Brigate rosse. Nel cuore dello Stato 8880221442, 9788880221449

Gli anni Settanta vengono chiamati correntemente "anni di piombo"; ma è giusto ridurre a questa definizione un

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Brigate rosse. Nel cuore dello Stato
 8880221442, 9788880221449

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A LT R I M E N T I

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La pubblicazione di questo volume è stata possibile con il contributo del Centro Studi Utopia

© 2009 Prospettiva Edizioni Srl Prospettiva Edizioni Srl Via dei Sabelli 62 – 00185 Roma tel/fax 06 4452730 ccp 48461925 www.prospettivaedizioni.it [email protected] Copertina di Francesca La Sala Finito di stampare nel mese di aprile 2009 presso la tipografia Il Bandino di Grassina (FI) – tel. 055 641.503 Stampato in Italia – Printed in Italy ISBN 9788880221449

RENATO SCAROLA

BRIGATE ROSSE: NEL CUORE DELLO STATO

INDICE

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INTRODUZIONE

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BORGHESI CON LE ARMI IN PUGNO Figli del ’68? Radici politiche del brigatismo Fondamenti ideologici Controrivoluzionari Logica golpista e riformismo armato

43 46 52 54 55 60

DEMOCRAZIA E TERRORISMO Terrorismo di Stato, Stato terrorista Infiltrati fin dalle origini Terrorismi convergenti Parte del gioco politico La sinistra e il terrorismo brigatista Una tenaglia contro i movimenti

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DA CURCIO A MORETTI Il mistero del Superclan Moretti: l’ambiguo terrorista Il caso Moro Il Comitato di crisi di Cossiga La trattativa e la morte di Aldo Moro Il memoriale e il generale Dalla Chiesa Da brigatisti a brigadieri rossi?

97 98 101 104 110

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PARABOLA FINALE E FINE DELLE BR? Le divisioni e lo strano arresto di Moretti Il partito guerriglia di Giovanni Senzani Il caso Cirillo: don Raffaele Cutolo, le Br e la Dc Suor Teresa Barillà e il «ritorno all’ovile» Le nuove Brigate rosse CONCLUSIONI Politica e terrorismo Per lo sviluppo dei movimenti Con Rosa Luxemburg contro il terrorismo Umanesimo socialista versus terrorismo APPENDICE Caratteristiche e origini del terrorismo italiano Dario Renzi (1978) Il caso Moro, anatomia di una repubblica Dario Renzi (1988) Intrighi e brigate di Palazzo Carla Longobardo (1990) Grazie Curcio! Dario Renzi (1993) Il rapimento di Stato? (1993) BIBLIOGRAFIA

In memoria di Renato Bassetto, militante socialista rivoluzionario, operaio delegato del Consiglio di fabbrica alla Fiat Ferriere di Torino. Lottò contro il terrorismo brigatista, le montature e la repressione poliziesca da cui fu colpito reagendo con coraggio.

INTRODUZIONE

Tra la seconda metà degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta le Brigate rosse diventarono un soggetto politico di primo piano del nostro paese. Con una lunga serie di rapimenti, omicidi, gambizzazioni sembravano inafferrabili e potenti, mentre, prendendo a pretesto le loro gesta, si inaspriva la repressione poliziesca e statale contro i movimenti. Milioni di persone dovettero subire le conseguenze delle loro azioni criminali che provocarono confusione e disorientamento, contribuendo a far arretrare e ad avvelenare le coscienze. Su queste vicende esiste una vasta letteratura, sono stati scritti numerosi libri, prodotti film, serie televisive, dibattiti, romanzi autobiografici dei protagonisti. Eppure, in gran parte, un alone di mistero continua ad avvolgere le imprese della banda fondata da Renato Curcio. Le tesi che sostengo in questo libro non hanno nessuna pretesa di «oggettività»; ho inteso affrontare questo argomento da un punto di vista umanista, socialista e rivoluzionario, quindi, contrapposto a qualunque logica terrorista. Il mio è un libro schierato e partigiano, come del resto lo sono per definizione tutti gli altri, anche se generalmente si dichiarano ipocritamente obiettivi. Tanti autori hanno ricostruito più o meno minuziosamente i fatti, compito importante ma, a mio avviso, insufficiente. Perciò ho cercato innanzitutto di rispondere a una semplice domanda: chi erano i brigatisti? Questione apparentemente semplice, ma data generalmente per scontata. Infatti, molti saggi sull’argomento, pur con diverse interpretazioni, tendono a giudicare separatamente i mezzi dai fini propugnati dai terroristi rossi. Secondo queste interpretazioni i brigatisti partivano da un ricerca di lotta per la giustizia e per il 9

comunismo usando sciaguratamente dei pessimi mezzi. Credo che, in questi termini, la questione sia posta male e finisca per condurci fuori strada. Le Br proprio per vocazione originaria erano e sono figlie del sistema, composte da borghesi con le armi in pugno. La loro visione del cambiamento, analogamente ai borghesi, si basa sulla prevalenza della morte sulla vita. I brigatisti si sono poggiati su questo rovesciamento operato dagli oppressori portandolo alle estreme conseguenze: il motivo fondante del loro essere e delle loro azioni si è misurato sull’uccidibilità, sulla capacità di preparare ed eseguire sommarie condanne a morte. Questa logica è letteralmente contrapposta a quella di chi cerca una strada di autentica liberazione ed autoemancipazione per l’insieme dell’umanità. Le Brigate rosse hanno offerto inoltre innumerevoli servigi alle classi dominanti contribuendo attivamente all’opera di costante mistificazione dell’idea di rivoluzione e di socialismo, alle quali dicevano in qualche modo di richiamarsi. Con le loro gesta criminali hanno fornito argomenti a chi presenta le rivoluzioni come un bagno di sangue, aiutando la diffusione di un’idea del tutto borghese della rivoluzione. Il loro comunismo è parente stretto dei regimi stalinisti e burocratici basati sui gulag e sul dominio oppressivo dell’infernale macchina statale. Il terrorismo brigatista con i suoi tribunali presuntamente popolari, le sue sentenze e le sue esecuzioni ha rappresentato in sedicesimi questa orrenda realtà. Nel cuore e nella mente di questa banda reazionaria c’era l’incubo statale: sognavano una dittatura tremenda, mentre si sviluppavano – come cercherò di dimostrare – grazie ad un alimento costante proveniente proprio dal cuore di quello Stato che a parole dicevano di voler combattere. La loro logica è stata profondamente statalista. Nel contempo fare chiarezza su queste vicende e sulle mitologie costruite intorno alle Br è tutt’uno con l’esigenza di riabilitare l’idea di rivoluzione, che muove sempre dalla tensione al miglioramento della vita dei protagonisti, e di affermare un’idea di socialismo possibile basato sulle migliori tensioni presenti nelle persone. Una delle questioni più delicate che ho cercato di affrontare concerne la relazione tra il terrorismo brigatista e lo Stato democratico italiano. Sono consapevole che attirerò su di me l’inappellabile condanna di «dietrologo» da parte della folta schiera dei «giustificazionisti», che sostengono la tesi dei com10

pagni puri che hanno sbagliato. Penso al contrario che non sia possibile comprendere la dinamica del fenomeno brigatista se non si analizza la realtà della repubblica nata dalla resistenza. Democrazia e terrorismo non sono due termini contrapposti, al contrario si nutrono vicendevolmente. Il democratico Stato italiano, come tutti gli Stati, si è basato sulla violenza e la sua costituzione materiale si è fondata, in modo peculiare, su un uso permanente dello stragismo e del terrorismo. Piazza Fontana, Ustica, piazza della Loggia, l’Italicus sono là a dimostrarlo e aspettano ancora verità e giustizia, perché la democrazia sigilla i suoi misfatti con la dicitura «segreti di Stato». In questo testo argomento e spiego una tesi di cui, dopo lo studio di una ricca documentazione, mi sono definitivamente convinto: le Br sono state non solo indirettamente usate dallo Stato democratico italiano per condurre un’opera di normalizzazione contro i movimenti, ma in modo più diretto, sotto la direzione di Mario Moretti, sono giunte a una convergenza con i servizi segreti e con settori di apparati dello Stato. Il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro è stata l’espressione più alta di questa convergenza, non casualmente questo «caso» è tutt’ora avvolto da un fitto mistero. Le gesta criminali delle Brigate rosse svelano ulteriormente il carattere e la natura della repubblica democratica nata dopo la resistenza. La stesura di questo testo ha richiamato l’esigenza di continuare a conoscere e a sviluppare un’opera di controinformazione sulle peculiari malefatte e crimini dello Stato italiano su cui vale la pena approfondire la ricerca. In special modo credo sia importante cercare di approfondire le losche vicende relative alla Loggia massonica P2, che, come il lettore potrà constatare, entrano prepotentemente in scena in special modo nel rapimento di Aldo Moro. Sono questioni di una certa attualità e rilevanza, basti pensare che il signor Silvio Berlusconi era associato proprio alla Loggia massonica di Licio Gelli. I brigatisti sono figli della politica e di una logica sistemica e sono nati all’interno di quel brodo di coltura che caratterizzava una gran parte dell’estrema sinistra nata dopo il ’68-69. Specialmente Lotta continua e Potere operaio con le loro deliranti ipotesi militar-insurrezionaliste hanno non poca responsabilità, perlomeno indiretta, nell’aver contribuito a creare quel contesto da cui era poi emerso il piccolo gruppo ultraminoritario che dette vita alla fondazione delle Brigate 11

rosse. La logica violentista e militarista coniugata al disprezzo della teoria contribuiva a costruire un «senso comune» diffuso ed un’esaltazione fine a se stessa dello scontro armato concepito come la meta finale a cui giungere. Tutto ciò ha sicuramente inciso e contribuito a una forte diseducazione di quelle migliaia di giovani che, all’inizio degli anni Settanta, si gettavano con entusiasmo nell’impegno. Per queste profonde ragioni una gran parte dell’estrema sinistra, in tempo reale, non ha voluto e non ha potuto rappresentare un argine, ideale e programmatico, nei confronti del terrorismo. L’idea che i brigatisti fossero «compagni che sbagliano» non solo non ha contribuito alla chiarezza, ma ha assunto il significato di una sorta di complicità nei confronti di un progetto reazionario e controrivoluzionario come quello brigatista. Specie nei primi due capitoli mi sono soffermato sulle responsabilità delle organizzazioni della sinistra extraparlamentare, senza avere la pretesa di tracciare un bilancio storico. Avverto, però, l’esigenza di approfondire un bilancio dell’esperienza dell’estrema sinistra in Italia giunta così indecorosamente al capolinea. Credo che questa esigenza sia motivo di profondo rispetto nei confronti di quelle migliaia di persone che si sono ingaggiate, originariamente spinte da tensioni positive all’impegno e a quella che si definiva militanza. Un’intera generazione è stata bruciata, un dramma che ritengo vada affrontato operando un bilancio severamente critico verso i presupposti politici di quell’impegno. È un motivo di riflessione, oltre che di giudizio morale, la constatazione che nessuno dei leader di quella estrema sinistra, a cominciare da Adriano Sofri e Toni Negri, ha avvertito l’esigenza di operare un bilancio serio, anche solo per una forma elementare di rispetto verso quelle migliaia di persone per le quali erano comunque dei punti di riferimento. Un discorso a parte merita Rossana Rossanda e il gruppo del quotidiano il manifesto. In tempo reale Rossanda e compagni bollarono i brigatisti come provocatori, mentre oggi, rimuovendo quelle prese di posizione, continuano a difendere la tesi secondo la quale i brigatisti erano «puri» e totalmente estranei alle collusioni con le bande statali. D’altra parte non c’è da meravigliarsi, dal momento che questi difensori della democrazia, in occasione della morte dell’agente dei servizi segreti Nicola Calipari, avvenuta durante la liberazione di Giuliana Sgrena ostaggio in Iraq, hanno finito con il celebrare in chiave 12

nazional-popolare proprio i servizi segreti. Le vicende del terrorismo sono una cartina di tornasole per comprendere ulteriormente i motivi del crollo di tante avanguardie. *** Con questo libro non ho avuto la pretesa di scrivere una storia delle Br, ma piuttosto di cercare di favorire una comprensione della natura di questo fenomeno. Nel testo la narrazione di alcune vicende si combina trasversalmente con il tentativo di fornire alcune generalizzazioni che credo possano essere utili per comprenderne la natura. Mi sono particolarmente soffermato sul rapimento e l’uccisione dell’onorevole Aldo Moro, perché ritengo questa vicenda rivelatrice del carattere delle Br morettiane. Il mio è un dichiarato impegno anche di controinformazione e per realizzarlo ho studiato e consultato una grande quantità di materiali che mi sono stati preziosi. Nella vasta bibliografia esistente sull’argomento, uno dei problemi in cui mi sono imbattuto sono i presupposti da cui muovono molti di questi lavori. C’è un filone «giustificazionista» che opera, nemmeno troppo sottilmente, una sorta di mitizzazione di quei protagonisti distorcendo la reale natura degli avvenimenti. Molti lavori biografici e autobiografici vanno in questa direzione. Le opere autobiografiche dei terroristi brigatisti sono state utili a comprendere il loro modo di pensare, oltre che fonti di informazioni e dati. Un altro filone, nei fatti simile al primo, tende invece a dare «tutto per chiarito» e ad accettare le verità depositate dalle sentenze dei tribunali di Stato. Rossana Rossanda, per la quale non c’è niente da scoprire, si è distinta in questa corrente di pensiero per cui chi solo cerca di indagare sui tanti misteri di quegli anni è un inguaribile «dietrologo». Tra i lavori più approfonditi di chi sostiene queste tesi è doveroso citare quello di Marco Clementi, autore di uno studio rigoroso sui testi dei brigatisti. Questo autore dichiara proprio di basare tutto il proprio lavoro sui documenti originali dei brigatisti e dei tribunali e contesta un intento di ricostruzione storica che non rispetti questa metodologia. Cioè giudica il fenomeno a partire dalle rappresentazioni fornite dai protagonisti. È un approccio assai discutibile che privilegia solo un aspetto, certamente da tenere presente, ma che non prende in esame l’esigenza di comprendere chi erano i brigatisti e soprattutto si astiene dall’e13

sprimere un giudizio. È un approccio che spiega le scelte umane sempre sulla base delle spinte oggettive. C’è poi l’interpretazione ufficiale e di Stato, che pur partendo da altri presupposti alla fine coincide con i giustificazionisti nella lettura di questo fenomeno. L’allora ministro degli Interni Francesco Cossiga è uno dei più fervidi sostenitori della tesi secondo cui all’epoca si consumò uno scontro tra democrazia e terrorismo e alla fine quindi coincide nell’analisi con Rossana Rossanda e con tutti coloro i quali, in qualche modo, giustificano «oggettivamente» l’operato dei brigatisti rossi. Infine, è doveroso menzionare chi coraggiosamente ha ricercato con tenacia segmenti significativi di verità, molto spesso rivelando in modo comprovato episodi e fatti rilevanti. Sergio Flamigni ha svolto un serio e documentato lavoro di controinformazione sulle Br in special modo svelando le convergenze tra queste e i servizi segreti. Ritengo che quella di Flamigni sia un’opera meritoria e preziosa per chi si voglia accostare a questi argomenti. Il limite del lavoro svolto dall’ex parlamentare comunista è la sua difesa dello Stato democratico, per cui, secondo l’autore, le collusioni statali sarebbero frutto di deviazioni dal loro normale funzionamento. Giorgio Galli è uno studioso rigoroso su questo argomento, la lettura dei suoi testi, sempre ben documentati, permette una puntuale ricostruzione della vicenda brigatista evidenziando le complicità dello Stato e dei servizi segreti. I suoi lavori sono un importante contributo alla ricostruzione di una verità storica del fenomeno. Tra gli ex brigatisti, invece, vige il più totale conformismo. Praticamente nessuno ha fatto uno sforzo per operare una ricostruzione veritiera delle vicende. Le eccezioni sono poche. Il libro intervista di Mario Scialoja a Renato Curcio riveste un certo interesse perché può permettere di comprendere quali fossero i presupposti da cui muovevano all’origine i brigatisti. Ma da parte del fondatore delle Br non c’è mai stato un serio bilancio autocritico. Alberto Franceschini, che si è dissociato e a differenza dei pentiti non ha fatto finire in prigione nessuno, costituisce un’altra eccezione. Franceschini ha prodotto una seria autocritica e soprattutto è l’unico brigatista ad aver svelato fatti e circostanze che mettono in luce l’intreccio con i servizi segreti. L’ex brigatista, e fondatore delle Br con Curcio, è giunto oggi alla convinzione che queste ultime siano state eterodirette dai servizi segreti. 14

Un altro ex brigatista che a mio avviso ha fornito un’autocritica più seria e rigorosa, pur non condividendo le tesi di Franceschini, è Vincenzo Guagliardo che nel suo libro Di sconfitta in sconfitta mette in luce efficacemente la natura stalinista delle Br e il loro basarsi sui paradigmi borghesi del terrore giacobino. Le fonti per questo lavoro sono state, quindi, molteplici e la documentazione ampia e variegata. L’impegno per questo libro ha assunto un significato autobiografico, il suo concepimento e la sua stesura hanno sollecitato la memoria del mio vissuto. Nel 1978 ripresi contatto e mi unii alla Lega socialista rivoluzionaria, dalla quale poi successivamente sorgerà Socialismo rivoluzionario, ed una delle ragioni di quella scelta fu il forte accordo con la chiara e intransigente lotta condotta da questa organizzazione contro il terrorismo brigatista da un punto di vista socialista e rivoluzionario. All’epoca provenivo da una frequentazione degli ambiti dell’estrema sinistra ed ero insofferente verso le ambiguità e i silenzi di questo contesto circa le imprese del terrorismo rosso. Quegli anni, condivisi con centinaia di compagne e compagni, furono di impegno, di lotta, di controinformazione e chiarificazione che sviluppammo tra la nostra gente sulla natura antipopolare e reazionaria delle Br. Le questioni poste sul tappeto erano di cruciale importanza proprio perché rimandavano all’idea e alla concezione della rivoluzione e del socialismo e al legame con i movimenti. I brigatisti contribuivano ad offrire un’orrenda idea della rivoluzione e nel contempo erano un ostacolo per lo sviluppo dei movimenti. La chiarezza sul terrorismo era, quindi, uno degli aspetti chiave su cui si misuravano principi, programmi e vocazioni. Anche in quella battaglia misurammo la nostra diversità e la veracità della relazione con le autentiche rivoluzioni, da cui cercavamo di imparare e trarre lezioni per il futuro. E inoltre ho ritenuto significativo tracciare nel capitolo conclusivo alcune lezioni comuni di questa lotta condivisa con tante persone. Per questa ragione ho scelto di allegare in appendice a questo scritto degli stralci di alcuni articoli e prese di posizione sul terrorismo brigatista espressi in tempo reale nella stampa della Lsr e poi di Sr. Questi articoli sono la testimonianza di una coerente lotta che fin dalle origini la Lsr e successivamente Sr hanno condotto contro il terrorismo brigatista. Una significativa testimonianza di uno schieramento con i più e i più oppressi, con i movimenti e le loro esigenze di fondo. In ragione di ciò e per difendere una prospettiva socialista basata sull’au15

tentico protagonismo e quindi contrapposta a qualunque logica di delega è stata condotta una coerente lotta contro il brigatismo. Questa raccolta di articoli, che cominciano dalla seconda metà degli anni Settanta, è stata possibile grazie al prezioso contributo di Giulia Caruso che mi ha stimolato a riflettere sul nostro vissuto comune in relazione alla lotta al terrorismo. Il confronto con lei è stato estremamente proficuo per gli stimoli che mi hanno offerto le sue riflessioni sul carattere dello Stato italiano e il suo persistente uso delle stragi e del terrore. *** Avevo in testa questo libro da tanti anni, ma non sarebbe stato possibile senza la Scuola internazionale di Vallombrosa di Utopia socialista alla quale ho partecipato come alunno nel 2005-2006. La scuola è stata un’occasione di apprendimento straordinaria e mi ha trasmesso la convinzione necessaria a scriverlo. Per me è stato fondamentale nell’ispirazione di questo libro il mio maestro, compagno di sempre e amico carissimo Dario Renzi. Con lui condivido oramai 30 anni di impegno per il socialismo e un intenso scambio ideale sempre stimolante e arricchente. Dario mi ha sempre spinto a scrivere, affrontando pazientemente le mie ritrosie e riottosità, il suo sostegno da tutti i punti di vista è stato ed è per me estremamente importante. Con Dario c’è sempre stato un ricco dialogo sull’argomento: già in tempo reale non avevamo dubbi sul carattere reazionario e golpista dei brigatisti e ci interrogavamo costantemente sugli intrecci permanenti con lo Stato. Le sue elaborazioni teoriche, in special modo la sua rigorosa opera di critica e superamento della politica, sono state per me un riferimento teorico decisivo. La mia riconoscenza va inoltre a Sara Morace che mi ha seguito ed offerto puntualmente suggerimenti utilissimi soprattutto di carattere metodologico su come sviluppare e finire questo lavoro. Fabio Beltrame mi ha seguito, incitato, consigliato con grande tenacia e soprattutto con infinita pazienza durante la fase di concepimento e di realizzazione. I suoi suggerimenti ed indirizzi sono stati di grande utilità. Ringrazio Federico Gattolin per la cura con cui ha seguito le fasi finali della realizzazione di questo libro. Sono state utili e sempre stimolanti le numerose discussioni avute con il mio caro amico e compagno Hamoudi Bouchoucha 16

così come Jorge Herrero è stato una costante fonte di informazioni, notizie, riflessioni sull’argomento. Infine, devo a tanti compagne e compagni la scrittura di questo libro e sarebbe difficile citarli tutti. Mi auguro che il testo possa essere utile ad aprire una riflessione e che aiuti a comprendere più profondamente quelli che, a mio avviso impropriamente, sono stati definiti «anni di piombo». Soprattutto mi auguro di poter contribuire a tenere viva l’attualità dell’impegno contro il terrorismo reazionario mentre lottiamo per affermare un’idea di socialismo e rivoluzione basata sulle migliori tensioni umane, in primo luogo sul prevalere della vita sulla morte. Marzo 2009 R.S.

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BORGHESI CON LE ARMI IN PUGNO

Figli del ’68? Nell’estate del 1970 si svolse a Pecorile, un paese nell’entroterra di Reggio Emilia, un convegno di Sinistra proletaria, uno dei tanti piccoli gruppi dell’estrema sinistra, essenzialmente presente a Milano, di cui Renato Curcio era uno tra i fondatori. Un’ottantina di persone discussero in modo animato su quali prospettive perseguire. L’argomento centrale della discussione, secondo le stesse ricostruzioni dei protagonisti di quel convegno, si concentrò sulla necessità di rafforzare le pratiche violentiste e il servizio d’ordine. C’era la convinzione comune che, dopo la strage di piazza Fontana, bisognasse rispondere alla repressione statale sul suo stesso terreno. Tra le diverse posizioni che si confrontavano cominciava ad emergere l’ipotesi di fondare il primo nucleo di quelle che poi diventeranno celebri con la denominazione di Brigate rosse. Il loro fondatore, Renato Curcio, ricostruisce così quel passaggio: C’era l’esigenza urgente di risolvere le contraddizioni che erano maturate dentro la Sinistra proletaria, dove gli orientamenti divergevano in modo insanabile (…) (con, nda) la discussione sulla necessità di passare a nuove forme di lotta più incisive e clandestine. Una scelta della quale Margherita (Cagol, nda), Franceschini, io e qualche compagno eravamo decisamente favorevoli. (…) Nessuno di noi prese la parola in mezzo all’assemblea di ottanta persone proponendo di passare alla lotta armata, ma tra alcuni gruppetti ristretti di compagni il tema che circolava era quello.1

1

Renato Curcio, A viso aperto, p. 52.

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Questa scelta maturava in un ambito ristrettissimo di persone ispirate da un metodo, tipicamente borghese, di carattere cospirativo. Addirittura ritenevano non esistessero le condizioni per parlarne nemmeno nel cerchio ristretto della loro area politica. La spiegazione del leader storico brigatista prosegue: «Il nostro discorso sulla lotta armata e i primi interventi di “propaganda armata” nacquero dall’impossibilità di proseguire con i vecchi metodi collettivi e assembleari».2 Quindi, i brigatisti mostravano apertamente il loro disprezzo verso i metodi assembleari e collettivi, considerandoli oramai «vecchi». Non volevano rendere conto a nessuno delle loro scelte, le cui conseguenze sarebbero ricadute comunque sulla collettività e sui movimenti. Il primo nucleo brigatista sorse fuori da qualunque contesto di movimento, le loro scelte erano contrapposte a quelle della stragrande maggioranza dei giovani e degli oppressi. Era l’inizio degli anni Settanta e, in quello stesso momento, milioni di persone avevano scelto di impegnarsi e lottare, alla luce del sole, animate da genuine speranze di trasformazione e miglioramento della propria vita. Le tesi più ricorrenti sulle origini delle Brigate rosse, sostenute da autori di diversi e a volte contrapposti schieramenti politici e ideologici, invece, avvalorano l’idea che quelle scelte furono dettate dal contesto oggettivo. Indubbiamente i contesti influiscono sulle scelte delle persone, ma sarebbe falso e schematico ritenere che queste ne siano il frutto e la conseguenza meccanica. Negli anni in questione la maggioranza delle persone che si impegnavano per un mondo migliore non ha certo optato per il terrorismo, la durezza della repressione statale e poliziesca non ha sortito una reazione uguale e contraria per tutti. Piuttosto è un’attitudine tipica della politica quella di sottrarsi alle responsabilità soggettive, considerando queste ultime come frutto dell’oggettività. Le persone scelgono sempre: nel bene e nel male, c’è sempre un principio di responsabilità umana. Negare questa elementare verità, riscontrabile nella vita di ognuno di noi, alla fine conduce a pensare che l’agire umano è dettato unicamente dalle situazioni esterne finendo per giustificarle e soprattutto per non spiegarle da un punto di vista umano. 2

Idem, p. 53.

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Rossana Rossanda, Francesco Cossiga e Mario Moretti, personaggi politicamente abbastanza distanti tra loro, concordano nel mitigare le responsabilità soggettive con la spiegazione che le scelte delle Brigate rosse si inserivano in un contesto di «guerra civile». Questa tesi considera i terroristi rossi come una delle componenti di quello straordinario sommovimento che fu l’ascesa del 1968-69 anche in Italia. Secondo loro, quei movimenti si trovarono costretti a fronteggiare la repressione statale e ciò condusse negli anni Settanta a una situazione di «guerra civile». La celebre e tanto gettonata definizione di «anni di piombo» nasce da tale riduzione e deformazione della realtà del periodo. Questa logica conduce al duplice risultato di mistificare sia la vicenda brigatista che quella ben più complessa dei movimenti sorti ad ondate in Italia dal ’68 in poi. La radicalizzazione prevalentemente giovanile del ’68 aveva un carattere internazionale che raggiunse un’ampiezza e uno sviluppo senza precedenti. In Italia, soprattutto a partire dal ’69, migliaia di giovani sceglievano con entusiasmo l’impegno, sentivano di voler essere diversi da come li voleva il sistema democratico globale a dominanza Usa sorto nel dopoguerra, provavano a costruire diversamente la loro vita. Le persone, intuitivamente e a volte ingenuamente, volevano riprendere in mano la propria vita per migliorarla. Questa radicalizzazione umana esprimeva un diffuso protagonismo diretto, un anelito alla giustizia di fronte alle atrocità della guerra nel Viet Nam, uno schieramento istintivo con i più oppressi. Nacque un movimento studentesco e giovanile che tendeva a contestare le istituzioni del dominio sfidando le baronie universitarie, l’autoritarismo e l’imposizione culturale. Nel ’69 poi, con l’«autunno caldo», irruppe sulla scena il protagonismo dei lavoratori. Scavalcando inizialmente gli apparati burocratici sindacali, i lavoratori volevano contare e decidere in prima persona, si affacciarono forme di autorganizzazione con la nascita dei Consigli operai. Le burocrazie sindacali riuscirono successivamente a riassorbire queste spinte, scegliendo in modo intelligente di cavalcare il movimento e riuscendo a istituzionalizzare i Consigli riconducendoli nell’alveo sindacale. L’estrema sinistra non rappresentò un’alternativa: Lotta continua con il suo demagogico slogan «siamo tutti delegati», disconosceva anche il valore di quei processi iniziali di autorganizzazione. Successivamente, nella seconda metà degli anni Settanta, esplose il movimento femminista affermando l’autodetermina21

zione delle donne, lottando per le proprie esigenze e cominciando a sviluppare una critica alla politica, in quanto coniugata al maschile. Gran parte dell’estrema sinistra, con Lotta continua in prima fila, si contrappose (anche usando la violenza del proprio servizio d’ordine) a questa radicalizzazione, perché vedeva il movimento come una minaccia per l’esistenza dei propri microapparati politico-militari. Il movimento femminista fu originariamente e prevalentemente contrapposto al maschilismo sia di matrice militarista che terrorista. In quegli anni si susseguirono lotte e mobilitazioni e nacquero ad ondate successive movimenti di diverso tipo. C’era una genuina speranza di cambiamento diffusa nei cuori di milioni di persone, concreta quanto generica. Nella seconda metà degli anni Settanta, il Partito comunista italiano riuscì a canalizzare queste molteplici spinte in chiave elettorale, con una sua straordinaria e all’apparenza irresistibile avanzata. In realtà le spinte, in origine così genuinamente radicali, furono ricondotte all’interno delle logiche sistemiche ponendo i presupposti per una normalizzazione democratica. L’estrema sinistra, sottomessa anch’essa alle stesse logiche e prigioniera di schemi insurrezionalisti, non solo non riuscì a rappresentare una benché minima alternativa, ma fu ostacolo per lo sviluppo di questa radicalizzazione umana. Non ho la pretesta di analizzare in profondità questo processo, ciò richiederebbe un lavoro di approfondimento specifico dei movimenti di quegli anni. Questo breve schizzo indica, però, quanto il contesto non avesse niente a che fare con lo scenario di «guerra civile» dipinto da tanti. Ci fu una repressione poliziesca talvolta efferata e dura, ci furono le imprese criminali dello squadrismo fascista, ci furono scontri di piazza anche estremamente violenti e un uso esasperato di una pratica violentista e minoritaria da parte di settori dell’estrema sinistra. Tutto ciò influì anche in modo negativo sulla coscienza diffusa dei protagonisti e fu in gran parte imposto dall’esterno ai movimenti: in ogni caso non può essere minimamente accostato alle gesta dei terroristi rossi. La dinamica dei movimenti – da non confondersi e non coincidente con quella delle diverse tribù politiche – nei motivi, nei metodi e soprattutto nelle aspirazioni è stata estranea e contrapposta ai deliri delle bande terroriste. In ogni caso gli episodi di violenza di piazza non autorizzano a caratterizzare quegli anni come di «guerra civile», che significa letteralmente scontro armato tra diversi settori della popolazione, cosa che non corrisponde 22

alla reale situazione di quel periodo. Ad esempio, il terrorismo brigatista è cresciuto in maniera esponenziale nelle sue gesta criminali proprio a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, quando cominciava un riflusso dei movimenti. Presentare una tale deformazione della realtà non permette di comprendere più autenticamente alle radici l’entità del fenomeno brigatista, ingigantito dagli opinionisti del sistema in modo voluto e interessato. In tanti hanno offerto una rappresentazione delle Brigate rosse rintracciandone la radice e un significativo radicamento nei movimenti. Il terrorismo rosso in Italia ha poi una sua precisa specificità rispetto ad altri paesi ed esperienze. Le Brigate rosse non sono paragonabili all’Ira in Irlanda, all’Eta nei paesi Baschi e neanche, per molti versi, a tante esperienze in America Latina. Tali esperienze, comunque diverse tra loro, avevano ben altre basi, presupposti e sostegno tra la gente. In ogni caso sono esperienze da criticare e condannare in ragione di una visione socialista, rivoluzionaria e libertaria che fonda il cambiamento sul protagonismo diretto delle grandi maggioranze ed alieno e contrapposto al terrorismo minoritario e sostituzionista a prescindere dall’ampiezza delle sue basi. Le Brigate rosse sono sempre state un gruppetto ultraminoritario. Al di là delle mitizzazioni e delle ricostruzioni interessate, questa realtà è confermata inconfutabilmente da tutta la documentazione esistente. I brigatisti hanno fatto dichiarazioni roboanti al proposito, invece una lettura attenta dei loro stessi racconti conferma tale verità. Mario Moretti descrive così la dinamica e la consistenza numerica brigatista: «Noi non cresciamo mai. È incredibile che nessuno se ne sia accorto. Le Br si riproducono sempre ma non crescono mai».3 Alberto Franceschini parlando della consistenza del gruppo terrorista attorno al 1972 dichiara: «Quanti eravamo? Forse un centinaio di compagni. Io, Renato e Mara i clandestini, e poi tutti gli altri compagni che vivevano “regolarmente”: forse un centinaio di persone».4 La diagnosi di Franceschini è confermata con ancora più precisione da Renato Curcio: «Allora nelle Br eravamo una 3

Mario Moretti, Brigate rosse, una storia italiana, p. 49.

4

Giovanni Fasanella-Alberto Franceschini, Che cosa sono le Br, p. 81.

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dozzina, ma con attorno qualche centinaio di simpatizzanti (…). Le forze dell’ordine in quel maggio del ’72 sono state a un pelo da prenderci tutti. Se lo avessero fatto, le Br sarebbero finite sul nascere».5 Opportunamente un autore serio e documentato come Giorgio Galli si interroga sulla consistenza brigatista nel 1974, solo quattro anni prima del rapimento di Aldo Moro: «“Tutti” non furono presi “per un pelo”, o perché era utile lasciar sopravvivere un fattore di destabilizzazione, in attesa di vedere, da parte dei servizi, se i politici fossero in grado, dopo le elezioni del 7 maggio, di stabilizzare la situazione in senso conservatore e anticomunista?».6 Il monumentale lavoro documentario di Curcio nel «progetto memoria» rileva dei dati che dimostrano categoricamente il carattere minoritario del fenomeno brigatista. Riferendosi a tutta la vicenda afferma: «Per l’organizzazione Brigate rosse sono state inquisite 911 persone».7 Quando si parla di inquisiti ci si riferisce a persone che in molti casi sono state semplicemente amiche e conoscenti, molte volte risultate poi totalmente estranee. Si può stimare, accettando le cifre numeriche dichiarate da Curcio riferite a tutta l’esistenza delle Br, che approssimativamente queste ultime non abbiano mai avuto più di qualche centinaio di militanti. Valerio Morucci è decisamente più drastico; le sue dichiarazioni hanno un certo interesse perché riguardano il periodo considerato di massimo successo e apogeo delle Br. Nelle Marche c’erano sì e no tre compagni, idem nel Veneto. Gli unici punti di forza, si fa per dire, erano Milano, Torino e Genova. Ed in quest’ultima città i compagni erano quattro o cinque. Di cui forse un paio nelle fabbriche. Di queste Brigate di cui parla, a Roma non c’era neanche l’ombra nel 1976. Sono arrivate dopo.8

Sicuramente i brigatisti hanno goduto anche di una parziale simpatia in alcuni settori, ma si è sempre trattato comunque di 5

Giorgio Galli, Piombo rosso, p. 28.

6

Idem, p. 28 e seg.

7

R. Curcio, La mappa perduta, Sensibili alle foglie, Roma 1994, p. 60, in G. Galli, Piombo rosso. 8

Valerio Morucci, La peggio gioventù, p. 310.

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un moto superficiale e generico, in ogni caso passivo. Ciò non può essere spacciato per autentico radicamento del gruppo fondato da Curcio. Dopo il rapimento Moro ci fu uno sciopero generale immediato e si mobilitarono nelle piazze più di 15 milioni di persone per esprimere la loro condanna del terrorismo. Al contrario non ci fu alcuna manifestazione di sostegno ai brigatisti, tranne un’assemblea all’università di Roma che salutò con un applauso la notizia del rapimento dello statista democristiano.

Radici politiche del brigatismo Le esigenze, le speranze e i sogni di un’intera generazione si infransero presto e in alcuni casi si trasformarono in veri e propri incubi. Gli schemi proposti dalle avanguardie politiche non potevano permettere lo sviluppo ulteriore di quella fragile radicalizzazione umana. Le tensioni a far primeggiare la vita e il suo miglioramento si incontravano con i paradigmi politico-militari, con i deliri giacobini e insurrezionalisti dei principali gruppi dell’estrema sinistra sorti sulla base della spinta del ’68. Così quelle tensioni originariamente positive vennero mortificate e alienate nel fare negativo di un impegno politico sacrificale e ossessivo. Il soffio dei movimenti poteva permettere il sorgere di un’alternativa ai vecchi apparati burocratici, sembrava mettere in discussione l’asfissiante egemonia togliattiana nel movimento operaio e popolare e infrangere la cultura nazionalpopolare. In realtà i programmi, la logica, la cultura della sinistra extraparlamentare italiana, al di là delle migliori intenzioni, erano subalterne al togliattismo, intrise di provincialismo, empirismo e disprezzo per la teoria. Soprattutto tutte le componenti, nessuna esclusa, rimanevano interne ai paradigmi della modernità, alle logiche mutuate dalla rivoluzione borghese della presa del potere politico. Con spirito autocritico e di autosuperamento Trompe-laMort ha spiegato efficacemente queste contraddizioni e lacerazioni: Borghesi arrabbiati: ecco che cosa eravamo nei pressi del 1968. Tutti senza eccezione, al di là dell’estrazione sociale e di qualsiasi tardiva identificazione nella parabola pasoliniana. (…) Ci animavano, nella stragrande maggioranza dei casi, le migliori intenzioni di riscat-

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to e liberazione, di generosità e di ricerca della trasformazione: ma questa radice sana si intrecciava e si perdeva nelle idee di rivoluzione cui ci dedicavamo con entusiasmo e coerenza. Non erano tutte uguali, queste idee, anzi: talvolta il carattere negativo e distruttivo, subalterno al sistema, era vero per definizione e dichiarato anagraficamente nella fedeltà al genocidio stalinista o nella sottomissione pedante al feroce statalismo cinese (…). Persino nelle più aspre divisioni qualcosa ci accomunava terribilmente: eravamo tutti convinti che i mali del capitalismo si sarebbero lavati con il sangue, agli Stati della reazione avremmo contrapposto gli Stati della rivoluzione. Questo mito fondativo, attorno a cui ruotavano i programmi e di cui si nutrivano pratiche microscopiche ma talvolta aberranti, scaturiva direttamente dalla rivoluzione borghese, dalla sua storia, dai suoi paradigmi politico-militari.9

Con coraggio l’autore di questo articolo svela impietosamente la comune radice borghese delle diverse tribù che componevano la costellazione della sinistra rivoluzionaria dopo il 1968. Una radice comune da cui prendevano vita ipotesi politiche anche assai distanti e contrapposte nelle premesse e nelle intenzioni dei protagonisti: da chi in maniera genuina si rifaceva a delle ipotesi rivoluzionarie a chi era erede dei peggiori crimini controrivoluzionari come i sostenitori dello stalinismo. Questo inquadramento ci può far comprendere meglio il retroterra nel quale germogliava il fenomeno brigatista. Il brigatismo, se proprio vogliamo trovare una filiazione, nacque in tale contesto della sinistra politica italiana e più precisamente dai suoi settori di ispirazione generalmente stalinista e maoista. Le Brigate rosse hanno una profonda radice nei paradigmi della politica, che si basa sempre sulla violenza: «Per noi l’azione armata non è altra cosa dal fare politica».10 D’altra parte le logiche politico militari e il violentismo minoritario furono un tratto centrale e dominante delle vicende di una gran parte della sinistra extraparlamentare. I servizi d’ordine furono mitizzati e svolgevano una funzione centrale: venivano di norma usati non solo negli scontri con le forze dell’ordine e gli apparati repressivi degli Stati, ma per regolare le dispute tra gruppi concorrenti. Si diffondeva un senso comune, muscolare e machista, per cui si era importanti in ragione della propria forza fisica negli scontri o se si era grandi leader. Fu la tristissima storia di quei figlioc9

Trompe-la-Mort, «Borghesi arrabbiati», La Comune, n. 37, 21 febbraio 2005.

