Breve storia della linguistica 9788843095049

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Breve storia della linguistica
 9788843095049

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Giorgio Graffi

Breve storia della linguistica

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Indice

Premessa

II

I.

Perché una storia della linguistica

13

1.

L ’antichità classica

17

1 .1. Quadro introduttivo

17

1. 1 . Origine del termine “grammatica”

Ο

1.3.

La riflessione filosofica sul linguaggio

1.4 . La grammatica antica

11

37

1.5.

In sintesi

45

Realizzazione editoriale: Fregi e Maiuscole, Torino

3-

Il Medioevo

47

Finito di stampare nell’ottobre 2019

3.1.

Quadro introduttivo

47

ia ristampa, ottobre 1019 ia edizione, aprile 2019 © copyright 2019 by Carocci editore S.p.A., Roma

da Digital Team, Fano (PU )

ISBN 978-88-430-9504-9

3.1. Tarda antichità e Alto Medioevo

50

3-3- Basso Medioevo

55

3-4 - In sintesi

72.

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.



Il Rinascimento e l ’Età moderna

73

4.1. Quadro introduttivo

73

4 .1. La scoperta della diversità linguistica

75

8

BREVE STORIA DELLA LINGUISTICA

4.3. Grammatica e filosofia del linguaggio nel Seicento

83

4.4. Grammatica e filosofia del linguaggio nel Settecento

95

4.5. In sintesi

104

5.

L ’Ottocento

107

5.1.

Quadro introduttivo

107

5.2..

Prime fasi della linguistica storico-comparativa

no

5.3.

La linguistica generale dell’Ottocento

120

5.4. Sviluppi della linguistica storico-comparativa 5.5.

Il perfezionamento della linguistica storico-comparativa: l ’epoca dei neogrammatici

127 134

3.6. In sintesi

145

6.

La prima metà del Novecento

147

6.1.

Quadro introduttivo

147

6.2. Ferdinand de Saussure

149

6.3. Le scuole dello strutturalismo europeo

156

6.4. La linguistica strutturale negli Stati Uniti

176

6.5.

In sintesi

185

7.

La linguistica contemporanea

187

7.1.

Quadro introduttivo

187

7.2. U n’epoca di svolta 7.3.

“Paradigma formale” e “paradigma funzionale” : alcuni aspetti del dibattito

7.4. In sintesi

Bibliografia

189 207 229

231

INDICE

9

Glossario

2-55

Indice dei nomi

259

Premessa

Questo libro non è scritto per gli specialisti, e nemmeno per gli studenti di linguistica, a parte, forse, i principianti assoluti: vuole infatti essere un’ introduzione a questa disciplina mediante una sintetica presen­ tazione della sua storia, dall’antica Grecia ai giorni nostri. Ho quindi cercato di fare in modo che potesse risultare comprensibile anche a chi dispone solo di alcune nozioni grammaticali di base, quali sono normal­ mente insegnate nelle nostre scuole medie, inferiori e superiori (o, come si dice oggi, “secondarie di primo e secondo grado”). In ogni caso, ho cer­ cato di evitare di entrare negli aspetti più tecnici, che caratterizzano la linguistica soprattutto da quando si è “istituzionalizzata”, cioè dall’inizio dell’ Ottocento; i pochi termini specialistici che ho dovuto utilizzare sono segnalati con un asterisco alla loro prima occorrenza e sono defi­ niti nel breve Glossario finale. Questa scelta comporta indiscutibilmente dei rischi, perché in ogni disciplina che abbia sviluppato un minimo di apparato formale le nozioni tecniche servono a farne comprendere me­ glio anche l ’evoluzione storica. La mia speranza è comunque che queste pagine siano sufficienti a interessare i lettori, o almeno di alcuni di loro, ad approfondire la loro conoscenza della linguistica, tanto storica che generale, mediante la lettura di manuali più specifici: se poi questa spe­ ranza potrà realizzarsi o meno, saranno gli eventuali lettori stessi a dirlo. L ’esigenza di contenermi entro i limiti di spazio previsti dalla col­ lana in cui questo volume appare mi ha costretto a operare delle scelte tra i vari aspetti del pensiero linguistico che si sono sviluppati nel corso di quasi due millenni e mezzo. Queste scelte sono inevitabilmente ar­ bitrarie, in particolare per quanto riguarda la linguistica dalla metà del Novecento in poi: ho dato la preferenza a quelle correnti di pensiero che mi sembravano più significative in quanto hanno suscitato un maggior dibattito, ma certamente sono stato condizionato dai miei interessi per­ sonali. Ho comunque preferito soffermarmi con qualche dettaglio su un

12

BREVE STORIA DELLA LINGUISTICA

numero ridotto di autori e di scuole: citarne di più avrebbe trasformato quella che vuole essere, con tutti i suoi limiti, una storia, in una rassegna bibliografica. Nella sezione Bibliografia, ho segnalato alcuni testi che permettono di approfondire gli argomenti qui esposti. In questa stessa sezione sono indicati anche alcuni studi critici a cui sono ricorso nella trattazione di vari argomenti e che non ho citato nel testo per non appesantirlo ecces­ sivamente. Le varie opere sono citate in base all’edizione che ho effetti­ vamente utilizzato, con l’indicazione tra parentesi quadre della data di quella originale, se questa è diversa. Le opere risalenti a prima dell’ inven­ zione della stampa sono riportate nella bibliografia sotto il nome del cu­ ratore: questo può suonare paradossale, perché fa apparire quest’ultimo come più importante dell’autore, ma citazioni come “Agostino (1975)” o “Dante (zon )”, mi suonavano un po’ ridicole. Tutti i corsivi nelle cita­ zioni si trovano nei testi originali e, quando non diversamente indicato, le traduzioni delle citazioni sono mie. Questo volume riprende, a volte anche letteralmente, materiali che ho già pubblicato in D ue secoli d i pensiero linguistico, uscito nel zoio presso questa stessa casa editrice: non sempre è facile, per un autore che ritorna sugli stessi argomenti, trovare formulazioni migliori di quelle già adottate, e mi pare che il reato di autoplagio non esista. Chiedo co­ munque scusa a chi si trovasse nella situazione di leggere tutti e due i testi, il precedente e il presente, e si trovasse di fronte a noiose ripetizioni. Una prima versione di questo testo è stata letta da Adriano Colombo, Paola Cotticelli, Alessandro Riolfi, Lorenzo Tomasin e Federica Venier, che mi hanno fornito una quantità di osservazioni interessanti, e perfino segnalato numerosi errori di battitura: a tutti loro vadano il mio rin­ graziamento più sentito e le mie scuse per non aver saputo, molte volte, sfruttare al meglio i loro suggerimenti. In ogni caso, la responsabilità di quanto è scritto qui è esclusivamente mia. Dedico questo libro alla memoria di Anna Morpurgo Davies (19372014), i cui studi di storia della linguistica rimarranno sempre un mo­ dello di profondità, esaustività e chiarezza, e che mi incoraggiò a insi­ stere in questo campo di ricerche.

I

Perché una storia della linguistica

Perché studiare la storia? Lo storico greco Tucidide (v secolo a.C.) scri­ veva che le cose passate si ripetono in modo simile, se non identico, in fu­ turo, «in base alle leggi della natura umana» {La guerra del Peloponneso, 1, 22); e questo suggerisce che lo studio della storia può essere una guida per le nostre azioni. Tucidide si riferiva alla “storia fattuale”, cioè quella delle guerre, dei vari rapporti tra gli Stati, degli effetti sugli uomini di certi eventi naturali (come le epidemie). Considerazioni simili possono valere però anche per quella che si chiama in generale la “storia delle idee”. Ad esempio, il filosofo americano George Santayana (1863-1952) afferma che «coloro che non sanno ricordare il passato sono condan­ nati a ripeterlo» (Santayana, 1905, p. 284), e l ’economista inglese John Maynard Keynes (1883-1946) che «uno studio della storia del pensiero è una premessa necessaria all’emancipazione della mente» (Keynes, 1926, trad. it. p. 26). Anche la storia della linguistica fa certamente parte della storia delle idee. Per l ’esattezza, invece che di storia della linguistica, sarebbe meglio parlare di “storia delle idee linguistiche”, o di “storia del pensiero lingui­ stico”, perché la linguistica è diventata una disciplina autonoma solo in tempi abbastanza recenti: infatti, la prima cattedra di Linguistica fu isti­ tuita in Germania, all’ Università di Berlino, solo nel 1821 (cfr. PAR. 5.1). L ’uso, poi, della parola “linguistica” per indicare lo studio del linguaggio è ancora più recente: in Italia, fino agli anni Sessanta del Novecento non esistevano cattedre universitarie con questo nome (con l’aggiunta o meno dell’aggettivo “generale”), ma solo cattedre di Glottologia, che è un calco del termine tedesco Sprachwissenschafi, una parola composta che significa ‘scienza del linguaggio’, o ‘scienza della lingua’ : il primo ele­ mento del composto, Sprach-, che è la radice della parola tedesca per ‘lingua’ o ‘linguaggio’ (Sprache), viene reso con gioito- (dal greco glotta, ‘lingua’ ) e il secondo, Wissenscha.fi (‘scienza’ ), con -logia (dal greco lògos,

14

BREVE STORIA DELLA LINGUISTICA

‘discorso’ ), che significa «studio sistematico, trattazione, teoria», come in ‘archeologia’ o in ‘geologia’ (cfr. De Mauro, 2.000, s.v. -logia). Anche se la linguistica come disciplina autonoma non ha quindi più di due secoli di esistenza, questo non significa però che lo studio delle lingue e del linguaggio non abbia una storia ben più antica: limitandoci alla sola cultura occidentale, cioè quella che ha le sue radici nella Grecia classica, osserviamo come le prime idee in materia risalgano proprio a quell’epoca e come siano state costantemente riprese fino a oggi, assieme ad altre che si sono sviluppate in seguito. D i fatto, molti dei problemi tipici della linguistica “scientifica”, la cui origine si fa di solito coinci­ dere con quella della linguistica accademica, cioè con i primi decenni dell’ Ottocento, erano stati sollevati molto prima di questa data. Quali erano, e quali sono, questi problemi ? Ne elenco qui qualcuno, a titolo esemplificativo. Uno di essi consiste nella definizione e nella clas­ sificazione delle entità linguistiche: che cose un suono del linguaggio? Che cos’è una sillaba? Che cos’è una parola? Che cose una frase? E cosi via. Inoltre: queste unità si raccolgono in categorie differenti? E queste categorie come vengono individuate? In altre parole, su che base di­ ciamo, ad esempio, che una certa parola è un verbo, mentre un’altra è un nome ecc. ? Le risposte a questi interrogativi date dagli studiosi greci e, sulla loro scia, da quelli latini hanno permesso la nascita di quella disciplina che fu da loro chiamata “grammatica”, un termine di uso co­ mune anche oggi. A questi problemi più tecnici se ne affiancano altri più generali, alcuni dei quali già trattati anch’essi in epoca antica. Uno di questi riguarda la natura delle entità linguistiche e il loro rapporto con la realtà: ad esempio, su che cosa si fonda il legame tra i suoni (o i puntini di inchiostro sulla carta, o i pixel sullo schermo del computer) che formano la parola “cavallo” e l ’animale in questione? Si tratta di un legame naturale tra espressioni linguistiche ed elementi della realtà op­ pure tali espressioni sono semplici “soffi di voce” {flatus vocis, dicevano gli antichi), il cui rapporto con gli oggetti che designano è puramente convenzionale? Come vedremo (p a r . 2.3.2), la seconda soluzione sarà quella adottata da Aristotele e che prevarrà nei secoli successivi, ma essa pone diversi problemi. Uno di questi riguarda l’equivalenza dei vari segni linguistici in lingue diverse: possiamo dire con una certa sicurezza che ‘cavallo’, chevai e borse “hanno lo stesso significato” in italiano, in francese e in inglese, rispettivamente, ma le cose non sono così semplici nel caso di parole come ‘montone’, mouton e mutton, nonostante la loro somiglianza, come vedremo più avanti (cfr. p a r . 6.2.2.3). Un altro pro­

PERCHÉ UNA STORIA DELLA LINGUISTICA

15

blema che già si ponevano i filosofi antichi (cfr. PAR. 2.3.3.1) è se il lin­ guaggio sia una proprietà della sola specie umana, nettamente distinto dai sistemi di comunicazione degli animali, oppure sia uno sviluppo di questi stessi sistemi. Ancora un interrogativo: il linguaggio è un fatto in­ dividuale oppure sociale ? Certamente, esso è il mezzo di comunicazione fondamentale tra individui diversi, cioè si manifesta come un fenomeno sociale, ma esso è anche una capacità posseduta da ogni singolo indi­ viduo. E come fa l’individuo ad acquisirlo? In altre parole: il bambino impara a parlare semplicemente imitando il comportamento linguistico degli adulti (in primo luogo i genitori) oppure è guidato, in questo pro­ cesso di acquisizione, da una qualche struttura innata? Altri problemi riguardano le relazioni di parentela tra lingue, un problema, questo, che cominciò a porsi a partire dal Medioevo: ad esempio, sappiamo che l’i­ taliano e il francese sono “parenti stretti”, mentre sono parenti un po’ più lontani dell’inglese o del tedesco, e non sembrano affatto parenti del cinese o del giapponese. Ma quali sono i criteri per definire questa paren­ tela? E come la si individua nei casi come quelli citati ? Tutte le lingue del mondo derivano da una sola lingua originaria oppure derivano da lingue originarie diverse? Nel primo caso, si parla di ‘monogenesi’, nel secondo di ‘poligenesi’ delle lingue. Alcuni dei problemi che abbiamo elencato possono sembrare stret­ tamente relativi alla linguistica, mentre altri potrebbero piuttosto es­ sere attribuiti alla “filosofia del linguaggio”. A mio parere, distinzioni come queste sono sostanzialmente inutili, anche perché molti di tali problemi sono stati sollevati quando questi confini disciplinari non esi­ stevano: Aristotele era certamente un filosofo, eppure fu lui per primo a proporre dei criteri che più tardi saranno utilizzati per classificare le parti del discorso, quindi un argomento apparentemente “linguistico” in senso stretto. Viceversa, le considerazioni sui diversi valori di ‘mon­ tone’, mouton e mutton che abbiamo delineato sopra e che possono sem­ brare molto “filosofiche” ci sono suggerite da un passo di uno studioso svizzero, Ferdinand de Saussure (cfr. PAR. 6.2), che era un professore di linguistica. Quindi, anche se si parla, per brevità e semplicità, di “storia della linguistica”, è bene tenere presente che si deve intendere piuttosto “storia del pensiero linguistico”. Se nella storia del pensiero linguistico troviamo dunque dei temi fondamentali che ricorrono attraverso i secoli, anzi addirittura attra­ verso i millenni, non si deve però pensare che il loro esame ricominci sempre da capo, come se non ci fosse mai stato alcun progresso nella

ι6

BREVE STORIA DELLA LINGUISTICA

loro trattazione. Fino a un paio di secoli fa, accanto a ipotesi abbastanza ragionevoli su quelle che potevano essere le lingue originarie (o la lingua originaria), potevano essere avanzate le congetture più fantasiose, senza timore di apparire ridicoli: ad esempio, nel x v i secolo un erudito fiam­ mingo, Jan van Gorp van Hilvarenbeek, più noto sotto il nome latino di Goropius Becanus (1518-1572), aveva sostenuto che la lingua da cui derivavano tutte le altre era proprio il fiammingo. D all’inizio dell’O tto­ cento, invece, si elaborano criteri rigorosi per stabilire quando due o più lingue derivano da un’unica lingua originaria, o ‘lingua madre’, e il ri­ sultato è che nessuna parentela tra lingue può essere asserita quando tali criteri non sono soddisfatti (cfr. p a r . 5.1). L ’elaborazione di tali criteri è uno dei motivi per cui abitualmente si fissa la nascita della linguistica “scientifica” all’inizio del x i x secolo. Anche la classificazione delle parti del discorso, pur risalendo all’Età classica, è stata successivamente ri­ vista, almeno in parte, e si è cercato di fondarla su criteri diversi da quelli usati dai grammatici greci e latini. Ma perfino i problemi più generali, come la natura del linguaggio (esclusivamente umana oppure legata alla comunicazione animale), sono visti oggi in prospettiva in parte diversa rispetto ai secoli passati, alla luce anche dei risultati conseguiti in altre campi di studi, come la biologia evoluzionistica (cfr. p a r . 7.3.3). L ’oggetto della nostra trattazione nei capitoli che seguono sarà dunque il modo in cui questi (e altri) problemi sono stati affrontati, e in alcuni casi anche risolti, dalla linguistica occidentale nel corso della sua storia.

2

L ’antichità classica

2..1. Quadro introduttivo Con l ’aggettivo ‘classico’, nelle espressioni come ‘antichità classica’, ‘ci­ viltà classica’, ‘lingue classiche’, ‘grammatica classica’, ci si riferisce all’u­ nità culturale costituita dal mondo greco e romano in un’epoca che va, all’incirca, dagli inizi del 1 millennio a.C. alla metà del v i secolo d.C. In origine, questa unità culturale era esclusivamente greca: essa comincia a diventare greco-romana solo a partire dagli inizi del 11 secolo a.C., quando Roma conquista politicamente la Grecia, assorbendone però al tempo stesso la cultura: come dice il poeta latino Orazio (65-8 a.C.), Graecia capta ferum victorem cepit et artes intulit agresti Latio, ossia « la Grecia conquistata conquistò il feroce vincitore, e portò le arti nel Lazio contadino» {Epistole, 11,1,15 6 ), sintetizzando molto bene questa rivincita culturale dei Greci sui Romani vincitori militarmente. L ’unità culturale greco-romana (dal nome dei due popoli), o greco-latina (dal nome delle due lingue) trova la sua realizzazione politica più compiuta nei primi quattro secoli dell’ Impero romano, ossia dal 27 a.C., anno in cui Augusto assume la potestà imperiale, fino al 395 d.C., quando Teo­ dosio divide l’ Impero tra i suoi eredi, assegnando a uno di loro, Onorio, l’ Impero d ’Occidente (con capitale Ravenna), e all’altro, Arcadio, l ’ Impero d ’Oriente (con capitale Bisanzio o Costantinopoli, l ’odierna Istanbul). Nonostante questa divisione, l’unità greco-latina persistette ancora per circa un secolo e mezzo, anche dopo il crollo dell’Impero d ’Occidente nel 476 d.C., e venne meno, sostanzialmente, solo con la guerra gotica (535-553) e la calata dei Longobardi in Italia (568). D all’e­ poca della conquista romana della Grecia, i dotti romani erano bilingui, cioè conoscevano perfettamente tanto il greco quanto il latino; vice­ versa, il latino non era altrettanto noto nella metà orientale dell’ Im­ pero romano, ma era comunque la lingua di buona parte deU’ammini­

ι8

BREVE STORIA DELLA LINGUISTICA

strazione. Dalla meta del v i secolo, invece, il bilinguismo greco-latino scompare: in quello che era stato Γ Impero d ’Occidente, salvo poche eccezioni, rimane noto solo il latino (da cui deriveranno le lingue ro­ manze); nell’Impero d ’Oriente, solo il greco. L ’unità culturale classica è frantumata, e cominciano, da un lato, il Medioevo latino e romanzo, e dall’altro quello bizantino. La cultura greca fu dunque fatta propria dai dotti romani, che comin­ ciarono a scrivere in latino su tutte le discipline teoriche, come la filosofìa, la matematica, l’astronomia, la musica ecc.: uno dei più importanti tra questi dotti fu Cicerone (106-43 a.C.), a cui si deve tra l ’altro la tradu­ zione latina di molti termini filosofici greci. La storia della linguistica classica non fa eccezione: la riflessione sul linguaggio nasce in Grecia tra il v e il i v secolo a.C., si sviluppa nei secoli successivi ed è ripresa in ambito romano a partire dal 1 secolo a.C., per raggiungere la sua forma più sistematica nei lavori di alcuni grammatici latini attivi tra il iv e il v i secolo d.C. (cfr. p a r . 2.4.2.2). Questi grammatici, pur occupandosi del latino, avevano costantemente presenti i loro modelli greci: è quindi più adeguato trattare la linguistica classica come una tradizione unitaria, piuttosto che distinguere tra linguistica greca da un lato e linguistica la­ tina dall’altro. U n ’avvertenza è poi necessaria, anche se per alcuni può essere scon­ tata. Le opere sul linguaggio dell’Età classica, come tutte le altre risa­ lenti a questo periodo (e come anche molte di Età medievale), non ci sono pervenute nella forma in cui le leggevano i contemporanei dei loro autori: in quell’epoca non esistevano ovviamente libri stampati (ricor­ diamo che l ’ invenzione della stampa, da parte di Johannes Gutenberg, risale alla meta del Quattrocento), e non disponiamo neppure dei ma­ noscritti originali, ma solo di copie successive, risalenti a molti secoli dopo il momento in cui gli originali erano stati composti. Queste copie non sono tutte egualmente affidabili, anzi nessuna di esse lo è comple­ tamente: per questo, a partire dall’ inizio dell’Ottocento, vari studiosi hanno elaborato delle edizioni critiche, che non sono delle edizioni commentate, ma ricostruzioni dei vari testi nella versione che dovrebbe essere quella originale dei loro autori. Abbiamo detto “dovrebbe es­ sere” perché questa operazione non può, inevitabilmente, essere asso­ lutamente sicura, tant è che in molti casi alle prime edizioni critiche ne sono seguite altre, proprio per emendare alcuni passi delle precedenti che non apparivano soddisfacenti: questo è avvenuto grazie all’even­ tuale scoperta di nuovi manoscritti, oppure valutando in modo diverso

l ’a n t i c h i t à c l a s s i c a

19

la testimonianza di alcuni manoscritti rispetto a quanto fatto dai primi editori. In ogni caso, la ricostruzione di un testo antico è sempre con­ getturale, almeno in una certa misura, e quindi non possiamo essere as­ solutamente certi di quanto avesse scritto il suo autore. C ’è poi un’altra lacuna da tenere presente per quanto riguarda la nostra conoscenza dei testi di Età classica: molti di essi non ci sono pervenuti, mentre di altri abbiamo solo frammenti costituiti da citazioni che si trovano in opere di altri autori, citazioni che possono anche non essere sempre letterali. Spesso, dunque, le nostre ricostruzioni del pensiero e della cultura clas­ sica sono frutto di congetture, e potrebbero essere riviste, in futuro, sulla base della scoperta di nuovi documenti, o di una valutazione diversa di quelli disponibili: questo vale, naturalmente, anche per quanto riguarda la linguistica.

2.2. Origine del termine “grammatica” Cominciamo dalla fine: in questo caso, dalla fine dell’antichità classica, che si può collocare tra il v e il v i secolo d.C., e di cui ci occuperemo più in dettaglio nel paragrafo 3.2.1 A quest’epoca risale, infatti, la classifi­ cazione delle sette cosiddette “arti liberali” (cioè intellettuali, contrap­ poste a quelle manuali), che, naturalmente, non era stata elaborata di punto in bianco, ma rappresentava la sistematizzazione di un sapere che si era gradualmente costituito attraverso i secoli precedenti. Le sette arti erano distinte in “arti del trivio” e “arti del quadrivio” : le prime tre sono le cosiddette artes sermocinales, grammatica, dialettica e retorica; le altre quattro sono le artes reales, cioè aritmetica, musica, geometria e astro­ nomia. Qui ci occuperemo delle arti del trivio, perché sono quelle che riguardano il linguaggio {sermo, in latino). La linguistica in senso mo­ derno non si identifica con nessuna di esse, e neppure con la loro somma, ma, come vedremo, è trasversale a tutte e tre. Tra queste, la grammatica, pur essendo elencata per prima, è invece l ’ultima nata, in senso crono­ logico. Torniamo ora all’ inizio della nostra storia, cioè alle radici della lin­ guistica occidentale, che si collocano, come quelle di molte altre disci­ pline, nella Grecia antica. L ’aggiunta della specificazione “occidentale” non è superflua: esiste infatti un’antica e importante tradizione di studi linguistici anche in Cina, nei paesi del Vicino Oriente (dai Sumeri del ih millennio a.C. agli Arabi dell’era volgare) e in India; in particolare, i

20

BREVE STORIA DELLA LINGUISTICA

lavori dei grammatici indiani, una volta diventati noti in Occidente dalla fine del Settecento, hanno influito considerevolmente sullo sviluppo della linguistica successiva. C i si potrebbe anche domandare, come si è fatto nel caso della filosofia, se e in quale misura la riflessione linguistica del Vicino Oriente antico abbia influenzato quella greca, ma qui non ci addentreremo nella discussione di questo problema. C ’è però un contri­ buto della civiltà del Vicino Oriente alla cultura greca che non possiamo non citare qui: l’alfabeto. I Greci adottarono il sistema alfabetico dei Fenici (che non ne erano gli inventori, contrariamente a quanto spesso si legge, ma solo la popo­ lazione che lo trasmise ai Greci, con cui erano in stretto contatto com­ merciale), con alcune modificazioni e aggiunte dovute alle differenze tra le rispettive lingue. A i nostri occhi, l ’alfabeto può sembrare una cosa banale, ma in realtà si tratta di una delle scoperte più importanti nella storia dell’umanità. Prova ne sia il fatto che il sistema alfabetico è il più recente tra i tre sistemi di scrittura sviluppati dall’umanità nel corso della sua storia: infatti, esso è preceduto dal sistema ‘ideografico’ (più esattamente, ‘logografico’ ), che è quello, ad esempio, dei gerogli­ fici egiziani, e da quello ‘sillabico’, come la scrittura cuneiforme adot­ tata dalle popolazioni mesopotamiche dal iv al i millennio a.C. N ei si­ stemi ideografici (utilizzati ancora oggi in varie lingue non occidentali, come il cinese), a ogni simbolo (‘ideogramma’ ) corrisponde in teoria un concetto, concreto o astratto. Di fatto, non è così, perché in molti casi vale il cosiddetto “principio del rebus” : questo significa che un de­ terminato segno può indicare due parole diverse, se sono pronunciate allo stesso modo. A d esempio, in egiziano antico ‘rondine’, indicato con il disegno di una rondine, era pronunciato w r: dato che anche ‘grande’ era pronunciato wr, il disegno di una rondine significa anche ‘grande’. Nei sistemi sillabici, i segni indicano determinati gruppi di suoni, ossia le sillabe. L ’adozione di un sistema sillabico riduce grandemente il nu­ mero dei segni, rispetto a un sistema ideografico: mentre in un sistema di quest’ultimo tipo i segni sono migliaia, in un sistema sillabico non sono più di qualche centinaio, e in alcuni casi non superano le cento unità. Un inventario ancora più ridotto di segni è proprio dei sistemi di scrittura alfabetici, che contano poche decine di segni, e sono quindi molto più funzionali tanto dei sistemi ideografici che di quelli sillabici. Tuttavia, l’ invenzione di un alfabeto richiede una capacità di analisi molto più raffinata che non quella di un sistema ideografico o di un sistema sillabico (che rappresentano comunque anch’essi delle grandi

l ’a n t i c h i t à c l a s s i c a

21

scoperte). Il linguaggio ci si presenta infatti come una successione con­ tinua di suoni, entro la quale si tratta di individuare delle singole unità, che ricorrono in un numero indefinito di enunciati diversi. L ’opera­ zione (relativamente) più semplice consiste nell’ individuare le unità di significato, cioè, grosso modo, le parole: questa è la base del sistema ideografico. L ’operazione successiva è individuare afl’intemo di questa unità di senso i gruppi di suoni che le formano: questo è il fondamento del sistema sillabico; operazione ancor più raffinata è individuare i sin­ goli suoni da indicare con le singole lettere, cioè la creazione dell’alfa­ beto. Come dice Robins (1997, trad. it. p. 26), «che lo sviluppo e l’uso della scrittura abbiano costituito la prima conquista della linguistica greca è attestato dalla storia della parola gram m atikòs». Grammatikós infatti deriva dalla parola greca grdmma, che significa ‘lettera’ : agli inizi della cultura greca, il “grammatico” è colui che sa leggere e scrivere, e, per estensione, lo “scriba”, ossia colui che scrive per gli analfabeti, e anche colui che agli stessi analfabeti insegna a scrivere, insegna cioè l ’uso di una tecnica (di un’“arte”, nel senso antico del termine). Essa è chiamata, in greco, téchnégrammatike·. l’aggettivo grammatike si è poi sostanti­ vato e ha dato origine al nome ‘grammatica’, che assume un senso si­ mile a quello moderno a partire dal n i secolo a.C., come vedremo nel paragrafo 2.4.2. A partire da tale epoca, l’orizzonte della grammatica e i compiti del grammatico si amplieranno notevolmente, ma la loro ori­ gine sostanzialmente pratica non può essere ignorata. Le singole lettere {gràmmata) e i suoni corrispondenti costitui­ scono gli elementi minimi del linguaggio (stoicheia), di cui i Greci elaborarono una prima classificazione probabilmente già dal v se­ colo a.C., distinguendo tra ‘vocali’ {fàneenta), ‘semivocali’ (ém ifóna), come s e r, e ‘m ute’ {àfona), come k o d. Questa classificazione è cer­ tamente ancora molto approssimativa, e la linguistica dell’antichità classica non ha fatto ulteriori passi avanti in questo campo, ma rivela comunque uno sforzo di analisi, in particolare per quanto riguarda la distinzione tra i due tipi di consonanti. La classificazione adottata oggi è molto più raffinata, ma non totalmente diversa: la k e la d con­ tinuano a essere collocate nello stesso gruppo di consonanti (dette occlusive*), mentre alla r (insieme alla !) è assegnata una posizione intermedia tra le altre consonanti e le vocali (cfr. PAR. 6.3.3). Inoltre, l ’esame del rapporto di questi elementi fonici con la realtà diede l ’ im­ pulso alla trattazione del linguaggio da parte dei filosofi, come ve­ dremo nei prossimi paragrafi.

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2.3. La riflessione filosofica sul linguaggio 2.3.1. Dai Presocratici a Platone La riflessione filosofica sul linguaggio nasce poco dopo la filosofia tout court, cioè con alcuni dei cosiddetti “Presocratici”, un termine coniato in epoca moderna per indicare genericamente i filosofi greci dall’inizio del v i secolo a.C. fino all’epoca di Socrate (470/469-399 a.C.). Ricor­ diamo che la parola “filosofo”, in greco, ha un senso molto più ampio di quello che le attribuiamo oggi: il filosofo, infatti, è letteralmente ‘colui che ama il sapere’ (dalle radici del verbofiléó, ‘amo’ e dell’aggettivo sophós, ‘sapiente’ ), quindi vale, genericamente, ‘scienziato’ ; del resto, fino a pochi secoli fa con ‘filosofia naturale’ si intendeva la disciplina che oggi chiamiamo fisica. Il pensiero dei Presocratici ci è pervenuto in modo frammentario e in buona parte indiretto (cioè tramite citazioni di stu­ diosi successivi), ma su di esso è possibile fare qualche congettura. I Pre­ socratici erano, in massima parte, proprio dei filosofi naturali, cioè vo­ levano fornire una descrizione della realtà fisica: uno dei loro problemi fondamentali era dunque quello del rapporto tra la realtà e il linguaggio che noi utilizziamo per descriverla. In altre parole: il nostro linguaggio rappresenta fedelmente la realtà, oppure la deforma? Molto in generale, si può dire che, secondo uno dei Presocratici, Eraclito (vissuto tra la se­ conda metà del v i secolo a.C. e la prima metà del v), esiste un rapporto naturale tra il linguaggio e le cose: in Eraclito, il termine lògos indica sia il discorso che la razionalità inerente alla realtà. A questo proposito, bisogna ricordare che lògos (connesso al verbo légò, ‘dico’) in greco an­ tico ha vari significati: oltre a ‘parola, discorso’, vale ‘calcolo’, ‘rapporto’, e anche ‘ragionamento’, ‘ragione’ (cfr. Montanari, 2004, s.v.). Quindi, i termini ‘logica’ e ‘logico’ si riferiscono tanto al discorso quanto alla ragione. Parmenide (prima metà del v secolo a.C.) sostiene la posizione opposta a quella di Eraclito: per lui l’unica realtà è quella dell’essere, intuita dalla mente, e i segni linguistici non hanno alcun titolo per rap­ presentarla; all’essere si contrappone il ‘non essere’, che non solo non può essere concepito, ma nemmeno espresso. Eraclito e Parmenide sono tradizionalmente considerati come i rappresentanti di due punti di vista opposti: il primo quello del “divenire”, il secondo quello dell’“essere”, e questa contrapposizione è certamente fondata. Tuttavia, su un punto le loro opinioni, pur partendo da punti di vista opposti, finiscono con il condurre, paradossalmente, a una conclusione simile: non è possibile

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dire il falso. Infatti, se da un lato c’è una corrispondenza tra il lògos come discorso e il lògos come principio organizzativo della realtà, come so­ stiene Eraclito, tutti i discorsi dovrebbero essere veri; dall’altro, se ciò che non esiste non può essere nemmeno espresso, come sostiene Parme­ nide, non esisterebbero discorsi falsi. Probabilmente, né Eraclito né Par­ menide volevano giungere a queste conclusioni, ma esse furono tratte, qualche decennio dopo di loro (fine del V secolo a.C.), da altri filosofi, i cosiddetti “Sofisti”, che assunsero una posizione nettamente relativistica. Se infatti il discorso falso non esiste, allora non è nemmeno possibile contraddire: quindi tutte le opinioni individuali hanno lo stesso valore, e non è possibile fondare né una scienza, né una morale oggettive, cioè condivise da tutti. “Sofisti” significa, letteralmente, ‘sapientissimi’, e non ha quel significato negativo che la parola ha assunto fin dall’epoca del più acerrimo avversario di questi filosofi, cioè Socrate, la cui preoccu­ pazione, invece, era quella di dimostrare che scienza e morale hanno un fondamento oggettivo. Del pensiero di Socrate non ci è rimasta nessuna testimonianza scritta: le sue posizioni antisofistiche sono però rappre­ sentate nelle opere del suo allievo Platone (circa 427-347 a.C), una delle quali, cioè il dialogo intitolato Cratilo, è l ’opera più antica, tra quelle a noi pervenute, specificamente dedicata al linguaggio. Il problema fondamentale di questo dialogo è infatti se le parole rap­ presentino la realtà in base a un rapporto naturale con le cose (quindi se il linguaggio siaphysei, ‘per natura’ ) oppure in base a una convenzione {nomò) adottata dai parlanti: come si vede, la prima posizione è simile a quella di Eraclito, la seconda a quella di Parmenide, anche se i termini physei e nomò non risalgono, probabilmente, a loro. Il personaggio che dà il nome al dialogo, cioè Cratilo, sostiene la tesi naturalista {physei), mentre un altro interlocutore, Ermogene, sostiene la tesi convenziona­ lista {nomò)·, come accade per la maggior parte dei dialoghi di Platone, il terzo personaggio, Socrate, funge da arbitro tra i due, e non è sempre facile capire a che conclusione giunga, e se questa conclusione sia da at­ tribuire all’autentico Socrate, oppure se egli non sia semplicemente il personaggio portavoce delle opinioni di Platone. Il dialogo, infatti, ha un andamento apparentemente bizzarro: mentre inizialmente Socrate sembra dare torto a Ermogene e ragione a Cratilo, sciorinando una serie di etimologie che dovrebbero confermare l’esistenza di un legame natu­ rale tra il linguaggio e la realtà, successivamente presenta alcuni controesempi alla tesi naturalista. Alcuni interpreti hanno creduto di vedere in questo strano andamento del dialogo la prova dell’ incertezza di Platone

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in merito al problema: il filosofo greco non avrebbe ancora deciso se il linguaggio è physei oppure nomò. Questa interpretazione, tuttavia, non sembra reggere a un’analisi più attenta: verso la conclusione del dialogo, infatti, Socrate afferma che si devono apprendere gli enti da essi stessi, e non gli enti dai nomi (cfr. Cratilo, 439b). Quindi, Platone (per il tramite di Socrate) ha decisamente scartato la posizione di origine eraclitea, ma non si può nemmeno dire che abbia accettato quella di Parmenide: piuttosto, cerca di superarle entrambe. La realtà deve essere conosciuta per sé stessa, e non attraverso il linguaggio: occorre però determinare le condizioni a cui il linguaggio deve sottostare per poterla rappresentare adeguatamente. Queste condizioni sono esposte in un altro dialogo di Platone, cioè il Sofista, e consistono proprio nella definizione delle carat­ teristiche che oppongono il discorso vero dal discorso falso. Nel Sofista (2610-2613), Platone fa dire a uno dei personaggi del dia­ logo (“lo straniero”) che esistono due tipi di «elementi fonici che indi­ cano la sostanza»: gli onómata (singolare ónoma) e i rhemata (singolare rhema). Questi ultimi «indicano le azioni»; i primi, invece, «coloro che tali azioni compiono» (2623). Date queste definizioni, sembra ovvio tradurre ónoma con ‘nome’ e rhema con Verbo’ (come abitualmente si fa), ma probabilmente Platone con il primo termine intendeva piuttosto qualcosa di simile al nostro ‘soggetto’, e con il secondo al nostro ‘pre­ dicato’. Platone osserva che, se si mettono di seguito soli nomi oppure soli verbi non si produce un enunciato (o ‘discorso’ ; lògos, plurale lógoi): «leone, cervo, cavallo» oppure, viceversa, «cammina, corre, dorme» non sono degli enunciati, ma delle semplici liste di parole. Per avere un enunciato, è necessario unire un nome a un verbo: ‘Teeteto siede’ è un enunciato (Teeteto è l ’altro personaggio del dialogo). Anche ‘Teeteto vola’ è un enunciato, in quanto risulta dalla combinazione di un nome con un verbo, ma evidentemente i due enunciati sono diversi: il primo di essi «dice le cose come sono», mentre il secondo «dice cose diverse da come sono»; il primo è quello vero, il secondo quello falso. Gli esseri umani, infatti, possono sedere, ma non possono volare. La verità o, vi­ ceversa, la falsità dell’enunciato si fondano dunque sul rapporto dell’e­ nunciato stesso con la realtà: se parlando diciamo che una certa cosa ha una proprietà che effettivamente possiede, l’enunciato è vero; se invece non la possiede, è falso. La distinzione tra onóma e rhema oggi ci sembra ovvia, ma per in­ tenderne l ’importanza fondamentale che ha avuto negli studi sul lin­ guaggio bisogna collocarsi nell’epoca e nella prospettiva in cui si trovava

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Platone. Infatti, il significato originario di ónoma non corrispondeva al nostro ‘nome’, ma oscillava tra ‘nome proprio’ e ‘parola’ : il grande risul­ tato ottenuto da Platone è proprio quello di mostrare che le parole non sono tutte dello stesso tipo e che solo la combinazione di parole di tipo diverso può dare origine a un enunciato, vero o falso. Il significato ori­ ginario di rhema era invece qualcosa di simile a ‘detto’, ‘motto’. Platone restringe il significato del termine a quello di “ciò che è detto, ciò che è enunciato” a proposito dell’ ónoma·. questo è il motivo per sostenere che i due termini corrispondono, rispettivamente, a ‘predicato’ e a ‘soggetto’. Si tratta naturalmente di stabilire in che modo essi abbiano poi assunto i significati odierni di nome e di verbo; ce ne occuperemo nei paragrafi che seguono. Ora esaminiamo gli sviluppi dell’analisi filosofica del lin­ guaggio che si trovano in Aristotele.

2.3.2. Aristotele Aristotele (384-322 a.C.) fu allievo di Platone, ma sviluppò una filosofia abbastanza diversa da quella del suo maestro, sulla quale non possiamo soffermarci qui. Tuttavia, anche Aristotele è interessato al linguaggio soprattutto come strumento tramite il quale si possono formulare enun­ ciati veri oppure falsi, e giungere a conclusioni valide oppure non va­ lide: non è dunque un caso che alcune delle riflessioni linguistiche più importanti di Aristotele si trovino nei trattati di logica (il cosiddetto Organon). Nel primo di essi, le Categorie (ia, 16-17), il filosofo distingue anzitutto le «cose che si dicono per connessione» da quelle «che si dicono senza connessione»: le prime sono gli enunciati, le seconde le parole isolate. Queste, a loro volta, si suddividono in dieci categorie, la prima delle quali esprime la ‘sostanza’, la seconda la ‘quantità’, la terza la ‘qualità’ ecc. (ib, 25-27). A ll’interno della categoria ‘sostanza’, il filosofo poi distingue «sostanze prim e» e «sostanze seconde»; le prime sono i singoli individui, come «u n determinato uomo, o un determinato ca­ vallo», le seconde le specie e i generi. Quindi, un determinato uomo appartiene alla specie ‘uomo’, che è inclusa nel genere ‘animale’. Il fon­ damento delle categorie aristoteliche e la loro adeguatezza rispetto alla realtà saranno oggetto di discussione per millenni. L ’esame delle cose dette «per connessione», cioè dell’enunciato, è invece l’argomento del secondo trattato dell’ Organon, il cosiddetto D e

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interprefattone. Nel capitolo quarto di questo trattato (i7a, 4-6), A ri­ stotele precisa che esistono vari tipi di enunciati: uno di essi è quello assertivo’ (apofantikós, in greco), che è l ’unico a poter essere vero op­ pure falso. Gli altri tipi di enunciati, invece, come «la preghiera, che non è né vera né falsa», sono oggetto di altre discipline, «la poetica e la retorica». E in effetti osservazioni sul linguaggio si trovano tanto nella Poetica quanto nella Retorica di Aristotele. Ad esempio, in quest'ultima opera si introduce la nozione di periodo, distinto in «com posto» e «sem plice» (Retorica, ili, 9, 1409!)). Bisogna però notare che questa nozione, in Aristotele, non è tanto di tipo grammaticale, quanto reto­ rico, perché si riferisce alle caratteristiche che un enunciato deve avere, per poter essere efficace: «S ia i membri che i periodi non devono es­ sere né esigui, né lunghi, poiché quelli corti fanno inciampare l ’ascol­ tatore [...], mentre quelli lunghi lo fanno restare indietro, come fanno coloro che nel passeggiare invertono la direzione più in là del limite at­ teso e lasciano così indietro i loro compagni» (trad. it. in Dorati, 1996, pp. 325-6). Perché si giunga alla nozione sintattica di frase semplice* con­ trapposta a quella di frase complessa* (ossia il periodo, nel senso gram­ maticale del termine) bisognerà attendere molti secoli, come vedremo più avanti (cfr. p a r . 4.3.2). Nel capitolo 20 della Poetica Aristotele for­ nisce invece il primo elenco delle entità che costituiscono il linguaggio umano. Prima di occuparcene, però, esaminiamo alcuni aspetti della co­ siddetta “sezione linguistica” del D e interpretatione. Questo trattato (cap. 1, i6a, 1-2) si apre ricordando che è anzitutto necessario definire le nozioni di ónoma e rhema, e poi quelle di nega­ zione, affermazione, asserzione (apófansis) e enunciato. Prima di fornire queste definizioni, Aristotele affronta però il problema del rapporto tra realtà, pensiero e linguaggio. Nei suoi termini, la realtà è costituita dalle «cose» (pragmata); il pensiero dalle «affezioni dell’anim a», che sono «im m agini», «somiglianze» della realtà; il linguaggio da «ciò che sta nella voce» (cioè i suoni) e dalle «cose scritte» (cioè le lettere). Dopo aver affermato che «ciò che sta nella voce è simbolo delle affezioni dell’anima e le cose scritte sono simbolo di ciò che sta nella voce » (3-4), il filosofo rileva una differenza fondamentale: mentre i suoni e le let­ tere non sono «identici per tutti», le affezioni dell’anima e le cose sono «identiche per tutti». In altre parole: il pensiero è identico per tutti gli esseri umani, in quanto corrisponde a un’unica realtà; le differenze tra le lingue sono soltanto differenze tra i modi in cui questi pensieri ven­ gono espressi tramite i suoni e, secondariamente, tramite i segni scritti.

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Questa concezione ha dominato il pensiero linguistico occidentale al­ meno fino all’Età moderna. Precisati questi rapporti, Aristotele può tornare al programma esposto inizialmente e fornire le definizioni promesse. L 'ónoma è de­ finito «voce che significa per convenzione, senza [indicazione del] tempo» e che non è scomponibile in parti dotate di significato (De interpretatione, iéa, 19-20); il rhema « in più significa il tem po», ed è « segno di ciò che si dice di qualcos’altro » . Secondo Aristotele, dunque, tanto X ónoma quanto il rhema (che è un ónoma che indica anche il tempo) «significano per convenzione»: il dibattito tra naturalismo e convenzionalismo che caratterizzava il Cratilo di Platone è dunque ri­ solto da Aristotele in favore della seconda delle due posizioni, senza alcuna ulteriore discussione. A questo punto, il filosofo aggiunge un breve, ma importante, inciso, relativo ai suoni emessi dagli animali: essi «manifestano», «m ostrano» (délousi) sì qualcosa, m alo fanno «per natura», al contrario di quegli emessi dagli uomini. Inoltre, i versi degli animali sono agràmmatoi. Questo termine viene di solito reso, correttamente, con ‘inarticolati’, ma, come si vede, esso contiene la radice di ‘let­ tera’, ossiagrómma·. questo ci mostra ancora una volta come la scoperta dell’alfabeto, cioè l ’individuazione dei singoli suoni che costituiscono il linguaggio umano, sia stato un passo fondamentale per lo sviluppo della ricerca linguistica (cfr. p a r . 2.2). Questa caratteristica della “inarticolabità”, della “inanalizzabilità” dei linguaggi degli animali viene ripresa anche nel cosiddetto “capitolo linguistico” della Poetica (i45ób, 23-24). Aristotele traccia dunque un’opposizione netta tra il linguaggio umano da un lato e i sistemi di comunicazione animale dall’altro. Torniamo ora alle definizioni di ónoma e di rhema. Anzitutto, osser­ viamo che il secondo dei due termini è definito come un ónoma “con qualcosa in più” : ci sono dunque elementi comuni e elementi di differen­ ziazione tra le due entità. Inoltre, entrambe possono avere delle ptóseis (singoiareptósis), che si potrebbero tradurre ‘casi’, ma che sono piuttosto da intendere come ‘flessioni’ : Aristotele (De interpretatione, i6a, 29) chiama infatti il genitivo e il dativo ptóseis del nome, ma chiama anche il passato e il futuro ptóseis del verbo (i6b, 16-7). Un altro tratto comune tra le due classi di espressioni è che nessuna di esse può essere analizzata in parti più piccole dotate di significato: questa differenza è ciò che le oppone all’enunciato (lògos), definito invece come «un suono della voce dotato di significato, di cui qualche parte ha significato anche separa­ tamente, ma come espressione, non come affermazione» (i6b, 26-7).

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Il “di più” del rhema rispetto all’ ónoma sta nelle indicazioni di tempo: a differenza di quanto accade per i verbi, i nomi non indicano il pre­ sente, il passato o il futuro. Quindi ónoma sembra corrispondere a ciò che oggi chiamiamo ‘nome’ ; e sembrerebbe quindi ragionevole, come si fa abitualmente, tradurre rhema con ‘verbo’, ma la situazione non è così semplice. C i sono infatti dei luoghi, all’interno dello stesso D e interpretatione, in cui rhema indica non il verbo, ma l’aggettivo in funzione di predicato nominale. Quindi, per Aristotele, tutti i verbi sono rhemata, ma non viceversa: è dunque più ragionevole intendere rhema nel senso di ‘predicato’, come abbiamo fatto a proposito di Platone. Dobbiamo comunque osservare che, rispetto a Platone, Aristotele individuava anche una differenza tra onómata e rhemata che oggi definiremmo mor­ fologica: solo i termini del secondo tipo sono flessi in base al tempo. Questo è un ulteriore passo verso la restrizione del significato di rhema a quello di verbo. Passiamo ora al capitolo 20 della Poetica, il cui testo ci è purtroppo pervenuto in forma molto corrotta, ed è quindi particolarmente difficile da interpretare. In questo capitolo, Aristotele sembra voler presentare una classificazione delle entità del linguaggio non ristretta a quelle ri­ levanti per la logica, come accadeva nel D e interpretatione, ma una più generale, che le elenchi tutte, da quelle più piccole, non dotate di signi­ ficato, a quelle dotate di significato. N ell’ordine di Aristotele, tali entità sono: l’ elemento’ (.stoicheion), cioè il singolo suono del linguaggio, non ulteriormente divisibile ; la ‘sillaba’ (syllabe) ; il syndesmos, traducibile con ‘congiunzione’, ma che indica sia le congiunzioni che le preposizioni, e l ’drthron, letteralmente ‘articolazione’, quindi ‘articolo’, ma che proba­ bilmente comprende anche i pronomi personali e dimostrativi; seguono l ’ónoma, il rhema, la ptósis e il lògos. Le entità non dotate di significato sono le prime quattro, quelle dotate di significato Γ ónoma, il rhema e il lògos. Della ptósis Aristotele non ci dice se abbia o non abbia signifi­ cato, in quanto non ne dà una definizione esplicita, ma soltanto alcuni esempi, limitandosi a dire che «è propria tanto del nome quanto del verbo», confermando dunque quanto abbiamo già visto parlando del D e interpretatione. Può sembrare strano che Aristotele consideri prive di significato classi di parole come le congiunzioni, le preposizioni, gli arti­ coli o i pronomi: ma bisogna tenere presente che, dal suo punto di vista, hanno significato solo le parole che indicano determinate categorie della realtà, ossia i nomi, che indicano prevalentemente oggetti, o i verbi, che indicano prevalentemente azioni, o gli aggettivi, che indicano qualità

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ecc., ossia tutte quelle che, nei termini di oggi, sono dotate di un signi­ ficato lessicale. Le altre classi di parole collegano tra loro i vari elementi dotati di significato lessicale: hanno cioè un significato relazionale, grammaticale, ma questo tipo di significato non e considerato come tale da Aristotele. La situazione cambierà nei secoli seguenti, con gli Stoici (cfr. p a r . 2.3.3.2). La definizione di ónoma data nella Poetica è simile a quella che si trova nel D e interpretatione, mentre sono abbastanza di­ verse quelle di rhema e lògos. Il rhema è infatti contrapposto AY ónoma, come nel D e interpretatione, per il fatto di significare « in più » il tempo, ma manca l’ulteriore specificazione che è « segno di qualcosa che si dice di qualcos’altro» ; inoltre, l ’aggettivo ‘bianco’, a differenza di quanto av­ viene nel D e interpretatione, non è citato come esempio di rhema, bensì di ónoma, assieme a uomo (cfr. Poetica, i457a, 16). Nella Poetica, rhema sembra dunque avere un significato equivalente a quello moderno di verbo. Per quanto riguarda il lògos, esso è inizialmente definito come nel D e interpretatione, cioè come un’unità dotata di significato composta di altre unità dotate di significato, ma vi sono alcune aggiunte importanti. Anzitutto, Aristotele dice che esistono lógoi senza rhema·. la definizione di ‘uomo’, cioè «animale terrestre bipede», ne è un esempio. Inoltre, prosegue il filosofo, esistono due tipi di lògos, quello «unitario» e quello «per connessione»: la definizione di uomo e un esempio del primo, l ’Iliade del secondo. In sintesi, ‘Cleone cammina’, ‘animale terrestre bi­ pede’ e l ’Iliade sono tutti esempi di lògos. Questa ampiezza di significato del termine, senza equivalenti esatti nelle lingue moderne, sarà conser­ vata anche dalla sua traduzione latina, oratio, che fino all’ Età moderna sarà utilizzata per indicare tutte le espressioni linguistiche composte di unità dotate di significato, dalle più brevi fino ai poemi omerici. Qual è la ragione di queste differenze tra il D e interpretatione e la Poeticaì La risposta è tutt’altro che semplice. Forse, alla loro origine c ’è il diverso scopo dei due trattati. Il primo, essendo un’opera di logica, si concentra su un unico tipo di enunciato, quello che è vero oppure falso, a seconda che il predicato esprima una proprietà che il soggetto effetti­ vamente possiede, oppure no: quindi rhema ha il significato generico di predicato, e non si parla (o si parla solo marginalmente) di lógoi senza rhema. Viceversa, la Poetica esamina il linguaggio come mezzo di espres­ sione, analizzandolo sotto l’aspetto fonologico e morfologico: ónoma e rhema sono quindi distinti non in base alla loro funzione nella frase, ma alla loro diversa morfologia (il secondo si flette in base al tempo, il primo no), e perciò tendono ad assumere il significato, rispettivamente,

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di nome e di verbo. Questo significato si fisserà definitivamente a partire dai primi trattati grammaticali dell’epoca classica, come vedremo più avanti (cfr. p a r . 2.4.1).

2.3.3. Stoici ed Epicurei 2.3.3.1. Carattere e natura del linguaggio La dottrina aristotelica è senz’altro quella che ha esercitato per secoli il maggiore influsso sulla cultura occidentale, in ogni campo dello scibile (dalla logica alla fisica, alla retorica, alla biologia, e ad altri campi ancora), ma oltre a essa fiorirono, nella Grecia antica, altre scuole filosofiche, come le due di cui ci occuperemo qui: quella stoica e quella epicurea. Gli Stoici erano così chiamati dal nome del ‘portico dipinto’ (gr. stoàpoikile) di Atene, dove, secondo la tradizione, uno di questi filosofi, Zenone di Cizio (circa 335-265 a.C.), avrebbe iniziato il suo insegnamento. Il pen­ siero stoico si sviluppò per vari secoli, ma qui ci occuperemo solo della sua fase più antica, rappresentata soprattutto da Zenone e da Crisippo (circa 280-205 a.C.). La scuola degli Epicurei trae invece il nome dal suo fonda­ tore Epicuro (341-270 a.C.). La filosofia epicurea è tradizionalmente eti­ chettata come “materialista”, in contrapposizione a quella “spiritualista” degli Stoici. Nel nostro parlare quotidiano, “epicureo” e “materialista” sono spesso sinonimi di “godereccio”, ma in realtà l’etica di Epicuro è altrettanto rigorosa di quella degli Stoici, anche se basata su una conce­ zione molto diversa della natura. Tanto gli Stoici che gli Epicurei elabo­ rarono proprie teorie del linguaggio, che si differenziano notevolmente da quella di Aristotele. Quest ultima, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, è strettamente convenzionalista (nomò); Stoici ed Epicurei, invece, adottano una concezione parzialmente naturalistica (physei), ba­ sata sulle rispettive ipotesi (diverse tra loro, come vedremo) sull’origine del linguaggio. Purtroppo, gli scritti originali tanto degli Stoici quanto di Epicuro ci sono pervenuti solo in forma limitata e frammentaria, e quindi si possono ricostruire, in gran parte, solo in base a testimonianze molto più tarde, come quella del medico e filosofo Sesto Empirico (li-m d.C.), che era però un avversario di entrambe le scuole, da lui definite “dogma­ tiche” e quindi opposte alla sua posizione di “scettico”. U n’altra impor­ tante fonte di informazione sono le Vite dei filosofi di Diogene Laerzio

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(in secolo d.C.), che rappresentano forse il più antico manuale di storia della filosofia che ci sia pervenuto. La dottrina di Epicuro suH’origine del linguaggio è esposta anche nel libro V, w . 1028-1090, del D e rerum natura del poeta latino Lucrezio (1 secolo a.C.). Data quindi questa relativa scar­ sità di fonti, ogni ricostruzione del pensiero degli Stoici e degli Epicurei, a cominciare dalla presente, è inevitabilmente lacunosa. La concezione naturalistica del linguaggio, tanto degli Stoici che degli Epicurei, è assai più raffinata di quella che Platone fa presentare da Cratilo (cfr. p a r . 2.3.1). Secondo gli Stoici, le singole parole non sono frutto di convenzione, ma hanno un legame con la natura, che si deve scoprire mediante la ricerca del rapporto originario tra i suoni di cui sono composte e le entità a cui si riferiscono: questo studio è l’eti­ mologia, ossia, letteralmente, lo ‘studio del vero’. D a quanto sappiamo dalle nostre fonti, in questo caso in particolare il D e dialectica di Ago­ stino (350-430 d.C.), gli Stoici spiegavano l’origine delle parole primi­ tive mediante l’onomatopea (somiglianza di suono e significato, come ‘tintinnio’ per indicare il suono di una campanella) o la sinestesia (le­ game tra tipo di sensazione prodotta dalla parola e il suo significato: ad esempio ‘voluttà’ sarebbe una parola “dolce”, e ‘croce’ una parola “aspra”). Da queste parole originarie, altre parole sarebbero derivate per “somiglianza”, “vicinanza”, oppure per “contrasto”; un celebre esempio di derivazione per contrasto, dovuto al grammatico latino Varrone, di cui parleremo anche più avanti (p a r . 2.4.2.1), è quello del latino lucus, ‘bosco’ : si chiamerebbe così perché non lascia passare la luce del sole. Agli occhi dei linguisti moderni, queste etimologie non sono meno fan­ tasiose di quelle che Platone mette in bocca a Cratilo o a Socrate (come il greco ànthrdpos uomo’, ricondotta a anatbrón hà ópópen, ossia “colui che esamina ciò che ha visto” ; cfr. Cratilo, 399c): dall’ Ottocento in poi, l ’etimologia deve rispettare rigorosamente i canoni della linguistica storico-comparativa*, e quindi non c è piu spazio per etimologie del genere (almeno nella linguistica scientifica; i dilettanti comunque non mancano, né probabilmente mancheranno mai). Inoltre, per i linguisti moderni lo scopo della ricerca etimologica è solo quello di spiegare i mu­ tamenti di significato che le varie espressioni linguistiche hanno subito nel corso del tempo, mentre gli Stoici concepivano l ’etimologia anche e soprattutto come il mezzo per ricostruire l ’origine di tali espressioni. Quindi le loro etimologie rappresentano comunque un tentativo inte­ ressante per dare un fondamento empirico alla loro concezione natura­ listica del linguaggio.

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Anche secondo Epicuro i nomi non sono stati imposti alle cose per convenzione: essi infatti derivano per impulso naturale, cioè sono conseguenza delle emozioni e delle immagini che le cose producono negli esseri umani. Queste emozioni e queste immagini sono diverse a seconda delle varie popolazioni, e anche dei vari individui, e questo spiega il perché della diversità delle lingue (un problema, questo, che gli Stoici non si erano posti, a quanto pare). Successivamente, all’interno delle singole popolazioni si creò un accordo per designare le stesse cose con gli identici suoni, e più tardi furono trovati anche nomi per “cose non visibili”, ossia, si può interpretare, per nozioni astratte (cfr. Diogene Laerzio, in Reale, Girgenti, Ramelli, 2006, pp. 1126-8). Come si può ve­ dere, Epicuro mediava in un certo senso tra la concezione naturalistica e quella convenzionalista: il linguaggio ha origine per un impulso natu­ rale, ma si stabilizza in base a un accordo. Non è probabilmente un caso che Stoici ed Epicurei, sostenendo en­ trambi che il linguaggio umano ha una componente naturale, si occu­ pino anche del sistema di comunicazione naturale per eccellenza, ossia il cosiddetto “linguaggio degli animali”. Come abbiamo visto (p a r . 2.3.2), Aristotele poneva una netta cesura tra quest’ultimo e il linguaggio umano: naturale e non articolato il primo, convenzionale e articolato il secondo. Anche gli Stoici assumono una posizione simile, nonostante sostengano che il linguaggio umano abbia un carattere naturale, dato che si è sviluppato da iniziali onomatopee. Tuttavia, attribuire al linguaggio un carattere naturale non significa automaticamente attribuirgli anche u ri origine naturale: esso si è sviluppato, secondo gli Stoici, grazie alla capacità di riflessione che l ’uomo possiede, e che gli permette di asse­ gnare agli originari suoni onomatopeici un valore di segno. Secondo gli Stoici, questa capacità di riflessione è totalmente assente negli animali, e quindi tra i loro “linguaggi” e quello della specie umana c’è una frattura incolmabile. Diversa è la posizione degli Epicurei: essi negano che ci sia una differenza irriducibile tra i due tipi di linguaggi. Indicativi, a questo proposito, sono i versi in cui Lucrezio {De rerum natura, v, 1056-1061), presentando le ipotesi epicuree sull’origine del linguaggio umano, si ri­ ferisce anche al linguaggio degli animali: «Infine, che cosa c e di tanto singolare in questo, se il genere umano, che aveva lingua e voce, secondo le varie impressioni indicava gli oggetti con suono diverso, quando le greggi, che son prive della parola, quando anche le bestie selvagge so­ gliono emettere gridi di volta in volta diversi, se provano paura o dolore e se cresce in loro la gioia?» (Fellin, 1997, p. 393). Tanto gli animali quanto

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gli uomini, dunque, possono esprimere vari stati d ’animo mediante vari tipi di segni, e quindi non si possono porre limiti netti tra i due tipi di sistemi di comunicazione. Posizioni simili saranno sostenute in modo ancora più netto, qualche secolo più tardi, da Sesto Empirico, che affer­ mava, ad esempio (cfr. Schizzipirroniani, libro 1,74-76, in Mutschmann, 1912, p. 21), che i linguaggi delle varie specie animali ci paiono non arti­ colati perché non li comprendiamo, tanto quanto non comprendiamo i popoli che parlano lingue diverse dalle nostre, nonostante tutte siano ugualmente significative e articolate. Nei termini del dibattito contem­ poraneo, posizioni come quelle di Aristotele e degli Stoici verrebbero definite “discontinuiste” (cfr. p a r . 7.3.3.x), nel senso cioè che negano che il linguaggio umano possa rappresentare uno sviluppo dei sistemi di co­ municazione animali, mentre quelle degli Epicurei o di Sesto Empirico sarebbero chiamate “continuiste”. Naturalmente, queste analogie non devono farci dimenticare le grandi diversità tra i quadri concettuali di oggi e quelli della Grecia antica: le nozioni, infatti, di “continuità” e “di­ scontinuità” si riferiscono alla teoria evoluzionistica, che era ovviamente estranea al pensiero classico. È tuttavia interessante che pure all’interno di questi diversi quadri concettuali si riproponga lo stesso problema (che, come vedremo nel p a r . 4.4.2, si è presentato anche in altre epoche del pensiero linguistico, in particolare nel Settecento). 2.3.3.2. L'analisi del linguaggio presso g li Stoici Gli Epicurei non ci hanno tramandato analisi specifiche della struttura del linguaggio; viceversa, ci rimangono numerose tracce di quelle com­ piute dagli Stoici, anche se, come si è detto, la scarsità di fonti dirette non ci permette di ricostruire il loro pensiero in modo sicuro. In base comunque alla testimonianza di Diogene Laerzio (in Reale, Girgenti, Ramelli, 2006, pp. 766-72), gli Stoici distinguono tre parti della filosofia: naturale, morale e razionale (letteralmente, ‘logica’, da lògos, che, come ab­ biamo detto nel paragrafo 2.3.1, in greco antico significa tanto ‘discorso’ che ‘ragionamento’ ). La logica si distingue poi in ‘retorica’ e ‘dialettica’ : la prima è « l ’arte del ben parlare», la seconda « l ’arte del dialogare cor­ rettamente», ovvero «la scienza di ciò che è vero, di ciò che è falso e di ciò che non è né l’uno né l ’altro». La dialettica, a sua volta, si occupa, da un lato, dei significati {semainómena) e dall’altro del suono (fine). Il modo in cui gli Stoici trattano il rapporto tra suono e significato è notevolmente diverso e più raffinato rispetto a quello di Aristotele.

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Infatti, mentre quest’ultimo prende in considerazione tre livelli, ossia «le cose» (o gli «oggetti»), «le affezioni dell’anim a» e i suoni (cfr. p a r . 2.3.1; le «cose scritte» hanno solo un ruolo secondario, derivativo), gli Stoici ne fanno entrare in gioco quattro: all’ oggetto’ (tynkhànon), alle ‘rappresentazioni’ (fantasiai) e alla ‘voce’ [fonie), che più o meno corrispondono ai tre livelli aristotelici, ne aggiungono un quarto, il lektón (plurale lekta), dal verbo légo (‘dico’ ), ossia, letteralmente, ‘il dici­ bile’, ο T esprimibile’ (cfr. Diogene Laerzio, in Reale, Girgenti, Ramelli, 2006, pp. 770-2; Sesto Empirico, Adversus mathematicos, v ili, 11-12, in Mutschmann, 1914, p. 106). Mentre per Aristotele, dunque, le « affezioni dell’ anima» coincidono con i significati, per gli Stoici le due nozioni sono distinte. Le affezioni dell’anima (lefantasiai) «sono identiche per tutti» (Aristotele, Deinterpretatione, ióa, 5), m ai significati, i lekta degli Stoici, sono diversi per Greci e barbari: questi ultimi, infatti, non com­ prendono le voci emesse dai Greci, pur sentendole (cfr. Sesto Empirico, Adversus mathematicos, v ili, 12, in Mutschmann, 1914, p. 106). L ’ana­ lisi degli Stoici non ebbe una grande influenza sui filosofi successivi, che continuarono piuttosto ad adottare il più semplice modello aristote­ lico. U n’eccezione significativa è rappresentata da Agostino, che, nel D e dialectica, distingue tra verhum, dicibile, dictio e res (cfr. Pinborg, 1973, pp. 88-90). Verbum in latino vale sia ‘verbo’ che, più genericamente, ‘pa­ rola’, ed è su questa seconda accezione che si concentra Agostino, che definisce verbum come « il segno di una qualunque cosa, emesso da chi parla e comprensibile da chi ascolta» (ib id .). Agostino è probabilmente il primo a dire che la parola è un segno: gli altri studiosi antichi, Stoici compresi, utilizzavano questa etichetta solo per indicare i gesti, gli squilli di tromba militari ecc. Il verbum, prosegue Agostino, può significare sia la voce in sé stessa (come quando diciamo “arm i è un parola”), sia qual­ cos’altro (come quando usiamo ‘armi’ per parlare delle armi di Enea, o di uno scudo, o di una spada). La nostra immagine mentale delle armi è il dicibile·, la dictio è la parola in quanto espressione di questa imma­ gine mentale; la res (‘cosa’) corrisponde all’ oggetto’ (tynkhànon) degli Stoici: nell’esempio, le armi come oggetti fatti di ferro o di altri metalli. A parte quest'ultima, le distinzioni agostiniane corrispondono solo par­ zialmente a quelle degli Stoici: il verbum infatti corrisponde alla ‘voce’, ma solo in quanto quest'ultima è significativa, e il dicibile, anche se è la traduzione letterale di lektón, sembra più corrispondere alle fantasiai·, di dictio, poi, non c e un equivalente esatto presso gli Stoici. Tuttavia, c ’è un punto in comune tra questi ultimi e Agostino: la dictio non è una

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pura successione di suoni che rimanda a entità psichiche o materiali, ma è in sé stessa una combinazione inscindibile di suono e di significato. Questa posizione è simile a quella che verrà adottata da Saussure molti secoli dopo (cfr. p a r . è . z . i f . Aristotele affermava poi (cfr. p a r . 2.3.2) che il linguaggio umano è significativo e articolato e si distingue dai linguaggi degli animali per la seconda di queste due proprietà: il latrato del cane è significativo quanto le espressioni del linguaggio umano, ma solo queste ultime sono analiz­ zabili in sillabe e in suoni singoli. Gli Stoici separano la proprietà dell’ar­ ticolazione da quella della significatività, distinguendo la «voce artico­ lata» (léxis) dalla «voce significativa» [lògos): una parola come blituri (una sorta di onomatopea per indicare un rumore, come ‘ bum ! ’, ‘splash ! ’ ecc.) è articolata in singoli suoni distinti, ma è priva di significato (cfr. Diogene Laerzio, in Reale, Girgenti, Ramelli, 2006, p. 782). Gli Stoici non considerano quindi il lògos come una “parte del linguaggio” al livello delle altre, a differenza di quanto faceva Aristotele nel capitolo 20 della Poetica (cfr. p a r . 2.3.2), ma come l’ insieme dei vari tipi di voci signifi­ cative, da loro chiamate mère toù lógou (cfr. Diogene Laerzio, in Reale, Girgenti, Ramelli, 2006, pp. 782-4), cioè “parti dell’enunciato”, “parti della frase”, oppure, come si traduce abitualmente, “parti del discorso”. La distinzione tra léxis e lògos è anche alla base di quella tra ‘barbarismo e ‘solecismo’ : il primo dei due è «una parola [léxis) che contrasta con l’uso dei Greci distinti» ; il secondo «un discorso [lògos) sintatticamente sconnesso» (Diogene Laerzio, in Reale, Girgenti, Ramelli, 2006, p. 785). Alcune delle parti del discorso degli Stoici sono già menzionate nel capitolo 20 della Poetica. Rispetto a quest’ultimo, mancano ‘elemento’ (cioè il singolo suono), ‘sillaba’ e ptósis. L ’assenza delle prime due entità si spiega facilmente: il suono e la sillaba non sono dotati di significato, quindi non appartengono al lògos come lo intendono gli Stoici. L ’assenza della ptósis (nozione su cui torneremo tra poco) si può spiegare con il fatto che gli Stoici la trattano non come una classe di parole a sé, come il nome o il verbo, ma come un ‘concomitante’ [parepómenon) del nome: uno stesso nome può apparire in casi diversi. Gli Stoici collocano tra le parti del lògos anche la congiunzione [syndesmos) e l’articolo [àrthron), considerandoli quindi come dotati di significato a differenza di quanto faceva Aristotele. Riassumendo, delle classi di entità elencate da Aristo­ tele, se ne trovano presso gli Stoici quattro, il nome [ónoma), il verbo [rhema), l’àrthron e il syndesmos, destinate a diventare cinque, in quanto gli stessi Stoici dividono il nome in due classi, il nome proprio [idioti) e il

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nome ‘appellativo’ {prosègorikón), che poi verrà detto ‘comune’. Il primo dei due indica una «qualità propria», come ‘Socrate’, il secondo una «qualità comune», come ‘uomo’ o ‘cavallo’. La tradizione grammati­ cale successiva ha ripreso questa distinzione, che è tuttora fondamentale, non considerando però i nomi propri e i nomi comuni come due classi diverse di parole, ma come due sottoclassi del nome. Come Aristotele distingueva gli enunciati assertivi dagli altri tipi di enunciati, così gli Stoici distinguono gli enunciati (lektà) che pos­ sono essere veri o falsi dagli altri tipi di enunciato, come le preghiere, le domande ecc., chiamando i primi axiomata (sing. axióm a), da cui deriva, con un senso più ristretto, il nostro ‘assiomi’, ma che, negli Stoici, vale piuttosto ‘asserzioni’. U n’altra distinzione tra i vari tipi di lektà è quella tra ‘incompleti’ e ‘completi’ : i primi sono quelli costituiti dal solo predicato; i secondi quelli che contengono un predicato e un nome al nominativo (gli Stoici non usano, a quanto pare, un termine equivalente a ‘soggetto’). Quindi, ‘scrive’ è un lektón incompleto; ‘So ­ crate scrive’ è completo. G li Stoici classificano poi i predicati in tre tipi: ‘retti’ (orthà), ‘inversi’ ijp tia) e ‘neutri’ (oudétera, letteralmente ‘né gli uni né gli altri’, come il latino neutra). I primi sono esemplificati da ‘ascolta’, ‘vede’ ecc.; i secondi, da ‘sono ascoltato’, ‘sono visto’ ecc.; gli altri, da ‘pensa’, ‘passeggia’ ecc. Come si vede, queste classi di predicati corrispondono, rispettivamente, ai nostri verbi attivi, passivi e intransi­ tivi; gli Stoici, tuttavia, non li definiscono in base a concetti come “chi compie l ’azione” o “chi la subisce”, ma in base alla costruzione in cui entrano: i predicati ‘retti’ sono quelli che si costruiscono con un caso obliquo, quelli ‘inversi’ quelli che si costruiscono con la preposizione hypó (il nostro ‘da’ nelle frasi passive), e infine ci sono quelli che non si costruiscono in nessuno di questi due modi. ‘Caso obliquo’ è un altro concetto introdotto dagli Stoici, che davano al termine ‘caso’ {ptósis) un senso diverso da quello che si trova nei trattati di Aristotele, dove non indica tanto il caso, quanto in generale la flessione (cfr. p a r . 2.3.2). Gli Stoici, invece, restringono l ’ impiego del termine ai nomi, assegnan­ dogli dunque il valore che gli è rimasto fino a oggi. I casi ‘obliqui’ sono il genitivo, il dativo e l ’accusativo (quest’ultimo termine è dovuto a una traduzione latina impropria del termine greco aitìtiake ptósis, che signi­ fica piuttosto ‘caso causativo’, in quanto l ’oggetto diretto è concepito come causato dall’azione del soggetto); il nominativo è ‘caso retto’ ; in questa lista manca l ’ablativo, in quanto non è presente in greco, e fu aggiunto dai grammatici latini.

