Come il limes, come le rovine sepolte fra le sabbie del bacino del Tarim, la biblioteca murata del santuario rupestre, con i suoi mano­ scritti e le sue opere d’arte, testimoniava duna mescolanza e fusione di culture diverse; soltanto, qui gli ingredienti cinesi prevalevano. Pa­ recchi importanti particolari connessi con le Grotte dei Mille Budda e con quell’area in generale, vennero immediatamente in luce; ma a Stein, un uomo di cui tutti esaltavano la straordinaria capacità di lavoro, occor­ sero quasi quindici anni per pubblicare il rapporto scientifico della sua seconda spedizione. Consisteva in cinque magnifici volumi dal titolo Serindia. E anche quest’opera formidabile fu in un certo senso soltanto preliminare. I reperti archeologici della prima spedizione riempivano quasi cento grosse casse; si trattava in buona parte di manoscritti. Il materiale pro­ veniente dalla biblioteca rupestre ne occupava da solo ventinove, conte­ 22 Stein, On Ancient Central-Asian Tracks, pag. 21L 23 Stein, Ruins of Desert Cathay, voi. II, pag. 211.

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nenti circa novemila fra manoscritti e frammenti di manoscritti. La decifrazione, l’analisi, l’interpretazione di questo materiale furono un lavoro titanico che richiese l’abilità e la costanza di molti specialisti per un periodo di molti anni. Parecchi studiosi dedicarono la vita intera allo studio soltanto d ’una piccola parte dei documenti; tale a esempio il caso dell’abate Boyer, che pubblicò i documenti kharoshthi su legno in un numero nutrito di grossi tomi. Il catalogo completo dei manoscritti cinesi della collezione Stein al British Museum fu pubblicato nel 1957 sotto la direzione di Lionel Giles, il quale disse che buona parte del suo lavoro, durato decenni, era consistito nello scorrere venti o trenta chilometri di rotoli cinesi fittamente coperti di scrittura24. Parteciparono al lavoro orientalisti eminenti d ’una ventina di paesi diversi; l’elenco dei nomi comprende quelli di alcuni fra i più famosi linguisti, filologi, storici dell’Oriente e di studiosi dell’arte e delle reli­ gioni asiatiche, che vantano i primi decenni del ventesimo secolo. E il lavoro continua ancor oggi. Come la Genizà del Cairo, la biblioteca bud­ dista, benché sembri consacrata alla letteratura di una sola religione, in realtà contiene testi che in un modo o nell’altro riguardano molti altri argomenti e illuminano aspetti della storia di secoli precedentemente oscuri. Ancor più della Genizà, essa riflette la mescolanza e fusione di diverse culture, venute in contatto in un’area di gran lunga meno nota di quanto non sia l’Egitto. Della molteplicità di scambi e contatti fra tanti paesi e popoli testi-

Due righe d ’un manoscritto pothi cuciaico. La scrittura è ba­ sata su quella brahmi indiana, e la lingua è un idioma indo-eu­ ropeo (da gran tempo estinto) indigeno del Turkestan.

monia, nel deposito del tempio buddista, la molteplicità di lingue, alcune note, alcune conosciute solo parzialmente, altre del tutto ignote. I manoscritti di Ch’ien Fo Tung vennero ad aggiungersi ai docu­ menti che Stein aveva trovato fra le rovine del deserto. Oltre ai testi cinesi v ’erano documenti (fra i più antichi giunti fino a noi) in lingue indiane, come il sanscrito o il meno letterario pracrito (prakhtri), e in tibetano, iranico, sogdiano, uigurico, turco runico, negli idiomi indigeni indoeuropei del Turkestan orientale, in lingue ignote tibeto-birmane, e in altre ancora. La biblioteca conteneva persino estratti in ebraico dal­ l’Antico Testamento. In molti casi i manoscritti non soltanto fornirono testi perduti o 24 Lionel Giles, Six Centuries at Tunbuang..., Londra, The China Society, 1944, pag. 6.

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importanti versioni “nuove” di opere già note: la loro esistenza stessa illuminò la diffusione di influenze culturali e il loro modo e intensità di trasmissione. Così, per citare solo un esempio, la letteratura sogdiana rivelò che l’influenza iranica era penetrata in Cina molto più a fondo di quanto lo stesso Sir Aurei sospettasse. Documenti laici, particolarmente quelli in cinese, riguardavano materie diverse, dalla geografia e dalla topo­ grafia (compresa quella delle Grotte dei Mille Budda) alPamministrazione, alla storiografia, alla poesia.

Esempio di scrittura sogdiana, diffusa in tutta l’Asia centrale e persino in Mongolia. Fu usata da un popolo iranico, che la aveva elaborata adattando l’alfabeto aramaico. Gli esempi più antichi di questa scrittura furono trovati da Stein in lettere inviate dalle torri di guardia del limes cinese.

Benché nella grandissima maggioranza i documenti fossero buddi­ sti - e fu essenzialmente una civiltà buddista quella che ne risultò così brillantemente illuminata - erano rappresentate anche altre fedi religiose: prova questa, in un certo senso, della relativa tolleranza religiosa dei cinesi, che ancora nel ventesimo secolo consentì a un umile monaco taoista di dedicare resistenza al restauro di un tempio buddista. Ma, e questo è anche più importante, la presenza di testi rappresentanti religioni diverse dimostrò che il buddismo fu solo il più forte fra numerosi movi­ menti religiosi introdotti in Cina per la via delPAsia centrale. Fra le re­ ligioni di secondo piano la più importante fu senza dubbio il manichei­ smo, che penetrò a fondo in Cina e in Mongolia. I testi trovati nel tem­ pio rupestre vennero ad aggiungersi a quelli rinvenuti da spedizioni rus­ se e tedesche a Turfan, nel Sinkiang nord-orientale, e includevano una versione manichea del Pastore di Erma, lo stesso che Tischendorf ave­ va recuperato dal Codice Sinaitico. Contribuirono a permettere la ricostruzione della letteratura, praticamente perduta, di quella strana e ibrida religione persiana che, nata in Babilonia, a un certo momento contò seguaci in tutto l’impero romano — fra cui Sant’Agostino gio­ vane — e lasciò tracce nelle eresie medioevali. Per alcuni studiosi i documenti più preziosi fra quelli raccolti da Stein sono le molte versioni di testi buddisti canonici e non canonici, che in parecchi casi rappresentano le copie di gran lunga più antiche di tali scritture e hanno, per la ricostruzione critica dei testi archetipi, un’impor­ tanza paragonabile a quella degli antichi codici biblici e dei rotoli di Qumràn dell’Antico Testamento. Inoltre i rotoli sacri in cinese, tibetano

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e sanscrito hanno aiutato gli studiosi a ricostruire i vari tipi di canoni buddisti, dei quali si era persa ogni conoscenza. Cosi, uno studioso giap­ ponese, il reverendo K. Yabuki, ha potuto identificare testi prima perduti del canone buddista cinese. Ricerche dello stesso tipo fra i manoscritti della raccolta Stein hanno contribuito alla ricostruzione del canone taoista. La prodigiosa ricchezza di manoscritti religiosi ha reso possibile intraprendere uno studio quasi statistico della frequenza di certi sutra buddisti a seconda delle date in cui furono copiati e valutarne in questo modo la popolarità in vari periodi. Una fra le caratteristiche salienti della collezione è il fatto che tanti testi recano le relative date: dal 406 d. C. (10 gennaio, fra le sette e le nove) al 997. Elementi interni fanno appa­ rire probabile che il deposito fosse sigillato intorno al 1035 d.C., forse a causa dell’imminente invasione dei barbari Hsia Hsia. Poi, come nel caso dei testi di Qumràn, il cui abbandono fu forse determinato da ana­ loghi motivi, la biblioteca di Ch’ien Fo Tung fu dimenticata per nove secoli. La lista delle opere perdute o ignote riportate alla luce sarebbe molto lunga. Oltre ai testi manichei e buddisti dovremmo citare la traduzione di un classico metafisico buddista in uigurico (idioma d’un popolo turco un tempo potente), una raccolta di racconti scritti in turco-runico, parec­ chi sutra apocrifi e soprattutto opere cinesi storiche, lessicografiche, bio­ grafiche e geografiche. Fra i manoscritti cinesi si trovano altri testi di diversissima natura: da un censimento dell’inizio del quinto secolo a una descrizione topografica di Tun Huang con le sue grotte sacre, a varie opere di letteratura. Giles ha definito “la scoperta forse più romantica fra i manoscritti di Tun Huang”25 una lunga poesia in 238 versi intitolata Il lamento della signora Ch’in. Si sapeva, o quanto meno si raccontava, che un famoso scrittore e statista dell’epoca Tang aveva scritto in gio­ ventù una ballata con quel titolo, che essendo spiaciuta nelle alte sfere era stata tolta dalla circolazione; e ora eccola, riscoperta dopo un mil­ lennio. Si tratta di un’opera di valore notevole, che descrive, con pennel­ late alla Goya, tragiche scene di guerra: un esercito ribelle s’impadroni­ sce di una città, le appicca il fuoco, ne trasforma gli abitanti in miseri fuggiaschi. L ’assedio e la presa della città sono descritti al poeta dalla signora Ch’in: Sostenendo gl’infermi, tenendo i bambini per mano, i fuggiaschi si chiamano a vicenda nel tumulto: Alcuni s’arrampicano sui tetti, altri scalano muri, e tutto è disordine... 25 I b i d pag. 21.

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Le donne del nostro vicino da nord, tutte insieme, Corrono selvaggiamente attorno, all'aperto, con il calpestio d'una mandria in fuga. Cielo e terra tremano al rombo delle ruote dei carri, E il tuono di diecimila zoccoli di cavalli riecheggia dal suolo. Il fuoco erompe, gettando faville dorate in alto, sino al firmamento, E le dodici grandi strade ufficiali sono presto invase dal fumo e dalle fiamme26. Parecchie opere, in particolare un libro intitolato Insegnamenti d'un padre, ricordano la letteratura didattica del Vicino Oriente. Fra i testi piu curiosi sono raccolte di lettere modello. Una di tali raccolte, dell'856, contiene utili esempi di lettere divisi per categorie, da “Lettere di laici a monaci buddisti e taoisti” a “Lettere private a parenti per parte di padre o di madre” . V ’è anche una “Lettera di scuse per essere venuto meno alle regole del decoro in seguito a ubriacatura” : Ieri, avendo bevuto troppo, mi sono cosi ubriacato da passare tutti i li­ miti; ma nessuna delle espressioni rozze e offensive che ho usato è stata pro­ nunciata coscientemente. Stamattina, avendo sentito altri parlare dell'incidente, mi sono reso conto di ciò che era successo, e sopraffatto dalla vergogna avrei voluto sprofondare sottoterra. Tutto è accaduto perché un recipiente di limita­ ta capacità era stato per l'occasione troppo riempito. Confido umilmente che nella vostra saggezza e benevolenza non mi condannerete per questa trasgres­ sione. Presto verrò di persona a presentare le mie scuse, ma nel frattempo vi prego di leggere benevolmente questa comunicazione scritta. Lasciando molte cose non dette, sono rispettosamente il vostro27... Come rispondere a una missiva in fondo così imbarazzante? Una altra raccolta fornisce un esempio di risposta appropriato, benché non molto indulgente: Ieri, signore, in preda ai fumi del vino, avete così gravemente mancato alle regole dell'educazione da perdere il diritto al nome di gentiluomo e da far­ mi desiderare di non aver più nulla a che fare con voi. Ma dato che ora espri­ mete vergogna e rincrescimento per l'accaduto, vorrei proporre un incontro fra noi, per una conversazione amichevole. Rispettosamente vostro28... Il più famoso fra tutti i documenti portati da Stein in Inghilterra è probabilmente un testo del quale esistono molte copie e che non è neppure manoscritto: una copia cinese del Sutra del Diamante. Benché il contenuto non offra nulla di nuovo, è uno dei libri più preziosi che il mondo possieda in quanto è in assoluto il primo libro stampato che si 26 Ibid., pag. 21. 27 Ibid., pagg. 33-4. 28 Ibid., pag. 34.

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conosca: risale all’868 d. C., cioè a mezzo millennio prima di Gutenberg. Particolare tipico dei Cinesi, sempre attenti ai dati cronologici, il colo­ phon reca la data esatta (11 maggio), oltre al nome dell’uomo che lo commissionò e distribuì (ma che non fu, contrariamente a quanto dicono alcuni, il primo stampatore del mondo). Il libro fu dedicato da un certo Wang Chieh alla memoria dei suoi genitori. Quest’opera a stampa è un rotolo lungo quasi cinque metri e com­ posto di sei fogli silografati e di una bellissima incisione in legno, incol­ lati l’uno all’altro ai bordi. Nessuno è in grado di dire dove fu stampata, ma l’eccellenza dell’esecuzione dimostra di là da ogni dubbio che non fu la prima opera del genere eseguita in Cina e dovette invece essere pre­ ceduta da molte altre. Come secoli dopo in Europa, la stampa non prese immediatamente il posto della scrittura a mano, pur tanto più faticosa. Nella raccolta Stein vi sono infatti soltanto ventisei documenti a stampa, alcuni dei quali ricordano curiosamente le immagini sacre e le indul­ genze cristiane silografate del tardo Medioevo europeo. Tuttavia, qual­ cuno ha sostenuto che la stampa, se non fu addirittura inventata dai sacerdoti buddisti, svolse la funzione di un efficace strumento di propa­ ganda buddista in tutto l’Estremo Oriente; e si cita, come esempio fra i più significativi, il milione e più di incantesimi stampati per ordine dell’imperatrice Shotoku nell’ottavo secolo. Il fatto che non sia giunto fino a noi nessun testo cinese a stampa di data più antica potrebbe be­ nissimo spiegarsi con l’ondata di persecuzioni antibuddiste e di guerre civili nel periodo del declino della Dinastia Tang intorno alla metà del IX secolo. Le fasi del processo grazie al quale giunsero in Europa la stampa e la carta non sono state ancora del tutto ricostruite, ma i più antichi stampi in legno della regione mediterranea sono stati trovati in Egitto, nel Fayyum, e i più antichi fra essi risalgono al 900 circa d. C.29

Motivo ornamentale cinese; da un bronzo del periodo Chou.

Dall’Asia interna all’Egitto la strada è lunga, ma le affinità e i con­ tatti furono più importanti di quanto si credeva un tempo. Le influenze ellenistiche operarono potentemente in entrambe le aree. Le scritture 29 Thomas F. Carter, The Invention of Printing in China..., 2fl ed. riv. da L. Car­ rington Goodrich, New York, Ronald Press, 1955, pagg. 176-81.

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semitiche e le lingue iraniche non furono sconosciute in nessuna delle due, e non è un caso che tanta parte delle perdute scritture manichee sia stata ritrovata nelle sabbie dell'Asia interna e dell'Egitto (così simili anche nel modo in cui hanno conservato testi sepolti). Inoltre, i più antichi esemplari di opere a stampa in Oriente e in Occidente furono rinvenuti nel deserto del remoto ovest cinese e nella valle del Nilo. La stampa, inventata nell’Estremo Oriente, venne così a aggiungere una nuova dimen­ sione all'interazione di varie civiltà. In un certo senso, chiude il cerchio della lunga strada culturale che unì Oriente e Occidente attraverso la spina dorsale dell'Asia.

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PARTE SETTIMA

IL NUOVO MONDO

Capitolo XXIII IL FASCINO D EI CODICI MESSICANI: DA HUMBOLDT A KINGSBOROUGH Immaginate che tutte le nostre grandi biblioteche sia­ no distrutte da invasori venuti da un diverso mondo, e che si salvino solo diciassette libri; e che quei dicias­ sette siano almanacchi, disegni astronomici, un libro sulla magia nera, un testo su feste religiose e festività nazionali, un oroscopo astrologico, un testo sulle con­ quiste della prima guerra mondiale e la genealogia di una famiglia di gran nome. Che cosa potrebbero pensa­ re della nostra civiltà gli invasori, quando i loro storici cominciassero ad analizzarla attraverso il contenuto di quei diciassette documenti? Frederick peterso n , Ancient Mexico1 “Come è possibile dubitare del fatto che almeno parte della na­ zione messicana doveva essere arrivata a un certo grado di raffinatezza culturale, quando vediamo con quanta cura furono composti i libri gero­ glifici messicani12? ” Al principio del XIX secolo, una frase del genere, in cui si parlava di “raffinatezza culturale” delPantico Messico, suonava perlomeno insolita. L ’autore ne fu Alexander von Humboldt, un barone tedesco che il suo tempo celebrò come l’ultimo uomo “universale” e che scrisse la prima opera d’un certo respiro sulle antiche civiltà d’America. Quando, nel 1799, Humboldt iniziò i viaggi che dovevano condurlo attraverso tutto l’emisfero occidentale, delle civiltà pre-colombiane si 1 Frederick Peterson, Ancient Mexico, New York, G. P. Putnam's Sons - Capricorn Books, 1962, pag. 240. 2 John Taylor (a cura di), Selections from the Works of Baron De Humboldt, Rela­ ting to... Mexico, Londra, Longmans, 1824, pag. 63.

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conosceva pochissimo; fra gli europei colti era allora di moda, se qual­ cuno accennava al livello relativamente alto di civiltà raggiunto dalle società aborigene indiane, sollevare obiezioni tese a limitare la portata di affermazioni del genere. Gli studiosi anzi descrivevano con tutta serietà l’America come un continente sfavorevole, per le sue caratteristiche

Motivo ornamentale dell’antico Centro America. Da un inta­ glio su pietra di E1 Tajìn (stato di Vera Cruz).

fisiche, allo sviluppo degli uomini e degli animali e abitato un tempo solo da orde selvagge3. William Robertson, l’eminente storico scozzese del XVIII secolo, dichiarava deciso che in tutta la Nuova Spagna non esi­ steva "neppure un monumento, neppure un avanzo d’edificio di epoca anteriore alla Conquista”4. Ma era vero che Puomo antico non aveva lasciato in America alcuna traccia della sua arte e della sua genialità? Oppure i padroni bianchi avevano fatto così diligentemente piazza pulita di tutto che, anche se il giudizio di Robertson era ingiusto, non esisteva prova alcuna del contrario? Strano a credersi, finché Humboldt non com­ parve sulla scena le opinioni pro e contro si fondavano su poco piu che notizie di seconda e terza mano. Nei primi cinque anni d’esplorazione Humboldt trovò un gran numero di testimonianze atte a dimostrare una volta per tutte l’assur­ dità di quello che egli chiamava l’“assoluto scetticismo” dei suoi contem­ poranei nei confronti delle culture indigene d’America. Nella Nuova Spagna (Messico) e nel Perù ebbe occasione di visitare rovine gigantesche. La piramide di Cholula, che visitò e studiò e della quale fece uno schizzo, superava in volume quella stessa di Cheope (Khufu). Ciò che lo colpì più di ogni altra cosa fu però il fatto che per lo meno in Messico le popo­ lazioni indigene avevano conosciuto la scrittura e conservato i documenti: il che, secondo gli storici illuministi, era la pietra di paragone della ci­ viltà. Il problema era se fossero sopravvissuti iscrizioni o libri inscritti con autentici caratteri antichi e se fosse possibile trovarli e mostrarli al mondo. Per fortuna, Humboldt aveva varie guide ad assisterlo nella ricerca. 3 Alexander von Humboldt, Researches Concerning the of the Ancient Inhabitants of America, with Descriptions and Most Striking Scenes in the Cordilleras, Londra, Longmans, 1814, 4 Cit. da Justin Winsor, Narrative and Critical History of Mifflin Co., 1884, voi. I, pag. 76.

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Institutions and Monuments Views of Some of the voi. I, pag. 4. America, Boston, Houghton

In primo luogo c’erano le memorie dei Conquistadores spagnoli, niente affatto insensibili a ciò che attestava la conoscenza dell’arte dello scrivere da parte delle popolazioni messicane, benché reagissero con un caratteristico miscuglio di curiosità, disprezzo e volontà distruttiva. Non appena sbarcato presso Vera Cruz, Cortés ricevette in dono, da emissari del re azteco Montezuma, due libri (o codici, come oggi si è soliti chia­ marli) che inviò al proprio sovrano, Carlo V, insieme con altri splendidi doni e con alcuni giocolieri che aveva liberati dalle gabbie dove erano tenuti prigionieri e fatti ingrassare per essere poi sacrificati. Pietro Mar­ tire d’Anghiera, lo storico italiano delle esplorazioni del suo tempo, sem­ pre sensibile al fascino del Nuovo Mondo, ebbe occasione alla corte di Carlo V di esaminare gli strani documenti inviati in Spagna. Uno degli agenti di Cortés riteneva che potessero essere disegni per ricami o per gioielli, ma Pietro Martire era convinto che fossero veri e propri libri, in una scrittura ignota. I pittogrammi gli ricordarono i geroglifici che aveva visti in Egitto; ammirò l’eleganza e abilità dell’esecuzione di immagini e simboli; pensò che i libri trattassero di leggi, cerimonie e feste reli­ giose, osservazioni astronomiche, cose della vita di tutti i giorni5. Parecchi altri scrittori degli inizi dell’epoca coloniale si erano resi conto che le popolazioni indiane del Messico e dello Yucatan conoscevano una qualche forma di scrittura; ma quei primi trattati furono tolti dalla circolazione dal governo spagnolo e rimasero inediti per secoli, subendo una sorte non diversa da quella della letteratura indigena alla quale ave­ vano cercato di assicurare la sopravvivenza. I conquistatori stessi videro dappertutto ed ebbero nelle mani libri e documenti di vario genere. Quando Cortés chiese a Montezuma che approdi poteva contar di tro­ vare lungo la costa del Golfo del Messico, si vide presentare una carta geografica su cui era tracciato tutto il contorno della costa fino all’istmo di Tehuantepec. In seguito, nella storica marcia verso l’Honduras, fece ancora uso di una carta geografica indigena. I palazzi e i templi di tutte le città per le quali passarono gli spa­ gnoli possedevano ricchi archivi: la cosa non sfuggi a un acuto osserva­ tore come Bernal Diaz del Castillo, membro del gruppo originario di quattrocento uomini al seguito di Cortés, autore in vecchiaia di un libro di ricordi personali sull’impresa. Nel tempio di Cempoala, città dei s t o ­ nachi, vicino a Vera Cruz vide “molti libri di carta piegati come tela di Castiglia”6. Il ricordo gli suggerì riflessioni che così esprime, nel suo stile deliziosamente privo d ’ogni pretesa letteraria: “V ’è tanto da pensare 5 De orbe decades octoy decade IV, capitolo 8, cit. da Daniel G. Brinton, Essays of an Americanist, Filadelfia, Porter & Coates, 1890, pag. 233. 6 Bernal Diaz del Castillo, The Discovery and Conquest of Mexico, 1519-21, tradu­ zione di A. P. Maudslay, New York, Farrar, Straus e Cudahy, pag. 86.

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che non so come dirlo in parole, avendo visto, come abbiamo visto noi, cose di cui non si era mai sentito parlare, che non si erano mai viste e neppure sognate” . Piu tardi, dopo l’ingresso nella capitale, fu portato all’archivio regale, “il cui custode era un grande capo che chiamavano Tapia, e teneva i conti di tutte le rendite che portavano a Montezuma

Disegno del complesso di templi di Tenochtitlan (Città del Messico). I san­ tuari più importanti sono consacrati a Huitzilopochtli, Tlaloc e Xipe. Dal Codice Fiorentino.

nei suoi libri, che erano fatti di carta, o amati, come la chiamano; e aveva una grande casa piena di quei libri”7. Questi archivi, insieme con la biblioteca del tempio, furono involontariamente incendiati proprio mentre stava per venir meno la resistenza a Cortes dell’ultimo impera­ tore azteco Cuahtémoc. Qualunque cosa si possa dire delle vandaliche distruzioni operate dagli spagnoli, pochi fra i loro uomini colti rimasero indifferenti ai libri pittografici messicani. Quella produzione quasi tropicale di colori lumino­ si, quell’intrico di forme, le figure grottesche, la disposizione bizzarra, 7 Ibid.y pag. 210.

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Pinsolita fattura li attraevano e respingevanp nello stesso tempo. Che strano uso avevano fatto gli indigeni di quei documenti? Era logico che libri così bizzarri, cosi incomprensibili spaventassero i timidi e i bigotti: e la Spagna sentiva dappertutto puzza d'eresia. Non del tutto a torto, associava i libri messicani a pratiche magiche e riti pagani. Tuttavia, uo­ mini come padre Alonzo Ponce, commissario generale del papa, giudicò particolarmente degni di lode gli indigeni dello Yucatan: “In primo luogo, perché innanzi l'arrivo degli spagnoli facevano uso di caratteri e lettere, con i quali scrissero le loro storie, le cerimonie, l'ordine dei sa­ crifici ai loro idoli, i loro calendari, in libri fatti con la scorza d'un certo albero8.” Gli altri loro meriti erano, secondo Ponce, l'assenza di sodomia e di cannibalismo. Per un bizzarro tiro della sorte, proprio il possesso di libri contribuì ad accelerare la rovina del potere politico e della civiltà aztechi. Gli indi­ geni reagirono alla venuta degli stranieri dai visi pallidi richiamandosi ad antichi miti. I loro libri dicevano che un giorno Quetzalcoatl, il buon re-profeta divinizzato del tempo antico, sarebbe tornato dall'Oriente, dove sorge il sole. Il mito di Quetzalcoatl trasformò Montezuma, il sovrano azteco una volta ardito e deciso, in un capo dalla volontà incerta, irreso­ luto e pavido. Altre profezie, basate sulla letteratura divinatoria e astro­ logica indigena, senza dubbio accrebbero il suo smarrimento; inoltre, presagi dell'imminente caduta dell'impero erano stati tratti dai testi sacri prima ancora che fossero stati avvistati gli spagnoli. Appena una generazione dopo la Conquista, tutti gli archivi e le biblioteche annessi ai templi delle più importanti città messicane erano scomparsi. La distruzione era stata quasi completa, e col tempo vennero meno anche la capacità di scrivere e leggere la “scrittura” indigena. Più tardi, un governatore coloniale della Nuova Spagna - un uomo al suo tempo considerato liberale - vendette gli antichi documenti che rima­ nevano nelle biblioteche messicane come “carta da pacchi a farmacisti, bottegai e fabbricanti di fuochi d'artificio”9. Nonostante le ricerche degli ultimi centocinquant'anni, si sono trovati solo pochi pezzi sparsi, so­ pravvissuti alla guerra, agli autodafé, alla negligenza dei secoli passati: tre codici (e anche quelli incompleti) d'origine maya e circa quattordici messicani (Messico centrale e meridionale), più alcuni frammenti e alcune carte geografiche. Solo un testo, il Codex Borbonicus della Camera dei Deputati di Parigi, è sicuramente azteco, ma la sua antichità è stata di recente messa in dubbio10. Quando Humboldt pose termine alle sue esplo­ razioni si conosceva ancor meno. 8 Cit. da Brinton, op. cit., pag. 234. 9 William H. Prescott, History of the Conquest of Mexico, New York, Random House - Modern Library, s. d., pag. 60 n. 10 Peterson, op. cit., pag. 239.