10

M. Moretti, op. cit., p. 45.

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ci della borghesia milanese del Movimento studentesco, guidati da Mario Capanna, sempre vigliaccamente pronti a sprangare chi la pensava in modo diverso da loro. Le idee, le teorie, i principi e i programmi venivano mortificati e messi in secondo piano dalla logica ossessiva del fare che aveva il suo apice negativo nell’esaltazione delle logiche violentiste e minoritarie. Tutto ciò contribuiva anche indirettamente a creare un brodo di coltura dove la violenza veniva esaltata in sé come motivo di cambiamento. Una penosa testimonianza di questo clima viene con disinvoltura raccontata da Morucci, futuro brigatista nel commando di via Fani. Così ricostruisce una delle ultime riunioni di Potere operaio: Quindi Negri ebbe buon gioco quella sera a dire che se attività armata c’era da fare andava fatta da professionisti e non da dilettanti allo sbaraglio (…) Negri affossava Potere operaio propugnando un’organizzazione orizzontale elastica ma, nel contempo, affidava la riuscita del suo intervento all’appoggio di un’organizzazione rigidissima e clandestina come le Brigate rosse. Ero seduto vicino a Lanfranco Pace, quella sera, e quando vide che stavo per tirare fuori la Walther Ppk che tenevo nel borsello, mi mise una mano sopra per fermarmi. Di sicuro non gli avrei sparato, ma gli avrei fatto gelare sulle labbra quel suo sorriso storto pieno di spocchia.11

In special modo Lotta continua e Potere operaio, oltre alla variegata costellazione dei gruppi marxisti-leninisti, contribuirono più di altri, perlomeno in modo indiretto, a far nascere quel brodo di coltura nel quale germogliarono ipotesi rivelatesi alla fine apertamente controrivoluzionarie, come quella delle Brigate rosse. È emblematico che i loro carismatici leader fino ad oggi non abbiano ritenuto opportuno fare un serio bilancio autocritico a questo proposito. Nel 1972 Lotta continua rivendicò politicamente l’attentato e l’omicidio del commissario Luigi Calabresi a Milano. Difendere Adriano Sofri dalle persecuzioni giudiziarie di cui è stato vittima, non significa sottacerne le immense responsabilità morali e umane: era il massimo dirigente di quell’organizzazione, un punto di riferimento per migliaia di persone. La rivendicazione politica di quell’omicidio fu un motivo di diseducazione verso migliaia di militanti che pure originariamente avevano scelto l’impegno ispirati da tensioni positive. Lotta continua 11

Aldo Grandi, La generazione degli anni perduti, p. 304.

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stabiliva infatti in questo modo il primato della morte e addirittura della sua esaltazione. Tutto questo autorizzava una visione lugubre della rivoluzione, rappresentata e purtroppo immaginata come un bagno di sangue. Il brigatista Vincenzo Guagliardo così ricostruisce i riflessi di queste posizioni sui futuri terroristi rossi: Le obiezioni della sinistra alternativa (al progetto Brigate rosse, ndr), non essendo di natura morale, potevano dirci poco e inoltre sul piano politico ci sembravano risibili poiché potevano dar luogo a episodi ancora più violenti e avventuristici – come successe. (Vedi il caso dell’uccisione del commissario Calabresi avvenuto nel 1972).12

Le aberranti semplificazioni dell’operaismo e le ricorrenti allucinazioni insurrezionalisti – di cui Toni Negri, Adriano Sofri, Franco Piperno erano i «santoni» – alimentarono un modo di pensare e sentire la militanza e l’impegno: le persone sono solo dei mezzi, puri strumenti sottomessi, per conseguire la presa del potere politico che è l’alfa e l’omega di tutto. In verità queste logiche erano assai distanti da quelle che furono le migliori espressioni storiche di ipotesi politico-rivoluzionarie che avevano ben altro spessore umano e retroterra teorico e ideale. Lotta continua, ad esempio, concepiva in chiave ossessivamente militare la formazione dei propri militanti: Di questo problema fa parte la necessità che tendenzialmente tutti i compagni e in modo irrinunciabile tutti i compagni dirigenti, curino la loro formazione rispetto al complesso dei problemi politico organizzativi che riguardano la natura politico militare della lotta… Un militante che non curi la sua formazione su questi problemi non riuscirebbe a trovare il suo posto nell’organizzazione nel momento in cui la contraddizione principale si esprime nella sua forma militare.13

Tutto ciò veniva coniugato rigorosamente al maschile, all’interno di una visione in cui la questione militare era centrale. Non sono quindi una semplice casualità la scissione di Lotta continua dalla quale prese vita Prima linea – delle cui vicende in questa sede non trattiamo – e il fatto che alcuni suoi militanti alla fine entrarono nelle Br. 12

Vincenzo Guagliardo, Di sconfitta in sconfitta, p. 41.

13

Dalle Tesi approvate al I congresso nazionale di Lotta continua, Edizioni Lotta Continua, 1975, p. 109.

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Lotta continua diede una valutazione positiva delle prime azioni brigatiste, come parte dell’espressione dell’autonomia di classe. Nel marzo 1972 rivendicarono una delle prime azioni, quella del sequestro a Milano del dirigente della Sit-Siemens Idalgo Macchiarini. Nella mattinata un corteo all’interno della fabbrica aveva tentato di raggiungere l’ufficio di Macchiarini. «Noi riteniamo che questa azione si inserisca coerentemente nella volontà generalizzata delle masse di condurre la lotta di classe anche sul terreno della violenza e dell’illegalità».14 Dopo ne presero tatticamente le distanze solo per pura opportunità politica, definendo i brigatisti «compagni che sbagliano». Ma in segreto i dirigenti di Lc avevano addirittura proposto ai brigatisti di integrarsi nella loro organizzazione. Renato Curcio ricorda: Mi incontrai con due loro dirigenti, Giorgio Pietrostefani, responsabile del servizio d’ordine, e Ettore Camuffo, un compagno di Trento che avevo conosciuto ai tempi dell’università. Volevano sondare le possibilità di un’eventuale ipotesi di «fusione» (…). Venite con noi e fate quello che sapete fare meglio: organizzate il nostro servizio d’ordine. Si trattava in pratica della proposta di diventare il loro «braccio armato».15

La proposta sfumò non per divergenze di merito, ma solo perché Lc offriva ai brigatisti un solo posto nella loro direzione, cosa ritenuta inaccettabile dai brigatisti. Potere operaio e la sua direzione sono ancora più direttamente coinvolti e responsabili nel farsi di questa vicenda. Il cinismo strumentale e immorale della direzione fu evidente nel caso dell’orrendo crimine di Primavalle della primavera 1973. Achille Lollo, Marino Clavo e Manlio Grillo, militanti di Potere operaio, presero l’iniziativa, tenendo all’oscuro la direzione dell’organizzazione, di dare fuoco alla casa di Mario Mattei, segretario della sezione del Movimento sociale italiano di Primavalle. Nell’incendio morirono tragicamente i figli di Mattei, un crimine atroce nei confronti di giovani innocenti da condannare senza esitazione, a maggior ragione da parte di chi combatte per la liberazione dell’umanità. La direzione di Potere operaio, pur non condividendo il gesto, decise di difendere i suoi militanti e, pur sapendo la verità 14

Lotta Continua, 4 marzo 1972.

15

R. Curcio, A viso aperto, p. 87.

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dei fatti, sviluppò una campagna per dimostrare la loro estraneità, facendo ricadere la responsabilità dell’accaduto sugli stessi fascisti. Questa vicenda svela quale fosse la logica del gruppo dirigente di Potere operaio. In base a un proprio interesse politico, coprono un atto criminale dei propri militanti e montano in modo consapevole una versione dei fatti totalmente menzognera; usano «la ragione di Stato», coprendo la verità e giustificando il sacrificio di vite umane innocenti. In più occasioni Toni Negri e i dirigenti di Potere operaio si incontrarono e discussero con i capi brigatisti. Condividevano la scelta della lotta armata, divergevano sui tempi e sulle forme, in particolare ritenevano fondamentale combinare un piano di lavoro legale con uno di lavoro illegale e clandestino. Per questa condivisione una delle prime azioni delle Br fu salutata con entusiasmo: «Un commando operaio è passato, per la prima volta nella storia della classe operaia italiana, a un sequestro (il sequestro di Macchiarini ad opera delle Br, nda). Sembra che nella classe operaia milanese, oggi all’avanguardia nel movimento complessivo, l’articolazione fra azione di massa e azione di avanguardia risulti orami un fatto acquisito».16

Le teorizzazioni di Toni Negri e compagni si collocano nella medesima lunghezza d’onda dei brigatisti e divergono da loro per una questione di grado. «Solo la lotta armata trasforma l’uso capitalista della soppressione della legge del valore in lotta operaia attraverso la soppressione reale del dominio del capitale e del lavoro. Solo la lotta armata oggi parla di comunismo».17 Il professore padovano motiva l’esigenza della lotta armata non tanto come dolorosa necessità, ma come base della sua visione del comunismo. Una visione da film dell’orrore basata d’altra parte sull’esperienza tragicamente reale della criminale dittatura stalinista. È una visione non troppo dissimile da quella dei fondatori delle Brigate rosse. Soprattutto a Roma, dalle file di Potere operaio approderanno alle Br una serie di militanti tra cui Valerio Morucci, ex responsabile del servizio d’ordine, protagonista di primo piano nel commando responsabile del sequestro e dell’uccisione di Moro. 16

G. Galli, op. cit., p. 25.

17

Antonio Negri, «Partito operaio contro il lavoro», in I libri del rogo, Castelvecchi, Roma 1997, p. 110.

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Il terrorismo brigatista è stato invece combattuto dal Partito comunista italiano fin dal suo sorgere. La stragrande maggioranza dei suoi aderenti si sono mobilitati ed hanno lottato contro il fenomeno terrorista e suoi militanti, come Guido Rossa, sono state vittime delle azioni brigatiste. Il Pci ha svolto questa battaglia assumendo però il punto di vista dello Stato democratico ed appoggiando le misure repressive che si rivolgevano non tanto nei confronti della banda fondata da Curcio quanto contro i movimenti. In tal senso il contributo del Partito comunista nel puntellare e dare credibilità al rafforzamento degli apparati repressivi dello Stato fu determinante, con conseguenze molto negative sulla coscienza di milioni di persone. Lo statalismo comunista e il suo sostegno peculiare al sistema democratico globale hanno però nel contempo contribuito, sia pur in modo indiretto, a creare quell’humus culturale dal quale sono sorte le Brigate rosse. Il togliattismo, con la sua tipica doppiezza, è stata la declinazione italiana dello stalinismo: il Pci stava in ogni caso nel campo del «socialismo reale», sia pur in maniera crescentemente critica. Il «socialismo realizzato» in Urss e nella costellazione burocratica dei paesi dell’Est era comunque un richiamo presente in tanti settori della base comunista, quello stesso socialismo autoritario e dittatoriale, basato drammaticamente sui gulag, che pure era un riferimento ideale per i brigatisti. Così nella base del Pci c’erano genuini e tenaci lottatori, persone che anelavano con sincerità a un cambiamento, ma anche tanti settori stalinisti. In tal senso è sintomatico che dirigenti come Pietro Secchia, dichiaratamente stalinista, furono un punto di riferimento per i brigatisti rossi. Il suo libro pubblicato da Feltrinelli La guerriglia in Italia. Documenti della resistenza militare italiana era un vero e proprio «cult» per Curcio e compagni. La stessa mitizzazione della resistenza, diventata un’ideologia funzionale a difendere la Prima repubblica, favoriva un certo modo di pensare al cambiamento. L’analisi generalmente utilizzata per giustificare le proprie scelte politiche contribuiva a rendere popolari le semplificazioni sui sempre presenti pericoli di colpi di Stato. In questo modo venivano alimentate una psicologia e un’ideologia diffusa funzionali a preservare lo stato di cose esistenti o a contribuire ad accrescere, in ogni caso, una visione del cambiamento fondata sull’idea centrale del «prendere le armi». Tanti militanti comunisti avevano la convinzione che bisognasse aspettare il momento di prendere le armi, interpretando la politica di perenne collaborazione del Pci come un 31

diversivo tattico. Non c’è quindi da stupirsi se una delle componenti fondamentali delle Brigate rosse, come quella di Reggio Emilia guidata da Franceschini, provenisse proprio dalle fila del Pci di cui dirigeva la Federazione giovanile. Come me la pensavano molti compagni della Federazione giovanile (comunista, nda): non ascoltavamo quelli del partito che consigliavano di star tranquilli perché il momento delle armi non era ancora arrivato. Bisognava, dicevano, prima indebolire la borghesia con la lotta parlamentare e poi armarci per conquistare la vittoria. Noi li consideravamo discorsi da opportunisti ben camuffati o da ingenui sognatori che nulla avevano capito della strada che il partito stava imboccando.18

Nelle origini del terrorismo rosso c’è anche una componente di provenienza cattolica. Erano settori nei quali faceva presa una visione salvifica e sacrificale, impronta evidente nella biografia personale di diversi brigatisti. Lo stesso Curcio e Mara Cagol si erano originariamente formati nell’Azione cattolica. Alberto Franceschini ricorda come, alle origini del primo nucleo brigatista di Reggio Emilia, abbia influito una persona come Corrado Corghi, uno tra i fondatori dell’Azione cattolica: Era stato un amico personale di Che Guevara, Fidel Castro, Carlos Marighella. S’immagini quindi cosa poteva significare, per noi che ci nutrivamo di quei miti, frequentare uno come Corghi. Era molto ben introdotto in Vaticano, di cui era addirittura l’ambasciatore itinerante in Sud America. (…) Nel nucleo originario delle Br c’è una componente comunista, ma anche una cattolica.19

Fondamenti ideologici Le Brigate rosse hanno sempre dichiarato una loro filiazione dal movimento comunista e come tali si sono definite. Per i loro presupposti, obiettivi ed azioni si iscrivono di diritto in una drammatica galleria degli orrori: il comunismo è stato infangato ripetutamente, in suo nome sono stati commessi crimini mostruosi e si sono giustificate terribili dittature. Come Stalin, Pol Pot, Mao, Fidel Castro e tanti altri, Curcio e i suoi seguaci hanno offerto, in scala, il loro contribuito a questa opera. 18 Alberto Franceschini-Pier Vittorio Buffa-Franco Giustolisi, Mara, Renato ed io, p. 27. 19

Idem, p. 46 e seg.

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Le Brigate rosse si sono richiamate in modo esplicito alle tragiche esperienze del «socialismo reale», in particolare al dispotico regime burocratico cinese e all’esperienza dell’Urss fino all’avvento di Kruscev. Per queste ragioni è del tutto incondivisibile la tesi, vivacemente sostenuta dalla Rossanda, dell’«album di famiglia». Secondo questa interpretazione esisterebbe un’unica famiglia comunista a cui i terroristi brigatisti apparterrebbero con legittimità. È questo un modo per mettere sullo stesso piano vittime e carnefici, rivoluzionari e controrivoluzionari. Per farlo si usano anche le inconseguenze e le tremende contraddizioni vissute da chi ha creduto di poter percorrere una strada di liberazione usando strade politico-rivoluzionarie. Tentativi sospinti da un genuino spirito rivoluzionario, socialista e internazionalista hanno assunto i paradigmi della modernità come grimaldello per il cambiamento. I bolscevichi, sotto la direzione di Lenin e Trotsky, teorizzarono la possibilità di utilizzare il terrore giacobino per fini rivoluzionari; come le vicende storiche hanno dimostrato questo modo di pensare al cambiamento fu tragicamente errato. Il terrorismo, anche se non come unico aspetto, è stato usato nel corso di vari processi rivoluzionari e ciò ha condotto a compiere anche dei crimini, mentre si pensava di difendere la rivoluzione. Ma l’intransigenza su tali tragici errori e crimini, anzi l’assumersi il diritto di criticarli e combatterli, così come fece in tempo reale Rosa Luxemburg nei confronti del potere bolscevico, non autorizza a mettere Lenin e Trotsky sullo stesso piano di Stalin. Una linea di sangue divide i primi dal secondo. Persone genuinamente socialiste, rivoluzionarie e internazionaliste, come le straordinarie personalità dell’Opposizione di sinistra in Urss che diedero la vita per i loro ideali combattendo lo stalinismo e subendo una delle repressioni più atroci che la storia dell’umanità ricordi, non si possono accostare ai loro carnefici controrivoluzionari stalinisti. I banditi brigatisti non avevano niente a che spartire con questi rivoluzionari, mentre erano accomunati dalla stessa logica controrivoluzionaria e antisocialista degli aguzzini stalinisti. La teoria dell’«album di famiglia» è molto falsa ed interessata al fondo a giustificare i peggiori crimini commessi nel nome del comunismo. Fra gli iniziatori del terrorismo di sinistra, l’editore miliardario Giangiacomo Feltrinelli formò i Gruppi di azione partigiana, una minuscola formazione terrorista, e fu uno dei principali ideatori e 33

finanziatori della lotta armata. Feltrinelli fu a lungo una guida materiale ed ideale per i gruppi che si orientavano verso la pratica del terrorismo, un interlocutore ed un punto di riferimento per gli stessi brigatisti. Giorgio Galli ricostruisce il pensiero dell’editore milanese segnalando quanto la lotta armata fosse stata da lui annunciata prima della sua pratica attuazione. Nel luglio del 1970 il mensile diretto da Feltrinelli Voce Comunista (che riprende una pubblicazione del Pci degli anni Cinquanta) pubblicò un articolo nel quale «l’attacco irregolare (guerra di guerriglia, lotta di popolo) delle avanguardie armate del proletariato» viene presentato come un elemento «dell’esercito internazionale del proletariato (con) avanguardie strategiche rivoluzionarie (in Asia, Africa, Sud America), il grosso delle forze dell’esercito rivoluzionario, (Viet Nam e Corea del Nord) e la prima riserva strategica rivoluzionaria, la gloriosa Armata rossa dell’Urss e gli eserciti del patto di Varsavia».20 Feltrinelli esplicitava i riferimenti ideologici e statali dei suoi progetti reazionari; i brigatisti differiranno da lui per il giudizio sull’Urss: erano critici per il dopo Kruscev, mentre generalmente si rivendicavano stalinisti. Così Mario Moretti ricorda i riferimenti ideologici dei brigatisti: «deve essere vero che eravamo degli stalinisti tremendi».21 La loro tetra visione della società futura fu prefigurata in modo drammatico nel loro agire concreto. «Non c’è stato insomma neppure bisogno di ritrovarsi al potere per assistere al tentativo di rivivere processi come quelli di Stalin a Mosca».22 Le Brigate rosse nel 1982 rapirono Roberto Peci colpevole di essere il fratello di Patrizio, uno dei grandi pentiti delle Br. Applicando «la legge» reazionaria dei legami di sangue, i terroristi processarono Roberto e filmarono la sua orrenda esecuzione. Una logica del tutto similare in sedicesimi ai processi e alla criminale repressione dello stalinismo. Per i brigatisti rossi l’obiettivo è prendere il potere con qualunque mezzo, il fine (pessimo) giustifica i mezzi (criminali). Il terrorismo rosso fa propri in modo rozzo e diretto i paradigmi della politica che si fonda sulla violenza e sull’uccidibilità. La politica nasce e si basa sulla violenza concentrata, sulla guerra come potenzialità e fattualità. 20 21 22

G. Galli, op. cit., p. 11. M. Moretti, op. cit., p. 65. V. Guagliardo, op. cit., p. 69.

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I terroristi rossi sono una parte particolarmente rozza, delirante, criminale delle tante tribù della politica. Quest’ultima rimanda sempre al potere estraniato e alienato, all’entità statale posta al di sopra delle persone, al potere oppressivo e coercitivo che basa la sua forza sulla capacità e potenzialità di dispensare la morte. Infatti, la peculiarità di ogni Stato è il detenere il monopolio concentrato della violenza, espresso al massimo grado nella guerra. I terroristi rossi hanno assunto questo paradigma fondamentale, proprio della politica moderna a partire dalla rivoluzione francese, come alfa e omega del loro agire. La loro visione è quindi speculare e coincidente con quella dei «nemici» che dichiarano di voler combattere. Renato Curcio – al convegno di Pecorile – esplicitò chiaramente l’assunzione di questa visione borghese: «Ma questa avanguardia deve saper unire la “politica” con la “guerra” perché lo Stato moderno, per affermare il suo potere, usa contemporaneamente la “politica” e la “guerra”».23 I brigatisti si sono nutriti del mito e dell’ideologia della resistenza antifascista. La stessa denominazione di «brigata», nei loro intenti, intendeva dare un segno di continuità con la lotta partigiana. Avvalorare questo richiamo è una grande mancanza di rispetto nei confronti di chi ha combattuto per la libertà per cacciare il nazifascismo. I sentimenti, le gesta, il coraggio, la solidarietà di quel processo popolare non hanno veramente niente a che vedere con le azioni criminali del terrorismo rosso. La vittoria della resistenza condusse tuttavia all’edificazione della Prima repubblica democratica, cioè alla forma di dominio della borghesia in Italia. La resistenza italiana, con la guida del Pci togliattiano, aveva una natura democratica, nazionale, popolare e borghese nelle premesse e negli sbocchi. Diventò mito e cemento ideologico dello Stato unitario, parte integrante dell’ideologia di dominio e di sottomissione delle classi subalterne. Per questo l’ideologia antifascista, la sua assolutizzazione è funzionale al sistema democratico globale a dominanza statunitense che si è affermato contro il nazismo, imponendo, nel contempo, un nuovo sistema di oppressione su scala mondiale. L’ideologia antifascista rappresenta un punto di incontro tra le ideologie. È il discorso di appassionato reciproco sostegno politico culturale tra il «comunismo» e il sistema di potere globale. Natu23

Dalla relazione introduttiva di Curcio al convegno di Pecorile del 1970 riportata in A. Franceschini-P.V. Buffa-F. Giustolisi, op. cit., p. 24.

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ralmente tale sintesi scaturisce, ed è resa possibile, dalla convergenza materiale avvenuta durante il grande conflitto e da un rinsaldarsi esplicito degli interessi socioeconomici per l’instaurazione ed il mantenimento di un nuovo ordine mondiale. Essa è l’ideologia di guerra «democratica» contrapposta all’ideologia nazista, tende a rappresentare il nazismo come male assoluto, svincolato da motivi di classe, e quindi tutto ciò e tutti coloro che si contrappongono al nazismo come portatori di bene e di valori positivi. Ogni altro interesse e conflitto si dissolve nella lotta antifascista, nulla altro è importante o perseguibile o significativo, meno che mai una prospettiva socialista che sarebbe distraente o peggio ancora sviante dal presunto scontro del secolo.24

I brigatisti hanno incarnato una variante di questa ideologia che li conduceva a definire il potere generalmente come fascista, con lo scopo di motivare la loro lotta in continuità con quella partigiana poiché la vera democrazia, secondo loro, non si era affermata in Italia. Si giustificavano così le proprie azioni terroriste come necessarie per affermare la democrazia. In questo senso, inequivocabilmente, i brigatisti rossi sono stati interni alla logica democratica della Prima repubblica. Questa visione viene spiegata con precisione dallo stesso Renato Curcio: «Ritenevo che il nostro paese non godesse di una piena democrazia e che far saltare le alleanze di potere che lo tenevano bloccato, in qualsiasi modo ciò avvenisse, sarebbe stato un buon risultato».25 Il loro obiettivo, come esplicita il fondatore, era di carattere democratico e a tal fine i brigatisti si adoperavano e concepivano le loro azioni finalizzandole all’obiettivo di cambiare le alleanze di potere all’interno della repubblica democratica. Un progetto brigatista, per usare il loro linguaggio, col fine di realizzare la piena democrazia, cioè la forma concreta di dominio e oppressione del sistema democratico globale nel nostro paese. I terroristi, nel momento del loro apogeo, durante il rapimento Moro, svelarono ulteriormente questa loro internità al sistema. Il loro primo obiettivo era di essere riconosciuti come soggetto politico dallo Stato democratico e nel secondo comunicato diramato durante il sequestro dello statista democristiano affermavano: «A nessuno è sfuggito come il quarto governo Andreotti abbia segnato il definitivo esautoramento del parlamento da ogni potere»; e anco24 25

Dario Renzi, «Di un altro socialismo», p. 61 e seg. R. Curcio, A viso aperto, p. 126.

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ra, per motivare il sequestro «Aldo Moro viene citato (anche dopo la sua cattura! nda) come il naturale designato alla presidenza della repubblica. Il perché è evidente. Nel progetto di “concentrazione” del potere, il ruolo del capo dello Stato imperialista diventa determinante».26

Insomma questi «liberali con le armi in pugno» erano completamente interni alle logiche sistemiche democratiche e ai suoi giochi politici. Dario Renzi fornisce una spiegazione efficace della logica che sottende quest’agire: Il tentativo di presentare, o più spesso giustificare o accettare, alternative pratiche immediate, «credibili», «concrete», come vengono definite, al sistema dominante significa quasi inevitabilmente ricadere in una logica sistemica. Per logica sistemica intendiamo la sottomissione ad una configurazione di un assieme di istituzioni, culminanti nello Stato o in un gruppo di Stati o comunque in una cupola di potere oppressivo, sovrastanti e sovrapposte alle popolazioni. Essa può essere assunta nel senso di muoversi all’interno del sistema globale esistente, promettendo e proponendosi di cambiarne alcuni aspetti, oppure nel senso di contrapporre all’attuale sistema un altro sistema reale, o in nuce potenziale».27

Controrivoluzionari Il progetto brigatista all’origine è stato di natura reazionaria e controrivoluzionaria nella teoria, nella prassi, nelle sue conseguenze ideologiche. I seguaci di Curcio hanno contribuito a mistificare l’idea di rivoluzione e a facilitare nel senso comune l’idea di un’equazione tra questa e il bagno di sangue. Una delle più splendide figure del movimento operaio e del marxismo rivoluzionario come Rosa Luxemburg, una dirigente che non si è mai sporcata le mani di sangue, espresse con chiarezza la contrarietà al metodo terrorista in relazione ai fini socialisti rivoluzionari: «Il terrorismo, inoltre, per sua stessa natura tende a consegnare la lotta immediata nelle mani di una piccola società chiusa di “eletti”».28 Il terrorismo per definizione postula l’idea e la prassi di sosti26

Aldo Moro, Voci e carte dalla prigione, p. 11. D. Renzi, Rivoluzione contro i mostri gemelli, quaderni di Utopia socialista, Prospettiva Edizioni, Roma 2006, p. 9 e seg. 28 Rosa Luxemburg, Scritti contro il terrorismo (1902-1905), p. 20. 27

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tuirsi all’azione diretta e rivoluzionaria delle grandi masse popolari. Si considera depositario di una verità assoluta e rivelata da mettere in opera a qualsiasi costo, non considera il giudizio dell’opinione pubblica popolare. Come sottolinea in modo opportuno Roberto Massari: I brigatisti, lungi dal favorire il processo di autorganizzazione dei lavoratori, si sovrappongono a quest’ultimo, costituendo un invito oggettivo alla passività e alla delega dei contenuti della propria lotta a un’élite esterna; un’élite ostile per giunta a qualsiasi disciplina democratica all’interno delle strutture dei movimenti di massa.29

Così il cambiamento deve essere imposto attraverso la forza delle armi, la gente comune viene considerata semplicemente numero e «massa di manovra», mezzo da sacrificare per un fine supremo già stabilito. Nella logica terrorista c’è un disprezzo evidente verso la coscienza delle masse popolari, le loro capacità di autotrasformazione; disprezzo speculare e del tutto simile al modo di pensare della borghesia. L’idea cospirativa, tipica di tutta la politica, è spinta alle massime conseguenze, un «pugno di persone elette» condurrà alla trasformazione della società. Un cambiamento così concepito non può, in ogni caso, che condurre a degli orrori, come la storia ha abbondantemente e tristemente dimostrato. Queste considerazioni vanno nel senso di offrire delle coordinate essenziali per definire una posizione di principio contro tutti i terrorismi da un punto di vista socialista e rivoluzionario. Sarebbe, tuttavia, errato operare un segno di uguale tra diversi tipi di terrorismo. C’è stato un terrorismo all’interno di processi rivoluzionari popolari usato come uno dei mezzi per rispondere alla violenza della controrivoluzione. È stato usato in processi di autodeterminazione e di liberazione nazionale con un’ampia partecipazione popolare, come nel caso della rivoluzione algerina o per altri versi da parte di settori del popolo palestinese per combattere contro il terrore e il terrorismo dello Stato sionista usurpatore delle loro terre. In questi casi il terrorismo non è comunque l’unico aspetto dell’agire e si è combinato con reali processi popolari e rivoluzionari. La condanna, la critica e la denuncia del terrorismo, da un punto di vista socialista e rivoluzionario, non significa assolutamente mettere tutti 29

Roberto Massari, Il terrorismo storia, concetti, metodi, p. 385.

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sullo stesso piano. Nel caso di Curcio e dei suoi seguaci il terrorismo è un fine in sé, mezzi e fini finiscono per coincidere. Il loro programma è nella sostanza la lotta armata come dimostrano i loro documenti, le loro risoluzioni e soprattutto l’agire concreto. A dimostrazione di ciò non c’è traccia in alcuna risoluzione brigatista di rivendicazione di autentici processi rivoluzionari. I loro punti di riferimento sono gli Stati burocratici sedicenti socialisti e le organizzazioni terroriste che agivano in modo più o meno analogo in altri paesi. Essi stabilirono relazioni di collaborazione, di intensità diverse, con diversi raggruppamenti terroristi dalla Rote Armee Fraktion tedesca, ad Action Directe in Francia, fino ad avere contatti con Eta e con alcune frazioni palestinesi, quelle più legate al blocco sovietico. La logica del terrorismo rosso comporta al contempo la contrapposizione ai processi di autorganizzazione dei settori popolari. Alla sua base c’è esplicitato il principio della delega e del sostituzionismo, che implica un criterio di rappresentatività del tutto simile a quello democratico. I brigatisti si autoproclamano rappresentanti della classe operaia e dei suoi interessi, arrogandosi così in modo prepotente il diritto di parlare e di agire in nome di milioni di lavoratori. I brigatisti esprimono una visione che è contrapposta all’autoattività della gente comune, ai loro sogni, alle loro speranze, alle loro tensioni affermative. La loro logica è apertamente controrivoluzionaria e finalizzata ad istaurare un nuovo potere statale (proletario), in ogni caso oppressivo e reazionario fin dalle sue premesse, o a modificare quello esistente. È corretto giudicare un processo non solo dalle sue intenzioni, ma dalle conseguenze concrete che produce. Tutte le azioni brigatiste sono state prese a pretesto dalla borghesia per inasprire la repressione nei confronti dei movimenti e in molti casi per criminalizzare avanguardie di lotta, che nulla avevano a che fare con i terroristi. Le azioni delle Br sono state utilizzate apertamente dallo Stato democratico contro i movimenti per imbavagliarli e farli arretrare. Le Brigate rosse hanno inoltre concorso ad avvelenare le coscienze contribuendo a creare nelle larghe masse un’opinione falsa e mistificante dell’idea di rivoluzione e, facilitando l’idea di un’uguaglianza tra morte e rivoluzione, hanno offerto il loro servigio alle classi dominanti. Quindi il compito di riabilitare l’idea di rivoluzione è inseparabile dalla lotta al terrorismo. Per dirla con Rosa Luxemburg la rivoluzione è affare delle grandi masse e non di qualche 39

comitato centrale, né tantomento di qualche banda terrorista; le sue scaturigini risiedono nelle tensioni più profondamente affermative della vita e del suo miglioramento: La tensione latente al cambiamento individuale e sociale in funzione del bene comune, che contraddistingue le rivoluzioni, rimanda alla natura umana esaltandone i tratti più nobili e profondi. Gli esseri concreti si manifestano cercando il pieno sviluppo dell’io e del tu, del noi e del voi. La comunanza umana può venir concepita e costruita come riconquista, comprensione e ridefinizione, dell’armonia tipica della nostra specie.30

Logica golpista e riformismo armato Tutta la logica che presiede il terrorismo brigatista è impregnata di morte. È centrale l’idea che il Male del capitalismo potrà essere combattuto con uno ancora più grande e superiore. Ovviamente nel confronto tra lo Stato, che concentra in sé il monopolio della violenza, e una banda di terroristi l’esito finale è, in gran parte, già scritto in partenza. Il terrorismo si muove in modo speculare all’avversario che pretende di combattere, ne assume i criteri, i valori, i mezzi. Così è stato, a volte in forma di drammatica caricatura, anche per le Brigate rosse. Le Br sostenevano di voler «portare l’attacco al cuore dello Stato». In realtà erano furiosamente stataliste: sognavano uno Stato oppressivo, alludevano all’incubo delle dittature burocratiche che si sono dette socialiste. Parodiavano lo Stato con i suoi processi, le «prigioni del popolo», soprattutto con la possibilità, infinitamente inferiore a quella dello Stato, di poter decidere sulla vita e sulla morte delle persone. Hanno incarnato, quindi, un potere negativo ed oppressivo: avevano lo Stato nel cuore. Attraverso la loro attività cospiratoria, i sequestri di persona, gli attentati e le uccisioni i terroristi rossi volevano provocare, direttamente o indirettamente, un cambiamento dall’alto nella cupola del potere. Più precisamente la logica fu di carattere golpista. «L’idea e la prassi della cospirazione per conquistare o distruggere il potere con un colpo di mano è tipica delle rivoluzioni bor-

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Ripensare le rivoluzioni. Tesi “Un’idea socialista ed umanista della rivoluzione, quaderni di Utopia socialista, Prospettiva Edizioni, Roma 2005, tesi 10, p. 15.

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D. Renzi, Rivoluzione contro i mostri gemelli, p. 13.

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ghesi, di cui gli attuali terroristi sono tra gli eredi legittimi».31 Queste considerazioni più generali di Dario Renzi sul terrorismo permettono di capire la peculiarità del brigatismo delle origini. In realtà, il cambio dall’alto che volevano perseguire non era finalizzato alla presa del potere, ma piuttosto a provocare un cambiamento negli assetti politici esistenti. Quello brigatista è stato un riformismo armato rivendicato apertamente dallo stesso Renato Curcio: «In quella situazione, comunque, per ottenere delle riforme vere si sarebbe dovuto scardinare il blocco e quindi “fare la rivoluzione”. Così l’immagine del “riformismo armato” non appare del tutto irragionevole e contraddittoria: per ottenere le riforme bisognava armarsi».32 In questo senso le Br hanno espresso una peculiare combinazione tra una logica golpista e una visione riformista.

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R. Curcio, op. cit., p. 127.

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DEMOCRAZIA E TERRORISMO

Terrorismo di Stato, Stato terrorista Tutte le interpretazioni correnti di quegli anni a proposito del fenomeno del terrorismo generalmente spiegano come fosse in atto uno scontro assoluto tra questo e la democrazia, come se i due termini fossero incompatibili. Indubbiamente c’è stato anche un conflitto reale tra le bande statali e quelle terroriste, ma questa lettura semplificata non permette di comprendere appieno le peculiarità e le caratteristiche proprie di tali vicende e soprattutto cancella il contesto sociale e umano in cui lo scontro si è sviluppato. Questa interpretazione è falsa perché presuppone «a priori» un’estraneità dello Stato democratico italiano al terrorismo e più generalmente all’uso del terrore. In realtà gli Stati democratici si fondano sul terrore, si basano normalmente anche sull’uso del terrorismo; tutti gli Stati, senza eccezione, con buona pace di George W. Bush e dei cantori della democrazia, sono canaglie. È stata la grande rivoluzione francese, momento fondativo indiscusso dell’attuale regime politico occidentale, a fare del terrore non solo atto ma verbo del governo sul popolo e sui popoli. Il terrore degli Stati nella versione democratico totalitaria attuale ha preso forma definitiva nella Seconda guerra mondiale, attraverso l’uso e la competizione reciproca nella distruzione di esseri e cose. I miseri tentativi di giustificare l’utilizzo delle bombe atomiche a guerra ormai virtualmente finita lasciano il tempo che trovano: esse sono state un punto di non ritorno, come i campi di sterminio nazisti denunciati solo posteriormente e strumentalmente dagli alleati. L’attuale sistema mondiale nasce assumendo e universalizzando il terrore.1 1

Dario Renzi, Rivoluzione contro i mostri gemelli, quaderni di Utopia socialista, Prospettiva Edizioni, Roma 2006, p. 12.

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Lo Stato democratico e repubblicano italiano è parte del sistema democratico globale totalitario a dominanza Usa e non sfugge a questo imprinting di morte e terrore. Tutta la sua vicenda è costellata da un uso reiterato del terrorismo per il mantenimento dei suoi assetti e del suo dominio. Ad esempio, la costituzione materiale dello Stato democratico è stata caratterizzata da stragi regolarmente impunite: da quella di piazza Fontana a Milano a quella di piazza della Loggia a Brescia, dall’Italicus ad Ustica, è una lunga scia di sangue di cui sono state puntualmente accertate le responsabilità dei servizi segreti e degli apparati repressivi dello Stato. L’opera coraggiosa e meritoria della denuncia e della controinformazione ha spesso svelato puntualmente le precise responsabilità dello Stato, come nel caso della strage di piazza Fontana. A conferma di ciò ci sono addirittura sentenze della magistratura che hanno dovuto riconoscere nei servizi segreti la matrice di diversi attentati e stragi. Il terrore democratico opera misteriosamente nell’ombra, coperto poi dalla dicitura «segreto di Stato». Tutti sanno la verità, ma non si deve dire: la potenzialità estraniante e annichilente della morte è onnipresente. Lo Stato può dispensarla, il suo potere supremo è decidere della vita e della morte dei rappresentati, chiamati in causa una volta ogni cinque anni per decidere chi sarà l’oppressore di turno. È una logica funzionale al mantenimento del potere: il mistero, la paura ne sono una base fondamentale per fondare la propria onnipotenza. Lo Stato democratico italiano non solo non sfugge a questa regola, ma ha da questo punto di vista una sua peculiarità: il terrorismo è stato usato sia per far arretrare i movimenti e incutere terrore nella società, sia per regolare le stesse dispute interne e tra i diversi poteri sistemici. Rimane, ad esempio, un mistero tutt’ora irrisolto la tragica fine di Enrico Mattei. Mattei era presidente dell’Eni e morì in circostanze poco chiare in un incidente aereo avvenuto il 27 ottobre 1962. L’aereo precipitò mentre era in fase di atterraggio nei pressi dell’aeroporto di Linate. Le indagini inizialmente svolte dalla procura di Pavia esclusero l’ipotesi di un attentato, nonostante i forti sospetti, e archiviarono il caso come un incidente. Successivamente, nel 1997, i reperti furono riesaminati e i periti accertarono che l’aereo fu «dolosamente abbattuto»; con tanti anni di ritardo si scoprì che era stata inserita una bomba di circa 150 grammi di tritolo collegata a un congegno che ne causò l’esplosione in 44

fase di atterraggio, all’apertura dei carrelli. In ogni caso ad oggi non sono stati scoperti né i mandanti né gli esecutori dell’attentato e l’onorevole Giulio Andreotti continua tranquillamente e dichiarare che «si trattò di un tragico incidente». In tutta la vicenda dell’edificazione della repubblica democratica italiana si sono ripetutamente manifestate le connivenze tra criminalità mafiosa e camorrista e diverse ramificazioni statali e politiche. Un intreccio misterioso ma sempre presente sottotraccia di cui sono un esempio i legami accertati tra mafia e politica. Anche questi fattori, come cercherò di dimostrare in seguito, entrano prepotentemente in gioco nella vicenda delle Brigate rosse in special modo nel rapimento e nell’uccisione dell’onorevole Aldo Moro. Il 12 dicembre 1969 una bomba esplose nella Banca nazionale dell’agricoltura di Milano, causando numerose vittime. Fu un vero e proprio choc per tutta la popolazione e pure nelle file dei movimenti suscitò non solo grande rabbia, ma anche tanto sconcerto, confusione e smarrimento. Infatti, immediatamente dopo la strage gli inquirenti, il governo, i mass media additarono gli anarchici come responsabili di quell’orrenda strage; l’anarchico Pietro Valpreda diventò il «mostro», fu ingiustamente incarcerato e solo dopo fu dimostrata la sua totale estraneità. Tale montatura poliziesca era funzionale alla volontà di dimostrare l’esistenza del pericolo di un terrorismo di sinistra, secondo la celebre tesi degli «opposti estremismi». Il Pci, in tempo reale, avvalorò la tesi della strage provocata dagli anarchici e come sempre si appellò all’unità nazionale per difendere la repubblica democratica nata dalla resistenza antifascista. La reazione popolare e l’azione di controinformazione svolta dall’estrema sinistra, in special modo da Lotta continua – questa fu forse la sua opera più positiva e meritoria – permise di smascherare la montatura e di dimostrare che si trattava di una strage di Stato. La reazione dei futuri brigatisti alla strage fu emblematica, perché svelava la loro logica speculare a quella statale. Lo stesso Renato Curcio racconta l’incidenza della vicenda nel modo di pensare dei brigatisti: Queste bombe e la strumentalizzazione che ne viene fatta sono un atto di guerra contro le lotte e il movimento, dimostrano che siamo arrivati a un livello di scontro molto aspro, ci dicemmo. Si tratta di una

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svolta che ci lascia aperte solo due strade: mollare tutto e chiudere l’esperienza del Collettivo, che in questo nuovo clima non ha più senso; oppure andare avanti, ma attrezzandoci in modo del tutto nuovo.2

Il modo del tutto nuovo a cui il leader brigatista allude si concretizzò nella fondazione delle Br con una scelta che esplicitamente prese le mosse dall’azione criminale dello Stato, proponendosi una risposta sul medesimo terreno. Non si partiva dalle esigenze, dai sogni e bisogni dei lavoratori e della gente comune, ma dal male dei poteri oppressivi con il proposito di emularlo. In fondo il primo nucleo brigatista rispose ai desiderata di chi voleva in Italia un terrorismo di sinistra e vista la sua assenza doveva operare una montatura per farlo esistere. Era chiaro l’intento dello Stato democratico di voler far arretrare i movimenti avvolgendoli in una spirale di terrore e i brigatisti sono stati disponibili ad offrire il loro nefasto contributo a questo disegno criminale delle classi dominanti. Ad ulteriore dimostrazione dell’estraneità brigatista alle mobilitazioni popolari, mentre le manifestazioni denunciavano lo Stato e le sue montature, i brigatisti si apprestavano ad avvalorare il disegno repressivo, offrendo delle basi reali e argomenti alla teoria degli «opposti estremismi».

