Breve storia della psicoanalisi 9788845251078

Convinto che più che essere un “lungo ragionamento” la teoria psicoanalitica sia un acceso diverbio, un dibattito in cui

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Breve storia della psicoanalisi
 9788845251078

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Convinto che la teoria psicoanalitica non sia tanto un "lungo ragionamento" quanto un acceso diverbio, un dibattito in cui ognuno è libero di esprimersi come preferisce, senza sentirsi giudicato o limitato dalla presenza di un moderatore, Carotenuto mostra al lettore il volto più autentico della psicoanalisi, riuscendo al contempo a offrirne un’illuminante definizione. La dimensione psicoanalitica è stata sempre fumosa, aggrovigliata, contraddittoria, decisamente antipatica, ma grazie alle considerazioni di Carotenuto, sarà possibile accostarsi a essa senza il timore reverenziale che di solito accompagna (e guasta) l’approccio a tale disciplina.

ALDO CAROTENUTO è tra le figure più significative dello junghismo internazionale. È membro dell’American Psychological Association e presidente del Centro Studi Psicologia e Letteratura. Professore di Psicologia della personalità all’Università di Roma, ha scritto oltre quaranta libri, alcuni dei quali tradotti nelle maggiori lingue europee e in giapponese. Fra le sue ultime opere segnaliamo: Il gioco delle passioni, L’anima delle donne, Vivere la distanza, La colomba di Kant, L’eclissi dello sguardo, Eros e Pathos, Il fondamento della personalità, Integrazione della personalità, Nostalgia della memoria, La strategia di Peter Pan, Trilogia delle passioni, Freud il perturbante, Il tempo delle emozioni.

eISBN 978-88-58-72839-0 © 1999/2002 RCS Libri S.p.A. Via Mecenate 91 – 20138 Milano Prima edizione digitale 2012 da seconda edizione Tascabili Bompiani maggio 2002 Copertina: Clarence Holbrook Carter, departure, 1981, courtesy of Gimpel & Weitzenhoffer Ltd, New York, part. progetto grafico Polystudio. Copertina Aurelia Raffo. Visita il sito www.bompiani.eu e diventa fan di Bompiani su Facebook (http://www.facebook.com/pages/Bompiani/111059814766) Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

Un particolare ringraziamento va ai miei collaboratori Stefania Aprile, Marina Bidetti, Francesca Garofoli, Emanuela Gastaldi, Margherita Giunco, Veruska Mangieri, Donatella Meliadò, Claudio Morici per i loro preziosi e costruttivi suggerimenti che mi hanno sostenuto nell’elaborazione di questo testo.

1. LA PAROLA A GALILEO In tutte le discipline umane c’è sempre un antecedente. Qualcuno con accurate ricerche, può scoprire che molto tempo prima di quanto si creda una determinata dottrina, oppure quel particolare pensiero, era stato espresso per poi essere dimenticato del tutto. Così è per psicoanalisi, le cui radici, come si suol dire, si perdono nella notte dei tempi. Sin da quando ero un ragazzo cercavo sempre di rintracciare quelli che vengono chiamati gli ’antecedenti’ ed era per me una corsa quasi infinita perché ogni autore rimandava a un altro. Era il tempo in cui sui giornali o sui libri rinvenivo strane notizie alla "Colosimo", allora notissimo esperto di archeologia della cultura. Un fatto curioso era, per esempio, che un naturalista scozzese aveva intuito e descritto molto prima di Darwin il processo di selezione naturale. Sono molti gli autori e gli studiosi che hanno dedicato a questa archeologia del sapere i loro sforzi e il loro impegno di ricerca. Per ora basterà riferirsi all’imponente opera di Ellenberger, La scoperta dell’inconscio (1970) che, come sappiamo, dà inizio alla sua storia con lo studio della medicina primitiva dell’anima. D’altro canto è opinione diffusa che la psicoanalisi abbia origine con gli studi e la pratica clinica di Freud, e sarà quindi con un’attenta riflessione su questo autore che prenderà il via questa nostra Breve storia della psicoanalisi. Per iniziare questo viaggio conoscitivo nel regno della psicoanalisi, dovremmo anzitutto cercare di rispondere a un importante interrogativo che, in linea generale, può essere riassunto in questo modo: a quale disciplina appartiene la psicoanalisi? Questa domanda potrebbe anche un po’ disorientare il lettore, in particolar modo se si avvicina alla psicoanalisi per la prima volta, senza averne quindi mai analizzato i dilemmi, i dubbi, le angosce, i pettegolezzi, le

calunnie, i mal di stomaco, il terrorismo culturale, la prepotenza, il fondamentalismo psicologico, la Santa Inquisizione, i tribunali speciali e le critiche che negli anni si sono via via susseguite, e questo per tutta una serie di ragioni che cercheremo di chiarire insieme. Inoltre, bisogna fare attenzione perché verso la psicoanalisi sono sempre attratte persone un po’ strane, psicopatici, demagoghi, appartenenti ad associazioni per delinquere, gravi malati mentali. Infine entrano nel campo della psicoanalisi dei terribili narcisisti che sono, secondo il mio punto di vista, la causa prima dell’avversione che la gente comune prova nei confronti di Freud e compagni. Si può dire che da quando la psicoanalisi venne al mondo, nacque anche l’accanimento dei suoi detrattori ed è probabile che questa lotta non abbia mai fine proprio perché la materia del contendere non ha le basi solide dei fatti incontrovertibili. La stessa cosa capita per Darwin. A questo proposito Dennett osserva:

È importante riconoscere che il darwinismo ha sempre avuto la deplorevole capacità di attirare gli appassionati meno graditi - demagoghi, psicopatici, misantropi e altri che abusano dell’idea pericolosa di Darwin (1995, 333).

Anche la nascita delle vaccinazioni evocò una serie di dibattiti e di detrattori ma di fronte a esiti concreti, anche se ancora oggi c’è chi non rinuncia a muovere obiezioni, è difficile metterne in discussione il valore preventivo. Bisogna ammettere che esiste una particolare tendenza dell’anima umana a negare anche le cose più incontrovertibili. Basterebbe dare un’occhiata al breve ma intenso volumetto di Till Bastian (1994) sugli stermini nazisti e sui tentativi di negarne

l’esistenza. Ma ogni qualvolta uno studioso intenda interessarsi e interrogarsi circa il valore scientifico della psicoanalisi in genere giunge a conclusioni piuttosto scoraggianti, anche perché si deve scontrare con i fondamentalisti di questa dottrina, quelli che potremmo definire i Talebani della psicologia. Il problema è complesso e intricato anzitutto perché di esso non sono a tutt’oggi chiare le tesi. Sarebbe infatti troppo semplicistico e riduttivo affermare che il nodo della questione risiede nella validità o non validità scientifica di teoria e prassi psicoanalitiche. Quello che occorrerebbe anzitutto chiarire è che cosa in realtà si chiede oggi alla psicoanalisi e se questa disciplina risponde e reagisce in maniera significativa alle aspettative. Sappiamo bene quanto filosofi ed epistemologi si siano interrogati circa la validità, la rispettabilità e la "credibilità" della psicoanalisi, e sappiamo altrettanto bene che le conclusioni cui essi sono giunti sono a dir poco ’contraddittorie’e disarmanti. Si pensi a esempio alla critica di Bunge (1967, 40-41), per il quale la psicoanalisi è soltanto una pseudoscienza incapace di per sé di provare e rendere verificabile le proprie affermazioni. Anche Popper è dello stesso parere quando afferma, esaminando la psicoanalisi e la psicologia individuale di Adler, che le teorie sembravano compatibili "con i più disparati comportamenti umani, cosicché era praticamente impossibile descrivere un qualsiasi comportamento che non potesse essere assunto quale verifica di tali teorie" (Popper, 1969, 66). Comprendiamo quindi come negli anni, rispetto a questo tema, si sia detto di tutto, forse troppo o addirittura troppo poco. Di un dato possiamo però essere certi, ossia dei dubbi e delle perplessità che tutt’ora avvolgono il dibattito circa la ’dignità scientifica’ della psicoanalisi. Volendo comprendere le ragioni dell’ambivalenza e dell’incertezza che costellano il tentativo di risolvere la questione, dovremmo fare un passo indietro e ricordare in quale modo e con quali strumenti l’uomo

da sempre si ponga nei confronti della "denominazione del sapere". Ogni ramo del sapere può essere incastonato in una delle due tradizionali categorie classificatorie, rappresentate dalle "scienze dello spirito" e dalle "scienze della natura". Per quanto concerne il primo gruppo, in genere ci si riferisce a un ampio campo di discipline che riguardano anzitutto l’uomo e le sue espressioni artistiche, creative, dimensioni queste che attingono ai contenuti dell’anima, come ad esempio la letteratura, la poesia, la musica, le arti in generale e tutte le altre espressioni che prendono vita da esperienze e dimensioni interiori. Inoltre, l’esperienza interna possiede una caratteristica fondamentale, costituita dalla possibilità di dare significato ai vissuti e di connettere, correlare questo significato ad altre esperienze rilevanti dell’esistenza. Ecco allora che la profonda disperazione che assalirà il poeta Gerald de Nerval, condurrà il suo intenso disagio a sfociare nella produzione più soave della sua creatività, così come la depressione di Beethoven si trasformerà nell’elemento in grado di arricchire, di alimentare le sue composizioni e come il "pacchetto di tempo" di tredici ore messo a disposizione del matematico Galois, gli permetterà di forgiare una delle più imponenti strutture della matematica moderna. Le scienze della natura invece si riferiscono allo studio delle connessioni causali riscontrabili nei fenomeni sottoposti a osservazione e verifica. Per adempiere ai propri intenti, le scienze della natura utilizzano i principi e i presupposti frutto della cosiddetta "Rivoluzione Scientifica" che, come ben sappiamo, ebbe il suo portavoce nella figura di Galileo Galilei. Per progredire, avanzare e, soprattutto, per "comprendere", le scienze della natura si avvalgono di strumenti rigorosi e "inattaccabili", quali la misurazione, la sperimentazione scientifica, il controllo delle ipotesi di partenza e la loro successiva verifica. Ora, molti equivoci nei confronti della psicoanalisi, sono nati perché, come acutamente osserva Edoardo Boncinelli,

"fin dal suo primo sorgere la psicanalisi si è posta come scienza dello ’spiegare’ e non come scienza del ’comprendere’. Questa scelta, chiarissima nella mente di Freud, le ha conferito un fascino unico nelle scienze dello spirito ma legittima le pretese di coloro che vogliono sottoporla al vaglio dei criteri distintivi della scienza" (Boncinelli 1977, 24).

Il problema delle classificazioni è sempre stato avvertito da tutte le scienze, le quali non possono prescindere dall’attribuire il giusto nome, il giusto posto, a ogni disciplina nel panorama della cultura. Nel suo Il lavoro psicoterapeutico, Mario Trevi propone un esame critico accurato delle principali controversie e dei concetti fondamentali che sembrano affliggere il lavoro psicoterapeutico. Dalla sua analisi emerge un’interessante lettura dei concetti di "paradigma" e "crisi paradigmatica", in particolare in rapporto alle cosiddette "scienze della cultura":

In queste osservazioni, non si nasconde la conservazione della netta distinzione diltheyana tra scienze della natura e scienze dello spirito, più tardi divenute «scienze della cultura». [...] I paradigmi compresenti sono bensì in competizione ma anche in una relazione di stimolazione reciproca talché un vecchio paradigma, lungi dal rendersi obsoleto per la presenza di un nuovo paradigma, riceve da questo un notevole impulso a rafforzarsi o a estendersi a settori della ricerca in precedenza ignorati. Nelle scienze della cultura si assiste inoltre al fenomeno della fusione parziale di paradigmi (Trevi 1993, 82-83).

Discorso interessante questo, soprattutto se rammentiamo che, secondo Trevi, "la psicoterapia, sia pure con qualche legittima obiezione, può essere collocata prevalentemente tra le scienze della cultura, nelle quali [...] non si dà quel consensus omnium che invece sembra verificarsi – in un lasso più o meno breve di tempo – nelle scienze della natura all’avvento di un nuovo paradigma" (ibid., 87-88). E ancora:

In altre parole, posto che si voglia ancora far uso della distinzione tra scienze della natura e scienze della cultura, possiamo dire che il fondamento teorico della psicoterapia è costituito da due scienze per molti versi classificabili tra le scienze della cultura, e che pertanto la psicoterapia stessa può essere considerata una scienza della cultura (ibid., 102).

Il contributo di Trevi appare dunque illuminante per risolvere il rebus della denominazione e classificazione della psicoterapia ove, per l’appunto, la soluzione sembra essere data da quel grande contenitore chiamato "scienze della cultura". Tuttavia, lo stesso Trevi non tarderà a osservare che persino questa conclusione appare criticabile, e per almeno due buone ragioni.

La prima – e la più ovvia – consiste nella constatazione che la psicologia, [...], contempla di necessità una inalienabile base biologica. [...] L’apparato biologico che sottende la psiche non consente, almeno per ora, di ridurre semplicisticamente la psicologia a una scienza della cultura ma anzi la radica energicamente nella struttura naturale del bios. [...] Una seconda obiezione

alla collocazione della psicoterapia tra le scienze della cultura si radica nell’enorme sforzo compiuto da Freud e dalla sua scuola non per trovare una volta per tutte la base biologica della psiche [...], ma per evidenziare le basi della vita psichica in quel medium tra il bios e la cultura che sono le pulsioni (ibid., 102-103).

Sembra dunque che il problema non sia del tutto risolvibile e ciò dipende dal fatto che le caratteristiche della psicoanalisi sono a tal punto varie ed eclettiche da non permettere agevoli livellamenti. Lo spigolo maggiore rimane in ogni caso quello della biologia, nel senso che la psicoanalisi ricerca nella "scienza della vita" tanto le cause della patologia quanto le risposte a essa. Tuttavia – e questo aspetto davvero mal si concilia con quello biologico – l’antecedente filosofico della psicoanalisi è innegabile: domande comuni, dialoghi e dissertazioni per molti aspetti analoghi. Avvicinandoci a tempi sempre più recenti, a esempio, dovremmo ricordare come si sia diffuso e imposto nel panorama culturale della scienza e della filosofia un nuovo termine, che rimanda all’omonimo concetto: la ’falsificabilità’. Il concetto di falsificabilità è infatti diventato uno dei più importanti presupposti delle scienze della natura, che per comodità d’ora in poi chiameremo, in modo più sbrigativo, "scienza". La falsificazione implica che ogni affermazione deve essere formulata in modo tale che in qualsiasi momento ne può essere verificata la verità o la falsità. La frase "Dio esiste" non è una affermazione scientifica perché nessuno può verificarne la verità mentre se affermo che "gli uomini camminano con la testa in giù" faccio un’affermazione scientifica nel senso che tutti possono verificare la verità o la falsità di questa affermazione. Ebbene, in nome del concetto di falsificabilità sono state compiute tante battaglie contro la psicoanalisi, soprattutto da parte degli epistemologi che, riferendosi a questo concetto e alle tesi a esso correlate – come quelle di

Popper – hanno sostenuto la non scientificità della psicoanalisi. Volendo approfondire questo aspetto, ricorderemo la nota tesi di Popper riguardo la psicoanalisi freudiana che, in sintesi, suonava più o meno così: poiché non è possibile strutturare o condurre esperimenti che riescano, seppur in minima parte a falsificare le ipotesi freudiane, e poiché il concetto di falsificabilità è un attributo indispensabile di tutte quelle dottrine e discipline degne di essere considerate scientifiche, la psicoanalisi non può essere ritenuta una scienza. In questo modo la psicoanalisi veniva tacciata di essere "infalsificabile" e, quindi, "non scientifica". Alcuni anni fa però le tesi di Popper e il problema della "pseudoscientificità" della psicoanalisi, tornarono per così dire alla ribalta. Schierato in prima linea era possibile trovare Adolf Grünbaum, filosofo straordinariamente noto nel panorama culturale americano a partire dalla seconda metà degli anni Settanta. I suoi lavori infatti, dapprima riferiti a tematiche quali la dialettica spazio-tempo e la fisica relativistica, cominciarono a un tratto a invertire la propria rotta, dirigendosi così anzitutto verso una metodica e attenta analisi critica della teoria freudiana. Il primo elemento da cui la sua analisi ha inizio è proprio il pensiero di Popper o, volendo essere ancor più precisi, quella famosa tesi inerente la ’falsificabilità’ cui abbiamo accennato. Il discorso della non controllabilità, della non falsificabilità, in nome del quale Popper aveva costruito tutto il suo edificio teorico-critico nei confronti della psicoanalisi, viene così messo in discussione da Adolf Grünbaum. Sarebbe a questo punto quasi scontato supporre che la psicoanalisi abbia potuto "tirare un sospiro di sollievo" ma, come vedremo, in realtà non è propriamente andata in questo modo... La posizione di Grünbaum nei confronti della psicoanalisi infatti è chiara e decisa ma – è inutile negarlo – poco clemente o generosa. Esponendo il proprio pensiero circa le caratteristiche della teoria freudiana, Grünbaum muove anzitutto un duro attacco nei confronti dei massimi esponenti

dell’ermeneutica, quali ad esempio Jürgen Habermas, Paul Ricoeur e lo psicoanalista George Klein. In particolare, egli rifiuta l’accusa di Habermas di "autofraintendimento scientistico" rivolta alla psicoanalisi freudiana. Habermas infatti criticò Freud rimproverandolo di aver generato una grave confusione in ambito scientifico. Grünbaum osservò che la polemica di Habermas circa un presunto "fraintendimento" del padre della psicoanalisi muoveva anzitutto da queste basi:

a) il fraintendimento di Freud fu «scientistico» perché egli attribuì lo statuto di scienza naturale alla teoria clinica pregiudizialmente e ideologicamente condizionato dal peso della metapsicologia; b) il punto di vista così espresso da Freud fu un esplicito autofraintendimento, perché scaturì da un’erronea concezione filosofica della natura stessa della sua teoria; c) infine, le gravi conseguenze di questo supposto «errore» di Freud possono essere esemplificate anche dal solo fatto che esso impedì di riconoscere la psicoanalisi come una modalità paradigmaticamente ermeneutica di indagine, come il solo esempio concreto di scienza inclusiva di un’autoriflessione metodica e come potenziale prototipo per le altre scienze dell’uomo (Grünbaum 1982, 91).

Pertanto, l’accusa di "autofraintendimento scientistico" proposta da Habermas – e riproposta da Ricoeur nel 1981 – viene respinta e confutata da Grünbaum. Ma ciò, come vedremo, non implica che quest’ultimo abbia giudicato "scientifica" la teoria psicoanalitica freudiana. Infatti, nonostante la violenta critica mossa ai rappresentanti

dell’ermeneutica e alle idee di Popper, Grünbaum propone una lettura della psicoanalisi che certamente non la "riabilita" più di tanto. Egli è infatti del parere che la psicoanalisi sia sì una scienza, ma una "scienza fallita". Ciò significa che si tratterebbe di una scienza autentica a tutti gli effetti che però avrebbe perso di vista i suoi obiettivi, non riuscendo a raggiungere gli scopi che si era prefissata. Secondo Grünbaum mancano – o meglio "traballano" – "le prove", l’evidenza su cui la psicoanalisi stessa avrebbe dovuto – a detta dello stesso Freud – fondarsi. Freud infatti propose due elementi in base ai quali "verificare" la concretezza e validità del trattamento psicoanalitico. Il primo di essi era rappresentato dalla "efficacia della cura", mentre l’altro dalla "combaciabilità" della realtà psichica del paziente con il "ritratto" dello stesso emerso durante la terapia, grazie alle interpretazioni e ricostruzioni fatte da paziente e analista. Ebbene, secondo Grünbaum questi elementi non sono prove bensì fattori del tutto relativi: mancano di oggettività, di riscontrabilità e, pertanto, non possono essere utilizzati per conferire alla psicoanalisi dignità scientifica. Medawar con grande intelligenza osservò che "le idee della psicoanalisi non possono essere contemporaneamente oggetto di esame critico e insieme fornire lo sfondo concettuale del metodo con cui tale esame minuzioso viene condotto" (1972, 68) e, inoltre, esemplificò al massimo il problema di cui stiamo discutendo osservando che "la mancanza di una vera prova della specifica efficacia terapeutica della psicoanalisi è una delle ragioni per cui non è stata accolta nella pratica medica generale" (ibid., 69). Comprendiamo pertanto come uno degli aspetti capaci di mettere in crisi la scientificità della psicoanalisi è senza dubbio quello relativo alle prove. Se infatti per antonomasia il mondo della scienza affonda le proprie radici in un humus costituito anzitutto da riscontrabilità, oggettività, da prove divulgabili in quanto evidenti, da contenuti ’inattaccabili’ persino dagli scettici, è evidente che la psicoanalisi dovrà cercare il proprio nutrimento altrove. Le "prove" dunque, ecco cosa mancherebbe alla psicoanalisi per

conquistare l’ambito titolo di "scienza": occorrono "molti fatti e poche chiacchiere"! Ma davvero questo è ciò che ci aspettiamo dalla "disciplina dell’anima"? Mi sembra già di udire un coro di no, fortunatamente. Volendo ora dare spiegazioni riguardo questo "fortunatamente", dovremmo ritornare sui nostri passi, a quell’interrogativo iniziale che ci siamo posti circa le aspettative che nutriamo nei confronti della psicoanalisi. Comprendiamo che il problema di cui stiamo dibattendo, muove proprio da quell’interrogativo e, pertanto, è una questione del tutto relativa. Se dalla prassi psicoanalitica ci attendessimo, ad esempio, ’garanzie’, previsioni certe e un appuntamento inderogabile con un nuovo, sospirato e roseo futuro, certamente correremmo il grave e concreto rischio di rimanere delusi. La teoria psicoanalitica non può e non deve essere considerata alla stregua di una teoria chimica, ove dalla combinazione di due o più elementi deve gioco forza scaturire un determinato prodotto, né essere valutata secondo i parametri della matematica, in base ai quali "i conti devono sempre tornare" e il risultato essere proprio "come volevasi dimostrare". Ecco allora che alla grande domanda: "la psicoanalisi è oppure no una scienza?", dovremmo sforzarci di rispondere’socraticamente’, ossia seguendo i principi dell’arte della maieutica e quindi cercando di "trarre fuori da noi" le giuste risposte, risposte adeguate al problema e, pertanto soggettive. La grande soluzione a questo dilemma risiede dentro la nostra anima, ossia nel regno dell’inconscio, delle emozioni, dei sentimenti e dei ricordi che tanto sollecitano il progredire di prassi e teoria psicoanalitiche. Affinché però la nostra valutazione della psicoanalisi possa essere realmente obiettiva, non dovremmo trascurare di rammentare che tanto Freud quanto Jung attinsero copiosamente a un ricco patrimonio biologico-scientifico per avvalorare le loro spiegazioni, soprattutto in merito alla malattia psicologica. Prima di approfondire questo discorso, ritengo opportuno rammentare che la storia della medicina, in particolare in

merito allo studio e alla cura delle malattie mentali, si fonda su un antecedente piuttosto ingombrante, al quale ancora oggi pensiamo con disagio e imbarazzo: la lobotomia. Nel suo Last Resort Jack D. Pressman propone una rivisitazione delle tappe che hanno costellato l’evoluzione della psicochirurgia, evidenziando soprattutto come siano "i luoghi e i tempi" delle ricerche a conferire a esse dignità e validità. Così, la pratica della lobotomia, che oggi noi giudichiamo alla stregua di un’atroce barbarie, era assai frequente in America negli anni Quaranta-Cinquanta, ed essa traduceva allora il bisogno impellente – da parte della scienza medica – di capire, più che di curare. Facendo quindi un passo indietro, e tornando a Freud e Jung, osserveremo che gran parte dei loro sforzi e del loro impegno furono orientati nella stessa direzione, ossia verso il tentativo di rispondere alla domanda: "cosa sono le malattie mentali?" "Da cosa vengono originate e, soprattutto, come si curano?". Come osservò e sintetizzò Jung:

La soluzione di questo difficile problema dipende dalla questione generale se il dogma che ha fin qui dominato la psichiatria, le malattie mentali sono malattie del cervello, rappresenti una verità definitiva oppure no. Noi sappiamo che questo dogma conduce all’assoluta sterilità non appena gli si attribuisca validità universale, (Jung 1908-1915, 161).

Cercando di offrire una spiegazione al fondamento organico delle malattie mentali – per quanto fosse convinto che l’eziologia fosse anche e soprattutto psicologica – Jung introdusse l’ambiguo concetto di "tossina", osservando che:

Il più difficile tra questi problemi in verità niente affatto semplici, è quello relativo alla ipotetica X, la tossina metabolica (?), e ai suoi effetti sulla psiche. È estremamente difficile caratterizzare in qualche modo questi effetti dal lato psicologico. Se mi è concesso formulare un’ipotesi, mi sembra che l’effetto si manifesti nel modo più evidente nell’enorme tendenza all’automatizzazione e alla fissazione; in altre parole: nella durata degli effetti dei complessi. La tossina (?) sarebbe così da considerare come una sostanza altamente sviluppata, che si fissa dappertutto ai processi psichici, specialmente a quelli a tonalità affettiva, rafforzandoli e automatizzandoli. Infine si deve pensare che il complesso assorbe l’attività cerebrale in larga misura, per cui si verifica qualcosa come una decerebrazione (Jung 1907, 105).

Non dobbiamo poi dimenticare che lo stesso Freud si dimostrò di ampie vedute rispetto alle potenzialità della scienza medica in ambito psicologico, dimostrando fiducia soprattutto nei futuri traguardi della terapia:

Ma noi ci occupiamo qui di terapia solo nella misura in cui essa opera con mezzi psicologici; al momento non ne abbiamo altri. Può darsi che in futuro qualcuno ci insegnerà come influenzare direttamente, con speciali sostanze chimiche, le quantità energetiche e la loro ripartizione nell’apparato psichico. E forse verranno alla luce altre potenzialità della terapia che adesso non possiamo neppure sospettare; per ora non abbiamo nulla di meglio a disposizione che la tecnica psicoanalitica; per questo, nonostante i suoi limiti, non

bisogna disprezzarla (Freud 1938, 609).

Le parole di Freud appaiono oggi davvero profetiche, nel senso che è inequivocabile che il tempo gli abbia dato ragione. Sappiamo bene infatti come la patologia e la sofferenza psicologiche siano diventate appannaggio anche delle più rigorose ricerche mediche. La chimica del cervello infatti è tutt’oggi uno dei terreni privilegiati d'indagine, uno dei sentieri che maggiormente vengono percorsi da quei professionisti e utenti che ricercano risposte alla propria e altrui sofferenza nel soma. I farmaci, le erbe, l’omeopatia, sono in fondo tutti strumenti – più o meno validi, più o meno affidabili – nei quali le speranze del paziente vengono riposte. In particolare, rispetto a quella grande tematica chiamata "malattia dell’anima", senza dubbio i giochi non possono considerarsi fatti. Sebbene ciò non sia affatto salutare per i progressi della scienza e della cultura, esistono ancora alte e salde barricate fra le tante oasi conoscitive del problema. Non dovremmo allora stupirci se neurologi, psichiatri, e psicoanalisti, si porranno nei confronti del problema della patologia psichica in modo molto diverso. Il nodo della questione è avvolto attorno a un quesito di fondo: da dove si origina la malattia mentale e perché si origina? Ogni esperto della mente, risponderà a proprio modo, impugnando a sostegno della propria tesi la bandiera del sostrato anatomico o di quello emozionale, ambientale, relazionale. Paul M. Churchland, con il suo Il motore della ragione, la sede dell’anima, ha ostentato il dardo della neurobiologia biasimando coloro che si affidano con ingenuità alle risorse della psicoanalisi. Churchland, in particolare, ritenendo che la psicoanalisi sia diventata popolare come "mezzo terapeutico" pur non avendo le debite "carte in regola", non esita ad affermare:

Il mio obiettivo principale è solo quello di mettere in luce la pochezza di uno (la psicoanalisi) fra i maggiori sistemi di psicoterapia (Churchland, 1995, 202).

La posizione di Churchland, sostanzialmente, veniva alimentata dalla convinzione che la psicoanalisi si fosse sempre basata su presupposti per così dire traballanti, a volte addirittura illusori mentre, dal canto suo, le risposte si sarebbero dovute ricercare altrove:

Non c’è dunque da meravigliarsi se la tecnica psicoanalitica freudiana sia stata sempre cronicamente debole quanto a esplicatività e a successo terapeutico. Per far fronte all’intera gamma delle disfunzioni psicologiche, avremmo fatto meglio a cercare nel cervello le deficienze o le anormalità strutturali, a cercare i difetti funzionali della sua fisiologia, le anormalità chimiche del suo metabolismo, le imperfezioni genetiche del suo stampo originario e i traumi dello sviluppo subiti nel corso della sua maturazione (ibid., 202).

Ecco, dal mio punto di vista, a simili affermazioni occorre attribuire il valore che in realtà hanno, quello di uno dei tanti punti di vista possibili. La "debolezza" della psicoanalisi di cui parla Churchland esprime in realtà il punto di vista di un uomo, di uno studioso, che si è posto delle domande e ha trovato per esse risposte che gli sono sembrate esaurienti, ma non per questo dovremmo ritenerle dogmi, o verità scientifiche. L’esperienza mi ha condotto negli anni alla convinzione che rispetto alla malattia mentale tutto può essere sostenuto, in

particolare per determinate patologie, ove possiamo affermare qualunque cosa, ma anche mettere in discussione qualunque cosa. Per questa ragione occorre stare molto attenti prima di imputare a un unico fattore – a esempio le reti neurali biologiche – la responsabilità dei fatti, del disagio o della sofferenza di un paziente. Se volessimo utilizzare come parametro valutativo del nostro discorso il meccanismo della socializzazione, se ci affidassimo elettivamente a strumenti biologici per leggerne e coglierne il funzionamento, rischieremmo davvero di rimanere delusi. Lo sappiamo bene: la socializzazione può essere considerata una interessante variabile per valutare lo stato di salute mentale di un individuo. Determinate patologie infatti – di cui la depressione, la schizofrenia o un’accentuata forma di paranoia costituiscono solo la punta dell’iceberg - vanno a inficiare la sfera delle relazioni interpersonali dell’individuo. Non frequentare più gli amici di sempre, i luoghi pubblici affollati, sottrarsi agli impegni mondani, rinunciare al lavoro, sono tutti esempi di quello che può comportare una difficoltà psicologica a livello della dimensione sociale. Inoltre, non dovremmo dimenticare che una difficoltà nell’ambito delle relazioni interpersonali non solo potrebbe essere letta come la conseguenza di una patologia ancor più seria ma – caso assai frequente – come il germe stesso dello star male. Ecco allora che al contesto relazionale, ogni "addetto ai lavori con la mente" dovrebbe essere sempre molto attento, soprattutto per non incorrere nel rischio di considerare il suddetto contesto un "aspetto marginale" rispetto al problema. Ebbene, appagato il bisogno di questa doverosa premessa, la domanda a questo punto dovrebbe essere: come intervenire rispetto a questo settore dell’esistenza? Prima di esporre il mio punto di vista, credo sia importante ricorrere alle parole di Churchland per conoscere il parere di chi si affida alle risorse della biochimica pur riconoscendo la dignità di altre proposte terapeutiche:

Se prendiamo sul serio le nostre precedenti speculazioni sul ruolo preminente di una socializzazione difettosa nel generare deficit psicologici, allora la conversazione sistematica e l’impersonare un ruolo sociale avranno sempre un posto centrale nel processo terapeutico. L’interazione fra esseri umani, e il suo dispiegarsi, sono – per chiunque – il luogo essenziale per arrivare a una riuscita socializzazione. Non possiamo rendere sociali le persone solo somministrando loro medicine. I farmaci o la chirurgia possono creare le condizioni per avviare il processo, ma solo l’interazione sociale può effettivamente riuscire allo scopo. D’altra parte, non possiamo nemmeno riparare un cervello a pezzi solo parlandogli (ibid., 202).

Ora, dal mio punto di vista, la relazione interpersonale rimane la sede privilegiata per l’insorgere della sofferenza psicologica, ma anche per un suo positivo superamento. Il rapporto può essere considerato come la migliore e più formidabile risposta al dolore dell’anima. È innegabile però che al fianco della psicoanalisi – che per antonomasia privilegia ed esalta la funzione del rapporto interpersonale – si snodano una serie di percorsi alternativi, di soluzioni che attingono ’altrove’ – e quindi non dalla relazione – il proprio carburante. Tornando però alle parole di Churchland, credo sia importante non solo chiedersi se e quanto i farmaci o la chirurgia possano rivelarsi strumenti utili, ma soprattutto domandarsi cosa è possibile intendere con l’espressione "riparare un cervello a pezzi". Chi o che cosa potrà aiutarci a stabilire se la mente di una persona è "a pezzi" e, soprattutto, a quale implicazione clinica potrà inerire questa colorata metafora? Il cervello di un nevrotico ossessivo è "a pezzi"? E se sì lo è di più, di meno o in egual misura di quello di un depresso o di un fobico? E ancora: cosa starebbero a indicare quei "pezzi"? Forse il fatto che l’Io del

paziente ha messo in atto l’arcaico meccanismo dell’identificazione proiettiva e non riesce più a divincolarsi tra le sue spire? Non possiamo assolutamente rispondere a queste domande. Spesso i pazienti mi confessano di "sentirsi a pezzi", di "avere il cuore in mille pezzi", ma in tanti anni di professione non ho mai pensato di suggerire loro un intervento di cardiochirurgia per risolvere il problema. Scherzi a parte: non possiamo escludere la terapia della parola e la cura d’anime, perché forse è proprio di questo che quell’individuo "a pezzi" potrebbe aver bisogno. Tornando ai dubbi che spesso avvolgono le cause di un disagio psicologico, potremmo domandarci per esempio, quali fattori possano essere ritenuti responsabili dell’insorgere di un comportamento deviante in un adolescente? L’educazione, il contesto ambientale in cui è cresciuto, la povertà, l’ozio, il rapporto con i genitori? O forse non sarebbe meglio – e più semplice – ipotizzare l’esistenza di uno squilibrio biochimico del cervello e orientare le proprie indagini verso quella direzione? Tanto inchiostro è stato speso sul grande e dibattuto tema della malattia mentale; consentitemi però di osservare che i risultati sono stati quanto meno deludenti. Per questa ragione le risposte alla patologia psicologica – o per lo meno le sue proposte – sono tante e così diverse tra loro: un universo di strade, di possibilità tra le quali spesso diventa davvero difficile orientarsi. Ritengo che per il benessere della psicoterapia in senso lato, sia quanto meno opportuno che tutti "gli addetti ai lavori" si cospargano il capo di cenere proponendo il proprio pensiero, la tecnica in cui confidano come una possibilità. È ovvio e ragionevole che ognuno di noi prediliga una determinata tecnica e riscontri in una certa teoria un’eco particolare. Occorre però fare molta attenzione poiché da qui al fondamentalismo il passo è davvero molto breve. Vorrei a questo punto aprire una parentesi. Più volte negli anni mi sono interrogato circa il rapporto tra il nodo complessuale di un autore e il contenuto della teoria da esso

sviluppata. Sono tuttora convinto che:

La psicologia risente, in misura maggiore di altre discipline, del mondo interiore dei suoi teorizzatori. Ogni teoria psicologica può rappresentare un tentativo di soluzione di un problema del suo autore. Se uno psicologo sente la necessità di costruire una metapsicologia, probabilmente ha dei problemi interni irrisolti, che solo in un grande edificio teorico possono acquistare contorni più nitidi ed essere inseriti in uno schema funzionale più vasto. [...] Abbiamo già detto che ogni metapsicologia può essere considerata una proiezione del suo autore. Quando uno psicologo sente il bisogno di dare vita a una costruzione teorica, vuol dire che, malgrado una attenta, lucida, spietata autoanalisi, è ancora dominato da un conflitto inconscio irriducibile, che può fronteggiare solo oggettivandolo e universalizzandolo (Carotenuto 1982, 27).

Ebbene, i problemi insorgono – purtroppo – nel momento in cui l’artefice di una teoria non si rende conto delle molteplici ramificazioni che legano la sua anima, il suo vissuto personale, le sue esperienze e problematiche ai contenuti della teoria da lui stesso formulata. Credere quindi che le proprie idee siano la tanto attesa e sospirata "verità" rappresenta – nel campo psicologico più che in altri – uno dei più grandi errori che sia dato di compiere. Lo stesso discorso sarà valido per i "seguaci" di una determinata corrente di pensiero, per gli "adepti", discepoli o quant’altro di un unico, grande maestro. Anche in questo caso infatti, la scelta viene compiuta su basi individuali e spesso inconsce. Ma ciò che tengo a precisare è il fatto che l’aspetto negativo della questione non è questo, poiché tutte le nostre scelte e

preferenze vengono gestite dalla nostra particolare modalità d’essere. Il problema è viceversa rappresentato dalla eventualità – vi assicuro non rara – che il cosiddetto "allievo" non si renda conto che quello del maestro non è il Verbo, bensì solo una delle tante visioni del mondo, una visione che però collima e si completa con quella del discepolo. Tornando quindi alla grande umiltà che poc’anzi consigliavo di adottare a tutti gli "esperti della mente", ribadisco ora con ulteriore fermezza la necessità di guardarsi ’intorno’oltre che – ovviamente – ’dentro’! Sappiamo molto bene che "guardarsi intorno" significa anche dover prendere coscienza dell’esistenza di una molteplicità di satelliti che si muovono all’interno dell’universo psicoterapeutico, ma ciò non deve disorientarci! Con spirito critico dovremmo invece iniziare a interrogarci circa l’identità e le caratteristiche di questi "satelliti". E la psicoanalisi? La psicoanalisi come si colloca all’interno di questo variopinto e poliglotta panorama di feticci terapeutici? Lasciatemi rispondere con un saggio quanto oculato "dipende...". Certo, sì, dipende, nel senso che per rispondere con serietà a questa domanda, dovremmo anzitutto porcene altre. Che cosa ognuno di noi si aspetta dalla psicoanalisi? Come valutiamo la psicoanalisi, cosa pensiamo che essa sia? Davvero sentiamo di doverle rinfacciare di non essere controllabile, di essere sfuggente, inafferrabile e poco efficiente? Ecco le vere domande alle quali dovremmo cercare di rispondere. Comprendiamo a questo punto che sarebbe paradossale affermare che esiste un punto di vista per così dire "corporeo" e un altro contrapposto al primo che potremmo definire "anìmico". E a proposito di questa antica, collaudata, frequentatissima antinomia, mi sembra doverosa una precisazione. Oggi che la neurofisiologia, erodendo i confini che separano il ’soma’ dalla ’psiche’, ha assodato che le passioni, i sentimenti e le emozioni nascono anch’esse nella nostra testa, in quel minuscolo, gigantesco laboratorio che è il cervello, che senso ha continuare a contrapporre i due termini

come due mondi distinti e separati? Da una parte la mente, e dall’altra il cuore – per stare a una metafora antica come la nostra cultura che definiva l’una e l’altro non già in base alle rispettive funzioni biologiche ma secondo una simbologia che attribuisce al sangue, e perciò al cuore che ne governa il moto, passioni ed emozioni, e alla mente il solo pensiero. Una antitesi, quella di anima e corpo, tanto cara al Medio Evo monastico, ma che non ha nessun fondamento nei vangeli (i miracoli di Gesù sono altrettanti omaggi al corpo, dal risanamento degli storpi alla moltiplicazione dei pani e dei pesci – e l’Ultima Cena non era un convito? E "dacci oggi il nostro pane quotidiano"?). Risale semmai a Platone – e da lì proveniva, attraverso il neo-platonismo. Una antitesi in cui il corpo diventava addirittura il nemico, da sconfiggere o mortificare, quando non maltrattare con qualche cilicio. Ma torniamo alla psicoanalisi, che, come dicevo, non ha mai tentato di escludere il corpo dalle sue dissertazioni, non ha mai preteso di procedere dimenticandosi della fisicità, non mai voluto escludere il corporeo dalle sue riflessioni. Non è dunque a questo livello che andrebbero rinvenuti gli intenti della psicoanalisi. A essa dovremmo invece riconoscere un grande merito, una virtù rara, quella cioè di non essere caduta nella tentazione di spacciarsi per qualcosa che in realtà non è. Come abbiamo visto infatti, Freud non esitò ad ammettere che la psicoanalisi, come terapia, si limitava ad agire con mezzi psicologici, ma ciò non escludeva la possibilità di impiegarne altri per offrire aiuto al paziente. Questo significa che sin dai sui albori la psicoanalisi si è voluta proporre come una possibilità interpretativa del reale e, al contempo, come una strategia terapeutica. Ma l’intento della psicoanalisi non è mai stato – né lo è attualmente – quello di sostituirsi alle altre tecniche, terapie e quant’altro fosse stato presente nel panorama culturale in cui nacque. Avremo modo di approfondire e ripercorrere le tappe della sua nascita e ciò ci permetterà di osservare come Freud abbia voluto dar vita a questa nuova tecnica, mosso anzitutto dal bisogno di comprendere, da una sete di conoscenza e di "disvelamento"

che non lo abbandonerà mai. Per far ciò Freud, che, non dimentichiamolo, era un medico, uno scienziato nato, cresciuto e forgiato in ambienti rigorosamente scientifici, per far ciò – dicevamo, – Freud non si affiderà ai poteri o alle tecniche tipiche della scienza medica che aveva appreso, ma preferirà percorrere un’altra strada. Avendo infatti intuito che tante patologie caratterizzate da vistose manifestazioni somatiche – per esempio l’isteria – potessero avere un’eziologia psichica, Freud intraprese questo cammino, orientato non tanto verso il corpo quanto verso la psiche. Attribuiamo a Freud il merito di aver dato vita alla psicoanalisi, nel senso che egli fu il primo a utilizzare strumenti psicologici per intervenire su patologie trattate sino a quel momento mediante metodologie e prassi tipiche della scienza medica. In questo senso, anche oggi la situazione può ritenersi immutata. La psicoanalisi infatti sa di aiutare il paziente attraverso "strumenti" psicologici, ma ne è ben lieta. La prassi analitica è conscia di essere un metodo, una possibilità terapeutica, e proprio per questa ragione non corre il rischio di scadere in deliri d’onnipotenza o in picchi di narcisismo che la potrebbero confondere sino al punto di indurla ad affermare: "la psicoanalisi è il metodo". Ciò significa che essendo il ruolo giocato dal corpo nell’antica battaglia tra sanità e patologia davvero di primo piano, la psicoanalisi rispetta questa realtà. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che anche l’anima gioca un ruolo fondamentale, che anche la psiche sa rendersi protagonista e arbitrare l’alternanza fra benessere e disagio, fra gioia e disperazione. Ebbene, la psicoanalisi ha scelto di occuparsi di questo secondo personaggio, la psiche, l’anima, ma non rinnega l’esistenza e la funzione dell’altro: il corpo. Sappiamo bene del resto che espressioni oggi tanto di moda come "modello misto", "approccio integrato", vogliono in fondo enfatizzare la necessità di proporsi nei confronti del problema attraverso un approccio interdisciplinare, fondato cioè sui presupposti e sulle metodiche di discipline differenti, "non mutuamente

escludentisi". Attaccando il nemico da più parti, si riuscirà a sconfiggerlo! Ecco il giusto spirito per intendere il problema. Volendo esemplificare al massimo il nostro discorso, diremo che se il nemico è la depressione del paziente, potremmo certamente decidere di attaccare "il male oscuro" con un intervento psicoterapico, ma non per questo dovremmo incorrere nell’errore di pensare che gli altri tipi di intervento siano meno validi. Il paziente potrà così optare per una terapia farmacologica oppure decidere di agire sulla sintomatologia somatica innescata dalla depressione. La scelta dipende dal caso, dal singolo, dalla sua storia passata, dal suo atteggiamento nei confronti del proprio star male. La psicoanalisi è una possibilità, valida, che agisce sulla psiche; la sua esistenza però non implica l’annullamento di altre possibilità, fondate anzitutto su quel complesso sostrato chiamato "corpo". Anche se in maniera un po’ riduttiva, potremmo osservare che esistono due grandi vasi di Pandora, generosi nel loro elargire, sia nel bene che nel male; l’uno è rappresentato dal corpo, l’altro dalla psiche. Il fatto che ne venga aperto uno oppure l’altro è del tutto relativo, poiché entrambi potranno generare disperazione. L’elemento che semmai varierà sarà la pianificazione dell’intervento che dovrà essere proporzionato e correlato alla causa scatenante del problema. Volendo però fare un passo indietro, ricorderemo come poc’anzi abbiamo affermato che l’intento della psicoanalisi è quello di agire sulla psiche attraverso mezzi psicologici. Ma che cosa intendiamo con l’espressione "mezzi psicologici". Ecco, credo sia importante rendere più chiaro questo aspetto, anzitutto per non generare fraintendimenti. Il mezzo psicologico per antonomasia è quello della comunicazione, veicolata come ben sappiamo tanto dalle parole che dai gesti e dallo sguardo. La psicoanalisi ha da sempre utilizzato questo strumento e la prima persona a rendersene conto sperimentandone il valore personalmente fu Anna O. Con lei, con il suo "caso di isteria", nacque la psicoanalisi intesa appunto come "terapia della parola". Torneremo in seguito su

questo argomento; per ora ci basti osservare che sin dai suoi albori la psicoanalisi ha utilizzato mezzi diversi da quelli impiegati dalla scienza medica per raggiungere il medesimo scopo: un miglioramento del paziente teso al suo successivo benessere. Lasciando da parte considerazioni del tipo: "quale sarà lo strumento più efficace?" – giacché giunti a questo punto del nostro discorso ci siamo resi conto che esse lasciano il tempo che trovano – vorrei aprire una parentesi dedicata alle caratteristiche che lo psicoanalista dovrebbe possedere per utilizzare al meglio gli strumenti di cui dispone. Abbiamo infatti compreso che il "mezzo psicoanalitico" per antonomasia è rappresentato dalla parola, ma non dobbiamo dimenticare che il vero grande strumento di cui disponiamo per offrire aiuto ai nostri pazienti siamo noi stessi. La personalità del terapeuta, la sua forza o le sue debolezze, la sua ferita sempre sanguinante, si combinano infatti dando vita al più efficace dei mezzi che possa essere impiegato nell’ambito di una psicoterapia. Vi è poi un’altra componente, un’altra caratteristica che, se posseduta e ben sfruttata dall’analista – può giocare un ruolo essenziale nel processo di trasformazione psicologica del paziente: la creatività. L’analista veramente "creativo" è capace di impiegare le sue energie per configurare agli occhi del paziente l’idea della "possibilità", di una nuova strada da percorrere, della speranza del cambiamento. Sebbene questi siano tutti obiettivi auspicabili nell’ambito di qualsiasi processo terapeutico, non sempre è facile riuscire a dare al paziente la forza necessaria per progredire. Ecco allora che la creatività dell’analista entra in gioco, trasformando il rapporto terapeutico in un processo di combinazioni alchemiche assolutamente imprevedibili. Ecco allora che la cosiddetta "ortodossia psicologica" dovrà davvero essere considerata un intralcio al buon esito del processo terapeutico, perché per definizione esclude un ingrediente fondamentale: la creatività. Da un punto di vista psicologico, essere creativi significa anzitutto non farsi schiacciare dal peso delle regole e delle norme collettive, significa cercare di aderire il più possibile a

noi stessi, sconfiggendo la paura di essere considerati "diversi". Ma ciò che è ancora più apprezzabile della creatività è il fatto che essa si rivela piuttosto "contagiosa". Cerchiamo di chiarire questo aspetto. Intessere un rapporto con un individuo creativo significa essere ’fortunati’. Le personalità creative infatti sono spesso dotate di un’energia fuori dal comune, non sempre spumeggiante o sfacciata, ma comunicativa. Si tratta di un’energia che si trasmette con grande intensità alle persone circostanti, un impeto rinnovatore al quale è difficile dire no. Sebbene infatti le persone creative siano spesso incomprese, mal giudicate dal collettivo, e talvolta non riescano a imprimere una positiva direzionalità alle loro energie, sono anche molti i casi in cui l’individuo creativo riesce a impiegare bene le proprie potenzialità. Accade così che il paziente che abbia avuto la fortuna di incontrare un analista veramente "creativo", sia agevolato nel processo di guarigione, di trasformazione psicologica. È come se le energie e risorse dell’analista si trasmettessero al paziente, rendendolo più forte, capace di affrontare con nuovi strumenti la praticità e le sofferenze dell’esistenza. Tuttavia, anche sotto questo punto di vista rientra in gioco il concetto di "imprevedibilità", poiché ora più che mai diventa per lo meno improbabile l’idea di poter prevedere l’esito della terapia, gli sviluppi e le implicazioni del processo terapeutico. Avremo modo di riproporre questi aspetti e di soffermarci lungamente su di essi.

2. CONFRONTARE UN INSIEME INCOERENTE Il nostro discorso tende proprio a riflettere non solo sulle tante sfaccettature che la psicoanalisi presenta, ma soprattutto a cercare di stabilire se fra queste numerose sfaccettature ve ne sia anche una per così dire "scientifica". Dal mio punto di vista – e vi assicuro che i tanti volti della psicoanalisi ho avuto modo di guardarli tutti "dritto negli occhi" almeno una volta – il "lato scientifico" non c’è, e anche volendo’costruirselo a tutti costi’, si rivelerebbe comunque traballante. Nel momento in cui, per esempio, ammettiamo, che la creatività dell’analista gioca un ruolo importante nell’ ambito del processo terapeutico, implicitamente stiamo ammettendo che il suddetto processo è innescato e regolato da meccanismi ed elementi per lo più incontrollabili, imprevedibili, assolutamente dipendenti dalla soggettività dell’ individuo e svincolati quindi da regole o leggi universali. L’analista dovrà, volta per volta, reinterpretare creativamente la sofferenza e la richiesta di aiuto del singolo paziente e per fare ciò dovrà disporre continuamente di nuove strategie, poiché ciò che funziona in un caso può rivelarsi assolutamente nocivo in un altro. Che dire a questo punto delle prove? Ritengo che – nel campo psicoanalitico più che in altri – parlare di prove non abbia proprio alcun senso. Sappiamo bene – e ne è consapevole anche il lettore meno esperto, quello che muove ora incerto i suoi primi passi verso l’universo psicoanalitico – che la dottrina freudiana così come nacque proponeva idee, termini e contenuti che con le prove sembravano proprio avere ben poco in comune. Basterà pensare a termini quali "inconscio", "sogno" e "rimozione" per rendersi conto che proprio là dove regnano l’ambiguità, l’interpretabilità e tutto ciò che è "ctonio", lì viene convogliato lo sguardo della psicoanalisi.

Non esistono significati universali quando ci si riferisce al singolo paziente, alla sua individualità, poiché ciò che ha valore è il suo modo di leggere e considerare gli accadimenti e non gli accadimenti stessi. Freud proponendo il concetto di "realtà psichica" ha introdotto un’idea formidabile nel campo della psicoanalisi, tale per cui ciò che conta è il modo in cui il paziente ha letto o vissuto determinati episodi della sua vita e non se i suddetti eventi siano effettivamente accaduti. Che senso avrebbe quindi stabilire attraverso "prove inconfutabili" se quella sensazione di ’non essere mai stato amato dalla madre’di cui il paziente ci parla corrisponde effettivamente a una inadempienza emotiva da parte della figura di riferimento? L’unico elemento che può avere senso nell’ambito di un rapporto analitico è il vissuto del paziente, il modo in cui ha sperimentato, letto, interpretato un determinato episodio della sua esistenza. E cosa c’entra la scienza a questo livello? Assolutamente niente, sarebbe del tutto inutile e – aggiungerei – fuorviante. Jung del resto, parlando dei sogni e della modalità che sarebbe opportuno adottare per utilizzarli, tese a sottolineare l’importanza di non ricercare per ogni immagine onirica un significato per così dire "universale" e volle suggerire l’idea di chiedere al paziente cosa egli pensasse di quel sogno, quali sensazioni gli avesse trasmesso. È forse possibile considerare ’scientifica’ una simile procedura? Non potremmo riuscire in alcun modo a incastonare la psicoanalisi tra i rami dell’albero genealogico delle scienze della natura, perché essa non vi appartiene, perché i suoi avi sono ben altri e le radici del suo ’ceppo’ traggono nutrimento da un humus ben diverso ma non per questo meno fecondo. A questo punto però sarebbe importante discostarci per qualche istante dal campo delle critiche e accuse mosse alla psicoanalisi, per sostare momentaneamente nell’ambito dei due mondi cui abbiamo accennato: il mondo dello spirito e il mondo della natura. Occorre infatti precisare che essi non dovrebbero essere intesi come separati del tutto o in antagonismo tra loro.

Indubbiamente li esperiamo in maniera diversa, ma ciò accade perché le inclinazioni personali, in genere, orientano le nostre preferenze in senso monodirezionale. Questo è facilmente riscontrabile nelle professioni che vengono scelte tenendo in considerazione le inclinazioni individuali – circostanza questa purtroppo molto rara – e che, pertanto, rivelano quello che potremmo considerare come "l’assetto psicologico di base dell’individuo". Ciò naturalmente non esclude l’eventualità che in un singolo individuo si coniughino molto bene sia il mondo della natura che quello dello spirito. Ma torniamo ora a Freud, avendo sempre in mente che stiamo cercando l’ambito nel quale situare l’assieme di conoscenze che vanno sotto il nome di psicoanalisi. Dopo circa tre anni di università, nella facoltà di medicina, Freud si accinge a tentare un’impresa rimasta incompiuta sin dai tempi di Aristotele. Si trattava di studiare nella Stazione Zoologica sperimentale di Trieste la struttura delle gonadi delle anguille. Fu un compito che Freud seppe affrontare con disinvoltura, riuscendo a portarlo a compimento; di questo però parleremo in seguito. In un momento successivo, il suo atteggiamento per così dire ’scientista’ nei confronti dei problemi – legato alla volontà di progredire attraverso un’attenta e scrupolosa analisi dei fatti – lo guiderà nel suo lavoro e nell’articolarsi del suo pensiero. Quando Freud però inizierà a utilizzare la prassi psicoanalitica come approccio terapeutico con i suoi pazienti, per procedere nel proprio lavoro dovrà, suo malgrado, abbandonare l’impostazione scientifica, mettere in secondo piano i principi e i valori delle scienze della natura, per abbracciare un atteggiamento del tutto diverso, quello dalla ricerca dei significati. Ebbene, la storia della psicoanalisi ha avuto inizio qui, a questo livello, in questo momento, ossia nel preciso istante in cui le armi – più difensive che di attacco – di una presunta scientificità sono state deposte, in cui si è iniziato a comprendere che proprio lì dove sembra regnare la confusione, l’oscurità, la follia, si nasconde la verità. E allora cosa c’entra la scienza con la psicoanalisi? E come dobbiamo leggere quelle

accuse mosse contro la validità della psicoanalisi in nome della sua presunta "infalsificabilità"? Con un piccolo saggio scritto prima della sua improvvisa scomparsa, Franco Fornari getta un fascio di luce sul nostro dilemma. Metodo psicoanalitico e falsificazione dell’infalsificabile (1985) infatti, è un breve lavoro che nella sua fugace immediatezza – una nota redazionale riferisce come lo stesso Fornari sia stato colto dalla morte prima di poterlo rivedere e correggere – appare di estrema lucidità. Pur constatando come alla psicoanalisi venga rinfacciata una invadente infalsificabilità non solo dai suoi accusatori ma persino dai suoi sostenitori e seguaci, in questo saggio Fornari propone di rivoluzionare la prospettiva d’osservazione del problema. Giunge così a proporre "di applicare il principio di falsificazione all’interno della pratica psicoanalitica. Si può tematizzare nel modo più corretto la psicoanalisi in relazione al problema della inconfutabilità, partendo dalla constatazione empirica che la psicoanalisi è di fatto una specifica e grandiosa pratica di confutazione. Si può dire che la psicoanalisi è nata come clamorosa procedura di confutazione di teorie inconfutabili. [...] La capacità di falsificazione è una caratteristica specifica della psicoanalisi come scienza dell’inconscio. [...] Il che significa che la verificazione e la falsificazione non sono processi meramente cognitivi, ma implicano anche processi affettivi" (188-189). La psicoanalisi assume così, alla luce del pensiero di Fornari, un nuovo volto, quello di un percorso teso sì alla conoscenza, alla comprensione ma, anzitutto, muovendo da basi "affettive". Partendo da questo presupposto, nello stesso saggio Fornari giungerà ad affermare di considerare la psicoanalisi "come teoria scientifica della conoscenza non scientifica". Questa riflessione ci induce a un ulteriore interrogativo. Appurata ormai l’impossibilità di considerare la psicoanalisi una "scienza rigorosa", è d’obbligo domandarci: ma se non è una scienza, cosa mai potrebbe essere?

Prima di rispondere a questa fondamentale domanda, ritengo indispensabile una precisazione. La non scientificità della psicoanalisi non costituisce per essa una lacuna, un difetto, una debolezza, non implica un’assenza di forza, non rappresenta il suo ’tallone d’Achille’. Il non poter essere considerata scienza cela in realtà il desiderio – da parte della psicoanalisi – di non voler essere considerata tale e, al contempo, una straordinaria forza. Se dalla scienza sappiamo cosa attenderci e cosa poter "pretendere" da essa, rispetto alla psicoanalisi – che come ben sappiamo utilizza materiale incandescente, cangiante e imprevedibile nelle sue metamorfosi – la posizione che dovremo assumere sarà molto diversa. La psicoanalisi infatti non può e non deve essere giudicata un "gigante dai piedi d’argilla" per il fatto di essere priva di scientificità. La psicoanalisi andrebbe invece considerata per quello che in realtà vuole essere e la nostra riflessione su di essa dovrebbe muovere anzitutto dai suoi propositi, obiettivi e valori. Ma allora in cosa crede oggi la psicoanalisi, cosa desidera e cosa sogna per i tanti pazienti che ne comprendono la validità? Riuscendo a rispondere a questa domanda, ci avvicineremo sempre più alla possibilità di tracciare con pennellate decise il volto della psicoanalisi. Cercheremo ora di comprenderne insieme i tratti essenziali e di disvelare una sua possibile natura. Dal nostro punto di vista gli studi che ha condotto Claude Lévi-Strauss sull’analogia fra rito sciamanico e rito psicoanalitico ci sembrano abbastanza significativi. Un’osservazione importante scaturisce dalla considerazione che in genere i pazienti psicoanalitici dopo la cura diventano i paladini della cura stessa. È molto difficile discutere con essi perché sono entrati all’interno di un universo particolare che li fa sentire detentori di un potere e di una conoscenza profonda che in genere è vietata agli altri. Questo può dipendere dal fatto che la cura sciamanica ha bisogno di un pubblico di fronte al quale

lo sciamano non si contenta di riprodurre o di mimare

certi avvenimenti; li rivive effettivamente in tutta la loro vivacità, originalità e violenza (Lévi-Strauss 1958, 204).

In altre parole noi ci troveremmo, secondo Levi- Strauss, di fronte al problema dell’efficacia simbolica attraverso la quale si possono determinare anche alcuni cambiamenti fisiologici. Ancora secondo Lévi- Strauss:

la sola differenza fra i due metodi [...] riguarderebbe l’origine del mito, ritrovato nel primo caso come un tesoro individuale e ricevuto nell’altro dalla tradizione collettiva. In realtà, molti psicanalisti si rifiuteranno di ammettere che le costellazioni psichiche che riappaiono alla coscienza dell’ammalato possano costituire un mito: sono, diranno, eventi reali, che è talvolta possibile datare e la cui autenticità è verificabile con un’inchiesta presso i genitori o i domestici. Non mettiamo in dubbio i fatti. Conviene però chiedersi se il valore terapeutico della cura derivi dal carattere reale delle situazioni rammemorate, o se il potere traumatizzante di tali situazioni non provenga piuttosto dal fatto che nel momento in cui si presentano il soggetto le sperimenti immediatamente nella forma di mito vissuto. Intendiamo dire che il potere traumatizzante di una situazione qualsiasi non può risultare dai suoi caratteri intrinseci, ma dall’attitudine di taluni avvenimenti, che sorgono in un appropriato contesto psicologico, storico e sociale, a indurre una cristallizzazione affettiva che si forma nello stampo di una struttura preesistente. Rispetto all’avvenimento o all’aneddoto, queste strutture – o, più esattamente, queste leggi di struttura – sono veramente atemporali

(Ibid., 227).

A noi sembra che tutto lo sforzo della psicoanalisi, soprattutto nel suo impegno di cura, possa essere molto vicino a quella che possiamo chiamare ricerca del mito personale e che in questo contesto si possa parlare di ricerca continua di significati. A proposito del mito e del punto di vista di LéviStrauss a tal riguardo, appaiono esemplificative alcune considerazioni di Medawar il quale, riflettendo sulle caratteristiche della scienza, così afferma:

Tutte le teorie scientifiche devono avere senso, ma inoltre ci si attende che si conformino alla realtà, che siano empiricamente vere. [...] Ciò che Lévi-Strauss sta dicendoci è che i miti hanno un senso, come le teorie scientifiche convenzionali ne hanno uno: non sente come la loro impotenza a misurarsi con la realtà [...] li squalifichi dalla loro pretesa d’essere ’scientifici’. [...] La teoria psicoanalitica freudiana è una mitologia che risponde perfettamente alle descrizioni di Lévi-Strauss. Essa porta un certo tipo di ordine entro un insieme incoerente: inoltre forma un tutto compatto, ha un senso, non lascia frange sciolte, e non è mai (ma proprio mai) a corto di spiegazioni. Può quindi portare conforto e sollievo in uno stato di confusione. Ma che dire delle sue pretese terapeutiche? (Medawar 1972, 37-39).

È proprio a quest’ultimo interrogativo che sarebbe importante trovare risposta e per fare ciò non dovremmo mai dimenticare che tutto lo sforzo per quella "ricerca di significati"

di cui abbiamo parlato è legato anzitutto all’incontro fra due persone: paziente e analista. Si può anzi dire che tutto il problema ruota attorno a questa diade e al particolare rapporto che i due membri saranno capaci di creare e ricreare ogni qualvolta si trovino insieme, vicini fisicamente o anche solo con la forza del pensiero. La particolarità della coppia analitica è data anzitutto da una delle sue tante peculiarità, ossia quella di saper dare un giusto senso e valore agli eventi che il paziente vive in modo spesso drammatico. Ma giunti a questo punto nuovamente ci chiederemo: che cosa c’entra la scienza? Se per scienza intendiamo ciò che è stato definito in precedenza, dovremmo giungere alla conclusione che ogni tentativo in questa direzione sarebbe del tutto illusorio e velleitario, mentre ci sembra molto più interessante concepire la psicoanalisi come un momento artistico particolare, nel quale sono impegnati sia l’analista che il paziente. Cercheremo ora di approfondire questo aspetto, volendo anzitutto evidenziare il nuovo valore che esso attribuisce alla psicoanalisi. Tornando qualche passo indietro, ricorderemo che avevamo lasciato un interrogativo in sospeso. Ci eravamo infatti domandati che cosa la psicoanalisi sogni e desideri oggi per i suoi pazienti e cosa questi si aspettino da essa ma – fino a ora – non avevamo fornito una risposta. Ebbene, non sarà possibile rispondere se non attraverso una presa di coscienza, ossia divenendo consapevoli della giusta prospettiva dalla quale osservare la psicoanalisi. La psicoanalisi andrebbe anzitutto considerata come un magma incandescente in continua evoluzione, che ingloba contenuti esplosivi, fiammeggianti, pericolosi e che, nel suo inesorabile progredire, porta alla luce ciò che da tempo attendeva di essere disvelato. Proprio come lo scultore riesce, attraverso i sapienti tocchi del suo scalpello, a ’liberare’ la statua imprigionata nel blocco di marmo, allo stesso modo il rapporto analitico mette il paziente in condizione di liberare se stesso, di rivelare la sua più autentica natura, di manifestarsi in tutto il suo dirompente splendore o nella sua orribile drammaticità. Ma perché – viene spontaneo

chiedersi – è il rapporto analitico l’artefice di una simile ’rivelazione’ e non più semplicemente l’analista? Ecco, la soluzione del rebus risiede proprio qui. Non essendo la psicoanalisi una scienza ma, come abbiamo compreso, una forma d’arte, non tanto dovremmo ricercare nel volto dell’analista le sembianze del ’genio’, quanto piuttosto considerare il rapporto analista-paziente come lo strumento attraverso il quale questa forma artistica si esprime. Comprendiamo così che parlare di "arte" per descrivere il campo d’interesse e d’azione della psicoanalisi, significa anzitutto riferirsi a quel particolare ed esclusivo "prodotto" rappresentato dal rapporto analista-paziente. Se infatti ogni tipo di relazione interpersonale può già di per sé essere considerata una forma d’arte, nel senso che è il risultato dell’incontro e delle metamorfosi di elementi differenti – basti pensare alle due distinte personalità in gioco – nel campo della psicoanalisi questo processo creativo diviene più che mai evidente. Potremmo infatti affermare con giustificata presunzione che il rapporto analitico favorisce – forse come nessun altro tipo di rapporto – l’emergere di contenuti unici nel loro genere. Si tratta di pezzi di vita dimenticati, volutamente nascosti o momentaneamente perduti, che attendono solo di essere nuovamente portati alla luce, ’restaurati’, ridipinti da nuovi significati. E proprio come ogni artista sente nascere dalle profondità del proprio spirito la sua ispirazione e ad essa dona ogni giorno nuove sembianze, allo stesso modo la psicoanalisi "segue la scia dell’inconscio" per rintracciarne i messaggi, disvelarne i significati, ricreando e ridefinendo giorno dopo giorno la sofferenza, il disagio e quant’altro abbia spinto un paziente a chiedere aiuto. In tal senso appaiono interessanti le considerazioni di Salomon Resnik, scaturite dalle sue conversazioni con il filosofo Renzo Mulato. Dialogo tra uno psicoanalista e un filosofo (1996) infatti, è un piccolo libro che propone uno stimolante confronto tra psicoanalisi e filosofia, permettendo al lettore di divagare tra i presupposti e le conclusioni di queste due discipline, considerate talvolta sorelle e tal altra rivali. Interrogandosi in merito alle azioni e

funzioni della psicoanalisi, Resnik giunge così ad osservare che

la psicoanalisi è anche uno strumento di mediazione molto sensibile e fragile, che permette all’artista psicoanalista un contatto con quello che viene velato. Psicoanalizzare, interpretare psicoanaliticamente acquista il significato di svelare, di portare alla luce, di mettere in evidenza ciò che è nascosto, il fenomeno negato o cancellato (11).

Nessuna formula, nessuna etichetta e neppure nessuna certezza dunque; la psicoanalisi si pone dinanzi al paziente e dinanzi al problema con lo stesso atteggiamento che vede il pittore innanzi a una tela bianca. La disposizione d’animo! Ecco l’elemento che anzitutto dovrebbe caratterizzare "l’esperto dell’inconscio", affiancato e sostenuto – naturalmente – da una generosa qualità empatica. La psicoanalisi esige dunque anche la capacità, da parte dell’analista, di "sintonizzarsi" con la sofferenza dell’altro, con la sua richiesta di aiuto, cercando di coglierne il messaggio più autentico. Ricorrendo ancora alle parole di Resnik, osserveremo che

si potrebbe dire che la psicoanalisi, all’inizio e come scienza con categorie sue proprie, dovrebbe cercare soprattutto il contatto con l’altro. Sotto questo punto di vista va detto che il contatto non segue una linea retta, ma curva, come nell’universo einsteiniano (ibid., 28).

Ma se tornassimo ora alla nostra domanda, e ci

interrogassimo circa le aspettative che il paziente nutre nei confronti della psicoanalisi, potremmo disporre di ulteriori indizi per giungere alla soluzione. Il paziente non chiede alla psicoanalisi la ’formula’ – e sia chiaro: né quella magica, né quella chimica ... – ma pretende da essa il sostegno, l’aiuto per percorrere strade che da solo sente di non poter affrontare. Il paziente chiede alla psicoanalisi la possibilità, l’opportunità di costruire, di creare – con l’aiuto di un ’esperto’ – una nuova significatività, che vada ad abbracciare i diversi livelli della sua esistenza, a cominciare da quello delle relazioni interpersonali. A questa domanda – come del resto a tutte le altre – la psicoanalisi risponderà in maniera diversa, ossia strutturando il proprio percorso tenendo anzitutto in considerazione le caratteristiche del paziente che di volta in volta chiederà un aiuto. È per questa ragione che non ha senso pensare che sia maggiormente opportuno rivolgersi a un ’freudiano’, o a uno ’junghiano’ e così via, perché se un aiuto è possibile questo potrà scaturire solo dal rapporto che paziente e analista sapranno creare tra loro, e questo rapporto è del tutto esente da implicazioni per così dire culturali. Salomon Resnik giustamente dice:

Quando si parla di psicoanalisi io personalmente non ho pregiudizi rispetto alla scuola di formazione dell’altro; esigo bensì, come minimo, che il mestiere psicoanalitico si fondi su una «sapienza» che richiede formazione precisa, continua e piuttosto lunga. Per uno che ha esperienza nel campo è relativamente facile giudicare, attraverso la contemplazione e l’ascolto dell’altro, se dietro la maschera professionale e personale ci sia una vera formazione o no (ibid., 23).

Ciò che conta quindi, al di là delle apparenze, delle etichette e dei titoli, è la materia di cui l’analista è costituito, – e per materia intendiamo la sua struttura psicologica, la sua tipologia e modalità di entrare in contatto con l’altro. La materia sarà stata forgiata dall’esperienza e là dove quest’opera di modellamento sia stata eseguita con sapiente e antica maestrìa, potremmo riporre le nostre speranze in mani affidabili. Tuttavia, non dovremmo trascurare di rammentare – soprattutto a noi stessi – che le maggiori preoccupazioni e speranze non tanto dovrebbero essere rivolte all’efficacia del trattamento, alla cosiddetta ’cura’, quanto alla strategia da mettere in atto per offrire aiuto al paziente. Infatti, sebbene siano tutt’oggi in molti a ritenere che il fine ultimo di un percorso psicoanalitico sia la ’cura’ e che questa sia strettamente correlata al tipo di formazione dell’analista, sarebbe importante ricordare con le parole di Medawar che lo scopo della psicoterapia

è piuttosto dare al soggetto una comprensione nuova e più profonda della sua condizione personale e della natura della sua relazione ai suoi compagni in umanità (Medawar 1972, 39).

Ebbene, il nuovo tipo di comprensione cui il paziente potrà giungere, la presa di consapevolezza a cui il percorso analitico potrebbe condurlo, non dovrebbero essere intesi come il risultato delle specifiche caratteristiche di un metodo, ma come il frutto di un rapporto interpersonale scaturito dall’incontro di due anime. Sede ed espressione della dimensione creativa di paziente e analista, il percorso analitico si trasforma così in un autentico processo creativo ove la dimensione regnante non sarà certamente quella della scientificità e verificabilità degli eventi ma quella che potremmo definire "la sfera della

emotività". Ebbene, non dovremmo scomodare eminenti scienziati per comprendere che dal momento in cui entrano in gioco le emozioni non sarà più possibile parlare di regole o di procedure rigide. Il regno delle emozioni è per eccellenza la sede non solo dell’imprevedibilità ma, soprattutto, di una straordinaria libertà di azione e di pensiero. È per questa ragione che la psicoanalisi può essere rassicurata dall’idea di avere pochi argomenti in comune con il mondo della scienza, poiché se così non fosse verrebbero a decadere i presupposti stessi della terapia psicologica. In tal senso appare esemplificativo il pensiero di Edoardo Boncinelli il quale, riflettendo sull’ambivalenza tipica del linguaggio psicoanalitico, afferma:

Nell’operare concreto con il paziente ogni mezzo è lecito. Si può ricorrere ad un linguaggio allusivo, evocativo, analogico; si può e si deve fare appello alle funzioni dell’uomo totale. Di fatto si ricorre anche ad un linguaggio non verbale; si comunica anche con i silenzi, i gesti o la postura, si costruisce una situazione di fatto che coinvolge tutte le percezioni dei due partners di una seduta. [...] L’attività terapeutica si accosta all’attività poetica o comunque creativa... (1978, 7-8).

Ritengo piuttosto riduttivi quegli approcci che si sforzano di leggere nelle tappe del percorso analitico i logici e conseguenziali passaggi di un cammino orientato al disvelamento di una verità ’inattaccabile’. "Riduttivi" nel senso che tendono a enfatizzare solo i minimali corpuscoli di un universo che andrebbe invece indagato nella sua interezza. Non è raro tuttavia sentire parlare, anche quando ci riferiamo alla psicoanalisi, di "ricerche" e "risultati inconfutabili". In tal

senso appare emblematico uno studio sulla psicoanalisi condotto da Joseph Weiss e Harold Sampson (1986). Tale ricerca avvalorerebbe la teoria sostenuta dallo stesso Weiss il quale, rivisitando e ampliando la teoria freudiana, propone una nuova prospettiva interpretativa della patologia e della terapia psicologica. Secondo il punto di vista teorico proposto da Joseph Weiss, alla base delle principali sintomatologie e manifestazioni psicopatologiche sarebbe possibile rinvenire un invadente e invalidante insieme di convinzioni e credenze del paziente. Formatesi in epoche precoci dello sviluppo dell’individuo, queste convinzioni sarebbero ’patogene’ in quanto credenze che, per i loro contenuti e per l’intensità emotiva a esse correlate, sarebbero in grado di generare patologia. L’idea che possano sussistere ’credenze’ di questo tipo, non può essere considerata nuova nel senso che – come ben sappiamo – già Freud aveva provveduto a spostare l’attenzione su dinamiche simili introducendo il concetto di "realtà psichica". Il nostro Freud però, proponendo l’idea che il paziente offra in analisi contenuti che non sempre hanno un riscontro oggettivo nella realtà esterna ma che – piuttosto – dovrebbero essere considerati quali vissuti del tutto personali e, per questo, indipendenti da reali accadimenti, aveva dimostrato una maggiore umiltà e una minore presunzione rispetto a Joseph Weiss. Questo autore infatti non si accontenta di leggere nelle "credenze patogene" del paziente il fattore scatenante di alcune patologie e di determinate manifestazioni sintomatiche variabili da paziente a paziente – direzione che invece fu seguita da Freud – ma con fermezza sostiene che la quasi totalità della psicopatologia va addebitata alle "credenze patogene" del paziente. Come è facilmente intuibile, questo tipo di prospettiva teorica, tende a proporre un drastico e riduttivo livellamento delle possibilità di intervento terapeutico. Infatti, partendo Weiss dal presupposto che alla base di ogni manifestazione psicopatologica del paziente sia possibile rinvenire la martellante azione delle sue "credenze patogene" - che egli

considera essere la condicio sine qua non della psicopatologia (Weiss e Sampson, 1986, 325) – ne deriva che l’unico intervento plausibile sarebbe quello finalizzato alla modificazione di quel tipo di credenze. La ricerca presentata da Weiss e Sampson viene alimentata proprio dal desiderio di fornire "prove inconfutabili" di questo tipo di dinamiche e del fatto che il cambiamento delle credenze del paziente costituisca il fulcro della terapia. Lo scopo di questa, quindi, sarebbe essenzialmente mettere il paziente in condizione di portare alla luce le proprie convinzioni e credenze inconsce, di analizzarle, di prenderne coscienza e di attribuire loro un nuovo valore. Procedendo in questo modo, ossia solo analizzando e modificando le proprie "credenze patogene", il paziente giungerebbe alla ’risoluzione’ del problema che lo ha spinto a chiedere un aiuto psicologico. Lo scopo della terapia secondo questa prospettiva teorica si riduce allora alla mera presa di coscienza – da parte del paziente – delle proprie credenze patogene, solo attraverso il lavoro intenso e costante dell’ analista. Una volta portate alla luce e analizzate, le convinzioni patogene potranno essere eliminate. Si tratta, a ben vedere, di una perspicace variante della visione "protofreudiana" della terapia come indagine per scoprire l’evento, remoto e rimosso che, a suo tempo originò, le nevrosi. Visione "proto freudiana" sposata soprattutto da un certo cinema americano degli anni Trenta, dato che lo stesso Freud, in seguito, aveva rivisto quel concetto schematico e semplicistico (che avrebbe fatto coincidere la ’guarigione’ con la scoperta del "colpevole": chiuso il ’caso’, paziente guarito), quanto meno revocando in dubbio la pretesa autenticità dell’evento-misfatto. Ma su questo aspetto "poliziesco" della teoria weissiana torneremo più avanti. Per ora vorrei soffermarmi sulle "credenze patogene", che spostano l’oggetto dell’inchiesta dal "fatto" alle sue conseguenze sulla "vittima". Ho qualche perplessità su quest’opera di bonifica. "Patogeno" è un aggettivo asettico, tolto di peso dal lessico medico, perciò corretto e univoco; purtroppo non si può dire altrettanto di "credenza", sostantivo ambiguo e intriso di soggettività. Una

’credenza’ è tale per chi non ci crede, per chi ci crede è verità, provata o rivelata a seconda dei casi. La superstizione è una ’credenza’ per chi ne è immune, o ama far credere di esserlo; e così la "predestinazione"; ma anche il ’determinismo’, il rapporto causa-effetto, per i detrattori della cultura occidentale. Persino la teoria di Weiss può essere considerata ’credenza’ da chi non ne è persuaso. Prendiamo, tanto per fare un esempio, il ’senso di colpa’: pur restando nei confini dell’etica ebraico-cristiana, il "peccato originale" va considerato ’credenza’? E lo è l’idea cattolica secondo la quale "il pensiero del peccato è già peccato"? E il sentirsi colpevole di non aver amato abbastanza una persona che ci è venuta a mancare? O la tesi sartriana per cui dovremmo sentirci tutti responsabili di tutte le ingiustizie consumate nel mondo? Insomma, avremo un analista con "licenza di colonizzare il paziente"? Autorizzato a versare nel paziente-recipiente non solo il proprio sapere ma anche le proprie convinzioni religiose se ne ha, la propria "visione del mondo"; magari le proprie idiosincrasie e, perché no, i propri fantasmi. Perché se è vero che l’analisi è, almeno teoricamente, interminabile, non si vede perché non debba esserlo anche quella ’didattica’ cui si è sottoposto a suo tempo l’analista. E quella ferita non sanata che gli ha consentito di intraprendere questo singolare mestiere, farà parte del bagaglio da trasmettere al paziente? Messe sul tavolo queste perplessità, torniamo alla ’catarsi’weissiana e al suo rapporto con gli ammaestramenti del fondatore della psicoanalisi. Le diramazioni tentacolari della teoria freudiana sono piuttosto evidenti nel lavoro di Weiss e Sampson, tuttavia – come accennavamo in precedenza – il pensiero di Weiss prende spesso le distanze da quello di Freud, offrendone talvolta alcune bizzarre rivisitazioni. Una di esse, piuttosto eclatante, è riferita alle caratteristiche e funzioni del transfert. Differentemente dalla visione classica, freudiana, del transfert e delle implicazioni a esso correlate, la teoria di Weiss propone l’idea che le dinamiche di "formazione" e "risoluzione" del transfert siano costellate da un progressivo e inarrestabile percorso durante il quale il paziente, divenendo consapevole

delle proprie credenze patogene, giungerebbe a poter esercitare un attivo controllo sui meccanismi inconsci del transfert. In questo modo verrebbe evidenziata ancora una volta la funzione terapeutica correlata alla modificazione delle "credenze patogene". Sullo stesso tema Joseph Weiss tornerà anche nel 1993, proponendo in How Psychotherapy Works, process and technique, maggiori chiarimenti sulle caratteristiche delle "credenze patogene". In particolare, in questo lavoro Weiss tenderà a mettere in evidenza il modo in cui il processo psicoterapeutico viene determinato dal problema delle credenze patogene, nel senso che anzitutto da esse si dovrà partire per offrire un concreto aiuto al paziente. Anche nel testo del ’93 infatti viene proposta l’idea che la psicopatologia sia provocata da particolari credenze patogene inconsce, credenze che il paziente avrebbe sviluppato a causa di traumatiche esperienze infantili. Secondo Weiss il paziente soffre anzitutto a causa di queste credenze poiché esse sarebbero in grado di generare una grande varietà di sintomi. Alle credenze patogene infatti si accompagnano profondi sensi di colpa e angoscianti rimorsi, derivanti dall’idea – errata – che il responsabile delle esperienze traumatiche o comunque negative, sia stato il paziente stesso quando era molto piccolo. In età adulta, quindi, il paziente soffrirebbe anzitutto per i rimorsi generati da simili convinzioni. Partendo da questo presupposto, Weiss propone l’idea che la terapia debba essere rigidamente mirata ad agire a livello delle credenze patogene. Ora, ai fini del nostro discorso, non tanto è importante chiedersi se sia giusto oppure no circoscrivere il raggio d’azione della psicoanalisi a questo perimetro, quanto invece domandarsi in che modo la psicoanalisi stessa possa affrontare un determinato problema, sia pure esso quello delle "credenze patogene". Questa domanda è fondamentale poiché – come vedremo – la modalità d’intervento proposta da Weiss si rivela quanto mai riduttiva, manifestando nelle sue caratteristiche una singolare ingenuità di fondo. Secondo Weiss, la terapia dovrebbe perseguire solo un preciso obiettivo: mettere in

discussione le credenze patogene. Come accennavamo poc’anzi, questo tema era già stato affrontato da Weiss nel lavoro del 1986, lavoro che come abbiamo visto individuava nel rintracciare le esperienze patogene la migliore strategia terapeutica. Nel lavoro del ’93 invece, sebbene non vengano messe in discussione le conclusioni del 1986, l’attenzione viene convogliata sullo specifico ruolo del terapeuta. Weiss infatti ribadisce che – affinché la terapia possa rivelarsi utile e quindi idonea a ridefinire le credenze patogene del paziente – il terapeuta debba assolvere a determinati compiti. Anzitutto dovrebbe aiutare il paziente a comprendere che le sue credenze patogene affondano le proprie radici nella sua infanzia e, in particolare, a livello del contesto relazionale con i genitori. Inoltre il terapeuta – secondo Weiss – dovrebbe essere in grado di mettere il paziente in condizione di capire che le sue credenze patogene sono il risultato delle esperienze che egli ha vissuto durante l’infanzia, un risultato per così dire ’inevitabile’ nel senso che chiunque si fosse trovato nelle medesime circostanze, avrebbe sviluppato lo stesso tipo di emozioni, sentimenti e convinzioni. In questo modo il terapeuta avrebbe la possibilità di aiutare il paziente a superare le sue insicurezze, a vincere la sensazione di essere inadeguato, incapace, "cattivo". Il paziente potrebbe così riuscire a comprendere che le sue credenze patogene, i suoi sintomi e la sua sofferenza non sono il frutto di un processo misterioso e inesplicabile ma il risultato di uno sforzo di adattamento alla realtà circostante. A tal proposito, Sthephen Bauer (1996), nella sua recensione del testo di Weiss, pone in evidenza proprio il fatto che l’autore è giunto alla conclusione che i pazienti non tanto sono mossi dall’esigenza di appagare i loro bisogni e istinti più primordiali – come la pulsione sessuale o aggressiva – quanto dalla necessità di adattarsi al mondo che li circonda, alla realtà cui appartengono. Man mano che il processo analitico si evolve, il terapeuta avrebbe così la possibilità di aiutare il paziente a ridefinire e ridimensionare le sue credenze patogene, conferendo a esse un

nuovo significato e accompagnando in questo modo il paziente stesso verso la guarigione. Ebbene, questa è l’essenza del processo terapeutico secondo Weiss ma, dal nostro punto di vista "urgono" alcune delucidazioni. Sarebbe troppo semplicistico pensare di poter ridurre l’intervento psicoanalitico a una banale azione di disvelamento ove, più che altro, ciò che conta sembra essere il riuscire a dimostrare l’inconsistenza dei fatti piuttosto che entrare in contatto con l’anima dell’individuo. In verità l’aspetto ingenuo e grossolano di questo metodo risiede nel pretendere di offrire aiuto a chi soffre comportandosi come dei detective piuttosto che come esseri umani dotati di sentimenti. Già la premessa weissiana cui accennavamo poco fa, secondo la quale chiunque si fosse trovato in quelle determinate circostanze avrebbe sviluppato lo stesso tipo di emozioni, sentimenti e convinzioni, non mi sembra molto promettente. Non so quanti pazienti si sentirebbero non dico gratificati ma almeno sollevati da una così sbrigativa omologazione, che un po’ come fanno le istituzioni sanitarie (e gli stessi medici, di regola) spoglia il singolo della sua ’unicità’, della peculiarità della sua sofferenza. Sono convinto, e l’ho sempre sostenuto, che ogni paziente è un ’caso a sé’; non è ipocrisia professionale, lusinga accattivante o captatio benevolentiae, ma una convinzione profonda: ogni paziente è un essere unico, irripetibile. Come possiamo sperare di accompagnarlo a ritrovare e a mettere a fuoco questa unicità se noi per primi lo consideriamo un prodotto di serie, e lo esortiamo a considerarsi tale, come ha già tentato di fare il collettivo, la famiglia, l’educazione, i ’media’? Ab uno disce omnes, malgrado la firma di Virgilio, non è una massima da sposare, soprattutto per uno psicoterapeuta; e se no, a che gli servirebbe la ’creatività’? Ma a parte la doverosa ’messa a fuoco’ della peculiarità del singolo paziente, dovremmo piuttosto cercare di non dimenticare mai l’ammonimento di Jung quando disse:

Il fondamento essenziale della nostra personalità è l’affettività. Pensiero e azione non sono, per così dire, che un sintomo dell’affettività. Gli elementi della vita psichica, sensazioni, rappresentazioni e sentimenti sono presenti alla coscienza sotto forma di determinate unità, che, per tentare un’analogia con la chimica, si possono paragonare alle molecole (Jung 1907, 46).