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Per quanto riguarda invece l ’analisi del verbo, gli Stoici distinsero, in termini moderni, tra tempo e aspetto verbale. La prima nozione si riferisce al modo in cui il verbo rappresenta la successione degli eventi: come già accaduta, come in corso oppure come ancora da accadere. La seconda nozione si riferisce al modo in cui il verbo presenta lo svolgi­ mento di un’azione, ossia come incompiuta oppure come compiuta: ‘leggevo’ (azione incompiuta) vs ‘ho letto’ (azione compiuta). Combi­ nando l ’opposizione tra compiuto e incompiuto con quella tra presente e passato, gli Stoici distinsero quattro tipi di tempi verbali: il presente incompiuto (‘legge’ ), il presente compiuto (‘haletto’ ), il passato incom­ piuto (‘leggevo’ ), il passato compiuto (‘avevo letto’ ). Osserviamo, per inciso, che c e una differenza tra l ’espressione dei “tempi compiuti” in greco antico e in italiano: infatti essi sono realizzati da forme verbali composte (cioè, costituite dal verbo ausiliare più il participio passato) nella seconda delle due lingue, da una forma semplice nella prima. In ogni caso, i quattro tempi elencati (più tardi chiamati rispettivamente presente, perfetto, imperfetto e piuccheperfetto) non esauriscono il si­ stema verbale del greco antico: esistono infatti una forma per l’espres­ sione del futuro, e una forma particolare che in certi casi, ma non sempre, si riferisce al passato, senza indicare la completezza o meno dell’azione. G li Stoici definirono dunque questi due ultimi tempi verbali come ‘non determinati’ (aóristoi), contrapponendoli agli altri quattro, detti ‘deter­ minati’ (órisménoi); ma visto che la semplice indicazione degli eventi come ancora da accadere distingue il futuro (méllón) dal presente e dal passato, il termine aóristos rimase confinato solo al verbo relativo al pas­ sato (ad es. l ’equivalente greco di ‘lessi’ ). Questa sottile distinzione tra tempo e aspetto non fu però colta dai grammatici successivi (con l ’ecce­ zione di Varrone; cfr. PAR. 2.4.2.1), ed è così rimasta ignorata da tutta la tradizione grammaticale occidentale fino almeno all’ Ottocento.

z . 4. La grammatica antica 2.4.1. I filologi alessandrini e la TéchnéÒx Dionisio Trace Agli Stoici si deve dunque l ’elaborazione di alcuni concetti fondamen­ tali di grammatica, anche se essi li trattano come parte della dialettica. La grammatica come disciplina autonoma nasce solo successivamente, conservando alcune tracce della tradizione filosofica precedente, ma

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con vari limiti e semplificazioni. Ad esempio, i grammatici ignorano i concetti di soggetto e predicato, risalenti a Platone e ad Aristotele, e non discutono del rapporto tra linguaggio, pensiero e realtà. Per questi motivi, chiameremo “bassa” la tradizione dei grammatici, contrappo­ nendola a quella “alta”, di origine filosofica, di cui ci siamo occupati fin qui. G li scopi dei grammatici rimangono infatti fondamentalmente pratici, non teorici, anche se notevolmente ampliati: a partire circa dal in secolo a.C., non hanno più solo il compito di insegnare a leggere e a scrivere, che era all’origine della loro denominazione (cfr. p a r . 1.1) , ma quella, molto più complessa, di analizzare e descrivere il greco (e poi, sul modello di quest’ultimo, il latino) e di fissare i canoni dello scrivere “cor­ retto” (una preoccupazione, questa, già avvertita anche dagli Stoici, che avevano parlato di “barbarismi” e “solecismi” ; cfr. p a r . 2.3.3.2). Prima di fornire una sintetica presentazione delle grammatiche dell’Età classica, occupiamoci brevemente del contesto storico e culturale in cui ebbero origine. A partire dalla fine del iv secolo a.C., le conquiste di Alessandro Magno (356-313 a.C.) avevano diffuso la cultura greca in un’area vastis­ sima, corrispondente, più o meno, ai territori attuali dei seguenti Stati: Grecia, Cipro, Turchia, Egitto, Libano, Siria, Israele, Giordania, Iraq, Iran, e parte del Pakistan e dell’ India. Dato che la stragrande maggio­ ranza delle popolazioni di questi territori in origine non parlava greco, che era invece la lingua ufficiale dell’Impero di Alessandro e dei regni in cui si divise alla morte del conquistatore, era necessario fissare una norma, una regola del buon parlare e scrivere. In questa stessa epoca, inoltre, si cominciava a ricostruire il testo dei poemi di Omero, che, composti probabilmente tra la fine del 11 millennio a.C. e l’inizio del 1, erano stati dapprima trasmessi oralmente, mentre le loro prime reda­ zioni scritte risalgono a non prima dell’v i ll secolo: si trattava di stabi­ lire quale potesse essere la loro versione originale, o almeno più attendi­ bile. A questa attività si dedicarono i filologi alessandrini, così chiamati perché attivi nella città di Alessandria di Egitto tra il ili e il 11 secolo a.C.: tra essi, ricordiamo Zenodoto, Aristofane di Bisanzio e soprattutto A ri­ starco di Samotracia (circa 215-145 a.C.). È in questo ambiente culturale che fu probabilmente composto il primo trattato di grammatica, datato intorno al 100 a.C. e attribuito a un allievo di Aristarco, ossia Dionisio Trace (circa 170-80 a.C.): si tratta della cosiddetta Téchnégrammatike (letteralmente “Arte grammaticale” ; cfr. PAR. 2.z). Da quanto si dice all’inizio del trattato, i compiti della grammatica

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sono soprattutto di carattere filologico e letterario: « il giudizio delle opere letterarie» è definito «la sua parte più nobile». Queste defini­ zioni di grammatica si trovano anche in studiosi successivi, come Cice­ rone (106-43 a.C.) e Quintiliano (seconda metà del 1 secolo d.C.). Poi, di fatto, Dionisio si occupa dei suoni, di alcuni segni di punteggiatura, delle sillabe e delle parti del discorso. Le parti del discorso elencate da Dionisio sono otto: il nome (ónoma), il verbo (rhéma), il participio (metoche), l ’articolo (àrthron), il pronome (antonim ia), la preposizione (próthesis), l ’avverbio {epirrhéma), la congiunzione {syndesmos). Anche molti di questi termini non ci sono nuovi: li abbiamo incontrati presso Platone e Aristotele, e più tardi presso gli Stoici. Le innovazioni intro­ dotte nella Téchnégrammatike (e probabilmente risalenti ad Aristarco di Samotracia) sono: 1. il participio, così chiamato perché “partecipa” della natura tanto del nome quanto del verbo, dato che ha caso, come il nome, e tempo, come il verbo; z. il pronome, che diventa una parte del discorso a sé, distinta dall’articolo, a differenza di quanto avveniva in Aristo­ tele e negli Stoici; 3. la preposizione, distinta dalla congiunzione, alla quale sola si restringe l’etichetta di syndesmos introdotta da Aristotele; 4. l’avverbio, poi, che era forse già stato introdotto dagli Stoici, ma con un’altra denominazione (mesótès, letteralmente ‘ciò che sta nel mezzo’ ). L ’influsso del pensiero stoico sui grammatici alessandrini è chiaro, a cominciare dalla stessa espressione “parti del discorso”, introdotta dagli Stoici (cfr. p a r . 2.3.3.2); tuttavia, i grammatici non riprendono alcune delle tematiche stoiche più raffinate, come quelle relative al rapporto tra ‘voce’, ‘dicibile’, ‘rappresentazione’ e ‘oggetto’ (cfr. p a r . 2.3.3.1). Questo è probabilmente dovuto ai loro differenti obiettivi relativamente allo studio del linguaggio: teorici quelli degli uni, pratici quelli degli altri. Anche i termini di léxis e di lògos assumono, nei grammatici, un signi­ ficato più specifico di quello che avevano per gli Stoici: il primo non indica più la voce articolata in genere, ma la singola parola («la parte più piccola di una frase connessa»; Dionisio Trace in Uhlig, 1883, p. 22); il secondo, non la voce dotata di senso, ma più specificamente la frase («una combinazione di parole che esprime un senso compiuto»; ihid.). Lògos viene tradizionalmente reso, in italiano, con ‘discorso’, ma con questo termine si intende oggi la «esposizione di un’ idea, di una tesi per mezzo della parola, l’argomento, il contenuto di tale esposizione» (De Mauro, 2000, s.v.)\è chiaro che per compiere una tale esposizione si ricorre a nomi, verbi ecc., ma suona abbastanza strano chiamare queste entità “parti” dell’esposizione stessa, che sarà, in primo luogo, costituita

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da brani, poi da periodi, poi da frasi, e infine dalle singole parole. Quindi non si dovrebbe parlare di “parti del discorso”, ma, più esattamente, di “parti della frase”. Dato però che la prima delle due etichette è quella che si è imposta nella storia della grammatica, continueremo a utilizzarla anche qui. D i ogni parte del discorso Dionisio Trace fornisce anche le defini­ zioni; quelle del nome e del verbo sono le seguenti: Il nome è una parte del discorso dotata di caso, che indica un oggetto corporeo (come pietra’ ) o incorporeo (come ‘educazione’ ) (in Uhlig, 1883, p. 24). Il verbo è una parola priva di caso, ma che contiene tempi, persone e numeri, e descrive un agire o un patire (ivi, p. 46).

Queste definizioni ricorrono a due tipi di criteri, uno morfologico e l ’altro semantico. Il primo consiste nel fare riferimento agli elementi che, nei termini di Dionisio, “accompagnano” (i parepómena, reso in latino con accidentia) le diverse parti del discorso: ad esempio, il caso, che accompagna i nomi ma non i verbi, o il tempo, che accompagna i verbi ecc. Il criterio semantico si basa sulla differenza delle entità deno­ tate dalle diverse parti del discorso: nel caso dei nomi e dei verbi, og­ getti oppure azioni. La definizione semantica delle parti del discorso è sostanzialmente quella adottata ancora oggi nelle grammatiche di impo­ stazione tradizionale. L ’elenco delle parti del discorso contenuto nella Téchnégrammatike si ripete identico negli altri grammatici greci, e anche in quelli latini, con una sola modifica dovuta a una differenza tra le due lingue: in la­ tino manca infatti l ’articolo. I grammatici latini, tuttavia, considerano l ’interiezione come parte a sé, a differenza dei grammatici greci, che la collocavano tra gli avverbi, e quindi si arriva a otto parti anche in latino. Combinando l’elenco dei grammatici greci con quello dei grammatici latini, otteniamo il seguente: nome, verbo, participio, articolo, pro­ nome, avverbio, preposizione, congiunzione, interiezione, che, come si vede, coincide in larga parte con quello che ancora troviamo nelle gram­ matiche delle lingue moderne, a cominciare dall’italiano; manca una sola parte, l ’aggettivo, che i grammatici antichi trattano come un tipo di nome, e ce n e una in più, il participio, che oggi consideriamo come un modo del verbo. Uno degli elementi costitutivi della nostra tradizione grammaticale, cioè l ’elenco delle parti del discorso, si trova già quasi in­ tegralmente nella dottrina della Grecia classica.

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2.4.2. Lo sviluppo della grammatica nell’Età classica 2.4.2.1. Varrone Il modello di Dionisio fu adottato da quasi tutti i grammatici successivi, come vedremo nel prossimo paragrafo. U n’eccezione è rappresentata da Varrone (116-27 a.C.), un erudito romano autore di moltissime opere sugli argomenti più svariati (dall’agricoltura alla letteratura) e che nel suo D e lingua latina, che ci è pervenuto soltanto in parte (6 libri su 25), affronta numerosi problemi relativi non solo al latino, ma anche al lin­ guaggio in generale, come l’etimologia (cfr. PAR. 2.3.3.1) e la disputa tra “analogisti” e “anomalisti”: nella ricostruzione di Varrone, i primi sono rappresentati da Aristarco, i secondi da Cratete di Mallo, un filosofo stoico greco che visse anche a Roma, nel 11 secolo a.C. In estrema sin­ tesi, potremmo dire che, secondo gli analogisti, la lingua è frutto di ra­ zionalità e convenzione e quindi tutte le forme debbono obbedire a un criterio di regolarità; secondo gli anomalisti, al contrario, la presenza di irregolarità nelle lingue è inevitabile, perché connaturata a esse. Come si vede facilmente, la posizione analogista è parallela a quella convenzio­ nalista sulla natura del linguaggio, mentre quella anomalista si collega a quella naturalista. È tuttora dubbio se la presentazione che Varrone dà della disputa sia storicamente attendibile: in ogni caso, si tratta di un dibattito che ebbe una notevole importanza nella riflessione sul lin­ guaggio nell’antichità classica, come testimonia il fatto che se ne occu­ parono vari altri studiosi, come Quintiliano o Sesto Empirico, e lo stesso Giulio Cesare sembra essere stato l’autore di un libro sulla questione, ora perduto. Veniamo ora all’inventario delle parti del discorso stabilito da Var­ rone, che è diverso da quello di Dionisio Trace e degli altri grammatici per quanto riguarda sia l’elenco delle varie categorie riconosciute sia il metodo adottato per individuarle, che si fonda su una serie di opposi­ zioni e suddivisioni binarie. Basandosi infatti su due sole proprietà, cioè la presenza o meno di desinenze di caso e di tempo, l ’erudito latino di­ stingue quattro classi di parole: 1. quelle che hanno caso ma non tempo; 2. quelle che hanno tempo ma non caso; 3. quelle che hanno sia caso sia tempo; 4. quelle che non hanno né caso né tempo (cfr. D e lingua latina, X, § 17, in Traglia, 1974, p. 444). Anche in base agli esempi di Varrone, è facile vedere che la seconda, la terza e la quarta classe corrispondono, rispettivamente, ai verbi, ai participi e agli avverbi. La prima classe è poi

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suddivisa in due sottoclassi, i nomi (nominatus), e quelli che Varrone chiama articuli, cioè i pronomi. Entrambe si dividono a loro volta in due sottoclassi: i nomi in comuni e propri, i pronomi in definiti (come bic, ‘questo’ ) e indefiniti (come quis, chi’ ; cfr. ivi, p. 446). Un altro aspetto importante che distingue l ’opera di Varrone da quella degli altri grammatici antichi è la sua distinzione, di evidente ascendenza stoica, tra tempo e aspetto del verbo (cfr. p a r . 2.3.3.2). Cri­ ticando «quelli che dicono che il sistema dei tempi non rispetta Tanalogia» (cioè non è regolare), perché, mentre il passato legi (che può signi­ ficare sia ‘ho letto’ che ‘lessi’ ) indica un’azione compiuta, il presente lego (‘leggo’ ) e il futuro legam (‘leggerò’ ) indicano un’azione incompiuta, egli osserva che l ’opposizione tra queste forme non è, diremmo oggi, di tipo temporale, ma aspettuale: legi si oppone a lego non in termini di passato e presente, ma di azione compiuta e azione incompiuta. Questa opposizione si realizza in tutti e tre i tempi, passato, presente e futuro: ad esempio, discebam (‘imparavo’, passato incompiuto) vs didiceram (‘avevo imparato’, passato compiuto); disco (‘imparo’, presente incompiuto) vs didici (‘ho imparato’, presente compiuto); discam (‘imparerò’, futuro in­ compiuto) vs didicero (‘avrò imparato’, futuro compiuto; cfr. D e lingua latina, ix , § 96, in Traglia, 1974, p. 420).

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auditiva è molto più “passiva” di una visiva, e quindi c ’è una ragione per usare il genitivo, lo stesso caso retto dalla preposizione che introduce il complemento di agente nelle frasi passive. Ad Apollonio si devono molte altre analisi pregevoli, come quella dei vari valori possibili dell’ar­ ticolo e del pronome, su cui ora non ci soffermeremo. Anche in questo grammatico, che possiamo considerare il più acuto tra tutti quelli an­ tichi, mancano però le nozioni di soggetto e predicato, e altre che sono oggi considerate fondamentali per la sintassi, come quella di frase princi­ pale e frase dipendente: la sua è sostanzialmente una “microsintassi”, che considera solo la combinazione di parole adiacenti, e non la struttura generale della frase. Grammatico essenzialmente pratico è invece Donato (iv secolo d.C.), la cui opera grammaticale consta di due parti, note come Ars m inor e Ars maior. Quest’ultima è divisa in tre sezioni: la prima fornisce una classi­ ficazione dei suoni, delle sillabe e delle altre entità fonetiche; la seconda tratta delle parti del discorso; la terza dei “difetti e dei pregi del discorso” {vitia virtutesque orationis), ossia delle variazioni rispetto alla norma grammaticale, che in certi casi sono un difetto, come i solecismi, a volte un pregio, come nel caso delle figure retoriche. La cosiddetta Ars minor è un elenco delle parti del discorso e delle loro definizioni, secondo uno schema simile a quello dei catechismi:

2.4.2.2. Apollonio Discolo, Donato, Prisciano Nei primi secoli della nostra era, si contano numerosi trattati gram­ maticali, tanto greci quanto latini. Come si è detto nel paragrafo 2.4.1, adottano tutti il sistema di parti del discorso che si trova nella Téchné di Dioniso Trace, con l ’omissione dell’articolo e Tinserimento dell’interiezione come parte del discorso a sé, se si tratta di grammatiche la­ tine. I grammatici che hanno esercitato il maggiore influsso nei secoli successivi sono Apollonio Discolo tra quelli greci, e Donato e Prisciano tra quelli latini. Ad Apollonio (il secolo d.C.) si deve il primo trattato esplicitamente dedicato alla sintassi {Peri syntdxeós), cioè all’analisi delle combinazioni di parole, per mostrare quali sono ammesse, e quali invece no (i ‘solecismi’ già riconosciuti dagli Stoici; cfr. p a r . 2.3.3.2). Questo trattato di Apollonio si può considerare il primo tentativo di gramma­ tica “ragionata”, che intende cioè spiegare il perché delle forme lingui­ stiche. Ad esempio, in greco i verbi che significano ‘vedere’ reggono il caso accusativo, mentre quelli che significano ‘ascoltare’ reggono il geni­ tivo: Apollonio spiega questa differenza osservando che una percezione

D : «che cos e il nome?» R: «il nome è una parte del discorso dotata di caso, che indica un corpo o una cosa, ed è comune o proprio». D: «Che cos’è il verbo?» R: «il verbo è una parte del discorso con tempo e persona, senza caso, che signi­ fica un agire, un patire, o nessuna delle due cose» (cfr. Keil, 1864, pp. 355, 359).

Come si vede, le definizioni di Donato sono molto simili, per certi aspetti identiche, a quelle di Dionisio Trace. Il trattato di Donato è estremamente semplice e lineare, e costituì il modello di grammatica scolastica per molti secoli. “Donato” diventò quasi sinonimo di grammatica, tanto che una delle prime grammatiche di una lingua moderna, il provenzale, risalente al x m secolo, si intitola proprio Donatz Proensals. A differenza delle due opere di Donato, le Institutiones grammaticae di Prisciano sono un ponderoso (e spesso confuso) trattato che, riprendendo a volte letteralmente passi di Apollonio Discolo, rappre­ sentò il modello di grammatica “colta” per un tempo altrettanto lungo. Prisciano, nativo della Mauritania, visse a Costantinopoli in un’epoca

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(v-vi secolo d.C.) in cui la conoscenza del latino stava progressivamente scomparendo nell’Impero d ’Oriente, ormai diventato Impero bizan­ tino. Tuttavia, gli imperatori bizantini si consideravano legittimi eredi di Roma: tra il 528 e il 535 l ’ imperatore Giustiniano fece raccogliere la giurisprudenza romana nel famoso Corpus iuris. Le Institutiones di Prisciano rappresentavano quindi, come si direbbe oggi, la “grammatica di riferimento” del latino anche per parlanti che avevano solo una co­ noscenza limitata di questa lingua. Quest’opera ebbe una straordinaria diffusione, tanto che ci è stata tramandata in diverse centinaia di ma­ noscritti: si tratta di un numero impressionante, perché non si può di­ menticare che ogni manoscritto era l’opera di un singolo, e nell’edizione a stampa moderna (Keil, 1855-58) le Institutiones occupano quasi 1.000 pagine. L ’opera di Prisciano è particolarmente importante perché sistema­ tizza molte delle nozioni elaborate dai grammatici greci e latini tra il n -ι secolo a.C. e il v i secolo d.C. e destinate a diventare patrimonio della grammatica tradizionale, come, ad esempio: 1. l ’elenco delle otto parti del discorso, definite in maniera analoga a quella di Dionisio Trace o di Donato, ma a cui vengono attribuite «proprietà caratteristiche» {pro­ pria) che richiamano alcune categorie aristoteliche (cfr. p a r . 3.3.2.2); 2. Lanalisi delle varie forme, nominali e verbali, mediante “paradigmi” : a una forma base (il nominativo per il nome, il presente indicativo per il verbo) vengono opposte le altre forme flesse, secondo il caso e il nu­ mero per i nomi, secondo il tempo, la persona, il modo e il numero per i verbi; 3. la definizione di frase come «combinazione coerente di parole che esprime un senso compiuto» (ivi, voi. 11, p. 53), che sostanzialmente riprende la formulazione di Dionisio Trace (cfr. p a r . 2.5); 4. la classifi­ cazione dei verbi in attivi, passivi e deponenti (una posizione particolare è assegnata al verbo essere’, chiamato Verbo sostantivo’ e definito « il più perfetto di tutti, acuì nulla m anca»; ivi, p. 414); 5. la distinzione tra costruzione intransitiva e costruzione transitiva: la costruzione intran­ sitiva è la combinazione tra il verbo e il caso nominativo, la costruzione transitiva quella tra il verbo e i casi obliqui (ivi, voi. in , pp. 147-8; si noti che Prisciano parla di costruzioni transitive e intransitive, non di verbi transitivi e intransitivi, come fanno invece le nostre grammatiche scolastiche). Come in tutti gli altri grammatici antichi, non si riscon­ trano invece in Prisciano le nozioni di soggetto e predicato, che cominceranno a entrare nelle grammatiche solo in epoca medievale. Altre no­ zioni grammaticali che si svilupperanno solo in tempi molto più recenti,

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e che sono quindi assenti in Prisciano, sono quelle di complemento e di frase dipendente: da un lato, dei vari verbi si dice quale caso reggono, ma non troviamo termini come “complemento di specificazione”, “comple­ mento oggetto” ecc.; dall’altro, la sua definizione di frase si basa sull’ idea di “senso compiuto” e può quindi applicarsi solo alle frasi principali. La grammatica tradizionale ha dunque le sue radici nell’epoca classica, ma dovranno ancora trascorrere molti secoli perché assuma la forma in cui viene insegnata ancor oggi nelle nostre scuole: è quindi interessante esa­ minare la sua evoluzione, come faremo, tra l’altro, nei capitoli seguenti.

2.5. In sintesi La riflessione sul linguaggio nell’antichità classica nasce da preoccupa­ zioni di carattere pratico, ossia la costruzione di un alfabeto e l ’insegna­ mento della lettura e della scrittura (cfr. p a r . 2.2), ma presto diventa parte della filosofia, quando questa si pone (a partire dal v secolo a.C.) il problema del rapporto del linguaggio con la realtà, ossia dell’enunciato vero e dell’enunciato falso. Quindi i filosofi si domandano, da un lato, se il linguaggio sia natura o convenzione; dall’altro, vanno alla ricerca degli elementi costitutivi dell’enunciato, che vengono individuati nel soggetto e nel predicato (ónoma e rhema·, cfr. p a r r . 2.3.1-2). Siamo quindi alle origini di due problematiche che hanno caratterizzato la ricerca lingui­ stica fino a oggi: la natura del segno linguistico e la combinazione delle diverse categorie di segni nella produzione di frasi. A queste problema­ tiche si collega quella dell’origine del linguaggio e delle differenze tra i sistemi di comunicazione dell’uomo e degli animali (cfr. PAR. 2.3.3.1). Dopo questa tradizione “alta” di studi linguistici, si sviluppa, a partire dal li secolo a.C., anche una tradizione “bassa”, i cui fini sono di nuovo prevalentemente pratici, anche se non limitati al solo insegnamento dell’alfabeto: si tratta cioè di stabilire quali siano le forme corrette del la­ tino e del greco (cfr. p a r . 2.4.1). Questa seconda tradizione è largamente debitrice della prima per quanto riguarda la classificazione dei vari tipi di parole (le “parti del discorso”), che però considera individualmente, ciascuna in base alle proprie caratteristiche morfologiche (i nomi hanno desinenze di caso, i verbi desinenze di tempo ecc.), senza esaminarne le possibili combinazioni (e infatti i grammatici antichi ignorano i con­ cetti di soggetto e predicato; cfr. p a r . 2.4.2.2). La grammatica diventa comunque una delle tre artes sermocinales, assieme alla dialettica e alla

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retorica, mentre in origine era considerata parte della dialettica: anzi, nell’elenco tradizionale essa sarà addirittura la prima di queste tre artes. Si tratta però di una disciplina normativa·, il suo compito è infatti quello di formulare le regole dello “scrivere corretto”. Una grammatica “teorica”, o “scientifica” sarà l ’opera di alcuni studiosi medievali; anche questa, successivamente, cadrà in discredito, e un’impresa simile verrà avviata solo intorno alla metà del Seicento, come vedremo nei prossimi capitoli.

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3.1. Quadro introduttivo Si fa iniziare il Medioevo con il 476 d.C., data della deposizione dell’ul­ timo imperatore romano d ’Occidente, Romolo Augustolo, e lo si fa ter­ minare A 1 1 ottobre 14 9 1, giorno in cui Cristoforo Colombo raggiunse l’America. A ll’interno di questo spazio di più di mille anni, si distin­ guono abitualmente due periodi: l ’Alto Medioevo, fino al 1000 d.C., e il Basso Medioevo, dopo tale data. Naturalmente, queste date e questa suddivisione sono del tutto convenzionali: non ci sono limiti netti tra l’ul­ timo periodo dell’ Impero romano e quello immediatamente successivo alla sua caduta, tanto che è ormai abituale considerarli come un’unica epoca storica, definita “tarda Antichità”. A ll’epoca tardoantica appartiene sant Agostino, di cui abbiamo già parlato nel capitolo precedente (cfr. p a r . 2.3.3) Per indicarne i rapporti con la filosofia stoica, ma che ha avuto anche una grande influenza sul pensiero medievale e rappresenta quindi una sorta di ponte tra antichità classica e Medioevo; lo stesso si può dire di altri studiosi, come Boezio o Isidoro di Siviglia, di cui ci occuperemo nel paragrafo 3.2.1. Il limite tra la tarda antichità e l’Alto Medioevo si può collocare nel momento (ovviamente anch’esso non identificabile con un anno determinato) in cui la conoscenza del greco scompare quasi comple­ tamente nell’Europa occidentale, rimanendo confinata a pochi eruditi. Da bilingue (greco e latino), com’era nell’epoca dell’ Impero ro­ mano, l ’Europa occidentale si trasforma dunque in monolingue: il la­ tino è l’unica lingua di cultura. In questo stesso periodo, il latino parlato cambia, fino a trasformarsi nelle lingue dette “volgari”, cioè popolari (italiano, francese ecc.), i cui primi documenti risalgono ai secoli IX e X: ad esempio, i “giuramenti di Strasburgo” dell’anno 842 ci forniscono la prima testimonianza del francese, i “placiti capuani” del 960 una delle prime dell’ italiano. Altre lingue volgari, non derivate dal latino, come

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l’inglese o il tedesco, si sviluppano nelle aree dell’Europa che non erano appartenute all’ Impero romano o vi erano appartenute solo per periodi brevi. Nel Medioevo, si ha perciò una situazione che, in termini tecnici, si chiama di diglossia*: a una varietà “alta”, il latino, utilizzata per l ’in­ segnamento e in quasi tutti gli atti ufficiali, si contrappone una varietà “bassa”, le lingue volgari, usate nella comunicazione quotidiana. Anche la data in cui si pone la fine del Medioevo è puramente conven­ zionale: la cultura e il modo di vivere medievali si modificano gradual­ mente, e non dappertutto nello stesso momento, tanto che si può dire che il Medioevo termina prima in Italia che nell’Europa settentrionale. Anche l ’anno 1000 posto come discrimine tra Alto e Basso Medioevo ha, per queste stesse ragioni, un valore puramente indicativo. L ’opposi­ zione tra questi due periodi si basa su considerazioni di carattere econo­ mico, sociale e culturale: tradizionalmente, si descrive l ’Alto Medioevo come un periodo di decadenza, caratterizzato dalla perdita di gran parte della cultura classica, ma questa immagine non è del tutto esatta, perché anche in quest’epoca non mancano le figure di grande rilievo intellet­ tuale. C i sono però alcuni aspetti sotto i quali le due fasi del Medioevo si differenziano nettamente: il primo è rappresentato dal recupero, a par­ tire dall’x i secolo, di testi antichi che nell’Alto Medioevo erano andati perduti; il secondo dalla fondazione delle università. Su entrambi questi aspetti ci soffermeremo più avanti (cfr. p a r . 3.3.1). Una preoccupazione fondamentale dei dotti medievali è quella di definire le tre artes sermocinales, in modo da delimitarne i rispettivi am­ biti. Uno dei maggiori di questi dotti, Isidoro di Siviglia (circa 560-636), all’ inizio delle sue Etymologiae (libro I, cap. z; cfr. Lindsay, 1911), le defi­ nisce così: « L a prima è la grammatica, ossia la capacità del parlare. La se­ conda è la retorica, che, a motivo della nitidezza e dell’abbondanza della sua eloquenza, è necessaria soprattutto nelle questioni civili. La terza è la dialettica, chiamata anche logica, che nelle dispute più sottili distingue le cose vere da quelle false». Osserviamo che ‘logica’ viene qui usato come sinonimo di ‘dialettica’, quindi con un senso più ristretto rispetto a quello che aveva nell’antichità classica (cfr. p a r . Z.3.3.Z). Il dominio della grammatica è identificato con il “ ben parlare”, quello della dialettica (o logica) con la capacità di distinguere il vero dal falso. Questa distinzione sarà generalmente adottata nel Medioevo, ma, analizzando il pensiero linguistico medievale, è spesso difficile e tutto sommato inutile separare ciò che riguarda la grammatica da ciò che pertiene alla logica, o, più in generale, alla filosofia del linguaggio. In questo capitolo ci occuperemo

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dunque, come nel precedente, non solo di grammatici e di questioni grammaticali, ma anche di logici e di questioni di logica. La tarda Antichità, il Medioevo e tutte le epoche successive nella storia dell’ Occidente si differenziano dalla civiltà precedente per un ele­ mento fondamentale: la presenza del cristianesimo, che si impone defini­ tivamente dal v secolo d.C. circa. L ’avvento del cristianesimo assegna alle artes sermocinales una funzione forse ancora più importante di quella che avevano in epoca classica. Una caratteristica della cultura medievale è in­ fatti il tentativo di conciliare auctorìtas e ratio, ossia il contenuto dei testi sacri e dei dogmi stabiliti dalla Chiesa con i canoni della ragione umana: la funzione della grammatica, della retorica e, soprattutto, della logica è quella di illustrare nel modo più razionale possibile il contenuto di tali dogmi e di difenderli dagli attacchi degli “eretici”. Non è dunque pro­ babilmente un caso che un teologo come sant Agostino si occupi anche della natura e del funzionamento del linguaggio: nel suo D e doctrina christiana (libro 11,113 ; cfr. Simonetti, zon, p. 76) afferma che le sacre scrit­ ture contengono i segni di Dio, ma sono formulate nel linguaggio degli uomini. Lo studio del linguaggio è dunque una condizione necessaria per interpretare correttamente quanto affermato dalle sacre scritture e dalla Chiesa. Vari secoli dopo, un altro grande teologo, Anseimo d ’Aosta (noto anche come Anseimo di Canterbury: la prima città è quella in cui nacque, la seconda quella di cui fu arcivescovo; 1033 o 1034-1109) sarà autore di un importante dialogo sul linguaggio (cfr. p a r . 3.3.Z.Z). Le nostre fonti del pensiero linguistico medievale, come di quello classico, sono in origine soltanto manoscritte (cfr. p a r . z .i ); al contrario però di quanto accade per quelli classici, i manoscritti medievali che ci sono accessibili risalgono a volte ai loro stessi autori, oppure, se si tratta di copie, sono di poco posteriori all’epoca della loro composizione. Di molti di questi manoscritti non esistevano fino a poco tempo fa edizioni a stampa, e parecchi sono ancora inediti; pubblicazioni di materiali prima inediti sono diventate dunque sempre più frequenti negli ultimi anni, assieme a nuove edizioni critiche di testi già pubblicati: questo fa sì che le nostre interpretazioni del pensiero linguistico medievale siano inevitabilmente provvisorie. In un certo senso, la situazione è opposta ri­ spetto a quella che si verifica per l’antichità classica: mentre in quel caso i documenti scarseggiano, e quindi le nostre ricostruzioni non potranno che essere sempre congetturali, come accade in particolare per gli Stoici (cfr. p a r . z.3.3), nel caso del Medioevo è proprio l’abbondanza di mate­ riali a rendere queste ricostruzioni inevitabilmente provvisorie.

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3.1. Tarda antichità e Alto Medioevo 3.1.1. Mediatori tra cultura classica e cultura medievale: Boezio e Isidoro di Siviglia Anicio Manlio Torquato Severino Boezio (480-516 d.C.) è noto per la drammatica parabola della sua esistenza: nato in una nobile famiglia romana, si impegnò per la collaborazione tra Romani vinti e barbari vincitori, e fu ministro del re ostrogoto Teodorico, che tuttavia, persa la fiducia in lui, lo fece imprigionare e infine giustiziare. La sua opera più famosa è “La consolazione della filosofia” {Consolatio philosophiae), composta nel carcere in cui era stato rinchiuso da Teodorico, ma ciò che ha esercitato il maggiore influsso sulla posterità è stata probabilmente la sua opera di traduttore e commentatore dei filosofi greci. Boezio è dunque il tramite fondamentale tra la cultura dell’antichità classica e quella del Medioevo occidentale, tanto che è stato a volte definito l’ul­ timo dei filosofi romani e il primo dei filosofi medievali. In particolare, tradusse alcuni trattati logici di Aristotele, tra cui il D e interpretatione, che inoltre corredò di due commenti, il primo, breve, per principianti, e il secondo, più dettagliato, per progrediti. Compose poi numerosi trat­ tati di logica, di musica e di aritmetica. Qui ci limiteremo a presentare alcune nozioni e alcuni termini introdotti da Boezio che diventeranno fondamentali per la tradizione linguistica successiva. Nel primo dei suoi commenti al D e interpretatione, Boezio così pre­ senta la concezione aristotelica del rapporto tra realtà, pensiero e lin­ guaggio: in ogni conversazione, entrano in gioco tre entità, le cose {rei), «che percepiamo tramite la mente e distinguiamo tramite i concetti», i concetti (intellectus), «tramite i quali apprendiamo le cose», e i suoni {voces), mediante i quali indichiamo i concetti; a queste tre entità si ag­ giungono i segni scritti {litterae), la cui funzione è quella di indicare i suoni (cfr. Meiser, 1877, p. 37). Di queste quattro entità, prosegue Boezio {ib id ), le prime due (cioè le cose e i concetti) sono date «per natura» (.naturaliter), le altre due «per convenzione» {secundum positionem): «infatti quello che per i Romani è un cavallo, non è un cervo per i bar­ bari» e «quello che noi pensiamo essere un cavallo, i barbari non lo cre­ dono un cane» (ivi, p. 38). In altre parole, i concetti sono universali, i suoni che li esprimono (e le lettere che indicano questi suoni) sono in­ vece diversi da lingua a lingua. La posizione di Boezio è quindi diversa da quella degli Stoici, i quali, come si ricorderà (cfr. p a r . z.3.3.1), afferma­

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vano che anche i significati {lekta) dei Greci sono diversi da quelli dei bar­ bari. Della dottrina stoica, Boezio riprende la distinzione tra léxis e lògos: la prima, da lui resa con ‘espressione’ (locutio), è la «voce articolata», che può anche essere priva di significato (l’esempio che fa è quello stoico, cioè blituri). Al lògos degli Stoici corrisponde invece quella che Boezio chiama ‘interpretazione’ (interpretatio), cioè la locutio dotata di senso, le cui «parti» sono le frasi o enunciati (orationes) e i cui «elementi» i nomi e i verbi. Mediante questa distinzione, Boezio spiega perché Aristo­ tele, nella Poetica (cfr. p a r . 2.3.2) elenchi, oltre al nome, al verbo e al lògos, anche i suoni, la sillaba, la congiunzione e gli articoli: sono infatti tutti gli elementi dell’espressione {locutio), ma solo i primi tre sono dotati di senso (e quindi appartengono anche all’interpretatio; cfr. Meiser, 1880, pp. 5-8). Boezio riprende le definizioni di Aristotele del nome e del verbo, affer­ mando che entrambe le categorie sono «significative per convenzione», ma aggiunge qualche osservazione importante per quanto riguarda la se­ conda. Come si è visto nel paragrafo 2.3.2, secondo Aristotele il verbo si distingue dal nome in quanto « significa in più il tempo» ed è « segno di ciò che si dice di qualcos’altro». Secondo Boezio, con la prima di queste due specificazioni Aristotele vuole dire che il verbo non indica il tempo, che è invece «significato dai nom i» come ‘giorno’, ‘anno’ ecc. (cfr. ivi, pp. 56, 67). Il verbo, infatti, significa azioni o passioni, aggiungendovi («consignificando», dice Boezio) una determinazione temporale, pre­ sente, passata o futura: ‘corre’ indica che l’azione del correre si svolge in questo momento. La seconda proprietà del verbo è poi riformulata da Bo­ ezio in termini di ‘predicazione’ : il verbo dice («predica») qualcosa del nome (cfr. ivi, p. 67). Come sappiamo, i concetti di soggetto e predicato erano già presenti in Platone e Aristotele, anzi costituivano gli elementi essenziali della loro analisi della frase, ma non erano indicati con questi termini: i due filosofi greci usavano infatti ónoma e rherna, ma questi due termini, nella tradizione grammaticale successiva, erano passati a indicare, rispettivamente, il nome e il verbo, quindi non due relazioni grammaticali, ma due classi diverse di parole. Boezio, invece, distingue chiaramente, da un lato, verbo e nome, e dall’altro soggetto e predicato: La frase semplice (simplex oratio) è quella composta da due termini. I termini sono i nomi e i verbi, che predichiamo nella proposizione semplice: ad esempio, in Socrate disputa, i termini sono Socrate e disputa. E il termine minore che viene enunciato, in questo caso Socrate, si chiama soggetto ed è collocato per primo; il termine maggiore, in questo caso disputa, è predicato ed è collocato per se­ condo (Meiser, 1877 p. 77).

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In questo stesso passo, come si vede, Boezio parla anche di frase sem­ plice, che poche righe più avanti distingue da quella «com posta»: la prima contiene un solo soggetto e un solo predicato, mentre la seconda «è composta da due frasi semplici», come ‘se è giorno, allora c e luce’. In Boezio troviamo dunque la prima presentazione sistematica dei termini e dei concetti che diventeranno patrimonio della grammatica occiden­ tale: soggetto e predicato, frasi semplici e frasi complesse, tipi diversi di frasi, elementi sottintesi. Questi concetti non sono però trattati in opere di grammatica, ma di dialettica, o di logica, che dir si voglia: la tradizione “alta” di studio del linguaggio non si è ancora incontrata con quella “ bassa”. Anche Isidoro, vescovo di Siviglia, che abbiamo già menzionato nel paragrafo 3.1, ha avuto, come Boezio, un ruolo fondamentale nel tra­ smettere la cultura classica al Medioevo. Le sue Etymologiae (chiamate anche Origines) sono infatti una specie di enciclopedia in venti libri, che presentano in forma sistematica il sapere antico, spaziando dalla gram­ matica, la retorica e la dialettica (oggetto dei primi due libri) ai legni e agli utensili (oggetto del x x ). Il termine “etimologie” è posto come titolo dell’intera opera in quanto, per Isidoro (cfr. Etymologiae, libro 1, cap. 29, in Lindsay, 1911), l ’etimologia fornisce un contributo fondamentale alla conoscenza non solo delle parole, ma delle cose che esse indicano: « l ’analisi di ogni cosa è più semplice quando se ne conosce l ’etimologia». Una posizione di questo tipo rimanda evidentemente all’idea di un legame naturale tra parole e cose, ma Isidoro osserva che tale legame non si realizza sempre: «non tutti i nomi sono stati imposti dagli antichi secondo natura, ma alcuni anche per convenzione» (ibid.). Le etimologie di Isidoro non sono certo più scientifiche di quelle che si incontrano nel Cratilo di Platone o negli Stoici, ma al vescovo di Si­ viglia non si può negare il merito storico di avere assegnato alla ricerca sulle origini e le trasformazioni del linguaggio un posto di grande im­ portanza: se a partire dall’Ottocento abbiamo etimologie scientifiche, questo è dovuto anche all’interesse per la storia delle parole che è sempre stato coltivato nella cultura occidentale. In questa stessa ottica si colloca anche l ’ interesse di Isidoro per la ricerca della lingua originaria, da cui tutte le altre sarebbero derivate, e che egli sostiene essere l ’ebraico, con­ formemente al racconto della torre di Babele contenuto nel primo libro della Bibbia (Genesi, cap. 11; cfr. Isidoro, Etymologiae, libro ix , cap. 1). Una soluzione scientificamente adeguata al problema delle parentele tra lingue è stata trovata solo a partire dall’ Ottocento: ma anche in questo

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caso la soluzione scientifica è una risposta a un interrogativo che aveva caratterizzato la riflessione sul linguaggio a partire almeno da Isidoro.

3.2.2. Studi grammaticali nell’Alto Medioevo L ’opera di Boezio ebbe un influsso enorme sulla cultura medievale; tut­ tavia, non immediatamente, ma solo, e in maniera graduale, dal ix se­ colo in poi. Si può dire che il passaggio dalla tarda antichità al Medioevo in senso stretto si verifica proprio poco dopo la morte di Boezio, con la guerra gotica (535-553), ossia il conflitto tra gli Ostrogoti che allora occupavano l’ Italia e i Bizantini, che volevano riconquistarla all’ Impero romano d ’ Oriente. Questo conflitto provocò enormi danni materiali (pestilenze, carestie e la quasi totale distruzione del sistema di acque­ dotti costruito dai Romani), che ebbero inevitabili conseguenze anche sull’organizzazione e la diffusione della cultura. Inoltre, non si può tra­ scurare l’ostilità che l’ imperatore bizantino Giustiniano (482-565) nu­ triva nei confronti della filosofia classica, da lui considerata un residuo di paganesimo, ostilità che l’aveva tra l’altro indotto a chiudere nel 529 l ’ultima istituzione in cui essa era coltivata, cioè la scuola di Atene. Quando i Bizantini, dopo la fine della guerra gotica, tornarono in pos­ sesso dell’ Italia, questo atteggiamento ostile vi si impose, impedendo di fatto lo sviluppo dell’eredità intellettuale di Boezio. Inoltre, pochi anni dopo l ’ Italia conobbe una nuova guerra, dovuta all’invasione lon­ gobarda (568-572), che sottrasse ai Bizantini varie regioni e contribuì a un’ulteriore devastazione materiale e culturale. La situazione era dunque sfavorevole allo sviluppo delle arti liberali, che cominciarono a riprendersi solo a partire dal IX secolo, con la cosiddetta “rinascenza carolingia”, cioè con la ripresa culturale che si verifica all’epoca di Carlo Magno e dei suoi successori. Tra il VI e il IX secolo rimangono semisconosciute anche le Institutiones di Prisciano ; rimane invece costante la conoscenza di Donato (Ars m inor e. A rs maior), che è ampiamente utilizzato, tra l ’altro, per l’ inse­ gnamento del latino, in funzione soprattutto della lettura dei testi bi­ blici. Il latino, infatti, è ignoto alle popolazioni di origine barbarica, e anche la lingua quotidiana di quelle di origine romana sta progressiva­ mente cambiando (cfr. p a r . 3.1). I testi di Donato sono il modello per la stesura di altre grammatiche, per la maggior parte in latino, ma qualcuna anche in altre lingue. Una di queste è la grammatica latina di Aelfric,

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risalente agli ultimi anni del x secolo, scritta in anglosassone (inglese an­ tico). In sintesi, le grammatiche dell’Alto Medioevo hanno quasi esclu­ sivamente uno scopo pratico, cioè quello di insegnare una lingua che ormai nessuno possedeva più come materna, ma che era l ’unica lingua di cultura: rimangono quindi nel solco della tradizione “ bassa”. La tradizione “alta” e la tradizione “bassa” negli studi grammaticali co­ minciano ad avvicinarsi con la rinascenza carolingia, certamente anche per la riscoperta, sia pure ancora parziale, dei trattati di Boezio e delle Institutiones di Prisciano. In questo ambito, è particolarmente importante l’opera di Alcuino di York (735-804), che di Carlo Magno fu, in un certo senso, il consigliere culturale. Nella sua vasta produzione, ci interessano specialmente due opere in forma di dialogo, una dedicata alla gramma­ tica e l ’altra alla dialettica: tramite la seconda, Alcuino intende illustrare i concetti della prima « a un livello più elevato» (excelsioregradii-, cfr. Migne, 1851, col. 973 C). E infatti nel dialogo sulla grammatica, che si immagina come svolto tra un maestro e due giovani allievi, le parti del discorso sono presentate secondo i tradizionali schemi di Donato, le cui definizioni sono però integrate da altre provenienti dalla tradizione ari­ stotelica, mediata certamente da Boezio. Così, ad esempio, il nome è ini­ zialmente definito come « la parte del discorso che, secondo i gramma­ tici, assegna una qualità comune o propria a qualunque corpo o cosa» (Migne, 1851, col. 859 b c ), quindi con parole in parte simili a quelle di Donato (in Keil, 1864, p. 355): « il nome è una parte del discorso dotata di caso, che indica un corpo o una cosa, ed è comune o proprio». Questa definizione è data da uno degli allievi, che è però sollecitato dall’altro a chiederne al maestro una «filosofica», che il maestro fornisce imme­ diatamente, riprendendo quasi letteralmente quella di Aristotele nel De interpretatione, nella traduzione latina di Boezio: «il nome è voce signi­ ficativa per convenzione, priva di tempo» (Meiser, 1877, pp. 45-6). Nel definire la frase (oratio), Alcuino (in Migne, 1851, col. 975 C), combina la definizione di Prisciano con quella di Aristotele, dimostrando di di­ pendere da entrambe. Alcuino infatti dice che la oratio è una «com bi­ nazione coerente di parti, che esprime un senso compiuto», e questa è sostanzialmente la definizione di Prisciano (cfr. PAR. 2.4.2.2), ma «di cui qualche parte ha significato anche separatamente», aggiungendo dunque la definizione di Aristotele (cfr. p a r . 1.3.2). Questa combina­ zione della tradizione grammaticale con la tradizione logica anticipa quella che sarà, a partire dal secolo x i, la “grammatica speculativa”, di cui si parlerà nel paragrafo 3.3.2.

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3.3. Basso Medioevo 3.3.1. Un nuovo quadro culturale A ll’ inizio di questo capitolo, abbiamo detto che (almeno) due fattori distinguono la cultura del Basso Medioevo da quella del periodo pre­ cedente: la riscoperta di testi classici o tardoantichi rimasti preceden­ temente sconosciuti e la fondazione delle università. Tra i primi testi a essere riscoperti, ci sono le Institutiones grammaticae di Prisciano. In particolare, gli ultimi due libri della monumentale opera del grammatico latino, che riguardano la sintassi (il cosiddetto Priscianus minor, mentre i sedici precedenti, che trattano prevalentemente di morfologia, erano chiamati Priscianus m aior), ricominciano a circolare dalla seconda metà dell’x i secolo. Nella stessa epoca, viene riscoperta nella sua integralità anche l’opera di Boezio. M a forse ancora più importante è la riscoperta di molti testi di Aristotele. Fino al x n secolo, delle sue opere logiche (raccolte sotto il nome tradizionale di Organon) si conoscevano solo le Categorie e il D e interpretatione, nella traduzione di Boezio; nel x i i se­ colo, anche il resto άάΥ Organon viene tradotto in latino, e verrà chia­ mato logica nova (logica moderna’ ), mentre gli altri due trattati saranno detti logica vetus (logica antica’ ): l ’antichità e la modernità, quindi, non riguardano la data di composizione, ma quella di traduzione di tali opere. Più o meno nello stesso periodo, compariranno traduzioni latine anche di altre opere fondamentali di Aristotele, come la Fisica e la Metafisica. La riscoperta di Prisciano e di Aristotele permetterà la rifondazione della grammatica su basi scientifiche, o, in termini medievali, la sua tra­ sformazione da “arte” in “scienza” : in altre parole, quella che abbiamo chiamato la tradizione bassa degli studi linguistici si unirà con la tradi­ zione alta. Questa unificazione non avverrà però sempre e comunque: ac­ canto alle grammatiche scientifiche continueranno a essere scritte gram­ matiche pratiche. La tradizione bassa degli studi linguistici, dunque, non scompare affatto: in primo luogo, la sua conservazione è dovuta all’esi­ genza pratica dell’insegnamento del latino. In quest’ambito, l’opera più importante è forse il Doctrinale di Alexander de Villa Dei, che risale al 1199: si tratta di una presentazione in versi che in un certo senso divulga il sistema di Prisciano e che ebbe un successo straordinario per molti secoli a venire. Era infatti prescritto come testo obbligatorio in varie università (Tolosa, Parigi, Heidelberg e Vienna); se ne contano oltre duecento manoscritti, e, dopo l’ invenzione della stampa, quasi trecento

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edizioni, fino alle soglie del Seicento. Anche se il latino rimane l’unica lingua di cultura, in Occidente, durante tutto il Medioevo, in quest’e­ poca cominciano ad apparire anche alcune opere relative a lingue vol­ gari, come il provenzale, che era all’epoca quella di maggiore prestigio. Una di queste opere è il già citato (cfr. p a r . 2.4.4.Z) Donatz Proensals, dovuto a Uc Faidit e composto intorno al 1240. Particolarmente signi­ ficative sono anche le grammatiche relative a lingue non romanze, cioè non derivate dal latino. Tra queste, la più famosa è probabilmente il co­ siddetto “Primo trattato grammaticale islandese” (“primo” perché, nel manoscritto in cui ci è pervenuto, è seguito da altri tre), che risale alla seconda metà del Xll secolo e il cui scopo principa!e è quello di stabilire un sistema adeguato di notazione dei suoni dell’islandese, che l ’alfabeto latino rendeva soltanto imperfettamente. L ’anonimo autore propone dunque di aggiungere altri segni a quelli dell’alfabeto latino, facendo os­ servare come essi siano necessari per distinguere parole di significato di­ verso : ad esempio, sur cisposi ’ si oppone a syr ‘scrofa’ ; al segno vocalico u va dunque aggiunto un segno vocalicoy, e lo stesso vale per altre vocali e consonanti. Come si vede, questi argomenti si fondano sull’opposizione di due parole che differiscono per una sola lettera (o, meglio, per un solo suono), cioè su quelle che, in termini moderni, si definirebbero ‘coppie minime’ ; per questo motivo, il primo trattato grammaticale islandese è stato a volte considerato, nel Novecento, come un precursore della fono­ logia della Scuola di Praga, che si basa proprio sul fenomeno delle coppie minime (cfr. p a r . 6·3·2.2), ma questa assimilazione appare oggi un po’ forzata alla maggior parte degli interpreti. A nostro parere, l’anonimo grammatico non può essere certamente considerato l ’antesignano di una teoria che verrà elaborata solo sette secoli dopo; non si può negare, tut­ tavia, che intuisca unfatto linguistico fondamentale, cioè che lo scambio di due suoni può essere distintivo di significato. Questo fatto in prece­ denza non era stato notato, o almeno non con altrettanta chiarezza. Occupiamoci ora brevemente delle università medievali. La fonda­ zione delle prime, Bologna e Parigi, risale agli inizi del XII secolo, ma la loro grande fioritura si ha nel secolo successivo, quando si diffonderanno in tutta Europa (ad es. Salamanca in Spagna, Padova e Napoli in Italia, Ox­ ford e Cambridge in Inghilterra ecc.). Grazie al fatto che la lingua di inse­ gnamento e di studio è una sola, il latino, tanto gli studenti quanto i docenti passano tranquillamente da un paese all’altro: ad esempio, all’Università di Bologna gli studenti si dividevano in ultramontani, a loro volta distinti in varie nazionalità, dagli inglesi agli ungheresi, e citramontani, cioè italiani.

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Quanto ai docenti, ci limitiamo a citare qualche studioso del Duecento di cui parleremo più avanti: i danesi Boezio di Dacia e Martino di Dacia (cfr. par . 3.3.2.35 “Dacia” sta per “Dania”, cioè l ’attuale Danimarca), che furono docenti a Parigi, e l’inglese Ruggero Bacone (cfr. par . 3·3·2.4), che un certo periodo fu attivo a Parigi, per un altro a Oxford; una sorta di programma Erasmus ante litteram, potremmo dire. Le università medievali erano ar­ ticolate in “facoltà” (arti, medicina, diritto, teologia), con una funzione in parte diversa, però, rispetto a quella attuale: infatti, quella delle arti era propedeutica alle altre, in quanto vi si iscrivevano gli studenti più giovani (all’ incirca, intorno ai quindici anni) per poi frequentare, una volta rag­ giunto un determinato grado di studi, una delle altre facoltà. Con “arti” si intendevano le arti liberali di cui si è già parlato nel capitolo precedente, tra le quali le arti del trivio (grammatica, dialettica, retorica) avevano un ruolo di base: i primi due anni di studio erano dedicati proprio ad Aristotele e a Prisciano, cioè alle massime autorità della dialettica e della grammatica.

3.3.2. La “grammatica speculativa” j.j.2 .1. Caratteristiche generali C on l’espressione “grammatica speculativa” (cioè, “teorica”) si intende, in senso stretto, la teoria linguistica elaborata dai cosiddetti “Modisti” tra la seconda metà del Duecento e l’ inizio del Trecento; in senso lato, questa etichetta si può applicare a tutta la corrente di pensiero che, a partire dall’x i secolo e fino al x i v circa, vuole dare alla grammatica un fondamento filosofico, trasformarla cioè, come si è già detto, da arte in scienza. A ll’ interno di questo periodo, possiamo distinguere varie fasi: una iniziale, dalla seconda metà dell’x i secolo (quello che comincia con l ’anno 1001, per intenderci) agli inizi del secolo successivo, caratterizzata da una serie di commenti anonimi a Prisciano; una seconda nel XII se­ colo, in cui appaiono altri e ancor più sistematici commenti a Prisciano, il più importante dei quali è quello di Pietro Elia, risalente al 1150 circa; una terza nel Duecento, che si estende fino all’inizio del Trecento, nella quale la grammatica speculativa arriva al suo culmine: è in questa fase che sono attivi i Modisti, ma anche altri studiosi di diversa imposta­ zione, come vedremo; infine una fase di decadenza, che comincia nel Trecento e prelude al completo rifiuto della grammatica speculativa da parte degli umanisti, nel secolo successivo.



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In estrema sintesi, potremmo dire che la grammatica speculativa è un tentativo di fondare il sistema grammaticale di Prisciano sulla filosofia di Aristotele. Quindi i grammatici che appartengono a questa corrente cercheranno prima di tutto di fornire una giustificazione filosofica al si­ stema delle parti del discorso tramandato dalla grammatica classica: ad esempio, su che cosa si fonda la distinzione tra nome e verbo, oltre che sulle differenze morfologiche tra le due categorie ? In che modo queste parti del discorso si rapportano alla realtà, ossia quali sono i loro modi significandi (‘modi di significare’ ; come vedremo, questa espressione avrà un ruolo chiave in tutte le diverse fasi e versioni della grammatica specu­ lativa)? U n’altra nozione introdotta da Prisciano (cfr. p a r . 1.4.2.Z) che viene particolarmente approfondita dai grammatici speculativi è quella di ‘costruzione’ (constructio), che si distingue in ‘transitiva’ e ‘intransi­ tiva’. Ricordiamo che questi termini hanno, tanto in Prisciano quanto nei grammatici medievali, un senso che è diverso da quello moderno: essi non indicano, infatti, il “passaggio o meno di un’azione dal soggetto all’oggetto”, ma l ’ identità o la diversità delle persone coinvolte nell’a­ zione descritta. Ad esempio, ‘Prisciano legge’ è una costruzione intran­ sitiva, mentre tanto ‘Socrate vede Platone’ quanto ‘Socrate è visto da Platone’ sono transitive. Più precisamente, queste frasi sono esempi di ‘costruzione di azioni’ (constructio actuum), che si distinguono da un altro tipo di costruzione, la ‘costruzione di persone’ {constructio personarum). Anche quest'ultima è transitiva o intransitiva: ad esempio, ‘il padre di Platone’ è una costruzione transitiva, perché parla di due per­ sone diverse (Platone e suo padre); un esempio di costruzione intransi­ tiva di persone è ‘uomo bianco’, in quanto si riferisce a una persona sola, qualificata come bianca. Questo senso dei termini transitivo e intransi­ tivo è molto più ampio di quello che ha nella grammatica abitualmente insegnata nelle nostre scuole, in cui è limitato ai verbi: i motivi per i quali, attraverso i secoli, si è imposta questa limitazione non sono chiari. j.j.2 .2 . Origini e sviluppi I commenti anonimi a Prisciano della prima fase della grammatica spe­ culativa esaminano, tra l’altro, le definizioni che il grammatico latino dà delle proprietà di ciascuna delle varie parti del discorso: ad esempio, dice Prisciano (cfr. Keil, 1855-58, voi. li, p. 55), la «proprietà caratteristica del nom e» (proprium nominis) è quella di «significare la sostanza e la qualità». Sostanza e qualità sono due delle dieci categorie aristoteliche (cfr. PAR. 2.3.1): ma che cosa intende esattamente Prisciano dicendo che

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il nome le significa entrambe? Lo stesso Aristotele, in un passo delle Categorie (3K 21), afferma che le parole che significano le «sostanze se­ conde», cioè le specie e i generi, come ‘uomo’ o ‘cavallo’, «significano una certa quale sostanza», mentre quelle come ‘bianco’ «significano soltanto una qualità» (3K 18). In termini un po’ più vicini ai nostri, diremmo che ‘uomo’ o ‘cavallo’ significano rispettivamente non solo le specie umana o equina, ma anche le proprietà che distinguono ciascuna delle due (l’avere due o quattro zampe ecc.), mentre ‘bianco’ indica soltanto una proprietà, che può essere tanto degli uomini quanto dei cavalli, come pure di altre specie. Oggi, diremmo anche che ‘uomo’ o ‘cavallo’ sono nomi, mentre ‘bianco’ è un aggettivo, ma questa soluzione non era disponibile né per Aristotele né per Prisciano: nel primo dei due, infatti, non esiste ancora una classificazione precisa delle parti del discorso e nel secondo, come in tutti i grammatici antichi, gli aggettivi sono considerati come un tipo di nomi fra gli altri (cfr. p a r . 2.4.1). La distinzione tra aggettivi e nomi è quindi una conseguenza, non una pre­ messa, delle soluzioni medievali di questo problema. Tra le varie soluzioni proposte, la più famosa è quella data non da un grammatico, ma da un teologo, cioè Anseimo d ’Aosta, negli ultimi anni dell’x i secolo. Forse non è un caso che l’opera in cui Anseimo af­ fronta il problema sia un dialogo intitolato proprio D e grammatico (in Schmitt, 1946, pp. 141-68); teniamo presente che ‘grammatico’, in la­ tino, ha un’ambiguità che non ha in italiano: esso può infatti significare tanto “che conosce la grammatica” quanto “lo studioso di grammatica”. Anseimo spiega la differenza tra ‘uomo’ e ‘grammatico’ introducendo due distinzioni: quella tra ‘significato’ (significatio) e ‘denominazione’ (,appellatio) e quella tra ‘significato diretto’ {per se) e ‘significato indi­ retto’ {per aliud). Le due distinzioni sono collegate: ‘uomo’ significa direttamente e denomina un determinato essere umano oppure la specie umana; ‘grammatico’ significa direttamente la grammatica (significato per se) e indirettamente (significato per aliud) lo studioso di gramma­ tica, ma denomina quest’ultimo. La stessa analisi è estesa a ‘bianco’ : se uso ‘bianco’ per riferirmi a un determinato cavallo o alla specie equina, li denomino, ma tramite il significato indiretto {per aliud) della parola, non tramite quello diretto, che è una qualità (la bianchezza). Una distinzione simile è introdotta nei commenti a Prisciano di con­ temporanei ad Anseimo, o di poco posteriori (inizio x n secolo), con qualche differenza terminologica: invece di appellatio, si trova spesso nominatio. Altri commentatori, invece, distinguono due tipi di signifi­

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cato, ‘principale’ e ‘secondario’ : ad esempio, il significato principale di ‘bianco’ è la qualità, il suo significato secondario un oggetto o un corpo bianco. Questa è anche la posizione di uno dei più grandi filosofi medie­ vali, Pietro Abelardo (1079-1141), i cui trattati di logica sono disseminati di importanti osservazioni linguistiche; a lui è normalmente attribuita, tra l ’altro, l’ introduzione del termine “copula” per indicare il verbo es­ sere in frasi come ‘Gianni è buono’. Abelardo è noto al grande pubblico soprattutto per le vicende della sua vita (il suo tragico amore con Eloisa), ma dovrebbe essere ricordato anche per le sue grandi acquisizioni nel campo intellettuale. Distinzioni come quelle tra significatio e appellatici possono sembrare eccessivamente sottili e così furono giudicate per molti secoli, a partire dal Rinascimento, che le considerò come l ’espressione di una menta­ lità cavillosa e sostanzialmente sterile; tuttavia, esse sono importanti sia dal punto di vista storico che da quello teorico, tanto che trovano alcuni paralleli nella linguistica e nella filosofia del linguaggio contem­ poranea. La loro importanza sta nell’aver messo in luce la complessità del rapporto tra le espressioni linguistiche e la realtà a cui si riferiscono: i significati non sono semplicemente cose, oppure immagini che le cose producono nella nostra mente, come un’ interpretazione un po’ troppo semplicistica delle posizioni di Aristotele potrebbe far pensare, ma sono piuttosto un modo di presentare la realtà. Questi modi sono diversi a seconda delle varie classi di parole, come ci mostra il caso di ‘grammatico’ contrapposto a quello di ‘uomo’ : la grammatica specula­ tiva va quindi alla ricerca di un fondamento razionale per la distinzione tra le varie parti del discorso. La distinzione di Anseimo tra significatio e appellatio prelude a quella tra significatio e suppositio che si svilupperà dalla fine del xii secolo e sarà sistematizzata nel x m . Uno dei più im­ portanti logici di tale secolo, Pietro Ispano (cfr. de Rijk, 1972, p. 80), definisce la suppositio come « l ’assunzione di un termine sostantivo al posto di qualcosa»: ad esempio, il nome sostantivo ‘Socrate’ “staper” l ’individuo Socrate; suppositio è quindi da intendere, in questo con­ testo, come ‘sostituzione’, invece che come ‘supposizione’. A volte, la stessa parola può stare per cose diverse: in ‘l ’uomo corre’, ‘uomo’ può indicare, a seconda dei contesti, l ’intero genere umano (‘l’uomo ha la proprietà di correre’ ), oppure un determinato essere umano (‘Pietro corre’ ) o un determinato altro (‘Paolo corre’ ) ecc. La distinzione tra significatio da un lato e appellatio e suppositio dall’altro è simile a quella introdotta da Lrege (1892) tra il modo in cui il linguaggio indica la re­

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altà (chiamato da Lrege Sinn, ‘senso’ ) e realtà indicata dal linguaggio (.Bedeutung, ‘riferimento’ ). Torniamo ora al xii secolo, durante il quale i commenti a Prisciano si moltiplicano, come si è detto nel paragrafo precedente. In generale, queste opere non intendono porre in discussione l ’autorità del grande grammatico latino, ma di fatto introducono anche concetti nuovi, in particolare quelli di soggetto e predicato, che erano assenti nei gramma­ tici classici. A i termini subiectum e praedicatum (molto probabilmente mutuati da Boezio) si affianca, a partire da quest’epoca, un’altra coppia terminologica, suppositum e appositum, il cui primo termine significa ugualmente ‘soggetto’ e il secondo ‘predicato’. Il perché di questa cu­ riosa duplicazione è tuttora oggetto di dibattito; il più delle volte si sostiene, basandosi anche sulle affermazioni contenute in alcuni testi dell’epoca, che subiectum e.praedicatum fossero termini propri della lo­ gica, e suppositum e appositum della grammatica, ma non è sempre così, dato che la prima coppia ricorre anche in vari trattati grammaticali, e la seconda in vari trattati di logica. Comunque stiano le cose, il fatto importante da sottolineare è che le nozioni di soggetto e predicato, che nell’antichità erano confinate solo ad alcuni scritti di logica, sono di­ ventate abituali anche in quelli di grammatica, come quello di Pietro Elia. Questo commento è particolarmente esteso e contiene una grande quantità di riflessioni importanti, come quelle relative alla nozione di costruzione, definita da Pietro una «combinazione coerente (congrua) di parole». Questa coerenza può trovarsi sia nel suono che nel signifi­ cato (e allora la costruzione è sia congrua voce che congrua sensu), ma può presentarsi anche solo sotto uno dei due aspetti: così, ‘la folla corrono’ (turba ruunt) non è coerente dal punto di vista del suono, perché a un soggetto singolare segue un verbo al plurale, ma lo è dal punto di vista del significato, perché ‘folla’ indica una pluralità di individui; viceversa, ‘Socrate ha dei calzari ipotetici con delle stringhe categoriche’ (Socrates habet hypotheticos sotulares cum categoricis corrigiis) è congrua voce, ma non è evidentemente congrua sensu (cfr. Reilly, 1993, pp. 832-3). Queste distinzioni mostrano delle interessanti assonanze con il concetto di “buona formazione” o “grammaticalità”, utilizzato in linguistica a par­ tire dalla seconda metà del Novecento (cfr. p a r . 7.2.3.1): oggi, diremmo che l’ultima costruzione esemplificata è ben formata dal punto di vista sintattico (le relazioni di accordo sono rispettate), ma non dal punto di vista semantico (‘ipotetico’ e ‘categorico’ sono termini che si applicano ai giudizi, non alle calzature).

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3.3.2.3. L a teoria linguistica dei M odisti C on l’etichetta di Modisti ci si riferisce a un gruppo di grammatici attivi tra la seconda metà del x m secolo e i primi decenni del secolo succes­ sivo, soprattutto all’ Università di Parigi, ma anche altrove, in Europa centrale. Tra questi grammatici, i più noti sono Boezio di Dacia, Mar­ tino di Dacia, Radulphus Brito e Tommaso di Erfurt, al cui trattato D e modis significandi sive grammatica speculativa (cfr. Bursill-Hall, 1972), composto intorno al 1310, principalmente ci rifaremo. Lo scopo fondamentale della grammatica speculativa, cioè la trasformazione della gram­ matica da arte a scienza, è espresso dai Modisti con molta chiarezza: Boezio di Dacia (in Pinborg, Roos, 1969, p. 39) osserva che Prisciano non fornisce le ragioni (causae) delle sue conclusioni in materia di gram­ matica, ma si limita a richiamarsi all’autorità dei grammatici precedenti. Tommaso di Erfurt scrive invece che «n oi vogliamo conoscere la scienza della grammatica, e a questo fine occorre anzitutto concentrarsi su tutti i suoi principi, ossia i modi significandi» (cfr. Bursill-Hall, 1971, p. 134). L ’espressione modi (singolare modus) significandi (‘modi del signifi­ care’ ) non indica soltanto i modi del verbo (cioè l’indicativo, il con­ giuntivo ecc.), ma le categorie del linguaggio in generale. La peculiarità dei Modisti sta nell’utilizzare sistematicamente il concetto di ‘modo’ per l ’analisi dei rapporti tra linguaggio, pensiero e realtà. Ai modi signi­ fican di corrispondono, nella visione modista, le categorie del pensiero, dette modi intelligendi (‘modi del comprendere’ ) e quelle della realtà, dette modi essendi (‘modi dell’essere’ ). Questi tre tipi di modi sono iso­ morfi l’uno all’altro, nel senso che le categorie della realtà corrispon­ dono a quelle del pensiero e queste alle categorie del linguaggio: si tratta dunque della stessa visione esposta da Aristotele all’inizio del D e interpretatione (cfr. p a r . 2.3.2), alla quale però i Modisti apportano modi­ fiche e integrazioni, per superare alcune difficoltà che essi stessi mettono in evidenza. Ad esempio, su che cosa si fondano i nomi che indicano entità inesistenti, come ‘chimera’, o privazioni, come ‘cecità’, oppure quelli come ‘divinità’ che attribuiscono a D io il genere femminile, che è «passivo» (secondo la mentalità medievale)? Tommaso di Erfurt (cfr. Bursill-Hall, 1972, pp. 138-42) risponde che non è necessario che tutti i nomi indichino un oggetto reale, ma solo che lo presentino come se lo fosse, cioè che abbiano il modus significandi degli altri nomi. Così, ‘chi­ mera’ presenta un oggetto immaginario costruito sulla base di due og­ getti reali, cioè combina la testa del leone con la coda del drago; ‘cecità’

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indica qualcosa che non esiste nella realtà, essendo una privazione, ma esiste nel pensiero, in quanto il pensiero può concepire le privazioni; e la divinità può essere di genere femminile, in quanto possiamo immagi­ narci Dio come oggetto delle nostre preghiere, quindi con una funzione passiva. Perché le parti del discorso sono diverse ? Questa domanda è fon­ damentale per i Modisti, data la loro ricerca di una base scientifica per le varie categorie grammaticali ereditate da Prisciano. In sintesi, la loro risposta è questa: perché ciascuna parte del discorso ha il proprio modo di significare la realtà. Uno stesso significato, come la sensazione di do­ lore, può essere espresso in quattro modi diversi: come nome, ‘dolore’ {dolor), come verbo, ‘ho male’ {doleo), come participio, ‘dolente’ (dolenì) e come interiezione, ‘ah i!’ {heu-, cfr. Boezio di Dacia, in Pinborg, Roos, 1969, pp. 55-6). Questi diversi modi esprimono un’unica dictio, termine che non ha quindi, nei Modisti, il valore di ‘parola’, a differenza di quanto accade nei grammatici latini dell’epoca classica, ma quello di segno linguistico in generale. N ei termini dei Modisti, la dictio « si­ gnifica», mentre le diverse parti del discorso «consignificano», cioè rappresentano la realtà mediante l ’aggiunta di caratteristiche specifiche di ciascuna (su «consignificare» in Boezio cfr. p a r . 3.2.1). Esemplifi­ chiamo questi concetti mediante le definizioni di nome e verbo date dai Modisti. « Il nome è una parte del discorso che significa mediante il modus entis», dice Tommaso di Erfurt (Bursill-Hall, 1972, p. 154); « il modus entis è il modo della stabilità e della permanenza» (ibid.). « Il modo di significare del verbo [...] è il modo di significare la cosa mediante il modus esse (ivi, p. 208); «il modo di significare [...] me­ diante il modus esse nasce dalla proprietà del flusso e della successione, che si oppone alla proprietà del modus entis, che è quella della stabilità e della permanenza, come si è già detto» (ivi, p. 210). Tornando ai nostri esempi, una stessa sensazione, quella di dolore, può quindi essere signi­ ficata come qualcosa di stabile, e allora usiamo il nome ‘dolore’, oppure, al contrario, come qualcosa che si svolge nel tempo, e allora usiamo il verbo ‘ho male’. Il modus entis e il modus esse sono esempi di modi ‘essenziali’, quelli cioè che «assegnano l ’essenza propria a una parte del discorso» (cfr. ivi, p. 148). I modi essenziali sono disposti secondo una gerarchia: ‘ge­ neralissimi’, ‘subalterni’ e ‘specialissimi’ ; a essi poi si contrappongono i modi ‘accidentali’. Mediante questa complessa tipologia, i Modisti sono in grado di definire tutte le otto parti del discorso della tradizione

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grammaticale classica, con le loro proprietà morfologiche. A d esempio, il modus entis è il modo di significare «essenziale e generalissimo» del nome, cioè quello che esprime la proprietà che caratterizza tutte le pa­ role che appartengono a tale classe: i suoi modi subalterni più gene­ rali sono il nome comune e il nome proprio; il modo di significare del primo è « la partecipazione a più oggetti», come ‘città’, ‘fiume’ ; quella del secondo, « la indivisibilità attraverso più oggetti», come ‘Roma’, o ‘Bologna’ (ivi, p. 156; è interessante notare che Tommaso di Erfurt considera anche ‘qui’ e ‘ora’ come nomi propri). Ciascuna di queste due categorie si divide poi in «m odi subalterni meno generali». Quelli del nome comune sono il nome ‘sostantivo’ e il nome ‘aggettivo’ : il modo di significare del primo è quello dell’ «essenza determinata», come ‘bianchezza’, ‘pietra’ ; il secondo, quello «d ell’inerenza ad altro», come ‘bianco’, o ‘pietroso’ (cfr. ivi, p. 158). Anche i Modisti affrontano dunque il problema della distinzione tra sostantivo e aggettivo, come aveva fatto, tra gli altri, sant'Anselmo prima di loro, ma lo risolvono in modo diverso. Mentre Anseimo, infatti, distingueva il significato di­ retto (per se) da quello indiretto {per aliud) e la significatio dalla appellatio (cfr. p a r . 3.3.2.z), i Modisti riconducono la differenza tra le due categorie a due diversi modi di significare. La cosa importante da notare è che l ’aggettivo non è più presentato come uno dei tanti tipi di nome, come avveniva nei grammatici antichi, da Dionisio Trace a Prisciano: i Modisti, come tutti i grammatici medievali, sempre reverenti nei con­ fronti delle auctoritates classiche, non osano ancora fare dell’aggettivo una parte del discorso a sé, ma pongono comunque la distinzione tra so­ stantivo e aggettivo come una di quelle primarie all’ interno della classe dei nomi. Il nome e l ’aggettivo si suddividono poi in modi «specialis­ sim i», cinque e venti rispettivamente, dei quali non parleremo qui. I modi accidentali del nome, secondo Tommaso di Erfurt, sono la specie (nomi primitivi o derivati), il genere (maschile, femminile, o neutro), il numero (singolare o plurale), la figura (nomi semplici o composti), il caso e la persona. I modi accidentali si dividono poi in ‘assoluti’ e ‘relativi’, a seconda che riguardino una parte del discorso considerata in sé, oppure in relazione ad altre (cfr. ivi, p. 150). Tra gli esempi che abbiamo riportato, la specie è un modo accidentale assoluto, mentre il numero o il genere sono modi accidentali relativi: ad esempio, il verbo e il nome che gli fa da soggetto devono accordarsi in numero ; il nome e l ’aggettivo qualificativo devono accordarsi in genere, numero e, in una lingua come il latino, caso.