Infiltrati fin dalle origini Nella seconda metà degli anni Settanta la rivoluzione si riaffacciò nella vecchia Europa. La lotta di liberazione nazionale dalle vecchie colonie portoghesi come l’Angola trasmetteva un prepotente soffio rivoluzionario che giungeva in Portogallo contribuendo alla mobilitazione rivoluzionaria e popolare che pose fine alla dittatura di Marcelo Caetano. Quella che fu definita «la rivoluzione dei garofani» riapriva il sogno e la speranza della trasformazione rivoluzionaria nel Vecchio continente, una ricerca affermativa della vita e un bisogno di verità e giustizia. E quando i comitati popolari iniziarono a scoperchiare i segreti di Stato fu scoperta l’esistenza a Lisbona dell’agenzia Aginter press e vennero resi pubblici documenti fino a quel momento segreti. L’Aginter press era l’agenzia di copertura della Cia in Europa con il compito principale di coordinare l’infiltrazione dei servizi segreti dei paesi del patto atlantico in gruppi di estrema destra e di estrema sinistra. 2

Renato Curcio, A viso aperto, p. 50.

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Il compito dell’agenzia, alla quale partecipavano i servizi italiani, era di selezionare «elementi infiltrati nei vari gruppi marxisti leninisti, anarchici e maoisti» attivamente impegnati nel fomentare «azioni di forza che dovranno sembrare opera dei nostri avversari comunisti».3 Era chiaro che l’intento e l’interesse da parte degli Stati democratici europei non era tanto finalizzato ad attuare colpi di Stato, quanto a sviluppare una pratica d’infiltrazione nei gruppi dell’estrema sinistra per condizionarli e spingerli verso pratiche violentiste e terroriste. In altri termini si voleva usare il terrorismo per una normalizzazione democratica di fronte all’erompere della radicalizzazione a partire dal 1968. A conferma di ciò il 19 gennaio 1973 si svolse a Colonia una riunione di coordinamento dei servizi segreti specificamente dedicata all’infiltrazione nelle Brigate rosse e nella Raf tedesca, alla quale partecipò come rappresentante italiano Francesco D’Agostino dell’ufficio Affari riservati. Fu il rappresentante della polizia di Amburgo ad avanzare al coordinamento la proposta più incisiva: «l’utilizzazione di un collaboratore di nuovo tipo (al quale garantire, nda) una retribuzione materiale adeguata. (…) La sua formazione dovrebbe comprendere le seguenti materie: l’ideologia e i vari comportamenti dei gruppi terroristici; l’impiego di tutti i mezzi dei servizi informativi e delle tecniche che possono essere attuate; l’uso delle armi e degli esplosivi e l’addestramento alla difesa; approfondite istruzioni sui limiti della sua attività nelle sue future missioni».4

Dunque, il preciso intento dei servizi segreti era quello di infiltrare propri agenti nei gruppi terroristici con l’obiettivo esplicito che questi fossero operativi, cioè predisposti all’uso di armi e di esplosivi. Lo stesso generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, nella sua deposizione alla Commissione Moro, fece un accenno alla «licenza di uccidere» da parte degli agenti infiltrati. E i servizi segreti italiani, la polizia e i carabinieri misero in atto una costante opera di infiltrazione, tra l’altro non sempre in modo coordinato, anzi spesso entrando in competizione tra di loro. L’opera di infiltrazione ha riguardato le Brigate rosse fin dalla loro nascita; come ho cercato di argomentare e documentare nel primo capitolo, esse senza dubbio hanno avuto un’origine 3 Archivio famiglia Manes, cit. in Antonio e Gianni Cipriani, Sovranità limitata, Edizioni Associate, Roma 1991, p. 109. 4

Sergio Flamigni, Convergenze parallele, p. 97.

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autonoma, non sono una creazione diretta dei servizi, ma è ampiamente dimostrato come fin dalle origini vi fossero infiltrati al loro interno. Il primo infiltrato documentato fu Marco Pisetta, noto nel movimento studentesco con l’appellativo di «primo rivoluzionario d’Italia». Nel 1972 compilò un memoriale dettagliato nel quale svelava i nomi e le strutture dei nascenti terroristi. Sulla base di queste rivelazioni numerosi furono gli arresti, ma la struttura delle Br rimase in piedi. Anni dopo la Commissione Moro commenterà così l’utilizzo del memoriale Pisetta da parte delle forze dell’ordine: «Alla Commissione non è stato chiaro perché i Servizi non abbiano dato seguito d’indagine alle indicazioni contenute nel memoriale (di Pisetta, ndc) che lo sviluppo degli eventi ha confermato veritiere».5 Il perché lo chiarisce bene Franceschini, uno dei fondatori delle Br: «Quello di cui sono certo è questo: se volevano distruggerci, e distruggere l’esperienza delle Br, lo potevano fare già nel 1972. Quell’anno ci furono numerosi arresti, e se volevano ci potevano prendere tutti. Ma questo non è accaduto».6 Non è stata una straordinaria forza organizzativa, né tantomeno un presunto insediamento sociale a permettere alle Brigate rosse di svilupparsi, ma un interesse concreto da parte dello Stato democratico a far germogliare questo fenomeno. Non si può che concordare con uno studioso attento e documentato come Giorgio Galli: Il partito armato (…) non aveva affatto costituito una esiziale «minaccia» per lo Stato: esso infatti aveva potuto operare così a lungo, compiendo imprese tanto clamorose (il sequestro Moro, i quattro contemporanei sequestri nella primavera 1981) solo grazie alla «tolleranza» (e, in qualche frangente, connivenza) di alcuni settori dei servizi di sicurezza – di quegli stessi servizi che avrebbero dovuto combatterlo.7

Mentre era in corso la campagna elettorale per il referendum sul divorzio, il 18 aprile 1974, le Br compirono la prima azione di grande clamore nazionale sequestrando a Genova il giudice Mario Sossi. Nel commando che eseguì il sequestro c’era un ter5

Atti della Commissione parlamentare Moro, vol. 1, pp. 55 e seg.

6

Intervista a Il Sabato, 15 dicembre 1990, cit. in S. Flamigni, op. cit., p. 94.

7

Giorgio Galli, Il partito armato, p. 7.

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rorista, «Rocco» era il suo nome di battaglia. In realtà si trattava di Francesco Marra, un infiltrato dell’ufficio Affari riservati. Paracadutista, addestratosi in Toscana e in Sardegna all’uso delle armi e degli esplosivi (…), prima di infiltrarsi nelle Br «Rocco» si era specializzato nella pratica della «gambizzazione», un’arte per la quale farà da istruttore ai brigatisti. Buone conoscenze negli ambienti della destra e tra le forze di polizia, nel 1971, «Rocco» si era iscritto al Pci come credenziale per poi essere ammesso nelle Br, e con i brigatisti aveva giustificato i suoi trascorsi da paracadutista e la sua abilità «militare» dichiarando di essersi arruolato nell’esercito in accordo con il Pci.8

Rocco partecipò attivamente al sequestro del giudice genovese, quindi le autorità statali conoscevano la base dove Sossi era tenuto prigioniero. A conferma di ciò c’è la testimonianza del generale Giandelio Maletti (numero due del Sid), riportata da Galli, secondo il quale: «Il generale Miceli, a capo del Sid, voleva far sparire G.B. Lazagna (partigiano medaglia d’argento, già collaboratore di Feltrinelli), portarne il cadavere nella villetta, per farlo passare come capo delle Br, fare irruzione e uccidere quelli che vi si trovavano, forse anche Sossi».9 Questa idea fu poi scartata, ma la sua ideazione testimonia quanto i servizi fossero a conoscenza dell’ubicazione del luogo di prigionia del giudice Sossi. In occasione di quel sequestro la direzione brigatista si divise tra chi voleva uccidere l’ostaggio e chi intendeva lasciarlo libero salvandogli la vita. Oltre a Mario Moretti anche l’infiltrato Francesco Marra si schierò per l’uccisione, ma in quell’occasione i due rimasero in minoranza. L’infiltrato «Rocco», dunque, non si adoperò per la liberazione di Sossi, ma agì affinché il sequestro avesse l’epilogo più tragico. Marra continuò la sua opera di infiltrato anche dopo il sequestro Sossi, svolgendo numerose azioni armate. Il 18 febbraio 1975 era parte del commando brigatista che con una clamorosa irruzione liberò Curcio detenuto nel carcere di Casale Monferrato. Quindi anche in quella occasione l’ufficio Affari riservati sapeva del piano brigatista, ma chiuse un occhio e lasciò fare. Marra è stato tenuto fuori da ogni inchiesta della magistratura, non ha fatto un solo giorno di prigione; interro8

S. Flamigni, op. cit., p. 99.

9

G. Galli, Piombo rosso, p. 31.

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gato nel 1997 nell’ambito di un’inchiesta sul terrorismo nero ha dichiarato di aver lavorato per la polizia. Dopo il sequestro Sossi i carabinieri del Nucleo speciale guidato dal generale Dalla Chiesa infiltrarono con sorprendente facilità Silvano Girotto, noto come «frate Mitra», personaggio attorno a cui era stata costruita ad arte la leggenda di un passato da guerrigliero in America Latina. «Frate Mitra» entrò subito in relazione con i massimi vertici brigatisti. Questa fu la seconda occasione in cui le Brigate rosse avrebbero potuto essere sgominate dalle forze dell’ordine, se solo ci fosse stato un utilizzo diverso dell’informatore. Quella era la seconda volta che i sevizi di sicurezza avrebbero potuto arrestare tutti i brigatisti e porre fine all’esperienza delle Br – ricorderà Franceschini –. Noi avevamo concordato con Girotto di dare vita ad una scuola di addestramento da lui diretta, alla cascina Spiotta, dove nel giro di un mese tutti gli appartenenti all’organizzazione, un po’ alla volta, avrebbero partecipato a un breve corso di addestramento. Se chi lo aveva infiltrato avesse chiesto a Girotto di continuare a stare al gioco (cominciato con il primo contatto avvenuto durante il sequestro Sossi), dopo un mese sarebbe stato in grado di far arrestare non solo me e Curcio, ma tutti i brigatisti. E il fatto che questo non sia avvenuto è la riprova che l’organizzazione delle Br poteva tornare comoda per qualcuno delle alte sfere dei servizi di sicurezza e del potere.10

Grazie all’opera di quest’infiltrato la polizia tese una trappola a Franceschini e Curcio, che furono arrestati. Nella vicenda che condusse al loro arresto esiste più di un’ombra, mai chiarita fino in fondo. Infatti, il giorno prima del tranello, ideato da Dalla Chiesa, Enrico Levati, un fiancheggiatore brigatista, fu informato da una telefonata anonima dell’imboscata prevista dalle forze dell’ordine. Levati avvisò immediatamente i brigatisti del pericolo che correvano Franceschini e Curcio, a Moretti fu assegnato il compito di avvisarli. Moretti, colui che quattro anni dopo gestirà il clamoroso sequestro Moro, il futuro leader imprendibile delle Br, capace di mettere in scacco le forze repressive dello Stato per tutto il tempo del rapimento e dell’uccisione dello statista democristiano, si dimostrò in questa vicenda uno sprovveduto dilettante allo sbaraglio: Curcio e Franceschini furono arrestati dalla polizia a Pinerolo perché Moretti non riuscì ad avvisarli del pericolo che correvano. 10

Dichiarazione di Alberto Franceschini raccolta da S. Flamigni, op. cit., p. 108.

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Lo «sbadato» Moretti si è successivamente giustificato con queste parole: Suono il campanello (della casa che ospita Curcio, nda), non funziona. Dobbiamo avvertirlo assolutamente, cerchiamo di farci sentire, ma la casa non ha finestre sul davanti e non possiamo metterci a urlare in piena notte davanti a una base. (…) Ma non può sfuggirci, dovrà uscire molto presto per andare a Pinerolo (all’appuntamento con Girotto, nda), ci mettiamo in macchina davanti al portone e aspettiamo. Dopo qualche tempo ci viene in mente che, se nessuno risponde, è forse perché Curcio ha cambiato idea e se ne è andato a Torino, nella base dove sta con Margherita. (…) Nelle poche ore che rimangono (…) fino all’alba e quando siamo certi che lì Curcio non c’è andiamo sulla strada per Pinerolo (…) Non lo vediamo. E dopo un’ora non resta che andarcene: o ha saltato l’appuntamento o ha fatto un’altra strada, e in questo caso la frittata è fatta.11

Il superefficiente capo Br si perse in un bicchiere d’acqua, oppure, semplicemente non volle avvertire Curcio e Franceschini. In questa vicenda rimangono oscuri gli autori della telefonata a Levati, persone ben informate che con tutta evidenza potevano accedere direttamente alle fonti della polizia. Forse c’era un disaccordo tra i diversi settori delle forze dell’ordine? «C’era qualcuno in ambiente qualificato che aveva interesse a che le scorrerie delle Br continuassero e che cercò quindi di evitare l’arresto di Curcio… Possiamo credere che le Br avessero un informatore all’ufficio Affari riservati».12 Poco prima del natale del 1979 il colonnello Antonio Cornacchia, associato alla Loggia massonica della P2 di Licio Gelli, fu costretto ad interrompere le sue vacanze per tornare rapidamente a Roma dove avevano arrestato Paolo Santini, un suo confidente. Cornacchia convinse il giudice Ferdinando Imposimato a rilasciare Santini, dimostrandogli che era un suo infiltrato nelle Br. La cosa è di un certo interesse, poiché Santini era parte integrante della colonna romana delle Brigate rosse, operativo ed interno al gruppo terrorista durante tutta la vicenda del rapimento Moro. Dunque erano presenti infiltrati accertati nella colonna romana delle Br durante il rapimento dello statista democristiano. Questi sono solo gli esempi più eclatanti, ma l’elenco degli infiltrati potrebbe continuare a lungo. Il generale Vicenzo Morelli in una intervista rilasciata a la Repubblica del 17 ottobre 1990 11

Mario Moretti, Brigate rosse, una storia italiana, p. 75 e seg.

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Requisitoria del Pm Morchella, Corte d’Assise di Torino, 1° giugno 1978.

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dichiarò: «Infiltrati nostri nelle Br? Nomi non ne faccio, ma dico che ne avevamo, sia l’Arma, sia i nuclei speciali di Dalla Chiesa». Ed è abbastanza chiaro che una parte di infiltrati «eccellenti», persone che probabilmente svolsero una funzione dirigente nel gruppo terrorista, sia rimasta coperta dal segreto per evidenti ragioni.

Terrorismi convergenti L’uso – diretto e indiretto – del terrorismo da parte dello Stato repubblicano è stata quindi una caratteristica costante della sua storia materiale. Non si è trattato di semplici deviazioni ma del normale funzionamento, occulto e mascherato, di questo organismo infernale di oppressione. Per gli uomini di Stato il contemplare l’utilizzo del terrore e dell’omicidio era ed è una prassi consolidata, parte integrante della logica politica che funziona come maschera della guerra, autentica base su cui si fondano tutti gli Stati. Relazioni, trattative, accordi sottobanco anche tra «nemici» sono tipici del gioco politico, ne sono parte costitutiva. In queste logiche peculiari della politica erano immersi anche i leader dell’estrema sinistra. Umberto D’Amato, come abbiamo visto, è stato responsabile dell’ufficio Affari riservati ed aveva alle sue dirette dipendenze diversi infiltrati. È emblematico per comprendere le radici del terrore un articolo scritto da Adriano Sofri per Il Foglio il 29 maggio 2007 nel quale rivela il contenuto di un incontro avvenuto proprio con D’Amato, che gli avrebbe proposto di liquidare fisicamente esponenti dei Nuclei armati proletari (Nap), una delle formazioni terroriste nate in quegli anni proprio dal seno di Lotta continua. Quando lo invitai a venire al suo proposito, mi disse, con la stessa amabile naturalezza, che si trattava dei Nap, i Nuclei armati proletari. Che tutti sapevano come alcuni fra i loro membri avessero rotto con Lc accusandola di non voler passare alla lotta armata. Che erano pochi, che avrebbero continuato a seguire la loro natura di criminali comuni, contro lo Stato, ma anche nocendo gravemente a noi e al movimento in cui ci riconoscevamo. (…) Che era dunque interesse comune toglierli fisicamente di mezzo. («Fisicamente?» «Fisicamente!»), ciò che avrebbe potuto avvenire con mutua collaborazione e sicurezza dell’impunità.13 13

Il Foglio, 29 maggio 2007.

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Sofri si è deciso a parlare di queste cose solo ora, in tempo reale le ha taciute anche ai compagni della propria organizzazione. Il racconto dell’ex massimo leader di Lotta continua svela l’intima logica terrorista statale, ma anche la disinvoltura delle sue relazioni e frequentazioni. D’Amato poteva tranquillamente chiedere a Sofri di far uccidere, sulla base di un interesse politico comune, altre persone che addirittura erano state nella sua stessa organizzazione. Per poter chiedere un favore simile, quali relazioni dovevano esistere? E se D’Amato chiedeva questo a Sofri cosa poteva chiedere ai propri infiltrati nel terrorismo? Tale esempio ci fa immaginare quanti segreti ci vengono nascosti sulle reali relazioni tra gli esponenti statali e quelli che all’apparenza sono i loro avversari. Nel caso della relazione tra il terrorismo brigatista e lo Stato democratico italiano tutto lascia supporre che ci sia stata più di una concordanza; sono anzi convinto che sia esistita una convergenza speculare perlomeno fattualmente. In nome dell’emergenza terroristica gli esponenti della democrazia hanno criminalizzato i movimenti, accusato di essere brigatisti lottatori ed avanguardie del tutto estranee; hanno usato esplicitamente il terrorismo per rafforzare il proprio potere messo in crisi dallo sviluppo dei movimenti dopo il ’68. In questo senso si tratta di una convergenza obiettiva con il terrorismo brigatista che si sviluppava all’interno del contesto di queste relazioni politiche. A tal proposito è particolarmente illuminante e inquietante una dichiarazione rilasciata dal fondatore della Brigate rosse: Perché ci sono tante storie in questo paese che vengono taciute o non potranno mai essere chiarite per una sorta di sortilegio? Come piazza Fontana, come Calabresi, che sono andate in un certo modo e che per ventura della vita nessuno può più dire come sono veramente andate; sorte di complicità fra noi e i poteri, che impediscono ai poteri e a noi di dire cosa è veramente successo. Quella parte degli anni Settanta, quella parte di storia che tutti ci lega e tutti ci disunisce, cose che noi non riusciamo a dire perché non abbiamo le parole e le prove per dirle, ma che tutti sappiamo.14

Neppure troppo tra le righe Curcio ammette questo intreccio di responsabilità e di connivenze e il mutuo interesse politi14

Tg1 della Rai delle ore 20, 25 luglio 1996: brano intervista a Renato Curcio pubblicata in Vhs dalla rivista Frigidaire e riportata nel libro di Giovanni Fasanella-Alberto Franceschini, Che cosa sono le Br, p. 11.

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co a nascondere verità scomode per tutti i contendenti. Una sorta di mutuo «patto d’onore» tra avversari politici accomunati dalla medesima logica di morte. La politica e la guerra implicano relazioni anche tra schieramenti contrapposti e le trattative, gli accordi sottobanco, le mediazioni, rientrano nel «normale» gioco delle parti. Come abbiamo visto, i terroristi rossi facevano politica ed erano conosciuti dal primo all’ultimo, di certo hanno incrociato i servizi segreti e altre istituzioni statali forse (alcuni) credendo addirittura di poterli utilizzare per i propri obiettivi o più semplicemente avendo degli interessi (criminali) contingenti comuni; altri essendo, come ampiamente documentato, alle dirette dipendenze dei servizi segreti. Lo Stato in molti casi ha lasciato fare, successivamente ha addirittura ideato marchingegni legislativi per concedere la libertà a terroristi pluriomicidi, mentre, in altri casi, non ha esitato ad applicare a sua volta metodi terroristi. È il caso della vicenda di via Fracchia a Genova, in gran parte ancora avvolta nel mistero. Il 28 marzo 1980 i carabinieri di Dalla Chiesa entrarono in una base brigatista e sterminarono tutti i presenti nella casa, anche una donna, Anna Maria Ludmann, che le forze dell’ordine sapevano essere solo una fiancheggiatrice. Fu una vera e propria strage, un’esecuzione deliberata, come dimostra la drammatica dinamica della vicenda: i colpi sparati raggiunsero alle spalle i brigatisti mentre, ormai in trappola, stavano cercando scampo alla morte. Perché una così inutile ferocia? C’era interesse ad eliminare qualcuno che avrebbe potuto parlare? Oppure, come parrebbe probabile, i brigatisti presenti nella base erano venuti a conoscenza di una parte del memoriale di Moro? In ogni caso la strage di via Fracchia è stata una drammatica espressione di terrorismo statale e della similarità dei metodi tra i due presunti contendenti.

Parte del gioco politico Le Brigate rosse sono state un’organizzazione politica terrorista. Questi ultimi due termini sono generalmente considerati contraddittori e reciprocamente escludenti. In realtà – come ho cercato di dimostrare nel primo capitolo – le radici del terrorismo rosso sono rintracciabili proprio nella politica. I paradigmi della politica e le sue radici si fondano sulla violenza concentra54

ta e nella contemporaneità questa essenza della politica ha raggiunto la sua massima espressione. Ogni politica – direttamente o indirettamente – presuppone l’utilizzo effettivo o potenziale della violenza e la distruzione del nemico. La politica ha come orizzonte culminante lo Stato e la gestione del potere, e caratteristica costitutiva e fondante dello Stato è il detenere il monopolio della violenza: su questo esso fonda il suo dominio. I brigatisti si sono sempre dimostrati estremamente attenti e soprattutto interni, a loro modo, al farsi del gioco politico democratico. Le loro noiose e ripetitive risoluzioni sono concentrate, specie nelle Br morettiane, sullo studio degli equilibri politici e delle alleanze stabilite. Le Br volevano incidere sul quadro politico, condizionarlo con le loro azioni. Il ritmo del loro fare negativo ed ossessivo è regolato sull’orologio che scandisce i tempi della vita politica democratica. A partire dal rapimento Sossi, avvenuto durante la campagna referendaria del 1974 sul divorzio, una gran parte delle loro azioni è stato ritmato dalle scadenze elettorali. Il dichiarato obiettivo principale nel caso della loro operazione più clamorosa, quella del sequestro e successivamente dell’uccisione di Aldo Moro, era quello di chiedere allo Stato e alla Democrazia cristiana il riconoscimento delle Br come soggetto politico. I terroristi erano, dunque, preoccupati di farsi riconoscere come soggetti proprio da coloro che, a parole, dovevano essere i loro nemici mortali. Negli anni successivi, paradossalmente, questo riconoscimento è venuto loro proprio da colui che apparentemente era in quel momento il loro principale nemico, cioè l’onorevole Francesco Cossiga, ministro dell’Interno all’epoca del rapimento Moro. L’ex presidente della repubblica democristiano avanzò, all’inizio degli anni Novanta, la proposta di concedere la grazia a Renato Curcio proprio in virtù del riconoscimento dell’onore delle armi ad un avversario politico. Successivamente Cossiga tornerà, più volte, su quegli anni riconoscendo ai brigatisti il loro ruolo politico.

La sinistra e il terrorismo brigatista Nei primi anni Settanta, nel paese dove esisteva il Partito comunista non al potere con l’influenza più forte nell’Occidente capitalistico, si sviluppò quella che un po’ pomposamente si 55

autodefinì la «sinistra rivoluzionaria più forte del mondo». Migliaia di persone, soprattutto giovani, animate da un genuino intento di cambiamento cominciarono ad impegnarsi ed ingrossavano le file dei diversi gruppi della sinistra extraparlamentare. Ma fu una breve stagione poiché nel volgere di un decennio cominciò un’inesorabile ed inarrestabile decadenza. Oggi assistiamo alle rovine e alle macerie della sinistra italiana e milioni di persone sono rapidamente rifluite e tornate – attraverso diverse strade – nei gangli della normalità sistemica. Ciò non è solo e tanto frutto della repressione quanto di una incapacità a svolgere positivamente il soffio affermativo e la spinta ideale all’origine dell’impegno. È stato un autentico dramma generazionale che ha bruciato migliaia di persone. Il terrorismo brigatista ha contribuito a questo riflusso che ha coinvolto tutta una generazione, sfruttandolo nel contempo a proprio vantaggio: le Br hanno spesso reclutato a una prospettiva disperante e di morte molte persone deluse, frustrate, sconfitte, arrabbiate. In tal senso il terrorismo brigatista è anche un’espressione tipica di un ribellismo fine a se stesso. Le Br portando alle estreme conseguenze una logica negativa e resistenziale, propria comunque di tutta l’estrema sinistra, hanno attratto persone che si sentivano reduci e sconfitte. D’altra parte la base culturale della sinistra italiana, dominata dal togliattismo, ha contribuito a creare disvalori portando alla fine acqua al mulino della normalizzazione del potere oppressivo statale. L’ossessione della presa del potere statale accomunava tutti con semplificazioni spesso aberranti. Si poteva raggiungere il potere attraverso la via parlamentare o attendendo la magica ora X dell’insurrezione armata. L’incultura teorica, anche riguardo i più nobili antecedenti, faceva sì che nel senso comune la differenza tra riformisti e rivoluzionari si misurasse fondamentalmente sul ricorrere o no alla lotta armata e non fosse una questione in primo luogo di principi e di programmi, di visioni della società futura. Insomma quella della lotta armata appariva come una discriminate totalizzante: quelli che più si spingevano su questa strada si consideravano maggiormente a sinistra degli altri. Luigi Bobbio nella sua storia di Lotta continua rileva questa semplificazione: La questione della violenza, che sarà uno dei cardini tormentati ma centrali su cui si snoderà il dibattito e la pratica della sinistra rivo-

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luzionaria, fino agli esiti più inquietanti del terrorismo, si viene a porre, quindi, in circostanze determinate e su precise motivazioni. Da una parte è il modo più immediato per riproporre in tutta la sua forza l’affermazione dell’antagonismo tra le classi e la tensione verso la rottura rivoluzionaria, dall’altra è la discriminante, più semplice ed esplicita, verso la pratica della mediazione portata avanti dai riformisti.15

Nel suo essere stato un puntello della repubblica democratica il Pci fu tutt’altro che un partito pacifico. Va ricordato direttamente il ruolo repressivo e controrivoluzionario di Palmiro Togliatti e del Pci nei confronti della rivoluzione spagnola del 1936: il «migliore» è stato direttamente e indirettamente responsabile dell’uccisione di tante avanguardie rivoluzionarie compiute dal terrorismo stalinista. I movimenti più trasgressivi e le avanguardie più irrequiete hanno potuto assaggiare i bastoni normalizzatori dei servizi d’ordine del Partito comunista italiano. Il Pci offriva una visione del socialismo come un processo calato dall’alto, bisognoso di coercizione, con il mito sovietico sempre presente sullo sfondo. Un’idea secondo la quale tutto poteva essere sacrificato e giustificato di fronte all’incedere progressivo della Storia. Il Pci ha assunto, come abbiamo visto, fin dal primo sorgere del fenomeno brigatista una posizione di dura condanna. Nelle sue prime prese di posizione definì le Br come provocatori, usando il termine «sedicenti». Però i dirigenti di Botteghe oscure sapevano bene chi erano i brigatisti, erano al corrente, ad esempio, che uno dei nuclei fondamentali del brigatismo guidato da Franceschini era sorto dalla Federazione giovanile comunista di Reggio Emilia. Lo sapevano a tal punto che addirittura li incontrarono informalmente con il fine di cercare di dissuaderli dalle loro scelte. Nel gennaio del 1974, anche il Pci cercò un rapporto con noi. Attraverso Antonio Morlacchi, il fratello di Pierino, che faceva il giornalista all’Unità: contattò me e il fratello a nome dell’avvocato Alberto Malagugini (dirigente del Pci, nda). (…) Il messaggio che ci fece avere, Malagugini, era questo: (…) uscite dalle Brigate rosse, consegnatevi senza alcun problema al giudice De Vincenzo, lui poi vi scarcererà e chiuderete finalmente questa partita.16 15

Luigi Bobbio, Lotta continua, p. 24.

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G. Fasanella-A. Franceschini, Che cosa sono le Br, p. 129.

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Per il Pci riconoscere le scaturigini di questo processo avrebbe significato fare i conti con tutta la propria storia e metterla in discussione. Il Pci, invece, fece appello all’unità nazionale, tacendo sostanzialmente le dirette responsabilità statali pur dovendo, di fronte all’evidenza, denunciare l’esistenza di deviazioni interne alla democrazia o ingerenze straniere. Con questa logica il Pci fu diretto protagonista nel varo di misure gravemente liberticide come la legge Reale, usata soprattutto per criminalizzare i movimenti e le loro avanguardie più irrequiete e combattive. Così, nella lotta al terrorismo, la direzione del Pci, esprimendo la sua totale internità al sistema democratico e producendo devastanti conseguenze da un punto di vista coscienziale e ideale, ha condotto milioni di persone a mobilitarsi in difesa dello Stato e delle sue forze repressive. Per quanto riguarda i tanti militanti dell’estrema sinistra, il loro slancio e impegno generoso non possono essere in nessun caso equiparati al terrorismo. Non si può confondere chi ha condotto, pur con limiti e contraddizioni gravissime, un impegno a viso aperto nelle lotte e nei movimenti con le azioni criminali di un pugno di banditi. Proprio il rispetto dovuto a quell’impegno talvolta generoso e combattivo motiva l’esigenza di esprimere un giudizio severamente critico nei confronti dei militanti dell’estrema sinistra senza nessuna indulgenza verso i loro gruppi dirigenti. L’incultura e le fragilissime basi teoriche, i miti di cui si è nutrita l’estrema sinistra – con poche eccezioni – hanno contribuito a creare una sorta di compiacente complicità e giustificazione nei confronti dei terroristi. Abbiamo già visto le responsabilità di Lotta continua, Potere operaio e dei gruppetti stalinisti nel formarsi stesso delle Brigate rosse. Se poteva essere in una certa qual misura comprensibile, non certo giustificabile, un’attitudine compiacente nella prima fase del brigatismo è invece totalmente aberrante aver successivamente continuato su questa strada, specie quando le Br erano dirette da Mario Moretti e Giovanni Senzani ed emergeva più nettamente non solo la loro natura reazionaria ma la convergenza con i servizi segreti dello Stato. Anziché combattere apertamente il terrorismo si è continuato a definirne i componenti «compagni che sbagliano», contribuendo a disorientare i movimenti e a fornire validi argomenti ai propagandisti della borghesia. Lotta continua, dopo il suo scioglimento «nei fatti», senza alcun bilancio da parte del suo gruppo dirigente, avvenuto nel 1976, ha continuato a esistere non più come gruppo organiz58

zato ma solo come giornale quotidiano. Quando finalmente prese le distanze dal brigatismo lanciò lo slogan «né con lo Stato né con le Br». Con questa parola d’ordine, ponendosi in una posizione di neutralità, faceva propria la rappresentazione dominante dello scontro in atto. Lotta continua, non chiamando alla lotta sia contro il terrorismo brigatista che contro quello statale, non assunse quale punto di vista quello delle esigenze dei movimenti ed espresse così una logica subalterna, impotente, disarmante. Dal canto suo Autonomia operaia ha agito in continuità con il delirio insurrezionalista di Potere operaio. I vari raggruppamenti dell’Autonomia operaia – pur divergendo dai brigatisti ritenuti eccessivamente militaristi – hanno sempre difeso i membri delle Br, li hanno sempre considerati compagni. Così non potremmo non affrontare quelle posizioni più direttamente militariste che vengono al massimo grado interpretate dai compagni delle Brigate rosse. Intanto va subito messo in discussione l’impianto teorico… Qui non sono in discussione i meriti storici accumulati da questi compagni nel dimostrare che la lotta armata non solo è necessaria ma è possibile per la distruzione del potere capitalistico. Quella che va criticata è la incomprensione della qualità delle lotte del movimento, appiattita a generica resistenza, e quindi l’impossibilità di tracciare un rapporto che non sia strumentale rispetto alla crescita del partito combattente.17

È chiaro che le differenze degli autonomi sono di grado e tutte interne alla medesima logica fortemente militarista. Successivamente l’Autonomia operaia – anche preoccupata per come i brigatisti attraevano la propria base – marcò maggiormente le differenze definendo i Br come «riformisti armati». Tra l’altro, per questo, i leader autonomi subiranno anche loro la condanna stalinista e la relativa scomunica da parte delle Br. L’Autonomia operaia ha gravissime responsabilità nell’aver contribuito ad alimentare il mito brigatista nel movimento del ’77, come fece al convegno di Bologna quando «si svolse la più grande manifestazione di simpatia nei confronti delle Br e dei gruppi armati clandestini che mai ci sia stata in Italia».18 Da que17 Lucio Castellano in Aut. Op. La storia e i documenti: da Potere operaio all’Autonomia organizzata, Savelli, Milano 1980; in questo testo si riporta una citazione di Rosso, giornale dell’area dell’Autonomia operaia del settembre 1977. 18

Piero Bernocchi, Dal ’77 in poi, Erre Emme, Roma 1997, p. 59.

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sti diversi gradi di complicità sono rimaste fuori, più o meno parzialmente, poche forze e personalità dell’estrema sinistra; tra questi una parte consistente delle aree anarchiche e libertarie, anche in ragione del furibondo stalinismo brigatista. Lotta comunista denunciò e definì i brigatisti come un fenomeno piccoloborghese ed estraneo al movimento operaio. Avanguardia operaia prese da subito le distanze dai terroristi definendoli provocatori. Democrazia proletaria nel suo congresso di fondazione denunciò con più chiarezza la tenaglia che si stava sviluppando contro i movimenti da parte del terrorismo e della repressione statale. Nel documento approvato al suo primo congresso si sosteneva: «La nostra avversione non ha soltanto ragioni tattiche ma investe l’immagine stessa di società che vogliamo costruire». Ma l’organizzazione che, a mio giudizio, espresse con assoluta chiarezza una coerente e intransigente condanna delle concezioni, della prassi e dei fini reazionari del terrorismo brigatista fu la Lega socialista rivoluzionaria che, successivamente, all’inizio degli anni Novanta, diede vita a Socialismo rivoluzionario. Sul significato di questo impegno socialista rivoluzionario contro il terrorismo brigatista – un’esperienza che fin dalla seconda metà degli anni Settanta ho condiviso – mi soffermerò nell’ultimo capitolo proprio per il significato più generale che, a mio avviso, riveste.

Una tenaglia contro i movimenti Il brigatismo ha portato la violenza e la morte nel movimento operaio, ha colpito non solo personalità del potere statale e economico, ma anche semplici lavoratori. Fu il caso dell’omicidio di Guido Rossa, operaio dell’Ansaldo di Genova, militante sindacale e del Pci. Rossa – coerentemente con la linea del suo partito e del sindacato – denunciò la presenza di un brigatista all’Ansaldo che aveva visto lasciare volantini inneggianti al terrorismo. La denuncia di Rossa provocò l’arresto di Francesco Berardi, anch’esso operaio dell’Ansaldo, fiancheggiatore irregolare delle Br. Alle 6:40 di mattina del 24 gennaio 1979, quando Rossa si stava recando al lavoro, solo e indifeso, un commando guidato da Riccardo Dura lo colpì a morte. Per la prima volta le Br assassinarono un operaio, esprimendo non solo la loro estraneità ma una contrapposizione al movimento operaio. Poco dopo l’uccisione di Rossa, lo stesso Francesco Berardi, 60

sconvolto dall’uccisione del collega, ebbe una profonda crisi e cominciò a collaborare con la magistratura. Successivamente si suicidò, impiccandosi nella sua cella, travolto dal senso di colpa per aver causato indirettamente la morte del suo compagno di lavoro. Quella di Rossa e Berardi è quasi una drammatica istantanea della triplice tenaglia scatenata contro i movimenti. Da una parte il Pci che chiamava i lavoratori a collaborare con la logica statale e repressiva, dall’altra il brigatismo con la sua pratica di morte che seminava disperazione ed infine lo Stato repubblicano e la Democrazia cristiana che più di tutti si avvantaggiavano della situazione utilizzando tutto ciò per operare una normalizzazione democratica nella società. Vale la pena riflettere su questa particolare triangolazione che si scatenò contro i movimenti di massa. Secondo la logica sistemica o si stava con lo Stato o si stava con le Brigate rosse, perché quella era una guerra e bisognava schierarsi o al massimo essere neutrali. Da un punto di vista dei movimenti riconoscere le radici umane delle proprie esigenze e bisogni avrebbe dovuto portare a lottare sia contro lo Stato che contro le Br. Ciò avrebbe permesso di individuare e denunciare la convergenza sistemica tra il terrorismo democratico e quello brigatista in quanto entrambi nemici delle esigenze e dello sviluppo indipendente e autorganizzato dei movimenti. Era necessaria un’affermazione sottrattiva per mettere al centro la vita contro le convergenti logiche di morte brigatiste e statali.