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Nel XVIII secolo i pochi documenti messicani conservati in colle­ zioni europee erano stati ormai praticamente dimenticati: nessuno se ne interessava, e forse di nessun rotolo si riconosceva la vera natura. Era quasi troppo tardi quando un gruppo di uomini - e una donna -, per i quali gli esotici libri messicani diventarono una passione, intraprese con dedizione il compito del loro recupero, conservazione, interpretazione. Verso la fine dello scorso secolo, gli studi americanistici cominciarono a interessare scienziati nord-americani e tedeschi. Prima d’allora, questo campo di ricerche aveva attratto un discreto numero di eccentrici, studiosi e dilettanti che con la loro costanza e genialità seppero risolvere molti misteri. Con tutto ciò, l’enigma della scrittura maya attende ancora una soluzione definitiva. Al primo posto fra quanti si interessarono delle civiltà americane precolombiane viene Alexander von Humboldt, amico di Jefferson e Bolivar, cittadino di varie repubbliche americane, un “secondo Colombo” i cui studi rivelarono l’emisfero ai suoi abitanti non meno che a quelli del vecchio mondo. Humboldt si definiva un mezzo-americano. Bolivar, che dalle sue idee fu incoraggiato nella lotta per la liberazione, lo pro­ clamò “il vero scopritore del Sud-America. Il Nuovo Mondo deve piu a lui che a tutti i conquistadores messi insieme”11. Se c’era un uomo all’altezza del compito di esplorare un continente, quello era lui. In cinque anni di viaggi (dal 1799 al 1804) ne percorse quasi tutta la lunghezza e la larghezza. Impiegò un numero d’anni assai maggiore a analizzare e pubblicare il ricchissimo materiale che aveva rac­ colto. Descrisse le correnti dell’oceano, alcune delle quali ebbero nome da lui; suggerì lo sfruttamento del guano delle isole peruviane come fer­ tilizzante; disegnò carte geografiche; calcolò l’area del Messico; tracciò per la prima volta nella storia il profilo di una massa terrestre di grandi proporzioni quando disegnò il contorno di una sezione trasversale del Messico dal Golfo al Pacifico; stabilì la posizione geografica di Acapulco; fu il primo a scalare il Chimborazo nell’Equador; constatò la presenza della via di comunicazione naturale fra il bacino del Rio delle Amazzoni (Rio Negro) e 1’Orinoco costituito dal Casiquiare; scoprì giacimenti di minerali e li studiò; copiò petroglifi nella giungla brasiliana; raccolse centinaia di nuovi specimen botanici; formulò teorie rivoluzionarie sul vulcanismo e le formazioni geologiche; raccolse dati statistici relativi alla popolazione nel Messico; scrisse i primi libri di geografia politica (su Cuba e sul Messico); imparò parecchie lingue indigene dal quechua al nahuatl; esaminò minuziosamente archivi d’ogni genere; fece fini 11 Herbert Scurla, Alexander von Humboldt. Sein Leben und Wirken, Berlino, Verlag der Nation, 1955, pag. 218.

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disegni di llama, vette montane, zattere di balsa, piramidi; e ancora non è tutto. Humboldt era in primo luogo un naturalista e aveva iniziato la sua carriera come ingegnere minerario; ma v'era poco che non assimilasse, facendolo suo. Portò nell'esplorazione delle Americhe uno spirito curioso, aperto a tutto, assolutamente privo di dogmatismo, e fu l'ispiratore di John Lloyd Stephens, l'esploratore delle rovine maya, e di William H. Prescott, lo storico del Messico e del Perù, che tanto contribuì a destare l'interesse del pubblico per le civiltà precolombiane. Nessuno prima di Humboldt aveva studiato sistematicamente l'America, nessuno ne aveva visto la natura e la cultura nel quadro di un'impostazione razionale. Vero cosmopolita, senza la più leggera traccia di razzismo, Humboldt nutriva per le popolazioni indigene, per le loro culture, per le loro aspirazioni, una simpatia autentica neppur vagamente tinta di paternalismo. Non ebbe mai dubbi sul fatto che gli schiavi negri erano gli eguali dei loro padroni sotto ogni punto di vista tranne quello della legge. Reduce dal viaggio attraverso le selvagge regioni del bacino del Rio delle Amazzoni, il caso gli fece trovare nell'entroterra peruviano un manoscritto del XVI secolo in una lingua indigena ma scritto in caratteri alfabetici latini. La scoperta stimolò la sua fantasia e gli ispirò la deci­ sione di dedicarsi alla ricerca delle testimonianze di antiche civiltà in­ diane. Al fratello, il celebre filologo Wilhelm von Humboldt, confidava: “La scoperta di questo manoscritto ha fatto rinascere in me il desiderio di studiare l'antica storia degli aborigeni di questi paesi, un desiderio destato la prima volta dalle tradizioni che raccolsi a Parime e dai gero­ glifici [in realtà disegni rupestri] che vidi nella giungla sulle rive del fiume Casiquiare12.” Entrò nel Messico da Acapulco, sulla costa del Pacifico, nel marzo 1803, passò per Taxco e Cuernavaca, e mentre viaggiava alla volta della capitale cercò di raccogliere informazioni sui “dipinti geroglifici” , come chiamava gli antichi documenti messicani. Fu felice quando un indi­ geno gli mostrò una carta geografica d’epoca precolombiana. Giunto final­ mente a Città del Messico, sorta sulle rovine della metropoli azteca, riuscì a ricostruire l'immagine di Tenochtitlàn, con gli altari per i sacrifici, i palazzi reali, le piramidi dei templi, sulla base dei pochi manufatti su­ perstiti e di antichi schizzi e documenti. Solo pochi anni prima erano state fatte varie importanti scoperte archeologiche presso la grande piaz­ za, nel corso degli scavi per un acquedotto sotterraneo. Il più notevole, fra i vari preziosi reperti, era la famosa Pietra del Sole, che Humboldt studiò attentamente e disegnò con molta precisione. Fu l'inizio dei suoi studi sul calendario messicano. Aveva sentito parlare anche del ritrova­ 12 Cit. da Helmut de Terra, Humboldt. The Life and Times of A. v. H. 1769-1859, New York, Alfred A. Knopf, 1955, pag. 134.

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mento di un formidabile idolo azteco di porfido, a due teste, che era ansioso di vedere e disegnare. Gli fu detto che il viceré lo aveva portato all’università di Città del Messico, il luogo più adatto a ospitare capola­ vori del passato, ma che i professori, membri dell’ordine domenicano, s’erano rifiutati di esporre un tal mostro alla vista di impressionabili

Pianta di Città del Messico all’inizio dell’epoca coloniale, attribuita da alcuni a Hernando Cortés. Tenochtitlàn vi appare come un’isola, con l’area sacra nel mezzo (Norimberga, 1524).

giovinetti. Humboldt si assicurò l’aiuto del vescovo di Monterrey, col quale aveva fatto amicizia e che proprio allora era di passaggio per la capitale; lo stratagemma ebbe successo, e il rettore dell’università ordinò che l’idolo fosse tratto dal nascondiglio in cui lo avevano ficcato, sotto uno dei corridoi dell’edificio universitario. Humboldt era uno scienziato, e non certo il tipo da innamorarsi di teorie fantasiose sulle origini delle civiltà. Gli uomini che per altri cen­ t’anni avrebbero continuato a chiamare in causa gli stanchi fantasmi di Israele, dell’Atlantide e via dicendo avrebbero potuto far tesoro di questo suo ammonimento: “Alcuni, attratti da splendide ipotesi costruite su

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assai deboli basi, hanno ricavato conseguenze generali da pochi fatti iso­ lati; hanno scoperto colonie cinesi e egiziane in America, hanno ricono­ sciuto dialetti celti e l’alfabeto fenicio13.” Non era però neanche un timido quando, dopo un attento esame dei dati disponibili, gli si presentava alla mente un’ipotesi; a lui si deve la brillante intuizione, confermata più tardi dalle scoperte, che i costruttori delle piramidi erano stati probabil­ mente preceduti da una popolazione d’agricoltori che s’era espressa in modeste effigi d’argilla14. Humboldt era convinto dell’esistenza d ’una notevole omogeneità razziale fra tutti gli indigeni americani, eccetto quelli dell’estremo nord; riteneva che il loro ceppo fosse in misura predominante mongolo, ma non escludeva la possibilità di rapporti fra manufatti e stili del Vecchio e del Nuovo Mondo. Soprattutto nel calendario messicano e nei suoi segni credeva di riconoscere affinità cinesi e tibetane, troppo precise per essere accidentali. Analogie sorprendenti come queste, nei miti, nei si-

immagine d ’una migrazione azteca. Da un antico codice messicano.

sterni cronologici, nell’architettura o nei manufatti, non si potevano igno­ rare. “È dovere dello storico sottolineare queste analogie, che sono tanto difficili a spiegarsi quanto i rapporti che esistono fra il sanscrito, il per­ siano, il greco e le lingue di origine tedesca; ma in ogni tentativo di ge­ neralizzazione dovremmo fermarci al punto in cui vengono a mancare i dati precisi15.” Humboldt aveva sentito parlare d’una tradizione dei toltechi, regi13 Humboldt, op. cit.} voi. I, pag. 10. 14 Terra, op. cit.j pag. 169. 15 Humboldt, op. cit., pag. 11.

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strata nella loro letteratura religiosa, che faceva risalire la loro invasione del Messico a una migrazione dalPAsia. Sperava quindi che lo studio di testi messicani avrebbe gettato qualche luce sulle origini degli indiani d ’America; ma tenne in sospeso il giudizio finché i dati a sua disposizione rimasero insufficienti. A città del Messico, diede inizio alla ricerca di manoscritti d’epoca anteriore alla Conquista; visitò collezionisti privati e gli archivi nazionali, ma ben presto si rese conto della scarsità di codici nella Nuova Spagna e registrò lo spiacevole fatto che ‘da maggior parte degli uomini colti qui residenti non ne ha mai visto neppure uno”16. In quel periodo ebbe notizia d’un suo predecessore, il cavalier Lorenzo Boturini Benaduci, milanese di nascita aristocratica, del quale Humboldt e W. H. Prescott parlano sempre come dello “sventurato Boturini” . Le sue sventure furono effetti­ vamente molte. Boturini si era recato nel Messico nel 1735 per sistemare certi affari personali della contessa di Santibànez, diretta discendente del sovrano azteco. Al Messico, nacquero in lui due passioni: per Nostra Signora di Guadalupe, la Madonna apparsa nel 1531 a un umile contadino indiano, e per il passato del paese. I suoi sforzi di raccogliere il materiale neces­ sario a autenticare l’apparizione della Vergine e a ottenere che il papa autorizzasse l’incoronazione della sua immagine nel santuario di Guadalupe lo misero a contatto con problemi di diverso genere, e l’allargarsi dei suoi interessi lo portò a concepire un ambizioso programma di ricerche grazie alle quali sperava di arrivare a scrivere un’ampia storia delle na­ zioni indigene, tutta basata su notizie di prima mano. Non si accontentò di quel poco che poteva trovare nella capitale; girò invece tutto il paese, sempre attento a non lasciarsi sfuggire l’occasione di metter le mani su qualche vecchio libro o manoscritto. Per otto anni Boturini condusse un’esistenza di fatiche e di stenti, “vivendo molto con gli indigeni” , come scrive Prescott, “talvolta passando la notte nelle loro capanne, talaltra in grotte, e nel profondo di solitarie foreste”17. Pian piano si guadagnò la fiducia degli indigeni, ne imparò la lingua, e pazientemente aggiunse un documento dopo l’altro alla sua sempre più ricca collezione. Quando tornò a Città del Messico possedeva circa mezzo migliaio di documenti d ’età pre e post-colombiana: probabilmente la più numerosa raccolta di codici che sia mai stata messa insieme. Non aveva però dimenticato la Madonna di Guadalupe; e proprio quella doveva essere la causa delle sue sventure. Possedeva ormai i dati sufficienti per difenderne la causa a Roma; ma pare che con questa ini­ ziativa si rendesse nemico il viceré, il quale vi riconobbe un’offesa alla propria autorità. Certe osservazioni di Boturini, che non pensava di dover36 36 Ibid.y pag. 190. 17 Prescott, op. c i t pag. 91 n.

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stare in guardia, arrivarono a orecchie maligne; le autorità spagnole, sempre sospettose, si allarmarono, e nel 1743 Boturini fu arrestato. Alla confisca dei documenti segui l'espulsione dal paese al quale aveva voluto rendere un servigio illuminandone la storia passata; a Vera Cruz, fu im­ barcato su una nave diretta in Spagna, senza il grosso della sua preziosis­ sima collezione, il suo “Museo” , come lo chiamava, ‘Tunico bene che possedesse nelle Indie, e che non avrebbe cambiato con tutto Toro e l’argento del Nuovo Mondo”18. Quei tesori, dovette lasciarseli dietro, abban­ donandoli a un'incerta sorte. In pieno oceano la nave spagnola fu assalita da corsari inglesi e Bo­ turini fu derubato dei pochi manoscritti che era riuscito a portare con sé (e la cui fine è ignota). Giunto in Spagna, difese energicamente la propria causa davanti al Consiglio delle Indie e fu assolto da ogni accusa di tra­ sgressioni legali. Alla sua Idea de una nueva historia de la América Sep­ tentrional, opera scritta in Spagna senza poter fare uso del materiale rac­ colto, egli appose un catalogo, redatto a memoria, della sua collezione di manoscritti. L'opera richiamò l’attenzione del re, che nominò Boturini Storiografo Generale delle Indie, assegnandogli però un salario troppo misero perché potesse prendere in considerazione l'idea di tornare nella Nuova Spagna. Boturini mori poco tempo dopo, senza essere rientrato in possesso del suo “Museo” . I documenti confiscati (cartacei, si noti) gia­ cevano frattanto nell'umido scantinato del palazzo del viceré. Qui Hum­ boldt ne ritrovò i resti: tre pacchi di piccole dimensioni, dei quali evi­ dentemente nessuno s'era mai piu curato e che l'umidità aveva parzial­ mente decomposto. Fortuna volle che durante il soggiorno di Humboldt a Città del Messico fosse messa all'asta la biblioteca dell'archeologo messicano An­ tonio de Leon y Gama, che comprendeva fra l'altro alcuni documenti precolombiani e alcuni testi dei primi tempi dopo la Conquista, proba­ bilmente appartenuti in origine alla collezione di Boturini. Humboldt riuscì a acquistare questi frammenti e più tardi li portò con sé a Berlino. I sedici frammenti non sono certo i più spettacolari fra i manoscritti mes­ sicani, benché insieme con il Codice di Dresda e un manoscritto di Am­ burgo rappresentino l'unica ricchezza della Germania in fatto di testi messicani. La maggioranza dei testi è di carattere non religioso: sono documenti riguardanti cause legali, fatture per prestazioni di lavoro o merci, titoli di proprietà terriera, documenti storici di vario genere, e fra l'altro una carta di Texcoco, l'antica capitale culturale della Valle del Messico. Fra i più interessanti è un'antica versione pittografica dei Dieci Comandamenti: conferma d’una tradizione secondo la quale missionari spagnoli, e più di loro il francese Jacques Testerà, avrebbero cercato a un 18 Humboldt, op. c i t pag. 188.

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certo momento di adattare la scrittura pittografica messicana alla trascri­ zione di testi cristiani. Il contributo di Humboldt alla conservazione dei codici precolom­ biani consistette non tanto nell’acquisto di frammenti sparsi quanto nel lungo studio che dedicò loro. Quei documenti ponevano molti problemi di non facile soluzione. Come esattamente erano stati fabbricati, e quale era il loro uso e scopo? In che cosa somigliavano ai libri europei e agli altri libri del Vecchio Mondo, e in che cosa ne differivano? Che cosa contenevano? Come erano stati scritti? Le immagini “dipinte” rappre­ sentavano una scrittura nel nostro senso della parola? Benché nel decifrare i codici Humboldt non si spingesse mai molto a fondo, arrivò tuttavia a capire benissimo la natura della scrittura pit­ tografica messicana. Parte di ciò che arrivò a sapere lo attinse da resoconti degli inizi dell’epoca coloniale e dagli studi di Antonio de Leon y Gama. Com’erano strani quei libri indigeni! Non c’era da stupirsi che gli euro­ pei, anche se non arrivavano a vederci l’opera del diavolo, li trovassero eccessivamente bizzarri. Eppure, tanti loro aspetti sembravano familiari.

Dal Codice Mendoza: uno scriba, o “pittore” di codici professionista, al lavoro. A destra, un geroglifico rap­ presentante il numero 8.000, con unito un pezzo di car­ ta: quindi, 8.000 rotoli o fogli di carta. Sotto, il tradi­ zionale “libro” precolombiano a soffietto.

Ogni codice, a meno che consistesse in un unico foglio o in una carta geografica o topografica, era fatto d’una striscia continua piegata come una fisarmonica o come un ventaglio. Quando il codice era intatto, le estremità erano attaccate a due rettangoli di legno o cuoio, talvolta de­

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corati con pietre preziose, che davano al codice chiuso l’aspetto d ’un sontuoso manoscritto europeo medioevale. La piegatura caratteristica ricordava a Humboldt i manoscritti siamesi che aveva visti alla Biblio­ teca Nazionale di Parigi. Come in alcuni libri delPEstremo Oriente, an­ davano lette prima tutte le pagine su un lato delle successive pieghe; poi si procedeva, in ordine inverso, a leggere tutte le pagine sull’altro lato. Quanto all’ordine di successione dei caratteri, tutte le variazioni erano per­ messe: poteva andare da sinistra a destra o da destra a sinistra, essere orizzontale o verticale o addirittura circolare o a zig-zag. Talvolta, righe rosse aiutavano il lettore a trovare la strada giusta. Come nel Vecchio Mondo, i manoscritti erano su pergamena o su un materiale ottenuto con una fibra vegetale, che non era esattamente carta ma le somigliava molto. Questa specie di “carta” veniva preparata con la corteccia interna di varie specie indigene di alberi di fico, premuta e battuta. Per dare consistenza si usava probabilmente una qualche spe­ cie di gomma o di amido, e il foglio ben lisciato veniva poi imbiancato con calce o gesso stesi in uno strato sottile. Il processo di fabbricazione della carta era esattamente lo stesso nell’America del Sud, nelle isole del Pacifico, nell’Asia sud-orientale e in certe parti dell’Africa; come in quel­ le altre aree, nel Messico la “carta” era largamente usata per offerte ri­ tuali e per abbigliamento. Anche la pergamena, ottenuta da pelle di cer­ vo e forse qualche volta di giaguaro, veniva sbiancata e pare che fosse il materiale preferito dai mixtechi del Messico meridionale. Per documenti di minori proporzioni, in particolare carte geografiche e tavole genealo­ giche, si usava tessuto di cotone. Quasi tutti gli autori del diciannovesimo secolo, compresi Humboldt e Prescott, sostengono che la “carta” si otteneva dall’agave, ma l’analisi dei campioni superstiti non lo conferma. In alcune parti del paese si praticano ancora i sistemi di fabbricazione tradizionali. Nel Messico an­ tico, la carta diede vita a un’industria molto attiva; come sappiamo da documenti aztechi, era uno fra i principali articoli di commercio e occu­ pava un posto di primo piano fra i prodotti consegnati a titolo di tributo: è registrata un’imposta annua di 24.000 rotoli pagata da un popolo soggetto. Come gli antichi egizi e gli antichi romani, i messicani distin­ guevano vari tipi di carta, e certi luoghi, come Amacoztitlàn e Itzamatitlàn nel Morelos erano celebri per l’eccellente qualità del loro prodotto19. Le caratteristiche materiali degli antichi libri messicani erano molto diverse da tutto ciò cui era avvezzo l’Occidente, e la scrittura riusciva ancor piu strana del resto; le analogie con i geroglifici egizi sono soltanto superficiali. Mille volte è stata posta la questione se questi documenti si possano chiamare libri. Contenevano scritti in caratteri convenzionali, e 19 Victor von Hagen, The Aztec: Man and Tribe, New York, New American Li­ brary - Mentor Books, 1958, pag. 190.

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comunicavano un preciso messaggio? In un certo senso, i libri pittogra­ fici dei messicani somigliano molto ai documenti pittorici dei loro cugini delle pianure nord-americane. Humboldt vi riconobbe paralleli con le pitture su legno degli irochesi e degli huroni. “In America,” ha osservato di recente Paul Radin, antropologo dell’Università di California, ‘V era

Preparazione della carta {amati) con corteccia d ’albero.

una tendenza ben sviluppata a rappresentare pittograficamente, su cor­ teccia d ’albero o su pelle d’animali, eventi scelti”20. C’è però una diffe­ renza essenziale. Quanti vedono ancora nei codici messicani o maya poco piu che un tentativo di rappresentare un evento riproducendone con mezzi pittorici l’azione, si lasciano sfuggire l’essenziale: i libri messicani non sono il corrispondente degli arazzi di Bayeux, né una forma sinistra di fumetti; non forniscono semplicemente l’immagine di un evento, ma contengono un’analisi degli atti singoli e dei loro singoli aspetti. Non sono neppure, a somiglianza delle medievali Bibbie dei Poveri, libri fatti esclusivamente d’immagini a uso degli analfabeti. Tutto fa pensare che i libri messicani fossero composti e “scritti” da sacerdoti esperti o da pro­ fessionisti, e che solo un'élite li potesse intendere senza difficoltà. Senza dubbio i messicani avevano superato lo stadio della raffigura­ zione pittorica di eventi e raggiunto quello della scrittura per immagini; il che equivale a dire che le immagini pittoriche dei loro testi non erano necessariamente rappresentazioni realistiche ed erano invece simboli: immagini quindi in sempre più alto grado stilizzate, atte a esprimere certi concetti e a conservare e comunicare dati e forse persino idee. Con­ servavano tuttavia elementi figurativi, e ancor oggi non sappiamo esatta­ mente a quale punto fosse arrivato il processo di astrazione simbolica; è dubbio se — con rare eccezioni — di questi testi si potesse dare una let20 Paul Radin, The Sources and Authenticity of the History of the Ancient Mexicans, University of California Publications in American Archaeology and Ethnology, voi. XV II, 1920-26, pag. 6.

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tura parola per parola, a meno che i simboli avessero la funzione di se­ gni, quasi di appunti mnemonici per testi trasmessi oralmente, funzione che probabilmente svolsero in alcuni casi. Sappiamo che gli aztechi pos­ sedevano scuole, uno dei cui fini era addestrare giovani alPapprendimento a memoria d ’una ricca letteratura religiosa, storica e poetica. In defini­ tiva, è certo che la scrittura messicana non raggiunse mai il grado di astrazione né la precisione dei sistemi di scrittura fenicio o mesopotamico e neppure del cinese. Fra i popoli con una scrittura pittografica, notava Prescott, gli egizi del 3000 a. C. “occupano il gradino più alto della scala, gli aztechi il più basso”21. Su che gradino stessero i maya non si sa bene, ma certamente più su degli aztechi e dei mixtechi. La scrittura messicana non era dunque né sillabica né alfabetica, e non si può ridurre a un numero fisso di simboli. Per questa ragione, non se ne troverà mai la chiave: non la regola nessun principio universalmen­ te valido. Si può dare l’interpretazione esatta di un pittogramma o di una frase, ma senza poter dedurre da questa lettura princìpi validi per l’inter­ pretazione di un altro simbolo o di un’altra frase; ogni volta bisogna ri­ cominciare da capo. Tuttavia, molti elementi sono standardizzati. I mes­ sicani conoscevano elementi dei tre principali tipi di scrittura, cioè (se­ condo la classificazione solita) del pittografico, dell’ideogrammatico, del fonetico. Il loro sistema è un fossile culturale, geneticamente più antico della scrittura di qualsiasi civiltà passata o presente. Anzi, uno dei moti­ vi d’interesse dei documenti messicani è il fatto che, per usare le parole d’un americanista moderno, “nei manoscritti messicani si possono vedere illustrate tutte le fasi dell’evoluzione primitiva della scrittura”22. La scrittura pittografica implica la resa figurativa di un oggetto tan­ gibile o di una scena reale; deve limitarsi quindi a raffigurare cose visibili ed è incapace di dare un racconto continuo e coerente. Gli ideogrammi allargano enormemente le possibilità in quanto simboleggiano, oltre che oggetti concreti, anche concetti astratti, rapporti, attività e così via. I se­ gni fonetici, la forma di scrittura più progredita, valgono solo per una lingua, ma nell’ambito di quella lingua permettono la codificazione di qualsiasi parola, indipendentemente dal suo significato e in base soltanto ai suoni che la compongono. Non v’è idea tradotta in parole, non v’è circostanza che non possano esprimere senza ambiguità, per quanto con­ sentono i limiti dell’intelligenza umana. In un sistema di scrittura evo­ luto, gli elementi fonetici si possono ridurre a un minimo di sillabe, come in un sillabario, o di lettere, come in un alfabeto. I messicani avevano una certa familiarità con tutti i tre metodi, ma 21 Prescott, op. cit., pag. 56. 22 Alfred M. Tozzer, “The Value of the Ancient Mexican Manuscripts in the Study of the General Development of Writing”, American Antiquarian Society. Proceedings, voi. XXI, aprile 1911, pag. 3.