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Diamo ora qualche cenno sulla sintassi dei Modisti. Essa si fonda su tre nozioni: ‘costruzione’ (constructio), distinta in transitiva e intran­ sitiva, ‘coerenza’ {congruitas) e ‘completezza’ {perfectio). D i queste no­ zioni abbiamo già parlato: delle prime due nel paragrafo 3.3.2.!, della terza a proposito della definizione di frase di Prisciano (p a r . 3.3.2); ve­ diamo come sono analizzate dai Modisti. Ogni costruzione, secondo i Modisti, è formata esattamente da due termini, detti ‘costruttibili’ (,constructibilia), il ‘dipendente’ (dependens) e il ‘terminale’ (terminani). In virtù dei rispettivi modi di significare, il primo «richiede», mentre il secondo « d à » (cfr. ivi, p. 282). In una costruzione intran­ sitiva delle persone (cfr. p a r . 2.4.4.2) come ‘uomo bianco’, ‘bianco’ è il dipendente e ‘uomo’ il terminale; in una costruzione intransitiva degli atti come ‘Socrate corre’, il dipendente è il predicato (appositum; cfr. PAR. 2·4·4.2), cioè ‘corre’, mentre il terminale è il soggetto {suppositum), ossia ‘Socrate’ ; in una costruzione transitiva come ‘legge il libro’, ‘legge’ è il dipendente e ‘il libro’ il terminale. Una frase come ‘Socrate legge il libro’, secondo i Modisti, non è quindi un’unica costruzione, ma la combinazione di due diverse costruzioni, una intransitiva (quella tra ‘Socrate’ e ‘legge’ ) e una transitiva (quella tra ‘legge’ e ‘il libro’ ). Ognuna di queste costruzioni è poi ‘coerente’ (congrua) se a determi­ nati modi relativi del terminale corrispondono determinati modi rela­ tivi del dipendente: ad esempio, in una costruzione intransitiva delle azioni il predicato deve avere lo stesso numero del soggetto, e in una intransitiva delle persone l ’aggettivo deve avere lo stesso genere, nu­ mero e caso del nome. In una costruzione transitiva, il terminale deve avere il caso richiesto dal dipendente: quindi, in latino m isereortui (‘ho compassione di te’ ; transitiva delle azioni) è conforme, mentre misereor te non lo è, perché il verbo misereri regge il genitivo, non l ’accusativo; cappa Socratis (‘il mantello di Socrate’ ; transitiva delle persone) è coe­ rente, perché Socratis è al caso genitivo, mentre cappa Socrati, dove Sa­ crati è un dativo, non lo sarebbe. Le costruzioni coerenti possono essere poi ‘proprie’ oppure ‘improprie’ : ‘mantello nero’ è un esempio delle prime, ‘mantello categorico’ uno delle seconde (cfr. ivi, p. 308). Come si vede, i Modisti trattano gli stessi problemi esaminati da Pietro Elia (cfr. PAR. 3.3.2.2), ma la loro prospettiva è un po’ diversa. I Modisti infatti, a differenza di Pietro, non distinguono due tipi di coerenza, cioè in base al suono {voce) oppure al significato {senso), ma considerano coerenti tutte le costruzioni che realizzino correttamente i rapporti formali tra gli elementi, comprese quelle che, nei termini di Pietro, sarebbero sol­

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tanto congruae voce. Questo diverso atteggiamento è probabilmente dovuto al fatto che i Modisti sono interessati più agli aspetti sintattici che a quelli funzionali del linguaggio, a differenza degli studiosi di cui parleremo nel prossimo paragrafo. La completezza o perfezione è « il fine ultimo della costruzione», che consiste nel «generare un senso compiuto nella mente dell’ascol­ tatore, tramite un’unione appropriata di costruttibili» (ivi, p. 314). Per raggiungere questo fine, sono necessarie tre condizioni: 1. la costruzione completa non può essere formata da un dipendente e un terminale qua­ lunque, ma solo da un soggetto e da un predicato; 2. i due costruttibili devono essere coerenti, quindi una frase in cui, ad esempio, il soggetto sia singolare e verbo plurale, non essendo coerente, non è nemmeno perfetta; 3. tutti i dipendenti devono essere soddisfatti da altrettanti terminali (cfr. ib id ). Quindi ‘Socrate corre’, oppure ‘leggo un libro’, sono entrambe costruzioni perfette, ma, mentre la prima è perfetta tanto secondo il senso (secundum sensum), quanto secondo il pensiero (secundum intellectum), la seconda è perfetta solo secondo il pensiero, dato che il soggetto (‘io’) non è espresso (cfr. ivi, p. 318). Un esempio di costruzione imperfetta è invece ‘se Socrate corre’, in quanto la congiun­ zione ‘se’ crea una nuova dipendenza esterna alla frase ‘Socrate corre’, e questa dipendenza rimane insatura, se non si aggiunge nient’altro (cfr. ivi, p. 316). 3.3.2.4. Kilwardby e Ruggero Bacone I Modisti non sono stati gli unici linguisti del x m secolo a concepire la grammatica come una scienza: infatti, una prospettiva simile è stata adottata anche da vari altri studiosi, tra cui gli inglesi Robert Kilwardby (1115-1279) e Roger Bacon (all’ italiana, Ruggero Bacone, tra il 1214/12201292); quest’ultimo, frate francescano dalla metà del Duecento circa, non si occupò soltanto di logica e grammatica, ma anche di molte altre discipline, come la fisica (philosophia naturalis), e in particolare l ’ottica. Fino a qualche tempo fa, era abbastanza comune riferirsi a questi stu­ diosi come “pre-Modisti”, ma questa etichetta è abbastanza impropria: infatti, anche se essi utilizzano ampiamente l’espressione modi signifi­ cando e le tematiche che affrontano sono analoghe a quelle dei Modisti, come la ricerca di un fondamento teorico per la definizione delle varie parti del discorso, le analisi dei vari tipi di costruzione, la definizione di frase completa (o ‘perfetta’ ) ecc., la loro prospettiva teorica è abbastanza

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diversa. In generale, mentre i Modisti si concentrano sull’analisi delle strutture del linguaggio in sé stesse, Kilwardby e Bacone esaminano la funzione delle espressioni linguistiche nel loro contesto d’uso. Volendo usare la terminologia della linguistica di oggi (cfr. PAR. 7.3), potremmo dire che l’impostazione del primo gruppo di studiosi è “formalista”, mentre quella del secondo è “funzionalista”. Questa differenza si rivela tra l ’altro nel modo in cui Bacone defi­ nisce la nozione di perfezione (o completezza) di una frase. Abbiamo visto che, per i Modisti, una costruzione non coerente (incongrua) non può essere perfetta. D i fatto, però, negli autori classici, a cominciare dai più illustri, si trovano costruzioni che non sono coerenti, ma il cui senso è ugualmente perfetto: si tratta delle cosiddette “costruzioni figu­ rative”. Costruzioni di questo tipo non sono discusse dai Modisti, che abitualmente non utilizzano esempi tratti da testi reali, ma esempi in­ ventati (piuttosto aridi e anche un po’ astrusi: uno che ricorre spesso è ‘il bianco Socrate corre bene’, Socrates albus bene currit). Esse sono invece esaminate approfonditamente da Ruggero Bacone, attingendo in modo particolare a Virgilio. Uno dei tanti esempi di questo tipo è urbem quam statuo vestra est (la città che fondo è vostra’, Eneide, 1,573), un caso di “attrazione inversa del relativo” : urbem ha il caso accusativo del pronome relativo quam (letteralmente la quale’ ), non il nomina­ tivo (urbs), che invece dovrebbe avere in quanto soggetto di vestra est. La soluzione di Bacone è complessa, ma molto raffinata, e si basa sulla distinzione, introdotta da Kilwardby, tra intellectus prim us e intellectus secundus, cioè da due modi diversi in cui si può valutare se una costru­ zione è perfetta (cfr. Steele, 1940, p. 19). Il primo consiste nella coerenza delle varie parti del discorso Luna con l ’altra; il secondo in quella dei significati. Una costruzione figurativa come il verso di Virgilio appena citato non è coerente, e quindi non è perfetta, dal punto di vista dell’zzztellectusprimus, in quanto il soggetto è all’accusativo invece che al no­ minativo; è invece coerente da quello dell’intellectus secundus, perché i significati delle espressioni di cui si compone sono compatibili l ’uno con l ’altro. C i deve essere però un motivo {ratio) per cui le regole gramma­ ticali sono violate, altrimenti ogni combinazione di parole compatibili per significato sarebbe ammissibile: in certi casi, il motivo della scelta di una forma incongrua può essere dovuta a ragioni metriche; nella frase di Virgilio, invece, i due accusativi urbem e quam sottolineano l ’unione particolarmente stretta tra la città e l’atto di fondarla (cfr. ivi, pp. 38-9). D el resto, aggiunge Bacone (ivi, p. 40), nelle frasi infinitivali del latino il

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caso del soggetto è l’accusativo, e quindi ha la capacità di esserlo anche in quelle a tempo finito: in sintesi, « Γ improprietà può essere perdonata». Queste riflessioni di Bacone si inseriscono nel quadro di una teoria generale che ricorda sotto certi aspetti Γ impostazione della pragmatica di oggi (cfr. par . 7.2.1). Bacone (in Fredborg, Nielsen, Pinborg, 1978, p. 82, § 1) definisce anzitutto il significare come una relazione «essen­ zialmente e principalmente» diretta a qualcuno, non a qualcosa: in altri termini, la funzione del segno è prima di tutto di rivolgersi a un rice­ vente; una prospettiva del genere è estranea ai Modisti, che si limitano a considerare il rapporto fra la dictio e la realtà. Inoltre, il francescano elabora una classificazione dei vari tipi di segni, linguistici e non lingui­ stici, che combina quella aristotelica con quella esposta da sant'Agostino nel trattato D e doctrina christiana (libro 1 1 ,1 i -iv 5; cfr. Simonetti, 2011, pp. 74-80). La prima suddivisione è tra segni*?) «naturali» e b) «stabi­ liti dalla mente per significare» (cfr. Fredborg, Nielsen, Pinborg, 1978, p. 82, § 3). I segni del tipo a) si distinguono in: a i) quelli che potremmo chiamare “indizi”, come l ’aurora, che è indizio del sorgere del sole, o l ’avere le mammelle che grondano latte, che è indizio di parto recente; ad) le immagini; 43) gli effetti che permettono di risalire alle cause, come le orme, che segnalano il passaggio di un animale, o il fumo, che segnala la presenza di un incendio (cfr. ivi, pp. 82-3, §§ 4-6). I segni del tipo b) si suddividono in: hi) segni convenzionali o intenzionali (adplacitum , sive ex proposito), cioè i segni linguistici e i “pittogrammi”, come si direbbe oggi; bd) i segni istintivi, come i suoni degli animali e i gemiti o i sospiri emessi dagli uomini (cfr. ìbid., §§ 7-8). Le interiezioni costituiscono un caso intermedio tra bd) e bd), e quindi si distinguono dalle altre sette parti del discorso (cfr. ivi, p. 84, § 9); anche in questo caso, Bacone si distacca dai Modisti, che considerano l’interiezione come un modo di significare dello stesso tipo degli altri. Bacone ha un atteggiamento diverso da quello di molti altri studiosi medievali anche sotto un altro aspetto: l ’attenzione alla variazione lin­ guistica. Oltre al latino, conosceva infatti il greco e l’ebraico, tanto da scrivere una grammatica di entrambe le lingue, la cui conoscenza di­ retta, sostiene, è necessaria per comprendere correttamente i testi sacri e quelli dei filosofi greci: « c ’è un grande bisogno che i Latini conoscano le lingue, a motivo di quanto hanno detto i santi e gli altri saggi» (Bridges, 1900, p. 77). Il riconoscimento della diversità linguistica pone un pro­ blema che di fatto non aveva mai interessato i Modisti, le cui analisi si riferivano unicamente al latino: le lingue differiscono totalmente Luna

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dall’altra, oppure condividono qualche proprietà comune? Bacone, pur soffermandosi sulle differenze interlinguistiche, sembra aderire a una posizione che oggi chiameremmo “universalista” : «la grammatica è una e identica nella sostanza in tutte le lingue, anche se varia acciden­ talmente» (Nolan, Hirsch, 1902, p. 27). In altre parole, tutte le lingue differiscono: non solo nei diversi modi in cui indicano un medesimo oggetto (‘cavallo’ in italiano è borse in inglese, chevai in francese, Pferd in tedesco ecc.), ma anche nella diversa organizzazione delle categorie grammaticali (ad es. l ’italiano ha solo due generi, maschile e femminile, mentre il latino o il tedesco hanno anche un terzo genere, il neutro); tuttavia, sono tutte la realizzazione di un unico schema di pensiero. A questa posizione, si contrapporrà, a partire almeno dall’ Ottocento, una posizione “relativista” (cfr. par . 5.3.2): il dibattito su quale delle due sia quella corretta è tuttora aperto (cfr. PAR. 7.3.4). 3.3.2.3. Declino della grammatica speculativa Il complesso edificio della grammatica modista non durò a lungo: già intorno agli anni Venti e Trenta del x i v secolo fu oggetto di critiche da parte di vari studiosi, come Guglielmo d ’Ockham (circa 1285-1349), uno dei più importanti logici e filosofi dell’epoca. Dalla metà di quel secolo, i Modisti furono sostanzialmente dimenticati, e la loro opera è stata risco­ perta soltanto nel Novecento: si pensi che, fino a qualche decennio fa, il trattato di Tommaso di Erfurt era attribuito al filosofo Giovanni Duns Scoto. M a era l ’intera idea di una grammatica speculativa che cominciò a entrare in crisi verso la fine del Medioevo, per essere poi totalmente respinta all’inizio del Rinascimento.

3.3.3. Cenni sul pensiero linguistico di Dante Le riflessioni di Dante Alighieri (1265-1321) sulla natura e la storia delle lingue non si possono collocare nell’ambito della grammatica specula­ tiva, ma presentano comunque un notevole interesse. Il suo trattato D e vulgari eloquentia, rimasto incompiuto e sostanzialmente sconosciuto fino al Cinquecento, ha come obiettivo fondamentale la definizione del ‘volgare illustre’, che egli non individua in nessuno dei dialetti italiani dif­ fusi al suo tempo, tantomeno nel fiorentino. Il trattato dantesco presenta, nei suoi capitoli iniziali, anche molte considerazioni di carattere generale,

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di cui ci occuperemo qui. Tra di esse, se ne trovano alcune decisamente superate e altre, invece, che ancora stupiscono per la loro modernità. Certamente superata da molti secoli è la visione dantesca dei rapporti tra latino e lingue volgari: egli infatti non crede che le seconde derivino dal primo, ma che il volgare sia la lingua «che i bambini acquisiscono con l ’uso da chi si prende cura di loro quando cominciano ad articolare le parole», mentre il latino sarebbe «un altro linguaggio, di secondo grado, che i romani hanno chiamato grammatica» e che può essere ac­ quisito solo da pochi, e con un lungo sforzo (cfr. D e vulgari eloquentia, libro i, cap. i, in Santagata, zon, pp. 1133-5; si tenga presente che, nel Medioevo, con ‘grammatica’ si intendeva sia la disciplina che studia la lingua sia la lingua oggetto di studio grammaticale, che era una sola: il latino). Ugualmente superate, ma comunque stimolanti, sono invece le considerazioni svolte nei capitoli immediatamente successivi, che inten­ dono spiegare il perché dell’esistenza del linguaggio, che per Dante è una proprietà esclusiva degli esseri umani, non posseduta né dagli an­ geli né dagli animali. Gli angeli, sostiene Dante, non hanno bisogno di nessuna lingua, in quanto possono conoscere l ’uno i pensieri dell’altro direttamente o tramite Dio. Neanche gli animali hanno bisogno del lin­ guaggio, perché sono guidati esclusivamente dall’istinto: se apparten­ gono alla medesima specie, «hanno gli stessi comportamenti e le stesse passioni, sicché possono attraverso i propri conoscere quelli degli altri»; se invece appartengono a specie diverse, «non solo la parola non era necessaria, ma sarebbe stata propriamente dannosa, dato che fra loro non ci sarebbe stato nessun possibile rapporto di amicizia» (ivi, cap. z, p. 1145). G li uomini, invece, al contrario degli animali, non sono gui­ dati dall’istinto, ma dalla ragione: e per questo motivo ciascuno di loro differisce nelle sue azioni e nelle sue passioni, che non può quindi con­ siderare identiche a quelle degli altri. A l contrario degli angeli, poi, gli uomini non possono conoscere direttamente il pensiero degli altri: Fu dunque necessario che il genere umano, per comunicarsi i propri pensieri, disponesse di un qualche segno razionale e sensibile. Fu necessario infatti che fosse razionale dovendo prendere dalla ragione e portare alla ragione. E fu ne­ cessario che fosse sensibile, perché niente potrebbe trasmettersi dalla ragione di uno a quella di un altro se non attraverso un mezzo sensibile (ivi, cap. 3, p. 1151).

Dante prosegue domandandosi quale sia la lingua originaria : fedele all ’ in­ segnamento della Bibbia, risponde che è l’ebraico, mentre la successiva differenziazione delle lingue si spiega con la confusione indotta da D io al

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momento in cui gli uomini tentarono di costruire la torre di Babele (cfr. ivi, cap. 6, pp. 1179-81). Gli unici a conservare la lingua originaria, afferma l’autore, furono gli Ebrei, che la usarono fino alla diaspora (cfr. ivi, cap. 7, p. 1195). I popoli che migrarono verso l ’ Europa si divisero in tre gruppi, uno dei quali si stanziò nell’Europa meridionale, il secondo nell’ Europa settentrionale e il terzo tra Europa e Asia (queste aree più o meno ricopri­ vano tutto il mondo conosciuto da Dante): i componenti di quest’ultimo gruppo sono i Greci; quelli del secondo gruppo parlano una lingua in cui la particella affermativa èjo ; quelli del primo, lingue in cui essa è oc, oppure oìl, oppure sì (cfr. ivi, cap. 8). Nei termini della classificazione delle lingue indoeuropee fissata nell’ Ottocento e valida ancora oggi (cfr. par . 5.Z.Z.3), diremmo che la prima lingua corrisponde al greco, il secondo gruppo di lingue, approssimativamente, alle lingue germaniche e alle lingue slave, e il terzo gruppo alle lingue romanze. Un indizio della derivazione delle lingue di quest’ultimo gruppo «da un solo e medesimo idiom a», osserva ancora Dante, è dato dal fatto che esse indicano gli stessi oggetti, con pa­ role molto simili, come quelle per ‘D io ’, ‘cielo’, ‘amore’, ‘mare’, ‘terra’, e ’, ‘vive’, ‘muore’, ‘ama’ (cfr. D e vulgari eloquentia, libro 1, cap. 8, in Santa­ gata, zoii, p. IZ09). Secondo alcuni interpreti, Dante avrebbe intuito non solo la parentela delle lingue romanze (che però, nella sua visione, non derivano dal latino, come si è detto), ma anche l’esistenza della famiglia linguistica indoeuropea; recentemente questa interpretazione è stata contestata, in quanto, si è osservato, egli non considera il greco, le “lingue jo ” e le “lingue oc/oìl/sì” come imparentate tra loro. Nel capitolo successivo, Dante affronta una questione tuttora fondamentale: perché le lingue cambiano? La sua risposta è questa: le lingue (dopo Babele) sono prodotti puramente umani, e quindi cambiano attra­ verso il tempo come tutti i costumi degli uomini. Se gli antichi abitanti di Pavia, ipotizza, dovessero risorgere, parlerebbero una lingua diversa da quella dei pavesi di oggi (cfr. ivi, p. izzs). Se quindi la lingua non rimane la stessa per la stessa popolazione, tantomeno potrà rimanere la stessa nel caso di popolazioni che progressivamente si allontanino Luna dall’altra. Questa spiegazione di Dante delle cause del mutamento linguistico può sembrare semplicistica: tuttavia, le alternative proposte nel corso dei se­ coli (ad es. le lingue mutano per effetto dei cambiamenti climatici, delle diverse caratteristiche razziali ecc.) si sono rivelate tutte insostenibili, e quindi anche i linguisti di oggi non riescono a formulare ipotesi diverse da quelle dell’autore della D ivina Commedia. Se in futuro si troverà una soluzione migliore, nessuno può dirlo, ma neppure escluderlo.

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3.4. In sintesi La linguistica medievale si muove certamente nel solco della tradizione classica, ma non si limita a riprodurla pedissequamente. Per quanto riguarda la grammatica, i sistemi di Donato e soprattutto di Prisciano sono adottati senza alcuna discussione (o con poche discussioni): le parti del discorso sono otto (solo la posizione dell’interiezione è messa in dubbio, e da pochi studiosi; cfr. p a r . 3.3.2.4). D ’altro lato, però, la grammatica speculativa si pone come scopo primario proprio quello di dare una fondazione concettuale rigorosa a questo sistema, arrivando a elaborare una teoria come quella dei Modisti, che è forse eccessiva nel suo sforzo di sistematicità, ma che rappresenta comunque un edificio intellettuale di grande fascino. Anche per quanto riguarda il problema dei rapporti tra linguaggio, pensiero e realtà i linguisti del Medioevo ri­ mangono per lo più fedeli al quadro di Aristotele, in particolare come trasmesso da Boezio, ma anche in questo campo non si possono trascu­ rare gli approfondimenti apportati dai Modisti (cfr. p a r . 3·3.2·3). Non si può poi trascurare la presenza di una prospettiva più articolata, come quella rappresentata da Ruggero Bacone (cfr. p a r . 3.3.2.4), risalente ad Agostino e, per il tramite di quest’ultimo, probabilmente agli Stoici. Un altro elemento è poi degno di nota: la considerazione della diversità delle lingue e dei loro rapporti genealogici. Il Medioevo occidentale, pur co­ noscendo una sola lingua di cultura, cioè il latino, si pone in alcuni casi il problema di come valutare le differenze tra lingue diverse (è ancora il caso di Ruggero Bacone) e in altri quello della lingua da cui le altre lingue hanno avuto origine (problema affrontato, tra gli altri, da Isidoro di Siviglia e Dante; cfr. PARR. 3.2.1 e 3.3.3). Il problema della diversità delle lingue e della loro origine caratterizzerà le epoche immediatamente successive al Medioevo, come vedremo nel prossimo capitolo.

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Il Rinascimento e l ’ Età moderna

4.1. Quadro introduttivo L ’Età moderna va, convenzionalmente, dal 12 ottobre 1492, giorno della “scoperta” dell’America, al 14 luglio 1789, data della presa della Basti­ glia e considerata Γ inizio della Rivoluzione francese. Il Rinascimento è invece una fase della cultura europea occidentale i cui limiti crono­ logici non sono definiti e, inoltre, non coincidono da paese a paese. In Italia, esso ha origine con un movimento culturale, l ’ Umanesimo, che caratterizza tutto il Quattrocento, ma le cui radici possono essere collo­ cate anche più indietro, soprattutto nell’opera di Petrarca (1304-1374). In altri paesi, invece, il Rinascimento comincia più tardi, cioè verso la fine del Quattrocento se non addirittura all’inizio del Cinquecento. I dotti umanisti sottolineano con molta enfasi il loro distacco dalla cul­ tura che li ha preceduti, cioè quella medievale: e infatti il termine “Me­ dioevo”, o “età di mezzo”, risale proprio a loro, per indicare un’epoca di decadenza, che si sarebbe frapposta tra l’ Età classica e la nuova era che essi ritenevano di inaugurare. Questo atteggiamento negativo nei con­ fronti del Medioevo si è conservato fino a non molti decenni fa, mentre ora si tende a rivalutare la cultura medievale, o, comunque, a darne un giudizio più equilibrato, come abbiamo cercato di fare anche noi, nel capitolo precedente. Dal punto di vista storico, più che dare giudizi di valore sulle singole epoche, è importante individuare i caratteri che le avvicinano oppure le differenziano: e non c’è dubbio che tra Medioevo da un lato e Rinascimento ed Età moderna dall’altro esistano differenze profonde. In estrema sintesi, potremmo dire che, mentre la cultura dell’Europa occidentale, nel Medioevo, è unitaria e geograficamente delimitata, nell’ Età moderna è caratterizzata dalla frammentazione e dalla diffu­ sione in altri continenti. Nel Medioevo occidentale la lingua di cultura

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è una sola, il latino, mentre il greco è appannaggio solo di pochi tra­ duttori. Invece, dagli inizi del Quattrocento, e, in misura ancora più ampia, a partire dal 1453, quando la conquista turca di Costantinopoli costringe vari eruditi bizantini a emigrare, il greco torna a diffondersi in Occidente. Anche l’unità religiosa di questa parte del mondo si rompe con la Riforma protestante, il cui inizio si colloca nel 1517, anno dell’e­ sposizione delle famose “tesi di W ittenberg” da parte di Martin Lutero. La Riforma si imporrà definitivamente durante i cento anni successivi, provocando una forte differenziazione tra Europa settentrionale (diven­ tata protestante) e Europa meridionale (rimasta cattolica). Dal punto di vista politico, l ’Età moderna è caratterizzata dalla formazione degli Stati nazionali: si costituiscono definitivamente come Stati unitari i regni di Francia, d ’ Inghilterra, di Spagna (la Germania e l’Italia dovranno invece attendere l’Ottocento per raggiungere l ’unità). Questi mutamenti reli­ giosi e politici hanno effetti notevoli anche dal punto di vista linguistico. Traduzioni della Bibbia in lingue volgari esistevano già da prima della Riforma, ma questa, promuovendo la lettura dei testi sacri presso tutti i fedeli, le moltiplica e le diffonde nei paesi diventati protestanti, con­ tribuendo quindi in modo decisivo all’affermazione delle loro lingue (tedesco, olandese, varie lingue scandinave ecc.) come lingue di cultura; d’altra parte, anche nei paesi rimasti cattolici i volgari diventano lingue ufficiali degli Stati che si sono nel frattempo costituiti (come la Francia o la Spagna). In questo modo, il latino perde il monopolio intellettuale che aveva esercitato nel Medioevo, e varie opere scientifiche, filosofiche e linguistiche cominceranno a essere scritte in lingue moderne. Questo declino avverrà però solo molto gradualmente: molti studiosi, alcuni dei quali avremo occasione di citare anche qui, useranno ancora il latino. Forse ciò che più caratterizza l ’Età moderna rispetto al Medioevo è l’effetto delle scoperte geografiche. Mentre infatti nel Medioevo gli europei che si avventuravano fuori dalle terre conosciute, come Marco Polo, erano pochissimi, e quindi i contatti della cultura europea con quelle di altre popolazioni erano assolutamente sporadici, con le grandi scoperte geografiche questi contatti si moltiplicano. Gli europei si inse­ diano anche in altri continenti: gli inglesi e i francesi neH’America set­ tentrionale, gli spagnoli e i portoghesi in quella centrale e meridionale. Questi insediamenti si realizzano a spese delle popolazioni autoctone, come gli indiani d ’America, sterminati e ridotti nelle riserve: ma questi avvenimenti, sia pure così tragici, portano a conoscere culture, e, soprat­ tutto, lingue molto diverse da quelle occidentali, antiche e moderne. Per

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quello che riguarda la storia della linguistica, l’ inizio dell’Età moderna rappresenta dunque una svolta decisiva: gli studiosi non si occupano più soltanto di una lingua, o tutt’al più di due (il latino ed eventualmente il greco), ma di molte, e diverse tra loro. Non sono però soltanto le scoperte geografiche, ma anche le rivolu­ zioni scientifiche e le nuove idee filosofiche a caratterizzare l ’Età mo­ derna rispetto al Medioevo. Nel 1543, anno della sua morte, Nicolò C o ­ pernico (nato nel 1473) pubblica il suo trattato “Sulle rivoluzioni delle sfere celesti” {De revolutionìbus orbium caelestium), in cui sostiene, sia pure in forma ipotetica, il sistema eliocentrico, cioè che non è il Sole a girare intorno alla Terra, ma il contrario. Sulla scia di Copernico si muo­ vono altri grandi scienziati, come il tedesco Johannes Kepler (Keplero, 1571-1630), scopritore delle leggi sul moto dei pianeti che portano il suo nome, e Galileo Galilei (1564-1642), che difende la dottrina copernicana nel suo Dialogo dei massimi sistemi (1632), incorrendo nella condanna dell’ Inquisizione. Nello stesso anno della morte di Galileo, nasce Isaac Newton (m. 1727), che pubblica nel 1687 i “Princìpi matematici della filosofia naturale” {Philosophiae naturalisprincipia mathematica), in cui è contenuta, tra l ’altro, la formulazione della legge della gravitazione universale, e che costituiranno il paradigma della fisica fino ad Einstein. Uno degli effetti di queste scoperte è l ’abbandono della concezione del mondo elaborata da Aristotele, rimasta in buona parte inalterata per tutto il Medioevo. La dottrina di Aristotele comincia a entrare in crisi, più o meno a partire dal Cinquecento, anche sotto l ’aspetto più strettamente filosofico: in particolare, René Descartes (italianizzato in Cartesio, 1596-1650) e John Locke (1632-1704) elaborano, sia pure su sponde opposte, due teorie della conoscenza umana totalmente innova­ tive rispetto a quella aristotelica (cfr. par . 4.3.3)· In sintesi, si ha quindi una vera e propria frattura tra la cultura dell’Età moderna e quella me­ dievale, che si ripercuote anche sugli studi linguistici e grammaticali.

4.2. La scoperta della diversità linguistica 4.2.1. Lingue “volgari” e lingue “esotiche” Un segnale di questa frattura si coglie nell’atteggiamento dei primi Umanisti nei confronti della grammatica e del tipo di latino utilizzato dagli autori medievali. Quest’ultimo, infatti, si distaccava notevolmente

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dal latino degli autori dell’epoca classica, sia sotto l ’aspetto lessicale, sia, soprattutto, sotto quello sintattico. Quindi numerosi umanisti, il più importante dei quali è Lorenzo Valla (1407-1457), propugnano un “ritorno ai classici”, cioè al latino usato dagli scrittori dell’antica Roma. G li Umanisti, inoltre, criticano non solo il latino dei dotti medievali, ma anche la loro preferenza per gli studi grammaticali rispetto alla let­ tura diretta degli autori classici: per gli Umanisti, al contrario, la gram­ matica può avere qualche utilità nelle prime fasi dello studio del latino, ma oltre a questo non ha altro valore, né interesse culturale. Questo atteggiamento di ostilità nei confronti della grammatica non riguarda solo le opere appartenenti alla tradizione “ bassa”, come il Doctrinale di Alexander de Villa Dei (cfr. p a r . 3.3.1), ma anche la grammatica specula­ tiva, in primo luogo quella dei Modisti, e probabilmente ha contribuito in modo decisivo alla caduta nell’oblio di questi ultimi. L ’ interesse per la grammatica filosofica è molto ridotto per quasi tutto il Rinascimento, e ricomparirà solo verso la metà del Cinquecento, come vedremo più avanti (cfr. p a r . 4.3.1). Se in epoca rinascimentale non si avverte il bisogno di una gramma­ tica latina nel senso medievale, in quanto il “buon latino” si trova già negli autori classici e va quindi appreso soltanto leggendoli sempre di più, la situazione è diversa per quanto riguarda le lingue moderne, i co­ siddetti “volgari”, in cui si scrive ormai da vari secoli, soprattutto in paesi come l ’ Italia, la Francia o la Spagna, e che stanno diventando lingue nazionali. Per queste lingue una norma non è stata ancora fissata, ed è quindi necessario scrivere delle grammatiche che si assumano il compito di stabilirla. A questo fine contribuisce in modo decisivo l ’invenzione della stampa (1455), un fattore altrettanto importante nel segnare il di­ stacco tra Rinascimento e Medioevo quanto quelli descritti sopra. Le edizioni a stampa, infatti, permettendo di far circolare più copie iden­ tiche di uno stesso testo (cosa impossibile, invece, per le copie mano­ scritte, che presentano sempre qualche lieve differenza Luna dall’altra), cominciano a fissare degli standard per l’ortografia e la grammatica. Le grammatiche delle lingue volgari, che non erano totalmente as­ senti nel Medioevo, ma rimanevano delle eccezioni (cfr. par . 3.3.1), si moltiplicano in tutti i paesi d ’Europa. La prima grammatica dell’ita­ liano è la cosiddetta Grammatichetta Vaticana (così chiamata perché si trova in un manoscritto conservato presso la Biblioteca Vaticana), anonima, ma ormai unanimemente attribuita al grande umanista Leon Battista Alberti (1404-1472) e risalente al 1440 circa. Tanto questa data

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quanto la personalità dell’autore sono particolarmente interessanti. Il ritorno al latino classico operato dagli umanisti aveva prodotto una sva­ lutazione non solo del latino medievale, ma anche delle lingue volgari, considerate irrimediabilmente inferiori al latino: solo quest’ultimo era considerato passibile di una descrizione sistematica, mentre i volgari erano visti come il regno dell’incoerenza e dell’errore. L ’Alberti, come tutti gli umanisti, padroneggiava perfettamente il latino, lingua in cui scrisse la maggior parte delle sue opere: tuttavia, scrivendo una gram­ matica «della lingua nostra» e paragonando il suo lavoro a quello com­ piuto da « g l’ ingegni grandi e studiosi» greci e latini di fatto mostrava come il volgare fosse sullo stesso livello delle lingue classiche (cfr. Patota, 1996, p. 15). La Grammatichetta andava quindi contro corrente rispetto alla mentalità del tempo: e questo è forse uno dei motivi per cui rimase ignorata, anzi sconosciuta, per secoli. U n’altra ragione di questo oblio sta probabilmente nel fatto che la varietà di lingua di cui si occupava era quella dell’uso, ossia il toscano parlato all’epoca della sua compo­ sizione, non la lingua letteraria delle “tre corone” del Trecento, ossia Dante, Petrarca e Boccaccio. Questa è invece la varietà di lingua su cui si baseranno le prime grammatiche italiane a essere pubblicate: le Regole gramm aticali della volgar lingua di Giovanni Francesco Fortunio (1516), e, soprattutto, le Prose (poi dette Prose della volgar lingua) di Pietro Bembo (1525), un’opera in forma di dialogo che contiene, nella terza e ultima parte, un insieme di osservazioni e prescrizioni grammaticali. La prima grammatica di una lingua volgare apparsa a stampa è Gramàtica de la lengua castellana (cioè, dello spagnolo) di Antonio de Nebrija, pubblicata nel 1492. Il boom delle grammatiche delle lingue moderne si ha però nel Cinquecento. Abbiamo già citato le gramma­ tiche dell’italiano di Fortunio e Bembo, alle quali se ne aggiungeranno poco dopo varie altre. Ricordiamo ora le prime grammatiche di altre lingue europee, in ordine di pubblicazione: per il francese, Lesclarcissement de la langue franfoyse (“Illustrazione della lingua francese”) di John Palsgrave (1530) e In linguam gallicam isagosge (“Introduzione alla lingua francese”) del grande medico Jacques Dubois, noto anche con il nome latino di Sylvius (1531); per il tedesco, la Teutsch Grammatick oder Sprachkunst (“Grammatica tedesca o arte della lingua1*) di Lorenz Albrecht e la Underricht der Hoch Teutschen Sprach (“Istruzione nella lingua alto-tedesca”) di Albert Òlinger (entrambe del 1573); per l’ inglese, la B re f G ram m arfor English di W illiam Bullokar (1586). Risalgono al Cinquecento anche le prime grammatiche del ceco, del portoghese, del

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gallese, del polacco e del neerlandese; nel Seicento appariranno quelle di altre lingue, come il serbo-croato, il turco e il greco moderno. Tutte queste grammatiche sono di tipo sostanzialmente pratico, non filoso­ fico, e nella maggior parte si ispirano ai modelli classici di Donato e di Prisciano; il fatto però di descrivere lingue diverse dal latino e dal greco fa sì che esse introducano, intenzionalmente o no, alcune innovazioni rispetto a tali modelli. A volte, più che di innovazioni si tratta di tenta­ tivi di adattare le lingue volgari alle categorie della grammatica latina: ad esempio, tanto Nebrija quanto Bembo parlano di «casi» in spagnolo o in italiano, osservando che essi non sono indicati, come in latino, da desinenze differenti, ma da preposizioni. A volte, invece, si tratta di in­ novazioni abbastanza significative, soprattutto per quanto riguarda le parti del discorso: in generale, dato che molte lingue moderne, a diffe­ renza del latino, hanno l ’articolo, quest’ultimo è introdotto come una nuova parte del discorso. Una modifica decisamente radicale è quella proposta da Fortunio, secondo il quale le parti del discorso «bastevoli e necessarie» sono il nome, il pronome, il verbo e l’avverbio. La preoccu­ pazione principale degli autori di queste grammatiche è però di carattere pratico e normativo: essi vogliono cioè definire, tra le tante varietà di una data lingua, quella che deve essere scelta come “standard”. Ad esempio, quale varietà dialettale scegliere ? Basarsi sulla lingua usata nella comu­ nicazione quotidiana oppure su quella di scrittori illustri? Per l’italiano, Bembo (che non era toscano, ma veneziano) adotta quest'ultima solu­ zione : infatti assume come modelli di lingua Petrarca per la poesia e Boc­ caccio per la prosa, cioè autori che lo precedono di quasi due secoli. Più o meno negli stessi anni, il Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, attribuito a Niccolò Machiavelli, sostiene invece la posizione contraria, cioè che ci si deve basare sul fiorentino contemporaneo. Il testo di Ma­ chiavelli rimase però inedito fino al 1730; tra le opere pubblicate nel Cinquecento, il rappresentante più autorevole della tesi “fiorentinista” è forse YErodano di Benedetto Varchi (1503-1565), pubblicato postumo nel 1570 (nel quale però si propone di prendere come modello non il fiorentino del «popolazzo», ma quello dei ceti colti). Questo dibattito sulla varietà linguistica da scegliere come base per l ’italiano standard è noto come “questione della lingua”, protrattasi per diversi secoli e, in una certa misura, viva ancora oggi. Nel Cinquecento, le lingue europee moderne non sono le sole a ri­ cevere l’attenzione dei grammatici: la stagione delle grandi scoperte geografiche provoca l’interesse anche per lingue di altri continenti. L ’e­

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braico e l’arabo non erano del tutto sconosciuti in Europa (dell’ebraico Ruggero Bacone aveva anche scritto una grammatica; cfr. par . 3.3.Ζ.4), ma con l’inizio dell’ Età moderna gli studi relativi a entrambe le lingue si moltiplicano. La novità più grande è però rappresentata dall’incontro con lingue in precedenza semisconosciute, come il cinese o il giappo­ nese, o delle quali addirittura si ignorava l ’esistenza, come quelle amerindiane (ossia, degli indiani d’America). Ed ecco apparire, verso la fine del Cinquecento, una grammatica del quechua (lingua dell’antico Impero inca, che conta ancora oggi diversi milioni di parlanti in Perù, Bolivia e altri Stati sudamericani; 1560) e una del nahuatl (linguaparlata nel Messico; 1571), a cui seguiranno, nei decenni e nei secoli successivi, le grammatiche di molte altre lingue amerindiane, nonché del cinese e del giapponese. Anche tutte queste grammatiche hanno scopi sostanzial­ mente pratici: i loro autori sono, per la maggior parte, dei missionari che intendono fornire una descrizione delle lingue degli “infedeli da conver­ tire”, utile sia a loro stessi sia a chi succederà loro nell’impresa. Spesso questi missionari sono stati accusati di aver imposto a queste lingue il sistema grammaticale del latino, ma questa accusa è probabilmente ec­ cessiva: certamente, i missionari non potevano non basarsi sui modelli grammaticali classici, ma non mancano, nelle loro opere, osservazioni importanti sulle caratteristiche di queste lingue che non sono presenti in quelle europee.

4.Ζ.2.. Origine e divenire delle lingue Questa ormai riconosciuta pluralità e diversità delle lingue induce vari studiosi dell’ Età moderna a porsi in modo nuovo il problema del mu­ tamento linguistico e delle lingue originarie. Molte discussioni vertono sul rapporto tra latino e lingue volgari, e in modo particolare tra latino e italiano: come si ricorderà, Dante non pensava che il volgare derivasse dal latino (cfr. PAR. 3.3.3). Nel Rinascimento, si fronteggiano due idee alternative: la prima sostiene che all’origine del volgare sta la mescolanza del latino con le lingue dei barbari invasori; la seconda, invece, che sia sempre esistita una “lingua volgare” latina, che è alla base del volgare moderno. Semplificando un po’, si potrebbe dire che la prima delle due posizioni concepisce il cambiamento linguistico come una frattura, la seconda come un’evoluzione continua. Non mancano però teorie più curiose per quanto riguarda l ’origine dell’italiano o, più precisamente,

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del toscano, come quella “aramea”, proposta da due eruditi del Cinque­ cento, Giovan Battista Gelli (1498-1563) e Pierfrancesco Giambullari (1495-1555): in base a essa, il toscano sarebbe la continuazione diretta dell’etrusco, il quale, secondo la loro fantasiosa ricostruzione, sarebbe a sua volta derivato daH’ “arameo”, lingua introdotta in Toscana da Noè e dai suoi discendenti dopo il diluvio universale. Teorie simili sono pro­ poste, nel Cinquecento, anche per altre lingue romanze: in Francia, al­ cuni studiosi sostengono che il francese non deriva dal latino, ma dal greco; in Spagna, che lo spagnolo (più precisamente, il castigliano) è sempre stato la lingua di quel paese, e che il latino si è semplicemente affiancato a esso, a partire dalla conquista romana. Ipotesi del genere oggi non possono che farci sorridere; tuttavia, dal punto di vista sto­ rico hanno un certo significato, perché testimoniano un atteggiamento nuovo nei confronti del cambiamento linguistico: le lingue romanze, non essendo più viste come derivate dal latino, non possono neppure essere bollate come una sua “corruzione”. Gli studi sui rapporti di parentela tra le varie lingue in molti casi hanno obiettivi molto più vasti, che ritornano, ancora una volta, sulla questione della lingua originaria e della sua frammentazione per effetto della torre di Babele (cfr. pa r r . 3.2.1 e 3.3.3). Tra questi studi, citiamo quelli degli svizzeri Theodor Bibliander (Buchmann; 1504 o 1509-1564) e Conrad Gessner (o Gesner; 1516-1565), intitolati, rispettivamente, “Sul rapporto comune di tutte le lingue e le scritture” (Bibliander, 1548) e “Mitridate. Sulle differenze tra le lingue sia antiche sia usate attualmente presso le diverse nazioni di tutto il mondo” (Gessner, 2009 [1555]). Tanto Bibliander quanto Gessner partono dal riconoscimento dell’im­ portanza di conoscere molte lingue: entrambi si richiamano, il primo all’inizio del suo trattato, il secondo addirittura nel titolo, alla figura di Mitridate, re del Ponto (circa 132-63 a.C.), del quale si racconta che conoscesse ventidue lingue e potesse così rivolgersi a ciascuno dei suoi sudditi senza bisogno di un interprete. Lo studio e la conoscenza delle diverse lingue è, afferma Bibliander, un rimedio alla confusione babe­ lica: il suo atteggiamento, come quello di Gessner, è quindi opposto a quello prevalente nel Medioevo, in cui le differenze interlinguistiche erano sostanzialmente ignorate. Bibliander rimane fedele all’idea che la lingua originaria sia l’ebraico, ma propone una spiegazione più artico­ lata dell’origine delle differenze interlinguistiche, combinando in modo interessante la spiegazione “ babelica” del capitolo x i della Genesi con quella “noachica”, contenuta nel capitolo precedente, dove si dice che

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i tre figli di Noè (Japhet, Cam e Sem) diedero ciascuno origine a dif­ ferenti popoli e differenti lingue. Secondo Bibliander, le lingue che si sono discostate maggiormente dall’ebraico originario sono quelle «dei figli di Japhet»; «quelle dei figli di Sem» vi sono rimaste più vicine; infine, «quelle dei figli di C am » sono in una posizione intermedia (cfr. Bibliander, 1548, p. 142). Il M ithridates di Gessner è un catalogo di più di no lingue (per l’esattezza, 72 lingue più alcuni “dialetti”), di ciascuna delle quali è indicata la popolazione che la parla ed è fornita una sinte­ tica descrizione. Anche Gessner, come Bibliander, rimane fedele al mito dell’ebraico come lingua originaria, e inoltre, «unica pura e sincera», mentre tutte le altre sono «m iste» (cfr. Gessner, 2009 [1555], p. 103). I motivi di questo “mescolamento” sono diversi: Gessner (ibid .) elenca la necessità di introdurre nuovi termini, i cambiamenti di dominazioni {im peria), le migrazioni di popoli. Più o meno questi stessi motivi sono presentati da Bibliander (1548, pp. 58-60) come cause del mutamento delle lingue: entrambi gli eruditi, dunque, cercano di spiegare i motivi della variazione linguistica attraverso lo spazio e attraverso il tempo. Questa attenzione al divenire storico delle lingue, testimoniata anche dal dibattito sull’origine delle lingue neolatine di cui abbiamo parlato all’ inizio di questa sezione, rappresenta una novità importante: pro­ blemi del genere erano infatti estranei alla linguistica del Medioevo, con la parziale eccezione di Dante (cfr. par . 3.3.3). In questo clima culturale, anche il problema della lingua originaria comincia a porsi in un modo diverso rispetto al passato: se Bibliander o Gessner e molti altri rimangono fedeli alla spiegazione biblica e con­ tinuano a considerare tale lingua l ’ebraico, emergono anche posizioni diverse, spesso bizzarre, come quella di Goropius Becanus, cui si è accen­ nato nel capitolo 1 e che non è comunque priva di ingegnosità. Ciò che è importante notare è che teorie di questo genere rappresentano un’alter­ nativa al paradigma biblico e anticipano nuove ipotesi sui rapporti di pa­ rentela tra le varie lingue, ipotesi che verranno sviluppate nei secoli suc­ cessivi. Se infatti esaminiamo il modo in cui l ’esame di questo problema si evolve dal Cinquecento al Settecento, osserviamo due innovazioni fondamentali, anche se spesso rimaste a uno stato embrionale: da un lato, affiora l’ idea che la lingua originaria non coincida necessariamente con una lingua esistente; dall’altro, quella che le lingue si raggruppino in ceppi diversi, non imparentati tra loro. Un esponente di quest’ultima concezione è il francese (di origine italiana) Giuseppe Giusto Scaligero (1540-1609), il quale classifica le lingue europee in base alle loro diverse

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«lingue madri» (linguae matrices), quattro «m aggiori» e sette «m i­ nori». Le prime sono indicate mediante le parole per esprimere il con­ cetto di Dio: rispettivamente, Deus (cioè il latino e le lingue romanze), Theós (il greco), Godt (le lingue germaniche), Boge (le lingue slave). Secondo Scaligero, la parentela linguistica si limita alle lingue derivate dalle lingue madri, mentre tra queste ultime non ci sono relazioni di pa­ rentela, né nelle parole né nella struttura grammaticale. Non mancano però, all’epoca di Scaligero, studiosi che ipotizzano parentele ben più vaste, ipotesi dimostratesi poi corrette: un caso particolarmente interes­ sante è quello del fiorentino Filippo Sassetti (1540-1588), che trovandosi in India per motivi di affari, invia nel 1583, a due eruditi suoi amici, let­ tere in cui nota una sorprendente somiglianza tra alcune parole toscane e alcune parole di una lingua indiana, «che essi [cioè gli indiani] chia­ mano Sanscruta», cioè il sanscrito, su cui ritorneremo tra poco. L ’ipotesi che molte delle lingue più tardi dette indoeuropee derivino da una lingua madre non più esistente, e nemmeno attestata, fu forse formulata per la prima volta dall’olandese Marcus Zuerius Boxhorn (1602-1653), in un’opera rimasta inedita. Esplicitamente molto scet­ tico nei confronti di ricostruzioni come quelle di Goropius Becanus, Boxhorn avanza l ’idea di un’originaria lingua «scitica» da cui derive­ rebbero il greco, il latino, il persiano e le lingue germaniche. La teoria scitica sarà ripresa all’inizio del Settecento dal grande filosofo e mate­ matico tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716), che nei “Nuovi saggi sull’intelletto umano” (Leibniz, 1765, libro n i, cap. 2), afferma che l ’esistenza di «m olte radici comuni» tra latino, greco e lingue germa­ niche può essere spiegata ipotizzando « la discendenza comune di tutti questi popoli dagli Sciti, venuti dal Mar N ero». Leibniz accetta in linea di principio il racconto biblico dell’origine di tutte le lingue da un’unica lingua madre, ma afferma che lo sviluppo storico non rendeva più rico­ noscibile questa lingua arcaica, e classificava le lingue attestate in due grandi specie: le «jafetiche» (da lui chiamate anche «celto-scitiche») e le «aram aiche». Le prime sarebbero quelle dell’Eurasia: le lingue ger­ maniche, il greco, il finnico, il turco ecc.; le seconde quelle dell’Africa e del Vicino Oriente, ossia l ’arabo, l’ebraico, l ’antico egiziano ecc. Se ora confrontiamo, alla luce di quanto sappiamo oggi, le genealogie linguistiche di Scaligero con quelle di Leibniz, osserviamo che le prime risultano troppo anguste, e le altre sono troppo estese: da un lato, infatti, le lingue romanze, il greco, le lingue germaniche e le lingue slave fanno tutte parte di una stessa famiglia, quella indoeuropea; dall’altro, non è

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stato finora possibile dimostrare la parentela, ad esempio, tra le lingue indoeuropee e il finnico (famiglia uralica) o il turco (famiglia altaica). In ogni caso, l’ipotesi “celio-scitica” di Leibniz non può non colpirci per la sua genialità, in quanto coglie l ’origine comune di lingue geogra­ ficamente e storicamente molto distanti: in un certo senso, prelude alla delimitazione della famiglia linguistica indoeuropea, che si realizzerà definitivamente solo nel x i x secolo (cfr. par . 5.2.2.3). Questo risultato sarà possibile solo grazie all’osservazione delle correlazioni sistematiche tra il sanscrito e alcune lingue europee. Il sanscrito, cioè la lingua sacra della religione indù, rimase sostanzialmente sconosciuto in Occidente fino agli ultimi decenni del Settecento (le osservazioni di Sassetti, per quanto molto acute, sono assolutamente sporadiche). Solo nel 1768, il gesuita francese Gaston Laurent Coeurdoux (1691-1779), notando nu­ merose corrispondenze lessicali e grammaticali tra il sanscrito da un lato e il greco e il latino dall’altro, propose di spiegarle mediante l’origine co­ mune di queste lingue, senza più menzionare gli Sciti. Queste proposte non ebbero, tuttavia, un grande seguito: la vera “scoperta” del sanscrito si avrà solo a partire da una ventina d ’anni dopo, e da essa avrà origine l’ indoeuropeistica nel senso moderno del termine, come vedremo in dettaglio nel prossimo capitolo.

4.3. Grammatica e filosofia del linguaggio nel Seicento 4.3.1. Grammatica “civile” e grammatica “filosofica” La riflessione teorica sul linguaggio e sulla grammatica, trascurata dagli Umanisti nel Quattrocento, comincia a riproporsi verso la metà del se­ colo seguente. Nel 1540, Giulio Cesare Scaligero (1484-1558), padre di Giuseppe Giusto, pubblica a Lione un volume intitolato “Le cause della lingua latina” (D e causis linguae latinae), all’ inizio del quale afferma che la grammatica non è arte, ma scienza, assumendo quindi una posizione simile a quella dei Modisti (cfr. PAR. 3.3.2.3); a differenza di questi ul­ timi, però, Scaligero fa ricorso non ad esempi inventati, ma tratti da testi latini classici. Nel 1587, esce M inerva seu de causis linguae latinae, dello spagnolo Francisco Sànchez de las Brozas, più noto con il nome latino di Sanctius (1523-1601), un testo, come si vede, dal titolo molto simile a quello di Scaligero, e che si propone anch’esso di individuare il perché di certe forme linguistiche, con uno scopo quindi analogo a quello che,

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nell’Antichità, si era posto un grammatico come Apollonio Discolo (cfr. p a r . 1.4 ..Z .Z ). Sanctius, come Scaligero, adotta come modello la lingua degli autori classici latini, conformemente alla tradizione umanistica, ma cerca di individuare i principi logici che stanno alla base del suo funziona­ mento. Un fenomeno a cui dedica particolare attenzione è quello dell’el­ lissi, trattato nel libro iv della M inerva (Sanctius, 1587), cioè dell’omis­ sione di certe parole in una costruzione, per determinare le condizioni in cui essa è possibile. L ’ellissi è necessaria, dice Sanctius, perché, se non esistesse, molte frasi risulterebbero insopportabilmente pesanti; non è però possibile omettere qualunque parola o gruppo di parole, perché al­ lora dovremmo considerare ben formate anche frasi che non lo sono: ad esempio, ego amo D ei (dove il verbo transitivo è seguito da un genitivo, invece che da un accusativo, come dovrebbe essere) oppure ego amo Deus (dove è seguito da un nominativo) potrebbero essere considerate casi di ellissi, rispettivamente di ego amo D ei praeceptum (‘io amo il comando di D io’ ) e di ego amo quaepraecepitDeus (‘io amo ciò che ha comandato D io ’ ). A Sanctius si devono poi molte altre considerazioni interessanti, come la ridefinizione completa delle parti del discorso, da lui ridotte a tre: nome, verbo e particella (cfr. ivi, libro 11, cap. z). Con questi autori si ha dunque una rinascita della grammatica filoso­ fica, anche se essi non usano ancora questa espressione. L ’idea che esi­ stano due tipi di grammatiche, una di tipo “ basso” e una di tipo “alto”, è comunque latente, ed è esplicitata, nella prima metà del Seicento, da importanti filosofi, come l’ inglese Francesco Bacone (1560-1626) e l’i­ taliano Tommaso Campanella (1568-1639), che utilizzano una termi­ nologia quasi identica: entrambi, infatti, oppongono alla grammatica «filosofica» un altro tipo di grammatica, che il primo chiama «popo­ lare» e il secondo, nella sua Grammatica (Campanella, 1638), «civile»; quest ultima, dice Campanella, «è empiria, non scienza», mentre l ’altra « s i fonda sulla ragione». Lo spagnolo Juan Caramuel y Lobkowitz (1606-1682) riprende l’espressione “grammatica speculativa” tipica dei Modisti (cfr. Caramuel, 1654, p. 3), certo intenzionalmente, in quanto si richiama, oltre che a Scaligero e a Campanella, a Duns Scoto, a cui era attribuita, all’epoca, il trattato di Tommaso di Erfurt (cfr. p a r . 3.3.2.3). La grammatica speculativa «non riguarda una qualche regione o una popolazione in particolare», ma stabilisce «le leggi del parlare per ogni popolo e ogni lingua» (ìbid.). Il modello di grammatica generale, o filo­ sofica, più noto è però quello elaborato dai cosiddetti “Signori di PortRoyal”, di cui ora ci occuperemo.

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4.3.2. La linguistica di Porr-Royal Port-Royal (ossia “Porto Reale”, da cui l’aggettivo ‘portorealista’ ) era un monastero cistercense femminile, non lontano da Parigi, il cui di­ rettore spirituale era un religioso, l ’abate di Saint-Cyran, appartenente alla corrente dei giansenisti, che fu poi condannata come eretica dalla Chiesa cattolica romana per le sue concezioni sulla grazia divina. In­ torno a Saint-Cyran si formò un gruppo di intellettuali (chiamati ap­ punto i “Signori di Port-Royal”), tra cui spiccano i nomi del filosofo e matematico Blaise Pascal (1623-1662) e del tragediografo Jean Racine (1639-1699). Essi tra l ’altro organizzarono un sistema di istruzione, le cosiddette Petites écoles (“piccole scuole”), in cui la riflessione sulla struttura del linguaggio e del pensiero aveva un ruolo fondamentale. Di questo ambizioso esperimento pedagogico sono frutto due opere, note rispettivamente come la Grammaire e la Logique di Port-Royal, uscite anonime, perché il grande rigore morale che caratterizzava i giansenisti imponeva di non dare alcun rilievo all’opera dei singoli individui; si sa comunque che gli autori della prima sono Antoine Arnauld (1612-1694) e Claude Lancelot (1616-1695), e quelli della seconda lo stesso Arnauld e Pierre Nicole (1625-1695). La prima edizione della “Grammatica gene­ rale e ragionata” (Arnauld, Lancelot, 1966) è del 1660, e quella definitiva del 1676; la prima edizione della “Logica o l’arte di pensare” (Arnauld, Nicole, 1965) risale al 1662, quella definitiva al 1683. Entrambe furono ristampate più volte, fino alla metà dell’ Ottocento; in seguito, furono quasi dimenticate, fino alla riscoperta fattane da un linguista di oggi, Noam Chomsky, che le ha presentate, almeno in parte, come un’anti­ cipazione delle proprie teorie. Indipendentemente dalla correttezza di questa interpretazione, si tratta comunque di due opere che hanno lar­ gamente influito sul pensiero linguistico successivo. Chiamando fin dal titolo la loro grammatica «generale» e «ragio­ nata», i Signori di Port-Royal indicavano il loro obiettivo: non limi­ tarsi a indicare le forme del parlare corretto, ma determinarne le ragioni, e non soltanto relativamente a una lingua determinata, ma per qualsiasi lingua umana. La pluralità linguistica propria dell’Età moderna è in­ fatti rispecchiata dalla varietà delle lingue esaminate: oltre al francese, che costituisce quasi sempre il punto di partenza, si citano esempi dalle lingue classiche (latino e greco), dall’italiano e dall’ebraico. I portorea­ listi non cercano di forzare questa diversità imponendo a tutte le lingue un unico modello: da un lato, osservano che le stesse categorie non sono

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presenti in ogni lingua: è il caso dell’articolo (cfr. Arnauld, Lancelot, 1966 [1676], trad. it. p. 17); dall’altro, riconoscono che «non sempre l ’uso si accorda con la ragione» (ibid.): ad esempio, il greco usa l ’ar­ ticolo determinativo anche davanti ai nomi propri (‘il Filippo’ invece che semplicemente ‘Filippo’ ), anche se è inutile, perché l ’individuo a cui il nome si riferisce è già univocamente determinato. Un esempio di che cosa i portorealisti intendano per grammatica generale e ragionata è dato dalla loro analisi dei casi. Questi sono realizzati come desinenze del nome solo in latino e in greco, ma dato che la loro funzione è quella di esprimere le relazioni tra le cose indicate dai nomi, si può parlare di ge­ nitivo, dativo ecc., anche per le lingue volgari, in cui tali relazioni sono espresse mediante l ’uso di preposizioni, o l’ordine delle parole, o in altri modi ancora (cfr. ivi, p. 13). A d esempio, il latino distingue il nomina­ tivo Dominus dal vocativo Domine: il francese (come l ’italiano, pos­ siamo aggiungere) anteponendo o meno l ’articolo al nome (Ί 1 Signore è la mia speranza’ vs ‘Signore, voi siete la mia speranza’ ; cfr. ivi, p. 14 ). Il caso è quindi una relazione generale, la cui esistenza è razionalmente motivata. L ’universalità delle categorie del linguaggio έ data dalla loro corri­ spondenza con quelle del pensiero: «possiamo definire le parole come suoni distinti ed articolati di cui gli uomini hanno fatto dei segni per significare i loro pensieri» (ivi, p. 15). La concezione dei portorealisti ricorda quelle di Aristotele o dei Modisti, ma con un’ importante diffe­ renza: mentre il filosofo greco e i grammatici speculativi medievali as­ sumevano un sostanziale parallelismo tra categorie del linguaggio, del pensiero e della realtà (cfr. p a r r . 2.3.1 e 3.3.2.3), quest’ultima non viene presa in considerazione nel quadro di Port-Royal, che si limita a consi­ derare le espressioni linguistiche come un riflesso delle operazioni della mente. Tali operazioni sono il ‘concepire’, il ‘giudicare’ e il ‘ragionare’. La prima operazione consiste in «un semplice sguardo dello spirito sulle cose»; la seconda nell’ « affermare che una cosa che concepiamo è tale o non è tale»; la terza nel «servirsi di due giudizi per farne un terzo» (cfr. ivi, p. 16). A ll’operazione mentale del concepire corrispondono le parole prese isolatamente; a quella del giudicare, la proposizione; a quella del ragionare, il sillogismo, cioè l ’operazione che da due proposi­ zioni, le premesse, ne deduce una terza, la conclusione. La Grammaire di Port-Royal tratta le prime due operazioni, mentre la terza è oggetto della Logique. La proposizione è definita, nella Grammaire di Port-Royal, come

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l ’espressione di un giudizio, ed è analizzata come costituita da tre ele­ menti: Soggetto, Copula e Predicato (o «A ttributo»; cfr. ibid.). Questa analisi è certamente erede di quella di Aristotele, ma contiene un’im­ portante novità: gli elementi che entrano nella proposizione non sono due, come in Aristotele, ma tre, in quanto al soggetto e al predicato si aggiunge la copula. Nemmeno quest’ultima nozione ha origine con Port-Royal: infatti era stata probabilmente introdotta da Abelardo all’i­ nizio del x i i secolo (cfr. p a r . 3.3.2.2). La novità introdotta dai Signori di Port-Royal consiste nell’analizzare ogni proposizione in base a questo schema, anche quando essa sembri mancare di qualcuno di questi tre elementi: più avanti, infatti, trattando del verbo, la Grammaire (ivi, p. 49), afferma che «è lo stesso dire Pietro vive e Pietro è vivente». Infatti Γ «uso principale» del verbo è quello di «significare l’afFermazione» (ivi, p. 48). Questa proprietà di significare l’affermazione è posseduta in senso stretto soltanto dal verbo ‘essere’, cioè dal ‘verbo sostantivo’ (cfr. p a r . 2.4.2.2). Tutti gli altri verbi derivano dalla combinazione di altri significati con quello di ‘essere’, combinazione dovuta alla tendenza naturale degli uomini «ad abbreviare le loro espressioni» (ivi, p. 49). Questa tendenza si manifesta anche nell esprimere, in lingue come il la­ tino, il verbo e il soggetto mediante una sola parola (sum), e nell’aggiungere al verbo anche delle indicazioni di tempo (cfr. ib id ). Queste analisi della proposizione e del verbo hanno avuto un grande influsso fino ai primi dell’Ottocento, ma in seguito sono state abbando­ nate e spesso duramente criticate, come espressione di un atteggiamento “logicista” che distorce la realtà effettiva delle lingue. Invece, un risultato acquisito nella storia della linguistica è la distinzione che i Signori di Port-Royal individuano tra due tipi di frasi: le principali e le dipendenti. Nessuno dei grammatici e filosofi precedenti, infatti, aveva individuato in modo chiaro il fenomeno delle frasi incluse in altre frasi. Boezio, come gli Stoici prima di lui (cfr. p a r . 2.3.3), era arrivato alla nozione di ‘frase composta’, cioè di una frase formata da più frasi, ma non aveva spe­ cificato quale delle due era la principale e quale la dipendente. Tommaso di Erfurt, definendo ‘se Socrate corre’ una costruzione imperfetta (cfr. PAR. 3.3.2.3), evidentemente intuisce il concetto di frase dipendente, ma non ne dà nessuna definizione esplicita. La Logique di Port-Royal (Arnauld, Nicole, 1965 [1683], parte II, cap. 5) distingue le proposizioni semplici dalle proposizioni composte in termini non diversi da quelli di Boezio: le proposizioni semplici sono quelle che hanno un solo sog­ getto e un solo predicato, quelle composte quelle che hanno più di un

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soggetto e più di un predicato. Tuttavia, ci sono delle proposizioni che apparentemente sono composte, ma in realtà sono semplici; si tratta delle proposizioni ‘complesse’, ossia quelle il cui soggetto, o il cui predi­ cato, o entrambi, sono modificati da quella che i portorealisti chiamano ‘proposizione incidente’ : ad esempio, ‘Dio che è invisibile ha creato il mondo che è visibile’. Come si vede, le “proposizioni incidenti” sono le nostre frasi relative, cioè esempi di frasi dipendenti. Dato che i portore­ alisti (cfr. ivi, parte il, cap. i) riducono anche le proposizioni oggettive alle proposizioni relative (‘Dico che voi avete torto’ è ricondotta a ‘Dico una cosa che è, voi avete torto’ ), possiamo concludere che individuano il concetto di frase dipendente in modo abbastanza chiaro. Naturalmente, occorrerà un certo tempo perché il termine stesso di frase (o proposi­ zione) dipendente (detta anche ‘secondaria’, o ‘subordinata’ ) faccia la sua apparizione nelle grammatiche e si arrivi a una classificazione ade­ guata di tali proposizioni: questo processo si svilupperà nel Settecento e si completerà soltanto nella prima metà dell’Ottocento (cfr. par . 5.3.1). Il merito della scoperta della nozione, anche se non del termine, di frase dipendente, va comunque attribuito a Port-Royal; e si tratta di una sco­ perta molto importante.

4.3.3. Il linguaggio secondo i Razionalisti e gli Empiristi Chomsky (1966) ha considerato la Grammaire e la Logique di PortRoyal come l ’esempio più tipico di “linguistica cartesiana”. In effetti, Arnauld era in stretto contatto con Cartesio, e, a quanto sembra, aveva professato idee simili ancora prima che le opere di quest’ultimo venis­ sero pubblicate. In Cartesio non si trovano però analisi di fatti lingui­ stici determinati, ma solo considerazioni generali sul linguaggio come capacità specificamente umana, che distingue gli uomini sia dalle mac­ chine che dagli animali. Le più celebri di queste considerazioni sono contenute nella V parte del Discorso sul metodo (Descartes, 1637, origi­ nariamente pubblicato anonimo), dove il filosofo francese afferma che « è degno di particolare nota il fatto che non ci sono uomini tanto ottusi e sciocchi, compresi anche i deficienti, che non siano capaci di mettere insieme diverse parole e di ricavarne un discorso col quale fare inten­ dere i loro pensieri; mentre non c e nessun altro animale, per quanto perfetto e nato sotto benigna stella, che faccia altrettanto» (ivi, trad. it.

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p. 77). Quello che Chomsky ha chiamato l’aspetto creativo dell’uso del linguaggio, è dunque l’argomento fondamentale, secondo Cartesio, per attribuire solo agli uomini, e non alle macchine e agli animali, la res cogitans, la mente. Si può dunque concludere che i signori di PortRoyal si ispiravano a Cartesio per quanto riguarda la visione generale del linguaggio, considerato come fondato sull’universalità e l ’unicità della ragione umana, mentre le loro analisi delle strutture grammaticali non hanno nulla di specificamente cartesiano. Da un lato, si possono ricon­ durre ad antecedenti remoti, come la grammatica speculativa medievale, o prossimi, come la M inerva di Sanctius (1587) e altre grammatiche filo­ sofiche tra Cinquecento e Seicento; dall’altro, contengono importanti elementi di novità, come la scoperta del concetto di frase dipendente di cui si è appena parlato. Cartesio è solitamente considerato il caposcuola del Razionalismo, ossia di quella corrente filosofica che sostiene che la mente umana pos­ siede conoscenze precedenti e indipendenti dalle impressioni sensoriali: ad esempio, percepiamo un triangolo quando vediamo una figura dise­ gnata sulla carta, per quanto imperfetta essa sia, perché è innata in noi l ’ idea di triangolo. La corrente opposta, nota come Empirismo, sostiene invece che tutte le conoscenze hanno origine dalle sensazioni: il suo motto è “non c’è nulla nella mente che non sia stato in precedenza nella sensazione” (n ih il est in intellectu quod prius non fu erit in sensu). Ca­ poscuola dell’ Empirismo è abitualmente ritenuto Locke, ma tra i suoi predecessori vanno ricordati Francesco Bacone e Thomas Hobbes (15881679). A l contrario di Cartesio, Locke dedica ampio spazio all’analisi di singoli fatti linguistici: il terzo libro della sua opera più importante, Saggio su ll’intelletto umano (Locke, 1690) si intitola proprio “ Sulle pa­ role” (On JVords). Le parole hanno infatti, per Locke, un ruolo fondamentale nell’organizzazione della nostra conoscenza. In primo luogo, esse servono a fissare la varietà e la molteplicità delle nostre impressioni sensoriali: incontriamo, ad esempio, tanti individui diversi, che produ­ cono in noi impressioni diverse, e a tutti possiamo assegnare un nome proprio, ma la nostra memoria non potrebbe ricordarli tutti; noi quindi astraiamo dalle qualità individuali e indichiamo una classe di entità me­ diante un nome generale, ad esempio ‘uomo’ (cfr. ivi, libro n i, cap. 3). Questa capacità di astrazione è posseduta dall’uomo ma non dagli ani­ mali, proprio perché questi ultimi non possiedono il linguaggio. Quindi anche l’empirista Locke, come il razionalista Cartesio, considera il lin­ guaggio come una proprietà esclusiva della specie umana; diverse invece

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saranno le opinioni di alcuni Empiristi del secolo seguente, come ve­ dremo nel paragrafo 4.4.2, e la questione è ancor oggi oggetto di acceso dibattito (cfr. p a r . 7.3.3.!). Locke attribuisce un ruolo fondamentale al linguaggio per ciò che riguarda la formazione di un tipo particolare di idee, quelle che chiama ‘modi misti’, formati dalla combinazione di «idee semplici di diverse specie» (ivi, libro 11, cap. 12). Mentre le idee semplici derivano da cose reali, i modi misti sono frutto di un atto arbitrario della nostra mente: non c ’è, in natura, nessuna differenza tra l’uccisione di un uomo e quella di una pecora, osserva Locke (ivi, libro in , cap. 5, § 6), e tuttavia c’è la parola “assassinio” per indicare l’uccisione di un uomo, ma non c’è una parola per indicare l’uccisione di una pecora. Questa arbitrarietà spiega perché molte parole di una lingua non sono traducibili direttamente in altre: ad esempio, la parola latina versura, che indica un prestito con­ tratto per poter pagare un altro debito, non ha un corrispondente esatto in italiano, né in altre lingue (cfr. ivi, § 8). L ’arbitrarietà delle lingue umane non sta dunque solo nella mancanza di corrispondenza naturale tra parola e oggetto, come già aveva osservato Aristotele, ma anche nella mancanza di una relazione stabile tra parola e idea espressa. A l saggio di Locke replicò, dal versante razionalista, Leibniz, con i suoi N uovi saggi su ll’intelletto umano (cfr. p a r . 4.2.2). Per quanto ri­ guarda in particolare la questione dei modi misti e la precedenza che Locke assegnava, in questo caso, alle parole sulle idee, Leibniz (1765, libro III, cap. 4, § 17, trad. it. p. 276) rispose così: « io credo l ’arbitrario si trovi soltanto nelle parole e per nulla nelle idee, poiché queste ultime non esprimono che delle possibilità. Così, quando non vi fosse mai stato parricidio [...] il parricidio sarebbe un crimine possibile e la sua idea sarebbe reale». Le lingue umane sono diverse, come sono diversi i costumi dei vari popoli, e quindi i contenuti della ragione umana si pos­ sono esprimere in modo diverso: ma questi contenuti sono universali (cfr. ivi, libro n i, cap. 5, § 8). Le osservazioni di Leibniz sul linguaggio non si limitano a queste repliche a Locke, ma se ne trovano in numerose altre opere, molte delle quali pubblicati postume: abbiamo parlato in precedenza (cfr. p a r . 4.2.2) del suo tentativo di classificazione genealo­ gica delle lingue; nel prossimo paragrafo ci occuperemo del suo progetto di “lingua universale” (o characteristica universalis). Leibniz non era il primo a elaborare un progetto del genere: l’ idea di una lingua universale era stata concepita durante il Seicento da vari studiosi, come vedremo immediatamente.

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4.3.4. Le “lingue universali” I motivi che spingevano all’elaborazione di una lingua universale erano numerosi. Il più nobile era quello di evitare il ripetersi di guerre di re­ ligione come quelle che avevano devastato l’ Europa durante la prima metà del Seicento e che, secondo alcuni pensatori, erano state originate dal diverso modo in cui le verità di fede erano presentate nelle varie lingue. Ad esempio, il filosofo e pedagogista boemo Jan Amos Komensky (italianizzato in Comenio; 1392-1670), nella sua ViaLucis, pub­ blicata nel 1668, ma scritta nel 1641, quando era esule in Inghilterra per sfuggire alla guerra dei Trent’anni, auspicava la creazione di una «nuova lingua», che permettesse a chiunque « d i avventurarsi in ogni parte del mondo, sapendo di capire tutti e di essere capito da tutti» (Comenio, 1668, cap. 19, § 6). I modelli di lingue universali costruiti nel Seicento sono numerosi; qui ci riferiremo a quelli dovuti a George Dalgarno (circa 1626-1687; Dalgarno, 1834 [1661]) e a John Wilkins (1614-1672; Wilkins, 1668). Non è forse un caso che entrambi questi lavori siano opera di studiosi britannici: oltre alla probabile influenza di Comenio, già Erancesco Bacone, nel Novum organum (1620), aveva sostenuto che l ’ imprecisione e la vaghezza delle lingue naturali erano fonte di equi­ voci. Ovviamente, nessuno di questi tentativi di costruire una lingua universale ebbe successo: se qualcuno lo avesse avuto, forse oggi tutti al mondo parleremmo la stessa lingua. Tuttavia, è opportuno dedicare un cenno a queste opere, non solo per capire perché non abbiano raggiunto il loro scopo, ma anche perché, come vedremo, contengono varie osser­ vazioni interessanti anche sulle lingue naturali. Questi progetti si collocano nell’alveo della grammatica filosofica (cfr. p a r . 4.3.1): ad esempio, Wilkins (1668, pp. 297 ss.), oppone la N aturai (o Philosophical, Rational, UniversaΓ) Grammar alla Instituted (o Particular) Grammar, richiamandosi esplicitamente a “Scoto” (cioè, a Tom­ maso di Erfurt), Scaligero, Campanella, Caramuel, ma aggiungendo che tutti questi autori «non hanno fatto astrazione in modo sufficiente» dalle lingue naturali che conoscevano. Il principio generale che ispira Wilkins e gli altri proponenti di lingue universali (o “perfette”) è che il linguaggio e il pensiero siano indipendenti l ’uno dall’altro: questo as­ sunto è comune, nel Seicento, tanto ai Razionalisti che agli Empiristi. Le lingue universali devono soddisfare al principio “un segno - un con­ cetto”, già proposto da Bacone per evitare gli equivoci tipici delle lingue naturali; devono quindi essere costituite dai cosiddetti “caratteri reali”,

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cioè segni «che non significhino parole, ma cose e nozioni, in modo da essere leggibili da ogni nazione nella propria lingua» (ivi, p. 13). Nel tracciare questi caratteri reali, Dalgarno e Wilkins si ispiravano espli­ citamente agli ideogrammi cinesi: ai loro tempi, però, non era ancora chiaro che nei sistemi di scrittura ideografici (o, meglio, logografici) non c’è una corrispondenza esatta tra segni e concetti, sia per il “principio del rebus” (cfr. p a r . 2.2), sia per il fatto che anche gli ideogrammi non indicano cose o concetti, ma parole, il cui significato può cambiare attra­ verso il tempo. In ogni caso, questi studiosi elaborarono dei sistemi ori­ ginali, basati su una classificazione della realtà simile a quella aristotelica, cioè divisa per generi e specie, da quelli di massima estensione (17 per Dalgarno, 40 per Wilkins) alle più minute, ognuna indicata da un segno proprio, formato dalle indicazioni dei vari generi e delle loro suddivi­ sioni interne (“differenze specifiche”, in termini aristotelici). Così, ad esempio, il carattere con cui Wilkins (ivi, p. 386) indica ‘padre’ consiste della combinazione di quattro segni, indicanti rispettivamente a) ‘rela­ zione economica’ (cioè interpersonale), b) ‘consanguineità’, c) ‘ascen­ denza diretta’ e d) ‘maschio’ : quindi, potremmo dire che ‘padre’ signi­ fica “consanguineo di sesso maschile che ha la relazione di ascendenza diretta”. Ma questo è davvero il concetto che corrisponde alla parola ‘padre’ o semplicemente una sua perifrasi mediante altre parole? Natu­ ralmente, Wilkins sosteneva la prima posizione, ma è facile osservare che il suo inventario di concetti corrispondeva di fatto a un insieme di parole inglesi, quindi si può ipotizzare che, se la sua lingua materna fosse stata un’altra, anche tale inventario sarebbe stato diverso. Questo risultato negativo, tuttavia, è semplicemente dovuto ai limiti di Wilkins (e degli altri autori seicenteschi di “lingue universali”), oppure la costruzione di un sistema universale di concetti, e quindi di una lingua universale, è impossibile per principio ? Per molti studiosi di oggi, la risposta corretta è la seconda: non esiste un insieme di concetti indipendenti dalle singole lingue, ma ognuna di esse impone la propria forma al pensiero. Altri, come Chomsky (2006 [1968], trad. it. p. 163) sostengono invece che, « sebbene siano ovvi i difetti di realizzazione di studi pioneristici come quelli di Wilkins, l ’ impostazione generale è corretta». Il problema è, dunque, ancora aperto. Le lingue universali di Dalgarno e Wilkins hanno anche una propria morfologia e una propria sintassi, che, se da un lato sono inevitabilmente basate su quelle delle lingue naturali, dall’altro testimoniano di alcuni mutamenti considerevoli rispetto alla tradizione delle grammatiche clas­

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siche e medievali. Anzitutto, la lingua assunta come base non è il latino, ma l’ inglese, che non è considerata perfetta (altrimenti, non ci sarebbe bisogno di costruire una lingua universale), ma comunque si avvicina a questo ideale molto più del latino, perché il suo carattere analitico* è considerato superiore a quello sintetico* di quest’altra lingua (usiamo questi termini anacronisticamente, dato che sono stati introdotti in lin­ guistica solo all’ inizio dell’Ottocento; cfr. par . 5.3.3). Wilkins (1668, p. 352) si pronuncia decisamente a favore del tipo analitico. Anche il fatto che gli aggettivi, in inglese, sono invariabili non è considerato un difetto da Wilkins, ma, al contrario, una caratteristica positiva: non è necessario, osserva, che gli aggettivi presentino i tratti di numero, genere e caso, perché questi sono già espressi dal sostantivo a cui si riferiscono. Da molto tempo lavori come quelli di Dalgarno e Wilkins sono con­ siderati come semplici curiosità, frutto dell’ ingegno di eruditi bizzarri, oggi largamente dimenticati. Tuttavia, entrambi sono citati frequente­ mente da Leibniz (ad es. Leibniz, 1765, libro in , cap. 3, § 1), che li as­ sume come punto di partenza per la costruzione della sua characteristica universalis (cfr. Couturat, 1901, p. 59). Secondo Leibniz, però, questi modelli di lingua universale avevano uno scopo diverso dal suo: una tale lingua doveva infatti essere «strumento della ragione», e «solo in minima parte» un mezzo di comunicazione tra popolazioni diverse, come invece la concepivano primariamente i due studiosi inglesi (cfr. ivi, p. 60). Non si deve pensare che Leibniz non fosse interessato alla so­ luzione delle controversie filosofiche e religiose: anzi, proponeva una ri­ conciliazione tra le varie sette protestanti, e anche tra protestanti e catto­ lici; tuttavia, riteneva che questi risultati potessero essere raggiunti solo con l’elaborazione di un autentico “linguaggio del pensiero”, espresso in caratteri. Tali caratteri sono di due tipi: il primo deve indicare le sin­ gole idee, il secondo le loro relazioni; come esempi di caratteri del primo tipo, il filosofo tedesco cita gli ideogrammi egiziani o cinesi; del secondo tipo, i segni dell’aritmetica e dell’algebra (cfr. ivi, p. 81). La lingua uni­ versale come concepita da Leibniz è quindi un calcolo, il cui uso porterà alla soluzione di ogni disputa: «ciò fatto, quando sorgeranno delle con­ troversie, due filosofi non avranno bisogno di discutere più di quanto ne abbiano due persone che calcolano. Basterà infatti prendere in mano una penna e sedersi a tavolino, e (con l ’aggiunta di un amico, se si vuole) dirsi reciprocamente: Calcoliam o!» (ivi, p. 98, n. 3). D i fatto, questa characteristica universalis rimase sempre allo stadio di progetto: Leibniz non riuscì mai a individuare quei pensieri semplici che avrebbero dovuto

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fungere da primitivi del sistema di calcolo. Quest'ultima idea, invece, era destinata a grandi sviluppi, in quanto anticipava i moderni linguaggi di programmazione, cioè il modo in cui « il computer “pensa”, senza “sa­ pere” che cosa significhino le istruzioni che riceve ed elabora in termini puramente binari» (Eco, 1993, p. 307). Il riferimento ai sistemi binari (cioè, quelli che scrivono 2 come ‘io ’, 3 come ‘1 1 ’, 4 come ‘10 0 ’ ecc.) non è anacronistico: Leibniz infatti faceva vari esempi di questo sistema di numerazione, e ne affermava la superiorità rispetto a quello decimale (cfr. Couturat, 1903, p. 184). Si tratta però di un apparato di calcolo puramente formale, quindi l ’impresa di costruire una lingua universale corrispondente alla natura e al funzionamento dei nostri pensieri non riuscì neppure a Leibniz. Rimangono comunque molto interessanti le sue osservazioni sulle lingue naturali, che, come per Dalgarno e Wilkins, costituiscono il punto di partenza per la costruzione della lingua univer­ sale. Ad esempio, Leibniz rileva l ’eterogeneità della categoria “avverbio” : i cosiddetti “avverbi interrogativi”, osserva, andrebbero piuttosto classi­ ficati tra le congiunzioni (cfr. ivi, p. 187). Ancora: le preposizioni stanno ai nomi come le congiunzioni stanno ai verbi, in quanto le prime reg­ gono i casi, le seconde i modi (cfr. ivi, p. 290). I rapporti indicati dalle desinenze casuali possono comunque essere indicati tramite «preposi­ zioni con il nominativo, come avviene in italiano, francese, spagnolo» (ivi, p. 434): quindi «nella grammatica razionale non sono necessari i casi obliqui, e neppure le altre flessioni» (ivi, p. 287). Anche Leibniz, dunque, come Wilkins, assume in molti casi le lingue moderne, e non il latino, come base per la sua lingua universale. L ’esigenza di una esatta corrispondenza tra operazioni del pensiero e lingua perfetta, posta, in forme diverse, da Wilkins e Dalgarno come da Leibniz, richiama abbastanza da vicino le concezioni dei Signori di Port-Royal (cfr. par . 4.3.3): l’idea comune è che alle diverse lingue na­ turali sia soggiacente un’identica struttura mentale, comune a tutti gli esseri umani. Questa vicinanza concettuale si traduce spesso in analisi identiche, come quella della frase in soggetto, copula e predicato, formu­ lata sia dai portorealisti che da Dalgarno e da Wilkins, o quella di ogni verbo in ‘essere’ e participio presente, che si trova, oltre che nella Gramm aire di Port-Royal, in Dalgarno (1834 [1661], p. 65), in Wilkins (1668, p. 303) e in Leibniz (cfr. Couturat, 1903, p. 281). Qui non indagheremo sulle ragioni di queste vicinanze, se cioè esse siano dovute all’influenza di Port-Royal sugli altri studiosi di cui abbiamo parlato, oppure se siano il frutto di sviluppi paralleli (ricordiamo comunque che Leibniz era in

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contatto epistolare con il portorealista Arnauld). In ogni caso, queste analisi della frase e del verbo caratterizzeranno, con qualche eccezione, tutte le grammatiche del Settecento, come vedremo nella prossima se­ zione. Viceversa, nel Settecento il problema della lingua universale, pur contando ancora dei tentativi di soluzione, perderà d ’importanza.