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DA CURCIO A MORETTI

Il mistero del Superclan Uno degli snodi cruciali della vicenda delle Brigate rosse fu il passaggio dalla leadership di Renato Curcio a quella di Mario Moretti e successivamente di Giovanni Senzani. Le Br guidate da Moretti «alzarono subito il tiro dello scontro» seminando una lunga scia di sangue. Precedentemente le Br guidate da Curcio avevano ucciso una sola volta, durante un’incursione nella sede del Movimento sociale italiano di Padova il 17 giugno 1974. Si trattò di un omicidio che non era stato deciso e pianificato dalla direzione, tant’è che questa esitò a rivendicarlo. Indiscutibilmente il cambio di direzione comportò un ulteriore salto di qualità delle Br, un’accelerazione della logica militarista già presente comunque fin dalle origini. Per comprendere questa trasformazione – a mio avviso qualitativa – tra le Br guidate da Curcio e quelle morettiane è necessario fare un passo indietro, tornare al Collettivo politico metropolitano da cui prenderà vita la formazione brigatista. Corrado Simioni era, insieme a Curcio, il leader di questo collettivo. Simioni aveva dei trascorsi ambigui e qualche mistero da nascondere. A partire dalla metà degli anni Cinquanta era stato iscritto alla Federazione milanese del Partito socialista italiano, nella corrente autonomista alla quale apparteneva l’allora giovane Bettino Craxi. Considerato persona brillante e carismatica, da molti era ritenuto una promessa per il futuro gruppo dirigente socialista. Quando Craxi e Sandro Pertini denunciarono l’esistenza di un «grande vecchio» che dirigeva le Br pare certo si riferissero proprio a lui. Nel 1964 Simioni fu espulso dal Psi per indegnità morale; successivamente, per un breve periodo, prestò la sua opera per l’United States infor63

mation service occupandosi di attività di carattere culturale. Dopo una parentesi in Germania tornò a Milano come collaboratore della Mondadori. Negli ambienti dell’estrema sinistra milanese Simioni era considerato un provocatore infiltrato: Secondo la Commissione controinformazione di Avanguardia operaia, Simioni ha collegamenti con l’intelligence statunitense, e sarebbe stato addestrato dalla Cia in Francia; secondo Lotta continua, sarebbe un informatore della polizia. Una lista di presunti agenti della Cia attivi in Italia, comprendente il nome di «Simioni Corrado», perverrà in forma anonima alla redazione del quotidiano Lotta continua.1

Nell’ambito del Collettivo politico metropolitano, Simioni si contraddistinse per avere una posizione più netta sul passaggio alla lotta armata e dirigeva il servizio d’ordine denominato «zie rosse», di cui faveva parte Mara Cagol. In particolare teorizzava un’attività superclandestina di infiltrazione nei vari gruppi dell’estrema sinistra per favorirne, attraverso attentati terroristici, il passaggio alla lotta armata. Alberto Franceschini ricorda: Simioni voleva che le Br alzassero il tiro con azioni sanguinarie che però non dovevano essere rivendicate. Propose, per esempio, di assassinare il «principe nero» Junio Valerio Borghese durante una manifestazione fascista che si sarebbe svolta a Trento in ottobre (1970), firmando la rivendicazione Lotta continua.2

Per questo il suo gruppo era denominato Superclan e ne facevano parte, tra gli altri, Duccio Berio, Vanni Mulinaris, Prospero Gallinari. Ben presto il Superclan ruppe con Curcio e si allontanò. Moretti ha sempre negato una relazione con Simioni benché: Tale non è il fatto che non solo Gallinari (la cui evasione all’inizio del ’77 concordata con la malavita, è forse agevolata dai servizi), ma anche Moretti e Anna Laura Braghetti (il trio che ufficialmente è il solo, con Germano Maccari, di cui in seguito, a conoscere la «prigione» di via Montalcini (la prigione dove secondo i Br era tenuto prigioniero Aldo Moro, nda) erano nel Superclan: lo ignora forse Curcio, ma non documentati atti processuali.3

1

Sergio Flamigni, La sfinge delle Brigate rosse, p. 29.

2

Idem, p. 62.

3

Giorgio Galli, Piombo rosso, p. 117 e seg.

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Certo nel Cpm le posizioni di Moretti erano pressoché coincidenti con quelle di Simioni e del Superclan. È solo una pura coincidenza che il nucleo fondamentale protagonista del sequestro e dell’uccisione di Aldo Moro faceva parte del Superclan? Nel gruppo di Simioni c’erano persone a dir poco ambigue, come Berio: «Va aggiunto che Duccio Berio aveva accettato di fornire informazioni al Sid, perché ricattato, quando prestava servizio militare di leva come ufficiale di complemento».4 La rottura tra Curcio e Simioni non avvenne per differenze politiche, benché queste esistessero. I due leader ruppero quando Curcio seppe che l’ex delfino socialista aveva segretamente proposto a Mara Cagol di partecipare ad un attentato terrorista. Successivamente Franceschini scoprì che la segretaria personale di Simioni, Savina Longhi, aveva lavorato con Manlio Brosio alla Nato, avvalorando la diffidenza e i motivi della rottura. Così Curcio ruppe con Simioni, ma non si limitò a questo: Su richiesta di Curcio, ci incontramno con Pietrostefani e Oreste Scalzone, che a Milano erano tra gli esponenti più in vista rispettivamente di Lotta continua e Potere operaio. Li mettemmo al corrente di quello che era successo, avvisandoli del pericolo: guardate che Simioni è un agente della Cia, sta organizzando una sua struttura iperclandestina e ha intenzione di infiltrare le vostre organizzazioni.5

Le ambigue frequentazioni di Simioni non si fermavano qui. Mara Cagol aveva raccontato a Curcio e a Franceschini che un giorno era stata condotta da Simioni a Milano alla terrazza Martini per conoscere una persona influente, secondo lui in grado di aiutare la lotta armata. La Cagol raccontò di aver incontrato più volte questa persona perché le era stato detto di fidarsi. Tale personaggio era Roberto Dotti, ex partigiano del Pci, successivamente stipendiato da Vittorio Valletta e sodale del reazionario Edgardo Sogno in Pace e Libertà. Di quest’ultimo erano noti i legami con i servizi segreti e la Cia. La vera identità del Dotti fu scoperta quasi per caso poiché i brigatisti avevano fatto irruzione nella sede di Sogno a Milano portando via molti documenti e, analizzandoli, era emerso il legame tra questo e Dotti. Franceschini, per essere certo che si trattasse della stessa persona incontrata dalla Cagol a Milano, si procurò addirittura una sua foto e la brigatista riconobbe nel Dotti lo stesso uomo presentatogli da Simioni alla terrazza Martini. 4

Idem, p. 119.

5

Giovanni Fasanella-Alberto Franceschini, Che cosa sono le Br, p. 74.

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Nel giugno 1975, durante un’operazione presso la cascina Spiotta in cui i carabinieri cercavano la prigione di Vittorio Vallarino Gancia, Mara Cagol fu freddata e finita dopo uno scontro a fuoco con le forze dell’ordine mentre era possibile arrestarla risparmiandole la vita. Era stata forse una scomoda testimone di qualcosa che non doveva essere rivelato? Sulla morte di Mara Cagol e la sua dinamica rimangono tuttora molti misteri. Nel frattempo Simioni, godendo di forti e influenti appoggi tra cui quello dell’abbé Pierre, si era rifugiato con il suo gruppo in Francia dove aveva fondato la scuola di lingue Hyperion, un luogo che successivamente tornerà di grande attualità. Per inquadrare le nuove Br di Moretti è importante tenere presente i legami, ampiamente dimostrati e documentati, del nuovo capo dei terroristi con Corrado Simioni.

Moretti: l’ambiguo terrorista Moretti, quindi, dopo l’arresto di Curcio e Franceschini diventò il leader incontrastato delle Brigate rosse. Chi era Moretti e come divenne leader brigatista? Rossana Rossanda e Carla Mosca nella loro opera di giustificazione della purezza brigatista hanno scritto un libro-intervista con il leader delle Br. La giornalista de il manifesto permette a Moretti di ricostruirsi una sua candida biografia nella quale risulta essere stato sempre comunista e antifascista. Così si racconta il capo delle Br: «Mio padre votava comunista, come gli amici che da bambino vedevo per casa, ma in quel periodo e da quelle parti la gente si sentiva soprattutto antifascista, contro quello che il fascismo aveva lasciato in eredità e non era mutato».6 Ad un riscontro più preciso e documentato della sua vita le sue dichiarazioni risultano palesemente false. Moretti omette ad esempio la propria appartenenza a gruppi di destra quando era un giovane liceale a Porto San Giorgio, sua città natale, anzi dichiara di essere sempre stato un antifascista. Ciò è smentito dai suoi compagni dell’epoca del liceo Montani. Vale la pena di riportare la testimonianza di uno di loro: Mi ricordo che nella primavera del 1966, quando i fascisti all’università di Roma provocarono la morte dello studente socialista Paolo 6

Mario Moretti, Brigate rosse, una storia italiana, p. 3.

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Rossi, noi della sezione di Meccanica facemmo approvare al comitato studentesco dell’istituto una mozione di condanna del neofascismo e di solidarietà con gli studenti romani. Quel giorno i rappresentanti della sezione Elettrotecnica erano in gita scolastica, e quando tornarono nell’istituto i giovani di destra si scontrarono con noi per quella mozione. Anche Moretti si unì a loro ed era tra i più furibondi… Mario Moretti me lo ricordo come un fascista, nelle idee e nei comportamenti.7

Perché Moretti nel suo racconto autobiografico alla Rossanda omette queste vicende? Curcio, ad esempio, ha sempre raccontato e ammesso di aver fatto parte di un’organizzazione di destra in gioventù. Evidentemente il capo brigatista ha qualcosa da tenere nascosto. La sua vita descrive la mentalità e il modo di pensare di un borghese con poca cultura e pieno di luoghi comuni. Da Porto San Giorgio si trasferì a Milano dove visse mantenuto dai Casati, una famiglia dell’aristocrazia nera. La marchesa Casati lo mantenne permettendogli di studiare Economia e commercio alla Cattolica di Milano e lo raccomandò per essere assunto come tecnico alla Sit-Siemens. Così Moretti, in modo francamente poco convincente, spiegherà questa strana relazione: «Avrò visto questa donna un paio di volte in tutto, posso dire soltanto che fu molto generosa (...) una mia zia era portinaia a Milano, in via Torino, (…) parlò di noi alla signora e questa si offrì di aiutarci».8 Una generosità un po’ sproporzionata in relazione alla rarefazione del rapporto; inoltre la famiglia dei marchesi Casati – che finì tragicamente – aveva legami politici con gli ambienti di estrema destra. Il modo di pensare di Moretti non si discosta da quella del maschio borghese e conservatore: così descriveva la sua esperienza in una comune, per niente trasgressiva, all’inizio del suo impegno: «La famiglia che vive nell’immenso condominio è sperduta, isolata, impaurita. In noi, c’è il rimpianto dell’antica famiglia patriarcale, con tutti i fratelli che abitano un’enorme casa».9 Sarà un caso, ma la coniugazione del capo brigatista è tutta al maschile; d’altra parte la sua visione patriarcale e maschilista delle relazioni è descritta da un suo sodale come 7

S. Flamigni, op. cit., p. 13.

8

M. Moretti, op. cit., p. 3 e seg.

9

Brano tratto da un’intervista rilasciata a Walter Tobagi nell’ambito di un’inchiesta sulle comuni. Moretti si fa intervistare a condizione di restare anonimo, coperto dallo pseudonimo «Mauro». Pubblicata su Tempo Illustrato, 25 febbraio 1970.

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Valerio Morucci quando racconta i «vantaggi» della vita da clandestino per il brigatista maschio: «Così alcuni – come Moretti – interpretavano il riposo del guerriero come avere una donna in ogni città, e anche più d’una, all’occorrenza. Mi assoggettai anch’io alla sicurezza e ai vantaggi delle regole».10 Morucci descrive non solo le abitudini scioviniste di Moretti, ma le regole brigatiste dove si coniuga la logica di guerra a quella patriarcale definendo i diritti del capo a soddisfare i bisogni del proprio consumo sessuale. Anche in questa coniugazione di vita e di impegno i terroristi si dimostrano reazionari e borghesi, un’ulteriore prefigurazione dell’orrendo incubo brigatista. L’ineffabile Moretti compì una rapidissima e clamorosa scalata ai vertici dell’organizzazione approfittando degli arresti che misero fuori gioco tutta la vecchia guardia. Abbiamo già visto le responsabilità di Moretti nel primo arresto di Renato Curcio. Anche il secondo arresto del fondatore delle Br avviene in circostanze strane che lo coinvolgono. Curcio venne arrestato nel suo appartamento a Milano insieme a Nadia Mantovani i primi di gennaio del 1976. Così Franceschini ricorda la vicenda in un colloquio con Curcio in carcere: Curcio disse di avere raggiunto la certezza che Moretti fosse una spia. Raccontò che Mario stava a Genova, e venerdì 16 era venuto a Milano per partecipare alla riunione del Comitato esecutivo in programma quel giorno. Dopo la riunione, a sera, Moretti aveva detto di essere troppo stanco per tornarsene subito a Genova, e aveva insistito per passare la notte nell’appartamento-base dove stava Curcio insieme a Nadia Mantovani (era in via Maderno 5, ma per la compartimentazione nessun altro brigatista lo sapeva). Così Renato l’aveva ospitato per la notte nella base e l’indomani, sabato, Mario se n’era tornato a Genova. La domenica, la polizia aveva fatto irruzione e aveva arrestato sia Curcio sia Nadia Mantovani (…) Renato diceva che se i carabinieri avessero fatto irruzione il venerdì sera o il sabato mattina, avrebbero arrestato pure Mario, ma invece l’avevano fatta di domenica, a colpo sicuro.11

Il 22 marzo 1976 i carabinieri arrestarono Giorgio Semeria, l’ultimo degli «storici» rimasti in libertà. «L’ex brigatista Michele Galati testimonierà che in carcere “Semeria aveva una fissazione su Moretti, al quale attribuiva la responsabilità del suo arresto”».12 10

Valerio Morucci, Ritratto di un terrorista da giovane, p. 227.

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S. Flamigni, op. cit., p. 162 e seg.

12

Idem, p. 164.

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Questi ripetuti episodi insospettirono gli stessi brigatisti e fu aperta un’inchiesta interna su Mario Moretti, ma l’indagine non contribuì a chiarire niente e l’artefice del rapimento Moro ne uscì indenne. Il ripetuto coinvolgimento di Moretti in ambigui episodi è stato ricondotto da lui e dai suoi difensori (vedi Rossanda) a delle semplici coincidenze. È una versione, in verità, assai poco credibile. Più probabilmente nel piccolo apparato militare brigatista si aprì una lotta per il potere e lo scaltro Moretti non esitò a usare mezzi poco leciti, tipici della politica, per divenire leader. I capi storici potevano essere un ostacolo per la linea propugnata da Moretti. È anche certo che tutta la vicenda delle Br da Moretti in poi, come avrò modo di documentare, si incrocia con i servizi segreti. Secondo Giorgio Galli, Moretti apparteneva, così come Senzani, a quel gruppo di militanti rivoluzionari che ritenevano di poter «incrociare» i servizi e la malavita, a fine strumentali, senza venirne condizionati; ma si trattava di una velleità – erano piuttosto i servizi (e forse anche mafia e camorra) in grado di strumentalizzare realmente le Br.13

Il caso Moro Le Br morettiane cominciarono un’escalation di attentati terroristi a partire dall’assassinio nel 1976 del giudice Francesco Coco e della sua scorta. Sotto la guida incontrastata di Moretti le Brigate rosse, con Curcio e gli altri dirigenti storici in galera oppure assassinati come Mara Cagol, assunsero una dinamica ossessivamente militarista approfondendo le convergenze, perlomeno fattuali, con gli intenti dei servizi segreti dello Stato. Infatti, questa dinamica dei brigatisti fu funzionale ai piani di normalizzazione democratica perseguiti da consistenti settori dell’apparato statale. Eppure la leggenda e il mito brigatista si costruisce con il rapimento e l’uccisione degli uomini della scorta di Moro e successivamente con l’esecuzione della sua condanna a morte. Lo «sbadato» Moretti che non riuscì ad avvisare Curcio del pericolo di cattura, diventò miracolosamente e all’improvviso un im13

G. Galli, Il partito armato, p. 10.

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prendibile capo che diresse una complicatissima operazione militare, senza sbagliare un colpo e mettendo in «scacco» per 45 giorni tutte le forze repressive dello Stato italiano. In questa vicenda, come vedremo, si esprime una convergenza tra la ragione di Stato democratica e quella brigatista. Sempre in questo tragico episodio rientrano clamorosamente e misteriosamente in scena Corrado Simioni e il Superclan, oramai noti come quelli della scuola Hyperion in Francia. In quegli anni la lunga spinta dei movimenti cominciata nel ’68-69 continuava anche se era in fase calante. Si stava sviluppando il movimento femminista con la sua carica di critica della politica e il suo mettere al centro la valorizzazione della vita; l’esplosione femminista era un soffio vitale che si contrapponeva alla logica di morte dei terroristi. Tra i lavoratori c’erano i primi fermenti antiburocratici evidenti nelle lotte degli ospedalieri e nella mobilitazione dei metalmeccanici. Al teatro Lirico di Milano si svolse un’assemblea che espresse un’iniziale e promettente carica di protagonismo e di contestazione dei vertici politici. Si accennavano, dunque, delle alternative. Il movimento del ’77, sviluppatosi specialmente nelle università di Roma e di Bologna, mise in luce, invece, una carica negativa e divisionista. Fu l’unico movimento che, in alcuni suoi settori guidati dall’Autonomia operaia, manifestò segnali di complicità e simpatia nei confronti del brigatismo terrorista. Gli anni precedenti erano stati quelli della grande ascesa elettorale del Partito comunista italiano, mentre la sinistra extraparlamentare italiana aveva subìto una forte sconfitta e imboccava la strada della sua decadenza finale. La tendenza prevalente era quella di un accordo di unità nazionale tra la Dc e il Pci, cosa che contraddiceva tutte le analisi dell’estrema sinistra che prevedevano golpe e svolte reazionarie. Gli schemi interpretativi di Adriano Sofri e compagnia venivano regolarmente smentiti dalle dinamiche prevalenti. In questo contesto, così schematicamente sintetizzato, le nuove Br morettiane vissero la loro consacrazione con il rapimento di Moro. Il sequestro dell’onorevole democristiano in realtà era stato già in qualche modo annunciato, come rivela il giudice Ferdinando Imposimato: Mi ero reso conto delle protezioni di cui godevano gli uomini dell’Hyperion quando un funzionario dei servizi segreti francesi, che

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nel 1980 con il collega Priore incontrammo all’ambasciata italiana a Parigi, ci mostrò un appunto che diceva: «12 febbraio 1978. Le Brigate rosse attueranno nei prossimi giorni il sequestro di un esponente di spicco della Democrazia italiana». Lo Sdece, il servizio segreto francese, sapeva della preparazione del sequestro Moro fin dal febbraio del 1978. Quel funzionario non volle dirci se i servizi segreti francesi avessero informato quelli italiani di questo progetto e si rifiutò di consegnarcelo.14

Il 16 marzo 1978, mentre il Pci si apprestava a dare la fiducia al quarto governo di Giulio Andreotti tramite il suo appoggio esterno, scattò l’agguato di via Fani: 12 brigatisti – ma secondo le versioni coincidenti dei terroristi e delle sentenze di Stato erano in 10 – tutti vestiti in uniformi dell’Alitalia fermarono la macchina di Aldo Moro, uccisero tutti gli uomini della scorta prelevando lo statista democristiano. Come potevano essere sicuri i brigatisti che l’auto di Moro passasse proprio da via Fani? Vi è innanzitutto una domanda cruciale, posta dalla signora Eleonora Moro sia davanti alla Commissione parlamentare, sia davanti alla Corte d’assise, rimasta senza risposta: «Come potevano essere così sicure le Br che in quel giorno, a quell’ora e in quel momento, mio marito sarebbe passato da via Fani?». Moro non percorreva tutti i giorni la stessa strada: mutava il percorso in ragione dei vari impegni della giornata, anche se due percorsi si ripetevano con maggiore frequenza. Il capo scorta, maresciallo Leonardi, in base alle richieste di Moro, comunicava agli autisti l’itinerario da percorrere di volta in volta. (…) La scorta di Moro era in costante collegamento radio con la sala operativa, dalla quale è possibile che sia partita l’indicazione di mutare il percorso prescelto per motivi di traffico o con altri pretesti. Certo è che quella mattina le auto di Moro da via Trionfale svoltarono in via Fani, passando proprio là dove i terroristi avevano accuratamente predisposto l’imboscata. (…) L’inspiegabile certezza preventiva del passaggio di Moro in via Fani, e la certezza preventiva che la volante sempre presente in via Bitossi-via Massimi si sarebbe allontanata in tempo utile, non sono state oggetto di particolari indagini, specie in rapporto alla sala operativa-Cot della questura. Peccato, perché tra i reperti che verranno poi sequestrati al brigatista Morucci verrà trovato un appunto (estraneo ai materiali raccolti dai brigatisti nelle loro inchieste sulle forze di polizia) recante l’indirizzo e il numero telefonico del commissario capo Antonino Esposito, in servizio presso la centrale operativa della questura di Roma la mattina del 16 marzo 1978, e il commissario capo Antonino Esposito era affiliato alla P2.15 14

Ferdinando Imposimato-Sandro Provvisionato, Doveva morire, p. 186.

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S. Flamigni, Convergenze parallele, p. 125 e seg.

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Sulla dinamica dell’agguato ci sono fitti misteri e incongruenze, ma per le sentenze giudiziarie la verità è stata appurata ed è coincidente con la versione dei brigatisti. Uomini di Stato, pentiti, irriducibili, tutti concordano e non hanno mai spiegato tante cose. Che bisogno c’era di vestirsi tutti in uniforme di avieri dell’Alitalia offrendo un vantaggio di identificazione immediata ai possibili inseguitori? Le regole di guerra dicono che lo si fa per non cadere di fronte al «fuoco amico». Quindi, presumibilmente, non tutti i terroristi si conoscevano tra loro. E c’era qualcuno di cui si è sempre negata la presenza. Testimoni oculari dell’agguato – per i giudici meno credibili degli stessi brigatisti – hanno raccontato di due persone su una moto Honda. Una moto è stata vista dal teste Luca Moschini poco prima dell’attacco, ferma di fronte al bar Olivetti, all’angolo di via Stresa. Della moto ha parlato anche l’ingegnere Alessandro Marini che arrivò con il suo motorino all’incrocio tra via Fani e via Stresa quando i terroristi partivano all’attacco e assistette all’agguato, dal momento che udì il fragore del tamponamento fino alla fuga, quando diventò bersaglio mancato del mitra del motociclista. A conferma dei misteriosi motociclisti si aggiunge la dichiarazione della guardia di polizia Giovanni Intrevado che, mentre stava correndo verso le tre auto bloccate, si vide sfrecciare davanti una Honda di grossa cilindrata con due persone a bordo.16

Una presenza smentita dai brigatisti e da Valerio Morucci, il teste più attendibile secondo i giudici che hanno assunto la sua versione come base «veritiera» delle loro sentenze: «Nessuna Honda o altra moto di questo tipo è stata impiegata nell’azione. Il teste Marini si è semplicemente sbagliato».17 L’azione dei terroristi fu fulminea e dimostrò una grande capacità e abilità militare. I periti ritrovarono 93 bossoli. Di questi solo due erano stati sparati dall’agente della scorta Raffaele Iozzino, gli altri tutti dal commando brigatista. Di questi colpi ben 49 furono sparati da un’unica arma. Le testimonianze dei brigatisti al proposito sono sconclusionate e contraddittorie con l’affermazione che non ci fossero altre persone presenti. 16

S. Flamigni, La tela del ragno, p. 37.

17

Dichiarazione di Valerio Morucci rilasciata al gip Imposimato il 25 luglio 1982, cit. in F. Imposimato-S. Provvisionato, op. cit., p. 57.

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Gallinari nel suo libro di memorie scrive: «Quello che temevo accadde: a metà della raffica il mitra si inceppa, estraggo istintivamente la pistola che porto alla cintura, continuando a sparare come se non fosse cambiato nulla».18 Raffaele Fiore ha raccontato al giornalista Aldo Grandi: «Ricordo che premetti il grilletto e il mio mitra, un M12, che avrebbe dovuto essere il migliore, si inceppò subito. Io avevo il compito di sparare sull’autista. (…) Tolsi il caricatore del mitra, ne misi un altro, ma non funzionò egualmente».19 Franco Bonisoli e Morucci hanno sempre dichiarato, in diverse interviste e testimonianze, che il loro mitra si inceppò quasi subito. Se i brigatisti hanno sempre dichiarato che a sparare in via Fani sono stati in quattro: Morucci, Bonisoli, Fiore e Gallinari come è possibile in base ai loro stessi racconti che non ci fosse un’altra persona? Come avrebbero fatto quei dilettanti allo sbaraglio a compiere un’impresa che richiede un altissimo livello di addestramento e capacità militare? Secondo alcune testimonianze oculari in via Fani c’è un «super Rambo» che «spara con assoluta precisione: la prima raffica contro Leopardi e Ricci (che si trovavano nell’auto di Moro), poi fa un salto indietro per allargare il raggio di tiro e sparare contro l’auto di scorta».20 L’esaltazione di Franco Piperno, ex leader di Potere operaio, all’indomani della strage di via Fani circa la «geometrica potenza di fuoco» delle Brigate rosse, oltre ad essere un misero saggio del lugubre pensiero del professore universitario cosentino, risulta anche particolarmente inesatta. La strage di via Fani fu fondamentalmente opera di una sola persona, un superprofessionista, che per i brigatisti e i giudici dei processi su Moro non esiste. Ma chi era questo killer? Ha forse qualcosa a che vedere con il viaggio di Mario Moretti e Barbara Balzerani nel dicembre 1975 a Catania, con soggiorno al gran hotel Costa il 12 e al Jolly hotel il 15? E ancora con quello a Reggio Calabria del 22 marzo sempre in compagnia della Balzerani con pernottamen18 Prospero Gallinari, Un contadino nella metropoli. Ricordi di un militante delle Brigate rosse, Bompiani, Milano 2006, cit. in F. Imposimato-S. Provvisionato, op. cit., p. 60. 19 Aldo Grandi, L’ultimo brigatista, cit. in F. Imposimato-S. Provvisionato, op. cit., p. 60. 20

F. Imposimato-S. Provvisionato, op. cit., p. 59.

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to all’hotel Excelsior? Il viaggio avvenne all’insaputa degli altri brigatisti. È noto che in queste due regioni non sono mai esistite le Br. Era forse previsto un incontro per prendere accordi con la mafia e la ’ndrangheta? Il killer poteva essere frutto di questo accordo? Lo scopo di quei viaggi rimane uno dei tanti inquietanti misteri mai chiariti. Nel bagagliaio dell’auto di Moro c’erano cinque borse. I terroristi ne prelevano solo due andando a colpo sicuro. Un fotografo, inoltre, testimonierà che a strage avvenuta verrà sottratta misteriosamente un’altra borsa presente nel luogo del tragico agguato. Una circostanza che lasciò agghiacciata Eleonora, la moglie dell’onorevole Moro. Inoltre da un balcone di una casa furono scattate delle foto mentre era in corso l’agguato di via Fani; queste preziosissime prove, consegnate agli inquirenti, sono in seguito sparite… incredibilmente sono state perse! Durante l’agguato nella zona ci fu un black out dei collegamenti telefonici, circostanza che aiutò non poco la fuga dei terroristi, cosa a cui si è combinata una sospetta e reiterata mancanza di collaborazione da parte della compagnia telefonica. Il capo della Digos di Roma Domenico Spinella davanti alla Commissione parlamentare sul caso Moro dichiarò che «se la Sip avesse collaborato gli sviluppi della vicenda Moro sarebbero stati completamente diversi».21 Sergio Flamigni fornisce una sua spiegazione: Perché la Sip aiutò oggettivamente i brigatisti fino alla morte dell’ostaggio? Una domanda rimasta priva di risposta in quanto le indagini non si spingeranno all’interno dell’ente telefonico. Peccato, perché la Sip era controllata dalla finanziaria statale Stet, e la Stet era presieduta da Michele Principe, un potentissimo boiardo di Stato affiliato alla P2.22

Il giorno della strage, in una strada adiacente a via Fani, venne notato il colonnello Camillo Guglielmi, istruttore di «Gladio», successivamente deceduto. Il «gladiatore» si giustificò asserendo che si trovava lì casualmente perché era stato invitato a pranzo da un amico. Circostanza assai originale alle nove del mattino… 21

Atti della Commissione parlamentare sul caso Moro, volume 5, p. 441.

22

S. Flamigni, Convergenze parallele, p. 129.

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Durante i 55 giorni del rapimento dello statista democristiano, mentre si svolgono asfissianti controlli delle forze dell’ordine in tutto il paese, Moretti può tranquillamente e comodamente viaggiare settimanalmente verso Firenze e, guarda caso, verso Parigi, dove aveva sede l’Hyperion. E inoltre si susseguono avvenimenti quasi surreali, come quello che coinvolge Romano Prodi. Infatti, il 2 aprile Prodi, allora democristiano, partecipò insieme a un gruppo di cattolici ad una seduta spiritica. Narrarono che evocando lo spirito di Alcide De Gasperi uscì una precisa indicazione: Gradoli. Prodi solertemente informò la Democrazia cristiana e il governo. Il ministro Francesco Cossiga mostrò di credere seriamente al valore delle sedute spiritiche, ma in compenso fece funzionare molto meno il «buon senso». Perché prese sul serio l’indicazione, ma anziché mandare a perquisire a tappeto via Gradoli a Roma, inviò e mobilitò ingenti forze di polizia nel paese di Gradoli, che fu messo inutilmente a soqquadro. Eleonora Moro invano chiese ripetutamente di verificare se esisteva una via Gradoli a Roma. Eppure gli inquirenti dovevano ben conoscere questa via, sede del covo di Moretti e della Balzerani durante il sequestro. Infatti, tutta via Gradoli era stata perquisita a tappeto all’indomani dell’agguato ma le solerti forze dell’ordine davanti alla porta dell’abitazione di Moretti si erano semplicemente limitate a registrare il fatto che non rispondeva nessuno. C’è da aggiungere che il condomino di via Gradoli 96 risulterà in seguito in gran parte di proprietà di un’immobiliare legata ai servizi segreti, come ha ampiamente documentato nei suoi lavori il senatore Flamigni. Ma Prodi come aveva saputo di via Gradoli? In seguito non ha mai fornito chiarimenti al proposito. A meno che non si creda fermamente nelle sedute spiritiche qualcuno aveva dato l’informazione. Era un messaggio cifrato per facilitare la liberazione di Moro? È solo una delle tante ipotesi di fronte a questo singolare mistero a tutt’oggi rimasto oscuro, come tanti altri. L’unico che ha fornito una qualche spiegazione della vicenda è stato Andreotti che, nel corso di un’audizione alla Commissione parlamentare sulle stragi dell’11 aprile 1997, ha dichiarato: Io non ho mai creduto alla questione dello spiritismo. Probabilmente è qualcuno di Autonomia operaia di Bologna che ha dato questa notizia: comunque non potevano dire che lo aveva detto qualcuno di Autonomia operaia altrimenti lo avrebbero messo nei guai.

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Né Autonomia operaia né Romano Prodi si sono sentiti in dovere di smentire o di chiarire dopo le dichiarazioni dell’inossidabile senatore democristiano. Ma il covo di via Gradoli venne scoperto incredibilmente in un’altra circostanza, sempre durante il rapimento Moro. Una vicina di casa si accorse di una banale perdita d’acqua proveniente dall’abitazione del piano superiore. Così fu scoperta la base. Appena gli inquirenti capirono che si trattava di una base brigatista, incomprensibilmente dal loro punto di vista, dettero un’immediata risonanza mediatica al ritrovamento quando sarebbe bastato tenere segreta la cosa per tendere un semplice agguato e catturare così la primula rossa Moretti. Ma la circostanza più strana di questa scoperta è l’evidente intenzione di far individuare questa base. Morucci, abile mentitore di professione, dichiarerà a questo proposito che «la scoperta del covo di via Gradoli è avvenuta casualmente a causa del lento e progressivo allargarsi di una perdita interna al muro del bagno».23 La tesi di Morucci verrà ovviamente confermata da Moretti, mentre, Giuseppe Leonardi, il vigile del fuoco intervenuto il 18 aprile nel suo verbale dichiarò cose molto diverse: «Il danno era semplicemente provocato dalla doccia, del tipo telefono, rimasta aperta e rivolta contro il muro che faceva infiltrare l’acqua da dietro la vasca da bagno lungo il muro, danneggiando i solai sottostanti».24 Moretti era ridiventato sbadato? O più semplicemente qualcuno che sapeva (qualche infiltrato ad altissimo livello delle Br) voleva far scoprire la base per lanciare un messaggio all’opinione pubblica e per influire sulle trattative per la liberazione di Moro che in quel momento erano in pieno svolgimento, come vedremo più avanti. Un ulteriore particolare inquietante, mai chiarito, riguarda la macchina per la stampa usata dalle Br durante il sequestro, risultata poi proveniente dagli uffici dei servizi segreti. Ma un altro avvenimento è degno di grande attenzione: il ritorno in scena del Superclan e di Hyperion. Infatti sono stati ampiamente documentati l’arrivo in Italia e la permanenza di Simioni e della sua banda dal settembre ’77 per tutti i 55 giorni del sequestro Moro. Cioè, guarda caso, in un arco di tempo che va 23

F. Imposimato-S. Provvisionato, op. cit., p. 126.

24

Ibidem.

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dall’«inchiesta preliminare» svolta dai brigatisti e la preparazione dell’agguato fino alla fine dell’operazione terroristica. In tale periodo quelli dell’Hyperion aprirono tre uffici, uno a Milano e due a Roma, e iniziarono un’attività di copertura editando una rivista che, ironia della sorte, si chiamava Nuova Polizia. Gli ex Superclan svolgevano ufficialmente un lavoro promozionale e di abbonamenti alla rivista. Sarà un puro caso, ma la sede della nuova attività in via Nicotera a Roma si trovava nello stesso edificio in cui erano domiciliate attività di copertura del Sismi. La casualità non ha limiti e va sempre nella stessa direzione: è il caso di un certo Luigi Perini, che aveva collaborato con l’Hyperion, il quale decise di aprire un’attività in via Pio Foà, proprio dove era stata allestita la tipografia delle Brigate rosse, luogo frequentato usualmente anche da Moretti. Tra l’altro, questa stessa tipografia era stata perquisita molto superficialmente dalle forze dell’ordine durante il sequestro e solo dopo la morte di Moro fu scoperta la sua vera attività. Riepilogando: un gruppo guidato da un ambiguo personaggio come Simioni, uomo dalle spericolate relazioni con i servizi segreti non solo italiani e definito dall’opera di controinformazione della sinistra extraparlamentare milanese una spia – il quale a sua volta fu in relazione con Moretti –, aprì un’attività in Italia proprio in concomitanza con l’azione più clamorosa condotta dal terrorismo brigatista. Solo semplici coincidenze? Ci troviamo di fronte a una tale montagna di indizi che, se è vero che più indizi fanno una prova – come si usa dire in termini giallistici – in questo caso non abbiamo che l’imbarazzo della scelta. Ciò che emerge nitidamente è che le Brigate rosse da sole non avrebbero avuto quella «potenza geometrica» frettolosamente esaltata da Piperno. Tutto lascia supporre che le Br fossero piene di infiltrati e dirette più che probabilmente da interessi di Stato. Dunque è ipotizzabile che la convergenza di intenti e di interessi fosse non solo fattuale. Infatti parallelamente qualcosa accadeva nelle stanze dei palazzi del potere democratico. La repubblica democratica italiana, come stiamo vedendo, ha un suo fondamento costitutivo nell’occultamento sistematico della verità.

Il Comitato di crisi di Cossiga È necessario inquadrare queste vicende, anche solo a volo d’uccello, nel contesto internazionale degli anni Settanta e Ottanta in cui si svolgono. Non senza un significato il signor 77

Cossiga insiste sempre nel giustificare gli orrendi scheletri nell’armadio periodicamente scoperti con la tesi che comunque si «era in piena Guerra fredda». Così è stata giustificata Gladio, la struttura militare clandestina legata ai servizi della potenza democratica statunitense, così si giustificano i segreti e le omertà statali. Soprattutto si considera la lotta al terrorismo parte di questo scontro mondiale tra democrazia e comunismo. In qualche modo le posizioni della solerte Rossanda e degli stessi ex terroristi alla fin fine coincidono con le frequenti esternazioni dell’ex presidente della Repubblica. Tali tesi partono da premesse false, scambiano per realtà la convergente propaganda dello Stato democratico americano alla guida del sistema politico globale e della burocrazia facente capo al blocco sovietico, cioè avallano l’idea del senso comune che era in corso una «guerra fredda» tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Secondo tale visione, questa guerra aveva un riflesso in ogni paese. In realtà il sistema democratico globale sorge dopo il conflitto bellico basandosi proprio sulla guerra e dispiegando il massimo della potenza distruttiva e del terrore. L’incalcolabile potenziale americano è di per sé un fattore qualitativamente, oltre che quantitativamente, sconvolgente degli equilibri planetari. Si manifesta con ritardo, però con funzione decisiva, nella Grande guerra per dispiegarsi in tutta la sua forza devastante vent’anni dopo. L’immediatezza è pari alla potenza: la capacità umana si astrae e si realizza oltre ogni limite immaginato, paventato o sognato, fino ad allora. Il fungo atomico di Hiroshima, nel suo macabro e irreale disegno, è l’emblema del grado irraggiungibile della distruttività umana a stelle e strisce.25

Il sistema democratico globale a dominazione Usa sorto dal dopoguerra coinvolge in chiave subalterna, ma interna al sistema e alla sua logica, l’impero burocratico sovietico. Non sono solo gli accordi già di per sé significativi di Yalta e Potsdam, ma è tutto l’incedere del dopoguerra a dimostrare che, al di là dei momentanei e fisiologici motivi di conflitto e contrasto, un’alleanza di fondo tra la democrazia statunitense e la burocrazia del Cremlino ha funzionato su scala planetaria per mantenere l’ordine mondiale e il rispetto delle aree di influenza. Le rivoluzioni popolari e democratiche del 1989, pur nella loro infinita debolezza, colpendo la «dependance» burocratica 25

Dario Renzi, «Di un altro socialismo», p. 81.