Non è quindi ipotizzabile di poter ridurre l’intervento terapeutico a una mera ridefinizione di fatti per così dire "improbabili" poiché, se veramente si agisse in questo modo, si trascurerebbe del tutto la vera essenza di ogni percorso psicoterapeutico: il rapporto. Mario Trevi ha saputo porsi in maniera critica nei confronti di questo aspetto affermando:

In realtà anche quanto si è ora detto risulta parziale o addirittura inesatto perché sembrerebbe che il peso del vero strumento della trasformazione sia sopportato soprattutto dal rapporto tra i due apparati psichici. Ma è anche vero che il rapporto rimanda inevitabilmente alle due soggettività, ovviamente inoggettivabili, che lo compongono. Possiamo, sì, per comodità d’espressione, parlare di tre elementi: il terapeuta, il paziente e il loro rapporto. Ma dobbiamo al contempo riconoscere che né il primo né il secondo si dànno alla nostra osservazione fuori o indipendentemente dal terzo elemento. Questo terzo elemento, il rapporto, è contemporaneamente lo spazio avvolgente in cui sono sempre compreso e il vero oggetto della mia osservazione possibile (Trevi 1993, 128).

Giunti a questo punto però vorrei tornare a degli interrogativi che ci siamo posti durante questa nostra disamina della vera identità della psicoanalisi e chiedermi: "è possibile parlare di scienza?" Ebbene, nonostante il fatto che alcune prospettive teoriche – come quella poc’anzi esaminata – tendano a sventolare la bandiera della scientificità, bandiera che pretende di assumere i colori della "verificabilità" e della "inconfutabilità", la psicoanalisi continua a delinearsi come una singolare forma d’arte, mentre le suddette prospettive teoriche rivelano le loro lacune e soprattutto la loro ingenuità. Potremmo forse pensare che l’efficacia della terapia sia data dalla semplice possibilità di "disvelare le credenze patogene" del paziente? Dovremmo accontentarci di identificare ogni processo analitico con il tentativo – spesso vano - di portare alla luce qualcosa di cui non siamo consapevoli ma che muove i fili della nostra esistenza proprio come un burattinaio fa con le sue marionette? E che dire della pretesa scientificità di un approccio terapeutico basato su un improvviso e sconvolgente insight? Ebbene, consentitemi di ribadire che là dove sono in gioco le emozioni e il linguaggio dell’anima, diviene estremamente difficile – se non impossibile – parlare di scientificità, di prevedibilità, di controllo delle variabili o di misurazione. Esemplificativo a tal riguardo appare il pensiero di Giovanni Jervis quando afferma:

se ci si pone oggi il problema della scientificità della psicoanalisi dal punto di vista dell’affinità eventuale dell’orientamento psicoanalitico con quelle scienze che usano registrazioni e misurazioni, esperimenti e statistiche, e che quindi indagano, secondo presupposti fondamentalmente empiristici, su fatti che sono chiaramente definibili, [...] allora si deve concludere che la psicoanalisi non è della partita, appartenendo chiaramente il suo tipo di investigazione a un altro settore, che non è comunque quello delle scienze esatte

e neppure strettamente quello delle scienze della natura (Jervis 1989, 30-31).

E se l’anelito alla scientificità dovrebbe essere tenuto a freno, ancor di più dovrebbe essere arginato il selvaggio e dirompente impeto della ricerca di una pseudo-scientificità o di qualsiasi forma di compromesso che tenti una mediazione fra le "chiacchiere e i fatti". Né delle prime né degli altri dovremmo parlare per descrivere l’essenza del processo psicoanalitico ma anzitutto di sentimenti, delle emozioni che costellano e orchestrano da sempre ogni tipo di setting. Procedendo in questo modo – e credetemi: "solo in questo modo" – sarà possibile comprendere dove risiede la forza di ogni processo terapeutico e in cosa consista l’identità della psicoanalisi. Nel primo caso come nell’altro, la formula-chiave è una sola: il rapporto analista-paziente. Le relazioni interpersonali sono il vero motore primo dell’esistenza umana, grazie a esse si nasce, per esse si combatte, si vive e talvolta si muore. La relazione è sinonimo di vita, di creazione e trasformazione continua, di evoluzione verso dimensioni psicologiche in continuo cambiamento. Ecco allora che se veramente vogliamo chiederci quale sia attualmente – e quale sia sempre stato – il più straordinario ed efficace strumento terapeutico, non potremmo fare a meno di parlare del rapporto interpersonale. Tornando così per qualche istante al tema del transfert, comprendiamo che la sua "antichissima magia" non può essere data dalla possibilità di dominarlo, ma dalle dinamiche relazionali che esso è in grado di scatenare e dalle quali esso stesso deriva. Riflettendo su questi aspetti Jung osservò:

Ma con l’insorgere del transfert si modifica la struttura psichica del medico senza che egli stesso sulle prime se

ne renda conto: egli viene contagiato al pari del paziente, il quale tanto per il medico quanto per se stesso, è distinguibile solo con difficoltà da ciò che lo tiene in suo possesso. Ne deriva per entrambi un confronto immediato con le tenebre che celano l’elemento demoniaco. Questo intreccio paradossale di positivo e negativo, di fiducia e di timore, di speranza e di fiducia, di propensione di resistenza caratterizza il rapporto iniziale (Jung 1946, 29).

E ancora:

Ma l’esperienza insegna che nel transfert un certo rapporto non s’interrompe neppure col venir meno della proiezione. Questa relazione cela infatti una componente istintiva estremamente importante, cioè la libido parentale. [...] Essa esige il rapporto umano. Questo è il nocciolo, che va tenuto sempre presente, del fenomeno del transfert (ibid., 79).

Appare dunque il valore del rapporto all’interno del processo analitico ma sono molteplici gli aspetti dell’esistenza che vedono nelle relazioni interpersonali il fulcro del loro andamento e della loro evoluzione. La psicoanalisi quindi "funziona" quando "funziona" la relazione analista-paziente, e in assenza di essa sarebbe assurdo ipotizzare qualunque tipo di trattamento e di lavoro. Come è del resto facilmente intuibile, non sempre il rapporto conduce alla serenità e al benessere psicofisico, tutt’altro. Come ben sappiamo infatti le relazioni interpersonali possono rappresentare per noi tutti una benefica fonte di nutrimento psicologico ma, al contempo, dispensare

sofferenza e dolore. Tuttavia, il rapporto è comunque uno strumento di grande efficacia – sia in senso positivo che negativo. Fra le varie funzioni che al rapporto interpersonale è possibile attribuire, potremmo ricordare quella di mettere l’individuo in condizione di entrare in contatto con aspetti della propria personalità che altrimenti avrebbero potuto rimanere inesplorati per molto, moltissimo tempo. Per esemplificare il nostro discorso, potremmo ricordare quanto Jung osserva circa gli "errori" che a noi tutti, in quanto esseri umani, è dato di compiere. Con le sue parole:

Un ’riconoscimento dei propri errori’ generale e accademico è assolutamente inefficace; perché in questo processo non emergono realmente gli ’errori’, ma unicamente la loro raffigurazione. Gli errori però diventano acuti quando entrano realmente in rapporto col prossimo e diventano evidenti sia a se stessi che agli altri. Solo a questo punto essi possono essere realmente percepiti e si può riconoscerne la vera natura. Così anche la confessione fatta a noi stessi ha un effetto scarso o nullo, mentre se la confessione avviene di fronte a un altro possiamo attendercene un’efficacia assai maggiore (Ibid., 131).

L’Altro, il "rapporto con l’Altro", ecco l’elemento di cui possiamo essere "certi", nel senso che la relazione interpersonale è senza dubbio lo strumento privilegiato per accedere non solo al mondo che ci circonda ma, soprattutto, a noi stessi. Inutile e limitante quindi parlare di "scienza" per descrivere ciò che la psicoanalisi è in realtà: molto più saggio e proficuo sarà adottare l’espressione "arte della relazione". Allora, come viene giustamente osservato a proposito delle tesi di Grünbaum, mentre queste si riferiscono alla fisica, non

si riferiscono "alle scienze umane e alla psicoanalisi in particolare per le quali sembra possibile solo un modello aperto, creativo e fornito di validità euristica" (Longhin e Mancia 1998, 49). Non ci sembra pertanto né utile né sensato che la dissertazione in merito alla presunta scientificità della psicoanalisi venga ancora portata avanti, molto più opportuno sarà riflettere su quegli aspetti che dimostrano proprio l’esatto contrario. In tal senso si rivelano preziose le parole di Roger G. Newton, che nel recente La verità della scienza, osserva:

Una delle argomentazioni più efficaci contro la psicoanalisi come scienza è che il suo sistema può facilmente produrre spiegazioni plausibili di sintomi o sogni di ogni tipo, ma sembra non esserci nessun modo di dimostrare che la spiegazione sia sbagliata. [...] Perciò tali teorie non hanno un reale potere esplicativo; è la loro non-falsificabilità che spiega la loro mancanza di significato scientifico, non il loro fallimento della verificabilità. Non c’è dimostrazione scientifica, c’è soltanto confutazione (Newton, 1997, 103).

E ancora:

[...] La psicoanalisi e le altre teorie della psicologia non si appoggiano all’evidenza pubblicamente accessibile; proprio perché fanno affidamento sull’autorità dei maestri essi sono state attaccate come non scientifiche (Newton, op. cit., 112).

3. LA COCAINA NON RENDE CELEBRI Abbiamo riflettuto sulle caratteristiche della psicoanalisi cercando di evidenziarne i tratti salienti per offrirne un identikit attendibile, un ritratto fedele. Abbiamo compreso che questo identikit della psicoanalisi non tiene conto dei parametri delle discipline scientifiche e che, di conseguenza, sarebbe un grave errore cercare di incastonare la psicoanalisi all’interno del rispettato "mosaico delle scienze esatte". Ma ciò che soprattutto del nostro discorso è bene ricordare è il fatto che siamo giunti a identificare la psicoanalisi come una particolare forma d’arte, l’"arte della relazione". Cercheremo ora di comprendere i parametri di questa particolare forma di espressione creativa, mettendone non solo in evidenza le insidie, le problematiche e le implicazioni di ordine teorico-pratico, ma soprattutto cercando di ripercorrere le tappe che hanno condotto alla sua nascita e al suo sviluppo. La psicoanalisi è chiamata a confrontarsi con una serie di fenomeni psichici che sollecitano il suo interesse per la loro apparente illogicità: comportamenti inusuali, strane paure, rituali ossessivi che consentono a chi li pratica di continuare a vivere, angosce profonde che impediscono la normale vita di relazione. Dinanzi a queste manifestazioni, la ricerca psicologica si è posta delle domande e degli obiettivi: quale è l’origine e la causa di tali fenomeni? È possibile, sulla base di un’attenta diagnosi, stabilire delle strategie di intervento e ridurre il disagio di chi soffre? È possibile, insomma, un approccio terapeutico? Sono domande a cui fino a ieri la psichiatria ufficiale non dava risposta, ammesso che se le ponesse. È legittimo chiederci perché. Se osserviamo lo sviluppo della psichiatria dinamica notiamo che la sua evoluzione è andata progredendo da una visione anatomo-patologica, tipica degli studiosi di fisiologia organica

cerebrale, a una visione psicodinamica della cosiddetta malattia psichica, sulla base di anni e anni di attente ricerche e di osservazioni cliniche. Prima di arrivare a una comprensione di tipo psicodinamico del disagio mentale, i tentativi di curare i sintomi, dai più lievi ai più eclatanti e sorprendenti – per esempio i casi di sdoppiamento della personalità – erano rivolti all’organo malato – il cervello – e agli organi coinvolti. In nome della scienza psichiatrica sono stati compiuti degli esperimenti da considerare alla stregua di barbari supplizi, dalle immersioni nelle vasche di acqua gelida al coma insulinico, alle lobotomie. Occorreva debellare un male incistato nell’organismo, un nucleo impazzito del cervello, e poiché non si riusciva a curarlo non restava che estirparlo: come se, dinanzi al guasto di un meccanismo del motore, un meccanico pensasse di poter riparare il danno eliminando il pezzo non funzionante. Però, accanto agli studiosi da laboratorio, per i quali l’ammalato era né più né meno che una cavia, sono esistiti i grandi ricercatori, i pionieri del progresso della medicina (una medicina che oggi noi definiremmo, secondo un nome d’uso, "alternativa"). Queste personalità, dinanzi al potere occulto della malattia, alla sua resistenza alle terapie dell’epoca, hanno acuito il loro ingegno e, mettendo in crisi il sapere costituito, accademico, hanno cercato di indagare sui fenomeni patologici senza pregiudizi di sorta, come si conviene appunto ai pionieri. Uno di questi innovatori è stato Jean-Martin Charcot (182593), che intorno alla fine del 1800 dirigeva l’Ospedale parigino della Salpetrière, una struttura che ospitava i casi più singolari e difficili, casi di cui il neurologo si occupò indicando per ciascuno di essi non soltanto una denominazione specifica – la scienza del suo tempo era ancora soprattutto classificatoria e nomenclatoria – ma enunciandone anche una precisa sintomatologia e, soprattutto, una specifica strategia terapeutica. Le patologie riguardavano l’ambito delle paralisi traumatiche, dell’isteria, dell’epilessia. Fenomeni particolari che lo studioso cercò prima di tutto di definire secondo una

modalità di lavoro che oggi considereremmo tipica delle diagnosi differenziali. I casi di epilessia sembravano essere ricorrenti, e a essi Charcot rivolse la maggior parte delle sue risorse ed energie. Il suo lavoro, con il trascorrere del tempo, gli permise di individuare all’interno della moltitudine dei soggetti considerati epilettici un considerevole numero di personalità ’isteriche’, identificabili poiché ’capaci’ di simulare gli attacchi epilettici. Allo stesso modo, tra le paralisi traumatiche per le quali era stata diagnosticata un’eziologia di origine organica, egli ne rintracciò moltissime di natura isterica. Nonostante la sintomatologia fosse simile, tanto nel caso delle crisi epilettiche quanto in quello delle paralisi, la causa era tuttavia diversa: di natura organica le une, di natura ’dinamica’ quelle isteriche. Per queste ultime non si riscontrava alcuna traumatologia organica né lesione cerebrale, e per di più sotto ipnosi tali manifestazioni tendevano a scomparire. Secondo Charcot, l’origine di simili disturbi era da ricercare nelle "idee fisse", qualcosa paragonabile a dei nuclei complessuali inconsci: questa scoperta sarà poi il fondamento delle successive ricerche da quelle di Janet sull’attività psichica inconscia, fino a quelle di Freud. È ormai trascorso più di mezzo secolo dalla morte di Sigmund Freud: il suo pensiero, le sue idee, il suo lavoro sono stati presi in considerazione e analizzati da psicologi, filosofi, antropologi, storici e scienziati di ogni tipo e genere ma tutta questa profusione di studi ancora non sembra sufficiente. Freud e le sue suggestive idee, le sue geniali esemplificazioni del funzionamento della psiche continuano a popolare l’immaginario della gente, solleticando l’intelletto dei più colti e seducendo la fantasia di coloro che "non vogliono ammettere di non sapere". Doveroso dunque, oltre che necessario, dedicare ampio spazio in questa nostra Breve storia della psicoanalisi all’uomo che ne ha scandito i passi. Prima di incamminarci verso la comprensione del pensiero freudiano – e quindi prima di ripercorrere le tappe della nascita della psicoanalisi – ritengo importante osservare che la storia

che vogliamo qui tratteggiare è costituita da una pluralità di tasselli pressoché illimitata e che pertanto, per ragioni ’logistiche’, anche in questo caso si è resa necessaria una selezione. Includere nelle fila di un discorso un argomento piuttosto che un altro non significa disprezzare o "bocciare" il secondo, né significa ritenerlo meno importante del primo. Come ho già osservato più volte, aderire a una determinata corrente di pensiero o – come in questo caso – selezionare le teorie di alcuni autori mettendo per così dire "in secondo piano" quelle di altri, significa voler prestare ascolto alla propria eco dinanzi alla musicalità di una determinata teoria. Credo sia determinante non scadere mai nella mediocre banalità del dogmatismo poiché, come osservai diversi anni or sono, soprattutto per quanto concerne il raggio d’azione della psicoanalisi:

quanto più si è insicuri di ciò che si fa, tanto più ci si aggrappa a dettami autoritari, si considerano ipotesi teoriche alla stregua di dogmi, e si difendono con animosità concezioni che sarebbe necessario vagliare criticamente. [...] È la paura dell’incertezza il solo cemento di tante ’certezze granitiche’. [...] Oltre tutto nell’ambito della psicoterapia il dogmatismo risulta dannoso più che in altri campi. Esiste infatti una problematicità tipica del lavoro dello psicologo, e solo stimolandola sarà possibile fare dei passi avanti nella comprensione di quello che accade in un setting analitico (Carotenuto 1982, 14).

Premesso questo, possiamo ora ritornare alla teoria di Freud, alla quale spetta il posto d’onore. Sia chiaro però: porre la teoria freudiana sul "podio" della storia della psicoanalisi, non

significa – in virtù di quanto abbiamo affermato poc’anzi – aderire ad essa ma significa riconoscerle il ruolo fondante all’interno del corso della storia della psicoanalisi. Ho già sostenuto che "anche se, come sempre, è impossibile stabilire se la formulazione freudiana sia ’vera’ o ’falsa’, essa è comunque il primo tentativo nella storia del pensiero psicologico, di dar vita a un quadro completo e coerente. Come dalla lingua latina ebbero origine tutte le lingue romanze, così sui fondamentali concetti del pensiero freudiano si baseranno tutte le elaborazioni teoriche successive a Freud" (Carotenuto 1991, 59). Proprio come l’egemonia del latino nel panorama culturale anteriore e posteriore all’anno Mille non impedì la nascita e lo sviluppo di nuove lingue e forme di espressione letteraria, la teoria freudiana, sebbene preponderante, fondamentale e imprescindibile, non solo non impedì il sorgere di nuovi e differenti punti di vista ma anzi ne sollecitò lo sviluppo. Allo stesso modo poi, proprio come le nascenti lingue romanze non si configurarono come un’ottusa opposizione al latino, né vollero tentare di esserne la degna alternativa, così le teorie degli autori che si affacciarono sul panorama culturale psicoanalitico dopo l’avvento di Freud non vennero alimentate dal desiderio di spazzare via "la teoria madre". Infine, completando con questa osservazione il nostro paragone tra la teoria freudiana e l’egemonia del latino, diremo che le lingue romanze non nacquero con lo scopo di opporsi al latino, proprio come le teorie dei vari autori che prenderemo in considerazione nell’ambito di questa nostra Breve storia non scaturirono dal bisogno di abbattere l’edificio freudiano. Solo nelle religioni, o meglio all’interno delle grandi religioni monoteiste, può accadere – ed è spesso accaduto – che una "lettura" dei testi sacri che si discosti da quella ufficiale sia considerata "eretica" e generi apostasie, diaspore, scismi, scomuniche, secessioni, riforme e controriforme; e magari guerre guerreggiate, che però rivelano ben presto – vedi la Lotta per le Investiture – la loro cruda natura di lotte per il potere. Per fortuna le dottrine psicoanalitiche non si

considerano religioni – anche se all’interno delle rispettive ’associazioni’ non mancano i sagrestani e i Grandi Sacerdoti, i fondamentalisti e gli eterodossi, i tribunali dell’Inquisizione e le scomuniche – e nemmeno, per la verità, le Lotte per le Investiture; ma si tratta di fenomeni degenerativi. E torniamo alla nostra analogia tra la storia delle lingue e quella della psicoanalisi. Sia nell’uno che nell’altro caso, non si trattava di ’spedizioni punitive’. Le lingue romanze nacquero per colmare le lacune a cui il latino non aveva saputo porre rimedio, cercando anzitutto di soddisfare quella fetta di pubblico, di popolo, di studiosi e di scrittori che ricercavano una modalità espressiva "altra" rispetto al latino, diversa, ma non opposta a esso. Nell’ambito del panorama teorico-culturale della psicoanalisi, lo scenario è il medesimo: Freud è il leitmotiv di fondo, ma l’efficacia della sinfonia è data da tante melodie diverse, ispirate a quella freudiana, talvolta contrastanti con essa e talvolta combaciabili. Freud nacque il 6 maggio 1856 a Freiberg, una cittadina della Moravia, oggi Příbor. Il piccolo Sigmund venne al mondo in una camera al secondo piano del numero 117 della Schlossergasse, una camera angusta, che costituì per i primissimi anni della sua vita tutto il suo mondo. Spesso i critici del pensiero freudiano si sono interrogati circa l’eventualità – peraltro tutta da dimostrare – che le ristrettezze economiche e ambientali del piccolo Sigmund abbiano dato vita a quella che potremmo definire una "nevrosi esistenziale". In molti si sono chiesti se quell’inquietudine malsana, se quel bisogno di evadere dalle limitazioni non abbia poi ispirato – o forse inficiato – tutta la sua teoria. Ora, a prescindere dalla specifica essenza di queste congetture, esse introducono comunque un tema importante nell’ambito dello studio delle differenti teorie psicologiche: la problematicità dell’autore. Più volte negli anni ho avuto occasione di riflettere sull’argomento e sono tutt’oggi convinto del fatto che:

Uno degli elementi più importanti per comprendere la genesi delle singole teorie psicologiche è la conflittualità nevrotica dell’autore. Se indaghiamo con occhio clinico la vita intima delle personalità che hanno dato dei contributi fondamentali in campo psicologico – mi riferisco principal – mente a Freud, Adler e Jung – vediamo che la loro struttura intellettuale e, quindi, l’impalcatura delle loro opere, è legata a determinati, particolari, problemi. [...] Sia Jung che Adler e Freud hanno attraversato periodi di grave depressione. Ciò è indicativo del fatto che non riusciremo mai a esprimere nulla di valido in campo psicologico se, in un modo o nell’altro, non faremo un viaggio all’interno di noi stessi. Da questo viaggio qualcuno emerge, altri no (Carotenuto 1982, 18-24).

Sebbene Freud preferisse non avvalorare l’idea che lo sviluppo della psicoanalisi potesse essere stato influenzato dalle sue vicende personali, tuttavia esistono alcune peculiarità della sua biografia che potrebbero aver orientato addirittura tutta l’evoluzione del suo pensiero. Ecco allora un particolare che non dovremmo dimenticare: i genitori di Freud erano ebrei. Quando il piccolo Sigmund veniva al mondo, la persecuzione ufficiale nei confronti degli ebrei da parte dell’impero asburgico era cessata ormai da alcuni anni ma essere ebreo era ancora considerato sinonimo di "diversità", di una diversità che purtroppo presentava numerosi riscontri oggettivi. Quando Freud ebbe circa tre anni, una grave crisi economica costrinse la sua famiglia a lasciare Freiberg per trasferirsi a Vienna. La situazione socio-economica della grande città non era allora certo delle migliori, la miseria dilagava e Freud trascorrerà i primi quarant’anni della sua vita sempre

attanagliato dall’angoscia per il futuro, un’angoscia che scaturiva dall’essere un "ebreo non agiato". Aggiungiamo che nella capitale austriaca l’antisemitismo non ammainerà mai le sue bandiere; fino alla Prima Guerra Mondiale, fino all’Anschluss e alla Seconda, sotto le finestre della casa di Freud continueranno a passare cortei imprecanti alla "razza dannata", al "popolo decida" con slogan cadenzati e simboliche forche, inneggianti al partito cristiano-sociale, all’Imperatore e alla musica di Wagner. Sigmund Freud sarà un fanciullo e un giovane spinto da un profondo e intenso bisogno di divincolarsi dalla miseria, dai pregiudizi sociali, dai limiti dell’ottusità umana e la sua teoria – come vedremo – rappresenterà la massima espressione dell’idea di libertà e di forza interiore. La sua straordinaria e precoce passione per la lettura appariranno agli occhi di tutti come il giusto complemento di una mente geniale, proiettata nel futuro, tesa alla conoscenza e, prima ancora, a porsi domande sulle quali mai nessuno si era azzardato a riflettere. L’origine delle specie di Darwin, apparso nel 1859, esercitò su di lui un grande fascino, appagando con le sue idee rivoluzionarie un bisogno che dominerà sempre l’intelletto di Freud: il bisogno di andare oltre le apparenze per "scoprire la verità". Intrapresa la facoltà di Medicina, Freud si dedicherà con passione allo studio delle scienze naturali e dell’anatomia comparata. Dal 1876 al 1882 sarà al fianco di Wilhelm Brücke per dedicarsi allo studio dell’anatomia e della fisiologia del sistema nervoso. L’esperienza all’interno del laboratorio di Brücke gli permetterà di sviluppare un atteggiamento e una forma mentis da vero scienziato, consentendogli tra l’altro di incontrare per la prima volta Josef Breuer. Durante questo periodo Freud non si occupava ancora di pazienti, e la sua era la figura tipica dello studioso, di un uomo dedito al proprio impegno tra le mura e gli strumenti di un laboratorio. Nel 1876 in particolare, lo scenario sarà la città di Trieste ove Freud, avendo vinto una borsa di studio, risiederà per un breve periodo dedicandosi a una ricerca sulle gonadi

delle anguille. I dettagli, i particolari, il microcosmo, ecco il fulcro dell’attenzione di Freud in questa fase della sua vita, ma ecco anche il centro dell’universo attorno al quale costruirà tutta la sua opera. Un grande elemento interverrà però a mutare il raggio d’azione dello studioso: ben presto abbandonerà anguille, anfibi e altre piccole creature per dedicarsi all’uomo. Nel 1881 infatti si laurea in Medicina all’Università di Vienna e, divenuto assistente nella clinica psichiatrica di Theodor Meynert, comincia a occuparsi di neurologia. Freud conduce esperimenti, legge, studia, si documenta e, nel 1884, giunge a intuire le proprietà anestetiche della cocaina e i suoi effetti neurologici. I risultati dei suoi studi apparvero proprio nel 1884, veicolati dalla relazione Über Coca; non sarà però la cocaina a dare a Freud la celebrità. Durante gli studi e le ricerche sulla cocaina infatti, Freud, non volendo rinunciare alla possibilità di un viaggio per incontrare la sua amatissima Martha, permetterà al collega Koller di scavalcarlo e di accaparrarsi la paternità delle scoperte sulle proprietà analgesiche della cocaina. L’anno seguente – il 1885 – ottenuta una borsa di studio, Freud si reca a Parigi. Qui frequenta la Salpêtrière, seguendo da vicino le ricerche di Charcot sull’isteria. L’influsso che quest’ultimo eserciterà su Freud sarà enorme ma ancor più grande sarà il fascino della follia che Freud scorgerà negli occhi delle "isteriche" pazienti di Charcot. Per chiunque abbia mai tentato di ripercorrere le tappe essenziali del pensiero freudiano, l’influsso di Charcot rappresenta davvero un passaggio obbligato:

Questo nuovo campo di ricerca attirò enormemente Freud. Abbandonò il laboratorio e passò tutto il suo tempo in mezzo alla folla degli studenti che ascoltavano le lezioni di Charcot, presenziavano alle sue dimostrazioni pratiche e lo accompagnavano in giro per

le corsie. [...] Charcot spostò in modo decisivo e duraturo il punto focale dei suoi [di Freud] interessi. Lo affascinò quel potere della mente sopra la materia che si riusciva a ottenere mediante l’ipnosi. Per la prima volta lo attirava la prospettiva di avere a che fare coi pazienti, perché il loro trattamento poteva al tempo stesso aiutare lui a trovare quelle risposte di cui sentiva il bisogno (McGlashan e Reeve 1970, 60-61).

Ciò che ora comincia ad attrarre l’interesse di Freud è la possibilità di individuare il rapporto fra manifestazioni somatiche della malattia e la sua origine "psicologica". Le nevrosi rappresentano ora per Freud il campo privilegiato al quale rivolgere la propria attenzione e l’isteria allora sembrava davvero essere la "patologia per antonomasia". Charcot rinveniva alla base dell’insorgere dell’isteria due elementi distinti ma comunque indispensabili per lo scatenarsi di un attacco: anzitutto un trauma psichico a monte e poi una componente per così dire "ereditaria" di degenerazione del cervello. Il lavoro di Charcot costituì per Freud il "la" di tutto il suo successivo impegno, dei suoi studi, delle sue ricerche. Saranno proprio le ricerche sull’isteria infatti, a spingerlo a una stretta collaborazione con Josef Breuer, dalla quale scaturiranno nel 1893 la Comunicazione preliminare e, nel 1895, gli Studi sull’isteria. Il rapporto con Breuer sarà determinante per la nascita della psicoanalisi, nel senso che farà scoccare nella mente di Freud la scintilla che lo condurrà a elaborare la sua "teoria dell’inconscio". Affermare che il loro rapporto – nato anzitutto come amicizia – sarà determinante per la nascita della psicoanalisi, significa dover ricordare il celebre caso di Anna O., pseudonimo che celava la figura di Bertha Pappenheim. Questo grave caso di isteria aveva creato a Breuer – che si era cimentato nel trattamento di questa giovane fanciulla dai lunghi capelli corvini utilizzando il metodo dell’ipnosi – non pochi problemi. La malattia di Anna si snodò

attraverso una serie di fasi, di passaggi che condussero ben presto la giovane ad aggravarsi in maniera preoccupante. Breuer si rese conto di non poter gestire le implicazioni del caso e così decise di rivolgersi a Freud. Ebbene, le osservazioni e le riflessioni di Freud in merito a questo caso possono essere considerate l’humus nel quale la psicoanalisi ha affondato le sue radici per crescere e svilupparsi. Un’attenta riflessione sul caso di Anna O. infatti, permetterà a Freud di individuare ed elaborare un nuovo metodo, una valida alternativa all’ipnosi e una positiva evoluzione del "metodo catartico" messo a punto da Breuer. La psicoanalisi comincia da qui, dal complesso caso di Anna O.:

Nel corso della sua malattia, protrattasi per oltre due anni, la paziente del dottor Breuer, una ragazza di ventun anni di elevate doti intellettuali, sviluppò una serie di disturbi somatici e psichici che ben meritavano di essere presi sul serio (Freud 1909, 130).

Freud tornò spesso su questo caso, sottolineandone l’importanza e cercando di ricordare al grande pubblico i meriti e il ruolo di Breuer rispetto alla nascita della psicoanalisi. In particolare, in occasione della prima delle cinque conferenze tenute da Freud dal 6 al 10 settembre del 1909 presso la Clark University a Worcester, egli affermò:

Se è un merito l’aver dato vita alla psicoanalisi, il merito non è mio. Non ho preso parte al suo primo avvio. Ero studente, impegnato nel dare gli ultimi esami, quando un altro medico viennese, il dottor Josef Breuer, applicò per la prima volta questo procedimento

(dal 1880 al 1882) per curare una ragazza malata d’isteria (Ibid., 129).

La ragazza in questione era, per l’appunto, Anna O. e il suo caso divenne celebre nella storia della psicoanalisi perché permise a Freud di formulare l’idea che i malati isterici soffrono di reminiscenze. I loro sintomi cioè sarebbero residui e simboli mnestici di determinate esperienze [traumatiche]" (Ibid., 135). Da allora tanta strada è stata fatta verso la comprensione delle radici della sofferenza umana, ma a tutt’oggi riconosciamo a Charcot il merito di avere attivato un meccanismo formidabile, orientato in direzione del "disvelamento dei misteri della mente". Alla sua morte, Charcot fu definito "l’uomo che aveva rivelato al mondo un campo sconosciuto della psiche" (Ellenberger 1970, 116). Egli aveva compreso la funzione della psiche nell’eziologia di malattie mentali allora conosciute, e sebbene i suoi metodi, dapprima osannati e poi criticati, fossero pionieristici, il suo grande merito fu di aver rivelato la natura psicologica, o meglio psicodinamica, dei disturbi mentali. Da allora in poi, accanto a una corrente di studi neurologici fedele alla spiegazione organicistica, ha preso vita una corrente di studi psichiatrici psicodinamica che, senza trascurare la neurologia e l’anatomia cerebrale, ha voluto indagare quelle aree dell’attività psichica che spesso vengono ritenute inaccessibili, sconosciute, misteriose perché "inconsce". È proprio in virtù della presenza di queste sfere enigmatiche e oscure della nostra personalità che la psicoanalisi ha potuto introdurre termini particolari, come quelli di vita psichica inconscia, di motivazioni inconsce, di rimozioni e di difese. La psicoanalisi, quindi, si occupa proprio di questo ambito di ricerca, ed è questa la matrice da cui trae nutrimento la nostra disamina delle caratteristiche dell’arte psicoanalitica e delle diverse correnti di pensiero che hanno contribuito al suo

sviluppo. Una scelta precisa, dunque, una scelta di campo che rientra comunque all’interno di un panorama anch’esso molto differenziato. Vedremo come le differenti teorie della psicoanalisi sono tante quanti i singoli autori che si sono interessati di queste tematiche, e vedremo che, anche all’interno di una stessa corrente di pensiero, possono emergere notevoli divergenze, il che a nostro avviso rivela una fertile ricchezza di idee. Come ci ricorda Giovanni Jervis,

Freud non si valse di un metodo semplice, ma mise in movimento problemi epistemologici di cui egli stesso non conobbe la portata; non scoprì un mondo già fatto, ma fondò una dottrina; non costituì un sistema, ma dette una serie di indicazioni; fu un precursore ma anche, integralmente, uomo della sua epoca (Jervis 1967, XII).

La psicoanalisi nasce dunque anzitutto dal bisogno di comprendere quei fenomeni, più o meno gravi, che possono rendere la vita di alcune persone molto difficile, penosa, talvolta così drammatica da indurre l’individuo a pensare di non poterne sostenere il peso. In fondo, è in virtù del medesimo principio che la medicina esiste e che viene sollecitata nel proprio lavoro; nel senso che se qualcosa ha turbato l’equilibrio omeostatico del nostro organismo, così da renderci impossibile continuare a vivere e a fornire un certo tipo di prestazioni, si rende necessario un intervento atto a ristabilire una condizione di "vita normale", adeguata quindi alle richieste dell’ambiente esterno e alle pressioni dell’esistenza. Spesso accade – e, come ben sappiamo, oggi sempre di più – che i mezzi di comunicazione di massa ci facciano pervenire notizie sempre molto sorprendenti circa i progressi e le

evoluzioni del mondo scientifico. Ebbene, a tal proposito è inevitabile osservare come ogni exploit della scienza sia accolto con un certo sospetto, con una pregiudizievole diffidenza e come esso generi allarme e preoccupazione da parte del collettivo. Il tema della clonazione, ad esempio, è ormai entrato nel linguaggio e nell’immaginario comune, ma non dovremmo sforzarci molto per ricordare quale fitta nube di mistero, inquietudine e indignazione esso abbia generato sul nascere. Ritengo pertanto fondamentale addurre alcune considerazioni di ordine sia logico che psicologico. Continuando a utilizzare come parametro del nostro discorso il tema della clonazione, diremo che se sorvoliamo sul problema etico che una simile tematica solleva – problema grave e reale – e prendiamo in considerazione soltanto l’affermazione secondo cui sarebbe possibile riprodurre all’infinito gemelli identici, la nostra fantasia mette in scena una folla interminabile di individui che non solo si assomigliano come gocce d’acqua, ma pensano, parlano, si muovono, desiderano e operano in maniera identica, proprio come manichini pilotati da uno scienziato pazzo. Che ci sia un grano di follia in alcune operazioni di laboratorio, è fuori di dubbio. Ciò che non è possibile sostenere è che uno stesso bagaglio genetico equivalga a una medesima conformazione psicologica, culminando quindi in uno stesso destino. La semplice osservazione delle differenze psicologiche, a volte persino molto accentuate, che esistono tra gemelli monozigoti ne è la prova. All’interno di uno stesso nucleo familiare, due gemelli possono sviluppare attitudini, comportamenti e abiti mentali diversi. Questo significa che la nostra conformazione psicologica non dipende dal bagaglio genetico che abbiamo ereditato. Quando per esempio asseriamo che un individuo si comporta in un determinato modo perché la sua storia infantile è stata di un certo tipo, ci stiamo riferendo a qualcosa di complicato. Questo individuo ha elaborato il proprio rapporto con le figure parentali secondo certe modalità, ha introiettato certi modelli di comportamento prevalenti nell’ambiente umano in cui si è formato e ha strutturato legami di identificazione con aspetti

consci e inconsci delle figure significative, genitori o altri. Potremmo quindi supporre che egli – al di là delle normali strategie difensive – possa aver adottato risposte difensive talmente massicce e rigide da ostacolare il suo stesso sviluppo. Una serie multiforme di eventi e di elaborazioni, una rete intricata di nessi relazionali che emerge da uno sfondo di riferimenti culturali altrettanto complessi. L’interesse per la psicoanalisi e, soprattutto, lo stile e il taglio che ogni autore assume come proprio sguardo caratteristico sul mondo, nascono da interrogativi che differiscono da un ricercatore all’altro, ed è per questo che possiamo osservare la dimensione psicoanalitica da prospettive differenti. Per chi assume quale punto di vista ideale quello che considera la vita psicologica come un processo dinamico di maturazione di un destino unico, irripetibile, individuale e considera che a tessere questo destino concorrono varie forze psichiche – la cui natura cercheremo di analizzare in questo lavoro – ogni dimensione psicologica appare definibile attraverso determinanti che esulano dalla mera osservazione dei ’fatti’, dei comportamenti, così come delle norme sociali e delle regole del gioco collettivo. Sebbene sia indiscutibile il peso di questi fattori nel determinare una ’tipologia culturale’, la nostra ambizione ci induce a formulare quesiti più inquietanti: che cosa fa di me, individuo x, ciò che sono, e come io posso divenire ciò che sono in germe? Esiste una ’linea di destino’, come la definiva Jung, esiste una personalità in nuce che "prende corpo", definendosi via via che entra in risonanza con l’ambiente che la contiene? E ancora: siamo determinati a priori, siamo predeterminati o piuttosto esiste sempre la possibilità di autogenerarci, di trasformarci? I giochi sono già stati fatti "a monte" e noi non siamo che pedine o esiste la possibilità di attingere a una sorgente creativa profonda che alimenta il nostro divenire psicologico? Siamo, insomma, gli autori della nostra vita, o solo gli attori "scritturati" per metterla in scena? Siamo i "personaggi" inconsapevoli di un film che è già stato scritto, "sceneggiato", "girato", "montato", e magari già proiettato chissà quante volte,

dalla prima alla ennesima visione che però credono di recitare ’a soggetto’, di "improvvisare"... Forse è questa, col permesso di Weiss, la sola, grande ’credenza patogena’ che zavorra e impastoia il libero corso della nostra maturazione. Se è scritto lassù o da qualche parte, se tutto è già stato deciso a mia insaputa, a che pro affannarsi e porsi traguardi, affrontare scelte dolorose e assumersi responsabilità? Ecco: soprattutto quest’ultimo argomento – la de-responsabilizzazione – spiega la facile presa sull’animo umano di tante ’credenze’ e teorie antiche e nuove, altrimenti non molto lusinghiere per il singolo, anzi "umilianti": dal Fato greco all’ereditarietà genetica, dalla Grazia Divina del Vecchio e del Nuovo Testamento che sceglie a sua discrezione gli ’eletti’, all’ambiente sociale che plasma i reprobi; e poi il segno zodiacale che ci ha "marchiato", i pianeti, gli aspetti, le case... Eppure queste rassicuranti ’credenze’ o teorie, diciamo convinzioni, non sempre penetrano in profondità, nel ’sottosuolo’del nostro essere, dove fantasmi e vaghi sensi di colpa continuano ad aggirarsi come ’ombre di Banco’: ci sono persone che non cessano di interrogarsi sul senso della propria esistenza, sul perché sia toccato proprio a loro quella sorte e non un’altra. E lo chiedono ai libri, ai Maestri, spesso a una psicoterapia, talvolta allo psicoanalista. Il quale pur navigato e ’creativo’ che sia, non può certo proporsi di intercedere per loro presso il Buon Dio, o di modificare il DNA del singolo paziente, né i suoi dati anagrafici, zodiacali o economicosociali; non gli resta che scommettere sulla libertà del paziente, come a suo tempo ha scommesso sulla propria. Se poi ci sia un destino della Specie, o del nostro pianeta, o dell’intero universo, be’, questo è un interrogativo che riguarda la religione, o la scienza (la grande ricerca teorica alla Einstein o alla Planck, tesa anch’essa a carpire, per altre vie, i segreti primi e ultimi della materia vivente ossia del Creato); e poiché la psicoanalisi non è né l’una né l’altra, possiamo dire che ogni singolo – paziente o terapeuta – è libero di abbracciare o sposare questa o quella "soteriologia cosmica", libero persino di mantenersi neutrale e avvalersi della facoltà di non

rispondere. Ma le domande che riguardano il senso di una singola vita umana non possono essere respinte al mittente quando a porcele è il paziente. Non solo perché per lui sono vitali, ma anche perché sono quelle che stanno all’origine della nostra scelta di vita. La risposta in termini deterministici e meccanicistici che viene dalle scienze del comportamento ferisce la nostra sensibilità: ci sentiamo ridotti, limitati, sviliti. Sentiamo che la nostra dimensione umana non può riconoscersi in quel profilo d’automa che, se ben programmato, darà certe risposte piuttosto che altre, tutte comunque prevedibili, riproducibili. Vi è una ricerca di senso, che certo non ci dispensa dal chiederci che cosa sia una ’personalità’, giacché in primis l’individuo – e qui anticipiamo un argomento che verrà ripreso più oltre – è quell’essere che si interroga sul fondamento stesso della propria esistenza, un essere che deve prender posizione nei confronti di se stesso e del mondo. È per questo che la psicoanalisi, che basa i suoi assunti sullo studio del profondo, non è una psicologia delle ’cause’, ma si qualifica come una psicologia dei significati e del senso. Ma una volta definitosi come quell’essere che può pronunciarsi su se stesso ancor prima che sul mondo, non è impresa facile per l’uomo raggiungere una posizione stabile dalla quale guardare con serenità e fiducia a se stesso e alla propria esistenza: non è facile assicurarsi quel "centro di gravità permanente", come suona una nota canzone, raggiunto il quale l’esistenza si illumina di senso. È la massima aspirazione dell’uomo, quella che ci viene narrata da tutti i miti di ogni tempo, ed è la promessa di tutte le dottrine soteriologiche.

4. FENOMENI OCCULTI ALL’OSPEDALE PSICHIATRICO La psicoanalisi si occupa anzitutto dello studio di quei fattori, consci e inconsci, che determinano una particolare tipologia psicologica e che assumono nel tempo una strutturazione tale per cui possiamo parlare di continuità nell’esperienza di sé, di coesione e unitarietà. Però non è questo l’unico raggio d’azione della psicoanalisi, nel senso che – come ben sappiamo – essa rivolge la propria attenzione e il proprio impegno al mondo della patologia, della sofferenza e del disagio del paziente. Si rende pertanto necessario un approfondimento non solo dei parametri in virtù dei quali la psicoanalisi imposta il proprio lavoro e la direzione del proprio percorso, ma anche una esaustiva analisi di quelli che potremmo definire i suoi contenuti. Per procedere in questo senso, si rendono anzitutto opportune alcune precisazioni che, come vedremo, ineriscono soprattutto ai fondatori della psicoanalisi. Fra essi spicca il nome di Carl Gustav Jung. La psicologia analitica assume, sulla base delle formulazioni teoriche di Jung e delle elaborazioni dei suoi epigoni, una prospettiva molto differenziata, per la quale la personalità si sviluppa e si estende non già secondo un processo lineare di sviluppo ma secondo una dinamica a spirale che implica un’alternanza di fasi di integrazione e di deintegrazione. La prima difficoltà con la quale occorre confrontarsi, nasce dal fatto che non è possibile restringere il concetto di personalità al campo di coscienza del soggetto. Un assunto basilare dello psicologo del profondo è infatti quello secondo cui è impossibile pensare a un comportamento, e un’attività o a un atto cognitivo che non scaturiscano da motivazioni profonde e che non siano volti a un fine inconscio. Possiamo dunque

affermare che il comportamento manifesto, in fondo, altro non è se non la risultante di forze interne che lo innescano e plasmano; ma ciò che appare ancor più interessante, è il fatto che tale comportamento sia finalizzato al conseguimento di risultati e al perseguimento di obiettivi che molto spesso non coincidono affatto con l’intenzione cosciente del soggetto e con gli scopi che quest’ultimo è convinto di perseguire. In verità, ciò non dovrebbe sorprendere, perché la coscienza non costituisce che una piccola parte della psiche considerata nella sua totalità, un astro nell’immensità dell’universo. In fondo, la storia dell’umanità ci insegna che ciò che noi denominiamo ’coscienza’ è in realtà il prodotto di un lungo processo di differenziazione psichica, di un cammino che spesso richiede all’individuo l’impiego di tutte le sue energie psicologiche. L’opera di Jung costituisce in questo senso una valida esemplificazione di cosa significhi vivere e lottare per percorrere questo cammino. Troppo spesso ricordato dal grande pubblico come "l’allievo di Freud", Carl Gustav Jung rappresenta uno dei più straordinari pionieri della psicoanalisi. Sebbene negli anni mi sia trovato nella condizione di approfondire, ampliare, esporre e chiarire il "tema-Jung", ritengo comunque opportuno – e doveroso – ritornare su di esso, cercando di metterne a fuoco le caratteristiche più essenziali, quegli aspetti che possono essere considerati come "le fondamenta della psicoanalisi". Purtroppo non è raro che ancora oggi ci si accosti al pensiero junghiano con grande circospezione, con diffidenza. Il pregiudizio che incentiva questo atteggiamento così diffidente, alimenta la diffusione di un’immagine di Jung artefatta, irreale, che lo dipinge come un uomo ’complicato’, un autore dal pensiero difficile, contorto, sibillino. In realtà ciò non corrisponde al vero e la psicoanalisi sa molto bene quanto debba a Jung e sa anche che il suo debito teorico e concettuale nei confronti di questo autore viene alimentato soprattutto dalla grande profondità e densità del suo pensiero. Assumendo queste considerazioni come preliminari del nostro discorso, sarà molto più facile compiere i

primi passi del lungo viaggio attraverso il pensiero di Jung. Carl Gustav Jung nasce il 26 luglio 1875 a Kesswil, in Svizzera, nei pressi del lago di Costanza. Secondogenito del pastore evangelico Johann Paul Achilles Jung e di sua moglie Emilie Preiswerk, Jung trascorrerà nel luogo natio solo i primi sei mesi della sua infanzia perché ben presto i suoi genitori si trasferiranno a Laufen, sulla cascata del Reno. I primi ricordi di Jung risalgono al 1877-78:

[...] La canonica, il giardino, la lavanderia, la chiesa, il castello, le cascate, il piccolo castello di Worth e la fattoria del sagrestano: ricordi frammentari, slegati, senza un nesso apparente, fluttuanti in un mare di incertezza (Jung 1961, 25).

Le memorie di altri episodi andranno ad arricchire il patrimonio di cui oggi possiamo disporre sfogliando le pagine di Ricordi, sogni, riflessioni, patrimonio quanto mai ricco e suggestivo. Al di là della dovizia di informazioni infatti, questo testo offre la possibilità di accostarsi all’uomo Jung, di entrare in contatto con i suoi pensieri, con le sue sensazioni. Già dalle prime pagine dei Ricordi, si può evincere che Jung fu animato sin da piccolo da un forte bisogno conoscitivo e interpretativo, stimolato da un interesse profondo per tutto ciò che appariva strano, fuori dall’ordinario, proibito e misterioso. Il piccolo Carl Gustav aveva circa quattro anni quando assieme alla madre si recò da alcuni amici di famiglia per trascorrere con loro un piacevole soggiorno sul lago di Costanza. L’acqua suscitò su Gustav un’intensa attrazione:

[...] non potevo più staccarmi dalla vista dell’acqua, ero

affascinato dalle onde che dal battello giungevano sino alla riva, dalla superficie dell’acqua scintillante al sole, dai piccoli solchi tracciati dalle onde sulla sabbia del fondo... Il lago si stendeva a perdita d’occhio, e l’ampia distesa dell’acqua, col suo incomparabile splendore, mi dava un piacere immenso. In quel momento decisi che avrei dovuto vivere vicino a un lago, e mi parve che nessuno avrebbe mai potuto vivere lontano dall’acqua (Ibid., 26).

Ebbene proprio l’acqua, così affascinante e seducente, offrirà a Jung il primo grande elemento "misterioso" e inquietante della sua vita. Risale infatti a quel periodo un singolare episodio: alcuni pescatori trovano un cadavere trasportato dalle acque impetuose della cascata e, portatolo a terra, chiedono al padre di Jung il consenso per deporlo nella lavanderia della casa parrocchiale. Al piccolo Gustav la madre proibisce di recarsi nella lavanderia, ma il desiderio di vedere quel cadavere è troppo intenso, irrefrenabile. Così Jung narra il suo comportamento in quella circostanza:

[...] io però aspetto che tutti si siano allontanati, poi di soppiatto esco in giardino e mi dirigo verso la lavanderia. La porta è chiusa, allora giro intorno alla casa, e dietro, dove c’è un canale di scolo che scorre in pendenza, vedo colare sangue e acqua. Tutto ciò mi sembra estremamente interessante. (ibidem).

Ma quello che può apparire di estremo interesse per noi è il fatto che una serie di eventi risalenti ai primi anni della vita di Jung furono da lui considerati rivelatori di tendenze suicide

inconsce:

Ci fu un ruzzolone giù per le scale [...], e una caduta contro lo spigolo di una stufa; ricordo il dolore, il sangue, [...] Mia madre mi raccontò anche che una volta, mentre attraversavo il ponte sulle cascate del Reno, a Neuhausen, avendo sporto una gamba sotto la ringhiera stavo per scivolare giù [...] Questi fatti provano che vi era in me un inconscio impulso al suicidio o, forse, un senso di opposizione alla vita (Ibid., 1961, 28).

L’infanzia, gli anni della scuola e la giovinezza testimoniano giorno per giorno, episodio dopo episodio, la crescita e l’evoluzione di un talento fuori dal comune non solo per una straordinaria intelligenza – che potrà esprimersi solo con il trascorrere del tempo – ma per una profonda e numinosa sensibilità e per una sorprendente capacità intuitiva. All’Università di Basilea, nella quale approda nel 1895, Jung studia dapprima scienze naturali e dopo medicina. Nel 1900, il 27 novembre, consegue la laurea in medicina e dopo due sole settimane gli viene conferito l’incarico di assistente medico presso il Burghölzli di Zurigo, rinomato a quel tempo soprattutto per le metodiche introdottevi dal direttore Eugene Bleuler. L’antico interesse per il misterioso e lo ctonio era in quegli anni vivo più che mai nel pensiero di Jung. Avido lettore, il giovane Gustav era già entrato in contatto con testi sullo spiritismo, sul mesmerismo e con argomenti altrettanto inconsueti e inesplorati, ma questo suo interesse si accrebbe proprio durante il periodo di permanenza al Burghölzli, che gli offrì la possibilità di osservare una notevole quantità e varietà di casi in questo senso ’interessanti’. Di queste osservazioni e

riflessioni sarà alimentato il suo primo importante scritto, la tesi Psicologia e psicopatologia dei cosiddetti fenomeni occulti discussa nel 1902. Nel 1907 avverrà il primo incontro con Freud, del quale Jung già conosceva e stimava le opere e il pensiero. Chiunque abbia tentato di ripercorrere le fasi dell’evoluzione del pensiero junghiano sa molto bene che una tappa "obbligata" è costituita dal rapporto tra Jung e Freud. Problematica, movimentata, a volte oscura, la vicenda Freud-Jung costituisce un nodo importante nell’ambito della fitta rete di relazioni interpersonali e delle esperienze che hanno condotto Jung a formulare in un determinato modo il suo pensiero. Fino a quando non venne pubblicato l’illuminante epistolario Freud-Jung, il rapporto fra i due fu letto alla luce di un unico – e pertanto limitante – elemento, ossia quello che individuava in Freud "il maestro" di Jung. Relegato così nell’angusto ruolo di discepolo, per moltissimo tempo Jung non ebbe la possibilità di essere "ascoltato" in qualità di studioso animato dal bisogno di divulgare idee personali, originali, innovative. Tuttavia, egli seppe affrancarsi da quell’angusto ruolo manifestando con coraggio le proprie idee nonostante lo stridente attrito che queste procuravano a contatto con quelle freudiane. La psicologia dell’inconscio, a esempio, già nel 1912, esprime con fermezza le critiche di Jung nei confronti del pensiero di Freud. L’elemento che più di altri costituì "la pietra dello scandalo" nella teoria junghiana e che contribuì ai dissapori con Freud fu senza dubbio il concetto di libido. Nel suo Simboli della trasformazione (1912/1915), Jung affronta – fra gli altri – anche il concetto di libido. L’impresa qui portata a termine da Jung rispetto a questo tema è quella di spogliare questo termine di un’accezione sessuale per conferirgli un nuovo significato, più ampio e perciò più proficuo. Da questo momento la libido non dovrà più essere considerata come "pulsione sessuale", ma godrà di più ampio respiro, permettendoci di considerarla come "energia" in senso lato. Jung poi, essendosi reso conto che il concetto libido era avvolto ancora da molte incertezze, avvertirà il bisogno di ritornare su questa tematica. Risale

infatti al 1928 un saggio intitolato Energetica psichica in cui Jung propone un’attenta lettura della dinamica posta alla base del rapporto fra l’Io e l’inconscio, cercando di chiarire a quale fonte la vita psichica attinga per ricavare l’energia necessaria al proprio funzionamento. In questo saggio, quindi, Jung cerca di comprendere da dove provenga l’energia che innesca le dinamiche della vita psichica. Anche Freud si interrogò su questi aspetti, trovando però per essi un’unica interpretazione: la libido come energia che deriva dalla sessualità. La prospettiva interpretativa della libido offertaci da Jung permette altresì di riflettere sull’enorme potenzialità del nostro inconscio, nel quale è racchiuso un fertile insieme di contenuti che attendono di trovare il proprio canale espressivo. In particolare, Jung ha utilizzato il termine complesso per riferirsi all’insieme di elementi psichici che risiedono nell’inconscio e, a differenza di quanto aveva detto Freud, evidenzierà che:

La via regia per l’inconscio non sono però i sogni, [...], bensì i complessi, che sono la causa dei sogni e dei sintomi (Jung 1934, 118).

Sebbene abbia sempre enfatizzato il divario tra il suo pensiero e quello freudiano, Jung non ha mai nascosto la grande seduzione esercitata su di lui dalla teoria di Freud, in particolare riguardo la malattia mentale. Per un divario concettuale di fondo – che presto si andrà a sommare a motivazioni personali palesi e inconsce – e nonostante Jung avesse trovato in Freud il "padre spirituale", i due giungeranno nel 1913 a un contrasto insanabile cui farà seguito l’abbandono – da parte di Jung – della Società psicoanalitica. L’atmosfera creatasi dopo la separazione renderà ancor più salde le fondamenta della teoria junghiana, accrescendone

l’autonomia e la dignità teorica, tanto da renderla meritevole di una nuova, diversa denominazione: da questo momento, infatti, si parlerà di "psicologia analitica". In particolare, un ampio uso della mitologia come strumento interpretativo dei contenuti dell’inconscio permetterà a Jung di colorare la sua teoria di una preziosa nuance di originalità, tanto da suscitare aspre critiche da parte di Freud. In ogni caso però "il distacco da Freud coincise con un periodo importantissimo per la vita di Jung. Esso rappresentò il suo momento decisivo, dal quale emerse rigenerato e pronto ad affrontare con nuove armi il mondo della psiche" (Carotenuto 1977, 25). Questa forma di rigenerazione sarà anche alimentata da numerosi viaggi all’estero, itinerari che toccheranno tappe come il Nord Africa, l’Arizona e il Nuovo Messico. Così, ben presto, il suo pensiero iniziò a diffondersi e ad ottenere ampi consensi, e la sua elaborazione teorica sarà sempre un crescendo di innovazioni fino al 1961, anno in cui Jung si spense. Ciò che rese Jung ’diverso’ da tutti gli altri pionieri della psicoanalisi fu l’ostinazione con la quale volle esaltare il concetto di libertà individuale, il bisogno per ogni individuo di realizzare la costruzione della propria personalità, di diventare un essere unico e inimitabile. Fu questo infatti lo spirito che animò l’idea del cosiddetto "processo di individuazione", un percorso psicologico che Jung delineò come la più importante sfida per ognuno di noi, indispensabile per la costruzione di una personalità ricca e integrata. Il processo di individuazione esprime la possibilità data a ognuno di noi di diventare esseri unici, speciali, inscindibili, esseri umani integri e non frammentati. Il termine "individuo" infatti, significa "non diviso", intero, e ciò ci permette di riflettere sul fatto che il percorso psicologico umano tende verso la libertà e l’espressione della soggettività individuale. Secondo Jung, quindi, lo sviluppo della personalità procede di pari passo con la conquista della totalità psicologica, dell’individualità, dell’integrazione di elementi consci e inconsci, maschili e

femminili. La formazione del Sé rappresenta la tappa fondamentale del processo di individuazione, tappa che Jung metaforizzò accostandola alla ricerca della pietra filosofale. Come sappiamo, per elaborare la sua teoria e le sue riflessioni, Jung non si riferì solo alla propria esperienza clinica ma attinse anche agli antichi testi degli alchimisti. I loro tentativi di trasformare i metalli in oro – tradotti in chiave psicologica – indicano la grande impresa che ogni uomo si propone di compiere nei confronti della propria personalità. A questo punto è necessaria una precisazione che scaturisce dopo tanti anni di esperienza analitica. Sono sempre molto meravigliato dall’ottusità di molti colleghi che, quando leggono e studiano, lo fanno soltanto su testi freudiani se sono freudiani oppure su testi di Bion se sono bioniani e su testi della Klein se lavorano con le categorie psicologiche di queste studiose. Potrei continuare con altri esempi ma quelli citati sono sufficienti per comprendere come la psicoanalisi, nel suo significato più ampio, sia una specie di subcultura che reputa un titolo di merito non conoscere altro che se stessa nell’espressione incestuosa della propria scuola. Eppure basterebbe dare uno sguardo a quella che è stata la biblioteca di Freud per non parlare della cultura amplissima di Jung. Questo essersi rifugiati in un incesto conoscitivo è all’origine dell’assoluta povertà intellettuale della psicoanalisi attuali. Per riprendere il nostro discorso, non condivido il principio dell’ortodossia freudiana, secondo il quale l’assetto psicologico di un individuo si può modificare solo fino a una certa età, e di conseguenza è impossibile sperare in una guarigione una volta che quella sia già stata raggiunta. È un’affermazione viziata dall’ottica medica organicistica: l’organismo invecchiando degenera, e il tempo che passa non viene certo in soccorso. Malattie che nella giovinezza vengono superate, vanno verso una progressiva e rapida degenerazione quando il corpo è appesantito dall’età. Ma questo modello può essere trasferito alla psiche? Ha senso parlare di un invecchiamento della psiche? Accade semmai il contrario: l’esperienza le aggiunge valore, affina la comprensione ampliandone l’orizzonte di

riferimento. La psicologia analitica ipotizza l’esistenza di una tendenza direzionale e regolatrice della psiche che orienta la sua crescita verso l’integrazione di tutti gli aspetti meno consci e differenziati. Si tratta proprio di quel processo di sviluppo psicologico che Jung definì "processo di individuazione" e che a partire dal momento della nascita si dipana nel tempo facendo sì che emerga una personalità via via più ampia e matura che acquista spessore e si rivela agli altri. Espressioni del tipo "arresto dello sviluppo" – di cui tanto spesso si sente parlare – indicherebbero proprio il presupposto di un cammino evolutivo che si svolge nel tempo. Sappiamo bene come la psicoanalisi si sia sempre interessata di questa tematica, basti pensare all’opera di Freud e alla suddivisione dell’infanzia e dell’adolescenza in ben delimitati ’stadi’ successivi. Lo sviluppo psicologico si articola secondo Freud mediante un processo evolutivo che si esplica attraverso alcune fasi che anche se "superate", continuano comunque ad essere attive all’interno dell’universo psichico del soggetto. L’evoluzione psicologica del bambino procede di pari passo con l’evolversi delle tappe dello sviluppo sessuale. Per questa ragione è appropriato l’impiego dell’espressione "fase – o stadio – psicosessuale". Non dovremmo infine dimenticare che tutte le fasi dello sviluppo psicologico – eccezion fatta per la "fase di latenza" – sono secondo Freud caratterizzate da un fulcro, da un centro rappresentato da un specifica area corporea, da una singola zona erogena. La prima tappa dello sviluppo psicosessuale del bambino è denominata "stadio orale". Protagonista di questo stadio è la bocca, zona corporea attraverso la quale il bambino trae le sensazioni dal mondo circostante. Lo stadio orale permette al bambino di consolidare il proprio rapporto con la madre, dalla quale potrà ricevere soddisfacimento ma anche frustrazioni. Lo "stadio anale", situato tra il secondo e il quarto anno di vita, rappresenta la seconda tappa dello sviluppo. Ora il bambino ha nuove esigenze, nuove necessità che riflettono la sua embrionale personalità. Il "dare" o il "trattenere" sono gli

estremi su cui si fondano le scelte del bambino e su cui inizia a strutturarsi il carattere. Lo "stadio fallico" insorge verso i cinque anni di vita e sposta l’attenzione sia del bambino che della bambina sugli organi genitali. Durante questa fase però, come osservano Laplanche e Pontalis,

a differenza dell’organizzazione genitale puberale, il bambino sia maschio che femmina conosce soltanto un organo genitale, l’organo maschile, e l’opposizione tra i sessi è equivalente all’opposizione fallico-castrato (Laplanche e Pontalis 1967, 171).

Nel caso delle bambine l’attenzione sarà convogliata sull’assenza del pene, ma per entrambi i sessi la problematica da fronteggiare durante questa fase è quella dell’interessamento erotico nei confronti del genitore di sesso opposto. Sarebbe proprio durante questo periodo, quindi tra i tre e i cinque anni di vita, che eromperebbe con tutte le sue più intense manifestazioni il cosiddetto "complesso di Edipo" il quale, secondo Laplanche e Pontalis, svolgerebbe "un ruolo fondamentale nella strutturazione della personalità e nell’orientamento del desiderio umano" (Ibid., 1967, 84). Farau e Schaffer hanno descritto con grande semplicità l’essenza di questo particolare momento dello sviluppo psicossesuale di ogni individuo:

Il ragazzo desidera avere la madre tutta per sé e considera il padre un nemico di cui occorre sbarazzarsi; la fanciulla, (attraverso un molto più complesso meccanismo) si trova in analoga situazione nei riguardi

del padre. [...] In caso di soluzione «sana», vale a dire non nevrotica, il ragazzo s’identifica con il padre, e la fanciulla con la madre, prendendo a considerare i rispettivi genitori come alleati e non come nemici. In ogni caso, la formazione del carattere dipende dal modo in cui si attraversa questo periodo critico, orientatore di ogni ulteriore sviluppo dell’essere umano (Farau e Schaffer 1960, 56).

Fu in "Le trasformazioni della pubertà" – il terzo dei Tre Saggi sulla teoria sessuale (1905) – che Freud illustrò con grande chiarezza il concetto di complesso edipico:

In tutti gli uomini [...] emergono le inclinazioni infantili, ora rafforzate dalla pressione somatica, e tra queste con frequenza regolare e in prima linea il moto sessuale – perlopiù già differenziato dall’attrazione sessuale – del bambino per i genitori, del figlio per la madre e della figlia per il padre (Freud 1905, 530-531).

Non dovremmo poi dimenticare che Freud considerò il complesso edipico secondo due differenti punti di vista. Come ricorda Silvia Vegetti Finzi infatti

L’amore per il genitore del sesso opposto e la rivalità nei confronti di quello del proprio sesso è solo l’Edipo semplice, accanto al quale Freud porrà anche la forma inversa, che compare solitamente in modo più attenuato, consistente nell’amore per il genitore dello

stesso sesso e nella rivalità con quello del sesso opposto (Vegetti Finzi 1986, 76).

Quella del complesso edipico può essere annoverata tra le scoperte più sensazionali della psicoanalisi, una scoperta nella quale Freud continuò a nutrire fiducia per tutta la sua vita; in tal senso illuminanti appaiono le sue parole:

[...] se pure la psicoanalisi non potesse vantare nessun altro risultato oltre la scoperta del complesso edipico rimosso, questa scoperta sola le darebbe comunque il diritto di essere annoverata tra le preziose nuove acquisizioni dell’umanità (Freud 1938, 619).

Nonostante ciò, questo concetto verrà ridimensionato da Jung il quale, a differenza di Freud, non rinverrà nel complesso edipico il fulcro, l’origine della nevrosi. Su questi aspetti ci esorta a riflettere anche James Astor affermando che "la teoria junghiana degli archetipi avrebbe indotto lo stesso Jung a considerare il mito di Edipo non come il nucleo di sviluppo della nevrosi, bensì come una componente arcaica, universale della psiche infantile" (Astor 1998, 705). Il tramontare della fase fallica indica secondo Freud l’inizio della "fase di latenza", un periodo, di lunghezza variabile da individuo a individuo, durante il quale le emozioni intense, la conflittualità e gli impulsi istintuali sembrano chetarsi. In realtà si tratta del classico "fuoco sotto la cenere", una tempesta emotiva assopita ma pronta a erompere in tutto il suo fragore con l’avvento dello "stadio genitale". Tipica del periodo adolescenziale, la "fase genitale" vede riaffiorare tutti gli impulsi sessuali che durante il periodo di

latenza sembravano essere stati repressi. Infine il giovane inizia a rivolgere l’attenzione non più alle proprie necessità ma anche agli altri. Una sorta di "altruismo psicologico" caratterizza questa fase, e le energie impiegate sino a questo momento solo in maniera narcisistica cominciano a essere convogliate su un altro oggetto distinto da sé. Ora, a prescindere dalla suddivisione proposta da Freud, non amo né mi ha mai sedotto l’idea di "incastonare" all’interno di caselle prefissate e ben delimitate l’evoluzione psicologica di ogni essere umano, e per questa ragione diffido di tutti quei tentativi tesi a quantificare l’età ’giusta’ per l’inizio e il termine di ogni fase. Tuttavia, è innegabile il fatto che la storia della psicoanalisi sia densa di questo tipo di tentativi, e pertanto non possiamo esimerci dal valutarli. Diverso dalla posizione freudiana sarà il punto di vista di Fairbairn in merito allo sviluppo psicologico del bambino. Come vedremo, infatti, la sua ’rivoluzionaria’ modalità di considerare il concetto di libido consentirà a questo autore anche di acquisire una diversa prospettiva per osservare e comprendere lo sviluppo psicologico. Secondo Fairbairn, infatti, ciò che in realtà appare determinante per lo sviluppo del bambino non è il soddisfacimento di impulsi libidici parziali, né la mera gratificazione istintuale: Fairbairn non considera la libido come ’desiderio sessuale’ ma come bisogno di instaurare soddisfacenti relazioni con gli altri. Come osserva Vegetti Finzi.

Fairbairn [...] considera l’oggetto non un mezzo ma un fine. La libido si definisce pertanto non come ricerca del piacere, ma dell’oggetto. In luogo dello sviluppo libidico basato sulla successione delle zone erotiche, Fairbairn propone una teoria evolutiva centrata sulla dipendenza dagli oggetti, ove uno stato originario di dipendenza infantile viene progressivamente sostituito da una fase finale di dipendenza adulta (1986, 292).

La straordinaria novità introdotta da Fairbairn consente di considerare in maniera del tutto differente il comportamento del bambino – e come vedremo anche quello dell’adulto. Il bambino infatti non cerca l’Altro per ridurre le proprie tensioni istintuali – come invece la teoria freudiana sosteneva – ma per assecondare un bisogno relazionale connaturato alla specie umana, presente sin dalla nascita. La dimensione relazionale, pertanto, costellerà ogni momento del delicato processo di sviluppo psicologico. Ai fini del nostro discorso è però determinante soffermarci ancora un po’ su quella tematica che abbiamo poc’anzi accennato: l’arresto dello sviluppo. La possibilità di un blocco, di un intoppo lungo il cammino evolutivo è quanto mai concreta e reale. Termini come "fissazione o "regressione", introdotti da Freud, volevano in fondo indicare alcune delle problematiche che possono insorgere lungo il processo di sviluppo psicologico dell’uomo. Lo sviluppo implica per antonomasia la possibilità del cambiamento, della trasformazione di luoghi, fatti, persone e di noi stessi. Qualora però determinati eventi della vita, fatti e accadimenti, dovessero ostacolare o bloccare questa trasformazione e inibire nell’individuo la possibilità stessa di "immaginare" un cambiamento di tipo positivo, allora si correrebbe il serio rischio di andare incontro alla patologia. Una testimonianza valida non solo dell’esistenza di questo lungo processo evolutivo – quasi illimitato – ma soprattutto delle problematiche che possono intervenire a ostacolarlo è data dallo studio della nostra attività onirica. Jung esaminò con attenzione i sogni – si dice che ne interpretò circa 80.000 ma forse si tratta di una leggenda messa in giro da qualche fan – scoprendo che la nostra attività onirica segue una sua articolazione interna e si inserisce in una trama complessa di fattori psicologici. Se si osservano i sogni durante un lungo periodo di tempo e se ne esamina la successione, spesso essi si presentano ’in sequenza’. Si potrà allora notare che certe immagini si ripresentano nel tempo, quasi a indicare luoghi psichici, agglomerati di senso che a un certo punto iniziano un

loro svolgimento e quindi si sviluppano fino a esaurirsi. Chi lavora con i sogni sa bene che l’interpretazione – soprattutto se ’centrata’ – potrà mutare l’atteggiamento del sognatore, e in questo modo influenzare e modificare la processualità onirica. D’altro canto si può ritenere che un’interpretazione inopportuna o scorretta blocchi per così dire la tematica inconscia, il nucleo complessuale, che infatti tornerà a presentarsi immutato e irrisolto nelle immagini oniriche. Ciò indica che non è stata possibile una elaborazione del contenuto cifrato, e che l’inconscio continua a sottoporre alla coscienza quelle rappresentazioni che risultano ancora investite di emozioni. Nei sogni si chiariscono le tendenze dello sviluppo individuale e i motivi di fondo della personalità. Di alcuni di essi si dice che abbiano significato profetico e in effetti anticipano una direzione evolutiva, prefigurano la soluzione che ancora sfugge alla coscienza ma che è già presente nell’inconscio. Il primo o i primi sogni che un paziente porta in analisi sono molto preziosi, proprio per il fatto che attraverso la condensazione simbolica, essi offrono una qualche indicazione sulle prospettive a venire. Questo sviluppo psichico non è prodotto da un atto intenzionale, e sebbene l’Io vi partecipi, esso sembra mosso da un centro regolatore che sovrasta l’Io e lo contiene. È il Sé, centro della totalità psichica e suo principio-guida, distinto dall’Io che rappresenta invece il centro della coscienza. Nei sogni il Sé è rappresentato in modo simbolico da una cospicua serie di immagini, l’albero o il mandala per esempio. Possiamo immaginarlo come la radice o il centro attorno al quale si dispongono come raggi le funzioni e i temi psichici universali. Essi assumono così una configurazione unitaria, l’immagine di una totalità disegnata da direttrici indipendenti che hanno una stessa matrice e si ricongiungono nella circonferenza. Immagine psichica del Sé è già testimoniata nella cultura antica. E una sorta di guida inconscia che regola lo sviluppo continuo e costante nel tempo della personalità. Se il corpo invecchia, non è così per lo sviluppo psichico, per la maturazione complessiva della

personalità. Ogni fase della vita coincide con una fase dello sviluppo psicologico, persino la vecchiaia, a torto considerata una sorta di "anticamera della morte". Per quanto riguarda il compito individuativo cui è chiamato ogni singolo, Jung afferma che la dinamica del processo di crescita si diversifica nella prima e nella seconda metà della vita. Nella prima, che va dalla nascita della coscienza alla metà della vita, l’individuo è chiamato a rispondere alle esigenze del suo essere un agente collettivo e un rappresentante della specie, adempiendo ai suoi doveri di continuatore della specie. Il bambino, che ha iniziato la sua vita psicologica in un ambiente molto ristretto, amplia, con il passare degli anni, il suo orizzonte, mentre cresce il peso e la responsabilità delle sue azioni. La prima metà della vita è dunque caratterizzata da una tensione estrovertita, per la quale il soggetto cerca il proprio posto nel mondo, un compagno o una compagna, amici con cui dividere il cammino. Le sue energie e le sue intenzioni sono volte ad affermare e consolidare la propria influenza sul mondo circostante, "farsi una posizione" e raggiungere obiettivi concreti e legati al proprio ruolo professionale e sociale. La metà della vita corrisponde a un’importante fase di passaggio verso una nuova tappa dello sviluppo psicologico:

Le madri vengono eclissate dai loro figli, gli uomini dalle loro opere, ciò cui prima si era dato vita a stento, a prezzo magari di grandi sforzi, ora non può più essere fermato nel suo cammino [...] La mezza età è il periodo di massima fioritura, quello in cui l’uomo è ancora intento alle sue opere con tutte le sue forze e tutta la sua volontà. Ma in quel momento si annuncia anche il crepuscolo, inizia la seconda metà della vita. La passione cambia volto e ora si chiama dovere, il volere si trasforma inesorabilmente in obbligo, e le vicissitudini della vita, che prima erano sorprese e scoperte, diventano un’abitudine. Il vino è fermentato e

comincia a farsi più limpido (Jung 1925,186-7).

È il tempo dei bilanci e della effettiva conoscenza della propria intima natura. Lungi dall’essere uno sterile ripiegamento su se stessi, un inaridirsi progressivo delle proprie capacità, è l’inizio di un lungo processo di concentrazione dell’energia libidica verso mete differenti; laddove nella prima metà della vita la tensione era rivolta all’adattamento, adesso si comincia a riflettere su come si è vissuto, sulle scelte compiute e sulle occasioni mancate, sul coraggio che non si è avuto, sui rischi che si è preferito evitare. Ciò determina una fase di introversione, e la possibilità di attingere alle risorse dell’inconscio una volta che, avendo compiuto le azioni necessarie nel mondo, ci si può volgere all’interno e accogliere le sollecitazioni a un ripiegamento sull’interiorità. La relazione della psiche con il mondo non conosce interruzioni, e ciascuna età della vita offre all’individuo la possibilità di accrescere la consapevolezza di sé come essere in divenire. Jung sostenne che la tecnica di indagine del profondo che aveva elaborato era più adatta a persone che avessero superato la soglia della prima metà della vita. Conoscenza per Jung è ampliamento della coscienza, che via via integra contenuti inconsci. Per questo cammino, che illumina di senso la propria vicenda esistenziale e che non a caso è il solo terapeutico, non esiste limite d’età. In verità, la possibilità di ampliare la propria coscienza non può mai ritenersi impossibile e persino là dove patologie come la depressione abbiano costretto l’individuo a uno sterile ripiegamento su se stesso, è comunque possibile pianificare una strategia di intervento. Lo sviluppo dell’individuo può dunque arrestarsi a un certo livello, incrinarsi e persino essere messo in discussione a causa delle circostanze esterne, tuttavia esso mai dovrebbe ritenersi concluso. Non c’è fase dell’esistenza che, per quanto drammatica possa apparire,

debba essere considerata il preludio della fine: non dovrebbero esistere i vicoli ciechi fra i meandri della psiche umana. Certo, è inutile negarlo, prima o poi tutti attraversiamo fasi di sconforto o momenti paragonabili a una vera e propria morte. Tuttavia, anche in questi casi la rinascita è sempre possibile, oltreché auspicabile, soprattutto laddove lo sconforto sia alleviato da ciò che abbiamo denominato "arte della relazione".

5. GUARDARE ALTROVE Il nostro discorso sull’identità della psicoanalisi ci ha permesso di arrivare a una sua definizione come "arte della relazione". Torneremo più volte sul significato di questa espressione ma per comprenderla fino in fondo occorrerà chiarire il significato del termine "relazione". Parlare di "relazione" significa anzitutto partire dal presupposto che l’individuo non è solo, anzitutto perché – al livello più semplice – esso si trova inserito sin dalla nascita in un ambiente, in un contesto che per le sue caratteristiche e peculiarità dovremmo considerare "sociale", relazionale. Jung usò un’espressione coniata dall’antropologo Lévi-Bruhl – participation mystique – per indicare la modalità con cui i primitivi percepivano la realtà: quel prestadio della coscienza umana in cui la differenziazione tra l’uomo e la natura, così come tra l’uomo e la comunità dei suoi simili, non era ancora avvenuta. Il primitivo era ancora immerso e confuso con il regno naturale, con i fenomeni della natura, pervasa di spiriti e demoni che potevano impossessarsi della sua anima. L’aggettivo ’mistico’ in questo senso non rimanda ad alcuna terminologia religiosa, ma al suo significato etimologico originario che indica mescolanza, fusione, commistione. La labile demarcazione tra soggetto e ambiente fa sì che la mente del primitivo rintracci e stabilisca relazioni emozionali tra oggetti che, dal punto di vista della causalità fisica, non rivelano alcun legame tra loro. Il primitivo vive in una condizione di identificazione inconscia con l’ambiente che lo circonda, una condizione affine a quella del neonato che non si distingue ancora dall’essere che si prende cura di lui. Anche da adulti noi possiamo sperimentare transitorie situazioni caratterizzate da questa confusione di identità, ad esempio nello stadio dell’innamoramento, in cui amante e amato

ricreano la circolarità simbiotica delle origini: ’in te mi perdo’, ’io e te siamo una cosa sola’, ’quello che desideri, lo desidero anch’io’, tutta una fraseologia che esprime questa comunione spinta fino alla fusione fondata sull’originaria unità di soggetto e oggetto. Ebbene, la psicoanalisi ipotizza la nascita della coscienza come un emergere dallo stadio di inconscietà e di indifferenziazione che abbiamo appena descritto, da questo momento in poi l’individuo andrà sviluppando la "consapevolezza di non essere solo". Le divergenze tra i vari autori a tal proposito riguardano solo l’età in cui avviene questo passaggio: da una parte ci sono quelli che, fedeli all’ortodossia psicoanalitica, identificano intorno al nono mese di vita il momento della differenziazione della coscienza del bambino dall’ambiente rappresentato dalla psiche materna; dall’altra ci sono coloro che – a partire dalla Klein – inferiscono dall’esistenza di eventi psichici complessi presenti sin dai primi mesi di vita l’esistenza di un nucleo già differenziato del sé. Non sappiamo dunque con precisione in quali termini e in qual misura l’intenzionalità del neonato, il suo essere rivolto verso gli oggetti e l’ambiente, sia identificabile con la nozione di coscienza utilizzata dalla psicoanalisi, e proprio per questo non è un caso se parliamo di intenzionalità. Dove c’è coscienza c’è intenzionalità. Questo termine fu introdotto in ambito psicologico da Franz Brentano per indicare una delle più importanti peculiarità dei fenomeni psichici, ossia il loro originario riferimento all’oggetto nel momento in cui esso appare nel campo d’esperienza del soggetto. Secondo Brentano, le modalità espressive attraverso le quali l’intenzionalità può manifestarsi sono molteplici e questo concetto avrà voce sia nell’etica che nella metafisica da lui elaborate. Husserl riprenderà e approfondirà l’assunto di Brentano, affermando che l’intenzionalità è ciò che definisce il rapporto tra soggetto e oggetto della coscienza:

La caratteristica delle esperienze vissute (Erlebnisse) che può essere indicata addirittura come il tema generale della fenomenologia [...] è l’intenzionalità [...]. L’intenzionalità è ciò che caratterizza la coscienza in senso pregnante e consente di indicare la corrente dell’esperienza vissuta come corrente di coscienza e come unità di coscienza (Husserl 1912-1928, I, § 84, 186).

In questo modo il concetto di coscienza, che Cartesio aveva definito un oggetto (res cogitans) da contrapporre all’altro oggetto rappresentato dalla materia e dal corpo (res extensa), diventa un atto che si esprime nel suo fondamentale e originario ’tendere verso’, ’rapportarsi a’ (la costitutiva trascendenza della coscienza, cioè il suo trascendersi in altro, di cui parlerà Heidegger). L’analisi esistenziale e la psichiatria fenomenologica accolgono la lezione di Husserl – che come abbiamo visto si distanzia dal dualismo cartesiano di anima e corpo – e giungono a concepire l’individuo non come

una cosa nel mondo, secondo il modello delle scienze naturali, ma come quell’essere originariamente intenzionato a un mondo che ciascuno struttura secondo le modalità con cui si spazializza, si temporalizza, si rappresenta le cose, coesiste (Galimberti 1992, 501).

La cosiddetta "teoria delle relazioni oggettuali" replica in chiave psicoanalitica proprio gli assunti della filosofia husserliana, giungendo alle medesime formulazioni: non più

l’individuo considerato nel suo isolamento, ma un individuo che è – per la sua stessa natura – ’in relazione con’ altri esseri umani. Sebbene siano molteplici, dissonanti e contraddittorie le idee e i modelli che nel mondo della psicoanalisi hanno condotto alla nascita della teoria delle relazioni oggettuali, il pensiero di alcuni degli autori che prenderemo in considerazione, costituisce il cuore e l’essenza di questo attualissimo modello teorico. In perfetto accordo, almeno in questo, con le scienze biologiche, che da Darwin in poi non cessano di ricordarci che madre Natura – o comunque la si voglia chiamare – avendo scelto di portare avanti la Specie e non il singolo esemplare, per garantirne la durata e la crescita si è affidata all’incontro e al rapporto tra individui, e non a una "celibe", solitaria partenogenesi. Si può dire che senza la ’relazione oggettuale’ l’esistenza è solo una possibilità teorica, "virtuale", che per diventare reale ha bisogno dell’avallo di un ’altro da sé’. Non è tanto il soggetto a testimoniare della realtà esterna, quanto la realtà esterna (gli altri) a provare l’esistenza del soggetto; il "penso dunque sono" di Cartesio si ribalta nel suo contrario: "sono pensato, dunque sono". Non a caso il nome di William R. D. Fairbairn viene accostato a quello di Melanie Klein e di Donald Winnicott per dare voce e corpo alla cosiddetta Scuola Inglese o Britannica, ossia all’opera di coloro che prima di altri gettarono il seme della "teoria delle relazioni oggettuali". Rispetto ai numerosi e differenti approcci che hanno preso in esame il tema delle relazioni oggettuali, non sempre è facile orientarsi, e per questa ragione diventa opportuno comprendere a cosa intendiamo riferirci quando parliamo di "relazione oggettuale". In tal senso appaiono esemplificative alcune considerazioni di Greenberg e Mitchell (1983, 23-26), i quali, prendendo in esame le teorie di Fairbairn e Guntrip da una parte, e di Jacobson e Kernberg dall’altra, evidenziano come questi autori abbiano elaborato differenti teorie delle relazioni oggettuali: contrapposte alla nozione di pulsione nel primo caso, parallele e complementari a essa nel secondo. Il lodevole sforzo di Greenberg e Mitchell è stato senza dubbio

quello di gettare nuova luce sulle intricate implicazioni di questo argomento, affermando:

A causa di questa ambiguità, rifiutiamo le definizioni circoscritte di relazioni oggettuali. Discutere a proposito di quale teoria sia un ’vero’ approccio relazionale d’oggetto è un’impresa infeconda, che ha causato una confusione senza fine negli studiosi di psicoanalisi. [...] il termine si riferisce alle interazioni tra gli individui con altre persone esterne ed interne (reali e immaginarie) e alla relazione tra i loro mondi oggettuali esterni e interni; [...] Tutte le teorie psicoanalitiche comportano teorie delle relazioni oggettuali; lo devono fare per non perdere il contatto con l’esperienza quotidiana dell’individuo (Greenberg e Mitchell 1983, 25).