4.4.

Grammatica e filosofia del linguaggio nel Settecento

4.4.1. Sviluppi della grammatica generale

4 .4 .1 .1 . A nalisi grammaticale, analisi logica e analisi delperiodo La Grammaire di Port-Royal ebbe un influsso notevolissimo sul pen­ siero linguistico successivo, fino alla fine del Settecento, e non solo in Lrancia, ma anche in molti altri paesi d ’Europa: anche se non è sempre esplicitamente citata, la sua impronta è evidente in molte grammatiche. A d esempio, una grammatica italiana come quella del ticinese Francesco Soave (1743-1806), uscita per la prima volta nel 1771, si distacca netta­ mente da quelle precedenti proprio per la presenza di alcune nozioni derivate da Port-Royal, come quella di frase dipendente, oppure l ’analisi della frase in soggetto, copula e predicato. Soave, probabilmente, non si rifaceva direttamente a Port-Royal, ma ai grammatici francesi del Set­ tecento, i cosiddetti grammatici “illuministi” o “enciclopedisti”, perché vissuti nell’epoca dell’ Illuminismo e perché alcuni di loro erano stati autori delle voci linguistiche dell’Encyclopédie pubblicata tra il 1751 e il 1772 per iniziativa di Jean d ’Alembert e Denis Diderot. Gli autori della maggior parte di queste voci sono César Chesneau Du Marsais (1676-1738) e Nicolas Beauzée (1717-1789), a cui si devono, probabilmente, gli sviluppi più interessanti delle idee portorealiste. A loro risale, anzitutto, la distinzione tra ‘grammatica generale’ e ‘gram­ maticaparticolare’, che in Port-Royal era rimasta implicita. Beauzée de­ finisce così i due tipi di grammatica: la grammatica generale è la scienza dei principi immutabili e generali del lin­ guaggio pronunciato o scritto, in qualunque lingua. [...] Una grammatica particolare è l’arte di applicare ai principi immutabili e generali del linguaggio pronunciato o scritto le istituzioni arbitrarie e usuali di una lingua particolare (Beauzée, 1767, voi. 1, p. v).

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Come si vede, il grammatico illuminista non solo oppone la grammatica generale alle grammatiche particolari in termini di universalità e neces­ sità, da un lato, e di diversità e arbitrarietà, dovute alla varietà dei co­ stumi e delle istituzioni, dall’altro, ma caratterizza questa opposizione di termini di scienza e di arte. Abbiamo visto nei capitoli precedenti come questi due termini abbiano di volta in volta caratterizzato la storia della grammatica fin dalle sue origini, con un moto pendolare che va da una sua considerazione come arte (nel senso di “tecnica'; come presso i gram­ matici antichi), oppure come scienza (come presso i Modisti). Beauzée riconcilia queste due opposizioni, vedendo la scienza nella grammatica generale, e l ’arte nelle grammatiche particolari. Per quanto riguarda i temi più specifici dell’analisi del linguaggio, i grammatici illuministi, pur essendo certamente tributari di Port-Royal, non ne seguono pedissequamente l ’impostazione. Ad esempio, Du Marsais e Beauzée non analizzano la frase in tre elementi (soggetto, co­ pula e predicato), ma in due (soggetto e predicato). Inoltre, Du Marsais, nella voce Construction dell’Encyclopédie, introduce una distinzione assente in Port-Royal, ossia quella tra ‘proposizione diretta’ ed ‘enun­ ciazione’ : la prima, come per i Signori di Port-Royal, è espressione del giudizio, mentre la seconda «indica non un giudizio, ma una qualche considerazione particolare dello spirito». La proposizione diretta cor­ risponde dunque a quella che noi oggi chiameremmo frase dichiarativa (o assertiva), mentre l ’enunciazione può essere una frase esclamativa, o interrogativa, o imperativa ecc. Du Marsais può essere considerato l’au­ tore della distinzione tra analisi grammaticale e analisi logica: nella sua Logique (Du Marsais, 1769; postuma) distingue infatti tra «proposi­ zione considerata grammaticalmente » e «proposizione considerata lo­ gicamente». A D u Marsais si deve anche l ’ introduzione della nozione di complemento, che si aggiunge alle altre nozioni fondamentali della sintassi, ossia quelle di soggetto e predicato. Più o meno negli stessi anni, un altro grammatico francese, Gabriel Girard (1677-1748), nei suoi “Veri principi della lingua francese” (Girard, 1747), aveva presentato la dot­ trina dei «membri di frase», dalui denominati ‘soggettivo’, ‘attributivo’, ‘oggettivo’, ‘terminativo’, ‘circostanziale’, ‘congiuntivo’, ‘aggiuntivo’. C o ­ mune sia a Du Marsais che a Girard è l ’idea che l ’individuazione della parte del discorso cui appartengono le singole parole (analisi grammati­ cale) deve essere tenuta distinta da quella della funzione che tali parole, isolatamente o in combinazione con altre, rivestono nella frase (ana­ lisi logica): in molti casi, le stesse parole, o gli stessi gruppi di parole,

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possono avere funzioni diverse. Oggi questa distinzione ci pare ovvia, anche e soprattutto perché ci è insegnata fin dai primi anni di scuola: ma per i grammatici presettecenteschi non lo era affatto. Girard è anche il primo grammatico a elencare l’aggettivo come una parte del discorso a sé stante, e a ridurre il participio a modo del verbo, stabilendo così, in pratica, Γ inventario delle parti del discorso adottato ancora oggi. Tra i molti aspetti importanti dell’opera di Beauzée, ricordiamo la sua classificazione dei tipi di frase (Beauzée, 1767, voi. 11, libro III, cap. 1), condotta in base a quattro diversi punti di vista: 1. frasi ‘semplici’ vs frasi ‘composte’ ; z. frasi ‘non complesse’ vs frasi ‘complesse’ ; 3. frasi ‘principali’ vs frasi ‘incidenti’ (cioè dipendenti); 4. frasi ‘isolate’ vs ‘pe­ riodi’. Molti di questi termini e nozioni si trovano già in Port-Royal, ed erano stati ripresi da vari grammatici, tra cui D u Marsais, ma il merito di Beauzée è avere dato loro una formulazione più organica e sistema­ tica, rimasta poi sostanzialmente inalterata fino ad oggi. Se quindi Du Marsais e Girard hanno fondato la distinzione tra analisi grammaticale e analisi logica, Beauzée può essere considerato il “padre” dell’analisi del periodo. I nomi di questi studiosi sono oggi noti quasi soltanto agli spe­ cialisti di storia della linguistica, ma il loro ruolo nella costruzione del nostro sapere grammaticale è stato decisivo. 4 .4 .I .2 .

II “genio delle lingue” e i tipi di lingue

L ’espressione “genio delle lingue” risale al Rinascimento e ha inizial­ mente un valore quasi magico, un po’ come si parla di “genio della lampada”. Più tardi, si “laicizza”, assumendo il significato di “struttura propria di una lingua”. In questo senso, l’espressione ricorre in PortRoyal e in Leibniz, che attribuisce un “genio” anche alla sua progettata lingua universale (cfr. Couturat, 1901, p. 100, n. 1). Nel Settecento, la nozione viene utilizzata per esaminare il rapporto tra linguaggio e pen­ siero: come i Signori di Port-Royal, i linguisti dell’epoca illuminista ritengono che le strutture del pensiero siano universali, ma rivolgono un’attenzione molto maggiore al modo in cui esse sono rappresentate nelle diverse lingue, per effetto del diverso “genio” di ciascuna di esse. Per Girard (1747, p. 2.3) «ogni lingua ha il proprio genio, ma si possono ridurre a tre tipi», in modo che ne risultano tre classi di lingue: «ana­ loghe», «traspositive» e «m iste». Le prime sono quelle che «normal­ mente seguono, nella loro costruzione, l’ordine naturale e la gradazione delle idee» (ivi, p. 14 ), cioè collocano il soggetto prima del verbo, il

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verbo prima degli avverbi ecc.; ne sono esempi il francese, Γ italiano e lo spagnolo. Le lingue del secondo tipo sono invece quelle che a volte cominciano la frase con il complemento oggetto, a volte con il verbo, a volte con un avverbio ecc., « seguendo solo il fuoco della loro immagina­ zione» (ibid .): secondo Girard, ne sono esempi il latino e le lingue slave. Questa possibilità di ordinare liberamente le varie parti di frase, senza dar luogo a equivoci, è data dalla presenza, nelle lingue traspositive, di differenti desinenze di caso: così un complemento oggetto, anche se all’i­ nizio della frase, non può essere interpretato come un soggetto, perché ha il caso accusativo e non il nominativo. Le lingue miste, come il loro nome indica, sono un tipo intermedio tra i primi due: Girard cita come esempi il greco e il tedesco, che hanno sia l ’articolo (come il francese, l’i­ taliano o lo spagnolo, ma non il latino e le lingue slave) che le desinenze di caso. Questa analisi verrà sostanzialmente ripresa da Beauzée, nella voce Langue della Encyclopédie di d ’Alembert e Diderot. Beauzée insiste sul fatto che l ’ordine del pensiero è universale ed è direttamente rap­ presentato dalle lingue «analoghe» (tra le quali Beauzée elenca anche l ’inglese). Invece che di lingue traspositive e miste, Beauzée preferisce parlare di due tipi all’interno delle lingue traspositive, ossia «libere» e «uniform i». Le prime sono quelle che hanno «una costruzione li­ bera della frase», come il latino; le seconde quelle « la cui costruzione della frase è costantemente regolata dall’uso», come il tedesco: nei no­ stri termini, diremmo che le prime hanno un ordine libero, le seconde un ordine fìsso delle parole (ad esempio, in tedesco il verbo di modo finito ricorre obbligatoriamente in ultima posizione, nelle frasi subor­ dinate). E facile osservare che il ragionamento di Girard e Beauzée è circolare: è l’ordine del francese e delle altre lingue di questo tipo che viene assunto come l’ordine universale del pensiero, e poi si afferma che queste lingue sono “analoghe” ad esso. Inoltre, questa distinzione tra due tipi opposti di lingue ha delle conseguenze anche sull’analisi dei loro rapporti di parentela: dato che il francese e l’italiano sono analoghi, mentre il latino è traspositivo, entrambi i grammatici sostengono che le prime due non derivano dalla terza, ma dal “celtico”. Questa conclusione è evidentemente erronea (e come tale fu già respinta da altri studiosi dell’epoca illuminista), ma è dovuta alle difficoltà iniziali di un campo di studi che verrà poi denominato ‘tipologia linguistica’ e conoscerà notevoli sviluppi nell’ Ottocento e dalla seconda metà del Novecento in poi (cfr. pa r r . 5.3.3 e 7.2.2). La classificazione delle lingue su base tipologica si oppone a quella su base genealogica: infatti non raggruppa

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le lingue in famiglie e sottofamiglie secondo la lingua originaria (o le lingue originarie), ma in base alle loro caratteristicbe strutturali, mor­ fologiche o sintattiche. D i alcune proposte di classificazione genealo­ gica abbiamo parlato in questo capitolo (cfr. par . 4.2.2) e parleremo ancora diffusamente nel prossimo; i grammatici di cui abbiamo parlato operano invece, inconsciamente, un primo tentativo di classificazione tipologica. A ll’epoca di Girard e Beauzée era difficile distinguere netta­ mente il punto di vista genealogico da quello tipologico, cioè ammettere che anche lingue derivate da una stessa lingua madre possono presentare caratteristiche opposte: e questo spiega le loro conclusioni abbastanza inverosimili sull’origine dell’ italiano e del francese. Tuttavia, una distin­ zione netta tra i due tipi di classificazione sarà operata solo molto più tardi: quindi non possiamo incolpare i nostri grammatici di non essere stati abbastanza avanti rispetto ai loro tempi. Inoltre, anche se la loro definizione di lingue “analoghe” e “traspositive” rispetto all’ “ordine del pensiero” pecca indubbiamente di circolarità, non si può negare che le loro analisi abbiano messo in luce delle differenze linguistiche molto significative e destinate a divenire l ’oggetto di future ricerche. Infatti, come vedremo nel paragrafo 7.2.2, la classificazione tipologica di oggi assume come punto di partenza proprio il diverso tipo di ordine delle parole nelle varie lingue.

4.4.2. Dibattiti sull’origine del linguaggio L ’ idea che le varie lingue, ciascuna con il suo “genio”, esprimano co­ munque un contenuto di pensiero universale non è solo propria di studiosi di impostazione razionalista come Beauzée, ma anche di im­ postazione empirista, il più importante dei quali è forse l’abate Etienne Bonnot de Condillac (1714-1780), autore, tra l ’altro, di un “Saggio sull’origine delle conoscenze umane” (Condillac, 1746), che fin dall inizio si esprime dichiaratamente in favore di Locke e contro Cartesio. La differenza tra Razionalisti ed Empiristi sta invece nell’ interpreta­ zione del modo in cui il linguaggio si è sviluppato negli esseri umani: non sorprende quindi che, nel Settecento, uno degli argomenti più di­ battuti sia proprio quello dell’origine del linguaggio. A questo argomento è dedicata quasi tutta la seconda parte del “Saggio” di Condillac, che costituisce il punto di partenza di buona parte della discussione successiva. Altri filosofi si erano comunque occupati

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della questione poco prima di lui, come l ’italiano Giambattista Vico (1668-1744), la cui posizione non si può definire né razionalista, né empi­ rista, ma piuttosto storicista. Per Vico, infatti, il linguaggio non deve es­ sere considerato come una semplice espressione di concetti già dati, come nella concezione razionalista, né come un semplice strumento di orga­ nizzazione delle impressioni derivanti dai sensi, come in quella empirista, ma come la realizzazione progressiva della coscienza dell’umanità, che si sviluppa attraverso le cosiddette «tre età» della storia, cioè quelle «degli D ei», «degli eroi» e «degli uomini» (Vico, 1744, p. 27), caratterizzate rispettivamente dalla sensazione, dalla fantasia e dalla ragione. L ’origine del linguaggio si ha quindi, secondo Vico, con Γ imitazione dei suoni della natura (le onomatopee) e dall’espressione delle passioni (le interiezioni). Successivamente, nasceranno i pronomi, poi i nomi, e infine i verbi. Condillac presentava la sua concezione dell’origine del linguaggio come una semplice ipotesi, non volendo sfidare apertamente l ’autorità della Bibbia: «supponiamo che, qualche tempo dopo il Diluvio, due bambini, un maschio e una femmina, si fossero smarriti in luoghi de­ serti prima di conoscere l ’uso di segni» (Condillac, 1746, parte 11, sez. 1, trad. it. pp. 39-40). Sulla base di tale ipotesi, Condillac descrive l’origine del linguaggio in questo modo. Uno dei due bambini ha la percezione di un oggetto che potrebbe soddisfare un suo bisogno, ad esempio un frutto su un albero che potrebbe calmare la sua fame, e accompagna questa percezione con grida e con gesti. L ’altro bambino è stimolato a soddisfare questo bisogno fornendo al suo partner l ’oggetto da lei (o da lui) desiderato. Con il passare del tempo, i bambini cominciarono a collegare sistematicamente queste grida e questi gesti all’oggetto in que­ stione: nasce così la prima forma di linguaggio, il ‘linguaggio d ’azione’ (langage d ’action). I segni di questo linguaggio diventarono sempre più familiari, e i due bambini «giunsero un poco alla volta a fare, per via di riflessione, ciò che in un primo momento non avevano fatto se non per istinto» (ivi, p. 42). « L ’uso di questi segni estese poco a poco l ’esercizio delle operazioni deH’animo e queste, a loro volta, meglio esercitate, per­ fezionarono i segni e ne resero l ’uso più familiare» (ibid.): si sarebbe così creato una sorta di “circolo virtuoso” tra pensieri e segni. Con le generazioni successive, il linguaggio dazione fu gradualmente sostituito da un sistema di comunicazione molto più complesso, il linguaggio dei suoni articolati’. Condillac descrive poi lo sviluppo delle diverse lingue, per mostrare come in esse persistano vari elementi del linguaggio d’a­ zione, e traccia la storia delle varie parti del discorso, come Vico, ma

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giungendo a conclusioni differenti. Le prime parole ad apparire sono stati i nomi, dato che si riferiscono a entità «immediatamente prove­ nienti dai nostri sensi» (ivi, p. 46). Poi, si sono sviluppati gli aggettivi e gli avverbi, per «indicare le diverse qualità sensibili degli oggetti» e «le circostanze in cui [gli oggetti] potevano presentarsi» {ibid.). I primi verbi si sono manifestati più tardi, «per esprimere lo stato dell’animo quando agisce o patisce» (ivi, p. 47); altri verbi si sono aggiunti in se­ guito. A ll’inizio, i verbi erano solo all’infinito: per indicare il passato o il futuro, si collocarono dopo i verbi alcune parole, che poi si sono fuse con i verbi all’ infinito, dando origine ai verbi flessi. Si cominciò poi « a legare l’aggettivo al suo sostantivo» mediante il verbo ‘essere’ : «questa maniera di collegare due idee è [...] ciò che si dice affermare. Dunque il carattere di questa parola è di indicare l’affermazione» (ivi, pp. 51-3). Come si vede, questa definizione del verbo ‘essere’ è letteralmente iden­ tica a quella della Grammaire di Port-Royal (cfr. par . 4.3.2): il percorso tramite il quale Condillac ne motiva l’esistenza è però molto diverso. Le ipotesi di Condillac ebbero un successo notevole, tanto che uno dei più celebri pensatori dell’età illuminista, Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), nel suo Discorso su ll’origine e i fondam enti della disugua­ glianza tra g li uomini (Rousseau, 1755), affermò che esse gli avevano fornito «la prima idea» sull’origine del linguaggio. Tuttavia, Rousseau individua due problemi all’ interno del quadro delineato da Condillac. Il primo riguarda il rapporto tra nascita della società e origine del lin­ guaggio: Condillac, dice Rousseau, ha supposto «ciò che io metto in discussione, cioè una specie di società già formata tra gli inventori del linguaggio» (Rousseau, 1755, trad. it. p. 154). Per Rousseau, invece, nello «stato di natura» gli individui vivevano isolati gli uni dagli altri e non esisteva quindi la società: il linguaggio ha avuto origine quando gli uo­ mini hanno abbandonato lo stato di natura e hanno cominciato a svi­ luppare dei legami sociali. Il secondo problema riguarda il rapporto re­ ciproco tra linguaggio e pensiero: «se gli uomini hanno avuto bisogno della parola per imparare a pensare, anche più bisogno hanno avuto di saper pensare per inventare l’arte della parola» (ivi, p. 156). Dunque il pensiero presuppone un linguaggio organizzato, ma il linguaggio pre­ suppone un pensiero che lo organizzi: quello che Condillac considerava una sorta di “circolo virtuoso”, per Rousseau si rivela invece un circolo vizioso. A queste obiezioni si rifecero, utilizzandole contro Condillac, i so­ stenitori del punto di vista razionalista: Beauzée, nella voce Langue

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dell’Enyiclopédie, affermava che «era difficile enunciare più chiara­ mente» di Rousseau « l ’impossibilità di dedurre l’origine delle lingue dall’ ipotesi rivoltante dell’uomo selvaggio nelle prime età del m ondo» (trad. it. in Formigari, 1972, p. 160). Per spiegare l ’origine del linguaggio, Beauzée si richiamava ancora una volta al dettato biblico: la «facoltà di parlare » è stata data da Dio « ai due primi individui del genere umano » (ivi, p. 163). Beauzée si basava sulla Bibbia e sul racconto della torre di Babele anche per spiegare la diversità delle lingue (cfr. ivi, pp. 164-9). Tuttavia, aggiungeva che i mutamenti introdotti da Dio nella lingua pri­ mitiva non potevano essere diversi da quelli che si sarebbero verificati se i vari gruppi di uomini si fossero dispersi per cause naturali: «perché, anche negli avvenimenti che sono fuori dell’ordine naturale, D io non agisce contro la natura, dato che non può agire contro le idee eterne e immutabili che sono gli archetipi di ogni natura» (ivi, p. 168). Un analogo tentativo di conciliare ragione e rivelazione caratterizza anche il saggio del medico e demografo tedesco Johann Peter Sùhmilch (1707-1767), intitolato “Tentativo di dimostrazione che la lingua primi­ tiva non ha avuto la sua origine dall’uomo, ma soltanto dal Creatore” (Sùfimilch, 1766): a questa dimostrazione, infatti, SùEmilch sosteneva di arrivare non « in base alla storia o alla Bibbia » , ma su pura base razio naie. Sùfimilch procede confrontando ipotesi alternative: il linguaggio è stato inventato dall’uomo, oppure creato da Dio. Nel primo caso, do­ vrebbe essere collocato tra gli istinti (che l ’uomo ha in comune con gli animali) o nella ragione: ma le differenze tra le varie lingue ci mostrano che il linguaggio umano non si basa sugli istinti animali, dato che i si­ stemi di comunicazione degli animali, al contrario di quanto accade per gli esseri umani, sono identici in tutto il mondo. Quindi, il linguaggio non può essere il prodotto di un istinto, e, stando così le cose, si deve concludere che è un prodotto della ragione. Ma l ’uso della ragione è im­ possibile senza l ’uso dei segni linguistici: quindi il linguaggio non può che essere stato creato da Dio. A posizioni come quelle di Beauzée e Sùfimilch si opposero lo scoz­ zese James Burnett, più noto come Lord Monboddo (1714-1799), e il tedesco Johann Gottfried Herder (1744-1803). Se l’ impostazione di Monboddo sembra anticipare le tematiche del rapporto tra evoluzione della natura umana e sviluppo della società che caratterizzeranno il pensiero marxista a partire dalla metà dell’ Ottocento, le concezioni di Herder sono considerate come una delle prime manifestazioni del R o ­ manticismo. Per Monboddo, la natura umana non è qualcosa di statico

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e immutabile, ma si sviluppa parallelamente alla società: il linguaggio umano, che, secondo Monboddo, «ebbe certamente origine dalle lingue animali», è un frutto di questo sviluppo. Questa visione del linguaggio come qualcosa che gradualmente progredisce (il titolo dell’opera princi­ pale di Monboddo è proprio “Sull’origine e il progresso del linguaggio” (Monboddo, 1773-92) sarebbe confermata dalla differenza tra le varie lingue: alcune di esse sono più barbare, meno sviluppate di altre. Questa idea che le lingue si differenzino tra loro in base a un grado diverso di “sviluppo”, o di “perfezione”, fu largamente condivisa anche per tutto il secolo successivo, ed è stata abbandonata soltanto nel Novecento (cfr. pa r r . 5.3.3. e 6.4.2). Herder conosceva e apprezzava le opere di Monboddo, ma la sua so­ luzione al problema dell’origine del linguaggio è radicalmente diversa, in quanto non fa appello allo sviluppo e al rapporto reciproco tra lin­ guaggio e società, ma a quella che, in termini di oggi, potremmo chia­ mare la capacità cognitiva dell’essere umano. Nel suo Saggio su ll’origine del linguaggio (1772.), Herder voleva, da un lato, superare le difficoltà presenti nell’ impostazione di Condillac, e, dall’altro, evitare conclu­ sioni “creazioniste” come quelle di Sùfimilch. Secondo Herder, si può attribuire un linguaggio agli esseri umani semplicemente per il fatto che essi sono animali. Tuttavia, questo tipo di linguaggio, assai simile al ‘linguaggio d’azione’ di Condillac, non può spiegare l ’origine del lin­ guaggio umano in senso stretto: Condillac, dice Herder, ha considerato le bestie come uomini; e Rousseau, con la sua concezione dello “stato di natura”, ha considerato gli uomini come bestie. Secondo Herder, invece, gli animali sono guidati unicamente dall’ istinto, mentre gli uomini non hanno alcun linguaggio di tipo istintivo (si noti la singolare vicinanza, a questo proposito, con le posizioni di Dante; cfr. PAR. 3.3.3)· La differenza tra animali ed esseri umani non è dunque una differenza di grado, ma di qualità: l ’uomo è sprovvisto di istinti animali, ma è dotato di una qualità particolare, la ‘sensatezza’ (Besonnenheit), di cui il linguaggio umano è un prodotto. Vediamo come Herder esemplifica questo processo di ge­ nesi del linguaggio in base alla sensatezza. Un uomo che vede un’agnella non è guidato dall’istinto, come il leone o il montone, ma vuole eserci­ tare la sua sensatezza. Questo esercizio consiste nel trovare un contrassegno, che è il verso di questo animale, ossia il belato: «il verso del belato, percepito dall’anima umana come segno di riconoscimento dell’agnella, in forza di tale consapevolezza diventa nome dell’agnella stessa, anche se la lingua nemmeno avesse provato a balbettarlo» (Herder, 1772,

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trad. it. p. 60). Secondo Herder, la prima parte del discorso a comparire è il verbo, giacché il linguaggio nasce dall’osservazione delle azioni: il bambino nomina la pecora perché è una creatura che bela, non perché è una pecora. L ’origine delle parole non onomatopeiche si spiega, se­ condo Herder, come un prodotto del nostro sensorium commune, dei diversi processi di sinestesia. «Quanto più arcaiche e primitive sono le lingue, tanto maggiore è l ’intersecarsi dei sentimenti nelle radici delle parole» (ivi, p. 90): Herder, come Monboddo, contrappone quindi le lingue “primitive” a quelle “sviluppate”.

4.5. In sintesi Fin dall’ inizio di questo capitolo, abbiamo insistito su quella che è la ca­ ratteristica distintiva del pensiero linguistico dell’Età moderna rispetto a quello delle epoche precedenti: la scoperta e la presa di coscienza della diversità linguistica. È con l ’inizio dell’Età moderna che le lingue “vol­ gari” vengono a essere poste sullo stesso piano del latino (cfr. par . 4.2.1): l’opposizione stessa tra lingue “antiche” e “moderne” nasce in quest’e­ poca. Alla scoperta di questa diversità dovuta alla storia si aggiunge quella della diversità geografica e culturale: lingue di struttura molto diversa da quelle europee diventano oggetto di conoscenza e di studio. Questa situazione spinge poi ad affrontare in modo nuovo un problema già trattato in epoche precedenti, cioè quello dei rapporti di discendenza e parentela tra le varie lingue (cfr. par . 4.2.2): le varie proposte di rag­ gruppamenti genealogici avanzate tra Cinquecento e Settecento sono oggi per la massima parte respinte, ma rappresentano l ’avvio di quelle ri­ cerche più fondate e documentate che avranno il loro massimo sviluppo nell’Ottocento. A i problemi causati dall’esistenza di lingue diverse cer­ cano di rimediare i vari progetti di lingue universali elaborati nel Sei­ cento (cfr. par . 4.3.4), che però non hanno solo uno scopo pratico, ma si inseriscono in una più generale problematica riguardante i rapporti tra linguaggio e pensiero, stimolata anche dall’elaborazione di nuove teorie filosofiche (cfr. par . 4.3.3). Pur nella diversità delle posizioni, la conce­ zione prevalente è che il pensiero sia una realtà universale, che può essere espressa in modi diversi nelle varie lingue. Il riconoscimento dell’uni­ versalità della ragione e della varietà delle lingue è comune alle gram­ matiche “filosofiche” diffuse dalla metà del Seicento in poi, con qualche differenza: i Signori di Port-Royal (cfr. par . 4.3.1) si concentrano so­

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prattutto sul primo aspetto, i grammatici dell’età illuminista, con il ri­ lievo dato al “genio delle lingue”, danno largo spazio anche al secondo (cfr. par . 4.4.1.1). Il quadro delineato nella Grammaire di Port-Royal rimane comunque quello adottato anche dagli studiosi successivi, con qualche modifica e integrazione: il risultato è quel tipo di grammatica che si studia ancor oggi nelle scuole (cfr. par . 4.4.1.1) e che sarà soggetto a varie critiche a partire dall’ Ottocento, come vedremo nel prossimo ca­ pitolo. Nell’Ottocento, si darà poi sempre meno importanza a un tema che abbiamo visto caratterizzare buona parte della ricerca linguistica del secolo precedente, ossia l ’origine del linguaggio (cfr. PAR. 4.4.2). Le di­ scussioni sull’origine del linguaggio sono però tornate di attualità negli ultimi decenni, come vedremo nel paragrafo 7.3.3.x: anche sotto questo aspetto, dunque, la linguistica dell’ Età moderna si rivela attuale.

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LO ttocento

5.1. Quadro introduttivo LO ttocento è il secolo in cui la linguistica diventa una disciplina au­ tonoma. Abbiamo visto che, nelle epoche precedenti, del linguaggio e delle lingue si erano occupate varie discipline: le tre “arti del trivio” (grammatica, retorica e logica) e, più in generale, la filosofia, ma la lin­ guistica, o “scienza del linguaggio”, non era ancora stata riconosciuta come un campo di studi a sé stante. Questo riconoscimento avviene nel 1821, quando Γ Università di Berlino, su iniziativa di Wilhelm von Hum­ boldt (1767-1835), istituisce una cattedra di Linguistica, assegnandola a Franz Bopp (1791-1867), che l’occuperà per tutta la vita. Humboldt era sia un importante uomo politico (fu infatti ambasciatore e ministro della Prussia) che un poliedrico intellettuale, autore anche di importanti studi sul linguaggio. Su Bopp e su Humboldt torneremo in dettaglio più avanti (cfr. pa r r . 5.2.2.1 e 5.3.2). Il fatto che la linguistica diventi una disciplina autonoma non signi­ fica che perda ogni rapporto con altre scienze: al contrario, le caratte­ ristiche della linguistica dell’ Ottocento non possono essere comprese correttamente se non si esaminano con attenzione questi rapporti, che in certi casi testimoniano influenze, altre volte conflitti. Quest ultima situazione si verifica soprattutto per quanto riguarda le relazioni tra la linguistica e la logica. Fino a tutto il Settecento, è difficile distinguere le analisi del linguaggio svolte nel quadro dell’una o dell altra disciplina: la grammatica generale di Port-Royal e dei suoi eredi lo dimostra (cfr. par . 4.3.2). D all’Ottocento in poi, al contrario, linguistica e logica tendono a differenziarsi lu n a dall’altra e a dichiarare la loro reciproca estraneità. Il portabandiera di questo “divorzio” è il tedesco Heymann Steinthal (1823-1899), che nel 1855 pubblica un volume dal titolo “Gram­ matica, logica e psicologia” (Steinthal, 1855), in cui sostiene che la logica,

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in quanto scienza del pensiero corretto, ha scopi diversi dalla linguistica. Ad esempio, una frase come ‘questa tavola rotonda è quadrata’ è per­ fetta per il grammatico, mentre il logico la condanna come “nonsenso”; viceversa, una frase come ‘questo tavola sono rotondo’, mal formata per il grammatico, non preoccupa il logico. Il grammatico si preoccupa in­ fatti delle relazioni di accordo, che sono rispettate nella prima delle due frasi ma non nella seconda, il logico della coerenza dei pensieri espressi, che non c’è nel primo esempio (una tavola rotonda non può essere qua­ drata), ma c ’è nel secondo (cfr. ivi, p. zzo). Se quindi non si può fondare la linguistica sulla logica, come faceva la grammatica generale, Steinthal propone di fondarla sulla psicologia. Il rifarsi di Steinthal alla psicologia è indicativo del clima culturale che caratterizza i rapporti tra le varie scienze nell’Ottocento. Anche la psicologia, infatti, si costituisce come disciplina autonoma proprio in questo secolo, distaccandosi dalla filosofia, anzitutto ad opera di Johann Friedrich Herbart (1776-1841), che le dà un impianto matematizzante, pur mantenendosi ancora a un livello di pura speculazione (la cosiddetta “psicologia da poltrona”). Nella seconda metà del secolo, la psicologia assume le caratteristiche di scienza sperimentale, grazie all’opera di vari studiosi, come Gustav Theodor Fechner (1801-1887), e, soprattutto, Wilhelm Wundt (183Z-19Z0), che nel 1878 fonda, all’ Università di Lipsia, il primo laboratorio di psicologia. Vedremo più volte, in questo capitolo e in quelli successivi, come la linguistica degli ultimi due se­ coli si sia spesso interrogata sui suoi rapporti con la psicologia, a volte prendendola a suo fondamento, come nel caso di Steinthal e di altri, a volte invece sostenendo di esserne autonoma. Per quanto riguarda an­ cora i rapporti tra linguistica e logica, osserviamo che quest'ultima, a partire dalla metà dell’Ottocento, in particolar modo grazie all’opera del britannico George Boole (1815-1864), non è più vista come la scienza o l ’arte del pensiero corretto, ma come un calcolo matematico. Questa nuova concezione della logica si perfezionerà nel Novecento, ma rimarrà sostanzialmente ignota ai linguisti fino almeno alla metà di tale secolo; d’altra parte, i logici, tra Ottocento e Novecento, si interesseranno assai poco di linguistica. Questo distacco tra le due discipline avrà delle con­ seguenze negative per entrambe: per molto tempo i linguisti non sa­ ranno in grado di cogliere l ’utilità degli strumenti formali elaborati dai logici; e i logici tenderanno sempre più a disinteressarsi dell’analisi del linguaggio naturale. U n’altra scienza con la quale la linguistica spesso si confronta a par­

l ’ OTTOCENTO

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tire dall’ Ottocento è la biologia, soprattutto nei rami dell’anatomia comparata e della teoria dell’evoluzione. L ’anatomia comparata, che si costituisce anch’essa come disciplina autonoma all’inizio dell’O tto­ cento, studia le correlazioni tra gli organi delle diverse specie animali, individuandone le ‘omologie’. Due organi si dicono ‘omologhi’ quando derivano da un antenato comune, anche se la loro funzione è diversa: ad esempio, le braccia degli esseri umani, le zampe anteriori degli altri mammiferi e le ali degli uccelli derivano dagli arti anteriori di un anfibio ancestrale; tuttavia, le funzioni di questi organi sono diverse, in quanto essi servono, rispettivamente, al trasporto di oggetti, alla locomozione e al volo. Viceversa, organi che hanno la stessa funzione in specie di­ verse, ma non hanno un’origine comune, si dicono ‘analoghi’ : è il caso delle ali degli uccelli e degli insetti, che servono entrambe per il volo, ma non derivano da un unico antenato. L ’anatomia comparata fu presa a modello, all’ inizio dell’ Ottocento, dalla linguistica poi chiamata, non a caso, storico-comparativa: la scoperta di corrispondenze sistematiche tra strutture morfologiche o fonologiche di lingue diverse permetteva di dimostrate la loro derivazione da una stessa ‘lingua madre’. L ’ individuazione delle omologie apriva la strada alle ipotesi sull’evo­ luzione delle specie, sostenute all’inizio del secolo da uno studioso fran­ cese, Jean-Baptiste Lamarck (1744-1819), e, una cinquantina d ’anni più tardi, da Charles Darwin (1809-1881), nel suo libro L ’orìgine delle specie (Darwin, 1859). Darwin si ispirava, sotto certi aspetti, agli “alberi genealo­ gici” delle lingue che la linguistica storico-comparativa stava costruendo proprio in quegli anni; d ’altra parte, alcuni linguisti storici interpreta­ vano le teorie darwiniane come una conferma delle loro concezioni sullo sviluppo storico delle lingue; torneremo su questi argomenti nel para­ grafo 5.4.1. Una ventina d’anni prima di Darwin, un cambiamento ra­ dicale si era verificato in un’altra scienza naturale, la geologia, ancora ad opera di uno studioso inglese, Charles Lyell (1791-1875). La concezione di Lyell, che poi verrà detta “uniformista”, si opponeva a quella tradizio­ nale detta “catastrofista”, ispirata al racconto biblico del diluvio univer­ sale, e secondo cui la Terra avrebbe conosciuto epoche governate da leggi diverse. Per Lyell, al contrario, le varie trasformazioni subite dalla Terra nel corso della sua storia si possono spiegare soltanto in base alle stesse cause che sono attualmente in azione. Vedremo più avanti ( pa r r . 5.4.1 e 5.5.2) come la linguistica storico-comparativa dell’Ottocento abbia adot­ tato, fin circa alla metà del secolo, una posizione di tipo catastrofista, per poi diventare, successivamente, sempre più decisamente uniformista.

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5.2. Prime fasi della linguistica storico-comparativa 5.2.1. La “scoperta del sanscrito” e Friedrich Schlegel Torniamo ora alla cattedra di Linguistica istituita all’ Università di Ber­ lino nel 1821 e assegnata a Bopp su iniziativa di Humboldt. Il nome esatto della cattedra di Bopp era “Letteratura orientale e linguistica generale”. Se il termine “linguistica” (con cui ho reso il tedesco Sprachkunde) non stupisce, ci si può domandare il motivo del richiamo alla letteratura orientale; inoltre quando e perché si adotta l ’espressione “linguistica storico-comparativa” ? Diamo un’occhiata alla nascita di questa nuova disciplina, che potremmo definire, se il termine non fosse ormai abu­ sato, una “rivoluzione” nel campo degli studi sulle lingue e il linguaggio. La rivoluzione di cui stiamo parlando consiste in un approccio ra­ dicalmente nuovo al problema della classificazione genealogica delle lingue, cioè del loro raggruppamento in famiglie derivate da una stessa lingua originaria, o lingua madre’. Questa tematica non era certamente nuova: abbiamo visto che era già stata affrontata nel Medioevo (cfr. pa r r . 3.2.1 e 3.3.3) e nell’Età moderna (cfr. par . 4.2.2), con conclusioni diverse, che andavano dalla sostanziale riproposizione del mito babelico alla proposta di famiglie linguistiche molto ristrette (come in Giulio Ce­ sare Scaligero) o molto ampie (come in Leibniz). La radicale novità di cui si è parlato è dovuta, come spesso accade in questi casi, all’azione di fattori di diverso tipo. Nel nostro caso, ne possiamo indicare (almeno) tre: 1. la conquista inglese dell’India, che si realizza gradualmente nella seconda metà del Settecento; 2. l’atmosfera culturale del Romanticismo tedesco, che nasce negli ultimi anni di questo stesso secolo; 3. alcune geniali intuizioni di un esponente di questo movimento culturale, Frie­ drich Schlegel (1772-1829), che non era un linguista nel senso stretto del termine, ma uno scrittore, critico letterario e filosofo, che a una lingua dell’ India si era dedicato con particolare entusiasmo. Questa lingua era il sanscrito, cui abbiamo già fatto riferimento (cfr. PAR. 5.2.1) e che, fino all’instaurarsi del dominio inglese sull’ India, era rimasta semisconosciuta agli studiosi occidentali, anche per l ’atmosfera di segretezza in cui ravvolgevano i “brahmini”, cioè i sacerdoti indù. Alla fine del Settecento, la conoscenza del sanscrito comincia a diffondersi in Europa: abbiamo già citato gli studi del francese Coeurdoux, a cui, si aggiungeranno, tra gli altri, quelli del frate carmelitano austriaco Pao­ lino da San Bartolomeo (al secolo Johann Philipp Wesdin, 1748-1806),

l’o t t o c e n t o

III

autore della prima grammatica del sanscrito pubblicata in Occidente (1790). In altre pubblicazioni, questo stesso studioso aveva ipotizzato una parentela tra il sanscrito e varie lingue europee, in primo luogo il tedesco e il latino. In realtà, un’ipotesi del genere era già stata avanzata, qualche anno prima (1786), da un erudito inglese, William Jones (17461794), che, in un discorso tenuto alla Società asiatica di Calcutta, affer­ mava che le affinità che il sanscrito mostrava con il latino e il greco (e, sebbene non in modo cosi evidente, con il gotico, il celtico e il persiano) facevano pensare che tutte queste lingue derivassero «da una fonte co­ mune, che, forse, non esiste più». Queste intuizioni erano indubbia­ mente felici, in particolare quella di Jones, che non solo sosteneva la parentela del sanscrito con varie lingue europee, ma ne vedeva anche l’origine in un antenato comune non più esistente: ma probabilmente esse non avrebbero avuto un grande sviluppo, se non si fosse inserita su di esse la riflessione di Schlegel prima, e di Bopp poi. Inoltre, Jones non aveva avuto, in materia di parentele linguistiche, solo intuizioni felici: in un discorso successivo a quello di cui si è appena parlato, allargava la parentela tra sanscrito e lingue europee all’antico egiziano, al cinese e al giapponese. Come diceva un linguista del Novecento di cui ci occu­ peremo nel paragrafo 6.3.4, Louis Hjelmslev, si può sempre dimostrare che due lingue sono apparentate, ma non si potrà mai dimostrare che non lo sono: quindi è anche possibile che il cinese e il giapponese siano imparentate con il latino, o anche che tutte le lingue del mondo siano imparentate tra loro, come sostiene la Bibbia o come è stato di nuovo sostenuto da alcuni linguisti, in tempi recenti (cfr. par . 7-3-3.3); tuttavia, mentre la parentela tra il sanscrito e le lingue europee è stata dimostrata in modo conclusivo fin dall’inizio dell’Ottocento, niente del genere si può dire delle altre parentele proposte. Questa dimostrazione era stata possibile grazie all’utilizzo di una nuova tecnica di comparazione, ab­ bozzata da Schlegel e pochi anni dopo perfezionata da Bopp e da altri linguisti di cui parleremo. È quindi il momento di tornare alla figura di Schlegel e alla sua opera nel campo della linguistica, il cui risultato più importante è il libro inti­ tolato Sulla lingua e la sapienza degli Indiani (Schlegel, 1808); si tratta di un testo diviso in tre parti, di cui solo la prima tratta del sanscrito, mentre le altre due hanno per oggetto la filosofia e la cultura indiana; in appendice, si trovano alcuni testi tradotti dal sanscrito. Schlegel era uno dei capofila del Romanticismo tedesco, la cui data di nascita viene di solito collocata nel 1798, data in cui egli fondò, assieme al fratello Au-

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gust Wilhelm (1767-1845), la rivista “Athenaeum”. Una caratteristica di questo movimento culturale era la ricerca di pretese radici autentiche dello spirito germanico, cioè indipendenti dalla cultura greco-latina, fino a quel momento considerata all’origine di tutta la cultura europea, e possibilmente ancora più antiche: trovare un’origine comune di tutte le lingue europee nel sanscrito avrebbe dunque significato che esse sono tutte sullo stesso piano, come pure i popoli che le parlano, ciascuno con la propria cultura. Schlegel, a differenza di W illiam Jones, che al­ ludeva a una possibile lingua originaria poi scomparsa, credeva infatti che il sanscrito fosse la lingua madre del latino, del greco, del germanico ecc.: come vedremo, già pochi anni dopo ci si accorse che così non è (contrariamente a quanto qualcuno crede ancora oggi), e che quindi, sotto questo aspetto, lo studioso inglese era più avanti di quello tedesco; ma comunque, lo ripetiamo, l ’impulso decisivo allo sviluppo della lin­ guistica storico-comparativa fu dato dal secondo dei due. Per studiare il sanscrito, Schlegel si recò a Parigi, che era, all’epoca, la città europea nelle cui biblioteche si trovava il maggior numero di manoscritti san­ scriti, e vi rimase dal 1802 al 1804. In questi anni, Schlegel trovò anche una persona in grado di insegnargli il sanscrito: si trattava di Alexander Hamilton (1762-1824), un ex militare inglese che aveva imparato questa lingua in India e che, tornando in Inghilterra, era rimasto bloccato a Parigi dallo stato di guerra tra il suo paese e la Francia di Napoleone. A volte, avvenimenti del tutto fortuiti possono avere un grande effetto sullo sviluppo delle scienze. Schlegel non era il primo a ipotizzare una parentela tra il sanscrito e le lingue europee: fu tuttavia il primo a dimostrarla, o almeno a indicare il metodo in cui poteva essere dimostrata. Tale metodo fu applicato per la prima volta sistematicamente da Bopp (cfr. p a r . 5.2.2.1) e perfezionato da varie generazioni di studiosi nel corso di tutto il x i x secolo. La sua va­ lidità è rimasta tuttora intatta e si può sintetizzare così: due o più lingue sono imparentate se mostrano una corrispondenza sistematica tra i loro suoni e le loro forme grammaticali. Fino alla fine del Settecento, invece, due lingue erano considerate parenti se mostravano un buon numero di parole in comune: questo era anche il criterio a cui si erano ispirati studiosi come Cceurdoux o Paolino da San Bartolomeo per sostenere la parentela del sanscrito con le lingue europee. Tuttavia, questa coin­ cidenza nel lessico può essere dovuta (e molte volte lo è) non a un’ori­ gine comune, ma al contatto che nel corso del tempo si è esercitato tra queste lingue: si tratta dei cosiddetti “fenomeni di prestito”*. Questo

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criterio è messo in discussione da Schlegel fin dal primo capitolo del suo libro: l ’ebraico e l’antica lingua dell’ India, osserva, hanno in comune un certo numero di radici di parole, «m a questo non prova alcuna paren­ tela originaria perché può essere effetto di una semplice commistione» (Schlegel, 1808, trad. it. p. 12). La corrispondenza non deve presentarsi quindi soltanto tra radici, ma anche tra le desinenze: ad esempio, le forme sanscrite che significano ‘io sono, tu sei, egli è ’ (rispettivamente, asmi, osi, asti), «corrispondono pienamente a esmi, essi, esti» , cioè a quelle greche, «se nei primi due casi prendiamo la forma più antica al posto di tim i, eis» (ivi, p. 15). Le corrispondenze rilevate da Schlegel sono dunque di due tipi: una lessicale, tra la radice as- del sanscrito e quella es- del greco; e una grammaticale, tra le desinenze delle tre per­ sone. Schlegel (ivi, p. 27) chiama questo suo metodo di analisi dei rap­ porti tra lingue ‘grammatica comparata’ e afferma che essa «ci fornirà delle spiegazioni del tutto nuove sulla genealogia delle lingue, in modo simile a quello in cui l ’anatomia comparata ha gettato luce sul livello più alto della storia naturale». L ’etichetta ‘grammatica comparata’ non era nuova: questa espressione, o espressioni molto simili, erano infatti già state utilizzate nel Seicento e nel Settecento per confrontare la struttura di lingue diverse (cfr. par . 4.4.1.2). Tuttavia, è nuovo il senso che le dà Schlegel: la comparazione non è statica (ad es. al fine di stabilire se una lingua è “analoga” oppure “traspositiva”), ma ha lo scopo di dimostrare una derivazione, o un’origine comune. Notiamo anche che il nostro au­ tore ricorre alle forme greche più antiche per condurre in porto la sua comparazione: fa cioè ricorso alla storia delle lingue. Vediamo quindi il motivo di quella denominazione che si diffonderà qualche anno più tardi, ossia quella di ‘linguistica storico-comparativa’. La tesi di Schlegel di una parentela tra il sanscrito e le lingue europee si basava dunque sul confronto della flessione verbale. Sulla base della presenza o dell’assenza della flessione, Schlegel (ivi, p. 37) distingueva poi «due categorie principali nelle quali ricadono tutte le lingue», da lui definite, rispettivamente, ‘organiche’ e ‘meccaniche’. Nelle lingue del primo tipo, tempo, persona, numero ecc., sono indicati dalla flessione grammaticale, tramite la variazione vocalica interna (apofonia, come nel greco leipó-élipon-léloipa, ‘lascio-lasciai-ho lasciato’ ): la flessione rappre­ senta uno sviluppo organico della radice, simile a quella di una pianta che produce rami e fiori. Nelle lingue ‘meccaniche’, invece, le stesse no­ zioni sono indicate «d i volta in volta da una parola appropriata annessa, che già significhi in sé pluralità, passato, una necessità futura o altri con-

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certi relazionali del genere» (ibid .). Secondo Schlegel, solo il sanscrito e le lingue apparentate sono organiche; tutte le altre lingue sono mec­ caniche. A ll’interno di questa seconda categoria, Schlegel notava poi alcune differenze: da un lato, lingue come il cinese, in cui le determina­ zioni di tempo, persona ecc., sono indicate da «parole monosillabiche che esistono di per sé in modo del tutto indipendente dalla radice»; dall’altro, lingue come il basco e altre, la cui grammatica « è interamente costituita da suffissi e prefìssi» (ivi, p. 40). Schlegel (ivi, p. 42) osservava poi che tutte le lingue organiche avevano un’origine comune, mentre « l ’indeterminata molteplicità delle altre lingue non si può ricondurre a unità». In questo modo, di fatto la classificazione genealogica si sovrapponeva alla classificazione tipologica: le lingue organiche venivano a coincidere con il sanscrito e le lingue che (secondo Schlegel) ne erano derivate. Lo studioso te­ desco era quindi vittima della stessa confusione dei due punti di vista (genealogico e tipologico) che abbiamo già osservato a proposito dei linguisti “illuministi” (cfr. par . 4.4.1.2). Rispetto a questi ultimi, però, Schlegel collegava la differenza tipologica a due diverse modalità di origine: le lingue organiche sarebbero nate dalla «capacità riflessiva», quelle meccaniche «da grida meramente fisiche e da prove di espres­ sione linguistica volte in ogni modo a imitare i suoni o a giocare con i suoni» (ivi, p. 48). In altre parole, Schlegel ipotizzava due tipi diversi di origine delle lingue: per le lingue organiche, una “alla Herder”, per quelle meccaniche, una “alla Condillac” (cfr. PAR. 4.4.2). Questa po­ sizione aveva due conseguenze importanti (anche se non direttamente esplicitate da Schlegel): la prima era l ’abbandono del paradigma biblico della monogenesi delle lingue, cioè dell’origine di tutte le lingue da una sola; la seconda era l ’ instaurazione di una sorta di gerarchia tra le varie lingue, con il pericolo di implicazioni razziste. L ’idea che possano esistere lingue più o meno sviluppate persisterà più o meno per tutto l ’Ottocento, e d’altra parte un atteggiamento razzista si riscontra anche nei maggiori studiosi del periodo, compreso Darwin, che parla nor­ malmente di «razze umane» (cfr. par . 5.4.2), e addirittura, di «razze meno incivilite» (Darwin, 1871, trad. it. p. 73) e «razze selvagge» (ivi, p. 125). Solo dalla seconda metà dell’Ottocento, come vedremo (cfr. PAR. 5.3.3), i linguisti hanno riconosciuto che non esistono lingue più o meno sviluppate. D ’altra parte, anche vedere automaticamente dietro all’etichetta “lingue indoeuropee” una venatura razzista, come hanno in fatto in tempi recenti vari studiosi un po’ troppo preoccupati di essere

l’o t t o c e n t o

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politically correct, è privo di senso: il riconoscimento di una parentela tra lingue non implica minimamente l’assunto che i popoli che le parlano siano superiori o inferiori ad altri.

5.2.2. S .2 .2 .I .

Bopp, Rask, Grimm I l sanscrito e le altre lingue indoeuropee: Bopp

Il libro di Schlegel suscitò un considerevole interesse nella cultura te­ desca dell’epoca, data la curiosità che allora si stava sempre più diffon­ dendo per le culture orientali, e dati anche il prestigio e la popolarità dell’autore. Non si trattava però di un testo di grammatica comparata, nonostante vi si trovasse, come abbiamo visto, l ’intuizione chiara di questo campo di ricerca. Il compito di dare una fondazione sistematica alla grammatica comparata e di definirne esattamente i metodi e gli scopi toccò quindi a un altro studioso, cioè Franz Bopp. Spesso si tende a considerare Bopp come un puro tecnico, molto inferiore, dal punto di vista teorico, a Schlegel e a Humboldt, ma questa immagine è un po’ ri­ duttiva; piuttosto, era l’impostazione culturale di questi studiosi a essere diversa: quella dei primi due (soprattutto nel caso di Schlegel) più legata al Romanticismo, nel caso di Bopp alla tradizione della grammatica ge­ nerale, come vedremo tra poco. Nel suo avvicinarsi al sanscrito e alla grammatica comparata, Bopp seguì comunque le orme di Schlegel: già esperto in lingue classiche e appassionato a varie lingue del Vicino Oriente, in particolare l ’ebraico e l ’arabo, per studiare il sanscrito decise anche lui di recarsi a Parigi, nel 18 12 .1 suoi studi si svolsero sostanzialmente da autodidatta, perché Alexander Hamilton, che aveva insegnato il sanscrito a Schlegel, era già rientrato in Gran Bretagna. Bopp si basò quindi su alcune gramma­ tiche sanscrite che erano state nel frattempo pubblicate, oltre che, na­ turalmente, sui testi sanscriti custoditi nelle biblioteche della capitale francese. Ebbe però contatti con studiosi di altre lingue orientali, tra cui l ’arabista Antoine-Isaac Silvestre (o Sylvestre) de Sacy (1758-1838), il cui orizzonte teorico era ancora quello della grammatica generale (cfr. Silvestre de Sacy, 1799). Inizialmente, come risulta da una delle sue let­ tere, Bopp concepiva la grammatica comparata come una specie di in­ troduzione al sanscrito, per facilitarne lo studio, ma ben presto quello



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che doveva essere uno strumento ausiliario diventò un fine in sé stesso, dando come risultato un libro pubblicato nel 1816, intitolato S u l sistema di coniugazione della lingua sanscrita, in comparazione con quello della lingua greca, latina, persiana e germanica. Questo libro seguiva il mo­ dello di quello di Schlegel del 1808: ad esempio, anch’esso conteneva in appendice traduzioni di testi sanscriti. A differenza di Schlegel, Bopp non si limitava però ad abbozzare una grammatica comparata, ma svol­ geva un confronto sistematico delle forme verbali delle varie lingue esa­ minate. C era poi una differenza importante rispetto a Schlegel: mentre quest’ultimo considerava il sanscrito come la lingua madre di tutte le lingue indoeuropee, Bopp si mostrava più dubbioso in materia, par­ lando di «tutte le lingue che derivano dal sanscrito, o, con esso, da una comune madre» (Bopp, 1816, trad. it. p. 56). Pochi anni dopo, la se­ conda ipotesi si dimostrò quella corretta, e da quel momento non è stata più messa in discussione. Bopp, come già Schlegel, non basava le sue comparazioni sulle pa­ role, ma sui morfemi*. Nella sua analisi dei verbi in morfemi, il linguista tedesco rimaneva legato alla tradizione della grammatica generale sei­ settecentesca: la sua grande idea fu quella di applicare un’analisi di questo tipo alla comparazione tra il sanscrito e le altre lingue indoeu­ ropee, creando così quello strumento tecnico necessario alla gramma­ tica comparata che Schlegel aveva intuito, ma non sviluppato sistema­ ticamente. Ad esempio, Bopp scomponeva il latino potest ‘può’ nei tre elementi pot-, -es- e -t-, cioè, letteralmente, ‘potente-essere-egli’. Questa analisi era vicina a quella del latino vivo come ‘io-sono-vivente’, che si trova nella Grammaire di Port-Royal (Arnauld, Lancelot, 1966 [1676], parte 11, cap. 13; cfr. par . 4.3.1): entrambe infatti individuavano in un’u­ nica voce verbale la struttura soggetto-copula-predicato. Bopp ricondu­ ceva la desinenza -t a una forma originaria ta, che indicherebbe la terza persona singolare, in base al fatto che ta in sanscrito e to in greco signi­ ficano ‘egli’, ‘questo’. Molte altre forme verbali delle lingue indoeuropee erano spiegate tramite questo processo di composizione del verbo ‘es­ sere’ con una radice predicativa: ad esempio, la 5 che si trova nel futuro del greco (ad es. dosò ‘darò’ ) e del sanscrito (dasyàmi), secondo Bopp è proprio da ricondurre alla radice ‘essere’, combinata, in questo caso, con la radice di ‘dare’. Ovviamente, si trattava soltanto di congetture, indi­ mostrabili e indimostrate, anche se furono più volte riprese nel corso dell’ Ottocento, per essere poi sostanzialmente abbandonate verso la fine del secolo. U n ’altra idea di Bopp che non resse ai progressi della lin­

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guistica storico-comparativa è quella che la “comune madre” delle lingue indoeuropee rappresenti uno stadio di lingua perfetto e che le modi­ fiche intervenute nelle varie lingue derivate siano invece manifestazioni di decadenza. M a è del tutto normale che all’ interno di una scienza certe ipotesi che prima venivano assunte come vere siano poi abbandonate, alla luce di nuove scoperte e nuove riflessioni: anzi, questa è la caratteri­ stica di ogni autentica scienza; e la grammatica comparata come scienza nacque con Bopp. S.2.2.2. L a grammatica storico-comparativa delle lingue germaniche: Rask e Grimm Lo scopo di Schlegel e Bopp era quello di provare la parentela del san­ scrito con varie lingue europee. Come abbiamo visto, questo genere di prova differiva in modo radicale dai tentativi precedenti per il fatto di fondarsi non su una generica comparazione tra parole, ma tra elementi grammaticali (i morfemi). Più o meno contemporaneamente ai primi lavori di Bopp, cioè tra il secondo e il terzo decennio del x i x secolo, si dimostrò che il metodo storico-comparativo si poteva applicare anche senza prendere in esame il sanscrito e che la comparazione poteva, anzi doveva, basarsi non solo sui morfemi, ma anche sui suoni. Questi due ri­ sultati furono fondamentali nella definitiva costituzione della gramma­ tica storico-comparativa: essi sono dovuti in larga parte all’opera di due studiosi, il danese Rasmus Rask (1787-1832) e il tedesco Jacob Grimm (1785-1863), che inaugurarono la grammatica storico-comparativa delle lingue germaniche, ossia tedesco, inglese, olandese, le varie lingue scandinave ecc. e una lingua di antica attestazione (iv secolo d.C.), ma estinta da molti secoli, il gotico. L ’opera di Grimm a cui ci riferiremo è intitolata “Grammatica tedesca” (Grimm, 18x2), ma in realtà si tratta di una grammatica storico-comparativa di tutte le lingue germaniche. Rask anticipò Grimm sotto vari aspetti, ma la fama del secondo oscurò per lungo tempo quella del primo, soprattutto perché Rask scriveva in una lingua poco conosciuta come il danese. La scoperta più importante di Rask e Grimm è la ‘mutazione con­ sonantica germanica’ : con questo termine si intende l’ individuazione di corrispondenze sistematiche tra le consonanti occlusive delle lingue germaniche da un lato, e quelle di altre lingue europee (come il greco e il latino) dall’altro. Per l ’esattezza, questa è la prima mutazione (o ‘ro­ tazione’ ) consonantica germanica; la seconda mutazione (o rotazione)

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consonantica germanica individua invece le corrispondenze tra le occlu­ sive dell’antico alto tedesco (d’ora in poi aat ), che è in larga parte all’o­ rigine del tedesco standard moderno, da un lato, e quelle di tutte le altre lingue germaniche, dall’altro. In sintesi, le due mutazioni possono essere formulate come segue, per ciascuna delle tre serie di consonanti, che qui indichiamo con a), b) e c). a) alle occlusive sorde* (p, t, k) del greco e del latino corrispondono i. spiranti* sorde nelle lingue germaniche (tranne che in aat ) e z. oc­ clusive sonore* in AAT. A d esempio: latino tu, gotico Pu (]> si pronuncia come il th- inglese in think ), aat du. b) alle occlusive sonore (b, d, g) del greco e del latino corrispondono i. occlusive sorde nelle lingue germaniche (tranne che in aat ) e z. spi­ ranti sorde in AAT. Ad esempio: greco damàn ‘domare’, gotico tamjan, aat zemen. c) alle spiranti sorde (ph, th, kh) del greco corrispondono i. occlusive sonore nelle lingue germaniche (tranne che in aat ) e z. e occlusive sorde in aat . Ad esempio: greco thyra ‘porta’, gotico daur, aat turi. Negli anni successivi alla pubblicazione dei lavori di Rask e Grimm, divenne chiaro che nei casi a) e b) il greco e il latino conservavano lo stato della lingua originaria, ma nel caso c) anche in esse si era verificato un mutamento, mentre lo stato originario era conservato nel sanscrito. Qui non entreremo in ulteriori dettagli: l ’importanza di questi risul­ tati stava nel dimostrare che, se due lingue sono genealogicamente ap­ parentate, esse devono presentare una corrispondenza sistematica tra i loro suoni (oltre che tra i loro morfemi, come aveva dimostrato Bopp). L ’evidenza delle corrispondenze sistematiche rilevate da Grimm era tale che già dagli anni Trenta dell’Ottocento si cominciò a parlare di “prima e seconda legge di Grimm”, per indicare, rispettivamente, la prima e la seconda mutazione consonantica germanica, anche se Grimm non aveva mai parlato di leggi, osservando, al contrario, come in alcuni casi le cor­ rispondenze attese non si verificassero. In ogni caso, questo uso del ter­ mine “legge” era indice di una tendenza sempre crescente a considerare la linguistica storico-comparativa come una scienza simile a quelle na­ turali; l ’argomento rivestirà un’importanza fondamentale nelle discus­ sioni successive, come vedremo più avanti (cfr. par . 5.5.3). Grimm fu il primo a formulare con estrema nettezza la novità della concezione storica della grammatica, contrapposta alle precedenti impo­ stazioni normative e filosofiche: spiegare una forma significa ricondurla alla sua origine storica. Con lui, dunque, la tradizione della grammatica

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generale nata con Port-Royal e sviluppatasi fino a tutto il Settecento e oltre, comincia a entrare in crisi: questa crisi proseguirà inarrestabile per tutto l’ Ottocento e buona parte del Novecento. $.2.2.3. Istituzionalizzazione della linguistica storico-comparativa A partire dagli anni Trenta dell’ Ottocento, la linguistica storico-compa­ rativa comincia ad avere un assetto istituzionale preciso e i suoi risultati cominciano a essere presentati in forma sistematica: questo è dovuto sia all’attività di Bopp, come professore a Berlino e come autore della prima grammatica comparata delle lingue indoeuropee (Bopp, 1833-5Z), ma anche a quella di uno dei suoi primi allievi, August Friedrich Pott (i8oz1887), professore dal 1833 all’ Università di Halle. Bopp (1833-185Z), oltre alle lingue già trattate nel suo lavoro del 1816, esamina anche il lituano, lo slavo antico e l ’armeno. Nel frattempo, era stato coniato l’aggettivo ‘indoeuropee’ per indicare collettivamente queste lingue. L ’inventore del termine fu l ’ inglese Thomas Young (1773-18Z9); nei paesi di lingua tedesca, invece che indoeuropeo, si usa più comunemente, con lo stesso significato, indogermanisch, cioè ‘indogermanico’, introdotto nel 18Z3 da Julius Klaproth (1783-1835). L ’opera maggiore di Pott è rappresentata dalle “ Ricerche etimolo­ giche nel dominio delle lingue indoeuropee” (Pott, 1833-36). N ell’ intro­ duzione a quest’opera, Pott sosteneva con decisione che la linguistica storico-comparativa era ormai una disciplina autonoma, con uno scopo proprio, cioè la ricostruzione della lingua madre indoeuropea. Pott for­ niva un elenco di radici da cui derivavano le parole comuni alle varie lingue indoeuropee, e indicava con una sistematicità fino ad allora mai raggiunta le varie corrispondenze fonetiche che permettevano di giu­ stificare un’etimologia ricostruita. In questo modo, si chiarì definitiva­ mente che l ’identità di suono e di significato tra parole in due lingue di­ verse non indica necessariamente un’origine comune, e che, al contrario, due parole apparentemente molto diverse Luna dall’altra possono avere una tale origine. Un esempio del primo caso è quello di bad in inglese e in persiano, che pur essendo apparentemente identiche nella forma e nel significato (‘cattivo’, per entrambe), non sono etimologicamente appa­ rentate Luna con l ’altra. Un esempio del secondo caso è quello del latino pater e dell’armeno hayr, che significano entrambe ‘padre’ : tra i suoni che le compongono esiste una corrispondenza sistematica, in quanto de­ rivano dalla stessa forma indoeuropea.

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A metà dell’Ottocento circa, grazie al lavoro di Bopp, di Pott e di altri studiosi la famiglia linguistica indoeuropea era stata suddivisa nei seguenti gruppi: indiano (acuì appartiene il sanscrito), iranico, armeno, greco, albanese, italico (di cui fanno parte il latino e le lingue che ne derivano, cioè quelle romanze), slavo, baltico, germanico e celtico. L ’e­ lenco è quello di oggi, con la sola aggiunta di due altri gruppi, l ’anatolico e il tocario, individuati nel Novecento, grazie alla scoperta di testi in lingue prima sconosciute (cfr. par . é.i).

5.3. La linguistica generale dell’Ottocento 5.3.1. La tradizione della grammatica generale Anche se lo sviluppo della linguistica storico-comparativa metteva in crisi l ’edificio della grammatica generale sei-settecentesca (cfr. p a r . 5.Ζ.2.2), la tradizione di quest’ultima non si spense da un momento all’altro: abbiamo visto che Bopp analizzava il verbo in modo simile ai Signori di Port-Royal; e nel prossimo paragrafo vedremo come richiami alla grammatica generale si trovino anche in Humboldt. E però indiscutibile che la grammatica generale abbia conosciuto, nel corso dell’Ottocento, un progressivo declino. Un chiaro sintomo di tale declino è il fatto che la Grammaire di Port-Royal, dopo essere stata riedita sedici volte tra il 1660 e il 1846, non verrà più ristampata fino al 1966, anno della sua “ri­ scoperta” da parte di Chomsky (cfr. p a r . 7·2.3·3). Tutto questo ha fatto sì che i grammatici generali dell’ Ottocento siano stati largamente dimen­ ticati, nonostante alcuni di loro abbiano dato contributi importanti alla costruzione del nostro sapere grammaticale. Particolarmente significativa, in quest’ambito, fu l ’opera della Società di studiosi di Francoforte per la lingua tedesca (Frankfurter Gelehrtenverein fùr deutsche Sprache), e in particolare di uno dei suoi compo­ nenti, Karl Ferdinand Becker (1775-1849); a lui si deve, tra l ’altro, la di­ stinzione tra rapporto attributivo (‘la casa bianca’ ) e predicativo (‘la casa è bianca’ ). Ai nostri occhi, questa distinzione può sembrare ovvia, ma non lo era prima di Becker, quando i due termini erano spesso utilizzati come sinonimi. Becker definisce il rapporto attributivo come «espres­ sione di un concetto» e quello predicativo come «espressione di un giu­ dizio» (o di un «pensiero»). L ’opposizione tra concetto (espresso dalla parola) e giudizio (espresso dalla frase) risale a Port-Royal, ma Becker la

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utilizza anche come criterio per distinguere la frase principale da quella subordinata, da lui definita « l ’espressione di un concetto nella forma di un pensiero»: ad esempio, in ‘un soldato che è vile è disprezzato’, il concetto ‘vile’ è espresso «nella forma di un pensiero», ossia ‘che è vile’ (cfr. Becker, 1841, pp. 509-10). Delle frasi subordinate, Becker stabilì poi la classificazione ancora oggi in uso (con qualche differenza terminolo­ gica): soggettive, oggettive, «attributive» (nei nostri termini, relative) e avverbiali (o “circostanziali”, in alcune grammatiche moderne).

5.3.2. Humboldt tra universalismo e relativismo Il maggior linguista teorico del x i x secolo è probabilmente Wilhelm von Humboldt, che abbiamo già avuto occasione di citare, ricordan­ done Fattività di politico e di diplomatico. A partire dal 1819, Humboldt si ritirò da ogni carica pubblica per dedicarsi unicamente agli studi, in particolare quelli sul linguaggio. Il suo pensiero in materia è stato og­ getto di interpretazioni differenti, a volte anche contrastanti, in parte dovute anche al suo modo di esprimersi, spesso oscuro e almeno appa­ rentemente contraddittorio. C ’è chi ha considerato Humboldt come un esponente tipico del Romanticismo, chi al contrario l’ha visto come legato alla linguistica di età illuminista. Molto schematicamente, pos­ siamo dire che in base alla prima interpretazione Humboldt è l’alfiere del relativismo linguistico, cioè di una irriducibile differenza tra le varie lingue, ognuna portatrice di una sua diversa visione del mondo; in base alla seconda, invece, Humboldt si muove nella tradizione della gramma­ tica generale, e quindi considera il linguaggio come espressione di una struttura universale di pensiero. In questo paragrafo, ci soffermeremo su questi aspetti del pensiero linguistico di Humboldt che sono stati oggetto di interpretazioni diverse da parte degli studiosi successivi. Nel prossimo, ci occuperemo invece dei suoi contributi alla tipologia lingui­ stica, che rappresentano tuttora un punto di riferimento fondamentale per le ricerche in questo ambito di studi. Secondo Humboldt, il linguaggio è connaturato all’uomo: « l ’uomo è uomo solo attraverso il linguaggio; ma per inventare il linguaggio egli doveva già essere uom o» (Humboldt, 1905 [1820], trad. it. p. 733). Quindi, non si può pensare che il linguaggio abbia avuto un’origine in un determinato momento della storia dell’umanità, contrariamente a quanto congetturato da molti linguisti del Settecento. Il linguaggio

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non ha avuto origine come risposta a necessità di «aiuto reciproco» (al contrario di quanto ipotizzato da Condillac, nell’esempio dei due bambini rimasti soli dopo il Diluvio; cfr. pa r . 4.4.2): per sopperire a queste necessità, sarebbero bastati dei «suoni inarticolati» (cfr. Humboldt, 1836, trad. it. pp. 47-8). Il linguaggio, dice Humboldt (1905 [1820], trad. it. p. 734), potrebbe essere chiamato «u n istinto intellettuale della ragione»; altrove (1836, trad. it. p. 42) lo definisce « l ’organo formativo del pensiero». Sotto questo aspetto (e anche sotto altri) si può pensare a un influsso su Humboldt della filosofia di Immanuel Kant (1724-1804), il quale però non si era mai occupato esplicitamente del linguaggio: per Humboldt il linguaggio farebbe in­ fatti parte di quegli elementi che Kant chiamava ‘trascendentali’, cioè non derivati dall’esperienza, ma senza i quali la conoscenza della realtà non è possibile. G li elementi trascendentali fanno parte della natura dell’uomo in quanto tale, e un essere che non ne dispone non sarebbe un essere umano. Una delle affermazioni più famose di Humboldt è che il linguaggio non è un’opera (érgon), ma un’attività (enérgeia) (cfr. Humboldt, 1836, trad. it. p. 36). Questa affermazione è stata interpretata da in modi molto diversi. Ad esempio, Chomsky (1966, trad. it. p. 60), l ’ha considerata vicina alla sua concezione del linguaggio come costituito fondamental­ mente da un insieme di “regole generative” (su cui cfr. par . 7.2.3.1). In precedenza, altri studiosi, come Hugo Schuchardt (di cui parleremo nel par . 5.5.3) o il filosofo italiano Benedetto Croce (1866-1952), vi si erano invece richiamati per sostenere che l ’unica realtà linguistica è l ’attività dei singoli individui parlanti, sempre diversa e mai riconducibile a cate­ gorie generali. In base a queste considerazioni, Croce concludeva che la descrizione grammaticale di una lingua, che cerca di elaborare categorie di questo tipo, non ha un reale fondamento scientifico, ma semplicemente un’utilità pratica (cfr. Croce, 1990 [1902], pp. 183-6). In realtà, Humboldt è ben lontano da posizioni simili: la sua insistenza sul lin­ guaggio come attività non esclude affatto che esso possa essere analiz­ zato con gli strumenti della grammatica, anzi che debba esserlo, perché altrimenti non sarebbe possibile coglierne la natura; sostiene anche che la stessa grammatica generale deve essere assunta come un «canone» per la comparazione delle lingue (cfr. Humboldt, i907b [1827-29^, p. 342). D ’altra parte, osserva che le relazioni grammaticali della gram­ matica generale sono conformate in modo diverso nelle diverse lingue (cfr. Humboldt, 1836, trad. it. p. 130).

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Humboldt è quindi un “universalista” o un “relativista” ? In alcuni casi, sembra vicino alla prima delle due posizioni, come quando, nel passo appena citato, definisce la grammatica universale come il canone per il confronto interlinguistico, oppure quando, elencando i quattro diversi tipi possibili di parentela linguistica, definisce l’ultimo come quello delle lingue che «sono apparentate soltanto per le proprietà comuni a tutte le lingue umane in quanto tali» (Humboldt, i907a [i827-29a], p. 294). Altrove, invece, sembra adottare una visione de­ cisamente relativistica, come quando scrive che «ogni lingua traccia intorno al popolo a cui appartiene un cerchio da cui è possibile uscire solo passando, nel medesimo istante, nel cerchio di un’altra lingua» (Humboldt, 1836, trad. it. p. 47). Ogni lingua esprimerebbe dunque una visione del mondo ( Weltansicht) diversa da tutte le altre. Questo aspetto del pensiero di Humboldt è quello che forse ha goduto di maggiore ri­ sonanza presso i posteri: a esso dichiaratamente si ispirano i cosiddetti “neo-humboldtiani” (tra cui ricordiamo in particolare Leo Weisgerber, 1899-1985) e si collega, pur senza citare esplicitamente Humboldt, la co­ siddetta “ipotesi di Sapir e W h orf ” (dal nome dei due linguisti ameri­ cani che la elaborarono). Sulla sostenibilità di questa ipotesi torneremo nel paragrafo 6.4.2; qui ci limiteremo a osservare se tali posizioni siano effettivamente ricavabili da quelle di Humboldt. Ricordiamo anzitutto che l ’idea di un nesso tra lingua e mentalità del popolo che la parla è molto più antica di Humboldt: si può infatti ricondurre alle discussioni settecentesche sul “genio della lingua” ed è esposta con molta nettezza, ad esempio, da uno studioso come Herder (cfr. par . 4.4.2). Dato che il passo “relativista” di Humboldt (1836) è tratto da un testo di qualche anno posteriore a quello in cui si trova il precedente passo “universa­ lista”, si potrebbe pensare che nel frattempo le opinioni di Humboldt fossero mutate. Tuttavia, qualche pagina prima (ivi, p. 40), il nostro au­ tore scrive che «si può dire altrettanto giustamente che l ’intero genere umano possiede una sola lingua, quanto che ogni uomo possiede una sua propria», dando così l ’ impressione di voler conciliare i due opposti punti di vista. Qui non tenteremo di dare un’ interpretazione di queste (apparenti?) oscillazioni di Humboldt: si può comunque capire come il riferimento a passi dell’uno o dell’altro tipo abbia potuto far sì che si siano richiamati a lui tanto studiosi che negavano l’esistenza di pro­ prietà comuni a tutte le lingue, quanto altri che sostenevano la posizione contraria.