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in diverso grado. I loro simboli di numeri erano tutti ideogrammatici, come i nostri; essi indicavano i numeri con i segni di un sistema vigesimale (nel quale cioè si contava per ventine), anziché decimale. Per esem­ pio, il numero 20 era indicato con una bandiera o uno stendardo di guerra; il 400 con un segno che potrebbe rappresentare una piuma op­ pure una frasca (secondo altri una treccia); l'8.000 con il disegno di un sacco speciale usato per trasportare grani d'incenso o chicchi di cacao, che servivano come una specie di valuta legale. I maya usavano due di­ versi tipi di cifre, come noi usiamo cifre arabe e romane. Le loro unità andavano da 20 a 360 (18 x 20) e poi, per via di moltiplicazione, da 20 a 7.200. Come i matematici indù e arabi dell'alto Medioevo (e pro­ babilmente come gli antichi sumeri) conoscevano lo zero, rappresentato di solito con il disegno di una conchiglia, e sapevano moltiplicare grosse cifre variandone la posizione. Ognuno dei 260 giorni (13 x 20) del com­ plesso calendario religioso comune a tutte le culture progredite del Centro America e usato nell'arte magica della divinazione (Tonalpohualli) aveva la sua combinazione fissa di segni. Gli ideogrammi messicani (cioè aztechi e mixtechi) riflettono di soli­ to origini pittoriche. Il concetto “camminare” è, per esempio, indicato con una successione di orme; il concetto “parlare” con una lingua in movi­ mento, il “vedere” con un occhio girato verso l'alto. Il segno indicante la presa di una città è l'immagine di un tempio in fiamme, con accanto il nome della città. La cattura di un prigioniero è rappresentata dall'im­ magine di una persona tirata per i capelli, che ricorda curiosamente il famoso ideogramma egizio della paletta Narmer, degli inizi del periodo dinastico (circa 3100 a. C.). Nelle scritture geroglifiche, una parte o un aspetto possono stare per il tutto; in questo modo i pittogrammi diven­ tano astrazioni. Uno dei più graziosi è il simbolo del cantare: una lingua in movi­ mento ( = “parlare” ) circondata da fiori. La morte è di solito rappre­ sentata con un cadavere fasciato; un cadavere fasciato, con i segni corri­ spondenti a un nome e a una data, seguito da una figura a occhi aperti, sempre con data e nome, significa all'ingrosso, quando entrambe le figure sono coronate, che il tale sovrano morì a una certa data e gli succedette il tale altro. Gli spagnoli si meravigliarono di trovare segni somiglianti a una croce e un simbolo che ricordava da vicino una maiuscola romana. In entrambi i casi, la somiglianza era casuale. La croce rappresentava uno dei quattro punti cardinali, o tutti e quattro. Gli entusiasti della diffu­ sione culturale proclamarono che l'“A” mixteca era un'abbreviazione del latino annus o dello spagnolo ano, ma in realtà era un raggio di sole ca­ povolto, usato come simbolo dell'anno, intrecciato con un rettangolo. L'aspetto fonetico è il meno importante, e in particolare fra gli aztechi e mixtechi è quasi esclusivamente del tipo a “rebus” , fondato su 454

immagini identificabili. Il rebus, come tutti sappiamo, è una specie di indovinello basato sull'approssimativa somiglianza fonetica di una parola o una sillaba con un'altra la cui immagine pittorica è facilmente ricono­ scibile e che si può sostituire alla prima; combinando immagini diverse

Il simbolo mixteco deiranno in tre variazioni; dal Codice Nuttall, precolombiano.

si possono cosi formare composti d'ogni genere. Fra i messicani questa specie di gioco ebbe la sua piu vasta applicazione nei nomi di persona e di luogo che, come presso molti popoli primitivi, consistevano di ele­ menti concreti e identificabili. Humboldt non mancò di accorgersene: “Sapevano scrivere nomi scrivendo segni associati con suoni23.” Cosi, un uomo nato l'ottavo giorno del mese Cervo è chiamato 8 Cervo (in mixteco 8 mazatl e il suo geroglifico consiste in una fila di otto perline accanto alla testa d’un cervo. Il sovrano azteco Itzcoatl era rappresentato con un serpente dal corpo del quale sporgevano coltelli di ossidiana {itili —coltelli di ossidiana; coati —serpente). Montezuma, o più esattamente Mo-quauhzoma, era rappresentato da una trappola per topi (mentii), un'aquila {quauhxìi), un bisturi (io) e una mano (maitl). Siamo di fronte a un in­ cipiente sillabario. In alcuni nomi di luoghi un simbolo può persino stare per un suono corrispondente a una sola lettera occidentale, come atl (ac­ qua) per “a” , etl (fagiolo) per “e” , otli (strada) per “o” . Esiste tuttavia la possibilità che questi ultimi siano perfezionamenti d’epoca postcolom­ biana. Per citare esempi di nomi geografici, quello della capitale azteca, Tenochtitlàn, era composto d'una pietra (tetta) posata sopra un cactus (nochtli); il nome di Chapultepec era scritto con due segni: una cavallet­ ta (chapul) su un'altura (tepec). Il fatto che i messicani usavano alcuni elementi fonetici spinse Humboldt a chiedersi se non fossero stati prossimi alla scoperta di un sillabario. “Avrebbe potuto portarli a trasformare in segni alfabetici i loro semplici geroglifici24.” Ma stimando al giusto valore il conservato­ rismo innato a tutte le razze, e tenendo conto del fatto che la scrittura egizia, benché progredita, non aveva saputo raggiungere quel grado di 23 Cit. in American Antiquarian Society. Proceedings, N. 70, 1878, pag. 94. 24 Ibid.

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evoluzione in tremila anni, lo studioso giudicava assai remota la possibilità di elaborazione d’un alfabeto da parte dei messicani entro un breve lasso di tempo. In ogni caso, gli interessi costituiti di sacerdoti e scribi avreb­ bero rappresentato un grave ostacolo. Oltre agli elementi dei tre sistemi di scrittura descritti, anche il colore (come nelPiconografia bizantina) poteva servire a esprimere un significato; “anche i colori infatti parlano, nei geroglifici aztechi”20. Insie­ me al disegno, il colore era dunque piegato a usi che avrebbero fatto la delizia di Rimbaud; brillanti accostamenti, policromie festose trionfa­ vano sulla mancanza di prospettiva e l’apparente primitivismo delle forme. Anche nei pochi codici sopravvissuti possiamo distinguere certe diffe­ renze nell’uso del disegno, del colore, dei simboli. Humboldt e la maggior parte dei suoi successori, fino alla seconda metà del secolo XIX, non fecero molta strada nel decifrare la scrittura messicana; né era probabile che saltasse fuori un’altra Stele di Rosetta. Prescott, che studiò a fondo il trattato di Humboldt, concludeva triste­ mente: “È impossibile gettar l’occhio su questi fantastici accostamenti di forme e colori senza avere l’impressione che ogni tentativo di recupe­ rare la chiave per l’interpretazione dei simboli mitologici aztechi è irre­ parabilmente condannato in partenza al fallimento2526.” Tuttavia Humboldt riuscì a rendersi conto abbastanza bene della varietà di temi e contenuti dei libri messicani. Sapeva che i documenti indigeni relativi alla proprietà terriera avevano continuato a essere usati in contese legali per qualche tempo dopo la Conquista. I dominatori spagnoli avevano dimostrato un certo interesse anche per le liste tributarie degli aztechi, ne avevano fatte copiare parecchie, vi avevano aggiunto spiegazioni in spagnolo. Gli scrittori dei principi dell’epoca coloniale avevano parlato della varietà dei soggetti trattati nei rotoli. Quanto ai codici sopravvissuti, l’uso ma­ gico a cui alcuni di essi erano destinati appariva chiaro anche all’occhio inesperto; il contenuto di molti era di carattere astronomico e astrologico. Studiando la Pietra del Sole e i codici a sua disposizione Humboldt si fece un’idea abbastanza precisa delle concezioni astrologiche, del calen­ dario, della numerazione per cicli e del sistema numerico messicani, e si interessò in particolare alle intricate combinazioni del calendario civile e del religioso. Humboldt era certo che gli aztechi avevano posseduto annali “ca­ ratterizzati da un’estrema metodicità e di sorprendente minuzia”27. Gli sembrava probabile che i documenti della valle del Messico risalissero al VI secolo d. C. Era d’accordo con Boturini nel ritenere che prima di allora i messicani, come i peruviani e, pare, anche gli antichi cinesi, aves­ 25 Prescott, op. cit., pag. 56. 26 Ibid., pag. 91 n. 27 Humboldt, op. cit., pag. 137.

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sero usato a mo’ di documenti corde annodate, chiamate nepohuatltzitzin e imparentate forse con le collane e cinture di conchiglie (wampum) usate nel Nord-America come mezzo di scambio, per suggellare conclu­ sioni di trattati e per ricordare eventi importanti. Si racconta che nel 660 d. C. un saggio tolteco aveva compilato a Tuia il Teoamoxtliy un libro sacro di tutte le popolazioni nahuatl, che trattava della creazione del­ l’universo e dell’uomo, delle divisioni del tempo, delle stelle, di miti, della migrazione dei popoli, e forse anche di morale. Humboldt rifletté tristemente che con ogni probabilità quella Bibbia tolteca esisteva an­ cora quando erano sbarcati gli spagnoli, che avrebbero poi sistematicamente cancellato ogni traccia dell’idolatria indigena. Tornato in Europa nel 1804, Humboldt non dimenticò i libri magici messicani; e inaspettatamente il Vecchio Mondo gli offerse ampie possi­ bilità di proseguire i suoi studi in materia. Nei lunghi viaggi che lo por­ tarono a Roma, a Velletri e Firenze, e a visitare biblioteche di tutta l’Eu­ ropa occidentale, trovò infatti e potè esaminare molti piu manoscritti di quanti non ne avesse avuti a disposizione nel Messico. Quando nel 1810 pubblicò la sua opera in due volumi sui monumenti delle antiche civiltà americane, dedicò buona parte del testo a un esame dei rotoli precolom­ biani e del calendario messicano; un terzo delle illustrazioni riproduceva parti dei codici. Mai prima era stato raccolto materiale del genere, e neppure esisteva ancora un sommario di ciò che si sapeva della scrittura messicana. Il libro conteneva un elenco di tutti i manoscritti che Hum­ boldt era riuscito a rintracciare, con note riguardanti le vicende della loro sopravvivenza. Non è un caso che la maggior parte di codici messicani si trovi oggi non in mani messicane ma europee. Dopo che Cortes ebbe ricevuto in dono due manoscritti da lui inviati al suo sovrano, i libri pittografici messicani godettero per qualche tempo d’una certa popolarità e furono uno degli articoli del commercio di curiosità; gli europei li vedevano come cose bizzarre, non come strumenti di Satana, e non pensarono a distruggerli. Anzi, secondo notizie contemporanee, circolarono in gran numero. Probabilmente dobbiamo la sopravvivenza di parecchi a soldati spagnoli che li mandarono a casa come souvenirs; d’altra parte, com’è destino dei souvenirs, molti furono presto dimenticati e in un modo o nell’altro scomparvero. Quelli che finirono chiusi in qualche armadio o cassone europeo spesso rimasero sconosciuti ai loro proprietari e al mondo della cultura in generale; di tanto in tanto qualcuno dava un’occhiata a un rotolo e rimaneva stupito della bizzarria delle immagini, della ric­ chezza di colori, ma molto spesso chi li osservava non sapeva neppure che contenevano veri e propri caratteri di scrittura. Praticamente tutti i pochissimi rotoli sopravvissuti, dopo aver dor­ mito per anni e anni in qualche ripostiglio, se non in posti peggiori, do­

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vettero essere riscoperti, e parecchi non lo furono prima del XX secolo. Si ritrovano di tanto in tanto frammenti strappati e sbiaditi, che conser­ vano appena le tracce della splendida policromia originaria e dei bellis­ simi disegni, e quel poco che sappiamo delle migrazioni di questi codici, delle loro rischiose vicende, fa somigliare le loro storie a quelle imman­ cabilmente avventurose dei manoscritti del Vecchio Mondo. Alexander von Humboldt, dopo anni di ricerche nel Messico e nelle collezioni europee, seppe dell’esistenza del Codice di Dresda solo quando stava per andare in stampa con il suo studio sulle antiche civiltà ameri­ cane; dopo il Codice di Dresda rimase per un altro mezzo secolo l’unico libro maya conosciuto. La provenienza di questo manoscritto è la più oscura che si possa immaginare. Alcuni ritengono che i primi proprietari europei siano stati gli Asburgo; in ogni caso nel 1739 il direttore della Biblioteca di Dresda, Johann Christian Gotze, che visitò Vienna in un viaggio di ritorno dall’Italia, ricevette il manoscritto dal suo proprietario (ignoto), che glielo diede come una curiosità e come qualcosa di “incom­ prensibile e quindi privo di valore”28. A sua volta Gotze lo donò alla Biblioteca Reale di Dresda nel 1744. Divenne più largamente noto grazie al fatto che Humboldt ne pubblicò cinque pagine, ma passarono decenni prima che ci si accorgesse che era fondamentalmente diverso dai codici messicani, e bisognò poi attendere ancora a lungo prima che qualcuno lo definisse “il più alto documento del livello intellettuale raggiunto dal­ l’America precolombiana” . Il Codice Borgia, uno dei più importanti se non il più sontuoso fra i manoscritti messicani, ebbe la sua parte di avventure. Fatto di pelle di cervo, contenente un racconto per immagini della nascita delle divinità messicane, era stato proprietà della famiglia Giustiniani, di Venezia, che l’aveva forse ricevuto in eredità da un antenato navigatore. Quel docu­ mento satanico i cui simili avevano un tempo spaventato gli Inquisitori spagnoli fu dato ai figli dei servi perché ci giocassero, e rischiò di finire bruciato quando per gioco un bambino lo mise nel fuoco. Fu salvato da un ecclesiastico romano, e porta ancora i segni della paurosa avventura. Dato ai Borgia, rimase nella loro biblioteca di Velletri finché non passò alla biblioteca di Propaganda Fide. Humboldt, incantato dai suoi colori d’arcobaleno, lo giudicò meritevole d’un posto d’onore fra i libri esotici29, e più tardi gli esperti furono d’accordo con lui. Humboldt fu anche il primo ad accorgersi che il Codice di Dresda, con i suoi caratteri di forma standardizzata, differiva da tutti gli altri; oggi quel codice è considerato il più importante fra i manoscritti preco­ lombiani, frutto di un’arte sapiente, di gusto barocco, che aborre gli spazi 28 Humboldt, op. cit., voi. II, pag. 48. V. anche William Gates, The Dresden Codex, Maya Society Publications, N. 2, Baltimora, 1932. 29 Humboldt, op. cit., voi. I, pagg. 206-7.

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bianchi e si compiace di forme stravaganti, di intricati disegni, di macabre eleganze. Acutamente, benché il parallelo sia per certi versi sbagliato, Humboldt paragonava i rotoli messicani al nastro di rilievi che corre tutt’attorno alla Colonna traiana. Questa la sua conclusione: “Nono­

stante l’estrema imperfezione della scrittura geroglifica dei messicani, i loro dipinti sostituivano benissimo i libri, i manoscritti, i caratteri al­ fabetici30." Un eccentrico lord anglo-irlandese fu l ’uomo che attuò, con splen­ dore e aristocratica munificenza, uno dei progetti di Humboldt: la pub­ blicazione di tutti i manoscritti precolombiani noti31. Fino a quel momento erano stati ben pochi coloro che avevano avuto la possibilità di esaminare i codici, sparsi in vari luoghi dei due emisferi e in paesi diversi. Inoltre, era necessario, assicurare la sopravvivenza dei preziosi documenti. Ciò che occorreva erano riproduzioni in facsimile, minuziose, scrupolose, par­ ticolareggiate, che potessero circolare largamente. Humboldt aveva espres­ so la speranza che qualche governo si assumesse la spesa del costoso lavoro; ma nessun governo prese iniziative del genere. Fu Edward King, visconte di Kingsborough, a finanziare e attuare il grande progetto; fu lui a raccogliere i manoscritti sfuggiti alla distruzione. I grossi volumi che pubblicò diedero per la prima volta al mondo un’idea complessiva di quei resti delle antiche civiltà americane e apri­ rono un’era nuova nel campo delle ricerche sull’età precolombiana, met­ 30 Humboldt, op. cit., voi. I, pag. 162. 31 Prescott, op. cit., pag. 74.

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tendo il materiale a disposizione degli studiosi; i più eminenti studiosi del XIX secolo riconoscono esplicitamente il loro debito nei confronti di questa pubblicazione. Kingsborough rintracciò codici in precedenza poco noti e probabilmente assicurò la sopravvivenza ad alcuni che sarebbero potuti andare persi o distrutti. Amici lo assistettero nelle ricerche, con­ dotte in paesi lontani dal suo come l'Ungheria, e oggi parecchi codici sono riprodotti soltanto nei volumi da lui pubblicati. In onore delPopera da lui svolta un manoscritto messicano è stato battezzato Codice King­ sborough. Il visconte non era uno studioso, bensì soltanto un profano senza alcuna preparazione specifica, come quasi tutti coloro che per primi si dedicarono allo studio dei manoscritti messicani: li spingeva l'entusiasmo, e i bizzarri e splendidi disegni dei codici accendevano la loro fantasia. Di Kingsborough è stato detto che la passione per quegli antichi testi diventò addirittura mania82. Edward King, nato nel 1795, rampollo d una famiglia dell'aristocrazia anglo-irlandese, era il figlio primogenito del conte di Kingston; quello di visconte di Kingsborough era un titolo onorifico del quale lo avevano insignito nel 1799. Entrò alTExeter College di Oxford nel 1814 e vi rimase fino al 1818 senza conseguire gradi accade­ mici. Appunto in quel periodo cadde sotto l'incantesimo degli antichi libri messicani. Quell'interesse nacque in lui in modo così improvviso e assunse su­ bito una tale intensità da far pensare a qualcosa di simile a un'esperienza mistica. All'origine di tutto fu il codice Mendoza, che Kingsborough vide alla Bodleiana: un codice precolombiano, fatto nel 1549 da scribi indigeni su ordine del primo viceré della Nuova Spagna, Don Antonio de Mendoza. Il codice è un'opera della quale non esistono altri esempi: un catalogo di costumi messicani, basato su documenti più antichi; include anche una lista dei tributi pagati a Montezuma. La sua storia è movimentata come poche altre. Mendoza lo volle finito in dieci giorni, per poterlo inviare, con la flotta diretta in Spagna, al sovrano, che voleva imparare a conoscere i suoi nuovi sudditi. Il manoscritto non arrivò mai a destinazione, perché la nave che lo portava cadde nelle mani di pirati francesi; fu acquistato da uno storico francese, André Thevet, e, secondo una versione (di solito francese), dato poi in prestito a un inglese che voleva pubblicarlo, e che non lo restituì mai3233. Secondo un'altra versione, Richard Hakluyt, allora addetto alla legazione inglese a Parigi, lo comprò per venti corone. Pro­ prietari successivi furono Samuel Purchas e John Selden, il quale ultimo lo donò a Oxford nel 1664. Poi il codice rimase nascosto chissà dove e 32 S. Austin Allibone, “Kingsborough, Rt. e Hon. Edward King, Viscount”, A Criticai Dictionary of English Literature..., Filadelfia, J. B. Lippincott Co., 1871, pag. 1033. 33 Cottie A. Burland, Art and Life in Ancient Mexico, Oxford, Bruno Cassirer, 1948, pag. 102.

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dimenticato per oltre cent’anni; ricomparve prima o durante gli anni in cui Kingsborough frequentò l’università oxoniense. Poco prima dello scop­ pio della seconda guerra mondiale, un americanista inglese, James Cooper Clark, portò a termine una splendida edizione del codice in tre volumi:

Pittogrammi del Codice Mendoza attestanti la conquista di due città del Messico meridionale da parte di un re azteco. Si no­ tino le spiegazioni in spagnolo.

un’incursione aerea fece piazza pulita di quasi tutte le copie depositate in un magazzino londinese34. Di li a non molto, altri manoscritti messicani conservati alla Bodleiana dovettero richiamare l’attenzione di Kingsborough. V ’era, per esempio, il Codice Laud, a cui uno dei proprietari antecedenti aveva dato il titolo di Liber Hierogliphicorum Aegyptiorum MS35. Questo manoscritto d’epoca precedente alla Conquista era appartenuto un tempo a William Laud, il famoso arcivescovo di Canterbury che, sebbene famoso anche per il gran numero di libri da lui dati al fuoco, aveva donato a Oxford la sua collezio­ ne di circa 1.300 manoscritti in diciotto lingue diverse. Il codice era in Inghilterra per lo meno dal XVII secolo; eppure Robertson, lo storico 34 Peterson, op. cit., pag. 242. 35 Ibid., pag. 238.

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contemporaneo di David Hume (autore d ’una storia dell’America che go­ dette un tempo di grande popolarità), assicurava che in Inghilterra non c’era un solo rotolo messicano antico. È certo che si sbagliava: a quel tempo, non soltanto le antiche biblioteche monastiche e i ripostigli delle case spagnole erano cimiteri di libri. L ’Inghilterra è oggi il paese più ricco di manoscritti precolombiani, ma già al tempo di Robertson posse­ deva, nascosti in chissà quali recessi della Bodleiana, alcuni esemplari tra i più preziosi. Del Rotolo Selden, un altro ancora dei tesori di Oxford, si racconta­ no storie romanzesche d’ogni genere, nessuna del tutto provata. C. A. Burland, americanista inglese del ventesimo secolo, che ne pubblicò una edizione nel 1955, pensa che anche questo rotolo possa essere caduto nelle mani di pirati francesi, o che possa essere arrivato in Inghilterra direttamente, ad opera dei corsari di cui la Gran Bretagna non era meno ricca della Francia. Un’altra possibilità è che fosse stato dato al princi­ pe Carlo (più tardi divenuto il “buon re Carlo I ” d’infelice memoria) quando andò a corteggiare senza successo un’infanta di Spagna36. Grazie a un documento sappiamo che il più antico e più prezioso Codice Bodley 2858 era alla Bodleiana fra il 1603 e il 1605. Sembra cer­ to che un tempo avesse fatto parte della collezione del colto vescovo por­ toghese di Faro, Jeronimo Osorio. Ma come arrivò in Inghilterra? Gli studiosi hanno cercato una spiegazione nelle imprese piratesche del con­ te di Essex, il favorito di Elisabetta I, che a quanto pare vantava, fra le altre non del tutto lodevoli operazioni al suo attivo, anche il saccheggio del palazzo e della biblioteca del vescovo. Essex aveva donato al suo ami­ co Sir Thomas Bodley oggetti di vario genere dei quali era entrato in quel modo in possesso37. Grazie a questi codici, Kingsborough venne in contatto con l’enigma messicano. Non si sa fino a qual punto egli cercasse allora di penetrare il significato dei documenti, né se tentasse già allora un’interpretazione. Ciò su cui tutti i contemporanei sono d’accordo è il fatto che destarono subito in lui un’impressione vivissima e indimenticabile; secondo un te­ stimone, il giovane era addirittura “incapace di pensare ad altro”38. Lasciata Oxford, Kingsborough pensò dapprincipio di intraprendere una carriera pubblica, e due volte fu eletto al Parlamento come deputato di County Cork; ma nel 1826 diede le dimissioni in favore d’un fratello più giovane: la preparazione della sua grande opera, Antiquities of Mexi­ co, richiedeva tutte le sue energie, tutto il suo denaro, e alla fine avreb­ be voluto la sua vita stessa. Per l’esecuzione di facsimili assunse un di­ 36 Burland, The Selden Roll, Berlino, Gebr, Mann, 1955, pag. 9. 37 Alfonso Caso, Interpretation del Codice Bodley 2858, Mexico, D. F., Sociedad Mexicana de Antropologia, 1960, pag. 11. 38 Allibone, op. c i t pag. 1033.

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segnatore italiano, Agostino Aglio, che aveva eseguito le incisioni per i disegni egiziani di Belzoni, e lo fece lavorare per cinque anni, interamen­ te a proprie spese. Tre anni furono impiegati a copiare codici nelle col­ lezioni sul continente, in particolare a Vienna, Roma e Dresda. Obadiah Rich, il bibliografo americano, allora residente in Inghilterra, due volte si recò in Spagna per conto di Kingsborough a cercare manoscritti. An­ cora Kingsborough finanziò varie spedizioni archeologiche nel Messico e nello Yucatan del conte Jean-Frédéric Maximilien de Waldeck, uomo la cui nazionalità rimane tanto oscura quanto i suoi diritti al titolo nobiliare. Infine Kingsborough scrisse note esplicative — abbondanti e nel com­ plesso utili — al materiale illustrativo, alle quali sono però intercalati dotti paragrafi in cui Fautore espone i suoi “Argomenti per dimostrare che in età primitive gli ebrei colonizzarono l ’America” . I primi quattro volumi contenevano soltanto tavole riproducenti particolari dei codici, piu schizzi dei monumenti di Palenque e di altri luoghi; alcuni di quei monumenti furono più tardi rasi al suolo, di modo che i disegni nei vo­ lumi pubblicati da Kingsborough sono oggi Tunica testimonianza che ne rimanga. Il resto dell’opera conteneva vari testi sul Messico fino a quel momento accessibili solo in forma manoscritta, e soprattutto un’ampia scelta da una delle più pregevoli descrizioni delle civiltà indigene: i ma­ noscritti di frate Bernardino de Sahagùn, andati persi per circa tre secoli e riscoperti proprio allora. In anni più recenti la grande opera di Saha­ gùn è stata usata come fonte di prim’ordine per lo studio della lettera­ tura precolombiana, di cui il frate trascrisse vari testi in nahuatl, la lin­ gua predominante nell’antico Messico. Sette volumi furono pubblicati nel 1831, vivo Kingsborough; altri due seguirono nel 1846, ma il decimo e ultimo non vide mai la luce. L ’ac­ coglienza fu in generale favorevolissima. Scriveva la rivista londinese “Athenaeum” : “Quest’opera, nella sua magnificenza, richiama alla mente il mecenatismo dei sovrani e lo splendore di principeschi protettori della letteratura*9.” Spendendo circa 3.000 sterline per ciascuna, Kingsborough donò una copia su pergamena al British Museum e un’altra alla Bodleiana: un modo senza dubbio grandioso di fare l ’editore. I volumi, forma­ to gigante, erano in folio imperiale, quasi a riflettere, nell’eccezionaiità delle misure, l’intensità della passione di Kingsborough per l’esotico og­ getto delle sue ricerche. Prescott, originario del New England, uomo di gusti più puritani, osservava un po’ acido che “non è insolito, in opere di tanta magnificenza, vedere l’utilità sacrificata in qualche misura allo sfoggio”3940. Nove copie, stampate su speciale carta da disegno, furono offerte in omaggio a teste coronate. Le serie di volumi messe in vendita furono 39 Ibid., pag. 1034. 40 Prescott, op. c ì t pag. 74.