Queste riflessioni sono a parer mio congeniali al fine di gettar luce sul significato più autentico dell’espressione "relazione oggettuale". Infatti, come ho già avuto modo di osservare, "questa definizione, molto generale, slega l’oggetto dalla pulsione; esso può dunque rappresentare tanto una persona reale quanto un’immagine interna che da essa ha preso forma; può essere buono o cattivo, benevolo o maligno, vivo o morto" (Carotenuto 1991, 159). Fra i teorici delle relazioni oggettuali tuttavia, Fairbairn spicca per originalità e per l’intrepido rigore con cui seppe formulare le proprie idee e riformulare quelle di chi lo aveva preceduto. Sebbene molto isolato e, per gran parte della sua vita, ’sconosciuto’ al mondo psicoanalitico, Fairbairn formulò un modello teorico che già sul nascere era destinato a rivoluzionare il volto della psicoanalisi. Figlio unico di una ricca famiglia della borghesia vittoriana,

Fairbairn nasce nel 1889 a Edimburgo. La rigidità e la moralità che caratterizzano il suo nucleo familiare divengono ben presto i parametri della sua educazione. Il benessere economico e i valori culturali tipici di ogni famiglia benestante della media borghesia divengono determinanti anche per il piccolo William. La madre – anglicana – costituì un importante punto di riferimento per William: sempre presente e rassicurante, intesserà con il figlio un profondo legame dando così vita a un duraturo rapporto di dipendenza. Con il padre invece – presbiteriano – il rapporto sarà diverso, meno coinvolgente, ma consono all’epoca vittoriana. Poco presente durante l’infanzia, l’immagine paterna inizierà ad acquisire una valenza positiva durante l’adolescenza, quando padre e figlio cominceranno a trascorrere più tempo insieme giocando a golf. I genitori vollero indirizzare Donald agli studi classici ed ecclesiastici e gli offrirono un’eccellente istruzione umanistica mettendo a sua disposizione una serie di precettori molto competenti. Cresciuto così nel benessere e nell’agiatezza, William sentì ben presto nascere nel suo animo un intenso amore per la conoscenza e un profondo desiderio di cultura che lo condurranno, nel 1911, a laurearsi in filosofia – con lode – all’Università di Edimburgo. L’università gli aveva dato la grande opportunità di assecondare il suo ardente bisogno di comprendere l’animo umano, di porsi delle domande e trovare delle risposte; i suoi interessi però si ampliarono moltissimo dopo la Prima Guerra Mondiale – cui William partecipò come artigliere – e dopo le esperienze delle campagne in Egitto e Palestina. Infatti, segnato dalla sofferenza umana che aveva conosciuto durante quelle esperienze di guerra, nel 1919 tornò a Edimburgo e intraprese gli studi di medicina, riuscendo a laurearsi nel 1923. Il suo vero desiderio però – che più di ogni altra motivazione lo aveva spinto verso gli studi medici – era quello di diventare uno psicoterapeuta, ossia di poter attingere alle risorse e al sapere della psicologia medica per alleviare la sofferenza umana. L’interesse per la psicologia era nato in Fairbairn negli anni della guerra, durante i quali aveva preso a leggere alcuni scritti

di Freud e di Jung. Nel 1921 era entrato in analisi con Ernest Connell, e in seguito intraprenderà un percorso analitico ancor più significativo con Ernest Jones. Dopo la laurea praticò il tirocinio in un rinomato ospedale psichiatrico, il Royal Edinburgh Hospital, dove rimase in qualità di assistente per un periodo di tempo considerevole. Durante lo stesso periodo sopraggiunse la morte del padre e nel 1925, ottenuto il diploma universitario in psichiatria, Fairbairn iniziò l’attività privata. Dal 1927 al 1935 lavorò presso la Clinica di Psicologia Infantile dell’Università di Edimburgo in qualità di psichiatra e, al contempo, di "lettore di psicologia". Ammesso nella Società Psicoanalitica Britannica nel 1931, ne divenne membro effettivo otto anni più tardi, dedicando tutti i restanti anni della sua vita allo studio e allo sviluppo della teoria e della tecnica psicoanalitiche. Il morbo di Parkinson lo condusse alla morte nel 1964, cogliendolo come sempre nel suo consueto "isolamento intellettuale". Fairbairn viene sovente ricordato come un personaggio "tagliato fuori" dal resto del mondo psicoanalitico, e ciò va imputato più alla singolarità del suo pensiero, all’autonomia e indipendenza delle sue idee, che a un ’isolamento’ sul piano dei rapporti. Sebbene infatti Edimburgo rappresentasse una sorta di alveo protettivo per Fairbairn, permettendogli di elaborare il suo pensiero in un’atmosfera ovattata di protezione, costituì anche per lui un ’mondo parallelo e surreale’ distaccato dalla realtà più autentica, un ’iperuranio’intellettuale che imprigionò Fairbairn nel regno delle proprie idee per tutto il corso della sua esistenza. In realtà il suo lavoro è collegato, attraverso molteplici canali, a quello di altri importantissimi autori e pionieri della psicoanalisi. Ma non solo per questa ragione merita di essere approfondito e compreso. Proprio come la prospettiva teorica di Sullivan – sintetizzata nella cosiddetta psichiatria interpersonale – anche il lavoro di Fairbairn parte da un drastico e spietato attacco alla teoria pulsionale; ma, in seguito egli dimostrerà di essere indipendente da ogni altro approccio, distante anche dai sistemi di Sullivan, di Winnicott, degli

psicologi dell’Io e della stessa Melanie Klein, che pure ne influenzò l’orientamento. Il pensiero della Klein infatti contribuì in modo determinante alla elaborazione teorica di Fairbairn, sollecitandolo a riflettere su alcuni aspetti essenziali del funzionamento dell’apparato psichico; basti pensare ai cosiddetti "oggetti interiorizzati". Sebbene, come dicevamo, il pensiero di Fairbairn sia autonomo e originale, il suo debito nei confronti della Klein e il contributo che questa grande psicoanalista diede alla nascita della teoria delle relazioni oggettuali furono da lui dichiarati sempre con assoluta lealtà:

A parer mio è giunta l’ora che l’indagine psicopatologica, che in passato si è accentrata con successo prima sulle pulsioni e poi sull’Io, debba ora essere indirizzata all’oggetto verso il quale la pulsione è diretta. Per esprimere la questione in modo più accurato, seppure meno sottile, i tempi sono maturi per una psicologia delle relazioni oggettuali. L’opera di Melanie Klein ha già preparato il terreno per un tale sviluppo del pensiero; e invero solo alla luce del suo concetto di oggetti interiorizzati ci si può attendere che uno studio delle relazioni oggettuali apporti qualche risultato significativo per la psicopatologia (Fairbairn 1943, 86).

La riflessione circa gli "oggetti interiorizzati" risultò basilare per l’elaborazione teorica di Fairbairn, ma ciò che in verità lo spinse alla costruzione della sua teoria fu il senso di incompiutezza, e le lacune che aveva rilevato nelle teorie dei suoi predecessori, in particolare in quella freudiana. Leggendo negli anni Trenta gli scritti della Klein, Fairbairn aveva avvertito un improvviso bisogno di nuove risposte e di idee

originali per affrontare tutte le tematiche a suo giudizio’lasciate in sospeso’. Sarà proprio questo bisogno a spingerlo verso una ricerca instancabile di soluzioni per tutti quegli aspetti problematici – riguardanti la vita psichica dell’uomo e il suo comportamento – rimasti insoluti. In secondo luogo, questa ricerca lo condurrà a una critica radicale del sistema freudiano e a una altrettanto radicale revisione fondata sulla celebre massima secondo la quale "la libido non è una ricerca di piacere, ma una ricerca dell’oggetto" (Fairbairn 1949, 188). Questa essenziale formulazione – che con una sintesi folgorante ’centra la radicale diversità della teoria di Fairbairn dalla teoria pulsionale – venne esposta per la prima volta in uno scritto pubblicato nel 1941:

L’importanza storica della teoria della libido e la misura in cui essa ha contribuito al progresso delle conoscenze psicoanalitiche non esigono alcuna discussione; [...] Nondimeno sembrerebbe quasi che ora sia stato raggiunto il punto in cui, nell’interesse del progresso, la classica teoria della libido debba essere trasformata in una teoria dello sviluppo basata essenzialmente sulle relazioni oggettuali. Il grande limite della teoria attuale della libido come sistema esplicativo sta nel fatto che essa conferisce lo status di atteggiamenti libidici a varie manifestazioni che si rivelano poi unicamente delle tecniche per regolare le relazioni oggettuali dell’Io. La teoria della libido è basata, naturalmente, sul concetto di zone erogene. Si deve tuttavia riconoscere che in primo luogo le zone erogene sono semplicemente dei canali attraverso i quali fluisce la libido, [...] Lo scopo finale della libido è l’oggetto; e nella sua ricerca dell’oggetto la libido è spinta da leggi analoghe a quelle che determinano il fluire dell’energia elettrica, ossia cerca la via della minima resistenza

(Fairbairn 1941, 55-56).

Queste affermazioni sono importanti per cogliere limpida l’essenza del lavoro di Fairbairn, il fondamento stesso di tutta la sua opera e del suo impegno rispetto ai propri pazienti. La sua teoria infatti, iniziata come semplice riordinamento e integrazione concettuale dei paradigmi vigenti, mutò trasformandosi in una revisione radicale della teoria freudiana che avrà – come vedremo – considerevoli ripercussioni anche in ambito terapeutico. Sappiamo bene che il concetto di libido rappresenterà sempre il fondamento del disaccordo tra i più grandi maestri, studiosi e pensatori in ambito psicologico. Come abbiamo visto infatti, una delle tante ragioni che condurranno al distacco tra Freud e Jung, sarà proprio la divergente teorica su questo punto. Jung non volle mai interpretare la libido come forma energetica di carattere sessuale, e di essa propose sempre una visione più ampia, considerandola sì una forma di energia, che però possiede svariate possibilità espressive, fra cui anche la sessualità. Jung non si stancò mai di sottolineare con quale ostinazione e cieca fiducia Freud avesse costruito il suo mastodontico edificio teorico su un basamento esiguo e instabile come la pulsione sessuale:

Freud non si chiese mai perché fosse costretto a parlare continuamente della sessualità, perché questo pensiero lo dominasse talmente. [...] Non c’era nulla da fare contro questa unilateralità di Freud. [...] Rimaneva votato a quell’unico aspetto, e proprio per questo motivo vedo in lui una figura tragica; perché era un grand’uomo (Jung 1961, 194).

Secondo Jung la libido è caratterizzata da un intenso dinamismo, nel senso che non è mai fine a se stessa ma sempre orientata al raggiungimento di una meta, per esempio l’appagamento di una pulsione. Inoltre, come abbiamo potuto evincere dalle parole dello stesso Fairbairn, è implicito nella sua teoria un modo nuovo di considerare il concetto di libido, e sarà proprio questa originale modalità interpretativa a sottolineare ancora di più l’incolmabile divario con il pensiero di Freud. Se infatti per quest’ultimo la libido era anzitutto "ricerca del piacere" e, pertanto, priva di una direzionalità ma mossa dal mero bisogno di appagamento pulsionale, secondo Fairbairn la libido va considerata da una prospettiva del tutto opposta. Egli infatti, partendo dal presupposto che la libido è "ricerca d’oggetto", ritiene che essa possieda una precisa direzionalità e che "la tensione che va alleviata è la tensione delle tendenze alla ricerca dell’oggetto" (Fairbairn 1946, 182). L’opera di Fairbairn permise così alla storia della psicoanalisi di compiere un considerevole balzo in avanti e realizzare un inaspettato ampliamento di vedute: il cuore del dinamismo psichico e dello sviluppo della personalità non erano più rappresentati dalle energie libidiche, bensì dalle relazioni oggettuali. Questo aspetto è fondamentale, e occorre pertanto essere consapevoli e convinti che la relazionalità non è un’acquisizione dello sviluppo del soggetto ma è il fondamento stesso della sua esistenza, il presupposto della vita, per cui è ragionevole affermare che: "là dove non vi siano relazioni vi sarà la morte psicologica dell’individuo". La teoria pulsionale – come accennavamo – verrà attaccata anche da Harry Stack Sullivan, anche se – come vedremo – sebbene questo psicoanalista americano si sia allontanato dalla teoria freudiana, sarebbe eccessivo affermare che quelli di Sullivan e Freud sono ’pensieri contrapposti’. Dai suoi primi scritti, infatti, è facile rilevare l’influenza esercitata dal pensiero freudiano al punto che il pensiero di Sullivan viene paragonato a quello di Fromm, Karen Horney e Adler, nel senso che si tende a porre in evidenza un denominatore comune per

tutti questi autori: l’essere i continuatori dell’opera freudiana. E proprio il suo primo articolo sulla schizofrenia (1924) che con maggiore efficacia evidenzia la marcata influenza del pensiero freudiano su quello di Sullivan, in particolare per quanto concerne "il postulato dell’inconscio: il grande contributo, cioè, del Professor Freud" (Sullivan 1924, 34). Autore dotato di una grande capacità di autocritica, di vivacità espositiva e di un’apprezzabile fermezza nell’esporre il proprio pensiero, Sullivan viene troppo spesso ricordato come ’lo psicoanalista americano dedito allo studio della schizofrenia’. In realtà, egli fu uno dei primi studiosi a porre la propria attenzione su quella fondamentale dimensione psicologica definita come relazione interpersonale e anzitutto per questa ragione merita di essere ricordato. Sebbene l’interesse del mondo psicoanalitico si sia più volte rivolto all’opera di questo autore, in verità il suo lavoro non è stato ancora valutato e apprezzato come si dovrebbe. Sullivan nasce nel 1892 a Norwick – New York – una cittadina agricola, da una famiglia cattolica irlandese-americana. Figlio unico, il piccolo Harry non ebbe un rapporto felice con il padre che non gli dedicò mai il tempo e le attenzioni che avrebbe desiderato. La figura paterna fu infatti sentita da Sullivan sempre molto distante, quasi ostile, e infatti egli non riuscì mai a intessere con il padre un buon rapporto, fondato sulla fiducia e sulla confidenza, se non in epoca ben più tarda della sua vita. Si trattava infatti di un uomo chiuso, un povero contadino di poche parole, restio ad aprirsi, che non occuperà mai nella vita del figlio un ruolo di primo piano. Anche con la figura materna il giovane Harry non riuscirà mai a intessere un legame significativo, in grado di dargli il calore e il nutrimento di cui aveva tanto bisogno. Si trattava di una donna piuttosto fragile, sia sul piano fisico che su quello psicologico, una seminvalida provata dalla scomparsa di altri due figli, nati prima di Harry e morti in tenera età. La salute cagionevole e la costante condizione di malessere psicofisico della madre imporranno al giovane Sullivan una "convivenza con il dolore" sin dall’infanzia. Molto presto quindi imparerà il

significato della sofferenza e – aspetto ancor più significativo – della solitudine. Questa "confidenza" con il dolore e con la solitudine che costellerà la sua esistenza sin dalla prima infanzia sarà determinante non solo per lo strutturarsi della sua personalità, ma anche – come vedremo – per l’elaborazione della sua teoria. Nessuno ha saputo cogliere il senso tragico della solitudine di Sullivan come Clara Thompson, un’allieva di Sàndor Ferenczi. Questa donna infatti fu per Sullivan la sensibile e attenta compagna di viaggio dell’analisi didattica che egli intraprese nel 1930. Con queste parole la Thompson volle descrivere la solitudine del giovane Harry:

Gli unici amici veri della sua infanzia erano gli animali della fattoria. Con loro si sentiva contento e meno solo. Non aveva altri compagni, sicché quando finalmente venne il tempo di andare a scuola non sapeva come entrare a far parte del gruppo, e si sentiva completamente isolato. Questo è l’ambiente in cui è cresciuto l’uomo che cercherà per anni di capire la solitudine. E da quella ricerca si svilupperà un tipo di pensiero che avrà grande importanza per tutti noi (Thompson 1949, 375-376).

Nel 1917, laureatosi in Medicina a Chicago, Sullivan decide di arruolarsi per dare il proprio contributo alla Grande Guerra, e dopo che questa fu terminata iniziò a lavorare presso un ospedale di New York e quindi nell’Università del Maryland. È durante questo periodo che i suoi primi studi sulla schizofrenia vedono la luce – un dato interessante questo, soprattutto se pensiamo che il dramma della schizofrenia era vissuto da Sullivan come un fantasma persecutorio, lo strascico di alcune esperienze della tarda adolescenza. Infatti, sulla base di quanto

ha potuto rivelarci uno dei suoi più autorevoli biografi, durante un periodo non specificato della sua fanciullezza Sullivan avrebbe vissuto un breve ma significativo episodio di schizofrenia. Sebbene non si abbiano prove specifiche e documentabili, sembrerebbe comunque che una ristretta cerchia di persone abbia riferito che in gioventù Sullivan sia stato per un breve periodo addirittura ospedalizzato per ricevere delle cure psichiatriche (Chapman 1976, 25-26). È impossibile stabilire con certezza come in realtà siano andate le cose, ma determinati periodi della sua vita sono avvolti da una coltre di mistero e da ’lacune temporali’ che Sullivan stesso si sforzò di colmare con indicazioni sommarie e spesso contraddittorie. In sua ’discolpa’ però, sembra doveroso ricordare che l’opinione che il mondo della psichiatria si era fatta di Sullivan era quanto mai distorta o, per meglio dire, inficiata da un ingombrante pregiudizio. Sappiamo infatti che Sullivan era omosessuale, non tutti però sanno con quanto disprezzo e disapprovazione fosse considerato questo aspetto della sua personalità. Il suo pensiero fu letto, ascoltato e valutato sempre come il ’frutto del lavoro di un omosessuale’. Come è purtroppo intuibile, questo ’dato’ costituì un gravissimo handicap per la diffusione e la comprensione delle idee di Sullivan, e ancora oggi chi s’interessa al suo pensiero ne sta pagando il prezzo. D’altra parte mi sorprende sempre di più il constatare che nessun studioso che con i suoi lavori abbia messo in ombra i rivali, si sia potuto sottrarre alle calunnie. Se dovessi farne un elenco, il resto della mia vita sarebbe speso per questo ma per fortuna il fisico Feyman ci ricorda che qualsiasi persona intelligente se ne infischia di quello che dicono gli altri. Senza dubbio parziale, settoriale e – in senso negativo – ’selezionato’, possiamo considerare il bagaglio conoscitivo che oggi possediamo rispetto al suo più autentico pensiero. Sebbene infatti siano numerosi, chiari e ricchi da un punto di vista di contenuti gli scritti di cui siamo in possesso, non possiamo essere certi che il pregiudizio nei confronti della omosessualità di Sullivan non abbia spinto i suoi

contemporanei a stravolgere le sue teorie o a tralasciarne parte, mossi quasi da un processo inconscio di spietata ’censura’. In ogni caso però – tornando a uno dei campi privilegiati del suo lavoro cui stavamo facendo riferimento – la schizofrenia divenne ben presto un potentissimo polo d’attrazione per il suo pensiero e il suo lavoro. Negli anni compresi fra il 1923 e il 1930 – epoca in cui ebbe inizio l’amicizia con la Thompson – Sullivan lavorò allo Sheppard and Enoch Pratt Hospital in qualità di assistente e poi di direttore. Nel 1936 fonderà la Washington School of Psychiatry e ne diverrà direttore. Dirigerà inoltre la rivista Psychiatry e inizierà ad occuparsi di tematiche sociali e problemi politici internazionali presso l’UNESCO. Morì nel 1949, stroncato da un’emorragia cerebrale. L’esperienza presso lo Sheppard – che Sullivan conciliò con il suo impegno di professore associato di psichiatria presso l’Università del Maryland – gli offrì la possibilità di concretizzare il suo interesse per la schizofrenia, nel senso che in un arco di tempo breve riuscì a realizzare un suo reparto speciale per pazienti schizofrenici di sesso maschile. La sua esperienza allo Sheppard e la sua ampia preparazione psichiatrica, lo condussero nel biennio 1929-1930 a formulare una innovativa teoria sulle relazioni interpersonali che, come è noto, trovò espressione nell’unico libro da lui scritto, La moderna concezione della psichiatria (1953). Sullivan non si stancò mai di esaltare la libertà di pensiero e l’opportunità di una pacifica convivenza fra differenti idee, ciascuna nata in un diverso contesto, in una differente epoca storica. Appaiono in tal senso interessanti queste sue considerazioni:

Le formulazioni psicoanalitiche sono estremamente individualistiche, nel senso che sono in gran parte le opinioni del professor Freud, formatesi in base alla sua

esperienza coi suoi pazienti. Ma quanto alla formazione di queste opinioni – come accade per la maggior parte di tutte le altre opinioni in psichiatria – gli aspetti sociali e culturali dei processi che l’hanno determinata sono stati quasi del tutto ignorati (Sullivan 1931, 303).

Queste osservazioni ci offrono anche l’opportunità di ricordare che gli anni durante i quali Sullivan cominciò a strutturare il proprio pensiero erano caratterizzati da una diffusa atmosfera di insoddisfazione nei confronti delle risorse terapeutiche della psicoanalisi, ed erano, pertanto, anni’difficili’ per ogni nascente teoria. Comunque, come dicevamo, rispetto alla teoria freudiana non possiamo osservare un autentico contrasto, ma è cionondimeno palese il desiderio del nostro Sullivan – come vedremo realizzatosi – di introdurre nuovi elementi e assunti teorici. Come accennavamo infatti, sarebbe quanto meno riduttivo apprezzarlo solo per il suo contributo alla comprensione della schizofrenia, poiché ciò che colpisce di questo personaggio è l’enfasi con la quale egli affronta il mondo delle relazioni interpersonali, rendendole al contempo un fattore patogeno e terapeutico. Per esemplificare il nostro discorso, ricorderemo quello che secondo Sullivan era il vero fine della psichiatria e il suo campo d’applicazione:

Scopo della psichiatria è quello di comprendere la vita per poterla rendere più facile (1947, 178).

E ancora:

[...] il campo della psichiatria non è costituito né dall’individuo malato di mente, né dai processi sfortunati o fortunati che si possono osservare e studiare con obbiettivo distacco nei gruppi. La psichiatria è invece lo studio dei processi che coinvolgono le persone, che avvengono tra le persone. Il campo della psichiatria è quello delle relazioni interpersonali, in tutte le circostanze in cui queste relazioni esistono. [...] non si può mai isolare una personalità dal complesso di relazioni interpersonali, in cui la persona vive ed esiste (Ibid., 18).

Per ’comprendere la vita umana e renderla più semplice’ Sullivan sceglie come strumento interpretativo le relazioni interpersonali; in esse individua il fulcro dell’esistenza e il senso delle azioni dell’uomo. Nel rapporto con un Altro significativo, Sullivan vede infatti la possibilità di trovare risposta non solo ai bisogni biologici primari ma, soprattutto, al grande bisogno di sicurezza che costella la vita di noi tutti: le relazioni interpersonali divengono così il contesto privilegiato per condurre questa "ricerca di sicurezza" verso un esito positivo. Gli esseri umani secondo Sullivan non devono dunque essere considerati come monadi a sé stanti, bensì come attori impegnati in un contesto relazionale. Procedendo nel nostro discorso avremo modo di dedicare maggior spazio a questo argomento. Per ora mi preme sottolineare l’interesse con il quale la psicoanalisi si rivolge a esso. Se infatti la teoria psicoanalitica era sul nascere ’mirata’ad agire sul sintomo, procedendo a ritroso per individuarne le cause, ma comunque focalizzandosi sull’individuo in quanto tale, è con il nascere della teoria delle relazioni oggettuali che la psicoanalisi inizia a trasformare la propria prospettiva d’intervento. Non più e non solo l’attenzione sarà rivolta al ristretto mondo dell’individuo, ma verrà estesa agli Altri, ossia a tutti gli "oggetti" – reali o

immaginari, vivi o fantasmatici – che popolano la mente del paziente e ne influenzano il comportamento. L’Altro diviene così il centro di questa ulteriore rivoluzione copernicana, la luce per rischiarare una inquietante vastità di ombre.

6. COSA SIGNIFICA AVERE UNA RELAZIONE Come abbiamo visto, quando parliamo di relazione oggettuale, intendiamo riferirci sia alla relazione con oggetti del mondo esterno, sia a quella con oggetti interni, ossia con quelle rappresentazioni degli oggetti a cui il soggetto reagisce come di fronte a presenze reali (e d’altra parte dalle presenze reali esso deriva, come risultato dei processi di introiezione). In tal senso appare esemplificativo il concetto di personificazione proposto da Sullivan, concetto che – fra l’altro – rivela l’enfasi posta da questo autore sul rapporto interpersonale. Con il termine "personificazione", Sullivan ci dice che è possibile intereagire non solo con altri individui per così dire ’reali’, ma anche con le immagini che ognuno si costruisce di sé e con quelle degli altri che lo circondano. Questo concetto è di grande rilievo, anche se sarebbe inesatto considerarlo un concetto del tutto inedito. Infatti, non è difficile rintracciare in esso l’eco del concetto freudiano di ’fantasma edipico’ e di quello junghiano di Anima e Animus. Tuttavia, colpisce l’interpretazione che di esso Sullivan propone, vedendo nella personificazione anzitutto la possibilità di ’avere sempre qualcuno al proprio fianco’. La personificazione si nutre di emozioni ed è "formata dall’insieme di sentimenti, atteggiamenti e concezioni originati dalle esperienze legate alla soddisfazione dei bisogni e all’angoscia" (Carotenuto 1991, 169). Ciò significa che le ’personificazioni degli altri’ deriverebbero da passate esperienze di cui il soggetto conserverebbe dentro di sé un’immagine mentale quanto mai vivida. In questo modo l’individuo, affiancato dai ricordi, delle fantasie e dai mille volti delle personificazioni, ’non è mai solo’. È interessante questo aspetto, soprattutto se pensiamo che costituisce uno dei capisaldi sui quali è stata costruita la teoria di un uomo solo,

turbato dalla propria solitudine e da quella dei propri pazienti, di un uomo che spese moltissime parole per tentare di rendere comprensibile il dramma dell’essere soli:

Fra tutte le esperienze umane la solitudine è forse la sola a distinguersi per l’inadeguatezza delle cose che si dicono quando si cerca di descriverla. [...] Chiunque abbia provato la solitudine è pronto a fare un resoconto vago ed astratto delle sue esperienze al riguardo. Ma è difficilissimo fare in modo che il paziente si ricordi chiaramente come si sentiva e che cosa ha fatto nei momenti in cui era orribilmente solo. [...] il fatto stesso che la solitudine spinga a integrazioni anche davanti all’ansia grave significa automaticamente che la solitudine in sé è più terribile dell’ansia (Sullivan 1953, 295-297).

Il personale rapporto con la solitudine può dunque essere considerato il presupposto della sua elaborazione teorica, nel senso che la sua "teoria interpersonale" è in fondo un eccellente paradigma del significato che le relazioni assumono nel corso della nostra esistenza: non solo fonte di vita ma anche fiamma infernale che arde senza fine, procurando all’individuo paura e tormento A questo punto ogni tentativo di liberarsi dagli altri, di "farne a meno" per coltivare il proprio orticello o in vista di una eventuale ’santità’, non solo è destinato al fallimento, ma è inconcepibile, visto che quando siamo usciti dal liquido amniotico ci è "cascato addosso il mondo" siamo stati invasi dagli Altri prima ancora di mettere a fuoco il nostro esistere come soggetti. E quegli Altri abitano in noi da allora. In tal senso appare emblematica la visione ’sullivaniana’ della schizofrenia. Nel 1924 – all’età di trentadue anni – Sullivan pubblicò il suo

primo scritto sulla schizofrenia, e sempre in quell’anno ebbe occasione, nell’ambito di due distinti convegni, di esporre il proprio pensiero a riguardo. Uno dei contributi più originali e importanti dei suoi primi scritti va rintracciato proprio nel nuovo modo di considerare questa patologia. Infatti, sebbene Sullivan non abbia mai descritto una precisa cornice teorica all’interno della quale inserire la schizofrenia, tuttavia offre di essa alcuni spunti di riflessione preziosi:

La schizofrenia, alla luce delle osservazioni cliniche, non dev’essere considerata una malattia primaria, quale potrebbe apparire se la si chiama demenza precoce. [...] L’importante conclusione raggiunta [...] designa la schizofrenia come una serie di eventi mentali di grande rilevanza, sempre accompagnati da sostanziali modificazioni della personalità, ma che di per sé non comportano né deterioramento né demenza. Si tratta invece di un disordine in cui l’esperienza totale dell’individuo subisce una riorganizzazione (Sullivan 1924, 36-37).

È proprio quest’ultimo aspetto – l’esperienza totale dell’individuo – che dovrebbe attrarre la nostra attenzione, poiché in esso è racchiuso il senso dell’impegno di questo studioso. Silvano Arieti è riuscito a coglierne i meriti con efficacia e chiarezza affermando che Sullivan "ha dimostrato che la schizofrenia, come ogni altra malattia psichiatrica, è causata da insoddisfacenti relazioni interpersonali" (Arieti 1955, 41). Sullivan aveva della schizofrenia una visione originale secondo la quale in questa patologia le funzioni mentali ’auspicabili’ perché funzionali alla realtà non sarebbero compromesse e alterate ma solo ’rimosse’. Egli riuscì così a formulare una convincente ipotesi di intervento e di

trattamento nei confronti del disturbo schizofrenico, partendo dal presupposto che

la schizofrenia ha un significato unicamente in un contesto interpersonale; e le sue caratteristiche possono definirsi soltanto con uno studio delle relazioni che intercorrono fra lo schizofrenico e altre persone schizofreniche, meno schizofreniche e non schizofreniche (Sullivan 1931, 303).

Al contrario della maggior parte dei suoi contemporanei, infatti, Sullivan credeva nella possibilità di utilizzare ’l’ipotesi interpersonale’ per intervenire sulla schizofrenia attraverso un approccio psicoterapico. Il nostro autore considerava lo sviluppo della personalità come la diretta espressione del vissuto dell’individuo all’interno dei rapporti interpersonali, e per questa ragione era convinto che la personalità non dovesse essere valutata come una struttura rigida e statica, bensì come materia da plasmare e riforgiare sulla base delle nuove esperienze interpersonali vissute. Alla psicoterapia – ’regno’ del rapporto e della relazionalità per antonomasia – verrà conferito un immenso potere, nel senso che il terapeuta applicando la sua capacità empatica potrà riuscire a entrare in contatto anche con lo psicotico molto grave. Proprio grazie a questo contatto sarà possibile "comunicare" con ogni tipo di paziente, compreso lo schizofrenico, anche se esso dovesse utilizzare un linguaggio privo di senso, incomprensibile e indecifrabile persino da lui stesso. Per lavorare con gli schizofrenici, Sullivan cercò di utilizzare una strategia finalizzata a non alterare o turbare il loro stato interno. Il suo approccio terapeutico infatti mirava anzitutto a sedare e tenere sotto controllo l’angoscia, da lui considerata come un fattore in grado di interferire con le normali funzioni,

attività e facoltà del soggetto. Sullivan era convinto che l’angoscia fosse una di quelle particolari dimensioni in grado di far scattare quelli che lui definiva dinamismi, continue trasformazioni energetiche aventi lo scopo di regolare e ottimizzare determinate funzioni dell’organismo.

Sullivan fa riferimento soprattutto ai dinamismi che hanno lo scopo di mediare le tensioni derivanti dalle relazioni. Il dinamismo quindi corrisponde a una reazione abituale verso una o più persone, cioè a un sentimento o a un atteggiamento, che ha sempre lo scopo di soddisfare i bisogni fondamentali. Tra i vari dinamismi il più importante è il Sistema del Sé. Esso ha lo scopo di diminuire l’angoscia derivante dalla relazione con la madre e dalle varie forme di minaccia dell’integrità individuale (Carotenuto 1991, 171).

Tornando quindi all’approccio psicoterapico proposto da Sullivan, osserveremo come, una volta arginata l’angoscia, attraverso la sua straordinaria capacità di comprendere e comunicare con i propri pazienti, egli riusciva a raggiungere i nodi problematici più profondi e complessi e a lavorare in vista di quello che considerava essere il vero, grande obiettivo della psicoterapia: mettere il paziente nella condizione migliore per instaurare nuove e adeguate relazioni interpersonali. E probabile che l’efficacia del suo metodo terapeutico fosse dovuta al fatto che i pazienti sentivano di avere dinanzi un uomo degno di questo appellativo, un essere umano che non aveva paura di mostrare loro il suo vero volto. La grande autenticità con la quale Sullivan era solito lavorare non sfuggì a chi lo conosceva bene; ecco cosa Clara Thompson seppe dire al riguardo, in occasione di un discorso pronunciato per ricordare l’amico Sullivan ormai scomparso:

[...] imparai a capire che quest’uomo, che in pubblico era capace col suo sarcasmo tagliente di fare a pezzi un lavoro scadente di un collega, aveva un suo lato gentile, pieno di calore e di amicizia; ed era questo il lato che mostrava ai pazienti. Chiunque l’abbia visto parlare a un catatonico grave sa di aver visto il vero Harry, quello senza finzioni e senza difese. E non c’era niente di sentimentale nella sua gentilezza, che invece dava un senso di comprensione profonda (Thompson 1949, 377).

Ritengo che l’opera di Sullivan sia apprezzabile soprattutto perché egli seppe enfatizzare con eguale efficacia tanto le relazioni interpersonali quanto i bisogni interiori dell’ individuo, anche se molti sono gli aspetti che Sullivan avrebbe potuto esplicitare ancor meglio, ampliare, approfondire. È tuttavia innegabile l’impulso che egli seppe dare allo studio delle relazioni interpersonali e per il suo contributo in questa direzione – da considerarsi parallelo a quello altrettanto prezioso di personaggi come Winnicott, Fairbairn o Kohut – oggi il mondo della psicoanalisi è consapevole di essere suo debitore. La teoria delle relazioni oggettuali non intende enfatizzare il volto per così dire "positivo" delle relazioni interpersonali, ma – come abbiamo già accennato – ricordarci quanto dolore, sofferenza e disperazione possano scaturire da esse. In questo senso spicca il nome di Heinz Kohut, autore che dedicherà al tema delle relazioni oggettuali splendide pagine, oltre che un’eccezionale ed esaustiva analisi critica. Noto come il fondatore della psicologia del Sé, Kohut può essere considerato uno fra i più importanti capisaldi della psicoanalisi del Ventesimo secolo. Heinz Kohut nasce a Vienna nel 1913. Dopo essersi laureato

in medicina all’Università di Vienna, nel 1939 si trasferisce a Chicago, specializzandosi in neurologia e psichiatria presso la locale Università. Chicago sarà la città che lo ospiterà fino alla sua morte, avvenuta nel 1981, e che lo vedrà diventare professore di psichiatria. Porterà avanti la sua formazione psicoanalitica presso il Chicago Institute for Psychoanalysis, ove svolgerà mansioni didattiche e direttive. Sarà presidente dell’American Psychoanalytic Association nel biennio 19641965. Tutta la teoria e il pensiero di Kohut ruotano attorno a particolari concetti chiave che, come ho avuto modo di ricordare altrove, considerati nella loro globale complessità riflettono

il tentativo di integrare in una formulazione metapsicologica coerente il modello strutturale delle pulsioni con il modello delle relazioni oggettuali (Carotenuto 1991, 122).

Proprio questo suo sforzo teorico appare più che mai degno di nota, nel senso che il suo approccio sarà a ragione annoverato tra i costrutti teorici costituenti il cosiddetto "modello misto". Utilissima per dipanare l’intricato viluppo di antagonismi, screzi e rivalità che hanno caratterizzato – e che caratterizzano – il ’quadro clinico’ della cosiddetta ’psicoanalisi moderna’, risulta essere la "strategia dei modelli misti", rispetto alla quale Mitchell ha voluto offrirci preziose riflessioni sostenendo che essa:

[...] si fonda sull’affermazione che, sebbene le teorie

contemporanee costituiscano un paradigma separato e un modello decisamente diverso da quello pulsionale, esse sono complementari e possono essere integrate senza troppe difficoltà con la teoria più antica. [...] l’applicazione del modello misto implica una restrizione del concetto freudiano di pulsione in modo da poterlo porre sotto o accanto ad altre teorie. Il modello misto tende a implicare un accostamento dei diversi modelli anziché un’autentica integrazione (Mitchell 1988, 54).

È importante chiarire a cosa ci riferiamo quando parliamo di "modello misto" perché Kohut – come accennavamo – va giocoforza inserito proprio nell’ambito di tale modello. Dire che questo personaggio dalle idee innovative, criticate e a volte ambigue, aderisce al modello misto, significa conferire dignità e valore al suo impegno teorico, alle risorse ed energie da lui spese per affiancare la prospettiva pulsionale dello sviluppo psicologico a quella "relazionale", che vuole la libido tutta protesa a intessere rapporti con persone del mondo esterno. Due grandi sistemazioni teoriche permettono di inquadrare e definire l’opera di Kohut, e al contempo di osservare come il pensiero di un autore possa plasmarsi e modificarsi con rapidità e coerenza. La sua prima sistemazione teorica è datata 1971 e propone due distinti protagonisti: il tema del narcisismo e quello del Sé. Nella seconda formulazione invece – che avrà voce nel ’77 – la posizione di Kohut sarà più rigida e radicale, basata sul drastico rifiuto della teoria pulsionale. Narcissismo e analisi del Sé appare quindi proprio nel 1971 – quando Kohut ormai da un anno aveva ottenuto la vicepresidenza dell’Archivio di Sigmund Freud – e diviene il ’manifesto’ del pensiero del suo autore. Quest’opera, che ebbe uno straordinario successo, viene spesso addotta a dimostrazione della distanza che separa l’approccio di Kohut da quello più "psicoanalitico". In realtà l’intento di questo autore

non è mai stato quello di ’eliminare’ o ’sostituire’, semmai quello di affiancare e integrare. Come vedremo nella sua prima formulazione teorica Kohut evidenzia come un Sé coesivo adulto possa svilupparsi solo a condizione che si instaurino determinate forme di relazione con le figure parentali. Il rapporto con le figure genitoriali diventa preponderante, ed esse sono investite di un potenziale immenso poiché solo se sapranno adempiere a specifici compiti evolutivi e a peculiari funzioni nei confronti del bambino, potranno permettere a questo di svilupparsi. In particolare, secondo Kohut il ruolo primario del genitore non sarà tanto quello di costituire l’oggetto di bisogni e desideri generici da parte del bambino quanto quello di gratificare le sue pulsioni narcisistiche. Egli infatti ritiene che il bambino si crei un’immagine idealizzata della madre – o di entrambi i genitori – proprio mediante particolari e precoci rapporti narcisistici, un’immagine della quale il bambino ha un assoluto bisogno:

L’equilibrio del narcisismo primario è disturbato dalle inevitabili imperfezioni delle cure materne, ma il bambino ricostituisce la perfezione precedente a) stabilendo un’immagine grandiosa ed esibizionistica del Sé: il Sé grandioso; b) trasferendo la perfezione precedente a un oggetto-Sé ammirato e onnipotente (transizionale): l’imago parentale idealizzata (1971, 33).

Questo aspetto – che sento di condividere del tutto – è fondamentale perché evidenzia come l’amore oggettuale non possa essere considerato indipendente da un presupposto narcisistico. In questo senso è possibile osservare come l’impostazione del ’71 risulti ricchissima di implicazioni teoriche con il pensiero di Freud.

Kohut infatti, ispirandosi alla teoria della libido freudiana, volle puntualizzare come lo sviluppo procedesse lungo due percorsi paralleli, rappresentati dall’amore oggettuale e dal narcisismo inteso come amore verso di sé. La grande novità di cui Kohut si fece portavoce, fu quella di introdurre un nuovo percorso che intersecasse i precedenti due: non più e non solo amore oggettuale e amore narcisistico, ma anche relazione oggettuale. Debitore alla teoria di Fairbairn e ai suoi postulati, Kohut assume come presupposto del suo lavoro l’idea che tutta l’esistenza umana sia costellata dalla ricerca della relazione – e non dal mero appagamento pulsionale. È insita dunque nel pensiero di Kohut l’idea che nella trama delle prime relazioni con le figure parentali si nascondano le cellule germinali di tutte le relazioni e dei legami che l’individuo vivrà nel corso del tempo. L’interazione diviene così fondamentale per lo sviluppo, acquistando valenze differenti sulla base delle singole tappe che condurranno il bambino alla conquista di un Sé coesivo. Come ho ricordato altrove,

lo sviluppo di un Sé coesivo è un prerequisito dell’esperienza edipica, perché le relazioni con oggetti veri e propri possono instaurarsi solo dopo che si è formato un Sé stabile, separato dagli oggetti narcisistici, le dinamiche edipiche comprendono pulsioni sessuali e aggressive primarie e le misure difensive contro di esse. Ma in questo contesto conflittuale il Sé è già stabile e quindi non è più un elemento centrale. Il modello relazionale e il modello pulsionale sono concepiti, dunque, in sequenza, e si spartiscono due periodi distinti dello sviluppo: la fase pre-edipica della formazione del Sé coesivo, (sviluppo narcisistico) e la fase edipica (sviluppo oggettuale) (Carotenuto 1991, 135).

Nella formulazione teorica del ’71 non era dunque presente l’intenzione di contrapporsi alla teoria della libido freudiana, rispetto alla quale invece Kohut intendeva procedere di pari passo. Tuttavia, man mano che Kohut andava elaborando e strutturando la sua teoria, si andava allontanando da quella freudiana. In tal senso appare interessante la sua interpretazione etiologica della patologia, in particolare dei disturbi narcisistici. I disturbi del Sé infatti, traggono secondo Kohut origine proprio dalle mancanze, carenze e inadempienze che il bambino percepisce intorno a sé, nel proprio ambiente familiare, nel contesto in cui vive. Quando in questo ambiente le relazioni narcisistiche non si instaureranno ed evolveranno in maniera apprezzabile, i disordini del Sé cominceranno ad assumere concretezza ed evidenza. Punto focale del suo approccio terapeutico divenne così l’utilizzazione della capacità empatica e dell’introspezione per andare a rintracciare i nodi cruciali che abbiano interferito nelle relazioni del Sé e dell’oggetto-Sé. È questo tipo di relazioni infatti che potrà condurre l’individuo verso la sospirata meta di un narcisismo evoluto, ossia di una dimensione caratterizzata da un profondo e permanente senso di autostima e da una accettabile progettualità, da una ’sana’ capacità di ’aspirare a qualcosa’. L’approccio terapeutico di Kohut si nutre di questi presupposti e si fonda sulla distinzione di alcune ’tipologie di transfert’. Le manifestazioni transferali che prenderanno vita nel corso dell’analisi, saranno dunque preziose sia da un punto di vista diagnostico che terapeutico. Kohut si riferisce anzitutto alla "traslazione idealizzante", mediante la quale il paziente adulto tenderà a rivivere nei confronti dell’analista antiche dinamiche sperimentate con i genitori durante l’infanzia:

L’attivazione

terapeutica

dell’oggetto

onnipotente

(l’imago parentale idealizzata), che indicheremo come traslazione idealizzante, consiste nella riattivazione durante la psicoanalisi di uno dei due aspetti di una fase precoce dello sviluppo psichico (Kohut 1971, 46).

Al transfert idealizzante sarà quindi affiancato il processo terapeutico della "traslazione speculare", orientato a riattivare il "Sé grandioso" del paziente:

In analogia con la riattivazione terapeutica coesiva dell’oggetto-Sé idealizzato della traslazione idealizzante, il Sé grandioso viene riattivato terapeuticamente nella condizione di tipo traslativo che verrà indicata con il termine di traslazione speculare [...]. La traslazione speculare e i suoi precursori costituiscono così la riattivazione terapeutica di quell’aspetto di una fase evolutiva [...] in cui il bambino cerca di salvare il narcisismo originariamente onnicomprensivo, concentrando la perfezione e il potere sul Sé – indicato qui come Sé grandioso – e distogliendosi sdegnosamente da un mondo esterno a cui vengono attribuite tutte le imperfezioni (ibid., 110).

Analizzando queste differenti tipologie di traslazione, l’analista dovrà mantenere un atteggiamento fondato sui medesimi presupposti: empatia, attenzione fluttuante, capacità di ascolto e di interpretazione. In questo modo l’analista potrà accompagnare il paziente lungo il cammino che gli permetterà di vivere una serie di trasformazioni terapeutiche. In tal senso Kohut parlerà di trasformazioni sia "specifiche" che "aspecifiche", osservando che:

Il più importante cambiamento aspecifico è l’accrescersi e l’espandersi della capacità di amore oggettuale del paziente; i cambiamenti specifici si sviluppano invece nell’ambito del narcisismo stesso (ibid., 285).

La sistemazione teorica del ’71 contribuì in maniera determinante a spostare l’attenzione del mondo psicoanalitico su nuove tematiche, ma sarà con la successiva formulazione (1977) – e con La ricerca del Sé (1978) – che la ’relazione’ diverrà il fulcro e il presupposto stesso del discorso di Kohut. Per caratteristiche e contenuti, la sintesi teorica del ’77 – esposta ne La guarigione del Sé – costituisce un attacco radicale alla teoria delle pulsioni. Viene infatti sostenuta con fermezza l’idea che il ritmo dell’esistenza di un individuo non possa essere orchestrato dal mero tentativo di appagare gli istinti e di ridurre la tensione pulsionale, perché l’esistenza umana deve essere invece letta alla luce del bisogno profondo di "ricercare una relazione". L’eco del pensiero di Fairbairn era a questo punto più che mai evidente. Sebbene il distacco dalla teoria pulsionale fosse ormai marcato, sul piano teorico Kohut si mostrò sempre restio ad ammettere la sua apostasia rispetto alla prospettiva "classica", e per questa ragione sostenne e ribadì con fermezza che la teoria pulsionale e la psicologia del Sé andavano considerate come percorsi rivolti a mete differenti. Tensioni, conflitti e dinamiche appartenenti alla sfera ’istintuale’ dell’esistenza avrebbero così rappresentato il campo d’interesse dell’approccio pulsionale, mentre lo sforzo per conquistare e costruire un Sé coesivo e integrato sarebbe stato compiuto sulla base dei principi della psicologia del Sé. Nonostante i suoi volenterosi sforzi teorici, comunque, da un punto di vista pratico è innegabile che la seconda prospettiva

occupò nel pensiero di Kohut un ruolo di primo piano, e di ciò la psicoanalisi del Ventesimo secolo gli è senza dubbio debitrice. Conscio delle novità implicite nella sua teoria, Kohut si interrogò sulle conseguenze che esse avrebbero comportato per la psicoanalisi e le sue riflessioni a riguardo sono utili anche per comprendere i motivi che alimentarono le aspre critiche rivoltegli in più di un’occasione:

Se, per qualunque ragione, [...] la psicoanalisi classica non ha abbracciato a sufficienza il campo intero che si apre alla ricerca della psicologia del profondo, allora dobbiamo chiederci se l’aggiunta di un nuovo fuoco, più comprensivo – come quello costituito dalla psicologia del Sé – costituisca un cambiamento di grandezza tale, sposti talmente la nostra visione basilare che non possiamo più parlare di psicoanalisi, ma dobbiamo, anche se a malincuore, ammettere che abbiamo a che fare con una nuova scienza; o se possiamo integrare il nuovo con il vecchio e mantenere così il senso della continuità che ci permette di vedere il cambiamento, per quanto grande possa essere, come un movimento verso una nuova fase di una scienza viva e in crescita (Kohut 1977, 258-259).

Nonostante il suo impegno e la sua buona fede nel volere offrire una teoria "integrabile" nell’universo psicoanalitico, e non finalizzata a demolirlo, le critiche e gli attacchi che Kohut dovette subire furono considerevoli. Oltre al già menzionato Kernberg, un altro critico spietato di Kohut è stato – in tempi più recenti – Cremerius (1988). Nella sua supervisione del celebre caso del Signor Z a esempio, Cremerius mette in evidenza la contraddittorietà dell’approccio di Kohut, negandone sia l’efficacia che la validità

teorica. L’intento di Kohut (1979-1982) è però lodevole perché orientato a sottolineare le diverse conseguenze e trasformazioni terapeutiche auspicabili sulla base dell’applicazione della tecnica classica e – viceversa – della tecnica impostata sulla sua innovativa teoria. Il Signor Z, trattato con entrambi gli approcci, intervallati da un periodo di circa sei anni, viene addotto da Kohut quale esempio dei fallimenti cui la tecnica ’classica’ conduce. Ritengo opportuno porre la nostra attenzione non tanto sulle posizioni teoriche criticate – in maniera esplicita o implicita – da Kohut, quanto sul contributo che questo autore ha saputo apportare al mondo psicoanalitico. In tal senso penso sia innegabile che l’incentivo che noi tutti abbiamo ricevuto da Kohut per rivolgerci al mondo delle relazioni oggettuali sia stato enorme. Sono convinto che il rapporto, la relazione con l’Altro, debba occupare il podio della nostra vita psichica, poiché proprio alla relazionalità si deve il senso stesso dell’esistenza, il nutrimento e la forza necessari per vivere. La vita si struttura attraverso i rapporti, l’assenza dei quali o il loro cattivo andamento possono innescare un profondo disagio psicologico, una lacerante sofferenza, così intensa da scaraventare l’individuo ai limiti della disperazione. Basterà pensare al tormento che l’anima vive nei dolorosi momenti della separazione, della fine di un rapporto, per comprendere il valore della relazionalità. Proprio nella relazionalità, che può essere fonte di vita ma, come abbiamo visto, anche origine di un’intensa sofferenza, si cela il segreto di un valido approccio terapeutico:

Se è vero, come sostiene Kohut, che la psiche si struttura attraverso i rapporti, saranno questi ultimi a guarirla, se il danno è stato prodotto da una relazione inadeguata, sarà una nuova relazione a ripararlo (Carotenuto 1991, 142).

L’approccio terapeutico muta così la sua prospettiva e il rapporto analista-paziente, la relazione umana tra i due membri, diviene la premessa e la promessa di una diversa stagione, perché il "sacro recinto" dell’analisi sarà il terreno fecondo in cui gettare il seme di nuove fioriture. La storia della psicoanalisi si è sempre nutrita di cambiamenti ed evoluzioni, in questo caso però diremo che un’autentica "rivoluzione concettuale" ha permesso – e ancora permette – la sua straordinaria crescita. Nelle relazioni interpersonali, quindi, andrà ricercata tanto l’origine della sofferenza quanto il germe della trasformazione psicologica dell’individuo. Anche Fairbairn seppe intuire il grande valore, il potere, delle relazioni interpersonali. Uno dei messaggi più importanti inviatici da Fairbairn è proprio questo: se il fine ultimo della libido è l’oggetto, il bambino – e in seguito l’adulto – sarà mosso da un incontenibile e prioritario bisogno, rappresentato dalla ricerca del rapporto con l’Altro. Fairbairn riflette sulle implicazioni sociologiche della sua nuova teoria della libido, per giungere ad alcune considerazioni di estremo interesse circa la coesione e disintegrazione sociali:

tutti gli sviluppi sociologici devono essere considerati come guidati da due princìpi fondamentali: 1) La coesione dei gruppi sociali è una funzione della libido. È la libido che lega insieme i membri di un gruppo; e la coesione di un qualsiasi gruppo dipende dalla misura in cui la libido è immanente nel gruppo. [...] 2) La fonte della disintegrazione sociale in tutti i gruppi deve essere ricercata nell’aggressività (Fairbairn 1935, 271).

L’orientamento relazionale, dunque, la ricerca e l’incontro con l’Altro, divengono il vero fine dell’individuo: l’oggetto non sarà più un mezzo per conseguire il soddisfacimento libidico, ma la meta, il fine da perseguire. In questo ricchissimo humus affonderanno le proprie radici non solo considerazioni di carattere ’sociologico’ ma, aspetto ancor più interessante per la storia della psicoanalisi, di carattere ’individuale’. Questo significa che secondo Fairbairn la sofferenza del singolo, e la causa della psicopatologia in genere, andranno ricercate proprio in un cattivo andamento delle relazioni interpersonali: interferenze, impedimenti o difficoltà nel rapporto con l’Altro vengono così eletti come ’fattori patogeni’ per antonomasia. Fairbairn osserva inoltre come queste ’interferenze’ nei rapporti con gli altri abbiano la propria ’matrice filogenetica’ nei primi tentativi del bambino di intessere relazioni soddisfacenti con le ’figure di riferimento’. Ciò che senza dubbio appare interessante, è il fatto che Fairbairn comincia a strutturare la propria innovativa teoria della psicopatologia nel biennio 1943-1944, ossia nel periodo durante il quale in seno alla Società Psicoanalitica Britannica erano nate le cosiddette "discussioni controverse". Interessante, dicevamo, questa correlazione temporale, perché testimonia oltre alla grande vivacità intellettiva di Fairbairn, anche la sua straordinaria capacità di mettere in discussione i propri assunti, sollecitato non da dibatti, contraddizioni o critiche, bensì dal bisogno di comprendere, progredire, svelare il mistero di un eventuale ’percorso evolutivo’ compromesso. Non dobbiamo infatti dimenticare che la nascita delle "discussioni controverse" – avvenuta per decisione della Società Britannica nel 1942 – espresse il bisogno di affrontare le numerose divergenze teoriche che affliggevano allora il mondo psicoanalitico. In particolare lo scontro era rappresentato dalla diade Anna Freud-Melanie Klein e dai seguaci ortodossi di Freud e dai ’rinnovatori’. Così, mentre i suoi colleghi cercavano di sedare le ostilità e gli animi durante "l’incontro-dibattito della riunione mensile", Fairbairn in tutta tranquillità – diremo anzi in totale isolamento – si poneva i

medesimi interrogativi, giungendo però a soluzioni originali e rivoluzionarie. L’approccio alla psicopatologia e al problema del ’conflitto’costituiscono una valida esemplificazione della sua innovativa modalità di affrontare i temi più dibattuti. Fairbairn infatti, ponendo senza esitazione in secondo piano l’ingombrante triangolo

Es, Io, Super Io", ricerca le origini del conflitto psichico e della lotta interna nelle cosiddette "unità relazionali, costituite in parte dall’Io e in parte dalle relazioni del bambino con la madre che egli sperimenta come oggetto interno. [...] La psicopatologia deriva da questa scissione dell’Io e dall’attaccamento di porzioni dell’Io agli oggetti interni, a spese delle relazioni con le persone reali (Carotenuto 1991, 163).

Condivido la scelta operata da Fairbairn circa la lente attraverso cui osservare la psicopatologia. Il mio lavoro infatti mi pone dinanzi a particolari realtà e dimensioni psicopatologiche che esprimono un profondo disagio relazionale o, ancor più di frequente, l’impossibilità di instaurare un rapporto significativo. Tuttavia è innegabile che la posizione di Fairbairn diventa piuttosto ’estrema’ – e per questo motivo criticabile – nel momento in cui egli imputa alle figure genitoriali tutta intera la responsabilità della mancata integrazione dell’Io del bambino, l’origine di ogni suo disturbo e sofferenza. In ogni caso però, il contributo di Fairbairn è quanto mai fondamentale perché offre una nuova opportunità di concepire il processo analitico. Alla luce della sua teoria, infatti, non avrà più alcun senso parlare della necessità di risolvere i conflitti generati da una estenuante e spesso vana ricerca del piacere.

Diverrà invece prioritario comprendere che il processo analitico deve mirare a porre l’individuo nella condizione ottimale per "entrare in relazione", per intessere nuovi e significativi rapporti, per trovare la forza di aprirsi all’incontro con l’altro – inteso come essere umano reale, in carne e ossa, e non come semplice protagonista delle fantasie del paziente. La prospettiva teorica di Fairbairn, inoltre, pone in primo piano il rapporto analista-paziente che, proprio come è stato evidenziato da Kohut, diviene un eccellente strumento per affrontare la sofferenza scaturita da un’altra relazione. Fairbairn appare convinto della validità terapeutica del rapporto analista-paziente poiché considera questo tipo di relazione un benefico riattivarsi del rapporto con le figure genitoriali:

Nei termini della teoria delle relazioni oggettuali applicata alla personalità, le difficoltà di cui il paziente soffre rappresentano gli effetti di relazioni oggettuali insoddisfatte e insoddisfacenti vissute nelle prime fasi dell’esistenza e perpetuate in forma esasperata nella realtà interna. Se questa visione è corretta, la relazione attuale esistente tra il paziente e l’analista in quanto persone deve essere considerata di per sé come un fattore terapeutico di primaria importanza. L’esistenza di questa relazione personale nella realtà esterna non solo ha la funzione di fornire un mezzo per correggere le relazioni distorte che predominano nella realtà interna [...], ma anche di offrire al paziente un’opportunità, negatagli nell’infanzia, di vivere un processo di sviluppo emotivo nel contesto di una relazione attuale con una figura genitoriale affidabile e benevola (Fairbairn 1952-1963, 150).

Anche se la grande solitudine e l’isolamento che costellarono l’operato di Fairbairn sembrano conciliarsi ben poco con la sua teoria, che esalta il rapporto con l’Altro, il contributo maggiore di questo autore alla storia della psicoanalisi va senza dubbio rintracciato nella fermezza con la quale egli ha saputo descrivere la vitale importanza delle relazioni interpersonali per il benessere psicofisico dell’individuo. Consapevole dello straordinario apporto teorico di questo autore, il mondo della psicoanalisi dovrebbe a mio giudizio riservargli una maggiore attenzione, non dimenticando mai che in assenza di una relazione significativa non può esserci vita. La solitudine è sempre e comunque una mutilazione, una ’amputazione’. Di questo argomento ho con ampiezza parlato nel mio libro Vivere la distanza (1998). Anche quella cercata, volontaria, come la Torre d’Avorio, come la colonna dello stilita o il deserto dell’anacoreta. Certo, se provvisoria, non più che una fase della nostra vita, può anche avere una sua efficacia e persino una sua necessità, un po’ come il gatto ferito si apparta per lasciarsi guarire, o – per volare un po’ più alto – come i protagonisti di grandi avventure intellettuali, e non solo i fondatori di religioni, hanno sentito il bisogno di un breve, volontario esilio lontano dal mondo. Petrarca si racconta così: "solo e pensoso i più deserti campi / vo misurando a passi tardi e lenti"; Leopardi arriva ad affermare che "la solitudine fa quasi l’ufficio della gioventù: ravvalora e rimette in opera l’immaginazione". E c’è anche una solitudine esistenziale, inevitabile e irrimediabile, connaturata al nostro statuto di individui: ogni creatura vivente che dice o pensa "Io", non potrà mai evadere da quella gabbia in cui è stato murato vivo dalla nascita fino alla fine dei suoi giorni, in quella sorta di scafandro che è il suo corpo. Però gli altri, per fortuna, ci sono, ci guardano, ci parlano e ci ascoltano, ed è la loro presenza che ci fa sentire vivi.

7. CIRCOLARITÀ DEI PROCESSI INTERATTIVI Sappiamo bene che ogni relazione – in quanto sinonimo dello scambio tra almeno due individui o due ’oggetti’ – è interattiva, ossia in grado di creare un campo di azioni bidirezionali, dal soggetto al mondo e viceversa. Possiamo allora affermare che l’intenzione del soggetto verso gli altri viene dagli altri modificata, confermata o negata. Sussiste cioè un continuo scambio tra l’individuo e il mondo, attraverso il quale entrambi agiscono e subiscono modifiche, livellamenti e trasformazioni in un’opera di modellamento reciproco. L’individuo è pertanto orientato, teso, al perseguimento di qualcosa, ma lungo questo cammino di conquista egli non può mai ritenersi solo. Ebbene, applicando questo modello interpretativo al nostro passato, procedendo a ritroso fino a ricongiungerci con le speranze e i sogni dell’infanzia, sarà possibile avventurarci a decifrare una serie di misteri e particolarità del rapporto bambino-adulto davvero "rivelatori". Nei primi stadi della relazione madre-bambino entrambi, seppure in misura diversa, contribuiscono a solidarizzare. Il bambino fornisce al genitore stimoli efficaci per ottenere le sue cure, mirati ad approvvigionarsi il ’pacchetto’ di sentimenti, nutrimento e calore di cui ogni bambino necessita per vivere. Gli ’strumenti’ di cui il bambino si serve per perseguire i suoi obiettivi non consistono soltanto nelle ben note caratteristiche anatomiche celebrate dai disegni di Disney – come ad esempio il volto paffuto, la fronte ’bombata’, gli occhioni blu e profondi come il mare... – che già da sole sarebbero sufficienti a sollecitare nell’adulto atteggiamenti amorevoli e gesti di tenerezza, ma anche in determinati comportamenti. Ci stiamo riferendo a tutto quell’universo di gesti, atteggiamenti e azioni che, talvolta innati e talvolta attivati in maniera strategica, risultano ’irresistibili’ per la madre. Tra questi comportamenti,

i più comuni e più vistosi vanno dall’annaspante ricerca del capezzolo alle prime "lallazioni", passando per tutti quegli atti che, come il pianto e il sorriso, hanno un esplicito, elementare valore di segnale. Se molti di questi movimenti-stimolo hanno un effetto immediato, altri hanno invece la funzione di suscitare una risposta affettiva nella madre. Queste attitudini espressive fanno parte del corredo genetico di ogni neonato, ma la loro esplicazione effettiva varia sia in modo individuale che in conseguenza degli specifici input ambientali. Le differenze ineriscono alla soglia di attivazione che ogni individuo possiede per i diversi tipi di comportamento, alla disponibilità a rispondere manifestata dall’adulto e alla possibilità di modificare la soglia di sensibilità attraverso l’esperienza (Hinde 1979, 398). Gli adulti sono molto recettivi nei confronti di queste differenze individuali che, ad esempio, possono rendere un bambino più affettuoso di un altro oppure più o meno attivo in tutte quelle dimensioni rilevanti ai fini della strutturazione del legame e dell’interazione (Schaffer, 1977). Il bambino infatti, è dotato sin da principio di una intenzionalità soggettiva e di una peculiare capacità a entrare in risonanza emotiva con le persone che si prendono cura di lui. Potremmo dire che le madri sono consapevoli di tale intersoggettività del legame, ossia del fatto che i loro bambini non sono gli inermi destinatari delle loro comunicazioni verbali e corporee, né dei semplici contenitori vuoti riempibili con qualsiasi prodotto o con merci scadenti. La madre sa – anche se ciò purtroppo non significa che si comporti sempre di conseguenza – che il suo bambino e lì dinanzi a lei e nel mondo che lo circonda per "entrare in relazione", per socializzare con gli altri, cominciando con l’Altro con la ’A’ maiuscola: la madre stessa. I neonati entrano nella costruzione del rapporto, ed è importante comprendere la circolarità dei processi interattivi, perché una buona reattività del bambino è fondamentale nella modulazione di un adeguato comportamento materno. Con questo termine Trevarthen (1978) intende il legame tra individui che hanno un ruolo attivo nel trasmettere l’uno all’altro la loro comprensione. Il fatto che

il bambino risponda agli stimoli della madre e provi piacere nel farlo dà alla madre la sensazione gratificante di essere una persona amata e particolare, che ha a che fare con un essere altrettanto particolare. Questo riconoscimento reciproco di identità e unicità è essenziale alla madre per mantenere una buona sintonia con i bisogni del figlio, e lo è per il bambino che ha bisogno nelle fasi precoci dello sviluppo, di sentirsi il suo solo oggetto d’amore. Nei bambini non esistono soltanto "bisogni primari" legati alle necessità della sopravvivenza, come il bisogno di cibo o calore, poiché al fianco di questi convivono "bisogni psicologici" non meno essenziali, come l’essere in contatto, stringersi al corpo della madre e sentire l’odore della sua pelle, la sua consistenza fisica. Questo corredo bio-psicologico di comportamenti e di risposte con cui il neonato viene al mondo serve a lui per costruire nel tempo il legame con la madre. L’ambiente umano e materiale che circonda il bambino deve essere tale da soddisfare un suo bisogno fondamentale: quella sicurezza che solo la costanza e l’affabilità delle cure gli possono garantire. Non soltanto i bambini, ma persino gli stessi adulti impiegano gran parte delle loro risorse psicologiche in comportamenti volti ad assicurarsi e a preservare quella che potremmo definire una "cornice di vita sicura". La lotta per la crescita e l’autonomia dell’adolescente e poi del giovane adulto è appunto finalizzata ad acquisire delle fonti di sicurezza interne ’stabili’, che possano quindi renderlo meno dipendente dall’esterno e più fiducioso nelle proprie risorse e capacità. Ma alla sicurezza concorre anzitutto l’appagamento di determinati bisogni, primo fra tutti il ben noto "bisogno d’attaccamento". Studi etologici, psicologici e sociologici si sono susseguiti negli anni e nelle pagine dei grandi manuali per enfatizzare un principio basilare: l’attaccamento serve per vivere e sopravvivere. ’Basilare’ a patto che l’attaccamento venga considerato per ciò che è in realtà, ossia una dimensione psicologica che abbraccia una grande varietà di sentimenti e di emozioni, e quindi di implicazioni psico-socio-relazionali. Il bisogno di attaccamento, ossia la pressante necessità di

stabilire legami con altri esseri umani, è così irrinunciabile e indispensabile che il suo appagamento è diventato prioritario rispetto alla qualità del legame stesso. Ebbene, da questa priorità possono originarsi una moltitudine di distorsioni patologiche, talvolta molto serie. La clinica ci presenta casi di persone che si ’ostinano’ nel rimanere intrappolate da scelte affettive per così dire "sbagliate", ossia dolorose, controproducenti e spesso masochistiche. Una simile e nefasta "coazione sentimentale", cela in fin dei conti null’altro che una sterile forma di fedeltà a quelle che sono state le prime e più importanti relazioni dell’infanzia. Come se l’angoscia scatenata dalla perdita tout court del legame, la solitudine dell’abbandono, fossero così insopportabili da rendere preferibile un legame qualsiasi anche autolesionistico, anche distruttivo... Pensiamo ad esempio all’attaccamento che tanti bambini, sebbene picchiati e straziati nell’animo, continuano a manifestare nei confronti dei loro genitori maltrattanti, o al fenomeno della "identificazione con l’aggressore", tale per cui il carnefice si trasforma in un insostituibile oggetto d’amore. In questo caso accade infatti che la vittima, pur di salvare l’immagine della principale figura di attaccamento, giunga a negare la propria sofferenza, le atrocità o le privazioni subite, per arrivare addirittura a creare giustificazioni assurde, ad assumersi ogni responsabilità, nel disperato tentativo di salvare l’Altro. La vittima così, anche se sconfitta in partenza, cerca di entrare nella mente dell’altro, preservando nel proprio animo la speranza di poterlo curare o ’redimere’, come nelle favole il rospo diventa un bel principe al bacio della tenera fanciulla. Chi si occupa di psicologia del profondo si rende conto delle difficoltà di far accettare questi ribaltamenti del ’senso comune’: in una cultura permeata di un’etica elementare in cui il Bene e il Male si fronteggiano come due forze inconciliabili, compromessi del genere sono, più che scandalosi, inconcepibili, accostamenti incongrui come "il diavolo e l’acqua santa". Eppure negarli non si può, visto che la cronaca, dalla scoperta della ’sindrome di Stoccolma’ in poi, ce ne offre

continue repliche (non parliamo della fiction, da quella letteraria a quella cinematografica, da De Sade al "Portiere di notte"). Quello che si può fare, e che la psicologia del profondo deve fare, è individuare e mettere a fuoco i meccanismi che generano e governano queste contraddizioni. Non ricordo chi ha detto che "l’uomo è un ossimoro vivente": teme il pericolo e lo cerca, disprezza il prossimo e ne cerca l’applauso; sfugge le responsabilità, e insegue il potere, che di responsabilità lo sovraccarica; considera la famiglia una prigione ma in nome della famiglia è disposto a compiere qualsiasi nequizia. Soprattutto desidera ciò che più teme, e teme ciò che più desidera. La psicoanalisi ci dice che oltre al "timore di castrazione" esiste anche un "desiderio di castrazione": la nostra cultura, ’decadente’ o meno, ha spesso esaltato Medusa e Salomè, grandi "castratrici". Per non parlare dell’"odioamore": l’incipit della più celebre poesia d’amore di tutti i tempi, l’"Odi et amo" di Catullo, ci conferma quanto sia antica questa "doppiezza" del più potente dei sentimenti. E veniamo all’affetto che lega la vittima al suo persecutore. Si invoca spesso il ’plagio’, quando il rapporto tra i due è così sperequato da azzerare la personalità, l’autonomia e la volontà del "succubo"; ma questo, se spiega la sottomissione, non spiega ancora l’amore. Oppure si liquida il problema facendo ricorso alla sbrigativa formula del "fascino del malvagio": un fascino antico come la storia dell’uomo, più antico di qualsiasi etica - perché l’etica è un’invenzione ’culturale’, visto che in natura non ci sono etiche, vige solo la legge della sopravvivenza del suo adatto (che poi, a parere di Popper, non è nemmeno una legge, ma tutt’al più una ’tautologia’: è ovvio che chi sopravvive era il più adatto a sopravvivere; da buon epistemologo, Popper si rifiutava di mettere nel conto il ’Caso’ o la ’Grazia’). Ma se vogliamo spiegarci come mai questo fascino è sopravvissuto alla cultura e all’ "invenzione dell’etica", nell’Homo Sapiens come nel bambino, dobbiamo studiare la sua parabola ’filogenetica’e quella ontogenetica. Dobbiamo cercare di capire come è possibile un tale ribaltamento dei valori tradizionali e convenzionali, che tipo di

lavoro interiore è costretto a compiere chi si propone di arrivare ad amare il suo carnefice. E così torniamo al bambino da cui siamo partiti: noi riusciamo ad amare chi ci fa soffrire perché il persecutore incarna comunque l’altro, se nel nostro orizzonte affettivo è una figura importante, o addirittura vitale come è un genitore. L’altro è così prezioso per noi, che finiamo con l’accettarlo’in blocco’, nel male e in quel poco di bene che ci aspettiamo da lui. Lasciamo andare lo squallido mercato globale dell’internazionale pedofilia, in cui il bambinoschiavo è un "oggetto", e la sua acquiescenza non comporta componenti affettive; ma se vogliamo incominciare a capire come mai un bambino che ha subito in tenera età violenze da un genitore ha molte probabilità, diventato genitore a sua volta, di scoprirsi a sua volta ’genitore violento’ – come ci mostrano le cronache di questi ultimi tempi – non possiamo certo affidarci a concetti abusati, come la "maledizione che incombe" o il "sortilegio", ma investigare quei processi che a suo tempo hanno operato in lui per fargli accettare un rapporto così "innaturale". Rifacendoci alla Klein, unificare la Madre Buona e la Madre Cattiva significa accettare di amare anche la Madre Cattiva; oppure continuare a odiare solo quella parte di lei, quell’ "aspetto" ostile ma connaturato alla sua persona, scoprendo così il famoso odio-amore di catulliana memoria: amore venato di sospetto, apprensione, tormento. D’altra parte, la madre non è sempre in condizioni di rispondere al figlio, e sebbene a prima vista possiamo ritenere che un bambino che piange in attesa del conforto materno sia vittima di un’ingiustizia, tuttavia anche questa mancata risposta è indispensabile alla sua crescita. Quella che è stata definita una "dose ottimale di frustrazione" rispetto alle richieste del bambino, è un’esperienza obbligata affinché il bambino raggiunga nel tempo la propria autonomia. La capacità di tollerare la frustrazione è infatti un indice di sanità del bambino, laddove al contrario un eccesso di cure e un compulsivo appagamento di bisogni potrebbero farlo ammalare. Quando dunque i due membri della diade interagiscono, ciascuno modella la relazione, ma a sua volta

modella il proprio sentire e agire in virtù delle richieste implicite dell’altro. È attraverso queste complesse interazioni che si strutturano il legame e l’attaccamento reciproci. A questo proposito appare molto interessante una serie di studi sperimentali che hanno permesso di enucleare delle tipologie, degli stili di attaccamento che caratterizzano l’interazione del bambino con la madre o la principale figura di riferimento. Si tratta degli studi condotti da Mary Ainsworth su bambini di circa un anno. I piccoli soggetti venivano sottoposti a una situazione sperimentale in un ambiente sconosciuto dal quale la madre, all’inizio presente, si allontanava per due brevi intervalli di tempo, per poi ritornare. La ricerca, condotta peraltro con un protocollo molto accurato, ha consentito l’individuazione di tre principali tipologie di reazione dei bambini alla separazione e poi alla riunione. Ebbene, queste risposte sono risultate corrispondenti a specifici stili di attaccamento, cioè a particolari modalità dell’interazione madre-bambino ricorrenti nel loro usuale rapporto quotidiano. La prima tipologia descrive quei comportamenti che denotano nel bambino una fiducia di base che si trasforma poi nella sua forza, nel senso che si traduce nella possibilità psichica di tollerare l’attesa, di gestire l’ansia da separazione. Ciò avviene perché l’assenza della madre non suscita nel bambino aspettative catastrofiche, né anima spaventosi fantasmi. Si tratta di bambini – caratterizzati da uno stile di attaccamento definito "sicuro" – che al momento della separazione dalla madre protestavano cercandola, chiamandola, piangendo. Tuttavia, dopo poco, nel momento in cui potevano riunirsi a lei, si mostravano contenti, fiduciosi, e subito le si avvicinavano per ristabilire un contatto fisico affettuoso fino a che, rassicurati dalla sua presenza, tornavano a giocare. Un secondo gruppo di bambini invece, non mostrava disagio né esprimeva proteste per l’allontanamento della madre, la sua assenza non induceva questi bambini a interrompere il gioco. Il bambino appartenente a questa seconda tipologia, al ritorno della madre non soltanto la evitava ma addirittura ne rifiutava

il contatto. Gli studi hanno evidenziato come un simile comportamento "evitante" venisse in realtà elaborato dal bambino per fronteggiare la possibilità di un rifiuto del genitore dinanzi alle sue richieste di contatto fisico, di attenzioni e cure che lo potessero rassicurare. Il terzo stile di attaccamento infine, caratterizzava quei bambini che mostravano reazioni contraddittorie al ritorno della madre, la cercavano e insieme la rifiutavano con rabbia, continuando a sentirsi insicuri e non confortati dalla sua presenza. Ebbene, dall’osservazione delle interazioni quotidiane, si è potuto rilevare che queste madri, pur non rifiutando il figlio, tuttavia si mostravano incapaci di "sintonizzarsi" con i suoi bisogni, offrendogli di conseguenza risposte imprevedibili e mutevoli. Un ulteriore dato di rilievo emerso da questi studi, riguarderebbe la "concordanza intergenerazionale" degli stili di attaccamento. Si è visto infatti che vi è una forte associazione tra i ricordi della madre relativi alla propria infanzia, ai rapporti con i genitori, e la qualità della relazione che essa riesce a instaurare con il proprio bambino: le madri rifiutanti spesso sono state bambine rifiutate. La relazione dunque, si struttura attorno a una complessa serie di segnali reiterati nel tempo, di vicinanza e/o di evitamento, e la ridondanza di questi segnali rappresenta l’aspetto più interessante. Lo stile di relazione del bambino "evitante" è volto in maniera inconscia ad anticipare la delusione, la mancata risposta della madre o la sua inadeguatezza; è preferibile negare il bisogno piuttosto che esporsi per essere poi frustrato. Questo però non significa che il bambino attuerà tout court, con chiunque entri in contatto, le stesse dinamiche di avvicinamento-evitamento così come accade con la madre. Come prova di ciò, sarà sufficiente pensare che quegli stessi bambini riuscivano, in presenza di una differente figura di riferimento come ad esempio quella paterna, a dar vita ad un rapporto diverso. Quest’ultimo particolare è molto rilevante, perché ci permette di comprendere che esiste sempre la possibilità – anche se marginale – di intervento sui modelli introiettati, anche nel

caso di relazioni primarie disturbate. Il fallimento di una relazione importante vissuta durante l’infanzia, non implica l’ineluttabile fallimento delle relazioni successive. Negli ultimi cinquant’anni, l’interesse della psicoanalisi verso questo tipo di dinamiche, è andato via via crescendo, soprattutto grazie all’opera degli autori della cosiddetta "teoria delle relazioni oggettuali". Come abbiamo visto approfondendo il pensiero di questi teorici, l’ambito dei rapporti interpersonali viene da essi considerato l’humus fecondo nel quale affondano le proprie radici tanto la patologia psicologica quanto la risposta terapeutica. Tornando al dibattuto e controverso tema del rapporto madre-bambino, aggiungeremo che il grado di generalizzazione dell’esperienza è variabile e comunque suscettibile di modificazioni. In ogni caso il binomio sicurezza/ attaccamento, sembra riproporsi in ogni circuito emotivo tra madre e figlio. Questi aspetti del rapporto primario e le loro implicazioni nello sviluppo psicologico del bambino, sono stati analizzati con particolare attenzione da Donald Winnicott. Anche in questo caso, alcuni dati della sua biografia ci permetteranno di comprendere le ragioni che spinsero questo personaggio a strutturare un determinato tipo di teoria, che prendesse in considerazione anzitutto tematiche quali il bisogno di sicurezza, dipendenza e protezione. Felicità, gioia e spensieratezza furono infatti le dimensioni che costellarono l’epoca della prima infanzia di Donald Woods Winnicott. Atteso, desiderato e ben accolto perché maschio, il piccolo Donald nasce nel 1896 nel Devon, a Plymouth. Nulla sembra poter turbare la felicità di questo bambino che, sin dal momento della sua nascita, si trova immerso nella più desiderabile delle atmosfere. Amore, affetto, cure e attenzioni premurose sembrano provenire da ogni angolo del suo mondo. La madre anzitutto, lo ama moltissimo e questo – come avremo modo di appurare – determinerà non solo l’andamento dello sviluppo del piccolo Donald ma anche la costruzione teorica del celebre Winnicott. E poi un padre, due sorelle maggiori, una balia e una governante pronte ad adempiere con sollecitudine a

quello che appare essere il loro unico compito: regalare al piccolo Donald un’infanzia felice. In effetti le cose andranno proprio in questo modo e all’atmosfera di soffusa amorevolezza che abbiamo poc’anzi menzionato, aggiungeremo una bellissima villa, un grande giardino per giocare, la magia di uno stagno circondato da rigogliosi alberi. Nulla sembra mancare a quello che potremmo considerare un idilliaco quadretto di vita familiare, del tutto diverso da quello che analizzeremo nel caso di Otto Rank. Tuttavia, a un attento esame, sarà possibile scorgere tra le luci e i colori di un’infanzia trascorsa all’insegna di un’ottimale qualità della vita, almeno un’ombra: l’inquietudine. In particolare, poiché non tutto ciò che riluce è oro, l’inquietudine del giovane Donald era animata da un bisogno fondamentale, che con il trascorrere degli anni faceva sempre più spesso sentire la propria intensità: il bisogno di indipendenza. Se infatti è pur vero che la costante e affidabile presenza di una madre premurosa e amorevole è la condicio sine qua non per lo sviluppo e la sopravvivenza stessa di un bambino, dall’altra è altrettanto vero che il senso di protezione può trasformarsi in senso di oppressione e soffocamento, così come è vero che da una totale dipendenza non potrà mai sbocciare l’autonomia o la conquista dell’individualità. Comprendiamo allora l’inquietudine del giovane Donald che, sebbene non possa essere paragonata a un’autentica sofferenza dell’anima, ci induce quanto meno a parlare di un profondo "disagio". L’inizio dell’adolescenza coincide per Donald con l’ingresso in una prestigiosa scuola, la Leys School di Cambridge, evento che lo "costringe" a un passo molto significativo: la prima autentica separazione dall’eden della casa paterna. Avrebbe dovuto trattarsi di una separazione oggettiva, concreta, dettata dalla materiale impossibilità di convivere – per un determinato periodo di tempo – al fianco di suo padre, delle sorelle, della balia, della governante e della preziosissima e amatissima madre. Tuttavia, accadrà qualcosa, un episodio significativo, che trasformerà l’esistenza di Winnicott, portando anzitutto in

superficie l’inquietudine per quell’inappagato bisogno di indipendenza che premeva dentro la sua anima. Il rugby era per Donald solo una delle tante passioni, ma un giorno, sul campo da gioco, si verificò un piccolo incidente, e l’infortunio di cui Donald fu vittima gli costò una brutta frattura alla clavicola. Non sapremo mai con certezza quale sia stato il suo vissuto nel momento dell’incidente, sappiamo però che fu trasportato subito in infermeria e curato. Ebbene sì, le "cure" che avevano costellato tutto il suo sviluppo fino a quel momento e che la madre aveva saputo elargire con premurosa generosità, si riaffacciavano ora agli occhi di Donald con tutta la loro invadente mole, con tutto quell’insopportabile e opprimente peso! Come durante l’infanzia ogni suo bisogno era stato appagato dalla attiva sollecitudine di qualcun’altro, così ora il suo dolore fisico sarebbe stato placato solo dal competente intervento di un medico: Donald era "nelle mani di qualcun’altro", ancora una volta passivo, dipendente. Ebbene, il bisogno di sconfiggere il senso profondo di dipendenza e di "incapacità" che da troppo tempo serpeggiava nel suo mondo interiore, fu risvegliato da quell’episodio, e la conseguenza di quel risveglio fu la decisione di diventare medico. L’idea di onnipotenza che Donald attribuiva a questa professione esercitò su di lui un fascino irresistibile, tale da suscitargli il desiderio di possedere lui stesso quel "potere", quel formidabile strumento per non essere mai più dipendente dagli altri. Entrò così al Jesus College di Cambridge; dove, laureatosi in biologia, intraprese gli studi di medicina. Nel frattempo era scoppiata la guerra, e il suo desiderio di rendersi utile, di dare il proprio contributo, lo spinse ad arruolarsi in marina. Questa scelta si rivelerà essenziale per la sua formazione poiché, unico ufficiale medico di un cacciatorpediniere, potrà iniziare il proprio tirocinio come chirurgo. Terminata la guerra, la sua formazione e la pratica clinica proseguiranno a Londra, nell’ospedale St. Bartholomew, dove usufruirà dell’apporto di grandi esperti come Lord Horder, per il quale continuerà a provare stima e riconoscenza per anni. Nel 1920, conseguita la laurea e ottenuta l’abilitazione alla pratica medica, Donald

decise di seguire quella che in realtà era la sua vera passione: il lavoro con i bambini. Non esistendo a quel tempo la specializzazione in pediatria, si orientò verso la cosiddetta "consulenza in medicina infantile" riuscendo a ottenere nel 1923 due incarichi – in tal senso significativi – presso il Queen Hospital for Children e il Paddington Green Children’s Hospital. Nello stesso anno avviò anche la professione privata. Sarebbe ora interessante domandarci se quell’inquietudine di fondo e quel bisogno di indipendenza che avevano costellato la sua esistenza si fossero, a questo punto, "placati". Ebbene, la risposta a questa domanda non potrebbe che essere negativa: Winnicott non era ancora soddisfatto e l’inquietudine di fondo rimaneva inalterata. In verità ciò che alimentava questo stato d’animo era la sua implacabile sete conoscitiva, una sete che non poteva essere soddisfatta attraverso la comprensione del ’somatico’, del sintomo manifesto, e neppure mediante un buon uso delle migliori risorse terapeutiche. La sete di conoscenza di Donald Winnicott aveva bisogno di ben altre fonti e, per sua fortuna, gli riuscì di trovarne una adatta a lui: la psicoanalisi. L’interesse per il mondo psicoanalitico non era nuovo per Winnicott che fin da ragazzo aveva subito l’intenso e misterioso fascino del regno onirico e di tutti quegli aspetti dell’esistenza che di regola sfuggono ai più. Un testo in particolare "fu galeotto" e accese nel giovane Donald l’interesse per la psicoanalisi: uno scritto dello svizzero Oskar Pfister su Freud. A poco a poco incominciò a prender forma nella sua mente l’idea che la psicoanalisi gli avrebbe permesso l’accesso a quell’universo conoscitivo dal quale ancora si sentiva escluso, un universo che avrebbe potuto offrirgli una comprensione ampia e articolata di ogni problematica dei suoi pazienti; con tutta probabilità egli vedeva nella psicoanalisi qualcosa di più di una tecnica terapeutica "superiore all’ipnosi": la possibilità di una propria personale crescita ed emancipazione. Così, in un brevissimo lasso di tempo, Winnicott riuscì a trasformare il suo incarico presso il Paddington – incarico che si protrarrà per circa quarant’anni – in un impegno terapeutico fondato anzitutto sulla pratica psicoanalitica.