12.4

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5.3.3. La tipologia linguistica da Humboldt a Gabelentz Humboldt (1907α [i8z7-29a], p. 294) elenca quattro tipi possibili di parentela tra lingue. Il quarto e più generale è quello che abbiamo già ricordato nel paragrafo precedente: tutte le lingue umane sono appa­ rentate in quanto tutte condividono alcune caratteristiche. G li altri tre tipi sono rappresentati da: 1. lingue che appartengono allo stesso ‘ceppo’ (.Stamm), «in cui si osserva identità o somiglianza di concrete forme grammaticali»; 2. lingue che appartengono alla stessa area’ (Gebiet), che non presentano tale somiglianza, ma che «condividono una parte del lessico»; 3. lingue che appartengono alla stessa ‘classe’, che «non hanno in comune né forme grammaticali né lessico, ma che mostrano identità o somiglianza dal punto di vista grammaticale». Il primo tipo di parentela è quella genealogica, esemplificata dalla famiglia linguistica indoeuropea. Il secondo tipo è la parentela oggi detta ‘areale’ : ne sono un esempio le cosiddette “lingue balcaniche” (greco moderno, albanese, bulgaro, macedone, serbo-croato, rumeno), che appartengono a gruppi diversi della famiglia linguistica indoeuropea (le prime due fanno gruppo a sé, le tre seguenti appartengono al gruppo slavo, l ’ultima al gruppo romanzo), ma che, per lo stretto contatto in cui hanno vissuto i loro parlanti, hanno sviluppato delle affinità di lessico e anche di strut­ tura grammaticale. Il terzo tipo è la parentela linguistica tipologica. Humboldt distingue dunque con chiarezza parentela linguistica genealogica e parentela linguistica tipologica, segnando un netto pro­ gresso rispetto sia ai linguisti àt\Y Encyclopédie (cfr. par . 4.4.1.2) che a Schlegel (cfr. par . 5.2.1). Come abbiamo visto, Schlegel distingueva due soli tipi di lingue, quelle “organiche” (che coincidevano con quelle in­ doeuropee) e quelle “meccaniche”. Qualche anno più tardi, suo fratello August Wilhelm (Schlegel, 1818, p. 14) distinse invece tre tipi di lingue: quelle «senza struttura grammaticale» (come il cinese, che Humboldt chiamerà isolanti*), quelle «che usano affissi» (come il basco, nella ter­ minologia di Humboldt, agglutinanti*) e quelle « a flessioni» (oggi, flessive*), queste ultime distinte in «sintetiche» e «analitiche». A i tre tipi di A . W. Schlegel, Humboldt ne aggiunse un quarto, le lingue incor­ poranti*. Le etichette ‘isolante’, ‘agglutinante’, ‘flessivo’ e ‘incorporante’ (o ‘polisintetico’ ) hanno avuto una grande fortuna, e sono tuttora larga­ mente utilizzate nei manuali di linguistica; il contributo di Humboldt alla tipologia linguistica non si limita però soltanto a questo. Infatti Humboldt, a differenza dei suoi contemporanei, e anche di

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molti suoi successori, intende il ‘tipo’ non come una classe di lingue, ma come un’entità astratta: non esistono cioè lingue puramente agglu­ tinanti, o flessive ecc., ma «tutte le lingue presentano una o più forme di queste al loro interno» (Humboldt, 1836, trad. it. p. 208). Inoltre, mentre la tipologia degli Schlegel si basa sulla struttura della parola (se cioè abbia o no suffissi, se abbia o no apofonia ecc.; cfr. par . 5.2.1), quella di Humboldt si basa sul ruolo della parola nella frase. Quindi, a suo pa­ rere il tipo flessivo è superiore agli altri perché 1. delimita esattamente la parola e 2. esprime nel modo più chiaro le relazioni che permettono alle varie parole di formare una frase. Il tipo isolante non esprime queste relazioni; il tipo incorporante non distingue chiaramente tra parola e frase. Il tipo agglutinante rappresenta uno stadio intermedio, imper­ fetto, tra il tipo isolante e il tipo flessivo. Nel corso dell’Ottocento, furono elaborate altre classificazioni tipo­ logiche, tra gli altri da Bopp (1833-52, voi. 1) e da Steinthal (1860); nes­ suna di esse, tuttavia, ebbe il successo di quella tracciata da A. W. Schlegel e perfezionata da Humboldt. Qui ci soffermeremo solo su quella del te­ desco, naturalizzato francese, Henri Weil (1818-1909), perché si basa su un criterio che è fondamentale anche per la tipologia linguistica di oggi (cfr. par . 7.2.2): l’ordine delle parole nella frase. Weil (1879 [1844]) si richiama esplicitamente all’opposizione tracciata nel Settecento da G i­ rard e Beauzée (cfr. par . 4.4.1.2) tra lingue analoghe (come il francese) e traspositive (come il latino o il greco), ma la sostituisce con quella tra lingue a «costruzione libera» (quelle antiche) e a «costruzione fissa» (quelle moderne). Queste ultime si distinguono a loro volta in lingue a «costruzione ascendente» e lingue a «costruzione discendente»: nel primo tipo di costruzione, la «parola dipendente» precede la «parola reggente», nel secondo tipo l ’ordine è inverso (cfr. Weil, 1879 [1844], trad. it. pp. 81 ss.). Il francese preferisce la costruzione discendente e col­ loca normalmente l’aggettivo qualificativo dopo il nome, il verbo prima del complemento oggetto, il sostantivo reggente prima del sostantivo retto (ad es. L a maison de Jean la casa di Gianni ). Nel turco prevale la costruzione ascendente: infatti questa lingua colloca sempre l ’aggettivo qualificativo prima del nome, il verbo dopo il complemento oggetto, il sostantivo reggente dopo il sostantivo retto ecc. Weil non identifica nessuno di questi due tipi con una determinata lingua o una determi­ nata famiglia linguistica, ma sostiene che entrambi possono combinarsi all’interno della stessa lingua, producendo sistemi differenti, come ac­ cade, ad esempio, in tedesco, inglese e cinese (cfr. ivi, pp. 76-9). Non

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esistendo più un’opposizione tra lingue analoghe e traspositive, non si può nemmeno affermare che esistono lingue “più logiche” delle altre: tuttavia anche Weil dispone le lingue su una scala di valore, sia pure in base a criteri diversi da quelli degli Schlegel. La costruzione ascendente e la costruzione discendente sono considerate sullo stesso livello: quindi, il ricorso all’una o all’altra non può essere un criterio per valutare la per­ fezione di una lingua; tuttavia, una lingua è più perfetta se fa ricorso ad entrambi i tipi. Quindi il tedesco, che presenta tanto la costruzione ascendente che quella discendente, è superiore al turco, che utilizza solo la prima delle due (cfr. ivi, p. 90). L ’ idea che le lingue siano ordinate su una scala di valore, comunque individuata, verrà abbandonata solo verso la fine dell’Ottocento, ad opera di Georg von der Gabelentz (1840-1893), professore di lingue dell’Estremo Oriente all’ Università di Lipsia e al quale si deve l ’intro­ duzione in linguistica del termine “tipologia”. Per Gabelentz, non esiste una differenza tra lingue dotate di forma e lingue prive di forma (cfr. Gabelentz, 1901, p. 362.). Gabelentz osserva che molte delle caratte­ ristiche che dovrebbero dimostrare la superiorità delle lingue indoeu­ ropee non sono una loro esclusiva, e che altre potrebbero addirittura essere una manifestazione di inferiorità: ad esempio, l ’assegnare il caso nominativo tanto al soggetto che al predicato nominale è una confu­ sione, tipica delle lingue indoeuropee, che le lingue finniche non fanno (cfr. Gabelentz, 1901, p. 32.7). A Weil e a Gabelentz è anche dovuta un’a­ nalisi della struttura della frase decisamente innovativa rispetto a quella tradizionale. Weil parlava di ‘punto di partenza’ e di ‘scopo dell’enun­ ciazione’ di una frase. Gabelentz chiama queste due categorie ‘soggetto psicologico’ e ‘predicato psicologico’, rispettivamente, distinguendole dalle omonime categorie grammaticali. Il soggetto psicologico è ciò verso cui l’emittente dirige l ’attenzione del destinatario; il predicato psicologico è ciò che l ’emittente comunica al destinatario a proposito del soggetto psicologico. Qualunque parte del discorso può fungere da soggetto psicologico: ad esempio, in una frase come ‘Tre giorni fa era il mio compleanno’, ‘tre giorni fa’ non è il soggetto grammaticale, ma è il soggetto psicologico (cfr. ivi, p. 370). Secondo Gabelentz (1869, p. 379), l ’ordine «naturale» è quello che pone il soggetto prima del predicato; tuttavia, per queste categorie intese in senso grammaticale tale ordine è una regola, mentre per le categorie psicologiche omonime esso è una legge, «che non ammette eccezioni». L ’opera di Weil e di Gabelentz non ebbe un impatto particolare sui

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linguisti della loro generazione e di quelle immediatamente successive. L ’ importanza delle loro analisi emerse solo vari decenni dopo, da un lato con la “prospettiva funzionale di frase” (cfr. par . 6.3.2.i ); dall’altro, come già si è accennato, con la tipologia dell’ordine delle parole.

5.4. Sviluppi della linguistica storico-comparativa 3.4.1. La ricostruzione dell’ indoeuropeo: Schleicher Negli anni Cinquanta e Sessanta dell’ Ottocento, l ’edificio della lingui­ stica storico-comparativa indoeuropea viene per la prima volta com­ pletato da August Schleicher (1821-1868), in particolare nel suo “Com ­ pendio di grammatica comparata delle lingue indoeuropee” (Schleicher, 1861-62). Abbiamo detto “per la prima volta” perché a tale edificio ver­ ranno apportate, nei decenni seguenti, modifiche considerevoli; inoltre, come si vedrà, le concezioni generali di Schleicher sulla natura del lin­ guaggio saranno oggetto di un vivace dibattito, sia presso i linguisti suoi contemporanei che tra quelli della generazione seguente. In ogni caso, è innegabile che l ’opera di Schleicher ha rappresentato un punto di riferi­ mento imprescindibile per gli studiosi successivi. Un risultato indiscutibile di Schleicher è costituito dal definitivo chiarimento da lui operato in merito al rapporto genealogico tra le varie lingue indoeuropee. Abbiamo visto che per Schlegel la loro lingua madre era il sanscrito, mentre Bopp, come William Jones prima di lui, preferiva riferirsi a una «comune madre» da cui anche il sanscrito sa­ rebbe derivato (cfr. PAR. 5.2.2.1); Bopp, tuttavia, usava ancora l ’espres­ sione “lingue sanscritiche” per indicare le lingue indoeuropee, come se il sanscrito godesse di una sorta di “posizione privilegiata” rispetto alle altre lingue con lui imparentate. Schleicher risolve invece il problema in maniera netta: il sanscrito, il greco, il latino ecc., sono tutte lingue “sorelle”, derivate da un’unica lingua originaria (Ursprache, in tedesco), cioè l ’ indoeuropeo. Questa lingua è, per Schleicher, una lingua come tutte quelle che ne sono derivate: la sola differenza è che mentre queste ultime sono attestate, cioè documentate da testi scritti, come il sanscrito, il greco antico o il latino, oppure scritte e parlate, come le lingue indo­ europee moderne, l ’indoeuropeo è una lingua ricostruita. Per indicare la differenza tra forme attestate e ricostruite, Schleicher introdusse una notazione destinata a imporsi fino a oggi: la collocazione di un asterisco

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davanti alle forme del secondo tipo. Oltre ai suoni, è possibile ricostruire i morfemi; combinando i morfemi, le parole, e combinando queste ul­ time, anche le frasi dell’indoeuropeo: in questo modo, secondo Schleicher, è possibile scrivere anche interi testi in questa lingua ricostruita, operazione che egli stesso fece, scrivendo una favoletta dal titolo *avis akvasas ka (“la pecora e i cavalli”; Schleicher, 1868). Questa operazione, ovviamente, non poteva né potrebbe dare un risultato storicamente attendibile: nella sua ricostruzione, infatti, Schleicher si basava inevi­ tabilmente su lingue attestate in epoche molto distanti l ’una dall’altra, che vanno dal 11 millennio a.C. per il sanscrito al 1 millennio d.C. per il gotico. In altre parole, sarebbe un po’ come se tutti i testi latini fossero andati perduti e si volesse ricostruirne uno di Cicerone basandosi, per l ’italiano, su Boccaccio, per il francese, su Proust, per lo spagnolo, su Cervantes ecc. D el resto, lo stesso Schleicher diceva che aveva scritto la sua favola «in parte per diletto»: si trattava soprattutto di un modo per celebrare il trionfo del metodo storico-comparativo.

5.4.2. Il “naturalismo” di Schleicher In tutto questo libro, e in modo particolare in questo capitolo, abbiamo parlato più volte di “parentela” per individuare i rapporti tra le varie lingue, e in particolar modo di quelle indoeuropee: questa immagine più o meno metaforica si traduce, in Schleicher, in un modello scienti­ fico preciso, ossia quello dell’albero genealogico di tali lingue (cfr. ad es. Schleicher, 1861-62, p. 7). Alla radice di quest’albero sta l ’indoeuropeo originario ricostruito, da cui si dipartono due rami principali; ciascuno di questi si ramifica a sua volta, e così via, con un processo di suddivi­ sione che è sempre binario, in quanto ogni ramo si divide sempre solo in due rami inferiori, fino ad arrivare alle singole lingue, anzi ai singoli dia­ letti. A ll’origine di ognuno di questi rami stanno delle “lingue comuni”, anch’esse non attestate, come l ’indoeuropeo originario, ma ricostruibili in base ai metodi della grammatica storico-comparativa: così, all’origine delle lingue germaniche sta il germanico comune, all’origine delle lingue slave lo slavo comune ecc. L ’unica lingua comune attestata è il latino, che è all’origine delle lingue romanze. Si è spesso sostenuto che questo modello dell’albero genealogico è stato ispirato a Schleicher dalla biologia, e in modo particolare dalla teoria dell’evoluzione di Darwin (1859): in effetti, Schleicher pubblicò

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un opuscolo intitolato proprio L a teoria d i D arw in e la scienza della linguistica (Schleicher, 1863), dove, tra l’altro, affermava che le lingue «sono organismi naturali che, senza essere determinabili dal volere dell’uomo, sono sorti, cresciuti e sviluppati secondo leggi fisse» (ivi, trad. it. p. 123). In realtà, la situazione è più complessa. Schleicher aveva esposto la sua concezione “naturalistica” del linguaggio già in lavori pre­ cedenti al 1859; inoltre, il concetto chiave della teoria darwiniana, cioè quello di selezione naturale, non ha alcuno spazio nei suoi scritti. Al contrario, egli afferma che la storia del linguaggio si divide in due pe­ riodi: uno, preistorico, di sviluppo e uno, storico, di decadenza. Questa concezione contrasta nettamente con la prospettiva darwiniana, in base alla quale il trascorrere del tempo non produce una decadenza, bensì uno sviluppo (più tardi chiamato “evoluzione”) delle specie biologiche. M a c ’è di più: è Darwin che, in un caso almeno, si richiama esplicita­ mente alla linguistica, proponendo un’analogia tra la differenziazione delle specie e quella delle lingue umane: Così, secondo le mie idee, il sistema naturale è ramificato nella sua disposi­ zione, come una genealogia; ma i gradi di modificazione, che i diversi gruppi hanno subito, debbono esprimersi ordinandoli sotto differenti generi, sotto­ famiglie, famiglie, sezioni, ordini e classi. Non sarà senza qualche utilità lo spiegare questo concetto sulla classificazione, prendendo il caso delle lingue. Se noi possedessimo una genealogia perfetta della stirpe umana, una disposizione genealogica delle razze umane ci darebbe la migliore classificazione delle diverse lingue attualmente parlate in tutto il mondo; e quando tutte le lingue estinte e tutti i dialetti intermedi e lentamente variabili vi fossero compresi, questa di­ sposizione sarebbe la più completa (Darwin, 1859, trad. it. p. 376).

Più che parlare, quindi, dell’influenza di uno dei due studiosi sull’altro, o viceversa, bisogna piuttosto pensare a un clima culturale diffuso verso la metà dell’Ottocento, che avvicinava alcuni linguisti alla biologia, e alcuni biologi alla linguistica storico-comparativa. Comunque stiano le cose, l ’affermazione di Schleicher che le lingue sono organismi naturali non può non lasciare perplessi, come pure il suo modello dell’albero genealogico sembra decisamente troppo rigido se comparato con ciò che la storia reale delle lingue indoeuropee ci mo­ stra. Ad esempio, secondo Schleicher le lingue “arie” (cioè il sanscrito e il persiano), il latino e il greco, si trovano su uno dei due rami princi­ pali, mentre le lingue germaniche sono collocate sull’altro: le lingue del primo ramo dovrebbero quindi mostrare molte più affinità tra loro che

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non con quelle dell’altro ramo. Tuttavia, ci sono molti più elementi in comune, ad esempio, tra latino, greco e lingue germaniche che non tra latino, greco e lingue “arie”. Dato che il modello dell’albero genealogico non prevede incroci di rami, la presenza di questi elementi in comune non può essere spiegata: infatti lingue appartenenti a due rami diversi possono condividere solo elementi derivati dalla “lingua comune” o dalla lingua originaria. Quindi, ad esempio, greco e germanico non po­ trebbero avere alcun elemento comune, oltre a quelli derivati dall’indo­ europeo originario; e anche se ridisegnassimo l’albero genealogico col­ locando, ad esempio, greco e germanico sullo stesso ramo, gli elementi comuni ai due gruppi di lingue si limiterebbero a quelli derivati dalla ipotetica lingua comune greco-germanica. Per ovviare a queste difficoltà, un allievo dello stesso Schleicher, Johannes Schmidt (1843-1901), elaborò una nuova immagine dei rap­ porti tra le lingue indoeuropee, sostituendo quella dell’albero genealo­ gico con quella «delle onde, che si propagano in cerchi concentrici, i quali si affievoliscono via via che si allontanano dal centro» (Schmidt, 1872, trad. it. p. 142.). La teoria di Schmidt è quindi passata alla storia come “teoria delle onde” (la stessa immagine era stata utilizzata qualche anno prima da Schuchardt, relativamente alle lingue romanze; il testo è ristampato in Schuchardt, 1928, pp. 166-88): in base a essa, le varie lingue indoeuropee costituiscono una sorta di continuum, trapassando Luna nell’altra solo con piccole modificazioni (Schmidt, 1872, trad. it. p. 143). Schmidt non negava che, in certi casi, esistano confini linguistici netti: ma questo è dovuto al fatto che una determinata lingua, o un determi­ nato dialetto, ha rimpiazzato quelli vicini. Ad esempio, l’attico ha pro­ gressivamente sostituito gli altri dialetti greci confinanti, il latino le altre lingue italiche, e «probabilmente, tra non molto tempo», il tedesco standard « avrà compiuto un’uguale opera di distruzione nei confronti dei dialetti tedeschi» (ibid.). È più adeguato il modello dell’albero genealogico o quello delle onde? Una risposta definitiva manca ancora oggi: in generale, da fine Ottocento in poi si tende a considerarli entrambi insufficienti presi sin­ golarmente, ma ugualmente necessari per illustrare i vari rapporti tra le lingue indoeuropee. Da un lato, l’immagine dell’albero genealogico conserva un innegabile valore pratico: ancor oggi, infatti, parliamo di lingue slave, lingue germaniche, lingue celtiche ecc., cioè utilizziamo concetti ispirati a tale immagine. D all’altro, non si può negare che esi­ stano quelle sovrapposizioni parziali tra le varie lingue indoeuropee de­

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scritte dalla teoria delle onde. Non è dunque realistica quella scissione netta tra gruppi linguistici implicata dal modello dell’albero genealo­ gico; ma esso va comunque valutato con più attenzione, nel quadro della concezione del linguaggio e della linguistica propria di Schleicher. In tale concezione, la linguistica (Sprachwissenschafi oppure Glottik) si oppone alla filologia: mentre la seconda delle due discipline è di tipo storico, e si occupa di fenomeni in cui la libera volontà umana gioca un ruolo essenziale, la prima adotta un metodo «totalmente diverso da quello di tutte le scienze storiche » e che « si lega piuttosto a quello delle scienze naturali» (Schleicher, 1850, pp. 2-3). È fondamentale ricordare che per Schleicher solo la fonologia e la morfologia appartengono alla linguistica, mentre la sintassi, e ancor di più la stilistica, appartengono piuttosto alla filologia, in quanto dipendono dalla libera volontà dell’in­ dividuo (cfr. ivi, pp. 3-4). La concezione naturalistica di Schleicher si spiega quindi come un tentativo di dare una giustificazione del carattere regolare delle corrispondenze linguistiche individuate dalla grammatica storico-comparativa, alle quali si cominciava a dare il nome di “leggi”. In questa prospettiva, si comprende meglio anche la sua immagine dell’al­ bero genealogico, che esclude contatti tra lingue successivi alla loro se­ parazione da un antenato comune: i fenomeni di mescolanza tra lingue sono molto più rari nel caso della fonologia e della morfologia, mentre sono molto più frequenti in altri campi, come quello del lessico. Ma questi campi stanno al di fuori della linguistica nel senso di Schleicher, e quindi non sono probabilmente da raffigurare mediante l ’albero genea­ logico, che rappresenta la differenziazione delle lingue indoeuropee solo in base alla fonologia e alla morfologia.

3.4.3. Critici del naturalismo linguistico: W hitney e Bréal Alla concezione della linguistica come scienza naturale sostenuta da Schleicher (sia pure con le limitazioni di cui si è appena detto) si oppo­ sero vari studiosi, i più noti dei quali sono l ’americano William Dwight W hitney (1827-1894) e il francese Michel Bréal (1832-1915). Entrambi erano studiosi di linguistica storico-comparativa; tuttavia, fornirono contributi importanti anche alla linguistica generale, tanto da aver esercitato una certa influenza sul pensiero di Ferdinand de Saussure. D a un punto di vista strettamente cronologico, i loro lavori risalgono aH’ultimo quarto dell’ Ottocento, o, nel caso di Bréal, addirittura all’ i-

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nizio del Novecento, ma di fatto sono più legati al dibattito linguistico della metà del XIX secolo, soprattutto per la loro polemica antischleicheriana; per questo motivo ne trattiamo qui, invece che nel prossimo paragrafo. Sia il linguista americano che quello francese insistono sulla natura del linguaggio come strumento di comunicazione. «Linguaggio [...] è l ’espressione che mira alla comunicazione», scrive Whitney (1875, trad. it. p. 1) all’inizio della sua opera di linguistica generale più famosa. Questa posizione è ribadita più volte nel corso del volume (cfr. ad es. ivi, pp. 191, 340); « il principale elemento determinatore della produzione del linguaggio» è « il desiderio di comunicazione». La prospettiva di W hitney contrasta dunque nettamente non solo con quella di Schleicher (che è il suo obiettivo polemico più diretto), ma anche con quella di Humboldt, il quale aveva sostenuto che l’origine del linguaggio non si poteva spiegare semplicemente in base a necessità comunicative (cfr. PAR. 5.3.3). W hitney (che non manca di polemizzare anche con Hum­ boldt) assume invece, a questo proposito, una posizione che ci ricorda molto da vicino quella di Condillac (cfr. par . 4 .4 .1): « il punto di par­ tenza [del linguaggio] furono i gridi naturali degli esseri umani, gridi esprimenti i loro sentimenti, e come tali intelligibili dai loro simili» (ivi, p. 344). Dal fondamento sociale del linguaggio deriva, secondo Whitney, il fatto che esso è arbitrario e convenzionale: «arbitrario, perché qualunque delle mille e mille altre parole correnti tra gli uomini, o delle decine di migliaia che si potrebbero fabbricare, sarebbero po­ tute essere egualmente bene imparate e applicate a questo particolare intento; convenzionale, perché la ragione per usar questa piuttostoché un’altra parola sta solamente nel fatto che essa è già stata usata nella so­ cietà a cui il parlante appartiene» (ivi, p. zi). Dal canto suo, Bréal afferma che « il linguaggio è stato, prima di tutto e soprattutto, uno strumento di comunicazione necessario tra gli uomini» (Bréal, 1913 [1900], p. 334). In evidente polemica con Schleicher, Bréal sostiene che la linguistica non è una scienza naturale, ma una scienza storica, «in quanto l ’oggetto di cui tratta non esiste in natura. Il linguaggio è un atto dell’uomo: non ha realtà fuori dell’attività umana» (Bréal, 1891, p. 615). Non è quindi «nella zoologia o nella botanica che andrei a cercare il mio termine di confronto, ma nella storia delle isti­ tuzioni» (ivi, pp. 358-9). Questa visione del linguaggio come entità es­ senzialmente sociale e storica è anche alla base del lavoro più famoso di Bréal, il suo “Saggio di semantica (scienza dei significati)” (Bréal, 1897).

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‘Semantica’ (che fino ad allora aveva avuto un uso confinato alla termi­ nologia militare, con il significato di “muovere le truppe per mezzo di segnali”) fu coniato da Bréal in opposizione a ‘fonetica’. Bréal contrap­ pone le “leggi intellettuali del linguaggio” alle “leggi fonetiche”. Queste leggi intellettuali, sostiene Bréal, non sono cieche, a differenza delle leggi fonetiche, ma sono condizionate dalla volontà umana (cfr. Bréal, 1897, trad. it. p. é); inoltre, ogni legge di questo tipo, per quanto sia un «rap­ porto costante, presente in una serie di fenomeni» (ivi, p. 11), «come del resto ogni legge, ha i suoi lim iti» (ivi, p. Z5). Tra le molte pagine del volume di Bréal, particolarmente importanti sono quelle dedicate alla nozione di segno linguistico, che, come vedremo (cfr. par . é.z.z.3), avrà un ruolo essenziale nel pensiero di Saussure. Sotto questo aspetto, Bréal mostra altre notevoli analogie con W hitney; più del linguista americano, però, insiste sul concetto di segno e sui suoi rapporti con il pensiero. Richiamandosi esplicitamente a Condillac, sottolinea il ruolo fondamentale del linguaggio per quanto riguarda l’organizzazione del pensiero. L ’idea certamente precede il segno (quindi il linguaggio non “crea” il pensiero, come si potrebbe sostenere portando fino all’estremo le concezioni di Humboldt e di Steinthal); tuttavia, e solo quando e espressa tramite un segno che noi siamo sicuri di possederla e di poterla comunicare agli altri. Quindi, il linguaggio «è l’obiettivazione del pen­ siero» (Bréal, 1897, trad. it. p. 149); «sono segni, e non idee, quelli che confrontiamo, concateniamo, opponiamo» (ivi, p. 148). Se W hitney e Bréal sono decisamente innovatori, per quanto ri­ guarda alcune questioni di linguistica generale, rispetto agli altri linguisti di metà Ottocento, essi si mostrano legati, nel campo della linguistica storico-comparativa, alle concezioni dei primi decenni del secolo. Ad esempio, entrambi adottano l’ ipotesi di Bopp (cfr. par . 5.Z.Z.1) secondo cui la coniugazione verbale indoeuropea deriva dalla combinazione di ra­ dici originariamente indipendenti (cfr. Whitney, 1875, pp. Z41 ss.; Bréal, 1897, trad. it. p. 19). Inoltre, entrambi sostengono che alcune lingue sono più sviluppate di altre. W fiitney (1875, p. 360) scrive, ad esempio, che «una infinità di cose possono dirsi in inglese, che non possono dirsi in figi o in ottentoto; e molte cose, senza dubbio, possono dirsi in figi e in ottentoto, che non si sarebbero potute dire nei primi linguaggi umani » ; Bréal, dal canto suo, afferma che le lingue indoeuropee sono superiori alle altre grazie alla loro maggior capacità di creare dei nomi astratti, il che faciliterebbe le operazioni del pensiero (cfr. Bréal, 1897, trad. it. pp. 149-51). Bréal esclude però esplicitamente ogni implicazione razzista

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di queste affermazioni: osserva infatti che non bisogna confondere tra lingue e razze, e che la superiorità linguistica di cui parla è acquisita, e non innata (cfr. Bréal, 1913 [1900], pp. 333-4). In ogni caso, continuando a disporre le varie lingue su una scala di valore, tanto Whitney quanto Bréal si mostrano molto più arretrati, sotto questo aspetto, di un lin­ guista come Gabelentz (cfr. par . 5.3.3).

5.5. Il perfezionamento della linguistica storico-comparativa: l ’epoca dei neogrammatici 5.5.1. Nuove scoperte e nuove concezioni Il quadro della grammatica storico-comparativa delineato da Schleicher era indubbiamente molto più organico e completo di quello tramesso dai ricercatori delle generazioni precedenti, ma, come si è appena visto, la sua visione “naturalistica” del linguaggio non aveva trovato consenso generale. Una tale visione contrastava nettamente anche con quella di Steinthal (cfr. par . 5.1), che fondava la linguistica sulla psicologia e quindi sull’analisi dei processi mentali dell’individuo. Inoltre, Schlei­ cher suddivideva la storia delle lingue indoeuropee in due periodi, uno, preistorico, di sviluppo e uno, storico, di decadenza: nel primo periodo, si sarebbe formata la lingua indoeuropea originaria, passando da un’ i­ niziale fase isolante, attraverso una fase agglutinante, a una finale fase flessiva che rappresentava il culmine dello sviluppo; la fase di decadenza sarebbe invece testimoniata dalla progressiva perdita della flessione, manifestata nel passaggio dalle lingue indoeuropee antiche a quelle moderne (si pensi, ad es., al latino in confronto alle lingue romanze, che hanno quasi totalmente perduto il sistema dei casi). Questa con­ trapposizione di due fasi diverse nella storia delle lingue indoeuropee non era certo esclusiva di Schleicher: al contrario, era propria anche dei linguisti della generazione precedente alla sua e di molti suoi contem­ poranei. Tuttavia, una simile concezione contrastava con la prospettiva “uniformista” che si stava allora imponendo nelle scienze della natura (cfr. par . 5.1); e già l’anno stesso della prematura morte di Schleicher, un altro linguista tedesco, Wilhelm Scherer (1841-1886), affermava che « la distinzione tra sviluppo e decadenza si basa su un errore. Per quanto mi riguarda, io ho trovato ovunque solo sviluppo, solo storia» (Scherer, 1868, p. x).

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A parte comunque le dispute sulla natura del linguaggio e lo statuto della linguistica, era lo stesso edificio rappresentato dal “ Compendio” (Schleicher, 1861-62) che aveva bisogno di perfezionamenti: Schleicher usava in modo sistematico l’espressione “leggi fonetiche” (Lautgesetze), ma molte di queste leggi presentavano varie eccezioni ancora inspiegate, cioè in certi casi le corrispondenze fonetiche tra i suoni delle varie lingue non erano quelli attesi. Il decennio successivo alla morte di Schleicher, cioè gli anni Settanta dell’Ottocento, fu caratterizzato da alcune nuove fondamentali scoperte nel campo della linguistica storico-comparativa indoeuropea, che ricondussero molte, se non tutte queste eccezioni, all’azione di altre leggi. Tra queste nuove leggi, ci occuperemo qui di una sola, forse la più famosa, la cosiddetta “legge di Verner”, così chiamata dal suo scopri­ tore, il danese Karl Verner (1846-1896), in uno dei pochissimi arti­ coli da lui pubblicati (Verner, 1877). Come abbiamo visto sopra (cfr. PAR. 5.2.2.2), il caso a) della prima mutazione consonantica (o “prima legge di Grimm”) asserisce che le occlusive sorde dell’indoeuropeo ori­ ginario (conservate in sanscrito, in greco e in latino) diventano spiranti sorde nelle lingue germaniche. Un esempio è la parola per ‘fratello’ : al sanscrito bhrdtar e al latino fra ter corrisponde broPar in gotico (la lingua germanica di attestazione più antica; P è pronunciato come th nell’inglese think). Tuttavia, questa corrispondenza non si osserva in altre parole, anche all’ interno del campo stesso dei nomi di paren­ tela: infatti, al sanscrito pitàr- e al latino pater (‘padre’ ), in gotico cor­ risponde fa à a r (dove la d b pronunciata come una spirante sonora), mentre ci aspetteremmo *faPar, con una spirante sorda. Rask, Grimm e vari altri linguisti avevano già notato questa anomalia, ma fu Verner a trovarne la spiegazione, guidato dalla convinzione che «in questo caso, ci deve essere, per così dire, una regola per l ’irregolarità; si tratta solo di trovarla» (ivi, p. 101). La spiegazione di Verner può essere approssi­ mativamente riassunta così: se nella lingua indoeuropea originaria l ’ac­ cento cade sulla sillaba precedente, le occlusive sorde diventano spiranti sorde nelle lingue germaniche (quindi, abbiamo bhrdtar- in sanscrito e broPar in gotico); se l ’accento cade sulla sillaba seguente, le stesse oc­ clusive diventano sonore (e quindi al sanscrito pitàr- corrisponde il goticofa da r). L ’eccezione alla legge di Grimm è quindi solo apparente, in quanto non è che l ’effetto di un’altra legge. Questo è il grande risultato ottenuto da Verner.

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5.5.2. I princìpi della scuola neogrammatica A i risultati di Verner se ne affiancarono vari altri, come la cosiddetta “legge delle palatali”, che tolse al sanscrito la posizione di testimone pri­ vilegiato della lingua originaria che Schleicher continuava ad attribuirgli nei confronti delle altre lingue indoeuropee. Questa legge, scoperta da vari studiosi, spiegava un’apparente bizzarria del sanscrito, cioè il fatto che in alcune parole la vocale a è preceduta da una c come nell’italiano ‘cena’ (cosiddetta “c palatale”), in altre invece da una come nell’italiano ‘casa’ (“c velare”): questa diversa pronuncia si spiega per il fatto che, nel primo caso, la vocale a deriva da una vocale originaria indoeuropea e, nel secondo da una 0. Questo mostrava che il sistema vocalico si è modifi­ cato, in sanscrito, rispetto all’originario sistema indoeuropeo, più che in altre lingue, come ad esempio il greco. Un risultato di questo genere raf­ forzava la concezione uniformista del mutamento linguistico, cioè come un processo storico, che si svolge in modo analogo in tutte le lingue, senza che fasi di sviluppo si oppongano ad altre di decadenza. L ’effetto globale di queste ricerche fu un cambiamento notevole dell’immagine della linguistica storico-comparativa tracciata da Schlei­ cher. Questo cambiamento, che riguardava sia vari aspetti tecnici, sia la concezione generale del linguaggio e del cambiamento linguistico, trovò la sua formulazione più organica e sistematica nella dottrina dei cosiddetti “neogrammatici” (in tedesco Junggram matiker, letteralmente ‘grammatici giovani’, con un’espressione che all’ inizio aveva una certa coloritura polemica, per suggerire l ’idea di giovani studiosi un p o ’ ri­ belli). Si trattava di un gruppo di linguisti formatosi all’ Università di Lipsia, tra i quali ricordiamo Karl Brugmann (1849-1919), Berthold Delbriick (1842-1922), Hermann Osthoff (1847-1909) e Hermann Paul (1846-1921). Tra questi, Paul e Delbriick avevano anche seguito le le­ zioni di Steinthal all’ Università di Berlino. Non stupisce quindi che, in contrapposizione a Schleicher, i neogrammatici volessero fondare la linguistica non sulle scienze biologiche, ma sulla psicologia. Questa posizione è espressa molto chiaramente già nelle prime pagine del co­ siddetto “manifesto dei neogrammatici”, cioè la prefazione di Osthoff e Brugmann (in realtà, scritta solo dal secondo) a una raccolta di studi sulla morfologia delle lingue indoeuropee (Osthoff, Brugmann, 1878): « se la linguistica storica e la psicologia si porranno in più stretto contatto reciproco di quanto finora non abbiano fatto, si schiuderanno altri nu­ merosi punti di vista, importanti per la linguistica storica» (ivi, trad. it.

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pp. 164-5). I neogrammatici affermavano inoltre che le lingue non sono entità biologiche estranee all’uomo, ma elementi della sua psiche, e che l’attività linguistica degli esseri umani è stata la stessa in tutte le epoche: una concezione uniformista, chiaramente opposta, dunque, a quella di Schleicher. Più avanti, erano formulati quelli che passeranno alla storia come i “due principi della scuola neogrammatica”, ossia Γ ineccepibilità delle leggi fonetiche e il ruolo dell’analogia in tutte le epoche della storia linguistica (cfr. ivi, pp. 171-2). Il primo principio era suggerito ai neo­ grammatici da risultati come quello di Verner: le eccezioni alle leggi fo­ netiche sono solo apparenti, in quanto sono determinate dall’azione di altre leggi (come nel caso della legge di Verner rispetto alla prima legge di Grimm), oppure da altri fattori, come il fatto che da una stessa lingua originaria nascessero lingue diverse, oppure i fenomeni di prestito. A l­ cune apparenti eccezioni erano poi spiegate, secondo i neogrammatici, dall’azione del secondo principio, quello dell’analogia: ad esempio, una legge fonetica stabilisce che é (“e breve”) latina si trasforma nel dittongo italiano te solo se è in posizione accentata: quindi dal latinopéde(m ) de­ riva ‘piede’, ma dapédàle(m ), ‘pedale’. Tuttavia, abbiamo tanto ‘chiedo’, in cui il dittongo -ie- è in posizione accentata, quanto ‘chiediamo’, in cui lo stesso dittongo è in posizione atona. Questa apparente violazione della legge si spiega in quanto la seconda delle due parole è stata costruita in base all’analogia con la prima. I linguisti delle generazioni precedenti consideravano l ’analogia come un fenomeno che caratterizza solo le fasi moderne della lingua, come un sintomo di decadenza: i neogrammatici, coerentemente con le loro convinzioni uniformiste, sostenevano che l ’analogia è ed era sempre stata attiva, in tutte le epoche. Inoltre, nella loro visione l’analogia non ha soltanto la funzione di spiegare alcune apparenti eccezioni alle leggi fonetiche, ma rende ragione anche dell’o­ rigine di nuove forme grammaticali, di nuove parole, di nuove frasi, che sono costruite in base all’analogia con quelle esistenti. Su questo potere creativo dell’analogia si soffermò soprattutto Paul, nel capitolo 5 del suo volume “Principi di storia linguistica” (Paul, 1920), la cui prima edizione risale al 1880 e che è senz’altro il testo teorico più importante uscito dalla scuola neogrammatica, e su cui ci soffermeremo ora brevemente. Paul si preoccupa anzitutto di definire la posizione della linguistica rispetto alle altre scienze, che distingue in due tipi fondamentali: quelle “basate su leggi” (ted. Gesetzeswissenschaften) e quelle “storiche”. Questa distinzione non coincide con quella più tradizionale tra scienze della na­ tura e scienze dello spirito: ad esempio, la psicologia è una scienza dello

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spirito, ma è anche una scienza basata su leggi (cfr. Paul, 1910, p. 6). Ana­ logamente, le scienze storiche non si identificano con le scienze dello spirito: esistono infatti «scienze storiche della natura» (come la teoria dell’evoluzione) e «scienze storiche della cultura» (ibid.). L ’opposi­ zione tra i due tipi di scienze si basa sul fatto che in quelle del primo tipo manca un qualunque riferimento allo sviluppo, all’evoluzione, concetti che invece caratterizzano le scienze storiche, tanto della natura quanto della cultura (cfr. ivi, p. z). Che cosa è, dunque, la linguistica? Una scienza storica che contiene una componente basata su leggi, ossia la compo­ nente psicologica. Per Paul, la psicologia ha per oggetto unicamente l’attività mentale dell’individuo: l’assunzione di un’entità sovraindividuale, di una “mente etnica”, fatta tra gli altri dallo psicologo Wundt (cfr. p a r . 5.1), è da lui respinta con forza. D i conseguenza, anche il linguaggio è un fenomeno puramente individuale: «ci sono tante lingue quanti in­ dividui» (Paul, 1910, trad. it. p. 44). Stando così le cose, come fanno i diversi individui a comunicare tra loro? Paul (ivi, p. 4 1; cfr. anche Paul, 1910, pp. 15 e 19) risolve la difficoltà ricorrendo al «presupposto che l’organizzazione mentale e corporea di tutti gli uomini sia fondamental­ mente la stessa, che anche nelle menti degli individui più diversi da noi si trovino gli stessi elementi che si trovano nella nostra, solo diversamente combinati e rapportati». L ’ interazione tra i diversi individui produce ciò che Paul chiama ‘uso linguistico’, che è «una sorta di m edia» deri­ vata dal «confronto dei singoli organismi linguistici» (ivi, p. Z9). È su questa «m edia» che si basano le nozioni di ‘lingua’ o ‘dialetto’ : ma l’uso è sempre secondario rispetto all’attività linguistica dell’ individuo, che è, nella visione di Paul, l ’unica realtà effettiva. Ricordiamo infine che, per Paul come per tutti i neogrammatici, tra lingua e dialetto non c’è diffe­ renza dal punto di vista linguistico, ma solo dal punto di vista sociale: una lingua non è che un dialetto che, per determinate cause storiche o culturali, si è imposto sugli altri dialetti vicini. Così, l ’italiano deriva da quello che era, in origine, il dialetto di Firenze, il quale, per il prestigio acquisito fin dal Trecento con l ’opera di Dante, Petrarca e Boccaccio, si è affermato, con alcune modifiche, come il mezzo di espressione delle per­ sone colte anche nelle altre regioni d’Italia; il francese è il dialetto della regione intorno a Parigi che, per ragioni politiche, ha sostituito a mano a mano gli altri dialetti francesi; e così via. Uno dei risultati dei neogram­ matici è di aver definitivamente chiarito la natura esclusivamente sociale della distinzione tra lingua e dialetto: purtroppo, questo risultato è an­ cora oggi poco noto al di fuori della cerchia dei linguisti di professione.

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5.5.3. I neogrammatici e i loro avversari: il dibattito sulle leggi fonetiche Applicando rigorosamente i metodi presentati nel loro manifesto del 1878, e rivedendo sistematicamente le ricerche compiute dai loro prede­ cessori, i neogrammatici arrivarono a perfezionare l ’edificio della lingui­ stica storico-comparativa. Il risultato più significativo di questo lavoro è l’opera di Brugmann e Delbrùck (1897-1916), che, a dispetto del titolo (“Compendio di grammatica comparata delle lingue indoeuropee”), è in realtà una monumentale trattazione della fonologia, della morfo­ logia e della sintassi delle lingue indoeuropee. Che quest’opera abbia segnato una svolta definitiva nell’ambito della linguistica indoeuropea è mostrato dal fatto che essa è tuttora un riferimento fondamentale per gli studiosi del campo, mentre i precedenti trattati sull’argomento, ossia la “Grammatica comparata” di Βορρ (1833-5Z) e il “ Compendio” di Schleicher ( i 86i -6 z) oggi hanno un interesse quasi esclusivamente sto­ rico. Opere analoghe furono realizzate da altri neogrammatici relativa­ mente a specifici gruppi di lingue indoeuropee, come Paul (1916-zo) per le lingue germaniche, o Meyer-Lùbke (1890-190Z) per quelle romanze. Tuttavia, la concezione del linguaggio propria dei neogrammatici non trovò consenso generale, anzi provocò un dibattito particolar­ mente acceso, soprattutto durante gli anni Ottanta del x i x secolo. A grandi linee, possiamo dire che ancora una volta si confrontavano due visioni opposte del linguaggio e della linguistica, simili a quelle che avevano caratterizzato la polemica tra Schleicher e i suoi critici, come W hitney e Bréal (cfr. pa r . 5.4.3). I neogrammatici si distacca­ vano nettamente da Schleicher sotto vari punti di vista, come il rifiuto di opporre un periodo di sviluppo a uno di decadenza nella storia del linguaggio, o l ’affermazione che le lingue non sono entità biologiche, ma psicologiche. Tuttavia, tanto Schleicher quanto i neogrammatici condividevano l’ idea di un’affinità metodologica tra la linguistica e le scienze naturali, in quanto entrambe possono formulare leggi, in par­ ticolare, le leggi fonetiche. Inizialmente, i neogrammatici sostenevano che tali leggi sono in tutto e per tutto assimilabili a quelle delle scienze naturali: ad esempio, Paul (1879, pp. i-z) scriveva che «ogn i legge fo ­ netica [...] ammette eccezioni tanto poco quanto una legge chimica o fisica»; solo un anno più tardi, tuttavia, si correggeva, affermando che « il concetto di ‘legge fonetica’ non va inteso nel senso in cui si parla di leggi in fisica o in chimica. [...] La legge fonetica non enuncia ciò che

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deve sempre verificarsi sotto certe condizioni generali, bensì si limita a constatare la regolarità aH’ interno di un gruppo di determinati feno­ meni storici» (Paul, 1920, p. 68; il passo si trova già nell’edizione del 1880). La differenza fondamentale tra i due tipi di leggi riguarda il loro rapporto con il variare dello spazio e del tempo: è difficile sostenere che la legge di Lavoisier (“in una reazione chimica, nulla si crea e nulla si distrugge” ) sia valida in Francia, ma non in Australia, oppure che possa non essere stata valida duemila anni fa; viceversa, la prima legge di Grimm (o prima mutazione consonantica) si è applicata solo in un determinato ambito geografico (quello occupato dalle popolazioni di lingua germanica) e in un determinato periodo storico. Questo effetto limitato nel tempo (probabilmente, tra il i v e il 11 secolo a.C.) della legge in questione si riconosce facilmente. Confrontiamo i suoni ini­ ziali di due coppie di parole italiane e inglesi: ‘pesce’ (dal latinopiscis) e fish , da un lato, e ‘pagare’ (dal latino pacare) e pay, dall’altro. Nella prima coppia, alla p italiana corrisponde una f , nella seconda invece unap : dunque la legge di Grimm si è applicata solo nella prima delle due parole, che era già presente, nella lingua da cui l ’ inglese è deri­ vato, all’epoca in cui la stessa legge era attiva. Viceversa,pay è entrato nell’ inglese solo nel x ii- x m secolo d.C., come prestito dal francese payer: e, dato che a quell’epoca la prima mutazione consonantica non era più attiva, la p si è mantenuta identica. Questa concezione delle leggi fonetiche come semplici constatazioni di regolarità di determi­ nati mutamenti di suoni in determinate epoche e determinati luoghi si impose rapidamente presso i neogrammatici e i loro seguaci. Tut­ tavia, alla base di essa c ’era, più o meno esplicitamente, l ’ idea che le lingue mutano nel tempo con regolarità, e che quindi la linguistica è una disciplina affine, almeno dal punto di vista metodologico, alle scienze della natura: a questa idea si opponevano i linguisti che invece consideravano la linguistica come una scienza storica e sociale. Questi linguisti non formavano un gruppo unitario, ma erano studiosi di di­ versa formazione e provenienza, ciascuno dei quali aveva una propria concezione della natura e degli scopi della linguistica: in particolare, ci occuperemo dell’ italiano Graziadio Isaia Ascoli (1829-1907), del te­ desco Hugo Schuchardt (1842-1927) e dello svizzero Jules Gilliéron (1854-1926). Questi ultimi tre studiosi erano comunque in contatto tra loro ed erano accomunati dal fatto di occuparsi di lingue romanze, che offrono una documentazione molto più ampia, nello spazio e nel tempo, rispetto a tutti gli altri gruppi della famiglia linguistica indoeu­

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ropea: analizzandole, è quindi molto più facile imbattersi in eccezioni, almeno apparenti, alle leggi fonetiche. Ascoli introdusse in Italia la linguistica storico-comparativa e coniò la parola “glottologia”, sul modello tedesco Sprackwissenschaft (cfr. par . 5.4.2); a lui si deve inoltre la fondazione della più longeva rivista di linguistica tuttora in corso di pubblicazione, Γ “Archivio glotto­ logico italiano” (il cui primo numero risale al 1873). I suoi studi sul consonantismo indoeuropeo pubblicati nel 1870, la cui importanza fu rapidamente riconosciuta, tanto da essere tradotti in tedesco due anni dopo, rappresentavano una di quelle grandi scoperte che avevano ispi­ rato ai neogrammatici la dottrina dell’ ineccepibilità delle leggi fone­ tiche (cfr. pa r . 5.5.1); poco più tardi, proprio all’ interno di uno scritto polemico contro i neogrammatici, asseriva di non parlare mai «né scrivendo, né insegnando, di eccezioni» (Ascoli, 1882, pp. 7-8, nota). Ciò che opponeva Ascoli ai neogrammatici era piuttosto la concezione generale della linguistica: polemizzava fortemente con la loro impo­ stazione “psicologistica”, anzi li accusava di voler travestire «con pa­ roioni psicologici» (ivi, p. 12) nozioni e risultati ben noti. Per Ascoli, infatti, la linguistica non era una scienza psicologica, ma fondamental­ mente una scienza etnologica: i neogrammatici, invece, trascuravano i «m otivi etnologici nella trasformazione del linguaggio» (ivi, p. 13). Tra questi motivi etnologici, Ascoli dava una particolare importanza al ‘sostrato’, cioè all’ influsso che la lingua precedente di una popolazione avrebbe esercitato su una nuova lingua da questa stessa popolazione acquisita: ad esempio, la pronuncia della u originaria latina come ù, in molti dialetti settentrionali italiani, sarebbe dovuta al fatto che, nelle aree in cui si parlano oggi questi dialetti, anticamente si parlava una lingua celtica («gallica»), in cui la vocale in questione era pronunciata in questo modo. Questa diversa visione della natura della linguistica si rifletteva anche nelle due diverse concezioni che Ascoli da un lato e i neogrammatici dall’altro avevano della lingua originaria indoeu­ ropea. Per il primo, essa costituiva l ’espressione di un’unità etnica e antropologica; per i secondi, invece, non si trattava che di un insieme di formule ricostruite per esporre in modo sintetico le corrispondenze tra le varie lingue apparentate. Potremmo etichettare la concezione ascoliana dell’ indoeuropeo come “realistica”, quella dei neogrammatici come “algebrica” : il dibattito su quale delle due sia la più adeguata è tuttora aperto. Schuchardt respingeva per principio l’assunto dell’ineccepibilità

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delle leggi fonetiche, comunque interpretate. In un saggio del 1885 il cui contenuto è molto chiaro fin dal titolo (“Sulle leggi fonetiche. Contro i neogrammatici”, ristampato in Schuchardt, 1928, pp. 51-87), insisteva invece sull’esistenza di mutamenti fonetici sporadici: « io non dirò “le leggi fonetiche hanno eccezioni”. M a se si dice: “non c e nessun muta­ mento fonetico sporadico”, allora mi esprimerò in maniera positiva: “ci sono mutamenti fonetici sporadici” » (ivi, pp. 79-80). L ’attribuire “leggi” al linguaggio significava rimanere ancorati a una concezione simile a quella di Schleicher, che i neogrammatici lo volessero o no: una concezione, cioè, del linguaggio come organismo naturale. Schu­ chardt (probabilmente sulla scia di Humboldt; cfr. PAR. 5.3.2) con­ cepisce il linguaggio come un fenomeno stretiamente individuale: ogni singolo individuo parla un proprio dialetto, diverso da quello di qualunque altro, un ‘idioletto’, come si dirà più tardi (cfr. ivi, p. 59). D i conseguenza, qualunque tentativo di ricercare “leggi” linguistiche è destinato al fallimento. Possiamo qui notare come Schuchardt parta da premesse apparentemente analoghe a quelle del neogrammatico Paul (cfr. pa r . 5.5.2), per arrivare però a conclusioni opposte: entrambi infatti sostengono che la linguistica è una “scienza dello spirito” (Geisteswissenschaft) e che il linguaggio è un fenomeno individuale. Questa apparente contraddizione si spiega sulla base dei differenti valori che la parola Geist ha in tedesco: il primo valore è quello di “mente”, il se­ condo quello di “insieme delle attività non materiali” (quindi, ‘spirito’, nella terminologia filosofica italiana), tanto dei singoli che dei popoli. Quando Paul usa il termine riferendosi al comportamento linguistico dell’individuo, lo intende nel primo senso: questo comportamento ha una base psicologica, e la psicologia è una scienza “ basata su leggi”. L ’interesse di Schuchardt, invece, va tutto verso il secondo dei due valori della parola Geist, concentrandosi in particolare sul contributo dei singoli individui allo sviluppo storico delle lingue; il concetto di mente nel senso di entità psicologica non ha per lui particolare impor­ tanza. Gilliéron introdusse un’innovazione fondamentale negli studi sui dialetti: infatti, mentre in precedenza questi si basavano sostanzial­ mente su materiali scritti, egli ricorse al metodo dell’ intervista diretta dei parlanti dialettofoni. Questo nuovo metodo permetteva la raccolta di un insieme di dati molto più vasto, perché molti sono i dialetti che non hanno una tradizione scritta; inoltre, le fonti scritte sono spesso meno attendibili degli informatori nativi, perché la grafia di un dialetto

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può renderne i suoni in modo approssimativo, oppure perché il dialetto può essere cambiato attraverso il tempo rispetto alla testimonianza scritta utilizzata ecc. La nuova metodologia introdotta da Gilliéron si realizzò nell’Atlas linguistique de la France (“Atlante linguistico della Francia”, a l f ), pubblicato nel 1912, al cui modello si ispirarono altri at­ lanti linguistici, tra i quali ricordiamo i due relativi all’ Italia: I’a is (.At­ lante linguistico ed etnografico d ell’Italia e della Svizzera meridionale·, Jaberg, Jud, 1928-40) e Ta l i (Atlante linguistico italiano, la cui pubblica­ zione è ancora in corso). Un atlante linguistico è costituito da carte geo­ grafiche di un determinato territorio, una per ogni parola o espressione indagata: sulla carta geografica, si trovano le forme che essa ha assunto nelle varie località in cui sono state effettuate le interviste. Per quanto i riguarda i territori di lingua romanza, la parola di cui si esaminano i vari esiti dialettali è la forma originaria latina; in certi casi, si constata che questa forma è scomparsa, sostituita da un’altra. Questa sostituzione può essere un fenomeno di prestito (il dialetto in questione può cioè aver sostituito la parola di origine latina con una di altra provenienza), ma in altri casi entrano in gioco altri fattori, sui quali soprattutto si fermò l’attenzione di Gilliéron. L ’esempio forse più famoso dell’azione di tali fattori è quello delle parole per ‘gallo’ e per ‘gatto’ nei dialetti del sud-ovest della Francia: I’a l f mostra che, nella quasi totalità di questi dialetti, la parola per ‘gallo’ non deriva dal latinogallu(m ), ma da quelle per ‘fagiano’ o ‘vicario’, a seconda delle località. Questa sostituzione è un tipico caso in cui, nei termini di Gilliéron, i parlanti sono ricorsi a un «mezzo terapeutico» per sanare una «om onimia intollerabile» che si era prodotta nei loro dialetti. Infatti l ’evoluzione fonetica ha prima fatto cadere la desinenza latina -um, poi ha trasformato il gruppo conso­ nantico finale II in t: quindi, da un originario latino gallu(m ), si è passati prima a gali, poi a gat. A questo punto, la parola per ‘gallo’ è entrata in «collisione omonimica» con la parola per ‘gatto’, derivata da un origi­ nario cattu(m), poi d iven tato ci. Questa collisione omonimica sarebbe stata pericolosa: per risolverla, ci si decise a fare del gallo «ambiziosa­ mente un ‘fagiano’ » o, «scherzosamente, un ‘vicario’ » (Gilliéron, Roques, 1912, trad. it. p. 304). Fenomeni come questo spinsero Gilliéron a parlare di «bancarotta dell’etimologia fonetica» (Gilliéron, 1919), ossia dell’etimologia condotta con i metodi dei neogrammatici: nella sua prospettiva, la storia delle parole è determinata da fattori diversi e più complessi rispetto alla semplice evoluzione fonetica priva di ecce­ zioni prevista dalla dottrina neogrammatica (o, meglio, dal modo in cui

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egli concepiva questa dottrina). Le idee di Gilliéron in merito all’etimo­ logia sono abitualmente riassunte nello slogan (non di suo conio) “ogni parola ha la sua storia”. In realtà, Gilliéron e i neogrammatici avevano obiettivi diversi: il primo voleva ricostruire la storia di singole parole, i secondi andavano alla ricerca di regolarità nell’evoluzione fonetica. D i fatto, tutti i lin­ guisti che si sono occupati di cambiamenti linguistici, dai neogram­ matici in poi, hanno utilizzato le leggi fonetiche come uno strumento essenziale, riconoscendo al tempo stesso che esse non spiegano tutti i fenomeni di cambiamento linguistico. Com e osservarono vari linguisti tra Ottocento e Novecento, se non esistessero le leggi fonetiche, intese come corrispondenze fonetiche regolari relative a una determinata fase cronologica di una lingua, non potremmo dire se una certa parola è un prestito oppure deriva dall’evoluzione spontanea della lingua (o del dialetto) in questione. Abbiamo già citato il caso dell’ inglese pay, la cui consonante iniziale è diversa da quella difish in quanto la prima delle due parole è un prestito, mentre l’altra non lo è. Consideriamo ora le due parole italiane pieve e plebe, che hanno in italiano un signifi­ cato diverso, ma hanno la stessa origine: infatti entrambe derivano dal latino plebe(m ) ‘popolo’, ma, mentre la derivazione di pieve è conforme a tutte le leggi fonetiche che caratterizzano il passaggio dal latino all’ i­ taliano, plebe, al contrario, è stata presa a prestito dal latino nel DueTrecento. D el resto, gli stessi avversari dei neogrammatici non pote­ vano evitare di richiamarsi alle leggi fonetiche. A d esempio, Gilliéron e Roques (1912, trad. it. p. 304) osservavano che tanto gallus (che dà gai) quanto pullus (la parola all’origine di ‘gallo’ in altri dialetti del Sud della Francia, che diventaput) «cadono sotto i colpi della stessa legge fonetica». G li effetti della legge fonetica, combinati con quelli della «om onim ia intollerabile», hanno poi causato la sostituzione di gat con le parole derivate da quelle per ‘fagiano’ o ‘vicario’. Perfino Schuchardt, in uno dei suoi ultimi lavori, riconosceva che le leggi fone­ tiche sono «le regole fondamentali del lavoro dell’etim ologo», anche se, aggiungeva subito dopo, «n on ci dischiudono nulla sull’essenza del linguaggio, non sono le leggi intrinseche del linguaggio» (Schu­ chardt, 1928, p. 205). Queste parole di Schuchardt illustrano bene la natura reale della disputa tra i neogrammatici e i loro avversari: essa non riguardava le leggi fonetiche in sé stesse, ma la concezione gene­ rale della linguistica, “naturalistica” per i primi, “storico-sociale” per i secondi.

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5.6. In sintesi L ’ Ottocento è stato spesso definito il secolo della linguistica storico­ comparativa. Questa definizione, se presa alla lettera, è un po’ limita­ tiva, ma ha una sua giustificazione. La limitazione sta nel fatto che du­ rante questo secolo sono state affrontate anche tematiche di linguistica generale, come la tipologia linguistica (cfr. par . 5.3.3). D ’altra parte, è innegabile che la linguistica storico-comparativa sia un prodotto dell’Ottocento e che si sia sviluppata mediante un lavoro di ricerca pro­ gressivo: i risultati dei primi ricercatori sono stati assunti come base da quelli successivi, che li hanno rivisti, ma rimanendo all’ interno di un quadro di problemi sostanzialmente condiviso. Questo percorso ha inizio con l ’individuazione di un nuovo e più affidabile metodo per in­ dividuare le parentele tra lingue: la comparazione non tra parole, ma tra morfemi e suoni, abbozzato da Schlegel (cfr. par . 5.2.1) e sistemati­ camente applicato da Bopp, Grimm e Rask. Mediante questo metodo si è arrivati a dimostrare in modo sicuro la parentela del sanscrito con le altre lingue indoeuropee e a individuare i diversi gruppi linguistici all’interno della famiglia indoeuropea (cfr. PAR. 5.2.2). Intorno alla metà del secolo, ad opera soprattutto di Schleicher, l’ immagine di questa fa­ miglia si chiarisce definitivamente: da una lingua originaria ricostruita, l ’ indoeuropeo, derivano i vari gruppi di lingue storicamente attestate (cfr. par . 5.4.1). N ell’ultimo quarto del secolo, i neogrammatici perfe­ zionano questa immagine, togliendo tra l’altro al sanscrito il ruolo di testimone privilegiato della lingua originaria ricostruita (cfr. par . 5.5.2). Le concezioni teoriche dei neogrammatici non trovano un consenso unanime, in particolare per quanto riguarda la nozione di legge fonetica, ma, come si è visto nel paragrafo 5.5.3, le leggi fonetiche sono di fatto un punto di riferimento imprescindibile anche per gli avversari dichiarati di questa scuola linguistica. Il contrasto tra i neogrammatici e i loro av­ versari, come quello tra Schleicher da un lato e Whitney dall’altro (cfr. PAR. 5.4.3), non riguarda la descrizione dei rapporti di parentela tra le varie lingue indoeuropee, ma la concezione del linguaggio e della lin­ guistica. Si tratta cioè di un problema teorico generale, che verrà lunga­ mente dibattuto nel Novecento.

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La prima metà del Novecento

6.1. Quadro introduttivo Se l’Ottocento è spesso considerato il secolo della linguistica storico­ comparativa, il Novecento è altrettanto spesso visto come quello della linguistica generale: due secoli, quindi, « l ’un contro l’altro armato», per dirla col Manzoni. Questa immagine è riduttiva, perché la linguistica sto­ rico-comparativa è stata largamente praticata anche nel Novecento, e lo è tuttora. In particolare, nei primi decenni del secolo furono individuate, grazie alla scoperta archeologica di nuovi documenti, due lingue indo­ europee in precedenza sconosciute: il tocario e Γ ittita. Le testimonianze della prima delle due, risalenti al i millennio d.C., furono rinvenute nell’attuale Turkestan cinese, quelle della seconda, databili intorno alla metà del II millennio a.C., e quindi tra le più antiche della famiglia in­ doeuropea, nell’Anatolia centrale (circa 300 chilometri a est di Ankara); dato che, in questa stessa area geografica e in quelle adiacenti, furono poi trovati documenti in altre lingue imparentate con Γ ittita, si individuò un ramo della famiglia indoeuropea detto appunto anatolico (il tocario costituisce invece ramo a sé). Queste importanti scoperte non modifi­ cavano però il quadro generale della linguistica storico-comparativa in­ doeuropea che si era formato durante l ’Ottocento: come osservava uno dei più grandi studiosi di questa disciplina, il francese Antoine Meillet (1866-1936), esse non aggiungevano che «dettagli o conferme - preziosi gli uni e le altre - alle teorie già stabilite» (Meillet, 1937, p. 479). Se quindi l’ impianto della linguistica storico-comparativa indoeu­ ropea era sostanzialmente già stabilito, novità sul piano teorico non po­ tevano nascere che estendendo gli studi sul linguaggio ad altri campi: uno di questi poteva essere l’analisi di lingue non indoeuropee; un altro, l’elaborazione di metodi e prospettive nuove per l’analisi dei fatti lin­ guistici. Molto schematicamente, possiamo dire che, nella prima metà

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del Novecento, la prima strada fu quella scelta dai linguisti statunitensi, mentre quelli europei scelsero piuttosto la seconda: tra questi, lo sviz­ zero Ferdinand de Saussure (1857-1913), che è normalmente considerato il “padre” della linguistica contemporanea. Saussure, il 4 gennaio 1894, scriveva a Meillet, già suo allievo: «vedo sempre più Γ immensità del lavoro che sarebbe necessario per mostrare al linguista quello che fa » (Benveniste, 1964, p. 95). Il lavoro a cui accennava Saussure consisteva nel chiarire il valore esatto dei termini e delle nozioni che il linguista normalmente impiega, e che la linguistica storico-comparativa dava in un certo senso per scontati; come scriveva in un appunto risalente alla fine dell’ Ottocento, rimasto inedito fino a pochi anni fa, «le espressioni come categoria grammaticale, distinzione grammaticale,form a gramma­ ticale, unità, diversità di form e grammaticali, sono altrettanti termini correnti a cui noi siamo costretti a negare qualunque senso preciso. Che cos e in effetti una entità grammaticale?» (Saussure, 2ooib, trad. it. p. 54). Delle risposte che Saussure diede, o tentò di dare, a questi e altri problemi, ci occuperemo in dettaglio nella prossima sezione; qui accenneremo a un linguista che affrontò problemi analoghi prima di lui, per mostrare come questi tentativi di chiarificazione metodologica ri­ spondessero a un’esigenza diffusa, tra la fine del x i x secolo e l’ inizio del successivo. Questo linguista è Jan Baudouin de Courtenay (1845-1929), polacco di antica origine francese; a lui e ad alcuni dei suoi allievi, noti come “Scuola di Kazan’ ”, dal nome dell’ Università in cui insegnò tra il 1875 e il 1883, si devono alcune importanti osservazioni che furono riprese dai linguisti successivi, spesso trascurandone l’origine, volutamente o no. Tra queste, ricordiamo la distinzione tra ‘dinamica’ e ‘statica’ dei suoni: la prima «studia le leggi e le condizioni di sviluppo dei suoni nel tempo», la seconda esamina i suoni da un lato come fatto puramente fi­ sico, dall’altro in base « al loro ruolo nel meccanismo della lingua » (cfr. D i Salvo, 1975, p. 25). Questa distinzione tra statico e dinamico prelude a quella tra ‘sincronico’ e ‘diacronico’ che Saussure traccerà un quarto di secolo più tardi (cfr. p a r . Ó.2.2.2). Nello studio dei suoni dal punto di vista statico, i linguisti di Kazan’ distinguevano poi un aspetto ‘antropo­ fonico’ e uno ‘fonetico’ : il primo riguarda le proprietà fisiche dei suoni, il secondo la capacità dei suoni di modificare i significati. In altre parole, due suoni linguistici possono essere diversi dal punto di vista fisico, ma questa differenza in alcuni casi produce una differenza di significato, in altri no (per qualche esempio, cfr. p a r . 6.3.2.2). Baudouin suggeriva di

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utilizzare denominazioni diverse per i due tipi di fenomeni: nel caso di una differenza puramente antropofonica, si poteva continuare a parlare di suoni; in quello di una differenza fonetica, era meglio parlare di ‘fo­ nemi’ (cfr. D i Salvo, 1975, p. 35). Il termine fonema*, introdotto negli anni Settanta dell’Ottocento da uno studioso francese per indicare il suono del linguaggio (in quanto diverso da un suono musicale ecc.), ve­ niva quindi ad assumere un valore tecnico (“suono distintivo di signifi­ cato”) diventato di uso comune in linguistica a partire dalla Scuola di Praga (cfr. par . 6.3.2.2). I membri di tale scuola chiameranno ‘fonetici’ i fenomeni che i linguisti di Kazan’ chiamavano antropofonici, mentre battezzeranno ‘fonologici’ quelli del secondo tipo, e questa termino­ logia è quella che si è imposta; le analisi delle due scuole, tuttavia, sono sostanzialmente analoghe. Baudouin e i suoi allievi avevano pubblicato la maggior parte dei loro lavori in russo o in polacco, e quindi il loro in­ flusso sui linguisti occidentali fu ridotto. Pochi anni dopo, però, idee si­ mili furono portate avanti da Saussure, insieme ad altre ugualmente de­ stinate ad avere grande impatto, come quella della lingua come sistema. In questo capitolo presenteremo dapprima gli elementi fondamentali del pensiero linguistico di Saussure ( par . 6.2); nella sezione successiva ( par . 6.3) forniremo una panoramica di alcune correnti della cosiddetta “linguistica strutturale”, da quelle più direttamente influenzate da tale pensiero ad altre che ne sono sostanzialmente autonome, come la teoria sintattica del francese Lucien Tesnière. Nel paragrafo 6.4, parleremo in­ vece della linguistica statunitense della prima metà del Novecento, che, pur definendosi anch’essa strutturale, è abbastanza distante da quella eu­ ropea sia per il senso dato a questo aggettivo che per gli obiettivi che si propone e i metodi che utilizza.

6 .1. Ferdinand de Saussure 6.2.1. Cenni sulla vita e le opere Ferdinand de Saussure compì, dal 1876 al 1880, i suoi studi di linguistica a Lipsia, che era in quegli anni la “culla” del movimento neogramma­ tico; inoltre, contribuì, con una fondamentale “Memoria sul sistema pri­ mitivo delle vocali nelle lingue indoeuropee” (Saussure, 1879), a quella grande stagione di scoperte nell’ambito della linguistica storico-com­ parativa che fu alla base della dottrina neogrammatica (cfr. PAR. 5.5.1).

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Conseguito il dottorato con una tesi dedicata ad alcuni aspetti della sintassi del sanscrito, nel 1881 si trasferì a Parigi, dove ottenne un posto di insegnamento alla École pratique des hautes études, succedendo a M i­ chel Bréal. Nel 1891, ritornò nella sua città natale, Ginevra, chiamato a occupare la cattedra di Sanscrito e lingue indoeuropee della locale Uni­ versità. Nel corso degli anni, le sue pubblicazioni si diradarono consi­ derevolmente: Tunico volume che pubblicò in vita rimane il già citato studio sul vocalismo indoeuropeo. Questo inaridimento della sua pro­ duzione scientifica era dovuto al fatto che, come abbiamo visto nel para­ grafo precedente, Saussure si interrogava in modo sempre più critico sui fondamenti della linguistica, senza però arrivare a soluzioni che lo sod­ disfacessero completamente. Per questo, lasciò inedite le sue riflessioni su questi problemi, che sono state pubblicate solo di recente (Saussure, 1994; 1995; zoo ία ; 200ib). Nei primi anni del Novecento, Saussure ebbe però l’occasione di presentarle (anche se, probabilmente, le considerava ancora provvisorie) durante tre corsi di “Linguistica generale e storia e comparazione delle lingue indoeuropee” di cui fu incaricato negli anni accademici 1906-07,1908-09 e 1910-11, dei quali non pubblicò una ver­ sione scritta. Poco dopo la sua morte, due suoi antichi allievi, che non avevano però assistito ai corsi in questione, Charles Bally (1865-1947) e Albert Sechehaye (1870-1946), basandosi sugli appunti presi dai (pochi) studenti che li avevano seguiti, elaborarono un volume intitolato Corso d i linguistica generale, che uscì nel 1916 e la cui versione definitiva fu pubblicata come Saussure (1922). Questo volume segnò l’ inizio di una nuova epoca nella linguistica, influenzando profondamente varie gene­ razioni di studiosi, come vedremo nel seguito di questo capitolo; era difficile dire, però, quanto di esso rappresentasse l ’autentico pensiero di Saussure e quanto, invece, fosse opera di Bally e Sechehaye (che erano comunque anch’essi linguisti di alto livello). Alcuni decenni più tardi, si avviò un’opera di recupero delle fonti originali del testo. Un altro lin­ guista ginevrino, Robert Godei (1902-1984), rintracciò i quaderni di ap­ punti su cui si erano basati Bally e Sechehaye e indicò, per ciascuno dei capitoli e dei paragrafi del volume da loro edito, gli appunti della lezione, o delle lezioni, corrispondenti (Godei, 1957). Questi appunti furono poi pubblicati per esteso da Rudolf Engler (1930-2003), in un volume (Engler, 1967-74) in cui essi sono affiancati al testo di Saussure (1922), in modo tale che è possibile verificare quali passi di questo corrispon­ dono effettivamente a quanto presentato da Saussure nelle sue lezioni, e quanto invece è frutto della rielaborazione degli editori. In quegli stessi

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anni, il linguista italiano Tullio De Mauro (1932-2017) corredava la sua traduzione di Saussure (1922) con un monumentale commento, che si basava ampiamente sulle fonti individuate da Godei e pubblicate da En­ gler. Il commento di D e Mauro permette di interpretare molto più cor­ rettamente il pensiero di Saussure rispetto a quanto era stato possibile fino ad allora ed è diventato il punto di riferimento fondamentale per chiunque voglia studiare l’opera del linguista ginevrino, come dimostra il fatto che, dal 1972, accompagna anche le riedizioni del testo originale francese. Anche la nostra presentazione del pensiero linguistico di Saus­ sure è largamente debitrice del lavoro di De Mauro, al quale rimandiamo direttamente tutti gli interessati a ulteriori approfondimenti.