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offerte in origine a 210 sterline (allora una piccola fortuna) e a 140: il pri­ mo prezzo valeva per le copie colorate a mano, il secondo per quelle in edizione comune. I compratori in grado di sborsare tali somme erano pe­ rò assai pochi, e il prezzo non tardò a scendere rispettivamente a 63 e 36 sterline41. I due volumi postumi si vendettero soltanto per 25 sterline e 4 scellini. Questa caduta di prezzi significò la rovina economica di Kingsborough, al quale l’impresa era costata oltre 32.000 sterline; e siccome la sua famiglia non aveva mai approvato Piniziativa, Kingsborough non ot­ tenne alcun aiuto finanziario dal ricchissimo padre. Presto i reclami dei creditori cominciarono a farsi pressanti; tipografi e fabbricanti di carta chiedevano a gran voce di essere pagati; un’altra creditrice, la vedova Cranston, preferì adire alle vie legali e lo mandò in prigione. Altri imi­ tarono il suo esempio; il dogma della santità del denaro e del diritto di proprietà non risparmiava neppure i nobili, nell’Inghilterra e nell’Irlanda del Reform Bill. Tre volte Lord Kingsborough varcò la soglia delle prigioni dello sceriffo a Dublino, e nessuno dei suoi parenti fece un gesto per salvarlo. Nel terzo periodo di carcere contrasse una forma di “febbre delle prigioni” , eufemismo per tifo, che in pochi giorni lo portò alla tomba. Fosse vissuto qualche mese di più, avrebbe ereditato il titolo di conte di Kingston e la bella rendita annua di 40.000 sterline. Tutto som­ mato, Kingsborough non ebbe sorte migliore di Boturini; si sarebbe qua­ si detto che i libri messicani portassero sfortuna ai loro salvatori. Quando morì, Kingsborough era solo all’inizio dei suoi studi sulle civiltà precolombiane, ed è probabile che, come altri studiosi e archeologi del XIX secolo gravati da un pesante fardello di preconcetti biblici, più tardi avrebbe abbandonato certe sue strane teorie e fatto autentici pro­ gressi nella conoscenza del passato messicano. Kingsborough credeva, per esempio, che il Messico fosse stato colonizzato da una o da alcune fra le perdute tribù d ’Israele: ipotesi grottesca che di tanto in tanto ha fatto girare la testa a parecchi rispettabilissimi studiosi. Uno fra gli scopi della sua ambiziosa impresa era dimostrare la validità di questa tesi. “A questo fine,” scrive Prescott, “spiega tutte le batterie della sua logica e del suo sapere; con questo fine in mente sono decifrati i geroglifici, confrontati i manoscritti, disegnati i monumenti42.” Kingsborough scopriva tracce di origini ebraiche in nomi e istituzioni dove nessuno mai aveva creduto di riconoscerle. Per esempio, faceva de­ rivare etimologicamente il titolo del perduto Teoamoxtli dai toltechi da teo (divino), amotl (carta, libro) e moxtli\ quest’ultimo, osservava King­ sborough, “pare che sia Mosè” , il nome quindi significava “Libro sacro 41 Allibone, op. cit., pag. 1033. 42 Prescott, op. cit., pag. 75.

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di Mosè”43. Oggi, però, è troppo facile ridere di queste etimologie, e raramente ci fermiamo a riflettere sui notevoli paralleli fra il racconto biblico e quello messicano del Diluvio, o su una leggenda maya simile in modo inquietante alla storia biblica della Torre di Babele. C’era anche lo spettro sempre presente di Quetzalcoatl, Puomo bianco e barbuto venuto dalPOriente che aveva portato la legge morale ed era poi ripar­ tito, facendo vela attraverso PAtlantico. Parecchi scrittori spagnoli dei primi tempi coloniali avevano avuto la stessa idea di Kingsborough; uno di loro era stato Diego Duran, cronista della Nuova Spagna, che s’era recato nel Messico pochi anni dopo la Conquista. Lo stesso si dica per Cotton Mather, Roger Williams e William Penn, nelle colonie americane. Gli scrittori coloniali possono, più o meno involontariamente, avere in­ trodotto nelle loro opere elementi atti a convalidare la tesi dell’origine ebraica; ma non è sempre possibile riconoscere le interpolazioni e distin­ guerle dalle tradizioni autentiche e originali. Allora poi la critica storica, l’antropologia, l’archeologia (per non parlare delle teorie geologiche ed evoluzionistiche) erano ai primi passi; e uomini della statura intellettuale di Humboldt sono rari in qualsiasi epoca. Mezzo secolo dopo Kingsbo­ rough, Flinders Petrie, il pioniere dell’archeologia scientifica, iniziò la sua carriera in Egitto con la convinzione che le piramidi possedevano mistiche proprietà matematiche. Ancora più tardi Edward H. Thompson, famoso per il lavoro compiuto a Chichén Itzà e nei suoi c e n o te s , sperò di scoprire l’Atlantide nello Yucatan. L ’ultima parola in materia è stata detta da Prescott, proprietario di una delle serie “colossali” di Kingsborough: “Sarebbe ingiusto non ricono­ scere che il nobile autore, anche se la sua logica non è sempre convincen­ te, dimostra molto acume nello scoprire analogie; che rivela familiarità con l’argomento, e un notevole fondo di erudizione, benché spesso lo metta a cattivo partito; che, anche se si possono muovere alcune critiche all’ordinamento, ha raccolto un ricchissimo materiale inedito per illustra­ re l’antica civiltà azteca e, più in generale, le antiche civiltà americane; e che con questa generosa impresa, alla quale probabilmente nessun gover­ no avrebbe voluto e ben pochi privati avrebbero potuto sobbarcarsi, si è meritato l’eterna gratitudine di tutti gli amici del sapere44.”

43 Ibid., pag. 63. 44 Ibid., pag. 75.

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Capitolo XXIV BRASSEUR SCOPRE LANDA E G LI ANTIDILUVIANI ... magiche finestre, aperte sulla spuma D i perigliosi mari, in terre di fiaba, dimenticate.

KEATS

Nel 1863 la American Antiquarian Society di Worcester, Massachu­ setts, poteva guardare indietro con orgoglio ai suoi primi cinquantanni di vita. Dalla sua fondazione in poi, gli uomini d’ogni parte del mondo ave­ vano imparato a guardare al passato del continente americano con crescen­ te rispetto e curiosità. La storia delle antiche civiltà d’America doveva buona parte della sua popolarità a due scrittori americani: a John Lloyd Stephens del New Jersey, un avvocato che intorno al 1840 si era avven­ turato nelle giungle dello Yucatan, dello Honduras e del Guatemala per ritrovare le tracce di città dimenticate, e al suo contemporaneo William H. Prescott, lo storico bostoniano, che tracciò un vivido quadro del me­ lanconico declino degli aztechi e degli inca e della conquista europea. Nel 1863, anno del cinquantenario, scoperte recenti promettevano di rivendicare la “maturità intellettuale” delle popolazioni del Nuovo Mondo e di “stabilire la loro eguaglianza con le nazioni più antiche” . Rivendica­ zioni del genere, dichiarava il segretario della società, erano ispirate so­ prattutto da una scoperta fatta nel 1863 e destinata forse a fornire la chiave “delle misteriose storie nascoste dietro gli orrendi geroglifici mes­ sicani e centroamericani”1. Uno studioso francese, l’abbé Brasseur de Bourbourg, aveva trovato in Spagna una descrizione inedita dello Yu­ catan che si supponeva contenesse il perduto alfabeto fonetico dei maya. Benché la supposizione non fosse perfettamente esatta, il manoscritto, 1 Samuel F. Haven, “Report” , American Antiquarian Society. Proceedings, N. 55, ottobre 1870, pag. 46.

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risalente agli inizi delPepoca coloniale, avrebbe effettivamente chiarito molti aspetti fin allora ignoti della civiltà maya. L ’abbé Brasseur era già noto agli archeologi: meno di dieci anni prima aveva regalato ai colleghi un’altra sorpresa, benché di minor valore. In una lettera dal Guatemala al “New York Tribune” e in comunicati analoghi alla stampa francese aveva infatti dichiarato nel 1855 che le lingue parlate dalle popolazioni indigene dell’America centrale rivelavano indubbie affinità con le lingue germaniche, e in particolare scandinave. A Guatemala la Nueva, l’abate aveva dedicato parecchi mesi all’analisi di manoscritti vecchi di secoli scritti nelle lingue locali, e vi aveva tro­ vato conferma alla sua tesi. In uno dei racconti si diceva che gli antenati degli indigeni erano giunti per la via del mare da un paese freddo e ne­ voso. La loro patria d ’origine, affermava l’abate, era la penisola scandi­ nava; i fantastici palazzi e templi nelle giungle d’America erano stati costruiti da uomini discendenti dalle razze germaniche. “I toltechi, i mes­ sicani, i quiché, i cakchiquel, gli zutugili,” si chiedeva Brasseur (era una domanda retorica), “si riveleranno nostri fratelli? Sono forse scandi­ navi2? ” Era quella l’epoca in cui venivano propagandate le più folli teorie sulle origini delle popolazioni americane, a dispetto degli ammonimenti di Humboldt e nonostante la fine di Lord Kingsborough. Attraverso le oscure nebbie dell’oblio, osservatori chiaroveggenti ricevevano continuamente messaggi dalle misteriose rovine e iscrizioni nelle foreste tropicali, e quanto maggiore era la loro ignoranza, tanto più audaci erano i voli di fantasia. Alcuni studiosi cominciavano a diventare scettici nei confronti di quel tipo di ricerche e dei risultati che se ne facevano derivare, ma il campione degli scandinavi era un uomo del quale non si poteva non tenere alcun conto: i suoi colleghi erano d’accordo nel pensare che, sebbene non gli si potesse dar credito quando presumeva di spiegare le origini delle civiltà indigene del Messico e dell’America centrale, egli rimaneva tut­ tavia uno fra i massimi studiosi dei resti delle antiche civiltà americane. In lui, l’abilità nel trovare e salvare documenti perduti e dimenticati era purtroppo accompagnata da tendenze visionarie, che hanno forse messo in ombra gli importanti risultati delle sue attività; a lui infatti più che a chiunque altro dobbiamo la conoscenza del fatto che le antiche popo­ lazioni dell’America centrale possedettero una letteratura. Mentre Lord Kingsborough non aveva mai visto un indiano in carne e ossa, l’abbé Brasseur fece cinque lunghi viaggi nel Nuovo Mondo e risiedette e viaggiò per lunghi periodi nel Messico e nel Guatemala, dove imparò a parlare correntemente le lingue locali, raccolse una ricchissima messe di dati sulla vita indigena e mise insieme una collezione senza pa­ 2 Charles Étienne Brasseur de Bourbourg, “Notes d ’un voyage dans l’Amérique Centrale”, Nouvelles Annales des Voyages, voi. I, Serie 6, agosto 1855, pag. 158.

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ralleli di documenti indigeni scritti poco dopo la Conquista. Charles Étienne (o Etienne-Charles) Brasseur (il de lo aggiunse poi lui) era nato nel 1814 a Bourbourg, piccola città fiamminga fra Calais e Dunquerque, nella Francia settentrionale. Concepì presto un grande interesse per la storia del passato; e furono la storia dell'Egitto antico, quella della Persia e dell'India le prime a conquistare il suo interesse. Pensava, come quasi tutti allora, che prima di Colombo l'America non avesse avuto cultura né storia. Poi, nel 1832, lesse un resoconto giornalistico della supposta sco­ perta in Brasile d’una tomba in cui era stato sepolto un guerriero con armi macedoni, in una bara inscritta con caratteri greci; la bizzarra no­ tizia gli scaldò la fantasia, suggerendogli possibili legami fra l'America e il Vecchio Mondo. Come nel caso di Kingsborough, la prima impressione fu decisiva e, in un certo senso, fatale. Da allora in poi Brasseur lesse avidamente tutte le notizie che potè trovare sull'esplorazione dell'A­ merica. Poco tempo dopo, il destino gli mise in mano una copia del “Journal des Savants” contenente la riduzione del resoconto di Antonio del Rio, un ufficiale dell'esercito spagnolo al quale Carlo III di Borbone (il re che aveva iniziato la sua carriera monarchica e archeologica nel regno di Napoli) aveva affidato l'incarico di studiare le rovine di Palenque nello stato di Chiapas, Messico. Molto più tardi Brasseur doveva ricordare l'im­ pressione che ricevette dalla lettura: “una meraviglia mista di piacere... Segnò il mio futuro... Un vago presentimento mi mostrava in distanza non so quali misteriosi veli che un segreto istinto mi spingeva a sollevare. E sentendo parlare di Champollion, la cui fama cominciava a giungere anche nei collegi della nostra provincia, mi chiedevo se il continente oc­ cidentale non avrebbe potuto un giorno essere oggetto dello stesso lavoro scientifico al presente svolto in Europa...”3. Quello dell'emulazione con Champollion doveva diventare un altro motivo costante nei suoi studi sulle civiltà precolombiane. Terminate le scuole Brasseur si dedicò per qualche tempo alla poli­ tica e al giornalismo e scrisse un romanzo nello stile di Chateaubriand, La dernière vestale ; entrò poi in un seminario cattolico e ricevette gli ordini a Roma nel 1845. Lo stesso anno fu inviato a Quebec a insegnare storia ecclesiastica e a scrivere una biografia di monsignor Lavai, primo vescovo della città. Di lì a un anno fu trasferito a Boston, dove il suo interesse per gli Indiani d'America rinverdì; intrapreso lo studio dell'in­ glese, il giovane s'immerse nella lettura della Conquest of Mexico di Prescott, e quell’“opera deliziosa e istruttiva” - doveva confessare in seguito - finì di confermarlo nella decisione di dedicarsi allo studio della storia e delle civiltà d'America. 3 Brasseur, Histoire des Nations Civilisées du Mexique et de VAmérique Centrale..., Parigi, A. Bertrand, 1857, voi. I, pag. in.

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Tornato da quel primo soggiorno nel Nuovo Mondo, Brasseur passò due anni a studiare gli antichi documenti americani conservati nelle biblio­ teche del Vaticano; qui lesse e assimilò la “grande opera” di Kingsborough e si immerse nello studio dei Codici Vaticano e Borgia, che già conosceva da riferimenti nel libro di Humboldt. Non tardò a nascere in lui il desi­ derio di tornare in America e di visitare i luoghi dov'erano fiorite le piu alte culture dell'emisfero occidentale, e mentre Roma era in preda ai tumulti della guerra civile e delle insurrezioni nazionalistiche, alPabate parve giunto il momento di far vela verso terre che sperava più pacifiche; cosi, nel 1848, anno di rivoluzioni in tutta PEuropa, tornò a traversare PAtlantico. Lasciata la costa orientale degli Stati Uniti viaggiò lungo POhio e il Mississippi; poi a New Orleans prese una nave diretta a Vera Cruz a bordo della quale ebbe la fortuna di far conoscenza con il mini­ stro francese al Messico e di destare il suo interesse. Quando giunsero a città del Messico, il ministro gli ottenne la carica di cappellano della legazione francese, una sinecura che gli permise di continuare senza preoc­ cupazioni i suoi studi. La posizione di Brasseur e la sua naturale amabilità gli facilitarono molto i compiti che si era assunto. Strinse amicizia con il direttore del museo nazionale, Don Rafael Isidoro Gondra, che gli fece vedere copie rare di autori dei primi tempi coloniali, fra le altre un manoscritto con­ tenente parte duna traduzione secentesca da un'opera indigena storico­ religiosa praticamente ignota in lingua quiché (guatemalteca). Inoltre cominciò a raccogliere documenti antichi. Il primo che acquistò era una versione spagnola incompleta duna Historia Tolteca, appartenuta un tem­ po a Boturini. Tramite i buoni servigi del segretario agli esteri messicano ottenne anche accesso agli archivi vicereali, e diventò un frequentatore assiduo delle trascurate biblioteche di istituti affiliati a chiese. Di tanto in tanto faceva spedizioni nelPinterno; visitò Tuia, “celebrata come una metropoli negli antichi annali” , e si avventurò in California sino a San Francisco. La sua raccolta di materiali andava crescendo, e cosi la sua co­ noscenza del Messico prima della Conquista. Per poter leggere documenti originali intraprese lo studio del nahuatl - l'antica lingua degli aztechi e dei loro vicini - sotto la guida di Don Faustino Chimalpopoca Galicia, professore di legge al Collegio di San Gregorio e, a volergli credere, di­ retto discendente del fratello di Montezuma. Brasseur “de Bourbourg” era in ogni caso l'uomo meno qualificato a esprimere dubbi in fatto di genealogie nobiliari. L'abate estese a questo punto le sue ricerche alla biblioteca di San Gregorio, dove fece la sua prima scoperta importante: un manoscritto in nahuatl, risalente a dopo la Conquista, che con il suo gusto per i nomi di fantasia battezzò Codice Chimalpopoca in onore del suo maestro e mentore. Il codice (oggi chiamato anche Annali di Cuauhtitlàn) è una delle fonti principali per la storia precolombiana del regno della Valle del 470

Messico. Opera di un anonimo, probabilmente basata su antichi rotoli pittografici, contiene notizie su toltechi, chichimec e aztechi; il racconto prende le mosse da fatti avvenuti parecchi secoli prima dell’ascesa degli aztechi al potere e in gran parte s’incentra su Culhuacan, un tempo impor­ tante città-stato dotata di notevole potenza politica4. Di li a poco, nel 1851, Brasseur mandò in stampa quattro Lettres pour servir dyinstruction à Vhistoire des anciens nations civilisées du Mexique, che fece pubblicare in spagnolo e in francese a Città del Mes­ sico. Sono semplici annotazioni e quasi un resoconto dei suoi progressi nella conoscenza di quelle nations civilisées più che un maturo sommario delle notizie raccolte su quel soggetto, e tradiscono un entusiasmo inca­ pace di misura e non sempre assennato. Le deficienze di metodo che dove­ vano diventare più pronunciate negli anni successivi sono già evidenti qui, a esempio in un gusto per derivazioni etimologiche che vogliono dimostrare ogni rapporto etnico o linguistico, e nel dogmatico preconcetto della derivazione delle civiltà amerindiane da fonti esterne. A questo sta­ dio, Brasseur era certo che l’origine di quelle civiltà andasse cercata in culture orientali. Più tardi propose origini scandinave, ma non prima di aver preso in considerazione, come antenati degli amerindiani, i fenici, gli indù, gli arabi, gli antidiluviani dell’Atlantide; e la lista potrebbe continuare a lungo. La velocità con cui Brasseur cambiava idea era scon­ certante; ma sapeva anche sostenerne parecchie simultaneamente. A un certo momento arrivò a chiedersi in tutta serietà se gli egizi non potessero aver ricevuto la loro civiltà dall’America centrale, anziché viceversa. L ’etimologia, eh’è tanto spesso l’ultimo rifugio dell’erudizione pre­ tenziosa ma superficiale, rimase sempre una delle armi di cui fece più uso; poco prima di morire, quando gli si affacciò il sospetto di aver molto sbagliato, ebbe ancora il coraggio di sostenere che “sulle 15.000 parole del vocabolario maya, almeno settemila rivelano una sorprendente somiglian­ za con la lingua di Omero”5. Trovava dappertutto radici di parole tede­ sche; faceva derivare nawal, che significa “intelligente” in uno dei dia­ letti messicani, dall’inglese know all; calar, rendere manifesto, per lui era naturalmente - solis luce clarius! - la stessa parola che diventa clear in inglese e klar in tedesco; quanto all’antico centro delle tradizioni messi­ cane, Tuia, non era altro che la leggendaria ultima Thule dei geografi europei. Affermazioni del genere, naturalmente, erano più di quanto oc­ correva per scandalizzare qualsiasi filologo degno di questo nome6. Nonostante la debolezza di certe tesi esposte nelle Lettres del 1851, l’opera dimostrò la serietà di Brasseur come ricercatore di testimonianze 4 George C. Vaillant, The Aztecs of Mexico, Harmondsworth, Penguin Books, 1960, pag. 84. 5 Brasseur, Bibliothèque Mexico-Guatémalienne, Paris, Maison Neuve, 1871, pag. xxm . 6 Daniel G. Brinton, “The abbé Brasseur de Bourbourg and His Labors” , Lippincott’s , voi. I, N. 1, gennaio 1868, pag. 81.

delle antiche culture messicane e gli guadagnò un posto nel piccolo grup­ po di studiosi dell’America precolombiana. Doveva servire come introdu­ zione alPargomento per Ephraim George Squier di New York, l’archeo­ logo americano, cui va il merito di significativi contributi alla conoscenza della preistoria indiana negli Stati Uniti e nel Nicaragua. Tornato in Francia, Brasseur vi conobbe J. M. A. Aubin, allora il più valido inter­ prete di codici messicani. In origine un fisico, Aubin si era recato al Messico nel 1830 con la spedizione scientifica Arago, ma avendo per­ duto gli strumenti necessari a compiere osservazioni si volse ai documenti e riuscì a trovare alcuni codici di Boturini, che Humboldt aveva dati per perduti. Dal 1851 al 1853 Brasseur rimase in Europa; passò parte del suo tempo nelle biblioteche vaticane e pubblicò la sua Storia del Canada per la quale aveva compiuto ricerche nel corso del primo soggiorno a Quebec. L ’opera non trovò buona accoglienza. A Parigi l ’abate dovette guadagnar­ si da vivere scrivendo racconti e romanzi popolari, che in parte pubblicò sotto il bizzarro nom de piume Étienne-Charles de Ravensberg. Il ro­ manzo storico Le Khalife de Bagdad, ambientato in un pittoresco Oriente dell’XI secolo, fu accolto bene dalla critica ma presto dimenticato, e dal punto di vista economico si rivelò una delusione. Il pensiero di Brasseur era sempre volto alle terre di là dall’Atlantico, ma gli mancavano i mezzi per attuare il vasto programma di ricerche che vagheggiava: nientemeno che trovare le tracce della civiltà scomparsa dello Yucatan e del Guate­ mala e raccogliere antichi documenti che gli consentissero di ricostruirne la storia. Infine, gettando da parte ogni prudenza, nel 1854 egli riprese il mare alla volta di New York, dove arrivò senza un soldo in tasca e per pagarsi il viaggio fino all’America centrale vendette alcuni dei suoi pre­ ziosi manoscritti. Sbarcando a Greytown, porto del Nicaragua sul Mare Caraibico, tro­ vò la città semidiroccata in seguito al recente bombardamento da parte di un incrociatore americano. Date le circostanze, i visitatori stranieri non erano esattamente i benvenuti, e qualche giorno dopo, sulla strada verso l’interno, Brasseur e i suoi compagni furono fermati, armi in pugno, da un distaccamento di uomini in uniforme che li fece prigionieri. Pro­ testare contro questa violazione del diritto delle genti non servì a nulla, e invano Brasseur fece sfoggio del suo passaporto, firmato dal ministro del Nicaragua a Washington: lo portarono a una vicina hacienda, dove l’uffi­ ciale comandante gli mostrò una lettera del presidente della repubblica contenente l’ordine di arrestare tutti gli stranieri che fossero passati dal Camino Real e di inviarli alla capitale o, in caso di resistenza, di fucilarli con procedura sommaria. Più tardi però, quando l’ufficiale si fu calmato e convinto che l’abate era perfettamente innocuo, il gruppo ebbe il per­ messo di proseguire. Brasseur entrò nel Guatemala il 1° febbraio 1855. Anche questo

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paese aveva traversato periodi d'irrequietezza, e Brasseur ebbe il dolore di sapere che i tumultuosi cambiamenti religiosi e politici avvenuti in quel frattempo avevano determinato la dispersione, se non la distruzione, delle raccolte di manoscritti ospitate da secoli nei monasteri cattolici ora saccheggiati e deserti. Parecchi documenti avevano tuttavia superato indenni la tempesta e alcuni erano stati portati alla biblioteca dell’Uni­ versità di San Carlos. Chissà se quei documenti avrebbero gettato qualche luce sulla cultura indigena del Guatemala e dello Yucatan e sulla parte, che l’abate da tempo sospettava molto importante se non decisiva, da essa giocata nell’evoluzione culturale dell’emisfero? Diversamente dalla maggior parte degli studiosi di storia e culture antiche, Brasseur non era mai tormentato da dubbi: né sull’esistenza di documenti perduti con i quali ricostruire il quadro d’una civiltà, non importa quanto completamente scomparsa, né sulla propria capacità di trovarli, anche se altri erano falliti nell’impresa. Era poi altrettanto sicuro che gli antichi documenti, una volta recuperati, avrebbero risposto a quasi ogni interrogativo, e non si rendeva conto dell’ambiguità epistemo­ logica di quel suo modo di porre domande cui già dava per scontata la risposta: cecità strana in un personaggio che i contemporanei descrivono come uno scettico, un uomo di mondo che prendeva alla leggera i suoi doveri ecclesiastici7. Nel Guatemala Brasseur trovò dappertutto cordialità e spirito di collaborazione. Un collezionista locale, Mariano Padilla, gli donò un ma­ noscritto in un dialetto maya che l’abate generosamente ribattezzò Codex Padilla e nel quale trovò conferma della sua tesi “scandinava” . Di li a pochi mesi entrò in possesso di un’opera assai più importante: il cosid­ detto Popol Vuh, capolavoro della letteratura indiana indigena, che qual­ cuno ha paragonato al Rigveda e aWEdda. Ci fu a quel tempo qualche polemica sulla questione se Brasseur meritasse o meno il titolo di “sco­ pritore” dell’opera, che acquistò dalla biblioteca dell’Università di San Carlos a Guatemala la Nueva tramite i buoni servigi di un “giovane e zelante archeologo guatemalteco, Don Juan Gavarrete, uno dei notai della corte ecclesiastica”8. In un certo senso, il Popol Vuh non aveva bisogno d’uno scopritore9. Già il fatto che fosse sopravvissuto era di per sé miracoloso. Era una copia in lingua quiché, con aggiunta una traduzione fatta intorno al 1700 da un domenicano spagnolo, padre Francisco Ximénez. Fatto curioso, nell’America Centrale i domenicani avevano dato prova di mag­ 7 Herbert B. Adams, “The Abbé de Bourbourg” , American Antiquarian Society. Proceedings, voi. V II, aprile 1891, pag. 283. 8 Adrian Recinos (a cura di), Popol Vuh. The Sacred Book of the Ancient Quiché Mayay Norman, Oklahoma, University of Oklahoma Press, 1950, pag. 42. 9 Nicolaus Trubner, “Central American Archaeology” , Athenaeum, N. 1492, 31 maggio 1856, pag. 683.