Il 1923 fu un anno importante per il giovane Donald, l’ anno in cui iniziò la sua analisi con James Strachey, un percorso introspettivo destinato ad articolarsi per circa un decennio, che gli consentì di sperimentare sulla propria pelle il significato e il valore di una tecnica nella quale credeva ormai da diversi anni. Risale infatti al 1919 – epoca in cui Donald era ancora studente in medicina – una lettera che egli scrisse alla sorella Violet per metterla al corrente dei "progressi della psicoterapia" e che rivela come egli avesse sposato la prassi e la teoria freudiana. Eccone alcuni passaggi:

Veniamo ora alla psicoanalisi. Questa lunga parola indica un metodo sviluppato da Freud grazie al quale i disordini della mente possono essere trattati senza ricorrere all’ipnosi e con un risultato duraturo [...]. La psicoanalisi è superiore all’ipnosi e deve soppiantarla, ma sta entrando in uso tra i medici inglesi con grande lentezza, perché richiede un duro lavoro e lunghi studi [...]. In breve, la psicoanalisi è un metodo attraverso il quale, semplicemente arretrando un passo dopo l’altro, il paziente viene condotto a rintracciare i suoi sogni e le sue ossessioni fino all’origine, che risale spesso alla primissima infanzia o alla fanciullezza. [...] La psicoanalisi offre a un uomo un’adeguata opportunità di contrapporre la propria volontà alla situazione in questione (Winnicott 1919/1969, 43-45).

Se ad accendere i primi entusiasmi del neofita Winnicott era stato l’inventore di questa rivoluzionaria terapia, ben presto si affiancò a quella del "padre" della psicoanalisi una figura "materna" non meno prestigiosa: quella di Melanie Klein. La Klein fu determinante per l’evoluzione del pensiero di Winnicott, e non solo perché il suo approccio al mondo

dell’infanzia era innovativo e geniale ma anche, se non soprattutto, perché questa straordinaria figura femminile costituì per Winnicott una rassicurante immagine: madre spirituale, maestra di vita, fonte di continua ispirazione. Winnicott ricorderà sempre l’incontro con la Klein come un momento folgorante nella sua esistenza, e sono molte le testimonianze che ha voluto lasciarci dell’affetto e della stima che nutriva per lei:

Un momento importante della mia vita fu quello in cui il mio analista irruppe nell’analisi che mi veniva facendo e mi parlò di Melanie Klein. [...] Così andai a sentire e poi a trovare Melanie Klein. In lei conobbi un’analista che aveva molto da dire sulle angosce del bambino piccolo e mi accinsi a lavorare avvalendomi del suo aiuto. [...] mi ero trasformato da un momento all’altro da pioniere in allievo di una Maestra d’avanguardia: Melanie Klein era una maestra generosa e mi ritenni fortunato (Winnicott 1962, 221-222).

Una "maestra" dunque, così Winnicott considerava la Klein, e proprio per questo maturerà la decisione di approfondire le idee originali sulla psicoanalisidi formulate da questa donna, idee che ben presto lo porteranno a discostarsi dalla teoria freudiana. A partire dalla seconda metà degli anni Trenta, Winnicott inizierà presso la Klein la supervisione di alcuni casi, ma il loro rapporto non si trasformerà mai in una vera e propria terapia, aspetto questo che Winnicott volle sottolineare con drastica fermezza:

[...] ma sia chiaro che non fui mai analizzato da lei né

da alcuno dei suoi allievi, così che non mi sentii autorizzato a far parte del gruppo di kleiniani scelti (ibid., 222).

In ogni caso però, l’approccio psicoanalitico di Winnicott sarà influenzato dalla teoria e dalla tecnica kleiniana; teoria con la quale – tra l’altro – il pensiero di Winnicott presentava sorprendenti punti di contatto. Anzitutto per il tipo di approccio al mondo del bambino, tematica essenziale per entrambi. Come abbiamo visto infatti, la Klein riteneva opportuno accostarsi al paziente in età infantile con lo stesso atteggiamento che si riserverebbe a un paziente adulto; cosa di cui anche Winnicott era già da tempo convinto. Inoltre egli apprezzò l’utilità, in ambito terapeutico, dei piccoli oggetti e dei giocattolini di cui la Klein si serviva per entrare in contatto con il mondo interno del bambino. In breve tempo si impossessò lui stesso di questa nuova lente attraverso la quale osservare l’infanzia: il gioco non era più visto come semplice azione ludica o riflesso delle caratteristiche psicologiche del bambino, ma come un raggio di luce puntato sul suo mondo interno, un mondo animato da dinamiche proiettive e introiettive. Passo dopo passo, l’impostazione psicoanalitica di Winnicott – riflettendo l’approccio kleiniano – andava costellando una particolare dimensione psicologica, destinata nel corso della storia della psicoanalisi ad amplificarsi sempre più: la "relazione oggettuale". Di essa e del suo ruolo nel contesto dell’analisi infantile Winnicott scriverà:

In questo modo il materiale di un’analisi riguardava o la relazione oggettuale del bambino o i meccanismi di introiezione e proiezione, ed inoltre il termine "relazione oggettuale" poteva significare la relazione con gli oggetti interni o con quelli esterni (ibid., 223).

Legata alle figure di Melanie Klein, di Donald Winnicott e – come vedremo – di Ronald Fairbairn e di Harry Sullivan, la "relazione oggettuale" diverrà l’indiscussa protagonista di una nuova modalità di intendere l’approccio psicoanalitico, una modalità che mettendo in secondo piano la ribellione e la quotidiana lotta tra le pulsioni, la soddisfazione degli istinti e la ricerca dell’appagamento libidico, preferirà enfatizzare la ricerca dell’Altro, della relazione con l’Altro, come elemento guida di tutta la nostra esistenza. Il rapporto con la Klein rappresentò per Winnicott il punto di partenza dell’elaborazione del suo percorso teorico, eppure quel rapporto era destinato al fallimento, o meglio a un’insanabile frattura. Situazioni di questo tipo non costituiscono casi isolati nella storia della psicoanalisi: basterà pensare al rapporto Freud-Rank o a quello Freud-Jung per comprendere quanto spesso sia accaduto – e ancora oggi accada – che l’allievo si ribelli al suo maestro o, comunque, entri in contrasto con esso per una qualsivoglia ragione. Più in particolare, le motivazioni che condurranno Winnicott ad allontanarsi dalla Klein saranno anzitutto di ordine concettuale. Come abbiamo visto, infatti, la teoria di Winnicott affonda le sue radici nella diade madrebambino, sottolineando l’importanza della madre "reale", da intendersi come una presenza concreta facente parte non solo del mondo interno del bambino ma, soprattutto, della sua realtà esterna. Poco e male si conciliavano queste convinzioni con le idee kleiniane, che costellano un universo di fantasie, vissuti, angosce e oggetti anzitutto "interni". In particolare, è una lettera di Winnicott – datata 3 febbraio 1956 e diretta alla sua ex analista Joan Riviere – a fare luce sui "fattori di incompatibilità teorica" con la Klein. La spinta a scrivere alla Riviere nacque in Winnicott dopo la presentazione, da parte della Klein, della relazione su Invidia e gratitudine, lavoro che destò in Winnicott alcune essenziali riflessioni:

Mi pare chiaro che il lavoro di Melanie conteneva tre temi, confusi l’uno con l’altro in modo tale da rendere la discussione quasi impossibile. Mi sorprende vedere che Melanie ha scritto un lavoro così disordinato. Il primo tema è quello dell’invidia, così come essa appare in analisi, e qui il suo contributo è positivo, accettabile e valido pur non essendo nuovo. Il secondo tema è quello dell’invidia che il bambino ha del seno buono. [...] Il terzo tema è il tentativo di teorizzare la psicologia della primissima infanzia. Nel secondo tema trovo che Melanie ha sollevato problemi che sono lungi dall’essere risolti e nel terzo trovo che sia malamente caduta, formulando un concetto che è molto facile da smantellare, e che può facilmente ostacolare lo studio dello sviluppo della stabilità dell’Io [...]. Il mio problema, quando comincio a parlare con Melanie circa la sua teorizzazione della prima infanzia, è che mi sento come uno che parla di colori con un daltonico. Lei sostiene semplicemente di non aver dimenticato la madre e il ruolo che essa gioca, ma in realtà trovo che non ha dato alcuna prova di comprendere il ruolo che la madre ha proprio all’inizio (1919-1969, 159).

La relazione madre-bambino è dunque l’anima del pensiero di Winnicott, la sua struttura portante. La sua teoria infatti enfatizza la ricerca dell’oggetto come propulsore di tutto lo sviluppo psicologico dell’individuo, sviluppo che si snoda lungo l’intero arco dell’esistenza. La sua riflessione circa il processo mediante il quale il rapporto con l’Altro prende forma, ha inizio da un’attenta analisi del legame madre-bambino sin dalle primissime fasi di vita. Infatti il bambino e la madre si trovano inseriti in uno stato che non può ancora essere definito "rapporto", ma piuttosto una sorta di "stato fusionale" una

particolare condizione in cui la madre si adatta alle necessità e ai bisogni del bambino, divenendo per lui una fonte inesauribile di nutrimento e soddisfacimento. Una simile tipologia di madre viene classificata da Winnicott "sufficientemente buona", e quel "sufficientemente" non deve trarre in inganno, visto che Winnicott per concedere la sufficienza chiede a questa madre di subordinare tutto il suo mondo e la realtà esterna al mondo e alla realtà del figlio. Il bambino che abbia la fortuna e l’opportunità di usufruire di questo tipo di maternage, sarà agevolato nella lunga impresa di costruzione e conquista della propria personalità e ciò accadrà soprattutto per il profondo senso di sicurezza che questo tipo di madre avrà saputo sviluppare nel suo bambino. Più che mai convinto della validità di queste osservazioni Winnicott osserverà che

una madre sufficientemente buona, genitori sufficientemente buoni e una famiglia sufficientemente buona offrono effettivamente alla maggior parte dei bambini l’esperienza di non essere mai stati significativamente lasciati cadere. Il bambino medio ha così l’opportunità di costruirsi la capacità di credere in se stesso e nel mondo e si costruisce una struttura sulla base di una attendibilità introiettata" (1967, 218).

Il ruolo, la "missione" che Winnicott attribuisce alla madre è dunque fondamentale soprattutto se consideriamo che spetta a lei preparare il bambino a superare lo ’stato fusionale’ per giungere a quello del rapporto vero e proprio. Il punto nodale del suo discorso, infatti, lo ritroviamo proprio nel passaggio da una condizione di assoluta dipendenza a un’altra, caratterizzata da autonomia e indipendenza. Questa radicale trasformazione psicologica implica un impegno da parte di entrambi.

Il sistema teorico di Winnicott evidenzia quindi come il bambino si trovi – durante tutte le fasi del suo sviluppo biologico e psicologico – a dover affrontare una serie di compiti evolutivi orientati alla conquista dell’indipendenza. In particolare, l’approccio di Winnicott sottolinea come l’ambiente o la madre possano facilitare lo sviluppo del bambino che può così giungere alla costruzione della propria individualità, di un soddisfacente senso di sé. Il sistema teorico elaborato da Kohut presenta notevoli analogie con quello di Winnicott, perché ambedue pongono al centro della loro metapsicologia la ’relazione oggettuale’, il rapporto con l’Altro. Senza dubbio più fluido, immediato e limpido appare il pensiero di Winnicott, se confrontato agli assunti spesso ambigui e contraddittori di Heinz Kohut. Sebbene sia Kohut che Winnicott muovano i primi passi dalle loro osservazioni cliniche, gli interrogativi che queste sollecitano nei due autori sono molto differenti e di conseguenza anche le risposte. Kohut si era reso conto che la sofferenza umana, il disagio lamentato da molti pazienti, non doveva essere imputato tanto alla impossibilità di appagare impulsi libidici o bisogni istintuali quanto a un inadeguato, lacerato e frammentato senso di Sé. Sebbene Kohut non abbia mai offerto una definizione esaustiva del concetto di Sé, tuttavia ne ha fornito un buon numero di dettagli, cercando di spiegare da dove esso origini e – soprattutto – come si evolva. Partendo dalle affermazioni di Hartmann circa le differenze dei concetti di Sé e di Io (1950) e dall’assunto per il quale l’Io può essere ridotto a una delle varie componenti del sistema psichico, Kohut arricchì la prospettiva psicoanalitica affiancando alle precedenti e vigenti teorie – e alla stessa teoria delle relazioni oggettuali – una innovativa "teoria del Sé". La sua ipotesi di partenza è che esista un "Sé nucleare" congenito, che possediamo sin dalla nascita, al quale assegna un importante compito evolutivo: trasformarsi con il trascorrere del tempo in un "Sé coesivo adulto". Ma in che modo si realizza questa trasformazione? Sappiamo che lo

sviluppo psicologico di un individuo è sempre scandito dal lento ma inesorabile passaggio da una fase alla successiva e, in genere, ogni fase, ogni nuova dimensione psicologica, può essere considerata come una conquista che l’individuo può realizzare solo impiegando tutte le sue forze ed energie psicologiche. Ebbene, a proposito di questo sviluppo psicologico Kohut pone l’accento sul narcisismo: tutto lo sviluppo della personalità dovrebbe essere considerato come un lento e impegnativo processo di evoluzione della dimensione narcisistica, che può assumere di volta in volta sfumature sempre nuove e una differente ’modularità’ che raggiungerà la massima intensità proprio nell’epoca dell’infanzia. Per definire ed esemplificare le caratteristiche del narcisismo nel bambino, Kohut parla di un Sé grandioso:

Il termine Sé grandioso verrà adoperato [...] per indicare la struttura grandiosa ed esibizionistica che costituisce la controparte dell’imago parentale idealizzata. [...] il narcisismo nella mia visione generale, è definito non dall’obiettivo dell’investimento pulsionale (se tale obiettivo sia cioè il soggetto stesso o se siano gli altri), ma dalla natura e qualità della carica pulsionale (1971, 34).

Il "Sé grandioso" – che come abbiamo visto caratterizza l’infanzia – esprime e rappresenta una potente, smisurata immagine di Sé che il bambino costruisce in funzione della sua preponderante dimensione narcisistica. Senza dubbio non nuovo in ambito psicologico, il concetto di narcisismo – introdotto in Germania da Naecke – fu utilizzato per la prima volta in Inghilterra da Haveloc Ellis, che con questo termine intendeva riferirsi a un eccessivo, ossessivo e

"perverso" amore nei confronti della propria fisicità. Utilizzato in seguito da Sadger, questo concetto divenne parte integrante del tessuto psicoanalitico a partire dal 1910, quando Freud inizierà a utilizzarlo come chiave interpretativa di determinate dinamiche psicologiche. In particolare, nell’Introduzione al narcisismo (1914) Freud farà del narcisismo un prezioso strumento interpretativo delle psicosi. Il tentativo compiuto da Kohut è però nuovo, perché offre una nuova lente attraverso la quale osservare il narcisismo, in maniera indipendente dalle relazioni d’oggetto. Questo aspetto della sua teoria, sebbene fosse apparso seducente e originale, costituì tuttavia un facile bersaglio per aspre critiche da parte del mondo della psicoanalisi. Gli attacchi più duri Kohut li dovette subire soprattutto da parte di Kernberg, il quale non accettò mai l’idea di separare le dinamiche del narcisismo dalle implicazioni inerenti le relazioni oggettuali. In realtà Kohut non intendeva affatto porre in secondo piano il modello della relazione oggettuale, tutt’altro. Il suo scopo infatti era quello di spiegare lo sviluppo psicologico e il passaggio dal ’Sé nucleare’ al ’Sé coesivo adulto’ attraverso due strade parallele, distinte ma dirette verso lo stesso obiettivo. Saranno allora sia lo sviluppo narcisistico che lo sviluppo oggettuale a consentire la strutturazione dell’apparato psichico. Ben presto i disturbi narcisistici di personalità divennero il principale bersaglio del suo impegno di clinico, e il suo lavoro analitico – sempre più orientato in questa direzione – non si arrestò neppure dinanzi a quei casi di personalità narcisistiche considerate "intrattabili". Proprio partendo dai risultati del suo lavoro, Kohut cercò di individuare le cause dello sviluppo di un senso di Sé sano, solido e coeso e, viceversa, della degenerazione di questo tipo di processo. Giunse così a formulare l’ipotesi che il Sé si nutra di alcune particolari relazioni, da lui definite "relazioni di oggetto-Sé". In questo modo, Kohut giunse alla conclusione che le relazioni costellanno ogni passaggio, ogni svolta, ogni tappa dello sviluppo – e ogni arresto – della nostra vicenda umana. Come dire che noi non ’viviamo’ il rapporto, né ne siamo vissuti: noi siamo il rapporto.

Vorrei solo aggiungere che per noi ’terapeuti dell’anima’ curare il rapporto, metterlo al centro del nostro lavoro, significa anche, in prospettiva, al di là delle implicazioni teoriche e dell’approfondimento della personalità che abbiamo di fronte, un indiretto ampliamento della portata, diciamo pure della "gittata" dell’analisi. Perché di una terapia così ’mirata’ finirà col beneficiare non soltanto il paziente ma, per dirla col gelido linguaggio della burocrazia e della giurisprudenza, anche gli "aventi causa" – come ho ricordato in Lettera aperta a un apprendista stregone. Un po’ come i genitori che, ossequienti alla legge, in vista dell’iscrizione alla scuola portano a vaccinare i loro bambini, volenti o nolenti fanno qualcosa di positivo anche nei confronti dei ’renitenti’ (in nome della "libertà di cura" o per qualsiasi altro motivo), perché a giovarsi dell’immunità dei vaccinati saranno anche i bambini non immunizzati, che incontreranno minori occasioni di contagio – così da una terapia "individuale" per definizione finiranno col trarre beneficio anche gli esclusi del "sacro recinto": il coniuge, i familiari, la prole se ne ha, i colleghi se ne ha, i superiori se ne ha, i dipendenti sempre se ne ha, persino i vicini di casa, insomma una piccola costellazione dello sterminato universo degli Altri.

8. ALGEBRA DEL SESSO Non esiste rapporto, comunicazione o interazione umana che non segua regole più o meno formalizzate dello scambio, dell’alternanza, della significatività di certi atteggiamenti della giusta distanza. Non esiste relazione che possa sottrarsi a un simile esercizio, automatico e tuttavia sottile, che in definitiva altro non è che una progressiva negoziazione, una trattativa sulla distribuzione del potere, in una coppia o in un gruppo. Fino a quando non è stato raggiunto un assestamento reciproco in cui si è stabilito un accordo sulle rispettive posizioni. Nell’ambito di una conversazione per così dire corretta dal punto di vista dell’applicazione delle regole, le opinioni possono essere condivise ma anche contestate, le ipotesi discusse, le proposte accolte o respinte. Vi sono però circostanze in cui gli scambi, non solo verbali, sono opachi, ambigui, uno o alcuni dei partecipanti non rispettano le regole, usano strategie occulte per manipolare l’altro, che è preso in una rete che avverte ma non riesce a mettere a fuoco. Lo stile argomentativo è accattivante e capzioso, accomodante e allo stesso tempo inflessibile. Si inviano messaggi in cui si fa un uso massiccio di espressioni ambigue o allusive, sostenute da una trama di segnali non verbali, messaggi cosiddetti paralinguistici, come il tono e l’inflessione della voce, le interiezioni, la gestualità, la postura del corpo, la mimica del viso. L’atteggiamento manipolatorio produce quelli che Buber chiama i "dialoghi nonautentici". Tuttavia, è importante distinguere la manipolazione che vuole irretire l’altro e danneggiarlo, dai mille espedienti seduttivi che vengono utilizzati nelle interazioni con gli altri come componenti abituali dell’organizzazione del discorso. Fin dalla primissima infanzia i rapporti che i bambini tendono a instaurare con gli adulti sono intessuti di una intensa attività di

manipolazione: il grido di dolore, al quale corre sollecito l’adulto, diventa per il bambino il modo più diretto per ottenere vantaggi immediati. Ma anche per chi, con la maturità e l’esperienza, ormai smaliziato, è arrivato a disprezzare queste tecniche manipolatorie, non è semplice mantenere rapporti paritari, guidati da un rispetto genuino e costante verso l’altro. Esiste sempre un certo grado di potere, magari condiviso, esercitato dall’uno sull’altro. Ad esempio le relazioni che vertono su dinamiche di tipo sadomasochistico, al di là di una apparente sperequazione del potere che vede una vittima e un persecutore, si basano in realtà su un accordo tacito e profondo in cui i ruoli sono tutt’altro che rigidi e il tornaconto è di entrambi i protagonisti. Il "sadico" mette in scena un copione scritto da entrambi, il suo è un esercizio visibile e in un certo senso spudorato del potere. Ma il partner masochista non è meno esigente. La ragion d’essere dell’uno richiede l’esistenza dell’altro. Il masochista chiede di godere proponendosi alla violenza dell’altro. Tanto che potrebbe avere un sottile fondo di verità la ben nota, folgorante storiella in cui un masochista implora un sadico "Picchiami!", e il sadico risponde crudelmente "No!". In realtà le cose non sono mai così schematiche, quando c’è di mezzo il sesso. Se mi è consentita una digressione, una breve parentesi, vorrei ricordare che l’erotismo non è una scienza esatta; e se no, non solo il sadico dovrebbe picchiare o tormentare solo un altro sadico, per vederlo soffrire, ma anche gli incontri tra omosessuali sarebbero rari e difficili, visto che – tanto per fare una esempio – l’omosessuale di sesso (anagrafico) maschile amerebbe incontrare un "vero maschio", ossia un ’macho’ che non ama concedersi agli omosessuali perché ne va della sua "masculinidad". La verità è che non esiste un’algebra del sesso (il Kamasutra è tutt’al più una geometria), e può succedere – come di fatto succede – che certi incontri avvengano all’insegna dell’inganno: nei confronti dell’altro, e anche nei confronti dello stesso soggetto. Vedi il successo di transessuali, bisex e ’travestiti’. Spesso il partner è tale "per approssimazione", in definitiva un surrogato, che –

come succede nell’amore mercenario, si presta a interpretare un ruolo. Chiusa la parentesi, torniamo alla manipolazione nella coppia classica, quella benedetta dal Cielo e dall’anagrafe, insomma, dalla morale corrente. Bene: in questo rapporto di coppia la manipolazione può anche svolgere la funzione (consapevole o meno) di rafforzare e confermare il ruolo sessuale tradizionale che il collettivo (la cultura dominante) attribuisce all’uomo o alla donna, di alimentare dunque la disparità tra uomo e donna col risultato di impedire una relazione fondata sulla conoscenza di sé, radicata nel desiderio e basata sull’incontro con l’altro. Manipolare significa alimentare la disparità e mantenerla, avere bisogno di confermare la propria identità collettiva (che si definisce in termini di potere) esercitando il possesso sull’altro e negandone l’autonomia. Ognuno fa da specchio all’altro, e nel rispecchiamento reciproco si garantisce la continuità del rapporto dominatore-dominato implicito nei ruoli sessuali attribuiti dalla collettività. Cosa accade invece nell’ambito della relazione terapeutica? In questo caso lo psicologo occupa di fatto una posizione di forza nei confronti di chi si propone secondo l’antico modello del bambino bisognoso di aiuto: questi, proprio per la condizione di sofferenza in cui versa, tende ad attribuire alla persona che ha di fronte doti, qualità e sapere salvifici, proiezioni che in un primo momento del lavoro sono in effetti utili per consentire al paziente di affidarsi alla cura ed entrare nella nevrosi di transfert. Lo sappiamo bene: l’analisi è una dimensione relazionale sbilanciata, ove non esiste e non è nemmeno corretto presupporre un equilibrio di ruoli e funzioni. Non può esserci simmetria fra paziente e analista e qualora ciò accadesse andrebbe letto come la manifestazione di una dinamica "sfuggita al controllo dell’esperto". La storia della psicoanalisi ci mostra esempi importanti di quanto abbiamo appena affermato, basti pensare a due coppie celebri, nelle quali un analista uomo e una paziente donna hanno permesso che la situazione sfuggisse loro di mano. Stiamo parlando di Breuer e Anna O., così come di Jung e Sabina Spielrein. Due

casi analoghi seppure diversi, due esempi di quello a cui può condurre un cammino orientato verso la simmetria all’interno della coppia analitica. "Analoghe" sono queste due vicende anche per l’elemento che, deus ex machina, apparirà per riportare luce e ordine: Freud. Prendendo sulle proprie spalle il peso della vicenda – nel caso Anna O. – e svolgendo il ruolo di giudice e confidente – nel caso Spielrein – Freud riuscirà in entrambe le circostanze ad attivare interessanti meccanismi di triangolazione che condurranno allo sblocco delle vicende là dove esse si erano arenate. Quello che però dovremmo ricordare, è che in entrambi i casi, i problemi avevano avuto origine da un livellamento della "asimmetria". In Diario di una segreta simmetria (1980) ho avuto modo di riflettere su questo argomento, basandomi, per l’appunto sulla vicenda Spielrein. In quel testo, come altrove, mi è stato possibile giungere alla conclusione che l’asimmetria è una condizione determinante per la riuscita, di un trattamento terapeutico. Questa asimmetria di potere è un dato di fatto, dal momento che c’è un terapeuta ’esperto’ da una parte e l’angoscia del paziente dall’altra. È un problema anche di natura etica, su cui non si può evitare di soffermarsi. Questa situazione di potere va controllata dall’analista, il quale se da un lato accetta l’investimento carismatico del paziente proprio perché funzionale a che riemerga il ’fantasma’, dall’altra vi si sottrae, accettando d’interpretare il ruolo che il paziente gli affida, ma senza ’interiorizzarlo’ (come avrebbe detto Stanislavskij), senza "viverlo" fino a credersi quel personaggio. Quanto più egli eviterà. d’identificarsi con la figura carismatica del salvatore di anime, quanto più cercherà di sottrarsi all’inflazionamento narcisistico sempre in agguato, tanto più il suo ’potere’ opererà come strumento terapeutico. La manipolazione e il danno conseguente derivano dal fatto che si può – malgrado qualsiasi addestramento – essere guidati e vissuti dal proprio problema personale qualora questo venga fatto riemergere dall’impatto con problematiche affini presenti nel paziente. Nonostante, infatti, il lavoro analitico personale,

esiste sempre la possibilità che un paziente attivi nel terapeuta costellazioni complessuali a lui sconosciute, o poco elaborate; entrare in contatto con un nucleo patogeno poco controllabile costituisce una grossa prova per l’analista, il quale, nel tentativo di arginarla, può mettere in atto meccanismi difensivi, un ’gettare acqua sul fuoco’ per contenere la minaccia di una destabilizzazione dell’equilibrio della coppia analitica. Destabilizzazione che, invece, può essere salutare, se ben utilizzata, al fine di penetrare il nucleo profondo da cui ha avuto origine la sofferenza del paziente. Può dunque nascere una manipolazione tra analista e paziente quando nelle dinamiche transferali e controtransferali si attivano bisogni arcaici che, come è naturale, si accompagnano ad affetti ambivalenti. Quando le dinamiche inconsce del paziente vanno a colludere nel terapeuta con nuclei complessuali poco elaborati, zone vulnerabili del sé, questi non può che controllare ed elaborare le sue dinamiche controtransferali, tentando di far luce su ciò che gli accade, continuando quel lavoro di autoanalisi che già Freud raccomandava di non interrompere mai: lo psicoanalista è il medico-ferito, rappresentato nel mito del guaritore Chirone, portatore dello stesso morbo che tentava di curare nei suoi pazienti. Ogni terapeuta sa che il proprio ’tallone d’Achille’è anche il centro catalizzatore di quelle energie psichiche che si riversano nell’arte terapeutica, che la mantengono viva, che permettono al guaritore di entrare in risonanza con il paziente ferito, di comprendere la sua angoscia, la sua domanda d’amore, la sua aspirazione alla trasformazione psicologica. Chi ritenesse di aver pagato il suo debito nei confronti dell’inconscio, di essere guarito, dovrebbe cambiare mestiere. Tuttavia non è facile confrontarsi con i propri demoni, mantenersi aperti alle sollecitazioni dell’inconscio e fedeli all’impegno dell’introspezione continua. Non lo è neppure quando a costringerci a questo confronto sono i nostri pazienti, le loro ferite, quelle che ci coinvolgono a livello più intimo perché ripropongono nuclei di sofferenza che ben conosciamo o zone d’ombra di cui preferiremmo rimanere inconsci. È una

situazione nella quale ci si trova innumerevoli volte, e l’unico strumento che si possiede è rappresentato dalla coscienza personale, dalla volontà e dal coraggio di affrontare l’ostacolo. La manipolazione può avvenire nel senso di ammansire e addomesticare – dunque controllare e reprimere – gli stati emotivi del paziente per evitare la ’contaminazione’ con la sua sofferenza, e conosciamo bene la fatica e il timore di condividere e di tradurre in ’cibo buono’ le angosce profonde dei pazienti quando esse toccano punti nevralgici e zone d’ombra che ci appartengono. È allora che può innescarsi il meccanismo manipolatorio. Il terapeuta, in maniera inconscia, lascia cadere informazioni, richieste, sollecitazioni del paziente a far luce su determinati vissuti, e convoglia l’attenzione su altri aspetti complessuali di cui abbia maggior esperienza. Non sono manovre coscienti, ma aspetti controversi dell’agire analitico che si palesano solo in seconda istanza, ed è la sapienza della psiche a far sì che vengano alla luce tali tentativi di fuga. Un paziente può, per esempio, riproporre più volte lo stesso sogno nonostante le impeccabili interpretazioni suggerite dall’analista: in questo caso il sogno può comunicare proprio un fallimento dell’interpretazione, la necessità di recuperare un’occasione perduta, il rimprovero inconscio del paziente dinanzi al ’tradimento’ dell’analista. Occorre infatti essere ben consapevoli del fatto che i pazienti, seppure persone ferite e vulnerabili, non sono comunque degli sprovveduti: la maggior parte di loro possiede notevoli doti intuitive, capacità riflessive e, sia detto en passant, i pazienti di oggi vanno in analisi assai meno "impreparati" di quelli di una volta. Aggiungiamo che la stessa fiducia che essi pongono nell’analista, il desiderio di sentirsi aiutati e compresi nella loro sofferenza, li rendono sensibili e permeabili ai vissuti del partner analitico. Essi si mettono in gioco con tutti se stessi, e chiedono che anche il terapeuta faccia altrettanto. Esiste un legame inconscio che unisce i membri della coppia analitica, oltre che la cosciente alleanza terapeutica: questa ’coppia d’ombra’ può prendere il sopravvento per alcuni periodi di tempo, ma, a meno di non trovarsi di fronte a un fallimento

analitico, dunque alla rottura del contratto, la sapienza segreta della psiche fa sì che il terapeuta possa nel corso del suo lavoro rendersi conto degli errori, delle manipolazioni inconsce nate per tutelare il proprio status quo, il proprio equilibrio di compromesso; in pratica per far orecchio da mercante alla sofferenza del paziente. Un esempio fin troppo banale, ma non per questo poco frequente nei set analitici, è quello di fornire al paziente la dose giornaliera di gratificazione e di accudimento, senza rendersi conto che è manipolatorio proporsi solo e sempre come ’madri buone’. Si rischia infatti che il paziente resti schiacciato dal peso di una eccessiva gratitudine, che resti soffocato da un eccessivo nutrimento, che colluda con una richiesta dell’analista di sentirsi la madre onnipotente o il padre che ha sempre un buon consiglio da dare su tutto. Non solo: si impedisce al paziente di manifestare i vissuti ambivalenti, le ostilità inconsce, la rabbie e le invidie, vissute con profondo senso di colpa qualora l’analista venga percepito come quell’essere oblativo, onnicomprensivo, inattaccabile e inaccessibile quale egli si propone. Se le cose andassero in questo modo, le prospettive per il paziente non sarebbero rosee. Niente di più nocivo per il paziente che ritrovarsi solo con un pesante fardello di sentimenti negativi da gestire. Che cosa dovrebbe fare di quella rabbia inespressa, di quelle frustrazioni, di quel senso di impotenza, il nostro paziente sfortunato, se non ritorcerli contro se stesso? Si tratta di situazioni delicate, di estremo "rischio" per il paziente, che ha l’impressione di essere solo e disarmato dinanzi a un gigante, a un mostro pronto a divorarlo in qualsiasi momento. Il problema scaturisce non tanto dall’incapacità da parte del paziente di dar volto e voce ai fantasmi che già lo tormentavano e che lo hanno condotto alla sua richiesta di aiuto, quanto alla sua incapacità di esprimere il proprio vissuto nei confronti dell’analista. Se ciò è vero in tutte le situazioni che – come nell’analisi – "impongono" l’espressione del proprio vissuto, lo è ancor di più nel momento in cui tale vissuto sia connotato in modo negativo. La rabbia, l’ostilità, il rancore non possono essere cancellati

per incanto. L’analisi sembra essere il territorio privilegiato per l’emersione di contenuti sgradevoli, siano essi originati dall’inconscio del paziente o dal contesto terapeutico. Queste dinamiche – sia chiaro – non dovrebbero essere guardate con occhio critico, ma essere considerate come le normali implicazioni di un processo terapeutico. L’aspetto negativo di esse, tuttavia, può talvolta emergere, e quando ciò accade il rapporto rischia di trasformarsi in conflitto. Le emozioni di cui stiamo parlando diventano fagocitanti quando rimangono in un angolo del setting, isolate, fini a se stesse. Rinunciare a interpretarle e metabolizzarle significa condannare il paziente a sentirsi il bersaglio, l’incolpevole capro espiatorio di una realtà ostile, in cui persino chi "per contratto" sarebbe tenuto a farsi in quattro per capire e risolvere i suoi problemi - e ne ha il potere, agli occhi del paziente – sembra non accorgersi nemmeno della sua sofferenza. L’uomo è capace di amare e odiare con la stessa violenza una medesima persona; se poi ha un conto aperto con gli altri e con se stesso, ed è per questo che è venuto in analisi, è possibile che tocchi all’analista questo drammatico "capovolgimento di fronte". Ma se il set analitico finisse col trasformarsi in un ring o in un campo di battaglia, toccherebbe comunque al terapeuta condurre il gioco, per arduo e complesso che sia. Certo, l’analista è anche lui – comunque lo veda il paziente – un essere umano, col suo bravo inconscio e i suoi bravi ’talloni d’Achille’; ma guai a lui se dovesse scoprirsi incapace di "gestire le emozioni" e perciò portato a scansare quelle più temibili perché potrebbero riaprire una sua ferita. In tal caso la responsabilità del fallimento della terapia ricadrebbe tutta intera su di lui, che nell’illusione di "tenersi a riparo" avrebbe in realtà mancato proprio le occasioni più propizie sia per la ’crescita’ del paziente che per quella sua personale. Io non credo che ci sia uno psicoanalista capace di sbagliare fino a questo punto. Se ci fosse, se c’è, vuol dire che ha sbagliato fin dal principio, perché ha "sbagliato mestiere": ha scambiato per ’vocazione’ una scelta dettata da criteri futili o

da entusiasmi indotti. Per esempio, si è immaginato in quel ruolo e si è piaciuto – come più di mezzo secolo fa ci si sognava chirurghi o aviatori. Però di "sbagliare" può succedere a qualsiasi psicoanalista. Per quanto autentica sia la sua vocazione, scrupolosa la sua preparazione e vigile la sua attenzione, può sempre arrivare il momento in cui si delude il paziente, perché è impossibile sopperire a tutte le sue carenze e rispondere in maniera ’giusta’ a tutte le sue richieste. Sono momenti comunque preziosi, errori che possono essere utilizzati per una crescita della relazione analitica; e il modo in cui il paziente riuscirà a elaborare il confronto col limite e con la vulnerabilità del suo analista, dunque a fronteggiare la frustrazione della sua domanda d’amore, sarà di fondamentale importanza per la risoluzione del transfert. Anche in queste occasioni, però, possono insinuarsi atteggiamenti manipolatori che hanno lo scopo di ricostruire quell’immagine idealizzata dell’analista che qualcosa, agli occhi del paziente, ha incrinato. Se lo psicoanalista non è consapevole del suo bisogno narcisistico di sapersi non dico divinizzato ma almeno idealizzato dal paziente, se non è dunque ben analizzato, può tentare di difendersi dalla svalutazione e dalla conseguente collera del paziente, cercando di minimizzare l’errore, o di imputarlo a una eccessiva richiesta di gratificazioni del paziente stesso, senza riconoscere la propria cattiva gestione della frustrazione e la necessità di un confronto con le proprie dinamiche inconsce, con i propri fantasmi legati al sentimento di inadeguatezza e di fuga dal confronto con il ’vuoto’. L’analista che s’identifica con l’immagine dell’uomo potente può cadere vittima dell’inflazione psichica e pensare di poter davvero determinare il destino altrui. È bene ricordare che il lavoro dello psicologo non è quello del consigliere, e del resto, si sa che il miglior consiglio consiste nel fornire un buon esempio. L’analista deve anzitutto uniformarsi alla classica, ferrea legge che vieta di ’colludere’ con il paziente. Stare al gioco del paziente, calarsi nel ruolo che lui vorrebbe attribuirci, vestire i panni che ci offre e, quindi, compiacerlo e

assecondarlo, significa in realtà danneggiarlo, diventando il suo amico, confidente e confessore ma non il suo terapeuta. Questo non vuol dire che è bene "ignorare" i bisogni e i desideri del paziente, ma che se ne deve fare l’uso più giusto e opportuno. Il desiderio di accudimento, per esempio, che spesso sorge nel paziente, il più delle volte si rivela come un bisogno compulsivo di ottenere risposte affettive dall’analista. È un desiderio arcaico, legittimo nel caso in cui il paziente non abbia ricevuto l’amore di cui ogni essere umano abbisogna per svilupparsi. Quando l’infanzia è stata segnata da una forma sottile di solitudine, di abbandono, un abbandono non materiale ma affettivo, una lunga privazione di intimità, di contatto, di autentica comprensione e rispetto per il proprio essere, è difficile credere che qualcun altro non ci abbandoni e voglia prendersi cura di noi. Il mondo della relazione con la figura materna costituirà sempre una dimensione inquietante, dalla quale occorrerà difendersi per non essere distrutti dal suo potere mortifero. Ma anche un’atmosfera avvolgente, quasi soffocante nel suo abbraccio di protezione – come abbiamo osservato a proposito del rapporto di Winnicott con la figura materna – può implicare conseguenze rilevanti per lo sviluppo psicologico dell’individuo e per le sue successive relazioni interpersonali. In tal senso, può rivelarsi utile uno sguardo su quella che è stata l’infanzia di Carl Rogers, sull’atmosfera e le emozioni che la contraddistinsero, nonché sulla sua giovinezza e sui primi passi da lui mossi in direzione della psicologia. Carl Ransom Rogers nasce l’8 gennaio 1902, in un sobborgo di Chicago; si spegnerà a La Jolla nel 1987. Quarto di sei figli – tra i quali una sola femmina – il piccolo Carl apparteneva a una famiglia piuttosto agiata, fondata su saldi principi religiosi e valori morali, una famiglia non ’rigida’ ma nemica dei compromessi, rispettosa dei valori tradizionali, come la virtù e il lavoro (Rogers 1961, 22). Si trattava di un nucleo familiare molto unito, dove il benessere e l’educazione dei figli occupavano un ruolo di prioritaria importanza, tanto che dei genitori lo stesso Carl conserverà un ottimo ricordo – condiviso anche con gli altri fratelli – fatto di gratitudine ma

anche di malinconica nostalgia:

I miei genitori si preoccupavano moltissimo di noi e del nostro benessere. Controllavano anche, ma in modo molto delicato e affettuoso, il nostro comportamento. Era scontato per loro e accettato da me, che eravamo diversi dagli altri: non bevande alcoliche, né balli, né giochi a carte, né teatro, pochissima vita di società e molto lavoro. [...] Ci divertivamo insieme alla nostra famiglia, ma non facevamo amicizie. Così sono stato un ragazzo piuttosto solitario, che leggeva continuamente e che, nel corso delle scuole superiori, si è incontrato solo due volte con una ragazza (Ibid., 22).

Se l’infanzia del nostro Rogers sembrerà scorrere nei solidi argini di un ambiente familiare premuroso e rassicurante, il rovescio della medaglia sarà rappresentato nel suo caso da un vago ma inestinguibile senso di solitudine che investirà non solo la sfera delle relazioni interpersonali ma, come vedremo, lo sviluppo del suo pensiero, della sua personalità e la costruzione della sua teoria. A questo proposito – ma il discorso vale anche per altri autori anglosassoni che abbiamo già citato – è il caso di far notare come le biografie di questi studiosi smentiscano un pregiudizio piuttosto diffuso a vari livelli: che la famiglia come valore primario, santificato e divinizzato, caratterizzi più che altro le culture mediterranee o ’latine’. A conferma di questa "diagnosi" si cita di solito il fatto che nel mondo anglosassone i figli di chiunque se lo possa permettere vengono "espulsi dal nido" in assai tenera età (in Inghilterra intorno ai dodici anni) e spediti in un ’college’ o in un ’campus’, senza versamento di lacrime. Le problematiche che hanno segnato la giovinezza degli autori che stiamo passando in rassegna – nonché dei loro

pazienti – dimostrano invece che siamo in presenza di meccanismi così radicati nella psiche umana che meridiani e paralleli culturali sono fuori causa. Tornando al nostro Carl, c’è da aggiungere che la sua infanzia fu anche segnata da uno dei classici conflitti che si riscontrano all’interno delle famiglie cosiddette ’normali’: la rivalità e la gelosia nei confronti del fratello maggiore. Se per Adler – come vedremo – il ’rivale’ sarà l’intraprendente Sigmund, per Rogers la minaccia proverrà da Ross, più grande di lui di tre anni. Mentre i rapporti con il fratello maggiore Hester e con i più piccoli Walter e John procedevano secondo i canoni della consuetudine e della normalità, Carl soffrì per la convinzione di non ricevere dai genitori tanto amore quanto Ross, convinzione che lo condurrà addirittura all’idea di essere un ’figlio adottivo’. Ma ciò che sembra aver contraddistinto l’infanzia e l’adolescenza di Carl fu senza dubbio una grave lacuna a livello delle relazioni interpersonali poiché, sebbene nelle figure genitoriali gli fu possibile riporre fiducia e da esse – comunque – ricevere amore, con queste amare parole commenterà gli anni dell’adolescenza:

Sapevo che i miei genitori mi amavano, ma non sarebbe mai accaduto che scambiassi con loro qualcuno dei miei sentimenti e pensieri personali o privati, poiché sapevo che questi sarebbero stati giudicati e trovati carenti. I miei pensieri, le mie fantasie e i pochi sentimenti di cui ero consapevole li tenni per me. Potrei riassumere questi anni di adolescenza dicendo che qualsiasi cosa oggi potessi considerare come una relazione interpersonale intima e comunicativa con un altro, fu completamente assente durante quel periodo. Il mio atteggiamento verso gli altri esterni alla mia famiglia fu contraddistinto dalla distanza e dalla separatezza che avevo assunto dai miei genitori. [...] Così, durante gli

importanti anni dell’adolescenza non ebbi alcun amico intimo, ma solo contatti personali superficiali (Rogers 1980, 30-31).

Nel 1914 il giovane Rogers e la sua famiglia – che aveva allora acquistato una fattoria nelle vicinanze di Chicago – si trasferiscono in campagna, ambiente che sarà per Carl molto stimolante e lo metterà in condizione di sviluppare alcuni particolari interessi. Tra questi lo studio delle "grandi falene notturne", che farà di lui un’autentica "autorità in fatto di Luna, Polyphemus, di Cercopia, e lo spingerà ad allevare le falene in cattività; e poi, e poi i bachi, e poi i calabroni, dei quali conservava i bozzoli durante i mesi invernali" (Rogers 1961, 23). Questa precoce ma profonda passione per la natura, indurrà il giovane Rogers a orientare i propri interessi e le proprie ambizioni verso la scienza, anche se i primi testi "scientifici" saranno dei trattatati di agraria, scelta che gli consentì di compiacere il padre, il quale "era deciso a far funzionare la sua nuova fattoria su basi scientifiche" (ibidem). Il contatto con gli animali e con le leggi della natura che Carl avrà modo di vivere nell’ambito della fattoria diverrà il germe da cui originerà il suo grande interesse per la scienza. Sarà anzitutto dagli scritti di Morison che Rogers apprenderà il senso, la metodica e lo spirito del cosiddetto esperimento scientifico: "Imparai come sia difficile provare un’ipotesi. Acquistai conoscenza e rispetto per i metodi scientifici nel campo dell’impegno pratico" (Ibid., 23-24). Così il giovane Rogers deciderà di studiare agraria al College del Wisconsin, e dei tanti insegnamenti che quella esperienza gli regalò uno in particolare rimarrà impresso nella sua mente:

Una delle cose che ricordo meglio fu l’espressione rude e decisa di un professore di agronomia a proposito

dell’apprendimento e dell’uso dei fatti. Egli insisteva sull’inutilità di una conoscenza enciclopedica fine a se stessa e terminava con l’ingiunzione: «Non siate un vagone di munizioni, siate un fucile» (Ibid., 24).

Man mano che procedeva lungo il proprio percorso evolutivo però, gli interessi di Rogers andavano modificandosi, e alla precoce passione per l’agraria si affiancò quella per le problematiche inerenti la storia e la religione. Ebbene, la conoscenza e l’approfondita comprensione di ’altre’ dottrine religiose si riveleranno l’elemento fondamentale che innescherà un’ulteriore metamorfosi, una nuova e proficua inversione di rotta:

Fui costretto ad allargare i miei orizzonti, ad accettare che la gente sincera ed onesta può credere in dottrine religiose molto diverse. Mi emancipai dalle credenze religiose dei miei genitori accorgendomi che con esse non potevo andare lontano. Quel passo mi costò molto [...] ma riconsiderandolo, penso che quello sia stato più di ogni altro, un momento decisivo verso l’autonomia (Ibid., 24).

L’ampliamento degli orizzonti culturali di Rogers divenne ancor più intenso in seguito a un viaggio in Oriente che non solo gli diede la possibilità di innamorarsi – in Cina – di una fanciulla che conosceva da tempo e che sarebbe in seguito diventata sua moglie ma, anche o soprattutto, di raggiungere una autentica emancipazione psicologica. Così, man mano che il tempo trascorreva e che si compiva la sua evoluzione spirituale, Rogers andava avvicinandosi sempre

più alla Psicologia, meta alla quale approdò nel 1925. A quell’epoca il ventitreenne Rogers studiava psicologia presso la Columbia University. L’interesse per questa disciplina era nato in lui come risposta all’esigenza di trovare "un campo in cui avere la certezza che la (sua) libertà di pensiero non sarebbe stata limitata" (Ibid., 26). Fra i personaggi che a detta dello stesso Rogers contribuirono al crescere del suo interesse verso la Psicologia, ricorderemo Goodwin Watson, Harrison Elliott, Marian Kenworthy. Lavorerà nel campo dell’educazione con William H. Kilpatrick, mentre nel lavoro clinico sarà al fianco e sotto l’ala protettrice di Leta Hollingworth. Fu allora che Rogers cominciò a considerare se stesso secondo una diversa impostazione, vedendo nelle proprie attitudini, nelle proprie passioni e nel proprio operato anzitutto l’impegno di uno "psicologo clinico". Il suo lavoro sarà rivolto al mondo dell’infanzia, e di quel periodo Rogers conserverà un buon ricordo, sottolineando soprattutto il ruolo "formativo e trasformativo" di quell’esperienza:

Fu un passo che affrontai senza drammi, forse non del tutto cosciente del taglio netto che rappresentava per la mia vita seguendo soprattutto le attività che mi interessavano (Ibid., 26).

Dopo essere rimasto per un anno all’Institute for Child Guidance in qualità di allievo interno e aver conseguito la laurea in Psicologia, Rogers sarà assunto come psicologo presso il Child Study Department di Rochester, New York. Di quest’occasione lavorativa fu soddisfatto perché – nonostante certi aspetti ’negativi’ – lo metteva in condizione di svolgere un lavoro che amava, fattore per Rogers determinante:

Il fatto che dal punto di vista professionale fosse una strada morta, che sarei stato isolato dai contatti professionali, che lo stipendio non fosse buono, [...] non mi era assolutamente venuto in mente [...]. Credo di avere sempre avuto la sensazione che, se mi fosse stata data l’opportunità di fare ciò che mi interessava, ogni altra cosa si sarebbe in qualche modo aggiustata da sola (Ibid., 27).

Così Rogers rimarrà presso il Child Study Department per circa dodici anni, dedicando il suo impegno e il suo lavoro a un "servizio psicologico" per ragazzi delinquenti e ritardati; sarà quindi professore di Psicologia presso le Università di Chicago, Wisconsin, Stanford e – nel 1940 – Ohio. L’esperienza clinica presso il Child Study però gli imporrà di confrontarsi con alcuni aspetti fondamentali della sofferenza umana e, soprattutto, con l’eventualità di rivedere e mettere in discussione presupposti teorici nei quali aveva sempre creduto, come ad esempio gli assunti appresi dagli scritti del dottor William Healey. Toccare con mano la possibilità che nulla possa o debba essere considerato ’definitivo’, si rivelerà per Rogers un’esperienza utilissima che, pian piano, gli conferirà la forza di sviluppare un suo originale pensiero. Vorrei ribadire che questo nostro soffermarci su certi "passaggi" della biografia di Carl Rogers è motivato dalla convinzione che le esperienze affettive dell’epoca dell’infanzia sono determinanti non solo per lo sviluppo psicologico dell’individuo ma anche per la formazione delle sue idee. Se ciò è riscontrabile in molti contesti del quotidiano, lo è ancor di più nel contesto analitico, ove bisogni come quello dell’accudimento possono riproporsi in maniera coatta. È importante tener presente queste realtà per poter riconoscere che, accanto alle dinamiche idealizzanti, il paziente può essere portatore anche di una profonda sfiducia che, all’occasione,

potrebbe trasformare l’analista adorato in uno spregevole traditore. Occorre allora che l’analista riesca da un lato a interpretare il ruolo in cui i fantasmi del paziente lo costringono – in modo da rendere presente ed evidente al paziente stesso il desiderio nevrotico che egli ripropone in analisi – e dall’altro non vi aderisca del tutto, restando al di qua del desiderio dell’altro. Un dosaggio difficile, che presuppone una costante vigilanza e una notevole dose di coraggio. Colui che accoglie le proiezioni può indulgere nel fantasma dell’altro senza rendersene conto, oppure può riproporsi come, venti anni prima, si sono proposti i genitori del paziente. Entriamo così nell’area dell’identificazione proiettiva, una delle più inquietanti fra quelle esplorate negli ultimi decenni di pratica analitica. L’opera e il pensiero di Melanie Klein sono a questo proposito illuminanti. Il concetto di identificazione proiettiva infatti viene introdotto proprio dalla Klein e nonostante le numerose e successive rivisitazioni, sul nascere esso era finalizzato a proporre l’idea che il bambino "immetta" in maniera fantasmatica nel corpo della madre parti di sé. A monte di questo singolare meccanismo, ne opererebbe uno ancora più arcaico ed efficace, messo in atto dall’Io per far fronte all’angoscia: la scissione. Il punto di vista kleiniano in merito alla funzione dell’identificazione proiettiva, appare in uno scritto risalente al 1946: "Note su alcuni meccanismi schizoidi", ove la "psicoanalista dei bambini" afferma:

A questo punto gran parte dell’odio nei confronti di parti del Sé si indirizza alla madre. Ciò determina una forma particolare di identificazione che costituisce il prototipo delle relazioni oggettuali aggressive. Proporrei di denominare questa forma di processo di identificazione "identificazione proiettiva". Quando la proiezione deriva principalmente dall’impulso a nuocere alla madre o a controllarla, il lattante avverte

la madre come un persecutore. [...] L’identificazione basata su questo tipo di proiezione influenza anch’essa, e sostanzialmente, le relazioni oggettuali (Klein 1946, 417).

Ciò significa che se le proiezioni messe in atto dal bambino – o meglio dal lattante – nei confronti della madre saranno caratterizzate da sentimenti positivi e "veicoleranno" solo parti del Sé buone, le future relazioni oggettuali ne beneficeranno; il contrario dicasi qualora vengano proiettate dentro la madre parti del Sé cattive. La Klein affronta con precisione questi aspetti, osservando altresì come la scissione, intesa appunto come uno dei più efficaci meccanismi di difesa dell’Io dall’angoscia, goda anche di sorprendenti connessioni con la proiezione e l’introiezione (ibid., 415):

Finora ho trattato in particolare del meccanismo della scissione, che è solo uno dei primissimi meccanismi di difesa dell’Io contro l’angoscia. Anche l’introiezione e la proiezione sono posti a servizio di questo fine primario dell’Io fin dall’inizio della vita. La proiezione, come ha chiarito Freud, nasce dalla deviazione della pulsione di morte all’esterno, e secondo me aiuta l’Io a superare l’angoscia liberandolo da ciò che è pericoloso e malvagio. Per difendersi dall’angoscia l’Io si avvale inoltre dell’introiezione dell’oggetto buono" (Ibidem).

Le tematiche così introdotte dalla Klein circa le implicazioni dell’identificazione proiettiva sono tentacolari. Tanto è vero che da allora la psicoanalisi non cessa di interrogarsi a riguardo. In particolare, ciò che di questo meccanismo sembra catturare

l’attenzione della psicoanalisi sono le conseguenze. Vale la pena di approfondire queste concezioni: quando l’identificazione proiettiva è al lavoro, parti di noi vengono "immesse" dentro qualcun altro e da ciò ricaviamo la sensazione di essere amati, oppure odiati o anche di essere "amabili" o "detestabili". In realtà l’Altro – ossia colui che ha ricevuto le nostre proiezioni – si è gioco-forza impossessato di qualcosa di "nostro", di qualcosa che ci appartiene, un tassello di quell’enorme puzzle che rappresenta la nostra personalità. La domanda che dovremmo a questo punto porci è la seguente: come viviamo la separazione da queste parti di noi? Molto male, nel senso che in fondo non la accettiamo mai del tutto, non superiamo con serenità questa sorta di "mutilazione psichica". Da ciò scaturiscono spesso ricerche disperate e interminabili, ricerche di quelle parti di noi che sono state buttate fuori ma che, in fondo, sentiamo sempre "nostre". Le conseguenze di questo gioco di proiezioni possono essere molto sgradevoli, soprattutto là dove entri in gioco la sfera dei sentimenti. Che dire infatti di quei casi – peraltro niente affatto rari – in cui la persona proietta le parti peggiori di sé sul suo partner? Interrogativo inquietante soprattutto se pensiamo che l’Altro, colui che "riceve" il materiale proiettato, si trova a essere investito da sentimenti che fino ad allora non si erano mai manifestati. Sono questi i momenti in cui si pronunciano frasi del tipo: "Perché ti comporti così? Non ti riconosco più!", oppure: "Cosa ho fatto di male per meritarmi questo?". Il problema dunque risiede nel fatto che l’identificazione proiettiva implica sempre l’esistenza di un feticcio, di un detestabile surrogato del proprio Sé sul quale riversare eventuali sentimenti negativi, come il disprezzo, la rabbia, le frustrazioni. Ma ciò che è più drammatico è il fatto che entrambi i soggetti sono vittime, entrambi soffrono: l’uno perché si ritrova a essere "la causa dei mali del mondo", l’altro – colui che proietta – perché è comunque prigioniero delle sue stesse proiezioni, schiavo della loro negatività.

9. L’UOMO E L’UNICITÀ DELL’INDIVIDUO Abbiamo visto come la psicoanalisi imposti il proprio lavoro partendo dal presupposto della "possibilità", ossia dall’idea che un cambiamento, una trasformazione psicologica positiva siano sempre possibili o, almeno, ipotizzabili. Abbiamo altresì riflettuto sul fatto che le relazioni interpersonali rappresentino in un certo senso il passe partout per innescare un processo psicologico di autentica trasformazione. Abbiamo già premesso che comunque, se non c’è di mezzo una patologia o un qualche disturbo, l’uomo è portato a comunicare, fin dalla nascita: dapprima con strategie elementari, via via più sofisticate, poi facendosi in quattro per impadronirsi del linguaggio, scaltrendosi nell’arte di capire e di farsi capire. Una delle motivazioni dell’incessante "lallare" dei bambini ancora "infanti" in senso letterale ossia non ancora in grado di parlare, è proprio – accanto alla necessità di esercitarsi nei fondamentali del linguaggio, l’emissione di vocali e consonanti – è proprio, dicevo, il bisogno di non "staccare" la comunicazione, in attesa di riuscire a produrre autentici messaggi. Ed è probabile che abbiano la stessa funzione, in età adulta, i borbottii, i colpetti di tosse, lo schiarirsi la voce, il tambureggiare con le dita sul tavolo, che in certe coppie anziane "surrogano" la conversazione riempiendo in qualche modo i troppo lunghi silenzi. Persino il maleducato che tiene alto oltre il necessario il volume della radio, tenta di coinvolgere gli altri nel suo ascolto solitario. Insomma, subito dopo il "pane quotidiano" chiediamo al cielo e al mondo la possibilità di comunicare. La punizione più tremenda per un carcerato indocile è la cella d’isolamento; se ha motivo di supporre che al di là di un muro ci sia un’altra cella, prima o poi prenderà a picchiare con le nocche contro quel muro, e tenderà l’orecchio nella speranza di sentire altri colpetti di

nocche che ristabiliscano un contatto, un simulacro di comunicazione. Persino il successo dei cellulari, i cosiddetti "telefonini", ce lo conferma: si è ironizzato sull’inatteso boom, si è commentato "meno cose abbiamo da dirci, più mezzi ci vengono messi a disposizione per dircele" – ma non sono i contenuti della comunicazione che contano, ma il comunicare in sé. Lo stesso discorso si può fare per Internet: la stragrande maggioranza dei "naviganti" vuole soprattutto comunicare. Se questo è vero in generale, ancora più lo è quando la comunicazione è finalizzata alla crescita psicologica; che implica – come sempre accade quando si tratta di edificare o creare qualcosa di nuovo e durevole – la conoscenza. Il progresso, l’evoluzione, le vittorie dell’umanità sono sempre state legate alla conoscenza e le conquiste individuali della psiche non si sottraggono a questa regola universale. Come abbiamo accennato, per Jung conoscenza significa innanzitutto ampliamento della coscienza attraverso il confronto con i contenuti dell’inconscio. Questo confronto, abbiamo detto, non s’interrompe né s’attenua con gli anni, non è "soggetto a invecchiamento": la svalutazione dell’età avanzata è uno stereotipo, un pregiudizio che purtroppo caratterizza la nostra civiltà e la nostra epoca, e permettetemi di sottolineare in rosso quel "nostra". In realtà nella seconda metà della vita vengono a sedimentarsi, come il precipitato di una soluzione, le particolari configurazioni della psicologia personale: come scrisse Jung, si passa da una fase in cui

l’uomo è solo uno strumento della sua natura istintuale, a un’altra fase in cui non è più uno strumento, bensì è se stesso, una fase in cui la natura diventa cultura, gli istinti spirito (Jung 1925, 190).

Una tale trasformazione e assunzione della propria intima

natura e del proprio destino, una chiamata a dare un "giro di vite" ulteriore nella presa di coscienza del proprio cammino individuale comporta un notevole dispendio di energia psichica: l’impegno di risolversi a ’tirare le somme’, a riconoscere i pieni e i vuoti del proprio sviluppo, il travaglio dei bilanci. Jung comprese che la vecchiaia è in realtà il tempo prezioso della raccolta, in vista di una ignota trasformazione per una destinazione altrettanto sconosciuta. I sogni di questo periodo possono fare luce sulla intima disposizione a inoltrarsi nell’autunno della vita con la consapevolezza di aver adempiuto al proprio compito esistenziale. La difficoltà di aderire al proprio cammino psicologico è innanzitutto una difficoltà ad accettare l’esperienza della temporalità. L’esperienza che abbiamo del tempo è quella d’una privazione incessante; il tempo sembra toglierci i momenti preziosi della vita, così come le presenze significative, i volti dei cari che ci vivono accanto. In qualche modo affermare che una cosa è presente significa opporsi alla sua possibile assenza. Così, in questa limitazione e minaccia del tempo su ciò che siamo e amiamo, noi conosciamo il carattere distintivo della nostra presenza, che è la finitezza, la limitatezza. Se però l’esperienza del tempo non fosse altro che l’esperienza di una morte anticipata, una sorta di continua privazione, certo non ci sarebbe che angoscia, e l’esperienza dello scorrere del tempo si tramuterebbe in un conto alla rovescia. Non è così; il tempo non ci sottrae un aspetto del nostro essere se non per sostituirlo con altri, se è causa di perdite lo è anche di rinnovamento. Occorre allora, per ricollegarci agli obiettivi della psicoanalisi, riflettere sullo stile cognitivo di ogni individuo, perché la tonalità affettiva, la coloritura particolare, il modo di guardare e di vivere un’esperienza, trova proprio nello stile cognitivo la sua spiegazione. È per questo che una medesima esperienza – la vecchiaia, per restare al nostro esempio – può essere per qualcuno fonte d’angoscia e per qualcun altro un nuovo modo di rapportarsi al tempo e alle cose.

Per ’stile cognitivo’ noi intendiamo in genere un aspetto della personalità costante nel tempo, un modo personale di pensare, di sentire, di percepire se stessi, gli altri, il mondo; il fatto che ogni singolo, lungo il corso della sua individuazione, matura ed elabora un proprio modo di essere, un sistema di valori a cui corrispondono atteggiamenti e caratteri che si rivelano distintivi della sua personalità. Gli studi sui processi e gli stili di adattamento evidenziano che a una maggiore integrazione psichica, corrispondente a una maggiore differenziazione dell’individuo dall’ambiente che lo circonda, corrisponde un miglior livello di adattamento. La capacità di adattarci, di resistere agli stress e alle malattie sembra variare non tanto in funzione di condizioni più o meno disadattanti, ma in funzione dello stile personale attraverso il quale l’individuo media soggettivamente certe situazioni (Laicardi e Piperno 1987). Il background etologico e darwiniano di cui ormai siamo tutti consapevoli ci ha consentito di capire che nella natura e nella vita, non "vince" tanto il più forte, quanto il più "adatto". Questo termine è ricco di significati, tra i quali quelli per così dire "biologici" costituiscono solo una piccola parte. Sono le implicazioni psicologiche del termine adattamento ad attrarre la nostra attenzione. Cosa significa adattarsi all’ambiente da un punto di vista psicologico? A quale ambiente facciamo riferimento? E, soprattutto, in che modo e attraverso quali strumenti la psicoanalisi risponde a questi interrogativi? Certo che parlare di "adattamento" in biologia e in psicologia, non è la stessa cosa, ma vediamo di mettere a fuoco la differenza. Darwin, con la sua teoria evoluzionistica fondata sull’idea della "selezione naturale" e Spencer con il principio della "sopravvivenza del più adatto" hanno proposto una concezione che ci rende oggi loro debitori. Infatti fra i tanti animali che popolano il pianeta quelli che riescono a sfidare le avversità, sconfiggere i rivali, nutrirsi e riprodursi garantendo così la continuazione e la propagazione della specie, sono quelli che possiedono le caratteristiche che li rendono idonei per affrontare l’ambiente nel quale sono inseriti. Per citare un

esempio classico, non è difficile accettare una concezione per la quale degli erbivori ruminanti pacifici e timorosi come i progenitori delle odierne giraffe, forniti di corna insignificanti come armi di difesa – se paragonate, per esempio, a quelle dei bufali – e per di più lenti nella corsa, non sarebbero mai sopravvissuti in quelle savane boscose frequentate da un’infinità di altre specie erbivore più forti e perciò più capaci di difendere il loro pascolo "radendolo al suolo" fino a non lasciare, come Attila, un solo filo d’erba; le giraffe sarebbero morte di fame, se non fossero state in grado di "allungare il collo" fin dove gli altri ruminanti non potevano "brucare", ossia il fogliame degli alberi. Avrebbero fatto la fine dei loro progenitori più, "tarchiati", i Sivatherium e gli Helladotherium estintisi nel Miocene in Cina e in India, di cui conosciamo solo i fossili. Insomma, la selezione operata dalle ferree leggi di natura, non lascia possibilità di scampo a tutti quegli individui che si rivelano "poco adatti" all’ambiente nel quale sono inseriti. La biologia quindi enfatizza il concetto secondo cui l’ambiente detta legge e le specie viventi che lo popolano devono – se ’vogliono continuare a essere definite viventi’ – uniformarvisi, plasmando il proprio comportamento e persino il proprio organismo secondo le sue direttive e comportarsi a sua immagine e somiglianza. Si tratterebbe pertanto di una visione "ambientecentrica" dell’universo. Ebbene, rispettando i presupposti e le conclusioni del discorso biologico, vediamo ora di chiarire le possibili analogie in una prospettiva psicoanalitica. Anzitutto va detto che parlare di ambiente in psicologia significa anche fare riferimento al contesto in cui viviamo, ma significa soprattutto porre l’accento sugli aspetti sociali e culturali e le dinamiche interpersonali che lo caratterizzano, piuttosto che prenderne in considerazione variabili come il clima, la distanza dall’equatore o i principi base di funzionamento di quell’ecosistema. L’ambiente che coinvolge e appassiona la psicoanalisi è dato dall’insieme delle relazioni che ogni individuo intesse con i propri simili, dai suoi sentimenti e "vissuti" e in definitiva dal suo singolare modo di "essere nel mondo". Questo significa che

il modo in cui ogni essere umano riesce a conquistare il proprio "posto al sole" o a ricavarsi la sua piccola nicchia ecologica, non è tanto correlato a quelle "leggi" dettate dall’ambiente a cui si riferiva da Darwin, quanto al livello di integrazione e di individuazione al quale ogni soggetto riesce a pervenire. Per lo psicologo analista, lo stile cognitivo equivale al livello di integrazione e di individuazione raggiunto e ciò significa che da un punto di vista psicologico un individuo può ritenersi adatto all’ambiente nel quale si trova inserito non quando viene plasmato a sua immagine e somiglianza, bensì quando riesce a differenziarsi da esso, emergendone come essere unico, irripetibile, "non omologato": un individuo. Analizzando il pensiero junghiano abbiamo avuto l’opportunità di comprendere il significato del termine "individuo", ma per approfondire le implicazioni della cosiddetta "psicologia individuale" dovremmo senza dubbio fare riferimento alla teoria di Gordon Allport. Il significato dell’opera di Gordon Allport e il suo contributo all’evoluzione della psicoanalisi, possono essere compresi solo dopo un attento esame del suo pensiero e di alcuni cenni biografici essenziali per individuare il germe della sua teoria. Allport nasce l’11 novembre del 1897 a Montezuma, Indiana, in una famiglia fondata su ’saldi e sani principi’: una forte religiosità, un profondo amore per il lavoro, uno scarso attaccamento al denaro. Fu il padre medico o la madre insegnante a trasmettergli l’amore per le professioni "impegnate" sul piano sociale, e senza dubbio il caldo ambiente familiare in cui crebbe determinò il radicarsi in lui dei tanti valori umani che gli vennero trasmessi. Nel 1915 entra alla Harvard University, ove studia filosofia ed economia e segue i corsi di Psicologia tenuti da Münsterberg, Langfeld e Holt. Nel 1922, conseguita la laurea in psicologia, ottiene il dottorato per la stessa disciplina con una tesi dedicata ai tratti di personalità. Nei due anni seguenti Allport, viaggiando per l’Europa, ha l’occasione di incontrare personaggi che si riveleranno preziosi per la sua formazione e specializzazione in psicologia: Spranger a Berlino, Stern ad

Amburgo e Bartlett a Londra e – fra gli altri – Wertheimer e Köhler. Nel 1924 otterrà la cattedra di Psicologia della personalità ad Harvard, "incarico che può essere considerato il primo insegnamento di questo tipo realizzato a livello universitario" (Carotenuto 1991, 181), considerando anche che questa disciplina inizierà ad acquisire autonomia e autorità solo dopo il 1920. La sua incessante attività avrebbe condotto alla formazione, presso la stessa Università, del Dipartimento di Scienze Sociali diretto da Talcott Parsons. Viene nominato direttore del Journal of Abnormal and Social Psychology e presidente dell’American Psychological Association. Quest’ultimo incarico lo metterà in condizione di offrire aiuto a tutti gli psicologi e intellettuali costretti dal nazismo a lasciare l’Europa per cercare rifugio negli Stati Uniti. Dal 1930 sino alla sua morte, avvenuta nel 1967, l’impegno di Allport si snoderà presso la Harvard, ma le sue ripercussioni saranno avvertite in quasi tutto il mondo, basti pensare che i suoi scritti sono stati tradotti in tedesco, francese, italiano, spagnolo, portoghese, giapponese e greco. Il suo influsso sarà predominante soprattutto negli Stati Uniti e a questo proposito si può dire che il pensiero di Allport – assieme a quello di Freud – rappresenta ancora oggi per gli psicoterapeuti americani un punto di riferimento teorico fondamentale. Tornando all’evoluzione del pensiero di Allport, diremo che il 1937 fu un anno importante, fu allora infatti che venne pubblicato uno dei suoi scritti più significativi, destinato a essere ricordato come la Summa della sua teoria: "Personality. A Psychological Interpretation". Con questo lavoro Allport si inseriva di diritto nella cerchia degli studiosi più importanti della psicologia americana, divenendo così uno dei tanti nomi tartassati dalle continue critiche e maldicenze che da sempre caratterizzano ogni contesto socio-culturale. L’itinerario scientifico di Allport si snoda lungo tre direttrici: la psicologia della personalità, la psicologia religiosa e la psicologia sociale. Senza dubbio però i capisaldi fondamentali del suo pensiero si trovano nella sua prima opera del 1937 e in

Pattern and Growth in Personality (1961) – che della precedente costituisce un poderoso ampliamento. La sua teoria è stata definita "psicologia dell’individuo", per l’importanza che attribuisce al singolo, considerato nella sua ’globale peculiarità’. Allport avvertì l’esigenza di mettere a fuoco il concetto di "personalità individuale" e, per portare a compimento il suo intento, descrisse il comportamento del soggetto come qualcosa di coerente, integrato, unitario. Quello che lo interessava non era prendere in considerazione le varie istanze dell’apparato psichico, quanto offrirne una visione unificata, in virtù della quale la condotta umana sarebbe caratterizzata da una profonda ’coerenza psicologica’. Ciò non significa che Allport avesse la pretesa di proporre un approccio teorico ’onnipotente’, in grado di rendere conto di ogni singolo aspetto della personalità. Il suo scopo era infatti quello di proporre una teoria che, rispettando la prospettiva dei suoi predecessori e di autorità come Jung, Rank e Freud, ponesse l’accento sull’individuo nella sua totalità. Allport fu quanto mai esplicito dialogando con Richard Evans, noto nel mondo della psicologia per avere intervistato alcuni dei più grandi nomi di questa disciplina (Evans, 1970, 7-9). Rispondendo alle sue domande circa il proprio incontro con Freud ed esponendo il proprio parere su alcuni assunti del pensiero di Jung, Allport avrà infatti la possibilità di ricordare che gli individui non possono essere ’catalogati’con efficacia all’interno di determinati schemi e presupposti teorici, poiché occorre rispettare il presupposto della "unicità dell’individuo":

Il nostro scopo è quello di scoprire i principi generali dello sviluppo, dell’organizzazione e dell’espressione della personalità, pur tenendo presente che la caratteristica principale dell’uomo è la sua individualità. Egli è una creatura unica delle forze della natura: non vi è mai stata una persona simile a lui e

non ve ne sarà mai un’altra. Una buona immagine di questo fenomeno è l’impronta digitale: anch’essa è unica. [...] non si deve dimenticare che nella vita quotidiana l’individualità è il marchio supremo della natura umana (Allport 1961, 3).

Allport sottolineò l’unicità del comportamento individuale, affermando che la personalità è una dimensione complessa, variabile da soggetto a soggetto, "l’organizzazione dinamica, in seno all’individuo, di quei sistemi psicofisici che determinano il comportamento e il pensiero che gli sono caratteristici" (ibid., 24). Se ci domandassimo quale posto occupi Allport nella storia della psicoanalisi, dovremmo anzitutto ricordare alcuni aspetti della sua teoria che lo resero bersaglio di aspre critiche. Come è facile intuire, la sua visione ’olistica’ della psiche lo condurrà a elaborare un tipo di pensiero in radicale contrasto con la psicoanalisi e con la psicologia del profondo in senso lato. Inoltre non dobbiamo dimenticare che Allport criticò tutti quegli autori che costruirono la psicologia dell’adulto a partire da quella del bambino e definirono la psicologia dell’individuo ’normale’ facendo riferimento a quella del paziente psichiatrico. Criticate da Allport furono anche le teorie psicologiche fondate sull’osservazione del comportamento animale, la teoria comportamentista e, in generale, tutte quelle prospettive che intendevano studiare la personalità prescindendo da una strategia empirica e facendo riferimento solo a un approccio teorico. Tuttavia, sebbene questi aspetti del suo pensiero sembrerebbero configurare il suo approccio come quello di un oppositore della teoria psicoanalitica, il suo intento era ben diverso. Infatti egli non sottovalutò l’importanza dell’esame delle motivazioni inconsce dell’individuo, ma pur assumendo come punto di partenza della propria elaborazione teorica il pensiero di Freud, volle porre in primo piano il ruolo della

coscienza, andando così via via allontanandosi dagli assunti della psicologia del profondo. Allport quindi non intende contestare la validità degli assunti freudiani, ma se ne distanzierà, soprattutto per quanto concerne gli aspetti inerenti la psicopatologia. A tal proposito ebbi già occasione di osservare che:

Postulando, alla maniera di Freud, un continuum tra psiche conscia, preconscia, inconscia, egli pone a un’estremità l’individuo prevalentemente impostato sull’orientamento cosciente, cioè capace di una "pianificazione intenzionale e verificazione della realtà", dall’altra il soggetto in cui è predominante la dimensione inconscia che porta alla "distorsione della realtà del pazzo" (Carotenuto 1991, 185).

Appare evidente che il tentativo di Allport fu di utilizzare la teoria freudiana per offrire una spiegazione valida delle manifestazioni psicopatologiche, e la "psicologia dell’individuo" per spiegare e descrivere i tratti caratteristici dei soggetti ’sani’. Per semplificare si può dire che Allport accetta la validità degli assunti freudiani quando si intenda indagare l’ambito psicopatologico. Qualora invece si voglia valutare e descrivere le caratteristiche della personalità ’normale’, sarà necessario adottare un altro percorso conoscitivo. Come accennavamo all’inizio di questa nostra disamina del suo pensiero, Allport, più che essere annoverato tra i rappresentanti di una "psicologia relazionale", dovrebbe – e di fatto lo è – essere considerato il principale esponente di una "psicologia individuale". Questo non significa che sia giusto vedere in lui un antagonista della dimensione relazionale. Il suo vero intento infatti era quello di diffondere l’idea che la personalità umana è caratterizzata non solo dalle disposizioni

personali e quindi dalle peculiarità dell’individuo; ma anche o meglio soprattutto, dalla sua integrità. Questo concetto ha delle importantissime ripercussioni anche sulle relazioni interpersonali: noi ci rapportiamo agli altri considerandoli individui dotati di una specifica globalità. Le "relazioni" quindi scaturiranno dalla complessa combinazione alchemica di due o più individui e delle loro peculiarità. Ritengo sia questo l’elemento di riflessione più importante che ci offre il pensiero di Allport: l’individuo dovrebbe essere sempre considerato nella sua globalità perché, frammentandolo in aride e fuorvianti categorie, commettiamo un autentico ’sacrilegio psicologico’, un oltraggio alla dignità dell’uomo e alla sua stessa natura. Sempre attento al "problema delle definizioni", studiando quelle formulate dai suoi predecessori, Allport volle riprendere in considerazione alcuni termini, per rianalizzare i concetti psicologici ai quali facevano riferimento. Prese così in esame il concetto di ’personalità’, di ’carattere’, ma anche di ’temperamento’ e di ’tratto’. Fu proprio questo termine a creare nel suo pensiero maggiori ’difficoltà organizzative’. Egli infatti era mosso non tanto dalla ricerca di tratti generali, comuni a molti individui, quanto di tratti peculiari, tipici anche di un’unica persona. Così dapprima – nel 1937 – introdurrà le semplice distinzione fra "tratti individuali" e "tratti comuni", mentre – nel 1961 – proporrà la più efficace espressione "disposizioni personali" che, variando da soggetto a soggetto ed essendo ’esclusive’, offrono anche l’opportunità di cogliere le differenze individuali:

Potremmo parlare appropriatamente di tratti individuali (o personali) distinti dai tratti comuni, perché tra i due concetti esiste una somiglianza [...]. Tuttavia, per maggiore chiarezza, designeremo l’unità individuale non come un tratto, ma come una disposizione personale [...] La principale differenza,

comunque, sta per noi in questo: le disposizioni personali riflettono adeguatamente la struttura della personalità, mentre i tratti comuni sono categorie nelle quali l’individuo viene costretto (Allport 1961, 305).

Altro concetto che appare rilevante nella teoria di Allport è quello di autonomia funzionale, che egli introduce per esemplificare il cammino evolutivo dall’epoca dell’infanzia fino all’età adulta, proponendo così l’idea che "determinati comportamenti, attivati per uno scopo specifico, vengono in seguito mantenuti anche quando il motivo iniziale viene meno". (Carotenuto 1991, 190). Il concetto di "autonomia funzionale" offre anche un’interessante angolazione prospettica dalla quale osservare le motivazioni che orientano i nostri comportamenti: non solo e non tanto bisogni primari, ma anche motivazioni ’intelligenti’, attivate e mirate a uno specifico ’bersaglio’. Quello dell’autonomia è uno dei tanti temi sui quali la psicoanalisi ama soffermarsi, avendo altresì la possibilità di attingere a un copioso e illustre patrimonio teorico. In tal senso appare davvero generosa l’opera di Winnicott che ha dedicato a questo tema – e a quello a esso correlato del binomio dipendenza/indipendenza – gran parte del suo impegno. In particolare, Winnicott parla di "contenimento" (holding) proprio per denominare l’insieme di risorse che il bambino richiede alla madre e all’ambiente per procedere verso la conquista della propria autonomia. Il "contenimento" è indispensabile per fornire sostegno all’Io del bambino, per agevolarne lo sviluppo emotivo e favorire il superamento della fase di assoluta dipendenza, tipica della più tenera infanzia. Il concetto di contenimento si rivelerà essenziale trovando applicazioni non solo nell’ambito dell’analisi infantile, non solo divenendo sinonimo di una delle più efficaci e geniali risposte terapeutiche alla problematica dell’autismo, ma riuscendo – grazie a Winnicott – a rivelarsi uno strumento prezioso anche per l’analisi con gli adulti. Sappiamo infatti che Winnicott,

sebbene abbia negli anni messo le sue conoscenze e le sue risorse al servizio del mondo dell’infanzia, si dedicò con passione anche all’analisi degli adulti. Ebbene, le idee che lo avvicinarono al mondo interiore degli adulti, non erano affatto dissimili da quelle che gli avevano consentito di ’contattare’ le fantasie, i sogni e le angosce dei bambini. Proprio per questa ragione il concetto di "contenimento" si rivelò prezioso per il suo lavoro, nel senso che egli comprese la necessità di "contenere" le angosce, le paure e l’esuberanza del mondo interno del paziente al fine di offrirgli un aiuto concreto. "Contenere" il paziente – adulto o bambino che esso sia – significa metterlo nella condizione migliore per affrontare la terapia e, di conseguenza, per affrontare il proprio Sé. Fondamentale diviene quindi non solo "contenere" il paziente ma renderlo capace di contenersi in maniera autonoma dall’interno, conferendo significato e forma alle proprie dimensioni interiori inespresse. Il contenimento interiore costituisce una delle colonne portanti dell’opera di Winnicott e, al contempo, uno dei più grandi contributi che egli seppe dare alla storia della psicoanalisi. Ho infatti già avuto modo di precisare che:

Su questa base la terapia psicologica assume un senso nuovo. La figura dell’analista dovrebbe diventare vicariante rispetto a tale dimensione interna, che il paziente non ha mai sviluppato. L’introiezione di un’immagine che abbia funzione di contenimento dovrebbe riuscire a riportare l’equilibrio di sofferenza dell’altro. Parleremo quindi di guarigione nel momento in cui il paziente sarà riuscito a introiettare un’immagine interna positiva, in grado di abbracciarlo e sostenerlo nei momenti di pericolo" (Carotenuto, 1991, 100).

La riflessione che abbiamo condotto sul pensiero di Winnicott ci ha permesso di comprendere che la conquista dell’indipendenza e quella dell’autonomia devono essere considerate ’tappe obbligate’ di un sano sviluppo psicologico. Winnicott avvertì però che la conquista dell’autonomia è un traguardo non facile da raggiungere, proprio come la conquista del rapporto con l’Altro. In tal senso, determinante diviene il ruolo dell’ambiente che secondo Winnicott dovrebbe agevolare un simile processo. Proprio per esemplificare il suo pensiero riguardo il ruolo dell’ambiente in rapporto allo sviluppo del bambino e delle relazioni oggettuali, Winnicott parla di "ambiente facilitante" asserendo:

La relazione con gli oggetti è un fenomeno complesso, e lo sviluppo di una capacità di mettersi in rapporto con gli oggetti non riguarda semplicemente il processo maturativo. Come sempre, la maturazione (in psicologia) richiede facilitazioni ambientali e dipende dalla loro qualità. Dove non prevalgono né la carenza né la deprivazione e dove perciò la teoria dei primissimi e più formativi stadi dello sviluppo infantile può dare per scontata l’esistenza dell’ambiente facilitante, nell’individuo si verifica gradatamente una modificazione nella natura dell’oggetto. L’oggetto che è inizialmente un fenomeno soggettivo, diventa un oggetto percepito obiettivamente (1962a, 232).

Indispensabile compagno di viaggio nella ricerca dell’autonomia, diviene per il bambino il cosiddetto "oggetto transizionale", un prezioso strumento che – "travestito" ora da logoro orsacchiotto e ora da morbida copertina – getterà un ponte tra il sé del bambino e il mondo esterno. "Armato del suo orsacchiotto", il bambino potrà accettare le frustrazioni e le

inevitabili sconfitte che lo sviluppo psicologico gli infliggerà e sarà così in grado di continuare lungo il cammino della costruzione della propria personalità. È naturale a questo punto chiedersi ove possa o debba condurre una tanto sospirata ricerca dell’autonomia emotiva. Ebbene, secondo Winnicott il superamento della fase di assoluta dipendenza dal materno conduce verso la cosiddetta capacità di essere solo, cui Winnicott dedicò un breve saggio nel 1958. La solitudine viene così letta non in chiave negativa, bensì come un positivo segnale di maturazione psicologica. Il vissuto abbandonico che infatti il bambino vive nel momento in cui il rapporto con la madre va modificandosi e la "preoccupazione materna primaria" ridimensionandosi, è utile nella misura in cui costituisce per il bambino il preludio della consapevolezza di essere solo. La sensazione devastante, di disintegrazione dell’Io e di "cadere a pezzi" che il bambino sperimenta fuoriuscendo dal bozzolo della dipendenza, è in realtà solo momentanea, un doloroso limbo in cui l’individuo dovrà essere relegato fin quando non abbia assimilato e metabolizzato il senso della solitudine. Vale la pena di sottolineare che non c’è contraddizione tra questo "destino di solitudine" e il precedente discorso sulla "relazione come destino dell’uomo". Questa solitudine, di cui è indispensabile e infine positivo prendere atto, non è l’isolamento di chi rifiuta la relazione, è invece la necessaria premessa per poter intrecciare rapporti. Solo se ci saremo per così dire "enucleati" da un confuso amalgama come è il primissimo legame con la madre, saremo in grado di instaurare rapporti meno "annichilenti", relazioni tra singoli individui "distinti e separati" – che è la condizione primaria per un rapporto autentico. Abbiamo già fatto notare che, quando nel linguaggio degli amanti si insinuano concetti ed espressioni in cui uno o ciascuno dei due si ripropone di annullarsi nell’altro, se non si tratta di inveterati luoghi comuni orecchiati, non c’è da congratularsi coi protagonisti. Così come un abbraccio può proteggerci ma anche soffocarci, il legame con la figura materna potrà nutrire la nostra anima ma nello stesso tempo

trasformarsi in una morsa letale che ne distruggerà l’indipendenza. L’autonomia della nostra anima deve invece essere perseguita e salvaguardata soprattutto perché essa costituisce proprio il presupposto della relazionalità. Il merito di Winnicott e il suo prezioso contributo alla storia della psicoanalisi vanno rinvenuti quindi nella efficacia con la quale egli pose l’accento sul rapporto con l’Altro, sulla necessità di costruire una valida "capacità relazionale" e, di conseguenza, sul nutrimento stesso della vita. Ma torniamo però al nostro Allport; abbiamo sottolineato come uno dei suoi intenti principali fosse quello di proporre una teoria della motivazione il più possibile completa ed esauriente. A questo scopo Allport dedicò numerosi studi all’analisi del "pregiudizio". La sua lettura di questo fenomeno sociale – negativo per antonomasia e definibile come una credenza distorta nei confronti di persone, situazioni e realtà sociali – è piuttosto ’originale’ poiché, a suo parere il pregiudizio può talvolta essere considerato in maniera positiva. Allport era infatti convinto che il pregiudizio fosse una dimensione psico-sociale non rigida, bensì plastica, ossia mutevole rispetto alle differenti circostanze e situazioni della vita quotidiana. Un pregiudizio, ad esempio, potrà mutare qualora persone appartenenti a diversi gruppi sociali abbiano un obiettivo in comune o si siano prefissate uno scopo raggiungibile solo unendo le proprie forze a quelle dell’Altro. Allport si interrogò sulla natura del pregiudizio e in questo senso appaiono interessanti queste sue considerazioni circa quello che può apparire uno ’strano connubio’, il rapporto tra "pregiudizio e religione":

Il ruolo della religione è paradossale. Essa è fonte di pregiudizi e li combatte. Mentre le fedi delle grandi religioni sono universali, ed enfatizzano la fratellanza di tutti gli uomini, spesso in pratica esse operano fratture

anche brutali. [...] Alcuni affermano che l’unica cura del pregiudizio è una maggiore religiosità; altri dicono invece che basterebbe abolire la religione per eliminare il pregiudizio (Allport 1954, 609).