6.2.2. Le dicotomie saussuriane 6 .2 .2 .I.

Presentazione

La teoria linguistica di Saussure è spesso riassunta in quattro “dicotomie”, cioè opposizioni binarie tra concetti: 1. langue vs parole; 2. ‘sincronia’ vs ‘diacronia’ ; 3. ‘significante’ vs ‘significato’ ; 4. ‘rapporti sintagmatici’ vs ‘rapporti associativi’. La prima dicotomia (che si lascia abitualmente in francese per mantenerne il valore tecnico) oppone il lato sociale del linguaggio (ilangue, ‘lingua’ ) a quello individuale [parole; cfr. Saussure, 1922, trad. it. pp. parole corrisponde all’italiano ‘parola’ nel senso che il termine ha in locuzioni come ‘il dono della parola’, ‘perdere la pa­ rola’, ‘prendere la parola’ ecc. «Sincronia e diacronia designeranno ri­ spettivamente uno stato di lingua e una fase di evoluzione» (ivi, p. 100). Lo stato di lingua può essere quello attuale, ma anche quello di un altro momento storico: l’italiano del Trecento e l ’italiano di oggi sono, ad esempio, due diverse fasi sincroniche; i mutamenti intervenuti tra Luna e l’altra sono invece parte della diacronia di questa lingua. Significante e significato sono quelle che Saussure (ivi, pp. 84-5) chiama le «due facce» del segno linguistico, ossia, rispettivamente, «u n ’immagine acu­ stica» e «un concetto». Saussure afferma che il « il legame che unisce significante e significato è arbitrario » : si tratta della cosiddetta “dottrina dell’arbitrarietà del segno” che ha un ruolo centrale nel suo pensiero, e che ha dato origine a un’ infinità di discussioni presso gli interpreti. L ’opposizione tra rapporti sintagmatici e rapporti associativi (più tardi detti ‘paradigmatici’ ) può essere esemplificata tramite la parola “inse­

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gnamento”: la combinazione tra il tema insegna- e il suffisso -mento è un caso di rapporto sintagmatico, cioè di combinazione tra due segni; l ’as­ sociazione, invece, tra ‘insegnamento’ e ‘apprendimento’, ‘istruzione’, ‘educazione’ ecc., è un caso di rapporto associativo, dove ognuna delle parole può essere scelta invece dell’altra in un determinato contesto sin­ tagmatico: ad esempio, ‘l ’insegnamento superiore’ vs ‘l ’istruzione supe­ riore’ (cfr. ivi, pp. 149-53). 6.2.2.2. Langue e parole, sincronia e diacronia Questa nostra presentazione delle dicotomie saussuriane, basata sul testo edito da Bally e Sechehaye, non è sbagliata, ma può dare l ’impressione di una dottrina, in una certa misura, dogmatica, in quanto l’esigenza as­ soluta di queste opposizioni non appare particolarmente motivata. In realtà, queste dicotomie sono legate l ’una aH’altra, e hanno il loro fonda­ mento nello sforzo di Saussure di rispondere alle sue domande metodologiche fondamentali (cfr. par . 6.1): che cose un’entità linguistica? In che cosa consiste il lavoro del linguista? Che cosa ci permette di dire, ad esempio, che il latino calidum e il francese chaud sono la stessa cosa, cioè, come dice Saussure (1922, trad. it. p. 218), che formano una «identità diacronica»? Non basta dire che i suoni latini sono diventati i corri­ spondenti suoni francesi per via di mutamenti fonetici regolari, descritti dalle leggi fonetiche, perché noi riconosciamo l ’effetto di queste leggi solo in virtù del fatto che entrambe le parole significano ‘caldo’. Così però il problema si sposta, ma non si risolve: su che cosa si basa questa identità? La risposta data da Saussure è complessa, e non la si ricava imme­ diatamente dal testo edito, a causa anche della disposizione degli ar­ gomenti operata dagli editori, che non segue esattamente il percorso concettuale seguito dal linguista ginevrino. Osserviamo anzitutto che il problema dell’identità non si pone soltanto per calidum e chaud, o in generale quando si parla di una parola derivata dall’altra attraverso il tempo, ma anche per qualunque espressione utilizzata più volte a pochi minuti, o addirittura a pochi secondi, di distanza: «è tanto interessante sapere come mai Messieurs! ripetuto più volte di seguito in un discorso è identico a se stesso, [...] quanto sapere perché chaud è identico a ca­ lidum . Il secondo problema non è infatti che un prolungamento e una complicazione del prim o» (ivi, p. 219). Il primo problema, cioè quello che Saussure chiama della «identità sincronica», si risolve assumendo

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che gli appartenenti a una stessa comunità linguistica condividano un codice: questo codice è ciò che Saussure chiama langue. Le unità che costituiscono la langue sono poi realizzate diversamente dai singoli par­ lanti, anzi, dallo stesso parlante nelle varie occasioni: l ’insieme, infinito, di queste diverse realizzazioni è la parole. Il problema che si poneva Saussure è dunque lo stesso di Paul, che affermava che «esistono tante lingue quanti individui» (cfr. par . 5.5.2), ma la soluzione data dai due studiosi è diversa. Infatti, mentre il neogrammatico tedesco risolveva il problema della comunicazione assumendo che ciascun individuo ri­ costruisce nella mente del suo interlocutore le stesse entità che ci sono nella propria, per Saussure la comunicazione è possibile in quanto tutti gli appartenenti a una stessa comunità linguistica dispongono di un repertorio comune, la langue. Risolto in questo modo il problema dell’identità sincronica, Saussure può risolvere anche quello dell’iden­ tità diacronica: « l ’identità diacronica di due parole differenti come ca­ lidum e chaud significa semplicemente che si è passati dall’una all’altra attraverso una serie di identità sincroniche nella parole, senza che mai il legame che le univa si rompesse a causa delle trasformazioni fonetiche successive» (ibid.). L ’ individuazione delle identità diacroniche presup­ pone dunque quella delle identità sincroniche, e questo motiva la di­ stinzione tra sincronia e diacronia; a loro volta, le identità sincroniche possono essere riconosciute solo distinguendo la langue dalla parole. La langue appartiene dunque alla sincronia: « il linguista [...] se si colloca nella prospettiva diacronica, non percepisce più la langue, ma soltanto una serie di avvenimenti che la modificano» (ivi, p. 109). Questa con­ clusione, a cui Saussure arriva non per una scelta aprioristica, ma, come si è visto, in base a un percorso di riflessione sul modo di individuare le identità linguistiche, ha come conseguenza un capovolgimento del punto di vista adottato dalla linguistica storico-comparativa prece­ dente. Paul (1920, pp. 20-2), ad esempio, sosteneva che l ’unico modo per studiare fruttuosamente una lingua era esaminarla dal punto di vista storico. Saussure definisce la diacronia come «una serie di avvenimenti», in­ dipendenti l’uno dall’altro, mentre dice che la sincronia riguarda sempre il «rapporto tra elementi simultanei» (Saussure, 1922, trad. it. p. no). A d esempio, in tedesco la parola Gaste (‘ospiti’) non significa il plurale per sé stessa, ma in quanto si oppone a Gasi (‘ospite’ ). Questo dal punto di vista sincronico; dal punto di vista diacronico, invece, non si ha op­ posizione, ma sostituzione di forme: una precedente forma gusti è stata

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sostituita da Gàste (ivi, p. 105). La sincronia è quindi un sistema; la dia­ cronia è invece un insieme di cambiamenti irrelati l ’uno con l ’altro, che «si producono al di fuori di ogni intenzione» (ibid.). Possiamo quindi sintetizzare il pensiero di Saussure in merito alla dicotomia tra sincronia e diacronia dicendo che i fatti sincronici sono sistematici e significativi, mentre quelli diacronici sono isolati e ateleologici (= ‘privi di scopo’ ). Alcune scuole linguistiche successive a Saussure, prima fra tutte quella di Praga, criticheranno il modo così netto in cui tale opposizione è for­ mulata e tenteranno di superarla (cfr. par . 6.3.z.i). 6.2.2.S. Significante e significato: Γ «arbitrarietà del segno» La langue è un sistema: questo significa, per Saussure, che ciascuno degli elementi che la costituiscono non è individuato dalle proprie caratteri­ stiche intrinseche, ma dalla sua differenza dagli altri. Gàste ha il valore di plurale perché si oppone a Gasi, e viceversa la seconda delle due forme ha il valore di singolare perché si oppone alla prima: il valore di tutte le entità linguistiche è determinato solo dal loro rapporto con gli elementi del sistema linguistico a cui appartengono. ‘Valore’ è un concetto che ha un ruolo chiave in Saussure: su di esso si basa anche l ’analisi del rapporto tra significante e significato, cioè la dottrina dell’arbitrarietà del segno linguistico. Questa dottrina non si limita ad asserire che non c ’è un le­ game naturale tra l’insieme di suoni che formano la parola ‘cavallo’ e l ’equino in carne e ossa: se così fosse, Saussure non avrebbe detto niente di più rispetto a quanto già aveva detto Aristotele. Per il linguista sviz­ zero, invece, arbitrarietà non significa solo questo, ma anche e soprat­ tutto che ogni entità linguistica è definita unicamente in base a ciò che non è, dalle sue differenze rispetto alle altre: «arbitrario e differenziale sono due qualità correlative» (Saussure, 1922, trad. it. p. 143); «nella lingua non vi sono se non differenze [...] differenze senza term ini positivi» (ivi, p. 145). Ad esempio, in francese la parola mouton ‘montone’ può indicare tanto l ’animale vivo che l’animale cucinato; in inglese, invece, mutton indica solo l ’animale cucinato, mentre l ’animale vivo è sheep: «la differenza di valore tra sheep e mouton dipende dal fatto che il primo ha accanto a sé un secondo termine, ciò che non è il caso della parola francese» (ivi, pp. 140-1). Le lingue non sono insiemi di etichette con­ venzionali, diverse solo per il suono, che indicano una realtà già data: sono invece insiemi di valori determinati dal loro rapporto reciproco, che si riferiscono alla realtà in modi diversi. La stessa realtà, ad esempio

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un paio di gambe, può essere “significata” in modo diverso: da un plurale in italiano, da un duale in sanscrito (o in greco antico). I significati sono diversi solo se sono espressi da significanti diversi. Allo stesso modo, i significanti sono distinti solo se distinguono dei significati. In francese, la r si pronuncia di solito come uvularizzata (“arrotata”, nel linguaggio comune): ma la si può benissimo pronunciare anche apicalizzata, cioè “all’ italiana”, perché queste due differenti pronunce non producono cambiamenti di significato, e quindi «la lingua non ne è sconvolta» (ivi, p. 144). Come dice ancora Saussure (ivi, p. 137), il rapporto tra le due facce del segno linguistico, il significante e il significato, è «parago­ nabile a un foglio di carta», quindi non si può modificare un lato senza modificare al tempo stesso l ’altro; « questa combinazione produce una form a, non una sostanza». La concezione saussuriana del segno si collega strettamente alla no­ zione di langue e all’opposizione tra sincronia e diacronia. Dato che i segni linguistici non hanno alcun aggancio stabile con la realtà, l ’unica garanzia della loro stabilità sta nel fatto che appartengono a un sistema condiviso da un gruppo sociale, cioè alla langue. M a come tutte le isti­ tuzioni sociali, anche la langue è storicamente condizionata: i sistemi di segni possono dunque cambiare nel corso del tempo, come ci ha mo­ strato la necessità di distinguere sincronia e diacronia. Questo condizio­ namento storico e sociale è dunque il motivo fondamentale dell’arbitra­ rietà del segno. Ó.2.2.4. Rapporti sintagmatici e rapporti associativi Secondo Saussure (1922, trad. it. pp. 162-5), l ’opposizione tra questi due tipi di rapporti è l’unica «divisione razionale» della grammatica, e su­ pera la tradizionale distinzione tra morfologia e sintassi: tanto i feno­ meni sintattici quanto quelli morfologici sono esempi di rapporti sin­ tagmatici. Come si colloca questa dicotomia relativamente a quella tra langue e parole: Secondo Saussure, i rapporti associativi appartengono certamente alla langue, mentre non è chiara la sua opinione in merito ai rapporti sintagmatici, se cioè appartengano alla langue oppure alla p a ­ role. In Saussure (ivi, p. 151) leggiamo infatti che la frase «appartiene alla parole, non alla langue» . Poche righe più avanti, però, si legge che «nel dominio del sintagma non c’è limite netto tra il fatto di langue, contrassegno dell’uso collettivo, e il fatto di parole, che dipende dalla libertà in­ dividuale». Secondo De Mauro, «le frasi e i sintagmi appartengono alla

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parole in ciò che hanno di dipendente dalla volontà individuale, e quindi non appartengono in tutta la loro realtà alla parole». Questa interpreta­ zione è probabilmente corretta per quanto riguarda l’autentico pensiero di Saussure, ma gli studiosi a lui immediatamente successivi, non avendo a disposizione le fonti manoscritte del volume del 19 11, si attennero a una lettura letterale di quanto vi era scritto, e ritennero quindi che il linguista ginevrino considerasse la frase non come un fatto di langue, ma tipicamente di parole. Questa sarà l ’interpretazione adottata anche da Chomsky, negli anni Sessanta del Novecento, che le contrapporrà la sua concezione della frase come parte della competenza’ del parlante (cfr. p a r . 7.2.3.3).

6.3. Le scuole dello strutturalismo europeo 6.3.1. L ’eredità di Saussure Le idee esposte da Saussure (1922) non riscossero consenso unanime: alcuni studiosi, soprattutto tra gli appartenenti alla generazione del lin­ guista ginevrino, si opposero alla nettezza delle dicotomie langue/parole e sincronia/diacronia. Ad esempio, Schuchardt (1917) criticava il con­ cetto di langue come astratto, in quanto, a suo parere, l ’unica autentica realtà del linguaggio sta nel comportamento individuale. Per quanto riguardava poi l’opposizione tra sincronia e diacronia, obiettava che « la stasi e il movimento [...] non sono in contraddizione, sia in gene­ rale che nel caso del linguaggio. Solo il movimento è reale, solo la stasi è percepibile». Anche vari altri linguisti espressero il loro scetticismo rispetto a queste due dicotomie saussuriane, con motivazioni diverse. Meno reazioni, invece, suscitarono la dicotomia significante/signifìcato e la nozione di arbitrarietà del segno, forse perché quest'ultima fu impli­ citamente identificata con la nozione tradizionale di convenzionalità e non ne fu dunque colta la portata innovativa. Il primo intervento critico sulla questione è quello di Benveniste (1966, pp. 49-55; il saggio risale al 1939), un linguista che non era un avversario, bensì un seguace di Saus­ sure, e desiderava approfondirne e perfezionarne la dottrina. Benveniste rilevava che l ’affermazione di Saussure (1922, trad. it. p. 85) secondo cui « il legame tra significante e significato è arbitrario» è sviante, in quanto fa entrare surrettiziamente in gioco un terzo elemento, la “re­ altà” : è infatti il rapporto del significato con la realtà a essere arbitrario,

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mentre il rapporto del significato con il significante, sostiene Benve­ niste, è necessario. Infatti il significato è tale solo in virtù del significante, e viceversa il significante è tale solo in virtù del significato. Del resto, i segni linguistici non sono che valori determinati dal sistema, cioè rela­ tivi gli uni agli altri: ora, si domanda Benveniste, questa non è forse una prova della loro necessità? Di fatto, ‘arbitrario’ significa in Saussure sia “non fondato nella realtà”, sia “differenziale”, cioè legato a un determi­ nato stato di lingua (cfr. PAR. 6.2.2.3): Benveniste rileva entrambi questi aspetti, anche se chiama il secondo ‘necessità’, per indicare il fatto che il valore del segno è determinato all’ interno di un sistema. La sua analisi del segno linguistico non è dunque incompatibile con quella di Saus­ sure, una volta chiarito questo equivoco terminologico; anzi, possiamo senz’altro dire che il saggio di Benveniste contribuì a eliminare la confu­ sione tra ‘arbitrario’ nel nuovo senso saussuriano e ‘convenzionale’ nel senso più tradizionale. Qui non ci occuperemo ulteriormente delle critiche rivolte a Saus­ sure, ma ci dedicheremo solo a quei linguisti che si ispirarono alle sue concezioni, sviluppandole e spesso anche modificandole. Tra questi, ri­ cordiamo innanzitutto i componenti della Scuola di Ginevra, formata, oltre che da Bally e Sechehaye, da studiosi come il già citato Godei (cfr. par . 6.2.1) e Henri Frei (1899-1980). Il pensiero di Bally e di Sechehaye si sviluppò lungo direzioni abbastanza diverse da quelle tracciate da Saussure, perché entrambi si erano formati prima che il maestro pre­ sentasse le sue idee di linguistica generale nelle lezioni da loro edite (ma, ricordiamolo, non frequentate). In un articolo dedicato alla pre­ sentazione della Scuola di Ginevra, Sechehaye (1927) sosteneva che lui e Saussure avevano in comune « il gusto delle grandi astrazioni» (ivi, p. 234), mentre Baby era «affezionato alla realtà del linguaggio vivo» (ivi, p. 240). L ’interesse di Baby per il linguaggio vivo si concre­ tizza nella sua distinzione tra aspetto ‘intellettuale’ e aspetto ‘affettivo’ del linguaggio. Ognuno dei due aspetti può, a seconda dei casi, pre­ valere sull’altro, ma anche negli enunciati apparentemente più neutri, come ‘fa freddo’, ‘fa caldo’, o ‘piove’, c ’è sempre una qualche compo­ nente affettiva (cfr. Baby, 1926, p. 23). Questo è dovuto al fatto che l ’uso concreto del linguaggio implica sempre una relazione dialogica, in cui il parlante non solo vuole trasmettere all’ascoltatore determi­ nati contenuti, ma anche comunicargli le sue emozioni, raggiungere determinati scopi ecc. Baby chiama ‘stilistica’ la disciplina che deve descrivere l ’azione combinata dell’aspetto intellettuale e dell’aspetto

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affettivo del linguaggio. La stilistica nel senso di Bally, dunque, non ri­ guarda soltanto i testi letterari, ma ogni tipo di espressione linguistica. A d esempio, il ricorso a certi tipi di frasi invece che ad altri per mettere maggiormente in rilievo certi elementi è una differenza di tipo stili­ stico, che si ha non solo nel linguaggio letterario, ma anche in quello comune. In particolare, Bally (1965) esamina un tipo di frasi poco trat­ tate nelle grammatiche tradizionali, forse perché utilizzate soprattutto nella lingua parlata, che chiama frasi ‘segmentate’ e che contrappone alle frasi ‘collegate’ (le uniche, o quasi, a essere prese in considerazione dalla grammatica tradizionale). ‘Gianni beve il caffè solo al mattino’ è un esempio di frase collegata, mentre ‘Gianni, lui beve il caffè solo al mattino’, Ί 1 caffè, Gianni lo beve solo al mattino’, ‘Gianni lo beve solo al mattino, il caffè’, ‘È Gianni che beve il caffè solo al mattino’, sono esempi di frasi segmentate. A Sechehaye si devono invece importanti contributi di teoria generale del linguaggio (come Sechehaye, 1908) e di sintassi (in particolare, Sechehaye, 1916). Frei fu autore di un in­ teressante studio su espressioni del francese contemporaneo trattate come erronee dalla grammatica normativa (Frei, 19Z9); inoltre elaborò una “teoria dei sintagmi” che sviluppava le intuizioni di Saussure in materia. Veniamo ora ai linguisti più direttamente influenzati da Saussure, cioè alle varie scuole della linguistica strutturale europea. Il termine “struttura” ricorre raramente nel testo di Saussure (1922), e comunque con un senso diverso da quello che assumerà in seguito. Il linguista gi­ nevrino usa invece frequentemente ‘sistema’, che intende come un in­ sieme di entità prive di valore intrinseco, individuate solo in base ai loro rapporti reciproci: «ogni fatto linguistico fa parte di un sistema in cui tutto è legato», come dirà Meillet (1925, p. 12). Questa è l ’ idea fondante della linguistica strutturale, con la sostituzione terminologica di ‘struttura’ a ‘sistema’, a partire dagli anni Trenta del Novecento. Alla linguistica strutturale di matrice saussuriana si richiamarono, tra gli anni Cinquanta e Settanta, alcuni studiosi di varie discipline, elaborando una metodologia generale applicabile a tutte le scienze umane, detta appunto ‘strutturalismo’. Tra questi studiosi, ricordiamo l’antropologo Claude Lévi-Strauss (1908-2009), che intitolò una sua raccolta di saggi proprio Antropologia strutturale (Lévi-Strauss, 1958); lo storico delle idee e delle istituzioni Michel Foucault (1926-1984); lo psicanalista Jacques Lacan (1901-1981); il filosofo marxista Louis Althusser (1918-1990). Qui non ci occuperemo di questo strutturalismo che, per comodità, potremmo

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etichettare come “non linguistico”, né ci occuperemo del suo rapporto con la linguistica strutturale. U n’altra fondamentale eredità saussuriana della linguistica strut­ turale è la dicotomia langue/parole, ossia la distinzione di un livello astratto e di uno concreto nel linguaggio. Il termine “astratto” è estraneo al lessico tecnico di Saussure, ma è chiaro che la langue corri­ sponde al livello astratto e la parole al livello concreto. C on “concreto” si intende “percepibile coi sensi, direttamente o strumentalmente”. Un atto di parole, come lo descrive Saussure, consiste di tre momenti: uno è «psichico», cioè il collegamento nel cervello di «un dato concetto» con «una corrispondente immagine acustica»; il secondo è «fisiolo­ gico»: « il cervello trasmette agli organi della fonazione un impulso correlativo alla im m agine»; il terzo è «puramente fisico»: «le onde sonore si propagano dalla bocca di A all’orecchio di B » (Saussure, 1922, trad. it. p. 21). Il terzo momento è percepibile dall’udito; il se­ condo è percepibile dall’osservazione del movimento, dei nostri or­ gani fonatori (lingua, labbra ecc.); il primo è rilevabile strumental­ mente, ad esempio tramite le moderne tecniche di neuroimmagine, che registrano la nostra attività cerebrale quando emettiamo un certo suono, o una certa parola, o una certa frase. Le entità della langue, del codice condiviso dai membri della comunità linguistica, non sono percepibili in nessuno di questi modi. Ciò pone un problema relati­ vamente alla natura della langue stessa. Saussure definisce la langue come un’entità psichica, ma superiore ai singoli individui: «un si­ stema grammaticale esistente virtualmente in ciascun cervello, o, più esattamente, nel cervello di un insieme di individui, dato che la langue non è completa in nessun singolo individuo, ma esiste perfettamente soltanto nella massa» (ivi, p. 23). La linguistica strutturale postsaussuriana eliminerà qualunque residuo di psicologismo, prendendo alla lettera la frase conclusiva del Corso di linguistica generale, in realtà mai pronunciata da Saussure: « la linguistica ha p er unico e vero oggetto la lingua considerata in se stessa e per se stessa» (ivi, p. 282). La lingua viene cioè considerata un’entità sui generis e la linguistica come una disciplina autonoma, non fondata sulla psicologia né sulla sociologia, né su altro. Questa posizione estrema, a essere esatti, caratterizza solo la Scuola di Copenhagen (cfr. par . 6.3.4), ma la tendenza antipsicolo­ gista è comune a tutte le scuole linguistiche postsaussuriane (a ecce­ zione di quella di Ginevra, a riprova della sua distanza dalla linguistica strutturale in senso stretto).

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Anche la dicotomia sincronia/diacronia è un altro assunto di base della linguistica strutturale derivato da Saussure. Ricordiamo che Saus­ sure, attribuendo una sorta di priorità concettuale alla sincronia, aveva operato un capovolgimento rispetto alle posizioni dei linguisti prece­ denti, come Paul (cfr. par . 5.5.2). Un tale capovolgimento aveva precise ragioni di metodo: dato che le identità diacroniche sono individuabili solo sulla base di quelle sincroniche, l ’analisi del cambiamento lingui­ stico (studio diacronico) presuppone necessariamente quella di uno stato di lingua (studio sincronico). Naturalmente, questa distinzione dei due punti di vista nello studio del linguaggio non significava che quello diacronico potesse essere trascurato. Questa era la posizione di Saussure, ed era anche quella dei capiscuola della linguistica strutturale. Molti di loro, tra l’altro, avevano svolto ricerche di linguistica storico-com­ parativa, come Trubeckoj e Jakobson (cfr. par . 6.3.2.) nel campo delle lingue slave, Martinet (cfr. pa r . 6.3.3) in quello delle lingue germaniche o Hjelmslev (cfr. par . 6.3.4) sul lituano. Purtroppo, vari linguisti delle generazioni successive a Saussure cominciarono a considerare l ’analisi sincronica come più importante di quella diacronica, fino addirittura a trascurare quest’ultima; e dato che, come si è visto all’inizio di questo capitolo, molti altri linguisti continuavano invece a praticare studi di linguistica storica, il risultato fu, in molti casi quello di creare una con­ trapposizione tanto netta quanto artificiosa tra linguisti “generali” e lin­ guisti “storici”. Nel resto di questa sezione, ci occuperemo dell’attività di due scuole di linguistica strutturale all’ incirca tra gli anni Trenta e gli anni C in­ quanta del secolo scorso: la Scuola di Praga e la Scuola di Copenaghen. Questi limiti cronologici (in particolare il secondo) sono molto appros­ simativi: in ogni caso, non si deve pensare che la linguistica strutturale postsaussuriana si sia estinta poco dopo la metà del secolo, perché molti studiosi appartenenti a questa corrente hanno continuato a operare anche ben dopo tale data, e alcuni di essi sono attivi ancora oggi. C i sembra però che i suoi contributi più innovativi si collochino più o meno negli anni indicati, e questo è il motivo della delimitazione che abbiamo operato. Inoltre, non bisogna pensare che questo tipo di lin­ guistica sia stata l ’unica praticata in tutta Europa nella prima metà del Novecento: infatti, oltre ai linguisti storico-comparativi di cui si è par­ lato all’inizio di questo capitolo, ci furono vari linguisti generali che, pur senza ignorare Saussure, rimasero sostanzialmente estranei alla sua impostazione.

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6.3.2. La Scuola di Praga 6.3.2.1. L e “tesidel 29 ” Il Circolo linguistico di Praga fu fondato nel 1926 da Vilém Mathesius (1882-1945), professore di Anglistica presso la locale Università. Alcuni studi di Mathesius diedero l’avvio a quella che fu in seguito chiamata la “prospettiva funzionale di frase”, basata sulla distinzione tra analisi ‘grammaticale ’ e attuale ’ della frase stessa (cfr. Mathesius, 19 29 ). Il primo tipo di analisi (che corrisponde a quella tradizionale) suddivide la frase in soggetto e predicato, il secondo in ‘tema’ e ‘enunciazione’, o ‘rema’ : il tema è il “punto di partenza” della frase, il rema è ciò che si dice a pro­ posito del tema. Entrambe le analisi, grammaticale e attuale, sono neces­ sarie, in quanto non sempre coincidono. La misura in cui coincidono è diversa nelle diverse lingue, ad esempio in inglese e in italiano. In inglese moderno, l’ordine delle parole è determinato dal “principio del valore grammaticale”, in base al quale il soggetto grammaticale è quasi sempre collocato davanti al predicato grammaticale: questo spiega perché oggi in inglese si dice I like, mentre in inglese medievale si diceva me lìketh (‘mi piace’ ). In altre lingue, come il ceco o l ’italiano, questo principio non è così pervasivo e dunque il predicato grammaticale, quando è il tema, può precedere il soggetto: alla frase inglese at home, Ia m helped by myfather, in italiano corrisponde ‘a casa mi aiuta mio padre’. Nella frase inglese, il soggetto grammaticale (T) precede il predicato grammaticale e fa parte del tema, mentre nella frase italiana il soggetto grammaticale è ‘mio padre’, che è invece il rema (in questo caso ciò che risponde alla domanda ‘a casa chi ti aiuta?’ ). Il Circolo di Praga riuniva studiosi di varia nazionalità, come i russi Roman Jakobson (1896-1982) e Nikolaj S. Trubeckoj (traslitterato dal cirillico anche come Trubetzkoy o Troubetzkoy; 1890-1938), professore all’ Università di Vienna. A entrambi si devono contributi fondamen­ tali, in particolare nel campo della fonologia: di quelli di Trubeckoj par­ leremo nel prossimo paragrafo; degli studi di Jakobson successivi al suo abbandono di Praga ci occuperemo invece nel paragrafo 6.3.3. hi questo paragrafo, presentiamo invece i principi teorici generali del circolo di Praga, elaborati dai tre studiosi che abbiamo citato insieme a vari altri componenti del circolo stesso. Tali principi sono in buona parte esposti nelle cosiddette “tesi del '29”, un insieme di assunti programmatici pre­ sentati al congresso dei filologi slavi, tenutosi in quell’anno proprio a

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Praga (cfr. Havrànek et al., 192,9). La prima di queste tesi afferma che « la lìngua è un sistema d i mezzi d ’espressione appropriati a uno scopo» (ivi, trad. it. p. 15). I praghesi adottano dunque una concezione “funzionalista” del linguaggio: esso è un mezzo di comunicazione e le varie strutture linguistiche (fonologiche, sintattiche, semantiche ecc.) devono essere ricondotte a quest’uso comunicativo; su questa concezione torne­ remo nel paragrafo 6.3.3 e più diffusamente nel prossimo capitolo, dove la confronteremo con la concezione “formalista”. Tra gli altri aspetti fon­ damentali della dottrina linguistica praghese vanno ricordati la conce­ zione “dinamica” del sistema linguistico, che supera l ’opposizione netta tra sincronia e diacronia come definita da Saussure e l ’attenzione per i problemi del linguaggio poetico, considerato nella sua specificità ri­ spetto al linguaggio comune. Relativamente al rapporto tra sincronia e diacronia, i praghesi da un lato osservano che ogni stadio linguistico contiene tracce di stadi ante­ riori, come pure indicazioni di possibili sviluppi successivi; dall’altro, sostengono che i cambiamenti linguistici non sono isolati e ateleologici (cfr. p a r . β.ζ.ζ.ζ), come sostiene Saussure, ma devono essere considerati nel quadro del sistema sincronico che li subisce. Questa prospettiva di ricerca fu approfondita specialmente da Jakobson (cfr. Jakobson, 1971 [1931]). Secondo Jakobson, Saussure aveva compiuto un’innovazione ra­ dicale rispetto ai neogrammatici introducendo la nozione di sistema sin­ cronico, ma era rimasto un neogrammatico per quanto riguarda la con­ siderazione dei fatti diacronici. Jakobson contrappone quindi al metodo «isolante» dei neogrammatici, un « metodo integrale» , il cui «primo principio» è il seguente: « ogni modificazione deve essere trattata in fu n ­ zione del sistema a ll’interno del quale si è verificata» (Jakobson, 1971, p. 203). Secondo Jakobson, l ’adozione di un punto di vista sistematico e finalistico rappresentava «lo sbocco logico» del cammino intrapreso qualche decennio prima dai neogrammatici, ossia dei loro sforzi «per emancipare la linguistica dalla metodologia delle scienze naturali, che imperava ai loro tempi» (ivi, p. 218). In realtà, i neogrammatici soste­ nevano proprio che la linguistica doveva adottare la metodologia delle scienze naturali; quello che negavano era che la linguistica fosse una scienza naturale (cfr. p a r r . 5·5·2-3). In ogni caso, queste (e altre) osser­ vazioni di Jakobson ebbero l ’effetto di accentuare la concezione della linguistica come scienza autonoma, fondata unicamente sulle nozioni di funzione e struttura, non riconducibile né alla metodologia delle scienze della natura né a quella tradizionale delle altre scienze umane.

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L ’origine dello strutturalismo non linguistico (cfr. p a r . 6.3.1) si può ve­ dere proprio nel tentativo di applicare questa metodologia della lingui­ stica strutturale anche ad altre discipline. La distinzione tra linguaggio comune e linguaggio poetico è ricon­ dotta a quella tra ‘funzione comunicativa’ e ‘funzione poetica’ : nel primo caso, il linguaggio è «diretto verso il significato», mentre nel secondo è «diretto verso il segno stesso». Jakobson riprenderà questa distinzione tra funzioni del linguaggio molto più tardi (cfr. Jakobson, i960), elencandone sei: la funzione ‘emotiva’ (relativa all’emittente), la funzione ‘conativa’ (relativa al destinatario), la funzione ‘referen­ ziale’ (relativa al contesto, verbale e non verbale), la funzione ‘meta­ linguistica’ (relativa al codice), la funzione ‘fatica’ (relativa al canale di comunicazione) e la funzione ‘poetica’ (relativa al messaggio). Questo elenco delle diverse funzioni del linguaggio gode tuttora di grande fortuna. 6.3.2.2. L a fonologia praghese L ’esposizione più dettagliata della fonologia della Scuola di Praga si trova in Trubeckoj (1939), volume pubblicato postumo e incompiuto per la morte improvvisa del suo autore. Fino agli studi dei linguisti del circolo di Praga (con l ’eccezione di Baudouin de Courtenay e dei suoi allievi; cfr. PAR. 6.1), non c ’era una distinzione chiara tra fonologia e fo­ netica; Trubeckoj invece contrappone le due discipline in base alla dico­ tomia saussuriana tra langue e parole. Quindi, la ‘fonetica’ è la «scienza dei suoni della parole», mentre la ‘fonologia’ è la «scienza dei suoni della langue» (Trubeckoj, 1939, trad. it. p. 8, modificata). L ’entità di base della fonetica è il suono; l’entità di base della fonologia è il fonema. Baudouin de Courtenay definiva il fonema come « l ’equivalente psi­ chico del suono » ; Trubeckoj respinge questa concezione psicologistica: « il fonema è un concetto linguistico e non psicologico» (ivi, p. 50), e la sostituisce con la seguente: «il fonema è l ’insieme delle proprietà fonolo­ gicamente pertinenti di unaform afonica» (ivi, p. 47). Quali sono queste proprietà? Quelle che permettono di distinguere due significati: quindi, in italiano /p/ e I b i sono due fonemi diversi (per convenzione, i fonemi si rappresentano tra barre oblique) perché distinguono due parole come ‘patto’ e ‘batto’, cioè una ‘coppia minima’. Il suono linguistico, invece, è l ’ insieme delle proprietà pertinenti e non pertinenti di una forma fonica (ivi, p. 48). Non sono quindi le proprietà fisiche a definire un fonema,

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ma la sua capacità di opporre significati: un fonema è realizzato da due suoni diversi, ma non sempre due suoni diversi realizzano due fonemi diversi. La differenza può essere mostrata sia all’interno di una stessa lingua, sia confrontando più lingue. In esempio, in italiano la r è nor­ malmente pronunciata facendo vibrare l’apice della lingua verso i denti superiori, ma anche “alla francese”, ossia facendo vibrare il dorso della lingua verso l’ugola, e in vari altri modi (definiti comunemente “erre moscia”). Queste differenze di suoni non producono però differenze di significato: ad esempio, una parola come caro ha lo stesso significato (o lo stesso insieme di significati) sia che venga pronunciata con la “erre normale” o la “erre moscia”. Un altro esempio dell’italiano è dato da vari tipi di consonanti nasali. Esaminiamo la posizione della nostra lingua quando pronunciamo, rispettivamente, la prima e la seconda n di ‘in­ vano’, e la » di ‘incauto’ : ci accorgiamo facilmente che tale posizione, nel secondo caso, è molto più arretrata che nel secondo, e che nel terzo è ancora più arretrata; la diversità delle tre pronunce di n non produce però un cambiamento di significato. In sintesi: tanto nel caso dei vari tipi possibili di r, quanto in quello delle tre n, i suoni sono diversi, ma non realizzano fonemi diversi, bensì ‘varianti’ dello stesso fonema. Ora proviamo a confrontare le n dell’italiano con quelle dell’inglese: pos­ siamo osservare che in quest'altra lingua quelle che in italiano sono varianti dello stesso fonema realizzano fonemi diversi. In inglese, la na­ sale alveolare (la seconda n di invano) e la nasale velare (la n di incauto) possono opporre significati: ad esempio, thin ‘sottile’ con la nasale al­ veolare si oppone a thing ‘cosa’ con la nasale velare (per comprendere correttamente questo esempio, si tenga presente che in inglese la ^ finale non è pronunciata, ma solo scritta). Possiamo quindi concludere con Trubeckoj (ivi, p. 80): «un fonema dipende dalla posizione di questo fonema nel sistema dato, cioè in definitiva da questo: a quali altri fonemi esso viene opposto».

6.3.3. Sviluppi diversi delle idee praghesi: Jakobson e Martinet L ’attività del circolo di Praga si arrestò tra la fine degli anni Trenta e l ’inizio degli anni Quaranta, per varie circostanze esterne. Trubeckoj, sofferente di cuore, morì a soli 48 anni per le conseguenze di una brutale perquisizione della sua casa di Vienna operata dalla polizia nazista poco dopo l’annessione dell’Austria al Terzo Reich (1938); dopo l’invasione

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tedesca della Cecoslovacchia (1939), Jakobson si trasferì prima nei paesi scandinavi, poi negli Stati Uniti; infine, pochi anni dopo moriva il fonda­ tore del circolo, Mathesius. L ’attività del circolo riprese dopo la Seconda guerra mondiale, ma fu gravemente ostacolata, in alcuni periodi soprat­ tutto, dalla politica culturale della dittatura comunista instauratasi nel paese a partire dal 1948, che bollava qualunque tipo di linguistica strut­ turale come “borghese”. Ciononostante, a partire dagli anni Sessanta si costituì nuovamente un gruppo di studiosi, etichettato come Seconda Scuola di Praga, a cui si devono molte importanti ricerche, proseguite poi in piena libertà dopo il 1989, e a cui accenneremo brevemente più avanti (cfr. par . 7.3.1). L ’eredità della prima fase della scuola fu quindi raccolta, nei decenni immediatamente seguenti la Seconda guerra mon­ diale, da studiosi attivi in altri paesi, come Jakobson o il francese André Martinet (1908-1999), che con i membri del circolo di Praga era stato in stretto contatto fin dagli anni Trenta. Jakobson e Martinet svilupparono però concezioni della linguistica, e in particolare della fonologia, molto diverse, anzi quasi opposte. Nel 1941, Jakobson pubblicò, in tedesco, un saggio dal titolo “Lin­ guaggio infantile, afasia e leggi fonetiche generali” (‘leggi foniche’ nella traduzione italiana, ma è meglio tradurre ‘fonetiche’, visto che il ter­ mine usato da Jakobson è Lautgesetze, ossia quello dei neogrammatici; cfr. par . 5.5.2). La tesi fondamentale di questo lavoro è che l ’ordine di acquisizione dei suoni linguistici da parte del bambino è speculare a quello della loro perdita da parte dell’afasico: i suoni appresi per ultimi dal bambino sono cioè persi per primi dall’afasico, e viceversa i suoni ac­ quisiti per primi dal bambino sono persi per ultimi dall’afasico. I primi suoni acquisiti dal bambino (e gli ultimi a essere persi dall’afasico) sono a tra le vocali, e p tra le consonanti; successivamente, e gradualmente, si sviluppano anche tutti gli altri tipi di opposizioni fonologiche, vo­ caliche e consonantiche. Queste leggi generali dell’acquisizione si riconducono, secondo Jakobson, a «leggi fonetiche generali», cioè valide per tutte le lingue del mondo, mentre le leggi fonetiche dei neo­ grammatici sono limitate nello spazio e nel tempo (cfr. par . 5.5.3). Ad esempio, come nel linguaggio infantile le consonanti fricative* sono acquisite solo se sono state acquisite le consonanti occlusive, così non esistono lingue che abbiano consonanti fricative ma non consonanti occlusive, mentre ne esistono che hanno consonanti occlusive senza avere fricative (cfr. Jakobson, 1941, trad. it. p. 51). Analogamente, come il bambino acquisisce le consonanti posteriori (ad es. k) solo dopo aver

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acquisito le consonanti anteriori (ad es.p), così « l ’esistenza di conso­ nanti posteriori nelle lingue del mondo presuppone allo stesso modo l ’esistenza di consonanti anteriori» (ivi, p. 53), mentre l ’inverso non vale: esistono lingue che hanno consonanti anteriori, ma non conso­ nanti posteriori. La ricerca successiva sull’acquisizione e i disturbi del linguaggio ha messo in questione l’adeguatezza empirica delle analisi di Jakobson, e quindi anche la validità delle leggi da lui proposte; in ogni caso, si tratta di ipotesi affascinanti con cui qualunque studioso di fono­ logia, di acquisizione e di disturbi del linguaggio non può fare a meno di confrontarsi. Inoltre, l ’enunciazione delle leggi fonetiche generali nella forma di implicazioni (“se nella lingua x è presente un certo suono b , allora deve essere presente anche un suono a”) anticipa gli “universali linguistici” come proposti da Greenberg una ventina d’anni più tardi (cfr. par . 7.Z.2). U n’analoga prospettiva universalistica si coglie anche nella cosid­ detta “fonologia binarista”, le cui prime formulazioni risalgono alla fine degli anni Trenta (Jakobson, 1939), ma che trovò la sua sistemazione definitiva negli anni Cinquanta, grazie anche alla collaborazione di Ja ­ kobson con Morris Halle (1923-2018; cfr. Jakobson, Halle, 1956, parte 1). La premessa di questo modello di fonologia è che il fonema è composto di ‘tratti distintivi’ (distinctivefeatures). Tali tratti sono presenti oppure assenti in ogni fonema, senza possibilità intermedie: questo è il prin­ cipio del ‘binarismo’. Se un tratto è presente, lo si indica con ‘+ ’ ; se è assente, con Due di questi tratti sono [± vocalico] e [± consonan­ tico], in base ai quali si individuano le quattro categorie fondamentali di fonemi: quelli vocalici sono [+vocalici] e [-consonantici], quelli con­ sonantici [-vocalici] e [+consonantici], quelli cosiddetti “liquidi” (/e r) [+vocalici] e [+ consonantici], gli ‘approssimanti’ o ‘legamenti’ (come la / e la u semiconsonantiche italiane in parole come ‘ieri’ e ‘uomo’ ) [-vocalici] e [-consonantici]. I diversi fonemi aU’interno di ciascuna di queste classi sono distinti dalla presenza o dall’assenza di altri tratti dell’inventario, che qui non elencheremo. Questo inventario è limitato: 12 tratti nelle prime formulazioni della teoria, 14 in quella definitiva. I tratti sono universali: in qualsiasi lingua, i fonemi non possono essere analizzati che mediante tali tratti; non tutti sono però presenti in ogni lingua: in questo modo, la fonologia binaristica concilia la sua imposta­ zione universalistica con la necessità di rendere conto delle differenze tra le varie lingue. Il binarismo di Jakobson è alla base di varie teorie fo­ nologiche successive, come la fonologia generativa di Chomsky e Halle

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(cfr. par . 7.2.3.4). Inoltre, la notazione binaria è stata impiegata anche in altri livelli di analisi linguistica oltre alla fonologia, come la sintassi o la semantica. Non tutti i linguisti hanno però condiviso l’impostazione binarista, a cominciare da Martinet. Una visione funzionalista della linguistica caratterizzava la Scuola di Praga fin dalle tesi del '29, come si è visto nel paragrafo 6.2.3.1. La con' cezione del linguaggio di Martinet, che egli stesso definisce funzionale (cfr. Martinet, 1962), ne rappresenta dunque uno sviluppo. Martinet applica con molto rigore questa prospettiva all’analisi tanto dei fatti sincronici che di quelli diacronici, nella quale, come vedremo, un ruolo fondamentale è giocato dalla nozione di ‘economia’. Secondo Mar­ tinet, le proprietà che distinguono il linguaggio umano da altri sistemi chiamati “linguaggi”, come quelli delle varie specie animali, o i codici convenzionali come l’alfabeto Morse, sono fondamentalmente tre: 1. la sua funzione comunicativa; 2. la sua natura fonica (ossia, il linguaggio naturale è in primo luogo ed essenzialmente un fenomeno vocale, e solo derivativamente un fatto scritto); 3. la ‘doppia articolazione’. Con questo termine, si intende il fatto che le lingue naturali sono analizza­ bili in due diverse specie di unità: quelle di ‘prima articolazione’ sono i segni, dotati di significante e di significato, che combinandosi tra loro possono descrivere situazioni diverse e sono in numero potenzialmente illimitato; quelle di ‘seconda articolazione’ sono i fonemi, che compon­ gono i segni e non hanno significato proprio, ma sono solo distintivi del significato, e sono in numero molto limitato (non più di qualche decina in ogni lingua). Secondo Martinet, questa doppia articolazione è dovuta a motivi di economia: se a ogni singola situazione dovesse corrispon­ dere un segno diverso, la capacità della memoria umana non sarebbe ca­ pace di immagazzinare un repertorio così vasto; e così si spiega la prima articolazione. Se al significato di ogni segno dovesse corrispondere un significante non articolabile in elementi più piccoli, i nostri organi fo­ natori non sarebbero in grado di produrre così tanti significanti diversi; e questo spiega la seconda articolazione, cioè la possibilità di formare un numero grandissimo di segni mediante poche decine di fonemi (cfr. Martinet, 1949, pp. 33'S)· Il termine economia ricorre anche nel titolo dell’opera più impor­ tante di Martinet (1955), dove il linguista francese affronta il problema forse più tipico della Scuola di Praga, cioè quello di rendere conto dei mutamenti diacronici in modo sistematico e finalistico, superando l ’ im­ postazione “atomistica” di Saussure. L ’economia, nel caso dei mutamenti

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fonetici, consiste nel bilanciamento di due tendenze opposte: da un lato la tendenza a ricorrere al minor numero possibile di elementi («m i­ nimo sforzo »)> dall’altro quella di operare il maggior numero possibile di distinzioni («efficienza comunicativa»). Ad esempio, le opposizioni fonematiche che hanno un ‘rendimento funzionale’ ridotto, cioè distin­ guono poche coppie minime di parole (cfr. PAR. 6.3.2.2), come quella tra vocale breve e vocale lunga nel francese contemporaneo (cfr. Martinet, 1955, trad. it. pp. 167-8), tendono a scomparire. Questo si spiega in quanto lo sforzo necessario a mantenere queste opposizioni tra fonemi non è controbilanciato dalla loro efficienza comunicativa. In generale, spiegazioni di questo tipo, come osserva lo stesso Martinet (ivi, pp. 85-6), non sono nuove: si possono infatti tranquillamente ricondurre al “prin­ cipio del massimo risultato con il minimo sforzo”. Martinet non se ne dimostra però particolarmente preoccupato: non sarebbe che uno dei tanti casi di “ricorso al buon senso” a cui spesso egli si richiama. Questo richiamo al buon senso e all’osservazione empirica è anche alla base dell’opposizione di Martinet alla fonologia binaristica di Jakobson, a cui egli rivolge sostanzialmente l’accusa di apriorismo: la ri­ cerca sulle varie lingue umane è ancora troppo limitata, e l ’ipotesi bina­ ristica è un’ induzione non provata (cfr. ivi, p. 65). Inoltre, «non ci viene detto in qual punto del circuito della parole s’impone all’essere umano la necessità del modo binario» (ibid.): le analisi strumentali dei suoni ci mostrano infatti che le differenze tra quelli prodotti dal parlante sono graduali e niente prova che l ’ascoltatore le decodifichi in modo binario. Anche le leggi fonetiche generali proposte da Jakobson sono viziate «fin dall’inizio da un evidente apriorismo» (ivi, p. 135): le informazioni che abbiamo sull’acquisizione dei suoni da parte del bambino e la loro perdita da parte dell’afasico «sono troppo sporadiche» e « l ’esame dei sistemi fonologici più diversi non si compie sotto gli occhi del lettore» {ibid.). E facile vedere come la contrapposizione tra Jakobson e Mar­ tinet derivi da due concezioni opposte della linguistica, e della scienza in generale (concezioni di cui i due studiosi non erano forse compietamente coscienti, ma che di fatto determinavano il loro atteggiamento): deduttiva per Jakobson, induttiva per Martinet. Mentre infatti Jakobson propone ipotesi generali da sottoporre alla prova dei fatti, Martinet so­ stiene che senza una robusta evidenza empirica tali ipotesi non possano neppure essere avanzate: si tratta di una contrapposizione epistemolo­ gica di fondo che prosegue nelle discussioni odierne tra formalisti e funzionalisti (cfr. ad es. p a r . 7.3.4).

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6.3.4. La Scuola di Copenaghen Pochi anni dopo quello di Praga, un altro circolo linguistico fu fondato (1931) nella capitale della Danimarca: per questo, si parla di Scuola di Copenaghen come si parla di Scuola di Praga. In realtà, mentre i com­ ponenti di quest'ultima, almeno nel primo periodo della loro attività, condividevano la stessa visione del linguaggio e della linguistica, lo stesso non si può dire di quelli dell’altra: tra il pensiero linguistico dei due prin­ cipali animatori del circolo di Copenaghen, Viggo Brondal (1887-1941) e Louis Hjelmslev (1899-1965), non c’è molto in comune, a parte un’a­ desione totale al programma della linguistica strutturale, del quale, anzi, tracciarono definitivamente le caratteristiche. L ’esposizione più chiara di questo programma si ha nell’articolo di apertura della rivista “Acta linguistica”, fondata dai due studiosi, e significativamente intitolato pro­ prio Linguistica strutturale (Brondal, 1939). Brondal definisce la strut­ tura «come un oggetto autonomo e di conseguenza come non derivabile dagli elementi di cui non è né l’aggregato né la somma» (ivi, trad. it. p. 530). Hjelmslev, a sua, volta, afferma che è «scientificamente legit­ timo considerare il linguaggio come costituito essenzialmente da un’ en­ tità autonoma di dipendenze interne, o, in breve, come una struttura» (Hjelmslev, 1948, trad. it. p. 197). Si noti come in entrambi gli studiosi danesi ricorra, oltre che il sostantivo ‘struttura’, l ’aggettivo ‘autonoma’ : entrambi insistono sul fatto che il linguaggio va considerato come un oggetto autonomo, non come un fenomeno di natura psichica, sociale, o altro. Questa concezione della linguistica come disciplina non auto­ noma è chiamata da Hjelmslev «trascendente»: a essa si contrappone quella «immanente», rivolta solo all’analisi dell’insieme di dipendenze che costituiscono la struttura di una lingua, e che è, a suo parere, l’unica corretta. Tra i due linguisti, quello la cui opera ebbe un successo molto maggiore, anche nell’ambito dello strutturalismo non linguistico, fu cer­ tamente Hjelmslev: in questa sede ci occuperemo quindi solo di lui. A ll’elaborazione del suo programma di linguistica “immanente” Hjelmslev attese a partire dagli anni Trenta, inizialmente assieme a un altro collega danese, Hans-Jorgen Uldall (1907-1957): i due studiosi diedero alla loro teoria il nome totalmente nuovo di ‘glossematica’, per sottolinearne la radicale diversità rispetto alle teorie linguistiche prece­ denti. Il termine “glossema”, che dà il nome alla teoria, è costruito sulla parola greca glossa, cioè ‘lingua’, a cui si aggiunge il suffisso -ema, carat­ teristico della terminologia strutturalista per indicare le unità di analisi

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(‘fonema’, ‘morfema’ ecc.): ‘glossema’ indica un’unità minima di analisi su qualunque livello (fonologia, morfologia, sintassi, semantica ecc.). L ’ambizione di Hjelmslev e Uldall era molto alta: nei loro progetti, la glossematica avrebbe dovuto applicarsi non solo al linguaggio, ma a tutte le strutture considerate a esso analoghe, come quelle etniche, cul­ turali ecc.; compito di Uldall sarebbe stato quello di stendere la teoria generale, mentre Hjelmslev si sarebbe dovuto occupare della parte rela­ tiva al linguaggio naturale. L ’impresa però non riuscì, tanto per ragioni contingenti che per motivi di principio: lo scoppio della Seconda guerra mondiale separò i due studiosi, costretti a vivere in paesi differenti, e quando, terminata la guerra, poterono incontrarsi di nuovo, non riusci­ rono più a elaborare un programma di ricerca comune. Quindi, alla “te­ oria generale” della glossematica pubblicata da Uldall (1957), Hjelmslev non fece mai seguire la propria parte specificamente linguistica. Tut­ tavia, rimase sempre convinto dell’idea che la glossematica, nonostante inizialmente sembri concepire la linguistica come una disciplina total­ mente autonoma e slegata rispetto alle altre, possa poi recuperare, nel modo che vedremo più avanti in questo stesso paragrafo, i contenuti di tutte le scienze. L ’opera più nota di Hjelmslev si intitola, letteralmente, “Sulla fon­ dazione della teoria del linguaggio” (Hjelmslev, 1943), un volume carat­ terizzato da uno stile densissimo, in quanto consiste soprattutto in una lunga catena di principi e di definizioni, corredata di pochi materiali lin­ guistici concreti. Più o meno negli stessi anni, Hjelmslev attese alla ste­ sura di altri due volumi: uno di essi fu pubblicato postumo (Hjelmslev, 1975), mentre per pubblicare il secondo (intitolato II linguaggio; Hjelmslev, 1963), l’autore attese una ventina d ’anni. Quest’ultimo vo­ lume, al contrario di Hjelmslev (1943), è di agevole lettura ed è ricco di esempi. Importanti anche sono le due raccolte di scritti del linguista danese dagli anni Trenta agli anni Cinquanta (Hjelmslev, 1959; 1973). In ciò che segue, ci riferiremo ad alcuni aspetti di Hjelmslev (1943) e Hjelmslev (1963). Secondo Hjelmslev, la teoria linguistica da un lato deve essere ‘arbi­ traria’, dall’altro, ‘adeguata’ ; il primo termine significa che la teoria «è in sé indipendente da qualsiasi esperienza» e «costituisce quello che si è chiamato un sistema puramente deduttivo» (Hjelmslev, 1943, trad. it. p. 17); il secondo che «una teoria introduce certe premesse, di cui l ’au­ tore sa, in base all’esperienza precedente, che esse adempiono le condi­ zioni di applicazione a certi dati empirici» (ibid.). Questa caratterizza­

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zione della teoria linguistica si collega (anche se non esplicitamente) alle tematiche di filosofìa della scienza che si stavano discutendo in quegli anni. Ad esempio, Rudolf Carnap (1891-1970), un filosofo della scienza attivo prima a Vienna e poi trasferito negli Stati Uniti, sosteneva che le teorie fisiche sono costruite fissando certi assiomi sulla base di alcune os­ servazioni, ma senza ricercare una corrispondenza totale tra tali assiomi e la realtà empirica. Successivamente, sulla base di un calcolo matema­ tico, dagli assiomi si deducono alcune conseguenze che descrivono fatti particolari: se queste conseguenze corrispondono alla realtà osservabile, la teoria è confermata; altrimenti, no (cfr. Carnap, 1939). Nella lingui­ stica, direbbe Hjelmslev, si parte da alcuni concetti che sono definiti arbitrariamente, ma si basano su alcune delle nostre osservazioni. Suc­ cessivamente, si sviluppa un calcolo, che è per sua natura arbitrario: se ne ricaviamo delle conseguenze che corrispondono a fatti osservati in una o più lingue, tale calcolo è adeguato; altrimenti (ad es. se si deducesse che esistono lingue senza vocali), non è adeguato. A ll’impostazione deduttivista di Hjelmslev è vicina, anche se in un quadro epistemologico molto meno definito, quella della fonologia binaristica di Jakobson; vi si oppone invece completamente l’ impostazione induttivista di Martinet (cfr. par . 6.3.3). Coerente con l ’assunto, citato sopra, che il linguaggio è un insieme di dipendenze, Hjelmslev considera come il compito fondamentale della teoria linguistica quello di individuare tali dipendenze, a cui assegna il nome tecnico di ‘funzioni’ (cfr. Hjelmslev, 1939, trad. it. p. 111). Il linguista danese intende questo termine in un senso abba­ stanza diverso da quello della Scuola di Praga: mentre infatti per gli appartenenti a quest'ultima, da Jakobson a Martinet, esso indica qual­ cosa di esterno alla struttura del linguaggio (si pensi alla funzione co­ municativa, a quella poetica ecc.; cfr. PAR. 6.3.i.i) , in Hjelmslev si rife­ risce alle dipendenze interne che costituiscono questa stessa struttura. Hjelmslev elabora una complessa tipologia di funzioni, nella quale non entreremo; ci limitiamo a esemplificarle mediante una sola di esse, la ‘funzione segnica’, cioè l ’ interdipendenza tra il ‘piano dell’espres­ sione’ e il ‘piano del contenuto’, come Hjelmslev ribattezza, rispetti­ vamente, il significante e il significato di Saussure. Questa analisi della funzione segnica costituisce uno degli sviluppi più interessanti della teoria saussuriana del segno (cfr. PAR. 6.2.2.3). Hjelmslev parte dall’af­ fermazione di Saussure (1922, trad. it. p. 137) che la combinazione di significante e significato «produce una forma, non una sostanza»;

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è quindi necessario, per analizzare il segno linguistico, partire dalla forma, non dalla sostanza, «che vive solo grazie alla forma e non si può dire in alcun modo che abbia un’esistenza indipendente» (Hjelmslev, 1943, trad. it. p. 55). Le lingue differiscono in quanto ciascuna di esse dà una forma diversa a uno stesso fattore comune, che Hjelmslev chiama «m ateria». Forma, sostanza e materia esistono tanto sul piano dell’espressione che sul piano del contenuto: su entrambi, la materia costituisce un continuum che la forma articola in unità discrete. Ad esempio, dal lato del significante, il continuum dei vari suoni nasali è articolato diversamente dai sistemi fonematici delle varie lingue: dove l ’inglese distingue tre fonemi nasali, Γ italiano ne distingue solo due (cfr. pa r . 6.3.2.z). Un esempio riguardante il contenuto è il continuum dello spettro dei colori, che non è articolato in modo identico in tutte le lingue: ad esempio, l ’ italiano divide la parte dello spettro compresa tra il verde e il marrone in quattro sezioni (Verde’, ‘blu’, ‘grigio’, ‘mar­ rone’ ), mentre il gallese la divide in tre: gw yrdd, che occupa una sola parte dell’area di ‘verde’, glas, che corrisponde alla parte restante di ‘verde’, più ‘blu’ e parte di ‘grigio’, e llw yd, che corrisponde alla parte restante di ‘grigio’ più ‘marrone’ (cfr. Hjelmslev, 1943, trad. it. p. 58). Tanto il piano dell’espressione quanto quello del contenuto sono ana­ lizzabili in entità ultime, irriducibili, che Hjelmslev chiama ‘figure’. Le ‘figure dell’espressione’ sono i fonemi, mentre le ‘figure del contenuto’ sono le unità semantiche minime che formano le unità semantiche più grandi: ad esempio, la parola ‘uomo’ sarebbe formata dalle figure del con­ tenuto ‘umano’, ‘maschio’ e ‘adulto’. Tra le figure dei due piani non c ’è corrispondenza biunivoca: ‘uomo’ è formato da tre figure del contenuto, ma da quattro figure dell’espressione, cioè i quattro fonemi che com­ pongono la parola (cfr. Hjelmslev, 1963, trad. it. p. 119, per un esempio analogo). I piani dell’espressione e del contenuto non sono dunque, nei termini di Hjelmslev, «conform i» : se lo fossero, non ci sarebbe bisogno di distinguerli, in quanto così facendo si opererebbe una complicazione inutile. Questa ‘biplanarità’ è una caratteristica non solo delle lingue naturali, ma di ogni sistema di segni che Hjelmslev chiama ‘semiotico’ ; altri sistemi di segni, come molte delle strutture della logica e della ma­ tematica, che non richiedono la postulazione di due piani, sono invece definiti ‘sistemi simbolici’ (cfr. Hjelmslev, 1943, trad. it. p. 121). Nella parte finale del suo volume del 1943, Hjelmslev costruisce una complessa gerarchia di vari tipi di semiotiche che lo porta a concludere che « la struttura semiotica si presenta come un centro che consente di

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considerare tutti gli oggetti scientifici» (ivi, p. 135). Questa visione “pan­ semiotica” della realtà appare un po’ troppo facile; comunque, questa gerarchia di semiotiche ha esercitato un fascino notevole, soprattutto nell’ambito dello strutturalismo non linguistico. Invece, un aspetto dell’opera di Hjelmslev non sempre preso nella dovuta considerazione è la sua analisi delle nozioni di parentela linguistica genealogica («gene­ tica» nei suoi termini) e parentela linguistica tipologica, che costituisce l’argomento di II linguaggio (Hjelmslev, 1963). La parentela linguistica genetica è l’oggetto della linguistica storico-comparativa: tale parentela è da lui definita come «una funzione tra elementi dell’espressione» di lingue diverse (cfr. ivi, trad. it. p. 34); le leggi fonetiche dei neogram­ matici sono esempi di tali funzioni (cfr. ivi, p. 99). La parentela lingui­ stica tipologica è invece «una funzione tra categorie» (cfr. ivi, p. 109). Hjelmslev afferma che «una tipologia linguistica esauriente è il com­ pito più grande e più importante che si offre alla linguistica. Essa non è limitata regionalmente, come la genetica linguistica» (ivi, p. no). In concreto, Hjelmslev si limitava ad «abbozzare un programma», come lui stesso riconosceva (ibid.): nelle sue pagine si troveranno ben poche indicazioni precise di tipologia linguistica.

6.3.5. Tesnière: la sintassi come connessione Il francese Lucien Tesnière (1893-1954) non era certamente estraneo all’ambiente dei linguisti strutturalisti europei: aveva infatti studiato sotto la guida, tra gli altri, di Meillet, a sua volta allievo di Saussure, e tra i suoi corrispondenti c era Bally, cioè uno dei curatori del Corso saussuriano; inoltre, era membro corrispondente del circolo di Praga. Tuttavia, mentre i linguisti strutturalisti (i praghesi in primo luogo) si concentravano prin­ cipalmente sulla fonologia e sulla morfologia, il suo interesse fondamen­ tale (se non esclusivo) verte sulla sintassi. Il modello presentato in Tesnière (1959) risale sostanzialmente agli anni Trenta e Quaranta del Novecento, ma, come si vede, fu pubblicato postumo. Si tratta di un’opera di note­ vole mole (quasi 600 pagine, nell’originale francese), ricca di esempi tratti da molte lingue, non solo indoeuropee, e che contiene un ripensamento sistematico di quasi tutte le categorie della grammatica tradizionale (sin­ tassi, parti del discorso, funzioni grammaticali, subordinazione vs coor­ dinazione, meccanismo della coordinazione ecc.). Le idee di Tesnière co­ minciarono a riscuotere un successo internazionale solo dalla fine degli

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anni Sessanta, ma da allora molte di esse sono diventate imprescindibili, esplicitamente o meno, per qualunque teoria sintattica. La teoria di Tesnière è nota come ‘grammatica della valenza’, ma questa etichetta è un po’ riduttiva, in quanto si concentra solo su un suo aspetto. La nozione chiave è piuttosto quella di connessione’. Le con­ nessioni nel senso di Tesnière non hanno mai un’espressione esplicita, non sono cioè realizzate da elementi morfologici, ma sono « avvertite dalla mente» (cfr. Tesnière, 1959, cap. 1, § 4). La connessione è un fatto intrinsecamente gerarchico: tra gli elementi connessi c’è una relazione di dipendenza. Nel caso più semplice, quando gli elementi sono soltanto due, uno di essi è ‘reggente’, mentre l’altro è ‘subordinato’. Nella frase ‘A lfredo parla’, l ’elemento reggente è ‘parla’ e quello subordinato ‘A l­ fredo’. D i tale struttura gerarchica Tesnière (ivi, cap. 2, § 7) dà questa rappresentazione grafica: parla

Alfredo

L ’elemento più in alto è quello reggente, quello più in basso quello su­ bordinato; insieme formano un nodo*. Ogni elemento subordinato può, a sua volta, reggere altri elementi; i vari nodi appariranno quindi in base a una gerarchia che rispecchia quella delle connessioni. A d esempio, una frase come ‘quella ragazza bionda legge questo interessante libro’ sarebbe rappresentata come segue:

quella

bionda

questo

interessante

Queste rappresentazioni in forma di grafi ad albero sono chiamate da Tesnière ‘stemmi’. Il linguista francese non era il primo a utilizzarli (ce ne sono interessanti esempi in alcuni grammatici dell’ Ottocento), ma fu il primo a farlo in modo sistematico, per esplicitare visivamente la natura gerarchica della connessione sintattica: non si limita infatti a costruire

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stemmi per le varie frasi che analizza, ma elabora anche degli ‘stemmi virtuali’ che rappresentano tutte le frasi di identica struttura, reali e pos­ sibili. Gli stemmi virtuali sono costituiti dai simboli di quelle parti del discorso che Tesnière chiama ‘parole piene’ : i sostantivi, gli aggettivi, i verbi e gli avverbi, indicati rispettivamente con le lettere O, A, I, E. Lo ‘stemma reale’ qui sopra è dunque la realizzazione dello ‘stemma vir­ tuale’ seguente (cfr. ivi, cap. 33, §§ 8-9):

Gli stemmi rappresentano, dice Tesnière, Γ «ordine strutturale» della frase. Come si vede, il linguista francese usa l’aggettivo “strutturale” in un senso diverso da quello dei linguisti delle scuole di Praga o di Cope­ naghen, cioè in quello di “gerarchico”, invece che “definibile solo in base al rapporto con gli altri elementi del sistema”. A ll’ordine strutturale si oppone l’ordine lineare, che è quello direttamente osservabile, ossia la successione delle parole nella frase. Questa distinzione tra ordine strut­ turale e ordine lineare è la scoperta fondamentale di Tesnière: in prece­ denza, le lingue erano considerate delle semplici successioni di elementi (fonemi, morfemi, parole). Veniamo ora al più noto dei concetti introdotti da Tesnière, ossia quello di Valenza verbale’, una metafora che il linguista francese trae dalla chi­ mica. Gli stemmi, reali e virtuali, presentati sopra rappresentano il verbo come l’elemento fondamentale della frase, che domina tutti gli altri. Te­ snière (ivi, cap. 97, § 3) paragona il verbo a «una sorta di atomo munito di uncini», che può esercitare la sua forza di attrazione su un numero mag­ giore o minore di ‘attanti’ (poi detti ‘argomenti’ ). Questi sono gli attori di un «piccolo dramma» (cfr. ivi, cap. 48, § 1), ossia del processo espresso dal verbo. La frase contiene però anche altri elementi, detti ‘circostanti’, che esprimono le condizioni di luogo, tempo, maniera ecc., in cui tale processo ha luogo. Gli attanti sono sempre dei nomi o degli equivalenti di nomi (ad es. frasi oggettive o soggettive), mentre i circostanti sono av­ verbi o equivalenti di avverbi (ibid.); gli attanti sono obbligatori, mentre i

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circostanti sono facoltativi (cfr. ivi, cap. 57, § 4). Il numero degli aitanti (o Valenze’ ) varia secondo la classe a cui appartiene il verbo: avremo dunque classi verbali diverse in base alle diverse valenze. I verbi privi di atlanti sono chiamati ‘avalenti’, e corrispondono ai verbi tradizionalmente chiamati impersonali meteorologici, come ‘piovere’ ecc.; i verbi che richiedono un solo attante sono chiamati ‘monovalenti’, e corrispondono ai tradizio­ nali verbi intransitivi; i verbi che richiedono due attanti sono chiamati ‘bivalenti’ e sono esemplificati, tra l’altro, dai tradizionali verbi transi­ tivi; infine, i verbi che richiedono tre attanti sono detti ‘trivalenti’ e sono esemplificati da verbi come ‘dire’ o come ‘dare’ (ad es. ‘Pietro ha detto a Paolo di tacere’ ; ‘Mario ha dato un fiore a Maria’) (cfr. ivi, cap. 50, §§ 5-13). Tesnière attribuisce dunque il ruolo centrale nella struttura della frase al verbo, mentre non assegna alcun ruolo particolare al soggetto, che è infatti rappresentato come un attante al pari degli altri: soggetto e oggetto sono sullo stesso piano e sono etichettati semplicemente come ‘primo attante’ (il soggetto) e ‘secondo attante’ (l’oggetto) (cfr. ivi, cap. 31, §§ 3-10). Una conseguenza di questa scelta è l’abbandono esplicito dell’analisi della frase in soggetto e predicato, che, secondo Tesnière (ivi, cap. 49, § z) si fonda su una sovrapposizione ingiustificata delle categorie logiche su quelle gram­ maticali. In realtà, l’analisi in soggetto e predicato era già stata abbando­ nata dai logici fin dall’inizio del Novecento, in favore dell’alternativa che considera il soggetto come un ‘argomento’ al pari degli altri: addirittura, alcuni logici dell’epoca attribuivano proprio all’influenza dei grammatici l ’errore di assegnare un ruolo privilegiato al soggetto (cfr. ad es. Nass, 1931, p. 27). Questo dimostra come grammatica e logica fossero ormai estranee l ’una all’altra. Il problema, in ogni caso, non è se le categorie di soggetto e predicato sono logiche oppure grammaticali, quanto se la dicotomia soggetto/predicato è giustificata oppure no per l’analisi delle lingue naturali: Chomsky e i linguisti da lui ispirati hanno dato risposta positiva, mentre molti altri studiosi hanno scelto la soluzione di Tesnière, non assegnando cioè al soggetto nessun ruolo particolare.

6.4. La linguistica strutturale negli Stati Uniti 6.4.1. Aspetti generali Tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta del Novecento, negli Stati Uniti, con l ’espressione “linguistica strutturale” si intendeva sostanzialmente “linguistica descrittiva”, quindi le si dava un significato abbastanza di­

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verso da quello di “linguistica sistemica” che aveva in Europa. Questa diversità si spiega con il fatto che gli studi di linguistica erano nati, oltre Atlantico, con motivazioni proprie: in particolare, lo studio delle lingue degli indiani d ’America (‘amerinde’, o ‘amerindiane’ ). Queste lingue, al contrario di quelle indoeuropee, non hanno una tradizione scritta: non è dunque possibile compierne uno studio diacronico, ma solo uno studio sincronico; per questo, ‘strutturale’ nel senso statu­ nitense del termine è di fatto sinonimo di ‘sincronico’. Inoltre, queste lingue sono molto diverse da quelle indoeuropee, in particolar modo dal punto di vista della struttura grammaticale. Le prime descrizioni delle lingue amerinde, dovute in gran parte a missionari, erano co­ scienti di queste differenze, ma di fatto si basavano sulle categorie grammaticali delle lingue indoeuropee (cfr. pa r . 4.2.1). I linguisti strutturali americani cercarono quindi di elaborare delle tecniche di analisi nuove, che verranno chiamate ‘distribuzionali’ e che illustre­ remo più avanti (cfr. par . 6.4.3). Le ricerche sulle lingue amerinde ebbero conseguenze anche al di fuori di questo campo. Una di esse fu il definitivo abbandono del pregiudizio, ancora abbastanza diffuso tra i linguisti dell’ Ottocento, secondo cui il grado di complessità di una lingua è legato al grado di sviluppo culturale della popolazione che la parla. Infatti, si mostrò chiaramente che le lingue degli Indiani d ’America non sono affatto meno complesse rispetto alle lingue indo­ europee, ma ne sono solo molto diverse. Il riconoscimento di questa diversità ebbe poi come conseguenza l ’adozione di forme sempre più accentuate di relativismo linguistico, cioè dell’ idea che non esistano elementi universali comuni a tutte le lingue. Com e scriveva il curatore di un volume particolarmente rappresentativo degli orientamenti della linguistica americana intorno alla metà del Novecento, «le lingue pos­ sono differire Luna dall’altra senza limiti e in modo imprevedibile» (Joos, 1957, p. 96). La punta estrema di questo relativismo è rappre­ sentata dalla cosiddetta “ipotesi di Sapir-W horf ”, di cui parleremo nel paragrafo 6.4.2. I due capiscuola della linguistica strutturale statunitense sono Edward Sapir (1884-1939) e Léonard Bloomfield (1887-1949), di solito etichettati come “mentalista” il primo, e “comportamentista” il secondo. Questi due termini derivano dalla psicologia, ma solo il secondo indica una scuola precisa, che era dominante negli Stati Uniti della prima metà del Novecento. Molto sinteticamente, il comportamentismo sostiene che la psicologia, se vuole essere scientifica, non può ricorrere all’ intro­

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spezione, cioè alla descrizione da parte dei soggetti dei loro stati men­ tali, che non sono accessibili all’osservazione; quindi termini e nozioni come ‘mente’, ‘idea’, ‘concetto’, ‘rappresentazione’ ecc., vanno banditi dalla psicologia, che deve unicamente basarsi sullo studio del compor­ tamento osservabile, per gli animali come per gli esseri umani. La psico­ logia comportamentista è superata da tempo (sui motivi di questo supe­ ramento ci soffermeremo nel par . 7.2.3.Z), ma all’epoca questo punto di vista non era privo di giustificazioni: infatti la psicologia tra Ottocento e Novecento, basata sull’ introspezione, non era riuscita a trovare un ac­ cordo sulla definizione dei suoi concetti di base. Per quanto riguarda Sapir e Bloomfield, occorre precisare che la loro opposizione in termini di mentalismo e comportamentismo, per quanto certamente fondata, è frutto della storiografia successiva, e non deve far pensare che tra i due ci fosse un’aperta ostilità; al contrario, non mancano i reciproci apprez­ zamenti. Linguistica strutturale europea e statunitense, nonostante le loro differenti origini e i loro differenti scopi, giunsero in alcuni casi a ri­ sultati simili, come la distinzione tra fonetica e fonologia, e quella a essa collegata tra suono e fonema. Sapir sostiene che una descrizione puramente fisiologica dei suoni linguistici è del tutto insoddisfacente: ad esempio, dal punto di vista fisico-fisiologico il suono wh- di parole inglesi come who, which, where ecc. è identico a quello prodotto per spegnere una candela, ma solo il primo dei due è collocato all’ interno di un sistema composto di un numero limitato di membri (cfr. Sapir, 1925, p. 37). Sapir definisce il fonema come «unità che ha un signifi­ cato funzionale nella forma o nel sistema rigidamente determinati dei suoni propri di una lingua» (Sapir, 1933, trad. it. p. 285), quindi in una prospettiva simile a quella degli strutturalisti europei: ogni elemento è definito in base alla posizione che occupa all’ interno del sistema. A differenza però di Trubeckoj, che si caratterizza per il suo deciso antipsicologismo (cfr. pa r . 6.3.2.2), Sapir (ivi, p. 286) insiste sul fatto che i fonemi non sono utili soltanto « in una descrizione linguistica astratta», ma hanno una precisa realtà, anche se inconscia, nella mente del parlante. Anche Bloomfield concepisce il fonema come un’unità definita non dalle sue proprietà fonetiche intrinseche, ma dalle sue re­ lazioni con le altre unità del sistema cui appartiene (cfr. Bloomfield, 1933, trad. it. pp. 91-3). Bloomfield oppone fonetica e fonologia, insi­ stendo in particolare sul carattere astratto di quest’ultima: « la fono­ logia non presta alcuna attenzione alla natura acustica dei fonemi, ma

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li considera solo in quanto unità distinte, e definisce ciascun fonema in base al ruolo che svolge nella organizzazione strutturale delle forme linguistiche» (ivi, p. 158). Dopo l ’esame di queste caratteristiche ge­ nerali della linguistica strutturale statunitense, occupiamoci ora degli specifici contributi di Sapir, di Bloomfield e dei cosiddetti “postbloomfieldiani”.