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hanno inflitto un duro colpo al sistema democratico globale a dominanza Usa e hanno svelato l’inganno. Diversamente da come qualcuno aveva precocemente vaticinato, gli sviluppi successivi, segnati dall’aggravarsi delle vicende belliche, hanno dimostrato l’acutizzarsi della crisi del sistema, non già il suo trionfo definitivo. In questo contesto ad esempio si spiegano le relazioni sottobanco tra gli Stati, spesso tramite i loro servizi segreti, e gli scambi di favore in ogni caso parte di una collaborazione mondiale per mantenere l’ordine, in special modo contro le spinte delle rivoluzioni che potevano evolvere in un senso socialista. Due esempi eclatanti in tal senso: gli Stati Uniti protestarono per le invasioni militari sovietiche tese a mantenere l’ordine nell’impero burocratico, ma non mossero un dito per opporvisi; l’Urss aiutò e fu complice degli Stati Uniti nel golpe militare in Cile. Poi ciascuno di essi utilizzò questi eventi per fare propaganda. Alla luce di queste considerazioni non possono non colpire le recenti dichiarazioni di Bassan Abu Shariff, portavoce del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), organizzazione stalinista legata al blocco sovietico, e a suo tempo consigliere speciale di Yasser Arafat. Il portavoce del Fplp, in un’intervista al Corriere della Sera del 14 agosto 2008, ha tranquillamente dichiarato che la sua organizzazione aveva un accordo sia con i brigatisti che con i servizi segreti dello Stato italiano. Un accordo che a suo tempo era stato stipulato da Moro: lo statista democristiano non casualmente ne fa cenno in alcune delle numerose lettere scritte dal carcere brigatista. Abu Shariff dichiara: «Ho seguito personalmente le trattative per l’accordo. Moro era un grande uomo, un vero patriota… Abbiamo discusso i dettagli dell’accordo con un ammiraglio, gente dei servizi segreti». Le dichiarazioni del leader palestinese sono avvalorate da Cossiga che in una lettera inviata al quotidiano Il Giornale del 18 agosto 2008 a giustificazione di tale accordo aggiunge: «Perché, come Aldo Moro, sapevamo che esisteva a fondamento della Repubblica e a tutela della comunità civile una “ragion di Stato” che poteva e doveva portare in situazioni emergenziali a valicare i limiti della stretta legalità». Questa vicenda dice tante cose della natura del Fplp e della sua direzione, politicamente disposta ad operare accordi sottobanco con nemici dichiarati del popolo palestinese e al con79

tempo con un gruppo reazionario come le Br. Una logica disastrosa per le aspirazioni e lo straordinario coraggio di questo popolo che lotta da tanti anni contro l’occupazione sionista delle proprie terre. Aggiunge un ulteriore tassello alla conoscenza dei legami con i servizi segreti: è ipotizzabile che le Br, che erano in relazione con il Fplp, non sapessero di questi accordi? Ciò sembra improbabile visto che nel 1979 Moretti, come egli stesso racconta nel libro intervista della Rossanda e della Mosca, poté tranquillamente trasportare in barca a vela armi, destinate al Fplp e alle Br, navigando indisturbato nel Mediterraneo, grazie alla salvaguardia derivante dall’accordo stipulato da Shariff con i servizi segreti. La logica della «ragione di Stato» a cui fa riferimento Cossiga è un ulteriore fondamento della democrazia e della repubblica italiana. In base a questa «ragione» hanno coperto e tuttora coprono stragi, hanno depistato indagini, commesso crimini, il tutto sigillato dal «segreto di Stato». Questa logica introduce e contribuisce a spiegare l’attitudine delle istituzioni dello Stato democratico italiano nel caso Moro. L’apparente digressione dal tema principale del libro è utile per collocare e forse comprendere come in queste vicende entrano diversi protagonisti: fondamentalmente i servizi segreti italiani, ma come abbiamo visto e vedremo, anche quelli francesi, statunitensi, israeliani e sovietici, tutti animati, anche se a volte in modo contrastante tra loro, da quella «ragione di Stato» invocata da Cossiga. Stiamo parlando di gente prezzolata, irriducibile amica della ristretta cerchia dei più ricchi e potenti e quindi nemica dei più e dei più oppressi, gente disposta ad usare ogni mezzo per difendere l’onnipotenza estraniante e oppressiva dei propri mostruosi edifici statali. Ma torniamo alle vicende. In coincidenza con la strage di via Fani si stava insediando il nuovo governo, un esecutivo di unità nazionale presieduto da Andreotti con l’astensione e l’appoggio esterno del Pci. A causa del rapimento, il clima nel paese era di grande confusione, incertezza e quasi incredulità. Da quel momento iniziò un processo in cui l’attacco terrorista fu usato strumentalmente per portare a compimento un’opera di normalizzazione democratica contro i movimenti. Mentre le forze di sicurezza si erano mostrate tolleranti e compiacenti nei confronti dei terroristi, la campagna ideologica antiterroristica fu fortissima. Con il pretesto del terrorismo vennero varate leggi speciali liberticide che assegnavano alle forze dell’ordine una totale arbitrarietà, si cominciarono a criminalizzare i movimenti 80

e le avanguardie che fuoriscivano dal quadro della solidarietà nazionale. Nei mesi successivi al sequestro decine di avanguardie furono licenziate e processate con accuse di fiancheggiamento del terrorismo, nella maggioranza dei casi rivelatesi totalmente infondate. Si approfittò dell’occasione per ridare credibilità alle forze dell’ordine mobilitate per difendere la democrazia minacciata dall’attacco terrorista. Mentre si stringeva questa tenaglia nei confronti dei movimenti tesa a reprimerli o imbavagliarli all’interno della logica della solidarietà nazionale, Andreotti e Cossiga tessevano le fila della ragione di Stato. Immediatamente dopo il rapimento di Moro, sulla base di una disposizione di Andreotti, Cossiga nominò un Comitato di crisi, suddiviso in tre sezioni: un comitato tecnico-politico per il coordinamento dell’attività delle forze di polizia, un comitato denominato di intelligence che coordinava i vari settori dei servizi segreti ed infine un comitato di esperti – che alla fine sarà il più importante – composto da Franco Ferracuti, criminologo, Stefano Silvestri, esperto di strategia militare, Steve Pieczenik, ex consigliere di Henry Kissinger quando era segretario di Stato degli Usa, e Vincenzo Cappelletti, vicedirettore dell’Enciclopedia italiana. L’attività di quest’ultimo comitato risulterà particolarmente importante e oscura, tanto che anni dopo, di fronte alla mancanza di documentazione della sua attività, il presidente della Commissione stragi del parlamento dichiarerà che «il comitato di crisi ha rappresentato un unicum. (…) La mancanza di riscontri documentali agli atti del ministro dell’Interno accresce i dubbi di ingerenze esterne nella gestione del sequestro Moro».26 Per decisione di Cossiga e di Andreotti il Comitato di crisi assunse il controllo pieno di tutte le indagini, compiendo un’inedita esautorazione delle forze inquirenti e della magistratura. Il ministro dell’Interno può così conoscere, in ogni dettaglio, le mosse dei magistrati che indagano sulla vicenda e controllarne le iniziative per bloccarle. Il pretesto è che possono danneggiare le indagini e mettere in pericolo la vita di Moro. In realtà è vero il contrario, perché quelle iniziative possono salvare Moro.27

26

Relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi del 22 aprile 1992.

27

F. Imposimato-S. Provvisionato, op.cit., p. 73.

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Si assistette così a tutta un’impressionante girandola di fatti sconcertanti, di depistaggi e di azioni all’apparenza incomprensibili come il rastrellamento del paese di Gradoli. Clamorosamente, alla testa del Comitato di crisi e dei servizi segreti, cioè di chi in base alle decisioni del governo controllava le indagini e le indirizzava, c’erano personaggi tutti iscritti alla loggia massonica P2 di Licio Gelli. Ma questo non verrà mai chiarito e spiegato né in sede giudiziaria né in altri ambiti: su questo è calato il più agghiacciante silenzio di Stato, di cui i brigatisti sono tuttora complici attivi. Prima di morire Ferracuti, membro del comitato degli esperti e iscritto alla P2, aveva ammesso di fronte alla Commissione stragi che la documentazione dell’attività svolta dai consiglieri di Cossiga durante i 55 giorni del sequestro Moro era in gran parte sparita. Più recentemente Pieczenik, altro eminente personaggio di questo comitato, ha rilasciato una clamorosa intervista al giornalista francese Emmanuel Amara, che quest’ultimo pubblica integralmente in un libro dall’eloquente titolo Abbiamo ucciso Aldo Moro. In questa intervista il cinico e arrogante ex consigliere di Kissinger si vanta di aver difeso la democrazia in Italia e spiega come la ragione di Stato sia prioritaria su qualunque considerazione che ponga al centro la difesa della vita umana, anche di quella di un illustre esponente di questo stesso Stato. È la logica di morte che spietatamente presiede la politica democratica totalitaria. Così dichiara: La più grande ironia di tutta questa storia, ma anche il dramma più grande, è che le Brigate rosse, che io rispetto perché erano brillanti sul piano tattico, sul piano strategico hanno commesso un grande errore. Non si aspettavano di avere a che fare con un altro terrorista come me che li ha usati e li ha manipolati psicologicamente per intrappolarli. Avrebbero potuto facilmente uscire da quella trappola, ma non potevano. Non potevano fare altro che uccidere Aldo Moro. (…) Francesco Cossiga ha approvato la quasi totalità delle mie scelte e delle mie proposte. Moro in quei momenti era disperato e doveva senza dubbio fare ai suoi carcerieri rivelazioni importanti su uomini politici come Andreotti. (…) Sono stato io, lo confesso, a preparare la manipolazione strategica che ha portato alla morte di Aldo Moro, allo scopo di stabilizzare la situazione italiana. (…) Io li ho abbindolati a tal punto che a loro non restava altro che uccidere il prigioniero (…). Io non avevo rapporti con Andreotti, ma immagino che Cossiga lo tenesse informato. La decisione di far uccidere Moro non è stata una decisone presa alla leggera.28 28

Intervista riportata in F. Imposimato-S. Provvisionato, op. cit., pp. 119 e seg.

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Queste agghiaccianti rivelazioni – non smentite da nessuno, né da Cossiga né dai brigatisti – sono cadute nel vuoto e nell’indifferenza di una stampa oramai totalmente asservita ai poteri statali e alle verità di comodo, ma forse in qualche altra situazione avrebbero fatto esplodere un enorme scandalo. Stiamo parlando di un personaggio che ha avuto un ruolo di primo piano durante la vicenda Moro. Secondo il magistrato Imposimato, le sue affermazioni incrociate con le prove raccolte dalla Commissione parlamentare stragi corrispondono sostanzialmente alla verità: «Queste dichiarazioni, infatti, avrebbero scarso valore senza il sostegno di una documentazione accertata e depositata. Eccola. Si tratta di tre documenti trasmessi dal ministro dell’Interno Scotti alla Commissione stragi nel 1992, materiale che però, stranamente, è stato poco analizzato, se non addirittura dimenticato».29 Questo zelante consigliere di Stato ha svelato quindi con il suo linguaggio freddamente burocratico ed allusivo che le Brigate rosse durante il sequestro Moro sono state eterodirette dai servizi e dalle più alte cariche del governo della repubblica. Stiamo parlando di Cossiga e Andreotti, due uomini che hanno incarnato gran parte delle vicende della repubblica democratica, e questa è una clamorosa ulteriore dimostrazione che non basta parlare di qualche deviazione dei servizi segreti. Andare a fondo su questa vicenda significa comprendere la reale essenza e natura dello Stato democratico e delle stesse Brigate rosse. La ragione di Stato che ha spinto alla morte Moro è la stessa che ha fatto calare in Italia un assordante silenzio su questa vicenda, è la stessa di piazza Fontana, Ustica, dell’Italicus e delle stragi, che reclamano verità e giustizia. Lo Stato democratico italiano è anche lo Stato delle stragi impunite, del terrore e del terrorismo.

La trattativa e la morte di Aldo Moro «L’interrogatorio, sui contenuti del quale abbiamo già detto, prosegue con la più completa collaborazione del prigioniero. (…) Le informazioni che abbiamo così modo di recepire, una volta verificate verranno rese note al movimento rivoluzionario (…). Niente deve essere nascosto al popolo».30 29

Ibidem.

30

Dal comunicato numero 3 del 29 marzo 1978 delle Brigate rosse durante il sequestro Moro.

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All’inizio del rapimento i brigatisti preannunciarono con molta chiarezza che avrebbero resi pubblici gli interrogatori a Moro. I terroristi fanno politica, quindi mentono. Questi interrogatori con tutte le rivelazioni dell’ex statista democristiano sono state rigorosamente tenute segrete, così come il memoriale che Moro ha meticolosamente scritto in quei 55 giorni. A distanza di tanti anni Moretti e soci hanno dato delle spiegazioni francamente sorprendenti, coprendo con banali bugie le reali ragioni che li hanno spinti a tacere. Questa è la patetica giustificazione del capo brigatista: «Non abbiamo le chiavi di lettura per valutare quelle rivelazioni. Moro parla in cifra, annega le cose concrete in un oceano di genericità. Gladio ad esempio, lo noti ora, quindici anni dopo, quando ne hanno parlato Andreotti e Cossiga».31 Queste sconcertanti spiegazioni di Moretti conducono a pensare a due ipotesi. Se le sue affermazioni sono vere è certamente difficile che un’organizzazione così sprovveduta riesca nella clamorosa impresa del rapimento e dell’uccisione di Moro. Se invece sono false, ed è l’ipotesi più probabile, i brigatisti hanno scelto così perché spinti da ragioni coincidenti, perlomeno fattualmente, con settori dell’apparato statale estremamente interessati a secretare le rivelazioni di Moro. In ogni caso, la risultante di tutto ciò è che ancora oggi una gran parte di questo materiale è sconosciuto. In realtà Moro, che era un politico consumato e aveva una profonda conoscenza dei meccanismi statali e del reale funzionamento delle stanze del potere, durante la prigionia operò una scelta politica, per questo scrisse il memoriale e una quantità impressionante di lettere. Moro sapeva – vedi anche l’accordo sottobanco da lui sottoscritto con il Fronte popolare di liberazione della Palestina – che al di là delle dichiarazioni pubbliche è prassi degli Stati trattare e stipulare accordi segreti. Lo statista democristiano avviò così una lucida strategia per salvarsi la vita. Decise di mettere nelle mani dei brigatisti un materiale esplosivo contenente i segreti di Stato (tra cui la rivelazione dell’esistenza della struttura clandestina Gladio, all’epoca rigorosamente celata) affinché lo potessero usare nella trattativa con lo Stato. 31

M. Moretti, op. cit., p. 159.

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Non è casuale che il Comitato di crisi dichiarò che Moro non era più lui e che in caso di una sua liberazione era già stato predisposto addirittura un internamento in una casa di cura. Le rivelazioni di Pieczenik e Ferracuti, appartenenti al comitato degli esperti di Cossiga, confermano che questa strategia di delegittimazione di Moro era stata decisa a tavolino insieme all’allora ministro dell’Interno. Ma i brigatisti non usarono né le rivelazioni tratte dall’interrogatorio di Moro né tantomeno il memoriale. Al di là dei loro roboanti proclami, durante e dopo la fine di questa vicenda i brigatisti, così solitamente loquaci, su questo punto rimarranno silenziosi o offriranno penose giustificazioni come quelle di Moretti. In realtà, sembra proprio che durante il rapimento ci siano state diverse trattative, coinvolgendo diversi ambiti e conoscenze. Il Psi era apertamente favorevole ad aprire una trattativa per salvare la vita di Moro e per tale motivo esponenti di questo partito contattarono Lanfranco Pace e Piperno dell’area dell’Autonomia operaia. Questi avviarono una serie di incontri con Morucci per intavolare una delle tante trattative, che in questo caso non avrà nessun esito. Certo, viene da interrogarsi sui motivi per cui le forze dell’ordine, pur essendo a conoscenza della trattativa, decisero di non pedinare i due autonomi che li avrebbero condotti con una certa facilità dai brigatisti. Gli autonomi furono attivissimi nelle trattative e si dimostrarono ricchi di risorse e conoscenze sia negli ambiti brigatisti che della magistratura. Parallelamente Daniele Pifano, leader dell’Autonomia operaia romana, incontrò più volte il magistrato della repubblica Claudio Vitalone, che in seguito diventerà parlamentare democristiano della corrente andreottiana e che è sempre stato in ottimi rapporti con Cossiga. «A Vitalone, Pifano, chiede un colloquio riservato per l’indomani, quando gli conferma che lo scambio di “Moro contro uno” è per le Brigate rosse “una soluzione praticabile”».32 Ma queste trattative – che pure ci sono – falliscono nel tentativo di salvare Moro. L’ipotesi più probabile è che di trattative in corso ce ne fossero numerose, ma la più importante e quella decisiva veniva condotta dai vertici più alti dello Stato in assoluta segretezza, attraverso più che probabili incontri e messaggi privati. E appare evidente che il centro della trattativa più 32

F. Imposimato-S. Provvisionato, op. cit., p. 308.

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importante non è la vita di Moro, ma sono le sue carte, le sue rivelazioni, che devono restare segrete. Intanto i servizi segreti hanno in pugno le Br. In questo quadro si può leggere tutta una serie di strani avvenimenti trattati precedentemente. Ad esempio, la seduta spiritica con la rivelazione di via Gradoli, con la conseguente decisione di perquisire il paese e non la via, fu un segnale di via libera ai rapitori. Il «casuale» ritrovamento della base sempre di via Gradoli fu un avvertimento molto preciso: «vi abbiamo in pugno, sappiamo dove siete e se non fate ciò che abbiamo concordato potremmo farla finita con tutti, se non seguite le nostre indicazioni». Uno dei punti chiave di questa strategia è il falso comunicato numero 7 delle Brigate rosse, in cui si annuncia che Moro è stato ucciso e gettato nel lago della Duchessa. Il falso comunicato, emesso il 18 aprile, lo stesso giorno della scoperta del covo di via Gradoli, fu assunto con grande credibilità dalle forze dell’ordine e dai mass media. In seguito ad esso ci fu una grande mobilitazione e le autorità misero in piedi una gigantesca messa in scena ispezionando con sub e palombari il fondo del limaccioso lago. Successivamente si apprese che il falso comunicato in realtà fu realizzato dalla banda della Magliana sotto la regia del Viminale e dei servizi segreti. Il giudice Luciano Infelisi, incalzato dalla Commissione Moro, rivelerà che l’idea del falso comunicato era venuta proprio a Vitalone. È significativo che sarà proprio la polizia scientifica a ritenere attendibile il comunicato. Sempre Pieczenik in un’intervista del 2006 ha rivelato: Abbiamo allora messo in campo un’operazione psicologica. Questa operazione è consistita nel far uscire un falso comunicato nel quale la morte di Moro era annunciata in un luogo dove il suo cadavere poteva essere trovato. Di questa operazione non so altro perché io non ho seguito direttamente la sua preparazione che, comunque, era stata decisa all’interno del Comitato di crisi.33

Dunque con il falso comunicato c’era un messaggio chiaro ai terroristi: la trattativa è finita, dovete uccidere Aldo Moro. Nelle sue ultime lettere lo statista democristiano sembrava consapevole che oramai il suo destino non era più nelle mani delle Brigate rosse. Le sue lettere sono chiarissime al proposito e quando capì l’imminente drammatico epilogo, scrisse in 33

Idem, p. 119.

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modo estremamente chiaro vergando le precise responsabilità della Democrazia cristiana e dello Stato per la sua morte. Nelle sue ultime lettere Moro si dimise dalla Dc e chiese che non ci fossero rappresentanti dello Stato al suo funerale: «E, nel caso che mi riguarda, è la mia condanna a morte, sostanzialmente avallata dalla Dc (…). Muoio, se così deciderà il mio partito, nella pienezza della mia fede cristiana».34 Moro nelle ultime lettere non citò più nemmeno le Brigate rosse, riteneva che la sua vita fosse in mano allo Stato e alla Dc. A meno che non si ritenga che Moro fosse diventato pazzo o plagiato dai brigatisti, cosa smentita dai suoi più intimi amici che hanno letto le sue lettere, si può ragionevolmente pensare che, vista la sua esperienza, avesse capito chi in realtà detenesse il potere di decidere sulla sua vita. Abbiamo dunque visto come il Comitato di crisi voluto da Cossiga contribuì in maniera decisiva a pilotare le Br. Rimane un interrogativo: potevano realizzare un simile piano senza disporre di infiltrati ai livelli più alti della direzione brigatista? Il 9 maggio alle ore 13:30 il cadavere di Moro venne ritrovato in via Caetani, tra via delle Botteghe oscure e piazza del Gesù, sedi nazionali del Pci e della Dc, in una Renault 4 rossa. Ancora una volta colpisce la facilità con cui i brigatisti riuscirono ad agire indisturbati in pieno giorno e in una zona centrale di Roma nonostante gli asfissianti controlli operati in quei giorni dalle forze dell’ordine. Curcio, a nome di tutti i brigatisti processati nel maxi processo a Torino, rivendicò l’uccisione di Moro come «il più alto grado di umanità in una società divisa in classi». In questa frase è riassunta l’immensa responsabilità storica di tutti i brigatisti «vecchi» e «nuovi», il loro carattere integralmente reazionario e la loro natura borghese che fa coincidere la più elevata umanità con la morte. Una logica di morte tipica del rovesciamento borghese che fa primeggiare quest’ultima sulla vita, mentre qualunque prospettiva di liberazione dovrebbe prendere le mosse proprio dalla centralità della vita come presupposto fondamentale per l’autoemancipazione, a maggior ragione in una società dominata e schiacciata dai diversi poteri oppressivi. La dichiarazione di Curcio dovrebbe di per sé motivare uno spartiacque tra i terroristi e chi cerca autenticamente una prospettiva di liberazione di tutta l’umanità. 34

Aldo Moro, Lettere dalla prigione, p. 142 e seg.

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Il memoriale e il generale Dalla Chiesa Le carte e il memoriale di Moro scottavano, contenevano dichiarazioni gravissime sulle attività criminose occulte di personaggi chiave della Prima repubblica. I brigatisti si sono guardati bene dal renderle pubbliche e con ogni probabilità le hanno usate per continuare a trattare con lo Stato. Dopo la morte di Moro, nell’agosto del 1978, l’inossidabile Andreotti, allora Presidente del consiglio, istituì un nucleo antiterrorismo affidando l’incarico al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Così il generale spiegava ad Andreotti le ferree regole del suo nucleo: Ho in mente un’organizzazione praticamente clandestina (…) voglio pescare dai carabinieri, dalla guardia di finanza e dalla polizia non più di una trentina di ufficiali disposti a tutto. (…) Li disloco in tutta Italia, dove dico io, come li voglio io, completamente ai miei ordini. Non devono avere un nome, nessuna identità, non devono rispondere a nessuno del loro operato se non a me. Nessuno deve interferire. Nessuno deve sapere cosa sto facendo. Tranne lei, signor presidente del Consiglio.35

Il capitano Roberto Arlati, che faceva parte di quel nucleo, ricorda così le parole di Dalla Chiesa la prima volta che riunì la squadra speciale: «Da questo momento nessuno di voi ha più un nome, né famiglia, né amici. Non avete più una casa e nemmeno una città di residenza. (…) Da questo momento dovete considerarvi in clandestinità».36 Il decreto firmato da Andreotti concedeva la massima discrezionalità agli uomini di Dalla Chiesa. Nessuno doveva sapere chi erano, non dovevano esporsi pubblicamente in prima persona; per questa ragione non potevano firmare verbali di sequestro di alcun documento prelevato in una base brigatista. Praticamente la squadra speciale del generale dei carabinieri assunse specularmente gli stessi criteri di clandestinità dei terroristi ed era implicitamente autorizzata a commettere qualunque crimine, come nel caso della strage compiuta in via Fracchia a Genova nel 1979. Uno degli obiettivi fondamentali delle squadre speciali era il ritrovamento del memoriale, degli interrogatori e delle carte di Moro scritte durante il sequestro. 35

Roberto Arlati-Renzo Magosso, Le carte di Moro. Perché Tobagi, p. 69.

36

Idem, p. 68.

88

Nel giugno 1978 a Firenze l’autista di un autobus trovò un borsello dimenticato da qualcuno. Quella persona un po’ distratta era uno dei dirigenti più in vista delle Brigate rosse, Lauro Azzolini. Dentro il borsello venne trovata una pistola, diversi documenti e le chiavi di un appartamento di Milano, sito in via Monte Nevoso. Una vicenda singolare condusse, quindi, le forze dell’ordine ad avere chiavi e indirizzo di un covo delle Br. Il distratto Azzolini si dimenticò pure di avvisare di questa sua leggerezza i propri compagni, i quali, del tutto ignari, per un periodo di tempo vennero tenuti sotto controllo dal nucleo speciale di Dalla Chiesa che, nel frattempo, era entrato in azione. Dopo un lungo appostamento, il 1° ottobre 1978 le squadre speciali fecero irruzione nella base. Arrestarono Mantovani ed altri brigatisti; soprattutto trovarono una miniera di materiali e per la prima volta il memoriale Moro. Nel corso della perquisizione e dell’acquisizione dei documenti avvennero dei fatti strani. Gli uomini di Dalla Chiesa non potevano sequestrare niente, avrebbero dovuto consegnare tutto al magistrato titolare dell’inchiesta, cioè al sostituto procuratore Ferdinando Pomarici. Il memoriale e le carte trovate dovevano essere catalogate da altri che non facessero parte delle squadre del generale. Arlati, all’epoca agli ordini di Dalla Chiesa, ricorda però che all’improvviso, nel corso della catalogazione, intervenne il capitano Umberto Bonaventura, un uomo che successivamente farà carriera nel Sismi. Il Bonaventura, infrangendo ogni regola, chiese che gli venisse consegnato il memoriale e i materiali trovati. Scontrandosi con le resistenze di Arlati raccolse il memoriale e lo portò via con la scusa di dover fare delle fotocopie e l’assicurazione di riportarlo in breve tempo. Arlati si era visto restituire, la sera del 1° ottobre 1978, un malloppo che (occhio e croce) gli è sembrato un po’ più magro di quello che aveva affidato al mattino al capitano Bonaventura. (…) Arlati, aveva solo 32 anni e mancava forse un po’ d’esperienza ma non era certo ingenuo, si è ben reso conto che le quasi 7 ore trascorse tra il prelievo e la restituzione del dossier Moro erano decisamente un po’ troppe per una semplice operazione di fotocopiatura.37

Le carte successivamente consegnate al sostituto procuratore Pomarici non erano tutte quelle trovate nel covo. 37

Idem, p. 88.

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Inaspettatamente, dopo poco, il generale Dalla Chiesa ordinò ai propri uomini di ritirarsi dal covo, sembra per una polemica con il generale Giovambattista Palumbo. Questi, infatti, voleva far intervenire nel covo brigatista le forze territoriali e subentrare nell’operazione. Palumbo era iscritto alla P2. Sempre in via Monte Nevoso 22 anni dopo nel vano sotto il calorifero della cucina fu trovato «casualmente» un secondo dossier Moro, contenente molte più carte del primo ritrovamento. Dalla Chiesa portò a Roma tutto il materiale ritrovato per consegnarlo ad Andreotti. Ma il generale aveva altre relazioni e probabilmente non si fidava del senatore democristiano. Il generale dei carabinieri Dalla Chiesa aveva un legame con Mino Pecorelli, giornalista del settimanale Op, sempre ben informato su queste vicende. Le carte di Moro cominciarono misteriosamente a girare fino a giungere nel carcere di massima sicurezza di Cuneo, dove erano detenuti molti leader brigatisti. Il racconto del maresciallo Angelo Incandela, responsabile del carcere, è abbastanza eloquente al proposito: Non ricordo con precisione la data, ma alla fine del dicembre ’78, o nei primissimi giorni del ’79, Dalla Chiesa ed io stabilimmo di incontrarci. L’ufficiale mi disse di salire sull’Alfa, sul sedile posteriore trovai un altro uomo. Lo sconosciuto (che successivamente il maresciallo Incandela identificò come Mino Pecorelli, ndc) mi disse che gli scritti riguardanti il caso Moro erano entrati maliziosamente, usò proprio questo «termine», nel carcere. Dove Incandela riuscì effettivamente a ritrovare un involucro di carte sigillato, non l’aprì, lo consegnò al generale, ma suppose che fosse una copia del memoriale Moro.38

Il giornalista Pecorelli, uomo spregiudicato e con molti agganci eccellenti, era dunque a conoscenza del memoriale; non casualmente il settimanale da lui diretto era sempre ben informato sui misteri del caso Moro e ricco di affermazioni allusive. Secondo uno dei suoi collaboratori, Enzo Pugliese, il direttore di Op era in procinto di pubblicare il testo integrale di un «interrogatorio» inedito di Moro, comprensivo non solo delle risposte ma anche delle domande. L’agenzia Op ha sempre attaccato il clan degli andreottiani, in particolare il magistrato Claudio Vitalone.39 38

Pino Nicotri, Agli ordini del generale Dalla Chiesa. Il pentimento di Peci, il caso Moro e altri misteri degli anni ’80 nel racconto dell’agente segreto maresciallo Incandela, Editori Marsilio, Venezia 1994, cit. in R. Arlati-R. Magosso, op. cit., p. 30.

39

S. Flamigni, Convergenze parallele, p. 285.

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Il 20 marzo 1979 Pecorelli venne assassinato nel suo ufficio: il memoriale doveva rimanere segreto a tutti i costi. Si aprì così una catena impressionante di morti di persone che avevano avuto a che fare direttamente o indirettamente con il memoriale. Il 13 luglio 1979, nel corso di un agguato rivendicato dalle Br, venne assassinato il colonnello dei carabinieri Antonio Varisco, mentre era in procinto di abbandonare l’Arma. Il delitto mette fine ad un’indagine «privata» che Varisco stava conducendo autonomamente per scoprire i mandanti dell’uccisione del suo amico Mino Pecorelli. Nell’attentato è stata impiegata una bomba fumogena Energa, proveniente dal deposito della banda della Magliana (…). È stato documentato da sentenze giudiziarie come questo deposito fosse anche nella disponibilità dei servizi segreti piduisti, i quali li utilizzavano per le loro «operazioni sporche» con terroristi neri e criminalità organizzata.40

Il 17 novembre 2002, il senatore Andreotti è stato condannato dal tribunale di Perugia a 24 anni di prigione per essere il mandante dell’omicidio Pecorelli. Questa sentenza è stata successivamente annullata da quella della corte di cassazione del 30 ottobre 2003, che ha dichiarato innocente Andreotti. Non si sa dunque chi sia responsabile dell’omicidio di Pecorelli. Quello che è certo è che non potrà dire a nessuno ciò che sapeva sul caso Moro. Anche il generale Dalla Chiesa, che sicuramente conosceva il memoriale, fu assassinato assieme alla moglie Emanuela in un agguato mafioso nel settembre 1982. Successivamente, in più occasioni, la suocera di Dalla Chiesa ha dichiarato che la figlia le aveva rivelato che il generale si era tenuto una parte della documentazione di Moro per sé. Emanuela (…) mi spiegò che il generale aveva dato una parte del materiale trovato in via Monte Nevoso «a chi di dovere» (…) e soltanto una piccola parte all’onorevole Andreotti. Poi mia figlia aggiunse «Io so cose tremende ma non posso dirtele. Se te le raccontassi non ci potresti credere. Carlo mi ha fatto giurare di non dirle a nessuno».41

Da questa misteriosa catena di omicidi emerge un ulteriore elemento sulle caratteristiche del potere statale in Italia, a mio 40

Idem, p. 184.

41

R. Arlati-R. Magosso, op. cit., p. 88 e seg.

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avviso da approfondire per una necessaria opera di controinformazione. Il rapimento e l’omicidio di Moro svelano un inestricabile e complesso intreccio insieme a uno scontro interno tra diversi e distinti poteri e settori dello Stato e, inoltre, fa venire alla luce il legame tra questi e bande della criminalità organizzata. Ciò non è una deviazione del normale funzionamento dello Stato democratico, ma una peculiarità del modo in cui si è venuta costruendo la repubblica in Italia: il terrorismo è stato anche usato da diversi settori delle classi dominanti per regolare i conti di conflitti interni. Al riparo degli abbaglianti riflettori del gioco democratico ed elettorale c’è sempre lo scontro reale, spesso sanguinario, tenuto nascosto al popolo governato con la dicitura di «segreto di Stato». Tutto ciò è parte integrante del funzionamento fisiologico di tutti gli Stati. Specularmente a ciò, le Br mentre pubblicamente sostenevano che «non avrebbero nascosto niente al popolo», dietro le quinte si dimostrarono a proprio agio nell’aprire canali di comunicazione riservata con le plumbee stanze del potere. A rivelare questi legami è, tra gli altri, lo stesso fondatore delle Br, Curcio. Citare proprio lui mette, tra l’altro, al riparo dalle prevedibili accuse di «dietrologia» con le quali solitamente si chiude ogni discorso sui legami tra Br e poteri dello Stato: «D’altra parte Moretti mi ha raccontato che le Br avevano sinceramente sperato di riuscire ad arrivare in qualche modo a una soluzione accettabile del sequestro senza dover uccidere Moro. Per ottenere quel risultato si erano mosse in molte direzioni e avevano aperto diversi canali riservati».42 Al fondatore brigatista scappa una mezza verità, detta sempre in linguaggio «brigatese». Ma nessun brigatista ha mai rivelato fino ad ora quali erano questi «canali riservati». Più avanti vedremo perché. Con molta efficacia, ancora una volta, in un caustico corsivo scritto per la rubrica «Dilemmi» de La Comune, Trompe-laMort opera una generalizzazione teorica della verità delle perenni relazioni tra Stati e terroristi: Ma l’aspetto più significativo e sottaciuto riguarda il perché di queste perenni comunicazioni tra gli Stati e i terroristi, che vanno ben al di là delle opportunità politiche contingenti, riguardano direttamente le motivazioni originarie, i natali, la genealogia della poli42

Renato Curcio, A viso aperto, p. 159.

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tica moderna (anche democratica) che è intrisa sin dalle radici di terrorismo. Lo è per filiazione storico-concreta ed ideologica, per pratiche reiterate generalizzate e cristallizzate dalla rivoluzione francese del 1789 in poi. Mettere paura oltre ogni limite, terrorizzare i nemici, interni non meno che esterni, è la regola plumbea, la legge bronzea non scritta dell’inganno della rappresentatività democratica. Il leit-motiv di questa logica consiste nel potere di vita e di morte che gli Stati si arrogano e che esercitano, concretamente ed emblematicamente, attraverso la detenzione e l’esercizio di una violenza concentrata ed assoluta.43

Andrebbe scritta una storia della repubblica e dei suoi misteri. Quando si scopriranno i «segreti di Stato» ci troveremo di fronte al museo degli orrori. Ed è altrettanto significativo come, salvo rare eccezioni di singole personalità e studiosi, la sinistra italiana su questo punto taccia vergognosamente. La sinistra è intrisa di politica e quest’ultima rimanda sempre agli Stati, alla menzogna, alla violenza, anche se in alcuni casi ipocritamente mascherata. Non c’è da meravigliarsi quindi che in tempi più recenti, nella vicenda Calipari, abbiamo avuto un’eclatante dimostrazione di questa logica politica. In quel caso l’agente dei servizi segreti Nicola Calipari morì ucciso da un soldato statunitense nella fase finale della liberazione di Giuliana Sgrena, tenuta in ostaggio dai terroristi iracheni. Con tutto il rispetto per la persona ed operando sempre una distinzione tra questa e la figura e il ruolo istituzionale che ricopre in quel caso abbiamo assistito ad una spettacolare e triste raffigurazione nazional-popolare dello Stato e alla celebrazione dei servizi segreti italiani. Il coro nazional-popolare esaltò infatti proprio il ruolo e le funzioni dell’agente segreto. Con molta efficacia Sara Morace descrive questa vicenda che ha significato l’espressione di un vero e proprio crollo delle avanguardie politiche della sinistra in Italia. E invece nella sinistra nessuno tentenna, nessuno distingue, e si sollecita uno «scatto d’orgoglio del governo» (…). La patria, la bandiera, i servizi segreti, la polizia, l’orgoglio e la dignità nazionale: niente viene lasciato fuori e nessuno si chiama fuori. Persino disobbedienti e violentisti porgono il loro tributo «Non pensavano che un poliziotto potesse essere buono».44

43

Trompe-la-Mort «Verità nascoste della politica», La Comune, n. 83, 16 aprile 2007 (corsivo nell’originale).

44 Sara Morace, «Il crollo delle avanguardie», in Lettera di Utopia socialista, n. 58, 14 marzo 2005.

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L’esempio è solo l’espressione più estrema di una logica di fondo presente nella sinistra politica italiana – che in questa vicenda è esplosa senza freni – di sostanziale subalternità alle logiche sistemiche e di sostegno alla costituzione della repubblica. La sinistra politica è talmente subalterna che, quando emergono gli aspetti più cruenti e orribili del dominio statale democratico, questi vengono ricondotti alle deviazioni del normale funzionamento della democrazia o all’immancabile «pericolo fascista» o «complotto della Cia». Tale logica di fondo spiega, a mio avviso, il motivo di tanto silenzio nella sinistra italiana (con rare eccezioni di singole personalità) di fronte alle evidenti responsabilità dello Stato, perlomeno nella vicenda di Moro. Al contrario, tutte questi episodi dovrebbero farci aprire gli occhi sul reale funzionamento della repubblica democratica e sulla sue autentiche, non scritte, basi costitutive.

Da brigatisti a brigadieri rossi? Mi sono soffermato a lungo sulla vicenda del rapimento Moro proprio perché essa segna, a mio avviso, un cambio nelle Brigate rosse, nel quadro della loro natura già originariamente reazionaria e controrivoluzionaria. Dopo il rapimento Moro proseguì una lunga serie di atti terroristi, mentre i movimenti erano paralizzati dalla tenaglia stretta su di loro. Gli anni Ottanta sono famosi per essere quelli del riflusso dall’impegno, del ritorno alla «normalità» di tante persone che genuinamente si erano impegnate sperando in una trasformazione della vita e della società. In quegli anni cominciò a prevalere l’egoismo, l’individualismo, si iniziarono a incrinare i legami di solidarietà costruiti nelle lotte e nei movimenti. Fu un disgregarsi dell’impegno che ovviamente chiama in causa le sinistre politiche e la loro impotenza a rispondere ai bisogni umani più profondi della gente comune. Si aprì una fase di caos coscienziale e si approfondì una crisi culturale. C’era chi tornava semplicemente a casa, aspettando forse tempi migliori; chi cercava un impegno più specifico, certamente lodevole, negli ambiti del volontariato e delle attività solidali, ma rinunciava ad un impegno per una trasformazione più complessiva della realtà. C’era chi, dopo anni di impegno alienato nella politica, scopriva «l’edonismo consumista» e chi si lasciava annichilire dalle logiche autodistruttive delle droghe pesanti. C’era chi, come gran parte dei 94

leader di Lotta continua e della sinistra extraparlamentare, ricercava e trovava un comodo riparo nelle poltrone dei partiti politici parlamentari, specie, in quel momento, nel rampante Partito socialista di Craxi e Claudio Martelli. C’era chi sfruttava l’esperienza politica precedente per diventare capo del personale e manager di grandi aziende. I brigatisti rossi hanno offerto il loro contributo a questa normalizzazione democratica che si accelerò dopo il rapimento Moro. D’altra parte ne trassero anche benefici e, a smentita ulteriore di tutti coloro che teorizzano, Rossanda in testa, il legame tra brigatismo e movimenti, è significativo che questo sia il periodo di maggior fulgore del terrorismo, il periodo in cui esso trova basi per reclutare sostenitori nella disgregazione e disperazione. L’apogeo del terrorismo corrisponde all’inizio di un disordinato riflusso dall’impegno di migliaia di avanguardie. Questo basterebbe già per caratterizzare la loro natura geneticamente contrapposta allo sviluppo dei movimenti e del protagonismo. Le vicende, fin qui trattate, dimostrano come con il rapimento e il sequestro dell’onorevole Moro si rese più evidente una convergenza tra l’azione brigatista e quella dello Stato democratico e dei suoi servizi segreti. Tra i terroristi, come è ampiamente documentato, erano molti gli infiltrati dei servizi, dei carabinieri agli ordini di Dalla Chiesa, della polizia. Quindi la domanda posta all’inizio di questo paragrafo è più che legittima e suffragata da evidenti prove. I più seri e documentati studiosi di questo fenomeno riconoscono il legame tra brigatisti e servizi segreti. Secondo Galli, Moretti e poi Senzani, suo successore, erano brigatisti autentici che avevano creduto di poter usare strumentalmente i servizi, con i quali i legami sono provati. Per entrambi (Moretti e Senzani, nda) si è parlato di rapporti con i servizi. (…) Ma ambedue hanno probabilmente ritenuto di poter strumentalizzare i servizi, mentre sono questi ad averli in parte utilizzati (che Senzani abbia «incrociato» i servizi è un’ammissione della quale mi ha parlato il suo avvocato, Nino Falastò, che, in assenza di richiesti, ulteriori chiarimenti, rimise il mandato).45

Su Senzani tornerò più avanti. Per quanto riguarda Moretti, in ogni caso, anche accettando l’ipotesi formulata da Galli, rimane la contundente realtà che sotto la sua direzione i briga45

Giorgio Galli, Piombo rosso, p. 198.

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tisti per logica, convergenze attive, metodi e obiettivi diventano in ogni caso dei «brigadieri rossi» al servizio della normalizzazione democratica della Prima repubblica. Forse, usando un linguaggio politico, si può dire che i servizi erano una «componente» interna delle Brigate rosse morettiane, si potrebbe aggiungere, maliziosamente, abbastanza influente. Quello che nessuno si è mai chiesto è perché le Br, così «preparate e potenti» tanto da «tenere in scacco» le forze repressive, non hanno mai scoperto, individuato ed espulso nessun infiltrato. Una delle poche occasioni in cui lo hanno fatto è stato quando fu attuato un vero e proprio linciaggio nei confronti di Natalia Ligas, che invece era un’autentica brigatista. In quell’occasione per denunciare la «spia» Ligas i brigatisti uccisero gratuitamente due guardie giurate con il solo fine di far conoscere il comunicato dove si sostenevano le accuse nei confronti della brigatista, che appellavano come «belva».