In realtà si tratta di uno ’strano connubio’ solo in apparenza, soprattutto se pensiamo che nasce dall’opera di uno studioso che dedicò molte delle sue energie all’analisi di tematiche legate alla religione e alla religiosità, aspetti non trascurabili da chiunque intenda comprendere la personalità nella sua globale interezza. Convinto che per sopportare il peso dell’esistenza l’individuo debba essere equipaggiato di una buona dose di ’umorismo’ e di una sana ’filosofia della vita’, Allport è riuscito a proporre una visione della personalità utile a chi desideri conoscere "l’oggetto-uomo" nel pieno rispetto della sua dignità e peculiarità. Vorrei ora ricordare che tutto il nostro discorso implica che il processo di evoluzione psicologica – con le sue fasi deintegrative e reintegrative, con il suo impegno quotidiano, con la sua lenta ma tenace conquista dell’autonomia – non conosca limiti d’età, che sia inarrestabile. Non possiamo allora chiudere la porta a chi, avendo oltrepassato la soglia della maturità, si rivolge a noi per una analisi. Sono molti gli analisti che non prendono in carico pazienti ’di una certa età’, nella convinzione che sia poco probabile una trasformazione psicologica dove ci sia una ormai definita strutturazione della personalità. Lo "stile cognitivo" invece non è una caratteristica innata dell’individuo, non è stabile o determinato, bensì una mutevole dimensione psicologica frutto di una sofferta conquista. Lo stile cognitivo dovrebbe dunque essere considerato come un obiettivo che una volta raggiunto può sempre essere migliorato, trasformato, adattato di volta in volta alle rinnovate caratteristiche dell’individuo. E se la visione darwiniana della vita non può soddisfare la psicoanalisi, a ciò provvederà quella che

potremmo definire una prospettiva "individuo-centrica", secondo cui il cuore dell’esistenza è rappresentato dalla presenza e convivenza di tanti individui diversi tra loro, coraggiosi e autonomi, ossia in grado di rivendicare la propria unicità piuttosto che vergognarsene e nasconderla. Tra parentesi: molti biologi hanno fatto notare che il "rovesciamento di valori" è più apparente che reale, perché se è vero che nella prospettiva darwiniana la Natura sembra occuparsi della Specie a scapito dei singoli esemplari ossia degli individui, non è meno vero che poi è agli individui e alla loro capacità di primeggiare che in definitiva viene affidato il compito di misurarsi con l’ambiente, con gli altri, con la natura stessa, in vista della selezione e dell’evoluzione. Chiudo la parentesi e torno alla nostra argomentazione sul "paziente di una certa età" che non deve essere considerato fuori gioco. Se di questo siamo persuasi, potremmo smettere di stupirci dinanzi a quei casi – peraltro non rari – in cui ci si scopre scrittori o pittori a sessant’anni, in cui dunque affiorano alla coscienza potenzialità creative sepolte, rimaste inattivate per quasi tutto l’arco della propria vita. Io credo che fatti del genere dimostrino che nessuno è in grado o ha il diritto di sanzionare la possibilità di un individuo né in termini di discrimine tra normalità e anormalità, né arrogandosi l’ultima parola sulla risoluzione positiva o negativa di una condizione definita morbosa. E sempre più produttivo, per un analista aver fede nelle potenzialità autoterapeutiche della nostra psiche; così come avviene nel nostro corpo, infatti, c’è una tendenza naturale della psiche all’autoguarigione, attraverso meccanismi difensivi o evolutivi, per il ristabilimento dell’integrità perduta.

10. SENTIMENTI OSTILI Cosa significa parlare di guarigione nell’ambito di una terapia psicoanalitica? Significa forse riproporre i parametri valutativi e gli obiettivi tipici della prassi medica? Sappiamo che la medicina potrebbe rientrare nelle scienze della natura ma la psicoanalisi – cerchiamo di non dimenticarlo – è qualcosa di diverso. Sarebbe per così dire autolesionistico ogni tentativo compiuto dalla prassi psicoanalitica di porsi dinanzi al paziente con lo stesso atteggiamento con il quale vi si porrebbe la medicina. Certo, le affinità esistono e sono numerose, basti pensare che tanto il medico quanto l’analista – per aiutare il paziente – dovrebbero cercare di "penetrare all’interno del male", o al fatto che entrambi non potrebbero pensare di offrire alcun aiuto se prima – negli anni – non si fossero già "sporcati le mani" affondandole in quello stesso problema. Tuttavia il medico ha come obiettivo primario la cura, intesa come asportazione e annientamento assoluto dell’agente patogeno. Per perseguire il suo obiettivo il medico utilizza strumenti per così dire "universali": il medesimo antibiotico per il medesimo ceppo di batteri. E se quell’antibiotico funziona in un caso è probabile che darà gli stessi risultati in milioni di casi analoghi. Per "l’addetto ai lavori con la mente" il discorso è diverso, perché anzitutto non è la "cura" che viene applicata. Certo, è comprensibile che un’affermazione del genere possa turbare i non addetti ai lavori, ossia tutti coloro che guardano al trattamento analitico come a una tecnica medica che, per quanto dispendiosa, potrebbe "guarire" senza dolore fisico, senza penosi ricoveri, senza farmaci e persino senza traumi. È proprio per questo equivoco che tanti percorsi analitici falliscono, vengono interrotti, deludono il paziente. Le "aspettative": ecco il problema. Quando esse sono illusorie e fuorvianti, generano sempre il fallimento della terapia. Giunti a

questo punto però dovremmo domandarci che cosa "in realtà" la psicoanalisi possa offrire e che cosa il paziente debba aspettarsi da essa. Si parlava di "guarigione"; ebbene, non è quello che il paziente dovrebbe aspettarsi come risultato dell’analisi; o meglio, non quel tipo di guarigione che ci propone la medicina. Se proprio vogliamo servirci di questo termine, aggiungiamoci almeno un aggettivo "qualificativo": parliamo di "guarigione psicologica". C’è differenza fra guarigione in senso lato e la cosiddetta guarigione "psicologica"? Sì, e profonda. La guarigione osservata da una prospettiva per così dire "biologica", medica, consiste – come accennavamo – nella completa o parziale remissione dei sintomi, nella cessazione del dolore fisico e nel permettere al paziente di condurre una vita dignitosa e serena. Per far ciò la medicina dovrebbe impiegare mezzi, risorse e strumenti scientifici, ossia sperimentati in laboratorio, codificati e quindi validi. La guarigione psicologica, viceversa, non si avvale di strumenti oggettivi, ma si affida ad altre risorse; risorse che dobbiamo considerare mutevoli, soggettive e "personalizzate". Lo scopo di un trattamento psicoanalitico è quello di accompagnare il paziente in un viaggio avventuroso alla scoperta delle sorgenti del suo disagio, della sua sofferenza; perché è fuor di dubbio che la psicoanalisi vuole anzitutto offrire al paziente la possibilità di capire; ma non solo. Sarebbe infatti ingenuo pensare che il paziente, presa coscienza della causa e dell’origine del suo star male, venga di colpo’esorcizzato’ da questo benefico insight. No, le cose non stanno così, e il discorso è assai più complesso. La conquista della consapevolezza è senza dubbio una tappa importante del processo analitico, ma non perché coincida con la guarigione, quanto per il fatto di mettere il paziente in condizione di imparare a "convivere" con il proprio dolore dopo averlo messo a fuoco e interpretato. Vivere al fianco di un "estraneo" giorno e notte è impossibile, come minimo inquietante; ma se a un certo punto quell’estraneo divenisse "nostro intimo", la situazione migliorerebbe. La sofferenza psicologica ci impone

un discorso molto simile: se pensiamo tutto il male possibile del mondo e degli altri e li consideriamo responsabili delle nostre sofferenze e delle nostre frustrazioni, la psicoanalisi ci spinge a spalancare la finestra non già sul mondo esterno ma sul nostro mondo interiore. E questa "finestra sul cortile", ahinoi, non "dà" su un giardino fiorito, un eden innocente: ciò che scopriamo in virtù – o "per colpa" – della psicoanalisi consiste il più delle volte, in una massa indistinta di elementi negativi e negativizzati, una massa magmatica di sentimenti ostili, di rabbia, frustrazione, sensi di colpa, di vergogna, di paura. Ancestrali ricordi rimossi, volti che sembravano essersi persi nella fitta nebbia dell’inconscio, luoghi che speravamo di non dover più rivisitare ma, soprattutto, quella finestra aperta ci mostra noi stessi. È come se un sipario si spalancasse di colpo, scoprendo un grande specchio, che però non riflette la nostra immagine ma la nostra Ombra. Non sempre il paziente è pronto a una simile "visione" – o dovremmo forse dire "trauma"? – non sempre vuole accettare l’idea che, odiosa, fa capolino all’improvviso sussurrando: "Tu sei fatto così! Prendine atto". Ecco allora le brusche interruzioni di analisi che sembravano procedere per il meglio, ecco le scuse per "gettare la spugna" ed eclissarsi. L’epilogo tuttavia può anche essere molto più felice, e quando ciò avviene è possibile parlare di "analisi riuscita", di un trattamento che "ha funzionato". Accade infatti che il paziente riesca a guardare in quello specchio, a metabolizzare l’immagine che vi vede riflessa, ad attribuirla a se stesso senza più incolparne gli altri, in primis i genitori. Il paziente prende coscienza di sé e, di conseguenza, scopre le radici della sua sofferenza, le vede, le può affrontare e, spesso, estirpare con le sue stesse forze. Quando ciò non sia possibile però – poiché come ben sappiamo non è sufficiente "capire" per "risolvere" – il paziente può comunque progredire verso la "guarigione". Egli infatti – sempre sotto il vigile sguardo del terapeuta – può "imparare" a convivere con i suoi fantasmi, a conoscerli e accettarli perché, appunto, "sangue del suo sangue". La "cattiveria" altrui viene ridimensionata, le colpe e gli errori non sono più scaraventati all’esterno, e tutto ciò

migliora ben presto la sfera dei rapporti interpersonali del paziente, che ora può anche veder migliorare la "qualità della vita", riuscendo dopo tanto tempo – o forse per la prima volta – a sentirsi legittimato nell’appagamento dei propri più autentici desideri e bisogni. Se fino a questo momento essi erano stati messi in secondo piano perché il paziente non se ne sentiva "degno" o perché a se stesso continuava ad anteporre gli altri, ora può rivalutarsi, conferirsi una rinnovata e inebriante dignità. Sono momenti importanti, perché ci si scopre diversi e si vive la propria trasformazione. Ecco il giusto termine nella prassi analitica: la "trasformazione". Trasformarsi significa per il paziente porsi dinanzi al proprio problema – al dolore e disagio che lo avevano spinto a cercare un aiuto – in modo diverso. Anzitutto – là dove sia possibile – il problema verrà ridimensionato, "riletto", e talvolta sarà il paziente stesso a volerlo affrontare con nuovi mezzi e rinnovata forza. Trasformarsi significa anche riuscire ad attingere alle proprie potenzialità per impiegarle in opere positive, tra le quali spicca quella della costruzione della propria personalità e individualità. Ecco allora che se proprio di "guarigione" vogliamo parlare, applicando questo termine anche al contesto psicoanalitico, dovremmo riferirci alla benefica e auspicabile trasformazione vissuta dal paziente, una trasformazione che lo renderà più forte, più vivo e se non "invincibile", almeno "coraggioso". La domanda fondamentale che occorre ora porsi è: "In tutto il processo che abbiamo descritto, che ruolo ha il terapeuta"? Va da sé che le diverse scuole di pensiero risponderebbero a questo interrogativo in maniera differente, schierandosi in una delle tre grandi "categorie" che si sono evolute durante questi ultimi decenni: attivo, passivo, neutrale. La disamina del pensiero dei vari protagonisti della psicoanalisi che abbiamo passato in rassegna offre numerosi esempi di questa "tripartizione", ma i grandi nomi della storia della psicoanalisi si prestano meglio a queste suddivisioni che potremmo definire "didattiche". In particolare, personaggi come Sàndor Ferenczi e Carl Rogers hanno saputo offrirci spunti interessanti di

riflessione in merito al complesso e dibattuto tema della terapia psicologica, mostrandocene di volta in volta immagini differenti ma complementari, l’esito di lunghi e sofferti percorsi compiuti in direzione di un fertile rinnovamento della psicoanalisi. Sebbene per molti anni sia stato ignorato e misconosciuto dal mondo della cultura, a Ferenczi più che ad altri dobbiamo conferire il titolo di pioniere e pilastro della psicoanalisi. L’Ungheria, e per la precisione Miskolcz, gli darà i natali nel 1873, ma il piccolo Sàndor dovrà trasferirsi a Cracovia quando vi si stabilirà il padre. Quinto di undici figli, con una madre polacca, il piccolo Sàndor trascorse un’infanzia spensierata crescendo in uno straordinario clima culturale, che ben presto gli trasmise un amore incondizionato per il sapere e un’insaziabile sete di conoscenza. Il padre di Sàndor infatti gestiva una libreria, una grande libreria, una biblioteca fornita e generosa. La lettura divenne così per il giovane Ferenczi più di un passatempo o di uno svago, si trasformò in un’autentica passione. In seguito alla morte del padre, avvenuta quando Sàndor aveva appena undici anni, il bisogno di rifugiarsi fra le pagine dei suoi ’veri amici d’infanzia’ si fece ancora più intenso e frequente, alimentando la straordinaria creatività di cui il ragazzo era dotato. Ferenczi infatti amava comporre poesie e all’età di ventiquattro anni aveva addirittura scritto un poema romantico dedicato alla madre. Vienna sarà la città in cui Ferenczi compirà i propri studi di Medicina, e nel 1894, conseguita la laurea, inizierà a sviluppare i propri interessi in direzione dei disturbi mentali e delle patologie neurologiche. Da questo momento in poi la professione medica sarà per lui un crescendo di successi e di soddisfazioni; basti pensare che nel 1900, a soli 27 anni, era già primario neurologo presso l’Elisabeth Pourhouse oltre a lavorare, sempre come neurologo, in un proprio studio privato. Il 1908 sarà un anno importante per Ferenczi, l’anno in cui avverrà il primo incontro con Freud e in cui inizierà la sua attività psicoanalitica. Da quel momento nascerà fra i due un’intensa e sincera amicizia, che durerà a lungo, quasi fino alla morte di Ferenczi, avvenuta a Budapest nel 1933 per

leucemia. Il 1908 è però un anno che viene ricordato nella storia della psicoanalisi perché prende vita la Società psicoanalitica di Vienna, già attiva dal 1902 come "Società psicologica del mercoledì". L’anno successivo, in occasione di una serie di conferenze negli Stati Uniti, Freud sarà accompagnato proprio da Ferenczi. La loro amicizia costituiva per Freud un punto fermo, solido e affidabile, che egli volle impreziosire – come avremo modo di osservare esaminando il pensiero di Otto Rank – conferendo a Sàndor uno dei cinque "anelli del comitato", privilegio di pochi eletti: Abraham, Jones e Sachs, Rank e lo stesso Ferenczi. Tale comitato, non dobbiamo dimenticarlo, celava profonde angosce e paure di Freud circa il futuro del movimento psicoanalitico, e i "fedelissimi" erano in fondo "i paladini e custodi" della sua teoria. Partendo da questo presupposto, appare di estremo rilievo e interesse quanto ci viene riferito da Giorgio Antonelli, che nel suo Il Mare di Ferenczi (1997), ci offre un’affascinante, rigorosa ricostruzione della vita e dell’opera dello psicoanalista ungherese. Ecco come Antonelli ci racconta ciò che accadde in quel gennaio del 1909:

Informato da Ferenczi della conferenza che dovrà tenere sulla terapia delle nevrosi, Freud gli trasmette per lettera il consiglio di celare il "pessimismo terapeutico" che ’recentemente si è impadronito dell’ungherese. Osservazione da confrontare con l’accusa che Ferenczi, verso la fine della propria vita, avrebbe lanciato contro Freud, di "nichilismo terapeutico". Nella lettera Freud commette anche un significativo lapsus là dove scrive ’Non mi sento un "benefattore" né con Lei né con altri e perciò il mio modo di agire deve [sic!] suscitare i timori, altrimenti giustificati, ai quali Lei allude’. Il lapsus si spiega in parte con quel che segue, ovvero con la considerazione in base alla quale Freud, con l’incedere dell’età, sente

di dover far posto ad altri (tra i quali include Ferenczi). "11-12 gennaio: Ferenczi corregge con l’inserzione di un "non" (non deve) il lapsus di Freud" (Antonelli 1997, 45).

Questa citazione è interessante non solo perché espone con dovizia di particolari uno "scorcio di vita" tanto di Ferenczi che di Freud, ma soprattutto perché riesce a gettare un raggio di luce sulle dinamiche ed emozioni sottese al rapporto che univa questi due pionieri della psicoanalisi. Non dobbiamo poi dimenticare che al rapporto di amicizia tra i due si aggiungerà quello di analista-paziente; è infatti il 1914 l’anno in cui Ferenczi entrerà in analisi con Freud. L’intento era quello di condurre un’analisi piuttosto breve, diciamo pure non troppo impegnativa, tuttavia il rapporto analitico evolverà sino al 1918. È proprio durante questo anno che Ferenczi otterrà un’altra grande soddisfazione professionale; nel 1918 gli verrà infatti conferita la prima cattedra di psicoanalisi presso l’Università di Budapest. Le sue conferenze, i suoi scritti, le sue idee geniali e feconde, ben presto daranno a Ferenczi una grande popolarità. E del 1914 un altro episodio significativo per lo sviluppo del suo lavoro: Melanie Klein si rivolge a Ferenczi per iniziare una terapia. Ancora una volta ci piace citare Giorgio Antonelli:

Melanie Klein va in analisi con Ferenczi. Il motivo è una depressione acuta alla cui gravità contribuisce la morte della madre [...]. L’interesse della Klein per la psicoanalisi si origina, secondo quanto da lei stessa asserito, appunto intorno al 1914, in seguito alla lettura di Freud. Melanie Klein parlerà di Ferenczi come di un

uomo dal talento fuori del comune (a man of unusual gift) un uomo che aveva il tocco del genio (ibid., 84).

Però, è il legame tra biologia e psicoanalisi a calamitare l’interesse di Ferenczi, soprattutto durante tutta la prima fase del suo lavoro, che come abbiamo visto lo vede impegnato ad assimilare, "rileggere" e riproporre il pensiero e le idee freudiane. Ebbene, l’interesse per la correlazione biologiapsicoanalisi, culminerà nell’opera più significativa di Ferenczi, Thalassa, una teoria della genitalità, pubblicata nel 1924. Il titolo di questo lavoro, mutuato dal termine greco "mare", divenne ben presto sinonimo di una delle opere più rivoluzionarie e innovative della psicoanalisi. Freud ne rimase compiaciuto, apprezzando di questo lavoro la geniale originalità. Non era la prima volta che uno dei suoi allievi prediletti pubblicava uno scritto che avrebbe non solo arricchito la storia della psicoanalisi ma, anche stupito il maestro. Ricorderemo quanto accadde quando, nel 1924, venne pubblicato Il trauma della nascita di Otto Rank. Come abbiamo visto prendendo in considerazione il pensiero rankiano, quest’opera fu in principio accolta da Freud con un atteggiamento positivo, ma ben presto divenne il germe della separazione tra i due, separazione che sarà definitiva nel 1926. In realtà, come osserva Ellenberger, la teoria della genitalità proposta da Ferenczi era, rispetto a quella del "trauma della nascita", "ancora più audace, [...] ma suscitò minori polemiche" (Ellenberger 1970, 984). E ancora:

La vita intrauterina – sosteneva Ferenczi – rappresentava una ripetizione dell’esistenza delle più semplici forme di vita oceanica. Quando, nelle età passate, una specie animale era emersa dal mare per continuare la propria evoluzione sulla terra ferma,

aveva sperimentato un dramma, di cui quello della nascita non era che una ripetizione. L’uomo avvertiva con dolore non solo la nostalgia del ritorno nel grembo materno (come sosteneva Rank), ma soprattutto quella del ritorno alla propria primordiale esistenza nelle profondità marine (ibidem).

Vorrei chiosare che trovo affascinante questo tentativo di estendere alla vita pre-natale l’analogia tra ontogenesi e filogenesi. L’evoluzionismo ci dice che "veniamo dall’acqua", e il rapporto tra "mare" e "madre" – ancora più evidente nelle lingue in cui anche "mare" è femminile (vedi il francese, dove oltre tutto, a parte la grafia, le due parole "suonano" pressoché identiche) – è "di antica data" nella nostra cultura. Nella mitologia greca Teti, madre dei fiumi e delle oceanine, era appunto una divinità femminile; e se storici e antropologi si mostrano scettici sull’era del matriarcato ipotizzata da Bachofen, lo scetticismo diventa un "optional" se anziché alla storia dell’Homo Sapiens ci riferiamo alla sua favolosa preistoria, visto che – come ci ricorda Elemire Zolla nel suo recente Il dio dell’ebbrezza (1998) – la statuaria greca abbonda in maniera sospetta di divinità femminili, e i fregi del Partenone, popolati di amazzoni guerriere, hanno l’aria di commemorare un antico matriarcato – o la sua sconfitta. Quanto al versante ontogenetico, è difficile negare che ci sia stata, in ogni singola vita umana, una "fase matriarcale", in cui l’intero mondo era la madre. Ma torniamo a Ferenczi. Le dinamiche "thalassali" descritte nel suo rivoluzionario lavoro – che vuole esaltare il bisogno di un ritorno ad uno stato embriologico peculiare – andarono via via costellando ciò che Ferenczi definì come "bioanalisi": un approccio teorico in grado di fornire spiegazioni della vita applicando i principi propri della psicoanalisi all’universo delle scienze naturali. Secondo Ferenczi sarebbe auspicabile che l’analista si servisse dei principi propri della "bioanalisi" per progredire nel proprio

lavoro, giacché uno degli obiettivi principali della "bioanalisi" sarebbe quello di pervenire alla costituzione di una "biologia del profondo". Per procedere in questa direzione, Ferenczi adottò come metodologia quella dell’utraquismo. Derivato della formula latina "sub utraque specie", il termine "utraquismo" viene impiegato da Ferenczi per indicare la necessità della scienza di progredire ed evolversi mediante l’ausilio di discipline diverse e della loro reciproca integrazione. Thalassa vuole essere un efficace esempio di collaborazione interdisciplinare. Il desiderio di cambiamento e di innovazione teorica avevano quindi coinvolto anche Ferenczi, il quale nel 1924 aveva pubblicato assieme a Rank Lo sviluppo della Psicoanalisi, che già rivelava questo bisogno di nuove idee. Se i concetti espressi in quest’opera possono infatti essere considerati le prime avvisaglie del conflitto che porterà Rank a distaccarsi dal suo maestro e dalla psicoanalisi classica, possono altresì essere letti come un dettagliato excursus sulle numerose problematiche della psicoanalisi a quel tempo irrisolte. È la terapia psicoanalitica che sembra essere il bersaglio del lavoro di Rank e Ferenczi e, come vedremo, di tutto il successivo impegno di quest’ultimo. La ricerca di una nuova tecnica, infatti, non abbandonerà mai Ferenczi e sebbene il suo pensiero debba molto alle idee freudiane, non possiamo sottovalutarne l’originalità. Antonelli ci ricorda che, proprio nel 1924, "l’evento forse più importante per Ferenczi, almeno per quello che se ne sarebbe derivato (e anche in relazione al proprio rapporto con Freud), è l’aver preso in analisi Elizabeth Severn, con la quale, soprattutto, condurrà, nel segreto e al riparo dalla psicoanalisi ufficiale, l’estremo esperimento dell’analisi reciproca" (1997, 111). Ma i passi compiuti da Ferenczi in direzione della conquista di una "nuova prassi" non si fermarono qui. Non accontentandosi della "contaminazione" fra discipline diverse e dalla neonata "bioanalisi", Ferenczi proporrà in una seconda fase del suo lavoro una nuova prospettiva teorica, un approccio rivoluzionario, destinato a divenire parte integrante del bagaglio culturale della psicoanalisi moderna.

Se la "Bioanalisi" esaltava anzitutto i principi della biologia, decretando il predominio di questa sulla psicoanalisi, la cosiddetta "terapia attiva" condurrà a conclusioni del tutto differenti. La "tecnica – o terapia – psicoanalitica attiva", non nasconde la sua originaria matrice freudiana, tuttavia sia i suoi presupposti che le sue finalità rivelano le caratteristiche di una metodologia originale. In Difficoltà tecniche nell’analisi di un caso di isteria, apparso nel 1919, è possibile individuare alcune di queste caratteristiche, in particolare a proposito dell’utilità terapeutica delle fasi degli "ordini" e dei "divieti". La "terapia attiva" infatti, prevede che il paziente riesca durante l’analisi a comportarsi e agire in modo tale da esprimersi e "produrre materiale" attingendolo dall’inconscio. Sebbene, come abbiamo detto, la "tecnica attiva" sia ispirata all’approccio terapeutico freudiano, se ne allontana nel momento in cui suggerisce all’analista di sollecitare nel paziente la produzione del materiale. Aumentando la tensione interna del paziente ma ostacolandone – attraverso prescrizioni paradossali – la "scarica", sarebbe possibile secondo Ferenczi ottenere una salutare intensificazione delle dinamiche inconsce. Al di là dell’uso delle libere associazioni – che rivelano la "passività" della tecnica freudiana – la terapia attiva di Ferenczi vede l’analista impegnato in prima persona nel sollecitare la produzione del materiale inconscio da parte del paziente. Proibizioni, divieti, ordini e prescrizioni di comportamenti per così dire "paradossali", avrebbero quindi la funzione di aumentare la tensione psichica nel paziente. Nello scritto del 1919 poc’anzi menzionato, ad esempio, Ferenczi riferisce che "l’effetto del provvedimento fu, letteralmente, folgorante" (Ferenczi 1919, 94) e, d’altro canto, ne Il problema dell’influsso sul paziente nel corso dell’analisi, Ferenczi afferma:

In numerosi casi di isteria da angoscia e di impotenza isterica ho constatato che fino a un certo punto l’analisi procedeva liscia; pur essendo i pazienti perfettamente

consapevoli, il risultato terapeutico si lasciava attendere e le ideazioni cominciavano a ripetersi con una certa monotonia, come se i pazienti non avessero più niente da dire e il loro inconscio si fosse esaurito. [...] In queste difficoltà mi venne in aiuto un consiglio datomi verbalmente dal professor Freud. Egli mi ha spiegato che dopo un certo tempo bisogna invitare i pazienti affetti da isterismo da angoscia ad abbandonare il loro atteggiamento di sicurezza a sfondo fobico, e a tentare proprio ciò di cui hanno maggiormente paura (Ferenczi 1919 a, 42).

Appare dunque evidente come anche Freud avesse utilizzato alcuni dei principi della tecnica attiva, quando prescriveva a un paziente fobico di affrontare il cuore delle sue paure o nello stabilire il termine di un’analisi. Essenziale per la comprensione della tecnica attiva si rivelò una relazione di Ferenczi in occasione del VI Congresso Internazionale di Psicoanalisi che ebbe luogo a L’Aia nel settembre 1920. Ulteriore estensione della «tecnica attiva» in psicoanalisi, fu pubblicato solo l’anno successivo, ma i congressisti ebbero subito l’impressione che Ferenczi proponeva qualcosa di nuovo, sentendolo parlare con sufficienza, se non con insofferenza, del metodo delle "libere associazioni" e dei limiti di questa prassi inveterata.

I principi della tecnica psicoanalitica non hanno conosciuto sostanziali innovazioni dopo l’introduzione della «regola fondamentale» (della libera associazione. [...] La psicoanalisi quale oggi l’applichiamo è un procedimento che ha come caratteristica saliente proprio la passività. Noi invitiamo il paziente a lasciarsi guidare acriticamente dalle sue «ideazioni»; egli non

deve fare altro che comunicare per intero queste ideazioni (a condizione tuttavia di superare le resistenze che a questo si oppongono) (Ferenczi 1920, 44-45).

In occasione di quel Congresso, Ferenczi incontrò un anziano medico, amico di Freud, oggi considerato il fondatore della medicina psicosomatica, che sarebbe divenuto per lui una figura significativa: Georg Groddeck. Non è un caso se questi due personaggi, così innovatori, anticonformisti e "scomodi" per la psicoanalisi, divennero con il tempo tanto amici. "Lo psicoanalista selvaggio" infatti – questo il singolare pseudonimo che lo stesso Groddeck volle assumere, in fiera polemica con la deferente ortodossia del mondo psicoanalitico di quegli anni – intrecciò con il nostro Ferenczi una corrispondenza che sarebbe durata per più di un decennio, per la precisione dall’agosto del 1921 fino al marzo del 1933. È probabile che fosse la comune attenzione all’interdipendenza tra soma e psiche ad alimentare la sintonia tra questi due personaggi, ma il loro epistolario ci rivela un costante ampliarsi del campo di interessi che li coinvolgevano. In particolare, appare interessante in questa sede quello che Ferenczi scrive a Groddeck in una lettera datata 11 ottobre 1922 a proposito dell’"autoanalisi", rischiando in un colpo solo di rendersi sgradito sia al suo amico "selvaggio", che non aveva fatto alcun genere di training, sia al comune amico Freud, che solo grazie a un’autoanalisi aveva potuto inventare dal nulla la nuova disciplina:

Io non credo alle autoanalisi. L’inconscio è molto abile a indurre in errore, proprio sui punti più importanti. L’analisi implica un certo grado di alienazione da se stessi, ed è impossibile quando gran parte delle proprie

capacità psichiche restano vigili come istanza critica – è ciò che accade nell’autoanalisi, nella quale si pretende di essere contemporaneamente padre e figlio. [...] L’analisi, a mio avviso, è un fenomeno sociale. Bisogna essere (almeno) due. Giacché non è altro che una ripetizione in condizioni migliori dell’educazione passata, e cioè la risoluzione della dipendenza affettiva nei confronti dei genitori" (Ferenczi e Groddeck, 19211933, 62-63).

Possiamo dire che Ferenczi ha dedicato tutti i suoi sforzi alla ricerca e attuazione di una tecnica psicoterapica. Eppure Michael Balint lo rimproverò di "non avere una tecnica" – cosa che non era mai stata rimproverata a trasgressori del calibro di Jung, Adler, Melanie Klein, Sullivan, Alexander" (Wolman 1967, 161). In realtà oggi riconosciamo a Ferenczi l’originalità e l’utilità dei suoi contributi alla tecnica analitica: se in passato è stato definito l’enfant terrible della psicoanalisi, oggi gli si riconosce pressoché il più lusinghiero attributo di "innovatore". Altrettanto innovatore si rivelerà Carl Rogers, che strutturerà il suo edificio teorico dopo aver assorbito e metabolizzato la teoria psicoanalitica, dalla quale peraltro ben presto prenderà le distanze assumendo presupposti e finalità diversi. Ma se a questo punto volessimo tracciare un identikit della terapia secondo Rogers, saremmo nei pasticci; perché sebbene Rogers abbia esposto le sue teorie con uno stile semplice e lineare, è proprio il contenuto dei suoi scritti che non è né "semplice" né "lineare". Il fatto è che la terapia rogersiana è "cangiante", mostra di volta in volta una faccia diversa. Per semplificare, diremo che ne ha almeno tre – una in più di Jeckyll-Hyde. Proviamo ad allinearle in ordine cronologico: la "terapia non direttiva", la "terapia centrata sul cliente", la "relazione terapeutica come relazione interpersonale". I presupposti della "terapia non direttiva" vengono alla luce

durante i primi anni del suo lavoro, anni durante i quali Rogers condivide la cosiddetta "concezione umanistica" sulla quale torneremo. Il testo-base della "terapia non direttiva" è Counseling and Psychoterapy, nel quale Rogers afferma la necessità che il ’counseling’ venga condotto dal terapeuta secondo una modalità non "direttiva", partendo dal presupposto "che il soggetto abbia il diritto di scegliere le mete della propria vita, anche se queste possono essere diverse da quelle che il consultore avrebbe scelto per lui. [...] Il punto di vista non direttivo attribuisce alto valore al diritto di ogni individuo di essere psicologicamente indipendente e di mantenere la sua integrità psicologica" (Rogers 1942, 123124). In altre parole, il terapeuta "non direttivo" deve essere capace di non interferire e di non giudicare, di accettare le decisioni del paziente senza metterle in discussione né valutarle. Secondo il metodo "non direttivo", il vero – o forse l’unico – compito del terapeuta si riduce ad assecondare lo spontaneo fluire della vita del paziente, secondo i suoi progetti, umori, impulsi, occasioni. In Counseling and Psychoterapy appare però anche un altro concetto, che ritengo attuale e che infatti non è passato inosservato. Mi riferisco all’accento che Rogers pone sull’importanza, ai fini terapeutici, di creare un "rapporto di counseling". Più volte ho avuto occasione di soffermarmi sulla straordinaria rilevanza del rapporto terapeuta-paziente ai fini della trasformazione psicologica. Ecco cosa dice Rogers a proposito dell’atmosfera che dovrebbe caratterizzare la relazione psicoanalitica:

Prima di tutto il calore e la rispondenza da parte del consulente rende possibile un avvicinamento, il quale si evolve a sua volta lentamente in un rapporto emotivo più profondo. [...] La seconda caratteristica del rapporto di counseling è la tolleranza riguardo all’espressione dei sentimenti. [...] Anche se vi è questa

libertà totale di esprimere i sentimenti, nel colloquio terapeutico ci sono limiti ben definiti di azione, i quali conferiscono al colloquio una strutturazione che l’individuo può utilizzare per una progressiva acquisizione di insight. [...] Una quarta caratteristica del rapporto di counseling è che esso è privo di qualsiasi pressione o coercizione (ibid., 84-86).

Tuttavia, sebbene Rogers abbia "colto nel segno" enfatizzando la funzione del rapporto, tuttavia lo spirito della "terapia non direttiva" da lui proposta rischia di confinare il terapeuta "ai margini" della relazione, relegandolo a un mero ruolo di "specchio", un ruolo non certo proficuo sul piano umano. La posizione di Rogers diverrà ancor più rigorosa durante il cosiddetto "periodo fenomenologico", che si aprirà nel 1945 e vedrà nascere la "terapia centrata sul cliente". Il termine "paziente", utilizzato fino a questo momento nel lessico di ogni tipo di psicoterapia, viene ora usato da Rogers sempre più di rado, in attesa di essere abrogato. La terapia centrata sul cliente è un’autentica esaltazione del ruolo del Sé, dei suoi diritti, dei suoi compiti. La crescita e la realizzazione di sé divengono i soli obiettivi da perseguire.

Secondo alcuni, «essere ciò che veramente si è» è sinonimo di fissità ed immutabilità. Nulla potrebbe essere più lontano dalla verità. Essere ciò che si è, vuol dire entrare pienamente nel divenire un processo (Roger 1961, 177).

Viene in mente il "divieni quel che tu sei" di Nietzsche, che –

come spesso succede a certe "auree sentenze" in forma di paradosso – se preso alla lettera rischia di passare per una tautologia. In realtà sia Nietzsche che Rogers vogliono dirci che ognuno di noi è qualcosa di diverso e più ricco – sul piano psicologico, s’intende – di quello che è riuscito finora a realizzare di sé. È il "concetto di Sé" il vero protagonista di questo secondo periodo, tanto che questa teoria è conosciuta come "teoria del sé". Ma c’è un altro aspetto della "terapia centrata sul cliente" che non possiamo trascurare: il nuovo ruolo di cui il terapeuta viene investito, un ruolo che esalta le sue disposizioni individuali e il suo orientamento, e che di conseguenza lo rimette in gioco. E passiamo all’ultima fase dell’elaborazione teorica di Rogers, che coincide col suo "periodo esistenzialista". La "relazione terapeutica come relazione interpersonale" infatti, prende vita proprio mentre Rogers metabolizza i messaggi degli scritti di Kierkegaard e di Buber. L’obiettivo della terapia sarà ora rappresentato da ciò che Rogers definisce la "modificazione terapeutica della personalità" (ibid., 50-67). Per semplificare i passaggi che conducono verso questo obbiettivo, Rogers enuncia sei preposizioni: 1. Due persone sono in contatto psicologico. 2. La prima, che chiameremo il cliente, è in uno stato di incongruenza, di vulnerabilità o di ansia. 3. La seconda persona, che chiameremo il terapeuta, è in uno stato di congruenza: è cioè, nella relazione, liberamente e profondamente se stesso. 4. Il terapeuta prova dei sentimenti di considerazione positiva incondizionata nei confronti del cliente. 5. Il terapeuta prova una comprensione empatica del sistema di riferimento interno del cliente e si sforza di comunicare al cliente questa esperienza. 6. Si verifica una comunicazione, almeno parziale, della comprensione empatica e della considerazione positiva incondizionata del terapeuta per il cliente.

"Non sono necessarie altre condizioni. È sufficiente che queste sei condizioni siano presenti e sussistano per un certo periodo di tempo perché il processo di modificazione costruttiva della personalità si verifichi" (ibid., 51). La relazione d’aiuto quindi, fondandosi su questi sei passaggi, innesca una positiva trasformazione della personalità perché consente al paziente di evolvere da una dimensione di "incongruenza" verso uno stato di "congruenza", dove si può "essere ciò che in realtà si è". È impossibile non essere colpiti dalla meticolosa, geometrizzante, vorrei dire algebrica precisione di questo "quadro sinottico", quasi un modello di scienza esatta. E io credo che proprio in questo aspetto stia il tallone d’Achille della metapsicologia rogersiana. Poiché sono convinto che un approccio psicobiografico rappresenti lo strumento migliore per comprendere qualsiasi metapsicologia è il caso di ricordare come durante l’infanzia il piccolo Carl avesse sviluppato una modalità "scientifica", di rapportarsi al mondo esterno. Ebbene, si direbbe che l’approccio ’scientificizzante’ non sia stato mai abbandonato da Rogers, e lo abbia spinto a leggere con lo stesso rigore e metodicità anche le dinamiche del mondo interno. Voglio subito chiarire che, sebbene io non consideri la Psicologia del Profondo una scienza, non voglio affatto affermare che sia illegittimo, in linea di principio, farsi un’idea del mondo ricorrendo a modelli, paradigmi e attrezzi teorici propri delle discipline scientifiche: lo fanno i sociologhi, gli antropologi, i politologi, i massmediologi e tanti altri "ologi". E arrivo a dire che è legittimo "leggere" il mondo attraverso queste griglie anche quando si tratti del ’mondo interiore’. Purché – e qui sta il punto – queste griglie non finiscano col nascondere una parte non secondaria della realtà che si sta osservando; oppure diventino, le griglie stesse, così importanti che il metterle a fuoco comporti – come succede in fotografia o nelle inquadrature cinematografiche – una sorta di "sfocatura" di qualcosa che c’è al di là sullo sfondo, qualcosa che diventa allora illeggibile, una macchia oscura, uno "scotoma".

Ebbene, è quello che succede a Rogers: per mettere a fuoco la sua griglia, cancella, del mondo interiore, proprio quel che c’è di più profondo e inquietante, che poi è – quantomeno dovrebbe essere – tema-principe della psicoanalisi: l’inconscio. Una teoria priva di riflessioni sulle dinamiche e meccanismi inconsci che orchestrano il ritmo della nostra vita: ecco come potremmo considerare l’opera di Carl Rogers. Quello che ascriveremmo a suo merito è l’aver posto così l’accento sulla libertà e autenticità individuale. Ritengo che questo tipo di autenticità sia prioritaria per il buon funzionamento di ogni rapporto interpersonale, poiché se è vero – come è vero – che l’essenza di una relazione d’aiuto risiede nella "qualità dell’incontro interpersonale con il cliente" (ibid., 1961, 88), nulla più di una profonda libertà e verità individuale potrà migliorare la qualità del rapporto. Ciò che tuttavia mi preme ora sottolineare è il fatto che, il grande protagonista della psicoterapia – e della trasformazione – è il paziente. Abbiamo introdotto l’espressione "trasformazione psicologica" per sostituire quella troppo medicalizzata di guarigione. Ebbene, il paziente si rende protagonista di questi importanti processi rigenerativi nel senso che essi non vengono attivati dal lavoro del terapeuta, ma devono essere considerati come la tangibile manifestazione di un traguardo, del progresso raggiunto dal paziente. Parlare di "traguardo" in psicoanalisi, implica presupporre l’esistenza di un percorso, ed è proprio a questo livello che potremmo rintracciare la peculiarità del trattamento analitico. La psicoanalisi, in realtà, è un cammino, un percorso la cui caratteristica più importante è data dal fatto che chi lo compie non è mai solo. Potrebbe configurarsi come un "eccesso di altruismo", nel senso che la fatica delle salite, del superamento degli ostacoli, il dolore dello sconforto e le frustrazioni, vengono sempre ripartiti sulle spalle del terapeuta e su quelle del paziente, ma poi, quando si diviene consapevoli di aver raggiunto "la meta", la rinascita sarà tutta del paziente. Ciò non significa che il terapeuta sia preservato da ogni tipo di coinvolgimento, significa soltanto che la coppia analitica lavora

in funzione del benessere del paziente, di un suo miglioramento. Il cammino analitico non può dunque essere compiuto in solitudine, e tutto ciò che potremmo aggiungere a questo livello parlando di "autoanalisi" esulerebbe dagli intenti del nostro discorso. Ciò che dovremmo comprendere, è il fatto che nel rapporto, nella relazione che si instaura fra paziente e analista, andrebbe ricercato il motore primo della trasformazione psicologica del paziente. Ecco allora che la tripartizione fra il ruolo attivo, passivo e neutrale del terapeuta, perde di significato, là dove ciò che conta anzitutto è la presenza di un terapeuta e non il suo credo. Non sarà certo la formazione o la "scuola" di appartenenza dell’analista a migliorare la qualità del rapporto che quest’ultimo riuscirà a stabilire con il proprio paziente, quanto invece le sue "doti umane". Comprendiamo così, giunti a questo punto, che i veri fattori terapeutici andrebbero ricercati non tanto nella figura del terapeuta, quanto in quella del paziente. Il terapeuta aiuta il paziente, lo sostiene, lo accompagna durante quel processo che gli permetterà di vivere la propria trasformazione, ma in realtà il paziente "deve farcela da solo".

11. LO SVILUPPO DELLA COSCIENZA Cosa significa affermare che per uscire dalla propria sofferenza e vivere il proprio cammino di individuazione e trasformazione, il paziente dovrà "farcela da solo" e potrà contare solo sulle proprie forze? Già nientemeno che Aristotele sosteneva che il medico non ’guarisce’, ma aiuta e sostiene il lavoro che nel paziente farà la natura; concetto che è arrivato fino alle moderne formulazioni della psicologia del profondo: Jung, come sappiamo, leggeva la stessa nevrosi come un tentativo di autoguarigione, seppure un tentativo poco "economico", pagato dal soggetto a caro prezzo. E stata questa convinzione che mi ha condotto ad analizzare pazienti avanti negli anni con buoni risultati. In particolare, non posso non ricordare il caso di Ligeia, una donna scivolata nella depressione a causa della sterilità progressiva della sua esistenza. Nel mio La scala che scende nell’acqua (Carotenuto 1979) ho voluto proprio illustrare, attraverso l’analisi di alcuni sogni significativi, la storia di questa donna approdata alla psicoanalisi in età piuttosto matura. La particolarità di Ligeia era quella di essersi sentita negare, da parte di altri terapeuti ai quali si era rivolta, l’aiuto psicologico del quale avvertiva la necessità. Trascurando ora le cause del disagio di questa paziente e le motivazioni che la spinsero a ricercare il mio sostegno, vorrei soffermarmi su un aspetto essenziale della terapia, ossia sulla possibilità di offrire aiuto e di intervenire anche là dove gli anni sembrano avere ispessito la corazza dell’individuo. Questa donna, come dicevamo, era stata rifiutata da parecchi analisti che consideravano un ostacolo la sua età; e invece il suo lungo viaggio è stato la miglior testimonianza della possibilità che a qualsiasi età possiamo riattingere a quelle energie psichiche con cui si era interrotto il contatto.

Se, a uno sguardo retrospettivo, si può riconoscere un senso al percorso già fatto, anche il presente acquista dignità e significato, e la consapevolezza di aver fornito un contributo personale rasserena la coscienza e la predispone all’ascolto delle voci interiori, alla riflessione, all’introspezione. Ogni fase della vita, corrisponde a una fase di sviluppo psicologico, e in ogni stadio può accadere che l’individuo senta il bisogno di un soccorso per corrispondere al processo di integrazione tra conscio e inconscio che va svolgendosi in lui. Torniamo adesso sullo sviluppo psicologico e su ciò che intendiamo per personalità, cercando soprattutto di porre in evidenza "l’atteggiamento" della psicoanalisi nei confronti di questa tematica. Abbiamo già detto che per la psicologia analitica lo svolgersi della personalità non consiste in un progresso di sviluppo lineare, ma in un progressivo dispiegarsi delle potenzialità latenti nell’individuo, attraverso fasi di integrazione e di deintegrazione cicliche. Esse corrispondono alla necessità della coscienza di integrare i contenuti dell’inconscio per potersi ampliare, così che la personalità individuale ne risulti arricchita. Abbiamo inoltre asserito che una individualità esiste fin dalla nascita, sia nel senso che il neonato non è un oggetto passivo, o una sorta di ’terminale’ dell’ambiente, ma attiva nei suoi interlocutori risposte specifiche, cioè attiva la comunicazione; sia nel senso che ogni bambino fornisce risposte specifiche personali, e che esistono ampie variazioni di risposta nei comportamenti del bambino. In sostanza stiamo dicendo che il bambino, ogni bambino, ha una sua individualità, una vita in qualche modo indipendente dalla madre fin dall’inizio. Quelle due asserzioni sono in realtà correlate: esiste una specificità individuale, fin dalla nascita, che si dispiegherà nel tempo attraverso un processo di evoluzione (anche se non lineare), processo che potrà incontrare ostacoli, che potrà subire arresti o regressioni, o necessitare di interventi di soccorso. Una visione suggestiva dello sviluppo della coscienza e dell’evoluzione individuale è quella offertaci da Erich

Neumann. Ricordato come "l’allievo di Jung" per antonomasia, Erich Neumann rappresenta uno dei ’giganti’ della psicologia analitica; i suoi lavori infatti costituiscono dopo l’opera di Jung il sostrato più fertile dal quale la psicologia analitica ha attinto per svilupparsi. Neumann nasce a Berlino il 23 gennaio 1905, nel celebre quartiere di Charlottenburg, e muore a Tel Aviv nel 1960. La famiglia, di origine ebraica, godeva di una rispettabile posizione socio-economica e questo aspetto agevolò il percorso di studi del giovane Erich. Innamorato della cultura, Neumann manifestò un profondo attaccamento allo studio, e nel 1923 ottenne la maturità classica. Conseguita nel 1927 la laurea in Filosofia all’Università di Berlino, il giovane Erich si iscrisse alla facoltà di medicina. La guerra però – e soprattutto il dramma sempre più inarginabile del nazismo – gli impediranno di compiere il passo conclusivo, ossia di discutere la propria tesi di laurea. Le origini ebraiche infatti costituirono per Neumann un pesante fardello fin dagli anni della gioventù, costringendolo a una serie di rinunce e ’scelte obbligate’. La più dura fu senza dubbio quella di lasciare la Germania per cercare rifugio altrove. La prima tappa del suo cammino di speranza fu la Svizzera, dove giunse nell’autunno del 1933 e si fermò per circa un anno. Nel 1934 infatti potrà ricongiungersi alla moglie e ai figli che lo attendevano in Palestina e a Tel Aviv inizierà la sua attività di analista – nonostante i numerosi ostacoli e difficoltà. La formazione culturale di Neumann era in realtà umanistica, alimentata da una profonda conoscenza dei grandi temi mitologici delle diverse culture. Nel 1923, Neumann aveva avuto occasione di incontrare una delle figure di spicco dell’espressionismo in Germania: il filosofo ebreo Erwin Löwenson. Il rapporto con questo personaggio sarà determinante per l’evoluzione culturale di Neumann, che avrà così occasione non solo di approfondire importanti temi legati alla letteratura e alla filosofia ma, soprattutto, di approfondire lo spirito della cultura ebraica. "Fu

Löwenson, ancor prima di Jung, colui che impresse un profondo solco nella personalità di Neumann, chiamato a lavorare nel gruppo da lui diretto, insieme a Frenkenstein e pochi altri. Tra gli argomenti della comune ricerca figuravano Kant, Schopenhauer, Freud, Mann, Kafka" (Vitolo, 1989, 465). Come accennavamo, la Svizzera si rivelerà una importante tappa nella "crescita" di Neumann, anche perché lo condurrà ad intraprendere un’analisi didattica con Jung, incontrato per la prima volta nel 1931. Fondatore – grazie alla collaborazione e il supporto della moglie e di alcuni colleghi – della Società israeliana di psicologia analitica, Neumann viene ricordato soprattutto come il "primo" fra gli esponenti del pensiero junghiano. Dopo il 1947, ossia quando l’orrore della guerra era stato non dico "smaltito" ma in qualche modo metabolizzato, Neumann volle tornare in Europa. Fu ad Ascona che riuscì a trovare un’oasi ideale per ristorare – attraverso la cultura – il proprio animo di uomo e di ebreo ferito dalla tragedia del nazismo. Ogni anno infatti, e per la precisione durante il mese di Agosto, ad Ascona si tenevano le celebri Conferenze Eranos, orchestrate da Olga Fröbe Kapteyn e dinamicizzate dalla presenza di Jung. Neumann non volle rinunciare all’opportunità di esporre il proprio pensiero in un contesto così prestigioso e stimolante. Consapevole non solo di poter ’ricevere’ ma, soprattutto, di poter ’offrire’ molto ai partecipanti alle Conferenze, Neumann partecipò a ben tredici "sessioni". Anno dopo anno la sua opera ha testimoniato l’impegno di un grande conoscitore e interprete del pensiero junghiano, e anzitutto per questa ragione oggi Neumann viene annoverato tra i maggiori esponenti della ’psicologia analitica’. Tuttavia, il pensiero di Neumann può e deve essere apprezzato anzitutto per la sua originalità, per la sua innovativa e geniale creatività. Il primo scritto di Neumann fu Der Anfang, un romanzo, che per le sue caratteristiche rappresenta l’altro ’filone’ delle opere neumaniane; affiancandosi infatti a quello di impronta psicologica, il gruppo degli scritti per così dire ’letterari’, va a completare l’"opera omnia" di Neumann.

Senza dubbio, però, la Storia delle origini della coscienza (1949) viene ricordata come il suo primo saggio di grande rilievo. L’intento di Neumann era quello di offrire una descrizione dettagliata della tappe attraverso le quali lo sviluppo della coscienza si esplicherebbe, con particolare attenzione alle grandi immagini mitologiche dell’umanità; intento non certo modesto, anzi ambizioso. Ma la perizia e il rigore con cui seppe portare avanti il suo lavoro gli vennero riconosciute dallo stesso Jung, il quale nella prefazione alla Storia delle origini della coscienza, scrive:

L’autore ha assolto con successo questo compito difficile e meritevole. È riuscito a stabilire delle connessioni e a costruire in questo modo un tutto organico, quale il pioniere non sarebbe stato capace né avrebbe mai osato fare. Quasi a conferma di quanto ho detto, il suo lavoro prende le mosse da quel nuovo continente in cui io mi sono imbattuto per la prima volta e inopinatamente, vale a dire dal simbolismo matriarcale, [...] Su questa base egli è riuscito, da un lato, a delineare per la prima volta una storia dello sviluppo della coscienza e, dall’altro, a rappresentare il mito come una fenomenologia di tale sviluppo. E pervenuto così a delle conclusioni e a delle nozioni, che vanno annoverate tra le più importanti mai raggiunte in questo campo (Jung 1949, 11-12).

Ma cosa significa dire che Neumann ha saputo "rappresentare il mito come una fenomenologia dello sviluppo della coscienza"? Per rispondere a questo quesito, non dovremmo dimenticare che egli seppe forse meglio di chiunque altro utilizzare le grandi mitologie. Infatti, esaminandone i più salienti aspetti simbolici, Neumann è riuscito a ripercorrere

storicamente le tappe dello sviluppo psicologico individuale. Senza mai mettere in discussione il pensiero junghiano ma, anzi, assumendone determinati aspetti come presupposti teorici, Neumann è riuscito con chiarezza e determinazione a proporre l’idea che la coscienza derivi dal mondo inconscio, che di esso si nutra e che da esso si vada via via differenziando attraverso una serie di ’tappe evolutive’. In tal senso appaiono assai utili alcune affermazioni di Vitolo che, analizzando l’opera di Neumann, osserva:

Neumann muove dal postulato secondo cui l’attività cosciente dell’uomo scaturisce dalla dimensione inconscia in modo costante, così che sarebbe possibile cogliere le tappe principali del passaggio dalla mentalità primitiva a fasi ulteriori e più evolute del pensare e del sentire. [...] Neumann tende a isolare nei dati mitologici aspetti eminentemente simbolici che indicherebbero fasi dello sviluppo della psiche. Degli archetipi junghiano egli potenzia il ruolo di immagini capaci di conferire ordine e senso alla conoscenza della realtà interna ed esterna. [...] ’Storia’, ’origini’ e ’coscienza’ si affermano pertanto quali elementi costitutivi dello sviluppo umano, a cui né la specie, né i singoli possono sfuggire (Vitolo 1989, 468-469).

Il pensiero di Neumann ruota insomma attorno a una grande idea portante:

lo sviluppo dell’umanità e quello dell’individuo procedano analogamente verso sempre maggiori livelli di differenziazione dalla matrice inconscia da cui

proveniamo, per raggiungere una struttura stabile della coscienza, senza tuttavia perdere il contatto con le origini psichiche (Carotenuto 1991, 254-255).

L’ipotesi proposta da Neumann circa lo sviluppo psicologico dell’individuo non è del tutto nuova, in quanto ripropone temi già affrontati da Jung; per avvalorarla egli utilizza però un interessante parallelismo tra filogenesi e ontogenesi. Neumann parte anzitutto dal concetto junghiano di archetipo,(concetto molto controverso sul quale torneremo) giungendo poi a considerare la concatenazione e successione dei differenti archetipi come il motore primo dello sviluppo della coscienza:

Il percorso compiuto dall’evoluzione umana dall’inconscio alla coscienza segue la via della trasformazione della libido e della sua ascesa. Questa via è delimitata dalle grandi immagini degli archetipi e dei loro simboli. Man mano ch’essa si snoda, vengono sottratte all’inconscio e trasferite sulla coscienza quote sempre maggiori di libido, le quali contribuiscono ad ampliare e a consolidare sempre più quel sistema (Neumann 1949,299).

E ancora:

Quando gli istinti hanno una rappresentazione centralizzata, cioè quando emergono come immagini, essi vengono chiamati da Jung archetipi. Gli archetipi prendono la forma di immagini solo dove è presente

una coscienza; cioè la trasformazione di istinti in immagini è un processo psichico di ordine superiore (ibid., 259).

Oltre alla visione per così dire "lineare" di sviluppo della coscienza propostaci da Neumann, anche la teoria secondo la quale il compito psicologico dell’individuo viene a svolgersi seguendo un processo a spirale – più che lineare – e che dunque il tempo della maturazione è un tempo ciclico, scandito da ritmi di integrazione e deintegrazione, appare di grande importanza, soprattutto per avvicinarsi alla sofferenza psicologica con uno sguardo scevro da pregiudizi e riduttivismi. E in questo senso che Jung riteneva che il disturbo psicologico, al di là delle differenze nosologiche, testimoniasse non solo di una impasse, ma fosse anche una modalità di rottura di una innaturale unilateralità della coscienza, che assolvesse dunque anche al compito di compensare uno squilibrio. In questo senso la ’malattia’ non va più considerata come un corpo estraneo che deve essere rimosso, ma compresa, letta, decifrata: che cosa voglia significare e quale sia la sua funzione. Potremmo allora rappresentarci il tempo della malattia come un tempo di deintegrazione, funzionale a un nuovo adattamento dell’individuo alla realtà; adattamento reso possibile solo da un ampliamento della coscienza, con l’integrazione di quei contenuti inconsci che premono affinché la coscienza li comprenda e li accolga. La causa della nevrosi, insiste Jung, risiede proprio nella ristrettezza dell’atteggiamento cosciente del soggetto, e nella necessità di oltrepassarlo: "Dietro la perversione nevrotica si celano la vocazione, il destino e il divenire della personalità, la completa realizzazione della volontà di vivere intrinseca all’individuo" (Jung 1934, 177). La nevrosi infatti nasce sempre da un errato atteggiamento della coscienza nei confronti dell’inconscio, e ciò può essere dovuto o a una carente evoluzione dell’Io o all’eccessiva carica

energetica di alcuni complessi inconsci. In tal senso, appare interessante anche il punto di vista di Gordon Allport in merito al concetto di nevrosi e alla sottile distinzione fra normalità e patologia. Allport fu sempre molto attento al problema delle definizioni, perché era convinto che fra i vari compiti cui la psicologia deve adempiere spicca quello di individuare una definizione ottimale per tutti quei concetti utili ai fini di una descrizione ed esemplificazione della personalità individuale. Giunse così ad affermare:

Alcuni pensano che noi si sia tutti nevrotici, che nessuno sia normale e che vi siano soltanto dei gradi di accettabilità da parte degli altri. Secondo questo concetto, tutti hanno tendenze nevrotiche, criminali o anche psicopatiche, tutti sono un po’ pazzi, sebbene alcuni lo siano meno degli altri. Questo modo di vedere coincide con la posizione freudiana [...]. È proprio questa la posizione che noi respingiamo [...]. A differenza della persona normale, il nevrotico non è in grado di giungere a quell’equilibrio dare-e-avere necessario per una salda amicizia, per tranquille relazioni di lavoro, per la felicità domestica. [...] La definizione più vera.e più completa della nevrosi sembra essere quella secondo cui essa è il riflesso di un egocentrismo incontrollato. Qualcuno ha detto che il nevrotico (o la nevrotica) farà qualsiasi cosa per essere amato, tranne che mettersi in grado di farsi amare (Allport 1961, 130-131).

Fra i tanti concetti sui quali Allport ritenne opportuno esercitare le proprie riflessioni, spiccano quelli di ’normalità’e

’anormalità’. Abbiamo già chiarito il suo punto di vista in tal senso, tuttavia per metterlo ancor meglio a fuoco vorrei citare il famoso, chiacchieratissimo "caso Jenny". Come molti sapranno, Lettere da Jenny, apparso per la prima volta nel 1965, narra la storia di Jenny Gove Masterson, della sua vita, dei suoi problemi, delle sue contorsioni mentali, attraverso le lettere che questa donna scrisse tra i cinquantotto e i settant’anni a due cari amici, i coniugi Glenn e Isabel. Questo "triangolo epistolare" nasce nel 1926, e Allport ce ne offre un dettagliato resoconto. Sono almeno due gli elementi che appaiono interessanti per il nostro discorso. Anzitutto è il caso di precisare che dietro le maschere – e gli pseudonimi – di Glenn e Isabel (ossia dei membri delle coppie con la quale Jenny instaurò il proprio dialogo epistolare) si celavano in realtà lo stesso Gordon Allport e sua moglie Ada. In secondo luogo, dovremmo osservare che le "lettere" costituiscono uno straordinario esempio o, ancor meglio, un efficace ’simbolo’ della possibilità di vivere un’autentica "trasformazione della personalità". Senza entrare nella specificità del caso, diremo che le traversie dell’ anima di Jenny testimoniano non solo un tortuoso percorso di lacerazione interiore ma, soprattutto, l’ambivalenza del concetto di ’normalità’. Chi, leggendo le Lettere, abbia voluto interrogarsi sullo stato di salute mentale di Jenny, si è sempre trovato in difficoltà. Le considerazioni avanzate da Allport risultano però originali in quanto affacciano l’ipotesi che la ’relazionalità’ abbia un ruolo decisivo quando c’è di mezzo la ’nevrosi’ o la ’salute mentale’. Tornando al "caso Jenny", vorrei ricordare che Allport cercando di rispondere all’inquietante quesito "Jenny è oppure no una pazza?", propone di procedere utilizzando determinati parametri interpretativi, derivanti soprattutto dai principali modelli teorici americani. Ebbene, il secondo di questi criteri è "il calore del rapporto con gli altri" (cfr. Allport, 1965, 266). Questa particolare dimensione della nostra vita, della quale tutti noi almeno una volta abbiamo apprezzato il potere terapeutico e vivificante, costituisce secondo Allport un attendibile indice del benessere psicologico dell’individuo, e

l’assenza prolungata di questo "calore" potrebbe rappresentare il sintomo di un disagio più o meno rilevante:

Una persona normalmente matura è capace di intimità e cordialità nei rapporti con gli altri, per lo meno con le persone da lei scelte. [...] E questo tipo di intimità rispettosa esige che non si limiti la libertà dell’altro di trovare la sua propria identità. [...] Karen Horney argomenta che se una persona ha fallito nello stabilire cordiali e soddisfacenti relazioni, si racchiuderà in se stessa e si ’metterà in disparte’, proprio come fece Jenny. Isolamento, involuzione, paranoia, possono essere la punizione. Man mano che Jenny invecchia notiamo l’inevitabile progredire di queste sue caratteristiche" (ibid., 267-268).

Queste considerazioni ci permettono di entrare in contatto con le radici più profonde del pensiero di Allport, con quegli aspetti della sua teoria che spesso sono stati trascurati. Rimanendo comunque nell’ambito della distinzione tra ’normale’ e ’patologico’, occorre precisare che Allport pone l’accento anche su un altro aspetto, che trovo piuttosto discutibile. Sto parlando della "progettualità". Come abbiamo visto infatti, la prospettiva di Allport si fonda sul predominio della coscienza sull’inconscio, e questo aspetto sarebbe anche un attendibile indice di ’normalità’. Ebbene, questa condizione di normalità si manifesterebbe proprio attraverso la capacità di progettare la propria esistenza. Il concetto di ’pianificazione’ propostoci da Allport non è però privo di contaminazioni teoriche, basterà infatti pensare alla teoria junghiana e al concetto di ’progettualità inconscia’ che da essa scaturisce, per rendersi conto che l’idea di Allport non è del tutto nuova. Ma la ragione per cui ritengo questa parte della teoria allportiana

"piuttosto discutibile", è un’altra: è che essa esige, da parte degli individui cosiddetti’normali’, una coerenza e una rigidità esistenziali così rigorose che si è tentati di definirle "utopistiche". Se le persone sane e mature dovessero essere quelle "che sanno quello che vogliono", che non sono afflitte dall’incertezza e che perseguono i propri obiettivi senza esitazioni o invasioni da parte dell’inconscio, allora bisogna dire che viviamo in un mondo popolato da nevrotici. Non è un po’ troppo schematico stabilire che un soggetto è sano quando a guidare i suoi passi è la coscienza? Non è più realistico ammettere che anche una persona normale, capace di rapporti soddisfacenti, di vivere il presente e di guardare con fiducia al futuro, può avere delle esitazioni, tendere l’orecchio alle voci dell’inconscio, fermarsi a riflettere, mettersi in discussione? Ma poi, se è vero, come è vero, che non si cessa mai di crescere, a quale momento di questa incessante evoluzione dovremmo attribuire la validità di certe scelte impegnative, svolte, obiettivi, progetti ai quali restare fedeli fino in fondo? E sarebbero "sani e maturi" ossia ’normali’ anche – o addirittura soltanto – certi soggetti "fedeli ai propri errori" come a un giuramento fatto a se stessi, ciechi e sordi alle esperienze e alle smentite che a volte la realtà infligge, le orecchie "tappate" per non dover ascoltare le voci suggestive delle sirene? E, per converso, sarebbe anormale chi rischia passi falsi pronto a tornare indietro, non diffida per principio del nuovo, ed è perfino capace di "conversioni a U"? Io non credo che la crescita della coscienza coincida con l’escludere o il mettere a tacere l’inconscio. È un discorso su cui torneremo prima di consegnare ai lettori queste pagine, per ora mi limito a far notare che certe "scelte di fondo" sono in realtà "scelte di superficie". L’inconscio non solo non si cancella, ma guai a "ignorarlo". Anzi, bisogna conoscerlo. Solo se non sappiamo come è fatto rischiamo di dover scegliere tra lui e la coscienza: un "bipolarismo" insensato, "va dove ti porta il cuore" contrapposto a "va dove decide la tua coscienza", come se si trattasse di due realtà inconciliabili, di due "patrie". Allport era però del parere che fosse la coscienza ad avere il

sopravvento, a "prendere le decisioni" più importanti, e a questa conclusione Allport era giunto dopo lunghe e attente riflessioni finalizzate alla ricerca dei termini più idonei per esprimere ogni concetto rilevante da un punto di vista psicologico. Il ’problema delle definizioni’ quindi, fu spesso avvertito da Allport non solo come prioritario ma, per certi aspetti, ’assillante’, paragonabile alla passione da entomologo d’altri tempi, con cui Abraham Maslow si applicò alla "classificazione" dei bisogni umani, al fine di una definizione il più esatta possibile del concetto di nevrosi. Il pensiero di questo autore – che avremo modo di approfondire in seguito – è infatti noto al grande pubblico come "teoria motivazionale", poiché questa semplice espressione esemplifica e sintetizza gran parte dell’opera di Maslow. Egli infatti, nella sintesi del ’54 – Motivation and Personality – propone anzitutto una precisa distinzione tra bisogni e metabisogni. Mentre i primi sarebbero riferiti a carenze, mancanze, veri e propri stati di deprivazione che andrebbero ad alterare i presupposti per l’omeostasi dell’organismo, i "metabisogni" si riferirebbero alla necessità, avvertita dall’individuo, di muoversi e agire in direzione del cambiamento e della trasformazione psicologica. Maslow propone quindi una autentica "gerarchia delle motivazioni", fondata anzitutto su quelli che lui considera "bisogni fondamentali". I ’bisogni fisiologici’ sono secondo Maslow fondamentali, poiché prioritari rispetto a qualsiasi altra esigenza dell’organismo. Ciò significa che se è vero che il comportamento viene innescato da determinati bisogni, è altrettanto vero che diversi bisogni agiranno con differente intensità e secondo una differente modalità nei confronti delle azioni dell’uomo. Nel saggio del ’62, Verso una psicologia dell’essere, Maslow riprenderà il discorso sui bisogni individuali ma lo amplierà introducendo i concetti di motivazioni carenziali e di motivazioni di accrescimento. In ogni caso, però, i bisogni vanno considerati come dimensioni che costellano e determinano non solo il comportamento individuale, ma anche il corso dello sviluppo psicologico.

Nota appunto come "la scala di Maslow", la gerarchia di bisogni da lui proposta genera una ’gerarchia di comportamenti’, una "scala di priorità" per cui solo dopo che siano state soddisfatte determinate esigenze si potrà agire in funzione di altre. Ecco allora che la "scala di Maslow" porrà le sue fondamenta sui "bisogni fisiologici", e si andrà via via articolando in senso verticale utilizzando i successivi ’gradini’: bisogni di sicurezza, senso di appartenenza e bisogno di affetto, bisogno di autostima e prestigio, bisogno di autorealizzazione. Questa serie di bisogni quindi, inizierà a manifestare la propria esigenza di soddisfacimento, solo nel momento in cui i bisogni fisiologici saranno stati appagati; ciò significa che un bisogno di ordine ’culturale’ non potrà essere soddisfatto se prima, ad esempio, non siano state placate la sete e la fame. Inoltre, mentre ai livelli più bassi di questa gerarchia troviamo esigenze per così dire ’comuni’,’collettive’, via via che raggiungeremo la vetta della scala dovremo confrontarci con un fattore di estremo rilievo: la variabilità intra-individuale. Le differenze individuali infatti non solo conferiscono una diversa fisionomia fisica e psicologica a ognuno di noi ma, al contempo, – e di questo Maslow ci offre una ’prova’ schiacciante – influenzano le nostre esigenze. Il vertice della scala – che vede trionfare il bisogno di autorealizzazione – può infatti essere considerato un contesto idoneo al manifestarsi delle differenze tra individui. Osservata da questa prospettiva, la nevrosi diventa l’espressione, la manifestazione di una carenza dovuta alla mancata soddisfazione di determinati bisogni. La frustrazione di alcuni bisogni, quali ad esempio il bisogno di sicurezza, di prestigio e soprattutto di amore, condurrebbero l’individuo verso la nevrosi. Però, se questo è il terreno dal quale la nevrosi trae il proprio nutrimento, sarà facile intuire quello che sarà il presupposto di un approccio terapeutico. Secondo Maslow infatti:

tutti i maggiori tipi di psicoterapie, [...] consistono

nell’incoraggiamento e nell’irrobustimento di quelli che ho chiamati bisogni istintuali fondamentali, mentre indeboliscono o eliminano del tutto i cosiddetti bisogni nevrotici (1954, 169).

Sarebbe quindi una dinamica alternanza di equilibrio e squilibrio a scandire il ritmo del processo terapeutico che, osservato da questa prospettiva, sembra ricordare il "saliscendi" tipico dei vasi comunicanti, un gioco di vuoti e di pieni che può appassionare il fisico ma che temo lascerà insoddisfatto chiunque si interessi di psicologia del profondo:

Possiamo considerare la nevrosi come una malattia carenziale. Stando così le cose, un’esigenza fondamentale della cura consiste nell’offrire quel che le è mancato, o di rendere possibile al paziente di farlo da sé (Maslow 1962, 46-47).

Al di là di questa discutibile terapia della "compensazione", appare comunque evidente, e criticabile, il fatto che Maslow sembra dimenticare – o forse vuole dimenticare – che l’uomo spesso ’sbaglia’ perché ’sceglie’ il male, perché esprime la sua natura più autentica che – è inutile negarlo – di per sé non sempre è armonica. Maslow insomma non fa i ’debiti conti’ con l’altro volto dell’essere umano, volto animato dai colori della sofferenza e del conflitto, aspetti complessi della nostra personalità, con i quali prima o poi noi tutti dovremmo riuscire a confrontarci. Un altro personaggio che ci esorta a guardare più agli aspetti positivi dell’esistenza che a quelli negativi, è Carl Rogers. Abbiamo già avuto modo di riflettere sui presupposti della sua teoria e sulle strutture portanti del suo

pensiero; ci resta da dare una visione d’assieme del suo ambizioso edificio teorico; che, come spesso accade alle metapsicologie, aspira a esprimere una "filosofia della vita" oltre che una "filosofia della terapia". Rogers "considera la vita come una tensione che tende a realizzarsi" (Carotenuto 1991, 328), come un processo orientato verso la conquista di una "vita piena", ossia di un’esistenza "stimolante, rimunerativa, pungolante e significativa" (Rogers 1961, 195). Rogers è convinto che il processo tipico di una "vita piena" non possa caratterizzare le persone prive di coraggio, poiché si tratta di un processo che "implica la tensione e lo sforzo di realizzare sempre più le proprie potenzialità. Implica il coraggio di essere. Significa gettarsi nella corrente della vita" (ibidem). Non si tratta di un concetto del tutto nuovo, qualcosa di analogo lo avevano già affermato i teorici della psicologia umanistica. Come ricorderemo infatti – basti pensare all’opera di Maslow – questo approccio teorico considerava lo sviluppo psicologico individuale anzitutto come espressione e manifestazione delle componenti ’migliori’ della personalità e a esse cercava di porre maggior attenzione. Contestando quindi l’approccio psicoanalitico, che invece si fa carico di quanto di più negativo e lacerante alberghi nell’animo umano, la prospettiva umanistica esalta ciò che di positivo vi è nell’uomo. L’approccio rogersiano si nutre di questi contenuti e li esprime attraverso una teoria fondata sull’idea che ogni individuo possiede un peculiare senso dello sviluppo e un profondo desiderio di crescere da un punto di vista spirituale. Questo particolare modo di intendere la vita umana si rifletterà su una altrettanto singolare modalità di intendere la terapia psicologica, modalità che peraltro abbiamo già avuto modo di prendere in considerazione. Ora però vorrei tornare a un annoso problema della psicoanalisi: che cosa si intende quando si afferma che il paziente dovrebbe fare affidamento anzitutto sulle proprie forze per uscire dalla sofferenza. Normalità e patologia, serenità e disperazione, sono in linea generale i poli estremi

all’interno dei quali si esplica la nostra vita psichica. Armonia e disarmonia, integrazione e deintegrazione, rappresentano in fondo l’alternarsi ciclico dei ritmi dell’esistenza, e ciò è ravvisabile anche nei grandi sommovimenti che determinano la nascita, l’apogeo e il declino delle civiltà nella storia. Nell’antica tradizione religiosa cinese c’è una nozione molto simile, dove si afferma la ciclicità dei fenomeni della natura e della psiche come alternanza continua di pienezza e di vuoto. Ogni fenomeno nasce nell’oscurità, si sviluppa ed evolve fino a raggiungere uno stato di pienezza che rappresenta il culmine dell’esperienza e il principio del suo declino. Così avviene che il sole, nel suo quotidiano viaggio, inizi al suo zenit la fase discendente, la sua parabola verso la notte. Su questa "lettura" simbolica dei fenomeni cosmici, la tradizione cinese ha creato una filosofia dei fenomeni psichici che governano l’uomo, raffinata e profonda. L’osservazione dei fenomeni naturali e delle leggi che li governano insegna all’uomo che la sua economia psichica è fondata su polarità energetiche: frustrazione e gratificazione, pienezza e vuoto, benessere e malessere. Ognuna delle polarità è passibile di identificazione proprio come controparte del suo opposto, e l’una e l’altra seguono la stessa legge che fonda il divenire cosmico: l’alternarsi dell’una all’altra come giorno e notte, come estate e inverno. L’atteggiamento mentale del saggio non è l’acquisizione dell’impassibilità, la ’atarassia’ di Demetrio e dei post-aristotelici, o il superamento delle contraddizioni, come dire la conquista di uno stato esente da perturbazioni psichiche; l’equilibrio auspicabile è dato dalla conoscenza delle leggi dell’alternarsi di pieno e vuoto, di luce e ombra. Il saggio non dispera nell’ora della carestia e dell’aridità interna, perché sa che ogni conquista spirituale necessita dell’esperienza del vuoto e della depressione come al seme necessita la sepoltura invernale. Così come avverte che ogni esperienza, giunta al suo culmine, dà inizio alla sua fase discendente, sia essa esperienza personale o esperienza di un popolo o di una civiltà. All’uomo moderno tale forma di conoscenza e tale intima adesione ai ritmi della natura e alle leggi del cosmo è

sconosciuta. Gettato in una corsa contro il tempo, egli non riesce a concepire il suo cammino esistenziale che come un percorso costellato di infinite mete da raggiungere, bruciando le tappe, lottando contro ogni presunto ostacolo alla scalata verso le cime. Cime e traguardi che appaiono sempre più fittizi, non appaganti, semplici trampolini di lancio verso successive mete e traguardi. Ne risulta una corsa estenuante in cui il tempo non è ciò che conferisce stabilità e forma alle imprese, ma un altro ostacolo da superare: sembra proprio che i tempi della fatica silenziosa, della formazione, della gestazione, dell’attesa e della riflessione, siano vissuti con un sentimento d’angoscia diffusa, come tempi ’morti’. Tutto ciò che costringe all’arresto assume tonalità persecutorie: come fermarsi mentre gli altri corrono, arrivano, sommano traguardo su traguardo? Occorre allora accelerare i tempi, cronometrare la corsa, in una eterna lotta contro i fantasmi del fallimento e l’ansia dell’inadeguatezza delle prestazioni. In un’era fondata sul mito dell’efficientismo e della produzione continua di merci di veloce consumo, i valori della riflessione, dell’introversione, della maturazione lenta, sono così svalutati e deprezzati da essere considerati "in conto perdite". Ma quando è la nostra anima a essere in passivo, quando lo zenit del nostro spirito è solo un vano ricordo, è importante che ognuno di noi possa attingere ad ogni barlume di luce, ad ogni piccolissima dose di energia per rispondere alla propria sofferenza. Giunti a questo punto e prima di procedere nel nostro discorso, vorrei introdurre un concetto a me molto caro e di estremo rilievo per la psicoanalisi: la creatività. Ormai da molto tempo sóno convinto che la migliore – se non l’unica – risposta alla sofferenza, alla nevrosi, al dolore del vivere e al dramma della solitudine, sia rappresentata dalla creatività. Se infatti la conoscenza implica, come sostiene Jung, l’ampliamento della coscienza, non c’è dubbio che la creatività sia uno strumento prezioso ai fini di quell’ampliamento. Non c’è dubbio, perché la creatività comprende e in qualche modo supera la conoscenza. La comprende, perché della creatività la conoscenza è una premessa, necessaria anche se non

sufficiente, visto che ogni estetica individua nella conoscenza del reale la prima origine di ogni opera creativa, per così dire i "materiali" coi quali sarà costruito un edificio nuovo e originale. La supera, perché di quei "materiali" fa un uso personale e inedito, "riscrive" la realtà, la trasforma. Insomma, quella trasformazione che dobbiamo operare su noi stessi per ’crescere’ – e che peraltro si direbbe una legge universale, dall’evoluzione della Specie ai corpi celesti, dalla materia all’energia – la personalità creativa la compie nel suo rapporto con la realtà, e non è pensabile che non ne esca a sua volta trasformata. In virtù di questo principio la psicoanalisi ha potuto mettere a punto rinnovate strategie terapeutiche e pianificare con fiducia il proprio intervento. Attraverso la disamina del pensiero di alcune fra le più autorevoli figure del mondo della psicoanalisi, sarà facile esemplificare il concetto che abbiamo ora introdotto, ma ancor prima di procedere in questa direzione, vorrei chiarire in cosa consista quello che potremmo definire "il potere terapeutico della creatività". Come ben sappiamo, il germe della creatività è presente in tutti noi, nel senso che la dimensione creativa alberga nell’animo di ogni essere umano senza distinzioni. Non sempre però l’uomo si rende conto delle proprie potenzialità, non sempre è consapevole delle tante e positive risorse che gli appartengono e che attendono solo di essere sfruttate. Così, trascinato dal flusso impietoso e sterile dell’esistenza, l’essere umano preferisce talvolta essere in "balìa della corrente" piuttosto che sfruttare con coraggio il vento per procedere secondo la propria rotta e correre i rischi che essa comporta. Ebbene, è proprio quell’essere trascinati dalla corrente senza neppure tentare di opporre a essa la propria forza, intelligenza, le proprie risorse, che può generare nell’uomo l’insorgere della patologia. Soffocare quindi la dimensione creativa che è in noi, significa compiere il primo passo verso l’insoddisfazione, la frustrazione e verso quella che viene definita "nevrosi da nullità". Ma se in questo senso la creatività – o meglio il suo soffocamento – sembra essere il germe della sofferenza, viceversa essa può trasformarsi, come vedremo, in uno dei più

formidabili strumenti terapeutici. In L’uomo creativo e la trasformazione (1954), oltre ad affrontare il tema dell’arte e dell’artista in senso proprio, Neumann porta avanti un interessante discorso sul tema della trasformazione psicologica, evidenziando soprattutto le numerose implicazioni connesse a una possibilità di espressione creativa. Avremo modo di tornare sul pensiero di Neumann in merito alla creatività, per ora ci limiteremo a osservare che l’elemento che permette l’espressione del potenziale creativo è, in fondo, il processo dialettico tra inconscio e coscienza. Ciò significa che il primo passo verso la manifestazione della dimensione creativa può essere compiuto solo non soffocando i segnali e le immagini che provengono dal nostro inconscio. Ecco allora che i sogni – da sempre considerati messaggi cifrati dell’inconscio – "devono" essere interpretati o meglio "non devono essere ignorati": ogni sogno dovrebbe ricevere le adeguate attenzioni da parte del sognatore. Poco importa allora se al fianco di quest’ultimo vi sia oppure no la rassicurante presenza di uno psicoterapeuta perché, come Jung aveva intuito, quello che conta non sarà l’erudita interpretazione di un esperto, quanto la lettura emotiva che del sogno potrà dare lo stesso sognatore. Jung infatti, giunto a un certo punto della sua vita e a una determinata fase del suo lavoro, si rese conto dell’enorme vantaggio che era possibile trarre lasciando il paziente "libero di dire che cosa pensasse di un sogno", cosa quel sogno gli facesse venire in mente. Aveva intuito che nell’inconscio del paziente si celavano le risposte alla sua stessa sofferenza e agli interrogativi irrisolti. Tornando quindi alle risorse terapeutiche della creatività, diremo che essendo la dimensione creativa animata dal nostro inconscio, per sfruttare le sue potenzialità dovremmo anzitutto consentire l’emergere dei contenuti inconsci, anziché reprimerli; e aggiungeremo che nella creatività l’uomo può trovare risposta alla sofferenza, un fruttuoso investimento delle proprie energie libidiche, e infine dare senso e significato a emozioni, turbamenti e inquietudini. La ricerca di risposte è stata sin dagli albori dell’umanità il

motore primo della sopravvivenza e civilizzazione della specie umana ed è una ricerca che mai ha avuto fine e ancora oggi procede implacabile. Così, scendendo dall’universale al particolare, o meglio dalla filogenesi all’ontogenesi, diremo che anche la ricerca del singolo uomo è interminabile: il suo bisogno di conoscere, di comprendere, avrà fine – chissà – solo con la morte.

12. UN DITO PUNTATO CONTRO Come abbiamo visto, ciò che rende originale il pensiero di Erich Neumann, è la sua riflessione sulla creatività. L’influsso di questo autore sulla psicoanalisi moderna continua ad essere attuale, anzi, lo è sempre più, come del resto attuale anzi crescente è l’interesse per la creatività. Questa peculiare dimensione psicologica costella l’esistenza di ogni essere umano e più volte ho avuto occasione di evidenziarne i sorprendenti ’poteri’ terapeutici e rigenerativi. La creatività rappresenta la migliore – se non l’unica – risposta alla sofferenza, alla nevrosi, al dolore del vivere e al dramma della solitudine. Vorrei quindi anzitutto ricordare che:

La guarigione psichica comporta un processo trasformativo della personalità che si configura in Neumann come evento creativo, anzi è proprio la funzione creativa a esprimere una modalità sana di funzionamento psichico della personalità (Carotenuto 1991, 253).

Neumann è uno degli autori più accreditati che abbiano trattato questo tema, ed è quello che più ha evidenziato i nessi tra ’creatività’ e ’trasformazione’. Lo slancio creativo è un impulso rigeneratore, vivificante e rivoluzionario, un impeto esaltante al quale è difficile resistere:

A ogni processo di trasformazione, come a ogni processo creativo, sono legati degli stadi di esaltazione. Essere afferrati, scossi e sbattuti in balia di qualcosa è come essere esaltati, e senza la fascinazione e la tensione emotiva connesse a questo stato non può esistere alcuna concentrazione, alcun interesse persistente, e anche alcun processo creativo (Neumann 1954, 45).