6.4.2. Sapir: lingua, cultura, tipologia; l ’“ipotesi di Sapir e W h o rf” Sapir affrontò numerosi temi di ricerca: possiamo farcene un’ idea anche dalla sola lettura del suo volume del 1921, dove si trovano, oltre ai capitoli più tecnici, altri dedicati a «lingua, razza e cultura» e alla «lingua e la letteratura». M olto importanti sono anche le sue rifles­ sioni sulla linguistica storica (cfr. Sapir, 1921, capp. 7» 8 e 9). Q ui ci limi­ teremo alla presentazione della sua concezione generale del linguaggio, del suo modello di tipologia linguistica e della cosiddetta “ipotesi di Sapir e W h o rf”. L ’etichetta di mentalista normalmente affibbiata a Sapir non è certo sbagliata, ma non rende completamente giustizia alla sua visione del linguaggio come fenomeno storico-culturale: « la lingua è essenzialmente un prodotto culturale o sociale e come tale deve essere intesa» (Sapir, 1929, trad. it. p. 517). A prima vista, « il par­ lare sembra un atto naturale come il camminare o poco meno naturale del respirare» (Sapir, 1921, trad. it. p. 3). Tuttavia, questa impressione è fallace: mentre «il camminare è una funzione biologica inerente all’uom o» (ib id .), questo non è il caso del linguaggio. Infatti, mentre ogni funzione biologica ha un organo che le è proprio, non c ’è un tale organo per il linguaggio, anche se esso fa uso di una serie di organi anatomici: i polmoni, il naso, i denti ecc. M a la funzione primaria di ciascuno di questi organi è un’altra: i polmoni servono per respirare, il naso per percepire gli odori, i denti per frantumare il cibo ecc. Il linguaggio « è una funzione sovrapposta ad altre, ovvero se vogliamo essere più precisi, un gruppo di funzioni sovrapposte» (ivi, p. 9). Sapir definisce dunque il linguaggio come «un metodo puramente umano e non istintivo per comunicare idee, emozioni e desideri attraverso un sistema di simboli volontariamente prodotti» (ivi, p. 8). Sapir è uno dei pochi linguisti della prima metà del Novecento a oc­ cuparsi di tipologia linguistica; non fa riferimenti espliciti a studiosi pre­ cedenti, e non usa neppure il termine tipologia, ma parla solo di «tipi di

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struttura linguistica» (ivi, cap. 6). Prima di affrontare questo problema, fa definitivamente piazza pulita del luogo comune che le lingue siano disposte su una sorta di scala di valore: «n o i non conosciamo alcun po­ polo che non possegga una lingua pienamente sviluppata. Il più povero boscimano sudafricano si esprime nelle forme di un ricco sistema sim­ bolico che nella sua essenza è perfettamente equivalente al linguaggio di un francese colto» (ivi, p. 21). Il linguista americano non respinge completamente la tipologia dei fratelli Schlegel e di Humboldt, cioè la suddivisione delle lingue in isolanti, agglutinanti, flessive e polisin­ tetiche (cfr. par . 5.3.3), ma la giudica insufficiente. A suo parere, essa corrisponde infatti solo a una delle tre dimensioni necessarie per una classificazione tipologica adeguata; precisamente, a quella che Sapir de­ finisce la ‘tecnica’ utilizzata nelle varie lingue; un’altra dimensione è il ‘grado di sintesi’, che distingue tra procedure analitiche, sintetiche e po­ lisintetiche; la prima e fondamentale delle dimensioni di classificazione è però quella del tipo e del numero dei concetti grammaticali espressi nelle varie lingue. Sapir (ivi, cap. 5) divide questi concetti in due gruppi principali, a seconda che riguardino il ‘contenuto materiale’ (primo gruppo) o la ‘relazione’ (secondo gruppo). Il primo gruppo di concetti si sud­ divide a sua volta in ‘concetti fondamentali’ (o ‘concreti’ ; tipo a) e ‘concetti derivativi’ (tipo b-, cfr. ivi, pp. 102 ss.). A d esempio, nella parola inglese farm er (‘coltivatore’ ), la radice farm - esprime un con­ cetto fondamentale e il suffisso -er un concetto derivativo. Il secondo gruppo è quello dei ‘concetti relazionali’, suddivisi in ‘concreti’ (tipo c) e ‘puri’ (tipo d): ad esempio, il genere e il numero grammaticale sono concetti relazionali concreti, mentre le relazioni grammaticali come il soggetto, l ’oggetto diretto, l ’oggetto indiretto ecc. appartengono ai concetti relazionali puri. Secondo Sapir, solo i concetti dei tipi a e d sono espressi in ogni lingua; gli altri due tipi di concetti possono essere espressi, uno solo o entrambi, ma non è necessario che lo siano. In base dunque a tutte queste possibili combinazioni dei vari tipi di concetti, Sapir suddivide le lingue in questi quattro gruppi: a) «Lingue sem­ plici pure relazionali», che hanno soltanto concetti dei tipi a e d-, b) «lingue complesse pure-relazionali», che hanno concetti dei tipi a, b, e d ; c) «lingue semplici miste relazionali», che contengono concetti dei tipi a, c e d\ d) «lingue complesse miste-relazionali», che conten­ gono tutti e quattro i tipi di concetti (cfr. ivi, pp. 138-40). Il risultato della combinazione delle tre dimensioni (tipi di concetti grammati­

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cali espressi, tecnica e grado di sintesi) è dunque una tipologia in cui avremo, ad esempio, tra le lingue del tipo a), sia una lingua isolante (come il cinese) che una agglutinante, come il tibetano, oppure, tra le lingue del tipo d), tanto una lingua agglutinante e polisintetica, come il nootka (lingua amerindiana del Canada, di cui Sapir era particolar­ mente esperto), quanto una flessiva e analitica, come l ’ inglese; per altri esempi di queste combinazioni, rimandiamo il lettore direttamente al testo di Sapir (ivi, pp. 142-3). L ’ipotesi di Sapir e Whorfi in realtà, non fu elaborata congiuntamente dai due studiosi, ma rappresenta lo sviluppo, da parte di W horf (che non era di professione un linguista, ma un ingegnere chimico che aveva frequentato le lezioni di Sapir all’ Università Yale), di un’idea formulata da Sapir in alcuni dei suoi ultimi saggi: la nostra percezione della realtà è condizionata dalla nostra lingua materna (cfr. ad es. Sapir, 1929, trad. it. p. 512). W h o rf riprese questa idea ponendo a confronto la diversa organizzazione grammaticale di alcune lingue amerindiane con quella delle lingue europee, da lui unificate sotto la sigla SAE (Stan­ dard AverageEuropean, ‘europeo medio standard’ ). Il punto di arrivo di W h o rf è il «principio di relatività linguistica»: «differenti osservatori non sono condotti dagli stessi fatti fisici alla stessa immagine dell’uni­ verso, a meno che i loro retroterra linguistici non siano simili, o non possano essere in qualche modo tarati» (Whorf, 1956, trad. it. p. 170). L ’esempio più citato tra quelli riportati da W h orf per sostenere le sue tesi relativistiche è l’assenza del concetto di tempo negli indiani Hopi: « l ’hopi può essere chiamato una lingua senza tempo» (ivi, p. 173). Se­ condo W horf, una fisica costruita sulla base della lingua hopi sarebbe molto diversa dalla fisica newtoniana, il cui concetto di tempo si basa sul modo in cui esso è espresso nelle lingue europee (cfr. ivi, pp. 173-4). e sarebbe probabilmente più vicina alla fisica relativista. A questo propo­ sito ci si può però domandare, con Lepschy (1992, p. 76) « se tale ipotesi sia in grado di contribuire anche a spiegarci come mai la teoria della re­ latività sia stata di fatto elaborata non da un parlante di hopi, ma da A l­ bert Einstein». L ’ ipotesi di Sapir e W h orf ricevette diverse critiche già negli anni Cinquanta (cfr. ad es. Lenneberg, Roberts, 1956). Nella sua versione più forte, che comporta cioè un relativismo estremo, non trova oggi molti sostenitori; è invece ancora accettata da vari studiosi nella sua versione debole, che parla cioè di un influsso reciproco tra linguaggio e pensiero, e ricorda, quindi, le originarie posizioni di Humboldt (cfr. pa r . 5.3.2).

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6.4.3. Bloomfield e i postbloomfieldiani: comportamentismo e distribuzionalismo Bloomfield era, come formazione, indoeuropeista e germanista; si per­ fezionò a Lipsia negli anni Dieci del Novecento, entrando in contatto diretto con i più importanti neogrammatici. Fu poi professore in diverse università degli Stati Uniti. Si occupò intensamente di lingue amerindiane e di tagalog (la lingua nazionale delle Filippine). A ll’ Università dellO hio, dove insegnò dal 19 11 al 1917, Bloomfield ebbe come collega 10 psicologo comportamentista Albert Paul Weiss (1879-1931), alle cui teorie cominciò da quel momento a rifarsi esplicitamente. Secondo Bloomfield, la linguistica non può che basarsi sul comportamento di­ rettamente osservabile dei parlanti, descritto mediante due termini fon­ damentali del comportamentismo: ‘stimolo’ e ‘risposta’ (o ‘reazione’ ). 11 suo esempio più classico (cfr. Bloomfield, 1933, cap. 2) è il seguente: Jill desidera una mela (stimolo non linguistico, S, di fame), ma non riu­ scendo a raggiungerla, produce una risposta linguistica (r), ad esempio, l ’enunciato ‘voglio quella mela’. Questo enunciato funge a sua volta da stimolo linguistico (s) per Jack, provocando in lui la risposta non lin­ guistica (R) di cogliere la mela dall’albero e di passarla a Jill. Questo processo è simboleggiato dalla quadrupla S-r-s-R, cioè come una catena di stimoli e risposte, dove le lettere maiuscole indicano le entità extralin­ guistiche e quelle minuscole le entità linguistiche. In sintesi, dice Blo­ omfield (ivi, p. 29), «illinguaggio consente a una persona di produrre una certa reazione (R) quando un 'altra persona riceve lo stimolo (S )» . Questa concezione del linguaggio può apparire molto rozza, e in effetti lo è, ma si spiega con l ’atmosfera “antimentalista” dominante negli anni Venti e Trenta del Novecento, di cui si è parlato nel paragrafo 6.4.1. Passiamo ora a un aspetto più tecnico della linguistica di Bloomfield, cioè all’analisi distribuzionale; si tratta di un’analisi puramente formale, che prescinde cioè dal significato dei vari elementi. La prima distinzione operata dal linguista americano è quella tra forme libere’ e legate’ : quella legata è « una forma linguistica che non viene mai pronunciata da sola» (ad es. -in gdei gerundi inglesi), mentre tutte le altre forme sono li­ bere (cfr. ivi, p. 185). Un’altra distinzione è quella tra forme ‘complesse’ e ‘semplici ’ : è complessa « una forma linguistica che ammetta una parziale somiglianza fonetico-semantica con qualche altra forma linguistica» (ivi, p. 186); ad esempio, le parole inglesi blackberry, ‘mora’, cranberry, ‘mirtillo’, strawberry, ‘fragola’, sono forme complesse, in quanto conten­

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gono tutte la forma -berry. Semplice è invece «una forma linguistica che non ammetta alcuna somiglianza fonetico-semantica parziale con nessun’altra form a» (ibid.). Una volta definiti i tipi di forme possibili, si tratta di raggrupparle in classi: si hanno, perciò, le cosiddette “classi di forme” (nella traduzione italiana, «classi form ali»). Mediante la no­ zione di classe di forme, Bloomfield può rivedere la concezione tradi­ zionale delle parti del discorso, che, essendo basata su criteri semantici troppo generici, va incontro a difficoltà: ad esempio, ‘fuoco’, essendo un nome, dovrebbe indicare una cosa, ma il fuoco può essere conside­ rato anche come un’azione, o un processo (cfr. ivi, pp. 310-1). Le classi di forme i cui membri sono parole sono definite ‘classi di parole’ ; le parti del discorso sono le «massime classi di parole in una lingua» (cfr. Bloomfield, 1926, trad. it. p. 498). Per individuare le classi di forme, Bloomfield elaborò una tecnica ap­ posita, la cosiddetta “analisi in costituenti immediati”: un costituente* è un componente di una forma complessa (nel senso appena definito) ed è immediato quando non fa parte di un altro costituente. Prendiamo la frase inglese PoorJohn ran away ‘il povero John è corso via’ : i suoi costi­ tuenti immediati sono Poor John e ran away, i costituenti immediati di PoorJohn sono poor eJohn-, quelli di ran away, ran e away, infine, away è analizzato nei due costituenti immediati a- e way. Per l ’individuazione dei costituenti immediati, Bloomfield ricorre, sostanzialmente, all’ intuizione dei parlanti: «qualsiasi parlante inglese, che ci rifletta, ci dirà sicuramente che i costituenti immediati di PoorJohn ran away sono le due forme Poor John e ran aw ay» (Bloomfield, 1933, trad. it. p. 187). I linguisti postbloomfieldiani, in particolare Rulon S. Wells (1919-2008), andarono alla ricerca di criteri più espliciti. La no­ zione chiave utilizzata da Wells per individuare i costituenti immediati è quella di ‘espansione’ : classi di espressioni più ampie che possono oc­ cupare le stesse posizioni di classi di espressioni più semplici sono un’e­ spansione di queste ultime. Ad esempio, nella frase ‘il re di Inghilterra salutò il Parlamento’, i costituenti immediati sono ‘il re di Inghilterra’ e ‘salutò il Parlamento’, in quanto possono sostituire (o ‘espandere’ ), ri­ spettivamente i costituenti ‘il re’ e ‘salutò’ in una frase come ‘il re salutò’. Analogamente, i costituenti immediati di ‘il re di Inghilterra’ sono ‘il’ e ‘re di Inghilterra’, quelli di ‘salutò il Parlamento’, ‘salutò’ e ‘il Parlamento’ ecc. Alla fine, la frase è analizzata come segue (cfr. Wells, 1947, pp. 83-6): ( 1)

Il 11 re 111 di 1111 Inghilterra | salut 111 ò 11il 111 Parlamento

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Il numero delle barre verticali indica i vari livelli dei costituenti imme­ diati: quindi una sola barra separa i due costituenti immediati dell’ intera frase, mentre quattro barre separano i due costituenti immediati (‘d i’ e ‘Inghilterra’ ) del costituente ‘di Inghilterra’. In certi casi, osserva Wells, le stesse sequenze di morfemi possono essere analizzate in modi diversi; si tratta dei casi da lui battezzati (Wells, 1947, p. 97) ‘costruzioni omo­ nim e’, chiamate anche ‘ambiguità sintattiche’. Ad esempio, la sequenza inglese old men and women può essere analizzata come composta da due costituenti (old \ men and women) oppure da tre (old men \ and \ women)·. nel primo caso, il significato è ‘uomini e donne vecchi’, cioè persone anziane di ambo i sessi; nel secondo caso, è ‘uomini vecchi e donne’, ossia persone anziane di sesso maschile e persone di sesso fem­ minile di qualunque età. Un problema per l ’analisi in costituenti immediati è rappresentato dai cosiddetti “costituenti discontinui”, cioè da insiemi di parole eviden­ temente legate l’una all’altra, ma la cui successione lineare è interrotta da altre parole. Wells (1947, p. 104) definiva costituente discontinuo una sequenza a cui corrisponde una sequenza continua di significato iden­ tico. Facciamo un esempio dovuto a un altro linguista postbloomfieldiano, Charles F. Hockett (1916-2000): in una frase interrogativa come IsJoh n goin gw ith you ? (lett. ‘John sta andando con te?’ ), is e going for­ mano un costituente discontinuo, dato che corrispondono a un costi­ tuente continuo nella dichiarativa John is going with you (cfr. Hockett, 1958, pp. 154-5). Efa però difficile dare una rappresentazione adeguata dei costituenti discontinui, e giustificarne l ’esistenza ricorrendo alla sola analisi in costituenti immediati. In generale, si può osservare che, a par­ tire dagli anni Cinquanta, gli strutturalisti americani cominciarono ad avvertire sempre più chiaramente l ’insufficienza dei metodi puramente distribuzionali, e l ’esigenza di ricorrere a modelli di analisi che facessero un uso maggiore di concetti astratti. Il massimo sviluppo dei metodi distribuzionali si deve a Zellig S. Harris (1909-1992), forse il più acuto e originale dei linguisti postbloomfieldiani (cfr. Harris, 1951). Harris inoltre estese l’analisi sintattica alle relazioni tra i vari tipi di frasi, introducendo il concetto di ‘trasforma­ zione’ (cfr. Harris, 1952; 1957): ad esempio, una frase attiva come ‘Cesare ha passato il Rubicone’ e la corrispondente passiva Ί 1 Rubicone è stato passato da Cesare’ sono due “trasformate” l ’una dell’altra. Il termine era nuovo, ma il concetto di trasformazione non lo è certamente: la gram­ matica di Port-Royal riconduceva la frase ‘Dio invisibile ha creato il

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mondo visibile’ alla frase ‘Dio che è invisibile ha creato il mondo che è visibile’ (cfr. Arnauld, Lancelot, 1966 [1676], p. 70 e par . 4.3.2), ma di analisi del genere si possono trovare tracce addirittura in Prisciano (cfr. Keil, 1855-58, voi. in , p. 212). Il merito di Harris fu però quello di formalizzare questo concetto in modo rigoroso, definendo la trasforma­ zione come una relazione di equivalenza tra frasi, consistente in una cor­ rispondenza sistematica di morfemi: ad esempio, entrambe le frasi citate sopra contengono i morfemi ‘Cesare’, ‘Rubicone’ (questi due scambiati di posto) e ‘passare’ ; al morfema ‘ha’ della frase attiva corrisponde la combinazione di morfemi e stato’ della passiva, la quale inoltre con­ tiene un nuovo morfema, ‘da’. Queste relazioni possono essere espresse mediante una regola generale che rappresenta la trasformazione passiva; altre trasformazioni sono quella interrogativa, quella che introduce una frase subordinata in una frase principale ecc. I due problemi delle costruzioni omonime e delle ambiguità sintat­ tiche saranno risolti da Chomsky, nei suoi modelli di analisi sintattica elaborati a partire dagli anni Cinquanta, nei quali un ruolo decisivo avrà anche la nozione di trasformazione, con un valore però in parte diverso da quello che aveva in Harris. Su tutti questi argomenti torneremo nel prossimo capitolo (cfr. in particolare par . 7.2.3).

6.5. In sintesi A ll’ inizio di questo capitolo osservavamo come sia improprio definire il Novecento come il secolo della linguistica generale, dato che in questo periodo non sono certo mancati gli studi di linguistica storica: è però innegabile che molti dei concetti fondamentali della linguistica gene­ rale di oggi risalgono alla prima metà di tale secolo. Tra questi concetti ricordiamo l ’opposizione tra un livello astratto e un livello concreto nel linguaggio, che Saussure introduce mediante la dicotomia langue/parole (cfr. PARR. 6.2.2.2 e 6.3.1): questa dicotomia verrà spesso ridiscussa e ri­ definita, e qualche studioso, anche di oggi, la considera ingiustificata, ma rimane tuttora un riferimento ineludibile. L ’eredità saussuriana rimane anche nella nuova impostazione che, a partire dagli inizi del x x secolo, assume lo studio sincronico della lingua. Non si deve infatti dimenti­ care che, se nellO ttocento il punto di vista diacronico aveva avuto la prevalenza, con il successo della linguistica storico-comparativa, nei secoli precedenti era stato dominante quello sincronico: solo per fare

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qualche esempio, la grammatica greco-latina, la grammatica speculativa medievale, la linguistica di Port-Royal si collocano in una prospettiva esclusivamente sincronica. La grande novità introdotta da Saussure non sta dunque nell’aver segnalato che, oltre alla diacronia, esiste anche la sincronia, ma nell’aver delineato metodi nuovi per il suo studio. Questi metodi saranno diversi: da quello “sistemico” dello stesso Saussure e delle scuole di Praga e Copenaghen (cfr. par . 6.3.2), alla “sintassi di connessione” di Tesnière (cfr. par . 6.3.4), ai metodi distribuzionali dello strutturalismo americano (cfr. par . 6.4.3). Tutti questi studiosi, pur nella diversità delle loro impostazioni e delle loro tecniche, ricor­ rono ad alcune nozioni che dall’inizio del Novecento fanno parte del patrimonio concettuale della linguistica, in primo luogo quelle di fo­ nema e morfema. U n’altra di queste nozioni è quella di gruppo di pa­ role: i sintagmi della linguistica postsaussuriana, i nodi di Tesnière (cfr. par . 6.3.5), i costituenti degli strutturalisti americani (cfr. par . 6.4.3) sono diverse denominazioni di questa stessa entità. Un altro tratto comune a quasi tutte le correnti linguistiche della prima metà del Novecento è l ’abbandono dello psicologismo che ca­ ratterizzava la maggior parte di quelle del secolo precedente. Questo abbandono, che si manifesta in forme diverse, dalla “linguistica imma­ nente” di Hjelmslev (cfr. par . 6.3.4) al comportamentismo stretto di Bloomfield (cfr. par . 6.4.3), ha come conseguenza la concezione della lingua come un oggetto autonomo, la cui natura rimane però non ben chiarita. Alcuni linguisti, come i praghesi (cfr. PAR. 6.3.2) o Sapir (cfr. par . 6.4.2) insisteranno sulla funzione della lingua come mezzo di co­ municazione; altri, come Hjelmslev esplicitamente o i postbloomfieldiani implicitamente, la considereranno invece come un puro sistema di relazioni tra elementi. Abbiamo qui la prima manifestazione di quel contrasto tra paradigma funzionale e paradigma formale che ca­ ratterizza le discussioni tra i linguisti di oggi. Anche l ’opposizione tra il punto di vista relativistico (Te lingue sono irriducibilmente diverse Luna dall’altra”) e quello universalistico (“esistono proprietà o elementi comuni a tutte le lingue”), altrettanto centrale nel dibattito linguistico contemporaneo, ha alcuni precedenti nella prima metà del Novecento, in particolare nel dibattito tra Jakobson e Martinet sui tratti fonologici binari (cfr. par . 6.3.3). Su questi argomenti ci concentreremo dunque nel prossimo capitolo.

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La linguistica contemporanea

7.1. Quadro introduttivo A partire dalla seconda metà del Novecento, la linguistica ha conosciuto uno sviluppo tumultuoso: in tutte le università del mondo, occidentale ma non solo, si sono istituiti dipartimenti specifici di linguistica, mentre in precedenza la disciplina era per lo più insegnata in dipartimenti di fi­ lologia, classica e moderna; inoltre, ai due rami “classici” della disciplina, cioè linguistica storico-comparativa e linguistica generale, se ne sono ag­ giunti molti altri: per non citarne che alcuni, la linguistica applicata, che esamina i problemi dello studio e dell’apprendimento delle lingue, la linguistica computazionale, che applica strumenti informatici all’analisi dei materiali linguistici, la linguistica clinica, che esamina i disturbi del linguaggio, e altre. Dato che questo volume non può offrire una rassegna dettagliata della linguistica contemporanea, a queste sottodiscipline non faremo riferimento, tranne che a due di esse, la psicolinguistica e la sociolinguistica. Questi riferimenti sono, in un certo senso, obbligati, perché, come vedremo, i problemi dei rapporti tra linguaggio e mente, da un lato, e tra linguaggio e società, dall’altro, hanno caratterizzato in modo decisivo il dibattito linguistico degli ultimi decenni. Accen­ neremo comunque alla psicolinguistica e alla sociolinguistica solo per quanto riguarda i loro rapporti con la linguistica teorica e il loro impatto su di essa, senza entrare nei dettagli delle ricerche specifiche di ognuno di questi due campi. Per alcune panoramiche più esaurienti della lingui­ stica contemporanea, rimandiamo alle indicazioni bibliografiche che si trovano alla fine del volume. I richiami ai rapporti del linguaggio con la mente e con il contesto sociale, variamente valutati e discussi dalle diverse scuole linguistiche di cui parleremo, segnano a nostro parere la differenza fondamentale tra la linguistica dagli anni Cinquanta del Novecento in poi rispetto alla lin-

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guistica strutturale della prima metà del secolo: infatti, come abbiamo cercato di mostrare nel capitolo precedente, la linguistica strutturale, sia pure con sfumature diverse da scuola a scuola, considera il linguaggio come un’entità autonoma, in particolare polemizzando contro le con­ cezioni psicologistiche di buona parte della linguistica dell’Ottocento. Al contrario, la maggior parte delle correnti della linguistica contempo­ ranea concepiscono il linguaggio non come un sistema autonomo, ma come un’entità sociale o psicologica, anche se il rapporto tra linguaggio e società, o quello tra linguaggio e mente, è inteso in modo molto di­ verso, se non opposto, da parte dell’una o dell’altra di tali correnti. Da qualche anno, c ’è l ’abitudine di distinguere, all’interno della linguistica contemporanea, tra un “paradigma funzionale” e un “paradigma for­ male”: in base al primo, le strutture del linguaggio, come anche la sua storia evolutiva, sono considerate come determinate dalla funzione del linguaggio stesso come strumento di comunicazione; in base al secondo, queste stesse strutture sono invece, in larga parte, fondate su principi propri, indipendenti dall’uso comunicativo del linguaggio. Questa op­ posizione di paradigmi, come tutte quelle molto generali, non è in realtà così netta, non solo perché esistono spesso differenze anche notevoli tra i vari studiosi collocati all’interno di uno stesso paradigma, ma anche perché, negli ultimi tempi, assistiamo a dei tentativi di conciliazione tra i due punti di vista: tuttavia si tratta di una distinzione utile, in prima approssimazione, e quindi l’adotteremo anche qui. Per la maggior parte dei linguisti “formalisti”, a cominciare dal più famoso, cioè Noam Chomsky (n. 1918), sostenere che il linguaggio è indipendente dal suo uso comunicativo non significa però adottare una posizione simile a quella della linguistica strutturale: come vedremo in dettaglio, infatti, per Chomsky la linguistica è «una branca particolare della psicologia cognitiva» (Chomsky, 2006 [1968], trad. it. p. 2). Sia Chomsky che i suoi avversari funzionalisti considerano un linguaggio come un’entità mentale, anzi, in ultima analisi, biologica: tuttavia, mentre il primo so­ stiene che si tratta di un’entità mentale specifica, i secondi affermano che è da ricondurre a caratteristiche generali della mente umana, tra cui, in particolare, quelle relative al suo uso come strumento di comunica­ zione tra individui diversi. Non è un caso che sia Chomsky il linguista che per primo abbiamo citato in questo capitolo, nonché quello a cui dedicheremo il maggiore spazio: sia che si accetti la sua impostazione teorica (come l’autore del presente libro ammette senza alcuna reticenza), sia che la si respinga, è

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indiscutibile che buona parte delle ricerche linguistiche a partire dagli anni Cinquanta del Novecento sia stata stimolata dalle sue idee, o per svilupparle, oppure, come è forse accaduto nella maggior parte dei casi, per contestarle, anche violentemente. Abbiamo detto “ buona parte”, quindi non tutte: esistono infatti alcune correnti del pensiero linguistico contemporaneo indipendenti da quella chomskiana, anche se poi a esse si sono spesso richiamati gli oppositori di Chomsky. In particolare, più o meno nella stessa epoca in cui Chomsky cominciò a presentare le sue prime riflessioni sul linguaggio, cioè gli anni Cinquanta del Novecento, apparvero anche alcuni studi, in massima parte dovuti a filosofi, che indicavano una nuova prospettiva di analisi linguistica, cioè quella che poi verrà chiamata ‘pragmatica’. D i questi studi ci occuperemo nel pa­ ragrafo 7.2.1, mentre nel paragrafo 7.2.2 parleremo della svolta impressa agli studi tipologici da Joseph H. Greenberg (1915-2001). L ’origine e le prime fasi (fin circa all’ inizio degli anni Settanta del Novecento) della teoria linguistica chomskiana, nota come ‘grammatica generativa’ (per il significato di questo termine, cfr. par . 7.2.3.1) sono trattate nel para­ grafo 7.2.3. Nel paragrafo 7.3. ci occuperemo di alcune questioni solle­ vate dalla grammatica generativa e tuttora oggetto di accesa discussione tra linguisti “formalisti” da un lato e “funzionalisti” dall’altro. La scelta degli argomenti affrontati è quindi molto parziale ed è condizionata non solo dai limiti di spazio del presente volume, ma anche, com’è ine­ vitabile, dagli interessi e dalle conoscenze dell’autore.

7.2. U n’epoca di svolta 7.2.1. Linguaggi formali e linguaggio naturale: la pragmatica Nel paragrafo 5.1, abbiamo detto che la logica e la linguistica, dopo aver marciato di pari passo dall’antichità fino alla fine del Settecento, tanto che è spesso difficile distinguere il contributo dell’una da quello dell’altra all’analisi del linguaggio naturale, a partire dall’inizio del XIX secolo cominciano a separarsi. Da un lato, infatti, si impone l ’idea che le ca­ tegorie linguistiche non sono di natura logica, ma psicologica; inoltre, la linguistica storico-comparativa, interessata in primo luogo a ciò che nelle lingue cambia, non le considera più come manifestazioni di una struttura invariabile e universale del pensiero. D ’altra parte, la logica, a partire dalla metà dell’ Ottocento, da “arte di pensare” si trasforma in

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calcolo matematico. Questo “divorzio” tra logica e linguistica si accentua tra la fine dell’Ottocento e l ’ inizio del Novecento, quando i più impor­ tanti logici e filosofi del linguaggio dell’epoca, come il tedesco Gottlob Frege (1848-1915), l’inglese Bertrand Russell (1872-1970) e l ’austriaco Ludwig Wittgenstein (1889-1951), assumono un atteggiamento di svalu­ tazione del linguaggio naturale, considerato come un sistema imperfetto e, soprattutto, fonte di equivoci concettuali. Ad esempio, l’ultimo dei tre studiosi citati scrive: « il linguaggio traveste il pensiero. Lo traveste in modo tale che dalla forma esteriore dell’abito non si può inferire la forma del pensiero rivestito; perché la forma esteriore dell’abito è for­ mata a ben altri fini che al fine di far riconoscere la forma del corpo» (Wittgenstein, 1922, trad. it. p. 41, proposizione 4.002). A questo lin­ guaggio che «traveste il pensiero» il filosofo austriaco contrappone un «linguaggio segnico il quale si conformi alla grammatica logica - alla sintassi logica» (ivi, p. 35, proposizione 3.325). Caratteristica fondamen­ tale di questo «linguaggio segnico» è una perfetta corrispondenza con la realtà che denota: «alla configurazione dei segni semplici nel segno proposizionale corrisponde la configurazione degli oggetti nella situa­ zione» (ivi, p. 27, proposizione 3.21). Una simile corrispondenza biuni­ voca tra segni e oggetti denotati manca nelle lingue naturali, e questo è il motivo per cui esse sono, a parere di Wittgenstein, fonte di equivoci. Lo stesso Wittgenstein, trasferitosi a Cambridge, maturerà nei de­ cenni successivi una visione del linguaggio completamente diversa, esposta in varie opere, tutte pubblicate postume, la più nota delle quali sono le Ricerchefilosofiche (Wittgenstein, 1953). Fin dall’inizio di questo volume, Wittgenstein smonta l ’idea che il significato delle parole con­ sista negli oggetti che esse denotano. Ad esempio, qual è l’oggetto in­ dicato da parole come ‘là’ oppure ‘questo’ ? Come si può insegnare il significato di parole di questo genere? «Indicando luoghi e oggetti, ma qui l ’indicare ha luogo anche ndYuso delle parole, e non soltanto nell’apprendimento dell’uso. Che cosa designano le parole di questo linguaggio ? - Che cosa, se non il modo del loro uso, dovrebbe rivelare ciò che designano?» (ivi, trad. it. p. 14). In questa seconda fase del suo pensiero, Wittgenstein considera dunque il significato di una parola come il suo uso nel linguaggio, determinato da una serie di convenzioni implicite adottate da una comunità di parlanti. Questa concezione del significato come uso, e, in generale, del linguaggio come insieme di abi­ tudini e convenzioni di una data comunità di parlanti, verrà in seguito etichettata ‘pragmatica’, termine che Wittgenstein non usa, né come

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sostantivo né come aggettivo. Il termine in questione, in realtà, era già stato introdotto qualche anno prima dal filosofo americano Charles F. Morris (1901-1979), in un’opera dedicata alla teoria dei segni in generale, o ‘semiotica’ (Morris, 1938). Morris utilizzava questo nuovo termine per indicare un’ulteriore dimensione dell’uso dei segni, oltre a quelle già ri­ conosciute della sintassi (“sintattica”, nei suoi termini) e della semantica. La sintassi consiste nel rapporto dei segni tra loro; la semantica, nelle «relazioni dei segni con gli oggetti cui sono applicabili» ; la pragmatica, nella «relazione dei segni con gli interpreti», cioè con gli utenti della lingua (cfr. ivi, pp. 18-20). Questa tripartizione della teoria dei segni in sintassi, semantica e pragmatica fu ripresa qualche anno dopo da Ru­ dolf Carnap (cfr. par . 6.3.4), che sostenne, tra l ’altro, come la differenza fondamentale tra lingue naturali e linguaggi formali consista nella pre­ senza nelle prime, ma non nei secondi, di una componente pragmatica (cfr. Carnap, 1942, p. 12). Wittgenstein, pur non utilizzando il termine pragmatica, assegnava in realtà a questa componente un ruolo molto più radicale rispetto a Morris o a Carnap. Per questi due filosofi, infatti, in un certo senso la pragmatica si aggiunge alla semantica: lo studio del rapporto tra i segni e gli oggetti da loro indicati (i designata) può pre­ scindere dalle loro condizioni d ’uso, a parte il caso di espressioni come ‘io’, ‘tu’, ‘ora’, ‘qui’ ecc. (i cosiddetti “deittici”), il cui significato neces­ sariamente dipende dal contesto in cui sono enunciati. Per W ittgen­ stein, invece, non esiste una relazione tra segni e designata indipendente dall’uso dei segni stessi, di qualunque specie siano. In altri termini, po­ tremmo dire che per Morris e Carnap la pragmatica è una componente che si aggiunge alla sintassi e alla semantica; per Wittgenstein, invece, è il linguaggio naturale nella sua totalità a essere di natura pragmatica. Una simile prospettiva radicalmente pragmatica caratterizza anche l’opera del filosofo del linguaggio John L. Austin (1911-1960), che mo­ stra alcune affinità con Wittgenstein anche sotto alcuni aspetti pura­ mente esteriori. Wittgenstein era docente a Cambridge e Austin a Oxford, anche se non ci sono tracce documentate di rapporti tra i due; anche i saggi più importanti di Austin apparvero postumi (Austin, 1962; 1975) e non vi compare il termine “pragmatica”. A parte queste coin­ cidenze esterne e una generale concezione del linguaggio come uso, i due studiosi si muovono su terreni abbastanza diversi. Austin parte dalla distinzione tra enunciati ‘performativi’ e enunciati ‘constativi’ (o ‘con­ statativi’ ). Questi ultimi sono quelli normalmente esaminati dai logici, a partire da Aristotele, cioè quelli che sono veri o falsi (ad esempio la terra

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gira intorno al sole ’ ). Al contrario, non si può parlare di verità o di falsità per gli enunciati performativi: se un sindaco dice davanti a due sposi Vi unisco in matrimonio’ oppure se io dico a qualcuno ‘ti prometto che 10 farò’, non descrivo uno stato di cose che sussiste oppure no (come 11 fatto che la terra giri o meno intorno al sole), ma eseguo (perform, in inglese) un’azione. Questa azione può avere, nei termini di Austin, un esito ‘felice’ oppure ‘infelice’, in base al soddisfacimento di determi­ nate condizioni: così, se a pronunciare l ’enunciato ‘vi dichiaro marito e moglie’ non è un sindaco o un suo delegato, l ’atto compiuto è infelice, cioè non è valido; allo stesso modo, è infelice un enunciato come ‘ti pro­ metto che lo farò’ se non ho intenzione di adempiere alla mia promessa. La prima conclusione di Austin è quindi che gli enunciati constativi si caratterizzano in base alla dimensione ‘vero’ ~ ‘falso’ e gli enunciati per­ formativi in base a quella ‘felice’ ~ ‘infelice’. Questa conclusione è però provvisoria: infatti le due dimensioni possono intersecarsi Luna con l ’altra, in quanto felicità e infelicità riguardano anche gli enunciati con­ stativi, e, viceversa, verità e falsità anche quelli performativi. Un esempio del primo caso è un enunciato constativo come ‘tutti i figli di Giovanni sono calvi, ma Giovanni non ha figli’, in cui la seconda delle due frasi coordinate viola la ‘presupposizione’ della prima (cioè che Giovanni ha figli; cfr. Austin, 1962, trad. it. pp. 54-5). Un esempio del secondo può essere un verdetto (quindi un enunciato tipicamente performativo) che abbia dichiarato colpevole un determinato imputato: «resta da vedere se il verdetto è stato giusto o equo» (ivi, p. 59), il che dipende dalla verità dell’enunciato ‘l ’ imputato x ha commesso questo delitto’. Addirittura, osserva Austin, un enunciato può essere vero o falso a seconda delle sue circostanze di impiego e di chi lo impiega: ‘la Francia è esagonale’ «per i generali potrebbe anche andare, ma non per i geografi» (ivi, p. 60). Occorre quindi, prosegue Austin, «riflettere di nuovo sull’antitesi performativo-constativo» e costruire «una nuova teoria, che sia insieme completa e generale, di quel che si fa nel dire qualcosa in tutti i sensi di questa espressione ambigua, e di quello che io chiamo l’atto linguistico (.speech-act)» (ib id .). Austin analizza dunque il parlare come un fare che si realizza compiendo, nello stesso momento, tre tipi di atti lingui­ stici: ‘locutorio’, ‘illocutorio’ e ‘perlocutorio’. L ’atto locutorio consiste nella pronuncia di determinate parole e sintagmi. L ’atto illocutorio è una domanda o una risposta, un’informazione, un’assicurazione o un avvertimento, un verdetto o un’intenzione, il conferimento di un titolo, un ordine o una preghiera ecc.; quindi gli enunciati performativi non

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sono che un particolare tipo di atti illocutori. L ’atto perlocutorio è il tentativo di produrre un determinato effetto sul nostro interlocutore, come ottenere da lui un’informazione, fargli compiere una certa azione ecc. (cfr. Austin, 1975, trad. it. pp. 69-76). Mediante la nozione di atto linguistico, Austin supera l’opposizione, risalente ad Aristotele, tra l’as­ serzione, che può essere vera o falsa, e gli altri tipi di enunciati, come la preghiera, che non avrebbero questa proprietà (cfr. PAR. 2.3.2). L ’op­ posizione vero~falso, incrociata con quella felice~non felice, è invece pertinente a ogni tipo di discorso: ‘Socrate corre’ è vera se Socrate ha la capacità di correre e falsa in caso contrario; ma la felicità tanto delle asserzioni ‘Socrate corre’, ‘Socrate non corre’ quanto della preghiera (o comando) ‘Socrate, corri!’ dipende dalla verità o dalla falsità di ‘Socrate esiste’. Qui non ci addentreremo ulteriormente nella presentazione della dottrina austiniana degli atti linguistici. Ciò che è interessante notare, in prospettiva storica, è che con le ricerche del filosofo di Oxford la pragmatica segnava un notevole passo avanti rispetto alle enunciazioni sostanzialmente programmatiche di Morris e di Carnap, e la concezione del linguaggio come uso assumeva dei connotati più precisi rispetto a quelli che aveva nelle ultime riflessioni di Wittgenstein. La linea di ricerca inaugurata da Austin, tuttavia, comincerà a godere di grande successo soltanto a partire dagli ultimi anni Sessanta del Novecento, in particolare con i contributi defl’americano John R. Searle (n. 1932) e del britannico H . Paul Grice (1913-1988). Searle (1969) rielabora sotto vari aspetti la dottrina degli atti lingui­ stici, tra l ’altro sdoppiando l’atto locutorio in ‘atto enunciativo’ e ‘atto proposizionale’. Il primo tipo di atto consiste nell’enunciazione di pa­ role e morfemi; il secondo, nell’operazione di predicazione: ad esempio, tutti e quattro gli enunciati ‘Gianni parte’, ‘Gianni parte?’, ‘Gianni, parti!’ e ‘se Gianni partisse!’ realizzano lo stesso atto proposizionalep (la proprietà del partire è predicata di Gianni), mentre è diversa la loro forza illocutoria (rispettivamente, assertiva, interrogativa, imperativa e ottativa). Searle (1975) nota poi l’esistenza di ‘atti linguistici indiretti’, come quello costituito da enunciati come ‘puoi passarmi il sale?’ : sintat­ ticamente è una frase interrogativa, ma come atto illocutorio non è una domanda, ma un ordine o una preghiera. In questi casi, osserva Searle (ivi, trad. it. p. 254), « il parlante comunica all’ascoltatore più di quel che egli effettivamente non dica, in quanto fa assegnamento sul bagaglio di cognizioni sia linguistiche che non linguistiche, da entrambi condiviso,

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e insieme, genericamente, sulle facoltà di ragionamento di cui dispone l ’ascoltatore». La ‘logica della conversazione’ di Grice (1975; il testo risale in realtà al 1967), a cui Searle si richiamava nel saggio citato, vuole spiegare i casi in cui « il parlante comunica all’ascoltatore più di quel che egli effetti­ vamente non dica». Alla base di questa logica sta il ‘principio di coo­ perazione’, articolato in quattro categorie di ‘massime conversazionali’ : massime della ‘quantità’, della ‘qualità’, della ‘relazione’ e del ‘modo’ (cfr. Grice, 1975, trad. it. p. 204). Le massime della quantità richiedono al parlante di fornire tutta e sola l ’informazione di cui è a conoscenza; quelle della qualità di essere veritiero e di asserire solo ciò di cui si hanno prove adeguate; quelle della relazione consistono in una sola: “sii perti­ nente”; quelle del modo richiedono di evitare oscurità, ambiguità ecc. (cfr. ivi, p. 205). La conversazione è regolata da queste massime, nel senso che ognuno dovrebbe seguirle e si aspetta che gli altri interlocutori fac­ ciano altrettanto. Le massime conversazionali possono però essere, in certi casi, “osten­ tatamente violate”, o “sfruttate”, per ottenerne un vantaggio comunica­ tivo: questo è il caso di quelle che Grice chiama ‘implicature conversa­ zionali’. Immaginiamo un dialogo tra due studenti, Pietro e Paolo: (1) Pietro: “Andiamo al cinema stasera?”

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spiegazione di tipo essenzialmente sociologico, basata sulla nozione di ‘cortesia’ (politeness) (cfr. Brown, Levinson, 1987; Levinson, 2000): nella conversazione, il parlante assume tanto atteggiamenti di ‘cortesia positiva’ che di ‘cortesia negativa’, ossia cerca da un lato di accattivarsi la simpatia e la solidarietà dell’ascoltatore, ma dall’altro vuol fare vedere che ne rispetta l ’autonomia e l’ indipendenza. In un enunciato come ‘Puoi passarmi il sale?’, l’apparente forma di domanda vuole salvare l’autonomia dell’ascoltatore, dandogli la possibilità, almeno sulla carta, di rispondere negativamente. Nel caso del dialogo tra i due studenti riportato sopra, la risposta di Paolo a Pietro potrebbe essere motivata dal desiderio di non apparire troppo brusco con un semplice “no”. L ’an­ tropologo francese Dan Sperber (n. 1942) e la linguista inglese Deirdre W ilson (n. 1941) sono ricorsi invece alla nozione di ‘pertinenza’ (velevance; cfr. Sperber, Wilson, 1986), cioè considerano come scopo della comunicazione il trasmettere il maggior numero possibile di nuove co­ noscenze con il minimo sforzo. Torniamo ancora al dialogo tra i due studenti: rispondendo in modo indiretto a Pietro, Paolo non solo gli comunica il rifiuto della sua proposta, ma lo informa anche dei suoi im­ pegni del momento. Sperber e W ilson non sostengono che queste stra­ tegie comunicative sono coscienti (cioè che Paolo, nel nostro esempio, risponde volutamente in quel modo, per ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo), ma che fanno parte della nostra struttura cogni­ tiva, biologicamente condizionata.

(2) Paolo: “Devo studiare per un esame”

Paolo non risponde a Pietro né “sì”, né “no”, e neppure “non ne ho voglia”, oppure “non mi piace quel film”, ma parla dei suoi impegni di studio; quindi, viola ostentatamente la massima della relazione, che gli impor­ rebbe di essere pertinente. Pietro però presume che Paolo rispetti il prin­ cipio di cooperazione, e che quindi questa violazione sia soltanto ap­ parente: infatti, entrambi sono studenti e sanno che la preparazione di un esame richiede tempo, tempo che sarebbe perso andando al cinema; quindi Pietro può ricavare dalla risposta di Paolo, mediante una implicatura conversazionale, l’ informazione che quest’ultimo non vuole an­ dare al cinema. Grice riconduceva il principio di cooperazione a una generica esi­ genza di «razionalità» (cfr. ivi, p. 207); studiosi successivi hanno cer­ cato di darne una spiegazione più approfondita. A d esempio, Penelope Brown (n. 1944) e Stephen C. Levinson (n. 1947) ne hanno dato una

7.2.2. La tipologia linguistica di Greenberg Nella storia della tipologia linguistica, possiamo distinguere, pur all’in­ terno di prospettive molto differenti, due grandi linee di ricerca: la ti­ pologia sintattica, basata sull’analisi dell’ordine delle parole nella frase, e la tipologia morfologica, basata sull’analisi della struttura della parola. La prima linea di ricerca ha inizio con la distinzione tra lingue analoghe e traspositive introdotta da Girard e Beauzée intorno alla metà del Set­ tecento (cfr. par . 4.4.1.2) e prosegue, nell’Ottocento, con gli studi di Weil e di Gabelentz (cfr. par . 5.3.3) e, nel Novecento, con quelli di vari altri linguisti, tra i quali anche Tesnière (cfr. Tesnière, 1959, capp. 12-15). La tipologia morfologica risale invece a Humboldt e ai fratelli Schlegel, con la distinzione tra lingue isolanti, agglutinanti, flessive e polisinte­ tiche (cfr. PAR. 5.3.3), ripresa poi, in un quadro molto più articolato e

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complesso, da Sapir (cfr. par . 6.4.2). D i fatto, fu questa seconda linea di ricerca ad avere molto più successo: l ’interesse per la tipologia sin­ tattica rimase confinato a pochi specialisti, mentre la distinzione delle lingue nei quattro tipi morfologici citati entrò a far parte delle nozioni di base della linguistica. L ’elementarità e l’insufficienza di questa classi­ ficazione furono rilevate, oltre che da Sapir, anche da Hjelmslev (1963, trad. it. p. 106), che le contrapponeva il suo ambizioso programma di tipologia come «analisi della parentela linguistica tra categorie», pro­ gramma però destinato a rimanere tale. La conclusione che si poteva trarre alla metà del Novecento era che i risultati raggiunti dalla tipologia linguistica erano molto modesti (soprattutto se confrontati con quelli dell’altro grande ramo della linguistica ottocentesca, quella storico­ comparativa) e poco promettenti di sviluppi futuri. Con il fondamentale saggio del 1963 di Joseph H. Greenberg (19152001) la situazione cambia radicalmente: la tipologia non è più il “ bam­ bino gracile” della linguistica, ma diviene uno dei suoi rami più produt­ tivi. Quali sono gli elementi del saggio di Greenberg che hanno prodotto questo drastico cambiamento ? Da un lato, una classificazione tipologica delle lingue non morfologica, ma sintattica; dall’altro, la formulazione di enunciati implicazionali: ossia, non del tipo “la lingua x è del tipo y ”, ma “se una lingua x ha la caratteristica y, allora ha anche la caratteristica z ”. In realtà, nessuno di questi due elementi era totalmente nuovo: la tipologia sintattica era nata prima di quella morfologica; e l’idea degli universali implicazionali si trova già in Gabelentz ed è concretamente realizzata nel saggio di Jakobson sul linguaggio infantile e l’afasia (cfr. par . 6.3.3). L ’ idea di Greenberg è stata quella di formulare in termini implicazionali la tipologia dell’ordine delle parole (o, meglio, dei co­ stituenti), ravvivando così una tradizione che era stata in buona parte dimenticata. Non è forse un caso che Greenberg non citi né Weil né Tesnière, mentre nella prima nota del suo saggio riconosce il suo debito nei confronti degli universali implicazionali di Jakobson. Greenberg (1963) si basa su un campione di trenta lingue, non tutte imparentate tra loro dal punto di vista genealogico. Le principali combi­ nazioni sintattiche analizzate sono le seguenti. 1. La presenza, in una data lingua, di preposizioni (Pr) oppure di po­ sposizioni (Po). Una lingua che fa uso di posposizioni anziché di pre­ posizioni è, ad esempio, il turco: in questa lingua, ògle yemeginden soma significa letteralmente ‘di mezzogiorno pasto dopo’, cioè ‘dopo pranzo’. 2. La posizione del verbo (v) rispetto al soggetto (s) e all’oggetto (o)

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nella frase dichiarativa. Teoricamente, sei ordini sono possibili: svo, sov, vso, vos, osv. Tuttavia, soltanto i primi tre sono attestati da un nu­ mero considerevole di lingue; il quarto solo da pochissime lingue, il sesto (forse) da una sola e il quinto, per quanto se ne sa, da nessuna. D i fatto, quindi, i tipi di ordine diffusi sono solo i primi tre, ossia svo, sov e vso. 3. L ’ordine dell’aggettivo (a ) rispetto al nome (n ) che esso modifica: in certe lingue prevale l’ordine an (come in turco, krrmizi $arap), mentre in altre lingue prevale l ’ordine NA (come in italiano, ‘vino rosso’ ). 4. L ’ordine del complemento di specificazione o, come dice Greenberg ricorrendo alla terminologia della grammatica latina, del genitivo ( g) ri­ spetto al nome (n) che esso modifica. In turco l’ordine è GN: Gianni’n in evi (‘Gianni-di-casa’), Gianni’n in babasmm evi (‘Gianni-di-padre-di-casa’); in italiano l’ordine è ng : ‘la casa di Gianni’, ‘la casa del padre di Gianni’. L ’esame del campione di lingue selezionato da Greenberg mostra che esistono delle correlazioni sistematiche tra l’ordine degli elementi in questi quattro tipi di costruzioni, ossia tra a) Pr oppure Po, b) vso e svo oppure sov, c) an oppure NA, d) GN oppure ng . Queste correlazioni sistematiche possono essere riassunte come segue: (3) a. VSO/pr/NG/NA b. SVO/Pr/NG/NA c. sov /po/gn /an d. sov /po/ gn /na

Illustriamo il significato di ciascuna di queste quattro formule. (3a): se una lingua presenta l’ordine vso, allora essa usa preposizioni, colloca il genitivo dopo il nome e l ’aggettivo dopo il nome; (3b): se una lingua presenta l’ordine svo, allora essa usa preposizioni, colloca il genitivo dopo il nome e l’aggettivo dopo il nome; (30): se una lingua presenta l ’ordine SOV, allora essa usa posposizioni, colloca il genitivo prima del nome e l’aggettivo prima del nome; (3d): se una lingua presenta l’ordine SOV, allora essa usa posposizioni, colloca il genitivo prima del nome e l’aggettivo dopo il nome. Esempi del tipo (3a) sono la maggior parte delle lingue semitiche (tra cui l’arabo e l ’ebraico) e, tra le lingue indo­ europee, le lingue celtiche; del tipo (3b), le lingue romanze; del tipo (30), il giapponese e le lingue altaiche (ad es. il turco); del tipo (3d), il basco e altre lingue. Come si vede, tutte queste formule seguono lo schema “se... allora”, cioè quello di una implicazione: sono quindi degli ‘univer­ sali implicazionali’. Degli universali formulati da Greenberg (1963), al­

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cuni sono assoluti’, altri ‘statistici’. Ad esempio, l ’universale numero 3 dell’elenco di Greenberg afferma che le lingue VSO sono sempre preposi­ zionali; il numero 4 che le lingue SOV sono posposizionali «con una fre­ quenza di gran lunga più che casuale » : il primo dei due è quindi un uni­ versale assoluto, mentre il secondo è statistico. Tra i primi venticinque universali elencati in Greenberg (ibid.), sedici sono assoluti, e gli altri nove statistici. E quindi inesatto dire, come si fa spesso, a cominciare da Chomsky (1965, trad. it. p. 156) che Greenberg abbia descritto semplicemente delle tendenze statistiche. L ’esistenza di universali statistici mostra però che le correlazioni d ’or­ dine sintetizzate in (3), cioè quelle chiamate da Greenberg concordi’ {harmonic), presentano numerose eccezioni. Ad esempio, le lingue slave seguono lo schema (3b), ma, invece di mettere l’aggettivo dopo il nome, lo mettono prima; l’amarico (una lingua dell’Etiopia) segue lo schema ( 3c), ma ha preposizioni invece che posposizioni; l ’inglese è preposizio­ nale e ha l ’ordine VO, ma colloca sempre l’aggettivo, e a volte il genitivo, prima del nome; e altre eccezioni non mancano. È quindi necessario spie­ gare il motivo delle relazioni concordi e della loro maggiore frequenza. Greenberg (1963, trad. it. p. 140) le riconduce a un non meglio definito «concetto psicologico di generalizzazione», in base al quale, ad esempio, «la relazione di possesso sarebbe assimilata ad altre nozioni relazionali, ad esempio le relazioni spaziali» (ivi, p. 14 1). L ’insufficienza di questa spie­ gazione è abbastanza evidente: alcuni successivi lavori di tipologia (come Hawkins, 1983; Dryer, 1992.) siano andati alla ricerca di principi più pro­ fondi per spiegare, da un lato, gli ordini concordi, e, dall’altro, i numerosi casi di ordini discordi che si riscontrano nelle varie lingue.

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accenneremo più avanti (cfr. PAR. 7.3). Adotto questa presentazione perché in questi due decenni si è verificata, a mio parere, la svolta che dà il titolo a questa sezione, con la nascita, oltre che della grammatica generativa, anche della pragmatica e della tipologia di Greenberg, delle quali si è parlato nei paragrafi precedenti. Che cosa significa ‘grammatica generativa’ ? Con grammatica, Chomsky intende ‘teoria della lingua’ ; con generativa, le proprietà che questa teoria deve possedere: essere cioè ‘esplicita’ e ‘produttiva in base a regole’. Una grammatica esplicita deve rendere conto delle intuizioni che il parlante nativo di una data lingua ha relativamente a essa, in primo luogo la capacità di distinguere le frasi ben formate, o ‘grammaticali’, da quelle non ben formate, o ‘agrammaticali’. Questa nozione di ‘gram­ maticalità’ ha un preciso valore tecnico e non deve essere confusa con quella di correttezza, propria della grammatica normativa: il parlante nativo di una lingua può giudicare ben formate anche frasi che la gram­ matica normativa censura come scorrette. La scuola italiana insegna (o almeno insegnava) che una frase come ‘A me questo libro non mi piace’ è scorretta, ma qualunque parlante italiano la usa, almeno nel parlato. Viceversa, molte lingue, come quelle di popolazioni non acculturate, o come i dialetti (ricordiamo che la differenza tra dialetto e lingua è pura­ mente sociale, non linguistica; cfr. par . 5.5.2.), non hanno grammatiche normative: eppure i loro parlanti nativi distinguono perfettamente le frasi che suonano loro ben formate, da quelle che non avvertono come tali. La grammatica di una data lingua è produttiva se è in grado di ge­ nerare, mediante un apparato di regole esplicite, un insieme infinito di frasi grammaticali, nel senso tecnico appena definito, allo stesso modo in cui una formula aritmetica come zn è in grado di generare un insieme infinito di numeri naturali (le potenze di 2).

7.1.3. Le prime fasi della grammatica generativa 7.2.5.J. D efinizione

γ.2.3.2. L ivelli d i rappresentazione, dipendenza dalla struttura, ricorsività, trasformazioni

La grammatica generativa è la teoria linguistica elaborata da Noam Chomsky (per circa sessant’anni professore al Massachusetts Institute o f Technology di Cambridge e oggi all’ Università deH’Arizona) e dai suoi allievi a partire dagli anni Cinquanta del Novecento; la sua formu­ lazione ha in seguito subito numerose revisioni. In questo paragrafo, ne descriveremo il primo periodo di elaborazione, dall’inizio degli anni Cinquanta fino alla fine degli anni Sessanta circa; alle fasi successive

Chomsky era stato allievo di Harris all’ Università di Pennsylvania, nella seconda metà degli anni Quaranta: si era dunque formato in un ambiente postbloomfieldiano; tuttavia, proprio in quel periodo, o poco più tardi, sia l ’impostazione strettamente distribuzionalista della linguistica postbloomfieldiana, sia la psicologia comportamentista che ne stava alla base cominciavano a entrare in crisi. Nel paragrafo 6.4.3 abbiamo parlato di un problema difficilmente risolvibile all’ interno di una prospettiva stretta­

zoo

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mente distribuzionalista: quello dei cosiddetti “costituenti discontinui”. Una soluzione adeguata a questo problema è possibile solo superando l ’analisi in costituenti immediati mediante l’adozione di un modello che faccia uso di concetti astratti, nel senso di entità non direttamente perce­ pibili coi sensi. Un tale modello è quello elaborato da Chomsky a partire dagli anni Cinquanta, riprendendo da Harris il termine di trasformazione, ma assegnandovi un valore abbastanza diverso. Infatti, mentre in Harris ‘trasformazione’ indica una relazione trafrasi, in Chomsky indica una re­ lazione tra strutture, diverse per grado di astrattezza. In Chomsky (1965), chiamerà la struttura astratta ‘struttura profonda’ e quello osservabile ‘struttura superficiale’. Indipendentemente dalla terminologia adottata, che cambierà spesso attraverso le varie fasi della grammatica generativa, l ’idea fondamentale di questa teoria è che una frase, o una struttura lingui­ stica in genere, ha più livelli di rappresentazione*. Questa idea di fondo ha diverse origini. Chomsky aveva già fatto ricorso alla postulazione di ‘forme astratte soggiacenti’ nelle sue tesi universitarie di primo e di secondo livello, per spiegare alcuni feno­ meni morfofonetici (cioè di realizzazioni fonetiche diverse dello stesso morfema) nell’ebraico moderno. Chomsky ha spesso ricordato l ’inco­ raggiamento che ebbe, in questa direzione, dal logico e filosofo della scienza israeliano Yehoshua Bar-Hillel (1915-1975), già allievo di Rudolf Carnap. Quest’ultimo aveva sostenuto, a partire dagli anni Quaranta, che in tutte le scienze della natura, a cominciare dalla fisica, è necessario il ricorso a concetti astratti, cioè non riducibili a entità osservabili. BarHillel sosteneva che lo stesso procedimento doveva essere adottato in linguistica: Chomsky trovava quindi una conferma della propria impo­ stazione nel tipo di filosofia della scienza che allora si stava imponendo. D ’altra parte, l ’esigenza di un maggior livello di astrazione cominciava a essere avvertita all’interno della stessa psicologia comportamentista. Da questo punto di vista, è particolarmente significativa la comunicazione che lo psicologo e fisiologo Karl Lashley (1890-1958) presentò a un con­ vegno dedicato ai “Meccanismi cerebrali nel comportamento”, tenutosi nel 1948. Lashley (1951, p. 113) osservava anzitutto che «le sequenze di azioni [...] non possono essere spiegate in termini di successioni di sti­ moli esterni», implicando così che un’analisi di tipo comportamentista, cioè solo in termini di stimoli e risposte, è insufficiente. Questa critica al comportamentismo prendeva le mosse proprio da un argomento di tipo linguistico, per poi estendersi a tutti i fenomeni mentali («cerebrali», diceva Lashley, per il quale un termine come “mente” era probabilmente

LA LINGUISTICA CONTEMPORANEA

ΖΟΙ

ancora tabù): « è certo che qualsiasi teoria della forma grammaticale che la riconduca al legame associativo diretto delle parole della frase non coglie la struttura essenziale del discorso» (ivi, p. 116) e « i problemi sollevati dall’organizzazione del linguaggio mi sembrano caratteristici di quasi tutte le altre attività cerebrali» (ivi, p. i z i ). Fin dai suoi primi lavori, Chomsky insiste sul fatto che la sintassi del linguaggio umano non può essere ridotta a un semplice “legame associa­ tivo diretto delle parole della frase”. Uno dei primi capitoli di Chomsky (1957) è infatti dedicato alla confutazione di questa idea, che è pure quella del senso comune e su cui si basavano anche alcuni modelli di analisi automatica del linguaggio elaborati in quell’epoca, ad opera di informatici. La sintassi delle lingue naturali non è lineare, ma gerarchica, o, come dice Chomsky, ‘dipendente dalla struttura’. La dipendenza dalla struttura può essere esemplificata da fenomeni come la formazione della frase interrogativa in inglese. Consideriamo le frasi seguenti: (4) The boy who is unhappy is watching Mickey Mouse Ί 1ragazzo che è infelice sta guardando Topolino’ (5) *Is thè boy who unhappy is watching Mickey Mouse ? (6) Is thè boy who is unhappy watching Mickey Mouse ? TI ragazzo che è infelice sta guardando Topolino?’

L ’asterisco davanti a (5) indica che la frase è agrammaticale, nel senso definito nel paragrafo precedente, mentre (6) è perfettamente gramma­ ticale (l’asterisco ha dunque in questo caso un valore diverso da quello che ha in linguistica storico-comparativa, dove indica una forma rico­ struita; cfr. par . 5.4.1). La frase interrogativa (5) è prodotta applicando a (4) una regola non dipendente dalla struttura: il primo verbo coniugato, in ordine lineare, è spostato all’ inizio della frase. La frase (6) è invece formata mediante una regola dipendente dalla struttura: all’ inizio della frase viene spostato il verbo della frase principale, cioè quello gerarchica­ mente più in alto. Questo argomento puramente razionale ha ricevuto alcune interessanti conferme sperimentali. Crain e Nakayama (1986; se ne trova un riassunto in Pinker, 1994, cap. z) hanno mostrato che i bam­ bini inglesi, data una frase dichiarativa come (4), non formano mai una frase interrogativa come (5), ma solo una come (6). Come sappiamo, all’ idea che la sintassi delle lingue naturali sia non solo lineare, ma gerarchica, era già giunto Tesnière, che definiva anche le connessioni sintattiche come «avvertite dalla mente» (cfr. par . 6.3.5).

BREVE STORIA DELLA LINGUISTICA

2.02,

Visto che Chomsky (1957) uscì prima del postumo Tesnière (1959), questo risultato viene solitamente attribuito al linguista americano in­ vece che a quello francese, invertendo quella che è stata, con ogni proba­ bilità, la cronologia reale delle scoperte. Rispetto a Tesnière, Chomsky pone però l’accento anche su un’altra caratteristica fondamentale della sintassi delle lingue naturali, cioè la possibilità di inserire una frase nell’altra: in (4), ad esempio, una frase relativa (who is unhappy) è in­ serita nella frase principale (thè boy is watchingM ickey Mouse). Questa operazione può essere iterata in modo potenzialmente illimitato (chia­ riremo nel prossimo paragrafo il valore di “potenzialmente”): The boy who is unhappy whom M ary gave a hook to is watching Mickey Mouse (‘il ragazzo che è infelice a cui M ary ha dato un libro sta guardando Topo­ lino’), e così via. Questa possibilità di inserire una struttura in un’altra è la ‘ricorsività’, che a parere di Chomsky e degli altri generativisti è una caratteristica essenziale del linguaggio umano. Tanto la struttura soggiacente (‘profonda’ ) quanto quella osserva­ bile (‘superficiale’ ) sono analizzate in costituenti, come nella linguistica strutturale bloomfieldiana e postbloomfieldiana (cfr. par . 6.4.3). L ’ in­ novazione apportata dalla grammatica generativa a questo tipo di analisi è Γ “etichettatura” dei costituenti. Ritorniamo all’analisi in costituenti immediati di una frase come (1), del paragrafo 6.4.3, dovuta a Wells: essa delimita i vari costituenti, da quelli di livello più alto (‘il re d ’ Inghil­ terra’ e ‘salutò il Parlamento’ ) a quelli di livello più basso (‘il’, ‘re’ ecc.), senza però indicare a quali tipi di categoria sintattica appartengano. La grammatica generativa, invece, la analizzerebbe come una struttura ge­ rarchica, rappresentata ad esempio mediante il seguente un grafo ad al­ bero (altri tipi di rappresentazioni sono possibili):

203

Il significato dei simboli riportati nel grafo è il seguente: s = Sentence (‘frase’ ): NP = Noun Phrase (‘sintagma* nominale’ ); VP = Verb Phrase (‘sintagma verbale’), pp = Prepositional Phrase (‘sintagma preposizio­ nale’ ); A rt = articolo; N= nome; P = preposizione. Ancora una volta troviamo un’analogia parziale tra l’analisi generativista e quella di Te­ snière (cfr. par . 6.3.5): la differenza fondamentale tra le due consiste nel fatto che, mentre nella seconda il nodo più alto è il verbo, nella prima è il simbolo di frase. Le trasformazioni, in senso chomskiano, collegano la struttura pro­ fonda con quella superficiale modificando l’ordine dei costituenti. In questo modo, diventa possibile, tra l’altro, risolvere il problema dei co­ stituenti discontinui (cfr. par . 6.4.3). Ad esempio, il costituente discon­ tinuo formato da is e going in una frase come Is John going with youi, viene spiegato assumendo che esso derivi da una struttura profonda in cui l ’ordine dei costituenti è John is going with you e che è convertita in quella superficiale mediante la ‘trasformazione interrogativa’, che sposta il verbo is nella prima posizione della frase. Questo tipo di spiegazione è adottato fin dai primi lavori di Chomsky, applicandolo a questa e a molte altre strutture sintattiche, come ad esempio il complesso verbale inglese (cfr. Chomsky, 1957, trad. it. pp. 49-69). Semplificando al massimo, di­ remo che Chomsky ipotizza, per questo fenomeno, una struttura soggia­ cente in cui gli affissi verbali (desinenza della terza persona singolare -s, suffissi del participio presente e del participio passato) precedono, in un ordine determinato, i diversi verbi (i verbi ausiliari to bave e to be, i verbi modali come w ill, i verbi lessicali come to read). A d esempio, la struttura soggiacente di una frase inglese come thè man is readingthe hook sarebbe la seguente: (8) thè + man + s + be + ing + read + thè + hook

(7 )

NP

A questo punto interviene una trasformazione, detta ‘salto d ’affisso’, che inverte ogni sequenza “affisso più verbo” nella sequenza “verbo più af­ fisso” e inserisce i confini di parola (indicati con #), generando (9):

VP V

II

LA LINGUISTICA CONTEMPORANEA

re

P

N

di

Inghilterra

salutò

(9) # thè # man # be + s # read + ing # thè # hook

il

Parlamento

Infine, le ‘regole morfofonemiche’ trasformano la sequenza di morfemi (9) nella frase “concreta” thè man is reading thè hook. L ’applicazione di ‘salto d’affisso’ può generare tutti i tipi possibili di complessi verbali in­

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glesi, da The man reads thè hook a The man w ill bave been reading thè hook. La semplicità e l’eleganza di questa descrizione furono probabil­ mente tra i fattori che causarono il grande successo di Chomsky (1957), e diedero fama mondiale al suo autore, da allora diventato indubbiamente il linguista più noto del mondo, anche per la sua parallela attività di po­ lemista politico. 7.2.3.3. Mentalismo e innatismo Tra gli anni Cinquanta e Sessanta Chomsky apportò varie modifiche tec­ niche alla propria teoria, anche sulla base di alcuni lavori dei suoi primi allievi, come Robert B. Lees (1922-1996), Edward S. Klima (1931-2008) e altri; inoltre, delineo una teoria della natura del linguaggio umano e dei suoi rapporti con la mente che capovolgeva in modo radicale le impostazioni comportamentistiche della linguistica strutturale ameri­ cana, e non solo, in quanto si richiamava esplicitamente alle posizioni razionaliste e innatiste sostenute, nel Seicento, da Cartesio e dai suoi seguaci (cfr. pa r r . 4.3.2 e 4.3.3). Queste questioni generali, con i relativi richiami storiografici, sono trattate in Linguistica cartesiana (Chomsky, 1966) e nei primi tre capitoli di II linguaggio e la mente (Chomsky, 2006), pubblicati originariamente nel 1968; gli aspetti tecnici della te­ oria sono invece presentati nel modo più sistematico in Aspetti della te­ oria della sintassi (Chomsky, 1965), il cui capitolo iniziale (.Prelim inari metodologici) è comunque una sintesi delle riflessioni sviluppate nei due volumi già citati. Secondo Chomsky (ivi, trad. it. p. 44), « la teoria linguistica si occupa principalmente di un parlante-ascoltatore ideale, in una co­ munità linguistica completamente omogenea»: come vedremo nel paragrafo 7.3.5, la legittimità di queste nozioni sarà oggetto di nume­ rose critiche, e Chomsky stesso, più tardi, non le utilizzerà più. Il lin­ guista americano distingue poi tra ‘competenza’ (« la conoscenza che il parlante-ascoltatore ha della sua lingua») ed ‘esecuzione’ ( « l ’uso effettivo della lingua in situazioni concrete»). L ’applicazione ricorsiva della regola che inserisce una frase in un’altra frase, esemplificata nel paragrafo precedente, permette, potenzialmente, di costruire una frase di lunghezza illimitata: ma questa potenzialità non può mai realizzarsi effettivamente, perché avremmo bisogno di una memoria infinita e di un tempo infinito. In altre parole, una frase di lunghezza infinita è pos­ sibile a livello di competenza, ma non è realizzabile a livello di esecu­

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zione. Chomsky (ivi, p. 45) assimila esplicitamente la distinzione tra competenza ed esecuzione alla dicotomia saussuriana langue!parole (cfr. par . Ó.2.2.2): tuttavia, osserva, mentre per Saussure la langue è un semplice inventario di termini, la competenza è «u n insieme di processi generativi». Alcuni tra i più autorevoli interpreti di Saussure, come Godei e De Mauro, hanno messo in dubbio la correttezza di questa interpretazione data da Chomsky del pensiero del linguista ginevrino, sostenendo che è riduttivo definire la langue saussuriana come un sem­ plice inventario di elementi. Qui non affronteremo la questione, ma vogliamo sottolineare qualche ulteriore analogia e differenza tra il pen­ siero dei due linguisti. Un elemento comune a entrambi è l ’opposizione di un’entità astratta (la langue in Saussure, la competenza in Chomsky) a una concreta (rispettivamente, la parole e l’esecuzione). La differenza sta invece nel modo in cui Saussure da un lato e Chomsky dall’altro concepiscono le due entità astratte: mentre infatti la langue saussuriana è definita come un’entità sociale, la competenza chomskiana è indivi­ duale. Chomsky (1965) non si sofferma su questa differenza fondamen­ tale, e forse questa mancata chiarificazione è all’origine di diversi equi­ voci che i suoi lavori hanno provocato. Veniamo ora alle caratteristiche essenziali dell’impostazione mentalista di Chomsky. Nella sua prospettiva, il linguista deve «determi­ nare, partendo dai dati di esecuzione, il sistema sottostante di regole che il parlante-ascoltatore ha acquisito e che mette in uso nell’esecuzione effettiva. Quindi, in senso tecnico, la teoria linguistica è mentalistica, poiché il suo scopo è di scoprire una realtà mentale sottostante a un comportamento effettivo» (ivi, p. 45). Questo è il capovolgimento ri­ spetto all’impostazione comportamentista della linguistica americana precedente cui accennavamo all’ inizio di questo paragrafo: l’ ipotesi di una «realtà mentale sottostante» è non solo legittima, ma anzi è ne­ cessaria per rendere conto adeguatamente del comportamento lingui­ stico osservabile. Ma Chomsky compie un passo ulteriore: questa realtà mentale sottostante, questa competenza della propria lingua da parte del parlante nativo, non potrebbe essere acquisita se ogni essere umano non fosse dotato di un meccanismo innato, che Chomsky (1965) chiama ‘dispositivo di acquisizione del linguaggio’ (Language Acquisition D e­ vice, lad ), e che a partire dagli anni Settanta sarà detto ‘Grammatica Universale’ ( gu ), con un esplicito richiamo alla tradizione cartesiana e postcartesiana. I primi argomenti a favore dell’esistenza di questo dispositivo si tro­

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vano in una lunga recensione, aspramente critica, di Chomsky (1959) al volume di uno psicologo comportamentista, Burrhus F. Skinner (19041990), dedicato proprio al “comportamento verbale” (Skinner, 1957), e sono ripresi nei lavori successivi, come Chomsky (1965). A parere di Chomsky, l ’ipotesi di base del comportamentismo, cioè che il linguaggio viene appreso esclusivamente per imitazione del comportamento lingui­ stico degli adulti e dell’ambiente circostante, è insostenibile. Infatti, os­ serva, i bambini di ogni razza e di ogni ceto sociale, salvo casi patologici gravi, imparano in un tempo sorprendentemente rapido la loro lingua materna sulla base di una evidenza limitata e frammentaria, in quanto nel parlato quotidiano molti enunciati sono monchi, prodotti con false partenze ecc. Inoltre, i bambini producono il più delle volte enunciati nuovi, mai uditi prima né dai genitori né dagli altri individui circostanti. E quindi necessario ipotizzare che alla base dell’acquisizione di una qua­ lunque lingua naturale stia una specifica struttura mentale “preprogram­ mata”, ossia la GU: questa ipotesi è nota come “innatista”. Si noti che ad essere innata è la capacità di acquisire una lingua, non una lingua deter­ minata: il bambino non ha una lingua “iscritta nel suo dna”, ma acqui­ sisce la lingua dell’ambiente in cui cresce; se in questo ambiente si parla inglese, tale lingua sarà l’inglese; se vi si parla italiano, sarà l ’italiano ecc. 7.2.3.4. L ’organizzazione della grammatica Come già accennato, nel corso dei decenni la grammatica generativa ha conosciuto varie modifiche, in particolare per quanto riguarda il nu­ mero e la denominazione dei livelli di rappresentazione, nonché le loro interrelazioni; in questo paragrafo riassumiamo il modello proposto in Chomsky (1965), perché sarà quello di riferimento sia per gli sviluppi successivi della teoria generativa, sia per la maggior parte dei suoi critici; per questo è noto anche come modello, o teoria, “standard”. Chomsky (1965) suddivide la grammatica in tre componenti: ‘sin­ tattico’, ‘fonologico’ e ‘semantico’. D i questi tre, soltanto il primo ha il compito di generare le frasi, mentre gli altri due sono ‘interpretativi’. Il componente semantico «mette in relazione una struttura generata dal componente sintattico con una certa rappresentazione seman­ tica»; il componente fonologico «mette in relazione una struttura generata dal componente sintattico con un segnale rappresentato fone­ ticamente» (ivi, trad. it. p. 56). La struttura generata dal componente sintattico e interpretata dal componente semantico è chiamata ‘struttura profonda’ della frase; la struttura generata dal componente sintattico,

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mediante l’applicazione delle trasformazioni, ‘struttura superficiale’. Chomsky (1965), come la maggior parte dei suoi lavori precedenti e suc­ cessivi, è dedicato essenzialmente all’analisi del componente sintattico. La parte semantica della teoria standard è invece dovuta, principalmente, a uno studioso di matrice filosofica, Jerrold J. Katz (1932-2002), con la collaborazione di Jerry A . Fodor (n. 1935) e di Paul M. Postai (n. 1936) (cfr. Katz, Fodor, 1963; Katz, Postai, 1964; Katz, 1966). Questo modello del componente semantico non ebbe grande successo, e fu di fatto ab­ bandonato dallo stesso Chomsky, pochi anni più tardi. Diversa invece è la storia delle ricerche relative al componente fonologico, nelle quali ha avuto un ruolo fondamentale Morris Halle (cfr. par . 6.3.3), allievo di Jakobson e collega di Noam Chomsky al m it per più di sessant’anni. La trattazione “standard” è quella di Chomsky e Halle (1968), che sarà in seguito soggetta a numerose modifiche e critiche, come del resto av­ verrà per il modello standard della sintassi, ma rimarrà sempre un punto di riferimento imprescindibile per tutti gli studiosi di fonologia genera­ tiva, e anche per numerosi loro critici. Limiti di spazio ci impediscono di presentare, anche sommariamente, le ricerche di fonologia generativa, la cui importanza non deve però essere assolutamente trascurata; sulle riflessioni in materia di semantica condotte da Chomsky in anni recenti, ritorneremo invece più avanti (cfr. par . 7.3.5).