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PARABOLA FINALE E FINE DELLE BR?

Le divisioni e lo strano arresto di Moretti Dopo l’omicidio di Aldo Moro si scatenò una lunga scia di attentati. Nelle Brigate rosse si aprì una fase in cui cominciarono ad emergere contrasti e divisioni interne e scissioni. A Milano la colonna Walter Alasia si distaccò progressivamente, fino a giungere alla rottura e alla separazione. Questa criticava il verticismo della direzione di Mario Moretti e auspicava un ritorno alle origini e un maggior legame tra le azioni brigatiste e la vita nelle fabbriche. Nazionalmente si profilò una divisone tra l’ala diretta da Moretti che diede vita alle Br-Partito comunista combattente e quella diretta dalla nuova figura emergente, Giovanni Senzani: le Br-Partito della guerriglia. Quest’ultima era appoggiata e sostenuta da Renato Curcio e dai leader storici in carcere. Stava così cominciando la parabola finale di quella fase del brigatismo caratterizzata anche da una frammentazione interna del gruppo. In quel momento le forze di polizia ritennero di dover stringere i tempi per cominciare ad assestare duri colpi ai brigatisti e chiudere questa fase. Avevano bisogno di riportare una vittoria da usare in chiave propagandistica per ridare credibilità allo Stato democratico e alle sue istituzioni repressive fregiandosi del merito di aver sconfitto il terrorismo. Puntualmente, proprio in questa fase, cominciarono a spuntare come funghi, tra le file dei brigatisti, i pentiti tra cui Patrizio Peci, il più famoso e quello che contribuì maggiormente ad assestare un colpo durissimo alla struttura delle Brigate rosse. Ma nonostante le divisioni interne, le Br mantenevano, un’unità di facciata tra le due componenti fondamentali: Moretti e Senzani idearono e realizzarono insieme il sequestro di Giovanni D’Urso, che a differenza di Moro, alla fine verrà liberato incolume. 97

In questo contesto il 4 aprile 1981 avvenne l’arresto di Moretti in circostanze un poco strane ed ambigue. Infatti, il capo inafferrabile e imprendibile, la primula «rossa», l’uomo che aveva gestito e diretto i 55 giorni del rapimento Moro e che girava tranquillamente in Italia e in Francia, si fece prendere cadendo in un banalissimo tranello. Era ridiventato nuovamente ingenuo ed imprudente. Il grande capo, di un’organizzazione che secondo alcuni aveva un’influenza di massa, si fece sorprendere insieme a Enrico Fenzi mentre andava ad un incontro con un ex tossicodipendente, un certo Renato Longo, ricattato ed informatore della polizia, assieme ad altri due «aspiranti» con il fine di reclutarli alle Br. Al secondo incontro con il Longo, Moretti trovò la polizia e docilmente si consegnò a loro dichiarandosi «prigioniero politico». Così lo stesso Longo ha ricostruito la dinamica dell’arresto del «mitico» capo brigatista: «È importante sottolineare che all’epoca io non ero iscritto alle Br. Si trattava di un semplice abboccamento, un approccio, così per la Volpi e il Fadda. Insomma non eravamo neanche reclute, ma aspiranti reclute».1 Un arresto un po’ rocambolesco. Solo tre anni dopo il clamoroso rapimento Moro il massimo dirigente delle super efficienti Brigate rosse è costretto ad andare direttamente a fare opera di proselitismo con un ex tossicodipendente. Un’espressione dell’esiguità estrema delle forze dei terroristi o un arresto patteggiato? Forse entrambe le cose.

Il partito guerriglia di Giovanni Senzani Sponsorizzato dal gruppo di leader storici in prigione, Giovanni Senzani prese la testa delle Br-Partito della guerriglia. La figura di Senzani presenta addirittura ancora più ambiguità di quelle del predecessore. È un criminologo proveniente da una famiglia benestante ed ex docente di criminologia alla facoltà di Magistero di Firenze. Come borsista del Cnr aveva svolto un lavoro di consulenza per il ministero della Giustizia ottenendo la possibilità di accedere alle carceri italiane. Il nuovo capo brigatista ha un itinerario biografico totalmente estraneo a qualunque 1

Testimonianza tratta da Giorgio Bocca, Noi terroristi, p. 271.

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movimento e discretamente interno alla frequentazione delle istituzioni statali. Ma ciò che più colpisce della figura del criminologo brigatista sono i tanti riscontri e testimonianze delle sue relazioni con i servizi segreti. Negli anni Settanta avrebbe condiviso il suo appartamento fiorentino con l’agente del Sismi Luciano Bellucci, con il quale comunque è provata una sua relazione. Il brigatista Roberto Buzzatti, in un memoriale inviato al giudice Rosario Priore il 15 dicembre 1982, ha affermato «di avere accompagnato Senzani in incontri alle stazioni di Ascoli Piceno e di Ancona con un ufficiale del Sismi, che dalla descrizione poteva essere il generale Musumeci (inquisito per “deviazioni” e depistaggio in relazione alla strage di Bologna)».2 Sono ancor più significative le dichiarazioni rilasciate dal vicequestore di Genova Arrigo Molinari alla commissione P2, riportate da Giorgio Galli: Nel 1978 ero stato autorizzato a frequentare la P2. Speravamo di scoprire nuclei delle Br. Sapevamo che Senzani faceva opera di proselitismo tra studenti e professori. Il 29 settembre del ’78 Molinari segnala i suoi sospetti al direttore generale dell’Ucigos e subito dopo invia un dossier allo stesso ministro dell’Interno. Un altro lo consegna al generale Dalla Chiesa. Appare sempre più chiaro che Senzani all’interno delle Br abbia fatto strani giochi ed è certo che tra una parte delle Br e parte dei servizi segreti il discorso era aperto, da tempo.3

Sempre Giorgio Galli è venuto in possesso di un documento riservato dei servizi segreti consegnatogli dal Molinari nel quale tra l’altro si afferma: In questo contesto appare l’uomo giusto, il grande automa che ancora una volta risolverà magistralmente le preoccupazioni del giostraio e della sua preziosa marionetta, Senzani, che amministra il gioco da parte «nostra» e da parte dell’eversione col collaudato sistema di dire alle Br che egli fa il doppio gioco ai danni del Sismi e al Sismi che egli fa il doppio gioco in danno delle Br.4

Il legame tra Senzani, i servizi e il ministero dell’Interno è stato talmente comprovato che Giovanni Pellegrino durante un’audizione della Commissione stragi del 18 ottobre 2000 ebbe un momento di scoramento e rivolgendosi a Molinari affer2

Giorgio Galli, Piombo rosso, p. 199.

3

Ibidem.

4

Idem, p. 200.

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mò: «Voglio sapere se lei, ex questore della Repubblica, si rende conto del sospetto che avanza. Lei in pratica ci sta dicendo che uno degli organizzatori del sequestro Moro era protetto dal ministro dell’Interno italiano, il quale era a conoscenza di quel ruolo». In effetti Senzani era sicuramente parte della direzione brigatista durante il sequestro Moro e fu addirittura fermato dal procuratore di Firenze Pierluigi Vigna nel 1979 per essere poi subito rilasciato, nonostante si sapessero molte cose su di lui e sulla sua attività. Un’ulteriore strana coincidenza che si aggiunge alle altre. Le Br di Senzani, con l’appoggio del nucleo storico, elaborarono una nuova strategia e in questo caso l’analisi dei documenti brigatisti è di estremo interesse. Perché dopo aver predicato a parole nei loro precedenti documenti della centralità della classe operaia ed essersi arrogati il diritto di parlare in suo nome, i terroristi esplicitarono la scelta di indirizzarsi verso settori di criminalità con l’obiettivo di stabilire un’alleanza per colpire congiuntamente «il cuore dello Stato». Venne elaborato un documento, L’albero del peccato, che esprimeva l’esigenza di rivolgersi verso le maggiori organizzazioni criminali, che secondo le Br in quel momento erano in crisi, cioè la mafia, la ’ndrangheta e la camorra. Mafia e ’ndrangheta sono organizzazioni di massa storicamente consolidatesi. La camorra, in via di disgregazione, sopravvive solo in alcune zone della Campania e delle Puglie, ma non ha pressoché nessun legame politico. Potere politico e vertici di mafia e ’ndrangheta sono legati strettamente. Il perno centrale (…) sono regioni, comuni, aziende di Stato, lavori pubblici. Col procedere della crisi e il taglio della spesa pubblica (…) sta definitivamente tramontando il tempo delle vacche grasse. (…) Questo vuol dire che si verifica anche uno spostamento maggiore delle attività verso pratiche extralegali, a livello individuale o di piccolo gruppo, che si autonomizzano dalle organizzazioni mafiose. (…) C’è da tener conto dell’origine proletaria rurale ed urbana della base di massa delle organizzazioni mafiose e dell’importanza che questo fattore riveste nel processo di trasformazione che dentro la crisi che stanno subendo e sempre più subiranno queste organizzazioni.5

Questa è un’ulteriore prova del carattere reazionario del brigatismo, della sua logica militare che lo condusse addirittura ad attribuire un segno progressivo alle attività criminali per il solo 5

Collettivo prigionieri comunisti delle Brigate rosse, L’albero del peccato, Edizioni Rebelles, Parigi 1982, pp. 39 e 43, cit. in G. Galli, Il partito armato, p. 294.

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fatto di doversi scontrare, contingentemente, con le forze repressive dello Stato. Una banda risicata di persone come erano le Br sostenne, dunque, che vi fosse la crisi definitiva di organizzazioni criminali che avevano una storia, una tradizione, un radicamento storico e soprattutto legami solidi con gli apparati dello Stato democratico. I brigatisti si proponevano addirittura di fare opera di proselitismo nell’ambito della base delle organizzazioni criminali, considerandole di origine proletaria. Eravamo agli inizi degli anni Ottanta, quando il drammatico terremoto nell’Irpinia aveva scatenato gli appetiti della camorra, ritenuta dalle Br in crisi definitiva, e l’approfondirsi dell’intreccio e dei legami di questa organizzazione criminale con i notabili democristiani per la gestione degli appalti della ricostruzione. In realtà la camorra era in piena e rigogliosa fase espansiva. Queste teorizzazioni, già di per sé reazionarie, trovarono una loro attuazione particolare nella pratica delle Br di Senzani.

Il caso Cirillo: don Raffaele Cutolo, le Br e la Dc Il 27 aprile 1981 si compì uno degli atti terroristici più eclatanti delle Brigate rosse guidate da Senzani. L’assessore democristiano Ciro Cirillo, pupillo e uomo di fiducia del boss della Dc napoletana Antonio Gava, fu rapito da un commando brigatista. Era il periodo del drammatico terremoto in Irpinia ed erano in gioco i grandi interessi speculativi legati alla ricostruzione. Come loro consolidato costume, i notabili democristiani e la camorra stavano facendo laute fortune sulla pelle delle popolazioni della Campania. I brigatisti, all’indomani del rapimento, cercarono di aprire una trattativa con lo Stato formulando delle richieste a favore delle persone rimaste senza casa. Ma non era questo l’obiettivo vero dei terroristi. Cirillo non era un politico di primo piano, lavorava nell’ombra ed era uomo esperto di intrighi e di tangenti che conosceva bene l’oscuro mondo degli appalti e per questo godeva di grandi protezioni nell’ambiente democristiano. I brigatisti seguirono il copione già ricalcato nel sequestro di Moro e sottoposero il sequestrato all’interrogatorio di rito del loro «tribunale popolare» con il (falso) proposito di denunciare le malefatte democristiane a Napoli e in Campania. Fedeli al copione, non mantennero questa promessa: l’interrogatorio non fu mai reso pubblico. 101

La Democrazia cristiana anche in questo caso pubblicamente assunse una posizione intransigente in relazione alla trattativa, mentre in realtà questa si aprì coinvolgendo un personaggio molto particolare, don Raffaele Cutolo, capo della nuova camorra organizzata allora detenuto nel carcere di Ascoli Piceno. La camorra trattò a nome delle Br per il rilascio di Cirillo con vari esponenti democristiani che addirittura si recano in carcere – tutti segretamente – per parlare direttamente con il potente boss. Gava in persona si recò a trovare don Raffaele, Flaminio Piccoli si mise in contatto attraverso bigliettini fatti recapitare in carcere, Vincenzo Scotti, allora ministro dell’Interno, cercò di incontrare il boss. Fu una mobilitazione impressionante con i notabili Dc che si prodigavano; pareva proprio che, per loro, la vita dell’oscuro portaborse campano valesse molto più di quella di Moro. Secondo molti testimoni nella cella del capo camorra in quei giorni vi fu un via vai continuo di uomini politici e gente dei servizi segreti. Una colorita testimonianza fotografa come il potente ministro Scotti sia stato casualmente scoperto proprio davanti al carcere: Ve lo ricordate lo «stopper» dell’Ascoli, Angiolo Gasparini, un tipo alto e biondo con la carriera stroncata sette anni fa da una storia di droga? La vicenda del suo arresto si incrocia per caso coll’affare Cirillo. Quel giorno, in attesa del giocatore, giornalisti e fotografi circondano il penitenziario, proprio mentre il detenuto Cutolo aspetta un incontro risolutivo, forse il «ringraziamento» per la trattativa. «Don Rafele» ha chiesto la visita di qualcuno che garantisca su tante promesse. Ma la macchina blu è costretta a fermarsi. E un dc d’alto bordo fa dietro front davanti all’imprevisto assembramento. (…) È il maresciallo dei carabinieri Erminio Barberini a rivelare tale confidenza avuta durante il viaggio da Ascoli all’Asinara dallo stesso Cutolo. Il quale ha dato in quell’occasione pure nome e cognome – quelli dell’on. Enzo Scotti – all’uomo politico che «non era potuto entrare per la presenza dei giornalisti».6

Una sequela di pentiti della camorra ha svelato la trattativa che coinvolse i massimi vertici dello Stato e della Dc con il boss camorrista, ammessa pure da alcuni brigatisti. Le affermazioni dei dissociati Sanfilippo, Incarnato, Pandico, D’Amico secondo cui gli on.li Gava, Scotti e Patriarca si recarono personalmente ad Ascoli, hanno trovato un parziale riscontro nelle confidenze fatte da Cutolo al maresciallo dei carabinieri Barberini ad al maggiore Tralascia, nonché una conferma nelle voci giunte fino ai 6

La trattativa, p. 97.

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sequestratori di Cirillo tra i quali Pasquale Aprea, uno dei «carcerieri», riferisce d’aver appreso che ad Ascoli era andato personalmente l’onorevole Gava.7

Quindi le Brigate rosse si misero nelle mani del potente don Raffaele che trattò per loro con la Democrazia cristiana. Fu un’ulteriore espressione della totale estraneità dei terroristi verso i movimenti, del loro disprezzo nei confronti della popolazione vittima di devastanti sofferenze per il terremoto. Stavolta l’accordo si chiuse con la liberazione di Cirillo, il solito silenzio dei brigatisti, un lauto riscatto e qualcosa di più, diviso tra la camorra e Br. La nuova camorra organizzata grazie alla trattativa ottenne concessioni per tutta una serie di appalti per la ricostruzione post terremoto, una ricompensa dovuta. Le Brigate rosse ottennero armi e una lista di indirizzi di magistrati scomodi ed esponenti delle forze dell’ordine su cui eseguire le loro condanne a morte. Così, dopo il sequestro, ci fu una strage dei testimoni più o meno indesiderati dell’episodio: brigatisti e camorristi si divisero i compiti per toglierli di mezzo. Con questa vicenda iniziò la parabola finale delle Br-Partito della guerriglia oramai ridotte a una banda criminale che agiva in combutta con la camorra organizzata e in convergenza con i servizi segreti. Dagli avvenimenti emersero con chiarezza il ruolo e la funzione di esponenti di primissimo piano del governo e dello Stato, fu un’ulteriore ed ennesima espressione del legame, in questo caso molto profondo, tra la repubblica delle stragi, la malavita organizzata e il terrorismo criminale e antipopolare. Con l’inizio degli anni Ottanta la situazione italiana era normalizzata, si poteva chiudere, perlomeno momentaneamente, la vicenda del brigatismo e lo Stato strinse i tempi per decapitare le Brigate rosse, che ebbero un ultimo sussulto con il rapimento del generale della Nato Robert Lee Dozier. Nel giro di pochi anni le Br furono praticamente smantellate e lo Stato, come abbiamo visto, pesantemente coinvolto nelle vicende, celebrò la propria vittoria cercando di guadagnare consensi tra la popolazione nel rivendicare la difesa della democrazia tricolore contro il pericolo eversivo del comunismo brigatista. Da qui cominciò la leggenda e le Br vennero improvvisamente mitizzate, la loro forza ingigantita a dismisura e ai loro leader storici venne concesso «l’onore delle armi». 7

Ordinanza del giudice Alemi sul caso Cirillo, cit. in Idem, p. 98 e seg.

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Suor Teresa Barillà e il «ritorno all’ovile» Dall’inizio degli anni Ottanta nel giro di pochissimo tempo le Brigate rosse furono, quindi, smantellate dall’azione delle forze dell’ordine. Iniziò un processo di ulteriore disgregazione e disfacimento che si esprimeva con il moltiplicarsi di piccole bande armate in concorrenza tra loro a suon di atti terroristici, che si concentravano per lo più su obiettivi privi di scorta. Ma oramai lo Stato aveva deciso un giro di vite e con sorprendente facilità smantellò stavolta in poco tempo la struttura delle Brigate rosse. Nel 1982 venne arrestato anche Senzani. Le caratteristiche di questa parabola finale suggeriscono l’esigenza di un ulteriore approfondimento sul carattere peculiare del terrorismo brigatista. Non ci sono altri esempi al mondo di gruppi terroristi che nel giro di soli 15 anni si dissolvono come neve al sole e la cui maggioranza di militanti si pente, si dissocia, firma dichiarazioni di resa. In pochi anni gli «irriducibili» si potevano contare sulle dita di una mano. Ed è altrettanto peculiare come i brigatisti prima restino silenziosi e poi si affannino a confermare la verità di Stato su quanto è accaduto. Le verità di Mario Moretti, Valerio Morucci, Adriana Faranda e compagnia sono le stesse di Francesco Cossiga e oggi si spalleggiano a vicenda nel riconoscersi reciprocamente e nel narrare la stessa versione di come sono andate le cose. Tutto è stato detto, tutto è chiaro: le Br erano «pure e rivoluzionarie» e sono state sconfitte dallo Stato democratico, tutto il resto è bollato come «dietrologia». Rossana Rossanda è specialmente attiva nel sostenere questa verità di comodo per tanti, per assolvere le coscienze e non tirare fuori gli scheletri dagli armadi della Prima repubblica e dei suoi accoliti compresi gli ex estremisti arrabbiati. La lezione togliattiana della doppiezza è stata ben assimilata anche da una delle dirigenti storiche e principali penne del quotidiano il manifesto. Chiunque si azzardi a svelare spicchi di verità che coinvolgono le complicità statali viene accusato di essere un paranoico «dietrologo» che vuole strumentalizzare vicende tanto limpide e chiare. I tanti a sinistra che sono solitamente così solerti nel vedere complotti dietro l’angolo quando si tratta di analizzare dinamiche sociali e rivoluzionarie, come nel caso della rivoluzione antiburocratica in Polonia da molti vista come un complotto reazionario della Cia e del Vaticano, per ironia della sorte in questo caso invece insorgono contro chiunque, sostenuto da ampia documentazione, avanzi anche solo dei sospetti. 104

In questo quadro di omertà e complicità anche mediatica, dove poche voci isolate si levavano nel deserto per svelare qualche segmento di verità, si lavorava alacremente per chiudere i conti con tale drammatica vicenda presentando la dinamica dei fatti e dei protagonisti attraverso la verità di Stato. È curioso che brigatisti come Moretti alla fine coincidano con la ricostruzione delle vicende scritta dai giudici dei tribunali di Stato fondamentalmente sulla base delle rivelazioni dei pentiti e dei dissociati, in molti casi in palese contrasto con evidenti prove come nel caso Moro. Ma questa opera di definizione di una versione ufficiale dei fatti ha richiesto un intenso lavorio e vede in scena i «soliti noti» protagonisti. Dopo l’incarcerazione di praticamente tutti i leader e i militanti brigatisti, comincia un intenso lavoro di relazioni ispirato da Piccoli, Cossiga ed altri eminenti esponenti di quello che all’epoca era il principale partito della repubblica: la Democrazia cristiana. I leader Dc trovarono in suor Teresa Barillà e in Remigio Cavedon, all’epoca vicedirettore del quotidiano democristiano Il Popolo, due autentici e infaticabili militanti della verità statale. Suor Teresa, recentemente scomparsa, era una religiosa autorizzata a frequentare le carceri per curare le anime dei terroristi, per riavvicinarli alla fede. In realtà suor Teresa era un’assidua frequentatrice del carcere di Paliano e i suoi intenti furono ben diversi. La religiosa si adoperò incessantemente per convincere i brigatisti a concordare una versione dei fatti consonante con quella dei vertici democristiani e statali promettendo in cambio amnistie, sconti delle pene e benefici di ogni sorta. Questa attività irregolare di suor Teresa è stata addirittura «oggetto di censura nella sentenza di ordinanza del giudice istruttore di Napoli Carlo Alemi, del 28 luglio 1993, cfr. pp. 1211-12».8 Continuarono quindi le relazioni dei vertici statali con i brigatisti: ognuno doveva avere una giusta ricompensa per il lavoro svolto. Colpisce la disparità di trattamenti avuta, senza particolari motivi, tra gli stessi terroristi. Per tanti ci furono clamorose concessioni, ma anche dei casi di tortura. Le carceri diventarono un via vai di uomini politici che si incontravano con i brigatisti, i quali all’improvviso, dopo «avere rifiutato di parlare davanti alla giustizia borghese», diventavano estremamente loquaci. Alcuni, come Lauro Azzolini, dopo le «confessioni» con 8

Cit. in Sergio Flamigni, Convergenze parallele, p. 299.

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suor Teresa e Cavedon cambiano radicalmente la loro prima versione rilasciata ai magistrati. Meno ermetico Lauro Azzolini, già componente del Comitato esecutivo brigatista. Lascia trapelare la notizia del «quarto uomo» nella prigione di Moro, e riferisce dell’intercapedine muraria nel covo di via Monte Nevoso dove erano nascosti i manoscritti di Moro. E nella sua testimonianza al processo Metropoli, dichiara: «a via Monte Nevoso c’era anche la trascrizione degli interrogatori di Moro, che erano stati sbobinati, da Gallinari e Moretti stessi, durante i 55 giorni», trascrizioni assenti nel verbale di perquisizione e di sequestro dei carabinieri di Dalla Chiesa nell’ottobre del 1978. Ma ben presto anche il «loquace» Azzolini in carcere viene avvicinato: prima da suor Teresa Barillà che lo invitava al silenzio in cambio di benefici penitenziari, quindi dal giornalista Remigio Cavedon (…); dopodiché Azzolini diventa muto, arrivando a smentire le precedenti ammissioni. Qualche suo compagno ricorda di averlo sentito dire: «Se parlo io sul sequestro Moro, faccio tremare il Palazzo»; puntualmente, anche per lui arriveranno i benefici penitenziari promessi da suor Teresa.9

È in questo contesto di strette relazioni tra la religiosa, esponenti democristiani, uomini dei servizi segreti e brigatisti che si compone la verità sul caso più scottante, quello riguardante il sequestro e l’omicidio di Moro. Adriana Faranda e Valerio Morucci scrissero il loro «memoriale» che ricostruiva l’intera vicenda del caso Moro, con il fine di chiudere il cerchio. La tesi di fondo dei due dissociati era che le Br erano impenetrabili e non era nemmeno immaginabile un’infiltrazione al loro interno. Così le pure Brigate rosse superorganizzate avrebbero compiuto esclusivamente da sole questa clamorosa azione terrorista. Moretti, in quel momento «irriducibile», sconfesserà le loro dichiarazioni sostenendo che erano inventate, salvo poco dopo aderire totalmente alla loro versione dei fatti. È da precisare come le sentenze sul caso Moro si siano basate fondamentalmente sul memoriale Morucci-Faranda, a cui è stata data maggiore credibilità rispetto ai riscontri e alle testimonianze dirette dei passanti, come ad esempio quelle che indicavano la presenza di due terroristi a bordo della motocicletta Honda, negata con decisione da Morucci e Faranda. La costruzione di questo memoriale passò, come vedremo, attraverso tante mani e fu uno dei «miracoli» compiuti da suor Teresa. 9

Idem, p. 298 e seg.

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Così suor Teresa Barillà, che insieme al giornalista democristiano Remigio Cavedon ha fornito un contributo decisivo alla «normalizzazione», invia in anteprima al Presidente della repubblica Cossiga il «memoriale Morucci-Faranda» con un bigliettino manoscritto: «Solo per lei signor Presidente, è tutto negli atti processuali, solo che qui ci sono i nomi. Riservato (1986)». In effetti, mentre in sede giudiziaria Morucci aveva attribuito un numero a ciascuno dei brigatisti che presero parte alla strage di via Fani per non rivelarne i nomi, nel «memoriale riservato» inviato all’ex ministro dell’Interno del sequestro Moro e ai dirigenti della Dc, il dissociato indica i nomi (o meglio, gran parte dei nomi): per cui Morucci si è mosso da dissociato con i magistrati, ma si muove da pentito con la Dc e con il presidente Cossiga. Del resto, il rapporto istaurato da Morucci con alcuni settori del partito democristiano è tale che l’ex brigatista dissociato-quasi pentito è arrivato a prestare la propria consulenza per rispondere a una interrogazione parlamentare sul caso Moro.10

Questo intenso lavorio di pacificazione vide tutti marciare stranamente nella stessa direzione e sono ben poche le voci dissonanti come quella di uno dei fondatori delle Br Alberto Franceschini che rivela: A un certo punto ho cominciato a chiedermi: di chi abbiamo fatto il gioco? I miei dubbi sono cominciati a rinforzarsi quando settori della Dc hanno cominciato a venire da noi brigatisti nelle carceri. Pensavamo che venissero per cercare insieme di fare chiarezza, invece no: mi rendevo conto che venivano da noi per conquistare silenzi.11

Suor Teresa si prodigò per raccogliere e verificare memoriali e testimonianze portandoli a chi di dovere, mentre si pronunciava per concedere l’amnistia ai brigatisti. Parallelamente Renato Curcio, Mario Moretti, Piero Bertolazzi e Maurizio Iannelli nell’aprile 1987 scrissero appelli avviando una campagna per la scarcerazione dei detenuti politici dichiarando chiusa «la stagione della lotta armata». Chiesero un’amnistia motivandola con la raggiunta verità su quello che era successo. Guarda caso, proprio nello stesso periodo, Flaminio Piccoli, diventò un interlocutore di tanti gruppetti dell’estrema sinistra, lanciando la proposta dell’amnistia in cambio della verità. La verità di Piccoli era quella di Stato, coincideva con quella di Morucci e Faranda. 10

Idem, p. 300 e seg.

11

Intervista ad Alberto Franceschini rilasciata ad Antonio Cipriani, l’Unità, 6 agosto 1991.

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Piccoli rivelò candidamente: «Ci sono nostri amici che con regolari permessi hanno potuto vederli, parlare con loro, approfondire un discorso. E poi ci sono religiosi che avvicinano i capi Br per la loro funzione di apostolato».12 Gli irriducibili nemici della Dc, i brigatisti responsabili dell’uccisione del loro leader Aldo Moro, improvvisamente erano diventati degli «agnellini» con i quali intrattenere ottimi rapporti. Per i Br gli «odiati» nemici del popolo, i dirigenti democristiani, erano validissimi interlocutori e amici. È una peculiarità quasi unica nel panorama mondiale: le presunte «vittime» e i «carnefici» improvvisamente si riuniscono e stringono amicizia. In realtà si era giunti alla «soluzione politica» di tutta la vicenda. I terroristi cominciarono quindi ad essere invitati e a frequentare i salotti televisivi raccontando la loro verità. Ora erano diventati improvvisamente loquaci, cominciarono ad uscire interviste e racconti biografici in serie. Così Moretti scelse la tribuna televisiva per dichiarare pubblicamente e solennemente, nel corso di uno speciale del Tg1 del 21 marzo 1988, che «Tutto è chiaro, non c’è più niente che non sia noto, c’è solo da interpretare». Questa intervista di Moretti suscitò la reazione di Alberto Franceschini che scrisse a Moretti una lettera, resa pubblica nella trasmissione di Rai Due Il testimone del 20 aprile 1988. Una lettera che riveste un certo interesse per gli interrogativi che pone: Caro Mario, approfitto dell’occasione offertami per rivolgerti una domanda che da un po’ di tempo mi porto dentro. Precisamente da quella sera in cui con Renato e Barbara hai partecipato alla intervista del Tg1. Una tua affermazione mi ha particolarmente colpito. Sul sequestro Moro non c’è più nulla da sapere, è tutto già scritto negli atti giudiziari del processo. Ma negli atti giudiziari c’è solo la verità dei pentiti e dei dissociati, gli unici che hanno collaborato con la magistratura, e tu Moretti hai sempre dichiarato pubblicamente, anche nell’aula del processo, che quella non era la verità, ma solo una ricostruzione di comodo, era la verità dello Stato. Ho atteso quella sera davanti alla Tv la tua verità, la verità vera, ma inutilmente. Sei proprio convinto, Moretti, che tutto quello che c’era da sapere è già stato detto e scritto? Oppure in questi tre anni trascorsi dal processo per il sequestro è accaduto qualcosa che ti ha fatto cambiare idea

12

Intervista di Antonio Padellaro a Flaminio Piccoli, Corriere della Sera, 25 aprile 1997.

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portandoti a confermare quella che tu stesso definisti verità di Stato? E se è così che cosa ti ha spinto a questa decisione? Spesso ho la sgradevole sensazione che la nostra vicenda assomigli alle matriosche, quelle bambolette di legno infilate una sull’altra che sviti e sviti e non arrivi mai a trovare l’ultima.13

Moretti non rispose mai a queste domande, ma la sua ulteriore conversione preparava la conclusione della vicenda. Il famoso memoriale aveva oramai una storia e dopo una serie di aggiustamenti, sempre supervisionati da Cossiga, si giunse a quello definitivo: La verità ufficiale, nella forma del «Memoriale Morucci-Faranda», arriva sul tavolo del presidente della Repubblica Cossiga – tramite il giornalista Remigio Cavedon, e per via riservata – il 13 marzo 1990. A farla recepire alla magistratura si impegna, con calma, lo stesso Cossiga: dopo un mese e mezzo, il 26 aprile, il segretario generale della presidenza della repubblica invia il memoriale al ministro dell’Interno Silvio Gava, il quale lo fa pervenire al procuratore della repubblica; il «memoriale Morucci-Faranda» viene acquisito agli atti del processo Moro quater, e diventa la base della sentenza-ordinaria del giudice istruttore Rosario Priore.14

Da quel momento, insieme a Piccoli, anche Cossiga – l’acerrimo nemico dei brigatisti – diventò improvvisamente clemente e dall’agosto 1991 chiese la grazia per Curcio e gli ex brigatisti riconoscendo loro «l’onore delle armi» e definendoli «combattenti rivoluzionari». A partire da ciò fu dato il via libera alla concessione di benefici particolarmente «generosi» nei confronti degli autori del rapimento Moro i quali sconteranno meno anni di galera di Curcio e Franceschini, che pure non hanno commesso delitti di sangue, e ancora meno di Paolo Maurizio Ferrari, in carcere dal 1974 e uscito solo recentemente, non colpevole direttamente di alcun omicidio. Corrado Simioni il capo del Superclan e l’animatore dell’Hyperion è stato solo sfiorato da queste vicende e ne è uscito completamente immacolato. Suor Teresa e compagnia hanno proprio lavorato bene e così i brigatisti sono sempre più dentro il cuore dello Stato democratico e dei suoi misteriosi abissi criminali e antipopolari.

13

Cit. in S. Flamigni, op. cit., p. 304.

14

S. Flamigni, op. cit., p. 305.

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Le nuove Brigate rosse Dopo l’arresto di Senzani le Brigate rosse sembrano essere state distrutte definitivamente, lo Stato democratico «canta vittoria» e cerca di utilizzare il successo per rafforzare l’immagine dei suoi corpi repressivi. Per l’estrema sinistra l’epilogo brigatista non significò mettere un punto fermo operando un bilancio chiaro e definitivo sul loro operato. In special modo, una gran parte dell’area dell’Autonomia operaia cominciò ad impegnarsi nelle campagne per la liberazione dei prigionieri politici, continuando ad accreditare i terroristi rossi come «compagni che sbagliano»; in questo il quotidiano il manifesto è stato ed è tutt’ora tra i più solerti sostenitori della «purezza rivoluzionaria» delle Brigate rosse. Dopo la stretta repressiva i pochi militanti brigatisti rimasti in libertà si orientarono verso una ritirata strategica, cioè decisero di aspettare tempi migliori cercando nel frattempo di riorganizzare le proprie forze. Così ridefinirono i loro compiti e, specie in Toscana, Lazio e Triveneto, definirono una politica per riaccumulare le forze attraverso una pratica di lavoro dentro le strutture sindacali, centri sociali e comitati di vario tipo. Era una sorta di opera di «entrismo» finalizzato ad avvicinare le persone ritenute più reclutabili alla pratica terrorista. La mancanza di una condanna seria e senza appello nei confronti del brigatismo da parte di tanti settori dell’estrema sinistra non ha certo creato quegli anticorpi necessari per chiarificare il carattere e la natura reazionaria dei loro propositi. Tutto ciò ha contribuito alla creazione di un mito di cui i nuovi brigatisti hanno cercato di avvalersi per raccogliere nuove adesioni. Nel tentativo di riorganizzarsi i brigatisti ripresero le ragioni delle prime Brigate rosse dirette da Curcio, mentre all’interno del manipolo di militanti rimasti si scatenarono discussioni, lacerazioni e divisioni. Dall’arresto di Senzani l’attività di ritirata si combinò con il mantenimento di una certa presenza, che per i brigatisti voleva dire la realizzazione di attentati. Così le Br-Pcc, pur essendo oramai un piccolissimo gruppo, ferirono Gino Giugni, nel febbraio 1984 uccisero il generale Leamont Hunt; nel marzo 1985 assassinarono l’economista Ezio Tarantelli e nell’aprile 1988 il senatore democristiano Roberto Ruffilli. Erano gli ultimi disperati attentati degli anni Ottanta. 110

Nel senso comune, negli anni Novanta, prevaleva la convinzione che oramai una fase si era conclusa: il terrorismo brigatista veniva considerato finito per sempre. Nel 1989 i regimi burocratici dei paesi dell’Est furono spazzati via e successivamente fu abbattuto il regime dittatoriale e burocratico nell’allora Unione Sovietica. Milioni di donne e uomini, carichi di illusioni nei confronti dell’Occidente democratico, contribuirono con le loro mobilitazioni al crollo svelando il carattere reazionario di quella caricatura mostruosa del socialismo. Si apriva una nuova epoca densa di minacce ma anche di grandi promesse. Il criminale imbroglio stalinista era svelato e venivano meno i punti di riferimento fondamentali per tanta parte della sinistra politica italiana, la quale, non casualmente, recepì quegli avvenimenti come una sconfitta storica e l’affermazione definitiva di un nuovo ordine mondiale. Si aprì, quindi, una crisi senza fine della sinistra politica, incapace di rinnovarsi di fronte ai grandi cambiamenti in corso nella realtà mondiale, crisi che significava anche il venir fuori degli aspetti peggiori del vecchio: così emerse un settore votato alla resistenza, alla rivendicazione nostalgica del passato. I brigatisti potevano fare nuovamente breccia proprio tra questi settori nostalgici, delusi e reazionari, per cercare di riaccumulare forze nel tentativo di riprendere le loro azioni criminali. I neobrigatisti si nutrivano e si nutrono dei disvalori e della profonda infiltrazione della cultura borghese e terrorista nel movimento operaio causata da decenni di dominio stalinista e dalla subordinazione ad esso anche di chi a parole ricercava altro. Le rivoluzioni dell’89 svelarono più nitidamente come i paesi del «socialismo reale» fossero una dependance del sistema democratico globale a dominanza Usa sorto dal dopoguerra. I nostalgici di quel passato sono una peculiare combinazione di dipendenza dalle categorie del sistema che si esprime nel ridurre il proprio esistere ad una logica puramente resistenziale. I neobrigatisti si nutrono di ciò oltre che degli arretramenti coscienziali e dei profondi disvalori che cominciarono ad investire tante avanguardie in crisi ed incapaci di mettersi in discussione e rinnovarsi. Così, il 20 maggio 1999, inaspettatamente per i più, in un momento in cui i movimenti vivevano una fase completamente diversa e dopo un lungo silenzio, rispuntarono le Brigate rosse uccidendo Massimo D’Antona: il terrorismo brigatista riprese ad 111

agire in un contesto completamente mutato. Infatti l’omicidio di D’Antona fu compiuto quando il governo presieduto da Massimo D’Alema decise l’intervento militare nella ex Yugoslavia assieme agli Usa e alle potenze del sistema democratico globale, decisione che nel paese provocò come reazione lo sviluppo di una forte ondata di mobilitazioni pacifiste. In un tale contesto l’attentato brigatista, totalmente estraneo a queste mobilitazioni e oggetto di una ferma condanna, rappresentava un ulteriore ostacolo sulla strada del movimento pacifista. La logica ispiratrice delle nuove Brigate rosse era legata a questioni di carattere rivendicativo e sindacale e proprio per questo si scelse di colpire D’Antona, consigliere dell’allora ministro del Lavoro Antonio Bassolino. Nel 2002, sospinti dalla stessa logica, i brigatisti uccisero a Bologna il professor Marco Biagi, un omicidio pianificato e facilitato anche dal fatto che Biagi era stato privato della scorta. La scelta di colpire persone senza scorta con attentati relativamente facili esprime l’esiguità delle forze brigatiste, ma anche la loro logica: quella comunque di uccidere per esistere, anche se si tratta di persone che non sono certamente delle espressioni principali di quel potere che dicono di voler combattere. Ma è soprattutto lo sviluppo drammatico degli avvenimenti su scala mondiale che propone nuovi termini ed interrogativi sulla possibile rinascita del terrorismo e su nuovi punti di riferimento che sanguinosamente fanno irruzione sulla scena. L’11 settembre 2001 Al Queda con l’attentato alle Twin Towers provocò una strage senza precedenti nel cuore del sistema. La dinamica sempre più bellicista del sistema democratico globale a dominanza statunitense nel suo sanguinoso tramonto trovava una sua gemellarità nel terrorismo reazionario a sua volta sistemico di Osama Bin Laden. La dimensione politica è solo uno dei motivi di gemellaggio tra il sistema che usa il terrore e il terrorismo che punta ad un altro sistema. Ovviamente e conseguentemente sono accomunati dalla centralità della guerra, assunta come motivo fondamentale di conquista, mantenimento e consolidamento del potere oppressivo. Esistono entrambi nella guerra e per la guerra, anzi nella sua versione più sudicia e crudele tipica della contemporaneità.15

15 Dario Renzi, Rivoluzione contro i mostri gemelli, quaderni di Utopia socialista, Prospettiva Edizioni, Roma 2006, p. 13.