Sarebbe auspicabile che tutti noi fossimo come l’artista, individui in grado di ascoltare e accettare la voce del nostro inconscio, mediandola e integrandola con quella della coscienza. Nel saggio L’uomo creativo e la trasformazione, scritto per la conferenza di Eranos del 1954, Neumann prende in considerazione non solo il tema dell’arte e dell’artista ma, soprattutto, il processo dialettico tra inconscio e coscienza che permette l’espressione del potenziale creativo. Non nuovo per la psicoanalisi, l’interesse per la dimensione creativa ha le sue radici soprattutto nel pensiero di Otto Rank. Criticato, invidiato, osteggiato, Rank in numerose circostanze ebbe "un dito puntato contro", tuttavia la sua tenacia e il suo anticonformismo ne fecero un uomo inattaccabile, amato dai suoi pazienti, apprezzato da chi, senza pregiudizi, ha voluto prestare ascolto alla sua voce, credere nel suo messaggio e – come avremo modo di comprendere – nella libertà di pensiero. Uno dei tanti temi che egli seppe affrontare con spregiudicata acutezza fu proprio quello della creatività. Saranno però alcuni cenni della sua biografia e alcuni fondamentali passaggi del suo percorso ideologico e culturale a chiarirci la sua visione della dimensione creativa e della figura dell’artista. Il 1884 è l’anno in cui a Vienna nasce Otto Rosenfeld, più noto al grande con il nome di Otto Rank. Ultimogenito dei tre figli di Karoline Fleischner, Otto non ebbe un’infanzia felice

perché sin da piccolissimo si trovò a vivere il dramma di un padre violento e schiavo dell’alcool. Simon Rosenfeld infatti – di origine ebrea come Karoline - non seppe mai dare a Otto le attenzioni e le cure che ogni bambino desidererebbe ricevere dal padre e il vuoto lasciato da questa lacerante carenza affettiva venne riempito da continue tensioni familiari, litigi e spaventi. Senza dubbio fu questa una delle ragioni che spingeranno Otto ad adottare lo pseudonimo di Rank, un nome preso in prestito da un personaggio di Ibsen. Non sapremo mai perché la scelta del giovane Otto sia caduta proprio su questo nome, intuiamo però che quello di "Rosenfeld" – così ebreo e così legato all’inquietante figura paterna – costituiva per lui un fardello troppo ingombrante, quasi un marchio che lo esponeva ai pregiudizi spietati della società contro gli ebrei e ai giudizi inclementi del suo inconscio tormentato. Fu così che, all’età di diciannove anni, nacque il nuovo Otto, un personaggio singolare che, sebbene spesso incompreso, frainteso e poco apprezzato, non tardò a rivelare le caratteristiche più salienti della sua personalità, i tratti di un uomo dotato di un sorprendente acume, capace di dare nuova linfa alla giovane pianta della psicoanalisi. Non dovranno infatti trascorrere molti anni prima che il genio creativo di Otto esploda con tutta la sua forza rivoluzionaria. Come spesso accade però, anche in questo caso prima di giungere a esprimere il proprio genio creativo, l’autore dovrà attraversare un doloroso cammino conoscitivo, un percorso atroce che gli permetterà non solo di individuare una nuova direzione da seguire, ma anche di gettare luce sul cammino degli altri. In particolare, la sofferenza di Rank venne alimentata oltre che dalla perniciosa atmosfera familiare anche dal suo infelice aspetto fisico. Non molto alto, poco attraente e di costituzione fisica piuttosto fragile, il giovane Rank sembrava essere destinato a lavori e mansioni proporzionati alle sue forze; in realtà dietro quel corpo e quel volto così poco attraenti, si celava una personalità ricca di carisma e di fascino. Proprio come un seme ha bisogno del giusto humus per

attecchire, germogliare e prosperare, così anche la vera essenza di Rank necessitava del giusto stimolo e nutrimento per manifestarsi e svilupparsi. Quel nutrimento che Otto non trovò mai nella figura paterna, gli stimoli di cui aveva bisogno per realizzarsi li ricevette da Freud. L’incontro con il ’padre della psicoanalisi’ avvenne grazie ad Adler – che fra l’altro già costituiva per Rank una figura di rilievo, un saldo punto di riferimento – nel 1906 e sarà l’inizio di un rapporto determinante per Rank, un rapporto che cambierà tutta la sua vita. Fu abile Freud nel leggere negli occhi del giovane Rank quella luce tipica di chi ha dentro di sé qualcosa che preme e chiede di esprimersi e per questa ragione volle fornire a Otto quella che oggi definiremmo una "opportunità". In tal senso appaiono illuminanti le parole di Luigi De Marchi che di Otto Rank ci ha offerto un prezioso identikit psicologico nel suo Otto Rank, pioniere misconosciuto:

Con la spregiudicata prontezza d’un talent scout ma anche con lo slancio di un patrono generoso, egli accolse dunque il giovane Otto nella sua cerchia, gli offrì uno stabile appoggio finanziario perché potesse iniziare e completare il corso universitario di Lettere e Filosofia e ne fece il Segretario della Società di Psicoanalisi, appena costituita (De Marchi 1992, 65).

Ebbene, Otto non deluderà quelle attese; già la sua prima fatica, L’artista, scritto nel 1905 e quindi prima dell’incontro con Freud, dava prova della sua geniale creatività. Sebbene a quel tempo Rank non avesse ancora metabolizzato gli elementi tipici del pensiero freudiano – a lui peraltro già noti – L’artista appare comunque denso di contenuti che, grosso modo, possono essere considerati ’psicoanalitici’. Pubblicato nel 1907, questo primo lavoro di Rank – permeato delle teorie di

Nietzsche – oltre a costellare le caratteristiche psicologiche dell’artista, pone in evidenza il complesso é cangiante rapporto fra opera d’arte, psiche e psicopatologia:

L’artista sta, dal punto di vista psicologico, in relazione con il sognatore e con il nevrotico. Il loro processo psichico è essenzialmente uguale, differisce solo nel grado e nel talento artistico. Le espressioni più alte dell’artista (il drammaturgo, il filosofo e il fondatore di religioni) hanno connessioni con la psiconevrosi, mentre quelle meno importanti si possono paragonare al sognatore. Il filosofo considera il proprio dolore con relativa ’obiettività’, quasi da spettatore; il drammaturgo lo vive attraverso i suoi personaggi (è paragonabile all’attore); il fondatore di religioni lo esperisce personalmente, è l’isterico. Nell’artista, contrariamente al sognatore e al nevrotico, regna una certa attività che gli dà una gioia virile facendolo sembrare patologico. Ma l’eccesso di passività, che si trova alla base di ogni natura artistica, imprime al creare il segno del dolore. L’artista soffre tutta la vita per il conflitto (Rank 1907, 73-74).

L’analisi che Rank ci dà della dimensione psicologica dell’artista induce a un’amara riflessione: la sofferenza dell’individuo creativo va imputata a una ostinata incomprensione da parte del collettivo. Come ho avuto più volte occasione di ricordare, l’artista è sempre guardato con sospetto dalla società perché la sua vitale e propositiva risposta al dolore dell’esistenza si trasforma in una testimonianza troppo ingombrante per il collettivo, la prova vivente che è possibile svincolarsi da regole e divieti per esprimere in piena libertà il proprio messaggio, la propria verità. Un "guastafeste" così

scomodo rischia sempre di essere, per eccesso di difesa, emarginato, come le biografie di molti artisti, da Caravaggio a Modigliani ( così "maledetto" che i suoi amici abbreviarono il suo cognome in "Modi", che è la pronuncia francese di ’maudit’, appunto "maledetto") testimoniano. L’artista come emarginato sarà pure un luogo comune romantico, ma è difficile non pensare che gli artisti che la indossarono come una gloriosa divisa raccogliessero in fondo, facendola propria, una più o meno consapevole "maledizione" del collettivo. Quel tanto di masochismo cui Mario Praz attribuisce questa visione ’decadente’ dell’artista e dell’arte, nella letteratura come nelle arti figurative, non toglie valore all’ipotesi che all’origine di questa ’identificazione’ ci sia un pregiudizio del collettivo. E un meccanismo di cui la storia dell’arte offre numerosi esempi: dai ’preraffaelliti’, che assunsero con fierezza una definizione negativa di alcuni critici scandalizzati dal loro non tener conto della conquista della grande pittura rinascimentale, agli impressionisti, che non esitarono a essere come "ragione sociale" un giudizio negativo di un critico di gusti neoclassici; fino ai "fauves" che si appuntarono sul petto come medaglia al valore addirittura l’ingiuria di un critico che li aveva definiti, appunto, "belve". Il fatto è che l’artista creativo ha una grave colpa: è un diverso. E in quanto tale ha poche probabilità di farla franca. Talvolta ha proprio turbe psicologiche (vedi Van Gogh, Strindberg, Swedenborg), e allora "genio e follia" rappresentano un bersaglio anche troppo facile da colpire. Persino il ricorso all’alcool o alle droghe può essere fatto rientrare in questo meccanismo che spinge ad adeguarsi all’immagine dell’artista come "irregolare". Del resto sappiamo bene che il bambino, se lo si accusa di essere cattivo, o bugiardo, o incorreggibile, finisce con l’adeguarsi a quel giudizio. E l’artista è un po’ "puer" per tutta la vita. Certo, oggi la figura dell’artista maledetto tende a scomparire, o quanto meno si va facendo più rara (se si eccettuano certe celebrità della musica ’pop’). Per le arti figurative sappiamo come è andata: con la presa di potere da

parte della borghesia è scomparsa la figura del committente – principe o papa o porporato – e al suo posto è subentrato l’acquirente, ossia il collezionista. Che però di rado è un mecenate, un protettore delle arti belle: di solito per lui l’opera d’arte rappresenta un investimento. Ora, mentre il committente a torto o a ragione si fidava del proprio giudizio, il collezionista, per essere sicuro di non fare un cattivo affare, si affida agli esperti del ramo – galleristi, critici, – che vanno a caccia del nuovo. Ciò che ai loro occhi appare tale, dunque, lungi dall’essere guardato con sospetto o imputato di eversione, tanto più trasgredisce e quanto più rischia di piacere, non già al collettivo, ma a coloro cui il collettivo ha delegato il giudizio di merito. Ma chiudiamo la lunga disgressione e torniamo al tempo – che sembra tanto remoto – del giovane Otto Rank, al suo primo scritto, e alla visione dell’artista. È proprio la dimensione creativa che per Rank trasforma l’artista in un eroe, ossia in un personaggio dotato di un "potere" non comune, in una risorsa in grado di realizzare l’impossibile. L’arte è dunque il tema centrale dei primi scritti di Otto Rank e le tematiche affrontate ne L’artista saranno riprese in Art and Artist, pubblicato nel 1932. La peculiarità dell’artista è quella di attingere ai contenuti dell’inconscio per rimodellarli, plasmarli, tradurli, e qualora essi siano costituiti dal conflitto psichico, l’artista può riuscire ad affrontare e gestire questi aspetti in maniera tanto originale quanto rigorosa. Se infatti il canale espressivo del conflitto psichico era, per antonomasia, la patologia, con Rank prende forma l’idea di una nuova possibilità espressiva del conflitto: la sublimazione. Le sue idee circa la cosiddetta "sublimazione artistica" (Rank 1907, 71) evidenziano come, in realtà, dietro la realizzazione di un’opera d’arte si celi la pressione di un bisogno istintuale, della libido, della pulsione sessuale. Un’idea non nuova questa, nel senso che già Freud ne aveva fatto menzione nei Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), ma senza dubbio riproposta secondo una modalità innovativa poiché, partendo da questo tipo di considerazioni, Rank giungerà ad affermare che:

Solo quando il totale sovvertimento dello psichico sia riuscito e tutto l’inconscio sia divenuto cosciente, allora il ’superuomo’non artista e asessuale, leggero e forte come un ’dio’, si collocherà nel mezzo del gioco della vita, guiderà e dominerà con mano sicura le sue pulsioni (Rank 1907, 96).

L’idea della "sublimazione artistica" può essere letta oggi come il prototipo di ogni teoria che intenda vedere nella creatività un autentico ed efficace strumento terapeutico. Ogni psicologia che indaghi sui processi cosiddetti ’creativi’non può non tenere in grande considerazione le idee espresse a tal riguardo da Abraham Maslow, l’uomo destinato a diventare famoso come massimo esponente della psicologia umanistica. Maslow nacque a New York nel 1908 e studiò presso l’Università del Wisconsin, manifestando sin dai primi anni un interesse crescente per la psicologia animale, in particolar modo per quella dei primati, dei quali cercò di approfondire gli aspetti inerenti il comportamento sociale e sessuale. La sua tesi di laurea sul comportamento sociale delle scimmie testimonia proprio il vivo interesse che Maslow nutriva nei confronti di questa specie nonché – come vedremo – la grande influenza esercitata sul suo pensiero da quello di Adler. Saranno numerosi gli ’incarichi di rilievo’ che, con il trascorrere del tempo, conferiranno prestigio al suo nome. Ricorderemo in proposito che Maslow sarà per diversi anni consigliere del dipartimento di psicologia della Brandels University e che insegnerà presso il Brooklyn College e il Western Behavioural Sciences Institute di La Jolla in California. Si spegnerà nel 1970. Come dicevamo, il nome e il pensiero di Abraham Maslow sono legati alla ’psicologia umanistica’ di cui lo stesso Maslow, nel 1962, fu il fondatore. La psicologia umanistica, infatti,

prese vita dal lavoro e dallo spirito d’iniziativa di un gruppo di psicologi che, riunitisi sotto l’egida di questo studioso, fondarono un’Associazione e cercarono di diffondere il proprio pensiero negli Stati Uniti attraverso la rivista Journal of Humanistic Psychology. Questa nuova scuola, distante e antitetica rispetto al comportamentismo e alla psicoanalisi, attrasse ben presto l’interesse dei più svariati ambienti culturali, di studiosi delle più svariate discipline, con un solo comune denominatore:

Tutti erano però d’accordo sulla necessità di una nuova spinta per affrontare e combattere l’incalzante crisi sociale e culturale e il senso di disumanizzazione e di deindividualizzazione del ventesimo secolo (Bühler Allen, 1972, 9).

Fu proprio un consenso così indiscriminato a provocare le tante critiche da cui la psicologia umanistica fu bersagliata:

Nei suoi primi dieci anni di vita la psicologia umanistica si è rapidamente diffusa negli Stati Uniti, suo luogo di nascita, ed ha cominciato a propagarsi in altri paesi. Eppure la nuova scuola è stata fatta oggetto di serie critiche, persino da parte dei suoi fautori. La psicologia umanistica è stata accusata di essere vaga e non scientifica nella sua struttura e nei suoi obiettivi (ibidem).

Ciò che senza dubbio colpisce della Psicologia Umanistica è

la sua posizione nei confronti delle altre teorie e scuole, posizione che Maslow chiarirà una volta per tutte affermando:

Le due teorie generali della natura umana che hanno maggiormente influenzato la psicologia fino a data recente sono state quella freudiana, e quella sperimentale-positivisticocomportamentistica. Tutte le altre teorie erano meno generali, e i loro aderenti costituivano numerosi gruppi minori. Negli ultimi anni, tuttavia, questi diversi gruppi si sono rapidamente coagulati in una terza teoria, sempre più generale, dell’umana natura, coagulati in qualcosa che si potrebbe definire una ’terza forza’. Tale gruppo include gli adleriani, i rankiani e gli junghiani, nonché tutti i neo-freudiani (o neo-adleriani) e i post-freudiani (Maslow 1962, 11).

Dovremmo a questo punto domandarci che cosa di nuovo la psicologia di Maslow abbia aggiunto nel panorama delle scuole e teorie psicologiche vigenti, cercando così di comprendere le radici della sua ostilità nei confronti della ’psicoanalisi’ in senso lato. Ebbene, ciò che differenzia la ’terza forza’ nell’ambito della psicologia americana, sono senza dubbio i "presupposti". L’intento di Maslow infatti era quello di individuare i meccanismi, le motivazioni e i bisogni sottesi a una vita umana piena e sana. Un aspetto interessante, questo, soprattutto se pensiamo che uno dei grandi interrogativi che sorge dall’osservazione delle impostazioni teoriche dominanti nell’ambito della psicoanalisi potrebbe essere così formulato: come possiamo pervenire a una nozione di "personalità sana" se la maggior parte dell’energia professionale e dell’interesse clinico è catalizzata dalla patologia? I sistemi teorici dominanti hanno preso in considerazione quelle coordinate essenziali in

base alle quali definire la personalità? Nell’ambito dell’indagine psicologica, infatti, possiamo focalizzare la nostra attenzione sulle componenti ’a rischio’, o invece sulla pienezza della dimensione umana, sottolineandone gli aspetti propositivi. Rispetto alle altre due ’forze’preponderanti nell’universo della psicologia – ci stiamo riferendo alla psicoanalisi e al behaviorismo – la psicologia umanistica non intende indagare l’uomo partendo dall’analisi di una condizione di sofferenza o di patologia. La vera novità che venne introdotta dal pensiero di Maslow fu quella di assumere la sanità e una relativa condizione di ’normalità’ come il presupposto dal quale muovere i primi passi sulla via della conoscenza dell’uomo. Secondo Maslow infatti non è corretto assumere come punto di partenza quello della psicologia freudiana che, a suo giudizio, "si fonda sull’esperienza fatta con malati, con persone che di fatto soffrono di esperienze negative compiute con i propri bisogni e le rispettive gratificazioni e frustrazioni" (ibid., 37). Secondo la sua opinione, le conclusioni cui è possibile giungere indagando il campo della patologia non possono che essere fuorvianti, resoconti pessimistici di una realtà ’altra’, deviata, al di fuori della ’norma’. È dove non si riscontrano vertiginosi picchi e impennate verso l’alto, né rovinose cadute verso il basso, che lo studioso dovrebbe convogliare le proprie energie e tutto il suo genuino interesse. Maslow condusse una ricerca con un gruppo di colleghi statunitensi, cercando di mettere a fuoco le caratteristiche comportamentali e le dinamiche affettive di una personalità sana e completa. Contro le tendenze della psicologia dominante – in primis la psicologia comportamentista – che aveva fondato la sua conoscenza dell’individuo sulla base dell’osservazione della devianza e della anormalità, Maslow afferma insomma la necessità di una psicologia dell’individuo sano, in grado di disporre delle proprie energie creative. La psicologia si concentra sui meccanismi, a volte anche disperati, adottati dall’individuo per sopperire all’angoscia e alla sofferenza, piuttosto che sul suo potenziale di benessere,

creatività e autorealizzazione. Una psicologia dell’individuo sofferente non può che tradursi, così afferma Maslow, in una psicologia del malessere e della distruttività: in un sapere che comunichi una fondamentale sfiducia nelle capacità sane dell’uomo, nella sua bontà, nella sua ricerca di ideali positivi, diventa, funzionale al sistema che crea malessere e intolleranza, quasi che in fin dei conti sia l’essere umano in quanto tale a conservare in sé ogni bruttura e negatività. C’è una punta di pragmatismo americano in questo invito perentorio a sposare una visione positiva della personalità, ottimistica e quindi costruttiva. E c’è anche una singolare, disinvolta sottovalutazione di un dato incontrovertibile: che allo psicoterapeuta ricorre – almeno da noi, in Europa – proprio chi soffre di una qualche patologia (o quanto meno presume di soffrirne); per cui è vero che lo psicoanalista rischia di occuparsi di aspetti anomali della vita psichica del paziente o "cliente" o come lo si voglia chiamare, di analizzare comportamenti o meccanismi "innaturali", persino inautentici in quanto escogitati per tenere a bada fantasmi inquietanti o schivare problemi irrisolti; ma è altrettanto vero che questo lo psicoanalista lo sa (diciamo "dovrebbe saperlo"), e non scambia il sintomo per la radice del male, ma approfondisce il sintomo per scoprire, o aiutare il paziente a scoprire, il male che lo esprime e lo nutre. Tanto è vero che poi, sul piano pratico, le varie tecniche terapeutiche adottate dagli psicologi "umanisti" non differiscono da quelle escogitate dalle altre "scuole" – dal dialogo terapeutico a quello di gruppo, sociodramma o psicodramma. Quanto all’idea dell’Uomo che Maslow ci esorta a privilegiare, io non credo che tocchi all’analista giudicare il paziente sul piano etico. Nel paziente, come in tutti, come nello stesso psicoterapeuta, non può che annidarsi un po’ di tutto, "tutto il bene e tutto il male del mondo". Certo, anche l’aggressività, diciamo pure la "cattiveria". A questo proposito potrei aggiungere che nella mia esperienza di terapeuta e di uomo le persone che alimentano più sospetti sono coloro che detengono un qualsivoglia potere, anche minimo, e che si servono di quel potere per controllare gli altri. Nella quasi

totalità dei casi il potere si associa all’incompetenza. Quando parlo di potere degli incompetenti alludo a quelle forme di controllo che permettono agli incompetenti di dominare le persone più capaci grazie a strategie messe in atto per evitare che la propria nullità venga a galla. L’esempio più estremo è offerto dai regimi totalitari. Arno Gruen ha centrato il problema:

Chi si è votato al potere non avvicinerà mai i suoi simili su un piede di parità quantunque a voce dichiari il contrario: per costui, i rapporti con gli altri sono definiti soltanto in termini di potere o di debolezza, ed egli stesso deve accumulare potere il più possibile per diventare invulnerabile e dimostrarsi tale (Gruen 1987, 122).

Maslow invece, pur di salvare l’innocenza del singolo, preferisce incolpare la società nel suo insieme, spingendosi fino ad accusare di complicità, o di favoreggiamento, le scuole psicologiche che, ispirandosi a visioni del mondo e della natura umana pessimistiche quando non nichilistiche, scaricano sulle spalle del singolo tutta intera la responsabilità dei suoi fallimenti e passi falsi. Sono convinto che con argomentazioni del genere lo psicoterapeuta rischia di assecondare il vittimismo del paziente, che troppo spesso costituisce in realtà un ostacolo da rimuovere sul cammino della sua crescita. Certo il terapeuta sta per definizione "dalla parte del paziente", o cliente che sia; però io non credo che il modo migliore di servire la sua causa sia l’incoraggiare una visione in definitiva paranoide del suo rapporto con gli altri e con la società. Ho detto e scritto più volte che proprio perché il paziente che viene in analisi "ce l’ha col mondo intero" anche se non pensa che l’analista possa curare il mondo anziché lui, un primo passo

dovrebbe essere proprio quello di aiutarlo a cercare in se stesso le motivazioni del proprio disagio, incominciando ad assumersi la propria parte di responsabilità. Chiarito questo mio dissenso non dico di fondo ma nemmeno marginale, vediamo di mettere meglio a fuoco le coordinate teoriche di Maslow quando propone una ’psicologia umanistica’ ispirata a una cultura dell’autorealizzazione:

A quelli che preferiscono vedere anziché essere ciechi, sentirsi bene anziché sentirsi male, essere integri anziché paralitici, si può proporre che cerchino la sanità psicologica (Maslow 1954, 26).

Per Maslow questa ricerca della sanità psicologica parte dalla considerazione che la natura umana non è malvagia: le emozioni fondamentali e le capacità umane basilari sono neutre, pre-morali. Il sadismo, l’aggressività, le istanze distruttive non sono caratteristiche intrinseche, come potrebbe suggerire una lettura superficiale di Freud, ma risposte alle frustrazioni di bisogni o misconoscimenti fondamentali delle proprie capacità. In realtà il pianto e le urla di un bambino irato non sono in sé e per sé malvagi. Può accadere che si diventi persone malvagie, ma non è un evento predeterminato e ineluttabile. Il futuro dello studio della personalità non è nell’approfondimento dei comportamenti distruttivi per puntellare e rafforzare l’ipotesi di quella specie di ’peccato originale’ che va sotto la definizione di "aggressività primaria"; sta, invece, nella ricerca e nello studio di tutto ciò che va nella direzione opposta, di quegli impulsi positivi e costruttivi che hanno il diritto, più ancora che il dovere, di diventare progetti di vita. È con fiducia – direi "con ingenua fiducia" – che Maslow guarda all’individuo, deciso a valorizzarne il volto migliore, il

potenziale inespresso e, soprattutto, a far dimenticare, l’altro volto dell’uomo, quello della sofferenza, della disperazione, della follia più sconcertante. Per ottenere questo effetto, illumina il suo soggetto di una luce irreale; irreale perché l’uomo di Maslow non ha lati in ombra. E il richiamo all’Ombra di Jung non deve ritenersi casuale; anzi, per servirmi ancora del lessico junghiano coniugandolo con quello dell’"ottica geometrica", direi che il fascio di luce che Maslow getta sul suo paziente proietta il suo cono d’ombra sullo sfondo, sulla folla anonima degli astanti, sulla società. Un po’ come certi genitori che giustificano le monellerie del figlioletto alle prime esperienze scolastiche affermando che "sono i compagni che lo guastano". Che la società sia imperfetta, lo si vede a occhio nudo; però sarebbe bene non dimenticare che la società è composta di individui come noi. Qualcuno è un po’ peggio, d’accordo; io per primo, in questo stesso libro e altrove, ho indicato per esempio nei "cercatori di potere" gli esemplari meno apprezzabili di questa sottospecie; ma sono individui anche loro; e – come dicevo poche pagine fa – quando li tiro in ballo parlo per esperienza diretta; non solo di uomo ma anche di terapeuta. Perché anche quelli, talvolta, vengono in analisi. Convinti, almeno all’inizio della terapia, che il loro disagio psichico dipenda dal fatto di essere stati catapultati fin dalla nascita in un mondo che non li meritava. (Resti tra noi: potremmo benissimo evitare di accogliere nel "sacro recinto" pazienti, o clienti così; il giuramento di Ippocrate vieta al medico di chiudere la porta in faccia a un gangster ferito ma non a uno psicoterapeuta di selezionare la propria "clientela"; ma siamo sicuri che lo faremmo "per il bene comune" e non per evitare di mettere in crisi o in discussione non già una nostra idea di paziente ma una nostra idea dell’uomo in generale?) Pubblicata nel 1954, la prima grande opera di Maslow – Motivation and Personality – offre un’apprezzabile summa della sua metapsicologia. Revisionata in seguito nel ’70 infatti, l’opera del ’54 può essere considerata come il "manifesto" del pensiero e del progetto di Maslow che, volendo definire l’intento di questa sua prima sintesi teorica, avvertiva:

questo libro era essenzialmente uno sforzo per effettuare una costruzione sulla base delle psicologie classiche in voga e non un tentativo di ripudiarle o di contrapporre ad esse un’altra psicologia. Esso cercava di realizzare un ampliamento della concezione che possediamo della personalità umana, raggiungendo i livelli’più alti’ della natura umana (1954, 7).

Lo scopo di Maslow era quindi senza dubbio lodevole, poiché come abbiamo visto egli era mosso dal desiderio di osservare l’uomo attraverso lenti diverse, tali da considerarlo non più e non solo secondo un’accezione ’negativa’, ma positiva, ottimista: l’uomo racchiude in sé un patrimonio prezioso, un potenziale inutilizzato che attende solo di essere "impiegato", "espresso". L’idea portante della psicologia di Maslow intesa come ’filosofia di vita’ è che l’uomo abbia il compito di ’realizzare se stesso’, ciò che in realtà egli è. La tendenza fondamentale dell’individuo, di ogni individuo, è la tensione all’autorealizzazione, alla piena espressione delle proprie capacità, alla autoconoscenza attraverso l’avventura delle relazioni interpersonali e dell’interazione con l’ambiente. Proprio a questo livello si inserisce un’altra fondamentale caratteristica della terza forza, ossia l’accento che essa pone sulla cosiddetta "teoria dell’autoattualizzazione". Questa prospettiva teorica, proposta per la prima volta da Goldestein nel ’39 e poi ridefinita da Fromm e da Karen Horney "teoria dell’autorealizzazione", rappresenta una delle colonne portanti della psicologia umanistica e quindi del lavoro di Abraham Maslow. ’Autorealizzarsi’ significa anzitutto riuscire a esprimere, manifestare e concretizzare non solo le proprie potenzialità ma, soprattutto, il senso della propria individualità. Ogni essere

umano possiede un enorme patrimonio, dato anzitutto dal proprio Sé; ma spesso non è facile portare in superficie questo patrimonio, poiché in genere è sepolto, celato alla nostra coscienza. Sono molti coloro che arretrano dinanzi al difficile compito della conquista di sé, della espressione delle proprie doti e capacità e, in genere, per tale ’inadempienza’ si paga un prezzo elevato. Jung, proponendo il concetto di "processo di individuazione", intendeva proprio riferirsi al grande compito per il quale ognuno di noi è chiamato a lottare: diventare esseri unici, una totalità armonica e integrata. Adler poi, sottolineando come la vita intera si fondi sullo sforzo e il tentativo di superare un handicap iniziale, ci esortava ad "avanzare", senza arrestarci dinanzi alle difficoltà e alla paura del vivere, perseguendo il fine di integrarci nella società in qualità di individui ’unici e irripetibili’. Maslow, d’altro canto, non solo ci ricorda che il compito di ogni essere umano è quello di ’realizzare la propria individualità’ma aggiunge che l’uomo che non riesca in questo intento sarà vittima e preda della "colpa del Sé". Ben diversa dal senso di colpa che le regole collettive e le norme sociali possono suscitare nell’individuo per così dire ’anticonformista’, la "colpa personale" di cui parla Maslow – e la psicologia umanistica in generale – si riferisce in realtà a una particolare dimensione interiore:

La psicologia umanistica richiama l’attenzione su una colpa personale, distinta dai sentimenti di colpa condizionati socialmente. La colpevolezza personale può affiorare in un individuo che sciupa la propria vita, mancando di portare a compimento o di sviluppare le sue migliori capacità – in un individuo che non fa quel che crede dovrebbe fare. Gli psicologi umanistici ritengono che questa carenza del sé sia un aspetto cruciale dell’autocondanna, un aspetto ancor più cruciale della colpa indotta da azioni socialmente

inaccettabili (Bühler e Allen 1972, 63).

Viceversa, l’uomo che riesca ad autoattualizzarsi, sarà caratterizzato da alcune particolari dimensioni che potremmo considerare ’positive’, come ad esempio la creatività e il "sentimento sociale". Non c’è niente di più "terapeutico", per l’individuo insicuro e sofferente, che restituirlo alla sua dimensione creativa, rendergli la fiducia nelle potenzialità generatrici della psiche. Se è vero, come afferma Jung, che in noi esiste un vero e proprio istinto creativo, una pulsione primaria all’autorealizzazione e alla piena espansione delle nostre capacità, è quando tale nucleo essenziale viene negato, represso, reso muto, che ci ammaliamo. Come accennavamo, il pensiero di Alfred Adler ha avuto un peso rilevante su alcuni aspetti dell’opera di Maslow. Non è certo un segreto il fatto che la psicologia umanistica presenti numerosi punti in comune ed espliciti parallelismi con la psicologia individuale di Adler, tuttavia appare degno di nota un articolo di Heinz L. Ansbacher (1990), nel quale l’autore sottolinea l’enorme interesse che Maslow provò nei confronti del lavoro di Adler e in particolare rispetto al concetto di Gemeinschaftsgefuhl, ossia di ’sentimento sociale’, citando lo stesso Maslow:

Questa parola [...], coniata da Alfred Adler, è l’unica valida a ben descrivere la pienezza dei sentimenti di umanità espressi dai soggetti che si autorealizzano. Essi hanno verso gli esseri umani in generale un profondo sentimento di identificazione, di simpatia e di affetto, nonostante i momenti occasionali di ira, di impazienza o di disgusto, [...]. A causa di tale sentimento di comunione essi hanno un genuino desiderio di aiutare la specie umana (Maslow 1954,

270-271).

Come accennavamo, però, implicata nel processo di autorealizzazione è anche la dimensione creativa. Sappiamo bene come autori del calibro di Jung, Neumann o Winnicott abbiano posto l’accento sulla creatività, vedendo in essa la migliore risposta alla sofferenza umana, nonché una formidabile strategia per lenire il nostro senso di colpa e affrontare l’angoscia del vivere. Io stesso, negli anni, mi sono più volte trovato nella condizione di riflettere su questo straordinario e sorprendente aspetto dell’esistenza, del quale non mi stanco di sottolineare il potere terapeutico e rigenerativo. La creatività è una efficace risposta alla sofferenza, la chiave che apre alla ’possibilità’, al progetto di rinascita e trasformazione che ogni individuo ha diritto di strutturare nel proprio mondo interiore. Maslow, in quanto psicologo umanistico, considera la creatività come ’possibilità’, in particolare come "espressione del margine di libertà di cui dispone l’uomo per intervenire sul proprio destino, al di là dei condizionamenti e delle esigenze di adattamento" (Carotenuto 1991, 283). Sento di condividere il pensiero di Maslow quando, considerando la dimensione creativa un potenziale proprio non solo di particolari figure ’geniali’, afferma:

La creatività è una caratteristica che si trova in tutte le persone osservate o studiate, che si autorealizzano. Non c’è eccezione. Ciascuno di loro mostrava in un modo o in un altro uno speciale tipo di creatività, di originalità, di inventività, che ha alcune caratteristiche peculiari. [...] questa creatività è ben diversa da quella dovuta ad un talento speciale, come nel caso di Mozart. Possiamo anche tener presente il fatto che i cosiddetti geni mostrano un’abilità che noi non comprendiamo.

[...]. La creatività dell’uomo che si autorealizza; sembra piuttosto essere vicina alla creatività ingenua dei bambini non viziati (Maslow 1954, 278).

L’autorealizzazione secondo Maslow è un bisogno fondamentale di ogni essere umano o, ancor meglio, un "metabisogno". Maslow sottolineava la diversità e la peculiarità della condizione umana rispetto al resto delle specie viventi. A differenza dell’irriducibilità degli istinti animali, della impossibilità che un compito genetico preprogrammato possa nell’animale venir meno, la natura interiore dell’uomo è precaria, soggetta a interferenze negative a opera di una serie di variabili che operano sull’individuo fino dal suo venire alla luce, e che incidono sul suo futuro sviluppo. Eppure, per quanto debole e soggetta a pressioni, tale natura interiore può essere del tutto soffocata. Anche nella patologia essa resiste e preme per realizzarsi. Del resto anche i più approfonditi studi antropologici condividono l’impostazione. Non si tratta di negare un patrimonio istintuale nell’uomo come nell’animale, ma di affermare invece una differenza dell’uomo dall’animale: l’uomo agisce mentre l’animale reagisce. È chiaro dunque che ciò che noi definiamo come patologia si inscrive nell’orizzonte più ampio e complesso della ricerca della individuazione personale, e che le varie forme del disagio psicologico hanno a che fare con l’entità delle interferenze che si oppongono al cammino individuativo del soggetto. Nella misura in cui le esperienze educative, culturali, interpersonali favoriscono lo sviluppo psicologico, esse diventano esperienze desiderabili. Sono quelle esperienze che rinforzano l’Io, infondendo un senso di stima e di fiducia in se stessi. Gli interrogativi che deve porsi la psicologia saranno allora relativi al come incoraggiare uno sviluppo armonico. Per trovare una risposta a queste domande, Maslow si interessò allo studio dei processi creativi e alla analisi delle personalità creative: vediamo, in sintesi, le sue scoperte più

stimolanti. Innanzitutto egli si rese ben presto conto dell’esistenza di una serie di stereotipi sui concetti di creatività, talento, genio, salute e produttività. Una notevole percentuale di soggetti indagati, infatti, potevano essere annoverati tra le personalità sane e creative, pur non avendo mai prodotto opere d’arte né possedendo particolari talenti; al contrario, numerosi ’grandi talenti’ non potevano certo essere definiti personalità sane, e d’altra parte le relazioni tra talento e ’sanità’del carattere restavano oscure. Apparve allora chiaro che la ’salute’ e il ’talento’ costituivano variabili distinte, forse correlate ma in modo non rilevante. Consapevole della vastità del tema che andava affrontando, e perciò della necessità di circoscrivere l’indagine, Maslow si limitò all’analisi di "quel tipo assai diffuso di creatività che è eredità universale di ogni essere umano su questa terra e che sembra essere una co-variante della salute psicologica" (Maslow 1962, 139). Comprese che anch’egli era rimasto vittima della nozione stereotipa che intendeva la creatività in termini di produttività; inoltre aveva confinato la creatività solo in aree convenzionali del comportamento umano, "inconsapevolmente ritenendo che qualsiasi pittore, qualsiasi poeta, qualsiasi compositore conducesse una vita creativa" (ibid., 139), come se la creatività fosse prerogativa di determinate categorie. Il lavoro con i soggetti esaminati, invece, gli aveva consentito scoperte inaspettate: la creatività non era appannaggio esclusivo degli uomini di cultura e di genio, ma era una modalità d’essere, un’inclinazione particolare della sensibilità, una prerogativa delle persone più disparate. Le persone’creative’ erano originali, inventive, imprevedibili, e la loro "arte" poteva investire qualsiasi campo della vita, la conduzione familiare, la cura per i deboli, o una determinata disciplina che catalizzava l’energia del soggetto. Ciò che risaltava agli occhi di Maslow, era la capacità di trarre un grande godimento dalla propria attività, che risultava così tutt’altro che ripetitiva e stereotipata. Questa forma di

creatività, che Maslow definì self-actualizing, cioè creatività derivante dall’autorealizzazione, si manifestava nelle faccende ordinarie della vita, come tendenza a comportarsi in modo creativo. Quali erano le caratteristiche comuni, se ce n’erano, a questi individui? Maslow riteneva che i suoi soggetti fossero più spontanei ed espressivi della media della popolazione: erano più naturali, cioè meno inibiti e controllati nel comportamento, avevano minor tendenza ad autoaccusarsi, e non erano assillati dal timore di apparire ridicoli o comunque dalla preoccupazione di essere giudicati. La conclusione, che ci appare interessante, e che coincide con quella di una nostra ricerca sui vantaggi psicologici e adattivi che vengono all’essere umano dalla conservazione delle caratteristiche ’neoteniche’, è che sotto molteplici aspetti questa forma di creatività era simile alla creatività dei bambini appagati e fiduciosi: la spontaneità non inibita, la facilità espressiva, la libertà rispetto agli stereotipi e alle convenzioni:

per evitare fraintendimenti, dato che i miei soggetti dopotutto, non erano bambini (erano tutte persone tra i cinquanta e i settanta anni) diciamo pure che avevano mantenuto o recuperato almeno questi due aspetti fondamentali dell’infantilità: e precisamente non catalogavano (ovvero erano ’aperti alle esperienze’) ed erano agevolmente spontanei ed espressivi (ibidem, 141)

Un’altra caratteristica che diversificava tali soggetti dalla media della popolazione riguardava il loro rapporto con l’ignoto, con l’imprevisto, col perturbante. Le personalità creative erano prive di paure rispetto all’inatteso, al mistero, a volte ne erano attratte. Esse non fuggivano né negavano

l’ignoto, non sviluppavano tendenze al controllo ossessivo della realtà, non catalogavano in modo precoce le esperienze né tendevano a irreggimentare la realtà degli eventi in rigide categorie. L’esigenza, che tutti abbiamo, di sicurezza e di ordine, non li rendeva smaniosi di rigorose categorizzazioni, anzi, qualora la situazione lo esigesse, potevano sviluppare comportamenti disordinati, caotici, dubbiosi, approssimativi, senza con ciò esprimere ansia. Ma c’è ancora un’altra osservazione di Maslow che suscita il nostro interesse: egli annotò di essere rimasto per molti anni sconcertato dal rapporto che le personalità creative intrattenevano con le loro polarità psicologiche, con gli aspetti dicotomici della loro esperienza interiore. Per esempio, a un’attenta analisi dei soggetti Maslow non riuscì a decidere se essi fossero egocentrici o altruisti: si dimostravano molto egocentrici per alcuni aspetti, e per altri molto altruisti. Ci sarebbe da domandarsi cosa intendesse Maslow per egocentrismo e per altruismo, ma gli stessi individui sottoposti alla sua analisi rispondevano ribaltando il quesito: considerare l’egoismo e il disinteresse come contraddittori e alternativi è in se stesso caratteristico di un basso sviluppo della personalità. I due elementi, invece, si fondevano non come aspetti incompatibili, ma "secondo un’unità o sintesi piuttosto sensata e dinamica" (ibidem 143). In definitiva, ecco le caratteristiche riscontrate più spesso nelle personalità creative: capacità di elaborare il nuovo; gusto per l’imprevisto; duttilità rispetto alle esperienze; capacità di stupirsi e di godere di quelle che potremmo definire le ’meraviglie dell’esperienza quotidiana’, dallo spettacolo di un tramonto alla tenerezza suscitata dalla vista di un bambino. Nel mio lavoro clinico non ho incontrato spesso personalità di questo tipo. D’altra parte, sono gli individui nevrotici, coloro cioè che hanno perduto proprio questo rapporto immediato e, vorrei dire, "goloso" con la realtà quelli che vengono a far visita allo psicoanalista. Nonostante ciò io ritengo che, proprio in virtù della

fondamentale tendenza psichica umana all’autorealizzazione e alla individuazione, non è possibile scindere o inibire le potenzialità creative che consentono un’esperienza gratificante dell’esistenza. Se così non fosse, la nostra attività di psicologi si ridurrebbe a quella di consolatori di anime, mentre invece sappiamo che una terapia ben riuscita consente al soggetto di tornare ad attingere alle sue energie libidiche, creative, e di investirle nel mondo delle relazioni e nelle attività professionali. Malgrado le obiezioni che si possono muovere – e che non ho esitato a muovere – alle tesi di Maslow, non esito a dire che la sua ostinazione nel porre l’accento sugli aspetti propositivi e creativi della personalità, il tentativo di mettere al centro della ricerca psicologica un oggetto integro e non un oggetto parziale, non sono da sottovalutare; anzi, la psicologia del profondo dovrebbe in qualche modo farne tesoro. Presumere che la natura umana sia egoista, che esista una pulsione primaria distruttiva, una tendenza innata aggressiva, o invece, partire dal presupposto che nel loro manifestarsi i bisogni umani fondamentali non sono né cattivi né peccaminosi, e che l’individuo tende al dispiegarsi armonico di tutte le sue potenzialità, sono visioni antitetiche che conducono a formulazioni teoriche e strategie terapeutiche diverse. "Ciò che uno può essere, deve esserlo. Egli dev’essere come la sua natura lo vuole", afferma Maslow (1954, 98) con entusiasmo, ma chi può stabilire "cosa dobbiamo essere"? Chi può dirci qual è la giusta direzione del nostro percorso di "autorealizzazione"? La risposta può venire solo da noi stessi, nessuno può regalarcela, perché non sarebbe la nostra risposta, il nostro progetto. La fiducia di Maslow nelle risorse dell’essere umano considerato ’buono’ e ’sano’ – e soprattutto di quegli individui che riescono ad autorealizzarsi – è così tenace e irremovibile da far pensare a una ’fede’, o a una utopia. Della fede e dell’utopia il discorso maslowiano ha l’unilateralità; direi una duplice unilateralità: da un lato quella, cui abbiamo già accennato, di una visione che potremmo definire "monoculare", priva della ’profondità’necessaria a

inquadrare aspetti della personalità nascosti da quelli in primo piano; il secondo "peccato" di unilateralità consiste proprio nell’avere, in ultima analisi, eletto a oggetto della ricerca, malgrado tutti i riconoscimenti della diversità di ciascun individuo, una specie di prototipo o modello unico, che sta ai singoli individui come la famosa "cavallinità" di Platone sta ai singoli cavalli. Possiamo a questo punto dire di essere dinanzi ad una ’Terza Forza’ nel campo della psicologia? Sì, ma con una doverosa riserva. La vera ’forza’ del pensiero di Maslow e di tutta la psicologia umanistica, è data senza dubbio dalla sua straordinaria – e sempre ben accetta – ’positività’, dal suo sincero, esaltante ottimismo. A essa però dobbiamo affiancare una innegabile debolezza, una debolezza di cui la psicoanalisi non è mai stata vittima e – consentitemi di "ipotecare il futuro" – dalla quale suppongo che mai si farà sopraffare: sorvolare sul dolore e la sofferenza, anziché considerarli i migliori alleati dello sviluppo e della trasformazione psicologica.

13. LA TERZA FORZA ALL’ATTACCO Pur rifiutandosi di parlare di "malattia", Maslow col solo eleggere a oggetto della sua ricerca la persona ’sana’ non poteva non evocare, come contraltare inevitabile, la persona che ’sana’ non è, o lo è ancora. E questo ci riporta a un annoso interrogativo, che riguarda qualsiasi tipo di terapia: curare la ’malattia’ o curare il ’malato’? "Curare l’uomo", rispondono senza esitazioni Maslow e l’intera schiera degli psicologi umanisti. (Qualche "estremista" potrebbe addirittura sostenere che neanche il verbo "curare" è corretto; ma avrebbe torto: il verbo curare ha, da un punto di vista etimologico, le carte in regola per qualsiasi tipo di intervento o assistenza, per chiunque si occupa con assiduità e sollecitudine di qualcun altro). Però quando dalla pratica della cura si passa a teorizzare i concetti cui si ispira il terapeuta, allora la malattia, e il paziente o cliente come categoria, scacciati dalla porta, rientrano dalla finestra: perché non si può teorizzare il disagio psichico senza "sporcarsi le mani" con sintomatologie diverse, quadri clinici differenziati, e insomma le varie ’patologie’. Per contro, va ricordato che anche prima e al di fuori della psicologia umanistica, Freud, Jung e tutti gli altri psicologi del profondo si sono occupati, anche nel loro teorizzare, di singoli ’casi’. Basta dare una scorsa ai più famosi testi della storia della nostra disciplina per rendersi conto che da sempre la psicoanalisi è andata avanti "a furia di casi". E vediamo come è fatto questo ’singolo’, che peraltro è anche lui piuttosto "composito". Intendo dire che la singola personalità è un’affascinante composizione di opposti psichici, di polarità che noi usiamo definire, alla maniera di Eraclito, attraverso la dialettica della luce e dell’ombra, del bene e del male, dell’amore e dell’odio, e così via. L’individuo è attraversato da una tensione fondamentale che lo tiene sospeso tra opposte

richieste, interne ed esterne, e all’interno di se stesso è abitato da contraddizioni e conflitti: questo paesaggio interiore è simile in tutti noi, ed è necessario subito evitare l’equivoco di una lettura schematica degli assunti di Maslow, e cioè che esista la categoria degli individui realizzati, adattati e senza problemi, e la categoria dei non realizzati, infelici nevrotici alla costante ricerca di ciò che non riescono a raggiungere. La personalità creativa, in modo diverso, è esposta alla tensione dei contrari, proprio perché è impegnata a differenziarsi dalla matrice collettiva per ’farsi individuo’. Cosa significa ’farsi individuo’? Significa riuscire a elaborare, in un processo che terminerà alla nostra morte, la nostra presenza nel mondo come presenza unica, originale e irripetibile. Significa trovare quelle modalità attraverso cui esprimere la nostra unicità. Se individuarsi significa differenziarsi, mai come in questi nostri tempi il compito dell’individuazione suona come una necessità, un imperativo morale. Nel 1939 Jung scrisse un saggio dedicato al rapporto tra coscienza, inconscio e processo di individuazione, in cui si sosteneva che la nascita dell’individuo psicologico, l’affermazione di una identità specifica e originale, ha bisogno di un lento e faticoso cammino di differenziazione: in primo luogo la separazione dalla madre, dalla famiglia di origine, dalle complesse identificazioni inconsce che, senza rendercene conto, definiscono l’orizzonte della nostra coscienza, determinano le nostre scelte, e nei casi più comuni, impediscono lo sviluppo psicologico. È Jung ad affermare che

ogni passo in avanti rappresenta una lotta per sradicarsi dal seno materno universale della primitiva incoscienza, in cui vive la grande massa del popolo (1928/31, 110).

Ma è possibile differenziarsi se prima non ci si è ben identificati con ciò da cui occorre separarsi? È sulla base della risposta che daremo a questa domanda che nasce la comprensione di cosa significhi esprimersi con una personalità creativa. Jung ha affermato che la creatività è una componente istintuale, radicata nell’essere umano: egli parla infatti di istinto creativo. È bene ribadire che non stiamo parlando della ’creazione artistica’, anche se l’impulso che spinge un individuo a progettare un’opera d’arte è identico a quello che muove un altro individuo a progettare un bel giardino o una casa accogliente. L’impulso creativo resta universale, appartiene al nostro stesso essere vivi. Diciamo, per essere più precisi, che la creatività è una modalità di entrare in contatto con la realtà.. Sorge naturale, però, un’obiezione: come è possibile che un impulso primario, un elemento universale della psiche, funzionale al buon adattamento dell’individuo, sia così poco manifesto tra le persone? Come è possibile che ci circondi tanta confusione e disarmonia, soprattutto tanta banalità e povertà di fantasia, e che noi stessi si percepisca la nostra esistenza come tutt’altro che creativa, anzi prevedibile, abitudinaria, ripetitiva? Per tentare di rispondere a questa domanda, dobbiamo capire come avvenga la perdita dell’approccio creativo all’esistenza e, prima ancora, quale sia l’origine della modalità creativa di rapporto con i fenomeni esterni. Quando si stabilisce una capacità personale di vivere in maniera creativa? E può essere repressa, inibita o mortificata? E perché e quando si situa la rinuncia all’esperienza creativa? Abbiamo chiarito, grazie anche al contributo di alcuni autori, l’importanza della dimensione creativa nell’esistenza di ognuno di noi. Ne abbiamo anche evidenziato le peculiari implicazioni con il processo terapeutico, riflettendo anzitutto sul fatto che la creatività rappresenta uno straordinario strumento di risposta alla sofferenza. Porsi dinanzi al vivere forti del proprio strumento creativo, significa poter affrontare anche la routine’ quotidiana con un atteggiamento attivo e dinamico. Purtroppo non è sempre possibile mobilitare le nostre risorse creative,

quando abbiamo l’impressione che esse siano ormai ridotte se non prosciugate, come se avessimo dato fondo a quel patrimonio per fronteggiare, giorno dopo giorno, i nostri problemi quotidiani. È quindi importante cercare di chiarire quando e come avviene la perdita, da parte dell’individuo, di un approccio creativo all’esistenza. Quando e come accade che quello che il bambino vive e sperimenta come un Sé unitario, come uno spazio interno-esterno carico in modo positivo, premessa e promessa di benessere, venga mortificato. C’è dunque un momento iniziale nella fase di crescita dell’individuo in cui qualcosa fallisce, ostacolando, disorientando il percorso normale dello sviluppo? Già dalla formulazione di queste prime domande, è chiaro che dobbiamo risalire alla nostra infanzia, ai primi momenti dello sviluppo psicologico, alle modalità primarie di entrare in contatto con la realtà. Anzitutto vorrei sottolineare questo termine, ’normale’, perché, come le più recenti ricerche sulle caratteristiche neoteniche dell’essere umano dimostrano, è la salute psichica la via ’creativa’ per eccellenza. Nel mio La strategia di Peter Pan (1995), ho avuto più volte occasione di riflettere sul significato del termine "neotenia" e sul legame che unisce questo peculiare insieme di caratteristiche psicologiche alla dimensione creativa. Occorre anzitutto ricordare quale sia l’etimo di questo termine e il suo antecedente storico che, come vedremo, fu in origine biologico:

Il termine infatti è stato coniato dal biologo tedesco Julius Kollmann unendo le due parole greche néos, che significa ’nuovo’, e teíno che, attraverso il tedesco halten, fece corrispondere a ’trattenere’, ’ritardare’. Egli se ne servì applicando tale concetto al mondo degli anfibi, per descrivere il processo di maturazione sessuale dei tritoni allo stadio ancora larvale. La significazione etimologica più corretta del verbo teíno è quella di "tendere", "estendere verso". Possiamo cioè

pensare alla neotenia come a una estensione nel tempo del processo di sviluppo dei tratti fetali (Carotenuto 1995,90).

Partendo da queste basi biologiche, il termine neotenia ha trovato poi un più vasto impiego, approdando per l’appunto anche alle rive della psicologia e della creatività. Da un punto di vista psicologico, infatti, parlare di neotenia significa fare riferimento all’insieme di tratti e caratteristiche tipiche del bambino e all’importanza di conservarli vivi e vitali anche in epoche successive dell’esistenza. Non mi stancherò mai di ribadire l’importanza del poter preservare i tratti neotenici anche in età adulta, perché, come vedremo, riuscire in questo intento significa regalare a noi stessi molte opportunità in più, fra cui spicca quella di essere individui creativi. La creatività infatti si nutre di alcune delle qualità infantili, come ad esempio la curiosità, lo stupore, l’interesse sempre vivo per il gioco. A ben guardare, sono molti gli individui creativi che parlano della loro attività artistica come di un "gioco", che permette loro di dar forme nuove al mondo divertendosi. Tuttavia, per l’adulto non è facile preservare le qualità tipiche del bambino, soprattutto se durante l’infanzia sono insorte problematiche e difficoltà che abbiano ostacolato il normale fluire delle diverse tappe dello sviluppo. La domanda che quindi dovremmo porci è: "in che modo la creatività si correla alla normalità e/o alla patologia"? Al di là della visione romantica che faceva coincidere genio e follia, stranamente fatta propria anche dal positivismo (se Dumas Padre aveva "dato alle scene" il dramma Kean, genio e sregolatezza, il nostro Cesare Lombroso intitolò un suo celebre saggio proprio Genio e Follia. Parentesi nella parentesi: "stranamente", ma fino a un certo punto; in fondo il positivismo si incaponì ad applicare l’approccio scientifico anche a fenomeni che di scientifico avevano poco o niente – dal progresso sociale allo spiritismo) – al di là di quel luogo

comune, dicevo, la verità è che all’origine di un’esistenza creativa c’è l’aver percepito il mondo come realtà coesa e dotata di senso. Questa è l’esperienza fondante della vita neonatale e della prima infanzia, la premessa a che il bambino trovi la sua felicità e possa avventurarsi, esplorare e manipolare il suo ambiente, sentendosi rispecchiato e confermato nei suoi gesti. C’è un altro luogo comune – anche questo di matrice romantica (ma non "raccolto" dal positivismo) – che fa coincidere il destino del genio, o anche solo del ’talento’, con la sofferenza. Il motivo di questa diffusa credenza non è difficile da spiegare: spesso la persona di talento ha anche una "sensibilità" più spiccata della media, e questo direi da un punto di vista statistico, accresce le sue "probabilità" di soffrire. Ciò non significa affatto che – come si sente dire – talento e sofferenza si nutrano a vicenda. Non foss’altro perché la "sensibilità" non è detto che si accompagni al talento (o addirittura al ’genio’): la "sensibilità" riguarda il modo di ricevere gli stimoli del reale, mentre il talento ha a che fare col modo di esprimere qualcosa che urge dentro. D’altra parte, quante volte abbiamo sentito dire da persone di talento afflitte da qualche disagio psichico, diciamo pure da sintomi nevrotici, che non hanno nessuna intenzione di intraprendere una qualche terapia perché temono che una volta "guariti", con la nevrosi scompaia anche il loro talento? E invece il talento, per poter dispiegarsi al meglio, ha bisogno di essere "cullato" da un buon rapporto con la realtà. La base indispensabile per lo sviluppo di un atteggiamento di fiducia e di benessere nel bambino, è costituita dalla figura della madre, che esplicando la funzione di Io ausiliario fornisce protezione e sicurezza, e permette al figlio di fare un’esperienza di continuità dell’esistenza. Il bambino sta in un rapporto di fiducia assoluta nei confronti della madre. Le sue prime esperienze di conflittualità, per esempio la tensione tra piacere e dolore, fra dentro e fuori, si stagliano comunque su uno sfondo di sicurezza, perché la madre risponde ai bisogni del bambino ed è pronta a calmare le sue angosce. Così, tutte le tensioni spiacevoli possono essere tollerate e integrate,

mentre i bisogni ancora senza nome vengono ’tradotti’ dalla madre, così che il bambino impara a distinguere e a riconoscere i propri stati d’animo. Per comprendere appieno quanto sia fondamentale una buona sintonia tra la madre e il suo bambino, bisogna ricordare che a lei è affidato il soddisfacimento delle funzioni corporee, attive e passive del bambino, così che le tensioni inerenti alle sue attività – quelle che si accompagnano agli stimoli della fame, del sonno, della paura – trovano risposta e sollievo. Vogliamo ricordare, per esempio, un particolare e delicato momento di tensione-distensione, che è quello che il bambino vive nel momento in cui si abbandona al sonno. Le fasi che precedono il sonno sono infatti momenti molto delicati. Lo stato di semi-veglia che precede il sonno vero e proprio è uno stadio intermedio caratterizzato da una regressione, da uno stato di temporanea eclissi della coscienza, che genera paura. Il controllo dell’Io diventa fluttuante, la coscienza deve abbandonarsi al grande abbraccio dell’inconscio; è in questo frangente che emergono immagini, frammenti di percezioni, ricordi, stati d’animo confusi che possono produrre ansia. I disturbi del sonno dei bambini, la loro paura del buio, della solitudine, la richiesta di avere accanto un genitore che li rassicuri in questo viaggio "a ritroso", testimoniano quanto sia inquietante il distacco dalla veglia. Sappiamo che i bambini ricorrono a particolari rituali che li preparano al sonno, dal ’bacio della buonanotte’, all’uso di orsacchiotti e bambole, a rituali che si fanno più complessi in proporzione all’ansia che l’addormentarsi genera. Anche in ciò la funzione materna, fin dai primi momenti dello sviluppo, serve a rendere possibile un abbandono protetto e sicuro, un passaggio tranquillo dallo stato di attenzione vigile allo stato di quiete. Ma quali sono i primi atti creativi del bambino? Le prime espressioni della sua creatività precedono la relazione con il mondo esterno. All’inizio il neonato non distingue il Sé dal nonSé, il mondo: egli vive in uno stato di fusione indifferenziata con l’ambiente che lo circonda, in primis l’ambiente

rappresentato dalla madre e dalle funzioni materne di cura e di comprensione dei bisogni del piccolo. Afferma Winnicott che alla nascita non bisognerebbe parlare di ’bambino’ ma di un ’sistema bambino-madre’, proprio a sottolineare quella simbiosi’fisiologica’ che è al servizio della crescita e che rende possibile al figlio di sopravvivere e alla madre di svolgere il suo compito. Come vedremo, Winnicott dedica tutto il proprio impegno allo studio e al lavoro con i bambini. Potremmo in un certo senso considerare tutta la sua esistenza come una parabola ascendente protesa verso l’universo dell’infanzia. Ma su questi aspetti della sua opera avremo modo di ritornare. Dobbiamo allora immaginare un essere che emerge da una condizione di inconsapevolezza per poi affacciarsi sul mondo e riconoscerlo come tale, solo dopo un lungo periodo di transizione, durante il quale avvengono le più importanti conquiste dello sviluppo psicofisico. Pensiamo a un essere immerso per la maggior parte del tempo in un sopore dolce, da cui riaffiora per brevi intervalli (i neonati, si sa, dormono per la maggior parte del tempo) sotto gli stimoli spiacevoli della fame, del caldo o del freddo. Nei nove mesi di gestazione, infatti, gli stati di tensione venivano sedati grazie agli scambi osmotici con la madre, in un ambiente protetto e rassicurante, circondato dal liquido amniotico che, come una coltre tiepida, attutiva la violenza degli stimoli esterni. La ’realtà’ subisce un totale mutamento alla nascita, ma è ancora la madre a creare per il figlio le condizioni migliori a che il passaggio da un mondo all’altro sia graduale e il meno traumatico possibile. Cullare il bambino, avvolgerlo, tenerlo in un ambiente confortevole, al riparo dalla luce e dalle stimolazioni violente, tutto ciò serve a ricreare l’ambiente uterino. In queste condizioni il bambino vive all’inizio quasi sempre addormentato; quando si risveglia per essere nutrito, ripulito e vezzeggiato, entra in contatto con il nuovo mondo che lo circonda, cosicché giorno per giorno egli inizia a differenziarsi dalla sua matrice inconscia e a formarsi una coscienza di sé. Fin dalla nascita è evidente la presenza nel bambino di processi psichici, anche molto complessi; essi però

non sono riferiti a un Io, non hanno un ’centro’, dunque mancano di continuità, senza la quale è impossibile parlare di una coscienza. Così, malgrado la plasticità e la ricettività di cui è dotato il suo apparato psichico, il bambino non ha memoria, almeno non nel senso che noi intendiamo. È dal momento in cui il bambino dice: ’io’ che inizia una continuità della coscienza, che si struttura nella forma di una lenta integrazione di frammenti di coscienza, di isole di percezione che, attraverso la funzione interpretante della madre, acquisiscono un significato, mentale e affettivo, andando a comporre, come tasselli di un mosaico ancora misterioso, l’unità della visione, di sé e del mondo. Il processo di formazione della coscienza progredisce di pari passo con il cammino di differenziazione del bambino dalla figura materna: l’esperienza di entrare in contatto con un oggetto è infatti possibile solo se si può riconoscere che l’oggetto è qualcosa di differente dal soggetto che lo percepisce, che ne è separato. Se ci siamo soffermati su questa prima fase è per rendere l’idea di che cosa significano termini come ’sistema madrebambino’, cosa vuol dire passare da uno stadio di ’indifferenziazione’, alla nascita della coscienza. Con un linguaggio diverso, ma procedendo verso i medesimi intenti si esprime Jacques Lacan. Questo singolare personaggio dell’universo psicoanalitico introdusse l’espressione "stadio dello specchio" per descrivere attraverso tre tappe successive il graduale procedere del bambino verso la conquista di sé. Il tema dello sviluppo e dell’evoluzione psicologica del bambino, sembra dunque essere rilevante all’interno del pensiero di studiosi anche molto differenti tra loro. Da un attento esame dei loro "intenti teorici" è comunque possibile evincere un elemento in comune, dato dall’obiettivo stesso del loro lavoro: comprendere come evolva lo sviluppo psicologico e come si possa giungere a quel sorprendente "oggetto integrato" che è la nostra personalità. Volendo però giungere a una visione prospettica di più ampio respiro che possa permetterci di comprendere l’essenza dello sviluppo psicologico, è bene

approfondire il pensiero di Lacan; che da sempre è considerato arduo, poiché è con grande diffidenza che – ancora oggi – il mondo della cultura rivolge a questo pensatore la propria attenzione. Le sue idee, il suo stile, la sua particolare modalità espressiva – spesso metaforica – hanno contribuito a creare un’immagine di questo autore piuttosto criptica, enigmatica, così inafferrabile nella sua poliedricità da essere spesso considerata "irraggiungibile" e – forse proprio per questo – criticabile. In realtà, accostarsi alla storia di Jacques Lacan significa anzitutto iniziare a comprendere la vita e le vicende di un uomo come tanti altri, il quale però ben presto riuscì a emergere dalla ’moltitudine dei più’ per configurarsi come un personaggio "fuori dell’ordinario", geniale, il cui contributo al corso della storia della psicoanalisi non può essere negato. Simili premesse, che al lettore inesperto possono suonare quasi come "un’arringa difensiva" nei confronti di Lacan, sono invece l’indispensabile preludio per avvicinarsi al pensiero di questo autore con una disposizione mentale positiva, scevra cioè da quegli stereotipi di ordine culturale che talvolta minano l’apprendimento e la diffusione della cultura stessa. Era il 13 aprile del 1901 quando, nella città di Parigi nasceva Jacques Lacan. La sua famiglia, cattolica, rappresentava la tipica espressione della borghesia francese di inizio secolo, e aveva alle proprie spalle generazioni di fabbricanti e commercianti d’aceto. Jacques fu il primogenito per Émilie e Alfred Lacan, ma ben presto la coppia avrebbe avuto un altro figlio, Raymond, destinato a morire a soli due anni per una grave forma di epatite. Il vuoto creatosi in seguito a questa perdita sarà in parte colmato dalla nascita, nel 1903, di una bambina, Madeleine Marie Emmanuelle. Cinque anni più tardi nacque il quarto e ultimo figlio, Marc-Marie. Considerata la precoce scomparsa di Raymond, Jacques crebbe con un fratello e con una sorella, ricevendo cure e attenzioni non solo dai suoi genitori ma anche dalla governante Pauline, scelta con il preciso intento di assicurare ai bambini la presenza di una persona disponibile e affettuosa. Sebbene in quella famiglia di

’fabbricanti d’aceto’ l’amore non mancasse, tuttavia i tre bambini non crebbero in un clima sereno, e ben presto si stabilirono gerarchie affettive, incomprensioni e disagi, proprio come ci viene testimoniato da poche righe della biografia di Jacques Lacan scritta dalla psicoanalista Elisabeth Roudinesco:

Alla nascita di Jacques, Émilie aveva assunto al proprio servizio una giovane governante, Pauline, che si affezionò ai tre bambini manifestando peraltro subito una netta preferenza per il piccolo ’Marco’. Jacques, che veniva chiamato ’Jacquot’, ne fu geloso, sebbene fosse il prediletto della madre. Si rivelò ben presto capriccioso e tirannico, rivendicando incessantemente il ruolo di fratello maggiore con continue richieste di cibo, soldi e doni [...]. Potrebbe sembrare che i tre bambini vivessero in un ambiente familiare unito dalla devozione e dalle usanze religiose. Ma in realtà continui conflitti venivano a turbare i rapporti. (Roudinesco 1993, 8).

Trascorsa la prima infanzia, Jacques fu iniziato agli studi liceali, e i genitori scelsero per lui il collegio Stanislas, prestigioso e rinomato a quel tempo fra le famiglie di elevata estrazione sociale appartenenti alla borghesia cattolica. Lo Stanislas aveva conosciuto il massimo splendore nella seconda metà dell’Ottocento, e lasceremo ancora alla Roudinesco il compito di descrivercene uno scorcio di storia:

La grande rinascita del collegio Stanislas era incominciata all’indomani delle barricate del 1848. Le sommosse popolari ebbero come effetto di indurre la

classe dominante [...] ad affidare l’educazione dei figli alle scuole confessionali. Negli anni che seguirono, il numero degli allievi superò il migliaio. Verso la fine del secolo i padri marinai, che dirigevano l’istituto, fecero costruire nuovi edifici nei quali furono sistemate aule, laboratori e una sala d’armi (ibid., 10).

Possiamo affermare che il giovane Jacques ebbe modo di crescere in un ambiente ove l’amore per la cultura era predominante, e la sua formazione classica lo condurrà ben presto ad avvicinarsi al mondo della filosofia. I suoi primi interessi in questo campo saranno rivolti al pensiero di Spinoza, ma il suo interesse per la filosofia – come vedremo – sarà sempre un crescendo di scoperte, indagini e riflessioni. Un amore, quello per il sapere filosofico, che gli venne trasmesso da un suo professore, Jean Baruzi, un personaggio che Lacan apprezzò e stimò e con il quale ebbe modo di stringere una salda amicizia che si protrarrà ben oltre il periodo 1917-1918 quando si era instaurato l’iniziale rapporto docente-discente. Il pensiero del Baruzi, il suo lavoro e il suo credo filosofico, lo condussero a circoscrivere il proprio campo d’interesse soprattutto allo studio delle religioni. La sua modalità di studio, eclettica e orientata a una comparazione critica tra le diverse culture religiose, venne molto criticata dal mondo cattolico, ma venne apprezzata, assorbita e metabolizzata dal nostro Lacan. Con il trascorrere del tempo si andava realizzando "una sorta di passaggio da un cattolicesimo devoto – quello dell’ambiente familiare – a un cattolicesimo erudito e aristocratico, in grado di costituire un sostrato culturale o uno strumento critico per l’apprendimento in materia di religione" (ibid., 13). In un certo senso l’avvicinamento a un certo tipo di pensiero, a una nuova prospettiva d’osservazione del reale, costituirono per Lacan dei veri e propri incentivi che lo sproneranno ad abbandonare in modo sempre più radicale la sua famiglia e i valori e principi che essa gli aveva trasmesso. Lo spirito ribelle che

contraddistinse Jacques sin da giovanissimo preoccupò non poco i suoi genitori ma senza dubbio la sua indole anticonformista e indomabile divenne ancor più radicale in seguito alla lettura dell’opera di Nietzsche. Con il trascorrere del tempo l’anticonformismo culturale e ideologico di Jacques Lacan sarà tale da indurlo a un distacco esplicito e radicale non solo nei confronti della propria famiglia ma, soprattutto, degli ideali e delle idee che avevano costellato la sua infanzia. Lacan si laureerà in medicina nel 1932 con una tesi sulla paranoia. Scelta interessante, questa, ma non improvvisata, non avventata. Risale infatti al 1931 la prima pubblicazione di Lacan nella Semainedes hôpitaux de Paris; si trattava del testo "Strutture delle psicosi paranoiche", dal quale era possibile evincere con relativa semplicità il peso dell’influenza esercitata dall’insegnamento di Clérambault. L’interesse di Lacan nei confronti del mondo della psicologia si era già manifestato nel 1923, anno in cui per la prima volta, aveva sentito parlare del pensiero freudiano. Era in realtà un interesse destinato a crescere col tempo; conseguita la laurea, infatti, Lacan si specializzerà in psichiatria con Clérambault. Costui ebbe un grande rilievo nella formazione di Lacan, ma non dobbiamo dimenticare che in tal senso contribuirono anche Georges Dumas e Henri Claude. Lacan è in fondo sempre stato un personaggio dalla cultura e personalità "eclettiche" e proprio questa caratteristica ha fatto di lui l’uomo dall’intricato pensiero che oggi conosciamo. L’adesione all’insegnamento di Clérambault – sebbene limitata – non gli impedì ad esempio di approfondire il pensiero di Henri Claude o quello dei surrealisti, né del resto l’interesse iniziale per la dottrina freudiana potrà mitigare il totale disinteresse che Lacan manifesterà nei confronti del pensiero di Freud durante gli anni Trenta. Sarà analizzato da Rudolph M. Loewenstein e diverrà membro della SPP (Société Psychanalytique de Paris). Seppur lavorando in ambito psichiatrico, Jacques Lacan non cesserà di sviluppare e assecondare il proprio interesse per il mondo della letteratura e filosofia. Così, portando avanti un fertile contatto con i maggiori esponenti del movimento

surrealista, collaborando alla rivista Il Minotauro e frequentando le lezioni dedicate da Alexander Kojève a Hegel, Lacan andrà in seguito strutturando un tipo di pensiero che per numerosi aspetti può essere considerato "filosofico". Non è quindi un caso se oggi a Lacan viene anzitutto riconosciuto il merito di aver coniugato filosofia e psicoanalisi; o meglio, di aver favorito il fertile connubio fra la psicoanalisi e uno specifico settore della filosofia. Stiamo parlando dello strutturalismo, un’importante corrente filosofica, ideologica e culturale, alla quale Lacan appartenne e della quale favorì la diffusione. Sarà l’incontro con gli scritti di Delacroix a far nascere in Lacan l’interesse verso questo particolare filone di pensiero. Non dobbiamo infatti dimenticare che uno dei punti di riferimento che Delacroix utilizzò per la formulazione delle sue idee fu il Corso di linguistica generale di Ferdinand de Saussure, pubblicato nel 1915 a Ginevra. È questo un passaggio importante per la nostra disamina del pensiero lacaniano, poiché è possibile affermare oggi con relativa certezza che sarà proprio il pensiero di de Saussure a influenzare la produzione teorica di Jacques Lacan. Una lettura del pensiero lacaniano che sorvoli sui suoi antecedenti filosofici sarebbe, più che lacunosa, incomprensibile, e proprio per questa ragione, cercheremo di sintetizzare il messaggio e i presupposti dello strutturalismo. Troppo spesso infatti Lacan viene presentato come un illustre esponente della linguistica, ma sebbene ciò sia corretto, è opportuno ricordare in che modo la linguistica e lo strutturalismo siano correlati tra loro. Va ricordato anzitutto che lo strutturalismo fu, più che una corrente filosofica, un metodo, un approccio, una ’prospettiva’valida per numerose scienze e discipline. Al di là infatti delle scienze cosiddette "umane", non dovremmo dimenticare che ci furono ’correnti strutturaliste, anche in discipline come la fisica, la biologia e la matematica. Queste ’correnti’, sebbene abbiano oggetti di studio differenti, procedono seguendo la medesima prassi metodologica, ossia analizzando quegli oggetti di studio senza isolarli dal resto del

sistema cui appartengono ma considerandoli come parte di un tutto, di una ’struttura’. La ’struttura’ è un organismo complesso, un insieme organico e organizzato, un sistema di relazioni tra le singole parti di un fenomeno e tra queste e il fenomeno in questione. Una qualsiasi disciplina può essere definita "strutturalista" se e quando procede secondo un approccio ’olistico’ e non intende valutare i propri oggetti di studio in modo isolato. Caposcuola dello strutturalismo, e in particolare dello "strutturalismo linguistico" viene considerato Ferdinand de Saussure. Con de Saussure la linguistica tradizionale compie un’importante inversione di rotta, vive una radicale trasformazione, nel senso che l’obiettivo perseguito dagli studiosi non è più – come accadeva nell’Ottocento – quello di ricostruire tappa dopo tappa il percorso evolutivo delle lingue europee, bensì quello di analizzare un elemento, fatto o oggetto linguistico all’interno del contesto cui appartiene, senza svincolarlo da esso. Ciò non significa che lo strutturalismo linguistico intende disinteressarsi dello studio dell’evoluzione storica dei singoli fenomeni linguistici, significa piuttosto privilegiare un esame delle trasformazioni di tali fenomeni partendo dal presupposto che essi appartengano a una struttura, a un insieme che li influenza, determina e plasma di continuo. Ora, se nel campo dell’antropologia culturale, la figura di spicco dello strutturalismo fu senza dubbio Claude Lévi-Strauss e a lui dobbiamo riconoscere una straordinaria abilità nell’utilizzare concetti di algebra pura per esemplificare idee di ordine etnologico, nel contesto psicoanalitico il termine "strutturalismo" si collega gioco forza al nome di Jacques Lacan. Fedele al presupposto rivoluzionario dello strutturalismo, che come abbiamo visto non esita a proporre e utilizzare bizzarri connubi fra le più disparate discipline, Lacan riesce a far convivere in una proficua simbiosi due discipline non proprio "sinergiche" (anche se la terapia freudiana è stata definita cura attraverso la parola): appunto la linguistica e la psicoanalisi. L’intento fondamentale dell’opera di Lacan fu sì quello di

rivisitare il pensiero freudiano, ma non – come si potrebbe pensare – con lo scopo di ripercorrerne le tappe, bensì con il chiaro obiettivo di ampliarne gli orizzonti, esplicitarne le implicazioni e offrirne una lettura innovativa. Già, "innovazione": è forse questo il termine che meglio si adatta a sintetizzare le caratteristiche dell’opera lacaniana, ma è proprio nell’innovazione stessa che è possibile rinvenire la causa prima delle tante critiche che hanno bersagliato negli anni il lavoro di Lacan. L’aspetto della sua teoria sul quale intendiamo ora soffermarci, è comunque quello inerente lo sviluppo psicologico e la formazione dell’Io, aspetto che delinea le differenze tra il pensiero di Freud e quello di Lacan. Non riesporremo ora il punto di vista freudiano, metteremo a fuoco piuttosto quello lacaniano, cercando soprattutto di comprendere in maniera più approfondita il cosiddetto "stadio dello specchio". La storia della psicoanalisi ci informa che nel 1936, a Marienbaud, in occasione del Congresso Internazionale di Psicoanalisi, Lacan espose una tematica che sbalordì e scosse la platea. Il punto di partenza di questa teoria è che il bambino, all’inizio, non percepisce il suo corpo come una totalità ma anzi soffre per una sensazione di devastante frammentazione. Affinché il bambino possa giungere a una solida e concreta esperienza del proprio corpo, è necessario che attraversi lo "stadio dello specchio". Si tratta di una tappa fondamentale per lo sviluppo del bambino perché gli consente la percezione dell’immagine del proprio corpo. Sarebbe proprio l’immagine – piuttosto che la percezione di essa – ad assolvere il ruolo di protagonista, permettendo al bambino di giungere alla conquista di una realistica percezione di se stesso. Lo stadio dello specchio è suddivisibile in tre tappe evolutive, tre passaggi che descrivono la graduale ma progressiva conquista del bambino. Nella prima fase il bambino percepisce la propria immagine riflessa in uno specchio come qualcosa di reale però esterno a lui, appartenente a qualcun’altro, e per questa ragione tenta di afferrarla, e non si lascia scoraggiare dalla constatazione che la

superficie specchiante è un muro invalicabile, anche se invisibile, che consente alla sua manina soltanto di incontrare quella del suo "alter ego" – un po’ come il moscone che si incaponisce a tentare di varcare il vetro di una finestra chiusa. Così il bambino tenta, spostando la mano, di agguantare il viso del suo ’doppio’, ma sempre si imbatterà con la manina in quell’altra manina che lo attende al varco e blocca ogni suo gesto. Solo nella favola del reverendo Dodgson alias Lewis Carroll, Alice, varcando quel confine invisibile, scopre un mondo di sogno e di magia: il bambino in carne e ossa deve accontentarsi di studiarlo restando al di qua della parete di vetro, come in un acquario si osservano i delfini o gli squali. Ma cosa scorge nello specchio il bambino in questa prima fase dello ’stadio’? Gran parte di quello che vede gli è familiare: gli oggetti, le pareti, gli "arredi", gli ricordano la sua stanza, il suo "regno"; se poi è la mamma a tenerlo in braccio, anche quella somiglia in maniera impressionante alla sua mamma. Solo quell’affarino che non stacca gli occhi da lui, incuriosito quanto lui, non gli ricorda niente e nessuno, come è giusto perché non lo ha mai visto prima d’ora. E se quella fosse davvero la mamma, allora che ci fa quell’affarino tra le sue braccia? Un estraneo, un intruso, forse un usurpatore che gli contende il trono. Del resto, chi ha avuto occasione di osservare un gattino messo per la prima volta davanti a uno specchio, lo ha visto arruffare subito il pelo e inarcare la schiena: un rivale nella sua stessa casa, a un passo da lui! Un cucciolo di cane invece, più fiducioso perché nato ’domestico’da innumerevoli generazioni, accosta il naso a quello del suo sosia, e muso contro muso prova ad accattivarselo. Nel mito di Narciso poi, per tornare alla nostra specie, il giovinetto, "neonato" non già alla cultura ma proprio al rapporto con la realtà arriva a innamorarsi di quella affascinante creatura (il che dimostra, a mio parere, che il "bisogno dell’altro" è forte e incoercibile in noi, proprio una sete, che può spingere a vedere un’oasi in un miraggio, una semplice illusione ottica). Ma torniamo a Lacan e alla sua prima fase dello ’stadio dello specchio’, la fase – appunto – dell’"illusione ottica":

quell’affarino là è uno sconosciuto, che può incuriosire o insospettire, comunque un estraneo. In un secondo momento il bambino si rende conto che si tratta solo di un’immagine e non di qualcosa di concreto e reale. Ma sarà solo con la terza fase che il bambino conquisterà la consapevolezza che quell’immagine che vede riflessa nello specchio gli appartiene, che si tratta della sua immagine. Questa terza tappa è definita "fase dell’identificazione primaria" ed è quella cruciale. "Relazionandosi con se stesso" il bambino giunge al riconoscimento di sé, e a farsi un’idea abbastanza realistica di se stesso nel mondo, o almeno nel suo mondo. Come abbiamo già accennato, Lacan ha avuto e ha a tutt’oggi molti detrattori, anche, se non soprattutto, a causa della sua "cripticità", del suo argomentare a furia di iperboli, metafore e traslati vari, tutte figure retoriche più adatte al discorso poetico che alla comunicazione scientifica (o para-scientifica). Tuttavia il contributo di questo autore alla storia della psicoanalisi è indiscutibile. Quello che invece può essere messo in discussione, al di là o al di qua della prosa "criptica" o "ermetica", è un singolare approdo della sua avventurosa navigazione nei mari della Psicologia del Profondo. Se il Nuovo Continente scoperto da Freud era stato la Fase Edipica, Lacan con lo Stadio dello Specchio aveva messo piede in un territorio altrettanto inesplorato ma ancora più remoto: la ’preistoria’ dell’Io. Poi però, invertita la rotta per ripercorrere l’itinerario della crescita del soggetto che ha trovato una sua identità, e tornato nel continente freudiano, si era inoltrato in quei territori ancora semi-inesplorati – ed eccoci arrivati al nuovo, sorprendente approdo. Sulla scorta di un famoso postulato di Freud, per il quale "l’Io non è padrone in casa sua", era arrivato a scoprire che non solo non è ’padrone’ ma è al servizio del vero padrone di casa che è l’Es. Fuori di metafora (trattandosi di Lacan l’espressione è quanto mai puntuale), noi crediamo di vivere, ma in realtà siamo vissuti; anzi, poiché "strutturalisticamente" la psiche è linguaggio, noi crediamo di parlare, e invece "siamo parlati". Diciamo "io" con l’aria di

esprimerci in prima persona, e invece dovremmo fare come il famoso bambino che parla di sé alla terza persona non per ignoranza della grammatica ma perché non si è ancora ben identificato con il ’soggetto’ della fame, della sete, del sonno, della richiesta, della protesta, di tutti gli impulsi di cui si fa interprete e ai quali presta la sua voce, talvolta prima ancora di aver capito bene che cosa sta succedendo. Lacan arriva a dirci che questo povero Io non solo non è il titolare del ’soggetto’, ma ne è solo un sintomo: "il sintomo umano per eccellenza, la malattia mortale dell’uomo". Così dall’Io sano di Maslow e della psicologia umanistica, siamo passati all’Io "malato" di Lacan. Due culture a confronto: il pragmatismo nordamericano e il disincantato scetticismo europeo post-illuminista, che revoca in dubbio anche il "cogito" cartesiano. E a questo punto mi consento una postilla scherzosa: il misterioso collega – forse di fede lacaniana che ha scritto alcuni piacevoli libricini in cui prende in giro l’autore francese, ha scelto come pseudonimo ’Salvatore dell’Io’ – un gioco di parole che a mio avviso va al di là del semplice richiamo al lessico della psicoanalisi in generale. Dopo Lacan, l’Io chiede aiuto: ha bisogno di essere "salvato". Una postilla meno scherzosa potrebbe invece riguardare le implicazioni ’etiche’ di questo teorema lacaniano. So bene che lo psicoterapeuta non è né un giudice né un confessore che impartisce penitenze e assoluzioni; ma non è nemmeno quello che fornisce alibi. Chi mi conosce sa che, al contrario, quando il paziente suppone di averne, mi adopero a verificarli con lui, per vedere se per avventura non siano il frutto di una visione aberrante del suo rapporto con gli altri e con la realtà in generale. Ora è legittimo chiedersi se uno statuto dell’Io così "subalterno" non finisca col ’deresponsabilizzare’il soggetto, con l’incoraggiarlo a non sentirsi il vero autore delle sue vicende, nel bene e nel male, scaricandone il peso su qualcun altro, che sarà pure annidato in fondo al suo essere, ma che non è lui. Malgrado tutte le postille, non si può negare che con Jacques Lacan la psicoanalisi si è incamminata lungo un nuovo

percorso, non finalizzato a rendere l’Io del paziente più forte o libero di quanto già non sia, ma orientato a una rilettura, traduzione e interpretazione della sua esistenza e dei tasselli talvolta dispersi. Tornando al mondo dell’infanzia, la prima forma di creatività del bambino emerge proprio quando ancora non si è differenziato dalla madre, e dunque non si è ancora posto come soggetto di fronte al mondo: la prima creazione, infatti, è proprio il suo spazio interno, delimitato e differenziato dal mondo esterno. Durante la lunga fase di indifferenziazione, di continuum spazio-temporale fra dentro e fuori, il bambino fa la prima esperienza dei movimenti e dei rumori che provengono dal suo corpo. È in questo periodo che si formano le prime risposte non riflesse del piccolo, i primi movimenti esplorativi, le prime percezioni propriocettive. Vi sono studi che documentano questa prima creatività, i sorrisi ’endogeni’, quelli cioè che il bambino fa non in risposta alla presenza di persone ma a percezioni che provengono dal suo interno, come il respiro, la digestione o i suoi stessi movimenti fisici. Espressioni spontanee di risposta del bambino che, ripetute nel tempo, lo rendono più capace di distinguere tra ciò che è interno e ciò che non lo è, cioè di differenziare l’esperienza soggettiva da quella oggettiva. Renata Gaddini, attenta studiosa dei fenomeni creativi e transizionali dell’infanzia, ha studiato le prime vocalizzazioni sillabiche del bambino quando è in uno stato di veglia quieta, vocalizzi attraverso i quali egli evoca il seno:

Nelle registrazioni finora effettuate, si può ascoltare il suono del bambino che succhia il dito, poi attende qualche secondo, emettendo gemiti fiduciosi: compare allora una chiara lallazione appena modulata sulla mmmm. Questo, a mio avviso, ha a che fare, in termini vocali, con la creazione del seno (1975, 160).