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gior tolleranza che non i francescani, e padre Ximénez aveva concepito un sincero interesse per le tradizioni e per la letteratura indigene, di cui aveva raccolto parecchi volumi. Mentre era parroco nel villaggio di Santo Tomas Chichicastenango, aveva sentito parlare d’un libro sacro che gli Indiani tenevano nascosto, e piu tardi era riuscito a farselo dare in pre­ stito per copiarlo: era una trascrizione in alfabeto romano, che Ximénez aveva pensato fosse stata eseguita poco tempo dopo l’invasione del Gua­ temala da parte di Pedro de Alvarado. Inoltre, probabilmente non si trattava d’una copia diretta bensì di una trascrizione a memoria. Vi si dichiarava che era basata su una più antica versione perduta (“la sua vista è nascosta al cercatore e al pensatore10” ), il vero Popol Vuh, che era stato “dipinto” prima della Conquista. Anche la versione alfabetica andò in seguito perduta, e oggi rimane soltanto la copia fatta da Ximénez. Nella precedente visita a Città del Messico Brasseur aveva visto una parte della traduzione di Ximénez del Popol Vuh incorporata in un altro compendio d’età coloniale, e nelle Lettres del 1851 esprimeva preoc­ cupazione per la possibile scomparsa dell’opera, che, come sapeva, lo studioso messicano Félix Cabrera aveva veduta intera verso la fine del XVIII secolo. Pare che fosse questo accenno nelle Lettere di Brasseur a destare l’interesse di un viaggiatore austriaco, Cari Scherzer di Vienna, e a ispirargli la decisione di cercare l’opera, che trovò nel 1854 nella biblioteca universitaria di Guatemala la Nueva, dove il manoscritto era stato trasferito nel 1830 da Chichicastenango. Così Scherzer precedette Brasseur di circa un anno, benché l’abate potesse rivendicare la priorità della scoperta grazie all’estratto che ne aveva visto a Città del Messico. In ogni caso, fu Brasseur il primo a comprendere pienamente l’impor­ tanza del sacro libro degli antichi quiché, un popolo guatemalteco di lin­ gua maya. Brasseur lo tradusse e si portò via la trascrizione di Ximénez, fino a quel tempo rimasta a ammuffire a Città del Guatemala; più tardi, avrebbe raggiunto la Newberry Library di Chicago. Il Popol Vuh, cioè “Libro della Comunità” - il titolo fu dato da Brasseur, e non tutti lo accettano senza discussioni - è una specie di “Scrittura” nazionale, quale ne possiedono parecchi popoli d’ogni parte del mondo; affine sotto questo rispetto al Nihongi dei giapponesi, e persino al Pentateuco, presenta un caleidoscopio di leggende, tradizioni relative a antiche migrazioni, preghiere agli dei, notizie storiche, testi­ monianze di credenze religiose, concezioni teologiche, folclore. Combina la cosmogonia con le saghe di eroi nazionali e con gli autentici annali del popolo quiché (fino al 1550 d. C.), e illumina molti aspetti delle civiltà precolombiane dell’America centrale; è una fonte di prim’ordine per la conoscenza dei miti e delle divinità sia maya sia messicani. L ’opera è divisa in quattro parti, nella prima delle quali si legge una fantasiosa 10 Recinos, op. cit., pag. 80.

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descrizione della creazione: “Non esisteva neppure un uomo, neppure un animale... Il suo formarsi fu come una nebbia, come una nube: come enormi pesci che si impennano nelPacqua, cosi si innalzarono le montagne, e di li a un momento esistevano gli alti monti11.” Vi sono poi racconti delle cicliche distruzioni delPuniverso e dei vari esperimenti fatti dagli dei con la forma umana (le scimmie rappresentano uno degli stadi di tali trasformazioni). Nelle ultime parti del libro emerge una cronologia, con riferimenti alle persone e al predominio del popolo straniero dei toltechi, venuti dalPaltopiano messicano; la storia arriva fino alla Conquista spa­ gnola. Oltre a contenere questo repertorio d’inestimabile valore di dati antropologici, storici e religiosi, il Popol Vuh colpisce il lettore moderno per l’intensità della fede religiosa che vi trova espressione; considerando la data in cui fu scritto, è assai poco probabile che rifletta influenze cri­ stiane, se non deboli, e gli studiosi piu autorevoli sono generalmente d’accordo nel giudicare autenticamente indigeni il frasario, le immagini, le idee. Il Popol Vuh ha cosi dimostrato quale fosse la statura morale e intellettuale degli Indiani d’America, riducendo per sempre al silenzio quanti parlavano, nella loro ignoranza, d’una irrimediabile primitività dei popoli dell’emisfero occidentale; la sua scoperta rese possibile lo studio della mitologia, delle istituzioni e delle dottrine morali degli an­ tichi abitanti dell’America centrale. Sylvanus C. Morley, eminente studioso americano della civiltà maya e co-traduttore della prima versione inglese completa del sacro libro dei quiché (pubblicata solo nel 1950) ha lodato “l’eleganza del linguaggio e lo stile letterario del Popol Vuhy l’elevata filosofia che vi trova espres­ sione, la varietà e ricchezza di vita che rivela” . Il valore dell’opera, continua Morley, dimostra indirettamente “la gravità della perdita che abbiamo sofferto a causa della quasi completa distruzione della cultura quiché operata dalla conquista spagnola”1112. Doveva esistere una ricca let­ teratura, non soltanto quiché, ma anche di tutti gli altri popoli maya; e non è escluso che buona parte sopravvivesse alle distruzioni operate dagli spagnoli, solo per soccombere all’indifferenza o all’intolleranza di epoche successive. Ironia della storia, persino l’anticlericalismo del diciannove­ simo secolo fu micidiale per quanto rimaneva delle religioni indigene. Alcuni sacerdoti spagnoli in Messico e nelle terre che erano state dei maya avevano incoraggiato gli indigeni a mettere per iscritto antiche leggende e tradizioni nelle lingue del paese, usando però l’alfabeto latino; i maya avevano risposto con slancio all’invito, quasi obbedendo a un loro impulso profondamente radicato a tenere documenti scritti. I testi alfabe­ tici che produssero erano probabilmente molto simili agli antichi codici. 11 Brinton, “The Abbé Brasseur...” , pagg. 82-3. 12 Sylvanus Griswold Morley, The Ancient Maya, Stanford, Stanford University Press, 1946, pag. 304.

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Quasi ogni città maya dello Yucatan si trovò così ad avere il suo Libro di Chilam Balam, cioè - come il Popol Vuh - una specie di cronaca mista di dati riguardanti la religione e le leggende dei vari popoli, e tenuto in grande riverenza. Alcuni furono cominciati immediatamente dopo la Con­ quista, quando, per usare le parole d ’uno dei libri, gli stranieri andavano in giro per il paese “tronfi come tacchini” . Un altro ricorda i tempi prima della venuta degli spagnoli, quando “non si rubava con violenza, e non c’era avidità, e non accadeva che un uomo abbattesse il suo simile nel proprio sangue, a spese dei poveri, togliendo cibo a tutti e a ciascuno” . Dopo la venuta degli stranieri, “fu il principio dei tributi, il principio delle decime alle chiese, il principio della lotta contro chi ti vuol strap­ pare la borsa, il principio della lotta contro i fucili, il principio della lotta combattuta calpestando la gente sotto i piedi, il principio dei furti ope­ rati con la violenza, il principio dei debiti imposti con false testimonian­ ze, il principio della lotta individuale, il principio dell’oppressione”13. Purtroppo la maggior parte dei Libri di Chilam Balam, alcuni dei quali furono trasferiti, al principio del XX secolo, alla biblioteca pubblica di Mérida nello Yucatan, si considera oggi perduta; sembra che parecchi siano ricomparsi a Boston e ivi venduti a un’asta14. John Lloyd Stephens riprodusse il testo di uno nel secondo volume del suo libro Incidents of Travel in Yucatan (1843); parecchie opere affini scomparvero al tempo delle rivoluzioni che sconvolsero l’America centrale e il Messico dopo la liberazione dal dominio spagnolo della prima metà del XIX secolo. Fortunatamente il Popol Vuh sopravvisse a tante traversie. Molti altri manoscritti che non erano stati trasferiti alle biblioteche universitarie ed ecclesiastiche della capitale guatemalteca finirono distrutti, ma anche i materiali messi al sicuro a Guatemala la Nueva non ebbero una sorte tanto lieta; al tempo della visita di Brasseur erano, secondo una descri­ zione, “in condizioni pietose; nessuno se ne cura, ed è a temersi che di qui a cinquant’anni non ne rimanga nulla”15. Altrimenti, non si sarebbe certamente permesso a un visitatore straniero come Brasseur di portarsi via il manoscritto del Popol Vuh, che un popolo più sollecito delle testi­ monianze della sua antica civiltà avrebbe custodito come un tesoro na­ zionale. Nel Guatemala Brasseur recuperò altri testi preziosi, fra cui gli Annali dei Cakchiquel, o, per usare il titolo da lui dato all’opera, il Me­ moriale di Texpàn-Atitlàn. Evidentemente composta in epoca coloniale l’opera contiene però, come il Popol Vuh, molti riferimenti a periodi ante­ riori; tratta principalmente della storia dei cakchiquel, un popolo maya 13 J. Eric S. Thompson, The Rise and Fall of Maya Civilization, Norman, Oklahoma, University of Oklahoma Press, 1954, pag. 134. 14 Peterson, op. cit.> pag. 242. 15 Triibner, op. cit.y pag. 683.

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strettamente imparentato con i quiché. Fu iniziata da un membro della famiglia regnante dei Cakch, e, continuata da un discendente che portò il racconto fino al 1604; Tacine è una descrizione delPinvasione spagnola e delle atrocità commesse da Alvarado, Gli Annali dei Cakchiquel sono secondi per importanza solo al Popol Vuh16, al quale in qualche misura corrono paralleli; inferiori per quanto riguarda la ricchezza di notizie relative alla mitologia indigena, inferiori anche per livello poetico, con­ tengono tuttavia una maggior copia di notizie storiche. Diversamente che nel caso del Popol Vuh, nessuno ne sapeva nulla. Brasseur fu informato delTesistenza del libro da Juan Gavarrete, che una decina d’anni prima, nel 1844, aveva avuto da Francisco Garcia Pelaez, arcivescovo di Città del Guatemala, Tincarico di riorganizzare gli archivi del monastero di San Francisco, e nel corso del lavoro aveva notato un manoscritto di quarantotto fogli piegati, in una lingua indigena ma scritto da mano spagnola, risalente alPincirca al sedicesimo secolo. Gavarrete lo aveva fatto vedere a varie persone, nessuna delle quali era però riuscita a darne una traduzione convincente. Nel 1855 Brasseur si mise personalmente al lavoro: “Avuto nelle mani il manoscritto in que­ stione,” scrive Gavarrete, “si dedicò alla traduzione, facendo uso della conoscenza che già possedeva della lingua messicana e di quanto già sapeva sulle tradizioni primitive di questo continente; utilizzando inoltre gli antichi dizionari delle lingue quiché e cakchiquel... riuscì a condurre a termine il lavoro di traduzione dal cakchiquel in francese...17.” Nel 1873 Gavarrete pubblicava una traduzione spagnola basata su quella francese di Brasseur; Brasseur per parte sua si appropriò del testo origi­ nale “con la stessa facilità con cui si era assicurato altri documenti analo­ ghi”18. Dopo la morte di Brasseur, Daniel G. Brinton, studioso nord-ame­ ricano, acquistò il testo da un successivo proprietario e ne fece la prima traduzione inglese, donando poi Poriginale all’Università di Pennsylvania. Non pare che i Guatemaltechi abbiano mai protestato per l’uscita del ma­ noscritto — né del Popol Vuh — dal loro paese. Brasseur si era conquistato l’amicizia dell’arcivescovo di Guate­ mala la Nueva, Monsignor Pelaez, che vedeva di buon occhio le sue atti­ vità archeologiche, forse gli facilitò con la sua protezione l’acquisto di documenti preziosi e inoltre lo nominò amministratore ecclesiastico della parrocchia di Rabinal, grossa comunità nel territorio di lingua quiché. Brasseur non fu mai piu felice d’allora. A Rabinal trascorse piu d ’un anno fra indiani di razza pura, parlò con loro soltanto quiché e imparò a scriverlo, e in quell’ambiente tanto congeniale potè dedicarsi con tutto 16 Recinos e Delia Goetz (a cura di), The Annals of Cakchiquels, Norman, Oklahoma, University o f Oklahoma Press, 1953, pagg. v i i . 17 Ibid., pag, 7. 18 Ibid., pag. 7.

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il suo impegno alla traduzione dei manoscritti appena acquistati. Adorava il panorama della valle con la sua vegetazione lussureggiante, piantagioni di banani, campi di canne, alberi d’arancio dal profumo intenso i cui rami coprivano d’ombra i tumuli dov’erano sepolti i capi d’un tempo. Sulla parrocchia torreggiava una chiesa in stile moresco, “più grande d ’una cattedrale”19, costruita dai missionari domenicani. Partendo da Rabinal esplorò la giungla lungo le rive del fiume Usumacinta, dove scopri le rovine di parecchie città abbandonate. Prima di tornare in Europa potè segnare al suo attivo un’altra sco­ perta letteraria, abbastanza insolita in quanto non implicava il recupero d’un qualche manoscritto ammuffito. La dovette alla sua familiarità con gli indiani. “Mi guadagnavo la fiducia di quella gente,” scrive, “parlan­ dole del suo passato. Di tanto in tanto, l’interesse che dimostravo li induceva a riferirmi le loro tradizioni. Venni a conoscere in questo modo le meravigliose storie del loro re Qikab l’Incantatore, del Carbonchio delle Montagne Nere, delle eroiche gesta delle guerre di Rabinal contro i pokoman e i principi dei quiché, e infine il famoso balletto ‘parlato’ Xahoh-Tun, che uno dei loro vecchi mi dettò in dodici giorni, dal prin­ cipio alla fine in lingua quiché20.” Il “balletto” è in realtà un dramma sto­ rico, risalente forse al XII secolo e trasmesso per via orale come i poemi omerici. Non rivela la minima influenza europea, e con l’eccezione del dramma peruviano Ottanta o Ollantay (la cui antichità è dubbia) e di uno o due drammi minori è l’unico esempio di questo genere giunto fino a noi dall’età precolombiana. Il testo, che Brasseur trascrisse con il titolo L'eroe di Rabinal, è completo; inoltre gli indigeni, vedendo l’interesse e il piacere di Brasseur, ne furono cosi lusingati che misero in scena una rappresentazione a suo beneficio, dandogli cosi la possibilità di buttar giù “appunti di regia” e di trascrivere la musica d ’accompagnamento. Tornato in Europa nel 1856, con una collezione arricchita di tante preziose aggiunte, l’abate si accinse all’elaborazione di quello che doveva essere il magnum opus della sua carriera: YHistoire des Nations Civilisées du Mexique et de l'Amérique-Centrale, durant les siècles antérieurs à Christophe Colomb... L ’opera, in quattro volumi, cominciò ad apparire nel 1856; era terminata nel 1859. Nello scriverla Brasseur aveva fatto uso quasi esclusivamente dei documenti originari indigeni e spagnoli raccolti da lui stesso. Probabilmente nessuno prima di lui aveva avuto a disposizione dati e testimonianze sufficienti per una storia generale dell’America precolombiana; pochi, anzi, avevano creduto possibile un’o­ pera di quella sorta. Fu la prima del suo genere e allargò di molto la no­ stra conoscenza del Messico prima dell’arrivo di Cortés. Una volta tanto, nessuno poteva mettere in discussione la compe­ 19 Brasseur, Histoire des Nations..., voi. I, pag. 20 Ibid., pag. xxvni.

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tenza di Brasseur, il quale saggiamente si era astenuto dal tentar di sta­ bilire paralleli e rapporti tra i popoli del Nuovo e quelli del Vecchio Mondo. C'erano inevitabilmente dei difetti; come ci si poteva aspettare, i risultati delle ricerche bibliografiche di Brasseur erano superiori alla sua interpretazione dei documenti, e la validità dell'opera era per certi versi infirmata dalla tendenza dell'abate a accettare tutte le leggende come riflesso o trasfigurazione di fatti storici. H. H. Bancroft, lo storico ameri­ cano, che anni dopo si sarebbe dedicato allo studio più o meno degli stessi argomenti, osservò che Brasseur “non respinge nulla, e trasforma tutto in fatto storico”21. Sotto questo aspetto l'abate somigliava a Hein­ rich Schliemann, con la differenza che Schliemann lavorò in un campo più ristretto e meno rischioso, in cui i risultati delle sue ricerche furono tali da mettere in ombra l'ingenuità delle motivazioni e delle interpretazioni. Oltre alla sua Histoire Brasseur pubblicò una serie di grande va­ lore, la Collection de documents dans les langues indigenes pour servir à Vétude de Vhistoire e de la philologie de VAmérique ancienne (186164). Biblioteche e istituti d'ogni parte del mondo si facevano ora un onore di averlo ospite; il governo francese lo assistette nelle sue ricerche; gli archivisti spagnoli, notoriamente gelosissimi dei loro beni, lo invita­ rono a esaminare le raccolte che custodivano. Ma naturalmente Brasseur continuò a cercare su suolo americano una soluzione agli enigmi della civiltà centro-americana. Dopo la prima visita al Messico i suoi studi si concentrarono sempre più sull'antico popolo che aveva abitato le terre di là dall'istmo di Tehuantepec, soprattutto negli stati di Yucatan e Chiapas nel Messico e nella regione di Petén nel Guatemala settentrio­ nale. Stephens e Catherwood vi avevano visitato quarantaquattro cittàtempli in rovina, in buona parte abbandonate molto tempo prima del­ l'arrivo degli spagnoli. Le popolazioni aborigene di quella vasta zona non si chiamavano allora maya, che era stato il nome soltanto d'una delle molte popolazioni di lingua affine; anzi, Humboldt e Prescott non ave­ vano neppure conosciuto quel nome, né avevano pensato a una civiltà maya comune a tutte le popolazioni dell'area. Brasseur fu il primo a sottolineare i legami di affinità fra le popolazioni centro-americane e a riconoscere la loro diversità dai popoli dell'altopiano messicano nel nord, il che fece di lui “il vero fondatore degli studi sui maya”22 come disciplina a sé. Brasseur era stato molto colpito dalla somiglianza fra gli strani caratteri usati nel Codice di Dresda (l'unico del suo genere noto fino al 1859) e le iscrizioni su scale, stipiti, muri, affreschi, stele e vasi delle città sepolte dell'America centrale. Da molto tempo era convinto che quei caratteri non fossero semplici pittogrammi e che rappresentassero 21 Cit. da Winsor, op. cìt., voi. I, pag. 171. 22 William Gates, op. cit.

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invece i segni di una scrittura fonetica23. Ora che aveva recuperato i resti autentici della letteratura di quell’antica razza, inevitabilmente tornò al suo sogno di diventare lo Champollion delle Americhe e di riuscire a interpretare quanto dicevano le voci soffocate di Palenque e Copàn. Nel 1859 e nel 1860 Brasseur ripete le sue peregrinazioni nelle terre tropicali dell’America centrale, visitò le rovine, raccolse altri mano­ scritti rari d'epoca coloniale. Era affascinato dalle iscrizioni geroglifiche di cui nessuno fino a quel momento aveva saputo penetrare il senso. Tre anni dopo, nel 1863, a Madrid, badò a trarre il massimo profitto dalla libertà concessagli di esaminare le raccolte delle biblioteche e di sfogliare documenti sui quali da secoli nessuno posava gli occhi. Un giorno, mentre con lo zelo consueto frugava tra i manoscritti conservati nella biblioteca dell’Accademia Reale di Storia, lo sguardo gli cadde su un manoscritto del XVI secolo, opera di Diego de Landa, già vescovo dello Yucatan. Oggi, per chiunque abbia un minimo di familiarità con gli studi sui maya, il nome “Landa” ha una risonanza quasi magica, ben­ ché sinistra. La scoperta della sua Relación de las Cosas de Yucatan è paragonabile per importanza al ritrovamento della Stele di Rosetta; e la somiglianza, come vedremo, è tutt’altro che superficiale. Chi era Diego de Landa, assurto a cosi gloriosa fama postuma come historiador primordial dello Yucatan24? Nel 1549, circa otto anni dopo che Montejo il Giovane (II) era riuscito a conquistare la maggior parte dello Yucatan e aveva fondato un insediamento stabile a Mérida, approdò sulla costa una nave carica di francescani. C ’era fra loro un giovane di ventisei anni e di nobili na­ tali, Diego de Landa, entrato nell’ordine dieci anni prima a Toledo, che fu assegnato come semplice frate al monastero di Izamal. I francescani, già allora una potenza nel nuovo paese, erano impe­ gnati in una lotta incessante contro i governatori e i coloni spagnoli che confiscavano le terre degli indiani liberi e riducevano gli indigeni a una condizione poco migliore di quella di servi della gleba. I francescani per­ seguivano una loro politica quasi altrettanto spietata, intesa, come disse un contemporaneo, a trasformare tutto il paese in un immenso mona­ stero25. A tale scopo gli indiani erano sradicati dai loro luoghi d’origine, i villaggi indigeni venivano lasciati cadere in rovina, i loro abitanti ri­ dotti alla condizione di servi-pupilli dei frati nei loro possedimenti mo­ nastici. Ecclesiastici e laici — gli uni e gli altri atteggiandosi a “protetto­ ri” degli indigeni — si accusavano a vicenda di inumanità nei confronti degli indiani, e senza dubbio le accuse erano in entrambi i casi abbastanza 23 Brinton, “The Abbé Brasseur and His Labors”, pag. 81. 24 Tozzer (a cura di), Landa*s Relación de las Cosas de Yucatan, Papers of the Peabody Museum of American Archaeology and Ethnology, voi. X V III, 1941, pagg. 44 sgg. 25 Gates (a cura di), Yucatan before and after the Conquest, by Friar Diego de Landa..., Maya Society Publications, N. 20, Baltimora, 1937, p. v.

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fondate. Con queste premesse, un giovane delle qualità di Diego de Landa poteva essere certo di far carriera. Infatti, grazie alla sua abilità o allo zelo fanatico, o a entrambi, la sua ascesa fu rapida: nel giro di dieci anni era generale dell’ordine nello Yucatan.

“Tavoletta degli schiavi” , una lastra coperta di glifi proveniente da Palenque.

Landa aveva un’unica divorante ambizione: cancellare fin l’ultima traccia di riti e credenze religiose pagani. Su sua iniziativa santuari e idoli indigeni furono distrutti senza pietà, e i recalcitranti o i convertiti recidivi furono altrettanto spietatamente puniti. Il fervore di Landa era stato temprato al calor bianco dell’Inquisizione spagnola, ed egli perse­ guitò gli idolatri con la furia di un angelo vendicatore. La sua carriera culminò in un episodio famoso avvenuto a Mani, quando qualcuno sco­ perse in una grotta vicina i chiari segni di culti e sacrifici pagani. Landa reagì con l’incarceramento in massa di tutti i notabili indigeni e fece torturare migliaia di persone, fra cui donne; parecchi morirono mentre i loro tormentatori cercavano di farli confessare, altri rimasero storpiati 481

per tutta la vita. Infine, il 12 luglio 1562, ebbe luogo il grande autodafé di Mani, in cui furono arsi indigeni rimasti fedeli all’antica religione, e insieme a loro finirono sul rogo circa cinquemila idoli e preziosissimi codici indigeni che gli inquisitori erano riusciti con diligenti ricerche a scovare. Dei libri lo stesso Landa disse: “Quella gente faceva anche uso di certi caratteri o lettere con cui scriveva nei suoi libri la propria storia antica e le proprie scienze; con questi caratteri, con disegni, e con certi segni nei disegni, gli indigeni capivano ciò che scrivevano e lo facevano capire ad altri e lo insegnavano. Trovammo un gran numero di libri in questi caratteri e, non contenendo essi nulla in cui non fossero da vedersi superstizioni e menzogne del diavolo, li bruciammo tutti, il che addolorò e afflisse incredibilmente gli indigeni26.” Gli storici parlano dell’autodafé di Landa come di una fra le più spaventose catastrofi nella storia dei maya: non fosse stato per lui - so­ stengono gli studiosi - sarebbe sopravvissuto materiale sufficiente a farci conoscere la scrittura dei maya, la loro letteratura, storia e scienza. È forse un’esagerazione, poiché Landa gettò tra le fiamme soltanto venti­ sette codici. Inoltre, si ha notizia che una collezione di manoscritti maya esisteva ancora nel 1697 ed era in possesso di una tribù isolata che si era ritirata a Tayasal, isola del lago Petén nel Guatemala settentrionale. Si dice anche che i membri di quella tribù sapessero ancora scrivere e leggere l’antica scrittura. Rimane però vero che il fanatismo di Landa gli dettò un ignobile atto di distruzione e fu forse di cattivo esempio ad altri. Anche parecchi capi religiosi del suo tempo deplorarono un fervore cosi intollerante. José de Acosta, che scrisse nel 1590 una storia delle Indie, dichiarava che il rogo di Mani afflisse profondamente “non soltanto gli indigeni, ma anche molti spagnoli avidi di conoscenza, che avrebbero voluto sapere i segreti del paese... Sono i guasti provocati da uno stupido zelo...”27. Francisco Toral, vescovo dello Yucatan, assente quando era avvenuto lo scempio di Mani, disapprovava totalmente i sistemi di Landa; tornato nella sua diocesi da Città del Messico fece rilasciare i prigionieri, ordinò un’inchiesta, e persuaso che Landa aveva commesso gravi ingiustizie e superato i limiti della propria autorità, riferì il caso al Consiglio delle Indie in Spagna. In una lettera al re, definiva Landa e i suoi confratelli francescani uomini di “pocas letras y menos caridad” , “uomini di poca cultura e ancor più scarsa carità cristiana” . Landa fu costretto a ritornare in Spagna, dove fu messo sotto cu­ stodia e fatto segno a una reprimenda da parte del Consiglio. Tuttavia pochi anni dopo il caso si concluse con una sentenza favorevole che gli riconosceva, in base a una bolla papale del 1535, pieno diritto di assu­ 26 Morley, op. cit.t pag. 295. 27 Tozzer, Landa’s Relation de las Cosas de Yucatan, pag. 77.