7.3. “Paradigma formale” e “paradigma funzionale” : alcuni aspetti del dibattito 7.3.1. L ’impatto della grammatica generativa: consensi e critiche Inizialmente, la grammatica generativa conobbe un notevole successo, sia negli Stati Uniti che in Europa. Questo successo è stato spesso attri­ buito alla grande capacità propagandistica dei suoi esponenti: Chomsky, Halle e i loro primi allievi non mancarono di partecipare ai più impor­ tanti convegni di linguistica per presentare le loro idee con grande abilità e altrettanta decisione. Tuttavia, questa spiegazione non può bastare: gli strumenti concettuali che la grammatica generativa metteva a dispo­ sizione degli altri linguisti erano indubbiamente nuovi e accattivanti. Abbiamo già parlato, a questo proposito (cfr. p a r . 7.2.3.2), dell’analisi del complesso verbale inglese di Chomsky (1957). che permetteva di descrivere in modo semplice ed elegante una struttura apparentemente

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alquanto intricata: ma un grande successo ebbe anche la nozione di tra­ sformazione in genere. Come si è osservato nel paragrafo 6.4.3, questa idea in sé non era affatto nuova, ma lavori come Chomsky (1957; 1964; 1965) la inquadravano in un formalismo rigoroso, assente in tutte le trat­ tazioni precedenti, a parte quella di Harris, a cui sono dovuti il concetto e il termine stesso di trasformazione. N on è quindi un caso che, ai suoi inizi, la grammatica generativa fosse normalmente chiamata ‘trasfor­ mazionale’, in quanto erano le trasformazioni l ’aspetto che esercitava il maggiore richiamo. A partire dalla metà degli anni Sessanta del Novecento, però, la gram­ matica generativa e l ’opera di Chomsky in particolare hanno suscitato e continuano a suscitare discussioni accesissime; una situazione del genere si è verificata raramente, non solo nella storia della linguistica, ma anche in quella delle altre discipline. Un solo precedente possibile è rappresentato dal dibattito sulle concezioni dei neogrammatici e in particolare sulla nozione di legge fonetica, di cui abbiamo parlato nel paragrafo 5.5.3. Entrambe le dispute hanno un’analogia di fondo: il pro­ blema è infatti se la linguistica debba basarsi sul modello delle scienze naturali, come sostengono neogrammatici e generativisti, oppure sia una scienza storico-sociale, come ribattono i loro critici. La polemica tra ge­ nerativisti e antigenerativisti ha però assunto, e spesso ancora assume, toni molto più violenti di quella tra i neogrammatici e loro avversari, per motivi che qui non indagheremo, in quanto riguardano più la sociologia che la storia della scienza; ci limiteremo dunque ad alcuni aspetti scien­ tifici del dibattito. Le idee fondamentali della teoria generativa si possono riassumere nei punti seguenti: 1. un’analisi adeguata del linguaggio deve postulare più livelli di rappresentazione, come quelli che in Chomsky (1965) ven­ gono definiti struttura profonda e struttura superficiale; z. il linguaggio è una capacità mentale e perciò la linguistica è parte della psicologia; 3. l ’acquisizione di questa capacità si può spiegare solo ipotizzando che il bambino possieda un meccanismo innato e specifico preposto all’acqui­ sizione di qualunque lingua naturale, la GU. La ricerca degli universali linguistici consiste quindi nella specificazione delle caratteristiche della GU; 4. lo studio della struttura del linguaggio è indipendente da quello delle sue funzioni, cioè dal suo uso nel contesto sociale e comunicativo. Il dibattito su questi argomenti ha coinvolto non solo linguisti, ma anche psicologi, biologi e studiosi di varie altre discipline. I punti di vista opposti che si sono così manifestati relativamente al linguaggio e

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alla linguistica sono stati sintetizzati mediante l ’opposizione tra para­ digma formale e paradigma funzionale, per indicare, rispettivamente, i generativisti e i loro critici. Come si è già accennato nel paragrafo 7.1, si tratta di un’opposizione di carattere sostanzialmente pratico, in quanto entrambi tali pretesi paradigmi sono molto differenziati al loro interno. Il paradigma formale non si identifica esclusivamente con Chomsky e la sua scuola: infatti si contano varie altre teorie che prescindono dall’uso del linguaggio come mezzo di comunicazione e che sono “formali” anche nel senso che non considerano la linguistica parte della psico­ logia. Una teoria di questo genere è la ‘grammatica di Montague’ {Mon­ tagne Grammar), dal nome del suo inventore, il logico americano Ri­ chard Montague (1931-1971), che consiste nell’applicazione diretta delle tecniche dei linguaggi formali al linguaggio naturale (cfr. Montague, 1974). Anche studiosi come Katz e Postai, di cui abbiamo ricordato la collaborazione con Chomsky negli anni Sessanta (cfr. par . 7.1.3.4), hanno sostenuto che la linguistica «non ha scopi psicologici, non di­ pende da dati psicologici, e non ha statuto psicologico» (Katz, Postai, 1991, p. 515) ed è invece simile alla logica e alla matematica. Postai ha poi elaborato, in collaborazione con David M. Perlmutter (n. 1938), un modello formale in entrambi i sensi definiti sopra, detto ‘grammatica relazionale’ (cfr. ad es. Perlmutter, Postai, 1983). Un modello alternativo a quello chomskiano (dal quale comunque deriva), ma che ne condivide la concezione della linguistica come disciplina psicologica, è invece la ‘grammaticalessico-funzionale’ d ijo an W. Bresnan (n. 1945) e collabo­ ratori (cfr. Bresnan, 1978; Bresnan et al., 1015). Su queste e altre teorie “formali” non ci soffermeremo ulteriormente, limitandoci a presentare la versione chomskiana della grammatica generativa, che ha conosciuto, dopo la “teoria standard” di Chomsky (1965), varie altre fasi, abitual­ mente così etichettate: ‘teoria standard estesa’ dalla fine degli anni Ses­ santa alla fine del decennio successivo; ‘modello a principi e parametri’ negli anni Ottanta; ‘programma minimalista’ dall’ inizio degli anni Novanta. Il significato di queste etichette si chiarirà nei paragrafi che seguono. Il paradigma funzionale è ancor più differenziato al suo interno di quello formale. Le scuole che si autodefiniscono funzionaliste hanno origini diverse e propongono teorie almeno in parte diverse: si va in­ fatti dai linguisti della “ Seconda Scuola di Praga”, come Frantisek Danes (1919-1015), Jan Firbas (19x1-1000) e Petr Sgall (n. 1916) ad altri studiosi europei, come il britannico M. A. K. Halliday (1915-1018) e l’olandese

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Simon D ik (1940-1995), e ai tipologi di formazione greenberghiana, come Bernard Comrie (n. 1947), John A. Hawkins (n. 1947) o William Croft (n. 1956). Inoltre, anche gli esponenti della ‘linguistica cogni­ tiva’, come George Lakoff (n. 1941), Ronald W. Langacker (n. 1942) o Michael Tomasello (n. 1950) riconoscono esplicitamente la loro affinità col funzionalismo. Una posizione particolare è quella dell’israeliano (poi trasferitosi negli Stati Uniti) Talmy Givón (n. 1936), il quale so­ stiene, tra l ’altro, che ‘costituenza’ e ‘gerarchia’ sono caratteristiche es­ senziali della sintassi delle lingue umane (cfr. Givón, 1995, p. 177) e sotto questo aspetto non sembra quindi essere lontano dalle posizioni assunte da Chomsky fin dai suoi primi lavori. M a anche secondo Givón è im­ possibile descrivere una struttura senza descriverne la funzione (cfr. ivi, p. 26): è questo assunto che permette di identificare tutti questi studiosi come funzionalisti e di opporli ai formalisti. Non potendo approfondire qui la trattazione sistematica della storia e dell’articolazione interna dei due paradigmi, ci limiteremo a delineare alcuni aspetti della discussione sui quattro punti che abbiamo ricordato sopra, ossia: i livelli di rappre­ sentazione; il rapporto tra linguistica e psicologia; la natura degli uni­ versali linguistici; il rapporto tra linguaggio e società e tra struttura e uso del linguaggio.

7.3.2. “La struttura profonda è necessaria?” La distinzione tra struttura superficiale e struttura profonda riscosse ini­ zialmente un certo favore anche presso linguisti di impostazione non generativista, anche perché collegata al successo della nozione di trasfor­ mazione: il legame tra strutture sintattiche superficialmente diverse si può spiegare derivandole da una stessa struttura profonda. M a qual è il formato di questa struttura profonda? Abbiamo visto nel paragrafo 7.2.3.2 che un punto essenziale della teoria di Chomsky (come di quella di Tesnière) è che la sintassi delle lingue umane non è solo lineare, ma anche gerarchica. Però, secondo la teoria esposta in Chomsky (1965), tanto la struttura superficiale quanto quella profonda sono sia gerarchiche che lineari: sono cioè formate da costituenti disposti gerarchicamente al loro interno e l ’uno rispetto all’altro, ma gli elementi di cui sono composti sono ordinati linearmente, come ad esempio in (7) ( par . 7.2.3.2). Alcuni linguisti, come il russo Sebastian K. Saumjan (1916-2007; cfr. Saumjan, 1965) e l ’americano Charles J. Fillmore (1929-2014) sostennero invece

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che la struttura profonda è formata da un insieme non ordinato di ele­ menti. Chomsky, inizialmente critico di questa ipotesi (cfr. Chomsky, 1965, trad. it. pp. 161-3), negli ultimi tempi è invece arrivato alla conclu­ sione che la struttura sintattica astratta è ordinata dal punto di vista ge­ rarchico, ma non da quello lineare, come vedremo più avanti, in questo stesso paragrafo. Il nome di Fillmore è associato alla ‘grammatica dei casi’, esposta per la prima volta in Fillmore (1968). Fillmore distingue i ‘casi superficiali’ dai ‘casi profondi’ : i primi sono le diverse terminazioni morfologiche che può assumere lo stesso nome in una lingua come il latino (ad es. nom. rosa, gen. rosae ecc.); i secondi, le «relazioni sintattico-semantiche sottostanti», come l ’ agentivo’ (a ), ossia l ’agente dell’azione espressa dal verbo, lo ‘strumentale’ (s), ossia la forza o l ’agente inanimato che è la causa dell’azione o dello stato espressi dal verbo, e vari altri (cfr. Fillmore, 1968, trad. it. p. 48; l ’elenco dei casi profondi di Fillmore ha subito alcune modificazioni nel corso degli anni). La struttura profonda (che Fillmore chiama ‘struttura di base’) è costituita dall’insieme, non ordinato linearmente, formato dal verbo e da uno o più di questi casi; il soggetto e il predicato non esistono a livello profondo, ma solo a livello superficiale. Sotto questo aspetto, Fillmore si richiamava esplicitamente a Tesnière (cfr. PAR. 6.3.5), contribuendo così al recupero delle teorie del linguista francese, fino a quel momento largamente ignorate. Dato che il soggetto e il predicato, ma anche le altre relazioni grammaticali, come quella di oggetto diretto, sono relative alla sola struttura superficiale, a essi possono corrispondere casi profondi differenti. Ad esempio, in una frase come ‘Gianni ha sciolto il nodo con un coltello’ al soggetto corri­ sponde un caso ‘agentivo’ (‘Gianni’ ), ma in ‘il nodo si è sciolto’, vi corri­ sponde un ‘oggettivo’ (‘il nodo’ ); si noti che il caso oggettivo nel senso di Fillmore coincide quindi solo parzialmente con l ’oggetto diretto nel senso tradizionale. La ‘struttura di base’ di Fillmore (1968) era dunque abbastanza di­ versa dalla struttura profonda di Chomsky. L ’anno precedente all’uscita del lavoro di Fillmore, due giovani generativisti, George Lakoff e John R . Ross (n. 1938) avevano scritto un lavoro, pubblicato come Lakoff, Ross (1976), ma circolato subito tra gli addetti ai lavori, intitolato “La struttura profonda è necessaria?”. La risposta che davano gli autori era, come si può facilmente capire, negativa: essi però non sostenevano che la distinzione tra struttura profonda e struttura superficiale fosse da abolire, ma che la struttura profonda si identifica con l ’ interpretazione

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semantica della frase, contrariamente a quanto sostenuto da Chomsky (1965), che distingueva invece i due livelli (cfr. par . 7.2.3.4). Il breve saggio di Lakoff e Ross segnava Γ inizio delle cosiddette “guerre lingui­ stiche” (dall’asprezza e anche dalla violenza con cui gli opposti schieramenti polemizzarono tra loro), che videro schierate l ’una contro l’altra la ‘semantica generativa’ degli stessi Lakoff, Ross e vari altri, e la ‘teoria standard estesa’ di Chomsky e di altri suoi allievi. Qui non parleremo ulteriormente di queste guerre, conclusesi verso la metà degli anni Set­ tanta con un sostanziale abbandono del campo di battaglia da parte dei sostenitori della semantica generativa, che adottarono poi prospettive di ricerca molto diverse (nel caso di Lakoff, la ‘grammatica cognitiva’ ; cfr. par . 7.3.1). Dal canto suo, Chomsky, nel corso dei decenni, ha modificato varie volte il numero e il ruolo dei livelli di rappresentazione. Qui ci riferi­ remo solo alla fase più recente della sua teoria, il ‘programma minima­ lista’ (cfr. Chomsky, 1995). L ’obiettivo di tale programma è la massima semplicità nella descrizione del linguaggio: per Chomsky, la sempli­ cità non è un concetto puramente estetico, ma, come sosteneva uno dei suoi maestri, il filosofo Nelson Goodman (1906-1998), la ricerca della semplicità coincide con quella della verità (cfr. ad es. Goodman, 1955, p. 709). I due unici livelli di rappresentazione rimasti nel pro­ gramma minimalista sono le due ‘interfacce’ del linguaggio con altri due sistemi cognitivi, ‘sensomotorio’ e ‘concettuale-intenzionale’. Il sistema sensomotorio più frequentemente utilizzato è quello fonico­ acustico, ma ne esistono anche altre modalità: ad esempio, le lingue dei segni, cioè quelle utilizzate dai sordi, sono di tipo gestuale-visivo. Il sistema concettuale-intenzionale riguarda « l ’inferenza, l’interpreta­ zione, la programmazione e lorganizzazione dell’azione, quello che in­ formalmente si chiama “pensiero” » (Berwick, Chomsky, 2016, trad. it. p. 18). La «proprietà fondamentale» del linguaggio umano consiste nel generare un numero potenzialmente infinito di espressioni alle due interfacce (cioè espressioni dotate di un suono e di un significato) mediante un’unica operazione, ‘Fondere’ (M erge), che costituisce il ‘si­ stema computazionale’ del linguaggio stesso (ibid .). ‘Fondere’ prende gli elementi del lessico e li combina tra loro, dapprima formando un in­ sieme bimembre, poi aggiungendo un’altra unità e formando un nuovo insieme, e così via, secondo una procedura ricorsiva: ad esempio, date quattro parole come ‘mangiare’, ‘carne’, ‘vuole’, ‘G ianni’, l’applicazione di ‘Fondere ’ genera dapprima la struttura [mangiare [carne] ], poi quella

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[vuole [mangiare [carne] ] ], infine [Gianni [vuole [mangiare [carne] ] ] ] ecc. Le parentesi quadre indicano la gerarchia prodotta da ‘Fondere’ : maggiore è il numero delle parentesi che racchiudono un elemento, più bassa è la sua posizione nella gerarchia. L ’operazione descritta è un esempio del ‘Fondere esterno’, che combina elementi inizialmente di­ sgiunti. Si ha invece ‘Fondere interno’ quando l ’operazione coinvolge un elemento già fuso con un altro e lo sposta in un’altra posizione: se spostiamo ‘carne’ all’inizio della struttura appena esemplificata, il ri­ sultato sarà [[carne] Gianni [vuole [mangiare [carne]]]], come quando si dice ‘ carne Gianni vuole mangiare!’, per spiegare che non è il caso di limitarsi a dargli un piatto di insalata. La seconda occorrenza di ‘carne’ è barrata per indicare la sua posizione originaria, prima dell’applica­ zione di ‘Fondere interno’ (cfr. ivi, pp. 72-3). Queste due modalità di un’unica operazione corrispondono alla molteplicità di regole delle prime fasi della grammatica generativa, con una notevole semplifica­ zione dell’apparato tecnico e concettuale. C ’è però una differenza an­ cora più sostanziale: mentre nelle prime fasi della teoria l'output delle varie regole è una struttura ordinata sia dal punto di vista gerarchico che da quello lineare, ora invece si assume che «Fondere non impone un ordine lineare o una precedenza agli elementi che mette insieme» e che «una caratteristica del linguaggio umano è l ’uso delle rappre­ sentazioni gerarchiche, piuttosto che di quelle sequenziali da sinistra a destra» (ivi, p. in ). « L ’ordine temporale sequenziale del linguaggio è imposto dalle esigenze dell’esternalizzazione» (ivi, p. 19): ossia, noi parliamo emettendo un suono dopo l ’altro, una parola dopo l ’altra, ma questo è un fatto determinato dalla natura del nostro sistema senso­ motorio fonico-acustico. Infatti, in sistemi sensomotori di altro tipo, come quelli dei sordi, è possibile anche utilizzare più segni contempo­ raneamente, mediante organi diversi: ad esempio, una frase negativa è realizzata mediante un insieme di segni manuali accompagnati dal movimento della testa. Anche alcuni modelli funzionalisti, come la ‘grammatica funzionale’ di Dik e la ‘descrizione funzionale generativa’ di Sgall e dei suoi allievi, ai quali si è accennato nel paragrafo 7.3.1, assumono livelli diversi per la rappresentazione di una frase. La grammatica funzionale (cfr. ad es. Dik, 1978) ipotizza una ‘struttura di frase soggiacente’ in cui vengono asse­ gnate le funzioni di tutti i tipi, semantiche, sintattiche e pragmatiche. A questa struttura soggiacente si applicano le ‘regole di espressione’, che determinano la forma e l’ordine osservabile dei vari costituenti della

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frase. La descrizione funzionale generativa, che si chiama così perché non considera errato, ma solo parziale, l’approccio generativo, come considera parziali gli approcci basati esclusivamente sulla pragmatica e sull’analisi comunicativa dell’enunciato, oppone le ‘rappresentazioni tettogrammaticali’ alla ‘sintassi di superficie’ (cfr. ad es. Sgall, Hajicovà, Panenovà, 1986). Quest’ultimo modello rappresenta quindi una sorta di “terza via” tra l’approccio formale e l ’approccio funzionale. La mag­ gior parte dei tipologi e dei funzionalisti contemporanei, tuttavia, non postula una struttura profonda, e in generale più livelli di rappresenta­ zione, considerati uno strumento inutilmente astratto, e si limita all’a­ nalisi della struttura osservabile. Questa impostazione fortemente in­ centrata sul concreto e l’osservabile, opposta a quella della grammatica generativa, guida l ’approccio funzionalista anche sotto vari altri aspetti, come vedremo nei prossimi paragrafi.

7.3.3. Linguistica, psicologia, biologia 7 .3 .3 .I.

Linguaggio e mente, linguaggio e cervello

L ’opposizione radicale di Chomsky al comportamentismo, del resto già in crisi al suo stesso interno da vari anni (cfr. par . 7.2.3.!), incontrò il favore di molti studiosi: l’esistenza di una componente mentale innata è da tempo riconosciuta da quasi tutte le scuole di pensiero, non solo in linguistica ma anche in psicologia. La discussione verte piuttosto sulla natura di questa componente e sul suo rapporto con la componente ac­ quisita, cioè con gli stimoli che l’ individuo riceve dall’ambiente circo­ stante. Né i grammatici generativi né i loro avversari hanno mai negato l ’esistenza di entrambe le componenti, ma i primi hanno assegnato alla componente innata un peso molto più forte degli altri. Tuttavia, il di­ battito si è concentrato soprattutto sull’esistenza o meno di una capa­ cità linguistica specifica, asserita da Chomsky e dai suoi seguaci, mentre a parere di molti altri studiosi sia l ’acquisizione che il funzionamento del linguaggio sono spiegabili in base a meccanismi cognitivi generali. Queste tematiche si collegano alla questione dei rapporti tra linguistica e psicologia. Si è visto nel paragrafo 7.3.1. che alcuni linguisti non con­ dividono l’affermazione di Chomsky secondo cu: la linguistica è parte della psicologia, considerandola (in vari modi) come disciplina auto­ noma; però, la maggior parte dei critici della grammatica generativa la

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accusa, al contrario, di mancare proprio di “realtà psicologica”, di essere cioè un apparato puramente formale che non descrive il funzionamento di alcun meccanismo mentale. Il più delle volte, quest’ultimo tipo di critica è formulato dagli stessi studiosi che contestano l ’esistenza di una capacità linguistica specifica. Su questi argomenti si svolse, nel 1975, un dibattito tra Chomsky e uno dei più grandi psicologi dell’apprendimento Je a n Piaget (1896-1980), cui parteciparono anche altri psicologi, nonché filosofi, antropologi e biologi (cfr. Piattelli-Palmarini, 1979). Piaget affermava che il linguaggio non è una capacità cognitiva specifica, in quanto la sua acquisizione da parte del bambino è dovuta agli stessi meccanismi che regolano lo sviluppo dell’intelligenza generale (“schemi senso-motori”, nella teoria di Piaget). Chomsky rispondeva che una caratteristica così astratta come la dipen­ denza dalla struttura (cfr. par . 72.3.2), e altre analoghe, non possono es­ sere spiegate in base all’azione di meccanismi questo genere: l’unica con­ clusione possibile è dunque che queste caratteristiche siano innate (cfr. Chomsky, in Piattelli-Palmarini, 1979, trad. it. pp. 66-7,155-8,184). G li aderenti al paradigma funzionale sostengono posizioni simili a quelle di Piaget, anche se nel quadro di teorie psicologiche abbastanza diverse. Langacker, uno dei fondatori, assieme a Lakoff, della gramma­ tica cognitiva (cfr. par . 7.3.1), ad esempio, sostiene che il linguaggio e la sua acquisizione non sono frutto di capacità specifiche, ma di abilità cognitive più generali: se una componente innata può esserci, il suo sviluppo è comunque inestricabilmente legato a quello di altre capa­ cità cognitive (cfr. Langacker, 1987, p. 13). La specificità della facoltà di linguaggio sostenuta da Chomsky è sostanzialmente il risultato di un approccio sbagliato (ib id .). Tomasello (1995, p. 149) scrive che «la lin­ guistica cognitiva [...] e la linguistica funzionale non [...] sono guidate da considerazioni di eleganza matematica, ma piuttosto di plausibilità psicologica». Le “considerazioni di eleganza matematica”, secondo To­ masello, sono quelle a cui si ispira la grammatica generativa; le proprietà del linguaggio umano come la dipendenza dalla struttura sono di carat­ tere matematico, non psicologico (cfr. Tomasello, 1990, p. 760). Finora abbiamo parlato dei rapporti tra linguaggio e mente, ma i problemi sollevati dalla grammatica generativa riguardano anche i rap­ porti tra linguaggio e cervello, cioè le basi biologiche del linguaggio, argomento al quale è dedicato il volume del medico e neuro-fisiologo Eric H. Lenneberg (1921-1975), amico e collega di Chomsky fin dall’i­ nizio degli anni Cinquanta (Lenneberg, 1967). Dalla pubblicazione del

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testo di Lenneberg, gli studi su questo tema si sono moltiplicati, dando origine a una disciplina specifica, detta neurolinguistica. Alcuni neuro­ linguisti si sono dedicati aH’esame dei casi patologici, come i vari tipi di afasia; altri, invece, hanno studiato il rapporto tra linguaggio e cervello nei soggetti normali. In quest’ultimo campo, l ’ italiano Andrea Moro (n. 1962,) ha tra l’altro mostrato, sulla base di vari esperimenti neuro­ biologici, che il nostro cervello può apprendere tanto regole dipendenti dalla struttura, quanto regole “impossibili”, cioè basate sull’ordine li­ neare degli elementi, come quella che genererebbe una frase come (5) nel paragrafo 7·2·3.2, ma che c’è una differenza fondamentale i due tipi di regole: infatti solo quelle dipendenti dalla struttura attivano le aree cerebrali tipiche del linguaggio, mentre quelle basate sull’ordine lineare hanno sede in altre aree del cervello (cfr. ad es. Moro, 2015, pp. 205-26). 7.3 .3 .2 . L ’origine del linguaggio La ricerca sulle basi biologiche del linguaggio ha riportato al centro dell’attenzione un problema antico, ma sostanzialmente trascurato dalla linguistica della prima metà del Novecento: quello dell’origine del lin­ guaggio. Secondo Chomsky (e Lenneberg), il linguaggio è specifico non solo nel senso che non è riducibile a capacità mentali generali, ma anche nel senso che è una capacità propria della sola specie umana. Un simile assunto rappresenta, almeno apparentemente, una sfida per la teoria darwiniana dell’evoluzione: infatti, come si potrebbe spiegare l ’appari­ zione più o meno improvvisa della capacità di linguaggio in un’unica specie biologica? Si ripropone quindi l’opposizione tra una visione “continuista” e una “discontinuista” del rapporto tra linguaggio umano e sistemi di comunicazione animale che aveva caratterizzato le discussioni sull’origine del linguaggio nei secoli precedenti (cfr. pa r . 4.4.2). Chomsky per lungo tempo non ha affrontato esplicitamente il pro­ blema dell’origine del linguaggio, limitandosi a ribadire la propria po­ sizione discontinuista. Nel 1990, Steven Pinker (n. 1954) e Paul Bloom (n. 1963) hanno pubblicato un saggio in cui sostenevano una spiegazione almeno in parte continuista dell’origine del linguaggio, pur aderendo, sotto altri aspetti, alla teoria chomskiana (cfr. Pinker, Bloom, 1990). Questo saggio ha avuto una risonanza enorme, e da quel momento i la­ vori sull’argomento si sono moltiplicati in maniera esponenziale. Molti di tali lavori, a dire il vero, non aggiungono granché a quanto era già stato detto in precedenza: in particolare, quelli continuisti che, a differenza

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di Pinker e Bloom, respingono completamente le teorie chomskiane e attribuiscono l’origine del linguaggio a grida, gesti ecc., non segnando quindi un particolare progresso rispetto a Condillac (cfr. par . 4.4.2). Sempre in prospettiva continuista e antichomskiana, ma in modo de­ cisamente più originale, si colloca l ’ ipotesi avanzata da Tomasello et al. (2005; cfr. anche Tomasello, 2008): gli esseri umani avrebbero svilup­ pato il linguaggio grazie a una “condivisione di intenzioni”, capacità che li distingue anche dalle specie più prossime, come le scimmie antropoidi (gorilla, scimpanzé ecc.). Mentre infatti gli individui di tali specie rie­ scono a capire le intenzioni di un loro simile, ma non sono disposti a collaborare con lui per realizzarle, questa disponibilità è invece presente negli esseri umani. È da questa condivisione di intenzioni che avrebbe avuto origine il linguaggio umano. Caratteristica di tutte le spiegazioni continuiste, pur nella loro notevole diversità, è comunque l ’idea che l’o­ rigine del linguaggio umano sia dovuta a esigenze sociali e comunicative. Chomsky si è occupato della questione dell’origine del linguaggio a partire dagli anni Duemila, in vari saggi per lo più in collaborazione con altri studiosi, non solo linguisti, ma anche genetisti, antropologi, eto­ logi ecc. (cfr. in particolare Hauser, Chomsky, Fitch, 2002; Hauser et al., 2014; Berwick, Chomsky, 2016). Le soluzioni proposte in ciascuno di questi lavori sono in parte diverse, ma il loro nucleo comune può essere riassunto nei seguenti punti. 1. Il linguaggio non è nato per esigenze co­ municative, in quanto la sua funzione primaria non è la comunicazione, ma l’organizzazione del pensiero. Del resto, in vari casi il linguaggio umano non è uno strumento di comunicazione ottimale (cfr. par . 7.3.5). 2. L ’evoluzione, a differenza di come la concepiva Darwin, non è frutto di mutamenti graduali, ma avviene “per salti”, come sostenuto da alcuni biologi contemporanei (cfr. ad es. Gould, 2002). 3. Per quanto riguarda il linguaggio, il salto fondamentale consiste nella comparsa, in uno o più individui della specie umana, dell’operazione Fondere (cfr. PAR. 7.3.2), che è assente in tutti gli animali, comprese le scimmie antropoidi, come i gorilla o gli scimpanzé, che non sono in grado di costruire espressioni di lunghezza potenzialmente infinita (cfr. Berwick, Chomsky, 2016, trad. it. pp. 141 ss.). Questa comparsa di Fondere sarebbe dovuta a un «leggero ricablaggio del cervello», verificatosi in un’epoca compresa, all’ incirca, tra 200.000 e 60.000 anni fa, e consistente nel collegamento di aree cerebrali diverse. Vari studi neurologici mostrano che questo collegamento non esiste nelle scimmie e questo suggerisce che «un pic­ colo cambiamento genomico in un fattore di crescita per una delle fibre,

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insieme con la direzione corretta del tratto di fibre, potrebbe bastare» (ivi, pp. 151-5). Questo cambiamento avrebbe dato agli individui in cui è verificato la «capacità di pensieri complessi, progettazione, interpre­ tazione, e così via» (ivi, p. 81). Successivamente, queste capacità si sono collegate al sistema sensomotorio, “esternalizzandosi” mediante suoni o segni, e in questo modo il linguaggio è diventato anche uno strumento di comunicazione. Come scrive il biologo francese Francois Jacob, premio Nobel nel 1965, «il linguaggio [...] sarebbe servito come sistema di comunicazione tra individui solo in un secondo tempo» (Jacob, 1981, trad. it. p. 97; cfr. Berwick, Chomsky, zoi6, trad. it. p. 101). 7.3.3.3. Linguistica e genetica Secondo Chomsky (1986, trad. it. p. 11) «la G[rammatica] u[niversale] può essere considerata come una caratterizzazione del linguaggio gene­ ticamente determinata». Affermazioni come questa hanno inevitabil­ mente suscitato l’interesse dei genetisti: quali sono i possibili “geni del linguaggio” ? Qualche anno fa, sembrava che si fosse giunti a scoprirne (almeno) uno, il gene foxpz {forkhead boxP2\ cfr. Lai et al., zooi). Si era infatti osservato che alcuni membri di una famiglia nei quali era stata in­ dividuata un’alterazione di tale gene mostravano disturbi del linguaggio assenti invece nei membri che non soffrivano di tale danno genetico; si cominciò dunque a parlare di “gene della grammatica” o di “gene del lin­ guaggio”. Ulteriori ricerche hanno però mostrato come «il gene alterato non fosse selettivamente connesso con la grammatica ma la sua espressione fosse ben più generale» (Moro, Z015, p. Z30). Siamo dunque ancora ben lontani dall’aver trovato un “genotipo” del linguaggio; del resto, lo stesso Lenneberg (1967, trad. it. p. Z98) concludeva che «fattori trasmessi eredi­ tariamente hanno importanza per la facilitazione del linguaggio. M a non vi è alcuna necessità di ammettere che esistano dei “geni del linguaggio” ». Risultati più interessanti, anche se tuttora problematici da valutare, sono venuti dall’incontro della linguistica con la genetica delle popo­ lazioni. Uno dei massimi esperti di quest’ultimo campo, l’italiano (poi trasferito negli Stati Uniti) Luigi Luca Cavalli-Sforza (19ZZ-Z018), e i suoi collaboratori hanno potuto ricostruire un albero genealogico delle popolazioni del mondo sulla base dell’analisi del loro patrimonio genico che in buona parte si sovrappone all’albero genealogico delle famiglie linguistiche ricostruito da Joseph Greenberg e da un suo allievo, Merrit Ruhlen (n. 19 44 ; cfr. Ruhlen, 1994; Cavalli-Sforza, 1996, cap. 5). Natu-

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Talmente, questa parziale sovrapposizione non significa che nei nostri geni sia iscritta una lingua determinata: « non vi è alcun motivo per pen­ sare che i geni influenzino la possibilità di parlare Luna o l’altra lingua. [...] Se vi è un effetto di interazione tra geni e lingue, sono piuttosto le lingue a poter influenzare i geni, nel senso che una differenza di lingua tra due popolazioni può diminuire gli scambi genetici, senza tuttavia annullarli» (Cavalli-Sforza, 1996, pp. ZZ7-8). Secondo Greenberg e Ruhlen, le lingue del mondo si raggruppano in sole 17 famiglie; inoltre, Ruhlen ipotizza che tutte derivino da un’u­ nica lingua originaria, cioè ritorna all’ ipotesi monogenetica, sostenuta, quasi un secolo prima, da uno studioso italiano, Alfredo Trombetti (1866-192.9; cfr. Trombetti, 1905), che Ruhlen (1994, p. 2.61) esplici­ tamente cita. I lavori di Greenberg e Ruhlen non hanno, in generale, trovato consenso presso gli altri linguisti, in quanto, per dimostrare l’appartenenza di due o più lingue alla stessa famiglia, non si basano sull’unico metodo considerato attendibile fin dagli inizi della linguistica storico-comparativa scientifica, cioè il confronto sistematico di fonemi e morfemi (cfr. par . 5.Z.1), ma su somiglianze tra radici di parole, come si era fatto fino a prima dell’Ottocento. Tuttavia, le notevoli affinità riscontrate tra la loro classificazione genealogica delle lingue e quella delle popolazioni elaborata, in modo indipendente, da Cavalli-Sforza e dai suoi colleghi, non possono non far riflettere. Anche l’ipotesi della monogenesi delle lingue sembra trovare un sostegno nei risultati della genetica delle popolazioni: infatti quest'ultima ormai assume, in base a vari argomenti, un’unica origine della specie umana, che dall’Africa orientale si sarebbe diffusa in tutto il mondo attraverso una serie di mi­ grazioni successive (cfr. Cavalli-Sforza, 1996, pp. 113-6 ). Per Trombetti, dimostrare la monogenesi delle lingue significava dimostrare l’origine comune di tutte le specie umane: «tutti gli uomini appartengono ad una sola specie e sono realmente fratelli» (Trombetti, 1905, p. 58); oggi, l ’ordine della dimostrazione è invertito: sarebbe l’unità di origine della specie umana a dimostrare l’unità di origine delle lingue. H o usato il condizionale perché la verità della prima ipotesi non implica necessaria­ mente quella della seconda: il linguaggio come capacità biologica può essere sorto in momento determinato dell’evoluzione umana, presso un certo gruppo di individui, i cui discendenti l ’avrebbero ereditata; ma questa stessa capacità avrebbe potuto “esternalizzarsi”, nel senso definito nel paragrafo precedente, «prim a o dopo la dispersione della popola­ zione originaria» (Berwick, Chomsky, 1016, trad. it. p. 84). In altre pa-

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role, l ’unicità di origine del linguaggio non implica necessariamente che tutte le lingue derivino da una stessa lingua madre. La questione della monogenesi o della poligenesi delle lingue rimane dunque aperta: forse, una soluzione potrà venire non tanto sulla base delle evidenze lingui­ stiche (che sono troppo scarse), ma da considerazioni di tipo antropologico.

7.3.4. La natura degli universali linguistici La natura degli universali linguistici e il metodo per individuarli è forse l ’argomento di maggior contrasto tra il paradigma formale di tipo chomskiano e quello tipologico-funzionalista. Per il primo, infatti, l ’esi­ stenza di universali linguistici è una conseguenza automatica dell’ipotesi innatista. Se il meccanismo che permette al bambino di acquisire una qualunque lingua umana è innato, allora è posseduto da tutti gli esseri umani, a parte casi patologici gravissimi, quindi è universale. Un tipico esempio di universale linguistico nel senso della grammatica generativa è il più volte ricordato fenomeno della dipendenza dalla struttura: come sostenuto da Chomsky nella sua risposta a Piaget (cfr. par . 7.3.3.i ), è dif­ ficile sostenere che una proprietà così generale e astratta possa essere ap­ presa dal bambino sulla base dell’osservazione degli enunciati prodotti dagli altri parlanti, o addirittura sulla base dell’insegnamento esplicito dei genitori. Nella prospettiva generativista, gli universali linguistici possono essere ricavati, in linea di principio, anche dall’esame di una sola lingua: se infatti vi si scopre una proprietà che non si può ragione­ volmente spiegare come acquisita in base all’esperienza, allora si ipotizza che essa sia universale. Per falsificare questa ipotesi, bisogna trovare al­ meno una lingua in cui tale proprietà è assente. L ’impostazione genera­ tivista è dunque deduttiva·, quella funzionalista è invece induttiva, cioè esamina un campione il più ampio possibile di lingue, tra le circa 7.000 parlate al mondo (tante ne calcola il sito Ethnologue), e cerca di indivi­ duare le proprietà comuni a tutte, o almeno alla maggior parte di esse. Il risultato di questa ricerca può anche essere che non esistono universali in senso stretto, cioè proprietà effettivamente comuni a tutte le lingue, ma solo proprietà più frequenti di altre, cioè i cosiddetti “universali sta­ tistici”, o “tendenze” (cfr. Comrie, 1989, p. 19). U n’altra differenza tra i due paradigmi riguarda il tipo di universali proposti. In Chomsky (1963, trad. it. pp. 68-9), gli universali linguistici sono distinti in ‘materiali’ e

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‘formali’ : esempi dei primi sono i tratti distintivi binari di Jakobson (cfr. par . 6.3.3), oppure categorie sintattiche come il nome e il verbo, che sembrano presenti in qualunque lingua; un esempio di universali for­ mali è l’esistenza di trasformazioni. D i fatto, la grammatica generativa è andata alla ricerca di universali di tipo formale, la linguistica tipologica e funzionale di universali di tipo materiale. Il tipologo Comrie chiama gli universali formali «universali astratti» e quelli materiali «universali concreti» (cfr. Comrie, 1989, pp. 12 ss.). L ’ipotesi innatista deve però fare i conti con il fatto innegabile che le lingue sono diverse. Chomsky ha proposto una soluzione dettagliata a questo problema con il ‘modello a principi e parametri’ (cfr. par . 7.3.1). I principi sono gli elementi invariabili della GU; i parametri sono delle opzioni che la GU lascia aperte alla nascita, e il cui valore deve essere fissato dall’esperienza, in base alla lingua a cui il bambino è esposto nei suoi primi anni di vita. Un esempio è il ‘parametro della testa’ *, formu­ lato da vari generativisti negli anni Ottanta. Il parametro in questione distingue le lingue a testa iniziale, come l’italiano, da quelle a testa fi­ nale, come il turco o il giapponese: nelle lingue del primo tipo, si hanno preposizioni, il nome precede il complemento di specificazione, il verbo il complemento oggetto e l’aggettivo comparativo il secondo termine di paragone (‘più grande d ite ’ ); nelle lingue del secondo tipo, si hanno po­ sposizioni (cfr. par . 4.4.1.1), il complemento di specificazione precede il nome, il complemento oggetto precede il verbo e il secondo termine di paragone precede l’aggettivo. Il bambino che acquisisce la propria lingua materna si trova davanti a un’opzione: collocare la testa all’ inizio oppure alla fine di ogni sintagma. L ’evidenza fornita da un solo caso viene automaticamente estesa a tutti gli altri: se, ad esempio, il bambino cresce in un ambiente in cui si parla italiano, cioè una lingua che usa pre­ posizioni, automaticamente ne ricaverà che il nome va davanti al com­ plemento di specificazione, il verbo davanti al complemento oggetto e l’aggettivo comparativo davanti al secondo termine di paragone; se il bambino cresce invece in un ambiente in cui si parla turco o giapponese, che usano posposizioni, ne ricaverà le scelte opposte. In questo modo, si può spiegare non solo la diversità interlinguistica, ma anche la relativa rapidità con cui il bambino si impadronisce di una struttura complessa come una lingua naturale. Il parametro della testa, come si vede facilmente, è una riformula­ zione in termini generativisti delle correlazioni d ’ordine armoniche di Greenberg, di cui si è parlato nel paragrafo 7.2.2. In quello stesso pa­

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ragrafo, abbiamo però visto anche che queste correlazioni presentano numerose eccezioni, di cui un funzionalista può anche non preoccu­ parsi, dato che non va alla ricerca di universali in senso stretto, ma che un formalista di ispirazione chomskiana non può evitare di spiegare. I generativisti hanno quindi proposto di integrare il parametro della testa con altri parametri di portata meno ampia, che renderebbero conto delle apparenti eccezioni del “macroparametro”. Questa moltiplicazione dei parametri ha però un inconveniente: il numero delle lingue possibili diventa sempre più alto, con conseguenze paradossali. Supponiamo che tutte le differenze interlinguistiche (che non consistono, ovviamente, solo nell’ordine delle parole) siano spiegabili in base a poche decine di parametri: ad esempio, supponiamo che questi parametri siano zo e che tutti abbiano solo due valori, come il parametro della testa. Il risul­ tato sarà quindi che ci sono 2“ lingue possibili, cioè 1.048.576. Se in­ vece i parametri ipotizzati sono 30, le lingue possibili saranno zi0, cioè 1.073.741.8x4. Come si vede, questi numeri sono enormi rispetto al totale di circa 7.000 lingue parlate al mondo; soprattutto, sembra irrealistico che il bambino possa operare, in pochi anni di vita, la selezione di una lingua all’interno di un insieme così vasto. Per questo e per altri motivi la nozione di parametro è di recente entrata in crisi, anche all’interno del paradigma generativista. In generale, le versioni più recenti della teoria di Chomsky tendono ad attribuire i parametri all’ interfaccia sensomo­ toria invece che al sistema computazionale (cfr. par . 7.3.5). Questa scelta è obbligata, in particolare, per quanto riguarda il parametro della testa: se infatti le strutture generate dall’operazione Fondere sono ordinate soltanto gerarchicamente, ma non linearmente, non c’è differenza tra sintagmi a testa iniziale e sintagmi a testa finale. L ’uno o l ’altro dei due ordini si realizza solo quando il linguaggio viene “esternalizzato”, in par­ ticolare con la modalità fonico-acustica. Veniamo ora all’analisi degli universali nel quadro del paradigma fun­ zionale. Ricordiamo che la maggior parte degli aderenti a questo para­ digma limita la propria analisi alla sola struttura osservabile (la struttura superficiale, nei termini di Chomsky, 1965) e va quindi alla ricerca di universali “concreti”. Questi universali concreti sono, sostanzialmente, le categorie della grammatica tradizionale (parti del discorso, tipi di frase ecc.). Dato l ’approccio induttivo dei tipologi e dei funzionalisti, l ’ideale sarebbe poter esaminare la distribuzione di queste categorie in tutte le lingue del mondo, ma questo è ovviamente molto difficile: quindi, oc­ corre selezionare un campione di lingue significativo. Secondo Comrie

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(1989, pp. 9-iz) questo campione non deve essere costituito prevalen­ temente da lingue identiche da ognuno dei tre punti di vista genealo­ gico, areale e tipologico (cfr. p a r . 5.3.3 per la definizione di questi tre concetti): quindi, ad esempio, non deve essere formato per la maggior parte da lingue indoeuropee, né da lingue balcaniche, né da lingue che presentano lo stesso ordine fondamentale delle parole, come so v. Come si è detto all’inizio di questo paragrafo, i funzionalisti indi­ viduano non tanto universali in senso assoluto, ma piuttosto tendenze, spiegate in base a leggi psicologiche generali. G ià Greenberg ricondu­ ceva la prevalenza degli ordini “armonici” al concetto psicologico di generalizzazione (cfr. p a r . 7.2.1) e spiegava la rarità delle lingue che col­ locano il soggetto dopo l ’oggetto, cioè dei tipi vos, ovs e osv, con «la tendenza generale del “comment” a seguire il topic» (Greenberg, 1963, trad. it. p. 144). Questo ricorso a spiegazioni funzionali, riconducibili, a loro volta, a concetti psicologici generali, si accentua con gli sviluppi della tipologia linguistica a partire dagli anni Settanta del Novecento, dove un particolare rilievo è rivestito dalle nozioni di ‘prototipo’ e di ‘gerarchia’. La nozione di prototipo è stata introdotta dalla psicoioga Eleanor Rosch (cfr. ad es. Rosch, 1973; 1978)· secondo cui le varie ca­ tegorie concettuali costituiscono un continuum che va dagli esemplari “prototipici” a quelli più “periferici”. A d esempio, la gallina è un uccello, ma, se una delle condizioni necessarie per rientrare in questa categoria è la capacità di volare, allora non dovremmo definirla un uccello. Se in­ vece consideriamo le categorie come un continuum, allora si può dire che la gallina è sì un uccello, ma non prototipico, a differenza, ad esempio, dell’aquila, che è invece un esemplare prototipico della categoria. Comrie (1989) non cita i lavori della Rosch, ma la nozione di prototipo era evidentemente nell’aria anche tra i linguisti, tanto che essa ha un ruolo centrale nella ‘grammatica cognitiva’ (cfr. PAR. 7.3.1). Un esempio di applicazione della nozione di prototipo all’analisi delle categorie linguistiche riguarda la nozione di soggetto: secondo molti tipologi, il soggetto non si può definire in termini di una sola proprietà, ma come un nesso di proprietà diverse (cfr. Keenan, 1976; Comrie, 1989, cap. 5). Se tutte queste proprietà ricorrono insieme, il soggetto è prototipico, mentre le deviazioni dal prototipo si dispongono lungo un continuum·, il soggetto prototipico è il costituente che esprime al tempo stesso l ’agente dell’azione e il tema della frase, cioè l’argomento di cui la frase parla. Quindi, in ‘Maria ha baciato Gianni’, ‘Maria’ è un soggetto prototipico in quanto è l’agente dell’azione e l’argomento di cui la frase parla; vice­

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versa, in ‘a Maria piacciono i fiori’, il soggetto ‘i fiori’ non è prototipico. La gerarchia più nota è probabilmente quella di «accessibilità del sin­ tagma nominale » , proposta da Comrie e da Edward S. Keenan (n. 1937) in un saggio dedicato alle frasi relative in base a un campione di circa 30 lingue (Keenan, Comrie, 1977). I due tipologi osservano che mentre un SN in funzione di soggetto può essere modificato da una frase relativa in tutte le lingue, le possibilità si riducono gradualmente per le altre fun­ zioni grammaticali, secondo la gerarchia soggetto > oggetto diretto > oggetto indiretto > obliquo > genitivo > secondo termine di paragone. Secondo Keenan e Comrie (1977, trad. it. p. 128), « la gerarchia di ac­ cessibilità riflette direttamente la facilità di comprensione a livello psi­ cologico. Vale a dire, quanto più a destra una posizione si trova lungo la gerarchia di accessibilità, tanto più difficile è comprendere frasi relative formate su tale posizione». I generativisti, naturalmente, non possono condividere l’ imposta­ zione della tipologia funzionalista, in quanto, a loro avviso, la gu è un insieme di universali in senso stretto: tanto i principi, quanto i para­ metri, i quali, pur essendo delle opzioni aperte il cui valore è determi­ nato in base all’esperienza, fanno comunque parte della dotazione in­ nata del bambino. Tuttavia, alcuni generativisti, come quelli che hanno proposto il parametro della testa, si sono ispirati ai lavori di tipologia linguistica, cominciando dal classico saggio di Greenberg (1963). I tipo­ logi funzionalisti, invece, dopo un primo periodo in cui, pur criticando la prospettiva generativista, non escludevano in linea di principio l ’esi­ stenza di universali in senso stretto, o «assoluti» (cfr. ad es. Comrie, 1989, p. 19), più di recente sono invece tornati all’idea, tipica dello strut­ turalismo statunitense (cfr. par . 6.4.1), che le lingue possono differire completamente Luna dall’altra. Indicativo in questo senso è il saggio di Nicholas Evans (n. 1956) e Stephen C. Levinson, all’ inizio del quale si può leggere: «le lingue differiscono in un modo così fondamentale Luna dall’altra ad ogni livello di descrizione (suono, grammatica, lessico, significato) che è molto difficile trovare una sola proprietà che abbiano in comune» (Evans, Levinson, 2009, p. 429). I due autori documentano questa affermazione con vari argomenti, che a loro avviso dimostrano che non esistono universali in nessuno dei quattro domini: fonologia, morfologia, sintassi e semantica. Ad esempio, «ci sono lingue senza av­ verbi, lingue senza aggettivi, e forse addirittura lingue senza una distin­ zione di fondo tra nome e verbo» (ivi, p. 435). In generale, gli universali la cui esistenza è contestata appartengono al novero degli universali ma­

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teriali, o concreti, postulati anche da approcci diversi da quello gene­ rativo. Fanno eccezione due proprietà che la grammatica generativa ha di fatto sempre trattato come universali: la struttura in costituenti e la ricorsività (cfr. ivi, pp. 440-4). Secondo Evans e Levinson, le lingue a ordine libero delle parole (come il latino) non sono organizzate in costi­ tuenti; l ’ipotesi che la ricorsività sia universale è falsificata da una lingua dell’Amazzonia, il pirahà, in cui non esisterebbe la subordinazione frasale. L ’universale della dipendenza delle regole della struttura, che, come si è visto, è forse l ’argomento più utilizzato da Chomsky e dai suoi se­ guaci in favore dell’approccio universalista e innatista, non è discusso da Evans e Levinson; ne tratta però Comrie (1989, pp. 22-3), sostenendo che anch’esso non è un universale in senso stretto, ma una tendenza, in quanto esiste almeno una lingua, il croato, che non lo rispetta. In croato, infatti, i pronomi clitici (come m i, che ha lo stesso significato di ‘m i’ italiano in frasi come ‘Gianni mi ha dato un libro’) compaiono sempre nella seconda posizione della frase: si tratterebbe quindi di una regola che fa riferimento all’ordine lineare delle parole, non a quello gerar­ chico. Su questi argomenti si è sviluppata, negli ultimi anni, una discus­ sione assai accesa tra generativisti e funzionalisti, di cui non possiamo rendere conto qui (per una replica a Evans, Levinson dal punto di vista della grammatica generativa, cfr. Rizzi, 2009).

7.3.5. Linguaggio e società, linguaggio e comunicazione Le nozioni di “parlante-ascoltatore ideale” e di “comunità linguistica omogenea”, introdotte in Chomsky (1965; cfr. PAR. 7-1.3-3) suscita­ rono molte critiche: si trattava certamente di astrazioni, come lo stesso Chomsky ricordava, ma di tali astrazioni molti contestavano la legitti­ mità e l’utilità. A partire dagli anni Ottanta, queste nozioni sono diven­ tate superflue all’interno dello stesso paradigma generativo: Chomsky ha infatti sostenuto che l’oggetto della linguistica è la ‘lingua-I ’, dove “I ” sta per “interno” e “individuale” (cfr. Chomsky, 1986, trad. it. pp. 29-34; 1995, p. 15). Se dunque la lingua è un fenomeno strettamente individuale, non c’è bisogno di ricorrere all’astrazione di una comunità linguistica omogenea, perché il concetto stesso di comunità linguistica non ha più importanza. La comprensione tra individui diversi si realizza («entro certi lim iti») quando le loro lingue-I non sono «troppo diverse» l’una dall’altra (Chomsky, 2000, trad. it. p. 141); si noterà la vicinanza delle

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posizioni chomskiane con quelle di Hermann Paul (cfr. PAR. 5.5.2). In ogni caso, la concezione di Chomsky si oppone a quella secondo cui le strutture del linguaggio sono determinate, in tutto o in parte, dal suo uso in situazioni concrete, e quindi non è possibile mettere tra paren­ tesi, neppure provvisoriamente, il contesto sociale e comunicativo in cui il parlante opera. Questa seconda concezione è invece quella di molti linguisti e filosofi del linguaggio. U n ’alternativa all’ impostazione chomskiana è rappresentata dalla sociolinguistica, le cui origini sono precedenti alla grammatica gene­ rativa. Il fondatore della sociolinguistica è di solito considerato Uriel Weinreich (1926-1967), allievo di Martinet alla Columbia University di New York e autore di un fondamentale saggio (Weinreich, 1953) de­ dicato all’analisi dei fenomeni di ‘interferenza linguistica’ nel cantone dei Grigioni, dove si parlano dialetti sia svizzero-tedeschi sia romanci. Weinreich non era certo il primo linguista a segnalare l’importanza del rapporto tra linguaggio e società, ma analizzava questo rapporto in modo nuovo: non come qualcosa che si aggiunge alla descrizione della struttura di una lingua, ma, al contrario, come qualcosa di inscindibile da questa stessa descrizione. Soprattutto tra gli anni Sessanta e Settanta, la sociolinguistica ha ripreso, in una prospettiva critica, alcune nozioni della grammatica generativa. Ad esempio, Dell Hymes (1927-2009) ha introdotto la nozione di ‘competenza comunicativa’, per integrare il concetto chomskiano di competenza in una visione più ampia del linguaggio. Alla competenza grammaticale va contrapposta, secondo Hymes, una ‘competenza d’uso’, che viene acquisita «negli stessi ter­ mini della acquisizione della competenza grammaticale. Entro la ma­ trice evolutiva in cui è acquisita la conoscenza delle frasi di una lingua, i bambini acquisiscono anche la conoscenza di un insieme di modi in cui le frasi vengono usate» (Hymes, 1972, trad. it. p. 225). In questa com­ petenza d’uso rientra anche la capacità di riconoscere i diversi tipi di atti linguistici (cfr. ivi, p. 224). In sintesi, secondo Hymes, lo scopo della teoria linguistica non è soltanto quello di distinguere le frasi possibili da quelle impossibili, a livello di competenza, e le frasi realizzabili da quelle irrealizzabili, a livello di esecuzione, ma anche rendere conto della capacità del parlante di riconoscere ciò che è appropriato e ciò che non è appropriato in un certo contesto, e ciò che è raro da ciò che abituale. Il tentativo più sistematico di applicare le nozioni tecniche della grammatica generativa alle ricerche sociolinguistiche è stato operato da un allievo di Weinreich, William Labov (n. 1927), mediante la nozione

LA LINGUISTICA CONTEMPORANEA

227

di ‘regole variabili’. Tali regole hanno lo stesso formato di un determinato insieme di regole della grammatica generativa, ma la loro applicazione non è ‘categorica’, bensì condizionata da alcuni fattori probabilistici, di natura sia linguistica che extralinguistica. Mediante le regole variabili, Labov può rendere conto delle diverse realizzazioni di uno stesso ele­ mento grammaticale da parte di individui appartenenenti a diversi gruppi sociali. Il caso più famoso è forse quello della contrazione della copula in inglese, come in he’s good, he’s a nice fellow ecc. (cfr. Labov, 1969). La regola variabile pertinente mostra che la contrazione della copula è pres­ soché obbligatoria se essa segue un pronome che termina in vocale; in altri contesti, invece, la regola si applica con frequenza differente. Labov mette a confronto la contrazione della copula nell’inglese americano standard e nella varietà di inglese parlata dai neri d ’America (‘inglese ver­ nacolare nero’, ivn ); in generale, in quest’ultima varietà la copula viene cancellata nei casi in cui nell’inglese standard è contratta: la forma IVN we on tape corrisponde a quella dell’inglese americano standard we’re on tape (entrambe significano ‘siamo registrati’ ). Secondo Labov, la copula è dunque presente nella struttura profonda tanto dell’ ivn che dell’ in­ glese standard, ma nella prima delle due varietà viene cancellata nel pas­ saggio dalla struttura profonda all’interpretazione fonetica. Lo sviluppo delle ricerche sociolinguistiche e di sociologia del lin­ guaggio negli ultimi decenni è stato enorme: alle analisi di tipo laboviano, condotte con o senza l ’apparato delle regole variabili, si sono accompagnate quelle relative alle tematiche del bilinguismo, della stan­ dardizzazione linguistica ecc.; notevole rilievo hanno avuto anche le ricerche di etnolinguistica, cioè quelle frutto dell’interazione tra socio­ linguistica e antropologia. Tornando ora ai rapporti tra grammatica ge­ nerativa e sociolinguistica, ci si può domandare se la seconda rappresenti un allargamento degli orizzonti della prima, come i lavori di Hymes e Labov sembravano suggerire, oppure se si tratti di due approcci radi­ calmente diversi. La risposta non può essere che la seconda: mentre la grammatica generativa va alla ricerca di ciò che è invariante e universale nel linguaggio, la sociolinguistica si interessa della variabilità e della dif­ ferenza linguistica. Le regole variabili di Labov hanno lo stesso aspetto formale di alcune regole generative, ma il loro significato è ben diverso: infatti, non vogliono rappresentare capacità mentali, ma frequenze sta­ tistiche. Non è quindi un caso che, a partire dagli anni Settanta del N o ­ vecento, il dialogo tra le due correnti (aperto, in realtà, dai soli sociolinguisti) si sia completamente interrotto.

2 X8

BREVE STORIA DELLA LINGUISTICA

Abbiamo già visto più volte come, a parere di Chomsky, il linguaggio non sia prima di tutto un mezzo di comunicazione; anzi, talvolta sa­ rebbe “disfunzionale” alla comunicazione stessa, come dimostrano i molti casi di ambiguità che si incontrano nelle lingue naturali, da quelle sintattiche, come il caso della frase inglese old men and women, citata sopra (cfr. par . 6.4.3), a quelle semantiche, come (io), in cui il pronome ‘gli’ può riferirsi sia a Gianni che a suo padre. (io) Il padre di Gianni è stato molto contento quando gli ho parlato

I funzionalisti, in genere, non hanno negato l ’esistenza di fenomeni di questo tipo (cfr. ad es. Comrie, 1989, p. 26), ma hanno sostenuto che essi non inficiano l’ ipotesi generale che le strutture del linguaggio siano in larga parte determinate dal suo uso come mezzo di comunicazione. In ogni caso, il problema del rapporto tra le strutture del linguaggio e il loro uso si pone anche per chi, come Chomsky e gli altri aderenti al pa­ radigma formale, sostiene che le prime sono indipendenti dal secondo. Su questo punto, Chomsky, in vari saggi risalenti soprattutto all’ultimo decennio del Novecento (in parte raccolti in Chomsky, 2000), ha as­ sunto una posizione particolare, che in parte lo avvicina ai fondatori della pragmatica linguistica. A suo parere, i termini delle lingue naturali, a differenza di quelli dei linguaggi formali, o comunque delle scienze esatte, non hanno un ‘riferimento’ : con questo termine, introdotto in senso tecnico dal filosofo e matematico Frege (cfr. PAR. 3.3.2.25 il termine originale Bedeutungb a volte reso con ‘significato’) si intende l ’oggetto designato da un nome (cfr. Frege, 1892, trad. it. p. 19). Uno degli ar­ gomenti addotti da Chomsky a favore di questa conclusione riguarda i nomi di città: quando noi parliamo di Londra, ad esempio, combi­ niamo spesso delle proprietà che nella realtà non appartengono a un og­ getto unico e determinato. Ad esempio, possiamo dire «Londra è così infelice, brutta e inquinata che dovrebbe essere distrutta e ricostruita duecento chilometri più lontano» (Chomsky, 2000, trad. it. p. 96): in questa frase, con il termine ‘Londra’ si fa riferimento contemporanea­ mente al modo di vita di un insieme di persone (dicendo che Londra è infelice), a un insieme di edifici e di strade (dicendo che Londra è brutta) e alla qualità dell’aria di una certa zona geografica (dicendo che Londra è inquinata). E perciò difficile sostenere che ‘Londra’ si riferisca a un unico oggetto, cioè che abbia un riferimento nel senso tecnico di Frege. Questo vale non solo per i nomi propri come ‘Londra’, ma anche

LA LINGUISTICA CONTEMPORANEA

229

per i nomi comuni. Ad esempio, nomi come ‘libro’ o ‘banca’ possono riferirsi sia a un oggetto concreto (rispettivamente, “insieme di fogli ri­ legati insieme” e “locale in cui si deposita o si ritira denaro” ), che a uno astratto (“opera dell’ingegno di uno scrittore” e “istituto di credito”). Ciononostante, si possono costruire frasi perfettamente normali in cui questi nomi hanno contemporaneamente un valore concreto e un valore astratto: ‘il libro che sta progettando peserà almeno cinque chili se mai riuscirà a scriverlo’, oppure ‘la banca, che aveva alzato il tasso di interesse, è andata distrutta’ (cfr. ivi, pp. 282-3). La conclusione di Chomsky è che i termini del linguaggio naturale si riferiscono propriamente solo a certe entità mentali, e che è l ’ interrelazione complessa tra queste entità men­ tali e il nostro uso del linguaggio che ci permette di parlare del mondo esterno. L ’uso del linguaggio, messo da parte nella costruzione dell’ap­ parato formale della grammatica generativa, riacquista un’importanza fondamentale in questa prospettiva più ampia, nella quale Chomsky (ivi, p. 219) si richiama esplicitamente al «pensiero di Wittgenstein, Austin e altri». Tanto i funzionalisti quanto i formalisti, dunque, riconoscono un ruolo fondamentale all’uso, per quanto riguarda il linguaggio naturale: il conflitto verte sul fatto se le strutture sintattiche siano determinate dall’uso, oppure ne siano indipendenti. Su questo punto, come su molti altri, la discussione è aperta; il problema non è di facile soluzione, perché i fenomeni analizzati da ciascuno dei due paradigmi non sono, il più delle volte, gli stessi, come si è visto anche a proposito degli universali linguistici.

7.4. In sintesi In questa presentazione, molto sommaria e parziale, che abbiamo fornito della genesi e degli sviluppi della linguistica dalla metà del secolo scorso a oggi, abbiamo voluto sottolineare soprattutto due aspetti: le innova­ zioni tecniche e concettuali da un lato e il ritorno di tematiche “classiche” dall’altro. Il primo di questi aspetti si rivela nell’affermarsi, da un lato, di una teoria come la grammatica generativa (cfr. par . 7.2.3), caratterizzata da un apparato formale che non trova analoghi nelle teorie precedenti, dall’altro di una prospettiva pragmatica (cfr. PAR. 7.2.1), che rappresenta un approccio nuovo allo studio del linguaggio. Se però ripensiamo alle tradizionali arti del trivio, o artes sermocinales (cfr. PAR. 2.2), possiamo

Z30

BREVE STORIA DELLA LINGUISTICA

trovare un’analogia con la tripartizione della “scienza dei segni” ope­ rata da Morris in sintassi, semantica e pragmatica: alla prima delle tre può essere fatta corrispondere la grammatica, alla seconda, la logica, e alla terza, la retorica. Si tratta quindi di una riformulazione e di un ripensamento di classificazioni risalenti addirittura aU’antichità classica. Inoltre, anche tematiche come l’origine del linguaggio e il rapporto tra linguaggio e pensiero sono state al centro della riflessione degli studiosi occidentali per molti secoli (cfr. PAR. 7.3.3). Sarebbe però sbagliato con­ cludere che “non c’è niente di nuovo sotto il sole” : da un lato, non si può trascurare l’ impatto che la psicologia e la biologia contemporanea hanno avuto sulla trattazione di tali questioni; e, dall’altro, se esse sono tornate nuovamente all’attenzione di psicologi e biologi questo si deve in parte agli stimoli forniti dai linguisti. La linguistica contemporanea si presenta dunque, in vari casi, come un ventaglio di risposte diverse, e talora opposte, agli stessi problemi. Oltre a quelli del rapporto tra linguaggio e pensiero, o, in termini più at­ tuali, tra linguaggio, mente e cervello, ricordiamo quello dell’esistenza o meno di universali linguistici (cfr. par . 7.3.4) e del rapporto tra struttura e funzione del linguaggio (cfr. PAR. 7.3.3): la prima è indipendente dalla seconda oppure no? Questi problemi sono legati l’uno all’altro: infatti l ’ipotesi, propria della grammatica generativa, di una struttura mentale innata e, almeno in parte, specifica per l ’acquisizione del linguaggio, implica le ulteriori ipotesi che le proprietà di tale struttura siano indipendenti dall’uso del linguaggio stesso come mezzo di comunicazione e che esistano universali linguistici in senso stretto. A l contrario, la po­ sizione funzionalista, secondo cui il linguaggio è acquisito solo in base a meccanismi di intelligenza generale e alla loro interazione con l’am­ biente circostante, porta a conclusioni opposte, ossia che le strutture del linguaggio sono inseparabili dalla loro funzione comunicativa e che i pretesi universali sono tutt’al più tendenze statistiche. Solo la ricerca futura potrà dirci quale delle due posizioni, formalista o funzionalista, è quella corretta; ma forse potrà anche arrivare a un altro risultato, ossia che questa opposizione è infondata e va superata.

Bibliografia

Letture consigliate Capitolo 1 Storie della linguistica di dimensioni simili al presente volume sono m ounin (1967) e robins (1997). m o unin (1967) fornisce anche alcune informazioni su tradizioni linguistiche diverse da quella occidentale, ma si ferma agli inizi del Novecento, fo rm igari (iooi) è particolarmente interessante per chi vo­ glia conoscere lo sviluppo parallelo della linguistica e della filosofia del linguag­ gio. Opere di mole molto maggiore sono au ro ux (1990-99), au r o u x et al. (2.000-06), LEPSCHY (1990-94) e SCHMITTER (1987-1007). Su Goropius Becanus e la sua tesi del fiammingo come lingua originaria, cfr.

TAVONI (1990, pp. Z4O-1).

Capitolo x Per un’introduzione alla storia della linguistica nell’antichità classica, cfr. i ca­ pitoli 1 e 3 di robins (1997); per un approfondimento, cfr. m a n e t t i (1987), MATTHEWS (1990), ATHERTON, BLANK (1013). Sulle concezioni filosofiche del Vicino Oriente antico, cfr. l’ormai classico frankpo rt et al. (1946).

Nelle citazioni dei testi di Platone presenti nel paragrafo 1.3.1, il numero e la lettera (ad es.: 439b) si riferiscono, rispettivamente, alla pagina e alla sezione dell’edizione curata da Henricus Stephanus, Parigi 1578. Sul Cratilo cfr., tra gli altri, Pag liaro (1956, pp. 47-76) e belar d i (1985, pp. 14-43). Nelle citazioni dei testi di Aristotele del paragrafo 1.3 .1 (ad es.: ia, 16-17), il primo numero indica la pagina, la lettera la colonna, sinistra o destra, gli ultimi numeri la riga o le righe dell’edizione curata da Immanuel Bekker, Berlino 1831. Sulla linguistica di Aristotele cfr., tra l’altro, Pag liaro (1956, cap. 3) e sadun

2.32.

BREVE STORIA DELLA LINGUISTICA

bordoni (1994). Sull’opposizione tra linguaggio umano e linguaggi animali in Aristotele, cfr. m a n e t t i (1987, pp. 110-1). L ’interpretazione di rhèma nel senso di ‘predicato’ si trova già in st e in t h a l (1890, voi. I, p. 2.39); cfr. anche PAGLIARO (1956, p. 149). Per gli Stoici e gli Epicurei, cfr. i capitoli 2 e 3 di fo r m ig a ri (2001, in particolare pp. 67-8, sulla differente concezione dell’etimologia presso gli Stoici e presso i linguisti moderni). Sull’origine del linguaggio umano e la sua differenza dai linguaggi animali secondo gli Stoici, cfr. TABARRONI (1988, pp. 116-7). Su verbum in sant'Agostino, cfr. m a n e t t i (1987^. 226). A propo­ sito della grammatica stoica, cfr. FREDE (1987, in particolare p. 330 per quanto riguarda la differente concezione di syndesmos e àrthron negli Stoici rispetto ad Aristotele). Sulla storia della grammatica antica, cfr. ROBINS (1951), DE NONNO (1990) e MATTHEWS (1990, pp. 262-303).

Capitolo 3 Per un’ introduzione alla linguistica medievale, cfr. il capitolo 4 di robins (1997). Per una trattazione approfondita, cfr. v in eis , m aier ù (1990). U n ’ottima presentazione della linguistica dell’A lto M edioevo (in particola­ re per quanto riguarda Isidoro di Siviglia e Alcuino) si può trovare in v in e is , m aierù (1990, pp. 11-75). Sul Primo trattato grammaticale islandese, cfr. alb an o leo ni (1975). Sulla grammatica speculativa e i Modisti, oltre alle presentazioni generali della linguistica medievale già citate, cfr. pinborg (1972) e m arm o (1994). Sulla nozione di suppositio, cfr. fo r m igari (2001, pp. 104-6). Sulla concezione della grammatica in Ruggero Bacone, cfr. ALESSIO (1986) e sulla sua teoria dei segni, cfr. m alo n ey (1983). La traduzione del De vulgati eloquentia utilizzata nel paragrafo 3.3.3 è quella di M. Tavoni, in sa n t a g a ta (2011, pp. 1127-547), corredata di una dettagliata introduzione e di un ampio commento, ai quali rimandiamo, in particolare per quanto riguarda la confutazione dell’ idea, sostenuta da vari interpreti moderni, che Dante avesse intuito l’unità linguistica indoeuropea (cfr. ivi, pp. 1200-1).

BIBLIOGRAFIA

233

Sull’atteggiamento degli Umanisti nei confronti della grammatica medievale e la nascita delle grammatiche delle lingue volgari, cfr. tavoni (1990, pp. 169-215, in particolare p. 190 per quanto riguarda il ruolo della stampa nella determi­ nazione degli standard ortografici). Sulla Grammatichetta di L. B. Alberti, cfr. patota (1999)· Per un’agile introduzione alla “questione della lingua”, cfr. ma r a z z in i (2018). Sul riconoscimento, da parte dei missionari, delle peculiarità delle lingue “esotiche” rispetto a quelle europee cfr. SWIGGERS (1997, pp. 155-7). Per quanto riguarda le ipotesi di “lingue originarie” formulate in epoca rina­ scimentale e nella prima Età moderna cfr. tavo ni (1990, pp. 216-42, in partico­ lare le pp. 223-33 per le posizioni degli umanisti che non considerano le lingue romanze come derivate dal latino). A proposito delle ipotesi sulla parentela tra le lingue europee, cfr. b o n fa n te (1954, in particolare p. 690 per quanto ri­ guarda l’ ipotesi “scitica” di Boxhorn). Per alcune informazioni su Scaligero e Sanctius, cfr. tavo ni (1990, pp. 180-4) e la bibliografia ivi citata. Su Bacone, cfr. sim one (1990, pp. 322-5). L ’ interpretazione della grammatica di Port-Royal come un’anticipazione delle proprie teorie linguistiche si trova in ch o m sk y (1966). Tra le reazioni alla ricostruzione storiografica di Chomsky, cfr. aa r sleff (1982). I testi più importanti di Cartesio relativi al linguaggio sono raccolti e tra­ dotti in st a n c a t i (2000). Sulla concezione del linguaggio in Locke, cfr. for ­ m icar i (1970, pp. 173-95) e sim o ne (1990- PP· 3 4 5 - 5 °) · Sul pensiero lingui­ stico di Leibniz, cfr. g en sin i (1995) e la bibliografia ivi citata. Sul dibattito tra Locke e Leibniz, cfr. aa r sleff (1982, trad. it. pp. 67-124). Sui progetti di lingue universali nel Seicento, cfr. fo r m igari (1970, pp. 81-139) ed eco (1993, pp. 245-78). Su W ilkins, cfr. ch iu sar o li (1998, in particolare p. 53 per quanto riguarda la concezione dei rapporti tra linguaggio e pensiero, comune tanto ai Razionalisti che agli Empiristi). Sulla “linguistica illuminista”, cfr. ro siello (1967), AUROUX (1982), for ­ m ic a r i (1984). Sul pensiero linguistico di Vico, cfr. tra gli altri Pag liaro (1961, pp. 297-444) e t r a b a n t (1994). Sulla classificazione tipologica delle lingue nei grammatici dell’epoca illuminista, cfr. ROSIELLO (1987). A proposito delle teorie settecentesche sull’origine del linguaggio, cfr. AARSLEFF (1982, trad. it. pp. 287-306). Sul “circolo virtuoso tra pensieri e se­ gni” in Condillac, cfr. sim one (1990, p. 365).

Capitolo 5 Capitolo 4 Sulla linguistica rinascimentale, cfr. tavo ni (1990); su quella del Seicento e del Settecento, cfr. sim o ne (1990).

Riferimento fondamentale per quasi tutti gli argomenti trattati in questo capi­ tolo è morpurgo davies (1996), originariamente apparso come capitolo io di LEPSCHY (1990-94, voi. ΙΙΙ,ρρ. 11-399).

2-34

BREVE STORIA DELLA LINGUISTICA

Su Steinthal e il “divorzio” tra linguistica e psicologia, cfr. graffi (1991, pp. 21-51). Per la differenza tra organi omologhi e analoghi, cfr. ad esempio BONCINELLI (1009, p. 252). Su Schlegel e le origini della grammatica storico-comparativa, cfr. Timpa­ naro (2005, cap. 1). Su Bopp, cfr. Timpanaro (2005, cap. il). Sulla storia dei termini ‘indoger­ manico’ e ‘indoeuropeo’, cfr. bolognesi (2001). Su K . F. Becker e altri grammatici generali dell’ Ottocento, cfr. graffi

(1991, pp. 34-8, 238-45, 274-6). A ll’ interno della vastissima bibliografia su Humboldt, cfr. l ’ introduzione di D. D i Cesare alla traduzione italiana di Humboldt (1836). Sui significati di ‘forma linguistica’ in Humboldt, cfr. COSERIU (1970), a cui si rifa anche MORPURGO DAVIES (1996, pp. 162-3). Sulla tipologia linguistica nell’ Ottocento, cfr. graffi (1991, pp. 45-56). Su Schleicher, cfr. morpurgo davies (1996, pp. 237-42), bynon (2001) e ballerini (2018). Sul dibattito Bréal vs Schleicher, cfr. AARSLEFF (1982, pp. 309-65). Su W hitney, cfr. l ’introduzione di G. C . Vincenzi alla ristampa della traduzione italiana di W hitney (1875); su Bréal, cfr. de palo (2001). Sulla teoria del linguaggio dei neogrammatici, e in particolare di Paul, cfr. graffi (1991, pp. 56-66). Sull’ idea-guida dei neogrammatici che “le lingue mu­ tano nel tempo con regolarità”, cfr. ROSIELLO (19 86). L ’amplissima bibliografia di e su Ascoli è raccolta e ordinata sistematicamente in Santam aria (2018); segnaliamo in particolare Timpanaro (1969, pp. 229-357; 2.005, caP· 4)· Su Schuchardt, cfr. tra l ’altro varvaro (1968, pp. 150-64), nonché i recenti lavori di ΤΑΝΙ (2013) e venier (2012), con la bibliografia ivi citata. Su Gilliéron e gli atlanti linguistici, cfr. ancora VARVARO (1968, pp. 199-227).

Capitolo 6 La presentazione più completa e accurata delle varie correnti della linguistica strutturale è LEPSCHY (1990), che però può risultare un po ’ difficile per il let­ tore principiante. Più semplice Lepschy (1992), che tratta anche di argomenti non affrontati nel presente volume. Su Baudouin e la Scuola di Kazan’, cfr. DI salvo (1975). Per una prima introduzione a Saussure, cfr. prampolini (2017). A ll’ inter­ no del commento di D e Mauro a Saussure (1922), cfr. in particolare le note seguenti: nota 65, per quanto riguarda l ’ordine degli argomenti nel testo edi­ to, che probabilmente non coincide con quello che gli avrebbe dato Saussu­ re (par . 6.2.2.2); note 225 e 227 sull’analisi saussuriana del segno linguistico

BIBLIOGRAFIA

2-35

(par . 6.2.2.3); nota 251 sull’appartenenza della frase alla langue o alla parole (par . 6.2.2.4). Cfr. anche l ’ introduzione di D e Mauro a SAUSSURE (2002b). Per le reazioni dei contemporanei di Saussure alle dicotomie langue!parole e sincronia/diacronia, cfr. le note 65 e 176 del commento di De Mauro a SAUS­ SURE (1922), varvaro (1968, pp. 350-2) e venier (2016). Del commento di De Mauro, cfr. anche la nota 259 sul termine “struttura” in Saussure e la nota 70 per una possibile spiegazione dell’assenza in Saussure del termine “astratto”. Sullo strutturalismo, anche non linguistico, cfr. LEPSCHY (1981, capp. 1 e 2). Sulle scuole strutturaliste postsaussuriane, cfr. de palo (2016). Una presentazione accurata della linguistica della Scuola di Praga è raynaud (1990). Sulla fonologia, cfr. LEPSCHY (1981, cap. 3); sulle ricerche di sintassi, comprese quella della Seconda Scuola di Praga, cfr. i testi raccolti in SORNiCOLA, svoboda (1991) e la relativa introduzione. Per una presentazione sistematica della fonologia binaristica di Jakobson, cfr. MULJACIC (1973). Per una presentazione introduttiva della teoria linguistica di Hjelmslev e Uldall, cfr. fisch er -jo r g en sen (2002). Nel paragrafo 6.3.5 TESNiÈRE (1959) è citato in base ai capitoli e ai paragrafi in cui è suddiviso. Dato che la traduzione italiana è rimaneggiata, le indicazioni si riferiscono al testo originale. Per una presentazione del modello di Tesnière e dei suoi sviluppi, cfr. de santis (2016). Su Sapir, Bloomfield e i postbloomfieldiani cfr. Lepschy (1990, capp. 5 e 7) e graffi (2010, pp. 277-301).

Capitolo 7 Come panoramiche generali della linguistica contemporanea segnaliamo newmeyer (1988), o ’ grady , dobrovolsky , katamba (1996) e i volumi della serie “Oxford Handbooks in Linguistics” pubblicati dalla Oxford U ni­ versity Press. Molte utili informazioni si possono poi trovare nelle seguenti enciclopedie: asher (1994), brown (2006), cotticelli kurras (2007) e crystal (2010). Sull’opposizione tra paradigma formale e paradigma funzio­ nale, cfr. newmeyer (1998) e darnell et al. (1999). Su Wittgenstein (1953), cfr. voltolini (2000). Com e introduzioni alla pragmatica e ai suoi sviluppi, cfr. conte (1983), levinson (1983), bianchi (2003) e caffi (2009). Cfr. anche venier (2008), in particolare sul supera­ mento da parte di Austin dell’opposizione aristotelica tra enunciati assertivi e non assertivi. Per un’introduzione alla tipologia linguistica, cfr. g r a n d i (2014). Due rac­ colte di testi fondamentali, in traduzione italiana, sono ram at (1976) e Cri­ sto faro , r am at

(1999).

2.36

BREVE STORIA DELLA LINGUISTICA

Per un’introduzione elementare alla grammatica generativa, cfr.

graffi

(2008) . Per un primo approfondimento, cfr. i volumi della serie “Il linguaggio umano”, dedicati rispettivamente alla fonologia (n espo r , b a file , 2008), alla morfologia (s c a l is e , b ise t t o , 2008), alla sintassi (d o n a t i , 2008) e alla se­ mantica (d el f it t o , za m p a r elli , 2009).

Per i paragrafi 7.3.1-2, cfr. g raffi (2010, pp. 415-39 e pp. 377-98), rispettiva­ mente per l’evoluzione della teoria linguistica di Chomsky e per qualche infor­ mazione anche sulle altre correnti linguistiche qui solo menzionate. Per appro­ fondimenti in merito all’impostazione funzionalista e cognitiva, cfr. Taylo r (1995) e CROFT, CRUSE (2004). Per una presentazione sintetica delle teorie di Piaget, cfr. Pia g et (1964). Per una rassegna delle varie ipotesi contemporanee sull’origine del linguaggio, cfr. ADORNETTI (2016). Per i problemi trattati nel paragrafo 7.3.4, cfr. i testi indicati relativamente ai paragrafi 7.3.1.-2. Tra le molte introduzioni alla sociolinguistica disponibili, cfr. card o na (2009) e d it t m a r (1973), che contengono anche alcune informazioni sulla storia della disciplina. Sul confronto tra grammatica generativa e sociolingui­ stica, cfr. sc a lise (1979).

Riferimenti bibliografici

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