È interessante notare che questa prima forma di creatività avviene press’a poco nella stessa epoca in cui notiamo l’altra grande conquista creativa del bambino, l’oggetto transizionale, fra i sei e gli otto mesi. Ciò che più ci interessa e affascina, per le numerose implicazioni nell’ambito della ricerca simbolica, dell’arte e della creatività in genere è che entrambe queste esperienze creative fanno la loro prima comparsa in assenza della madre. Su questa osservazione torneremo in seguito, ma vogliamo intanto notare la comparsa di questi moti creativi e la loro importanza nel determinare una prima, rudimentale coscienza di sé, dunque nel rendere possibile la costituzione dell’Io. Esiste tutta una sequenza di eventi che inizia con la suzione del dito e che poi si amplia, fino a investire determinati oggetti che il bambino tiene sempre con sé, e a cui si affeziona in maniera particolare: dal lembo della coperta al bavaglino, fino all’orsacchiotto o alla bambola preferita. Da un punto di vista psicologico questi oggetti, cosiddetti transizionali, testimoniano della capacità del bambino di riconoscere gli oggetti del mondo come altro, seppure ancora non svincolati da sé, diremmo ’al limite’ tra una creazione soggettiva e la pura oggettualità. Il bambino diviene dunque capace di creare, di pensare e di rapportarsi all’oggetto, e soprattutto di legarsi con affetto a esso. Per indicare tutta la serie di eventi relativi a questa particolare area, Winnicott usa appunto l’espressione di ’fenomeni transizionali’: di transizione perché sono fenomeni "di frontiera" tra il reale e lo psichico, sé e la madre, l’ordine del desiderio e l’ordine della realtà. Così le lallazioni, le canzoncine balbettate prima di addormentarsi, rientrano in quest’area intermedia di creazione e di autocreazione del bambino, mentre le cose adoperate per trastullarsi ed esplorare il mondo sono "oggetti che non sono parte del suo corpo ma che non sono ancora riconosciuti come appartenenti alla realtà esterna" (Winnicott 1971, 25). La peculiarità dell’oggetto transizionale è appunto la sua

qualità di mediatore di un passaggio evolutivo che porta il bambino a differenziare il Sé dall’altro, a tollerare le frustrazioni inevitabili nella modulazione del rapporto con la realtà. La caratteristica psichica di quest’oggetto è che esso non è mai sotto l’assoluto controllo magico del bambino, nel senso che non è un dispensatore infallibile di soddisfacimenti, ma non è neppure al di fuori di tale controllo come, nella realtà, lo è la madre vera. La creatività primaria, dunque, richiede quale precondizione che l’affiatamento tra madre e bambino abbia consentito l’esperienza dell’onnipotenza prima, e poi quella di piccoli e graduali fallimenti per l’impossibilità della madre di essere sempre disponibile ogni volta che il bambino ne ha bisogno. Come scrive Winnicott, dopo un certo numero di poppate "andate a segno" sia dal punto di vista nutritivo che psichico, il lattante comincia ad avere del materiale con cui creare. Il fatto che la madre sia stata capace di entrare in sintonia con il suo bambino così da offrirgli il seno appunto nel momento in cui egli era pronto a riceverlo, è la base della onnipotenza del bambino, che poi diventerà fiducia nella propria capacità di creare. "Tramite la magia del desiderio si può dire che il lattante ha l’illusione di un potere creativo magico: tramite l’adattamento sensitivo della madre l’onnipotenza diventa un dato di fatto" (ibidem). Piano piano il bambino è pronto ad allucinare il capezzolo nel momento in cui la madre è pronta a darglielo. Nel corso del tempo si arriva a uno stato in cui il bambino piccolo ha fiducia nel fatto che l’oggetto del desiderio possa essere trovato e questo significa che il bambino comincia a tollerare l’assenza dell’oggetto. I primi atti creativi sono quelli che il bambino compie nella solitudine tranquilla del tempo del riposo, durante le fasi di veglia. Egli emerge dal sonno e al suo risveglio può trovarsi nelle condizioni di recepire con creatività il suo ambiente, oppure può trovarsi a dover far fronte, senza esserne all’altezza, a una serie di stimolazioni che lo frustrano, lo innervosiscono, lo angosciano.

Noi dobbiamo a Freud, alle sue ricerche e alle sue teorizzazioni, quella che ormai è una nozione indiscussa: che oltre alla realtà ’oggettiva’ esiste una ’realtà psichica soggettiva’. Ogni percezione di dati esterni è in realtà filtrata da un sofisticatissimo sistema di recezione, cognitivo e affettivo, così che tra noi e la realtà c’è sempre una relazione bidirezionale: il mondo e lo sguardo che lo accoglie si creano vicendevolmente. Il soggetto percepisce gli oggetti filtrandoli e caricandoli di senso attraverso i propri affetti, nominandoli e colorandoli con le emozioni, così che, posto un oggetto dinanzi a più persone osservatori, in realtà esso si raddoppia e si moltiplica per quanti sono gli osservatori. Questa qualità affettiva, per la quale il mondo dell’esperienza è sempre un mondo ’buono’ o ’cattivo’, familiare o estraneo, amabile o detestabile, è la radice dell’umana esperienza. Quando parliamo di "umana esperienza", è possibile riferirci a essa attraverso differenti modalità. Alcune di queste, come abbiamo potuto constatare nel caso di Lacan, possono apparire ambigue ma, come hanno osservato Alan Sokal e Jean Bricmont,

Non possiamo astenerci dal pensare che, in molti casi, tali ambiguità siano deliberate. Esse offrono infatti un notevole vantaggio nelle dispute intellettuali: le affermazioni radicali possono servire ad attrarre ascoltatori o lettori relativamente inesperti; e qualora l’assurdità di tale versione venga posta in evidenza, l’autore può sempre difendersi affermando di essere stato frainteso, e ripiegare sull’interpretazione innocua (Sokal e Bricmont, 1997, 196).

Si tratta di un linguaggio che "nega ogni referente reale" (Borch-Jacobsen, 1991, 235), disancorando l’esperienza

emotiva della sua narrabilità.

14. SOTTO IL FUOCO INCROCIATO Esaminando le caratteristiche della dimensione creativa e, in particolare, lo straordinario potenziale terapeutico racchiuso in essa, abbiamo riflettuto sul fatto che ogni percorso di sofferenza e di dolore può – e anzi deve – essere letto come un fedele alleato dello sviluppo e della trasformazione psicologica del paziente. Questa prospettiva interpretativa del dolore psicologico è riscontrabile, per esempio, nei sistemi teorici di padri della psicoanalisi quali Sigmund Freud e Carl Gustav Jung, nei cui metodi terapeutici è possibile riscontrare due differenti concezioni di guarigione, di cura e di destino delle pulsioni. Per comprenderle, occorre stabilire come Freud intendesse l’inconscio e i suoi rappresentanti fantasmatici, e quali fossero le divergenze di Jung al proposito. È proprio sul terreno delle differenze in merito alla definizione di ’inconscio’ che i due pensatori concepirono le rispettive teorie psicologiche e metodologie terapeutiche. Come ricorderemo, il celebre caso di "Anna O." permise a Freud di iniziare a formulare e strutturare la propria teoria dell’inconscio, teoria che avrebbe subito con il tempo importanti modifiche. "Inconscio" è un termine, atto a indicare tutti quei contenuti che non possono sostare a livello della coscienza. Nel pensiero di Freud però, il termine diviene ancora più specifico e il suo impiego, come vedremo, andrà a identificare le caratteristiche della cosiddetta "prima topica freudiana", ossia della prima teoria dell’apparato psichico formulata da Freud e fondata sulla distinzione fra inconscio, preconscio e conscio. Il meccanismo cardine di questa prima formulazione dell’inconscio è la "rimozione", meccanismo che permetterebbe al soggetto di "gettare" all’interno del proprio "serbatoio inconscio", immagini, sensazioni, pensieri ed emozioni correlati a una

determinata pulsione. Il permanere al livello della coscienza di simili rappresentazioni provocherebbe al soggetto una sofferenza troppo grande, un disagio insostenibile. Freud, tuttavia, volle precisare che la rimozione non costituisce la totalità e l’essenza stessa dell’inconscio:

Abbiamo imparato dalla psicoanalisi che l’essenza del processo di rimozione non consiste nel sopprimere un’idea che rappresenta una pulsione, nell’annullarla, ma nell’impedirle di diventare cosciente. [...]. Tutto ciò che è rimosso è destinato a restare inconscio; tuttavia è nostra intenzione chiarire fin dall’inizio che il rimosso non esaurisce tutta intera la sfera dell’inconscio. L’inconscio ha un’estensione più ampia; il rimosso è una parte dell’inconscio. Come possiamo arrivare a conoscere l’inconscio? Lo conosciamo soltanto in una forma conscia, dopo che si è trasformato o tradotto in qualcosa di conscio. Il lavoro psicoanalitico, ci fa sperimentare ogni giorno che una traduzione del genere è possibile (Freud 1915, 49).

Questa dunque era la prospettiva dalla quale Freud osservava l’inconscio nella ’prima topica’ da lui proposta, una prospettiva che indicava nell’inconscio uno dei tre sistemi dell’apparato psichico. Diverso invece sarà l’impiego del termine "inconscio" nell’ambito della seconda topica elaborata da Freud a partire dal 1920 che suddivideva l’apparato psichico in: Es, Io e Super-Io. L’istanza denominata Es costituisce per Freud il nuovo prototipo di inconscio, fungendo anzitutto da contenitore e catalizzatore di tutte le emozioni e istinti del soggetto. Secondo

Freud, l’Es è

la parte oscura, inaccessibile della nostra personalità [...]. All’Es ci avviciniamo con paragoni: lo chiamiamo un caos, un crogiolo di eccitamenti ribollenti. [...] Attingendo alle pulsioni, l’Es si riempie di energia, ma non possiede un’organizzazione, non esprime una volontà unitaria, ma solo lo sforzo di ottenere soddisfacimento per i bisogni pulsionali nell’osservanza del principio di piacere.[...] Com’è ovvio, l’Es non conosce né giudizi di valore, né il bene e il male, né la moralità. Il fattore economico o, se volete, quantitativo, connesso al principio di piacere, domina ivi tutti i processi. Investimenti pulsionali che esigono la scarica: a parer nostro nell’Es non c’è altro (Freud 1932, 185186).

Ciò che secondo Freud permette la "mediazione psichica" tra l’Es e il mondo esterno è l’istanza denominata Io, caratterizzata da un autonomia quantomeno scarsa e precaria:

Sotto l’influsso del mondo esterno reale che ci circonda una parte dell’Es ha subito un’evoluzione particolare. Da quello che era in origine [...] si è sviluppata una particolare organizzazione, che media da allora in poi fra Es e mondo esterno. Questa regione della nostra vita psichica l’abbiamo chiamata Io (Freud 1938, 573).

La distinzione fra le due istanze psichiche Es e Io è davvero

fondamentale ai fini della comprensione del processo psicoanalitico; Freud infatti giungerà ad affermare che l’intento degli sforzi terapeutici della psicoanalisi, "è in definitiva di rafforzare l’Io, di renderlo più indipendente dal Super-Io, di ampliare il suo campo percettivo e perfezionare la sua organizzazione, così che possa annettersi nuove zone dell’Es. Dove era l’Es, deve subentrare l’Io" (Freud 1932, 190). Giunti a questo punto, non ci rimane che domandarci quali siano le caratteristiche della terza istanza psichica descritta nella seconda topica: il Super-Io. La funzione del Super-Io è paragonabile a quella di un giudice, di una specie di Supervisore inconscio che ci sprona ad agire in un certo modo o a evitare determinati comportamenti. Il Super-Io si genera mediante un processo di interiorizzazione delle figure genitoriali e dei loro divieti e la sua formazione segue le tappe della dinamica dello sviluppo psicologico:

La funzione che più tardi assume il Super-Io viene dapprima svolta da un potere esterno, dall’autorità dei genitori. I genitori esercitano il loro influsso e governano il bambino mediante la concessione di prove d’amore e la minaccia di castighi; [...] Solo in seguito si sviluppa la situazione secondaria – che noi siamo troppo disposti a ritenere quella normale – in cui l’impedimento esterno viene interiorizzato e al posto dell’istanza parentale subentra il Super-Io, il quale ora osserva, guida e minaccia l’Io, esattamente come facevano prima i genitori col bambino" (ibid., 174-175).

Diverso sarà invece il pensiero di Jung in merito al concetto di inconscio. Per Jung infatti esistono due regni inconsci ben differenziati. Egli infatti parlerà di inconscio personale e di inconscio collettivo, descrivendoli in "Psicologia dell’inconscio"

(1917/1943):

L’inconscio personale contiene ricordi che sono andati perduti, rappresentazioni penose rimosse (dimenticate intenzionalmente), percezioni cosiddette subliminali, cioè percezioni sensorie che non sono abbastanza intense da raggiungere la coscienza, e infine contenuti che non sono ancora maturi per la coscienza. Esso corrisponde alla figura, variamente presente nei sogni, dell’Ombra (ibid., 67).

E ancora:

dobbiamo dunque ammettere che l’inconscio contenga non soltanto elementi personali, ma anche elementi impersonali, collettivi, in forma di categorie ereditarie, o archetipi. Io ho quindi enunciato l’ipotesi che l’inconscio, nei suoi strati più profondi, possegga contenuti collettivi, relativamente vivi (Jung 1928a, 137).

Rispetto al discorso freudiano, quello junghiano propone dunque un’importante novità, che lo rende non solo "diverso" ma, più "completo". Se infatti l’inconscio personale sembra coincidere per caratteristiche, contenuti e potenzialità, con quello descrittoci da Freud, l’inconscio collettivo se ne distacca spostando l’attenzione su contenuti e dinamiche che esulano dal soggetto stesso. Mentre l’inconscio personale è popolato di immagini, ricordi, rimossi, emozioni, che appartengono al

singolo soggetto e che derivano dalla sua personalissima esperienza, l’inconscio collettivo custodisce i simboli dell’umanità intera, tramandati di generazione in generazione. Occorre inoltre ricordare che mentre l’inconscio collettivo è caratterizzato dagli archetipi, l’inconscio personale è popolato e costituito dai complessí; ma sulle caratteristiche di queste dimensioni psicologiche avremo modo di soffermarci più avanti. Prima di procedere nel nostro discorso, è il caso di sottolineare che proprio la tematica dell’inconscio collettivo ha costituito il bersaglio preferito di tanti attacchi mossi alla metapsicologia di Jung. Chi in buona fede, chi meno, sono stati in molti ad avanzare riserve su questa innovazione junghiana, quando non a trarne pretesto per bocciare tutta intera la psicologia analitica. È curioso notare come questi attacchi siano stati mossi da fronti contrapposti, con motivazioni contrastanti, addirittura opposti. Chi della rivoluzione freudiana aveva apprezzato soprattutto il rigore scientifico era infastidito dall’intrusione di questo elemento – l’inconscio collettivo – estraneo all’esperienza del paziente, refrattario all’anamnesi, remoto, invisibile, "imponderabile", "piovuto dall’alto": Lacan parlerà, quasi con dileggio, di "archetipi divini". Quanto ai fedeli custodi dell’ortodossía freudiana, non vale la pena di scomodarli: per loro la semplice aggiunta di un nuovo elemento alla mappa della psiche era già un atto eversivo. Passiamo all’altro fronte, ossia a coloro che in Jung avevano salutato il campione di un nuovo spiritualismo, con venature misticheggianti e orientaleggianti: per loro l’inconscio collettivo era, più che una nota stonata, un autentico tradimento, perché con l’archetipo introduceva nella psicologia analitica un tipico prodotto del positivismo, ossia l’ereditarietà. In ambedue gli schieramenti, poi, c’è stato chi ha inteso mostrarsi allarmato per questo ulteriore depauperamento dell’Io, costretto da Jung a difendere la propria autorità e autonomia da ben due Inconsci. Tra questi franchi tiratori di ieri e di oggi merita una menzione speciale l’autore di un recente saggio intitolato The Jung Cult, tale Richard Noll. Il quale, a proposito dell’inconscio

collettivo, arriva ad accusare di truffa sia Jung che i suoi ’eredi’ – i quali si renderebbero corresponsabili del reato commesso dal loro capostipite nascondendone le prove e cioè ostacolando l’accesso ai documenti che smaschererebbero al di là di ogni ragionevole dubbio il primo responsabile della frode. E in che consisterebbe questa frode? Nell’aver fatto credere ai propri discepoli di aver appreso direttamente dal Padreterno, sotto forma di "rivelazione" – come Mosè, Maometto e altri profeti – l’esistenza di questo fantomatico inconscio collettivo, pietra angolare del suo edificio teorico. E la macchinazione sarebbe stata ordita proprio in quel famoso periodo della sua vita in cui aveva sperimentato l’operosa solitudine degli anacoreti. In breve: scambiando Jung per uno dei tanti "reverendi santoni" che pullulano nella sua California (e Stati limitrofi) predicando madornali sciocchezze dai loro pulpiti televisivi, Noll accusa il fondatore della psicologia analitica di aver istituito un culto ispirato alla sua stessa persona, in alternativa alle confessioni tradizionali. Ora, che una grande personalità possa esercitare un fascino e un carisma i cui effetti somigliano alla ’devozione’, è fuori discussione; e che questo sia accaduto per Jung – come per Freud – è innegabile. Quello che invece può e deve essere negato è che questo sia avvenuto col consenso, o addirittura la ’promozione’, degli interessati. Su questa tematica ha riflettuto Sonu Shamdasani, cercando di evidenziare soprattutto il ruolo esercitato in tal senso dagli allievi di Jung. Affermando che "i travisamenti del pensiero di Jung non sembrano accennare minimamente a voler diminuire" (1998, 12), Shamdasani introduce un argomento interessante: gli ostacoli che un pregiudizio di ordine ideologico può opporre alla diffusione e comprensione di qualsivoglia tipo di pensiero. Nel caso di Jung poi, il pregiudizio si sarebbe trasformato in vero e proprio tabù. Di questa opinione è Christine Gallant che nel suo Tabooed jung (1996) suggerisce l’idea che il pensiero di Jung sia stato travisato proprio allo scopo di mettere Jung "al bando", ai margini di una società che per altre ragioni non aveva interesse ad affidargli la cura dei suoi pazienti. Ma ciò che appare

interessante del testo della Gallant è il fatto che essa interpreti la marginalizzazione di Jung in maniera positiva. "L’emarginazione come fonte di potere" quindi (ibid., 77), ma attenzione: l’emarginazione non implica il potere inteso come prevaricazione o come mero esercizio della propria volontà. Il potere, la forza dell’emarginazione è data dal coraggio che comporta, il coraggio di credere nelle proprie idee, il coraggio di divulgarle a dispetto dell’opinione del negativo. L’uomo messo al bando è sempre un uomo interessante, soprattutto quando riesce a reagire all’emarginazione di cui è vittima. Il nostro Jung fu trattato proprio in questo modo, "tabuizzato", tacciato di aver dato vita a un culto blasfemo, frutto di una mente delirante. A questo proposito è il caso di ricordare che il termine ’tabù’ conserva anche nella terminologia freudiana, come quella degli antropologi (vedi Lévy-Bruhl e Lévi-Strauss) e degli studiosi di religioni (vedi Durkheim) una doppia valenza, due ’facce’, il ’sacro’ e il ’proibito’: è il "timor sacro", il rispetto che tiene a distanza. Ma come per l’incesto, il divieto esalta l’attrazione – e questo potrebbe spiegare come mai la "tabuizzazione" di Jung ha finito col giovargli. Ma torniamo al concetto di inconscio – che come abbiamo visto può essere annoverato tra gli elementi discriminanti fra la teoria di Freud e quella di Jung – e torniamo anche al pensiero di Jacques Lacan in proposito. Ricordando l’impiego che Lacan propone dello strutturalismo linguistico nel contesto della psicoanalisi, potremmo sintetizzare e semplificare la questione rammentando che, secondo Lacan, l’inconscio è strutturato come un linguaggio. Negli Ecrits – che come sappiamo raccolgono la grande maggioranza delle opere di Lacan – sono ricorrenti i riferimenti a questa singolare modalità di intendere la dimensione inconscia dell’individuo, e soprattutto si evidenzia l’intento di rivisitare il pensiero di Freud alla luce delle leggi della linguistica: in particolare, di coniugarlo allo strutturalismo linguistico. A tal fine, interessanti appaiono queste sue osservazioni:

Se Freud s’è assunto la responsabilità – contro Esiodo per il quale le malattie mandate da Zeus avanzano sugli uomini in silenzio – di mostrarci che ci sono malattie che parlano, e di farci intendere la verità di ciò che dicono, sembra che questa verità, nella misura in cui ci appare più chiaramente la sua relazione con un momento della storia e con una crisi delle istituzioni, ispiri un timore crescente a quei professionisti che ne perpetuano la tecnica (Lacan 1951, 210).

Ma se esistono "malattie che parlano", è evidente che la terapia dovrà imparare a tradurre il loro linguaggio, a dare senso alle loro affermazioni. Ciò spiega perché Lacan consideri la psicoanalisi "un’esperienza dialettica"

In una psicoanalisi infatti il soggetto si costituisce, propriamente parlando, attraverso un discorso in cui la sola presenza dello psicoanalista apporta, prima di ogni intervento, la dimensione del dialogo" (ibid., 209).

Per comprendere meglio il discorso lacaniano è opportuno chiarire il significato di alcuni termini tipici della linguistica e perciò ricorrenti nell’opera di Jacques Lacan. I più importanti fra questi termini sono due: significato e significante. A tal fine appare emblematico ed esauriente quanto afferma Anika Rifflet-Lemaire riferendosi agli "Atti del congresso di Roma" pronunciato da Lacan nel 1953:

Lacan definisce il significante come l’insieme degli

elementi materiali del linguaggio, legati fra di loro da una struttura; il significante è il sostegno materiale del discorso: la ’lettera’ o i suoni. Esso non è né segnale né segno della cosa, alla pari del significato. Il significato è il senso comune a tutti, di un’esperienza trasmessa col discorso; esso si esteriorizza nella globalità dei successivi significanti, e non si situa precisamente in nessun luogo nel significante della frase. L’originalità di Lacan consiste nell’aver voluto fornire la prova che il significante agisce separatamente dalla sua significazione e all’insaputa del soggetto. La figura, il carattere letterale del significante, in quanto elemento costitutivo dell’inconscio, fa sentire i suoi effetti nella coscienza senza che la mente minimamente intervenga (71).

La linguistica e un uso appropriato dei suoi termini possono, secondo Lacan, essere utili per la comprensione dell’inconscio e dei suoi messaggi, e questo è secondo il nostro autore lo scopo primario della psicoanalisi. Se infatti è vero che l’inconscio "parla", il suo bisogno di comunicare sarà tanto più intenso quanto più vivida e lacerante sarà la sofferenza dell’individuo. Per questa ragione ignorare il linguaggio dell’inconscio equivarrebbe a ignorare la richiesta di aiuto di chi soffre. Sebbene l’intento di Lacan non fu, come abbiamo accennato, soltanto quello di riproporre i presupposti della dottrina freudiana, tuttavia è spesso inevitabile leggere tra le righe del pensiero lacaniano la robusta ispirazione freudiana. Anzitutto, la dimensione psicologica cui Lacan si riferisce utilizzando il termine "Ça" altro non è se non l’Es di cui Freud già aveva descritto le caratteristiche. Tuttavia se per Freud "dove era l’Es" sarebbe dovuto "subentrare l’Io", per Lacan "dove vi è il ’Ça’ deve subentrare una traduzione". Cosa indica questo gioco di parole? Anzitutto che il soggetto cosciente non

è in grado di comprendere i messaggi inviati dal Ça, poiché essi si presentano e rivelano non come contenuti propri dell’individuo, ma come "discorsi dell’Altro". "Altro" è un termine camaleontico nel pensiero di Jacques Lacan, ma soprattutto vuole indicare l’inconscio nella sua globalità, quell’inconscio che viene determinato e plasmato dal linguaggio stesso. "Altro" è ciò che Freud definisce "inconscio": l’Altro è sede dei ricordi, limbo dei sogni, scrigno del rimosso. Ecco il vero, grande compito della linguistica secondo Lacan, ecco il cuore del rapporto fra linguistica e psicoanalisi. Lacan era convinto che anche Freud – sebbene non conoscesse lo strutturalismo linguistico – si era comportato come un linguista, come appare evidente dalle sue analisi dei sogni. Suggestivo è il paragone proposto da Lacan tra Freud e Champollion, paragone ispirato a sua volta dallo stretto parallelismo tra "sogni e simboli enigmatici":

Per liberare la parola dal soggetto, lo introduciamo al linguaggio del suo desiderio, cioè al linguaggio primo nel quale, al di là di quello che egli ci dice di sé, già ci parla a sua insaputa, e anzitutto nei simboli del sintomo. È appunto di un linguaggio che si tratta, infatti, nel simbolismo messo in luce nell’analisi. [...] Linguaggio primo, diciamo anche, col che non intendiamo dire lingua primitiva, dato che Freud, che si può paragonare a Champollion per il merito di averlo totalmente scoperto, l’ha decifrato per intero nei sogni dei nostri contemporanei (Lacan 1953, 286-287).

Lacan quindi riconosce a Freud il merito di aver agito come un eccellente linguista perché, dopo aver intuito che l’inconscio parla, si era impegnato nella traduzione dei suoi messaggi, decifrando i simboli presenti nei sogni e veicolati dalle più

comuni sintomatologie psicologiche. Vale la pena di ricordare che il 1953 fu un anno importante per Lacan, che proprio allora diede vita a una iniziativa che avrebbe fatto di lui un personaggio stimato, ascoltato, discusso. Stiamo parlando dei celebri "Seminari del Mercoledì", tenuti presso l’ospedale Sainte-Anne. Destinati a un pubblico selezionato di "addetti ai lavori", i seminari del mercoledì richiamarono ben presto "intellettuali" e ’maitre-à-penser’ di ogni genere, da Bataille a Lévi-Strauss. Il 1953 è anche l’anno in cui Lacan, dimessosi dalla Société Psychanalitique de Paris (SFP), fonda con la collaborazione di Lagache la Société Française de Psychanalyse, che ben presto potrà vantare l’adesione di Dolto, Anzieu, Mannoni, Leclaire, per citare solo alcuni nomi illustri. Ma nonostante l’impegno e lo sforzo dei suoi membri, la SFP non otterrà mai il riconoscimento ufficiale da parte della Società di Psicoanalisi Internazionale. Proprio in occasione di uno di questi famosi seminari Lacan avrà modo di tornare sull’"argomento Freud", mettendone in evidenza singolari aspetti e nuovi limiti:

Ai giorni nostri, nel tempo storico in cui siamo di formazione di una scienza che si può sì qualificare come umana, ma che bisogna distinguere bene da ogni psicosociologia, cioè la linguistica il cui modello è il gioco combinatorio che opera nella sua spontaneità, da solo, in modo pre-soggettivo –, ecco la struttura che dà all’inconscio il suo statuto. È lei, in ogni caso, ad assicurarci che sotto il termine di inconscio c’è qualcosa di qualificabile, accessibile e oggettivabile. Ma quando incito gli psicoanalisti a non ignorare questo terreno, [...] ciò vuol forse dire che penso di tenere i concetti storicamente introdotti da Freud sotto il termine di inconscio? Ebbene, no! non lo penso. L’inconscio, concetto freudiano, è altra cosa (Lacan 1964, 22).

Le parole di Lacan, dunque, evidenziano come - sebbene spesso citato e addotto ad esempio – in verità Freud abbia rappresentato per lo psicoanalista francese più un pretesto che un modello. ’Pretesto’ nel senso che Lacan ha utilizzato il pensiero di Freud alla stregua di mero termine di paragone, contrapponendogli il proprio pensiero, originale proprio perché basato sulla linguistica. Come abbiamo visto, anche a proposito dei passaggi necessari per lo sviluppo psicologico in epoca infantile e per la formazione dell’Io, le differenze tra i due sono marcate. Ma questo non deve stupirci, perché ormai è assodato che la psicoanalisi ha potuto crescere e maturare proprio grazie alle differenti visioni che autori diversi hanno avuto in merito allo stesso problema, alla stessa tematica. Quello che poteva sembrare il tallone di Achille della nostra disciplina – l’estrema, irrimediabile soggettività del suo approccio – si è rivelato invece la sua arma vincente. Personalità diverse, scegliendo punti di vista particolari e inediti, hanno intravisto e inquadrato prospettive nuove e originali. E questo ha consentito uno straordinario arricchimento del nostro capitale di conoscenze, anche se – come è noto – è stato anche la causa di innumerevoli conflitti e "dolorose separazioni". In questo senso davvero emblematica appare la figura di Otto Rank, di un personaggio del quale si rende a questo punto necessario cogliere non solo le sfumature del suo rapporto con – e del suo distacco da – Freud, ma anche del suo rapporto con il pensiero di Jung. Sebbene oggi Rank sia annoverato tra i pionieri della psicoanalisi, dai suoi contemporanei fu spesso guardato con sospetto e in parte gli toccò lo stesso destino di Jung: fu "tabuizzato" da coloro che considerarono "eretico" il suo pensiero. Come abbiamo già avuto modo di osservare nel corso di questa nostra Breve storia, il nome di Otto Rank è legato al tema della creatività. Sarebbe tuttavia un grave errore dimenticare gli altri aspetti della sua metapsicologia. Infatti, sebbene il tema del rapporto tra arte e nevrosi ricorra

spesso come un leitmotiv, altre tematiche attrassero la sua attenzione, come a esempio la mitologia e la letteratura. In questo senso è giusto citare Il mito della nascita dell’eroe, apparso in volume solo qualche anno dopo la sua prima pubblicazione, nel 1909. Prima di soffermarci sul messaggio di questa seconda opera rankiana, ci sembra opportuno aprire una parentesi a proposito del rapporto, cui accennavamo poco fa, fra Rank e Jung. Sappiamo che Rank non citò mai Jung in nessuna delle sue opere, e sappiamo anche che Jung non provava nei confronti di Rank né stima, né simpatia. Eppure serpeggiano spesso nelle opere di Rank velati ma inequivocabili riferimenti al pensiero di Jung e alla sua ’psicologia analitica’. In particolare, sarà proprio l’idea di un "inconscio collettivo" a sedurre Rank, che però eviterà di riferirsi a essa, e preferirà giungervi "per vie traverse", cunicoli sotterranei e ’passaggi segreti’. Affrontando infatti il tema delle teorie e narrazioni mitologiche, Rank non solo parlerà di "idee dei popoli", da intendersi come le fondamenta di una "teoria delle idee elementari che imputa la concordanza dei miti a una uniforme disposizione dello spirito umano e del suo modo di operare, identica in ogni tempo e luogo" (1909, 19-20), ma arriverà anche a considerare "del tutto legittima l’interpretazione del mito come ‘sogno collettivo’ del popolo" (ibid., 24). Ciò che più tentava Rank era riuscire ad analizzare e comparare una serie di grandi miti per coglierne non solo le caratteristiche distintive ma soprattutto i punti di contatto. Così da Sargon a Edipo, da Mosè a Paride e da Romolo a Gesù, destreggiandosi fra i meandri delle storie dei miti più famosi dell’umanità, Rank giunse a delineare una interessante e articolata descrizione della tipologia psicologica dell’eroe e della sua storia familiare. Ebbene, proprio in questo excursus è possibile rinvenire le prime discrepanze fra il pensiero freudiano e quello rankiano, discrepanze che De Marchi – partendo dall’interpretazione che i due uomini hanno offerto del mito di Edipo – ha saputo cogliere e motivare:

Per Freud, Edipo uccide il padre Laio solo apparentemente per caso. Tutta la leggenda è per Freud solo un travestimento degli impulsi parricidi del figlio verso il padre e dei suoi desideri sessuali verso la madre. In Rank, molto spazio è riservato invece alla volontà parentale di negare e uccidere il figlio, futuro eroe destinato spesso all’immortalità. Possiamo supporre che questa differenza derivi dalla diversa esperienza infantile di Rank e Freud: il primo si era sentito rifiutato; il secondo, in quanto primogenito maschio, vezzeggiato e privilegiato (De Marchi, 1992, 70).

Non saranno solo discordanze di interpretazione di questo tipo a determinare la separazione tra Rank e il suo grande padre spirituale – separazione che come vedremo si concretizzerà nel 1926 – tuttavia una simile divergenza è il sintomo rivelatore dell’aspetto più incisivo della personalità di Otto Rank: una irriducibile libertà di pensiero, lo sforzo continuo di rendersi indipendente e di connotarsi – anzitutto dinanzi a se stesso – come il seguace delle proprie idee piuttosto che di quelle altrui. Le "idee" sembravano essere il "cavallo di battaglia" di Rank, e anche secondo il parere di chi lo conosceva molto bene – come ad esempio Anaïs Nin, che di lui fu paziente e compagna nella vita – l’insight improvviso e il "lampo di genio" erano per Rank un binomio inscindibile. La Nin seppe tracciare nelle pagine del suo chiacchieratissimo diario descrizioni illuminanti della sua personalità, spesso solo attraverso brevi appunti o riflessioni di poche righe, come questa, che risale al novembre del 1934:

Quasi ogni affermazione di Rank comincia con un: ’Mi è

venuta un’idea’. La scoperta del significato è quanto approfondisce e abbellisce l’esperienza. Non c’è oggetto, gesto, azione, che non sia illuminato dal significato (Nin 1967,17).

Le idee di Rank continuarono a portare luce e nuovi significati anche attraverso le sue opere successive, alcune delle quali prenderanno in esame il ’tema di sempre’: l’artista. Il doppio (1914) è proprio una di queste opere, dove ancora una volta Rank espone le sue idee sull’artista. Grazie a uno studio approfondito della figura del sosia nella mitologia, nella letteratura e nel folklore, Otto Rank riesce in questo breve saggio a delineare le caratteristiche essenziali di una autentica psicologia dell’artista. Muovendo da un’attenta disamina delle principali figure del Doppio presenti nella letteratura, Rank arriva a proporre l’idea che esso costituisca un singolare ’surrogato dell’inconscio’, un inafferrabile camaleonte che, cambiando colore, riesce a essere ora l’ombra, ora l’anima e ora l’immagine più autentica dell’artista stesso, rappresentando anche il bisogno umano di affrontare ed esorcizzare la paura della morte:

Ma certi aspetti essenziali, ricorrenti nelle creazioni letterarie che abbiamo esaminato, non si spiegano solo con alcuni tratti propri a una personalità artistica, alla quale anzi sembrano in certo modo estranei e inadeguati oltre che contraddittori con altri aspetti del suo modo di essere. È il caso del Doppio raffigurato come ombra, riflesso o ritratto. Non possiamo valutare esattamente questo aspetto neppure immedesimandoci emotivamente con l’artista (1914, 65).

Il doppio venne pubblicato nel 1914 su Imago, un periodico nato su iniziativa di Rank e Hanns Sachs nel 1912. A quel tempo Rank aveva da poco conseguito la laurea in lettere presso l’università di Vienna con una tesi, di evidente matrice psicoanalitica, sulla leggenda del Lohengrin, ed era anche destinato a diventare redattore e direttore della Internationale Zeitschrift fur Psychoanalyse. Il 1912 fu senza dubbio un anno costellato da avvenimenti importanti, rappresentati non solo dalle guerre balcaniche e dalla tragedia del Titanic ma – e in questa sede è ciò che mi preme ricordare – da un’autentica ’rivoluzione culturale’ che travolgerà con il suo impeto innovatore quasi tutti i campi del sapere e anche il contesto psicoanalitico. Cediamo la parola a Ellenberger:

In quel periodo la gioventù europea era percorsa da una febbrile agitazione: ovunque si sviluppavano nuovi gruppi letterari, artistici, culturali e politici, che proclamavano di rompere con il passato e d’introdurre nuovi valori e che erano in contrasto tra loro. Anche le polemiche nei confronti del movimento psicoanalitico, e all’interno di esso, devono essere intese in questo contesto. [...] Gli psicoanalisti erano molto attivi. Rank e Sachs promossero la fondazione di una nuova rivista, "Imago", nel cui primo numero Freud pubblicò la stesura iniziale di quello che sarebbe diventato il suo Totem e tabù (1970, 940).

Si trattò di un anno importante sia per Rank che per l’intera storia della psicoanalisi. Proprio nel 1912, infatti, di Rank apparve anche Il motivo dell’incesto nella poesia e nel la saga, uno scritto di indiscutibile valore non solo perché propone un interessante viaggio attraverso i contenuti psicologici più profondi del complesso edipico, ma soprattutto perché

l’assidua compagna di viaggio di Rank in questa avventura fu L’Interpretazione dei sogni di Freud. Un aspetto senza dubbio interessante questo, che testimonia della fede di Rank nelle idee freudiane. Degno di nota è anche un altro scritto del medesimo periodo – La nudità nella poesia e nella leggenda (1911) – che conferma non solo la vocazione letteraria del suo autore, ma anche il suo amore – ricambiato – per l’antropologia. Come commenta il nostro De Marchi,

possiamo renderci conto agevolmente che Otto Rank è stato tra l’altro anche il vero pioniere dell’applicazione della psicoanalisi ai fenomeni culturali: il primo consistente lavoro di Freud in questo campo, Totem e tabù, fu infatti pubblicato solo nel 1913 (1992, 67).

Da questo momento in poi ogni passo compiuto da Rank condurrà verso l’affermazione di un suo pensiero originale, di un pensiero che ben presto – con la pubblicazione de Il trauma della nascita (1924) – si rivelerà del tutto autonomo nel panorama della psicoanalisi. Anche se nel 1913 Rank riceverà da Freud uno dei cinque fatidici anelli d’oro con il quale il ’maestro’ usava testimoniare il legame che lo univa ai suoi "favoriti", tuttavia Rank non cesserà di sentirsi libero e indipendente. Le sue opere di quel periodo – come le successive – continueranno infatti ad attestare non solo la sua genialità ma anche la sua indipendenza ideologica dal cosiddetto "Comitato degli anelli". Ferenczi, Abraham, Jones e Sachs furono coloro che, oltre a Rank, ricevendo il prezioso anello, diedero vita all’attività del "Comitato" e offrirono a Freud una rassicurazione "circa le sorti del movimento psicoanalitico" (De Marchi 1992, 76). Nel frattempo però Rank aveva pubblicato, in collaborazione con Sachs, Il valore della psicoanalisi per le scienze mentali (1913), uno scritto

"liberatorio", nel senso che per la prima volta la psicoanalisi veniva svincolata dal mero ruolo di ancella della medicina per diventare una disciplina eclettica, in grado di alimentare fertili connubi con le più disparate discipline ’umane’, dall’antropologia alla storia delle religioni, dalla filosofia – in particolar modo l’estetica, ma non solo – alla storia della letteratura e a quella delle arti figurative. Del resto lo stesso fondatore della psicoanalisi, e della teoria dell’arte come sublimazione dell’eros, si era già misurato con quest’ultima tematica (vedi i saggi sulla Godiva di Wilhelm Jensen, sul Mosè di Michelangelo e su Leonardo da Vinci). Ma la nostra, si sa, è dalla nascita e ancora oggi – come amo ripetere – una disciplina di frontiera, che confina con tante discipline considerate umanistiche, anche se, sul versante opposto, non possiamo ignorare, per esempio, neuroni e sinapsi, insomma i progressi delle neuroscienze. Ma al tempo di Rank certi ’blitz’ oltre le tradizionali frontiere della psicologia e della psichiatria erano ancora rari. Così fece scalpore nel 1922, un suo saggio sulla figura di Don Giovanni – tema ritenuto più adatto a uno storico del teatro e della letteratura che alle riflessioni di uno psicoanalista; che peraltro Rank investigò proprio con gli strumenti della psicoanalisi. I temi della colpa e del complesso materno sono solo due esempi di una interpretazione psicoanalitica a tutto campo della figura del più celebre dei seduttori. La psicoanalisi era cresciuta, si era ormai emancipata: da semplice tecnica terapeutica – sia pure limitata al campo psichico, e anomala rispetto alle altre branche della medicina perché affidata solo alla parola – aveva preso il largo puntando verso approdi più ambiziosi: la ’conoscenza’ nel senso più vasto e profondo della parola, la possibilità di dare un senso a ogni vicenda umana, alla sofferenza, agli errori, anche alle sconfitte, attingendo all’intero patrimonio culturale dell’individuo e della specie. Per inciso: è singolare – e comunque sintomatico e significativo – che una disciplina nata in questo secolo, ossia nell’epoca della ’specializzazione’, della conoscenza ’settoriale’,

sia caratterizzata invece dal più disinvolto eclettismo. Il che peraltro comporta una selezione più severa degli "addetti ai lavori" (quelli che ho definito gli "apprendisti stregoni") e quindi una rarefazione delle ’vocazioni’; ma anche – si spera – un incremento qualitativo degli "eletti", non sul piano delle ’nozioni’ ma degli interessi: una visione non miope né daltonica dell’uomo, niente paraocchi né limitazioni o scotomi nel campo visivo. Ma torniamo a Rank, al quale non possiamo non riconoscere il merito di aver contribuito in maniera determinante a liberare la psicoanalisi da ogni barriera conoscitiva, di averla saputa proiettare in un universo culturale di più ampio respiro dove non è più la pulsione sessuale a regnare, ma l’uomo posto dinanzi al dolore del vivere. Proprio il dolore dell’esistenza spronerà Rank a porsi nuovi interrogativi e a trovarvi di volta in volta risposte che lo allontaneranno sempre più dal suo maestro. Il desiderio di cambiamento e di innovazione teorica coinvolgeranno ben presto anche un altro membro del Comitato, Sàndor Ferenczi, il quale assieme a Rank pubblicherà nel 1924 Lo sviluppo della Psicoanalisi. Il contenuto di questo testo rivela il bisogno di un rinnovamento che ormai Rank non poteva più reprimere o ignorare. I concetti espressi in quest’opera infatti possono essere considerate le prime avvisaglie della separazione, di quel processo che porterà Rank a distaccarsi dal suo maestro e, di conseguenza, dalla "psicoanalisi classica". L’opera che tuttavia determinò la separazione da Freud – definitiva nell’autunno 1926 – e che, al contempo, consacrò la celebrità di Otto Rank, fu Il trauma della nascita, pubblicato nel 1924 ma già completato nella stesura fin dal 1923. Questo testo fu in un primo momento accolto da Freud con favore, o forse sarebbe più giusto dire "molto volentieri" – per la stima che aveva di quel suo "pupillo", che oltretutto gli aveva dedicato il libro in questione – perché non poteva non essere stato almeno sfiorato dal sospetto che quel testo mettesse in discussione, fin dal titolo, nientemeno che la chiave di volta del suo edificio teorico: la centralità del triangolo edipico nello

sviluppo psichico e la sua priorità come origine dei disturbi e delle deviazioni di quello sviluppo. Come molti anni dopo farà Lacan, Rank aveva cercato quell’origine nella preistoria dell’Io: la nascita della nevrosi coincideva tout-court con la nascita del soggetto, il primo atto, anzi il prologo di ogni vicenda psichica. Comunque Freud capì ben presto quanto la metapsicologia rankiana si allontanasse dalla sua: la "retrodatazione" dell’origine della nevrosi non solo toglieva valore alla successiva triangolazione edipica, ma restituiva alla madre quel ruolo di protagonista che nella visione di Freud era attribuito alla figura del padre. E anche la libido, altro caposaldo della teoria freudiana, usciva dalle pagine di Rank malconcia ed esautorata, e al suo posto si insediava – fin dal "Big-bang" di quel piccolo, immenso universo che è la psiche di un individuo – la nostalgia di un paradiso perduto con la nascita. Nell’angoscia derivata dalla brusca separazione dall’alveo materno, Rank rinvenne la matrice di tutto lo sviluppo psicologico dell’individuo e delle eventuali patologie che questi potrà manifestare nel corso dell’esistenza. Quindi identificò nella condizione della vita intrauterina il prototipo del piacere; di qui l’idea che il piacere non consista nell’appagamento delle pulsioni libidiche, ma nel ritrovare quell’iniziale, idilliaco, stato di benessere. Proprio della ricerca di quel perduto Eden si alimenta la creatività, il genio dell’artista, un tema al quale Rank aveva in gioventù dedicato tante pagine:

Ma gli uomini tendono anche a riprodurre per così dire creativamente quello stato [...]. Con ciò siamo nel campo dei frutti della fantasia che si adeguano alla vita sociale: siamo nel campo dell’arte, della religione, della mitologia, che, permettendo di riprodurre creativamente lo stadio originario, procurano un alto livello di godimento; la nevrosi, invece, che tende alla stessa riproduzione, vi fallisce miseramente (1924, 34).

La nostalgia della vita prenatale è dunque il motore primo della creatività, il contesto in cui si strutturano la normalità o la patologia della vita psichica di un individuo. La dimensione creativa si trasforma così in un formidabile strumento per superare la traumatica esperienza della nascita e l’angoscia del vivere. Proprio in questo atteggiamento ottimista, propositivo, fondato sulla risposta e la reazione piuttosto che sulla resa alla sofferenza, è possibile apprezzare il vero volto di Otto Rank e della sua strategia terapeutica che appare fondata sui presupposti della psicologia umanista. Non fu medico, proprio come non fu mai ’analizzato’, ma la sua capacità di offrire aiuto al paziente è fuori discussione. Così Ellenberger ci descrive il metodo terapeutico di Otto Rank:

Il limite della durata di ogni trattamento veniva stabilito in anticipo; la resistenza era considerata una manifestazione della volontà d’indipendenza del paziente, e quindi era da lui valutata come un fattore positivo; veniva sottolineata l’importanza della situazione analitica immediata piuttosto che del passato [...]. Rank metteva in rilievo la volontà di autodeterminazione del paziente, gli aspetti creativi del suo comportamento e gli aspetti sociali dell’analisi. La sua terapia potrebbe essere considerata come una mescolanza di principi freudiani, adleriani e junghiani (1970, 989-990).

Ritengo che l’aspetto più interessante della terapia rankiana sia rappresentato dalla grande fiducia che egli nutriva nel rapporto analista-paziente. Se infatti da una parte Rank riteneva quanto mai opportuno un atteggiamento positivo e

attivo da parte del paziente nei confronti del disagio psichico, dall’altra egli era anche convinto che la capacità di risvegliare nel paziente la voglia e la forza necessarie per agire spettasse proprio all’analista. Criticato, invidiato, osteggiato, Rank – proprio come Jung – rischiò l’emarginazione: Freud, pur ammettendo un qualche collegamento tra il "riflesso condizionato dell’angoscia" e quell’esperienza dimenticata ma non per questo cancellata, non volle mai riconoscere la validità dell’assunto rankiano; e i fedeli seguaci del Maestro condivisero quel "no" alla ’protoangoscia’. In compenso, Otto Rank fu ripagato di quell’ostracismo dalla gratitudine dei numerosi pazienti che, fedele al principio del ’trauma della nascita’, seppe condurre con tenacia a quella che lui stesso chiamava la "seconda nascita", ossia la ’guarigione’.

15. IL TRAMPOLINO DI LANCIO Ogni tappa conoscitiva è frutto di un accordo intersoggettivo, nel senso che i criteri di verità cui ci uniformiamo sono convenzionali: la verità non è un dato oggettivo, ma una costruzione intersoggettiva. Le conoscenze che su questa base vengono acquisite rappresentano per gli studiosi una tradizione che nei suoi capisaldi viene data per acquisita e non verificata. Gli scienziati si "fidano" dei risultati ottenuti dai colleghi, e ciò è comprensibile poiché, se così non fosse il sapere potrebbe crescere, poiché ciò significherebbe dover ogni volta ricominciare da capo per dimostrare la validità di principi teorici già verificati. Ma ciò è vero anche nell’uso "profano" della conoscenza: il sistema di convinzioni e di credenze che sottende la nostra prassi quotidiana è per lo più fondato su pregiudizi, su opinioni che pur essendo soggettive, vengono vissute come verità. Le nostre consuetudini, lo stile di vita cui facciamo riferimento - come le prescrizioni del galateo – sono basati su norme convenute relative ai comportamenti che la collettività giudica ammissibili o al contrario inadeguati. Peraltro, spesso la via che porta alla propria individuazione impone la rinuncia all’alveo rassicurante dei valori comuni, la messa al bando, l’esilio dal gruppo che è sempre conservatore. Un comportamento che si distanzia dalla norma è una nota stonata, una dissonanza, una infrazione che viene rilevata e stigmatizzata. È dunque molto impegnativo per il singolo assumere un atteggiamento psicologico non conforme alle aspettative, perché quando ciò accade la collettività reagisce con comportamenti difensivi: per esempio trasformando la diversità di un individuo in patologia. Il diverso, ossia colui che ha avuto il coraggio di non tradire se stesso, si ritrova sempre con il dito indice del collettivo puntato contro di sé, e per

difendersi può contare solo sulle proprie forze. Riuscire a costruire la propria individualità in un terreno minato dai parametri e valori del collettivo è un compito arduo e pericoloso, a quale tutti sono chiamati ma che pochi riescono a portare a compimento. Chi non si pone in modo critico dinanzi al pregiudizio collettivo, è un uomo che non ha avuto il coraggio di sé, che ha abdicato al proprio compito individuativo. Per questo non può sopportare l’autonomia negli altri. Occorre innanzitutto cominciare col dire sì a noi stessi e affermarci nelle nostre peculiari modalità espressive, dal momento che solo comportandoci in questo modo un giorno, fermandoci e guardando dietro le nostre spalle, potremo abbracciare con lo sguardo le sequenze di una vita autentica piuttosto che il fantasma di una vita di rinunce. Nel momento in cui diciamo sì alla nostra esistenza, tutto può assumere nuovi significati, e persino ciò che prima era per noi privo di senso si rivela necessario e valido. Anche il rapporto con noi stessi si modificherà, e anche la solitudine, che prima poteva essere vissuta come una condanna o un fantasma persecutorio, rivela tutte le sue più positive risorse. È allora che riusciamo a cogliere il potenziale creativo del nostro isolamento, ad attingere a quei contenuti presenti nelle profondità del nostro essere ma dei quali non eravamo consapevoli. Ogni creatura umana è animata da un’energia interiore che può essere metaforizzata da una luce, all’inizio forse solo un bagliore, eppure già sufficiente a indicare il cammino. Accettare la nostra diversità e acconsentire all’impegno di essere noi stessi, senza deroghe, senza fughe nel contenitore collettivo: ecco la formula per non macchiarci di un tradimento verso noi stessi. So bene che non è facile trasformare in ’progetto’ la propria diversità, che a tutta prima può apparire un vero e proprio handicap; la tentazione di "diventare come gli altri", ossia come ci suggeriscono prima la famiglia e poi il ’collettivo’, è seducente, perché è più agevole seguire le strade già tracciate sulle mappe che avventurarsi nella ricerca di

sentieri nuovi, "inventando" il proprio tragitto individuale. E invece è proprio quest’ultima la scelta che con la sua ’psicologia individuale’ ci suggerisce Alfred Adler, considerato accanto a Freud e Jung, il terzo "Grande" della psicologia del profondo: non a caso il suo "complesso di inferiorità" è diventato in breve tempo ancor più famoso del freudiano "complesso di Edipo", fino a entrare nel linguaggio comune (e perfino nelle "storielle", come quella – degna di Woody Allen – in cui uno psicanalista congeda un paziente annunciandogli che "non ha alcun complesso di inferiorità, ma è inferiore"). Parlavamo poco fa della diversità vissuta come un handicap; bene, "il complesso di inferiorità" è per Adler legato proprio a un handicap originario, che però può essere superato, e utilizzato come "trampolino di lancio" per conquistare la propria individualità. Questo ’handicap originario’ è comune a tutte le creature umane, dalla nascita, giacché in effetti la realtà esterna è troppo "potente" perché un bambino, qualsiasi bambino, non scopra ben presto di essere "inferiore", ma ’crescere’ significa trasformare questa inferiorità in uno stimolo a realizzarsi. Al posto della freudiana ’pulsione di morte’ Adler postula "volontà di potenza" – che nella maggior parte dei casi potrebbe anche essere ribattezzata "volontà di sopravvivenza", ma nei casi esemplari è una spinta all’affermazione di sé, della propria individualità. Certo, sarà bene non confondere la "volontà di potenza" con la "volontà di potere": la Storia, anche recente, ce ne ha mostrato le conseguenze nefaste; e lo stesso Adler indica come rapporto ideale con gli altri l’inserimento positivo, collaborativo e creativo nella società. Quanto all’handicap in senso letterale e non immaginario o metaforico, anch’esso valutato da Adler come uno stimolo alla trasformazione, vale la pena di ricordare che troppo spesso sono i "sani" a inchiodare i ’disabili’ alla loro "inferiorità". La letteratura ci dice che una gamba in meno può anche portare a trasformarsi in pirata – come il John Silver di Stevenson o il Gambadilegno di Disney (anche il diavolo è zoppo nel famoso romanzo di Lesage, e chissà che non lo fosse il Principe degli Angeli, Lucifero, prima di ribellarsi al suo

Sovrano) – ma Adler non crede a nessun tipo di determinismo, e non offre alibi al ’collettivo’, come non ne offre al singolo individuo. Ma prima di portare avanti il discorso sulla sua teoria, sarà bene accennare alla sua biografia, che come sempre può risultare illuminante. Alfred Adler nasce il 7 febbraio 1870 a Rudolfsheim – un sobborgo nei pressi di Penzing, nella periferia di Vienna. Il padre Leopold, ungherese di origine ebraica, era un modesto produttore e commerciante di cereali, un’attività che ben presto si rivelerà per gli Adler non molto redditizia ma in grado di fornire loro una posizione dignitosa e rispettabile nell’ambito della società viennese. Gli alti e bassi economici caratterizzeranno l’infanzia e la gioventù di Alfred – come del resto quella di tante altre famiglie piccolo-borghesi – ma non riusciranno a intaccare la grande moralità e dignità del suo nucleo familiare. Della madre Pauline non sappiamo molto o, forse, abbiamo troppe notizie, nel senso che dalle testimonianze dei biografi e dello stesso Adler giungono pareri, letture, opinioni contrastanti: severa, malinconica e irascibile per alcuni, dolce, affettuosa e disponibile per altri. Ciò che però possiamo affermare con certezza è che essa amava molto le sue due figlie e i suoi quattro figli maschi, di cui uno – Sigmund – in particolare. Agli occhi del piccolo Alfred l’amore della madre nei confronti di Sigmund apparve sempre eccessivo, o quanto meno non "proporzionato" a quello riservato a lui stesso. Con le parole di Ellenberger:

Alfred e la madre non riuscirono a capirsi e si dice che ella ebbe nella sua vita il ruolo che egli più tardi definì del Gegenspieler (antagonista), vale a dire, della persona contro cui un individuo misura ed esercita la propria forza (1970, 659).

Sul conflittuale e ambivalente rapporto con il fratello Sigmund torneremo in seguito, per ora mi preme sottolineare come Adler, secondogenito di un gruppo comunque nutrito, potrà crescere in un contesto improntato senza dubbio sulla relazionalità, e su valori quali l’altruismo, la socialità e la disponibilità nei confronti degli altri. Persino il suo "retroterra" culturale e religioso non riuscirà a ostacolare la fiducia manifestata da Adler nei confronti degli "altri" intesi come gruppo, nel senso che, a differenza di altri intellettuali ebrei – basti pensare a Otto Rank o a Freud – Adler non subirà più di tanto il peso dell’etichetta di ’ebreo’. Crescerà infatti in seno a una comunità rurale di ebrei originari del Burgeland, in un contesto quindi che, per motivi socio – politici e culturali, non incontrerà il veleno dell’antisemitismo come accadrà ad altri gruppi etnici e nuclei sociali. Durante la sua infanzia e adolescenza, inoltre, Adler potrà beneficiare di una cordiale e positiva atmosfera di compagni, vicini e amici che sembravano aver metabolizzato l’insegnamento del Burgeland, fondato anzitutto su idee prive di ogni minima traccia di ’classismo’ e non viziate da pregiudizi di ordine religioso o culturale. Alfred ereditò molto dal padre e quindi, di riflesso, dal Burgenland, del quale la famiglia paterna era originaria. Forse il suo grande amore per la musica, il canto, il teatro, la recitazione e la natura ebbe origine proprio dalle caratteristiche più salienti del paesaggio e della gente del Burgenland, che Ellenberger così ci descrive:

Il Burgenland è una pittoresca zona rurale, con laghi circondati da canneti, campi, boschi, vigne, castelli sulla cima delle colline e piccoli villaggi che hanno conservato il fascino di un tempo. Il Burgenland è noto per la sua grande varietà di uccelli; quasi tutti i tetti delle case di campagna avevano un nido di cicogna. La regione è fiera del suo passato storico e dei grandi cittadini, tra i quali vi sono Haydn e Liszt. [...] Gli ebrei

del Burgenland godevano di una condizione giuridica più liberale di quella di cui fruiva la maggior parte degli altri ebrei dell’impero; [...] Soprattutto essi non avevano la sensazione di appartenere ad una minoranza perseguitata (ibid., 655).

Trascorsa gran parte della propria infanzia nei sobborghi di Vienna, il giovane Adler sviluppò ben presto una specifica modalità relazionale, caratterizzata dalla ricerca del contatto, e del confronto – a volte scontro – con i suoi coetanei. Se tutto questo può a prima vista apparire del tutto normale, lo sembrerà assai meno se facciamo un passo indietro e risaliamo ai primi anni di vita di Alfred: fin da piccolo Adler fu afflitto da una salute molto cagionevole, "soffriva di crampi della glottide e di una forma di rachitismo che lo rendeva informe e goffo. Andava soggetto, se gridava o piangeva, ad accessi di asfissia che spesso misero in pericolo la sua vita" (Orgler 1956, 13). Alfred Adler quindi deve fin da piccolo fare i conti con la propria disarmonia fisica, con un aspetto esteriore poco gradevole, aggravato da una sorta di condanna che Adler dovette scontare per diverso tempo: una relativa immobilità. A causa del suo rachitismo, infatti, dovette subire l’invalidante trattamento terapeutico del bendaggio, un fastidioso supplizio che lo rese più goffo di quanto la sua patologia già non comportasse, ma che soprattutto lo fece sentire inetto, incapace, diverso dagli altri bambini e in particolare dal suo abile, forte e vigoroso fratello Sigmund. Non è difficile immaginare la sua sofferenza, il suo non riuscire a "volersi bene", e il conseguente senso di insicurezza, di "inferiorità". Anche Otto Rank si era visto costretto a "fare i conti" con il proprio aspetto fisico, con la sua bassa statura, con un volto quasi caricaturale, ma sappiamo bene che compensò tutte queste ’lacune’ con una straordinaria levatura intellettuale. Per Adler il percorso di trasformazione interiore sarà più difficile perché la sua goffaggine e il suo aspetto non proprio attraente

erano anzitutto dovuti a una patologia di ordine fisico. Inoltre – non dovremmo dimenticarlo – Adler soffriva per una competizione nella quale non avrebbe mai potuto primeggiare; quella con il fratello per la conquista del "posto d’onore" nel cuore della madre. Come abbiamo visto, la fratria degli Adler era composta da sei elementi, ma quel Sigmund, quel primogenito così intelligente, così ’bravo’, così impeccabile e vincente, rappresentò sempre per Alfred un autentico rivale, una figura con la quale diveniva impegnativo e improbabile poter sostenere il confronto. Sigmund, singolare ironia della sorte: Sigmund come quel Freud con il quale sarebbe entrato in contrasto nonostante un prolungato rapporto e confronto di idee, e al quale si sarebbe ribellato impugnando la stessa arma con cui avrebbe sconfitto il fratello maggiore: "la combattività nel sostenere le proprie idee e uno spirito d’iniziativa così spiccato da trasformare le frustrazioni in una matrice per i nuovi progetti" (Parenti 1987, 10). Francesco Parenti, grande conoscitore del pensiero adleriano, ci ha fornito numerose informazioni circa l’infanzia e la gioventù – ma non solo – di Alfred Adler, e alcune di esse contribuiscono alla comprensione dell’uomo-Adler prima ancora che del "pioniere", rivoluzionario e rinnovatore, della psicologia del profondo. Infatti, fra i diversi resoconti delle esperienze scolastiche di Adler riportati dai biografi, spiccano senza dubbio proprio quelli di Francesco Parenti che, ad esempio, ha voluto sottolineare come un’apparente incapacità, "inferiorità", possa invece celare doti e facoltà sorprendenti:

L’insuccesso di Alfred Adler in matematica era così drastico da far pensare a una carenza attitudinale di base, invalicabile, di ordine biologico. Un insegnante, infatti, consigliò a suo padre di fargli interrompere gli studi e di avviarlo, come apprendista, al mestiere di

calzolaio. Il padre, invece, gli accordò fiducia e lo fece continuare. Ben presto il ragazzo ottenne a scuola una clamorosa rivincita. Tutta la classe si era arenata nel trovare la soluzione a un problema, che aveva posto in imbarazzo lo stesso professore. Ebbene, fu proprio Adler ad alzarsi presentando un risultato che si rivelò esatto, accolto prima dall’irrisione e poi dalla meraviglia collettiva. Da quel momento Alfred affrontò la matematica senza inibizione e con una nuova sicurezza (ibid., 13).

Sebbene quindi il suo primo impatto con gli studi, e come abbiamo visto soprattutto con le materie ’scientifiche’, in primis la matematica, non fosse stato dei migliori, Adler sarebbe riuscito con il trascorrere del tempo ad attingere al proprio potenziale interiore, presente ma inespresso perché bloccato da un soffocante senso di inferiorità. Con il trascorrere del tempo infatti, gli interessi culturali di Adler appariranno orientati verso discipline scientifiche, ed egli intraprenderà gli studi di medicina giungendo alla laurea nel 1895 con una specializzazione in oftalmologia. Anche la decisione di diventare medico, però, affondava le proprie radici nell’infanzia, proprio in quel problematico e attanagliante nodo dato dalla sua salute cagionevole. Quando era ancora bambino, infatti, ai problemi cui abbiamo accennato si aggiunse una gravissima infiammazione polmonare, e sembrerebbe da alcuni resoconti (Orgler 1956, 13) che "il suo desiderio di diventare medico sia scaturito proprio da quella malattia". La componente autobiografica del pensiero e dell’opera di Alfred Adler è sorprendente, nel senso che le tappe più significative di alcuni anni cruciali della sua esistenza si sono poi trasformate nelle fondamenta di tutto il suo pensiero. Ho sempre ritenuto fondamentale collegare le esperienze personali allo sviluppo del pensiero di un autore: soprattutto in ambito psicologico, il "vissuto" di chi scrive ha sempre delle massicce

ripercussioni sulla struttura del suo pensiero. Quanto al nostro Adler, e agli episodi significativi della sua vita che abbiamo menzionato, penso sia importante osservare come sin da giovanissimo Adler abbia preso contatto con la morte, con l’idea della morte. Anzitutto, sperimentando in maniera diretta il significato di una patologia organica seria – quale era la sua forma di rachitismo – egli ebbe la possibilità di comprendere il senso della limitatezza, della non perfezione e della precarietà del proprio fisico, ma poi vi fu un altro episodio che impresse in maniera indelebile nella sua anima il significato della morte: "quando aveva tre anni, il fratello minore gli morì accanto nel letto. Ci si può immaginare quale profonda e incancellabile impressione producesse quell’avvenimento sul sensibile bambino" (ibid., 13). Abbiamo già ricordato che Adler, assieme a Freud e Jung, ha costituito uno dei più importanti pilastri sui quali la psicoanalisi è stata costruita. Il che non significa che il ’materiale’, la sostanza di cui questi tre pilastri si compongono sia la medesima. Il fatto che Sigmund Freud e il suo pensiero abbiano esercitato un grande fascino, una seduzione profonda su entrambi questi suoi allievi, non implica affatto che il loro pensiero si sia formato a ’immagine e somiglianza’di quello freudiano. Tanto Jung che Adler hanno il merito di aver "portato avanti il tentativo di consolidare la teoria psicoanalitica offrendone al contempo una versione autonoma e originale" (Carotenuto 1991, 307). Per quanto concerne invece le più evidenti differenze tra questi tre pionieri – che in comune hanno il difetto di non essere mai stati analizzati – ricorderemo che "mentre Freud e Jung hanno considerato l’inconscio come l’elemento centrale della dinamica psichica, Adler non vi dedica altrettanta attenzione, al punto che non risulta chiaro quale peso la dimensione inconscia venga ad avere nella sua teoria della personalità" (ibidem). Pertanto, con le parole di Ellenberger diremo che:

La differenza sostanziale che separa la psicologia individuale di Adler dalla psicoanalisi di Freud può essere riassunta in questo modo: Freud si propone di incorporare nella psicologia scientifica quei nascosti regni della psiche umana che erano stati colti intuitivamente dai classici greci, da Schopenhauer, da Goethe e da altri grandi scrittori; l’interesse di Adler è invece rivolto al campo della Menschenkenntnis, cioè della conoscenza concreta, pratica dell’uomo (1970, 653).

Il 1898 fu senza dubbio un anno importante per Adler, un anno che vide venire alla luce non solo la primogenita della sua unione con Raissa Epstein, ma anche il suo primo articolo, Manuale per l’igiene dei lavoratori di sartoria. Questo scritto testimonia l’interesse che Adler nutriva per la ’medicina sociale’ e inoltre esprime l’intensità del suo "spirito sociale", che prese forma in lui sin dagli anni di scuola. Bisognerà però attendere qualche anno per assistere alla nascita e allo sviluppo della psicologia individuale, e il pensiero di Adler acquisti un’identità ben definita e strutturata. Agiranno in questa direzione un insieme di fattori, tra i quali spicca per importanza l’incontro con Freud. Di questo celebre incontro molto si è detto, su di esso molto si è discusso, cercando di conciliare opinioni divergenti. Fu nel 1902, anno in cui Adler aveva iniziato a collaborare con Heinrich Grün – direttore della rivista medica Aerztliche Standeszeitung – che i due pionieri entrarono in contatto. A partire da quel momento – per giungere fino al 1911 – Adler entrerà a far parte del famoso gruppo psicoanalitico. In qualità di "membro ufficiale" del gruppo – e anzi di "uno dei primi quattro" membri – Adler prenderà parte alle fertili e accese ’riunioni del mercoledì’ che si tenevano a casa di Freud, e inizierà così a far conoscere le proprie tesi. Col trascorrere del tempo, però, diveniva sempre più evidente che il suo pensiero

andava allontanandosi sempre di più da quello del Maestro:

Ciò nonostante, quando sorse il problema di organizzare la Società psicoanalitica viennese, Freud raccomandò come presidente Adler e insistette perché Adler e Stekel fossero i condirettori del "Centralblatt" recentemente fondato. Ma poco dopo le divergenze tra le concezioni di Adler e quelle di Freud divennero così gravi che si ritenne necessario dedicare parecchie riunioni alla loro chiarificazione. Il 4 gennaio e il 1° febbraio 1911 Adler lesse due scritti: uno sui problemi della psicoanalisi e l’altro sulla "protesta virile". L’8 e il 22 febbraio ebbero luogo discussioni a dir poco animate [...]. Ma alla fine della riunione di febbraio Adler e Stekel diedero le dimissioni dalle loro cariche di presidente e di vicepresidente della società (ibid., 669).

Cerchiamo di comprenderne le ragioni. Nel 1907 era apparsa la prima opera significativa di Adler, Studio sull’inferiorità degli organi, nella quale l’autore aveva costruito le fondamenta della psicologia individuale. Anche per Adler il punto di partenza del suo lavoro fu la pratica clinica, che gli permise di osservare un numero considerevole di pazienti affetti da una debolezza organica specifica che si manifestava in una predisposizione a contrarre, spesso nel corso della propria vita, patologie in quello stesso organo (Carotenuto 1991, 310). Partendo da questo presupposto, Adler giungerà a formulare il concetto di compensazione, volendo con questo termine riferirsi a ogni tipo di sforzo compiuto da un individuo afflitto da una "inferiorità d’organo" nel tentativo di superarla, aggirarla o debellarla in maniera definitiva. Ecco allora che quel rachitismo, quella goffaggine, quel senso di impotenza che avevano costellato la sua infanzia, si

trasformano ora nelle premesse della sua teoria. È interessante il fatto che Adler assunse se stesso come modello della validità della sua teoria: proprio come il piccolo Alfred era riuscito a superare la propria inferiorità compensandola, sublimandola e ’attaccandola’, lo stesso successo – almeno in linea teorica – si sarebbe potuto ottenere in tante altre persone sofferenti. Con le sue parole:

Io stesso mi sono trovato costretto, esercitando il metodo individualpsicologico, a risolvere ulteriormente la mia situazione infantile, e facendo ciò ho incontrato quelle mie determinanti, che avevano origine in influenze sfavorevoli dell’organismo e della vita familiare. Ma oltre a ciò vennero alla luce le cause, che contribuirono in parte a formare l’ambiente nocivo – la costituzione organica familiare. Ogni volta fui inesorabilmente costretto a costatare che il possesso di organi [...] ereditariamente inferiori creano al bambino, all’inizio del suo sviluppo, una posizione, in cui il senso, del resto normale, di dipendenza e di debolezza si intensifica immensamente e si trasforma in un senso profondamente sentito d’inferiorità (Adler 1920, 32-33).

Ciò che più colpisce nel pensiero di Alfred Adler è la sua straordinaria positività: l’inferiorità – sia essa d’organo o psicologica – non è considerata come un handicap invalidante, un ostacolo alla realizzazione personale, ma come l’esatto contrario. Il senso di inferiorità o, per utilizzare la formula più diffusa, il "complesso d’inferiorità", non è visto dalla psicologia adleriana come un limite invalicabile, un nemico dinanzi al quale deporre le armi, ma come un incentivo a superarlo, come un ’attivatore’ delle migliori potenzialità dell’individuo sofferente. Sentirsi inferiori – o comunque soffrire per un

eventuale deficit fisico – significa per l’individuo poter sfruttare ogni risorsa ed energia per compensare la propria ’lacuna’. Secondo Adler, l’individuo che sviluppi nei confronti di se stesso un vissuto di inferiorità si trova posto dinanzi a un bivio: proseguendo il cammino in una determinata direzione andrà incontro a una nevrosi; scegliendo invece l’altra alternativa potrà sviluppare uno stile caratteriale fondato sulla compensazione. Questi temi saranno ripresi da Adler anche dopo, ad esempio ne Il temperamento nervoso (1912) dove l’autore non solo sposterà l’attenzione su un piano sociale vero e proprio ma, soprattutto, dove Adler cercherà di evidenziare le novità del suo pensiero rispetto alla psicoanalisi ’ortodossa’. Le sue idee sul senso di inferiorità che può attanagliare un individuo, che rappresentano il fulcro del pensiero adleriano, in un primo momento non furono condannate dal "gruppo del mercoledì". C’è una data precisa che segna la "rottura" ufficiale tra Adler e Freud: il 22 febbraio del 1911. Volendo però ripercorrere le tappe che precedettero quella frattura, dovremmo ritornare al 1908, "quando Adler comincia a opporsi al monismo freudiano affiancando al concetto di libido quale principale motore della vita psichica, l’ipotesi di una pulsione aggressiva. Com’è noto, solo nel 1920, in Al di là del principio di piacere, tale ipotesi verrà accolta da Freud e inserita nella sua metapsicologia" (Carotenuto 1991, 312). Dallo "scisma" del 1911 avrebbe poi avuto origine una provvisoria Società per la libera Psicoanalisi, evolutasi nella Società per la Psicologia Individuale, ancor meglio definita – come osserva Parenti – "Psicologia Individuale Comparata" (Parenti 1987, 24). A questo punto un chiarimento è d’obbligo: cosa significa il termine "individuale" riferito alla psicologia adleriana? Chiariamo subito che siamo ben lontani non solo dal pensiero anarchico ma anche da quello, psicoanalitico anche se non freudiano, di un Gordon W. Allport – tanto per fare un esempio – che partito dal concetto di ’autonomia funzionale’ è approdato a una esaltazione dell’individuo in quanto tale, mettendo in secondo piano "gli altri". Adler non ha teorizzato niente di

simile, poiché la psicologia adleriana è anzitutto una psicologia "relazionale". L’impegno di Adler è stato quello di proporre un discorso che, partendo dall’individuo, dal suo mondo, dalla sua personalissima sofferenza, potesse poi ampliarsi, "ramificandosi" fino a raggiungere gli "altri", in un contesto relazionale nel quale l’individuo vive, lotta, soffre cercando di superare il proprio senso di inferiorità. Anche la relazione terapeutica deve essere vista nell’ottica di un rapporto interpersonale. Nella prospettiva teorica di Adler, infatti, la figura dell’analista diviene un essenziale elemento di rinascita e trasformazione, il simbolo di una nuova possibilità e non lo schermo su cui il paziente proietta i personaggi del suo passato. Lavorando al fianco del paziente, l’analista potrà aiutarlo incoraggiandolo a percorre nuove strade ma – soprattutto – a prefiggersi nuove mete. Nell’ambito della ricerca scientifica è stata individuata una condizione psichica che predisporrebbe alla scoperta, condizione che è stata definita serendipity e che indica quelle circostanze in cui capita di scoprire qualcosa di imprevisto mentre si sta cercando qualcos’altro. Accade ad esempio di trovare un nuovo farmaco mentre si sta studiando per altri motivi la natura di certe sostanze. La ricerca in corso non ha alcuna relazione con il farmaco scoperto, ma un avvenimento che può apparire banale, se non addirittura a prima vista deviante per la ricerca stessa, apre gli occhi a quello scienziato che sia provvisto della giusta dose di sagacia. Questi recepisce l’importanza dell’osservazione e la collega al farmaco, che pure era lontano dall’obiettivo specifico della sua ricerca. Per dire sì alla vita e avventurarsi su sentieri sconosciuti si deve avere il coraggio di far saltare i ponti dietro di sé: non è possibile procedere verso nuove mete se non abbandonando quelle già acquisite. Nell’infanzia abbiamo sperimentato un imprinting familiare di straordinaria forza, che ha costituito il ponte tra la nostra esistenza e quella di chi ci ha generato. Ma il rischio legato a qualsiasi rapporto è di restare impigliati in una rete

avviluppante, mentre può essere necessario bruciare il terreno che ci lasciamo alle spalle in modo che non vi sia ritorno. È così che nasce l’idea di "uomo di frontiera": un diverso che ha di fronte a sé l’ignoto, e non si ritrae ma lo affronta. Così si matura una diversa posizione psicologica, un nuovo atteggiamento di apertura e fiducia dinanzi alla vita. Ci consideriamo uomini di frontiera perché dobbiamo rompere con la tradizione, dire sì alla nostra esistenza e renderci consapevoli di avere di fronte un mondo vergine da affrontare. Spesso però il desiderio e il tentativo di raggiungere certi fini ci costringe a trasgredire. Ma la devianza, nella nostra cultura forse più che in altre, implica sempre un prezzo molto elevato, non ultimo quello di essere denominata "patologia". Siamo consapevoli del resto che il rischio che corriamo volendo rimanere fedeli a noi stessi è quello dell’ emarginazione dalla vita collettiva, di vedere il proprio mondo interno trasformarsi in un ghetto; ma dobbiamo ricordare che la nostra esistenza si compie proprio attorno a ciò che di più personale essa è riuscita a esprimere. Ad Adler fu rimproverato di tutto, dall’establishment della psicologia del profondo: di aver fatto scendere l’analista dal piedistallo spingendolo a compromettersi in prima persona, e di averlo fatto salire in cattedra come un qualsiasi pedagogo; di avere privilegiato il futuro come progetto e di aver dato un peso eccessivo al passato come condizionamento; di aver annacquato il concetto di libido e ignorato quello di pulsione; persino di avere, col suo "primato dell’Io", pressoché cancellato l’inconscio, come se lo stesso Freud non avesse predicato una "politica espansionistica" dell’Io proprio in quella direzione. Ma quello che conta, in questa vicenda, è che il tentativo di emarginare Alfred Adler non riuscì, come non riuscì per Jung, per non dire di Rank e altri "eretici eccellenti". Nel caso di Adler, la sua "rivincita" possiamo leggerla proprio alla luce della sua teoria: l’ostilità della psicoanalisi "ufficiale", diciamo pure dell’Accademia, diventò per lui la molla e lo sprone per perseverare nella ricerca della sua verità.

16. ALLA RICERCA DI UN RAPPORTO ORIGINARIO Abbiamo parlato dell’individuazione, del fatto che portare a compimento il proprio progetto esistenziale può attirare l’ostilità del gruppo, che tende a espellere il diverso. Del resto, la tolleranza sociale verso l’originalità del singolo muta nelle varie epoche storiche, come mutano i criteri di normalità e patologia. L’atteggiamento del collettivo nei confronti, per esempio, della figura femminile o di particolari dimensioni psicologiche come quella dell’omosessualità, ci induce a riflettere sulle difficoltà e sofferenze che scaturiscono da ogni tentativo di vivere la propria personalità in maniera autentica. Abbiamo visto come Sullivan dovette pagare il prezzo della propria omosessualità subendo l’ingiustizia e l’umiliazione del pregiudizio, e del resto a tutti noi almeno una volta sarà capitato di dover subire il giudizio e le incomprensioni del collettivo. Il cammino dell’individuazione implica il dover pagare un prezzo alto. L’omosessualità rappresenta in questo senso un esempio valido di quanto la lotta per l’individuazione possa rivelarsi sofferta e dolorosa. Un personaggio che senza dubbio seppe stimolare l’interesse nei confronti di questa tematica, fu Sàndor Ferenczi, al quale va riconosciuto il merito di aver pubblicato diversi saggi sul tema dell’omosessualità. Come abbiamo già osservato introducendo l’opera di Ferenczi, la storia dell’evoluzione del suo pensiero è percorribile attraverso le ’tappe’ scandite dai suoi scritti. Ricordato troppo spesso come l’autore di Thalassa – che come abbiamo visto costituisce la sua opera principale ma non l’unica – Ferenczi è in realtà autore di numerosi altri scritti, dalla cui lettura è possibile evincere la progressiva trasformazione delle sue idee e il suo graduale emanciparsi dall’influsso di Freud. Al 1908 risalgono i suoi primi lavori di impostazione psicoanalitica tra i quali ricorderemo: "Il significato

dell’eiaculazione precoce", "Le nevrosi alla luce dell’insegnamento freudiano e la psicoanalisi", "Interpretazione analitica e trattamento dell’impotenza psicosessuale". Il denominatore comune degli scritti che abbiamo voluto ricordare è in fondo quello di offrire un’interpretazione analitica di problematiche a sfondo sessuale, e al contempo cercare per ognuna di esse strategie di intervento e principi tecnici attuabili. Appartenente allo stesso filone è anche "Nosologia dell’omosessualità maschile", pubblicato nel 1914 ma presentato nell’ottobre del 1911 in occasione del terzo congresso dell’Associazione psicoanalitica internazionale. In questo lavoro, Ferenczi si propose di chiarire le differenze fra il cosiddetto "omosessuale attivo" e quello "passivo":

Fin dall’inizio ho avuto l’impressione che al giorno d’oggi il termine «omosessuale» venga applicato ad anormalità psichiche troppo dissimili tra loro e, in sostanza, nient’affatto omogenee. L’attrazione per il proprio sesso è solo un sintomo, una manifestazione delle malattie e dei disturbi evolutivi più diversi, come pure l’espressione di una vita psichica normale. [...] I due tipi di omosessualità, per esempio, che si è soliti distinguere come «attiva» e «passiva», sono stati sempre considerati – quasi fosse una cosa ovvia – le due diverse facce del medesimo stato morboso. [...] Eppure basta una osservazione superficiale di queste due specie di omoerotismo per dimostrare come – per lo meno nei casi netti – esse faccian parte di complessi completamente diversi e come l’omoerotico «attivo» e quello «passivo» rappresentino due tipi umani radicalmente diversi (1914, 11-112).

Fu proprio questo lavoro che permise a Ferenczi di

accendere l’interesse attorno al tema dell’ omosessualità, interesse che appariva teso a classificare, discernere e definire questo aspetto della sessualità. Al tema dell’omosessualità, anche Adler dedicherà nel 1917 un accurato studio, ma lasciamo a Ellenberger il compito di riassumerlo:

Adler rifiuta la teoria della costituzione fisica come base dell’omosessualità. Egli ammette che certi omosessuali possano mostrare alcune caratteristiche sessuali secondarie del sesso opposto, ma questo accade anche a molti individui che sono normali. Non esiste alcun determinismo fisiologico e in questo campo tutto dipende dalla modalità con cui il soggetto assume la propria identità somatica e dall’uso che ne fa. La principale molla che spinge all’omosessualità è da ravvisarsi nella paura e-nell’ostilità nei confronti dell’altro sesso, dato che il divario psicologico è normalmente minore tra persone dello stesso sesso di quanto lo sia tra persone di sesso opposto (1970, 710).

Le parole di Ellenberger intendono sottolineare un particolare aspetto della dinamica che condurrebbe all’omosessualità: la dimensione relazionale. "La paura e l’ostilità nei confronti dell’altro sesso" infatti, sarebbero – secondo Ellenberger – considerati da Adler "la molla" che spingerebbe un individuo all’omosessualità. Sottesi a simili dinamiche, è possibile rinvenire una vasta gamma di fattori, fra i quali spicca lo sviluppo, l’evoluzione psicologica e l’educazione culturale del bambino o della bambina. Le tappe che scandiscono un qualsiasi percorso evolutivo, quindi, dovrebbero essere considerate come plausibili contesti psicologici nei quali l’omosessualità potrebbe cominciare a nascere e crescere. Quali elementi determinano l’instaurarsi

dell"identità di genere’ in un individuo? Quali fattori favoriscono o ostacolano i rapporti fra individui dello stesso sesso e fra uomo e donna? Rispondere a questi interrogativi è tutt’altro che semplice, soprattutto dove si ignorino – o si tenda a trascurare – le inevitabili differenze che caratterizzano sul piano psicologico un uomo e una donna. Che non sono solo il frutto di scelte e tradizioni culturali – come certe frettolose semplificazioni vorrebbero accreditare – visto che la natura, ben prima della cultura, ha affidato ai due ’generi’ ruoli diversi nella riproduzione della specie, che non possono non riflettersi nell’ambito psichico; ma se anche fossero, per assurdo, dati culturali, non c’è bisogno di scomodare gli archetipi junghiani per capire quanto una cultura plurimillenaria come la nostra ci abbia segnati, se non plasmati. Su questo tema è interessante il pensiero di Erich Neumann a proposito dello sviluppo psicologico femminile. Al di là dei numerosi studi dedicati all’interpretazione genetica della psiche, alle fondamenta mitico-archetipiche della coscienza individuale, al significato della dimensione creativa, il nome di Erich Neumann rimane infatti legato al tema dello sviluppo psicologico femminile. Il dispiegarsi della coscienza femminile viene descritto e discusso nella celebre opera La Grande Madre (1956), nella quale Neumann, servendosi di ’strumenti’ quali fiabe, mitologia, superstizioni popolari, credenze religiose e magia, offre una impeccabile analisi dell’archetipo del Femminile, appunto della ’Grande Madre’. Rispetto a questo tema, vi sono però altri due scritti significativi: Amore e Psiche. Un’interpretazione nella psicologia del profondo (1952) e Gli stadi psicologici dello sviluppo femminile (1953). Mentre nel primo Neumann propone una suggestiva interpretazione della celebre favola di Amore e Psiche – interpretazione che metaforizza lo "sviluppo della coscienza e della relazionalità" – nella seconda opera citata vengono descritte le ’tappe’dello sviluppo psicologico femminile. Ebbene, la disamina degli stadi evolutivi della psiche femminile ci permetterà di far luce sulla teoria di Neumann in generale.