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mere il potere giudiziario in assenza del suo vescovo. Fu un trionfo per lui; non solo fu prosciolto da ogni accusa, ma venne rimandato nel Nuovo Mondo, nel 1573, come vescovo dello Yucatan. Evidentemente per nulla scosso dalle esperienze precedenti, il nuovo vescovo continuò la sua campagna di repressione. Più volte gli indiani si appellarono contro di lui al governo della Nuova Spagna, ma sempre con scarso successo; ebbero un po’ di sollievo solo quando Landa mori, nel 1579. Gli studiosi di storia coloniale spagnola discutono ancora se egli sia stato un fanatico animato da uno zelo di natura patologica o un fervente soldato di Cristo e un vero amico degli indiani; di solito scel­ gono la via di mezzo sostenendo che fu un po’ una cosa e un po’ l’altra. Gli americanisti dei nostri giorni si trovano davanti al fatto pa­ radossale che il brutale e bigotto distruttore dei maya, dei loro idoli, dei loro libri fu anche Fautore di un’opera rappresentante la nostra prin­ cipale fonte d ’informazioni su tutti gli aspetti di quella civiltà. L ’esempio di una tale duplicità di funzioni è probabilmente senza precedenti nella storia; al confronto con Landa, Giulio Cesare, massacratore di galli, fu uno scolorito descrittore dei costumi delle sue vittime transalpine. In realtà, la duplicità delle funzioni svolte da Landa non implica nessuna contraddizione. È infatti quasi certo che scrisse la sua Relación nel 1566, in Spagna, mentre preparava la propria difesa. Quale modo migliore di giustificare i metodi spietati cui era ricorso per distruggere l’idolatria? Non poteva esserci difesa più efficace di una descrizione spas­ sionata dei costumi “rivoltanti” e dei riti indiani. I fatti avrebbero par­ lato da sé, e chi avrebbe allora messo in dubbio la santità della crociata da lui intrapresa contro il demonio stesso e i suoi ostinati discepoli? Nel preparare in questo modo la propria difesa, Landa scrisse quel­ lo che è quasi un trattato di antropologia socio-culturale. Proprio come un ricercatore moderno, aveva raccolto il materiale mediante l’osserva­ zione diretta e la serie di domande rivolte di persona agli indigeni. Una delle sue fonti principali erano stati nobili indiani come Nachi Cocom, del quale più tardi Landa esumò e disperse le ossa in base al semplice sospetto che potesse essere rimasto fedele alla religione dei suoi padri. Molto probabilmente Landa non avrebbe mai scritto la sua Relación se non si fosse trovato nella necessità di farlo e se non fosse rimasto a lungo, in Spagna, senza altra occupazione. L ’opera è cosi, per un’ironia della sorte, un risultato diretto del tragico episodio di Mani e dell’intervento del vescovo Tor al. Per parafrasare George Bernard Shaw, le vie al regno del sapere sono talvolta lastricate di cattive intenzioni e di sentimenti e atteggia­ menti che non potrebbero essere più lontani dalla ragionevolezza e dalla dolcezza. Nonostante tutti i suoi sforzi di cancellare ogni traccia della cultura indigena, Landa, il distruttore di libri, l’inquisitore spietato, è colui che ha meglio contribuito a farci conoscere l’antica civiltà maya. 483

La sua Relación, giuntaci in una trascrizione tarda e incompleta, è di gran lunga la piu importante descrizione d'epoca coloniale dell'antico Yucatan, degna di essere messa alla pari con l’opera di Sahagun sul Messico, e come quest’ultima ricchissima di notizie sul folclore, la reli­ gione, i riti e le cerimonie, la storia, i costumi, la vita quotidiana. Fu la lettura di Landa quella che indusse E. H. Thompson a dragare i cenotes di Chichén Itzà in cerca di tesori votivi. Landa non lascia alcun dub­ bio sul fatto che gli indiani ai quali si sforzò con tanto impegno di salvar l'anima erano stati i costruttori di magnifiche città già allora inghiottite dalla giungla; ancora a lui dobbiamo notizie sugli eventi che si verifica­ rono nello Yucatan dopo la caduta dell'antico impero (900 circa d. C ). Dal ritrovamento della Relación in poi ne sono uscite, salvo errore, otto edizioni in lingue diverse; è stato detto che dobbiamo quasi tutto ciò che sappiamo dei maya alla scoperta fatta da Brasseur a Madrid28. La Relación è diventata la principale fonte d'informazioni per qualunque se­ rio studio sui maya. In quanto chiave alla lettura delle iscrizioni maya, la Relación è però solo parzialmente valida. Landa, è vero, dedicò molto spazio alla scrit­ tura indigena, ma le sue spiegazioni sono così poco chiare, così poco comprensibili che hanno dato luogo a non meno discussioni e tentativi d'interpretazione dei geroglifici stessi. Landa dà una lista completa di ventinove caratteri di quello che egli chiama un alfabeto, con i corri­ spondenti valori fonetici spagnoli. Non ci si è ancora messi d’accordo sulla questione se con questo egli intendesse dare una lista di caratteri per la trascrizione dei suoni europei nella lingua maya o se si sia lasciato trarre in inganno dai suoi informatori indigeni. Uno studioso dichiarò chiaro e tondo che la lista di lettere alfabetiche era un’“invenzione spa­ gnola”29. Nonostante l'oscurità delle spiegazioni, Landa pare convinto che gli indigeni fossero capaci di una trascrizione fonetica degli elementi delle parole, benché non ci dica in quale grado. Questa mancanza di pre­ cisione rende pressoché inutile il suo alfabeto; e sulla vera natura della scrittura maya si discute ancor oggi. Di tanto in tanto è stata baldanzo­ samente preannunciata una soluzione definitiva, e parecchi aspiranti Champollion hanno affermato che gli antichi maya possedevano vera­ mente caratteri fonetici; nel qual caso, è stato obiettato, diventa inspie­ gabile come mai non si sia ancora riusciti a interpretare una scrittura corrispondente a una lingua nota. Tutto fa pensare piuttosto a una mi­ sura di elementi ideografici e fonetici, con un residuo di segni pittografici, e l'ulteriore complicazione dell'uso di determinanti. Dobbiamo tuttavia a Landa se oggi possiamo leggere circa un terzo 28 Gates, Yucatàn, pag. ni. 29 Philip J. J. Valentini, “Landa’s Alphabet a Spanish Fabrication” , American Anti­ quarian Society. Proceedings, N. 75, aprile 1880, pagg. 59-91.

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dei geroglifici. Ben conoscendo l’importanza fondamentale del calendario e dei computi astronomici nella vita religiosa e civile dei maya. Landa dedicò molto spazio a questo argomento, pur rendendosi conto solo vaga­ mente della sua complessità. Disegnò con molta cura i simboli dei giorni e dei mesi del calendario sacro (di 260 giorni), o tzolkin\ in parte grazie ai suoi sforzi oggi si possono leggere tutti questi ideogrammi, identificati con teste di singole divinità. In base a ingegnose deduzioni, parecchi studiosi di diversi paesi hanno avanzato suggerimenti per la decifrazione di tutti i simboli connessi con il calendario. Brasseur fu il primo a ca­ pire il funzionamento del sistema di punti e linee usato nelle notazioni matematiche; dopodiché, fu possibile determinare il significato di sim­ boli pittografici analoghi. Ernst Fòrstemann, bibliotecario a Dresda, portò un contributo decisivo quando strappò al Codice di Dresda il segreto del sistema maya di misurare il tempo e i cicli combinati, incluso un calen­ dario di Venere. Un giornalista americano, J. T. Goodman, famoso come ex boss di Mark Twain sulla “Virginia City Enterprise” , chiari per pro­ prio conto i principi della datazione maya (in particolare le “Serie Ini­ ziali” , cosiddette perché compaiono al principio delle iscrizioni) studian­ do riproduzioni di stele e altri monumenti e oggetti. Finalmente il mondo cominciò a rendersi conto che i maya avevano portato a un notevole grado di perfezione la scienza astronomica e in particolare l’osservazione dei pianeti. Per esempio, avevano determinato la lunghezza dell’anno solare con precisione maggiore di quella evidente nel calendario gregoriano, adottato dalla Spagna dopo la morte di Landa; conoscevano la rivoluzione dei corpi celesti meglio di quanto l’avesse conosciuta l’antico Vicino Oriente; nel loro sistema cronologico potevano fissare date esatte entro un ambito di 374.400 anni. Oltre all’anno di Venere, che aveva un suo particolare significato religioso, i maya avevano elaborato quattro diversi calendari, che venivano usati parallelamente e si potevano coordinare. Tutto questo ispirò agli studiosi un maggior ri­ spetto per le capacità scientifiche di quell’antico popolo. Cosa anche piu importante, gli uomini dell’età moderna potevano ora farsi un’idea della filosofia maya, dominata dai problemi dell’astrologia e della divinazione e soprattutto, in grado ossessivo, del tempo: del fardello che pone sulle spalle dell’uomo, della sua natura ciclica, della sua infinità. Quando la maggior parte degli europei colti credeva che il mondo non avesse più di 5.000 anni, i maya già pensavano in termini di periodi nell’ordine dei cento milioni d’anni; ma il tempo, se era un pensiero dominante, non era però sentito come una tirannia. Passato e futuro erano in certo modo indistinti; il mondo sarebbe finito, ma per avere un nuovo principio. Le date maya, per quanto precise, dovevano essere correlate al ca­ lendario gregoriano per avere un senso; ed è un problema che solo ora si sta risolvendo. Venne stabilito un rapporto fra le date maya e le no­ tizie su eventi dell’epoca precolombiana riferite da Landa, e su questa 485

base gli storici riuscirono a tracciare le grandi linee dei periodi della storia maya: il fiorire delle città, l’arrivo degli invasori toltechi, il de­ clino e la caduta dell’antico impero.

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Glifi maya per i venti giorni delFanno di diciotto mesi.

Quando si lessero le date su vari oggetti, l’orizzonte cronologico della storia dell’America centrale fu spinto ancora più indietro. Il fa­ moso disco di giada di Leida, trovato nel Guatemala, a Puerto Barrios presso la costa atlantica, nel 1864, ma probabilmente proveniente in origine da Tikal, indicò una data corrispondente al 320 d. C. Poi, nella città sorella di Tikal, Uaxactun (anch’essa nelle bassure del Patén, nel Guatemala settentrionale), dove la civiltà maya classica raggiunse il suo apogeo, l’eminente studioso americano Sylvanus G. Morley trovò nel 1916 una stele (Stele 9) sulla quale si lesse quella che fu per molto tempo considerata la data più antica su un monumento maya e che si calcolò corrispondente al 9 aprile 328. Dopo il 1958, anno in cui il Museo del­ l’Università di Filadelfia organizzò una spedizione su larga scala a Tikal, furono trovate date ancora più antiche. Dalla conoscenza della cronologia maya, per la quale Landa aveva fornito la chiave, si passò ad approfondire la conoscenza di altre aree, esattamente come gli archivi assiri ci aiutarono a scoprire gli ancora ignoti sumeri. Ci fu, per esempio, la strana statuetta di Tuxtla — una minuscola figura a becco d’oca di giadeite, curiosamente somigliante a un saggio cinese — con iscritti segni dei quali era adesso possibile leg­ gere una parte; portava una data che fu letta — secondo la scala GMT,

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cioè Goodman-[Martinez] Hernàndez-Tompson, quella generalmente usata — come corrispondente al 162 d. C., cioè d’oltre un secolo e mezzo più antica di quella indicata sul disco di Leida. Inoltre la statuetta non veniva dal territorio tradizionalmente considerato maya ma dall’area

La lastra spezzata di Tres Zapotes (cultura di La Venta nello stato di Vera Cruz); su una faccia la maschera di giaguaro, sul­ l’altra una cronologia, che si crede indichi l’anno 31 a.C.

di Vera Cruz, ben lontana a nord-ovest. Più tardi anche questa data fu superata in antichità da un’altra, su una lastra di pietra spezzata scoperta a Tres Zapotes, un sito della cultura di La Venta nelle pianure lungo il Golfo del Messico, anche in questo caso al di fuori dell’area maya: su quella lastra si lesse una data corrispondente al 31 d. C., fino a quel momento la più antica registrata in America (ma scavi intrapresi nel decennio corrente a Chiapa de Chorzo nel Chiapas centrale pare abbiano portato in luce resti con date d’età ancora più alta). La scoperta di La Venta dimostrò chiaramente che la cronologia maya era già in uso molto tempo prima presso un altro popolo, una razza misteriosa cui oggi si dà comunemente il nome di olmechi, o “Popolo della Gomma'’. Furono forse gli innovatori culturali dell’America Cen­ trale, i sumeri del Nuovo Mondo? Furono loro a creare la scrittura che i maya incisero poi nei loro monumenti sparsi in tutta la penisola dello Yucatan? Anche loro ebbero libri? E ci aiuteranno forse un giorno a ri­ solvere il problema della scrittura “maya” ? Oppure anche gli olmechi, come gli zapotechi, i totonac (Tajìn), i costruttori di Teotihuacàn e gli stessi maya, furono i beneficiari della civiltà d’un’altra razza ancora, a noi ignota, che lasciò il proprio retaggio a tutta l’America centrale? Solo gli archeologi del futuro potranno rispondere a queste domande. Per intanto è certo che, quali che possano essere state le loro origini, queste culture del Nuovo Mondo raggiunsero presso i maya l ’apogeo della loro fioritura. Ora che abbiamo visto alcuni fra i risultati del recupero della Re­ lation di Landa a opera di Brasseur, è tempo di tornare all’abate; il quale per parte sua era perfettamente consapevole dell’importanza di 487

quel ritrovamento, ma come il solito, attribuì alla nuova testimonianza a disposizione, significati che il testo non giustificava. La sua edizione recava il ponderoso sottotitolo: “S’il existe des sources de Phistoire primitive du Mexique dans les monuments égyptiens, et de Phistoire primitive de PAncien Monde dans les monuments américaines?” Per quanto riguarda Palfabeto di Landa, Brasseur non ebbe mai il minimo dubbio sul fatto che si trattasse di un alfabeto nel vero senso della pa­ rola: nella prefazione, che includeva una traduzione in francese, Bras­ seur annunciava categoricamente che Palfabeto di Landa era la chiave per interpretare le iscrizioni. Il lavoro dell’abate attirava, giustamente, un’attenzione sempre più viva; il riconoscimento di massimo américaniste francese gli fu reso nel 1864, dopo la pubblicazione del libro di Landa, con la nomina a membro della Commission Scientifique du Mexique che Napoleone III, emulando Pegualmente sfortunata impresa dello zio in Egitto, aveva creato come corrispondente culturale della sua avventura politica. Nel Messico, sotto Peffimero regno di Massimiliano, furono offerte a Brasseur le alte cariche di Sovrintendente Generale dei Musei e delle Biblioteche e di Ministro della Pubblica Istruzione, ma l ’abate saggiamente rifiutò: sempre, dalle rivoluzioni del 1848 in poi, aveva coltivato la sana abitudine di tenersi lontano dall’arena politica, e quello che si stava preparando era un con­ flitto notevolmente pericoloso. Si recò tuttavia nel Messico per conto della Commissione e pubblicò sugli antichi monumenti del paese un vo­ lume illustrato dal Conte di Waldeck. Come sempre, ciò che soprattutto lo interessava erano i geroglifici; suo massimo desiderio, arrivare a leg­ gerli. Rivisitò allo scopo le rovine di Palenque, pensando che là, in qualcuna delle iscrizioni sui templi, doveva essere la soluzione. Esaminò le iscrizioni più e più volte, tentò di interpretarle, ma invano. Per una di quelle ironie di cui è piena la storia, l’abate, che non si era avvicinato d’un passo alla meta mentre si trovava nello Yucatan a compiere ricerche, fece invece a Città del Messico, quando meno se l’aspettava e quasi non ci pensava, una scoperta che doveva arricchire in misura notevolissima la nostra conoscenza dei maya. Frugando tra libri di seconda mano, trovò un vecchio manoscritto d ’età coloniale che com­ prò per quattro pesos, e che si rivelò poi l’unica copia esistente d’un dizionario maya-spagnolo compilato da un frate francescano nel 1580. Ora chiamato generalmente Dizionario Motul, in ricordo del convento dello Yucatan dove fu scritto, è diventato uno strumento indispensabile delle ricerche sui maya e un prezioso possesso della John Carter Brown Library di Providence, Rhode Island. Uno studioso dei nostri giorni, J. Eric S. Thompson, lo ha definito 'una miniera d’informazioni sulla lin­ gua dello Yucatan e dei maya e sui costumi e le usanze maya” , giunto fino a noi "poco meno che per miracolo” . Nell’autobiografia (1963), Thompson, che è riuscito a decifrare alcuni simboli non calendariali su

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iscrizioni maya, racconta come facesse uso continuo della sua copia “men­ tre cercava di trovare la corrispondenza fra geroglifici e parole maya”30. Tornando dal Messico di Massimiliano nel 1865, Brasseur sbarcò a Cadice e di qui raggiunse Madrid, dove si recò a visitare la biblioteca del?Accademia Reale di Storia, luogo della scoperta a cui doveva l ’episodio piu brillante della sua carriera. Una conversazione con un amico in rapporto con quelPistituto lo mise sulle tracce di un curioso mano­ scritto allora in possesso di un professore e paleografo madrileno, Juan de Tro y Ortolano. Brasseur ottenne il permesso di esaminarlo, e gli bastò un’occhiata per capire che tesoro rappresentasse per lui: era scrit­ to in caratteri a forma di ciottoli (o calcoliformi, se vogliamo usare il termine elegante da lui escogitato per l’esotica scrittura), gli stessi delle iscrizioni sulle rovine dell’America Centrale che aveva appena visitate, gli stessi riprodotti nella Relación di Landa. Il mondo non aveva avuto fino a quel momento neppure il più vago sospetto dell’esistenza del co­ dice. Bisognava dunque battezzarlo subito, e Brasseur vi provvide con il solito estro: il manoscritto ebbe il nome di Troano, contrazione dei due cognomi del proprietario. Subito l’abate si mise al lavoro per de­ cifrarlo, sperando che stesse per essergli rivelato quello che aveva cercato invano in America. Gli era parso di riconoscere la descrizione d ’una delle cerimonie religiose descritte anche da Landa; ebbe la brillante idea che il codice potesse contenere una specie di almanacco per agricoltori, ma per due anni non riuscì a cavarne una lettura continua e coerente, e arrivò a chie­ dersi se i simboli fossero davvero fonetici e addirittura se il testo fosse in lingua maya. Tuttavia, “a forza di continuo lavoro, procedendo a tentoni e attraverso confronti d’ogni genere” , come scrisse lui stesso, finalmente trovò il bandolo della matassa; da allora penetrò sempre più a fondo il mistero dei bizzarri caratteri, e dal caos emersero parole, e poi intere frasi. Ogni dubbio svanì: Brasseur lesse il testo dal principio alla fine. Una delle ragioni di tanto successo fu, come egli stesso ammise, che aveva “già in anticipo un’idea di quel che l’opera poteva contenere” , poiché “la lettura di testi messicani e dei documenti pubblicati da Lord Kingsborough lo aveva convinto che doveva trattare d’un cataclisma il quale aveva staccato a forza il Vecchio Mondo dal Nuovo... In breve, il racconto d una catastrofe, simile a quello che Platone ci ha lasciato della distruzione dell’Atlantide”31. Quanto al modo di leggere, non du­ bitava che i simboli andassero letti dal basso all’alto e da destra a sinistra. Nel 1869, l’abate presentò al mondo il frutto delle sue lunghe fati­ che: due imponenti volumi (comprendenti la riproduzione in facsimile 30 Thompson, The Rise and Tall of the Maya Civilization, pag. 35. V. anche Maya Archaeologist, Londra, R. Hale, 1963, pag. 18. 31 Brasseur, Manuscrit Troano, Parigi, Imprimerle Impériale, 1869, pag. 223.

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e a colori del Troano), la cui stampa era stata generosamente finanziata dal governo imperiale francese e che avrebbero dovuto essere solo i primi due d una serie in programma dedicata alla Mission Scientijique au Me-

Dal Codice Troano: animali selvaggi presi in trappola. Yu­ catan.

xique et dans VAmérique Centrale. L'opera conteneva il testo integrale del codice di Madrid, tradotto in un francese piu o meno impeccabile che però a qualsiasi lettore eccettuato Brasseur suonava pressoché in­ comprensibile. Vediamo solo le prime righe di questa traduzione, che Fautore definiva una traduction libre: La terra della regione acquatica fu inghiottita dalle acque, gonfia com'era, quale una rana. Proprio mentre l'esplosione vulcanica stava per scuoterla, s'in­ nalzò al suo livello. La sua traccia è ciò che si è ammucchiato sotto raggrinzi­ ta superficie della terra sollevata; il suo movimento è lava di fronte, la super­ ficie levigata delle alte terre; la sua traccia è lava che respinge l'ingannevole bacino superficiale delle terre sollevate*2.32 32 Ibid., pag. 156.

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Questo racconto di confusi e tumultuosi movimenti della terra e delPoceano era, secondo Brasseur, la conferma delle sue singolari teo­ rie. “Ora non manca nulla,” dichiarava. “Sono padrone della materia, posso leggere tutte le iscrizioni, nonostante le numerose variazioni in ogni carattere; e la stessa chiave che mi ha permesso di leggere il Ma­ noscritto Troano mi è servita per il Manoscritto di Dresda, per il Mano­ scritto Messicano N. 2 della Biblioteca Imperiale, per le iscrizioni di Palenque e per i monoliti di Copàn33.” Se gli spagnoli, continuava Bras­ seur, non avessero distrutto gli antichi testi pittorici nella convinzione erronea che trattassero di cerimonie idolatriche, gli uomini avrebbero ora potuto conoscere la storia geologica e umana del mondo antidilu­ viano. Per fortuna, di quelle testimonianze rimaneva quanto bastava per consentire a lui di far chiara la verità. Tema del Troano era il gran­ de cataclisma che aveva avuto un'importanza cosi decisiva per il Vecchio e per il Nuovo Mondo; qui, continuava l’abate, “troverete tutta la storia del sollevamento delle montagne e dell'affondamento delle antiche terre”34. Da quel momento in poi, le applicazioni della rivoluzionaria sco­ perta epigrafica assunsero proporzioni grottesche. Quattro lettere sul Messico, in un volume di 463 pagine in ottavo, uscito per le stampe ancor prima che fosse stata approntata l’edizione di lusso del Troano, avreb­ bero dovuto dare e illustrare, come dichiarava il sottotitolo, “Una spie­ gazione definitiva del sistema geroglifico messicano, la fine dell’età della pietra, l'intermezzo dell’epoca glaciale, il principio dell’età del bronzo, l’origine della civiltà e le religioni dell’antichità, sulla base di notizie derivate dal Teo-Amoxtli [la perduta bibbia tolteca che nel frattempo Brasseur aveva identificata col Popol Vuh] e da altri documenti messi­ cani.” Ma soffermarsi ancora sulle elucubrazioni di Brasseur, che estese le sue teorie a tutta la “misteriosa storia incisa sui palazzi antidiluviani di Palenque”35 e che attribuì alle Grandi Antille la gloria di essere state la culla della prima civiltà umana, sarebbe poco generoso. Quei voli di fantasia, per i quali i geroglifici maya erano poco piu che un pretesto, gli costarono la reputazione; ma ciò non lo indusse a ripudiare le sue teorie, benché in una nota a pié di pagina d’un libro pubblicato nel 1871 am­ mettesse di avere sbagliato nel decifrare il Troano, che andava letto non da destra a sinistra ma da sinistra a destra. Alla fine, si ridusse come un vecchio attore che continui a recitare dopo che tutti gli spettatori se ne sono andati e le luci sono state spente. Gli anni che gli restarono furono profondamente amareggiati dalla delusione per il rifiuto del Collège de France a assegnargli, nel 1872, una cattedra di filologia e archeologia 33 Cit. da una lettera a Leon de Rosny, in S. F. Haven, op. cit., pag. 47. 84 Ibid., pag. 49. 35 Ibid., pag. 47.

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americane. Cominciò a vendere la sua biblioteca e mori poco dopo, nel gennaio 1874, a Nizza. Altro tragico personaggio nella storia della ricon­ quista delle antiche civiltà americane! Dopo la morte di Brasseur, il numero di scritti maya in nostro possesso non ha subito aumenti sostanziali. È venuto in luce solo un altro frammento di codice, giunto a Madrid quindici anni dopo la sco­ perta del Troano e proveniente dall’Estremadura, dove era proprietà d’un privato. Dapprincipio il manoscritto fu battezzato “Cortés” perché ci si figurava che fosse stato proprietà del conquistador in persona, ben­ ché nessun elemento confermasse la supposizione. Léon de Rosny, filo­ logo parigino, quando gliene furono mostrate alcune fotografie, lo ri­ conobbe come parte del Troano: il manoscritto originale era stato ta­ gliato in due parti e poteva essere rimesso insieme abbastanza facilmente, benché avesse subito qualche danno. Pare che il contenuto riguardi prin­ cipalmente vari riti, cerimonie dell’inizio delPanno, altre relative all’agricoltura e alla caccia. Di questo frammento, Léon de Rosny pubblicò una edizione litografica. Sia detto per inciso che il padre di Léon de Rosny, anche lui eminente filologo, fu lo scopritore del terzo codice maya su­ perstite (oltre a quello di Dresda e a quello di Madrid), trovato nel 1859 o nel 1860 frugando in un mucchio di carte gettate da parte come rifiuti nelle cantine della Biblioteca Nazionale a Parigi; sull’involucro era sca­ rabocchiato il nome Pérez, dal quale deriva la corrente designazione latina del manoscritto, Peresianus. Il Codice Peresianus, detto anche di Parigi, è il meno ben conservato dei tre: presenta ampie lacune, e buona parte della copertura a stucco si è scrostata. Nonostante alcune aggiunte portate nel XIX secolo, il volume totale dei manoscritti maya recuperati rimane insignificante, e le probabilità di nuovi ritrovamenti appaiono remote. Tuttavia, non sono state esaurite tutte le possibilità; ed è ancora una volta Landa a indicare una traccia promettente. Nella sua Relación egli parla infatti del costume maya di seppellire un capo con “idoli e, se era un sacerdote, con alcuni suoi li­ bri”36. La testimonianza di Landa non può essere trascurata, anche se finora non si è trovato nulla che la confermi; e benché gli archeologi siano generalmente scettici sulle possibilità che qualche testo abbia potuto so­ pravvivere a tanti secoli passati sotterra, nel clima tropicale della regione, qualche speranza è forse autorizzata dal fatto che in alcune tombe sono stati ritrovati resti di carta con macchie di colore37. Erano troppo mal ridotti per consentire un’identificazione con libri o scritti; ma una com­ 36 Tozzer, Landa’s Relación de las Cosas de Yucatan, pag. 130. 37 Ibid., pag. 130 n. Vedi anche E. H. Thompson, People of the Serpent, Boston, Houghton Mifflin Co., 1932, pagg. 8-9.