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La spirale guerra-terrorismo si autoalimenta dentro una logica infernale e sistemica, rappresenta una tenaglia nei confronti delle lotte dei popoli e dei movimenti; al sistema, tutto sommato, conviene di più avere avversari che lo sfidano sul proprio terreno bellicista, militare e terrorista. Le visioni puramente negative e di resistenza finiscono per essere affascinate dall’efficienza del nuovo terrorismo internazionale ed è di un qualche significato che nel dibattito tra coloro che propugnano una ripresa del terrorismo brigatista in Italia si sottolinei una possibile convergenza con il terrorismo islamico di Al Queda e con la resistenza reazionaria irachena. Nel 1995 si formarono i Nuclei territoriali antimperialisti che successivamente, nel 2003, assunsero la denominazione Brigate rosse-Guerriglia metropolitana per la costruzione del fronte combattente antimperialista. Assume una certa rilevanza il fatto che i Nuclei territoriali antimperialisti, uno dei segmenti del terrorismo che ha un’ipotesi di ricostituzione delle Br, abbiano esaltato la funzione antimperialista del terrorismo islamico già dal 1999: A queste rapine dirette alla periferia del sistema, di recente, le avanguardie rivoluzionarie e combattenti che fanno riferimento alla guida dell’antimperialista Bin Laden, attraverso gli esemplari attacchi alle ambasciate del nemico Usa, hanno saputo capitalizzare anni di duro lavoro e promuovere al fronte mondiale antimperialista gli snodi essenziali della direttrice nord-sud del rapporto di scontro tra imperialismo e antimperialismo.16

È una presa di posizione chiara che esprime come la logica negativa e campista conduca in questo quadro ad appoggiare esplicitamente ipotesi direttamente reazionarie come quella di Al Queda, giustificate appunto in ragione della lotta antimperialista. In questa logica comune il terrorismo islamico è un motivo di attrazione e un concreto punto di riferimento. La stessa Desdemona Lioce – considerata la leader delle nuove Brigate rosse responsabili degli assassini di Biagi e D’Antona – in un documento scritto in carcere successivamente al suo arresto esalta la «“valorosa resistenza armata irakena”, con un riferimento alla strage di militari italiani a Nassirya che, in qualche modo,

16

Dal documento della direzione strategica dei Nuclei territoriali antimperialistici del 30-31 ottobre-1° novembre 1999.

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era giudicata un evento assolutamente prevedibile, dal momento che l’Italia aveva scelto di partecipare ad un’occupazione».17 Il terreno internazionale e dell’antimperialismo sembrerebbe uno dei motivi fondamentali su cui si punta per riorganizzare e rilanciare l’attività terrorista in Italia, che quindi si può alimentare del contesto internazionale e dell’attività di Al Queda, che in questa logica appare come un riferimento concreto, efficiente e credibile. Più in generale, negli arretramenti coscienziali, nel disgregarsi della società, nella crisi valoriale e nelle viscere della crisi del sistema possono risorgere e svilupparsi nuove ipotesi terroriste. I suoi presupposti sono nell’oppressione e nelle logiche presenti ed operanti e quindi sempre in agguato all’interno di questo sistema, di cui si condivide la logica di fondo.

17

Cit. in Gianni Cipriani, Brigate rosse. La minaccia del nuovo terrorismo, p. 343.

114

CONCLUSIONI

Politica e terrorismo Ci sono profonde radici comuni tra l’essere dei brigatisti e ciò che connota più profondamente ed essenzialmente i borghesi. Il rovesciamento operato dalle diverse oppressioni attivate dalle borghesie si basa sul prevalere della morte sulla vita, dell’uccidibilità sulla vivibilità. I terroristi nel modo di essere sono simili e speculari ai borghesi oppressori; come loro i terroristi brigatisti dedicano gran parte della loro vita all’attività, considerata centrale, di procurare morte con la convinzione che questo possa condurre alla realizzazione dei propri deliranti e oppressivi sogni di potere statale. Come loro esprimono un profondo disprezzo per la vita e per la gente comune, ridotta a puro mezzo da poter manovrare strumentalmente in funzione di disegni ed ipotesi reazionarie progettate da un manipolo di persone. La scaturigine umana del terrorismo risiede nelle autentiche basi della politica, più o meno occultamente e ipocritamente mascherate, cioè nella violenza concentrata e nella logica di guerra. Tenendo presente ciò sono fondamentalmente ipocrite quelle visioni che hanno caratterizzato il brigatismo come fenomeno criminale del tutto estraneo alla politica. Queste visioni hanno generalmente contraddistinto coloro che hanno combattuto il terrorismo brigatista da un punto di vista della politica statale, cioè della difesa e del rafforzamento dello Stato democratico e dei suoi istituti repressivi. Costoro combattono un terrorismo per difenderne un altro, quello di Stato, dell’istituzione che detiene il monopolio concentrato della violenza e che, come abbiamo visto, proprio a causa di questo e per difendere le proprie ragioni – le ragioni di Stato, appunto – e il tratto oppressivo, non ha esitato ad usare il terrorismo per mante115

nere e consolidare il proprio potere oppressivo e contrastare i movimenti che sorgevano dal basso. Ma c’è una ragione ancor più profonda per contestare alla radice l’affermazione secondo cui sarebbero contrapposti politica e terrorismo. La politica, tutta la politica, ha un’origine e un legame indissolubile con la violenza concentrata e la guerra, un connubio indissolubile che con la nascita del sistema democratico globale a dominanza Usa conosce degli sviluppi di orrore inimmaginabile. La politica risorge e si ripropone a causa del prevalere della violenza concentrata, così come lo Stato – quello moderno non meno di quello antico – è nato dagli eserciti e si è forgiato nelle guerre guerreggiate. Questa spiegazione della sua genesi è tangibile nell’incedere della politica mondiale come della politica domestica, verificabile nelle grandi come nelle piccole faccende concernenti i Palazzi. Non c’è atto o istituzione politica che non presupponga la disponibilità e la possibilità di utilizzo di una forza armata repressiva e coercitiva, non c’è politico di mestiere che non aneli a conquistare, a serbare ed accrescere questa forza, che è bene rammentarlo prevede il diritto all’omicidio.1

Partendo anche da indubitabili buone intenzioni, alcuni pensatori e gruppi organizzati propongono una «politica della non violenza» come alternativa al terrorismo e alla guerra. È il caso di Marco Revelli e Alex Zanotelli che hanno proposto di considerare «la violenza come tabù» o ad esempio del Partito umanista che fa di questa concezione uno dei cardini del proprio programma. Queste posizioni, al di là dei lodevoli intenti, non si spingono a ricercare le origini della violenza e della politica. Perché la violenza, variamente espressa e contenuta, è sempre presente fin dall’inizio nella specie umana, diversamente dalla politica. Non è quindi abrogabile per decreto imposto esternamente agli esseri umani da una qualunque entità. La violenza e la sua potenzialità è presente in ciascuno di noi, non è estirpabile e tende a riperpetuarsi meccanicamente soprattutto se non c’è coscienza della sua scaturigine. D’altra parte, in questa visione c’è un’insanabile contraddizione in termini: la politica implica sempre una lotta per anelare alla conquista o alla creazione di uno Stato, cioè di un’istituzione estraniante e oppres1 Progetto di programma, Manifesto della comunanza socialista rivoluzionaria, scritto da Dario Renzi e proposto alla discussione congressuale di Socialismo rivoluzionario, Utopia socialista, n. 18, dicembre 2007/marzo 2008, p. 53.

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siva che, per definizione, esiste sulla base del possesso del monopolio della violenza. Chiunque proponga una strada politica anche con le più buone intenzioni di partenza non può che finire con lo Stato e quindi con l’oppressione e la violenza. Più propriamente la violenza può essere affrontata da un punto di vista umano, in una logica di rivoluzione umanista, socialista, rivoluzionaria e libertaria. Riconoscendo le sue radici si può scegliere la priorità della vita e della ricerca del bene comune inseparabile dal proprio, ed in ragione di ciò ci si può educare a disabituarsi alla violenza, a contenerla e caso mai ad esercitarla in chiave subordinata e sottomessa a questa ricerca. Non è con un qualche divieto, non con la semplice interdizione che verrà abrogata la violenza. Eventualmente con il lungo e tenace tentativo di ragionare sentimentalmente del bene comune essa potrà essere contenuta, stemperata, finalmente consapevolmente superata. Un intento che deve cominciare qui ed ora, dev’essere permanente, una sorta di metabolismo ricercato dell’anima, di regola autodefinita dei rapporti umani e sociali, quindi evidentemente inseparabile dalla nostra trasformazione intima ed assieme agli altri.2

D’altra parte, la questione della violenza non può essere scissa dall’attuale contesto sociale caratterizzato dalla permanente azione bellica e distruttiva dei poteri oppressivi contro la nostra gente. Il diritto all’autodifesa di fronte agli oppressori rimane una questione fondamentale pur non essendo in nessun caso la soluzione. Per i più e i più oppressi si rende talvolta necessario un utilizzo della violenza, un minimo di violenza necessaria, per difendere la vita. In ogni caso, questa necessità va inquadrata come un passaggio doloroso di una strategia basata sull’affermazione della vita delle persone e del bene comune. Vanno ricercate nei fini quelle coordinate di principio per ridurre le forme della violenza necessaria a quel minimo indispensabile, contenendole. Lottare efficacemente contro il terrorismo significa sottrarsi affermativamente dalla politica e dai suoi paradigmi per cominciare a praticare e vivere da protagonisti un socialismo inteso come inizio di costruzione di sé come persone migliori, di una nuova relazionalità, come avvio di ricerca di una comunanza umanista e socialista che sia anche l’inizio di una costruzione di 2

D. Renzi, «Affermazione e sottrazione», p. 63.

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una nuova società che pensi anche ad autodifendersi da tutti gli oppressori e dalla stessa violenza concentrata della politica che, nelle sue differenti espressioni, si scatena contro i processi di autotrasformazione umana.

Per lo sviluppo dei movimenti Il terrorismo brigatista è stato ed è un nemico e un ostacolo per la crescita e lo sviluppo autentico dei movimenti. Lo è per definizione e vocazione perché si basa sulla logica borghese cospirativa e sostituzionista. Un autentico sviluppo dei movimenti implica il protagonismo diretto e l’autoattività come presupposto fondamentale di crescita innanzitutto coscienziale. Come ho cercato di dimostrare nei capitoli precedenti, il brigatismo nasce negli anni Settanta in contrapposizione ai movimenti, ha rappresentato uno degli ostacoli che questi hanno dovuto affrontare ed ulteriormente anche un motivo di avvelenamento delle coscienze. Certamente il terrorismo brigatista è stato uno dei fattori che hanno permesso la normalizzazione democratica e il recupero e lo svuotamento dei movimenti. Una battaglia chiara contro il terrorismo e le sue logiche è un compito di educazione e chiarificazione all’interno dei movimenti da non dare per scontato. Questo compito è reso più urgente oggi dai motivi di crisi della grande transizione che stiamo vivendo che significano anche un avvelenamento coscienziale per la nostra gente. Stiamo vivendo, infatti, una fase di lenta crisi finale e definitiva del sistema democratico globale e dei valori su cui si è poggiato. Tutto ciò, lungi dal condurre a una visione oggettivamente positiva, può anche significare una crescita della disgregazione e un’ulteriore corruzione delle coscienze. Stiamo vivendo una crisi coscienziale e culturale che investe le avanguardie e la nostra gente; sono in crisi valori come la solidarietà che precedentemente potevano rappresentare un motivo comunemente conquistato. L’egoismo, la violenza patriarcale e maschilista, il razzismo, lo spirito proprietario e una visione contingente superficiale e limitata dei propri interessi possono essere prevalenti. Tutto questo ha anche dei riflessi sui movimenti che pur prendendo le mosse da spunti ed esigenze autentiche, specifiche o più generali, successivamente si possono arenare proprio a causa del caos coscienziale e del118

l’avvelenamento che vive la società. Proprio a causa del contesto attuale, quindi, è tanto più importante assumere chiare coordinate di giudizio riguardo ai diversi movimenti che si sviluppano nella società senza soggiacere ad una visione mitologica e accondiscendente. Ci sono diversi tipi di movimenti ed essi vanno giudicati e qualificati per i contenuti e i metodi su cui si fondano e si costituiscono. Esistono e sono esistiti movimenti che hanno assunto dei tratti reazionari e negativi proprio per gli orizzonti nei quali si muovevano e i metodi che erano prevalenti al proprio interno. Per le avanguardie che invece ricercano una strada di autotrasformazione positiva è fondamentale anche sapersi distinguere e sottrarre dalle espressioni negative, riservandosi il diritto alla critica severa e costruttiva nei confronti dei limiti e in alcuni casi dei tratti reazionari che possono assumere i movimenti. Il compito delle avanguardie è inoltre sviluppare una capacità di giudizio su questi movimenti in base a criteri umani di valore che concernano, quali che siano, i punti di partenza e le esigenze che ne sono alla base, la tensione e la ricerca al bene comune che esprimono. In questo senso anche la relazione con il terrorismo è una delle cartine di tornasole di giudizio. Le Br sono state estranee in generale ai movimenti, con una parziale eccezione per quel che riguarda il movimento del ’77 nelle università di Bologna e Roma. Un movimento, sia pur limitato geograficamente e socialmente, che ha avuto un carattere reazionario proprio per i contenuti e i metodi che ha espresso. In quel movimento ci sono stati settori, diretti dall’Autonomia operaia, che hanno espresso complicità, omertà, simpatia nei confronti del brigatismo rosso senza essere sufficientemente contrastati anche da chi in quel movimento non condivideva tali posizioni. È stato l’unico movimento in cui i brigatisti abbiano trovato consensi: basti pensare agli slogan di simpatia e appoggio verso i terroristi rossi che venivano lanciati nei cortei. In quel caso a mio avviso fu giusto per l’allora Lega socialista rivoluzionaria, l’antecedente di Socialismo rivoluzionario, sottrarsi da quel movimento e svolgere un’opera di chiarificazione e contrapposizione portando avanti una nitida battaglia di principio contro il violentismo e il terrorismo brigatista. Ritengo che sia stata una battaglia significativa proprio perché sviluppata da un punto di vista dei movimenti e delle loro esigenze di fondo. Fu una scelta – che ho vissuto in prima persona – fondamenta119

le per preservare umanamente e non contingentemente una prospettiva programmatica in chiave rivoluzionaria e socialista. Efficacemente Dario Renzi, fondatore e dirigente socialista rivoluzionario, sintetizza così quella scelta: Il nostro percorso fu stravagante e persino incomprensibile a molti, secondo i criteri largamente vigenti all’epoca, costringendoci in situazioni difficili o talvolta addirittura paradossali. Come nel 1977, quando fortemente radicati nel movimento delle scuole, soprattutto napoletano, ci contrapponemmo alla deriva estremista del movimento universitario che ritenevamo inutilmente divisionista oltre che violentista. Gli errori o gli unilateralismi che con il linguaggio di allora definiremo tattici, le debolezze propagandistiche endemiche di cui eravamo protagonisti e che penalizzarono la qualità della nostra crescita umana, nulla toglievano alla validità di cui un tentativo che provava a sfuggire alle strettoie di cui la sinistra, italiana e non solo, rimarrà prigioniera. «Né P38 né riformismo: lotta di classe per il socialismo» in questo slogan, che ci contraddistingueva perfettamente, si esprimeva semplicemente il segno di un’utopia incompleta e immatura che tentava di farsi strada. Cercavamo una diversità essenziale, non per amore di originalità né tanto meno perseguendo disegni manovrieri verso chi ci ascoltava, ma perché percepivamo un’urgenza più profondamente ed organicamente fondativa in rapporto a ciò che esprimevano movimenti e rivoluzioni in mezzo mondo, un’urgenza contraddetta dalle forze organizzate che vedevamo intorno a noi.3

Credo che quelle scelte siano un approccio da rivendicare e generalizzare metodologicamente in senso attualistico. Perché dal caos e dalla crisi coscienziale possono sorgere anche fenomeni reazionari, di simpatia nei confronti delle imprese terroriste ai quali è necessario contrapporsi con grande fermezza. Ad esempio in quest’ottica è giusto contrapporsi a manifestazioni, dove in nome «dell’antimperialismo» si appoggia e sostiene il terrorismo reazionario di settori della resistenza irachena. Più positivamente e affermativamente per i movimenti la lotta contro la politica terrorista assume una valenza di principio, per sviluppare e coltivare umanamente i bisogni e i sogni che sono all’origine dei movimenti. Ciò è intimamente connesso ai contenuti e ai metodi che si assumono e si svolgono. La lotta al terrorismo non può essere per definizione delegata allo Stato né omessa con l’assunzione di una postura neutralista e di indifferenza, proprio perché il terrorismo è uno dei tanti 3

D. Renzi, «Tracce di un utopia nascente», in Utopia socialista, n. 9, dicembre 2003/febbraio 2004, p. 10 e seg.

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nemici dei movimenti dato che cerca di impedire fin dall’origine una loro trascrescenza in chiave rivoluzionaria e socialista ed è contrapposto alla loro autorganizzazione. Il principio dell’autorganizzazione per difendere e affermare le proprie esigenze è un fattore fondamentale, di per sé non risolvente ma certamente costitutivo per uno sviluppo dei movimenti in senso autoemancipatorio. Per questo motivo credo che l’opera di chiarificazione, controinformazione e di lotta al terrorismo sia un compito proprio di educazione e alimento della coscienza dei movimenti, che altrimenti ricadono fatalmente o inevitabilmente vengono riassorbiti nelle logiche sistemiche. Sarà un caso che di fronte all’erompere dei movimenti gli uomini dei Palazzi – come recentemente ha fatto il senatore a vita Francesco Cossiga di fronte alle mobilitazioni studentesche e universitarie contro la riforma Gelmini – paventano la minaccia di un ritorno del terrorismo brigatista? La battaglia a tutto campo per affermare uno sviluppo autodeterminato, autocosciente e autorganizzato dei movimenti indipendente dai poteri oppressivi e dalle loro logiche è inscindibile da quello di una chiara e intransigente lotta permanentemente educativa e di principio contro ogni tipo di terrorismo. È una delle lezioni di fondo da trarre da queste vicende, uno tra i motivi che spiega la fine ingloriosa dell’estrema sinistra italiana che non ha ingaggiato una simile battaglia, ma al contrario è stata complice e omertosa nei confronti di quelli che la quasi totalità dei suoi esponenti ha definito «compagni che sbagliano». Anche questo ha contribuito a far arenare e arretrare i movimenti favorendo la normalizzazione democratica. Soprattutto si sono dolorosamente bruciate migliaia di avanguardie, che pur partivano da una volontà di sincero cambiamento e trasformazione rivoluzionaria; esse si sono perse irretite dai paradigmi e dai deliri insurrezionalisti e politico-militari.

Con Rosa Luxemburg contro il terrorismo La Lega socialista rivoluzionaria e successivamente Socialismo rivoluzionario, hanno sviluppato, a mio avviso, la lotta ideale e programmatica più coerente e cristallina contro il terrorismo brigatista. Tale coerenza ha significato vivere una situazione di isolamento rispetto al resto della sinistra, proprio perché è stata una 121

lotta controcorrente sviluppata da un punto di vista rivoluzionario e socialista unendo alla condanna del terrorismo la denuncia nei confronti dello Stato democratico italiano. Ho un vivido ricordo di come l’assunzione di questa battaglia non fu affatto semplice nel contesto della sinistra: in tante assemblee bisognava lottare per prendere la parola perché i servizi d’ordine delle forze di estrema sinistra non tolleravano che si dicesse la verità sulle Br o quelli degli apparati burocrati del Pci e del sindacato non permettevano che si attaccasse la repubblica democratica. Ripensare quelle vicende permette di comprendere le ragioni di una diversità originaria del socialismo rivoluzionario che si è espressa anche in questa vicenda forse all’epoca ancora non sufficientemente cosciente. Pur attraverso gli importanti cambi e avanzamenti nei riferimenti teorici che hanno contraddistinto il percorso che dalla Lega socialista rivoluzionaria ha portato a Socialismo rivoluzionario, la lotta al terrorismo è stata un principio costante e chiaro fin dalle origini, fin da quando la Lsr era parte del movimento trotskista e della sua ala più radicale e conseguente, cioè quella dei compagni argentini del Pst e americani del Swp: questi comunque esprimevano una critica radicale nei confronti delle ipotesi guerriglieriste, minoritarie e sostituzioniste, tanto in voga nell’estrema sinistra. Pur mantenendo ancora un’internità a una dimensione politico-rivoluzionaria, la lotta contro il terrorismo era un’espressione non solo di una coerenza di schieramento con le grandi maggioranze oppresse, ma di ricerca programmatica e di principio che in ogni caso confidava nell’autoattività cosciente per realizzare le possibilità di una trasformazione socialista e rivoluzionaria della società. Un’aspirazione umanista elementare palpitava e ci ispirava pur nella logica che consapevolmente era e voleva essere tutta politica. Una politica che volevamo diversa, pulita, onesta, sincera, rivoluzionaria: le nostre illusioni si inanellavano senza posa, perché il filo che le univa era la nostra stessa umanità che si cercava negli altri, direttamente, senza saperlo.4

Nella radicale lotta del socialismo rivoluzionario contro il terrorismo brigatista hanno avuto un’enorme influenza la passione originaria di questa corrente per le rivoluzioni, la tensione ad estrarre da esse lezioni vive e attualistiche. Unitamente a 4

Idem, p. 11.

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questo ha vissuto un’impronta originaria luxemburghista, particolarmente incarnata da Dario Renzi, fondatore di questo processo fin dall’inizio. L’impronta della rivoluzionaria polacca si è fatta sempre più nitida ed esplicita. Rosa è l’unica tra i marxisti rivoluzionari che non si è mai macchiata le mani di sangue, né direttamente né indirettamente, ed è colei che in tempo reale ha sottoposto a severa critica l’operato dei bolscevichi in relazione all’utilizzo del terrore per difendere la vittoriosa rivoluzione d’ottobre. L’assumere con più profondità il riferimento ideale e umano di Rosa Luxemburg e il suo esempio di vita ha significato per Socialismo rivoluzionario radicalizzare la lotta di principio contro il terrorismo I grandi cambi epocali e le rivoluzioni dell’89 contro i regimi burocratici contribuirono a una ridefinizione di carattere programmatico e alla fondazione di Socialismo rivoluzionario. Nel nuovo programma Per una nuova idea del socialismo e della rivoluzione l’impronta luxemburghista è più nitida e viene assunta una posizione di rottura di principio contro il terrore, che è anche un inizio di rottura con il bolscevismo e il trotskismo e tutte le ipotesi stataliste rivoluzionarie. Sbarazzarsi dello statalismo ha conseguenze chiare e precise. Il socialismo ha la possibilità e la necessità di scrollarsi definitivamente di dosso l’eredità lasciatagli dalla rivoluzione borghese. La possibilità e la necessità di negare l’uso del Terrore che, istaurato dapprima dalla rivoluzione francese, fu poi usato sistematicamente, in modo più o meno mascherato, da tutti gli stati borghesi alla bisogna. Ma il Terrore fu fatto proprio anche dalla direzione della prima rivoluzione proletaria vittoriosa. (…) Per principio e di norma il socialismo rivoluzionario abbandona il Terrore in ragione della piena libertà insita nel potere proletario e popolare, per difenderlo ed accrescerlo.5

La fondazione di Sr significò, quindi, un’assunzione di principio e programmatica antistatalista e contro il terrore che radicalizzava e approfondiva la demarcazione e la lotta contro il terrorismo dal punto di vista di una nuova idea del socialismo. Il programma apriva una fase di sperimentazione, ricerca e costruzione che condusse, non linearmente, alla comprensione della necessità di un superamento della politica e alla fondazio5 «Per una nuova idea della rivoluzione e del socialismo», in D. Renzi, La nuova epoca e il marxismo rivoluzionario, vol. 2, p. 339 e seg.

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ne della corrente Utopia socialista basando ulteriormente, umanamente ed eticamente, una contrapposizione al terrorismo, comprendendo con più profondità le scaturigini e il legame profondo tra questi e i paradigmi della politica. Ciò ha significato innanzitutto riabilitare l’idea di rivoluzione ricercando le scaturigini umane e le tensioni affermative e benefiche che ne sono all’origine. Noi crediamo che la superpotenza reazionaria ed iper violenta del sistema vada lentamente corrosa, isolata, circondata e sconfitta in ragione delle scelte che saprà compiere la maggioranza dell’umanità. L’autentica rivoluzione è interessata a distruggere gli istituti oppressivi e letali, per sradicarli definitivamente, non le persone che comunque rispetterà per cercare di recuperarle ad una nuova dimensione di giusta convivenza. Perciò fronteggeremo qualsiasi tipo di dannoso violentismo che pervicacemente alligna nell’estrema sinistra. L’esaltazione della forza bruta non è affatto sinonimo di purezza rivoluzionaria, viceversa nasconde quasi sempre nuovi intenti repressivi e di potere. Perciò è determinante lottare implacabilmente contro l’insurrezionalismo da operetta e i «liberali con le bombe in mano» che portano acqua al mulino del sistema e forniscono reclute al terrorismo che del sistema è figlio legittimo. Su un piano diverso siamo fermamente avversi, con Rosa Luxemburg, alle tentazioni neo-bolsceviche che affidano al «terrore rosso» e al potere statale le fortune della rivoluzione. La storia ha dimostrato, sanguinosamente ed inequivocabilmente, che tale dottrina non solo è fallimentare ma si rivela controrivoluzionaria ed antisocialista.6

Umanesimo socialista versus terrorismo L’idea di un socialismo universale fondato e basato umanamente è inconciliabile con la politica e i suoi meccanismi infernali ed intransigentemente contrapposto al terrorismo. Tutti gli istituti oppressivi si basano sulla paura e sulla sottomissione delle persone. È in ragione del potenziale o effettivo terrore che si deve ubbidire e rispettare le regole dello sfruttamento e dell’oppressione. Questa è l’essenza e la base più autentica della democrazia al di là delle sue ipocrite rappresentazioni e dichiarazioni è la sua logica che fa prevalere la morte operando un vero e proprio rovesciamento degli autentici punti di partenza 6

Manifesto programmatico di Sr, Autorganizzazione per la rivoluzione, organizzazione per il socialismo, quaderni di Socialismo rivoluzionario, n. 1, gennaio 2002, p. 16 e seg.

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di ogni essere umano. Il terrorismo brigatista si è specularmente basato su analoghi presupposti, i suoi punti di partenza sono gli stessi degli oppressori. È l’idea che un presunto bene possa nascere dal male. D’altra parte questi punti di partenza sono propri di tutti i paradigmi della politica che si basa sull’uccidibilità, al di là di quelli che sono i suoi proclami e le sue dichiarazioni d’intenti. La politica ed il suo simulacro statale sono la riproposizione del normale trionfo della morte. In senso lato, perché essa si basa sulla conservazione delle tradizioni, sul culto del sangue, sul mito della storia patria cristallizzata, sulla costante intimidazione rappresentata dal suo sapere, dovere e potere uccidere chiunque in qualunque momento; in senso stretto, come narrano le vittime delle repressioni e delle guerre civili e controrivoluzionarie. Contrariamente a quanto sostenuto dagli spot dell’ordine costituito, questa uguaglianza tra la politica e la morte è pienamente compatibile, anzi trionfante con il sistema democratico per il suo sempre più evidente contenuto bellicista, ma anche per l’ideologizzazione e la spettacolarizzazione che fa della morte.7

Non ci può essere una soluzione politica per combattere il terrorismo, questo è connaturato all’esistenza del sistema democratico globale e più in generale a quella di tutti i poteri oppressivi. Nella contemporaneità – dove ha prevalso come mai prima la morte – il terrorismo è diventato un soggetto politico di primo piano, una realtà costantemente alimentata dal bellicismo e dalle logiche di guerra dei potenti della Terra. Per poter combattere alla radice il terrorismo è necessario farlo nel quadro di una lotta implacabile antisistemica, sottraendosi alla politica e alle sue logiche infernali per affermare autenticamente la centralità della vita e la ricerca del bene comune. Fuoriuscendo, dunque, dal piano politico militare in cui vorrebbero ricondurci. L’umanesimo socialista ha bisogno e richiede scelte coraggiose e anche controcorrente. Il coraggio di riconoscere la propria comune umanità e scegliere di lottare per essere persone migliori insieme e con gli altri. Riconoscere che la politica ha sovvertito ciò che è vero per ciascun essere umano, cioè che ogni persona in primo luogo cerca di affermare la sua capacità e volontà di vita, significa cominciare coraggiosamente a scegliere altri presupposti su cui 7

D. Renzi, La comunanza, p. 63 e seg.

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basare le possibilità di autotrasformazione rivoluzionaria e socialista. Si può scegliere infatti di coltivare e imparare a pensare quella tensione al bene propria di ogni essere umano perché si coniughi con la ricerca del bene comune da cominciare a sperimentare e vivificare fin da subito nella propria vita. «Partire dalle donne e dagli uomini, dalla realtà umana e dalle potenzialità di miglioramento, dalle tensioni affermative che universalmente ci accomunano per svolgerle e realizzarle in chiave consapevolmente benefica: questo è l’abbrivio fondato per un socialismo universale».8 E c’è una ragione di schieramento innanzitutto etico che fa mettere al centro di un socialismo universale l’affermazione della vita e combattere il terrorismo con le sue implacabili logiche di morte. È una ricerca d’amore per la specie e le sue potenzialità di trasformazione che si può cercare di cominciare a vivere. È quindi per ragioni etiche, programmatiche, di principio, non dettate dalla contingenza e dall’opportunità politica, che è necessario condannare senza appello le Brigate rosse e più generalmente lottare contro il terrorismo. In questo quadro il compito di controinformare su cosa hanno rappresentato le Brigate rosse, smontando luoghi comuni e ricostruzioni interessate, è parte di un impegno per cercare di fornire segmenti significativi di verità alle nuove avanguardie che sorgono e alla nostra gente.

8

Francesca Fabeni, Il socialismo universale, p. 63.

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APPENDICE

Nelle pagine che seguono pubblichiamo alcuni degli articoli apparsi nel corso di circa 20 anni su periodici e riviste della Lega socialista rivoluzionaria prima, di Socialismo rivoluzionario poi (Avanzata proletaria, Prospettiva socialista e Prospettiva socialista rivoluzionaria). Sono articoli che ben testimoniano l’alterità e la battaglia di queste organizzazioni contro il terrorismo brigatista in ragione del loro nefasto progetto e delle conseguenze che esso ha prodotto nel paese a partire dal fatto di aver ostacolato le lotte di lavoratori, giovani, donne e di aver aiutato concretamente il sistema ad uscire rafforzato da una crisi che pur attraversava. Gli articoli sono un’inedita e preziosa testimonianza di un’analisi «a caldo» degli avvenimenti, unici nel panorama della sinistra e dell’estrema sinistra.

CARATTERISTICHE E ORIGINI DEL TERRORISMO ITALIANO1

A partire dal caso Moro il terrorismo è diventato tema centrale del dibattito politico. Le frequenti azioni delle Brigate rosse e degli altri gruppi armati provocano prese di posizione ed analisi. Prestigiosi leader di partito, studiosi eminenti, giornalisti di nome e persino scrittori alla moda sono intervenuti. Eppure nessuno di loro è riuscito a superare il moralismo e il semplicismo nell’interpretazione del fenomeno. Non è casuale che avvenga questo: è un problema di ottica. Chi vede le Br da un lato e lo Stato dall’altro scivola in una concezione superficiale analiticamente e in un giudizio fallimentare politicamente. Infatti deve schierarsi gioco forza con lo Stato o con i terroristi oppure rimanere nello splendido isolamento che hanno scelto alcuni giovani (di Lotta continua) e meno giovani (del Vaticano) seguaci di Ponzio Pilato. Viceversa è possibile osservare e giudicare dal punto di vista della lotta di classe il terrorismo e le Br, sua principale espressione attuale. Cercare le radici di questo cancro nella crisi della società e del movimento operaio, cercare il modo per estirparlo in ragione dello sviluppo rivoluzionario del movimento di massa.

La matrice delle Br È stato sufficientemente documentato come il nucleo che poi darà vita alle Br inizialmente fosse uno di quegli innumerevoli gruppetti in cui si frazionava l’ultrasinistra italiana in generale e milanese in particolare. Ma quali erano i motivi profondi all’o1

Articolo pubblicato in Avanzata Proletaria, n. 2, 29 ottobre 1978.

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rigine di questa frammentazione? Che cosa spinse alcune formazioni verso il terrorismo? La crisi profonda e complessiva della fine degli anni Sessanta non comportò solamente la prepotente ascesa della classe operaia. Essa fu preceduta dal nascere del movimento degli studenti e seguita dalla radicalizzazione di ampi settori di piccola borghesia e sottoproletariato. Rovinati economicamente, condannati all’emarginazione dal mercato del lavoro, questi strati lottavano al fianco del proletariato per cambiare le proprie condizioni di esistenza. Al loro interno si operò una stratificazione: alcune frange non videro più nei lavoratori la possibilità di riscatto, ma la responsabilità dell’oppressione. Ciò provocò da un lato esplicite scelte a favore della borghesia e quindi uno spostamento a destra, dall’altro la nascita di formazioni che identificarono completamente il riformismo con la classe operaia, e rifiutando giustamente l’uno si isolarono assurdamente dall’altra. Il recupero a piene mani delle varie ideologie antimarxiste (maoismo, castrismo, ecc.) non eliminò ma accentuò l’impotenza e la frustrazione di questi gruppi. Ecco dunque che non sapendo partecipare alla lotta di massa contro la borghesia, che è lotta lunga e difficile ma unica veramente pagante, si sceglie una guerra privata contro alcuni borghesi; non riuscendo a stare col proletariato senza appoggiare il riformismo, si decide di stare contro entrambi. In questo modo ha origine il terrorismo italiano, che non ha una propria effettiva base di massa, ma SERBATOI DI RECLUTAMENTO in alcuni settori sociali limitati ed instabili. La stragrande maggioranza degli elementi piccoloborghesi e sottoproletari esprimono la loro ribellione in forme di lotta anche dure, ma di massa, sperimentando concretamente che è questa l’unica via per ottenere miglioramenti. In alcuni casi la precarietà della situazione combinata all’isolamento da qualunque aggregato umano – precondizione indispensabile alla lotta – può facilitare la scelta terrorista. Se è certo che il terrorismo ha la prima origine nel sistema capitalista e nello squasso sociale che genera, è altrettanto certo che sul piano politico è indispensabile rilevare alcune responsabilità. In primo luogo segnalando l’uso permanente che la borghesia ha fatto e fa del terrorismo, sia indirettamente sfruttando le azioni di gruppi come le Br, sia direttamente organizzando e foraggiando propri gruppi armati. Pesanti sono anche i carichi delle forze del movimento operaio soprattutto del riformismo che, proiettato nella ricerca di alleanze con la borghesia, lascia al proprio destino i settori più 130

colpiti dalla crisi. Del riformismo che preoccupato di non turbare eccessivamente la convivenza tra le classi si rifiuta di organizzare sindacalmente i disoccupati e i semiproletari. Del riformismo che con il suo programma collaborazionista impedisce alla classe di raggiungere la propria indipendenza unendo intorno a sé tutti gli oppressi. Sia chiaro che non stiamo rimproverando nessun «errore» al Pci e al Psi, conseguenti con la loro strategia, hanno l’unico torto… di essere riformisti. Al loro fianco è giusto collocare il centrismo e l’estremismo rei non soltanto di non aver costruito nessun polo rivoluzionario autentico alternativo alla socialdemocrazia e allo stalinismo, ma anche di essersi opposti e di opporsi con tutte le loro forze e su tutti i piani al sorgere di un tale polo.

L’ipotesi strategica È chiaro dalla loro matrice dalla loro prassi che le Br non hanno niente a che vedere con quei gruppi che agirono nella guerra civile in Russia o nella rivoluzione vietnamita. Il terrorismo in quei casi era una forma che assumeva lo scontro TRA DUE CLASSI NELLA LORO LOTTA FINALE, in una battaglia senza esclusione di colpi contro la borghesia LE FORZE DEL PROLETARIATO (cioè un’immensa moltitudine non un’infima minoranza) sceglievano di usufruire di azioni armate come tattica per conseguire l’obiettivo strategico, cioè LA PRESA DEL POTERE DA PARTE DELLE MASSE. Ugualmente i brigatisti non sono paragonabili ad organizzazioni come l’Olp palestinese, l’Ira irlandese, il Fronte sandinista nicaraguese. Abbiamo profonde divergenze con queste forze a causa della strategia che perseguono, ma è innegabile che esse rappresentano una parte importante, talvolta importantissima, del proletariato dei loro paesi. Hanno un programma rispetto al quale il terrorismo è uno strumento, talvolta negativo, ma certamente non fine a se stesso. Al contrario il terrorismo italiano, come quello tedesco, rappresenta, e nemmeno pienamente, un’infima minoranza socialmente assolutamente insignificante. Combattono UNA BATTAGLIA DI INDIVIDUI CONTRO INDIVIDUI, le cui conseguenze sono interamente negative per il movimento di massa. Non è casuale che in quintali di carta stampata dalle Br, in mezzo a fumose dichiarazioni e proclami, sia impossibile rintracciare uno straccio di 131

ipotesi programmatica. Al di là di quello cui sono «contro», per che cosa dicono di battersi le Br? Dicono di essere per la rivoluzione comunista ma praticamente che vuol dire? Che governo propongono? Che politica economica? Che politica sindacale? Nessuna risposta a conferma della mancanza di un’ipotesi strategica qualunque, a testimonianza che l’impotenza è tutta e profondamente politica. Ciò che dice di volere un’organizzazione politica ha la sua importanza per definirla. Ma è assolutamente sottomesso a ciò che fa. E dalla pratica delle Br emerge una strategia, non dichiarata ma chiarissima nei fini. La pratica del terrorismo è fatta di attentati, rapimenti, ferimenti, assassinii. Le più eclatanti di queste imprese sono state compiute in momenti particolarmente delicati del vero scontro di classe. Le conseguenze dirette non provocano grandi problemi alla classe dominante: sostituire un uomo, anche dell’importanza di Moro, non è cosa difficile per chi ha il potere. I morti per mano brigatista facilitano vittimizzazione e quindi la ripresa di credibilità dei circoli dirigenti, compattano la borghesia apparentemente contro le Br, in realtà contro il vero nemico: il proletariato. La destra riprende fiato, i corpi separati dello Stato si rimettono in moto – basti pensare a quello che sta facendo in questi giorni Dalla Chiesa – le forze della repressione si riorganizzano con la copertura del terrorismo, preparandosi in realtà a giocare meglio la loro funzione antipopolare. Ma non basta, gli pseudorivoluzionari brigatisti non solo frenano la mobilitazione delle masse ma la impediscono, la deviano o la fanno arretrare. È sintomatica la mobilitazione che direttamente hanno provocato le Br assassinando un dirigente della Lancia: gli operai sono scesi in piazza non per il contratto o contro il governo ma per i funerali di un capetto. In questo modo EFFETTIVAMENTE si fa arretrare il livello di coscienza delle masse, si forniscono possibilità immense al riformismo di mantenere la propria egemonia, non solo organizzativa, non solo politica, ma ideologica perché è facile far passare il pacifismo partendo dalle azioni criminali dei terroristi. Questi piccoloborghesi impotenti rendono più difficile per il proletariato la comprensione dell’unica via che storicamente si è dimostrata reale verso il socialismo: la presa del potere da parte delle masse in armi. Dunque le Br hanno una politica, non semplicemente destabilizzante come amano dire borghesi e riformisti. Si tratta di una politica esplicitamente GOLPISTA E CONTRORIVOLUZIONARIA. Se le condizioni della crisi economica fossero più gravi e la classe ope132

raia più debole non c’è dubbio che le azioni brigatiste fornirebbero ottime e concrete occasioni per i tentativi putschisti. Nel frattempo Curcio e la sua banda si accontentano di facilitare la marcia del piano d’austerità e normalizzazione antiproletaria portato avanti da Andreotti e sostenuto dal Pci e dal Psi. Perché è fuori discussione che il terrorismo è stato uno degli elementi che è servito a cementare l’unità nazionale.