Lo stadio originario è la prima tappa dello sviluppo, sia maschile che femminile, e secondo Neumann è caratterizzato da una "unità psichica, una fusione, o meglio, un non-essereancora-diviso dell’Io dall’inconscio" (1953, 9). L’immagine che rappresenta questa "unità psichica" è quella dell’Uroboro, del serpente che mordendosi la coda delinea una forma chiusa, circolare e al contempo vitale. Da un punto di vista psicologico, questa immagine fa esplicito riferimento al legame che unisce il bambino alla madre e al potere contenitivo che la madre può esercitare su un figlio ancora piccolo. Il serpente che si morde la coda rimanda all’uroboro materno, ossia a una sorta di limbo in cui il bambino permane, in attesa di poter manifestare una certa autonomia. Sebbene non sia auspicabile, con il trascorrere del tempo la morsa dell’uroboro potrebbe continuare a stringere il fanciullo tra le sue spire, rappresentate prima dall’onnipotenza materna, poi dal gruppo di appartenenza e dai valori della famiglia. In questa situazione originaria, quindi, l’Io della bambina, così come quello del bambino, è ancora qualcosa di indistinto, assorbito dall’inconscio con una tale forza da non poterne emergere: l’Io e l’inconscio costituiscono un magma incandescente, dalle ’numinose’ potenzialità, ma dai confini impercettibili. Per lo sviluppo del bambino e della bambina è essenziale che il "rapporto originario" madre-bambino sia positivo, tale quindi da consentire al bambino di vivere la madre come Madre Buona. Il "rapporto originario" diventa così il terreno più o meno fertile sul quale potrà attecchire e svilupparsi in maniera definita e strutturata la personalità del bambino. Ora, sebbene lo "stadio originario" caratterizzi il punto di partenza dello sviluppo sia maschile che femminile, il tipo di rapporto che nell’ambito di questa prima fase verrà a instaurarsi tra madre e figlio sarà diverso dal rapporto che unirà madre e figlia; questa diversità sarà a fondamento del differente percorso condotto dallo sviluppo psichico maschile e femminile. Infatti, il maschietto percepirà la presenza materna come un "tu estraneo e diverso" (1953, 10) mentre la bambina, a un certo punto, sentirà la madre come "tu proprio e non diverso". In

virtù di questi due tipi di percezione, tanto differenti tra loro da essere opposti, si struttureranno due percorsi di sviluppo psicologico divergenti. Così, man mano che la bambina crescerà e si svilupperà, sentirà non di essere "diversa" dalla madre – come invece accadrà al bambino – ma a livello inconscio percepirà una affinità profonda che le permetterà di prolungare nel tempo il processo di identificazione con la figura materna. Attenzione: abbiamo detto, e sottolineato, "a livello inconscio", a proposito di questa identificazione con la madre. Aggiungeremo che anche la madre, in modo speculare, percepirà più a lungo quella sintonia, e a livello inconscio modulerà i suoi messaggi su quella lunghezza d’onda. Sempre la comunicazione materna assume un colore diverso a seconda che sia diretta a un figlio o a una figlia: prima e al di là di tutti i messaggi espliciti e intenzionali ("se sei un ometto, non una femminuccia, non devi piangere", oppure "sei una donnina, non devi comportarti come un maschiaccio", e così via, e i giocattoli guerreschi e le bambole, e i vestiti...), sarà la madre stessa a identificarsi nella bambina, rivivendo in lei la propria infanzia. Poiché dunque lo sviluppo psicologico femminile appare caratterizzato da una corrispondenza fra il processo di conquista dell’identità e il rapporto originario con la madre, potremmo considerare il femminile "avvantaggiato" rispetto al maschile. Neumann infatti osserva come persino nella cultura occidentale "patriarcale", la donna abbia rispetto all’uomo una possibilità in più, una carta importante da poter giocare durante l’esistenza. Questa possibilità ulteriore del femminile è data dalla sua capacità di destreggiarsi nell’ambito delle relazioni che implicano una identificazione. Ma, mentre il femminile sarà così favorito in tutti i rapporti fondati sulla "identificazione", il maschile sarà avvantaggiato nelle relazioni che si fonderanno sul "confronto". Lo stadio originario descrittoci da Neumann, quindi, pone l’accento sul diverso ruolo esercitato dal rapporto con l’uroboro materno sul maschile e sul femminile. In particolare Neumann sottolinea come tutto lo sviluppo psicologico della donna sia

determinato dal profondo e rassicurante sentimento di identificazione da essa vissuto con la propria madre a partire dalle fasi più precoci dell’esistenza. Lo stadio dell’autoconservazione viene indicato da Neumann come la seconda fondamentale tappa dello sviluppo psicologico femminile. Si tratta di una fase che può prolungarsi anche per un periodo di tempo considerevole ma che non ostacola il fluire armonico di un’esistenza normale per la donna. In questa seconda fase dello sviluppo, la donna permane – sia da un punto di vista sociologico che psicologico – nell’ambito del gruppo delle donne, indicato da Neumann come clan materno, e i suoi rapporti con il femminile si estenderanno poi anche al "gruppo delle figlie". Questa vicinanza e convivenza con il femminile fa sì che, in un certo senso, la donna viva una "separazione ed estraniamento dal maschile" (1953, 14). Permanere nella fase dell’autoconservazione per un tempo prolungato non implica una totale assenza di relazioni, confronti, rapporti con il maschile. La vera essenza di questa fase è infatti data dal particolare tipo di esperienza che il femminile ricava nell’ambito dei rapporti con il maschile. In particolare, la dimensione, maschile continuerà a essere sentita dalla donna come minacciosa, come una presenza limitante. Sarebbe però eccessivo giudicare in modo negativo questo secondo stadio dello sviluppo femminile poiché, in verità, non impedisce alla donna di vivere e non innesca alcun tipo di nevrosi; però, una troppo prolungata permanenza nell’ambito dell’abbraccio protettivo del clan materno potrebbe ostacolare il progredire dello "sviluppo della coscienza". Analizzando l’aspetto ’relazionale’ di questa seconda fase dello sviluppo, Neumann evidenzia come in realtà la donna attraversi un periodo di non consapevolezza nei confronti dell’universo maschile, un periodo che – fra l’altro – verrà popolato dalle ’proiezioni d’Ombra’ del femminile sul maschile. Neumann giunge così a osservare che il secondo stadio implica per il femminile un grande rischio: qualora la donna non riuscisse a superare questa fase, pur avendo al proprio fianco una presenza maschile costante, sarebbe destinata a rimanere

"un essere nell’insieme incompleto" (1953, 15). L’aspetto più insidioso di questo stadio si manifesta attraverso difficoltà nell’ambito dei rapporti coniugali e, più in generale, nell’ambito dei rapporti interpersonali uomo – donna. Le difficoltà sessuali ne costituiscono l’espressione più evidente ed esplicita, soprattutto quando la donna, sentendosi’passiva’, una ’vittima inerme’ nei confronti del maschile, giunge a vivere se stessa in modo masochistico. È pertanto evidente che la fase dell’autoconservazione – prolungata oltre termini ’ragionevoli’ – innesca processi del tutto negativi per lo sviluppo psicologico femminile e le relazioni interpersonali. La fase successiva di sviluppo però, definita da Neumann irruzione dell’uroboro patriarcale, condurrà verso una nuova modalità – positiva – di rapportarsi all’elemento maschile. Questa fase ha come presupposto iniziale la dimensione uroborica del primo stadio. Tuttavia se ne distacca subito per condurre lo sviluppo verso una nuova meta, quella del patriarcato. Questa fase non è più pervasa dall’archetipo della Grande Madre, bensì da quello del Grande Padre:

con l’irruzione dell’uroboro patriarcale però al femminile accade qualcosa di nuovo: esso viene afferrato da qualcosa di ignoto e forte, vissuto come numinoso e senza forma (1953, 16).

Non è un caso se Neumann utilizza l’appellativo di ’numinoso’per riferirsi alla trasformazione che il femminile vive durante questa nuova fase. Nella sua accezione di "divino" infatti, il termine "numinoso" vuole sottolineare la dimensione rivoluzionaria e incontrollabile, che coinvolge il femminile conducendolo verso mete del tutto nuove. Qualcosa di potente e sconosciuto sembra catturare il femminile che rimane turbato, quasi stordito dal cambiamento di cui si sente

protagonista. Neumann dirà che

l’irruzione dell’uroboro patriarcale corrisponde a un soggiogamento ebbro del femminile, a un essere preso e afferrato da parte di qualcosa di ’potentemente penetrante’ che non viene riferito e proiettato in un uomo concreto, ma sperimentato come un numen anonimo e transpersonale (1953, 17).

Traducendo tutto ciò, diremo che durante la fase dell’irruzione dell’uroboro patriarcale, la personalità del femminile viene arricchita di elementi nuovi, che la rendono più forte, quasi rigenerata e completata da contenuti "transpersonali". Il femminile non può resistere alla seduzione esercitata dal potere del maschile, e vive così una fase di estraniamento, viene trasportato altrove, in un mondo sconosciuto ma affascinante, un mondo in cui il femminile potrà essere fecondato da un impeto creativo. Tuttavia, poiché durante questo terzo stadio il maschile "prende il sopravvento" rendendo passivo il femminile, accedere alla fase successiva può essere per la donna molto difficile. È tuttavia fondamentale sia per l’uomo che per la donna – e credo che sia questo uno degli insegnamenti più importanti dell’opera di Neumann – vivere il contatto, il rapporto con l’alterità, poiché solo la relazione con il diverso può favorire lo sviluppo della coscienza. Il compito di "liberare il femminile dal potere dell’uroboro patriarcale" viene affidato dalla mitologia all’eroe, al quale viene attribuita la capacità di salvare e liberare la ’vergine’ dal ’drago’, ossia dal potere del ’mostro uroborico’. Osserveremo a questo punto che:

Si passa così al patriarcato nel quale la donna è liberata con l’aiuto dell’uomo, perché il suo Io è ancora troppo debole per condurre una lotta autonoma, ma riesce per la prima volta ad avere un rapporto concreto e individuale con un uomo reale. Questo rapporto è quello del matrimonio patriarcale, tipico dell’attuale fase storica, matrimonio nel quale la donna incontra sì un uomo concreto, ma sotto il segno dei valori patriarcali e quindi al grave prezzo della perdita di se stessa. [...] In questa situazione la donna è sfavorita, perché è costretta a considerare superiori la coscienza, l’oggettività, la logica, in quanto indiscutibilmente valori propri dell’uomo (Carotenuto 1977, 163).

Il vero rischio che il matrimonio patriarcale costituisce per la donna è quello di poter rappresentare ai suoi occhi una specie di passe-partout per superare le difficoltà della vita, le angosce dell’esistenza. Sentendosi passiva, incapace, bisognosa in tutto del marito, la donna soffocherà così nel matrimonio la sua vera essenza, la propria individualità. Ecco allora che il matrimonio patriarcale diverrà per la donna uno strumento di morte, nel senso che soffocherà e annienterà la sua coscienza. Solo lo stadio successivo però vedrà concretizzarsi l’idea di una relazione più ’paritaria’ tra uomo e donna e per esemplificare questa dinamica Neumann parlerà di fase dell’incontro, la tappa più elevata e fondamentale dello sviluppo psicologico femminile. Le difficoltà, i problemi, le implicazioni connesse a questa fase sono molteplici e intricati, poiché la donna deve ora vivere la psicologia "della dedizione di sé e dell’individuazione" (Neumann 1953, 37). Per raggiungere questo stadio, la donna deve risolvere e superare a livello interiore il nodo della simbiosi patriarcale. Questo superamento implica l’attraversamento di una crisi, che sarà ancor più complessa se la donna che si accinge ad accedere a quest’ultimo stadio è

sposata o, comunque, ’non sola’. In questo caso, infatti, la crisi che la donna vivrà coinvolgerà anche il legame coniugale, la relazione con il suo compagno. Non sempre per il partner è facile accettare la trasformazione della donna e imparare a convivere con quella che può essere considerata una ’nuova compagna’. Neumann aggiunge che

una causa molto frequente di conflitti matrimoniali e di divorzi sta proprio nel fatto che la necessità vitale di sviluppo verso una nuova fase del rapporto è condannata a naufragare a causa dell’incomprensione del partner o anche della sua incapacità a evolvere anche lui (ibidem).

Eppure, solo in questa ultima fase dello sviluppo si può parlare di un vero e proprio ’rapporto’ fra maschile e femminile, fra uomo e donna intesi come "strutture consce e inconsce e cioè nella loro totalità" (ibid., 38). Già Jung nel suo Psicologia del transfert aveva considerato e valutato le peculiarità di questo rapporto, mettendone in evidenza soprattutto un aspetto particolare: la quadruplicità. Ciò significa che Jung aveva posto l’attenzione sul fatto che il rapporto fra uomo e donna può essere considerato come il risultato dell’incontro e della integrazione di ben quattro elementi: la coscienza e l’inconscio della donna, la coscienza e l’inconscio dell’uomo. Assumendo questo aspetto del pensiero junghiano come presupposto della sua riflessione, e descrivendo l’ultima fase dello sviluppo psicologico, Neumann considera il rapporto uomo-donna come una totalità, poiché "uomo e donna devono ora mettersi in rapporto cosciente sia col lato maschile che con quello femminile dell’uomo" (ibidem). Proprio di questa ’dinamica opposizione’ si nutre il rapporto uomo-donna, il

confronto di due distinte individualità e lo sviluppo delle personalità di entrambi i partner. Nell’ambito dell’ultimo stadio dello sviluppo femminile, la donna attraversa quindi anche una fase di ’individuazione’, di conquista di sé, e Neumann tiene a sottolineare che in questo modo

si manifesta la centroversione tendente alla totalità individuale e con ciò ha inizio un processo di trasformazione della personalità che sbocca in una nuova sintesi delle componenti della personalità e nel quale il centro di gravità si sposta dall’esterno all’interno (ibid., 44).

Un autentico processo trasformativo quindi investirà la donna nel momento in cui entrambi i partner "ritireranno le proiezioni, abdicheranno al potere e accetteranno l’esistenza di quell’altra parte del cielo che considero molto più ricca ed affascinante (Carotenuto 1991, 265). Erich Neumann, sebbene si sia dimostrato talvolta rigido nelle sue distinzioni e definizioni – come nel caso della dimensione psicologica femminile e maschile – ha saputo tuttavia offrirci un contributo prezioso, riuscendo a convogliare le idee e il pensiero della psicoanalisi verso il tema della creatività. Il suo apporto alla comprensione dello sviluppo psicologico femminile, inoltre, diviene una efficacissima lente attraverso la quale osservare e reinterpretare la relazionalità,’omo’ o ’etero’ sessuale. Il suo influsso è quindi oggi più che mai attuale, proprio come l’interesse per le relazioni interpersonali, per la dimensione creativa e per ogni processo che appaia finalizzato a incrementare la libertà e l’autenticità dell’individuo. Potrà sembrare superflua o addirittura pleonastica l’esortazione a vivere la propria autentica individualità, in questa nostra

strana Fin de Siècle, in cui si direbbe che "essere se stessi" sia il progetto più diffuso e il diritto rivendicato con maggior fierezza da chi si affaccia alla vita sociale. Il guaio è che nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di una giaculatoria imparaticcia, recitata la quale l’aspirante "se stesso" si affretta a raggiungere il ’gruppo’ per cantarla con gli altri, non già in coro (nel coro sono previsti controcanti e linee melodiche diverse che si intrecciano) ma proprio all’unisono. Ľ’"unicità", insomma, sta solo nel modello, proposto dai media, dal mercato, dai divi del momento, e replicato in un’infinità di esemplari. Tutti ’diversi’ allo stesso modo, autentici, spontanei e ’naives’ alla stessa maniera in cui lo sono i "graffiti spray" che decorano muri e vagoni delle metropolitane delle nostre città, e sembrano un solo interminabile graffito, donato da un prototipo americano di venti anni fa. Non solo il mercato, ma la società intera gradisce queste omologazioni, anche quando siano considerate devianti, perché comunque più facili da controllare. Nessuno è mai stato punito per non aver "cercato se stesso" o non averlo trovato (persino agli artisti autentici, per definizione specialisti del nuovo e dell’inedito, la collettività chiede che in qualche modo somiglino ai geni già consacrati, insomma al prototipo, al modello dell’artista controcorrente). Il solo tribunale che può processarci per non aver cercato in noi stessi la strada giusta, è dentro di noi: ci è stata data, con la vita una possibilità individuale, personale, di governarla e orientarla, e non l’abbiamo accolta; potevamo viverla, e ci siamo lasciati vivere. Ci siamo limitati a guardarla, o tutt’al più a imitarla, proprio come chi fa ginnastica o fitness al mattino guardando nel teleschermo come si muovono i ’figuranti’del programma che va in onda. Certo, essere fedeli a se stessi anziché al ’collettivo’ comporta, oltre al prezzo da pagare (la disapprovazione altrui, magari l’emarginazione e la solitudine), una grossa tentazione: quella di attribuire al ’collettivo’, ossia agli altri, la responsabilità delle proprie sconfitte. E invece è bene rendersi conto che ci si sta misurando con se stessi, con le proprie

personali difficoltà e resistenze. Gli altri sono il resto del mondo, nel presente e nel passato, prossimo e remoto. Così, riconoscere nel proprio passato personale, nella propria storia infantile, nei comportamenti dei genitori, le origini delle nostre sofferenze può essere usato in modo difensivo per non farci carico del nostro presente. Ritrovare queste radici è un percorso legittimo e una esperienza molto intensa sotto un profilo emotivo. Spesso ascoltando il racconto della vita delle persone è frequente sentire frasi come: "se non fosse stato per questo", "se non fosse accaduto quest’altro", e così via. Ma attribuire agli altri le ragioni delle proprie ’sventure’ è un comportamento infantile, un anacronismo nell’individuo adulto, e fra l’altro comporta conseguenze negative, l’isolamento, la diffidenza, l’impossibilità di andare verso l’altro con fiducia e amore: agli altri attribuiamo l’improbabile potere di guidare la nostra vita, laddove da un punto di vista psicologico è più utile porsi dinanzi alla vita come a un’avventura personale, una scoperta soggettiva, una potenzialità che sta a noi nutrire perché cresca. La domanda da porsi è: "qual è la mia responsabilità? Cosa posso fare?". E noi stessi che dobbiamo interrogare, e su noi stessi; e ripartire, ogni volta che è possibile, da qui, dalla nostra esperienza interiore. Le persone che anticipano di molto rispetto alla media il loro distacco dall’alveo genitoriale si rafforzano, dimostrano una lucidità e un’autonomia decisionale precoci, proprio perché hanno sviluppato una capacità di auto-accudimento; sono stati costretti a essere genitori a se stessi (un po’ come succede con la salute fisica: un organismo che ha vissuto in un ambiente protetto e isolato, non sviluppa difese immunitarie adeguate a fronteggiare l’ambiente). Il principale meccanismo di adattamento al mondo è infatti la capacità di differire la scarica della pulsione, dell’emergenza istintuale che spinge per essere soddisfatta. L’Io adulto impone che di fronte a uno stimolo vi sia una reazione controllata, che l’azione sia ponderata, mentre nelle fasi iniziali della vita tale capacità è ancora debole, e perciò dipendente dalla mediazione degli adulti che si

prendono cura del bambino. Una analoga fragilità dell’Io è caratteristica dei disturbi psicopatologici, dove l’intensità dello stimolo non può essere gestita dall’Io, che viene sopraffatto dall’angoscia. Le strategie adattative caratteristiche della psiche sana servono appunto a salvaguardare dalle conseguenze di gesti impulsivi, da comportamenti irrazionali e affrettati. La cosiddetta guarigione in termini psicologici non corrisponde mai a una situazione di equilibrio permanente, si tratta piuttosto di sostituire difese primitive con altre più evolute, di equipaggiarsi nel modo migliore per affrontare le frustrazioni, il dolore inevitabile della vita. Se si potesse rimanere inconsci per tutta la vita forse sarebbe anche meglio: saremmo guidati dai nostri impulsi, insomma da quello che con un linguaggio convenzionale chiamiamo, contrapponendolo alla ’ragione’, il ’cuore’. Ho sottolineato quel "forse" perché non sono affatto convinto della validità dell’esortazione ad andare "dove ci porta il cuore". Non è una bussola affidabile, il cuore, anche lui prende i suoi abbagli, vede miraggi; avrà, come sosteneva Pascal, le sue ragioni che la ragione non conosce, ma come potremo affidarci a lui se non avremo imparato a conoscerlo? Ma questo è un discorso che vale la pena di approfondire, e sul quale bisognerà tornare. Per il momento ci limiteremo a ricordare che in ogni caso non è stata questa la scelta, non diciamo della nostra cultura, ma della nostra specie; e perciò di ogni singolo individuo. Ma perché, come e quando siamo chiamati verso un livello più evoluto di coscienza, un orizzonte più ampio di consapevolezza? Quasi sempre a seguito di un evento traumatico, di un lutto, di una ferita narcisistica. Allora accade qualcosa come un risveglio, l’avvio di un confronto con noi stessi che ci allontana dall’istinto per avvicinarci allo spirito. È un cammino in cui potremo incontrare nuovo dolore; ma chi non ha conosciuto il dolore, dovrebbe sospettare di non essere mai nato alla vita vera, ossia alla conoscenza.

17. CONTRO NATURA La psicoanalisi ha messo in luce il potere determinante del passato, delle esperienze infantili, di quei primi rapporti che saranno cruciali per la formazione della nostra personalità. Come abbiamo avuto modo di osservare, i modelli relazionali dominanti nell’ambiente familiare in cui siamo cresciuti ritornano nel nostro stile comunicativo adulto, nel modo di gestire la distanza e la vicinanza dall’altro, nelle nostre inibizioni nella generosità dell’abbandono. Tutti questi aspetti caratteristici e ricorrenti del nostro comportamento vengono in modo inconsapevole riproposti anche nel rapporto analitico, ed è a questo punto che possono diventare oggetto di una riflessione cosciente, ed essere trasformati. Sono tracce impresse nella nostra psiche, tracce di eventi ma soprattutto del loro riflesso soggettivo, del segno che hanno lasciato nel mondo interno di chi li ha vissuti. Da qualche anno, negli Stati Uniti si parla di lost memories, ricordi perduti alla coscienza ma presenti nella memoria psichica, un’idea già formulata da Jung nel 1905 e indicata con l’espressione di "criptomnesia". Negli studi sulle associazioni verbali, Jung ne parla richiamando i molti esempi di persone in fin di vita che raccontano eventi remoti che a rigore non dovrebbero poter rievocare. In realtà, sono conoscenze perdute solo per la memoria cosciente, ma che possono riaffiorare proprio in virtù di una condizione mentale anomala. Alcuni decenni prima, Freud era arrivato alla stessa conclusione a partire dalla propria esperienza clinica con i pazienti. Ma la sua elaborazione era assai più complessa: infatti, egli dava una spiegazione del senso di questa apparente perdita di ricordi e non si limitava a segnalarla. La scomparsa di ogni rappresentazione di eventi accaduti nella storia dell’individuo era da riportare alla valenza traumatica dell’evento, il cui

impatto emotivo esorbitava le capacità di elaborazione di una psiche ancora immatura come è quella di un bambino. Questi accadimenti però non solo restano quali tracce invisibili, ma influenzano il rapporto con la realtà e producono una tendenza a ripetere il vissuto patogeno. Pur essendone inconsapevole, l’individuo adulto è spinto verso situazioni che confermano i sistemi di credenze inconsce, credenze disadattive e generatrici di sofferenza. È un vero e proprio sistema di decodificazione della realtà che tende all’autoconferma, cioè seleziona quegli aspetti della realtà conformi alle convinzioni pregresse. Questo ci insegna una volta di più che esistono tante letture della realtà quanti sono gli individui che la osservano. Gli psicologi, dunque, lavorano sulle realtà soggettive, e loro compito è capire e far capire come la realtà soggettiva abbia determinanti e radici complesse, ben oltre i confini della nostra consapevolezza. E dunque opportuno un atteggiamento relativizzante, che sia attento al valore individuale, non generalizzabile, di certe convinzioni, in special modo di quelle che coinvolgono l’emotività, la sfera degli affetti. E bene riflettere sulla nostra "visione de mondo" e sul rischio che corriamo attribuendo un valore assoluto, universale, alla nostra lettura dei fatti, visti in realtà da un’angolazione soggettiva. La relatività dovrebbe quindi essere il parametro mediante il quale conferire senso a quanto avviene intorno a noi, e un atteggiamento di grande apertura e plasticità mentale sarebbe in questo senso auspicabile. L’individuazione, il compimento del proprio destino personale, è un opus contra naturam, come scriveva Jung, perché va contro la tendenza della psiche a restare in una condizione di incoscienza, di inconsapevolezza. L’esistenza inconscia, così come l’identificazione nello stereotipo collettivo, comporta un dispendio energetico molto inferiore a quello richiesto dalla vita simbolica. E d’altra parte, è facile comprendere che l’esistenza anonima di chi non nasce come individuo ma resta nel grande contenitore del gruppo è meno impegnativa sia sul piano psicologico che su quello cognitivo.

La diversità spesso è stata demonizzata come patologia, il pensare con la propria testa come follia. Diagnosi priva di fondamento, che però purtroppo ha in sé il potere di generare il male diagnosticato in maniera errata: perché fa il vuoto intorno al "paziente", e questo isolamento, questa perdita del contatto con gli altri, è la premessa necessaria e sufficiente per alterare il suo rapporto con la realtà e cioè per far insorgere un disturbo psichico. Lo studio della psicopatologia ha messo in evidenza che sebbene la psiche sia un sistema che tende all’unità, essa è al contempo insidiata dalla possibilità di dissociarsi, di frammentarsi in tasselli non definibili come "a-normali", non interpretabili come sintomi patologici. L’integrazione e la disintegrazione delle strutture che costituiscono l’impalcatura della nostra personalità, costituiscono ormai i parametri in virtù dei quali viene "convalidata" la sanità di una persona o diagnosticata la sua patologia. Tuttavia sappiamo bene come il termine "normale" sia quanto meno ’discutibile’in psicoanalisi, là dove, consentitemi di ribadirlo con fermezza, non c’è ’curva gaussiana’ che tenga. La storia della psicoanalisi si è dovuta più volte confrontare con la necessità di "rimettere tutto in discussione", di elaborare la seconda, terza ed ennesima ’topica’ per tornare su ciò che sembrava assodato una volta per tutte ma che in realtà era solo uno dei mille volti dell’ineffabile. Col tempo si è iniziato a comprendere che in assenza di leggi, regole e formule, non si può parlare di "certezze" e, sempre col tempo, si è incominciato ad accettare l’idea che la psicoanalisi di regole non ne ha. Ma attenzione: non si pensi che questo costituisca il suo ’tallone d’Achille’, perché è vero semmai il contrario: l’assenza di regole e formule, e della necessità di dover far "quadrare i conti", costituisce per teoria e prassi psicoanalitiche un enorme vantaggio, e il campo stesso di applicazione della psicoanalisi ne è il primo beneficiario. In un mondo in cui il rigore logico deve essere guardato con sospetto, quale è appunto quello psicoanalitico, può essere offerta cittadinanza a un concetto da sempre ritenuto

"straniero": l’assurdo. Assurdo e razionalità: un binomio paradossale, impensato, sconcertante, almeno fino a non molto tempo fa. Gli ultimi anni di affannosa conquista del sapere, infatti, sono stati determinanti per la diffusione di quella che potremmo definire "la filosofia dell’eclettismo". Ciò significa che si è cominciato a comprendere quanto possa essere fondamentale combattere l’ortodossia e aprirsi senza riserve alla conoscenza proveniente da più mondi, da diversi orizzonti. E ciò che è ancor più consolante è il fatto che dalla teoria, dal "dire", si è passati al fare, tentando le più sorprendenti ibridazioni culturali: biologia, etologia, antropologia, filosofia, psicologia, fisica. Che ne è stato degli ibridi? Giusta domanda, soprattutto se si pensa che, almeno in "natura", il frutto di un’ibridazione è spesso sterile. Ebbene, per quanto concerne la "cultura" il discorso è diverso e alcuni ibridi si sono rivelati fertili. Si è così giunti, ad esempio, a interessantissime rivisitazioni teoriche, come quella che ha condotto alla "riabilitazione" del concetto di assurdo. In merito a questo argomento, è apparso nel 1997 un piccolo libro, ricco però di contenuti illuminanti. Si tratta di Ex absurdo le cui pagine sono state scritte da un grande "fan" del rigore metodologico e dell’approccio scientifico: il fisico Giuliano Toraldo di Francia. Le sue riflessioni in merito al ruolo svolto dall’assurdo nell’ ambito di diversi contesti culturali e scientifici, permettono a noi in questa sede di proporre ulteriori considerazioni. In questo senso appaiono interessanti alcune affermazioni del nostro fisico:

Ebbene, lasciando ormai da parte le poesie e i sogni, ci si può domandare se l’assurdo abbia ancora una qualche funzione essenziale o illuminante in ben altre e più ’severe’ speculazioni, quali quella della scienza, della filosofia, dell’ordinamento sociale, o addirittura della tecnica. Ma certo che ce l’ha! Si tratta niente meno che della perenne sorgente delle nostre ideazioni.

Non esitiamo ad affermare che ’un pizzico di assurdo’ c’è sempre (Toraldo di Francia 1997, 11).

È stimolante questa prospettiva che vede nell’assurdo non già il deteriorarsi del nostro pensiero, ma una delle sue fonti di nutrimento, la sorgente delle "nostre ideazioni"! È evidente che, riservando all’assurdo tale funzione, anche il discorso sulla patologia psichica cambierà. Come interpretare infatti, in questa luce, i cosiddetti "deliri" degli altrettanto cosiddetti "folli"? Cosa saranno quelle "voci" che il paziente afferma di sentire, quei pensieri incongruenti che ci riferisce? È evidente che se dovessimo rispondere basandoci solo sui comuni parametri logici diremmo che si tratta di "assurdità", di espressioni e manifestazioni frutto di un delirare folle e insensato. Ebbene, non è così; e per almeno due buone ragioni. Anzitutto non dovremmo mai dimenticare che il nostro lavoro – in quanto esperti della mente e dell’anima – consiste nel "prestare ascolto e attenzione" a tutto ciò che il paziente dice, fa e riferisce, cercando di conferire a esso anzitutto un senso, ossia chiedendosi cosa siano quelle voci, cosa intendano comunicare a noi che cerchiamo di aiutare il paziente. Sarebbe quindi ’assurdo’ – e mi si perdoni l’uso e abuso del termine – ignorare ciò che appare insensato liquidandolo con la triste etichetta di "pazzia". In secondo luogo, non dovremmo trascurare di mettere in conto la riabilitazione cui accennavamo poc’anzi, quella del concetto di ’assurdo’. Se infatti l’assurdo alimenta il nostro stesso pensiero, le immagini che popolano la nostra mente, e noi accettassimo questo dato e lo ritenessimo valido, non avremmo più il diritto di ritenere ’insensati’ discorsi e idee solo perché appaiono ’assurdi’. L’assurdo entra così a far parte della consuetudine, conferendo però a essa nuovi stimoli e positive energie:

Il razionale è certamente il pane della nostra vita; senza di esso moriremmo. Ma l’assurdo è il companatico. Se non vi fosse l’assurdo, la vita perderebbe sapore e non varrebbe la pena di essere vissuta. In un certo senso sarebbe come trovarsi al di dentro del meccanismo di un orologio. Non ci resterebbe che aspettare senza alcuna trepidazione o meraviglia l’inesorabile scorrere dei minuti e il battere delle ore (ibid., 76).

Ecco allora che il limite di demarcazione fra "normalità e patologia" diviene sempre più complesso, sottile, velato. L’antica diatriba si riapre e l’espressione ’normalità’ in psicologia continua a essere avvolta da ambiguità e incertezze. Si torna così alla soluzione di sempre che, forse, continua a essere la migliore: là dove la disintegrazione dell’Io, della coscienza, del pensiero, regni sovrana, lì si annidano i demoni peggiori. L’unità della coscienza è il punto di arrivo di processi di integrazione di componenti parziali della psiche. Queste componenti in circostanze particolari possono emergere come aspetti isolati e autonomi dal resto della personalità. Ciò accade nella malattia mentale come anche in condizioni di abbassamento del livello di vigilanza, in stati di indebolimento della coscienza, nella reverie, nel sogno, nelle intossicazioni e così via. Sono contenuti psichici in gran parte ignoti all’Io ed è per questo che possono destare tale sorpresa e timore che l’individuo, anziché accoglierli, li respinge. E quando non lo fa ma, come si suol dire, "si lascia andare", arriva a rinnegare e disconoscere quell’atto, e tenta di "chiamarsi fuori": quante volte ci è capitato di dire "non ero più io", "ero fuori di me", come se un estraneo si fosse impossessato di noi. E invece sono proprio quelle zone d’ombra a custodire gli aspetti più intimi e personali, quelli che restano celati dietro l’immagine unitaria e coerente di noi stessi che mostriamo nei rapporti quotidiani.

Questa parte più esposta di Sé, che può essere riconosciuta nel ruolo sociale che ciascuno è chiamato ad assumere, nello stile relazionale che ci contraddistingue, è ciò che Jung chiamava Persona. È qualcosa che nello stesso tempo ci espone e ci vela, ci apre agli altri ma insieme pone una distanza che non ci consegna al mondo. È una soglia di intimità e verità che qualcuno oltrepassa e qualcun altro no. Talvolta, il fatto di varcarla è il segno di una sintonia profonda, di una affinità che ha radici inconsce su cui si costruiscono poi legami complessi e densi di significato. Non c’è nulla da temere nei molti Sé che ci abitano. Questa poliedricità è qualcosa con cui ci confrontiamo e di cui soltanto noi possiamo conoscere la verità. Nella pratica clinica ci si allena molto presto a intuire la molteplicità dei volti che traspaiono dai tratti delle persone. Esperire gli aspetti oscuri accresce la nostra conoscenza: nei casi patologici della fine dell’Ottocento tali componenti psichiche potevano esprimersi come personalità multiple: nello stesso individuo si alternavano personalità autonome, spesso dotate di caratteristiche opposte; veri e propri personaggi che calcavano le scene della psichiatria di fine secolo. Il giudizio che diamo dell’altro dipende dalla sua risonanza nel nostro mondo interiore, dalla nostra capacità di identificarci con le sue emozioni, la sua gioia, il suo dolore, la sua rabbia, il suo bisogno di tenerezza. È questo tipo di valutazione che gioca un ruolo determinante nello stabilire i rapporti interpersonali. Le modalità con le quali nasce in noi un sentimento di simpatia o – al contrario – un’avversione, non sono consapevoli, ma nemmeno casuali e prive di significato. È questa l’alchimia dell’incontro: la combinazione di due individualità uniche che dà un tertium, il frutto irripetibile dell’unione. Come ho spesso ribadito in queste pagine, l’individualità, il "divenire ciò che si è" di cui parlava Jung, e prima di lui Nietzsche, può significare solitudine e diversità, la rinuncia alla conchiglia rassicurante della appartenenza al gruppo. Ma l’alternativa all’essere se stessi è diventare la brutta copia di qualcun altro, una imitazione più o meno

riuscita, nel migliore dei casi un falso d’autore. La nascita psicologica deve avvenire in solitudine, la costruzione di quell’opera che noi stessi siamo implica sofferenza, costrizione, bisogno: la storia umana inizia con l’uscita dal Paradiso Terrestre! L’individualità è anche il privilegio di un destino che segue il dispiegarsi della propria inclinazione più autentica. Questa attenzione e questo profondo rispetto per l’unicità dell’individuo si riflettono anche nell’atteggiamento terapeutico che, lungi dall’essere prescrittivo, è volto a rimuovere le barriere che ostacolano l’autodispiegamento del Sé. Non dovremmo patologizzare le crisi, i momenti in cui mancano le risposte e si è in cerca della propria via. Eppure questa apertura alla propria interiorità, questa disposizione all’ascolto dei movimenti più profondi della psiche, è prerogativa di pochi; il cambiamento, la trasformazione psichica è un compito gravoso che pochi si assumono. Perché chi abbandona la strada maestra e si avventura per sentieri meno "battuti", non ha comode mappe su cui orientarsi, e deve inventarsi da sé l’itinerario. E una scelta, ma non una "scelta obbligata", che ci attende al varco in un preciso momento della nostra vita, come per esempio l’ingresso nel mondo del lavoro, o il "farsi una famiglia"; c’è chi questa scelta l’ha fatta nella prima giovinezza, e chi molto più tardi, nella seconda metà della vita. Su questi temi ha scritto molto Nietzsche, che fu anche anticipatore e ispiratore del pensiero sia di Freud che di Jung. Nietzsche protesta contro la mediocrità delle anime che non conoscono le grandi passioni né l’audacia del gesto rivoluzionario, che deve essere compiuto innanzitutto nella nostra vita personale; sono microrivoluzioni che operiamo su noi stessi, nel quotidiano, nei piccoli gesti. È questo il lavoro che l’analista ha prima portato avanti su se stesso, per poter poi aiutare il paziente a fare altrettanto. Ecco allora che, tornando al problema della guarigione psicologica, ciò che la psicoanalisi si propone è la trasformazione del paziente, una metamorfosi che spesso implica sofferenza e autentiche "rivoluzioni". L’analista sa bene quale sia, da un punto di vista psicologico, il significato del

termine "rivoluzione", sa bene che per cambiare le cose occorre prima di tutto mettere in discussione la nostra persona, il nostro modo di essere, la nostra configurazione psicologica. Ma egli sa anche che ogni rivoluzione implica sempre grande sofferenza e, prima ancora, il coraggio di affrontarla. Per questa ragione io diffido di quelli che affrontano la nostra professione senza averne compreso il senso – e ciò è possibile solo attraversando e vivendo in prima persona un’autentica e sofferta trasformazione. Se si riflette con attenzione l’analista che si sia trovato immerso in questo oceano tempestoso, e sia riuscito a riemergerne, potrà offrire al proprio paziente, un concreto e valido aiuto, accompagnandolo passo dopo passo nelle sue battaglie quotidiane, sostenendolo nelle sconfitte ed esultando assieme a lui nelle vittorie. Non c’è una modalità specifica, una tecnica attraverso cui affinare la propria sensibilità e capacità empatiche, non sono facoltà che si possano insegnare. Lo studio, la conoscenza di alcune materie, la disciplina analitica appresa negli iter formativi, l’analisi compiuta in prima persona, sono premesse indispensabili, ma in qualche modo lo è anche la capacità, in un secondo momento, di prenderne le distanze. Nella distanza si trova la propria misura, il proprio stile, la propria maturità di terapeuti, nella conoscenza di sé l’intuizione del mistero dell’altro.

18. L’UOMO È MISURA DI TUTTE LE COSE Il paradosso su cui si fonda il sapere psicologico è stato più volte messo in luce: la psiche è nello stesso tempo oggetto e soggetto della riflessione. Ma qui vediamo esemplificata una verità intuitiva che, ciascuno a suo modo, ha colto nella propria esperienza di vita. E cioè che il valore di ogni scienza umana incontra un limite nell’inevitabile condizionamento soggettivo della conoscenza. La ricerca dà grandi risultati quando è sostenuta da grandi passioni, ma la passione non è che la declinazione affettiva della variabile personale da cui siamo influenzati. La vita intera può essere considerata come il continuo sforzo, l’incessante battaglia che ogni uomo combatte alla ricerca della propria libertà e di una possibilità espressiva. La vita è, secondo Jung, ricerca della nostra verità psicologica, un riconoscimento costante della nostra equazione personale. Lo stesso Jung si dovette confrontare con questo cruciale compito al quale ogni uomo è chiamato. Interessanti a tal proposito si rivelano le parole di Romano Màdera, autore di una apprezzata "mitobiografia" su Jung (1998, 6-9):

Jung si è trovato, anche come scienziato e non solo come uomo privato, a dover mettere nel conto di ciò che andava scoprendo la sua "equazione personale", cioè a doversi chiedere: come il mio modo di essere influisce su ciò che sta succedendo nelle relazioni psicologiche che osservo, e sulle quali intervengo? E come posso affrontare questo mio modo di essere? (7).

Come ebbi modo di osservare (1991, 198), l’equazione personale "rappresenta un ineliminabile fattore di soggettività che incide nella valutazione dei dati oggettivi" e che conduce a una prospettiva d’osservazione del tutto peculiare. Non solo elementi socioculturali, ma anche e soprattutto le nostre caratteristiche individuali vanno a costituire l’assetto dell’equazione personale di ognuno di noi. Jung usava l’espressione di "equazione personale" per indicare proprio la radice individuale di ogni teorizzazione. In altre parole, siamo spinti ad approfondire quanto ci investe in modo diretto, i temi dominanti del nostro mondo interno, che proprio perché "dominanti" hanno una forte eco emotiva. Questo tipo di legame è spesso chiaro nelle teorie della personalità che a guardar bene appaiono in relazione con le esigenze individuali dell’autore. Il pericolo di questa ineliminabile contaminazione soggettiva è il dogmatismo, l’intolleranza verso la critica, l’atteggiamento fideistico di chi si identifica senza residui con la propria ’verità’. Di qui possono nascere generalizzazioni indebite, sulla base di una riflessione personale e proprio per questo relativa. Ciò non significa negare valore conoscitivo alla singola teorizzazione; piuttosto, essere consapevoli della componente proiettiva che essa contiene. La verità della teoria non è poi altro che la generalizzazione di una equazione personale; la teorizzazione risulta ’vera’ perché funzionale alla struttura di personalità di chi la propone. Una volta individuata una teoria coerente con la nostra struttura di personalità, ci sentiamo autorizzati a pensare che ciò che vale per noi debba valere anche per gli altri. Non si può prescindere dal concetto di relativismo psicologico, che chiarisce come la nostra attenzione sia orientata dalla soggettività; questa capacità, che comunque va acquisita, ci salvaguarda dal cadere nell’adesione fideistica alle ideologie di volta in volta in auge. Del resto, il pericolo di ogni atteggiamento ideologico è il fanatismo. Lo sguardo relativistico è inoltre indispensabile proprio affinché sia

possibile cogliere la verità, seppure parziale, che ciascuna teoria contiene, quella parte di essa che cade entro il suo "cono di luce". In una prospettiva psicologica, coloro che sostengono la predominanza di una teoria su un’altra, in realtà stanno generalizzando la propria equazione personale anziché farne oggetto di riflessione e di elaborazione. L’organizzazione sociale offre sostegno e protezione, e per non cedere alle attrattive di una soluzione esistenziale precostituita è necessario un impegno costante, il coraggio di sé, la capacità di stare nella solitudine. Certo, confrontarsi di volta in volta, esercitando la propria facoltà di giudizio in modo autonomo, è molto più faticoso che ragionare per categorie già date. Il fondamento soggettivo delle teorie psicologiche ne limita la generalizzabilità, e ci rende più sensibili all’una o all’altra di esse a seconda della risonanza interiore. Solo affinando la capacità di ascolto possiamo avvicinare la prospettiva dell’altro, disporci alla comprensione di mondi interni che nascono da storie diverse, e che possiamo non comprendere affatto. Senza questo esercizio continuo, saremmo condannati al solipsismo, a non poter sporgerci oltre la soglia della nostra soggettività. È inevitabile sentire una maggiore sintonia per una posizione filosofica, un’affinità con i temi di un pensatore piuttosto che di un altro. Eppure dobbiamo restare in ascolto della alterità e non allontanare con un gesto liquidatorio ciò che non si avverte vicino al proprio mondo. È questo il pericolo che ci insidia. Questi aspetti non dovrebbero mai essere trascurati, anzitutto perché giocano un ruolo rilevante nell’ambito delle relazioni interpersonali; le dinamiche poste alla base dei rapporti interpersonali, sono senza dubbio complesse, ma per esse è possibile rintracciare – utilizzando un linguaggio junghiano – un "sostrato archetipico". Cercheremo ora di spiegare perché. Prima di giungere al tema degli archetipi vero e proprio, sarà però bene ricordare che – come abbiamo già avuto modo di osservare – secondo Jung esistono due regni inconsci ben differenziati: l’inconscio personale e l’inconscio collettivo. Quello degli "archetipi" è senza dubbio un tema

fondamentale nell’ambito della psicologia del profondo. Sarei portato a dire che si tratta di un tema molto conosciuto e affascinante, anche se uno spirito rigoroso dovrebbe essere molto critico con una simile idea. Non si tratta di uno degli aspetti più fecondi del pensiero junghiano. Le formulazioni di Jung in merito al tema degli archetipi e dell’inconscio collettivo, implicano un’ampia serie di possibili letture e interpretazioni. In particolare, la distinzione junghiana tra inconscio personale e inconscio collettivo, ha alimentato alcuni fraintendimenti, malintesi che hanno ostacolato la possibilità di fornire una definizione esaustiva di questi concetti. Lo stesso Jung era consapevole della confusione generata da questo tipo di formulazioni, al punto che nel 1936, in occasione di una conferenza sul concetto di "inconscio collettivo", affermava:

Probabilmente nessuno dei miei concetti empirici ha incontrato tanta incomprensione quanto l’idea di inconscio collettivo (1936, 43).

Volendo ora cercare di comprendere quali siano le caratteristiche distintive tra i due tipi di inconscio descritti da Jung, diremo anzitutto che – secondo Jung – l’inconscio collettivo "non si sviluppa individualmente, ma è ereditato" (ibid., 44). Sebbene queste parole potrebbero indurci a ipotizzare l’esistenza di una componente ereditaria dell’inconscio, in realtà occorre fare molta attenzione per non incorrere in quello che sarebbe un gravissimo errore. Il tema dell’inconscio collettivo infatti, costituisce senza dubbio il nodo più problematico della teoria junghiana, il suo ’tallone d’Achille’. Partendo quindi dal presupposto che non sia "l’ereditarietà" la componente più peculiare dell’inconscio collettivo, diremo che il più importante elemento

discriminatore è dato dai diversi "contenuti" che popolano i due regni inconsci. Da questo punto di vista, Jung è molto chiaro:

Mentre l’inconscio personale è formato essenzialmente da contenuti che sono stati un tempo consci, ma sono poi scomparsi dalla coscienza perché dimenticati o rimossi, i contenuti dell’inconscio collettivo non sono mai stati nella coscienza e perciò non sono mai stati acquisiti individualmente, ma devono la loro esistenza esclusivamente all’ereditarietà. L’inconscio personale consiste soprattutto in ’complessi’; il contenuto dell’inconscio collettivo, invece, è formato essenzialmente da ’archetipi’ (ibidem).

Queste parole ci inducono a osservare come Jung, attraverso il concetto "inconscio collettivo", abbia introdotto l’ipotesi che la parte inconscia della nostra psiche non sia popolata solo da elementi per così dire ’personali’, individuali, appartenenti al singolo in modo esclusivo ma, al contempo, da elementi "impersonali", appunto "collettivi". Il termine scelto da Jung per identificare i contenuti dell’inconscio collettivo è – come abbiamo detto – "archetipo". Di esso e delle sue tante sfaccettature, è possibile rinvenire una trattazione esaustiva nel Dizionario junghiano di Pieri (1998) e nel Trattato di Psicologia Analitica da me curato e diretto (1992). Il concetto di archetipo, nell’ambito dell’accezione junghiana, ha vissuto diverse trasformazioni che, di volta in volta, ne hanno messo in evidenza alcuni dei tanti volti che lo caratterizzano. Anzitutto, occorre ricordare che secondo Jung vi sarebbero "buone ragioni per supporre che gli archetipi siano le immagini inconsce degli istinti stessi; in altre parole, che essi siano modelli di comportamento istintuale" (Jung 1936, 44). Questo tipo di definizione degli archetipi si rivela di

particolare interesse, giacché propone l’ipotesi di una profonda affinità tra gli istinti e gli archetipi. Sebbene aperta a dubbi e perplessità, si tratta comunque di un’idea interessante anzitutto perché – tra le righe – attribuisce agli archetipi alcune importanti funzioni. Ipotizzare infatti una similarità tra istinti e archetipi, significa conferire a questi ultimi l’identità di "strumento di sopravvivenza del più adatto" (Carotenuto 1978, 65). Alla luce di ciò, potremmo considerare gli archetipi come dimensioni psichiche originarie, universali, le cui radici possono essere fatte risalire all’origine stessa dell’uomo. Nell’accezione di immagine universale, appartenente quindi all’umanità intera e non al singolo individuo, l’archetipo diviene l’anello di congiunzione mancante tra coscienza e inconscio. Popolando infatti il livello più basso della psiche, l’archetipo è espressione di immagini universali che attendono di essere lette, interpretate, tradotte e che, spesso, si manifestano alla nostra coscienza. Il linguaggio simbolico dei sogni, a esempio, rappresenta uno dei canali espressivi prediletti dall’inconscio e, di conseguenza, il nostro principale strumento di contatto con le immagini universali che lo popolano. Come ho già avuto modo di osservare,

possiamo considerare l’archetipo una risposta potenziale ad un determinato problema della vita umana. [...] L’archetipo è [...] da considerarsi ’potenziale’, perché non può mai essere direttamente sperimentato, conosciuto per quel che è, ma può soltanto essere intuito attraverso il veicolo di un simbolo (ibid., 16).

Per Jung dunque, il simbolismo è molto importante, giacché in virtù di esso non solo è possibile interpretare i sogni ma,

soprattutto, condurre anche altri tipi di indagine. Volendo ora sintetizzare alcuni dei tanti volti che l’archetipo presenta, propongo di considerare tre distinte funzioni del concetto di archetipo che si riferiscono ai diversi momenti della sua evoluzione:

a) l’archetipo è un modello di comportamento; b) l’archetipo è un mediatore tra conscio e inconscio; c) l’archetipo è un ordinatore di immagini e rappresentazioni. Il modello di comportamento illumina, per così dire, l’aspetto biologico dell’archetipo. [...] La mediazione dell’archetipo è il momento veramente dialettico del contrasto dal quale, secondo Jung, nasce un nuovo tipo di personalità, mentre il terzo momento, l’archetipo come ordinatore, esprime la possibilità che qualsiasi elemento immaginifico [...] assuma, sotto il coordinamento dell’archetipo, quei valori necessari alla personalità in cerca di un nuovo equilibrio (ibid., 67).

Trascurando per ora il primo momento – del quale abbiamo già avuto modo di parlare – ci soffermeremo sugli altri, anzitutto perché essi rappresentano, seppure in linea metaforica e ipotetica, due importanti passaggi per ogni terapia psicologica. L’archetipo come mediatore tra conscio e inconscio, rimanda all’idea di un processo dialettico determinante per lo sviluppo dell’individuo. Senza l’indispensabile mediazione dell’archetipo, la personalità dell’individuo rischierebbe di sclerotizzarsi e di non raggiungere mai la sospirata meta della totalità. Solo dal contrasto tra conscio e inconscio, infatti, può

scaturire una nuova personalità, ma per non scadere in uno sterile bisticcio, il contrasto deve essere mediato. Sono i mutamenti dei nostri stati di coscienza che, secondo Jung, possono attivare determinati archetipi e anche per questa ragione possiamo affermare che il tema della trasformazione psicologica è molto legato a quello degli archetipi. Sebbene in questo senso l’archetipo assolva un compito importante, un altro aspetto di rilievo è dato dalla sua funzione di "ordinatore di immagini e rappresentazioni". Poter attribuire un senso e una finalità alle rappresentazioni che popolano la nostra mente, potrebbe davvero comportare un felice connubio tra noi e il nostro equilibrio. Ma il condizionale è d’obbligo, soprattutto se pensiamo che questa funzione dovrebbe essere svolta dall’archetipo, ossia da un "ordinatore di immagini" la cui identità non è del tutto chiara. Questi problemi sono stati approfonditi anche da Mario Trevi anche perché a essi e ai due tipi di inconscio poco fa menzionati si collegano due distinte "fasi della terapia". Jung era infatti del parere che nell’ambito del processo analitico, la fase iniziale fosse caratterizzata dal riconoscimento e dall’elaborazione dei ricordi personali, mentre la fase successiva da

fantasie che non risalgono più a ricordi personali [...], manifestazioni dello strato più profondo dell’inconscio, quello in cui giacciono assopite le immagini primordiali comuni a tutta l’umanità. A queste immagini o motivi ho dato il nome di archètipi (Jung 1917/1943, 66-67).

Gli archetipi dunque vanno intesi come immagini legate all’inconscio collettivo e, pertanto, sempre esistite, presenti e ricorrenti in tutte le culture. Secondo la concezione dell’archetipo, alla quale Jung

perviene, il simbolo può essere considerato come una manifestazione parziale dell’archetipo stesso. Al simbolo Jung ha sempre attribuito un grande valore cercando, nei Tipi psicologici, di metterne in luce i numerosi aspetti che lo contraddistinguono:

A mio modo di vedere il concetto di simbolo va rigorosamente distinto dal concetto di mero segno. Significato simbolico e significato semiotico sono cose completamente diverse. [...] Che una cosa sia un simbolo o no dipende anzitutto dall’atteggiamento della coscienza che osserva [...]. Bensì un simbolo può dirsi vivo solo quando è, anche per chi osserva, l’espressione migliore e più alta possibile di qualcosa di presentito e non ancora conosciuto. [...] Il simbolo vivo è la formulazione di un aspetto essenziale dell’inconscio (Jung 1921, 483-487).

Le parole di Jung ci inducono a osservare che il simbolo diviene "significativo" in relazione alla persona che lo genera, che lo alimenta, ed è pertanto, "disvelatore" dei contenuti meno evidenti di essa. I sogni, infatti, che di contenuti simbolici si nutrono, costituiscono proprio l’ambito espressivo privilegiato dell’inconscio. Ai fini della comprensione del modo in cui i sogni "mettono in scena" contenuti inconsci, sarebbe opportuno introdurre il concetto di Ombra. L’Ombra è un archetipo, in particolare l’archetipo che, secondo Jung, si manifesta prima degli altri nell’ambito della terapia. L’Ombra è intesa, nella accezione junghiana, come la parte più negativa – e perciò negata – della nostra personalità, una miscela esplosiva costituita dalle nostre caratteristiche più sgradevoli, non solo ’impresentabili’ ma inaccettabili, e perciò "rimosse". L’Ombra è caratterizzata da elementi che spesso entrano in

contrasto con le nostre caratteristiche più evidenti, condivise dalla società, accettate con entusiasmo e spesso causa dell’ammirazione degli altri nei nostri confronti. Jung tende a sottolineare il contrasto fra queste due opposte polarità, costituite l’una dall’Ombra e l’altra da ciò che egli chiama Persona. Ne L’Io e l’inconscio, Jung espone con chiarezza il suo punto di vista riguardo la Persona e le implicazioni ad essa correlate. La Persona corrisponde al ruolo che vestiamo nella società, all’immagine che offriamo agli altri, alla "maschera" che indossiamo per affrontare il mondo. Jung osserva come il termine "Persona", da lui scelto per riferirsi a questo tipo di caratteristiche, sia

veramente appropriato, giacché originariamente Persona era la maschera che portava l’attore e che indicava la parte da lui rappresentata. [...] Tutto sommato, la Persona non è nulla di ’reale’. È un compromesso fra l’individuo e la società su ’ciò che uno appare’. [...] La Persona è un’apparenza, una realtà bidimensionale, come la si potrebbe definire (Jung 1928a, 155-156).

Ma in che senso la Persona "non è nulla di reale"? Nel senso che ciò che appare cela sempre una verità "altra". Infatti, il ruolo che ci spetta nella società, il titolo che abbiamo conquistato, il lavoro che svolgiamo, altro non sono che meri frammenti della nostra più autentica verità. La Persona è la corazza che ci permette di affrontare il mondo, l’abito che indossiamo per apparire come in verità non siamo e che – purtroppo – mortifica le nostre vere sembianze. La Persona traveste, trasfigura la nostra autenticità ingannando il collettivo, inducendolo a ritenerci caratterizzati da aspetti che

forse non sono che la minima parte di noi stessi. Un vantaggio? Non è detto. Se infatti è indiscutibile che il ruolo che svolgiamo nella società ci consente di conquistare uno spazio nel mondo, "un posto al sole", e "connotarci" rispetto al collettivo, è però innegabile che la Persona nasconde una serie di insidie nelle quali è facile cadere. Il rischio maggiore è quello della identificazione con la Persona, una dinamica per la quale ci si rende conto di essere prigionieri di un ruolo così efficace nelle sue funzioni da non poter essere più abbandonato. Ecco professionisti e lavoratori che "sentono di essere ciò che fanno", ecco uomini confusi, storditi dalle loro mansioni al punto di non saper più divincolarsi dagli atteggiamenti, dal linguaggio e persino dal modo di pensare tipico del posto da essi occupato nella società. Jung dirà:

La Persona è un complicato sistema di relazioni fra la coscienza individuale e la società, una specie di maschera che serve da un lato a fare una determinata impressione sugli altri; dall’altro a nascondere la vera natura dell’individuo. Che quest’ultima funzione sia superflua può affermarlo soltanto chi è identico alla sua Persona da non conoscere più se stesso [...]. La costruzione di una persona collettivamente conveniente è una grave concessione al mondo esteriore, un vero sacrificio di sé, che costringe l’Io a identificarsi addirittura con la Persona, tanto che c’è della gente che crede sul serio di essere ciò che rappresenta (ibid., 191-192).

Giunti a questo punto, possiamo ora prendere in considerazione un altro concetto che ha grande rilevanza nella formulazione di Jung e che, come vedremo, è molto legato al

tema degli archetipi. Ci stiamo riferendo al concetto di "anima", al quale Jung dedica numerose pagine. In linea generale, per non creare fraintendimenti di alcun tipo, diremo che Jung utilizza il termine "anima" secondo due distinte accezioni. La prima – più semplice e lineare – considera "l’anima" come tutto ciò che costituisce il mondo interiore dell’essere umano, ciò che non appare e che - a differenza della Persona – costituisce la parte più autentica dell’individuo, più profonda:

Io designo con il termine Persona l’atteggiamento verso l’esterno, il carattere esteriore; con il termine anima l’atteggiamento verso l’interno. [...] Per quanto concerne il carattere dell’anima, vale, secondo la mia esperienza, il principio generale secondo il quale essa, nel suo complesso, è complementare al carattere esteriore. [...] l’anima suole contenere tutte le qualità genericamente umane che fanno difetto all’atteggiamento cosciente (Jung 1921, 419-420).

Queste parole di Jung ci permettono di comprendere che l’anima si riferisce al cosiddetto "atteggiamento interiore", ossia all’atteggiamento che il soggetto assume nei confronti del proprio mondo interno. Nella seconda accezione, il termine Anima – che troveremo questa volta scritto con la lettera maiuscola – diviene più complesso, più articolato, e per questa ragione dedicheremo a esso maggior spazio. Nei Tipi psicologici (1921) Jung impiega l’espressione "immagine dell’anima" per riferirsi alla possibilità dell’inconscio di rappresentare l’atteggiamento interno di un individuo. Questo tipo di rappresentazione prende vita soprattutto nel sogno, ma anche attraverso l’immaginazione attiva. Il binomio Anima-Animus, viene utilizzato da Jung per

denominare l’immagine dell’anima del maschile e del femminile:

il femminino fa parte dell’uomo, costituendo la sua femminilità inconscia alla quale io ho dato il nome di Anima (Jung, 1912/1952, 425).

E ancora:

se per l’uomo parliamo di un’Anima, dovremmo a rigore parlare per la donna di un Animus (ibid., 421).

Appare dunque chiaro che Jung parla di Anima e Animus per designare la femminilità inconscia dell’uomo, e la mascolinità inconscia della donna. "Anima e Animus" sono le nostre immagini interne eterosessuali, alimentate e plasmate dal rapporto con il padre e la madre: l’Anima è l’immagine femminile che alberga nell’interiorità di ogni uomo, l’Animus invece si riferisce all’immagine del maschile interiorizzata da ogni donna. Queste dimensioni occupano, come vedremo, un posto importante nell’ambito delle dinamiche relazionali. Al fianco dell’ipotesi archetipica circa l’origine dell’Anima, Jung pone un’altra ipotesi secondo la quale esisterebbe un ’focus’ originario di tipo biologico sia per l’Anima che per l’Animus:

L’anima è probabilmente una manifestazione psichica di quella minoranza di geni femminili che ha sede in un corpo maschile. Ciò è tanto più probabile in quanto fra le immagini dell’inconscio femminile non si trova la medesima figura. Vi si trova tuttavia una figura corrispondente, che ha una funzione equivalente, pur non essendo l’immagine di una donna bensì quella di un uomo (Jung, 1938/40, 39-40).

Quelle riguardanti l’Anima e l’Animus sono senza dubbio tematiche fondamentali nell’ambito della psicologia analitica, poiché da esse scaturisce una serie di importanti implicazioni per lo sviluppo della personalità e per le relazioni interpersonali. Per quanto concerne le caratteristiche "archetipiche" dell’anima, diremo che esse si manifestano anzitutto attraverso i sogni: la fenomenologia onirica infatti offre diverse opportunità di entrare in contatto con l’anima. Ciò significa che nei sogni le personificazioni d’anima appaiono con soddisfacente chiarezza, permettendo così – ad esempio – di comprendere quali caratteristiche possieda l’Anima di un paziente. Strumento validissimo per la terapia, l’interpretazione dei sogni consente di analizzare le principali immagini archetipiche, siano esse persecutorie, angoscianti o rassicuranti. Queste immagini vengono alimentate dall’inconscio del sognatore e ne disvelano gli aspetti più oscuri, le problematiche più assillanti, le dinamiche più singolari. Si può a questo punto intuire la necessità – sia per l’uomo che per la donna – di integrare la propria alterità per giungere alla completezza del senso di identità, al Sé. L’Animus per la donna e l’Anima per l’uomo divengono allora i tasselli indispensabili per rendere completo il grande mosaico della

personalità. Occorre inoltre non dimenticare che qualora l’Anima e l’Animus non venissero integrati, potrebbero trasformarsi in elementi disgreganti nei confronti dell’equilibrio psichico. Un aspetto da non trascurare dunque, riguarda la possibilità che l’individuo riesca a integrare l’immagine della propria anima. L’immagine dell’anima infatti, può essere cosciente oppure rimanere del tutto inconscia. Il primo caso è senza dubbio il più auspicabile, perché l’individuo consapevole della propria immagine d’anima ha una maggiore e migliore possibilità di rapporto con se stesso e con gli altri. Una buona capacità distintiva nei confronti dei diversi aspetti del proprio mondo interno infatti, permette all’individuo di intessere relazioni più soddisfacenti con il mondo esterno. È come se l’osmosi tra coscienza e inconscio venisse incrementata e agevolata in proporzione al grado di consapevolezza raggiunto dal soggetto. D’altro canto però, come sempre accade, anche in questo caso dovremmo considerare il "rovescio della medaglia". Se infatti il soggetto non fosse consapevole dell’immagine dell’anima e questa fosse quindi ’inconscia’, il soggetto si troverebbe in guai piuttosto seri. Quando l’immagine dell’anima è inconscia, il soggetto non riesce ad adattarsi al mondo né tanto meno a se stesso, rimanendo prigioniero di quella che Jung definisce "identificazione con l’anima":

Casi siffatti riguardano sempre individui con adattamento esterno difettoso e caratterizzati da una relativa mancanza di rapporti, dato che l’identificazione con l’anima produce un atteggiamento che si orienta prevalentemente sulla base della percezione dei processi interni, così che vien tolta all’oggetto la possibilità di esercitare un’influenza determinante (Jung 1921, 458).

Un’altra riflessione riguarda il caso opposto all’identificazione con l’anima. Stiamo parlando della "proiezione dell’immagine dell’anima", un meccanismo per il quale il soggetto proietta su una persona di sesso opposto la propria immagine d’anima. In seguito a ciò, l’individuo verso il quale la proiezione è rivolta, diverrà portatore dell’immagine d’anima dell’altro. Quando questa dinamica prende atto, la vita relazionale del soggetto risulta piuttosto compromessa. Ciò significa che proiettando la propria immagine d’anima su un altra persona, il soggetto non avrà più la possibilità di entrare in contatto con quella persona in quanto tale, ma solo con una parte del proprio Sé. Ciò che di questa dinamica appare interessante, è il fatto che essa non è mai casuale ma, per lo più, frutto di una inconscia "selezione interiore". Se infatti partiamo dal presupposto che il destinatario della proiezione è uno specifico essere umano, possiamo intuire che la persona "scelta" per proiettare l’anima ben si presta a questa funzione. Volendo riassumere ed estremizzare le due possibilità di "gestione" dell’immagine d’anima, possiamo ricorrere alle parole di Jung:

Se l’immagine dell’anima viene proiettata, subentra un legame affettivo incondizionato con l’oggetto. Se essa non viene proiettata, ha origine uno stato contraddistinto da una mancanza relativa di adattamento che Freud ha in parte descritto come narcisismo (ibid., 458).

Giunti a questo punto, è il caso di soffermarci su quell’importante aspetto che avevamo introdotto ma lasciato in sospeso: la relazionalità. Jung infatti non solo considera l’Anima e l’Animus da un punto di vista archetipico ma, scorgendo all’origine di queste

immagini il rapporto con le figure genitoriali, enfatizza anche il loro substrato relazionale. Ciò permette di comprendere come mai il disvelamento di questa istanza bipolare favorisca l’analisi delle motivazioni sottese alla scelta del partner e alle scelte oggettuali in genere. I rapporti, le relazioni, vengono infatti sempre interiorizzate sotto forma di immagini, costellate da una serie di sentimenti, positivi o negativi. Nel momento in cui sentiamo di essere attratti da una certa persona piuttosto che da un’altra, ciò avviene perché essa è in grado di sollecitare la nostra problematica d’Anima o d’Animus, fornendoci al contempo una risposta psicologica soddisfacente. Al di là della relazione amorosa, comunque, un altro tipo di rapporto che favorisce l’affiorare in superficie dei contenuti di Anima e Animus è senza dubbio quello analista-paziente. La relazione analitica infatti, soprattutto in virtù delle dinamiche transferali e delle intense emozioni che in essa prendono corpo, favorisce l’espressione delle problematiche inerenti le immagini di Anima o di Animus del paziente, problematiche che, in maniera quasi coatta, si ripresentano nell’esistenza del paziente costellando la sua vita relazionale. Il lavoro di Jung ci ha quindi permesso di capire che ogni legame sentimentale è in realtà non la mera unione di due individui, bensì il frutto di un complesso intreccio di quattro immagini: da una parte vi sono l’uomo e la donna che vivono la relazione, dall’altra il femminile e il maschile che albergano nell’interiorità di ognuno di loro. L’evoluzione di queste dinamiche è al centro del lavoro analitico. La psicoanalisi, con Jung, ha quindi cessato di rivolgersi al passato, cominciando così a occuparsi dello sviluppo del paziente, del suo futuro. Rimane comunque innegabile che aprire una finestra sul passato significa gettare luce su molte ragioni della sofferenza umana, ricercarne le cause, svelarne i significati. D’altra parte se ancor oggi leggiamo Platone è perché i nostri interrogativi ripercorrono solchi antichi, determinanti universali del sentire umano, che rappresentano, oltre la variabilità soggettiva che abbiamo sottolineato, la comune

radice del nostro ’essere nel mondo’. La psicoanalisi da sempre cerca di rispondere a questi interrogativi, e ritengo che questo aspetto rimarrà immutato per moltissimo tempo. Infatti, fin tanto che l’oggetto di studio della psicoanalisi non muterà – e ritengo che ciò sia per lo meno improbabile – non cambieranno gli interrogativi della psicoanalisi. Questa peculiare ’forma d’arte’, infatti, si occupa dell’anima umana e di quanto di misterioso, inquietante o seducente vi abita. È sempre stato così e, forse, proprio a questa singolare capacità introspettiva e chiarificatrice che la psicoanalisi possiede dovremmo imputare la causa di gran parte delle critiche che le sono state rivolte e che, ad esempio, le hanno impedito di svilupparsi nel nostro Paese. Sebbene infatti Musatti sia del parere che "senza che noi [...] ce ne avvedessimo, la psicoanalisi, per vie del tutto indirette, è penetrata in misura notevole nella cultura italiana" (1966, VIII), Marco Conci ci ricorda che furono numerosi "gli ostacoli – e le forme di resistenza – alla recezione delle idee e della pratica clinica di Freud" (1997, 65). Sempre secondo Conci, potrebbero essere suddivise in quattro grandi categorie gli ostacoli che hanno reso complessa e articolata la recezione italiana del pensiero di Freud: "l’orientamento organicista, la Chiesa Cattolica, la scuola crociana e il regime fascista" (ibid., 68). Per queste ragioni, secondo Conci non dovrebbe "meravigliare il fatto che soltanto nel 1925, al XVII Congresso della Società Freniatrica Italiana riunito a Trieste poté avere luogo il primo dibattito ufficiale sulla psicoanalisi in ambito psichiatrico, dibattito centrato attorno allo stimolante contributo di Weiss su ’Psichiatria e psicoanalisi’" (ibid., 65). A tal proposito appaiono interessanti le parole di Michel David che, "rievocando l’atmosfera dei primi congressi di freniatria italiana del primo dopoguerra" (ibid., 165), racconta:

Ma la seconda giornata vide il momentaneo trionfo di Freud. Il 25 settembre alle nove, Edoardo Weiss,

triestino, lesse il suo rapporto su ’Psichiatria e psicoanalisi’. Si tratta indubbiamente di un bel testo, di stile efficace e di robusta dialettica, in cui si avverte nettissima l’eco dello stile di Freud. [...] Dopo una rapida esposizione delle tesi centrali di Freud, Weiss, sempre molto prudente (si scusava di non citare casi pratici per non urtare) e trincerandosi dietro ai suoi lunghi anni di pratica, [...] apriva prospettive ottimistiche sull’avvenire della sua disciplina: ’La psicoanalisi offre alla psichiatria una base psicologica che prima le mancava [...]. La psicoanalisi illumina il rapporto reciproco tra individuo e società e studia le malattie mentali anche sotto questo punto di vista. Infine la psicoanalisi non considera la malattia mentale come un quid di intruso nel soggetto, ma piuttosto come una parte viva della personalità stessa, la quale si trova in stato di continuo svolgimento (David 1966, 166-167).

A Weiss quindi non solo dobbiamo riconoscere il merito di aver saputo accettare l’arduo incarico di tentare una previsione e valutazione in merito alla prassi psicoanalitica, ma anche "il merito della traduzione delle Lezioni introduttive alla psicoanalisi – che aveva seguito a Vienna – pubblicate nel 1921" (Conci 1997, 64). Interessante poi appare il pensiero di Weiss in merito alla facoltà della psicoanalisi di "illuminare il rapporto tra individuo e società". Nicola Perrotti infatti, discepolo di Weiss, appare della stessa opinione, rivelandosi un attento ed esigente studioso "delle forme sociali della vita umana e delle applicazioni della psicoanalisi a queste. Perfino le sue analisi della moda, dello sport, della civetteria, del matrimonio, dell’amore sono aliene da considerazioni puramente individuali" (David 1966, 206). Anche Servadio assorbirà e metabolizzerà il pensiero di Weiss, e proprio l’influenza di quest’ultimo "farà di Servadio un assertore

convinto e ortodosso della dottrina di Freud e uno psicoanalista di professione. [...] Se Weiss e Merloni tentavano qualche volgarizzazione in riviste di giurisprudenza, se Perrotti divulgava Freud su una rivista di cultura a sfondo politicosociale, Servadio – giurista di formazione – sembra essersi volentieri prestato alla diffusione dei concetti della psicoanalisi dell’arte su periodici di letteratura militante" (ibid., 208). Il contributo di questi grandi pionieri e ’divulgatori’ della psicoanalisi nel nostro Paese, dunque, si è esplicato a più livelli e secondo differenti modalità, ma oggi ognuno di noi può constatare che essi sono riusciti a raggiungere l’obiettivo prefissato: diffondere anche in Italia i valori, i presupposti, gli intenti della psicoanalisi. Ancora oggi però non è semplice stabilire una volta per tutte quali siano gli intenti della psicoanalisi. Forse al ’relativismo psicologico’ cui abbiamo accennato, potrebbe essere imputato di rendere l’oggetto della psicoanalisi sfuggente, indecifrabile; tuttavia su un aspetto si potrà esprimere giudizi unanimi: la psicoanalisi si occupa dell’imprevedibile, dell’irripetibile, di ciò che appare ’assurdo’ ma che in realtà – come abbiamo tentato di dimostrare – non lo è affatto. Il relativismo psicologico nega la possibilità, per la ragione umana, di giungere alla scoperta di una verità oggettiva e universale, valida in ogni tempo e in ogni luogo. Ciò non significa affatto scadere in una squallida forma di scetticismo e pessimismo psicologico – come invece Gorgia non esiterebbe a sostenere. Il relativismo psicologico esalta invece l’idea sostenuta verso la metà del Quinto secolo a.C. da Protagora, secondo la quale "l’uomo è misura di tutte le cose". Ebbene, è proprio alla luce di questa preziosa massima che la psicoanalisi cerca di rispondere alla grande domanda di sempre: "che senso ha la vita?". Se l’uomo è davvero "misura di tutte le cose", allora sarà possibile rispondere a questa domanda in un unico modo, poiché il senso della vita sarà relativo al singolo individuo, al suo passato, al suo vissuto, alle sue aspettative nei riguardi del futuro. Ognuno di noi, quindi, darà una risposta, relativa al proprio modo di essere e al proprio mondo interiore; per rispondere

però occorre prima trovare il coraggio di vivere. Non ci resta che domandarci ancora una volta quale sia l’intento della psicoanalisi, in che modo questa singolare forma d’arte possa accompagnarci lungo il cammino dell’esistenza. Nel tentativo di offrire un quadro descrittivo di ciò che intendiamo con il concetto di personalità, ne abbiamo enfatizzato l’aspetto dinamico e la matrice relazionale. Abbiamo quindi cercato di comprendere in che modo la psicoanalisi si ponga dinanzi a questo concetto, quale sia rispetto per esso – ma non solo – la sua funzione, quali siano di riflesso le aspettative che dovremmo nutrire nei confronti della prassi analitica. Infine, abbiamo dato rilievo alla plasticità della psiche di contro alla fissità del dato biologico. Giunti a questo punto, si rivelano necessarie alcune considerazioni: l’opera e il pensiero freudiani hanno permesso la nascita della psicoanalisi e questo rimane, al di là delle tante critiche, un dato di fatto. Sono molti gli aspetti sui quali ancora oggi potremmo discutere per cercare di valutare gli effetti della teoria freudiana sul panorama culturale psicoanalitico moderno. Possiamo, per esempio, ricordare certe interessanti considerazioni di Gardner Murphy in merito alla "influenza di Freud sulle varie branche della psicologia moderna". Murphy, riferendosi a differenti aree di applicazione della psicologia, impiegando una particolare scala valutativa, cercò di "quantificare" la differente influenza del pensiero freudiano su di esse. Utilizzando cifre variabili da zero (pari a "nessuna influenza") a sei (pari a un’influenza "molto grande"), Murphy riuscì a offrire un’idea valida dell’influenza di Freud su varie branche della psicologia come la psicologia fisiologica, la psicologia dell’apprendimento, della percezione, dell’infanzia, dell’adolescenza, e come la psicologia della personalità, per citarne solo alcune (Murphy 1957, 126-127). Insegnando "Psicologia della personalità", non posso fare a meno di osservare che il punteggio attribuito da Murphy a questa branca della psicologia è proprio un sei, ossia il massimo. Al di là delle valutazioni individuali e degli "indici di gradimento", mi sembra corretto dare la parola, su questo

tema, anche allo stesso Freud:

Possiamo quindi formulare l’aspettativa che la psicoanalisi, [...] penetri come fermento significativo nello sviluppo civile dei prossimi decenni e ci aiuti ad approfondire la nostra comprensione del mondo e a lottare contro gli aspetti dell’esistenza che ci appaiono nefasti. Non si dimentichi però che la psicoanalisi da sola non è in grado di fornire un’immagine compiuta del mondo (Freud 1923, 604-605).

Come abbiamo visto, le implicazioni e ripercussioni della prospettiva teorica freudiana sulla psicoanalisi moderna, non solo sono state molteplici ma anche "riverberanti", ossia in grado di far giungere la loro eco fino ai giorni nostri, interessando quasi ogni aspetto dell’esistenza, colmando la maggior parte dei tanti buchi neri che ancora oggi costellano l’universo-uomo. Ma sarebbe ingiusto non ricordare che l’approccio junghiano ha privilegiato un orientamento prospettico evolutivo rispetto al taglio freudiano, senz’altro più deterministico. Questa è una distinzione importante, perché la prospettiva junghiana non coglie solo il valore del passato personale, ma "apre al futuro". La plasticità della psiche ci mette al riparo da ogni costrizione deterministica, come anche da un certo atteggiamento irresponsabile spesso nascosto dietro il fatalismo. Il passato costituisce la nostra radice, ma non decide del nostro futuro. Via via che diventiamo più consapevoli di noi stessi, dei correlati simbolici di ogni gesto quotidiano, conquistiamo margini crescenti di autodeterminazione rispetto all’ambiente, libertà personale nello scegliere i percorsi più congeniali. Il positivo messaggio espresso da questa posizione è che non siamo costretti ad accettare la schiavitù, perché ci si può

impegnare affinché l’esile voce dell’interiorità riceva ascolto. Tale assunzione di responsabilità è il solo modo per conferire un significato individuale alla vita. Ogni evento, anche il più insignificante, diventa pertanto un incentivo a comprendere cosa esso abbia rappresentato per la nostra esistenza, in che modo vi si inserisca, come ne orienti la direzione. Il percorso che conduce alla individualità richiede il sacrificio dei riferimenti comuni, la rinuncia all’identità collettiva, alla maschera che portiamo nei rapporti sociali. Solo da questa morte simbolica possono germogliare desideri autentici, e si può ritrovare l’eros come coesione, all’interno del Sé, di passato, presente e futuro, e come unione con l’esterno, verso il mondo e gli altri. Le radici della psicoanalisi affondano nel mito romantico del ritorno alle origini, dell’esaltazione del passato. Ma riconoscere certe situazioni del nostro passato piene di sofferenza e di amarezza non deve trattenerci o indurci a fuggire. La conoscenza deve poter essere utile nel senso che il nostro passato, qualunque ne sia l’origine, ci riguarda solo come un insieme di dati di cui tener conto. Il passato restituisce continuità al presente e il futuro ne apre il senso, scardina la coazione a ripetere, trasforma situazioni che sembrerebbero immodificabili. Come un leit motiv, un personale "ricorso storico", ci ritroviamo irretiti nelle stesse dinamiche affettive, come se il tempo non le avesse nemmeno scalfite, come se fossero più forti di noi. E tuttavia, la trasformazione è possibile, e sta in un gesto di fiducia. Provare a disporsi in modo nuovo dinanzi a un tema antico, verificare nuove strategie di risoluzione. La vita non trascorre invano, e spesso dobbiamo attendere l’occasione che riaccende un dolore per scoprire in noi nuove risorse, per sorprenderci diversi da quelli che pensavamo di essere. La storia della psicoanalisi ci esorta a comprendere il significato e il valore del percorso individuale, a non arrestarci dinanzi agli ostacoli e a continuare la ricerca, l’antica ricerca, di noi stessi. Nel far questo però la psicoanalisi non pretende – né desidera – offrirci assiomi matematici, soluzioni costanti di

"corrette ipotesi di partenza". Il destino di ognuno di noi è quello del cammino, di un percorso più o meno lungo del quale non ci è dato di conoscere la meta finale. Ciò che però ci è dato, ciò che la psicoanalisi intende esaltare, è l’idea della possibilità del cambiamento, di una trasformazione imprevedibile. Del resto non può che essere così; la psicoanalisi è arte, e l’arte è creativa, e la creatività non è quantificabile, controllabile, garantita. Durante questa nostra crociera nei mari della psicoanalisi, più volte abbiamo incrociato le rotte delle discipline scientifiche, dalla biologia alla genetica, dalla neurologia alla medicina; bene, da questi incontri più o meno fugaci non ho potuto che veder confermato un mio antico sospetto: in effetti la prevedibilità, la riproducibilità in laboratorio e la garanzia dei risultati, non si confanno alla psicoanalisi. Si dirà: ma anche nelle scienze fisiche, considerate per eccellenza "scienze esatte", ci sono teorie che sembrano non rispettare certi parametri epistemologici, per esempio quello della ’riproducibilità’. Vedi in astrofisica la teoria del Big-bang, e in biologia l’evoluzionismo. Nessuno proverà a rifare la creazione dell’universo, come nessuno chiederà a un biologo di verificare in laboratorio un processo evolutivo che ha richiesto alla natura milioni di anni. Giusto; però al di là – o meglio, al di qua – della riproducibilità dell’"esperimento", in ambedue questi casilimite ci sono ’dati osservabili’ che confermano l’ipotesi di partenza. Gli astrofisici misurano la velocità di espansione delle galassie più remote; gli evoluzionisti cercano e trovano prove inoppugnabili nella paleontologia – fossili di specie scomparse, per esempio, ma non solo – e nell’embriologia, grazie alle simmetrie tra ontogenesi e filogenesi. E poi c’è il ’metodo deduttivo’, sul quale la psicoanalisi non può fare troppo assegnamento (anche se qualche volta lo fa), mentre le "scienze della natura" gli affidano volentieri il timone della ricerca teorica, così come alla matematica. Proprio a proposito dell’evoluzione, Daniel Dennett, nel suo L’idea pericolosa di Darwin (1995), propone di intendere "la selezione naturale

come processo algoritmico" (58-74), affermando che Darwin "presenta il suo principio come deducibile in base a un ragionamento formale – se le condizioni sono soddisfatte, è garantito un certo risultato" (ibid., 58):

Il ragionamento deduttivo di base è breve, ma Darwin stesso descrisse L’origine della specie come «un lungo ragionamento». Il motivo è che consiste di due dimostrazioni di genere diverso: la dimostrazione logica che un certo genere di processo ha necessariamente un certo genere di risultato e la dimostrazione empirica che le condizioni necessarie a quel genere di processo si sono effettivamente realizzate in natura (ibid., 5859).

In attesa che qualche Dennett riesca a legittimare con argomenti di questo tipo anche la psicoanalisi, mi sono assuefatto all’idea di non essere un uomo di scienza: purtroppo (stavo per scrivere "per fortuna") non c’è una teoria psicoanalitica che come quella darwiniana possa essere considerata un "ragionamento formale" o un "processo algoritmico"; più che un "lungo ragionamento", la teoria psicoanalitica è un lungo diverbio, anzi un infuocato dibattito, un ’talk show’ senza nemmeno l’ombra di un ’moderatore’. Rassegnamoci. E così siamo arrivati alla fine della nostra breve storia della psicoanalisi. Breve davvero, più breve – per tornare ancora a Darwin – di quella dell’evoluzionismo (senza arrivare a rifarsi ad Anassimandro ed Empedocle, è giusto risalire almeno al settecentesco conte Buffon e al suo coevo Erasmo Darwin, nonno di Charles). La psicologia del profondo ha sì e no un secolo di vita, e se vogliamo proprio evocare un coetaneo, citerei semmai il cinema, per sottolineare che siamo in

presenza di un fatto culturale di indubbia modernità. Ha "poco passato", la psicoanalisi; eppure c’è già chi si chiede se abbia un futuro. È un po’ come chiedersi se c’è un futuro per l’Homo Sapiens Sapiens, magari con qualche ’Sapiens’ in più. Ma io non sarei pessimista: finché ci sarà un inconscio da indagare... Non dico "finché esisterà la nevrosi", perché quella può anche darsi che riesca a debellarla la farmacologia, come vaticinano i futurologi; però le pillole non fanno luce nell’inconscio. Aggiungo, per inciso, che io non credo nemmeno che la "terapia della parola" abbia i giorni o i decenni contati per la speciosa ragione che la parola avrebbe ormai perso il suo primato nella comunicazione, a vantaggio dell’immagine. Speciosa ragione, e diagnosi quanto meno discutibile: lo strepitoso successo dei telefoni "cellulari" ci dice che la gente, anche se non ha niente da dirsi, non vuole interrompere la comunicazione ’orale’. In Internet corrono assai più parole che immagini. Persino i telegiornali, le ’finestre che danno sul mondo’, mostrano paesaggi di parole più che di immagini. Le immagini che accompagnano le notizie, ripetitive e spesso "di repertorio" ossia relative ad altri eventi, commentano il discorso, letto o improvvisato, del ’conduttore’. Provate a togliere l’audio e cercate di capire che cosa si sta comunicando: vi sorprenderete a cercare di leggere parole sulle labbra del ’conduttore’. Ma l’intera televisione parla, chiacchiera, "intrattiene" dalla mattina alla sera, assai più della radio d’una volta, che tra i suoni privilegiava la musica. La politica non affida forse alle parole i suoi messaggi? E il teatro, in qualsiasi cornice scenografica, non fonda ancora sulla parola scritta e poi detta il suo fascino? Anche il cinema, nato muto, ha dovuto imparare a parlare per coinvolgere l’uomo d’oggi: un film muto ai nostri giorni è un reperto da museo, "parla" solo agli esperti, agli archeologi della Decima Musa. Persino il ’fumetto’, nato per chi preferisce ’vedere’piuttosto che ’leggere’, in questi ultimi tempi ha visto ingigantirsi sempre di più la "nuvoletta" scritta, relegando in un angolino l’immagine. E i "graffiti metropolitani", non sono in prevalenza iscrizioni e in minima parte figure? E, nella musica ’pop’, il ’rap’ non ha

forse sostituito una specie di "recitativo" alla melodia? Niente da fare: siamo isole circondate da un oceano di parole. Ma torniamo al nostro inconscio, e al suo futuro. Se, sulle orme della fantascienza, volessimo fare un po’ di ’fantapsicologia’, potremmo anche chiederci che ne sarà dell’inconscio nel Duemila. Bene: io penso che anche in questa prospettiva la psicoanalisi può dormire sonni tranquilli. Anche se – caso limite – gran parte dell’umanità dovesse scegliere, per pigrizia o comodità, la procreazione senza gravidanza, per clonazione, non vedo perché gli eventuali cloni non dovrebbero avere il loro bravo inconscio. Per rassicurarci, è sufficiente guardarci intorno: ce ne sono già tanti in circolazione, di cloni e fotocopie, e non si può certo dire che non abbiamo un inconscio. Semmai c’è da temere che abbiano solo quello. Goethe, nel suo scritto Ancora una parola ai giovani poeti, rammentava che, "come ogni uomo vive muovendo dall’interiorità, così l’artista deve agire partendo da questa, poiché qualunque cosa faccia, egli avrà a che fare sempre e soltanto con la sua individualità" (Goethe 1833, 37). Forti di questo monito, in barba a qualsiasi "si fa o non si fa", ci auguriamo di aver riscattato la libertà del terapeuta di muovere da se stesso; memori dal fatto che quanto di meglio conosciamo non lo potremo insegnare a nessuno.

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