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binazione insolita di circostanze potrebbe un giorno o l'altro ripetere nel­ l'antica terra dei maya il miracolo dei rotoli del Mar Morto. I manoscritti maya precolombiani in nostro possesso riguardano quasi certamente soggetti calendariali, astronomici-astrologici, divinatoriritualistici. Per quanto rappresentativi della mentalità maya, abbracciano dunque un campo limitato, il che è di per sé un grave ostacolo alla decifrazione della scrittura. La storia propriamente detta, che Landa menziona come uno dei principali temi dei libri maya, non sembrava inclusa fra i soggetti dei testi giunti fino a noi; questa, per lo meno, fu per molto tempo l'opinione degli esperti, i quali erano d'accordo nel credere che, se anche un giorno si fosse arrivati a leggere i testi dei tre codici maya e le lunghe iscri­ zioni sulle scale di Copàn e i muri di Palenque, non ne sarebbero emersi molti dati nuovi.

“Pagina” di glifi dal Codice Troano.

Ed ecco invece, nel 1961, la sensazionale scoperta annunciata da Tatiana Proskuriakov'{S, le cui specialità sono l'arte maya e la ricostru­ zione, in disegni esemplari, di edifici e strutture architettoniche. Studian38 Tatiana Proskouriakoff, “The Lords of the Maya Realm” , Expedition, voi. IV, N. 1. autunno 1961, pagg. 14-21.

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do i motivi a rilievo sui monumenti maya, in particolare quelli di Piedras Negras, la Proskuriakov capì che esisteva un preciso rapporto con le iscrizioni che li accompagnavano; dove tutti avevano visto fino a quel momento figure di divinità e allusioni religiose, lei riconobbe precisi riferimenti a sovrani e alle loro famiglie. Come ha detto J. Eric S. Thomp­ son, il massimo epigrafista maya del nostro tempo, in un sommario preliminare, 'pochi anni fa nessuno si immaginava che sarebbero state mai recuperate informazioni del genere”39. È ancor troppo presto per giudicare la portata di queste nuove possibilità; frattanto, perché ci siano illuminati aspetti inediti e insospet­ tati della storia antica d ’America, possiamo volgerci ancora ai codici messicani non maya.

39 J. Eric S. Thompson, “ Invocation Address, 75th Anniversary of the University Museum...”, Expedition, voi. IV, N. 3, primavera 1962, pag. 16.

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Capitolo XXV IL DEMONIO ESORCIZZATO: DA ZELIA NUTTALL A ALFONSO CASO Ma quale sacerdote, quale profeta spiegherà le parole dei libri...? Il Libro di Chilam Balam di Chumayel

I maya e gli aztechi, che noi oggi conosciamo cosi bene, non fu­ rono gli unici popoli importanti del Centro-America precolombiano. La cultura maya va sempre più perdendo l’aureola di unicità e viene oggi studiata nel contesto più vasto dell’intera area. Quanto agli aztechi, deb­ bono la loro fama presso il grosso pubblico alla conquista da parte di Cortes più che a meriti propri; nel 1519 erano anzi appena usciti dalla barbarie, e il predominio politico che esercitavano al tempo dell’arrivo degli spagnoli datava soltanto da poche generazioni. Erano debitori della loro leggera vernice di civiltà ad altri popoli, in particolare ai loro vicini di razza affine e di lingua nahuatl e a coloro che li avevano preceduti nel dominio del Messico centrale: i toltechi e i chichimec. Gli oggetti d ’arte e d ’artigianato “aztechi” erano probabilmente tutti importati, e gli ar­ cheologi moderni sospettano che i superbi artisti impiegati al proprio servizio dagli aztechi fossero mixtechi! (“uomini nuvola” )1, appartenenti a una razza di grandi doti artistiche abitante in quelli che oggi sono gli stati di Puebla, Guerrero e Oaxaca nel Messico meridionale. Quasi tutti i codici precolombiani che non sono maya sono mixtechi. Ma come sappiamo che sono mixtechi, quando di nessun manoscritto è documentata la fonte? Non occorre dire che i codici non recano colo­ phon; ma, come nel caso dei maya, particolari nello stile dei codici e 1 Miguel Covarrubias, Indian Art of Mexico and Central America, New York. Al­ fred A. Knopf, 1957, pagg. 326-7.

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dei loro glifi presentano cosi stretti paralleli con affreschi, ceramiche poli­ crome e altri prodotti d'arte che le ricerche archeologiche degli ultimi anni hanno permesso di stabilire le fonti con notevole precisione. I mixtechi, sapientissimi artisti grafici, composero cronache semi­ pittoriche del loro lontano passato. Come tali codici giunsero a essere

Disegni d ’animali, da codici mixtechi.

parzialmente decifrati, nonostante la mancanza d'una chiave, grazie agli sforzi di successive generazioni di studiosi, è uno dei successi delParcheologia americana che soltanto pochi conoscono. Le basi furono get­ tate da una donna eccezionale, di grande energia e di grande ingegno; ma, immeritatamente trascurata dagli autori di opere di volgarizzazione, è stata cosi ben dimenticata che un libro recente sull'archeologia messi­ cana, scritto da uno studioso statunitense, presenta questa figlia del West americano come inglese. In poche delle nostre enciclopedie compare il suo nome. Zelia Maria Magdalena Nuttall è stata definita * una fra le più dili­ genti ed erudite studiose del Messico in tutti i suoi aspetti”2 e un ecce­ zionale “esempio di versatilità ottocentesca”3. Nata a San Francisco nel 1857, portata in Europa bambina, crebbe e studiò in Francia, in Ger­ mania, in Italia e in Inghilterra, paese nativo del padre. Ma aveva il Messico nel sangue. La madre, di origine messicana, le aveva dato i volumi di Lord Kingsborough; cosi nacque, e non sarebbe mai venuto meno, il suo interesse per la storia antica del Messico. Per quasi cin­ quantanni la Nuttall fu una figura dominante nel campo d'attività che s'era scelto, e contribuì a portare la ricerca archeologica di ambito ame­ ricano al livello di quella che aveva per oggetto il Vicino Oriente; du­ rante la lunga residenza nel Messico divenne il centro della vita intellet­ tuale nella capitale, e nel 1908 l'Università di Città del Messico la nomi­ nò professore onorario. Sebbene le scoperte di Miss Nuttall le assicurino 2 Philip Ainsworth Means, “Zelia Nuttall: An Appreciation” , Hispanic American Historical Review, voi. X III, novembre 1933, pag. 489. 3 Tozzer, “Zelia Nuttall” , American Anthropologist, N. 5., voi. XXXV, settembre 1933, pag. 480.

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un posto fra i pionieri degli studi sulle antiche civiltà americane, più tardi le sue teorie (in cui elucubrazioni si combinavano con brillanti frutti di ricerche diligenti) le estraniarono la nuova generazione di archeologi “specialisti” , i quali tuttavia le dovevano più di quanto fossero disposti a riconoscere. Zelia Nuttall si sposò nel 1880 con Alphonse-Louis Pinart, un an­ tropologo francese che aveva comprato pochi anni prima la collezione di manoscritti di Brasseur e che nel 1883 pubblicò un catalogo dei testi messico-guatemaltechi compresi nella raccolta. Pinart si occupava soprat­ tutto di etnologia e lingue di Panama, e probabilmente incoraggiò la moglie nella sua passione per le ricerche sugli indigeni d’America. Tut­ tavia fu un matrimonio infelice e di breve durata; dopo la separazione, avvenuta nel 1884, Zelia Nuttall riprese il nome da ragazza e intraprese una carriera per conto suo. Lo stesso anno, con la madre e la bambina nata dal matrimonio con Pinart, si recò in Messico per un lungo soggiorno e si mise seriamente al lavoro, al Museo Nazionale di Città del Messico. Fece il suo debutto in archeologia nel 1886, con un saggio su teste di terracotta che aveva raccolte nel luogo dell’antica metropoli culturale di Teotihuacàn. Il saggio successivo sulla famosa acconciatura di piume con­ servata a Vienna, uno degli oggetti inviati da Cortés a Carlo V, fu tra i primi studi sull’orgomento e diede inizio ai rapporti, che dovevano pro­ lungarsi per tutta la vita, con il Peabody Museum of American Archeo­ logy and Ethnology dell’Università di Harvard; fu il primo della famosa serie di Papers del museo, Volume I, Numero 1 (1888). Miss Nuttall era diventata perfettamente padrona del nahuatl in breve tempo e cono­ sceva molto bene la ricca letteratura prodotta in quella lingua e in spa­ gnolo al principio dell’epoca coloniale. Entrarono nel suo raggio di ricer­ ca tutti i popoli dell’America antica, dagli zuni del sud-ovest americano alle popolazioni di progredita cultura del Centro-America e del Perù; ma, secondo gli umori del tempo, al centro del suo interesse rimasero sem­ pre le origini dei popoli e delle civiltà dell’emisfero occidentale. Come Brasseur, ma con un’impostazione più professorale, Miss Nuttall dedicò al problema la sua opera più lunga e più ambiziosa, The Fundamental Principles of New and Old World Civilizations (1901), alia quale lavorò tredici anni. La scrisse durante la lunga residenza a Dresda, la città tedesca dove si conservava il famoso codice maya che appunto in quel tempo stimolava molte valide ricerche. Prima della guerra del 1914-18 Dresda fu una delle città più brillanti; famosa per la vivacità della vita artistica e per la bella architettura barocca, era consi­ derata una specie di Firenze tedesca, benché il poco melodioso dialetto locale non avesse certo nulla della grazia toscana. Zelia Nuttall assorbì forse un poco della pomposa gravità, se non della presunzione, caratte­ ristiche degli eruditi tedeschi d’età guglielmina; in ogni caso, mise tutte le risorse di un immenso sapere a servizio di quello che era lo scopo 497

ultimo del suo lavoro: trovare la base comune a tutte le civiltà americane. Questo principio unico, questa specie di comune denominatore, le si rivelò nella svastica, universale simbolo astrologico della stella polare. Alfred M. Tozzer, studioso dei maya e vecchio amico americano di Miss Nuttall, deplorò il carattere “arcaico” del libro ma pensava che avesse esercitato “una notevole influenza, guadagnando parecchi studiosi alle ricerche sul Centro-America”4. Condotto a termine il formidabile trattato, Zelia Nuttall tornò per fortuna a argomenti più concreti. Nel 1902 si stabili nel Messico, in una casa di Coyoacàn, pochi chilometri a sud della capitale, appartenuta un tempo al feroce conquistador Pedro de Alvarado. Occupata in un modo o nell’altro fin dal V secolo d. C., era forse la più antica casa abitata senza interruzione di tutto l’emisfero. Miss Nuttall la ricostruì, trasfor­ mandola in una delle più belle d’America, con una quantità di stanze, gal­ lerie e patios pieni di squisiti oggetti d ’antiquariato, in mezzo a meravi­ gliosi giardini, e, padrona di casa di straordinaria grazia e vivacità, ne fece un luogo d’incontro per ospiti di tutte le nazionalità. Qui condusse anche il “primo studio completo di ceramiche azteche in un dato sito”5. Non lontano da Casa Alvarado, da strati sepolti sotto depositi di lava, Zelia Nuttall riportò alla luce primitive figurine di terracotta che non presentavano nessuna somiglianza con i prodotti dell’arte plastica degli aztechi, dei toltechi o dei maya. Potevano rappresentare solo una cul­ tura molto più antica, d’età preistorica. Gli scavi che condusse in altre parti del paese, e che anch’essi contribuirono alla nostra conoscenza di quel periodo, indussero Miss Nuttall a postulare una cultura messicana arcaica anteriore alle grandi civiltà urbane, della quale già Humboldt aveva vagamente sospettato l’esistenza. La scoperta delle testimonianze di quella fase culturale fu una pietra miliare nella storia dell’archeologia americana, paragonabile per importanza alle scoperte delle culture pre­ dinastiche in Egitto a opera di Petrie e De Morgan. Rappresentò il mas­ simo successo di Miss Nuttall come archeologa-scavatrice. Per quanto fecondi di risultati fossero i suoi studi e le sue ricerche nel campo dell’archeologia in senso stretto, la Nuttall diventò famosa fra gli americanisti per le scoperte di antichi manoscritti. Due codici indi­ geni, parecchie opere spagnole, carte perdute di Sir Francis Drake ci sono oggi noti grazie a lei, che frugò instancabilmente nelle biblioteche del Vecchio e del Nuovo Mondo, trovandosi come a casa sua sia negli archi­ vi di Simancas in Spagna, sia nel Public Records Office di Londra o nelle biblioteche vaticane. Nel 1911 scovò alla Biblioteca Nazionale di Ma­ drid un racconto della Conquista risalente alla metà del XVI secolo e do­ 4 Ibid., pag. 477. 5 Ibid., pag. 478.

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vuto probabilmente a Cervantes de Salazar, amico personale dell'umani­ sta spagnolo Ludovico Vives e di Cortes. A parecchi anni prima risaliva la sua scoperta più importante, quella di un documento che per le in­ sistenze del direttore del Peabody Museum fu battezzato Codice Nuttall. Zelia Nuttall seppe della sua esistenza da un noto storico italiano, Pasquale Villari - biografo del Machiavelli e del Savonarola ed ex mini­ stro della pubblica istruzione -, nel corso d una riunione amichevole a Firenze. Racconta la stessa Miss Nuttall nell'introduzione alla sua edi­ zione in facsimile del codice: Presto eravamo tutti presi dall’argomento della favolosa ricchezza delle biblioteche fiorentine, in una delle quali, la Mediceo-Laurenziana, si conservava il manoscritto originale della più preziosa opera esistente sulFantico Messico, di fra Bernardino de Sahagùn. In un’altra, la Biblioteca Nazionale Centrale, avevo appena scoperto un importante manoscritto ispano-messicano [il Codice Magliabechiano X III-3, o II lib ro d ella v ita d e g li an tich i M e ssic a n i]. A questo punto della conversazione, il senatore Villari mi mise al corrente di alcuni fat­ ti che destarono il mio più vivo interesse e lasciarono nella mia memoria una impressione indelebile. Mi disse che, più di trentanni innanzi, aveva esaminato e studiato alcuni documenti storici conservati nella biblioteca del convento di San Marco, intorno al quale si raccolgono tanti ricordi dell’Angelico e del Sa­ vonarola. Per puro caso, in quel periodo il signor Villari vide per la prima volta un antico codice messicano. Uno dei frati di San Marco lo aveva portato in una sala frequentata da letterati e studiosi fiorentini, per sentire il loro parere in proposito, e chiese a Pasquale Villari, il futuro storico, se capisse e potesse spie­ gargli di che cosa si trattava; né lui né i suoi confratelli, disse il frate, aveva­ no idea di che cosa potesse essere. Lo avevano già mandato per esame a un membro dell’istituzione chiamata di Propaganda Fide, a Roma, avendone la risposta che “il documento era probabilmente stato concepito come un diver­ timento per bambini, ma era talmente sciocco che poteva soltanto annoiarli” . Con l ’occhio del conoscitore, il signor Villari capi subito il valore del mano­ scritto disprezzato, che era un antico codice messicano con inserite qua e là alcune parole [spagnole], quasi a spiegazione dei geroglifici. In seguito, nelle ore trascorse a studiare nell’antica biblioteca, il signor Villari si soffermava di tanto in tanto davanti alla bacheca dov’era tenuto il curioso documento e ne osservava le pagine coperte di figure e di segni; lo esaminava con interes­ se e attenzione, e più volte raccomandò al frate che lo custodiva di tenerlo con la massima cura. Sopravvenne poi un periodo di irrequietudine politica, e gli ordini monastici furono soppressi in tutta l’Italia; la biblioteca di San Marco, divenuta proprietà dello stato, fu aperta al pubblico. Quando tornò a visi­ tarla, il signor Villari si informò del manoscritto messicano, ma invano: era scomparso. Più tardi seppe che era stato venduto a un ricco inglese residente a Firenze, ma quando chiese a quest’ultimo il permesso di rivedere il codice, l’inglese gli rispose che non era più in suo possesso: lo aveva dato a un ami­ co abitante in Inghilterra. “Qui fini la cosa” , concluse il mio ospite, con una

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espressione di rimpianto per il fatto che Firenze aveva perduto un cosi raro tesoro, senza dubbio conservato da secoli fra le sue mura6.

Figure umane, da codici mixtechi.

Ma dov’era adesso il manoscritto? Chissà se Tamia) del ricco inglese lo aveva tenuto? E se lo aveva dato a qualcun altro, a chi? Erano passa­ ti ormai trentanni, ed era improbabile che a Firenze qualcuno conosces­ se la risposta a quelle domande. Probabilmente il codice era stato porta­ to in Inghilterra; poteva anche darsi che avesse continuato a passare di mano in mano. C ’era infine la possibilità che l’esistenza del codice fosse venuta a conoscenza di qualche studioso, e che il documento fosse stato acquistato da un museo e pubblicato. Miss Nuttall, che conosceva molto bene i codici delle collezioni europee e messicane, era però quasi sicura che questa possibilità andasse esclusa; i particolari che il signor Villari ricordava con sorprendente precisione non si adattavano a nessuno dei codici a sua conoscenza, e quelli con i quali il “Codice X” presentava più strette affinità non erano di eguale lunghezza e non avevano note espli­ cative in spagnolo. Per essere del tutto sicura, Miss Nuttall dedicò quasi un anno a svolgere ricerche sul passato di tutti i codici noti: nessuno era venuto dalla biblioteca di San Marco. Tutto ciò accrebbe la sua con­ vinzione che il codice visto da Villari tre decenni prima era rimasto sco­ nosciuto; inoltre, “doveva essere un originale, e di incalcolabile impor­ tanza”7. Come si poteva fare per salvarlo dall’oblio? Miss Nuttall con­ tinuò le sue indagini per via epistolare. Una delle tracce conduceva allo Honorable Robert Curzon, quattordicesimo barone di Zouche; e Courzon si rivelò come l’uomo a cui il manoscritto era stato dato in dono. Robert Curzon barone di Zouche ci è già noto come autore di un resoconto di viaggio contenente la vivida descrizione delle sue visite al­ le biblioteche in rovina del Levante, dove aveva trovato documenti pre­ ziosi. Nella sua tenuta del Sussex aveva messo insieme una raccolta di 6 Zelia Nuttall (a cura di), Codex 'Nuttall. Facsimile of an Ancient Mexican Codex Belonging to Lord Zouche of Harynworth, England, Cambridge, Mass., Peabody MuseumHarvard University Press, 1902, pagg. 1-2. 7 Ibid., pag. 2.

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manoscritti rari, studiata in modo da “illustrare la storia dell’arte della scrittura” ; senza dubbio, un codice messicano ci sarebbe stato molto be­ ne. Curzon aveva anche pubblicato, in edizione limitata a sole cinquanta copie, un catalogo della sua raccolta, con il titolo non del tutto elegante ma indubbiamente descrittivo: Materiali da scrittura, scritture primiti­ ve su tavolette, pietre, manoscritti arrotolati e d’altro tipo, libri e mano­ scritti orientali, nella biblioteca delVOn. Robert Curzon. Il catalogo era stato stampato a Londra nel 1849: se anche Curzon era entrato in pos­ sesso del manoscritto messicano, ciò doveva essere avvenuto a una data più tarda e il manoscritto non poteva dunque comparire nel catalogo. Il diretto ricorso alPerede, il quindicesimo barone di Zouche, risolse tutti i dubbi di Miss Nuttall: “Qui, per un terzo di secolo, il manoscrit­ to rimase indisturbato e cosi ben nascosto alla vista che il mondo ester­ no non ebbe neppur sentore della sua esistenza8.” Il proprietario concesse immediatamente il permesso di studiare e pubblicare il prezioso documento; nel giugno 1898 Miss Nuttall aveva il codice davanti a sé, al British Museum, e esaminava i segni tracciati sulla pelle di cervo ripiegata. Le note in lingua spagnola apposte più tar­ di al documento, inequivocabilmente precolombiano, non erano cosi am­ pie come aveva sperato e non fornivano una traduzione, ma il codice in sé superava le sue aspettative: era in perfetto stato di conservazione, i colori erano freschissimi, e rivelava la mano di un artista sapiente. Zelia Nuttall lo giudicò “il più superbo esempio” che avesse mai veduto d’un antico manoscritto di quel genere. Un esame accurato la persuase che per ricchezza di particolari superava il Codex Vindobonensis (di Vien­ na), ad esso strettamente imparentato, che si credeva il primo spedito da Cortés in Europa. Era possibile che il codice appena ritrovato fosse sta­ to insieme a quello di Vienna? Un’iscrizione recava la data I Acati (an­ no) I Cipectli (giorno), che, come per strana coincidenza proprio Miss Nuttall aveva dimostrato quattro anni prima, corrispondeva al giorno dell’equinozio di primavera, cioè al 12 marzo secondo il calendario giu­ liano, del 1519. Cominciò a questo punto il lungo e incerto lavoro della “lettura” del manoscritto messicano, di pari passo con la sua preparazione per la stam­ pa. Alla fine del XIX secolo si era fatto qualche progresso nella decifra­ zione dei codici messicani. Le idee sul carattere dei geroglifici tuttavia non avevano subito cambiamenti significativi dal tempo di Humboldt, e nes­ suno aveva ancora elaborato principi generali in base ai quali tradurli; dato il carattere rudimentale e ibrido della quasi-scrittura dei messicani non maya, appariva probabile che nessuno lo avrebbe mai fatto. Ora, con pazienza, frammento per frammento, si arrivò a mettere insieme una co­ noscenza via via più vasta non solo della cronologia, ma anche dei costu­ 8 Ibid., pag. 3.

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mi messicani in generale, dei riti, delle istituzioni sociali, delle varie at­ tività, delle divinità, delPastronomia, astrologia e magia del Messico an­ tico. A poco a poco si giunsero a comprendere il senso delle rappresen­ tazioni pittoriche e delle astrazioni simboliche (ideogrammi) riguardan­ ti tutti questi soggetti, e le variazioni di significato in particolari contesti e sequenze. Le notizie che ora si possedevano sulla vita dell’antico Mes­ sico derivavano dallo studio di opere dei primi tempi dopo la Conqui­ sta (in particolare di quella di Sahagun) e di codici post-colombiani, co­ me il Mendoza e il Magliabechiano riscoperto da Zelia Nuttall, che con­ tenevano un’eccellente registrazione pittorica di episodi caratteristici del­ la vita e della religione messicane, e in qualche caso includevano com­ menti in spagnolo. Oggetti d’ogni genere trovati in Messico, e notizie sul­ le culture indiane non messicane, contribuirono anch’essi a chiarire il senso dei glifi. Aubin e altri avevano compiuto vari progressi fornendo la chiave per l’interpretazione di altri elementi del tipo che abbiamo as­ similato ai rebus. I progressi più importanti furono il risultato di con­ fronti, estrapolazioni, sostituzioni in via sperimentale di significati e ri­ ferimenti familiari, sulla base del vasto complesso di notizie messo a di­ sposizione dalla letteratura archeologica, storica e antropologica. Requisiti essenziali per questo tipo di lavoro erano la padronanza delle lingue mes­ sicane e la conoscenza di nomi geografici e di tutta una serie di dati con­ nessi. Studiosi con un’eccellente preparazione scientifica, come Eduard Seler, portarono i contributi più importanti. Eduard Seler (1849-1922), prima di diventare uno dei padri fondato­ ri della moderna archeologia messicana, era stato professore di botanica a un liceo di Berlino. Recatosi in Messico nel 1887 per ragioni di salute, vi tornò più e più volte, a studiare le antiche civiltà del paese e a com­ piere scavi; nel corso della nuova carriera divenne direttore del museo berlinese di etnologia. La sua specialità erano le lingue e i testi messica­ ni, e fu il primo a scrivere ampi commenti su un certo numero di codici. Queste pubblicazioni erano finanziate dal duca di Loubat, il gentiluomo francese che aveva preso il posto di Kingsborough come aristocratico pro­ tettore dei rotoli messicani. Gli studi di Seler si concentrarono su sei manoscritti strettamente imparentati di età precolombiana, che designò col termine di “gruppo Borgia” , dal nome del suo membro più sontuoso e prezioso. Erano tutti, chiaramente, di natura magico-religiosa, e trattavano del calendario sa­ cro e di altri soggetti affini come l’anno di Venere, la divinazione, i gior­ ni fausti e infausti, numeri mistici, riti, miti. Accanto a questo gruppo di codici ce n’era un altro che faceva chiaramente parte a sé e presentava una ancor maggiore omogeneità sia nello stile sia nei soggetti. Ma gli esperti avevano trovato maggiori difficoltà nell’interpretare i codici di questo secondo gruppo che nell’interpretare i codici Borgia; le immagini che ne riempivano le pagine, e che nella stilizzazione e continuità ricor­ 502

davano da vicino la moderna storia a fumetti, rimanevano un enigma. Di che cosa trattavano? I temi consueti - il passare del tempo, la magia dei numeri, i movimenti stellari - sembravano avere qui minor rilievo; ma erano evidenti i riferimenti a sacrifici, anche umani, e al soprannaturale. Seler e i suoi colleghi tedeschi erano convinti che anche questi codici fossero di natura religiosa e ritenevano probabile che trattassero di temi mitologici.

Il dio della guerra messicano Texcatlipoca (“Specchio Fumante” ), come appare, in elaborati paramenti, nel Codice Borgia; il piede destro è sostituito da uno specchio. Questo dio è il nemico di Quetzalcoatl, amante del quieto vivere, e finisce per sconfiggerlo.