Battere il terrorismo per fare gli interessi del movimento di massa Non abbiamo le prove che la borghesia abbia direttamente gente dentro le Br o addirittura ne abbia la direzione. Ma questo poco importa, essenziale è che la politica brigatista coincide con la linea non solo della borghesia, ma dei suoi settori più reazionari. È questo un motivo che rende non solo necessaria, ma imperativa una battaglia politica a morte contro i brigatisti. Una battaglia che non ha niente a che vedere con quella che conduce la borghesia, e anzi esclude ogni collaborazione con essa. Una battaglia con il movimento di massa, per il movimento di massa, dentro il movimento di massa. Una battaglia agitativa che tenda ad unire ed organizzare tutti gli oppressi sulle loro esigenze guadagnando a questa linea vincente anche i settori più disperati. Una battaglia politica contro l’unità nazionale per un’autentica alternativa classista. Una battaglia ideale contro i principi pacifisti e di delega del riformismo, contro i principi della violenza d’avanguardia e ugualmente di delega dell’estremismo, per restituire fiducia alle masse nell’unico strumento valido che hanno a disposizione: l’azione diretta. Tutto questo, anche questo, è contenuto di un’ipotesi strategica, dell’ipotesi strategica trotskista: la costruzione del partito rivoluzionario affinché le masse prendano il potere. Dario Renzi

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IL CASO MORO, ANATOMIA DI UNA REPUBBLICA2

Sono passati dieci anni dal rapimento e l’uccisione di Moro, il «caso» è tutt’altro che risolto. Paradossalmente solo le massime autorità dello Stato ritengono superfluo un intervento politicamente chiarificatore, mentre il «brigatista» Moretti insiste sulla linea del «tutto è stato detto». Nessuno crede che le cose stiano così. Costantemente affiorano nuovi indizi che al posto di chiarire la vicenda la complicano ulteriormente. Si è molto parlato della Renault rossa, che gli inquirenti già avrebbero conosciuto, adesso si accertano legami tra le Brigate e la malavita romana, si parla di un carabiniere infiltrato seriamente tra i brigatisti e di molte altre tracce. Ma il tutto non si riconduce a un quadro unitario minimamente credibile e comprensibile. Perché? C’è, ovviamente, un «perché» politico. Come politica dev’essere la spiegazione delle connivenze. Connivenze di tutti i tipi: tra i servizi segreti e la loggia P2, tra questa, quelli e le autorità dello Stato, tra brigatisti e servizi (solo stranieri o anche italiani?), brigatisti e malavita: ciascuno può allungare l’elenco senza bisogno di troppa immaginazione, a questo punto ogni legame è più che possibile, credibile. Ma non si trova il bandolo della matassa. Una pubblicistica numerosa, e spesso anche seriamente documentata, fiorisce, si susseguno le trasmissioni televisive – più o meno «d’assalto» – che raccolgono e cercano di sistemare i vari elementi, ma non c’è verso di trovare una lettura d’insieme. Forse bisogna aspettare le rivelazioni di qualche brigatista, non di rado oggi capaci di «cantare» come ieri di sparare. Ah, dimenticavamo: sta cominciando l’ennesima istruttoria «il Moro-quater», che la verità possa venire da lì sembra oltremodo improbabile. 2 Articolo pubblicato in due parti su Prospettiva socialista, n. 33, 18 giugno 1988, e n. 34, 27 giugno 1988.

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Il caso Moro rimane in gran parte un mistero. Sarebbe già di per sé fatto grave e sintomatico, ma lo è ancor di più perché le premesse, lo svolgimento, le conclusioni e le conseguenze di tutto l’affare hanno acquistato un rilievo particolare per il paese e soprattutto per la sua maggioranza lavoratrice. È questo aspetto, politico e istituzionale ed anche sociale, del caso che ci interessa approfondire. Certo è difficile farlo in mancanza di una ricostruzione minimamente attendibile degli avvenimenti, ma forse è un tentativo che può fornire chiavi di interpretazione dei fatti nudi e crudi, e in ogni caso è l’unica angolazione possibile per noi e a questo punto irrimandabile.

Al di là del giallo Il caso Moro cade in un momento politico particolare, che a sua volta si inserisce in una fase determinata della vita nazionale. Particolare non irrilevante e quasi sempre ignorato da chi si occupa della questione. Il significato della vicenda deve essere letto, non solo e non tanto in rapporto alla formazione del governo di «unità nazionale», ma alla situazione più generale che sottostava a questa scelta. Può sembrare una sfumatura ma non lo è affatto, o comunque è di grande portata. Infatti il «caso», tutto il caso, non solo il rapimento e l’uccisione ma come furono «gestiti» da più parti, ebbe conseguenze tutto sommato relative in rapporto alla formazione del governo Andreotti, il cui varo fu probabilmente solo accelerato dalla contemporaneità del rapimento, mentre di ben altro peso saranno le conseguenze sul medio periodo e sul rapporto tra istituzioni e società concepite nel loro assieme. Si viveva già una fase discendente dell’onda lunga dei movimenti di massa cominciati alla fine degli anni Sessanta, ma quell’onda non si era completamente esaurita, permanevano importanti elementi di conflittualità operaia e giovanile verso il regime, emergevano o riemergevano sintomi di radicalizzazione antiburocratica. E non ci riferiamo agli aspetti più clamorosi, come il movimento del ’77, ma a quelli più profondi come l’assemblea convocata da gruppi di lavoratori in opposizione ai vertici sindacali, svoltasi al teatro Lirico di Milano nel ’77. La classe dominante aveva bisogno di un’ulteriore, vigorosa, spinta normalizzatrice. Specialmente era necessario cercare di riassestare il rapporto tra le istituzioni e la società civile, un rapporto profondamente sconvolto da 10 anni di lotte e di scontri tra le classi. Il tradizionale assetto della democrazia parlamentare ita136

liana aveva urgenza di un’iniezione ricostituente: se non era possibile riacquistare la fiducia della gente, perlomeno il consenso passivo. Il caso Moro, insistiamo il «caso» complessivamente inteso, giunge ad hoc: è la scossa che permette di ricondurre, forzosamente, un’amplissima fetta dei lavoratori pienamente nell’alveo della democrazia borghese. Gli avvenimenti che si sviluppano tra marzo e maggio del ’78, e poi le conseguenze ulteriori, sono una prima sanzione della ristabilizzazione borghese, che si completerà con la sconfitta Fiat del 1980. Con questo non vogliamo dire che tutto fosse stato dettagliatamente architettato da parte dei circoli dominanti, ma come minimo che ci fu una grande capacità di sfruttare le opportunità che gli si offrivano, e che seppero anche crearsele bene queste opportunità. Le «Brigate» saranno uno strumento preziosissimo nelle mani dei padroni e della Dc, prescindendo da quanto fossero manovrate direttamente. Contano poco argomentazioni e giustificazioni, da marxisti guardiamo in primis ai fatti. C’è qualcosa di più: il caso Moro è stato rivelatore della natura più intima della Prima repubblica. Di fronte al rapimento, lungi dallo sfaldarsi, le istituzioni si compattarono. Ma lo fecero a modo loro, «all’italiana», mettendo in mostra, a chi voglia vedere, l’anatomia del regime sorto dal crollo del fascismo, rivelandone il funzionamento. Quella situazione eccezionale permette di cogliere la normale fisiologia di un regime. Ci riferiamo al groviglio inestricabile, ma funzionale, tra i vari poteri; al legame indissolubile, e certo non frutto di deviazioni, tra servizi segreti e istituzioni; alle combine e ai conflitti sanguinosi tra queste; all’armonicità dei vari partiti, di tutti i principali partiti, al sistema pur con mansioni storicamente differenti. La tesi, di parte comunista, secondo la quale il caso Moro avrebbe rivelato «due Italie», l’una «ferma e democratica» e l’altra «non ancora abituata alla democrazia», appare, in tutta la sua strumentalità, una tesi schematica e decisamente falsa. Si manifestano casomai più volti della stessa Italia – quella del potere – mentre «l’altra Italia» quella dei lavoratori è drammaticamente assente, costretta a subire tutta la vicenda, e in ultima analisi a pagarne le conseguenze.

Lo statista e lo Stato Aldo Moro è stato uno dei personaggi chiave della Repubblica italiana: architetto, protagonista e simbolo di una democrazia borghese il cui centro fu (e rimane) un partito cattolico non con137

fessionale. Moro fu colui che forse meglio incarnò lo stile democristiano. La sua cultura e finezza politica lo resero prima ancora che uomo di partito e di governo, protagonista fondamentale del regime. Fu lui a concepire e a realizzare «l’apertura a sinistra», ovvero la coalizione stabile tra Dc e partiti borghesi minori e il Psi nei primi anni Sessanta e poi a spianare la strada all’ingresso, a mezzo servizio e dalla porta secondaria, del Pci al governo nel ’77. In queste operazioni politiche c’era la comprensione profonda della natura del regime democratico-parlamentare italiano, della sua necessità costante di ricercare il consenso, o perlomeno la neutralità delle masse operaie e popolari attraverso i partiti che le rappresentano. Moro riusciva a pensare questa necessità in termini non solo contingenti, non puramente governativi, ma come collaborazione più stabile, come convergenza permanente. La profondità del suo disegno strategico derivavano da una conoscenza intima del sistema, dei suoi meccanismi, dei suoi intrighi e imbrogli inalienabili, dei suoi limiti. Nessuno più di Moro permise il riaffermarsi della centralità democristiana, dopo l’oramai irripetibile strapotere degasperiano, grazie alla coscienza che la Dc non poteva e non doveva assumersi da sola l’onere del potere. In questo senso egli fu un grande statista, capace di orientarsi tra i poteri e i sottopoteri, di garantirsi appoggi internazionali espliciti ed occulti, di barcamenarsi tra la tutela vaticana e l’amicizia con i comunisti, capace di tessere costantemente e pazientemente quella tela fatta di mille fili diversi tra loro, in cui alla fine rimarrà egli stesso mortalmente impigliato. Grande statista dunque, non al di sopra delle parti, ma fino in fondo democristiano. Lo Stato italiano lascerà che il destino di Moro si compia senza troppe preoccupazioni, perché sapeva di poterlo sostituire senza eccessivi problemi (già la designazione di Andreotti alla presidenza del consiglio nel governo di unità nazionale rappresentava un «passaggio del testimone») e di poter sfruttare l’estremo sacrificio del suo fedele servitore. Il rapimento e la morte di Moro, lungi dallo sfaldare lo Stato, lo ricompattò, lungi dal mostrarlo come strumento di dominio di una classe sulle altre, lo farà apparire come lo Stato di tutti gli italiani, lungi dal mettere in luce gli aspetti oppressivi del regime, ne esaltò le caratteristiche di fermezza «democratica». Paradossalmente l’eliminazione di uno degli uomini migliori del potere serviva al rinsaldamento dello stesso, non solo e non tanto dal punto di vista dell’organizzazione delle istituzioni, che già vivevano prima della 138

morte di Moro problemi tuttora vigenti, ma del rapporto con la società civile: fattore di capitale importanza. Il «caso Moro» non ha certo risolto la crisi di credibilità delle istituzioni repubblicane che viene maturando da lungo tempo ma ne ha lenito la drammaticità, così come ha permesso alla direzione comunista di far digerire (grazie all’emergenza nazionale), con minori difficoltà immediate, alla propria base la compartecipazione al governo. In fondo non c’era bisogno di essere un genio politico per comprendere quale sarebbe stata la risposta del potere a un gesto del genere e gli effetti di una tale risposta nella società, non c’era bisogno neppure di conoscere bene la storia, bastava pensarci seriamente per sapere che certamente la vicenda Moro avrebbe aiutato, non colpito, il regime borghese. Non ci interessa giudicare la «buona fede» dei brigatisti ma, appunto, il loro operato politico...

Brigate rozze Questa elementare considerazione sui probabilissimi effetti del rapimento e dell’assassinio del dirigente Dc, fotografa efficacemente quale e di quale livello fosse il calcolo politico della banda terroristica sedicente di estrema sinistra. Cronisti e storici degli «anni di piombo» hanno insistentemente cercato di presentare il brigatismo come un fenomeno tutto interno al movimento operaio, prodotto diretto dell’ascesa del ’68 e basato su un «ferreo-impianto-teorico-marxista». Imprecisioni, esagerazioni e menzogne colossali sono servite ad esaltare il terrorismo «rosso» quale presunta punta avanzata del movimento di opposizione e dell’estrema sinistra, con l’obiettivo non troppo nascosto di contrabbandare improbabili parentele e di gettare fango sulle forze rivoluzionarie autentiche. Se si risale alle origini delle brigate, si comprende immediatamente come non ci sia nessun legame organico e corposo con istanze di base del movimento operaio (tutt’altra cosa è il «tifo» o la distaccata simpatia che frange proletarie arrabbiate potranno manifestare successivamente verso questa o quella impresa brigatista). Il rapporto di alcuni «capi storici» brigatisti con il movimento studentesco del ’68 appare come un fatto inessenziale rispetto alla dinamica politica del terrorismo. In quel movimento, soprattutto all’inizio, c’erano quasi tutti, compresi personaggi oggi di primo piano nel Pci, nel Psi o in par139

titi borghesi. Cercare la genesi strutturale delle formazioni terroriste nel movimento studentesco è una delle mistificazioni più frequenti nella saggistica sull’argomento. È vero che il movimento studentesco alimentò lo svilupparsi di tendenze estremiste, che pure avranno una funzione dannosa, ma che poco o nulla avevano in comune con il terrorismo. Forse la bugia più grande però è quella che riguarda il presunto marxismo delle brigate. Il primissimo nucleo del terrorismo italiano contemporaneo ha un profilo politico-ideologico marcato quanto grezzo. Qualcuno dei fondatori viene dal Pci, portandosi appresso l’ideologia «resistenziale» che fa dell’uso delle armi la garanzia di rivoluzionarismo e della lotta antifascista il problema della nostra epoca. Qualcun altro è di estrazione «Ml», ovvero maoista all’italiana, e spaccia massime e detti celebri del leader cinese per «la dialettica», si rifà pomposamente alle esperienze rivoluzionarie orientali (senza capirne né i percorsi né soprattutto i risultati tremendamente contraddittori) e anela al «Pci anni Cinquanta». Insomma alle radici delle brigate c’è il peggio della sinistra e dell’estrema sinistra italiana, c’è lo stalinismo come cultura (si fa per dire), il riformismo come aspirazione, la disperazione come motivazione e la violenza gratuita come metodo. Non è casuale che quando le brigate esordirono nei primi anni Settanta, l’insieme dell’estrema sinistra le condannò, più o meno duramente, ma chiaramente. Sin dai primi passi apparivano come un fenomeno negativo e difficilmente catalogabile per il suo basso profilo politico, per la pochezza delle sue definizioni teoriche e strategiche, per la grossolanità dell’analisi e delle posizioni. Pure in un’estrema sinistra non raffinata dal punto di vista del marxismo, come quella italiana, le Brigate rosse apparivano per quello che erano: un gruppo di desperados, con un’infarinatura di cultura accademica, le orecchie piene dell’eco di battaglie lontane, la voglia di «fare qualcosa» e una totale confusione politica. Ma queste brigate furono presto sbaragliate, la parvenza di organizzazione che avevano messo in piedi ridotta ai minimi termini. Alla vigilia del caso Moro risorgeranno, come per miracolo, con un personale politico ancor peggiore del precedente, pronti a fare il loro «grande» ingresso sulla scena politica. Dario Renzi

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INTRIGHI E BRIGATE DI PALAZZO3

La piaga, mai rimarginata, nelle ultime settimane è ridiventata uno squarcio. Il caso Moro si riapre in condizioni inspiegate, lasciando trasparire una volta di più l’intreccio marcio dei poteri nella repubblica. Non si riconferma solo la diagnosi – che abbiamo sempre affermato – sulla funzionalità al regime del terrorismo brigatista, sulla sua letalità per il movimento dei lavoratori. Si delineano ancora meglio, pur nei misteri, le connivenze e le compenetrazioni: tra brigatisti e brigadieri, ministri e piduisti, servizi segreti e commissioni d’inchiesta... Il ritrovamento del memoriale Moro e di armi Br nel covo di via Monte Nevoso a Milano spalanca clamorosamente un caso in verità mai chiuso, nonostante i tentativi ripetuti in 12 anni di dichiararlo risolto da parte delle massime autorità. Il mistero del nascondiglio del muro (le 421 pagine saranno state messe successivamente alla prima perquisizione o sono state ignorate dai solerti carabinieri di Dalla Chiesa?) si aggiunge all’elenco dei misteri preesistenti. Per citare i più risaputi: la scomparsa fin dal momento del sequestro delle borse di Moro contenenti documenti riservati, la sparizione degli originali (manoscritti e nastri) degli «interrogatori», il tentativo di depistaggio delle indagini col falso volantino del lago della Duchessa (di assumersi la cui «paternità» ora sembra che un finanziere abbia tentato di convincere invano un membro di Azione rivoluzionaria), il ritardo di mesi con cui sono state verifìcate le informazioni di un’inquilina di via Montalcino circa l’avvista3

Articolo pubblicato in Prospettiva socialista rivoluzionaria, n. 89, 27 ottobre 1990.

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mento della fatidica Renault rossa (ritardo che permise ai brigatisti un tranquillo trasloco in altro nascondiglio), la composizione della commissione tecnica del ministero degli Interni tutta di membri della P2... Non sono elementi casuali ma tessere di un mosaico ancora assai confuso di cui s’intravede una trama di fondo. L’inchiesta doveva andare in una certa direzione e chiudersi al più presto. A quattro anni fa risale anche un’interrogazione al ministro di Grazia e Giustizia sulla necessità di una «più accurata perlustrazione dei locali di via Monte Nevoso» fatta dal componente comunista della commissione d’inchiesta, a cui gli inquirenti opposero un rifiuto essendo stato il covo «scarnificato mattonella per mattonella». Quali siano le ragioni per cui oggi il caso riesplode (chi ha silurato chi) è importante ma fino ad un certo punto rispetto alla portata del terremoto in atto. È comunque assai significativo che la stessa stampa di regime debba prendere in esame come cause ipotizzabili, e come se si trattasse di ordinaria amministrazione: le faide interne alla Dc per la scalata al Quirinale; lo scontro tra Psi e Dc; l’intervento del servizio di sicurezza israeliano per colpire il settore filoarabo del governo italiano. Sta di fatto che, nonostante lo sgomento dei diretti interessati e la precauzione massima a contenerne e allontanarne gli effetti, il terremoto Moro ha comunque investito il Palazzo e i suoi occupanti di ieri e di oggi (compresi gli inquilini sfrattati). Non sta risparmiando nessuna istituzione: in prima fila Presidenza della repubblica e del consiglio ma tutto il sistema di potere, i protagonisti più o meno diretti del regime ne risultano coinvolti, e può rivelarsi un boomerang anche per chi l’ha innescato. Le scosse sono prodotte da diversi fattori. Innanzitutto il memoriale, che contiene giudizi molto lucidi sul sistema di potere al cui centro è la Dc, rivelazioni sul suo sistema di finanziamento (Confindustria e Cia), le alleanze internazionali, l’uso della strategia della tensione per normalizzare la situazione sociale e politica dopo il ’68. Niente di sconosciuto nel merito, come non è inedita l’intenzione dichiarata di Moro di dimettersi da tutte le cariche della Dc. Ma fa comunque effetto leggere l’atto di accusa lanciato non da un personaggio qualsiasi ma da uno dei protagonisti più di spicco di quello stesso regime, uno dei costruttori del sistema di alleanze e di tessuto intorno alla Dc che tanta parte hanno avuto nel mantenimento della sua 142

centralità. Fa effetto leggere i giudizi aspri su Cossiga, Fanfani e Andreotti che non sembrano dettati solo da considerazioni strettamente legate alla condizione di Moro di sapersi condannato a morte. Moro rimprovera alla Dc di essere venuta meno alla sua ispirazione originaria, di aver lasciato l’umanità al Psi, di aver infranto le regole di elementare democrazia non convocando nessun organismo formale per decidere della sua sorte di presidente del Consiglio nazionale. Lo statista si sente – a ragione – scaricato dal suo partito e dal suo Stato. Quanto la sensazione rispondesse a motivazioni assai profonde lo analizzava già un articolo apparso sui numeri 33 e 34 di Prospettiva socialista al decennale del caso Moro («II caso Moro, anatomia di una repubblica» di Dario Renzi): lo Stato italiano lascerà che il destino di Moro si compia, senza troppe preoccupazioni, perché sapeva di poterlo sostituire senza eccessivi problemi (già la designazione di Andreotti alla presidenza del consiglio nel governo di unità nazionale rappresentava un «passaggio del testimone») e di poter sfruttare l’estremo sacrificio del suo fedele servitore. Il rapimento e la morte di Moro lungi dallo sfaldare lo Stato lo ricompattò; lungi dal mostrare lo Stato come strumento di dominio di una classe sulle altre lo farà apparire come lo Stato di tutti gli italiani, lungi dal mettere in luce gli aspetti oppressivi del regime ne esaltò le caratteristiche di fermezza «democratica» (...). Si viveva già una fase discendente dell’onda lunga dei movimenti di massa cominciati alla fine degli anni Sessanta, ma quell’onda non si era completamente esaurita; permanevano importanti elementi di conflittualità operaia e giovanile verso il regime, emergevano o riemergevano sintomi di radicalizzazione antiburocratica (…). La classe dominante aveva bisogno di un’ulteriore vigorosa spinta normalizzatrice.

Il caso Moro venne ad hoc. Troppo ad hoc: non poteva esserci occasione migliore perché le istituzioni ristabilissero il proprio dominio sulla società civile (pur non riuscendo a risolvere le contraddizioni profonde che le attraversavano). Alla luce degli ultimi anni si può dire che l’analisi sul ruolo obiettivamente e materialmente filogolpista e reazionario della banda chiamata Br (dicevamo: indipendentemente da quanto le Brigate fossero manovrate direttamente) era approssimata per difetto. Gli indizi si infittiscono: copertura nelle indagini, infiltrazioni, rivelazioni sulla «direzione strategica» che corrisponderebbe solo al livello più alto conosciuto, ma non alla vera direzione Br, come risulta da un rapporto dei servizi segreti; la stessa trasformazione delle Br da formazione artigianale e in declino a corpo superequipaggiato ed addestrato... 143

In una repubblica in cui lo stragismo è stato utilizzato senza scrupoli, assicurando l’impunità a tutti i suoi principali responsabili, è assolutamente verosimile che il terrorismo brigatista sia stato usato direttamente dalle istituzioni per ottenere tremendi effetti di normalizzazione politica e sociale. Ha goduto e gode dei suoi livelli di impunità in Italia e all’estero e del privilegio di poter «non ricordare» (alla faccia del superpartito della «fermezza»!). È non solo patetica ma letale la difesa della linea rivendicata ancora una volta dal Pci sempre meno nuovo: aver fatto quadrato intorno alle istituzioni «democratiche» (Presidente del consiglio in testa) per difenderle dall’attacco terrorista. Ignorando – volutamente ormai – che le istituzioni democratico-borghesi sane, indipendenti dagli altri centri di potere non esistono. Governi e forze parlamentari si sono nutrite e sviluppate in questo paese di concerto coi servizi segreti, le logge, gli affaristi, coprendo ed utilizzando lo stragismo nero e il terrorismo «rosso», ricompattandosi soprattutto nei momenti di maggior bisogno, di difesa del regime nel suo insieme. È l’attuale Presidente del consiglio in carica – lo stesso dell’unità nazionale di ieri – che ha mentito per anni nascondendo l’esistenza del servizio segreto parallelo «Super Nato». È alla luce del sole che l’efferato maestro venerabile circola nella penisola per ritirare premi letterali. Non sono «deviazioni»: è la prima repubblica. Carla Longobardo

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Leggendo A viso aperto GRAZIE CURCIO!4

Siamo contenti per la libertà, ancorché parziale, di un uomo dai labirinti infernali delle istituzioni totali; prendiamo atto della sua coerenza. Ma tutto il resto, proprio tutto, ci divide. Siamo stati divisi e contrapposti a gente come Curcio durante questi anni, lo siamo ancor di più, se possibile, ora, leggendo la sua confessione-intervista realizzata da Scialoja e pubblicata da Mondadori. Un libro assai interessante che, nella pochezza ideologica italiota fin de siècle, si avvia a diventare un bestseller. È lo stesso fondatore delle Brigate rosse, senza apparenti reticenze, a confermarci e a spiegarci le tesi per le quali siamo stati contrastati, osteggiati e calunniati da tanti negli ultimi tre lustri. Addirittura egli ci fornisce nuovi elementi ed argomenti, lucidamente inconsapevole del grande gioco cui appartiene. Così per l’ennesima ironia della nuova epoca, Renato Curcio porta acqua al mulino dell’unica critica da sinistra, intransigente ed implacabile ancorché impopolare, cui sono state sottoposte le bande armate togliattiane del dopoguerra in Italia; la critica dei socialisti rivoluzionari. Leggere per credere. Innanzitutto colpisce il tono generale, lo spirito d’assieme che trapela dallo scritto, il senso che lascia addosso il succedersi delle parole, delle analisi, dei giudizi. Siamo di fronte ad una pagina di questo regime, senza dubbio: i nomi e la logica, i ragionamenti e l’impianto intellettuale sono quelli, inconfondibili, noti, che non lasciano spazio all’idealità né alla laicità, che annullano l’intelligenza costruttiva e divorziano dai flussi universali. 4

Articolo pubblicato in Prospettiva Socialista rivoluzionaria, n. 138, 28 aprile 1993.

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Curcio descrive, non senza il pregio della chiarezza, quel qualcosa che lo ha reso famoso, quel «progetto politico» brigatista nei suoi tratti essenziali: proveniente dal nulla e marciante – rumoroso e sanguinoso – verso il nulla, un «progetto» senza storia ed ignaro della Storia, fuori dal mondo inteso come totalità sociale concreta e viva fatta di centinaia di milioni di donne ed uomini che vivono e lottano. Il «mondo» che Curcio ci racconta è un altro: fatto da gruppettari inguaribili, intellettuali frustrati, operai comunisti doc; puzza di cordite e non basta qualche paesaggio montanaro a rallegrarlo. Così come la sua triste «storia» è fatta da armi provenienti dalla guerra civile spagnola, consegnate dal partigiano di turno e poco importa se sporche del sangue anarchico, poumista o dei rivoluzionari in genere; è storia patria, dove l’Urss può anche non essere stata un modello, ma il «baluardo del socialismo» sì, perbacco, e la classe deve farsi nazione ed all’estero si va per cercare mezzi o, al massimo, in esilio. No, non esageriamo oggi, come non esageravamo ieri. Ecco la splendida sintesi fornita da Curcio sulle radici teorico-politiche ed il progetto delle Br: La Brigata inizialmente era il nucleo elementare di un progetto organizzativo in cerca di definizione: nessuno di noi aveva ben chiaro cosa dovesse essere e, del resto, non cercammo neppure di far sembrare che fosse chiaro. (A viso aperto, p. 9, sottolineatura nostra).

Questa stupida vaghezza, da tanti e per tanto tempo, è stata contrabbandata come un’alternativa rispettabile, come l’ipotesi di «compagni che sbagliavano», come qualcosa imparentata al marxismo e alla rivoluzione! Questo «progetto organizzativo in via di definizione» senza basi scientifiche è cresciuto autoalimentandosi di piombo e sangue nella broda stalinista all’italiana, trovando eco – questo sì l’avevamo sottovalutato – in schegge del vecchio movimento operaio uscite dalla fucina di fandonie dei capi della resistenza. Ci sembra ancor più orrendo ripensare a chi si giustificava, nella propria inconsistenza classista e marxista, dietro il fatto che i brigatisti raccoglievano simpatie «nel movimento». Le simpatie che scaturivano dalle tossine staliniste: ragione di più per combatterle senza requie. Ma oggi, con la freddezza mentale che dovrebbe nascere dagli anni trascorsi e da ciò che hanno significato, ci aspettiamo una riflessione seria ed autocritiche chiare e copiose. Leggete Curcio compagni e compagne della sinistra estrema e ascoltate bene come riecheggia, a modo suo ça va sans dire, 146

le analisi e le denunce che da sempre furono espresse intorno al terrorismo dai «provocatori» trotskisti. Scialoja domanda: «II volantino (che rivendicava Margherita Cagol, ndr) finisce con la parola “vittoria”: nel 1975 credevi davvero che la vostra lotta armata potesse conquistare un qualche tipo di vittoria?». E Curcio risponde: Bisogna intendersi sul significato della parola. Voglio essere molto franco: non ho mai pensato che lo sbocco vittorioso della lotta armata dovesse significare la conquista materiale del potere. Questa prospettiva non apparteneva al mio scenario mentale e alle mie convinzioni. D’altro canto non ci si batte, come noi abbiamo fatto, pensando di essere per forza sconfitti. (…) Sintetizzando le cose con una formula elementare, posso dire che quella società in cui vivevamo non mi andava assolutamente bene, non volevo a nessun costo accettarla, lottavo per cambiarla. E la parola «vittoria» significava la speranza di riuscire a modificare, almeno in parte, lo stato delle cose. Scialoja: A quale modifica dello «stato delle cose» pensavi di poter arrivare? Curcio: Comunque alla messa in crisi del regime politico che aveva guidato l’Italia nel dopoguerra. Quello era il mio principale obiettivo e, in quel momento, credevo ancora che fosse possibile raggiungerlo. Ritenevo che il nostro paese non godesse di una piena democrazia e che far saltare le alleanze di potere che lo tenevano bloccato, in qualsiasi modo ciò avvenisse, sarebbe stato un buon risultato. Scialoja: In sostanza credevi in una specie di riformismo armato: non era, già allora, un’irragionevole contraddizione logica e ideologica? Curcio: (...) La mia idea di allora era che ci volesse una spinta rivoluzionaria che sapesse raccogliere l’energia sociale, sprigionata dai grandi movimenti di quegli anni, in modo da far saltare il blocco istituzionale. Oggi, credo di poter dire che il mio errore di valutazione politica è stato quello di aver attribuito eccessivo peso alla Democrazia cristiana. Mi sono accorto che il regime che teneva bloccata la situazione era di fatto un blocco di alleanze che coinvolgeva l’intero sistema dei partiti, anche quelli di opposizione. Un’opposizione finta! In realtà, il «cuore dello Stato» che volevamo colpire non era rappresentato solo dalla Dc, ma da tutto il complesso politico-istituzionale che proteggeva se stesso in una continuità di regime. In quella situazione, comunque, per ottenere delle riforme vere si sarebbe dovuto scardinare il blocco e quindi «fare la rivoluzione». Così l’immagine del «riformismo armato» non appare del tutto irragionevole e contraddittorio: per ottenere le riforme bisognava armarsi». (A viso aperto, p. 125 e segg., sottolineature nostre).

Non ci sono interpretazioni da fare, non c’è da leggere tra le righe, non c’è da discutere: le parole di Curcio trasudano il togliattismo più tradizionale e greve. L’uso di mezzi presunta147

mente rivoluzionari per ottenere obiettivi realmente riformisti, ovverosia per costruire un altro regime borghese, o per cambiare un poco quello esistente: ecco il succo della filosofia brigatista reale, non di quella fasulla ripetuta ossessivamente e ad arte dai brigatisti e dai brigadieri, dalla grande stampa borghese e dall’Unità, dalla Rossana-nazional-popolare e dagli estremisti di diversa estrazione. Questa filosofia così brutalmente antimarxista è stata alla base di una politica, di azioni politiche rilevanti per l’uso che se ne è voluto fare. Attraverso le azioni armate, in teoria assai difficili per questi sprovveduti brigatisti, in pratica molto facili grazie a «circostanze» e connivenze che ci sono tecnicamente, non certo politicamente, ignote, massimamente attraverso il rapimento e l’uccisione di Moro, le Br perseguirono e parzialmente ottennero due obiettivi. Aiutarono la chiusura definitiva di un ciclo ascendente di lotte sociali di grande importanza, ma ancor di più seminarono confusione e discredito, menzogne e fango sull’idea della rivoluzione, l’unico strumento di autoemancipazione che le classi lavoratrici possano percorrere. Certo questi obiettivi non erano solo delle Br, ma in primo luogo della classe dominante e dei suoi principali circoli politici (élite riformista compresa). D’altra parte il libro di Curcio illustra come i brigatisti non abbiano mai preteso di essere protagonisti: sapevano perfettamente di essere delle comparse assai utili e si sono vissuti il loro quarto d’ora di notorietà. C’era bisogno di uno spot efficace e sanguinario sul «comunismo», uno spot nostrano che sintetizzasse il film russo ed allontanasse decine di migliaia di lavoratori e donne e giovani radicalizzati dalla tentazione di riscoprirlo sul serio il comunismo, quello vero. I brigatisti si sono prestati disciplinati alla bisogna. Non è questa la sede per una ripresa complessiva di riflessione sul terrorismo, ma in troppi, ed in maniera troppo marchiana, si sono ingannati a sinistra per sottovalutare la discussione che il libro di Curcio deve riaccendere. Le nuove generazioni ne hanno troppo bisogno, l’idea e la pratica della rivoluzione possibile dev’essere completamente ripulita dalla melma brigatista come da quella riformista, il patrimonio ed il programma marxista rivoluzionario non possono tollerare contiguità di alcun tipo con le bande riformiste armate. Ma questa volta, e ci rivolgiamo a chi possiede ancora una dignità a sinistra, la discussione va fatta senza trucchi, senza imbrogli, chiamando le cose con il proprio nome. Curcio ci aiuta, 148

in questo, perché ora dice alcune verità politiche evidenti e da noi sistematicamente svelate, ma da quasi tutti gli altri perennemente occultate, sulle Br, il loro progetto ed il loro carattere, e questo al di là delle collusioni, alleanze ed infiltrazioni su cui pure c’è molto da scoprire. È in primo luogo sulla natura intima delle Br che bisogna fare chiarezza. Noi l’abbiamo fatta da tempo e nella lotta contro il terrorismo antirivoluzionario e filopadronale abbiamo trovato, per la negativa, ancor di più le radici profonde e serie delle nostre ragioni marxiste rivoluzionarie. Adesso (finalmente?) tocca agli altri, a coloro per cui le Br sono state in qualche modo un orrendo specchio ed una drammatica testimonianza di deficienza marxista. Conviene non aspettare oltre, perché la realtà del regime in disfacimento e della crisi dello Stato proporranno ulteriori interrogativi che fatalmente coinvolgono anche i brigatisti e chiamano in causa chi da sinistra non ha saputo combatterli. A proposito, vogliamo chiudere con un’altra citazione: Scialoja ha interrogato Curcio sul perché i brigatisti non hanno utilizzato in qualche modo le «confessioni» fattegli da Moro e svelate, in parte, solo 12 anni dopo. Curcio ha risposto: Dall’idea che mi sono fatto poi, parlando in carcere con i compagni che hanno condotto l’azione, i motivi per cui quel materiale non è stato utilizzato sono soprattutto due. La prima ragione fondamentale è che la direzione ha sottovalutato quello che Moro aveva detto, forse senza neanche ben capire alcuni passaggi delle cose da lui raccontate. (...) Il secondo motivo sta nel fatto che dopo l’uccisione di Moro si scatenò una campagna poliziesca fortissima e i compagni ebbero un sacco di problemi urgenti da risolvere. (A viso aperto, p. 169 e seg., sottolineatura nostra).

Che dire di questi «ragazzi del ’68» capaci di giocare così bene a guardie e ladri e poi incapaci di capire le parole del loro illustre rapito? E soprattutto cosa pensare del fatto che pronti a far giungere in qualsiasi momento alla stampa deliranti ed insulsi comunicati, non hanno fatto l’unica cosa in qualche modo utile alla gente: divulgare ciò che aveva detto Moro? Provocatori riformisti certamente, ma probabilmente anche imbecilli. 14 aprile 1993 Dario Renzi

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Nuove rivelazioni sul caso Moro IL RAPIMENTO DI STATO?5

E non poteva essere qualcuno legato ad apparati dello Stato, che ha saputo cosa stavate preparando, vi ha seguito mentre lo facevate e vi ha permesso di arrivare fino in fondo? Esclude anche questo? Io ho sempre pensato di no. Ma arrivati a questo punto, vorrei saperlo anch’io. Sì, io posso escludere di essere stato usato direttamente, che qualcuno all’infuori delle Brigate rosse ci abbia detto cosa fare o perché farlo. Ma come faccio a escludere che qualcuno, qualche apparato dello Stato o chissà chi altro, abbia cercato di usarci indirettamente, senza che ce ne rendessimo conto? Se è stato così, a questo punto mi piacerebbe saperlo, visto che sono in carcere da 15 anni e ho da fare quattro ergastoli. (Franco Bonisoli, la Repubblica, 15 ottobre 1993) Davvero lei ritiene che in Via Fani, e più in generale nell’ambito del rapimento Moro, non ci fu alcuna presenza dei servizi segreti? No, i servizi segreti non credo appartengano alla storia delle Brigate rosse, una storia, che ripeto, da un certo momento in poi, io ho comunque sempre dovuto ricostruire nel chiuso della mia cella. (Renato Curcio, l’Unità, 15 ottobre 1993)

Franco Bonisoli membro dell’Esecutivo delle Br al momento del sequestro di Aldo Moro nel ’78; fondatore del gruppo, Renato Curcio. Voci di dentro, messaggi dal «cuore» del terrorismo brigatista. E allora a chi dobbiamo credere, a loro, alle prime e significative crepe nelle loro irriducibili certezze o ai vari Moretti, Azzolino o Gallinari? Giorgio Bocca e Rossana Rossanda hanno fatto da tempo la loro scelta. Nonostante tutto e nonostante la trama si infittisca, tanto da far insinuare il dubbio anche ai brigatisti di cui sopra, loro tengono duro: «poiché in Italia l’essenziale è fin troppo 5

Editoriale di Prospettiva socialista rivoluzionaria, n. 146, 9 novembre 1993

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chiaro». «Le Brigate rosse – afferma ancora Rossanda – sono state un gruppo estremista di sinistra, lo hanno scritto in chilometrici documenti e comunicati, sta nelle biografie, lo dicono i cosiddetti irriducibili, lo confermeranno eserciti di pentiti, se ne battono il petto decine di dissociati». Noi, più modestamente abituati a valutare attentamente i fatti prima di parlare, giudichiamo gli uomini e le donne non dalla loro coscienza di sé e degli altri, da ciò che scrivono o affermano, ma da ciò che concretamente fanno, hanno fatto e intendono fare. C’è chi non ha aspettato quasi 20 anni per farci sapere che, comunque, ha «dovuto ricostruire» i fatti «dal chiuso della sua cella» o che non può «escludere» che indirettamente qualcuno lo abbia usato, ma anche questo è un segnale. Per chi si sente e fa parte della sinistra rivoluzionaria, o, comunque, chi da sinistra vuole mantenere un minimo di onestà politica ed intellettuale, il passaggio è cruciale. Perché l’evidenza dei fatti impone anche a chi è stato disposto ad accettare o subire questa promiscuità nella sinistra, tanto più nella sinistra rivoluzionaria, di fare seriamente i conti. I conti con uno scenario in cui, qualunque fosse la coscienza che ne avevano alcuni dei protagonisti, generali e informatori, mafiosi e agenti segreti, lobbies politiche e, Dio sa che altro, hanno comunque avuto qualcosa a che fare. In questi anni abbiamo cercato di farlo, controcorrente. «Brigatisti di Stato o brigadieri rossi?» si domandava una copertina di questo quindicinale solo qualche anno fa, era il ’90. Ma la nostra è una convinzione, quella dell’utilizzo antioperaio del «riformismo armato» delle Br, che viene da lontano. E, tanto più oggi, ci domandiamo: «Perché?». Perché in tutti questi anni nessuno, salvo qualche coraggioso studioso, ha voluto né a destra né a sinistra, figuriamoci al centro, cercare di rispondere ai misteri del rapimento Moro? La domanda la rilanciamo a tanti compagni e compagne che dagli anni Settanta hanno contribuito a scoperchiare per primi la fogna della Prima repubblica. Perché anche loro, soprattutto loro, se vogliono possono scoprire tante verità che, né lo Stato e né le Br, hanno alcun interesse a svelare. Per la «strage di Stato» ci fu bisogno di rimboccarsi le maniche. Forse è venuto il momento di abbandonare rossori e imbarazzi e di iniziare a mettere direttamente e seriamente le mani in quei 55 giorni del ’78. 25 ottobre 1993 152

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