A questo gruppo apparteneva il codice appena scoperto da Zelia Nuttall, che sembrava quasi dipinto dalla stessa mano del Vindobonensis, fino a quel momento il più importante della serie. Vienna possedeva anche altri due frammenti dello stesso tipo: il Becker I e il Becker II, portati dal Messico negli ultimi anni da un tedesco di quel nome; il Codex Colombino, o Dorenberg, di Città del Messico probabilmente ave­ va fatto parte un tempo dello stesso documento cui era appartenuto il Becker I. L ’Inghilterra non era da meno di Vienna: due codici, il Selden e il Bodley, si conservavano alla Bodleiana di Oxford, e il Nuttall, o Zouche, fu infine acquistato dal British Museum. Alfonso Caso, l’archeo­ logo messicano che è diventato la massima autorità nel campo dei codici messicani precolombiani, ha dato a questo gruppo il nome di Mixteca, che ne indica l’origine, oggi certa. Va ricordato che anche i codici Borgia sono mixtechi o, per essere più precisi, tlaxcala-puebla. Zelia Nuttall si trovò a dover dissodare terreno vergine, quando 503

si mise a lavorare sul codice, prima al British poi alla Bodleiana; poteva e doveva fare affidamento sul proprio intuito femminile, là dove sforzi sistematici avevano dato fino a quel momento poco frutto. La lettura preliminare di date e nomi di persone e di luoghi era in certo modo rou­ tine, e in quanto tale non molto rivelatrice; ma “un esame attento e prolungato” segnalò alla sua attenzione certi elementi che sembravano ricorrere ripetutamente, specialmente nel caso di nomi di persone. Che cosa indicavano? Si potevano far rientrare in un qualche schema? In­ fine, dalPaffresco multicolore emerse una serie di personalità ben defi­ nite, accompagnate da elementi che sembravano indicazioni di rango, età, associazioni di clan. “Questo codice,” osservava Miss Nuttall, “ci fa conoscere una serie di eventi nella vita di parecchi personaggi e ci mostra la grande varietà di costumi e insegne che adottavano salendo di grado o celebrando riti9.” Poi la studiosa cominciò a riconoscere e poter seguire i fili delle carriere individuali e notò nelle sequenze di im­ magini un certo progresso o evoluzione; riuscì anzi a seguire certi per­ sonaggi dal principio alla fine del testo. Ora sapeva: il codice era di contenuto storico. In quella che le parve la sezione più importante, ricostruì la storia di un personaggio fino allora ignoto, un conquistatore chiamato Otto Cervo o Artiglio di Tigre, che ha per intimo amico un uomo chiamato Dodici Ollin o Testa di Tigre. Quando appare per la prima volta, Otto Cervo dimostra, con l’abbigliamento e la pittura del corpo, di essere un sacerdote; più tardi intraprende spedizioni di guerra e lo si vede parte­ cipare al concilio dei capi tribù. Come dovette accadere a tanti eroi mes­ sicani, alla fine è sacrificato e dal petto gli è strappato il cuore ancora palpitante. Miss Nuttall identificò, ricostruendo le scheletriche biografie, anche altre persone, fra le quali una donna chiamata Tre Selce. La Nut­ tall fu la prima a riconoscere l’importanza delle donne dell’antico Mes­ sico, benché quella messicana fosse una società guerriera; in parecchi casi le donne comparivano come capi militari, a capo di quelle che la studiosa battezzò “gineocrazie” . Al confronto con tutto ciò che oggi possiamo “leggere” nel codice, il lavoro della Nuttall fu solo un inizio. Ma fu lei a riconoscere il carat­ tere storico del testo e le si debbono molti dati nuovi sui costumi e le istituzioni dell’antico Messico. Fu ancora lei la prima a notare che quasi tutti i personaggi avevano un secondo nome, o un soprannome, in ag­ giunta al nome ufficiale, che era poi una stessa cosa con la data di na­ scita di ciascuno. Prudentemente, la studiosa avvertì che un codice di questo genere non doveva essere visto come un testo scritto simile ai testi scritti che possediamo noi, e che vanno letti tutti di seguito; accet­ tava l’ipotesi che un antico messicano avrebbe potuto leggere il codice 9 Ibid.y

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pag. 20.

da lei scoperto “recitando in stupendo linguaggio e in versi metrici, composti da lui stesso o trasmessi per via orale, la lista degli eroi indigeni le cui gesta sono qui descritte pittoricamente, con Paccompagnamento di geroglifici che registrano solo i nomi di persone o località”101. Secondo

Dal Codice Nuttall: “Otto Cervo” , il conquistatore mixteco ri­ sorto dai manoscritti precolombiani. Porta un elmo a testa di felino, familiare cosi all’America antica come all’antica Cina.

questa concezione, non del tutto nuova, della natura dei documenti mes­ sicani, i codici erano strumenti mnemonici per il bardo, annalista e sacer­ dote, piu che la codificazione parola per parola di un dato testo. Presu­ mibilmente, gli storici indigeni del XVI secolo, scrivessero in spagnolo o in nahuatl — storici come Ixtlilxochitl, e come in qualche misura lo stesso Sahagun — , semplicemente tradussero questi documenti pittorico-“stenografici” in un racconto continuo con Paiuto della tradizione orale. Dichiarava Sahagun: “Tutte le informazioni che ho ottenuto, me le hanno comunicate per mezzo della pittura11.” In anni successivi studiosi inglesi e americani continuarono il lavoro d'interpretazione iniziato da Zelia Nuttall, seguendo la strada da lei 10 Ibid., pag. 21. 11 Cit. in Recinos (a cura di), Popol Vub, pag. 17.

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aperta; altri invece, specialmente tedeschi, per molto tempo non si lascia­ rono convincere, e ancora nel 1929 Walter Lehmann respingeva, nel suo commento al Codice di Vienna, ogni interpretazione storica. Lehmann era convinto che le date ricorrenti fossero riferimenti astronomici, che le persone menzionate fossero dei, non uomini, e dichiarò che tutti i co­ dici del tipo Nuttall-Vindobonensis trattavano soltanto di soggetti astro­ nomici e teologici. Già nel 1912 invece un maggiore inglese, James Cooper Clark, aveva fornito una conferma dell’interpret azione di Miss Nuttall nella sua opera The Story of Eight Deer in the Codex Colombino (La storia di Otto Cervo nel Codice Colombino); Cooper aveva scoperto che Otto Cervo era nominato in parecchi altri manoscritti e, usando il Colombino come testo principale, ricostruì con sorprendente ricchezza

Dal Codice Nuttall: “Otto Cervo” fa prigioniero “Quattro Vento” . Senza dub­ bio “Quattro Vento” era destinato al sacrificio, sorte che toccò poi allo stesso “Otto Cervo” .

di particolari la vita dell’eroe conquistatore precolombiano dalla culla all’estremo sacrificio. Il lavoro svolto da Clark, che sottolineò il paralle­ lismo e la coordinazione dei dati nei vari codici, doveva dimostrarsi utilissimo. Ancor piu importanti furono i risultati del riesame del Codice Nut506

tall fatto da Richard C. E. Long, americanista inglese, nel 1926". Long, secondo Alfondo Caso, fece scoperte fondamentali; distinse nel codice cinque divisioni relative a linee dinastiche, propose una cronologia dei codici. Riteneva che il Nuttall abbracciasse un periodo di 478 anni; ma, a causa della peculiarità del calendario messicano, che come quello tibe­ tano manca d un punto fisso di riferimento e percorre invece cicli ricorrenti, la scala cronologica di Long serviva a stabilire solo valori relativi. Successivamente entrò in scena Herbert J. Spinden — uno studioso statunitense noto soprattutto per le ricerche sui maya — con un breve saggio sui “Manoscritti indiani del Messico meridionale” pubblicato sullo Smithsonian Report del 1933, anno della morte di Zelia Nuttall. Uno studio condotto sui manoscritti della Bodleiana gli aveva fornito ele­ menti inaspettati che — per usare le sue parole — dimostravano “una vol­ ta per tutte che esseri umani e umane vicende costituiscono il principale soggetto di questi antichi documenti”1213. Nel Codice Selden, aveva notato che il pittogramma di una persona, quando compariva per la prima volta, era unito da una linea serpeggiante a un segno rappresentante un anno; Spinden pensava che la linea ondulata simboleggiasse un cordone ombe­ licale che, unendo un individuo al segno rappresentante un anno, indi­ casse Panno della sua nascita; Punito giorno della nascita dava il nome convenzionale della persona. Spinden riuscì a ricostruire un numero im­ ponente di episodi nella vita di personaggi che dovevano aver giocato una parte di primo piano nella storia precolombiana del Messico meri­ dionale; ricostruì la vita di Uno Scimmia dal principio alla fine dei sessantacinque anni che era durata. I suoi studi illuminarono usanze relative al matrimonio, cerimonie di iniziazione ai corrispondenti messicani di ordini cavallereschi, assassinii per garantirsi la successione al trono, ma­ trimoni tra fratello e sorella, alleanze politiche, conquiste, guerre rituali per procurare vittime con cui soddisfare gli appetiti antropofagi del pia­ neta Venere. Il racconto storico è interpolato di elementi mitologici. In una scena raccapricciante, Otto Cervo — che, come Spinden ebbe modo di verificare, era “Pindividuo più esaurientemente documentato” in quel­ la parte del Messico — si vede officiare al sacrificio del proprio fratello. Del cast di personaggi del Codice Selden fa parte la formidabile principessa Sei Scimmia, che sopravvisse a tre fratelli e a forza si fece strada fino al trono. La vita di questa Hatshepsut mixteca, che Spinden definiva una vera “Amazzone” , è narrata oltre che nel Codice Selden anche nel Bodley e nel Nuttall; esemplifica il “bellicoso femminismo” ca­ 12 Richard C. Society, voi. LV I, 13 Herbert J. Report for 1933, 1935, pag. 432.

E. Long, “The Zouche Codex” , Journal of the Royal Anthropological 1926, pagg. 239-58. Spinden, “ Indian Manuscripts of Southern Mexico” , The Smithsonian Publication 3279, Washington, D. C , Government Printing Office.

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ratteristico dell’antico Messico meridionale e dimostra quali alte posizio­ ni vi potessero raggiungere le donne: Zelia Nuttall aveva dunque avuto ragione di sostenere che avevano esercitato un grande potere e gio­ cato una parte di primo piano nella vita del paese. Spinden era anzi stu­ pito delPabilità e della risolutezza con cui la principessa Sei Scimmia “sapeva affrontare problemi sia militari sia maritali” . È raffigurata mentre guida i soldati alla battaglia e mentre si prende atroce vendetta di città ribelli. Come la regina Elisabetta I, non si lascia metter fretta quando si tratta di scegliere un marito, e fa della procrastinazione un efficace stru­ mento politico. Allargando i limiti dello studio di Richard C. E. Long, Spinden collazionò le genealogie di parecchie importanti famiglie met­ tendo insieme tutti i codici, e nel corso di questo lavoro giunse alla con­ clusione che le storie contenute nei codici iniziavano intorno al prime quarto del X III secolo e comprendevano circa dieci generazioni. L ’incertezza di tali ipotesi risultò evidente quando Alfonso Caso dimostrò che il V II secolo dell’era cristiana, non il X III, aveva visto l ’inizio delle dinastie la cui storia era registrata nei codici. J. Cooper Clark pensava che il conquistatore Otto Cervo fosse nato nel 1439; Al­ fonso Caso assegnò come date estreme della sua vita il 1011 e il 1063. Alfonso Caso è la personalità di maggior rilievo nel campo dell’ar­ cheologia messicana sin dal tempo delle sue esplorazioni a Monte Alban, antico centro mixteco-zapoteco. A ispirargli interesse per questa cultura furono le iscrizioni geroglifiche su stele, che pensò potessero gettare qualche luce su una fase oscura della storia messicana, prima della ve­ nuta degli aztechi. Gli studi che compì successivamente sulle iscrizioni rivelarono affinità fra i sistemi di scrittura maya e azteco, e Caso decise allora di intraprendere scavi con la speranza di raccogliere altri dati sulla cultura mixteco-zapoteca e sulla funzione storica da essa svolta nel con­ testo centro-americano in generale14. Tutti questi fini furono raggiunti con gli scavi condotti a Monte Alban, i cui risultati confermarono in misura sorprendente e anzi ampliarono i risultati degli studi di Caso sui codici. Ma questo venne dopo: prima ci fu un “colpo” archeologico para­ gonabile a quello fortunatissimo di Woolley a Ur, la scoperta (nel 1931) dell’oggi famosa Tomba 7, con i suoi stupendi gioielli e pezzi d’oreficeria. Alfonso Caso è da molto tempo professore presso l ’Università di Città del Messico e direttore dell’Istituto Nazionale messicano degli Affari Indiani, e unisce queste attività a quelle di uomo di lettere che ha sempre nutrito un interesse particolare per i geroglifici e i codici messi­ cani. Fu lui il primo a identificare come mixtechi - per le somiglianze con le ceramiche di quella cultura - i due principali gruppi di manoscritti precolombiani. Attribuì la serie Borgia alle aree di Puebla e Tlaxcala per 14 Philip Dark, Mixtec Ethnohistory, Oxford, Oxford University Press, 1958, pag. 9.

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le chiare affinità con i dipinti di Tizatlàn in Tlaxcala; accertò che i codici delPaltro gruppo venivano dalle due antiche capitali dei mixtechi, Tilantongo e Teozacoalco, e più tardi avrebbe dimostrato che si riferivano alle case regnanti di quei due centri. I mixtechi avevano anche un nome per quei tipi di documenti genealogici: tonindeye o naandeye15. Zelia

Stele incise di Monte Alban, attribuite al piu antico periodo (“olmeco” ?) del centro zapoteco-mixteco nel Messico meridio­ nale. I glifi non decifrati sono probabilmente date.

Nuttall aveva pensato che fossero aztechi oppure da attribuire ai loro vicini e affini, i signori di Texcoco, mentre Cooper Clark, avvicinandosi maggiormente alla verità, li aveva ritenuti zapotechi. L ’identificazione proposta da Alfonso Caso trovò conferma negli scavi a Monte Alban. Ossa incise trovate nella Tomba 7 rivelarono, come i codici, date storiche. C’era forse qualche rapporto fra i mausolei regali o sacerdotali e i manoscritti? Quattro anni dopo, nel 1935, Caso iniziò uno studio esauriente dei testi pittografici genealogici allo scopo di preparare una specie di dizio­ nario biografico di tutti i personaggi mixtechi menzionati. Per anni non fece nessun progresso significativo, finché un giorno, a un congresso di storici tenuto a Guadalajara nel 1944, un collega, Jiménez Moreno, se­ gnalò all’attenzione di Caso una “mappa” di Teozacoalco, Oaxaca, in possesso dell’Università del Texas a Austin. Si tratta di un documento postcolombiano in stile indigeno, con note in spagnolo, che si pensa 15 Caso, Interpretation del Codice Bodley 2858, pag. 13.

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debba la sua origine a misurazioni e rilievi ordinati nella zona da Filippo II nel 1580. Nel margine si vede una colonna verticale di figure umane, sistemate come nello schizzo di un gigantesco totem in forma di palo. Esaminando questa mappa, Caso constatò sorpreso che conteneva nomi molto simili a quelli ricorrenti nei manoscritti mixtechi che stava studiando. E se fosse esistito un rapporto? Difatti era proprio cosi: alcuni nomi risultarono identici. Grazie alle date cristiane indicate sulla mappa, fu anche possibile stabilire una correlazione cronologica per tutti i co­ dici. E la straordinaria fortuna di Caso non fini qui: personaggi princi­ peschi d’età precolombiana che comparivano nella mappa ricomparivano nelle piu ampie storie dinastiche dei codici. Pur non essendo (ancor meno di quanto lo fosse la Relación di Landa) la chiave per l’interpretazione della scrittura sconosciuta, la mappa di Teozacoalco meritò di essere definita da Caso la “Stele di Rosetta” dei codici storici mixtechi10. Con il suo aiuto fu possibile dare una “tra­ duzione” più o meno ampia in cui fu messa in chiaro la cronologia, fu verificata la natura storica dei documenti e le linee dinastiche furono messe in correlazione con quelle dei centri mixtechi di Tilantongo e Teo­ zacoalco. In una nota spagnola erano nominati anche i discendenti della IV dinastia di Teozacoalco, che era stata fondata da un principe di Tilan­ tongo. Tutte le previsioni furono confermate; i codici erano storici; le persone nominate erano, per usare le parole di Caso, “reali e terrene” , benché, come avviene nelle cronache dei popoli primitivi, i sovrani fos­ sero considerati d’origine divina. Come nel Faust, v’era stato un “Prologo in cielo” . In ogni modo, quali che fossero le concezioni religiose dei mixtechi, i loro “scrittori” dimostravano una notevole sensibilità storica; gli annali erano scritti con somma cura, in ordine razionale, con una straordinaria ricchezza di particolari, esattamente come Humboldt aveva predetto. D ’insospettata ricchezza erano anche la vita e il patrimonio intellettuale che vi si riflettevano; ma molto rimaneva ancora aperto a interpretazioni discordanti. Da pochi codici scampati per miracolo alla distruzione e creduti un tempo poco più che curiosità barbariche, gli studiosi avevano ricavato una considerevole messe di notizie. Il Messico precolombiano, cosi vicino nel tempo eppure cosi lontano dalla coscienza storica dell’Occidente europeo, era stato dichiarato “preistorico” e impenetrabile. “Le tradizioni dei chichimec, colhua e cahuac,” scriveva nel XIX secolo l’orientalista anglo-tedesco Max Mùller, “non sono meglio delle tradizioni greche a proposito di pelasgi, etoli e ioni, e sarebbe puro spreco di tempo met­ tere insieme con tali elementi una storia sistematica, destinata soltanto 36 Caso, "E1 Mapa de Teozacoalco” , Cuadernos Americanos, voi. V i l i , N. 5, 1949, pag. 145.

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a essere distrutta presto o tardi da qualche Niebuhr, Grote o Lewis”1'. Quel che veniva prima delPunica data stabilita con sicurezza, la fonda­ zione di Tenochtitlàn nel 1325, era considerato per sempre fuori della portata dello storico. Gli studiosi disperavano di poter riempire il vuoto di parecchie centinaia d’anni fra l’eclissi di Teotihuacàn e l’ascesa degli aztechi. Per lo Yucatan e l’America centrale, il buio era stato rotto con la decifrazione della cronologia maya, benché fosse difficile stabilirne i rapporti con il calendario europeo, tanto più in quanto tutte le date maya a disposizione si riferivano all’antico impero e non si potevano mettere in relazione con nessun evento di cui si conoscesse la data. I documenti mixtechi, a differenza delle “serie iniziali” sulle stele maya, avevano contribuito a colmare le lacune nella nostra conoscenza della storia del Centro America. I dati erano venuti direttamente da documenti indigeni, non da trascrizioni o da resoconti tendenziosi di missionari cristiani. Era vero che la decifrazione non escludeva altre ipotesi, e alcuni studiosi sostenevano che non si poteva considerare defi­ nitiva18. Ma grazie a lunghi studi, pazienti confronti, intuizioni e scoperte fortunate, i simboli dei libri pittografici furono gradualmente ridotti a dati intelligibili, e la maggioranza degli americanisti giunse a riconoscere che in generale i documenti messicani si potevano ormai leggere in tutti i sensi della parola tranne che in senso stretto. Come a Ras Shamra e a Ninive, libri perduti e una scrittura di cui si era perduta la chiave fecero letteralmente storia.

Motivo animale da un codice mixteco.

Quel che più conta, gli studiosi avevano penetrato il mistero del passato non tanto degli aztechi - dopo tutto nuovi venuti - , ma d’una fra le più antiche e progredite civiltà del Messico. Una prima abbastanza attendibile data (692 d. C.) era fornita dal Codice Bodley, e stabiliva una continuità storica di circa otto secoli. Con l ’aggiunta di un codice d ’epoca posteriore alla Conquista la cronaca pittografica delle dinastie mixteche 17 Max Miiller, Chips from a German Workshop, New York, Charles Scribner & Co., 1870, voi. I, pag. 327. ,s Dark, op. cit., pag. 9.

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fu portata sino al 1642, abbracciando cosi quasi mille anni. Poche antiche nazioni del Vecchio Mondo possedevano testi storici per un cosi lungo lasso di tempo, e ne risultava chiaramente dimostrata l’efficacia dei si­ stemi grafici usati nel Nuovo Mondo e l ’abilità dei suoi scribi. Una grande studiosa aveva aperto la strada con la scoperta di un prezioso codice precolombiano; ora, grazie al lavoro di Alfonso Caso venuto a coronare l’opera, i più insoliti annali storici del mondo stavano per essere pienamente decifrati, i misteriosi rotoli coperti di pittogrammi erano quasi diventati libri aperti. Se pochi rotoli, unici sopravvissuti alla rovina d ’un numero sicuramente ben più vasto, hanno potuto resti­ tuire tanto, il nostro compiacimento deve essere però temperato dal pensiero di quanto è andato perduto con la distruzione degli altri.

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E P ILO G O

Le appassionate ricerche dei nostri studiosi-avventurieri li hanno portati a percorrere quasi un giro completo intorno al mondo: dalPItalia all’Egitto e al Vicino Oriente, dalPAsia centrale al Centro-America. Ma la loro vera frontiera fu ed è il tempo. Ogni scoperta d ’un testo da gran tempo perduto, importante o meno, ha contribuito a respingere indietro quella sorta di sipario nel tempo di là dal quale tutte le attività umane appaiono oscure, a contorni im­ precisi. Ogni scoperta ci dice qualcosa di più sul nostro passato, sul modo in cui siamo diventati ciò che siamo. Questa la potente motivazione delle ricerche dei nostri scienziati, questa la ragione per cui tali ricerche con­ tinueranno; perché c'è ancor tanto da fare. Domani, dopodomani potrebbero portarci una sorpresa. Ma nessuno è in grado di prevedere da dove verrà: dai primitivi monasteri cristiani abbandonati nella penisola del Sinai, o dalle sabbie desertiche del NordAfrica, dalla rilegatura d’un manoscritto medioevale conservato in una collezione europea o dalla biblioteca nascosta dello zar Ivan? Lina cosa sola possiamo dare per certa: che vi saranno molte altre scoperte. L ’e­ sperienza ci dice che il suolo di Ercolano, e sicuramente anche l’Egitto, la Palestina, la Siria, la Mesopotamia, terre abitate da millenni, sono ben lontani dall’avere restituito tutti i loro documenti sepolti. E anche altrove, persino nei climi più sfavorevoli alla sopravvivenza di testi, non v ’è motivo di escludere categoricamente la possibilità di scoperte future. Le prospettive rimangono dunque promettenti. “Quando rifletto al lungo tempo trascorso,” scriveva Gibbon, pensando alle biblioteche di Alessandria, “ai guasti prodotti dall’ignoranza, alle calamità della guerra, i tesori che possediamo, più delle perdite che abbiamo subite, sono per me motivo di sorpresa1.” Eppure alla fine del XVIII secolo, quando Gibbon scriveva queste 1 Edward Gibbon, The History of the Decline and Fall of the Roman Empire, J. B. Bury (a cura di), 9n ed., Londra, Methuen & Co., 1932, voi. V, pag. 455.

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parole, era stata operata solo una piccola parte dei recuperi descritti nel nostro libro. Guardando con nostalgia a quella che era stata la situazione dei bizantini prima delle devastazioni operate dai loro fratelli d’Occidente, i crociati cristiani, lo storico osservava: ‘‘Nel godere o trascurare le nostre presenti ricchezze, dobbiamo guardare con invidia alla gene­ razione che poteva ancora leggere la storia di Teopompo, le orazioni di Iperide, le commedie di Menandro, le odi di Alceo e di Saffo2.” Al tempo di Gibbon, di questi scrittori si conosceva poco più che il nome; eppure, per quanto miracoloso possa sembrare, gli studiosi e gli archeologi mo­ derni sono riusciti a trovare qualcosa praticamente di tutti questi autori antichi. Ma sono andate perse anche letterature intere: degli etruschi, per esempio, dei khmer di Cambogia, dei fenici di Tiro e Sidone. E che dire dei cartaginesi, i cui libri i romani consegnarono ai propri alleati numidi, con i quali scomparvero? Eppure un popolo dal quale usci il giovane schiavo divenuto poi famoso, col nome di Terenzio, come autore di com­ medie doveva possedere un notevole talento letterario. D ’altra parte, chis­ sà se un giorno non troveremo opere cartaginesi? Centocinquant’anni fa le letterature degli antichi egizi e dei popoli vissuti in Mesopotamia appa­ rivano altrettanto irrecuperabili, e oggi invece possediamo il Gii game sh e il Papiro Rhind e l’inno di Ikhnaton, e altri preziosi testi e documenti dell’antico Vicino Oriente. Se, fin dal primo Rinascimento, gli studiosi non avessero nutrito la speranza di poter accrescere gli scarsi resti della letteratura antica, non avrebbero forse corso tante avventure, e noi non conosceremmo le ansie né le gioie della ricerca ancora non finita.

2 Ibid., voi. V I, pag. 106.

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516

I N D I C E

Prefazione

p.

7

PARTE PRIMA - PRELUDIO RINASCIMENTALE

I. IL III.

Alla ricerca di Cicerone: il Petrarca Umanisti in azione: Boccaccio e Salutati L'appassionato cacciatore di libri: PoggioBracciolini

15 27 39

PARTE SECONDA - IL PAPIRO E L'ARGILLA NEL MONDO CLASSICO

IV. V. VI. VII. V ili. IX. X.

I papiri di Ercolano I papiri egizi L'età eroica: Flinders Petrie nel Fayyum Il traffico di papiri: Wallis Budge Perle tra i rifiuti: Grenfell e Hunt Ritorno a Ossirinco Libri senza copertina

63 83 99 113 129 145 159

PARTE TERZA - IL PAPIRO E L'ARGILLA NELL'ORIENTE ANTICO

XI. XII.

I piu antichi libri del mondo La Bibbia dei cananei

183 209

PARTE QUARTA - AVVENTO DELLA PERGAMENA: IL NUOVO TESTAMENTO

XIII. XIV.

Tischendorf alla ricerca del Nuovo Testamento “migliore” Il codice sinaitico

239 261

XV. XVI. XVII.

Due studiose nel Levante L ’inafferrabile Diatessaron Altra luce sul NuovoTestamento

p. 279 291 305

PARTE QUINTA - SCRITTURE EBRAICHE

XVIII. XIX. XX.

La Genizà del Cairo Grotte nel deserto di Giuda Il mistero di Shapira

321 351 369

PARTE SESTA - SETA E CARTA

XXI. XXII.

Sulle orme di Marco Polo:Aurei Stein I Mille Budda

389 417

PARTE SETTIMA - IL NUOVO MONDO

XXIII. XXIV. XXV.

Il fascino dei codici messicani: da Humboldt a Kingsborough Brasseur scopre Landa e gliantidiluviani Il demonio esorcizzato: da Zeba Nuttall a Alfonso Caso

439 467 495

e p il o g o

513

FONTI DELLE ILLUSTRAZIONI NEL TESTO

515

XV. XVI. XVII.

Due studiose nel Levante L ’inafferrabile Diatessaron Altra luce sul NuovoTestamento

p. 279 291 305

PARTE QUINTA - SCRITTURE EBRAICHE

XVIII. XIX. XX.

La Genizà del Cairo Grotte nel deserto di Giuda Il mistero di Shapira

321 351 369

PARTE SESTA - SETA E CARTA

XXI. XXII.

Sulle orme di Marco Polo:Aurei Stein I Mille Budda

389 417

PARTE SETTIMA - IL NUOVO MONDO

XXIII. XXIV. XXV.

Il fascino dei codici messicani: da Humboldt a Kingsborough Brasseur scopre Landa e gliantidiluviani Il demonio esorcizzato: da Zelia Nuttall a Alfonso Caso

439 467 495

epilo g o

513

FONTI DELLE ILLUSTRAZIONI NEL TESTO

515